Cani Punk 3d6a54

Indice

Copertina Colophon Sono con Bukowski Acqua Due gufi Cani punk Grigia Il Fantasma senza tetto Il puro sognatore Ingar Io e Oblomov Kafka nel sonno La crapula del filosofo La stanza è rettangolare L’accordo L’assedio L’hotel sopra la stazione di G Libericolo

Liquido L’ultimo colloquio Mutazione Nastri infiniti di parole… Non era Dio Per la via Pulizie Tra Dei Tra Spagna, Portogallo, Lituania e fantasia Solo S Riflessi Scuola Silenziosamente Mondotecno Giulia e Luca L’uomo sulla panchina Dea Il Furto La Cacciata di Adamo ed Eva Inizio Storia di Eva Seconda

Storia dell’unione del Primo e del Secondo

© 2014 Società Editoriale ARPANet Srl, Milano Prima edizione: febbraio 2014

ISBN 978-88-7426-222-9 Via Stampa, 8 Tel. 02.670.06.34 [email protected]

I libri di ARPANet sono disponibili qui: http://www.ARPANet.org http://www.ARPABook.com http://www.EdizioniARPANet.it

art director: sca Fasoli a cura di: Paco Simone

RACCONTI – Collana ARPABook Società Editoriale ARPANet

Sono con Bukowski

Sono con Bukowski. Il lago è davanti a noi, immobile e sereno. Immortale, o forse già morto. Siamo seduti su una panchina e lasciamo che lo sguardo si perda dentro l’acqua. Il sole è alto ma non ci riscalda. Fa freddo. È bello sentire il gelo arrossarci la punta del naso. Ci sono sei birre sedute in mezzo a noi, altre sei sono già prive di linfa in attesa di vedere il buio della spazzatura. Bukowski non parla, non beve, osserva e scruta. Bevo da solo. Bevo da solo e spingo lo sguardo oltre acqua e colline, lo spingo dentro di me. Non vedo niente. Sono vuoto. Parliamo di donne. Devono avere qualche difetto, tette mosce e culo grosso magari. Uno o l’altro. Lo sta dicendo Bukowski. Io non sono d’accordo ma a lui non interessa. Lui va avanti e non mi ascolta. Devono bere. Bere tanto. Essere disperate e avere in sé un senso di tragedia. Così devono essere. Non sono d’accordo, ma mi piace la sua sicurezza e il suo modo di raccontarmi scopate e violenze. Parla di risse e di botte. Mi dice di quando ha sconfitto Hemingway in un incontro di boxe. L’ha fatto nero. Gli dispiace ma doveva fargli vedere chi era Bukowski. Gliel’ha fatto vedere ma un po’ gli dispiace per Papa. Scopare e non pensare. Bere e bere forte. Dimenticare lo schifo della gente che ci circonda. Bei vestiti, belle macchine. Merda consumistica e cazzate civili. Beviamo. No! Bevo solo io. Strano però. Lui non beve e parla. Mi racconta di quando ha liberato il diavolo. Era caldo e scopava da Dio. Non bisognava chiamarlo Dio. Lo faceva incazzare. Gli ha scopato la ragazza. Era bella. Bella per lui. Belle tettone grosse e culo allo stesso modo. Il diavolo gliel’ha rubata. Lei era sempre sorridente e felice. Scopavano per quarantacinque minuti e lui la sentiva urlare e godere come mai era riuscito a sentirla prima. Se ne andava sempre a metà. Prendeva il suo whisky e poi spariva per perdersi

almeno metà dell’incontro amoroso di quel mostro di diavolo. Ma in fondo non gliene importava poi tanto. Andava a puttane e dimenticava la ragazza e il diavolo. Oppure andava alle corse e dimenticava diavolo e ragazza. Era caldo. Poi un giorno è scomparso. La sua ragazza anche. L’ha fatta sparire lui dopo che ne ha conosciuta un’altra migliore. Non credeva nell’amore, lui. E nemmeno io, mi dice Bukowski, Inutile credere in qualcosa. Prima o poi quel qualcosa viene annullato e tu ci resti di merda, solo e in preda alla pazzia. Meglio essere pazzi dall’inizio ma senza inutili cretinerie di credi e fiducia. Bevo l’ultima birra e osservo il lago. Sono seduto su una panchina, di fianco a me Bukowski se ne sta immobile. Sopra di noi c’è un albero. Non so che albero sia ma è un bell’albero. Non condivido tutto quel che dice Bukowski. Io amo le donne. Mi piacciono le tette piccole e il culo rotondo, non grasso. Mi piace bere ma non diventerò un alcolizzato, forse... meglio non credere troppo nemmeno in sé stessi, no? Ma io sono del tutto incapace di credere in me stesso, quindi non devo nemmeno fare un gran sforzo. Sono innamorato e me ne sto qui a cercare di dimenticarla proprio dove tutto è nato. Lei non lo so se mi ama. Dice di sì. Inutile crederlo, vero? Vero Bukowski? Non risponde, non beve, osserva solo il lago. Lago infetto, lago illusorio, lago bello e lago in un sogno. Solo il lago. Lo vedo e lui mi ricambia svogliato un sorriso. Non lo so. Bukowski, cosa devo fare? Dimenticarla e mandarla al diavolo prima che lei lo faccia con me? Al diavolo lei e il suo ex ragazzo non tanto più ex? Che faccio Bukowski? Non lo sai nemmeno tu. E poi a te che cazzo te ne frega? Ci conosciamo appena. O meglio, io conosco te ma tu non sai nemmeno chi sono. Non penso di essere abbastanza disperato e

rottame per interessarti. Ma tanto non puoi evitarmi. Un tempo l’avresti potuto fare, e avresti anche potuto riempirmi di botte, ma ora non puoi. Devi startene qui seduto vicino a me senza nemmeno stordirti di alcool. Sono con Bukowski. Seduto davanti ad un lago di cui non ricordo il nome e della cui esistenza dovrò scordarmi. Sotto un bell’albero. Qui è nato un amore. Qui sono venuto a dargli l’estremo saluto. Sono seduto su una panchina. Dodici lattine vuote di birra attorno e un libro. Bukowski. Grazie della compagnia. Ora posso andare.

Acqua

Era l’alba del 31 marzo di un anno qualunque. eggiavo tra il lento piovigginare del desolante splendore del deserto di Atacama. Alla ricerca di un senso da dare alla noia che mi angustiava l’esistenza. Alla ricerca dello splendore delle rose di Atacama, per coglierle prima che il sole di mezzogiorno giungesse a calcinarle. eggiavo tra il rosso sangue di quel paesaggio impossibile quando lo incontrai. Stavo raccogliendo le piccole roselline di pietra create dal nulla per il nulla che dopo poco se le sarebbe inghiottite, quando mi sentì toccare da un soffice ticchettio sulla spalla. Voltai piano il capo. Non scorsi ragni, né insetti di alcun tipo, ma solo una lunga, enorme figura che se ne stava a pochi i dietro di me. “Chi siete?” “Non mi riconoscete?” “No, siete un gigante, questa è la sola cosa che so perché la vedo”. “Ho sete, una terribile sete, mi sono perso in queste lande. Avete dell’acqua?” “Certo, eccola”. “È poca, ve la finirò”. “Non importa, tra poco sarò in un altro luogo”. “Mi salvate la vita”. “Chi siete, dunque?” “Sono Poseidone, ma voi potete chiamarmi Nettuno”. “Ah! Sì, certo! Mi sembrava di avervi già visto. Ma come ci siete finito quaggiù?”

“Il mio cocchio d’oro si è staccato dai cavalli alati. Giove è irascibile, in quanto dio non poteva non esserlo, ed è ancora in collera con me”. “Be’, certo che ve lo siete un po’ cercato!” “Già. Ora devo andare, ma prima voglio sdebitarmi, ditemi i vostri desideri, io li esaudirò”. “Vi ho solo dato un goccio d’acqua, avreste fatto lo stesso”. “Mi avete reso salva la vita”. “Ma voialtri non siete immortali?” “Ci sono delle eccezioni, questa era una. Sono in debito con voi”. “Capisco. Vediamo. Vorrei essere libero. Vorrei volare. Vorrei visitare le profondità del mare. Vorrei trasformare il mio essere in qualcosa di più semplice. Vorrei scoprire la mia vera essenza, il vero significato delle cose. Vorrei non dover aver più noia”. “Capisco. Quando il sole scenderà ancora e io avrò raggiunto il mio mare vedrete realizzati i vostri desideri. Addio, uomo”. “Addio… Dio”. eggiavo da molte ore ormai, la noia mi aveva un pochino abbandonato e la sete venne a farmi visita. L’incontro con Poseidone l’avevo ormai inserito tra i molti miraggi che mi apparivano durante quelle eggiate in compagnia della dolcezza disinteressata della solitudine. Il sole si preparava a ritirarsi dietro il suo velo nero e le piccole rose di Atacama si accingevano a tornare a far parte del nulla, che era la loro primordiale sostanza. Così sino al prossimo 31 marzo. Venne il buio e i miei desideri furono, ahimè, esauditi. Ora sì che ho coscienza della mia essenza, ora sì che scorgo le profondità marine e le alte vette del cielo, ora sì che la noia è scomparsa dalla mia esistenza. Ma a quale prezzo!

Quando giunse il buio mi ritrovai goccia d’acqua, diedi vita a una piccola cara rosa di pietra, poi venne il sole e fui assunto alle nuvole, divenni vapore e in seguito venni rigettato ai miei simili, sopra al mare, durante una tempesta. Da allora la mia vita si svolge in un turbinare di strane vicende, navigo mari mai visti, visito le viscere di pesci di ogni fattezza, divento vapore, divento alimento, seguo correnti non mie, mi lascio trasportare da iridati manti di esseri di ogni genere, spazzo ponti di navi, abito scafi e saltello nell’aria, gioco a nascondino tra coralli coloratissimi e tra i luoghi ove la terra si ritira attorno al suo centro, me ne sto stretto a miliardi di miei simili, identici a me e privi anch’essi di qualsivoglia diversità, privi di coscienza, privi di identità, di noia, e di sentimento alcuno. Io serbo ancora memoria di ciò che ero un tempo, prima del mio notevole incontro con il mio re; un po’ mi affligge questa nuova forma, ma nemmeno troppo, quel che so per certo è che volevo la luna e la luna mi è stata consegnata, e ora che ce l’ho qui con me non so proprio cosa farmene.

Due gufi

Parlano di numeri i due gufi. Quello grande tiene il muso sopra il foglio e con una zampa pigia con parsimonia i tasti della calcolatrice. Concentrato sul difficile computo non sente nulla di quel che accade attorno a lui. Il piccolo gufo non è d’accordo, muove le zampe nervosamente, cerca di intervenire negli astrusi ragionamenti del grande gufo, ma non viene preso in considerazione, si agita. I tic lo stanno sconvolgendo. Il grande gufo scarabocchia numeri sul povero foglio che tiene sotto le borse degli occhi. Si sta inquietando, il grande gufo. Le cifre non vanno dove vuole, deve essere colpa del piccolo gufo, o sua, o del mondo infame. Si alza, girovaga pensieroso per la stanza. Il piccolo gufo sale in cattedra e prende a pestare i tasti lasciati liberi dal grande gufo. Bofonchia qualcosa tra i denti, mozziconi di frasi, elucubrazioni confuse e arrotolate. Il grande gufo non lo vede, non vede me, non sente nulla, i suoi pensieri sono rivolti a quei numeri che non vogliono starsene nell’ordine che lui desidera. Si ferma e solleva il viso verso il gufo piccolo che tiene gli occhi fissi sopra il sempre più desolante foglio. Deve aver detto qualcosa che ha colpito l’attenzione del grande gufo. Il grande gufo si sta irritando, palesa il suo scontento sbattendo ripetutamente le palpebre, le labbra si serrano e una piccola linguetta tenta di umidificarle, invano. La bile inverdisce il volto già verde di per se. Il piccolo gufo, intanto, non ode e non vede. Cieco combatte una guerra contro le cifre, le sta per conquistare spostandole a suo piacimento sul campo di battaglia minato di scarabocchi inintelligibili. Non percepisce la tempesta, si stima e brontola sommesso, come un temporale lontano. Il grande gufo prende la rincorsa della sua stizza e, spazientito, rivela al piccolo gufo il tormento che lo sta sconquassando. Non si permetta più, il piccolo gufo, di dire certe cose inammissibili di fronte a lui. Il piccolo gufo non sente nulla. Il grande gufo si inalbera, recalcitra come uno stallone indomito che si sta tentando di sellare. Il piccolo gufo non sente niente, tranne il suo respiro agitato al cospetto dei numeri che gli daranno il trionfo. Io percepisco la prossima bufera, mi copro di imibilità e fisso il

piccolo gufo e la sua coltre di tic nervosi. Non oso guardare in viso il grande gufo, perché so che cercherà il mio sguardo per avere la conferma della giustezza della sua ira. Io voglio starne fuori. Non mi interessano le cifre, le battaglie mi atterriscono, i gufi li lascio alle loro foreste e le loro liti. Diavolo, le loro liti. Vorrei le combattessero senza la mia pregia presenza. Il grande gufo sta urlando che non si fa mai quel che lui vuole. Falso. Falso, come un sole di ghiaccio. Il piccolo gufo sta realizzando che qualcosa non va per il verso giusto. Finally. Il grande gufo è frustrato da tutta questa mancanza di rispetto verso la propria infinita saggezza, verità ed esperienza. Falso, come un’oca a quattro zampe. In realtà, dentro il loculo-ufficio che fa da tana per i gufi, si è fatto, si fa, e sempre si farà ciò che lui desidera. Quando ciò non accade il grande gufo si offende e si ritira in un pernicioso silenzio. Alla fine l’unica soluzione è dargli ragione. Per me non c’è alcun problema. È tutta sua la ragione, se ne faccia quel che vuole, se la metta in saccoccia e se la coccoli fino alla fine dei tempi. La mia indifferenza non mi costringerà mai a sprecare tempo per far valere ragioni di cui non ho interesse alcuno. Ma il piccolo gufo vuole far valere le proprie inutili logiche. Come questa volta. Come sempre. Non capisce che al grande gufo non importa nulla di discutere, anche se a volte crede di farci fessi ammettendo che la discussione e la critica abbiano qualche utilità per lui. Mi manca il respiro. Sento bisogno d’aria, inquinata che sia, al di fuori dell’ufficio. Devo uscire. Non posso. Non c’è nulla da fare. Devo fare lo spettatore dell’ennesima sfuriata di piccolo e grande gufo. Allora vado via con la mente. Mi ritrovo dentro boschi innevati a eggiare assieme al silenzio, dove gli unici gufi che esistono sono quelli veri, appollaiati sui rami di alberi bianchi, con piume, ali e senza calcolatrici; oppure accedo a internet cercando di evadere. Ma non trovo vie di fuga.

Mi accorgo che non ho vie di scampo. E mi deprimo. Mi rifugio nel mio silenzio e osservo con distacco. Spalanco gli occhi e vedo il piccolo gufo che getta a terra carta e matita. I suoi occhi si fanno piccoli, irosi, spasmi sconvolgono il viso inacidito e con gesti convulsi e disordinati raccatta le sue cose. Ne dimentica dieci. Esce sbattendo la porta urlando qualcosa di confuso e disordinato. Poi rientra. Raccoglie altri frutti della dimenticanza. Esce ancora. Così per tre volte, almeno. Il grande gufo protesta un poco e poi tace definitivamente. Finalmente la pace. Di lì a breve anche il grande gufo se ne andrà e io rimarrò solo con i miei pensieri, scrollando la testa e pensando ancora una volta a che diavolo ci faccio ancora in quella gabbia di idiozia. Arriva l’ora di pranzo. Vado e torno. Li rivedo, il grande e il piccolo gufo. Si parlano nel loro idioma incomprensibile, non rappacificati, ma imbarazzati del loro comportamento. Ma non con me. Io non esisto per loro. Impacciati. Tra loro nulla è stato risolto. Nessuno dà ragione all’altro. Sono spossati, senza più voglia di affaticarsi in altri litigi. Discutono sulle stesse cifre e stavolta si danno ragione a forza. Uno parla, quello grande, e sviolina le sue ragioni, le medesime del mattino. Quello piccolo ha altre idee e le espone, inintelligibili come al solito. Nella ridda dell’esposizione del piccolo gufo sono contenute fesserie di immensa improbabilità. Temo un’altra sfuriata del grande gufo. Silenzio. Il grande gufo fa notare con ironica saccenza gli errori al piccolo gufo. Con sagacia, e dimentico della folle sceneggiata del mattino, il grande gufo si affida a un ridicolo tentativo di sdrammatizzare con della banale ironia che non inganna nessuno. Il piccolo gufo non accetta critiche e con un: “Appunto, io cosa ho detto!” rinnega le fesserie di poco prima e fa sue le teorie esatte ed esposte dall’ironico grande gufo. Il grande gufo ammette di aver capito male. Io scuoto la testa e mi chiedo come diavolo possano esistere due di quella specie. Ma il tempo a e io ho tuttora a che fare con quei due. E allora cosa mi lamento a fare? In realtà è la pigrizia che mi frega, forse potrei fare dell’altro, ma dell’altro non ho cognizione. E così sto qui, immobile, e mi rinchiudo dentro la mia insondabilità, senza dare ragione a nessuno dei due. Mi

rendo invisibile anche se, in realtà, già lo sono. In seguito darò ragione a tutti e due, ma in separata sede. Perché non mi frega niente dei loro litigi e del loro pensiero, nemmeno voglio capirlo. Darei ragione anche a un canotto sgonfio se mi chiedesse di dargliela, perché ho la stessa voglia di interloquire con i due gufi di quanta mai ne avrò di farlo con un canotto sgonfio.

Cani punk

Nel sentir narrare questa storia si potrebbe anche pensare che quel qualcuno che l’ha inventata avrebbe un serio bisogno di mettere il proprio intelletto nelle mani di qualche esperto medico. Dopo minuzioso esame venne provato, senza incontestabile dubbio, che quel qualcuno che la narrò null’altro fu se non me medesimo. Chissà. Forse un’indigestione notturna o forse un’esperienza fin troppo massiccia e ravvicinata con qualche specie di alcool o di droga, o forse, pensai pure, una specie di transfer della mia memoria a una precedente vita accoppiata con qualche scampolo di realtà. In verità non so proprio quale fu la ragione e l’occasione in cui mi misi a narrare una tale strana storia. Qualunque fosse la causa ho comunque sufficienti prove per assicurare a chicchessia che non tutto è inconsapevole frutto di malattia o immaginazione. Quel giorno, mi si scusi ma la mia memoria non mi permette di ricordare precisamente quale, mi recavo assieme al mio amico B all’interno di un capannone. Ci guidava una conoscenza di B che smaniava dal desiderio di sottoporre alla sua attenzione alcuni capi di abbigliamento. Quale fu la ragione di questo fatto non mi è tuttora possibile interpretarlo, dato che B odia questo genere di cose; soprattutto perché quel conoscente era un rinomato ladro e B disprezzava comprare qualunque cosa avesse anche solo un tenue odore di ladrocinio, e mi si creda se dico che l’odore in questione era un nauseabondo, ributtante fetore! Entrammo dunque nel capannone e ci mettemmo a visionare la merce accompagnati dallo scaltro sguardo del conoscente. Non comprammo niente ma rimanemmo nell’edificio e ci guardammo attorno. C’erano centinaia di ragazzi che in un enorme circolo attorno al centro polveroso dell’edificio se ne stavano fermi e silenziosi in attesa di qualcosa. Io e B non sapevamo cosa dovesse succedere e fummo spinti da quella stessa curiosità che ci fa avvicinare sempre

ad un gruppo di persone riunite con l’aria di fare o di osservare qualcosa di interessante. La qual cosa, pur essendo del tutto ignota, attira, credo, sia per via della nostra innata curiosità, sia per via di una certa forza di gravità da bovini al pascolo altrettanto innata del genere umano che ci porta a riflettere, sub consciamente o no, che se tante persone sono lì ferme tutte insieme qualcosa di degno di attenzione deve esserci per forza. Io e B ci avvicinammo e più lo facevamo e più mi sentivo il soggetto dell’attenzione generale, non so per cosa, non è che ridessero o si fero spalluccia quando avo, no, nulla di tutto questo, ma era come se un qualcosa che provocasse astio traspirasse dalla mia persona. Mi pareva di essere non solo antipatico, ma addirittura odiato da tutte quelle facce che al mio solo aggio mi fissavano con occhi duri e minacciosi. Inutile dire che toccai B e gli chiesi, o forse lo pregai, di toglierci subito di mezzo. Lo ammetto: avevo una fifa nera che qualcosa stesse per succedere, e qualunque cosa ci fosse da vedere - è inutile dirlo ma lo dico lo stesso - aveva per me perso qualunque tipo di fascino o curiosità. Gran fifa implica gran fuga: quindi fuggimmo. In realtà B non si era accorto di nulla. In questa storia, infatti, lo ricordo come un compagno sempre al mio fianco ma totalmente muto. La qual cosa è parecchio strana, giacché con lui mi trattengo spesso in lunghe dissertazioni sulle più disparate argomentazioni, le quali vanno dalle donne fino, ahimè… alle donne, nostro cruccio e nostro diletto. Sparimmo quindi dall’ostile congrega e ci dirigemmo ai piani di sopra dello stesso edificio. Stringevamo in pugno due stecche da biliardo, non per auto difesa, no, semplicemente per giocare. Quando e dove le prendemmo mi è del tutto sconosciuto e la memoria non mi aiuta. Ricordo però che B si vantò, sempre senza verbo proferir, ma solo con gli occhi, del fatto che la stecca che impugnava fosse di sua proprietà. Girovagavamo a casaccio attraverso sale colme di luce, fumo, biliardi circondati da giocatori incalliti e da spettatori annoiati. Eravamo piuttosto seccati dal fatto di non trovare nessun campo da giuoco libero per noi quando, finalmente, ne vedemmo uno. Era uno di quei tavoli piccoli e destinati all’uso dei bambini con al centro, al posto del classico castello di cinque o otto birilli minuti, cinque birilli di vari colori, grossi e a forma di fungo. Ci accontentammo e anzi, a essere

del tutto sinceri, percepimmo la nostra infanzia bussarci alla memoria e, ridendo, ci dirigemmo felici al gioco. Il tavolo era al di fuori dell’edificio, posto sopra una specie di terrazza; il cielo era azzurro e qualche nuvoletta bianca e grigia navigava sperduta sopra le nostre teste. ati alcuni minuti ci venne incontro un personaggio assai curioso. Era un ragazzo di non più di venti anni; un bel ragazzo, vestito come i gentiluomini dell’800 (o almeno è questa l’idea che mi sono fatto circa gli usi di vestire di quei tempi) escludendo i colori però, dato che ne aveva forse un po’ in soprannumero. Pareva un dandy, un artista, forse un pittore o uno scrittore di quelli che si rincorrevano per le vie di Parigi in quegli anni; un bohémien, un originale insomma. Aveva un lungo cappello a cilindro, nero e lucido, una finanziera rossa, pantaloni aderenti gialli, la camicia era verde e il gilet blu. Indossava ghette e scarpette con improbabili sbuffi di nastri blu e bianchi. I favoriti erano ben curati e ne andava così fiero che se li accarezzava benevolmente con la mano destra mentre si dirigeva altezzoso al nostro cospetto; nella mano sinistra impugnava un elegante bastone con il pomello in madreperla. Si rivolse a me chiedendomi l’onore di recarmi seco al convegno che si teneva in quel momento e dove ero atteso con trepidanza. Riprovai un conato di disgusto da inattesa paura. Terrore, direi. Mi vedevo ingiuriato di fronte a tutti e dal pubblico ludibrio messo alla berlina; mi immaginavo anche linciato, non dalla vergogna ma da eleganti bastoni con pomello in madreperla. Riuscii a scovare nel caos della mia oscura fifa una sicurezza che dubitavo di avere e risposi al mio interlocutore, tentando di imitarne lo stile, che altre faccende mi impedivano malauguratamente di poter accettare un così grazioso invito e che, questo lo dissi inchinandomi, mi scusavo con l’intero simposio per la mia assenza confidando in un loro certo e benevolo perdono. Il dandy si inchinò togliendosi il cappello e mi augurò una lieta continuazione. Se ne andò senza voltarsi e io e B rimanemmo a bocca spalancata; se ci avesse scorto ci avrebbe accusato di mancanza di stile, di tatto e ci avrebbe forse tacciato di essere zoticoni privi di charme e delicatezza. Lo strano incontro, pur avendomi preoccupato, non tardò a essere dimenticato sotto i colpi della partita a biliardo che io e B stavamo disputando con tutti i crismi della sfida all’ultimo sangue.

Fu un piccolo bastardino a interrompere la partita una seconda volta, proprio mentre colpi di rara maestria si rincorrevano sul tavolo verde. Il bastardino era pezzato e all’apparenza innocuo, lo accarezzai sopra la testa e mi parve piacergli; tuttavia, poco dopo, l’innocuo animale tirò indietro le orecchie e mostrò il bianco dei denti fino alle gengive. Ringhiava sommessamente e dimostrò un profondo odio verso la mia mano che fino a quel momento si trovava in una assai spiacevole posizione: all’interno delle schiumanti fauci del piccolo ringhioso. Sentivo la stretta farsi sempre più vigorosa e il dolore crescere in proporzione fino a che, con un grido e con l’uso della stecca, riuscii a riappropriarmi del mio arto scacciando via l’indemoniato esserino. La mano, pur pulsando con vigore non riportava nessuna ferita, ed io e B potemmo riprendere la partita. Forse il destino era contrario e, per qualche ragione sconosciuta ai più, quel nostro incontro di biliardino non durò per molto. Il piccolo innocuo bastardino scacciato pochi istanti prima rientrò nella mia vita in una veste del tutto improbabile e in compagnia di un altro cane. I due non erano né piccoli né innocui questa volta. Erano grandi. Grandi di altezza, intendo. So di non essere preciso ma ero del tutto incosciente ed ero alla ricerca di qualcosa, nei recessi della mia memoria, che fosse in grado di ridurre questa visione a qualcosa di probabile, se non di credibile, e non per ozioso gusto del sapere, ma solo per impedirmi di mettermi a urlare correndo come un pazzo. Se ne stavano al lato opposto del tavolo da biliardo rispetto a me e B; li fissavo tenendo la bocca aperta a far da cornice a un’espressione mista tra il ridicolo e il terrorizzato. B, invece, osservava quei due fenomeni disumani con una calma che mi rendeva ancor più nervoso. Avevano entrambi il muso grande come io e B messi assieme l’uno sopra l’altro. Avevano le creste punk: uno fucsia e l’altro giallo e nero. Occhiali da sole, piercing sulle orecchie e su tutto il resto del corpo; uno aveva un occhio bendato nemmeno fosse un pirata… quale orrore! Le labbra, puntute da aghi e arnesi simili, erano tirate in un ghigno di scherno e di malvagità. Ci mostravano le lunghe file di denti aguzzi e giallastri. Ci mostravano anche il liquido filamentoso che colava viscido dalle loro fauci giù fino a terra dopo aver strisciato sugli impossibili abiti. Erano infatti in doppio petto: pantaloni verdi e

giacca gialla. Uno aveva persino la cravatta, slacciata e con un nodo non proprio ben fatto. Ma diamine! Aveva persino la cravatta! I cani ci fronteggiavano non nella tipica posizione canina a quattro zampe. No! Stavano ben ritti sulle zampe di dietro e io e B dovevamo guardarli con la testa rivolta all’insù. La loro espressione era uno scempio disgustoso e preoccupante che stava tra il divertito e il maligno. Profondamente maligno. Tenevano tra le zampe due stecche lunghe almeno il doppio delle nostre. Non lo notai subito, e quando lo feci questo non mi aiutò a stare calmo. Quello che ci si rivolse non era l’amico pezzato della mia mano, la quale, nel frattempo si era rimessa a pulsare con ferocia, forse allarmata dall’assurda visita. Il cane era marrone e nero, pareva un bulldog o comunque lo ricordava, dato che in quel momento non faceva parte di nessuna specie possibile. Lo osservavo stando immobile e tenendo sempre la bocca ben spalancata, quasi come se intendessi far vedere a ciò che contengo dentro il mio corpo quella follia. Il mio esaurimento nervoso non si placò allorquando la creatura aprì ancora di più le fauci schiumanti e… parlò. Diavolo! Parlò, già, e lo fece in un modo del tutto umano. Stavo cominciando a impazzire. Ci accusò di aver scacciato il suo amico in malo modo e di avergli fatto male. Quando il mio cervello riuscii a scavalcare l’assurda idea di interloquire con un cane mi arrabbiai e gli urlai, isterico, che non gli avevamo fatto nulla e che era stato lui a mordermi, che gli avevo solo puntato contro la stecca e nulla più. Smisi di parlare e, dopo che il piccolo cane pezzato ebbe terminato di confabulare in segreto con l’amico nero, la situazione precipitò definitivamente. Io e B stavamo correndo lontani. Il cane nero mi accusò di dare del bugiardo al suo fedele amico e la cosa proprio non riusciva a ingoiarla. Presero entrambi a schiumare getti di disgustoso liquido verde e si diressero, brandendo le stecche, verso me e B che non attendemmo di vedere quale uso volessero farne e già correvamo sgangheratamente via da quel demente luogo… … E corremmo velocemente, molto, molto velocemente… più velocemente dei due folli figuri… e solo grazie a questo ora son qui a testimoniare brani di una storia che potrebbe apparire del tutto incredibile - me ne rendo conto - ma che è del tutto veritiera.

E la mia mano non tralascia mai di rimembrarmi l’accaduto: pulsando e pulsando e pulsando e pulsando…

Grigia

Grigia, triste giornata quella nell’ufficio del quinto piano del palazzo dei balordi di budenville. In realtà la giornata è tetra e grigia pure fuori delle finestre del quinto piano del palazzo dei balordi di budenville. Se proprio devo essere sincero, a budenville non esiste nulla, proprio nulla, a prescindere dal piano in cui è posto l’ufficio, del palazzo di cui il piano fa onorata parte, di ciò che si vede al di fuori della finestra dell’ufficio, del palazzo e del piano, quinto, sesto o millecinquecentesimo esso sia che non sia triste o grigio, o grigio e triste, o entrambi uno in fila al altro. Ma questo, sia ben inteso, è solo il parere di chi questa fabula vuol raccontare. Budenville è la quintessenza della tristezza e del grigio. E chiediamo scusa subito a questo grigio tanto maltrattato e sempre utilizzato al fianco di similitudini atte a disegnare pessimi stati d’animo, ma il grigio ci capirà, dopo tutto parlare di nero sarebbe esagerato e tirare in ballo il viola potrebbe essere giudicato, addirittura, fuori luogo. Quindi ci scusi il grigio, ma è proprio lui il colore che più identifica la tristezza di budenville. Capita molto raramente che qualcuno, perdendosi tra le varie tangenziali e autostrade e superstrade e statali e provinciali che attorniano budenville, capiti proprio nel centro di budenville. Nessuno sa in quale maniera un evento tanto insolito possa accadere dato che, nonostante la grande quantità di strade che la circondano, nessuna via porta, mai portò prima e, pare sia logico pensare, mai porterà a budenville. Chissà cosa dovette pensare il signor knolp quando, in un grigio e triste giorno qualunque, come sempre se ne vedono a budenville, egli, il signor knolp, guidando prudente la sua fiammante rossa automobile, attraversò tutta budenville e si fermò dinanzi al palazzo dei balordi, al numero civico 000 della via dei bifronti, nel bel mezzo del centro di budenville, nonché unica via di budenville.

Scese dalla sua auto, il signor knolp, e ancora non ci è concesso di sapere cosa egli pensò, e ahimè, devo proprio ammetterlo, nessuno di noi mai lo potrà sapere, giacché non siamo mai stati, e né mai saremo così sfacciati da osservare dentro la mente di un qualunque signor knolp, allorquando, alzando il capo e perdendo dietro di sé il bel cappello nero di panno a tese larghe, troppo larghe, vide il palazzo dei balordi svettare alto, indecifrabilmente alto sopra di sé. In effetti non è tanto l’altezza smisurata del palazzo dei balordi che potrebbe colpire un qualunque signor knolp che a budenville capitasse per caso, ma più che altro è la direzione che tale altezza prende poche decine di metri dopo che il palazzo si separa dalla terra, e forse anche un po’ le innumerevoli tonalità di grigio di cui il palazzo è dipinto potrebbero far aprire più di una bocca e cadere più di un mento a chi si trovasse ad ammirarne tale abominio. Per dirla tutta, anche il materiale con cui il palazzo dei balordi è costruito non è proprio un materiale che può, in nessun modo, are inosservato, per non parlare poi della facciata leggermente spostata rispetto al palazzo, tant’è che una inizia là e l’altro, il palazzo vero e proprio, inizia solo poche decine di metri laggiù. Così il signor knolp, senza dire una parola, si diresse verso quello strano parto dell’architettura e tentò di aprire la porta a vetri dinanzi a sé, forse per pura curiosità, o forse per cercare qualcuno a cui chiedere una informazione circa la strada smarrita, o magari solo perché aveva voglia di un caffè, anche se sarebbe stato davvero strambo per lui tentare di entrare dentro il palazzo dei balordi a cercare un caffè, quando un caffè, invero, non poteva essere di certo. Quale che sia il vero motivo per il quale il signor knolp volle entrare nel palazzo dei balordi non si sa, quel che conta qui dire è che il signor knolp mai riuscì a entrare dentro il palazzo dei balordi. “Mi scusi, signore…” “Dite a me?” “Dico a lei…” “Dica pure!” “Pure”. “Prego?”

“Per cosa mi prega?” “Non la prego, mi dica cosa mi deve dire”. “Non devo nulla a nessuno io” “Sì, certo! Ma mi ha chiamato o no?” “Come potrei se non l’ho mai vista prima d’ora? Non conosco il suo nome”. “Mi chiamo knolp, paul knolp”. “Knolp”. “Knolp, già! E lei?” “Io?” “Chi altri?” “Non saprei, mi indichi coloro di chi vuol sapere il nome e certamente glieli dirò”. “Bene, qual è il nome di questa città?” “Budenville! Come ha fatto ad arrivare fino a qui?” “La domanda è come faccio ad andarmene? Sono quattro ore che cerco di uscirne ma mi ritrovo sempre allo stesso punto. Cercavo di entrare in questo palazzo per chiedere informazioni, ma forse potrebbe essere così gentile da aiutarmi lei”. “Perché andare via da Budenville?” “Perché non è il luogo dove ero diretto”. “E quale sarebbe?” “Non me lo ricordo”. “Allora stia qui”.

“Non posso”. “Per quale motivo”. “È strano ma non ricordo nemmeno questo!” “Capita raramente che qualcuno venga a budenville, ma è certo che quando capita nessuno esce più da budenville”. “Ma che razza di posto è?” “Quale?” “Questo! Budenville”. “Certo! Budenville! Non vedo proprio perché lei dovrebbe voler andare via da budenville”. “Lei è nato qui?” “Che assurdità! Nessuno nasce a budenville, come potrebbe una persona nascere a budenville?” “Allora anche lei si è perso e non è mai riuscito ad andare via…” “Caro signore, lei si inganna, io ci sono venuto di mia volontà e non andrei mai via per nessuna ragione al mondo, sempre che il mondo abbia mai avuto una ragione per la quale farmi andare via”. “Prego?” “Pregate ancora? Non ne avete bisogno. Guardate lassù, il quinto piano di questo gioiello della architettura di budenville”. “Cosa?” “La finestra, è l’unica finestra aperta di questo stabile”. “Ebbene?” “È la mia finestra, è l’unica che si possa aprire, l’unica finestra che ha la vista

sull’esterno”. “Ebbene?” “È l’unica finestra di budenville che ha la vista sull’esterno e non sull’interno”. “Ma cosa…” “A budenville ci si guarda dentro, non ha nessun senso per noi di budenville guardare fuori, ma io sono il capomastro della città e questo mio grado mi obbliga a dare un occhio al fuori. È da lì che ho visto la sua automobile grigia giungere qui, e mi sono mosso a venirle incontro. Sono l’unico a cui è consentito parlare con gli stranieri che giungono a budenville”. “La mia auto non è grigia. In ogni caso: ebbene?” “Ebbene vi do il benvenuto a budenville. Questa è la chiave della città, il cui uso è per noi un grande mistero, dato che budenville non la si apre e nemmeno la si chiude, ma la tradizione è radicata da generazioni ed è scritto che allo straniero che giunge alle nostre porte cavalcando il grigio bisogna consegnare la chiave. Eccole la chiave”. “E cosa devo farne?” “Nulla”. “Grazie”. “Di cosa?” “Per l’onore che mi avete appena concesso”. “Quale onore?” “Quello di avermi consegnato la chiave della città”. “Ah! Questo! No, lei si inganna. Non è un onore. È solo una tradizione che per noi non ha alcun valore. La chiave è sua e ora venga che le mostro la sua casa”. “La mia casa? Ma io devo andare, se mi dite che strada prendere io la prenderò…”

“Perché prendere una strada? Cosa ve ne fareste? Lasciatele dove sono le strade. In ogni caso non potete andare via”. “Cosa dite?” “Perché prendere una strada? Cosa ve ne fareste? Lasciatele dove sono le strade. In ogni caso non potete andare via”. “Ho capito! Intendevo dire… perché io non potrei andare via?” “Perché da budenville non si va via, a budenville si giunge e non è proprio possibile andare via. Se ci provasse, mio caro signore, girereste attorno per l’eternità senza mai riuscire ad arrivare alle strade da cui provenite”. “È assurdo, se ci sono arrivato potrò anche andar via. Fatemi salire al vostro ufficio, da lassù vedrò quale via prendere”. “L’assurdo è che voi siete qui e comunque non è possibile per nessuno accedere al mio piano”. “Perché?” “Perché è il mio piano, e a budenville nessuno va in nessun posto che non sia il proprio piano”. “Perché?” “Perché no. A chi interessa accedere a ciò che è di altri? Ognuno di noi contempla il proprio intimo, nessuno è portato a interessarsi dell’altrui felicità”. “Ma io non voglio contemplare nessuna intimità, odio il grigio e la tristezza che trasmette, non ho nessun interesse a rimanere qui a contemplare il dentro, che sia mio o quello di chicchessia. Di quale felicità, un luogo del genere, può mai essere dotato? ” “Che scelleratezze sta dicendo? Odiare il grigio, la tristezza? Quale tristezza? Quale grigio? Grigio qui a budenville? Qui a budenville abbiamo il vanto di contenere tutti quanti i colori di cui il mondo è dotato! Grigio? Mi state dicendo che voi non vedete i nostri colori? Questo palazzo secondo lei è grigio?”

“Grigio. Con alcune centinaia di migliaia di sfumature ma completamente, inesorabilmente, spietatamente, ineluttabilmente, irrimediabilmente grigio”. “Ha ingoiato un dizionario dei sinonimi?” “Prego?” “Non pregate. A budenville non esiste il grigio, solo là fuori tutto è grigio. Dalla finestra del quinto piano del palazzo di cui lei non vuole vedere i milioni di colore di cui è formato, io vedo l’intrecciarsi delle arterie di quel mondo triste e grigio da cui lei viene. Ora, io le offro di uscirne e di stare con noi, di vivere nel colore e nella felicità che solo budenville può offrirle. In ogni caso non ha altra scelta, da budenville non v’è ritorno”. Il signor knolp si rimise in testa il bel cappello nero di panno a tese larghe, troppo larghe, osservò la chiave della città, la gettò di fianco a sé scuotendo il capo, e innestò la prima. A budenville non lo rividero mai più, come mai più lo rividero le varie tangenziali e autostrade e superstrade e statali e provinciali che attorniano budenville. Però, se mai vi capitasse di are tra le varie tangenziali e autostrade e superstrade e statali e provinciali che attorniano budenville, potrete notare una bellaautorossafiammante oppure una triste vecchiagrigiaauto, quel che vedrete dipenderà solo dai vostri occhi, abbandonata laggiù tra quei sentieri polverosi con la portiera dell’autista aperta. E se mai il vostro sguardo avesse il tempo di perdersi oltre il dedalo di sentieri polverosi, oltre l’auto grigia o rossa abbandonata, potreste persino scorgere budenville… come una tristegrigiavisione o come un eccezionalemiraggiocolorato… ma anche questo dipenderà solo da ciò che i vostri occhi avranno la cura di mostrarvi.

