1978 2ad

1978 romanzo

Alessio Paša

Published by Giuseppe Meligrana Editore

Copyright Meligrana Editore, 2014 Copyright Alessio Paša, 2014

Tutti i diritti riservati ISBN: 9788868150723

In copertina: Paul Gauguin (1848–1903), La femme à la fleur, 1891, olio su tela 70×46 cm, Carlsberg Glyptotek

Meligrana Editore Via della Vittoria, 14 – 89861, Tropea (VV) Tel. (+ 39) 0963 600007 – (+ 39) 338 6157041 www.meligranaeditore.com [email protected]

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Alessio Paša

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1978

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Alessio Paša

Alessio Paša, 59 anni, nato a Genova, ora vive a Domodossola. È formatore e consulente d’impresa e apionato alpinista, corridore e nuotatore. Ha iniziato a scrivere quindici anni fa, realizzando una serie di storie brevi in versi, tra le quali, nel 2009, “Appuntamento con il notaio” è stato pubblicato da Lorenzo Barbera Editore. Per Meligrana nel 2013 ha pubblicato “Occhitelli mariarotta benvolendo sopraspina tornamore se” prima opera della pentalogia che vede in “1978” il secondo episodio.

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I personaggi, i fatti e le località descritte in questo romanzo sono in buona parte frutto della fantasia dell’autore.

1

Il nostro coinvolgimento nella vicenda di Terry è iniziato con un invito a pranzo da parte del padre, John Cordier, il mio capo, un americano figlio di canadesi francofoni, quarantacinque anni, il viso affilato, scuro, gli occhi piegati verso terra, che si rialzano per guardarti solo quando indispensabile, per sottolineare un errore o, più di rado, per comunicarti che in quell’occasione hai lavorato bene. Eravamo seduti a tavola nel soggiorno della loro abitazione di Bolingbrook, trenta miglia a est di Chicago, il 23 ottobre del 1977, domenica, attenti, imbarazzati, e spaventati, anche se Pam, la moglie di John, aveva cercato in ogni modo di metterci a nostro agio. “E tu, Sara, come trascorri le domeniche?” le aveva chiesto John. “Pam sarebbe felice di are del tempo con lei. Le piace frequentare le persone giovani” ha detto rivolgendosi a me. “Certo, Sara, sarebbe magnifico. Qui a Bolingbrook la domenica c’è sempre una novità, un mercato aperto, la pista del ghiaccio, il cinema!” La moglie di John prova a essere brillante, ma il tono tradisce stanchezza e assenza di entusiasmo. “Pam ha tenuto compagnia a quasi tutte le mogli dei miei colleghi” John si è versato un’altra birra. “Bevi anche tu!” mi ha detto “È domenica, oggi.” “In cantina ne abbiamo casse piene!” Pamela si è alzata per preparare il caffè “E sono sempre vuote. Certo che bene non gli fa.” John la ignora, mentre con cura mi riempie il boccale. “Quando vuoi, Sara. Telefona, prima.” Tiene gli occhi bassi, fissi sul piatto vuoto. “Ma puoi venire anche se non telefoni, Pam la domenica è in casa.”

* * *

Sara aveva telefonato a Pam quella stessa settimana, sì, quella domenica sarebbe

rimasta l’intero giorno in casa, si avvicinava Halloween e aveva del lavoro da fare per la festa, che venisse, quando voleva. Ne avevamo parlato insieme, era una buona abitudine mantenere relazioni amichevoli con colleghi e vicini di casa, eliminava alla radice ogni sospetto e ci consentiva di comprendere meglio le consuetudini della località nella quale ci trovavamo, così, tra l’altro, ci era stato detto durante il sintetico addestramento ricevuto nel gennaio del ’77 al nostro arrivo negli Stati Uniti. Io sarei andato alla partita con John e le due mogli ci avrebbero atteso insieme a casa. Quella mattina avevamo dormito sino a tardi, la nostra abitazione, a Rosemont, è a poco più di mezzo miglio da una delle piste dell’aeroporto O’ Hare, stiamo qui da più di un anno e ci siamo gradevolmente abituati al rombo continuo dei jet, che ormai non disturbano più i nostri sonni della domenica mattina. Ci siamo alzati appena in tempo per il mio appuntamento con John, che mi attendeva in un locale sulla strada per lo stadio. L’ho trovato all’interno, seduto davanti a un boccale di birra semivuoto. “Abbiamo tempo, mangiamo qualcosa.” Per me ha ordinato una birra e carne con uova, per sé un’altra birra e un hot dog. “Sono le specialità del locale, la carne è buonissima.” Quando è arrivato il suo piatto, ha iniziato, con metodo, la deglutizione del pane e del grosso wurstel, che taglia in pezzi piccoli, bagna con cura nella senape e porta alla bocca con circospezione. Il locale è semivuoto, poco illuminato, un leggero odore di olio bruciato ammorba l’ambiente, l’anziana cameriera si aggira tra i tavoli zoccolando e scrive le ordinazioni con una biro che tiene appesa al collo con una cordicella. “L’hai vista, domenica scorsa, mia figlia?” non ha atteso la mia risposta e continua a parlare con la bocca piena “Si chiama Terry, ha sedici anni ed è incinta. Il padre è sconosciuto, poiché, come dice lei, negli ultimi mesi ha avuto rapporti con numerosi ragazzi.” Ha terminato il boccale in un solo sorso, chiama la cameriera, per nome, ne ordina un’altra. Guarda l’orologio, non ci vede bene, cerca gli occhiali, non li trova, sono sul tavolo, glieli porgo, li prende, senza ringraziarmi. “Abbiamo ancora una mezzora. La conclusione? Terry si tiene il bambino, nascerà ad aprile, intanto lascia la scuola, sua madre ha detto che poi si vedrà. Hanno iniziato a pensare al nome, se sarà maschio, lo chiamano John

come me.” La cameriera gli ha portato la birra, ha finito il wurstel, e con il pane raccoglie la senape rimasta. “Pam è felice, sarà nonna, giornate piene, svegliarsi la notte, acquistare al supermercato montagne di pannolini, riempire biberon, svezzare il nipote, portarlo ai giardini, esibirlo alle amiche.” “Tutto bene, allora.” “Bene, così pare, così dicono tutti.” Ha insistito per pagare e uscendo mi ha lanciato le chiavi dell’auto. “Guida tu, è meglio.”

* * *

La partita è terminata tardi e abbiamo lasciato lo stadio che erano ate le otto. Nelle due occasioni in cui ero stato da lui splendeva il sole, quindi sono rimasto colpito dal buio profondo nel quale è immerso il quartiere, villette distanti tra loro, l’illuminazione stradale appena sufficiente, poche auto, John guida lentamente, provando a evitare le buche più profonde. Pam è in cucina, china su un lavoro di cucito in un angolo della tavola da pranzo apparecchiata per due. “Dov’è Sara?” ha chiesto John prima ancora che io mi accorgessi della sua assenza. Pamela ha indicato con un cenno del capo una porta alle sue spalle. “È di là con Terry.” John si è voltato verso la porta chiusa. “No, non andare, lascia che parlino un po’.” John è rimasto in piedi, non sembra convinto. “Non ha nessuno con cui confidarsi, le sue amiche non la cercano più, sta tutto il giorno da sola.” Ci ha invitati a sederci e ha posato il lavoro di cucito per andare ai fornelli a scaldarci la cena. “Com’è andata la partita?” Ha chiesto

mentre ci serve una zuppa di patate e cipolle. “Abbiamo perso” John ha già la bocca piena. “C’è della birra?” ha chiesto, dopo aver scrutato attentamente la tavola. Finiamo la zuppa, altre due birre a testa e terminiamo la cena con delle grandi fette di torta al formaggio. Terry e Sara sono ancora chiuse nella stanza della ragazza, John è molto nervoso. “E che bisogno ha di confidarsi così a lungo la ragazza? Perché non escono? Che deve dire? Che cosa? Non capisco.” Fissa la moglie, poi si volta nella mia direzione, parla accalorato, senza interruzioni. “Avrà un figlio, milioni di donne ogni giorno nel mondo partoriscono figli, e ha la fortuna di avere genitori che continuano a tenerla in casa con loro.” Prima di terminare la frase è già in piedi, il cucchiaio gettato sul pavimento, il bicchiere colmo dell’ennesima birra rovesciato sulla tovaglia, la porta della stanza della figlia spalancata, inseguito da Pamela, che è riuscita ad agguantarlo per la manica della camicia. Non ho capito che cosa ha gridato John, né che cosa hanno urlato in risposta prima la figlia e poi la moglie, parlano un misto d’inglese e se, afferro qualche parola, ma non capisco il senso delle frasi, piuttosto ho sentito la voce di Sara, prima soffocata dallo strepito e poi, nitida, imporsi sopra le voci degli altri. Parla in se, lentamente, acchiappando le parole una a una nel vuoto, come con l’italiano, i primi giorni, negli uffici della Render, quanti anni sono ati, Sara. Sono entrato nella stanza, una abat-jour solitaria accesa su una mensola, Terry è seduta su un divanetto e Sara, in piedi, fronteggia John nella semioscurità, Pamela è accanto alla figlia e le tiene delicatamente la mano. Ascolto quello che Sara sta dicendo a John, non deve tollerare, ma amare, sia la figlia sia il nipote che nascerà. Avverto in lei le vibrazioni e le dolcezze della casa delle donne in fuga che frequentava quando veniva in Italia, le ragazze che sorbivano in silenzio il brodo con le farfalline all’uovo. John tace, scuro, gli occhi bassi. “E allora dillo, John, di’ che non ti va bene” gli ha detto Sara, in inglese. “Non che non mi va bene, e a quale padre potrebbe mai andare bene una cosa del genere, una ragazza, poco più che una bambina, un figlio senza padre, una madre senza marito!” John resta con gli occhi bassi, non la guarda, sembra che persino fatichi ad ascoltarla.

“Non è questo il problema, John” Sara lo ha detto piano, distanziando con cura una parola dall’altra. “E sarebbe?” Ora John la fissa, avido, attento. La moglie si è alzata e ora è accanto al marito. Sara si è voltata verso Terry, l’ha presa per mano e l’ha portata davanti ai genitori. “Diglielo, Terry, ora non c’è più ragione di aver paura.” La ragazza l’ha detto a testa alta, non appare riluttante, orgogliosa piuttosto, non è stato un ragazzo, è stato lo zio Fred. “Cosa?” ha gridato il padre “Non ci credo! Stai mentendo. Mio fratello! Ha una moglie e quattro figli!” “Sì, papà, ma è stato lui, e proprio qui, in questa stanza, la sera che siete andati dai Parsons, quando lo zio è venuto per riportare la falciatrice. È semplice, papà, basta che lo chiedi a lui.”

* * *

Rientrando, molto tardi, Sara mi ha preso la mano mentre guidavo. “Credi che abbia fatto bene a far confessare Terry? Lei non voleva, protestava, lo considerava un gesto inutile, che non avrebbe cambiato le cose, l’unico risultato sarebbe stato quello di procurare un dispiacere a suo padre.” “John era a pezzi, non credo che chiamerà suo fratello.” A un incrocio ho avuto un’esitazione sul percorso da seguire, Sara mi ha fatto cenno di non potermi aiutare e, a casaccio, ho proseguito diritto lungo il vialone buio. “Perché non dovrebbe chiamarlo, è suo obbligo farlo, il fratello deve sapere che

lui è al corrente, altrimenti, sco, come potrà ancora vederlo, stare con lui, festeggiare i compleanni dei nipoti, il Thanksgiving e Natale, ma tu…” Mi ha lasciato la mano e ha alzato la voce “…tu cosa faresti? Tu, a tuo fratello, glielo diresti?” “John è un uomo d’oro, sul lavoro è il migliore, efficiente e onesto, lui, cerca di capire, Sara, si difende…” “E Terry, che è, un materasso? Dove chiunque, anche lo zio, può distendersi a suo piacimento? sco, ma hai sentito che cosa hai detto, che John si difende, ma da che cosa? Ma lo hai visto, il tuo John? Quando si è reso conto che la figlia diceva la verità non ha più parlato. E hai sentito quella sciocca della madre? E perché non lo aveva detto subito? E perché lo aveva fatto entrare nel tinello? Se doveva solo riportare la falciatrice non era necessario che salisse in casa.” “Sì, l’ho sentita. Una sciocca, sono d’accordo.” “La verità, sco, per Terry, capisci, non per John. Che ci importa di suo padre, è la ragazza che è nostro compito proteggere.” Lo stradone che abbiamo imboccato termina in un piazzale in terra battuta, qualche pick-up abbandonato e una roulotte con la luce accesa all’interno, ci ho girato intorno e sono tornato indietro. Sara si è accesa una sigaretta, ha iniziato a fumare qui in America, già a San Francisco, appena arrivati. “John vuole far cadere la cosa, tanto per Terry non cambia nulla.” “Girarsi dall’altra parte e far finta di niente, molto bene. E quando Fred viene a pranzo dai Cordier cosa si dicono Terry e lo zio? E Pam? E suo fratello? sco, maledizione, non sta in piedi.” “Parleranno d’altro. Io sono con John, Terry avrà un bambino senza un padre, e questo figlio crescerà senza una famiglia vera. È già una situazione difficile, perché renderla ancora più complessa? Non credi che Terry sia già stata offesa a sufficienza? Vuoi anche che suo padre rompa le relazioni con l’unico fratello? Che tutti sappiano che lo zio ha abusato di lei? John è saggio, inghiotte il rospo, e soffre in silenzio.” “Allora mi stai dicendo che ho fatto male a convincere Terry a confessare la

verità ai suoi genitori?” “Non ho detto questo.” “Quasi.” “No, non hai sbagliato, forse è giusto che suo padre e sua madre sappiano.” “Forse.” Abbiamo trovato la strada per tornare, inizio a riconoscere il percorso, mezzora e saremo a casa. “Sara, sei sicura di Terry?” “Cosa vuoi dire?” “Che non sia stata lei a invitare lo zio prima in casa e poi a bere nel tinello?” “E anche se fosse? Vuoi per caso sostenere che è colpa sua, come sua madre, ma la hai sentita?” Sara ha aperto il finestrino per gettare la cicca, si avvicina, mi prende la mano e mi bacia sul collo. Sono stato a lungo in silenzio, attento a non sbagliare di nuovo strada. “Non vedo l’ora di essere a letto al caldo con te” mi ha detto infilandomi una mano sotto la camicia. “E Terry?” “Domenica prossima ritorno da loro, per un controllo.”

* * *

Ieri, lunedì, John non è venuto al lavoro, e oggi si è presentato alle otto e mezza ate, un orario impensabile per lui, certi giorni, quando Sara era obbligata a

partire molto presto sono arrivato alle sette e John era in officina, in un’occasione sono entrato alle sei e un quarto, e lui c’era, in tuta, a verificare gli attrezzi sui banchi. “Vieni, mi ha detto, ci hanno chiamato dalla Stockon, prendi le borse complete, anche i tester, partiamo subito.” Appena in auto ha voluto spiegarmi che quella mattina era stato in ospedale per delle analisi, e il giorno prima era rimasto a casa ad aspettare un falegname per un lavoro in cucina. “L’appuntamento era alle nove e si è presentato alle due del pomeriggio. Un rimbambito, l’ho detto a Pam, era un lavoro che potevo fare io sabato, ma sabato è il 29 ottobre, due giorni ad Halloween, lei ha bisogno della cucina, ha da cuocere non so quanti dolci.” Si è interrotto, qualche secondo, con un cenno del capo mi indica una donna che esce dall’auto in un parcheggio, prima le gambe e le cosce scoperte, una bionda, non è giovane, ha la sigaretta accesa in mano e chiude la portiera dell’auto con un colpetto di punta della scarpa. “A me quel che cucina mia moglie per Halloween non mi interessa, che faccia, quello che vuole.” Ha guidato in silenzio per un buon quarto d’ora, ho la radio e mi ha detto di spegnerla, ho aperto il finestrino e mi ha pregato di chiuderlo, gli ho chiesto una sigaretta e mi ha risposto che non ne aveva, gli ho parlato del nuovo lavoro di Sara e ha iniziato a grattarsi le mani e poi la fronte. Manca poco allo stabilimento della Stockon, sarà un lavoro lungo, se fossimo stati in tre sarebbe stato meglio. È stato nel pomeriggio, lavoravamo schiacciati dentro un quadro elettrico nel seminterrato, gli è caduto un cacciavite e mi ha chiesto di chinarmi per riprenderlo, lui non poteva, aveva appena lo spazio per respirare, io anche, e per piegarmi sono scivolato tra le sue gambe, allora gli ho chiesto di sedersi delicatamente sul mio collo, così da spingermi in basso per arrivare con la punta delle dita al cacciavite, è stato in quel momento che mi ha detto che Terry aveva visto lo zio. “Ieri mattina, alle cinque, mentre facevo colazione, si era messa la sveglia, figurati se quella alle cinque si alza, da quando fa la donna gravida dorme sino alle undici, dice che è stanca, la scema. Me la sono trovata lì, in camicia da

notte, scalza, con i capelli sugli occhi, è ingrassata, mangia dalla mattina alla sera, uno schifo. Papà, la mamma vuole che sia io a dirtelo, ieri sera ho parlato con lo zio Fred.” Sono ancora piegato in mezzo alle sue gambe, mi è caduta la lampada frontale, si è dimenticato di me, parla, è nervoso, si agita. “Che gli è andata a dire quella sciocca, e perché ci è andata, non si era detto, no, c’eri anche tu a tavola quella sera, qualcuno le ha forse suggerito di andare dallo zio, ti ricordi qualcosa tu?” Strisciando ho ripreso la posizione eretta, sono senza fiato, gli ho chiesto di uscire da lì, si soffoca, non capisco quello che dice, sì, cioè no, nessuno le aveva detto di andarci. “Ecco, è quello che mi serviva sapere, non ci doveva andare, semplice, noi dimenticavamo quella bestialità e lei avrebbe finto di non averci raccontato nulla. Il patto era questo, mi pare?” È riuscito a voltarsi, è basso di statura e ho il suo naso letteralmente dentro la bocca, ho mormorato che non avrei resistito un minuto di più, e lui mi ha risposto seccato di non leccargli, per cortesia, la punta del naso. “E adesso? Sono costretto a parlare con Fred, e per dirgli che cosa? Se con mia figlia gli è piaciuto abbastanza, o se verrà al battesimo di suo figlio e pronipote, o se vuole che lo sfidi a duello, all’alba sulla spiaggia del lago Michigan. Io, sco, ho deciso. A parlare da mio fratello non ci vado, io ho una figlia incinta, e credo che questo basti.” Sono quasi svenuto, intendo appena le sue parole, gli sono crollato addosso, con il mento sulla sua fronte, John ha capito, scivola fuori, mi sostiene e mi aiuta, mi ha chiesto se sto bene e se sono d’accordo.

* * *

La domenica successiva, il 30 ottobre, siamo arrivati tardi, era quasi l’una, John mi aveva chiesto di arrivare presto, per mezzogiorno, per fare due parole, prima. Io non volevo andare, ne abbiamo discusso per l’intera mattinata. Mi vergognavo, per Sara, che aveva indotto Terry a scoprire le carte tra il padre e lo zio, e io ero in imbarazzo, con John, poiché era stata Sara la causa diretta di quella situazione. “Se non inducevi Terry a dire la verità, sarebbe stato molto meglio!” le ho

sussurrato scendendo dall’auto davanti alla casa dei Cordier. Mi ha dato un bacio sul collo. “Un altro, Sara.” “Dopo, quando finiamo con questa cosa.” “No, adesso, lo voglio subito.” Ci siamo baciati, nascosti dietro la cabina del pick-up di John, Sara ha un timore reverenziale delle effusioni in pubblico, anche oggi, tiene gli occhi aperti, mi tiene lontano, non cela l’imbarazzo e la fretta. “Diplomazia e delicatezza, sco, come con le ragazze nascoste nella casa di Anna in Italia” mi ha raccomandato, staccando bruscamente la bocca dalla mia. “Va bene, sarò adeguato, lo prometto.” John non mi ha rimproverato per il ritardo, ha un viso nero, più chiuso e più lungo del solito, con Sara non ha scambiato né un bacino né una stretta di mano, le ha posato la mano sulla spalla, la spinge verso la sala da pranzo. “C’è una novità.” “Che non mangeremo tacchino?” ho provato a sdrammatizzare. Nello striminzito corridoio che adduce alla sala, senza illuminazione artificiale, quasi al buio, sembra che sia John ad appoggiarsi alla schiena di Sara. “C’è anche Fred” ha mormorato un attimo prima di entrare nella stanza. Ed eccolo, il fratello incestuoso, più anziano di John di cinque anni, una testata di riccioli sorprendentemente biondi, le gote arrossate, alto, grosso, rubicondo, la bocca larga, già colma di qualche cibo, una voce femminile, acuta, ci saluta, senza alzarsi in piedi, gridando i nostri nomi, Terry ha raccontato molto di noi, sco, che pronuncia in maniera incomprensibile, e la sua moglie misteriosa, tedesca, gli hanno detto. Sedendosi proprio davanti a lui, Sara è riuscita a lanciarmi uno sguardo atterrito.

“Mia madre è tedesca, io sono italiana, come sco.” “Padre fascista italiano che si è preso una donna ariana durante una visita di partito in Germania” Fred lo ha detto seriamente, senza smettere di masticare. “Mio padre era siciliano, lei conosce la Sicilia? E non si è mai mosso dalla provincia di Trapani, io sono nata e vissuta lì. Mia madre era venuta in vacanza dopo la guerra, papà era pilota di traghetti, si sono conosciuti durante una traversata a Pantelleria.” Grande Sara, precisa, documentata, non ne sbaglia una. “Conosco la Sicilia!” ha proseguito Fred “Sono sbarcato lì nel ‘43, con Patton.” “Trapani è molto lontana dai luoghi dello sbarco.” “Lo so,” Fred è serissimo “sono stato a Trapani, con una missione, nel gennaio del ‘44.” Fred è tra Pamela e Terry, John siede con noi dall’altra parte del tavolo, davanti al fratello. Ho chiesto a Pamela come stavano procedendo i preparativi per Halloween, non mi ha risposto, si sporge verso il centro del tavolo e cerca con gli occhi quelli della figlia, nei piatti è già stato servito il tacchino arrosto, non ci hanno atteso, Fred ha già terminato e reclama gridando una seconda porzione. Si è alzata Terry, indossa una gonna rossa aderente e cortissima, non è bella a vedersi, ha le gambe corte, e cammina con i piedi divaricati. Fred la guarda mentre si allontana in cucina con il suo piatto vuoto da riempire, incitandola a non lesinare, che lui ha fame, gli è tornato l’appetito, come un giovanotto. “Tuo padre non ha combattuto?” ha chiesto ancora a Sara guardando suo fratello. “No, mio padre era del ‘28, troppo giovane per la guerra.” “Hai detto era.” “Sì, è morto cinque anni fa.” “Anche John non ha fatto la guerra, e si vede!” ha urlato ridendo al fratello

“Troppo serio il mio fratellino, sotto le armi si dimentica la tristezza, si impara a ridere di tutto, anche della morte, e non si smette neppure quando si torna a casa.” Più tardi, sazio, abbandonato sul divano, ha chiesto al fratello di accendere la televisione sulla partita di basket. Terry ha portato un recipiente enorme pieno di pop corn e molte lattine di birra e si è seduta sul tappeto, con la schiena appoggiata al divano, vicina alle gambe dello zio. Pam è trincerata in cucina, a preparare i dolcetti di Halloween, John, in poltrona, tiene gli occhi chiusi, fingendo di dormire. La partita è stata molto avvincente, dopo il secondo tempo mi sono avventato sui pop corn e ho discusso con Fred a proposito di certi falli sottocanestro che l’arbitro inusitatamente ignorava, Fred si è dimostrato competente e mi ha spiegato che in quella stagione dell’NBA pareva che agli arbitri fosse stato ordinato di essere meno intrusivi, lui era d’accordo, i giocatori bisognava lasciarli giocare, in fondo cosa è un falletto, se lo puoi restituire un minuto dopo.

* * *

“Tu come la vedi?” ho domandato a Sara in auto tornando da casa di John. Non mi ha risposto, sembra che stia scomoda, si agita sul sedile, abbassa il finestrino, lo riapre. Ha la giacca imbottita chiusa sino al mento e con le mani tormenta il manico della borsa. Le ho preso la mano, morbida, tiepida, che risponde alla mia stretta, un languore dei muscoli e della pelle, una compagna fedele e leale. “Sara, non mi hai risposto.” Parla dentro il bavero della giacca, lentamente, in inglese, che usa quando non ha voglia di discutere. “Lo zio poteva starsene a casa, ha messo in difficoltà tutti.” “Non tutti, Sara, Terry era a suo agio, stava vicino a lui, ma non ho visto malizia, né complicità.” “Terry è una sciocca, poteva fingere di stare poco bene, è incinta, è ragionevole che accada, se ne restava chiusa in camera, togliendo dall’imbarazzo padre,

madre e noi. Ma lo hai visto John? Già ha la pelle scura, ma oggi era viola, e non ha detto una parola.” “Bel tipo quel Fred, nessuna somiglianza con il fratello, né fisica, né caratteriale.” “Non mi piace quell’uomo, dal punto di vista femminile è uno strazio, un ciccione narciso, presuntuoso e fissato, se non sei stato un soldato non vali nulla. Cosa ha detto del fratello? Ah! Anche John non ha fatto la guerra, e si vede! Che uomo stupido!” “Non ti sbagliare, Sara, Fred è un uomo di valore, decorato a Montecassino, imprenditore, possiede una catena di negozi di arredamento per ufficio, un primo matrimonio con cinque figli, poi è rimasto vedovo, una seconda moglie e altri quattro figli…” “E si prende la nipote. Bel valore, sco, un grande, una bell’anima.” È ata all’italiano, e si è aperta la cerniera della giacca. “Intendevo dire che è un uomo di successo.” “E pure un animale.” “John sostiene che i suoi figli lo adorano.” “Ciò non toglie che sia stato un vigliacco, un profittatore.” “Sara, ascoltami, non essere precipitosa, è necessario individuare il contesto, prima di emettere un giudizio bisogna conoscere i dettagli della situazione.” “Ti ascolto, sco, ma solo se sei d’accordo che è un infame.” “Prima di esaminare il contesto?” “Esatto, prima.” “Ma non è metodologicamente corretto.” Si è liberata dalla giacca, ha gettato la borsa e i guanti contro il finestrino e si è tolta il berretto di lana, sciogliendo i capelli sulle spalle.

“Ferma questa macchina! Fermati subito!” “Siamo sulla tangenziale, non si può, non c’è la corsia di emergenza.” Ha messo entrambe le mani sul volante e cerca di farmi accostare, è furiosa, punta i piedi contro le mie gambe e grida, vuole che mi fermi, immediatamente, lei scende, lei non resta seduta in auto con il complice di uno stupro, lei se ne va a casa a piedi, per favore, sco, fammi scendere, adesso, subito. “Stai commettendo un errore” Le ho detto mentre accosto. “E quello che fai è imprudente.” È scesa, sbattendo la portiera, cammina veloce, i capelli al vento, ha lasciato la giacca sul sedile, è senza borsa, senza guanti, senza berretto, il traffico è intenso, mi suonano, devo togliermi, sono obbligato a superarla, lei guarda in terra, dietro le auto mi lampeggiano, sto ostruendo un’intera corsia, rallento, lei mi sfila accanto, ho abbassato il finestrino di destra. “Sara, ti scongiuro! Qui non puoi camminare, è vietato! E se ti ferma una pattuglia della polizia? Pensa alle conseguenze.” Mi ignora, allunga il o, sale con entrambi i piedi sopra il guard rail, si sorregge al palo che sostiene un cartellone stradale, un attimo, si guarda intorno, salta dalla parte opposta, non riesco a vedere, sotto c’è la rampa discendente dello svincolo, con un colpo d’occhio nello specchietto intravvedo la coda di auto che mi preme. Al diavolo la prudenza, sia quel che sia. Ho fermato l’auto, stringendomi il più possibile a destra, sono sceso, in un’ovazione di clacson e di fari lampeggianti, salgo sul guard rail e salto, Sara, innanzitutto, alla polizia dirò che l’auto si era fermata e che ero sceso a cercare un telefono.

* * *

Mi ha forse perdonato solo al mattino successivo, all’alba, quando le ho portato il caffè a letto, alle sei, era imbestialita, contro di me, per il rischio che avevo fatto correre a lei, a me, alla missione.

“Hai lasciato l’auto abbandonata sulla tangenziale, non riesco a crederci, bastava un niente, un poliziotto di aggio, la rimozione, a quest’ora li avremmo qui, a chiederci documenti, a interrogarci, avrebbero capito subito che c’era di qualcosa di strano, non era solo un’auto abbandonata, non sono scemi, gli americani.” Era scappata, come potevo lasciarla fare, il suo gesto non era commisurato a quanto era avvenuto, stavamo discutendo, perché quella fuga irragionevole e dissennata? Sono stato obbligato a rincorrerla, per conoscere il motivo, vero, di quel fastidio profondo, contro di me. “Sarei tornata a casa, prendendo un taxi, sei stato un irrimediabile sciocco, il lavoro di anni, di molte persone, una montagna di denaro, tutto in fumo in un solo minuto per la tua scempiaggine.” “Sei scappata, non era mai successo.” “Non riesco a farmene una ragione, lasciare l’auto su quella strada, aperta, con le chiavi dentro, le luci accese.” “Sara, non c’è alcun motivo che giustifichi il tuo comportamento, andarsene così, come un’occidentale isterica.” “Sulla questione di Terry hai assunto una posizione intollerabile.” “Non basta per spiegare quello che hai fatto.” “Basta, sco, hai giustificato Fred, l’orco. È questo che è inaccettabile.” “Non mi hai portato argomenti sufficienti per spiegare quello che hai fatto” ho ribadito ancora. “Fred è un criminale, e tu stai diventando un americano scemo.” Quando ero riuscito a raggiungerla al termine dello svincolo, le avevo messo una mano sulla spalla, aveva gridato, si era liberata dalla presa, aveva ripreso a correre, l’avevo chiamata, in inglese, e in italiano, e in se, così si era fermata, per chiedermi subito dove avevo lasciato l’auto, dove l’avevo messa, cosa avevo fatto.

“Ti amo, Sara” le avevo detto gridando nel traffico. “Questo adesso è fuori luogo, sei uno stupido, sco.” “Forse sono stato uno stupido, ma io ti amo.” Eravamo tornati all’auto seguendo al contrario lo stesso percorso, arrampicandoci sul guard rail e saltando, prima Sara, a piedi nudi, perché aveva perso una scarpa e teneva l’altra in mano, il foulard rosso in testa, l’auto era lì, i fari accesi. La batteria ancora carica, l’auto era partita, Sara allungata sul sedile, la gonna arrotolata sotto l’inguine, mi sono avvicinato, era sudata, non si era lasciata baciare, mi aveva mandato via. “Io non so se tu conosci il significato delle parole ti amo…” mi ha detto verso le sei del mattino, nella prima luce che illuminava di grigio chiaro la finestra senza persiane e senza tende. “Ma questo non ha importanza, sco, non ha alcuna importanza.”

* * *

Il giorno successivo, il 31 ottobre, Sara è rientrata più tardi del solito, tacchi alti, gonna cortissima, pudicamente celata da un soprabito chiaro appena poco più lungo. Sulle labbra il rossetto è vivo, appena messo, getta la borsa sul divano e siede in punta di sedia nella zona cucina. “Non credi di esagerare?” Le ho domandato indicando la gonna. “Fa molto americano” mi ha risposto sfilando il soprabito senza alzarsi. “E il rossetto?” “Non ti piace il colore?” È rimasta nell’abito corto, con le scarpe calzate, si è accesa una sigaretta. “Te lo sei rimesso da poco, si vede benissimo.”

“Preferisci che arrivi a casa sciatta e sbiadita? Mi vuoi senza colore, disordinata, approssimata?” “Non mi piaci così pitturata.” “Bacchettone, il mio laureato in filosofia, complimenti.” “Non mi stupirei se tu avessi relazioni con altri uomini.” “E se fosse? Che problema ci sarebbe?” “Siamo marito e moglie, Sara.” “Per finta, come sai!” Ritta, un etto dopo l’altro con piedini da bambina, entra in bagno, lascia la porta aperta e continua a parlare a voce alta. “Tra noi, come sai, l’unico vincolo è costituito dalla missione.” “Io ti amo, Sara, sono qui per te, ho abbandonato il mio mondo, per te.” “Per me non hai lasciato nulla e nessuno, per la missione, piuttosto, e questo ti fa onore, amico mio.” “Parli come un’estranea, Sara, abbiamo vissuto insieme quattro anni magnifici, incollati l’uno all’altra, ventosa contro ventosa, ma che dici, che ti è successo?” Ho sentito scorrere la doccia e la sua voce gridata raggiungermi filtrata dallo scroscio dell’acqua e dalle pareti di vetro del box della doccia. “Il contratto era chiaro, sco, finto matrimonio per vincere la battaglia finale.” “E la nostra intimità, Sara? Ci corichiamo insieme ogni notte, quante volte abbiamo fatto l’amore? Prova a contarle, centinaia, migliaia.” Ha chiuso l’acqua, infila l’accappatoio, le unghie dei piedi curate, i capelli che gocciolano neri sul collo e sul petto. “Abbiamo reciprocamente bisogno dell’altro.” Voce asciutta, dizione ad alta velocità, senza imbarazzi. “E il mio amore?” Sta usando l’asciugacapelli, forse non mi ha sentito. “E il mio

amore per te dove lo mettiamo?” Ha spento, i capelli sparsi sopra gli occhi, nell’altra mano una spazzola dalle setole cortissime. “Usi questa parola a sproposito. Il fratello di John l’ha pronunciata mentre abusava di Terry.” “È una supposizione.” Ha ri il phon, osserva nello specchio i capelli arricciarsi intorno alla spazzola. “No, è la verità, me lo ha detto la ragazza.” “E tu ci hai creduto?” “Era sincera.” “Sara, Terry ha solo sedici anni.” “Lo zio Fred, le ha detto che l’amava.” “Sara!” “Anche tu mi hai detto che mi ami.” “Che sciocchezza, Sara. Stacca quell’arnese, non riusciamo a parlare.” Ha scrollato le spalle, e non ha spento l’asciugacapelli. “Stai attento a quello che dici, Chicco, e cerca di utilizzare le parole adatte. Quello che ha fatto Fred è grave, oggi hai visto John?” “Sì, abbiamo lavorato in officina a un quadro per la Stockon, lo andiamo a installare domani.” “Come ti è sembrato?” “Come sempre, lo sai, John non è molto ciarliero.” “E adesso lo è meno di prima.”

“Forse, Sara.” “Forse sì o forse no?” Senza spegnerlo ha posato l’asciugacapelli nel ripiano sotto il lavandino. “È pericoloso, Sara, c’è il rubinetto aperto potrebbe bagnarsi.” “Rispondi, sco, forse sì o forse no?” “Se l’acqua entra nel motorino provoca un corto circuito.” “John è molto turbato, sco, domenica, a tavola, questo suo stato era evidente. sco, è una questione serissima, e tu non te ne rendi conto.” “Sara, stacca quell’aggeggio, non riusciamo a sentirci, per parlare dobbiamo gridare, ed è molto pericoloso.” “Se lo zio Fred non sparisce dalla vita di Terry e di suo fratello la caldaia esplode. John può sopportare che sua figlia sia incinta, e persino che il padre sia suo fratello, ma non può in alcun modo accettare la normalità di questa situazione, Fred che viene a pranzo la domenica, Fred che siede sul divano accanto a Terry a guardare la partita scambiando amenità con il comune amico sco.” “Sara, un corto circuito provoca una sovratensione che farà aprire l’interruttore termico, resteremo al buio, dovrò scendere in cantina a cercare il termico per richiuderlo, naturalmente dopo aver spento l’asciugacapelli, altrimenti l’interruttore resta aperto e la luce non ritorna.” “John non reggerà, credimi, sco, non ce la farà.” Ha fatto cadere l’accappatoio a terra, è nuda, ha ripreso in mano l’asciugacapelli, un corpo meraviglioso, le spalle minute, le gambe perfette, i piedi tenuti appena divaricati, e questi capelli, neri neri, sparsi sulla schiena, animali vivi sulla pelle olivastra, si pettina, con cura, scoprendo l’ascella depilata, il suo odore di femmina, lo sento, forte, scuro, definitivo. “Domenica cerca di farti invitare nuovamente a pranzo, l’anello debole ora è John, e noi dobbiamo proteggere lui per difendere Terry.”

* * *

La domenica successiva, il 6 novembre, al pranzo a casa di John il fratello non era presente, Pam si è premurata di giustificarlo, il figlio più piccolo, un ragazzo di vent’anni, esordiva quella domenica con la squadra di basket del college e Fred non poteva mancare. “Speriamo possa liberarsi più tardi!” ha esclamato John, provando, senza successo, ad essere sarcastico. “Questo pomeriggio c’è del grande football, da non perdere.” “Ha detto che viene, ma non sa a che ora” ha risposto Terry sottovoce. “Molto bene, lo zio tiene informata la nipote, la avvisa degli orari, si dispiace in anticipo per il ritardo…” John ha gridato, quasi certamente senza accorgersene. “Io sono il fratello, padre di sua nipote, e ho diritto di sapere” ha gridato più forte, calando sulla tavola un pugno violento. Pamela si è spostata dietro Terry. “John, smettila, ci sono sco e Sara.” Accarezza la figlia sulla testa e sulle spalle. “E oggi è domenica.” “sco è un mio operaio e la sua bella moglie ha iniziato questo casino.” È balzato in piedi, allarga le braccia, parla a voce alta. “Ci ho riflettuto a lungo, ma non sono riuscito a darmi una spiegazione, Terry, sì, tu, il danno, era già stato provocato, che motivo avevi di coinvolgerci? Adesso quello si sente in diritto di venire qua, ci hai pensato a questo? Hai usato il cervello piuttosto che…? Lasciamo perdere, hai capito benissimo cosa intendo dire.” Siamo seduti da pochi minuti, i piatti ancora vuoti, Terry è in pigiama, Pamela, la gonna marrone molto lunga e stretta, calza sandali aperti manifestamente fuori stagione. John, in blue-jeans e camicia bianca, ha una sigaretta, e per portacenere sta utilizzando il bicchiere pieno a metà di acqua. “Sara, sto parlando a te.” “Sì, John, ho sentito.”

“Vorrei una risposta, in quanto siedi con noi, dato che vieni qua, e parli, e parli. La famiglia è la mia, e Terry è mia figlia. Accidenti, sco, ma non potevi dirle di stare al suo posto, ma che motivo c’era, che motivo, che ragione?” Sara non si è scomposta, fissa John con uno sguardo divertito, è gaia, distesa, a suo agio. È molto bella oggi, mia moglie, un abito nero molto attillato, e scarpe basse dello stesso colore, John l’ha notata, quando siamo entrati, e l’ha guardata camminare nel corridoio. “Terry” ha chiesto Sara alla ragazza “Come stai oggi?” “Non troppo bene, Sara, stamattina ho vomitato.” La madre la massaggia con distacco sulla nuca, è voltata di lato e sta osservando qualcosa fuori, nel giardino dei vicini. “È normale, Terry, nei primi mesi” ha proseguito Sara. “Sì, Sara, grazie, so che erà presto!” La ragazza si è rianimata, gli occhi si sono accesi, ha bevuto un bicchiere d’acqua. “Mamma, quando possiamo iniziare a mangiare?” “Quando tuo padre termina di fumare.” Si è spostata un poco all’indietro, senza smettere di accarezzare la figlia, guarda con insistenza fuori dalla finestra. “L’hanno comprata, alla fine” ha mormorato per proprio conto. “Che cosa, Pam, che dici, che c’entra?” le ha gridato contro John. “Cerca di stare con noi, se puoi.” “Gliel’hanno presa, nonostante tutto, ma che coraggio, e che faccia” Pam ha lasciato la testa della figlia e si è avvicinata alla finestra. “John, la macchina, hanno acquistato l’auto nuova per il ragazzo, guardalo, il buono a nulla, con quello che gli ha fatto are, e quelli, scemi, gli hanno preso l’automobile, e se la lucida, l’inetto, certo che se lo meritava un premio, con tutti i soldi che ha fatto spendere a suo padre in avvocati.” È tornata dalla figlia, riprendendo distrattamente a carezzarla come poco prima “Proprio un bel modo di educare i figli, proprio il sistema migliore.” John ha spento la sigaretta, la moglie gli ha sostituito il bicchiere con uno pulito e ha iniziato a servire la carne e le verdure.

“Vuoi della birra, John?” gli ha chiesto la moglie. Terry è andata a sedersi accanto a Sara e sua madre le ha spostato il piatto, le posate e i bicchieri. John ha fatto cenno alla moglie che sì, certo, che gli portasse la birra. Le ha chiesto se riusciva a riconoscere il modello. “Non vedo bene…” Pamela è tornata alla finestra “Una Ford, direi, ma non riconosco il modello, nuova, comunque, appena presa, ieri, secondo me l’hanno presa ieri.” “È possibile” ha soggiunto John “Li ho visti, padre e figlio, prendere l’autobus ieri dopopranzo, strano, mi sono detto, quando mai Tom è sceso in città con l’autobus?”

Fred è arrivato a metà pomeriggio, verso le diciassette, John, approfittando di una pausa pubblicitaria durante la partita, era sceso un momento in garage, Pamela e Sara erano in cucina e Terry coricata sul divano. Ho accolto io Fred, l’ho visto arrivare e gli ho aperto prima che suonasse al camlo, è entrato, spostando la mole del suo ventre grasso, il viso candido e i capelli biondi su per i quattro gradini esterni e poi lungo il corridoio semibuio. Non mi ha salutato, non si è levato il giaccone, ha visto la ragazza e, senza togliere i guanti, né il berretto, rubizzo e gelato, e atletico, perché alla sua età non credevo possibile tanta agilità, si è inginocchiato sul tappeto all’altezza del viso della ragazza, si è chinato su di lei e, davanti a me, l’ha baciata sulla bocca, a lungo, e lei lo ha abbracciato intorno al collo, e mentre si lascia baciare gli accarezza la guancia, la testa, il mento, la fronte, quanto, un minuto, forse due. Lo zio si è raddrizzato, arretrando verso la porta di casa e Terry si è voltata di fianco, proprio quando è rientrato John, che, lanciando un’occhiata alla figlia, ha notato la presenza del fratello. “Dorme” ha detto a Fred e a me “Non fa altro che dormire, meglio, sotto un certo punto di vista.” “Deve riposare, povera ragazza” ha soggiunto lo zio Fred, berretto, guanti e giaccone indosso, è in piedi, molto vicino al divano a un o dal groviglio di capelli ricci di Terry. “Che fai lì in piedi, togliti la giacca, ora facciamo spostare la povera ragazza, tra

poco inizia il quarto tempo.” “Lascia Terry dov’è, la partita non è poi quel granché.” Fred si è levato il berretto e sta sfilandosi i guanti. “Dove sono le donne?” “Quelle vere…” gli ha risposto il fratello chinandosi sulla figlia e scrollandole con energia le spalle “Quelle sono in cucina a fare una torta, mentre questa…” Ha preso Terry per le gambe e sta provandosi a metterla seduta “Questa invece ora la mandiamo di là!” La ragazza è rimasta mezza sdraiata, il viso schiacciato contro i cuscini. “Piano, John, fai piano, accidenti” Fred ha la voce tonante, venata d’ansia. John lo ignora, infila una mano sulla fronte della figlia e cerca di alzarla, la ragazza oppone resistenza, ha rimesso le gambe sul divano, tenta di distendersi di nuovo. “Lasciala lì, John, non voglio vedere la partita, non mi interessa.” Il padre l’ha presa, con entrambe le braccia, la solleva di peso, è sbilanciato, non riesce a raddrizzarsi, la ragazza scalcia, rischiano di cadere entrambi. “John, sei un cretino, lasciala” Fred è intervenuto, spinge di lato il fratello e con le braccia cerca di sostituirsi alle sue. “Lascia, la tengo io!” grida, è un uomo grasso, ma possente, sovrasta il fratello, con la statura, il peso, la forza e la voce, grida. “Mollala, la prendo io.” Sono arrivate Pamela, con le mani sporche di farina, e Sara, in grembiule bianco, le ho rivolto un’occhiata interrogativa, alla quale ha risposto con un cenno del capo, lascia correre, non è il caso di intervenire. Pamela, sulla porta della cucina, gli occhi immobili, osserva con stupore suo marito combattere per qualche secondo una battaglia di spintoni con il fratello, che prevale, ha acchiappato la nipote, la solleva, senza stringerla, badando a mantenere il necessario distacco tra il suo corpo e quello della ragazza. Chiede dove sia la camera. “Sì, perdio, dov’è la sua camera da letto.” John gli ha indicato la direzione e il fratello, a larghi i, ha infilato il breve corridoio che conduce alla stanza, mi è ato vicinissimo, e ho notato il braccio di Terry intorno al collo dell’uomo e l’altra mano appoggiata sul suo

petto, ho visto anche i suoi occhi spalancati, non per lo spavento, teneri, piuttosto, colmi di dolcezza adolescenziale, il calore dei sogni ripetuti, il vento che spinge lontano dalla noia e dall’aridità, la luce di un futuro delicato, colmo di eventi meravigliosi. Ci siamo spostati in cucina, John in piedi davanti alla finestra, Pamela accanto al forno, Sara si è avvicinata, le ho mormorato che era meglio andare via. “Qui adesso non serviamo più, per ora, almeno.” Mi fatto cenno di no, che in quel momento non era giusto lasciarli soli. “Lo zio è ancora di là, con lei” le ho sussurrato. “Sono trascorsi due minuti” ha precisato. “Troppi, dovrebbe essere già qui. Sara, andiamo, Terry ora non possiamo aiutarla.” John si è spostato dalla finestra e ha chiesto alla moglie se la torta era già in forno. “Perché? Perché lo chiedi?” gli ha risposto incerta Pam “No, devo ancora terminarla.” “Avanti, allora, moglie, impasta la torta!” Si è seduto dall’altra parte del tavolo “Io resto qui a guardarti.” Dopo quindici minuti la torta è impastata e modellata, Pam stende la marmellata e guarnisce la superficie posandovi dei bottoncini di pasta rotondi di diametro diverso. “Ora possiamo andare” mi ha detto Sara. “Troppo tardi, non c’è più nulla da fingere di non vedere, siamo stati testimoni, davanti a John e Pam. Dovevamo andare via subito.” John si è alzato e ha il forno, ha chiesto a quanti gradi, e come regolare il timer, poi ha aperto lo sportello e ha aiutato la moglie a inserire la teglia con la torta.

“Venti minuti” ha sentenziato Pam “A Terry piace la crostata di marmellata di mirtilli.” Sara mi ha preso la mano con la sua, calda, morbida, delicata. John è tornato davanti alla finestra e Pam ha iniziato a svuotare un pensile pieno di bicchieri, li posa con attenzione sul tavolo, dividendoli per dimensione e colore. Lo zio Fred è uscito dalla stanza di Terry prima che la cottura della torta fosse terminata. Abbiamo sentito la porta della camera della ragazza chiudersi, i suoi i da bufalo nel corridoio, in soggiorno ha urtato il tavolo, che ha strisciato rumorosamente sul pavimento, ancora i suoi piedi sulla moquette verde dell’entrata, la porta esterna aperta, e chiusa con cautela, senza rumore. “Ora dobbiamo proprio andare” mi ha detto Sara sospingendomi fuori dalla cucina. John e Pamela ci hanno impedito di andare via. “Proprio adesso no!” ha esclamato Pamela. Sara ha annuito e si è seduta accanto alla donna, abbracciandola delicatamente. John è rimasto in piedi con il naso incollato al vetro della finestra. “Vado un po’ da lei” ha detto Sara. “No!” ha risposto Pamela con un filo di voce “Resta qui, dobbiamo parlare.” Ha indietreggiato, facendo stridere la sedia sul pavimento e liberandosi dall’abbraccio di Sara. “Io credo che tutto sia iniziato quando Charlie l’ha abbandonata, ma voi…” ha soggiunto lanciandoci una occhiata smarrita “…non credo che sappiate nulla di Charlie, né della relazione che ha avuto con Terry. John, vieni, siediti, e anche tu, sco, ascoltate.” Charlie era il coetaneo di Terry della porta accanto, sempre per casa, chiamava zii John e Pam, un bambino allegro, troppo basso, forse. Quando Terry e Charlie sono diventati ragazzini di dieci o undici anni, giocavano insieme, talvolta coinvolgendo Tom, il fratello più grande di Terry, adesso laureato in biologia e dipendente di una azienda farmaceutica a Houston, che allora ne aveva diciotto. Pamela è certa che i due ragazzini abbiano iniziato a scambiarsi effusioni molto presto e che abbiano avuto i primi rapporti verso i dodici anni.

“Non dire sciocchezze, Pam, a quell’età è impossibile” ha detto John che, in piedi alla finestra, assorto nell’osservazione di qualche dettaglio esterno, ci rivolge la schiena. “Terry ha avuto le prime mestruazioni a undici anni” ha precisato Pamela. “Non parlavo di lei, Pam, per la femmina, si sa, è più facile. Mi riferivo a Charlie.” “Per la femmina non è più facile, John, se non vuole, e se non è ancora sviluppata, ma Terry voleva, ed era fisicamente matura e Charlie era nelle condizioni di farlo, e lo desiderava, come Terry. E non dimenticare che Tom era partito e non sarebbe tornato se non per brevi periodi di vacanza.” “Che vuoi dire? Che c’entra Tom? Tom è suo fratello.” “Esatto, era rimasta sola, con noi due.” John si è accucciato tra Pamela e Sara e si sostiene con entrambe le mani appoggiate sul bordo del tavolo. “Come milioni di altre ragazzine, credo.” “Non importa se erano milioni, Terry era qui, sola, tu al lavoro, lontano, erano gli anni dei progetti di Las Vegas e poi di Albany, settimane fuori casa, io il giorno intero con papà e mamma malati, te lo ricordi, spero, sono ati solo quattro anni!” Pam ha accelerato la frequenza della parlata, si mangia i sostantivi, è difficile seguirla. “Come milioni di altre ragazzine americane…” ha ripetuto John alzandosi di slancio in piedi. “Non so cosa facevano queste milioni di ragazzine, il fatto è che la nostra di certo si accoppiava con Charlie, non so dove, avevano due appartamenti a disposizione, forse sul nostro letto, o forse sul tappeto bianco del salotto di Charlie.” “E tu come supponi questa cosa? Li hai visti? Li hai colti sul fatto?” “Terry a tredici anni è rimasta incinta, e io l’ho fatta abortire, tu non c’eri, non hai mai sospettato nulla…” John è impallidito e si seduto, molto vicino a me, fissando la moglie sbalordito. “Poi Charlie, sei mesi fa, l’ha lasciata,

all’improvviso, senza motivo, non so che dire, l’ho incontrato molte volte, cortese, cordiale, si informava della mia e della tua salute, ma di Terry non ne voleva più sapere. Tu sei mesi fa eri in Sudafrica, lo ricordi, due mesi esatti via da casa, così non hai mai saputo nulla.” “Così un giorno è arrivato lo zio a consolare la nipote…” Pamela non ribatte, ha messo le mani aperte sul viso, piange, credo. “È questo che vuoi dire? Che una ragazza di sedici anni, che vive decorosamente con la sua famiglia, che è stata lasciata, come altre milioni di ragazzine, dal suo fidanzatino, ha bisogno per consolarsi…”

* * *

Alle nove di mattina del lunedì successivo John non era al lavoro, ho domandato ai colleghi se avesse avvisato, ma nessuno sapeva nulla, anche al centralino non risultava alcuna chiamata. Dieci minuti più tardi ha telefonato Sara. “Mi ha chiamato Pamela. Stamattina prestissimo John ha svegliato Terry, l’ha fatta vestire e le ha ordinato di prepararsi la valigia” Sara parla veloce, mangiandosi le parole “Terry strillava, John l’ha presa a schiaffi e quando Pamela è arrivata piangeva distesa sul letto, mentre il marito riempiva furiosamente una sacca della sua biancheria e degli abiti che strappava a manate dall’armadio, una furia. Pamela mi ha raccontato che ha spinto anche lei, ha preso Terry di peso, per la porta interna l’ha trascinata in garage e l’ha gettata nell’auto, in camicia da notte, scalza, le ha buttato addosso una coperta e un cuscino ha aperto la basculante del garage con un calcio ed è partito, saranno state le quattro.” “Dove andavano?” “John ha un cugino che vive in Arizona, a sud di Tucson, vicino al confine con il Messico, Pamela sostiene sia andato là.” “Sono quasi duemila miglia!” “Non so che dirti, sco, se non che, a questo punto, non possiamo fare

davvero nulla per loro.” Concetto che ha ribadito a casa, la sera, scura, dura, inavvicinabile, per cena ha sbocconcellato un po’ di pollo, lasciando metà della porzione nel piatto, ha preparato del tè e si è distesa sul divano posando la tazza sul tappeto, le braccia tese sopra la testa e la gonna arrotolata sotto la schiena a scoprire le gambe sin quasi all’inguine. “Dobbiamo aspettare, sco, duemila miglia, dove saranno, ora?” Ho controllato l’ora e ho calcolato che, senza mangiare e fermandosi solo per il carburante, forse si trovavano a metà strada. “Accidenti, sco, ieri dovevamo intervenire. Ce ne siamo stati lì, come statue, mentre lo zio, accidenti, faccio fatica a pensarlo.” “Non potevamo certo precipitarci in camera di Terry.” “E perché no?” “C’erano i suoi genitori, eravamo a casa loro, spettava a loro, e loro hanno deciso di lasciar correre.” “Ma li hai visti, sco? Sembravano due maiali nel cortile del macello. Che ragionamenti erano in grado di fare, che decisioni potevano prendere?” “Sono il padre e la madre, Sara!” “Terry è una donna.” “Minorenne, non dimenticarlo.” “Donna, prima di tutto, con un parente anziano addosso. Ma la vedi la scena, quello, grasso, ma lo immagini Fred nudo, con quella trippa che gli balla sino alle ginocchia, la pelle arrossata, non si è neppure tolto gli occhiali, non ha chiesto permesso, ma non ha fatto in fretta, sapeva che suo fratello non sarebbe venuto a disturbarlo.” “Non ho sentito Terry urlare. Poteva scappare, sottrarsi. E se fosse consenziente?”

