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Introduzione Come non ci fosse un domani.
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Titolo | Come non ci fosse un domani Autore | Marco Florio ISBN | 9791220344098 Prima edizione digitale: 2021
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Abbiamo sempre avuto un'idea della nostra origine come qualcosa che è andata di pari o con l'evoluzione della specie. La scuola ufficiale ci ha insegnato che a una maggiore acquisizione di capacità cerebrali è corrisposto in modo quasi automatico l'accrescere di quelle intellettive. Così la comparsa del linguaggio non è sembrato altro che il naturale epilogo di un fatto scontato. Ciò che vuole essere l'intento di questa breve storia è illustrare la mia personale interpretazione dell'epopea della conquista umana. Vi è stato infatti un lungo asso di tempo dal quale, sebbene le caratteristiche atte a produrre suoni articolati e le facoltà intuitive necessarie per la genesi di una lingua erano presenti, non ci è per giunta alcuna testimonianza certa provante in modo inequivocabile che le persone di duecentomila anni fa sapessero parlare. Le prime testimonianze di un linguaggio simbolico fecero la loro comparsa in Europa solo molto tempo dopo. Assecondando una mia intima visione (priva di fondamento), ho immaginato popolazioni ancestrali prive di parola che si servissero dei loro strumenti fonetici per aumentare le proprie capacità di successo delle battute di caccia nel contesto della savana africana, come fanno ancora oggi i membri di alcune tribù, in grado di riprodurre moltissimi suoni. Si tratta di una comunicazione di tipo non lessicale, adatta a emulare i versi dei numerosi animali appartenenti al loro stesso habitat, così da segnalarne la presenza al resto del clan. Gli attributi indispensabili al possesso di una forma di comunicazione elaborata potrebbero avere esercitato una funzione del tutto diversa per un lungo periodo, antecedentemente alla comparsa del primo idioma, durante il quale l'essere umano è esistito in uno stato che per noi è inconcepibile, in quanto fisicamente uguale ma privo di ogni riferimento che ci avrebbe permesso di definirlo un nostro simile. Un homo sapiens molto poco sapiens. Un organismo intelligente privo di parola e quindi presumibilmente anche privo di pensiero. In assenza di pensiero forse persino le emozioni, le quali influenzano enormemente il nostro comportamento, potrebbero essere state del tutto mancanti. Come dunque catalogare l'individuo pre sapiens? Intorno a questa domanda ruota la vicenda che vi apprestate a leggere, nella quale non ho identificato un personaggio portante, né un luogo o un tempo particolari per rendere maggiormente possibile l'immedesimazione da parte di qualunque lettore. Ho deliberatamente manomesso la linearità della narrazione anteponendo o post ponendo tratti della storia. Il risultato, ne sono consapevole, è una confusione nella quale sarà necessario che vi perdiate per poter giungere all'epilogo. D'altronde non è la nostra stessa origine caotica è per niente rettilinea? La dispersione dei riferimenti nei miei intenti è in effetti una fase obbligata: togliendo il di più, ciò che è eccesso, possiamo scoprire che cosa rimane nel fondo, la parte di noi che non è
un'invenzione o un costrutto, ma la possibile reale definizione della nostra natura.
Come non ci fosse un domani.
Mattina. Vedo una grande perfezione insita in ogni cosa. Ne prendo atto nel momento di dare un senso al mio fine settimana. Dovrebbe essere la pausa tra due cicli lavorativi, non l'amaro prolungamento della mia condizione di non produttività. Cammino, guardo la città come fosse un disegno, un’immagine bidimensionale, una serie di linee su fogli di carta. Mi aggiro a caso, dirigendomi ovunque senza mete precise. Non so perche ma arrivo sempre negli stessi posti. Sento di appartenere a una sorta di sistema che controlla i movimenti di tutti, annulla ogni casualità, dirige ogni azione, in ogni luogo, in ogni giorno. Cerco un lavoro. Non faccio che leggere nomi di strade, di stazioni della metro, aprire il telefono, memorizzare aforismi distribuiti da canali social motivazionali, devo essere aperto al cambiamento. Entro in una copisteria, stampo copie del curriculum. Ripongo i duplicati di me stesso in una borsa a tracolla mentre scruto vetrine a caccia di annunci con su scritto cercasi personale. Fogli a quattro che racchiudono le parti migliori della mia esistenza. Ometto qualsiasi altra cosa, esperienze negative, fallimenti, progetti non conclusi, obiettivi non raggiunti. Rimane una lista di mansioni svolte e titoli di studio, nient’altro. Il biglietto da visita di ciò che sono. Il mio valore e le mie capacità racchiuse in una lista di cose. Ne consegno una al salone di un parrucchiere, poi a un negozio per animali, poi a un distributore di detersivo per lavatrici in formato sfuso, poi a un rivenditore di bevande sportive e integratori. Faccio una pausa sui gradini di una fontana. In realtà essere un lavoratore dipendente non è la mia vera ambizione. Vorrei diventare io il proprietario di un’attività. Nell'attesa i canali social che seguo mi insegnano a diventare quanto di meglio desidero. I limiti che possiedo sono solo auto imposti e non reali. Potrei trasformarmi in un milionario partendo da zero. Il potere di farcela è accessibile per chiunque. Continuo a cercare, alla fine ne ho abbastanza, ci rinuncio e me ne vado a casa. Leggo il modo migliore di impedire a dei prigionieri di scappare è lasciare credere loro di non essere in prigione. Leggo non sprecherò energie a preoccuparmi, le ò per crederci. Ogni giorno percorro miglia a piedi, attraverso tessuti urbani senza destinazione. Spero sempre di smarrirmi, di incappare in imprevisti a conferma di difetti o falle nel sistema. Di vedere qualcuno non sapere dove andare. Cercherò quella sorta di magia nei lavori che continuo ad evitare. Ma non succede mai niente. Lungo il tragitto per rientrare mi soffermo sulle particolari angolazioni di alcuni edifici, misuro l'ampiezza di certe strade, le distanze tra un palazzo e il
successivo. L’armonia generale nelle forme che mi circondano. Vie che convogliano verso singolari direzioni. Pedoni che seguono sensi di marcia unici. Andare, venire. Entrare, uscire. Vite strette dentro dei quadrati che racchiudono tutto. Persone che si logorano giorno dopo giorno nel tentativo di riempirli, di espanderli. Sono parte di un grande formicaio urbano. Un alveare residenziale. Termitaio di appartamenti. Circondato da fili e cavi dell'alta tensione. Reti da pesca per uomini. Salgo le scale del favo in cui abito. Un condominio qualsiasi con bilocali alla portata di budget ridotti. Leggo devo perseverare nell’essere paziente, certe cose accadono all’improvviso, perdurando nella ricerca troverò ciò che bramo. Pensieri consolatori. Apro la porta, lascio cadere oggetti vari sul pavimento. Lascio cadere me stesso sul divano. Ho sonno, sono stanco. La mia mente sprofonda nel buio. Dormo. Contemporaneamente sogno.
Sogno e vedo come delle cose si adattino alla mia persona. L’architettura, l’urbanistica, la città. Concetti pensati per facilitare gli spostamenti. Mi sorvegliano, minimizzano la facoltà di scegliere i luoghi in cui dirigermi. Dentro al sogno apprendo come studi di ingegneria abbiano costruito a tavolino le mie impressioni del mondo. L’hanno chiamata accessibilità. Misurano il livello di sudore dei pedoni, il grado della puzza dei freni delle auto, la distanza di un punto dalle fermate della metro, il tempo necessario a percorrere i due estremi di un centro abitato. Esaminano i miei movimenti, la direzione in cui guardo, il numero dei i, quello che faccio. Una volta era il corpo umano ad adattarsi agli ambienti circostanti. Ora invece sono gli ambienti ad adattarsi all'uomo. Mutazioni genetiche costate migliaia di anni buttate via. Sogno e leggo seguendo la massa non arriverò mai più lontano degli altri, camminando da solo troverò me stesso in posti dove nessun altro è ancora arrivato.
Notte, due del mattino, ho il cuore avvolto da una corolla di tenebra. Mi allontano nella direzione in cui le luci si fanno più rade. Assenza di suoni. Posso correre nel mezzo della strada senza rischiare di essere investito. Mi fermo a prendere fiato nel centro di un incrocio mentre scelgo una direzione. La scarsa illuminazione in cui mi muovo è interrotta a scatti da lampi arancioni di semafori in modalità traffico ridotto. Sono diretto a sud, periferie, quartieri residenziali, occasioni invendute, opportunità da non perdere mai sfruttate. Mentre o ammiro i giardini ben curati di soluzioni abitative a problemi mai posti. Ascolto
l’abbaiare dei moltissimi cani nel deserto che è lo spazio intorno a me. Intuisco dove sono ma non riesco mai a scorgerli. Oltreo una zona di uffici governativi, supero un quartiere di villette a schiera, e poi mi ritrovo nel nulla. Il limite del centro abitato che segna l’inizio della campagna. Nessun lampione, nessuna indicazione. Nessuno. Mi addentro. Mi inoltro in un sentiero poderale qualunque. A un certo punto il sentiero sparisce e procedo sui terreni agricoli. Non si vede niente, mi affido all'intuito. Confuso nell’oscurità, perdo l'idea dell'immagine che gli altri hanno di me. Finiscono anche i campi. Più in là c’è solo la foresta, ripiego in direzione della città. L’alba è prossima, noto qualcosa frapposto tra me e il limite delle case. Un furgone fermo sulla strada con il motore . Uno strano essere gli blocca la via, illuminato da fari prossimi a fondersi con la luce del mattino. C'è in lui un che di bestiale. Come fosse privo di consapevolezza di sé. Magrissimo. Una volta doveva essere stato qualcos’altro. Il corpo è quello di una persona ma lo sguardo è diverso. Le pupille si direbbero di un uomo posseduto dall’animo di una iena. Vene inverosimilmente dilatate, respiri frenetici, pronto a dileguarsi al primo cenno di pericolo. Sale sopra al tettuccio, arriva dall'altra parte e apre il retro del furgone. Ora i suoi occhi vitrei sono incollati sugli ammassi di carne di montone stipati all’interno. Dev’essere un veicolo del reparto macelleria di qualche alimentare. Roba che fra pochi giorni potrebbe diventare immondizia. I negozi in genere acquistano merce in eccesso per non restare con i banconi vuoti. Fuggire, l’unica cosa cui riesco a pensare. Correre. Fin dove le mie forze permettono. Auto sfrecciano veloci di fianco a ciascun gomito. Corro fino a dimenticarmi il motivo. Divento un semplice oggetto in movimento nel l'oscurità, schiarito in parte dai fari delle auto. Timore, l’unica cosa che riesco a sentire, timore nella possibilità di diventare qualcosa, quella cosa. Chiedermi come sia possibile, come sia plausibile trasformarsi in una cosa. Rendermi conto di stare correndo sui margini di una statale, fermarmi su una piazzola di sosta dove staziona l’autista di un camion, svegliarlo, tentare di spiegargli che mi sono perso mentre con lo sguardo cerca invano un’auto col motore guasto e a gesti confusi mi fa segno di salire, l’unica cosa che riesco a fare.
Mattina. Sono a casa. Apro il portatile. Provo con gli annunci su internet. Cerco anche tra gli impieghi all'estero. Considero il presente come un periodo di transizione, il tempo per mettere da parte quanto basta a lanciare la mia attività. Mi tengo basso con le spese, mi concedo il minimo necessario, se vado avanti così potrei farcela. Scendo di casa. Mi aggiro per le strade della città, adocchio
qualche annuncio sul giornale. Nel contempo amplifico i miei campi di interesse, faccio attività fisica, medito, prendo il sole per assumere vitamina "d", bevo tisane, cose imparate su internet. I canali motivazionali mi forniscono tutta una serie di liste di cose, una per il tempo libero, una per il lavoro, una per le relazioni. La mia vita è diventata un elenco, leggo come guadagnare rispetto per me stesso: farò cose difficili ogni giorno le farò anche quando mi sembreranno difficili come l'inferno assumerò il controllo delle mie emozioni smetterò di mollare quando si farà dura cercherò le cose per trovarle; come restare concentrato sui miei obiettivi: organizzerò la giornata la sera precedente eliminerò le distrazioni e le perdite di tempo ricaricherò e conserverò la mia energia ricorderò costantemente il traguardo da raggiungere; come restare finanziariamente a galla: terrò traccia di dove finiscono i soldi amplificherò le mie conoscenze diversificherò le fonti di guadagno sarò un investitore e non un consumatore soddisfarò innanzitutto me stesso arrotonderò
troverò un mentore. Mi sento una lista di cose. Scendo le scale sotto la scritta underground, il flusso di gente, i binari, linea gialla, sportelli aperti, entro, mi lascio spingere dalla folla. Il mio riflesso nel vetro della metro, il treno parte, velocità costante in uno sfondo costante, come non ci fosse un vero movimento, come fossi sospeso nel vuoto, eggeri sospesi nel vuoto, in uno sfondo nero, costante, come non andassero da nessuna parte, a velocità costante, la mia fermata, scendo, una stazione uguale, un nome diverso, folla di pendolari, uguali, nomi diversi, scale mobili, mi lascio portare verso l'alto, verso la luce, cambio di atmosfera, il mondo esterno, guardarmi riflesso negli altri, volti estraniati a causa del cambiamento, aria fresca, scrutarli e vederli smarrirsi, allontanarsi e disperdersi, leggo, cammino, le palpebre si chiudono mentre aspetto un autobus sotto una fermata.
Sogno e vedo un mondo fatto di condivisione invece che di competizione. Osservo villaggi di cacciatori raccoglitori, bambini che mettono su giochi dove non vince mai nessuno, ragazzi che non vengono istruiti a fare meglio e più degli altri. Collaborano per raggiungere un obiettivo, cercano di sacrificare esigenze e ambizioni personali per garantire successo al gruppo e aumentare le proprie possibilità di sopravvivenza. Il singolo non è disposto a tutto pur di raggiungere il successo, non tende a sopraffare altri membri, bensì condivide, coopera, collabora. Leggo la vita è un viaggio, non una gara; non scoraggerò chiunque faccia progressi anche se lentamente; sosterrò i progetti dei miei amici come sostengo celebrità che non conosco.
Notte. Approssimativamente. Sono un po’ incerto nello stabilire il confine visto il sopraggiungere dell’alba. Mi sento a disagio seduto di fianco all’autista, è uno di poche parole. Noto quanto in realtà siano comode e spaziose le cabine dei camion. Mi chiedo che idea si sia fatto di me, sono sbucato fuori in mezzo al nulla. Mi chiedo come mai stiamo rallentando. Le frecce del mezzo lampeggiano in modalità sosta d’emergenza. Procediamo a bassa velocità, la strada è piena di fumo. Auto che bruciano ai margini della carreggiata. Osservo il mio volto riflesso nel vetro sotto la luce della cabina. Attraversiamo lentamente un tunnel di fumo nero scortato da brevi lampi arancioni. Il volto dell'autista riflesso nel
parabrezza, espressione di incomprensione, non sa in quale direzione avanzare. Sagome, silhouette scure, compaiono aldilà del cavalcavia. Proseguiamo lentamente. Incerti. Una fila di auto in fiamme ci taglia in obliquo la strada, costringendoci ad una lenta manovra di accostamento. Qualcosa arriva dall’alto attraverso il fumo, si spiaccica come una zanzara sull’angolo tra il parabrezza e il tettuccio. Immagino un cadavere carbonizzato. Nudo e cosparso di polvere di carbone. E’ una persona, viva. Respira. Il guidatore non sa che fare. In preda al terrore, non comprendendo cosa stia succedendo al genere umano, temendo di essere contagiati da quella bestialità, apriamo lo sportello e scappiamo. Senza fiato per via del fumo che impedisce di far entrare l'aria nei polmoni, con la testa bassa per vedere dove mettiamo i piedi, corriamo nella direzione opposta a quella in cui siamo arrivati, ci allontaniamo e nel mentre con la coda dell'occhio vedo le sagome scure catapultarsi sul rimorchio del tir. Lo vedo con la parte esterna del campo visivo ma soprattutto lo sento, sento i tonfi dei corpi che sbattono sul telaio, sento le mani di quei cosi affannarsi per cercare di strappare il telone di plastica del rimorchio. Immagino i loro occhi senz'anima ruotare. Ci affanniamo con la testa bassa a tentoni nel fumo, nuotiamo nel mare d'incertezza che avvolge e sporca la conoscenza di noi stessi e dell'uomo, respirando a fatica e cercando di restare vicini per non perderci, per non dimenticare il volto che conserviamo, usciamo, mentre l'aria fresca torna a riempirci i polmoni, solleviamo il capo a guardiamo la luce dell’alba, guardiamo le persone, il traffico del mattino bloccato, gente che pensa a un qualche strano incidente, ci accasciamo per la troppa corsa, dei eggeri scendono per assisterci e smarrirsi a loro volta notando i nostri sguardi di terrore, esagerati, sguardi persi, senz'anima, in cui non si riconosono, che diffondono terrore a loro volta, che diffondono incertezza, mentre il vento soffia fumo nero nella nostra direzione, e senza pensarci ci rialziamo e ricominciamo a correre, e vediamo quei primi ad assistere dimenticarsi delle auto e scappare insieme noi, con la coda dell'occhio scorgiamo sagome nere sbucare dal fumo, altri iniziare ad imitarci, senza capire bene, senza comprendere, correre dietro di noi, sempre di più, mentre a poco a poco diventiamo un grande gruppo di persone che abbandona auto del valore di un appartamento, il frutto di una vita di lavoro, abbandonarle nell'autostrada per fuggire via da una grande folata di fumo nero che trasforma le cose in cenere e gli uomini in cose.
Mattina. Mi trovo a un seminario per startupper. Arredamento in stile arte povera. Altalene in finta corda di juta. Sgabelli in finto ferro battuto. Le pareti in
mattoni sono l’unica cosa autenticamente vecchia, insieme alle finestre verde acqua sbiadite. Si tratta di un’antica fabbrica rimessa a nuovo per ospitare eventi. C’è tanta gente. Mi aggiro un po a caso, non riesco a trovare il luogo esatto. Chiedo informazioni, a chiunque, a tutti, nessuno è in grado di aiutarmi. Sono sul punto di arrendermi. Vado verso l’uscita, forse si trattava del posto sbagliato. Vedo tavolini che in realtà sono quei grossi affari rotondi di legno usati in agricoltura per avvolgerci tubi d'irrigazione. Mi siedo un attimo prima di tornare a casa. Una poltrona che in realtà è qualcos'altro. Dentro un posto che in realtà è qualcos'altro. Persone che nella vita sono altro, fanno altro. Ma oggi diventavano apionati di moda, esperti di life style. Leggo investirò in me stesso fino al punto che qualcun altro vorrà investire su di me. Leggo un bambino che impara a camminare e cade cinquanta volte, non pensa mai non fa per me. Alzo lo sguardo, vedo un tizio entrare in una parte dell'edificio in ombra, trascurata. Non si direbbe di libero accesso, non ci sono cartelli o segnali. All’interno è deserto. Mi affido al mio intuito, provo a salire. Lo perdo di vista, mi perdo io stesso. Confiderò in ciò che merito per scoprire quello che posso attrarre. Corridoi vuoti. Non penserò troppo a qualcosa, altrimenti non la farò mai. Arrivo davanti a uno sportello di vetro, aldilà c’è un'ampia sala bene illuminata, arredata con lo stesso stile finto qualcosa. Una hostess mi fa cenno di entrare. E' il posto che cercavo. Mi fanno compilare dei fogli, mi appendono un cartellino al collo, simile a quelli che danno accesso ai dietro le quinte degli spettacoli, quelli che riescono ad avere solo i più fortunati, sopra c’è scritto il mio nome con la dicitura talento. Avverto un’atmosfera riservata, non so esattamente cosa fare. Alcuni stanno in gruppo, altri come me si aggirano soli, attenti a non incrociare gli sguardi. Mi servo una tazza di tè dall’angolo ristorazione e mi metto comodo nell'angolo relax, divanetti che in realtà sono sedili posteriori di vecchie auto. Un sorso, un altro, alla fine mi addormento davanti al formicaio di persone che si muove nello spiazzale di sotto in cerca di cartelli.
Mi addormento e sogno un posto. Un posto in cui fobie antiche, dimenticate, si mescolano con le paure del presente. Il bisogno di cacciare e di procurarsi il cibo si evolve in bisogno di successo. La regola della sopravvivenza cambia in regola della concorrenza. La fame viene sostituita dal desiderio di carriera. La paura dei predatori dalla paura di non realizzare sé stessi. Assisto a tutto questo nel sogno e nel mentre cammino, contemplo società che inducono a percorrere le stesse strade, sempre, e a ignorare tutte le altre, i vicoli, le piccole deviazioni secondarie, i posti dai quali non a mai nessuno. Leggo di fronte a una sfida
bisogna ricordarsi che le cose devono necessariamente diventare difficili affinché sia possibile cambiare.
Notte. Strade tranquille, negozi chiusi. Avverto di andare nella direzione opposta rispetto agli altri. Sono da qualche parte lontano dal centro. Posto circondato da magazzini e da silenzio. Pieno di rimesse, cancelli, vetri scuri. Scoperto seguendo quelle cose una notte dopo l’altra. Gli hanno dato un nome, uomini ombra. Voglio provare a filmare da vicino il posto in cui si nascondono per poi vendere il materiale a qualche quotidiano locale. Sarebbe un punto di partenza per crearmi una carriera. Avevo già individuato l’edificio. Escono solo di notte, nessuno nota niente di strano durante il giorno. Uno stabile abbandonato, che era stato qualcos’altro, tubi, vetri rotti, pareti piene di scritte, distante, lontano dalla luce. Ne intravedo il profilo scuro. Angoscia. Un posto dove non dovrei andare. Abbandono della mia zona di comfort. Palazzo con alle spalle nient’altro che terreni incolti. Non c’è possibilità di nascondermi. Avverto di stare per ritrovarmi con le spalle al muro. Ottusità. Un punto di partenza. Piccola telecamera portatile, di quelle per sport estremi, legata alla fronte. Potrebbero notarmi. Rumore di oggetti nelle mie tasche. Rumore dei vetri rotti che calpesto. Mi avvicino. Un paio di uomini ombra mi superano spostandosi da un tetto all'altro, spariscono nel buio. Buio che non basta a celarmi. Vestiti che non sono sufficientemente scuri. Adatto lo sguardo. Mi avvicino. Cerco di abituarmi alla poca luce proveniente da dentro l’edificio. Aritmia. Aria consumata in quantità sempre maggiore. Pupille dilatate. Vene espanse. Muscoli incrementati. Difficoltà nel muovermi piano con i nervi a pelle. Uomini ombra sempre più vicini. Nel gergo si chiama reazione combatti o fuggi. Un rilascio di adrenalina stimolato da forti emozioni come lo spavento. Mi avvicino a una finestra, pezzi di carne appesi ai ganci, un grande fuoco. Si ricoprono di una mistura simil carbone. Fabbricano un pigmento bianco simil gesso di ossa tritate. Soffiano le polveri sulle pareti nei punti dove appoggiano le mani. Manate bianche e nere dappertutto. Letti di veri materassi avvolti da materiale da imballaggio. Un camion cisterna pieno d’acqua. Scatoloni di roba da farmacia, gel analgesico, ghiaccio-spray, garze, disinfettanti, materiale da pronto soccorso. Rilascio di adrenalina che è stimolato da emozioni come il panico. Uno di loro mi sorprende. Me la do a gambe, sento gli uomini ombra corrermi dietro, con una furia non umana. Desiderio di essere altrove. Mentre scappo, mentre la ghiandola surrenale rilascia adrenalina, inibisce la sensazione di fatica e accelera il metabolismo, mentre sento i tonfi cerco di focalizzarmi sulla volta in cui ho
letto un giorno un uomo rovescia il contenuto di una tazza e riversa del caffè a terra. Se ci fosse stato del te, avrebbe riversato quello. Allo stesso modo quando capiterà a lui di essere rovesciato, ciò che porta dentro sarà ciò che verrà fuori .
Pomeriggio. Mi risveglio nell’angolo relax del meeting, i partecipanti si sono spostati in una sala con un piccolo palco. L’organizzatore sta tenendo un discorso. Prendo posto, gli sento dire la realtà non è che una creazione della mente, è possibile cambiare la realtà cambiando la propria mente. Il seminario è diviso in tre giornate, nella prima ad ognuno vengono concessi novanta secondi di palcoscenico per esporre la propria idea di business. Così se qualcun altro è interessato può chiedere di entrare nel progetto. I più sono talmente a disagio che non arrivano alla fine. La pressione, i riflettori, la voce amplificata dagli altoparlanti, diversa da come se la immaginavano. Più fanno di meglio più si sentono banali e insignificanti, si scoraggiano e con lo sguardo cercano l’organizzatore per avere il permesso di smettere, ma quel momento non arriva mai. Io preferisco non espormi. Disinteresse. Finzione. Nelle persone, negli arredamenti, nelle idee, nel desiderio di successo. Mi allontano. Il giorno sta per diventare notte. Poche formiche ancora in cerca di segnali. Auspicio di perdermi. Prendo a girovagare tra vecchie stanze polverose. Uffici parzialmente arredati e non adibiti a un utilizzo. Spazi vuoti, spazi solo la metà di qualcosa. Aldilà di venire. Il sole scompare, le formiche si disperdono, è il momento di andarmene. Uscendo incrocio il tizio del tavolino. Non va verso l'uscita, sale. Scale, maniglie verde acqua sbiadite. Lo seguo sul tetto. Qualcosa in lui non convince. Ha dei tagli sulle mani. Zaino ripieno di cose commestibili prese dall’angolo ristoro. Pantaloni sporchi di gesso. Arrivo sul tetto. Di notte, dall’alto, la città ha un altro aspetto. Come un labirinto. Strade che non portano da nessuna parte. Sappi riconoscere quando una fase, un lavoro, una relazione finisce, così da concederti di abbandonare una situazione a cui non appartieni più. Lasciarti andare non sarà necessariamente un evento catastrofico. E' completamente buio, un mucchietto di roba ammassata in un angolo. Il tizio ci svuota lo zaino sopra. Dopodiche si avvicina al bordo del tetto, si afferra a un tubo di scolo dell'acqua piovana e si cala giù. Non sapendo che altro fare me ne torno a casa, controllando ogni vicolo, ogni traversa abbastanza stretta. Arrivo nel mio cubicolo da termite. Vado a letto e a tal punto prendo sonno.
