Il libro
Da queste parti, quando accade una cosa così, ci mettiamo sopra tutta la montagna che abbiamo e non ne parliamo più.
Gli autori
Leonardo Corsini è consapevole d'essere un po' troppo alto… ad ogni confronto c'è qualcuno che deve alzarsi… oppure abbassarsi. È questa ginnastica dell'incontro che lo spinge a scrivere?
Giacomo Marcou vive su questo pianeta da cinquant'anni, ha una famiglia che lo sopporta e da sempre si ostina a scrivere e a giocare a calcio divertendosi tantissimo. Vive a Quarrata.
Leonardo Corsini Giacomo Marcou
CARBONE
facilebook
Copyright © 2014 Leonardo Corsini, Giacomo Marcou
Edizione digitale: facilebook www.facilebook.it
[email protected]
ISBN: 9786050345049
Foto di copertina: mario dsn
Abbiamo cercato, in più modi, di rintracciare il proprietario/a dell’immagine di copertina, ma non siamo riusciti, pertanto ne dichiariamo e ne riconosciamo la legittima proprietà altrui, seppure ad oggi sconosciuta.
Questo romanzo è opera della fantasia. Nomi, personaggi , luoghi e avvenimenti sono il prodotto dell'immaginazione degli Autori o, se reali, sono utilizzati in modo fittizio. Ogni riferimento a fatti o personaggi viventi o scomparse è del tutto casuale.
Nessuna parte di questo ebook può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l'autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell'editore.
CARBONE
dedicato a Marcello Corsini
Tutto questo lo sai e sai dove comincia la grazia o il tedio a morte del vivere in provincia perché siam tutti uguali, siamo cattivi e buoni e abbiam gli stessi mali, siamo vigliacchi e fieri, saggi, falsi, sinceri… coglioni!
SCO GUCCINI
La libertà è più importante dell'uguaglianza e, se va perduta, tra non liberi non c'è nemmeno uguaglianza.
KARL POPPER
In fuga
Rabbiosamente Eric saltò in sella. La moto partì al primo colpo. Aprì il gas tirando al massimo la prima e la seconda della sua Kawasaki, ritrovandosi in una manciata di secondi in fondo alla stradina di casa sua. Erano circa le quattro del pomeriggio di un giorno di fine aprile, non c’era anima viva per strada, ma sentiva gli occhi dei vicini puntati sulla schiena come spilli: nessuno si faceva mai i cazzi suoi in quella maledetta strada, pensò Eric. “Non puoi restare qui, te ne devi andare, io non ne posso più di queste storie!”: le parole gridate da sua madre gli rimbalzavano nel cervello, provocandogli una lieve fitta alla nuca che faceva eco al dolore della mano sinistra ogni volta che tirava la frizione. Sentiva la resistenza del vento sul petto e dentro il giubbotto di pelle nera avvertiva l’accelerare dei battiti cardiaci ogni volta che ripensava alla furiosa lite con suo padre. Eric odiava quell’uomo, di lui non riusciva più a tollerare neanche il minimo gesto. Trovava insopportabile perfino la sua corporatura, la sua pancia, cresciuta esageratamente negli ultimi tre anni, il suo modo di camminare, il modo di atteggiarsi a divo, il suo puzzo di piedi che, ogni volta, toltosi le scarpe e lasciatosi cadere sul divano di fronte al televisore, diffondeva appoggiando goffamente i talloni sul tavolino da fumo. “Vado via, sì, vado via! Vo alla casa del nonno in montagna! E non venite a rompermi i coglioni!” aveva risposto Eric a sua madre, tirando in ballo tutta la famiglia. La casa del nonno Emo era quasi un mistero per Eric. Da piccolo c’era stato pochissime volte e non se la ricordava. Invece si ricordava di un lungo viaggio per arrivarci, pieno di curve, di fumo di sigaretta in macchina e di voglia di vomitare. “Le Piastre…” mormorò dentro al casco non appena scorse il cartello della località in cui si trovava la casa. Emo stava tranquillamente seduto sulla sua sedia impagliata a guardare in TV “Storie della vostra vita” condotto da una biondissima Elda D’Eusebio e si chiedeva con ravvivata curiosità come avesse la era una donna così.
Soprattutto si chiedeva se ce l’avesse rasata o no. Che non poteva averla dello stesso colore dei capelli lo capiva anche lui, era fin troppo ovvio che quello non poteva essere un colore naturale. Sapeva, per esperienza personale, che i peli della fica erano sempre un po’ più scuri del colore dei capelli, qualsiasi esso fosse. Mentre Emo veniva assorbito da queste congetture e la conduttrice stava interrogando serratamente una coppia di mezza età riguardo la loro attività sessuale, alludendo alla ormai stanca virilità dell’uomo, Sergio cominciò ad urlare come un matto nel tinello accanto. “Ancora quei due!” pensò. “La volete smettere di litigare?!”. Ben presto si accorse però che non si trattava della solita lite giornaliera tra suo figlio e suo nipote. Affacciatosi sulla porta del salotto vide Eric che stava strattonando suo padre stringendo i risvolti della giacca nei pugni chiusi, facendogli sbattere ripetutamente la schiena nel muro. - Sei un bastardo, un maledetto bastardo! - urlò Eric in faccia a suo padre. - Delinquente! Pazzo da manicomio, ma non ti vergogni?! - gridò Sergio cercando di liberarsi, senza successo, da quella stretta. - Ma che siete impazziti tutti e due?! - disse Emo affrettandosi a i strascicati verso di loro. - Fatela finita! Basta! Non ne posso più! - gridò Marcella accorrendo dalla cucina, per poco non fece cadere il suocero. - Ma che siete diventati tutti imbecilli in questa casa?! Ora mettitici anche te! disse Emo restando aggrappato alla spalliera della poltrona della povera moglie. Fu in quel preciso momento che Eric lasciò la giacca di suo padre e sfondò con un cazzotto violentissimo l’anta di legno del mobile sopra il televisore al plasma. Per una manciata di secondi restarono tutti in silenzio mentre Eric e Sergio si fissavano dritto negli occhi. Il primo a muoversi fu Eric, raccolse l’anta da terra, l’appoggiò su un angolo del tavolo e come un folletto silenzioso salì in camera sua. Sergio, andosi una mano tra i capelli grigi, si mise lentamente a sedere sulla poltrona di sua madre e assunse un’espressione tra il cordoglio e lo stupore. Emo, prima che la schiena di Sergio sfiorasse le nocche bitorzolute delle sue mani, si diresse lemme lemme verso il salotto. Giunto di fronte al divano si voltò
e, inchinandosi lentamente al televisore, si lasciò cadere tra morbidi cuscini, giornali e custodie di occhiali. Marcella stava già salendo le scale che cominciò a singhiozzare. Non si sarebbe mai aspettata che in casa sua potessero accadere certe cose. “Che vergogna!” pensò. “I muri di queste villette sono così sottili!”. Giunse in camera di Eric e vide che stava preparando lo zaino da campeggio. Gli si avvicinò timidamente mentre lui stava armeggiando con la lampo, non riusciva proprio a chiuderla. - Questa cazzo di cerniera… e chiuditi, stronza! - masticò a denti stretti Eric. Fu in quel preciso momento che Marcella disse: - Non puoi restare qui, te ne devi andare, io non ne posso più di queste storie! La replica di Eric si ridusse ad un silenzioso ma eloquente sguardo di compatimento nei confronti di quella povera donna, le cui conclusioni giungevano sempre in netto ritardo. Eric si caricò il borsone in spalla senza staccare gli occhi dal volto di sua madre, poi volse un furtivo sguardo al poster di Stevie Ray Vaughan, come per rassicurarlo che presto sarebbe tornato a prenderlo per portarlo con sé, scese le scale lisciando il corrimano di corda col palmo. Quando giunse nel tinello suo padre non era più sulla poltrona della nonna. Scorse in salotto Emo che stava fissando il televisore con gli occhi a fessura, forse dormiva. Fu allora che disse - Vado via, sì, vado via! Vo alla casa del nonno in montagna! E non venite a rompermi i coglioni! - e lo disse a voce alta, chiara, con le parole ben scandite in modo che tutti potessero sentirlo, e non solo i suoi familiari.
Al Casone
Non erano ancora le nove di mattina, già il babbo e lo zio litigavano su dove parcheggiare il trattore, il giorno del funerale della loro mamma. Piazza sorrise e si rigirò nel letto. Avrebbe voluto dormire a casa del nonno, giù alle Piastre, ma il vecchio Begliomini aveva insistito per restare solo. In cucina la nonna, col vestito da sposa, stesa dritta e stretta dentro la bara di legno chiaro. L’aveva scelta il nonno. Quel modello, alla nonna sarebbe certo piaciuto. In realtà era quello che costava meno, ed il nonno di soldi ne aveva già spesi molti per tutti quei dottori. Piazza aveva insistito per restare a dormire con lui, ma il nonno le sussurrò nell’orecchio che l’ultima notte avrebbero dovuto arla da soli. Il sole rigava la parete della sua camera, sarebbe stata una bella giornata. Piazza non si sentiva particolarmente triste. Sin da piccola era sempre stata più legata al nonno. La morte della nonna l’aveva quasi tranquillizzata, non avrebbe sopportato rientrare nella loro casa senza più il nonno. La nonna se n’era andata per prima, lei ne era quasi felice. Si vergognava a pensarlo, ma era così e non poteva farci niente. Sarebbe venuto anche qualche parente da Firenze, quelli che vedevi solo una volta l’anno, d’estate. Venivano su per bere acqua di sorgente, per dire “Che fortuna stare al fresco!” per poi aggiungere “A Firenze c’era una cappa da morire.” Al Casone non si sentiva più nessuno litigare, come ogni volta erano uscite le mogli a farli smettere, poi per un po’ se la vedevano loro due insultandosi, roba di pochi minuti e tutti a casa. Il nonno lo diceva sempre, “ma com’è possibile mi siano venuti due figli così imbecilli?” e la sua domanda rimaneva sempre senza risposta. Separatamente erano due bravi uomini, o meglio, due bambini che non avevano mai trovato il modo d’affrontare la vita insieme. Ancora si tormentavano nel ricordo di quante se ne erano fatte senza essersele perdonate. E le mogli coinvolte per obbligo coniugale. Piazza era quasi innamorata del nonno, gli sembrava un uomo saggio, giusto e onesto. Sognava d’invecchiare con accanto un uomo così. Il nonno era depositario di tutta la storia ata della famiglia. Non si stancava mai di
raccontare, e Piazza ascoltava sempre attenta. Una domenica, tornata dal mare in treno, tutta rossa in viso, rimase a cena dai nonni. La prendevano in giro per essersi bruciata dal sole, e lei sorridendo li invitò al mare la domenica successiva. La nonna: - Non ho neanche un costume. Il nonno invece promise che ci sarebbe andato: - Voglio rivederlo il mare. Piazza dormiva nuda, anche d’inverno. La sua stanza era la più calda di tutta la casa, sembrava fosse sempre estate. Saltò giù dal letto. Raramente si soffermava davanti allo specchio. Vedere il proprio corpo la faceva sorridere di vergogna, era convinta d’essere una bella ragazza, di avere un bel corpo, un bel seno, un meraviglioso fondo schiena, ma adorava nasconderlo. Aveva un’idea strana per la testa. Prima voleva trovarsi l’uomo giusto, poi sorprenderlo nell’oscurità di una stanza buia della prima notte, per mostrarsi e regalarsi. Si vestì in un baleno e scese le scale quasi correndo. Rubò i biscotti avanzati sul tavolo e si avviò per uscire, ma sua madre, ancora agitata dalla lite, la bloccò sulle scale: - Dove vai così di corsa? - Dal nonno. - Ora che è rimasto vedovo te lo sposerai quel benedetto vecchio. La mamma di Piazza detestava un po’ tutto e tutti. Il lunedì mattina era una belva, non le si poteva rivolgere la parola. L’attendeva una dura e faticosa settimana di lavoro. Il venerdì sera, invece, era depressa poiché l’attendeva il solito fine settimana a casa, a pulire, lavare, stirare. Suo marito il fine settimana lo spendeva tutto a litigare con il fratello, a lei toccava riportarselo a casa ogni volta. Piazza scendeva spesso alle Piastre. Le piaceva stare al Casone, solo che il sabato e la domenica non sopportava di star lì a vedere tutta la famiglia urlare, insultarsi e offendersi. Amava scendere in bicicletta e sentire il vento. Il problema era poi risalire. Il più delle volte le biciclette rimanevano dal nonno e qualcuno, prima o poi le riportava su al Casone. Piazza in bicicletta ci andava
solo in discesa. Mercoledì. Che Mercoledì sarebbe stato senza questo funerale? La mamma sarebbe andata dalla Dottoressa Paola e, tra rispondere al telefono e accogliere gente tra un atto e l’altro, non si sarebbe più vista fino a cena. Il babbo alla pompa di benzina a Pontepetri. A pranzo tornava sempre. Lo zio era riuscito ad evolvere le sue attività agricole, da qualche anno svuotava pozzi neri. Con un mutuo aveva comprato una botte da rimorchiare con il trattore. Poi un grande decespugliatore con il quale andava a pulire cigli per conto della Comunità Montana. Sembrava che gli affari andassero bene ma si lamentava sempre con tutti d’essere senza una lira e pieno di debiti. E poi i tre figli da mantenere. “Io non ho la moglie che lavora dal notaio e che porta a casa uno stipendio sicuro!” gridava sempre al fratello. Piazza e i suoi tre piccoli cugini si tiravano fuori dalle liti. Quei tre adoravano Piazza. Tornavano da scuola e se sapevano che Piazza era a casa strappavano la merenda dalle mani della mamma e si precipitavano da lei. Il più grande aveva dieci anni, il più piccolo ne aveva appena sei. Tutti e tre ogni mattina partivano per la scuola. Senza questo funerale sarebbe scesa giù a Pistoia in autobus per poi prendere il treno e andare all’Università a Firenze, invece tutti belli ed eleganti al funerale della nonna. “I suoi anni ce li aveva, però era sempre in gamba.” Tutti avrebbero ascoltato e ripetuto questa frase. Piazza sfrecciò in bici davanti al cimitero, neppure si voltò. Ma davanti ai giardini la frenata fu brusca e violenta. Il nonno, invece d’essere a casa con la nonna, era lì che prendeva le misure alle panchine dei giardini. - Nonno che fai? - Misuro, non lo vedi, un uomo con un metro misura, prende le distanze. Vieni qui piuttosto, e aiutami. Piazza poggiò la bici per terra e in fretta si avvicinò al nonno. - Prendi la panchina da quella parte che la spostiamo. - Nonno, oggi c’è il funerale di tua moglie e tu sei qui ai giardini a misurare e spostare le panchine?
In effetti il nonno non era certo tipo da funerale, ogni volta che qualcuno gli faceva il dispiacere di morire si rammaricava per essere costretto ad andarci. Lo diceva sempre ai suoi amici, non mi fate il dispetto di morire prima di me. Non è che il funerale di per sé lo infastidisse molto, piuttosto lo irritava l’atteggiamento delle persone invitate. Il morto non costituiva alcun disturbo. Il funerale era fissato alle tre, forse era meglio convincere il nonno a tornare a casa e cambiarsi, prima dell’arrivo di tutti i parenti, gli amici e i conoscenti. Certo non poteva farsi trovare in giardino a rimettere in ordine le panchine. Il prete ogni volta sbagliava il nome della nonna. Aveva stupito tutti. Erano almeno tre anni che sarebbe dovuto morire ed invece eccolo lì a seppellire un cattolico dopo l’altro. La chiesa era piena, c’era gente in piedi, ma tutta la famiglia Begliomini stava seduta in prima fila. La bara della nonna davanti all’altare. Le nuore ed i figli avevano chiesto agli uomini delle pompe funebri perché non avessero sigillato la bara all’uscita dalla casa, e loro avevano risposto indaffarati, “Disposizioni del vostro vecchio, ha chiesto che la bara venisse chiusa al cimitero, non prima.” Dalla casa alla chiesa erano pochi i, e dalla chiesa al cimitero non più di centocinquanta metri. La bara della nonna sulle spalle dei figli e dei nipoti, niente auto. I due uomini delle pompe funebri dietro a controllare le operazioni. Piazza in chiesa, seduta accanto al nonno. I due si tenevano la mano e di tanto in tanto Piazza poggiava la testa sulla spalla del vecchio. - La messa è finita, andate in pace -. Quando il prete chiese se qualcuno avesse voluto dire qualcosa in memoria della cara scomparsa, Piazza si alzò senza sapere bene il perché, ma il prete non accorgendosene se ne tornò all’altare per proseguire messa. Piazza, colta dall’imbarazzo, tornò sui suoi i, si rivolse ai presenti allargando le braccia e si sedette sorridendo nervosamente. Davanti ai giardini gli uomini delle pompe funebri fermarono il corteo. Presero la bara della nonna dalle maniglie, la portarono via dalla strada e l’appoggiarono sulle due panchine dei giardini. La meraviglia di tutti fu tale che nessuno ebbe il coraggio di pronunciare una sola parola. E mentre tutti se ne stavano zitti, i due uomini tolsero il coperchio della bara e mostrarono la nonna con il suo vestito bianco. - Be’, si può sapere cosa diavolo avete tutti? Qui io e la nonna venivamo ogni giorno a are le nostre ore migliori, non vedo per quale ragione al mondo mi dovrebbe essere impedito di are qui gli ultimi minuti con lei, prima di
lasciarla andare in quel triste cimitero. Come spesso accade, furono proprio i bambini a rendere tutto più “normale”. Iniziarono a giocare, a saltare, a correre e ad acchiapparsi. Piacevolmente si iniziò a conversare. Il funerale della nonna si trasformò nel miglior funerale a cui il nonno avesse mai assistito. Piazza rideva; come sempre, anche questa volta, il nonno si dimostrò il migliore. Anche la nonna da dentro la bara sembrava compiacersi dell’idea.
Dei bambini in generale, ma in particolar modo dei suoi tre cugini, Piazza amava il loro mettersi seduti a terra per calzare le scarpe. Gli adulti perdono questo meraviglioso contatto con la terra, perché? Su qualunque altro appoggio, su una sedia ma mai seduti per terra, a legarsi le scarpe. Anche Piazza, quando era con loro, si metteva seduta. Le veniva naturale. Fino a poco tempo fa il sabato pomeriggio li prendeva tutti e tre e li portava in giro. D’inverno al cinema oppure per negozi a Pistoia; appena arrivava la primavera e poi l’estate, a cercare dove correre e saltare fra i mille bei posti della montagna pistoiese. Non ci voleva molto a farli felici, e con loro, lontano da casa, non ci voleva molto a fare felice anche Piazza. In particolare piaceva a tutti e quattro andare al Ponte Sospeso. Giorgino aveva una grande paura dell’altezza, soffriva di vertigini, il ponte per intero non era mai riuscito ad attraversarlo. A Piazza toccava mandare avanti gli altri e restare a metà ponte con lui. Ogni volta non ce la faceva né a proseguire né a tornare indietro. Con tutta la forza che aveva le teneva la mano, quasi come fosse quella a cui si sarebbe aggrappato se il ponte fosse crollato giù. Piazza sorrideva a tutti quelli che avano, e le piaceva far da mamma a quei tre. Poi scendevano al prato sotto, e lì giocavano a pallone con i bambini che capitavano. Se non c’era nessuno a giocare iniziavano loro e qualcuno si aggregava sempre. Dopo poco Piazza si stancava. Senza farsene accorgere si metteva da parte per poi, sfinita, mettersi seduta. Da qui li guardava e pensava. In quel momento, in quella situazione, le venivano in mente strani pensieri. Da quella solitudine la mente le ritornava a casa. Certamente i suoi genitori e i suoi zii avevano già litigato, oppure litigavano proprio in quel preciso momento. Si sorprese a pensare di ritornare a casa e trovarci polizia e carabinieri, infermieri, ambulanze, dottori. Un gran caos di gente. Anche qualche
giornalista. Quelli ci sono sempre. I suoi genitori? I suoi zii? Tutti morti. Li avevano trovati tutti e quattro in un lago di sangue. In quel casone ora ci sarebbe rimasta solo lei e i tre bambini. Una volta Piazza provò a confidare questi infernali pensieri al nonno, convinta che anche in questa idiozia l’avrebbe comunque capita. Invece quella volta non dimostrò la solita complicità, prese sul serio quei pensieri. Piazza venne via dalle Piastre piangendo, non smise di piangere fino al Casone. Arrivò che tutti erano fuori a litigare, quella volta sembrava davvero venissero alle mani. Lacrime e lacrime nella grande solitudine della sua camera. E rabbia al pensiero che nella casa accanto tre bambini dovessero sopportare tutto ciò. Piazza avrebbe voluto che il nonno comprendesse il suo dolore, avrebbe voluto essere abbracciata e tranquillizzata dall’unica persona che la poteva portare via da lì, invece proprio lui, con grande determinazione, le consigliava di restare là. Aveva scelto lei di chiamarsi Piazza, ma quella volta lo rimpianse con tanta amarezza.
Sergio
- Con olio o senza? - Olio - biascicò Sergio leggermente infastidito dal lettino che gli premeva sul ventre. - Allola cominciamo - disse la massaggiatrice irrorando la schiena di Sergio di liquido trasparente. Aveva scoperto quel centro massaggi a Montecatini circa quattro mesi prima su consiglio di un amico, vi si recava ogni volta che lo stress lo attanagliava. Ultimamente ci andava spesso, almeno una volta ogni dieci giorni. Massaggio di un’ora, cinquanta euro con masturbazione finale. “Una mano santa” diceva il suo amico puttaniere Aldo, giocando sulle parole. Mentre le mani della massaggiatrice scorrevano agilmente sulla sua schiena, donandogli una piacevole sensazione di calore, la mente di Sergio tornava al litigio con Eric, alle sue parole, al suo volto deformato dall’odio e dalla rabbia. Ciò che lo feriva di più era stata la propria totale assenza di reazione. Si era sentito come un sacco di patate, sballottato da una forza superiore alla quale non poteva in alcun modo opporre resistenza. Sentiva la sua autorità di capo famiglia ormai compromessa, non sapeva come porvi rimedio; e poi, il volto di Eric. Lo aveva stampato nel cervello. - Gilale - disse la massaggiatrice avvicinando la bocca all’orecchio destro di Sergio. Goffamente Sergio si girò facendo cigolare il lettino. Sebbene fosse supino non riusciva a vedere le mani della massaggiatrice che iniziavano a carezzarlo per il trattamento finale, la sua pancia era davvero enorme. Lasciò ricadere la testa all’indietro sul cuscino e una lacrima scese a bagnargli l’orecchio sinistro.