“Di nuovo! sco, ancora con questa idea!” È balzata in piedi, urtando la tazza colma di tè che si è rovesciato sul tappeto, è davanti a me. Mi affibbia un ceffone, a sorpresa, secco, deciso, sonoro, violento. “Sei matta? Sara, sei una pazza, con te non si può più parlare.” “Non così, di queste cose!” Cerca di allungarmi un pugno diretto in viso, ma riesco a intercettarlo e a deviarlo sulla spalla. “Basta, Sara, smettila.” “Smettila tu, sco, cessa di dire sciocchezze e cerca di essere più attento.” Si è seduta, scalza, le gambe divaricate, la testa china, i capelli sul viso. “Terry è una poveretta, con il cervello di una formica e quello, lo zione, ne fa quello che vuole. Ieri dovevamo intervenire, siamo in colpa!” Ora mi guarda con attenzione, ha sistemato i capelli dentro la camicia e il viso è in piena luce. “Ti ho fatto male, Chicco?” “Non troppo, amore mio.” “Me lo devi promettere, da questo momento basta arrendevolezze e sofismi. Terry va difesa, la porteremo via da lì, ovunque sia, e la proteggeremo. Ci saranno in questo paese delle case famiglia per le donne! E se non ci sono o lei non volesse andarvi la teniamo qui, a casa nostra, nascosta, qualche mese, il tempo che al Fred i il prurito.” “E se ciò fosse pericoloso?” Mi ha lanciato un’occhiata, è una donna affascinante, credo che sul lavoro abbia una pletora di uomini che la corteggiano. “Alle questioni della sicurezza penso e provvedo io. Qui il comandante sono io.”

* * *

L’intera settimana è trascorsa senza nuove a proposito di Terry, Sara ha sentito al

telefono Pamela un paio di volte, John effettivamente era andato dal cugino in Arizona, si era fermato qualche giorno e stava rientrando, era previsto arrivasse per sabato sera. E invece venerdì Sara mi ha aperto mentre stavo inserendo la chiave nella serratura della porta di casa, una stranezza, trovarla a quell’ora, lei che d’abitudine rincasa molto tardi. “Mi ha chiamato Pamela.” È ancora abbigliata da ufficio, fuma, è insolito, una sigaretta senza filtro. “John è già rientrato?” “No, lo zio ha scoperto il nascondiglio di Terry, o meglio, io credo sia stata Terry a rivelargli dove si trovava. Due ora fa lo zio Fred l’ha prelevata, sono già partiti, in aereo, arriveranno qua a Chicago tra tre ore.” Accenna alla pista dell’ O’Hare che romba dietro casa. “E John?” “Lui sta tornando in macchina.” “E Pamela?” “Mi ha chiesto se posso andare lì da lei. Ti aspettavo, ora vado.” “E io?” “Resta qui, se c’è bisogno ti telefono.” Mi ha chiamato alle dieci di sera, parla sottovoce, faccio fatica a capire. “È arrivata, ha litigato con sua madre, poi ha detto che se ne andava, ha telefonato a qualcuno e ha iniziato a preparare le valige. Vieni prima che puoi.” Sara aveva l’auto, così ho chiamato un taxi, che ho atteso quasi venti minuti, arrivando da Pamela mentre Terry aveva già iniziato a caricare le sue cose su un pick-up guidato da un anziano uomo di colore. Pamela è sulla porta, ogni volta che la figlia le a accanto allunga la mano e cerca di toccarla.

“Terry, è questa la tua casa” le mormora debolmente. La figlia, impettita, non risponde, si muove con energia, trasporta con disinvoltura pesi considerevoli, ha preso anche il comodino, è in tuta, scarpe da ginnastica macchiate di fango, i capelli allacciati in una treccia disordinata. Sara è nella camera della ragazza, la aiuta a svuotare i cassetti e a riempire delle scatole di cartone che Terry stessa ha scovato in cantina. “Forse non dovresti agevolarla in questo modo” ho detto a Sara mentre Terry è impegnata in un viaggio al pick-up. “Perché no?” “Perché forse questa fuga non le fa bene.” “Mentre invece stare qui la rende serena?” mi ha risposto chinandosi ad arrotolare il tappeto. “John cosa ne direbbe?” “John non c’è.” “Quando torna sarà contrariato, anche dal fatto che tu e io non abbiamo fatto nulla per fermarla.” “sco, se vuoi dissociarti fai pure, mi assumo io l’intera responsabilità.” “Non è questo il punto. Solo ieri sera dicevi che proteggere Terry era imperativo, portarla via, in una casa famiglia, via dallo zio sporcaccione.” “Ho parlato con lei, prima che tu arrivassi, non riesce più a pensare di restare qui con il padre e la madre. È stata molto esplicita, al proposito, qualcosa si è rotto in questa famiglia, e Terry ne soffre acutamente.” “Sei contraddittoria, Sara.” “No, io faccio gli interessi della ragazza.” “Se ne va a stare con lo zio, due mogli e nove figli, non è raccapricciante?” Ha allargato le braccia, spiegando che il destino talora offre delle opportunità

poco convenzionali. “Filosofia orientale da quattro soldi, Sara.” Non mi ha risposto, allontanandosi per aiutare Terry a trasportare il baule delle sue cose vecchie. “Stai lì, tranquillo, pensiamo noi a tutto, due donne, una incinta.” Ho aspettato che tornasse, e che fossimo soli, per dirle che non era giusto che mi mettesse così in difficoltà, e che davanti a Terry mi fe are per un inetto. “Certo che sì, sei inutile, potresti tornare a casa. Se non sei d’accordo vattene, altrimenti dai una mano, è molto semplice, mi pare.” Ha tolto le lenzuola dal letto e le ha piegate con cura. “Ma si porta via tutto?” “Tutto quello che le serve.” “Pamela ci resterà malissimo.” Ha interrotto il lavoro delle lenzuola, ha indosso gli stessi abiti da ufficio con i quali è partita da casa, la gonna troppo corta, devo dirglielo, è equivoca, non è adatta a lei. “Basta, sco, basta adesso!” È rientrata Terry, è sulla soglia, suda, sulla fronte e sul collo, gli occhi accesi, comunica vigore, determinazione, felicità, forse. “Sì, anche Terry può ascoltare!” Ha lasciato cadere sul materasso il lenzuolo ancora da piegare. “Devi smetterla di giudicare Terry dal punto di vista di suo padre, di sua madre, dei vicini di casa, del presidente degli Stati Uniti, del padreterno. Prova a guardare le cose dalla sua parte, cerca di interpretare le ragioni che la muovono, le cause che la spingono a queste scelte, prova a immaginare che significa per lei lasciare la sua stanza, quella dove vive da quando è nata, traslocare le sue cose, a sedici anni, lo capisci, testone, a sedici anni! Non è importante ciò che eventualmente soffrirà Pamela, ciò che conta è quanto tutto questo sia decisivo per lei.”

Stavo per rispondere, ma mi ha chiesto di stare zitto. “Non adesso, sco, non è il momento.” Hanno terminato di caricare il pick-up, Terry abbraccia Sara sul marciapiede, sale sul mezzo, Sara le tiene la mano, l’autista ha avviato il motore, Sara si muove insieme al pick-up, senza lasciare la mano della ragazza, alla fine la bacia sulla fronte. Pamela è sui gradini di casa, per tutta la durata del trasloco la figlia ha evitato di parlarle e, andando via, non l’ha salutata.

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Alle otto del lunedì 14 novembre ho trovato John alla sua scrivania in officina, indossa, come ogni lunedì, la tuta pulita, sta sistemando la posta e i messaggi che si sono accumulati durante la sua assenza, John ha le mani pulite, usa i guanti, quando gli è possibile, e le lava di continuo, impastando con energia pasta abrasiva e pelle, verificando la scomparsa di ogni segno di grasso e di ogni altro genere di sporcizia. “Hanno appena chiamato dalla Stockon, prendi la borsa completa, vai subito.” “Da solo?” “È il quadro dell’altro giorno, due interruttori bloccati.” Al ritorno, a metà pomeriggio, John è già uscito. L’ho rivisto la mattina successiva, appena il tempo per comunicargli che da Stockon non ho terminato. “Vai, prenditi il tempo che ti serve, e portati qualcuno, Jack dovrebbe essere libero!” Sembra più magro, è energico, disinvolto, contro la sua abituale ombrosità, la sua proverbiale ritrosia. “Jack, Jack!” grida, avendo intravvisto l’operaio are alle mie spalle. “Oggi vai con sco, alla Stockon”. Gli occhi si accendono di entusiasmo mentre registra il cenno di disponibilità dell’operaio “Super. Grazie, Jack, grazie!” Torna seduto, a catalogare i depliant di una vecchia fiera. “Bene, Jack, ti aiuterà.” La sera ho detto a Sara che John manifestamente mi evita, sfugge il mio sguardo

e cerca in ogni modo di allontanarmi dall’officina. “È comprensibile, lo sai dove è andata a stare Terry?” L’ho capito da solo, senza bisogno di ulteriori spiegazioni. “Abitano insieme, in un residence, a Westchester.” “Sono una quindicina di miglia da qui.” “Sì, siamo molto vicini!” ha soggiunto sarcastica Sara. “Sarebbe facile vedersi, per un drink, magari a metà strada.” “E la famiglia di Fred?” “Pamela mi ha detto che sono informati, e sembra che i più inquieti siano i figli della prima moglie, hanno il doppio degli anni di Terry, la più grande, Tina, ha trentaquattro anni e ha già una ragazzina di dodici anni, quattro meno di Terry!” “E la moglie attuale?” “Non è dato saperlo, lei non parla con Pamela, e Pamela non se ne lamenta, non si piacciono, pare. E c’è di più, sco, abitano insieme da cinque giorni, e Fred ha già dichiarato, a uno dei figli, che chiederà il divorzio dalla moglie e che sposerà Terry.” “In America uno zio può sposare la nipote?” “Non lo so, ma non importa. Ciò che conta è che lo abbia detto. Ho sentito Terry. Ho chiuso la comunicazione poco prima che tu arrivassi.” Si è interrotta, accende una sigaretta, ha preso l’abitudine di fumare con il bocchino, per fumare meglio le sigarette senza il filtro. “Vado da lei domani, a cena, senza di te, me lo ha chiesto lei.” “Sei sicura di quello che fai?” “Perché, quali controindicazioni ci sono? Creo qualche problema a qualcuno?” “No, a nessuno, ma a noi, a te, che serve tutto questo? Chi è Terry, chi è Pamela? E chi John? Che mi saluta appena!” “Vorrei ti trovassi nei suoi panni. La prima cosa che desidereresti è essere

lasciato solo, credere che nessuno sappia, dimenticare e far dimenticare.” “Non sono John, e non credo che mi troverò mai in una situazione di questo genere.” “Presuntuoso.” “No, Sara, si tratta solo di intelligenza, e di amore. Li hai visti quei due, John e Pamela, ti sembrano un marito e una moglie? Una coppia? Due che si amano?” “Sono sposati da venticinque anni.” “E allora?” “Che il rapporto di coppia si modifica, le ioni si raffreddano, i desideri non sono più gli stessi.” “Sara, ma che dici? Tu? Proprio tu?” “Sì, sco, che cosa ci trovi di strano? Sono una coppia come milioni di altre…” “Che, come milioni di altre genera figli ai quali troppo presto cessa di voler bene a sufficienza, lasciandoli senza riferimenti, privi di guida affettiva.” “Non sono milioni.” “No, per fortuna, ma sono moltissimi. Terry non è un caso raro. Altrimenti come spieghi il comportamento della ragazza. Pensa a quello che ci ha raccontato Pamela, la relazione con Charlie, il figlio dei vicini, rapporti a dodici anni, gravidanza e aborto a tredici, se questa non è incuria da parte dei genitori…” “Io cerco di aiutarla.” “Bisogna aiutare, ma molto prima, genitori come John e Pamela.” “Questo non mi interessa.” “Sara, noi saremo dei genitori diversi. Noi ci amiamo, i nostri figli non si sentiranno soli, non li abbandoneremo.”

Ha spento la sigaretta, è già scalza, e inizia a spogliarsi mentre si dirige verso la camera da letto. “Andiamo a letto, sco.” “Saremo una coppia innamorata, genitori che vogliono bene ai loro figli, come potrebbe essere diverso? Pensa a come ci amiamo adesso, come potrebbe scomparire questo sentimento?” Per farmi sentire ho parlato a voce alta, Sara è già in camera, mi grida di ricordarmi di prendere la radio. È a letto, ben coperta sino al mento, le braccia dietro la nuca. “Alza il volume della radio, per favore” mi ha chiesto fissando il soffitto. “Come puoi pensare che i nostri figli possano vivere una vicenda come quella di Terry? Ma tu puoi credere che a una tua figlia potrebbe accadere di restare incinta a tredici anni?” “Sei troppo sicuro di te. L’esistenza è complessa, lunga, difficile.” “Io ti amo, Sara.” “Non hai alzato il volume della radio.” “Mi hai sentito? Sara, io ti amo.”

* * *

Stavamo facendo l’amore quando, alle otto di sera del 17 dicembre, un sabato, hanno suonato alla porta. Sara si è sfilata via senza esitazioni, agile, elastica, un corpo favoloso, è già in piedi, con la vestaglia in mano, che indossa mentre corre alla porta. “Stai attento” mi ha detto sottovoce uscendo dalla stanza. L’ho sentita armeggiare con la serratura, è nervosa, ha pronunciato seccata qualche parola in arabo, non riesce a far girare la chiave, ha detto a chi ha suonato di avere pazienza, è alterata, ha parlato in italiano, se ne è accorta e l’ha

ripetuto in inglese, grida che venga ad aiutarla. “No, sco, no, stai lì ci sono riuscita.” Ho riconosciuto subito la voce querula e appannata della moglie di John, dalla camera percepisco un borbottio, Sara mi sta chiamando “Presto! sco, subito!” Sara è scalza, la vestaglia che indossa riesce appena a coprire il seno e il pube, Pamela la sta fissando, è grigia, i capelli in disordine, una gonna blu lunga sino alle caviglie, Pamela ha quarantacinque anni esatti, come John, ed è sposata con lui da venticinque. “John ieri sera è rientrato presto, non erano le cinque, troppo presto, accidenti a lui, Terry stava per andarsene, mi viene a trovare tutti i giorni, bastavano cinque minuti, solo cinque!” È in piedi, la porta aperta, Sara seminuda, un piede dentro e uno fuori, è freddo, nevicherà, le previsioni sono state precise, questo pomeriggio, sul tardi, i vicini la stanno osservando, so che cosa sta guardando Sam, perdio Sara, chiudi quella porta. “Stava per infilarsi il giaccone, con quella pancia, povera bambina, non riesce più a chiuderlo, non l’ha sentito, era alle sue spalle, io sì, io l’ho visto, ho cercato di gridare…” Ha chiesto di sedersi, Sara ha chiuso la porta, Pamela si è accasciata sul divano, piange, adesso. “Ho provato ad avvisarla, non ho fatto in tempo, John l’ha colpita, un pugno sulla schiena, Terry si è voltata, e lui l’ha colpita una seconda volta sul naso, è caduta in ginocchio, mi sono avvicinata, John mi ha spinto, sono caduta all’indietro, ho picchiato la testa e sono svenuta” Si massaggia la nuca, dice che le fa ancora male. “Credo di essere rimasta senza conoscenza una decina di minuti, non di più, John e Terry erano scomparsi, sul pavimento ho trovato la borsa di Terry, spariti, non ne so più niente.” Sara gli ha chiesto che avesse fatto, se aveva chiamato la polizia, Fred, suo figlio, qualcuno, insomma. No, Pamela è rimasta a casa, non si è mossa, ha preparato la cena, John non ha telefonato, non ha parlato con nessuno, ha guardato la televisione ed è andata a dormire alle undici dopo il film. “Fred ha telefonato questa mattina alle sette, stavo per uscire per venire qua, gli ho detto che no, non avevo visto Terry, che non aveva chiamato, lui non ha aggiunto altro, ha detto ok, va bene, grazie, ciao.” Sara è in camera a vestirsi, la osservo, attraverso la porta aperta, nuda, china a cercare le mutandine nel cassetto del guardaroba, Pamela non può vederla, è voltata dalla parte opposta, piange, con i pugni chiusi appoggiarti sopra le

ginocchia. “Forse è andato in Arizona, da suo cugino.” “No, lo escludo, l’altra volta aveva fatto un sacco di difficoltà e aveva acconsentito, a fatica, solo perché John gli aveva detto che avrebbe pagato un buon affitto e tutte le spese di mantenimento.” “Dove possono essere andati?” “Non è questo il punto, sco!” Sara è tornata, vestita, con le scarpe e con la giacca a vento chiusa. “Non dove sono andati, ma per quale motivo, è questo che dobbiamo scoprire.” “Il motivo è chiaro, mi sembra…” ho ribattuto “John ha raggiunto il limite della sopportazione e sta portando via la figlia dal fratello.” “Se era questo che desiderava poteva andare a prenderla, è più di un mese che Terry vive con Fred.” “Sara, è stata l’occasione, l’ha vista, lì, in casa sua, e questo ha scatenato la sua rabbia. John è un emotivo, non sarebbe stato capace di organizzarlo a freddo, questa specie di rapimento.” “E tu, Pamela,” Sara si è seduta accanto a lei e le sussurra nell’orecchio “che ne pensi tu? Ne avete parlato? In queste settimane che cosa ti ha detto, John, di preciso?” Pamela non risponde, è immobile, i pugni serrati sopra le ginocchia chiuse. Pamela l’ha abbracciata, è goffa, rigida, con quella gonna incredibile, preme la fronte su quella di Sara, e con le mani la stringe dietro il collo. Sara è precisa, comunica determinazione e senso dell’organizzazione. “Ora dobbiamo trovarli… Adesso stanno viaggiando, John è capace di andare sino in California, o in Alaska, non sente la fatica, non mangia, non beve, non si ferma mai. Dobbiamo trovarli!”

* * *

Sara non aveva avuto il tempo di iniziare le ricerche, quella stessa sera John era rientrato, senza la figlia. Terry, era riuscita a scappare, dopo sole cento miglia di viaggio, in un area di servizio, aveva finto di aver bisogno di andare al bagno, John l’aveva attesa in auto, a lungo, sino a quando l’aveva vista are dentro la cabina del camion sul quale aveva trovato un aggio, sorridente, distesa, mentre chiacchierava amabilmente con l’autista. Pam lo aveva raccontato interpretando quell’arrendevolezza come stanchezza, il marito aveva posto in atto ogni possibile tentativo per dissuadere la figlia, ma lei aveva dimostrato tenacia e determinazione e così John si era arreso. “Non ci credo” mi ha detto Sara. “John finge, non è possibile che abbia accettato le decisioni della figlia.” “Sei testona, la realtà è questa, e non puoi cambiarla, John ha reso l’onore delle armi alla figlia.” “Non riesci a entrare in questa dimensione, non ce la fai, sco…” Stavamo cenando, molto tardi, lei era rientrata quasi alle nove. “Sei prigioniero della tua rigidità maschile!” Non mangia, spiluzzica, ho cucinato un arrosto e l’ho tenuto in caldo sino al suo arrivo. “Mi aspettavo di più da te, la capacità di immedesimarti negli altri, capire le loro motivazioni nascoste, sentire le loro pulsioni, tu invece ti fermi alla superficie, e non comprendi quello che ti accade davanti al naso.” “Devi avere l’umiltà di riconoscere che hai sbagliato, Terry ha scelto lo zio e John si è placato, è in pace, ora.” “Fai ridere, sco.” “Dovresti vederlo sul lavoro, Sara. È un uragano di attivismo, ogni giorno fuori con la squadra, un trascinatore, ci fermiamo in officina sino a tardi, la settimana scorsa, lo ricordi, abbiamo fatto le nove, anche Jack, che non ha mai fatto un’ora di straordinario in tutta la sua vita.” “Vedremo cosa accadrà!” Sara ha chiuso senza sorridere.

“Va bene, scopriremo chi ha avuto ragione.”

* * *

Il 15 gennaio 1978 è arrivato rapidamente, un’altra domenica dai Cordier, non volevo andarci, Sara l’ha capito subito, e mi ha preso sottobraccio spingendomi verso la porta. “Non ci provare neppure, noi dobbiamo assolutamente essere lì.” “Non ci riguarda, Sara, sono settimane che cerco di comunicartelo, non sopporto più questi pranzi, le scemenze di Pam, e quelle di John, sul lavoro le tollero, ma anche la domenica, no, non ne posso più.” “Ancora qualche settimana, due, tre, massimo quattro pranzi domenicali, sco, voglio essere sicura che John abbia seppellito l’ascia di guerra. Non mi convince, la sua giovialità, la sua accoglienza, sono false, il tormento è uguale a prima, odia il fratello, odia la figlia, li ucciderebbe, se potesse, e secondo me il rischio è alto.” “Io ti amo, Sara.” “E questo che c’entra?” “È la cosa più importante, è l’unica, vera, questione rilevante. Tu mi ami?” Non mi ha risposto. “Sara, ti ho chiesto se mi ami.” Ha la testa appoggiata al finestrino, tiene gli occhi chiusi. “Non è difficile rispondere, basta un sì.” “O un no, naturalmente” mi ha detto senza voltarsi. “Naturalmente.” “O si può rispondere anche non so…” Ride, mi ha preso la mano, la strada è sgombra, non c’è traffico, arriveremo in pochi minuti. “No, risposta non ammessa.”

Siamo rimasti in silenzio, la sua mano è calda, accogliente, quante volte ho ascoltato il suo cuore attraverso la sua mano! Io amo questa donna, e non ci lasceremo mai. “Sono settimane che provo a spiegartelo, dovevamo starne fuori, noi non c’entriamo. È una questione che riguarda solo i Cordier, molto delicata, tra l’altro, che richiede attenzione, cura, discrezione. Hai voluto gettarti nella mischia a corpo morto, e hai ottenuto due risultati, Terry resta con lo zio e John odia entrambi.” “Non sei mio marito.” “E questa da dove viene fuori? Non sono tuo marito, e chi sarei, allora.” “Lasciami perdere, sco, ti scongiuro, smettila, poi parleremo, non adesso.” “Ti ha detto o no Terry che ama suo zio?” le ho ripetuto per l’ennesima volta. “E tu le credi? È plagio, sco, in questo John ha straragione, ma come può una ragazzina di sedici anni desiderare un maschio, suo parente, di quarant’anni più anziano, come puoi credere a una panzana di questo genere.” “Terry è vittima, su questo non abbiamo dubbi. Ma la situazione che si è creata è senza ritorno.” “E così vivranno felici e contenti.” “Forse sì. Chissà, Sara, forse si sono trovati. Da vittima Terry potrebbe diventare moglie. Non ci sono regole, l’attrazione segue strade imperscrutabili e la felicità nasce dove meno sembra ragionevole.” “Smettila sco, sei patetico!” “Io vorrei smettere di discutere ogni giorno dei Cordier ma tu mi porti a casa loro, parli di loro, anche di domenica, dio santo, vedo più John che te, lo devo vedere oggi e lo vedrò in officina domani mattina, sono stufo di loro.” “È il tuo capo, eseguirai i suoi ordini ancora per poco, credo, ho un sentore, credo siamo vicini alla chiamata.”

“È da quattro anni che hai queste sensazioni. Siamo alla settima volta, se non sbaglio.” “sco smettila non ho più voglia di parlare con te, andiamo da Pam adesso.” All’improvviso ho sterzato nel parcheggio di un supermercato, l’auto ferma, il freno a mano tirato, il motore spento. “E questo cosa è?” ha mormorato spaventata. “Mi hai trascinato tu in questa storia, a me non importa nulla. Sara, voglio la verità, e la chiarezza, tra noi, in primo luogo.” Mi osserva affranta, annoiata, infastidita. “No, sco, non adesso.” “Sei una sciocca, Sara, una terribile sciocca, presuntuosa, incapace di autocritica, ma di che hai timore? Del mio giudizio? Di discutere con me? Io credo tu abbia paura della verità. Ti ho aiutato in tutto, in questa storia, sempre al tuo fianco. Sei tu che sei stata una cretina.” Non mi ha risposto subito, si è sistemata con cura il nastro rosso che le chiude la treccia, lunga sino a mezza schiena, che da qualche tempo ama portare e si è tolta un ciuffo di capelli caduto sugli occhi. “Sei un vile, sco, e per quanto mi riguarda non esiste di peggio, in un uomo, della codardia. In queste settimane, e ti ricordo che c’era di mezzo una adolescente, non mi hai mai aiutato e oggi non volevi neppure venire, e hai fatto discorsi stupidi, sei un vigliacco, sco, e un uomo che non ha coraggio è inutile. Pensa che ho così poca considerazione della tua forza e della tua lealtà che non ho alcuna intenzione di spendere altre parole con te. No, non voglio ascoltare le tue opinioni, non mi interessano, sei un omuncolo, un depravato, sì, proprio un degenerato, incapace di affrontare la vita, perché Terry è la vita, e John, anche lui è la vita, era con lui che dovevi esprimere le tue opinioni, dirgli che era stato un padre superficiale, un inetto affettivo, incapace di capire i suoi figli, tanto privi di affetto che uno, il figlio, è fuggito appena ha potuto e l’altra, poveretta, si è innamorata del primo che gli ha mostrato appena un poco di tenerezza, invece con John, il tuo capo, piena solidarietà maschile, nessuna obiezione, perché disturbarlo, ha già tanti grattacapi, poveretto. Sei stato tu quello misero, sco, confuso, opportunista e ruffiano, ed ora anche

ignorante. Ora scendi, sì, scendi dall’auto, ci vediamo a casa, troverai un mezzo per tornare, scendi, no, non dire nulla, scendi e basta, non ti meriti nulla, niente, hai le chiavi di casa? Bene, ci vediamo là, vado da Pam, loro mi aspettano.”

* * *

A casa, dopo che è tornata dai Cordier, non abbiamo litigato, né discusso, Sara è rientrata alle dieci di sera, mi ha salutato, ero a letto, è andata in cucina, ho sentito che apriva gli sportelli e dopo poco un aroma di toast al formaggio ha invaso l’appartamento, mi sono alzato, ho fatto appena in tempo ad affacciarmi alla cucina, e ha squillato il telefono. Sara mi ha guardato con aria stupefatta, mi ha fatto cenno di rispondere, era la telefonata, la settima, che ci annunciava la partenza per Tel Aviv, che non c’è stata, poiché durante la notte abbiamo ricevuto la settima disdetta. Viviamo negli Stati Uniti da quattro anni, avendo abitato a San Francisco, Seattle, Saint Louis, Reno in Nevada, San Francisco di nuovo, Odessa in Texas e, da ultimo, a Chicago, qui a Rosemont, davanti l’aeroporto O’Hare, in una casetta indipendente che ha ancora il tetto intatto nonostante le decine di migliaia di cicli di decollo e atterraggio avvenuti a pochissima distanza. Ogni telefonata di preparazione alla partenza per Tel Aviv innesca un meccanismo complesso, dimissioni dal posto di lavoro, disdetta dell’affitto della casa, vendita dell’automobile, smaltimento degli abiti, delle scarpe, dei libri e di ogni altra suppellettile casalinga inutile, per viaggiare verso la nostra nuova destinazione ci era stato suggerito di essere leggeri, due valige, per non dare troppo nell’occhio, per sembrare solo dei semplici viaggiatori. Fatto questo, nell’abitazione vuota di ogni orpello, la televisione spenta e il telefono staccato, eravamo comandati a restare in casa, le valigie già chiuse, i aporti in mano, pronti a balzare in piedi quando avrebbero suonato alla porta. Sarebbe stato l’autista inviato a prelevarci, il quale non era al corrente della nostra missione, né della nostra vocazione, con il solo incarico di accompagnarci in aeroporto, dove un addetto di una agenzia di viaggi ci avrebbe atteso per la consegna dei biglietti. Per sette volte nessuno ha suonato alla porta, abbiamo atteso ore, sino a notte

inoltrata, Sara sprofondata nel silenzio assoluto, immobile, senza mangiare né bere, sino a quando, ed era già la mattina dopo, guardava l’orologio, per dichiarare che erano trascorse le dieci ore di tempo massimo previsto e che dunque l’operazione era annullata. Al mattino avremmo trovato pronto per noi un indirizzo in una città molto distante, le chiavi di un’altra auto e le indicazioni per recarci presso le diverse filiali delle imprese per le quali già lavoravamo, per iniziare un nuovo lavoro, non ci era dato sapere se la dirigenza delle nostre aziende fosse a conoscenza della verità, neppure Sara, credo, possedeva questa informazione, ciò che ho sempre supposto è che i nostri mandanti fossero, indirettamente, i veri proprietari delle società delle quali eravamo dipendenti. Quella settima volta le ho detto ridendo che il gioco iniziava a divertirmi e che amavo questa esistenza varia e diversificata, molte città, nuovi colleghi, nuove amicizie, una pacchia, insomma. Ero felice perché mi sarei liberato dei Cordier e di tutta quella storia che mi aveva stancato. “Non essere superficiale!” mi ha apostrofato alzandosi. “Tu hai idea della complessità di queste operazioni, immagini appena quante persone sono coinvolte, gli appuntamenti, i documenti, i soldi, le coincidenze da rispettare, è un lavoro immenso, sono necessarie settimane, mesi, talora.” È uscita dalla stanza, che abbiamo tenuto al buio, così, come nelle altre sei occasioni, senza un motivo speciale, forse perché lasciavamo l’appartamento, che diventava inutile, e che non era più necessario illuminare. Ho sentito i suoi i dirigersi verso la veranda coperta, l’ambiente che in questa casa abbiamo preferito e dove abbiamo soggiornato più di frequente, una grande vetrata, spessa e robusta, per garantire l’insonorizzazione, indispensabile per vivere così vicino a un grande aeroporto, una finestra sulle piste, vicinissima al punto di decollo, uno spettacolo continuo, di giorno, di notte, con la pioggia, con la neve. “È inutile che ti inquieti, non sono arrabbiato con te, né con i Palestinesi, sono deluso, questo lo puoi capire, credo.” È tornata indietro, è davanti a me, una donna meravigliosa, adesso ha ventisette anni, porta sempre i tacchi alti, per non sfigurare con queste americane sempre così impeccabili, i capelli neri ancora più lunghi di quando ci siamo conosciuti, le arrivano in fondo alla schiena, e questi occhi profondi, vivi, che sembrano dotati di vita propria.

“È deluso, il mio piccolo italiano, dopo quattro lunghi anni, è stanco, non si capacita. Quattro anni, sco, ma lo sai che c’è gente nei campi dal ‘48! Sono trenta anni adesso, e tiene duro, aspetta, e non si lamenta, combatte, guarda lontano, al giorno del riscatto.” Ha calciato via le scarpe, si è tolta la camicetta, la getta in terra, la calpesta, con i piedi nudi, le unghie cortissime, senza smalto, non ha mai voluto metterlo. “Guardami!” Sei bella, Sara, un corpo perfetto, perché alzi le braccia? Vuoi essere ammirata? Sei magnifica, la carnagione scura, il reggiseno bianco, le ascelle depilate, amo averti, ti desidero continuamente. “Guardami, senza peli, per essere più americana delle americane, sui tacchi, una prostituta, e con i fiori ricamati sulla camicetta in corrispondenza dei seni, una bambola, ho dovuto trasformarmi in un soprammobile, se mi vedessero le mie compagne! Riesci ad immaginare il disgusto che provo quando devo mettermi il rossetto, scegliendo il colore più adatto alla situazione! E hai idea della fatica, in ufficio, mentre distribuisco agli uomini sorrisi da attrice, e discuto con le donne di abiti e di tinte per capelli! Deluso! Lui è scontento, poverino, avverte il divario tra le aspettative e la realtà, lui si mortifica, aveva scelto la grande avventura, e si sente messo nell’angolo, ad aspettare.” Abbiamo avuto quattro anni stupendi, insieme, Sara, non buttare via questo tesoro, ti amo, parliamo, non puoi ignorare il disagio di questa attesa, e non devi negare che abbia avuto effetti su di noi, ci ha divertito cambiare stato, casa e lavoro per quattro anni, ci abbiamo riso, ci è piaciuto fare l’amore in tanti letti e divani diversi, ma adesso ? Quante volte ancora? Dove abiteremo? Un altro lavoro, ricominciare da capo? Senza contare i rischi, ci potrebbero individuare, qui siamo in America, non in Libano, qui c’è la CIA, non sono degli sprovveduti. Si è tolta la gonna, è incantevole, mutandine e reggiseno bianchissimi, sulla pelle olivastra, ruota su una gamba sola. “Eccomi, una donna di plastica, ecco cosa sono diventata!” Si è levata gli slip, che sono rimasti impigliati tra le dita dei piedi. “Curo i peli del pube, lo vedi, sembra quello di una bambina, così quando sono in costume da bagno non sporgono peli indesiderati. Io non sono questa, sco, è uno schifo, quando penso alle donne dei nostri campi, è una

indegnità, ma resisto, perché i nostri combattenti muoiono e i loro figli si ammalano.” Cammina all’indietro, elegante, scalza, indossa solo il reggiseno, candido, luminoso, si volta, una bellezza lunare, si dirige verso la veranda, ad accoccolarsi sul divano, ad osservare, mai sazia, gli aeroplani decollare.

* * *

La mia professione americana è di elettricista, nell’azienda di impiantistica civile di Chicago, quella dove ho conosciuto John Cordier, sono arrivato con una esperienza di quattro anni che mi ha consentito di svolgere mansioni da caposquadra. Per me, all’inizio della missione, era stato deciso che svolgessi ruoli da operaio, almeno sino a quando non avessi avuto la necessaria confidenza con la lingua per poter accedere ad attività impiegatizie, mentre Sara, che già parlava, leggeva e scriveva in inglese perfettamente, sin dall’inizio ha avuto la possibilità di accedere a incarichi di segretaria, venditrice e, qui a Chicago, di consulente di marketing. Quattro anni di tuta blu, mani sporche di grasso e scarponi ruvidi, il lavoro manuale mi ha rinforzato, adesso, a ventotto anni, ho le spalle più larghe e i bicipiti si gonfiano sotto le camice, a Sara piace il mio corpo da operaio, ma non riesce a dirlo, anche se quando rientro in casa mi segue in bagno e si siede per terra per guardarmi dal basso verso l’alto quando sono sotto la doccia. Ha perso la timidezza delle prime settimane, ricordo il nostro primo volo, da Milano e New York, la volevo abbracciare, ma lei mi respingeva sussurrandomi sdegnata che i vicini di posto ci avrebbero visto, allora le ho preso la mano, che mi ha permesso di tenere, ma nascosta sotto il maglione, ora è una donna sicura, che non ha timore di esporsi e di manifestare i suoi desideri. Operai americani come compagni di lavoro, per quattro anni, di ogni età e di ogni dimensione, perché ho avuto colleghi grandi come orsi e piccoli come vitelli, e di ogni colore e religione, irlandesi biancolatte, italoamericani di terza generazione, afroamericani, polacchi e cattolici, mussulmani, buddisti e mormoni.

L’abitazione di John e Pamela Cordier è stata una delle molte nelle quali, di domenica, siamo stati ospiti dei miei colleghi del momento. Nella sala da pranzo o sullo striminzito pratino di quelle casine monofamiliari un po’ vecchiotte, le finestre con le persiane di legno dipinte di chiaro, la moglie del collega che baciava Sara, con calore e con una smorfia, poiché si chiedeva da dove arrivasse, così strana e così bella. Quei pranzi, tacchino e tacchino, con il latte e la Coca-Cola in tavola, il pane tostato, le verdure scondite e quei figli adolescenti a capo chino, silenziosi, i capelli lunghi, che fumavano dopo il tacchino e prima del dolce, fumava anche la moglie, chiedendo a Sara quando avrebbe avuto dei figli, e perché ancora non ne aveva, e se c’erano dei problemi, e se la piaceva il budino alle prugne, e se suo marito, io, ero un tifoso dei Bulls o dei Lakers o di ogni altra squadra di football, baseball, basket o hockey della città nella quale abitavamo, anche la moglie ogni tanto la domenica andava alla partita, se no da sole tutto il giorno era una noia.

* * *

Sara si è addormentata sul divano, sono le sette e mezza del 16 gennaio 1978, le gambe nude sotto i cuscini, le braccia strette al petto, è gelata, le stendo sopra una coperta di lana, sta decollando un grosso 747, velocissimo, alza il muso all’improvviso, deciso, un colpo in alto, insieme all’enorme mole della fusoliera, un grattacielo orizzontale che sale in cielo, Sara mi ha preso la mano. “Vieni qui, ho freddo.” Ha alzato un lembo della coperta, all’altezza del ventre, le sue cosce morbide, avverto il suo calore, la sua devozione di moglie e di compagna. Mi vuole bene, con lealtà, parla volentieri con me, per discutere degli argomenti, come li chiama lei, americani, cercare di capire questo mondo dove siamo stati catapultati, interpretare questa gente, che lei sente distante, così fracassona, ridono, loro, e bevono, e hanno automobili gigantesche, e mangiano carne cotta a tonnellate sui barbecue nell’angolo dei loro giardini. “È faticoso restare fedeli a un ideale per anni, è possibile solo se ne hai la

necessità interiore, se è qualcosa che hai masticato sin da bambino. Sei un buon amico, sco, e un uomo serio, ma non hai dentro il sangue avariato che serve per crederci sempre, senza esitazioni.” Mi desidera, con gli occhi lucidi, in questa alba invernale, sta decollando un altro aereo, un vecchio DC9, ormai li riconosciamo dal rumore, è della United, probabilmente diretto a San Francisco, qui fuori c’è un mondo di macchine e di uomini che macina denaro e destini e noi, qui, piccolissimi, custodiamo il fuoco di una idea grandiosa, dare una terra a un popolo, sconfiggere un avversario più forte, convincere il mondo intero della bontà della nostra causa. Non è troppo per noi due, Sara, due ragazzi, sognatori, entusiasti, ma solo due ragazzi. “Per me è come il bisogno di dissetarmi, un bisogno primario, io vivo con l’ambizione di poter atterrare in un aeroporto palestinese, porgere il aporto a un poliziotto palestinese, salire su un taxi guidato da un autista palestinese, consumo ogni minuto di vita per questo obbiettivo, sogno quella giornata, arrivare a casa di una delle famiglie dei campi, che adesso abitano in un appartamento, una famiglia per ogni abitazione, come si usa nelle comunità civilizzate.” Tiene la coperta aperta, la sento, palpita, ha bisogno della mia confidenza, della mia intimità, è una donna forte, ma soffre la solitudine, da quattro anni si stringe a me per sopportare l’America, quando la sera entra in casa è esausta, cerca il mio abbraccio, ha sofferto tutto il giorno, con le gambe accavallate, le calze di seta, le barzellette del suo superiore, il caffè alla macchinetta automatica a ricevere le confidenze incomprensibili delle sue colleghe americane.

* * *

Ho lasciato Sara distesa sul divano in veranda. “Dove vai?” La sento chiamarmi mentre indosso il giubbotto pesante e cerco le chiavi dell’auto nella tasca interna della sua borsa.

“sco, sco, torna qui.” Ho avviato il motore, Sara è sulla porta, scalza, con la coperta addosso, sta gridando, ma non posso sentirla, la coperta scivola a terra, la inquadro nello specchietto retrovisore, in reggiseno bianco, senza mutandine, tiene le braccia alzate, Sara, la mia combattente. Abbiamo trascorso quattro anni magnifici, una corsa, una avventura continua, tra le risate, perché Sara è simpatica, una donna tornata bambina, a riprendersi l’infanzia e l’adolescenza che non ha mai avuto. Il primo giorno, interminabile, con l’atterraggio finale a San Francisco alle nove di sera del 15 gennaio, nel ‘74, dopo diciannove ore di viaggio, con sette ore di sosta al Kennedy di New York, dove, in un ristorante del terminal, avevamo incontrato un esponente dell’organizzazione, un professore universitario giovanissimo, un americano di famiglia wasp che aveva scelto Al-Fatah per amore della libertà, il quale aveva cercato di impartirci alcune istruzioni base per la nostra nuova esistenza americana, e che ci aveva consegnato molti libri da leggere, sulla storia degli Stati Uniti, sul funzionamento della borsa valori e della borsa merci e una collezione di articoli sulla guerra del Vietnam. Ci aveva fornito i documenti per presentarci il giorno successivo ai nostri posti di lavoro, io presso una grande azienda di impiantistica elettrica in qualità di apprendista manutentore e Sara come segretaria negli uffici di una catena di supermercati. Come rideva, Sara, quando non riuscivamo ad entrare in casa, una monofamiliare di una schiera infinita, nel dubbio di aver sbagliato abitazione, controllando e ricontrollando il numero, sino a quando, aperta infine la porta, l’avevo presa in braccio, era mia moglie, e quella sarebbe stata la nostra prima notte. E come ha riso la sera del secondo giorno, quando mi chiamava dalla finestra della cucina, mentre io mi dirigevo verso un’altra casa, sul lato opposto della strada. Ha riso per quattro anni, quando la sera raccontava della sua giornata e della perenne inquietudine dei suoi capi e delle sue colleghe per la sua diversità, per il modo originale che possedeva di approcciare e di concludere gli incarichi che le venivano affidati. Circospetta, dubbiosa, attenta, prima di effettuare una telefonata voleva conoscere ogni dettaglio in merito al suo interlocutore, chiedeva se era sposato, se aveva figli, se era religioso, se era nato lì o se era un

immigrato. La fissavano con curiosità e sospetto, perché tutte quelle informazioni, per una semplice conversazione telefonica commerciale? Lei doveva chiedere solo un prezzo, un termine di consegna, o elevare un reclamo o protestare per un difetto, che utilità potevano avere quelle notizie in merito alla persona che avrebbe risposto. La immaginavo al centro della stanza della segreteria, in piedi tra le scrivanie, la luce abbondante proveniente dalle finestre rivolte verso la baia, il capodivisione appoggiato allo stipite della porta del suo ufficio privato e le colleghe, sedute ai loro posti, che la osservano sorprese a testa in su. Rideva troppo? Mi chiedo adesso, guidando attraverso Chicago in direzione di Milwaukee, non era eccessiva, non è sciocco, forse, che una donna, una moglie, sia così continuamente ilare, in molte occasioni senza motivo apparente? Ho cambiato strada, direzione opposta, ora sto viaggiando verso l’estremità sud del lago Michigan, è trascorsa una mezz’ora, sono a Gary, all’estremità sud del lago, ho parcheggiato davanti a un supermercato. A motore spento fa molto freddo e tra poco dovrò riavviare, e ripartire, come ci aveva detto il professore wasp al Kennedy “non indugiare mai in atteggiamenti che possono essere scambiati per eccezionali o anomali e, nel dubbio, spostarsi, muoversi, viaggiare, attività che non generano mai sospetti”. Sono stati anni leggeri, non abbiamo corso pericoli, vivendo nell’ombra, senza esporci, preferendo i viaggi in auto, per evitare gli eventuali controlli negli aeroporti, nessun ricovero ospedaliero, che avrebbe potuto portare a indagini sulla nostra identità, nessuna denuncia alla polizia, anche quando a Reno ci avevano rubato dall’auto una macchina fotografica, è facile, in un grande paese venire inghiottiti, sparire, diventare invisibili. Un lungo percorso in America tra gli americani, che ci ha procurato piacere e divertimento, un viaggio formidabile, durante il quale più volte abbiamo creduto di vivere una vita non nostra, anche Sara, che pure era già avvezza alla clandestinità. Strano, eravamo degli apprendisti spie, e le nostre giornate erano sempre uguali, monotone, persino. Il nostro lavoro, la sera a casa, non siamo mai andati al cinema, né a teatro, né allo stadio, né ai concerti, cenavamo insieme, raccontandoci della nostra giornata, gli incontri, le difficoltà con la lingua e con diversi accenti regionali che poco alla volta riuscivamo a riconoscere. Sara è una narratrice di primordine, mi seduceva il modo che aveva di raccontare, di descrivere il dettaglio, di cogliere i caratteri chiave delle persone, di costruire una vera e propria trama, lasciandomi in attesa sino alla fine dell’evento, del

momento umoristico o dell’azione fondamentale. La ascoltavo incantato, al tavolo delle nostre cene americane, un paio di birre già terminate e una terza che centellinavo con parsimonia sino a tardi. Solo a Chicago, nell’ultimo anno, abbiamo iniziato ad accendere il televisore, ma poco. La guardavo, Sara, ogni sera, con i capelli neri sciolti sulle spalle, quegli occhi piccoli, mobilissimi, furbi, la sognavo, la desideravo, mentre gesticolava per sottolineare un concetto o per descrivere meglio una situazione, tra noi parlavamo un misto di italiano e di inglese, con una prevalenza, nel tempo, dell’inglese. Non ha mai finto? Intendo dire, come mai non è accaduto che una sera non avesse piacere di raccontarmi le sue vicende, è normale che succeda, esistono le giornate storte, nelle quali non si desidera che restare soli, Sara ne era affrancata? Ne era veramente indenne? Non me lo sono chiesto, sino a ieri sera, poiché ogni sera, dopo averla ascoltata, mi alzavo, posavo la birra e la sollevavo tra le braccia, baciandola per farla smettere di parlare, per quattro anni Sara si è fatta prendere in questo modo, la sera, al tavolo delle nostre lunghe cene, per farsi portare in camera da letto, o sul divano, se nell’appartamento che abitavamo c’era un divano sufficientemente comodo per fare l’amore. Ho già attraversato Gary avanti e indietro per due volte, il tempo peggiora, credo che nevicherà, forse già questo pomeriggio, qui nell’abitacolo dell’auto la temperatura è alta, sono in maniche di camicia, amo guidare senza ragioni e obbiettivi, osservare non visto le persone e le loro azioni, mi accade di rado, e ogni volta è una sorpresa. Tornerò a casa, da Sara, dove altrimenti potrei andare? Tornerò, ma non subito. Prima voglio compiere il giro completo del lago Michigan, avevamo pensato di farlo in estate, sono quasi un migliaio di miglia, viaggerò senza fermarmi, ventiquattro ore, più o meno, anche se è inverno e su a nord potrei trovare neve, domani a quest’ora sarò di ritorno, ho con me un documento di identità, la carta di credito e un po’ di contanti. Molto bene, questo mi piace, telefonerò a Sara questa sera, a St. Ignace, all’apice della costa orientale del lago, sei ore da qui, otto se il tempo peggiora. Durante la notte farò le duecento miglia sino a Marinette nel Wisconsin, alle sette del mattino colazione a Green Bay, da lì per Rosemont ho solo duecento miglia di buona strada e a mezzogiorno esatto sono a casa. Guido, con le acque sulla mia sinistra, come a San Francisco, la seconda volta, nel ‘76, quando ogni giorno scendevo lungo la baia verso San Mateo, sino

all’azienda. Sara era una venditrice e quando riuscivamo a coordinare i miei orari di fine turno con gli itinerari delle sue visite ci incontravamo in qualche punto nella zona meridionale della baia, Palo Alto, Mountain View, Fremont, Union City. Sara con la capigliatura vaporosa, in minigonna e tacchi alti, accanto a me, in tuta, giubbotto di pelle e berrettino con la visiera, un locale sul mare, bevendo vino bianco californiano, una libreria, ad aiutare Sara a cercare inutilmente testi di cucina araba, un parco lungo il mare, dove mi prendeva la mano, mi chiedeva di abbracciarla, felice di essere osservata dagli uomini, per stringersi a me più forte. Una moglie perfetta, affettuosa, disponibile, ogni giorno, per milletrecento giorni. Gran Rapids, tre del pomeriggio, in orario perfetto, il cielo è nuvoloso ma la temperatura non è eccessivamente rigida, si prevede neve, devo affrettarmi, all’area di servizio dove ho fatto il pieno ho acquistato dei sandwich e della birra, mangerò guidando, per guadagnare tempo. In questi quattro anni non ho mai avuto un giorno nel quale sia rimasto senza Sara, siamo stati insieme, ogni notte e ci siamo svegliati appiccicati l’una all’altro, ogni mattina, una grande ebbrezza, una coppa di champagne fresco centellinato per anni, una ebbrezza senza interruzione, anche quando Sara, rigorosa, mi obbligava all’esercitazione settimanale. La domenica mattina, alle nove, ero convocato in soggiorno, o in cucina, dove, seduto, ascoltavo Sara, in piedi al centro della stanza, recitare il vademecum delle prescrizioni del nostro ingaggio. Non era obbligatorio un abbigliamento specifico ma Sara non desiderava trasandatezza, né volgarità e dunque sempre pantaloni e camicia per me e vestito sotto il ginocchio per lei, non si poteva stare scalzi, né tenere le mani in tasca, né mangiare, né bere. La rilettura delle regole durava una quarantina di minuti, Sara leggeva da un quaderno, che talvolta abbassava, ripetendo a memoria, ad occhi chiusi, i i più importanti, al termine dei quali, rialzando il quaderno, mi diceva, in italiano, con quella sua bella lingua rotonda: “Ti è chiaro?” Come l’acqua di fonte mia cara, bellissima, Sara, che per una mezza mattina può tornare ad essere la combattente, la compagna delle donne dei campi, la levatrice della vittoria del popolo palestinese umiliato e oppresso, sono ammirato, dalla sua forza e dalla sua bellezza. In quelle mattine ho provato per lei una stima

profonda, mia moglie, affezionata e disciplinata, avevamo fatto l’amore, all’alba, e adesso mi era consentito osservarla, tesa, convinta, determinata. Seguiva una sessione di lotta, dovevo schivare i suoi pugni e lei si provava a evitare le mie prese e a cercare di sciogliersene quando, rincorrendola per la casa, riuscivo ad agguantarla, era leggera, e se l’avevo acchiappata per la vita potevo tenerla alta sopra la mia testa, scalciava, si dimenava, ma non era in condizioni di liberarsi, per non insospettire i vicini fingeva di gridare, mi pregava di farla scendere, stare lassù la angosciava. Ho ato Big Rapids, altre sessanta miglia dietro le spalle, in alto preme una nuvola spessa, grigio scura, osservo le fronde degli alberi immobili, non c’è vento, nevicherà. Il cielo, qui a nord di Big Rapids, è nero e corre veloce, spinto da un vento che viene da Ovest, dal lago. Mi chiedo se porterà quella strana brina, qui la chiamano effetto lago, che si forma al centro del lago dove l’aria è umida e fredda e che arriva ovunque in profondità nei territori circostanti il lago, una specie di neve, che si salda sul manto stradale, anche per giorni interi. Non sono mai stato così a lungo lontano da Sara, e questa è la prima notte, in quattro anni, che non dormiamo insieme. Quante volte ci siamo detti che entrambi potevamo uscire, la sera, il sabato, la domenica, con i colleghi, conoscere persone, fare amicizia, nessuna gelosia, né invidia, liberi, ci saremmo rivisti a casa, per raccontarci, confrontare le esperienze, condividere le emozioni, per afferrare lo spirito di questa smisurata America, per entrare nel profondo di questa gente, per affiancarci ai loro inusitati desideri, alle loro indecifrabili modalità di approccio alla vita, al loro vivere colmi di buona giornata e prenditi il tuo tempo, e con la compagnia fissa del pensiero del denaro. Ci siamo ripromessi, quante volte, quante sere, di accettare un invito a quel party, di partecipare a quell’adunata sulla spiaggia, di prendere parte a quella scampagnata in bicicletta lungo il lago. Invece non uscivamo di casa, restavamo asserragliati nel nostro fortino, appiccicati l’uno all’altro, andiamo a letto presto, Chicco, mi chiedeva iniziando a togliersi le scarpe e le calze, insieme, Chicco, ci scalderemo abbracciati, tu leggi e io scrivo il mio diario, ascoltiamo la musica, incollati, le gambe intrecciate, o la mano a cercare quella dell’altro sotto le coperte. Come farai Sara, questa notte, da sola? Dormirai sull’angolo del letto, rincantucciata, per occupare meno spazio, per non

invadere la zona che è solo nostra, di tutti e due, o piuttosto per te non ci sarà differenza, anzi, proverai un senso di sollievo, finalmente non dovrai fingere, non oso pensarlo, come può aver finto? Non è ragionevole pensarlo, non ha senso. Sono a Cadillac, in poco più di quattro ore ho percorso quasi duecentocinquanta miglia, sono le quattro e mezza, è già buio, le strade sono poco affollate, il tempo tiene, la radio questa sera si dedica a Bob Dylan, ho già fumato mezzo pacchetto di sigarette, non vedo l’ora di are St. Ignace e iniziare, questa notte, il tratto alto del lago, duecento miglia sino a Marinette nel Wisconsin, un boccone notturno, da inghiottire d’un fiato, senza soste, senza mai mollare il piede dall’acceleratore. “Abbracciami” mi aveva chiesto Sara quando siamo entrati nella nostra la prima casa americana a San Francisco. “Hai ripensamenti? Hai paura? Hai voglia di tornare?” Era vestita con quell’abito rosso, corto, che indossava quando ci siamo conosciuti in piazza della Misericordia, intonso, senza una piega, come fosse appena uscita di casa e non avesse piuttosto viaggiato per quasi venti ore, il viso fresco, riposato, capace di sorridere e di accarezzarmi sul collo, mentre si lasciava stringere forte contro la porta appena chiusa, i bagagli gettati alla rinfusa sul pavimento. “Vieni, sono tua moglie, ora. A tutto il resto penseremo domani.” Ero pazzo di lei, sentivo il piacere, l’orgoglio e la ione traboccare dagli occhi, la frenesia nelle mani, l’ansia di averla, un piatto ghiotto, apparecchiato da mani esperte, sprofondare nel piacere, quello umido, plebeo, che attacca le ossa, e si installa, per mesi, per anni, consentendo, se fosse stato necessario, di vivere solo di ricordi e di nostalgia. Il profumo di Sara cancellava tutti gli odori e i fetori di ventisei anni di esistenza ordinaria, la frittata di patate di mia mamma e le maglie di lana rilavate mille volte di Laura, la cicca spenta da mio padre nel piatto della pietanza, quell’aria umida sopra e dentro la città, vapori di uomini e donne intristiti dal freddo e dalla malinconia. Adesso avevo Sara, ero giovane, vivevo in America, c’era la luce, in California, non mi era mai stato detto che da qualche parte nel mondo esisteva una luce come quella. Alle otto sono entrato a St. Ignace, mangio i sandwich che ho acquistato e bevo una Pepsi mentre attraverso il ponte, sono elettrizzato, sino a Marinette sono solo duecento miglia, se non nevica arrivo a mezzanotte, sono a casa alle quattro, Sara dorme, apro senza far rumore e mi infilo nel letto accanto a lei, ciao, sono

qui, sono tornato, ho fatto un giro, per pensare un po’, ma sono tornato, si ricomincia come prima, domani si cambia città, mi piacerebbe andare ad est, nel New England, a Boston, Providence, uno di quei posti lì, adesso potrebbero farmi fare un lavoro da impiegato, la lingua la conosco bene, sono anche laureato, proveremo a chiedere. Avere informazioni era risultato subito molto difficile, credo che fe parte del disegno, limitare all’essenziale i contatti e la trasmissione di informazioni, avevamo, certo, una procedura di emergenza, che Sara ripeteva a memoria la domenica mattina, ma non è mai stato necessario usarla, ricevevamo ogni tanto delle comunicazioni, un paio di volte all’anno, nel corso di una cena, in un ristorante di buon livello, dove incontravamo un occidentale, che poteva essere un olandese, un inglese o, più raramente, un se, che ci trasmetteva notizie di Al-Fatah, raccomandazioni di Hassan e del Rais in persona e che ci chiedeva ogni volta di avere pazienza. È stato nel corso di una di quelle cene, a Seattle, nel novembre del ‘74 che mi è stata data la notizia che mia madre era morta, in ospedale, dal quale non era mai uscita. La morte del padre di Sara ci era stata comunicata a Odessa, in Texas, nel febbraio del ‘77, solo qualche mese fa. Abbiamo chiesto notizie di Dix e di Giulio e, quando Sara si era allontanata un momento, una sera avevo domandato informazioni su Laura. Molti mesi dopo avevamo saputo che Dix stava bene e che di Giulio si erano perse le tracce, ma di Laura nessuna notizia. Notizie di altri, lontane, noi avevamo qui in America il nostro sogno quotidiano, svegliarsi insieme, il nostro lavoro, le nostre cene, fare l’amore, non pensare a nulla, un giorno dopo l’altro, senza distinzione tra giornate lavorative e festive, l’epidermide sopra quella dell’altro, baciarsi per ore, uscire per fare la spesa, tenere insieme il carrello al supermercato. In molte occasioni mi sono detto che per vivere in quel modo non era indispensabile diventare delle spie, avremmo potuto restare in Italia, o trasferirci in Germania, o in Libano, non aveva importanza, alla luce del sole, senza aporti falsi, né obbiettivi strategici da perseguire. Sara non mi avrebbe seguito, Sara è una militante, e ogni atto, fatto o emozione dell’esistenza nasce, vive e scompare all’interno della militanza. “Mi ami, Sara?” “Sono tua moglie, Chicco.” “Ti ho chiesto se mi ami.”