Quella notte sogno scheletri dell'età della pietra pieni di cicatrizzazioni e fratture, ricoperti da tumefazioni ossee dovute a scontri con grandi mammiferi. Appartengono a individui fra i trenta e i quaranta. Crani sfondati, costole perforate. Testimoni di un grande sacrificio evolutivo. Ciò che permise all’uomo di diventare quello che è. Cui deve la sua intelligenza, la sua forza. Fortuiti, faticosi, graduali adattamenti che gli permisero di colonizzare ogni habitat. Per poi are la vita dentro il cubicolo di un gigantesco formicaio, circondato da cose finte.
Mattina. E’ la seconda giornata, ci verrà offerta la consulenza di vere figure professionali. Esperti di marketing, economia, finanza e roba varia. Professionisti veri, quello che dicono no. Un grosso fiume di menzogne, investe tutti quanti. Se prima non fate, se non acquistate, se non investite, se non vi dotate. Parole tecniche. Termini di settore. Scritti con il trattino. Start-up. Networking. Coo-working. Self-confidence. Growing-up. Sono rimasto bloccato in mezzo a quei trattini. Una realtà in perenne divenire che non diviene mai niente. La strada per il successo. Mi viene da pensare come la vita sia solo una fase tra due stati della materia. Deve pur esistere un momento in cui il giorno nasce dalla notte e tutto comincia. Un fiume non scorre mai al contrario, proverò a vivere come un fiume, dimenticandomi del ato e concentrandomi solo sul futuro. Mi sono vestito comodo, tuta e scarpe da ginnastica. Quanto non era necessario l’ho lasciato dietro. Gente bloccata tra due stati attorno a me. Il momento in cui fa più paura saltare è esattamente il momento in cui saltare. Butto lo sguardo fuori dalle finestre. Mi focalizzo sulle sporgenze degli edifici. Cerco il tizio di ieri ma non lo trovo. In un mondo di cose finte, finisco per sentirmi io stesso finto. L’evento di oggi giunge al termine. Ognuno prende la sua strada. Io vado sul tetto. Il mucchietto di cibo è ancora là. Mi siedo, aspetto. Aspetto. A forza di restare fermo divento un tutt'uno col contesto. Confuso con il grigio, con il buio. Sento la stanchezza. Poi il tizio fa capolino dall’altro lato del parapetto. Prende tutto il cibo e lo cala giù con un panno stretto ad una corda. Dopodiche si cala giù anche lui. Viene inghiottito dal nulla che circonda le cose mentre gli altri dormono. Devo vivere un'esperienza assolutamente distruttiva per comprendere la mia natura. Afferro la corda per scendere anch’io. Arrivo a metà, ma le mani non reggono. Mi lascio cadere nel vuoto, muoio per un istante. Quando mi sentirò come se tutto colerà a picco, dovrò ricordarmi che tutto starà semplicemente cambiando. Atterro su un’auto, lacuna, rumore, dolore, inseguo la sagoma del tizio. Mi ritrovo sprofondato nel buio, alternato a tratti di luce
gialla. Gli vado dietro, corro dietro la sua sagoma, ando attraverso scale antincendio, porte anti panico, tetti, terrazze, finestre, cavalcavia, scalinate, ringhiere, tubi di scolo, cancelli, reti, muri, stranamente inosservato. Scomparendo, riapparendo.
Terzo giorno. Mi concederanno l'opportunità di esporre la mia idea di business a un gruppo di investitori. Percepisco fermento nell'aria. Potremmo ricevere un consistente finanziamento. Una volta ottenuto sarebbe fatta. Tutto è pronto per il grande momento. Gli altri preparano il discorso. Si tratta di vendersi. Offrirsi quale prodotto idoneo. Soluzione più efficace. Il cavallo su cui puntare. Io ho scelto di nuovo di non partecipare. So che quella non è una vera gara. E la posta in palio non è una vera vincita. E’ solo un'altra carota per continuare a correre nel labirinto. Nei due giorni precedenti, per ovviare alla noia, ho manomesso il sistema di scarico del bagno. I gabinetti ora sono pieni di urina, cartelli guasto o rotto dappertutto. Nessuno osa entrarci. Ho riempito le tazze con dei petardi. Li ho collegati ad una miccia. Una miccia che ora sto stringendo in mano. Il momento della cerimonia di premiazione, accendo la miccia. Lieve conflagrazione, nuvoletta di polvere, allarme antincendio, un rivolo di self improvement, auto training, motivational mindset, energy drink e tisane defluisce fuori dal bagno, scatta l’impianto di emergenza, piove in tutto l'edificio. Lo sto facendo per loro. Gli risparmio un mea culpa per non avercela fatta. La miccia continua la sua corsa, sento un "bum" per ogni piano. Ruscelli scendono giù un po' da tutte le ale della fabbrica. Fuori dalla finestra le persone fuggono dal giallo dell’acqua mista a urina. Ammassata nel cortile centrale, la folla capisce di non avere scampo. L’acqua defluisce verso di loro, travolge le scarpe lucide e le calze a rete. Nessuna vittoria significa nessun fallimento. Nel frattempo è calata la sera, corro via, a casa, trafitto da sprizzi di vecchie luci giallastre, pantaloni a chiazze giallastre. Sagome scure piombano su ciò che resta dei buffet dell'evento. Mi domando cosa stia succedendo al mondo. Durante la notte sogno qualcosa di strano.
Nel sogno guardo il sistema rompersi. Gli ingranaggi della macchina incepparsi. Procreare e fare espandere la specie cessare di essere una priorità. L’obiettivo della selezione naturale venire raggiunto. L'essere umano arrivare al punto massimo della capacità di miglioramento. Nel sogno comincio a pensare di
essere rimasto senza un obiettivo. Adattarmi, superare le difficoltà, evolvermi non ha più un senso a quel punto.
Mattina. Mi sveglio. Verifico il contenuto del frigo. Appuro quello che c’è da comprare. Quanto verrà a costare. Piccioni fuori al davanzale nell’esagono del mio alveare. Ormai abituati alla presenza umana. Immagino una traiettoria, lo spazio di manovra concessomi prima che spicchino il volo. La quantità di secrezioni che producono ogni giorno. La dedizione del municipio nel mantenere la loro popolazione al di sotto di una soglia non critica. wEsco, percorro le scale che portano al tetto, silenziosamente. Mi avvicino. Le infezioni che possono provocare. Concentro lo sguardo su un obiettivo. Fermo, immobile. Decine di metri da terra, sul bordo dell'edificio, un o dal vuoto, scatto sull'animale, si dimena, una montagna di piume, sentendomi disgustato, lo sguardo della creatura, cosciente del suo destino, tra feci bianche, l'animale che si muove disperato, senza mollare la presa, staccandogli la testa a morsi e sputandola via. Porto la carcassa ancora fremente in casa, sciacquando via il sangue nel lavandino, spogliandola dalle piume, sviscerandola, allestendo un piccolo fuoco dentro una pentola, fuori sulle scale antincendio, stendendoci sopra la carne del piccione. Piccoli falò anche tra gli edifici vicini, piccole figure camminare in bilico sui cornicioni, pennuti dimenarsi, annusando l’odore delle carni sulle braci. Cercando un segno, un cartello, ma quel giorno non trovo alcun post o messaggio. Aguzzando la vista mentre reggo un lungo bastone precedentemente levigato in punta. Restando immobile, appostato davanti un pezzetto di carne. Puntando la mia finta, vera lancia su un ignaro roditore, trattenermi, immobile, immerso nel contesto. Dardo scagliato, roditore trafitto, stridio disperato. Cercando un vicolo poco in vista, soddisfatto, altri individui, topi abbrustoliti sui fuochi. Allontanandomi, iniziando a girovagare per una delle zone industriali in cerca di un capannone dismesso e dimenticato. Dedicandomi ad accumulare strati di compensato e altro materiale edile di scarto, bordando tutte le aperture, le finestre, le porte, i vetri rotti per ripararmi dal freddo. Improvvisando materassi con resti di divani, poltrone e cuscini. Non rendendomi conto che la durata del giorno è andata accorciandosi sensibilmente. Senza denaro, senza terapia motivazionale, senza parole coi trattini. Vagando alla ricerca di un furgone cisterna in una città silenziosa e addormentata insieme ad altri quattro o cinque. Imbattendoci in un mezzo che trasporta carne. Agganciando la carne su un grande falò. Triturando del carbone per farne una polvere scura. Ricoprendone il corpo per rimanere al buio anche nella luce, per appropriarci
della linfa vitale del mondo, noi stessi. Una città spenta, saltando come animali attraverso distanze che non pensavamo, che non sapevamo, con forza che non conoscevamo. Infrangendo vetri in un centro commerciale, depredandolo di quanta più selvaggina, defilandoci sotto lampeggianti gialli del sistema d'allarme, illumina a tratti ciò che rimane del nostro volto. Niente parole, niente cartelli, ritrovandoci circondati da montagne di cibo e di ombre che soffiano su alte pareti piene di vetri rotti e di parti tappezzate. Stanchi come non ricordavamo, nel momento in cui il sole sorge, abbandonandoci su un ammasso di cuscini, sognando qualcosa di bello.
Ora c’è un grande rogo perennemente alimentato. Percepisco che l'intero sistema intorno all’edificio collassa lentamente mentre quello all'interno cresce in modo graduale e parassitario. Non facciamo altro che raccogliere. Lavorare. Modificare. Mangiare. Dormire. Cercare cibo. Cercare ancora. Mappare il percorso dei furgoni. Individuare il magazzino da dove partono. Localizzare il tir che lo rifornisce di merce. Risalire il tragitto del tir a ritroso. Selezionare un tratto lungo la statale. Impadronendoci di vecchie auto. Che non valgono la fatica di una denuncia. Prossime allo spegnimento. Abbandonate nei vicoli più bui di questa era. Carcasse ma che funzionano ancora. Posizionarle lungo la carreggiata. Attendere. Fuoco. Fumo. Impossibilità di procedere. Fiamme. Auto nere, cenere, carbone. Oscurità. Scattare, fluttuare, tonfi, tetto del rimorchio, entrare, arraffare, uscire. Il magazzino dismesso ora assomiglia a un piccolo villaggio, talmente è affollato. Teloni in plastica scuri avvolgono tutta la struttura. Al centro del soffitto un foro permette al fumo di uscire. Uscire, entrare. Formiche. Raccolgono materiali di riciclo, reperiscono medicinali, fasciano slogature e ferite. Un formicaio privo di una regina. Un fiume di piccoli insetti neri. Entrano ed escono dai buchi. Li riparano se si guastano. Li difendono se qualcosa li minaccia.
Corro, fino a dimenticarmi perche. Senza voltarmi, senza guardare. Come se non ci fosse un domani. In effetti non sono sicuro che esista ancora un domani. Non sto scappando. Solo vado di fretta. Domani devo darmi da fare col montaggio. Sono riuscito a filmare gli uomini ombra. Potrebbe diventare materiale buono per un documentario o un servizio. Posso tirarci su dei soldi. Le emittenti locali potrebbero interessarsi. Sapevo che quegli esseri non mi avrebbero seguito con il
sopraggiungere dell'alba. Sono riuscito a scappare, lo avevo già calcolato. Rifletto sulla capacità di memoria della videocamera portatile. Su come sono venute le riprese. Mi chiedo che ne sarà del luogo in cui ho ato gran parte del la vita. Il grande labirinto. Una volta che i segnali saranno abbattuti e la via non sarà illuminata da cartelli e indicazioni. Le autorità non esiteranno a demolire tutto. Mentre penso sono arrivato nel quadrato appartamento. E mentre penso ancora, alla fine mi addormento.
Mi ritrovo in mondi dispersi, lontani, fatti di finzioni e di progresso, di gioie e ioni fatue. Provo a guardare aldilà di ciò, non vedo altro che un orizzonte scuro, fatto di cenere. Da lontano giungono solo ronzii di sottofondo, suoni di traffichi lontani, muri che non vengono mai abbattuti, non c’è traccia dei suoni di uomini e di donne. Mi scopro immerso in luci buie e fatte di paglia, in mondi fatti di discernimento, di assuefazione, liberticidio, ansie da prestazione, come se lì, tra quei labirinti, non ci fosse più stato un domani. Un sonno della civiltà. Grandi fumi s'innalzano tutto intorno ad oscurare la vista di orologi da controllare, di animali da soma, di interminabili piramidi. Nessuno sfugge. Capisco che opporre resistenza rafforza quella visione invece di indebolirla. Ogni cosa filtrata per risultare costruttiva, inclusa la verità. Il sistema ha fallito. La sua efficienza si è esaurita da un pezzo ma coloro che lo hanno realizzato continuano andando avanti per inerzia. Non replicherò quando sarò arrabbiato, non prometterò quando sarò felice, non deciderò se sarò triste.
Ormai gli uomini ombra dirottano il traffico di interi quartieri. E’ impossibile avvicinarsi ai loro covi. Escono di notte per la caccia e la raccolta. A volte li vedo anche di giorno, alla luce del sole. Convogli di prodotti alimentari scortati dalla polizia riforniscono la città. Li fanno arrivare tutti insieme per meglio difenderli. Occasionalmente sento anche elicotteri. I centri commerciali sono presidiati da guardie giurate attrezzate con armi pesanti. Gli opinionisti televisivi si dedicano all’analisi del fenomeno. Valutano le cause remote. Tracce di ciò che prima era qualcos'altro e prima ancora qualcos'altro di nuovo, e così via all'infinito. Ma deve necessariamente essere esistito un momento in cui il giorno nacque dalla notte e tutto cominciò. Questi qui non lo capiscono, le loro spiegazioni vanno ad arenarsi su spiagge lontane. Dominio di sé, dispersione dell'io, appartenenza comunitaria, omologazione, bisogni primari, stima
personale. Durante le ore notturne è meglio non uscire. Consigliano di restare in casa. Suggeriscono di non lasciare finestre aperte. Di non abitare all'ultimo piano. Dicono è più prudente trasferirsi nei sobborghi. Non lasciare cibo in giro. Avere una cucina dotata di ventole di aspirazione. Esortano ad evitare i vicoli non abbastanza illuminati, anche in macchina. Nelle zone industriali rammentano di non addentrarsi né in macchina né a piedi. La popolazione di piccioni, di topi e di scarafaggi si è ridotta notevolmente. Alte colonne di fuliggine dividono i cieli della città. L'aeroporto valuta la possibilità di chiudere il traffico. Gli alimentari prestano attenzione alla quantità di merce da ordinare. Il governo dello stato sta decidendo in che modo affrontare il problema. Cercano una soluzione. L'uso della forza appare inadeguato, sparare su chi ruba del cibo è contro i diritti umani. Le forze dell'ordine acquistano armi non proprio letali, come fucili a proiettili narcotici di quelli usati negli zoo. Gli agenti ora mi sembrano guardie di uno zoo. Gli uomini ombra ogni tanto fanno incursione negli ospedali, rubano soluzioni di adrenalina ad applicazione rapida, servono a contrastare l'effetto dei proiettili della polizia. Sono diventati più veloci. Stormi di ombre nere si muovono nella notte, intorno ai palazzi, nei vicoli, sulle capotte dei mezzi pubblici, nei parchi, nelle zone pedonali, intorno ai grandi magazzini, si danno da fare in qualche struttura ad accesso proibito. Abitano in antri bui, luoghi bicromatici, covi fatti di due colori. Un'esistenza bianca e nera.
Mattina, sono munito di attrezzatura professionale. Il piano è seguire gli uomini ombra in pieno giorno durante una delle loro incursioni. Purtroppo la situazione non è idonea. Ogni obiettivo richiede il suo tempo, il cambiamento è inevitabile, ciascun essere umano è capace di qualunque cosa. Mi muovo, tra furgoni blindati, agenti in assetto antisommossa, posti di blocco, colonne di fumo, vecchi copertoni in fiamme, uomini ombra che si dimenano, in cerca di volatili, in cerca di roditori, avanzi di cibo, merce immondizia, tra vetri infranti, sportelli manomessi, luci d'emergenza, sirene d’allarme, pale di elicotteri, volti smarriti, individui dispersi, manifesti con foto di individui dispersi, forze dell’ordine in fuga, ombre accalappiate, trascinate per il collo, con bastoni di quelli per i cani randagi, mi affretto in mezzo a ombre agonizzanti a terra, uomini non uomini, esseri privi di disperazione, fatti di adrenalina, con pupille dilatate, vene divaricate, emananti versi che non concepisco come umani, che si torcono con una forza che non direi, non mi aspetterei, circondato da assetti antisommossa, fucili narcotizzanti, sparano alla ceca, mirano senza colpire, ma ogni tanto cadono giù grossi animali neri, grossi scoiattoli scuri che sembrano uomini,
urlanti, strafatti, lentamente abbandonano le forze, l’essenza distruttiva e tornano a dormire. Mi sposto dentro colonne di fumo bruno occultanti ogni orizzonte, dalle quali sbucano strane creature, saltano da un tetto all'altro della città, la quale ormai non è più un labirinto, neanche formicaio o alveare, né termitaio, è territorio di caccia, confine, divieto d'accesso, di transito, accelero circondato da divieti infranti, da cartelli divelti, da segnali spenti, da luci che non illuminano più nessuno e più nessuna strada, camionette in fiamme, poliziotti in fiamme, dardi realizzati con materiali di riciclo, persone ferite, persone in fuga, vetrine frantumate, volti smarriti, spaventati, uomini non più uomini. Procedo a testa bassa in mezzo al fumo, cercando di vedere dove vado, cercando di non perdermi, guardandomi i piedi, sempre più rapidamente, e poi corro, corro, su scale di emergenza, vado dove non dovrei, dove non si potrebbe, guardo dove non si vedrebbe, e poi salto, mi arrampico, seguo ombre, le seguo in mezzo al turbinio, al caos, alla spazzatura, all'immondizia, in labirinti in cui ormai non ci si perde, in strade che non si arriva, orizzonte che non circonda, mi abbandono e vado, seguo figure invisibili, fluttuo tra spazi aperti in tramonti alternati a luci giallastre tipiche della sera, tramite aperture, aggi, direzionando traiettorie, alterando messe a fuoco, concentrandomi sull’atterraggio, sulla misura del mio corpo, calcolo, prevedo, e poi plano, fin quando non divento una cosa, uno scoiattolo, un grosso scoiattolo fluttuante attraverso superfici ad altezza variabile. E mentre questo accade il giorno diventa notte e la realtà diventa un sogno.
Dentro al sogno abito in antri oscuri, luoghi senza uscite, senza luci, senza sbocchi occupazionali, vivo privo di consapevolezza del mio potenziale. Entro in un'ottica di non completezza, non raggiungimento, mancata realizzazione, cose che non finiscono su un curriculum. Non mi sento fatto per quel tipo di sogno, non lo sono mai stato, ma d'altronde quali alternative avrei. Tiro avanti con l’interrogativo sempre irrisolto, sperando che prima o poi si scateni qualcosa, un evento, un accadimento, ma alla fine non succede niente e io permango in uno stato di inerzia. La mia esperienza di una vita sfuggevole e di giornate vuote si protrae.
Mattina. Mi sveglio, mi guardo allo specchio, mi cerco, do un’occhiata intorno, apro ogni stanza, non trovo me stesso da nessuna parte. Mi vesto sportivo. Esco
dopo essermi riempito lo zaino delle poche cose utili trovate. Una casa piena di oggetti che non hanno una vera funzione. Cose che non porterei con me in caso di bisogno. Oggi non vado in cerca di speranze. Non proietto davanti a me alcun futuro. Altri due o tre lungo la strada credo abbiano avuto lo stesso sentore. Senza farlo di proposito prendiamo la stessa direzione. Svoltiamo per gli stessi angoli. Giungiamo in una periferia degradata. Davanti a noi strutture che sulla carta avrebbero dovuto essere qualcosa di grande, il colmo di un’ambizione. Adesso sono diventate un luogo di transizione, tra la città e ciò che la città avrebbe voluto essere. eggio fiancheggiato da fabbricati tutti dismessi e vie che arrivano alla fine del centro abitato e poi si perdono nella campagna. Un posto che è qualcosa e non lo è allo stesso tempo. Montagne di sporcizia, erba incolta, cancelli arrugginiti, marciapiedi scardinati dalle radici della vegetazione spontanea cresciuta troppo. Un mondo aldilà di venire. Già da prima che arrivassi vi si aggiravano una decina di persone. Scelgo un edificio messo non troppo male, uno di quelli realizzati per ultimi prima di capire che il quartiere non avrebbe avuto fortuna. Ci entro e oggi divento un operaio edile, un falegname, rovisto tra l'immondizia e cerco cose ancora utili. Oggi sono un esperto di stile rétro, un designer di arte povera. Anche gli altri, come me si mettono a lavoro. Anche loro esseri dispersi in una qualche fase di transizione. Mi sento colto alla sprovvista, credevo sarei stato solo. Non so come comportarmi, quindi non faccio niente, continuo a fare quello che stavo facendo, fin quando il giorno diventa notte e il buio sopraffae tutti noi. Ci sdraiamo su materassi imballati stesi su strati di cartone. Legna che brucia come unica fonte di luce. Mentre me ne sto sdraiato fisso il soffitto in cemento grigio, l’occhio si perde sulle stelle aldilà di una finestra scheggiata. Provo a pensare alle relazioni importanti della mia vita. Non ricordo di averne avute. Le poche volte si è trattato di ragazze già impegniate. Nel momento di provare a costruire qualcosa smettevano di cercarmi. Chi ha un rapporto vero forse desidera solo lasciarsi andare di tanto in tanto, così per sbagliare, per capire quanto in realtà siano fortunate. In un edificio quasi qualcosa mi perdo nel cielo e nelle costellazioni che traspaiono attraverso vetri arrugginiti, respirando polvere, al centro del nulla, chilometri e chilometri di nulla.
Cavalcare tetti nella notte di questo giorno, essere ombre, silhouette scure in movimento. Essere figure nere deambulanti nell'oscurità. Soluzioni di adrenalina. Cuore che potrebbe esploderci se ci fermassimo. Non sentire dolore, non sentire vetri contro cui il nostro corpo si infrange. Non sentire impatto delle
ossa contro l’asfalto del marciapiede. Non pensare, soltanto agire. Non ragionare, solo decidere. Non essere, diventare. Andiamo a caccia di ghiandole surrenali. Servono per il rito di iniziazione. Vogliamo la parte midollare della ghiandola, essa secerne adrenalina nel corpo umano. Ci avviciniamo all’obitorio dell’ospedale. Presidiato da guardie armate perche continuavamo a rubare materiale medico. Adrenalina che impedisce al nostro cervello di percepire il pericolo. Entare tra piogge di vetri infranti da una finestra del pian terreno. Guardie tutte intorno, dardi che volano in ogni direzione. Sappiamo cosa fare. Ombre nere, scompariamo più in fretta di come compariamo. Porta dell’obitorio sbarrata alle nostre spalle, operazione di estrazione cominciata. Narici otturate con pezzetti di cotone imbevuti di alcool etilico. Selezionare cadaveri più giovani. Conservare ghiandole nel ghiaccio. Lasciare l'ospedale e dileguarsi. Non essere staticità, ma movimento. Non consapevolezza, ma continuo divenire. Arrivare al covo. Cinque o sei novizi cosparsi di ocra gialla al centro di un grande gruppo di figure nere e bianche. Quando non saprò dove starò andando ogni strada potrà portarmi lì. Bollire le ghiandole, porgerle alle larve. Il loro compito è manomettere l'impianto d'illuminazione. Effetto delle sostanze. Perdono il senno, in preda alla follia si dirigono fuori. Incapaci di fermarsi, incapaci di riconoscere un limite, volanti che non riescono a stargli dietro, gli sparano addosso. Diventano qualcosa, qualcosa di non chiaro. Le seguiamo. ano veloci sotto i lampioni ansimanti come coyote. Le vediamo scomparire lontano, verso la centrale elettrica. Dopo un po’ siamo raggiunti da un flebile bagliore di fuochi lontani, buio in cui tutto si immerge. Black out. Impressione di un posto visto per la prima volta. Come non ci avessi mai vissuto. Ogni cosa che ha un aspetto nuovo. Sentirmi a casa. Occhi che si spengono. Effetto dell’adrenalina che finisce. Cerchiamo un angolo di un tetto dove accasciarci e riposare per recuperare le forze al calore del vento proveniente dalla cattedrale elettrica in fiamme, il simbolo della civiltà moderna che brucia per riscaldare i nostri sonni.
Sonni in cui arriva il sabato sera. Uno specchio scrutato in cerca di difetti. Mi metto in tiro, esco. Controllo del portafogli. Fame insaziabile di bevande, di persone, di luoghi. Di tutto tranne che di cibo. Una città che di notte sembra un centro commerciale, pieno di vetrine. Individuo i prodotti. Le offerte. Un mercato dove scambiare ciò che è libero e disponibile per natura. L’interesse. Avvalersi di un abbigliamento adeguato, di possibili elementi in comune, dell'aspetto fisico, la posizione sociale, le abilità comunicative, la cultura
generale. Domanda e offerta. Ne viene fuori un esercito di reietti, di prodotti di scarto. Una persona non può riciclarsi. Una persona si evolve. Al ritorno sono accolto da un grande spazio vuoto. Tutti quelli che conosciamo ci domandano che lavoro facciamo, se siamo sposati o se viviamo da soli, come se la vita fosse una lista della spesa. Nessuno domanda mai se siamo soddisfatti.