Il Fantasma senza tetto

Dove inizia la saggezza e finisce la demenza? In che luogo, in quale stagione, in quale particolare momento della propria vita, ordinaria, straordinaria o indecente che sia, un essere può chiamare se stesso saggio o pazzo? L’opinione dei più mi vede triste malato di mente, com’è possibile che io mi veda invece detentore della comprensione? Dove sta il mio sbaglio? Dove il loro? Chi sono loro per considerarsi consapevoli della propria forza e della propria veridicità di intenti, tali da chiamare me pazzo e saggi loro? Cosa sono io? Perché qualcuno che non ho mai avuto la fortuna di conoscere, così da potergli sputare in faccia tutto il mio sconforto, tanto tempo fa, forse millenni, mi ha cagato dentro questo cesso di luogo? Chi era la donna o puttana? Sarà puttana dato che tanti sono coloro che figlio di tal femmina aman appellarmi. Chi non ha pensato ad un aborto omicida di problemi creando un aborto che di problemi ne ha milioni? Chi era l’omiciattolo che ha prestato il suo fetido sperma alla ovulazione di questo marciume? Non ricordo un minuto della mia vita, non rimembro niente di positivo, ma nemmeno di negativo, non ricordo cosa sia il bene o cosa sia il male, so solo che esistono due divergenti e drastiche opinioni che vedono una delle due cose legate strettamente a me e l’altra del tutto a me opposta. Qualcuno, forse la puttana e il donatore di sperma, forse loro prima di morire o prima di darsela a gambe, forse loro mi avevano in qualche lontano lustro, insegnato o impartito o fatto entrare in testa con il musicale accompagnamento di un bastone, il concetto irreversibile di bene e quello scostante di male. La ragione per cui io ero pestato e il mio solo essere al mondo doveva essere di certo il male, era disgustosa, era… coglioni che eravate… era colpa vostra, non mia, ma voi stessi dovevate pestare a sangue, dovevate sbudellarvi per cercare quale organismo demente ha permesso alla vostra inutile anima di cagarmi fuori dal vostro pestilenziale corpo. Glielo dissi? Forse sì, un ricordo si disfa dello sporco lenzuolo sotto il quale si è

sempre celato, forse presi a due mani il mio coraggio e dopo la ventesima frustata decisi: parlai! Ora ricordo. Fu quattro anni dopo aver compiuto il quarto della mia inutile vita che smisi per protesta di aprire bocca e di comunicare con quei due esseri che non mi volevano in giro e che mi malmenavano come si malmena un tappeto per fargli rimettere all’aria tutta la polverosa sporcizia che trattiene. Forse per pigrizia, o forse per pura cattiveria. Rimasi muto per quattro lunghi anni; a scuola mi definirono violento e non mi ci vollero, sarei dovuto andare in una scuola per altri scarti pericolosi e problematici come me, ma nessuno mi ci portò mai, e quando decisi di andarci da solo, invece di essere seduto a un banco ad ascoltare un uomo dotto che mi avrebbe tirato fuori dalla menzogna in cui ero immerso, mi ritrovai sdraiato e dolorante in un letto candido, troppo bianco per essere mio. Una donna mi sorrideva, bianca anch’essa, un uomo di bianco vestito mi tastava dolcemente e no, non potevano essere l’individuo che viveva con me e con quella donna in quella casa sporca. No, tutto era troppo pulito, irreale secondo la normale percezione di realtà che avevo imparato a conoscere, a disprezzare e a considerare l’unica vera e palpabile, il resto era sogno, ombra, impossibilità. Solo il lancinante e pulsante dolore che sentivo ogni volta che respiravo riportava alla luce la mia condizione di miserabile ragazzino casualmente, colpevolmente esistente. L’uomo bianco, un angelo forse, mi sussurrava gentilmente frasi che non comprendevo, mi chiedeva cosa sentivo e se mi faceva male se mi toccava lì o lì o là o qua sugli occhi inutili e che non ricevevano dall’esterno nessuna nitida immagine tale da poter capire dove fossi e cosa stesse succedendo. Solo dopo parecchio tempo fatto di luci e ombre, di forme e di tenui soffici apparizioni di figure inconsistenti e vaporose mi resi conto che ero in un ospedale, che ero caduto da una bicicletta (che non avevo mai posseduto) e che mi ero fratturato un braccio, tre o quattro costole e che avevo occhi e viso ridotti a una maschera allegorica. Accidenti a quella bici che non ero capace di adoperare! Ahi ahi ahi! Ero proprio un ragazzino troppo vivace e troppo poco responsabile, i miei genitori preoccupati mi osservavano mentre con il dottore palpeggiatore discutevano convinti di non essere ascoltati. Quanto tempo era ato? Giorni, mesi o solo attimi di incoscienti visioni?

Erano due mesi che non mettevo il naso fuori da quell’ospedale! E parlai, finalmente! I responsabili della mia vacanza ristoratrice nel bianco paradiso di angeli che si prendevano cura di me si guardavano sicuri di aver fatto cascare il povero dottorino nella loro menzogna, gli avevano parlato di una bici, di una corsa rapida e ceca, gli avevano narrato di un tonfo e di mille capriole avvinghiato al metallo della immaginaria bici, rossa. Si erano inventati di sana pianta una discesa e di un auto che avevo evitato per puro miracolo. I porci piangevano. Piangevano, era troppo! Sentii tutto, capii tutto e gridai la mia sofferenza, per la prima volta dopo quattro anni la voce intrappolata dentro di me uscii come un mare d’acqua che la diga vecchia e stanca non riesce più a trattenere. E gridai! Quello che non sapevo, era che il dottore non era così stupido e non era così ingenuo. Lui sapeva e fu lui che denunciò i due picchiatori. Andarono in galera e io mi persi per le mille vie della burocrazia e delle famiglie. Non volevo più vivere in quel modo, e vedevo tutte le famiglie come un’eco di quella orribile che un tempo fu la mia famiglia. Scappai, scappai, corsi, camminai stravolto, mi nascosi, poi dimenticai tutto, nulla ero e il nulla ha preso possesso della mente e dei ricordi, da quando bambino fuggii dall’inferno non ho più sensazioni e né paure. Solo il vuoto abita in me e ora sono quello che sono: un barbone che sa cosa sia la coscienza, che sa cos’è in verità la saggezza e la consapevolezza. A breve morirò. Ma prima prenderò ancora un po’ di questo morbido panino che il cestino rigurgita insoddisfatto. A me piace, lo prendo in mano, lo guardo felice, alzo lo sguardo e vedo l’uomo nella sua luccicante rotolante bara di latta nera che mi osserva, forse disgustato. Vedo due ragazzi ridere di me, ma non mi interessa nessuna delle facce che scorgo e che mi spiano. Io solo sono vivo. Rido di quegli scarti che la gente butta via definendola spazzatura. Ah se non ci fosse la vostra spazzatura? Cosa mangerei io? Be’ ma la gente è tanta, e tanta è quella stupida che getta succose leccornie come questa e io me ne nutro prima di gettare l’ultimo sbadiglio in direzione di questo mondo per fare il o finale verso un paradiso di barboni e di panini mezzi mangiati. Ecco la mia saggezza! Colei la quale mi chiama, tentatrice e chiarificatrice, lei, la sola che mi abbia

dato la luce per cancellare le ombre di un esistenza buia e triste. La risposta è questa: io so di essere saggio in quanto so, con precisione assoluta, che devo terminare di essere: ora. Lo so e ne sono grato al dio dei barboni. Perché so che devo morire? Perché il senso della vita, il senso della vita per uno come me è solo quello di capire dove bisogna disegnare un punto, scavare e iniziare a seppellire la speranza per dedicarsi alla ricerca del riposo, della pace. Ora che l’ho capito mi getterò dal ponte e che i topi assaggino di me come io ho assaggiato di loro, che la scura acqua di questo Tevere che da millenni scorre e ride di me mi beva come io ho fatto di lui, che io prenda la sua strada e mi trascini per sempre per il suo percorso mondo di speranza. L’uomo si allontana sulla buia lastra di cemento, incrocia lo sguardo con quello di una giovane ragazza bionda con uno zaino rosso. La ragazza si volta a osservare l’uomo e ne vede assottigliarsi i contorni, la figura si fa trasparente, ora vede oltre di lui, attraverso lui. Una specie di dissolvenza ingoia la sostanza di cui è fatto e lo annulla fino a lasciarne solo l’ombra e pian piano neppure quella. La ragazza si stropiccia gli occhi incredula, ha visto bene e ne è certa, ma se ne dimenticherà come di un sogno di cui al mattino non restano che poche schegge di ricordi inutili e incerti. L’uomo continua la sua peregrinazione calpestando la grigia striscia di asfalto, incrocia lo sguardo con quello di un giovane ragazzo con in mano un libro di Dostoevskij. Il ragazzo si volta a osservare l’uomo e ne vede assottigliarsi i contorni, la figura si fa trasparente, ora vede oltre di lui, attraverso lui. Una specie di dissolvenza ingorda si nutre della sostanza di cui è fatto e lo annulla fino a lasciarne solo l’ombra e pian piano neppure quella. Il ragazzo si stropiccia gli occhi incredulo, ha visto bene ne è certo e non se dimenticherà mai come di un sogno talmente reale da farci male e capace di svegliarci nel cuore della notte incapaci di trattenere un urlo.

Il puro sognatore

Siete mai ati per le vie di R? R si stima di essere una delle più brutte cittadine del nord Italia. Fidatevi, è proprio così. Non la troverete mai su nessuna guida turistica, almeno che non ne esistano di tali specializzate nell’elencare e commentare i luoghi meno ameni nei quali un viaggiatore possa capitare. Ad ogni modo, se mai ci foste ati, vi sarete, molto probabilmente, anche voi imbattuti nel puro sognatore… Magari non l’avete visto o nemmeno l’avete riconosciuto… ma lui era lì… Ora, purtroppo, non lo troverete più in nessun posto… Nessuno può dire quale altro sogno sia andato a sognare il mio puro sognatore… Era un giorno di metà giugno ricoperto di quel caldo insostenibilmente umido che rende umidi i pensieri oltre che la pelle. Girovagavo per le vie di R perso e senza meta, felice nella mia malinconia priva di ragioni. Il cielo era di un azzurro slavato e il sole era dappertutto e in nessun posto preciso, ma obbligava a tenere chino il capo e strizzati gli occhi. Giunsi a un incrocio che imponeva una scelta obbligata tra destra e sinistra perché un muro alto, grigio, scrostato e molto vecchio limitava la scelta e la fantasia di poter prender per la direzione che mi stava dinanzi e che mi avrebbe evitato noiose, tortuose considerazioni. Mi soffermai a scrutare le due possibilità e poi decisi di girare a sinistra perché in fondo alla via vedevo la speranza di verdi alberi, mentre a destra non v’era nulla se non l’infinita voracità del muro e dell’abbandonata manifattura che esso proteggeva. In faccia alla fabbrica c’era un palazzo molto alto, molto giallo e molto brutto. A tentare di rendere bucolico l’aborto abitativo c’era un piccolo giardino di pochi metri quadri e un alberello triste e spelacchiato che si piegava laddove un balconcino basso basso tentava di schiacciarlo. Sotto l’alberello, all’ombra, c’era una sedia a sdraio anch’essa gialla, un po’ arrugginita e che dava l’idea di essere molto cigolante. Seduto sopra la sedia a sdraio gialla, un po’ arrugginita e che

dava l’idea di essere molto cigolante, all’ombra del triste alberello pressato dal basso balconcino c’era il puro sognatore con un atlante aperto sulle ginocchia. Non sapevo ancora chi fosse e di certo, a vederlo, mai avrei potuto immaginare che si trattasse proprio del puro sognatore. Brutto, calvo, di un’età che poteva spaziare dai cinquanta ai settanta anni, con un colorito che bene si abbinava al grigio dell’opificio, al giallo del palazzo, al verde smorto dell’albero e al grigio dell’ombra che lo ricopriva. Il naso butterato, grosso e rossastro, sopra il quale se ne stavano placidi e indifesi un paio di occhialetti dalle lenti unte e crepate. Indossava una canottiera di cotone che un tempo doveva essere stata bianca e dalla quale sbocciavano i peli canuti del petto, un paio di calzoncini scozzesi troppo attillati sulla troppo prominente pancia lasciavano respirare due ossee gambette nemmeno troppo pelose, ma fin troppo venose; infine, a completare l’affascinante miss del buon uomo, un paio di quelle splendide ciabatte marroni che si incrociano sul dorso del piede e che permettono allo stesso sia di prendere aria quanto di inorridire lo sguardo che sopra, incautamente, dovesse caderci. Osservai a lungo l’uomo ando e quello mai alzò gli occhi dall’atlante. Il libro che consultava era gualcito, la copertina era stata scocciata più di una volta e più di una volta si era liberata dall’adesivo che la legava, aveva alcune pagine staccate e molte macchie di unto sopra di esse. L’uomo seguiva uno di quegli aloni muovendo il dito indice come a seguire una strada e, intanto, mormorava, una dopo l’altra, come una litania, alcune parole che non sentivo, ma che intuii essere nomi di città, paesi, fiumi, monti, attraverso i quali il suo dito stava viaggiando. Continuai nel mio annoiato peregrinare e mi inoltrai nel bosco fino a giungere alla mia lontana dimora. Il giorno dopo e molti altri ancora a seguire ai a vedere l’uomo e il suo atlante e ogni giorno lo ritrovavo nello stesso posto alla stessa ora. Provai, per curiosità, a are in altri orari e lo trovai sempre nello stesso posto, anche se l’ora cambiava. ai di notte e non lo trovai, né lui né la sedia a sdraio e nemmeno l’atlante. Dopo circa un mese di indagini scoprii che l’uomo, la sdraio, l’atlante avano insieme sotto l’ombra dell’alberello l’intera giornata, dalle sette del mattino alle nove di sera, con due pause, presumo per il desinare, dalle 12,30 alle 13 e dalle 19 alle 19,30. La questione mi incuriosì così tanto che cominciai a fare domande circa il mio viaggiatore della sedia a sdraio e seppi che

non era sposato, che non era mai stato visto uscire dal palazzo, che nei mesi estivi, da anni, da secoli forse, se ne stava sopra la stessa sedia a sdraio che non dava solo l’impressione di essere cigolante, ma che lo era proprio e che l’alberello era cresciuto solo negli ultimi tempi conservando comunque quella sua aria triste e la sua essenza spelacchiata. Venni a sapere, da un vicino di casa dell’uomo, che nei mesi invernali se ne stava sempre chiuso nel suo appartamento, quello del balcone che schiacciava l’alberello, e che solo quando la giornata non era particolarmente fredda lo si poteva scorgere seduto sopra la sedia a sdraio gialla, sopra il balcone, sopra l’alberello pressato dal balcone, intento a borbottare qualcosa di incomprensibile e a indicare vie sopra l’atlante. Opinione comune delle persone intervistate era che il mio viaggiatore immobile non fosse altro che un povero pazzo. Riflettei a lungo sul da farsi e, dopo aver scartato come banale e feroce l’opinione comune, decisi di sfamare la mia curiosità andandolo a conoscere di persona. Un giorno di agosto, alle otto di sera, mi presentai deciso a scoprire qualcosa circa il suo modo di vivere. Egli mi squadrò da capo a piedi, non disse nulla, e senza degnarmi di rispondere al mio saluto riprese la sua strada con l’indice. Mi arrabbiai non poco a causa della poca educazione dimostratami, ma non per questo mi scoraggiai e due giorni dopo ritornai. Ahimè! Quante volte ancora mi dovetti arrabbiare prima che quel bel tipo mi dimostrasse un pizzico di attenzione! Era un giorno in cui il sole non dava tregua alla brutta cittadella. La feroce luminosità ne denudava i confini e gli anfratti peggiori rigettando alla vista tutta quanta la sua mesta disarmonia. I i mi portarono al solito muro dinanzi alla dimora del puro sognatore. La sedia a sdraio gialla non c’era e grande fu la mia impressione quando da dietro l’alberello smunto vidi comparire l’ometto, il suo colorito che univa le più tristi coloriture, la canottiera lurida, gli occhialini sporchi, il naso butterato e un sorriso di denti mancanti diretto proprio a me. Mi volsi a cercare qualcuno a cui forse stava ammiccando e che, involontariamente, celavo, ma non c’era nessuno. Mi disse di andargli vicino e non me lo feci ripetere due volte. Mi invitò nella sua dimora, ma non starò a raccontarvi come fosse, immaginatela pure. Pensate

alla stamberga peggiore che vi possa are per la mente, poi peggioratela quanto più potete. Ne risulterà un modello ancora lontano, ma, se sarete stati davvero bravi, vi sarete fatti un’idea un poco più prossima alla realtà. Prima che potessi rifiutare mi trovai dinanzi un bicchiere, incrostato e giallognolo, dentro il quale soffocava un liquido scuro su cui galleggiavano dei piccoli iceberg che avevano un aria di sabbiosa sofferenza. Mi disse essere cocacola: un viatico per i camminatori come me. Alzai il calice e finsi di portarlo alla bocca, poi presi a chiedere lumi sulla persona meravigliosa che avevo avuto la fortuna di incontrare. Tale fu la mia sorpresa a sentir parlare quel mio strambo ometto che molte ore più tardi, quando terminò le sue evoluzioni immaginifiche, notai di aver svuotato il bicchiere del suo contenuto senza che me ne fossi accorto e, grazie al cielo, senza letali conseguenze. Uscii dall’appartamento accompagnato dal mio nuovo improbabile amico che, trascinandosi dietro la sua sedia a sdraio gialla e tenendo sotto l’ascella l’atlante, mi congedò dicendo: “Ora devo partire. Grazie della visita, amico mio”. Rimasi impietrito e tentai di chiedere qualche informazione, ma ormai era lontano… seduto sopra la sedia a sdraio gialla, un po’ arrugginita e che aveva dimostrato di essere effettivamente molto cigolante, all’ombra del triste alberello pressato dal basso balconcino, c’era il puro sognatore con un atlante aperto sulle ginocchia… e ormai non vedeva me né qualunque altra cosa. Era in viaggio. Seduto al suo tavolo mi aveva raccontato chi egli era e cosa faceva, o meglio, chi credeva di essere e cosa riteneva, assurdamente, di star facendo. Dapprincipio pensai si stesse prendendo gioco di me, ma poi avvertì che quel che stava dicendo era l’assoluta verità, o almeno, era la verità assoluta a cui credeva. Mi elencò un infinito numero di luoghi e mi descrisse accuratamente posti che, forse, mai vedrò, ma nei quali, ne sono certo, se mai dovessi capitarci scoverei persino qualche segno del suo aggio tanto la dovizia di particolari e la maestria nel descriverli seppero farmeli vedere, oltre che immaginare. Tutti i continenti, tutti gli stati appartenenti a essi, tutte le regioni, le province, i comuni, le zone, le paludi, i sentieri, i fiumi, i monti, i laghi, gli angoli più impervi e nascosti, quelli più poveri e tremendi che le cartine stesse si rifiutano di riportare, tutte le giungle, i boschi, i torrenti, le oasi, i canali, i vicoli, le mura,

i prati, le colline, le anse, i declivi, i sassi, tutto quanto questo mondo sembrava aver già sentito su di esso il peso dei piedi di quell’assurdo ometto. Chiesi, con tutto il rispetto, come fosse possibile che avesse viaggiato tanto tenendo conto che sempre sotto il suo alberello schiacciato dal suo stesso balcone era stato negli ultimi tre mesi, e che nello stesso luogo era stato visto da che il mondo aveva luce. Rispose che era una bugia, che era appena tornato e che erano anni che non ava dalla sua casetta di R. Sostenne che non aveva nessuna sedia a sdraio gialla, nessun alberello sotto cui stare a poltrire. Ero allibito. Mi chiese come sarebbe stato possibile allora che un sedentario annoiato potesse avere un fisico di così eccezionale vigore, un aspetto così florido e possente. Come potevo solo pensare che un giovane della sua statura, della sua bellezza e della sua forza potesse aver mai voglia di poltrire sopra una squallida sediola mentre nel mondo c’era tanto, così tanto da vedere? Mi chiese se fossi per caso matto. Mi spiegò che un bel giovane come lui era muscoloso, sempre abbronzato e con sempre un paio di ben solidi scarponi ai piedi sarebbe dovuto essere seriamente malato per sprofondare sotto un ramo a perdere tempo e a veder morire il proprio vigore senza nulla fare. Lo credevo forse un mentecatto? Uno stupido annoiato? Lo ritenevo forse un vecchio avvizzito intento a leggere fumetti e a osservare con le braccia dietro la schiena i lavori in corso? Lo consideravo possibile? Ma l’avevo visto? L’avevo osservato? Avevo veduto bene chi invero fosse? Invero non era arrabbiato; sì, era solo un pochino scaldato, e mi aveva così bene mostrato il giovane vigoroso e bello che credeva di essere che per un qualche secondo lo vidi persino. Già, giuro che lo vidi. Poi tornò il mio solito ometto, pancia prominente, brutto e sporco, malaticcio, debole e leggermente folle. Quando notai di avere svuotato il bicchiere della sua anima oscura, si alzò e mi disse che era ora che io lo lasciassi andare a preparare lo zaino per l’indomani. Sarebbe andato a fare un viaggio molto interessante attraverso le vie dei canti. Gli aborigeni suoi amici lo attendevano per mostragli l’ultimo angolo che non aveva mai visto. Disse che non sapeva se sarebbe mai più tornato e volle salutarmi con molto calore, come un vecchissimo amico a cui

bisogna dire addio. Ero costernato, ma lo salutai con altrettanto trasporto. “Ora devo partire. Grazie della visita amico mio!” furono le ultime parole che mi disse. Dopo di allora mai più mi parlò e, credo, nemmeno mi vide. ai spesso dalla sua dimora, ma non mi diede mai attenzione, mai mi invitò a entrare da lui, mai, invero vidi i suoi occhietti guardare altro che non fosse il suo indice che attraversava gli unti confini del mondo a cavallo dei fogli gualciti dell’atlante. arono cinque anni e, nonostante tutto, mi dimenticai di lui. Poi, la scorsa estate, ando di nuovo da R e attraversandone la bruttezza mi tornò in mente il mio viaggiatore. Cercai il muro, il palazzo e la ditta abbandonata, e, come spesso accade in luoghi brutti come R, notai che nulla, proprio nulla era intervenuto a cambiare almeno una virgola o a rallegrare la sempiterna, immobile caducità del piccolo comune. A R il tempo si era dimenticato di scorrere, ma non di far male. Il mio puro sognatore era sempre al suo posto. Il palazzo era sempre molto alto, molto giallo e molto brutto. Il piccolo giardino era sempre il piccolo giardino ombreggiato appena dal sempre triste alberello spelacchiato. Il balconcino basso era lo stesso balconcino basso che opprimeva il triste alberello. La sedia a sdraio gialla, arrugginita e cigolante non era migliorata e lui, il puro sognatore, era lo stesso puro sognatore, vestito come allora, brutto come allora, intento a viaggiare il suo segreto onirico viaggio. Mi nascosi alla sua vista, seppure non ce ne fosse alcun motivo, dato che la sua vista non vedeva nulla al di fuori dell’atlante e, senza che me ne accorgessi, senza che nessun rumore o fruscio o movimento l’avesse preceduto, vidi apparire dinanzi al mio ometto un giovane. Doveva avere all’incirca venticinque anni, alto, abbronzato e, da quel che potei notare dalla mia posizione, molto bello. Sembrerà assurdo, ma ero lo stesso che anni prima mi parve di vedere, o davvero vidi, nell’appartamento del puro sognatore in luogo del puro sognatore. Aveva i capelli biondi e lunghi, spettinati senza essere trascurati. Ai piedi aveva dei robusti scarponi da trekking. I pantaloni di cotone con le tasche ai lati lasciavano scoperti i polpacci e ne mostravano i delineati tratti muscolosi. Portava una camicia da montagna blu a scacchi e uno zaino sulle spalle. Se ne stava immobile, alto e statuario dinanzi al mio ometto che, finalmente, alzò la

testa. Mi avvicinai silenziosamente per tentare di ascoltare le parole che i due si andavano scambiando. Giovane Viaggiatore: “Che posto è questo?” Puro Sognatore: “La tua casa”. GV: “La mia casa è il mondo”. PS: “Io sono il tuo mondo”. GV: “Tu chi sei?” PS: “Io sono te, sono il tuo mondo, il tuo viaggio”. GV: “Ora dove devo andare?” PS: “Il viaggio è terminato. Ho veduto tutto”. GV: “E allora?” PS: “È tempo di riposare”. GV: “E io dove andrò ora?” PS: “Tornerai nel mio sogno e lì rimarrai, fino a quando non deciderò di ripartire”. GV: “Tu sei il timoniere?” PS: “Io sono te, tu esisti grazie a me, vaghi per il mondo grazie a questo dito, a questa mappa”. GV: “Abbiamo visto tutto, allora?” PS: “Tutto. Ora devi rientrare”. Mi mossi per avvicinarmi ancora un po’ alla scena perché la voce dei due si andava affievolendo e non volevo perdermi nulla di quello strano colloquio. La mia camicia si impigliò alla inferriata del palazzo e quando riuscii a liberarmi, procurandomi un bello strappo nella manica, non vidi più né l’uno e né l’altro.

Non c’erano nemmeno la sedia a sdraio e l’atlante. Pareva che persino l’albero stesse per sparire… Guardai lungo la strada, da una parte all’altra, cercai oltre la mia miopia, sfidai la luce troppo intensa. Il giovane viandante era scomparso. Forse erano entrati in casa. Mi venne in mente di andare a verificare questa ipotesi, ma sapevo che non ce n’era alcun motivo. In realtà non volevo sapere altro. Non avrei trovato nessuno. Non c’era altro da sapere.

Ingar

Il cavaliere senza nome di Tristlandia cavalcava assorto nei suoi pensieri. Tra le steppe del nord, seguiva in silenzio il battaglione di Legnago che si dirigeva nell’accampamento dei signori del leone alato. Andavano lassù al nord, tra le nevi perenni e l’idioma inascoltabile. Smontarono dai cavalli e furono accolti nel castello di Innsbruck, tra il fiume invisibile e i trampoli degli dei. Il cavaliere senza nome si sistemò nel suo alloggio assieme all’ambiguo conte di Fisiote. Da giorni la truppa si chiedeva perché era stata mandata in missione nelle terre del nord, ma nessuno sapeva o voleva dire qualcosa di certo. Ma tutto ha una risposta e la risposta venne dal re Claudio che tutti chiamavano Paolo, re dei musei di Trento. Parlò per due notti e due giorni e alla fine si seppe che erano andati fin lassù per imparare l’arte della guerra dai maestri d’ascia dai pantaloni alla zuava. “Bene!” si disse il cavaliere senza nome “otto giorni di cavallo e niente di interessante sotto il sole, altri giorni buttati al vento”. Si mise in un angolo della sala delle danze sotto il lampadario del giullarearchitetto Swasky e prese a contare le gemme di cristallo. Erano dodicimiladuecentotrentuno e mentre si chiedeva chi era il poveraccio che doveva pulirle tutti i giorni si addormentò. Nessuno se ne accorse. Il cavaliere si destò solo quando le trombe suonarono e tutti furono schierati per accogliere il maestro d’ascia che accompagnava la regina dei ghiacci delle terre di Oslo. Non starò a descrivere nulla circa le fattezze del maestro, giacché null’altro che un maestro d’ascia egli era. Chissà quanti ne avete visti e quanti ancora ne vedrete quindi non vi tedierò con questo. Quel che mi preme cercare di raccontare ruota attorno alla regina e alle leggende straordinarie che come un mantello nero la circondano.

Le sue sembianze rimangono un mistero in quanto tutto quel che di lei risalta, acceca gli sguardi e ottenebra il pensiero è il suo sorriso. Bello, indubbiamente. Affascinante, certo. Ma allo stesso tempo, perfido, perché no. Ironico, senz’altro. Terribile anche, intrigante, sornione, accattivante, luminoso, arguto, altezzoso, distante, sognante. Ma bello, ancora bello era quel sorriso. Indossava le vesti delle guide della montagna di mezzo. Ai piedi calzava scarponcini alati. I capelli erano color miele, divisi in due trecce alla moda olandese. Si diceva che mai li avesse tagliati da quando videro la luce, ma non per questo erano lunghi, erano della misura che lei desiderava e loro mai crebbero di più. Alle dita aveva un anello vichingo riportante una scritta indecifrabile, anche per lei, forse solo per lei. Le sue gote erano rosse per il freddo che non temevano e che anzi amavano. Al collo oscillava piano un medaglione anch’esso di vichinghe origini e attorno al quale circolavano inquietanti segreti. Era giunta a Innsbruck cavalcando Poiana, il più veloce stallone di tutto il nord. L’accompagnava il suo esercito di centosette collie tricolori che piegava il capo a ogni suo cenno. Il maestro d’ascia ebbe grande fatica a starle dietro, sia per la velocità, sia per il terrore che provava per i terribili cani. Raccontò il maestro che una volta ebbe l’ardire di toccarle un braccio per chiederle di rallentare il o e centosei cani gli si strinsero attorno ringhiando all’unisono, mentre uno, il capo branco, Hexe, la preferita della regina, attendeva un ordine per far dilaniare il malcapitato. Ma ella alzò il braccio e contò fino a tre e i cani lasciarono la preda dopo che Hexe ebbe riportato quieta il comando. E poi furono carezze e abbracci e altre vergognose dimostrazioni d’amore tra la regina e il cane. Il maestro non seppe dire se era stata più la paura di venir divelto dai canini affamati dei collie o l’imbarazzo di assistere a siffatte effusioni. Il cavaliere senza nome non fu pronto ad andare a baciare la mano della regina e il conte ambiguo lo trascinò via a bere qualche intruglio. Parlarono molto e ancor di più bevvero. Senza nome non capiva quel suo strano nuovo amico, ma sembrava per lo più innocuo e un po’ lo irritava perché gli aveva portato via la gentil visione. Le giornate trascorrevano noiose. L’unico diletto era vedere are la regina dei

ghiacci che senza nome scoprì appellarsi Ingar… e che, come venne a sapere da qualche ben informato, per pronunciarlo correttamente bisognava fare attenzione a riempire d’aria i polmoni e far uscire il suono dal più profondo dello stomaco con un tono baritonale e cavernoso… unico modo questo per farsi udire dalla regina. Il cavaliere si liberò del conte fingendo un attacco di epilessia e se ne andò schiumando nelle sue stanze. Si riposò un poco e lesse parecchio, poi scese le scale e si diresse al salone degli affamati. L’esercito stava giustiziando enormi quantità di cibo, molti dormivano appoggiati alla spalla del vicino. Alcuni cantavano le arie volgari di Tristlandia. Altri si preparavano ad andare al mercato urlante. Alcuni bevevano, altri parlavano, qualcuno gesticolava, molti piangevano, uno correva sulle mani, un altro beveva a testa in giù, due si tenevano a braccetto e fischiavano alle cameriere, tre giocavano a dare testate contro il muro, quattro facevano da giudici, cinque o sei si infilavano le dita nel naso e si osservavano a vicenda. Dieci persone si chiedevano l’un l’altro cosa stessero mangiando e più mangiavano e meno capivano cosa stessero mangiando, e mangiando e cercando di capire se ne andarono a dormire arrabbiati e dandosi degli ignoranti. Il senza nome vide are la regina dei ghiacci. In una mano teneva una coppa di vino rosso, nell’altra stringeva una coscia di pollo mangiucchiata qua e là. Hexe le stava alle calcagna. “Ingar” sussurrò il senza nome vedendola are. “Ingar” ripeté poco più forte, ma ella scivolò via facendo svolazzare il suo mantello nero delle terre di Bailò. Al suo posto apparve dal nulla l’ambiguo conte che lo portò a bere e a fumare. L’irritazione cresceva. Poi venne la notte che non sarebbe dovuta mai giungere. Il senza nome e l’ambiguo si ritirarono nel loro alloggio dopo una dura giornata di combattimenti. Erano stanchi e si lavarono per bene prima di recarsi ognuno al proprio giaciglio. La candela fu spenta e le parole dell’ambiguo giunsero strane alle orecchie del senza nome incapace di dormire. La notte udì altre strane parole e il senza nome si ritirò nel suo silenzio timoroso. La voce continuò fino a farsi vicina, troppo vicina. Ora gli sussurrava nel letto, il suo letto, il suo dominio.

Diceva che lui, proprio lui attraeva l’altro, l’ambiguo. Si sentì sfiorare da un mano e rapido il gomito del senza nome reagì in difesa del proprio padrone. Si udì lo schiocco di una costola spezzata e la voce suadente perdersi in un lamento di vergogna e dolore mentre si dirigeva al proprio posto. Il senza nome era interdetto. L’ambiguo si scusava. Il senza nome era stordito. L’ambiguo chiedeva perdono. Il senza nome disse allora: “Ma vi ho mai dato a credere di avere desideri di siffatta specie? Ditemi, vi scongiuro, quando mai vi siete ficcato in quella mente bacata un tal pensiero?” Rispose l’altro tra i lamenti di dolore: “Giammai mi avete dato a credere qualcosa, so che siete fidanzato alla fanciulla dei boschi grigi, e che i vostri gusti non sono di questa specie. Vi prego di perdonarmi, vi ho offeso?” “Certo che sì”. “Ancora perdono, ma mi sento attratto da voi dal primo momento che siete giunto nel nostro esercito, e altro non potevo fare se non tentare di avervi”. “Ma che diavolo…” “Ancora perdono, mi vergogno oltremodo. L’unico modo per superare questo imbarazzo sarebbe che saltaste veloce qui nel mio giaciglio”. “Sognate, Caveliere, sognate… anzi no, non provate a farlo! Se vi capitasse di farlo mi verrebbe una tremenda nausea e dovrei uccidervi nel sonno… spero che una cosa del genere non debba più accadere”. “Non accadrà, ma ve ne pentirete, vedrete, e io sarò qui”. “Non dite assurdità… e dormite”. “Non vi piacerà forse la regina di Oslo?” “Dormite e pensate ai casi vostri”. “Non siate adirato con me”.

“Vi devo spezzare anche le altre costole?” “Insensibile”. “…” L’ambiguo prese immantinente a russare come se avesse ricevuto un colpo in testa, cosa che il senza nome avrebbe fatto volentieri. Il senza nome ò la notte a preoccuparsi delle ombre e a cercare una posizione sicura tra le coltri delle coperte. Venne la mattina e il senza nome non fece nessuna fatica a svegliarsi, giacché mai si era addormentato. Non v’era traccia del conte di Fisiote. Si strofinò via nell’acqua gelida il ribrezzo della notte e vestitosi uscì all’aria aperta. Cominciò a camminare. Camminò per due giorni e due notti, andò in cima alla montagna più alta e si fermò a fumare guardando la neve che iniziava a cadere leggera. Faceva freddo, molto freddo, si alzò e guardò le catene montuose con l’incanto che sempre gli provocavano. Stava uscendo dal torpore della notte infausta. Prese a scendere rapidamente e la pace che lo attorniava lo rendeva sereno, riuscì persino a sorridere della sua sfortuna. Entrò nel bosco proprio quando la tempesta di neve si faceva più possente. Si fermò sotto un albero che non riconosceva, uno in più dato che non ne riconosceva mai nessuno, lo trovò bello e ci si accoccolò sotto stretto nel suo mantello grigio. Tra le urla del vento sentì un gemito, poi un ringhio soffuso, poi vide apparire tra la neve che cadeva e i rami degli alberi che sbatacchiavano un lupo enorme. Occhi blu, pelo nero e bianco. Il lupo parlò: “Vai dalla mia regina e dille di continuare a cercare me, dille di portare sempre seco il medaglione, dille di non disperare, prima o poi ci incontreremo. Raccontale l’avventura che nuoce al tuo riposo e offrile l’acquavite di Florentia. Ora vai, ho un po’ fame e non vorrei renderti cena”. Non una parola riuscì a pronunciare il senza nome, si alzò, si voltò e si diresse verso la piana di Innsbruck accompagnato dall’ululato del lupo. Entrò nel castello e trovò che nessuno era desto. Se ne rallegrò. Si sedette nella sala dei suonatori e chiese una coppa di vino bianco. Era ancora frastornato e stava pensando al lupo. Ma aveva parlato davvero o se l’era immaginato? Aveva

sentito parlare gatti e cani, un cavallo una volta e due o tre lepri nei boschi grigi della sua terra, ma un lupo mai. In verità credeva che non ne esistessero nemmeno più. Beveva e aveva una gran voglia di vedere la regina dei ghiacci. Anche lui, come il lupo. Come spinta dal soffio dei desideri del senza nome, apparve Ingar. Si sedette dinanzi al cavaliere senza nome e sorrise. Era bella e temibile. Il suo sorriso poteva voler dire centinaia di cose tutte insieme. Il cavaliere fece portare una bottiglia dell’acquavite di Florentia”. La regina parlò. “Siete stato via?” “Tra i monti a cercare la pace”. “Anche io lo faccio”. “Ho visto un lupo e mi ha parlato di voi”. Il cavaliere senza nome raccontò quel che il lupo aveva detto. “Non è possibile”. “Sì che lo è”. “Voi mentite”. “No”. “Sì”. “No”. Arrivò un ragazzo e portò la bottiglia di acquavite di Florentia. La regina non ne lasciò nemmeno una goccia. “Sì”. “No”. “Sì”.

“Addio”. “No, rimanete! Ora vi credo”. “E perché ora mi credete?” “Sono una regina, una guida, una maestra dell’idioma inascoltabile, insegno ai fanciulli olezzanti della terra di Puzzia. Ho dormito tra i ghiacci senza nulla addosso e non mi sono nemmeno ammalata. Ho percorso le terre del nord estremo e ho mangiato una renna viva. Ho avuto un compagno sacerdote, l’unico sacerdote casto della terra, e l’ho bruciato sul rogo più alto. Ho combattuto con le oche guerriere di Bergen, le ho sgominate starnazzando più forte di loro e ho creato il foie gras che ha reso immortali i galli. Sento gli odori a miglia di distanza e li discerno anche solo guardandoli. Tra Gewurz, Tra e Miner ho saccheggiato ettari di vigneti e me li sono bevuti tutti senza colpo subire. Ho un medaglione donatomi da un re vichingo sconfitto dal mio esercito che riporta una leggenda su di me, ma non si capisce un beato accidente. Conosco più lingue di quante ne esistano, alcune non le ha ancora pronunciate nessuno. Parlo con la neve e lei mi ascolta quando le chiedo di scendere a bagnarmi i capelli, poi non riesco più a fermarla… a questo sto cercando un rimedio. E se ora ho detto che vi credo, questo vi deve bastare”. “…” “Voi! Svegliatevi, come osate dormire mentre io parlo”. “… chi, cosa? Era tanto che non dormivo, la vostra voce suadente mi ha tranquillizzato, la vostra femminile vicinanza ha calmato le mie paure. La vostra bellezza ha stordito i miei sensi disturbati. Ho bisogno che voi mi ascoltiate, ho un terribile segreto da raccontarvi. Usciamo a camminare, chiamate la neve”. “Allora mi avete udita”. “Stavo dormendo, non sono mica sordo”. Uscirono sotto uragani di fiocchi di neve arrabbiati e rubarono i mantelli a due impiccioni che si erano messi a disegnare il profilo della cattedrale tra le loro teste, come se in tutta Innsbruck non esistesse altro posto adatto al di fuori di quello.

Il senza nome raccontò la sua disavventura di alcune notti prima e spiegò perché sperava che la regina gli fe compagnia per il resto della notte. La regina rise come se non avesse mai più dovuto smettere. Il senza nome si pentì di aver parlato e baciò la regina per farla smettere. La regina smise di ridere, ma il cavaliere smise di respirare per alcuni minuti a causa del forte calcio che il suo grembo ricevette. Poi Ingar aiutò il cavaliere a rialzarsi e spiegò che un tempo giocava a pallone e che era anche brava. Il senza nome considerò ottima la scusa e ripresero a camminare. Parlarono di libri che non si leggono, di musica che non si ascolta, di sogni che non si realizzano, di viaggi che non si viaggiano, di amori che non si amano, di lupi che non esistono e parlando parlando incrociarono il fiume invisibile. Allora parlarono della loro vita, di libri nati per esser letti, di musica che si ascolta, di sogni che si devono realizzare, di viaggi che bisogna viaggiare, di amori che si devono amare, di lupi che bisogna cercare. Fu una dolce notte. Tornarono al castello che il sole cominciava a sbadigliare e si misero a dormire. Ognuno nella propria dimora. La regina tra i suoi strumenti di tortura e di allenamento. Il senza nome, ben stretto tra enormi coltri di pelli di orso, ma rassicurato dal russare tremebondo del ambiguo, riuscì finalmente a chiudere gli occhi e a dormire senza paura delle ombre. Il giorno dopo il re Claudio, che chiamavano, Paolo riunì tutti nel suo salone e propose un giro della città per mostrarla ai viaggiatori. Il senza nome e Ingar si dileguarono tra la folla e si allontanarono dal gruppo. “Il cavaliere ambiguo mi ha chiesto se ho ato la notte con te”. “Mi date del tu?” “… con voi”. “Cosa gli avete risposto?”

“Non gli ho risposto, non volevo offenderlo, ma lui si è fatto le sue idee e a quest’ora sarà già opinion comune”. “Fateglielo credere, è divertente”. “Già”. “Ma voi come vi chiamate?” “Senza nome”. “Ah! Mi pareva di non ricordarlo”. “Già”. Camminarono tre giorni costeggiando il fiume Lagerkust, lo attraversarono a nuoto e giunsero a un meleto abbandonato. Ingar aveva fame e stava per sgominare una compagnia di oche bianche selvatiche, quando un nano e un boia uscirono dal bosco e chiesero alla terribile regina di aver pietà delle loro donzelle piumate, altrimenti avrebbero dovuto ucciderla. Il boia mostrò la scure e il nano i denti appuntiti. La tensione saliva. Il silenzio si faceva rumoroso. Un pettirosso inseguiva un corvo nero e lo insultava sopra lo steccato del meleto. Una volpe e una bambina risalivano il fiume sopra un tronco di abete bianco. Il senza nome guardava la regina e la trovò bella, tanto bella quanto infuriata. Mise mano alla spada. La regina sorrise di un sorriso eterno e… il boia decapitò il nano. La volpe e la bambina affogarono nel torrente. Il pettirosso spezzò due ali al corvo che cadde in picchiata sopra il cranio del boia uccidendolo all’istante. Le oche si dispersero terrorizzate. Il fiume gelò e rimase immobile. Centosei collie giunsero sopra il ghiaccio e salvarono volpe e bambina. Estrassero il corvo ancora vivo, anche se stordito, dalla testa del boia, gli rimisero in sesto le ali e lo mandarono via.

