Maurizio Valtieri 120 Lettere Animate Editore isbn: 9788868822361
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A mia madre, mio padre e Bruno
120
“Ce l’ho duro anche stamattina!” Vorrebbe rimanere a letto, con la testa sotto le coperte, protetto dal tepore prodotto dal suo corpo, in uno stato di dormiveglia che gli è così familiare da evocargli, ogni volta che ci pensa, inevitabilmente la parola casa. Per molti è un luogo, per altri un odore o un sapore, per altri ancora volti nei ricordi di bambino, per lui il suo letto, da qualche anno, è casa e, per questo, si alza sempre con un certo dolore dello spirito, usando una quantità sovrumana di energie per entrare in quella che la gente comune chiama vita reale. È venerdì, spinge un pulsante e il quadrante del suo orologio da polso si illumina, è quasi mezzogiorno, ma è un dato che per lui non ha molta importanza, se non quella di fornirgli un’idea di ciò che dovrebbe fare, se fosse uno dei tanti. Ricorda il proprio nome, Luca, mentre le immagini del sogno che poco prima stava facendo, cominciano a dissolversi, insieme a tutte quelle idee brillanti che solo lo stare sotto le coperte fino a mattina inoltrata gli permette di creare. Qualche volta ha l’impressione di essere peggiorato negli ultimi anni, ma poi, se ci riflette attentamente, si accorge di essere sempre stato così, che quello è il suo ritmo naturale, alterato solo, nel corso della vita, da obblighi che ha sempre mal digerito. Alzarsi per andare a scuola, per esempio. Durante le medie prima ed il liceo dopo, si è sempre chiesto con quale criterio decidessero gli orari, quale fosse la ragione che costringeva, di volta in volta, generazioni di adolescenti assonnati a dirigersi, come i morti viventi nel film di Romero, verso i cancelli della scuola. Per anni, li si poteva vedere dormire durante le prime ore di lezione. Possibile che nessuno se ne accorgesse? Avevano gli occhi aperti, ma continuavano a dormire e, appena accennavano ad un qualche risveglio, la loro mente si caricava di amori impossibili, di vestiti da scegliere per questa o quella uscita, di motorini, di sigarette da comprare e di soldi da rimediare, di erezioni involontarie e sogni erotici, di pensieri lontani dall’avere qualche legame con l’ora di storia o di matematica. Forse è ancora così, pensa Luca da sotto le coperte, allungando un braccio in esplorazione e constatando di essere solo nel
letto. Il segreto sta nel tardo pomeriggio, quando tutte le attività dovrebbero cominciare e proseguire fino a sera inoltrata. Lui non ha mai avuto il minimo dubbio che questo sia il giusto metodo e, inoltre, eviterebbe alla gente di starsene imbambolata davanti agli stupidi programmi televisivi della cosiddetta prima serata. Il suo week-end lungo è già cominciato e non dovrà lavorare fino al prossimo lunedì, questo da qualche mese, da quando ha scelto di tagliare le ore di insegnamento, da quando l’essere gentile e brillante con i suoi studenti non è più un gioco divertente ed ha assunto il peso di un dovere istituzionale. Sa che è arrivato, suo malgrado, il momento di alzarsi e questo venerdì non può ripetersi il mantra mattutino con la solita questione: datemi una ragione affinché io mi convinca che là fuori c’è qualcosa per cui valga la pena lasciare il mio letto. Di solito è lui a vincere, visto che da nessuna parte dell’universo gli arriva una risposta convincente e, di solito, si alza faticosamente e trionfante, con la consapevolezza di essere un eroe del vivere quotidiano, uno che riesce a muoversi nel teatrino della vita, senza la presunzione comune di avere uno scopo esistenziale. Questa volta è diverso, non si tratta ovviamente di uno scopo, sarebbe troppo, ma di un appuntamento, dopo pranzo, con l’avvocato di suo zio Osvaldo, il parente illustre, il luminare o, come diceva qualcuno, il professorone. Abbandona la posizione fetale e comincia a stirarsi, assumendo varie posizioni plastiche ed emettendo strani lamenti ad ognuna di esse, frasi indecifrabili, una danza tribale accompagnata da formule apotropaiche, mentre il sangue irrora nuovamente i muscoli. Prova la stessa sensazione che proverebbe una farfalla alla sua prima uscita dal bozzolo: la percezione dell’aria e del mondo circostante, le ali appiccicaticce che si dischiudono, come un antico ventaglio lasciato chiuso per secoli, il timore e la curiosità per la nuova dimensione nella quale viene a trovarsi. Si a una mano sul pene, lo sente di una forte consistenza, lo piega e lo spinge prima a destra, poi a sinistra. Più lo stringe e più gli si gonfia e pulsa, come se volesse esplodere. Lo libera. Allontana con le gambe e con i piedi le coperte da sé e resta per qualche minuto supino, nella posizione dell’uomo vitruviano di Leonardo. La stanza ha assunto
contorni nitidi nella penombra, svanisce anche l’ultimo ricordo dei sogni fatti e dalla cucina arriva il suono di uno stereo tenuto a volume basso. Si alza. Colazione? Pranzo? Tutti e due insieme? Deve decidere percorrendo a fatica il breve spazio che lo separa dalla porta della camera da letto, oltre la quale c’è il pianeta Terra. Quando arriva in prossimità della cucina, si ferma qualche istante, prima di entrare. sco, di spalle, si muove piano, cercando di produrre meno rumore possibile, gesti e movimenti sono lenti, sposta e prende, prima da un cassetto, poi da un altro, vari utensili. In sottofondo la voce oltremondana di Giuni Russo, il forte chiarore che arriva dalla finestra, invade la stanza e crea un alone intorno alla figura di sco in controluce. Sembra un’apparizione mistica, con tanto di canto angelico. Stanno insieme da sei anni e convivono da tre, solo perché sco ha insistito e insistito, fino a farlo cedere per sfinimento, solo per non sentirlo più lamentarsi del desiderio frustrato di essere una vera famiglia e di quanto fosse importante anche politicamente, per non darla vinta a quelli che, ancora oggi, definisce fascisti vaticanensi. In quel periodo a Luca importava poco della politica e ancora meno del Vaticano, pensava semplicemente che una voce ignorata non esiste e che certe stronzate non andavano sostenute dandogli importanza. Ma aveva accettato, come un fidanzato ateo e comunista accetta di sposarsi in chiesa, solo perché lei vuole il vestito bianco e tutto il resto. Avrebbe preferito due case separate, cenare o vedere un video o starsene abbracciati o scopare alla grande una volta dall’uno e una volta dall’altro, ma pronti anche a vivere la propria solitudine. Poi se ne è fatto una ragione, si è convinto che quella esperienza lo avrebbe reso migliore, più responsabile, proprio come tutti lo avrebbero voluto e, fino a poco tempo fa, ha alimentato il proprio entusiasmo, sicuro che fosse stata la cosa giusta da fare. Ma, forse, ora non è più sufficiente, forse sco incomincia a stargli sulle palle, come il resto del mondo. “Ciao” “Ehi”, fa sco girandosi, “ce l’abbiamo fatta anche oggi a risorgere”. Alza il volume dello stereo. “Volere è potere” è l’unica cosa che a Luca viene da dire. “Guarda un po’, ce l’hai così duro che ti scappa dalle mutande e poi mi tocca andarlo a prendere in giro per casa.”
“Anche tu stanotte, in quanto a durezza, non scherzavi mica. Stai allegro amore, che ancora tira bene”, non riesce a credere di averlo chiamato amore con la naturalezza di sempre, eppure vorrebbe stare da solo, eppure le frasi che si sono appena scambiati gli sembrano quelle di un qualsiasi incontro occasionale. Che fine hanno fatto i sentimenti? La musica si fa lirica e triste, morirò d’amore, morirò per te. “Non riesco a metabolizzare il fatto che Giuni sia morta.” sco si a una mano sulla faccia, quasi volesse cancellare qualcosa, “Ti rendi conto di quanta gente senza senso ci sia al mondo e che il nostro parlamento è pieno di donne cerebrolese di destra in perfetta salute, mentre Giuni se n’è andata.” “Sono sempre i migliori ad andarsene, non è così che si dice, ma, se vuoi, posso tirare fuori qualche altro luogo comune”, Luca se la ride, ma sa che lo sta facendo solo per dargli sui nervi, “Mi fai un caffè?” “Che stronzo che sei!” sco si volta verso la finestra: “ Fattelo da solo il caffè” “Vado a lavarmi”. “Vatti a lavare stronzo e fallo con l’acqua fredda” “Fallo, fallo, fallo, che meravigliosa parola!” Luca si dirige verso il bagno, si ferma e grida: “E tanto per essere chiari, sono stato io a farti ascoltare per la prima volta Giuni Russo, quando ti ho tirato fuori da quella discoteca di terz’ordine, quindi non stare a fare la pia donna con me”, entra e sbatte soddisfatto la porta del bagno. “Stronzo fallito!” Echeggia la voce di sco per tutta la casa.
Più tardi, fermo, davanti alla fontana delle Tartarughe, l’avvocato Morremo è un tipo come tanti: 45 anni circa, statura media, sguardo attento; vestito con un certo gusto, colori scuri, nelle varie tonalità del blu, giacca a tre bottoni, soprabito, una ventiquattrore. Si guarda intorno, con l’aria di chi sta valutando la zona nella quale ha deciso di venire a vivere, pur mantenendo qualche ragionevole dubbio.
Arrivando a piazza Mattei, Luca identifica immediatamente l’uomo con il quale ha l’appuntamento e rallenta il o, per poter avere la possibilità di studiarlo più a lungo. Cerca, soprattutto, di vedere le sue scarpe, poiché, è convinto, dalle scarpe si può capire molto di una persona: in genere non è difficile riuscire a vestirsi decentemente, ma le scarpe fanno la differenza, in un mondo di uomini in giacca e cravatta, ben pettinati, spesso traditi solo da calzature a basso costo. Lo guarda con l’occhio esperto di chi è abituato a capire cosa si cela sotto gli abiti ed in pochi secondi il quadro è completo: ordinario, pensa, comincia a perdere i capelli, probabilmente è pieno di peli sul petto, rasato potrebbe essere più sexy; cerca di tenersi in forma, ma percepisco un certo rilassamento addominale; ha le mani abbastanza grandi, di quelle che ti fanno venire voglia di essere preso e anche i piedi non sono piccoli; il pacco non riesco a vederglielo, ma mi domando come possa essere a letto, dalla faccia è uno di quelli che quando gode storce gli occhi e spalanca la bocca; chissà se ti si mette sopra, ti schiaccia col corpo e ti fa sudare a contatto coi suoi peli, oppure, dopo che ti ha fatto un’apologia della bisessualità, precisando che il vero amore è solo con una donna, ti si mette di culo e vuole che te lo fai a sangue. In ogni caso, ha almeno superato il “test scarpa”. Ora sono abbastanza vicini, anche l’altro nota la sua presenza, lo riconosce e gli va incontro con un largo sorriso. “Salve, sono Luca Socrates!” Gli tende la mano, che l’altro afferra con una presa amichevole e sicura, studiata, gli sembra. “Lanfranco Morremo,” dice asciutto, “ci siamo già presentati al funerale, ma in mezzo a tutta quella gente è probabile che non ci abbia fatto caso.” Luca non se lo ricorda, ma l’avvocato Morremo ha ragione, quel giorno c’era veramente molta gente, forse troppa. “Mi dispiace, ma a volte sono veramente sbadato… ” “Io ho avuto modo di osservarla da lontano e, devo dire, che lei mi ha fatto veramente un’ottima impressione, come se le avessi visto dentro, lei mi capisce?” Luca non capisce affatto. Che cavolo di ottima impressione e che c’era da guardare dentro? A meno che non si stia riferendo a qualcosa di specifico, forse
al funerale era talmente concentrato sull’evento da non essersi accorto di atteggiarsi a diva vedova. Cerca di uscirne: “Lei ha più occhio di me… io proprio… ” “Nessun problema, inoltre è ato un po’ di tempo e lei ha avuto modo di parlare solo con il notaio e con alcuni miei collaboratori. A proposito, spero che abbiano fatto tutto il possibile per spiegarle ogni dettaglio.” “Loro sono stati bravissimi, è che io, come le dicevo, ho la testa tra le nuvole e le faccende legali mi mettono a disagio.” Luca ha una gran voglia di ritornare nel suo letto. “Per questo ci siamo noi e ci sono io.” L’orgoglio di Morremo è evidente: “Tutto è stato fatto nel migliore dei modi e, per quanto riguarda lei, ci siamo attenuti alle poche indicazioni che ci ha dato.” “Quindi?” A questo punto Luca è quasi sicuro che tutta quell’esposizione all’ossigeno gli farà male. A trenta anni (che in anni gay ne fanno almeno 40), l’ossigeno diventa inevitabilmente il nutrimento essenziale alle rughe e riduce le cellule come un ferro vecchio esposto alla salsedine. “Significa, che proprio due giorni fa la somma in denaro lasciatale da suo zio, le è stata accreditata sulle coordinate bancarie da lei fornite e, come ben sa, è una somma molto consistente. Mi stupisce che lei non l’abbia notato, controllando la lista dei movimenti nel suo conto in internet.” “Non controllo mai il mio conto in internet e la mattina generalmente… ” si interrompe domandandosi per quale ragione dovrebbe parlare di sé con quel tipo ordinario di avvocato e magari dirgli anche che lui internet lo usa soprattutto la notte, per navigare o entrare in qualche chat. “Capisco,” Morremo sembra aver assunto un’espressione comionevole, “continuando il nostro discorso e risolta la questione dei liquidi, oggi siamo qui per occuparci dell’immobile: firma di qualche documento e consegna da parte mia delle chiavi dell’appartamento da lei ereditato, che, suppongo, sarà ansioso di vedere.” Altro grande sorriso. “Certo, immagino di sì” Luca si sente spiazzato dalla sicurezza in cui quell’uomo suppone le sue ansie, perché questo per lui è l’evidente segnale della
loro visibilità, altrimenti, di sicuro, non lo avrebbe definito “ansioso di vedere”. “Andiamo?” Morremo si sta già avviando da qualche parte e a Luca non resta che seguirlo. Si infilano per una via stretta, sbucano su una piazzetta, poi ancora un vicolo che curva verso sinistra, quasi ad angolo retto, altra via più larga, ma senza luce, per finire in una piazza illuminata dal sole. Proprio di fronte a loro, si vede un grande portone, sormontato da un’arcata con stucchi e fregi. Intorno piccoli negozi e altre entrate meno imponenti di abitazioni. C’è abbastanza silenzio, anche se si sente arrivare da qualche parte il rumore del traffico. Un ragazzino gira in tondo con un monopattino, non suscitando la minima reazione nei due gatti sdraiati sopra il cofano di un’auto, parcheggiata vicino all’unica fontanella. L’avvocato Morremo gli poggia una mano dietro la schiena e delicatamente lo spinge in avanti. Luca sente del calore irradiarsi lungo la sua spina dorsale e gli pare che quella mano stia scendendo dentro le sue mutande fino a contenergli i glutei nell’intero palmo. “L’appartamento è in quel palazzo di fronte” la voce di Morremo è quella di una guida turistica. “È del ’600, il palazzo intendo, certo nel tempo sono avvenute delle modifiche, ma trovo che sia ugualmente splendido, non crede? Lei può ritenersi fortunato a ritrovarsi di questi tempi una proprietà simile e in pieno centro storico. Senza nulla togliere al dolore e alla perdita che l’ha portata a tutto questo, s’intende.” Luca riesce solo a camminare e non gli viene niente da rispondere, tranne la convinzione che è così che la gente parla e si comporta. “Ha già pensato a cosa farne, ci verrà ad abitare o vorrà venderlo? Beh, ci pensi con calma, ma nel secondo caso, mi contatti, poiché il fratello di mia moglie ha un’agenzia immobiliare e potrebbe esserle d’aiuto, sa, meglio affidarsi a gente che si conosce.” Ti pareva che non aveva anche moglie, è l’unica cosa che Luca riesce a pensare. L’avvocato infila la chiave nella toppa del portone e apre uno spiraglio abbastanza grande per permettere a tutti e due di are, prima Luca, ovviamente, per la dovuta cortesia verso il cliente. Il ritrovarsi in un ampio cortile, pieno di piante, gli dà la sensazione di aver superato una porta spaziotemporale e di essere giunto altrove. Fa un giro su se stesso e vede qualche statua con dei pezzi mancanti, un paio di capitelli messi a terra con sopra dei vasi, un’arcata a destra e una a sinistra con sopra scritto “SCALA A” e “SCALA B”.
“Da questa parte, la prego.” Morremo gli ripoggia la mano dietro la schiena e lo spinge delicatamente.
Rimasto da solo, si lascia incantare per qualche istante dall’ingresso circolare nel quale l’avvocato Morremo lo ha salutato, andandosene, dopo aver continuato a parlare di cose che lui non ha ascoltato. Non può fare a meno di constatare che quel primo ambiente ha la stessa dimensione della sua camera da letto, forse è anche più grande e gli sembra straordinario che un uomo da solo abbia vissuto in (quanti?) trecentottanta, quattrocento metri quadrati, su due livelli: sotto, oltre all’ingresso, una cucina, due bagni, una camera da pranzo, un salotto e lo studiobiblioteca dello zio e sopra quattro camere da letto e altri due bagni. Prende il cellulare e chiama sco: “Pronto Franci? Sono dentro, ho fatto tutto con l’avvocato e non puoi immaginare quanto sia grande la casa.” “A che piano è?” La voce arriva dal telefonino con un timbro vagamente metallico. “Al quarto, l’ultimo e la cosa fantastica, forse vagamente inquietante, è che, quando abbiamo aperto le finestre, è entrata moltissima luce. Al tuo spirito positivo e luminoso piacerebbe sicuramente.” “Magari più tardi ci faccio un salto, se mi dai l’indirizzo preciso… ” “Meglio di no!” Riesce a stento a trattenere un tono seccato. “Come sarebbe a dire? Guarda che oggi non sono in vena di sopportare le tue menate!” “Lo sai come sono, no?” Luca cerca di giustificarsi: “Mi ritrovo in una casa che apparteneva ad uno che avrò visto sì e no cinque volte nella mia vita, uno che in famiglia hanno sempre spacciato per un mito. Adesso la casa è mia ed ho bisogno di scoprirla da solo, di metabolizzare le sensazioni e di cercare di capire chi fosse realmente Osvaldo Socrates, il perché sono io il suo erede. Che ne so, mi sento attratto da questo ambiente, capisci?”
“Certo che capisco,” sco ha la voce evidentemente alterata, “capisco che sei fuori di testa più del solito! Fai come credi, metabolizza pure, e, quando torni ne parliamo.” “Mi sa che resto a dormire qui stanotte… ” pausa in attesa di reazione. Niente, continua: “Intanto accosto le finestre, ché tutta questa luce mi disturba e poi pensavo che restandoci a dormire avrei potuto fare le cose con calma. Lo sai che di notte riesco a fare meglio tutto, non ti dispiace troppo, vero?” “Ecco, bravo!, restaci a dormire, magari nella casa di uno psichiatra morto riesci a rinsavire! Viviti il sogno virtuale di essere single!” sco interrompe la comunicazione e uno strano senso di calma e liberazione si impossessa di Luca, come quando i suoi genitori andavano a pranzo da amici la domenica, lasciandolo, già adolescente, per una intera mezza giornata a casa da solo e lui eggiava in giro per le stanze completamente nudo, creava ed indossava un diadema fatto con le collane di sua madre ed immaginava l’invasione un qualche esercito straniero, poi l’irruzione di soldati brutali che lo avrebbero incatenato e violentato.
Come detto: persiane leggermente accostate e, dove possibile, tende tirate, solo la luce necessaria all’esplorazione, niente invasivi e distruttivi raggi solari, come quelli che anni prima avevano scolorito le copertine della sua colle-zione de “I gialli per Ragazzi”. Cammina a scatti. La conversazione con sco l’ha messo di malumore prima ed ora in agitazione. Non riesce a capire cosa spinga gli esseri umani a stare in coppia, cosa lo abbia spinto a decidere di dividere la sua vita con un ragazzo che, tutto sommato, non gli corrisponde neanche un po’. Solo una mia proiezione, pensa, condita di qualche effetto speciale, come la luce in cucina stamattina, niente più di questo. Esplora la casa, che si aspettava carica di mobili pesanti, intagliati e con fregi, color della terra o sottobosco, scuriti dal tempo e dal fumo delle sigarette. Invece è tutto linea-re, bianco, grigio metallo e opaco. La cucina è ipertecnologica, manca solo un frigorifero computerizzato, di quelli che si vedono in certi reportage, che vanno in onda dopo il telegiornale delle 13,00. In salotto divani di pelle bianca e nera, un tavolino di cristallo e acciaio bassissimo. Cazzo, pensa,
sembra la casa di un architetto fighetto, non certo quella di un luminare della scienza, strizzacervelli, per giunta! Si dirige verso lo studio, dove entra nella speranza di trovare almeno lì una enorme scrivania in legno massiccio, imponente e ingombra di carte. Con sua grande sorpresa, la scrivania che aveva immaginato c’è ed è anche più grossa del previsto. Sulla porta si gira indietro come per assicurarsi di non aver sognato, poi entra nella nuova dimensione, che immediatamente riconosce come familiare e, nel luogo che a chiunque altro darebbe un vago senso di claustrofobia, si sente al sicuro. Un’unica libreria ricopre interamente tutte e quattro le pareti. Non ci sono finestre, ma, guardando attentamente, si posso scorgere dei condotti di aria su almeno due lati. Il soffitto è molto alto e delle lampade liberty illuminano l’ambiente. In mezzo alla stanza, davanti alla scrivania, campeggia una dormeuse di pelle rosso bordeaux. In un nanosecondo Luca decide che quello sarà il suo luogo sacro, lasciando andare lo sguardo intorno, come ipnotizzato e capisce che lì deve certamente albergare lo spirito di suo zio. La vibrazione del cellulare sulla sua natica destra lo riporta alla realtà. Sul display un nome: “Ciao Andrea”. “Ciao Luca, ieri sera ci hai dato buca, eh?” “Non avevo voglia di vedere gente, sai dopo le lezioni e poi io e sco… ” “Sì, vabbè, ogni scusa è buona. Certe volte proprio non ti si capisce, eppure non è che ti manca qualcosa, c’hai pure il ragazzo bono, che cavolo ti atteggi a misantropo?” “Andrea non mi avrai mica telefonato per farmi l’imitazione di mia madre, no? Per quella là basta che mangi, bevi e hai soldi in tasca, la vita è tutta rose e fiori. Che ne sai tu.” “Come vuoi, ma ricordati che qualcuno di noi sta ancora cercando il lavoro e che nel mondo ci stanno ancora un sacco di guerre in corso, che a Ostia hanno fatto fuori un altro di noi e che… lasciamo perdere, va’. Ti ho chiamato per sapere se stasera tu e sco venite a mangiare una pizza, ci siamo tutti e magari ci facciamo un aperitivino prima a Campo de’ Fiori, per aggiornarci e, dopo la pizza, si va, che ne so, al Coming e poi al Circolo o ognuno fa quello che vuole,
che ne dici?” Luca osserva il suo nuovo regno e risponde: “Stasera no, ho da fare delle cose. Perché non chiami sco a casa, forse a lui va la pizza.” “Ma che avete litigato? Non vi sarete mica lasciati?” “Tutto a posto, ma che c’avete dentro il cervello? Se uno si sta a fare i cazzi suoi da qualche parte, da solo e senza l’altra metà della mela, è perché ci sono problemi. Siete proprio limitati, cazzo!” Vede i libri, la scrivania e la dormeuse che applaudono. “Ho capito, ciao bello, sento che dice sco” Andrea attacca. Si precipita fuori dallo studio e la geometrica linearità del salotto ha un effetto sedativo sulla sua rabbia montante, pur non riuscendo a spegnerla del tutto. Non riesce a farsi una ragione di come tutti quelli che lo circondano non arrivino a comprendere dei concetti che gli appaiono fin troppo elementari. Lui non capisce gli altri e gli altri non capiscono lui. sco lo vorrebbe dinamico e positivo e non si comprende per quale motivo non abbia già lasciato Luca per trovare l’uomo dei propri sogni, sorridente, scattante, palestrato e propositivo. I suoi genitori, lo volevano laureato e lui li ha accontentati, nonostante trovi che il mondo sia popolato di laureati coglioni. Poi gli hanno imposto di lavorare, mentre lui avrebbe preferito starsene davanti ad una parete, semplicemente a pensare, ma questo sarebbe stato disdicevole, poiché, gli ripetevano, tu sei ciò che fai e produci, il lavoro è dignità e riconoscimento sociale. Non lo ha mai capito, ma ha cominciato a lavorare. Infine i suoi amici sono il massimo: una generazione di trentenni che si comporta come un branco di studentelli di sedici anni, che si mandano sms tutto il giorno, che parlano costantemente di cazzi visti in palestra, del lavoro che hanno o non hanno, che si ostinano ad invitarlo all’ultimo minuto a cene o feste, pur sapendo benissimo che lui ha bisogno di tempo per distrarsi da sé e prendere delle decisioni. Arriva fino all’ingresso, entra in cucina, torna in salotto, attraversando la camera da pranzo, con la certezza che non ci sia nessuna soluzione: il matrimonio mai consumato tra lui e il resto della società deve essere rotto per totale incompatibilità di carattere. Gli fanno male i muscoli delle gambe. Si abbandona sul divano di pelle nera, riando mentalmente tutti i volti delle persone con le quali ogni giorno deve entrare in contatto. Poi più nulla, solo un ricordo del
liceo, quando, preparandosi per la prova d’inglese della maturità, lesse le leggendarie parole di Oscar Wilde alla carta da parati della sua stanza, prima di morire: uno di noi due se ne deve andare.
Gli è venuta fame ed una ricerca sommaria in cucina gli mostra diversi tipi di alimenti in scatola. In frigo c’è poco, ma il congelatore è il trionfo della crioconservazione. Chiude lo sportello, non senza chiedersi quale sia il senso del cibo quando si è deciso di farla finita, dopotutto sarebbe meglio uscire di scena senza antiestetici gonfiori, asciutti, così come si è vissuti, con la sola pelle attaccata ai muscoli, in modo che la gente possa rimpiangere e lodare le tue qualità fisiche da vivo. La stessa cosa che aveva sentito ripetere da diverse voci, il giorno del funerale di suo zio: un uomo così bello e prestante, nonostante l’età avanzata, sembra impossibile che possa essere morto; perlomeno lui sì che se l’è goduta la vita! Ogni volta che qualcuno gli ripeteva la filastrocca, sentiva venirgli la nausea e giurava a se stesso che non avrebbe mai più partecipato ad un funerale, a meno che non avesse avuto la certezza di essere l’unico presente. mentalmente le cose trovate in cucina, affronta un altro giro di esplorazione, ispezionando le camere da letto e il piano superiore. Niente di nuovo rispetto all’arredamento minimalista chic del piano inferiore, solo la camera di suo zio lo colpisce particolarmente a causa di una sorta di sovraccoperta di pelliccia, bianca e nera a grosse macchie, come se avessero scuoiato una mucca e l’avessero lasciata sul letto. Luca la guarda per un po’, poi accenna un sorriso e segue la sua nuova idea: si toglie i vestiti, rimanendo completamente nudo, e ci si distende sopra, girandosi e rigirandosi lentamente con gli occhi chiusi e avendo, quasi immediatamente, un’erezione. I peli della coperta gli trasmettono una sensazione di calore e gli accarezzano il corpo quel tanto che basta alla sua fantasia, quella fantasia che gli è amica e complice da sempre, per giocare e proiettarlo da qualche parte nel cosmo, abbracciato da una forma aliena pelosa che si vuole accoppiare con lui, per dare vita ad una nuova specie. Starebbe lì per ore, poiché nella realtà non c’è nulla e nessuno che lo possa appagare in quel modo: sco è solo un’incompleta e umana manifestazione della sua immaginazione divina, troppo vero per essere perfetto, come tutto il resto d’altronde.
Si riveste. Quando riscende di sotto, si accorge che il suo telefonino segnala un sms ricevuto. Spinge il tasto per selezionare la voce LEGGI e si ritrova un messaggio di sco: “me ne vado a mangiare la pizza con Andrea e gli altri, non ti divertire troppo, baci”. Manovra il cursore, trova l’opzione CANCELLA e pigia, rammaricandosi che nella vita non possa essere così facile liberarsi delle persone.
Si sta facendo buio, ma Luca non se ne rende quasi conto, chiuso nello studio di Osvaldo Sacrates, seduto sulla dormeuse, mentre mastica del tonno in scatola e si domanda quale sarebbe il modo migliore per cominciare l’ultimo atto della sua esistenza. L’idea che lo trovino nudo e decomposto su quella coperta al piano di sopra gli stuzzica la mente, ma si rende conto che quel rompipalle di sco lo andrebbe a cercare troppo presto, senza dargli neanche il tempo di raggiungere il rigor mortis. Comunque c’è tempo e la curiosità la fa da padrona. Questo suo nuovo e, secondo l’idea attuale, ultimo rifugio deve essere esplorato per bene, visto che gli pare altamente improbabile che ne uscirà e forse è proprio lì che gli verrà suggerito il modo migliore per portare a termine il suo progetto, dopotutto suo zio era un medico e, si sa, i medici tengono sempre qualche strana sostanza che gli fornisca una via di fuga, nel caso li colgano con le mani nel sacco, mentre assemblano pezzi di cadavere, sulle orme del dottor Frankenstein. Gli viene da ridere e per poco non gli va il tonno di traverso, tanto da essere costretto a correre in cucina, per bere urgentemente dell’acqua, ma non fa in tempo e, proprio al centro del salotto, un ulteriore colpo di tosse gli fa spalancare la bocca e schegge di pesce masticato vengono sparate sul divano di pelle nera. Tornando dalla cucina e sorseggiando direttamente da una bottiglia di acqua minerale, si ferma a guardare il divano. È dunque questo il senso della vita, si domanda, un animale morto la cui unica funzione esistenziale è quella di rivestire un divano, con sopra spalmato un altro animale, altrettanto morto e ridotto in poltiglia dai denti di uno che non ha nessun interesse ad arrivare a domani? Rientra nello studio. Si siede alla scrivania e decide di cominciare da lì. Apre i cassetti, ma non trova niente di non convenzionale, le solite cose che stanno nei cassetti di una scrivania. Ci sono appunti ovunque, annotazioni su ciò che de essere ricordato,
appuntamenti da prendere o cancellare, persino una lista della spesa destinata al cuoco della clinica. Già, la clinica di cui in famiglia non si parlava mai, fino a dimenticarne l’esistenza. Solo ora ricorda che quello era un soggetto tabù e che la sua totale rimozione venisse vissuta come il più ovvio dato di fatto. Trova un’agenda: solo nomi e numeri di telefono in ordine, ovviamente, alfabetico, per cognome. C’è anche il suo numero e quello dei suoi genitori e di altri parenti che conosce a malapena. Riflette un secondo e non gli pare di aver visto telefoni in giro. La chiude e la ributta dove l’ha presa. Penne, trova decine di penne di tutti i tipi e materiali, alcune sembrano preziose, potrebbe trattarsi di una vera e propria collezione, se non fossero lasciate un po’ qua e un po’ là, senza un ordine preciso. Nell’ultimo cassetto alla sua destra, trova un registratore, ma non ci sono cassette. Lo estrae, lo poggia sulla scrivania, chiude il cassetto e si alza. Un giro della stanza non richiede un grande sforzo: pur essendo ampia, sembra ci siano solo libri, che, ad una prima occhiata, sembrano messi lì a caso, ma poi ci si accorge che una parete è occupata da romanzi di ogni genere, con una particolare attenzione per gli autori americani; un’altra, quella che gira intorno alla porta, ospita volumi di antropologia, sociologia, esoterismo, sessuologia e via dicendo. Luca rimane impressionato dal numero di libri che parlano dei Rosa Croce, della Massoneria e dei Templari, convincendosi che a volte le bizzarre combinazioni genetiche ci regalano pezzi di DNA che non arrivano propriamente dai nostri genitori o che in loro restano silenti. Ci sono volumi che lui stesso avrebbe, e in parte lo ha fatto, scelto per la sua biblioteca personale. Sempre alla ricerca di strane realtà e mondi sconosciuti, per trovare una spiegazione alternativa alla storia, troppo spesso raccontata da chi non vuole mollare il proprio potere. Immergersi in percorsi misteriosi ed esoterici, per dimostrare a se stessi che la normalità è solo una facciata poco originale. La parete di fronte alla porta è dedicata al novanta per cento allo studio della mente e per il restante dieci per cento è composta di volumi di medicina ordinaria e di chirurgia. Infine, dietro la scrivania, ci sono gli appunti di Osvaldo Socrates, i suoi studi, le sue ricerche, i libri che lui stesso ha scritto e pubblicato, insieme a quelle che sembrano cartelle cliniche. Luca comincia a sentir crescere un moto di delusione: sperava in qualcosa di più e, come al solito ha commesso l’errore di mandare avanti le proprie proiezioni fantastiche, invece di esplorare semplicemente la realtà. È qualcosa che fa da sempre, persino nella scelta degli amanti o delle avventure occasionali: carica l’altro di significati che lui stesso produce e, una volta al dunque, la disillusione al cospetto della solita comune persona, con niente più che i desideri e le
aspettative di tutte le persone. Lui non è mai riuscito a trovare delle differenze, eppure devono essercene, anzi ci sono sicuramente e per questo è presto giunto alla conclusione che il problema non è negli altri. Per gran parte della sua esistenza si è sentito disadattato, poiché mezzo matto in un mondo di sani e felici, poi ha accettato la consapevolezza che lui è uno dei pochi ad essere andato oltre e che il resto dell’umanità è composto di gente al più basso grado dell’evoluzione. Ma il risultato non cambia, il senso di disadattamento non cambia, l’idea di non essere in un luogo a cui si appartiene non cambia, così come il desiderio di andarsene non cambia. Si toglie le scarpe e i calzini e percepisce immediatamente il freddo del marmo sotto di lui. Esce dallo studio in cerca della caldaia per accendere il riscaldamento, sperando che non sia uno di quelli centralizzati, visto che in quasi tutti i condomini li accendono ad orari per lui improbabili. Dopo dieci minuti di ricerca, la trova sul balcone piccolo della cucina, gira la manopola e si assicura di vedere la fiamma. Voltandosi, si rende conto di essere all’esterno e getta uno sguardo alla città, illuminata. Devono essere circa le 20,30 e Luca immagina le migliaia di persone in macchina, alla ricerca di un parcheggio e pronte ad interminabili file, pur di trovare un posto in un qualche tipico ristorante del centro. Fa una linguaccia all’intero universo e rientra.
Cinquanta minuti dopo è di nuovo nello studio, ma ora un evento nuovo lo sta facendo letteralmente tremare dalla curiosità: poco prima, continuando a cercare qualcosa di indefinito, nella speranza di imbattersi in un oggetto o uno scritto che potesse fornirgli particolari di quello zio sconosciuto che, bizzarramente, aveva lasciato a lui molti soldi e una casa, si è ritrovato tra le mani un grosso volume, rilegato in pelle e senza titolo, che si è, quasi immediatamente, rivelato essere un falso libro. Nei suoi occhi c’è lo stupore di un ragazzino che partecipa ad una caccia al tesoro. Tra le mani ha una sorta di scatola che, chiusa si confonde perfettamente tra altri libri, ma che aperta mostra un contenuto che scatena immediatamente l’avidità della sua curiosità: ci sono delle audiocassette, ad una prima occhiata senza custodia e con sopra una striscia bianca adesiva, sulla quale c’è scritto qualcosa. Luca si siede alla scrivania, imponendosi di non correre troppo con
l’immaginazione, ricordando quante volte, il proiettare le proprie aspettative, lo ha messo nei guai o, nel migliore dei casi, gli ha riservato una cocente delusione. Potrebbero essere appunti di un nuovo libro presi in macchina, promemoria per la segretaria, forse è solo musica classica o peggio incisioni di Julio Iglesias. In questi casi la prudenza non è mai troppa. Estrae le cassette una per una e le poggia in fila sulla scrivania, davanti a sé e sente rimontare l’entusiasmo, poiché dalle etichette sembra improbabile che sia della musica, le scritte non sono molto chiare, ma è evidente che si tratta di lettere e numeri o solo una lettera con numeri. Avvicina la faccia ad una di esse e legge ad alta voce: “O, S, P, 5/18Bcc0732”. Ritorna ad una visione d’insieme, poi si accorge di aver lasciato fuori il registratore, trovato durante la sua precedente esplorazione. a lo sguardo tra il registratore e le cassette più volte e decide che l’unico modo per capirci qualcosa e per placare la sua ansia è ascoltarne una, ma da quale cominciare? “Ci vuole metodo nelle cose,” dice, “altrimenti si rischia di complicarle, ma qui bisognerebbe sapere a priori cosa si cerca… Al diavolo il metodo, una qualunque andrà bene, poi si vedrà”. Ha appena finito di parlare alla stanza, che non gli ha risposto, quando si accorge di una anomalia, nell’apparente monotonia di quelle etichette. Non ci ha fatto caso prima e questo ferisce il suo orgoglio di persona che si ritiene acuta osservatrice, ma dura un attimo e afferra con la mano destra una cassetta al centro della fila, sulla quale non ci sono lettere e cifre a caso, ma un nome: Clara. Nessun dubbio ulteriore, quella è la cassetta dalla quale cominciare, perché va onorata nella sua diversità, perché come lui non appartiene al gruppo anonimo nel quale l’ha trovata, perché semplicemente ha deciso così e basta. Il registratore ha un filo che andrebbe attaccato ad una presa di corrente. Gli sudano le mani a questo ennesimo contrattempo, ma la sua razionalità gli suggerisce che un registratore da tavolo deve avere la sua presa di corrente vicino al tavolo, almeno spera che sia così e, per una volta le sue speranze vengono premiate: dietro la sedia sulla quale è seduto, sotto un rialzo della libreria, c’è la presa di corrente. Infila la spina, torna in superficie, preme eject sul registratore, mette la cassetta
dove deve andare, chiude lo sportellino.