Ilenia entrò in casa canticchiando, come faceva di solito. Dette un bacio al nonno, che in quel momento stava leggendo la Nazione, e chiese a voce alta:
- A che ora si mangia? - ma non ottenne risposta. Il nonno la seguì con lo sguardo mentre andava in cucina, e la sentì cambiare tono nei confronti della madre. Il forno non ne voleva sapere di funzionare, nonostante i ripetuti tentativi di Marcella. Si guardarono per un attimo e Ilenia capì che era successo ancora. - Quando la smetteranno quei due? - disse accennando un sorriso. - Questa volta è diverso, Eric se n’è andato. - Dove? - Alla casa del nonno, in montagna. Senza dire niente Ilenia si voltò e andò in camera sua. Si chiuse a chiave, accese il pc, e si mise in chat, aspettando che qualcuno le chiedesse di spogliarsi. Con questo giochino riusciva a farsi ricaricare il cellulare, si poteva permettere qualche week end, e poteva comprarsi del fumo di ottima qualità. Ancora nessuno. Si rollò una canna e l’accese. Inalò una bella boccata e si sdraiò sul letto in attesa.
Sergio si alzò dal lettino aiutandosi con gli avambracci. Strappò un pezzo di carta assorbente e si asciugò l’uccello. Non aveva voglia di farsi la doccia, quindi si rivestì, pagò i cinquanta euro alla ragazza ed uscì. Salì in macchina e prima ancora di metterla in moto accese l’autoradio e cercò la traccia di “wonderful tonight” di Eric Clapton, poi partì. Al suono della chitarra, gli si inumidirono gli occhi. A quel pezzo aveva associato la nascita di Eric. Le note della chitarra di Slowhand ogni volta gli riportavano alla mente il ritorno a casa dall’ospedale con quel fagottino immerso nella sua tutina gialla. Ora quel fagottino gli aveva strappato il collo della camicia, sbattendolo contro il muro del salotto. Prese una Marlboro dalla tasca sinistra della giacca, senza estrarre il pacchetto, e se la infilò tra le labbra, “In culo ai dottori…” Pensò.
Il flacone di Xanax era quasi vuoto. Marcella dispose la teglia di lasagne sul piano intermedio del forno, che era riuscita ad avviare e richiuse lo sportello con un piede. Prese un coltello dal
primo cassetto accanto all’acquaio e lo incastrò tra la plastica del contagocce e il vetro, cercando di far leva per toglierlo. Dopo alcuni tentativi ci riuscì e immediatamente si rovesciò in bocca quel poco liquido che era rimasto nella boccetta. Il pomeriggio si sarebbe recata dal medico a farsene prescrivere ancora, ne aveva bisogno. Gettò la boccetta nella pattumiera, il contagocce no, quello se lo mise in bocca e iniziò a succhiarlo. Si sedette lentamente sulla sedia vicino al tavolo fissando attraverso l’oblò la teglia di lasagne, che aveva appena tolto dal congelatore. Pensò ad Eric e a quanto la sua crescita le fosse sfuggita di mano, a quanto fosse stata spettatrice iva della vita del figlio, a quanto si era persa del suo diventare adulto. Pensò anche a come sarebbe andata se Eric non fosse mai nato. Strinse i denti e schiacciò con forza la plastica del contagocce.
I sogni di Piazza
Piazza aveva sentito più volte i suoi genitori fare l’amore. Non è che avessero molto tatto in questo, non riuscivano proprio ad immaginare che la loro figlia li potesse sentire. Tant’è che ogni volta era un gran caos. Non avevano un bel rapporto di coppia. La mamma ogni volta si rifiutava e il babbo ogni volta riusciva comunque a farlo. Lei, “Non mi va, lo vuoi capire che non mi va.” Lui, “E che m’importa se non ti va, avresti dovuto pensarci prima di sposarti, l’ha detto anche il prete che non puoi sottrarti ai tuoi doveri coniugali.” A queste parole facevano seguito i rumori di una vera e propria zuffa. Una donna che scalpitava, calci e pugni, ed un uomo che la inchiodava al materasso costringendola a fare l’amore. Non era raro che Piazza si avvicinasse per sentire meglio. “Lasciami le braccia, mi fai male, bastardo!” gridava la mamma, ma al babbo non gliene fregava niente. La ragazza non era mai rimasta particolarmente turbata da quel rapporto violento. Era convinta che andasse bene a tutti e due. Spesso la facevano ridere tanto erano ridicoli e qualche volta la eccitavano pure. Tornava nel suo letto con una voglia strana di fare l’amore. Nuda, sotto le coperte, chiudeva gli occhi e si addormentava. Nei suoi sogni viaggiava sempre, e si vedeva sempre in mezzo a persone diverse. Della sua famiglia riconosceva solo il nonno e i suoi tre cugini. Quando era particolarmente eccitata si lasciava scivolare dentro un sonno apparente, dove era lei stessa a ordire la trama dei suoi sogni. La scena finale, poi, era sempre la stessa. Nel buio di una stanza lei si ritrovava sola e nuda, sotto un sacco di coperte, e in quel buio sentiva i rumori di qualcuno che si muoveva. Piazza non aveva paura, sapeva chi era e sapeva che poteva fidarsi. Quando finalmente anche lui si decideva ad entrare sotto le lenzuola, lei poteva finalmente sentire il calore del suo corpo. Con le mani lui le sfiorava le gambe, i piedi. Poi la baciava, ovunque. In alcuni attimi non le sembrava più neppure un uomo solo, ma due, tre o chissà quanti. Il piacere era così tanto e così forte da lasciarla ogni volta sudata e sfinita dentro il letto. Era orgogliosa d’essere così brava. Spesso si domandava dove avrebbe mai potuto trovare un uomo che la potesse far godere così tanto, e rideva forte di questi suoi pensieri, così come rideva forte nel sentire ancora i suoi genitori che, picchiandosi, lottavano per regalarsi un attimo di piacere.
- Nonno, se la nonna fosse lì a guardarci, secondo te sarebbe triste o felice? Riderebbe o piangerebbe? - Ogni volta che vado al cimitero la vedo nella foto che sorride. È una foto che abbiamo scelto noi, c’è piaciuto che rimanesse con quel sorriso. Eppure in tutta la sua vita non ha sorriso molto. E non mi riferisco solo alla malattia, agli ultimi giorni. Per lei la vita era un dolore ed una sofferenza da affrontare. Ogni volta che per una qualsiasi ragione capitava un periodo nel quale potevamo dire di stare bene, per lei era sempre troppo e s’inventava delle sofferenze per farsi perdonare dal mondo il proprio benessere. - L’amavi? - L’ho sempre amata. È stata per me la donna giusta. Non so cosa sarebbe potuta essere la mia vita senza di lei. La vita presenta molti momenti difficili, ed in quei momenti si misura la forza di un uomo. Se sbagli strada, non la racconti. - Nonno, ne parli più come un utensile che come una donna! - Ma cosa credi che significhi amare? Pensi forse che sia quella cosa che ti fanno vedere nei film, dove alla fine si abbracciano dopo tante difficoltà e da lì sembra che vivranno felici tutta la vita proprio come in quel momento? - E cos’è allora? - È qualcosa che riesce ad attraversare tutte le tue giornate, a dalla rabbia che provi per quella persona, a dal dolore che quella persona ti provoca, a da un profondo bisogno che ne hai e che in un attimo può trasformarsi in odio. Amarsi è sentirla tossire e russare nella notte e non riuscire a prendere sonno, amarsi è non riuscire ad entrare in bagno dopo che c’è stata lei e, come al solito, si è dimenticata di aprire la finestra. Ed è anche insopportabile continuare a vedere che lei non ti sopporta più. È riuscire a are in mezzo a tutte queste cose e nonostante ciò ritrovarsi alla sera, alla mattina, ed essere lì a raccontarsela ancora. - Io vorrei amare e sentirmi amata in modo diverso. Non mi andrebbe di starmene accanto ad un uomo che mi debba sopportare, e non vorrei sopportarlo, sarebbe meglio a quel punto che ognuno se ne tornasse a casa propria.
- È proprio questo il punto, “Non è come ho sempre sognato?” quindi ognuno a casa sua. Amarsi è anche vincersi. Ogni giorno. E per vincersi intendo far vincere l’amore che provi sulle difficoltà che insieme si deve affrontare. Non si ha fede solo per credere in Dio, ma anche per credere negli altri, soprattutto quando gli altri decidiamo di sposarli. - Quindi ti sei sposato per fede? - In un certo senso sì. Se non hai fede non puoi sposarti. - Io vorrei sposarmi con un uomo che mi ama, e che vorrei amare. Vorrei la certezza di questo amore, sentirla nel mio cuore. - Cara Piazza, poche sono le certezze di una vita. - E per essere brava e forte devo saper respirare l’odore della sua merda, devo sopportarlo se russa, devo saperlo odiare proprio perché in fondo lo amo, e alla fine devo poter dire, sì, in effetti mi si è reso utile, in certe giornate importanti della mia vita è stata fondamentale la sua presenza, senza la quale chissà quali strade avrei preso? Mi dispiace nonno, voglio qualcosa di diverso.
Lasagne
Marcella pose la teglia di lasagne che ancora fumava al centro del tavolo. Intorno non c’era ancora nessuno. Il primo ad arrivare fu nonno Emo e si sedette al suo posto dopo aver fatto stridere la sedia sul pavimento. Sergio uscì dal bagno mentre Marcella stava già servendo ad Emo la sua porzione. - A tavola! - gridò Sergio mentre si stava sedendo. Ylenia si alzò dal letto, nascose il portacenere e scese giù in cucina con gli altri. Stettero in silenzio per un bel po’ mentre le forchette affondavano in quella pasta floscia e molliccia. Sergio si versò un bicchiere di vino e mentre lo stava portando alla bocca Ylenia ruppe quell’atmosfera immobile e stagnante dicendo: - Si può sapere cosa è successo? Lo sguardo di Marcella era fisso sulla forchetta ancora pulita che stava facendo roteare tra pollice ed indice. Nonno Emo alzò la testa scrutando il volto di suo figlio. - È successo che tuo fratello è uno stronzo! - esclamò Sergio dopo aver tracannato il vino. - Mi ha messo le mani addosso e se n’è andato! - aggiunse dopo qualche manciata di secondi di imbarazzo. - Che accurata analisi! - disse Ylenia sarcasticamente. - Cosa c’è da analizzare?! È uno stronzo e basta! - Sai bene che il tuo lavoro non gli è mai piaciuto, e che lo ha sempre disapprovato… e anch’io lo disapprovo! - intervenne goffamente Emo. - Ah! Lo disapprovate eh?! Bravi! Ma come siete virtuosi! Vero?! Ma ci mangiate tutti lo stesso! Quando riporto i soldi a casa per tutti, e sottolineo per tutti, come vi garba, vero?! Eh?! Sergio si era fatto rosso in volto e a Marcella, che gli stava di fianco, vedendo in
controluce uscire dalla sua bocca tante goccioline di saliva e di cibo, le venne in mente un vulcano in eruzione.
Finito di mangiare Sergio si alzò dalla sedia e senza dire una parola uscì sbattendo la porta. Pochi secondi dopo Emo sentì il pick-up del figlio allontanarsi, e affacciandosi dalla finestra fece appena in tempo a vedere due nuove slot machine caricate sul cassone. Marcella si scoprì sola a tavola e ancora con la forchetta pulita tra il pollice e l’indice. Non era riuscita a mangiare niente, non aveva più fame. Prese il suo piatto, ripose la porzione di lasagne nella teglia e mise tutto nel forno ormai freddo. Sparecchiò e salì in camera per riposarsi un po’. Appena si sdraiò sul letto cercò di ricordare l’ultima volta che lei e Sergio avevano fatto l’amore e si addormentò.
Arrivo
“Le Piastre…” Eric percorse la statale 66 che tagliava il paese in due e prima di entrare nella valle del Reno, svoltò a sinistra per Prunetta. Si ricordava di un giardinetto e del cimitero, dove da bambino qualche volta lo avevano portato. L’indirizzo che gli aveva dato il nonno, se lo era infilato nella tasca esterna del giubbotto. Si fermò e appoggiò i piedi in terra lasciando il motore della sua moto. “Via Vecchia Montanina n. 12” mormorò fra sé. Ripartì e a o d’uomo entrò in un vicolo costeggiato da case in pietra. In prossimità del numero 10, spense la moto e la mise sul cavalletto laterale. S’incamminò verso il 12 che si trovava in una stradina secondaria, a sfondo chiuso, leggermente in salita. Eccola: un terratetto in pietra con infissi marci, qualche vetro rotto e le grondaie malconce e arrugginite. Anche il numero civico era attraversato da una crepa che separava l’uno dal due. Solo la porta d’ingresso pareva aver superato bene le intemperie e le offese del tempo. Eric si avvicinò alla casa sputando per terra tutta la sua delusione. Stava rovistando nelle tasche in cerca della chiave, quando sentì una voce che disse: - In un mese, tra il sì e il no, sette manifesti c’era sul muro… Barbarossa lassù quando gioca a dadi a chi tocca è uno sciaùrato! Si voltò e vide un vecchio appoggiato ad un bastone di castagno intagliato. - Eccone un altro, lo vedi? - Chiese il vecchio ad Eric indicando un punto preciso col bastone. Eric osservò con attenzione il muro e vide un annuncio funebre: Primo Mencarelli anni 91.
Il compleanno di Piazza
Piazza non era stata particolarmente fortunata nei suoi rapporti con i compagni di scuola, sin dalle elementari ogni amicizia si trasformava in una delusione. Inflessibile, non ammetteva l’incoerenza. Ascoltare le persone, sentirle parlare in un modo e vederle poi agire in un altro la deludeva moltissimo, e di conseguenza se ne allontanava. Di tutto ciò non ne parlava mai con i suoi genitori, i quali dimostravano interesse solo per il suo andamento scolastico e non potevano certo lamentarsi di questo. Riusciva a parlare delle sue difficoltà solo con il nonno, il quale cercava sempre di sdrammatizzare ogni episodio, ma poi lui stesso soffriva molto di queste situazioni che lasciavano Piazza sempre più sola. Il nonno avrebbe desiderato che sua nipote avesse amiche da invitare alle sue feste di compleanno, ma ogni anno per Piazza non si riusciva mai ad organizzare una degna di definirsi tale. Una volta con il nonno, una volta con i cugini, più raramente con i suoi genitori. Ma per i suoi diciotto anni la festa si fece invece, fu veramente una gran bella serata, di quelle che non dimentichi. Prenotò un locale a Pistoia, un vecchio frantoio trasformato in ristorante che le era sempre piaciuto tanto. Riuscì a convincere tutta la famiglia. Persino i due fratelli si arresero di fronte ai diciotto anni di Piazza, e per una sera sospesero le liti. Tutti le chiedevano, “Ma non hai invitato nessuna delle tue amiche?” e lei rispondeva che ci sarebbe stata solo la sua famiglia. Il ristorante chiudeva per turno il mercoledì e Piazza prenotò la cena dei suoi diciotto anni proprio quel giorno. Quando in famiglia lo vennero a sapere, alcuni malcelarono l’ansia per essere costretti a dover trascorrere tutta la serata in uno stanzone e sopportare imbarazzanti silenzi… L’arrivo della famiglia al ristorante fu commovente, Piazza rimase piacevolmente sorpresa d’essere riuscita a riunire così tanti Begliomini. Aveva lavorato tanto affinché tutto filasse liscio. I tavoli erano stati apparecchiati a ferro di cavallo, lasciando al centro un grande spazio.
Finito l’antipasto, senza alcun preavviso, fece il suo ingresso un gruppo musicale sudamericano, sembravano gli Intillimani. Pochi secondi di silenzio e la musica iniziò. Alla fine della prima canzone uno di loro prese la parola e in un italiano molto approssimativo cercò di dire: - Signore e Signori bonasegua, è un immensio piasere esse chi co voi. Piazza ha invitado noi pe’ festezzare sui 18 anni, e noi tutti ci impregneremo pe’ non delude la luce dei sui occi. Non si capiva niente ma tutti i Begliomini si commossero. Dove li aveva trovati questi, si domandava il nonno, mentre con lo sguardo cercava gli occhi felici di sua nipote. Non sapeva che a quella cena, tra una portata e l’altra, avrebbe visto cantanti di strada, mangiafuoco, pagliacci, un Charlie Chaplin, vari cantastorie, saltimbanchi e tanti altri artisti. Piazza vide suonare gli “Intillimani” una sera che stava eggiando in Via Calzaioli a Firenze, prima di prendere l’ultimo treno che l’avrebbe riportata a Pistoia. Si avvicinava il suo compleanno, questi benedetti 18 anni che pareva si dovessero festeggiare chissà come. Quando ebbero finito di suonare li avvicinò e propose loro l’idea. Gli “Intillimani”, convinti dal cenare e cantare al caldo almeno una sera, accettarono con grande entusiasmo. Non solo, ma promisero a Piazza che alla festa avrebbero senz’altro portato anche altri artisti di strada, se lei avesse voluto. Il conto del ristorante fu piuttosto caro, ma tutti furono felici ugualmente, la festa era piaciuta davvero.
Mandela era nero come il carbone. Aveva un collo grande che sembrava una colonna, su cui poggiava una testa enorme. Denti bianchissimi che ridevano sempre. Veniva da un posto dell’Africa che neppure lui sarebbe riuscito a spiegarti dove fosse. Venendo via da lì aveva giurato che non ci sarebbe più tornato, per cui a cosa sarebbe servito ricordarsi il nome e cognome di quella giungla dispersa? Dall’Africa si era portato tamburi, in Italia aveva aggiunto piatti, gran cassa, rullante e timpano. Una batteria europea circondata da tamburi africani. Portava ovunque la sua batteria, e non così per modo di dire, l’aveva attaccata alla pelle. La domenica in centro con tutta la sua batteria intorno che eggiava con lui. I ragazzini si divertivano a prenderlo in giro, battendo sui
piatti e tirando colpi sui suoi tamburi, e lui rideva, amava essere circondato da gente mentre suonava. Lo chiamavano Vampiro. Era bianco come il latte e aveva occhi di ghiaccio. Magrissimo. I vestiti sembravano tenerlo su e lui pareva poggiarvisi sopra. Provocava sentimenti contrastanti, potevi esser mosso a pietà e magari gli offrivi la carità, oppure ti intimoriva, e gli giravi alla larga. In entrambi i casi non ti veniva di invitarlo a cena a casa. Una persona a cui non avresti mai voltato le spalle. Tutti questi sentimenti li provavano anche i bambini quando lo incontravano, di lui se ne aveva paura. Ma quando Vampiro prendeva in mano la sua chitarra e le sue dita musicavano sulla tastiera, tutti questi sentimenti svanivano e compariva una nuvola magica sulla sua testa. E tu che ascoltavi, sopra quella nuvola ti ci sedevi. Comodamente. Salivi in alto dove il suono ti portava. Non era volare. Era star seduti su un’automobile bianca che, invece di girare a mangiar strada, sfiorava il suolo, sollevandoti. Era un viaggio a velocità precisa. Un Vampiro bianco suonava e tutte le persone intorno volavano sulla sua nuvola bianca. Felicità inspiegabile. Scimmia decise di andare a lezioni di basso quando, a tredici anni, comprese che non sarebbe più cresciuto. Se il suo destino era quello di rimanere basso, il basso era lo strumento che lui avrebbe imparato a suonare. In effetti il suo corpo si diffondeva nell’aria come il suono del suo strumento. Il legame tra quell’uomo ed il suo basso nascondeva qualcosa di magico. Una testa coperta così tanto dai capelli da nasconderne quasi il volto, braccia pelose dove i peli raggiungevano le dita delle mani, e quando indossava la canottiera tanti e lunghi erano i peli a coprire le spalle che da quel giorno non avresti più dimenticato il suo nome. Così come non avresti più dimenticato il suono del suo basso. Ti sentivi l’anima bucata e dentro quel buco creato dalla sua musica ti ci entrava un “pieno” di vita.
Quando Piazza aveva voglia di cantare bastava una chiamata e i suoi tre amici si precipitavano da lei. Mai una volta che qualcuno di loro avesse risposto “non posso”. E chi se lo sarebbe mai perso un incontro del genere? Forse loro tre suonavano assieme solo quando Piazza ne aveva voglia. Se li ritrovava in camera senza capire neppure da dove fossero entrati. E ci fosse mai stata una parola. Mandela batteva uno, due, tre e via. Un vampiro, un Africano ed una Scimmia suonavano una musica d’attesa, che poteva essere musica di minuti, o di ore. Ogni volta non era possibile saperlo. Una melodia che attendeva l’arrivo
dell’evento. In quattro sulla pista di decollo con il cielo davanti. Tre strumenti a far girare i motori in attesa del volo. E quando la voce di Piazza dava il via al decollo, sulla nuvola di Vampiro sedevano i profumi di un’Africa maledetta e sotto, il plettro di una scimmia a colpire le quattro corde. Lo spettacolo non aveva mai una durata precisa. Ognuno iniziava senza sapere la destinazione di quel viaggio. Si partiva sempre dalla camera di Piazza e lì, ogni volta, si tornava. Un pezzo di così tanta vita di fronte al quale la morte si arrendeva, sconfitta.