Si diressero verso la proprietà del nano e del boia per metterla a ferro e fuoco. Allora la regina alzò la mano e contò fino a tre, Hexe abbaiò ai suoi sudditi di fermarsi e quelli tornarono sui loro i. Il fiume tornò a scorrere. La regina e il cavaliere ripresero a eggiare. “Quindi non avete nome, e perché mai?” “Non l’ho mai avuto, o forse l’ho avuto e me lo sono dimenticato persino io”. “Non parlate troppo di voi”. “Sono nato per ascoltare, temo di non aver nulla di troppo interessante da dire”. “Deve essere vero”. “Siete perfida”. “Ho ancora fame”. “Andiamo a cercare del cibo”. “No, arriverà lui da noi!” “Il cibo?” E giunse un cinghiale che tagliò della legna, accese un fuoco, si mise dell’alloro in testa, una mela in bocca, si tagliò la gola sulla scure del boia, si adagiò sul fuoco e attese il suo destino. Mangiarono il cinghiale e Ingar sembrava più rilassata; il senza nome cominciava a temere di essere divorato da un momento all’altro assieme al cinghiale, ma la regina dovette sentirsi sazia, gli sorrise ancora una volta ed egli barcollò. Poi ripresero il cammino. “Parlatemi del medaglione”. “Fatevi i fatti vostri”.

“Addio”. “Siete permaloso”. “Ho una gran voglia di baciarvi”. “Avete una gran voglia di morire”. “Non ancora”. Tornarono al castello che era buio tra i commenti frustrato-libidinosi dei soldati di Legnago. Il senza nome prese una coppa di vino e si sedette tra l’ambiguo conte di Fisiote e il dottore dai candidi capelli. Fu subito sottoposto a un regolare interrogatorio e mentre quelli chiedevano e chiedevano lui si domandava come diavolo fe il conte a non provare nessun tipo di vergogna. La risposta che si diede fu che il conte era pazzo. Un’altra risposta fu che il conte si fidava ciecamente di lui. Una terza risposta era che si era sognato tutto in una notte da incubo. Una quarta risposta era… no, non c’erano altre risposte. Il senza nome disse la verità, e come spesso accade in queste occasioni nessuno gli credette e le loro supposizioni si rivelarono identiche a quelle di tutto il battaglione. Tutto quel parlottare di falsità non dava fastidio alcuno al senza nome, anche se temeva la brutta fine che tutti avrebbero fatto, lui incluso, se solo alla regina fosse andata a noia quella faccenda. In verità al senza nome faceva anche un po’ piacere la situazione, troppo piacere, indubbiamente Ingar aveva fatto qualcosa alle sue meningi, qualcosa che aveva un nome ma non lo voleva pronunciare neanche per scherzo. Che parlassero, chi se ne importava. Certo che se fosse stato vero sarebbe stato indubbiamente meglio… ma forse non sarebbe stata così lieta e sostenibile quella leggerezza che provava. Quale che fosse la risposta giusta il senza nome non era tranquillo. Ma non se ne faceva cruccio. O così voleva credere. La regina rideva con il re in fondo alla sala e a chiunque le si rivolgesse regalava lo stesso sorriso: come faceva? Il senza nome non se lo sapeva spiegare, ma dovette uscire dal castello e partire per altre peregrinazioni. Serviva aria, serviva il freddo. Il giorno dopo si sarebbero separati. La regina ai suoi ghiacci di Oslo. Il cavaliere a Tristlandia, dove l’unica cosa affascinante da fare era partire… e

andare lontano, a ovest fino a dove le montagne si tingono di rosa, o a est fino a dove si voleva. Il mattino venne ancora una volta. Nevicava. La regina urlò: “Neve, neve, che meraviglia!” I cani scodinzolarono. I soldati di Legnago sperarono che la neve si tramutasse in pioggia. Tutti tranne uno. La regina andò a nord seguendo le voci che dal medaglione le dicevano di continuare ad andare avanti. Di cercare il lupo. Il cavaliere senza nome e il battaglione di Legnago se ne andarono un po’ a sud e un po’ a ovest, verso le terre piatte e bigie, laddove i fiumi scorrono a fatica inseguendo altri nomi, meno sporchi. Dove quando piove non smette più, dove la pioggia ha ambizioni di eternità. Il re Claudio che tutti chiamavano Paolo rimase al suo posto, il maestro d’ascia arrancava dietro ai centosette collie. Poiana volava verso i monti. Giunse la notte. Il cavallo senza nome del cavaliere senza nome si staccò dal gruppo e si diresse verso il grande lago. Il senza nome rimase immobile a guardare le stelle. Era buio. Faceva freddo, ma non se ne curava. La luna faceva la timida e non si mostrava. Si udirono dei i leggeri. La luna riapparve e accompagnò il lupo. Il lupo disse al cavaliere di non farsi cruccio. Indicò delle bacche di rosa spina al cavaliere che ne mangiò subito dodici. Il lupo rise e disse che lo aveva avvelenato. Il cavaliere sorrise di rimando e disse che lo sapeva.

Io e Oblomov

Il giorno in cui non contribuii alla salvezza del mondo ero assieme al mio amico Oblomov. Ce ne stavamo seduti al tavolo del bar di Marlene a mangiare ostriche e a bere vino bianco. Il fiume scorreva arrabbiato sotto di noi, faceva un gran fracasso ma la sua voce era comunque piacevole. Poche auto lungo la strada, il sole era dove doveva essere e il cielo azzurro era proprio dell’azzurro giusto. Io e Oblomov parlavamo di progetti che non avremmo mai attuato, di viaggi che non avremmo mai viaggiato, di luoghi che non avremmo mai visitato, chiacchieravamo di lavori che non avremmo mai lavorato e di cambiamenti che non sarebbero mai stati attuati. La solita solfa insomma. L’oblomovismo che caratterizzava la nostra esistenza era in fremente attività, anche se, a onor del vero, il fatto di essere in un locale diverso dalle nostre camere da letto era un grande affronto all’apatia che da tanto tempo ci teneva legati al nostro paralitico destino. Ma cosa era mai questo oblomovismo? La risposta giusta sarebbe chiedetelo a Goncarov, ma chissà dove sta ora quel caro ragazzo, perciò tenterò di dirvelo io. Era la pigrizia più risoluta che mai si fosse veduta, la stanchezza di vivere realmente la vita sostituendola con un surrogato di se stessa, una serie di progetti da realizzare esclusivamente sotto forma di pensiero, di sogno, di immaginazione che tali erano destinati a rimanere e per lo svolgimento dei quali io e il mio amico avamo giornate intere inghiottiti dentro i nostri bei lettucci. Già il fatto di essere fuori dai nostri appartamenti era quindi un’imperdonabile atto di sfida alla filosofia di cui sopra, ma addirittura starcene seduti in un bar a vivere… questo era veramente fuori da ogni criterio razionale e di decoro. Ma non è di questo che volevo parlare, bensì di ciò che ho iniziato alla prima riga e segna ormai indelebilmente il mio onore macchiato di inoperosa noncuranza. Se così non fosse stato, non ho timore di ammetterlo, il mondo sarebbe salvo, avrebbe raggiunto la pace e ci sarebbero risposte a tutte le domande. Già! Il mondo sarebbe migliore se le ostriche e il vino di Marlene avessero avuto giustizieri diversi da me e da Oblomov. Seduti sotto la veranda, io e il mio compare discutevamo senza animazione, osservando annoiati l’andirivieni di umanità che ci si presentava dinanzi,

sorseggiando la gelida ombra di Gewurztraminer e succhiando una dopo l’altra le ostriche. Eravamo soli. I tavoli vicini non avevano nessun ospite, i camerieri erano affaccendati all’interno della sala e Oblomov mi spiegava come avrebbe fatto rendere la sua proprietà in campagna. Parlava delle sue anime, del suo starosta, di come avrebbe risolto tutti quanti i suoi problemi e, seppur nulla di ciò che andava dicendo mi interessasse granché, sentivo una gran serenità avvolgere tutto il mio essere: come una morbida coperta da tirarsi sul viso quando il sonno viene a far visita. Ma gli stati di grazia per essere tali devono avere necessariamente breve durata e anche questo non poteva sfuggire alla barbosa filosofia della vita. Ecco quindi arrivare tre ometti che, muovendosi con la grazia di autoarticolati e con altrettanto fracasso, andavano spostando sedie e tavoli per sistemarsi alla bell’e meglio senza nemmeno chiedere scusa per la loro indelicatezza. Si erano seduti proprio dietro di noi anche se avrebbero potuto appoggiare i loro grassi deretani un po’ più distante. Guardavo Oblomov e cercavo di ascoltare con attenzione quel che mi stava raccontando ma non riuscivo più a concentrarmi per via del fastidioso, rumoroso, insistente vociare dei nuovi avventori che non mi permetteva ormai di far altro se non di dedicargli la mia totale e non desiderata attenzione. Ho chiesto scusa al mio amico e mi sono spostato sulla sedia alla mia sinistra per poter vedere, oltre che subire, gli aggressori della mia pace. Due di loro erano sui cinquanta anni, canuti, fratelli gemelli li si sarebbe detti, stessa postura, stessa sagace espressione del viso, stessa sicurezza nei movimenti lenti e risoluti. L’unica differenza stava nel naso che uno aveva adunco e rosso sulla punta, mentre l’altro quasi non l’aveva tanto era piccolo. Entrambi portavano occhiali della stessa fattura poggiati sui nasi di opposta natura, così che se nel primo stavano dritti a coprire gli occhietti azzurri, nel secondo ricadevano leggermente obbligandolo a tirarli su di quando in quando all’altezza degli stessi occhietti azzurri. Il terzo compare era sulla trentina. Capelli radi e all’apparenza unti. Gli occhi erano troppo, troppo vicini e piccolissimi, semi nascosti tra folte sopracciglia nere e un paio di occhialetti dalla montatura impossibile. Ma li si poteva scorgere guizzare svelti come se stessero cercando qualcosa di prezioso perduto ora tra le facce dei compagni, ora nel piatto che la cameriera portava, ora per terra, in un angolo della stanza, sul soffitto dietro il lampadario, nel mio viso, nel mio bicchiere, dentro l’essere di Oblomov. E, mentre muoveva gli occhi alla ricerca di qualcosa di indefinibile, parlava e parlava senza mai smettere ed era

proprio sua la voce che tanto mi aveva seccato. Ma quella voce fastidiosa avrei dovuta ascoltarla e renderla immortale, avrei dovuto superare il mio ribrezzo di oblomovista disturbato e comunicare al mondo la venuta di un nuovo maestro. Uno dei due compagni gemelli, lo chiamerò signor naso rosso per intenderci, sedeva con fare sprezzante, ben ritto sulla sedia, le gambe incrociate e sfogliava il quotidiano con notevole attenzione facendo commenti sagaci su quel che leggeva; il suo gemello (da qui in poi: signor senza naso) se ne stava reclinato in avanti e, poggiando i gomiti sul tavolo, sbirciava il giornale del signor naso rosso con estrema fatica dovendo ogni tanto: tirar su gli occhiali, strizzare gli occhi, rimanere in bilico sui gomiti, muovere la testa a seconda di come naso rosso muoveva le pagine e assentire con saggezza ad ogni frase detta dal socio tirandosi ritto sulla sedia per poi tornare, un momento dopo, alla originaria postura e riprendere da capo tutti i movimenti descritti prima. Occhi veloci (il vero eroe di questa storia) stava di fronte ai due lettori, sedeva con le gambe spalancate e semi sdraiato sulla sedia, gli occhietti sempre in movimento e sempre troppo vicini. Scrutava il locale, i movimenti della cameriera, me, il mio amico Oblomov, il menù, il fiume. Tutto, insomma. Ma la cosa che più lo interessava e sulla quale il suo mai domo sguardo sempre più spesso ricadeva era il lato del giornale a lui rivolto. Pareva non ascoltare i compagni nel loro strano colloquio di lettore e motivatore, ma parlottava quasi tra sé, completamente ignorato, circa quel che era scritto sulla prima pagina del quotidiano. Oblomov sedeva in rancoroso silenzio, non poteva capire tutta quella stramba violenza, lui non sopportava proprio quella incapacità della gente di avere argomenti propri che non fossero il banale scimmiottare le notizie che dai giornali o dalla televisione venivano impunemente imposti. Oblomov non accettava che spenta la televisione o chiuso il giornale gli esseri umani non avessero nulla da dirsi che non fosse comunque in relazione con ciò che avevano sentito o letto, non lo capiva e per questo se ne stava in un angolo con fare bilioso e si rifiutava di impicciarsi come stavo facendo io. Ecco la cameriera. Il signor naso rosso ordinò un piatto di lasagne non dimenticando di fare battute che lui stimava affascinanti; il signor senza naso chiese un panino con tutto ciò che la cucina poteva offrire tentando di essere anch’egli arguto come il socio e ottenendo il medesimo insuccesso; occhio veloce, che a stento riuscì a soffermare la propria attenzione sulla fanciulla, ebbe l’ardire di ordinare una insalata, dopo aver chiesto tutto ciò che il locale non

aveva e mai si era sognato di tenere. Mangiavo le mie ostriche, sorseggiavo il buon vinello e i tre ripresero a discorrere - per il diletto di Oblomov - di ciò che poc’anzi avevano letto. Toccarono vari argomenti: la guerra in Iraq e la presenza importantissima dei militari italiani sul suo suolo (missione per la pace, ovviamente). Che altro? Le relative disquisizioni del momento circa la possibilità o meno di far tornare a casa i nostri soldati… che altri avevano mandato lì e che l’attuale governo aveva promesso di riportare a casa senza dubbio… o almeno fin quando i voti sarebbero stati acquisiti; le scelte dubbie di Bush; le motivazioni dello stesso amato presidente americano; il terrorismo integralista islamico; Bin Laden (ma esisteva davvero?), i musulmani: naturali terroristi sul territorio italiano che non terrorizzavano altri se non alcune reti private ogni giorno sempre più; l’Iran che Bush voleva assolutamente attaccare non appena capito dove fosse sulla carta geografica e compreso che non era la stessa nazione contro cui già stava sacrificando militari come fossero carri armati del Risiko; la morte di Pavarotti, della qual cosa, a due giorni dal fatto compiuto, il buon signor naso rosso dovette ammettere di non averne saputo nulla e insistendo, fin pochi secondi prima della amara scoperta, ad intestardirsi circa il fatto di volergli chiedere perché i suoi averi li portava nel principato di Monaco; la sua eredità contesa e misteriosa; i suoi soldi nel principato di Monaco assieme a quelli di vari sportivi; da qui Valentino Rossi e le tasse non pagate; l’Alitalia in procinto di fallire; i biglietti già esauriti tre mesi prima per la prima alla Scala; il caro case; i mutui americani; il governo italiano e la sua politica di risanamento ad ogni costo; la politica estera che si vantava di ritenere l’Italia al pari delle sue sorelle sempre troppo maggiori; Padoa Schioppa e le sue recenti imbarazzanti asserzioni... seconde solo al suo cognome; l’opposizione biliosa e arrabbiata in fase di smembramento; i cinquemila nuovi partiti che nascevano come conigli di una fin troppo gravida madre; i soldi, i soldi degli altri, i soldi che non c’erano, i soldi che servivano, i soldi che volevano, i soldi che valevano… e così via. Ogni argomento era gettato in pasto al terzetto dal ben informato signor naso rosso che lo esplicava toccandosi i capelli bianchi, sollevando al cielo lo sguardo, sorridendo con fare sdegnoso, analizzandolo brevemente avendo cura di mettere le pause al posto giusto e attendendo che il signor senza naso intervenisse per confermare e rafforzare ciò che era stato appena detto. Il signor senza naso nell’occasione non deludeva il capace compagno e sosteneva le sue tesi tentando inutilmente di far stare sospesi gli occhiali sul naso che proprio non

aveva. Dissertava piegato in avanti e abbassando sempre più il tono della voce, fino a farla quasi scomparire, imitando così ciò che madre natura aveva fatto con la sua appendice nasale, come un cospiratore che parla di spionaggio, e spiegava a occhi veloci perché il signor naso rosso aveva detto proprio delle grandi verità. Occhi veloci, come si conviene al grande spirito libero che era, non era mai d’accordo su nulla. Dico che era uno spirito libero perché sostengo che occhi così rapidi, rapaci, mai sazi non potevano che essere parte di un essere mai domo di sapere, un vero intellettuale illuminato del terzo millennio, una mente sempre accesa come era proprio quella che stavo pian piano conoscendo. Quel che più mi sorprendeva, e se solo Oblomov non fosse stato così ottuso nel suo pernicioso silenzio avrebbe di certo partecipato della mia meraviglia, era che egli, occhi veloci, non solo si discostava orgogliosamente da ciò che i due più saggi compari affermavano, ma per ogni argomento aveva la ricetta unica e giusta per la sua soluzione, ogni problema lo risolveva in quattro e quattr’otto: non c’era ostacolo troppo grande o che lui non capisse a pieno, nessuna guerra era troppo grande, nessuna politica troppo politica, nessun grande uomo troppo grande per il suo rapido, letale, onnisciente pensiero! Ogni materia era un continuo “Volete sapere perché è così?” al quale seguiva l’immancabile “Ora ve lo spiego io…”. A quel punto i suoi occhietti rapidi sfioravano l’immobilità tanto la loro velocità era prossima al non poter essere distinta dal normale occhio umano, la sua voce si faceva possente, come al centro di una piazza enorme e sprovvista di adeguata amplificazione urlava in viso ai due canuti quasi gemelli come fossero agli estremi dell’enorme pubblico che si figurava dinanzi, gesticolava come in preda ad epilettica estasi le sue ragioni, implodeva dentro di sé la parola e poi la espelleva come un razzo di conoscenza, infine irradiava di luce il suo auditorio ignorante finalmente dalla veritiera luce. Terminava il suo deliquio urlante sfumando la voce fino a un tenue sospiro, attirando così ancor più l’attenzione di chi voleva avere la reale consapevolezza, con un incisivo “capito?” e poi nulla più fino al prossimo dilemma da sciogliere. A volte capitava che uno dei due compari con naso o senza intervenissero nel comizio di occhi veloci tentando di contrastarne qualche idea con le loro argomentazioni. Occhi veloci non si adirava per questo, non ascoltava nulla di quel che gli si stava dicendo, lasciava liberi gli occhietti di posarsi su qualunque cosa vivente o meno avessero voglia di scrutare e scuoteva la testa con fare sconsolato. Quando i gemelli terminavano la loro esposizione, ed era incredibile

come riuscivano a trovarsi sempre e comunque d’accordo su qualsivoglia concetto, occhi veloci riprendeva possesso degli occhietti che sfuggivano ormai al suo controllo e riprendeva il ragionamento nel preciso punto dove era stato interrotto… senza cambiare di una virgola il suo filo, e dando chiara dimostrazione che nulla di ciò che era stato detto a sfavore delle sue tesi era stato né calcolato né, più probabilmente, ascoltato. Dopotutto la verità ha solo una via, mica tre, e l’unica verità era quella di occhi veloci, l’unica. Oggi sono qui a ricordare quel grande personaggio e non riesco a darmi pace. Avrei dovuto urlare al mondo l’esistenza di un tale novello salvatore, avrei potuto farlo uscire dall’anonimato di Marlene e portarlo tra le folle, avrei… ma non ho fatto nulla. Le parole fluivano immense e io le ascoltavo gelosamente. Rapito dalla saggezza che per rimbalzo illuminava persino il mio stanco pensiero me ne stavo a bocca aperta ad assistere a quel grande spettacolo. Immobile. Occhi veloci stava uscendo dal locale assieme ai due gemelli dai nasi di inverse proporzioni quando tornai alla vita, al calice di vino bianco ormai caldo, all’amico Oblomov, al mio appartamento, a una serie di progetti che mai avrei realizzato, alla solita esistenza insomma. Ora Oblomov è tornato nella libreria. Sono a Saragozza, leggo un manoscritto che ho trovato assieme a un ufficiale se napoleonico. Ogni tanto torna a far visita al mio pensiero il genio dagli occhi veloci e immancabilmente chiedo perdono al Cielo per non aver fatto nulla di concreto per donarlo al mondo e renderlo immortale come avrebbe meritato. Quello fu il giorno in cui non contribuii alla salvezza del mondo.

Kafka nel sonno

Buongiorno, disse appena entrato nel vasto salone ammobiliato da un architetto sicuramente affetto da una qualche grave forma di depressione. Era una persona educata e non entrava mai in un luogo senza presentare i suoi omaggi a chiunque incontrasse. Quanto siete scontato, si sentì rispondere da una voce priva di carne attorno. Era in un’altra stanza. Appariva nel momento esatto in cui il nostro protagonista indignato si guardava nel grande specchio sporco per vedere se aveva per caso un aspetto scontato. Il dottore ripeté la sua battuta: quanto siete scontato. Quando, in vero, un saluto, detto con affabile noncuranza, può essere scontato? Ora, per esempio. Guardate i vostri abiti e poi date un occhio al mio incedere, per dio, flessuoso, e le frasi che pronuncio, i pensieri che esprimo e quello che non esprimo, mai e poi mai saranno così banali come un saluto gettato in una stanza vuota. Riflettete, dunque. Pensò il protagonista. Pensò di essere in un conato di vomito bianco dentro la mente esacerbata di un adolescente linguacciuto. Lo disse ad alta voce e il dottore esultò. Bravo il mio protagonista, finalmente siete salito al gradino sopra la normalità. Siete pronto a discorrere con me. Bene. Mi hanno mandato in questo luogo per avere il nullaosta. Hanno sbagliato a mandarvi da me. Dovrete prima andare all’ufficio reclami e in seguito, quando il reclamo sarà accolto, are dall’ufficio oggetti smarriti e poi ritrovati, ricevere il modulo adatto, are dal gran notaio delle cause mai discusse in quanto sarebbero senz’altro state perse, ricevere il dogma b1 e infine tornare da me per avere il nullaosta, sempre che nel frattempo io non abbia perso del tutto la pazienza e mi sia licenziato da questo parco incarico. Abominevole susseguirsi di eventi.

Esattamente. La vostra banalità discende, ma ciò non toglie che non avrete nulla se prima non farete come vi ho appena detto. E tenete conto del fatto che sto perdendo tempo con voi, mentre dovrei non fare niente nella stanza da dove sono venuto e alla quale tornerò tra pochi attimi, quando vi sarete tolto dai miei pavimenti. Vado. Addio. Buonasera. Siete di nuovo scontato. Il protagonista aveva ricevuto l’incarico di ritirare il nullaosta, del quale non sapeva cosa farsene giacché tempo addietro gli avevano detto che ne avrebbe avuto bisogno, ma davvero non ricordava più il motivo per cui l’aveva chiesto. Era molto strano, ma non per il nostro protagonista. In ogni caso si diresse all’ufficio reclami. Non salutò nessuno per non essere scontato, e venne redarguito per mancanza di educazione. Chiese perdono, gli dissero dove poteva rivolgersi per averne un poco, e che per il momento dall’ufficio reclami avrebbe anche potuto andarsene perché si erano stancati della scortesia del pubblico e quindi avrebbero scioperato per un po’. Non dissero quanto tempo significasse quel un po’. Il nostro prese coraggio e andò agli oggetti smarriti e ritrovati dove venne cacciato in quanto non aveva in nessuna tasca il reclamo accolto dall’ufficio atto a raccoglierli, per non parlare del fatto che si era comportato in maniera del tutto incivile e irriguardosa verso impiegati che lavoravano tutto il giorno per un misero stipendio allorquando entrato nella stanza si era permesso addirittura di dire buongiorno a persone che il buongiorno non avevo proprio idea di cosa fosse. Sorvolando sull’idiozia pandemica e senza perdersi d’animo il nostro protagonista si recò dal gran notaio in persona per avere soddisfazione e ottenere comunque il suo dogma b1. Il gran notaio era un ometto di appena novantacinque centimetri, avvoltolato dentro un enorme vestito di gabardine giallo e strozzato dentro una cravattona a pois anch’essi gialli su sfondo nero. Aveva lunghi denti affilati, un naso adunco appoggiato al quale un enorme paio di occhiali imprecavano contro la forza di

gravità. Si disse molto offeso, il gran notaio, di dover addirittura ricevere una persona priva di qualsivoglia attestato. i pure la mancanza del documento rilasciato da quelli dell’ufficio reclami, che si sa, hanno sempre troppo da fare, tra uno sciopero e l’altro e non possono mica are la loro vita oberata ad ascoltare ogni individuo gli si presenti all’uscio, ma persino avere l’ardire di giungere al suo maestoso cospetto privo del documento degli oggetti smarriti e poi ritrovati. Sorvolando sull’ignominioso, imperdonabile apogeo di tutti i mali e cioè presentarsi da un notaio, e che notaio, e apostrofarlo con uno scontato buongiorno. Lui, da che aveva memoria, lo disse con enfasi teatrale da consumato attore, mai aveva dovuto affrontare tanta sfrontatezza. Per non parlare poi della maleducazione di un individuo che se ne andava attorno a cercare un nullaosta per fare cosa nemmeno sapeva e arrogandosi il diritto di entrare in uffici preposti senza nemmeno un invito, una presentazione, un lacchè in gran divisa al seguito, senza una valigetta in pelle e ossa, senza neanche, a questo davvero non era pronto, senza neanche un paio di ciabatte rosse ai piedi. Mai, mai e poi mai si era ritrovato in una situazione più imbarazzante. Vennero dunque introdotte le guardie del decoro e il nostro protagonista venne trasportato nelle segrete per un interrogatorio inquisitorio delle sette sorelle del refettorio della imbalsamata libagione. A cosa vi serve il nullaosta? gli chiesero. Non ricordo. Questo l’avete già detto, ma non risponde alla domanda. A che cosa vi serve il nullaosta? Non lo ricordo proprio. So per certo che mi è stato richiesto di procurarmi un nullaosta per poter procedere di un o avanti verso qualcosa di cui non ricordo proprio. Non ricordo nemmeno chi sia l’ente preposto che mi ha consigliato di procurarmelo. Siete un mentitore. Nient’affatto, dico come stanno le cose. Voi burocrati siete tutti uguali. Qualunquista.

Stesse serpi atte a portare il prossimo alla comune pazzia. Retorica qualunquista. Populista. Estremista scontato. Ditemi cosa volete sapere. Cosa volete fare del nullaosta. Vi ho già risposto. Ripetetelo. Non lo ricordo. Siete un massone. Non so nemmeno cosa sia. Siete un gesuita. Ma fatemi il favore. Ebreo. Direi di no, ma non posso giurare sulle mie origini. Fallace. Lasciatemi andare, farò del mio meglio per ricordare cosa devo fare e poi sarà mio piacere farvelo sapere. Ci avete preso per ingenui, voi non lascerete queste stanze finché non avrete detto tutta la verità. Spero abbiate tanto tempo, perché allora temo ci resteremo per l’eternità. Non parlate di eterno, voi non sapete cosa esso sia. Certo che lo so, so che questa discussione andrà avanti fino a che l’eterno si sarà stancato di sentirsi ripetere le stesse cose e smetterà pertanto di essere eterno. Non siete nella posizione di fare dello spirito. Come mai non avete indossato le ciabatte rosse presentandovi dal gran notaio?

Non sapevo di questa tradizione. Ora la sapete. La prossima volta me ne ricorderò. Non ci sarà una prossima volta perché il gran notaio cambia le regole quando lo desidera, è appena arrivata una circolare che dice appunto che le ciabatte rosse saranno sostituite. Con cosa? se me lo dite non correrò più il rischio di fare figuracce. Che screanzato, per avere accesso a queste informazioni bisogna prima fare domanda all’ente preposto, richiedere l’attestato necessario, verificare che il comma relativo sia ancora valido secondo le leggi vigenti che essendo cangianti non è possibile che siano vigenti, are dagli uffici corretti, attendere che i collegi esibiscano sulla gazzetta le controversie relative ai consigli effettuati, attendere gli esiti e poi fare domanda di presa visione della richiesta di accettazione del via libera alla delega ad essere vidimati… Basta, non andate oltre, ne ho abbastanza, sono stanco. Maleducato, lo dicevano che eravate davvero un caso estremo, ma non pensavamo proprio ad un modello del genere. L’interrogatorio non andò avanti in eterno giacché questa storia avrebbe rischiato di non avere abbastanza spazio per essere raccontata e la pazienza del buon lettore avrebbe cessato di essere tale. L’interrogatorio smise di essere interrogatorio quando alla dodicesima ora tutte e sette le sorelle del decoro si misero all’unisono a russare un sonno per nulla melodioso e il nostro protagonista si allontanò salutando tutti quelli che incontrava con affabile serenità. Nessuno lo accusò di essere scontato, maleducato e soprattutto non rischiò di essere in fallo con qualche legge vigente e cangiante. Il nostro protagonista si recò a casa propria, accese lo stereo, radio head, sempre loro, e sprofondò nella poltrona per cercare di radunare le idee. Poco dopo dormiva. Poco dopo si svegliò come se un terremoto avesse sconquassato la

casa. Poco dopo realizzò che qualcuno bussava alla porta con inaudita violenza. Poco dopo si ritrovò tutte e sette le sorelle del decoro, il gran notaio e il dottore dentro casa senza che nessuno li avesse mai invitati ad entrare. Gli si misero attorno e lo accerchiarono con pretenzioso decoro. Caro protagonista, attaccò il gran notaio, eccovi il reclamo accolto, eccovi il modulo adatto dell’ufficio oggetti smarriti e ritrovati, ecco il dogmab1 ed ecco a voi il nullaosta. E per prostrarmi del tutto ai vostri piedi eccovi in questa busta sigillata il via libera per potere indossare qualunque tipo di calzatura, senza limite di colore o fattura, nell’amena possibilità di avervi di nuovo mio intruso nel mio umile ufficio. Il nostro protagonista era rimasto senza parole, ancora non del tutto sveglio, aveva sulla fronte una riga trasversale lasciatogli dal cuscino, gli occhi cisposi, la bocca semi paralizzata perché al momento di addormentarsi stava succhiando una caramella di menta extra forte che gli aveva anestetizzato tutta la guancia sinistra. Chiese chi, cosa e perché. Gli venne risposto sia il chi, il cosa, e, in via del tutto eccezionale, persino il perché gli fu srotolato dinanzi. Tutti i moduli, i reclami, il dogma e il tanto desiderato nullaosta gli venivano esibiti davanti agli occhi con fare maestoso dal gran notaio in persona, ma, e questo non capiva se era parte del sonno da cui era stato strappato, se era follia pura, o se era una grande presa in giro, bene, tutti i documenti richiesti non c’erano. Il gran notaio sventolava la mano vuota davanti agli increduli occhi cisposi, sempre meno cisposi del nostro protagonista. Non capiva. Non avete nulla in mano. Piantatela di fingere. Cosa volete. Vi abbiamo portato il vostro nullaosta. Persone molto in alto a voi legate da affetto supremo, seppure voi nemmeno le conosciate hanno parlato di voi e ci hanno pregato di sbrigare la faccenda, in fretta e sburocratizzando la burocrazia burocratizzata. Saprete che per noi è un po’ umiliante tutto ciò, ma le persone che ci hanno impartito tali ordini hanno il potere di semplificare a loro piacimento anche le cose più complicate, come questa appunto. Ma non avete nulla in mano. Appunto. Appunto cosa.

Il nullaosta è proprio questo. Nulla. E cosa me ne faccio. Non lo sappiamo. Questo non ci è stato detto. Noi ve lo porgiamo, voi lo dovete accettare assieme alle nostre più sentite scuse per l’interrogatorio che avete dovuto subire, e assieme alle nostre più sentite rimostranze per non averci fatto terminare l’iter previsto dell’interrogatorio stesso. Siete malati. Vero. Ora andatevene e lasciate il nullaosta sul tavolo. Non è accettabile, dovete prenderlo dalle nostre mani, non abbiamo il permesso di lasciarlo su un tavolo, abbiamo il dovere di lasciarlo nelle vostre mani e solo nelle vostre mani. Va bene. Eccolo. Grazie e ora andate pure. Non ci offrite nemmeno un caffè. Direi di no. Maleducato. Prevedibili. Rimase finalmente solo, a mani vuote, il nullaosta non era nulla quindi in mano non aveva proprio nulla. Non capiva. Squillò il telefono, il nostro rispose. Una voce dall’altra parte disse che sperava che fosse contento del favore che aveva appena ricevuto. Quale. Come quale. Voi, secondo i nostri calcoli, ora dovreste stringere nella vostra

mano il nulla osta. Non esiste nessun nulla osta. Caro il nostro protagonista, disse la voce ridendo con trasporto, tossendo, quasi soffocando. Non siate sciocco. Guardate bene. Lo sto facendo, è uno scherzo, vero. Non siate faceto, caro protagonista, ora prendete il nulla osta e fate quello che sapete che dovete fare. Cosa. Lo sapete. Non me lo ricordo. Siete ancora faceto. Non sono faceto, sono esterrefatto da tanta follia, non c’è nulla, nessun nulla osta. Siete un briccone, mio caro protagonista, il nulla osta è nulla o sta, se non sta allora è nulla quindi in mano avete quello che desideravate, lo sta non l’avete perché la particella ‘o’ escludeva la possibilità di avere entrambe le cose, quindi avete avuto la possibilità di ricevere una tra le due cose, o il nulla o lo sta, avete ricevuto il nulla, quindi ora fatene ciò che desiderate. Ecco, e se avessi ricevuto lo sta. Non si sa. Cosa sarebbe stato lo sta. Lo sta è lo sta, siete un tale bricconcello, ci fate arrossire dalla vergogna e arrotolare dalle risate, per questo vi abbiamo aiutato chiudendo uno occhio su tutte le scortesi mancanze nell’iter delle vostre richieste, ci siete simpatico, ora dobbiamo proprio salutarvi, fate buon uso del vostro nulla, e siate prudente la prossima volta che avrete bisogno del nostro collegio, magari non sarete così

fortunato da essere ritenuto tanto divertente e le lacune del vostro operato potrebbero danneggiarvi oltremodo. Il telefono rimase muto. Il nostro lo mise al suo posto guardandolo con sorpresa e astio. Guardò il nulla sopra il tavolo dove l’aveva lasciato appoggiato e notò che era proprio un bel nulla. Si mise a sedere sul divano in finta pelle e accese la televisione. Nulla anche lì. Tanto valeva guardare il nulla che aveva lì tutto per se, meglio del nulla che non era nemmeno suo e che la tv lo obbligava a ingurgitare ogni giorno. Non era male avere un nulla tutto per se, ritenne un bene aver fatto quel che aveva fatto seppure, non aveva una esatta coscienza di cosa aveva fatto per ottenere quel che aveva ottenuto, e per dirla tutta non era del tutto certo di aver capito cos’è che aveva ottenuto avendo fatto quel che aveva fatto così bene. Prese un bicchiere, lo riempì di vodka imperiale, la fissò attraverso il bicchiere non proprio lindo, la annusò, storse il naso e la ingurgitò in un solo sorso.

La crapula del filosofo

Se foste stanchi della solita vita, dei soliti locali sempre uguali e delle solite facce sputanti le solite parole nello stesso solito ordine da un indefinibile numero di anni, se voleste rompere l’eterno filo che vi congiunge alla noia, fate un salto alla crapula del filosofo. Basta che prendiate la grande strada che porta verso il luogo meno ameno che conoscete, raggiungetelo e salutatelo dal finestrino della vostra carrozza con un fazzoletto bianco e poi seguite per il suo centro, in direzione di quel luogo dove un tempo la ferocia umana estinse la guerra e le sue nere minacce. Girategli attorno e proseguite nel corso di oriente, dove di italiani non ne esistono quasi più. Una volta ato un ponte sormontato dai marosi di infiniti e sinistri rombi fischianti, voltate a sinistra tra alte costruzioni prive di ogni fascino e tentate, se ne siete capaci, di trovare un parcheggio sicuro, dove non farvi rubare cerchioni, antenne, autoradio o il veicolo nella sua interezza. Poi svicolate da quel posto, perché di certo dovranno are nella notte coloro che hanno l’ingrato compito di nettare l’antonomasia della sporcizia: le strade di quelle lande. È bene che lo sappiate perché se, accidentalmente, a causa della maldestra interpretazione degli appositi cartelli, la vostra carrozza dovesse intralciare l’immacolata missione di quelle eroiche persone, state pur certi che troverete una umida traccia di lurido vapore laddove pensavate di ritrovare il fido automezzo. Quando avrete trovato dove poter serenamente appiedarvi, andate nella via curva e ammirate l’anfiteatro palazzesco che tutto attorno, fin dove la vista ve lo consentirà, vi abbraccerà con il suo potente grigiume. Suonate allora al codicillo preciso e fatevi inghiottire dall’odor di canfora della portineria esatta. Entrate nella sala delle porte e scegliete quella che cela l’ascensore, oppure tentate il vano delle scale se vi sentite appesantiti e volete alleggerirvi prima del lauto desinare. Infine suonate al camlo che sapete e fatevi accogliere in seno al più bel personaggio che Milano ha l’onore di ospitare. Prima di andare avanti però, e vogliate perdonare la mia indole frettolosa che mi fa saltare di vin rosso a quello candido, bisogna che si sappia ciò che occorre fare prima di raggiungere il lieto luogo del conclave. Un magazzino qualunque,

che il nome non interessa a niuno, dovrà affrontare un’accolita di manigoldi guidanti un improbabile vascello nella cui stiva si dovranno ammassare le risorse necessarie a far trascorrere senza intoppi l’imminente serata. Ci sarà un nostromo a pilotare il mezzo di stiva e alcuni amici suoi a far da uomini di fatica e di intelletto, giacché scegliere, vagliare, giudicare, annusare e poi trasferire dai loculi non è certo un compito semplice. Per non incorrere nel peccato di rischiar di scordare qualcosa, tutto ciò che ai valorosi piacerà verrà scaricato nell’apposito contenitore e, senza nessun impiccio o litigio, ognuno avrà il suo. Ma sia ben inteso che solo del generoso vino, che sia rubizzo o candido, che sia fermo o vivace, che sia bevibile o vecchio da macero, solo dell’atavico e indispensabile liquido nessun vetro sarà così banalmente portato seco alla magione, ciò sia perché l’ospite generoso ne avrà sempre una scorta di impareggiabile qualità, sia perché ogni invitato si sarà di certo premunito, a suo tempo, di una preziosa uva da poter donare. È questo l’unico biglietto di ingresso per poter accedere al felice simposio. La cassiera di turno sarà premiata di giovanili facezie e dopo una breve colletta tra i capaci marinai, il vascello carico potrà levare l’ancora dal chiudente mercato per poter alzare le vele e dirigersi, cantando, la dove si è attesi. E la dove si è attesi, ad aprire la porta apparirà, statene certi, proprio l’allegro faccione del filosofo in persona. Pochi capelli appoggiano sul mite testone del nostro caro amico e ospite. Un pizzetto biondo circonda un bel sorriso atto a invitarci senza smancerie da avvizziti gentiluomini alla magione arredata ad alpestre rifugio. Al cospetto dell’imbandito tavolo troverete già, come è vero vetro quel che contiene il bianco tesoro altoatesino dal nome impronunciabile, il giovine assessore dal pieno fisico di calciatore in prematura pensione, corvini i capelli e sempre un pensiero a increspare l’ampia fronte. L’antico amico, quasi fratello del buon ospite sarà colui che condurrà per mano tutta la compagnia attraverso discussioni importanti, o imponenti facezie, in ogni caso sempre col buon proposito di deridere il mondo che è stato chiuso fuori. La merce tolta al magazzino sarà liberata all’aria frizzante della cucina e lentamente, ma non per questo senza la giusta voracità, a lei sarà fatta piena ed imparziale giustizia. Una bottiglia dietro l’altra verrà svuotata della sua anima liquida ed ogni membro della crapula se ne riempirà agevolmente. Si discuterà di letteratura e di fanciulle per le quali essa è stata creata, si parlerà di politica e, con sagacia, verranno sviscerate verità di cui

nemmeno i veri protagonisti nulla o poco sanno; si sguazzerà nella filosofia, trascinati dal bell’ospite, e si scruterà tra gli anfratti delle proprie menti rese disinibite dal liquido rosso o dal liquido bianco, ché alla crapula nessuno è mai stato prevenuto né verso l’uno e nemmeno verso l’altro. Si ascolterà allora il silente contabile sussurrare facezie che non ci si aspetterebbe normalmente; si udrà il rubizzo giullare fare da bastion contrario a qualsivoglia propaganda libraia; si potrà sorridere assieme al fuorviante architetto circa le avventure impossibili del cantiere dove presterà lavoro, mentre l’altro architetto, tra i sudori alcolici, esclamerà, di certo, una battuta che in principio caà silenzio, per poi, quando la sottile battuta avrà raggiunto le rallentate celebri, farà tutti saltare dalla sedia per la enorme sagacia. Vi saranno i fratelli artigiani, dei quali il primo discorrerà con sì tanta minuzia di aggiunte e di illimitate parentesi aperte e mai chiuse ché tutti non potranno far altro se non chiedere, con gentile fermezza, di darci un taglio, mentre l’altro narrerà storielle divertenti miste a ingenue constatazioni per la gioia di tutti. Ma non fatevi ingannare. Non è che l’auditorio è sì tanto privo di elastica capacità sensoriale da dover prestare orecchio impedendo così la normale masticazione o la sacrosanta deglutizione, giammai! È anzi quando la conversazione si farà più intensa, che più intenso sarà il piacere di ingollare e trangugiare, di ingurgitare e gozzovigliare. La notte giungerà infine, ma quale potrà mai essere il folle figuro che chiederà a una accolita così felice di porre fine al proprio idillio e uscire dall’alpestre ritiro? Fuori ci sono buie strade, tristi lamenti, odiosi rumori, e nauseabondi olezzi. Chi mai, in fede, potrebbe solo pensare di fermare una così piacevole summa di allegre piacevolezze e di profonde riflessioni? I commensali non ci pensano certo e sarà, infatti, la notte che a loro dovrà arrendersi infine, e aprire il proprio sipario dinanzi alle belle parole mai stanche, alle liete risate mai sazie, ai gorgoglii, resi incomprensibili dalla dolce ambrosia, ma non per questo meno saggi, del bellissimo filosofo padrone di casa. Il mondo e la sua noia sono stati relegati al di là delle pareti di un improbabile alpestre rifugio e mai potranno valicare la fortezza fin qui descritta, nessuno ne ha desìo e nessuno nemmeno verrà disturbato, perché alla crapula del filosofo non c’è posto per altro che non sia geometria di sereno diletto. Il tempo scorrerà, il caffè farà udire il suo richiamo. Il suo profumo porterà lontano il pensiero dei bei commensali. Si verserà il nero e si travaserà la bianca

grappa. Si argomenterà ancora, si riderà di nuovo, ci si riempirà i polmoni di letizia al fine di portarsela via e di tenersela stretta per i momenti bui, nei quali, ineluttabilmente, ci si imbatterà; si udranno dialoghi di piccoli superstiti uccellini al di fuori, oltre la vitrea lastra, appollaiati tra i vecchi rami di alberi che videro giorni migliori; si scorgerà il biancore nebbioso del nuovo mattino e una carrozza ricolma di assonnati, ma pur sempre fieri marinai, recherà l’ultimo arrivederci al fantastico filosofo della crapula, prima di far ritorno al porto ove li attenderà la prua da volgere alla via che li riporterà a nord.