Mattina. Sono a so per i boschi. Dopo la notte del black out hanno dichiarato il coprifuoco. La polizia usa armi vere, i tir e i treni che trasportano cibo vengono accompagnati dai mezzi pesanti o dagli elicotteri. Nella notte del black out gli agenti sono riusciti a fermare le larve. Gira voce di un campo per riabilitare quelli come noi. Si parla di uomini ombra che si lasciano morire di fame, o perdono la vita nel tentativo di fuggire e fino ad allora ano il tempo sedati. Come negli zoo. I covi sono stati smantellati. Siamo spariti dalla circolazione. Però indietro non torniamo. Nessuno di noi vuole rimettersi a servire dietro i banconi, a piegare vestiti o a consegnare volantini. Non siamo mai pronti al cambiamento fino al momento di metterlo in atto. Poi, a quel punto, non siamo più in grado di fare marcia indietro. Le esperienze ci rendono ciò che siamo, non possiamo cancellare solo una parte. O cancelliamo tutto o ci teniamo il pacchetto completo. Ora ci siamo adattati. Siamo fuggiti lontano, oltre le periferie, oltre i campi, nella foresta. Vado a zonzo tra gli alberi, cerco da mangiare. E' una questione di tempo, ci troveranno. In questo momento però la cosa importante è sopravvivere. Abbiamo imparato ad attingere dagli allevamenti. Usiamo armi bianche. Finte frecce e finte lance. Quanto basta ad accoppare qualche montone. Sbarchiamo il lunario. Abbiamo piccoli covi sparsi nella vegetazione. Con cunicoli sotterranei per non essere visti dagli elicotteri. Mi sento una grossa talpa, un roditore che rovista in cerca di cibo tra i cespugli affondando i denti su lucertole, serpenti e conigli. Arriva sempre gente nuova. Presto non potremo più restare. Circondato da cinguettii, fruscio delle foglie, aria pulita, trovo un ciglio su cui adagiarmi a guardare il cielo. E osservando il aggio quieto delle nuvole gonfie rifletto.
Rifletto su come la gente si immagina che trasferirsi in città voglia dire andare in cerca di fama. In realtà è solo più facile are inosservati. Desiderare di essere uno qualunque. Viene concessa una forma di libertà che altrove non è possibile sperimentare. Sapere che in qualsiasi posto non si incontreranno le stesse
persone, permette di cambiare. L’idea che gli altri hanno di sé non è statica, ma relativa. Diventa semplice nascondere il proprio residuo di vita da paese. Cosa che una piccola comunità non permette. Certo che alla lunga ci si trasforma in una proiezione di sé stessi. Come si vorrebbe essere ma non si è. Oltre a questo tipo di persone esiste un’altra categoria, chi non desidera cambiare ma si accontenta di restare anonimo, di nascondersi. In qualche anfratto buio e inosservato, sfuggendo al controllo, ma senza abbandonare davvero il sistema, restando in penombra. Invece di creare alternative aspetta il giorno dell’autocombustione.
Pomeriggio. Io non avrei mai il coraggio, ma ciò che sono calcola la gittata della lancia che stringe in mano. La punta contro un daino inerme. Di quelli che sembrano usciti da un cartone animato. Io non riuscirei, ma lui mira al cuore. Lo manca. Il daino scappa con il dardo infilzato nel collo. Lo segue come se dalla vita dell’animale dipendesse la sua. Un branco di lupi. Fa a gara con dei cani per uno stupido cervo. Riesce a superarli, raggiunge il daino. Il branco gli è addosso, lo aggrediscono. Visti da vicino sono veramente enormi. I canini si infrangono contro le sue falangi, si frantumano contro i suoi pugni, gli si aprono tagli su tutte le dita. Afferra una delle mascelle e le apre fino a spezzarle. Morto uno, gli altri scappano. Ciò che sono ora ha un daino e un lupo morti. Me ne torno al covo, sottoterra. Gli uomini ombra si occupano della selvaggina. Scarseggia, siamo in troppi. La situazione non è sostenibile ancora.
Sta mattina lavoro sul montaggio. Mi fermo un secondo. Controllo che la finestra sia chiusa bene, poi torno a lavoro. Uso dei software, unisco sequenze, seleziono fotogrammi. Taglio, cucio. Il lavoro di un sarto. Il rumore di elicotteri ora è come il rumore del traffico. Uno si adatta a tutto. La gente per strada ha paura di non rivedersi più, di non riconoscersi. A quale specie appartiene. Adesso ha scelta. A volte ci sono posti di blocco. Controllano le pulsazioni, le pupille, se ci sono tracce di carne tra i denti, se si hanno oggetti appuntiti, l’odore, se le corde vocali sono assopite, il peso, se si è denutriti. Il prezzo della carne è salito tantissimo. Il municipio ha meno spese da sostenere. Le strade sono pulite, non si vedono animali randagi. Sui pali è pieno di foto con su scritto disperso. Ora è vietato buttare cibo non sigillato. Per i grossi avanzi di solito se ne occupano le autorità. Di fatto da un po' di tempo non si producono più grossi
avanzi. Un’ordinanza ha fatto chiudere i battenti a ogni tipo di ristorazione. Ora a nessuno verrebbe in mente di fare un barbecue in giardino. Senza fast food le strade non puzzano e non ci sono carte a terra. Un sacco di gente ha perso il lavoro ma le richieste di personale sono aumentate per via dei dispersi. Tutto ha un 'immagine diversa. Tutto ha assunto un’importanza relativa. Mi rifletto nel monitor scuro mentre lavoro. Mentre guardo la mia creatura. Un report giornalistico scova qualcosa della realtà che il pubblico non ha tempo o voglia di conoscere e te la presenta come fosse una sitcom. Senzatetto diventano star. Prostitute con un loro show in prima serata. E' bello fintanto che è una novità, poi lo si può anche buttare via. Le redazioni sono alla continua ricerca di storie drammatiche, ma gli interessa solo se è roba nuova. Altrimenti non se le rifila nessuno. Nel frattempo sono sceso a fare due i. Mentre cammino mi specchio nei vetri bui delle auto parcheggiate. Le auto rinfrangono il mio volto su di uno sfondo grigio e indefinito. Uno sfondo non chiaro. Uno contesto in perenne divenire. Entro in uno dei bar della zona dove abito, è pieno di gente ma non parla nessuno, penso almeno c’è un po' di musica. Mi guardo riflesso in un bicchiere di vermut. Mi accorgo di come la gente fatica a trovare argomenti di conversazione. Non vogliono essere contagiati dalla paura. Finché qualcuno non ne parla non esiste. Finché non ne parla non si permette a quella realtà di diventare reale. Purtroppo è un trucco che si rivolge contro. Evitando l’argomento quella paura aumenta. Ho la sensazione che mi prenderebbero a calci se urlassi "lo vedete che accidenti succede?". Così me ne rimango a bere in silenzio fino a quando non mi dimentico di cosa sono fatto. Fino a quando il mio sguardo riflesso nelle bottiglie del bar non si incrocia con il suo. Lei è seduta alle mie spalle, in uno dei tavolini ad angolo e mi osserva. Dal modo in cui mi guarda direi che ha voglia di scopare, ma io in questo momento non sono in grado di corteggiare nessuno. Così mi alzo e mi ci vado a sedere accanto non sapendo bene cosa fare o dire. Senza volerlo gli sfioro la mano sul divanetto. Faccio per chiedergli scusa e gli tocco di sfuggita i capelli. Vado per abbassare la mano e afferro la sua. Vado per accarezzargli il volto e finisco per dargli un bacio, ma senza farlo di proposito. Senza farlo apposta gli do un altro bacio, uno molto intenso. Deve aver iniziato a bere da un po’ perche, senza farlo di proposito, mi afferra le mani e le porta al seno, inavvertitamente le fa scendere sui fianchi, le porta fino al fondo schiena. Senza rendercene conto siamo diventati una cosa, una cosa soltanto. Ci muoviamo, ci spingiamo verso l'uscita del locale. Siamo nel vicoletto di fianco al bar. Siamo qualcosa in perenne divenire. Siamo cambiamento. Fremito. Gemiti. Sensazioni. Emozioni. Grande spazio vuoto intorno, gente, esitazione, non persone, non cose. Tutto vicino a noi che rimane statico, noi che ci muoviamo, ci prodighiamo, ci sviluppiamo. Mente
che se ne va' altrove. D’improvviso mi viene da pensare a tutt'altro.
Come fossi in un sogno concepisco strani mondi. Mondi in cui le persone più intelligenti o coraggiose vengono additate come propense al rischio, atte alla destabilizzazione. La linfa vitale della civiltà è emarginata. Siede ai gradini più umili. Generali, sovvertitori, asceti sono sui marciapiedi fuori dai supermercati. In un'altra era avrebbero creato rivoluzioni e ribaltato classi dirigenti. In questo mondo hanno una fedina penale troppo lunga per essere assunti. Avrebbero rovesciato ordini sociali, inventato nuove dottrine. In questo mondo fanno la fila per il sussidio. Elementi di disturbo che si generano. Elementi di scarto. Non persone. Persone sulle quali non vale la pena investire. In altri tempi ad ognuno sarebbe spettato un posto, nessuno sarebbe stato lasciato fuori. Elementi disfunzionali che si aggregano. Esseri in perenne divenire incastrati in una realtà immobile che non riesce a contenerli. Lontano dalla strada, dalla folla, si sottopongono al processo di speciazione. Sono la deriva genetica. Sono la divergenza adattativa.
Io e gli altri uomini ombra ci siamo riorganizzati. Questa mattina raccogliamo materiale altamente infiammabile. Assaltiamo camion cisterne di benzina ed ogni cosa alimenti un qualche tipo di combustione. La nostra presenza si è estesa. Produciamo diverse risorse. Prepariamo qualcosa. Mi piacerebbe sapere cosa, ma le mie corde vocali sono troppo atrofizzate. Mi comporto d'istinto, seguo un antico disegno scritto nel codice genetico sotto la dicitura aprire in caso di emergenza.
Oggi mi trovo a un convegno fuori città, uno di quelli per startupper. Non un semplice meeting, ma qualcosa di simile a un evento sportivo. Sto seduto al tavolo di un caffè, sento parlare di fiducia in sé stessi, di energia, di un mondo aldilà di venire. Al pari di me queste persone vivono nascondendo le proprie ferite, le sconfitte, i difetti. Una grande insoddisfazione traspare da quei sorrisi, mentre sorseggiano ginsang e controllano aggiornamenti. Non persone si fingono persone. Li conosco, non dormono da giorni, però si mostrano auto ironici e ottimisti. Bloccati nell'attesa tra stand e padiglioni, cartelli con su scritto
il loro nome, come privilegiati dietro le quinte, stringendo mani, tra accessori inutili, discorsi, gare di premiazione e coriandoli di stagnola gialli che luccicano sotto la luce dei fari, assegni giganti, veri miliardari, ceo e imprenditori che consigliano, incoraggiano, è stato facile per loro, può esserlo per tutti. Ogni anno piccole imprese decollano e fatturano milioni. Qualcuno tra questi potrebbe essere il prossimo. Fine della premiazione, i presentatori salutano, i fari si spengono, gli addetti alle pulizie invitano a liberare la zona. Tutti se ne tornano a casa. Ricominciano da capo. Anno dopo anno. Coltivando progetti e ambizioni che non gli appartengono. Intorno al mille dopo cristo l'europa si era ripresa dalle invasioni barbariche ma era ancora rigidamente controllata da un sistema di caste che impediva alla società di rinnovarsi. Nacquero ovunque movimenti eretici indipendenti e autosufficienti. Prima che le cose degenerassero i papi inventarono le crociate. I pontefici di oggi invece hanno escogitato le start up. Energie incanalate e represse nel miraggio del successo. I pochi che ce la fanno illudono tutti gli altri.
Mi aggiro nel buio della notte. Tra nebbie perenni. Muri bianchi. Aria fredda. Su pavimenti umidi. Tra luci avvolte nel vapore, dissipate in modo vago e difforme intorno a me. Mi muovo come una nuvola nel temporale. Una pioggia prossima ad arrivare. a silenziosa nelle strade scure, rivelata da luci arancioni o gialle in una notte di luna in cui tutto è bianco. Io stesso sono bianco, ricoperto da una polvere di ossa tritate. Lo scheletro di qualcosa sopra la mia pelle sopra al mio scheletro. Ora sono quella cosa. Ora sono su un cavalcavia sopra i binari. In piedi sul bordo del ponte. Aspetto che quel suono trafigga il muro di nebbia per saltare sopra i vagoni. Paziento e indugio ancora. E poi lo vedo e mi lascio cadere. Faccio attenzione a non scivolare nello spazio tra un vagone e l'altro. Mi muovo silenzioso su di un drago che vola nel temporale. Sgancio il vagone merce.
Mi muovo tra i tetti, mi sposto tra bordi e sponde di edifici silenziosi. Salto da un parapetto all'altro. Migrare in questo modo vuol dire libertà, non programmare niente, non controllare orari, attraversare senza il permesso dei semafori o dei guidatori. La vita è piena di consensi informali. Per esempio prima di are sulle strisce pedonali si fa un cenno con la testa. Chiedo scusa, prego, avanti, posso. Per me ormai ogni formalità è diventata superflua. I cartelli divieto
d'accesso, attenti al cane, zona sottoposta a sorveglianza non funzionano più. Serve maggiore impegno. Magari un cane da guardia vero. Nel mio errare al di sopra del tessuto urbano mi viene da riflettere su come mai alcuni cani domestici diventino aggressivi. Non si vede mai un cane randagio aggredire una persona. Cerca solo avanzi di cibo. Nel mondo della natura attaccare può costare la vita. Si sviluppa un senso della prudenza. Un cane domestico invece è al sicuro. Libero di crescere territoriale, minaccioso, all’ombra dell'impunità e della protezione del suo proprietario si fa pericoloso. Ma senza di lui non durerebbe a lungo, morirebbe presto di fame o ucciso da un altro animale. E’ la regola della prudenza. Deboli, avventati, eppure rispettati. Oggetti di proprietà, categorizzati in razze, originali e non. Selezionati per svolgere un compito, essere di compagnia, essere accessorio. Temere degli accessori.
Sono ad un rave party. Un magazzino abbandonato pieno di gente strafatta. Pigmentazioni fluorescenti per uso cutaneo. Arancioni, verdi, viola, blu. Luoghi ancora liberi. La musica alta impedisce di parlare. L’assenza di luci getta in ombra particolari dell'abbigliamento. Persone sotto effetto di stupefacenti abbassano la soglia delle convenzioni sociali. Sono un coso blu luminoso. Una lampadina semovente. Non parlo, non ho nulla da dire. Cerco sederi tondi, schiene eleganti. Gli unici messaggi importanti per il cervello umano sono pericolo di morte e sesso, il resto ce lo si mette da sé. Non sentendomi in pericolo rimane solo l’altra cosa. L'impianto audio crea diverse intensità nella concentrazione di particelle dell'aria in cui mi muovo, nuoto in un fiume di onde sonore, fanno vibrare gli organi interni di tutti allo stesso ritmo, desiderio di perfezione che cessa. A grandi bracciate riemergo da una cresta, cerco la superficie attraverso la schiuma per riprendere aria. Serotonina, ossitocina, testosterone cominciano a fare effetto. Guardo corpi nella folla, flash, onde, pigmenti colorati prossimi all'esaurimento del loro riflesso luminescente, annaspo tra grandi boccate d'ossigeno, diversi tipi di sostanze emesse dal cervello, punto uno di quegli organismi, la cerco con il corpo, differenti percentuali di consistenza nelle molecole dell'aria, le nostre membra che vibrano all'unisono, comunicazioni non verbali, sguardi, volti oscurati, colori fluo, lumi ambulanti prossimi allo spegnimento, avvicinare la sua silhouette alla mia, come fosse mia, come fosse la mia. Essere movimento nell'oscurità interrotta a tratti da flash dentro un magazzino abbandonato. Movimento che si allontana dalla folla, dai lampi, esce da una porta su un lato, attraverso fumi ivi di ogni tipo, disperdendosi dalla musica, dal casino, per finire contro un muro, cominciando
ad agitarsi su sé stesso, cominciando a scoparsi. Respiri, sudori, odori, tachicardie, ricordi, oblii, diversi composti che inondano il cervello. Sesso. Non percepire bene di cosa si è fatti. Materia in costante mutamento. Un elenco di prodotti emessi dal corpo. Ossitocina, testosterone, serotonina, endorfina, dopamina, chiamarli sentimenti, scelte, ciò che provo per l'altra. Non lasciamo che le droghe fabbricate dal nostro sistema nervoso scelgano per noi. Uno volta finito, senza guardarci nemmeno, ci allontaniamo andando ognuno per la propria strada.
Stamane sono sottoterra. Ogni grande città ha un qualche sistema di collegamento sotterraneo più o meno conosciuto, più o meno abbandonato, più o meno pericolante e non funzionante. Ho con me le mappe della linea della metro, mai conclusa, mai diventata operativa, rimasta inutilizzata lì sottoterra. Ho la cartografia del sistema fognario, dell'acquedotto, dei rifugi antiaerei, delle antiche strutture difensive usate dai coloniali se venivano attaccati, dei tunnel nascosti per far fuggire gli uomini di potere in caso di pericolo. Uno vive seduto su un mare di sotterfugi. Cammina su un labirinto di segreti. Si era disposti a tutto pur di non affrontare ciò che la vita poneva dinnanzi. Scorciatoie che non portavano da nessuna parte, anzi facevano perdere oppure crollavano addosso. Delle formiche trasportano qualcosa, ne accumulano grandi quantità in determinati punti sotto la città. Hanno scavato tunnel che dalla campagna arrivano fin qui collegandosi con i aggi dove mi trovo ora. E' così che sono arrivato. Hanno posizionato le entrate in posti poco visibili, sotto i cavalcavia dell'autostrada, in prossimità di terreni abbandonati. Aspettiamo il momento giusto per uscire allo scoperto, non vogliamo che blocchino i tunnel e che restiamo intrappolati. Dobbiamo sfruttare bene questa occasione.
Via vai di blindati intorno a me questa mattina. Parola normalità che assume nuovo significato. Ispezioni corporali. Permessi di residenza a portata di mano. Strade chiuse, visti d'ingresso, check point. La vita di prima che continua nonostante tutto. Soliti discorsi alla tavola calda vicino casa, sorseggio caffè. Notizie rimaste grosso modo le stesse una volta superate le prime pagine del giornale. Anidride carbonica che si condensa alla luce del mattino mentre espiro fuori dall’ingresso. Due, tre respiri che mi fanno sentire un drago. Le stesse chiacchiere di sempre alla fermata dell'autobus dove sono seduto, intorno è pieno
di soldati armati pesanti. Stesse cose banali e noiose. Gente che farebbe di tutto pur di mantenere inalterato lo stato delle cose. Normalità è un concetto soggettivo, non oggettivo, l’ho scritto col dito sul finestrino dell'autobus appannato da una folata di fuoco. Ovunque abitazioni coi vetri rotti, negozi messi a soqquadro, allarmi che vengono istallati. Eppure inquietudine da nessuna parte, tensione in alcun volto, diversamente da prima. Sui marciapiedi folla che eggia normalmente, valigette, cellulari, fretta, sguardi puntati sul prossimo o, dettagli intorno sui quali nessuno si sofferma. Essere insensibile a qualsiasi tentativo di trasmissione. Essere seduto su un cartellone pubblicitario per quelli che mi osservano da fuori, il manifesto incollato alla fiancata dell'autobus. Essere saturo di comunicazione. Tecniche di marketing diventate sempre più ardite per suscitare interesse. Immaginare che atterri un disco volante in mezzo alla strada e un marziano mi offra un volantino, non distoglierei neanche lo sguardo. are attraverso il traffico, tutti i palazzi che vengono destrutturati dalla mia fantasia, tanti cubi che li compongono, gran parte della vita di ognuno ata dentro stanze che sono quei cubi. Circondati da centinaia di migliaia di persone, e nonostante vedere solo muri. Un contenitore in cui vivere, oggetti, spazio, esistenze separate tra loro, strade delineate e definite sulle quali si protraggono. Strade che non si incrociano mai. Tutto che viene contemplato da lontano, prendere atto della nostra uguaglianza, uguali patetiche ambizioni e uguali paure è ciò di cui siamo fatti. Arrivare nel quartiere cinese. Un ristorante con lanterne rosse appese fuori è dove entro, un grembiule impermeabile è quello che indosso. Infilo i guanti. o nella cucina dove tra il personale nessuno è davvero cinese. Quello che c'è dietro un'insegna, dietro un arredamento non è realmente importante. A uno gli sembrerà cinese. Alla fine del turno esco a fare un giro con gli altri dipendenti. Vado fuori città, verso un posto vicino al mare perche il bar dove andiamo di solito è troppo affollato. Una spiaggia che d'estate dev'essere un po' come il centro del mondo. Villette a schiera alle mie spalle che ora però sono vuote e buie. Buone solo una stagione all'anno. Per il resto del tempo la località diventa il buco del culo del mondo, fredda e desolata, piena di alghe puzzolenti. Dopo qualche birra decidiamo di introdurci in una delle villette. Cuochi e camerieri si abbandonano su divani che non gli appartengono e si rilassano. Do un'occhiata in giro. Dappertutto foto di ricordi estivi. Le prime bravate, feste finite con la polizia nel cortile, sbronze, spinelli, riti di aggio all'età adulta come è tradizione in ogni cultura. Uomini intorno a me con ricordi simili, che ora assaporano birra nel salotto di una casa che non possiedono in una notte fredda dopo la fine del turno in un ristorante cinese. Da qualche parte devono avere foto così. Si domanderanno guardandole che fine abbiano fatto le loro di ambizioni. Si chiederanno cosa direbbero ai sé
stessi del ato. Vita che all'epoca sembrava tutta in salita. Penseranno a come tutto all'ora fosse più facile. Penseranno che qualcosa doveva essere andato storto. Che hanno commesso sbagli che sbagliavano i sé stessi del ato a crederci. Ombre nere cominciano a comparire sulla spiaggia, decidiamo di togliere le tende in fretta. Mentre torniamo, osservo l'orizzonte scuro di campagne da noi attraversate e rifletto. Rifletto su cosa mi sarebbe davvero piaciuto fare nella vita, non farmi venire in mente niente.
Che ci sono strade dalle quali non sono ato è ciò di cui mi accorgo dopo aver trascorso tutta la vita in un posto. Che ci sono quartieri che non sapevo esistessero, palazzi che non avevo mai visto, credere solo di conoscere un luogo è quanto realizzo nel momento seguente. Che percorro sempre le stesse strade, che non vado mai dove non necessario, scelgo la via più breve, o per i soliti posti, tutte le volte, è la cosa che capisco più avanti. Aprire la cartina della città che ho in casa ed evidenziare i luoghi dove non sono stato è quello che faccio a tal punto. Uscire, prendere la metro è l’azione che mi appresto a eseguire subito dopo. Sedermi, chiedermi se sono io a muovermi o è il resto del mondo a farlo è il pensiero che ho nel momento in cui il treno parte. Entrare nel tunnel scuro mentre mi sposto senza spostarmi davvero è ciò che accade poi. Militari armati che fanno su e giù per il vagone è l'azione a cui assisto durante il tragitto. Manifesti nella parte superiore del vagone che pubblicizzano le stesse cose di sempre è la parte su cui si sofferma il mio sguardo. Che non riesco proprio a preoccuparmi fintanto che il collasso diventa imminente è la riflessione che mi a per la mente. Distributori automatici, gente consumare schifezze è un episodio che noto una volta sceso. Niente che cambia realmente è la sensazione percepita da me. Le stelle, non riesco a veder le per via delle luci, dopo avere alzato la testa per guardare il cielo di notte. Il punto ove sono diretto, lo cerco quando apro la cartina. Intorno da qualche parte, dovrebbe essere qui. In una strada secondaria e poi in un altra e poi in un'altra ancora, io mi addentro. Pieno di piccioni, di gatti e di senzatetto, normalmente mi aspetterei di vederli in un posto del genere. Niente di tutto ciò, non ne vedo neanche l'ombra. Droga, un tizio mi chiede di comprargliela. Non si sono ancora intensificati da queste parti, mi riferisco ai controlli. Pieno di graffiti, li vedo su un muro alla mia destra. Strani e fatti con le mani, quei graffiti si evolvono man mano che proseguo. Un bidone dell'immondizia, lo sposto per scoprire una specie di sottoscala che porta in uno scantinato. Zeppo di rifiuti, ora sono all'interno. Resti di fasciature, ossa e altra roba strana, a vederli bene mi sembrano questo. Rimasugli di un fuoco, ne
scopro la cenere. Il disturbo, devono averlo tolto da poco, gli uomini ombra intendo. Qualche foto in giro, la scatto col telefono. Uno sbirro, quando riesco, in fondo alla strada c'è n'è uno. Qualcosa, me la urla a squarciagola. Le tracce nello scantinato alle mie spalle, immediatamente le collego alla mia posizione. A gambe levate, istintivamente me la do via in quel modo.
Intorno a me non ci sono strutture o appigli per fuggire, non resta che scappare alla vecchia maniera. Non sento spari, però avverto il tonfo degli anfibi, mi inseguono. Arrivo su una strada principale, c’è un blindato alla mia destra, mi intima di fermarmi, riprendo a scappare slittando tra auto bloccate nel traffico, un altro piedipiatti a dieci metri da me, mi infilo in una nuova traversa. Caos tutto intorno, capto blindati muoversi in ogni direzione. Tuttavia riesco a scomparire. Divento solo un’ombra. La mia ombra sfreccia via in un vicolo come tanti. Eccola filare tra le bancarelle di un mercatino, militari ovunque. Eccola dipanarsi in verticale, in direzione del tetto di un parcheggio coperto. Va verso il lato opposto. Si ferma, prende fiato, attende. Arrivano. Via di fuga ostruita. Si approssimano. Si dirige contro di loro. I loro sguardi ansiosi di compiacimento, paonazzi per lo sforzo fisico. Un metro, si solleva, si propaga sopra le loro teste. Le loro dita invano allungate su di lei. Si distende oltre l’ostacolo, rigirandosi sul pavimento di asfalto. Cola giù dal tetto, si esaurisce tra la folla del mercatino, militari e piedipiatti abbandonati lì. In qual modo poter afferrare un'ombra. Gli si dovrebbe sparare. Mi vado a nascondere, entro in un portone. Là fuori non sento che elicotteri e sirene. Percorro le scale verso l’alto. Da sù osservo la città ormai di sera. I velivoli girano intorno. Le divise si muovono tra le strade. Lontano, scorgo una ferrovia. Voglio raggiungerla. Superata la recinzione sparirò nel nulla. Esco dall’edificio. Corro ando dentro la gente, le auto, i fari in alto. Sono quasi alla rete che separa la linea ferroviaria. La scavalco, raggiungo un treno ancora lento, dev’essere appena partito. Scelgo una carrozza e mi chiudo in uno degli scompartimenti. Dentro c’è un tizio, non mi guarda neanche, finge di dormire. Io mi sdraio su una cuccetta e mi addormento senza fingere.