Notte a Le Piastre
Eric si voltò e si lasciò alle spalle il vecchio e il suo bastone. A i svelti si avvicinò alla porta, infilò la chiave nella serratura e la girò due volte, poi la spinse ed entrò. Subito lo accolse una ragnatela sul volto. Eric la tolse stropicciandosi la faccia sulla spalla. Si guardò intorno. Davanti a lui c’era un piccolo ingresso e subito dopo una rampa di scale in pietra che portava al piano superiore. Alla sua destra una porta socchiusa. La spinse e vide una stanza quadrata con due finestre, una sullo stesso lato della porta e una sul lato nord. La luce filtrava dalle persiane e riuscì a vedere un piccolo tavolino da fumo nel centro della stanza e una poltrona di velluto marrone sul lato senza finestre. Si voltò e attraversò il corridoio dirigendosi in cucina. Al centro della stanza c’era un tavolo in legno grezzo e quattro sedie impagliate, altre due finestre, un acquaio in pietra e un caminetto con una piccola stufa in ghisa appoggiata sul piano di cotto. Eric provò ad aprire il rubinetto dell’acqua, ma non uscirono che dei gorgoglii a vuoto. Per niente deluso si diresse verso le scale e salì al piano di sopra. Vi trovò due camere completamente vuote, ciascuna con una finestra grande e un bagnetto con una di quelle vasche piccole dove ci si lava seduti. Tutta lì. La casa era finita. Entrò nella camera a sinistra del bagno e aprì la finestra, poi la persiana. La vista sul retro godeva della presenza di un magnifico faggio rosso. Eric appoggiò pesantemente i palmi sul davanzale e guardò affascinato l’albero. Una leggera brezza faceva oscillare i rami e vibrare le foglie. L’ondeggiare dei colori rossi e marroni lo ipnotizzarono. Restò appoggiato alla finestra finché le mani non gli fecero male. Quindi si sollevò e scendendo le scale tornò in cucina. Estrasse il telefonino dallo zaino e guardò l’ora: le diciotto e quindici. Prese le chiavi, saltò sulla moto e si diresse
in paese. Entrò nella bottega di generi alimentari e acquistò mezzo chilo di pane, due etti di prosciutto, una bottiglia di vino e due bottiglie d’acqua. - Sedici e venticinque centesimi - disse il bottegaio mentre imbustava il pane nel sacchetto di plastica. - Però! - replicò Eric posando sul bancone un foglio da venti euro. Il bottegaio fece finta di niente e chiese ad Eric se era di aggio. - No - rispose. Prese il resto, la borsina e uscì dalla bottega senza salutare. Salì sulla moto e in pochi secondi si trovò di fronte al portone di casa sua. Finalmente! Casa sua. Entrò e appoggiò la spesa sul tavolino da fumo in quella specie di salotto. Fuori iniziava ad imbrunire ed in casa filtrava dalle finestre un po’ di luce giallognola artificiale. Eric prese dallo zaino il fornellino da campeggio e l’accese. Odiava stare al buio. Gli tornava alla mente quando era un bimbo e veniva rinchiuso da suo padre nello sgabuzzino, per punizione. Cominciava a piangere e ad urlare tirando calci alla porta chiusa a chiave. Poi la porta si apriva all’improvviso e una raffica di ceffoni gli facevano frizzare la faccia per tutto il giorno. Prese il cartoccio del prosciutto e lo aprì sul tavolino. Si sedette sulla poltrona dopo averla avvicinata al fornellino e spezzò il pane con le mani. Aprì la bottiglia di vino con il coltellino multiuso e mandò giù una bella sorsata. Mangiò. Si sentì pervaso da un nuovo senso di libertà misto a responsabilità che non aveva mai provato. Sapeva bene che aveva ancora bisogno della sua famiglia da un punto di vista materiale, ma era convinto che sarebbe stato per poco tempo. Finì quasi tutta la bottiglia di vino e si affondò nella poltrona. Non aveva voglia di uscire, si sentiva stanco. L’indomani si svegliò tutto vestito e con il fornellino da campeggio spento ai suoi piedi. Si stropicciò gli occhi con il dorso delle mani e si alzò. Gli doleva un po’ la schiena, ma non gli dette peso. Estrasse il telefonino dalla tasca del giubbotto e guardò l’ora: le otto e ventidue. Girò sul retro della casa e pisciò nell’erba alta, poi rientrò, prese lo spazzolino e il dentifricio dallo zaino e si incamminò verso la fontanina in fondo alla strada. Dopo essersi lavato i denti rientrò in casa deciso a dare inizio alla sua nuova vita. Per l’acqua poteva
benissimo arrangiarsi con la fontanina e dei recipienti da tenere in casa, prima di spendere centinaia di euro per l’allacciamento; invece per la corrente no, quella avrebbe dovuto richiederne l’utenza. Si ricordò di una volta, da bambino, che riempiva dei palloncini di acqua dal rubinetto del bagno. Chissà chi aveva fatto chiudere l’acqua. Non importa, mi arrangerò, pensò.
- Nonno… svegliati! Nonno! - Che c’è? Eric, che ci fai qui? - Sono venuto a salutarti e… ho bisogno di alcune informazioni. - Che vuoi sapere? - Tuo figlio è in casa? - Sei tornato per chiedermi questo? - sorrise Emo alzandosi dal divano. - No, è che non voglio vederlo. - Non c’è, è uscito. Tua madre è dal dottore e tua sorella sta dormendo. - Ok. Senti nonno, ho bisogno dell’ultima bolletta Enel per la corrente alle Piastre, puoi aiutarmi? - Non credo - rispose laconico il nonno. - Come no?! Quando andavamo alla casa in montagna, quelle poche volte, la luce in casa c’era! Quindi qualcuno la bolletta la pagava, no? E non eri tu? - Pensava a tutto tuo padre. Ora lasciami guardare la TV, per piacere. Eric era chino sul nonno imprigionato nel divano e stupito dalla sua reazione, indietreggiò restando in quella buffa posa. Non aveva mai visto suo nonno così in imbarazzo per qualcosa, era quasi impaurito. In nemmeno venticinque minuti Eric fu di nuovo alle Piastre. Parcheggiò davanti alla porta di casa la moto ed entrò spingendo la porta con violenza.
Priorità: 1. scorta di acqua. 2. allacciamento energia elettrica. 3. aprire un varco sulla parete nord-ovest del salotto. La casa vista da fuori era decisamente più grande, si vedevano altre finestre chiuse di altrettante stanze inaccessibili dall’interno. Come quasi ogni volta nella sua giovane vita Eric non rispettò le priorità che si era imposto e, acquistata una mazza da sette chili nella ferramenta a Prunetta, iniziò a tirare colpi potentissimi sulla parete a sassi del salotto. Dopo alcuni minuti si fermò ansimante ad ammirare le ammaccature sul vecchio intonaco della parete. - Posso far meglio! - pensò. Estrasse dallo zaino il suo vecchio stereo portatile e mise “Couldn’t stand the weather” di SRV. Quell’assolo di chitarra gli aveva sempre fatto scaldare le vene. Appena iniziò il pezzo riprese a menar colpi. E che colpi.
Attilio
“Controllata la numero 3, famiglia ancora indietro, assenza di celle reali. Questa tornerò a controllarla fra qualche giorno. Procediamo con la successiva, cosa avevo scritto l’ultima volta? Ah, sì… dunque vediamo… numero 4 famiglia forte, controllare telaini con attenzione, eliminare eventuali celle reali. Giusto… procediamo, dunque. Sollevò il coprifavo, qualche sbuffata di fumo… ma cosa sono questi colpi? E che baccano! Finisco questa ispezione e vado a vedere.”
- Allora, caro Pietrino, mi sa che da oggi in poi alle Piastre ci divertiremo! Lo sai che alla casaccia è arrivato un ragazzone, un mezzo pazzo, che sta tirando colpi ai muri come un forsennato?! Ridi, eh, ho sentito tutto questo casino mentre ero in apiario, allora ho interrotto un attimo il mio lavoro e mi sono avvicinato alla casa del vecchio Begliomini. Ho guardato meglio, s’intravedevano dalla finestra due braccia tese e un torso nudo e ogni tanto faceva capolino anche una faccia deformata dalla fatica. Sai Pietrino, non mi ci è voluto tanto a capire chi fosse quel ragazzo e da dove venisse. Ha gli stessi occhi di suo nonno e la stessa rabbia dentro. Lo avevo già capito il primo giorno che è arrivato, ma ho aspettato un po’ a dirtelo. Volevo essere sicuro, non mi piace dirti una cosa per un’altra, lo sai. Quel ragazzo è il nipote del vecchio Fanti, il figlio di quel Sergio che qualche anno fa veniva sempre a notte fonda con le sue amanti, ti ricordi? Ma sì, dai, ti svegliavi sempre per il rumore della macchina che si fermava sotto la tua finestra. Ah, ora ridi? Lo vedi che te lo ricordi?! Comunque sia, volevo dirti che questo ragazzo movimenterà sicuramente la vita del nostro paese, te lo garantisco. Siamo solo all’inizio, vedrai che bufera che si scatenerà tra poco. Aspetta solo che il vecchio Begliomini si accorga di quel che sta succedendo e poi si ride! Vedrai che anche la tua…
- Ma tu guarda oggi chi è venuto a trovarci, che bella sorpresa! C’è il tuo caro zio accompagnato dal tuo amato cugino. Pietrino, oggi è davvero una giornata deliziosa! E poi dicono che qui in montagna non succede mai niente. Vedi! Suonano anche, saranno educati? Le reggerai tutte queste emozioni in un giorno
solo? Questa sì che è una bella sorpresa! Mio fratello e mio nipote che dalla lontana Firenze mi fanno l’onore di una visita nella mia misera dimora. Ma dico io, potevate avvertirmi? Avrei preparato qualcosa! Come faccio ad invitarvi senza avere sul tavolo un pranzo degno della vostra presenza, vero Pietrino? - No Attilio, ti ringrazio, ma non possiamo rimanere. Siamo venuti per parlarti, Roberto deve essere a Firenze fra meno di un’ora. - Accidenti, ci fate proprio la visita del dottore. “Pietrino, visto con che occhi ti guardano, gli devi sembrare un mostro, sono anni che non ti vedono e non riescono neppure a rivolgerti una parola, be’ anche a me non è che abbiano fatto tutte queste feste. Bravo Pietrino, daglielo te il buongiorno, salutali alla tua maniera.” - Attilio siamo qui per la casa del babbo. - Quale casa? - Quella che il babbo ha deciso di lasciare a te. “Vedi Pietrino, le case che il babbo ha lasciato a loro sono loro, l’unica che il babbo ha lasciato a me, è sempre del babbo, proprio non gli entra in testa che sia mia.” - E che è successo, c’è qualche problema? - No, nessun problema. Non so se hai saputo di Roberto? - Di Roberto? Pietrino qualcuno ci ha fatto sapere qualcosa di Roberto? - È successo un guaio, Roberto si è fidanzato da un paio d’anni con la figlia del Bigazzi, ricordi la famiglia Bigazzi? - Certo che ricordo, bel colpo Roberto, una delle famiglie più ricche di Firenze. - Appunto, pare che il vecchio Bigazzi non sia molto d’accordo su questo matrimonio.
- Ma tu guarda! - Che il vecchio voglia o no ci potrà fare ben poco, la frittata è fatta. - Bene Robertino, di quanti mesi? Maschio o femmina? - Fece Attilio fingendo d’essere interessato. - Siamo qui per dirti della nostra idea. - Sono tutto orecchi. - La casa che il babbo ti ha lasciato è da anni abbandonata, non sei d’accordo con noi che sia un vero peccato lasciare andare in rovina una casa così bella? Invece potrebbe essere la casa di Roberto, tu la liberi, lui si impegna a ristrutturarla, e torneremo a dar vita a quella meravigliosa villa. Il babbo ne sarebbe felice. - Fratellone, il babbo non potrebbe comunque essere felice se Roberto si sistema in uno dei tuoi tre appartamenti di Coverciano? - Attilio in questo momento non ho neppure un immobile libero e sarei costretto ad avviare la pratica di sfratto per necessità familiari, sai quanto tempo ci vuole? Che figura ci facciamo con i Bigazzi! - Quindi ritenete che la migliore sistemazione possibile per Roberto sia l’unica casa che il babbo mi ha lasciato? “Pietrino come faccio a spiegargli che a noi due non sembra proprio una gran bella idea?” - Ci toglieresti da un guaio. - Be’, non mi impegnerò per rovinare la vita a mio nipote Roberto, datemi qualche giorno per pensarci. - Attilio, sapevo che su di te ci si può sempre contare. - Non prometto niente, vediamo. - Assolutamente sì, ci risentiamo tra qualche giorno. Piuttosto Attilio, se andiamo fuori un attimo vorrei parlarti.
- Pietrino, un attimo che vado fuori con lo zio, tu Roberto se vuoi resta a far compagnia a Pietrino. - No, no! Vengo con voi. - Attilio, io credo sia il caso che tu cominci a pensare a mettere Pietrino in un istituto, come puoi credere di continuare da solo ad assisterlo? finirai per distruggerti. - Tu dici, eh? - Sì, lo so che non è una scelta facile, dopo così tanto tempo, ma dovrai farla, per il tuo e per il suo bene. - In effetti, mio caro fratellone, ti ho chiesto appunto un po’ di giorni per pensare alla tua proposta, per valutare bene quanto possa essere compatibile con un mio progetto. - Grande Attilio! - La mia idea era quella di affidare Pietrino non ad un istituto qualsiasi, bensì ad una struttura che ho in mente e che dovrebbe trovare la sua sede proprio nella mia casa che il babbo mi ha lasciato. Pertanto, se ti ho chiesto qualche giorno di tempo, è solo per capire quanto possano convivere assieme una famiglia Bertocci/Bigazzi e un istituto dove potranno felicemente vivere ragazzi simili a Pietrino.
- Pietrino, avresti dovuto vedere le loro facce, non è che sono scappati, e neppure hanno avuto il coraggio di replicare, sono rimasti immobili davanti al mio sguardo fermo e convinto. Dire che li ho lasciati senza parole è dir poco, il tu’ “babbo” Attilio è stato davvero bravo. Ci meritiamo un gran pranzo.
Sassi e pietre
- Sei forse mancino, ragazzo? No, perché se non lo sei, la mazza non si tiene in quel modo… Eric si lanciava l’attrezzo dietro le spalle e poi lo lasciava ricadere con forza. Con i piedi spingeva da parte il cumulo di pietre e calcinacci che pian piano si formava sul pavimento. Di tanto in tanto si accucciava sulle ginocchia per riposare, e osservava il frutto del suo lavoro. Alcune gocce di sudore scivolavano sul suo volto e, dopo essere state in bilico qualche secondo sulla punta del naso come funamboli, si lasciavano cadere nel vuoto per poi allargarsi sulla pietra nuda. Erano già due giorni che tentava di abbattere una parete che gli impediva l’accesso all’altra parte della casa, un muro di almeno sessanta, tutto in pietra, mattoncini di recupero ed un terribile cemento che ad ogni colpo sollevava una polvere infernale. Non si sentiva più le braccia. Era così faticoso, cazzo! Tant’è che la vista del vecchio, intrufolatosi senza neanche chiedere il permesso, lo aveva lasciato del tutto indifferente. In quel momento non ebbe risposta migliore se non sollevare ancora una volta la mazza e piazzare l’ennesimo colpo all’inaccessibile parete. - Mi sembra di capire che non ti va di parlare, vero? Eric si fermò, ansimando gettò la mazza sul pavimento, si avvicinò allo stereo e lo spense. Si sedette, poggiando la schiena sudata alla parete che tentava invano di violare, proprio di fronte a quel pezzo di montagna vivente incarnato dal vecchio. Si sentiva a brandelli e, soltanto dopo essersi seduto, capì che per quel giorno non era più il caso di andare avanti. - Te l’ha mai detto nessuno che sarebbe il caso di chiedere “permesso” prima di entrare in casa d’altri? - Hai ragione, ma avremo modo di parlare di questa mia mancanza più avanti.
Eric avrebbe evitato volentieri quella conversazione e se quel vecchio fosse venuto in un altro momento non avrebbe esitato a buttarlo malamente fuori di casa, ma era lì, davanti a lui, disposto ad ascoltarlo. - È da ieri mattina che tiri mazzate a questa parete, che ne dici di prenderti una pausa? Qui sei senz’acqua, senza luce… se ti va, io abito a neanche cento metri da qui, ti fai una bella doccia e poi ceniamo insieme. Una doccia! Una cena! Solo al pensiero Eric si sentì rinascere. Avrebbe accettato subito, ma quel sorriso del vecchio, fesso e sornione allo stesso tempo, gli piaceva poco e sembrava nascondere qualcosa. - E perché quest’invito? Siamo forse parenti? - Prima di venire a casa mia a dal cimitero, vedrai che ci sono un sacco di Fanti e di Begliomini e parenti… be’, forse lo siamo davvero! - Non mi piacciono i giochini, nonno! Come fai a sapere che di cognome faccio Fanti?! - Come tutti i giovani! Volete sempre sapere tutto e subito! Se vuoi venire a cena torni verso la chiesa, continui a destra e sulla sinistra trovi una piazzetta, la prima porta a sinistra è casa mia. Ti aspetto. Vado, qui c’è troppa polvere. E poi falla finita di tirar mazzate! Resterai deluso. Dall’altra parte non troverai granché. Il vecchio si voltò e uscì. Eric sputò in direzione del vecchio, saliva e polvere caddero a pochi i dalle proprie Puma.
Cinghiale, miele e…
Man mano che il vecchio Begliomini si avvicinava a casa quella ruga a forma di sorriso che aveva stampata sulla faccia si allargava sempre di più. Nella sua testa stava già pensando alla cena del becco¹ da offrire al ragazzo: insalatina di campo, stracchino della bottega, frittata di zucchine. Se poi quel tàngano aveva ancora fame c’era sempre pane e olio, no? O sennò c’era qualche neccio avanzato dal giorno prima. Di fame non moriva di certo! E poi vino, quello sì che ci voleva! Il vino fa parlare meglio! Non troppo però, perché quel ragazzaccio doveva anche ascoltare. Ascoltare, sì, e capire che quella vita non era roba per lui. Senz’acqua, senza luce, via! Come si fa a vivere così? Uno, quanto tempo può reggere? Una settimana? Due? E poi? Forse sarebbe meglio abbandonare quest’idea di… Mentre il vecchio Begliomini ipotizzava l’imminente conversazione che avrebbe tenuto con Eric, in fretta si avvicinava a casa, dove qualcuno lo aveva preceduto. La bicicletta di Piazza era appoggiata al muro di casa. Il vecchio Begliomini si irrigidì, due labbra serrate cancellarono di colpo quel largo sorriso e formarono una smorfia di disappunto. - Che ci fai qui?! - Ciao nonno! Ho provato a chiamarti! Non rispondevi e allora sono venuta giù in bici! Ho fatto il cinghiale come mi ha insegnato la nonna! Il vecchio annuì e si sedette appoggiando i gomiti sul tavolo e poi chiese: - Ma non dovevi andare a Firenze ad una festa, stasera? - Oh, senti nonno, non ne avevo voglia… ma che non sei contento?! Ho cucinato per te? Che cos’hai? - Niente, niente. Certo che son contento! È solo che stasera ho invitato a cena quel ragazzo… sai quello che è arrivato da qualche giorno… - Alla casaccia! Quello con la moto! Perché lo hai invitato?
Il vecchio afferrò il fiasco al centro del tavolo e si versò nel bicchiere accanto tre dita di vino. - Non inviti mai nessuno a casa tua! Da quando è morta la nonna credo di essere l’unica persona che ha varcato questa soglia. Il nonno portò il bicchiere alla bocca e mandò giù una bella sorsata, poi si asciugò le labbra riarse col dorso della mano. Rimase con il mento che premeva forte sul polso, pensoso. - Nonno!!? - Eh! - gridò il vecchio come riavutosi da un brutto sogno. - Ti ho chiesto perché lo hai invitato! Mi vuoi rispondere?! In quel momento bussarono alla porta. Piazza dette un’ultima occhiataccia al nonno e si mise ai fornelli, in silenzio. Il vecchio Begliomini si alzò dalla sedia e lentamente andò ad aprire. Eric, sorridente, era arrivato. I due rimasero uno davanti all’altro, un silenzio di secondi che nascondeva un milione di pensieri. Il vecchio Begliomini avrebbe fatto qualunque cosa per evitare che Eric e Piazza si incontrassero, ed ora invece erano a pochi i l’uno dall’altro, apprestandosi a cenare insieme. - Ci hai forse ripensato? Non sembri proprio felice di vedermi! - esordì Eric ignorando la presenza di Piazza. Il nonno inarcò le labbra e farfugliò qualcosa, ma niente che potesse somigliare ad un invito. - Siamo soltanto un po’ in ritardo, tutto qui! - intervenne Piazza. Lo sguardo di Eric fu rapito dalla figura della ragazza, scivolò dalle spalle alla vita, si soffermò sul fondo schiena ammirando qualcosa di meraviglioso che gli regalò un brivido: un sedere dotato di grazia e armonia, che si muoveva con seducente semplicità, rotondo e pieno, marmoreo, perfetto. Gli occhi di Eric proseguirono il religioso pellegrinaggio su quel corpo diventato adesso dannatamente femminile, verso i piedi, chinando il capo come al cospetto di un’antica dea dell’Appennino Toscano. I piedi. Per Eric, da sempre, i piedi
femminili rivestivano un’importanza fondamentale. Riteneva la loro bellezza e cura essenziali al rapporto amoroso tra uomo e donna. Un grazioso piede femminile, ben curato, lo eccitava. E quelli di Piazza erano proprio belli, snelli, agili, con le dita né tozze né ossute, ambrati, con qualche vena appena in rilievo e le unghie curatissime, ma non laccate. Eric detestava le unghie laccate, sia quelle dei piedi che quelle delle mani. Si sentiva decisamente attratto dai piedi di Piazza e, quando lei finalmente si voltò, il suo sguardo era ancora lì. - Ciao! Io sono Piazza! L’imbarazzo di Eric ed il silenzio di Piazza furono così ingombranti che il vecchio Begliomini faticò a nascondere il suo fastidio. - Ciao! - bofonchiò il ragazzo. Eric, prima di arrivare alla casa del nonno, aveva pensato di cenare alla svelta con quel vecchio impiccione, ascoltare per pochi minuti i deliri di quel demente, soprattutto capire come cavolo fe a sapere il suo cognome e quindi approfittare di una doccia calda e poi svignarsela. Ora, invece, non se ne sarebbe più andato. - Bene! Le presentazioni le abbiamo fatte! Questo ragazzo deve farsi una doccia e poi ceniamo! - disse il nonno sorridendo e sfregandosi le mani. - Nonno, ma che dici?! Qui è tutto pronto! La doccia se la farà dopo. - Se per voi non cambia niente, visto che la cena è già pronta, io la doccia me la farei dopo. - Forse non ci siamo capiti, tu vai a farti la doccia, Piazza finisce di apparecchiare, e poi noi due ceniamo da soli in santa pace. - Nonno! Ma cosa dici? Io avrei portato il cinghiale per farlo mangiare a voi due? Piazza non aveva ancora finito di parlare che già si era voltata e tornata ai fornelli. Il nonno ed Eric rimasero soli, uno davanti all’altro. Il vecchio Begliomini era immobile, impedendo ad Eric di entrare in casa, ed Eric, quasi
spingendolo, finalmente entrò. - Alla fine vincono sempre le donne - sussurrò Eric al nonno. - Io e questo ragazzo dobbiamo parlare, ti ringraziamo per averci preparato la cena, ma… - Nonno, mettiti seduto e mangia, e anche tu, a proposito, come hai detto che ti chiami? me ne sono già dimenticata, pensa che testa! - Eric, mi chiamo Eric. - Abbiamo tutti e due nomi strani, eh? Piazza appoggiò la pentola sulla tavola e nella stanza si levò il profumo di un meraviglioso cinghiale in umido. Eric non sapeva se seguire il suo olfatto che mirava al cinghiale, oppure la vista, che seguiva Piazza in ogni movimento. I piatti furono serviti in tavola, stracolmi. Il contenuto di quello di Eric era almeno mezza porzione in più degli altri due. Cinghiale in umido con le olive! Da quanto tempo che non lo mangiava! - Ti piace? - chiese Piazza ad Eric. - È delizioso! - rispose Eric. - Delizioso, dice! - sorrise Piazza rivolgendosi al nonno. - Capito, nonno, ha detto “delizioso”! Il vecchio rispose scuotendo la testa. Piazza capì che il nonno era proprio incazzato, non ne comprendeva la ragione e comunque aveva altro a cui pensare. Osservava Eric divorare il cinghiale con occhi curiosi e compiaciuti. Non era di certo brutto, anzi, ma ciò che più le piaceva era che lo trovava esageratamente maschio. Era maschio nello sguardo, intriso di desiderio, nelle mani, forti e spigolose, nelle spalle, “bimba, scegliti un uomo con le spalle quadrate! Sulle spalle tonde la voglia di lavorare ci scivola!” le diceva la povera nonna quando era ragazzina. Ed era maschio anche nel bassoventre; sì, perché l’abile sguardo di una donna scivola silenziosamente anche lì, senza che nessuno se ne accorga.