La stanza è rettangolare

La stanza è rettangolare. Le pareti bianche avrebbero bisogno delle carezze di qualche pennellata, le luci al neon sono disposte su quattro file parallele distanti due metri l’una dall’altra, sopra il pavimento di linoleum verde ci sono dieci file di sedie, marroni, con i poggia gomiti e una assicella che piegandosi forma un piccolo tavolino per poterci appoggiare sopra una quaderno, le dieci file di sedie sono composte da altrettante righe, una trentina di sedie non hanno ospiti e le assicelle poggia libro sono sollevate verso il soffitto, pronte ad ospitare qualcuno. Sulle settanta sedie rimanenti ci sono settanta persone sedute in settanta modi diversi, con davanti a sé settanta quaderni diversi, e settanta mani, destre o sinistre che siano, impugnano ognuna una matita o una biro diversa l’una dall’altra. Quarantatre delle persone sedute e scriventi sono di sesso femminile, le altre di sesso maschile. Le settanta mani prendono appunti e seguono attentamente quello che le centoquaranta orecchie stanno ascoltando e quel che i settanta cervelli stanno percependo. Dinanzi alle settanta persone, a circa quattro metri dalla prima fila, al di sopra di tre gradini, dietro una pesante cattedra di legno marrone come le cento sedie, seduto sopra una poltrona nera con le rotelle c’è l’oggetto a cui è rivolta l’attenzione delle centoquaranta orecchie e dei settanta cervelli. È un uomo di cui, da dove sono, non riesco a scorgere a pieno il viso, ma so che porta un paio di occhiali poggiati sul naso grosso e rossastro, vedo l’occhio destro che è leggermente sporgente e strizzato in miope ricerca, vedo i capelli grigi, folti e lucenti, anche se poco avvezzi all’acqua corrente, raccolti in una coda stretta da un elastico nero di cuoio, vedo le basette lunghe e folte, grigie, ma più scure dei capelli (chissà perché?), lambire le labbra e unirsi ai baffi, addirittura neri, dell’uomo. Le mascelle dell’uomo si muovono senza sosta e dalle sue labbra, infinite parole vanno a essere rapite dalle settanta matite che rapidamente le prendono al volo e le rinchiudono tra le pagine dei settanta quaderni aperti. La mano destra dell’uomo che parla giocherella con una biro mentre le parole continuano a fluire ininterrottamente, la mano sinistra dell’uomo è, invece, appoggiata negligentemente sopra la cattedra, a tenere fermo un libro che non avrebbe nessuna possibilità di muoversi da dove sta. Tra le settanta teste e i

centoquaranta occhi che vanno su e giù tra il quaderno e la persona che sta parlando, scorgo alcuni visi a me noti. Due donne, sui trent’anni, ben vestite, ben truccate, ben curate, ma brutte, molto brutte. Sono sorelle, si invidiano ma si devono frequentare per non rimanere sole, per darsi forza l’un l’altra grazie all’odio che le avvicina, i loro visi raggianti sono sferzati dalla forza dei pensieri dell’uomo che parla, ma non sono sicuro che i loro cervelli riescano davvero a comprendere quel che i pensieri vogliono dire, amano la vanità dell’uomo come fosse loro, la sua fama, il potere culturale che rappresenta, vorrebbero poter essere come lui, ma non ci riusciranno mai, nemmeno se lo dovessero ascoltare per mille anni di seguito. Un uomo sui quarant’anni, dal viso glabro e dagli occhi grandi, ingigantiti da un paio di occhiali fuori moda dalla montatura d’acciaio, indossa una giacca di velluto blu, tenta di nascondere la calvizie che lo sta rincorrendo. Ha grandi aspirazioni, non nella calvizie, quella lo frustra con la sua ineluttabilità, ha grandi ispirazioni nell’arte, ma ha troppo buon cuore e troppo poco fegato per poter tentare e poca fiducia in se stesso per riuscire. Sembra ascoltare febbrilmente e pare prendere appunti circa un metodo e un altro metodo per poter scrivere nell’esatto modo, nel modo più eccelso, nel modo grazie al quale il barbuto parlatore ha potuto raggiungere il gota del successo letterario. Due ragazzi di ventitre anni, sportivi e studiosi, eleganti come la moda vuole che siano, belli e presuntuosi, immortali si direbbero se glielo si chiedesse e se fossero abbastanza sinceri da poterlo ammettere. Impettiti e ben diritti sulle sediole di legno marrone guardano con ammirata familiarità colui che un giorno dovrà forzatamente riconoscere quanto gli allievi sono stati più bravi del loro immeritato maestro. Falliranno lentamente, dopo centinaia di pagine riempite di migliaia di caratteri che non diranno nulla, ma si guadagneranno un luogo nel mondo, il loro mondo, dove colorare con le loro scaltre menti il pallido mare di ignoranza che inevitabilmente rappresenta tutto ciò che non è di loro proprietà. La donna di trent’anni, che si vergogna di essere arrivata fino a quel punto, seduta dinanzi a qualcuno che pretende di insegnarle come dire cosa e in che modo, alienata da parole che non vogliono essere apprezzate da quelli che decidono cosa sia degno o cosa non lo sia, prende appunti per cercare di capire dove stia l’errore, dove il segreto, dove il peccato mortale di chi deve rimanere nell’ombra. Ha belle mani, che muove con grazia tra i capelli e il quaderno. Occhi celesti che osservano parole di cui carpirne i misteri, lo sguardo accigliato,

concentrato, perplesso, ma attento. Le labbra chiuse, morbidamente mordicchiate dai piccoli denti bianchi. Non riuscirà mai a capire cosa ci sia che non va in quel che scrive, perché in quel che scrive non c’è proprio nulla che non vada, tutto è perfetto, scritto come andrebbe scritto. Solo una cosa non va proprio, quel che scrive è di una noia mortale, e solo una persona tra tutti quelli che hanno letto ciò che lei ha scritto proprio non se ne rende conto: lei stessa. Le altre persone non le conosco, non le ho mai vedute prima, ognuna avrà il suo pensiero, il suo segreto, il motivo per cui stare qui sedute su scomode seggiole marroni, a prendere appunti su come fare qualcosa che o la sai fare oppure nessuno te la potrà insegnare, figurarsi se poi è a pagamento. Facce contrite, attente ad essere investite in pieno dal prolisso fiume di parole filtrate dai baffi dell’uomo dai capelli grigi che parla e parla e parla. Matite incidono neri geroglifici su bianchi sudari come promesse di una rivelazione. L’uomo è famoso, celebre, geniale secondo molti, lo invitano di continuo ad incontrare aspiranti scrittori, e dare loro qualche briciola del suo immenso sapere, al fine di, chi lo sa, magari donare a qualcuno l’alito del dono del respiro. C’è un uomo laggiù, nell’ultima fila, un uomo con il cappotto nero, la barba lunga di tre giorni, ma ben curata, i capelli neri e lisci gli ricadono in un ciuffo appena sopra gli occhi. È l’unico senza quaderno sopra il banchetto, l’unico che non prende appunti. Ma non per questo inficia il computo dei settanta quaderni, delle settanta mani, dei centoquaranta occhi e orecchie. È appena entrato nella stanza rettangolare, nessuno l’ha notato entrare, è il settantunesimo. Ho già visto altrove quella espressione di appena accennata derisione che gli fa storcere lievemente la bocca. Mi piacciono quegli occhi verdi dal vago taglio orientale, strizzati in una malcelata miopia senza occhiali, ha un’aria di distante familiarità di qualcuno che si conosce ma che non si sa mai se salutarlo o no quando lo si incontra, non mi è per niente simpatico ma sono stranamente attratto da lui. Tiene fissi gli occhi sullo scrittore, il quale è ormai del tutto posseduto dalle sue stesse parole. Ha le mani nelle tasche del cappotto e dalla destra di queste si nota, a guardare bene, un continuo, leggero movimento come se fosse in procinto di tirarne fuori qualcosa che si è incastrato in qualche filo non collaborativo, ma nulla di questo lavorio traspare dal volto dell’uomo, imibile se si esclude la beffarda aria del viso. Tiene le gambe incrociate, la sinistra sulla destra, e muove il piede sinistro dall’alto in basso lentamente come se fe un esercizio per rafforzare la caviglia. Lo scrittore continua, intanto, a

tenere ipnotizzata la platea attraverso alchemiche formule di impossibile imitazione. In un attimo l’uomo dal cappotto nero è in piedi, e lo scrittore tace forse per l’unico momento da quando è entrato nella stanza rettangolare. I due si fissano e centoquaranta occhi rivolgono la loro attenzione ai due occhi dello sconosciuto. Sono sempre più sicuro di conoscerlo ma la memoria non mi è di nessuno aiuto. Lo scrittore riprende a rigettare parole, leggermente infastidito dalla inopportuna interruzione. L’uomo piega la testa a sinistra, poi a destra, poi nella sua mano appare una pistola, l’oggetto finalmente liberato dalla prigionia della tasca e del filo ribelle che forse la teneva intrappolata. L’uomo stende il braccio destro e allinea la pistola al suo occhio destro, chiude il sinistro e spara. Nel corso di tutta questa scena nessuno dei settanta ascoltatori si è mosso, nessuno dei centoquaranta occhi ha mostrato sorpresa, paura o panico. Nessuna delle centoquaranta gambe ha mosso il corpo che sostengono dal proprio posto. Nessuna delle settanta bocche ha emesso un suono o espresso sorpresa. Nulla. Lo scrittore ha un foro nel cranio. Se si disegnasse un triangolo dove gli occhi sono la base, e la distanza tra ogni occhio e il foro i lati, si scoprirebbe che il triangolo in questione è equilatero, ogni lato ha la stessa misura. Di certo, a nessuno interesserebbe tale precisazione, ma io sono rimasto molto affascinato da questo fatto perché da dove siedo io, sopra la cattedra, a circa tre metri dalla testa dell’uomo, noto che se si moltiplicasse per dieci il lato del triangolo che unisce occhi e foro nella testa dello scrittore esanime, si scoprirebbe che è precisamente la misura dei lati del triangolo che è stato creato dalla fuoriuscita di sangue e materiale celebrale sulla lavagna alle spalle dello scrittore, con al centro, precisamente al centro, il foro della pallottola. Tutto ciò è affascinante. Chissà perché quel uomo, che sono sempre più sicuro di conoscere, ha sparato allo scrittore? Chi è? Chissà se tutti questi triangoli così precisi fanno parte di un disegno più grande o di una fortuita casualità? Chissà perché le settanta bocche non hanno emesso un suono, e i centoquaranta occhi non hanno tradito paura alcuna? Chissà perché lo scrittore, che pure aveva visto quel che l’uomo aveva intenzione di fare, non ha mosso un muscolo e non ha, contrariamente a quel che aveva fatto fino ad allora, detto nemmeno una parola, emesso un suono, un grido di paura, una implorazione o un insulto?

Niente. Perché tutto questo? E poi? Io cosa ci faccio qua sopra, a tre metri sopra la testa di un uomo che è stato appena assassinato, come faccio a stare qui sospeso nel nulla senza che nessuno mi veda, e perché tanta attrazione per i disegni di sangue e di materia celebrale? La risposta è scritta tra queste righe, scritte senza sosta mentre ebeti infinite parole, vomitate senza pausa dalla bocca dai neri baffi, addirittura neri, di un celebre scrittore che si è elevato a mentore per un branco di ritardati, descrivono i motivi per cui egli è ciò che tutti noialtri mai potremo essere. Ho quaranta anni ormai, un buon cuore e mille dubbi, ho troppo poco fegato per uccidere davvero questo pallone gonfiato che non smette di espellere sagaci verità. La mia giacca blu non mi piace, volevo mettermi un cappotto nero questa sera, ma è in tintoria, vorrei avere una pistola di grosso calibro e non essermi fatto la barba da tre giorni, vorrei essere bello e feroce, invece sono quasi calvo, del tutto timido e assai lontano dal poter definirmi bello. Vorrei librarmi sopra le teste di questo pubblico di cercatori e vedere me stesso entrare affascinante nella sala, come un agente segreto dagli occhi verdi, dal taglio vagamente orientale, invece che avere due grandi occhi, ingigantiti, per di più, da un paio di vecchi occhiali dalla montatura orribile, di acciaio. Vorrei starmene seduto qualche minuto in fondo a questa stanza rettangolare che necessiterebbe di una bella imbiancata, ed essere ammirato da me stesso alto sopra il testone grigio di questo immenso scrittore tanto pieno di se da non avere nemmeno il tempo di smettere di parlare della propria sapienza prima di vedersi arrivare in piena fronte una pallottola ad immensa velocità. Vorrei essere in una stanza triangolare e non in questa prigione rettangolare. Ovviamente nulla di questo è successo e mai succederà. Ho scritto invece di ascoltare il genio di quest’uomo dai capelli grigi non troppo avvezzi all’acqua ma, forse, se l’avessi fatto, se l’avessi ascoltato almeno per un minuto, non l’avrei ucciso sopra un foglio; se ne avessi raccontato le immaginifiche vicende solo dopo aver appreso il mistero del suo genio, forse avrei potuto scriverlo molto meglio, ucciderlo molto meglio.

L’accordo

Ivan badava al fuoco. Metteva la legna, la spostava, la girava, dava alle fiamme ogni angolo del ciocco che bruciava nel rosso incavo incandescente. Le fiamme ne illuminavano il viso. Sorrideva amaramente. Aveva i capelli castano chiaro. Gli occhi, anch’essi chiari, leggermente tirati ai lati come quelli di un orientale, piccole rughe iniziavano ad accarezzarne gli angoli. Il naso un po’ troppo fiero. I capelli pettinati all’indietro. Le labbra sottili. Era alto e magro. Ma qualche peccato di gola iniziava a comparire impietoso sulle guance. Era un architetto, la casa era sua, l’aveva disegnata lui e lui l’aveva costruita. Era bravo nel suo lavoro, ma non ci credeva poi tanto. Ma non è di questo che voglio parlare. Seduto sulla poltrona alla destra del camino e rischiarato dalla luce scoppiettante ecco Pietro. I capelli neri e gli occhi ancora più neri, la pelle olivastra e la barba folta e scura. Gli occhi gentili e ironici ti confidavano i loro segreti e fissandoli si era portati ad aprirsi con lui. Era un assessore della città. La città era grande. E lui sarebbe diventato un personaggio di spicco nella vita politica del paese. Era ancora in quella fase della vita in cui credeva di poter cambiare le cose. Forse ci sarebbe riuscito, di certo ne era il tipo. Ma doveva ancora fare i conti con una macchina trita-sogni chiamata sistema. Forse avrebbe fallito, forse avrebbe trionfato, di certo sarebbe stato un grande dei nostri tempi. Sorseggiava un whisky e osservava Sara. Ma non è nemmeno di questo che voglio parlare. Sara era la sua fidanzata e da più di due anni aveva un amante. Lui lo sapeva ma l’amava troppo per fare qualcosa, qualunque cosa. Lei credeva di celare il suo segreto e manifestava gioia e ricambiava l’amore di Pietro. Si sarebbe detta una coppia perfetta. Ma lei aveva un amante. Era più forte di lei. Il desiderio della carne e l’assenza sempre più presente di Pietro erano per lei due cose

insopportabili. Aveva bisogno di qualcuno che la stringesse e che la fe sentire viva. Sempre. Sempre, e non solo quando gli impegni lo permettevano. Sara aveva i capelli corti, castano chiari. I grandi occhi marroni tradivano una forma di strabismo di venere che ne accentuavano lo sguardo presuntuoso e sicuro di sé. Nascondeva un segreto e lo faceva bene. Era bella. Il naso piccolo e un po’ rotondo. Le guance rosse. Aveva un bel corpo. Sinuoso e dalle generose forme. Generose forme che ne accentuavano il desiderio. Desiderio traspirava dai suoi vestiti e dalle sue mani, se ne percepiva la forza. Pietro, certo, ma anche Marco. Ma non è di questo che voglio parlare. Marco era seduto al lato opposto di Pietro. Su un’altra poltrona e sul lato sinistro del camino. Sorseggiava una birra chiara. Era l’amante di Sara. Era l’amico più sincero di Pietro. Tutti e tre erano coscienti del fatto che le loro storie erano palesi a tutti ma nessuno voleva e poteva mettere la parola fine a quella ipocrisia. Marco era alto e bello. Il viso sorridente e l’espressione beffarda ti facevano credere che ti stesse prendendo in giro ogni volta che ci parlavi. Gli occhi verdi ti fissavano e non ti lasciavano andare fino a quando non avevano letto dentro la menzogna o la verità. I muscoli palpitavano sotto la maglietta nera a maniche lunghe. Sara sentiva quello sguardo scivolare sul suo corpo come una mano che la accarezzasse nei luoghi più nascosti. Sara sentiva anche lo sguardo di Pietro circondarla del suo potere. Li amava tutti e due. Voleva continuare a farlo. Li amava entrambi. L’uno e l’altro per le stesse ragioni. Forza fisica e sensuale. Per la loro vitale arroganza e per l’amore che le infondevano dentro ogni volta che erano assieme. Persino ora. Tutti e tre nella stessa stanza, amici e segreti amanti. Li voleva tutti e due. E se avesse potuto li avrebbe voluti anche assieme nello stesso letto, per godersi le carezze di entrambi e impazzire di piacere. Ma non è certo di questo che voglio parlare Luca non era alto, era un po’ ingrassato ma non si faceva cruccio di nulla. Amava il cibo e gli alcolici. Amava vivere e lo si vedeva appena lo conoscevi. Era simpatico e avvolgeva chiunque gli stesse vicino con un abbraccio di generosa amicizia. Credeva in quel gruppo di persone e sapeva di amarli tutti.

Aveva bisogno di tutti loro come della propria famiglia. Forse di più. Si erano trovati per prendere una dura decisione, dura ma giusta. Ad essi avrebbe donato tutto quanto. Anche la propria vita. Fumava un sigaro e sorseggiava del cognac. Gli piaceva il profumo del sigaro, il sapore del liquore, la vista dei propri amici, il calore del fuoco e l’idea di essere parte di qualcosa. L’idea di essere al centro del mondo di persone che a loro volta erano il centro del suo mondo. Si sentiva bene. Ma non è di questo che voglio parlare. Se ne stavano seduti attorno al camino scoppiettante. I miei amici erano tutti seduti sorseggiando un tè o un liquore. Discorrevano, i miei amici. Discutevano tranquillamente e amabilmente, i miei amici. Erano rilassati, in apparenza. Ma stavano prendendo una dura decisione. Questo lo so. A vederli il cuore ti si beava nel petto. Ricordi affioravano agli occhi come lacrime di dolce nostalgia. Ad ascoltarli, invece, la pelle avrebbe preso a fremere e i brividi avrebbero fatto irrigidire la colonna vertebrale. Però sorridevano. Ma non sorridere dovevano. Non sorridere, ma piangere per la dura verità che stavano per sancire con il fuoco del loro amore e del loro odio. Il fuoco consumava il legno di pino dentro le fauci arrossate della casa di Ivan. Piccole scintille si riflettevano dentro i bicchieri di Pietro e Luca e si gettavano all’inseguimento dei volti di Sara, Marco e Ivan. Si osservavano in silenzio. Tutti e cinque avevano preso la loro decisione. Era unanime e non c’era bisogno di pronunciarla a voce alta. Erano talmente uniti che quel che dovevano fare si era trasferito da una mente all’altra ando attraverso gli occhi marroni di Sara, quelli verdi di Luca, quelli neri di Pietro, quelli azzurri di Ivan, quelli verdi di Marco. Era un messaggio fatto di luce, invisibile luce che come un dardo era volata tra i cinque amici e si era saldata nel loro centro, e tra le fiamme del camino si era fortificata. Mi avrebbero ucciso. Ecco ciò di cui vorrei parlare… se solo ne sapessi qualcosa… e comunque,

ormai, è troppo tardi.

L’assedio

Era seguito da un mare in piena di mostri di lamiere multicolori. La sua unica via di fuga erano alte mura di pietra e alberi che si stendevano al di là del ponte oltre la strada. I rombi furiosi lo inseguivano da vicino, troppo vicino. Il respiro era affannoso, il sudore gelava sotto il mantello nero. Ai piedi avrebbe voluto avere le ali di apollo, ma aveva solo delle brutte scarpe di camoscio che cinguettavano ad ogni o. Si guardava alle spalle e camminava spedito cercando di avere un’aria indifferente. Forse non l’avevano notato, pensava di farcela a superare il cancello assediato senza destare sospetti. Le lamiere correvano sopra cerchi neri di gomma di fattura e misura diverse. Di tanto in tanto un rombo più forte degli altri gli gelava l’animo e le forze venivano meno, era in questi casi che si vedeva sdraiato sul gelido nero manto stradale a mani giunte, gli occhi rivolti al muto cielo azzurro intento a pregarlo di portarselo via. Erano i draghi di ferro e gomma, i più grandi tra i mostri che l’uomo aveva creato e che l’uomo stesso muoveva grazie a rotondi timoni. I mostri avevano inghiottito l’uomo e l’uomo credeva, innocente essere, di essere lui che guidava ciò che lo attorniava, ma non era così. Il mostro aveva ormai una sua volontà e il cibo che lo alimentava e che pensava di gestirne l’animo era solo un minuscolo parassita alienato dal suo cieco lavoro. Lo stesso valeva anche per i mostri più piccoli con quattro ruote invece che sei, otto o dodici. Persino quelli a due ruote, i più rapidi e letali tra le creazioni umane erano in grado di possedere, forse ancor di più, chi tenevano legato alla loro schiena. Gli unici che ancora potevano ritenersi liberi erano i centauri che guidavano i piccoli oggetti a due ruote, ma privi di rombo e fumo che si muovevano grazie allo stantuffare delle gambe dei loro padroni. Ma anche loro, i piccoli centauri affaticati, erano vittime e non era raro vederli imboccare anch’essi il sentiero delle mura assediate in cerca di ristoro, pace, silenzio e protezione. Li si poteva vedere scendere dal loro compagno a due ruote e appoggiarlo alle mura, ad un cancello, ad un albero e poi distendere le membra stanche e alzare al cielo occhi impauriti. Li si poteva vedere rilassare i nervi e persino eggiare per qualche metro inalando l’aria fresca e saggia che

gli alberi maestri gentilmente soffiavano al loro viso. Finalmente entrava nella corte del castello sotto assedio e nessuno lo fermava, nessun veto era mai rivolto al viandante che le mura oltreava, invero nessuna guardia proteggeva i bastioni e nessuna arma era mai puntata al di fuori verso gli assedianti alieni. Per dirla tutta, a onor del vero, bisogna ammettere che il grande parco verde, il suo castello in rovina, i suoi alberi immensi non erano in realtà sotto l’assedio di alcun nemico. Non c’erano assedianti che tentavano di buttare giù le mura e fare razzia, non c’erano difensori assediati impauriti e pronti a dare la vita in difesa della loro proprietà, nessun tesoro era ambito agli assedianti del fuori, nessun segreto era protetto dagli assedianti del dentro. Era, lo si deve ammettere, un assedio alquanto anormale, almeno secondo i crismi dell’arte della guerra - anche se parlare di arte accostandola alla guerra è proprio qualcosa che a chi scrive non va proprio giù, e questo è bene che lo si sappia perché chi era dentro poteva uscire quando più lo desiderava (e non era raro che questa possibilità si verificasse) divenendo assediante persino lui, chi era fuori poteva entrare senza trovare ostacolo alcuno, e da assediante trasformarsi in assediato. Non v’era ostacolo alla libera iniziativa, al libero pensiero, alla libertà di espressione e di parola. Chiunque poteva accedere dal fuori al respiro del grande castello in rovina: colui che era stanco e si era finalmente divincolato, anche per pochi istanti, dal lavoro alieno che lo inseguiva e lo schiacciava, o colui il quale fuggiva a quegli alieni che non vedevano la verità e non discernevano più la ragione dalla frustrazione delle monete. Tutto l’affanno dell’umanità in cerca di un segno da lasciare, tutta l’inutilità di segni che nessuno mai decifrerà, di cui nessuno si interesserà. All’interno del castello c’erano quattrocentoquarantaquattro alberi di varia natura e misura, millecinquecentododici erano i metri dei sentieri che lo percorrevano in tutte le direzioni, sette fontane spillavano acqua, un minuscolo torrente tortuosamente ne attraversava la dorsale da sud a nord, settantaquattro panchine di legno sostavano in attesa di ospitare chicchessia, due laghetti se ne stavano quieti a centoventitre metri l’uno dall’altro, centoquarantadue anatre starnazzavano, nuotavano, litigavano, parlottavano tra di loro, svolazzavano e pescavano, bevevano o osservavano l’andirivieni degli assediati, centinaia di altri uccelli che non saprei definire, e me ne scuso, svolazzavano tra i due laghetti e tra gli alberi, settantatre scoiattoli abitavano gli alberi e si rincorrevano a due a due per la gioia dei bambini che riuscivano a vederli, centosette

tartarughe eggiavano con parsimonia. Il viandante dal mantello nero e le scarpe di camoscio cinguettanti si era fermato al primo dei laghetti e si stava per sedere su una delle panchine. Si guardava intorno e alcune anatre lo osservavano con curiosità. Un paio di loro, tra le più coraggiose gli si erano accostate e gli parlavano, ma lui non le capiva e salutandole con un cenno della mano si era seduto sulla panchina. Teneva un libro in mano. Il libro parlava di un altro assedio, più vero, più cruento, più fatale e non aveva nessuna speranza, il libro, di essere letto, giacché il lettore era troppo distratto dalla pace per cercarne altra dentro pagine rigate di nere strisce. Le anatre se n’erano andate dalle loro compagne a chiacchierare nel loro acuto idioma. Notevoli erano i personaggi che circolavano per il parco perché non li si notasse e non gli si dedicasse tutta quanta l’attenzione possibile. Le papere starnazzavano a gruppi o si ritiravano ai margini beandosi del loro stagno. Gli scoiattoli si inseguivano giocando a chi ce l’ha. Bimbi accompagnavano i nonni tenendoli per la mano e non permettendogli di toccare nulla. Un nonno accompagnava un bimbo che non poteva nemmeno rotolarsi nel fango - piccole schegge del di fuori entrato nel parco e che a breve verrà scacciato - infatti da lì a poco nonno e bimbo si rotoleranno assieme ridenti nella terra umida. Un gruppo di vecchi chiacchierava a proposito delle soluzioni ai problemi del mondo, dell’economia, del lavoro. Avevano il potere di cambiare tutto, ma la saggezza del loro sguardo era stato ricacciato dal di fuori e qui hanno trovato altre priorità, maggiori, più grandi, perfette: c’erano traiettorie da calcolare, forze ed energie da bilanciare, inerzie da amalgamare, linee da tracciare, carichi da gettare o conservare, strategie da disegnare, simboli da consultare, bugie da smascherare, conti da far tornare, insomma, qui c’erano bocce da far rotolare, carte da giocare. C’era un cane che portava a eggio il padrone. Lo lasciava libero tenendo in bocca il guinzaglio e il sacchettino delle sue feci in una zampa. Ansimavano i corridori, biciclette si rincorrevano imitando gli scoiattoli, anatre dal becco giallo e le zampe arancioni, dalle piume viola, marroni, rosse, si pettinavano altezzose e fissavano i piccoli occhialini dentro lo sguardo affascinato del viandante dal mantello nero. Era uno scrittore. Scrittore del nulla. Al fianco non aveva una spada, aveva un libro chiuso, parole di altri, non sue. Di certo migliori. Un’anatra, forse una della coppia di poco fa, era tornata a far visita allo scrittore. Si guardavano l’anatra e lo scrittore. Lei si pettinava le belle piume violacee, lui muoveva i piedi dentro le scomode scarpe di camoscio.

Lui non osava parlare, lei si innalzava in tutta la sua altezza e evitava di proferire verbo. Forse, pensava lo scrittore, taceva per non ferirlo con parole che lui non sarebbe riuscito a mettere insieme. Era ora di andare. Lo scrittore si alza dalla panchina, accende una sigaretta, chiude il libro e lo ritira in un tasca del mantello nero, guarda il cielo, insegue l’inseguimento degli scoiattoli, sorride ai suoi piedi bagnati, alle sue scarpe abbandonate sotto la panchina, saluta l’anatra e se ne va al di là del muro. La fortezza è al sicuro, ora bisogna vedere se c’è speranza anche per quelli di fuori.

L’hotel sopra la stazione di G

Esiste un luogo che si chiama G. G possiede una stazione: la stazione di G. Sopra di essa c’è un hotel di cui ora vi narrerò e nel quale voi dovrete necessariamente andare: l’hotel sopra la stazione di G. Il suo nome: “Hotel sopra la stazione di G”. Mi sia permesso dire che è un nome alquanto bello. La comodità di scendere dal vagone e di trovarsi già nella hall dell’hotel coincidente con l’ufficio reclami della stazione - è di per sé un fatto unico: nel caso di disguidi durante il trasporto, si potrà denunciare l’eventuale mancanza proprio mentre verrà effettuata la registrazione. I gentili impiegati delle ferrovie saranno pronti ad accogliere con affabilità i nuovi venuti e ad indirizzarli alle loro camere, subito dopo aver risposto con cordialità alle rimostranze dei rari clienti delusi. Un ometto, lo stesso da imperituro tempo, accompagnerà al piano facendo attenzione a non aiutare con i bagagli. Appena forzato l’ingresso ed entrato nell’accogliente dimora, l’ospite divellerà la finestra al nobile fine di far riabbracciare ossigeno e stanza. Resterà, poi, abbacinato dalla splendida veduta. Ubicata, la finestra, al di sopra della ferrovia di G, permetterà agli occhi più romantici di perdersi sognanti nel paesaggio di rotaie luccicanti sotto il sole di agosto e melanconiche sotto le prime nevi di novembre. Il tetto di fibrocemento, nella più classica colorazione grigia, fa bella mostra di sé sopra la banchina ornata di divertenti righe gialle. I trenini a quattro vagoni o gli interminabili treni merci allargano il cuore, di giorno, di notte, elargendo armoniosi fischi e amabile sferragliare. L’ospite attento si apionerà alle scene di vita che si svolgono sopra le

banchine. Apprezzerà cartoni di ogni foggia e fogli di giornale di qualsivoglia ideologia avvolgere uomini e donne in attesa degli imminenti tempi migliori. Potrà interessarsi ai casi delle bande di amici che, tra i colori pastello del tramonto celato dalle mura, si scambieranno bustine di magiche polveri o scintillanti lame del locale artigianato. Satollo dello splendido panorama ferroviario, l’ospite tirerà le tende marroni in similpelle per abbandonarsi alla contemplazione dell’accattivante arredamento del suo alloggio. Ammirerà lo sghembo letto sormontato da una sosa asse di legno puntinata di nodi. Si stupirà alla vista delle lenzuola a trame magistralmente lise arricchite di splendidi pois di unto. I vuoti scomparti del finto frigorifero di legno finemente tarlato placheranno la brama di bellezza molto più della sete. Tenterà inutilmente di accendere il televisore mimetizzato tra disabitate ragnatele ondeggianti. Rimarrà estasiato dall’enorme scrivania di obliquo design sopra la quale nulla potrà rimanere immobile. Si farà sfuggire esclamazioni di vivo stupore nel notare l’armadio incompiuto dal colore imprevedibile che permetterà al preciso ospite di riparare la sua valigia, meglio se ben chiusa, tra le residenze invernali dei ragni architetti. Libererà, l’ospite, la fantasia a cercar di comprendere l’ineffabile tinta delle piastrelle che ricoprono per intero la squisita toilette. Entrerà a o sicuro nel loculo della doccia dove tenterà, con diletto, di domare l’allegra conflagrazione di indomabili giochi d’acqua, divincolandosi, nel frattempo, dall’abbraccio umido del telo impermeabile e cercando, convulsamente, di imporre una temperatura costante alla forzata idroterapia. La tazza del bagno priva di tavoletta, e il bidet carente di acqua calda, il lavandino a livello bimbo, lo specchio fumé altezza ciclope e uno splendido lampadario in plastica ne completano, infine, il gradevole arredamento. Una volta sistemate le sue cose, fattosi una terapeutica doccia e vestitosi secondo gusto, l’ospite potrà lasciare la stanza per appagare l’appetito gustando le prelibatezze di uno dei due fastfood presenti, o deliziandosi con le ghiottonerie dei distributori automatici sparsi qua e là per la stazione. Ma avrà anche la possibilità di farsi servire in camera un tipico piatto di G solo componendo il numero (con il proprio apparecchio) della più vicina pizzeria che avrà la fortuna di trovare aperta. L’hotel sopra la stazione di G possiede una piacevole sala dove poter leggere coccolato dal vociante andirivieni di migliaia di eggeri o di riposarsi dopo le eclettiche e rigeneranti eggiate tra gli impervi sentieri lungo le rotaie della ferrovia di G.

Una volta tornato in stanza l’ospite potrà distrarsi interloquendo con i vicini grazie all’impalpabilità dei muri, oppure distendersi al gentile russare dell’abitante il piano superiore. Si concederà eccitato alle proprie fantasie, soggiogato dai sospiri-amorosiritmicamente-cigolanti della coppia oltre la testiera, al di là del tramezzo o avrà modo di soddisfare la morbosa curiosità grazie ai tafferugli del piano di sotto. Qualunque cosa intenderà fare ogni venti minuti circa si dovrà abbandonare, volente o nolente, al giocoso sferragliare dei treni di là dalla finestra. Allorquando il vostro treno vi pianterà a G ricordatevi, dunque, di alloggiare nell’hotel più acclamato di G, il fiore all’occhiello dell’architettura di G, il più celebrato dell’intera G, il geniale connubio tra arte e G, nell’hotel sopra la stazione di G. L’unico hotel che troverete a G.

Libericolo

Sedici trame per un libro inedito, di un autore sconosciuto, venti parole da spendere per quel libro, tre delle quali pesantemente negative, le altre buone per farne un altro libro, un libro di menzogne, l’albero nano sotto il sedicente parolaio se ne stava quieto senza muovere una foglia, le vertebre del cane si sentivano scricchiolare sotto il peso dello zaino alpino. La scalata era dura quell’inverno, molto più duro era il ghiaccio, molto più eterno dell’anno precedente. Il ponte era basso e il capitano del vascello dovette far segare l’albero di maestra e far appena smussare gli altri due. Il gatto piangeva nell’ombra della sera imminente e nessuno se lo filava, era brutto e sporco. Lo presi io e lo resi leopardo per una notte, poi lo lasciai agli avvoltoi disperati. Prendemmo tremiladuecento zanzare quella notte e il sangue guadagnato lo vendemmo al pubblico mercato come ricostituente sessuale. Giovedì venne a vedere Lunedì che cantava di un aborto settimanale, se ne andò deluso al diavolo. Dio e il Diavolo bevevano al tavolo d’angolo, nascosto agli occhi vigili dell’ausiliario del traffico mandato dai presidenti delle province. Quei due erano strani, forse terroristi islamici, forse addirittura rumeni musulmani di estrema sinistra. Chi li voleva? E poi non consumavano nulla, sedevano e basta e creavano quel che bevevano. Via. La città soffocava sotto le luci del divertimento del sabato sera. Ma nessuno rideva, chi correva, chi volava, chi si denudava tra le righe continue della provinciale. Muti e depressi, ognuno celato dal suo viso bello e cattivo. Il dovere era are belle serate, il dannato era colui che ringhiava di noia silenziosa. Badanti polacche sedevano a gruppi dentro il parco importato dall’Islanda. I vecchi sdentati sorridevano alla guerra che bramavano per poter dimostrare come vivere senza aver nulla. I ricchi volevano morte altrui per il proprio esistere cannibale. Il panettiere bestemmiava e l’autista scopava nel bagagliaio

buio. Gli aerei volavano senza piloti. Lo sciopero con il telecomando guidava il pilota automatico ubriaco di libertà. Venne la notte assassina e non morì nessuno. Ci pensarono i giornali a inventare disgrazie di marketing. Il calcio faceva schifo anche ai calciatori. La galera vomitava brutti uomini incapaci di stare in un mondo di bellezza. Marconi si chiedeva che cosa cazzo farsene di una televisione. Picasso spalmava intonaco su una tela di Leonardo da Vinci. Gesù non volle salire sulla croce e si mise a vendere mutande al mercato. Lo arrestarono perché non aveva il permesso. Lo misero su una croce e lo dimenticarono due giorni dopo. Quando resuscitò nessuno ricordava che era morto. Imprecò maledicendo il Natale. Maria se ne ebbe a male e Giuseppe decise di diventare veterinario e di lasciare la falegnameria a Pietro. Il Papa prese i voti e divenne davvero un prete. Morì in povertà, ma nessuno lo pianse. L’America divenne terzo mondo e dovettero sudare centinaia di camice e votare mille presidenti per rendere quinto tutto il resto del mondo. L’Italia affondò dietro a Venezia liberata dai piccioni, dai turisti, da Cacciari, ora la visita in muta da sub per un milione di euro e una bombola di ossigeno e polonio. Gli unici italiani superstiti erano su un isola tropicale e nessuno li andò mai a riprendere. Si nutrirono di se stessi e dopo tre anni ne rimase solo uno, ma era sconosciuto e lo uccisero dei detrattori della televisione. Diceva di chiamarsi Berlusconi e di essere unto. Lo misero sopra una graticola e se lo mangiarono dopo averlo cotto per bene per uccidere i pidocchi. Morirono tutti i commensali dopo giorni di indicibili dolori alle reni. Spezzate. Erano greci. Sigmund Freud uscì dal suo letargo per rivelare la vera realtà dei suoi sogni, ma non vollero credergli e mise su un complesso rock. Non vinse mai il disco di platino.