“E io ti ho risposto che sono tua moglie.” “Mi ameresti anche se non fossimo qui?” Rispondeva baciandomi, in casa, in auto, nascosti dietro uno scaffale del supermercato, dietro un albero ai giardini, per la strada, spingendomi all’improvviso dentro un portone. Sul ponte di St. Ignace, al termine del quale inizia la strada costiera settentrionale, c’è una modesta coda di auto, ci sono agenti di polizia che gettano occhiate dentro le auto e nei cassoni dei pick-up, sono infagottati nei giacconi invernali, alcuni hanno il amontagna, credo che la temperatura sia vicino allo zero, in centigradi, ho iniziato ad abituarmi alla scala Fahrenheit, ma non riesco mai a calcolare con esattezza il corrispondente valore in centigradi, mi accade anche per le miglia, anche se il calcolo è più facile. Un agente ha bussato al mio finestrino con il guantone. “A ovest la strada è interrotta a trenta miglia da qui, un camion è uscito di strada.” “Io devo andare a Marinette.” L’uomo non ha tempo, fa molto freddo, si stringe nelle spalle. “Le conviene cercarsi da dormire qui a St. Ignace e chiedere informazioni domani mattina.” “Qui dove?” Si è allontanato, bussa all’auto che segue, con la mano girata, picchiando forte con le nocche sul vetro. Ho ignorato il suggerimento del poliziotto e ho imboccato la costiera verso Ovest, con il pieno di carburante, se dovessi restare bloccato, posso restare con il motore due giorni, ho preso anche del pane, del formaggio e della birra. Non ho telefonato a Sara, non è necessario, tra qualche ora sarò da lei, e le porterò la colazione a letto. È sorprendente, poche ore di distacco hanno scatenato sensazioni mai provate sino ad oggi, Sara, con quel corpo da modella, la femminilità da mangiare, l’odore acre di bestia selvatica, per me, un giovane come un altro, con costanza, ogni notte e ogni pomeriggio del sabato e della domenica, senza mai un rifiuto,

un sorriso indeformabile, la sua accondiscendenza, senza un mal di capo, né un mal di pancia, né troppo sonno, né qualche pensiero. L’asfalto è coperto da un leggero strato di neve, che non impedisce di procedere abbastanza speditamente, ho lasciato St. Ignace da più di mezzora senza incontrare traffico né, come pensavo, auto della polizia o ambulanze. Ho percorso circa venticinque miglia, tra poco, se il poliziotto ha detto la verità, dovrei raggiungere il luogo dell’incidente, forse il camion non ostruisce l’intera carreggiata ed è possibile are, altrimenti sono certo che avrebbero messo dei blocchi all’inizio della strada. L’aria è tersa, la temperatura è molto bassa, un buio profondo, nero, i fari abbaglianti contro i rami grigi degli abeti che costeggiano la strada, non ho mai guidato così a lungo da solo, non ho sonno, desidero tornare da Sara, prima dell’alba. Poco prima di Brevort ho notato due auto ferme in un’area di sosta di emergenza senza nessuno a bordo, subito dopo un camion, immobile e vuoto, che occupa completamente la corsia di destra, poco più avanti un uomo cammina lentamente lasciando impronte nitide sulla crosta nevosa, superandolo gli ho suonato con il clacson, mi ha risposto con il gesto largo di un braccio sopra la testa. Non ho visto subito la jeep della polizia, di traverso, senza i lampeggianti, a fari spenti, ho frenato, l’auto è scivolata sulla strada ghiacciata, fermandosi con il muso appoggiato alla portiera posteriore della macchina. Sono sceso, in maniche di camicia, qui la temperatura è estremamente bassa, nevischia, piccoli grumi di ghiaccio che cadono rettilinei e si posano a terra senza rimbalzare, non c’è nessuno, l’uomo che camminava sulla strada, forse il camionista, sta ando adesso, non si volta nella mia direzione, procede veloce, con un basco nero calcato in testa. Sono risalito in auto e con cautela ho distaccato il paraurti anteriore dalla fiancata dell’auto della polizia, non sono sceso per controllare il danno provocato e ho ripreso a guidare verso ovest. In corrispondenza dell’indicazione per il cimitero di Brevort ho superato di nuovo il camionista con il basco, lampeggiando con i fari abbaglianti e pigiando con forza sul clacson. Solo in una occasione Sara aveva voluto viaggiare, è stato durante il secondo soggiorno a San Francisco, nell’estate del ‘76, aveva voluto andare a Key West, tre giorni, partendo il venerdì e tornando il lunedì, in aereo, quindici ore di viaggio, due scali all’andata e uno al ritorno, partendo il venerdì sera, scalo e notte a Houston e arrivo a Key West nel pomeriggio del sabato, partenza al pomeriggio della domenica da Key West, scalo e notte a Charlotte, aereo alle

sette del mattino per essere a San Francisco alle dieci, e subito dopo ai nostri posti di lavoro, che senso aveva, un viaggio massacrante, molto denaro, per restare meno di ventiquattr’ore a Key West, e perché quella fretta, proprio quel week end. “Cosa c’è sotto, Sara?” “Nessun motivo speciale, Chicco, voglio andare nel luogo americano più vicino a Cuba, il nemico numero uno degli yankee, e che dunque è nostro amico!” Stava seduta sul divano, in una tuta viola, ha alzato le gambe e le ha spalancate. “Sarà una sera speciale, Chicco, gamberi per cena e notte in albergo con vista delle luci dell’Havana.” Era trionfante, come se Key West fosse il luogo di una battaglia vinta sul quale andare a compiere una celebrazione. L’entusiasmo di Sara mi aveva coinvolto e non avevo insistito in merito alle ragioni di tanta fretta, perché proprio quel week end, si poteva rimandare, avremo speso meno di viaggio e di albergo. Ero più eccitato di lei, la domenica mattina ci saremmo bagnati nelle acque dell’Atlantico, erano state pochissime le occasioni nelle quali avevo potuto vedere Sara in costume, e quelle poche solo in piscina, lì c’era il mare, e Sara sarebbe stata magnifica. Siamo atterrati a Key West alle quattro del pomeriggio di un sabato di metà luglio, Sara in un abito di cotone disegnato con dei fiori blu, scarpe con il tacco altissimo e un cappello di paglia a tesa larga, era meravigliosa, ed era mia. Adesso le auto ferme sono molte, in lontananza vedo delle luci, ci sono gruppi di persone che camminano invadendo la corsia di sinistra, devo rallentare e porre molta attenzione per non investirle, ora che sono più vicino vedo una gru e un gruppo fotoelettrico che lavorano all’esterno della strada, forse il camion è uscito di strada e lo stanno recuperando. Un poliziotto mi ha fermato sbracciandosi, ha il viso coperto di neve e di ghiaccio, picchia forte sul finestrino. “È lei il veterinario?” Al mio diniego ha reagito con rabbia, perché non ero il veterinario e perché stavo occupando la corsia di sinistra, destinata al aggio dei mezzi di soccorso, avrei dovuto pensarci da solo, anche se non c’erano cartelli era intuitivo. Mi ha fatto parcheggiare tra un camion e un fuoristrada, in obliquo, perché lo spazio non era sufficiente, ci sono decine di macchine, pick-up, furgoni e camion, in piedi tra le auto una folla di uomini e donne, che parlano, fumano e

mangiano, dietro a un grosso autocarro una ventina di persone sono assembrate attorno a un fuoco che crepita, da dove arriva questa gente, per strada non c’era nessuno, quando sono arrivati, da dove? La luce della fotoelettrica sbianca una larga chiazza di neve appena fuori dall’autostrada, contro quel biancore le persone sono ombre, si discute a voce alta, qualcuno è lì da mezzogiorno, i primi, pare, sono bloccati dalle undici del mattino, hanno visto i visoni, centinaia, grigi, fuggire nella neve. Mi sono spinto sino alle transenne, le gru in azione sono due, hanno agganciato il rimorchio, in parte adagiato sulla strada e in parte sopra gli abeti a bordo strada, la motrice è completamente rovesciata, con i pneumatici rivolti verso il cielo. Il camionista, incolume, è già stato mandato via, trasportava un carico di visoni argentati vivi, centinaia di animali, stipati in un bilico attrezzato, riscaldato, ha detto qualcuno, con greppie speciali per il cibo e l’acqua, partiti dal Canada sarebbero arrivati da qualche parte nel Wisconsin per il macello, ci sono uomini con la giacca a vento scura e grandi guanti di pelle chiara, qualche donna, infagottate in pellicce marroni a pelo lungo, gente di qua, li ascolto, si muovevano per lavoro, uno, un gigante con il viso rubizzo, spiega per l’ennesima volta che è lì per un lavoro al cimitero di Brevort, indica il luogo, neanche un centinaio di metri, questione di un attimo, sì, il camion che si è ribaltato lo aveva intravisto poco prima, era in cima alla salita, si volta per mostrare la curva, appena prima del punto del ribaltamento, no, quando è arrivato il camion era già coricato sugli alberi, sì, ha visto i visoni galoppare nelle neve, uno spettacolo, una macchia d’argento che si allargava nella neve attorno al rimorchio caduto, pare che dentro vi siano ancora qualche decina di animali, hanno chiamato un trasporto speciale per riportarli in Canada. Lo spostamento del rimorchio procede lentamente, qualcuno, che si è avvicinato alla zona delle operazioni, ha spiegato che il terreno è cedevole e che le gru sono costrette a lavorare con grande cautela, progressivamente la maggioranza degli astanti si è ritirata nelle auto e nei camion, verso mezzanotte li ho imitati, ho il motore regolando il riscaldamento al massimo, messa la giacca a mo’ di coperta e sintonizzata la radio, a basso volume, su un programma di musica pop degli anni ‘60. Ho aperto improvvisamente gli occhi, per il caldo, sudo e, dormendo, mi sono liberato della giacca, fuori c’è luce, poca, grigiastra, è l’alba, davanti a me il cassone dell’autocarro dietro al quale ho parcheggiato ieri notte. Sono uscito

all’aperto, non c’è più quasi nessuno, le gru sono andate via, il rimorchio giace sulla corsia di destra, è rimasta qualche auto della polizia e qualche camion, forse perché i loro autisti stanno ancora dormendo, sono le sette e mezza, Sara è appena uscita per andare al lavoro, non posso telefonarle, arriverò a casa nel pomeriggio, le preparo la cena, lei rincasa per le sette, abbiamo tempo, dopo il falso allarme riceveremo le nuove istruzioni per la nuova destinazione. A Sara piace il salmone, ne comprerò una busta di affumicato, lei sfrigola di piacere quando lo spalma sulle tartine imburrate, e cercherò un bel pesce intero, lo cucinerò al forno, con le patate. Key West, che giornata, e perché di nuovo questo ricordo, proprio adesso, mentre riparto, nella nebbiolina, o sta iniziando a nevicare, a Marinette mancano poco più di centocinquanta miglia, dopo la strada è migliore. A Key West l’albergo per noi era fuori misura, troppo lusso, Sara era a suo agio, nel dare la mancia al portiere e al facchino che ci ha accompagnato nella stanza, con la terrazza aperta sull’oceano, camminava avanti e indietro per la camera, grande come il nostro appartamento di San Francisco, le gambe fuori dall’abito corto a fiori, apriva tutti i cassetti dell’armadio e dei comodini, provava i rubinetti dei due lavandini del bagno e si sedeva rannicchiandosi sulla poltrona di vimini sulla terrazza. Non c’era tempo, mi ha detto, andiamo, Chicco, perdona se non l’ho detto prima, dobbiamo vedere una persona. Che abbiamo incontrato in un supermercato, davanti agli scaffali delle zuppe in scatola, alle diciassette e trenta precise, un signore sulla settantina, forse europeo, senza capelli, che indossava un cappotto, con una temperatura che era vicina ai novanta fahrenheit, per proteggersi dall’aria condizionata, ci ha detto subito, e che ci ha pregato di attenderlo in un certo bar, un locale brasiliano, nella zona nord della città, un posto equivoco, con cameriere in abiti succinti e alla cassa la padrona, che pareva appena scesa da un carro del carnevale di Rio. Siamo stati con Jim, così si faceva chiamare l’uomo, sino a mezzanotte, prima nel bar sudicio e poi in una bisteccheria sul lungomare, era per non dare nell’occhio, ci ha sottolineato più volte, parlava un pessimo inglese e, solo alla fine, mentre si congedava da noi davanti a una birreria dove avevamo concluso la serata, porgendo le sue scuse per non poterci accompagnare all’albergo, per ovvi motivi di sicurezza, era chiaro, insomma, poco prima che salissimo sul taxi ci ha sussurrato un messaggio, “araba fenice fuori dal mondo”, che ha provocato sul viso di Sara la comparsa di una meravigliosa luce di serenità, ha baciato l’uomo al centro del cranio e gli ha detto che questo era bene, anzi, benissimo.

È il mattino del 18 Gennaio 1978, qui sulla costiera nord del Lago Michigan nevica forte, e non c’è nessuno per la strada, sono tutti davanti, partiti nella notte, mentre dormivo. “Araba fenice fuori dal mondo? Che è, Sara?” Le avevo chiesto a Key West quella sera di due anni fa, appena chiusa la portiera del taxi sul quale era salito il vecchio pelato. “Che significa? Non ricordo che ci sia mai stato detto che avremmo potuto sentire una frase di questo genere.” Mi aveva preso sottobraccio, felice, per spiegarmi che sì, quella frase esatta non faceva parte del nostro corredo, ma lei aveva ugualmente capito, “araba fenice” eravamo noi due, e “fuori dal mondo” significava Israele, la missione era confermata, era sufficiente avere pazienza. Non le ho chiesto come aveva avuto il contatto per l’appuntamento in questo luogo fuori dal mondo, non me lo avrebbe mai detto, mi sono accontentato della notte con lei, della colazione a letto, con l’oceano che sembrava entrare dalla finestra, e l’intera mattina in camera, niente bagno davanti a Cuba, Sara era contenta, mi chiedeva in continuazione di abbracciarla, forte, sco, più forte che puoi. Senza contare i trasferimenti da una città all’altra quello è stato il nostro unico viaggio, e questo il mio secondo, dentro questa nevicata che adesso è vera tormenta, la visibilità annullata, navigare a tentoni dentro un bicchiere di latte, procedo pianissimo, ho il serbatoio a metà, sufficiente, se servirà, per un’altra notte in auto. Questi quattro anni, Sara, mio grande e unico amore, che gioia, ogni sera, riabbracciarti in una delle nostre case provvisorie e che emozione, ogni notte, avvicinarmi a te, calda, sensuale, disponibile, come puoi avere dei dubbi sui miei sentimenti, come puoi avermi detto che non avevo chiaro il significato delle parole ti amo, certo è stato durante le settimane di Terry, sei stata in tensione, preoccupata, per Terry, per John, anche per me, ma lo hai detto, e lo hai ripetuto. La vicenda di Terry ci ha cambiato. La testardaggine di Sara è stata eccessiva, il suo schierarsi ad ogni costo dalla sua parte, senza senso critico, resto infatti convinto che Terry sia stata complice, se non l’artefice della vicenda con lo zio Fred, il rifiuto di Sara di parlare di questa possibilità, di confrontarsi con una ipotesi diversa dalla sua, era forse la prima volta che la chiamavo a rendere conto di una sua azione o di una sua posizione, e si è sottratta. E l’acrobazia finale, dare valore alla follia di quella convivenza anormale tra uno zio quasi

sessantenne e la nipote adolescente, non ha ascoltato le mie rimostranze, piuttosto mi ha cacciato dall’auto, senza una parola, così, come un nemico. E, poi, dopo le sue accuse di vigliaccheria, dopo che si era coricata in veranda, già nuda, pronta per offrirsi a me, come ogni giorno in questi quattro anni, non per farsi possedere da me, piccolo ingenuo, ma, piuttosto, questa è forse la verità, per riprendere il controllo su di me. Sono riuscito ad evitare un camion fermo, ho intravisto le lucine posteriori all’ultimo momento, una sterzata secca nella corsia di sinistra, coperta da dieci centimetri di neve compatta, ho superato il mezzo sbandando in obliquo e riprendendo l’assetto, senza danni. Sono sempre stato certo che Sara fosse innamorata di me, che lo fosse già in Italia, quando si era lasciata abbracciare e baciare sotto i portici, e che lo fosse rimasta per ogni giorno di questi quattro anni, sino a questa mattina, coricata sul divano in veranda, quando mi ha cercato, placida, tiepida, serena. Ho rallentato, procedo pianissimo, dieci del mattino, sessanta miglia da St. Ignace e centotrenta da Marinette, tormenta piena, sul parabrezza uno strato di ghiaccio di un dito contro il quale il tergicristallo non ha alcun effetto, se non trovo altri ostacoli a sera sono a casa. Sara di sicuro ha già ricevuto le istruzioni a proposito della nostra prossima meta, Boston, sarebbe perfetto, Sara ha già fatto le valige, mi attende, se sarà New England le proporrò di andare in auto, un migliaio di miglia, tre giorni, sosta a Cleveland, e a Buffalo, sconfiniamo in Canada, per vedere le cascate del Niagara, abbiamo i aporti in regola, e non è una frontiera difficile. Sara non ha mai voluto che le nostre amicizie divenissero stabili e continuative, a Reno, nel ‘75, aveva conosciuto una collega, una ragazza della sua età, giordana di nascita, in America da una decina di anni, scura e minuta come lei. Era diventata una vera sorella, l’aiutava sul lavoro, viveva con la famiglia, suo padre, in Siria, era stato operaio in una della aziende del nonno di Sara, una ragazza speciale, che ascoltava, e quando smettevi di parlare ti invitava a continuare, e quando non avevi più nulla da dire proseguiva a restare in silenzio, e il giorno successivo, o una settimana dopo, quando avevi dimenticato di averle parlato in un certo modo e di averla informata di questioni tue, solo allora, senza essere interpellata, ti rispondeva, comunicandoti le sue riflessioni. Mi era piaciuta, Lana, quello era il suo nuovo nome americano, era venuta qualche volta a casa a cena, e una domenica eravamo andati insieme sul lago Tahoe, era stata

l’ultima occasione nella quale l’avevo vista, troppo pericoloso, mi aveva spiegato Sara, non dobbiamo scoprirci troppo. “Bastiamo a noi stessi” mi aveva detto “io e te, sco, dobbiamo accontentarci di ciò che abbiamo da offrirci.” Era splendida, quella sera, con una fibbia di plastica rossa a trattenere i capelli sulla nuca, ricordo le sue mani, gesticolava dolcemente, aprendo la bocca per dirmi che non avrei dovuto aver paura, lei mi avrebbe protetto, aiutato, difeso. Mi sono fermato, non è possibile proseguire, visibilità annullata, il parabrezza invetrato in una cappa di neve gelata, sono uscito all’aperto, per scoprire che sto procedendo a pochi centimetri da un muro di contenimento ricoperto da uno strato di ghiaccio lucido, soffia un vento freddo, a folate larghe, potenti, che mi obbliga a sostenermi alla maniglia della portiera, rientro in auto, che fare, adesso, quando arriverò a casa? E Sara? Sono rimasto l’intero giorno di martedì 17 dentro l’auto, il motore , il riscaldamento al massimo, controllando in continuazione il livello del carburante. Alle quattro del pomeriggio, a un quarto di serbatoio, ho spento, la temperatura è diventata rapidamente intollerabile, ho resistito venti minuti e poi ho riavviato, alle otto di sera ero vicino alla riserva, sono uscito all’aperto, tra le raffiche di vento che schiaffeggiano la neve, sull’asfalto se ne sono depositati venti centimetri, non a nessuno, quelli che erano rimasti bloccati la notte scorsa sono partiti in gruppo e sono avanti, già a Marinette, già verso sud, quelli che intendevano partire sono stati bloccati a St. Ignace, non erà nessuno, il carburante terminerà presto, non ho coperte, nulla per scaldarmi, non ho più acqua da bere. Ho cessato di dibattere di politica con Sara il 19 novembre scorso, mentre Sadat era in visita di stato in Israele, quando io ho sostenuto che per il popolo palestinese quell’evento costituiva una opportunità reale per dare l’avvio a dei veri negoziati di pace con Israele. Un tradimento, aveva sentenziato guardando alla televisione le immagini del presidente egiziano che parla alla Knesset Israeliana e che, dopo, stringe la mano di Menachem Begin. Il rais si stava mangiando il fegato, ne era certa, tanto quanto era sicura che Arafat non avrebbe lasciato impunito quell’insulto, non erano in nessun modo consentiti cedimenti di questo tipo, stringersi le mani, come tra eleganti diplomatici occidentali, conversare affabilmente davanti alle telecamere, scambiarsi doni, invitarsi

cortesemente a vicenda per una nuova occasione, Al-Fatah era rabbia, terra nuda e polvere da sparo, e con i sionisti non c’era possibilità di mediazione, spingerli in mare, all’inferno, tutti. Era uscita sbattendo la porta, a piedi scalzi, a gambe nude, con il vestito da casa, i palmi delle mani premuti sulle orecchie, l’ho rincorsa, l’ho presa per un braccio, si era divincolata, gridando che stava cercando di dimenticare quello che avevo detto e che non voleva mai più ascoltare dalla mia voce quelle bestialità. Ho provato a dirle che i vicini potevano insospettirsi. Non ero autorizzato neppure a pensare che quel maiale di egiziano, quel venduto, pagato dalla CIA, valanghe di denaro americano, non mi era consentito di affermare, neppure come paradosso, che quell’incontro potesse rasserenare il clima politico internazionale sulla questione palestinese. Camminava sul prato gelido, sino a due giorni prima coperto di neve, Sam, il nostro vicino, era alla finestra, e ha già chiamato la moglie, per godersi lo spettacolo. Quel porco, sogna il corpo di Sara a pezzi, l’ho visto, se la mangerebbe, anche adesso, lì, sul prato tra la strada e l’ingresso di casa, al freddo, è lui il maiale, Sara, non l’egiziano, non ti sbagliare. Discutere, prima, era stato più facile, anche il 15 maggio del ‘74 quando un manipolo di combattenti del Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina dal Libano meridionale si era infiltrato nella città israeliana di Ma’alot, uccidendo cinque uomini e prendendo in ostaggio un gruppo bambini di undici anni di una scuola locale Ne avevano giustiziati ventuno, prima di essere a loro volta uccisi dai soldati israeliani. Eravamo a San Francisco, arrivati da poco dall’Italia, era stato un evento terribile, Sara mi aveva chiesto di restare in silenzio, al buio, sul divano del soggiorno, a televisione spenta, l’intera sera, e di coricarsi in silenzio, e di mantenerlo sino al mattino. Anche dopo la notte del 4 marzo del ‘75, gli ultimi giorni del nostro soggiorno a Seattle, quando otto uomini dell’OLP viaggiando dal Libano a Tel Aviv via mare in un gommone, erano entrati nell’Hotel Savoy prendendo decine di ostaggi, chiudendosi con loro in una stanza dove si erano fatti saltare per aria, uccidendo otto ostaggi e ferendone undici. Degli otto armati dell’OLP, nell’esplosione ne morirono sette. Venimmo a conoscenza dell’evento qualche giorno dopo, la sera precedente a quella che si sarebbe rivelata essere la seconda chiamata a vuoto per il nostro trasferimento in Israele, la notte trascorsa seduti, vestiti e con le valige pronte, l’alba arrivata senza nessuna comunicazione e, dopo, l’attesa di ulteriori ventiquattr’ore, a casa chiusa e luci spente, un’altra notte vestiti sul divano, sino al mattino, quando avevamo ricevuto per la seconda volta la

telefonata di un agenzia di consegne espresse che ci avvisava che ci stava per essere recapitata una busta, dove avremmo trovato i biglietti aerei e gli indirizzi della nuova abitazione e delle nostre nuove sedi di lavoro. Sara aveva commentato che con quello che era accaduto in Libano era naturale che l’operazione fosse stata annullata. Sono entrato in riserva, sono uscito all’aperto, con il bordo di una lattina di birra, grattando il ghiaccio depositato sul vetro, ho liberato la zona di parabrezza lato guidatore e, con i fari abbaglianti piantati contro la bufera, sono ripartito. Ho imparato subito che se procedo sulla corsia di sinistra riesco a intuire la posizione del bordo della strada seguendo la fessura che si è formata tra la coltre di neve caduta sull’asfalto e quella che si è fermata sul terreno all’esterno, sono contromano, ma sono piuttosto certo che nessuno mi verrà addosso, chi potrebbe mai mettersi in viaggio in queste condizioni? La riserva è sufficiente per trenta miglia, forse trentacinque. Anche prima dell’episodio della visita di Sadat in Israele Sara non aveva piacere di discutere con me delle questioni politiche e militari del Medio Oriente. In questi anni, ho provato più volte a intavolare con lei dibattiti sull’argomento che io ritenevo centrale per il futuro della regione e, in particolare, per i progetti di nazione autonoma dei palestinesi. In questi mesi di fine ‘78 ho più volte cercato di coinvolgerla nell’analisi della guerra civile libanese, nella quale l’OLP aveva deciso di allearsi con i musulmani, contro la frazione cristiano-maronita appoggiata da Israele. Le esternavo i miei dubbi, era sensato, dal punto di vista storico, strategico e politico impegnarsi in quella guerra che non era la loro? Certo, nel Libano meridionale i palestinesi avevano installato i loro campi e i loro centri di addestramento, ma era proficuo quel coinvolgimento così diretto, così aperto? Era utile combattere Israele per l’interposta persona di una fazione religiosa di un altro paese? Mi lasciava parlare, senza interrompermi, immobile, seduta, o più spesso accovacciata a terra, in una curiosa posizione a metà tra la il loto e la rana, mi accaloravo, scendevo nei dettagli, tornavo indietro alle cause primarie, la dichiarazione Balfour, il terrorismo ebraico del dopoguerra, l’Exodus, le guerre di Israele del ‘48, del ‘56, del ‘67 e del ‘73, una catena storica senza soluzione di continuità che, dopo trent’anni dalla nascita dello stato di Israele, aveva ridotto quasi a zero le speranze di vedere un giorno la creazione di una patria palestinese. Mi ascoltava? Credo di sì, anche se alla fine delle mie prolusioni lei si avvicinava, mi chiedeva di baciarla e di non pensare a quelle cose, perché io

non ero in grado di comprenderle. Sino a quando, un mese fa, verso Natale, le ho chiesto che cosa veramente pensava delle mie opinioni, e ho rifiutato di farmi baciare, volevo una risposta, volevo discutere con lei, volevo dare un senso a quei quattro anni trascorsi più come turista che come spia. “Sara, che stiamo a fare qui, sbattuti da una città all’altra, in attesa di chissà che cosa, stranieri, clandestini, isolati. Io voglio dare una identità storica a questa nostra avventura, voglio che sia la conseguenza di determinati eventi accaduti prima e la causa di nuovi eventi che noi contribuiremo a realizzare.” “Sei un intellettuale sciocco, e impaziente” mi aveva risposto mentre cercava di abbracciarmi, eravamo in bagno, mi rincorreva per la casa, scalza, i capelli sciolti sulle spalle. “Non importa quello che sono, ciò che conta è quello che dico. Discutiamo Sara, ci renderà vivi, ci permetterà di non sentirci inutili.” “Tipico degli occidentali, dare una fisionomia certa ad ogni situazione. Porre una accanto all’altra cause e concause, per studiarne gli effetti e per individuare gli strumenti da applicare.” “E ti sembra sbagliato? Perché non farlo? Aiuta a capire.” “A capire, forse, ma non a combattere!” È riuscita a bloccarmi, mi ha preso alle spalle, mi stringe forte con entrambe le braccia, le mani premute sul mio petto. “Ce l’hai un cuore, sco? Se lo hai usalo, è ora che serve, quando è difficile, le prospettive incerte, gli ostacoli insormontabili, adesso, quando è complesso capire, la razionalità inapplicabile, le idee confuse.” “Sara, io desidero solo parlare.” Senza allentare la presa delle braccia era riuscita a voltarmi, e a schiacciare il viso contro la mia spalla, mormorava qualcosa in arabo, le accade spesso, quando facciamo l’amore. La sua bellezza anomala sopra di me, il suo calore meridionale, la tensione di una esistenza fuori standard che si scioglie sopra il mio corpo, parleremo dopo, Sara, domani, dopodomani. Con la riserva, a bassa velocità, procedendo incollato al bordo sinistro della carreggiata, ho percorso quarantacinque miglia, raggiungendo quasi la metà del tragitto tra St. Ignace e Marinette dove l’auto si è fermata all’improvviso,

contromano, non sono riuscito a spostarla, né con il motorino di avviamento né spingendola a mano. Mi sono chiesto se era prudente restare all’interno, correndo il pericolo di venire investito da un mezzo proveniente in senso contrario, o se era meglio uscire, con il rischio di congelare dentro la tormenta che non accenna a diminuire di intensità. Ho scelto di restare nell’abitacolo, con la giacca chiusa sino al mento, il berretto e i guanti, fa freddo, molto, ma non ho alternativa, è mezzogiorno del mercoledì, che starà pensando Sara? Mi aspetterà? Domani mattina di sicuro dobbiamo lasciare l’abitazione di Rosemont. Mi attenderà comunque? Mi ama? Mercoledì 18 gennaio, sei del pomeriggio, sono fermo da sei ore, non riesco a contenere il tremito, ho divelto la copertura del sedile posteriore, ricavandone una specie di coperta semirigida, ho stracciato la moquette del pavimento che ho sistemato attorno al petto e all’addome e con il sacchetto di tela delle catene ho realizzato un paio di coperture per le mani, ma non basta, la temperatura è estremamente bassa, la tempesta prosegue senza cedimenti e l’auto è coperta da uno strato di neve che mi impedisce qualunque visuale all’esterno. Sono in viaggio da lunedì mattina, che confusione, non riesco a conteggiare le ore, ho lasciato casa a Rosemont verso le undici, dunque alle undici di stamani erano già quarantott’ore, adesso sono le diciotto, cinquantacinque ore! Sara, amore mio, non sarà lì ad attendermi, domani mattina andrà via, lei è un soldato disciplinato. Ha ricevuto oggi le consuete, dettagliate, istruzioni e partirà, poco dopo aver lasciato casa le consegneranno la busta con i biglietti aerei e la prenotazione per l’albergo dei primi giorni, Sara ha aspettato sino all’ultimo, il taxi con il motore davanti al giardino, le valige caricate, ancora un attimo, la prego, ha chiesto all’autista. Quando arriverò, chissà quando arriverò, troverò la casa chiusa, ho le chiavi, ma l’agenzia è già venuta, hanno cambiato la serratura, e se mai potessi aprire troverei l’abitazione vuota, i miei abiti spariti, Sara non ha lasciato nessuna traccia, nessun segno del nostro aggio. Non potrà lasciarmi i biglietti aerei da nessuna parte, e se lo fe non sarebbero più validi, non ho alcuna idea della destinazione che ci è stata assegnata, forse l’Est, il New England, l’oceano Atlantico, prati verdissimi, andare a Manhattan a teatro la domenica, Boston, Rhode Island, il Connecticut, resterò a Chicago, non ho più denaro, la carta di credito è stata disabilitata, un barbone, non potrò che essere un barbone, l’italiano, mi chiameranno i colleghi alla mensa della chiesa presbiteriana o, d’estate, la notte, da una panchina all’altra del parco sul lago.

Che anni strani, sono fuggito dalla mia esistenza italiana all’improvviso, con Sara, ne ero innamorato sconsideratamente, la mia promessa sposa, Laura, la casa nuova, il matrimonio, aria già respirata, non sapevo che farmene, non ho mai avuto rimpianti. L’avventura, salire su quell’aereo la mattina di quel martedì 12 gennaio 1974, poche ore prima che Laura iniziasse ad attendermi sulla gradinata della chiesa, l’America, il sogno, il JFK, il controllo del mio aporto falso, con la mia falsa moglie, che sorrideva all’impiegato dell’immigrazione, sì, signore siamo qui per un periodo di lavoro, esibendo i certificati, i documenti dell’assunzione delle aziende, il contratto di affitto della casa di San Francisco, non c’era da avere paura, non stavamo facendo nulla di illegale, eravamo due giovani che si stabilivano provvisoriamente in una città degli Stati Uniti d’America. Un grande gioco, spie? Noi? Non spiavamo nessuno, eravamo in transito, l’obbiettivo era Israele, il grande nemico della nazione palestinese. Percepisco la mente sovvertita, il flusso dei ragionamenti spezzato, arrivano luci, suoni ovattati, non sono un criminale, non ho fatto nulla contro gli americani, ho lavorato, pagato le tasse e l’assicurazione sanitaria, io amo questo paese, Tel Aviv, a cercare informazioni per conto dell’OLP? Una favola, forse, o forse no. Io amo Sara, abbiamo vissuto incollati per quattro anni, è stato il brodo caldo che mi ha consolato del vuoto dei miei primi ventisei anni, mio padre, che uomo triste, e arrabbiato, e deluso, e mia madre, sprovveduta, ignorante, inconsapevole e Laura, con le sue gonnette corte, la canottiera vecchia e bucata, l’odore di sapone di Marsiglia sopra quel leggero sudaticcio da caserma, o da suora, Sara è stata l’acqua fresca, ridere ogni sera, ascoltare le sue descrizioni delle colleghe tacchi e rossetto, delle chiacchiere sugli uomini, dei dirigenti in camicia bianca, del grande capo, nel suo ufficio semibuio, le mani grasse, che ti lascia in piedi vicino alla porta e che comunica un breve messaggio, a voce bassa, un ordine, fare, subito. A Tel Aviv che avremmo fatto? Non lo so, ma adesso che importanza ha saperlo? Mi sono accorto che sto gridando, senza motivo, non ho dolori di alcun tipo, non ho paura, ma urlo, forte. Ho aperto la portiera e, cercando di liberarmi degli strati di tessuto e di plastica che mi sono avvolto addosso, sono scivolato all’esterno rotolando sulla neve, è buio, già notte, la bufera non ha smesso, mi rialzo, grido, a bocca spalancata, riempiendo la gola di vento e di fiocchi di neve gelata. Strisciando carponi nella neve riesco a rientrare in auto, riprendo la mia posizione sul sedile, raccatto i pezzi della coperta di fortuna che mi sono costruito, sono scosso da un tremito inarrestabile, un dolore immenso dentro il

torace, insostenibile. La mano posata sulla spalla è pesante e la voce che mi chiama proviene da molto lontano, ho sussurrato che avevo freddo, anzi che non sentivo più il freddo, ho dichiarato il mio nome, non ricordo bene, qualcuno mi ha sorretto per restare in piedi, fuori non c’era più vento, non nevicava più e davanti alla mia auto giganteggiava il frontale altissimo di un camion rosso, sono stato adagiato in una cuccetta molto piccola e avvolto in molte coperte, ma sono immagini sfocate, qualcuno mi chiedeva se adesso sentissi caldo, ma non riuscivo a registrare differenze, ero affaticato, e sentivo la testa pesante. Mi sono risvegliato la sera dopo, il 20 gennaio, venerdì, in un ospedale di St. Ignace, un poliziotto era in piedi al mio fianco, mi ha consegnato la patente, avvisandomi che avevano provato a telefonare a casa a Rosemont ma che nessuno aveva risposto, l’auto era stata rimossa e portata in un garage di St. Ignace, mi ha allungato un biglietto da visita con l’indirizzo e il telefono dell’officina. “Tutto questo le costerà un bel po’ di dollari” ha detto accennando alla camera nella quale mi trovavo. “Per non parlare dell’auto, per recuperarla hanno mandato un camion e una gru.” Si è allontanato tenendo le mani in tasca, e voltandosi sulla porta per guardarmi ancora: “Hai rischiato grosso, ragazzo, quel camion andava pianissimo, è stata la tua fortuna.” Sara, nel corso degli addestramenti della domenica mattina mi obbligava a ripetere a memoria il decalogo del comportamento in caso di cattura o di semplice fermo per motivi diversi, come un controllo della polizia stradale. Iniziare con le affermazioni più ovvie, che eventualmente l’agente o il funzionario che sta interrogandoti potrebbe supporre false, tipo nome e cognome, indirizzo, numero di telefono, sede di lavoro, per poi, se manifestamente non apparissero credibili are a quelle più difficili da dire e da far capire, che sei italiano, che hai dovuto prendere una identità falsa per trovare un lavoro, questo è un reato, a loro potrebbe bastare, non andrebbero oltre, è quasi impossibile che arrivino a sospettare che tu sia un incaricato dell’OLP in transito. La questione più seria, in questo momento, qui in ospedale, è quella della casa, che non ho più, la polizia aveva telefonato, probabilmente non l’avrebbe più fatto, altrimenti scoprire che non posseggo più una abitazione sarebbe

facilissimo, devo essere pronto alla fase due, a confessare la falsa identità. Appena uscito il poliziotto sono entrati una infermiera e un medico, veloci, energici ed efficienti, ho chiuso gli occhi e ho finto di essere ancora in stato di semincoscienza. Li ho sentiti armeggiare con la flebo che ho nel braccio, mi hanno preso il polso, la pressione e la temperatura, il medico ha detto che mi sarei ripreso prestissimo, questione di qualche ora, l’infermiera ha visto la mia patente sul tavolino e, prendendola, ha comunicato al medico che l’avrebbe portata in amministrazione, il medico le ha detto che era la cosa giusta da fare e le ha chiesto di chiamarlo quando mi fossi risvegliato. Ho amato Sara con la pelle, con le mani e con la bocca, ogni giorno di questi anni, ho scelto di venire qui in America per vivere con lei, se non l’avessi conosciuta sarei in Italia, marito di Laura e padre dei suoi primi due figli. L’ho desiderata, Sara, sorseggiarla avidamente, inghiottirla piano, piccoli bocconi masticati a lungo, con gusto. Sono stato dentro la sua testa, il suo corpo e la sua sensibilità, ho imparato a percepire le sue fluttuazioni umorali, la sua bizzarria, la sua rabbia, la sua dolcezza, la sua voluttà, ero e sono in lei, io fungo e tu alga, le mormoravo nell’orecchio quando le spiegavo che eravamo un lichene, su una roccia di granito, in montagna, unica forma di vita esistente a quella quota. Lei si è lasciata abbracciare, in migliaia di identiche serate americane, l’unico uomo sfuggito alla glaciazione l’aveva trovata, lei, la prescelta tra milioni di donne, forse aveva paura, forse aveva bisogno di protezione, il suo ato, una somma di vite diverse, inconciliabili, tra un pezzo e l’altro una frattura, una discontinuità. Chi era Sara? La ragazzina tedesca avviata all’integrazione, la musulmana di ritorno, la fanatica della causa palestinese, l’abile spia che attraversa con eleganza i confini più pericolosi, la trafficante, la nipote del notabile siriano, chi è oggi Sara, e perché mi vuole, perché mi ha scelto. Mi ha amato Sara? Le manco ora? Dove sei, piccola mia, dove sei fuggita? Usciti il medico e l’infermiera ho osservato con attenzione la camera, la finestra grande, le tapparelle alla veneziana abbassate, la zona soggiorno, una poltrona e un divano, il televisore davanti al letto sostenuto da un braccio regolabile fissato al soffitto, un piccolo frigorifero, la porta del bagno privato, i due comodini e, alle mie spalle, l’apparecchiatura di monitoraggio e le bocchette di alimentazione dei fluidi e dei gas. Non ho idea di quanto possa costare la degenza in questo luogo, in amministrazione stanno censendo il mio nome, la mia assicurazione è da operai, non credo possa sostenere questi costi e la mia carta di credito è disabilitata, quando dirò che non posso pagare richiameranno quel poliziotto, e

sarò obbligato ad affrontare la fase due. L’infermiera è venuta a controllare i parametri sul monitor poco prima delle ventitré, sono riuscito a ingannarla ancora, forse solo perché sembrava di fretta, un tocco al polso e una occhiata al monitor delle funzioni vitali, due minuti, via, la suola di gomma degli zoccoli appena percettibile sul pavimento di linoleum, la porta spinta con delicatezza con la punta del piede, ho socchiuso gli occhi, una donna bianca bassa di statura, rotonda, quarant’anni, i capelli cortissimi, senza occhiali. Togliere la flebo è stato facile e i miei vestiti li ho trovati appesi in ordine dentro l’armadio, il portafoglio è al suo posto nella tasca interna del giaccone, i duecento dollari che avevo prima di partire sono lì, intatti, lasciare l’ospedale è stato facile, ho imboccato il corridoio, sono salito su un ascensore deserto e sono uscito dalla porta principale. Il parcheggio antistante è semivuoto, le auto sono coperte di neve, non ho idea di dove sia il centro città. Il lago Michigan è vicino, lo raggiungo, ne seguo la riva, il marciapiede ampio, coperto di un dito di neve, l’acqua scura, agitata, fredda. Dal 12 gennaio del ‘74 ho speso insieme a Sara quattro anni e una settimana, quattro anni, più di duecento settimane, con Sara, settimane composte da giorni uguali, la sua voce, per raccontarmi ciò che le era accaduto in ufficio, cucinare scalza, il rossetto, i capelli chiusi nella crocchia o in una sola, treccia, gonfia e sontuosa. A tavola Sara scioglieva i capelli sulle spalle, mi chiedeva la camicia da notte, che indossava senza alzarsi, davanti al couscous, o alla pasta, o al riso, o alla verdura cotta, spogliandosi dell’abito da ufficio con un gesto appena, per iniziare a parlare, a bocca piena. Di che abbiamo parlato insieme, in questi quattro anni, quali argomenti, quali conclusioni, quali dubbi. Mi sento bene, la notte nell’auto al gelo non ha avuto conseguenze, sì, la direzione sembra quella giusta, davanti a me le luci sono fitte e intense, è di sicuro il centro di St. Ignace, ho solo duecento dollari, una notte in albergo potrebbe essere troppo costosa, domani mattina prenderò un autobus per Chicago. Non è facile calcolarlo, ma ritengo che per raggiungere il centro dovrò camminare due o tre miglia, una quarantina di minuti, un’ora al massimo.

Sara non parlava della sua famiglia, né delle persone che aveva frequentato in quegli anni in Europa e in Medio oriente, era vietato, per motivi di sicurezza. Non aveva argomenti in merito alle questioni sportive, che considerava appartenenti a un mondo sconosciuto, né sulla letteratura, leggeva pochissimo, né sulla cinematografia, non siamo mai andati al cinema, raccontava delle donne che incontrava nei suoi lavori, esprimendo la sua preferenza per le giovani ribelli e per quelle più anziane vessate da figli e mariti che ancora erano capaci di ridere, è simpatica Sara, ed era un piacere ascoltarla, e poi osservare come cessava di scherzare e di raccontare, bere ancora un bicchiere d’acqua e chiedermi di ritirarmi con lei, non era tardi, ma lei desiderava il letto, la luce del comodino, leggiucchiare un fumetto, ascoltare la radio, che il più delle volte tenevamo sul pavimento, dalla sua parte, rock, soprattutto, spegneva la radio e la luce presto, non più tardi delle dieci, chiedendomi di venirle vicino, al buio, Chicco, così è più segreto, mi sussurrava. Ho lasciato la riva del lago e sto salendo per una strada larga, poco fa ho visto una indicazione per la stazione degli autobus, mezzo miglio, sui marciapiedi nessuno, pochissime le auto in transito e chiusi tutti i bar, si è alzato un vento freddo, è quasi mezzanotte. La stazione degli autobus è serrata, ho trovato gli orari in una bacheca semibuia, il primo pullman per Chicago parte alle sei, camminerò tutta la notte, riposerò domani viaggiando, è indispensabile che amministri con attenzione i miei duecento dollari. Mi avvicinavo, ogni sera, al suo corpo, lei mi attendeva e io centellinavo il nostro piacere, ogni sera, sfiorarle prima un piede, toglierle i capelli dagli occhi, cercare l’incavo del collo per appoggiarci la guancia, ogni sera, una rete di gomma tiepida sopra di noi, ogni sera. Non ho preso l’autobus per Chicago, alle sette sono salito su quello per Toronto, alla partenza eravamo una decina ma durante il tragitto sono saliti altri eggeri e al aggio del confine con il Canada eravamo quasi al completo, alla frontiera i poliziotti hanno scambiato due parole con l’autista e hanno guardato dentro l’autobus dai finestrini. Sceso a Toronto, verso le sette di sera, ho gettato dentro un tombino il portafoglio con il documento d’identità, la tessera dell’assicurazione sanitaria, il cartellino di identificazione aziendale, ho trattenuto solo il denaro, sono tornato sco, l’italiano. Ho architettato questo piano questa mattina, è stato duro, camminare per ore, nel gelo profondo, per viali e lungolaghi deserti, cercando un nascondiglio ad ogni

auto di aggio, alle quattro e mezza ho incontrato una donna anziana, infagottata e con il viso coperto da una sciarpa, trasportava due grosse borse scure, per combattere il freddo ho corso per una ventina minuti, accanto alle acque del Michigan battute dalle raffiche di vento, alle cinque sono salito alla stazione degli autobus, ancora chiusa, dove ho ritrovato, in piedi sotto una pensilina, la donna infagottata con le borse. Hanno aperto la sala d’aspetto alle cinque e mezza, con il giaccone umido, spiegazzato, le scarpe bagnate, i capelli arruffati, la barba di una settimana, ho preso tre volte il caffè da un distributore automatico, il cervello vuoto, ho annaspato per ricordare il cognome di Sara, poi ho ricordato anche quello di John, e l’indirizzo dell’abitazione di Rosemont, e quello del primo appartamento di San Francisco, ho telefonato a casa, ho riprovato dopo dieci minuti, senza esito, avevo chiamato durante la notte, ogni ora da mezzanotte in poi, lasciando squillare a lungo, per minuti interi. Sara non è più a Rosemont, Sara è già da giorni alla destinazione successiva, forse sulla costa orientale, non sarei andato a Rosemont, ogni riferimento alla mia esistenza americana annullato, ritorno italiano. A Toronto ho mangiato un hamburger e alle nove di sera ho preso un autobus notturno per Montreal, sono poco più di cinquecento miglia, dopo aver pagato il biglietto mi restano ottantacinque dollari, l’autobus è affollato, sono seduto dal lato del finestrino, accanto a me un uomo sulla quarantina, con una giacchetta leggera e la camicia aperta sul petto, si è addormentato quasi subito, l’ho osservato a lungo, un caloroso, insensibile al freddo, come il mio amico Dix. Dix forse è morto, oppure è diventato un capo importante, destinato alla Valle della Beqā’, adesso potrebbe essere in Libano, schierato con le milizie musulmane, ufficialmente ha un incarico di mediatore con i cristiano-maroniti, in realtà è dedito a qualcuno dei suoi traffici preferiti, armi, droga, prigionieri, notizie riservate, è una miniera, quando fa sul serio, ho sulla pelle l’abbraccio dell’ultima sera, un uomo vigoroso, e nello stesso tempo confuso, trascinato controvoglia in una trappola della quale aveva paura, si era portato dietro quel ragazzo, il figlio di Marchetto, il panettiere, che follia. Sara sa cavarsela, di certo ha preso possesso del nuovo appartamento e ha già iniziato con il lavoro, sta familiarizzando con la nuova situazione, in questo esercizio è imbattibile, credo che saprebbe essere contemporaneamente cinque donne diverse che abitano in cinque continenti differenti, ha una predisposizione naturale alla multipersonalità, che si coniuga con la disciplina di ferro che informa le sue azioni. Senza coinvolgermi direttamente in questi quattro anni ha

tenuto continuamente i contatti con emissari e informatori, aggiornandomi saltuariamente sulle novità, comunicandomi solamente ciò che era veramente rilevante, senza citare le fonti, né le modalità degli incontri o della trasmissione, diceva che era per proteggere me e la missione. Se non ero a conoscenza dei dettagli non avrei mai potuto rivelarli. Sara è efficiente, cosciente della sua forza e dei suoi limiti, sa spendersi, non eccede, è capace di nascondersi, sa esaltare la sua bellezza e, quando serve, sa dissimularla sino a cancellarla, chi l’ha addestrata ha avuto il miglior materiale umano, la sua prestazione è fuori dall’ordinario, se la causa palestinese vincerà diventerà ministro, ambasciatrice, presidente. Sara è una macchina da guerra, io l’ho vista, in questi anni, con il rossetto, i tacchi, le gonne corte, la valigetta di rappresentanza, le ciglia finte, le unghie lunghe, e dietro, dentro, avvertivo, pulsante, vivo, il guerriero, il combattente, la madre accucciata nella tenda del campo, la donna palestinese che partorisce su una stuoia, la ragazza indomita, con i capelli sciolti sulle spalle che sputa sui soldati di Tsahal. Al consolato italiano di Montreal sono stati di una efficienza straordinaria, non sono stati curiosi, almeno non più di tanto, e in due giorni mi è stato consegnato un foglio sostitutivo del aporto e un biglietto aereo per l’Italia, partenza la sera del 28 gennaio per Francoforte, atterraggio alle sette del mattino del 29 e volo per Roma alle otto con arrivo a Fiumicino alle dieci, da Roma, con un treno, alle quattro del pomeriggio sarei stato a casa. Mi sono presentato sdrucito, sporco e in disordine, avevo una scarpa sfondata e dell’altra avevo perso i lacci, all’ingresso non volevano farmi entrare, ho detto che ero italiano, e la guardia ha riconosciuto l’accento della mia città, dalla quale manca da cinque anni, un coetaneo, mi ha chiesto se avevo frequentato il tal liceo, no, ma conosceva bene il mio perché ci andava la sua fidanzata di allora. All’interno è stato semplice, ho detto nome e cognome e ho spiegato che avevo avuto dei problemi, che ero senza denaro e senza documenti, ho compreso che erano abituati a gestire casi di questo genere, mi hanno fatto attendere qualche ora, in un salottino dove ho preso in mano per la prima volta da quattro anni dei giornali italiani, poi mi hanno chiesto l’indirizzo del mio domicilio italiano, la mia data di nascita, quella di mio padre, tutto corrispondeva, se lo volevo, dunque, potevo tornare in Italia, mi hanno dato duecento dollari canadesi per vivere sino a sabato e cinquantamila lire per il treno da Roma, mi hanno indicato una pensione convenzionata e mi hanno detto che avrei ricevuto il conto del viaggio e delle altre spese a casa in Italia.

Così sono tornato italiano, mai stato americano, né potenziale spia palestinese, quattro anni cancellati, domani pomeriggio torno a casa, e non c’è nessuno al quale dovrò rispondere sul dove sono stato e sul perché non mi sono mai fatto sentire, mamma è morta, Laura, sposa abbandonata, sarà di certo maritata, vivrà altrove, con i figli che tanto desiderava avere, Dix svanito, la Render chiusa, altri amici non ne ho, nessuno a cui rendere conto, e a chi mi chiederà informazioni dirò che sono tornato, e che non ho nulla da aggiungere.