- Che c’è da ridere?! - Replicò Eric a bocca piena. - Niente, niente, rispose Piazza - è che qui in paese c’è uno che di soprannome fa “il delizioso”, uno un po’ strano. - Per non dire matto! - aggiunse il nonno. - Smettila, nonno! Non è per niente matto, su! - disse Piazza. Dopo che Eric ebbe ripulito con un pezzo di pane il secondo piatto di cinghiale e olive, Piazza portò in tavola un berlingozzo. Lo affettò con cura e servì la prima fetta ad Eric. Il nonno seguiva attentamente le manovre della nipote e, quando anche a lui fu servito il piatto per il dolce se lo allontanò. Prima di sedersi di nuovo, Piazza aprì uno sportello della credenza vicino alla finestra ed estrasse una bottiglia di vinsanto. - A me il dolce non va! E neppure il vinsanto! Stasera sono nervoso! - Eric e Piazza si guardarono e sorrisero. Il vecchio era lì lì per esplodere. Piazza non lo aveva mai visto così. Ne avrebbe avute di domande da fargli, ma c’era Eric. - Propongo un brindisi! - disse Piazza, alzando il bicchiere - un benvenuto al nuovo arrivato! - Eric sorrise, poi tracannò il dolce liquido in un secondo. - Sì, sì, auguri! Ma non credo che il nostro amico si trattenga per molto tempo qui alle Piastre, vero ragazzo? - fece il vecchio rivolgendosi con ostentata gentilezza ad Eric. - Invece io credo di sì! - rispose seccamente Eric con gli occhi schizzati di sangue per la stanchezza. - Ne riparleremo, vai! Se vuoi, ormai te lo avevo promesso, puoi farti anche una doccia! - disse il nonno. - Vieni di sopra, ti accompagno. Il vecchio Begliomini era diventato scortese. Eric lo seguì su per le scale, mentre Piazza cominciò a sparecchiare. - Il bagno è lì. Sulla vasca troverai shampoo e bagnoschiuma. Mi raccomando, tira la tenda e stendila per bene dentro la vasca, sennò mi allaghi tutto. Vado a
prenderti un asciugamano. - Nonno! Hai visite! - gridò Piazza dalla cucina. Il vecchio Begliomini scese le scale ando davanti ad Eric senza guardarlo e lasciandolo in asso davanti alla porta del bagno. - Ed ora chi c’è a rompere le palle, ‘io diavolo! - Accomodati! Che sorpresa! Ti posso offrire un caffè? Un bicchiere di vino? disse Piazza garbatamente. - No, grazie bimba! Solo una breve visita di cortesia, tolgo subito il disturbo… tuo nonno? - Attilio! O te?! - Silvano! Come va? Il nonno si avvicinò con indolenza all’ospite e i due si strinsero la mano. - Qual buon vento? - chiese il nonno tra lo stupore e il disappunto. - Vedi Silvano, il motivo della mia visita potrà anche sembrarti inopportuno, ma non è affatto così. Produco miele dagli anni settanta, lo sai, vero? - Sì, lo so. E allora? - Allora, dal momento che tu sei l’unico in paese che non lo ha mai assaggiato, mi sono permesso di venirti a offrire due vasetti di miele di acacia prodotto dalle mie simpatiche amiche! - disse Attilio sorridendo. Piazza in un attimo era salita su per le scale ed aveva raggiunto Eric. - Eccomi! Ti serve qualcosa? Lo trovò in mutande, già pronto per entrare sotto la doccia, impietrito di fronte alla ragazza, messo letteralmente a nudo. - Mio nonno ora s’è messo a chiacchiera! - disse Piazza. - È un suo amico? - chiese Eric, che si sentiva in imbarazzo come poche altre
volte in vita sua. - Amico non direi… diciamo un paesano, va’! - rispose Piazza rovistando nell’armadio di camera. - Eccoti l’accappatoio! Eric prese il fagotto che la ragazza gli stava porgendo e le sfiorò una mano. Piazza non la ritrasse, lo guardò dritto negli occhi. - Attilio, ti ringrazio, ma se in tutti questi anni non sono mai venuto a chiederti il miele, un motivo ci sarà? Che dici? - fece il vecchio Begliomini allungando malamente sul tavolo un bicchiere di vino al suo ospite. - Certo! Ma non è detto che sia un motivo valido! - replicò prontamente Attilio dopo aver buttato giù una bella sorsata. Fu Piazza ad avvicinarsi. L’accappatoio rimase incastrato fra i due petti mentre si baciavano. Piazza sentì nella sua bocca il dolce sapore del vinsanto, e questo la eccitò tantissimo. Eric, travolto, a dieci dita le afferrò il culo come un rapace sulla preda. Il tatto percepì la consistenza di quella meraviglia. Piazza si staccò per un attimo dalle labbra di Eric e lo fissò negli occhi. Era disorientato, cercò di giustificare quelle dita ora immobili, ma ancora immerse in così tanta grazia. Lei, ancora più travolgente, tornò sulla bocca di lui. Eric, dalla gioia, la sollevò. - Nooo! Non mi piaaaceeee! Come te lo devo dire? - Vedi Silvano, l’utilizzo del miele va oltre il semplice fatto di metterlo sulle fette biscottate per farci colazione! Per esempio, il miele di castagno, che poi ti farò assaggiare, può essere aggiunto a fine cottura sulla selvaggina! Si può anche diluire in piccole quantità col sugo dell’arrosto per poi utilizzarlo come condimento delle fette disposte nel piatto! Capisci? O anche su una fresca ricotta montata, fa sempre la sua figura! - Ascolta… senti, “delizioso”, io mi sarei anche rotto i coglioni di sentire tutte queste storie sui mieli, hai capito? Ti ho detto che non mi piace, non mi interessa, ti ringrazio del pensiero, ma ora ti devo lasciare! Quindi, per favore, finisci il tuo vino e salutiamoci! - Va bene Silvano, me ne vado! Ma prima devo chiederti una cosa: hai mai
provato il miele di rosmarino pennellato con sobrietà su una bella fiorentina? Sublime! - Il miele sulla fiorentina?! Che schifo! Ma che sei ‘briaco? e t’ho dato anche il vino! Piazza! dove sei, vieni qui immediatamente! - Il nonno mi chiama, forse è meglio che vada. Si allontanò, e lui non fece niente per trattenerla. Tutto, avrebbe fatto tutto quello che lei voleva, era ipnotizzato da quella ragazza. - Benvenuto nella nostra bella montagna - concluse Piazza prima di sparire giù per le scale sorridendo. “Bella montagna davvero” disse fra sé Eric. Poi si infilò sotto la doccia. Versò un po’ di bagnoschiuma sul palmo della mano e cominciò ad insaponarsi il torace e l’addome. Si sentiva ancora eccitato dalla straripante femminilità di Piazza, e in un attimo si ritrovò tra le mani una prorompente erezione. Quelle stesse mani che fino a pochi secondi fa avevano stretto forte il culo più bello del mondo, ora, tra l’imbarazzo e l’eccitazione, si muovevano proporzionalmente al desiderio, ed Eric si lasciò finalmente andare masturbandosi con soddisfazione. Quando ebbe finito si sciacquò accuratamente, chiuse il rubinetto, tirò lateralmente la tendina di nylon e indossò l’accappatoio amaranto. - Anche il “pennellato”, ora! Dai, Attilio, è ora che tu vada a casa, ti aspettano, lo sai! - Hai ragione Silvano, lo so, mi aspettano, e chi mi aspetta lo conosci bene anche te, vero? - Insomma, basta! - urlò il nonno alzandosi di scatto dalla sedia. Nella concitazione urtò uno dei vasetti sul tavolo che si schiantò sul pavimento. - Ecco! Ci mancava anche questa! Piazza, si può sapere dove cazzo sei?! - Nonno che c’è?! Sono qui, cosa diavolo hai da urlare? - Non lo vedi? Guarda cosa mi ha fatto combinare questo imbecille. - Nonno, ora basta! - esplose Piazza. - Si può sapere cosa ti è preso stasera,
sembri ammattito! Attilio viene ad offrirti del miele e tu lo tratti così? Datti una regolata nonno, che altrimenti la perdo io la pazienza e lo sai che se voglio posso urlare più di te! Solo in quel momento lo sguardo furibondo del nonno incontrò il volto di Piazza e in un attimo comprese. Spinse Piazza da una parte e strappò dalle mani di Attilio l’altro vasetto di miele sbattendolo per terra. - Così ora ne hai due da pulire! e se ne uscì sbattendo la porta di casa. - Mi dispiace Attilio - disse Piazza sconvolta - comunque grazie lo stesso del miele. Non so cosa sia successo stasera a mio nonno, non riesco a spiegarmelo. - Non preoccuparti Piazza, credo di saperlo io. Ora devo andare.
Piazza richiuse lentamente la porta, si voltò appoggiando le spalle alle stecche di alluminio, il freddo del metallo le diede un breve e piacevole brivido. Miele e vetri per terra. Si chinò e ci tuffò le dita. Lo assaggiò, chiuse gli occhi e sorrise. Fu più forte di lei. Salì le scale di corsa.
Trovò Eric strizzato nell’accappatoio, gli si avvicinò lentamente e sorrise divertita nel vederlo sorpreso e imbarazzato. Piazza scivolò con le dita sui fianchi di lui, mani e miele si incontrarono su quel culo sodo. Eric non riusciva a comprendere cosa avesse Piazza nelle mani, sentiva soltanto le sue dita che si muovevano abilmente in una lasciva e sensuale danza. Gli si sarebbe concessa subito lì, nel bagno del nonno, abbandonando completamente il timore di essere sentiti o, peggio, essere scoperti, ma purtroppo… - Mio nonno è appena uscito… - Sono in accappatoio… - Lo vedo! rise Piazza. - Ma cos’hai nelle mani?
- Secondo te? Eric cercava di evitare il contatto più stretto tra Piazza e il suo bassoventre, temeva che la ragazza, accorgendosi di una totale assenza di reazione virile da parte sua, potesse pensare che fosse impotente o, ancor peggio, finocchio. No, finocchio no! Afferrò le mani della ragazza delicatamente, ma con decisione. Nella sua mente continuava a darsi del bischero; avere una ragazza così bella e disponibile tra le braccia e non riuscire a combinare niente! Brutto segaiolo, ma cosa ti è venuto in mente?! - Almeno un bacio me lo dai? Eric, senza dire niente, avvicinò le labbra alla bocca di Piazza e le strinse forte i fianchi. Entrambi si inebriarono del sapore forte e dolce del miele. - Piazza! Piazza! Vieni in cucina, presto! - gridò il nonno - Questo troiaio chi lo pulisce?! - È tornato. Questa volta vado davvero. - Piazza ti ordino di scendere!
Marcella
Emo si risvegliò di colpo ad uno scrosciar di applausi da parte del pubblico a favore di una platinata Elda D’Eusebio che aveva appena messo alla berlina un padre che per diciotto anni si era disinteressato della figlia e che all’improvviso si era rifatto vivo cercando di impedire il matrimonio della ragazza con un extracomunitario, ex prete, di venti anni più vecchio. Si stropicciò la fronte con le mani, abbassò il volume della televisione col telecomando, si stiracchiò e poi si alzò in piedi. Avvertì la presenza di suo figlio Sergio in salotto e strascicando le ciabatte sul pavimento si diresse verso di lui. Sergio stava seduto, occhiali calati sul naso, calcolatrice e distinta della banca alla mano, sacchetti di monete e banconote ordinate sul tavolino. - Che fai? - Non lo vedi?! Preparo il versamento! - rispose Sergio senza alzare lo sguardo. Emo si avvicinò al figlio e provò delicatamente ad appoggiargli una mano sulla spalla. - Mi dici perché tu ed Eric avete litigato così? Sergio restò un attimo in silenzio e togliendosi gli occhiali, senza voltarsi, rispose: - Perché dovrei dirtelo? Perché vuoi sempre sapere tutto? Non ti riguarda! - Ti sbagli, Sergio, mi riguarda. Siete la mia famiglia: tu sei mio figlio ed Eric è mio… - Ma quale famiglia?! Quale famiglia?! Ma se di te nessuno ha mai saputo niente, hai sempre fatto i cazzi tuoi senza preoccuparti di niente e di nessuno, dai! Falla finita! Non hai mai fatto entrare nessuno nella tua vita, nemmeno la mamma, povera donna! Cosa abbiamo mai condiviso io e te, eh?! A parte questa casa e i miei soldi, cosa abbiamo mai condiviso?! Sentiamo?! Emo rimase in silenzio senza replicare e lentamente tolse la mano dalla spalla di
Sergio. - Fai la vittima?! Ora fai la vittima?! Ecco l’unica vera vittima del mondo: Emo Fanti! Ma Emo era già sprofondato nel divano e la voce di Sergio proveniente dal salotto gli giungeva ovattata, irreale, innocua. O così aveva deciso che fosse.
- Mettitelo dentro, dai… così… Ylenia stava giocando col suo “amico” eseguendo le richieste del tipo agganciato in chat. - Brava… così… ora girati… Si girò, obbediente, mostrando alla web cam un culetto adolescenziale e un dildo che entrava e usciva dalla sua fica completamente rasata. Cinquanta euro sulla sua post pay ed era pronta ad uno spettacolino di tutto rispetto per quindici minuti. Generalmente ne erano sufficienti molti di meno affinché lo spettatore, smanettandosi, finisse; ma questo qui era un osso duro: voleva godersi tutto il tempo che aveva pagato. A tempo scaduto Ylenia salutò l’utente, spense il PC, nascose il dildo nello zaino che portava sempre con sé e si sdraiò sul letto. Si accese una canna e, con uno strano sorrisetto sulla faccia, si compiacque con se stessa. Negli ultimi tre giorni aveva tirato su trecentocinquanta euro! Niente male, pensò. Dopo qualche tiro il pensiero volò leggero su suo fratello. Se lo immaginò caduto con la moto in qualche burrone o dilaniato da un branco di cinghiali impazziti. In una frazione di secondo fu assalita da una preoccupazione a lei sconosciuta. Le mancava Eric? Era mai possibile? Come mai avvertiva una strana sensazione di vuoto come se Eric fosse stato l’unico faro nella sua vita?
Lo studio del dottor Blasi si trovava sopra la farmacia del Belvedere. Il 19 si fermò in Piazza Mazzini, Marcella salì e obliterò il biglietto. L’autobus ò da Porta al Borgo e poi percorse via Dalmazia in direzione nord. Dopo l’istituto tecnico agrario, Marcella suonò il camlo e pochi secondi dopo scese di
fronte alla farmacia del Belvedere. Erano le quattro del pomeriggio, il dottore sarebbe arrivato per le 16:30. Decise che avrebbe preso qualcosa nella pasticceria sotto gli studi medici. Entrò e chiese un caffè macchiato e un mignon alla crema. Si sedette ad un tavolino e subito le portarono ciò che aveva ordinato. Mentre stava zuccherando il caffè si accorse che fuori dalla vetrata due uomini abbastanza giovani parlottavano tra loro e la guardavano. A giudicare dal loro abbigliamento logoro e macchiato di vernice e calcina potevano essere muratori o imbianchini. A Marcella poco importava chi fossero o che lavoro fero, era comunque lieta e compiaciuta di aver suscitato interesse, in fin dei conti era ancora una bella donna e per aver partorito due figli aveva ancora un bel personalino, e poi quel nuovo taglio che si era appena concessa risaltava l’ovale del suo bel viso e la faceva sembrare più giovane. Guardò l’orologio, si alzò e si diresse in bagno. Fece pipì, poi si ricompose lisciando più volte il nuovo tailleur color ghiaccio. Le stava proprio bene! Controllò il trucco allo specchio: i suoi occhi azzurri notarono alcune briciole sulle labbra che tolse abilmente con la lingua. “Bene, possiamo andare!”, pensò e uscì dal bagno.
La sala di attesa era stranamente semivuota e Marcella si affrettò a prendere il numero dalla segretaria. - Per il dottor Blasi, grazie. La ragazza le ò con sufficienza un pezzetto di carta con scritto a penna il numero tre. - Grazie - disse, e andò a sedersi di fronte allo studio del dottore.
Marcella rivolse uno sguardo annoiato alla fila di poltroncine rosse collocate di fronte: soltanto quattro erano occupate. In quella più vicina a lei, sedeva un uomo anziano dall’aspetto severo, sicuramente di estrazione modesta, ma nel complesso dignitoso. Era immerso nella lettura di un libro che teneva ben aperto sulle ginocchia. Marcella tentò di sbirciare il titolo, invano, poiché il vecchio non cambiò posizione finché non giunse il suo turno; quindi richiuse il libro, si alzò dalla poltroncina e, tenendoselo ben stretto sottobraccio, entrò nello studio
del dottor Pietro Blasi. Qualche posto più in là, una ragazzina tutta pelle e ossa, piercing e borchie, stava rannicchiata contro la parete d’angolo; indossava un giubbottino di pelle nera, un pantacollant neri, anfibi rigorosamente logori; ciuffetti di capelli rosso fuoco e neri ricadevano, disordinati, sulle cuffiette del suo iPod. Dopo un buon quarto d’ora il vecchio uscì, sempre con il suo libro, stavolta stretto al petto, e un buon numero di ricette mediche in mano. Fu il turno della ragazzina. Marcella sentiva una leggera inquietudine salirle lungo le spalle ed avvolgerle le tempie; cominciò, quasi senza accorgersene, ad infierire sul pezzetto di carta recante il suo numero: avvertiva imbarazzo, ma era anche eccitata e questo strano nervosismo la faceva sorridere. Percepiva quasi un frammento di felicità, se così poteva chiamarla, lei non la conosceva. O forse sì, chi lo sa. Ci pensò un poco: sì che lo sapeva! Sorrise, dirottò lo sguardo sul pavimento, e ricordò con gioia l’ultimo incontro con Pietro e quel lungo e tenero abbraccio nel suo studio. Le venne da ridere e si coprì la bocca con la mano. Si accorse che la signora seduta di fronte a lei la stava osservando. Marcella le rivolse un sorriso che venne ricambiato. La porta dello studio si aprì e la ragazzina uscì frettolosamente. Era finalmente il suo turno. Marcella entrò con o svelto nello studio del dottor Blasi e il rumore dei suoi tacchi riverberò nella sala.
Erano quasi le sei del pomeriggio. Marcella scese le scale tenendosi stretta alla ringhiera. Era frastornata e provava tanta vergogna. Se ripensava a quel che aveva fatto nello studio del dottore si sentiva avvampare il volto e le girava la testa. “Che cretina!” pensò. “Cosa credevi?! Scema che non sei altro!” si ripeteva mentalmente mentre si avvicinava all’entrata della farmacia, con in mano la ricetta che il dottore le aveva gettato davanti pregandola di non tornare e di rivolgersi ad un altro medico. - Buongiorno… - Marcella porse la ricetta con aria assente al farmacista, che subito scomparve dietro gli scaffali. - Ecco, signora… le serve altro? Marcella prese le due confezioni di Xanax diligentemente incartate dal dottore e le pose nella borsa. Pagò e uscì di malavoglia. Sul marciapiede c’erano ancora i due imbianchini che la stavano guardando
mentre parlavano tra loro. Marcella cercò di ignorarli, ma, di riflesso all’umiliazione appena subìta, anelava quasi inconsciamente ad una giusta rivalsa e questa insolita situazione la rappresentava perfettamente. Una rivincita! Le spettava di diritto! Indirizzò quindi un accattivante sorriso verso i due uomini, aggiungendo poi un “buonasera” con aria impertinente. Questi risposero gentilmente al saluto e uno dei due, il più affabile, si avvicinò a Marcella. Si presentò e le raccontò di essere a lavorare in un cantiere lì vicino, senza specificare bene dove. Poi attaccò con la tiritera del tempo, e così via. Ad un tratto Marcella si sentì urtare da dietro e cadde rovinosamente a terra senza rendersi ben conto di cosa stesse accadendo. Stordita, alzò lo sguardo e vide i due imbianchini galoppare all’impazzata. Quello che parlava con lei pochi secondi prima era dietro, l’altro correndo, pareva agitare qualcosa che teneva in mano. Lentamente Marcella si rialzò. Le doleva un fianco e aveva le calze rotte sulle ginocchia e qualche abrasione. Stentava a stare in piedi, le sembrava di avere una gamba più corta. Alla fine realizzò che nella caduta le si era rotto un tacco. La borsa non c’era più. Guardò ancora verso la strada, ma quei due erano già spariti. Alcuni commessi della farmacia le vennero in soccorso, la portarono sul retro, la fecero sedere e le portarono dell’acqua. Marcella chiese se poteva andare in bagno e quando si tirò su la gonna per sedersi sulla tazza, si accorse che le si era scucita proprio all’altezza del sedere. Le venne da piangere. - Signora? Tutto bene? - Marcella non riusciva a rispondere, aveva la voce strozzata in gola. Si soffiò il naso con la carta igienica. - Signora?! - ripeté più forte il farmacista. - Sìììì!” - urlò infine Marcella, furiosa, sfinita e oltraggiata.
Sergio rispose al telefono mentre stava percorrendo la provinciale verso Montecatini, a circa due chilometri dall’arrivo. Aveva fissato il massaggio alle 18,30 ed era lievemente in ritardo. Era stata una giornata lunga e faticosa e un po’ di relax era quello che ci voleva, pensava. - Signor Fanti? Buonasera, sono il dottor Masi della Farmacia del Belvedere… dovrebbe venire qui al più presto… è per sua moglie! - Che ha combinato questa volta?!
- No, niente… non si allarmi… è stata aggredita qui vicino e l’abbiamo soccorsa… ma sta bene, grazie a Dio non è successo niente… l’aspettiamo, arrivederci signor Fan… Ma Sergio aveva già chiuso la comunicazione e cominciato una lunga serie di bestemmie e imprecazioni contro Marcella e la sua maledetta abitudine di infilarsi sempre con tutte le scarpe nei casini. - Quella cretina! Imbecille che non è altro! Stupida malata mentale, ma che cazzo avrà combinato?! Deficiente! - continuava a ripetere mentre cercava uno slargo dove fare inversione. Decise infine di andare avanti e di imboccare l’autostrada, avrebbe fatto sicuramente prima. - Pronto? Sono Sergio, mi dispiace, ma devo annullare l’appuntamento… mi è capitato un imprevisto… lavoro, sì… infatti… ci sentiamo presto, scusami ancora… ciao, ciao. Rabbiosamente infilò la corsia del tele a tutta velocità rischiando di travolgere la barra che si alzò all’ultimo istante.