Liquido

Circondato da liquidi pensieri, annego tra i flutti di un eggiare infinito. Quanto tempo? Mangio strisce di impalpabile nulla. Bevo quel che mi circonda. Buio. Rosso baluginare di trasparenti pareti morbide. Che sia l’Inferno? Sapessi qual è il suo opposto potrei così chiamarlo, ma non è mia la conoscenza del Paradiso. Metà strada tra niente e tutto, metà vivere, metà morire. Rimbombano suoni artificiosi, gran cassa frapposta tra me e il poi. Se fossi un astronauta? No, lo spazio non bagna, non esiste risacca, né sciabordio, né lieve ondeggiare, asciutta desolazione punteggiata da fuochi spettrali, segreta assenza, privazione. No, non posso essere un astronauta. Non conosco il significato dello spazio. Cos’è lo spazio? Chi c’è al di là del mio vivere liquido? Scalcio l’aria. Cos’è, aria? Respiro il respirare di altre idee. Odo il richiamo del fuori. Del dopo. Del mai. Del nessuno. Del tutto. Odo sospiri, affanni, eterno piangere del mondo. Cos’è il mondo? Navigo la marea di buio calore. Di nulla ho la coscienza se non del tentativo di sopravvivere a questo presente innocuo. Gioco con l’immagine rarefatta di qualcosa che potrei essere io. Muovo a fatica altri stadi di me. Cos’è il gioco? Cos’è, me? Io? Pulsano molli fragori. Sento crescere le mie forze, la sostanza a cui appartengo, verso la quale mi dirigo immobile. Dondolo tra qui e qui. E se fossi un pesce? Non avrei domande, mi soddisferei di essere parte del fluire che sono. No, non un pesce. Cos’è, poi, un pesce? Fermo, in movimento, assorbo nutrimenti senza chiederli. Ancora un calcio al

nulla. Pensieri si formano istantanei come lampi. Ma cos’è, insomma, un pensiero? Penso allo scherzo di questo strambo destino. Liquido vivere immerso nel liquido di altre vite. Sarò mica un parassita? Non voglio approfittare del cielo di un altro. Esigo un mio cielo personale. Ma cos’è un parassita? E il cielo? Cerco un’alternativa alla prigione che vivo, non ho forze, crescono, ma non ho la forza di dire addio al mare che mi circonda. Mare. Lo facevo più grande. Solo impercettibili azioni posso compiere rinchiuso in questo mistero. Un altro calcio al nulla. Spalanco la mente, urlo la mia disperazione. Cos’è il mare? Chi mi sente? Non ricevo risposte. Rimbomba il fuori. Dentro mi sento nudo. Sono nudo. A cosa servirebbe non esserlo? Se fossi un atomo? Piccolo infinitesimo di un insieme. Indivisibile. Se fossimo tre ed io fossi ossigeno saremmo acqua, quindi il tutto. Molecola vagabonda. Ma io sono solo. Che cosa sarà mai una molecola, un atomo, ossigeno, idrogeno? Cos’è un chimico? Non è ho coscienza. L’estrema solitudine mi stringe il petto con la sua irridente presenza. Eppure sento l’estrema vicinanza di un altro me che mi sta attorno. Solo ma non così solo, dunque. Accantono la sfiducia per un altro adesso. Sapessi cosa sia il tempo mi annoierei. Cos’è, il tempo? Forse un giorno saprò. Non distinguo differenze tra quel che adesso sono e quel che prima ero, tutto mi pare identico. Se domani cambierò le forme di questo minuscolo mare, forse, potrò stabilire che oggi è ato, seppur da ieri, da sempre. Circondato da liquidi vaneggiamenti scorgo sostanze attraversarmi, saziarmi. Se ne conoscessi la conseguenza caei un tale trambusto qui dentro da sconquassare le pareti e vedere il fuori, ma non conosco il modo di poterlo fare, non conosco quel che accadrebbe. Fuori? Domande. Domande da sputare addosso a chi? Domande non degne di una risposta. Risposte. Forse ruotano anche loro dentro i loro liquidi riposi. Anniento il mio inutile pensiero, giacché nemmeno ne conosco la natura, e che sorvoli alte vette o si nasconda in remoti anfratti per me non fa alcuna differenza.

E se fossi poesia? Sarei un nero strisciare su un pallido pavimento. Avrei rime, avrei suono, avrei un sogno dentro, nascosto ma palese. No, non c’è da fidarsi della poesia. Cos’è la poesia? Esisto davvero o mi sto sognando? Ma che diavolo sono? E chi è questo diavolo? Nuoto. Ma non so nuotare. Rimango a galla e non affogo, ma a galla di cosa? Ci sono immerso dentro. Mi nascondo dai fantasmi della mancanza di conoscenza, dalla assurdità di parole che non so dire. Mi addormento sperando un domani diverso da questo ieri. Liquido che mi sostieni, liquido che mi anneghi, liquido che mi leghi a te con inesistenti corde. Liquido che mi tieni in vita. Che mi impedisci di rompere la parete che mi divide dal fuori. Liquido rosso, buio, trasparente, denso, limpido, sostanzioso. Che mi dividi dal mondo che non riconosco. Che non ho mai conosciuto. Prima o poi uscirò da qui e ti inseguirò per sempre, per ritornare a te, per rivivere attimi di questo assurdo equilibrio. Scorgo un varco nel tuo buio lussurioso, vedo bianco e chiudo i miei occhi ciechi, forse qui finisce l’ieri e inizia il domani. Sento freddo, prima era meglio, ieri è sempre meglio del domani, questo già lo sapevo. Vedo un aggio per un’altra percezione. Mi sento trascinato, spinto, circondato dalla luce che non credevo esistesse. Mi manca già l’acqua del quieto trasformarmi. Sensazioni nuove, apro la bocca e urlo l’odio, vorrei non aver desiderato, vorrei non aver scalciato, il tutto è ormai ato, divento niente nella troppa luce che mi irrita come una bestemmia. Urlo e nuoto il mio annegare. Come ho fatto a non arrivarci. E se fossi solo un uomo? Nasco, infine.

L’ultimo colloquio

Mi gettai giù dalle scale che portano ai sotterranei. Mi guardai alle spalle. Ansimando entrai di corsa nel treno in attesa. Pochi attimi dopo le porte si chio. Sospirai sollevato. Per fortuna avevo seminato quel noioso e tutte quante le sue chiacchiere inutili. Mi sedetti cercando di far tornare normale il respiro. Il vagone era deserto. Molto strano per quell’ora. Molto strano. Era l’ora di punta e non sarebbe dovuta essere deserta quella carrozza. A pensarci bene nemmeno mentre correvo per le scale mi pareva di aver notato grande folla, anzi, mi pareva proprio di non aver incrociato un anima viva. Molto strano. Magari il metrò aveva chiuso pochi attimi prima e io non lo sapevo, magari qualche intervento, uno sciopero, chissà, forse ero il primo a essere sceso laggiù subito dopo la riapertura. Molto strano davvero. Ci pensai ancora un po’ e poi, dopo una saggia scrollata di spalle, decisi di non pensarci più, dopotutto non me ne importava un granché. Proprio in quel momento una voce parlò.

“Che corsa! Ancora un po’ e mi saresti sfuggito”. “Non è possibile”. “Tutto è possibile”. “Si può sapere cosa vuoi da me?” “Solo fare due chiacchiere”. “Cercati qualcun altro”. “Già fatto! Mi manchi solo tu”. “Che cazzata! Vuoi dire che hai rotto l’anima a tutto il mondo tranne me?” “Ebbene sì! L’avrei detto con altri termini ma è proprio questa la verità”. “E va bene! Ma prima dimmi chi sei”. “Non l’hai capito?” “Un maniaco?” “No”. “Un serial killer”. “Ma che dici?” “Un vagabondo, un barbone, un ladro, un idiota, un pazzo fuggito dall’internamento, un incubo, la mia coscienza, un ologramma, un viaggiatore del tempo, un assassino di un’altra dimensione, un capriccio della mia pazzia, un demente che ho picchiato a sette anni e che mi insegue da allora? Chi cazzo sei? Un attentatore che ha beccato l’unico treno deserto della storia della metropolitana di Milano all’ora di punta? Sei uno sfigato che ha deciso di rapire il meno attendibile degli ostaggi? Chi cazzo sei?” “Ah! Quanto entusiasmo! Ma ora calmati! Sono un po’ tutte le cose che hai detto, ma precisamente nessuna. Di certo non ne sono una di quelle che hai elencato. Guardami bene. Suvvia. La tua coscienza? Ma ti sembro una

coscienza? Io? Che assurdità! Noioso lo sono, non lo nego; patetico a volte, non posso dire di no; insistente, certo; cocciuto, assolutamente vero; onnipresente, sacrosanto; ma non sono la coscienza, suvvia, ripeto, suvvia, non ho mica io quella assurda tendenza alla morale più becera, quella impertinente necessità di insistere a trascinarmi sullo zoppo cavallo del senso di colpa. Mi hai offeso e che diamine! Ti pare che possa essere io qualcuno che lo si può nascondere e far tacere? Qualcuno da celare dietro cortine di pensieri fumosi, dietro maschere di faccia tosta, dietro il paravento della sordità? Io sono sempre, io non taccio, io non posso essere nascosto, non posso essere sconfitto con manovre distratte, non ho bisogno del senso di colpa, perché io stesso sono il senso di colpa. Forza allora? Chi che credi che io sia?” “Il diavolo?” “Anche”. “E va bene signor diavolo! Che vuoi da me?” “Solo chiacchierare”. “Oh Dio!” “Ehm! Sì, certo! Chiamami anche così, se vuoi”. “Presuntuoso! Ti ho per caso venduto l’anima e sei qui per prendertela? Guarda che non fai un grande affare!” “Non dire così, ogni anima merita che io la prenda, ma non sono qui per questo, e poi tu non ce l’hai un’anima, perché non credi in me”. “Sì che ce l’ho, e comunque perché dovrei credere che tu sia il diavolo? Dammene una prova! Mi sembri messo molto male, mentre il diavolo, credo, dovrebbe essere ben più elegante o parecchio orribile. Tu invece mi sembri un contabile alienato, che stimola più comione che orrore”. “Tu vedi troppi film. Io mi travesto da quel che voglio, divento quel che voglio, in tutti questi anni sono stato qualunque cosa, qualunque! E non sono solo diavolo, sono il Tutto. In quanto a mostrarmi nella mia forma reale non è possibile. Mostrarmi per quel che sono davvero ti avrebbe causato un’immediata follia, peggiore di quella che già alberga in te, e mi sarei trovato qui a cercare di

discutere con un pazzo urlante e non con il sarcastico e posato individuo che invece sei. Ti darò comunque una prova di quel che sono e di quel che ti sta succedendo. Guarda fuori”. “Stiamo viaggiando, e allora?” “Apri il finestrino, senti qualcosa?” “L’aria è immobile, siamo fermi eppure corriamo”. “Ti rendi conto da quanto tempo viaggiamo? Ci siamo mai fermati?” “No, in effetti no, ma che diav… ehm… ma cosa?” “Ricordi dove sei salito?” “Eravamo a Porta Venezia”. “E ora? Guarda”. “Central Park? Oh Dio… scusa! Come…” “Guarda”. “Lucio Sestio? Roma!” “Guarda”. “Kačerov? Che posto è?” “Praga! Bella città, guarda!” “Leicester Square! Sant Estacio! Barcellona? Prosperitad Cartagena! Madrid? Romolo, siamo a Milano, ora. Fammi scendere!” “Non posso, ti sembro forse un conducente?” “Finiamola, non mi piace questa cosa, certo che sei tu che manovri questa pazzia, quindi fermala”. “Ma dove? Guarda, siamo a Portici Ercolano a Napoli, scendi qui?”

“Va bene anche in capo al mondo! Ma fammi scendere!” “Non urlare, non mi piace la gente che urla, parliamo ancora un po’. Abbiamo tutto il tempo che vogliamo, possiamo srotolare il tempo e lo spazio in lungo e in largo come su un nastro infinito, possiamo stare insieme per sempre tu e io”. “Una meraviglia! Perché mi stai facendo questo? È questo, forse, l’Inferno? Mi stai dicendo che sono morto e che tu sei il mio demonio guida attraverso questa folle eternità? Mi stai dicendo che è tutta qua la vita dopo la vita? Mi devono aver scartato alla grande da lassù se mi hanno destinato questa ridicola fine!” “Ma che morto! Ti sembri morto? Sei vivo, non temere. Né i demoni e nemmeno gli angeli fanno da guida a nessuno e l’Inferno è un posto ben meno noioso di questo. In ogni caso non credi di essere un po’ troppo presuntuoso a credere che il diavolo o Dio in persona ti debbano fare da accompagnatori per sempre? C’è molto da fare e noi non siamo in molti!” “Avete provato con lo sciopero? Assunzioni in nero? Lavoro temporaneo? Sussidi dal Purgatorio?” “Credi di essere spiritoso?” “Scusami”. “Non è mia usanza accettarne, ma in fondo mi sei simpatico, dopotutto mi mancavi solo tu per terminare la mia conoscenza con tutti gli abitanti di questa vostra terra!” “Però! Ero l’unico che ti era sempre sfuggito? Davvero? E come può essere?” “Hai sempre la testa per aria, vivi in un mondo di favole che ti inventi e che annienti ad ogni o; sei al di là delle mie facoltà intellettive. Quando ho provato a fermarti mi sei sfuggito come se fossi l’uomo più impegnato del mondo e poi non avevi altro da fare che andare a dormire; non hai ambizioni, non sei avido, non sei tirchio, non sei troppo lussurioso, non hai invidie, non hai gelosie, non odi nessuno, non fai nulla che non sia allo stesso tempo saggio, idiota, noioso, iperattivo, o inconcepibile! Ho pensato persino che fossi un qualche tipo di demonio sfuggito al mio controllo. Ogni volta che ho tentato di parlarti mi hai voltato le spalle, persino da dormiente. I tuoi sogni sono quelli di un matto.,Quando ti sono apparso là mi hai scacciato come una cosa troppo

banale! Non mi hai mai rivolto nessuna attenzione e persino ora, ora che viaggiamo in questo treno infinito, tra mille città, non ti stupisci nemmeno tanto, non ti va di volta il cervello, ma chi diavolo sei?” “Ti stai innervosendo? Stai calmo per favore, non vorrei che bruciassi tutto qui in torno”. “Pagano!” “Non sono un perfetto credente ma non sono certo un pagano, qualunque cosa voglia dire per te”. “Pagano! La fermata si chiama Pagano. Siamo a Milano. Vuoi scendere qui?” “No, andiamo avanti ancora un po’”. “Va bene! non sono avvezzo a fare nemmeno questo, ma ti devo chiedere perdono per la mia poca pazienza!” “Non fa nulla, non farti cruccio di così poco. Il fatto è che non ho interesse a nulla. Questa vita a come questo treno e mi sfugge via senza controllo, quel che mi accade non mi apre né porte meravigliose e nemmeno mi schiude visioni infernali. Vivo alla giornata e mi annoio quotidianamente. Vedo l’umanità andare e venire, la vedo affannarsi attorno a cose che considero banali, ma il problema è che considero banale ogni cosa, dalle più importanti a quelle davvero banali. Io non lo so cosa ci faccio qui, non so perché dovrei spaventarmi per te o idolatrare Dio, non so cosa ci sia di bello nel tentare di portare avanti qualcosa che trovo per lo più insignificante e con una data di scadenza imprecisata e ignota. Ma ora dimmi di te, mi pare di aver notato che ti definisci il Tutto, come se tu fossi sia diavolo che Dio. Mi pare che tu ti stia allargando un po’ troppo, non trovi?” “Voi uomini siete abituati a vedere me e Lui come due persone distinte, il bene e il male: Dio e il Diavolo. Vedete una parte di me come un angelo caduto dal cielo e divenuto malvagio perché rifiutato dall’abbraccio di Dio. In realtà sono tutte balle, io e lui siamo la stessa cosa, potremmo definirci fratelli se ciò avesse un senso. Si dice che Lui creò tutto dal nulla ma non è esatto. Io e lui creammo tutto dal nulla. Noi siamo due parti identiche dello stesso insieme. Il Tutto. Prima di noi un’altra essenza, il Vuoto, volle dare un soffio di vita a se stesso, definì quindi dal niente una entità unica e composta da due opposti, identici e diversissimi: io e Lui, nella forma del Tutto.

Furono gli uomini a dividerci, attribuendoci forme diverse. Fu l’uomo che volle dare una ragione alla propria vita inventando Bene e Male. Noi gli demmo quel che cercava, e quel che cercava, invero, fu saggio, giacché non sarebbe mai stato in piedi un progetto quale quello che noi vedemmo in principio. Male e Bene, come voi volete chiamarli, furono necessari per la corretta esistenza della vita. Se ci fosse solamente uno dei due tutto smetterebbe di essere, tutto si spegnerebbe e si tornerebbe, in breve, al Vuoto che tutto volle. Ecco perché mi chiamo Dio o Diavolo, Diavolo o Dio, sono sempre io che tutto disegnai e tutto desiderai, non proprio così come lo vedi, in quanto è già da parecchio tempo che voialtri avete preso in mano le vostri sorti e vi siete dati vanto di essere creatori”. “Interessante”. “Cosa?” “Questa tesi giustificherebbe tutte quante le assurdità che si compiono nel tuo nome, che sia l’uno o l’altro. Giustizia e ingiustizia nascono da un unico volere. Bene e Male divengono semplicemente due parole prive di sostanza, l’una necessaria all’altra e l’altra indipendente dall’altra a seconda di come ti svegli la mattina. La religione stessa, in qualunque sua forma, non ha alcun senso se non quello che l’uomo di volta in volta vuol dargli. Tutto ciò da alimento alla mia visione negativa di tutto quel che mi gira attorno”. “Deve essere alquanto triste la tua vita!” “Ma che dici? Tutt’altro! Non dico di essere sempre felice, certo, ma vivo. E questa mia maniera di prendere tutto per quel che vale, cioè poco, mi porta ad una esistenza ben più piacevole di tutti coloro che si definiscono eterni felici, fasulli e forse un po’ alienati, o di coloro che di tutto vedono la grande finale tragedia, altrettanto fasulli e portati al melodramma. Ti dico che vivo bene nella mia apatia e la mia apatia è un mezzo per oltreare l’idiozia di questa esistenza che ci hai dato! Ma tu tutto ciò dovresti già saperlo. Se sei chi dici di essere nulla dovrebbe sfuggirti. Si dice che tutto sia già stato disegnato, che tutto sia ben definito e delineato, cosa questa che, per quanto mi riguarda, la vedo un po’ fumosa, ma in ogni caso tu sei il creatore e dovresti aver ben chiaro tutto. Inoltre, dimmi un po’, cosa vuol dire che stai facendo conoscenza con gli abitanti della terra? Che fai, ti burli di me? In quanto creatore dovresti già ben sapere chi sono le tue creature, o no?”

“Ehm, già! Io sono il creatore, tutto dovrei sapere e tutto dovrebbe essere già disegnato! E in realtà sarebbe dovuto essere così… era così in realtà. Poi è sorto un problema con quella storia del libero arbitrio, hai presente? Da allora mi sono disinteressato del vostro destino, più di una volta mi siete mancati di rispetto con le vostre manie di grandezza, vi siete innalzati tutti al mio cospetto. O vi eliminavo tutti, o mi volgevo da un’altra parte e vi ignoravo come si fa con bambini troppo capricciosi. Vi ho lasciato fare, vi ho dimenticato e tutto è andato avanti come volevate voi. Diciamolo pure, mi ero stancato di tutto il vostro caos! Ora però, da qualche centinaio di anni, mi sto dedicando di nuovo al vostro esistere, sono tornato tra di voi e vi sto osservando e conoscendo di nuovo, mi mancavi solo tu… e poi potrò tornare a disegnare ancora”. “Interessante! E allora cosa si fa adesso?” “Niente, tu ti dimenticherai di me come tutti gli altri e io tornerò al mio lavoro, dove vuoi scendere? Ora siamo a Milano di nuovo, Porta Venezia, scendi qui?” “No”. “Manhattan, New York?” “No”. “La Defense, Parigi?” “No”. “EUR Magliana, Roma?” “Ma dai? No”. “Andel, Praga?” “Ehm… No”. “Rione Alto, Napoli?” “No”. “Parc de Montjïuc, Barcellona?”

“Interessante… ma… no”. “Puerta del Angel, Madrid? Olè”. “Olè! No”. “Indeciso, eh? Leicester Square, Londra?” “Ehm, ma sì dai! Scendo qui”. “Va bene, ciao allora, è stata una bella chiacchierata. Arrivederci”. “Arrivederci”. Scesi dal treno e il tube era deserto. Non era trascorso nemmeno un minuto da quando ero salito sul treno a Milano. Nemmeno uno. L’orologio mi ridava indietro un orario impossibile. Fuori era chiaro. Il sole splendeva e vidi che qualcosa non andava. Non c’erano automobili e la gente era vestita in una maniera davvero stramba, c’erano cavalli e calessi, c’era un atmosfera da bianco e nero, anzi, da seppiato, come quella delle vecchie foto ingiallite. Mi guardai in giro e non vidi più l’ingresso alla metropolitana. Non c’era nessuna metropolitana. Niente asfalto, solo sterrato, terra e polvere. Fermai un uomo vestito di tutto punto, ma di un’epoca sbagliata, con tanto di favoriti esagerati e frac. Gli chiesi che anno era. Mi diede del villano e a testa alta non mi degnò di nessuna risposta. Fermai, allora, una vegliarda signora e mi disse che avrei dovuto saperlo. Mi chiese se mi stavo burlando di lei e poi mi rivelò che eravamo nel 1763. Mi guardai in giro, scrollai le spalle e sorridendo mi inoltrai in un altro sogno.

Mutazione

Un anno fa tutti gli abitanti di questa terra si sono trasformati in ragni. Ho sempre odiato i ragni, di qualsivoglia specie, dimensione, colore, fattezza. Non ci posso fare nulla, quando li vedo (io uomo e loro ragni e basta, non ragni ex uomini, intendiamoci) salto, scappo, torno, li osservo con timore crescente e crescente ribrezzo, sudo proporzionalmente alle loro dimensioni, li osservo, volto il capo, scappo, penso, ripenso, e poi li faccio fuori utilizzando una forza pari o maggiore a quella che adopererebbe un qualunque presidente con manie di onnipotenza per annientare invisibili nemici privi di forze o di armi tanto pericolose quanto invisibili. I ragni non li sopporto proprio, mi spiace per coloro che li amano come cagnolini o li vezzeggiano come gattini, io proprio non ci riesco. Soprattutto ora. E non intendo nemmeno provarci. Mi spiace proprio. Già! Avevo i brividi al solo pensiero, quindi li facevo fuori… bei tempi, tutto sommato. Poi è accaduto quel che mai mi sarei potuto immaginare. Diavolo! La gente si è trasformata in ragni e loro non se ne sono nemmeno resi conto! Ma io si! E da un anno non esco più di casa. Da allora ogni notte la stessa storia. Poco prima di addormentarmi mi prometto che l’indomani aprirò quella porta e ne varcherò la soglia. Ma ogni mattina, dopo che il sonno è fuggito portandosi appresso le sue coperte di bugie e di falso coraggio, quella porta rimane ben serrata e quella soglia non vede il mio piede oltrearla. Al di là di quella soglia, oltre quella porta l’inferno ha vomitato fuori il suo buio; io non posso oltreare questa mia galera. Ci ho provato. Mille volte ho tentato di imbavagliare l’urlo che cresce nella mia testa alla vista di ciò che c’è là fuori. Non posso farcela.

Tutto iniziò circa un anno fa. Me ne stavo tranquillo in questa stanza e a quel tempo la porta e la soglia non erano miei nemici, anzi, aprivo l’una e oltreavo l’altra con facilità e allegra noncuranza. Mai mi ero fermato a pensare con quanta semplicità potevo fare quei gesti, giacché nessuna idea di quel che mi sarebbe poi accaduto mi sarebbe mai potuto venire in mente, ma ora… oggi, oggi dubito persino della veridicità di tali semplici azioni e gesti, la mia mano si rifiuta di rispettare l’ordine che il cervello gli manda, nemmeno si vuole avvicinare alla maniglia di quel uscio, a dirla tutta nemmeno il cervello spedisce alcun ordine e le terminazioni nervose sono troppo impegnate ad essere nervose per, comunque, poter trasportare un ordine che nessuno vuole dare e nessuno vuole rispettare. Solo la notte qualche rimasuglio di coraggio a dal cervello, vola tra le terminazioni e raggiunge persino la mano… Ma è notte, tutti siamo chiusi dentro questa ampolla di ardore chiamato sonno dove qualunque vile diventa un eroico condottiero… Troppo facile…. Molto inutile… Non ci possiamo vedere in viso… e possiamo nasconderci a noi stessi. Bussarono e dissi di entrare. Non mi voltai subito a vedere chi c’era, lo sapevo, o almeno, oddio, credevo di saperlo ancora. Giulia veniva tutti i giorni a portarmi il suo saluto prima di andare a lavorare. Mi baciava e a volte, relativamente al traffico, facevamo l’amore. Ero arrivato persino a guardare su internet la situazione delle strade e autostrade per sapere se quel giorno potevo o meno far l’amore con la mia ragazza. Una follia, era il sesso del “viaggiare informati”. Temevo che un giorno o l’altro avrei visto sui tabelloni luminosi, in mezzo a qualche autostrada bloccata, un messaggio di scuse indirizzato a me e al mio testosterone. Da brividi. Ma facilmente superabile. Lei era splendida, dalla punta dei suoi capelli color paglia, alla punta di quei piedini così gelidi e candidi. Negli occhi, leggermente a mandorla, mi ci perdevo; con le sue labbra carnose, con un accenno leggero di peluria bionda, mi fermavo a dialogare nel sogno; con le sue mani dalle dita affusolate, candide anch’esse come i piedi ma per nulla gelide e sempre calde, curiose e mai immobili; con quel bel nasino leggermente all’insù, senza per questo darle un’aria di presunzione. Ah! Ma tutto ciò è spazzato via da una follia che non ha eguali, che mai il mondo si è immaginato di elargire a nessuno dei suoi infiniti peccatori, a nessuno prima di me… che non credo nemmeno di essere poi così meritevole di

un simile trattamento. Persino lei è diventata un ragno. Mi solleticò dietro l’orecchio e io mi girai così rapidamente che ci misi persino alcuni secondi prima di rendermi conto di quel che avevo davanti. Poi vomitai. Urlai e feci tutte quelle cose che dicevo prima quando descrivevo il mio comportamento dinanzi ad una di quelle fiere (e non dite che sono esagerato!) eccezion fatta per l’eliminazione del nemico… cosa che non feci non perché certo che Giulia fosse ancora sotto quel mercimonio del suo bellissimo aspetto, no, non uccisi il ragno perché era dannatamente grosso. Come lo ammazzavo un ragno alto come me? Come? Perdo l’uso della ragione davanti ad un ragnetto di infima misura… in un caso di tale portata la ragione non la perdetti, ma la sentii, chiaramente, cercare di aprirsi un varco tra i miei pensieri implorandomi di fare qualcosa… tipo suicidarmi subito per non vedere oltre! Mi limitai a perdere i sensi e cadere a terra. Mi ritrovai nel letto con gli occhi chiusi, disgustato sorrisi dell’incubo che, così pensai, aveva osato far visita al mio sonno e Giulia mi parlò… sospirai di sollievo e aprii gli occhi… e, ahimè, vidi ancora quella cosa sopra di me, vicino a me, sopra di me. Il panico prese il sopravvento e una forza inaudita mi venne in soccorso. Cacciando un urlo di disperazione allontanai da me quell’essere. Mi alzai di scatto dal letto e sentii chiaramente un urlo offeso di dolore. Quello era di Giulia, ma quella non era Giulia, non che non poteva essere lei. Quella cosa mi parlò… e aveva la voce della mia Giulia… si arrabbiò moltissimo e cercò di venirmi vicino. Ma ero deciso a non farmi toccare e presa una scopa, non so da dove, la tenni lontano intimandogli di non avvicinarsi. Mi capiva. Pianse persino o almeno credo e poi, lo giuro, vidi quel ragno enorme e disgustoso che un tempo era una splendida fanciulla, piegarsi su se stesso e mettersi le zampe sugli occhi, o quel che erano, e dirmi che ero impazzito. Poi si erse in tutta la sua altezza e con fare altezzoso, diamine, un ragno altezzoso non me lo sarei mai potuto immaginare, mi volse le spalle e mi disse che ero impazzito e che non mi avrebbe più voluto vedere. Disse anche qualcos’altro. Disse che se volevo lasciarla potevo anche usare una maniera più signorile, che mai si sarebbe aspettata da me un affronto del genere, che l’avevo delusa. Oddio, ebbi appena il tempo di pensare, avevo appena deluso un ragno, e prima di svenire di nuovo sentii chiaramente la porta sbattere con un forte tonfo. Quando mi ripresi andai a chiudere la porta a chiave e poi guardai dalla finestra, forse aspettandomi di vedere Giulia in strada in preda allo sconforto, magari di

nuovo in se. Ma la finestra e quel che vidi da essa non mi aiutarono, anzi mi gettarono nell’abisso di cui più sopra parlavo: il mondo era popolato di ragni. Ragni che eggiavano, ragni che guidavano, ragni che costruivano case e che rifacevano l’asfalto, che facevano jogging, che chiacchieravano all’angolo della strada, in doppio petto, in minigonna, autisti di pullman, ragni che parlavano al telefonino, ragni che litigavano per un parcheggio, ragni che portavano a so ragni, che forse un tempo erano cani o bambini o non so più cosa. Accesi la televisione e vidi ragni giornalisti, attori ragni, alcuni di questi erano di certo cani prima, per cui ebbi la certezza che proprio tutti gli esseri viventi avevano subito la trasmutazione, ragni su isole deserte, ragni chiusi in casa, ragni che sponsorizzavano prodotti di ogni tipo, ragni presentatori, ragni seminudi che ballavano… l’inferno al quadrato! Spensi anche la televisione e mi accasciai al suolo. E da allora è ato un anno. Non sono mai uscito da casa mia. Mica scherzavo quando descrivevo quelle cose sulla mano che non rispondeva alle disposizioni del cervello. Del cervello che si rifiutava, comunque, di dargliene. Della paura solo di girare la maniglia. Be’! A onor del vero, forse, devo ammettere che su questo ho esagerato un po’. La fame è fame, e io non avevo poi grandi risorse per subire un eterno assedio. Dopo un mese dovetti uscire per forza. Di notte andai alla vicina stazione e, cercando di soffocare le urla, scavalcai alcuni ragni senza tetto che dormivano nelle loro scatole e svaligiai una macchina automatica di quelle stracolme di merendine e bibite, presi anche un caffè cercando di controllare il terrore, soprattutto quando un ragno venne a chiedermi una monetina perché aveva dei figli da mantenere. Mi disse di essere scappato da non so quale paese… me la diedi a gambe levate e non dimenticherò mai gli insulti di razzismo che mi seguirono… razzista verso i ragni, c’era da uscirne pazzi. Mi rinchiusi in casa promettendomi di non uscirne mai più. Ma le risorse della macchinetta, pur centellinate perfettamente, terminarono. Provai a mangiare della carta, ma dopo due risme di fogli A4 non potei fare altro che mettere da parte la repulsione e tentare una nuova sortita. Prima di andare oltre bisogna, tuttavia, ammettere che, con un goccio d’olio e un pizzico di sale, quelle candide pagine non erano nemmeno troppo male. Era un alba gelida di fine febbraio quando, lottando contro le mie provate terminazioni nervose, mi recai in un supermercato. Appena aprì sgattaiolai dentro cercando di stare alla larga dai ragni commesse, dalla guardia ragno con

tanto di distintivo sulla giacca e pistola nella fondina che mi seguiva come fossi un ladro… io, un ladro! Sono finito in una puntata di ai confini della realtà, il genere umano si è mutato in orribile mostruosità e io vengo additato come un pericolo! Impazzirei se non fossi già a buon punto! Riempii 4 carrelli di ogni genere alimentare e pagai alla cassiera ragno gettando la mia carta di credito stando attento a non essere sfiorato… poi fuggii in preda al panico con i miei carrelli stracolmi e ignorando le offerte di aiuto dei vari ragni extracomunitari che volevano le monete dei miei carrelli. Rientrai in casa e smisi di tremare solo per giustiziare alcune decine di panini. Altre due volte uscii di casa e sempre per questioni meramente gastronomiche. Sono diventato un perfetto massaio e cerco di dimenticare. Ma fuori dalle mie mura la pazzia continua. I giorni seguenti alla trasformazione guardavo sempre dalla finestra attendendomi un ritorno alla normalità. Accendevo la televisione aspettandomi di vedere i calciatori tornare ad essere calciatori e non ragni in calzoncini, ma nulla. Per i politici non avevo, invece, nessuna speranza… anche perché quella loro forma mi dava più o meno la stessa sensazione di quando erano normali. Tutto rimaneva identico e la vista di quegli orrori mi diventava sempre più impossibile. Allora accesi la radio e evitai di vedere. Mi chiedevo come mai solo io fossi rimasto immune a quella epidemia ragnesca. Mi chiesi se qualcun altro nel mondo fosse nella mia situazione. Attendevo una bonifica dell’esercito, guerre tra uomini e ragni. Attendevo diserbanti gettati dagli aerei per soffocare le mostruose creature. Poi rinunciai a sperare, ero l’ultimo uomo e sarei morto come l’ultimo uomo sulla terra dominata da ragni. Mi chiesi cosa potessi fare, ma non riuscivo a trovare nulla di possibile, non da solo. Giulia provò a telefonarmi due volte e mi diede del pazzo, disse che dovevano internarmi, che dovevo farmi curare, mi insultò quando le spiegai cosa era diventata. Il titolare dell’azienda per la quale lavoravo mi licenziò telefonicamente dopo che mi rifiutai di presentarmi al lavoro. Mi arrivò la raccomandata con la lettera di licenziamento e l’unica cosa che mi chiesi fu come diavolo fero a scrivere o a battere sulla tastiera di un computer con quelle enormi zampacce pelose che si trovavano. Dopo smisi di pensare e cercai di vivere. Segregato, ma vivo. Oggi, da un anno esatto da che gli uomini si sono trasformati in ragni, sono qui chiuso nel mio appartamento e cerco di tapparmi le orecchie agli orribili suoni che sento provenire dalla porta e oltre le mura dagli alloggi vicini, ho staccato il telefono e strappato i fili della televisione e della radio. La barba di quattro mesi,

gli occhi allucinati circondati da nere occhiaie, i capelli lunghi, mi osservo allo specchio e non capisco fin quando potrò resistere prima di gettarmi dalla finestra. Hanno preso a comunicare tra loro emettendo viscidi borbottii e sibili, ruggiti e schiumosi scricchiolii. I ragni hanno smesso di parlare con la voce umana e parlano il ragnesco. Prima potevo, almeno, chiudere gli occhi e immaginare che i vagiti del bambino dei vicini apparteneva ad un piccolo, paffuto, roseo essere umano in miniatura, ora no… ora non posso più sentire… non voglio più sentire. Ho terminato tutte le scorte alimentari, e anche la carta non è più molta, ormai. Dovrei uscire, ma dove andare? È ato un altro mese e le forze mi stanno lasciando, la carta è finita. Mi trascino per la casa e non riconosco più il giorno e la notte, non so più quanto tempo è ato, non riconosco più nemmeno me stesso, le mie mani stanno trasformandosi, temo di essere stato contagiato anch’io. Mi alzo a fatica e, in effetti, anche io ho subito il mostruoso cambiamento. Lo specchio mi rimanda l’immagine deforme, nera, pelosa di un ragno. Sbavo un liquido biancastro. Vomito. Sento bussare forte alla porta, ma non voglio aprire. Stanno urlando qualcosa, mi pare di capire cosa dicono. È Giulia a gridare. Non posso farmi vedere in queste condizioni. La finestra è aperta. Mi trascino fin laggiù. Guardo oltre… e il destino ghigna. Uomini, donne, bambini, poliziotti, autisti, operai, impiegati, la specie umana, infine, ha avuto la meglio. Un tonfo alle mie spalle, o come si chiamano ora. Qualcuno urla entrando nell’appartamento. A cavalcioni del parapetto osservo il mondo che ha ricacciato al suo posto l’Inferno in cui si era tramutato. Il sole è alto nel cielo, allora è giorno! Nessuna nuvola ad imbrunire questo mio addio. Giulia urla qualcosa, mi giro e le sorrido, ma solo il demonio sa quale immagine lei avrà dovuto vedere, forse ora capirà cosa provai. Faccio un cenno con la mano, o quel che è ora. La guardo… la mia zampa nera, orribile. Cado. La mia mano è ancora alta davanti ai miei occhi… la solita vecchia mano. Il destino ghigna.

Nastri infiniti di parole…

Bruciare al di sotto della età del fuoco, asciugare le proprie paure dentro il vapore della caverna del demonio, vivere schiacciati da noiose cimici curiose, adattarsi alla folle gestazione del neonato di pietra, lugubri marosi spazzano le menomate ossa decomposte, parroci in veste da sposa dirigono le masse al dirupo suicida della religiosa processione, giovani dottori aprono crani e sputano dentro sentenze esatte, parole gettate a stomaci biliosi, vomitare sulle casse da morto di amici dispersi, sputare sulla fotografia di me stesso perso, prostitute del domani ancora annegate nella placenta di madri speranzose, soldi crocifissi martiri, nuove idolatrie, sconnessa musica discute dal pulpito della saggezza, papi viaggiano a portare pace ai sordo muti della ragione, presidenti omicidi portano croci sul petto, donne promesse di felicità ridono di sconfitte consapevoli,

parodie di vite scorrono su nastri di grigi lucidi asfalti, fallimenti che si inseguono nel mare dei sogni, pioggia costante e puzzolente copre di muffa il cartone delle case abbandonate, prati deserti tengono compagnie ad escrementi luminescenti, gioia e tristezza di auto appannate, liquido sesso nascosto dal timore, polizie occultano eleganti sporcizie, vecchi eggiano sopra nuvole di solitudine, siedono stanchi sfiorando tristi mietitori, stronza morte nera e selvaggia, putride buche abbracciano i resti dei nostri ricordi, regali mai regalati, libri mai scritti, libri mai letti, libri sepolti da polvere dimenticata, parole mai dette, domande impossibili poste ad un ego troppo grande, Dio della pazzia, amato e vezzeggiato, stordisce piccole creature vittime della Sua mestizia, parole e ancora parole, inventate, sopraffatte, cercate, trovate, perse e scordate,

canzoni alleggeriscono anime deluse, denaro abbandonato sotto l’albero del nostro tradimento, streghe pervertite danzano il sabba dell’apocalisse vestite di pelle e sangue, piccoli abomini presuntuosi tiranneggiano presunte felicità. Fotti il giogo del tuo padrone, saltagli alla gola e gridagli la tua noia, strappagli gli occhi accecati del comando, calcia la sua forza, mostragli la via della povertà, desueti pasti estenuanti e marci, logiche meraviglie disilluse dal mostro reale, serre segrete che vogliono mostrare i propri fiori, bellissimi, mai visti prima. Destino! ribellati al pianto eterno, siamo bestie destinate alla estinzione? lasciati traare dalla lancia della visione, lacrima sulla tastiera ed esci allo scoperto, apri le vesti e mostra il petto lacerato, appaga il desiderio, prepara la via maestra ad accogliere la tua grandezza. Sono il buco del culo del mondo e attraverso me a lo scolo dell’umanità, scelgo la merda piuttosto che solitudini obbligate, claustrofobia nel cervello,

muoiono idee mai partorite, partono aerei che non atterreranno mai più, vino rosso sopra le nostre teste che cercano parole inutili, telescopi sbavano gocce di rugiada su stelle già estinte, Perché scrivere? lascia le dita volare sui tasti, lascia la mente decollare verso il cielo, lascia questa terra per qualche attimo, lascia che il miraggio ti trascini come droga allucinata, lascia stare il pensiero contorto, lascia are la paura, lasciati pugnalare da risposte che non conosci, lasciati traare dalla musica, lascia tessere il filo del destino, avverso o no chi cazzo se ne frega, lascia perpetrare il progetto del grande Sconosciuto, lasciati trasportare dalla fugace linea fatta di luce invisibile, lascia andare il pensiero, lascialo andare!