Ricordo che da bambino avo il tempo lanciando petardi nei cortili delle case. Penso che il mio desiderio più grande fosse di fare apparire la gente. Spingerla ad affacciarsi alle finestre, sempre buie e sempre chiuse. Così non mi sarei
sentito solo in un deserto di televisori accesi che proiettavano opache luci blu su tende bianche. Una città opaca. Ho imparato che la tranquillità può diventare una droga. La tranquillità può prendersi la vita di qualcuno. Sta mattina sono un amante degli ambienti sereni. eggio in un parco, colmo di sportivi e di spensierati come sempre. Ragazzini giocano a baseball, anziani danno da mangiare alle anatre eccetera. Compro un giornale, uno qualunque, tanto non lo leggo neanche, è solo una scusa per starmene seduto senza fare niente. Mamme spingono il eggino. Padri scattano foto. Fuori dal parco è un’area 51. Io non distinguo bene, ormai mi viene da fare un’unica associazione di idee. Alberi, scoiattoli, fucili automatici. Risate di qualunque tipo, colpi d'avvertimento. Cosa darebbe la gente per non farsi trasportare. Gorgoglio di una fontana, sirene gialle, birdwatcher, braccia alzate, raggi di sole tra i rami, facce a terra, rugiada del mattino, profumo di fiori freschi, prati appena tagliati, un giovane vestito a nuovo, una coppia che s’incontra, ambulanze, unità anti crisi, documenti. Mi aspetterei persone in preda al panico, folle, il sistema destabilizzato. Invece è una domenica come tante. Esco dal parco, fermo un taxi e me ne vado.
Una mattina mi alzo e raggiungo un quartiere degradato e per loro sono il tizio della zona nord, tutto preciso e raffinato. Vado in provincia e mi vedono come uno di città, moderno e cosmopolita. Vado in un altra zona del paese e la gente mi considera uno con un retaggio culturale diverso. Vado all’estero e sono percepito come un individuo con un determinato modo di pensare. Cambio continente e mi guardano in questa maniera invece che in quella. Alla fine ciò che sono lo determina il contesto, non io. Oggi sono uno fuori di testa. E’ quello che pensano gli altri alla rassegna di cinema indipendente. Ogni anno premiano i migliori film indie. Mi aggiro circondato da tizi vestiti di nero con reflex costose. Osservo padiglioni e postazioni con attrezzatura semi professionale. Mi sposto verso la sala premiazioni, proiettano i lavori dei candidati. Prima mi stavo annoiando, a un certo punto ho cercato la zona relax con divanetti finto qualcosa, un paio di tizi mi hanno chiesto di dove fossi. Ora tutti mi guardano come uno fuori di testa. E’ tanto che non lasciavo la città. Provenire da dove abito io significa essere potenzialmente instabili. Come se fossi contagioso. E’ il posto in cui si è cominciato a dare di matto. Mi sento monitorato. Nel durante applaudo finti registi di successo come fossero importanti, loro annuiscono come fossero qualcuno. Rifletto sul fatto che per poter arrivare al vertice di una piramide prima è necessario costruirla, servendosi a tale scopo di tanti umili manovali. Ogni settore o ambiente professionale non essendo altro che una scalata al
potere. Funzionando in questo modo la società. Associazioni, partiti, confessioni religiose. Abbandono la rassegna, mi dirigo verso la stazione per fare ritorno in città. Qui, a differenza, tutto è rimasto immutato. Non trovo check point o blindati dei militari. Vengo accompagnato in stazione da un tram, i pendolari sbirciano i tetti speranzosi, ma rimangono delusi. Una volta sul treno noto i eggeri assicurarsi che le finestre non siano apribili. Mi siedo sul posto finestrino che avevo prenotato. Mi congedo da uno scenario costantemente cangiante, fisso un punto davanti per sentirmi diretto a una meta e non come se girassi in tondo. Ragiono sui mezzi di trasporto. Sia il tram che il treno erano in gran voga a inizio secolo. La gente poi ha preferito le auto, gli autobus e i jet. Molte città però sono tornate a investire in ferrovie e tranvie, i bus intasando il traffico, le auto essendo costose e gli aerei inquinando troppo. Non essendo ciò che viene dopo sempre meglio di ciò che viene prima. Non essendo il progresso una linea costantemente in salita. Arrivato in città subisco i soliti controlli, poi un taxi e altri controlli e in fine raggiungo il mio appartamento. A casa mia appuro che tutto sia in ordine. Fari fuori la finestra, fari dappertutto. Svuoto una piccola valigia. Ammucchio indumenti sporchi, con un cesto e del detersivo scendo a fare la lavatrice. o davanti silenziosi cubetti per uomini, ad ogni favo un numero. Essendo il condominio pieno di gente sola. Gente entrare, uscire, potrei scambiarmi con uno qualunque di loro. Nella lavanderia ogni macchina è piena di panni sporchi di qualcuno che non conosco. Ogni oblò un’intimità. Tracce di cosa ha fatto, dei luoghi in cui è stato, delle persone che ha incontrato. Liquidi seminali, sangue, feci, sudore, ogni tanto saliva sciacquati nello stesso spazio che mi appresto ad usare. Tornare come nuovi. Ricordo di quando ho letto che gli abitanti dei tempi antichi lavavano i panni nello stesso fiume, una soluzione unica per i peccati di tutti. Vi si lavavano anche essi stessi. Un unico destino, un’unica colpa. Dentro abbandonavano feti o neonati, facevano sparire cadaveri, bruciavano corpi di infetti, battezzavano nascituri, consacravano regnanti. Noi, invece del fiume abbiamo le lavanderie condominiali. Mi siedo a fissare il vortice di colori. A terra ci sono delle grate, servono a far scolare l'acqua quando un tubo perde, come ora per esempio. Mi metto a lavoro dietro la macchina per sistemarla. Sento dei topi belli grossi muoversi sotto le grate. Il portiere mi ha raccontato che giù c’è un sistema di condotti. Mi ha raccontato come alcuni inquilini lo usavano per farsi arrivare la droga senza uscire di casa. Del via vai di acquirenti nel loro appartamento. Come la storia sia andata avanti per anni, la polizia non sospettava niente. Quei topi devono essere enormi, da dietro la lavatrice sento la grata spostarsi. Sento sportelli di altre lavatrici aprirsi. Il rumore dei cilindri metallici. Nascosto dove sono, attraverso lo spazio tra due macchine, guardo un topo gigante buttare giù
vortici di colori attraverso l'apertura. La possibilità di sentirci lavati da ciò che siamo stati, lì, in un fiume di escrezioni umane. Aspetto fino a far cessare i rumori. Poi mi calo giù attraverso il tombino. Sbuco in un vecchio tunnel in mattoni rossi. L'odore in cui mi muovo non lascia dubbio circa la composizione dell’acqua. E' completamente buio, non vedo niente. Mentre la corrente mi trasporta, mentre appartengo all'oscurità, trafiggo colonne di luce che partono dalle inferriate di altri edifici, quelle dalle quali scolano via i peccati di ognuno quando le lavatrici si rompono. Fuoriesco in un nuovo tunnel, la corrente diventa forte. Mi aggrappo a qualcosa, una piattaforma di legno, ci salgo, mi lascio portare via. Arrivo in un punto dove il fiume si congiunge ad altri canali. Devo essere ricoperto di merda fin sopra la faccia perche enormi sorci neri che navigano la mio fianco non si scompongono quando li raggiungo. Sembra siano diretti anche loro da qualche parte. Ognuno sul proprio imbarco di legno. Ognuno con il proprio vortice immacolato di colori. Giungo ad una sorta di rotatoria delle fogne al centro della quale confluiscono i sorci. In alto c'è un foro da dove penetra la luce. Vi pende una corda che regge un bancale, i topi posano gli indumenti e ripartono nel buio delle fogne. Non so dove altro andare, salgo sul bancale, mi lascio issare, verso la luce. Lì in quel grande spazio illuminato deve esserci scarsità di ossigeno perche i miei occhi si chiudono.
Questi sarebbero dovuti essere dei bagni pubblici. Qui sarebbero state lavate via schifezze di ogni genere. Dallo stesso foro ora noi ci tirano fuori la roba che ci serve. La luce arriva dalla superficie attraverso un oblò in alto. Esco dai bagni, entro in un grande spazio, la stazione sotterranea di una metro mai ultimata. Accumulo roba, prepariamo qualcosa. Tramite i tunnel posso raggiungere tutta la città. Durante il giorno eseguo piccole incursioni in superficie. Nessuno mi vede arrivare o andarmene. Sono un grande ratto scuro. Mi muovo tra strettoie e cunicoli pieni di escrezioni umane e detersivi. Trafiggo fasce di luce che arrivano dall'alto, dal mondo esterno, un mondo al quale non appartengo. Mi arrampico attraverso tubi e tombini, mi muovo silenzioso tra corridoi di condomini deserti. Tra porte di servizio e stanze di servizio. Nell'oscurità delle fogne. Il luogo dove finisce la pioggia dopo aver lavato il sudiciume dalle strade e i palazzi. Miglia e miglia di oscurità, di puzza e di germi. Ciò su cui sono state edificate le nostre città. Sta per venire a galla. Nel mezzo della via, all’interno di abitazioni e di garage, dentro uffici governativi, nei centri massaggi, negli studi e nei quartier generali delle grandi aziende.
C'è sempre un posto in cui dovrei essere e invece non sono. Un posto in cui i miei momenti non finirebbero sprecati. Invece sono altrove, faccio altro. La mia vita è una periferia eterna, sempre lontana dall'epicentro. Le vacanze le trascorro in un posto, non dove volevo. Vivo in una città, non quella che amavo. Il mio lavoro non è nel posto in cui speravo. Frequento gente ma non quella che mi piaceva. Ho aperto un negozio in una zona diversa, e un appartamento alla fine l’ho trovato, non però nel quartiere dove stavo bene. La mia esistenza è fatta di mezze soddisfazioni, di seconde classi. Ci sono punti in cui le cose accadono e basta. In cui le notti sono come il dì e il giorno non scorre nell'attesa che giunga la sera. Gli animi ivi si incontrano e collidono fino a un’ esplosione sociale. Desideri divengono azione. Albe come tramonti, ogni momento un evento. Però, io lì non ci sono. Sono altrove. Lontano dal sito dove tutto comincia. Mi adeguo a ciò che lasciano arrivare. Mi sento quello rimasto nello spogliatoio con la partita già cominciata, oppure sulla banchina dopo che la nave è salpata. E’ quanto mi a per la mente allorché faccio la spesa in un supermercato fuori città, quaggiù i prezzi si sono mantenuti bassi. Da oggi alla gente mi presento come fotoreporter. Ho preso contatti con un quotidiano locale, gli ho promesso foto di uomini ombra, mostrato filmati fatti in precedenza, mi hanno suggerito di tornare con delle foto vere, solo allora avrebbero parlato di compenso. Intanto sono riuscito a vendergli il materiale video. Purtroppo l'argomento è meno di tendenza, le notizie principali si concentrano sui trattamenti che i militari riservano ai civili. In giro non se ne vede ormai più di gente strana e non si registrano danni. Nessuno sa che fine abbiano fatto gli uomini ombra, ma nessuno se lo sta chiedendo. Il mondo è preso da questioni più rilevanti. Le persone in senso stretto non sono mai la cosa più rilevante. Lo è ciò con cui queste entrano in contatto, il potere, il pericolo, la paura e via dicendo. Così quelle persone diventavano una notizia, una testimonianza, qualcosa che può essere consumata. Circolo tra scaffali e corridoi, ad ogni prodotto una categoria, ad ogni persona un corridoio. Mentre bado, mentre scruto i prezzi, non vedo proprio nulla che non possa servirmi, niente che non valga la pena acquistare. E in qualche modo esco dal negozio con un perenne senso di incompletezza, di non avere mai quanto mi serve. Sul retro, fuori dal grande magazzino c'è una zona di scarico. Lì è dove finisce la roba scaduta e invendibile ma comunque commestibile. Di solito la mandano alle associazioni di beneficenza. Associazioni che la buttano via di nuovo perche non riescono a consumarla tutta. Il valore delle cose è sempre un concetto artificiale. Una buona metà dei capi delle catene di abbigliamento finisce riciclata per fare nuovi indumenti. Pochi
mesi e i vestiti per cui la gente ucciderebbe diventano una perdita da ammortizzare. Pochi mesi e i vestiti che indosso eranno di moda e mi faranno sentire qualcosa da ammortizzare. Mantenersi in costante rinnovo non è attuabile. Non importa quanto uno si impegna. Mi avvio al parcheggio. Poi mi dirigo alla fermata dell'autobus. Poi salgo, scendo, salgo, scendo, cambio mezzo, cambio terminal, cambio orario, cambio fermata. Mi trascino avanti in questo modo, ogni giorno. Altri decidono per me, scelgono dove andare, in quale ora e in che modo. Vorrei che l'autista sbagliasse strada, qualche volta vorrei che gli scoppiasse una gomma in mezzo al nulla, al buio, fuori città, su un tratto di strada privo di illuminazione. I eggeri d'un tratto verrebbero catapultati in quello che li circonda. Impiegati, liberi professionisti, disoccupati, studenti si guarderebbero tra loro senza sapere che fare. Lì fermi, non più di aggio, costretti ad accettare la realtà che gli si presenterebbe dinnanzi, vuota, immobile. La compagnia di trasporto manderebbe un mezzo sostitutivo, ma per un momento i loro pensieri sui progetti futuri galleggerebbero là davanti, a nessuno, a nessuna luce. Senza sapere dove sono, si interrogherebbero in quel mare in cui navigano con tanta abitudine, con tanto distacco, evitando di metterci piede. Estraniati dal contesto in cui si sono formati e caratterizzati. Esseri difformi. Mi siedo sul sedile di fianco al conducente, voglio vedere dove vado, non mi va di sentirmi un marinaio in balia della tempesta, incosciente del proprio destino. Mentre la mia mente è altrove la linea "ci" mi conduce attraverso l'oscurità, verso casa, supera campagne e foreste, sobborghi e periferie. E poi arriva in città. Arriva mentre con la mente non me ne sono mai andato, dalla rete da pesca. Gente scendere, salire, chiamare, suonare, fermate. Pulsante rosso. "Din". Si mette a piovere. I tipi con le valigette se la portano sopra la testa e accelerano, si riparano sotto le impalcature dei cantieri dei grattacieli. Altri che salgono. Piove sempre più forte. Le fogne non riescono a canalizzare l’intero flusso d'acqua e le strade si allagano. Nessuno che non si bagna. Voglio scendere, continuare a piedi, la strada è intasata, devo attendere la fermata successiva. Nuvole gonfie e nere cambiano i colori degli oggetti. Ogni tonalità risplende, raggi di sole trapelano da qualche foro. Profili delle cose stagliati su orizzonti grigio scuri. Pioggia facente brillare gli oggetti. Luce uniformemente diffusa. Giusto il tempo che la gente si volti in cerca di un riparo. Il tempo che il traffico si intasi e i clacson comincino a suonare. Vetri delle auto riflettenti una strana atmosfera carica di attesa che il peggio arrivi. E tutto ciò che è stato non sembra poi un gran che rispetto a ciò che sta arrivando. Il tempo di rendersene conto. Che i lampi rendano l'aria elettrostatica. Che fulmini in lontananza trasmettano un’idea di insicurezza. Che rendiamo coscienza di quello che sta per succedere. Che giunga il momento in cui è tardi, dentro all’autobus, dentro i eggeri, dentro il
traffico, dentro la strada, dentro i rumori assordanti, senza potere uscire, tra fulmini e lampi e aria carica di umidità, tra pioggia e rumore di vento comincio a sentirmi male, comincio a sentire la pressione scendere, le forze venir meno, senza capire come mi ritrovo sul pavimento, a dormire.
Consisto in un puntino nero in un fiume di petrolio. Lo gnu di una mandria grande come fiume. Un bufalo tra milioni di altri bufali. Un torrente in piena. Un'orizzonte nero di cui non si scorge la fine né l'inizio. Un'alluvione che travolge tutto e non lascia niente dietro di sé. O si diventa parte di esso o si rimane calpestati. Una mandria non può essere fermata, continuerà sempre a correre. Appartengo a un'ondata migratoria. Il clima è cambiato e i prati non sono più verdi. Scorro attraverso praterie. Incrocio autostrade. Alcuni di noi rimangono investiti, ma io non mi fermo, continuo a correre. Supero cavalcavia, ponti e penetro nei campi. Defluisco in gallerie sotterranee. Percorro vecchi tunnel e cunicoli. Mi mescolo a liquami di fogne. E poi salgo. In superficie. Sempre più in alto. Mi gonfio fino al punto che la terra non riesce più a contenermi. I tombini si aprono e io fuoriesco nel mezzo delle strade. Mi diramo attraverso palazzi, travolgo tutto. Niente può fermarmi. Qualcuno cerca di salvarsi. Ormai è tardi. Più ci si oppone più si viene trascinati giù. Mi sento quanto di peggio una città produce. Mi sento un rifiuto, una vergogna, qualcosa da nascondere, mi sento tutto questo che viene a galla, mi sento tutto questo che invece di sparire straripa. Mi sento qualcosa che non dovrebbe esserci e invece ora è dappertutto. Ora non si può non vederlo. Mi sento l'escrezione di un sistema che non sa più dove mettermi. Il naturale epilogo, la conseguenza ovvia, l'evolversi delle cose. Una storia che poteva finire in un solo modo. Mi sento le discariche su cui viviamo, le tossine che respiriamo, le microplastiche che ingeriamo. Il luogo dove vanno a finire le cose dopo che tiriamo lo sciacquone, ma il tubo si è intasato e i liquami trasbordano e allagano l'appartamento.
Rivolgo la mente a come ogni generazione si porti dietro un grande senso di irrequietezza per il tentativo sempre vano di eguagliare i fasti di quelle precedenti. In ato si era più numerosi, ora si è in pochi, ci si guarda intorno sparuti cercandosi a vicenda, sguardi afflitti, assenza di appagamento, sentirsi fuori luogo, desiderare di più di un locale affollato una sera a settimana. Gli anziani attorniano, aumentano, fanno pressione per allontanare i non anziani
dalla città. Musica interrotta sempre prima, orari di apertura ristretti, costo della vita in rialzo, assistenza medica sempre più cara, quartieri invasi da farmacie e negozi d'ortopedica. Quartieri silenziosi. Cercare di divertirsi ad ogni costo come se fosse una cosa seria. Progetti per una serata iniziati con settimane di anticipo. Benzina consumata in quantità crescente, muoversi, su e giù alla ricerca, dei posti dove forse è ancora rimasto qualcuno. La protesta cederà alla rassegnazione, ogni cosa lentamente si spegnerà, diventerà fredda e silenziosa. Resistono ancora alcuni epicentri sparuti. Quando anche loro si arrenderanno, l'umanità cederà al patriarcato e al matriarcato, i pochi rimasti diventeranno schiavi di piramidi chiamate pensioni e sanità pubblica. Chiamate giardini e parchi per far pisciare il cane. Disperdersi fuori, lontano, nel buio. Nascosti, come una specie in via di estinzione. In un posto che diventa sempre più difficile da raggiungere. Sta mattina cammino tra le banchine del porto, ammiro navi arrivare e altre andarsene, merce approdare e sbarcare. Con il pensiero vado a come sarebbe stato semplice fermarsi al neolitico. Solo agricoltura, allevamento e villaggi. Poi sono arrivati i metalli. E con essi stati, eserciti, guerre, lingue nazionali, culture, religioni, scrittura. Porsi problemi che uno nemmeno ha. Dev’esserci un posto aldilà del mare, un'immensa isola di plastica in acque internazionali dove poter tornare indietro, pescare pesci gonfi di plastica, costruire palafitte di plastica e catamarani di plastica. La chiameremmo età della plastica. Edificata con gli scarti del mondo. Abitato dalle scorie del mondo. Deambulo tra i moli, vigilo sui pescherecci, inspiro la puzza di pesce, esamino rifiuti galleggiare tra le chiglie. Esiste un ordine per tutto. La totalità delle cose viene realizzata secondo un principio. Farle a cazzo è diventato veramente difficile. Mi rigiro tra misure e distanze sempre proporzionate. Uno vorrebbe inciampare, cadere nell'acqua blu scura. Gelida, che per un attimo lo scaraventerebbe fuori da ogni schema. Uscendo bagnato congelerebbe e comincerebbe a correre per il freddo su una rotta qualunque. Mi ritiro, bighellonando tra magazzini e cantieri navali. Arriva mai il momento in cui qualcosa non può essere migliorata ancora? In cui funziona nel migliore dei modi? Mentre erro mi accontento di quanto la vita mi offre in questo momento, nel presente. Un uomo domanda spicci difronte un bar pieno di pescatori. Ordino una birra, mi siedo vicino alla finestra, rivolgo lo sguardo alle rondini che affondano nelle nuvole. Ho un telefono, di solito in modalità aereo, non lo uso mai, non so perche lo porto dietro, oggi però è . Un numero insolito, di quelli degli uffici, compare sullo schermo. Risponde la redazione, una voce distante, presa da altre preoccupazioni, ci sono delle foto da portare. Non ho visto quello che sta succedendo. Se dico sul serio. Gli spiego dove sono, da me è tutto tranquillo. Non ho l'attrezzatura. Posso arrivarci subito, il tempo di
prendere un taxi. Lascio il bicchiere ancora pieno con i soldi sul tavolo, esco pieno di tensione, scruto lontano, non vedo niente, tutto nella norma. Accelero verso l'arteria principale più vicina, il traffico scorre, sensazione di perdermi qualcosa, fermo un tassì, gli dico dove andare, domando qualcosa, risponde qualcosa, la sua mente è distante, presa da altre preoccupazioni, non capisco, cosa mi sfugge, come è che tutti vanno nella stessa direzione, quella opposta alla mia, si allontanano, l’autista si rifiuta di proseguire, sono costretto a procedere a piedi, anche andando di corsa risulto comunque troppo lontano, anche i poliziotti, i militari, pure loro vanno via, m’investono forti folate di pioggia, vedo le macchine sulla strada vuote, continuo a correre, non so dove, a fare cosa, non ho con me la macchina fotografica, sono un uomo sbagliato in un momento giusto, il senso di tensione assale ogni mia parte, non so neanche perche corro, dev'esserci qualcosa laggiù, una risposta che comporti una qualche forma di libertà, ho l'acqua alle caviglie, mi chiedo da dove arrivi, vento poderoso, ore anche tuoni, in cosa diavolo sto per cacciarmi, perche non fuggo, vorrei solo sbattere contro un muro, talmente tante volte da non farmi più domande, da essere indifferente a tutto, una corsa senza fine, forse è proprio un muro ciò cui sto andando incontro, sotto un temporale improvviso, all'opposto di dove mi spinge la corrente, verso il centro del ciclone dove dicono regni il sereno, nuoto, sotto semafori gialli, nuoto tra file di auto da buttare, prendo grandi boccate d'ossigeno, mi aggrappo alle carrozzerie per non farmi trascinare dalla corrente, mi reggo a qualsiasi cosa, acqua che sale e sale e tra poco mi spazzerà via, riesco ad afferrare una scala di emergenza, vado su, sempre più su, in alto, vedo tutta una serie di cose costosissime trascinate via dall’acqua, oggetti da esposizione, vetrine intere, arredamenti, ciò che sarei potuto diventare, ora è da buttare, il potere di una piena, raggiungo il tetto, vedo il sole illuminare a tratti litri e litri d'acqua buona, pulita, limpida, non può essere il temporale, deve trattarsi dell'acquedotto, ratti giganti ci navigano dentro, ricoperti di grasso per motori, lo scorrere idrico li ripulisce, si direbbero persone, si arrampicano, raccolgono oggetti inutili, ignorando le gioiellerie, le banche, raccolgono immondizia, raccolgono cose forse ancora buone, alcune si addentrano in questo palazzo, meglio se mi nascondo, se me ne vado, dove, mi sa che sono bloccato, arrivano, mi appendo al bordo del tetto reggendomi con le mani, non mi vedranno, è altissimo, sento i topi muoversi davanti le mie mani, le loro mani mi afferrano e tirano su, mi tengono stretto un momento e poi mi lasciano andare, mi lasciano andare, mi lasciano andare, mi lasciano andare, mi lasciano andare, mi lasciano andare.
Ci siamo radunati nei sotterranei della città. Sono arrivato insieme agli altri durante la notte. C’erano gruppi provenienti da diverse zone. Ci siamo portati un sacco di roba altamente detonabile e l’abbiamo piazzata in corrispondenza dei tombini che raccolgono l'acqua piovana, nei punti fragili dell'acquedotto, dove il viadotto a sotto la strada. Acqua che entra e acqua che esce mescolate insieme, un sacrilegio. Il meccanismo cardine della civiltà totalmente stravolto. Dopo che tutto è esploso non ho idea di cosa sia successo. Bighellono con la faccia dipinta di nero tra linee della metro non concluse e vecchi tunnel di servizio. Abbiamo da mangiare e tutto quello che serve, il minimo indispensabile. Mi mantengo un po' in disparte a leggere dei quotidiani che qualcuno continua a portare giù. Non vedo la luce del sole da giorni. Per non stare al buio bruciamo della roba. Sentendomi io stesso della roba.