* * *

Ho lasciato Rosemont il 16 gennaio, dodici giorni fa, Sara, poco vestita, si sbracciava sulla porta di casa, torna qui, sco, dove vai, non essere arrabbiato, desidero tu resti qui con me. Non ero arrabbiato, tantomeno con lei, ero esasperato, per la settima volta ci avevano annullato il viaggio a Tel Aviv, io ero pronto, inquieto, intimorito, no, non pensavo a nulla, se era giusto o se era sbagliato, era la prosecuzione di una storia di quattro anni, sbattuto tra sette città americane, e sette sedi di lavoro diverse, come era possibile che non fossimo stati scoperti, la probabilità di farla franca era bassissima, e non ci era accaduto nulla, se ci avessero scoperto, senza denaro per gli avvocati, Israele è paese amico degli Stati Uniti, un finale ovvio, rinchiuso dentro un carcere per anni, decenni, sarei invecchiato in prigioni affollate di negri violenti e mafiosi italoamericani, invece l’avevamo fatta franca, ma basta, ora basta, dopo quattro anni e sei tentativi a vuoto, basta, volevo partire, chiudere il cerchio, andare a vedere cosa c’era in fondo a questa avventura così difficile da immaginare. Io, non Sara, lei è una miliziana obbediente, lei non conosce lo sconforto, che è il disagio di una notte di tensione, distesi su un divano in un soggiorno riscaldato, e che è la delusione dell’annullamento, la malinconia che sopravviene dopo che l’adrenalina è stata assorbita, che sono queste sciocchezze in confronto alla vita delle madri nei campi di polvere o dei guerriglieri che combattono in Libano, Sara avrebbe resistito a cento di quelle prove, senza risentimenti, senza dubbi, senza porsi domande. Mi chiedo ora, in questa sala d’aspetto luminosa di questo aeroporto moderno, pulito, silenzioso, quale impulso, quale volontà, quale desiderio, abbia animato e animi Sara. Dove si nasconde la ragione ultima che ha scatenato la sua dedizione ai poveretti di questo disgraziato popolo

palestinese, in quale andito recesso della sua sensibilità si cela la molla che la spinge a ritenere la sua disciplina un dovere assoluto, superiore a tutti gli eventuali piaceri personali, al suo benessere di donna, al suo stesso esistere in questo mondo. Sara, in altre epoche, sarebbe stata una candidata volontaria al martirio, lei si sarebbe sacrificata per la causa, qualunque essa fosse, lei si immolerebbe anche ora, in questa epoca, in lei c’è il kamikaze giapponese che si sente onorato di morire per la patria, lei è Jan Palach. È stata la causa palestinese, poteva essere quella dei protestanti irlandesi, o quella dei dissidenti sovietici, tu sei la resistente, la partigiana, che si presta alla battaglia che incrocia il tuo destino. E, senza guerre da combattere, saresti stata identica in famiglia, una silenziosa fattrice, o una fedele moglie di un infedele marito, tu sei quella, monolitica, univoca. Non ho mai potuto dirtelo, me lo hai impedito, mi baciavi per farmi tacere, facevi l’amore per distrarmi, ti spogliavi appena entrata in casa per creare un diversivo, a tavola a cena discorrevi con puntiglio, mai di te, né di noi, Sara, noi non abbiamo mai parlato, mai. Sono seduto in aereo, è il 28 gennaio del 1978, dalla mia fuga dall’Italia sono trascorsi quattro anni e sedici giorni, sono scappato per amore di Sara, mi piaceva, una emozione continua, giornate con il cuore in gola, ricavando il tempo per stare vicino a lei sottraendolo al lavoro, alla preparazione del matrimonio con Laura, alle visite in ospedale a mia madre, una ione che mi ha travolto, la sua bellezza fuori dai canoni mi ha annichilito per settimane, da quando l’ho vista la prima volta, il 3 dicembre del ‘73, il primo giorno dell’austerity, quando mi era ata accanto mentre cercava Dix, che non ti aveva vista e continuava a scrutare il fondo della piazza, lamentandosi della propria insipienza, per essere arrivato in ritardo e protestando per il tuo rigore, che per una manciata di minuti gli faceva pagare altri, vecchi, e dimenticati, ritardi. Era lei in ritardo, e prima di riuscire a catturare l’attenzione di Dix, avvicinandosi con quel etto veloce che avrei imparato a riconoscere e ad amare, mi aveva sfiorato, per sbaglio, non mi conosceva, non sapeva che fossi insieme a Dix, la mia pelle brucia ancora di quel contatto, e ho negli occhi la sua corporatura minuta, la carnagione scura, i capelli neri sciolti sulle spalle, l’ho amata, e sono fuggito con lei per continuare ad amarla. Hanno chiuso le porte, la biglia è stata lanciata, scivola, inarrestabile, non è possibile fermarla, tra breve l’aereo si staccherà dal terminal, sarò in Italia, ritorno, senza Sara. Siedo accanto a un uomo alto, robusto, sulla quarantina, il collo taurino, calvo, con un maglione girocollo di lana ruvida, senza camicia, senza giacca, giocherella impaziente con il pacchetto delle sigarette e l’accendino, ho scorto il

titolo del libro che tiene appoggiato sulle ginocchia, una raccolta di racconti di Fenoglio, è un lettore sofisticato, conosco Fenoglio, scrive della terra di origine di mio padre, sino ad ora ho fatto l’americano, rispondendo in inglese alle hostess e tenendo aperto un giornale canadese in lingua inglese, ma tra poco ritorno italiano, due parole con questo vicino, in italiano, discutere di Fenoglio, della sua guerra partigiana in Piemonte, papà lo aveva incontrato, durante la guerra, me lo aveva raccontato una infinità di volte. Per questi quattro anni ho amato Sara, è stata la mia trappola personale, sempre aperta, accogliente, e pronta a chiudersi con dolcezza quando mi avvicinavo troppo, ogni sera, ogni giorno di festa, lei era il mio rifugio, avevo bisogno di stare tra le sue braccia, di sentirmi l’uomo più importante, l’unico, di essere vezzeggiato, voluto, senza esitazioni, senza rifiuti, Laura era esigente, desiderava una casa, i figli, le feste di compleanno, le vacanze al mare, Sara non chiedeva nulla, dava, dava e dava. Mi sono nutrito di ciò che offriva, a bocca piena, un ingordo, mai sazio, senza dovermi domandare come ricambiare, come bilanciare l’abbondanza di quel regalo, lei era felice di dare, e io felice di prendere e, per tutti questi quattro anni, sono stato appagato, felice, sereno. Avevo dimenticato il motivo della mia presenza negli Stati Uniti d’America, il progetto che ci voleva lì transitoriamente prima di essere lanciati in Israele, a spiare per conto di AlFatah, avevo annullato nella memoria la circostanza che mi aveva permesso di vivere qui con Sara, la Render, il viaggio nel Libano meridionale per vendere l’autocarro nero, l’arrivo in ufficio di Arafat, ero lì, con Sara, e stavo bene. E quando, con un preavviso di poche ore, ci veniva annunciato il giorno della partenza per Tel Aviv, la realtà si riaffacciava alla nostra esistenza, Sara si trasformava in combattente, dura, efficiente, non potevo avvicinarla, né mi era consentito abbracciarla, era distante, dopo, mi pregava, dopo, sco, quando saremo là. Ho immaginato spesso la nostra vita in Israele, e confesso che ero curioso di conoscere quella gente e il loro paese, capire come fosse, dentro, questo nemico acerrimo, questo strapotente avversario che schiaccia il diritto dei palestinesi a possedere la loro terra. In Israele Sara sarebbe stata tenera e accogliente come qui in America? Non c’era che da verificarlo, e per questo quando la partenza veniva annunciata ne ero lieto e sopportavo di buon grado il distacco di Sara. L’aereo è in coda sulla pista di rullaggio, il comandante ci ha comunicato che per il decollo siamo in ottava posizione, osservo avido gli aeroplani davanti a noi lanciarsi silenziosi verso il buio alla fine della pista, il lettore di Fenoglio si è

appisolato, ha polsi e mani grandi, il libro è scivolato sul pavimento, lo raccolgo, si tratta de Il partigiano Johnny, un romanzo, edizioni Einaudi, l’uomo dorme, a bocca chiusa, immobile, un conterraneo, lo conoscerò, tra poco, quando staccheremo le ruote da terra, parlerò con lui, da italiano a italiano. A Francoforte ho acquistato il Corriere della Sera, oltre ai giornali che ho rapidamente sfogliato all’ambasciata è il primo quotidiano italiano che tengo tra le mani dopo quattro anni. Ho perso tempo, l’ora di sosta è già trascorsa, devo affrettarmi, il volo per Roma parte alle otto, tra due ore sarò in Italia. In volo da Montreal, alcune ore fa, il mio vicino di posto ha dormito sodo sino a quando hanno servito la cena, è stato allora che mi sono dichiarato chiedendogli, in italiano, di dove fosse. Non è delle mie parti, legge Fenoglio, ma è napoletano, un cuoco, con il lavoro in Canada e la famiglia a Casoria, tre viaggi all’anno, ha moglie e tre figlie, una vita dura, è specializzato in pesce, un ristorante italiano, di alto livello, clientela selezionata, prenotazioni con tre mesi di anticipo, sono cinque cuochi, lui cucina solo il pesce, il libro glielo ha prestato per il viaggio un collega italiano, non ha mai sentito parlare di Fenoglio, non l’ha ancora iniziato, non sa se lo leggerà, preferisce dormire, così il viaggio si accorcia. Ancora Sara, che non mi ha mai detto ti amo, ho domandato più volte il motivo di questa mancanza, era forse riservatezza, timidezza, ritrosia? Non mi rispondeva, si voltava, si alzava, si spostava in un’altra stanza, mi diceva che ero uno sciocco, carezzandomi sulla testa, offrendomi un bacio, la mettevo alle strette, dimmelo, dimmelo, o dimmi perché non vuoi dirlo, scivolava via, con il suo etto da uccellino, in genere scalza, saltellando lontano. Mi amava, questo è certo, poiché mi desiderava, e poiché non mi abbandonava né mi trascurava, palpitando per la mia salute, per il mio benessere, per il mio piacere.

* * *

Sono salito sull’aereo per Roma, in sala d’aspetto ho ritrovato il cuoco napoletano, era riuscito a telefonare alla moglie, è allegro, moglie e figlie lo aspettano in aeroporto, è previsto un pranzo a Roma, nel ristorante di un suo collega inglese, pranzo gratis, si intende, quello è come fosse suo fratello, poi un

bel giro per la città, per le bambine, e la sera a casa, no, il libro non l’ha letto. Due ore ano velocemente, siamo atterrati a Fiumicino a mezzogiorno preciso, al controllo aporti hanno guardato con sospetto il mio foglio di via, ma era tutto regolare e poi gli eventi hanno iniziato a correre veloci, l’autobus sino alla stazione Termini, la coda interminabile per il biglietto, il treno, in piedi in corridoio, appiccicato al finestrino, alle nove uscivo dalla stazione della mia città, tagliavo per piazza della Misericordia, non è cambiato nulla, venti minuti per arrivare a casa, con la borsa di similpelle acquistata in Canada, sono davanti al portone, sulla plafoniera ancora il mio cognome, sono arrivato, e ora? E Sara? Siamo ancora marito e moglie? Mi ha amato? Cosa è accaduto, e perché sono qui, senza di lei, così lontano da lei?

2

29 gennaio 1978, domenica, cinque e mezza del pomeriggio, davanti alla mia abitazione, senza denaro, senza documenti, uno sconosciuto, sono cambiato, i miei vicini non mi riconoscerebbero, quattro anni, sono tornato, senza Sara. Farmi aprire il portone principale è stato facile, ho suonato ai Metroli, al numero 1, sono qui da quarant’anni, chi non ha le chiavi o chi cerca informazioni suona da loro, e loro aprono, e non hanno esitato a farlo con me. All’ascensore hanno messo una chiave, così sono salito a piedi, quattro piani, la porta di casa è intatta, chiusa, oggi, domenica, non troverò fabbri disponibili, che desiderio, ora, rientrare in casa, la mia stanza, i miei libri, i miei abiti, quattro anni fa sono partito con una valigetta, le foto, i dischi, sarà come l’ho lasciato, anche il letto sfatto, e la tazza del caffèlatte sul tavolo. Raggiungo il quinto piano, Federico, abbiamo frequentato le scuole insieme, anche l’università, lui era uno studente adeguato, presenziava alle lezioni e dava gli esami individuali, rifuggendo con astio quelli collettivi dei quali io ero un affezionato assiduo. Mi ha aperto la mamma, che non mi ha riconosciuto. “Federico? Sì, è in casa, glielo chiamo.” Il mio amico è ingrassato, è in pigiama e calza pantofole di pelle. “E lei chi è, di grazia?” Ha la vocina da gattino, un ragazzo timido, che alle lezioni chiedeva di parlare nascondendosi dietro al compagno della fila davanti alla sua. “sco, quarto piano.” “Non ci credo!” ha detto con voce gaia. “È impossibile, hanno detto che eri morto” È uscito sul pianerottolo, porta i capelli lunghi, e non ha più gli occhiali. “Ma sei proprio tu, accidenti, chissà che storie hai da raccontare.” Mi servivano degli attrezzi per aprire la porta e montare una nuova serratura, e lui aveva ciò che era necessario, anche la serratura, identica a quella installata, un ricambio che la sua famiglia custodiva da trent’anni, e che ha sostituito perfettamente quella della mia porta. Mi ha aiutato nell’operazione, senza togliere il pigiama e le ciabatte, avvitando le lunghe viti della serratura, si ferma, ogni tanto, per riposarsi, e per guardarmi.

“Che c’è, Federico?” “Sei strano, non so, gli occhi, sono, come posso dirti, più piccoli, o è il viso che è diventato più grande, non so, sei diverso.” “Ho viaggiato molto, in questi anni.” “Scappavi?” “No, Federico, andavo, senza fermarmi mai.” “Non ti chiedo dove.” “Non chiedermelo, è meglio.” “Con una donna?” “Non chiedermi neanche questo, grazie.” Il padre di Federico da giovane era alto, imponente, persino, la voce profonda, è stato un uomo discusso, impiegato delle poste, inquisito per una serie di ammanchi, assolto per insufficienza di prove, un marito infedele, una sera, chiuso fuori dalla moglie, abbiamo dovuto accoglierlo in casa, ero poco più che un bambino, lui era seduto in ingresso, non aveva voluto accomodarsi, balzando in piedi ad ogni rumore esterno, aprendo una fessura di porta, per sorvegliare le scale e il pianerottolo. Federico mi osserva con sospetto, mentre prova ad aprire e chiudere la porta e a girare per tutte le mandate la lunga chiave d’ottone. “Sei tornato giusto, spero.” “Vuoi dire?” “Niente droga, niente sesso sbagliato, niente armi, niente condanne.” “Netto, Federico!” Gli osservo le spalle, piccole dentro il pigiama marrone a righine orizzontali azzurrine. “Sono come ero, è tutto rimasto là.” Ha finito, la serratura è perfettamente funzionante, recupera gli attrezzi, li ripone dentro una custodia di tela. “Sono contento che tu sia tornato. Fatti sentire, ogni tanto.”

“Un momento, Federico. E tu?” Ho pensato a sua madre, una pettegola incallita, era stata una donna molto bella, papà la citava con sussiego e i Metroli le avevano tolto il saluto. Federico era venuto su così, tra il padre tonante e la madre querula, gracile da bambino, indeciso da ragazzino e fragile da giovane. “Io cosa?” “Tu che fai, che pensi, come vivi.” “Ti interessa davvero?” L’ho guardato, i capelli appena un po’ lunghi, gli occhi ingigantiti dalle lenti degli occhiali, Federico, io ho vissuto con Sara, in America, io ho visto due oceani, io sono salito sui tram per le salite di San Francisco, io sono stato a Key West, a cento miglia da Cuba, io e Federico siamo stati buoni vicini di casa, e simpatici compagni di scuola. Ho esitato a rispondere, qualche secondo, non di più. “Va bene così, sco, ci si vede in ascensore.” Chiusa la porta ho percorso qualche o nel corridoio verso la cucina, non c’è cattivo odore, piuttosto non ci sono odori. Laura è stata qui, dopo aver trascorso una, due, tre, chissà quante ore, ad attendermi alla base della gradinata della chiesa di Sant’Ugo? Non vedo segni del suo aggio, cercherò più tardi ora via, via da qui, il telefono è isolato, voglio cercare Dix, ho bisogno di lui.

* * *

“Entra,” ha gridato dalla camera “la porta è aperta.” È in ginocchio sotto il tavolo, in canottiera. “Avanti, Franci, ti aspettavo, lo giuro, sentivo che c’eri e che venivi.” Ha i blue-jeans, è scalzo, è chino per terra, non posso guardarlo in viso, “Qui è un dramma, la mamma è morta la settimana scorsa, mi hanno avvisato, ma non sono arrivato in tempo, l’aereo era in ritardo, questione di due ore, papà non c’è più da due anni, ma la mamma, accidenti…” Si è rialzato, si spolvera i pantaloni, stringe bene la cinta, sembra più robusto, le spalle larghe, più scuro, la pelle brunita, tiene il capo piegato, non riesco a vederlo. “Un

pasticcio, Franci, questa casa senza la mamma, non trovo niente, vai, vai a vedere la sua stanza, i materassi per terra, le coperte sugli armadi, è stata la zia, sosteneva che c’erano gli scarafaggi, oggi è venuto un avvocato, un elemento, uno scappato di casa” Ora lo vedo, ha la barba lunga, nera nera, i suoi occhi, la bocca semichiusa, non ha smesso questa capacità di articolare parola con le labbra quasi chiuse. “Uno fuori dal mondo, giovane, ma non troppo, qualche anno più di noi, desiderava solo una firma in fondo a un documento, che mi ha steso qui, su questo tavolo e sai che era? Da non credere, Franci.” Si è avvicinato, respira davanti a me, qui, i suoi occhi, Dix, amico mio, “Una rinuncia, solo questo, ad ogni pretesa su una quota di eredità che spetterebbe al fratello della mamma e a sua moglie, non ho capito, ma l’ho spinto via, a calci nel sedere, sì, proprio così, a calci.” Mi sta abbracciando, sento le sue braccia robuste, mi solleva, quasi. “Amico, amico mio, che felicità rivederti.” È alla scrivania, da un fascio di carte alto un palmo acchiappa con la punta delle dita un foglio a caso, lo esamina e lo accartoccia, non fa caldo, il riscaldamento deve essere spento, e restare in canottiera non sembra infastidirlo. “Ieri ho aperto le buste, almeno cinquecento, credo, ora leggo il contenuto, quattro anni di corrispondenza, almeno due terzi sono estratti conto e lettere della banca, poi missive dell’azienda del gas, dell’acqua, dell’elettricità.” Appallottola con metodo il foglio di carta e lo lancia verso un cestino di vimini ormai strapieno, dove rimbalza cadendo a terra. “Ho trovato una lettera della irlandese, sì, te la ricordi, la ragazza con la chitarra, è a Belfast, non capisco, lei era di Dublino, non entra nei dettagli, ma fa capire che lì è un bel pasticcio, come qui, d’altra parte, hai seguito le notizie in questi anni?” Sono rimasto in piedi sull’entrata, mi fa cenno di sedermi, sì, per terra, sul letto, dove preferisco. Gli ho detto che so molto poco, dove ero i giornali italiani arrivavano con difficoltà, sono informato che la situazione sociale è tesa, manifestazioni, scioperi, battaglie per strada e che la democrazia cristiana è sempre il primo partito. “Nient’altro?” “Quasi nulla, qualche attentato, ci sono state bombe, mi pare, e sparatorie, sono giunte voci, notizie sintetiche, quasi nulla. Dix, tu fai conto che venga dal deserto, tabula rasa, andrò in biblioteca, a leggermi la raccolta dei giornali.”

“Questa è una ottima idea, in primo luogo è indispensabile tu ti metta a pari con la storia, poi decidiamo il da farsi.” Dalla porta mi sono spostato al centro della stanza, il pavimento è polveroso, i due letti sfatti, non ci sono le lenzuola, i cuscini senza federa, sbadiglio, sono le cinque del pomeriggio, ma in corpo ho il fuso orario canadese, e stanotte non ho dormito. “E tu, come ti è andata?” gli ho chiesto guardando le vecchie foto di quando era bambino appese alle pareti, non c’erano, prima. “Sono vivo, non ho subito ferite, né mi sono ammalato.” “Io invece…” “Niente, Franci, non voglio sapere nulla, mai. Intesi?” “Giusto. Ascolta, e Giulio?” “È diventato un uomo, in pochi mesi ha rivelato un carattere duro, severo, non ci crederai. Un veterano, subito, risorsa da azione notturna, da missione speciale, no, non ha la stoffa del comandante, piuttosto del sergente capo del plotone, è stato una risorsa straordinaria.” “E ora?” “Sparito, da qualche mese, inghiottito dalla confusione. In Libano ogni situazione è intricata, e quelle che appaiono lineari, dico gli amici da una parte e i nemici dall’altra, sono le più complesse e indecifrabili.” “Morto?” “Non credo, scomparso. Accade spesso, a molti, e la maggioranza ritorna, senza spiegazioni, una mattina te li ritrovi lì, in cucina a preparare il caffè, negli stessi abiti che avevano quando sono scomparsi, ti chiedono una sigaretta, e non parlano, per settimane.” “Sei stato dal padre?” “Sì, l’altro ieri, al mattino presto, non è cambiato nulla, la cassiera con il

rossetto, le vecchie in ciabatte, i garzoni seminudi che rovesciano il pane nelle ceste con la cicca accesa tra le labbra. No, Marchetto non è preoccupato per il figlio, non mi ha chiesto nulla, come se sapesse, o come se non gli importasse, è ancora più magro, fa spavento. Mi ha portato al bar, così, in canottiera, senza mettersi nulla addosso, in questa stagione, mi ha offerto il caffè, lui ha bevuto un bicchiere d’acqua, liscia e non fredda, gli tremavano le mani, non so, credo che viva male, lavora come un ossesso, ha accumulato una fortuna, non so, sua moglie è malata, è da mesi in una clinica svizzera, chissà come vive, Marchetto, voglio dire, in casa, o forse non ci torna più a casa, forse resta in panetteria, giorno e notte.” “Andrò a trovarlo!” Ho sbadigliato più forte, emettendo un suono sgradevole, il soffio di una tromba stonata. “Certo che devi andare a trovarlo, dopodomani, c’è da prendere un pacchetto.” “No, non ci credo.” “Sì, abbiamo ricominciato subito. Ti ricordi, la roba nascosta nei sacchi vuoti della farina e del riso umanitari? Ecco, uguale a prima. Appena Marchetto mi ha visto mi ha detto che quello che c’era ora era insopportabile, un eroinomane di buona famiglia, uno che viene in panetteria con il maglioncino di cachemire e la sciarpetta bordò, cammina sghembo, storto, con un o laterale, non so, poliomelite, sospetta Marchetto, si buca sotto la lingua e tra le dita dei piedi, uno schifo, l’ha cacciato, mi ha telefonato ieri sera, si ricomincia.” “Dix, io non so se...” “Franci, Cristo, la Render non c’è più, chiusa dopo la nostra partenza, vuoi cercarti un impiego? Sei laureato, puoi provare a fare un concorso in banca, quelli stanno bene, quindici mensilità, trecentomila a mese. Solo con Marchetto ne facciamo, a testa, mezzo milione a settimana, senza pericoli, senza guai, senza senza…” Mi ha tirato addosso una pallottola di carta, centrando la pelle del collo, tra il colletto della camicia e i capelli. “Ora va a dormire, torna domani, per mezzogiorno, ce ne andiamo a pranzo sul fiume, non mangi un piatto di pasta decente da anni, e hai perso il gusto al vino, provvederemo alla bisogna, senza economie.”

* * *

A casa fa freddo, ho provato, senza successo, a far ripartire la caldaia, il mio letto è come l’ho lasciato, ci avevo dormito da solo o con Laura? Non lo ricordo, era un lunedì, il matrimonio era fissato il giorno dopo, martedì, 12 gennaio, quattro anni fa, nel 1974, no ero solo, o ero con Sara? Solo, ero da solo, Sara mi aspettava all’aeroporto e con Sara avevo fatto l’amore la prima volta a San Francisco, la notte del giorno del nostro arrivo. La luce è staccata, al buio, a tentoni, ho preso altre due coperte gelate dall’armadio, mi sono infilato tra le lenzuola vestito, domani, domani devo sistemare un po’ di cose, ora devo dormire, in aereo sono stato sveglio, l’ultima volta che ho dormito è stato nella pensione di Montreal, non ricordo quando, oggi è domenica 29 gennaio, stamani alle dieci sono atterrato a Roma, sabato notte ero in aereo, e dunque l’ultima notte di sonno è stata quella di venerdì. Mi sono svegliato semiassiderato alle sei del mattino, durante la notte ho gettato a terra le coperte e mi sono sorpreso, tremante, mentre cercavo di arrotolarmi nel lenzuolo. Anche l’acqua è fredda, fuori è ancora scuro e l’unica luce, che rischiara debolmente la casa, proviene dall’illuminazione pubblica, nell’acquaio, in cucina, ci sono dei piatti da lavare, i miei, della cena che ho consumato l’ultima sera del’74, e in frigo ho visto tre uova e qualcosa che era una crosta di formaggio parmigiano, da quattro anni subiscono trasformazioni opposte in funzione della temperatura esterna, ora sono congelate, mi sorprende il fatto che il fetore che hanno emanato nelle quattro estati della mia assenza non abbia mai richiamato l’attenzione di nessuno. Alle sette sono entrato nel bar davanti alla casa di Laura, quello dove suo fratello giocava a biliardo, un luogo opaco e sciatto, ho riconosciuto nel giovane al banco il figlio del proprietario di allora, Dix mi ha anticipato qualche soldo, mi sono seduto e ho ordinato un caffè, ho da leggere i due quotidiani e il giornale sportivo che ho acquistato poco fa. Ne discuterò con Dix, ma non osservo grandi differenze rispetto a quattro anni orsono, in prima pagina c’è una foto di Andreotti, all’interno un articolo sullo stallo della situazione in Medio Oriente e sulla guerra civile libanese, e di questo sono completamente al corrente, un editoriale discute del radicamento in taluni strati sociali delle istanze della lotta armata comunista, su questo argomento ho pochissime informazioni, sì, in America avevo sentito parlare delle Brigate Rosse come di un gruppuscolo di

scalmanati rivoluzionari privi di alcuna radice nella popolazione, non avevo colto la profondità e l’estensione del fenomeno, nell’articolo si espongono le cifre dell’eccidio, quanti morti, quanti feriti e quanti gambizzati, fatico a comprendere appieno il significato di questa parola, la distanza dalla lingua italiana per tutti questi anni non mi consente di apprezzare questo gergo giornalistico, chiederò a Dix più tardi. Sono uscito per andare a curiosare i nomi sulla plafoniera del citofono, ricordo perfettamente, colonna di sinistra, ultimo pulsante in basso, senza indicazione del cognome, una mania del padre di Laura, l’anonimato proteggeva, dai postulanti, dai creditori, dai nemici e dai carabinieri, scomparire, non lasciare tracce. Ho suonato, senza un piano, quando rispondono, dopo aver riconosciuto la voce, mi allontanerò, l’appartamento è al quarto piano e le finestre danno dalla parte opposta, così nessuno mi avrà visto, né riconosciuto. Nessuna risposta, ho suonato ancora, per tre volte, senza esito, alle otto Laura, se vive qui e se ancora lavora nello studio notarile, è già fuori, ma i due genitori sono in casa, a ciabattare tra il bagno e la cucina, e lui risponde sempre, si schiarisce la gola e con disappunto chiede chi è. Un uomo mi chiede per cortesia di spostarmi, preme un pulsante sul citofono, mormora sono io, quarant’anni, meridionale, in divisa, un metronotte, o un guardiano notturno, sbadiglia, senza mettere la mano davanti alla bocca, gli chiedo della famiglia Betti. “Lei chi è?” Hanno aperto, spinge lentamente la porta, la tiene aperta “Sono un amico di Laura, ho lavorato all’estero per qualche anno, sono appena tornato.” Quello mi squadra. “Conosceva i genitori?” Gli ho detto i loro nomi ed anche quello del fratello. “Buono quello, ma almeno è vivo.” “E gli altri?” “Padre e madre morti insieme tre anni fa, una fuga di gas, tenevano la calderina in condizioni pietose, non siamo saltati tutti in aria per miracolo. Il figlio è in galera, rapina, hanno sparato, in una banca, ci sono stati dei feriti.” “E Laura?” È ormai entrato nel portone, allarga le braccia “Sparita, due anni fa, era rimasta

sola, ha venduto i mobili, chiuso casa e se ne è andata, dicono sia in Sudamerica” Mi ha guardato mentre la porta gli si chiude sul viso. “Ne dicono tante!” ha gridato dietro la porta chiusa. L’elenco delle attività di questo mio primo giorno è lungo, sono stato in banca, avevo un conto corrente, che c’è ancora, con settecentomila lire di deposito, ho ritirato del contante e ho preso un libretto degli assegni, nessuna domanda, nessun controllo, così ho chiamato un idraulico che ha riparato la caldaia, ho richiesto il riallaccio della luce, del gas e dell’acqua, sono andato a fare la doccia al diurno, e poi dal barbiere, mi sono cambiato d’abito, e alle dodici e trenta, come da accordi, sono tornato da Dix. Porta chiusa e un biglietto per me infilato tra i cardini, questione urgente, chiedo scusa, vieni questa sera, tardi, alle ventidue, no, anzi, vieni domani mattina, dopo essere stato da Marchetto, ciao. D. Così ho pranzato da solo alla trattoria del fiume, specialità del giorno le lumache, che ho mangiato dopo una pasta alle verdure, bevendo vino bianco, la medesima bottiglia, non dovrei sbagliare, che avevo ordinato quel paio di volte che ero stato qui con Sara, mi sono portato i quotidiani e rileggo con attenzione i dettagli, il 16 gennaio, due settimane fa, Andreotti ha rassegnato le dimissioni del suo governo, un monocolore democristiano, che aveva vivacchiato in virtù delle astensioni di Pci, Psi, Pri, Psdi, Pli, che fatica capire il significato delle parole, monocolore, e governo delle astensioni, intanto, mentre il presidente Leone restituiva l’incarico ad Andreotti, proprio il 18 a Genova le Brigate rosse ferivano alle gambe il democristiano Filippo Peschiera, ecco ora so che significa gambizzare, mentre il 20, a Firenze, l’agente di polizia Stefano Dionisi viene assassinato dalle Unità combattenti comuniste, un’altra sigla del terrorismo rosso, il quotidiano parla spesso di compromesso storico tra Dc e Pci, chiederò lumi domani mattina a Dix. Sono uscito a eggiare lungo il fiume, è una giornata luminosa, fredda e senza vento, ho indosso il berretto, i guanti di lana e un giaccone pesante che ho trovato nell’armadio, ho mangiato bene, e bevuto molto, mi avverto leggero, l’anno prossimo compirò trent’anni, sto bene, ho imparato l’inglese e ho conosciuto l’America, ho appreso i segreti dei loro umori profondi, ho conosciuto gli operai della più grande potenza economica mondiale, sono stato a tavola con loro, la domenica, a mangiare tacchino e bere birra, ho maturato un’esperienza unica, sono laureato, giovane, in salute, ho avuto per quattro anni una donna stupenda, ho imparato molto, da Sara, sulle donne e sull’amore, ora,

qui, rinato, posso scegliere l’esistenza che preferisco, vendere l’appartamento e ripartire, l’India, la Cina, oppure l’Australia, o l’Argentina, acquistare del terreno, costruire una casa, sposarmi, far figli, allevando cavalli, una moglie sana, bella, robusta, il giorno a sfibrarsi avanti e indietro per la proprietà, ammazzarsi di lavoro, cenare tardi, carne, patate, vino forte, la luce bassa, i bambini che si addormentano giocando sotto il tavolo, mia moglie ha gli occhi luminosi e aspetta che le chieda di coricarmi con lei.

* * *

Ho suonato a lungo, e poi ho bussato forte, sono le otto, Dix lo sapeva, andavo al panificio, da Marchetto, alle sei e mezza, ho la busta, accidenti, non mi ha dato nulla per portarla, sono uscito di là con il sacco di plastica trasparente avvolto dentro un giornale vecchio, è pericoloso, la prossima volta porto una borsa, se ci sarà un’altra volta, se non apre gliela mollo qui sullo stuoino. Mi ha chiamato mentre scendevo, ero due piani sotto, con la busta sottobraccio, non avevo osato lasciarla. “Sono andato a dormire alle quattro, è naturale che alle otto dorma.” È in mutande, slip arancioni, aderenti. “Un prelievo, sì, giù in Libano. Un carico sequestrato al porto, un container di slip di fabbricazione canadese dirette in Germania Ovest. Sono di tutti i colori, è accaduto due anni fa, ne ho preso un pacco intero, sono comodissime” Mi fa cenno di seguirlo. “E le donne vanno pazze per questa roba, ne ho ancora, una decina, nuove, nella loro confezione originale, te ne darò un paio.” Ha controllato il contenuto della busta preparando una cannetta con una cartina sola. “La faccio bella piena, perfetta per la mattina presto.” “Ti sei informato?” mi ha chiesto, parlandomi di spalle, mentre preparava il caffè. “Sono andato a casa di Laura.”

“Stanno bene?” ha chiesto ridendo “È già tornata dalla chiesa?” “Non c’è più nessuno, padre e madre morti, fratello in galera e Laura in Sudamerica.” “In Sudamerica? Scherzi? E dove? Io non ti ho chiesto di informarti di Laura, hai letto qualcosa? Vecchi giornali? Qualche libro?” “Due quotidiani di oggi. Queste Brigate Rosse, non ho capito bene, ammazzano giudici e poliziotti, ma chi sono? Era gente che conoscevamo, voglio dire, quattro anni fa, il movimento, l’università, c’è qualcuno di loro?” “Non credo, no, non mi risulta. Sono gente nuova, i capi, voglio dire, che negli anni hanno raccattato anche vecchi extraparlamentari, hanno iniziato proprio quattro anni fa, nel ‘74, con il rapimento di un giudice di Genova.” “E ora, che vogliono? Che progetto hanno?” “Vogliono la rivoluzione socialista, loro sono l’avanguardia. Uno schema storico collaudato, è dalla rivoluzione se che funziona, o non funziona, dipende da molte concause.” Mi versa il caffè e mi a la canna, è a torso nudo, e come ieri il riscaldamento è spento. “E tu ci credi?” “È un focolaio, forse può essere utile, anche per laggiù. Se in Occidente c’è confusione, se si preoccupano dei problemi interni, magari là ci lasciano fare.” “Non ti capisco, Dix. Sei d’accordo con questa gente, approvi le loro azioni?” “Che facciano, Franci, che facciano. Impegnano la polizia, sui giornali ci sono solo loro, i politici non parlano d’altro.” Si è alzato, mi a il braccio sulle spalle, mi spinge verso la camera. “Per noi è perfetto.” In camera è buio, tapparelle abbassate, il lampadario centrale è guasto, a tentoni, in ginocchio, Dix arriva all’abat-jour sul comodino, una lucetta smorta, venticinque candele, nascosta da un microscopico paravento giallino. C’è qualcuno nel letto, un braccio sul cuscino, la mano vicina alla lucetta, una manina di ragazza.

“Chi c’è, Efisio?” fa lei. “Un amico, stai giù, ora spegniamo...” la tranquillizza Dix. “Un amico chi?” Una voce profonda, roca, maschile. Si è messa seduta, è giovanissima, una cascata di riccioli rossi, si nasconde il seno con un avambraccio. “Ora andiamo via, torna a dormire” Dix fruga sotto il letto, estrae una cassetta di legno. “È qui, l’avevo messa qui.” “Come si chiama il tuo amico?” “Non si chiama” Cerca ancora sotto il letto, ora ha preso una borsa nera. “Stai giù.” “Lo sai che sono curiosa. Io mi chiamo Iris.” “Eccola, l’ho trovata, è anni che è qui!” Ha spento la lucetta, Iris ha protestato che non gli piace il buio al mattino, mi ha preso sottobraccio e mi ha riportato in cucina. “Questa tienila da conto, è una vera amica.” Ha posato sul tavolo di marmo una pistola nera, piccola, sta nel palmo di una mano, nera, lucida. “Tu sei matto, Dix.” Ha estratto il caricatore, mi mostra le pallottole, è pieno, ma il primo bossolo è vuoto. “La tieni con la sicura, ma se per caso si apre e se per caso schiacci il grilletto il primo colpo non c’è.” “Non la voglio, Dix. Non mi serve, è pericolosa.” “Franci, tu non hai capito, non è pericolosa la pistola, l’inferno è fuori, tu non sai, non è come nel ‘74, i tristi convitati di Berengani, i tazebao all’università, le barbe lunghe, suonare la chitarra seduti per terra. Fuori c’è la guerra, vera, alle

manifestazioni le molotov le lanciano i ragazzini delle medie, e quelli delle superiori sparano, per strada, senza paura. È caduto il governo, non ci sarà più nessun governo, laggiù, in Libano, ho sentito discorsi che non immagini, brigate internazionali pronte a marciare in Italia, arriveranno a gruppetti, come turisti, in auto, in barca attraverso le isole dalmate, via Amsterdam, o Londra, in aereo, concentramento a Trieste, una colonna in marcia verso Milano e un’altra verso Bologna, e noi saremo lì, in mezzo, a raccogliere i frutti, pronti a sfruttare l’occasione e, nello stesso tempo, a dare una mano a quelli là, sì, i palestinesi, che ci sono sempre, non te lo dimenticare.”

* * *

Nel pomeriggio sono tornato al bar davanti a casa di Laura, al banco c’è il ragazzo, il figlio del proprietario, mi ha salutato, forse perché si ricorda che sono stato qui ieri, non certo perché mi associa al sco di quattro anni fa, quando venivo qui a bere il caffè al mattino presto, studente e disoccupato, e accompagnavo Laura al lavoro, a piedi, mezz’ora lungo uno stradone poco abitato, il marciapiedi largo, sconnesso, invaso dalle erbacce, con qualunque tempo, che lei ripercorreva sempre a piedi al ritorno, la sera, incurante dei lampeggi d’abbaglianti delle auto, contro lei, ragazza sola, perché risparmiava l’abbonamento all’autobus, lo rimarcava, ogni mattina, ecco, caro, queste sono settanta lire in più per la nostra casa, un anello di una tenda, due tasselli per i pensili della cucina, un appendino per l’armadio. Era felice, per la nostra casa, la sognava da quando era ragazzina alle scuole medie, l’ha arredata e riarredata cento volte, era il suo sogno preferito, per i momenti difficili, quando la Rossana, allo studio, le gridava addosso che era una inetta o quando suo padre, in ciabatte e pigiama, a tavola, iniziava a tossire scatarrando senza attenzione, suscitando la comione della madre, l’ilarità del figlio e la sua rabbia per l’oscenità della sua famiglia, più forte persino dello schifo per quel padre con le vene del collo gonfie e il viso paonazzo. Arrivati sotto lo studio, la sua galera, Laura mi baciava sul naso mormorando che la sera, dopocena, sarebbe ata da me, papà era ancora vivo, ma ci era permesso chiuderci in camera, una mezz’ora, perché Laura, alla fine, ogni sera, rialzandosi, spiegava che un uomo giovane non può essere lasciato senza, e che lei era come il vino rosso e la pasta al pomodoro, senza i quali non si può sopravvivere.

Al bar ho letto i quotidiani, due diversi rispetto a quelli di ieri, Andreotti è sempre in prima pagina, insieme a questi combattenti rivoluzionari, la sigla chiave è quella delle Brigate Rosse mentre gli altri nuclei armati sono emuli o filiazioni, sono dei duri, come l’IRA, o l’ETA, chissà, forse si parlano tra loro, hanno obbiettivi diversi ma li accomuna la clandestinità e l’uso delle armi, forse ha ragione Dix, c’è un contagio trasversale, anche Al-Fatah, anche le Black Panters, anche i rivoluzionari centro e sudamericani, una internazionale del dissesto, devo leggere di più, andare a fondo, capire meglio. Uscendo ho chiesto al ragazzo se ricordava una certa Laura Betti, una ragazza, di ventotto anni, una che abitava qui di fronte. “Certo che la conosco, benissimo, è andata via, un anno e mezzo fa, con uno straniero, ora vive da qualche parte nell’America meridionale, l’ho conosciuto, l’olandese, quello che è partito con lei, uno alto e biondo, grosso, con i capelli rossi, sono venuti molte volte qui.” Si è voltato verso il fondo del locale “Papà, papà, la Laura, quanto sarà che è partita? Un anno e mezzo, giusto?” Da un tavolo in fondo si è alzato Elmo, il padre, si è avvicinato, è quasi senza capelli, curvo, una pancetta rotonda che sporge sopra la cintura, sta fumando, e mi scruta con attenzione. “Io ti conosco.” “Sono sco Aliberti, ero il fidanzato di Laura.” “Ah!” ha mormorato l’uomo “sco” Ha cambiato espressione, mi porge la mano. “Ben tornato. Laura è andata via, con un olandese, ha mandato due cartoline, una da New York e, dopo un po’, una da Caracas, le abbiamo conservate, guarda.” Ha fatto un cenno al figlio che ha staccato le due cartoline dallo specchio dietro il banco. Su quella da New York c’è scritto, riconosco la sua calligrafia, “saluti agli amici del bar Willy dalla vostra americana”, il timbro è illeggibile, mentre su quella dal Venezuela non si legge la città di partenza, se non è questo geroglifico, ma la frase è la stessa, “saluti agli amici del bar Willy dalla vostra venezuelana”. “Da allora più nulla, è rimasta là, speriamo stia bene, è una brava ragazza, con quello che ha patito!” Il padre mi fissa con severità mentre sfila le cartoline dalle

mie mani. “Con quel fratello testa di cavolo, sette anni gli hanno dato, e hanno fatto bene, Laura era disperata, è successo nell’autunno del ‘75, sei mesi dopo la morte dei genitori, l’olandese non era ancora comparso, da sola, in quella casa, stava qui quasi tutto il sabato e la domenica, leggeva, si sedeva qui, sì, esattamente qui dove sei seduto tu, beveva un paio di caffè, e una pasta al pomeriggio, magra, era diventata uno stecco, mangia, le dicevo, mangia qualcosa, te lo porto io da casa, un piatto di pasta, un po’ di carne, niente, digiunava, pallida, veniva qui con i suoi libri sottobraccio, povera ragazza, meno male che ha trovato quello, l’ha portata via, ma lei non desiderava altro, via da qui, troppe delusioni, troppa cattiveria.”

* * *

Hanno riparato la calderina, ma il gas non è ancora allacciato e i termosifoni sono gelati, l’appartamento è più silenzioso, al freddo e al buio, all’Enel mi hanno promesso il ripristino della corrente elettrica per giovedì, a tentoni, nel mobile del soggiorno ho trovato delle bottiglie di liquore, l’amaro è pieno di muffa, la grappa emana un odore dolciastro nauseabondo, la bottiglia del brandy invece è sigillata. Sono uscito tardi, sta nevicando, in America mi sono abituato alla birra e il brandy mi ha alterato, ho il telefono staccato e per cercare un taxi sono andato a piedi in piazza Meridiana. Il tassista mi ha detto che sino alla Trota non andava, con la neve è troppo pericoloso per l’auto, abbiamo raggiunto un compromesso, mi avrebbe portato sino alla Collegiata, da lì a casa di Dix non è più di mezzo chilometro, che ho percorso con la neve alla caviglia, in camicia e maglione. Poco più di una settimana fa ero bloccato nella tempesta sulla costiera nord del lago Michigan, Sara già partita da Chicago, non mi aveva potuto attendere. Nevicano fiocchi grossi, pesanti, in assenza di vento cadono rettilinei, posandosi con delicatezza a terra, ho caldo, camminando in salita mi sento sudare, Dix, se è a casa, forse con quella Iris, sarà contento di vedermi. Sara non ha voluto attendermi, poteva, certo, i biglietti aerei si cambiavano, e per l’appartamento era sufficiente telefonare all’agenzia, avremmo tardato qualche giorno, per loro, quelli dell’agenzia, voglio dire, non costituiva certo un

problema, l’affitto era stato pagato in anticipo per un annualità intera, compresa la loro commissione. Sara ha scelto di andare senza di me, ha deciso di proseguire la missione per suo conto, adesso è sulla costa orientale, a Boston, a Providence o a New York, in una abitazione piccola, una sola stanza, era stato già deciso, dopo quattro anni la missione era stata ridimensionata, bastava Sara, aspettavano l’occasione per mollarmi, io ero di troppo. Nella scalinata a chiocciola del condominio di Dix nevica attraverso le vetrate spaccate, i gradini sono scivolosi, e fa più freddo che fuori. Ho bussato con discrezione, e, ho bussato ancora, con maggiore decisione, ho suonato il camlo, tre volte, l’ultima molto a lungo, che ha risuonato rumorosa per l’intero edificio, nessuno che socchiude la porta per ascoltare meglio, un silenzio impressionante, come in una casa vuota, e Dix non c’è. Sono rimasto una mezzora, in piedi, nell’androne sudicio, tra i fiocchi di neve che scendono dalla tromba delle scale e quelli che penetrano attraverso il portone spalancato, ho freddo, e non posso restare, i piedi sono insensibili, e inizio a tremare, Dix è arrivato mentre stavo uscendo. “Hai fatto bene a venire, è necessario che parliamo” mi ha detto a voce alta prendendomi sottobraccio e spingendomi su per le scale. “Mi hai letto nel pensiero, ti avrei cercato domani mattina.” Sale veloce, facendo i gradini due a due, è meno vestito di me, con la giacchetta aperta sulla camicia. “E quella ragazza? Quella Iris dell’altra mattina?” “Non dorme solo con me, quella.” Ha aperto la porta di casa di furia. “Entra. Stanotte ti fermi qui, spero tu non voglia tornare a casa con questo tempo?” Anche in casa di Dix il riscaldamento è guasto, ma il freddo è meno intenso, forse perché sopra, sotto e accanto vi sono degli appartamenti riscaldati. In cucina non si sta male, ha detto che aveva fame e ha attrezzato per una pasta, ha del vino, e anche del pane. Ho fame, non ho cenato e quando mi riempie il piatto di spaghetti gli sono riconoscente.

“Abbiamo un problema, sco.” “Abbiamo chi?” “Questo non è importante. Diciamo che io ho un problema.” “Così va bene” gli risposto, sazio e soddisfatto. “Domani vieni con me, c’è da discutere con un belga, che parla solo se, è per questo che ci servi.” “Dobbiamo, perdonami il plurale, comprare o vendere?” “Uno scambio. Noi diamo roba e quello ci dà armi. Il problema non è la quantità, noi roba ne abbiamo in abbondanza e le armi che ci propone sono quelle che ci servono, sono le condizioni del, diciamo così, del baratto, dove e quando, e soprattutto chi si scopre per primo, il vallone vuole prima la roba, per analizzarla, e poi, dopo, ci dà le armi.” “Armi per chi, Dix?” “Per noi fratello, per chi altrimenti?” Abbiamo ingurgitato mezzo chilo di pasta, e ci abbiamo bevuto sopra quasi due bottiglie di vino. Dix si è una sigaretta, anche io l’ho accesa. “Armi per la resistenza palestinese?” “Oggi non basta più, i confini sono infranti, armi per la resistenza antimperialista, se ti è più chiaro.” Ho terminato l’ultimo bicchiere di vino, sono stanco, desidero dormire, ora sono accaldato, voglio coricarmi, chiudere gli occhi, per molte notti, la vita intera. “Stai bene, compare?” mi ha chiesto allarmato Dix. “Sì, bene. Ora sto molto bene.”

* * *

Mi sono svegliato in un letto, vestito e arrotolato dentro due coperte grandi, morbide, calde. Le scarpe sono sul comodino, ai piedi ho una sola calza, e che sete, e che ora è, e dove è Dix? La sua camera è immersa nel buio più completo, l’ho chiamato, e mi ha risposto Iris. “Sei quello di ieri l’altro?” “Sì, Dix mi aveva detto che non c’eri.” “Dormivo, non vi ho sentito. Ci avete dato dentro, Dix era completamente ubriaco.” “È lì con te?” “Sì e stai certo che questa mattina non lo svegliamo.” Mi ha raggiunto in cucina, è bassina, tracagnotta, biondina, i dentini aguzzi piantati dentro la bocca larga. “Sei il suo amico libanese?” “Non proprio.” Ha una vestaglia enorme, pesante, a motivi blu scuro su fondo verde marcio, è scalza, e prepara il caffè tirando su le maniche scoprendo avambracci grassocci e candidi. “Non proprio perché?” “Io sono stato da un’altra parte, non in Libano.” “Stesso gioco, allora. Dix non spiega mai niente, ma non ci vuole un professore di storia per rendersi conto.” Ha atteso che uscisse il caffè dandomi le spalle, con le mani appoggiate sul bordo della cucina. “A me quell’uomo piace, non è fiacco, è attivo, e mi fa ridere.”

È seduta con i gomiti piantati sul tavolo e parla con le labbra incollate al bordo della tazza. “Lavora? Direi di no, si sveglia alle dieci e sino a mezzogiorno fuma per casa rovistando tra i libri e le vecchie cartoline. Dei giorni dorme anche al pomeriggio, con le tapparelle blindate, un buio da tomba, e la sera esce a mezzanotte. Lavorare è un’altra cosa.” “È tornato da poco, si sta adattando.” “Da poco? Sto con lui da un anno e mezzo, da quando è rientrato, e su una questione come questa non ho alcun interesse a mentire.” “Un anno e mezzo? Sei sicura?” Questa ragazza conosce bene l’arte dell’ironia. “Sicura? Certo che sì, dormo con lui da allora, guarda, ricordo anche la data, 6 agosto del ‘76, il giorno del mio diciottesimo compleanno. Mi ha preso ragazza, il tuo amico, e si è affezionato, molto” Ha fatto scivolare con lentezza le mani sui fianchi, sfacciata, e simpatica. “E prima?” “Non lo so, prima non lo conoscevo.” Dix è comparso poco dopo, lavato e vestito, con la camicia blu e la giacchetta marrone. “Pronto?” “Fuori fa freddo, copriti.” “Va bene così, sbrighiamoci, il vallone ci aspetta.” Ha baciato Iris sul collo, che è rimasta seduta, e che se lo tiene vicino stringendogli le braccia intorno al collo.

“Come va, compagno?” Mi ha chiesto scendendo le scale. “Bene, sono in forma.”

“Meglio, sarà un incontro difficile, quello è un duro.” In una taverna lungo il fiume ho trattato per l’intero pomeriggio con un vecchio acido e cattivo, triste e scontento, calvo, la barba riccia, rossiccia, la pelle del viso butterata, con una pipa di schiuma caricata con una miscela puzzolente che in poco tempo ha ammorbato il locale. Quanti anni aveva? Ho appreso, da uno dei suoi sproloqui, che aveva combattuto con gli americani dopo lo sbarco di Normandia, e che prima aveva vissuto in Africa, in Congo, impiegato in una azienda di estrazione mineraria. Anche quando avevamo accettato senza eccezioni le sue condizioni, dopo due pipe, e un litro di vino rosso, senza mangiare nulla, pulendosi la bocca con la manica della giacca, dopo che Dix aveva picchiato il pugno sul tavolo, almeno dieci volte. “Perché, maledetto, che cosa non ti va ancora. Ti abbiamo dato tutto, che c’è d’altro. Diglielo, sco, che è sleale.” Il belga della lealtà non sembrava che farsene, lui voleva sapere, esattamente, per la terza volta, in che mani andavano le sue mitragliette Skorpion, le pistole tedesche, i mortai da novanta italiani e i tre bazooka sovietici. Lo chiedeva soave, con un se sporco, che faticavo a comprendere per intero. “Ancora? Glielo abbiamo detto, e ridetto, ma se vuole ridiglielo. Le armi sono solo in transito, da qui ano soltanto, noi le rivendiamo, domani sono già all’estero. Vuole sapere dove? Digli il Libano, che non ci sbagliamo.” Sottovoce gli ho detto che allora il Libano è una destinazione fasulla, e che io dovevo saperlo, poiché quello si accorge di ogni dettaglio, non ci casca, è indispensabile che conosca la destinazione finale, quella vera. “Allora l’Afghanistan, il Libano è una tappa, vanno in Afghanistan” ha soggiunto in fretta. Il vecchio vuole sapere in Afghanistan dove, esattamente a chi sono destinati, e a che cosa servono, i bazooka e i mortai da novanta, soprattutto. Dix mi ha detto di offrirgli un venti per cento in più, in denaro, non in roba, contanti, nel taglio che preferisce. Il vecchio ha ribattuto che voleva almeno il cinquanta e ci siamo accordati per il trenta. Siamo usciti che era già buio, Dix mi ha lasciato appena fuori dall’osteria, era tardi, la trattativa, dannato vecchio, era durata più del previsto, doveva correre,

ci si vedeva presto, si faceva vivo lui.