- Signora Marcella, le ho incartato altri due flaconi di Xanax… per i soldi non si preoccupi, ma la ricetta, appena si sarà ristabilita, dovrebbe portarmela, se può… va bene? - Va bene, grazie dottore! - rispose Marcella fissando lo sguardo del farmacista e approvando il tacito accordo sancito dalla benigna e paterna ipocrisia del dottor Masi; entrambi sapevano che quella ricetta non sarebbe mai arrivata in farmacia, e andava bene così. - Sergio! - esclamò Marcella alzandosi in piedi e mimando un abbraccio in forma embrionale. - Ma che ca… cosa hai combinato?! - La signora niente! Buonasera signor Fanti, sua moglie è stata aggredita da due malviventi che le hanno rubato la borsetta! - intervenne il dottor Masi. - Ti sei fatta fregare anche la borsa! Sei veramente incredibile, guarda! Non si
può più lasciarti andar fuori da sola che ne combini sempre una! Ma è possibile?! Marcella trattenne a stento le lacrime e si chiuse nel suo solito silenzio, la sua unica difesa. - Signor Fanti! Le ripeto che sua moglie non ha nessuna colpa di quel che è successo e non mi sem…” - E io le dico di non rompermi i coglioni, va bene?! Vada dietro al banco a vendere le sue pasticchine che a mia moglie ci penso io! Chiaro?! I due commessi e alcuni clienti si voltarono verso tutti e tre. Il dottor Masi restò interdetto e si sforzò di reprimere un crescente senso di disagio. Decise che era meglio allontanarsi, ma non voleva obbedire del tutto all’ordine di quel mànfano ignorante e insensibile, quindi si avvicinò agli scaffali dei prodotti per neonati e improvvisò un finto e quanto mai improbabile inventario. Il ritorno a casa ebbe come colonna sonora soltanto il motore del pick-up. Sergio lanciava sporadicamente qualche occhiata di rimprovero a Marcella, scuotendo la testa. Marcella stava immobile, sempre più trincerata nel suo ostinato silenzio. Una volta a casa, sapeva già perfettamente cosa fare. - Sei proprio ridicola, hai anche la gonna scucita di dietro… si vede tutto il tuo culo enorme, vai a cambiarti, che è meglio! - disse Sergio mentre sua moglie stava scendendo di macchina. Marcella entrò in casa e senza batter ciglio andò a chiudersi in bagno. Si tolse la gonna, prese da un cassetto le forbici e la tagliò tutta a quadratini. Quindi si tolse la giacchetta e le riservò lo stesso trattamento, poi entrò sotto la doccia e si fece tre shampoo per non lasciare alcuna traccia dell’acconciatura che aveva tanto desiderato e che si era concessa poche ore prima. Si asciugò accuratamente e indossò una tuta da casa. Si guardò allo specchio, indifferente. Prese le forbici e le guardò intensamente, affascinata dal freddo filo della lama e dalla punta perfetta. Se le ò sulle labbra smunte. E Infine si decise: prese con la punta delle dita alcune ciocche di capelli, le tirò forte e cominciò forsennatamente a tagliare e tagliare.
Totem
Piazza se ne stava nel suo letto, nascosta sotto una montagna di coperte e lenzuola. Aveva appena vissuto una notte di ione con Eric. Un nome a lei già familiare. Avevano fatto l’amore per ore, sudando di piacere. Poi si erano addormentati l’uno abbracciato all’altra. Sognandosi. Ora era sveglia, da sola, ma di lui respirava ancora il profumo di un corpo forte e coraggioso. Non sapeva bene cosa avrebbe fatto, appena alzata, ma lo avrebbe cercato, per salutarlo, per augurargli buongiorno, per abbracciarlo, per raccontargli della sua notte, per sorridergli, ma la paura che la realtà le rovinasse tutto la teneva ancora sotto le sue mille coperte e lenzuola. Finalmente era riuscita ad innamorarsi, ma tutto era accaduto in un caos incomprensibile. Non riusciva a rimettere ordine in quella serata assurda dove il nonno aveva perso il controllo. Ti amo Eric, ti amo. Continuava a ripetersi nella testa, sorridendo ad occhi chiusi e accarezzandosi dolcemente, molto dolcemente.
Eric neppure si ricordava da quanto tempo. Detestava piangere e detestava la gente che piangeva. Vedere sua madre piangere gli provocava un dolore fisico che poi scivolava in una valanga di odio nei confronti di suo padre, colui che di quel pianto ne era quasi sempre la causa. Nessuno aveva mai visto piangere Eric. Non piangeva. Ogni volta che litigava con sua sorella, oppure ci scherzava e lei, facendosi male durante il gioco della lotta, piangeva, lui la odiava e la odiava ancora di più quando sua madre li raggiungeva in camera di corsa per venire a vedere cosa era accaduto. Non ricordava molto bene che tipo di sogno stesse facendo prima di svegliarsi, però era qualcosa di bellissimo, una sensazione meravigliosa. Era abbracciato ad una donna, giovane, bella, tanto quanto lo era Piazza e forse anche di più. Ma rispetto all’inquietudine, la delusione, la rabbia dell’incontro avuto con lei la sera prima, l’abbraccio del sogno gli aveva regalato una sensazione di benessere mai conosciuta. Non c’era stato niente di erotico, ma solo una grandissima sensazione di pace e serenità. Ancora si sentiva avvolto da quelle braccia femminili di cui non sapeva spiegarsi le origini. Appena riaperti gli occhi aveva sentito lacrime calde scivolargli sulle guance, lacrime di felicità, che
provenivano da una vita di sogno, lacrime lontanissime dalla realtà che lo circondava. Provò ad alzarsi, ma indolente ricadde sul suo sacco a pelo. Una casa vecchia, distrutta da mazzate di rabbia, polvere e sporco ovunque, pietre spezzate sparse sul pavimento. Le lacrime di Eric avevano dunque ripercorso tutto il viaggio in moto per arrivare in quello schifo di paese e solo in quel momento, sommerso da lacrime e singhiozzi, comprese quanto disperata fosse stata la sua fuga, forse iniziata solo per dare una lezione all’odiato padre. Una fuga senza speranza, che l’aveva portato in una casa disabitata da anni, senz’acqua, senza luce. Era lì da pochi giorni, ed era già riuscito a far scoppiare un caos. Quando la sera prima era uscito dalla casa di quel vecchio pazzo, comprese che questa fuga sarebbe stata molto più breve di quanto lui avesse immaginato. Disperatamente solo, chiuso dentro il suo sacco a pelo, si era ormai convinto di non poter riuscire ad andare avanti, seppure fosse consapevole di non voler tornare a casa sua. Eric piangeva come un uomo che sa d’aver perso la sua battaglia. Piangeva come un bambino che ha perso tutto, e che più di ogni altra cosa ha perso se stesso, ed ora aveva paura. - Forse non ho scelto il momento migliore? Eric non lo aveva sentito entrare, da qualche minuto non sentiva altro che il suono soffocato dei suoi singhiozzi che non riusciva a reprimere nonostante la visita improvvisa. Quel tizio lo aveva già visto are, doveva essere il proprietario dei terreni che salivano lungo la collina sopra casa sua. Di lui non sapeva neppure il nome, chi fosse e che cosa diamine volesse in quel momento. Certa gente arriva sempre nei momenti peggiori, pensò. Poi percepì un senso di pietà profonda negli occhi del suo visitatore. - Se vuoi ne riparliamo, magari più tardi, o anche domani, ma credo di doverti dare una serie di notizie importanti. Diciamo che si potrebbe iniziare una collaborazione. Eric continuava a piangere. - A proposito, non mi sono presentato, mi chiamo Attilio, abito non lontano da casa tua e sono il produttore del miele che ieri sera avrai visto sul pavimento uscendo da casa di Silvano. Proprio ieri sera parlando con il mio Pietrino abbiamo avuto una grande idea, ma facciamo così, riprenditi un po’ e vieni a
trovarci, con calma.
- Maledizione, maledizione e maledizione! Silvano si metteva seduto e si alzava. Sbatteva il bicchiere sopra il tavolo, poi lo posava sul lavandino, poi apriva l’acqua, la chiudeva e la riapriva. Beveva acqua, poi vino, poi un morso ad un pezzo di pane e poi lo sputava. - Devo restare calmo, un attimo di calma e tutto si sistema. Mi sono fatto prendere la mano! Piazza non doveva esserci! Sotto lo specchio Piazza aveva messo una foto di sua moglie e ci aveva scritto “ciao nonna”. La scritta era circondata da fiori dipinti. Margherite bianche, che erano i fiori preferiti della nonna. Silvano, agitato come non si era mai visto, freneticamente si muoveva nella casa. Di tanto in tanto si fermava davanti alla foto della moglie in silenzio per qualche secondo, poi sospirava e ripartiva. - Quei due non mi piacciono per niente. Si guardavano che… meglio se non ci penso. Lo sapevo, lo sapevo. Sin dal primo momento ho capito che con quel ragazzo sarebbero arrivati un sacco di guai. Ma ora dovrà fare i conti con me, lo sistemo io. Che si crede? Di venire a rovinare il lavoro di anni? Piazza non lo doveva conoscere, non lo doveva neppure vedere. Da dove si comincia? Ci vuole un piano! Prese un foglio, lo strappò, lo buttò nel cestino. Poi si chinò per vedere bene cosa aveva strappato. - Cavolo! Continuo a fare cazzate. Ho strappato la bolletta dell’Enel. Sediamoci. O mi calmo oppure finisce che ne combino una dietro l’altra.
Nel frattempo, la montagna intorno aveva deciso di mettersi buona buona ad ascoltare.
In casa di Attilio Eric provò un’emozione violenta. Appena varcò la soglia gli
corse incontro un piccolo uomo malfermo sulle gambe, con le braccia alzate e le mani che si aprivano e si chiudevano. Indossava un paio di pantalonacci neri di una tuta sformata e una felpa gialla enorme. Rideva che quasi sembrava felice. Era emozionato e non lo nascondeva. Capelli cortissimi. Un filo di saliva gli scendeva dalla bocca. Scuoteva la testa, ritmicamente. Anche Eric sorrise e per un attimo dimenticò tutti i suoi casini. Pietrino lo prese per mano e lo invitò a seguirlo. Eric si voltò un attimo verso Attilio che annuì e gli fece cenno di andare. La mano di Pietrino era sudata e tremava. Si aprì la porta. Entrarono insieme nella stanza di un pittore dove tutti i quadri erano in bianco e nero, tutta la stanza era bianca e nera. Un numero impressionante di immagini, bianche e nere. Pietrino continuava a tenere Eric per la mano e lo trascinò davanti ad un quadro, piccolo. Dentro il quadro una frase “Io sono il figlio del carbone” - Io, io, io, io - continuava a ripetere Pietrino. - Permesso? - gridò Piazza affacciandosi alla porta.
- Piazza, ma che bella sorpresa, che ci fai qui? - Dopo l’accoglienza che le abbiamo riservato ieri sera a casa del nonno, volevo scusarmi. - Ma ci mancherebbe altro, tu qui sei e sarai sempre la benvenuta. - Sono ata proprio ora dalla casaccia, perché le scuse le dovrò fare anche a quel ragazzo, ma non l’ho trovato. - Eric è qui, è nell’altra stanza con Pietrino. Lo hai mai conosciuto Pietrino? - Qualche volta ci siamo incrociati, di sfuggita, ma non siamo mai andati oltre un sorriso. - Ti accompagno io; andiamo a trovare quei due. Quando Piazza si affacciò nella stanza Pietrino teneva ancora Eric per mano, mano che Eric lasciò bruscamente alla vista di Piazza. In altre circostanze per Pietrino gestire una visita improvvisa sarebbe stato impensabile, ma in quel momento la sorpresa di vedere anche Piazza nella sua stanza fu tale da lasciarlo
senza parole. - Li hai fatti tu tutti questi quadri? - Chiese Piazza. - Rispondi a Piazza, ti ha fatto una domanda - aggiunse Attilio. - Scì - rispose faticosamente Pietrino. Piazza continuava a guardarsi intorno, fermandosi su un quadro, poi su un altro. Contò ben sette quadri sui quali era riportato il nome Piazza: Piazza 1, Piazza 2, Piazza 3, Piazza 4, Piazza 5, Piazza 6, Piazza 7. Eric non riusciva a collegare il nome di quella bella ragazza che ieri sera lo aveva tanto colpito all’immagine di tutti quei quadretti, dove in ognuno non si vedeva altro che uno spiazzo di terra dentro un bosco circondato da alberi. - Cavolo! Perché non hai mai fatto sapere a nessuno che sei un pittore, che dipingi, che… Attilio per quale motivo non avete mai fatto vedere questi quadri a nessuno? - Pietrino non ha mai voluto. a molto del suo tempo a dipingere, lo ha sempre fatto, ma oggi è la prima volta che qualcuno vede i suoi quadri, oltre a me. Non c’era un solo quadro uguale all’altro. Ognuno aveva una forma diversa. Alcuni erano piccoli e grandi triangoli, altri rettangolari, altri tondi, ed ancora così in un gioco di geometrie. Ed altri dentro la forma di una foglia o di un sasso. E poi i nudi di donna, tante donne dalle forme… mai viste donne così. Piazza si avvicinò per vedere meglio. - Sono rami, a vederli non sembra, ma sono proprio rami. Gliene porto a decine, e lui sceglie i migliori. In ogni ramo Pietrino riesce a vederci una donna. A volte lo osservo mentre sceglie e davvero non riesco a capire come possa vedercela una donna, ma poi, guardate anche voi, ce la vede, no?
Donne bellissime, seni e culi meravigliosi, e pochi vestiti che rendono ancora più nude quelle donne di legno. Curve, rami e donne. E poi libri. Decine di libri sulle cui copertine Pietrino aveva giocato con i titoli ed i nomi degli autori. Titoli e
nomi che erano scomparsi nel contesto di una fantasia che su quello spazio di pochi centimetri aveva liberato tutto il suo estro. Tutto il bianco e tutto il nero del mondo chiusi dentro una stanza piccola e buia. E ora colorata dalla bellezza di Piazza, che continuava a muoversi sollevando un vento finalmente nuovo. Ed Eric, che sempre di più sembrava non comprendere quanto da qualche giorno accadeva attorno a lui, e Pietrino, con il cuore in gola, con così tanta felicità dentro da mostrarla in sottili fili di saliva che gli calavano giù dalla bocca. Infine Attilio, che, commosso, si voltò e uscì dalla stanza. - Vado a preparare una buona colazione per tutti, non mancherà il miele, ovviamente. - E questa cos’è? - chiese Eric. Attilio si fermò, proprio mentre stava per uscire. - Questa è una rapazzola, un letto da carbonaio. Pietrino ha voluto che ne fi una qui, nel suo piccolo angolo di mondo. E come puoi vedere l’ha voluta proprio come quelle che si costruivano i carbonai. - E da dove viene tutto questo amore per la vita dei carbonai? - chiese Piazza. Attilio si avvicinò guardandola a lungo e in silenzio. - Questo letto dei carbonai forse è più comodo del mio sacco a pelo - disse Eric. - In effetti Eric la tua vita alla casaccia non deve essere un granché. In una casa in quelle condizioni non si può vivere, ma ne parleremo tra poco quando avrò finito di preparare la colazione. Attilio uscì e Pietrino lo seguì. Piazza ed Eric rimasero soli, dentro la stanza dei sogni di un “bambino”. - Io non ci capisco più niente - imbarazzatissimo Eric non sapeva cosa dire. - Qui in montagna non succede mai niente. Tu sei arrivato da pochi giorni e sembra quasi…
Blues
I due ragazzi erano ancora sdraiati sui sedili della Polo della mamma di Piazza. E tenevano tra le mani il regalo di Pietrino. Lo osservavano attentamente, lo accarezzavano, se lo avano sulla fronte, tra i capelli. Non era un pezzo di legno intagliato a forma di donna, era un elegante abito di castagno indossato da un corpo di donna vivo, palpitante. Toccandolo, potevi sentire sotto i polpastrelli la calda pelle del seno, i capezzoli indurirsi, la fremente incurvatura del fondoschiena, il delicato pube. Eric e Piazza avevano da poco fatto l’amore, ma quell’oggetto misterioso tra le loro mani stava riaccendendo violentemente i loro sensi. Era come se quel pezzo di legno nascondesse carne e sangue pronti ad esplodere. Presto i due ragazzi furono sorpresi da un nuovo e osceno desiderio e, obbedienti alla volontà di quel perverso feticcio, annacquarono la ragione e liberarono il loro istinto animale. Eric avvicinò il piccolo totem al seno ancora nudo di Piazza, massaggiandolo dolcemente, indugiando sui capezzoli turgidi e lucidi di saliva; quindi si accucciò sul suo ventre e le baciò avidamente il pube, inalando profondamente l’odore bagnato. La ragazza si lasciò andare al piacere con un lungo gemito, inarcando la schiena. Eric, infilando un braccio tra la vita di Piazza ed il sedile dell’auto, le cinse i fianchi e la invitò a girarsi. La ragazza, contemporaneamente schiava e padrona, assecondò la richiesta lanciando ad Eric un ultimo sguardo ferino, poi si voltò lentamente, complice impaziente e arrendevole. Il giovane, tenendo stretto nella mano quel pezzo di legno che ormai aveva assunto una forma fallica, si avventò su quel culo sublime e i gemiti di piacere di Piazza incoraggiarono Eric ad andare avanti. - Ti faccio male? - No… continua! Eric non se lo fece ripetere, era eccitatissimo. Piazza sudava di piacere. Un attimo dopo erano come città desolate da cui è appena ato un uragano. Distrutte e deserte, immerse in un totale silenzio. Diventate una città sola. Eric si guardò le mani, non c’era parte del corpo di Piazza che non avesse accarezzato e stretto con folle desiderio. Piazza continuava ad accarezzargli la pancia. Con l’unghia del mignolo entrava ed usciva dall’ombelico. Eric chiuse gli occhi per
un istante e subito affiorarono immagini, momenti, ricordi.
Il ragazzo poggiò la testa sullo schienale dell’auto di Grazia e guardò Piazza. La osservava mentre puntava i piedi vicino ai pedali e, sollevando il bacino, si tirava su le mutandine. Era goffa. Puerile e goffa. La femmina che poco prima incarnava l’erotismo e la sessualità più estrema gli sembrava ora impacciata e goffa. Si sentì intenerire e provò il desiderio di abbracciarla, ma non lo fece. - Perché ti chiami Piazza? - È un soprannome che mi ha affibbiato un amico di mio nonno, carino no? Eric non rispose. - E perché ha voluto chiamarti così? - Più che altro è un augurio. La piazza è forse il lavoro più importante dei carbonai, le fondamenta di tutto ciò che verrà dopo. La piazza è il luogo che viene accuratamente scelto e preparato con un lavoro di estrema precisione, deve essere in pari, in bolla perfetta. Se così non fosse, la legna invece di cuocere lentamente brucerebbe in un istante e… addio carbone! - Perché dici che è un augurio? - È l’augurio di essere una persona equilibrata, imparziale e giusta. Una persona che non brucia tutto il lavoro di una vita! - Ah, capisco… - fece Eric guardando fuori dal finestrino. - E tu? - Cosa? - Perché ti chiami Eric? - È un nome. - Lo so che è un nome, scemo! Volevo dire perché Eric e non Enrico! - È stata un’idea di mio padre, una delle sue tante puttanate. È sempre stato un
fan di Eric Clapton ed ha voluto chiamarmi così. - E a te non piace, vero? - Chi?! - Eric Clapton! Chi sennò?! - Mi fa letteralmente cacare! Ripetitivo, lento, poco originale. È uno di quelli che con un riff ci fa almeno una decina di pezzi… un po’ alla Vasco, che con quattro accordi ci ha costruito una carriera! Insomma, non senti il sangue nella sua musica! - Ti piace la musica? - Soltanto quella suonata bene. - Per esempio? - Stevie Ray Vaughan! - Chi?! - squittì Piazza aggrottando la fronte. - Stevie Ray Vaughan! Un genio, un dio della Stratocaster, un talento inarrivabile e sovrumano, altro che quello stronzetto di Slowhand! - Slowhand chi? Non ci capisco più niente! - Slowhand, mano lenta, è un soprannome di Clapton! - Ah… raccontami di questo Stevie, dai! - chiese Piazza sinceramente interessata all’apionato racconto di Eric. - Te l’ho detto, si tratta di un genio della chitarra elettrica blues. Un modo di suonare unico. Pensa che nel 1988 è venuto anche al Pistoia Blues e in quella magica serata dell’otto luglio io c’ero! Che meraviglia! Ho tutti i suoi album in vinile e quasi tutti i DVD dei concerti più famosi! - Mi piacerebbe vederlo… se torna in Italia magari ci andiamo insieme, ti va? - Non credo che torni in Italia… - fece Eric con tono sarcastico - è morto!
- Ah, credevo… - senza lasciar finire la frase a Piazza Eric riprese il suo racconto. - È morto il 27 agosto del 1990 nel Wisconsin dopo un concerto. Quella sera aveva suonato con Robert Cray, Buddy Gay e il maledetto Clapton. Alla fine era molto stanco e chiese di salire subito sull’elicottero che lo avrebbe condotto al suo albergo di Chicago. Clapton, che avrebbe dovuto partire per primo, gli lasciò il posto. Ecco, successe che poco dopo il velivolo si schiantò su una collina a causa della nebbia e della scarsa esperienza del pilota, merda! Questa cosa mi ha sempre fatto incazzare a bestia! - Calma! Perché ti scaldi tanto? - Perché lui non doveva morire, ecco perché! E poi… mio padre… quello stronzo… mi ha sempre preso per il culo… anche quando da ragazzino mi scoprì che piangevo dopo aver saputo la notizia! - Lo odi tanto? - Non abbastanza, non quanto vorrei… - Se vuoi ne parliamo, eh? - Un giorno, magari. Andiamo, è tardi.
Il ragno rosso e la lana Shetland
Quando Eric si decise a buttare i piedi giù dal letto erano già le undici ate. Scese le scale e si preparò il caffè mangiando qualche biscotto in piedi. Accese la TV, ma la spense subito. Dopo il caffè traccheggiò un po’ intorno al lavello di cucina, poi traballando uscì sul retro e si sdraiò all’ombra del faggio. Si sentiva rilassato, nonostante si fe spazio tra le pieghe della sua mente una crescente impazienza; chissà perché Attilio aveva insistito così tanto affinché andasse da lui alle tre in punto, mah?! Certo che quell’uomo era un portento, non solo aveva allacciato al proprio pozzo un tubo dotato di autoclave che forniva ad Eric acqua potabile a volontà, ma gli aveva anche regalato un piccolo generatore di corrente adeguato al suo fabbisogno. La casaccia era finalmente vivibile, per il momento. Altri problemi si sarebbero presentati alla fine dell’estate: il caminetto e la stufa di ghisa non sarebbero certo stati sufficienti a scaldare tutta la casa. Ma Eric non intendeva angustiarsi per questo e si mise ad osservare gli uccelli che beccavano il ragno rosso sulle foglie del faggio. Per quanto quei fastidiosi animaletti fero di tutto per nascondersi non riuscivano a sfuggire alla fame degli storni e dei eri che, aggrappati a testa in giù ai rami della pianta, in punta di becco facevano pulizia sotto le fronde. Per Eric osservare la natura era come assistere ad una lezione di filosofia e si divertiva a confrontare ciò che riusciva a vedere con le situazioni che stava vivendo. Percepiva che qualcosa di grave stava per accadere e che dopo niente sarebbe stato uguale a prima. Avvertiva che quella patina che copriva la storia della casaccia e quello strano comportamento del nonno di Piazza avrebbe presto fatto la fine del ragno rosso.