Sono chiuso in casa da giorni. Da sta sera sono un artista, lavoro su legno, graffio superfici di vecchie assi attaccate insieme, sverniciate in modo da sembrare resti della porta di una vecchia fattoria. Ci scavo sopra, disegno silhouette in basso rilievo, figure antropomorfe, roba. Si vendono facili come oggetti d'arredamento per locali alla moda. Mentre lavoro, mentre o con la carta vetrata, penso alle mostre, al successo, alle giacche, agli alcolici, alle strette di mano, non c'è niente che non mi porti alla fine a pensare a questo. Avrei voluto che la vita fosse stata gratuita. Avrei voluto ioni, invece ho delle liste. Ho un numero indefinito di scarpe da acquistare, di mezzi da provare, di stili abitativi da sperimentare e di paesi da visitare. Avrei voluto sbattere contro un muro talmente forte da non desiderare più niente. Mi affaccio alla finestra, cieli colorarsi di gialli tendenti al rosso, la fredda sera d'autunno avvertirmi che non è più estate. Sfumature, mai un taglio netto, solo aggi graduali, gamme di colori sempre perfette, ecco il fascino di un tramonto. Mai uguale. Avrei voluto che una tempesta spezzasse la gradazione. Creasse una linea di demarcazione, un taglio netto tra il prima e il dopo. E invece diventa sera e neanche me ne accorgo. Un quadro i cui colori cambiano in continuazione ma il dipinto è sempre lo stesso. Sono chiuso in casa anche perche fuori non posso andare. Gli uomini ombra e la città parzialmente allagata me lo impediscono. La parte non allagata è controllata dall'esercito ma i militari non sono attrezzati per muoversi sull’acqua. Hanno tagliato la corrente e così ora sono anche al buio. Se dovessero entrarmi in casa non me ne accorgerei. Comunque non si vedono sciacalli in giro, forse anche loro hanno paura. Immagino ci vorranno giorni per drenare via l’acqua. Gli elicotteri volano intorno tutto il tempo. Ogni tanto
aprono il fuoco. Loro sono migliaia. Di notte li ascolto spostare roba, buttarla giù, dio solo sa perche. Non fanno altro, frugano, scaricano e poi tornano a scorrazzare. Mi chiedo che succede alla città, cosa succede alle persone. A quale bisogno cercano di rispondere. Deve essersi rotto qualcosa. Un piccolo difetto, un fruscio nel motore da sempre ignorato fino a quando i freni hanno smesso di funzionare mentre eravamo in autostrada. Esco dall'appartamento. Il piano terra è allagato, per lasciare l’edificio devo nuotare, immergermi. L'acqua è gelata. Il freddo mi trasporta in un altro mondo. Devo dire però che si è mantenuta limpida. Inizio a perdere sensibilità. Navigo, tra le auto, tra i lampioni ormai inutili e tra roba che galleggia. Roba da tutte le parti. Provo ad abituarmi alla luce della luna. Elicotteri, elicotteri dappertutto. Potrebbero spararmi a vista. Non so dove andare né perché sono uscito di casa. Vorrei essere altrove. Seguito a spingermi nell'oscurità. Una strada che non porterà da nessuna parte. Nuoto tra ombre scure semoventi. Essendo io stesso ombra cupa. Mi dileguo e riappaio accerchiato da fari di velivoli. Entro sotto una specie di grosso parcheggio. Qui gli elicotteri non possono vedermi. Galleggio e sbatto contro qualcosa. Un muro di roba. Mi ci arrampico. Sono letteralmente su una parete di mobili ed oggetti ammucchiati a mo di diga. Intorno ci sono uomini ombra che ne tirano su ancora. Davanti, oltre il muro, l'acqua non fluisce. Sul pavimento c ’è un foro. Si apre su un condotto. Lo usano per portarsi via le cose. Lo vedo da sopra al muro. Lo vedo attraverso il fuoco delle loro torce. Le distinguo bene. Persone vere. Agiscono senza pensare. Come se il cervello elaborasse un codice. Come se l’umanità avesse scalato una montagna, fosse arrivata in cima e ora gli toccasse riscendere. Scendo dentro al condotto. E’ solo parzialmente allagato, resta spazio per farci are delle piccole zattere. Chiatte arrangiate, mi navigano accanto, sotto la fioca luce di una fiamma, spinte lentamente attraverso condotti con un lungo bastone per fare leva contro il suolo. Mi aggrappo a una, mi lascio trascinare, giù, lungo un tunnel, dentro dell’oscurità. Galleggio, mi trasportano sempre più lontano, per rotatorie ed incroci, parallele, sbocchi secondari. Maggior parte dei quali non navigabili perche troppo allagati, ma chi conduce sa dove andare. Piove roba da sopra. Prego di arrivare, essendo le mie gambe addormentate per via del freddo, i miei muscoli iniziando a cedere. Temo si accorgano di me. Non c'è neanche un topo. Chiatta fermatasi, terra scavata via, galleria sotterranea, travi malmesse, sembra possa crollare da un momento all'altro. Ingresso stretto, o appena. Dentro, nella terra, catena di trasporto umana, si a uno alla volta, si carica, si porta, si scarica a quello che sta davanti. Che fare. Scendo e afferro, una scatola, pesa, entro dentro una delle gallerie pregando non succeda niente, pregando le travi non cedano, il tetto non precipiti. Terra fresca, io tuttavia ancora bagnato, congelato, muovermi in fretta.
Non vedo, poche torce appese lungo uno dei cammini, tento di capire la direzione in cui muovermi. Corro, prego nel durante. Seguo delle luci in fondo, raggiungendole, seguo le successive, quelle oltre ancora, mi precipito, con freddo e paura. Nessuno al mio seguito. Mai attraversato un’oscurità fitta come questa. Mai stato così lontano dal sole. Manca dell'aria. Odo a malapena il rumore dei miei i, tutto essendo ovattato. Orecchie tappate. I battiti del cuore perfettamente percepiti. Perfettamente il panico, anche se intorno regna una pace grandissima. Persevero fiondandomi verso dei bagliori, progressivamente più distanziati, imploro di raggiungerli, non posso più fermarmi, non riuscirei a ritrovare la strada. Soro incroci e diramazioni e provo a mantenermi sulla medesima direzione, ma non ce la faccio. Se volessi tornare indietro non mi resterebbe la forza. Non saprei dire se fuori sia già mattina o ancora notte, non lo capivo neanche prima. Inizio ad abbandonare ogni speranza di uscire. Mi ritengo una totale mancanza di discernimento. Un aborto non spontaneo nato lo stesso, per sbaglio e contro il volere di chi l'ha generato. Irrompo in delle corsie, vengo fuori da altre. Cerco di seguire delle piccole fiammelle, sempre più distanti. Mi sembra di vedere alcune prendere a spostarsi, come se corressero anche loro. Inseguo loro, per non restare al buio. Avverto aumentare la paura. L’afflizione mi renderà forte, il timore mi renderà impavido, lo strazio mi renderà saggio. Sento l'oscurità, il nulla avanzare dietro di me. Che ne sarebbe del mio volto se ne fossi inghiottito? Non vorrei che l'idea di me stesso muoia, vorrei che permanga. Ma non posso proseguire, non ho più energie. Diventano sempre più lontane, le luci. Gli uomini ombra devono stare prendendo le torce con sé lungo il cammino. Credo di essere arrivato in quel luogo, il luogo dove vanno a finire le cose. Nella testa accuso le solite stronzate, scalciano e si dimenano. Ma quaggiù quei pensieri appaino nella loro vera natura. Inconsistenti, vacui. Uccelli morti alla luce del mattino. Mi chiedo dove io sia vissuto tutto questo tempo. In che posto. Nelle vesti di quale persona. Continuo ad affrettarmi alla ceca, tenendo le mani contro le pareti per seguire una direzione. Il soffitto della galleria diventa più basso. Inizio a proseguire carponi. Non mi sono mai sentito tanto solo. Mai stato tanto lontano da un altro essere umano. Le pareti ora sono di roccia. Ora striscio in un cunicolo umido, i muri sono freddi. Mi immagino in un punto qualsiasi sotto la superficie terrestre. Potrei rimanere incastrato, nessuno verrebbe a salvarmi. Nessuno mi troverebbe. Potrei trascinarmi lungo aperture fino a morire. Non rammento di preciso come sono arrivato. Non rammento esattamente il personaggio che ho interpretato. Non esattamente la fine e l'inizio della vicenda. Il punto particolare dell'asse temporale. Pare che l’idea di storia sia nata con la scrittura, prima le genti vivevano in un intervallo magico eterno, nulla prima, nulla poi, una realtà stazionaria. Lo stretto accesso nel quale
serpeggio finisce, giungo ad un ampia sala, lo capisco perche intendo l'eco dei miei i, eco di piedi muoversi in cinque centimetri d’acqua. E’ calda. Devono essere le spoglie di un antico lago sotterraneo dall'era glaciale. La stessa acqua. Eterna. Potrei essere il primo qui da millenni. Supero anche questa stanza. Vado avanti. Arranco stretto su un fianco, come fossi sul cornicione di un palazzo, tanto è sottile il varco. Non voglio restare bloccato perciò mi tolgo le scarpe. Scendo lungo una stretta apertura sul pavimento, mi reggo con la schiena su un lato e faccio pressione con le gambe sull'altro per non precipitare. Ora marcio tra colonne di calcare o cose del genere, alcune molto appuntite, le sento anche sopra la mia testa, ce ne sono dappertutto. Mi aggrappo alle stalattite mentre mi arrampico su una nuova parete. Abbandono pure questa, inizio a muovermi bene, il terreno è piatto e le rocce sono lisce, assaggio lo spazio intorno a me, non percepisco umidità. L'aria è calda. Cammino sfiorando con una mano i muri per sentire dove vado. Allorche mi inoltro immagino dirupi e dislivelli a un o da me, perciò lancio sassolini a caso per sentire se rimbalzano. Spero di arrivare da qualche parte altrimenti non ne uscirei vivo. Spero che qualcuno ritrovi il mio corpo nel caso. Vorrei lasciare un messaggio d’addio scritto sul muro ma non sarebbe niente di sincero. Penetro in una strana atmosfera di calma. Pacatezza. Gorgoglio di un rivolo d’acqua. Qualcosa di me lasciata indietro, lontano, in superficie. Capto dell'energia vitale ritornare. Assumo me stesso come lontano. Mi pervengono dei rumori, ho bisogno di lasciarmi cadere. Sdraiato a terra, aspetto che il nulla mi faccia morire. Diventare una cosa. Di nuovo delle luci. Ho la sensazione di essere afferrato e avvolto. Fluttuo, mi sposto. Degli strani suoni. Vedo come delle figure, il soffitto scorrere, osservo la mia persona scorrere, il tempo scorrere. Una stanza della grotta enorme, pareti sporche, impronte di mani dappertutto, sul soffitto. Bianche, nere, negativo, positivo. Posatomi sul pavimento. Acqua gelida sul viso. Bevo. Riprendo vita. Rivengo nel cuore caldo del mondo. Uomini fuoriescono dallo sporco sulle pareti. Raccoltomi ancora e trasportatomi lungo la sala, in fondo, sulla sezione di roccia più lontana. Scura di orme. Contorni, interno, esterno, pieno, vuoto, dentro, fuori. Toltami la felpa, premutomi contro il muro, allargato le braccia, ricoperto di polvere nera simile a gesso, immersomi, completamente finanche il muro intorno formando un cerchio, un cerchio nero, essendo parte del cerchio. La forma di me stesso stampata sulla facciata rocciosa, sopra alle altre fino a formare un'unica immagine, l’immagine di una specie. Accompagnatomi altrove. Un’insenatura, vi sgorga un piccolo ruscello. Adagiatomi su una lettiga fatta con sacchi neri dei rifiuti. Sospintomi via, allontanatomi dalla corrente. Condottomi verso una crepa, disotto un basso tetto, dove l’acqua sparisce via. Di nuovo oscurità. La corrente aumenta d’intensità, vengo aizzato a destra e sinistra nel ruscello, con
rapidità crescente, senza vedere un'accidente, senza brio per oppormi, il flusso mi trasporta, rapido, il ruscello diventa un fiume, congiuntosi a diversi corsi d'acqua, sto ballando, l’acqua mi porta distante, verso la luce, verso l'aria, aria fresca, soffia contro il viso, la potenza del fiume fa sfrecciare la lettiga, la luminosità fa male agli occhi, li copro con le mani e poi sento il vuoto, sento che vengo inondato di luce, tutto si blocca per un secondo, il rumore, il vento, l’acqua, e poi cado, vado giù, io con tutta la lettiga, affondo, i sensi si risvegliano, sprofondo nell'acqua gelida, risalgo verso la superficie, emergo verso l’aria, il sole, il cielo, lo spazio aperto, un lago, sono in un lago, mi avvicino alla riva, il mio corpo non trasmette più niente, mi inginocchio, ogni muscolo si scuote anche se sono fermo, per il freddo. Come fossi una roccia. Alcuni lì, tra gli alberi, mi stavano aspettando, mi coprono con una pelliccia di qualche animale, mi apprestano al fuoco di un falò, lì vicino, il calore mi fa lentamente tornare in vita.
Ricordo di quando ho letto che i primi insediamenti urbani nacquero attorno a un tempio. A quanto pare i popoli ebbero bisogno di una giustificazione per starsene insieme. Forse una convivenza che non rispondesse ad una necessità non avrebbe funzionato. Senza un collante, una causa superiore i popoli magari non esisterebbero. Ci penso mentre cammino in direzione della parrocchia del quartiere residenziale dove sono arrivato oggi. A casa mia non posso tornare, si trova all’interno dell’area non agibile. Le persone si ricordano che esiste una dottrina religiosa solo in presenza di un accadimento negativo. Le strade sono deserte. I servizi non sono operativi. L’immondizia giace non raccolta davanti ai cortili. I cani randagi vi rovistano liberamente. Assenza di controllo. Auto parcheggiate nel mezzo della strada. Scatoloni di merci trafugate nei giardini. Si direbbe l’inizio di qualcosa. Valico il parcheggio della chiesa, incrocio famiglie. Il contratto sociale è stato infranto, un fatto di cronaca ha rivelato la superficie vuota del senso comune di appartenenza. La popolazione sente l’esigenza di ricordare il motivo vero per cui rimanere insieme, non disperdendosi ognuno per la propria strada. Mi metto a mio agio nell'ampia sala bianca e ben illuminata. Niente posti a sedere. E’ un bivacco. Figli sistemati per terra. Mogli con pietanze calde nella sacrestia. Mariti tra le panche ad ascoltare la radio. Sono nel primo mattone della civiltà. Assenza di comune chiacchiericcio domenicale. Nessuno con niente da dire. Mi trovo nella causa superiore, il luogo dove far convergere le risorse, la ragione per la quale non sono nomade. Dopo aver riconosciuto l'esistenza del supremo si diventata mortali e sacrificabili. Si trasportano rocce
enormi per chilometri, le si posiziona in corrispondenza del moto degli astri, si incidono bassorilievi, si costruiscono villaggi attorno. Cose senza senso per quelli rimasti ancora nella foresta, che si sentono componenti di un ecosistema grande e complesso in cui non rappresentano il centro. Preoccupazione. La vedo nei loro occhi. Chi ci ha rimesso è solo gente ricca. Loro non possiedono gruppi di investimento. Il vero timore è quello di perdere ogni riferimento. Non sanno cosa aspettarsi. Mi siedo col gruppo di quelli che ascoltano il radiogiornale. Aiuti umanitari. Lo stato di guerra. Acqua potabile mancante, corrente mancante, viveri mancanti, negozi saccheggiati. Sulla strada qui fuori i garage sono pieni di scorte alimentari e di elettrodomestici trafugati. Tutto sommato le cose non vanno tanto male. Siamo ancora insieme. Fosse sempre così nessuno resterebbe solo, i problemi si affronterebbero collettivamente e si risparmierebbe in beni di consumo e di spazio. Il parroco tiene un discorso, induce conforto, lo ascoltiamo in silenzio. Mentre parla faccio caso che è tanto che non penso a quanti soldi ho. Non mi era mai successo credo. Fuori c'è il sole, esco. Faccio due i. Continuo a calpestare scatoloni di merce rubata. Devo deviare auto parcheggiate ovunque e in qualunque modo. Esco fuori dalla zona, non riesco a trovare niente di aperto. Il silenzio dentro cui cammino mi fa andare la mente altrove. Non ci sono abituato. Sono nato circondato da rumori. Ci sono cresciuto. L'assenza di suono mi fa male. Fra poco sarà buio e io sono in mezzo al nulla. Prima che ogni cosa diventi nera entro nel parcheggio abbandonato di un rivenditore di auto usate. Ne sono rimaste poche, modelli meno in voga, forse non funzionanti. Le portiere sono aperte ma mancano le chiavi. Vagabondo per la rimessa, mi intrufolo nel piccolo stanzino dove si concludono gli affari. Afferro tutte le chiavi. Provo con una vecchia monovolume piena di polvere col prezzo scritto sul vetro. Si mette in moto, intorno non v’è neanche una luce. Esco dal cortile abbaglianti accesi, guido piano, non vorrei investire qualcuno. Svolto su una strada principale. Le vedo muoversi dappertutto aldilà del cavalcavia. Ricordo di quando ho letto che le persone non sono in grado di orientarsi al buio, senza un riferimento visivo, in assenza di un punto focale che dia una prospettiva, finiscono per girare intorno. Sopraggiungono degli elicotteri, mi puntano fasci di luce bianca contro. Ormai sono dappertutto, numerose, vicine. Sento sparare, hanno aperto il fuoco. Salgono sul tettuccio e tutto intorno all'auto, rompono i vetri per entrare. A volte avrei voluto che la vita fosse gratis. Davanti, un check point. Blindati, uomini armati, sparano sopra a quelle cose. Le vedo nello specchietto cadere giù una alla volta. Mi fanno da scudo umano. Non saprei chi dei due mi stia salvando dall’altro. Sfondo il blocco, l'auto strafora la sbarra a livello, non tolgo il piede dall'acceleratore, parabrezza verniciato di rosso, metto la testa fuori dal vetro, vado lontano, lontano dalla luce, laggiù, verso gli alberi,
dove l'elicottero non può vedermi, continuo ad accelerare, l’auto è ormai libera dai cadaveri. Faccio tipo un chilometro, poi lascio una scarpa incastrata sul pedale ed esco al volo dallo sportello. La macchina prosegue la sua corsa coi fari accessi. Io rotolo via dietro. Il tempo rallenta all'improvviso. Ruzzolo in mezzo alla selva. Nei film lo fanno sembrare semplice, non doloroso. Finisco da qualche parte nel selciato, tra i cespugli. E’ arrivato il momento in cui i miei occhi si chiudono e tutto si spegne.
Lì, in mezzo al buio, con la testa e le ossa fracassate mi addormento, e mentre dormo la mia mente crea e fonde immagini e concetti dando vita a una realtà nuova. Qui, in questa realtà, osservo uomini diventare pavidi difronte a qualunque cosa. Ansia da prestazione. Rifiuto di sé stessi. Vorrebbero non essere una macchina di morte. Uno strumento atto a uccidere animali scagliando dardi a 150 chilometri al secondo. Ripudio per la quantità di sudore che producono. Per i peli, per l’ossessione dei confini e dei territori. Per la pelle ruvida e piena di graffi. Per la fissazione con le armi e con la guerra. Un uomo non dovrebbe essere altro che una donna con le palle.
Vado e torno, di nuovo, ancora. Raccolgo roba, la porto nell'accampamento. Tutti i sensi all'erta. o inosservato. Roba commestibile, oggetti utili. I miei occhi scartano il resto. Cercare, agguantare, camminare, camminare ancora, tornare all’accampamento, ripartire, ritornare. Una mappa mentale di ogni luogo, ogni posto, ogni zona. La via più breve, quella più rischiosa. Non fermarsi, non interrogarsi, non pensare. Non avere in mente l’ultima volta che si è detto qualcosa. Accompagnato lungo il cammino dai raggi del sole filtrati attraverso la vegetazione. Scandiscono i momenti del giorno. Sotto, tra cunicoli e gallerie mi intrattengo aggiustando o creando cose. Nessuna certezza regge la nostra esistenza. Avanziamo tra sentieri e aggi che noi solo conosciamo. Seguiamo rotte di mandrie migratorie. Appostati lungo cavalcavia di autostrade, aspettiamo che il pascolo rallenti per guadare il traffico. Nascosti nel fogliame, individuiamo una preda abbastanza debole e poi facciamo partire l'agguato. Certe volte è facile, gli autisti scappano via o si chiudono in cabina. Altre hanno un prezzo grande da pagare. C’è chi tra noi ci lascia la pelle. Nessuno farà causa. Alcuni vengono catturati e deportati. Posti in cui vanno a morire lentamente. A volte la situazione si fa troppo pericolosa, diventa opportuno smontare le tende.
Non abbiamo casa, non abbiamo confini. Siamo l'anello di un habitat. Ne dipendiamo, non risiediamo al di sopra. Non abbiamo mai tempo, ogni secondo speso in modo essenziale. Solo, qualcosa non va. Sta notte siamo posizionati aldilà della staccionata di un allevamento. Sentiamo l'odore dello sterco anche da qui. Silenziosi, superiamo il recinto, giungiamo dinnanzi un fienile pieno di animali. La nostra tecnica prevede di entrare, accopparne due o tre e portarseli via. Manca il solito abbaiare di qualche stupido cane. Niente fanali a sensori di movimento. Neanche serrature. Dentro i polmoni si dilatano per via del forte odore. Gli animali non hanno il tempo di ululare. Dietro di noi la porta si chiude, una bagliore forte riempie l'esterno del capanno, l'edificio è avvolto da una rete metallica gigantesca. Dei tizi in tute di quelle per addestrare i cani entrano e iniziano a spararci dardi anestetizzanti addosso. Uno alla volta ci accoppano, ci adagiamo lì sul fieno, con i riflettori sparati negli occhi, tra la puzza, le grida, i rumori e il sangue dei montoni sul pavimento, imbratta noi, le tute degli strani esseri.
Mi sollevo, fluttuo nell'aria, lampioni sopra di me si muovono nella direzione opposta. Steso, ma in movimento, intorno è pieno di gente. Tutto bianco e luminoso, anche le persone, hanno fretta, quasi fossero macchine. Io stesso sentendomi una macchina. Provo a sollevare il capo, prontamente me lo riabbassano. Tutto si muove mentre io sono l'unica cosa ferma. Tutto scorre intorno a me, ora in una direzione, ora in un altra. Lampadari scandiscono il ritmo, la velocità di spostamento. Mi sento il mobile di un trasloco. Effettuano analisi, mi osservano come si osservano le cose. Avanti, indietro, destra, sinistra, sali, scendi, corridoi, ascensori, sale d'attesa. Aghi entrano ed escono dalla mia pelle. Porte pieghevoli, si aprono e si chiudono. Volti celati da uniformi. Collegato ad aggeggi che monitorano il mio comportamento. Mi sento un aggeggio. Piazzato con un milione di altri aggeggi rinchiusi dietro stanze munite di sbarre, aspettiamo di essere smistati in centri di detenzione. Sento sbattere contro i muri, sento sbattere contro le porte, sento guardie urlare, spari. Come uno studio veterinario per mammiferi selvaggi. In una stanza che in realtà è una gabbia. Ne arrivano altri. Troppi. Lo avevo capito mentre di tanto in tanto sollevavo la testa, una volta sceso dall'ambulanza, e vedevo file troppo lunghe e guardie troppo in difficoltà e troppo poco numerose e troppo nervose. Lo capivo mentre vedevo personale medico sporco di sangue, troppo sangue, correre dappertutto dentro e fuori le stanze e uniformi aprire il fuoco a volte, troppe volte, sui prigionieri. Lo capisco perche da dove mi trovo posso vedere nelle
stanze di fianco, uomini ombra allungare le braccia attraverso le sbarre, sbarre non abbastanza strette, sfilare la pistola da dentro la fodera di un tizio, rompere la serratura e liberarsi. Troppo caos, troppo tutto hanno provocato il collasso di un sistema. Proprio ora che cominciavo a sentirmi bene, forse merito degli antidolorifici. Intorno il mondo gira e si muove, lentamente si decostruisce e si smonta, pezzo dopo pezzo, inizia a cedere. Mai stato così in forma. Per le medicine o per il senso di libertà, non saprei dirlo. Gabbie si aprono, pavimenti si riempiono di sangue, gente scappa via. Anche la mia si dischiude ma io non ri esco a muovere un muscolo. Paura di essere dimenticato, non mi dispiacerebbe. Sonno, ossa doloranti, bisogno di riposo. Se resto zitto e immobile nessuno mi noterà. Ma mi afferrano con tutta la barella, sporchi di grasso per motori, mi portano via, mi sospingono e mi sospingono, e di nuovo corridoi, incendi, sale, fiamme, gente morente al di sotto della mia lettiga, mi sospingono e mi sospingono, fuori, da dove sono entrato, sembra un altro posto, pieno di cadaveri e di uniformi che urlano e scappano in preda all’incubo e di ombre che non muoiono, semplicemente cessano di respirare. Vorrei essere come loro, vorrei smettere solo di respirare e invece riesco solo a piagnucolare e allargare la morsa della morfina o quello che è. Strani infermieri mi traghettano in un mare di cambiamento e demolizione, diretti dio solo sa dove. Che inconsueta invenzione la libertà. Muri da abbattere, uno alla volta, fino a non sentire più alcun frastuono, alcun rumore, solo mattoni cadere, e barelle spostarsi attraverso. A questo punto vorrei destarmi anch'io e correre in mezzo al casino, correre tanto per correre, come farebbe un uomo ombra, ma sono imbottito di sensazioni piacevoli e atempi, di hobby e ioni, di forme di intrattenimento, di autostima e desiderio di miglioramento. Provo a svincolarmi ma me lo impediscono, in verità non ci metto l’impegno. Mi domando quando finirà tutto questo, quanto durerà, quando potrò tornare a controllare notifiche. Com'è che nascono e finiscono le cose, come e dove vanno a morire. Ci deve essere per forza un momento in cui il giorno nasce dalla notte e tutto inizia.
La voce che ho nella testa, quella con cui penso, non è la stessa che esce dalla gola. Non è come la immagino, non dico quello che lei dice. La proiezione di me non è reale. A differenza delle sue, le mie parole si bloccano, balbetto, mi dimentico le cose, sbaglio le frasi. Io, come pure gli altri, sono tornato in città, sono uscito dalle fogne, insieme agli altri ho manomesso l'acquedotto. Io con loro ho allagato buona parte della metropoli, trasformandola in un grande bacino. Con loro ho fatto, abbiamo fatto fuggire tutti. Noi, io, li ho paralizzati.