* * *

Ho impiegato due settimane a rendere abitabile l’appartamento, la caldaia si è guastata tre volte e, alla fine, ho dovuto sostituirla, per eseguire l’allacciamento l’Enel è arrivata ieri, il 14 febbraio, dieci giorni dopo la richiesta, e solo perché una mattina sì e una no ero nei loro uffici di zona a protestare, intanto ho scoperto che le tubazioni interne del bagno sono marce e perdono acqua, che è colata nell’appartamento sottostante, che è vuoto, e da questo in quello al secondo piano, abitato da una signora gentile, che non conoscevo, essendo arrivata qui in via Dibini 4 solo tre anni fa. Una donna che vive sola, sulla cinquantina, i capelli grigi corti e un sorriso aperto, smagliante. Si è presentata allungandomi una mano nuda, priva di anelli e bracciali, si chiama Grazia, e appena mi ha visto si è messa a ridere, portandosi alla bocca la mano che aveva appena staccato dalla mia. Non riuscivo a comprendere la ragione di tanta ilarità, ho controllato che avessi indosso i pantaloni, che la cerniera davanti fosse chiusa, che avessi le pantofole, che non avessi macchie sul maglione, nulla, tutto pareva a posto, sino a quando la signora si è messa le mani su una guancia, permettendomi di scoprire che avevo metà del viso insaponato e l’altra metà già rasato, e questo da almeno un paio di ore. E dopo aver sistemato le tubazioni ho scoperto che tre tapparelle erano fuori uso e che la cucina economica perdeva gas dal fornello grande. Dopo le riparazioni mi sono occupato dei mobili. Ho iniziato con la stanza della mamma, facendo portare via il letto, il cassettone, la specchiera, l’armadio, oggetti acquistati nel ‘47 per il matrimonio di mamma e papà, la stanza svuotata, ho lavato per terra, ho tolto le tende, i vetri sono sozzi, ma quanta luce, e quanto spazio, mi ha assalito un sentimento forsennato di pulizia, e di libertà, il desiderio di alleggerirmi, e di purificare la casa. Ho buttato via il mobilio del corridoio, la libreriola cadente e la mensolina del telefono, ho asportato la atoia e l’intero arredamento del salotto, anche il tappeto persiano, anche il tavolo rotondo, che mamma sosteneva fosse una antichità preziosa. Ho tenuto il letto, la mia libreria, la mia scrivania, il tavolo della cucina e tre sedie. In questa attività mi hanno aiutato Dix e la sua ragazza, Iris, hanno lavorato con me un giorno completo, pervasi anche loro da una furia iconoclasta, li ho sorpresi mentre stavano portando via il mio letto, erano già sulla soglia

delle scale, cantando all’unisono una filastrocca da bambini, li ho fermati, la ragazza era invasata, in canottiera, con le braccia sode, bianchissime, contro il pelame delle ascelle, fitto, scuro, sudava, e gridava che quello era un rito, da portare alle conseguenze estreme, via tutto, ripeteva, stringendo meglio l’elastico che teneva insieme i capelli, bravo sco, tornare alle origini, senza nulla fuorché se stessi.

* * *

Il giorno nel quale ho terminato i lavori in casa sono tornato nel bar davanti a casa di Laura, ho delle domande precise da porre, in queste due settimane ho svolto delle indagini, voglio sapere se veramente la destinazione finale del viaggio di Laura è il Venezuela e, se sì, dove vive, come posso contattarla, scrivendole, inviandole un telegramma o telefonandole, anche. Ero stato al comando di polizia di quartiere, ricevuto da un poliziotto anziano, in una stanza vasta, con le scrivanie identiche alle cattedre dei miei professori delle medie inferiori, la struttura in legno chiaro e il piano ricoperto di panno verde scuro, l’uomo era solo, seduto chino a compilare con delle cifre, degli orari, forse, le colonne disegnate a matita nelle pagine interne di un foglio protocollo. “E chi sarebbe questa Laura Betti?” mi ha chiesto senza smettere il suo lavoro. “Era la mia fidanzata.” “Non lo è più, adesso?” “No, da quattro anni!” Sono in piedi accanto alla seggiola vuota davanti alla sua scrivania, dove non mi ha invitato ad accomodarmi. “E perché la cerca, se non è più la sua fidanzata?” Ha alzato gli occhi dal suo lavoro, ha i baffi folti e parla un italiano senza accenti. “Noi cerchiamo figli, coniugi, genitori, nonni, non ex-fidanzate” Ha assunto un tono severo. “Lei afferma che questa Laura sarebbe fuggita in Venezuela, fuggita da che cosa? Perché? Aveva compiuto dei reati?” È tornato al suo lavoro di compilazione, facendomi cenno di andarmene.

Al consolato venezuelano erano strabiliati, l’attaché del viceconsole, un giovane pingue e dalla carnagione appena ambrata, non riusciva a capacitarsi della mia richiesta, se quella giovane donna aveva deciso di stabilirsi nel loro paese e non desiderava rendere noto il suo indirizzo perché mai il governo venezuelano, su richiesta di un suo consolato italiano, doveva disturbarla senza motivo?

Avevo telefonato alla Farnesina, numerose volte, chiedendo di un certo dottor Frantelli, che mi era stato indicato come il funzionario di collegamento con l’ambasciata italiana in Venezuela, senza mai riuscire a parlargli. Allora sono tornato al bar, a sedermi a un tavolino, davanti al barista padre, che ormai ha abbandonato il servizio attivo, lasciando il lavoro al banco al figlio.

* * *

Ho trovato Dix sotto casa ad attendermi, mi ha chiesto di seguirlo, mostrava fretta, gli ho chiesto se avevamo appuntamento con qualcuno. “No, è che è tardi.” “Tardi per cosa?” gli ho chiesto affannandomi dietro la sua falcata da gigante. “Sono le otto e trenta, sono qui dalle sette, dove sei stato tutto il giorno?” “Non sapevo che avessimo un appuntamento.” “Non lo avevamo, infatti, è successo tutto all’improvviso, sono corso qui, con tutto quello che avevo da fare!” Senza voltarsi e senza smettere di camminare mi ha allungato un foglio appallottolato “Tieni, leggi, è per te.” Mi sono fermato, per aprire quello che era un telegramma e cercare di individuare il mittente. “Non importa chi lo manda, è di Sara, e non ti fermare, continua a camminare” È quasi una testa più alto di me, e mi fissa, selvaggio, teso, non si rade da qualche

giorno, non indossa la camicia, solo un maglione rosso sulla pelle nuda, e una giacca a vento leggera, blu. “Lasciami il tempo di leggere.” “Cammina!” mi ha sibilato in un orecchio “Ci possono notare.” “C’è qualcuno che ci cerca?” ho provato a dire ridendo. Mi ha preso per un braccio, ha la mano forte, stringe, e mi spinge “Cammina, e leggi, non è difficile.” Sara spiega che non ha potuto aspettarmi, è stata costretta a partire il giorno dopo, ora è sistemata, abbiamo un bell’appartamento, si vede il mare, mi aspetta. “Come lo hai avuto? In quale città si trova adesso?” gli ho chiesto fermandomi ancora. “Riprendi a camminare, subito, sco, la prima cosa che notano sono due persone che parlano per la strada, e se sono maschi giovani, tra i venticinque e i trentacinque, ti fermano, documenti, domande, dove eri ieri, hai dei testimoni, dove stai andando? E rimetti in tasca quel telegramma, l’hai letto, basta. Cammina, accanto a me, con le mani in tasca, chiacchiera, fischietta, come vuoi, normale, come un amico da sempre.” “Abbiamo qualcosa da nascondere? “Hai letto il giornale, oggi?” “Sì, stamattina.” “Hanno ucciso uno, a Roma, ieri.” “Chi?” “Allora non hai letto.” “Mi è sfuggito.” “Sono le cose importanti, queste.”

“Chi era, l’assassinato, intendo.” “Uno del Ministero, un funzionario, tale Palma. Non assassinato, sco, giustiziato.” “Questo lo dicono loro.” “Non sbagliano, mi pare.” Siamo vicini alla sommità della scalinata della Trota, non sono riuscito a tenere il suo o, si gira, mi vede distante, inizia a gridare con le mani a megafono attorno alla bocca. “Compagno sco Aliberti, compagno sco Aliberti, è presente il compagno sco Aliberti?” “Nessun compagno, Dix, quel tempo è ato, e non so tu che ne pensi.” Mi ha preso sottobraccio, è sudato, ansima, corre, ma fatica anche lui. “Parliamo di Sara, le devo una risposta.” “Nessuna risposta, non voglio tornare.” “Allora la risposta è che non vuoi tornare.” “A lei non scrivere nulla, se proprio sei obbligato scrivi che mi hai visto un giorno, e che poi sono sparito di nuovo.” Mi ha stretto forte il braccio, mi spinge in avanti, con violenza. “Questo non è regolare, sco.” “Sono stato abbandonato là per quattro anni.” “Questioni di punti di vista, da parte dell’organizzazione nessuno si è mai dimenticato di te.” “Ora sono fuori dall’organizzazione, questo è evidente. Sono un uomo libero.” “Guardami, piccolo uomo scemo!” Mi ha abbracciato, ha braccia di ferro, fa

male, mi solleva, la sua bocca a due dita dalla mia, il suo fiato addosso. “Non si esce dall’organizzazione, mai, e non sei libero, nessuno lo è in questa società moribonda, puoi fingere una esistenza normale, ma sei segnato, per sempre.” Mi ha lasciato all’improvviso, sono scivolato per terra, Dix si è allontanato, parla senza voltarsi, e senza fermarsi, “Domani alle sei e un quarto c’è una consegna da ritirare da Marchetto, porta il pacco a casa tua, o io, verso le dieci.”

* * *

Con il pacchetto di Marchetto sottobraccio sono andato al bar davanti a casa di Laura, ieri il barista padre non aveva voglia di parlare, mi aveva confessato che il vedermi gli procurava rabbia, per come avevo lasciato Laura, quel pomeriggio davanti alla chiesa c’era anche lui, che vergogna, e che dispiacere, per Laura, non aveva mai visto una persona tanto avvilita, senza tener conto dell’imbarazzo, delle grida del padre, delle minacce del fratello, del falso svenimento della madre. Che tornassi al mattino, alle sette scendeva a dare una mano al figlio, era un momento di attività intensa, tra le sette e le otto il bar incassava un terzo del totale giornaliero, lavorando era meno nervoso, e forse avrebbe risposto alle mie domande. Sono tornato subito il mattino successivo, il locale è affollato, gli avventori di caffè e cappuccini si accalcano in piedi al banco, è una giornata freddissima, restano intabarrati nei cappotti, le sciarpe appena abbassate per lasciar libera la bocca, per scaldarsi battono i piedi sul pavimento, fuma la macchina del caffè, fumano le tazze colme di liquido bollente e fumano i fiati degli uomini e delle donne, solo un paio, giovani, con il berretto di lana in testa calato sino agli occhi, una, bassina, racconta un aneddoto simpatico, non sono riuscito a coglierne il senso, ma ridono tutti, gli uomini soprattutto. Il barista padre, indossa una spessa camicia a quadri, sulla spalla tiene appoggiato uno strofinaccio bianco, è contento, alza e abbassa la leva della macchina del caffè con vigore, chiama tutti per nome, incita il figlio a sbrigarsi con quelle tazzine, che la gente ha freddo, che ha fretta, che deve andare a lavorare. “Cosa volevi sapere?” mi ha gridato al di sopra delle teste dei clienti. Mi sono avvicinato, sporgendomi al di là del banco “Laura, Laura Betti.”

“Ah, la tua fidanzata…” ha proseguito a voce alta “Risulta che l’amassi molto, la ami ancora, sembra, non riesci a vivere senza di lei.” Qualcuno si è voltato a guardarmi, Laura era nota nel quartiere e nel bar, e forse anche io sono stato riconosciuto. “Ti prego, è importante, per me” gli ho sussurrato all’orecchio. “Dieci minuti, siediti, ti raggiungo appena posso” mi ha risposto senza guardarmi. È venuto portandomi un cappuccino, ha tolto lo strofinaccio dalla spalla e si è una sigaretta. “Avanti, parla.” “Dov’è Laura?” “Perché vuoi saperlo?” “Le devo parlare.” “Per chiederle scusa, suppongo.” “Anche.” “Laura è in Venezuela con l’olandese.” “Chi è questo olandese?” “Non è olandese, qualcuno lo ha chiamato così per via della carnagione bianchissima e i capelli rossi, ma è italianissimo, di Roma, Laura me lo ha presentato, lo aveva conosciuto durante un pellegrinaggio, sì, ti farà ridere, ma si era data a studi difficili, non mi ricordo cosa, riti orientali, buddismo, forse…” Mi ha guardato con intensità. “Faceva di tutto, per dimenticare.” “Come si chiama questo olandese?” “Di cognome Tassi, non ricordo il nome. Abitava alla casa dello studente, viveva di lavoretti, anche lui carico di libri, veniva qui, a discutere con lei, ore intere, prendevano appunti, talvolta portavano una macchina da scrivere, lui dettava, per ore, e lei scriveva.”

“Quando? Questo quando accadeva?” “Alla fine del ‘75, inizio del ‘76, credo di averla vista l’ultima volta giusto due anni fa, doveva essere febbraio, sì, era inverno, fine febbraio, inizio di marzo.” “E il Venezuela? Perché in Venezuela? E a far che?” “Le cartoline, quelle le hai viste, anzi prendile, portale via, se cercavi Laura Betti è quello che è rimasto di lei.”

* * *

Alle dieci in punto ho sentito suonare il citofono. “Siamo noi, apri!” È Dix “Noi chi?” “Tu apri, non ci pensare.” Mi sono affacciato alla finestra, davanti al portone due uomini in tuta grigia sostengono una grossa cassa di cartone, Dix è quello più alto e in maniche corte. Sono entrati in casa spingendo lentamente la grossa cassa attraverso la porta, alzandola fino quasi al soffitto per svoltare nel corridoio e posandola delicatamente all’ingresso della mia camera. L’altro è piccolo, smilzo e tiene calcato in testa un berrettone di lana rosso. “Chiudi la porta” ha ordinato Dix a quello magro. “Ora va bene” ha aggiunto dopo aver sentito il battente chiudersi. “Fagli vedere, adesso” ha chiesto al compagno. “Cosa avete portato? Accidenti, Dix, questa non è casa tua.” “Taci, un momento solo!” Si è rivolto all’altro. “Forza, fai come ti ho detto.” “Apro la cassa?” ha domandato il ragazzo con un vocina appena udibile.

“No, non intendevo quello.” Strisciando tra il muro e la cassa, si è avvicinato all’altro e con un movimento delicato gli ha tolto il cappello di lana rivelando una matassa di capelli biondi, lunghi, che per un attimo sono rimasti appallottolati e poi, lentamente, si sono sciolti sino alle spalle della ragazza. “Lei è Carmen. Lui è sco. La cassa è quasi vuota, ci sono solo le sue cose e qualche libro. È stata una messinscena, nessuno, in alcun modo doveva sospettare che una donna fosse vista entrare in questa abitazione, Carmen si ferma qui, qualche giorno, o qualche settimana, dipende…” Ha stracciato il cartone della cassa, è vero, è vuota, ci sono solo una valigia e una borsa di tela, che Dix ha fatto scivolare sul pavimento e che Carmen si è affrettata a prendere. “Ora devo andare, sono di corsa. Carmen non può uscire, questa sera vieni su, tardi, dopo le undici, ciao.” Parlando si è avvicinato alla porta, ha aperto mentre terminava, e ha gridato ciao correndo per le scale.

Carmen mi ha chiesto se poteva prendere un coltello dalla cucina e, senza pronunciare parola, ha iniziato a tagliare e ripiegare il cartone della cassa, osservandola con attenzione mostra un’età più avanzata, ha più di trent’anni, forse trentacinque, è una donna forte, affonda con forza il coltello, divide con decisione il cartone e lo impila davanti alla porta, è abituata al lavoro manuale, ha mani robuste e non suda, è una operaia, o una contadina. “Io mi chiamo sco.” Le ho allungato la mano, che mi ha stretto senza voltarsi e senza smettere di lavorare. “Se mi dai dello spago li lego, così li porti meglio giù.” “Non importa, li mettiamo in quell’altra stanza, è vuota, li porteremo via dopo.” “No, amico, precisione, per favore. Sono arrivati due operai a consegnare una cassa di cartone, sono andati via e tu porti giù i cartoni, e li lasci impilati vicino al cassonetto della spazzatura, tutto normale, regolare” Ora mi ha guardato, ha il viso affilato, le labbra sottili, la pelle cerulea, tradisce nervosismo, stanchezza, non è una bella donna.” “Siete arrivati in due ma ne è uscito uno solo, se non volevate destare sospetti era necessario pensare anche a questo particolare.”

“Tutto previsto, amico sco. Dix esce, poi rientra, attende due minuti e riesce, ma con il mio cappello di lana rossa, già provato, funziona, chiunque dirà che sono usciti in due, collaudato.” È simpatica, la Carmen, e se la ride di gusto, mentre posa la valigia sul tavolo della cucina e ne estrae delle ciabatte di pelo. “Dove dormo, io?”

* * *

Dieci minuti prima delle undici, quella stessa sera, ho trovato Dix ad attendermi fuori dal portone di casa seduto sul marciapiede, fuma, una canna enorme, in una spessa nuvola di fumo profumato. “Guarda che si sente, dovresti stare più attento.” “Qui, Franci, alla Trota! Ma qui sfumazzano anche vecchi e bambini. Non hai idea di quanti salgono su da me a chiederne, non hai idea…” Si è alzato, mi ha ato la canna. “Roba di Marchetto, una goduria!” Si stiracchia, sotto un maglione leggero ha la stessa maglietta a maniche corte che aveva stamattina. “Cambio di programma, Franci, non saliamo a casa, dobbiamo vedere della gente, ti ricordi le armi che abbiamo acquistato dal vecchio belga? Ecco, c’è stato un problema.” Ci siamo avviati verso le vecchie mura ovest, l’aria è zeppa di umidità gelata, se cala appena il vento nevica. “Ascolta, Dix, quella, la Carmen.” “Un tipo, sai, non lo immagini, ha quasi quarant’anni, trentanove, per la precisione.” “Chi è?” “Carmen, non ti basta?” L’ho afferrato per una manica, recalcitra, vuole proseguire a camminare, cerca di divincolarsi, è debole, oppone una resistenza fiacca, non riesce a liberarsi, si

ferma, si appoggia, esausto. “Dix, io non capisco, mi mancano dei pezzi, quattro anni fa non avresti mai conosciuto, e dunque tantomeno aiutato una come questa Carmen, che è successo, che cosa è cambiato durante la mia assenza?” Non ha risposto subito, ansima, non riesce a stare in piedi, scivola con la schiena sul muraglione, si siede sul selciato. Poi, con un filo di voce, mi ha comunicato che stamani molto presto ha chiamato Hassan, ora è di stanza a Beirut, vuole chiarimenti, sul motivo della mia fuga dagli Stati Uniti, in merito alle mie intenzioni, ai miei programmi, lui mi considera ancora parte del progetto, vuole sapere se torno, Sara è sistemata, mi attende, è esausto, rantola, ma riesce a dirmi che con Hassan ha preso tempo, un paio di giorni, non di più. “Dix, desidero restare fuori da tutto questo. Adesso torno a casa, ho tolto il materasso dal mio letto e l’ho messo nella camera della mamma, Carmen dorme lì, e io sulla rete, ma domani se ne va, gliel’ho detto!” Ho messo le mani in tasca e ne ho estratto un rotolo di banconote “Tieni, prendi, sono tutti i soldi che mi hai dato per Marchetto, non manca nulla. Io ora vado. Non cercarmi più.” Gli ho infilato il rotolo delle banconote tra le gambe, è inebetito, dal fumo, credo, mi fissa con gli occhi sbarrati, qui, sui bastioni, sopra la città, le nuvole basse che nascondono le parti superiori dei palazzi più alti, tira un vento umido, rafficato, tiene lontana la neve, per un po’, almeno. “Ciao” gli ho detto avvicinandomi, è immobile, con il mozzicone spento della canna tra le dita. L’ho oltreato, due i, tre i, sono già lontano, è lì, seduto per terra, la testa appoggiata al muraglione, guarda in alto, con le mani abbandonate sul selciato.

* * *

La luce della stanza della mamma dove dorme questa Carmen è accesa. È molto tardi, sono tornato a piedi, con una sosta al Pacifico, dove ho incontrato Alfio, è ancora celibe, mi ha detto divertito, ma per niente soddisfatto, perché di questa libertà non ne fa nulla, se non restare lì al banco, a discorrere di scemenze, sino

all’alba. La porta della stanza è aperta. È il lampadario e anche l’abat-jour che le ho sistemato accanto al letto, dorme, Carmen, non mi ha sentito arrivare. Ho spento la luce grande e mi sono chinato per spegnere l’abat-jour, dorme sul fianco, la faccia alla parete, dalle coperte emergono le spalle e la schiena, nude, non porta camicia da notte, la pelle lievemente brunita, come quella di Sara. Ho chiuso piano la porta, rilasciando la maniglia con cautela. “sco, sei tu?” un sussurro lieve, appena poco più del silenzio. Le ho risposto attraverso la porta chiusa. “Sono io, buona notte.” “Domani mattina me ne vado presto” una voce affaticata, stenta, non si è mossa, è rimasta distesa, come l’ho vista, voltata contro il muro. “Non ti preoccupare, vai quando vuoi.” “Da come parlavi mi sembrava di aver capito che desideravi me ne andassi il prima possibile.” Si è alzata, mentre parla sento i suoi i scalzi sul pavimento e la sua voce avvicinarsi. Ha spalancato la porta, la stanza è buia, anche il corridoio è buio, è qui, davanti a me, ne intravvedo il profilo contro la luce esterna che filtra attraverso le finestre senza tende, avverto il calore del suo corpo, l’odore di donna adulta, i suoi muscoli, la sua bocca, qui, davanti alla mia.

* * *

Il 5 marzo del 1978 era domenica, mi sono svegliato presto, il materasso che ho acquistato per rimpiazzare quello che ho dato a Carmen è alto, compatto, comodo, è a molle, una meraviglia in confronto a quelli di lana sui quali ho dormito per i quasi trent’anni della mia esistenza. Ancora ad occhi chiusi ho cercato di ripensare a quelli sui quali ho dormito per quattro anni in America, non riesco a ricordarlo, forse perché erano matrimoniali, forse perché c’era Sara.

In questi ultimi venti giorni ho definitivamente sistemato casa, ho dato il bianco in cucina, nel corridoio e in bagno, mi ha aiutato molto Carmen, che per il soggiorno, la mia e quella che ormai chiamiamo la sua camera ha voluto stendere la tappezzeria, dimostrando in questo una abilità straordinaria, molto più che una pratica casalinga, è stata, come mi ha spiegato, una professionista, ha lavorato con un suo compagno, per molti anni, pareti, finestre e anche un po’ di idraulica, quando serviva. Sale sino all’ultimo gradino della scala e, imbiancando i soffitti, non fa cadere una goccia di vernice sul pavimento, per la carta da parati ha chiesto tavolo e attrezzature da tappezziere, che gli ho procurato tramite Federico, il vicino di sopra. Ha terminato in tre giorni, un lavoro perfetto, senza sbavature, è un’altra casa, adesso, e non basta, mi ha chiesto di acquistare della stoffa, vuole cucire le tende e le mantovane, devo anche acquistare dei bastoni in legno e, per il bagno e la cucina, dei i di metallo e plastica, ha disegnato i pezzi, ha segnato le misure e mi ha indicato i negozi dove acquistarli. Sono le sette, per la mia camera Carmen ha scelto un tappezzeria a tonalità sovrapposte di azzurro, senza disegni, colori opachi, che assorbono senza riflessi la prima luce della mattina. Non dormo con Carmen, non ci ho dormito la prima notte, e non sono mai riuscito a farlo in queste tre settimane, nello stretto letto a una piazza lei si assopisce addosso a me, sveglio, attento a non muovermi per non svegliarla, una mezzora al massimo, poi mi sfilo, con circospezione, sciogliendomi dal suo abbraccio e posandole la testa con cura sul cuscino. Anche lei si è svegliata presto, è qui, in piedi sulla porta, questo corpo di sangue e di nervi, spalle quadrate, e avambracci pieni, si muove per casa nuda, azionando arti inferiori da animale. “Buongiorno mio padrone! Ha riposato bene?” Sono balzato a sedere, coprendomi le gambe e il pube con la coperta. “Forse che il signore ha timore di mostrare le sue nudità? Conosco la sua intimità, principe, e davanti a me non deve provare vergogna.” Ha spostato un piede, un trentacinque, le unghie tagliate approssimativamente, mostrando di profilo il polpaccio teso e i muscoli delle gambe scolpiti. Mi sono alzato, trattenendo le lenzuola sui genitali, alla ricerca delle mutande. “Sono qui, mio alfiere, le avevi dimenticate nell’alcova, le ho tenute al caldo, sospirandoci dentro le mie pene d’amore. Forse che il conte in questa bella

mattina di sole non desidera il piacere che la sua schiava gli offre? È dunque appagato, il mio padrone?” Ho agguantato le mutande e mi sono voltato per infilarle, mi sto vestendo, veloce, infilo la camicia, è quella di ieri, che era già dell’altro ieri e forse di tre giorni fa, non trovo i pantaloni, anche quelli sono rimasti in camera di Carmen, e neppure le calze, le prenderò pulite nel cassetto, ne ho acquistate cinque paia proprio ieri. “Sei ridicolo, sco.” La sposto, per precipitarmi in camera sua. “È tutto di là, i pantaloni piegati sulla sedia, le scarpe e il maglione, e cambiati la camicia, già ieri aveva cattivo odore.” Mi segue, insensibile al pavimento gelido, le spalle in avanti, a caccia, con gli occhi grigi dilatati. “Se è questo che vuoi per darmi un letto e un piatto di minestra puoi anche dichiararlo, ho fatto di peggio, se ti interessa saperlo…” Sono vestito, ora, in corridoio, lei tra me e la porta. “Devi andare, vai pure. Io sto qui, dove vuoi che vada…” Con un mezzo gesto indica il letto “E questa notte sarò lì, a disposizione, credi che abbia una alternativa? Vuoi saperlo? Vuoi che ti faccia il conto di quanti prima di te si sono serviti di questo corpo? E se vuoi per ogni nome indicherò il luogo e il motivo, il contesto e l’obbiettivo. sco Aliberti, marzo 1978, causale, affitto stanza.” Sono fuori, la porta chiusa, ho un monte di cose da fare, gliel’ho detto a Carmen, tornerò questa sera, molto tardi.

* * *

Rossana De Filiberti, dell’omonimo studio di avvocati, il datore di lavoro di Laura, ha acconsentito a incontrarmi, non ho parlato direttamente con lei ma con una ragazza della sua segreteria, che ha combinato l’appuntamento per la domenica, nell’abitazione privata della De Filiberti. Un appartamento al settimo piano di una via centralissima, plafoniera del citofono in ottone lucidato, doppio cancello aperto dal portiere, in divisa, ascensore di legno e vetri, lento, con un mezzo divanetto a scomparsa, porta di casa aperta, cameriera in alta uniforme domenicale, giovane, meridionale, gonna appena sopra il ginocchio, tacchi bassi, che mi ha accompagnato in una sala

ampia, poltrone rivestite di tessuto bianco, specchi dorati e dipinti d’epoca. La Rossana adesso ha quasi cinquant’anni, il seno dirompente nascosto da una veste larga e lunga sino alle caviglie, è in zoccoli, senza collane, né anelli, i capelli sciolti sulle spalle che mettono in mostra il viso largo, le labbra carnose, l’assedio delle efelidi, gli occhi, senza trucco, gonfi, rotondi, di un colore indefinibile, tra il grigio e il marrone chiaro. “Ha avuto una bella faccia a chiedermi di vedermi” Non mi ha offerto la mano, è rimasta in piedi, con le mani sui fianchi. “Non le offro di accomodarsi, tanto facciamo presto” È alta, la ragazzona, come la chiamava Laura, piedi quarantadue, polpacci da calciatore, un collo grosso, il doppio mento, è stata una bella donna, e conserva la consapevolezza di esserlo ancora. “Ancora oggi, dopo tutti questi anni, mi chiedo con che coraggio ha osato tradire le aspettative di quella ragazza, ma lo sa che mangiava dalla gavetta, sulla scrivania, e che non l’ho mai vista spendere in un caffè, un pacchetto di sigarette, un dolce, niente, tutto per il matrimonio, la casa, con lei!” Ha incrociato le gambe in un modo curioso, un piede dietro l’altro, non dissimile dal gesto dei ballerini nel saluto alla platea. “Mi chiedo per quale motivo ho accettato di incontrarla, dovrei forse essere curiosa di ciò che ha fatto in questi anni? Arriva dalla foresta indonesiana, dove è diventato ricco cacciando alligatori, o da una miniera sudafricana, dove ha appena venduto una concessione mineraria di oro e diamanti, me lo auguro, caro ragazzo, spero davvero sia andata così!” Ha preso a camminare avanti e indietro per la sala, alzando le braccia, una sorta di movimento ginnico, per sottolineare i momenti salienti del discorso. “E adesso, tornato, non ha ritrovato la sua bella, perché, le chiedo, doveva forse aspettarlo? Lei della pazienza umana ha una idea originale, se posso consentirmi questo giudizio. Certo che me lo permetto, sono parte in causa, lo sa? Dopo l’evento Laura è crollata, assenze su assenze, in sei mesi si è mangiata le ferie di tre anni, ma come non condividere la sua disperazione? Io l’ho protetta, anche contro i miei famigliari, perché, quando c’era, era imprecisa, superficiale, un errore dopo l’altro e, come non bastasse, piangeva, bagnava le carte, un disastro, ma io non cedevo, lei era vittima, e io il suo avvocato difensore. Così, lei, ora, bel bello, si presenta e la vuole di nuovo, per farne che, questo poi me lo dirà, anzi non mi interessa saperlo, proprio non voglio esserne messa a parte in nessun modo.” Ha smesso di camminare, si è fermata davanti a me, mi punta contro l’indice, grida, adesso. “Laura ha trovato un uomo, vero, che l’ha portata via, lontano, io ho approvato, e l’ho sostenuta, l’ho aiutata a vendere i mobili della vostra casa, vostra, sottolineo, e le ho offerto il denaro per acquistare i biglietti. Ha detto alla mia

segretaria che voleva sapere dove trovarla, ecco, qui ci sono tutte le copie che le servono.” Si è chinata e da un cassetto del tavolino ha preso una busta dalla quale ha estratto un pacchetto di fogli di carta che, uno ad uno, ha lanciato per la stanza. “Questa la prenotazione, questa la fotocopia dei biglietti, questo il voucher dell’albergo per le prime due settimane, prima di affittare una casa, e questa la ricevuta dei traveler’s cheque che, io, alla fine, le ho regalato, perché se no quelli in Venezuela andavano sotto i ponti a mendicare…” Ha terminato di gettare per aria i fogli, ha scrollato le spalle, si è voltata e, con un o forsennato, ha lasciato la sala gridando alla cameriera che mi accompagnasse alla porta. Mentre raccoglievo i fogli dal pavimento l’ho sentita marciare, in corridoi lontani, e ho ascoltato ancora la sua voce potente, urlare che questa non è vita, questa non è vita.

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In cucina, seduto, c’è Dix. Carmen, in camicia da notte, le spalle nude, è in piedi, appoggiata sul bordo dell’acquaio. Quando hanno sentito aprirsi la porta hanno smesso di parlare e non hanno ancora trovato un argomento alternativo del quale discorrere davanti a me. “Continuate pure, come foste a casa vostra” ho provato a dire con sarcasmo. “Ciao, Franci, è un po’ che non ci si vede. Carmen l’ho trovata bene, l’albergo mi sembra offra servizi di qualità.” Carmen si è voltata, sciacqua le tazze della colazione e si allunga sulla punta dei piedi per sistemarle nel pensile scolapiatti. “Mi fermerò qualche giorno, qui con voi.” “Certo che questo via vai verrà notato, avevi un problema di riservatezza, se non ricordo male. E dovrò andare ad acquistare un nuovo materasso, potresti dormire in sala.” Carmen mi ha guardato con una espressione divertita, e Dix le ha fatto da sponda con una risata rumorosa, ho capito, il materasso non serviva. “Io devo uscire, ci vediamo questa sera, ceno fuori, rientro tardi.”

“Ma se sei appena arrivato!” ha esclamato Dix “In fondo questa è casa tua.” “Appunto.” “Appunto cosa, Franci?” “Che dovrebbe essere casa mia, dove uno ci vive e dove invita chi desidera” Carmen non è più con noi, scivolata via, scalza, silenziosa. “Chiariamoci, Franci, non possiamo lasciare ombre tra di noi.” “Per quello, se devo essere franco, tra noi è calata la notte, da quando sono tornato sei misterioso, molto più di prima.” “Sono pronto, domanda, e io risponderò.” “Iris.” “Una ragazza veneta, provincia di Treviso, scappata di casa, vivrebbe sotto i ponti.” “Mi ha confessato che state insieme da un anno e mezzo. Tu mi avevi detto che eri appena tornato.” “Dall’ultimo viaggio, ero stato via una decina di giorni.” “Non mi avevi detto proprio così.” “Altra domanda.” “Ti rifiuti di rispondere?” Mi ha fatto cenno di sedermi. “Vai avanti, un pezzo di verità alla volta.” “Carmen.” “Informazione non disponibile e non consentita, lo puoi capire da solo.” “Lasciamo perdere, allora, io vado, fate quello che volete!” Mi sono alzato d’impeto, scostando la sedia rumorosamente.

“Calma, calma, Franci!” “Calma un corno, Dix, hai occupato la mia casa, non mi stai ad ascoltare, non rispondi alle mie domande, certo che sono calmo, te l’ho detto con chiarezza l’altra sera sui bastioni…” “Bell’amico, sono tornato a casa per miracolo, quella notte.” “Ti ho spiegato che voglio chiudere, basta con queste manovre oscure, basta con gli indovinelli, basta con Marchetto, sono un laureato, sto cercando lavoro, chiudiamo queste ultime code, la Carmen quanto deve stare ancora qui?” “Con ordine. Di Marchetto mi sono occupato io, cinque consegne in queste ultime due settimane, per te sono novecentomila lire.” “Non li voglio, ti ho restituito tutto ciò che mi avevi dato.” “Con quelli sono un milione e quattro.” “Tienili, sono tuoi, non farmelo più dire.” Carmen è tornata, vestita, un abitino corto verde smeraldo, con le scarpe, e la borsetta. “Che fai, esci?” le ha chiesto Dix “Faccio le prove, prima o poi uscirò. Come vi sembro?” “Io allora vado” ho ripetuto dirigendomi verso la mia stanza. “Voi fate tutte le prove che volete.” Dix mi ha raggiunto in camera, non ho avuto il tempo di reagire, ha finto di darmi un cazzotto in faccia, e mentre ritirava il pugno con l’altra mano, approfittando del mio sbilanciamento, mi ha spinto violentemente contro la parete, poi mi ha afferrato con tutte e due le mani e mi ha scaraventato sul letto. “Ora basta giocare, le cose sono tremendamente serie, e tu sei coinvolto, eri della Render, o no? Sei stato in Libano a cercare di vendere un autocarro destinato a trasportare truppe palestinesi in Israele, o no? Hai fatto la spia dell’OLP per quattro anni negli Stati Uniti, o no? Non importa se alla Render eri assunto come

impiegato di concetto, né che il camion tu e quell’altra non lo avete venduto, né che in America non hai spiato proprio niente. Hai accettato, hai scelto, in libertà, e non puoi tornare indietro.” Ce l’ho sopra di me, seduto a cavalcioni sul petto, i pugni premuti sul petto, respiro male, e non riesco a guardarlo negli occhi. C’è anche Carmen, appoggiata allo stipite della porta, con la borsetta penzoloni sopra la spalla. “Vorrei lasciare, per favore” ho mormorato con un filo di voce. “Non puoi, ora non puoi. Adesso è impossibile.” “Quando, allora?” “Tre mesi, massimo quattro. Tu stai buono, ubbidisci e a giugno sarai libero.”

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Dix non si è fermato, Carmen ha spiegato che Dix mi aveva minacciato solo per mettermi in difficoltà. “Aveva timore che tu chiamassi la polizia.” Me lo ha detto mentre ceniamo con pollo e patate, un’abile cuoca, Carmen, di una efficienza impensabile, è veloce, cucina e rigoverna nello stesso momento, mentre mescola un sugo sui fornelli tiene una vaschetta dell’acquaio colma e insaponata per lavare e sciacquare direttamente pentole e stoviglie. Così quando ci alziamo da tavola la cucina è già rigovernata. “Non ci avevo pensato, alla polizia, voglio dire.” Ha indosso l’abito verde smeraldo, e calza scarpe di camoscio di fattura maschile, mi ha raccontato che nel ato ha lavorato nelle cucine di una nave, ed anche nel ristorante di un albergo di lusso a Stresa, sul lago Maggiore. Da qui l’abilità e la celerità che dimostra.

“Prima o poi ci avresti pensato, e questa probabilità costituiva per noi un rischio eccessivo.” Discute con me con metodicità, un tono monocorde, privo di emotività, professorale, è attenta ai particolari, non trascura di approfondire gli argomenti che tratta, e nel frattempo non cessa di lavorare, si alza, toglie i piatti sporchi, mette quelli puliti, versa il vino, taglia un’altra fetta di pane, mi interroga con gli occhi per verificare se ogni dettaglio sia in ordine. “Non lo avrei mai fatto.” “Si dice, ma poi si fa…” Il vino è finito, ha preso un’altra bottiglia, ha in mano il cavatappi, si appresta ad aprirla. “Lascia, faccio io” le ho detto allungando la mano verso la bottiglia. “So farlo da sola” mi ha risposto seccata, spostando la bottiglia per impedirmi di prenderla. “Lo immagino, la mia era una gentilezza.” “Se tu ci avessi pensato prima, quando la bottiglia precedente non era ancora finita.” “Ci sto pensando adesso, Carmen, che differenza fa?” “La stessa che c’è tra l’affermare che non avresti chiamato la polizia e il chiamarla non appena ti fossi accorto che era l’unico mezzo per liberarti da Dix.” “Che sciocchezza, te l’ho detto non vi avrei mai denunciato.” “Vedi ora usi la parola giusta, denunciato, segno evidente che ci hai riflettuto, che hai avuto dei dubbi, che hai bilanciato vantaggi e svantaggi.” Ha preso la bottiglia per il fondo, l’ha alzata sopra la testa, osservando il vino controluce. “Un bel colore, dovrebbe essere buono!” Ha terminato la frase un attimo prima di lanciare la bottiglia contro la parete alle mie spalle, centrando in pieno la portina di vetro della credenza dei bicchieri. “Non voltarti, guarda me, è me che devi guardare!” Grida, sforzandosi di tenere il volume della voce il più

basso possibile. “Sono io il tuo nemico, è me che devi denunciare, guardami, sono io, la proprietaria del corpo che tu usi la notte, io, la colpevole, io. E se è questo che vuoi, non ti preoccupare, ci penso io a toglierti dagli imbarazzi, tu non devi far nulla, provvedo a tutto io.” Con un movimento veloce l’ho vista alzarsi, prendere la borsetta e precipitarsi fuori dalla cucina, qualche secondo, il tempo di scostare la sedia e l’ho sentita armeggiare con la serratura della porta di casa, aprire, e chiudere con delicatezza, senza rumore. Ho sceso le scale a rotta di collo, in ciabatte e in camicia, sono per strada, dov’è? Dove è andata? È tardissimo, verrà notata, una donna sola, vestita con abiti fuoristagione, che corre, è inevitabile, qui in centro è pieno di pattuglie, tra pochi giorni a Torino inizia il processo alle Brigate rosse, ci sono Curcio e schini, da Roma in su, in tutte le grandi città c’è il coprifuoco, la fermeranno e la arresteranno, subito. L’ho vista, ha appena svoltato in via Rosselli, sta ancora correndo, Carmen sa quale pericolo sta correndo. Ha rallentato, ha assunto una andatura normale, l’ho raggiunta, le ho posato una mano sull’avambraccio. “Vattene, lasciami sola, non farti coinvolgere.” “Ora ti o il braccio sulla spalla, voltiamo e camminiamo lentamente verso casa, abbracciati, come una coppia, non daremo nell’occhio.” “E tu che ci guadagni? A te che importa? Che cosa sono io per te? Non mi hai mai voluto bene nessuno, mai nessuno” ha alzato la voce, urla, senza trattenersi. “Ma che vuoi? Chi sei? Ma lasciami, torna a casa, chiuditi dentro, tu non c’entri, tu sei di quelli conigli, che non si fanno coinvolgere. Nessuno mi ha mai voluto, da trentanove anni nessuno mi vuole!” È riuscita a sfilarsi dal mio abbraccio, cammina a ritroso davanti a me, ha perso una scarpa, forse non se ne è neppure accorta. “Ora va, via, via di qua, destini divisi, io da una parte e tu dall’altra, basta, basta.” Si è voltata, corre, getta via anche l’altra scarpa, scende dal marciapiede, è in mezzo alla strada, via Rosselli è molto larga, Carmen la attraversa procedendo in diagonale, evita per una inezia di essere investita da un auto, si ferma, prende a camminare sulla linea di mezzeria, scalza, vestita come d’estate, ha perso anche la borsa, sino a quando, questione di un minuto, forse due, è ata un’auto dei carabinieri, l’hanno circondata in quattro, i mitra spianati, la perquisiscono, lì in mezzo alla strada, le mani che la frugano sotto la gonna, uno dei militi controlla

il contenuto della borsetta, le gridano che cosa sta facendo scalza di notte, in una notte come questa, in una città come questa, che è pazza, o che è pericolosa, la spingono dentro l’auto schiacciandola sulla testa con le mani, la sirena è già in azione, qualche automobilista ha accostato e osserva la scena dal finestrino chiuso, qualche curioso si sporge dalle finestre delle case vicine, sono in ciabatte, devo rientrare a casa il prima possibile. A casa di Dix, molto più tardi, mi ha aperto Iris, in un fragoroso pigiama viola e blu, i capelli sciolti sulle spalle, gli occhi spalancati, non dormiva, suppongo. “Dix è in cucina, sta cenando.” È l’una e mezza, e lui cena, pasta al ragù e agnello scottadito con le patate arrosto. Cucinate da Iris? Lui è in canottiera, in questa casa senza riscaldamento, le manone che stringono le forchette come utensili, il vino rosso, il pane fresco. “Ci avrei giurato che salivi. Non ti sforzare, sono già stato informato. Ti basti la considerazione che ho fatto appena me lo hanno detto, un problema in meno per tutti. Una svitata, che poteva creare una montagna di problemi, meglio così!” Ha il viso provato, gli occhi stanchi, la barba di qualche giorno, i capelli unti. “Ti mancherà la sua compagnia notturna…” Parla con la bocca riempita all’inverosimile di spaghetti. “Ma a questo si rimedia facile.” “Non si tratta di questo, Dix. A me mancano le informazioni, devo sapere.” “Ti ho chiesto qualche mese, non di più.” “Ho accettato, ma devi aiutarmi, altrimenti per me è difficile!” Ha deglutito la palettata di spaghetti che aveva ingurgitato agevolandone la discesa in gola ingoiando in un solo sorso un intero bicchiere colmo di vino rosso. “Ma niente domande come stamani, io ti racconto e tu correggi.” “Mi piace, avanti.” “La Carmen non si chiama Carmen, ma questo è marginale, e non è una ladra, o una rapinatrice, né una affiliata a una cosca mafiosa o camorristica, non è un killer prezzolato, né una truffatrice, né un corriere della droga” Dix prosegue a mangiare, sta terminando la pasta e ha già bevuto metà bottiglia. “Carmen è un terrorista clandestino, uno di quelli che sparisce, lascia la propria identità, ne assume una falsa e vive una vita ricostruita, forse Carmen era una cameriera,

nella sua vita precedente, ed è diventata, qui sto inventando, una infermiera, di quelle che fanno il turno di notte, così nel condominio dove è fissata la sua base operativa, nessuno si insospettisce degli strani orari che osserva, né fa domande sui due uomini con i quali vive, uno è il suo falso marito e l’altro è il suo falso fratello, tutti e tre sono sempre cortesi e sorridenti, salutano educati, lasciano il o entrando in ascensore e non si scordano di offrire il loro aiuto se incrociano una signora anziana con la borsa della spesa.” Dix pulisce il piatto della pasta con il pane, la stoviglia torna pulita, netta, pronta per ospitare le costine di agnello. “Sono piuttosto certo di quello che dico, una sera ho visto due carte di identità con nomi e indirizzi differenti ma entrambi con la sua fotografia. E poi, mentre fa l’amore, Carmen parla” Dix mi ha fissato con una faccia sbalordita, e mentre rosicchia l’osso di una costina riempie all’orlo il bicchiere con il vino rimasto nella bottiglia. “Sì, discorsi spezzati, frasi interrotte, grida, come imitasse la voce di altri, salta giù, salta ti ho detto, porta chiusa, porta chiusa, salta adesso, Paolo. Questo nome, Paolo, ripetuto centinaia di volte, sì, Dix, centinaia…” Si è alzato, ha preso un’altra bottiglia di vino, la apre, con un’altra costina in bocca. “Carmen è una brigatista, che aveva bisogno di un luogo sicuro, casa mia, ma Carmen è anche fragile, a quest’ora hanno scoperto chi è, la stanno interrogando e lei si sta dichiarando prigioniero politico, so anche che non mi denuncerà e che in nessun modo potranno risalire a me.” Ha finito di mangiare, apre un’altra bottiglia di vino, sbocconcella del pane, e beve. È entrata Iris, rimasta in piedi ad ascoltare sulla porta, alle mie spalle. “E tu, Dix, sei un uomo collegamento, tu non sei un clandestino, tu provvedi alle coperture, tu i, tu trasmetti informazioni, stai ai margini, ne sei coinvolto, e nello stesso tempo ne sei fuori. Sei abile, non lasci tracce, ti attribuisci molti nomi, o nessun nome, un’ombra, scivoli via, esisti parzialmente, abitante della zona grigia, la tua specialità, fedina penale pulita, documenti in ordine, sei inattaccabile, sempre fuori pericolo, salvo.” Iris si è seduta sulle sue ginocchia, beve dal suo bicchiere e lo accarezza sulla testa e sulla fronte. “Non ho capito il perché, quale sia il tuo guadagno, per quali motivi ti sei unito a questi ignoranti, questi vigliacchi, questi stupidi, che non sanno nulla della storia, della società, degli uomini e delle donne, perché Dix, perché hai scelto questa gente?” Hanno finito il vino, Iris rolla una canna sul tavolo, gli occhi bassi, Dix sbadiglia, Iris accende, mi a la canna, la riprende, la a a Dix, che me la ria, è roba buona, mi avverto morbido, Dix ha riso, Iris lo bacia, la canna è di nuovo tra le mie mani, fumo senza fretta, Dix non smette di ridere, piano, una risata notturna, silenziosa, calda, da amico, il mio amico Dix.

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La sera dopo, il 6 marzo, mi ha telefonato all’ora di cena e mi ha chiesto di accompagnarlo a una riunione. Stavo per andare a dormire, avevo avuto una giornata intensa. Dix è stato perentorio. “Non puoi mancare, poi ti spiego. Ti o a prendere tra mezz’ora.” La riunione si tiene nello scantinato di una scuola elementare. “Uno dei bidelli è del gruppo, al direttore ha detto che è un incontro di un gruppo teatrale che sta progettando un spettacolo dove gli attori saranno barboni e diseredati.” “E il direttore ci ha creduto?” “Franci, oggi si crede a tutto, se no ti sparano.” Siamo entrati, un androne ampio, disadorno, due scrivanie, una attaccata all’altra, due grandi portacenere, sporchi, nient’altro. I i rimbombano sull’impiantito di cemento, non c’è pavimento e le pareti sono prive di intonaco. Scendiamo una scala in cemento grezzo, e dopo la prima rampa iniziamo a sentire delle voci confuse. “Hanno già iniziato!” Mi ha sussurrato Dix “Vieni, facciamo piano.”

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Questa mattina ho riempito due sacchi con gli abiti, i libri, lo zaino, le scarpe, le collane, le spazzole, i trucchi, le medicine e le tre borsette di Carmen, che ho gettato in un cassonetto distante e dopo aver ripulito la stanza ho arrotolato e riposto in cantina il suo materasso. Tracce sparite, è impossibile che risalgano a me, ma comunque qui in questa casa di Carmen non c’è più alcun segno. Dopo,

ho disposto sul tavolo della cucina le fotocopie dei documenti del viaggio di Laura in Venezuela che ieri la Rossana mi ha lanciato addosso. 28 Febbraio 1976, biglietto aereo, da Malpensa a Caracas via New York, due milioni e mezzo di lire per due persone a nome Laura Betti e Luca Tassi. Traveler’s cheque, intestati a Laura, per diecimila dollari, in pezzi da cinquecento dollari, in totale sei milioni. Una prenotazione per un albergo di Caracas a nome Tassi, un hotel di lusso, centocinquanta dollari a notte, un prepagato per trenta notti, quattromilacinquecento dollari, due milioni e settecentomila lire, la Rossana mi ha detto che aveva aiutato la sua impiegata, ma queste cifre sono esagerate, si tratta di più di undici milioni di lire, e solo di ciò che è documentato, una valanga di quattrini, moltissimo di più di un aiuto.

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Nel seminterrato sono raccolte un trentina di persone, non trovo differenze con i personaggi che animavano gli incontri ai quali partecipavo nel ‘73, qualche eskimo, barbe, sciarpe rosso scuro, due sigari toscani, una pipa, due sole donne, forse sono più vecchi, più silenziosi, forse più assorti, siedono a gruppi, divisi tra loro da vaste aree di sedie vuote, noi ci siamo seduti in fondo, Dix ha scambiato un cenno di saluto con un paio di ragazzi molto giovani seduti in una zona semibuia all’estremità della sala. Ho riconosciuto una delle due donne, una signora di mezza età, con i capelli sale e pepe e occhiali rotondi dalla montatura dorata, era stata mia professoressa all’università, storia medievale, non credo che lei possa riconoscermi. Quello che sta parlando è rimasto seduto, ogni tanto, per sottolineare qualche aggio, si volta e si alza appena, anche questo lo conosco, e lo conosce bene Dix, è Lauro, un uomo, adesso, barba nera, gilet di velluto, giaccone scamosciato, scarpetta grigia, è il più elegante, qui dentro. Sta affrontando il tema della sinergia, spiega che è strategico che l’autonomia si muova parallelamente, eventualmente intersecando, quando necessario, nel rispetto dei ruoli. È un oratore abile, sottolinea i aggi più significativi, ripete le frasi chiave, alza il tono della voce quando avverte un calo dell’attenzione, fissa i più distratti, cerca la complicità di quelli che lo seguono. “Sinergia con chi?” Ho mormorato a Dix.

“Con i compagni della lotta armata.” “C’è un obbiettivo comune?” “Pare di sì.” “E tu che ne pensi?” Gli ho chiesto abbassando ancora di più la voce. “Ora ascolta, ne parliamo dopo.”

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La famiglia De Filiberti è potente, e ricca, generazioni di avvocati e magistrati, una vocazione collettiva alla quale nessuna generazione si è sottratta, andando con la memoria alle informazioni ricevute negli anni da parte di Laura, ho cercato di costruire una specie di albero genealogico. Rossana, nubile, è avvocato, figlia del De Filiberti vecchio, quello che discuteva con le impiegate delle sue emorroidi, la Rossana ha, o aveva, due fratelli e una sorella, Tiziana, ricordo bene il nome, perché a una delle cene prenatalizie organizzate dalla famiglia con i collaboratori, era seduta davanti a me, una donna che adesso avrà cinquantacinque anni, sposata, briosa, allegra, ci aveva divertito con una infinita serie di aneddoti della vita a palazzo di giustizia, poiché lei era magistrato. La Rossana aveva speso una fortuna, per Laura, l’aveva voluta aiutare, la povera ragazza abbandonata il giorno delle nozze, una quantità di denaro ingiustificabile. E dopo l’hotel a Caracas, Laura e quel Tassi, ovvero l’olandese, dove erano andati, non era possibile non riuscire a trovarli.

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“Certo che Lauro è cambiato” Ho detto a Dix, con un filo di voce. “Studia a Lettere e Filosofia, il nocciolo duro di questa gente è lì.”

Lauro ha terminato proponendo una mozione d’ordine, il giorno successivo, in tutte le università, si sarebbe distribuito un volantino identico, un testo forte, domani è il 7 marzo, mancano due giorni al processo, tra gli imputati c’è Curcio, è necessario far sentire la voce dell’autonomia, far capire, ha quasi gridato, che questi magistrati venduti non possono pensare di distruggere una parte importante del patrimonio culturale della classe operaia, deve essere chiaro, ha concluso, che giudicando quei compagni, indipendentemente dalle loro eventuali, ha sottolineato eventuali, colpe, attaccano l’intero movimento rivoluzionario. Con sicurezza ha proposto di creare tre gruppi, dei quali ha indicato i componenti, uno avrebbe elaborato il testo del volantino, un altro, il nucleo stampa, avrebbe trovato i mezzi per ciclostilarlo quella stessa notte e il terzo avrebbe progettato la logistica della distribuzione. In città ci sono due università, e forse, in totale, una ventina di facoltà, era richiesta una copertura completa, a spanne, ha stimato Lauro, ci saranno da ciclostilare settemila volantini e da trovare una trentina di compagni per la diffusione. Si è alzato, mentre gli altri hanno iniziato a ricomporsi nei tre gruppi di lavoro, e si è avvicinato a noi. I capelli corvini, le ciglia lunghe, quasi femminili, e gli occhi scuri, luminosi, me lo ricordo, a torso nudo, il ciuffo lungo sulla fronte, appiccicato a Dix, e in occasione della prima visita a casa di Dix con Alfio, quando lo abbiamo incontrato per le scale piangente e furioso. “Cosa ne pensi?” ha chiesto a Dix, senza sedersi. “Sei un grande, un leader!” Lo ha abbracciato con vigore battendogli la palma con forza al centro della schiena. Lauro si è voltato, per controllare che i gruppi si stessero componendo come aveva indicato. “La situazione è complessa, e noi non abbiamo una strategia univoca, qui ogni assemblea, autonomi, autoconvocati, ex cani sciolti, si muove senza coordinamento, abbiamo provato, riunioni fiume, ma non c’è organizzazione, e neppure disciplina…” Parla con un tono maturo, esperto, prodotto di anni di risse dialettiche tra le formazioni extraparlamentari, notti al ciclostile, e marce infinite per le città d’Italia, la bocca incollata al megafono, ad incitare ad andare avanti. “Dopodomani è una giornata chiave, a Torino c’è il primo processo importante alle BR, è indispensabile far sentire la nostra voce!” Ha alzato gli occhi verso di me, c’è stanchezza, languore, incertezza. “E lui?” Ha chiesto a Dix indicandomi.