Cassetta: CLARA. PLAY.
Per sfuggire alla follia, non rimane che rifugiarsi nella follia… Non riesco proprio a ricordarmi chi l’abbia detto, eppure qualcuno deve avermelo suggerito, forse mia nonna, se solo l’avessi conosciuta, o qualcun altro, ma non importa. Io ci ho provato a rifugiarmi nella follia, anzi mi ci sono piazzata proprio al centro, nell’occhio del ciclone e, mentre tutto intorno veniva risucchiato, strappato, tirato su e rilanciato a terra, me ne sono stata qui, consapevole dell’immunità acquisita. Venticinque anni volati come un giorno, a lavorare, ascoltare, preparare senza uno sbaglio… buon giorno dottore, oggi mi sembra piuttosto tranquillo… ispettore ci sono novità?… avvocato dovrebbe aspettare solo qualche minuto, è l’ora della terapia. Una vocazione! Da piccola mi prendevo cura degli insetti che popolavano il nostro giardino e già possedevo quello scrupolo che mi sarebbe stato utile in futuro. Certo la situazione era diversa, gli insetti sono sicuramente più cristallini rispetto agli esseri umani, non parlano è vero, ma si fanno capire, eccome se si fanno capire. Una mosca che, abbandonata dalla famiglia e preda della follia, gira su se stessa fino a sfinirsi, allora va tenuta sotto un bicchierino da caffè usato da poco: l’aroma del caffè appena bevuto ha un effetto benefico sulle mosche pazze. Le api quando si ammalano sono difficili da curare, specialmente in quella rara forma di allucinazione che le costringe a vedere punti neri su fondo giallo sopra il proprio corpo, niente più strisce, solo punti. L’unica soluzione rimane l’asportazione delle antenne, cosa che non sempre riesce con successo. Vocazione difficile la mia, stavo ore ed ore in giardino, frugavo tra l’erba, controllavo i rami del noce o del limone ed ogni giorno il mio intervento si rendeva necessario, come se la natura producesse la sua dose di follia quotidiana, in una sorta di bisogno, dove tutto si rigenera, anche la stravaganza. Un ragno comincia a tessere la propria tela intorno a se stesso perché vuole un vestitino nuovo, non desidera costruire trappole per nutrirsi, ma solo qualcosa da indossare. Allora scatta il sospetto, poiché nella società dei ragni si fanno ragnatele per catturare prede, un ragno che si rispetti non si fa un vestitino, un ragno che si cuce addosso la tela è strano, diverso, forse pazzo. I ragni tutto questo non se lo dicono, lasciano correre, sono molto tolleranti, ma io sapevo cosa pensavano realmente e intervenivo, isolavo lo strambo, poi lo congelavo nel freezer, lo scongelavo una settimana dopo e se
non fosse sopravvissuto alla crioterapia, avrei avuto la certezza del caso irrecuperabile. Non se ne è salvato uno, certe patologie non hanno ancora trovato cure. Come dicevo gli uomini sono diversi, parlano, ti dicono cose e spesso è proprio la facoltà di parlare che li mette nei guai, che li fa considerare malati. O magari vedono oggetti inesistenti o che altri non vedono, sentono voci, anche se, sono convinta, la maggior parte di loro mette in atto semplici desideri di ribellione, che li trasformano da cittadini modello in ospiti… così li chiamiamo noi. Il padiglione 18 è pulito, il più pulito di tutti e a volte si ha la sensazione che non ne esistano altri, come se tutta la vita di questa struttura avesse il suo fulcro qui, di più, come se il mondo volesse da qui far sentire la sua voce agli altri pianeti… così almeno sembrerebbe dalle urla dei nostri cari ospiti. Cominciano a lamentarsi quasi sottovoce, borbottano frasi sconnesse tra sé e sé, poi il volume si alza, chiamano i parenti, i dottori, gli infermieri, fino ad urlare e urlano pur sapendo che gli faranno presto una puntura, urlano anche se non hanno più vene per gli aghi. Dopo silenzio e immobilità. Le coccinelle che fanno uso di droga, se ne stanno immobili sulla punta estrema di una foglia e sembrano guardare in basso e possono rimanere così per giorni, con il paesaggio alterato dall’effetto allucinogeno e la sensazione di baratro data dalla distanza che separa la foglia dal terreno, ignorate dalle altre coccinelle troppo prese a portare fortuna a qualcuno di aggio. Prima nel padiglione 18 stavano tutti insieme, io li guardavo da dietro un vetro fare il carosello più democratico che si fosse mai visto: nessuna divisione sociale, non c’erano ospiti di categorie diverse come ora, tutti pazienti, tutti malati, tutti matti. Le cose sono cambiate dopo lo scandalo dei letti con le catene e le varie riforme, i nuovi metodi, i nuovi dottori. Fu allora che nacque l’ala B, quella per gli ospiti eccellenti, gli sperimentali, quelli trattati con nuovi metodi e terapie, quelli da recuperare e da mostrare come esempio di efficienza, di umanità della psichiatria, non più dimenticati nell’inferno nero dei manicomi, ma ospitati in un purgatorio rosa. Nell’ala B tutto è rosa, i muri, le porte, i vassoi per il cibo, i bicchieri, le divise, le coperte, i lavandini, le pillole, tutto completamente e solamente rosa, il colore che, secondo le più avanzate teorie della cromoterapia, riduce l’aggressività come è scientificamente provato. Si prende un detenuto di un carcere qualsiasi, purché il detenuto sia un violento, uno stupratore, un serial killer o qualcosa del genere, gli si mette davanti agli occhi un pannello nero o rosso e gli si dice di sollevare un bilanciere con dei
pesi, usando tutta la sua rabbia. Quello ci riesce benissimo, per lui è un gioco da ragazzi, visto che qualche mese prima ha trucidato la sua famiglia e poi si è portato in spalla i cadaveri per il quartiere. Poi gli si mette davanti un pannello rosa e gli si ordina di ripetere l’operazione, ma… niente da fare, il miracolo è avvenuto, il bestione non ci riesce. Wow, il rosa è la soluzione di tutto! È incredibile che non ci abbiano pensato prima, che nessuno si sia mai domandato prima come mai tanti uomini indossino hot pants rosa e siano totalmente felici. All’entrata dell’ala B c’è , o forse c’era, la mia cabina, tutta di vetro antisfondamento, climatizzata, dotata di vari monitor nei quali si possono vedere i nostri deliziosi ospiti e si può persino sentirli quando raccontano le loro storie al proprio letto, perché il letto è l’unico che li sta a sentire, tranne me, si intende. Quello che dicono viene anche registrato, non si dice, è segretissimo, ma io so che succede e non so come lo so, ma ad un certo punto tutto è stato chiaro. Sono quasi sicura di aver trovato delle cassette e poi la lista di certi medicinali dai nomi mai sentiti, roba sperimentale, caramelle solo per gli ospiti. Da un po’ non mi è più chiaro niente, fatto sta che so certe cose e questo non si può cancellare. Sono sicura che stanno registrando anche me, forse mi hanno messo gli occhi addosso e non vogliono che racconti i fatti loro in giro, forse stanno pensando a dei provvedimenti disciplinari, a qualche tecnica per confondermi le idee. Sembra anche che ci stiano riuscendo, poiché ho la bizzarra sensazione che la mia cabina, tutta di vetro antisfondamento, climatizzata e dotata di vari monitor, somigli sempre di più ad un cubo rosa. Parlare è l’unico modo per non cancellare quello che so, pur non sapendo perché lo so, ma, dopo tanti anni di fedele servizio, mettersi a registrare quello che dico, come delle volgari spie, è inammissibile… che cos’è inammissibile? Dovrebbe essere l’ora del giro delle visite e questa pesantezza nelle gambe, quasi quasi mi faccio dieci minuti di sonno e poi starò meglio. Solo dieci minuti per alleggerirmi di tutti questi pensieri e poi riprendo il lavoro.
STOP. EJECT.
Quattro, cinque minuti immobile. Luca cerca di decodificare ciò che ha appena sentito, mentre nella sua mente si susseguono dei flash di immagini in sequenza disordinata: insetti, monitor, stanze rosa e risuona la voce, leggermente alterata dal registratore, di quella Clara, a volte sicura e lucida, a tratti carica di paura nella consapevolezza di non avere più il controllo. Poggia la cassetta sul lato sinistro della scrivania, in alto, lontana dal mucchio. Si alza per fare un giro della stanza, poiché sente il bisogno di muoversi, di ascoltare il proprio corpo in movimento. Si ferma, con i polpastrelli dell’indice e del medio della mano destra preme sulle vene del polso sinistro: le pulsazioni ci sono, un po’ più veloci del normale, ma ci sono. Riprende a muoversi in circolo, intorno alla dormeuse. È pazzesco, pensa, chi sarà mai questa Clara? È ancora viva e se sì, dove si trova in questo momento? Perché la sua è l’unica cassetta con un nome? Sembrerebbe un’infermiera, una sorta di responsabile di un qualche reparto, qualcuno che doveva avere un’idea precisa della situazione. Ma quale situazione? Magari lo zio Osvaldo assemblava veramente pezzi di cadaveri o portava avanti esperimenti del tipo descritti nel film “I Ragazzi Venuti dal Brasile”. Bisognerebbe spegnere il cervello e non lasciare correre la fantasia, dietro il fascino dell’ignoto si cela quasi sempre la banalità del quotidiano. Continua a are mentalmente in rivista i propri mu-scoli. Apre e chiude la mani, seguendo e ordinando a se stesso i vari movimenti, per assicurarsi di avere il controllo, poiché l’idea di non poter essere al timone della propria nave sempre e comunque lo manda in panico e quella Clara gli ha trasmesso tutta l’angoscia di chi, ad un certo punto, non governa più il proprio universo. Ha uno stimolo che lo avverte della necessità di andare in bagno. Immagina il percorso fuori dallo studio, guarda le cassette, percepisce la propria impazienza di saperne di più e classifica lo stimolo come non urgente, ci penserà più tardi, non sarà certo la fisiologia del suo corpo a dirgli dove e quando andare a fare questa o quell’altra cosa: il timone è nelle sue mani e il gabinetto può aspettare. In questo momento, dopo mesi di inerzia esistenziale, di totale o quasi totale distacco dalle faccende dell’universo mondo, percepisce una curiosità e vuole assecondarla, vuole prendersi il lusso dell’interesse. Probabilmente si stancherà anche di questo, sicuramente dietro l’angolo non troverà nulla che già non gli sia conosciuto e, a quel punto, non gli rimarrà che procedere nel suo intento di uscire di scena, ma ora è così che gli gira e, isolato nello studio di suo zio, con il mondo ad un palmo dal culo, come gli piace ripetere spesso, deve rendere conto
solo a se stesso. Si strozzino pure, gli altri con le loro pizze del cavolo! Ritorna alla scrivania, resta in piedi, cercando di individuare una cassetta che lo ispiri particolarmente. Chiude persino gli occhi, nella speranza di una qualche percezione extrasensoriale, ma nulla. Si siede, ne prende una a caso e la infila nel registratore.
Cassetta: OSP.2/18B-cc0115. PLAY.
Potevo starmene comodamente in una casa, mia, solo mia, seduto su una bella poltrona imbottita, in salotto, con la televisione: quattro solide pareti che ti proteggono. Magari avrei festeggiato il Natale con la famiglia: un bell’albero decorato – le luci rosse intermittenti sono quelle che preferisco – il calore umano e cibo, tanto cibo… quattro solide pareti che ti proteggono. Invece ho scelto il giardino di una piazza rotonda, anche il giardino è rotondo circondato dalla strada e dalle macchine. Niente pareti, nessuna poltrona, nessuna televisione e il Natale, quando arriva?, solo quello degli altri. Perlopiù sto immobile sulla mia panchina di cemento. Ci hanno provato a portarmi via, un sacco di volte, ma io ho resistito. Sono affezionato alla piazza, dove tutto si ripete uguale ogni giorno. I bambini giocano. Io odio i bambini e li guardo, sperando che uno di essi si rompa l'osso del collo, ma sembrano indistruttibili, specialmente quello là, che, con i pattini ai piedi, si esibisce nelle piccole parti asfaltate del giardino in tutto il suo virtuosismo infantile. Sembra un giovane ippopotamo su ruote. Ha l’aria di sentirsi importante, mentre volteggia grasso sotto gli sguardi ammirati di quelli che i pattini non ce li hanno. A quell’età ci si può incoscientemente sentire qualcuno, senza percepire i segni di quello che saremo. Comunque sta rovinando l’estetica della mia piazza e vorrei che scoppiasse in corsa, con le cosce attaccate ai pattini che schizzano in direzioni opposte. Ma ecco sulla mia destra la solita vecchia. Che schifo sembra diventata un tutt'uno con lo squallido pezzo di pizza che tiene in mano. Potrebbe essere lì da secoli e la pizza è andata a male. Non la vede nessuno, è una statua invisibile in mezzo al giardino, una delle tante sparse nelle grandi città di questa astronave chiamata mondo. Sapevo ce ne fossero migliaia e devo dire che mi fa piacere averne una qui: un vero giardino ha sempre una statua, questa poi cambia anche posizione, mastica persino.
Tutto uguale, niente di nuovo accade. Mi piace? Non mi piace? Forse è quello che voglio, forse per questo cercano di portarmi via, lo fanno sempre quando qualcuno trova quello che vuole… I bambini, maledetti, giocano ed urlano. Il traffico, maledetto, sembra un rumorosissimo carosello. La gente, maledetta, compra e parla e ride e cammina… Ho la nausea! Il cielo diventa coperto ed il sole si nasconde per la vergogna. Non ci sono più riflessi lucidi sui bozzi in testa alla vecchia. Il vento mi manda l'odore nauseante dei suoi vestiti, ma la preferisco ai bambini. Se dovessi scegliere, salverei lei e sacrificherei gli altri; se mi dicessero: “Tra un giorno ci sarà la fine del mondo, tu hai la possibilità di salvare l'una o gli altri!”, non avrei il minimo dubbio e porterei con me la stracciona, attraverso le galassie. Me la tirerei dietro, mentre lei continuerebbe a masticare in assenza di gravità, lasciando andare dai lati della bocca briciole di pizza marcia. Sicuramente, guardandoci dalla Terra, ci classificherebbero come una nuova cometa. Io e la vecchia con la nostra coda di briciole. Forse la amo! Sto qua e la osservo con sentimentale tenerezza... forse la amo. Il bambino con i pattini è caduto pesantemente a terra. Deve essersi fatto molto male, altrimenti non urlerebbe in quel modo. Il suo ginocchio sanguina e la terra gli è entrata nella ferita. Lo lascerei piangere e soffrire per il resto dei suoi giorni, augurandogli una vita lunga, molto lunga. Sto immoto in questo giardino e non so neanche per quale motivo l'ho scelto. o la maggior parte del tempo ad osservare le macchine che mi girano intorno. Non si curano di nulla e nessuno, vanno veloci e la loro velocità mi eccita, mi eccita la paura negli occhi di coloro che vorrebbero attraversare. Potrebbe essere la loro ultima decisione. La stracciona digrigna i denti e, per poco, non le sfugge dalle mani quella pizza infinita. In questa piazza, ho dato il meglio dei miei sentimenti, è bastato un giardino rumoroso, qualche bambino ed una mendicante, per provare ciò che ho cercato per tutta la vita: ho molto amato e molto odiato. Ma è troppo tardi. Il bambino con i pattini si rialza e va via, come sempre. È inevitabile che lo faccia, cade e si rialza, poi ricomincia pattinare, ma più lentamente. Si vergogna
anche un po’ per i pantaloni strappati. La vecchia lo vede are e lo ignora. Lui non si toglie i pattini perché vuole dimostrare a tutti che sta bene, che è ancora veloce, che può oltreare la strada, non appena qualche macchina rallenta. Stessa scena di sempre e la vecchia accenna un sorriso complice e cattivo, mentre le sfreccio davanti e non smette di masticare neanche quando mi vede spingere l’ippopotamo ferito nel traffico impazzito. Ci provano sempre a portarmi via dalla piazza, ma ogni volta resisto e non ci riescono è impossibile che lo facciano… o forse no. Forse lo hanno già fatto, perché a volte ho la sensazione di essere in una casa, al caldo, tra quattro solide pareti che mi proteggono. Possibile che l’abbiano spuntata e se così fosse, come mai vedo la piazza, con il giardino, la vecchia con la pizza e il ragazzino sui pattini? Tutto uguale, tutto che si ripete. Ma dove sono?
STOP. EJECT.
È appena uscito dal bagno, dove, dopo aver espletato i suoi bisogni, se ne è stato qualche minuto a fissarsi attraverso il grande specchio. Quello che ha visto gli è abbastanza familiare: la faccia di sempre, giovane, ma con qualche segno a testimoniare che i venti anni cominciano ad essere un ricordo. Però gli è sembrato di notare qualche cosa che non aveva visto prima, per questo si è osservato più attentamente, con il solo risultato di vedersi sfocare sempre più, accompagnato da una forte sensazione di strabismo. Ora è in cucina, davanti al freezer aperto, ci sono due pizze margherita congelate. La pizza sta diventando un tema ricorrente in queste sue ore e, oltre a ricordargli sco, non riesce a non associarla all’immagine che si è fatta della barbona descritta nella cassetta, ma non ci vuole stare troppo a pensare, forse domani ne mangerà una o forse più tardi, visto che non ha nessuna voglia di andare a dormire. Chiude lo sportello. Apre il frigo, prende uno yogurt e, dopo aver tolto la pellicola di alluminio, vi affonda dentro un cucchiaino e comincia a mangiarselo, mentre ritorna in salotto. Sta esercitando un forte autocontrollo, impedendosi di rimanere chiuso nello studio ad ascoltare senza interruzione tutti quei nastri, quelle storie narrate a qualcuno che non c’è. Ne ho ascoltati solo due, si dice infilando in bocca il cucchiaino carico di yogurt, ed ho già sentito cose più interessanti di quelle propinatemi dall’inizio dell’anno da tutta la gente con cui ho parlato. Forse sto trovando nuovi amici. Di sicuro gente fuori di testa, di quelli considerati strani, fatti oggetto di sguardi ammiccanti e sorrisini. Beh, ci si intenderà perfettamente. Due vibrazioni, amplificate dal cristallo, poi il suono del telefonino. Si guarda intorno per individuarlo, infine lo prende in mano, posando contemporaneamente il vasetto di yogurt con dentro il cucchiaino. Guarda sul display il nome dell’intruso e risponde, facendo roteare gli occhi in segno di disappunto. “Ciao mamma!” “Ciao tesoro, sono due giorni che non ti fai sentire e poco fa ho anche provato a casa, ma non mi rispondeva nessuno, così… ” “sco è andato a mangiare una pizza con gli amici”, guarda per istinto l’orologio, “mentre io… ”
“Non avrete mica litigato, vero?” “Macché litigato, gli andava semplicemente di uscire e basta!” “Cerca di non mandare tutto a monte come al solito, che poi ti ritrovi da solo. A proposito, ma dove sei?” “A casa dello zio Osvaldo, oggi l’avvocato mi ha dato le chiavi e sono venuto a dare un’occhiata.” “Già, dimenticavo,” il tono della madre è evidentemente sarcastico, “adesso siamo diventati proprietari. Tuo zio è sempre stato un tipo originale e probabilmente ha lasciato a te la casa solo per fare un dispetto ad altri parenti.” “Mi stavo giusto domandando il perché di questa eredità. Certo sono l’unico nipote, ma non abbiamo mai avuto un vero rapporto, anzi direi che non lo conoscevo affatto. Tu hai qualche idea?” “Che vuoi che ne sappia, eh?” Si concede una pausa, forse un po’ troppo lunga, ma Luca non interviene. Riprende: “ È una cosa che non mi interessa e neanche a te dovrebbe, avrà avuto le sue ragioni. Vendila e fatti un viaggio!” “Che suggerimenti, ma’, non ho intenzione di venderla. Io sono uno curioso e non credo che un uomo intelligente come lo zio, abbia agito per un puro dovere di sangue.” “Intelligentissimo, proprio intelligentissimo”, nervosa e pungente, “quello che tutti pensavano di lui… sco non si sente a disagio senza di te? Magari qualcuno di quelli con cui sta ora ci prova… voi avete questa fissazione per il sesso… ” “È strana la faccenda della clinica, non credi?” la ignora volutamente, quelli sono discorsi già fatti ed è convinto che quelli come lei non capiranno mai. “ Tu che ne sai? Perché tanta reticenza da parte vostra?” “Luca, fai domande alle quali non voglio… cioè non posso rispondere. Sono storie vecchie… ” “Quali storie?”
“Sei ostinato come lui… come tuo padre. Dovresti fare più sport, uscire, non trascurare il tuo ragazzo, compagno, fidanzato, amante o quello che è, senza are il tempo a farti domande su un morto. Qualcuno potrebbe supporre una qualche morbosa tendenza necrofila. A proposito, spero per tuo zio che ci fosse un po’ di gente al funerale.” “C’era un sacco di gente, mancavate solo tu e papà e qualcuno ha anche provato a farmelo notare, ma evidentemente la mia faccia lo ha scoraggiato.” “Troppe cose per la testa, bambino, altro che funerale! Ma di me, ovvio, non si preoccupa nessuno, più facile pensare ai traati!” Luca si stupisce di come abbia sviluppato negli ultimi tempi una vera virtù della pazienza: solo un paio di anni prima avrebbe investito sua madre di improperi e le avrebbe attaccato il telefono in faccia. “Che c’è che non va, mamma?” “A Milano, ti rendi conto?” La donna segue un suo personale pensiero. “Che ci fai a Milano, mamma?” “Io niente! È tuo padre che se ne è andato a Milano dalla sua amichetta di turno! Tale e quale a quel professorone intelligentissimo di suo fratello. Ma questa volta non la a liscia, chiamo una squadra di operai e faccio murare la sua camera da letto con tutta la roba dentro. Giuro che lo faccio!” “Mamma che cazzo dici, perdio?!” Pazienza già finita e gli tremano anche le mani. “Non usare con me lo stesso linguaggio che usi con i tuoi amici dei… dei… centri sociali, capito? Lo so io quello che dico e lo so io quello che devo sopportare, mica conduco una vita senza responsabilità come la tua… e quell’altro, poi, che se ne va a cena fuori con chissà chi, vi pare un rapporto serio il vostro, eh?” Le mani sono ferme ora e per un attimo si immagina, sotto un albero, nella posizione del loto, pervaso di divina comione. Soffoca un sorriso: “Cerca di stare calma,” le dice con la voce più dolce che gli esce, “è logico che
tu stia male, visto il teatrino che avete messo su. Mamma, siete divorziati da tre anni e continuate a vivere insieme e tu che non riesci a rimettere in piedi la tua vita. Non credi che sia arrivato il momento di prendere ognuno la propria strada… ” “Sembra facile a dirsi.” “… Potresti venire a vivere qui, potrei fare testamento a tuo favore, così ti ritroveresti un posto tutto per te… ” “Tu sei scemo come tuo padre. Che idee! Fare testamento a mio favore, quando sei ancora un ragazzino e sarai tu a prenderti le mie cose quando sarò morta. È che la situazione va bene così come è, se non fosse per queste sue trasferte. Potrebbe almeno dirmi che si tratta di viaggi di lavoro, non ci crederei, ma apprezzerei la delicatezza della menzogna. Domani chiamo sco, anche lui deve capire che è così che comincia la fine. Una coppia deve fare vita sociale insieme.” “Lasciamo perdere, va, tanto è inutile.” Un leggero bip gli segnala qualcosa sopraggiunto a salvarlo: “Mamma, mi si sta scaricando la batteria del telefonino, ti devo lascia-re.” “Vedi di farti sentire, ma non fra un mese, capito?” “Fra un po’ si spegne, ti chiamo io, sta tranquilla e cerca di divertirti ogni tanto, baci.” Attacca senza dare possibilità di replica, mentre un altro bip attira la sua attenzione. Potrebbe spegnerlo definitivamente ed isolarsi dal mondo, ma si rende conto che la sua dipendenza da quell’oggetto è tale che i costi psicologici sarebbero più pesanti dei benefici. Continua a ripetersi che è lui ad avere il potere di lasciare gli altri fuori da questo suo momento di vita, volendo potrebbe diventare irraggiungibile. Un altro bip. Spegne il telefono e lo poggia sul tavolo di cristallo, davanti al divano di pelle bianca e sembra proprio che ce l’abbia fatta, ma poi lo riprende in mano e si dirige verso l’ingresso. Individua lo zaino che si è portato dietro, lo apre e cerca: un libro, spazzolino da denti e dentifricio, qualche cd e il caricabatteria del telefonino. Tira fuori quest’ultimo e lo attacca al cellulare, va in cucina in cerca di una presa. La trova, attacca la spina e poggia il telefono sulla credenza a fianco. Si assicura che appaia la solita scritta, eccola: IN RICARICA BATTERIA. Beve dell’acqua ed esce dalla cucina, seguendo il suo unico desiderio di rientrare
nello studio. Per un po’ nessuno lo disturberà e forse riuscirà a scacciare quel sentimento di amore e voglia di omicidio, scatenato dalla conversazione con sua madre. Quand’è che i suoi genitori avevano smesso di amarsi? Luca cerca di immaginarli da giovani, con la grana della pelle compatta, mentre si sfiorano le mani in un cinema o si baciano in macchina. In un periodo, indietro nel tempo, si sono cercati e desiderati, hanno avuto paura dell’abbandono, hanno pensato che una vita senza la presenza dell’altro sarebbe stata impossibile. Che fine hanno fatto tutte queste cose? Cosa c’è di così meraviglioso, da riempire la bocca di intere generazioni, in sentimenti tanto vani da essere sopraffatti negli anni dal peso del quotidiano? Poi quella insensata decisione di continuare a vivere insieme, anche dopo l’informale separazione, per salvare le apparenze e in nome della serenità del loro unico figlio, quasi lui non fosse lì, presente, ad assistere a quella tragicommedia. “Vaffanculo, stupidi trogloditi!” Dice, sbattendo dietro di sé la porta dello studio. Inspira profondamente, come per rigenerarsi con l’aria di quell’ambiente, poi tira il registratore il più possibile verso il lato esterno della scrivania, prende una cassetta senza troppo starci a riflettere, la infila dentro, trascina la dormeuse vicino alla scrivania, vi si distende sopra, allunga un braccio per azionare il tasto.
Cassetta: OSP.13/18B-cc0336. PLAY.
Giro giro nella stanza e… non credo di avere dimenticato proprio niente: la sedia è qui, il letto è qui, le pareti sono qui, quattro come sempre e ho anche la vestaglia e le mani, sì, ho le mani. Qualche volta con le mani mi ci tappo le orecchie e premo forte, ma è inutile, perché riesco a sentirti ugualmente, mentre mi parli e dici cose che non vorrei sentire e mi tappo le orecchie per non sentirle e per questo ho bisogno delle mani per premere il più forte possibile, fino a sentire scricchiolare le ossa del cranio. Io non sono malata, sono qui in villeggiatura, avevo bisogno di rilassarmi e sono venuta spontaneamente in questo Centro Benessere. Sono solo un po’ stressata… A me trema la palpebra sinistra, mi trema continuamente, qualche volta anche di notte, per questo me la sono cucita dodici volte e per dodici volte me l'hanno riaperta e ora mi trema… Non riesco a dimenticare, vorrei te lo assicuro, lo vorrei più di ogni altra cosa, più della libertà, ma non ci riesco… Devo spolverare il portaritratti e pulire tutto, prima però voglio sedermi e forse lo farò da seduta, ma dov'è? Eccola, la sedia ce l'ho! È che ricordo troppo e non smetto mai: come quando attiviamo la funzione “ripeti” di un lettore CD: la musica arriva alla fine e ricomincia daccapo. Resisto… sono forte io, ho già provato la lama del boia e questa volta non sarà diversa dalle altre… non sarà più dolorosa… Posso sempre mettermi a eggiare… Ci sono persone, sai, che acquisiscono la straordinaria facoltà di trasformare il dolore morale in una sorta di malinconia che pervade l'animo e, con il tempo, non possono più farne a meno. Tenersi occupati, è questo il segreto, che poi tanto segreto non è, visto che è quello che fanno tutti. Adesso mi è caduto anche lo straccio, dov'è?… eccolo! Le mie parole possono sembrarti stupide, ma, sta sicuro, non vengono pronunciate per impietosirti, no… ho avuto anche io i miei momenti belli... i capelli mi vengono sempre davanti… i momenti belli… Con il mio primo ragazzo, per esempio, quante ore felici abbiamo ato insieme! Certamente era un tipo strano, non mi guardava mai negli occhi e diceva che io ero speciale per lui. Non importava se spesso osservava le altre donne, egli amava me, ma qualcosa gli impediva di concedersi totalmente e di guardarmi negli occhi... uso questi fermagli per i capelli, ma una gamba della sedia è più corta e dondolo, per questo non riesco a tenere indietro le ciocche… Il giorno del mio compleanno, ci demmo appuntamento vicino ad
un vecchio muretto. Ricordo la gioia con cui mi preparai ed i progetti fatti per la giornata. Mi sedetti sul muretto, guardai, sentii cadere una goccia sulla mia mano… Mancano due minuti, mi dissi, sarà puntuale, è sempre stato puntuale… Goccia dopo goccia, la pioggia si riversò su di me, si fece buio ed io stetti lì, ad aspettare, immobile, con i vestiti che mi si attaccavano alla pelle, forse piangevo. Ma come si fa a capire se si sta piangendo o no, quando piove in quel modo? Poi una macchina, i fari puntati contro di me… lo sentii scendere ed avvicinarsi, tentai di aggiustarmi i capelli, accennai ad un sorriso... poi la sua voce: “Io non ti amo, mi dispiace, ti lascio”. Ancora i, sportello che si chiude, il rumore del motore, il buio e la pioggia su di me, seduta… La sedia ce l'ho e non dondola più, i capelli e le mani: tutto a posto. Va bene, va bene sto zitta. Spolvero questo portaritratti, così mi tengo occupata. E sì!, ne ho ascoltate di cose, tutte uguali, da uomini uguali e mi sono convinta che non ci siano pensieri originali in giro, voi uomini non sapete proprio essere originali, vi manca l’immaginazione: una botta e via. Spolvero, spolvero e sto zitta, zitta zitta zitta… Solo rispettoso silenzio, di fronte ad uno di saldi principi come te. Ogni giorno una nuova perla di saggezza, le ho persino scritte… Corro e trovo il quaderno… ho scritto tutto su un quaderno a quadretti, con la copertina cobalto e gli angoli smussati. Ecco!, è tutto segnato: primo non ti concedere mai; secondo, nessuno è degno del minimo sacrificio; terzo, sii sempre fedele al tuo egoismo; quarto... manca il quarto! Lo sapevo che mi avrebbero fregato il quarto punto e tutti quelli successivi. Non si può saltare dal terzo al quinto: se manca il quarto non c'è né quinto né sesto né settimo. Darei l'anima per una sigaretta! Me la fumerei con gusto, mi riempirei la bocca di fumo e te lo sparerei in faccia. Bella scoperta! Lo so che a te dà fastidio, ma io te lo sputerei in faccia lo stesso… figuriamoci se mi metto a spegnere una sigaretta, solo perché ti dà fastidio. L'ultima tirata del condannato a morte, dai! Sono pronta per il verdetto finale, pronta a porre fine alla lenta agonia del nostro rapporto ed accetterò ogni cosa con la giusta dignità e la giusta calma… avanti! Aspetta! Prima voglio dirti quanto sia stato bello averti vicino, sentire il tuo respiro su di me e le mani… ho sempre adorato le tue mani… il tuo sorriso ironico e… ecco tutto! Volevo che tu lo sapessi, anche se ora ha ben poca importanza. Volevo sapessi quanto io... quanto queste mani non ce la fanno a chiudere le orecchie. Volevo sapessi della mia vestaglia nuova che scende fino ai malleoli e quanto io… Dio, Dio, quanto ti… odio! Non credere che non sopravvivrò ad un altro abbandono, sono sopravvissuta a quattro tentativi di suicidio. Al terzo avevo preparato anche un videomessaggio da lasciare ai posteri. Ma niente, faccio schifo anche alla morte. Destinata a vivere, ci pensi? Un giro intorno alla sedia è quello che ci vuole per riattivare la circolazione, il portaritratti può aspettare e farsi fare compagnia dalla polvere. Ci
hanno tolto il vetro, pensano che possa farmi del male, mentre io sono qui per rilassarmi e, magari, diventare più bella. Vorrei non avere gli occhi, sai? Invece ne ho ben due e non faccio altro che guardare e riguardare le tue foto da bambino. Eccole! Me le lasciano tenere, sanno che mi fa soffrire il solo vederle, per questo me le lasciano vedere, la sofferenza a volte è terapeutica. Divertente, no? Che roba!, anche tu sei stato bambino, chi l'avrebbe mai detto? Avrei voluto tanto vederti, così piccolo, occupato dai tuoi giochi infantili e allora, riflettendoci un po', avrei capito: la crudeltà appare sotto forma di verità rivelata nei giochi dei bambini, nei loro sguardi innocenti è possibile intravedere una certa luce sinistra. Bisogna stare attenti con i propri figli... Adesso cammino, tu stammi a guardare e dimmi che te ne pare. Una vera catastrofe. Non sono mai stata abbastanza sensuale. Guarda che cosce molli! Eppure non faccio altro che camminare e girare intorno alla sedia. Tu volevi una donna che fosse più femmina, una di quelle che ti guardano con il bicchiere in mano, che si carezzano il corpo e poi ti trascinano a letto con lo sguardo. Mentre io non sono mai stata capace di trascinarti da nessuna parte, ma ero lì, che ascoltavo i tuoi sbadigli e avevo paura di toccarti… me ne stavo rigida, fino a quando, pigramente, doverosamente, venivi su di me, eccitato da chissà quali pensieri. Forse non pensavi a niente, forse erano solo i miei pensieri che rimbombavano nella stanza. Volevi solo sesso o nemmeno quello? Io volevo, tu volevi, egli voleva, noi volevamo voi volevate, essi volevano. Imperfetto del verbo volere, ma dove sta l’imperfezione è difficile dirlo, tutti vogliono qualcosa. Parlo in continuazione, lo so! Vedi, tra noi non c'è mai stato tempo per le parole e le parole non dette durante il giorno si sono trasformate in orgasmi notturni, seguiti dal tuo sonno indifferente e non ti sei mai accorto che, proprio nel momento in cui la gente si perde nel godimento... io piangevo, mentre tu ti addormentavi. Hai sentito un rumore? Un tonfo sordo? Che succede? Niente, non succede niente. È soltanto la mia anima stramazzata al suolo... ma, già, tu non conosci la mia anima, ma queste voci le conosci bene. Li senti? Stanno arrivando... La nostra casa… che strano mi ritrovo ancora a dire la nostra casa, in realtà era la mia casa, perché tu, pur vivendo da me, sporcando il mio pavimento, usando il mio bagno, i miei spazi, hai sempre detto che la convivenza non si addice agli uomini con le palle. Per questo hai mantenuto il tuo appartamento, pulito, inalterato, il tuo porto franco, lasciando che la mia tana, di animale quasi sempre ferito, fosse costantemente invasa da gente. A volte avevo persino paura di aprire l'armadio ed immaginavo di trovarvi dentro uno dei tuoi amici. Tutte le sere qualcuno a cena, o nella stanza degli ospiti, o nel bagno, o sul nostro letto a guardare la televisione… Io non ti guardo in nessun modo e certamente non me ne sto immobile… Non li ho chiamati io! Sono i tuoi amici e non hanno bisogno di
essere invitati, non rispettano la nostra intimità… Ma, in realtà, sei tu a non volerla rispettare... Non vedi che sto cercando di spolverare il nostro portaritratti? La tua faccia nella foto sta sbiadendo e alla fine rimarrò sola, incorniciata come un dipinto che nessuno vuole comprare… Dove sei andato? Sotto la sedia non ci sei, non ti permetterò di fuggire ancora. Dove sei? Scappi, corri, corri lontano da me… magari ti piacerebbe anche farmi fuori… Basta! Metterei un po' di musica, ma non è permesso dal regolamento… ti piace la musica, vero? La possiamo immaginare, fare finta di sentirla e, fra qualche minuto, ce la ricorderemo semplicemente. Che bello lasciarsi trasportare dalle note, sembra di essere su un fiume, con il sole che ci riscalda e la tua abbronzatura sull'asciugamano bianco… Ho voglia di un enorme bicchiere di aranciata e di fiori, fiori ovunque, nei vasi, per terra, nei miei capelli... Quand'è stata l'ultima volta che mi hai regalato dei fiori? Forse il giorno del nostro primo incontro… Fosti molto gentile. Sento ancora la sensazione delle tue lusinghe entrarmi nei pori e le tue parole nel letto, mi dicesti: “Voglio tutto da te”, ed io timidamente feci: “E tu, sei disposto a darmi tutto?”, “Anche di più”, mi rispondesti. Che specchietto per le allodole! Ed io ci ho creduto, sciocca che sono stata, ci ho creduto. Eppure sapevo quanto vuote e false possono essere le parole pronunciate in un letto… Anche di più! Più botte, più umiliazioni, ossa rotte e lividi, sempre nuovi e sempre più colorati… anche di più e poi silenzio, niente più immaginazione. Anche la musica si è stancata di noi. Giro intorno alla sedia per sgranchirmi le gambe: voglio mantenerle allenate alla fuga, perché non si sa mai, qualche volta è necessario scappare e, se non si è pronti, ti prendono e, una volta che ti prendono, rimani come paralizzata e cerchi di chiederti cosa hai fatto di sbagliato questa volta e alla fine non te ne frega niente e non tenti neanche di parare i colpi. Ma ora è diverso, ora posso correre e non riusciresti a prendermi, così come non riesci a tapparmi la bocca. Guarda questi maledetti capelli! guarda che testa! Dentro questa testa c'è tutta la mia vita... c’è anche la cravatta che ti ho regalato per il tuo compleanno. Ci sono troppi ricordi che vanno cancellati, dolorosi… Non si può dire che non abbia provato ad aprirla. Con un cacciavite. Sembrava addirittura che ci fossi riuscita, ma, quando mi sono svegliata in ospedale, l'avevano richiusa, con tutta la sua immondizia dentro… troppi ricordi. Una volta non ti facesti vivo per una settimana ed io, in casa, lottavo con il mio orgoglio, fumavo, mi arricciavo i capelli, mi sono depilata le gambe quattro volte nella stessa giornata, fino a sanguinare e tu non c'eri. Poi mi sono vestita e sono venuta da te, nel porto franco, avevo la chiave. Appena aperta la porta, sentii gemere qualcuno, entrai e tu eri nel letto con una tipa qualunque, tutta tette e fianchi. Ti ho visto e tu mi hai vista. Siamo andati a cena fuori la sera stessa. Poi, per la prima volta, non da me, ma su quel letto che
sapeva di te e dell'altra. Non tentasti nemmeno di giustificare il tradimento, ti era venuta semplicemente voglia di sesso… voglia di sesso, capisci? E, mentre me ne stavo muta a fissare il vuoto, mi hai violentata. Ho tentato di allontanarti, ho tentato con tutte le mie forze e alla fine... alla fine ho goduto come non mai... tutta la notte ho goduto, bagnata dal tuo sudore, immersa nell'odore di noce di cocco lasciato da lei. Come è possibile che una donna usi un profumo tanto disgustoso? Dimmelo! Dove sei? Girare intorno alla sedia, la sola salvezza è girare… lo so che ci sei. I capelli sono in ordine, la vestaglia spiomba bene e le mani, ho anche le mani… ovviamente anche oggi non ti ho dimenticato. Accomodati pure, ti prego, non fare complimenti, siediti nel mio cervello e resta lì, fammi impazzire! Ma io, io non sono pazza, qui non ci sono pazzi, non la si può neanche ipotizzare una cosa del genere, quindi il tuo progetto è fallito in partenza, ti è concesso solo di sederti… non voglio neanche starti a sentire, ho molto, moltissimo da fare. Le mani ce l'ho e mi ci tappo le orecchie, la sedia è qui… devo solo girarci intorno e tutto a, sempre nella stessa direzione, senza guardare indietro, un giro dopo l'altro e tutto a.