Non era Dio

Non è una città e non è un paese. Troppo piccolo per essere una città, troppo grande per essere solo un paese. Se ne sta nel centro di una terra inquinata e sporca, ma non è né inquinato e nemmeno sporco e non si può neppure dire che sia proprio nel centro. Si fa chiamare borgo. Non è assolutamente un borgo ma si da arie di importanza tali che nessuno dei suoi abitanti si è mai permesso di contraddirlo, e come biasimarli, dopotutto ci devono vivere dentro. Nessuno vuole mai creare dissapori con i propri coinquilini, non sarebbe certo saggio farlo se il coinquilino in questione non è né vicino e nemmeno sotto o di fianco ma è tutt’attorno. Il borgo ha un fiume. Un fiume nero e fangoso. Sporco e felice di esserlo. Ma ancora fiero di un ato glorioso e salubre e sconosciuto. Tutti lo evitano e lo temono, tutti lo guardano con rispetto e lo salutano quando ci ano vicini. Il borgo che non è un borgo non contiene nulla di straordinario, nulla di artistico e nulla di interessante. È, semplicemente, un contenitore di vita. I suoi abitanti trascinano la loro vita come in tutte le altre città, paesi o borghi. Il lavoro, la famiglia, l’amore e il sesso, qualche furto ogni tanto, qualche piccolo screzio, una festa per ricordare cose che nessuno ricorda più, ragazzi che se ne vogliono andare, adulti che cercano di trattenere i ragazzi che se ne vogliono andare, messe e messe nere, la squadra di calcio, la squadra di basket, la squadra di pallavolo, la squadra di questo e la squadra di quello, sogni che si realizzano e sogni frustrati, sogni banali e sogni originali, sogni che sognano tutti e sogni che non sogna mai nessuno, un borgo che non è un borgo, uguale a tanti borghi che non sono borghi. eggiavo per le vie del borgo quella notte: ero un po’ malinconico e il vino bevuto assieme agli amici nel piccolo e solito bar mi faceva dolcemente girare la testa. Avevo insistito per andare a casa a piedi per tentare di alleggerire il peso

che avevo addosso con una sana camminata. Ho sempre pensato che questa attività, oltre che essere utile, sia anche un buon metodo per poter riflettere più serenamente e per scaricarsi di dosso certi fardelli che normalmente assillano la mente. Camminavo, quindi, attraverso le buie vie e osservavo il silenzio che mi circondava. Osservavo il silenzio perché è proprio quello che accade in questo posto. Il silenzio non è un fenomeno raro qui, c’è spesso e gli abitanti lo conoscono e ci vivono assieme come ad un comune amico, solo un po’ riservato. Non è solo assenza di rumore. È proprio presente, vivo, certe volte lo puoi persino provare a toccare. È vivo qui, il silenzio. È così e non ci sono modi di spiegarlo, ma solo di viverlo, quindi se non ci credete venite a vedere! Osservavo il silenzio e lui mi accompagnava nella mia notturna peregrinazione. È difficile sentirsi soli quando si cammina per le vie di questo borgo che non è un borgo. Non è solo a causa del silenzio che ti accompagna come un fedele amico e che ti protegge; c’è dell’altro. Le strade strette e le finestre che ti sbirciano sono lì per non farti sentire solo. Le finestre si scambiano piccoli sussurri l’una con l’altra e ognuna ti saluta con il suo piccolo cigolio. Oltre le finestre, dentro le case, ogni tanto si sente qualche sussurro o qualche sospiro, a volte di notte anche il ronfare di qualcuno con il respiro faticoso; si può sentire l’ansimare di una coppia che fa l’amore oppure il vagito di un bimbo che non riesce a dormire e il conseguente eggiare di qualche mamma o papà che non può più dormire; se si è fortunati si può sentire qualche strofa di una dolce ninna nanna ma si rischia di addormentarsi appoggiati a quella voce, per cui è meglio tendere un poco l’orecchio e poi lasciare che la mamma faccia la mamma e che tu, eggiatore notturno, continui a fare il eggiatore notturno. Non sarebbe bello essere sorpresi dal sole mentre dormi con l’orecchio appoggiato ad una canzoncina che non si sente più. eggiavo e non mi sentivo affatto solo. La testa mi girava sempre meno e i pensieri si divertivano a solleticarmi col loro pigro graffiare. Ero un po’ malinconico perché avevo appena saputo che il mio migliore amico se ne andava, forse, per sempre. Andava in una città che è una città, una grossa città all’estero, se ne andava per

via di un lavoro e per via di una amore, se ne andava via per non tornare più nonostante le ripetute promesse di tornare a rivedere le nostre brutte facce. Mi dispiaceva perdere un amico come lui. Questo mi faceva sentire un po’ più solo. C’erano tanti altri amici, questo è vero, ma lui è quello che si chiama migliore perché è l’unico con cui il cuore si apre del tutto, l’unico possessore del segreto dei tuoi momenti bui, l’unico in grado di capire perché sei felice o perché proprio non ci riesci. Era un vero amico e non volevo che se ne andasse. Ma i desideri come al solito non sono certo fatti per essere esauditi, almeno non quelli che vuoi davvero e sicuramente non quelli che poi non si tramuteranno in incubi, quelli sì, quelli si realizzano di certo, giusto per farti are il resto della vita facendo attenzione a chiedere qualche altro favore al grande dispensatore di grazie e desideri. Se ne andava dunque. E io? Io rimanevo nel borgo non borgo con gli amici superstiti e con un amore che non vedevo, con un lavoro che non mi piaceva, con qualche sogno segreto e con qualche sogno meno segreto. Rimanevo ancorato alla culla dei miei avi e alla vista dell’infestante fiume e non ce la facevo più. Volevo andarmene. Volevo sparire. Volevo cambiare vita e lavoro. Ma non mi sentivo in grado di fare nulla. Non sapevo fare nulla. Solo sognare. Ah! In quello ero un grande maestro, ero il sognatore per antonomasia. Occhi chiusi o occhi aperti io sognavo. Ero un professionista del sogno e ne ero contento. Se la vita così com’è non ti piace e non sai come cambiarla c’è solo una cosa da fare: inventarsene una, mille, diecimila diverse e false. Vivevo in un sogno e in un oblio. Dovevo andarmene. Mi sarebbe piaciuto essere uno scrittore, avrei voluto quella ragazza inventata da Dio e da me, fatta a mia immagine e somiglianza e con la quale girare il mondo, tutto il mondo, amati e un pochino invidiati. E questa è solo una delle mie vite alternative. C’era la vita del vagabondo per diletto e quella del vagabondo per ione, poi c’era quella del vagabondo per necessità e quella del vagabondo per apprendimento, c’era quella del vagabondo per fuga e quella per innalzamento, quella per rigenerazione e quella terapeutica, quella definitiva e quella ad intervalli, c’era… be’! Sognavo la vita raminga, credo si sia capito. Volevo andarmene e conoscere quel mondo che pareva esserci fuori del borgo non borgo e che tutti dichiaravano di aver visto quella settimana in agosto o quella settimana dopo essersi sposati, o

quel weekend per riposarsi o per staccare con il lavoro. Non era quello che volevo io. Non doveva essere un lasso di tempo e nemmeno per sempre. Doveva essere e basta. Quando e quanto volevo. Non volevo sposarmi e non volevo attendere Agosto, non volevo fosse un momento di riposo o di rilassamento. Doveva essere e basta. eggiavo e riflettevo sul dove andare e con chi. Esisteva quella persona ideale? C’era il mio amico, ma se ne stava andando. E poi c’era lei. C’è sempre una lei! E lei è la persona perfetta per me. Con lei andrei in capo al mondo per poi tornare e poi andarci di nuovo, all’infinito. Provavo per lei quell’amore incantato e sognante che fa girare la testa come i bicchieri di buon vino e che è saporita e delicata come i bicchieri di buon vino e che ti fa star bene, rilassati e leggeri proprio come quei benedetti, trasparenti, rossi, deliziosi, vellutati bicchieri di buon vino. Ma come spesso accade in questi frangenti lei non sapeva nemmeno dell’esistenza del sottoscritto eggiatore per le vie buie del borgo non borgo. Lei non sapeva della mia esistenza ed io si. Lei ancora non sapeva della mia esistenza ma presto l’avrebbe saputo e poi sarebbe venuta via con me, perché lei è come me, perché lei è me. L’unica cosa da fare era cercarla perché anche questo è solo un sogno dentro un sogno, avvolto in un sogno e schiacciato dal sogno. Banale forse, ma era il mio sogno e nessuno poteva togliermelo. O quasi nessuno. eggiavo e ascoltavo il silenzio, lo ascoltavo e lo osservavo e ad un tratto Lo vidi. Era Dio e mi veniva incontro. Non è impossibile vederLo eggiare per il borgo non borgo, però solo alcuni L’avevano veduto e nessuno Gli aveva mai parlato. Strano a pensarci però! Tutti abbiamo milioni di cose che vorremmo dirGli, richieste, desideri, sogni appunto, insulti magari, recriminazioni, milioni di cose da dire ma nessuna di queste ti viene fuori quando L’hai davanti, sarà forse timore, non si sa, si sa solo che non si riesce a dirGli mai niente tranne un tiepido saluto rispettoso ad occhi bassi. Da quello che si sapeva Egli rispondeva sempre ai saluti con un impercettibile cenno del capo. Io decisi che Gli avrei parlato. Ci incrociammo e Lo guardai. Era proprio come tutti lo immaginano. Vecchio e musone. Capelli bianchi ed occhi severi. Tunica lunga e mani conserte. Un aurea di luce tutt’attorno e una lunga barba bianca a coprire le labbra ben serrate. L’espressione arcigna e seria non facilitava certo il compito che mi ero prefissato ma strinsi i denti e Lo salutai affabilmente con un bel sorriso e molto rispetto.

Egli alzò il capo e ò oltre. Deluso Lo inseguii. Lo toccai e Gli chiesi quel che avevo da chiederGli. Si voltò verso di me e mi disse che non avrei dovuto farlo. Fare cosa, chiesi. Toccarmi, mi rispose, non avrei dovuto toccarlo. Perché, Gli domandai. L’avrei capito, mi disse e se ne andò. Stava per girare l’angolo e capii. Non era Dio. La tunica bianca si tinse di nero. I candidi capelli erano ora coperti da un nero cappuccio. Le mani conserte non erano più conserte e non erano più mani, erano solo ossa di mani che impugnavano una falce. Ma dove era prima quella falce? Prima di scomparire dietro l’angolo la vidi in volto, fu un secondo o forse meno, o forse neanche, forse me la sono immaginato, vidi un teschio e vidi che sorrideva. Capii. Avevo trovato con chi vagabondare. Per sempre.

Per la via

eggiava per la via che dal naviglio grande porta alle viscere purulente della cittadina vecchia. Vide il fiume ricambiargli lo sguardo, gettandogli addosso luride esalazioni di escrementi di topo. Dapprima evitò, saltellando qua e là dal marciapiede, flaccide dimenticanze di cani, ma poi prese a calpestarle trascinandosele appresso soddisfatto. Osservava curioso le auto parcheggiate con creatività inarrivabile; forse nemmeno Dio sarebbe mai riuscito ad incastrarne tante con tanta precisione. Attraversò la strada. Esausto, ò al di là della via della follia, in mezzo al fiume scodinzolante di impazienti vetture, sorprendendosi della propria sopravvivenza e paragonando l’impresa a quella banale del Mosè e delle acque spezzate. Si tuffò nell’angusto dedalo di vicoli cadenti. Le mani in tasca, procedeva coraggioso ed insolente urtando spalle indignate e schiene indifferenti; il viso rivolto all’insù nell’attenta ammirazione di muri scrostati e di panni svolazzanti. Migliaia di antenne storte e cavi neri e striscianti come infiniti serpenti catturavano la sua attenzione rivolta alla ricerca del bello. Lungi dall’avere una direzione stabilita percorreva anfratti di misere esistenze, invidioso di non poter essere parte di una così catastrofica realtà. Una volta alla settimana egli tornava a percorrere le vie della atavica cittadella per avere un contatto con la vita vera. Si perdeva volontariamente e rimaneva fino a notte fonda immerso nella verità. Attendeva seduto davanti ad una bottiglia di vino scadente la discesa furtiva della notte per poi proseguire nella penombra di parole sussurrate, di prostitute voluttuose, di avidi protettori, di bustine segrete, di tristi messaggeri, di vecchi solitari e di anime irose ed ubriache. Nella pienezza della miseria poteva rinnovarsi, ricrescere dal nulla per rifiorire felice. Raggomitolato e avvolto nel cappotto nero dormiva il sonno della verità assieme ai saggi ammiragli dell’ombra. Case di scatole di cartone, letti di pietra e coperte di umidi giornali, bottiglie rotte e gatti affamati, odori di vomito e urina, facce di anti disgustati, fasci di luce di polizia indagatrice, freddo asfissiante, lamenti di sonni amareggiati. E anche la notte ava.

Il profumo di caffè lo risveglia riportandolo alla luce. Si scuote via di dosso l’oscurità, come un cane si trascina lento per strade e vicoli. Rivede luoghi scorti appena nell’oscura notte, luoghi che nella tenue luce del mattino sembrano non voler morire, ma che moriranno ancora nella prossima notte. Non sa dove si trova. Si è perso, ma presto si ritroverà. Nulla lo sorprende, eggia per la strada attento a non schiacciare i fagotti neri e sporchi ancora addormentati, confusi. Occhiali scuri, cappotto nero, mani in tasca, viso rivolto al primo timido sole, si dirige per la via che dalle viscere purulente della cittadina vecchia porta al naviglio grande. “Buongiorno dottore, ato bene il week-end?” “Certo, come al solito. Tutto bellissimo. Mi sento come rinato, grazie, cara. Mi porti le pratiche da evadere e una tazza di caffè, per favore”.

Pulizie

Esco dall’appartamento puzzolente di fumo e di sangue rappreso. Scendo le scale avvolte nel tanfo di cavoli e verze marcite; ma non mangiano altro questi topi di vicini? Do uno sguardo al mondo oltre il sudicio vetro e non vedo nulla che attiri la mia fantasia, ripiego, torno indietro, chiudo le vie che vanno dalle nari al mio cervello e affronto di nuovo, da eroe, il tugurio di sporcizia e puzzo di verze, richiudo la porta alle mie spalle subito dopo aver spedito all’inferno l’occhio impiccione della vicina biliosa; serro a chiave la porta della mia galera personale. L’interno è devastato. Il cadavere non si è mosso, fatta eccezione per quella macchia di sugo rosso che non smette di fuoriuscire dal cranio sfondato. Accosto le persiane dopo aver visto le nuvole curiose sbirciare dal soffitto azzurro del cielo. Accendo la televisione e la spengo all’apparire del solito faccione idiota del solito conduttore idiota del solito telegiornale idiota. Sbuffo. Mi siedo sul divano sfondato. I quadri a terra, in frantumi, il bacio di Hayez - quanto lo amo - i libri sul pavimento, alcuni storditi a guardare il soffitto, chiazze di sangue sul muro, chiazze sulle tende, chiazze sul televisore, chiazze sulle sedie, chiazze sopra il tavolo, diavolo! Non voleva stare fermo, si agitava e grufolava come un maiale con le convulsioni. Le bottiglie rotte, una ancora incastrata tra il cranio e quella merda molliccia e grigiastra, massa informe ed enorme, strano! Era maledettamente stupido, eppure guarda qui che grosso pezzo di muco maleodorante. Non lo utilizzava mica tutto, faticoso fardello da portarsi appresso. Una bottiglia l’ho salvata. Amarone. Sarebbe stato uno spreco. Lo apro e me ne bevo sei bicchieri, buono! Osservo la scena del delitto. Delitto? Sì, delitto. Porca puttana, dovevo farlo fuori questo stronzo. Non c’era nulla da fare. Mi rialzo a fatica, mi gira la testa. Prendo un’aspirina.

Do un calcio alle costole del flaccido ammasso di carne e muscoli che mi sta sporcando tutto il pavimento. Costole inutili, protettrici di un cuore ormai spento. Finalmente spento. Come la televisione. Musica. Rock’n’Roll. Ecco la soluzione. Non ho voglia di pulire ma devo farlo, tra un ora arriva la mia ragazza. Sarà divertente fare l’amore con un cadavere a pezzi dentro la ghiacciaia e un po’ di sangue superstite sullo strofinaccio. Farà l’amore con un assassino, domani lo saprà. Si spaventerà dapprima, poi considererà la fortuna di essere ancora viva, poi sorriderà all’eccitazione di aver provato il sesso di un maniaco omicida, poi vomiterà sui suoi vestiti di marca, poi cercherà nel mondo un tizio che le renderà la ione di quegli attimi, la paura, l’inconsapevolezza, poi impazzirà di desiderio, mi verrà a trovare in carcere, mi prometterà attesa infinita, poi impazzirà e basta, poi il suicidio, forse no, spero di no, la amo. Mi abbraccerà e godrà del mio amore e della mia dolcezza, sono un romantico e a lei piace, ah! Quando saprà! È innamorata della mia follia, ma non sa dove arriva, e di cosa si nutra, la follia, per non bloccare la mente dentro questo cranio, fino a farmi urlare tutto il giorno e tutta la notte, senza sosta, mai! Domani andrò a costituirmi. Sono stanco di uccidere. Non è che mi dispiaccia ma è che sono proprio stanco di tutte queste pulizie. Ripulire, nettare, disinfettare, tagliare, affettare, stipare, lavare, bruciare, cuocere, congelare, detergere, gettare, dividere, differenziare, annusare, respirare, ammorbidire, torcere, pressare, strofinare, strizzare, nascondere. Una noia. Non capisco le casalinghe quando dicono di divertirsi. Ah! Finito, finalmente. Ora sesso. Dopo solitudine. Domani carcere. Perché? Sono stanco, l’ho già detto mi pare. Perché uccido? Ah! Non avevo capito la domanda. Perché no? ecco la risposta. So che è maleducato rispondere ad una domanda con un’altra domanda, ma questo è quanto, a me piace. E ripeto, perché no?

Tra Dei

Non vedo nulla tranne il buio. Il bosco è un sudario nero attorno al cammino smarrito. La brezza gelida mi accarezza la pelle. Scorgo solo rimorso nella notte del pensiero. Inciampo nelle radici nude di un albero nero come tutto il resto, cado per terra e piango in direzione del nulla che sembra essere l’unica mia via. Alzo lo sguardo e cerco la luna invisibile. Non c’è alcuna luna. Non c’è niente. Mi fa male il braccio su cui sono caduto, almeno è reale, almeno è qualcosa di tangibile e di vero. Non avevo conoscenza del dolore prima d’ora. Ascolto i brusii delle fronde degli alberi, forse parlano di me. Ora tacciono. Credo non mi considerino una minaccia. Lontano scorgo una fioca luce, o il miraggio di una mente dispersa. Corro. Inciampo e cado di nuovo, cado ancora e poi ancora. Affamato di luce mi disinteresso del dolore ai piedi e alle gambe, le mani scorticate e le braccia tumefatte. Sangue mi cola dal naso, è questo, dunque il suo sapore? Vedo un punto di luce che potrebbe non esistere avvolto da una grotta buia più del mondo che ho visto finora. La vedo ancora. Tremola e mi fissa, mi chiede di entrare, la scongiuro di non spegnersi, prego per la sua esistenza. Entro nella grotta e le braccia nere del buio mi abbracciano. Non vedo nulla. Solo il fioco, tremolante bagliore; ma è come un incendio, come l’esplosione di mille stelle, è tutta la luce del mondo. Proseguo sfiorando la roccia, accarezzandola con le dita, è umida, come viva, pulsa come un cuore. Poi questo. La grossa lucertola, grande come due uomini, è seduta sopra un gatto gigantesco. La luminosità viene dagli occhi verdi del gatto. Mi fissano come se sapessero già chi io sia. Mi scrutano senza astio. Leggono le mie sensazioni. Sento come un sospiro che mi solletica l’interno del pensiero. Siamo divinità dimenticate. È la lucertola che ha parlato. Disperse nel cuore dell’uomo. Tu ti sei smarrito e non trovi più la via. La tua disperazione ti ha portato a noi, ma nessun dio è misericordioso con colui che lo cerca solo nel momento dell’estremo bisogno. Non voglio il vostro aiuto, non credo in voi, non so chi voi siate, non appartenete alla mia religione, e non sono certo di averne una alla quale credere. Peggio per te. In ogni caso ora devi andare dice il gatto, che parla per la prima volta.

Non abbiamo tempo di discorrere con un uomo solo. Attendiamo che tutti gli uomini riaprano il cuore per tornare alla nostra grandiosità. Non succederà, nessuno ha bisogno di divinità che non hanno misericordia. Tu credi. Ne sono certo. Gli dei che non aiutano gli uomini a causa della presunzione o dell’egoismo non meritano neppure di esistere, non servono a curare i malati e a dar da mangiare agli affamati. L’uomo ha necessità di pregare, di credere in qualcosa al di sopra di lui, che ne gestisca il destino, la vita e anche la morte, se no impazzirebbe. L’uomo è già impazzito, ed è stata colpa vostra e della vostra assenza, del vostro silenzio, delle vostre assurde leggi e richieste. Vostre e mie. Ma tu chi sei. Sono ciò che voi non siete, sono dio. Ora lo so. Sono stato esiliato dall’uomo che non credeva più, che più non mi temeva. Che dio sei tu. Sono l’unico dio. E noi allora. Non saprei. Se fossi l’unico dovresti avere conoscenza di noi. In quanto unico non posso avere considerazione di altri all’infuori di me. Noi siamo di prima del tempo. Ma io sono il tempo, io sono prima di ogni cosa e sarò anche quando non ci sarà più il tempo. Hai parlato di presunzione, rivolgendoti a noi. Io sono anche quella. Io sono l’odio, la pace, sono violenza, amore, fame, sono la vita, la guerra, io sono atropo, io sono Anfitrite e Poseidone, sono Zeus, sono Adamastor, sono la notte, il giorno, il sole e la luna, io sono il tutto, sono Dio. Se fossi tutto saresti anche noi, hai parlato di divinità di cui nulla sappiamo, ma noi allora? Voi l’avete detto, siete divinità che si sono smarrite nel cuore dell’uomo, l’uomo ha scacciato me e ha creato voi, ma solo per mandare anche voi al buio di questi luoghi. Il limbo degli dei. La delusione. La lucertola si muove e il gatto si china per farla scendere. Striscia fino a me e torce il muso con fare interrogativo, mi scruta, scruta il mio pensiero. Sei solo un uomo. Ora sì, lo sono. E perché mai Dio dovrebbe essere ora, solo un uomo. Gli uomini hanno dubitato di me, voglio capire chi loro siano e perché l’hanno fatto. Per poi annientarli, vero. No, per capire. Capire, capire. Che cosa vuol capire un Dio che già non sappia. La lucertola gonfia il viscido collo, le vene palpitano d’ira, gira tre volte su stessa e ogni volta la coda sfiora il mio viso. Non mi muovo. Il gatto soffia sollevando il labbro mostrando i denti aguzzi e bianchi e arricciando il naso, gli occhi verdi si fanno rossi, lampeggiano saette di crudeltà. Ecco le divinità che l’uomo ha voluto al mio posto. Arroganti bestie iraconde. Quanto devo aver sbagliato.

Corro fuori dalla caverna tra le braccia della tenebra, corro sentendo tutto il dolore del mio essere. Riconosco il vuoto prima del mio soffio. Non posso aver causato tutto ciò, non credevo di poter assaporare l’acre gusto della colpa. Mi fermo giacché non v’è più terra da calpestare. Scorgo me stesso oltre il palesarsi del sole vergognoso. Vedo la fine del sogno e mi inginocchio piangendo lacrime di disperazione. A cosa serve essere Dio e perché ho creato il dubbio di me… persino in me. Un sole freddo svela la desolazione di cui sono stato la causa. Non è il mio sole. Ho ingannato il giorno con una luce che non è mai esistita. Ecco la verità. In fuga da divinità nate dalla mia assenza, voraci del loro inconsapevole creatore. Come è potuto accadere. Io che tutto dovrei sapere, io che tutto ho già deciso. Io. Corro giù per il pendio che termina il mondo ed entro nella città cosparsa di mine. Le vedo esplodere sotto i miei piedi. Ne sento il calore, il dolore che provocano, la morte, la paura. Corro tra le macerie schivando pallottole che non mi possono ferire. Vedo in faccia chi tenta di eliminare il proprio dio. Corro tra cadaveri in decomposizione sotto l’ombra di scheletri di abitazioni sventrate. Vedo l’aereo e il suo pilota, lo vedo sganciare le sue amare pillole, vedo bimbi correre proprio dove saranno distrutti. Vedo madri piangere e urlare, vedo uomini imbrattati del sangue dei propri cari gridare al cielo il loro odio. Vedo salotti eleganti pieni di carte topografiche punteggiate di colori carnevaleschi. Vedo un mare in fiamme e fiamme volare nella notte di un paradiso di migliaia di notti. Vedo terre promesse di ferro e di fuoco, di bombe e di cappotti che le contengono. Vedo uomini in doppio petto prendere per la gola uomini in divisa e bambini nudi. Vedo risate dietro maschere anti gas. Vedo cose che non dovrei permettere. Il gatto crede di poter dare odio in cambio di venerazione, la lucertola ritiene che l’uomo ha bisogno di qualcosa a cui credere. Qui non vedo nulla che possa dare speranza ma solo generare altro odio. Verso l’altro, verso dio, persino verso Dio. La lucertola e il gatto rimarranno per sempre dentro il buio ad attendere che qualcuno li svegli. Ma io sono l’unico. Il bosco è un sudario nero attorno al cammino smarrito. Il tempo terminerà e mi ritroverò di nuovo solo. Io e il tempo, gran coppia che siamo. Abbiamo necessità che l’uomo viva per poter glorificare il nostro potere. Io e il tempo. Io. Sono io il tempo. È tutto da rifare.

Il mondo perirà e altri sette giorni dovranno essere scritti. Questo è tutto. Ecco l’uomo… ora basta.

Tra Spagna, Portogallo, Lituania e fantasia

Viaggiavamo da dieci giorni quando capitò di doverci fermare per la notte in un paese dal nome che nulla aveva di spagnolo se non la sua posizione sulla cartina… forse per errore, forse per scherzo… ma di certo la sua giusta collocazione sarebbe stata in un paese orientale europeo, non certo in questo così tanto occidentale… Briviesca era il suo nome… e mai fato fu tanto gentile con noi. Lasciammo l’auto parcheggiata attorno alle mura a nord della città, camminammo per le vie spettrali ridendo del caso che ci volle lì. Qualcuno, in vena di burle, propose addirittura di fermarci due giorni invece che uno, e a tale lepida proposta non tardarono i nostri scherni e le più amare derisioni a declinare il tutto, immediatamente, come suggerimento irrealizzabile e inattuabile, giacché altri luoghi ci attendevano: l’ordinata Vitoria e la leggendaria Pamplona aspettavano di essere dai nostri piedi calpestate. Non certo uno scherzo geografico. Dopo pochi i verso quello che forse si poteva considerare il centro della città, ci accorgemmo di esserci ingannati non poco. C’era parecchia gente in giro e si percepiva un indiscusso clima di festa; altro che vie spettrali… i locali ci guardavano are carichi dei nostri bagagli con l’aria di vedere degli extra terrestri. Non era certo il turismo che rendeva ricca quella porzione di Lituania nel nord della Spagna. La Routard segnalava quel luogo a discapito di ogni più pessimistica aspettativa e, trovato l’albergo indicato, lo scartammo subito per via di un certo rispetto dei pochi soldi di cui potevamo fare sfoggio. E comunque, ad impedirci la follia di una spesa così onerosa, se oneroso è il rischio di dover spendere qualche misero euro in più del solito, ci venne incontro la fortuna di trovare l’albergo ormai pieno e completo. Per nulla disperati, nonostante fossero ormai le 8,30 di sera e qualcosa nell’aria diceva che una qualche agitazione febbrile stava per esplodere, chiedemmo informazioni ad un tipo dall’adipe prominente e dai baffi spessi e ricurvi il quale

fu subito eletto a sindaco dalle nostre anime nobili e il quale, con fare accattivante ed affabile, forse per via di qualche litro di sidro oltre la misura, o forse per semplice naturale gentilezza insita nel cuore spagnolo, ci indicò un ristorante portoghese che albergo non era, ma certo di stanze ne aveva. Salutammo il nostro sindaco con rispetto, gratitudine e un pizzico di scetticismo ed egli donò noi uno splendido, furbesco occhietto tale da farci intendere la fortuna di essere incappati in cotanta sapienza. Così fu che il nostro Capitano poté finalmente sfoggiare la sua conoscenza della lingua portoghese, in un angolo di Lituania nella vecchia Castiglia della bella Spagna. Ci sistemammo in due stanze attigue, alla fine del corridoio del secondo piano… i piani erano quattro… e nessuno di noi saprà mai il perché questo luogo, che albergo non voleva essere, avesse, invero, un numero di camere maggiore di ogni altro che in quella città ne vantava il patronimico. Non erano certo camere di un lusso sfrenato, ma nemmeno noi mai le avevamo così cercate… e il prezzo era in perfetta linea con il nostro quieto portafogli, mai era stato così riluttante ad esternare i suoi preziosi segreti come lo era stato in quei dieci giorni di viaggio. Facemmo una doccia e, pochi istanti dopo (circa due ore), eravamo belli e pronti per tuffarci nella cucina castiglianportogheselituana o qualunque altra ci avessero voluto sottoporre in quel ristorante che albergo non era. Mangiammo pesce e bevemmo vino, il tutto alquanto insapore, bisogna ammetterlo, ma utile a riempire i nostri stomaci coraggiosi. Il Capitano ebbe modo di affascinare la bella cameriera con un estroso portoghese spagnoleggiante, maccheronico e fantasioso e il nostro Capitano fu perso…. Noialtri vedemmo l’àncora sprofondare sotto l’auto a tenerla al largo per i prossimi giorni, vedemmo le vele ripiegarsi, quella era la città che cercavamo. Così almeno io e il Duca già pensavamo, mentre osservavamo il nostro Capitano intento a manovrare la ciurma presso quel porto. Ma cosa ne pensava il Contabile? Sarebbe stato anche lui della partita o avrebbe contestato, bollandola come folle, una idea sì malsana? Non ne sapevamo nulla, ma bevuto il buon caffè con ghiaccio ci ritirammo nei nostri alloggi per una

breve visita alle stanze piastrellate di bianco, per poi essere pronti a cacciarci compatti nelle vie della città in subbuglio. Uscimmo nella fresca sera e dovemmo scansarci subito dalla stradina per non essere investiti da un corteo danzante di blu e bianchi colori, capeggiato da una piccola banda tanto rumorosa quanto allegra. Ne seguimmo le note sorridenti e curiosi, e ci portarono nella Plaza Mayor. Fu lì che trovammo che la spettrale cittadina nulla aveva di spettrale, sempre che qualche rimasuglio di dubbio fosse mai rimasto incastrato nelle di noi tempie, dal momento in cui, quattro ore allora erano, avevamo messo piede in quel posto. Migliaia di persone bevevano e ballavano, ballavano e chiacchieravano, bevevano e ridevano, ridevano e attendevano, e noi con loro; un palco occupava tutto il lato della Plaza più distante da noi, musica spagnola gonfiava le grosse casse e la gente rideva, beveva, rideva e chiacchierava… ma dov’erano prima? Ma da dove poteva essere stata partorita una tale folla? Ma era gente vera o spettri della feria spagnola? Nulla esisteva o noi non esistevamo o tutto era e noi, per fortuna, eravamo pur anche? Non perdemmo tempo a perderci troppo in filosofiche considerazioni e altrettanto filosoficamente andammo all’angolo della Plaza, quello alla destra del palco, e lì trovammo Nisa, splendida barista dai capelli d’oro e dal sorriso in grado di far sciogliere tutti i ghiacci del mondo, ma non tutti, sicché alcuni cubetti rimasero superstiti e si andavano annegando in venti centilitri di rum e trenta di coca cola. La feria ci aveva appena invitato a essere sua nonostante fossimo quasi sicuramente gli unici turisti in quell’oasi e di certo gli unici che potevano vantare di abitare in una penisola che fa nome Italia. Ma il capitano viveva ormai della magia di due occhi neri iberici e con qualche frase di scusa, presto ci lasciò per correre a vedere se la cameriera voleva raggiungerci. Rimasti soli io, il Duca e il Contabile cominciammo un attento esame delle beltà che la città ci offriva… e ahinoi, dovemmo ben presto renderci conto che l’età media delle fanciulle indigene non raggiungeva quella che la giustizia poteva perdonarci; non capivamo cosa mai era quella burla, la delusione prese a scivolarci lungo la schiena facendoci rabbrividire di malcontento.

E fu allora che la musica si interruppe e un gruppo musicale prese a intonare note e a cantare canzoni di rara bellezza; la Plaza tuonò di vita, si muoveva letteralmente sotto i nostri piedi, la folla aumentò… e con essa, grazie al cielo spagnolo, aumentò anche l’età media tanto temuta. Fanciulle sorridenti e danzanti presero a giungere a rallegrare la Plaza, che pur riuscendoci bene anche da sola, di certo fu di grande apporto a quel angolo dove noialtri avemmo collocato la nostra bandiera di conquistadores disarmati! Quale splendida pazzia! Quale allegria e smottamento dell’animo e della mente, quale quantità di alcolici offrimmo a noi stessi già ubriachi di eccitazione; quante visite e quanti sguardi incantati all’instancabile lavoro della nostra cara Nisa, del qual nome noi facemmo leali apprezzamenti e del qual stesso nome lei non molto era felice… se non che felice era del fatto che noialtri, i complimenti, li facevamo al nome solo perché di lei era compagno! E il Contabile, verrebbe da chiedersi, forse si annoiava? Si divertiva e beveva lui quanto noi, solo non ballava, ma la fiesta è un virus che non molla, una malattia che fa star bene e contro la quale non si conosce cura se solo le si permette di circolare un pochino nel corpo e nella mente. Il Contabile era nostro! L’àncora la si poteva pure spingere ancor più a fondo e in quanto alle vele le si ripiegassero pure e se poi, qualcuno mai avesse voluto prendersene la briga, be’! che quel qualcuno dia loro pure una bella stirata per poi deporle nella stiva di fresco ramazzata, perché questo è il luogo e questa è la nostra isola! Le camere ci videro ospiti solo verso le sei della madrugada. Purtroppo, dovrei aggiungere, in quanto la fiesta non ha ore e nemmeno limiti, ma eravamo stanchi e il fisico non poteva donarci altro che quel che già noi gli avevamo preso ed elemosinato. Dormimmo, anche se prima io mi impossessai del telefono del Duca, in quanto il mio mi aveva tradito una volta superato i confini di Arles, e spedii un dolce messaggio ad una taluna oscura ragazza la cui compagnia di notte sognavo e di giorno desideravo; e ato dal rum e dalla birra finii per lasciarmi rapire dalle muse mistificatrici di bacco e di cupido. Ma non è questo il luogo per discorrere di siffatte auree di amore, dato che ella non volle accompagnarmi e il nostro ricongiungimento non appartiene a questo racconto, e seppur speravo e spero sempre che tale congiunzione potrà essere un dì finalmente serena, non era di allora e, ahimè, non è neppur di ora che qui vergo tali memorie, a me permessa cotanta felice e certa gioia!

Ma lasciamo la malinconia ad altri poeti di me più meritevoli, e lasciamo ad altri tempi le lacrime di una storia che se infinita non sarà… lo sarà solo perché di infinito non è a noi mortali concesso parlare! Inviai quindi il benedetto messaggio e riposto il telefono ducale al capezzale del Duca mio caro amico, tornai tra le braccia del cuscino e così duramente ronfai quello squarcio di notte, che alle 9 della mañana il nostro Duca dovette arrendersi ai miei fastidiosi ruggiti, destarsi e dedicarsi alla perlustrazione della città per scrutarne i contorni con la luce del sole. Era una bella città… ci disse più tardi quando in auto decidemmo di raggiungere Vitoria-Gasteiz per fare un piacere a noi ed uno più grosso al nostro Contabile, il quale certo si era arreso alla nostra voglia (che un po’ era pure sua, è questo è indubbio) di rimanere nel paese dei balocchi una notte in più… ma che non poteva, in assoluto, permettere che il programma di visite fosse in nessun modo mortificato e variato ulteriormente, fino magari al punto estremo di dover rinunciare a vedere qualcosa che egli già aveva appuntato come necessario… Era dunque Briviesca, così disse il Duca, una bella città con due chiese, una delle quali in ristrutturazione, molto probabilmente un convento di clausura… che non sapeva bene se ancora in essere o solo vestigia di un tempo andato. Al qual dubbio noi tutti, dopo pochi minuti di analitica attenzione, decidemmo che non poteva in nessun caso essere ancora esistente nulla che poteva essere di clausura in quel paese, e di certo non lo era più da quando la feria aveva visto la sua alba! Menti sveglie e ben attente ai particolari le nostre erano... e anche se la feria non è di tutto l’anno… è anche sì vero che in una settimana del genere i più nobili propositi e le più attente religioni sono impossibilitate a tenere a freno i propri centri inibitori; per cui decidemmo che il convento, tale o presunto, di clausura di sicuro non poteva essere… e il discorso fu così superato e sentenziato. La noche stessa il tutto si ripeté come d’incanto. Il Capitano, che la notte prima ci aveva raggiunto raggiante delle parole scambiate con la bella cameriera, allo stesso modo, prima ci lasciò al nostro destino di clienti perduti di Nisa del rum e poi venne con noi ad ubriacarsi di vita e di danze. Fu un’altra notte piena e colorata, festante e grandiosa… Anche se devo, qui, annunziare l’abbandono del buon Contabile, il quale, dato che

avevamo previsto una siesta che andava dalla mezzanotte alla una e mezza atta a meglio reggere la notte incalzante, così da godercela tutta fino a che l’albeggiare non avesse bussato alle finestre delle tenebre, una volta presa la via della camera decise di rimanersene là dentro per rivederci solo il giorno appresso; rispettammo con un filo di tristezza il suo comandamento e lo lasciammo al riposo perché quello era il suo desiderio, giacché all’interno della quadriglia dei viaggi dell’ovest mai nessuno sarà obbligato a fare qualcosa contro le sue volontà; e poi avevamo già una volta o due dimenticato di ottemperare a questa legge non scritta ed ambedue, o tre le volte, fu proprio il Contabile a doversi inchinare galantemente a dei voleri, quattro o cinque che fossero, che forse suoi non erano del tutto. Rispetto, quindi, per il Contabile e augurandogli la buonanotte - così come egli fece per noi - lo lasciammo al materasso. A proposito del nostro Capitano e della sua bella cameriera dagli occhi neri già abbiamo narrato un poco; ed è quel di cui si è parlato quel che verrà detto dato che di altri più intimi particolari ad altri interessi non devono essere asserviti se non a quelli di coloro che sono i protagonisti… ma oltre a questo, un altro, che io non sono, ma che di Duca nome ed appellativo fa, ebbe a fare la conoscenza, o quasi, ahimè, di una fanciulla, e questa del luogo era di biondi capelli. Aveva il capo folto e chiari erano gli occhi suoi e nulla aveva in bellezza da invidiare alla mora portoghese… e codeste fattezze ebbero ad ammirare il buon duca facendosi avanti chiedendo quasi la di lui conoscenza, sviando così tutte le noiose normali vie di seduzione che vogliono il signore fare il primo o e non certo viceversa. Oltre che carina, di ella si poteva pur dire che era originale e coraggiosa. Dato che con questa semplice parolina questo discorso vado ad iniziare, con questa parolina che nulla di buono fa presagire debbo continuare ma, dicevo, il nostro Duca, rimasto basito da cotanta beltà e afflitto da una forma piuttosto bizzarra di timidezza, la quale forma mai lo aveva colpito prima di allora. Nulla fece se non osservare con occhi lussuriosi e brucianti la svelta creatura, di modo che tutto si limitò a lunghi sguardi caldi e colmi di desiderio che in nulla sfociarono se non nella cocente delusione della allegra signorina, la quale venne trascinata dalla folla delle sue amiche a continuare la fiesta in altri lidi, e in quella ancor più disperata del nostro Duca, il quale da allora non ha fatto are un giorno solo senza ripetersi, ben ato da noi tutti, questo è chiaro, di essere nulla di diverso da un enorme baccalà.

Alle sei della mañana, carichi dell’allegria che solo una fiesta spagnola può lasciare, ci dirigemmo tutti e tre nelle camere dove il Contabile attendeva dormiente il resto della compagnia. Alle 2 della tarde, pagato il conto al buon portoghese ristoratore - che albergatore non lo si dovrebbe appellare dato che di albergo quello non si trattava - lasciammo il suolo di quel luogo a cavallo del tempo e dei confini geografici. Direzione Pamplona: chi sorridente e chi un pochino nostalgico. Issammo l’àncora e lasciammo che il vento gonfiasse le vele abbandonandoci alle spalle un paese che sta tra la Castiglia, il Portogallo, la Lituania e la Fantasia e che di certo, una volta che l’ultima curva ci impedì la visuale anche dell’ultima sua costruzione, allora poté in vero scomparire, sia dal mondo che pur anche dalla carta geografica, che presa in mano nulla più ci mostrò se non un tenue sbuffo di fumo laddove qualche giorno prima v’era scritto: Briviesca.

Solo S

Solo soletto Silente, silenziosamente, sedeva sorseggiando solo soda sentendo suoni salire sinuosi. Suro scaricava sacchetti scandendo sordide serenate. Silente sorrideva. Suomi sbadigliava seduto sullo sgabello. Silente sorrideva. Sarcia sistemava sudando stoviglie sporche. Silente sorrideva. Sconci sorci strisciavano setole sudice scavando sotto sei sedie. Silente sorrideva. Scario, sovrano senza scettro, sorbiva scotch senza sosta. Sanro sfidava Sordo spostandosi sulla scacchiera satinata. Silente sorrideva. Satana spiava stupito sette stupidi sapienti. Sprovveduti sapienti spensierati. Satana soleva spartirsi sette somari senza scelta. Sette sensali. Sdentato santo scaricato senza storie. Satana scorse Suro senza sacchetti, serpe sinuosa salì sulle sue spalle. Sario senti? Sento! Sedici scudi se svanisci. Solo? Solo! Svanito Suro, Satana sentiva Sanro sfidare Sordo, Sordo sentiva solo sillabe sparse. Satana sottecchi scomunicava Sanro e Sanro svanì sconfitto. Sordo seguì Sanro svanendo subito subito. Sarcia scacciò sorci scorticandoli sapientemente. Satana sibilò sui sorci sfiati sbavanti, spedendoli sfiduciati sui sandali sovrani. Scario scappò sospirando sul suo scotch e senza sosta scese seicentosessantasei scalini scovando Suro, Sanro e Sordo. Sarcia sfidò Satana seguendolo sotto sassi senza spazio. Spirò. Sconfitto scese. Suomi sbadigliando sentì Satana spronarlo.