“Lui frequentava casa quattro anni fa. Ti ricordi? Il Libano, l’America…” Ha sorriso e mi ha allungato la mano. “Mi ricordo benissimo, sco, il dottore, bentornato tra noi.” Si è seduto al contrario, con il ventre premuto contro lo schienale della sedia. Ha domandato una sigaretta, che Dix gli ha porto già accesa. “Come sta Angelo” gli ha chiesto Dix a voce alta. Lauro si è voltato verso la sala, scorrendo veloce lo sguardo sui gruppi riuniti, per tornare a fissare Dix, con uno sguardo spaventato, preoccupato. “Sta bene, perché?” “Così, per sapere” gli ha risposto Dix senza guardarlo negli occhi. “Lavora moltissimo, la fabbrica è dura, e la notte riunione continua, questa settimana è tornato a casa una notte soltanto.”

* * *

Alle dieci, stamani, orario di apertura del consolato venezuelano, ero davanti all’attaché del viceconsole, il quale mi domandava la ragione di quella mia nuova visita. Ho mostrato le fotocopie del biglietto aereo e della prenotazione alberghiera, conosceva bene l’albergo, uno dei migliori di Caracas. “Laura Betti e Luca Tassi, hanno lasciato l’albergo verso il maggio del ‘76, non dovrebbe essere difficile scoprire dove risiedono ora.” La Rossana mi aveva dato anche le fotocopie dei loro aporti, che ho consegnato all’attaché, insieme anche, per completezza, alla cartolina che mi aveva dato il barista. L’ha guardata a lungo, osservando con attenzione il timbro di partenza. “Non si distingue, troppo confuso.” “Ma è un timbro delle poste venezuelane? Almeno questo lo può garantire?”

Mi ha fissato con uno sguardo bolso, ha il collo della camicia troppo stretta e la cravatta allentata. “No, è troppo confuso, dovrebbe lasciarmelo, è necessario che lo mandi in Venezuela, alle poste, lì saranno più precisi.” “E questo l’ha visto?” mi ha detto indicando una delle pagine del carteggio postale tra la Rossana e l’albergo. “Non è un documento pertinente con la prenotazione, è un atto di matrimonio, tra la Betti e il Tassi, del 25 febbraio 1976, una settimana prima della partenza.” Ho fissato a lungo l’atto di matrimonio che Laura aveva inviato alla Rossana. Laura moglie di un altro! Sposata! Il 25 febbraio del ‘76. In quel periodo ero a San Francisco per la seconda volta, operaio elettricista in una fabbrica di ventilatori industriali, il 25 febbraio, dove ero il 25 febbraio, alle dieci del mattino ora italiana, l’una di notte in California, dormivo, mentre Laura si sposava, come ho fatto a non sentirlo, avrei dovuto avvertire una vibrazione, percepire un segnale, Laura era una parte di me, siamo stati uniti per dieci anni, ne avevamo quattordici quando abbiamo fatto l’amore la prima volta, che rischi che abbiamo corso, ignoranti di tutto, noi eravamo un corpo solo, una anima sola, nessuno di noi due era libero di coniugarsi con un altro, non era previsto, non era possibile. “Sono incuriosito…” mi ha detto il venezuelano “E ci sono delle ragioni di sicurezza che oggi ci impongono di svolgere indagini che normalmente non faremo, lei capisce, in questa epoca di terrorismo dobbiamo vigilare su ogni dettaglio, il nostro governo ha timore della contaminazione. Mi lasci i suoi dati, la contatteremo.”

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Lauro ci ha accompagnato fuori, fa molto freddo, si ferma nell’androne scalcinato, dal seminterrato proviene lo squittio grave dei compagni riuniti nelle commissioni, ha stretto la sciarpa intorno al collo, con il mozzicone di quella appena terminata accende un’altra sigaretta, non avevo mai considerato quanto fosse modesta la sua statura, non arriva al mento di Dix, che gli a fraternamente un braccio sulle spalle.

“Come va, veramente, intendo?” Tiene una mano in tasca e guarda in direzione del caseggiato popolare dall’altra parte della piazza. “C’è entusiasmo, quello non manca, e c’è ricambio, ogni giorno abbiamo nuovi adepti, studenti, ma non solo, impiegati, anche, tecnici, e operai, gente che lavora in produzione, che conosce la bestialità della linea. Siamo tanti, dappertutto, domani mattina, pensa, arriva un pullman da Palermo, sono in viaggio da questo pomeriggio, sono compagni di tutte le province siciliane, vengono a confrontarsi, ad apprendere. È una marea che monta, inarrestabile, quelli di sotto ci faranno la notte, ma domani mattina i volantini saranno distribuiti davanti ad ogni università, potete giurarci, c’è abnegazione, dedizione totale.” “E allora? Non sembri contento.” Ha preso Dix per l’avambraccio, ha una mano femminile, tenera, senza nerbo. “La felicità non è il nostro obbiettivo. Quando avremo vinto, in una rara ora, una sera, al termine di una cena, vino buono, qualcuno che suona la chitarra, ecco, solo allora potremo godere di un minuto di gioia, ma solo allora, Dix, non un attimo prima.” Ci ha chiesto scusa, è obbligato a rientrare, che ci fimo vivi, c’è bisogno di teste pensanti, gente capace di immaginazione, lungimiranti, in grado di suscitare ione, forza. Allontanandoci dalla scuola, con il vento gelido dentro la bocca, gli ho chiesto la ragione dell’imbarazzo di Lauro quando aveva fatto il nome di quell’Angelo. “Vivono insieme da anni. Sono una coppia.” “E allora?” “In questo ambiente i froci non hanno ancora fatto breccia, Lauro è un capo, non vuole in nessun modo che la sua immagine venga indebolita.” “E allora perché gli hai chiesto di Angelo? Potevi metterlo in difficoltà con i suoi compagni.” “Esattamente, per metterlo in difficoltà, hai azzeccato.”

* * *

Uscito dal consolato venezuelano sono andato a piedi sino allo studio De Filiberti, da quando sono tornato non sono ancora stato nella città vecchia, strade anguste, donne che spingono carrozzine, anziani che caracollano a fatica, qualche bancarella di frutta, le auto che premono per are ad ogni costo, non c’è spazio sufficiente, ma ano, e nessuno viene ucciso, sembra che uomini e macchine abbiano stretto un patto soprannaturale, è un miracolo che ogni giorno non vi sia una carneficina. Laura maritata con uno sconosciuto, Laura ha infranto il nostro patto, nessun altro e nessun’altra, o noi o nessuno, soli, piuttosto, ma mai alcun vincolo definitivo con nessun altro, si è sposata, con un Tassi qualsiasi, che l’ha portata via, prima che io tornassi. Laura, mio uccellino, io sono qui, e ti troverò. Piove, molto forte, sono senza ombrello e quando entro nella sala di attesa dello studio gocciolo acqua dai capelli e dalle maniche. Al banco una ragazza che non conosco, forse la nuova che ha sostituito Laura, quella che ha organizzato l’incontro domenicale con la Rossana, che è impegnata, in riunione. “Lei aveva un appuntamento?” mi ha domandato la ragazza. “No, ma devo vederla, è importante.” “L’avvocato ha l’agenda piena” ha detto consultando una carta aperta sul banco “E domani è fuori città, mercoledì in tribunale, potremo provare giovedì, sul tardi, alle 18!” È radiosa, questa nuova serva della Rossana, il viso tondo, le ciglia folte, una camicia blu e un maglioncino bianco sopra un bel petto carnoso. “No, troppo tardi. Le dica che c’è sco Aliberti, glielo dica, vedrà che la ringrazierà per averla avvertita.” È uscita dal banco, si è avvicinata, è carina, tenera, accogliente, una voce gradevole, confidenziale. “È sicuro di quello che dice?” “Vada, anche la Rossana ha bisogno di vedermi.”

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Dix non aveva voglia di tornare a casa e mi ha proposto di eggiare un po’. “Andiamo in centro a piedi, beviamo qualcosa e dopo andiamo a casa, Iris non c’è, dormi da me e domani mattina si va insieme da Marchetto.” Gli ho detto che avrei preferito tornare a casa, subito, senza eggiata in centro, la mattina, sul presto, avevo una questione da risolvere e avevo bisogno di dormire un po’. “Una questione di cuore?” mi ha chiesto guardando verso l’alto con le mani in tasca. “Ci andrai senza dormire, alle quattro abbiamo un appuntamento telefonico con Hassan, sono furiosi, vogliono che torni in America, la chiamata è imminente, e tu devi essere lì, con Sara.” “Non ci credo, in quattro anni hanno annullato la chiamata all’ultimo momento per sette volte, non c’è alcuna ragione che l’ottava sia quella buona.” “Hassan non si capacita della tua fuga, ti hanno coperto per quattro anni, eri diventato un elemento di riferimento dell’organizzazione estera.” “Non mi sono mai accorto di questa considerazione. Io abitavo in un appartamento, lavoravo, e ogni tanto, dopo una notte insonne, cambiavo città, casa e lavoro. Non mi era stato comunicato che fossi un elemento insostituibile. Di quale organizzazione poi? Io non ho mai saputo di appartenere a una organizzazione.” “Era Sara a tenere i collegamenti, a lei inviavano le istruzioni via telex e a lei telefonavano, quando le questioni erano urgenti.” “Io non sono mai stato posto al corrente di queste comunicazioni.” “Perché le gestiva Sara, e non ti coinvolgeva, per proteggerti.” “Proteggermi da cosa?”

Mi ha messo il braccio sulla spalla. “Vieni, andiamo, a restare fermi fa freddo.”

* * *

La Rossana è arrivata dopo pochi minuti, i piedoni nascosti in larghe scarpe rosso scure a tacchi alti, infilata dentro una veste nera lunga sino alle caviglie, i capelli biondi chiusi in una coda smisuratamente lunga. “Che le serve ancora?” grida. Non è capace a parlare, questa signora. “Per l’hotel di lusso a Caracas ha speso una fortuna, senza contare il viaggio, e tutto il resto. Perché?” “Qualcosa lo impediva, forse? Laura era disperata” È in piedi al centro della stanza di ingresso, con le mani piantate sui fianchi, l’impiegata si è eclissata, siamo soli, e può urlare a pieni polmoni. “Era mio obbligo sostenerla, aveva lavorato per me per dodici anni, le dovevo moltissimo.” “Troppi soldi, avvocato, troppi per aiutare una ragazza in difficoltà.” “Laura stava morendo, di malinconia, di abbandono, di miseria morale, i genitori morti, il fratello in galera, il fidanzato fuggito il giorno delle nozze.” “Non mi convince, avvocato, è tutto molto anomalo. Perché il Venezuela? Perché tutto quel denaro? Sono stato al consolato, sto aspettando delle risposte.” “Lei è stato al consolato con questa?” ha tuonato brandendo la cartolina. “Ed anche con le fotocopie che mi ha dato domenica.” “Sei un fetente.” “Io voglio trovare Laura.” È colma di ira, il corpo gonfio, pronto ad esplodere, i tacchi si spezzeranno, rovinerà sul pavimento. È sul punto di piangere, getta la cartolina in aria. “Laura sta bene, se dio vuole, perché è lontana da lei.”

“Allora lei sa dov’è.” È tornata l’impiegata, mormorando al suo principale che la stavano attendendo. “Si dimentichi di Laura. Lei non la vuole più, non la vorrà mai più.”

* * *

Nella notte ho seguito Dix per la città gelata, ci siamo fermati in un bar, ha salutato qualcuno, sbadiglia, siamo rimasti seduti una mezz’ora senza scambiare parola, casco dal sonno, e Dix appare stanchissimo. In un altro bar, alle due e mezza, una donna chiusa dentro un eskimo lurido si è seduta vicino a lui e ha iniziato a tempestarlo di questioni sulla validità storica dell’azione delle Brigate Rosse, cita i nichilisti russi, Gaetano Bresci, l’attentatore di Sarajevo dell’arciduca Ferdinando del quale, mannaggia, proprio non ricorda il nome, sotto l’eskimo aperto indossa un maglione rosso, stretto sopra un bel petto polposo che Dix non cessa di guardare con avidità, porta i capelli sciolti, disordinati, è documentata, conosce i dettagli, cita il terrorismo ebreo di Ben Gurion prima della fondazione dello stato di Israele, e ne confronta le metodologie con quello palestinese di questi anni, si è accorta che Dix la sta spogliando con gli occhi, chiude la cerniera dell’eskimo sino al mento, anche se nel locale la temperatura è soffocante. “E questi qui, i brigatisti, la Baader-Meinhof, le pantere nere americane, sanno dove vogliono arrivare, stanno verificando i progressi? Sembrano organizzati, ma l’organizzazione non basta, per vincere è necessario possedere un progetto.” Ha parlato per venti minuti, senza soste, senza informarsi a proposito delle nostre opinioni e ha concluso dichiarandosi dubbiosa, per esprimere un giudizio ha bisogno di altre prove, altri riscontri, altre verifiche, solo allora si sbilancerà. Si è alzata, non ci ha salutato ed è tornata al tavolo al quale era seduta prima che noi entrassimo. Siamo usciti dentro una nebbia fitta, rancida, invasiva, Dix, nella sua eterna giacchetta, ha freddo, trema, salendo alla Trota si è fermato un paio di volte a prendere fiato, appoggiato al muro, la bocca spalancata a cercare l’aria.

“Che hai? I polmoni?” “Troppo fumo, dovrei smettere.” “Sei stato da un medico?” “Sì, giù, in Libano, ma lì, sai, basta che respiri e sei giudicato sano.” “Dovresti farti vedere.” Riprende a camminare, mi ha chiesto l’ora, alle quattro c’è la telefonata con Hassan. “Dai, sbrighiamoci, forse riusciamo a dormire un ora.”

* * *

Ho lasciato lo studio De Filiberti a mezzogiorno e, a piedi, mi sono diretto alla biblioteca, ho necessità di documentarmi, forse, nella cronaca dei quotidiani locali, riuscirò a individuare la traccia che sto cercando. Laura era molto bella, il giorno prima del matrimonio, l’ho vista l’ultima volta il pomeriggio del 14 gennaio del ‘74, più di quattro anni fa, da poco aveva cambiato acconciatura, quel caschetto di capelli neri corvini che le piacevano tanto, nell’imminenza del matrimonio aveva ripreso colore ed era anche ingrassata di qualche chilo, l’avevo incontrata vicino agli uffici della Render, mi aveva salutato da lontano, con l’inseparabile gonna color malva, correva, mille questioni da risolvere, dalla parte opposta della strada mi ha gridato di non dimenticarmi di ritirare l’abito in lavanderia, era l’unica incombenza che mi spettava, poi un bacio, un bacio, non poteva non baciarmi, il giorno meno uno. Ho iniziato con l’anno ‘74, un’occhiata alla prima pagina e un esame accurato della cronaca cittadina, alla ricerca di informazioni, di notizie, per disegnare un quadro, rendermi conto, attento a registrare i nomi chiave, Laura Betti, suo marito Luca Tassi, Tarcisio Betti, il fratello di Laura rapinatore, Rossana De Filiberti, i suoi fratelli e Tiziana De Filiberti, la sorella magistrato, il commendatore De Filiberti, padre di Rossana, Efisio, vero nome di Dix, Giordano, Marco Marchi, alias Marchetto, Giulio Marchi, suo figlio. Non conosco quasi più nessuno in questa città.

Il 16 gennaio il quotidiano riporta la notizia curiosa di un matrimonio al quale lo sposo non si è presentato, i centocinquanta invitati hanno atteso impazienti per due ore, durante le quali la polizia è intervenuta per sedare una rissa scoppiata tra gli esponenti di due famiglie, verso le tredici, il padre della sposa ha dichiarato che il pranzo era già pagato, e che dunque si andava comunque a consumarlo. Dopo un’ora di attesa in piedi, il bouquet in mano, la sposa è svenuta e, precauzionalmente, è stata trasportata in ospedale per accertamenti. Sino al giugno non ho registrato avvenimenti degni di nota, ad aprile a Genova era stato rapito il magistrato Mario Sossi, successivamente rilasciato dopo poco più di un mese, un’azione che era stata considerata un salto di qualità nella strategia brigatista, in città nulla, i De Filiberti sono citati quasi ogni giorno, per un intervento all’assemblea della Confindustria locale, per un atto benefico, per la concessione di una onorificenza a qualcuno dei molti fratelli della Rossana. Rientrando a casa sono ato dalla lavanderia. Il mio abito di nozze è ancora lì, il proprietario, un vecchio che parla dialetto, mi ha spiegato che non erano riusciti a venderlo, sul risvolto della giacca c’è appuntato un foglietto ingiallito con il mio cognome scritto a pennarello, è la calligrafia di Laura, l’ho riconosciuta subito.

* * *

Alle tre e cinquantacinque Dix mi ha sfiorato la spalla con un pugno, Iris, inaspettata, era tornata e così ci siamo seduti in cucina, addormentandoci appoggiati sul tavolo. “È l’ora, vieni.” Dormivo profondamente, dimentico di dove fossi e per quali motivi. “Dove andiamo?” “La telefonata, Hassan, ci sei?” “Dix, io non ci torno, in America, questo non è in discussione.”

“Ora chiamano, sono puntualissimi, stiamo ad ascoltare.” “Perché a quest’ora? In piena notte? In Medio Oriente sono le cinque, Hassan, se non ricordo male, si vantava di non scendere dal letto prima delle nove.” “È molto strano, è vero, non è mai accaduto.” Siamo rimasti in silenzio per qualche minuto, Dix mi ha offerto una sigaretta, che ho rifiutato, ho la bocca impastata e ho sonno, tra qualche ora devo tornare al consolato, mi hanno telefonato questa sera, poco prima che Dix mi convocasse per la riunione. Quando il telefono ha iniziato a squillare, rompendo fragorosamente il silenzio della notte, ci siamo guardati per un attimo perplessi, come dubitassimo che a suonare fosse davvero il telefono di casa, poi Dix ha risposto. L’ho sentito parlare in inglese, un saluto, ridacchia, chiede informazioni sul tempo e sulla sua salute, poi allunga la cornetta verso di me. “È per te.” Ho bofonchiato in inglese un saluto, l’ho chiamato monsieur, ricevendo in risposta una risata cristallina, sonora, femminile, Sara. “Mio caro, perdona l’ora, ma qui sono le sette di sera, puoi immaginare dove mi trovi, come stai, mio principe fuggiasco?” ho lanciato a Dix un’occhiata carica di disprezzo, avrei voluto buttare giù il telefono, andarmene, quella non è più la mia vita. Sara ha intuito. “Non riattaccare, Chicco, non chiudere la comunicazione, ho bisogno di sentire la tua voce, sono tanti i giorni che dormo da sola, mi ero abituata, sai, e non è facile fare a meno di te.” Le ho chiesto come stava, e che incarico aveva sul lavoro. “Sono capo area vendite, gestisco un gruppo di dieci venditori, ho fatto carriera, sembra.” Ride, come sa fare lei, allegra, disinvolta, la immagino, in tuta, i piedi scalzi intrecciati, la mano libera a giocherellare con le punte dei capelli. “Ho bisogno di te, Chicco, io ho bisogno di te, servi qui, siamo vicinissimi a quel giorno, non puoi mancare, anche perché da sola non posso far nulla.” Non ci credo, le ho spiegato con forza, per sette volte siamo stati allertati invano, non esiste alcuna ragione per la quale questa ottava volta sia quella valida. Dix mi ha messo sotto gli occhi un foglio dove c’è scritto di stare attento a ciò che dico, ho capito e ho annuito. “sco, tu devi tornare, hai preso un impegno.” Deve capirlo, non è difficile, non posso tornare perché le cose sono cambiate. Mi ha risposto tagliente “Non ti sbagliare, le cose

sono sempre quelle di prima, sei tu che sei cambiato.” Sono rimasto in silenzio, ha ragione, e non ho argomenti da opporre. “E in questo lavoro non è consentito, quando hai scelto resti impegnato per sempre, non è come cambiare l’abitazione, il lavoro o la fidanzata. È la differenza tra la vita quotidiana e la storia, noi siamo nella storia, e dalla storia non si esce.” Le ho detto che avevo preso già la decisione di non tornare e non sarei tornato indietro. “Ho avuto notizia del tuo viaggio intorno al lago Michigan, che scemenza, Chicco, che azzardo, potevi morirne, e della tua partenza da Montreal, è stato ricostruito tutto. Ho una domanda, per te.” Mi sono seduto, sbadiglio in continuazione, Dix ha fatto il caffè e me ne ha appena versato una tazza piena. “Se non avessimo dovuto traslocare, se io fossi rimasta nell’abitazione di Rosemont, e se tu, dopo il ricovero in ospedale a St. Ignace, anche molti giorni dopo la tua partenza, tu avessi saputo che io ero lì, ad attenderti, tu, tu, saresti tornato, saresti ritornato a casa. Da me?” L’ho salutata, le ho detto che la comunicazione era disturbata, che non capivo bene le sue parole, che ci saremmo risentiti presto. “E io, e io, sco, io non conto? Mi hai abbandonato, sono tua moglie, e non hai mai avuto motivo di lamentarti di me.” Ho abbassato la cornetta, non riesco a smettere di sbadigliare, voglio tornare a casa mia, dormire un po’ nel mio letto, qualche ora, almeno.

* * *

In serata, prima di tornare a casa, avevo combinato un appuntamento con Clelia, l’amica di Laura, quella che voleva diventare lesbica e che aveva avuto una relazione con Dix. Per rintracciarla qualche giorno fa sono andato a trovarla sul lavoro, alla Standa, dove è, come un tempo, commessa al reparto abbigliamento. Non è più grassa, porta i capelli lisci, sottili, di un castano chiaro sbiadito, sciolti sulle spalle e sulla schiena, ha le unghie lunghe, quel giorno colorate d’avorio chiaro, mi ha parlato sottovoce, ringraziandomi di esserla andata a trovare, era felice di vedermi vivo e sano, e mi ha pregato di venire lunedì alle diciannove e trenta, lì, al grande magazzino, al termine del suo turno di lavoro. Con i tacchi alti, il cappotto color cammello sino alle caviglie e un cappello rosso, floscio, calato sulla fronte, non sarei stato in grado di riconoscerla se non fosse stata lei, altissima, ad avvicinarsi a me e a porgermi il braccio mormorando

che mi trovava in forma, bello, e maschio. “Mezz’ora, mio caro…” mi ha detto sottovoce “Ho poco tempo, devo incontrare una persona, ma basterà.” Le ho chiesto subito di Laura. Clelia è molto truccata, rossetto viola, ciglia finte basculanti e fondo tinta carnoso, una seconda pelle morbida e compatta. Procede con una lentezza eccessiva, a piccoli ettini, strisciando sulla pavimentazione le suole delle scarpine bianche. “Sì, Laura è fuggita, questo è il verbo giusto da applicare alla situazione, con un uomo, ma lui è stato uno strumento, è lei che desiderava andarsene. Sai, sco, ci siamo viste spesso, dopo il mancato matrimonio…” Si è fermata, osserva con cura un abito da uomo in una vetrina, guarda i prezzi, ritorna a scrutare con attenzione l’abito, riprende a camminare, pianissimo. Parla a volume ridotto, fatico a distinguere le parole. “Non si dava pace, no, non ti credere, non a causa della tua fuga, piuttosto per non aver saputo cogliere i segnali del tuo distacco. Si era convinta che tu avessi iniziato ad andartene quando sei stato assunto in quell’azienda di import-export, e non si capacitava, nell’entusiasmo della preparazione delle nozze, di non aver registrato il tuo progressivo allontanamento. Ci siamo frequentate sino a quando ha conosciuto quel Luca, sì il Tassi, da allora qualche telefonata, gli auguri di Natale e di compleanno, nient’altro.” Senza interpellarmi è entrata in un bar molto elegante, si è avvicinata alla cassa, ha ordinato due aperitivi e si è diretta verso un tavolo sul fondo del locale. “Non ti preoccupare, arriverò in ritardo, per la qualità della relazione è un vero beneficio, si conosce la rabbia e, poi, dopo, la dissimulazione della rabbia, è un bel gioco, quando lo guidi tu, naturalmente. Ti dicevo di Laura, ci vedevamo qualche volta, se capitava con i fidanzati del momento.” Provandomi a scherzare le ho detto che sapevo che Laura dopo di me aveva avuto altre relazioni sentimentali. “Sì, molte, direi, e non tutte sentimentali, alcune non lo erano, capisci, far comprendere a un uomo che ti piace, riconoscere il suo interesse, accettare il suo corteggiamento. Un paio l’avrebbero sposata, se lei avesse acconsentito, uno lo conosci, Alfio, te lo ricordi Alfio?” Ricordavo molto bene Alfio, con Laura, che schifo, Alfio è un uomo goffo, ed è anche un ignorante, un parassita, uno inutile, con Laura, che insulto. Le ho detto che avevo bisogno di andarmene, immediatamente, lasciare una donna sola a un tavolo era sconveniente, ma basta, non potevo restare, sono uscito quasi correndo, senza pagare il conto, Laura, piccola, dove sei, ora?

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Dieci giorni dopo, il 16 marzo del ‘78, potevo sostenere che i miei progetti erano tutti in fase di avanzamento. Al consolato venezuelano, dove mi aveva convocato un funzionario che non conoscevo, la ricerca di Laura appare avviata. Ha voluto sapere dove lavorava Laura, di quanto denaro poteva disporre, e se aveva qualche familiare diretto, e io chi ero per lei, e per quale motivo mi interessavo alla sua sorte. Ho risposto a tono, con sincerità, senza nascondere nulla, neppure l’evento del mancato matrimonio, mi hanno assicurato che avrebbero fatto del loro meglio, una coppia di occidentali si nota, hanno cercato di spiegarmi, e se è composta da giovani ancora di più, a meno che non si fossero infilati nella giungla, probabilità che giudicavano remota. Hanno inviato la cartolina che Laura aveva spedito al bar di Elmo alle poste centrali venezuelane, il funzionario ha gli occhi velati di sonno, quando mi spiega che la questione avrà i suoi tempi, molto lunghi, lui presume. Ho assecondato Dix nei traffici con Marchetto, dove adesso, oltre alla solita roba arriva anche cocaina. Ho chiesto informazioni, mi sono spaventato, Dix mi ha detto di non fare lo scemo, la roba è roba, e i guadagni sono altissimi, è vero nelle ultime due settimane Dix mi ha consegnato un milione e trecentomila lire, tengo i denari dentro una vecchia scatola di biscotti in un cassetto della scrivania, ho perso il conto, credo di avervi più di quattro milioni, che prima o poi dovrò versare in banca. Di Sara non si è più parlato, Dix mi ha informato di aver trasmesso ad Hassan il mio rifiuto di tornare in America ma non mi ha comunicato nulla a proposito della sua reazione. Ho compilato il mio curriculum personale, per i quattro anni americani ho citato il vero nome dell’azienda per la quale ho lavorato, alterando solo il ruolo, da elettricista ad addetto marketing e vendite. L’ho inviato a molte imprese industriali e a società di selezione del personale, sono stato convocato da due aziende, entrambi per ruoli connessi con le loro attività di esportazione, la conoscenza perfetta dell’inglese e quella buona del se mi sta agevolando, il primo appuntamento è per domani, il 17, e il secondo per lunedì 20. La maggior parte del tempo l’ho speso per Laura, mettendo in cantiere alcune

azioni che ritengo decisive, ho chiesto un colloquio in carcere con suo fratello, da lui desidero la firma sulle richieste, che ho già preparato, alle linee aeree internazionali per sapere se Laura ha volato da Caracas verso qualche altra destinazione e al ministero degli esteri e all’Interpol per attivare la sua ricerca, ho bisogno della sua firma, lui è il suo solo familiare rimasto ed è l’unico che ha il diritto di firmare una richiesta di ricerca. Per preparare il terreno gli ho già scritto due lettere, non ho avuto risposta ma al carcere mi hanno garantito che le missive sono arrivate e che sono state consegnate al detenuto. Ho terminato la lettura dei quotidiani dal 1974, dalla quale non ho tratto notizie decisive, ho appreso come il fratello di Laura fosse stato arrestato nel novembre del ‘75, della morte dei genitori l’anno successivo, della nomina a capo dell’ordine degli avvocati cittadino di un fratello della Rossana De Filiberti e dell’incarico come pubblico ministero alla sorella Tiziana in un processo a un brigatista protagonista di un’azione individuale.

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Domenica scorsa, il 12, nel pomeriggio, ero a letto, stavo leggendo, quando ha suonato la vicina che abita due piani più sotto, quella signora Grazia il cui appartamento era stato allagato dalla rottura dei tubi del mio bagno. Mi ha chiesto se potevo aiutarla a trapanare il muro per sostenere un quadro antico, pesante e di valore. La signora ha certamente più di cinquant’anni anni, i capelli brizzolati e due grandi occhi verdi, è stata un impresario teatrale, e ha avuto anche la gestione di due cinema, a Milano, tra il ‘52 e l’anno scorso, è colta, conosce i dettagli della vita di attori e registi, ha due figli grandi della mia età che vivono in Francia, la sua casa è piena di piante, di quadri, di fotografie e di libri. Non ho mai immaginato che mi sarebbe accaduto di fare l’amore con una donna tanto più anziana di me. Ho dormito da lei le ultime tre notti, è una cuoca esperta, ama cucinare stranezze, come i gamberi in salsa all’aglio o il rognone trifolato, a qualunque ora, odori forti per la casa, apparecchiare sul tavolino della camera, aprire vino se, anche in piena notte.

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Mercoledì notte ho dormito con Grazia, e verso le undici del mattino dopo sono salito in casa a cambiarmi d’abito, Grazia mi aveva pregato di fermarmi a pranzo, avrebbe preparato una paella alla valenciana, di carne e di pesce, aveva già acquistato gli ingredienti al mattino presto, alle tredici sarebbe stato pronto. Salendo le scale ho sentito squillare il telefono, che ha cessato prima che potessi aprire la porta, e che ha ripreso appena in casa. “Hai sentito la radio?” È Dix, agitatissimo. “No, non so niente, che è successo?” “Hanno rapito Aldo Moro, due ore fa, a Roma. Corri qui subito, questo cambia tutto.” “Vengo dopopranzo, ho un impegno.” “Nessun impegno Franci, disdici, precipitati qui, per le due è convocata una assemblea a Lettere, e noi due dobbiamo parlare prima.”

“Vengo all’assemblea a Lettere, verso le tre.” È irato, urla. “Qui, sco, devi venire qui, subito, è un ordine.” “Non posso.” “Tu devi, non hai scelta.” “Non puoi darmi ordini, e io non sono obbligato ad obbedire.” Ho chiuso la comunicazione, posando la cornetta sul ripiano della libreria. Mi sono cambiato e ho preso qualche abito, della biancheria e ciò che mi sarebbe potuto servire per qualche giorno, mi rifugiavo da Grazia. Non è trascorsa che mezz’ora, indossando un grembiule rosa stavo aiutando Grazia nella preparazione della paella, lei è abilissima, con un coltello enorme affetta la cipolla in pochi secondi, a mani nude pulisce i gamberi a raffica e con un aggeggio microscopico, che impugna con una mano sola, trita finissimo il prezzemolo. Quando è iniziato ho pensato a un temporale, ma è stato solo per un attimo, ho compreso subito cosa stava accadendo, è Dix che batte con entrambe la mani sulla mia porta, un rimbombo violento che rimbalza per tutta la tromba delle scale, poi i calci, con violenza, rumore di legno fragile che si rompe e, infine, urla, senza ritegno, senza vergogna, senza paura. “Vigliacco, vigliacco, e ingrato. Signori condomini, sono qui per raccontarvi la vera storia di sco Aliberti.” Ascolto, con Grazia accanto, con l’orecchio incollato alla porta, grida così forte che sembra di averlo davanti. “Sì, signore e signori di via Dibini 4, esattamente, il dottor Aliberti, vostro coinquilino, è una spia, un faccendiere internazionale e un trafficante di droga. Ho con me le prove, documenti, firme, assegni, tutto fotocopiato, per voi e per i giornali.” “Dice la verità?” mi ha chiesto Grazia staccando l’orecchio dalla porta. “Certo che no.” “Ma chi è? E perché ti conosce? Perché ti cerca?”

“È un amico, cioè era un amico, anni fa.” Grazia mi ha preso la mano con delicatezza. “Guardami, sco, guardami bene, in casa mia io non voglio persone che conoscono personaggi come questo che grida.” Ha la voce ferma, abituata al comando. “Ora vai su, gli parli, ti chiarisci e dopo torni. Mangeremo insieme la paella valenciana e mi racconterai la verità.” “Forse sarebbe meglio chiamare i carabinieri.” “Non essere vigliacco” ha spalancato la porta “Vai, non voglio conigli in casa mia.” Mi ha chiuso la porta alle spalle, serrandola con quattro mandate, una alla volta, lentamente. Al piano di sopra i vicini sono sul pianerottolo, immobili, a naso all’insù, più spaventati che stupiti. “Ma chi è?” Mi ha chiesto il vecchio Baratti. “Lo conosce, Aliberti?” Dall’alto, appoggiati alla ringhiera tutti gli altri inquilini, increduli. Dix è pazzo, sono dietro di lui, la schiena possente, le braccia meccaniche, le mani a zappa e gli scarponi pesanti scagliati contro la porta di casa mia, in basso e sui lati ci sono già delle fratture nel legno, la sfonderà. Gli ho toccato la spalla, si è voltato, una molla carica, ha gli occhi rossi, enormi, in una frazione di secondo, mi è addosso, mi afferra per la camicia, mi schiaccia contro la parete, un selvaggio, mi farà male. “Oggi, cretino, oggi, ma tu hai idea di cosa sia oggi?” Mi ha mollato all’improvviso, facendomi rotolare sul pavimento del pianerottolo. “Con il grembiule rosa, il mio laureato, oggi, ma hai un’idea di cosa sta succedendo là fuori?” Mi ha preso per un braccio e si è gettato a capofitto per le scale. “Vieni, uomo da due soldi, muoviti, e non un fiato, se ti sento solo parlare ti stacco una mano a morsi.” Siamo usciti per strada, due ossessi, l’intero vicinato alla finestra, c’è un auto, davanti al portone, aperta la portiera, buttato dentro. “L’ho preso, lo scemo, se non fosse che ci serve come il pane…” si rivolge al guidatore, cappello pesante, guanti e sciarpa di lana. “Vai, adesso, via di qua, via, via.” Al volante c’è Lauro, l’ho riconosciuto dalla voce. “Vi lascio qui in via Calabria, andare più avanti può essere pericoloso, in una giornata come questa ci fermano

di sicuro, siamo puliti, ma non si sa mai.” Si è leggermente voltato all’indietro abbassando un poco la sciarpa. “sco, abbiamo bisogno di persone come te, immacolate, intendo. Dix ti spiegherà ogni dettaglio, io, per intanto, a nome di tutti, ti ringrazio.” Ha fermato l’auto. “Presto, scendete, c’è polizia da tutte le parti, oggi.” Dix mi ha spinto fuori, con un movimento agile è sceso dalla mia parte ed è balzato sul marciapiede. “Avanti, adesso, camminiamo, come due studenti che stanno andando all’università.” Ho ancora indosso il grembiule rosa di Grazia, non riesco a sciogliere il nodo della cordina che lo tiene legato in vita, Dix è spettinato, una maglietta estiva sotto la giacchetta, gli occhi spiritati, nessuno ci scambierà mai per due universitari. “Dix, il grembiule, accidenti.” Si è voltato a guardarmi, come se mi avesse visto lì, sul marciapiede, per caso, e ha riso, la sua risata sgangherata, gustosa, e contagiosa. “Sei uno scemo, Franci, non mi capacito, ma ti vedi? Qui ci prendono per gente del circo, altro che studenti.” È entrato in un bar e ne è uscito subito dopo con un paio di forbici, con le quali ha tagliato il legaccio del grembiule, che ha appallottolato e gettato in un bidone portarifiuti. “Vieni, ti offro un caffè.” È tornato tranquillo, ha perso ogni aggressività, mi fa accomodare mentre si fa preparare al banco due cappuccini che, uno alla volta, tremolando, porta al tavolo. Si è come scaricato, mi osserva mentre avvicino le labbra alla tazza, è ipotonico, sbadiglia, allunga le gambe, si stira. “Ma ti rendi conto? Aldo Moro, il presidente della DC, stava andando in Parlamento, che roba, da non crederci.” “Forse è meglio non alzare troppo la voce” gli ho detto piano. “Bravo, hai ragione, ottimo, vedo che entri nella parte. Finisci, io pago, dobbiamo andare via subito.” Per strada mi ha comunicato che all’assemblea di Lettere il nostro compito era di sondare gli umori della base, capire, misurare quanto quel gesto avesse colpito l’immaginazione dei militanti, dei simpatizzanti e degli studenti. “Non ho ancora capito il motivo del tuo interesse per queste vicende…” gli ho

detto con pacatezza “Che te ne viene? Non mi potrai dare ad intendere che sei d’accordo con i progetti di questi squilibrati.” “Squilibrio, questa è la parola giusta, bravo!” Ha allungato il o, mi risponde senza voltarsi “Questa situazione crea confusione, polizia e carabinieri impegnati solo a cacciare questa gente, i tribunali intasati, i giornali che parlano solo di lotta armata, il governo, le leggi speciali, i cittadini disorientati, per noi è manna, oro che cola.” “Per noi chi? Chi siamo noi?” “Io, te, Iris, Marchetto, e poi Hassan, l’OLP, Sara, ci sono anche loro, sempre.” “E che ci guadagnano, questi?” “Se l’occidente si indebolisce anche Israele diventa più vulnerabile, la concatenazione mi sembra valida, non credi?” “E noi?” “Noi smerciamo, come al solito, senza pericoli. Dobbiamo accumulare milioni, questa situazione non durerà in eterno.” “E Lauro?” “Un amico, è bene che lui creda che noi stiamo dalla sua parte.” “Che devo fare io, immacolato, come ha detto Lauro. Siamo a metà marzo, il mio obbligo termina a giugno. Sto cercandomi un lavoro, ho dei colloqui da sostenere, uno domani, potrebbe accadere che mi assumano.” “Meglio ancora, copertura perfetta.” “Io termino a fine giugno, siamo d’accordo così, non dimenticarlo.” Si è fermato all’incrocio con il vialone della città universitaria. “Ad agosto, non prima. Vieni, siamo arrivati.”

* * *

L’indomani sono tornato al consolato venezuelano, mi avevano inviato un telegramma ieri mattina, una convocazione in piena regola. Il funzionario mi ha ricevuto in piedi nella sala delle conferenze, siamo soli, il solito impiegato che è sempre stato presente ai nostri colloqui oggi non è stato coinvolto. “Dottor Aliberti, devo comunicarle che abbiamo delle notizie.” Ha osservato una pausa, un silenzio pesante, dentro la sala zeppa di sedie di plastica, uno schermo sul fondo, dietro il banco ed il pulpito degli oratori. “Noi riteniamo che la Betti e il Tassi non siano più nel nostro paese. Anzi…” Si è spostato, scostando rumorosamente una delle seggiole. “Noi ragionevolmente crediamo che non siano mai entrati in Venezuela.” “Ragionevolmente, che significa?” “Che non abbiamo riscontri. All’albergo del quale lei ha la prenotazione non risultano arrivi di coppie di italiani da almeno un anno. In aeroporto, ai controlli aporti, i nomi di Betti e di Tassi non compaiono nei registri.” “Potrebbero aver avuto dei aporti falsi, e in albergo essersi registrati come appartenenti ad un’altra nazionalità, americani, per esempio, ci sono moltissimi cittadini statunitensi con il cognome italiano.” Mi ha sogguardato con sospetto. “aporti falsi per quale motivo? Che avevano da nascondere quei due? Ma lei si rende conto? Ha sentito cosa è accaduto stamani a Roma? In questi tempi ogni illazione è un sospetto.” Sono rimasto in silenzio, per quale motivo Laura avrebbe finto di andare all’estero, in un paese così lontano? “Sa, è meglio così, per tutti, è una complicazione in meno…” Sembra sollevato, il funzionario, di aver accertato che quegli italiani non siano mai stati nel suo paese. “E quelle carte che mi ha mostrato forse sono fasulle, un collage, non so che pensare, forse hanno voluto farle uno scherzo.”

* * *

La sera del 16 marzo non sono tornato a casa, ho chiesto a Dix se potevo

dormire da lui. C’era Iris, e io potevo dormire nella stanza che era stata dei suoi genitori, avrei trovato, parole sue, una confusione solenne, ma ero il benvenuto. Il mattino successivo saremmo andati insieme in panetteria, c’era una consegna da ritirare e lui voleva scambiare due parole con Marchetto. Alle sei del mattino, mentre mi preparavo il caffè Iris è venuta a dirmi che non riusciva a svegliare Dix. Questa ragazza è simpatica, bassotta, i capelli disordinati e le braccia e le gambe tonde di ciccia chiara fuori dalla veste da letto troppo corta. Mi ha fatto cenno di seguirla in camera dove Dix, tra le coperte e le lenzuola divelte, giace supino, completamente nudo, la testa rovesciata all’indietro e la bocca spalancata a respirare affannosamente. “Gli capita spesso?” “Da un po’. Credo che sia la cocaina, prima che iniziasse a prenderla non accadeva!” Non appare preoccupata, si è sistemata nel grande letto, acchiappando alla meglio un po’ di lenzuola e di coperta e distendendosi a fianco di Dix. “Poi gli a, un’ora, due, e si riprende.” “Forse potremmo chiamare un medico” ho provato a dirle. “Guai, sco, non ce lo perdonerebbe mai. Solo se fosse in fin di vita, potremmo chiamarlo.” “E se lo fosse?” “No, no, garantisco io. Vai, Marchetto ha chiesto di non andare mai più tardi delle sette, qui vigilo io.” “Se mi aiuti lo copriamo” le ho detto chinandomi verso il letto. “Lascialo così, non vedi, suda, io me ne accorgo da questo, inizia a lamentarsi e a divincolarsi, si spoglia, esce fuori dalle coperte, salta sul letto e poi si irrigidisce così!” Con il dito ha indicato un mazzo di chiavi sul tavolo, che le prendessi per tornare a casa, e che, uscendo, spegnessi la luce e chiudessi bene la porta. Sono arrivato da Marchetto in leggero ritardo, la cassiera mi ha riconosciuto, e prima ancora che potessi annunciarmi aveva fatto cenno a uno dei garzoni di chiamare il titolare. Non è la stessa donna di quattro anni orsono, è più giovane,

ma sembra che abbia pedissequamente mutuato abbigliamento e comportamento dalla cassiera di prima, unghie lunghe da maliarda, acconciatura vaporosa, gambe magre accavallate sotto la vestina da lavoro corta. Mi guarda, mentre attendo in piedi al centro del negozio in quel momento vuoto di clienti. “Lei è il dottore, è vero?” Ho annuito. “E si chiama?” “sco Aliberti.” “sco. Che bel nome!” È arrivato Marchetto, lurido di farina, appare inquieto, lancia una occhiataccia alla cassiera e mi fa cenno di seguirlo in magazzino. “Troppo, avete esagerato, che non si ripeta più!” Ha spostato dei sacchi vuoti e ne ha estratto due valige di pelle chiara di grandi dimensioni. “Capisce anche lei, dottore, che se qualcuno, anche un dipendente, viene qui e trova queste due valige non può non porsi delle domande e poi, guardi…” Ha preso una delle valige, l’ha posata a terra e ha fatto scorrere la grossa cerniera. “Vede, si apre, non c’è neppure un lucchetto. Troppo pericoloso e troppa quantità, glielo dica a Dix, che ci vuole più attenzione, accidenti a lui!” Ha richiuso la valigia e l’ha allineata accanto all’altra. “Mi scusi sa, per lo sfogo, ma non ce la faccio più!” Ha aperto un piccolo frigo nascosto sotto un tavolo e ne ha estratto una bottiglia d’acqua. “Ne vuole?” mi ha chiesto mentre porta alla bocca la bottiglia e ne inghiotte quasi metà del contenuto. “Lei lo sa che faccio tutto questo solo per Giulio, mio figlio, se lo ricorda, vero?” Ha riposto la bottiglia nel frigo, si accende una sigaretta. “Ero contento, sa, quando Dix lo ha portato giù in Libano, pensi che mia moglie voleva denunciarlo. Tornerà uomo, mi sono detto, questa è l’occasione giusta, ed è per questo che non ho fatto nulla per cercarlo e per farlo tornare. Ma adesso non so più che dire, Dix mi assicura che è vivo e che sta bene, e che appena possibile tornerà. Ma io mi dico, una lettera, almeno, una fotografia, un segno. Non è d’accordo anche lei?” Rimette a posto i sacchi vuoti sotto i quali teneva nascoste le valige, è vecchio, e questo lavoro lo fa sembrare ancora più anziano. Mi ha fissato con gli occhi pieni di fatica, le ciglia sporche di farina. “Non so che ne pensa lei, ma a me qualche volta mi sembra di essere sotto ricatto.”

Ho trascinato le due valige sino al parcheggio dei taxi, pesano, ho calcolato che insieme devono contenere più di quaranta chili di prodotto, è una enormità, ed è un pericolo gigantesco. Devo affrettarmi, alle undici ho il primo colloquio di lavoro, devo precipitarmi a casa, lavarmi, cambiarmi d’abito, non ho molto tempo.

* * *

Mi hanno assunto, inizio lunedì 20, alle otto e trenta, nell’ufficio commerciale estero di una azienda di produzione di componentistica elettrica, il mio compito sarà quello di coadiuvare il direttore commerciale nella realizzazione dei progetti societari di espansione in Europa e in Asia. Laura ne sarà felice, un impiego normale, come aveva sempre desiderato, uno stipendio equilibrato, meno della metà di quello che prendevo con la Render quattro anni fa, Laura approverà senz’altro. Sono arrivato all’appuntamento all’ultimo momento, trafelato, non ero riuscito a trovare una camicia stirata e, per nasconderla, vi ho indossato sopra un maglione accollato. Dopo Marchetto ho trasportato le valige sino a casa di Dix, Iris, in camicia da notte, era in cucina, mi ha comunicato che Dix respirava regolarmente, non sudava più e l’aveva coperto, ora dormiva. Per entrare in casa mia ho dovuto forzare la porta, i colpi di Dix hanno piegato la serratura, sono riuscito ad aprire ma non a richiudere, l’acqua della doccia era fredda, la caldaia deve essersi nuovamente guastata e mi sono rasato con un rasoio che avevo già buttato via e che ho recuperato nella spazzatura. Scendendo le scale mi sono fermato davanti alla porta di Grazia, ho suonato, due volte, ma non c’era o non mi ha voluto aprire, al primo piano ho incontrato il vecchio Metroli, che mi ha fissato con circospezione, e che comunque non ha mancato di salutarmi cerimoniosamente.

* * *

Pioviggina, mentre rientro da Dix e procedo verso casa, il marciapiede zeppo di buche, ho tempo sufficiente, posso prendere l’autobus, ho girato l’angolo con via Rosselli, ho sentito gridare, molto vicino a me, ho impiegato qualche secondo per comprendere che gridavano a me, durante i quali non ho smesso di camminare, veloce, anche se avevo tempo, sino a quando ho dovuto fermarmi, contro due canne di mitra puntate al petto. “Mani in alto, mani in alto, subito” ha ordinato, senza urlare, una voce alle mie spalle. “Subito, le mani in alto” Mi ha incalzato amichevolmente la voce. “Immediatamente, giovanotto.” Mi sono immobilizzato, le mani in alto, in mezzo alla strada, a cinquanta metri da casa mia, la borsa caduta a terra, tengo gli occhi chiusi, ho fatto il militare, conosco bene il Mab, il mitra che ho ancora puntato addosso, ora mi chiedono i documenti, mi concedono di abbassare le mani, posso riaprire gli occhi, i anti non si fermano a curiosare, non ci sono anti, c’è paura, solo ieri hanno rapito il presidente della Democrazia Cristiana, mi domandano dove sto andando, perché, quando ho l’appuntamento, come ci vado, hanno visto che abito vicino, vogliono sapere con chi vivo, come mi mantengo, dove ero ieri, alle nove del mattino, l’ora dell’attacco di via Fani, la buttano lì, non mi ricordo dove ero ieri alle nove, sì, ora lo so, con la Grazia, a casa sua, ho risposto che ero a casa, prendono tempo, stanno aspettando il responso del controllo dei miei dati, ho quattro anni di buco, ma che possono saperne loro, non ci sono tracce, né multe, né sanzioni, né tasse non pagate, aspetto, aspettano anche i carabinieri, sono sei, due con i Mab contro di me, uno in auto alla radio, due di guardia fuori dal perimetro, il capo alle mie spalle, hanno abbassato i mitra, mi restituiscono la carta d’identità, tengono gli sguardi bassi, uno dei due del Mab si china, raccoglie la borsa e me la porge, posso andare, per arrivare puntuale all’appuntamento dovrò prendere un taxi. Dix nel pomeriggio si è ripreso, ho atteso che si svegliasse insieme ad Iris, la ragazza parla pochissimo, in camicia da notte, le gambe nude bianchissime, legge giornaletti, fuma sigarette senza filtro, mangiucchia, fa anche l’uncinetto. “Ho preso proprio una bella botta, questa volta” ci ha detto Dix nella stanza semibuia “Ma era roba buona buona…” ha soggiunto ridendo “Proprio buona buona.” “Te ne ho portate due valige piene. Puoi toglierti tutte le voglie che vorrai.”

“Bravo, Franci, era una consegna grossa, la più grossa, ora se ne occupa Iris, fa i pacchetti, e poi, questa sera, faccio il giro delle consegne, magari solo i più grossi.” “Dix, oggi mi hanno assunto.” “Bravo dottore, ottima copertura.” “Non è una copertura, Dix, è un lavoro, inizio lunedì prossimo.” “Lauro sarà entusiasta.” “Sotto casa, oggi pomeriggio, mi hanno fermato i carabinieri.” “Ormai ti fermano tutti i giorni, anche due volte al giorno, basta avere meno di trentacinque anni e sei certo di essere fermato.” “Ora vado. Tu vai a farti vedere da un medico.” “Non andare, sco, devo parlarti, mi rimetto in ordine, aspettami in cucina.” “Io devo andare, Dix. Ho mille cose da fare.” Si è messo seduto, è terrificante, i capelli verticali, la barba lunga, gli occhi rossi, il petto nudo coperto di pelame nero. “Tu non puoi andare. Mi ha chiamato Hassan, sarà in città domani. E questa sera viene qui Lauro. Tu hai da fare qui, con me.”

* * *

Mi osserva, l’arabo, stravaccato nella poltrona della hall del San Francisco, albergo di terza categoria, lo conosco, ci sono stato con Laura, molti anni fa, ero appena sceso dal treno, in licenza breve, lei sul marciapiede del treno, era più rotonda, allora, la maglia a righe blu, scollata, i capelli corti, come le piacevano, ci siamo precipitati qui, invasati, il luogo a minor prezzo che non fosse una

topaia, perché Hassan ha scelto questa locanda, dove la reception sfavilla e le camere sono piccole, soffocanti, polverose e poco pulite? Mi guarda, chiuso nel completo nero, lo stesso che gli ho visto indossare in più occasioni quattro anni fa, anche quando è arrivato Arafat, la camicia bianca, di tela spessa, senza cravatta, mi studia, con l’occhio scuro come l’abito, vivo, intelligente, attento. Ha le informazioni, conosce i dettagli della mia fuga dagli Stati Uniti, sa dove è Sara, gli è noto il giorno esatto dell’ottava chiamata, e può prevedere con certezza se sarà un nuovo falso allarme. Mi scruta, immobile, rincalcagnato dentro la seduta della poltrona, non appare invecchiato, in questi quattro anni ha vissuto guerre, agguati, entusiasmi per illusorie vittorie, lo sconforto del continuo procrastinarsi degli obbiettivi, la malinconia della metabolizzazione della sconfitta continua, mai resa lieve dai rari successi parziali. È un combattente, le scarpe enormi, inglesi, con le cuciture in evidenza, quella destra penzolante al termine della rispettiva gamba accavallata, ha visto scorrere il sangue, vero, e ha miscelato con le sue mani le polveri degli ordigni anticarro. “Ti trovo in forma, dopo tutto questo tempo” mi ha detto offrendomi un debole sorriso di forzata cordialità. “L’America fa bene, lì si mangia, e si riposa al caldo.” “È tornato due mesi fa, e ora sta aiutandomi. Vive a casa sua, da solo. Ha trovato un lavoro, inizia lunedì.” Dix parla in fretta, senza guardarlo in viso. “Si dà molto da fare.” “Sara è rimasta sola, questo non doveva succedere.” Sono rimasto in silenzio, Dix si è piegato in avanti, pronto a interloquire. “No, ora voglio sentire sco. Noi avevamo un accordo, se non ricordo male, c’erano un progetto e degli obbiettivi, tu eri là, con Sara, soffrivi molto, forse?”

* * *

Questa mattina sono tornato allo studio De Filiberti, per comunicare alla Rossana le novità apprese al consolato venezuelano, il sabato mattina è sempre

in ufficio, da sola, senza assistenti e segretarie, mi ha aperto di persona, calza delle vecchie ballerine rosse e indossa una specie di kimono a fiori, mi ha fatto entrare, sospirando che la mia presenza la infastidiva e chiedendosi a voce alta che cos’altro ancora volessi da lei.

* * *

“Allora, sco, hai perso la voce?” ha insistito Hassan. Io non desidero stare qui, davanti a questo sergente cretino, che a casa sua, chissà dove, comanda degli straccioni affamati, io dopodomani inizio un nuovo lavoro, girerò il mondo, quello occidentale, fine di tutto, Dix? Hassan? Sara? Cattivi sogni che nel tempo diventeranno ombre, tracce appena visibili. “Dix, qui non si va avanti, ho viaggiato molto” mi cerca gli occhi, questo bestione incolto “E ho anche speso molto, se la questione può interessare.” “Posso spiegare…” ha mormorato Dix. “Tu non devi spiegare niente” si è alzato, con una agilità inaspettata, l’impiegata della reception ha posato sul banco le carte che teneva in mano per osservare il rozzo uomo straniero avvicinarsi al giovane italiano. È una persona abituata ad occupare per intero lo spazio che gli accade di avere a disposizione, deborda, è ovunque, addosso a me, io non voglio più stare qui. “È da lui che voglio sapere.”