STOP. EJECT.
La sua mano è rimasta poggiata sul tasto di eject del registratore, mentre lui fissa il soffitto, senza avere la forza di cambiare posizione e senza poter fare a meno di riflettere sulla complessità dei rapporti a due. In realtà lui pensa che si tratti solo di una complicatezza apparente, costruita e data per scontata, come altre migliaia di cose, elementi artificiali ai quali si deve guardare come nati insieme all’universo: dalla necessità di vivere in coppia, al valore del lavoro, ando per il dogma dell’Immacolata Concezione. Osservando le mosche volanti prodotte all’interno del suo occhio, ma che sembrano fluttuare nel bianco del soffitto, gli viene in mente come la soluzione al problema della conflittualità dei rapporti sentimentali tra uomini e donne stia semplicemente nel riconoscere la totale diversità e inconciliabilità dei due mondi, maschile e femminile, senza volerli per forza far coincidere, senza pretendere dall’altro che senta ciò che tu senti, quando è evidente che gli strumenti sono diversi. Noi gay, comunica alle molecole dell’aria, sappiamo esattamente ciò che l’altro percepisce, comprendiamo senza mediazioni razionali l’intimo linguaggio della sua biologia. Possiamo avere personalità e vite diverse, ma in fondo ci unisce comprendere quanto possa essere scocciante fare pipì in piena erezione mattutina, mentre due lesbiche non devono starsi lì a spiegare cosa voglia dire avere le mestruazioni, trovandosi qualcuno davanti che ti dice di sì e poi si incazza perché in quei giorni sei nervosa. Ma tra etero è diverso, uomini e donne hanno di fronte un essere che per sentito dire sanno come è fatto, ma non sentono le stesse cose e forse neanche si capisco o non gli interessa farlo. Dicono che questo sia il bello della diversità, il sale dell’amore complementare, ma da quello che si sente in giro, sembra l’inferno dell’incomunicabilità. Si solleva e si mette seduto, poggiando i piedi sul pavimento. Li osserva e si ricorda che gli sono sempre piaciuti, facendone nel tempo l’elemento scatenante della propria vanità: le sue mani e i suoi piedi così perfetti, ereditati da sua madre, la quale preferisce, però, portare scarpe chiuse, per una sorta di misterioso pudore. Sua madre che si impone di amare il proprio ex-marito, pur sapendo che si tratta di pura ostinazione e che l’amore non c’entra niente, generando in Luca un irrazionale senso di colpa e lui, allo stesso tempo, parteggia per suo padre, che, facendola soffrire, lo vendica nel modo adeguato. Si alza in piedi, estrae la cassetta, che poggia in fila verticale sotto le due già
ascoltate. Ne mette un’altra, sempre presa a caso: “Caro zio Osvaldo,” dice alla stanza, “siamo proprio una famiglia di spostati che si rubano le energie gli uni con gli altri. Ma tu ci hai superati tutti, sei uscito dal cerchio, andandotene in giro a rubare le anime alle persone, magari ato da fondi ministeriali per la ricerca. C’è un non so che di familiare in tutto ciò, ma me ne sfugge il senso.” Questa volta si siede a terra, poggiando la testa all’indietro sulla dormeuse di pelle bordeaux. Prova ad allungare una mano, ma non arriva al registratore, quindi, per portare a termine l’operazione, è costretto a sporgersi in avanti e a sollevarsi leggermente.
Cassetta: OSP.8/18B-cc0042. PLAY.
I calzini rossi sono rossi, ma dipende dalla tonalità del colore: qualche volta sono così chiari, rosso chiaro, che è difficile decidere dove metterli. Oppure bisogna tener conto dei lavaggi precedenti. Quanti lavaggi hanno fatto? Uno, dieci, più di cento? Perché, se sono più di cento, allora è tutta un'altra faccenda e i pericoli diminuiscono, ma, attenzione!, non finiscono. I pericoli diminuiscono, ma non finiscono… diminuiscono, ma non finiscono… Con il rosso scuro è un'altra musica e il grado di attenzione sale e le unioni, quelle sì che vanno fatte per bene: rosso scuro con blu e nero, anche il viola intenso si unisce alla bella compagnia, ma niente di pallido e delicato, poiché potrebbero sopraffarlo, colorarlo con le loro tinte violente, farlo diventare diverso. Il ragazzino era pallido, delicato e le tende della doccia lo chiudevano nel loro rosso intenso, tanto che aveva l'impressione di stare in un sarcofago. Non si può dimenticare quel bagno: il pavimento era bianco e sui muri c'erano piastrelle rosso pompeiano, che da terra salivano su per le pareti fino a un metro e ottanta circa, poi ancora bianco, tinta lavabile. Tutto in ordine, con gli asciugamani, di varia grandezza, pulitissimi, piegati perfettamente ed adagiati secondo una simmetria studiata in anni di perfezionamento. Lavabo, tazza, bidet e una enorme (così pareva in quei giorni al ragazzino pallido e delicato) vasca. Enorme vasca, dall'interno bianco e all'esterno ricoperta di piastrelle rosso pompeiano. Enorme vasca con doccia a telefono e, in alto, entrava ed usciva dal muro un'asta metallica a semicerchio, dalla quale scendeva e sulla quale scorreva una pesante (così pareva in quei giorni al ragazzino pallido e delicato) tenda di plastica di un rosso intenso da stordire chiunque. Programma "COTONE A 60°" per la biancheria intima e le magliette per sotto, solo se sono grigio chiaro o bianco, allora si possono mettere insieme. Il ciclo dura circa un'ora e mezzo e prima dell'ultimo risciacquo la lavatrice s'ingoia tutto l'ammorbidente, che non va messo in quantità eccessiva, altrimenti rimane un odore troppo intenso. A questo punto, con un tale programma, si può pensare anche di mettere insieme alle magliette e mutande, grigie o bianche, anche calzini corti e calzini lunghi, grigi o bianchi, senza temere che tra loro ci possa
essere un contatto nocivo sia per gli uni che per gli altri. Il ragazzino pallido e delicato non amava il contatto fisico… Smettila, lo sai che non lo sopporto! Lasciava che l'acqua lo sommergesse completamente, quando faceva il bagno. Pensava di essere una nave da guerra colpita da più siluri nemici: affondava, trattenendo il respiro e chiudendo gli occhi come due portelloni d'emergenza. Affondava e sentiva dentro la sua testa le grida dell'equipaggio terrorizzato. Talvolta vedeva, nella sua testa, i marinai correre da una parte all'altra del suo corpo e morire, mentre lui toccava il fondo della vascamare e restava lì, immobile, fino a quando non riusciva più a trattenere il fiato. Non amava il contatto fisico… Non mi toccare, non mi toccare, non mi toccare! Lasciava che l'acqua gli scivolasse sopra, quando faceva la doccia, perché quella specie di telefono attaccato ad un tubo metallico si poteva fissare ad un gancio sul muro ed avere una vera doccia, anche se non era sempre possibile miscelare bene acqua calda e acqua fredda. Il lavaggio con acqua fredda non mi piace: ho la sensazione-ne che gli indumenti rimangano sporchi, tanto vale arli sotto un qualsiasi rubinetto, senza detersivo, ammorbidente e anticalcare. Sì, giusto di questo, dell'anticalcare volevo dire. Mai dimenticarlo! Ah sì!, certo che te ne puoi fregare, e ti trovi mille scuse per non mettercelo: costa troppo e mi si sporcano le mani ogni volta che apro la bustina, il cubetto bianco si sbriciola in continuazione, mi rimangono spesso pallini sui vestiti… E non mettercelo allora! Eliminalo, cassalo, aboliscilo, ma non venire a piangere quando la lavatrice ti spira sotto gli occhi di sabato sera e nessun tecnico sano di mente si scomoda per aiutarti. Allora ti disperi e chiami il pronto intervento… Non lo sopporto il contatto fisico! Quelli lì arrivano e ti guardano con comione e ti fanno sentire un deficiente, perché solo un vero deficiente non usa l'anticalcare ad ogni lavaggio. E sì, proprio ad ogni lavaggio, sarebbe troppo comodo usarlo quando ci va, tutte le volte si deve mettere quello stramaledetto cubetto bianco, se non si vuole fare la figura del mentecatto davanti al tecnico del pronto intervento che sta scrivendo una cifra iperbolica sulla fattura che ti consegnerà, mentre sul tuo volto il pallore prende il posto della vergogna. Si vergognava della sua magrezza, il ragazzino pallido e delicato, tanto che durante l'ora di educazione fisica rifiutava di spogliarsi e gli ridevano dietro, gli dicevano che era una femmina vergognosa, che sarebbe stato meglio nell'ora in cui facevano ginnastica le ragazze e che forse di loro non avrebbe avuto timore. Ma lui rimaneva vestito, anche quando tentavano di tirargli giù i pantaloni a
forza e si irrigidiva, perché non amava il contatto fisico… Non mi toccare! Se non mi tocchi ti vorrò più bene, più bene, più bene, più bene. Non mi toccare! Si vergognava proprio della sua magrezza e la nascondeva, quando non faceva troppo caldo, sotto pesanti maglioni di lana. Il programma "LANA". Indispensabile a fine stagione, dopo che hai ato l'inverno ad usare tutti i maglioni possibili, a farti vedere ben coperto anche quando non avevi freddo, ma quanti maglioni ho comprato? Togliendo quelli della stagione ata e quelli che mi regalano ogni volta per il compleanno… sono nato a dicembre e allora mi regalano maglioni per il compleanno e , quando li scarto e li libero dalle loro confezioni, vogliono sempre poggiarmeli sulle spalle, per vedere se la misura è quella giusta. Io non sopporto il contatto fisico, capito? Dicembre fa schifo come mese per nascere, tutti sono concentrati a prepararsi alla nascita di qualcuno più importante di te e mettono su stupidi alberi pieni di palle strane… Dicembre è perfetto per morire: fa freddo e la decomposizione è rallentata e, quando il rigor mortis ha fatto il suo lavoro, si può sempre pensare ad una posizione dovuta al gelo di stagione. Il programma "LANA" ha una centrifuga corta, che lascia i maglioni abbastanza bagnati e, allora, bisogna fare attenzione a stenderli in un posto dove lo sgocciolio non faccia troppi danni, soprattutto il cachemire appeso che piange e fa una pozza sotto di sé. Avete mai visto piangere un maglione di cachemire? Non emette singhiozzi, ma piange, perché è uno snob di merda che non vuole stare con gli altri maglioni meno pregiati… piange in silenzio, goccia dopo goccia. Qualche goccia continua a cadere sulla testa del ragazzino pallido e delicato, che se ne sta immobile e bagnato, nascosto dalla tenda rosso intenso della vasca, di sera dopo la solita doccia e prima di andare a dormire. Guarda fisso il muro di plastica che ha davanti , cercando di percepire movimenti dall'altra parte e sa di dover uscire, sa che non può rimanere tutta la notte dietro la tenda, sa che deve asciugarsi, ma aspetta, sperando che le gocce sul suo corpo evaporino e si concentra per far salire la sua temperatura, si concentra, fino a quando l'aria si muove e la tenda viene tirata via. Lo sai che non sopporto il contatto fisico! Non voglio essere toccato… devo concentrarmi… devo asciugarmi, via via via, via tutte le gocce, devo asciugarmi! Un ampio asciugamano avvolge il corpo del ragazzino pallido e delicato. Gli asciugamani li metto insieme alle lenzuola, di solito un set di lenzuoli e federe con quattro o cinque asciugamani, a seconda della grandezza di questi ultimi. Oppure due set di lenzuoli con federe con un paio di asciugamani, di cui
uno ampio. Qualche volta al posto degli asciugamani ci metto gli accappatoi, uno o due. Programma "COTONE 90°". Mi si dia pure dell'esagerato, certo certo, ditelo senza remore, ma per me l'igiene è fondamentale e 90° sono perfetti per raggiungere lo scopo. E non state lì a preoccuparvi che i tessuti si spappolino! Lenzuola ed asciugamani sono il regno degli acari. Non che io abbia qualcosa contro quelle simpatiche bestioline che se la sano sul nostro corpo, pasteggiando con scaglie della nostra pelle, no!, niente contro di loro è solo che… mi piace sterminarle con le alte temperature. In più gli acari sono abbondanti e invisibili e non c'è nulla di più gratificante, lasciando allo stesso tempo la coscienza intatta, dello sterminio di massa di vittime invisibili. Gira gira il cestello della lavatrice, fa tutto il suo programma, scarica l'ammorbidente, poi risciacquo più centrifuga lunga. Gira gira e purifica, quelle stramaledette lenzuola e quegli asciugamani impuri. “Non commettere atti impuri”, aveva sentito dire dal prete, durante l'ora di religione, il ragazzino pallido e delicato. Che cosa sono gli atti impuri? Si era domandato e il religioso zelante, quasi gli avesse letto nella mente, si affrettò a precisare che in quella classe non avrebbero dovuto toccarsi mai in certe zone. Poi, per scrupolo didattico sicuramente, ò ad elencare le zone incriminate, aprendo nell'immaginario di quegli scolari, orizzonti fino a quel momento impensati. Io non mi tocco… Non mi toccare, lo sai che non sopporto il contatto fisico… se non mi tocchi ti vorrò più bene! Non commettere atti impuri, aveva detto il prete, durante l'ora di religione… ed è così che il ragazzino pallido e delicato se ne stava immobile, mentre suo padre lo asciugava, dopo la doccia e prima di andare a dormire o dopo il bagno e sempre prima di andare a dormire. Lo asciugava con lenta perizia: cominciava dai capelli, poi la faccia e le orecchie e scendeva sul collo, sempre standogli dietro. Gli asciugava le spalle suo padre, la schiena e più giù e più giù ci voleva sempre più tempo, quasi l'acqua si fosse fermata solo in un punto. Sempre da dietro suo padre… Non commettere atti impuri... non respirare in modo così strano, papà… non mi toccare, non sopporto il contatto fisico! Dove li stendo? Ci sarà pure un posto dove metterli? Qualche volta li lascio in salotto, ma solo se so che non avrò ospiti per cena, perché non è bello mangiare con uno stendibiancheria davanti che sembra una di quelle sculture moderne che vogliono dire chissà cosa, ma, se le guardi bene bene da vicino, non dicono niente, considerando anche che gli stendibiancheria non parlano e… quante volte ti ho detto di non toccarmi? Potrei metterli in cucina, davanti al frigorifero, sempre che non abbia in programma di aprirlo per prendere uno di quegli yogurt
che mi piacciono tanto. Il bagno, no, quello è troppo piccolo. La camera da letto andrebbe bene, ma poi la sera ci si addormenta con un odore di umido insopportabile. Devo stendere e questo mi mette una certa ansia. Ci vorrebbe una di quelle macchine, stile americano, che asciugano dopo il lavaggio… ma poi, non si rischia forse di rovinare i vestiti? Ma a nessuno frega niente dei miei problemi: se fosse per loro me li potrei attaccare alle orecchie tutti questi panni o dovrei metterli sul pavimento. CENTRIFUGA LUNGA, una bella centrifuga lunga e non si corre il pericolo di fare pozze d’acqua… proprio una bella invenzione la CENTRIFUGA LUNGA, una di quelle trovate che ti mandano tranquillo a letto. Il ragazzino pallido e delicato, se ne stava sotto le coperte, indossando un pigiama leggero, e, tutte le sere prima di addormentarsi, fissava il soffitto nella penombra, fino a quando il lampadario non assumeva una forma più nitida, così come gli oggetti intorno a lui. Aspettava, il ragazzino pallido e delicato. Aspettava che, come tutte le sere, dopo la doccia o dopo il bagno, dopo essere stato asciugato (non sopporto il contatto fisico!) e dopo essersi messo a letto, venisse suo padre per il bacio della buonanotte… bacio della buonanotte… le labbra mi danno fastidio è come se mi pungesse un insetto velenoso, sento bruciore e mi paralizzo, non riesco a fare niente e la testa mi gira e mi martellano le parole del prete che mi descrive certe parti del corpo e… Aspettava il ragazzino pallido e delicato, quasi fosforescente nella penombra, aspettava, come ogni sera, che quel bacio della buonanotte finisse e inghiottiva, come ogni sera, saliva che sapeva non essere la sua e sentiva cento, diecimila mani sul suo corpo, nei punti che il prete gli aveva detto… Se non mi tocchi ti vorrò più bene, non mi toccare! Non sopporto il contatto fisico, non lo sopporto e io non sono cattivo… Tutta la notte con questo odore, sul pigiama aperto, sulle lenzuola, sulla sopraccoperta, nell’aria, sulla pelle e… domani lo sentiranno tutti. Bisogna lavare, eliminarne ogni traccia! Lavare, insaponare, risciacquare, centrifugare tutto, pigiama e lenzuola, le mutande e i calzini, tutto a 90°, col programma lungo e la centrifuga lunga. Mettere l’ammorbidente e, non dimenticare!, l’anticalcare, altrimenti la butti questa troia di lavatrice… .PROGRAMMA 90°, ma solo per i capi non colorati, bianchi o grigio chiaro, perché non si possono mettere colori violenti, altrimenti tutto sarebbe contaminato. Pulire pulire pulire! Devo entrare nella lavatrice e pulirmi, insaponarmi, risciacquarmi, ammorbidirmi e centrifugarmi… CENTRIFUGA LUNGA… PROGRAMMA 90°!
STOP. EJECT.
Sgranchirsi le gambe, muoversi, toccare il pavimento con la punta delle dita, tenendo i glutei ben stretti. Uscire dallo studio per immergersi nella compiaciuta essenzialità del resto della casa, per cercare di prendere le distanze dai fantasmi che lo popolano. Solo per un po’, per poi ritornare, ma ora è necessario starne fuori e, con suo grande stupore, Luca asseconda un sottile bisogno di normalità. La temperatura in casa è salita e lui, andando avanti e indietro tra il salotto e la camera da pranzo, che poi sono un’unica stanza, divisa da una specie di arco, si toglie uno ad uno i vestiti, fino a rimanere nudo, ancora una volta, come se riuscisse a ritrovarsi solo nella totale nudità. Si ferma appena per togliersi i jeans e le mutande, poi riprende la marcia, osservando quelle parti del proprio corpo che gli è dato vedere dalla prospettiva dei suoi occhi: ha la pelle bianca ed è asciutto, gli si possono vedere i muscoli, ma, talvolta, anche le ossa, pochi peli e nei punti giusti, come gli hanno sempre detto a letto, facendo sesso. Si ferma e sente il bisogno di toccarsi, quindi si a una mano sul bicipite sinistro e, subito dopo, affonda le labbra sull’avambraccio, con la lingua cerca di sentire il proprio sapore, perché gli interessa scoprire le sensazioni di chi, nel corso della sua vita, lo ha trovato irresistibile o ha provato una repulsione chimica nei suoi confronti. Gli ritorna in mente che quando aveva tredici anni circa, eggiando in campagna con un cugino più grande ed un amico coetaneo, si era ritrovato in mezzo ad una sorta di lezione sulla sessualità. Suo cugino spiegava a quelli, che credeva essere due piccoli pivelli, come si infila un pene in una vagina, con grande dovizia di particolari, atteggiandosi a colui che l’aveva fatto decine di volte. A Luca già non interessava niente di vagine, ma stava al gioco, poiché per istinto sapeva che si sarebbe andati a finire da una qualche parte molto più eccitante. Fu con un tempismo cinematografico che il cugino ò ad illustrargli la possibilità di un’altra via di penetrazione e chiese se ne volessero una dimostrazione. Non gli avrebbe fatto male, lo avrebbe solo poggiato per pochissimi secondi e certo non avrebbe significato che si stavano comportando da froci: sarebbe stato solo per fargli capire meglio, per trasmettergli la conoscenza. Accettarono tutti di buon grado quella dimostrazione, ma era evidente che il cugino puntava a Luca, infatti l’amico ebbe subito il ruolo del palo, fuori dall’anfratto dove gli altri due si appartarono. Il cugino disse a Luca di tirarsi giù pantaloni e mutande e di piegarsi in avanti, poi si sputò su una mano e Luca sentì qualcosa di umido e caldo fra i glutei, insieme ad un brivido che dall’ano gli arrivò alla base del collo. Suo cugino non si limitò a poggiarglielo e non fu certo per pochissimi secondi. Quando Luca ci ripensa si sente soddisfatto per aver dato a bere a quel babbeo in cerca di un buco che lui
fosse totalmente ingenuo e non si rendesse conto di ciò che stava accadendo. Ricorda inoltre l’intenso piacere provato e il dito dell’altro nella sua bocca, che lo tirava a sé come il morso di un cavallo. Che sapore aveva quel dito? Dolciastro gli sembra. Ma, soprattutto, cosa avrà sentito suo cugino quando gli ha infilato la lingua nell’orecchio destro? Ritornarono a casa come se nulla fosse e non ne parlarono mai. Vorrei essere gli altri, pensa, poiché mi distrugge l’idea del limite, della mia pelle quale confine tra me e il resto fuori di me. Ci sono miliardi di persone che dicono io sono e per le quali esiste un resto fuori dal confine della propria pelle. Se io non fossi chi sono, sarei qualcun altro che direbbe io sono e, in un certo senso, è questo esserci comunque a renderci immortali. La propria contorsione mentale non finirà mai di stupirlo. Decide di bersi una birra, ne ha viste alcune nel frigo. Arrivato in cucina, dà uno sguardo al telefonino che è ancora in carica e questo gli offre la sicurezza di altro tempo durante il quale starsene isolato. Ok, la birra è fredda al punto giusto e, dopo averla aperta, beve direttamente dalla bottiglia, lasciando volutamente uscire un po’ di schiuma dalla bocca. Cerca di capire che ore sono, ma si è tolto anche l’orologio, così gira su se stesso, fino a quando non individua il display del forno a microonde, constatando che non è né troppo tardi né troppo presto e, senza cambiare posizione, manda giù l’intera bottiglia di birra. Il frigo è rimasto aperto e ne estrae un’altra bottiglia, la apre e va alla ricerca di un televisore. Non ce ne è traccia in tutto l’intero piano, allora sale a quello superiore per fare la stessa scoperta e se ne ritorna di sotto, sconcertato all’idea che ci possa essere qualcuno su questo pianeta che possa fare a meno di guardare la televisione, poi, più scandalizzato che sorpreso, rammenta a se stesso di non aver visto neanche un computer in giro, realizzando che da ore non controlla le e-mail. Stranamente la cosa non lo mette in agitazione, nonostante in questo periodo riceva una grossa quantità di messaggi da gente iscritta su vari siti per la ricerca di sesso. Dovrebbe controllare quante richieste gli sono arrivate e se le nuove foto che ha messo hanno avuto l’esito sperato. Luca sa che una foto scattata nel modo giusto, che mostra i giusti particolari, può scatenare morbosi desideri. Inoltre, lui, nonostante qualche accorgimento scenico, è uno autentico, col quale non si rischia di avere un appuntamento col bellone di torno per poi ritrovarsi,
imbarazzati, a bere un caffè con la somma di tutto ciò che proprio non ci piace. Ma, in questo momento, sembra proprio non importargliene, mentre anche la seconda birra sta per finire e si guarda intorno per vedere se esiste almeno un impianto stereo. Eccolo! Il trionfo della tecnologia, attaccato ad una parete, superpiatto e trasparente, dotato di telecomando. Prova a saggiarne le funzioni più elementari: due piccoli sportelli di vetro spesso si aprono come una porta scorrevole, lasciando calare il o per il cd. A fianco, Luca vede una colonna metallica con molti dischi, si avvicina, analizza con lo sguardo i vari titoli, salendo e scendendo diverse volte e, alla fine, ne prende uno. “Non ci posso credere!” Esclama, facendosi una risata: “È pazzesco, uno psichiatra giurassico che ha in casa i My Dying Bride, i metal più mortiferi della storia, se lo racconto non ci crede nessuno.” Mette il cd sul o che lo solleva in verticale, gli sportelli scorrono fino a chiudersi e parte la prima traccia: The Cry of Mankind.
ano minuti, forse decine di minuti, Luca sta mimando, imperlato di sudore, una specie di lenta e ritmata danza tribale, al centro della stanza, mentre neanche le parti bianche e la linearità luminosa dell’ambiente riescono a contenere l’inquietudine che trasmette la musica ad alto volume: ci sono chitarre acustiche e il suono di un violino che fa da ponte tra vari stati d’animo, fino ai lamenti depressi di un organo e, in mezzo a tutto questo, la voce agonizzante e tetra del solista. Quando l’ultima traccia finisce, Luca si blocca. Torna in cucina, strappa della carta da un rotolo e si asciuga, tamponandosi sul corpo. Apre il frigo, estrae l’ultima birra. Esce, attraversa le solite stanze, riconquista lo studio e, con movimenti automatizzati, infila un’altra cassetta nel registratore. Ora si sente pronto ad incontrare un altro amico.
Cassetta: OSP.3/18B-cc0571. PLAY.
Metto da parte dello zucchero: ci rinuncio per una intera settimana, lo conservo in una tasca e poi lo mando giù tutto insieme in una volta, sperando che faccia un qualche effetto. Dicono che lo zucchero sia il carburante del cervello, allora io ci provo, ma niente, non succede niente di speciale. Non mi ricordo, nonostante la buona volontà, non riesco proprio a ricordare come tutto sia cominciato, quale sia stata la catena degli avvenimenti, le cause ed i loro effetti. Qualcosa vedo, qualcosa è rimasto, ma, tra le isole dei ricordi, mancano i ponti di collegamento e poi non si può essere sicuri di niente e il problema principale è capire dove finiscono i ricordi dei sogni e cominciano quelli della vita reale e viceversa, se certe facce le ho sognate o le ho viste veramente in giorni remoti, così lontani da poter non essere mai esistiti. Da quanto tempo sono qui dentro? E la vita reale da cosa si misura? Se io assi più tempo a dormire e solo un’ora sveglia, i sogni sarebbero la mia unica realtà e potrei chiamare vita reale il vissuto onirico? Vissuto onirico… vissuto onirico… quando faccio attenzione a quello che dico, mi sembra di ascoltare parole che pochi usano, almeno qui dentro non si usano e neanche in televisione che avrò visto sì e no una ventina di volte… vissuto onirico… se soltanto potessi ricordare. Ogni tanto vedo un portone, verde scuro, incoronato da una grata in ferro battuto ad arco. Mi sembra di uscire dal quel portone, eppure vedo una ragazzina che solo vagamente riconosco… accidenti!, neanche una foto m’è rimasta, una ad una le ho mangiate tutte nei primi anni, quelli ati a fissarmi i piedi. Se ne avessi conservata almeno una, magari quella ragazzina… avrei potuto… avrei, come dire, potuto… Esco dal portone verde, non sono sola, ci sono sicuramente altre persone e so che avevo litigato con mia madre, come una figlia litiga con la madre, almeno così credo, ma quello che io credo ha ben poca importanza. Volevo qualcosa quella mattina e ho litigato e poi… poi sono uscita dal portone e… nient’altro, nothing, rien, tranne la consapevolezza di essere stata portata via, non rimane niente. Da quanto tempo sono qui dentro? Anni, immagino. Più di dieci? Più di venti? Migliaia di giorni, milioni di ore, miliardi di minuti ed ogni minuto di sessanta secondi. Da quanti secondi sono qui dentro? Non mi metterò certo a fare il
calcolo, sarebbe pazzesco. Mi dispiace! Mi dispiace e ritiro la parola, lo so benissimo che non ci sono pazzi: qua ci sono ospiti. Nessuno è pazzo, ma ognuno è un ospite. Allora, mi dispiace e ritiro la parola, poiché in realtà volevo dire che non mi metterò certo a fare il calcolo, sarebbe ospitesco. Mi piacerebbe proprio ricordare. Se io ricordassi il perché, tutto questo rosa sarebbe più sopportabile, mentre così è un colore senza senso, una coperta senza un buco dal quale poter tirare fuori la testa. Potrei addirittura raccontare una storia interessante, come quelle che si sentono in giro o sotto la doccia o durante la pausa. Ho parlato con quello fissato con la lavatrice e pure con quella a cui hanno bruciato l’amica, o era l’amante? Insomma, loro ce l’hanno un perché, mentre io parlo, parlo, parlo senza una ragione e non ho mai fatto sesso, mai andata al cinema, mai comprato qualcosa in un negozio o preso l’autobus, non so nemmeno che colore hanno gli autobus, non quelli dei film, ma quelli per strada, pieni di gente o vuoti di gente. Zero assoluto, senza un inizio, senza una giustificabile fine… oblio, tutto andato e dimenticato, come io sono stata dimenticata, forse per errore o disperazione o necessità o, semplicemente, per pigrizia. Potrebbe essere un’ipotesi plausibile, forse il portone verde non c’entra, forse ero con mia madre in qualche luogo affollato, un mercato per esempio e forse mi sono persa, oppure mia madre ha dimenticato di avere una figlia ed è tornata a casa come se niente fosse, sono cose che capitano, no? Si partorisce, anzi prima si sta con qualcuno e poi si partorisce, dopo di che il figlio o la figlia cresce e, ad un certo punto, imprecisato nel percorso della vita, si dimentica di averlo fatto. Normale, no? Potrei essere stata dimenticata, ma come ci sono finita qua? Come, come, come , come come come? Perché? Da quanto tempo? Unico indizio, signor giudice, un portone verde con sopra una grata ad arco. Nessuna altra prova, nessuno che abbia voglia di parlare, di dare il proprio contributo al grande mistero, solo pillole, tonnellate di pillole, confusione e lunghi sonni. Ho così poco tempo per pensare, pochi momenti di consapevolezza e così affollati di idee, da non riuscire a metterle in fila. C’è uno che ha spiaccicato sua madre al centro di una piscina vuota e se ne sta tranquillo, dice anche cose sensate, mi parla, quelle rare volte che ci vediamo, del concetto della perfezione e sembra avere tutte le risposte: sa esattamente perché è qui. Ma a me non è dato questo privilegio. Forse sono stata male, ma da molto tempo mi sento bene, anche se è un bel po’ che non vado in giardino. Una volta si stava molto di più in giardino, tutti insieme e ci si poteva sedere su una panchina e osservare gli altri, ognuno chiuso in un mondo personale, in una dimensione impenetrabile; tutti nel giardino a mimare se stessi, a ridere o piangere o ad abbracciare alberi o ad urlare a qualcuno invisibile. Il giardino era pieno di esseri invisibili, ma, se
volevi, potevi anche startene in camera a guardare le foto di una vita che non esisteva, attaccate alle pareti… la vita di qualcun altro che non ti somigliava più neanche fisicamente. Non c’era tutto questo rosa! Da quanto tempo sono qui dentro? Io sto bene, ma dicono che tendo ad arrabbiarmi, che qualche volta comincio a correre per i corridoi e rompo tutto quello che mi trovo a portata di mano. Dicono che, da quando sono qui (ma da quanto tempo sono qui?), per tre volte, durante dei colloqui, ho conficcato una matita sul dorso della mano di chi mi esaminava. Qualche volta mi chiedono perché lo faccio, perché mi comporto così e come mi sento. Allora rispondo che non me lo ricordo, che sto bene e che ricordo solo un portone verde con una grata ad arco sopra. Sì, sì, insistono nelle loro domande ed io cerco di rifletterci sopra di trovare una logica risposta: perché una corre nei corridoi, rompe tutto, conficca matite nelle mani altrui, perché ci si arrabbia? Migliaia di giorni, milioni di ore, miliardi di minuti ed ogni minuto di sessanta secondi, forse questo potrebbe fare arrabbiare… non mi metterò certo a fare il calcolo… io so solo che certe volte sto bene e altre vedo l’universo immerso nella nebbia. Difficile da capire cosa ci sia intorno, ma diventa comprensibile che si possa essere stati dimenticati, fino a quando ritornano le domande, le stesse di sempre, la stessa di sempre. Sento di essere a casa, sento di non appartenere a nessun altro luogo, ma ricordare servirebbe a qualcosa… ricordare non servirebbe a niente e, d’altronde, servirebbe a qualcosa, a un prima e un dopo quel portone verde, con sopra una grata ad arco, poiché tutto serve e nulla serve e a me ora piacciono molto le pillole. Sono piccole, colorate e portano la nebbia che cancella tutto questo rosa.
STOP. EJECT.
È piegato sul suo zaino, nell’ingresso della casa, comincia a sentire una vaga stanchezza, nonostante sia abituato ad addormentarsi in piena notte e qualche volta proprio mentre sta per spuntare il sole. Ma oggi, entrando e uscendo dallo studio, ascoltando quelle cassette, seguite da lunghi momenti di silenzio, è come stordito dopo una giornata di sole o come capita subito dopo essere usciti da un bagno con il mare agitato che ci ha ripetutamente mandati sott’acqua a colpi violenti di onde. È riuscito a trovare quello che cercava: fumo, come lo chiamano tutti, tabacco, cartine e qualche biglietto usato della metropolitana, un accendino. Si dirige verso la cucina, accende la luce e si blocca, frastornato dall’improvviso e intenso bagliore, poi raggiunge un largo bancone a penisola e si siede su di uno sgabello neanche troppo alto. Poggia davanti a sé tutti gli ingredienti e gli attrezzi per l’operazione. Prende tra due dita quella specie di mollica di pane andata a male, di colore marrone scuro e, riscaldandola alla fiamma dell’accendino, inizia con i giusti movimenti, ripetendo un rituale consueto, fatto migliaia di volte in solitudine o in compagnia di altri. Quando la consistenza è quella desiderata, mescola il fumo al tabacco, depositato su una cartina e con un pezzo di biglietto della metro fa una specie di filtro ed, infine, pochi, ma mirati, movimenti di rullaggio, una ata di lingua e la sua canna è pronta. La accende ed aspira potentemente, trattenendo per qualche secondo il fumo nei polmoni, prima di gettarlo fuori. Una seconda tirata lo avverte che sta arrivando quello che lui chiama uno stato di luccicantezza della mente, unito ad una sensazione di profondo rilassamento. E pensare che la prima volta che si è fatto una canna ha vomitato per dieci minuti e la seconda volta, a distanza di qualche giorno, si è addormentato quasi immediatamente. Tempi andati, lasciati da qualche parte e ricordati quasi gliene avesse parlato qualcun altro. Si sporge dallo sgabello per controllare il telefonino che non è lontano da lui: RICARICA COMPLETATA. Questa volta non può tirarsi indietro ed il suo desiderio di riconnettersi con l’umanità è pari a quello di scomparire per sempre, atomizzandosi all’istante, lasciando come unica traccia di sé le ceneri di uno spinello. Stacca l’adattatore, riaccende il cellulare, digita il pin e aspetta che la ricerca di rete giunga a termine, lo lascia sul bancone. Altro potente tiro di canna, ma questa volta trattiene il fiato per più tempo, fino a quando sente girargli la testa e per un attimo gli sembra che la stanza si stia muovendo. Espira fumo e riprende
ossigeno, appena in tempo per sentire tre segnali acustici, uno dietro l’altro, provenire dal telefonino, legge: MESSAGGIO 3 LEGGI? OK. - Pizza così così, ma ci siamo divertiti. Spero tu non stia combinando casini. Fammi sapere domani, mi mancherai stanotte. Cercherò qualche tuo pelo nel letto per farmi compagnia. Bacio. Franci.- Da sco, ore 23,55. CANCELLARE MESSAGGIO 3? OK. MESSAGGIO 2 LEGGI? OK. - T ho tel oggi x sape d piscina domani msg se 6 libero. Ciauu!- Da Paolo, ore 22,10. CANCELLARE MESSAGGIO 2? OK. MESSAGGIO 1 LEGGI? OK. - Trovate caramelle, buone, quando vuoi me. – Da Tossico 2, ore 22,03. CANCELLARE MESSAGGIO 1? NO. SALVA. MESSAGGIO SALVATO. INDIETRO. MESSAGGIO 1. CANCELLA. SICURO CANCELLARE MESSAGGIO 1? OK. Chissenefrega!, si dice dando l’ultimo tiro di canna, non fanno altro che perseguitarmi. sco si preoccupa solo di non rimanere fregato come con i suoi ultimi cinque ragazzi. Chissà se lo hanno mollato per il suo talento nello scrivere poemi al telefonino? Quello stronzo di Paolo scrive come un lobotomizzato dell’era informatica, mentre con i suoi trentaquattro anni i ragazzini, metà caccole e metà tastiera, lo sfanculerebbero senza starci a pensare troppo. Poi il Tossico. Glielo avrò detto un milione di volte che, quando mi serve qualcosa, sono io a are nella sua zona, che non deve mandarmi messaggi, che ci stanno satelliti che ci guardano pure mentre stiamo sulla tazza del cesso. Scende dallo sgabello e sente una qualche difficoltà nel mantenere l’equilibrio. Spegne il cellulare, lo lascia sul bancone, si a una mano tra i capelli, poi si allunga per stirarsi, afferra una bottiglia di acqua minerale che si trova a portata di mano e esce dalla cucina, spegnendo la luce e facendo lo stesso con le altre stanze che sta attraversando. Quando a davanti allo studio dice senza fermarsi:
“Pochi amici ma buoni, nuovi amici e nuovi tesori da scoprire. Domani allarghiamo la compagnia e chissà che un giorno non mi vogliate nel gruppo? L’omosessualità non è più considerata una malattia mentale, ma il settanta per cento degli addetti ai lavori ci vorrebbe curare, quindi non starete a cercare il pelo nell’uovo, eh? Diverso e strano, comunque, lo sono e non solo perché mi piace il cazzo, chi vuol capire capisca!” Arrivato al piano di sopra, va dritto nella camera da letto di Osvaldo Socrates. Una volta dentro chiude la porta a chiave e sente di essere proprio al limite della propria resistenza fisica, ma fa in tempo a bere un bel po’ di acqua dalla bottiglia, prima di lasciarsi cadere sulla coperta di pelliccia. Dopo ore di quesiti, le voci nella sua mente si stanno affievolendo, il corpo è leggero, quasi inesistente se non fosse per il rimbombare dei battiti cardiaci nella gabbia toracica. Tranquillo ed estraneo in una stanza e-estranea, riesce ad allungare un braccio e a spegnere la luce, per addormentarsi, come sotto l’effetto di una anestesia totale.