Marcella fissava suo marito che guardava la TV. Ogni tanto abbassava lo sguardo e si sforzava di concentrarsi sulla lana Shetland che teneva in mano e sul punto a conchiglie. Si era messa in testa di fare una sciarpa per Eric, addirittura a tre colori: giallo, rosso e blu. Lo sguardo tornava però su Sergio e i suoi piedi nudi e sgraziati appoggiati sul tavolino: intravedeva, non senza una sottile e quasi impietosa soddisfazione, una ragnatela di lacci azzurrognoli che gli imprigionavano le caviglie. Lei le vene varicose non ce le aveva e questo le bastava per sentirsi più giovane. Sergio era invecchiato davvero male, pensò. Altri tre punti, qualche centimetro di lana scorse ancora tra le dita di Marcella e
il suo sguardo si fermò sulla pancia di suo marito. Si muoveva lentamente avanti e indietro, molto lentamente. Si accorse che Sergio dormiva. Si alzò attenta a non far rumore e gli si avvicinò da dietro lo schienale del divano. Piano piano si chinò su di lui e lo fissò attentamente; sentiva l’alito uscire dalla bocca spalancata, sapeva di aglio e carne rancida. Gli contò le rughe, i punti neri sul naso, le efelidi. Com’era imbruttito! Un mugolìo di Sergio la fece sobbalzare, quindi soffocò una risata portandosi una mano alla bocca. Si diede della sciocca e nel contempo sentì riempirsi il cuore di una tenerezza che non provava da tempo. Le affiorarono davanti agli occhi alcune immagini di sé e di Sergio quando da giovani partivano con la moto per andare a Baratti e restarci tutta la notte. Si ricordò anche di quella volta quando, a notte fonda, fecero l’amore nell’acqua al chiaro di luna circondati dalle lampare. Com’era bello Sergio! Ora lo guardava e le sembrava un’altra persona. Si sentiva però legata a lui da un filo invisibile, provava un affetto profondo anche se non aveva più il minimo interesse per quell’ammasso di carne sbattuta sul divano! Eppure, in qualche maniera, ne era attratta, doveva ammetterlo. Si chinò ancora di più avvicinando le labbra alla fronte di Sergio, le protese in avanti sfiorandogli quasi la pelle quando udì un tonfo sordo alle sue spalle che fece tremare il pavimento. Sergio scattò come una molla per lo spavento e con la fronte colpì gli incisivi di Marcella che ricadde pesantemente a sedere per terra. Mezza stordita cercò di rialzarsi spingendo con le mani sul parquet mentre Sergio imprecava tenendosi la fronte col palmo di una mano. Marcella realizzò che sotto la mano c’era qualcosa di soffice che si muoveva: intimorita la ritrasse, abbassò lo sguardo e vide Emo nella sua vestaglia a quadri sdraiato sul pavimento con le caviglie imbrigliate nel filo di lana. - Ma che cazzo fai, cretina! - Scusa Sergio, io… - Scusa una sega! Guarda che cazzo hai combinato! Sergio si guardava la mano insanguinata mentre con l’altra tamponava col fazzoletto la ferita continuando ad inveire contro Marcella. Intanto Emo, tra una bestemmia e l’altra, si era rialzato strappando rabbiosamente quel filo rosso che aveva avvoltolato ai piedi e che era stato la causa di tutto.
La brace sotto la montagna
- Tutto inizia dal mare, ognuno di noi ce l’ha dentro. Ho promesso a Pietrino che presto, molto presto, ce ne andremo a vivere al mare, solo il tempo di trovarci una casa giusta. Dopo tanti anni è venuto finalmente il momento di andarsene da qui. Ma torniamo al mare, ci restituisce sempre i suoi cadaveri, non li trattiene. Ci siamo davanti, seduti sulla spiaggia, in questa bella giornata. Le onde ci rovesciano addosso un cadavere. Non si tratta di un cadavere qualunque: vi ho invitato per parlarvi della mamma di Pietrino. Piazza ed Eric si sedettero di fronte alla poltrona di Attilio. Pietrino stava invece su una sedia in disparte. Sembrava lavorare su un pezzo di legno, quasi che nella stanza non ci fosse nessuno. Nella stanza si respirava un odore forte di attesa.
- La mamma di Pietrino si chiamava Flora ed era senz’altro una delle più belle donne di tutta la montagna pistoiese. Il padre di Flora era un medico, il dottore di tutti, sempre disponibile ad ogni ora della notte e del giorno. Da queste parti un dottore, ancora oggi, è un uomo importante, ma quaranta o cinquant’anni fa il dottore era un uomo indispensabile. Ci si rivolgeva al medico per ogni tipo di problema e di lui si aveva un rispetto pari ad un’autorità. Flora era figlia unica. I suoi genitori la videro venire al mondo quando ormai erano convinti che non avrebbero avuto figli. Si sarebbe potuto dire che il dottore e sua moglie sembravano più nonni che genitori, ma assolvevano al loro compito di madre e padre così bene che la loro età non era mai stata un peso. Erano certo quel che si poteva definire una famiglia felice che viveva in un ambiente dove tutti li amavano e rispettavano. Flora incontrò i vostri nonni e da quel giorno tutto si trasformò in un inferno. Erano stati carbonai assieme e per molti anni condivisero mesi e mesi di vita impossibile nella macchia, in giro per l’Italia a produrre un fuoco nero che il più delle volte non gli restituiva neppure le spese. Ma a voi due di questa vita nessuno ha mai raccontato niente, mi sbaglio?
Eric e Piazza non risposero. - Non mi sorprende affatto che i vostri nonni abbiano ritenuto opportuno tenervi all’oscuro di tutto questo. Probabilmente non sapete neppure che i pistoiesi sono stati i migliori carbonai d’Italia e per questo motivo venivano chiamati a far carbone in posti lontani da qui. Occorrevano settimane di viaggio solo per raggiungere località di montagna sperdute, magari in Calabria, Basilicata, Sardegna. Due marmocchi tenuti insieme da un’amicizia profonda riuscivano a sopportare una vita da bestie. Assieme decisero di abbandonare quella vita, probabilmente proprio al ritorno da uno di quei viaggi dove il ricavo fu così scarso da non riuscire a portare a casa niente. Dissero basta e cambiarono vita. Dove ora c’è il bar “La sosta” in quegli anni c’era una piccola gelateria artigianale. D’estate il gelato si vendeva, i bambini rubavano gli spiccioli nei bussolotti di cucina per poterne mangiare uno. Di gusti ce ne erano tre, quattro, qualcuno in più la domenica. Gestiva la gelateria Giorgione, un omone simpatico a tutti che con poche pretese mandava avanti il lavoro nella speranza di trovare prima o poi qualcuno che prendesse il suo posto. Cercava una persona giovane, volenterosa, che avesse amore per quel lavoro che piaceva tanto ai bambini. Di persone ne trovò due: i vostri nonni, che dal nero del carbone arono al nero del gelato alla cioccolata. Fu una fortuna per loro: uscirono dall’inferno per ritrovarsi in paradiso. Dopo la prima estate ata in tre alla gelateria i due ragazzi si erano convinti che quello sarebbe stato il loro lavoro e come avevano condiviso la vita da disperati nei boschi di mezza Italia, così vollero condividere quella dolce avventura. Il loro progetto era molto semplice: vendere gelati d’estate tanto nella gelateria di Giorgione che in un’altra da aprire giù a Pistoia, dove certamente molta più gente avrebbe potuto gustare il loro lavoro. Giorgione con entusiasmo insegnò ai due l’arte di saper fare un buon gelato e loro fecero presto ad imparare. La loro giovane voglia di fare riuscì in breve a conquistarsi la fama del miglior gelato della zona. Le due famiglie dei ragazzi erano contrariate, ma presto dovettero ricredersi. D’estate i due ragazzi portavano a casa molti più soldi di quanti non ne avessero mai portati con il lavoro di carbonai. Furono mesi bellissimi, dove tutti erano felici per la nuova vita presente e per quella futura, che si riusciva finalmente a vedere con una nuova prospettiva. Io in quei giorni ancora non vivevo da queste parti, la mia vita era in giro per la Toscana a cercare di vendere tessuti. Quanto vi ho narrato mi è giunto attraverso i racconti di Ilde, mia moglie, e dei suoi genitori.
I vostri nonni usciti dall’inferno del carbone si sorpresero di non essersi mai accorti di quante ragazze vivessero attorno a loro, di non averle mai notate prima. D’altronde dalle sbarre di una prigione il mondo fuori è un mistero sconosciuto ed irraggiungibile. I due ragazzi incontrarono Flora e quella felicità appena trovata divenne un nuovo inferno: si innamorarono della stessa ragazza e il loro rapporto si trasformò in una guerra aperta. Due amici per la pelle che insieme per anni si erano divisi una vita nera e sporca, si trovarono di fronte ad una battaglia che li vedeva l’uno contro l’altro. Flora: la ragazza più bella del paese, era una meta possibile e nessuno dei due voleva rinunciarci. Ovviamente Flora di tutta questa battaglia non ne sapeva niente, si limitava a salutare quei ragazzi che a turno ne seguivano ogni o. Feroci liti si consumarono fra i due, nessuno voleva concedere all’altro Flora. Entrambi non volevano neppure considerare l’idea che fosse eventualmente Flora a scegliere, il problema doveva essere risolto tra loro e soltanto il “vincitore” si sarebbe potuto avvicinare a Flora. Fino a quel momento la bella ragazza sognata giorno e notte non avrebbe dovuto sapere niente di quella battaglia. Litigavano su tutto, ma su questo erano d’accordo. L’idea che Flora non ne volesse sapere niente di entrambi neppure la prendevano in considerazione. In quale diabolico meccanismo si erano infilati i vostri nonni nessuno lo seppe mai. Intanto Giorgione aveva perso molto del suo entusiasmo nel vederli litigare così tanto, era sempre più dubbioso che fosse veramente uno di loro la persona giusta a cui lasciare la gelateria. Pensate un po’: quei due a litigarsi da una parte Flora e dall’altra la gelateria, ma senza rendersi conto che stavano lavorando per perderle entrambe. Era il 10 Novembre. Spesso mi sono chiesto cosa sarebbe stato di questa montagna se in quella piovosa sera d’autunno quei due fossero riusciti a fermare la loro feroce determinazione. Flora fu trovata giù fino nel fiume priva di sensi: era sdraiata con i piedi immersi nell’acqua. Vestiti strappati, quasi nuda, ferita e graffiata su tutto il corpo. Fu proprio il dottore a trovarla in quelle condizioni, accompagnato da alcuni amici che lo aiutarono a cercarla. Nei giorni successivi la ragazza restò in casa e nessuno seppe più niente di lei. Tutti sospettarono i vostri nonni, c’era la certezza che quello scempio fosse opera di uno dei due, restava solo da capire chi. Della loro ossessione per Flora lo sapevano tutti, ma il dottore non volle denunciare nessuno. I carabinieri più volte lo invitarono a denunciare l’accaduto, in modo che si potessero avviare le indagini e garantirono che il colpevole, o i colpevoli, sarebbero saltati fuori. Il dottore mai non spiegò a
nessuno il motivo della sua scelta. Era troppo sconvolto per come aveva trovato sua figlia e decise di sottrarla ad interrogatori umilianti necessari alle indagini. Dopo pochi mesi girò la voce che Flora fosse incinta e la notizia fu accolta come una tragedia che si aggiungeva a quanto già accaduto. Sarebbe nato un bambino. Mentre qui si consumava un dramma troppo grande per una montagna così piccola, io ignaro di tutto vivevo felice lontano da qui. Vidi Ilde una domenica d’estate eggiare con il gelato in mano. Mi fu facile innamorarmi di lei. E nonostante il parere contrario della mia famiglia lasciai la vita di agente di commercio, certo che la mia felicità fosse qui alle Piastre accanto alla mia Ilde e alla sua famiglia. Qui incontrai Pietrino, aveva pochi mesi di vita, e lo sentii subito come un figlio, così come Ilde. Pietrino venne affidato alla famiglia di Ilde dal dottore, pochi giorni prima che tutta la famiglia di Flora si decidesse a lasciare le Piastre e ad andarsene per sempre. Non guardatemi così, intuisco la vostra domanda: che fine ha fatto Flora? Come può aver lasciato il suo bambino e non essere mai più tornata? Si rifugiarono a Roma, una città dove i segreti di una piccola comunità come la nostra si nascondono nelle pieghe di uno dei suoi tanti quartieri. Ma per Flora dimenticare fu impresa impossibile. Abbiamo saputo da voci, ripeto, solo voci, che fu ricoverata al Santa Maria della Pietà, dove Flora è entrata e non ne è più uscita.
I due ragazzi uscirono da casa di Attilio frastornati e confusi, ma appena Eric incontrò lo sguardo di Piazza avvertì subito qualcosa di diverso: lo stava fissando in modo strano, come se volesse indagare nel suo cuore e allo stesso tempo accusarlo di qualcosa. - Che c’è?! - Niente! - E allora perché mi guardi così?
- E come ti devo guardare?! Lo hai sentito anche tu, no?! Eric guardò intensamente gli occhi di Piazza: ormai ne era certo, la ragazza aveva deciso che l’artefice di tutta quella tragedia era stato il vecchio Emo ed Eric era colpevole di esserne il nipote. - Ah, la pensi così? La pensi così?! Allora lo sai che ti dico? Vaffanculo!
Carbone e false verità
Piazza era confusa. Il breve racconto a casa di Attilio le era sembrato lungo una settimana, invece non si erano trattenuti per più di mezz’ora. Leggeva in quella brevità una scelta di Attilio. La scelta di comunicare un messaggio così importante, per poi lasciare a loro due il resto. Sarebbero potuti tornare dai nonni a chieder conto di quel ato, ma entrambi sapevano che non sarebbe stata la strada migliore. Poteva essere tutta una gran balla, quella raccontata da Attilio, per chissà quale motivo, ma se fosse stata la verità, perché i nonni avrebbero dovuto svuotare il sacco a loro se ancora non lo avevano fatto in tutti questi anni? Nella confusione del momento Piazza aveva comunque dei punti chiari: Eric era arrivato nella sua vita per smontare l’immagine del nonno ed in effetti da qualche giorno Silvano era in preda ad un incomprensibile isterismo mai visto prima. Attilio c’era da sempre, ma solo adesso, dopo l’arrivo di Eric, si era deciso a parlare. La visita a casa del nonno, solo per regalare del miele, mai regalato prima di allora, era ancora un altro segnale preciso. Piazza sapeva che per avere risposta alle sue domande c’era solo un uomo, ed era Virgilio. Con i suoi settantatré anni Virgilio faceva parte di quel gruppo di ex carbonai che amava sbalordire i ragazzini delle scuole, quelli che increduli chiedevano conto di come potesse essere possibile dormire dentro una rapazzola per sette o otto mesi senza impazzire. Virgilio era bravo nel riuscire a non farsi mai prendere la mano. Non raccontava tutto, sapeva benissimo che così facendo non sarebbe riuscito a raggiungerli. Quella vita, seppur vissuta solo pochi decenni prima, era troppo lontana da quella di studenti vestiti sempre alla moda e con in tasca l’ultimo modello di cellulare. Solo pochi di loro riuscivano a vedere le mani di Virgilio, a vedere in quelle dita la storia che ci era ata. L’uomo, ogni volta che i bambini arrivavano al museo, li accoglieva stringendo la mano a tutti e chiedendo ad ognuno il proprio nome. In quel momento lui gli prendeva le mani e stringeva quelle piccole dita morbide e delicate dentro le sue, enormi e rugose. Loro quasi si sentivano graffiare dai calli. Non era raro che Virgilio stringesse la mano del giovane studente con tutte e due le sue, per avvolgerlo, prima di are a raccontare la storia dei carbonai. Di mattina presto, appena sveglia, Piazza lo chiamò al cellulare. Virgilio lo teneva sempre legato alla cintura chiuso dentro un artigianale astuccio. Piazza
era consapevole di godere di grande stima da parte sua, ma raramente se ne approfittava. - Non puoi dirmi di no! Virgilio acconsentì. Fissarono per le sei di quello stesso giorno. Piazza era certa che quell’uomo sarebbe stato la chiave per aprire le porte di quel ato. - Piazza, non so per quale motivo Attilio ti abbia parlato di questa storia. È roba vecchia, che tanto male ha fatto. Quando da queste parti accade una cosa così, ci mettiamo sopra tutta la montagna che abbiamo e non ne vogliamo più sentir parlare. Attilio ha scavato tutta la montagna che ci stava sopra e ha riportato alla luce il fattaccio. Fammi parlare prima con Attilio e poi risponderò a tutte le domande che vorrai. Tutta la certezza di Piazza svanì in quelle poche parole. Spesso nella vita si creano situazioni dove si è soli di fronte ad una profonda tristezza. Piazza non riusciva a provare rabbia nei confronti del mistero che le si era aperto davanti, piuttosto provava impotenza, paura di scoprire. Seppure forte fosse il desiderio di sollevare tutta la terra che l’intera comunità aveva messo sopra a tutto, in lei permaneva un timore: si sforzò di ricordare qualcosa che intaccasse l’immagine di suo nonno, ma non riuscì a trovare niente e nulla. Tutto la rendeva sempre più confusa: Virgilio l’aveva allontanata prendendosi tempo e quella che le era apparsa un’idea risolutiva ora l’aveva lasciata lì senza più speranza. Sospinta dal peso insopportabile della sua montagna, se ne allontanava rabbiosamente costringendo l’auto a piegarsi ad ogni curva, in quella interminabile discesa per raggiungere la pianura. “Da queste parti, quando accade una cosa così, ci mettiamo sopra tutta la montagna che abbiamo e non ne parliamo più.” Piazza l’avrebbe fatta esplodere, quella maledetta montagna. Il carbone, nero, con tutto il suo fuoco e con tutto il suo fumo, aveva raggiunto Piazza che, soffocata, sentiva per la prima volta nella vita d’aver perso quell’equilibrio che ogni carbonaio cerca attentamente prima di iniziare il proprio lavoro.
Doppio sogno
L’autostrada assunse una pendenza irreale; il furgone su cui si trovava alla guida percorreva la corsia di soro lasciandosi alle spalle vetture di tutti i colori. Eric stringeva il volante e contemporaneamente serrava i denti, gli facevano male i muscoli della mascella. Intanto la pendenza aumentava, era quasi in caduta libera e non riusciva a spingere il pedale dei freni, non ce la faceva a schiacciarlo nemmeno con tutti e due i piedi. Ecco un’altra curva, cazzo! Eric si attaccò con tutta la forza che aveva al volante, cercando di mantenere il furgone stabile nella corsia di soro, puntò addirittura un piede allo sportello mentre stringeva lo sterzo con le mani sudate. Ecco, la curva era quasi finita, ma la velocità aumentava ancora e non riusciva a tirare nemmeno la leva del freno a mano. Ancora più pendenza e ancora un’altra curva, stavolta a sinistra. Eric tentò di scalare la marcia per rallentare la velocità ma l’esito fu negativo. Aggrappato al volante si ritrovò quasi in piedi sul pedale del freno, che però non si mosse di un centimetro. Ecco la curva! Lo sterzo era diventato durissimo e non riusciva a muoverlo se non di pochi gradi. La traiettoria del furgone assunse la direzione della tangente della curva, Eric si sentiva il cuore in gola battere all’impazzata. Il furgone sfondò il guardrail e si trovò di fronte ad un tir che gli stava piombando addosso. Ahhh! Si svegliò di soprassalto cacciando un urlo breve ma acuto che squarciò il brusio del vagone. Di fronte aveva una signora sui sessantacinque anni che lo fissava da dietro gli occhiali. Accanto un’adolescente si mangiucchiava le pellicine delle dita guardandolo con indifferenza. - Ti senti bene? - Chiese il signore distinto con cui aveva ingaggiato la lotta dei gomiti per il presidio del bracciolo. - Sì sì, sto bene, stavo solo sognando. Il furgoncino e l’autostrada era uno dei sogni più ricorrenti, ad Eric capitava di farlo almeno una volta a settimana, se non di più. Poi c’era la variante a marcia indietro: stessa dinamica, stesso scenario, ma con il furgone che viaggiava in
autostrada a marcia indietro. Totalmente assurdo, ma il risveglio di Eric era ancora più inquietante, da lasciarlo seduto sul letto urlando disperatamente. Eric cercò di rilassarsi lasciando cadere la nuca all’indietro. Guardò la campagna fuori dal finestrino e poi l’orologio, l’arrivo a Roma sarebbe stato per le diciotto e quarantacinque. Ripensò a Piazza ed al litigio che li aveva portati ad urlarsi addosso, a ferirsi, ma scacciò subito via questo pensiero. - Ti dico di sì, anche la signora Luisa è affetta da semenza senile! - Da cosa?! - Semenza senile! Eric si voltò e vide un vecchio vestito in modo dignitoso e un quarantenne distinto ed elegante seduti accanto nello scompartimento posteriore. Si fermò ad osservarli. Gli piaceva come si guardavano. Erano buffi e teneri, delicati e riguardosi l’un l’altro. Anche nel prendersi in giro. Il figlio ridacchiò divertito e si mise a ridere pure il babbo, poi entrambi notarono Eric che li stava fissando facendo capolino da sopra lo schienale. Lo guardarono con aria interrogativa come se fosse entrato senza invito in una loro intimità; come se avesse fatto incursione nel loro salotto di casa. Eric, imbarazzato, uscì da quel “salotto”. Mille ricordi aleggiavano nella sua testa, ma non riusciva a pescarne uno che potesse somigliare alla scenetta di poco fa. Si accorse di non aver mai guardato suo padre con quella luce negli occhi e si ricordò che nemmeno suo padre aveva mai guardato lui così. Riconobbe la sua solita amarezza, una commozione che confluì tutta nelle narici e lo costrinse a respirare con la bocca per un po’. Il treno arrivò a Roma Termini con tre minuti di ritardo. Eric aspettò che tutti i eggeri del vagone fossero scesi, non aveva fretta. Quindi prese il suo zaino dalla cappelliera e saltò giù sulla banchina. Nessuno lo aspettava e quindi era relativamente tranquillo. A Roma c’era già stato, ma non poteva dire di conoscerla. Sapeva solo dove doveva andare: direzione Montemario. Avrebbe cercato un posto dove dormire e l’indomani sarebbe andato al Santa Maria della Pietà. Ci sarà stata negli archivi almeno una Flora nata a Pistoia, no? Una volta trovata sarebbe stato in grado di approfondire
la ricerca, chiedere altra documentazione e finalmente risalire alla verità. Non aspettava altro! Risalire alla verità e sbatterla in faccia a tutti, soprattutto a Piazza a al suo caro nonnino.