* * *

Stamani la Rossana mi ha ascoltato annuendo, non trova nulla di strano nel fatto che Laura e di Luca non siano mai arrivati a Caracas, l’ha chiamato Luca, con confidenza, come si parla di un amico, e riscontra ragionevolezza, in quella decisione, il Venezuela è paese difficile per un europeo, instabilità politica, sicurezza sociale uguale a zero, forse il loro progetto si è scontrato con ostacoli

non previsti, magari hanno cambiato idea, forse si sono fermati a New York. La Rossana sconsolata non mi guarda negli occhi, allarga le braccia, le possibilità sono infinite, lei aveva solo pagato, su altro non aveva alcuna informazione. Le ho chiesto come poteva essere possibile che lei avesse pagato i biglietti aerei e che essi non fossero stati utilizzati, e il pagamento anticipato dell’albergo, e i traveler’s cheque. “Signor Aliberti, basta così…” mi ha interrotto con la sua voce imperiosa “I biglietti aerei si possono cambiare, le prenotazioni alberghiere anche, e i traveler’s cheque sono denaro sonante, ma ora basta così, basta, la prego.”

* * *

“Io devo andare via, adesso” ho detto a Dix, ignorando la presenza massiccia dell’uomo sopra di me, se potesse mi afferrerebbe per il colletto e mi getterebbe a terra, è abituato così, con i suoi uomini, laggiù, avverto il suo rancore, la sua disistima, la sua rabbia. “Mi aspetta una persona, non la vedo da anni, devo andare.” Spingendomi all’indietro sullo schienale della poltrona mi sono rialzato scivolando di lato sotto la mole dell’arabo, ho guardato Dix, ha capito, e si adopererà per contenere la sua reazione.

* * *

La Rossana mi ha congedato osservando distaccata che per lei ogni onere era terminato con il pagamento di tutti quei soldi e che di quanto è accaduto dopo non era di sua competenza. Le ho chiesto la ragione di quel vocabolario, l’onere, la competenza, ma che era, un aiuto a una ragazza in difficoltà o un contratto internazionale bilaterale? Mi ha accompagnato alla porta, spingendomi con vigore con entrambe le mani aperte sulla mia schiena. “Basta!” mi ha intimato mentre chiudeva la porta, ha la bocca larga e i denti gialli di nicotina, “Basta!”,

darà disposizioni affinché non mi sia più consentito vederla.

* * *

“Ti avrebbe strozzato, se avesse potuto…” È sbarbato, la giacca chiara, la cravatta, con il cappotto e le scarpe lucidate. È arrivato presto, dormivo ancora, sono tornato a letto e si è seduto in fondo, le gambe accavallate che mettono in mostra calze lunghe, dello stesso colore dei pantaloni blu. “Se fossimo stati giù un cazzotto dritto in fronte non te lo avrebbe risparmiato, ma se ne è fatta una ragione, a fatica, credimi, ma non ci disturberà più.” Rialzo la testa per osservarlo, è luminoso, gradevole, lo sguardo pulito, i capelli pettinati. “Sei sicuro che non tornerà all’attacco?” “Sì, da quel problema ti sei liberato per sempre.” “Come hai fatto a convincerlo?” “Semplicemente dicendogli che in nessun modo avrebbe potuto mandarti in America contro la tua volontà.” “E lui?” “Si è rammaricato di non averci pensato da solo, si sarebbe risparmiato il viaggio. È già partito, domani sarà giù.” È in piedi ora, elegante, disinvolto, inserisce la mano nella tasca del cappotto, ne estrae un rotolo di banconote, le lancia sulla coperta in fondo al letto. “Prima di venire qui sono stato da Marchetto a regolare i conti, ma dalla prossima volta vai tu, nelle prossime settimane al mattino presto sarò impegnato, abbiamo stabilito dei giorni fissi, lunedì e venerdì, alle sei e mezza. E questa sera alle diciotto trovati a Lettere, dobbiamo vedere Lauro.” Se ne è andato, larghi i sulla atoia del corridoio, le falde del cappotto contro la parete nuda. “Dix, io domani inizio il nuovo lavoro, non posso stare dietro a tutto.”

“Marchetto è alle sei e mezza, e a quell’ora gli uffici sono chiusi.” È già dalla porta, parla a voce alta. “Dovrò viaggiare, anche.” “Non il lunedì, né il venerdì.” “Sino a giugno.” “Agosto.” “Mi avevi detto giugno.” “Agosto. Ciao. E non mancare questa sera davanti a Lettere.”

* * *

A Lettere sono arrivato puntuale, dopo un pomeriggio trascorso a preparami l’abito e la borsa per domani, ho stirato, ho tolto una macchia dalla giacca, mi sta tutto un po’ stretto, da quando sono tornato dall’America non ho acquistato più nulla, la borsa è quella vecchia di papà, che peraltro lui non usava, un regalo di Natale, è di taglio vecchiotto, ma nessuno lo noterà. Alle otto e mezza, domani mattina, dopo la corvè da Marchetto, una corsa, alle sei e mezza lì, poi da Dix, e dunque in ufficio, dall’altra parte della città, comprerò un’auto, i soldi li ho, per iniziare una cinquecento basterà. Lauro è comparso, proviene dall’interno della facoltà, la giacchetta come Dix, la sciarpetta marrone, fuma, sigarette senza filtro, gitanes, dall’odore. “Bene, sco, bene arrivato!” La vocina dolce, è basso di statura, un omettino, si è fatto crescere i baffetti, che tiene corti, curatissimi. “Ora segui con attenzione le mie istruzioni. Comportati come se fossimo due studenti che si incontrano, tu sei un po’ vecchiotto, ma tra i fuori corso qui c’è gente più anziana di te. Lasciami, salutami ed entra in facoltà, sali al primo piano, percorri il corridoio a destra, è molto lungo, in fondo volta a sinistra, terza porta, professor Marcalli, entra lì, e aspetta. Non ti sbagliare, prima il corridoio a destra e poi quello a sinistra.”

La stanza del professore Marcalli è vuota, sulla scrivania libri e appunti accatastati in un angolo, la lampada da tavolo spostata sulla mensola, e cinque sedie, troppe per lo studio di un docente. “È assente da mesi, per malattia, e così la usiamo noi” Lauro ha prevenuto la mia richiesta di spiegazioni andandosi a sedere al posto del professore dietro la scrivania. “Mi sembra giusto, non credi?” Indica con un gesto del braccio gli arredi, i muri, il lampadario. “Tutto questo lo paghiamo noi, e noi ne riprendiamo l’usufrutto. In fondo è quello che stiamo cercando di fare da anni con l’università.” “Dix non viene?” “Forse più tardi, è giù in assemblea, è meglio che ci sia sempre qualcuno di noi a seguire le cose.” “Di noi chi?” gli ho chiesto forzandomi di celare ogni notazione polemica. Ha abbassato il braccio, cerca qualcosa in un cassetto, ne estrae un pacchetto di sigarette. “Ascolta, sco, abbiamo bisogno di te. Sei stato quattro anni lontano dall’Italia, non ci sono segnalazioni su di te, abiti in un appartamento di tua proprietà, non hai moglie, né genitori, né figli, né fratelli, in nessun modo sei condizionabile e ricattabile, da domani, mi ha detto Dix, sei assunto in una azienda, in più sei laureato, sei perfetto.” “Per cosa, Lauro?” ho chiesto, questa volta senza riuscire a tradire l’apprensione. “Un lavoro banale, ma decisivo, in questa fase. Noi ti diamo delle buste, dentro ci sono dei comunicati. Tu li porti alle redazioni dei giornali, alle televisioni, a casa dei giornalisti. Le buste sono intestate a una agenzia che esiste veramente, nessuno potrà mai sospettare che il contenuto sia diverso da un comunicato stampa tradizionale.” “Mentre invece il comunicato non è quello dell’agenzia.” “Bravo. Tu lo consegni e via. Finito.” “Non è meglio spedirlo per posta?” “La posta è controllata, sembra che siamo tornati ai tempi della censura. Bisogna

portare la busta a mano.” “Ma alla seconda consegna sapranno che nelle buste del consorzio non ci sono i comunicati stampa che ci dovrebbero essere, mi scopriranno subito.” “Non hai capito, una mattina sola, cinque buste, non sono molte, fai il giro di tre redazioni e due abitazione private di giornalisti, in autobus, taxi, a piedi, come vuoi, consegni e là non ti vedranno mai più, né riceveranno mai altre buste del consorzio. Funziona, te lo garantisco, già provato.” Ha un sorriso furbo, e mi osserva divertito. “Quando?” “Non si sa, qualche giorno, credo, potrebbe essere anche domani. Ti avviseremo.” “E le buste, dove me le consegnerete?” “Troppi dettagli, sco, verrai avvisato, e ti saranno impartite le istruzioni necessarie, avrai ogni indicazione necessaria.” “E con il mio lavoro?” “Per consegnare cinque buste ti bastano due ore. Chiedi un permessino, per una pratica burocratica, o fingi di dover andare a fare delle analisi del sangue.” “È pericoloso, Lauro, e se mi fermano?” Mi fissa, soave, il visino da topo di un bambino furbo “Qualche rischio dobbiamo correrlo tutti, non credi? In fondo, noi qui rischiamo per il benessere di tutti.” “E se rifiutassi.” “Risposta non ammessa. Dix ha garantito la tua disponibilità e la tua affidabilità. E poi tu ci sei dentro, tu condividi, Dix mi ha raccontato ogni cosa, i compagni palestinesi sono nostri compagni, è la stessa battaglia, e tu l’hai combattuta, con coraggio, mi hanno detto, e con onore.” “Ma…” ho cercato di interromperlo.

“Niente ma, tu sei dei nostri. E questa è una prova, lo capisci anche tu, la consegna di cinque buste è solo un test, ma io mi sono esposto, e tu non puoi tirarti indietro!” Fuma con delicatezza, appoggiando la sigaretta sull’esterno delle labbra e inspirando con parsimonia. “E poi noi siamo amici, mi pare, da molti anni, direi.” Mi offre una sigaretta, che rifiuto, insiste, la estrae a metà dal pacchetto picchiettandolo sul fondo, ha allungato il braccio attraverso la scrivania, prendo la sigaretta, la accende, sembra felice, adesso.

* * *

Venerdì sera, dopo l’ufficio, sono tornato al bar davanti a casa di Laura, questa settimana è la terza volta, arrivo verso le sei e mezza, siedo al tavolo con il barista padre, ordino un bicchiere di bianco, il padre mi fa compagnia con un Campari, rosicchiamo olive nere, taggiasche, che acquista in un negozio di Bordighera, un paio di volte all’anno, in inverno, quando va a vedersi un po’ di mare. La prima sera non mi hanno riconosciuto, il figlio, vedendomi entrare e dirigermi con decisione verso il tavolo di suo padre mi aveva chiesto allarmato se non avessi sbagliato negozio, in giacca e cravatta non mi avevano mai visto, né in queste settimane, né allora. Questo è l’unico luogo nel quale posso parlare di Laura, la Rossana, che ho chiamato molte volte, ha mandato a dire che non ha alcuna intenzione né di incontrarmi né di parlare con me al telefono, l’avvocato del fratello ha comunicato che il suo cliente per adesso non desidera incontrarmi, sono stato al consolato venezuelano, ma lì non hanno più nulla da dire, l’attaché del funzionario è stato, come al solito, gentile, ma non aveva davvero nulla da aggiungere a quanto avevano dichiarato. Dell’esame del timbro della cartolina nessuna notizia, ci vorrà molto tempo, mi ha detto nuovamente il giovane aiutante, e in Sudamerica molto tempo significa esattamente molto tempo. Elmo Bianchetti, il barista padre, ha l’età che avrebbe mio padre, un sopravvissuto a un bombardamento durante la guerra, a ettolitri di vino, birra e alcolici e ad alcune decine di migliaia di pacchetti di nazionali d’esportazione, spende il suo tempo in un modo insensato, quattordici ore a un tavolo del suo

bar, non è un uomo simpatico, anzi, si potrebbe definire piuttosto restio alle relazioni umane, tace molto, parla solo se richiesto e solo se ne ha voglia. Con me discorre volentieri, di Laura soprattutto. “Chiariscimi una questione, prima di andare avanti…” mi ha detto con la sigaretta accesa tra le labbra lunedì sera. “Il giorno delle nozze tu non ti sei presentato. Bene, si fa per dire.” Sorride, gaio, mi versa da bere, spegne la sigaretta, ne cerca un’altra rovistando nella tasca del cardigan “E io non voglio sapere dove eri e perché non sei andato a quell’appuntamento.” Mi indica, con l’indice, teso al centro del petto. “A me preme sapere se oggi, dopo più di quattro anni, sei certo di aver preso la decisione giusta, o se invece rimpiangi la scelta di allora e vorresti poter tornare indietro nel tempo, per comportarti diversamente.” È contento, l’ha detto, con voce forte, roboante, si è fatto sentire dal figlio, che annuisce mentre asciuga con cura i bicchieri della birra. Avrei voluto rispondere, e stavo per farlo, e avrei detto la verità, ad Elmo Bianchetti non avrei nascosto nulla, gli avrei raccontato ogni dettaglio del mio periodo americano, dei dubbi che non ho avuto, delle riflessioni che non ho avuto il coraggio di svolgere, delle indagini interiori che ho omesso, dell’abbacinante biancore del nulla nel quale ho nuotato gioioso per quattro lunghi anni, non aspettavo che quell’occasione, per confessare e confessarmi, la verità, finalmente. Stavo per aprire la bocca, che invece ho dovuto tenere chiusa, obbligato dalla canna del mitra impugnato dal carabiniere che, insieme ad un’altra decina, si è impadronito del locale, cinque secondi appena, le porte a vetri scardinate, uomini armati silenziosi, che si installano nei luoghi strategici, le finestre, la porta della toilette, la porta della cantina sotterranea, uno tiene sotto tiro il figlio del barista, con lo straccio immobile dentro un bicchiere, uno per il padre e uno per me, a un segnale, un fischio leggero, sfondano la porta della toilette e quella della cantina. Arrivano altri militi, che iniziano la perlustrazione, dalla cantina, dove sono scesi in quattro, fracasso di bottiglie, dal cesso, dove sono entrati in due, lo schianto dell’armadietto porta scope, gli altri gettano i tavoli a terra, saltano dietro il banco, spingono via il figlio, aprono i cassetti del banco, alzano la macchina del caffè, spostano il frigorifero e la lavapiatti, cercano, chissà cosa cercano, senza parlarsi, non un fiato tra loro, non ne hanno bisogno, solo cenni, vai di là torna qui, esci fuori, chiama quello. Elmo è rimasto seduto, non gli impediscono di proseguire a fumare, osserva la

scena curioso, attento a cogliere ogni particolare. Hanno trovato, in una rientranza dietro il banco, il mobile dove i Bianchetti custodiscono i documenti amministrativi, gettano tutto a terra, quello che sembra l’ufficiale in capo esamina veloce le carte che i suoi gli ano a casaccio, fatture macchiate di caffè, una valanga di scontrini unti, biglietti di pagine di quaderni a quadretti ripiegati, biglietti del treno, qualche banconota, una carta di identità scaduta di Elmo, qualche fotografia, si sono avvicinati in tre, restano in piedi, prendono le fatture, i bigliettini e gli scontrini che, uno ad uno, fanno scivolare su un tavolo, l’ufficiale, un uomo sulla quarantina, con gli occhi serissimi, esamina le fotografie. Si sofferma su una fotografia, la studia, a il polpastrello sull’immagine, ne posso osservare solo il retro, non sembra vecchia, la carta è compatta, i bordi netti, chiama uno dei tre che stanno esaminano gli scontrini, che si china a guardare con interesse, annuisce, l’ufficiale sorride. “Bianchetti, per quale motivo avete nel locale una fotografia di Broggro?” Elmo sembra risvegliarsi da un lungo sonno, risponde con un filo di voce. “Non conosco nessun Broggro.” Dall’altra parte del locale tutti si sono voltati verso Elmo, anche il piantone alla porta, che da qualche minuto sta questionando con una signora che non riesce a capire per quale motivo non possa entrare nel suo bar. “Broggro è questo. E la sua foto era in un cassetto di un mobile nel suo bar” L’ufficiale ha avvicinato la fotografia sotto gli occhi di Elmo. “E allora?” “Ah!” risponde rilassato “L’olandese di Laura.” Broggro, questo nome, mi suona famigliare, l’ho sentito alla televisione, o forse l’ho letto in un articolo di giornale, una cosa recente, ma non è l’olandese, quello si chiama Tassi. “Broggro non è olandese” ha gridato l’ufficiale battendo il palmo della mano sul tavolino. “Broggro è un italiano contumace, accusato dell’omicidio del 20 gennaio a Firenze.” Elmo ha fatto cadere la foto a terra, vicino a miei piedi, e per un attimo, prima che un carabiniere si chinasse a riprenderla, ho potuto vederla, sì Laura, con un

uomo, l’olandese ovvero Tassi, o Broggro. Nella foto Laura ha i capelli lunghi chiari, il viso affilato, gli occhiali da sole, ride, con la guancia appiccicata a quella del giovane, una faccia rotonda, un filo di barba, ride anche lui, perché Elmo teneva una foto di Laura nel suo locale? Broggro, ora ricordo, imputato contumace nel processo ai quarantasette brigatisti che si è aperto a Torino il 9 marzo, accusato del delitto Dionisi, l’ho letto sui quotidiani, c’era anche una foto, sì, in campagna, dietro di lui si intravvedeva un lago, prima degli anni di piombo, quella faccia rotonda, ecco, avevo pensato, questo sarà il ragioniere, quello che tiene i conti. Laura, la foto è di almeno due anni fa, prima della sua scomparsa, ormai sono obbligato a pensare a questo, poiché forse in Venezuela non è mai stata, smagrita, come le accadeva quando era indaffarata, o triste. Accanto alla faccia rotonda di questo Broggro, ma come ha conosciuto questa persona, un brigatista, un clandestino a tutti gli effetti, uno di quelli che vivono di documenti falsi, e lei? Che ha a che fare Laura con le sue attività illegali?

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Lunedì mattina ho eseguito la corvè da Marchetto, in tempo per presentarmi alle otto e trenta sul nuovo posto di lavoro e stamani, venerdì sono tornato al panificio, già in giacca e cravatta, perché il mio capo mi aveva chiesto di arrivare alle otto per una riunione lampo con il direttore commerciale in partenza per la Danimarca. Quando Marchetto mi ha visto si è messo a ridere. “Il dottor Aliberti, nel suo miglior travestimento” ha detto contento, mentre mi spinge dentro la stanza dei sacchi vuoti. “Non ti tocco, che ti sporco di farina. Certo, detto tra noi, uno come te questi traffici dovrebbe lasciarli perdere, dai retta a me, staccati da quello, da Dix, è un pazzo, ma non lo vedi, un giorno ti abbraccia e ti bacia e il giorno dopo, sudato e scarruffato, con quella sua giacchetta aperta e le mani in tasca, ti minaccia come un mafioso, ti promette che incendierà la panetteria e l’automobile.” Si è interrotto un momento, per scostare i sacchi e prendere la borsa con la roba. “E il problema è che è capace di farlo sul serio, non ti mescolare, dottore, tu sei di un’altra pasta.”

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Mercoledì sera Lauro mi ha chiamato in ufficio, e solo molto più tardi mi sono chiesto come fosse in possesso del mio numero diretto. Il giro delle consegne era previsto per la mattina successiva, nella quale l’azienda mi aveva ordinato di andare in questura a richiedere il aporto, così in mezza giornata ho assolto ai miei doveri aziendali, facendo la fila per il aporto in questura con in mano la borsa con le cinque buste, che subito dopo ho consegnato come da istruzioni ricevute. Sono entrato nelle sedi di due giornali e di una televisione e nella portineria di due stabili in centro città, dove abitano i due giornalisti, occhiali scuri, veloce, allungando la busta al portinaio con decisione, mentre specificavo il nome del consorzio mittente.

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I carabinieri hanno portato via Elmo e suo figlio, a me hanno controllato i documenti di corsa, poi sono andati via tutti, lasciando il bar in un disordine spaventoso. Sono uscito procedendo con attenzione tra i tavoli rovesciati e i cocci dei bicchieri e delle tazzine, sulla porta ho incrociato la signora che poco prima era stata mandata via dai militi, mi ha guardato stupita, chiedendomi se c’era qualcuno che avrebbe potuto farle un caffè, l’ho fissata, un momento appena, una signora anziana, i capelli bianchi e un giro di perle al collo, ben vestita, un viso sconosciuto, gli occhi celesti, curiosi, piuttosto che spaventati e in quel momento ho capito perché Laura aveva inscenato il viaggio a Caracas con quel Broggro e perché in realtà non ci erano mai stati, lo sapevo, grazie signora dagli occhi celesti, ora avrei trovato Laura.

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Il giorno successivo, il nono del sequestro Moro, a Torino hanno ferito l’ex

sindaco democristiano Giovanni Picco, sono arrivate le prime lettere del presidente prigioniero, non scrive affatto male, questo democristiano, un italiano corretto, con il quale riesce a comunicare elegantemente sia sentimenti forti sia giudizi politici taglienti. È sabato, al mattino presto sono sceso ad acquistare i principali quotidiani, in alcuni è in evidenza la notizia che in redazione è stato consegnato un documento di un gruppuscolo sconosciuto, tale “Nucleo per la lotta internazionale proletaria”, fatto che la polizia ha catalogato come evento di fiancheggiamento, si riportano alcune frasi, lunghe, verbose, sconnesse, come se questi aiutanti delle Brigate Rosse, che per parte mia ho fattivamente ato, siano più concentrati sul fare che sullo scrivere. Mi sono vestito leggero, camicia e maglione sulle spalle, l’aria è ancora fresca, sono rimasto a lungo indeciso, ho camminato avanti e indietro per via Rosselli, poi ho preso corso Carducci, direzione studio De Filiberti, ora che so la Rossana dovrà ascoltarmi, lei sa dove è Laura. Laura, amore mio, ho trascorso quarantotto mesi con una donna verso la quale ho provato sentimenti modesti, ombre inconsistenti, rispetto a quelli che, sotto, nascosti nella mia intimità più profonda, si conservavano forti e intatti per te. Sara mi ha catturato con il suo fascino fuori misura, mi teneva stretto, la notte, appiccicato, non mi lasciava mai solo, il suo fiato dentro il mio, un prigioniero, non mi ha amato, conservo il ricordo della sua vicinanza, è ancora freschissimo, un orco trasformato in fanciulla, mi ha blandito per quattro anni, impedendomi di respirare, se non la sua aria. È in corso un trasloco e il portone del palazzo dei De Filiberti è spalancato, al piano la porta a vetri dello studio è serrato e la Rossana, quando ha sentito il mio nome, ha chiuso il citofono e l’ho sentita zoccolare sui pavimenti alla veneziana mentre si allontana verso la sua stanza. Picchio forte le mani sul vetro, la porta vibra, colpisco più forte che posso, la Rossana ritorna, si avvicina al vetro, minaccia di chiamare la polizia. “Broggro, il nome vero di Tassi, sua sorella il magistrato, è un gioco scoperto…” Parlo con le labbra incollate al vetro, mi sta ascoltando, scalcia sul pavimento, avverto la sua stizza. “Io voglio solo sapere dov’è Laura.” Ha aperto all’improvviso, sono scivolato in avanti, contro il suo petto.

È gigantesca, sopra gli altissimi zoccoli di legno, dentro la veste blu notte plissettata e con la frangetta tagliata orizzontale appena sopra le sopracciglia biondastre. Mi aiuta a rimettermi in piedi, chiude la porta, mi osserva, non si aspettava che il suo piano venisse scoperto così presto, si allontana di un o, una mezza giravolta, con la gonna che si gonfia a ventaglio, è dietro al banco della segreteria, con i gomiti appoggiati sul pianale di tek perfettamente sgombro. Nessuno potrebbe mai immaginare che la famiglia De Filiberti abbia avuto la fantasia di ideare e realizzare un progetto tanto ardito, così intelligente. Tiziana De Filiberti, la sorella di Rossana, il magistrato esposto in molti processi contro le Brigate Rosse, Laura che conosce per caso Broggro, alias Tassi, la Rossana riconosce Broggro, sa che Laura è avvilita e disperata, il resto è facile e logico. I De Filiberti chiedono l’immunità per la Tiziana magistrato e, in cambio, versano molti milioni di lire a Broggro e a Laura, questi fabbricano finti biglietti, finte prenotazioni alberghiere e finti traveler’s cheque, documenti che prima della falsa partenza lasciano in copia alla Rossana e, chissà, forse anche alla sorella Tiziana, per dare prova di come il loro denaro sia stato utilizzato, per confondere le idee, soprattutto. A questo punto i due, già aggregati a qualche colonna brigatista, scompaiono nella clandestinità trattenendo i soldi, una dozzina di milioni, che diventano un finanziamento del partito armato, un doppio risultato, una copertura perfetta poiché i De Filiberti giureranno, se sarà necessario, che i due sono scappati in Venezuela, un piano geniale. “Non so se siano partiti o meno per il Venezuela. Non m’interessa, noi abbiamo pagato. Forse è vero, le ricevute che abbiamo in mano sono false, anzi, credo che lei su questo punto abbia ragione. Ma che importanza ha? Il risultato per noi è acquisito, la salvaguardia di Tiziana è reale, ed anche il loro obbiettivo, suppongo, è stato raggiunto. “E Laura?” le ho chiesto senza avvicinarmi. “Vive con Broggro, mi risulta che si siano sposati, a meno che in tutta questa finzione anche il matrimonio sia stato fasullo.” “Dov’è?” “L’ho vista un anno fa, qui, in studio, c’era anche lui.” “Per rinnovare il patto, suppongo, forse con il versamento di altro denaro.”

Non mi ha risposto, si è seduta alla scrivania della segretaria, nascosta dal bancone, non la vedo più. “Affari vostri, signora, io voglio sapere dov’è Laura.” “A Milano, penso, è con Broggro, come le ho detto, anche lei è coinvolta.”

* * *

A Lettere c’è occupazione stabile e in aula magna assemblea permanente, con una decina di presenti, che ascoltano distratti una donna, sembra una professoressa, che approfondisce la questione dell’irreversibilità della crisi mondiale del capitalismo, Lauro non c’è, chiedo di lui, non sanno, forse è nel suo ufficio, quello del professore assente dove ci siamo incontrati l’ultima volta. Entro senza bussare, sta seduto dietro la scrivania insieme a un altro ragazzo, più giovane, una testata di riccioli neri. Lauro non ha la sciarpa al collo e tiene il colletto della camicia aperto, stanno mangiando della focaccia e bevendo del vino bianco, ha la bocca piena quando, un po’ rosso sulle guance, mi confida che non mangiava dal giorno precedente e che in una settimana ha dormito non più di dieci ore in tutto. “È un momento decisivo, anzi, potrei dire che è il momento.” Si ricompone, la voce torna quella grave che usa in pubblico, allaccia il bottone della camicia, con le mani cerca la sciarpa. “Mi hanno informato che la distribuzione è stata effettuata con precisione, ottimo, grazie.” Il suo compagno si allontana, strisciando la sedia sul pavimento, con la carta della focaccia Lauro pulisce il tavolo e rimette a posto il taccuino e le penne, alza gli occhi verso di me, non ho nulla da dirgli, è Lauro che deve parlare, sto aspettando. “Alla prossima occasione, prudenza permettendo, ti chiameremo ancora. Con calma, sco, qualcuno ieri ti ha visto e, rivedendoti, potrebbe effettuare dei collegamenti, sei una risorsa preziosa, e non possiamo rischiare.” Con un cenno degli occhi gli ho fatto capire che volevo restare solo con lui, e lui,

con un movimento della mano, ha mandato via il giovane ricciolino che ha chiuso accuratamente la porta dietro di sé. Lauro mi fissa stranito, sono in piedi, con il maglione blu sulle spalle, uno studente per bene, o un giovane ricercatore universitario, che scalpita nell’ufficio del suo professore, freme, fuori lo aspetta la fidanzata, è sabato, staranno insieme l’intero giorno. “Che c’è, sco?” “Voglio fare di più, Lauro, portare in giro libelli fumosi ai giornali non mi basta, è un lavoro da operai, io voglio essere un dirigente.” “Folgorato sulla strada di Damasco?” mi ha sorriso intrecciando le mani dietro la nuca. “Sono pronto, Lauro. Ora sono pronto.”

* * *

Sono arrivato da Dix verso la mezzanotte, mi aspettava, era stato informato da Lauro. È in cucina, a torso nudo, sudato, c’è anche Iris, in una camicia da notte gialla, enorme, che le arriva sino ai piedi. “Non è così facile, Franci!” È chino a rollare una canna sul tavolo, da quando sono entrato non mi ha ancora rivolto lo sguardo. “Non è come iscriversi al club del tennis, pagare la quota, l’assegnazione dell’armadietto nello spogliatoio, i moduli per la prenotazione dei campi.” Una canna perfetta, Iris gli sorride, mentre la accende con un fiammifero di legno. “Come capirai il procedimento è un po’ più complesso.” “Io voglio fare di più.” Tocca a lui tirare, una boccata lunga, densa, succosa, socchiude gli occhi, i muscoli del viso si distendono, gode. “Perché, Franci, perché tutto questo entusiasmo.” Mi ha ato la canna, senza toccarla l’ho fatta scivolare tra le dita di Iris. “Tu

pensa a procurarmi del lavoro, io eseguirò.” “Io mi fido, sai…” Ha di nuovo la canna tra le labbra, è conquistato dalla voluttà, gli tremano le spalle. “Per me è ok. Ti farò avere istruzioni.” “Grazie” gli ho detto alzandomi.

* * *

Il televisore di Grazia è a colori, uno schermo molto grande, una cosa mai vista, sembra di avere delle persone in casa, abbiamo ascoltato il telegiornale mentre mangiamo la paella alla valenciana, che ha garantito essere migliore di quella che non avevo mangiato la settimana scorsa. A Torino, Roma, Milano e Genova le Brigate Rosse hanno fatto trovare un comunicato nel quale annunciano che è in corso l’interrogatorio di Aldo Moro “in quanto uomo di punta della borghesia, quale più alto fautore di tutta la ristrutturazione dello Sim (Stato imperialista delle multinazionali).” L’ho incontrata per le scale sabato mattina, mentre scendevo, avevo dormito sino alle undici, senza sogni, un abbandono totale, che non provavo da mesi, ero ancora in America, prima che la vicenda di Terry ci coinvolgesse, quando Sara mi chiedeva ancora di avvicinarmi e di restare l’intera notte incollato alla sua schiena. Grazia era sul suo pianerottolo, la borsa della spesa gonfia, le chiavi in mano, mi aveva riconosciuto, mi ha confessato dopo, dalla frequenza del o sui gradini. È una donna fuori dall’ordinario, mi ha chiamato poco prima che la potessi vedere, a voce alta mi ha invitato a pranzo, senza rancore, ha tenuto a precisare. “Sono ben strani, questi” mormorava poco più tardi con un gambero tra i denti. Ha sistemato un asciugamano sulla sedia e si è spogliata, le piace stare nuda in casa, lo trova gradevole, naturale. “Stato imperialista delle multinazionali, ma che vuole dire?” Mi sono spogliato anch’io, la paella è buonissima, e sino a poco fa non avevo idea del reale significato di impudicizia e di sfrenatezza, Grazia ha lo sguardo lubrico, e mentre mangia mi accarezza il piede con il suo. “Forse vogliono dire

che le multinazionali influenzano, anzi condizionano, gli stati sovrani.” “E tu che ne sai di queste cose?” Si è voltata appena, ha le spalle piccole, ossute, e il mento piccolo e rotondo. “Sono laureato in filosofia.” “Capisco.” Alzandosi mostra la schiena muscolosa, appena appesantita sotto i fianchi stretti, si allontana andosi le dita di una mano tra i capelli. “Ti prendo ancora un po’ di gamberi, ne ho cucinata una quantità.”

* * *

La saracinesca del bar davanti alla casa di Laura è sigillata con il nastro adesivo bianco e rosso, presentandomi come un nipote di Elmo ho chiesto informazioni nell’edicola-cartoleria accanto, il proprietario, un uomo di mezza età grasso e quasi calvo, mi ha risposto senza guardarmi, sapeva benissimo chi ero, non un nipote di Elmo, il quale non aveva nipoti, bensì quello che aveva abbandonato Laura il giorno delle nozze, comunque nessuna novità, padre e figlio sono in carcere, lui non sa altro. Davanti al portone di Laura le piogge di questi giorni hanno formato una pozzanghera larga e profonda che obbliga chi entra e chi esce a camminare rasente al muro dell’edificio per evitare di bagnarsi sino alle caviglie. Ho riconosciuto la vicina di casa di Laura, una ragazza della nostra età, che con la madre occupava l’appartamento adiacente a quello dei Betti, la stanza della ragazza era muro a muro con quella di Laura e, quando erano più piccole, si parlavano battendo sulla parete in un codice da loro inventato. Ripescandolo da un ato cancellato mi sono ricordato il suo nome. “Marina, sei Marina, è vero?” Sta ultimando la traversata lungo il muro, si è voltata verso di me, porta gli occhiali, anche questo dettaglio corrisponde, era estremamente miope. “Chi sei?” ha portato il palmo della mano sulla fronte, inutile, in una giornata

grigia come questa, si sporge nella mia direzione. “Non ti conosco.” “sco, sco Aliberti.” Ha abbassato la mano. “Tu? È impossibile. Tu sei morto.” Ci fronteggiamo a pochi metri di distanza, Marina davanti al portone ed io sul bordo della pozzanghera. “Come vedi non è vero. Tu come stai?” È bruttina, gli occhiali spessi e i capelli a grandi riccioli in disordine. “Io sto bene. E tu?” L’ho raggiunta percorrendo veloce il bordo della pozzanghera, infilando due volte il piede esterno nell’acqua. “Quanta fretta, sco. Ti aspetto, non me ne vado.” Ride e quando le sono accanto mi porge le guance per lo scambio di un bacino. “Immagino tu voglia sapere di Laura.” Ha il viso piccolo, gli occhi invisibili dietro le lenti e le orecchie minute appuntite. “Vieni, sali un momento, ti offro un caffè.” Sono uscito da casa di Marina poco prima delle undici, è domenica, e Grazia mi ha promesso un pranzo speciale, all’americana. La notte dormo con lei, una donna dell’età che avrebbe madre, mi è difficile pensarci senza associarvi questo dettaglio, cinquantatre anni, sul comodino, prima di coricarsi, posa un bicchiere con una buona dose di bourbon, che lei preferisce al whisky, e prima di farsi baciare ne beve un sorso, è per farmi assaporare una sensazione diversa, mi ha spiegato, e dopo aver fatto l’amore, dopo un altro sorso, accende un sigaro enorme, un Cuba originale, che in pochi minuti annebbia la stanza. Una donna fuori dall’ordinario, nuda nel suo letto di ferro battuto, un matrimoniale stretto, dove trascorriamo le notti l’uno addosso all’altra, Grazia lo ha scelto piccolo proprio per questo, ma mi ha chiesto di non farle domande sulle sue frequentazioni, gli uomini che ha avuto e quelli che ha, che mi accontenti, io le piaccio, e lei ama prepararmi leccornie gastronomiche che io non ho mai assaggiato. Sono certo che Laura, all’età di Grazia, più o meno tra venticinque anni, sarà esattamente come lei, una donna docile, gradevole e trasgressiva, ibernata nella sua gioventù e restituita intatta all’età della maturità. Laura già nonna, che si

corica in lenzuola viola, bordeaux o blu notte, che indossa vaporose camicie da notte intonate al colore delle lenzuola e che, con il bocchino dorato, fuma sigarette sottili quasi inodori. Staremo insieme bene, da anziani, Laura ed io, lei camminerà scalza anche d’inverno, e faremo l’amore ogni giorno, al pomeriggio, ed io, dopo, le porterò il caffè a letto. Ha smesso di piovere, sono tornato a piedi, ando per il quartiere dove Laura aveva scelto e arredato il nostro appartamento nuziale. Per le strade, che hanno nomi di fiori al plurale, poche auto, qualche madre che spinge una carrozzina, due uomini fermi a un incrocio, fumano, con il quotidiano piegato sotto l’ascella, un verde già intenso, in questo piovoso avvio di primavera, siepi alte e alberi gonfi di fogliame, aveva ragione Laura, un pezzo di campagna in città, il luogo ideale per crescere i nostri figli. Marina ha visto Laura per l’ultima volte la sera prima della sua partenza per il Venezuela, sembrava felice, quella sera, l’aveva abbracciata, era emozionata, avevano pianto insieme. Aveva conosciuto l’olandese, ricorda la sua carnagione chiarissima, il faccione rotondo e quegli strani capelli rossi, conosceva il suo vero nome, Tassi. Il nome Broggro non le diceva nulla. Insieme stavano bene, serate su serate al bar, li aveva visti molte volte, i quaderni fitti di appunti, i libri impilati sul tavolino, Elmo si sedeva spesso con loro, gli facevano leggere dei i, discutevano, Laura prendeva nota di quello che Elmo diceva, e annuiva, sì, sembrava entusiasta di lui. Il condominio nel quale avremmo dovuto andare ad abitare, un edificio solido, ben costruito, silenzioso, il portone è aperto, sono salito al secondo piano, ho percorso il pianerottolo sino in fondo. Laura aveva visto giusto, una scelta assennata, qui avremmo vissuto bene, oltre quella porta l’ingressino, la cucina con l’acquaio in acciaio inossidabile, il divano grande, sul quale avrebbe voluto far giocare i bambini dell’intera città, desiderava una casa aperta, libera, e se la tappezzeria si fosse rovinata, e se i mobili fossero stati graffiati, un nulla, di fronte alla felicità dei bambini che saltano sul tappeto del salotto e fanno merenda in corridoio, sbriciolando i biscotti sul pavimento. La nostra camera, con il lettone fuori misura dove non ci siamo mai coricati, su questo punto Laura era stata irremovibile, solo dopo il matrimonio, si trattava di un piacere che voleva godersi per intero, nel suo letto, nella sua casa, con suo marito. Ho chiesto a Marina se ricordasse il titolo di qualche libro, o i contenuti di qualche discussione tra loro Laura e Tassi e tra loro ed Elmo. Sì, libri di storia,

ma non ricorda su quale periodo o di quale argomento e con Elmo discutevano della guerra partigiana, Elmo era stato un vice-comandante, in Friuli, aveva sostenuto scontri a fuoco, era stato ferito. Marina aveva ascoltato, una sera, il racconto della vicenda di un assalto a una colonna tedesca che trasportava munizioni, il plotone dei partigiani nascosto in un bosco, una staffetta in moto che li aveva avvertiti dell’arrivo della colonna, le due mitragliatrici in azione, le bombe a mano, avevano ucciso tutti i soldati tedeschi e i camion erano stati fatti esplodere, tra di loro un solo ferito leggero, Elmo aveva ricevuto un encomio per quell’azione. Laura e Tassi erano impietriti, non perdevano un aggio e, quando Elmo aveva terminato la narrazione, lo avevano tempestato di domande per una buona ora, quanti partigiani, quanti tedeschi, e che potenza di fuoco avevano le mitragliatrici, e perché non avevano piazzato delle mine sulla strada, e perché la staffetta li aveva potuti avvertire con così poco anticipo, e perché non avevano pensato a una doppia staffetta. Elmo rispondeva, cauto, senza scendere in dettagli, spiegando le ragioni delle scelte con argomenti ovvi e semplici, stava attento, come se la guerra non fosse terminata, come se spie fasciste potessero essere all’ascolto.

* * *

Non posso stare più qui sul pianerottolo, potrebbe essere sospetto, in questi tempi, poi! Fuori ha ripreso a piovere forte, sono senza ombrello e cammino rasente ai muri. Grazia mi attende, in questo momento è ai fornelli, il grembiule blu, una maglietta, la gonna corta, scalza, cucina senza consultare le ricette, ama andare a memoria, quante cene preparate o viste preparare, quanti ristoranti, in ogni luogo del mondo, curiosa, e una memoria di ferro, non sbaglia mai, quando dice che il minestrone d’estate può essere servito freddo e che nella preparazione della bistecca alla Bismarck la carne e l’uovo vanno cucinati in modo tale che arrivino a cottura nello stesso momento. Laura non cucinava mai minestre, troppe, nella sua infanzia, senza sapori, acquose, con qualche pezzo di patata e di carota galleggianti, amava la carne, gli arrosti, con il sugo spesso, denso, profumato, e il bollito, il muscolo e la lingua, con la salsa verde e la salsa al pomodoro. Cucinava per me, per la mamma e per papà, quando c’era ancora, la sera, se riusciva a lasciare l’ufficio in tempo e il

sabato a mezzogiorno, arrivava carica di provviste, anche il pane e il vino, e non voleva che mamma fe nulla, desiderava le si sedesse vicina, a chiacchierare mentre lavorava, papà era felice di quella nuora allegra e capace di riempire la casa di odori e di calore, e mangiava di gusto, con avidità, anche quando era malato, sino a pochi giorni prima della morte.

* * *

Marina non aveva altro da raccontare, mi ha fatto accomodare in una poltrona in salotto servendomi il caffè su un piccolo vassoio di cristallo, in una tazzina di ceramica molto fine, un regalo delle nozze dei suoi genitori, il padre morto da tempo e la madre in ospedale, malata da molti mesi. Marina si muove legnosa, siede sulla punta del cuscino del divano, appare in imbarazzo, cambia posizione alle gambe, si alza per prendermi la tazzina quando ancora non ho iniziato a berlo. Mi ha spiegato che avrebbe ato il pomeriggio in ospedale con la mamma, è sgraziata, e veste senza cura, una gonna sotto le ginocchia, di un colore indefinibile tra il marrone e il verde, scarpe marroni senza tacco, un maglione a righe verticali, rosa e nere, è una commessa in un noto negozio di casalinghi ed elettrodomestici in centro città. Le ho chiesto se ha un fidanzato. Non mi ha risposto, si è alzata per spostare una sedia che andava messa attorno al tavolo da pranzo rotondo. Le ho domandato se il lavoro le piaceva, l’intero giorno a contatto con le persone, poteva essere interessante, e vario. Sì, il suo lavoro le piaceva abbastanza, e guadagnava uno stipendio adeguato, anche se doveva lavorare il sabato. È rimasta in piedi, alle mie spalle, accanto al tavolo dove ha messo a posto la sedia. “Lo sapevi che Laura si è sposata con Tassi?” mi ha chiesto con timidezza. “Ho sentito dirlo.” “Un matrimonio strano, di fretta, due giorni prima della partenza per il Venezuela.” “C’eri anche tu?” “No, credo che si siano sposati senza cerimonia, da soli, ho sentito dire in

Francia, subito oltreconfine, a Mentone, ma non ne sono certa, da allora non ho più avuto notizie da lei.” “Quindi si è veramente sposata?” “Che dirti, sco, sembra di sì, ma per te è così importante?” È tornata a sedersi sul divano, per me si era fatto tardi, e Marina si è accorta che avevo lanciato uno sguardo alla pendola. “È avanti di cinque minuti.” Ho annuito, iniziando a muovermi nella poltrona, dovevo andare via, subito. Quando mi parla evita di guardarmi, mi chiedo quale sia il suo modo di comunicare con i clienti in negozio. “Se ti è utile posso leggerti una lettera che mi ha scritto dal Venezuela.” È rimbalzata in piedi e mi è ata davanti quasi correndo, ne ho approfittato per alzarmi e avvicinarmi alla porta di ingresso, davanti alla quale Marina mi ha raggiunto dopo pochi secondi, con una busta verde chiaro in mano. “L’ha scritta due mesi dopo la sua partenza.” Ha iniziato a estrarre la lettera dalla busta, si è interrotta, l’ha rimessa dentro. “Tienila tu, a me non serve…” Mi ha allungato la busta, non lo avevo notato, porta due orecchini molto fini, d’oro, con un brillante e al collo ha una catenina sempre d’oro, e non avevo osservato che ha le mani e le unghie curate, e la pelle del collo liscia, morbida, l’ho fissata un momento negli occhi, sono riuscito a vederli, attraverso le lenti, chiari, larghi, accoglienti. “Prendila, non sto scherzando, è roba tua, io non c’entro in questa storia.”

* * *

Sono arrivato da Grazia puntuale a mezzogiorno e mezza, mi ha aperto in grembiule, scalza, e mi ha baciato sulla punta del naso. È simpatica questa ragazza cinquantenne, sotto il grembiule porta una gonna di tela corta, e ha gambe bianche, lisce, depilate. Si muove con spensieratezza tra i mobili di legno chiaro che discretamente popolano la sua casa, li ha scelti con cura, prediligendo le forme morbide e i colori caldi. “Programma della giornata di oggi” ha annunciato chiudendo la porta di casa. “Tra dieci minuti aperitivo messicano in salotto, alle tredici pranzo americano, ti

anticipo che si berrà birra, poi riposino.” Cammina davanti a me, controluce, con il sedere pieno che ondeggia e i piedi un poco a papera. “Dopo il riposino si esce, cinema e, alla fine, pizza fuori, offro io.” È carina, Grazia, sembra che abbia trascorso la vita per essere pronta, adesso, a rendere gradevoli le mie giornate, in ogni suo modo trovo concentrate, amalgamate, mescolate e trasformate, le mie personali pulsioni del corpo e della mente, i pensieri e i sentimenti che ho avuto, quelli che ho e quelli che avrò, Grazia li ha già conosciuti, ne ha goduto e ne ha sofferto, e ora, con garbo, me li restituisce, sbucciati, puliti, pronti per essere usati. Le ho detto che nei dieci minuti che mancavano all’aperitivo messicano sarei salito un momento in casa per cambiarmi. La busta sul pavimento del corridoio, evidentemente infilata da qualcuno sotto la porta, l’ho vista solo mentre uscivo. Dentro un foglio scritto a mano, di fretta, ho riconosciuto la calligrafia, Dix. “Se vuoi fare questo mestiere devi essere rintracciabile, da ieri pomeriggio ti abbiamo telefonato almeno trenta volte. Alle quattordici e trenta trovati al chiosco delle granite nel parco della memoria.” Ho ripiegato la busta e l’ho infilata nella tasca posteriore dei pantaloni, dove già conservo quella di Laura che mi ha dato Marina, non ho voluto leggerla, devo aspettare, avere il tempo, il luogo, è una lettera di Laura, una lettera di Laura!

* * *

Il giorno dopo mi sono presentato alla panetteria in anticipo di mezzora, la saracinesca del negozio è ancora abbassata, filtra la luce e si avverte il rumore del pane che i garzoni versano dalle ceste nei contenitori di legno del banco di vendita, mi sono spostato sul retro, dove c’è l’ingresso del forno, Marchetto è lì, unto e sudato, sta fumando. “Dottore, è molto presto, questa mattina. Insonnia precoce?” “Ho un impegno di lavoro, ho dovuto anticipare.”

Ho atteso qualche minuto accanto a lui, il tempo che terminasse la sigaretta e l’ho seguito nella stanza dei sacchi, dove mi ha consegnato una grossa valigia di plastica nera. “Ho ricevuto ieri una lettera di Giulio” Mi ha detto allungandomi la valigia. “Dice che sta bene, ha un alloggio a Beirut, ma si sposta spesso, non crede che potrà tornare prima della fine dell’anno.” Si è un’altra sigaretta. “Scrive che vive con una donna, e che la porterà qui perché si vogliono sposare in Italia.” “Sarà una giornalista, o una volontaria di un ente umanitario, laggiù è pieno di queste persone, e la maggioranza sono donne.” “No, è la vedova di un comandante palestinese, ha trentacinque anni e tre figli. Li porta tutti qui in Italia, a fine anno.” Mi ha accompagnato sino alla porta. “Per me è una bella notizia, se sono in tanti ci terranno molta compagnia, io la vedo così.” “E sua madre?” “Saprà a tempo debito, con lei adesso è meglio non precipitare le cose. La avviserò, se Giulio torna per davvero.”

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Al taxista che mi ha portato da Dix ho chiesto di attendermi, ho aspettato dieci minuti davanti alla porta, sul pianerottolo, ho suonato decine di volte, dormivano, lui è rimasto a letto e ha mandato Iris, nella sua camicia da notte da suora anziana, si è lamentata perché non sa più dove mettere le valige, la stanza dei genitori ne è piena. Di corsa, giù per le scale della Trota, sono arrivato puntuale alle sette davanti all’edicola di via Paleocapa, così puntuale che il mio referente stava avvicinandosi in quel medesimo momento. Come da istruzioni ricevute ieri da Lauro al chiosco del parco, l’ho riconosciuto dalla cravatta rossa sulla camicia blu scuro, un giovane della mia età, basso di statura, occhi nerissimi, certamente

di origini meridionali. Mi ha allungato la mano “Gianni Marzi” ha detto con tono professionale. “sco Aliberti” ho risposto. “È il tuo nome vero?” ha sussurrato muovendo appena le labbra. “Certo.” “Primo errore, voglio un altro nome, presto, mi serve per chiamarti, per presentarti ad altri. Allora?” “Mario. Mario Rossi.” Ha riso. “Va bene, Rossi, è tanto scontato che è perfetto. Avanti Mario, abbiamo delle cose da fare, questa mattina.”

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Alle otto e quarantacinque scendevo da un taxi davanti all’azienda, Marzi proseguiva, non ha specificato dove, naturalmente. Alle nove ho un incontro con il presidente, il mio capo, il direttore dell’export, mi ha detto che vuole conoscermi. “Stai cauto, Aliberti, il presidente è un uomo di valore ma, come dire, troppo sensibile, non usare aggettivi troppo forti, e non raccontargli esperienze complesse, o dure. Rispondi alle domande e basta. Se hai fatto il soldato, sai cosa intendo dire.” Il presidente è un uomo piccolo di statura, mi accoglie seduto alla sua scrivania, nell’angolo di una stanza disadorna, se si eccettua un tappeto persiano e due quadri di grosse dimensioni alle pareti. Non mi ha chiesto di accomodarmi, e allora sono rimasto in piedi, leggermente spostato di lato, mi sembrava più discreto. “Ha visto quel pover’uomo?” Ha alzato gli occhi, blu, è vecchio quest’uomo,

molto. “Parlo del presidente Moro, è una barbarie, non trova?” Sono rimasto in silenzio, ho riconosciuto uno dei due quadri, è un Gauguin, Laura ne aveva preso una riproduzione che avrebbe voluto appendere nell’ingresso di casa. “Le ho domandato se non ritiene che quello che stanno facendo a Moro sia un mostruoso atto di cattiveria umana.” “Si, dottore, la prego di scusarmi, stavo osservando il quadro.” “Quello di Gauguin, suppongo?” “Sì, è straordinario, non crede?” “Tutti ne sono colpiti, è un falso, l’ho fatto dipingere da uno specialista, ma è perfetto.” “Comunica senso di pace, e di concordia, gli occhi della donna, scintillano, di felicità, forse.” “Lei che formazione ha, dottor Aliberti?” “Ho studiato filosofia.” “Molto bene, in quest’epoca tecnocratica l’umanesimo è l’unico argine per la difesa dell’intelligenza.” Ha abbassato gli occhi su un foglio, l’unico oggetto presente sul piano della scrivania. “Mi aspetto da lei un contributo importante. Lei ha talento, Aliberti, non mi deluda.”

* * *

Non è stato facile, ieri, sostenere lo sguardo di Grazia, quando, dopo l’aperitivo messicano e dopo la bistecca, una bontà, tenera, delicata, cotta alla perfezione, e dopo il terzo bicchiere di vino, un cabernet secco, asciutto da impastare la lingua, le ho detto che per un impegno imprevisto, ho guardato l’orologio,

mancava un quarto alle due, dovevo andare via, subito, al più potevo restare solo altri cinque minuti. Era delusa, e incredula, come aveva potuto sbagliarsi a quel modo sul mio conto, che variabili aveva scordato di valutare, era sorprendente, un giovane uomo, coccolato, vezzeggiato, servito come un principe, avevamo fatto l’amore, ieri sera dopo cena, e durante la notte, e di nuovo questa mattina, si era concessa, con liberalità, ed entusiasmo, quali dettagli aveva ignorato, come era possibile questa scortesia, l’osso della bistecca ancora caldo, le patate fritte da terminare, la crema di marroni nel frigo, insieme alla bottiglia di champagne che avrebbe servito dentro il secchiello per il ghiaccio che aveva acquistato per l’occasione. Me ne sono andato sottraendomi ai suoi occhi, due i per uscire dal tinello inondato di sole, la musica dei Pink Floyd in sottofondo, le sue scarpe sotto la poltrona di vimini, Grazia seduta a tavola scalza, il corridoio, la giacca di pelle, non avevo altro da prendere, via, aprire e richiudere la porta, stavo bene, un pranzo eccellente, e questa notte Grazia è stata meravigliosa.

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Non ho dimenticato Laura, la traccia invisibile della sua pazienza, quando la desideravo, quando era fuori luogo, dopo il pranzo della domenica a casa sua, mentre l’accompagnavo al lavoro prima di andare all’università, la sera tardi a casa mia, dopo che papà e mamma si erano ritirati e lei, davanti alla televisione, quando, tramortita dalla fatica, sorrideva debolmente e mormorava, togliendosi le scarpe e la cintura, che era la mia donna. Non ho perso la confidenza con la sua figuretta, quando negli ultimi giorni prima del matrimonio, si era innamorata di una gonna color malva che indossava ogni giorno. Io sono Laura, e la troverò.