Poi sempre io con l'aiuto di tutti ho attrezzato diversi accampamenti in luoghi sicuri. Ci hanno fatto un grosso favore tagliandoci via la corrente elettrica, la zona è stata isolata e circondata. Nessuno può entrare o uscire. Ora abitiamo, voglio dire abito in edifici vuoti, pieni di polvere e di luce di giorno e completamente bui la notte. Lì la proiezione di me ed io diventiamo una sola cosa. Niente interferisce tra noi. Quando esco dall'oscurità sono ancora io, sotto la luna. Sulle macchine sopra i muri nei parcheggi e sopra i tetti sono ancora io. Ho accesso a una quantità insondabile di oggetti di valore, ma sono interessato solo al cibo e ad altre cose utili. o attraverso gioiellerie e banche ma per andare oltre. La roba di valore qui, in mezzo all'acqua, appare per quello che è veramente, roba, con un valore fittizio. Nemmeno le guardo più, le pietre e le gemme rare, la tanzanite e l'ambrasite immobili dietro le vetrine, noi, cioè io non saprei che farmene, non si possono mangiare. Oggetti che galleggiano di ogni tipo, centinaia, migliaia di dollari, fluttuano accanto a me, li scanso via, spingo via centinaia e migliaia di banconote grosse, simboli non reali ma comunemente accettati e quindi di fatto reali impregnati d'acqua e lasciati lì ad ammuffire. Il valore delle cose è sempre un fatto oggettivo. Tutto quanto mi circonda, i palazzi, gli appartamenti, le auto, si tratta di ricchezze virtuali, avvalorate in comune accordo ma che possono essere invalidate in comune accordo. La quotazione che noi stessi diamo alla nostra persona è generalmente concordata e può essere individualmente riconsiderata in ogni momento. Il corrispondente che noi, che io do a me. Sono libero di sceglierlo, sono libero di disfarmene. Posso fare il cavolo che mi pare. Una società interamente costruita su un sistema di valori fittizi. Vite fondate su patrimoni intangibili. Niente ma proprio niente si sottrae a questa idea, tranne il cibo. Il cibo serve, a noi, a me. Il cibo ha un valore, sempre. In qualche caso superiore. Potrei uccidere per del cibo. Sarebbe lecito. Nuoto in acque molto scure, ma pulite. Una volta era acqua potabile, ora, ora no. Essendo un composto unico basta una goccia per contaminarla tutta. Così funziona la nostra, la mia mente. Basta un'idea per quanto piccola e lontana nel tempo a contaminare tutto il pensiero. E' come un mare vastissimo in cui è caduta una goccia di veleno. Per quanto infinitesimale quelle particelle hanno irreversibilmente contaminato la purezza primordiale. E malgrado continui a filtrare l'acqua rimarrà per sempre impura.
Il sogno di un artista, creare un cambiamento, non accade mai veramente. Il suo lavoro rimane qualcosa di bello quanto assurdo e irrealizzabile. Ammirazione, per il distacco dalla realtà fino a farla sembrare migliore o peggiore. Aspira a
essere un punto di non ritorno, ma non va' mai in quel modo. Applausi, complimenti, acquirenti, e poi basta. Traguardi irraggiungibili, modelli troppo difficili da imitare tanto per la gente comune quanto per gli autori. Il mondo reale non è un piano teorico per filosofie scritte a tavolino. La storia prende la sua strada. La società, i sistemi seguono progetti e disegni loro. Mi a per la testa ove riemergo dall'acqua, dopo che gli uomini ombra mi hanno lasciato cadere giù dal tetto del palazzo. Ho fatto un volo enorme, ma non sono morto, mi sono solo tuffato. Pensavo di essere spacciato. Dall’alto non sembrava che l'acqua fosse così profonda. Non sapendo cosa fare, né dove andare, torno a casa a nuoto. Gli elicotteri militari hanno iniziato ad occupare edifici ed evacuare i civili della zona, purtroppo lo fanno solo di giorno, quindi mi tocca aspettare a domattina. Mi faccio una doccia, indosso vestiti puliti e metto a fare una lavatrice. Cucino, faccio le pulizie, come se fosse un giorno qualunque. Gli elicotteri si avvicinano, io lavo i piatti, la gente fugge, io stiro e piego gli indumenti, spari, raffiche, esplosioni, ordini intimati, o l’aspirapolvere, metto in funzione l'asciugatrice, il timer del forno a microonde, pugni sulla porta d'ingresso, scarponi militari nel corridoio del condominio, mi asciugo i capelli, igienizzo i sanitari, porte d’ingresso sfondate, grida che obbligano a sgomberare l'area, guanti che afferrano e trascinano via, i vetri ancora da lucidare, i letti da sistemare, inquilini caricati sugli elicotteri, altri che fanno fuoco. L’appartamento si allontana e diventa più piccolo, fino a scomparire tra le nuvole e il sole del mattino.
Esiste una direzione nella quale è meglio non guardare. La strana piega che possono prendere i fatti. Continuo dritto, non distogliendo lo sguardo. Ci sono percorsi dai quali resto lontano perche non so dove porterebbero. Come fossi in un bosco e camminassi su un sentiero spianato da chi prima di me, ma a destra e a sinistra e dappertutto si diramano piste che non conosco, io seguo il resto del gruppo, ma l’occhio cade su gli strani aggi tra il folto degli alberi. Esistono, non so dove conducono. Lontano forse. Pericolosi, si dispiegano attraverso l'ignoto. Magari, se non mi allontanassi troppo scoprirei dove arrivano, e mi restituirebbero una storia da raccontare. Una storia mai scritta perche vissuta da chi non conosce alfabeto. Il paesaggio scorre sotto di me. Quadratini di paesaggi, pezzettini di coltivazioni di colore diverso, frazioni, piccoli sobborghi bianchi, stabilimenti grigi, visti da quassù i miei mondi sembrano solo aree circoscritte, sembrano un organismo fungino espanso sopra la crosta terrestre. Una muffa. Un coltura di licheni molto sviluppata ricoprente tutto. Con diverse macchie e
sfumature di gialli, di verdi, di bianchi. Si sostituisce alle foreste, ai boschi, alle paludi. Assorbe fiumi, laghi, si protrae fino al mare. Sulle montagne, fino al livello in cui l’ossigeno permette. Mi sento un piccolo cinobatterio, lavoro per un organismo simbionte, lo aiuto in cambio di protezione, soldi e appartamenti. Mentre il panorama si sussegue, quelli con me, gli altri cinobatteri, sembrano guardarsi attorno in attesa del prossimo ordine da parte dell’organo centrale. Si spenderanno al servizio di qualcosa di cui non gli importa. Ma per quale motivo. Nessuno se lo è chiesto. Liberi di muoverci come vogliamo, nessuno salta giù dall'elicottero lasciando che il sistema collassi e si deteriori per tornare a respirare. Gli diamo la vita, ma è un artificio, una costruzione della nostra mente. La realtà diventa tale quando condivisa da un numero sufficiente di persone altrimenti resta fantasia. Pale d'elicottero ruotano a una velocità impercettibile, sembrano invisibili, quasi non esistano, come stessimo fluttuando nell'aria. L’apparecchio è in movimento, il mondo è in movimento, esiste un punto fermo nell'universo?
Non lo si fa per sé stessi, perche piace, lo si fa per gli altri. Uno non va a fare footing di sera, quando nessuno può vederlo. Preferisce la palestra, un posto bene illuminato e pieno di gente. Ha bisogno di approvazione. Scrivo delle robe ma non per me, bensì per farle leggere a qualcuno. Potrei pubblicare in forma anonima senza cambiare la mia vita, ma desidero stima. Voglio che mi si dica che sono bravo. Realizzo questo standomene nell'accampamento per sfollati. Grosse tende, da boy scout o da esercito. Dentro fa freddo. Ad ogni persona una brandina e un armadietto. I bagni sono pubblici, la mensa è pubblica. Un letto da campo e un guardaroba sono gli unici spazi veramente miei. Tutto ciò che rimane di qualcuno dopo un disastro. Essendo uno sfollato ho cercato di darmi una svegliata, mi sono messo in contatto con una testata locale. Mi sono proposto come giornalista. Mi sono alzato stamattina e ho pensato a me stesso come un giornalista, il giorno prima mi pensavo qualcos’altro, e il giorno prima qualcos’altro ancora. La proiezione del mio futuro si modifica continuamente. Mentre faccio colazione nella tenda adibita a punto ristoro, alla gente di qui mi presento come tale, mi pongono domande atte a tale. Rispondo che è essenziale essere sul pezzo, che un giornalista guadagna poco, vive sempre di fretta, che è un mestiere facile adatto a chiunque, ma è una vita dura. Che quelli bravi finiscono a lavorare per giornali famosi con una paga migliore, magari come inviati speciali all'estero. Che il requisito più importante è ritenersi esperti in qualche campo, la politica, lo sport. Che io non possiedo competenze
adeguate in nessun settore, ma non importa, provenendo dal luogo del disastro sono diventato esperto in questo. A forza di cambiare professione, ciò che sento di essere, il ruolo che ricopro nella società ha perso di significato. Oramai influisce poco sulla persona cui appartengo. Uno vale l'altro, un credo come tanti. Stili di vita, atteggiamenti, punti di vista, tolto tutto questo, il residuo di fondo è lo stesso. Esco e prendo ad aggirarmi tra tende adibite a qualche scopo. Circondato da tizi che hanno perso molto e da altri che provano a reinventarsi, da recinzioni, da provviste alimentari, da barili di acqua potabile, da prodotti per l'igiene. erei così anche tutta la vita. Non c'è niente di veramente importante che manchi. A parte il freddo e la facilità con cui ci si contagia, per il resto non è male. Mi dirado dal campo, faccio una eggiata nel piccolo sobborgo vicino a dove mi trovo. Vite stabili, case stabili, invidia, non so perche ma provo invidia. Hanno un sacco di spazio. Hanno un'auto e un giardino. ano giornate intere completamente soli. E' da un po’ che non ricordo cosa si provi a starsene da soli. Gli sfollati mi conoscono come pochi, sanno il mio numero di scarpe, gli acquisti che faccio in giornata, quanti rotoli di carta igienica mi restano. Seppure estranei, mi conoscono meglio del migliore amico. Sanno le cose che non so di pronunciare mentre sogno. Mi aspettavo famiglie, invece mi hanno mandato nella tenda dei single. Guardo loro e guardo me stesso. A volte li sorprendo eggiare come me nel piccolo centro abitato, fingendo di cercare qualcosa. Il sottoprodotto di una società non perfetta che dovrebbe esserlo. Articoli difettosi rimasti in magazzino perche non sapevano dove metterci. Consapevoli di essere senza uno scopo, vediamo generazioni di prodotti riusciti bene arci davanti, accattivanti e costosi. Mentre noi continuiamo a prendere polvere su scaffali dimenticati. A volte avremmo voluto essere smaltiti, avremmo voluto non essere mai usciti dalla catena. Ma ora siamo qui, esistiamo e non possiamo semplicemente sparire.
Quando le cose diventano troppo scontate uno smette di chiedersi perche le fa. Perche aspettare che il forno si riscaldi prima di infilarci il cibo. A cosa serve la schiuma da barba. La funzione esatta del balsamo per capelli. Il motivo per cui la gente si sposa a un certo punto, il fatto che giustifica l’esistenza di una religione e che ci stanno a fare gli stati. Secondo una delle teorie, il potere centrale serviva a risolvere conflitti tra sconosciuti e la religione avvalorava questa forma di controllo. Ho anche letto però di antiche civiltà del pakistan dove le comunità vivevano indipendenti, libere da una qualche forma di autorità. Credo che quando le cose diventino ovvie, le si cominci a fare perche gli altri le fanno,
senza porsi domande. Così ho tentato di mettere su imprese, relazioni, aderito ad associazioni, partiti, scuole di pensiero, movimenti artistici. Aperto profili social. Evitato discariche, luoghi abbandonati, momenti di vuoto, attese, l'ascolto della voce del mio pensiero come ho visto fare a gli altri. L’ho capito allorche ho affittato una casa in un quartiere di questa zona con un nome che impiegherò tanto ad imparare. Una casa vera con giardino, non un condominio con un numero sulla porta. Quelli di città ci mettono una vita a costruirsi un angolo dove rilassarsi, quelli delle aree rurali vorrebbero avere un appartamento in città. Per entrambi desideri fugaci e momentanei, gli zoticoni rimpiangono presto le praterie e l'aria fresca e i topi di città la folla e i negozi. Non sono ancora pronto per tornare, pur avendo da poco finito di imparare i posti migliori per qualche motivo. Intorno silenzio dopo le otto. Dentro la casa è fatta malissimo, si sta di merda. Ogni parte un riflesso di ciò che dovrebbe essere. Il lavandino della cucina non è incastrato bene nel resto del mobile, i bordi fuoriescono affilati e minacciosi. Anche gli altri arredi sono stati messi su improvvisando. Sezioni riciclate da qualche vecchio mobile da buttare e messe insieme per farle sembrare uno solo. Il piano cottura come quello di una roulotte. Il tavolo sgangherato e semovente. Il bagno abbastanza decente. Le altre stanze, quella da letto, il soggiorno, il corridoio, le scale tutte in stile finto nuovo. Ogni mobile stride forte all’apertura e le parti si staccano e vengono via. Componenti unite tra loro con barre d'alluminio, chiodi e viti in modo assolutamente grossolano. Nel complesso dà l’impressione che crollerà da un momento all’altro. Ripiani scuri, neri e lucidi che mettono in risalto la polvere, quindi non importa quanto pulisca, alla fine sembra comunque in disuso. Le assi del parquet incastrate a forza in uno spazio troppo piccolo, installate senza prendere le misure. A ogni o si piegano e si riassestano per poi scomporsi nuovamente. Come letti, delle brandine che scricchiolano e cigolano. Le pareti sottili e fredde. Il retro pieno ancora di mobili smontati e componenti vari. Subaffittata da un tizio che l'ha affittata da un altro tizio. Il proprietario reale pare non interessato a cosa succeda qui, ma c'è una stanza chiusa a chiave che non mi è permesso di usare. Ogni giorno ci o davanti e immagino le cose più strane, anche se credo non ci sia niente. Verso sera guardo il cielo assumere colori strani e diversi, sempre i soliti, immagino le cose più strane aldilà di questa vita anche se credo non ci sia niente. Ogni tanto vedo una grossa stella cadente, da qualche parte immerso nell’oscurità del quartiere, esprimo i desideri più strani e ambiziosi anche se credo non mi attenda niente di speciale. Ogni volta guardo il telegiornale e sento di un lancio missili in corea del nord, una infezione in africa, un attacco terroristico in europa, immagino scenari catastrofici anche se credo alla fine non accadrà niente. Quando comincio qualcosa nella vita, le volte che sono partito,
quelle che sono ritornato ho sempre sperato nelle cose più straordinarie. Spero con tutto me stesso in un cambiamento ma la staticità è l'unica certezza che ho mai avuto. Il televisore è l'oggetto più nuovo e bello della casa. Mentre ascolto l’oroscopo di questo mese immagino le cose più straordinarie. Ci sono punti dove la moquette è talmente gonfia e piena di sporcizia che non ho osato sollevarla per non scoprire cosa ci sia sotto. Certe cose sono talmente spaventose e inquietanti che è meglio lasciarle nel mondo del possibile invece di farle diventare una certezza. Intorno a me, oltre ad alcune famiglie, v’è il nulla. Sono immerso nella pace. Mi ci sono abituato, ormai non ci faccio neanche caso. Questo fino al calar della notte, quando la valle è ovunque invasa dall'abbaiare dei cani. Una quantità impressionante, vanno avanti tutta la notte. Alle volte sento dei fucili e i cani zittirsi un momento per poi riprendere poco dopo ancora più forte. Sono gli agricoltori che sperano ancora di dormire. Vorrebbero sparargli ma non possono vederli così provano a spaventarli. Divisi in gruppi, si scambiano ululati da una parte all'altra della zona. Come fantasmi, verso le tre di notte li scorgo uscire dalla nebbia, bianchi, enormi, terrorizzati, scarni e magrissimi, pronti a captare qualsiasi pericolo. Una volta avvistatomi fuggono via per poi aspettare pazienti il momento che mi allontani per tornare a rovistare. Hanno occhi del colore della luna e non capisco come facciano a essere vivi, talmente denutriti che dovrebbero sgretolarsi. Bande di cinque o sei. Dicono aumentino di numero. Stanno diventando una razza nuova, diversi dai cani, si stanno evolvendo in un’inedita forma di lupo adatta a vivere in un contesto antropizzato. Una specie infestante.
Dietro una foto c'è un grande desiderio di accettazione. Una ragazza non vuole apparire bella, vuole sembrare un'altra. Scatto, un momento di sincerità, a lei la foto non piace. Ha conosciuto e percepisce la bellezza apprendendola da esempi altrui e non osservando se stessa. Un concetto soggettivo forzato ad essere oggettivo. Si è belle in un solo modo. Realizzo book fotografici per modeste giovani di provincia. Aperto un annuncio su internet. Allestito un set nel soggiorno. Di solito si paga per ingaggiare una modella, in questo caso sono io a ricevere un compenso. Ognuna di loro desidera sembrare una fashion blogger con migliaia di fan, nonostante abbia un cervello, nonostante conosca un mestiere vero, vuole che il mondo si accorga di lei per l'estetica. Un po’ di luce, un set di natura morta, un vestitino leggero mosso dal ventilatore, un attimo di menzogna. Mi pagano per quello. E io fotografo. A volte conservo foto scartate, con la luce troppo bassa o troppo alta, dove il soggetto non sorride o sorride
troppo, oppure è troppo al centro o di lato. A volte provo a ritrarre me stesso e non riesco a farne una che mi piaccia. Non riesco a non sembrare quello che sono. Proiezioni, alterazioni, mi muovo, mi dimeno, tra file del pc, programmi di post produzione, foto, flash, obiettivi, aste, stampe, notebook, su e giù tra la scrivania e il set, tra regolazioni di sensibilità, di esposizione, di modelle. Quantità di luce, quantità di ombre, quantità di bianco, di nero che danno o tolgono vita ai colori. Tra punti di vista, angolazioni, prospettive, dettagli. Mi sento un obiettivo. Una coordinata tra milioni in grado di ingannare la realtà. Un momento è tutto ciò di cui ho bisogno. Ho la fila davanti l'ingresso. Si aggiustano l'acconciatura, il trucco, il reggiseno. Cercano di avere più qualcosa o meno qualcosa. Sto guadagnando meglio di quanto sperassi. Alcune arrivano anche da molto lontano, nonostante il disastro e le strade bloccate. Oltre questo gestisco anche un canale radio su un sito di video streaming. Musica elettronica di nicchia, un genere qualunque, per quanto pessimo gli ascoltatori non mancheranno mai. Su internet continuano a nascere generi nuovi, tipi di suoni che esistono solo sulla rete. Niente riviste specializzate, niente star o eventi musicali. Uno può anche diventare famoso, ma solo in senso figurato. Di colui che ha fornito il contributo artistico dopo un po' non rimane traccia. Brani rimaneggiati, modificati e riproposti all'infinito senza attribuzione. Un regalo anonimo e privo di codice a barre. Una proprietà del mondo, ricalcata e ricalcata ancora, impressa senza firma su un muro pubblico aperto a tutti con decine di altre opere accavallate e sovrapposte, un gigantesco, enorme affresco realizzato da nessuno. L'opera di un genere, l'opera di una specie.
Questa mattina me ne sto seduto in una piccola caffetteria sulla strada principale. Non essendo una zona di aggio non si vede mai gente nuova. Da tempo non mi incuriosisco, non mi interesso a nulla. Fuggo giornali, ho spento internet. I clienti parlano ormai di una sola cosa. Torneremo presto alla normalità, l'esercito se ne sta occupando, gli uomini ombra saranno già stati tutti catturati, è solo un evento circoscritto. Io provo a ignorarli e questo provoca l’effetto opposto. Provare ad arginare qualcosa significa rilegargli automaticamente importanza, in ultima analisi non faccio che pensarci. Non mi piace. Mi sento come costretto in discorsi sul super ball durante il super ball o sul nuovo presidente nel momento in cui viene nominato. L'impressione di quando leggo riviste a caso dal parrucchiere , guardo un acquario nella sala d’attesa di un dentista, un quadro d'arte moderna nello studio di uno psicologo, una libreria mai consultata dietro la scrivania di un avvocato. Obbligato in un fatto di moda. Seguendo una tendenza.
Quante cose minacciano l’esistenza di ognuno ma non se ne parla. Come gli incidenti stradali. Si tratta di conviverci, cada evento di cronaca a un certo punto smette di fare notizia. Come l'hiv. Ci si abitua a tutto. Non arginare un problema finché cessa di avere importanza. Basta aspettare. La noia, la banalità vince su tutto.
Conosco il proprietario di un autodemolitore. Il tipo ultimamente dice di avere un sacco di lavoro. Un’auto ci mette poco a diventare un peso. Demolirne una costa dai cinquecento dollari in su. Inoltre si arrangia anche come robivecchi. La sua rimessa sembra un set post apocalittico. Oggetti di qualunque tipo riadattati per svolgere un’altra funzione. Modificati per un compito diverso. Per esempio ogni volta che mi siedo, prima controllo se sia una vera poltrona o una vera panchina. Lo importuno spesso per avere chiarimenti, lui se ne compiace. “Vuol dire che funziona”. “Non lo trovi? Allora l’ho costruito bene”. Il lampione al centro della rimessa è il fanale di un vecchio scooter issato a sua volta su un palo, il distributore automatico è un frigo, la scrivania del suo ufficio è l'impianto elettrico, una porta nasconde un armadio a muro, l'interruttore della luce accende lo stereo, lo stereo attiva il sistema d'allarme, il monitor di un computer al suo interno contiene un telefono, il telefono quello a vista è un porta matite, il case del pc è una cassetta degli attrezzi, il baule di un'auto diventa un divano, la pattumiera fuori dall'ufficio si trasforma in una poltrona, la poltrona vera purtroppo è la cuccia del cane, le tendine di una finestra coprono un riquadro per appendere le chiavi, il vaso di una pianta è una macchina del caffè, una penna un apribottiglie. La ciotola del cane, l'appendiabiti, qualsiasi sedia, la stampante, la ventola appesa al soffitto attiva o nasconde qualcos'altro. o ore del giorno a provare, poi mi arrendo e mi accomodo per terra a guardare il tizio distruggere auto. I sogni della vita di qualcuno, simboli di una persona realizzata, luoghi dove molti erano stati concepiti, demoliti, ancora e ancora. Viste in quel modo, uno sopra l’altra, tutte quelle ex ambizioni non sembrano poi tanto ricche di significato. Manovra la pala con l'indifferenza di chi lo fa da tutta la vita. E’ qui che vanno a finire le cose dopo averle buttate.
Questo tizio possiede nozioni interessanti. Si intende parimenti di arte. “Nei primi del novecento le avanguardie russe teorizzarono una società che comunicasse in continuazione e trasmettesse ininterrottamente lo spirito della
rivoluzione bolscevita, ma alla fine il progetto sembrò troppo utopico e venne abbandonato. Ironia della sorte furono le società capitaliste a metterlo in pratica”. Smonta un lampadario di ottone e dice "ogni forma d'arte a un certo punto viene definita strumento di comunicazione; un’espressione ormai usata in qualunque contesto". Con le mani costantemente sporche di grasso per motori continua "la gente non vuole altro che informare, trasmetto quindi esisto". Gli o un cacciavite e lui fa "all'orizzonte ci sono solo messaggi, i quadri ricoprono facciate di palazzi interi, vicino a noi si sentono sempre parole, ogni luce illumina una scritta, un'insegna, qualsiasi cosa ha almeno due funzioni, la seconda è puntualmente comunicare, ami il piede di porco". Lo afferro stretto per non farmelo scivolare, tanto è unto di nero, come del resto tutto qui dentro. "Quando si parla troppo di qualcosa si finisce per perdere il senso della realtà, i punti di vista si accavallano e non ci si ricorda di cosa si stava trattando". Gli allungo una chiave inglese. “Non questa, ami la numero nove; l'obiettivo del nostro tempo è trasmettere, se uno di noi possedesse il significato storico del presente erebbe inosservato in mezzo alla massa di stronzate che trasmettiamo in continuazione; dev'essere una conseguenza dell'alfabetizzazione di massa, si è puntato sulla quantità".
Il suo nome è Malthus Diamond. Possedeva una ditta di autospurgo prima di uno sfasciacarrozze. Guidava un camion cisterna con cui risucchiava merda giù in città. Sulla cisterna era stampata la scritta Diamond. Per Malthus il nome dato alle cose determina ciò che sono. Un autospurgo che si fosse chiamato in un modo più consono non avrebbe attirato nessun cliente, dice. Dice che agli albori della storia, una forma di potere basata sull'appropriazione di schiavi come forza lavoro che si fosse chiamata allevamento intensivo di sapiens non sarebbe riuscita ad imporsi. Così la si era chiamata civiltà. Malthus ne sa un sacco anche di evoluzionismo. Mi ha insegnato che dormire su un'amaca aumenta la qualità del riposo, per via del senso di equilibrio. Ciò a causa di un antenato in comune con le scimmie. La sensazione di precipitare nel vuoto mentre sogniamo serviva a non precipitare dal ramo quando ci sbilanciavamo nel sonno. La paura del buio è la paura dei predatori notturni. Il senso di torpore davanti al fuoco, l'apprensione che percepiamo con un odore nuovo, il modo in cui il cervello lavora meglio quando siamo a digiuno, l’urlo di una donna difronte a un pericolo, la rabbia che proviamo se qualcuno ci toglie il cibo dalle mani, l'osso sacro, ognuna un’eredità di quando l’uomo era più una cosa che una persona. A volte faccio un giro per i campi a scattare foto ai ruderi e alle case abbandonate.