Sette sovrane se soffochi Silente. Sparisci Satana, sproloquiò Suomi. Satana spedì Suomi sulla settima stella stridendo stizzito. Silente sorrideva scorgendo Satana sconfitto. Sconfitto? Si schernì Satana. Sei solito sfidare sette sapienti somari. Sette sapienti somari spariscono solo se Sirio svanisce seguendo Sagitta sulla sua spalla sinistra. Solo. Sai? So. Sette sapienti somari sanno se Satana sfiora sconce sciagure. Sei sconfitto serpente sfrontato. Sfuggi solo se sbrani sette sdentate suore senza saio. Se svanisci senza, sei somari saliranno su senza sperdersi. Scordando. Sarà. Sei sempre Satana: svagato, simpatico, sfacciato, segugio. Silente sullo sgabello sorseggia scotch senza sosta scartando spietatezze. Sono Satana, Silente. Solo sconcezze. Salve Satana. Salve Silente.

Riflessi

L’aeroporto alveare si nutre di pazzia: ne riempie gli spazi, ne inquina i pavimenti, ne scolpisce le pareti con il folle brusio di urlanti formiche. Guardo di fronte a me e oltre lo specchio vedo un uomo che non ha niente a che vedere con la circostante follia. Il suo aspetto è di un uomo d’affari, sicuro di sé, elegante nel completo nero; la barba ben curata accentua la bellezza di indiani lineamenti, gli occhi profondi e verdi ricambiano inquietamente il mio sguardo. La piega del sorriso mi convince del fatto che nasconde un segreto, un terribile segreto. La sua valigetta di coccodrillo è ben salda nella mano destra. Il clima è inquieto; una bambina bionda cerca ululando i distratti genitori; una donna e un uomo litigano davanti al banco delle informazioni; un nugolo di ragazzi urla e si trascina appresso valige buone per infiniti traslochi; hostess affascinanti filano altere; uomini del servizio di terra sgobbano e sognano piccanti avventure con le hostess altere; check-in rigurgitano viaggiatori di tutti i tipi. Gente di tutto il mondo ronza attorno senza meta, lingue diverse si intrecciano come in una lucida Babele, l’altoparlante gracchia incessantemente orari e numeri di volo e nomi di persone. Osservo l’uomo davanti a me, anche lui mi scruta, lo so, gli sorrido, e lui ricambia mettendo in mostra una candida fila di denti luccicanti. Paura. Lo stomaco mi gorgoglia e i peli delle braccia si rizzano scossi da un improvviso brivido. Distolgo lo sguardo e inforco gli occhiali scuri. Nascondo timori e allucinazioni. Nascondo l’anima in cerca di isole lontane e irraggiungibili. Anche l’uomo ha un paio di occhiali scuri identici ai miei. Qualcosa lo allarma. Ora stringe più forte la valigetta. I nostri sguardi si incrociano di nuovo. Vibrante tensione. Quattro uomini in divisa stanno correndo verso di noi. Sono sempre più vicini. L’uomo, lo vedo, ha il volto tirato in una faticosa smorfia di noncuranza. Ma leggo le opache verità dei suoi nervi al limite dello spasmo. I quattro uomini ora sono davanti a noi. Si fermano. Si guardano attorno attenti e irritati. Ripartono velocemente prendendo quattro direzioni diverse. Stanno inseguendo qualcuno. Quel qualcuno è forse sotto i loro occhi ciechi. Non lo scorgono. Ma

forse no. Forse è solo paranoia crescente. Sono sempre seduto allo stesso posto. L’uomo è sempre seduto davanti a me oltre la linda parete di cristallo. Vorrei alzarmi e andarmene, ma non posso. Non sono sicuro di ciò che faccio in questo aeroporto. Ma devo rimanere, non posso muovermi, ho un volo da prendere. Non so precisamente di cosa si tratti: a volte le nubi della mente si fanno solide e non vedo nulla oltre il bianco candore del velo della non conoscenza. Tornano i quattro poliziotti. Ancora una leggera smorfia di disgusto tradisce il viso dell’uomo sedutomi di fronte. Li guardiamo e sospiriamo assieme. Un sospiro di calma. Ai quattro uomini se ne è aggiunto un quinto. Il nuovo compagno non è lietissimo della compagnia. Ha le mani strette in un luccicante paio di manette. La testa china non cela del tutto le lacrime che lentamente gli accarezzano le gote. Il popolo dell’aeroporto apre le proprie ali per far scorrere il fiume della giustizia e le agita orgoglioso per rendere onore. L’uomo davanti a me sorride beato e applaude contento assieme a tutti i colleghi viaggiatori. Anch’egli è lieto che esistano uomini in grado di fermare il crimine e di permettere alle oneste persone come lui… e come me, che mi accorgo solo ora di essere anche io in piedi applaudente e soddisfatto di poter celebrare la propria libertà e di esultarne. Gli altoparlanti chiamano il volo dell’uomo. Lo vedo comprendere le parole vomitate dalla voce amplificata. Si alza. Mi alzo anch’io. Consapevolezza: la nebbia in cui è seppellita la mia coscienza si dirada. Parole di altri lidi. Comprensioni di tremende idee. So qualcosa e so che quel qualcosa è sbagliato. Lo guardo. Egli guarda me. Ho pochi attimi, pochi secondi per impedire che il destino mi porti via. Pochi secondi prima di scomparire. Ancora infinitesimali istanti. Poi non sarò più. Poi non saremo più. È come se sentissi il rapido scorrere del sangue nelle sue vene, è come se percepissi il suo cuore battere sempre più forte, incontrollabile, incoerente. Ma non posso nulla, me ne rendo conto a pieno solo ora. La nebbia della mente è disciolta. Il sole è apparso a denudare ogni nera ombra. Non ci sono più segreti.

Stringe una valigetta nera piena di tritolo nella tremante mano destra, la guarda... e mi guarda. Anch’io ne ho una stretta nella mano, ma nella tremante sinistra. Anche la mia è nera. Anche la mia è ricolma di tritolo. Anch’io lo guardo. Io sono lui, lui è me, io sono il suo palindromo, io sono la sua coscienza, io sono il parassita dell’anima, io sono colui che sa. Troppo tardi. La morte giungerà tra le nuvole e nulla potrò fare per stornare la potenza del suo messaggio di distruzione. Guardo oltre il vetro e sto per scomparire. L’uomo si sta per voltare e scorgo un ultimo triste sorriso lanciato a me, solo a me. Sta per voltarsi e scomparire. Sta per darmi le spalle e abbandonarmi per mai più rivederci. Sono la sua immagine riflessa nello specchio... con lui scomparirò...

Scuola

La lezione, puntuale come la strega con registro che la impartisce, inizia alle otto del mattino. Occhi semichiusi e sonnacchiosi. Labbra secche o ancora portanti seco briciole di saporita colazione. Teste ciondolanti come quelle che sui treni sfidano le leggi dell’anatomia resistendo a fratture di spine dorsali. Corpi flaccidi accartocciati su scomode sedie di metallo. Zaini multicolori arrotolati come cani al fianco dei prodi padroni. Libri aperti o chiusi. Libri nuovi o antichi. Libri letti o mai sfogliati. Libri noiosi o molto noiosi. Libri. Quaderni. Astucci. Calcolatrici inutili. Ogni banco è la casa dell’afflitto alunno che ha di fronte. Ogni casa ha un preciso arredamento. Ogni casa è il solo labile rifugio dell’avvilito alunno scrutato dal vigile occhio della strega con registro. Spero abbiate studiato! Niente saluti, nessun convenevole, solo pratiche e coscienziose frasi fatte. Il sangue nelle vene prende a circolare più velocemente, respiri affannosi, sussurri di sgomento, non ho studiato, non so un cazzo, ora mi giustifico, no, non farlo, poi ti chiama solo per dispetto, no, non lo farà, lo farà ti dico… Signora professoressa io non ho potuto studiare perché ieri sono stato male. Silenzio strisciante. Risolini nervosi di compagni che pregustano la sconfitta di una scusa tanto falsa quanto suicida. Bene, Marco, allora tu sei giustificato. Sconcerto, inquieti sguardi increduli. Solo il fatto che la strega abbia chiamato per nome e non per cognome un alunno è bastato a stordire chiunque dentro quella stanza, ma addirittura l’accettazione di una banalissima idiozia per scampare a morte sicura… no! non è concepibile. Cosa diavolo succede? Qualcosa non va. La tensione cresce, la si respira a pieni polmoni, la si affetta con indicibile veridicità. Sta giocando col topo, ora lo lascia sperare e poi lo affossa con una zampata da vera professionista della crudeltà. Spero abbiate studiato perché oggi faremo un bel compito a sorpresa. Bastarda. Ecco cosa c’è che non va. Tutti si aspettavano la solita interrogazione e

lei già ghigna del suo bel compito impossibile celato dalla verde borsa di merda. Infame. Marco è ancora incredulo del fatto che la giustificazione sia andata a buon fine e non ha nemmeno registrato il tranello in cui è caduto da vero ingenuo topolino indifeso. I test vengono distribuiti. I primi sguardi scrutano di nascosto le incomprensibili domande nere sul candido foglio. Troppe domande. Troppo difficili di sicuro. Strega bastarda. Si può iniziare. Tempo due ore. Allo scadere si deve abbandonare la penna sul tavolo e attendere seduti che la professoressa i a ritirare i compiti. Chi finisce prima deve consegnare il foglio e sedersi al posto in canonico silenzio. Chi venisse sorpreso a copiare o a suggerire dovrà riconsegnare il foglio immediatamente. Forza ora. Iniziate pure. Le finestre mostrano un cielo grigio e triste. Alcune gocce di pioggia cominciano a solleticare le lisce pareti trasparenti. L’animo degli studenti è in precisa sincronia con l’atmosfera che li circonda. Il neon ronza a peggiorare la situazione. La professoressa non stacca gli occhi dall’attonita classe. Cielo, vetri picchiettati da vaporosa pioggerellina, grigie nuvole, neon freddo ed accecante, tutto va di male in peggio. Respiri pesanti, piccoli soffusi colpi di tosse: sono gli unici segnali che quella non è una camera mortuaria bensì un’aula di scuola. Niente di vivace o di allegro, solo desolazione. Il compito è impossibile per tutti. Nessuno sta scrivendo niente, nessuno comprende nulla. Nemmeno i primi della classe hanno la minima idea di cosa significhino le parole che stanno cercando di decifrare. Qualche mormorio nasce dal profondo silenzio. Qualcuno sta cercando il coraggio di far notare la malattia incurabile del compito che si stende illibato davanti agli esterrefatti sguardi. Una mano si alza, un’altra ancora, un altro braccio tremante tiene faticosamente in equilibrio una mano sudata. Finalmente! urla felice la professoressa. Le mani tornano dov’erano prima. Finalmente avete capito che c’è qualcosa che non va, vero? sta dicendo sorridente la professoressa. È pazza. È bastarda. Idiota. Cos’altro succede ora? Adesso mi interroga. Io l’ammazzo. Trenta pensieri, uniformemente diffidenti, occupano le menti dei trenta studenti. Trenta domande chiedono pietà nelle stesse trenta menti indignate. Ma ci sta prendendo per il culo? Si diverte a farci soffrire, sta sadica di merda. Dio, quanto la odio. Va bene ragazzi. Prendete i vostri fogli, appallottolateli e buttateli nel cestino. Trenta palle di carta finiscono dentro o vicino al cestino vuoto. Buona mira, si vede che è uno sport che praticate spesso, sta dicendo la professoressa con un espressione di simpatica complicità del tutto sconosciuta ai trenta lanciatori di palline di carta. Marco!

Ci siamo, lo sapevo, stupido idiota. Ora mi interroga lo stesso e un quattro non me lo toglie nessuno. Marco, per favore, mi andresti a prendere un caffè? Eccoti i soldi! Non si accontenta della vita di un agnello sacrificale del tutto inerme, vuole anche la sua dignità. Marco prende i soldi e si allontana dalla classe. Marco riflette su varie soluzioni attuabili. Allungare il caffè con alcune gocce di cicuta o di un meno tragico diuretico, ma non sa dove procurarsi né le une e né le altre. Potrebbe svignarsela, ma l’evasione è punita severamente. Pregare la prof di non torturarlo, magari con qualche storia strappalacrime di sua madre malata, ma quella è capace di telefonare a casa per accertarsi della veridicità del racconto. E allora che fare? Rimane una sola cosa: rientrare in classe, portarle il caffè, subire l’umiliazione dell’interrogazione, della relativa scena muta e del conseguente solito quattro. Il caffè tarda a riempire il piccolo bicchiere bianco di plastica quando nel corridoio deserto e silenzioso risuonano dei ticchettii. La strega in persona si para davanti a Marco. La donna è molto bella, questo bisogna riconoscerlo: il corpo flessuoso e il viso ben proporzionato, i capelli biondo scuro tirati indietro e trattenuti in una fluente coda, gli occhiali rotondi e oscurati celano il bel azzurro degli occhi leggermente a mandorla. Ma bella o no rimane il terrore di qualunque studente. Mai un sorriso, mai un cenno di comprensione o di perdono, solo dura lotta destinata a piegare la libertà dello studente. Dopotutto il nome di strega non lo si da mica così per caso. Marco attende un qualunque rimbrotto. Forse ci sta mettendo troppo. Forse gli ha letto nel pensiero le malevoli intenzioni di avvelenamento. Forse lo vuole interrogare li davanti alla macchinetta del caffè per non perdere ulteriore tempo. O magari lo vuole uccidere e inghiottire. La professoressa sorride. Mi uccide… addio mondo crudele! La professoressa si toglie gli occhiali e l’azzurro si mostra in tutta la sua lucentezza. Vuole vedere meglio il mio dolore. Però… che occhi, mica male. La professoressa scioglie la coda e un mare di soffice biondo le ricade sulle spalle. Che diavolo vuole? Piega il capo e un complice sorriso piega all’insù le belle labbra. Le stesse labbra, sempre imbronciate e tanto temute quando, insieme agli occhi, sfilano lentamente la lista di nomi di martiri sul registro. Si avvicina a Marco, gli solleva la testa china con un morbido gesto delle dita e lo bacia con estrema ione e con un coinvolgimento da film erotico, che provoca allo studente una subitanea erezione e una totale incapacità di respirare. La professoressa beve il caffè e si allontana lasciando all’incredulo studente solo

il ricordo di un dolce sorriso di soddisfazione. Marco rientrerà in classe dopo dieci minuti di indicibile paralisi. Lo attende la classe, lo attende la prof, lo attende la lavagna e il quattro sul registro. Il solito quattro sul registro ammansito da una piacevole distorsione della solita realtà. Sarà successo davvero? No? Sì? No? Sì? Stronza. Alla fine mi ha fregato lo stesso. Ma stavolta ne è valsa la pena.

Silenziosamente

Mi dicono inutile. Forse lo sono davvero. Eppure vivo e se vivo servirò pure a qualcosa. Seguo sempre quest’uomo ma non lo conosco. Sono quasi sempre con lui ma di lui non so nulla. Non mi parla, non mi dice di andarmene, non mi rivolge mai la parola. Ah! se solo sapesse quanto desidero la sua compagnia. Ma lui non mi calcola nella lista delle sue conoscenze, si limita a portarmi appresso e nulla più. Sono con lui in ogni momento, sono con lui persino nei momenti più intimi, ma non ci fa caso. Sono con lui quando lavora o quando è con gli amici, quando mangia e a volte quando dorme, sono con lui sempre. Non esiste confine tra la mia e la sua esistenza, ma un muro senza mattoni di indifferenza egli ha costruito per evitarmi. A volte lo precedo ma non mi ferma, a volte lo seguo ma non mi aspetta. Che il diavolo mi porti se capisco cosa abbiamo a che fare l’uno con l’altro. Ma non posso liberarmene, ho bisogno di lui, vivo perché lui vive, esisto fino a che lui esiste. Luna, sole, stelle, luce, nebbia, auto, casa, strada, la mia vita è il prolungamento della sua, parassitismo, defraudato della mia coscienza mi accompagno alla coscienza di qualcosa che non comprendo. Piange ora, soffre, disperato si protrae lungo la linea della propria stessa malinconia, chiude la mente alla ragione e ci si inabissa dentro. Nulla. Ma a me non chiede consiglio, immobile attendo di essere interpellato, osservo l’annegamento della sua persona, ma sono solo uno spettatore invisibile. Uccide la depressione amando una donna, vedo e mi muovo con lui, ma nessuno mi chiede di scomparire. Me ne andrei, non sono mica un guardone io, ma nessuno mi spedisce fuori dall’intimità minata. E non siamo soli nemmeno noi tre, c’è un’altra presenza, scura e innocua come me, non comunichiamo, ci muoviamo all’unisono, non vedo, non odo, non servo a nulla, non provo piacere, però godo del piacere delle due anime che si uniscono e piangono la propria unica solitudine. Dorme, io veglio al capezzale come una perpetua veglia la chiesa vuota, nessun pensiero, sogni, incubi, desolazione buia. Respira profondamente, non vedo nella sua mente più di

quanto lui non veda nella mia, ma percepisco la sua persona. Perché non percepisce la mia di persona? Non capisco nulla, navigo assieme ad una nave fantasma, forse sono lo spettro di questa barca, le onde mi ricoprono, tutto mi trascina e mi sposta, sono in una bolla. Vedo attraverso la luce. Osservo la stanza concupita dai raggi del primo sole. Si muove. Piano mi muovo anch’io, forse ora mi rivolgerà la parola, mi osserva, sono davanti a lui, lo osservo e piangerei della sua sofferenza se solo mi permettesse di farlo, se solo sapessi come si fa. La donna che era con lui è scomparsa portandosi via anche l’altra figura silenziosa e oscura che nella notte si era mossa con noi con tanta cupidigia. Senza verbo proferire ha lasciato la stanza. L’uomo soffre. Rivolgimi la tua attenzione, metti il tuo viso nelle mie mani e piangi assieme a me. Nulla. Non vede che sono suo amico, non mi rivolge la parola, si alza dal letto stanco e con le mani si copre il volto tumefatto. Piange ancora. Si è fermato e guarda dove sono io, forse mi rivolgerà la sua attenzione. È sempre nella disperazione che ognuno di noi ha bisogno dell’attenzione di qualcuno, chiunque esso sia, sia anche qualcuno con cui mai ha stretto alcun rapporto. Parla con me, ti aiuterà. Parla. Parlami. “Se n’è andata!” Finalmente! Continua a parlarmi, non posso rispondere, non ne sono capace ma ti capisco, vivo del tuo dolore, capiscimi senza ascoltarmi. “Se n’è andata, come posso fare ora?” Non lo so! So che devi andare avanti. Sei un uomo forte. Non posso ucciderti con la retorica di altre vite da incontrare, di vite migliori. Sei troppo intelligente per voler sentire luoghi comuni. Scrollati, io sono qui per aiutarti. Andiamocene a bere qualcosa, incontriamo amici. Usciamo da questa tomba. Ma tu non mi senti. “Sono qui solo. Ero felice stanotte, anche lei era felice, lo so. Me lo ha detto. Ma questo cosa conta? Nulla! Altro aveva per la mente, mai ha voluto parlare con me. Sono stato il suo porto, l’ho accolta e lei ha attraccato alla mia spalla. Mi ha parlato di lei, io le ho parlato di me. Ci dicevano fatti l’una per l’altro, ci dicevamo affini per elezione. Dio, quante assurdità, quante falsità partoriamo nella vita. Lei non è mai stata comprensibile per me. Mai. Non me lo ha permesso. Non mi ha mai concesso di

entrare nei suoi pensieri, di vederli, non mi ha dato tutto il suo amore e non sapeva nemmeno perché, voleva darmelo, ma aveva paura, diceva di non essere libera, ma tutti siamo liberi, è solo paura quella che limita la nostra esistenza, io le ho dato tutto il mio di amore e ora un po’ me ne pento, ma non lo rinnego. Non me lo ha permesso. Sono entrato nella sua mente e sono stato buttato fuori. Un intruso mi ha fatto sentire. Un intruso scacciato sono ora. Non mi ha dato la combinazione per spalancare le sue paure, e come le sue paure sono stato scacciato. Ora sto male. Ho vissuto per lei. Sono stato la sua ombra come tu ombra mia mi hai seguito fino ad ora senza nulla chiedere in cambio. Chiedimi qualcosa, ombra e sarò per te quello che lei non ha voluto essere per me. Mi resti solo tu, amica fedele. Ti amo ombra, solo tu sai chi io sono. Solo tu taci al mio dolore ma soffri assieme a me. Non spegnerò mai più la luce, parlerò con te. Nessun confine segnerà il termine della nostra unione. Eterno connubio di anime semplici. Silenziosa mi hai seguito, parlami pure, non ti trascurerò. Mi segui o mi precedi, non mi parli mai, se solo aprissi la tua favella alla mia mente debole, se solo ti confidassi con me e mi permettessi di conoscerti come tu conosci me. Sempre buia, sempre con me, sempre mi segui, anche quando voglio stare solo, anche quando nessuno al mondo dovrebbe vedermi nella mia debolezza tu ci sei e nulla mi impedisce di volerti con me. Parlami ombra. Dimmi qualcosa. Tu oscura amica mia. Ti amo ombra mia”.

Mondotecno

La finestra era aperta al nuovo mattino; lieve, la brezza smuoveva le leggere tende dopo la notturna bonaccia, sottili raggi di sole filtravano dalle tapparelle ammainate e attraverso la candida luminosità settembrina la polvere danzava allegramente. La camera, rischiarata dalla tenue luce di fini lamelle, mostrava irreali forme: di un letto, di una armadio carico di libri, di una scrivania sorreggente un computer, di una figura umana intrappolata sotto delle lenzuola non propriamente bianche e vittime, a quanto sembrava, di una buia violenza fatta di impetuosi capovolgimenti. Lentamente, le lenzuola ricominciarono la loro danza, non del tutto liete di essere ancora disturbate, fino a che la figura umana, con un repentino movimento, si divincolò della vellutata compagna e si gettò fuori dal letto come spinto da una molla. Come appena partorito in nuovo mondo l’uomo si guardava intorno del tutto inconsapevole della vita. Lo specchio sorprese un viso sconvolto dalla nottata agitata, gli occhi semichiusi lasciavano trasparire un leggero balenio del verde non del tutto celato dalle palpebre pesanti. Le labbra piene e screpolate, piegate all’ingiù, dimostravano tanto sorpresa quanto incredulità. Il cervello cominciava a dare qualche segno di lucidità e una mano ben curata andò a schiacciare i capelli irritati e spaesati al di sopra del rotondo cranio. Era successo qualcosa, qualcosa che non sarebbe dovuto succedere. Maledetta sveglia. Non aveva suonato, non era entrata di prepotenza, odiosa e irascibile come al solito a gettare nella realtà il suo preferito oggetto di scherno. Niente 8:00 rosso e lampeggiante sul display. Nero e vuoto come l’orbita desolata dentro un teschio, il display, irriverente, rifletteva solo alcune schegge di luce rubate al sole desideroso di entrare nella stanza ancora in penombra. L’uomo, pratico e risoluto, premette più volte l’interruttore della luce, ma niente, niente di nuovo, l’elettricità non c’era. Sicuramente quegli idioti della società elettrica erano al lavoro nel momento meno opportuno, machecazzo!

Le tapparelle furono issate come vele dell’albero maestro e sole, aria purificatrice e una nera e saettante mosca fecero il trionfale ingresso nella stanza impregnata degli umori della notte scacciata. L’uomo prese l’orologio da polso e lo guardò interdetto. Segnava nient’altro che il suo stesso viso riflesso e distorto. Perfido bastardo, anche tu ti ci metti? Niente da fare, ma che ora era? Il telefono e il servizio dell’ora esatta sarebbero state le ultime risorse di una mattina iniziata nel peggiore dei modi. Silenzio totale. Doveva essere uno scherzo! Non era possibile che non funzionasse niente: luce, telefono, orologi… ma dico, orologi, machecazzo c’entrano gli orologi? Quelli hanno una batteria interna, devono funzionare! E invece no. Non funzionava. Di sicuro la batteria aveva scelto con cura attenta e letale il momento esatto per terminare l’insulsa esistenza. Dannazione. Però il sole era alto, doveva essere molto in ritardo e non si poteva permettere nessun dannato ritardo, il lavoro chiamava al dovere e non erano ammessi ritardi. Il tempo gli era sempre stato nemico e doveva, doveva impedire che il tempo lo giocasse in quella balorda maniera. Al diavolo. L’uomo si diresse verso il bagno, aprì la porta, schiacciò violentemente l’interruttore della luce, ma quello non ne volle sapere, ottuso idiota. La seconda tapparella permise alla bianca luminosità di irrompere anche alle spalle della stanza nemica, la collina era conquistata, un altro successo e un’altra vittima. Ok. Di nuovo lo specchio, parassita che si nutre di immagini abbandonate alle sue fauci spalancate, mai sazie. Gli occhi ben aperti stavolta, fiammanti d’ira e di offesa. I capelli un po’ più piatti sulla testa ma ancora lungi dal poter essere definiti ordinati. Le profonde linee lasciategli dal cuscino tardavano a scomparire e parevano profonde cicatrici mai guarite di un delinquente avvezzo al coltello… più avvezzo a subirlo che ad adoperarlo. Acqua fredda, ecco cosa ci voleva, acqua gelata per riattivare la circolazione e far scomparire quegli scomodi segnali di una dormita troppo profonda e troppo agitata. La mano si diresse al rubinetto, la manopola girava, girava e girava ancora. La salvietta volò al di fuori dell’angusto bagno seguita nel pindarico volo da irripetibili imprecazioni. La nera mosca, fermatasi a riposare e a fare pulizia con le veloci zampette, reagì di scatto al nuovo terremoto partendo in un vortice di giri della morte di qua e di là dal lampadario inerme ed inutile. Niente acqua. La lista di mal funzioni si ingigantiva ridicolmente. Troppo ridicolmente in quella vita ordinaria e ordinata, fatta di

certezze e di fiducia verso la tecnologia più spicciola. Niente acqua. Cosa fare? Il frigorifero certo! Ci sarà un po’ d’acqua là dentro. Niente luce. Chiaramente. Inutile farsi la infantile domanda: la luce è accesa anche quando il frigorifero è chiuso? No, non lo è mai. Semplice. Coca-cola, birra, due arance, un po’ di prosciutto. E l’acqua? Domanda retorica, non c’era. Risoluto, l’uomo si decise e, adagiata la colorata pasta verde sullo spazzolino, si diede a fregare indispettito gli innocenti denti. La coca cola non legava molto con il dentifricio, meglio con le patatine fritte, ma era inutile scoraggiarsi, si doveva continuare e bisognava stoicamente attraversare la città per andare al lavoro. Per la prima volta nella mente dell’uomo si affacciò un inquietante sospetto. Un ricordo di un libro, chissà di chi, dove le macchine prendevano il sopravvento e cercavano di sopprimere il genere umano per avere il dominio del mondo. Rise della idiozia appena pensata. Ma chi era lo scrittore? Mah? Altro era importante in quel momento e non poteva farsi sviare da oziosi giochi mnemonici. Il conato di vomito si limitò a essere minaccia, non divenne sostanza maleodorante espulsa dallo stomaco, ma ci mancò poco. Dopotutto la coca-cola e il dentifricio alla menta non legano, non ci si può fare niente. I vestiti erano già pronti sulla poltrona vicina al letto, oggi avrebbe dovuto cambiarsi la camicia, ma non c’era tempo, non c’era assolutamente più tempo, chissà che ora era, chissà cosa avrebbe detto al capo per scusarsi di un tale efferato comportamento. L’avrebbe licenziato? No, era improbabile! Certo improbabile, ma non impossibile. Doveva muoversi, doveva far vedere a tutti che anche davanti alle disgrazie un vero uomo, dedito al lavoro, sa prendersi le proprie responsabilità, sa gestire gli inconvenienti, sa chiedere umilmente perdono, strisciando se necessario. Dio di tutti i capi, perdonami perché ho peccato. Non so quello che ho fatto. Questi gli inverosimili pensieri che si rincorrevano, si urtavano e si spintonavano nella mente disorientata e smarrita dell’uomo mentre si tuffava giù dalle scale del palazzo dove viveva, solo e ottuso, ottuso di una felicità artefatta e soddisfatta di sé stessa. L’uomo era contento di sé e della sua situazione. Aveva un lavoro da ragioniere presso una grossa azienda finanziaria, era l’ultima ruota

del carro, non aveva nessuna possibilità di salire la vetta, ma mentiva continuamente a sé stesso e sognava di poltrone in pelle e di comandi urlati al di là di massicce porte di mogano, sognava sottoposti inchinati e saluti rispettosi, desiderava piani alti e soldi in abbondanza. Sognava! Sognava e basta. La vita privata era fatta di lavoro arretrato e di telefonate mai fatte, di televisore come unica compagnia e di birre scolate che gli davano le uniche, brevi e dolorose visioni su quella che era la desolante realtà. Ma oggi è un altro giorno. In questa giornata fatta di certezze deluse, di telefoni muti, di elettrodomestici inermi, di luci spente e chissà che altro ancora, l’uomo avrà una visione e i sogni cambieranno. Le delusioni, forse, finiranno. L’uomo non si è neanche posto l’arcano dubbio che ciò che stava vivendo lui poteva stare accadendo ad altri. Per gli uomini come lui niente non esiste altro che non sia sé stessi, nessuno al mondo ha un minimo diritto di coesistere con lui. Se metteste alcuni individui del genere dentro una cella si accorgerebbero degli altri dopo molti, molti, molti momenti. Il loro egoismo, il loro egocentrismo pare non avere limiti. Poco dopo l’uomo uscì… Uscì da quell’antro di paradiso e appena messo piede all’esterno del condominio si bloccò e il respiro gli si interruppe tra gli esterrefatti polmoni. Lo spettacolo che aveva dinanzi era difficile da recepire, sia per l’assurdità che per la complicata e ineccepibile chiarezza. Il mondo era immobile. Già. Forse girava ancora nell’eterno, instancabile moto, ma un dubbio poteva sempre nascere all’interno di un qualunque meandro di centri nervosi e forniti di una pur piccola intelligenza. Il mondo era fermo. Il mondo era bloccato proprio laddove l’uomo, gli uomini, l’umanità più aveva concentrato fiducia e torpida abitualità: la tecnologia, l’automazione. Le più normali considerazioni automatiche di vita avevano improvvisamente cessato di muovere le multiformi dita. La statale che si espandeva davanti al palazzo era un totale guazzabuglio di automobili non più mobili, di semafori spenti, di telefono-dipendenti che osservavano inebetiti il cellulare ormai inutile, di uomini e donne barcollanti e incerti, persi per il nuovo silenzioso mondo privo di energia. Un aereo stava terminando il proprio planare di morte lontano migliaia di chilometri e nessuno

ci fece caso più del dovuto. Il silenzio era il vero e unico problema, niente esisteva tranne il niente. In un caso del genere, dove per caso del genere si intende un evento al di fuori di ogni qualunque possibile previsione, il panico dovrebbe presumibilmente essere la più normale delle reazioni, invece una totale demenza sembrava aver colto tutta assieme la gente prossima all’uomo. Era difficile cercare di comprendere cosa fosse potuto succedere, anzi era del tutto impossibile ogni razionale soluzione. L’impotenza era respirabile, il fallimento della società era tutta lì, ben visibile, negli occhi allucinati della folla demente e smarrita. L’uomo si guardava intorno e registrava i lenti movimenti delle persone che lo attorniavano: qualcuno sussurrava domande alle quali non si poteva rispondere, altri erano seduti inermi sui marciapiedi, ora inutili, a domandarsi se quella era l’Apocalisse. Un uomo, preparatosi un improvvisato podio, iniziò un omelia contro i mali immondi del pianeta terra e di tutti i colpevoli abitanti, ma nessuno lo ascoltava e presto smise, scrollando il capo e maledicendo l’ignoranza di chi non voleva salvarsi. Vetrine rotte: le vetrine di negozi di elettrodomestici ripulite erano la più ridicola delle visioni che si ebbe modo di osservare. Qualcuna di quelle persone che fanno del furto una missione, appena compreso che allarmi e telefonate alla polizia erano impossibili, si era data in tutta fretta ad accaparrare roba. Nell’esplosione di felicità e di immagini di prosperosi guadagni non avevano tenuto conto del semplice fatto che tutto ciò che andava sottraendo non poteva, non solo, essere venduto, ma nemmeno essere mai più adoperato. Ma forse la speranza di una rapida sistemazione del normale corso della vita aveva fatto sì che costoro si adoperassero a mettere via una sorta di pensione. In ogni caso la scena non poteva che essere ridicola. Le automobili inermi come fossili se ne stavano incolonnate cautamente come in una normale e quotidiana coda, solo che nessun rumore fuoriusciva dalle loro membra, nessun miasma era espulso dalle loro terga tubolari, e nessun autista imprecava o si ripuliva le nari soprappensiero. In realtà, nessun autista abitava nessuna delle vetture che ormai inutili erano abbandonate laddove si trovavano al momento dello strano black-out. Da alcune finestre erano affacciate teste curiose che osservavano il mondo circostante, assonnato e immobile proprio come quello che avevano alle spalle. Un cane caracollava allegramente tra le

auto non più pericolose per le sue eggiate. Un profondo silenzio era sceso su tutto il quartiere e nessuno si permetteva di disturbare l’irreale atmosfera di attesa. Le inebetite persone, prudenti e rispettose forse di un giudizio universale inatteso, scambiavano pareri e soluzioni sussurrando circospette in stretti capannelli. Chissà cosa succedeva nel resto del pianeta? Era così dappertutto o solo quella città aveva fatto infuriare gli dei della tecnologia? Possibile che tutto il mondo fosse in quella situazione? E ora cosa si doveva fare? Non si potevano sentire nemmeno le notizie di radio o tele giornali. Cosa stavano facendo al governo? Avranno un piano per superare crisi del genere? Certo che ce l’hanno. No, sono loro che hanno causato tutto questo! Già! E magari proprio con qualche loro bravata destinata alla guerra cibernetica di cui tanto favoleggiano? Domande, domande, migliaia, milioni di domande nascevano e morivano tutte senza una risposta certa o possibile. Tanti gli argomenti, tante le probabilità, ma nessuno al mondo avrebbe potuto sapere con certezza ciò che stava succedendo. Il mondo era in stallo come un computer entrato in loop. Nessuno scienziato, nessun premio Nobel, nessuna unità speciale di crisi, nessuna società di servizi, segreta o palese che fosse, poteva aiutare o risolvere un problema che non aveva un nome e nemmeno un luogo di inizio. Nessuno. Naufraghi nell’oceano di domande e di paure, tutti quanti, dai potenti fino agli autisti inebetiti della via davanti al palazzo del nostro uomo. Nessuno. … Nessuno. L’uomo era in piena ascesi. Alla fine, disperazioni, preoccupazioni, aspirazioni, si erano rivelate inutili inezie. Il mondo, così come lo conosceva, aveva avuto termine. Bisognava cominciare da capo, ripulire le immondizie tecnologiche, accantonare le comodità urbane di un tempo molto prossimo e iniziare una vita nuova. Basta conti, basta computer e cellulari, stop al sistema controllore di cervelli destinati all’oblio e sostituibili, presumibilmente, con un piccolo chip di silicio. Stephen King, ecco lo scrittore che non gli veniva in mente. Proprio lui, esatto. Altra risposta ineccepibile. Altro punto a suo favore. Altra favola a cui dare una risposta. Finalmente poteva terminare quell’insulsa corsa verso il successo. Come un proiettile l’aveva colpito la netta sensazione che aspirazioni, malate ambizioni,

sogni di auto d’oro, di ville di marmo, di cessi di ambra non erano altro che inutili riflessi di qualcosa che non c’era più e che non sarebbe più stato. Denaro e pazzi accumuli di “roba” concludevano la loro diabolica possessione e finalmente avrebbero preso il posto più idoneo: nessuno. Basta leccare il culo di un presuntuoso figlio di puttana sempre pronto a far valere la posizione per ingannare poveri dipendenti illusi ed ingenui; basta profumarsi ed impomatarsi per piacere a qualcuno di cui essere solo un qualunque scendiletto, desideroso di farsi schiacciare per la misera possibilità di salire un’immaginaria, merdosa china; basta coi sogni fatti di ricchezze e di poltrone di pelle e di ampi e solari uffici; basta cercare di diventare qualcuno che non ci piace e che non saremo mai; basta desiderare di essere la stessa gente che disprezziamo e odiamo; basta credere di poter essere diversi per poi ritrovarci identici e patetici; basta pantomime eseguite a piacimento del pubblico denigratore; basta questo cazzo di cellulare senza campo e sempre scarico. Basta dover dire basta. Se quella era l’Apocalisse bene, era ora che qualcuno lassù desse una attenta e critica occhiata al disastro che si stava perpetrando verso un opera così perfetta. Era tempo che ai piani alti, quelli veramente alti, qualcuno, Dio, Allah, Buddha, Maometto, Giove, Ilùvatar o chiunque tirasse i fili del fato di quaggiù, si stancasse sul serio e decidesse di mettere, se non proprio la parola fine a tutta questa merda che stavamo combinando, almeno una parola del genere di: pausa, occhio, attenzione, attendere, ripensare, riflettere, ricominciare, aggiustare, umanizzare, smettere. Insomma, qualche parola che obbligasse tutti noi che ci arroghiamo la definizione di specie umana a fermarci un attimo per guardare cosa rimane del dono che ci è stato fatto e che all’inizio si chiamava vita, ma che ora proprio non la si sa più come chiamare. Grazie! Grazie! Grazie! Gridava l’uomo col viso e gli occhi ridotti a due piccole fessure. Urlava rivolto al cielo azzurro e limpido, striato da bianche e paffute nuvole rese febbricitanti dal giallo disco seduto nel mezzo. Gridava grazie a Dio e non si occupava delle persone che, incredule, lo osservavano consce del fatto che presto anche loro sarebbero potute cadere nel deliquio di quel folle personaggio. Nessuno ebbe mai la neppur minima consapevolezza che quell’uomo impazzito, sbraitante, inginocchiato, pregante e nevrotico potesse essere invece nel pieno delle proprie facoltà mentali e che, a differenza di tutti loro, potesse essere l’unico ad essere veramente FELICE.

La finestra era aperta al nuovo mattino; lieve, la brezza smuoveva le leggere tende dopo la notturna bonaccia, sottili raggi di sole filtravano dalle tapparelle ammainate e attraverso la candida luminosità settembrina la polvere danzava allegramente. La camera, rischiarata dalla tenue luce di fini lamelle, mostrava irreali forme: di un letto, di una armadio carico di libri, di una scrivania sorreggente un computer, di una figura umana sdraiata mollemente nell’ampio letto. Il viso di quella figura umana era la visione della pace, un leggero inarcamento delle belle labbra rendevano a pieno l’idea della serenità in cui l’uomo era immerso. La sveglia trillò, i numeri rossi indicanti le 8:00 saltellavano allegri sul display nero. La mano si diresse piano verso il suono e, dopo un breve gesto, il richiamo smise di esistere così come era nato. La mano tornò placidamente sotto le lenzuola e gli occhi dell’uomo si illuminarono di nuove e migliori prospettive.

Giulia e Luca

Una luna fitta di luce rischiara la valle incerta. Valle desolata e impotente, stretta nel suo scialle nero, accovacciata all’interno del mondo immobile. Mondo immobile. Gente mortale in attesa di un cenno del loro dio perso nella complicazione dei propri pensieri. Animali battono bramosi le stragi di tombe scoperchiate. Dolore che attende gioie frustrate all’angolo del paradiso inesistente. La notte vince sulle idee delle persone deboli e assonnate. Assonnate genti che sono quel che vedono, sentono ciò che gli vendono, toccano solo realtà visibile dimentiche dei sogni di bimbi che erano. Bimbi vivi, cresciuti nella morte dei luoghi comuni. Stelle si accendono già defunte da secoli di luminosi anni. A naso in su, piccoli esseri immortali guardano costellazioni inventate. Sirio e Procione inseguono la lepre di Orione. Giulia e Luca inseguono atolli invisibili persi nella notte di boschi immaginari. Si stringono nel freddo alito del vento che abbatte animi meno capaci. Uniscono le labbra in promesse di future carezze. Si amano.

Si desiderano. Amano e desiderano sé stessi e la visione di un calesse dorato che li trascini lontano. a un auto veloce. Poco dopo il boato della triste mietitrice giunta a riscattare il debito di sangue. Giulia e Luca si avvicinano e sentono l’odore del ato dentro l’odore di carburante bruciato. Nulla più dentro la galera di lamiera. Giulia e Luca si stringono al corpo fumante, lo accolgono nel proprio cerchio, lo trascinano via dal fallimento. Seppelliscono il giovane rottame e partono per la luna. Si fermano per una pausa alla luce di un lampione dimenticato. Si abbracciano e si asciugano le lacrime. Si baciano nutrendosi. Ripartono inseguendo la lepre. Luna piena, luna instabile, luna che ride, luna che piange, luna in alto a guardare le nostre teste indifferenti. Giulia e Luca si guardano, il fiato esce come fumo di drago dalle loro bocche, allacciano il cappotto, indossano i guanti. Un corvo grida qualcosa all’indirizzo della oscura ombra. Una civetta in stato di agitazione strilla il suo richiamo al calesse d’oro. Giunge nel silenzio la carrozza del fato. Giulia e Luca si arrampicano in cassetta. Prendono le redini attaccate al nulla.