Accede attraverso un aggio segreto nel muro e si ritrova in ambienti scuri, antiche sale, che danno su altre sale e poi corridoi. Sa di conoscere il luogo in cui si trova ed istintivamente si dirige verso una meta della quale non ha coscienza, muovendosi non senza un certo timore e facendo costantemente attenzione ad eventuali rumori. C’è già stato altre volte, se ne rende conto, forse è lì che vive da sempre, ma ora sente la presenza di un qualche pericolo, fino a quando intravede delle ombre dietro di sé, che vanno moltiplicandosi. Forse ha già fatto anche questo innumerevoli volte, comunque inizia a correre, poiché così deve essere, mentre le ombre si fanno uomini o demoni che prendono la sua stessa velocità. Unica possibilità è non fermarsi, attraversando decine di stanze per poi ritrovarsi in cima ad una grande scala, la quale quasi subito si divide in due rampe. Allora si precipita giù e, girandosi, non vede più le ombre, ma non smette di sentirsi inseguito. Le scale ora scendono, ora salgono, si attorcigliano, poi dritte, poi ancora con ampie curve, con scalini stretti, altre volte larghi, in ogni caso sembrano scale infinite che non portano a nulla e a lui non rimane che percorrerle affannosamente, sempre con il peso di un inseguimento che può finire solo con la sua morte. Adesso scende di nuovo e nel suo affannarsi riconosce la struttura di un condominio: una scala a spirale quadrata e su ogni pianerottolo delle porte di appartamento. Fa un balzo e si ritrova su un’altra spirale e questa volta gli tocca salire, ma ha capito dove sta andando. Infine sfonda una porta e accede violentemente ad un terrazzo, pavimentato con piastrelle bianche che presto diventano terra e ricomincia la sua corsa, questa volta visibilmente inseguito, di notte, con il cielo che si confonde con il marrone scuro del suolo. Gira la testa e li vede e, quando ritorna a guardare davanti, è sul ciglio di un burrone, troppo tardi per fermarsi, troppo tardi per non cadere giù. Si prepara allo schianto, ma plana lentamente in un corridoio pieno di gente che va svelta da una parte all’altra. Nessuno si accorge della sua presenza. Sente una donna gridare e pare che le urla arrivino proprio da una stanza, dalla quale entrano ed escono decine di persone, come formiche all’imbocco del formicaio. Luca si dirige da quella parte. C’è una luce intensa nel corridoio. Si ripara gli occhi con una mano, quando la toglie, la luce è meno forte e riesce a rendersi conto che tutto è rosa, senza sfumature, persino la pelle di quelli che vede: un unico colore uniforme. Ancora grida e Luca, quasi fosse invisibile, entra nella stanza dalla quale provengono. Dottori e infermieri, intorno ad una donna, distesa con le gambe sollevate, nella tipica posizione del parto. Sembra che ci siano delle complicazioni. Cerca di avvicinarsi, ma non riesce a vedere in faccia la donna, mentre da altre parti arrivano imprecazioni, rumori di oggetti sbattuti sul metallo, indicazioni indistinte su questa o quella cosa da fare. Fa un o in
avanti, perde l’equilibrio, si ritrova in acqua e viene trascinato verso il fondo. La luce e il rosa se ne vanno, per lasciare posto al buio pesto. Luca cerca di resistere e di nuotare, sa di saper nuotare abbastanza bene e non ha paura dell’acqua, ma lo terrorizza la completa oscurità. La forza misteriosa smette di trascinarlo verso il basso e lo spinge su un lato. Gli sembra di avere la testa premuta contro qualcosa di morbido, qualcosa che sta cedendo, nonostante abbia l’impressione che il cranio gli si stia spaccando in due. Aria, percepisce aria fresca, prima di precipitare ancora nel vuoto. Fa una specie di salto, atletico ed istintivo, e si ritrova in piedi, nella stanza da letto di Osvaldo Socrates, con ancora la sensazione di una caduta libera da notevole altezza. È il suo sogno ricorrente, dovrebbe esserci abituato, ma ancora riesce a turbarlo, soprattutto l’intima sensazione di aver vissuto realmente la cosa, che dopo lo accompagna per giorni. Si guarda intorno e lentamente riprende coscienza del presente, ripercorrendo le azioni e le scoperte del giorno prima, pur non riuscendo a scorgere qualcosa che gli possa dare un’idea di che ora sia. Ho lasciato l’orologio di sotto, pensa, mentre sbircia attraverso gli scuri chiusi di una finestra e, dal chiarore che c’è dall’altra parte, capisce che l’alba è da un pezzo arrivata, anzi, sembrerebbe già mezzogiorno. Uscendo dalla stanza, riprendendo il filo dei propri ricordi, acquisisce, però, la certezza di essere arrivato a sabato e subito, l’unica cosa che gli interessa, è non stare a perdere troppo tempo: “Non è bello fare aspettare gli amici”, sussurra, mentre entra in bagno. Non ha voglia di lavarsi, vuole che ogni cosa resti al suo posto e che il sapone non porti via niente del giorno prima, ma la faccia se la deve sciacquare con acqua fredda, altrimenti non riuscirà a svegliarsi completamente. Prende l’asciugamano che gli è a tiro e, mentre se lo a sul viso, si guarda, ancora una volta, allo specchio, contemplando la propria nudità con sensuale impudicizia, quasi fosse il corpo di qualcun altro. Gli viene voglia di toccarsi e di prendere in mano il proprio pene, che, alla sola idea, ha una qualche reazione, mentre lui sospende ogni giudizio su i suoi attuali pensieri: la mente che non giudica se stessa, si era sentito ripetere una sera a cena da una vecchia signora, non innesca meccanismi perversi di causa ed effetto, così, quasi sempre, i nostri pensieri più strani semplicemente ano, senza danni, lasciandoci solo la
consapevolezza di una possibilità in più. Poggia l’asciugamano sul bordo del lavandino, ripensa al proprio sogno e gli ritorna in mente quello che Clara dice riguardo l’ala B del padiglione 18. Non ha mai creduto nelle coincidenze ed ora più che mai sa che non può tirarsi indietro, il percorso è obbligato. Desiste da ogni operazione che lo sottrarrebbe all’incontro che più gli sta a cuore. Unica dilazione che si concederà, sarà mangiare qualcosa e prendere una grossa tazza di caffè, pena il non riuscire a superare la prossima mezzora. Per questo, scende al piano di sotto, immerso nella penombra e, dirigendosi verso la cucina, realizza, per la prima volta da quando si è svegliato, che c’è un caldo mortale, per ricordare immediatamente di aver lasciato il riscaldamento per tutta la notte. ando in salotto, prende l’orologio abbandonato su un divano: sono le 12,45. Lo rimette dov’era e di fretta raggiunge la cucina. Per prima cosa esce sul piccolo balcone e spegne la caldaia, qualcuno da una finestra lo fissa, mentre, indifferente e nudo, rientra in casa. Sul bancone ritrova il cellulare, lo accende, digita il pin e lo lascia lì, per andare alla ricerca di una caffettiera, che trova al primo colpo in un pensile alla sua destra. Lì vicino tutto il necessario per il resto delle operazioni: barattolo del caffè, zucchero, in un cassetto in basso i cucchiaini. Prepara la macchinetta e la mette sul fuoco. Da un altro pensile recupera una tazzina: comincia a muoversi come se quell’ambiente fosse da sempre la sua tana, segue semplicemente il proprio istinto e gli oggetti si materializzano al suo aggio. Individua un piccolo forno elettrico, lo accende e posiziona il termostato sui 180°, poi apre il freezer e ne tira fuori una pizza congelata, avvolta nel cellophane, che si sbriga ad aprire e a mettere nel forno. Sono ati quindici minuti, che Luca ha trascorso standosene seduto davanti al forno, per controllare che la sua pizza non diventasse troppo dura. Ora è di nuovo nello studio che mastica velocemente. Si guarda intorno e gli piacerebbe avere dei superpoteri, con i quali far sparire tutti quei libri insieme alla libreria, la-sciando sgombre le pareti, per poterle dipingere di rosa. Ha la quasi totale certezza che la fusione tra lui e quel gruppo di persone, che conosce solo attraverso la voce, debba avvenire in un ambiente rosa, che quello sia il colo-re che fa da portale tra questa realtà e l’altra, quella delle percezioni ritenute distorte, quella che tutti vogliono non vedere, al massimo curare e, per questo, sicuramente più vera.
L’impresa non è realizzabile e lui lo sa. Mastica, beve, mastica. Prende una cassetta, rischiando di imbrattarla con del pomodoro rimasto attaccato alle sue dita, la infila nel registratore.
Cassetta: OSP.10/18B-cc0299. PLAY.
Dunque dunque dunque, mi stai ascoltando? Sì che mi ascolti! Credi che non me ne sia accorto? Te ne stai lì a sentire tutto quello che dico e non ti lasci vedere, ti si può solo immaginare, ma so che sei femmina! Come lo so?, Lo sento. Mi basta chiudere gli occhi e lo sento e, quasi quasi, mi viene duro. Eccome se mi ascolti… Ce l'hai una madre? Oppure ce l’hai avuta e ora se ne sta sotto due metri di terra, eh? Ma mi sento buono e voglio darti un consiglio, un suggerimento, una preziosa soffiata, così, magari, dopo, manderai qualcuno a pulire questa cella lercia. Devi mandare qualcuno a cambiare il colore delle pareti: io odio il rosa! Ma veniamo al nocciolo della questione. Ti consiglio di diffidare sempre di quelle madri che ostentano un eccessivo culto della perfezione, più che donne sono dei congegni extraterrestri programmati per distruggere tutto ciò che, all’analisi dei loro mirabili cervelli, appare imperfetto. Mia madre, a suo dire, era stata la bimba più graziosa di P., la più educata, la più elegante, la più intelligente creatura appartenente alla specie Homo Sapiens. Una miriade di fotografie di lei inghirlandata e sorridente si snodava per tutta la casa, ad eterno ricordo degli innumerevoli riconoscimenti ottenuti dalle varie associazioni, fondate e costituite da altrettanto innumerevoli madri perfette. Dimenticavo: tutte le fotografie erano perfettamente incorniciate in perfette cornici d’argento, perfettamente lucidate. Lucidate personalmente, poiché la Perfezione richiede dedizione, maestria e accortezza: demandare ad altri un compito così importante costituirebbe un crimine e i crimini, si sa, vanno puniti. In età adulta, l’Extraterrestre iniziò a vantarsi di avere delle ovaie eccellenti: lo sentiva dentro di sé, ne era sicura e, se non fosse stato così inverosimilmente imperfetto, sarebbe arrivata a dire che le aveva persino viste e ne era rimasta immediatamente estasiata. Quando rimase incinta, dopo un’unica perfetta copula con un uomo perfetto (mio padre, il quale ebbe la saggezza di morire un anno dopo il matrimonio, lasciandole un perfetto e considerevole patrimonio), venne premiata dal "Club delle Gestanti d’0ro", poiché la curva della sua pancia costituiva, alla luce di sofisticati calcoli matematici, una perfetta semiellisse. Partorì perfettamente, con dignità, senza troppo gridare ed il suo entusiasmo nel
vedere il nascituro (cioè io) fu equilibrato, mentre i suoi occhi espressero perfettamente la gravità del momento, la responsabilità di quell'importante aggio: da "Donna Perfetta" era salita al rango di "Madre Perfetta". Si convinse che lei stessa, la sua casa e la sua vita non avevano bisogno di ulteriori perfezionamenti, al contrario, tutte le sue energie andavano ora indirizzate su quella creaturina che iniziava ad esplorare il mondo e che, soprattutto, si candidava ad essere la vittima indifesa di tutte le imperfezioni che minacciano la Terra. Così, i miei primi mesi furono scanditi dal dondolio perfetto della mia culla, dotata di un meccanismo che le impediva sia di accelerare che di rallentare il proprio moto. Ancora oggi provo una profonda tenerezza alla vista di un qualsiasi orologio a pendolo. Destra e sinistra, sinistra e destra, moto perpetuo senza alternativa, da una parte all’altra, di qua e di là, con il pezzo di mondo sopra di te che si offre oscillante. Appena in grado di camminare, iniziai l’esplorazione della casa: pavimenti perfettamente lucidi, arredamento perfettamente programmato secondo la moda del momento, ogni oggetto al suo posto, ogni volume nel proprio misurato spazio ed un sofisticato impianto stereofonico mandava sempre la musica adatta per ogni stagione e per ogni variazione meteorologica o di temperatura; il colore delle pareti realizzato in modo che ad ogni ora del giorno e ad ogni posizione del sole si avesse sempre la stessa tonalità. Per anni cercai disperatamente un granello di polvere (ne avevo visti solo alcuni esemplari in diapositiva, durante le "Sedute Ipnotiche contro l'Imperfezione") e, proprio quando avevo perduto ogni speranza, eccolo sotto i miei occhi, proprio lì, appollaiato sul pavimento! Avevo paura di toccarlo, ma, alla fine, mi decisi e lo lasciai attaccare al polpastrello del mio indice. Che gioia!, era proprio un granello di polvere, un unico eroico soldato che era riuscito a varcare i confini, sfuggendo astutamente alle migliaia di sentinelle con i loro elmetti di raso color panna. Avrei voluto conservarlo, ma l’emozione di quell'incontro fu troppo grande ed una lacrima mi sfuggì dall’occhio sinistro, cadde sul granello di polvere e quello si disciolse in essa. Un raggio di sole, perfettamente inclinato, fece evaporare la lacrima ed io rimasi lì, basito, con il polpastrello perfettamente asciutto. L'estate del 19... iniziò il mio training: equitazione, nuoto, tennis, rudimenti di golf, persino la danza, tanto utile per la perfetta armonia del corpo. In inverno fu la volta del pianoforte, della letteratura, della filosofia, delle lezioni di galateo e delle lingue straniere, tutte le lingue, con parziale conoscenza dei dialetti ed anche qualche lezione di sanscrito, quanto basta per avere l’immagine del
perfetto poliglotta. Imparai a giocare a scacchi e a bridge, prima ancora di veder spuntare la peluria sulla mia faccia e lei, l’Extraterrestre, era sempre vigile, pronta a salvarmi da ogni corruzione imperfetta. La mamma iniziò a perdere la freschezza della gioventù ed ingrassò di qualche chilo. In un primo momento sembrò solo infastidita dall’aumento di peso, poi si chiuse in camera sua e non ne uscì per mesi. Comunicava attraverso un interfono e controllava l’andamento della casa con telecamere a circuito chiuso. Finalmente riconoscevo in lei la macchina rivelata, che scrutava ogni cosa con occhi appostati agli angoli dei soffitti e che parlava con una sinistra voce metallica. Non dimenticherò mai il 13 novembre di quell’anno. Improvvisamente gli interfoni chiamarono l'adunata e, quando le milizie (me compreso) furono schierate nel salone perfettamente ovale, la voce metallica annunciò: "Sto scendendo, spero per voi che tutto sia in ordine!". Si stava tutti immobili, sull’attenti e non era difficile intuire i comuni pensieri: "Come sarà?" ci chiedevamo, "Ha forse rinunciato ad essere perfetta?", "Sarà magra e bella?", "Sono finiti gli anni del terrore?". Io mi sentii invadere da un mistico ottimismo. Immaginavo di essere in cucina con i capelli scomposti e ancora in pigiama, mentre inzuppavo le dita in infiniti barattoli di marmellata. Vedevo i soprammobili spostati, assaporavo l’idea di rotolarmi in un prato incolto, di infilare ritmicamente le dita prima nel naso e poi nella bocca. Eccomi trasportato dalla fantasia in una stanza polverosa e saltare, saltare su un vecchio letto a molle e scuotere il capo, spandendo nell’aria quintali di forfora a scaglie... Ce ne stavamo tutti sugli attenti, sentimmo la porta della sua stanza aprirsi, i suoi i al piano superiore ed, in cima alla scala, ci apparve. Che donna! L’Extraterrestre aveva vinto il fato, beffeggiato il destino, tratto vantaggio dalla rovina, era resuscitata da una morte alla quale nessuno aveva assistito. Il suo onore era stato salvato, la sua fama intatta, i riconoscimenti del ato per nulla offuscati dal presente... Ce ne stavamo tutti sugli attenti ed in cima alla scala apparve mia madre, era straordinariamente, mirabilmente... perfettamente sferica! Sciolti i ranghi, il suo primo atto fu quello di far cambiare, su tutti i suoi documenti, la dicitura "altezza", con la dicitura "diametro", poi la vita riprese
come prima. Mia madre scoprì che mi masturbavo almeno sei volte al giorno, prima e dopo i pasti. Nonostante avessi da poco festeggiato il mio venticinquesimo compleanno, trovò perfettamente normale quell’innocente sfogo giovanile, ma pretese che usassi dei guanti sterili in lattice e che indossassi un camicione bianco con un unico foro in quel punto e che, soprattutto, fossi sempre puntuale a tavola. Le mie masturbazioni non furono più le stesse: il camicione spegneva le mie voglie ed i guanti mi impedivano la circolazione nelle mani e la dovuta concentrazione. Avrei potuto usare il vecchio sistema, ma lei mi controllava sempre con le telecamere, poiché era convinta che usassi un ritmo imperfetto, quindi decisi di smettere. Fu allora che iniziarono le emicranie e mi si gonfiarono anche gli occhi. Avevo due grossi globi iniettati di sangue, che inevitabilmente rovinavano l’armonia del mio perfetto viso di figlio perfetto. A mali estremi, estremi rimedi, l'importante era salvare l’onore! L'Extraterrestre sferoidale (cioè la mia mamma) decise di rinchiudermi, per il resto dei miei giorni, in una stanza nell’ala nord della casa, lontano da occhi indiscreti, timorosa di essere scacciata dal "Club delle Madri Perfette di Figli Perfetti”. Venni a conoscenza di questo suo proposito e, nonostante comprendessi il suo stato d'animo, decisi di fuggire, liberandola, così, dall’unico progetto fallito della sua vita. Giorni dopo, nell’aula di tribunale vedevo intorno a me gente sudata e vestita in maniera imperfetta. Tutti gridavano gli uni contro gli altri. Uno di quelli con il mantello nero, con aria eccessivamente severa, rammentò i miei doveri di figlio, sottolineò le mie mancanze, rimarcò la mia abiezione, esaltò l’amore di mia madre per me e come fosse stata ripagata dalle azioni scellerate di un figlio ingrato ed imperfetto. Imperfetto? Per la prima volta qualcuno mi aveva definito "imperfetto". Fui riconoscente a quell’uomo con il mantello nero e piansi per la commozione, poi mi accasciai al suolo. Hai capito la storia? L'hai ascolta con attenzione? Il mio consiglio ti sarà utile e, se ti sarà utile, tu farai qualcosa per me, vero? Mi senti? Non lo faccio per lamentarmi: sto bene in questa stanzetta, o il tempo a masturbarmi, ho persino aumentato il numero delle volte e, cosa eccezionale, mi lasciano fare tutto senza guanti e senza camicione, come piace a me. Ma il rosa di queste pareti, proprio non mi va giù… Tu forse non lo sai, ma il rosa era colore preferito da mia madre e questa stanza… questa stanza me la ricorda
costantemente e io vorrei… vorrei provare a dimenticare per un po’. Masturbazione e grandi sonni, nient’altro! Attenzione, non devi fraintendermi, però, anche se quello che hai sentito può sembrarti fantasioso, a tratti ridicolo, forse inventato, al limite esagerato. Non fraintendermi, perché dentro c’è molta verità e, soprattutto, io amavo mia madre ed ero totalmente abbagliato dalla sua circonferenza perfetta e dalla sua area perfetta. Forse ho sbagliato nel voler fuggire di casa e mi sono comportato male nei suoi confronti, ma è stato più forte di me: lei era lì, extraumana e sferica, perfettamente collocata sul bordo della piscina vuota, che la tangeva in un unico punto del suo corpo. Lo giuro!, le ho dato un solo colpo in testa ed è andata giù, perfettamente al centro, tonda figura geometrica circondata da macchie di sangue perfettamente simmetriche, proprio come avrebbe voluto lei. Sono sicuro che almeno in questo si è sentita fiera di me.
STOP. EJECT.
Il cellulare suona, lo chiama, lo attira e, nonostante tenti nuovamente una qualche resistenza, si lascia incantare, come Ulisse con le sirene, ma, a differenza di Ulisse, lui è libero di muoversi. Percorre lo spazio dallo studio alla cucina con voluta lentezza, nella speranza che, chiunque lo stia chiamando, desista. Battaglia persa: quando prende il telefono in mano, quello sta ancora squillando. Prima di rispondere , Luca legge il nome sul display: “Eccomi!” fa lui, cercando di assumere un tono spiritoso. “Eccomi un corno!”, sco non sembra aver gradito l’esordio. “Buongiorno principessa! Non sarai mica già nervoso di prima mattina, eh?” “Luca, ti avevo detto di farti sentire e invece, se non mi metto a chiamarti io, col cavolo che mi dai notizie. Magari non te ne frega niente che gli altri si preoccupino e non mi sembra che sia prima mattina… ” “Mi sono svegliato da poco... sai, ieri sera mi sono sparato un cannone e sono crollato, proprio nel letto di mio zio. Dovresti vederlo, c’è una coperta di pelo che ti farebbe impazzire… ” “Non me ne frega niente delle coperte di tuo zio! Stamattina ci ho pensato bene e sono arrivato alla conclusione che non mi è piaciuto per niente andare fuori con gli amici senza di te, che poi sono soprattutto amici tuoi e che hanno cercato di fare i vaghi, ma, ogni tanto, mi lanciavano occhiate comionevoli, quasi fossi un malato terminale! E ancora meno mi è piaciuto che te ne sei stato fuori la notte. Non so se ti rendi conto di questo… non è per niente, ma solo perché hai fatto del tutto per escludermi… ” Chissà, si domanda Luca, se i maschi bianchi, cristiani ed eterosessuali, che immaginano il mondo gay come un susseguirsi di orge e balli, arriverebbero mai a concepire qualcosa di più normale e borghese degli sguardi comionevoli di amici preoccupati per la tua storia d’amore? Chissà se i maschi bianchi, cristiani ed eterosessuali, che ti immaginano piegato in due con una fila di marchette dietro il tuo culo, arriverebbero a concepire te costretto a sentire il tuo ragazzo che ti fa una scenata perché hai abbandonato il letto coniugale? Chissà se la bestia dominatrice del pianeta, il maschio bianco, cristiano ed eterosessuale riuscirà un giorno a vedere la noia di tutto questo? E che farà allora, quale nuovo bersaglio inventerà per scaricare la propria rabbia di essere inutile nell’universo?
Avrà abbastanza fantasia? Sono ati due secondi dall’ultima parola pronunciata da sco, gli risponde: “Franci, guarda che sei esagerato,” si a una mano fra i capelli e ha contemporaneamente una fitta alla bocca dello stomaco, “capiterà che non dormiremo insieme o che uno dei due avrà bisogno dei suoi spazi… e poi, ti giuro, adesso non ho proprio voglia di discutere… ” “Tu non hai mai voglia di discutere, c’hai sempre qualche sublime pensiero da inseguire. Comunque dammi l’indirizzo che ti raggiungo, così faccio la conoscenza della famosa casa.” “Non mi sembra per niente una buona idea.” “Come sarebbe a dire?” “Sarebbe a dire che voglio stare da solo, intendo solo da tutti, tu non c’entri, è che proprio non me lo aspettavo… sono successe cose che… di quelle che l’anima si mette a ballare… ” “Luca, ti rendi conto che cominci a farmi incazzare?” “Probabilmente sì.” “E probabilmente non te ne frega niente, perché il concetto di rispetto non rientra nel tuo modo di vivere una relazione… ” “Che centra il rispetto ora?” eggiare avanti e indietro in uno spazio ristretto lo sta stancando. “C’entra e come, visto che quando si è in due non è che si può fare come ci gira sul momento, ma è necessario tenere conto anche dell’altro, se lo stare insieme, ovvio, rientra in un progetto a lunga scadenza, non credi?” “Non ti capisco mica. Non ti facevo così conformista e adesso non ho la testa per starci a riflettere su e forse neanche mi va di correre il rischio di ritrovarmi uno che al posto del cervello ha una casalinga che corre da una parte all’altra con le pattine ai piedi.”
C’è una pausa di qualche secondo che sembra eterna, prima che sco riprenda: “Ieri sera” la voce di lui è ora calma, quasi piatta, “mentre me ne stavo in mezzo a tutti gli altri a tavola, mi sono reso conto che non volevo essere uno di loro, ma che, fondamentalmente, ho bisogno di qualche certezza, che mi venga almeno dalla persona con cui divido la vita e il letto, ma probabilmente tu non sei pronto a dividere.” “Probabilmente.” Pausa: “Senti Franci, io stanotte rimango ancora qui, va bene?” “Sai che c’è? Mi sa che ti faccio un favore e, consapevole del tuo bisogno di solitudine, tipico dei geni come te, ti libero l’appartamento per domani, questo va meglio?” “Non so che dirti. Che tu ci creda o no, al momento mi interessa solo questa casa e domani, che ne so di domani?” “Che pezzo di merda!” Fine della conversazione. Si gratta una coscia, ritornando verso lo studio e, quando a davanti al divano, lancia il telefonino accanto all’orologio. È pentito di avergli permesso una conversa-zione così banale, da comuni fidanzati: è pentito di averlo sopravvalutato e, più di tutto, è pentito di non essere mai stato chiaro con se stesso nel corso della propria vita. Ma si convince che è solo il momento attuale a contare e che, fattore fondamentale, in questo preciso momento sa esattamente cosa vuole e chi vuole incontrare.
Cassetta: OSP.6/18B-cc0301. PLAY.
Nessuno mi giudica, nessuno, nessuno che mi guarda storto, nessuno che mi giudica. A casa mia ero un tipo tranquillo, tagliavo un po’ di legna, ogni tanto, perché i miei hanno fatto costruire un caminetto proprio in un angolo del soggiorno, tagliavo un po’ di legna. Ma tutto quel rumore, qualche esplosione, raffiche di mitra anche… troppo per uno che viene dalla campagna, uno che, prima di arruolarsi era un tipo tranquillo e anche dopo lo era, cioè lo ero, visto che parlo di me e non di qualche altro buon cristiano. Li vorrei poi vedere tutti i buoni cristiani di questo mondo, mica vanno in chiesa regolarmente, neanche per sogno ci vanno, mentre lui, cioè io, ché sto parlando di me, non si è perso una messa domenicale. Neanche quando Sara è venuta giù dal tetto e si è rotta una spalla, che cavolo ci faceva sul tetto di domenica mattina solo lei stupida stupida stupida lo sa, ho rinunciato alla messa. Bisogna servire il Signore. Servire il Signore e la Patria! Mi sembra di essermi applicato bene: rispetto e lavoro, lavoro e rispetto, senza mai alzare gli occhi o la voce, signorsìsignore! Prego Dio che mi faccia compiere il mio dovere fino in fondo e l’ho pregato anche prima di partire, durante il viaggio e all’arrivo. L’ho pregato dentro di me, ogni volta che mi ritrovavo davanti quelle facce ostili, quasi ci volessero sputare addosso perché li avevamo liberati, salvati, resuscitati, quegli stronzi che prima ti sorridono e poi ti mettono una bomba sotto il culo. Un tipo tranquillo, qualche colpo d’ascia in giardino, gli amici, Sara che aspetta di sposarmi e che non me la dà se non dopo il matrimonio, perché al matrimonio ci si arriva vergine ed io sono sostanzialmente d’accordo, allora aspetta che me ne vado un po’ in mezzo agli arabi e faccio un mucchio di soldi, così ti sposo e possiamo trombare venti volte al giorno, vado, torno, ti sposo e ’fanculo la tua verginità! Uno tranquillo… e Satana, dove lo metti? Tu stai al tuo posto, non rompi i coglioni a nessuno, cerchi di servire al meglio Dio e il tuo paese e vai avanti, hai 25 anni e ti senti invecchiato dalle responsabilità, Dio e il Paese, avanti per la tua strada, lo sguardo fisso all’obbiettivo, così fisso e determinato che non ti accorgi che il Diavolo ti sta fregando… quelli prima ti sorridono e poi ti mettono una bomba sotto il culo… l’educazione e il giudizio della gente intorno ci danno delle direttive di vita. Ho studiato, ci vuole un’istruzione per andare avanti nella vita, ho sempre salutato le persone più anziane, perché cosa avrebbero pensato se
avessi fatto il contrario? Non ho mai alzato la voce o usato le mani contro qualcuno, perché cosa avrebbero pensato se avessi fatto il contrario? Ho veicolato la rabbia nello sport e mai una volta ho espresso opinioni violente contro una qualche minoranza, perché cosa avrebbero pensato se avessi fatto il contrario? Gliel’ho detto a Sara: vado, guadagno un bel po’ di soldi e ti sposo, perché siamo fidanzati e vogliamo mettere su famiglia e avere dei figli, cosa penserebbero se fimo il contrario? E poi mi pare che ci amiamo in aggiunta, se non consideriamo che mi piaci un casino e che non ti tocco fino al matrimonio, perché cosa penserebbero se fi il contrario, no? Tutto in ordine, non siamo mica delle bestie in balia dei propri istinti, qui si vive in maniera civile, il pensiero la fa da padrone e risplende la luce divina che ci rende a Sua immagine e somiglianza e fa di tutti gli esseri umani i nostri fratelli e che ci fa camminare a testa alta e ci fa arrivare al giudizio finale senza paure o rimpianti. Sono bravo, mi dicono, un orgoglio per l’intera nazione. Intanto nessuno mi giudica e arrivano ordini strani… riesco a mala pena a capirli, li sto a sentire e non ci credo… signorsìsignore!, perché cosa penserebbero se dicessi signornosignore? Non ci capisco niente, ma non mi va di fare brutta figura, io sono l’orgoglio dell’intera nazione, faccio bei soldi e me ne torno a sposare Sara, a scoparmela a riempirla tutta, a tagliare la legna per il caminetto ad angolo che anche noi avremo nella nostra casa, a portarla in chiesa incinta e farla vedere a tutti. Vita tranquilla… come? Signorsìsignore!, lo so signore, prima ti sorridono e poi ti mettono le bombe sotto il culo e vengono a farlo proprio dentro casa tua. Io gli sto con uno stivale sulla faccia e mi sento tranquillo, perché sono un tipo tranquillo, se non fosse per il casino che i miei compagni fanno, ridono in continuazione, poi urlano e ridono ancora, urlano e ridono insieme. Due lo tengono fermo in ginocchio, io ho la chiara visione di come sarà la nostra casa con il caminetto ad angolo nel soggiorno e il giardino e sono tranquillo, mentre glielo infilo in bocca, tenendogli la testa per i capelli e poi chiedo uno straccio per fargli una specie di velo, perché voglio fare una prova prima di tornare a casa e voglio venirgli in bocca, ma con il velo, perché a casa lo farò solo dopo il matrimonio. Quando vengo gli danno una manganellata sul collo e per poco non me lo stacca e mi viene una bestemmia e ora mi metto pure a insultare Dio e, che cazzo sta succedendo?, tutto mi pare strano, ma deve essere normale se nessuno mi dice che è male… sono ordini importanti… sono l’orgoglio della nazione, lo siamo tutti… eppure mi viene da vomitare e mi fa male la testa e Sara che è trascinata in una cella con le braccia spezzate… ma Sara è da un’altra parte lontana e mi viene da vomitare… Te lo scrivo e te lo riscrivo sul muro,
all’infinito: Fuggono i ragni in agguato, lasciano le loro trappole, lasciano le loro vittime esanimi, quando la terra trema. Piangono i bimbi impauriti, nascondono il tenero volto tra i caldi seni materni, quando la terra trema. Volti angosciati s’incontrano, confusi suoni invadono l’aria, si stringono mani di ghiaccio, quando la terra trema. E tutto è allucinazione, sogno di antiche catastrofi, di strade spazzate dal vento dove camminano uomini nudi. Sporco è il loro volto smagrito, sorde le loro orecchie, sorde non ascoltano più il canto, il funebre canto delle catene.
E muore il pensiero dell’uomo, muoiono i suoi cani affamati, muoiono le mogli abbandonate, muore la fantasia divina, quando la terra trema… quando l’anima trema.
Ti piace, eh? Se ti piace ti ci riempio pure le altre pareti… loro ti sorridono e poi ti mettono una bomba sotto il culo, ma io rispondo con la poesia, mi processano e scrivo versi che mi vengono direttamente da Dio… te la scrivo pure sul pavimento e sul soffitto e poi, poi mi riposo, chiudo gli occhi e dormo e domani ritorno… vado, guadagno un po’ di soldi e ritorno. Diglielo tu a Sara che il caminetto va nell’angolo destro, guardando la finestra del soggiorno, a destra… diglielo tu a Sara.
STOP. EJECT.
Seduto alla scrivania di Osvaldo Socrates, gli occhi che guardano intorno, senza riuscire a vedere, Luca si interroga sulla ragione per la quale ha smesso di scrivere poesie. Eppure gli riusciva bene e otteneva sempre dei giudizi favorevoli da parte di coloro che avevano l’esclusiva possibilità di leggere qualche sua creazione. Senza dubbio riusciva a tirare fuori qualcosa di meglio di quello che ha appena sentito e che non gli è molto piaciuto, anzi, ha trovato nella poesia narrata da questo suo nuovo amico un qualcosa di infantile. Era bravo, anche quando non era mosso da alcuna ispirazione: sapeva esattamente come guidare la penna, aveva acquisito un suo ritmo, un suo stile. Però per molto tempo si era preoccupato, senza conoscerne esattamente il perché, di rendere le proprie poesie universali, così almeno diceva, ma era solo quella innata, sottile paura, condivisa da tutti i suoi simili fin dal concepimento, di essere scoperto. Le sue poesie parlavano di amori neutri, di sofferenze procurate da avvenimenti e persone neutre, maledicendo ogni volta quelle vocali di genere finali, che lo costringevano a vere e proprie imprese lessicali. Ne usciva sempre stressato, incapace di comprendere la propria incapacità ad essere fino in fondo ciò che era. Solo anni dopo, avrebbe riconosciuto il suo stesso agire in molti testi di canzoni e avrebbe sorriso compiaciuto di essere tra i pochi (o tra i molti) a capire quei messaggi nascosti. Poi, ad un certo punto, ce l’aveva fatta e si era affrancato dal panico e nelle sue poesie comparvero tutti i ragazzi che di volta in volta gli sconquassavano l’anima. Non ha mai dubitato delle proprie capacità poetiche, eppure ad un certo punto ha smesso e la cosa buffa sta nel fatto che, nonostante ci giri intorno, nonostante si interroghi, facendo lo gnorri, conosce le ragioni della sua rinuncia: smettere di sentire dolore, smettere di essere sempre altrove e mai nella realtà che lo circondava. Nelle poesie Luca trasformava in parole e versi ciò che lo scuoteva nel profondo ed ogni nuova vendemmia presupponeva il dolore della pianta, alla quale venivano strappati i suoi grappoli. Lui lo sa, ad un certo punto ha detto basta, ma non basta alla poesia, ha detto basta alla sofferenza dell’anima, spesso voluta e cercata, altre volte subita. L’ispirazione se ne è andata per conseguenza, senza fare troppo rumore, senza sbattere nessuna porta, semplicemente non c’era più e lui ha potuto fingere di essere uno dei tanti e i tanti lo hanno accolto come si accolgono gli eroi tornati da un’importante battaglia. Forse è per questo che si sente così attratto dalle voci nelle cassette, da questa gente che non ha mai conosciuto, poiché sono portatori di qualcosa che
impedisce loro di liberarsi dal dolore, di fingere una qualche liberazione dal dolore, impresa nella quale lui è stato maestro in tutti questi anni. “Che cosa mi state dicendo?” Luca si rivolge alle cassette: “Io me ne vorrei solo andare da questo mondo, ma forse dovrei solo smettere di desiderare di starci cercando di essere qualcun altro. Forse mi state dicendo che mendicare un’impossibile diritto di appartenenza è peggio di qualsiasi alienazione. Forse,” si asciuga una lacrima e prende in mano un’altra cassetta, anche questa scelta con l’istinto, “forse sto così alla frutta da non riuscire più a ragionare come si deve.” Infila la cassetta.