Mezze crollate eppure nessuno si prende la briga di toglierle di mezzo. Si potrebbe rimetterle a nuovo, usarle per affittare camere, oppure abbatterle per massimizzare la superficie coltivabile. Invece restano lì, decenni. Dentro trovo siringhe e bottiglie vuote, oppure la selva spontanea impadronitasi di tutto fino a intaccare le fondamenta. In questi casi, tra le erbacce allungatesi fin dentro la struttura ogni tanto si fa spazio un ramoscello, proprio lì sotto al buco del soffitto da dove penetra un po' di luce e di acqua. Immagino come poco a poco le radici cresceranno e man mano che il tetto crollerà l'arbusto si rafforzerà e le rampicanti saliranno sempre di più, fino a divellere le colonne e le travi, fino a ricoprire tutto. Allora le gambe di quello che ormai sarà un albero si espanderanno, intaccheranno le strutture portanti e abbatteranno uno alla volta i muri. Probabilmente una pianta del genere fuori da tale ecosistema non ce l’avrebbe fatta, ma lì, al buio, al riparo dalle intemperie non conosce competizione. Ciò che sembrava un ostacolo al suo sviluppo diventa una difesa dagli agenti atmosferici e dagli animali da pascolo. Crescerà più forte e più alto del fogliame nel terreno antistante. La casa abbandonata a quel punto non sarà più necessaria, i rami sfonderanno le finestre, la chioma supererà il tetto e le radici usciranno fuori dal perimetro, finche tutta la struttura crollerà e si ridurrà a un cumulo di macerie, ad eccezione di una grande, gigantesca quercia che si innalzerà al di sopra, maestosa, grande e forte rispetto ai tronchi intorno, tanto che la vedranno da lontano, tanto che gli daranno un nome, il noce del rudere dei Jonson, il faggio del vecchio fienile dei Routers, il salice del granaio dei Dowson. Prenderà il nome dalle rovine in cui si è generata. All'ombra di quei giganti nient'altro potrà germogliare. Non ci sarà concorrenza per le risorse.
Nel tempo libero malthus va in giro a rovistare nelle pattumiere dietro le rimesse dei negozi. Cerca soprattutto ricevute fiscali, scontrini di avvenuto pagamento con carta di credito. Dice che è incredibile la quantità di cibo ancora buono che trova mentre cerca. Una normale attività come un bowling o una pista di pattinaggio può produrre dal dieci al venti percento di rifiuti alimentari al giorno. In occasioni speciali, tipo le feste di compleanno o i tornei arriva anche al cinquanta. Dice che più di una volta si è imbattuto in interi buffet intatti, come mai arrivati in tavola. Ore e ore di lavoro che giacevano lì, tra l'immondizia. Comunque non è quello ciò che gli interessa, malthus vuole le fatture. I preziosi dati contenuti al loro interno, li usa per acquistare merce su internet a nome di altri. Conoscendo approssimativamente la gente del posto è facile per lui ottenere il resto delle informazioni non contenute negli scontrini. Una volta
effettuati gli acquisti, rivende la merce a sua volta. Per riscuotere usa una carta prepagata sotto un falso intestatario, sostituita di volta in volta. Non lo fa perche gli servono soldi. E’ per coltivare una specie di strano hobby. Paga delle mazzette ai gestori della nettezza per fargli dimenticare di are da determinati clienti. Non so esattamente perche, ma ci sono angoli dietro alcuni fast food che puzzano molto più del solito. Certe volte ci sporgiamo da un’arteria un po' fuori mano e avvertiamo l’odore inconfondibile. Le fa crescere gradualmente. Madri che si lamentano davanti le scuole. Mosche in ogni dove. Persone con batuffoli di cotone nelle narici. Gabbiani che rovistano tra le buste accumulate. Gente incazzata mentre parla al telefono con voce mal contenuta. La sentiamo chiedere cosa significherebbe che a loro non risulta il disguido, cosa vuol dire seicento dollari per un prelievo straordinario. Oltreiamo stormi di gatti, nuvole di insetti, comitati di quartiere che picchettano davanti un ristorante cinese. Le buste vanno aumentando sempre più e di colpo la popolazione comprende l'importanza di un luogo dove mandare le cose quando non servono. Altrimenti si può solo dargli fuoco. Caricano la roba su dei furgoni e la portano lontano da occhi indiscreti, poi l'abbandonano sui margini di qualche sentiero. Ma i contadini non gradiscono e bruciano quelle montagne di sacchi di plastica scura, scarti di materiale edile e vecchi elettrodomestici. Le terre antistanti il piccolo mucchio di case circondate da fasce verticali di esalazioni tossiche, in genere verso il tramonto quando è più difficile notarle. Malthus ammette che è divertente. Dice che ha dovuto darci un taglio perche attirava troppa attenzione e rischiava di essere beccato.
Dove abito c'è un sacco di roba da sistemare, da migliorare, sostituire o cambiare. Quella casa sarebbe meglio abbatterla e ricostruirla da capo. Certe cose è meglio lasciare che crollino piuttosto che cercare di rimediare. E’ così piena di difetti, così tante cose che non vanno. Sostituisco una lampadina, monto un vetro nuovo e sembra molto meglio, ma dura poco. Il tempo di accorgermi che è la finestra intera a dover essere cambiata invece che solo il vetro. Il tempo di farmi due conti e capire che non ce la farei mai. Che è il caso di allontanarmi il più possibile e cercare un altro posto fingendo di non aver lasciato niente di incompleto dietro di me. Fingendo di non averci neanche provato. Di non esserci neanche stato. Fine della storia. Guardandola capisco come l’umanità si complichi la vita inutilmente. Quando una cosa è semplice è anche funzionale. Una casa mobile avrebbe molto spazio intorno e meno oggetti da rompere. Una roulotte potrebbe trasferirsi altrove quando vuole. Una tenda non avrebbe
nemmeno il problema del posto auto. o gran parte del mio tempo in un ambiente che non sfrutterò mai tutto e che richiede cure e attenzioni. E questo per un fatto di approvazione. Di essere come i miei vicini.
Il campo per rifugiati è stato smontato. Ora il piccolo centro si è affollato. Nei bar i forestieri non sono sotto lo sguardo di tutti. In tanti sperano di poter tornare in città, ma gli edifici non sono agibili. Per i più non è un problema, gli basta scegliersi una nuova città. Quando si vive in un luogo così grande, uno vale l'altro. Le megalopoli si assomigliano. Gli abitanti si assomigliano. Non sono posti pensati per mettere radici. Ci si sta per motivi di lavoro. Fattasene una ragione ne va bene una qualsiasi. Non è una tragedia cambiare. Fin dall'antichità se un centro urbano, un nodo, un insediamento o una roccaforte veniva saccheggiata o distrutta, ce n'era un altra che ne beneficiava, si ingrandiva e acquistava importanza. Valeva anche per le civiltà. Per una che spariva un'altra faceva il suo ingresso. La fine di qualcosa era l'inizio di un'altra. Da qualche parte degli agenti immobiliari stanno festeggiando. Certo alcuni hanno abbandonato investimenti. Non rivedranno amici, se non occasionalmente. Hanno messo la parola fine a relazioni di anni. Uno crede di scegliere. Secondo la sociologia è più probabile innamorarsi di qualcuno che appartiene alla stessa città, con la stessa età e che guadagna uguale. Per quanto mi riguarda continuo a tirare su quello che posso con le foto. E poi aiuto malthus a spacciare erba. Prima o poi dovrò abbandonare la situazione di stasi tra due mondi. Trasferirmi oppure tornare in città. Ora come ora non mi riesce di fare progetti. Mi ricordo di quando sono capitato a uno di quei festival strampalati o concerti dove alla fine qualcuno non ne ha avuto abbastanza, noi altri dobbiamo tornare a lavoro, alle nostre vite, e quei tizi restano lì, ad aggirarsi tra addetti alla raccolta rifiuti e manovali, come se fosse stato tutto uno scherzo. Mi chiedo sempre dove vadano a finire. Il tornare alla vita di prima mi fa sentire come loro. Forse avevano solo bisogno di smaltire. Io non ho niente da smaltire, la sensazione di essere un estraneo, fuori luogo, permane.
Stasera io e malthus scendiamo lungo un vialetto. Strade che tracciano ghirigori tra abitazioni sparute. Mi spiega come la natura del potere centrale faccia in modo che una volta costituitosi esso costringa i territori intorno a convertirsi a loro volta in forma di stati oppure in una controparte di questi. In un ambiente
senza controllo ci abitano comunità libere, indipendenti da un governo. Stappiamo due birre e costeggiamo lentamente la riva di un laghetto, ci avviciniamo al piccolo molo. Con le gambe che penzolano dal ponte malthus insiste, difronte alla minaccia di un'invasione da parte di un primordiale stato confinate le comunità sono costrette a dare vita a un tipo di dominio in grado di mettere su un esercito per contrastare quello estraneo. Attraverso i piedi tengo lo sguardo sul mio catarro che galleggia sull'acqua e lui ribadisce, tale dominio alla fine si evolve inevitabilmente in un governo. Restiamo in silenzio, facciamo un sorso osservando due o tre barchette in fondo e poi prosegue, qualora i villaggi riescano a conservarsi liberi opponendosi a un'occupazione imminente senza avvalersi di un autorità, tra di esse nascono forme di potere spontanee alimentate col banditismo e il predaggio di risorse sottratte agli stati confinanti. Lancia un sasso sull’acqua, tre salti. Fissa il propagarsi delle onde del moto oscillatorio sulla superficie e poi mormora, in entrambi i casi l’innocenza originaria è per sempre perduta, una volta generatosi il primo, il sistema si propaga come un'infezione nelle zone circostanti, fino a spazzare via ogni popolazione autonoma. Il legno del ponte è pieno di muffa, si è espansa lentamente, ha impregnato il tronco di umidità, lo ha fatto marcire. Ha aperto delle crepe che piano si sono allargate sempre più. Il legno una volta chiaro ormai è tutto nero e verde. Cerco di risalire il percorso della macchia prima che si estendesse a tutta la struttura. Avverto il ponteggio scricchiolare sotto il mio peso. Le assi deformate e distanziate. Vedo i tronchi ovvero i pilastri piegati su un lato, dondolanti. Il molo si muove in avanti e indietro se io mi spingo in avanti e indietro come su un'altalena. E tutto deve essere partito da una piccola macchia. Non sarebbe costato niente toglierla ma poi si è propagata e ora è meglio buttare giù tutto e rifarlo da capo. Ondeggio e le assi scricchiolano e stridono e malthus si regge a un tronco e la gente sulle barchette giù in fondo dimena le braccia con foga e i chiodi arrugginiti saltano via e i tronchi si inclinano di traverso e io cado nell’acqua scura, sprofondo, affondo nell'oscurità, nel panico, dove la luce non arriva e dove tutto è freddo e immobile.
L'istinto di sopravvivenza, similmente a un’ esplosione, esorta a cedere il controllo che ho su me stesso, spinge a fare cose che non scelgo, incita a nuotare verso la superficie nonostante sia sommerso, fomenta a bramare l'aria nonostante mi manchi, forza senza chiedermelo, il mio volere non conta, nonostante un ammasso di assi e tronchi di legno mi tirino giù, a vederlo non sembrava profondo, non lo sembra mai, in quel frangente in cui osservo il corpo, il
cervello cerca, dove pensava di non dover cercare, dov’è scritto emergenza, corre e corre e finalmente lo apre e dentro c'è il pulsante premere per riavviare il sistema, come un impulso, come se si ricongiungesse il trattino dell'elica di dna reciso tanto tempo fa, come se la persona che sono diventasse una palla al piede. Osservo il mio corpo disimpegnarsi dalle assi e dai tronchi, propagarsi, risalire in superficie, a respirare l'aria.
Erano settimane che non salivo su un auto. Non ricordavo com'era guardare un televisore . Ho avuto intorno sempre lo stesso orizzonte. Ogni momento scandito da un’attesa. Svegliarmi. Aspettare le nove. Poi aspettare il pranzo. Tutti i giorni. Non lamentavo apprensione. Lì, tra hinterland di una metropoli decaduta non c’erano traguardi da raggiungere. Il mio repertorio di vocaboli si è assottigliato. Situazione, condizione, parole con desinenza azione, termini che sento in tv ma che non so più cosa significhino. Espressioni che designano un oggetto che si muove senza arrivare. Un perenne stato di moto. Per ogni cosa esisteva solo un posto. Una singola ferramenta, un singolo rivenditore di tabacchi, un unico bar. Le persone che incontravo non le sceglievo, erano le stesse per tutti. Nessuno era speciale, niente era di nicchia. Ora invece consegno volantini per le strade di una grande città, una qualunque, una delle tante. Con un nome uguale. Strade uguali. Foglietti pubblicitari. Quartieri tra loro uguali. Io stesso uguale. Dopo il lavoro giochiamo ai videogiochi. Beviamo vino, fumiamo hashish, mangiamo pachistano d'asporto. Usciamo mezzi ubriachi, andiamo nel primo locale, farnetichiamo discorsi, gli stessi. Ogni tanto andiamo a ballare. Ogni volta un momento unico. Ogni settimana. Mode che guardiamo nascere e morire, le medesime. La disapprovazione nei confronti di adolescenti con treccine e calzini alti. Malthus dice che da ragazzini le cose importanti erano lo sport e chi volevamo diventare. Con l'adolescenza diventavano la notorietà, i vestiti e le persone che frequentavamo. Una volta capito che le fiche andavano dietro a chi faceva strada, quelle cose erano sostituite dagli studi universitari, il lavoro e in quale città avremmo vissuto. Malthus è venuto in città con me. Dice che a distanza di anni, ci rendiamo conto che è il sentirci realizzati la cosa importante. Un domani sarà lo stare bene con nostra moglie e i nostri figli. Lascia un volantino a un ante. Gli dice “possiamo riassumere ogni fase come uno sbaglio nella scelta delle priorità. Il giorno in cui capiremo davvero cosa vogliamo non arriverà mai”.
Sono uomo che cammina nel deserto. Movimento nella staticità. Intorno non un’anima viva. Una città morta. Non cade una foglia. Non un suono o un rumore. Mi dirigo verso la stazione centrale. Scendo lungo le scale. Qui all’opposto ogni cosa si agita. Fuochi e torce illuminano macchie nere e bianche dentro e fuori dai vagoni. Presto riallacceranno la corrente. Non essendo più un individuo ma una di queste macchie, mi confondo tra loro e senza accorgermene sto già trasportando qualcosa, accelero e decelero, dentro e fuori la stazione, i vagoni, i binari bui, alla luce di fiamme che si consumano in fretta tanto quanto vengono sostituite, iamo tutta la vita in un posto, poi si fulmina un lampione ed è come se non ci fossimo mai stati.
In questa capitale siamo nuovi. Non conosciamo nulla. Abbiamo accettato il primo lavoro, quello dei volantini. Ha il lato positivo di farci conoscere l’urbe. Ci snodiamo tra quartieri con fare annoiato, scrutiamo volti, un viso un volantino. Per la maggiore li prendono e tre metri più in là li buttano. Carta sprecata. E’ un fatto di solidarietà. La società ha bisogno di comunicare ma a lungo andare, secondo malthus, non rimarrà sufficiente attenzione a permettere la ricezione di un messaggio. Le generazioni future si prenderanno gioco di noi per il modo stupido con cui tentiamo invano di elemosinare interesse. Si guarderanno bene dal proferire su qualcosa se non sarà necessario. Scatteranno foto senza colori e senza soggetto e le loro canzoni saranno senza parole e suonate con pochi strumenti. I film cyberpunk dove auto volanti sfrecciano attraverso ologrammi pubblicitari giganteschi probabilmente non ci hanno preso per niente. Qui le circostanze non sembrano cambiate. Mi sveglio meditando su cosa dovrei ma non sto facendo. Mi chiedo perche nei film o nei romanzi non venga mai specificata la stagione, il mese, se fa caldo o fa freddo. Non pronunciano il nome della località in cui si svolgono i fatti. Chi è il presidente in carica. Se c'è perche non ha un nome reale. Le musiche delle radio sono sempre sconosciute. Non vedo mai qualcuno farsi un selfie, il nome di una marca famosa, un automobile ultimo modello invece che di cinque anni fa, gli attori sovrapporsi agli altri quando parlano, uno che inciampa o che schiaccia la merda, un protagonista che muore e lascia che gli attori secondari finiscano la storia. Temo che la mia vita prosegua normalmente. Vedere una metropoli spegnersi da un giorno all'altro dà una reminiscenza di libertà che non si dimentica. Ci si accorge di quanto sia fuggevole la totalità della sua forza ed energia. L’umanità ha smesso da tempo di costruire monumenti in pietra. I palazzi sono delicati e fatti di vetro. Persino una megalopoli in fine non è che un
mucchio di case. Codesta grandezza attrattiva, il centro dove nascono le cose, non sono reali. Dopo aver visto caderne una, non ci si lascia più ingannare. Trascorriamo la vita a costruire certi agglomerati ma basta un niente per cancellarli. Non possono nulla su di noi. La loro esistenza è fragile. Giganti dai piedi d'argilla. L’inconsistenza con cui ci impegniamo a rivestirli di importanza con un insensato dispendio di vigore ormai appare chiara.
Io e malthus di quando in quando andiamo a teatro. Puntualmente il pienone. Speriamo di incappare in qualcuno di famoso, ma non capita mai. Anche se le prevendite vanno velocemente a ruba, di attori quelli che firmano autografi, lì non se ne vedono. Il cinema in versione artigianale. Molti dei presenti frequentano gli spettacoli tanto per vantarsene. Per fare mostra di uno spessore culturale sufficiente a permettergli di apprezzare uno spettacolo dal vivo privo di sensazionalità. Gli attori invece appartengono a un ceppo che non è riuscito a sfondare nel cinema. Il cast intero, regista e tecnici, per loro è lo stesso. Mettono su uno spettacolo e questo va in scena in serie. Sempre il medesimo copione, ancora, ancora e ancora. Di città in città, per gli interpreti diventa una sala macchine. Altro che artigianale. Il pubblico critica, giudica e valuta. Ammirazione e rispetto per l'attore centrale. Li sentiamo dire dovrebbero costruire più teatri. Dovrebbero essere gratuiti e aperti a tutti. Si tratta di cultura, di arte. Ma non lo desiderano davvero, è un gioco che gli serve per acquisire rispettabilità sociale.
Notte. C'è un treno che corre a mo’ di terminator. Terminator è il nome della striscia di orizzonte che separa il giorno dalla notte. E' detta anche linea grigia o zona crepuscolare. C'è un treno che divide il giorno dalla notte traforando l'oscurità di una rotta ferroviaria abbandonata e chissà come rimessa in funzione. Una corsa che trivella il crepuscolo, che trivella il vento, trivella il vento con l'ombra per infiltrarsi in una luce prossima allo spegnimento. Una luce lontana, mal funzionante, intermittente. Siffatto riverbero è quello della prossima stazione. Normalmente i binari sarebbero occupati da altri convogli ma questa vecchia linea è dimenticata da anni. Il treno a, perfora, trafigge la direttrice luccicante che separa il silenzioso terminal dal resto dell'oscurità. Procede, non rallenta, una retta grigia che taglia il globo in due parti. Avanza, senza decelerare, fuggendo da ogni tentativo di classificazione e tassonomia. Essere
aggeggio in stato di moto tra gradazioni di bagliore. Impossibile stabilire l’appartenenza alla notte o al giorno. Se da una parte o dall’altra del terminator. Lampioni accolgono e abbandonano la diligenza. La avvolgono e la lasciano andare. Oscurità, treno, binario, unico, sempre lo stesso.
Bighelloniamo sui marciapiedi, traghettiamo su strisce pedonali, seguiamo il senso di marcia tendenziale, almeno sulle banchine più affollate, spontaneamente lì la moltitudine si divide in due flussi direzionali a destra e a sinistra. Io, unitomi al fluire, mi domando se le autostrade funzionassero allo stesso modo anche senza regole. Seguo il mio amico fissando schiene e nuche. Mi capita spesso di soffermarmi sul lato dorsale delle persone interrogandomi se non sia qualcuno di mia conoscenza. Non lo è mai. Ammirati da un certa prospettiva dobbiamo sembrare identici. Noto dei droni, malthus dice che controllano la nostra temperatura. Dopo che una delle città è stata praticamente distrutta quegli esseri sono scomparsi. Entriamo nei negozi di cibo a leggere etichette. Nomi che vanno interpretati, parole che sono qualcos'altro, occorre una laurea in chimica per capire cosa. Serie di sostanze, talmente lavorate da essere lungi da ciò che sembrano, da ciò che erano in partenza, da ciò che sarebbero dovute essere. Se affondassi i denti su uno di quei pesci dei laghetti dei parchi pubblici mentre ancora si dimena mi rivolterebbe, ma mangerei quello che vedo. Esamino vetrine di librerie. Manuali per imparare a costruire, ad imbiancare. Iniziano tutti con la parola come. Come imparare a scrivere. Trasformano qualunque cosa in teoria. La società è andata avanti per secoli senza saper leggere. Gente illetterata ha costruito cattedrali. Una volta racchiusa tra regole e schemi, la conoscenza smette di seguire il proprio corso naturale, fino a quando nessuno è più in grado di attribuirgli un significato. Proseguo lungo le vie di questa nuova località. Certi giorni effettuiamo entourage senza mete sui mezzi pubblici. Visitiamo posti abbandonati, vecchi stadi in disuso, archeologia industriale, e allora scendiamo, esploriamo, tra l'erba alta, le macerie, i vetri rotti. Non ci viene in mente altro da fare. Apprendiamo mille cose nuove.
Le stazioni capolinea delle linee degli autobus sono piene di vecchi mezzi parcheggiati per sempre. Quelle ferroviarie sono ricche di vagoni dimenticati lontani da occhi indiscreti. Restano sempre aperti, e con gli interni in buone condizioni. Vanno bene in caso di bisogno se uno non sa dove are la notte.
Le strade di collegamento tra le grandi arterie principali, distanti dalla vista, presentano grate di ferro sotto cui condutture del sistema di riscaldamento condominiali gettano fuori aria calda tutto il tempo. Malthus dice che basterebbe buttarci sopra qualche cartone per garantirsi un riparo dal freddo. Molti garage, seminterrati, magazzini sotterranei, rimesse, quelle un po' malandate, sono eternamente vuote al punto che secondo lui i proprietari si sono dimenticati di averle. Le serrature sono facili da forzare, e una volta entrati uno potrebbe restare finche vuole, tanto nessuno se ne accorgerebbe. Non appena ci addentriamo nei suburbi residenziali scopriamo un gran numero di abitazioni invendute che per il mio amico potrebbero essere occupate anche fino a dieci anni prima di farsi beccare. Esploriamo edifici di proprietà dello stato, vecchi uffici, scuole abbandonate e di libero accesso, piene di materiale in buone condizioni. Piani su piani di spazio incontaminato. Potrei lavorare tutta la vita e non riuscire a permettermi una residenza ugualmente grande. Nei giorni in cui ce ne andiamo a zonzo in qualche zona industriale non tarda molto prima di imbatterci in certi stabilimenti chiusi da anni. Aggiriamo la struttura e puntualmente troviamo un ingresso. Fabbriche ancora integre, finestre senza crepe e porte che non scricchiolano. Rimaste sigillate, sussistono prive di polvere o piccoli animali, con gli arredi ancora imballati. Nei cantieri desueti se qualcuno volesse, con materiale di fortuna potrebbe creare spazi privati senza troppa difficoltà. Di solito rimangono solo colonne e strutture portanti, i muri non sono stati realizzarti. Dagli ex stabilimenti del secolo scorso ci teniamo alla larga perche si mantengono in piedi per miracolo. Nei grattacieli più importanti, negli alberghi, nelle sedi di marchi famosi abbiamo scoperto intere alee non adibite, che di fatto non verranno mai sfruttate. Un vero tesoro, riscaldate, dotate di acqua corrente, con servizi igenici già installati. Li chiamiamo piani fantasma. Sappiamo che la down town ne è zeppa.
Malthus sostiene che quanto oggi sia banale, superfluo, fra vent'anni diventerà cult. Le cose di cui abbiamo le palle piene, fra non molto verranno ricordate con nostalgia. Me lo dice mentre leggiucchiamo i titoli dei film in un videonoleggio. Dice negli anni ottanta consideravano sciocchezze le modernità del loro tempo come noi lo pensiamo dei social network e roba varia. Dice che però ora le stesse persone parlano con rimpianto delle cabine telefoniche e dei look ridicoli, preziosi ricordi sbiaditi dal tempo. Ciò che odiamo diventerà l'orgoglio dei nostri giorni. In questo quartiere è pieno di luoghi simili, sanno di malinconia, abbigliamento vintage, vinili e musicassette, vecchi videogiochi, fotocamere usa
e getta, roba da buttare che adesso ci piace. Finito il tour scegliamo un posto dove mangiare qualcosa. Mezzogiorno. Gente andando ad occuparsi di o tornando dai propri affari. Spazi che racchiudono concetti. Un posto per pranzare. Un posto per comprare. Un posto per socializzare. Un posto per produrre. Vorrei che gli spazi non racchiudessero niente. L'ora di punta. I minuti più movimentati, tutto si ferma paradossalmente. Sole sull'asfalto. Calore riflesso sulle lamiere d’auto. E’ in certi momenti, quando la moltitudine è costretta a stagnare, che ci contempliamo per come siamo davvero. Esseri bloccati tra due spazi. Gli altri. Io contemplo il mio hot dog e l'aria condizionata del fast food. Con la coda dell’occhio percepisco movimento, senza osservare il particolare, bensì l’insieme, non focalizzandomi su un punto. Un andirivieni in aumento, dei colori mescolati con intensità crescente. Salgono sul tettuccio, urlano. Un tumulto privo di dettagli. Niente è veramente importante. Solo materia in circolazione. Schegge e rumori. Una miscela che tende al grigio. Si riversa nel negozio, poi fuori. Accompagnata da una frequenza, come una specie di ronzio o di stridio. Tutto è sfumato, incomprensibile.