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Gianni Marzi, il mio istruttore, mi ha accompagnato sul luogo di osservazione,

un bar elegante, dove ci siamo seduti nella veranda coperta, un cappuccino, per Gianni, per me un caffè macchiato, ha iniziato a chiacchierare, un vero esperto, di politica e del tempo, e di un lavoro immaginario, una ristrutturazione edile di un rustico sulle colline, copertura perfetta, per non perdere mai di vista il portone, il civico 54, sino alle sette e quarantacinque, quando è uscito un uomo, impermeabile chiaro, una borsa di pelle leggera nella sinistra, la destra nella mano di una bambina, di otto o nove anni, da lontano non vedo bene, ha le trecce, sembra bionda. “Vieni” mi ha detto Marzi rialzandosi, una manovra veloce, e silenziosa nello stesso tempo, una fretta non evidente, ha già pagato le consumazioni prima, quando mi ha lasciato un momento per andare in bagno. “Segna l’ora, il minuto e il secondo. Esatto, non ti sbagliare, è un elemento importante.” Mi ha fatto vedere un piccolo taccuino che sta dentro la tasca della giacca. “Comprane uno uguale, piccolo, mi raccomando.” Abbiamo seguito padre e figlia sino alla loro auto, una Alfetta grigia, interni chiari. “Prendi nota dell’ora, sette e cinquantadue.” Mi ha sussurrato mentre iamo sul marciapiede opposto, Marzi gesticolando come stesse affrontando una discussione complessa. “Scrivi anche dove siede la bambina, di solito sta sul sedile posteriore, sulla destra, ma talvolta, prima che l’auto parta, si sposta davanti, segna come è vestito lui e, naturalmente, se ci sono altri con lui, una mattina è uscito con la moglie, ma è capitato solo una volta.” Si è fermato, ha abbassato le braccia. “Bene, tu scrivi, in buona calligrafia, fatti uno specchietto, una cosa ordinata. E trova un modo tuo, personale, intendo, per esempio quando ti siedi al tavolo nella veranda ti porti un libro, fingi di essere un ricercatore universitario, il politecnico è qui vicino, fingi di prendere appunti, creati un personaggio.” Mi guarda fisso, occhi neri, mobilissimi, è nervoso, e cerca di nasconderlo. “Mi sembra semplice, o no? E stupido non sembri.” “E poi?” “Tu annota, sii preciso, e non fare domande, il tuo incarico è questo, e non sconfinare, non arrivare prima, e non fermarti dopo, ci sono altri che sorvegliano altri luoghi e altre fasce orarie, altri che non conoscerai mai.” * * *

Ho aperto la busta della lettera di Laura a Marina. La busta ha un timbro confuso, illeggibile, è una busta preparata in Italia e consegnata a mano, come le due cartoline, quella di New York e quella di Caracas, i falsari del partito armato hanno lavorato perfettamente. La lettera è un rosario di sciocchezze, non erano amiche allora e da ciò che Laura le scrive si comprende che non lo erano diventate, la stanza dell’hotel di Caracas era piccola, con l’aria condizionata mal funzionante e durante la giornata erano assillati dai rumori di lavori di ristrutturazione stradali, Tassi, così Laura chiama suo marito, trascorre la mattina a letto a leggere, mentre lei esce, ormai ha stabilito un percorso tipo, attraverso due mercati e una via affollata di negozi, quando rientra escono insieme per pranzare e per tornare nella stanza, Tassi a letto e lei, così scrive a Marina, “con il naso incollato al vetro della finestra a guardare dall’alto il eggio statico di questi sudamericani tutti uguali, grassocci e tristi.” Le scrive che si sente stanca e che non vede l’ora che quel tormento finisca, chiude chiedendole la cortesia, probabilmente la ragione vera di quella lettera insulsa, di andare dalla De Filiberti, la Rossana, per comunicarle che hanno bisogno di “veder crescere la rimessa”, perifrasi molto poco criptica per trasmettere una richiesta dell’aumento dell’importo dei versamenti che i De Filiberti effettuavano in favore di Laura e Tassi. Dunque, nell’accordo con Laura, era esclusa la possibilità di un contatto diretto tra lei e i De Filiberti, ogni richiesta o messaggio dovevano transitare su canali alternativi, la vicina di casa Marina o il bar di Elmo, per esempio. Era chiaro, il gioco di copertura del Tassi e di salvaguardia della Tiziana De Filiberti non dovevano in alcun modo essere visibili e tracciabili.

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Prima di rientrare a casa sono ato in autobus davanti al bar di Elmo, la saracinesca era aperta a metà, sono sceso subito, l’interno è illuminato, ho bussato sulla lamiera, non ha risposto nessuno, sono entrato, il pavimento è cosparso dei vetri dei bicchieri, dei portacenere e dei resti di cibo caduti dai tavoli rovesciati dai carabinieri durante l’irruzione, ho chiamato Elmo, mi ha risposto, una vocetta appena udibile, il figlio. “Sono qui, sco.” È seduto dietro il banco, è per questo che non potevo vederlo, con i piedi affondati dentro i fondi del caffè sparsi a terra, le tazzine

cadute, intere, e le griglie plastificate della lavabicchieri divelte e gettate a terra. “Guarda che disastro, ma era indispensabile? Te lo chiedo, ti sembra che sia stato necessario? Distruggere tutto? Perché? Noi siamo persone civili, potevano chiamarci, noi ci saremmo presentati, senza tutta questa messinscena, il risultato sarebbe stato identico, con meno danno, ma hai idea di quanto tempo e quanti soldi ci vogliono per rimettere a posto?” Con una mano ha segnato l’aria sopra la sua testa. “Per non parlare della figura con i clienti, qui come minimo penseranno che siamo dei fiancheggiatori, come minimo, dico.” È in piedi ora, ha il viso tirato, gli occhi cisposi, la barba lunga, mi ha chiede una sigaretta. “Papà è ancora là, fa lo sbruffone con gli sbirri, mi hanno tormentato ore, con questo Broggro, ma chi è mai quest’uomo? Pare un capo, un latitante, gliel’ho detto cento volte, che conoscevo Laura, e quell’altro, che per me è sempre stato l’olandese, e che invece pare sia questo Broggro. Con papà ci hanno interrogato insieme, stava bene, tranquillo, pacato. Lui non rispondeva alle domande, intendo quelle su Laura e quest’altro. Niente, taceva, lo hanno anche spinto, sì con una manata sulle spalle, lo hanno minacciato, anni e anni di carcere di sicurezza, le leggi speciali, il momento storico.” “E lui?” “Niente, zitto, mi guardava, come per dirmi, fai quel che vuoi, figlio mio, tu parla pure, tanto non sai niente. Anzi no, non restava sempre zitto, ogni tanto rispondeva, che lui è stato comandante partigiano e che non ha paura, di niente.” Sono uscito attento a non calpestare i cocci di vetro, il figlio di Elmo si è seduto nuovamente dietro il banco, si riposava un poco, poi avrebbe sistemato ogni cosa e la mattina dopo il bar avrebbe riaperto regolarmente alla solita ora. Ho salito le scale di casa con circospezione, non avrei voluto incontrare Grazia, sono le otto di sera, sono sveglio dalle cinque, e in ufficio oggi, dopo l’incontro con il presidente, ho avuto una riunione interminabile con i nostri agenti tedeschi, il mio capo parla male l’inglese, e ho dovuto tradurre tutto il giorno, anche a pranzo, elencando uno a uno le proposte del menù, e spiegando nei dettagli la composizione di ogni singolo piatto, i tedeschi erano estasiati, godevano a sentire le mie descrizioni, avrebbero voluto assaggiare ogni piatto e non sapevano decidersi, una giornata faticosa, ora ho fame, vorrei sedermi davanti alla televisione a bere della birra, con un gigantesco piatto di carne e di patatine fritte. Sulla porta ho trovato un biglietto. “Perdonato. Prendi le tue cose e scendi, ho preparato le costine d’agnello. G.”

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Il lunedì, alle sei, Marchetto non era in panetteria, un caso unico, ha bofonchiato uno dei lavoranti uscendo seminudo sul marciapiedi, mai avvenuto, arrivava il figlio, con la fidanzata e i figli, e Marchetto era andato all’aeroporto a prenderli, con la moglie. Sono tornato martedì, stessa ora, ormai si è abituato al mio arrivo così presto, apprezza, ha più tempo, mi ha confessato che gli piace parlare con me. “È tornato, allora?” gli ho chiesto seguendolo nella stanza dei sacchi. “Sei contento?” “Lei è bellissima, quarant’anni, un fiore…” È estasiato, sembra persino più pulito, oggi. “Una signora, dovevi vedere come era vestita, come noi, mica con il velo, scherzi, è di famiglia nobile, ha viaggiato, ha studiato a Londra, e che pelle, non una ruga, non un segno.” Si è seduto e mi ha chiesto di imitarlo. “Solo un minuto, sco, lascia che ti racconti.” Ha parlato molto, Marchetto, contro la mia fretta, al mattino non ho tempo, il programma è preciso al minuto, un ritardo può far saltare la concatenazione, così ho chiesto al taxista di fare un miracolo, che avrei lasciato una mancia e avrei pagato le multe, sono salito correndo da Dix, che ha aperto subito, stava preparandosi, una assemblea urgente, mi ha farfugliato, mentre acchiappa la valigia senza neppure farmi entrare. Una corsa in giù, i finestroni opachi di sporcizia, ho contato almeno quattro vetri rotti, non riparati da anni, fogli di giornale sui gradini, le pulizie delle scale qui le effettuano con cadenza semestrale, come quattro anni fa, la prima volta che sono salito da Dix con Alfio, quando abbiamo incontrato il giovane Lauro in lacrime. Ho ordinato la vettura, una Fiat 127, me la consegneranno a metà maggio, nella speranza che mi aiuti a fronteggiare questa esistenza frenetica. Sulla discesa verso la Collegiata abbiamo incrociato una colonna di pantere della polizia che saliva, senza sirena, dalla prima sporge una paletta fuori dal finestrino, no, non per fermarci, per agevolare il aggio delle altre auto, almeno cinque, velocissime, silenziose, tre agenti per macchina, una squadra intera.

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3 aprile 1978, operazione di polizia su vasta scala in tutta Italia, condotta sulla base delle nuove norme antiterrorismo. In totale quarantadue arresti su un totale di centoventinove fermi. Tra chi è finito in carcere, giovanissimi dell’area del movimento del ‘77, ex sessantottini confluiti nell’Autonomia o in gruppi come Lotta Continua o Avanguardia Operaia, undici accusati di porto abusivo di armi, gli altri trentuno di associazione sovversiva e due per traffico di droga, Dix e Iris, in casa di Dix hanno trovato centocinquanta chili di hashish e trenta di cocaina, una quantità, hanno scritto i giornali, esagerando, sufficiente per il consumo di due settimane di una città come Roma. Tutto questo l’ho saputo la sera, a casa di Grazia, dal telegiornale. Al mattino, ancora ignaro incitavo l’autista a sbrigarsi, alle sette e quarantacinque dovevo sedere al mio tavolo nella veranda del bar davanti al civico 54, a controllare per l’ottavo giorno consecutivo i movimenti del dirigente con la bambina. A causa di un blocco stradale dei carabinieri il taxi mi ha lasciato dalla parte opposta della strada, non di fronte al bar ma proprio davanti al 54, quello da sorvegliare. Erano le sette e cinquanta, tardi, per andare al bar, e pericoloso, il dirigente stava per uscire, Marzi, se ci fosse stato, mi avrebbe detto di abbandonare, non scendere dal taxi, proseguire, via di lì, se usciva in quel momento mi avrebbe visto, sì, sono in giacca e cravatta, ma, dopo, davanti alle foto segnaletiche, mi avrebbe riconosciuto. Non ho più avuto il tempo di pensare, il taxi andato via, le sette e cinquantuno, il dirigente è uscito, con la bambina e la moglie, li seguo, la moglie si volta, mi vede, parlotta con il marito, si volta anche lui, allungano il o, salgono su un’altra vettura, una 127 blu, o dietro l’auto mentre iniziano la manovra di retromarcia, proseguo, mi superano, la moglie mi osserva ancora, ho fatto bene a fermarmi, è una notizia importante, lunedì 3 aprile, usciti alle sette e cinquantuno, lui, moglie e bambina, saliti su auto sconosciuta, devo far avere il rapporto a Marzi, è importante che siano informati il prima possibile, il regista dell’inchiesta deve sapere, questo è un elemento che può modificare completamente il progetto.

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Ieri, 11 aprile, a Torino un commando di terroristi ha assassinato Lorenzo Cotugno, 31 anni, guardia di custodia delle Carceri Nuove, addetto ai colloqui dei detenuti. L’agguato alle sette e trenta, quando Cotugno esce di casa, gli sparano alle gambe, Cotugno reagisce con la sua Beretta, segue una sparatoria violentissima in cui la guardia carceraria resta uccisa. Un componente del commando brigatista, tale Piancone, rimane ferito, trasportato in ospedale, prima dell’intervento chirurgico dichiara di essere un brigatista ferito in un’azione di guerra, e come tale si considera un prigioniero di guerra.

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Da otto giorni Marzi mi ha affidato una nuova inchiesta, quella sul dirigente con la bambina, dopo la mia segnalazione del cambio dell’auto è stata annullata. La persona da sorvegliare è una donna, alta funzionaria di banca, esce di casa al mattino presto per due volte, verso le sei e trenta per portare a so il cane e alle sette e trenta per recarsi al lavoro, posso seguire entrambe le uscite perché non ho più l’appuntamento del lunedì e del venerdì alle sei con Marchetto, dopo l’arresto di Dix, il meccanismo del traffico è stato cambiato. Adesso se ne occupa Giulio, prende i carichi che arrivano nascosti nei sacchi vuoti e li nasconde in un magazzino che ha affittato fuori città, Marchetto paga regolarmente la roba, ma, senza Dix, la roba non si vende. Marchetto ha detto che ha autonomia finanziaria per parecchi mesi, e che se Dix non torna in tempo utile Giulio si occuperà dello smercio. Sono certo che vi riuscirà, l’ho visto, ricordavo il ragazzone rubicondo, dolce e attento con il maglione di lana grossa e il berretto da sci in testa, ora è un uomo magro, nervoso, le mani asciutte, i capelli già radi e gli occhi scavati, mi ha abbracciato, quando ci siamo rivisti, una stretta maschile potente, mi ha parlato, con la voce cresciuta, un italiano sporcato da inflessioni straniere, è affabile, gentile, ha conosciuto la guerra, è stato rapito da una banda irregolare di maroniti, è stato liberato dopo settimane, ho sentito in lui determinazione, e paura, sì, la voce trema, quando pronuncia la parola Palestina e si rompe quando parla della sua donna e dei suoi figli.

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Consegnando a Marzi il rapporto della prima settimana gli ho detto che a mio giudizio l’inchiesta era terminata, la donna, nubile, ha abitudini molto regolari, non ha mai sgarrato di un minuto, sei e trenta cane, sette e trenta partenza per la banca. “Vorrei un incarico più importante, voglio dare un contributo più significativo, ora, è il momento, c’è un prigioniero eccellente, il volume dei simpatizzanti ingrossa, credo che si debba osare di più, ed io mi sento pronto.” Ci incontriamo in luoghi sempre diversi, in genere in centro, ad angoli di strada affollati, nell’ora del eggio serale, e parliamo camminando lentamente, come due soci che dirimono una questione delicata. Lui, Marzi, veste con eleganza, abitualmente in completo scuro, con una cravatta intonata, e una borsa di pelle chiara, è piccolo di statura, parla veloce, e non ama essere interrotto. “È vero, Rossi, è il momento giusto, la caldaia sta per esplodere, il prigioniero è strategico, e il partito sta facendo ciò che serve per valorizzarlo. Abbiamo, tra gli altri, il problema del coinvolgimento dei compagni dell’autonomia, che sono di fatto organici al partito armato, ma che stentano a trovare il modello organizzativo per esprimere questa loro contiguità.” Ci siamo fermati davanti a una gelateria, la serata è tiepida, Marzi sceglie con cura i gusti, s’informa sulla composizione, discute a lungo con la commessa, si sorprende del mio declino, a suo giudizio un buon gelato può sostituire un pasto completo. “Io posso dare un contributo per facilitare questo processo.” Lecca il gelato con circospezione, lentamente, con cura, mi risponde senza voltarsi nella mia direzione “E cioè?” “Hanno bisogno di essere rassicurati.” “Chi? Quelli dell’autonomia?” “Esattamente. Desiderano sapere e vogliono essere coinvolti. Informazione e

comunicazione.” “E tu che ne sai?” È perplesso, adesso mi fissa con interesse, e con sospetto. “Ho studiato a fondo questi meccanismi.” “Non capisco bene le parole, che significa per te comunicazione? Per quello ci sono i comunicati.” “Comunicazione significa relazione, come tra me e te, non sono solo le parole, è il modo di stare vicini che ci permette di capirci.” È stato in silenzio per un po’, riesce a farsi durare il gelato per un tempo infinito, si scioglierà prima che riesca a terminarlo. “Ti farò parlare con qualcuno, ma ci vorrà un po’, diciamo una decina di giorni. Intanto prosegui con la signora, una settimana di inchiesta non è sufficiente.”

* * *

Laura aveva organizzato le nostre nozze con precisione e puntiglio, ricordo bene le serate trascorse sulle mappe della nuova casa, a cercare la sistemazione migliore degli arredi, spostava le sagome in scala di letti, armadi e sedie cercando, l’armonia, lo spazio, la funzionalità e la praticità. China sul tavolo della cucina, con il piatto di pasta che si raffreddava, e che alla fine sbocconcellava appena, era dimagrita, le occhiaie perenni, a causa della mancanza di sonno, anche alla domenica, alle sette era fuori casa, per un nuovo sopralluogo al nuovo appartamento, per provvedere alla misurazione degli spazi dopo la consegna dei primi mobili, per verificare se la progettazione dell’arredamento ancora mancante fosse congruente. La rimproveravo per l’impegno totale che poneva nella meticolosa preparazione della cerimonia e dell’appartamento, mi ero convinto che la sua ossessione per gli aspetti materiali e formali della nostra unione avesse il significato di un’assenza di emozioni e di sentimenti profondi. Mi sentivo escluso, e dileggiato, quando, nelle poche occasioni nelle quali era stato possibile, con

cautela, avevo esternato la mia richiesta di semplicità, di minor accuratezza, minor precisione nei dettagli, minor ricercatezza dei particolari, desideravo aria fresca, giovane, provvisorietà, approssimazione, disordine, anche. Accecato dalla vanità non avevo compreso come il suo annullamento e la sua dedizione fosse la più alta testimonianza di lealtà, fedeltà e amore che un uomo potesse sognare di ricevere dalla sua compagna. Non si trattava, come erroneamente avevo immaginato, di materialità contro i sentimenti, piuttosto era la saggia concretezza di una giovane donna che costruiva il luogo nel quale vivere in pace la voluttà della sua avventura affettiva.

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Grazia non mi ha fatto domande, né quella sera, né dopo, ogni tanto mi chiede a bruciapelo che genere di amici frequenti e che tipo di impegni abbia con loro, ostenta distacco, ma è evidente che è curiosa e che prima o poi avrà il desiderio di conoscere i dettagli. “Sai,” mi ha comunicato una domenica mattina, senza distogliere lo sguardo dal tegame dove sta cucinando una zuppa di pesce “volevo dirti che alla fine ho deciso di non andare a Berlino.” Mi aveva comunicato, una decina di giorni prima, che con una amica, sua socia in una delle aziende che aveva avuto, sarebbe andata a Berlino per un paio di settimane, e, se vi si fosse trovata bene, vi sarebbe restata anche qualche mese, o qualche anno. Non era più tornata sull’argomento, sino a domenica scorsa. Quando cucina ha piacere che resti seduto sulla poltroncina di vimini che ha sistemato accanto al termosifone e che le tenga compagnia chiacchierando. “Come mai hai rinunciato?” Ama cucinare, mi ha confessato, sopra ogni altra attività domestica e rifiuta ogni aiuto, anche il più elementare, come porgerle una padella, tagliare a fette il pane o portare la spazzatura nei cassonetti.

“Preferisco non andare.” Non si volta, mescola con lentezza il brodo della zuppa, attenta a non urtare i tranci di pesce che si stanno cuocendo con le cozze, i totani e le seppie. “Avevi detto che ci tenevi, che l’amica era splendida e che ti piaceva l’idea di non mettere le radici in nessun posto.” Ha preso le fette di pane tostato e le ha aggiunte alla preparazione inserendole con cautela dentro la casseruola. “Voglio restare qui, mi sembra semplice da capire. Tra cinque minuti è pronto.” Ha pronunciato le ultime parole con la voce rotta dall’emozione e si è affrettata a arsi la manica sugli occhi, sta piangendo, mi sono avvicinato e l’ho abbracciata da dietro le spalle. “Che c’è che non va?” “Niente, sciocco, ci vuole molto a capirlo?” Si è voltata e mi ha abbracciato, e baciato, sono bello, ama la mia intelligenza, le piace trascorrere le giornate e le notti con me, e sino a quando io lo vorrò lei resta qui, non va a Berlino, e da nessun’altra parte.

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Il mio nuovo lavoro è gradevole, la società è piccola, alla fabbricazione dei dispositivi elettrici che rappresenta il cuore tecnologico dell’azienda lavorano ottanta persone, e negli uffici ci sono una trentina di addetti, il prodotto, continuamente aggiornato, è all’avanguardia, e il posizionamento sui mercati di vendita, costituito da impiantisti e grossisti di materiale elettrico, è solido e in progressivo miglioramento. Non ho ancora svolto alcuna attività esterna, non ho visitato clienti, né sono stato incaricato di sviluppare progetti di marketing, per adesso il mio incarico è di ascoltare, capire, rendermi conto, ho anche l’obbligo di trascorrere una buona parte del mio tempo nella fabbrica, devo capire come

vengono costruiti i prodotti che vendiamo, conoscere ciò che tecnicamente ci distingue dalla concorrenza ed essere informato dei difetti che invece ci rendono deboli. Questo era il lavoro che Laura sognava per me, una azienda nota in città, e un ruolo che lei avrebbe potuto citare con orgoglio, assistente del direttore export, una qualifica chiara, priva di equivoci, semplice, come desiderava fosse la sua esistenza.

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Dix resta in carcere, Marchetto ha incontrato il suo avvocato, l’accusa è pesante, e le prove raccolte sono inequivocabili, potrebbe incontrare un familiare, che lui non ha, altrimenti, per la visita da parte di un amico è necessario seguire una procedura complessa, ci vuole del tempo, qualche mese, ha detto l’avvocato. Iris è stata rilasciata e per una decina di giorni è rimasta a casa di Dix, senza mai uscire, senza lavarsi, in camicia da notte, scalza, Marchetto le ha portato da mangiare, lei voleva del te, Marchetto è sceso di nuovo ad acquistarlo, mi ha detto che è dimagrita, e che è ancora più pallida. La casa precipitata in una confusione totale, per terra ci sono valige vuote, sedie e cassetti rovesciati, dopo la perquisizione della polizia Iris non ha messo a posto nulla, dorme su un materasso steso sul pavimento della cucina, Marchetto le ha dato dei soldi, ha detto che partirà, torna a casa, in provincia di Treviso.

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Il responsabile di produzione dell’azienda, un veneto, un omone di quasi due metri, accarezza con le dita enormi i manufatti all’uscita della catena, ne saggia la consistenza e li scuote per verificarne il corretto montaggio, sono semplici interruttori, deviatori e commutatori, che tratta alla stregua di monili preziosi. L’uomo è l’anima pulsante dell’azienda, nelle lunghe riunioni con la direzione commerciale e marketing, reprime a fatica l’impazienza e la noia, la sua vita è

sulla linea, accanto alle macchine, vicino ai suoi operai, che tratta come ragazzini della scuola media, tutti, anche i sindacalisti, e gli anziani, e le donne, e i meridionali. Sono stato immediatamente attratto da quest’uomo, dalla forza invisibile del suo attaccamento all’azienda, dal suo impegno, che supera le quattordici ore, coprendo normalmente quasi per i intero i due turni di lavoro giornalieri, dalla sua intelligenza, dal suo humour. Quando sono comandato a stare in fabbrica m’intrattengo con lui qualche minuto, scambiare una battuta, ascoltare come, in dialetto, alterchi bonariamente con l’ingegnere capo della progettazione, con il responsabile degli acquisti o con i manovali siciliani che non capiscono una parola di quel che dice.

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Il 15 aprile le Brigate Rosse, nel comunicato numero 6, hanno scritto che “non ci sono dubbi, Aldo Moro è colpevole e viene pertanto condannato a morte”, quel giorno ho cercato Marzi, ho seguito la procedura di contatto, e, tramite la medesima procedura, mi ha fatto sapere che dovevo ancora aspettare. La funzionaria di banca che sorveglio al mattino conferma la sua assoluta regolarità, prima la eggiata con il cane, il ritorno a casa, ventisette minuti, la seconda uscita, vestita da ufficio, l’auto, via, taglia l’incrocio davanti a casa veloce, con una guida morbida, attenta, accurata, molto femminile.

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Il 17 aprile, alla ventunesima udienza del processo di Torino, Renato Curcio ha minacciato in aula il presidente della corte Guido Barbaro: “Lei è stato insieme a Moro già giudicato. La sentenza che le Brigate Rosse hanno emesso contro Moro a questo punto si dimostra valida per tutta la vostra classe e anche per lei.”

A Milano, il 20 aprile, le Brigate rosse uccidono con sette colpi di pistola sco Di Cataldo, 52 anni, maresciallo maggiore delle guardie di custodia, in un agguato sotto casa. “Torturatore di detenuti” lo definiscono i suoi assassini in una telefonata anonima all’Ansa. Quella sera, sull’autobus del ritorno a casa, un ragazzo, con una borsa di cuoio molto vecchia in mano mi è rovinato addosso perché non è riuscito a trattenersi ai sostegni durante una frenata un po’ decisa. Mi ha porto molte scuse e mi ha aiutato ad alzarmi. È sceso alla mia fermata e ha camminato una decina di metri quasi accanto a me e poi, dopo avermi toccato un braccio, ha attraversato correndo. Il contatto non è stato causale, così, poco prima del portone di casa, mi sono fermato, fingendo di allacciarmi una scarpa. Ho percepito la sua presenza alle mie spalle. “Mario Rossi?” “Sono io.” “Venerdì, alle sette e mezzo di sera, a Milano, alla stazione Centrale, primo contatto in testa al binario 4. È un uomo, ti riconoscerà lui, tieni nella tasca sinistra della giacca una copia del Corriere della Sera.”

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Non sopportavo più gli indumenti e gli odori di Laura, nelle ultime settimane vederla nei suoi abitini da mercato, spogliarla del reggiseno e delle mutande che possedeva da quando era adolescente, annusare l’odore della sua pelle lavata con saponi economici, mi era difficile controllare il disagio, ero infastidito, e dispiaciuto, perché mi domandavo, ci vuole così poco, una gonna e una camicetta nuova ogni tanto, qualche tessuto colorato, un profumo, almeno qualche volta, perché quella sciatteria, quasi che fosse tutto scontato, un marito lo aveva, che adesso aveva anche un buon lavoro, una abitazione la possedeva, arredata, che bisogno c’era di mettersi in ghingheri, di spendere nel superfluo, ogni lira doveva essere utilizzata per ciò che era utile, ciò che serviva. Ho impiegato anni a disingannarmi, Laura desiderava me, senza forme e senza

finzioni, era certa che io avessi compreso e che io le fossi uguale, aversi, senza inutili artifici, come eravamo sempre stati, poveri, abituati a indossare gli abiti dei fratelli più grandi, se c’erano o se non c’erano, come nel nostro caso, delle zie e degli zii, pantaloni frusti, giacche femminili di colori straordinari, camice rattoppate sotto le ascelle e dai polsi e dai colletti fatti e rifatti, eravamo quelli, voleva dirmi Laura, non potevamo essere diversi, la nostra qualità era altra, la pulizia e il candore della nostra unione, la nostra ingenuità, la sorpresa per la nostra indipendenza, la nostra casa, i nostri mobili pagati con il nostro lavoro.

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In azienda, venerdì pomeriggio, poco prima di uscire, il direttore commerciale mi ha convocato nel suo ufficio. Il direttore è il capo del mio capo, riporta direttamente al Presidente, insieme a Bedin, il padrone della produzione è l’uomo chiave del successo aziendale, da lui dipendono trenta agenti italiani e venti agenti in Europa e negli Stati Uniti, si chiama Paride Bosco, cinquant’anni, un uomo di media statura, appena soprappeso, i capelli ingrigiti, che forse un tempo erano biondi. “Sieda Aliberti.” È venuto ad aprirmi la porta e mi stringe la mano con vigore. “Lì Aliberti, al tavolo rotondo, parleremo più comodi.” La stanza è ampia e luminosa, due grandi stampe appese alle pareti, pittura astratta, forse in antitesi alla scelta impressionista del presidente. “Le comunico che il periodo di apprendistato, chiamiamolo così, se lei è d’accordo, è terminato, e con successo, ora lei è pronto e desideriamo metterla alla prova.” Si è alzato e da un armadio ha tratto una carta geografica che spiega con cura sul tavolo, è una mappa della Scandinavia. “Abbiamo svolto una inchiesta preliminare, i tre paesi scandinavi sono mercati potenzialmente ricettivi, prezzi alti, distribuzione difficile, varietà dei modelli contenuti, noi desideriamo che lei approfondisca lo studio dei paesi, tutto, indicatori economici, concorrenti, prezzi, reti di distribuzione del materiale elettrico, normative applicabili, questioni daziarie, trasporti, ogni dettaglio. Tenga conto che la progettazione e la produzione hanno la capacità di costruire i dispositivi adeguati alle normative e alle abitudini vigenti in questi paesi.” Indica sulla carta le capitali, le strade di collegamento principali e sottolinea le enormi distanze tra le città, soprattutto quelle settentrionali, verso il circolo polare artico.

“Inizi da subito lo studio, vada alle ambasciate, s’informi, il primo obbiettivo è individuare il posizionamento al quale possiamo ambire” Ha estratto una agenda dalla tasca interna della giacca. “Nella seconda metà di maggio, partiremo insieme, staremo insieme due giorni, poi io rientrerò e lei si fermerà un paio di settimane, faccia in modo di avere già i contatti che servono e le informazioni che le sono necessari, l’obbiettivo è fissare accordi con almeno un paio di agenti o di distributori e iniziare i test di vendita.”

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Il 24 aprile sul Corriere della Sera è comparso un articolo che ha cercato di fare il bilancio dei trentanove giorni del sequestro Moro. “La colonna di via Fani è ata indenne nel setaccio di quella che, almeno nei primi giorni, è stata la più colossale caccia all’uomo mai effettuata in Italia. Per trentatré volte le Br sono riuscite ad agire indisturbate, riuscendo a spedire i loro messaggi ai destinatari prescelti. Con puntualità e determinatezza sconcertanti, i loro postini sono spariti nel nulla dopo aver compiuto la missione loro affidata. Sette messaggi, in quattro città diverse, distanti ognuna centinaia di chilometri e avendo sempre un unico punto di partenza. E poi le lettere a Cossiga, alla moglie, a Zaccagnini, al suo segretario. E le due foto. Mai un disguido, mai un errore, mai un o falso.” L’inchiesta sulla signora funzionaria di banca prosegue, ogni mattina uguale alle altre, stessi orari, al minuto, una noia mortale.

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Venerdì 28 ho preso un permesso di mezza giornata e, seguendo le istruzioni del giovane sconosciuto che mi aveva contattato, alle diciannove e trenta, mi sono piazzato in testa al binario quattro della stazione Centrale di Milano. Una folla, in stazione, hanno scelto bene il luogo e l’ora, uomini, donne, tanti ragazzi, studenti, credo, vestiti di scuro, è una serata fresca, molti cappotti, ancora, e maglioni, le valige grandi, e quelle moderne, con le rotelle, tenute con

disinvoltura da uomini in giacca e cravatta, nonostante il maglioncino e la giacchetta ho freddo, non come Dix, che resisteva vestito di niente a temperature polari. Al binario quattro è appena arrivato un direttissimo da Torino, una quantità di persone invade il marciapiede, mi sposto avanti e indietro, cerco di rendere visibile il quotidiano che spunta dalla tasca, cerco di capire chi sarà l’uomo, o la donna, che sto per incontrare, chi è il brigatista, perché questo è un brigatista vero, non uno come Marzi, che sono certo sia un semplice fiancheggiatore, quanti anni ha, come veste, ha una borsa, cosa tiene nella borsa, non credo che i comunicati viaggino dentro borse di pelle, quanti anni ha, da quanto tempo è un clandestino. Ieri, il 27 a Torino, alle sette e quarantacinque, attentato contro Sergio Palmieri, trentanove anni, dirigente Fiat, addetto alle relazioni sindacali del reparto carrozzeria. Dei sette proiettili sparati quattro gli hanno falciato le gambe. L’attentato è stato rivendicato con una telefonata all’Ansa. È il ventesimo in due anni a Torino, i morti sono stati cinque: Croce, Ciotta, Casalegno, Berardi, Cotugno. Mi aspettavo la manfrina dei aggi, ti vedo, mi vedi, ti rivedo, mi rivedi, e infine ci parliamo. Invece mi ha toccato il gomito, un uomo, anziano, i capelli bianchi, indossa un cappotto, non è sceso dal treno, viene dalla parte opposta. “Rossi?” “Sono io.” Mi porge la mano “Sono Giacomo Stacchetti.” Si sposta verso l’uscita. “Camminiamo, verso sinistra, usciamo dalla scala laterale.” Ho avuto un attimo di esitazione. “Avanti, Rossi, non restare fermo, per cortesia.”

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Laura avrebbe voluto che mi schierassi contro i suoi genitori, era esausta, la sua infanzia e la sua adolescenza assassinate dall’ignoranza, dall’approssimazione,

dalla superficialità, dalla mancanza, due genitori cresciuti male, sposati per sbaglio e vissuti senza ragione, e contro suo fratello, l’infido, il falso, il prepotente, aveva maturato odio, e poi rancore, che avevano cancellato i ricordi dei rari momenti di serenità. Si piegava malvolentieri alle mie proposte di compromesso, alla mia propensione al mantenimento di relazioni minimali, al mio rifiuto di rompere i rapporti, lei desiderava dimostrare il suo disprezzo, chiarire in modo inequivocabile la sua disistima, rendere esplicita la sua rabbia, con un gesto eclatante, disattendere all’ultimo momento un pranzo pasquale, non fare il regalo ai suoi per Natale, gettare sul pavimento le tazzine del servizio da caffè di porcellana e calpestarle gridando in sala. Non sopportava la mia diplomazia, la mia continua ricerca della mediazione, la mia abitudine all’arrendevolezza, all’accondiscendenza, alla rinuncia, persino. Avrei dovuto accontentarla, Laura era nel giusto, un sonoro ceffone sulla nuca, forte, doloroso, per educarli, i cattivi sono fragili come bambini, mi diceva, quando era avvilita dall’arroganza dei suoi famigliari, vanno educati, deve essere imposto un limite, oltre il quale non è loro permesso sconfinare, un segno, far comprendere che non gli era acconsentito essere dei miserabili, almeno nei confronti della loro figlia e del suo fidanzato, prossimo sposo. Laura avrebbe vissuto meglio, rispettata, il suo pensiero accolto e la sua presenza tenuta in considerazione, e noi saremmo stati in pace, senza quel macigno di volgarità e paura che la intristiva, la inquietava, le avvelenava le giornate.

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Stacchetti dimostra una sessantina d’anni, basso di statura, piccolo, dentro il pastrano grigio fuori misura, ha la barba bianca e fuma il toscano, ha l’età per essere stato un partigiano, forse un comandante, uno di quelli che, ancora giovani, per una qualche aura di autorevolezza, vengono scelti per le posizioni di prestigio. “Dove hai studiato quelle cose?” mi ha chiesto scendendo con cautela la scalinata di marmo. “Quali cose?”

“Non fare finta per finta, fa perdere tempo” ha detto allungando il o verso l’uscita. “Comunicazione?” “Proprio quella, ci interessa, abbiamo un’anima antica, la forma non conta, noi ciclostiliamo, male, spazio uno, tutto attaccato, sintassi casuale, termini generici e abusati, talora incomprensibili, difficili da comprendere, ho avuto discussioni complesse, credimi, sai, io sono un po’ bastian contrario.” Mi ha indicato la direzione, via Vittor Pisani, verso piazza della Repubblica, sulla destra, no, si ferma, cambia idea, meglio sulla sinistra. “Mi chiedo chi riesca a capire veramente il termine Stato Imperialista delle Multinazionali. Ho posto la domanda, ma non ho ricevuto risposta.” Ha alzato il bavero, e ora non fa freddo, è un gesto automatico, forse una abitudine contratta durante la guerra. “Ma il problema c’è, noi comunichiamo male, con l’autonomia, con la quale dovremmo avere un codice storico, filosofico e terminologico comune, e con la classe operaia, che ho il sospetto che sia la vittima di messaggi criptici, esoterici, alieni.” Si toglie il berretto, assume un’aria divertita. “Sai, siamo rimasti un po’ bolscevichi, abbiamo bisogno di molti decenni per digerire i cambiamenti.” “Ho studiato qualcosa all’università, poi ho letto dei libri.” “Sei modesto, mi piace questo, noi lo siamo, profilo basso, nessun protagonismo, né personalismo. Sei d’accordo?” Cammina accanto a me, chino, risultando più basso di quanto già non sia, per guardarmi in viso deve piegare il collo in alto. Non ho risposto subito. “Allora, parlo con te, Rossi, sei d’accordo?” “Va bene, certo che sì, understatement, concordo.” “Qui si parla italiano, la classe operaia non conosce le lingue straniere.” “Ma gli studenti dell’autonomia sì.” È rimasto un momento in silenzio. “Touché. Bravo.” “La comunicazione deve essere modellata in funzione delle caratteristiche dei destinatari.” “Il partito ha, tra gli altri, il compito di educare, e lo fa proponendo un vocabolario comunista, una grafica dimessa, alla cinese, il rifiuto del

sensazionalismo, che è tardo borghese, concetti semplici, reiterati e sottolineati, solo la ripetizione assicura la conoscenza.” “Dipende dai destinatari, dagli obbiettivi e dai contenuti, è un equilibrio difficile da raggiungere, talora impossibile.” “Io sono vecchio, sono nato nell’anno della scissione di Livorno…” mi ha lanciato una occhiata divertita “Comunista dalla nascita. Ho combattuto con il regio esercito in Africa e sono stato prigioniero degli inglesi per tre anni, niente resistenza, raccontavo il Capitale ai compagni di prigionia, conferenze di un’ora alla settimana, ci ho impiegato un anno.” “E partecipavano? I compagni di prigionia, dico.” “Era facile avere pubblico, non avevo concorrenti.” Ha rallentato l’andatura, si muove appena, indica la fermata dell’autobus dall’altra parte della piazza. “Non abbiamo più tempo. La tua idea mi piace, molto. Comprenderai che è necessario che io ne parli all’interno, ci sono questioni di sicurezza, puoi capire, hai referenze inossidabili, ma sono obbligato a seguire un iter. Ci faremo risentire.” Ha attraversato la strada con decisione, è già dall’altra parte, mi saluta portando la mano alla fronte, solo dieci minuti, il colloquio non è durato di più. E adesso? Io ho bisogno di Laura, mi occorre trovarla, prima possibile.

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Il 5 maggio si registrano due agguati delle Br, alle diciotto, a Milano, un dirigente della Sit-Siemens, Umberto Degli Innocenti, 51 anni, viene ferito alle gambe nell’androne di casa. Poco dopo le diciannove analoga azione a Genova: la vittima è Alfredo Lamberti, 37 anni, dirigente dell’Italsider. La mia inchiesta sulla funzionaria di banca prosegue senza novità, al bar si sono abituati alla mia presenza, mi hanno chiesto se sono un docente universitario, dove abito, se sono sposato e se ho figli, questo me lo ha domandato la cameriera che mi serve il caffè, e che dopo qualche minuto torna per informarsi se ho bisogno di qualcos’altro. Ieri, il 4 maggio, Marzi mi ha detto che siamo

quasi alla fine, una settimana di pazienza, non di più, gli ho domandato se ci sono novità per me. “Quali novità, Rossi?” “Quel discorso, la comunicazione, quello che ho incontrato a Milano la settimana scorsa.” Ha un modo sornione di fissarti, con quei baffetti alla Rodolfo Valentino. “Potrai ben capire che in questi giorni c’è altro a cui pensare.”

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Sulla religione Laura aveva una opinione precisa, era utile, e perciò andava rispettata. Abbiamo discusso in centinaia di occasioni sull’argomento, o meglio, ero io a proporre il dibattito per demolire sistematicamente le sue idee, lei, zitta, serena, sorridente, ascoltava senza ribattere, un silenzio cordialmente ostinato, che mi rendeva rabbioso, alzavo la voce, la attaccavo con violenza, non rinunciavo a cogliere le contraddizioni del suo ragionamento, la differenza tra le dichiarazioni e la sua costante assenza dalla Chiesa e dai sacramenti, la accusavo di ipocrisia, di irragionevolezza, di formalismo, le elencavo le malefatte della chiesa cattolica, Savonarola, l’Inquisizione, Giordano Bruno, la simonia, il nepotismo. Mi lasciava parlare, quanto voleva, spettatrice composta, senza interrompermi, senza protestare, anche quando alzavo la voce, e molti si voltavano a guardarci, anche quando eravamo a casa mia, insieme a quell’ingenua della mamma, che ogni tanto ci lasciava per correre in camera, credo a baciare in fretta il crocifisso. Poi, dopo, abbracciati davanti al televisore , le mutande e il reggiseno da mercato sul tappeto, la gonna arrotolata sui fianchi, stringendomi la testa sul petto, le gambe aperte, mi chiedeva di prometterle che non avrei mai parlato in quel modo davanti ai nostri figli.

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In ufficio ho molto da fare, lo studio del mercato scandinavo è complesso, sono al telefono di continuo con le ambasciate, con l’Istituto del Commercio Estero, con società italiane di altri settori di attività che hanno filiali o agenti in Svezia, Norvegia e Finlandia, invio lettere e telex e ne ricevo in quantità ogni giorno, ho raccolto i dati e le notizie e ho iniziato a stendere la relazione finale. Paride Bosco, il direttore commerciale, mi chiama ogni sera a rapporto, conosce la materia, sa quali informazioni sono necessarie per costruire un piano commerciale, mi ascolta, commenta, suggerisce azioni, soluzioni, miglioramenti. Il viaggio della seconda metà di maggio è confermato, la data precisa mi verrà comunicata la settimana prossima, che mi tenga disponibile, per due settimane. Troverò Laura prima di partire, e lei aspetterà il mio ritorno, ho una casa, e il lavoro normale che lei desiderava per me, non ha importanza se è sposata, c’è il divorzio, vivremo insieme, e ci sposeremo tra qualche anno.

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Mi corico ogni sera con Grazia, tardi, poiché ceniamo alle nove e prima delle dieci non abbiamo terminato, è una cuoca insuperabile e cucina piatti straordinari, che deglutisco con lentezza, gustando sapori sconosciuti, aromi e spezie dai nomi inusitati, bacio Grazia sulla fronte, e le massaggio le spalle, è felice di avermi, e si prodiga in ogni modo per me. Da un paio di settimane non trascorro più l’intera notte nel lettino di ferro battuto, dopo il primo sonno scivolo fuori dal letto con circospezione, e risalgo nel mio appartamento, a concludere la notte nel mio letto da scapolo. Lasciandola, pongo attenzione a non svegliarla, vanamente, Grazia è desta, sa in anticipo che me ne vado, tace, non protesta, non chiama, immobile, per illudermi di essere riuscito a non svegliarla, Grazia non desidera litigare, mi accoglie e attende con spensieratezza che gli anni trascorrano, augurandosi, se non fosse troppo invecchiata che io, più maturo, forse solo, forse deluso, decida di smettere di lasciarla sola a metà della notte.

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Il 5 maggio ho trovato Marzi seduto al tavolino del bar, in maniche di camicia, con un maglioncino rosso sulle spalle, fuma e ha già ordinato il suo caffè. “Ultimo giorno di inchiesta, anzi, inchiesta terminata, oggi festa, bevi il tuo caffè e andiamo.” “Dove?” È giovane, e si finge adulto, vuol apparire maturo, colmo di esperienza, affetta i modi di un combattente della riserva, con il risultato di sembrare una caricatura. “Ti accompagno al lavoro, così parliamo un po’.”

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L’appuntamento è per l’8 maggio, lunedì, alle diciannove e trenta, a Milano, alla stazione Porta Garibaldi, sarò io a dover riconoscerlo, indosserà una camicia blu e una giacchetta di pelle chiara, occhiali scuri, bionda, sì, una donna. È Laura, ne sono certo. Parteciperò a una riunione, si discuterà della mia proposta. Marzi era orgoglioso di essere stato il tramite, colui il quale ha garantito la mia fedeltà. Mi ha confessato che più volte, nell’ultimo mese, è venuto a controllare il mio lavoro all’inchiesta sulla dirigente di banca, e il suo giudizio finale è stato quello di un elemento ineccepibile, puntuale, discreto, intelligente, sul quale fare conto. L’inchiesta sulla funzionaria così ossessivamente regolare era finta, serviva solo a verificare la mia affidabilità, si fa, mi ha detto con aria sostenuta, dobbiamo essere certi, non possiamo correre rischi.

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Ho ricevuto una lettera di Dix, una calligrafia larga, femminile, infantile, con le consonanti maiuscole come ci è stato insegnato alla scuola elementare. Una paginetta di quaderno a righe, sta bene, non ha bisogno di nulla, mi chiede di cercare Iris, non risponde alle sue lettere, mi invia il suo recapito nel trevigiano, se posso trovarla e inviargli sue notizie. Conclude con una frase sibillina: “Sei stato un amico, resta vivo, così lo sarai ancora.”

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L’altra notte, quando mi sono sfilato dal letto di Grazia, erano le due, il respiro assente, il suo, era sveglia, con gli occhi spalancati contro il soffitto, non mi ha guardato, mentre cercavo una scarpa sotto il comodino, dalla sua parte, inutilmente attento a non far rumore. A cena aveva servito carne di agnello stracotta, una delizia, con un sugo scuro, denso, profumato e patate arrosto, con un vino nero, spesso, oleoso, è stata a lungo in silenzio, mi ha chiesto se avevo piacere ad assistere a un concerto di Bohm, con l’orchestra dei Wiener, la settima prossima, sarebbe andata il giorno successivo ad acquistare i biglietti. Ha mangiato poco e si è alzata subito per rigovernare, è stata la prima occasione nella quale mi sono reso conto che la cucina di Grazia è identica alla mia, intendo nella struttura della stanza, poiché la cura e la ricchezza dell’arredamento di questa cucina non sono paragonabili in nessun modo con quello carente, dozzinale e antiquato che mamma e papà avevano scelto per la nostra. Ha lavato i piatti lentamente e, senza voltarsi, mi ha chiesto di aspettarla in salotto, dove abbiamo ascoltato più volte una soprano wagneriana che Grazia ha specificato essere attualmente la migliore. Siamo andati a letto presto, facendo l’amore, mi ha stretto con forza, quasi con violenza, in silenzio, non un fiato, con gli occhi aperti, e una goccia di sudore sulla fronte. Il giorno dopo, l’8 maggio, sarei andato a Milano, speravo di incontrare Laura, le ho detto, appena terminato, che avrei dormito a Milano e che ci saremmo visti martedì, il 9.

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Giovedì sera, erano già le sei e mezza, Paride Bosco, il direttore commerciale, mi ha convocato per sapere per quale motivo mi serviva nuovamente un permesso per il lunedì, aveva il foglio della mia richiesta sul tavolo, ancora da firmare. “Un impegno personale, a Milano.” È in piedi, accanto alla finestra, le giornate sono lunghe, adesso, ha smesso di piovere da poco e un onda di luce gialla penetra nella stanza. Veste curato, doppiopetto e gilet, cravatta di seta e scarpe lucidissime. “Sa, Aliberti, io sono convinto che un po’ di severità, nell’educazione, sia indispensabile. E lei, adesso, è il bambino, e io il padre. E talora il padre punisce il bambino senza che questi ne comprenda i motivi, ma, lei converrà, l’importante è che li conosca il padre.” “Vuole dire che non firmerà il permesso.” Ha messo le mani in tasca, e ha iniziato a eggiare avanti e indietro per la stanza. Ha tre figli, adolescenti, tutti femmina. “Esattamente, Aliberti, esattamente.” “E per quale motivo, se posso saperlo.” “Gliel’ho spiegato prima…” ha concluso aprendomi la porta “Ciò che conta è che lo sappia io.”

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La mattina di lunedì 8 sono ato da Marchetto, alle sei, c’era anche Giulio, in tenuta da panettiere, canottiera e pantalonacci corti, ha l’abilità di adeguarsi a qualunque situazione, inforna come non avesse fatto altro nella vita e scherza con gli altri parlando nel dialetto che non sembra aver scordato. Il padre se lo

mangia con gli occhi. “I figli della Lidia, sì, la signora che si è portato a casa si fa chiamare così, sono educatissimi, io non immaginavo, credevo che là, anche tra le famiglie altolocate, i figli venissero allevati come scimmie, sai, con quel caldo, sempre fuori, dei selvaggi, li vedessi, invece, dei principi.” “Mi ha scritto Dix” gli ho detto. “Ha scritto anche a me, vuole notizie di Iris.” “Lo ha chiesto anche a me. Avevo pensato di telefonare all’anagrafe dei comuni in provincia di Treviso, ma mi sono accorto che non conosco il cognome della ragazza.” “Non lo so neppure io, sarà impossibile trovarla!” Si è una sigaretta, non è più magro come appena un mese fa, appare sereno, sorridente, persino. “Lo penso anch’io. Peccato, sembra che Dix tenga molto a quella ragazza.” “È innamorato, e la solitudine del carcere fa il resto.”

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Laura voleva acquistare un auto, in tempo per la nascita del primo figlio, avremmo viaggiato con i bambini, sì, un auto sarebbe stata indispensabile, lei desiderava trascorrere ogni domenica fuori, al lago, ai monti, al mare, anche. Per l’acquisto avremmo potuto stipulare un prestito, ma per guidarla lei avrebbe dovuto prendere la patente. Un giorno ha voluto scrivermelo, in una lettera in occasione del mio compleanno dei ventidue anni, ricordo le parole “bisogna pensare prima a quello che vogliamo fare dopo, altrimenti, dopo, si rimanda a dopo ancora, e a dopo ancora, senza fine.” L’avevo derisa, per quell’enunciato filosofico da quattro soldi, e lei non se ne era adontata, non per riverenza nei confronti della mia presunta maggiore cultura, ma perché mi amava e i miei sciocchi tentativi di convincerla che non era necessario lei prendesse la patente, poiché già l’avevo io, la addolcivano e la rendevano felice.

Spero che domani sarà Laura l’emissario mandato ad incontrarmi a Porta Garibaldi, ho un presentimento chiaro a riguardo.

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L’8 maggio a Milano due giovani hanno sparato tre colpi di pistola a Diego Fava, 52 anni, medico Inam, sovrintendente alle visite fiscali. L’azione è stata rivendicata dai Proletari Armati per il Comunismo. Sempre a Milano viene data alle fiamme l’auto di un sindacalista, Hermes Raineri, 32 anni, membro del Consiglio di fabbrica della Sit-Siemens e segretario della sezione aziendale del Pci. L’attentato è stato rivendicato con un volantino dalla colonna Walter Alasia delle Brigate Rosse.

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L’8 maggio 1978, di mattina, senza il permesso firmato, sono salito su un treno per Milano, arrivando in anticipo di due ore, che ho trascorso seduto in un bar di via Como a leggere il Corriere della Sera, La Repubblica e La Stampa. L’appuntamento è davanti al chiosco dei giornali, c’è folla, ma non eccessiva, non avrò alcuna difficoltà a riconoscerla. Marzi ha specificato che sarà vestita con una gonna scura, una camicetta bianca e una giacchetta di pelle chiara, i suoi vestiti di sempre, li potrei distinguere per il loro odore dentro la peggiore ressa di un treno della metropolitana.

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Sono arrivato, mi sento magro, e alto, come Dix, anzi, sto arrivando, ho perso qualche minuto per prendere il resto dal bar di corso Como, sono in ritardo,

l’orologio della stazione segna le sette e trentatré, ho fame, adesso, e sete, e paura, l’ho vista, da lontano. All’improvviso ho ricordato che Laura, poco prima del giorno fatale, mi aveva comunicato che forse era incinta, avrebbe fatto le analisi al ritorno dal viaggio di nozze, aveva già pensato ai nomi, Dario o Adele. Che ne era di quel bambino, mio figlio, se mai era nato? Troppo tardi, ora il tempo corre, eccola. Ha i capelli corti, come gli sono sempre piaciuti, chiari, quasi biondo platino, le scarpe basse, ma la gonna non è scura come mi era stato indicato, ha indosso la gonna color malva, come sapesse che avrebbe trovato me, o forse una circostanza straordinaria, ha poca importanza, sono vicinissimo, non sta guardando dalla mia parte, probabilmente immagina che io stia arrivando dalla metropolitana, mi sono fermato, sono a due metri da lei, non è ingrassata, e neppure dimagrita, sembra agile, giovane, nuova. L’ho chiamata cercando di non gridare e provandomi a impedire che l’emozione non alterasse la voce. “Laura.” Si è voltata, mi ha visto, ma resta immobile, ha uno sguardo stupefatto, ho alzato una mano. “Laura” ho ripetuto, e solo in quel momento mi sono accorto che lei non stava guardando me, ma qualcuno, o qualcosa alle mie spalle, che non ho fatto in tempo a vedere chi o cosa fosse, perché sono stato scaraventato a terra e, mentre due carabinieri agguantavano Laura per le braccia, ho sentito le manette chiudersi gelide sui miei polsi, la gente fugge, una voce, con un megafono, avvisa che è in corso una azione antiterroristica, che non c’era pericolo, che tutto è sotto controllo. “Laura” ho gridato, con la guancia premuta sul pavimento umido. La vedo, è inginocchiata, la stanno perquisendo, hanno trovato una pistola, che gettano per terra lontano da lei e da me. “Laura, sono io” ho gridato ancora, più forte che potevo. Mi ha lanciato uno sguardo disorientato, l’hanno presa sotto le ascelle e la rialzano in piedi, no, non appare spaventata, piuttosto delusa, sconfortata, stanca. “Laura” ho gridato, per l’ultima volta prima che un ceffone sulla bocca mi rompesse le labbra. La trascinano via, un corpo inerte, i piedi che strisciano, le braccia a penzoloni, sono in tre ad affannarsi per sostenerla e trasportarla. Mi ha guardato, alla fine, e

ha sorriso, a me, per me, per noi, e per sempre.

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