Cassetta: OSP.5/18B-cc0732. PLAY.
Lasciano intendere che si tratti di avvenimenti lontani, come gocce d’acqua dentro un unico fiume che scorre a ritroso. Sono tessere di un puzzle esistenziale, costruito in lunghezza, una striscia che sembra infinita, lento susseguirsi di cause ed effetti. Lasciano intendere, ma non lo dicono mai, che certe cose potrebbero essere evitate, se solo qualcuno ti guardasse con più attenzione durante la tua difficile crescita. Ci sono io nei ricordi che vado in bicicletta e cerco di schivare la gente a eggio. A pensarci bene, ci sono un sacco di persone, soprattutto bambini accompagnati dai genitori, bambini in bicicletta come me (che pure sono sola), bambini sui pattini, bambini in spalla ai padri e gruppi di adolescenti urlanti che corrono dietro ad altrettanti gruppi di bambine, le quali fingono spavento, ma sembrano lusingate da tutte quelle attenzioni. Ci sono io in bicicletta che vorrei scomparissero tutti, per poter pedalare, seguendo una immaginaria linea retta: vorrei le strade deserte, questa è la sensazione che mi pare di ricordare. Deve essere uno di quei giorni speciali, in cui non è permessa la circolazione delle automobili e ognuno si sente in dovere di uscire, respirare l’aria finalmente pulita ed essere felice. Non mi sembra di essere felice, mentre, dopo aver raggiunto un posto subito fuori dal paese, me ne sto seduta in una specie di discarica. Sento che i rifiuti sono miei amici e lascio scorrere il tempo, sola. Lasciano intendere che qualcosa sia andato storto ad un certo punto e che il loro compito sia quello di trovare il momento esatto in cui l’universo ha cessato, brevemente, di assecondare la propria perfezione. Per anni tutto mi è sembrato nella norma: mio padre e mia madre facevano delle furiose litigate, ma sembrava che la cosa non appartenesse a nessun altro che a loro, i miei fratelli seguivano la corrente dei propri istinti e in me cresceva il desiderio di voler essere figlia unica, meglio se orfana, meglio se di una famiglia ricca. Mi piaceva immaginarmi l’unica sopravvissuta di uno spaventoso incidente che coinvolgeva l’intera mia famiglia. Tutti morti, tranne me. Il funerale, solenne, pieno di gente importante e, qualche giorno dopo, l’incontro con gli avvocati. Io bambina seduta davanti ad una schiera di facce di circostanza, dove mi veniva comunicato
di essere l’unica erede di un immenso patrimonio, del quale avrei potuto usufruire liberamente solo dopo il diciottesimo anno di età, ma che, nel frattempo, mi avrebbe permesso di vivere nel modo più agiato possibile. Si dichiaravano vicini al mio dolore, ma io non vedevo l’ora di andarmene, libera e sola. Invece, niente aereo, niente incidente e niente patrimonio: erano tutti lì, nel caos di quella casa. Loro gridavano ed io mangiavo sempre di più. Lasciano intendere che tutto quel cibo servisse a compensare qualcosa che loro conoscono bene, ma che devo scoprire da sola e un giorno o l’altro, non subito, tra qualche anno forse, il mistero verrà svelato. Qualche volta resto sorpresa, seduta su quella scomoda sedia imbottita, con lo schienale leggermente reclinato indietro che ti co-stringe ad una sorta di innaturale posizione del collo per riuscire a guardare chi hai di fronte, resto sorpresa, dicevo, dalla loro aria bonaria, da un accenno compiacente delle labbra, perennemente stampato sul loro volto. Cerco di osservarli bene, mentre osservano bene me, per capire se nelle loro case c’è gente che urla e che si azzuffa per un programma televisivo o cose del genere. Il bello è che, qualche volta, scopro in loro una certa celata stanchezza e allora capisco che sono umani e mi viene voglia di abbracciarli e bagnarli di lacrime, fino a sentire sui loro vestiti quell’odore di cantina umida, tipico dei tessuti bagnati e non lavati. Chissà se si lavano? Dovrei domandarglielo, se non fosse che loro rispondono sempre con altre domande. Io dico: “Un giorno ci capirò qualcosa?”, quello di turno risponde: “Tu desideri capirci qualcosa?”. Un’altra volta dico: “È possibile che i ragazzi non si avvicinassero a me a causa della mia obesità?”, e quello di turno risponde: “Ti sentivi rifiutata a causa della tua obesità?”. Non c’è via d’uscita, lasciano intendere che per loro è impossibile rispondere con un sì o un no. Quindi, se io gli domandassi: “Qualche volta voi vi lavate?”, sono sicura che mi direbbero: “Ti piacerebbe che ci lavassimo?”. Certo che mi piacerebbe! Almeno, oltre alla tortura della sedia, non dovrei sopportare anche l’odore di carta ammuffita, che emanano costantemente. Lasciano intendere che siano successe cose terribili e capita che nella mia mente affiori il ricordo del disgusto per il cibo. Non ne sono sicura, ma, da qualche parte nella curva del tempo, devo essere dimagrita spaventosamente e subito domando: “È possibile che i ragazzi non si avvicinassero a me, a causa della mia
magrezza?”. Me la sono voluta e non posso che accusare me stessa, quando l’altro, con la solita serafica, rassicurante espressione, replica: “Ti sentivi rifiutata a causa della tua magrezza?”. Forse sì, rifiutata in un modo o nell’altro, che differenza fa? I miei ricordi sembrano crescere, come strane piante senza foglie, nel deserto di ciò che loro lasciano intendere. Un giorno, forse, sarà tutto chiaro, un giorno qualsiasi, poiché qui dentro il concetto di fretta sembra estraneo e impossibile, come lo dovrebbe essere la carne in scatola mescolata alla pasta fredda. Eppure ho sempre adorato la carne in scatola mescolata alla pasta fredda, solo con un filo d’olio. Ne vado pazza e, quando ero fuori di qui (ammesso che esista un “fuori di qui”), dopo il periodo mangiatroppo e il periodo mangianiente, sopraggiunto il periodo mangianormale, mi preparavo sempre un piatto di carne in scatola su pasta fredda con un filo d’olio. Sembra impossibile, ma ho avuto una vita normale anch’io, con un lavoro e qualche conoscente, con le mie sorelle cresciute e sposate e i miei genitori vecchi e sempre urlanti, imprigionati nella loro dinamica di coppia. Ma non ha funzionato. Lasciano intendere che ho visto cose create per magia nella mia testa e che non fossero reali, solo il ticchettio stonato di un orologio rotto. Niente riuscirebbe a convincerli del contrario, lo hanno studiato sui libri, glielo hanno chiesto agli esami, se lo ripetono ogni giorno davanti allo specchio, sia che si raccolgano i capelli con delle pinze, sia che si stiano facendo la barba. Per loro io sono solo un sofisticato automa a carica, uno di quelli tanto in voga secoli fa, che ha semplicemente smesso di seguire movimenti preordinati. Colpa di una molla arrugginita, ma, lasciano intendere, nulla è perduto. Così mi viene da ripensare a quella vacanza a Parigi. Una volta esco, come mi piaceva fare quasi ogni giorno, dalla solita stazione di metropolitana e mi ritrovavo alle spalle del Centro Pompidou, prendo la via Rambuteau e mi avvio verso Les Halles, tra la folla. Guardare la gente mi dà un senso di scoperta insolita, così procedo lentamente, ma mi accorgo subito che lo scenario è diverso: la gente cammina nelle due opposte direzioni, apparentemente sono tutti immersi nei propri pensieri, ma qualcosa è cambiato di certo. Comincia con un pensiero, indecifrabile, poi sento prurito alla testa e mi formicolano le mani, mi fermo a causa di un capogiro e mi dico che forse mangiare qualcosa di dolce mi farebbe bene. Allora mi guardo intorno per individuare il bar più vicino, Parigi è piena di bar e ci sono dei dolci irresistibili, ma non posso fare a meno di notare che ora sono le altre persone a fissare me. Nessuno cerca di aiutarmi e non
sembrano sorpresi nel vedermi frastornata, semplicemente mi fissano, continuando a camminare frettolosamente. Io non riesco proprio a capire che cosa sia cambiato nel solito scenario. Dico: “Mi rifiutavo forse di vederlo?” e l’altro: “Avresti preferito non vedere?”. Che ne so!, l’unica cosa certa era il cambiamento. Ad un certo punto, sento un ritorno di forze, il prurito alla testa smette e la nebbia si dirada davanti ai miei occhi, mi sento sollevata, perché ora posso cercare meglio il bar… Parigi è piena di bar e ci sono dei dolci irresistibili… Guardo meglio ed è come se mi dessero una martellata sulla nuca. Io non ci posso credere, ecco cosa è successo: la gente cammina, è sempre la stessa, mi fissa, ma non è questa la cosa agghiacciante, il fatto è che… il fatto è che tutti hanno metà della faccia ridotta all’osso. Sì!, sono metà persone e metà scheletro. Comincio a toccarmi, ma mi sembra che in me non sia cambiato niente, solo gli altri si sono trasformati e mi fissano, mi fissano, mentre a un tempo interminabile, fino a quando sono completamente paralizzata e il mio campo visivo si restringe, si restringe, si restringe e il nero, rimane solo il nero. Non è successo niente, solo un automa con la molla arrugginita: proiezioni e nient’altro, impensabile solo supporre che certe cose possano accadere veramente, semplicemente non è previsto e non è scritto in nessun libro, non si ripete in nessuna lezione, né se ne può accennare ad un esame. Non esiste al mondo! Lasciano intendere, ma non ci sono prove, poiché non lo dicono, che è grazie a gente come loro è stato possibile rivedere la luce, spazzare via il nero dal quale vedevo il mondo attraverso un cannocchiale al contrario. Leggendo tra le righe dei loro melliflui discorsi accademici, sono quasi sicura, in un qualche momento, di aver tentato il suicidio e forse è per questo che mi è concessa solo la plastica, quella morbida ovviamente, anche se non vedo la necessità che ogni oggetto sia rosa. Ma forse anche questo è da attribuirsi alla molla arrugginita e, come un tempo tutto è diventato nero, ora tutto è rosa. Se così fosse, ammetterlo sarebbe una consapevolezza, un notevole o avanti: “Vorresti un mondo tutto rosa?”, mi sento dire, visto, che come è normale, ho comunicato la scoperta. Normale? Ma se è così facile che le molle si arrugginiscano, come si fa a definire qualcosa normale? Forse è il meccanismo di tutti gli altri ad essere andato in tilt e non il mio, forse io sono normale, no? “Credi di poter essere normale?”, mi sento fare e di seguito: “Cosa faresti come persona normale?”, basta, perdio!, basta con le domande e con le risposte che sono altre domande! Io mi sento a posto, ripeto in continuazione di essere a posto, quasi bloccata in
una innaturale stabilità e non so cosa stiano cercando, cosa vogliono che dica o faccia, cosa vogliono veramente che io ammetta. Non ho niente da ammettere. Se mi sforzo di pensare, mi ritorna solo la scena nitida di me seduta a un tavolo, in una stanza fredda e grigia di quel cavolo di carcere, che rispondo alle domande di uno di loro. Stessa aria bonaria, stessa espressione onnisciente, stessa piega delle labbra, sembrano usciti da un film sulla clonazione umana da parte degli alieni. Non mi stupirei affatto se di notte, invece di andare a letto, si chiudessero dentro bozzoli viscidi. Se mi sforzo di pensare, tutto comincia da lì, prima solo frammenti confusi di un racconto ripetuto troppe volte. Ogni nuovo arrivato, non uno di loro, ma dell’altro tipo, del tipo che parlano e ti dicono cosa hai fatto, se ne usciva con la stessa storia e, a un certo punto, il prurito alla testa, come a Parigi. Poi eccoli di nuovo, mezzi uomini e mezzi teschi e le loro parole che diventano confuse, perdo parti di quelle strane storie: dicono di una donna che scompare per giorni… parenti in agitazione, forse c’è di mezzo la polizia. Questa donna deve essere una famosa, perché ne parla la televisione o forse è qualcos’altro, il blaterare dei mezzi teschi diventa incomprensibile. Qualcosa su una tragedia, una famiglia distrutta. Non capisco perché vengano a dire a me di gente ammazzata con un fucile, come se la morte fosse ata di casa in casa, cominciando dalla sorella minore, suo marito e i suoi figli, poi uno zio di aggio, fino ai due anziani genitori, perfino il cane di quattordici anni è stato fatto fuori. Sangue è la parola che tutti ripetono più volentieri, ma non posso esserne sicura, perché è solo il loro lato umano, quello non scarnificato, a parlare e, come a Parigi, il campo visivo si fa nero e di colpo il mondo è rosa. Se mi metto a riflettere bene, proprio bene bene, senza tralasciare nessun particolare, io mi sento a posto. Lasciano intendere, ma non lo dicono, che io abbia fatto cose terribili ed è a causa di queste mie azioni che mi ritrovo a parlare con loro, fino a quando, sperano, un giorno capirò tutto, ma, lasciano intendere, che dovrò essere io a dirlo e che non uscirà niente dalle loro bocche cucite, dovessero are mille anni. Forse ne eranno diecimila, perché io sto così bene, a parte il rosa, e non credo di essermi sentita mai così leggera, libera, quasi come nei miei sogni di bambina, sola, orfana e felice.
STOP. EJECT.
Andandosene in giro per quella casa enorme, Luca rea-lizza di essersi perso molte cose importanti nella storia degli ultimi cento anni: durante la seconda guerra mondiale, lui non c’era; s’è perso il sessantotto, l’austerity, gli anni ottanta li ha vissuti da ragazzino inconsapevole e, quando ha cominciato a capirci qualcosa, l’AIDS aveva già inibito ogni desiderio di darsi a tutti, non soltanto con il corpo. a da un divano all’altro, ma la pelle fredda gli si attacca ogni volta alle natiche e non riesce a trovare una posizione soddisfacente. Si siede a terra, poggiato ad una parete, sopra la testa quel trionfo di tecnologia che è lo stereo, ma non ha voglia di ascoltare musica, si sta concedendo una delle sue pause, durante le quali il silenzio regna sovrano e la mente, non inquinata da inutili rumori di vita, si fa chiara, capace di riconoscere se stessa e di elaborare il vissuto. È come se i suoi pensieri fossero i vagoni di una metropolitana che ora sta sfrecciando a ritroso in un tunnel, metri sotto la superficie. Ogni stazione è un momento vissuto, ma non si ferma e le immagini della sua vita appaiono per pochi istanti, quando esce dalla galleria e si ritrova abbagliato dalle luci al neon, per rientrare subito nel buio. Non c’è nessuno ad aspettare quel treno, solo cartelli pubblicitari con la sua faccia. Adesso si è fermato, le porte si aprono e Luca vede donne velate e scalze con in mano dei ceri sfilargli davanti. Ricorda quel giorno, quella processione, quella festa della Madonna. Ricorda che lui era già da due ore in prima fila per guardare, c’era qualcuno che doveva fissare negli occhi per comunicargli tutto il suo disprezzo. Aveva discusso una settimana prima con il suo migliore amico di dodici anni, uno più di lui, il quale era spaventato a morte all’idea che qualcuno potesse sapere dei loro giochi: “Luca, dobbiamo smettere.” aveva detto ad un certo punto, guardando il pavimento. “Smettere?” aveva replicato Luca, “E perché se ci piace tanto?” “Certe cose non si fanno. Don Vincenzo dice che certe cose mandano dritti all’Inferno.” “Che ne sa don Vincenzo di quello che facciamo noi, glielo hai detto tu?”
“Non gli ho detto niente, ma smettiamo, ché, se lo scopre mio padre, mi piglia a calci.” “Allora vattene cacasotto!” Gli aveva urlato Luca: “Non siamo più amici!” La sera della processione, quando il suo amico gli è ato davanti, vestito da chierichetto, Luca gli ha detto forte: “Oh, cacasotto, bella la gonna che porti!” Che fine avrà fatto?, si domanda rimettendosi in piedi, probabilmente è diventato prete, uno di quelli che stanno, come si suol dire, nel sociale, in mezzo alle prostituire e ai tossicodipendenti, uno di quelli che vuole salvare l’intera umanità, solo per cercare di salvare se stesso, forse è semplicemente morto, ma, se così fosse, lo avrebbe saputo. Il cellulare che squilla gli dà una scossa e stavolta risponde senza starci a pensare su troppo. “Pronto?” “Allora ’sta piscina, ci sei o no?” “Ciao Paolo! Scusa ma me lo sono proprio dimenticato… ” “Capolinea, signori, capolinea! C’hai la testa in vacanza, eh? Comunque decidi ora.” “Sai, non credo proprio di potere… ” “Tesoro, ti rendi conto che stai rinunciando alla vista di tutti quei maschi in costume? Non abbiamo saltato una settimana, da quando?, dai tempi del liceo.” “È sempre la solita roba, non credi? Eppoi non è che ci siano tutti ’sti modelli, anzi la maggior parte c’hanno certe facce da cessi, che non ti dico.” “Sei malata! Ma lo hai visto l’istruttore, eh? Dai accompagnami, ché ho un appuntamento sotto la doccia con quello che dice di averci la fidanzata bona e intanto mi guarda il pacco.”
“Mi sa che quello malato sei tu, a parte il fatto che quello manco ti vede ed è più etero di tuo padre. Guarda, non se ne parla… è che sto facendo una cosa e non la posso lasciare… ” “Ti godi l’appartamento di zietto, lo so”, Luca si sorprende sempre di constatare che tutti sanno tutto di tutti, “ho chiamato a casa tua e sco sembrava un attimino acido.” “Un attimino non si dice!” Si pente subito di averglielo fatto notare: “Visto che sai tutto capirai che non posso venire, magari la prossima volta.” Ha detto proprio così e gli viene da ridere. “Fa un po’ come ti pare,” Paolo non sembra troppo deluso: è troppo superficiale per provare delusione. “ Mi sa che non ci vado nemmeno io, mi sento magnanimo e lascio il bonazzo alla sua fidanzata… Te l’ho detto che ho dato Diritto Privato l’altro ieri ed è stata una bella mazzata, che ancora non mi sono ripreso.” “Non mi dire che ti è andato male?” Luca si sforza di comunicare interesse attraverso il tono della propria voce, ma in realtà vorrebbe dirgli che non gliene frega niente del suo merdoso esame e che uno, che a ventinove anni sta ancora al quinto esame, non dovrebbe neanche menzionare certe faccende in pubblico. “Beh, quella è una facoltà di fascisti, si sa e mi sono ritrovato uno schifoso 29, ti rendi conto? Chiamala pure discriminazione omofoba.” “Ma sei scemo? È solo per questo che dovrebbero di-scriminarti, 29 va pure troppo bene, dovresti cercare di sbrigarti o lasciare perdere!” “Oh, stai calmino, a me il 29 mi rovina la media… ” “È la ragione per la quale fai un esame ogni due anni, per non rovinarti la media?” Luca non controlla più la propria voce. “Saputello del cazzo!” Paolo si altera “Mi succede una cosa che mi fa stare male e tu reagisci così, bell’amico che sei… Comunque ti perdono,” si fa una risatina, “ti perdono perché gli amici sono tali anche per questo. Allora, la piscina sabato prossimo, tanto per rifarci il fisico e gli occhi?” “Sì, sì, ne riparliamo, adesso devo lasciarti, lo capisci vero?”
“Eccome se lo capisco, ormai la signora ha una casa da mandare avanti, no? Ti chiamo in settimana, a proposito, non ce l’hai il telefono fisso là?” “No, mio zio stava troppo in clinica e a casa non voleva scocciature.” È soddisfatto di aver trovato, senza starci troppo a pensare, questa storia convincente per Paolo, il quale conclude: “Ciao bellezza! Stasera fatti una camomilla corretta all’hashish.” “Spiritoso, ciao!” Lasciando cadere il cellulare, si interroga sulla teoria dei vasi comunicanti e se, messi due cervelli in comunica-zione attraverso un telefono, c’è la possibilità che l’intelligenza dell’uno possa dimezzarsi, ando nel vuoto dell’altro. Va a prendersi dell’acqua e torna nello studio.
Cassetta: OSP.9/18B-cc0800. PLAY.
Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame? Figuriamoci se si decide a parlare! È una cantilena che ripeto tutte le volte, ma lui, il Signor Specchio, non mi risponde. Questo figlio di puttana prende gusto a sputarmi addosso l'immagine di una carcassa, che fa paura persino a sé stessa, che si sveglia mal volentieri e a cui dà un fastidio tremendo interrompere i propri sogni. A che serve svegliarsi se tutto fa schifo? Me lo dici! Qualcuno sicuramente potrebbe portarmi un elenco di ragioni lungo chilometri e chilometri: il sole è sorto e bisogna essere produttivi, positivi ed energici, non vogliamo mica che questo mondo vada a catafascio solo perché c’è gente che si mette in testa di rimanere a letto, interrompendo la catena del “nasci-produciconsuma-muori”. Certo, che se potessi starmene attaccata ad una parete come fai tu, la vita sarebbe meravigliosa, a parte gli schizzi che escono dalla bocca di quelli che fanno i gargarismi. Io voglio dormire, invece, dormire perché fa tutto schifo e non mi stanco di ripeterlo: schifo, schifo, schifo! A che serve svegliarsi, eh? Me lo dici! Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più… cretina del reame? Non c'è dubbio, sono una povera cretina... Sì, una cretina con troppa fantasia, una che ama volare e regolarmente finisce con la faccia contro qualche muro: un povero uccellino che tenta la sua prima uscita, si arrampica a fatica sul bordo del nido, oscilla sulle zampette ebbro di felicità per la possibile libertà che lo aspetta. È timido, davanti ha tutto quel verde, esita. Infine si fa coraggio, prende lo slancio e via… Tutto quel verde è un muro di spesso cemento dipinto due giorni prima. Io ho troppa sensibilità, una foglia che cade mi fa tremare, i terremoti mi mettono ansia e le guerre, quelle che si vedono al telegiornale all’ora di pranzo, mi bloccano l’appetito. Io ho troppa voglia di scoprire ed essere scoperta. Io ho
troppi neuroni pettegoli che mi chiacchierano nel cervello, incessantemente, come centraliniste indaffarate senza cambi di turno. All’inizio mi era venuto il dubbio che fossero voci, come quelle di Santa Giovanna, che prima di essere santa era pazza, ma l’hanno curata col fuoco e beatificata a beneficio di tutti quelli che sentono parlare quando non c’è nessuno. Fortunatamente ho capito presto che non si trattava di voci, la conversa-zione sembrava troppo privata e fitta, sottovoce, come al cinema quando si entra senza sapere il titolo di un film che poi non ci piace. Sono i neuroni che se la raccontano e per farli tacere bisogna interromperli chimicamente, ci siamo intesi, no? Potessi dormire per sempre… Specchio, specchio delle mie brame… Che affanno l’esistenza! Sensazioni altalenanti, stati d’animo contrastanti, hamburger che si cuociono troppo, accendini scarichi, lavandini intasati, ambulanze in corsa, cortei lenti e gente ovunque. È questa la vita? Sembra che non ci siano soluzioni, nessuna via d’uscita, solo aspettare di morire, ma un giorno tutto si risolve in un attimo, senza preavviso, succede. Succede che ho calpestato il cadavere di David! Gli ho infilato un coltello nella pancia ed è stato facile, come tagliare il burro, più facile di quanto avessi immaginato: nessun senso di colpa, nessun terrore, nessun pentimento. Lui mi ha guardata con un’espressione da ragazzino stupito, è andato giù ed ha semplicemente smesso di respirare, ha smesso di esistere, lo capisci?, soltanto questo. Avrei voluto tirargli via i pantaloni e strappargli a morsi quell'inutile appendice che si portava dietro dalla nascita, ma non l'ho fatto… mi sono limitata a eggiargli sopra, inzuppando i piedi nel sangue, quasi stessi giocando in una pozzanghera d'inverno. Almeno una volta nella vita, bisognerebbe inzuppare i piedi nel sangue del proprio amante e allora ci si accorgerebbe che è solo melma... Forse non sta bene dire certe cose, forse si dovrebbero avere solo pensieri positivi e cantare ogni giorno un nuovo inno alla vita, ma a me va di essere così, così e basta! Non è che le persone cambiano a comando. Da piccola, per esempio, conoscevo un ragazzino che aveva l’abitudine di chiudersi negli armadi per starsene solo. Era il figlio della Greca, come tutti chiamavano sua madre che era venuta da Atene venti anni prima. Nessuno si preoccupava di lui, sua madre entrava in stanza, dava un’occhiata in giro senza vederlo, richiudeva la porta della camera e via. Mai una volta che quella donna abbia tentato di cercarlo nell’armadio, né le sembravano strane le assenze di suo figlio, si diceva semplicemente che sarebbe riapparso, perché così aveva sempre fatto. Il ragazzino se ne stava lì, nella semioscurità per delle ore,
pensava e si mangiava le unghie… qualche volta prima si mangiava le unghie e poi pensava. Molti anni dopo, nel negozio della signora Zarrik, quella che vendeva i bottoni, ho sentito qualcuno dire che il figlio della vecchia Greca, quello che non si era mai voluto sposare, era stato trovato morto in un armadio di casa. Dallo stato del cadavere doveva essere lì da almeno due settimane e il fatto più strano era che non aveva più unghie. Capito, caro mio, la gente non cambia. Quando vidi David per la prima volta, ero andata da lui per farmi curare un dente, uno stramaledetto dente che mi tormentava da una settimana. Avevo trovato il suo nome sulle Pagine Gialle e ci andai, nello stesso modo in cui le persone disperate vanno da un santone qualunque, che hanno sentito nominare in televisione. David fu molto affabile e fece un bel lavoro. Usava i guanti da chirurgo, ma non la mascherina e mi alitava ripetutamente in faccia, mentre io me ne stavo con la bocca spalancata e lasciavo che le sue mani vi frugassero dentro. Ogni tanto si poggiava contro il mio braccio e ancora mi infilava le mani in bocca, raschiava, aspirava, premeva e trapanava. Il sapore del lattice mi trasmetteva intimità e il suo respiro caldo mi convinse che volevo saperne di più di lui. Due ore dopo mi mostrava orgoglioso la fotografia di una chiatta ormeggiata in prossimità di un cancello e di quattro ratti dall'espressione ebete. Sorrideva e diceva che sua moglie ed i suoi figli non erano venuti molto bene in quella foto. Cercava quasi di scusarsi, mentre io, fissandolo nei suoi occhi neri e immaginando tutto ciò che si poteva immaginare ci fosse sotto il suo camice bianco, mi ponevo domande sull'attendibilità di scienze come la genetica. Finimmo a letto, io e David. Per un'intera notte facemmo tutto quanto è possibile fare in un letto e anche di più. Sembravamo proprio, proprio… come quelli che si vedono su certi film porno. Lui fu fantastico, rispettò il copione fino in fondo e si mise anche a fumare, dopo. Fumava e parlava a voce bassa, parlava e fumava con gusto! Mi chiese se avessi un fidanzato o un marito. Gli risposi di no. Mi diede un'occhiataccia e si dilungò sull'importanza del matrimonio, su quanto fosse bello e necessario vivere in due, su quanto amasse e rispettasse sua moglie, su quanto fosse legato ai suoi quattro ratti ebeti, su quanta abilità e maturità ci volessero per adattare e modificare i propri sentimenti all'interno di un rapporto duraturo e solido, su quanto questo, su quanto quello. Aveva un logico pensiero su tutto e la sua vita sembrava un meccanismo perfetto, all’interno del quale vivevano e prosperavano coloro che lui diceva di amare, inclusa io.
Ci crederesti, specchio delle mie brame, se ti dicessi che in un primo momento l’ho persino invidiato? Io con quel casino di vita che potevo fare, mentre ascoltavo il dentista, scelto dal destino, pronunciare i suoi dogmi? Avrei dovuto capire subito, eppure non feci niente, mi limitai ad ascoltare, gli stavo così vicina e non reagii… Cristo, a che serve arrivare a quaranta anni e non riuscire neanche a riconoscere un autentico, convinto stronzo! Divenni la sua amante ufficiale. Anche la chiatta ne era al corrente, ma taceva, poiché sapeva che le donne come lei sono delle miracolate: non potrebbero mai essere delle amanti - tutta colpa di Madre Natura - e, solo grazie ad un pietoso intervento divino, diventano mogli. Ci incontravamo in un appartamento che David chiamava "L'Atrio dell'Inferno", ripensando con tenerezza ai suoi studi classici. Finivamo sempre allo stesso modo, l'uno accanto all'altra a fissare il soffitto. David si accendeva una sigaretta e parlava. Amava ripetermi, anzi amava ripetere a sé stesso, sempre le stesse cose: sottolineava i suoi sensi di colpa, poi sorrideva, domandandomi se in realtà stesse facendo qualcosa di male, visto che il suo cuore era lì, a casa, ma questo non voleva dire che non mi amasse. Io annuivo e cominciavo a rivestirmi, pensavo ai miei denti, alle Pagine Gialle, al sapore del lattice che ora mi ricordava altro e non certo intimità. Rimasi incinta. Diverse volte ero andata a trovare delle amiche dopo il parto ed ogni volta mi domandavo come sarebbe stato per me e se io sarei riuscita a portarmi dietro tutto quel peso per nove mesi. A guardarle sembravano felici e così mi veniva un po’ di invidia… invidia buona, si intende. Così, mi ritrovavo a volerlo anch’io un figlio, per avere la possibilità un giorno di ricordare la faccia imbambolata di quello che sarebbe stato mio marito. Un marito ci vuole sicuramente, bisogna rispettare il copione della vita fino in fondo, da brave bambine educate: ci si sposa in bianco con l’uomo che si ama, si parte per un lungo e meraviglioso viaggio di nozze, meglio se in un luogo esotico e si fanno milioni di diapositive da far vedere agli amici, che se ne torneranno a casa stremati, ma rispettosi del nostro entusiasmo. Dopo meno di un anno, il copione prevede la nascita di un figlio. Tutto perfetto e io avevo cominciato, a tendere verso questa perfezione fin da tenera età. Rimasi incinta, senza sapere come e con il contributo del marito di una che avevo visto solo in foto.
Quando uscii dalla clinica non avevo più il mio bambino. David era lì ad aspettarmi e per sincerarsi che tutto fosse andato come lui aveva voluto. Sorrideva. Mi regalò una pelliccia di visone e due denti nuovi: fu il suo modo di invitarmi a prendere la vita per quello che è, ma io non ci sono ancora riuscita, forse perché non ho mai troppo amato le pellicce o forse perché tutti i miei denti sono caduti negli anni uno ad uno, tranne i due che mi ha regalato lui. Dopo un po', si sa, ci si stanca delle amanti, ma quelli come David non hanno il coraggio di lasciarle e così se ne trovano una nuova, con la quale tradire la prima, con la quale tradiscono la moglie. Gli anelli della catena aumentano e le città si popolano di nidi d'amore dai nomi poeticamente inquietanti: "L'Atrio dell'Inferno", "L'Antica-mera del Paradiso", "Il Ponte per il Purgatorio" e così via. ò un altro anno. Il mio analista mi consigliava spesso di rimuovere le ansie, di non tenermi tutto dentro e di sfogarmi: cose come bestemmiare in metropolitana, oppure gridare e saltare per la strada, soprattutto mi vietava di reprimere gli istinti. La repressione degli istinti porta alla nevrosi, diceva, ed io ero già a poche fermate dal capolinea. Quella sera, nell’Atrio dell’Inferno, stavo parlando a David della mia intenzione di comprare un cane, non uno di quelli piccoli ed isterici, ma grande e bello. Ho sempre desiderato averne uno, ma da bambina il nostro appartamento era troppo stretto e mia madre minacciava in continuazione di arrostire qualsiasi animale avessi portato in casa. Mi sentivo eccitata, mi sarebbe piaciuto avere un suo consiglio e lui… lui si è infilato un dito nel naso. Ha ato circa dieci minuti a pulirsi la sua narice fetida. Poi si è una sigaretta svogliatamente ed ha iniziato a rimproverarmi, poiché, diceva, sapevo bene che aveva solo un'ora, sapevo che non poteva rientrare tardi per la cena e, malgrado questo, me ne stavo a perdere tempo con le mie fantasie sui cani. Pretese che io pensassi a quanto male gli stessi facendo, a quanto fosse frustrante per un uomo coi suoi appetiti, dopo una giornata di lavoro, doversi occupare delle mie follie infantili che umiliavano la sua virilità e scoraggiavano l’erezione di pochi minuti prima. Voleva che io pensassi e riflettessi su tutto questo. Ed io, ubbidiente e sottomessa come al solito, cominciai a pensare… pensai ai miei denti, alle Pagine Gialle, al mio analista, alla chiatta, ai ratti ebeti, al mio bambino, alle altre. Sentii delle trombe, chiaramente delle trombe, prima di allarme, poi di trionfo e… capii che era arrivato il momento di infilargli un
coltello nella pancia! Di sicuro non c’è nulla di più buffo di un uomo sposato che crepa con un taglio di trenta centimetri sullo stomaco, verrebbe quasi voglia di applicargli una bella cerniera lampo colorata ed esporlo in un museo frequentato da sole donne tradite. A ripensarci ho ancora voglia di ridere, voglia di stare in mezzo ad una sterminata brughiera, con tanto vento e ridere, ridere, ridere... Non dovrei parlare con uno specchio fesso che non vuole rispondere… Chissà perché poi? Forse nessuno gli ha insegnato le parole giuste o forse ne hanno scelto per di-spetto uno muto dalla nascita… Ma gli specchi non sono come le persone, ne riflettono l’immagine, ma sono altra cosa e questo potrebbe avere solo le orecchie e non la bocca. Bisognerebbe trovare una soluzione… io ne ho di tempo, eccome se ne ho! Se non parlerai, lo farò io per tutti e due. Ho tante di quelle storie da raccontare, che neanche te lo immagini… tantissime storie interessanti, ma dovremmo dormire anche un po’, no? Domani ti dirò di quella volta… quella volta che ho calpestato il cadavere di David.
STOP. EJECT.
Nonostante la porta chiusa, mentre ascoltava con attenzione le parole che arrivavano dal registratore, mentre cercava di costruire un’immagine di quella donna, non è riuscito ad escludere il lamento isterico, sebbene attutito, del suo telefono, che si è prodotto in una serie ininterrotta di richiami. Brevi pause, poi ancora squilli e intanto i capelli di lei mutavano di colore, il naso ava da aquilino a piccolo e dritto, il peso, l’altezza, il colore della pelle, gli occhi, i vestiti, tutto ava da una possibilità all’altra. Ma niente di concreto, forse si è lasciato distrarre dall’aggeggio sul divano, che ora, come prima, chiama di nuovo. Luca va a rispondere, anche se gli a per la mente di buttarlo nel cesso e scaricare. Si avvicina ad esso con diffidenza e fastidio, eppure una sequenza quasi ininterrotta di chiamate è in armonia con la routine delle sue giornate. Solo un paio di giorni prima, davanti al proprio telefono silenzioso, si sarebbe molto preoccupato e sentito abbandonato da tutti. Risponde: “Pronto?” “Ciao sono Carla, come va?” “Lo so ho visto il nome e va tutto bene, almeno mi sembra, e tu?” “Pensavo fossi morto,” fa lei ignorando per il momento la domanda, “ho provato non so quante volte… ” “Stavo da un’altra parte della casa e non l’ho sentito,” Luca sente il bisogno di giustificarsi, “qui è tutto così grande che… ” “Sì, ho saputo della casa.” Anche lei! “Sto in ufficio, sai, qui ci fanno lavorare pure di sabato e sto di merda.” Lei sta sempre di merda, pensa Luca. Quanti anni sono che la conosce, cinque?, forse sei e mai un periodo più lungo di due settimane durante il quale l’abbia vista perlomeno contenta della sua vita. Qualcuno, incontrandola per la prima volta, si domanderà anche quali disgrazie turbino la sua esistenza, quale karma negativo la perseguiti e, sicuramente, la maggior parte della gente la compatisce. Poi, col tempo, ci si rende conto di quale sia la sua reale situazione esistenziale e non la si vuole più vedere. Luca è tra i pochi a resistere da anni e, anche se vorrebbe che qualcuno lo fermasse, tappandogli la bocca con della stoppa,
infilata fino in fondo alla gola, le fa la domanda: “Che t’è successo stavolta?” “Giovanni, ecco che m’è successo.” “Ah, Giovanni!” Luca mette a fuoco il suo amico di liceo, la sua finestra etero sul mondo e se lo immagina mentre sta davanti alla televisione a vedersi qualche partita, oppure mentre legge un libro giallo, buttato su una poltrona o sul letto. “Giovanni è un idiota,” continua Carla, “tu lo sai, no?, per quanto tempo ci ha provato e io niente,” Luca non ne può già più, non avrebbe dovuto domandarle niente, “lui ci provava e io picche. Poi, lo sai, no?, mi sono decisa e gliel’ho data, ma non subito, tanto per non fare la figura della zoccola, l’ho fatto sospirare qualche giorno. Ci sono andata a letto anche perché mi sembrava uno con la testa a posto, lo sai, no?, che voi maschi non ci state più col cervello e avete perennemente l’aria dei rimbambiti. Colpa dell’emancipazione femminile, delle madri possessive, della crisi economica o del buco nell’ozono, comunque siete rincoglioniti. Insomma, è cominciata la storia che tutti conoscono, ma sono pure cominciati i tira e molla. Stiamo insieme e mi chiama a mala pena una volta a settimana, io gli mando un sms carino e lui risponde con freddezza, senza ione e, se non c’è la ione, lo sai, no?, che storia è. Ci sei?” “Sì” “Beh, tutta questa tiritera mi ha fatto venire in mente che il suo unico scopo era quello di portarmi a letto e adesso che c’è riuscito, arrivederci. Tu che dici?” “Non dico niente.” “Avrai un’opinione, no? Magari avrai anche parlato con lui… ” “Veramente io sapevo solo che vi eravate messi insieme.” “Appunto, allora vedi che non me la sono inventata io la storia. È che non vi volete prendere responsabilità, né vi prendete il tempo di capire le donne… ” “Perché parli al plurale? Io che c’entro?” “C’entri in quanto uomo e, anche se gay, sempre della categoria sei. Comunque
io non lo chiamo più, faccio bene secondo te?” “Perché non gli apri la pancia con un coltello e, dopo che è caduto per terra e si è formata una bella pozzanghera di sangue, ci cammini sopra?” “Sei matto? Io ho un problema serio e tu fai il cretino!” “Conosco una che lo ha fatto, me lo ha raccontato e mi sono divertito.” Rientra nello studio e si siede alla scrivania: “Dovresti trovarti uno più interessante con cui uscire, Giovanni è una forma semplice di vita, come te e non avete niente da imparare l’uno dall’altra.” “Che stronzate dici? Comunque siete tutti testimoni che in pubblico ha sempre fatto il carino. Magari ha un’altra e quando sta con lei stacca il telefono. Ma, se è così, si prendesse la responsabilità di dirmelo… o forse vuole solo i suoi spazi, anche se un po’ lunghi come spazi. Io faccio il possibile per non soffocarlo, non ti pare?” “Carla, è sempre lo stesso copione, cambia solo l’attore, lasciatelo dire, che palle! Mai una volta che ti sia crollata la casa addosso, sempre il solito problema di uomini,” accarezza con lo sguardo le cassette già ascoltate, messe per verticale e sfiora con la mano le cinque rimaste, messe in orizzontale davanti a lui, “quante volte ti ho ripetuto le stesse cose: se non acquisisci una certa autonomia dell’anima, non riuscirai mai ad avere una relazione stabile. N’est-ce pas?” “Senti, ora lo chiamo e vaffanculo l’orgoglio! Sei il mio migliore amico, anche se col difetto di essere maschio, però sei gay e questo un po’ ti salva, ti voglio bene. Poi ti faccio sapere, ok?” “Ok!” “Baci baci.” Stavolta preme forte col pollice e spegne il telefonino. Fa di più, lo nasconde in uno dei cassetti che ha di fianco e chiude facendo rumore. Percepisce un certo odore, si annusa un’ascella e fa una smorfia. Sbadiglia, si gratta la nuca: “Sotto a chi tocca!” dice alla cassetta che ha preso in mano.