L’infermiere
Si svegliò alle sette in punto come era abituato a fare gli ultimi anni. Gli dolevano le caviglie e sentiva un ronzio nelle orecchie, ma non ci fece caso. Si lasciò scivolare giù dal letto e il freddo pavimento lo indusse ad una smorfia di insofferenza. Si trascinò in bagno e dopo aver pisciato seduto sulla tazza, si sciacquò abbondantemente la faccia costringendosi ad aprire gli occhi. Dopo aver il gas, mise sul fuoco la moka preparata la sera prima. Mentre si vestiva si accese una Lucky Strike senza filtro e inalò alcune boccate stringendo fra i denti il bocchino color avorio. Si guardò allo specchio con attenzione, quel vestito marrone gli stava proprio bene, era quasi elegante. Si versò il caffè, e prima di berlo amaro calzò i mocassini, mise la schiuma da barba, il dopobarba e un rasoio usa e getta nel beauty. Fuori c’era un bel sole e l’aria era gradevole. Appena sceso dal bus affrettò i i verso il parco.
Eric si avvicinò timidamente al museo, accodandosi al gruppo con l’aria di chi non vuol disturbare. L’accompagnatrice era giovane e carina. Si sentiva fuori posto. Le immagini proiettate all’ingresso mostravano una barriera trasparente sulla quale persone nude si lanciavano con violenza; sembravano venirti addosso, ma un attimo prima dello scontro sbattevano sullo schermo; poi sul vetro si lasciavano scivolare lentamente, fino a terra. Altre figure si catapultavano come arieti, tentando di abbattere con le spalle quella cortina che separava il diverso dal normale, lo spettatore dall’alienato. Osservò quelle immagini come inebetito, fissando quei palmi imploranti che scivolavano sul muro freddo, quei corpi raggomitolati in una rabbiosa e urlante impotenza. Eric si accorse di essere rimasto solo quando l’accompagnatrice lo invitò a seguirla nell’altra stanza. La seguì nella sala successiva dove si aggiunse uno psichiatra a sostenere l’affabile guida. Aveva una faccia simpatica, aperta e nel mezzo si stagliavano un paio di occhiali alla Elvis Costello appoggiati su un naso affilato e fiero. Una feroce calvizie pennellava un ritratto perfetto da dottore della mente.
Nella stanza erano presenti numerosi pacchi numerati contenenti gli effetti personali dei malati. C’erano anche letti di metallo, piatti, caraffe e tazze anch’esse di metallo, fasce di contenzione e camicie di forza. Altri oggetti vennero ignorati da Eric non appena notò in bella vista su di un tavolo delle grosse e strane pinze. Si avvicinò squadrando con attenzione sui lati delle inquietanti apparecchiature. Aveva già capito quando lo psichiatra si rivolse al gruppo: - Ed ecco il famoso elettroshock. Faceva caldo ed Eric si sentiva il collo e le mani sudate. Continuò a girottolare dietro il gruppo ed a seguire le spiegazioni dello psichiatra e della sua assistente riguardo i diversi modi del percepire degli ammalati, tra cui gli inganni visivi della camera di Hames ed il tavolo dove ogni visitatore poteva udire delle voci venir su dai gomiti appoggiati sui due pulsanti, prendendosi la testa fra le mani e isolandosi dal resto della gente. La mente di Eric era però tornata sull’immagine di quelle pinze. Era come se gli avessero stretto lo stomaco e più ci pensava e più sentiva anche le scariche elettriche. Si tolse il giubbotto, sentiva il sudore colare dalle ascelle. Finalmente il percorso guidato era finito. Eric era frastornato, non sapeva più cosa fe lì, poi qualcuno aprì il portone lasciando entrare un po’ d’aria fresca ed Eric si rinfrancò. Coraggiosamente avvicinò lo psichiatra e gli chiese: - Mi scusi, una domanda… ma… se uno volesse accedere agli archivi… sarebbe possibile? - Quali archivi? - rispose perentorio lo psichiatra. - Gli archivi dei pazienti… quelli che sono stati qui… - Ci vogliono delle motivazioni importanti, studio, ricerche o che so io; e comunque si può accedere soltanto alle cartelle di persone decedute da almeno settant’anni. - Ah… solo? - A meno che non si presenti un parente stretto… allora il discorso cambia. - Grazie.
- Perché questa domanda? - lo incalzò lo psichiatra con un sorriso indagatore. - Così… curiosità. - Curiosità?! - Sì curiosità! Grazie. Eric uscì sopportando l’ultima scossa a denti stretti. Non si ricordava che l’aria potesse avere un sapore così dolce. Appena fuori sentì le membra rilassarsi e le mani asciugarsi. Sospirò. L’immagine del Convulsor scaraventò la sua memoria in un’età indefinita. Un ricordo, sfocato e scolorito dal fumo delle sigarette di suo padre, di remoti silenzi che si accavallavano durante il tragitto Pistoia Lucca, di una villa riportata al suo splendore dove nobili decaduti avevano ceduto il o a camici bianchi, di sale da pranzo con strani avventori, di sua madre in vestaglia che si muoveva lentamente e che non gli sorrideva mai.
Una diversa prospettiva
Eric avrebbe voluto scappare. Non era stata una bella idea. Profondamente deluso si lasciò scivolare su una panchina del parco. Gambe allungate, occhi rivolti al cielo. Un desiderio di volersene andare, magari volando. Ma gli uomini non volano. Troppo pesanti i loro corpi, le loro vite, le loro insopportabili sofferenze. Gli uomini non volano, non potranno mai volare. Eric ne era tristemente consapevole. Un’amarezza liquida lo invase. Eppure si era convinto che questa trasferta a Roma lo avrebbe condotto da qualche parte. Invece…
In cielo il vento soffiava sulle nuvole portandosele via. Forza silenziosa di una natura per Eric insopportabile.
Si alzò dalla panchina convinto ormai che fosse venuto il momento di andarsene. Nascosto fra gli alberi del parco, Eric vide la figura di un uomo che si radeva davanti ad un piccolo specchio appeso al tronco di un albero. Gli parve di sognare, ma poi si ricordò del luogo dov’era e tutto gli tornò normale. Senza farsi troppe domande si incamminò verso quell’uomo e quando gli fu vicino pronunciò un timido buongiorno. - Buongiorno - rispose l’uomo, senza smettere di radersi. Eric mosse ancora qualche o avvicinandosi ulteriormente. - Basta un buongiorno per conquistarsi la fiducia. - Come scusi? - Prima del mio buongiorno la distanza giusta era circa dieci metri, dopo un cordiale buongiorno mi sono guadagnato almeno altri cinque metri di fiducia. Eric si paralizzò, ma coraggiosamente si avvicinò ancora di più. Il vecchio smise di radersi e si voltò verso Eric, lo studiò da capo a piedi: per qualche secondo
scivolò con lo sguardo dall’alto in basso e dal basso verso l’alto, ma poi tornò a radersi. - Avevi qualcosa da chiedermi? - No, direi di no. - Quindi è solo per curiosità che te ne stai a guardare un uomo intento a farsi la barba? - Piuttosto dovrei andarmene, ma sono qui che non mi decido. - Potrei esserti anche d’aiuto, ma dovrei sapere dov’è che te ne devi andare, e poi dovrei anche sapere cos’è che sei venuto a fare qui. Aiutarsi è sempre così difficile. - Non è un po’ tardi per radersi? - Sono uno che se la prende comoda. - Giusto. - Cosa? - Prendersela comoda. - Abito a quasi dieci chilometri da qui, la mattina mi alzo e vengo a farmi la barba sempre davanti a questo albero. Poi riprendo le mie cose e torno a casa. - Tutte le mattine? - Qualche mattina prima di tornare a casa o dal mercato a fare la spesa, ma mica posso andare a fare la spesa tutte le mattine. Appeso all’albero non c’è uno specchio, ma un semplice vetro, con intorno una cornice di legno. - Curioso vero? - chiese l’uomo con gentile ironia - non sarebbe meglio uno specchio? - aggiunse precedendo di qualche frazione di secondo la domanda di Eric.
- Già - replicò Eric sempre più incuriosito. - No. Non sarebbe meglio - disse l’uomo improvvisamente serio. - Lo specchio riflette la tua immagine, ma è una menzogna. Lo sai quante cose in più riesci a vedere con un semplice vetro? Infinite! Riesci a cogliere tutte le sfumature della tua pelle, tutti i tormenti dei tuoi pensieri. Vedi la corteccia del pino che ti solletica il mento, la formica che ti pizzica il naso, o la resina che ti lucida gli occhi. Con lo specchio hai una sterile visuale, con il vetro hai una visione. Lo specchio ti offre una verità finta, il vetro immagini in stereofonia, pensieri, luci, anima. E non ti tagli. Con lo specchio sei sicuro di vedere tutto e tratti la rasatura con sufficienza, e allora ti tagli, col vetro no. Stai attento a tutto, a tutti i riflessi, muovi la mano con cautela e il rasoio è più gentile, pare capirti. E poi il vetro ti permette di avere incontri interessanti, non ti sembra ragazzo? - Ho poco da aggiungere. - Tu non sei di qua. Firenze? - No Pistoia, provincia di Pistoia. - Dovresti provare. - A far cosa? - A farti la barba davanti ad un vetro, anziché uno specchio, è tutta un’altra storia. Altro modo di vedersi e vedere. - E poi dovrei cercarmi un pino come questo? - Ognuno si sceglie l’albero che vuole. - Dietro casa ho un faggio rosso, potrebbe andare? - A Pistoia non ci sono mai stato. A pensarci bene ci sono un sacco di posti dove non sono mai stato. Magari una di queste mattine metto in moto la macchina e vengo a farmi la barba a Pistoia. - Non ci avevo mai pensato, il vetro al posto dello specchio.
- Quanto ci vorrà da Roma per arrivare a Pistoia? - Tre ore più o meno. - Avanti, consigliami un bel posto dove venire a farmi la barba: mettiamo che parto alle sette la mattina ed intorno alle dieci sono all’uscita di Pistoia. Ma ci a l’autostrada da Pistoia? - Sì l’A11, Firenze mare. - Quindi, una volta uscito dov’è un bel posto per andarsi a farsi la barba? - Io se venissi da Roma a Pistoia per farmi la barba salirei su per l’Abetone, visto che mi piace farmela davanti ad un albero me l’andrei a cercare su per la montagna pistoiese. - Mi piace l’idea, continua, guidami nel posto giusto. - Ma sarei stanco, avendo già tre ore di viaggio alle spalle, non mi andrebbe di fare molta strada ancora. - Quindi? - Mi fermerei alle Piastre. - E ce lo trovo un bell’albero? - Uno? Ce ne trova centomila di alberi. Se vuole ci a tutta una vita a cercare l’albero giusto, quello dove metterci attaccato un vetro, e da lì vedere tutto quello che c’è da vedere. - Mi piace, una di queste mattine si parte. Eric avrebbe avuto qualcosa da dire, da chiedere, ma l’esitazione gli impedì di mostrare una richiesta d’aiuto che dentro di lui gridava sorda e cieca. - La barba è fatta. Torno a casa. E se vuoi venire a riflettere a casa mia su quella che potrebbe essere la tua decisione migliore, andare o restare, lo potrai fare davanti ad un piatto di pasta aglio olio e peperoncino, oppure al pomodoro. Questo oggi offre il ristorante! - disse stringendo tra i denti il bocchino d’avorio.
Eric fu travolto da quell’invito inaspettato. Appoggiò il corpo prima su una gamba e poi sull’altra, ondeggiando e cercando di trovare una risposta, un sì, un no, un forse, un credo… - Be’ non voglio certo metterti in difficoltà. Io domani mattina torno qui, magari non so dirti a che ora con precisione, ma certo verrò a radermi anche domani, per cui hai un giorno ed una notte per riflettere se è il caso di venire a mangiare questi spaghetti a casa mia. A domani giovane indeciso. L’uomo raccolse le sue cose e con un cenno di saluto lentamente se ne andò. - Facciamo che gli spaghetti ce li mangiamo oggi! - Come preferisci… Attraversarono il parco insieme, con l’uomo davanti ed Eric dietro a seguirne i i lenti ma precisi, sicuri, di chi quel tratto lo conosce da sempre… Poi insieme ad aspettare l’autobus, e poi a piedi dalla fermata a casa del tizio, e poi chiusi dentro un ascensore a guardarsi come due perfetti sconosciuti. Infine si ritrovarono in una cucina stretta e corta. Eric seduto accanto al piccolo tavolo che non avrebbe potuto certo ospitare nessun altro oltre loro due. Non si mosse da lì temendo di dar fastidio all’uomo tutto intento a friggere e bollire. Nessuno ebbe domande da porre. Eric finalmente si sentì bene, sensazione che non provava da tempo. Un rifugio. Nella piccola stanza odori di aglio e cipolla, di olio che saltava in padella e poi il bollire di un acqua che schiumava dentro la pentola. Solo respirando si accorse che il corpo reclamava quel pasto che mancava, quel mangiare di gusto, che non fosse un triste panino. I due s’incontrarono nel silenzio di quel meraviglioso piatto di pasta, buono come mai prima. Pasta e olio, aglio e cipolla, peperoncino a volontà e vino rosso, molto vino. Eric aprì porte e finestre. Raccontò tutto Eric, senza risparmiare dettagli, raccontò dei nonni, del carbone, del 10 novembre, di Flora, di casa sua e di Piazza, e poi l’amore e la lite. E sul tavolo, dove sembrava non esserci posto per nient’altro, ora c’era tutta una montagna di carbone, nero. Su tutto quel fuoco e cenere scivolarono le lacrime di Eric. Dentro quel pianto c’era tutta la paura di un ragazzo che temeva di perdere l’unica cosa bianca che aveva incontrato in tutto quel nero. Non riuscì a spiegare come avesse potuto litigare con così tanta veemenza con Piazza, e solo per prendere le difese di una famiglia che odiava. Come un bambino era andato in competizione in un gioco assurdo. Per Piazza era semplice: chi dei due era fuggito? Chi era stato costretto a lasciare la
montagna? Chi, se non colui che in quel luogo aveva scatenato l’inferno? Sugli spaghetti l’olio, l’aglio, la cipolla ed il peperoncino, e sopra molto vino rosso bevuto a medicare, tanto che Eric non riusciva a frenare il suo raccontarsi, ormai sfociato in un continuo ripetersi. L’uomo affidò quell’incontenibile rabbia e smarrimento ad una grappa trasparente e nel bicchiere di Eric ne finì tanta quasi come fosse acqua. La corrente del fiume di Eric si placò al punto da fermarsi, ed ascoltò in silenzio. - Tre mesi prima della pensione. Non è facile abbandonare il lavoro a tre mesi dalla pensione. Ma fu un modo per fregare la vita, i suoi tempi, le sue logiche collocazioni. Ero fiero di me. Trent’anni con i matti ed in tutto quel tempo non mi era ancora riuscito capire se matto lo ero già prima di quel lavoro o se lo ero diventato. Di Flora ne ho viste are tante. Che sei venuto a fare? Cosa vuoi capire? Qui c’è rimasto solo un museo, un pozzo senza più acqua, solo l’eco di urla ate e dimenticate. Negli ultimi anni le patologie erano per lo più un’invenzione di chi produceva le pillole per donare l’illusione di una guarigione. Non fare lo stupido, avete in mano una candela, fate strada per uscire dalla notte di tutto questo carbone. Se mai avessi incontrato un amore come il vostro, un uomo da amare come voi due vi amate, tutte le sciocchezze del mondo avrei potuto commettere, tranne quella di lasciarlo andare via. Decidi ragazzo, dove vuoi metterla tutta questa storia, vissuta e da vivere, davanti allo specchio, oppure davanti ad un pezzo di vetro?
Soldi e sorprese
Sergio finì di preparare il versamento e lo consegnò a Marcella. - Io? - chiese sorpresa. Sergio le aveva affidato pochissime volte il pacchetto dei soldi da versare in banca e ne fu perfino orgogliosa. - Sì, tu. Oggi ho da fare. Mi raccomando Marcella, stamattina, ok? Marcella osservò il pacchetto che aveva tra le mani: una busta gialla ripiegata in tre parti tenuta stretta da un elastico verde. - La distinta l’ho già compilata, è all’interno. Marcella era compiaciuta, Sergio le aveva affidato una commissione molto importante! Allora aveva fiducia in lei, non la riteneva una stupida! Si sentì rinfrancata e con ostentata sicurezza ripose il pacchetto all’interno della borsa. - Non preoccuparti Sergio, devo fare anche la spesa stamattina, ma per prima cosa erò dalla banca, stai tranquillo. - Tranquilli con te non si sta mai, ma ci proverò - disse Sergio cancellando di colpo dalla faccia di Marcella un indifeso sorriso. La smania dell’uomo si era impadronita della sua mente e non vedeva l’ora di essere sul lettino di quel nuovo centro massaggi di cui gli aveva parlato ancora una volta Aldo. - Donne giovani, Sergio, e non le solite cinesi! Roba buona! Un po’ cara, ma roba buona! Italiane! Appena partì col pick-up si pentì subito di aver lasciato tutti quei soldi a Marcella, ripensò alle volte in cui la fiducia che aveva riposto in lei era stata sistematicamente tradita dalla sua inettitudine alla vita. Ormai considerava Marcella un caso clinico, un peso, una cava inesauribile di rotture di coglioni,
una povera depressa in balìa degli eventi, una demente. Giunto all’ingresso dell’autostrada ebbe quasi un ripensamento e fu tentato di tornare a casa a recuperare il versamento e andare in banca di persona, ma era già tardi e l’appuntamento col massaggio era imminente, quindi proseguì. La barra del tele puntualmente si alzò e Sergio pensò a come sarebbe stato divertente avere un uccello così reattivo invece di ricorrere sempre alle solite pasticchine. Già, la pasticchina! Dal portaguanti estrasse un pacchetto di compresse e ne prese subito una. Avrebbe dovuto farlo prima, ma se ne era dimenticato.
Marcella uscì che stava piovendo. Camminò fino alla vicina filiale della banca e prima di attraversare la strada estrasse dalla borsa il pacchetto giallo tenendolo ben stretto in mano. Attraversò sulle strisce, ma a metà della strada il vento le fece quasi volare l’ombrello e nel gesto di recuperarlo lasciò cadere il pacchetto sull’asfalto bagnato. Riuscì a riafferrare saldamente l’ombrello e fece per tornare sui suoi i a recuperare la busta, ma un’auto le ò accanto suonando all’impazzata. Marcella cadde di nuovo nel panico e tutta quella serenità che aveva avvertito mentre riponeva il versamento nella borsa l’aveva abbandonata ancora una volta. Impietrita fissò la busta che si era aperta e i tanti fazzoletti che ne erano usciti. Tentò di muoversi, ma le veniva in mente soltanto lo sguardo di Sergio. Finalmente riuscì a correre sotto l’acqua e recuperare banconote e assegni che sembravano prendersi gioco di lei svolazzando non appena riusciva ad avvicinarli.
Sergio arrivò all’indirizzo del centro massaggi con qualche minuto di anticipo. Nessun camlo accanto alla porta d’ingresso, quindi estrasse il telefonino dalla tasca della giacca e chiamò. - Ciao, sono Sergio, avevo fissato un appuntamento… - Sei qui? La porta scattò immediatamente e Sergio entrò. Ad accoglierlo si presentò una ragazza non più giovanissima ma con un bel fisico tonico. Indossava una spolverina bianca attillata che lasciava pensare che sotto fosse nuda.
- Buongiorno Sergio, ci hai trovato facilmente? - Sì, grazie. - Bene, allora ti accompagno nella saletta massaggi dove potrai metterti comodo, la ragazza arriva subito. A proposito, io sono sca - e Sergio strinse la mano della ragazza. La saletta era piccola, ma molto carina e ordinata. Nell’angolo in fondo c’era un piccolo box doccia. Al centro c’era un futon e sul lato di fronte alla porta scorrevole un lettino professionale. Faceva molto caldo e Sergio iniziò a spogliarsi. Completamente nudo mise tutti i vestiti diligentemente stesi sull’attaccapanni e si sdraiò sul futon a pancia sotto. Dopo pochi secondi sentì bussare, pochi tocchi leggeri, e quasi contemporaneamente aprirsi la porta. Sergio parzialmente si voltò fermandosi su un fianco e salutò la ragazza che ancora era di spalle. - Ciao! Era una bella mora, non tanto alta, ma snella e con dei bei capelli lunghi lisci e neri. - Ciao - rispose la ragazza voltandosi. Sergio balzò in ginocchio coprendosi goffamente con l’asciugamano. Cominciò a tremare dalla vergogna e non riusciva a parlare. La ragazza restò immobile, sembrava che non respirasse nemmeno. Sergio provò a balbettare qualcosa sgranando gli occhi e sbattendo velocemente le palpebre come quando una ciglia cade nell’occhio. La ragazza iniziò a piangere in silenzio, soffocando una sofferenza impietosa che veniva da lontano. Restarono così, una manciata di secondi che parevano non finire mai. Poi un suono, come un pianto di bambino, ruppe quel silenzio inebetito dal dolore. - Ylenia… La ragazza fece un o indietro, poi si voltò e scomparve dietro la porta che si richiuse lentamente senza alcun rumore. Sergio restò seduto per un po’, avvertiva le gambe flosce e la testa vuota e leggera come un pallone. Sentiva le tempie battere e non sapeva cosa fare. Dopo pochi minuti si alzò in piedi e si rivestì.