Le redini si tendono. Giulia abbraccia Luca. Luca schiocca la lingua e il calesse decolla verso la luna che attende. La luna apre la porta, lacrima e spalanca il sorriso che ospiterà il calesse.

L’uomo sulla panchina

“È un bel giorno per morire” disse l’uomo seduto sulla panchina. Davanti a lui si stendeva il giardino pubblico rasato da poco. L’acre profumo dell’erba tagliata solleticava le narici. Era un bell’odore. Reminiscenze di giochi di bambini, di palloni calciati, di piccioni cacciati. I giardinieri rastrellavano, alcuni ragazzi correvano sudati e seri. Mamme corrucciate e mamme felici spingevano carrozzine. Bambini dormivano beati sospinti dalle mamme pensierose. Era una assolata giornata di metà ottobre. Il sole orgoglioso scaldava ancora il globo ai suoi piedi, pur sapendo che il proprio potere aveva ancora poco da regnare. L’uomo seduto sulla panchina si coprì gli occhi e osservò di tra le dita il giallo dell’astro sospeso. “È davvero un bel giorno per morire”. Un uomo, ando davanti all’uomo della panchina, udì queste parole bisbigliate e si fermò ad osservarlo. Vide le scarpe alte e nere consunte e spelacchiate, vide i pantaloni marroni con le tasche sporchi di terra ed erosi in più punti, vide la camicia blu con le maniche arrotolate a mostrare le braccia muscolose ed attraversate da rigagnoli di vene azzurrastre, vide le mani dell’uomo tese a celarne gli occhi impegnati ad osservare il cielo, vide il naso dritto e fiero, le labbra screpolate ed arcuate in un amaro sorriso, vide i capelli tagliati a spazzola del colore della paglia, osservò la luce di simpatia e di dolcezza che fuoriusciva dai begli occhi verdi leggermente strizzati a proteggersi dal sole e ora diretti nei suoi neri e arcigni. Le sopracciglia dell’uomo della panchina si alzarono interrogativi in direzione dell’uomo che lo osservava con così tanta indisponente attenzione. Chinò il capo e attese che quello dicesse qualcosa, ma l’uomo si limitò a scrollare la testa, ad abbassare l’arcigno sguardo e a riprendere la strada abbandonata.

L’uomo della panchina continuò ad osservare le spalle del curioso maleducato fino a quando non furono seppellite dalla curva del sentiero di terra battuta del piccolo parco. “È una bella giornata per morire questa” ripeté. Un piccione bianco eggiava a qualche metro dalla panchina dell’uomo. L’incedere buffo e ritmico dell’animale fece sorridere l’uomo della panchina. Il collo dell’uomo prese a dondolare avanti e indietro ad imitare il volatile. Lo seguì ancora per un poco, poi gli tirò un sassolino perché desideroso di vederlo volare. Fu accontentato. Il bianco colombo spiegò le bianche ali e andò ad accoccolarsi su di un albero in fronte alla panchina, da dove poté osservare con gli occhietti neri e severi l’uomo che lo aveva scacciato. Di fianco all’uomo, sulla panchina, era appoggiato un libro dalla copertina bianca. Da circa metà sbucava una matita gialla che fungeva da segnalino; il libro era capovolto e non si poteva leggere il titolo. L’uomo fece il gesto di coglierlo, lo sollevò e poi lo rimise al posto di prima. “È un bel giorno per morire” disse ancora l’uomo sulla panchina sorridendo ad occhi socchiusi. “Perché vuoi morire?” chiese un bimbo che lo aveva udito correndogli dinanzi. “Non voglio morire. È solo che, se mai dovesse accadere, questa sarebbe una ottima giornata”. “Bene. Sono contento che tu non voglia morire oggi. Ma non devi dire cose così tristi”. “Non è triste. Non lo è se si è soli come me. È solo un pensiero di speranza”. “No. È triste. Non lo dire più per favore”. Dalle gote del piccolo scivolarono giù due grossi lacrimoni che gli caddero ai piedi e che fecero nera la terra in due piccoli puntini. “Va bene, piccolo. Non lo dirò più, ma lo penserò, questo non me lo puoi impedire nemmeno tu. Ora torna a giocare”.

Il piccolo corse via veloce come il vento. Tornò dagli amichetti a far rotolare il pallone giallo e blu che si contendevano a furia di urla e risa. L’uomo sulla panchina pensò che ora non era più un problema per il bambino in calzoni azzurri e verdi d’erba sulle ginocchia. Non è che voleva morire. No davvero. La vita era un dono a cui non si poteva rinunciare. Ma era un dono che poteva essere malvagio se non si aveva più nessuno con cui condividerlo. Gli amici se ne erano andati. La famiglia si era persa. Tutto era dimenticato. Tranne, forse, la speranza. E il sole. Quelli nessuno poteva farli scomparire, mai. Soprattutto quando un angelo in calzoni azzurri e sporchi del verde del prato appena rasato veniva a ricordartelo. L’uomo sulla panchina guardò giù dove erano cadute le lacrime del bimbo. Dalla terra nera, nei due punti dove erano cadute le piccole gocce di rugiada, c’erano ora due piccole pietre color dell’oro. Le raccolse e le strinse in mano. Alzò lo sguardo e vide il bimbo che lo osservava nel centro del campetto dove stava giocando. Si fissarono. L’uomo della panchina chinò la testa per guardare le due pietruzze immobili sul palmo della mano. Risollevò il capo. Aprì gli occhi e non vide più nessun bambino con i pantaloni azzurri sporchi d’erba. “È un bel giorno…” disse l’uomo in piedi dinanzi alla panchina. Sorrise e se ne andò.

Dea

Il cielo argenteo si stendeva placido sulla eterna strada. La pioggia soffice come piuma punteggiava il vetro davanti a me. L’orologio dell’auto, quello del cellulare e infine il cronografo che mi stringeva il polso erano in perfetta sincronia: le 19.33. In quel preciso istante vidi l’auto che seguivo iniziare un ubriaco balletto concluso con una goffa capriola nel mezzo del campo di grano che si stendeva alla destra della strada. Frenai facendo stridere le gomme e rischiando di raggiungere l’auto che poc’anzi mi precedeva. Mi gettai fuori dall’abitacolo pronto ad intervenire, impugnando il cellulare, cercando di ricordare se il numero esatto fosse il 112 o il 113 o il 100 sa Dio solo quale. Mi bloccai e osservai la scena. Quel pugno di colore giallo in mezzo al campo di grano grigio e verde sapeva di irreale. Lo scarafaggio giallo di lamiere contorte sembrava riposare dopo una grottesca scorpacciata. Le zampe nere rotolavano ancora, dirette al cielo metallico. Me ne stavo immobile e perfettamente inadeguato come primo soccorritore, quando, finalmente, e non grazie al mio aiuto, la portiera del eggero si spalancò e la ragazza uscì strisciando nel fango. Fu quello il momento che non dimenticherò mai fino a che vivrò. La creatura che venne partorita dal giallo scarafaggio era di una bellezza da far male agli occhi. Quando alzò il viso sporco, e agganciò con i suoi occhi azzurri e trasparenti i miei, una luce mi attraversò la mente e sarei svenuto se non avessi pensato, allarmato, che ero io il soccorritore e non lei. Come era possibile che incidente, fango, lacrime, sangue, non avessero intaccato minimamente la perfezione di quella visione? Rimase per sempre un mistero. Ma così era. Riflettei su ciò che avevo dinanzi. Pensai a Michelangelo e agli sforzi inutili che avrebbe dovuto compiere per creare tale divinità. Arrivai persino a bestemmiare pensando che nemmeno Dio poteva arrogarsi la creazione di tale religiosa armonia. Poi tornai sulla terra. E fu un tonfo da migliaia di chilometri. Fu quando quella creatura svenne e io mi

sentì un perfetto idiota per non aver mosso un dito per aiutarla. La presi tra le braccia e la portai all’auto. Era leggera come un filo d’erba. I suoi capelli profumavano di droghe sconosciute. La pelle. Ah quella pelle liscia ed irreale. Le sfiorai una gota e le scostai i capelli biondi e lunghi che soffici e scompigliati le incorniciavano quel viso bello come il sole. Quante banalità mi vennero in mente in quel momento. Le dedicai poetici luoghi comuni vergognandomi e sospirando. Anche ora tutto quel che posso dire è assolutamente lontano migliaia di anni luce dalla realtà della bellezza eterea di quella ragazza. Lei aprì gli occhi e i miei si dovettero chiudere per non rimanere ciechi. Arrossii al pensiero che avesse potuto sentire i sonetti ebeti che le avevo dedicato nella mente nebbiosa. Non nego che il sangue affluii, immantinente, oltre che al volto, anche laggiù in luoghi più prosaici e meno illuminati dalle muse della lirica. “Come stai?” chiesi. “Bene ora, mettimi giù. Credo di potermi reggere”. Ah, la sua voce. Lenta litania di canti angelici e invisibili. “Cosa è successo? Vuoi che chiami un ambulanza? Come ti chiami?” non mi fermavo più. Volevo sapere, volevo conoscere, volevo lei. Sorrise della mia goffaggine e rifiutò l’ambulanza. Il sorriso più bello del mondo. Disse che un leprotto bianco e marrone le aveva attraversato la strada e che per evitarlo aveva perso il controllo dell’auto. Disse di non preoccuparmi perché stava bene. Disse di dirle quale nome volevo che lei avesse. Inutile dire che non ascoltai una parola. Ero rapito. Sarò sempre più retorico e prevedibile ma cosa volete che vi dica: provate voialtri a trovarvi dinanzi la totale perfezione sotto forma di donna e cercate di non essere anestetizzati dal sogno di tale apparizione. “Hai detto qualcosa?” “Chiamami come preferisci”. “Perché?”

“Non chiedere. Fallo. Tu sei Luca per me”. “Luca?” Associai subito il nome a quel demente che disprezzavo con tutto il mio spirito e che anni prima aveva recitato il ratto delle sabine con quella stronza della mia ragazza di allora. Detestavo quel nome. “Luca hai detto? Bellissimo nome. Già lo adoro”. Falso. Lei sorrise come se avesse intuito qualcosa. Ed era del tutto possibile che un fantasma traditore di ribrezzo mi avesse attraversato il volto in quel momento. “Tu sei… vediamo…” pensai che un nome giusto per lei fosse Venere o Diana o Sogno o Amore; oddio un nome normale e abbastanza bello da rappresentarla. “Tu per me sei…” pensai a poesie, attrici, muse, ragazze ate, pensai alla Madonna. Poi smisi e decisi per: sca. Niente Dante solo Lucio Battisti. Non ero soddisfatto ma mi consolai con il fatto che il nome giusto per lei non era ancora stato forgiato da menti umane. Comunque la battezzai sca. Mi piacque. “Bello. Mi piace sca”. Piacque anche a lei. “E ora? Bisogna chiamare un carro attrezzi per togliere la tua macchina da lì”. Lei fissava il maggiolone incastrato tra le lunghe braccia del grano e stette in silenzio. Io rispettai quello che mi parve un addio. Di certo ne era parecchio affezionata. Magari ci aveva fatto l’amore per la prima volta. No, forse era il sogno della piccola sca che si vedeva guidare quel mito a quattro ruote nel centro della città. Assieme alle amiche, capelli al vento, tutte decise a fare impazzire i poveri ragazzi che gli morivano appresso. Forse era il regalo del genitore defunto. Forse era un premio per un concorso di bellezza. Qualunque fosse il motivo dell’ultimo addolorato addio a quella vettura io la capivo e la ammiravo. “Chi se ne frega di quella schifezza gialla. Nemmeno la volevo. Me l’hanno regalato e ho dovuto tenerla per farli felici. Brutti stronzi. Lasciamola lì. Penseranno che l’hanno rubata e cercheranno la povera ragazza scomparsa misteriosamente” disse tutto questo in un sibilo di violento odio.

Chi fossero ‘loro’ non osai chiederlo. L’unica cosa di cui ero sicuro era che, come al solito, ero andato del tutto fuori strada. Altro che ultimo addio all’amata vettura. Sorrisi alla mia idiozia, lei scorse i miei occhi allegri e ricambiò con un sorriso che spaccò l’argenteo cielo plumbeo, permettendo ai raggi del sole di allargare un caldo abbraccio a tutto il mondo. Soprattutto a me. Poi mi disse una cosa che non c’entrava niente, che non compresi e che pensai fosse da attribuire ad una qualche leggera commozione celebrale: “Bravo bambino”. Feci finta di niente e salii in auto. Quella mattina ero uscito di buon ora dalle lussuriose braccia del letto. Erano appena le 10.15. Non è esattamente l’alba, vero? Il fatto è che io sono un balordo riccone. La ricchezza non proviene da notti insonni ate a faticare e non proviene nemmeno da un intelletto florido e geniale. È dovuta a un’eredità. Il fato ha voluto premiare me per dimostrare la sua ripugnanza alle regole di morale o di giustizia. Be’, non è che io sia un delinquente e che quel ben di Dio di eredità siano andati persi nel contrabbando di armi, no! Però certe somme in mano a gente del mio stampo… dello stampo degli scansa fatiche inveterati… è un po’ come dare le chiavi della città a colui che fino a pochi anni prima quella città l’aveva assediata e fosse pure stato sconfitto. Una donna che non avevo mai conosciuto aveva deciso, nel momento di spiccare il grande salto, di fare il testamento a mio favore. Quella donna odiava i familiari egoisti e troppo intraprendenti e decise di tirargli un brutto tiro. Io ero il brutto tiro. Un ragazzino che un giorno l’aveva presa per il gomito e le aveva fatto attraversare la strada. Un ragazzino che le aveva portato il sacchetto della spesa, per nulla pesante, fin dentro la bellissima villa dove abitava. Un ragazzino che aveva ascoltato un po’ di ricordi che nessuno voleva più ascoltare. Un gesto del tutto banale e forse dettato dal fatto che era un buon modo di far are le ore della scuola senza dover bighellonare in giro, magari facendo qualche brutto incontro. Un gesto che però servì a lei per amarmi, dato che tutti i parassiti di parenti che aveva l’avrebbero volentieri presa sì per un gomito, ma solo per sospingerla sotto la prima autovettura che fosse ata in quello stesso incrocio.

Fortunato? Certo, nient’altro. Se quel giorno non avessi bigiato la scuola non avrei mai aiutato la vecchina e… addio eredità, e pensare che da allora non marinai mai più la scuola perché i miei genitori, in sadico accordo con l’attento preside, decisero che la frode di cui ero stato reo fosse da punire con giorni e giorni, non ricordo più quanti, di sospensione con obbligo di presenza. Ne soffrii parecchio, anche perché a casa fu un vero inferno, e non potei più uscire per molto tempo. Figurarsi che arrivai pure, nel mio cervello afflitto dalle colpe, a maledire la vecchina. Il caso. Ah vecchio burlone! Proprio come oggi. Se non avessi sbagliato strada, e di parecchi chilometri, non avrei mai incontrato questa dea. Quindi grazie alla mia ignoranza da studente poco provetto e grazie pure alla mia totale mancanza di un minimo senso dell’orientamento. Ah! I vecchi e buoni proverbiali luoghi comuni dicono sempre la verità. Infatti non tutti i mali vengono per nuocere ed io sono la più palese delle prove esistenti. Bacio le mani al fato. Ho accompagnato la ragazza non ricordo più dove. Diamine! Davvero non lo ricordo. Ed è successo solo tre ore fa. Forse sono malato, come si fa a non ricordare dove l’ho lasciata! Ricordo alla perfezione il bacio che mi ha schioccato sulle labbra, ricordo l’eccitazione e la pace che mi ha pervaso. Ricordo che non sono riuscito a dire nulla vedendola andare via, ricordo che mi sono promesso di ritrovarla, di chiederle di sposarmi, di avere centinai di figli con me, di ripopolare il mondo come fossimo i due soli superstiti ad una apocalisse. Ricordo, ricordo, ricordo. Ma non ricordo più dove l’ho accompagnata. Stupido ebete. Ora sono in auto e sto tornando dove il maggiolone giallo è uscito di strada. Miracolosamente sono in grado di tornare nello stesso punto; la mia abilità nel perdermi è seconda solo alla mia fortuna di farlo nelle immediate vicinanze di un luogo che conosco alla perfezione, stupendomi, poi, del fatto di esserci stato sempre così vicino, considerando il tutto come parte di un soprannaturale miraggio e non di una ridicola scempiaggine. Ho pensato che sarebbe un bel gesto, per lei, se le fi rimettere a posto l’auto, e poi sarebbe un bel gesto, per me, fare in modo di rintracciarla con questa scusa e così poterla rivedere. L’auto non c’è più, nessun pugno di colore giallo in mezzo al campo di grano grigio e verde con sapore irreale. Nessuno scarafaggio giallo di lamiere contorte

sembra riposare dopo una grottesca scorpacciata. Niente di niente. E non c’è nemmeno una traccia dell’incidente. Nessuna riga nera sull’asfalto grigio segno della mia frenata. Il campo di grano è intatto. Se un’automobile ci fosse entrata si vedrebbe molto bene. Invece nulla. Tutto integro. Mi sto chiedendo se non è la memoria che mi sta tirando, come di consueto, un brutto scherzo. Magari questo non è il posto giusto. Ma lo è! Ne sono sicuro. In tre ore non possono aver recuperato e portato via l’auto. Nemmeno se sca o quale che sia il suo nome si sia pentita e giunta a casa abbia telefonato per farla trainare via. Ci sarebbero comunque delle tracce se mai ci fosse stata un’auto ribaltata in mezzo al campo. Impossibile. Non capisco. Ma, come al solito, quando qualcosa mi sfugge faccio marcia indietro e non ci penso più. Profondo, eh? Sono in casa adesso. Mi sto godendo un buon bicchiere di vino rosso. Ci sto ripensando. Non sono capace nemmeno di non richiamare più alla mente una cosa che mi ero promesso di dimenticare, è tutto troppo strano. E poi lei. Lei. Ma come era bella. Una dea. Non posso capacitarmi di essere stato tanto stupido da non averle chiesto qualche cosa per poterla rivedere. Stupido. Stupido. E l’auto scomparsa? Illuminazione! Il cassetto della scrivania. Lo apro. Un lampo nero mi attraversa gli occhi e scompare lasciandomi l’idea di qualcosa che sto per comprendere e che non mi piacerà. Il libro. Sfoglio il libro. Un articolo di giornale. “Eredità miliardaria”: il titolo dell’articolo. Una fotografia della vecchia benefattrice di 71 anni, nata nel 1933, ed una del giovane fortunato. Altre due foto.

Il libro cade dalle mie mani. Cade per terra e lo fisso stordito. La vecchia benefattrice ritratta cinquanta anni fa sulla sua autovettura. Il sorriso più bello del mondo. sca. Un auto gialla. Un maggiolone giallo.

Il Furto

La città buia e silenziosa, avvolta dalla consueta pigra assenza di genere umano per le strade era affascinante. Non c’è nulla di meglio che eggiare di sera per le vie deserte quando la temperatura si aggira a una decina di gradi sotto lo zero, avvolti nel proprio pastrano, scaldati dalla propria amorevole malinconia. Bello, nessuno da evitare, da salutare per forza, non un anima da dover compiangere, ascoltare, riverire, ammorbati da discorsi di cui non frega niente a nessuno, di certo non a me. Bello soffiare nuvole di condensa o di fumo azzurro di sigaretta e vederne i contorni scomparire come fantasmi in fuga. Bello il silenzio privo di scoreggianti automobili noiose cariche di noiosa gente scoreggiante. Superato l’angolo di via Kennedy, un’auto disturbava l’idillio con un lento ronzare, la portiera spalancata, il pilota appiedato tentava di scardinare dal ghiaccio la serratura del cancello. Nonostante i poetici pensieri l’abitacolo opalescente prometteva un calduccio invitante, l’ometto non si accorse di niente fino a quando non sentì la portiera sbattere e la sua lucida automobilina scivolare via. Impossibile non ridere dello scivolone che fece mentre tentava di inseguire un furto ormai irraggiungibile, la sequela di inviti al dio della vendetta affinché morisse presto il delinquente malandrino, lo stesso, presumo fossi io quindi, che fu raggiunto da un epiteto che più o meno suonava come figlio di puttana. Le bestemmie rivolte a colui che prima avrebbe dovuto fungere da suo aiuto e che, anche per questo, presumo non lo abbia aiutato molto. Disquisii un po’ con me stesso circa il potere di un insulto come figlio di puttana, non lo considerai degno di una inversione di marcia con relativo schiacciamento dell’insultatore, troppo distante era l’offesa. Uno perché la mia genitrice era assurdamente impossibile che lo fosse mai stata, mi fece sorrider il pensiero di una professione del genere per la mia povera madre, due perché poi, a pensarci bene, chi lo dice che una progenie di puttana sia per forza una brutta persona.

Conosco addirittura un prete figlio di tale signora, e chissà quante degne genti sono state messe al mondo da donne alle quali un ingiuria del genere veniva donato solo perché la vita così gli era stata disegnata addosso. Piuttosto ritengo più degne di insulti alcune sgrillettate belle e temibili che obbligano i propri coetanei ad ammazzarsi di seghe preferendo a questi poveri e dannati ragazzi personaggi oscuri, rubicondi e viscidi pieni di soldi e privi di fantasia, presuntuosi a tal punto da credere persino di aver fatto innamorare di se queste sciacquette prive di neuroni in rettilinea via di estinzione. Ma non divaghiamo. Andando via urlai al pilota rapinato che gli avrei lasciato l’amato mezzo un po’ più in là e non attendendo la sua risposta, prevedibile risposta, più per il Signore che per me, me ne andai definitivamente lasciandolo alla ovvia, frustrante telefonata alle forze dell’ordine. Abbandonai l’auto, dopo aver guidato per quaranta minuti ascoltando l’improbabile cd che il derubato aveva nell’autoradio, jazz fusion, o come diavolo si chiama. Quaranta minuti lo elessi il tempo massimo di sopportazione di siffatto strazio, e me ne perdonino i puristi, o anche no che non me ne faccio alcun cruccio. Forse per puro spirito di sfida al destino, parcheggiai nei pressi della prigione di via Cinque Giornate e ripresi la mia adorata camminata notturna anche se la città era un po’ meno idillicamente deserta e silente di dove ero da poco emigrato e latitante. Sfilai tra alberi mistici, legna senza nome imbalsamata e lasciata a morire tra cumuli di cementi contenenti cittadini con il culo piagato da troppa televisione. Ù Il vento sibilava gelido, i gradi erano sempre più seppelliti sotto lo zero. La neve scricchiolava sotto i pesanti scarponcini, il filo azzurro di fumo usciva ancora dalla mia bocca e non riusciva proprio a seguire i miei i. Stavo tentando di ricordare se il terzultimo libro che avevo letto era o non era Il giro del mondo in ottanta giorni, quando un tale mi urtò. Non l’avevo proprio visto e nemmeno sentito, pensavo a partout e alla troppa fedeltà con cui i servitori di un tempo facevano i servitori di un tempo, da non credere a quanto il genere umano riesca a sopprimere la propria dignità solo a causa di una nascita non proprio generosa. Il tale era un indiano, un venditore di rose, mi chiese se ne volevo una, gli chiesi a mia volta se vedeva qualcuna attorno a me a cui regalarla, mi rispose che non la vedeva, ma che non significava che non ci fosse, la risposta mi parve sincera e

gli comprai tutto il mazzo per una risibile cifra. Le rose non profumavano, credo che il gelo non sia a loro favorevole. Salutai l’indiano e continuai a camminare attorno alle mura estinte della città. ai davanti a uno di quei club molto trendy rigurgitanti di gente, più rigurgitante fuori dal locale che dentro, date le piccole dimensioni dell’interno. Due energumeni omosessuali, uno di colore e uno no, estraevano dal mazzo di questuanti i più degni di entrare nel fascinoso locale. La musica era un ritmico bombardamento che si affievoliva o diventava fremente a seconda che la porta veniva aperta o chiusa. Mi misi in coda. Vendetti tre rose e recuperai tutti i soldi spesi con l’indiano. Ci so fare io con i soldi degli altri. I due gay mi notarono e mi chiesero se volessi entrare. Dissi di sì e gli donai le rose rimanenti. Mi sorrisero. Ne baciai uno su una guancia, l’altro non la prese bene, ma ormai ero entrato. Dentro il buio era sconquassato dal basso eterno e dall’urlio di ominidi in preda all’alcool e alla necessità di divertimento. Andai al bar e presi un rum. Ne presi altri cinque prima di uscire abbracciato ad una biondina che mi aveva cacciato in bocca una selvaggia curiosissima lingua solo perché le avevo offerto un Bacardi e perché si era bevuta, oltre al Bacardi, l’assurda storia che ero uno scrittore molto famoso, ma molto timido e in cerca di storie interessanti. Mi abbandonò prima dell’uscita del locale, le avevo offerto una eggiata rilassante, mi mandò a cagare preferendo rientrare nella bolgia di drag queen molto più stimolanti a suo dire. Peccato, aveva un bellissimo culo e credo che si fosse dimenticata le mutandine, o almeno la mia mano non si era accorto della presenza dell’utile indumento quando poco prima ne cercavo di indovinare la fattura tastellando allegramente la giovane valchiria. Camminai ancora e ancora, il freddo si faceva via via più pungente, ma non avevo intenzione di arrendermi al suo volere. Era ora di tornare a casa, sempre che esista un metro per definire quale che sia l’ora più consona per tornare a casa. Ma forse era proprio quella in cui gli occhi si chiudono contro la propria volontà, il freddo comincia ad averla vinta e una gran brama di cacciarmi sotto delle coperte si faceva sempre più agguerrita, già, forse era quella l’ora più o meno giusta. Vai a saperlo. Mi fermai in un brutto hotel ed entrai, chiesi un telefono per chiamare un taxi. Il mio cellulare non sapevo proprio dove si era andato a

cacciare ed ormai da tre giorni avevo rinunciato a cercarlo. Il tipo dell’albergo si atteggiava come se il brutto posto che lo circondava fosse qualcosa di simile al Danieli di Venezia, o leggermente meglio. Non voleva farmi telefonare, quindi feci l’unica cosa giusta da fare in una serata del genere, presi una stanza e gli lasciai pure una lauta mancia. Meglio del pugno che avrei voluto dargli fu vedere l’ebete espressione di un ritardato che tentava la rissa e si ritrovava a dover fare il gentile per ingraziarsi forse l’unico ospite della fogna che gestiva. Mi diverto con poco, lo so. Ma cosa volete farci? La grazia di dio la si raggiunge solo non dandogli soddisfazione. Descrivere l’obbrobrio della cameretta che il sudicio individuo mi diede, che poi, a sua dire, era persino la migliore dell’intero edificio, ve la evito perché non ho nessuna voglia di annoiarmi con inutili elenchi di cose, arredamenti e minchionerie del genere. Lasciate però che vi dica che la coppia che incrociai mentre salivo le scale, a dispetto di quel che poc’anzi dissi, e cioè che mi stimavo unico ospite, era di una bellezza da far germogliare tulipani dentro al cesso di una stazione. Tristano superava di poco il metro di altezza, vantava un enorme testone dentro i quali un creatore cubista si era divertito a piazzare occhi, naso, bocca, nei scrofolosi, rughe e occhiali in un disordine da pre big bang, e nonostante questo e nonostante il completo di due misure di troppo e le scarpe scalcagnate che strisciavano sul linoleum come un morto che viene trascinato, mi gettò uno sguardo di un tale disprezzo da farmi dubitare della mia natura e della mia autostima. Il mini troll abbracciava la sua Isotta con tale bramosia da rischiare di farle esplodere quei bei rotoloni di adipe che cercavano di sottrarsi alle manine avide. La giovane donna doveva pesare poco meno di un fuoristrada e tutto quel ben di dio era stipato sotto il metro e mezzo di altezza tacchi inclusi. Indossava un paio di pantaloncini aderentissimi da cui fuoriusciva trippa che mi fece pensare ai panini troppo pieni di nutella, una canottiera di tinte che non credo abbiano ancora un nome che cercava a stento di contenere un paio di seni spaventosamente grandi. Se il viso di Tristano era un accozzaglia cubista, il viso della sua Isotta (non me ne vogliano i veri T e I a cui ho rubato i nomi per darli a questi due) era molto

vicino al futurismo, nel senso che la velocità con la quale l’osservatore doveva distogliere lo sguardo per non ridere ne creava un ritratto quasi onomatopeico, una sorta di sibilo che distorceva i lineamenti lasciando solo il ricordo di una specie di sibilo. Non lo so. In pratica non li si poteva guardare senza riderne e senza averne ribrezzo allo stesso tempo. Ma non si facciano avanti i moralisti a questo punto che non ve n’è bisogno alcuno. Lui, come dicevo, mi dedicò uno sguardo di tronfia superiorità e di estremo ribrezzo, lei ridacchiò e disse qualcosa nell’orecchio di lui dopo avermi guardato dal basso in alto. I due si misero a ridere sgangheratamente e mi scostarono venendomi addosso. Dovevano essere parecchio ubriachi e giorni dopo venni a sapere (come accadde non ha alcun interesse) che il distinto signorotto altri non era che un eminente politico della regione accompagnato da l’unico essere che si era degnato di farsi pagare da lui per accompagnarlo in una notturna scappatella. Già, l’omuncolo era addirittura sposato, era un politico e, dio me ne scampi, aveva addirittura procreato. Dormì come potrebbe dormire un sasso se avesse bisogno di fare una cosa del genere e mi svegliai poco prima delle undici. Alla reception mi dissero che avrei dovuto pagare un giorno in più perché avrei dovuto lasciare la stanza alle nove. Ricordai di non aver dato nessun documento, di non aver firmato nulla, di aver pagato la camera al cafone notturno. Spedii a fanculo la malcapitata impiegata, mi chiusi per bene il pastrano e mi gettai nella neve del nuovo giorno. Doveva aver nevicato tutta la notte. Le strade, gli alberi, le auto in sosta erano tutte imbiancate dal dio imbianchino che ci ricordava ogni tanto quanto è bello sto mondo quando il silenzio vince e il nostro continuo fastidioso cicaleccio si prende una paese per farsi assorbire nella bellezza. Le strade erano sepolte sotto un metro di neve, e risi pensando a Tristano e Isotta che per uscire dall’albergo avrebbero avuto bisogno di un periscopio per vedere la direzione giusta. Camminai faticosamente lungo la strada che avevo percorso la notte precedente e notai l’auto che avevo rubato ancora nel posto dove l’avevo lasciata, o meglio ne indovinai la sagoma sotto la coltre di neve. Pensai di prenderla e riportarla al proprietario, ma la fatica sarebbe stata estrema e il rischio pure. Mi rimisi in cammino. Il cielo grigio e azzurro teneva a bada lo sbiadito pallore

del sole, era il 3 agosto, il gelo tornava a governare la giornata dopo la pausa della notte, il mondo era silenzioso, io camminavo avvolto nel mio calore e nel sogno che sto vivendo, sorrido al pensiero che colui a cui ho rubato l’auto la ritroverà solo quando i ghiacci si scioglieranno. Sorrido al venditore di rose indiano che sarà andato a scaldarsi un po’ con i soldi che gli ho fatto guadagnare, alla coppia dell’albergo, all’impiegato cafone, al buttafuori gay della discoteca che si è offeso perché ho preferito baciare il collega. Sorrido all’idea che agosto è uguale a febbraio e che oggi è identico a ieri, forse non ci sarebbe troppo da sorridere, ma è appunto questo quel che mi fa sorridere.

La Cacciata di Adamo ed Eva

Inizio

Adamo Primo se ne veniva a cavalcioni di un asino. Era bello, l’asino. Lui, l’Adamo Primo un po’ meno, ma aveva il dono della parola. Dio stesso dopo averglielo dato se ne pentì amaramente. Dietro a Primo Adamo si intravedeva una miniatura di bella fanciulla, Eva Seconda era il suo nome, e non c’era verso che stesse ferma. Dio stesso non riusciva a fermarla un attimo per farsi dare indietro le sue mele. Erano appena stati cacciati amorevolmente dal Paradiso, ma a nessuno dei due la cosa sembrava dispiacere più di tanto, uno continuava a parlare e non aveva capito, l’altra stava già pensando a come arredare la prossima dimora. Ma partiamo dall’inizio… Storia di Primo Adamo Quando Dio vide per la prima volta Adamo questi era senza l’asino, seppure ne aveva già creati di splendidi e molto succulenti (soprattutto quelli della razza del Tapulone), ed era coperto solo di una foglia di basilico, perché nonostante ancora non si sapesse nulla di bene o male il Primo aveva già coscienza di doversi vergognare di cose come la nudità, le dimensioni, etc. Dio lo vide e disse che non era affatto a sua immagine, quindi qualcun altro doveva aver creato quell’affare. Adamo si fermò davanti a Dio e lo guardò dal basso in alto, poi si spostò di lato con una capriola e lo guardo dal fianco in alto, poi si buttò a terra, fece il o del giaguaro, e lo osservò dall’altro fianco in alto, poi fece un girotondo, lo fece ancora e Dio lo fermò tirandogli una costola in testa perché si era rotto di vedersi fissare troppo da quel coso. Il Primo gridò un suono gutturale di dolore, prese ciò che lo aveva ferito, la costola, e dopo averla annusata se la mangiò tutta. Sorrise soddisfatto e ne chiese un’altra. Dio proprio non capiva dove aveva sbagliato. Per saperne di più gli spezzò una rotula in due, al che Adamo pianse amare lacrime. Dio, tutto

sommato, non era troppo cattivo, allora gli rimise in sesto la rotula, anche se non troppo bene, e prese la decisione che avrebbe per sempre cambiato la vita, a se stesso e al Primo. Gli diede la parola. E fu sera e fu mattina, e questo si ripeté per ventuno giorni, e quello non smetteva di parlare. Al che Dio si diede del testone e disse: “Che cazzata che ho fatto” ma era troppo tardi. Adamo non la smetteva più di parlare, ma nessuno c’era a testimoniare quel che andava dicendo e anche se ci fosse stato non l’avrebbe di certo ricordato giacché la parola del Primo dopo pochi minuti aveva il potere di stordire, annichilire, digerire, disidratare, purgare, mietere vittime, spolpare, esautorare, sparpagliare, scoglionare, addormentare, e Dio, l’unico testimone di questo miracolo, dopo alcuni attimi di disorientamento se n’era andato a creare altri duecentoventicinquemiliardi di pianeti lontani lontani… Adamo dunque raccontava e nessuno l’ascoltava. E fu sera e fu mattino, e arono alcuni anni, e il Primo parlava vestito solo della foglia di basilico, e nessuno lo ascoltava. Dio intanto se la prendeva comoda al largo delle colonne di Orione a vedere cose che noi umani ma quando mai le vedremo e si sentiva triste. A lui quel Paradiso piaceva un sacco e vedersi sfrattato da un tizio logorroico vestito di una foglia di basilico davvero non gli andava giù. Ma come? Sono Dio o sono solo un tuttofare del giardinetto di quell’Adamo lì. Dio tornò ed era piuttosto deciso a cacciare il tizio dal suo parco. Ma poi quando lo vide non ebbe il coraggio di prenderlo e sfrattarlo così, nudo, bruttarello e pieno di parole da dire.

Storia di Eva Seconda

A quel tempo oltre a Dio e prima del Primo c’era un altro essere che ava le sue giornate attorno al giardino, Dio ci aveva visto qualche somiglianza con Adamo, ma in realtà non capiva bene se potevano essere o no della stessa razza. Era quello un esserino minuto e che non stava mai fermo, si agitava tutto, andava di qua e di la, sopra e sotto, dentro e fuori, appariva e scompariva, dava un appuntamento e si presentava in un altro posto, in un’altra ora, in un tempo diverso, piantava grane, organizzava cose, le disfaceva, le disorganizzava, diceva in giro di aver inventato una cosa a cui nemmeno Dio aveva pensato, si chiamavano “i negozi”, e Dio infatti non ci aveva mica pensato. Dio non la prese benissimo, ma sorvolò. Bene, questo esserino Dio l’aveva seguito un pochino all’inizio, incuriosito e molto ammirato dalle sue forme, seppure minute, ma generose, dalla sua chioma di cui si lamentava sempre, e delle foglie con le quali si copriva, che Dio stesso non era certo di averle inventate lui, e che infatti l’esserino aveva modificato a suo piacimento con l’aiuto di un negozio di sartini cinesi che aveva trovato poco fuori il giardino. Dio non la prese benissimo, ma sorvolò. Per un breve periodo Dio si era parecchio arrabbiato perché l’esserino continuava a fregargli le mele del suo albero preferito, l’albero Albero, ma poi alla fine si arrese e decise che in effetti non c’era granché da mangiare e i ristoranti erano ancora lontani persino dal suo pensiero. Se solo avesse saputo che l’esserino le mele non le mangiava ma le usava, insieme a milioni di pignette delle quali Dio si stupiva sempre che scomparivano e che doveva continuamente ricreare, per assemblare dei lavoretti atti ad abbellire la sua caverna, be’, credo che non l’avrebbe presa bene proprio per niente, e forse non avrebbe sorvolato. Tant’è che, vuoi per l’età di Dio, che si sentiva un po’ acciaccato e non trovava un buon fisioterapista nemmeno a pagarlo in nero, vuoi per la velocità dell’esserino e per i giochi scemi che ogni tanto si inventava… Dio lo lasciava scorrazzare per il giardino ignorandolo e scuotendo il testone quando lo vedeva are.

Ma Dio ebbe un’idea. Tempo dopo qualcuno l’avrebbe di certo appellata come “idea della Madonna”, ma essendo troppo presto a quel tempo Dio la definì solo “buona idea”. Usando tutto il suo potere bloccò l’esserino all’albero Albero delle mele e lo legò con un serpente che ava di li per caso. Fu un duro lavoro persino per Dio perché quello (l’esserino) si dimenava come un ossesso e piangeva e mordeva e urlava e gridava che l’avrebbe denunciato e gli tirava in viso pigne, mele, forbici, fogli di rafia, pennarelli, colla, scotch. Dio si infuriò, ma vide che quello si infuriava di più, e urlava, ma quello urlava di più, si mise a piangere, ma quello versò tante lacrime che un tale cominciò a caricare animali sulla barca tanto per non rischiare, allora Dio si sedette a terra e fece l’offeso, ma quello lo fece di più. Al che Dio ebbe una illuminazione, cazzo, disse, parole testuali, vuoi vedere che questo esserino qui è una donna. Eureka, disse un tale che ava di li, e Dio lo guardò malissimo, ma al tempo tutto gli fu chiaro. Prese un Moleskine che ava di li e si mise a scrivere un destino nuovo per tutti quelli che avano di li.

Storia dell’unione del Primo e del Secondo

Dio, rinfrancato dal suo genio, allora prese per mano l’esserino che in realtà era una esserina e le chiese il nome, venne fuori che si chiamava Eva Seconda. ”Già sentito” disse Dio e partì. Dopo pochi istanti furono dal Primo. Per farlo smettere di parlare gli lanciò una costola che quello prese subito a rosicchiare e così tacque il tempo necessario perché Dio potesse fare le presentazioni. Questo è Adamo Primo. Questa è Eva Seconda. Questo è l’asino sul quale tu Primo Adamo, appena ti sarai pulito le mani, tolto l’unto di costola dalla faccia, messo apposto la foglia di basilico, caricherai la qui presente Seconda Eva per portarla sulla Terra. Portala un po’ dove vuoi, in Brianza, a Frosinone, sul lago di Carezza, in Cambogia, in Piazza di Spagna, a Cosenza, in Birmania, al circolo di Bobbiate, al Vaticano, in Lapponia, a Fatima, sotto il Canal Grande, fai tu, basta che vi levate dal mio giardino. Eccovi i vestiti. Eva, ho trovato solo questi quindi non rompere. I due si guardarono per un po’, Adamo sgranocchiando la costola, Eva maledicendo che il colore della tunica non c’entrava niente con il colore degli zoccoli dell’asino, i due si guardarono ancora, poi si guardarono meglio, poi cominciarono a togliersi i vestiti che Dio gli aveva appena dato per coprirsi, poi si gettarono l’uno nelle braccia dell’altro, poi, be’, poi le schiere di angeli dovettero intervenire per sedare quella che pensavano fosse una rissa (loro non se ne intendevano di ioni) e Dio, sbattendo la porta del Paradiso, sorrise perché quel che aveva fatto era cosa buona e giusta e si mise sul divano a mangiarsi una mela. La prima volta che ne assaggiava una.

La trovò buona, ma poi decise di inventare Cracco.

Per diventare un Autore ARPANet: www.EdizioniARPANet.it www.ARPABook.com Stampato della Società Editoriale ARPANet nel mese di febbraio 2014