Cassetta: OSP.4/18B-cc0137. PLAY.
Onde schiumose, che vanno su e giù. Spruzzi a sprazzi sugli scogli grigi, qualche volta verdastri. Acqua ferma, oleosa, calma piatta in un pianeta rotondo, ma che tutti credevano piatto, fino a quando non ne hanno scoperto la sfericità. Calma schiumosa? Io non ne so niente e pensare mi annoia. Noia! Noia! Noia! Ci si annoia in un piccolo paese sul mare, specialmente quando la stagione turistica è finita e gli abitanti tornano ad essere poco più di duemila. Ma ci si annoia anche in montagna, così come in collina o in campagna. Ci si annoia ovunque ed io sono stato ovunque, attraversando tutte le noie, sempre in fuga, con lei o senza di lei… ma il mare, il mare è un’altra cosa. Ricordo che ogni giorno mi affacciavo alla finestra della mia stanza e lanciavo pezzi di pane secco ai gabbiani (il pane secco si lancia bene e prende la forma di un sasso, sempre che si sappia usare il giusto movimento di polso… ci vuole polso per trasformare il pane in sasso). I gabbiani, tu lo sai, vero?, vedono il pane a centinaia di chilometri di distanza ed è difficile distinguere i luoghi di provenienza. Tu tiri una mollica pietrificata e, da tutte le coste del mondo, arrivavano, felici ed urlanti! Sembrano quasi riconoscerti e poi pensano solo a mangiare: sono interessati al cibo e non c’è solidarietà tra loro, si azzuffano, si spennano e beccano. Bravi i gabbiani! Niente inchieste né indagini, nessuna domanda se uno del gruppo scompare, mica come gli umani, il giorno dopo sono ancora lì, gabbianosi, tu lo sai, vero?... Trovo gustosa la carne di gabbiano, ma raramente questo uccello si posa su un davanzale, bisogna farselo amico... gli amici si fidano. Prima lo nutri e lo ingrassi, poi gli elargisci grandi sorrisi, ma con una certa distanza, che fuga ogni dubbio di secondo fine e… l’amico ritorna, l’amico ti vuole, gli sono tanto piaciute le tue cene e la tua conversazione che vuole assolutamente ripetere l’esperienza e ripeterla e ripeterla… Ma il mare, il mare è un’altra cosa, tu lo sai vero? Io me lo ricordo quel periodo al mare, proprio lì, dove l’erba cresce sott’acqua e le montagne sono pure sommerse. Tutto liquido, come i miei sogni, le mie idee di liquido color ruggine. I giorni sempre uguali. Io lanciavo in aria il pane secco, nel porticciolo si formavano gruppi sparuti di ragazzi, le barche rientravano sempre alla stessa ora
e Lara cantava tutti i pomeriggi. Non venirmi a dire che non ti ricordi di Lara! Non ci posso assolutamente credere, im-pos-si-bi-le, i-nau-di-to, in-con-ce-pi-bile! Cantava Lara e nessun poeta avrebbe potuto descrivere le emozioni che quella voce faceva scaturire dal mio animo; nessun pittore avrebbe potuto dipingere i colori di un paesaggio trasfigurato dalle sue note gentili. Ho sentito dire che Dante impazziva d'amore per una donna simile ad un angelo, ma che era vera, forse distante, angelica e vera e distante e lui la voleva più di ogni altra cosa e scriveva versi e, sono sicuro, a casa la evocava ad occhi chiusi e sapeva che lei gli apparteneva, come neanche le sue stesse mani gli appartenevano. Capisco tutto, io posso capirlo... molto... più di tutti... capisco Dante come nessuno lo capisce. Le ore avano lentamente al mare. Ma io avrei voluto che il tempo si fosse fermato, soltanto per poterla ascoltare in eterno. Le note, i versi, il ritmo per sempre e prendermi il mio tempo in tutto quell’eterno, per capire le note, i versi, il ritmo e, tu lo sai vero?, solo questo volevo, la voce di Lara dentro la mia testa… tante poltrone e un palcoscenico, niente pubblico, solo pensieri in ascolto e la voce di… Lara, muta dalla nascita. Ma io riuscivo lo stesso a sentirla, ad apprezzare quelli che per altri erano solo grugniti soffocati... la gente è ignorante... sì, maledettamente ignorante... non tutti possono ascoltare la voce delle pietre nel deserto... solo i... i santi! Agitava le mani, disegnava gesti nell’aria estiva ed io mi incantavo, osservavo quei movimenti da direttore d’orchestra. Non le ho mai domandato quale concerto dirigesse… o forse l’ho fatto una volta? Ma, se l’ho fatto, dovrei sapere quale concerto fosse e il non saperlo mi confonde ancora di più e, quando sono confuso, confondo gli oggetti, tu lo sai, vero?, e poi… le sue mani affusolate, eloquenti, svelte. Il resto non era certamente da buttare: capelli castani ondulati, il naso dritto e un po’ a patata, le labbra sottili, ma non a fessura, lo sguardo, sì lo sguardo timido. Essere timidi non giova all'amore. Indossare, giorno e notte, un paio delle sue mutandine preferite, giova all'amore; tenersele sotto il cuscino, infilarsele prima di colazione e danzare, danzare a piedi nudi con le sue mutandine su, giova tantissimissimo all’amore. L'amore è fatto di azione e va al di là di cento, che dico?, centocinquanta foto pornografiche attaccate al muro, tanto che dovetti persino staccare il crocefisso. Mica una cosa da poco, il crocefisso che mia nonna mi faceva baciare da
ragazzino, non uno qualsiasi, ma dovetti staccarlo, metterlo in un cassetto, chiuderlo a chiave dove non potesse guardarmi. Eccola là, una parete di femmine in tutte le posizioni! Ma nessuna di quelle donne oscene contava più di Lara... nessuna! Lei se ne stava distante, sola, nella casa lasciatale dai genitori morti. Distante e sola... immobile, oserei dire paralizzata... Ma l'amore sarebbe tale se si lasciasse scoraggiare da una semplice sedia a rotelle? La vita è difficile: difficile nascere, difficile avere un lavoro, difficile essere figli destinati a crescere e a fare altri figli, poi morire, producendo altri destini di morte, difficile essere felici per quello che si è. Tutto è difficile, tranne che procurarsi una seconda chiave d'appartamento, non del proprio appartamento, ma quello di un'altra persona... facile come crepare in giorno qualsiasi, dentro un centro commerciale, pieno di subumani indaffarati a spingere carrelli. La chiave del successo (si dice così?), la chiave che apre il cuore di un’altra persona, la chiave che decodifica o chiude e mette al sicuro. E quante chiavi ci sono al mondo? Tutti ne abbiamo almeno una: la vecchia del piano di sotto ne ha una, il postino ne ha una, i ladri, i preti, le prostitute e i dermatologi ne hanno una… anche Lara aveva la sua ed io avevo la copia di quella di Lara. Che peccato non poter mangiare più carne di gabbiano! Loro, le femmine attaccate alla parete, si sono sempre prese gioco di me, ammiccano, cercano di provocarmi in tutti i modi e... i gabbiani, invece, sono sempre venuti... i gabbiani... venite! C'è pane per tutti... venite!... dai!... Quando vidi Lara per la prima volta, le sorrisi e lei... lei abbassò lo sguardo e mi disse: "Ti amo e ti amerò sempre". Le sue labbra rimasero serrate, eppure lo disse, lo disse veramente e vidi le cose intorno a me che cominciarono a girare. Le montagne russe, lo sai, vero?, mi fanno venire il mal di testa e, quando si ritorna a terra, si hanno i piedi gelati... Io le adoravo, le montagne russe, anche se non le avevo mai viste, le montagne russe... le sognavo spesso e lei era sempre lì: teneva in mano un cono gelato, il vento le muoveva i capelli, la panna le entrava negli occhi e cantava, come nessuno ha mai cantato, Dio!, la sua sedia a rotelle sui binari sembrava un treno giapponese ad alta velocità. È facile procurarsi le chiavi di un appartamento, molto, molto facile... Portai a Lara due gabbiani e stetti con lei tre giorni, cucinai per lei e... cucinare il
gabbiano non è la cosa più facile del mondo, tu lo sai, vero? Sì, cuocerlo non comporta niente di speciale, ma la preparazione, quella sì che necessita di maestria. Intanto lo devi catturare, poi leghi zampe e ali e lo attacchi a testa in giù da qualche parte, facendo attenzione a mettere sotto un recipiente bello largo. Dopo si prendono un paio di forbici sottili, ma lunghe, gli si apre il becco e gli si recide la gola dall’interno. Bisogna essere svelti a scansarsi, mentre si dissangua e si dimena… il sangue si attacca sui vestiti molto in fretta. ati trenta minuti, il nostro amico va bollito, spennato e spellato e finalmente lo si può cuocere in forno. Non ci posso neanche pensare, perché la carne di gabbiano mi manca così tanto, tu lo sai, vero? Cucinai per lei, la quale mi ripagò con parole d’amore... Amore! Scappa dall’amore, scappa dalla gioia e dalla sofferenza dell’amore, scappa dal suo tormento… E lascia tutto di nuovo… via, via in un altro posto, un’altra città, un altro continente. Sempre con la paura di non ritrovarla ancora e di averla perduta per sempre… sentirsi braccato e senza il suo conforto… di lei solo il ricordo e qualche pezzo rubato all’amore. Ma non hanno voluto capire, sono entrati in casa e se la sono presa, la mia, la mia Lara: due capezzoli ed un occhio dentro un vasetto di vetro colmo di formalina, custodito gelosamente e… sequestrato! Lo hanno fatto apposta, tu lo sai, vero? Hanno voluto umiliarmi, ah sì, si sono divertiti a calcare la mano, si sono presi gioco di me e dei miei sentimenti, altrimenti perché avrebbero preso anche tutti gli altri vasetti, portandosi via le mie diciotto donne? Non potevano sopportare che qualcuno provasse amore e che fosse ricambiato, no!, non bastava l’ultima Lara, ma anche la prima Lara e la seconda e la terza e la quarta e la quinta e la sesta e la settima e l’ottava e la nona e la decima e l’undicesima e la dodicesima e la tredicesima e la quattordicesima e la quindicesima e la sedicesima e la diciassettesima! Tutte, nessun vasetto escluso… dopo averli tenuti con me, di posto in posto, per venti anni e Lara sempre lì pronta a riapparire più bella della volta precedente, per me solo. Adoro la carne di gabbiano… Non avete gabbiani da queste parti? Potrei insegnarvi a cucinarli, non è difficile cuocerli, ma la preparazione, quella sì che è complicata. Darei qualsiasi cosa per un gabbiano, tu lo sai, vero?
STOP. EJECT.
Studio, salotto, sala da pranzo, ingresso, cucina. Luca mette un piede davanti all’altro, lasciando impronte umide in fila indiana. Cucina, ingresso, sala da pranzo, salotto e studio. È già la terza volta che va avanti e indietro, cercando di concentrarsi, provando a dare risposta alla domanda che ha in testa: come sarà stata o come sarà l’ala B del padiglione 18? Ormai ha capito che deve esserci una predominanza del colore rosa. Solo le camere di quelli che chiamano ospiti, o anche il corridoio è rosa, come nel suo sogno? Prova ad immaginare il tutto nel modo più classico, cioè un corridoio centrale, lungo e dritto e celle, stanze, come le si vuole chiamare, da una parte e dall’altra. Porte lucide, dotate di uno sportellino per vedere dentro e, all’interno, microfoni nascosti e forse telecamere. Tutto sotto controllo, tutto pulito. In fondo un altro corridoio, perpendicolare al primo, che porta a diversi ambienti, a destra i bagni, le docce, a sinistra una mensa e dopo una sala ricreazione. Gli continua a tornare in mente il manicomio di “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, ma sa che il caro zio Osvaldo deve aver fatto le cose più in grande e, a giudicare dalla casa in cui si trova, con un tocco vagamente più moderno, più una beauty-farm con le porte chiuse dall’esterno, visto che i manicomi sono stati aboliti. Troppe domande per un solo cervello. Perché gli sembra di conoscere un luogo del quale non gli hanno mai voluto parlare? E gli ospiti? Come sono arrivate lì quelle persone, che cosa si voleva da loro? Che cosa si voleva capire? Luca si blocca e a dallo sconcerto alla soddisfazione, al compiacimento e di nuovo allo sconcerto, visto che gli è sufficiente immaginare quale sarebbe stato il suo scopo, se fosse stato al posto di suo zio: un recinto, uno zoo personale, nel quale ritrovare nelle cosiddette aberrazioni umane l’unica umanità possibile, l’unico rifugio dalla banalità. Deve essere così, si convince Luca, io sento quello che lui sentiva e non siamo gli unici, altri se ne sono resi conto: per sfuggire alla follia, non rimane che rifugiarsi nella follia. Cucina, ingresso, sala da pranzo, si blocca, mentre un dolore fortissimo al polpaccio gli segna una smorfia sul viso. C’è una contrazione del muscolo e ancora dolore, è il crampo più forte che abbia mai avuto e gli scappa una violenta imprecazione, prima di perdere l’equilibrio e di ritrovarsi a terra, con il dolore aggiunto al fianco sul quale è atterrato. Stende la gamba, perché è così che gli hanno detto di fare da piccolo, quando aveva crampi nel letto e pare che la manovra funzioni, perché sente allentarsi la morsa. Lentamente si rimette in piedi e solo ora si accorge che intorno ci sono i pezzi di
vetro del vaso che si è portato dietro cadendo. Impreca di nuovo, poiché odia i contrattempi, odia doversi occupare delle cose più comuni, ma sa anche che non li più lasciare sul pavimento, con il rischio di camminarci sopra. Allora va in cucina e cerca una scopa, ma trova solo una paletta raccogli rifiuti. Esce sul balcone e ne trova una. Tutto pulito, niente frammenti sul pavimento. Luca comincia a sentirsi un po’ sporco e si dice che non gli avrebbero permesso di starsene così nell’ala B, ma lui ha il vantaggio di non essere un ospite, poiché adesso è suo lo zoo e non ha ancora conosciuto tutti gli animali che sono nelle gabbie. È per loro che sta pensando, mentre rientra nello studio, di non concludere lo spettacolo, come sovente gli piace definire un suicidio, di non interrompere la tournée prima del tempo come era sua intenzione nel momento in cui è entrato in quella casa. Ora gli attori sono di ottima qualità e il sipario può rimanere alzato, è già successo, solo che questa volta non c’è nessuna Shahrazâd a raccontare storie. Vuole godere fino in fondo di queste nuove sensazioni, soprattutto il senso di protezione, una certa sicurezza che non provava da anni, tutti ati a sentirsi circondato dal nemico. L’attesa: la sua nemica, la sua prigione. Voleva, con tutte le proprie forze, liberarsi dal continuo stare in attesa che accadesse il peggio: si feriva con un chiodo e si paralizzava in attesa dei sintomi provocati dal tetano; stava in attesa che qualcosa cambiasse, che l’umanità evolvesse nell’arco di una generazione; stava in attesa di nuovi ed illuminati governi, sempre troppo simili a quelli precedenti; aveva atteso la ione, l’innamoramento, un lavoro, la comprensione, i Pacs e la fine delle ostilità, mascherate da principi; stava in attesa di nuove liste, di nuove epurazioni e deportazioni, attendeva che, un giorno o l’altro, bussassero alla sua porta per portarlo via, insieme a quelli come lui, perché gli esseri umani sono stupidi, superstizioni, pecore condizionate e vogliono distruggere tutto ciò che non capiscono o li spaventa. Stava in attesa che il suo stare in attesa cessasse. E in questo susseguirsi, o meglio accumularsi di attese, vedeva i suoi giorni scorrere, le porte del suo animo chiudersi, innalzare muri di disprezzo a difesa dall’intero mondo, senza che nulla di rilevante succedesse e tutto si trasformava in un’unica grande attesa, quella di morire. Ma in questa casa, in compagnia di questi altri diversi, comincia a provare
comione per quello che si muove di fuori ed intravede possibilità di altri mondi e pensa che, se essere internati, disprezzati e perseguitati, serve a mantenere vivi questi mondi alternativi, forse il sacrificio vale la pena di essere sopportato, poiché sono gli angeli caduti che un giorno governeranno l’universo. Il tempo delle attese, forse, sta per finire.
Cassetta: OSP.1/18B-cc0284. PLAY.
Voleva fare il pompiere, la mia amica Marie. Diceva che da piccola aveva paura del fuoco e l'unico modo per riscattare questa sua debolezza sarebbe stato fare il pompiere. Si ricordava perfettamente quando tutto era cominciato e le piaceva ripetermelo ogni volta che poteva, quasi volesse giustificare quel suo desiderio che per me non era affatto stravagante. Io amavo rivedere quelle scene evocate ogni volta: è una ragazzina di cinque o sei anni quella che se ne va in giro per casa in un pomeriggio estivo. Suo padre è al lavoro e sua madre è andata a riposare, non perché sia stanca, ma le piace starsene quasi nuda sul letto, con le persiane socchiuse, a fumare e a pensare, allontanandosi per un po’ dal mondo. Marie è la vera padrona di quella casa, solitamente governata da adulti invadenti, che parlano di cose incomprensibili. Se ne va in giro, sposta un posacenere, apre e richiude il forno (lo sportello le sembra enorme e pesantissimo), ride, corre nel corridoio per poi subito assumere un’aria seria e composta, mette un dito davanti alla bocca e fa cenno al gatto di non disturbare. L’unica cosa che le preme è prolungare il più possibile quei momenti, non ha nessuna fretta di tornare la bambina di cui gli altri si prendono cura. Ma oggi c’è qualcosa di diverso che attira la sua attenzione: è un odore che ha sentito altre volte e che la porta in cucina, perché è proprio lì che la sua memoria lo colloca. Si guarda intorno, poi è di nuovo davanti al forno, lo osserva, come si osserva un oggetto alieno, lo apre con sospetto. Sorride alle pareti lucide e pulite, chiude il portello, inspira profondamente per cercare quell’odore, che sembra chiamarla da un’altra parte della casa. È piccola Marie ed ogni cosa si trasforma in gioco, così immagina di essere un cane che annusa l’aria, uno di quei cani da caccia di suo nonno, con il naso sempre umido. a di stanza in stanza, vorrebbe scodinzolare, ma non ha la coda, vorrebbe alzare le orecchie, ma vive tutte le limitazioni del non essere un vero cane. Poi si ferma, perché lì c’è sua madre che riposa, su un fianco e Marie non capisce quale sia la connessione tra l’immagine che vede e l’intensità dell’odore che ora è molto più forte. ano pochissimi secondi e, anche se non capisce come una sigaretta accesa possa essere finita tra le pieghe del lenzuolo e come una parte del letto abbia preso fuoco, per istinto comincia gridare, proprio mentre una fiammella sta per entrare in contatto con la sottoveste di sua madre. La donna scatta in piedi frastornata dalle grida, poi urla a sua volta e sono attimi
di confusione, sembra che l’intero edificio sia in fiamme, che le tende, la poltrona imbottita, gli scendiletto siano in fiamme, che i vestiti schizzino fuori dall’armadio a muro anch’essi in fiamme. In realtà sarà sufficiente l’acqua contenuta nel vaso di cristallo con fiori, che è sopra il comò, per spegnere il piccolo fuoco al suo inizio. Un po’ di spavento e qualcosa da raccontare e su cui ridere, ma per Marie quello è stato un vero incendio e, ripete ogni volta, anche un fornello basta a terrorizzarla. Per questo voleva fare il pompiere e aveva voluto anche imparare a fumare, senza, però, mai riuscire ad usare un accendino. Quanti silenzi eloquenti tra noi, quante sigarette! Lei apriva sempre un libro di poesie, tenendolo in mano quasi fosse di vetro soffiato ed iniziava a leggere, leggeva piano, mentre quelle pagine sembravano moltiplicarsi, evocate dalla sua voce. Aveva il talento della narratrice. Ogni tanto si interrompeva, alzava gli occhi e mi sorrideva. Io le carezzavo una guancia e lei riprendeva a leggere. Per noi le parole rinnegavano il loro reale significato. Le nostre anime avevano inventato una linea privata di comunicazione, oppure si davano appuntamento a mezz'aria, tra il fumo delle sigarette. Ce ne stavamo da sole: io, abbandonata per terra, con gli occhi seguivo il profilo del suo volto; lei, con le gambe incrociate, leggeva. Aveva un modo tutto suo di chiudere quel libro, lo faceva lentamente, come se stesse metabolizzando gli ultimi versi. Al momento giusto (era esattamente il momento giusto) si avvicinava, sapendo benissimo che non avevo più forze e che non avrei opposto la minima resistenza. Ma non volevo opporre resistenza! Al contrario, ogni volta aspettavo fino a quando la sua voce non mi sarebbe bastata più. Allora chiudevo gli occhi e la sentivo liberarsi dai vestiti. Riaprivo gli occhi ed era lì, nuda in mezzo alla stanza, che annusava l’aria, come faceva da bambina, ma questa volta stava cercando il mio odore e a me venivano i brividi, mentre mi spogliavo, al contrario di lei, rapidamente, incapace di aspettare e di giocare al gioco della seduzione. Solo brividi e desiderio di contatto, solo voglia di sudarle addosso. Ce ne stavamo da sole, l'una di fronte all'altra, i seni di una che comprimevano i seni dell'altra e la bocca di Marie sulla mia bocca, sul mio collo, sulle mie spalle. Perse, nella penombra della nostra stanza, ci sfioravamo, come foglie mosse da un vento immaginario. I nostri capelli si bagnavano e le nostre vite scomparivano: niente lavoro, né orario, né colleghi rompipalle. Nessuna telefonata, nessuna cena o dopocena, nessun “civediamoperuncinema”, niente file alla posta, nessuna conversazione banale sull’ultimo sciopero, nessuna
opinione sul talento di questo o quest’altro attore. Scomparsi i ticket sanitari, gli incidenti del sabato sera, le elezioni, gli attentati, la fame nel mondo, l’artrosi della zia di turno, le mestruazioni e chi-se-ne-frega-della-mucca-pazza! Fanculo il mondo! Noi ci scambiavamo parole che ci facevano arrossire ed, infine, io cercavo il suo sguardo tra i capelli scomposti di lei, immobile, su di me immobile. Marie leggeva poesie e sapeva sempre cosa dire, mentre io non sono neanche riuscita a gridare qualcosa di sconnesso, eppure era la sola cosa che avrei voluto fare… perché l’amavo e perché improvvisamente tutto è ritornato: gli attentati, le elezioni, i ticket sanitari… è ritornato l’intero universo, pieno di amici comprensivi, che ti capiscono e che “fattiforzamagariunadiquesteserecivediamoperuncinema”. Ma nei cinema non si può gridare, la gente è lì per vedere qualcosa, per mangiare popcorn, per telefonare, per commentare, ma, accidenti a te, se ti metti a gridare succede un casino, ti azzittiscono, qualcuno ti insulta anche. E a che serve spiegare che non te ne frega niente di quel film per idioti e che non sai perché sei lì, mentre l’unica cosa che vorresti fare è vomitare fuori il dolore, se quelli continuano ad insultarti e magari chiamano l’uomo che spezza i biglietti, che tenta di farti uscire a forza, mentre i tuoi amici comionevoli sono imbarazzati e pieni di odio nei tuoi confronti; e magari tiri fuori quella pistola che avevi comprato “nel caso mi venga voglia di farla finita” e magari per una settimana sui giornali ci si domanda come mai una donna a metà del secondo tempo si è messa a sparare in un cinema pieno di gente e… magari qualcuno trova anche una spiegazione plausibile per tutti quei morti. Morti? Mi dispiace, ma l’uso del plurale è un errore e poi è necessario il femminile… Ecco, la parola giusta è “morta”, perché su questo pianeta solo la morte di Marie mi tocca, unico abbandono, senza spiegazione. Voleva fare il pompiere. Diceva che da piccola aveva paura del fuoco e l'unico modo per riscattare questa sua debolezza sarebbe stato fare il pompiere. Io lo so… lei e il fuoco… eccome se lo so, Marie è terrorizzata dal fuoco… non riesce neanche ad usare l’accendino e sono io che accendo le sue sigarette, che le o dalla mia alla sua bocca… lo so, ma proprio non ci riesco. Anche stanotte, come tutte le notti, sto ferma, mentre vedo la sua bara scorrere verso l’entrata del forno crematorio e so che lì c’è il fuoco e so che a Marie non piace il fuoco… Sto ferma con la bocca spalancata e non riesco a gridare.
STOP. EJECT.
Fermo, questa volta! L’ordine è di non uscire dallo studio, neanche se ci fosse un terremoto. Per il momento non si presentano altre necessità oggettive e non ha neanche bisogno di andare in bagno, cosa che normalmente fa spessissimo. Forse un accenno di fame, ma può resistere. Spalanca la bocca, fingendo l’impossibilità di emettere suoni, la apre il più possibile fino a quando la mascella non scricchiola. Prende fiato e lancia un urlo potente e prolungato che si spegne come l’ululato di un cane ferito. Subito un’altra cassetta, per non perdere in inutili opera-zioni di vita quotidiana la tensione delle proprie sensazioni.
Cassetta: OSP.11/18B-cc1024. PLAY.
Al assetnoc Scartecchi, olleuq onrevni erpmes atadderffar, ellov anu ares erettem ni acitarp al acitna aznasu, iamro atacitnemid, id erad itnevotnec iploc id alozzaps ia ihgnul e irucs illepac, amirp id eradna a ottel e amirp arocna id ilragel. Etnematnel eslot al ailgatsev id enif e ataciled aznagro, esim li oniloigges alla atsuig aznatsid e is ettedes, atnetta da erative li eioigatrop a amrof id ognuf, ehciop, ni atirev, li ous osan are iassa ognul. Is odraug, asselfir ollen oihcceps allad ataisratni ecinroc, oirporp emoc nu opmet avecaf aus annon, al assetnoc Beatrice. Is ovort alleb de nu otimerf id aioig el itrap lad olloc, orepus i isoredop ines e is esneps otsuase lus ertnev ollom. Euqnuvo is ecef oiznelis. Al assetnoc orreffà al alozzaps noc onam arucis, isauq essof anu amra atarod id acitna aruttaf, iop nu opmal id oilgogro euqcan ien ious ihcco e ellen ebmot onoratlussus i irevadac elled etnufed essetnoc Scartecchi. Orrefs li omirp oploc aznes oigudni en aruap, anu attevic orlù e ennevs allen etton arucs, iceid illertsipip iceid etlov onorirotrap art i irolod e lad oniciv ogal onoralase inarts de inacra irodo. Al assetnoc ounitnoc a eriploc noc roiggam aznetop, nu oploc opod ol ortla, emoc avadnamoc al acitna aznasu. Edeid itnevotnec iploc id alozzaps, non onu id uip en onu id onem: itnevotnec etatsurf, itnevotnec inimluf a leic oneres. Odnauq ebbe otatnoc onif a itnevotnec oicsal eredac al acnats onam e, id ovoun, is ovressò olla oihcceps noc eraf onatraps. Arolla orrabs ilg ihcco, noc li otlov id erorro otnipid, ehciop ni alleuq acilobaid
atnoc olos al enoizidart aveva otniv. Non ellov erederc, eppur ol oihcceps, odnecidelam alleuq etton astenuf, esnaip etnematarepsid, etnemetneloiv esnaip, odnanilcer al elibon atset e uf isoc ehc nu olos, otazzilativir ollepac eddacir allus aus etnorf assab, ertnem al anul onimullì li oinarc iamro oicsil alled assetnoc. Al assetnoc Scartecchi is are atad itnevotnec iploc id alozzaps, onu da onu, am i ious illepac nare onutnevotnec. Onutnevotnec nare illepac ious i am, onu da onu, alozzaps id iploc itnevotnec atad are is Scartecchi assetnoc al. Assetnoc alled oicsil iamro oinarc li onimullì anul al er-tnem, assab etnorf aus allus eddacir ollepac otazzilativir, olos nu ehc isoc uf e atset elibon al odnanilcer, esnaip etnemetneloiv, etnematarepsid esnaip, astenuf etton alleuq odnecidelam, oihcceps ol eppur, erederc ellov non. Otniv aveva enoizidart al olos atnoc acilobaid alleuq ni ehciop, otnipid erorro id otlov li noc, ihcco ilg orrabs a-rolla. Onatraps eraf noc oihcceps olla ovressò is, ovoun id, e onam acnats al eredac oicsal itnevotnec a onif otatnoc ebbe odnauq. Oneres leic a inimluf itnevotnec, etatsurf itnevotnec: onem id onu en uip id onu non, alozzaps id iploc itne-votnec edeid. Aznasu acitna al avadnamoc emoc, ortla ol opod oploc nu, aznetop roiggam noc eriploc a ounitnoc assetnoc al. Irodo inacra de inarts onoralase ogal oniciv lad e irolod i art onorirotrap etlov iceid illertsipip iceid, arucs etton allen ennevs e orlù attevic anu, aruap en oigudni aznes oploc omirp li orrefs. Scartecchi essetnoc etnufed elled irevadac i onoratlussus ebmot ellen e ihcco ious ien euqcan oilgogro id opmal nu iop, aruttaf acitna id atarod amra anu essof isauq, arucis onam noc alozzaps al orreffà assetnoc al. Oiznelis ecef is euqnuvo. Ollom ertnev lus otsuase esneps is e ines isoredop i orepus, olloc lad itrap el aioig id otimerf nu de alleb ovort is.
Beatrice assetnoc al, annon aus avecaf opmet nu emoc oirporp, ecinroc ataisratni allad oihcceps ollen asselfir odraug is. Ognul iassa are osan ous li, atirev ni, ehciop, ognuf id amrof a eioigatrop li erative da atnetta, ettedes is e aznatsid atsuig alla oniloigges li esim, aznagro ataciled e enif id ailgatsev al eslot etnematnel. Ilragel id arocna amirp e ottel a eradna id amirp, illepac irucs e ihgnul ia alozzaps id iploc itnevotnec erad id, atacitnemid iamro, aznasu acitna al acitarp ni erettem ares anu ellov, atadderffar erpmes onrevni olleuq, Scartecchi assetnoc al.
STOP. EJECT.
Prima di buttarsi sulla dormeuse, ha voluto riascoltare altre due volte l’ultima cassetta, che inizialmente lo aveva un po’ impressionato, a causa di un certo gusto per l’horror che si porta dietro da quando a memoria. Gli era sembrato di stare ad ascoltare un qualche indemoniato in attesa di esorcismo, qualcuno posseduto che pronuncia parole in una strana lingua morta, che solo un esperto avrebbe potuto decifrare. Per qualche minuto si è soffermato a riflettere sulla possibilità di essere nel corpo di un altro. Ovviamente non gli è ato minimamente di identificarsi con il posseduto, sicuramente gli interessa più il punto di vista di chi entra in una persona, ne prende il controllo e ne assume le sembianze. A lui questa idea è sempre piaciuta e l’ha elaborata, coccolata, portata in superficie, ogni qualvolta ne ha avuto occasione. Al mare per esempio, la sua attenzione è sempre stata catalizzata dai corpi maschili di ultima generazione, ovvero quelli costruiti a tavolino, programmati per essere più guardati che usati. Luca avrebbe voluto trasferirsi in uno di quei corpi, vivere per una volta il delirio di onnipotenza che procura la consapevolezza di essere bello. Forse è da questo che deriva la sua ostilità verso le possessioni demoniache classiche, poiché, in quel caso, lo spirito maligno tende a trasfigurare la parte fisica dell’involontario ospite, distruggendola, mentre Luca vorrebbe avere la capacita di una pacifica possessione, come gli piace definirla. Da adolescente fantasticava di ritrovarsi nel corpo di una donna bellissima ed attraente, su tutte le possibilità di seduzione che avrebbe avuto e su come gli uomini sarebbero caduti ai suoi piedi. Non sarebbe stata una donna virtuosa, non una di quelle per niente consapevoli del proprio potenziale e alla ricerca di un unico uomo da amare. Al contrario, già a quella età, gli pareva evidente che la stragrande maggioranza degli uomini ci sta sempre, vuoi perché il sesso per loro è esercizio fisico, vuoi perché dotati di un bieco orgoglio che non permette defezioni, quindi lui, nel suo sfavillante corpo di donna, si sarebbe dato a chiunque fosse stato disponibile, privilegiando i giovani robusti, ma senza deludere tutti gli altri. ava intere ore ad immaginarsi a gambe aperte, mentre file di uomini si davano il cambio. Si masturbava con la testa carica di quei pensieri, nell’alternarsi di tutte le facce maschile che riusciva a memorizzare nelle sue giornate di ragazzino. Crescendo, la donna-involucro è stata sostituita da un irresistibile maschio-gay-involucro. La seconda volta che la ascoltata, è riuscito a capire che nella cassetta le parole erano semplicemente pronunciate al contrario e la terza volta ne ha afferrato il senso, comprendendo con una certa delusione, che si trattata di una stupida filastrocca. Però ora è anche un po’ seccato, poiché questo ultimo amico (o
amica, questo non lo sa), non ha rivelato niente di sé che possa essergli utile e si chiede quale interesse nutrisse suo zio verso l’ospite della filastrocca al contrario. Smette di pensarci. Si abbandona semplicemente, socchiude gli occhi che di tanto in tanto riapre per farli ruotare alla ricerca di immagini. Osserva la stanza, per quello che gli è possibile vedere da quella posizione: libri, l’uno accanto all’altro, libri in orizzontale, l’uno sull’altro, nessun quadro, nessuna fotografia, nessun oggetto che possa rimandare a qualche viaggio o qualche premio vinto, nessun particolare rivelato, nessuna finestra, come si addice ad una vera monade, eppure lì dentro c’è tutto quello che si deve sapere, persino il silenzio la dice lunga. L’essere lì è logico e ha un senso tutto suo per Luca, il quale si sta ora domandando se ciò che lui vede e sente avrebbe lo stesso effetto sulle persone che conosce: che reazione avrebbe avuto sua madre, o sco , Andrea, Paolo, Carla? Probabilmente, pensa, si sarebbero compiaciuti per lo stereo, piuttosto che per l’arredamento, sua madre avrebbe pensato immediatamente al valore commerciale dell’immobile e sco avrebbe formulato pensieri di idilliaca convivenza. Forse ha solo dei pregiudizi, ma vuole fidarsi delle proprie conclusioni, la modestia e la fiducia verso il prossimo non lo ha mai portato da nessuna parte e c’è voluta la morte di suo zio, per aprirgli un mondo. È così che succede, qualcuno muore o qualcosa finisce per permettere ad un essere umano o ad una situazione di evolversi. Bene, decide, se ci sono solo libri, darò un’occhiata ai volumi, tanto per prendermi una pausa, senza allontanarmi da questo luogo sacro. Riesce ancora a mantenere una certa autoironia. Si alza e si mette a curiosare tra gli scaffali, piegando la testa ora verso destra, ora verso sinistra, per leggere i titoli. Ci sono libri che non avrebbe mai pensato che qualcuno potesse pubblicare, come una Storia delle Erezioni Mancate e Gli Abiti delle Monache da Santa Caterina ai Tempi Moderni. Altri li conosce, li ha letti e li ritrova, saltando da una sezione all’altra: Anatomia della Distruttività Umana gli rammenta il vecchio Fromm dei suoi diciotto anni, che tanto lo aveva impressionato per quel suo modo familiare di spiegare certe cose; c’è il Libro Tibetano dei Morti, un saggio sulla psicosintesi di Assagioli, un altro sulla psicologia transpersonale di Wilber, strane frequentazioni, che ai suoi occhi fanno acquistare punti alla figura semisconosciuta dello zio. Continuando il giro, ritrova con una certa sorpresa, I Neoplatonici di Settembrini e persino un libro bizzarro dal titolo lungo che gli era piaciuto particolarmente, di una certa
Catalina de Erauso, Storia della Monaca Alfiere Scritta da Lei Medesima. Una lesbica di altri tempi, vissuta a cavallo tra il 1500 e il 1600: monaca, fugge dal convento nel quale è vissuta per anni, veste abiti maschili e vive da soldato in Cile e Topoán, infine ottiene da Filippo IV la concessione ad essere riconosciuta come uomo. Così cambia nome e si dà al commercio in Messico. Luca ricorda di aver adorato questo piccolo libro e, il ritrovarselo lì, gli sembra vada al di là della semplice coincidenza e rafforza quella sensazione di misterioso legame con Osvaldo Socrates. Si blocca, poiché lo sguardo gli cade su un titolo che conosce fin troppo bene, ma che aveva come rimosso, L’Opera al Nero, della Yourcenar. Sono ati molti anni da quando lo ha letto ed è sicuro che deve avercelo da qualche parte, forse tra i libri che sono ancora a casa dei suoi e che non ha voluto portare nella sua nuova vita di ragazzo gay indipendente. Forse lo ha voluto lasciare là, poiché quello è il posto dove eventualmente sarebbe tornato, una volta costruita una personalità più solida, con alle spalle il o morale di una nuova appartenenza e di una “famiglia altra”, pronta ad accoglierlo, nel caso il sangue del suo sangue non lo avesse riconosciuto più come tale. Estrae il libro dallo scaffale, è una edizione relativamente nuova, lo annusa per sentire il piacevole odore della carta, che ne evoca un’incompleta trama per immagini mentali, mentre gli è chiara la figura di Zenone e quella sua frase che pensava di aver dimenticato e che ora ritorna, come se la stesse leggendo: “chi sarebbe così insensato da morire senza aver fatto almeno il giro della propria prigione?” Le illuminazioni arrivano improvvise ed inconsapevoli, sono fulmini a ciel sereno, senza nessuna volontà di programmazione. Non riesce a spiegarsi come, ma è convinto che, in qualche modo, suo zio sapesse che, ad un certo punto della vita, lui avrebbe voluto andarsene da un mondo che sente estraneo e, senza una ragione apparente, gli ha voluto fornire un degno palcoscenico per il suo finale. Ha fatto di più, gli ha dato anche l’occasione, i mezzi e le giuste amicizie, per compiere un giro di quella dimensione psichica che è da sempre la sua prigione, in modo da poter capire e poter scegliere consapevolmente. Le motivazioni di Osvaldo Socrates sono forse scritte sui muri di questa prigione, ma ci sono ancora troppe ombre, per poter leggere bene. Forse non c’è niente da scoprire ed è per questo che bisogna andare avanti.