Chiuse la portiera del pick-up e si diresse in casa. Sentiva le caviglie malferme, come se non obbedissero più a lui ma fossero dotate di vita propria. Girò la chiave ed entrò. Senza togliersi la giacca si lasciò andare sul divano, sfinito. Ripensò per un attimo ad Ylenia ed al suo volto che esprimeva in uno sguardo tutto il suo dolore, ma era troppo, non ce la faceva a sopportarlo. Accese la TV, si tolse le scarpe e appoggiò i piedi sul tavolino. Sentiva freddo. Si coprì con il plaid di Marcella che teneva sulle gambe quando guardavano insieme qualche programma. Se ne portò al viso un lembo, lo respirò come a cercare conforto, come se l’odore di quella donna insulsa ed inetta fosse addirittura in grado di recargli conforto. Abbracciò la coperta e scoppiò in singhiozzi violenti e dolorosi. Si sentiva un mostro, un padre riprovevole e un fallito, sentiva di aver costruito una famiglia di merda, composta da persone tanto infelici, a cominciare da se stesso. La mente tornava poi a sua figlia che vedeva giocare nel piccolo parco vicino casa, alle spinte sull’altalena e alle volte che lo tirava per mano per mostrargli cosa aveva preparato con la piccola cucina che gli aveva regalato il primo giorno di scuola. Nella mente scorrevano immagini senza tempo e collegamenti, tragitti in macchina casa-scuola con Ylenia che riava sul sedile posteriore la lezione del giorno prima, abiti bianchi da comunione, penne stilografiche, biciclette, ginocchia sbucciate, bambole ricucite, saggi di danza, brontolate alle tre di notte, coni gelato sulle panchine in eggiata, pomeriggi al cinema, lezioni di guida intorno casa, litigi a tavola per uscire fuori la sera. Sergio era ancora ebbro di questi ricordi quando Marcella fece ritorno a casa. La sentì entrare e ticchettare i tacchi sul parquet, posare le chiavi sul tavolino dietro la porta e salutarlo, ma gli sembrava irreale. Vedeva il volto di sua moglie che, costernata, sembrava volergli spiegare qualcosa, ma non riusciva a seguirla. La vide poi coprirsi la bocca con una mano ed accennare ad un singhiozzo, ma Sergio era completamente scollegato da tutto. Percepì solo uno stralcio di frase: - Li ho ritrovati tutti tranne uno… quello da settemilatrecento… Sergio guardò sua moglie che gli stava a debita distanza e le disse di avvicinarsi. Marcella obbedì, remissiva. Appena giunse davanti a lui e si fermò, Sergio da seduto abbracciò le gambe di Marcella e, affondandole il volto nel ventre,
cominciò a singhiozzare.
Erano seduti davanti alla televisione. In silenzio. Nessuno dei due s’azzardava ad aggiungere altro. Virgilio pensava al salotto di casa sua, dove la televisione neppure c’era, tanto non avrebbe mai avuto il tempo. Invece Emo davanti alla televisione ci stava. Tutto il giorno. Barbara D’Urso rideva e piangeva insieme a gente goffa ed imbarazzata; poco abituata a stare davanti alle telecamere. Virgilio non riusciva a trovare il momento giusto per alzarsi e dire ad Emo che era venuto il momento d’andarsene. Magari aggiungere che se voleva si sarebbero potuti vedere a casa su, in montagna, stare un po’ insieme. Virgilio avrebbe avuto mille cose da poter fare insieme. Ma vedere Emo incollato sulla poltrona, immobile davanti alla tv anche quando c’erano pubblicità assurde una dietro l’altra, gli fece capire che forse non era proprio il caso di riportarlo su, in montagna. Virgilio dopo aver suonato alla porta di quella casa mai visitata prima, attese un bel po’ prima che Emo venisse ad aprire. Forse alla prima neppure lo riconobbe. Poi quando Virgilio si presentò lo fece entrare… Si andarono a sedere in cucina. Virgilio raccontò tutta la storia recente: di Piazza, di Eric, di tutto il resto, fino alla fine. Emo ascoltò senza aggiungere una sola parola. E restò in silenzio anche quando Virgilio gli disse che il funerale di Pietrino ci sarebbe stato l’indomani. Com’erano andate le cose non interessava più a nessuno, c’era solo da salutare un bambino che non era mai riuscito a crescere. Non ci si poteva rifiutare. Se Emo gliene avesse dato il tempo, Virgilio avrebbe senz’altro anche aggiunto che ora era il momento di buttare giù tutti i muri innalzati intorno a questa storia, e avrebbe anche voluto dire che il primo fra tutti era proprio il muro di quella casa che insieme a Silvano avevano comprato, e che poi avevano deciso di dividersi con un muro, seppure quella casa fosse praticamente indivisibile. Sarebbe potuta essere la casa di Piazza ed Eric. Sarebbe stata la felicità di quei due ragazzi a cancellare la tragedia. Ma Virgilio non ebbe il tempo di dire tutte queste cose, la conversazione si concluse alla notizia che l’indomani si sarebbe tenuto il funerale di Pietrino, Emo si alzò e tornò a sedersi sulla sua poltrona, davanti alla sua televisione. Virgilio non poté fare altro che seguirlo.
Attilio mise legna sotto ogni arnia, poi una striscia invisibile di benzina che percorreva tutto il tratto dalla prima all’ultima casetta delle sue amate api. Mani,
braccia e piedi obbedivano a chissà quale comando, mentre gli occhi filmavano una scena che non si sarebbe più dimenticata. Si inginocchiò all’inizio del percorso della fiamma… e accese. Girò le spalle a quell’ultimo pezzo di vita che ancora gli era rimasto e senza voltarsi si diresse verso la macchina. Aprì lo sportello e ci si chiuse dentro. Si pentì d’aver lasciato l’auto rivolta verso il suo apiario, oramai trasformato in un gioco di fiamme che violente sembravano volersi divorare quel mondo indifeso. L’inferno contro la vita, i fiori, i colori, i profumi, il fuoco che ancora una volta vinceva su tutto. Sabato scorso, più o meno alla stessa ora, Pietrino aveva trovato il coraggio di dar fuoco alla sua piccola stanza, colma delle sue statue di donne nude di legno, tutte somiglianti a Piazza. Aveva atteso di rimanere solo a casa e senza lasciare alcuna spiegazione si era chiuso dentro. Bruciare e non lasciare niente che in qualche modo potesse ricordare quella vita imbrogliata dalla nascita. Già, la sua nascita, un dramma insostenibile per tutti: sua madre, poi la famiglia e poi tutta una montagna. Tutti, alle Piastre, in qualche maniera si erano sentiti senza mai ammetterlo un po’ responsabili e ognuno, a suo modo, aveva creato un legame più o meno sincero con quell’esistenza sciagurata senza però ricordarne il ato: Pietrino non era mai nato, esisteva da sempre e a tutti andava bene così. Aveva ragione Virgilio: “Certe storie, da queste parti, si usa dimenticarle, magari mettendoci sopra tutta una montagna.” Attilio non avrebbe mai potuto immaginare che Pietrino potesse reagire così messo di fronte a tutta quella verità che conosceva già, ma che esposta davanti alla vita della sua amata Piazza, lo aveva convinto ad uscire di scena. L’apiario era quasi completamente bruciato.
Marcella si guardò allo specchio. Si accarezzò la gonna stropicciata all’altezza del ventre asciugandola con le mani dalle lacrime di Sergio. Era rimasta in piedi di fronte a suo marito singhiozzante per qualche minuto e si meravigliò di non aver provato niente. Non un sussulto, nessun moto di comione. Niente. Osservò meglio il suo volto e notò uno strano sorriso. Si sentiva di nuovo sicura, quasi importante. Finalmente libera. Leggera. E questo stato di grazia aumentava di giorno in giorno. Più vedeva Sergio star male e più si sentiva forte. Il suo apice lo raggiunse il giorno del funerale di Pietrino. Sergio ed Emo erano
in salotto che la stavano aspettando. Marcella scese le scale e disse: - Non mi va, non me la sento. Andate voi, io resto a casa. - Ma è il funerale di Pietrino, lo conoscevi anche tu, no? - ribatté Emo. - Preferisco rimanere… davvero… andate che fate tardi! Sergio era assente, guardava suo padre, attendendo una decisione che non arrivava. - E tu? Te ne stai lì e non le dici niente? - fece Emo guardando Sergio severamente. - Insomma! Ve ne volete andare? Ho detto che non vengo! - alzò la voce Marcella con tono secco e deciso. I due uomini si guardarono e senza dire una parola uscirono di casa e salirono in macchina. Marcella li seguì con lo sguardo fino in fondo alla via. - Buon viaggio, Pietrino - mormorò poi fra le labbra.
Vennero tutti, tranne Silvano. Emo e Ylenia per primi a seguire il corteo funebre dalla chiesa al cimitero, a seguire Eric e Piazza fianco a fianco. Eric ripensava al telo che aveva trovato alla casaccia appena aperto il portone. 31 scritto in numeri e poi Agosto. Una data. Il ricordo di una morte, di un incidente come ne capitano tanti. Dietro il telo, come a vestirla, una chitarra. E sulla chitarra una dedica scritta con un carattere piccolissimo: “C’è chi nasce subito dopo essere morto”. Firmato Piazza. Piazza lo chiamò per raccontargli di Pietrino. E fu lei per prima a prendergli la mano in chiesa. Ed ora seduti accanto a guardare tutta una famiglia mai vista prima. Avrebbero potuto assalirsi di domande e non finire mai nel ricercare risposte, ma in chiesa fu silenzio e fuori pure.
Sergio non sembrava lui, conoscendolo si sarebbe potuto dire che di questo funerale non gliene sarebbe importato un cazzo, invece era lì dilaniato dal dolore e disorientato come chi ha perso la strada per tornare. Solo, senza moglie. Vibrò il cellulare: “Sergio com’è andata con il massaggio? Ti è piaciuto? Non mi hai fatto sapere più niente! Aldo”.
Ylenia attaccata al nonno Emo, non se ne separò mai. I genitori di Piazza, i cugini di Piazza. Attilio in disparte. Virgilio lo avvicinò, erano giorni che lo cercava. E poi tutto il paese che di quel bambino non aveva mai voluto sapere niente, ma che in questo ultimo viaggio lo accompagnava con il dovuto rispetto, per tutta quella sofferenza che per anni si era mossa spesso su ruote girate a mano.
- Lugano?! E che ci vai a fare a Lugano? - Vado a fare la stagione in albergo, mi pagano bene. Poi si vedrà. Ylenia si accese nervosamente una sigaretta e si guardò le unghie dei piedi. - E al babbo e alla mamma glielo hai detto? - Ancora no. Eric si sedette sulla panchina in quel pezzo di giardino a metà strada fra il cimitero e il paese e chiese a Ylenia se voleva qualcosa. - No, grazie. - Un caffè? - No Eric, davvero. Parto stasera. - E quando hai intenzione di dirglielo?
- Non lo so… senti Eric, stai vicino al babbo: è un uomo solo. Siete tutti soli.
Silvano aveva chiamato due calabresi di San Marcello, non si fidava degli albanesi. Quando disse loro che avrebbe pagato bene, a patto che fossero riusciti a sfondare la parete in poche ore, i due già facevano il conto di quanto chiedere, ma quando Silvano aveva aggiunto che avrebbero dovuto sfondare senza fare troppo rumore cominciarono a dubitare che avesse tutte le rotelle a posto. Come cavolo lo sfondi un muro come quello senza fare troppo rumore? Silvano aveva preso due decisioni la mattina presto. La prima era quella di non andare al funerale, la seconda sfondare quel muro, sventrare quella casa e farlo il giorno stesso. Chiunque fosse venuto ad interrompere quel lavoro avrebbe dovuto fare i conti con lui. Quella casa era anche sua ed era con le mazze di due calabresi che aveva deciso di abbattere quel muro. Lui lo aveva fatto costruire, mille anni fa, dopo tutta la tragedia, dopo la fuga di Emo. Muro a separare quella casa comprata insieme con i soldi del gelato. Un muro a dividere per sempre. I due calabresi chiesero chi si sarebbe occupato di portare via tutte le macerie, già alte al centro delle due stanze, ma Silvano rispose che non dovevano preoccuparsi, ci avrebbe pensato qualcun altro. Il telo del 31 Agosto era sepolto da cemento, pietre e mattoni. Uno dei due calabresi aveva poggiato la chitarra sulla parete sotto la finestra, ma con un calcio Silvano l’aveva lanciata sul mucchio: - Tranquilli, è tutta roba da buttare. A pomeriggio inoltrato il muro era già stato abbattuto. Silvano guardava spesso l’ora, mettendo ansia ai due calabresi, che sudati lavoravano senza darsi un attimo di tregua. Avevano chiesto duecento euro, ma Silvano ne aveva messi trecento sul davanzale della finestra affinché finissero più in fretta possibile il loro lavoro.
Appena la porta sbatté alle sue spalle Marcella si sentì come una molecola di profumo in migliaia di metri cubi d’aria, finalmente libera, leggera e radiosa.
Lasciò che il suo peso incontrasse lo schienale del divano e si adagiò compiaciuta. Incrociò con lo sguardo la matassa di fili colorati colpevoli della rovinosa caduta di Emo e le venne da ridere. Allargò le braccia e afferrando saldamente i cuscini dello schienale si abbandonò ad una risata liberatoria, quasi incontenibile. Sentiva il corpo sussultare piacevolmente e pensò a come sarebbe stato bello fare l’amore in quel momento. Si sentiva felice, stranamente felice e tranquilla. Sentì suonare il citofono. Si alzò dal divano e svogliatamente andò ad aprire. In fondo alle scale c’era il dottor Blasi. I due si guardarono e senza dire niente il dottore salì le scale che lo separavano dalla sua paziente. Si tolse gli occhiali e farfugliò qualcosa: - Io… volevo dirle… cioè, sono venuto per scusarmi… - Non fa niente - disse Marcella togliendolo dall’imbarazzo - ora è tutto ok. - Posso invitarla a cena… magari una di queste sere, che dice? - No, meglio di no, grazie - disse Marcella indietreggiando verso la porta. - Ora devo andare. Il dottore restò a guardarla mentre si chiudeva in casa salutandolo. Poi si pulì gli occhiali e se ne andò.
Marcella non riusciva a togliersi quel sorriso compiaciuto dalla faccia. “Questa volta decido io per la mia vita!” pensava. Non capiva perché avesse impiegato così tanto tempo per sentire il proprio valore di donna. - D’ora in poi decido io a chi darla e quando, cazzo! - si lasciò uscire dalla bocca con veemenza e decisione. Andò in cantina, si scelse un bel Bolgheri di quattro anni, lo stappò e festeggiò la sua nuova indipendenza.
Epilogo
Renault 4 rossa ammaccata su tutti e quattro i lati. Ruggine coerente ovunque. Scimmia parcheggiò davanti al cimitero. Presenza imponente ad attendere che Pietrino scivolasse sotto un metro e mezzo di terra. Vampiro aprì lo sportello e scese. Si accese una sigaretta. Tabacco preso con le dita, lingua, e poi rollata. Movimenti meccanici che si ripetevano da un numero incalcolabile di volte. Poi è respiro a placare, ansia che si colloca. Mandela dopo essere sceso si sdraiò sul cofano della macchina, con la testa e mezza schiena sul parabrezza. Piazza aveva chiamato e loro avevano risposto. La storia di quel gruppo musicale sarebbe finita quel giorno. Lo avevano capito chiaramente. Piazza uscirà dal cimitero e salirà su quel che è rimasto di quell’auto. Scimmia alla guida, che da fuori se ne vede appena la testa, Vampiro e Mandela seduti dietro, Piazza davanti. Se ne andranno sbuffando fumo nero dietro tutta quella gente che al funerale c’era, ma senza aver compreso il senso di quella morte decisa. Raggiungeranno strumenti e silenzio da coprire. Decolleranno alzandosi in volo. Tutti e quattro insieme. E sarà un percorso a rigare il cielo, a traare nuvole, a ricercare una canzone mai suonata prima. L’ultimo pezzo di una band che ha deciso di dirsi addio.
Un gioco infernale
“C’era una volta un bambino che giocando e correndo cadde in una buca. Era buia e sporca di fango e si era sbucciato anche le ginocchia. Questo bambino piangeva e urlava, ma non veniva nessuno ad aiutarlo. Poi, ad un certo punto, arrivarono due uomini giovani che da sopra lo guardavano, ma non lo aiutavano a venire fuori. Si misero a parlare tra loro mentre lo guardavano. Il bambino li chiamava, ma loro lo guardavano soltanto e poi parlavano tra loro. Poi decisero di tirarlo fuori e uno di loro si calò nella buca e prese il bambino in braccio, poi lo ò all’altro che era rimasto sopra. L’uomo che era rimasto sopra mise una mano sulla bocca del bambino e corse in mezzo al bosco, ma al bambino questo gioco non piaceva, non riusciva neppure a respirare. Poco dopo arrivò anche l’altro uomo giovane e era cattivo anche lui perché anche se il bambino non voleva e piangeva gli tirò giù i calzoncini e le mutandine. Il bambino urlava e piangeva e cercava con le mani di difendersi, ma quei due uomini erano davvero cattivi perché lo picchiavano e gli facevano male. Poi prima uno e poi un altro si sdraiarono sulla schiena del bambino e gli fecero davvero male e gli tenevano una mano sulla bocca e non poteva neanche urlare.”
L’addio era da abbracci e lacrime. Senza la minima gioia di una speranza. Si sapeva bene che quella distanza non avrebbe portato alcun profitto, e tutti quei mesi da are dentro un bosco, a combattere la macchia, sarebbero stati un inferno. Ed il peggio di tutto quel peggio sarebbe toccato al meo, poco più che un bambino, sul quale gravavano i lavori più umili e faticosi. Al servizio di tutte le rabbie di tutti e sempre pronto a rispondere al comando degli altri che stavano comunque sopra di lui. Un ruolo solo e indifeso. Silvano convinse i suoi genitori e loro poi ne parlarono con la mamma di Emo. Il babbo Emo non ce l’aveva più, morto o disperso in una guerra dalla quale non aveva fatto più ritorno. Un uomo di poco valore, neppure la moglie ne sembrava soffrire la perdita. Il capomacchia si convinse con poco. Avrebbe avuto nella sua squadra due mei: in due è più facile dividersi la vita.
Dormivano insieme nella stessa rapazzola, cucinavano insieme, tagliavano e stivavano legna insieme. Erano bravissimi ad alzarsi con i castelletti fino ad un metro, ed anche più. Ed erano bravi ad ascoltare il capomacchia, o chi per lui. Perché ogni catasta ha le sue caratteristiche: la devi studiare bene mentre la costruisci, come ed in che modo alzarla per permetterle di cuocere senza il rischio di bruciare. La scala era il lavoro nel quale riuscivano meglio: con le scale di Silvano e di Emo si riusciva a dar da mangiare alla catasta nel migliore dei modi. Nella notte loro due erano bravi a stare insieme quando il vento fischiava da far paura e c’era da lavorare per riparare la catasta da quel soffiare che avrebbe potuto bruciare tutto il lavoro fatto. Quei due non li potevi tenere fermi e quando intorno alla carbonaia non c’era molto da fare, loro scavavano buche e trappole per gli animali. - Ma sono enormi! - gli urlava dietro il capomacchia - che volete che vi ci caschi dentro queste buche, un bue? Le buche-trappole più grosse le facevano lontano dalla carbonaia, in modo da non essere presi in giro dagli altri. Avevano un progetto importante: prima o poi in una di quelle trappole profonde ci sarebbe caduto qualcosa che gli avrebbe cambiato la vita. Neppure loro avrebbero saputo dire cosa, però erano certi che qualcuno o qualcosa lo avrebbero prima o poi catturato. Roba di ragazzi che si inventavano giochi per fuggire dalla realtà, per sognare favole e misteriosi personaggi. Arrivarono almeno in dieci. Circondarono la carbonaia e senza parlare studiarono la squadra. Poi uno di loro si decise finalmente a parlare. Chiese quanti erano e da quanto tempo erano lì. Ma soprattutto volle sapere se della squadra faceva parte anche un tizio grosso, con la barba lunga, con una camicia a quadri. Nessuno della squadra corrispondeva a quella descrizione, erano gli stessi partiti da Pistoia e quelli erano rimasti in quella sperduta macchia della Sardegna. Ma non fu così facile farlo credere a quelli. Li minacciarono, raccontando che quel tizio l’aveva combinata grossa e che prima o poi l’avrebbero trovato. E una volta trovato lo avrebbero fatto a pezzi e bruciato nella carbonaia, non sapendo che dentro la carbonaia non si brucia, piuttosto si cuoce. E dentro la carbonaia ci sarebbe finita tutta la squadra, se avessero scoperto che il bandito era stato aiutato proprio da loro.
Se ne andarono dicendo che il malvivente doveva essere senz’altro ferito, ma comunque pericoloso, molto pericoloso. Dentro una delle grandi buche-trappole di Emo e Silvano non finì un bue, ma un tizio grosso, con una barba lunga e con una camicia a quadri. Forse pure ferito, senz’altro pericoloso. I due mei si fecero consegnare tutto quello che aveva, che altro non era che una sacca con dentro un bel po’ di roba da mangiare, e da soli se la finirono, senza dividerla con nessuno. L’uomo da dentro la buca gridava che li avrebbe uccisi e disperatamente si avvinghiava alle pareti per riuscire a risalire, invano. Finirono di mangiare, poi fu Silvano a tirare il primo sasso, piccolo. Ma poi Emo ne tirò altri più grandi; e poi ancora Silvano, sempre più grandi. Ai primi sassi il bandito gridò di dolore e di rabbia, ma poi non si sentì più. Solo sassi che colpivano. E le facce di due ragazzi sorridenti che con quella storia sentivano d’essere diventati uomini. Terribili uomini. E fu terra a seppellire la bucatrappola. Tomba di quello sciagurato. Avevano sognato misteriosi personaggi cadere nelle loro buche-trappole: nei boschi le favole fan presto a diventare realtà. Poi ci cadde un bambino. Lo liberarono facendogli promettere che almeno due volte la settimana avrebbe portato a loro cose buone da mangiare. E il bambino mantenne la promessa. Poi la favola si fece brutta, di quelle che non racconti ai bambini. I costruttori di buche e trappole si sdraiarono sulla schiena del bambino e gli fecero davvero male ma gli tenevano una mano sulla bocca e non poteva neanche urlare.
L’acqua che cadeva a secchi, in quel 10 novembre non riuscì a spegnere le fiamme di inferni lontani tornati imponenti. Prima ci provarono suo padre e sua madre, ma senza ottenere alcun risultato. I carabinieri tentarono ripetutamente di chiedere a Flora chi fosse stato, ed in quanti. Uno solo? In due? Ma il risultato fu il medesimo.
Poi ci provò il prete. Lui per molto tempo. Ogni giorno. Pregando accanto a lei. Ma la risposta di Flora a quelle domande, fu sempre la stessa. Sassi. Pietre. Sassi e Pietre.
Ringraziamenti
Claudia Barbaro, Sabrina Caselli, Giovanni Fiaschi, Alessandri Lilla, Simone Marconi, Emanuela Neri, Marco Pannella, Simone Piazzesi, Sabatino Polendoni, sco Recami.
1) Pasto frugale e poco impegnativo preparato dalla moglie infedele di ritorno dal lungo incontro con l’amante.
Indice
Il libro Gli autori Frontespizio Colophon Carbone In fuga Al Casone Sergio I sogni di Piazza Lasagne Arrivo Il compleanno di Piazza Notte a Le Piastre Attilio Sassi e pietre Cinghiale, miele e… Marcella Totem
Blues Il ragno rosso e la lana Shetland La brace sotto la montagna Carbone e false verità Doppio sogno L’infermiere Una diversa prospettiva Soldi e sorprese Epilogo Un gioco infernale Ringraziamenti