Tutto ciò gli sembra grandioso, convincente e pieno di una logica scevra da ogni possibilità di coincidenze, però, ammette con se stesso, potrebbe trattarsi solo di semplice, pura follia. Rimette il libro al suo posto e ritorna verso le ultime due cassette da ascoltare.
Cassetta: OSP.7/18B-cc0416. PLAY.
Mi sveglio in piena notte. Fuori le mura una città indolente, dimenticata. Fisso lo sguardo contro la grata che mi fa da tetto. Roteo gli occhi. Una lastra di lino grezzo preme su di me. Che silenzio! Qualcuno tradisce un respirare pesante. Si intravedono corpi distesi, illuminati da una luce azzurrognola, come morti all’obitorio. Quando sogno, sogno un rettangolo di cemento, calpestato, battuto da scarpe deformate. Battere il o! Regolare, perfezionare, provare e riprovare... provare che? Apro gli occhi. Quello che sta nella branda 71, sembra che voglia cadere, sarebbe un bel botto, ma rinuncia al suo tuffo e torna a sognare. Mi si spalancano le palpebre in piena notte. I miei polmoni sono saturi di aria pesante, aria respirata e respinta per vie traverse, aria riciclata. Scendo dalla branda, mi avvio verso il corridoio. (Attento che sbatti!) Una forte luce al neon mi chiude gli occhi. Per un attimo mi sembra di vedere un volto deformato... ma non ho visto niente. Schiudo le palpebre. Le mie pupille si contraggono spaventate, fino a divenire due minuscoli punti neri, si dilatano un po’, per contrarsi di nuovo. (Un due, un due, un due!)
Pesantemente le gambe trascinano il corpo lungo il corridoio. Mi arresto. Scuoto la testa. Barcollo. Proseguo. Mi dico: “Deve essere così che gli elefanti vanno verso il proprio cimitero”. Il corridoio sembra l’interminabile galleria di un museo spoglio. Mi sembra di intravedere una statua scura, quasi un’ombra disegnata sul muro. Non sono mai stato in un museo e non ho mai letto libri d’arte. Al mio paese non si ha il tempo per leggere libri. Al mio paese gli uomini lavorano. Al mio paese a nove anni si è già uomini. La statua si è accorta della mia presenza: - Dove vai a quest'ora? Finalmente la riconosco. Il museo scompare, torna il corridoio. - Dove vai sonnambulo? - ripete il piantone seccato. - Al cesso! – rispondo e non c’è altro da dire. (Un due, un due, un due... alt!) Le gambe si fermano davanti ad una fila di lavabi. Li guardo, mentre un odore acre mi entra nelle narici, fino alla gola. Silenzio. Ho come l’impressione che quel luogo non venga visitato da secoli. Eppure, qualcuno prima di me ha lasciato una traccia di sé. Due mosche giocano sui resti del ato. Mi osservo in uno specchio rotto. Non mi piace molto quello che vedo e proseguo in un’altra direzione. L'odore acre mi scuote il cervello. Mi ritrovo in uno dei gabinetti, grande appena da permettermi di chiudere la porta. Il mio corpo si sta riavendo dal torpore. Sento premere nel basso ventre e voglio liberarmi, non desidero altro. Per qualche secondo, me ne sto ad osservare la minuscola cascata che si getta nella pozza schiumosa. Cerco di respirare il meno possibile. Mi sto liberando, svuotando, riprendo vita... cade l'ultima goccia. Cerco di chiudere il pigiama. Mi sfioro. Qualcuno dentro di me urla. Qualcun altro mi sussurra nel cervello:
“Sei solo soldato, drogato dall’odore di urina. Vorresti uscire, vorresti fuggire, ma hai già calato i pantaloni del tuo pigiama e ti sei slacciato la giacca. Vorresti gridare, ma sai che non è permesso, vorresti... dimmelo tu cosa vorresti!” Sto poggiato ad una parete con i muscoli tesi, nella luce del neon, mi sembra di tremare, ho anche un brivido, uno di quelli rapidi. Reclino la testa e chiudo gli occhi. Lascio scorrere nella mia mente le immagini di certe riviste, quelle proibite, quelle già lette. Guardo le mie mani, non ci avevo mi fatto caso, ma sono ampie. Le tengo sempre pronte a colpire, violente, ma stavolta me le o delicatamente sulle cosce. È da non crederci, ma mi sto sfiorando, mi sto esplorando. Immagino di essere esplorato. I capezzoli, il busto, il pube e giù, fino agli inguini: nulla è dimenticato. Nulla è trascurato. Ho la lingua, coperta di saliva, che si affaccia dalla bocca. Ancora qualcuno sussurra: “A cosa pensi, soldato? Cosa cercano le tue mani? Ti senti toccato o sei tu che tocchi qualcuno?” L’afrodisiaco e disgustoso odore di urina brucia nelle narici ed io accelero i movimenti, sicuri, calibrati movimenti di un esperto. Preso! Ce l’ho in mano che pulsa, quasi mi implora di non fermarmi! Sento dire, ma non so da dove: “Muoviti soldato! Muoviti soldato! Muoviti soldato!” E mi sembra di sdoppiarmi, di vedere me stesso in quel cesso: poggiato alla parete, il pigiama calato, i muscoli contratti, il labbro inferiore tra i denti. Se ne sta là il soldato. La sua mano si agita, il suo braccio si gonfia per la fatica. Più lento! Ecco così. Ora più veloce, ma non troppo, ancora un po’. Attento!, ti sfugge l'immagine... bene, l'hai presa di nuovo! Sdraiata su quel letto di bordello, aspetta solo te, soldato, aspetta solo di essere posseduta. Tu le sei già sopra. Ti piace sentirla ansimare, agitare, afferrarti i glutei, mentre tu spingi, spingi nella sua carne! La mano è veloce nella sua ritmica follia. Il braccio mi fa male. Non importa!
Mi si accartoccia il cervello dal dolore e dal piacere, ho i muscoli gonfi e sudati. Forse è troppo… Niente barriere! In questo cesso che è ora il mio unico mondo, tutto è permesso! Mi arrivano immagini di cose fatte, di seni succhiati, stritolati dalle mie dita. Niente barriere! Tutto è permesso! Mi arrivano immagini che non si possono dire neanche agli amici, represse, illegali! Violenza, stupro, sodomia, sangue e saliva, saliva dappertutto, stivali, divise strappate, marce infinite e culi frustati di reclute, puttane minorenni, puttane vecchie e storpie, froci presi a calci che ti succhiano l’uccello e ancora saliva che scivola giù! Niente barriere! Tutto è permesso! Sempre più veloce la mano, veloce, veloce. Mi brucia! Devo rimanere concentrato… ancora un po’… veloce veloce veloce. Eccolo! Mi brucia di più, dai, dai dai! Dai… Non sento più niente, sono tutto sudato e ho il cervello scollato. C’è puzza. Non riesco a muovermi e soffoco… Fatemi uscire! Capitano, la prego, voglio uscire… Possibile che nessuno mi sente! Il cesso mi tiene prigioniero, il cesso mi impedisce di camminare, di respirare… mi vuole rinchiuso… mi vuole spiare mentre lo faccio… Mi sentite? Sono nel cesso… Piantone chiama gli altri… io non ci posso stare qua dentro, vedo troppe cose e… cose ancora… non ci posso stare, vi prego. C’è nessunooooo?
STOP. EJECT.
Il tempo sembra essersi bloccato, eppure Luca sa che fuori da lì i minuti hanno continuato ad inseguirsi incessantemente. Da ragazzino rimaneva ore a disegnare spirali su un foglio bianco, oppure riscriveva decine di volte il proprio nome, canticchiando una nenia che inventava sul momento. Gli sembrava di fermare il tempo, che niente esistesse più, tranne la sua mano, la penna ed il foglio. Poi qualcuno entrava nella stanza, per avvertirlo che il pranzo o la cena erano pronti e l’incanto si spezzava. Probabilmente è in quel periodo che è cominciata la sua recita: voleva pensare ai massimi sistemi, ma tutto intorno a lui lo voleva bambino, così, pur non comprendendo il mondo che lo chiamava a sé, ha cominciato, forse inconsapevolmente, a stare al gioco. Evidentemente è ancora troppo vittima della sua stessa recita, poiché, nonostante cerchi di esercitare un qualche controllo, le sua abitudini riprendono vigore e cominciano a farsi sentire. Per prima cosa, ha bisogno di recuperare l’orologio, lasciato su uno dei divani, poi deve andare il più presto possibile in bagno, anzi, sarebbe meglio fare questo prima dell’orologio e, infine, il telefonino, quella strana, familiare appendice dotata di un piccolo cervello, nel quale sono memorizzati tutti i sui contatti. Ha spesso pensato con terrore alla possibilità che gli venisse rubato e che lo potesse perdere in una delle tante serate in discoteca, non avrebbe più potuto comunicare con nessuno, tranne che con quelle pochissime persone di cui ricordava il numero: un evento così probabile e allo stesso tempo così invalidante. Si alza ed esce dallo studio. Si accorge che il sole non è più alto, nonostante non abbia aperto le finestre dal giorno prima. Vede da lontano l’orologio, ma prende a destra, a sotto la scale e trova un bagno, più piccolo di quello di sopra, evidentemente per gli ospiti, ci si chiude dentro. Ne esce dopo un po’. Tenendo le gambe strette e dritte, le punte dei piedi attaccate, si piega in avanti, facendo forza sul bacino e provando a rilassare le spalle e il collo, fino a quando non tocca il pavimento con le dita. Se ne resta così qualche minuto, poi flette le gambe e comincia a tirarsi su. Per qualche istante, ha una sensazione di svuotamento e piccoli bagliori morenti appaiono ai bordi del suo campo visivo. “Adesso va meglio”, dice ad alta voce e si sorprende di quante volte si conceda il lusso di parlare da solo, quasi gli pie ascoltarsi. Dopotutto quella è la casa di uno psichiatra, lui sta ascoltando le confessioni rubate ai probabili pazienti di una qualche clinica e i matti parlano spesso da soli, quindi tutto torna. Allora
perché non continuare? “Vediamo, vediamo”, fa rientrando nello studio e andando a riprendere il telefonino nel cassetto dove lo aveva infilato, “tu vorresti che io ti riattivassi, non è vero? Mi prometti, però, che non ti metti subito a fare la lagna?” Il cellulare tace : “Vabbè, niente promesse che potrebbero non essere mantenute”. Lo riattiva, digita il pin e se lo porta dietro, verso il recupero dell’orologio. È più tardi di quanto pensasse, evidentemente le giornate devono essersi allungate. Lascia l’orologio di nuovo dove lo ha trovato e pensa che forse farebbe meglio a rientrare nello studio, anche se gli è rimasta una sola cassetta e l’idea che non ci siano altri da ascoltare gli procura una certa inquietudine. Ci sono percorsi nella vita che non ci permettono di ritornare indietro, poiché quello che abbiamo lasciato non riusciamo più a riconoscerlo come nostro. Sono ati un paio di giorni e per Luca le pizze e le birre con gli amici, la piscina con i suoi corpi, le serate interminabili a discutere tutti insieme su come affrontare il più banale dei futuri possibili, il sesso con sco e tutto quell’essere come il resto del mondo, sembrano situazioni lontane, peggio, vissute da un altro. È come se solo ora si fosse staccato dal foglio, dalla sua firma ripetuta ossessivamente e da tutte quelle spirali. In mezzo, non il deserto, come molti dicono per indicare una situazione negativa, non mistiche distese di sabbia, tramonti inimmaginabili in cui l’anima si espande, no!, pensa Luca, in mezzo solo l’inutile folla. “Fame, fame, fame, ultimo residuo di una umanità che non riesco a scrollarmi di dosso… forse hanno ragione, quelli che mi sentono dire certe cose, a definirmi uno stronzo di prima categoria”, se la ride, entrando in cucina, “ma Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno!” Potrebbe farsi una pasta, ma non ha voglia di cucinare e gli porterebbe via del tempo, ci sono anche due uova, ma sembrano starsene in frigo da secoli e anche quelle andrebbero cucinate. Trova un pacco di crostini e apre una scatola di tonno sottolio, come ha già fatto il giorno prima, giusto per mettere qualcosa sotto i denti. Mangia avidamente e di fretta. Per un momento ha una visione di sé dall’esterno e non sa se ridere o piangere, ma stranamente si piace e, non sa perché, gli ricorda un qualche quadro di Schiele e si potrebbe intitolare Maschera Tragica di Uomo Nudo con Tonno. Lascia tutto sul bancone e si riavvia verso lo studio. ando davanti al suo zaino, si ricorda di avere ancora materiale per una canna, però non ha voglia di
mettersi a prepararla e prosegue per la sua strada. Ha un brivido, ma non pensa minimamente di mettersi qualcosa addosso, invece torna indietro, esce sul balcone della cucina e riaccende la caldaia. “Ci sarà il modo accendere il riscaldamento dall’interno?” si chiede, mentre, voltandosi, si accorge che si è fatto buio. Ingoia aria fresca. Una vibrazione nella mano attira la sua attenzione. Rientra.
NUOVO MESSAGGIO. LEGGERE? OK. -Luca, fa una telefonata a tua madre. Ciao Papà.CANCELLARE MESSAGGIO 1?. OK. “Non ci posso credere, perdio!” Sbatte il telefonino sul tavolo di cristallo del salotto e si precipita nello studio, chiudendosi la porta alle spalle. Afferra avidamente l’ultima cassetta, guidato da un qualche istinto di sopravvivenza e, mentre la posiziona, dice: “Almeno io devo salvarmi.”
Cassetta: OSP.12/18B-cc0501. PLAY.
È sera e io sono solo, completamente solo e forse ci rimarrò, devo rimanerci e riuscire a conquistare una serata tutta per me. Per questo mi metto seduto buono buono sul bordo del letto e aspetto che spengano le luci, così l’oscurità mi avvolge come una coperta calda, come una schiuma densa , una specie di isolante protettivo attraverso il quale non a né il caldo né il freddo, non a il mondo e nessuno viene a trovarti. Poi mi dondolo per un po’, questo mi rilassa, mi stordisce ed evita certi pensieri ricorrenti, certe immagini evocative che sono come una porta, una porta che stasera devo tenere chiusa. Ci provo tutte le sere, ma stasera deve rimanere chiusa. Allora, mi siedo sul bordo del letto e aspetto che spengano le luci, poi mi dondolo nel buio e inspiro anche, con la bocca in posizione di bacio. In effetti, più che inspirare, succhio, succhio l’oscurità, perché intorno a me è un ottimo isolante, ma la porta è dentro e, sono sicuro, che succhiando l’oscurità, riuscirò ad isolare anche la parte interna di me. Voglio uscire! La sera è necessario essere solo, fa bene non avere contatti, poiché continuamente si ascoltano storie, si mangia con gli altri e poi ci sono i colloqui con chi ti vuole aiutare e ti capisce, ci si lava anche, ma mai da soli. Solo la sera è il momento migliore, chiuso e solo nella mia scatola chiusa, chiusa sopra e sotto, un meraviglioso cubo. Cocco di mamma, cocco di mamma… Questa sera deve essere diverso, nessuna alternativa, anche se mi sembra di averlo detto anche ieri e l’altro ieri, ma oggi è diverso… sono in ritardo con le luci o sono io ad essere in anticipo, non importa, ci mettono troppo a spegnerle, è pericoloso metterci troppo… ma io ho anche la lettera, sì la mia lettera, questa me la lasciano tenere. La leggo e rileggo, quando non voglio pensare, una specie di mantra che potrei ripetere a memoria, ma preferisco leggerla ad alta voce, mi distrae di più: “Amore mio, anche se ci siamo sentiti per telefono un’ora fa, mi metto a scriverti, poiché così sento e credo sinceramente che faccia bene a tutti e due. Sono dovuta partire per lavoro in un momento in cui mi sei sembrato particolarmente turbato… ” Povero omuncolo turbato, è ora della sveglia!
Il mio mantra: “… particolarmente turbato e mi sono portata dietro un forte senso di preoccupazione, nonostante tu mi abbia ripetuto, fino allo sfinimento, che tutto era in ordine e che sarebbe ato presto. Questa sera, per telefono, mi sei sembrato sereno e ciò mi sarà di aiuto per affrontare questi ultimi dieci giorni di lavoro. Mi manchi molto. Mi mancano i tuoi sorrisi e mi mancano anche quei momenti in cui sembri essere distante e ti chiudi nel tuo studio, quasi volessi proteggermi dai tuoi pensieri. Ti ho voluto scrivere, e non sto a tediarti con il racconto delle mie giornate di lavoro, anche perché nei prossimi giorni, per motivi che poi ti dirò, comunicare in altri modi sarà abbastanza difficile e, per nulla al mondo, vorrei che tu ti sentissi abbandonato. Smetto, prima di diventare stucchevole. Ci vediamo presto. Ti amo, Sara.” Stucchevole, è una parola che non sentivo da tempo, una bella parola, veramente commovente. E no! No, no, così non va bene… io sono forte e questa, questa è la mia scatola! Bella stanza, davvero. Rosa, un colore adatto ad uno smidollato, ma intima, essenziale. Ho sempre avuto bisogno di intimità… Questa volta devo farcela! Tutto è così in anticipo e c’è ancora luce. Volete spegnere questa maledetta luce! Sparisci dalla mia scatola! La nostra scatola, vorrai dire! Sei un omino banale, sai? Non sopporto la banalità, è per chi vive come se fosse addormentato e tu, tu devi rimanere ben sveglio stasera, sveglio e lucido per me. Ti stanno sentendo, sai? Lo so, cocco di mamma, lo fanno tutte le sere e sanno pure che le pillole non fanno più effetto. Io adoro quella magica resistenza ai farmaci che si sviluppa nel tempo! Lo sanno, certo che lo sanno, ma se ne fregano… Sparisci, sparisci, sparisci! Benone, abbiamo preso coraggio, sei riuscito a parlare chiaro, lo hai detto: “SPARISCI!”. Vuoi che me ne stia tranquilla in un cantuccio, come una brava donnina remissiva... e già, a te piacciono le donnine remissive, eh? Ma ti sbagli, mio caro, quelle come me sono fatte di carne e sangue e quelli come te li stritolano con due dita. Dove hai messo la penna che hai rubato? Ah, sì, sotto il cuscino, eccola! Sanno anche di questo, ma devono pensare che sei proprio un verme innocuo se te la lasciano tenere. Purtroppo non c’è di meglio, mi truccherò con questa. Una bella linea sotto gli occhi, un po’ di inchiostro sul polpastrello, da are sotto il sopracciglio. Lo vedo, tu mi detesti! Eppure io ti amo, come tu mi ami, perché tu mi ami, vero? E che fai adesso? Non are le tue sudice mani sulla mia faccia!… Guarda… guarda come hai ridotto il mio trucco!... Chi credi di essere?... non pensare di poter fare il comodo tuo!... Basta, basta! Il mio trucco, ora dovrò ricominciare tutto daccapo, sei un idiota… Combatterò, a costo di sbattere la testa contro il muro e a questo punto arriverà
qualcuno. Vorrei che tu andassi all’inferno, perché mi fai schifo e poi io non ti amo, io ti odio, ti odio e voglio restare solo, perdio! Dici anche cose idiote. Pensieri malati i tuoi, mi viene da ridere... Enrico è malato mammina Enrico è malato, malato… Ti piaccio, truccata così? Avanti, ti ascolto, continua pure a sputarmi addosso parole... il buon Dio è per questo che mi ha fatto le orecchie... e già, per quale altra ragione sennò? Non certamente per ascoltare il canto degli uccelli o il lamento di un neonato... Cristo!, quanto vorrei avere intorno dieci figli che piangono, i panni da lavare, la carne sul fuoco... la carne va cucinata ben cotta... lo sapete benissimo che odio il sangue… non metterò più piede in questo ristorante... e no! Me ne sarei accorta in tutti questi anni, eccome se me ne sarei accorta... il buon caro barbuto Dio mi ha fatto le orecchie, ha costruito con le sue mani divine la cartilagine intorno a questi buchi laterali, solo perché io ascoltassi nel tempo lo stesso copione, recitato da un attore di infimo livello! Con qualcuno ti riusciva pure la commedia, come con quella forma elementare del tuo amico Guido, ma con me è decisamente diverso… È il mio amico... io non ho molti amici… Guido è un buon amico... penserà che sono diventato matto… forse non vorrà più vedermi, lo sanno tutti che la gente non fa amicizia con i matti, dei matti si ride, non si diventa amici… Devo parlargli subito… Me lo dicono in tanti che ho un bel corpo, anche se non vedo mai nessuno, loro me lo dicono lo stesso e mi fischiano dietro e, se avessero le mani, sono sicura che mi darebbero dei pizzicotti, proprio qui, su questo invidiabile culo... Siete proprio incorreggibili, voi maschi. Solo lui non se ne accorge. Che me ne importa! Ho tentato per anni, ma lui no... Ha paura… è soltanto paura... Bambino, sii buono bambino, voglio solo giocare… lasciatemi in pace! Che ne sapete voi, non siete mai stati innamorati e rifiutati, non vi hanno mai sputato in faccia, voi non ce l'avete una faccia... Se quello là, Guido, ti avesse preso per matto, oops , come dite voi qui dentro, ospite? Comunque non sarebbe stato un gran danno... tu sei matto, matto da legare, almeno quanto lo sono io... la differenza è che io lo ammetto, tu invece… bravo il mio ometto, ci provi a riprendere il controllo, sei forte, quando vuoi… sei incorreggibile... voi maschi volete sempre controllare tutto, il potere, il potere è il vostro unico fine. Cerchi sempre di liberarti di me… ho la nausea e mi gira la testa, mi sento mancare… La mamma mi dava sempre un bicchiere di latte caldo... te la ricordi la mamma?... lei diceva che i cattivi pensieri cadono giù nello stomaco e che solo il latte caldo riesce a scioglierli, poi si faceva il segno della croce e mi metteva a letto. Io tentavo di farle capire che prima o poi avresti preso tutti i miei giocattoli, ma lei sorrideva… lei sorrideva e tu, durante la notte, facevi a pezzi le cose a cui tenevo di più, che stronza!... Il giorno dopo, la sentivo parlare con papà... Lei avrebbe voluto un altro figlio, lo avrebbe fatto solo per darmi una
compagnia, così avrei smesso di inventare quelle voci di persone inesistenti... Una compagnia!... Ma quanti eravamo? Certo, tu eri sicuramente la più forte di tutti, ma gli altri... a volte li sentivo urlare così… così... che sbattevo la testa contro il muro, cercando di fermarli. Trucco rovinato e questo non è nemmeno del mio colore! Non è che hai rubato una penna rossa, eh? Eravamo in molti allora e c'era da divertirsi... Lui era schivo... lui avrebbe voluto i miei genitori tutti per sé… e li tormentava e frignava ogni notte... Smettila, smettila di lamentarti! Non ti ho mica messo al mondo per sentire questa musica... Facevi resistenza, facevi la spia... Le spie vanno punite... e loro non ti credevano, non ti hanno mai creduto! Io sono la loro bambina... chi è la bambina più bella del mondo… chi è? Nessuno è bravo come lei e tutti la amano, ma lei deve restarsene in silenzio, non si deve lasciare scoprire, no! Loro certamente non capirebbero... Spia! Maledetta piccola spia, volevi rovinare tutto… e alla fine ci sei riuscito: lei, la cara dolce mamma chioccia, aveva lo sguardo terrorizzato quando ti ha visto tutti quei tagli sul corpo, l'hai spaventata a morte, da crepare dal ridere, e poi hai detto che erano stati gli altri, le voci… Questa volta ti hanno creduto, bastardo in miniatura, ti hanno preso sul serio, solo per un po' del tuo miserabile sangue! Ho voglia di battere questa sera! In questa casa non c'è un vestito adatto… Quanti specialisti ci hanno visitato… cinque?… dieci? o forse venti? Ci hanno divisi, hanno distrutto il nostro gruppo in nome della tua normalità… E avrebbero distrutto anche me, se non me ne fossi stata in un angolo, zitta, come morta e sepolta per sempre... ma ero lì, io ero lì, capito? Guido era un vero amico, andavamo in palestra insieme... Io e lui rimorchiavamo le ragazze e riuscivamo sempre a conquistarne un paio e poi le portavamo in quella mansarda che i suoi avevano in centro... Facevamo ginnastica nella stessa palestra, lui si spogliava, piegava le sue cose e le riponeva, standosene nudo, una per una nell'armadietto, poi metteva indumenti sportivi… Gli piaceva starsene nudo... Sapessi quanto ho amato quel corpo, lui ti toccava sulla spalla ed io venivo all'istante, metteva uno ad uno le sue cose nell'armadietto e poi se ne stava nudo, con quella sua bella faccia, a sorridere... lasciami che ho voglia di vomitare! Mansarda... ragazze... amico… palestra... Dai, dai che stasera rimorchiamo, quella ha due tette favolose... Amico mio… mio… mio… Se ne stava lì, io lo fissavo impietrito, sapevo che gli era sempre piaciuto il basket... se ne stava lì, sul prato, con la schiena spezzata. Dissero che quella scala maledetta era sempre stata difettosa... e gliela avevo consigliata io... o lei? Cristo! Non è possibile continuare così, non bastava tutto quello star male, i medici ed i farmaci! Ad un certo punto ero riuscito persino ad accettare l'assurdità del tutto: c'eravamo io e lei, destinati per sempre a tormentarci, era la mia... la nostra
normalità... ma lei ha voluto esagerare. Amore... amore romantico e amore sensuale. Quel Guido era un vero sballo e che cosce, mi eccitava come nessuno, ma era troppo presente, sempre in mezzo… non lo sopportavo! Avrei voluto un figlio da te, assurdità di certi desideri! Avremmo generato l'essere perfetto, colui che ci avrebbe uniti per sempre... Devo sbrigarmi, voglio fare follie… con questa faccia distrutta… Idiota, bastardo, hai sempre fatto del tutto per ferirmi... Non toccatemi voi, non c’è posto per altri, non più!... Ferita! Distrutta, mentre lui se ne stava davanti all'altare, mentre guardava… accarezzava con lo sguardo quella puttana... Ferita! mentre il prete li univa in matrimonio. Ferita! Anche se lui sapeva, eccome se lo sapeva!, quello che stavo provando in quel momento... Ferita! Così! Brucia, cazzo!, brucia… c’è sangue… fate qualcosa, la penna nella coscia no! Devo estrarla piano… ahi un dolore dell’inferno! Spegnete la luce, ho bisogno di oscurità, devo isolarmi, devo succhiare il buio, devo isolarmi… porc… quanto brucia! Ti ho fatto male? Dove sono le tue pillole? Dimmi come ti senti? Non sei un po' ferito? No… no, povero caro, io non volevo... Sono loro… sono gli altri bambini… cattivi bambini… Non ci provare neanche a ribellarti! Lo sai che non posso tollerare certe impennate, no? Oggi mi sento forte... No, no, non ti permetterò di rovinare questa bella serata. E dai, ridi qualche volta! Sai ho rivisto i nostri pesci rossi in casa di quella tua amica. Sono andata a trovarla, avo di lì per caso... Perché non farlo?, mi sono detta, dopotutto è stata anche amica mia… Avevo dei magnifici capelli biondi! Devono esserle piaciuti, perché non faceva altro che fissarli... Le tue amiche sono tutte un po' sceme, quella poi, più delle altre. Pensa che si è messa a chiamarmi con il tuo nome… Cretina! Quando la ritroveranno, sotto il salice… o l’hanno già fatto? A volte mi confondo come una vecchia signora e… non ci vedo più! Questo è uno scherzo di cattivo gusto, accendete questa cavolo di luce, subito! Grazie, grazie, grazie, Dio ti ringrazio! Benedetta oscurità… mi fa male la gamba… Sedermi sul bordo del letto, ecco, mi dondolo un po’, mi isolo… ci vuole un po’, questo dolore mi distrae, ci vuole un po’… Vuoi tenermi lontana, io odio il buio, ti vengono a prendere quando è buio, ma non me ne vado ancora! Non mi toccate!... Lui si è preso tutto... non mi toccate... .Che cosa mi ha concesso? Osservare, solo osservare... Perché a lui piace essere osservato... è un maiale... Enrico è un maiale… ammazzalo, ammazzalo... Non mi toccate! Mi ha lasciata e si è perfino sposato per farmi del male, sposato, in chiesa, con il prete, i fuori, i parenti! Non gli è bastato, l’ha messa incinta, tre volte incinta… siam tre piccoli porcellin… Lui è normale, e io? Osservare, solo osservare… a letto si lasciava guardare, mentre era con quella lì... .e lo sapeva, eccome se lo sapeva che c'ero anch’io... Mascalzone! Delinquente... Ammazzalo, ammazzalo... è un
maiale! I medici hanno sempre detto di non aver mai visto un caso così eccezionale! Poi… poi hanno gridato al miracolo, hanno parlato di guarigione straordinaria... Ma sono stata io, io, con il mio silenzio, io che sono sprofondata nell'inferno... io ti ho regalato una vita intera! Solitudine, ne ho avuto in cambio solo solitudine... Pillole, prese al cesso senza farsi vedere… aveva paura che fi loro del male. Maiale! Io adoro quella magica resistenza ai farmaci che si sviluppa nel tempo… Dondolare e respirare, succhiare il buio e… la lettera, ripetere a memoria la lettera: amore mio, anche se ci siamo sentiti per telefono un’ora fa, mi metto a scriverti… quella stramaledetta lettera! È troppo buio qui dentro, troppo… dai dai... lei ritorna da quel suo stupido viaggio di lavoro e bang… poi andiamo a prendere i piccoli dalla nonna e… bang… bang pure alla vecchia!… questa sera, per telefono, mi sei sembrato sereno e ciò mi sarà di aiuto per affrontare questi ultimi dieci giorni di lavoro… Fai il bravo e vedrai che non ci saranno più problemi... Non si può cambiare il destino, TU RESTI CON ME, FIGLIO DI PUTTANA! Andate via! Non toccatemi!… Ammazzala, ammazziamoli tutti… Mi manchi molto. Mi mancano i tuoi sorrisi e mi mancano anche quei momenti in cui sembri essere distante e ti chiudi nel tuo studio, quasi volessi proteggermi dai tuoi pensieri… mi sento strana e non voglio addormentarmi, stasera voglio uscire, ho voglia di battere come una troia… ma il buio e la nausea… i rumori se ne vanno… smetto, prima di diventare stucchevole. Ci vediamo presto. Ti amo, Sara. Inspiro con la bocca in posizione di bacio, succhio l’oscurità, la porta è dentro, succhiando l’oscurità, riuscirò ad isolare anche la parte interna di me. STOP. EJECT.
Finito, concluso giunto al suo termine. L’incontro voluto o casuale con le voci di quelle persone che si possono solo immaginare, è terminato. Certo Luca potrebbe ascoltare le cassette altre dieci, cento volte, le potrebbe ascoltare all’infinito, ma sarebbe come il tentativo di una vecchia coppia di riprodurre l’emozione dei primi giorni, ripetendo la scena di una cena romantica, priva ormai del fascino del non conosciuto. Rimane a guardare le quattordici cassette, tutte ormai in orizzontale, sul lato sinistro della scrivania, come si guarda un caro amico che sta partendo per una qualche destinazione lontana: le strade si separano, comincia una nuova vita, ma ciò che si è imparato dallo stare insieme è incancellabile. Luca rimette nel cassetto il registratore, poi recupera il libro contenitore e vi ripone una ad una le cassette, così come le ha trovate il venerdì. Chiude il falso volume e lo lascia volutamente sulla scrivania. Tutti i suoi gesti sono lenti e rituali, tanto da non provocare rumore alcuno e da impiegare molti minuti, prima di ritrovarsi seduto alla scrivania con il volume, custode di quelle storie, davanti a sé, come un messale sull’altare. Se entrassimo in questo momento, ci ritroveremmo in un ambiente chiuso su se stesso, sulle pareti libri, al centro una dormeuse di pelle bordeaux, sulla destra una grande scrivania di legno massiccio, dietro la quale è seduto un giovane uomo, assorto e distante. In realtà Luca sente di avere i muscoli irrigiditi, le sue idee sono totalmente confuse e sono come pezzi di frutta ridotti in poltiglia dalle lame rotanti di un frullatore, che nessuno ferma. Gli sudano le mani, ha un po’ di freddo e i suoi genitali sembrano quelli di un neonato. Ha ascoltato frammenti di vite altrui, veri o inventati che fossero, storie che si possono solo intuire da quei deliri registrati e che fanno sembrare la sua vita, così drammaticamente percepita, l’opera prima di un artista senza talento. Vorrebbe abbracciare tutti i suoi nuovi amici, senza domandarsi, questa volta, cosa avrebbero pensato di lui in altre circostanze. Prima di venerdì avrebbe vissuto con rabbia e rimorso la dicotomia che comporta l’essere allo stesso tempo una persona e una persona gay: come appartenente alla specie homo sapiens, avrebbe voluto mondare il pianeta e affrancarlo dai suoi mali più profondi, aiutare i deboli del Terzo Mondo, occuparsi attivamente e politicamente dei cosiddetti diseredati della Terra; ma, in quanto gay non poteva non domandarsi cosa ne avrebbero fatto di lui coloro che voleva salvare. Perché, si domandava, dovrei darmi da fare per gente che pensa possibile e lecito arrestare, punire e spesso impiccare la mia
gente? Cento, mille buone azioni ci faranno considerare da una prospettiva diversa? Queste domande e le loro scontate risposte ne hanno da sempre bloccato il fervore, consegnandolo ad una cinica indifferenza ed ad un favoloso distacco dalle faccende umane. Ora, però, non gli importa cosa farebbero quelli del padiglione 18 se… questo o se quell’altro, Luca vorrebbe semplicemente abbracciarli, sentirseli respirare addosso. Una nuova visione del mondo gli sembra possibile e non gli resta che camminare in avanti, senza domandarsi dove andare, ma semplicemente avanzare. Allo stesso tempo, il suo universo esistenziale, fatto di idee, cose e persone è immobile a reclamare il proprio diritto di esistere, ad esigere un prezzo per tutto ciò che gli ha dato: è come quando si lascia una persona che non si è mai amata, ma con la quale siamo stati semplicemente perché con qualcuno dovevamo stare e da cui abbiamo preso tutto ciò che si poteva prendere. Quando ce ne andiamo, poiché è questo che dobbiamo fare, non ci facilita il compito, ci giudica duramente e ci consegna un’ulteriore valigia, piena di sensi di colpa. Luca è arrivato al capolinea, ha ascoltato, imparato e capito eppure non si sente liberato dalle ombre: il viaggio iniziatico, forse voluto da suo zio, lo ha portato indietro dall’abisso, ma non abbastanza. Dicono che, durante un digiuno prolungato, ad un certo punto, il corpo incominci a mangiare se stesso e che dopo poco non ci sia più possibilità di recupero, qualunque siano i tentativi di nutrire e curare il malcapitato. Lo chiamano punto di non ritorno. Forse ne esiste uno anche per l’anima e, per quanto si cerchi di riportarla sui binari di una accettabile positività, nulla è più sufficiente. Prima di entrare in questa casa, Luca voleva solamente scomparire, non esserci più e lo desiderava con una gioia liberatoria che nessuno avrebbe compreso. Ora ha la stanchezza di chi ha vagato per giorni nella foresta, ritrovandosi più volte nello stesso punto dal quale era partito. Per la prima volta, vede le proprie mani esauste lasciare il timone della nave. Sta rinunciando al comando e si sta abbandonando al caos. Che ne sarà di me?, pensa, mentre riesce ad alzarsi e a muovere faticosamente i i verso la porta. A metà strada, il frullatore si ferma e dalla melma cerebrale spunta un sentore di isterismo, che si trasforma in panico e ridiventa isterismo. “Devo farmi una canna!” esclama ad alta voce ed esce precipitosamente dallo studio. “Devo farmi una canna!” ripete, dirigendosi all’ingresso alla ricerca del suo zaino.
“Devo farmi una canna e vederci chiaro!” sembrano le uniche parole che ormai sia in grado di pronunciare, mentre cerca il fumo, in quella specie di borsa di Eta Beta, buttata per terra. Lo ha trovato, ecco l’ultimo pezzetto di quella roba marrone scuro. Allo stesso tempo si ritrova tra le mani un ritaglio di giornale e prende anche quello. “L’accendino e le cartine e tutto il resto sono in cucina,” dice, “ora vado e mi faccio una canna e ritrovo la luccicantezza.” E già lì e sul bancone delle meraviglie c’è tutto quello che aveva lasciato la volta precedente, ma ha come un ri-pensamento e prende solo l’accendino per poi andare rapidamente nel salotto. Apre un mobile basso e, tra le tante, estrae una bottiglia di whisky. Da un altro scomparto prende cinque bicchieri, li riempie tutti e li porta uno ad uno sul tavolo di cristallo, davanti al quale si mette in ginocchio. Riscalda il fumo con l’accendino fino a farlo diventare quasi una crema granulosa e lo infila in uno dei bicchieri. Agita il whisky con un dito, spinge e schiaccia i granuli sulle pareti di vetro e , infine, ingoia tutto in un unico enorme sorso. Si abbandona a terra, poggiando la schiena ad uno dei divani e si accorge di aver tenuto per tutto il tempo il ritaglio di giornale stretto nella mano si-nistra. Lo guarda e si ricorda: è un articolo sul monaco zen Thich Nhat Hanh. C’è una frase sottolineata: “Inspirando, calmo il mio corpo, espirando sorrido”. Senza pensarci su troppo, Luca torna nello studio, portandosi dietro un altro bicchiere che beve durante il tra-gitto. Prende una delle penne preziose di suo zio. Esce, si rimette a terra nella posizione di prima, prende l’articolo e lo riduce ad una pallina di carta, che lancia il più lontano possibile. Svuota in gola il terzo bicchiere e, senza starci a pensare su, ne afferra un quarto e lo manda giù in un sol colpo. Comincia a girargli la testa. Ancora una volta si osserva nudo, i suoi genitali sono tornati della dimensione originaria, ma non sono quelli che gli interessano ora. Sta cercando uno spazio adeguato e la parte interna della coscia destra, gli sembra il migliore per cominciare a tracciare dei segni. Poggia la punta della penna sulla pelle, affonda per qualche istante, alla ricerca di un inizio di dolore e da lì comincia a disegnare una spirale. Quando ha finito, ne disegna un’altra più grande intorno all’ombelico e poi una piccolissima alla base dell’alluce sinistro. Sull’avambraccio sinistro inizia a comporre la propria firma, accompagnata da una stonata nenia infantile, ma l’operazione viene interrotta dalla corsa di strani folletti, in fila sulla parete di fronte. Non hanno colori e gli sembrano piuttosto
delle ombre e vanno sempre più veloci, saltando ora sul soffitto, ora sul pavimento. Prova a sollevarsi, ma ricade indietro stordito, mentre quelli gli ballano davanti, sospesi a mezz’aria e dalle bocche sputano stelle, che diventano foglie, appena toccano il suolo. Per un attimo sente paura, ma poi si mette a ridere a bocca spalancata e non ce la fa più a smettere, improvvisamente, però, serra la bocca e si imbroncia. Vorrebbe un altro bicchiere di whisky e prova ad allungare un braccio, ma questo rifiuta di muoversi. Gli esce un po’ di saliva dalle labbra, ha le palpebre pesantissime e i folletti continuano a schizzare per tutta la stanza, ormai piena di stelle trasformate in foglie. Ormai il timone gira velocemente a destra e a sinistra ed il cielo sopra e sotto la nave è percorso da fulmini e lampi. A Luca sembra di riconoscere le proprie cellule cerebrali e le scariche elettriche are dall’una all’altra, attraverso delle sinapsi color porpora. Ancora lampi che si trasformano in immagini, pezzi di ricordi o semplici allucinazioni. Luca Finalmente riesce a vedere, la memoria gli sta restituendo ciò che sembrava cancellato, ma è troppo stordito e fa in tempo a scuotere una mano in segno di saluto prima di svenire.
Le campane sottolineano insistentemente che è domenica, come se volessero essere sicure che nessuno possa scambiarla con un altro giorno e, in effetti, questo pare impossibile, poiché il loro suono fa riaffiorare dalla memoria collettiva, il ricordo di eggiate con la mano stretta a quella di un genitore, di vestiti migliori, di lunghi sbadigli, mentre la voce cantilenante del prete rimbomba in chiesa, di paste alla crema o al cioccolato mangiate avidamente e molto altro. Luca si risveglia con un respiro violento ed improvviso, come quando si riemerge dall’acqua dopo una prolungata apnea. È steso per terra con la testa poggiata sul divano e gli fa male il collo per aver troppo a lungo mantenuto la stessa posizione, ma cominciano anche ad affiorare piccoli dolori in varie parti del corpo. In una mano tiene stretto il telefonino, lo guarda ed il display lo avvisa di una serie di messaggi arrivati e molte chiamate a cui non ha risposto e delle quali non si è nemmeno accorto. Si a la mano sinistra sulla faccia e nota i segni sul braccio, allora comincia a ricordare e guarda la coscia, l’ombelico e il piede, si sente trasformato in un opera d’arte aborigena e gli piacerebbe molto potersi immergere nelle acque sacre del monte Uluru, ma è solo un pensiero che arriva da chissà dove. Si solleva in piedi, si guarda intorno e, per la prima volta in due giorni, sente il bisogno di luce e di aria. Allora va in cucina, esce sul balcone e spegne la caldaia. Un paio di piccioni su un cornicione vicino lo guardano infastiditi dall’ennesima stranezza umana. Lascia la portafinestra aperta e rientra, ripercorrendo la casa e aprendo tutte le finestre e le persiane al proprio aggio. Recupera i jeans abbandonati dal venerdì precedente. Quando a davanti allo studio, prima di imboccare la scala che lo porta al piano superiore, ne chiude la porta e prosegue. Arrivato di sopra, entra subito in bagno, si infila nella doccia e lascia che l’acqua fredda gli scorra addosso, poi la miscela con quella calda e comincia ad insaponarsi, per il bisogno impellente di pulizia, di sentire il proprio corpo come uno di qui piatti in certe pubblicità dei detersivi al limone. Dopo circa mezzora esce, si lascia avvolgere da un enorme asciugamano e si guarda allo specchio un’ultima volta. “Sono ancora io… ora ricordo e tutto ha un senso… nessun dolore… nessun
dolore”, si dice con un certo, amaro sollievo. Una volta asciugato, ma con i capelli ancora mezzi umidi, va in camera di suo zio. Arrivando in quella casa non aveva previsto un cambio di biancheria, anzi non aveva previsto neanche la possibilità di uscirne, quindi si mette alla ricerca nei vari cassetti e nell’armadio bianco e lineare che gli sembra di notare per la prima volta. Trova un paio di boxer grigio chiaro, che appaiono abbastanza moderni, da poter essere portati da uno che si sente ancora un ragazzo. Li indossa e subito dopo mette i jeans e alla fine trova anche una maglia che gli sta benissimo e, da qualche parte nella penombra della sua mente, ne è compiaciuto. Scende, ormai completamente vestito, lentamente si sente rigenerare, nonostante un leggero mal di testa, che, però, se ne sta andando, così come i dolori muscolari di prima. I suoi pensieri sono patologicamente lucidi, dovrebbe essere frastornato e distrutto, ma in non c’è lui alcun residuo di confusione e l’intera casa oggi gli fa da coro con un trionfo di luce riflessa, rimbalzata su ogni parete e su ogni oggetto, lasciando in evidenza ancora più spudorata tutto ciò che c’è di nero. Luca ritrova e indossa l’orologio. Prende il cellulare che, fatalmente, comincia a squillare e lui, con la calma di un serial-killer, raggiunge il bagno piccolo, solleva il coperchio della tazza e ci affoga dentro il suo telefonino. Scarica. Rapidamente, prende afferra le chiavi, le infila nello zaino che mette in spalla ed esce di casa. Fuori sembra tutto come lo aveva lasciato. Si allontana e, mentre se ne va in giro senza una meta precisa, guarda la gente che, per una frazione di secondo, gli rievoca il pensiero pessimistico su una umanità prigioniera dei propri gesti, quasi mai inventati, troppo spesso ereditati. Dura poco, perché davanti a lui vede un gruppetto di quegli strani ragazzi che vengono chiamati comunemente punkabestia e che, come al solito, rompono il disordinato ordine delle cose. Sono in quattro, tra cui una ragazza e sembra che siano assorti in una discussione importante, interrotta, di tanto in tanto, dall’esigenza di riportare la calma tra i loro innumerevoli cani. ano accanto ad una fila di colonnine unite da catene e si divertono a far girare queste ultime, per il semplice piacere di creare una qualche forma di caos. Luca li guarda e pensa che siano un bagliore di speranza e di ribellione, almeno fino a quando il loro modo di essere non si codifichi a tal punto da assumere tutte le forme del conformismo e, forse, sta già avvenendo: di
loro si parla nei giornali, nascono siti web, la rivoluzione si fa moda, diviene tendenza e le tendenze di si possono in qualche modo prevedere, controllare e abbattere, sostituendole con nuove tendenze. Ma per il momento a lui non gli importano le speculazioni sociologiche, gli piace credere siano la prima cosa bella che abbia visto da quando ha lasciato la casa di Osvaldo Socrates, che in loro si nasconda il germoglio di una nuova pianta selvatica. ando anche lui vicino alle colonnine, ripete il loro gesto e fa girare rumorosamente le catene. Una donna e un uomo con bambino, vestito come fosse la versione bonsai di un modello di Armani, gli lanciano un’occhiata diffidente, lui prosegue. Supera un gruppo di anziani che stanno discutendo animatamente sull’eventualità di chiudere le frontiere ad ogni tipo di immigrazione, su come una volta fosse diverso e si fero più figli, a differenza di ora che le giovani donne non fanno altro che andare in discoteca, su Zapatero che fa sposare i finocchi e sul Papa, che, per fortuna, non permetterà mai che da noi si arrivi a tanto. Un paio di motorini lo sfiorano ad alta velocità e quelli che li guidano si gridano qualcosa e se la ridono, poi imprecano contro una donna che suona violentemente il clacson. È furiosa, poiché le hanno parcheggiato dietro la macchina e non può uscire, è pronta ad uccidere per quel contrattempo e suona, cercando di attirare la sua vittima. Si apre una persiana, una vecchia mette fuori la testa, il panorama non sembra di suo gradimento, rientra e richiude. Ancora campane che suonano. Arrivato in prossimità di un piccolo slargo, Non posso credere di aver gettato il cellulare con tutti i numeri nel cesso, si dice compiaciuto, si metteranno tutti in allarme, spiazzati dall’imprevisto dello sciacquone, ma così deve essere…eppure c’è il rischio che io ritorni da loro, per il solo fatto che non saprei dove andare. Ho voglia di un gelato e di eggiare, è la normalità che mi contamina. La luce gli provoca un giramento di testa e, uno ad uno, scompaiono i sorrisi gioiosi dalla festa data dai suoi pensieri, i quali stanno abbandonando il precedente accenno di ottimismo, arrivato da chissà dove. Riprende consapevolezza (o almeno così crede) e si rende conto che ogni forma di libertà, concepita in quello spazio e in quel tempo, non durerà a lungo e che prima o poi, non importa quanto tempo ci vorrà, si ritroverà addosso le stesse catene, ma
questa volta più strette, a causa del precedente di una fuga tentata. Sembrerebbe una crisi di panico, quella che sta provando, ma non ne è certo, poiché, pur avendone sentito sempre parlare, non ne conosce i veri sintomi. Dovrebbe restare immobile, incapace di muoversi, invece sembra preda di un iperdinamismo e continua a camminare a scatti, torna indietro, riprende la direzione di prima e ritorna indietro. Si comporta come qualcuno indeciso sul da farsi, le cui gambe non sono sincronizzate con la volontà. Pensavo fossi diverso, gli dice la voce di suo zio, rimbombando nella sua testa. Pensavo che avresti capito, che lo studio ti avrebbe dato le risposte che hai sempre cercato e invece te ne stai per strada con la voglia di gelato e di eggiare. Ti è bastata una minima esposizione al mondo che conoscevi e già sei nuovamente contaminato. Ma questa volta sarà peggio, poiché hai visto quello che c’era da vedere e non puoi più far finta di niente, il vago, inspiegabile senso di non-appartenenza è diventato vera alienazione. Se ne accorgeranno tutti, ti percepiranno come altro da loro e sarai solo. Dimmi, Luca, ce l’hai un posto dove andare? A guardarti ora, io direi di no! Luca non decodifica bene ciò che gli sta accadendo e questo gli scatena un certo terrore, proprio come in rarissime occasioni nella vita, alcune persone, sperimentano un attimo di follia. Inspirando calmo il mio corpo, espirando sorrido, inspirando calmo il mio colpo, espirando sorrido, inspirando calmo il mio corpo, espirando sorrido, inspirando calmo il mio corpo, espirando sorrido, inspirando calmo il mio corpo, espirando sorrido, inspirando calmo il…si blocca di colpo: “Sei un vero testa di cazzo!”, urla. Una donna anziana che gli sta ando vicino rimane impietrita: “Sì che ce l’ho un posto migliore dove stare, altro che sto lerciume qua!”, fissa la vecchia, la quale si gira e si allontana a o veloce, seguita dagli sguardi degli altri anti che hanno assistito alla scena. Luca si fa spazio con gli occhi tra le immagini del mondo, come se stesse cercando una via di fuga durante una retata. Quello di cui ha bisogno, proprio oggi potrebbe non essere di-sponibile e non può permettersi un rinvio. Mette a fuoco i particolari, gira su se stesso e, alla fine, la sua attenzione viene catalizzata da una anelata anomalia. Il fatto stesso che ci sia un luogo aperto, che, nella generale visione domenicale, dovrebbe essere chiuso, dà vigore alle sue intenzioni. Si sente grato nei confronti dei turisti, del mercato e del profitto,
che sono riusciti a scardinare vecchie consuetudini e, come dei ancora più potenti, dettano le proprie regole. Entra nel negozio di hi-fi e materiali elettrici, visto due giorni prima, mentre andava ad incontrare l’avvocato Morremo. La sua presenza riattiva il cervello della ragazza dietro il bancone, con la faccia quasi incollata ad una rivista scandalistica: “Avete audiocassette vergini?” “Sì certo, che marca preferisce?” sembra indifferente all’aspetto extraumano di Luca. “Una qualsiasi, purché sia da 120.”
A ritroso, ripercorre la strada che lo riporta verso la casa di Osvaldo Socrates e, anche stavolta è tutto come lo ha lasciato pochi minuti prima, il tempo sembra non avere nessuna capacità di mutamento sulle cose o forse il tempo ha semplicemente bisogno di più tempo per fare il proprio lavoro. Cammina in un film già visto. Si infila per una via stretta, sbuca su una piazzetta, poi ancora un vicolo che curva verso sinistra, quasi ad angolo retto, altra via più larga, ma senza luce, per finire in una piazza illuminata dal sole. Proprio di fronte a lui, si vede un grande portone, sormontato da un’arcata con stucchi e fregi. Intorno piccoli negozi e altre entrate meno imponenti di abitazioni. C’è abbastanza silenzio, anche se si sente arrivare da qualche parte il rumore del traffico. Gli sembra di sentire di ancora la mano calda dell’avvocato Morremo su di lui, apre il portone e entra: si ritrova nell’ampio cortile pieno di piante. SCALA A e SCALA B.
Nell’ingresso dell’appartamento, ritrova se stesso. È calmo e, sa come muoversi, ha di nuovo il timone della sua nave tra le mani ed è portatore di una adamantina lucidità, grazie alla quale mette in fila le proprie idee, pronte a trasformarsi in azioni. Va in cucina, prende dell’acqua minerale e beve direttamente dalla bottiglia, poi chiude la portafinestra e si dirige nelle altre stanze, compiendo gesti pensati al contrario e riportando la penombra in ogni ambiente. Poggia la
cassetta, appena comprata, sul tavolo di cristallo. a davanti alla porta dello studio, senza degnarla di uno sguardo. Sale le scale, arriva in camera da letto , lascia a terra lo zaino, dal quale estrae la cassetta appena comprata. Sie si denuda lentamente, assaporando i gesti e poggiando in ordine i vestiti piegati su una sedia. Cammina a piedi nudi sul pavimento, niente che non conosca già, tiene nella mano sinistra la cassetta. In bagno, accende tutte le luci e cerca di mettere a fuoco il ricordo di un oggetto, che nei giorni precedenti gli è capitato di vedere, un qualcosa di poco consueto oggigiorno, ma che immediatamente identifica il carattere di un uomo. Non ci mette molto, apre da un armadietto e ne estrae un rasoio, di quelli in uso nelle vecchie barberie, con un’unica lama lunga e affilata, la quale si apre e si chiude su un manico d’osso bianco. Lo poggia aperto, in tutta la sua lunghezza, sul bordo dell’ampio lavabo. Si perde qualche secondo nella propria immagine riflessa allo specchio, senza realmente guar-darsi. Iinfine spegne le luci, esce e si dirige al piano infe-riore, recupera la cassetta per poi raggiungere subito la porta dello studio. La apre, eEntra, la richiude dietro di sési chiude dentro con due mandate di chiave, va dietro la scrivania e riprende il libro-scatola, lo apre, ma non ne estrae il contenuto, a fianco ad esso poggia il nastro vergine. Mentre ritrova e automaticamente, senza starci a riflettere, mette in uso il registratore, guarda quella stanza e finalmente il suo corpo è calmo e sta sorridendo. Si siede, prende una penna, poi dalla custodia della nuova cassetta estrae una striscia adesiva e vi scrive sopra: OSP.L.NEOFITA1. Soffia sulla striscia adesiva, poiché non vuole indesiderate macchie di inchiostro, la tira via dal o e la attacca sulla cassetta da 120, la quale viene messa nel registratore. Luca avvicina la faccia ai due fori del microfono interno.
Cassetta: OSP.L.NEOFITA1 REC.
Beh, da dove comincio? Dopotutto questa è una sorta di iniziazione, una specie di esame di ammissione ad un gruppo o ad un circolo esclusivo ed è anche ovvio che io provi un certo… un certo nervosismo. È necessario che faccia le cose per bene e devo allontanare da me la sensazione di stare a parlare da solo ad un registratore, come uno scemo qualunque, di quelli che vedi per strada e che litigano col vento. Questo è un portale! La via d’accesso e di ritorno alla mia stanza rosa, verso il luogo dove tutte le cazzate quotidiane si annullano, dove le voci insulse della gente perbene smettono di farsi sentire e dove gli amici, i miei nuovi amici si riuniscono a raccontare storie. Di me, come sono ora rimarrà solo carne inerte, sulla quale potranno versare lacrime che non ho mai richiesto e con la quale potranno soddisfare il loro bisogno di ritualità. Arriveranno quelli dell’agenzia di pompe funebri, professionali, rapidi, consapevoli di essere i migliori nel loro campo. Chiederanno quale vestito si voglia io indossi, poi inviteranno i presenti ad uscire dalla stanza (mia madre farà resistenza, sco la tirerà via per un braccio, atteggiandosi a vedova inconsolabile, ma presente a se stessa) e, quando li richiameranno, sarò vestito, come mai mi sarei sognato di fare, deposto in una bara, senza il minimo senso del buongusto… in realtà sono due, una interna di zinco e l’altra di legno. Saranno storditi e stupidi più del solito, inconsapevoli che il loro fare distrugge ogni antica ritualità e che mai la polvere ritornerà alla polvere, grazie alle simpatiche proprietà isolanti dello zinco. Ma sono cose che non mi riguardano, che se la sbrighino come meglio credono! Se fosse per me, li inviterei tutti a cena e poi mi darei fuoco insieme a loro, in un magnifico falò collettivo. Invece farò in altro modo, senza però rendergli la cosa facile da digerire, magari riesco a farli sve-gliare dal loro sogno borghese. Eccomi che uso parole a vanvera! Che cazzo vuol dire “borghese”? Niente, comunque mi sono capito da solo e tutta quella roba del vestito e dello zinco non ha senso, col casino che combinerò, a casa neanche mi ci porteranno, ma lo zinco sì, quello ci sarà! Voi mi piacete, mi siete piaciuti fin dal primo momento ed ho cercato di
visualizzare i vostri volti, di evocare attraverso la voce una fisicità forse perduta per sempre. Vi avrei voluti tutti qui e ce ne saremmo andati a cena, oppure avremmo bivaccato in questa casa, percorrendo le strade infinite delle possibilità umane. Non ci saremmo lasciati incidere un codice a barre dietro la nuca… no!, piuttosto morire… sarebbe meglio morire, che perdere la libertà di scegliere di non essere come dovremmo essere. Ma voi non potete materializzarvi e allora tocca a me venire, diventare ciò che voi siete, lasciandomi alle spalle il resto. Per questo spero non vi dispiaccia che da oggi in avanti ci siano quindici cassette. Lo spazio nel finto libro non manca e giuro che lo rimetterò dove l’ho trovato e chissà che un giorno qualcun altro non si aggiunga al gruppo… certo, certo, solo persone degne, gente che sia in grado di squarciare il velo dell’illusione, anche quello dell’illusione di essere avanti agli altri. Vediamo… ’sta casa mi piace, anche se, a dire il vero, me la immaginavo diversa, tranne questo studio, che è proprio come ce lo avevo in testa. È magnifico e lo ho adorato da subito, vagamente decadente, claustrofobico e perverso al punto giusto: il posto ideale dove ammazzarsi di canne. È solo un modo di dire, ma ora che ci penso, forse mi mancheranno quelle belle tirate di fumo in solitudine: mi facevo compagnia da solo ed è la migliore compagnia che abbia mai avuto. Ho cominciato presto, sapete. Ogni tanto d’estate, quando andavo in vacanza con i miei nella nostra casa al mare, frequentavo un gruppo di ragazzini di quel posto, tutti più o meno intorno ai dodici anni. Ci riunivamo in una piazzetta e uno di loro, con l’aria di chi aveva vissuto mille vite, tirava fuori sempre delle canne già pronte. Oggi mi domando come fe a rimediarle alla sua età, ma a quel tempo era dato per scontato che così fosse. Strano mondo quello degli adolescenti e strani i loro traffici, non ancora contaminati dai pudori e dai tabù degli adulti. Mi ricordo che ce n’era uno più piccolo degli altri, forse aveva dieci anni o forse nove, completamente maniaco per ogni tipo di miniesplosivo, di quelli che si usano per le feste. Soprattutto adorava quelle che chiamava miccette, specie di candelotti di dinamite lunghi due centimetri. Era disposto a tutto, pur di averne una e gli altri lo sapevano. L’offerta che gli veniva più frequentemente proposta era: “Se mi fai una sega ti do una miccetta”. Il giovane dinamitardo accettava regolarmente, senza batter ciglio e poi nessuno lo considerava male o strano o frocio. Ero letteralmente affascinato da quei tipi e il fatto che non mi fosse permesso vederli e che dovessi incontrarli di nascosto, poiché i miei non li ritenevano al nostro stesso livello sociale, rendeva il tutto ancora più appetibile. In più mi sembrava di assistere ad una di quelle recite sperimentali, in cui lo spettatore è collocato all’interno della scena, ne fa parte, viene coinvolto, ma, allo stesso tempo, è un estraneo pagante. Ovviamente ero
da sempre, almeno da quando ne ho memoria, portatore di quel senso di attonita estraneità verso l’ambiente circostante, che ogni omosessuale, pur non sapendo ancora di essere tale, sente fin da subito: come qualcuno che, prenotata una crociera superlusso nei Carabi, si ritrova chissà come, dopo una notte di sbornia, su un barcone pieno di clandestini in mezzo al Mediterraneo e capisce immediatamente che l’alternativa prevede l’adattarsi o il buttarsi e affogare. In ogni caso, senza starla a fare troppo lunga, mi veniva duro e le seghe a quei marmocchi selvaggi e depravati avrei voluto fargliele io, avrei voluto essere io la loro marchetta, ma sapevo che, se solo lo avessero sospettato, mi avrebbero pestato a sangue, poiché non era così che funzionavano le cose ed io sarei stato solo la solita checca malata. Che ci si può fare? Gli etero sono tali fin da piccoli, forse ci nascono e forse sono il risultato evolutivo di una antica pandemia. Chissenefrega! Le cose vanno e intanto si continua a crescere, dalle medie si a al liceo e c’è stato un periodo, lo sai Clara?, in cui mi divertivo a catturare gli insetti… io non cercavo di curarli, ma, in un certo senso li mettevo alla prova e… come? No, no, niente esperimenti strani, ma… non posso crederci! Clara, mi hai fatto una domanda? Cioè, ho sentito da qualche parte nel mio cervello che facevi una domanda? Sto diventando pazzo! Lo so che si dice ospite! Mi ricordo, io. Tu piuttosto, tu senza un nome, non ti facevi di bustine di zucchero per alimentare il cervello, eh? Un’altra voce. È una figata, vi comincio a sentire, ma se parlate tutti insieme, mi arriva solo confusione… Che? Non c’è l’ho mai avuta una piscina e poi a mia madre non è stata mai così maniaca, ipocondriaca forseuna perfezionista… Sì, mi masturbavo e, devo dirtelo, lo faccio ancora… Insomma, dicevo che si cresce e ai soliti problemi si cominciano ad aggiungere certe implicazioni sentimentali, aggravate dalla certezza che ogni amore sia per sempre, il più importante e che l’essere stati mollati dopo ben due mesi di fidanzamento ci distruggerà. È veramente tenero stare a guardare quello che eravamo. In effetti non ho pensato mai di sguazzare con i piedi nel sangue di un qualche mio ex. Quando l’ho suggerito a Carla stavo solo scherzando per vedere la sua reazione. Ti rendi conto che è diverso? Quel tuo David è o era proprio un bel figlio di puttana, io sto parlando di amori adolescenziali, dove ogni gesto è l’ispirazione per un grande film e dove ogni delusione assume la forma del dramma… Mi dispiace, non ho mai provato una cosa del genere e, ti giuro, che avrei voluto veramente conoscere Marie, doveva essere una tipa speciale.
Sento veramente le voci, mi si potrebbe aprire una car-riera da drag-queen col nome di Santa Giovanna… dico cazzate e non devo perdere di vista la mia missione: io sto incidendo un pezzo di me su questo nastro. Riuscire a sentire alcuni di voi, mi da la certezza che la via intrapresa verso il centro della follia è quella giusta, ma dovete la-sciarmi fare. Dopo avremo tutto il tempo di raccontarcela. Mi sembra di avere tutto quello di cui ho bisogno, eppure ho ato gran parte della mia vita cercando di scoprire che cosa in realtà mi mancasse. I miei hanno fatto del tuttoil possibile per soddisfarmi, tranne che dirmi come erano andate realmente le cose, almeno fino a quandopoi i loro problemi non li hanno portati altrove: si sono progressivamente allontanati l’uno dall’altra ed insieme si sono allontanati da me, fino a quando ognuno di noi non ha più avuto un briciolo di quotidiano da dividere con gli altri… almeno è questo il film che ho sempre visto… fino ad ora. Per questo i nostri rapporti sono andati avanti, basandoci sul ricordo, senza cercare di scoprire ciò che nel tempo eravamo diventati: per loro sono il bambino prima della crisi, per me sono rimasti chiusi in una sorta di preconfezionata armonia. Nessuno di noi pareva badare alle faccende degli altri in casa, dalle assenze di mio padre, al nervosismo malcelato di mia madre, agli amichetti coi quali mi chiudevo per ore in camera mia. Davamo semplicemente per scontato l’essere una famiglia, con i suoi ritmi e le azioni secondo cliché, mentre le nostre vite reali venivano ignorate con eleganza. E poi, e poi… altro tempo che a, qualche viaggio all’estero, altro studio, l’università, gli amici, i ragazzi, il sesso veloce, la voglia di innamorarsi soffocata dalla bramosia di esperienze, il sentirsi un vampiro da poco creato, con una nuova, inebriante ed insopprimibile voglia di sangue. Da far venire i brividi, tutta questa ovvietà. Magari qualcuno potrebbe obiettare che la vita è proprio questo: trovare il proprio approdo nel mare profondo dell’universale ovvietà. Ci ho provato, eccome se ci ho provato! È stato un vero disastro: più mi dicevo che è così che vanno le cose, più mi sfuggiva il disegno totale, fino a capire che non c’è nessun disegno e che mi si voleva impedire a tutti i costi di prendere in mano una matita e cominciare a creare da solo la mia opera. Gli amici non capiscono un bel niente, sono troppo occupati ad essere umani, a cercare di fare le cose per bene, a costruirsi un accettabile futuro, a fingere di sentirsi il più normale possibile, in mezzo a così tanti normali orgoglio-si di esserlo. sco? Uno di loro… e che sia chiaro, non ho nessuna intenzione di chiamarlo Lara! Questa tua mania per la conservazione di pezzi umani me la
dovrai spiegare in seguito. Lui poi lascia trapelare una certa femminilità solo nei sentimenti e, diciamocelo, Lara non è un nome adatto ad un uomo… Dove ero rimasto? Sì, sco all’inizio mi era sembrato uno fuori dal coro, qualcuno con cui finalmente condividere la mia parte oscura e che non avrebbe fatto troppe domande, ma semplicemente visto con gli occhi della propria intuizione. Ma alla fine, anche lui vuole quello che vogliono tutti: qualcuno da amare, perché amare e stare in coppia ti dà l’idea di non essere poi quel mostro diverso: qualcuno da esibire, per gridare al mondo il proprio diritto di esserci. Avrei dovuto permettergli di venire qui e poi farlo a pezzi, lo stesso con mia madre e Andrea e (aggiungi nomi)Paolo e Carla… e poi mescolare le parti tra di lorodei loro corpi, in modo che fossero finalmente privi di ogni individualità. Non si accettano suggerimenti! Questa è la mia cassetta e ci sono stati fin troppi commenti. Inoltre, è solo una fantasia, io non potrei mai fare a pezzi qualcuno… almeno credoquesta è la mia fantasia maniacale! Ci sono stati fin troppi commenti. Inoltre, io non potrei mai fare a pezzi qualcuno… immagino che sia così. Sono confuso, ma, alo stesso tempo, felice e senza aiuto esterno, cioè senza nessuna tiratina di fumo, non so se mi sono spiegato. Credo proprio che mi mancheranno le canne. Sia ben chiaro che non mi è mai piaciuto ritrovarmi con altra gente a arsene una di mano in mano e di bocca in bocca: la condivisione quasi religiosa di certi gesti, mi fa vomitare, la solitudine è la chiave di tutto. Luccicantezza è il nome della stella che illumina il giro della prigione. Grazie a questa casa, a voi in formato audiocassetta e, perché non ammetterlo?, alla mia magistrale capacità di mescolare alcune sostanze, il velo è stato squarciato. C’è voluto un vero e proprio corto circuito, per farmi tornare in mente quella sera. Ci sono volute dozzine di folletti sculettanti e tonnellate di foglie, per rendermi degno di voi. Forse ero troppo piccolo, vallo a sapere, forse ciò a cui avevo assistito non poteva essere decodificato ed è rimasto dimenticato nell’archivio segreto degli X Files. Eccola lì, mia madre che se ne sta pietrificata, con un grosso livido stampato sullo zigomo, mentre mio padre, ricoperto di lacrime, dice di sentirsi meglio. Dice che da anni avrebbe voluto farlo, ma che non ne è stato capace, che ha preferito consumarsi dall’interno, piuttosto che sputare fiamme dalla bocca. Dice che quello è il suo modo liberatorio di dirle che non è riuscito a perdonarla. Un bel cazzottone in faccia, capite? Lui ripete che ha provato a dimenticare lo schifo della relazione di sua moglie con suo fratello Osvaldo, ma che il vederla incinta di lui lo ha
sconquassato… dice proprio così, sconquassato… è una bella parola, no? Poi ci si è messa la depressione di lei al nono mese di gravidanza, che l’ha portata ad avere il bambino, imbottita di psicofarmaci, nella clinica del suo amante. Lui, dice con un filo di voce, ha provato a farsene una ragione e ha riportare tutto nei binari della normalità, ma che solo ora, dopo quel pugno, riesce a sentirsi sereno ed è pronto a non parlarne più. Lei, mia madre, non emette un suono, annuisce soltanto, asciuga con un dito una lacrima sul volto di suo marito, ed esce dalla stanza. Io stavo in un angolo buio, mi è ata davanti senza accorgersi di me. Poi solo il ricordo delle repliche dello stesso sceneggiato su una felice famiglia benestante, per anni e anni. Solo in completa solitudine è possibile ritrovarsi e ricordare, quando abbandoniamo tutto quello che ci siamo cuciti addosso al solo scopo di negare la nostra vera essenza. Sto fuori di testa, eh? Invoco continuamente la solitudine e poi il mio unico desiderio è quello di legarmi per sempre ad gruppo di… ospiti. Ma viste le rivelazioni, io ne pretendo l’appartenenza per diritto di nascita. Cosa altro dire, amici miei? Si presuppone che io faccia capire qualcosa di piùaggiunga qualcosa su di me, poiché è possibile che questa cassetta, insieme alle altre, venga ritrovata da qualcuno, il quale, preso da curiosità, le vorrà ascoltare e vorrà saperne di più. Quindi si impone una maggiore chiarezza biografica… o forse no! Non mi interessa fare chiarezza e non ne posso più del continuo starsi a spiegare agli altri. Sai che ti dico? Ce l’ho proprio con te, che magari ora te ne stai seduto da qualche parte (non voglio neanche presupporre che tu sia nello studio, questo luogo mi appartiene!) a sentire la mia voce incisa su nastro. Prova ad usare l’immaginazione, prova a mettere la tua anima nella condizione di assomigliare ad una corda musicale, la quale produce suoni attraverso il tocco del vento. Basta con il volere tutto chiarito: la gente legge un libro e poi fa ricerche morbose per sapere tutto del suo autore, che cosa beve, dove abita, che tipo di mutande porta. Il libro perde ogni potere evocativo, ogni mistero e diventa spiegabile alla luce del profilo psicologico del suo autoredi chi l’ha scritto. La stessa cosa per altre opere d’arte. Perché dovrebbe importare se Van Gogh era pazzo o si annodava le cravatte in un certo modo? È la sua opera che deve produrre emozioni e deve lasciare libero ognuno di raccontarsi la storia che preferisce.
Chi sono io? Una voce su una cassetta. Come tutti noi, ragazzi del padiglione 18, ala B, solo voci. Siamo dei flash, siamo attimi di gioia, di dolore e di follia. Il luogo in cui siamo nati o ciò che mangiavamo o il nostro colore preferito, sei tu che devi evocarli, in modo che ognuno di noi possa avere milioni di storie alle spalle, tante quante sono le possibilità di immaginarle da parte dei differenti ascoltatori. Se raccontassimo a tutti voi, che camminate vivi su questo pianeta, la nostra vera storia, per filo e per segno, rimarremmo per sempre legati ad essa, saremmo classificabili, forse più rassicuranterassicuranti, ma niente altro, solo la stessa trita e ritrita storia, come le vita della maggior parte di voi vivi che, ripeto, camminate su questo pianeta. Niente sconti oggi… non state ad applaudirmi, ragazzi, tanto questo che ascolta sente solo me. Insomma, basta con le chiacchiere e non ti dirò niente di più, usa il cervello se ce l’hai. Quello che dovevo fare, l’ho fatto e non ho tempo da perdere, anzi non ho proprio non rimane molto tempo: appena staccato, ripongo le cassette, tutte, anche la mia, dove il caro zietto le aveva lasciate; spengo le luci; chiudo a chiave lo studio e me ne vado di sopra. A fare che? Cazzi miei! Sono un gay, che se rinascesse vorrebbe esattamente essere quello che è, sono uno che preferisce pensare, anziché credere, sono un vampiro, convinto che fra mille, diecimila, centomila anni, quando nuove stupide regole manderanno avanti una qualche forma esistente di società, quando nuove sanguinarie o permissive religioni avranno sostituito le attuali, quando nessuno si ricorderà più degli stronzi patetici che ora governano il mondo e incitano le masse, quelli come me saranno ancora lì, schiavi o padroni o, semplicemente, integrati, ancora lì, poiché generati dalla natura e non dal pensiero umano. A te, che stai ascoltando questa cassetta, non dirò cosa ho intenzione di fare o non fare. Decidi tu, datti una risposta, scrivi un finale che sia in linea con le tue idee, la tua cultura e la tua religione, se ne hai una. Continua a sentirti dalla parte del giusto e del ragionevole, per me andrà bene comunque.
Padiglione 18, ala B, spalanca le tue porte rosa, sto arrivando! STOP. EJECT.
Maurizio Valtieri (Roma 1963) è autore di diversi lavori teatrali (Accendi la cometa per favore, Mi ami?, Gli imprevisti fanno parte del gioco, Taglia la torta che arriva la morta, Solitudini – Luigi Tenco e Dalida). Nel 2004 è coautore del libro Cuisine italienne gay, créative et facile, pubblicato in Francia, con lo pseudonimo di Davide della Rondella. Lo stesso libro è uscito in Italia nel 2005, per la Coniglio Editore, con il titolo di Cucina gay. 120 è il suo primo romanzo.
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