Mi strattonano il braccio, strada vuota, vuoto anche il negozio, pallini neri a terra, malthus in piedi sullo schienale. Topi, topi sulle mie mani, sulla sedia, mi circondano, centinaia, dappertutto, sul tavolo su cui mi arrampico, sul tavolo dove si arrampica malthus. Lui scaraventa una sedia contro la vetrina, lo vedo uscire e mandare in frantumi anche la mia da fuori, mi lascio andare, precipito sul marciapiede, mi dimeno dai roditori e monto sul cofano di un pick up. Il paesaggio è come un consistente velo di pallini bruni. Qualcosa è andato storto. Conosco la sensazione. Il mio compagno mi fa segno, lo seguo mentre salta goffamente da un tettuccio a un altro sulle auto abbandonate, similmente a quando da bambini giocavamo a immaginare un pavimento di lava. Tutto è morto. I semafori ancora in funzione ricoperti da pallottole scure. I negozi. Gli interni delle macchine. Piccole sfere nere dappertutto. Nei distributori dei quotidiani. Sui chioschi dei venditori di hamburger. La gente osserva da alte finestre per poi cominciare a scappare. Salgono verso i tetti spostandosi da un edifico all'altro. Vado dietro malthus senza un’idea di dove dirigerci. Ci muoviamo piano. Sento elicotteri, di nuovo. So che dovremmo allontanarci, sta per succedere. Un autobus parcheggiato. Glielo indico. iamo lentamente posando i piedi negli spazi vuoti tra i ratti. Da quassù posso scrutare lontano, tasto il silenzio lasciato dal caos di poc’anzi. Ci caliamo dentro dall’oblò. Ci apprestiamo a trascorrere qui il resto del giorno.
Sono sul vagone di un treno merci. Container al posto di carrozze normali. Mi ci reggo sopra con una corda legata attorno alla cabina. Non so quanto tempo è ato, nel buio non posso vedere niente, non so dove mi trovo né dove sono diretto. Mentre il paesaggio scorre tutto intorno a me, considero quanto non sia rimasto nulla in noi di ciò che eravamo. Avevamo un nome, un lavoro. Ora rassomigliamo uno sciame di locuste. Giunti da qualche parte, divoriamo tutto e proseguiamo. Nessuna mente centrale, nessuna trama nella tessitura. Superiamo ogni stazione a gran velocità senza fermarci. Non si sono accorti di niente, è una linea fuori uso. Potremmo viaggiare dentro i vagoni invece che sopra, ma qui non si fanno domande. Nei tratti di oscurità, osservo costellazioni, profili di orizzonti sconosciuti e misteriosi. Mai uguali. Odo i rumori del mondo, uccelli rapaci, volpi e altri strani versi. Mi sento un puntino in un grande ecosistema di cui non conosco la funzione. Un’altra stazione, questa volta soldati. Un drone punta su di noi. Viene da quel mondo ostile fatto di luci e privo di profumi.
L’uomo ignora i propri desideri nei confronti di un partner per via di banali convenzioni sociali. Non s’interroga sul sentirsi attratto, non intendo fisicamente, voglio dire dalla persona, dal suo carattere. Punta solo a portarsi a letto il numero maggiore di ragazze, facendo il contrario gli altri maschi lo considererebbero un coglione. Viene giudicato superficiale, ingannevole, ma questo non sempre corrisponde a una mancanza di sincera attrattiva. Una donna invece antepone ai suoi desideri fiducia, stabilità economica, galanteria. La disattesa dei suoi interessi a favore di valori ritenuti prioritari non viene apprezzata, bensì del tutto fraintesa. Lui la considera opportunista e materialista. Da entrambi i lati c’è una falla di sincerità. Lo presume il tassista mentre io sfoglio profili di ragazze su un’app di incontri. Mi piace, non mi piace. Scendo davanti un negozio di scarpe. Provo il quarantaquattro di una sneaker bianca. Mi piace. I colori che la gente sceglie non sono casuali. Il bianco indica il collocarsi in una fascia a reddito media, il grigio denota il sentirsi sicuri di sé, il nero esprime il voler are inosservati, i colori vivaci l'essere aperti alla diversità. A dar retta a una teoria, la moda è solo un tentativo delle élite sociali di prendere le distanze dal resto della plebe. Cerco di stare al o, guardo video sui quartieri glamour della city. Ci vuole poco a far diventare una cosa brutta, qualcosa di brutto e costoso. I quartieri lgbtq, gli ecofiendly, gli universitari, i multietnici, i pieni di gente col cane, quelli artistici. Ex ghetti, ex nugoli di immigrati ora
super costosi.
Abbiamo un faro addosso. Attraversiamo campi, foreste, laghi, fiumi, ponti, gallerie, città, paesi, file di fuoristrada verde militare, strade bloccate, a un certo punto vorrei solo che qualcuno spegnesse le luci. Mi domando chi sia il macchinista. Colui che sa dove siamo diretti. Potrebbe non esserci nessuno là davanti. Gli aerei puntano su di me, sul treno, sui binari, sulla sala macchine. Vento a fior di pelle. Velocità. Mi reggo forte. Fumo. Entra nei polmoni. Maschere anti gas. Posta nella mano. La indosso sul volto. Respiro. Proiettili su di noi. Tunnel. Cercano di mandare fuori uso la sala macchine. Non vedo. Mi calano giù la testa. Succede qualcosa. Un cavo metallico radente sopra di noi. L’elicottero si perde lontano. Lunghi pali di fianco ai binari. Reggono una rete metallica o qualcosa di simile. Celati agli elicotteri dal fumo. Procediamo, una notte stellata, mani strette sulle funi.
Malthus dice che se prova a pensare a qualcosa che vorrebbe davvero fare nella vita, non gli viene in mente niente. Qualcosa cui si dedicherebbe volentieri. Odia ogni lavoro che inizia. Il non far niente alla lunga lo stanca e lo deprime. Secondo lui quanto l'uomo ha imparato è stato da sempre funzionale alla sua sopravvivenza. Qualsiasi obiettivo o progetto apparteneva a una strategia di sussistenza, un tentativo di mantenersi in vita il più a lungo possibile. Le persone non sono progettate per scegliersi un mestiere. Siamo dentro l'autobus, lui sigilla le imboccature delle prese d'aria, io le parti intorno ai pedali. Fuori sembra buio anche se la strada è illuminata. C'è come un velo di catrame brillante steso su tutto, copre i colori delle cose. Un manto nero simile a lucido da scarpe. Presto cominceranno coi pesticidi. Ma è ormai tardi. Uomini ombra si calano veloci dai tubi di scolo. Apriamo l'oblo, non controlliamo, non ci voltiamo, corriamo e basta calpestando topi. Stridono, mordono, a noi non importa, davanti, di fianco volano bottiglie di alcool, si frantumano sul pavimento e prendono fuoco tra le fiamme, su un tappeto della tonalità del petrolio. Ma io e malthus ci concentriamo verso un punto fisso all'orizzonte, un’insegna con su scritto terminal stazione. Questo un momento prima che qualcosa mi cada in testa e io veda l'asfalto avvicinarsi.
Dopo l'asfalto, dopo che gli occhi si chiudono la prima cosa che osservo è un mondo. Io sono un apionato di elettronica. Supero metal detector, accerchiato da vetrine lucide, schermi piatti, colori "hd". Cose che non posso permettermi. Potrei diventare ricco, nuovi accessori mi renderanno pur sempre fuori moda, obsoleto, banale. Il miraggio della perfezione a portata di mano senza mai raggiungerla davvero. Scagliare un dardo alla velocità di 150 chilometri al secondo era la perfezione, lo scopo per il quale il nostro corpo era stato concepito. Poi le cose degenerarono. La forza della sedentarietà. La causa divenne costruire, non importava cosa. Intere generazioni, mattoni uno sull'altro, accumulare, inventare, migliorare.
Ci aggiriamo per piani e corridoi deserti. Seduti su grandi poltrone di pelle in plastica imballata, ci atteggiamo a vertici aziendali. Sfogliamo finti curriculum scartando un foglio sì e uno no. Ordiniamo caffè a segretarie inesistenti. Ci scagliamo oggetti contro attraverso i separé trasparenti delle scrivanie. Finché non usciamo dal reparto, magazzino, ala fantasma non si rendono conto della nostra presenza. Dopodiché fuggiamo via prima che chiamino la polizia. Ci siamo, ma non ci siamo davvero. Persi da qualche parte dove le telecamere non arrivano, tra progetti non conclusi e iniziative mai ultimate. Punti non segnati sulla mappa delle vie di fuga. E ce ne stiamo lì insieme a mucchi di eccessi dimenticati, sotto strati di polvere e cellophane, di porte lasciate aperte, a osservare il mondo dalla vetta della piramide senza che nessuno lo sappia. Padroni dello spazio circostante. Ci stendiamo su materassi di fogli per stampanti dietro i vetri a rimirare il traffico della sera di quelli che rientrano o che stanno uscendo. Oltre schegge di porcellana, sanitari infranti, porte sfondate, cartoni della pizza vuoti, sedie d'ufficio e barriere di scrivanie usate per giocare a tirarsi fermacarte, pinzatrici e pacchi di matite ancora chiusi, c'è la città. La osserviamo senza filtri. Ognuno nel proprio quadratino ad uso predefinito. La immaginiamo sfaldarsi e liquefarsi, mentre gli inquilini escono per strada in preda al panico e ano i giorni e le notti, il vento e la pioggia, e poi finalmente iniziano a muoversi in cerca di cibo, costruiscono insoliti aggeggi con materiali di fortuna, ristretti fino alle ossa, diventati agili in un modo strano e per niente atletico, ma frenetico. Fare quello che fanno, essere quello che sono. Dura solo un momento, la realtà fuori dal vetro non viene alterata dalla nostra fantasia.
Mi lascio condurre dalla monorotaia, osservo il creato dall’alto, distante dalle scaramucce della società. Scendo, vado al colloquio. Meriti rispolverati, vendermi al meglio, mostrare più qualcosa rispetto agli altri in attesa. Fine del colloquio, esco, di nuovo monorotaia, levitazione, nugoli di formiche visti dall’alto. Scendere, altro palazzo con targhe di ferro sull'ingresso, altra sala d'attesa. Conclusione, penso se sono stato meglio aspirante centralinista correttore di bozze segretario degli altri. Esco, entro, esco. Salgo sull'apogeo, vengo giù. Cerco annunci, angoli dei semafori, numeri di telefono, indirizzi email. Foto col cellulare, prendo nota. Non mi chiedo se faccia al caso mio, punto sulla quantità. Addetto catering, promoter, graphic designer. L'importante è essere qualcosa. La ricerca si evolve in disperazione. Contemplo commesse distribuire campioni di profumi da donna, mi chiedo se potrei esserci io al loro posto. Fingo di pensare che fossero da uomo. Poi fingo di essere un fumatore, di interessarmi al cartello appeso a un tizio con su scritto promozione, all'apertura di un conto corrente, a un monopattino elettrico, a un gestore telefonico. Potrei esserci io. Mi introduco tra la calca, vorrei avere il fisico di uno e la ragazza di un altro. I vestiti di quello e la fiducia in me stesso di quell’altro. Un gioco che non conosce limiti. Mi chiedo se disponga anch’io di aspetti desiderabili. Una volta la gente aveva ioni vere. Indipendenti da quelle altrui. Le chiamava talenti. Vi associava concetti come energia, elettricità. Dove sono andate. Credo abbia ragione malthus, le persone non possiedono più vocazioni reali. Le loro aspirazioni sono state lasciate dietro. Siamo parte di una grande comunità, essa ricalibra le nostre attitudini, comunica con noi senza conoscerci, dà valore solo al condivisibile, non apparteniamo a noi, apparteniamo a lei.
Siamo fermi in una stazione sorvegliata da militari. La destinazione è stata raggiunta. Le volte che ebbi paura, che credetti fosse finita, invece finì qualcos’altro non io. Oltre al nostro ci sono diversi treni, vagoni scuri. Ho dolore alle mani. Siamo circondati. Ma siamo arrivati. E’ pur sempre un traguardo. L'aria è tesa. Aspettiamo. Fantastico di scendere e uscire fuori a eggiare. In mezzo a gente normale. I container si aprono. E' giunta l'ora. Riempie gli spazi, i vuoti. Inonda interamente la struttura. Un unico essere attratto dagli odori. Si protrae, affluisce, tra le grida, il panico, la paura. Maree di topi scuri ricoprono e invadono il frutto di una faticosa scalata, più di quanti riesco a contarne, inseguono greggi di persone e si infilano in qualsiasi fessura, mandrie che scappano, si allontanano, senza guardare, in preda al terrore, come non avevano mai fatto, come se non ci fosse un domani, perche in effetti non ci sarebbe stato,
corrono all’indirizzo della grande montagna, ovvero l'agglomerato urbano. Io assisto e aspetto. Aspettiamo.
Il mondo da dietro un vetro. Ho aperto gli occhi. Sono in un piano fantasma. Deve avermici portato malthus. Ho del sangue in testa. Ce l'ho sulle mani. Ero convinto di stare dormendo. Mi sembrava di essere nel letto di casa. Invece ero svenuto. Non posso restare qui. Avrei dovuto essere lontano da un pezzo. Aldilà delle finestre il mondo che ho sempre ammirato sembra una fogna, sozzo di topi. Un panorama che dovrebbe risplendere di luce e di specchi. Qualche topo è arrivato anche qui. Non posso usare la strada, neanche col favore della notte. Mi è venuta in mente un'altra opzione. Non è una buona idea. Vado all'ascensore. Premo il tasto più in basso della fila. Ogni piano che scendo sento dei i, i veloci, avanti e indietro dall'altra parte dello sportello. Si accorgeranno di me? Non pensavo fossero qui. E’ una sede dedita all'importazione di materiale di cancelleria, non c'è niente che possa interesrargli. Niente di commestibile. Seguo a scendere, seguitano rumori. Spero non notino la spia dell'ascensore. Sono quasi arrivato. Terzo piano. Secondo. Primo. Ingresso. "Din". Si aprono gli sportelli. Figure scure che mi scrutano tra i topi. Si precipitano su di me. Bottone dell'ascensore. Porta chiudersi. Mani attraverso l'apertura. Non mi afferrano, mi tirano dalla felpa, dalla loro parte, si aggrappano a qualunque indumento. Sono sporco di inchiostro nero. I loro occhi che desiderano la mia morte. Calci. Scarpe contro tutto. Calci dappertutto. Forti contro mani e braccia, ascensore serrarsi e scendere, "din", esco nel buio, le mie quarantaquattro da uomo bianche corrono più veloce dei piedi dietro di me, verso la luce, i neon del parcheggio, mi approprio di una bici posata sulla guardiola, pedalo, verso l'alto, sul tornante, lontano dai i, in fretta, mi dileguo, sbuco sulla strada in mezzo ai topi e alle auto in sosta, o sui marciapiedi, non mi fermo, ho dolore alla milza, saetto tra oggetti affilati che piovono dall’alto, supero tutto, supero la città nel momento in cui finisce, verso le lanterne, i lampeggianti. C'è un posto di blocco.
Le cose non possono restare invariate, cambieranno. Ciò che è importante oggi, non lo sarà anche domani. I punti di vista si modificano, le mentalità si evolvono e i figli fanno l'opposto dei genitori. Ogni classe apporta un contributo diverso alla storia, niente rimane costante. L’interesse slitta da un punto a un altro della narrazione. Alla fine a forza di smontare e decostruire si è perso il punto della
situazione. Mi muovo veloce come vento nella notte. Sposto oggetti. Li faccio rotolare sull'asfalto. Roboanti barili di plastica blu ignifuga. Pieni di qualcosa. Ai miei lati tutto è in fiamme. Siamo in cinque. Gruppi come noi vanno negli stabili, trovano un accesso e ci svuotano i barili. Il nostro edificio si trova in fondo alla strada. Fa caldo. Scarichiamo le botti, le rovesciamo sul pavimento, infiliamo una miccia arrotolata dentro il liquido, trasciniamo il resto del filo dietro di noi, lo incolliamo sull’entrata. Architetture prossime all'accensione. Andiamo a prendere altri fusti. Si trovano in un magazzino non lontano, la sede di una ditta di cancelleria.
Mi fanno segno di continuare a pedalare. Dietro sento sibilare roba di fianco alle orecchie. Urlano di muovermi, muovermi, muovermi. Getto via la bici, mi fiondo tra le auto e i fari, lascio l'oscurità. I poliziotti aprono il fuoco. Mi riparo dietro una volante, vedo gli uomini ombra fare zig zag, avanti e indietro tra la luce e la parte buia. I fari vengono colpiti. Le auto prendono fuoco. Indietreggiamo. Sento qualcuno gridare che è a secco, e poi un altro rispondere anch’io, andiamo, andiamo. Ci ritiriamo. Verso i lampeggianti, altre volanti ci vengono incontro. Qualcosa di affilato ci piove addosso. Mi colpisce.
Vento che soffia nella notte. La fine e l'inizio delle cose. Decostruzione. Buio che fugge dalla luce. Vaghe e sporadiche lampadine al neon. Pedine si muovono in lontananza, personale non civile, addetti a qualche mansione, pupazzetti, tessere di un grandissimo mosaico. Elementi ivi di un sistema che non prevede componenti attivi. Fila tirate, tasti premuti dal grande organismo fungino. Avanti e indietro nel giorno, da un lato all'altro del punto zenit. Sto seduto accanto un barile pieno di liquido infiammabile. Mi sento come in un grosso vulcano. Fin tanto che trema e scuote la terra fa solo paura. Quando diventerà una certezza, allora ci sarà solo da smontare le tende e rassegnarsi all'idea di non potersi stabilire più da nessuna parte. Bidoni dappertutto. Avverto quella cosa di quando si ammira un panorama per l'ultima volta. Bello, unico e irripetibile a prescindere. Stiamo facendo quello che ci viene naturale. Non abbiamo saputo fare altro nella vita in fondo. Visito posti appena iniziati ad apprezzare. Lì, un parrucchiere all’angolo. Un fruttivendolo. Un’edicola. Un’erboristeria. Avrebbero segnato il resto della vita di qualcuno, giorno dopo giorno. Ciò da cui avrebbe desiderato evadere per poi desiderare di tornarci. Fino
all’ ultimo. Sfondo un vetro, entro in un bar, scommetto che qualcuno lo aveva scoperto da poco, mi prendo un whisky. Nella vita non servono punti fermi, epicentri stabili, piani d'osservazione affidabili. Ce ne accorgiamo quando non ce li abbiamo. La nostra mente è piena di cose inculcateci da piccoli. E' per questo che decidiamo di inciderci la pelle con dell'inchiostro indelebile, di scaricare app, di affittare bilocali in quartieri alla moda, di procurarci uno stipendio. Impariamo a sorridere, a piangere , empatizzare. A me il whisky neanche piace. Porto il bicchiere con me per le strade desolate. E' il momento di sloggiare. Convergiamo verso un incrocio. Il punto dove convergono tutte le micce. Semplici fili neri attorcigliati in una corda. Mai mi è successo di avere un potere così grande a portata di mano. Capita un breve momento in cui nessuno sa che fare. Ci guardiamo attorno, tra angoli, incroci, punte che grattano il cielo. Il mio bicchiere. C’è ancora del whisky. Come avesse un significato. Il motivo per cui siamo lì. Posiamo un cerino sulla sua superficie. Lo solleviamo in alto, attraverso noi, lo portiamo al centro di tutto. E’ il momento che attendevamo, in cui non si sente una mosca, il momento in cui il giorno nasce dalla notte. Avviciniamo il piccolo significato all'estremità della corda, divampa in una serie di piccole scintille, fanno uno sbuffetto di fumo e poi corrono, corrono via. Il frangente in cui abbiamo fatto una scelta. La scelta corre piano attraverso quattro direzioni. E noi siamo ancora lì fermi. Non sapendo chi altri imitare, disorientati, come appena svegli, come fosse stato tutto uno scherzo, ci rendiamo conto di essere nel posto peggiore del mondo. In assenza di segnali o cartelli, comincio a correre, in una direzione qualsiasi, quella che mi viene meglio, la strada da dove sono arrivato. E dietro, tutti gli altri, non sapendo che fare, seguono me. Un nugolo di presenze scure che imita me. Mi sento mamma anatra mentre guida piccoli anatroccoli scuri attraverso l'erba alta fino all'acqua, tra minacce e avversità nascoste, verso la salvezza, il fiume, dove potranno muoversi agilmente, non più vulnerabili o esposti. Loro si fidano, seguono i miei movimenti. Non so se anche il terminal che cerco di raggiungere sia stato compromesso. Conto sul mio intuito. Alle mie spalle calore, bagliore. Presto l'aria si riempirà di fumo, la luna si oscurerà e le nubi ricopriranno ogni cosa. Ci sono quasi. Caldo e barlume aumentano. Trotto più forte. Sento il peso di tutto. Voglio essere altrove, voglio essere in salvo, conto i secondi. Fuoco e arsura crescono, non oso voltarmi. Un centinaio di metri. A destra e sinistra fiammate divampano violente verso l'alto e l'esalazione travolge tutti noi. Non respiro. Cerco di snodarmi tra l'erba alta. Sempre più rapido. Sempre più rapido. Ho il fumo negli occhi, non vedo niente, corro guardando il pavimento. Gli scalini. Li salgo. Mi copro le mani col volto. Un o davanti all'altro. Più in fretta. Fine delle scale. Un piede in fallo in un grande spazio. Fluisco, a vuoto, debolezza,
decorro, mi inclino, sempre più giù, fino a sentire il freddo del marmo lucido della stazione sulle ginocchia, lo sento sulla fronte, la fronte, la sollevo, cerco i barili, ne vedo uno, proprio lì, davanti a me, devo trovare la miccia, catturo con lo sguardo il piccolo sfarfallio che si muove veloce lungo le pareti aldilà del fumo, eccolo, si avvicina, attraversa la sala, giunge da me, mai nella vita ho avuto un potere così grande, faccio un grumo con la gola e sputo un piccolo mucchio di saliva proprio lì, di fronte la mia faccia, miccia che fa un piccolo sbuffo e si spegne. Ciò che è semplice è anche efficace.
Efficacia di battuta. Avanzo leggero tra accadimenti poco rilevanti. Gente che fa cose, io che ne dico o ne penso altre. Eccomi. Salvato da una squadra di poliziotti in assetto da combattimento. Trascinatomi via mentre continuavano a sparare atterrando esseri scuri di tanto in tanto. Ho provato a lottare, a salvarmi da me, non ce l’ho fatta, mi sento un bambino imbecille, uno che si è avvicinato troppo all'incendio e poi non ha saputo più uscirne senza farsi aiutare. Dentro un’ambulanza, facendomi applicare ghiaccio, antidolorifici, punti di sutura, disinfettanti di quelli che non bruciano. Quando lo compro, di solito scelgo uno di quelli che brucia. Ho paura che abituandomi a non sentire il dolore poi non riuscirei a sopportare niente. Dietro di me, intorno a me spari in ogni dove. Più avanti un centro di raccolta per civili. Li prendono, gli danno il minimo e li mandano in un campo. Non io, è un'esperienza che ho già accumulato. Forse resterò qui, a ricostruire. Sistema in corto. Seduto sul marciapiede, godo dello spettacolo dello skyline in fiamme, fame ma niente voglia di mangiare, sonno ma resto sveglio. Mani in tasca, un telefono. C'è linea, chiamarmi un taxi. Sito di prenotazioni, cercarmi un albergo. Tutti al completo, trovarmi qualcosa fuori mano. Una stanza libera in un motel fuori città, vicino al fiume. Nel frattempo faccio due chiacchiere con un pompiere in pausa sigaretta. Un pompiere che fuma, che strano. Afferma che non hanno trovato ordigni esplosivi, ma semplici roghi dolosi. Lasceranno che il fuoco consumi l'intero edificio e poi si estingua da sé, magari con la pioggia. Dice che domare i focolai uno ad uno, un palazzo alla volta, richiederebbe troppi mezzi e uomini. Tutto sommato non si è trattato di grosse perdite. Uffici vuoti per la maggiore. Non hanno registrato vittime tra i civili. Ora non resta che aspettare che piova. Dice che in situazioni simili la fiducia nelle istituzioni tende ad aumentare. Si tende ad essere solidali con il governo. Non mancano i mezzi né le capacità per provvedere a sé stessi. Ma nel momento del cambio di abitudini la popolazione si sente persa e converge verso il mantenimento dell'ordine istituzionale. Il taxi arriva, mi siedo dietro. Mi
allontano in modo esponenziale finche non mi lascio ogni cosa alle spalle, guardo solo quello che ho davanti. Niente. Un po' di strada, arrivo dove dovevo. Da nessuna parte. Motel che si affaccia sulla riva del fiume. Abbastanza bello. Non credo abbiano molti clienti. Arredi discreti, personale discreto, ambienti semi bui. Aria da basso profilo. Soprammobili lì da troppo, sbiaditi. Hanno perso la patina di novità, sono diventati degli ingombri. Dispersivo, progettato male, spazi grandi e freddi. Riscaldato male. Forse prima era una scuola o qualcosa così. Pareti e moquette spesse, non percepisco la presenza degli altri ospiti. Nella stanza un adesivo, vietato aprire le finestre, apro lo stesso. Il parapetto è largo, posso sedermici sopra ad ascoltare il rumore del fiume. Fuori è carino. Posso ammirare la riva, i canneti. Non ho niente da fare. E’ diventato mattina, farei un giro del posto, lavorerei al computer, ma l'eccitazione è finita, sono stanco, ho voglia solo di dormire. Dormire, dormire, dormire. Altererò il ciclo circadiano. Mi sveglierò a sera inoltrata, un sacco di energie ad un orario in cui è tutto chiuso e spento. Come con il jet lag, dovrei resistere fino alla sera seguente, imbottito di caffeina, con gli occhi che fuggono il sole e qualunque cosa intrattenga la mente. Ma il rumore dell'acqua, l'aria lieve della foresta, niente ma proprio niente intorno, rendono troppo difficile restare svegli. Mi addormento, finalmente mi addormento.
Abbattere i muri e le porte. Concetto di privacy rivisitato. La definizione di benessere richiede spazi sempre più ampi per singoli individui. Spazio che non ci si può più permettere. Si a la vita di fianco a persone che non s'incontreranno mai. Si dovrebbe essere un tutt'uno. Le esigenze dovrebbero appartenere a una collettività invece che a uno solo. Corridoio deserto, motel di notte. Avevo delle ore di sonno arretrate e ho dormito moltissimo. La gente si svegliava, faceva quello che doveva, io riposavo, poi rientrava, si addormentava e io mi svegliavo. Un giorno fuori fase. In anticipo o in ritardo. Entro e esco da fasi temporali. Nessuno nella hall. Silenzioso e buio fuori. Incredibile, vicino a una città sì grande eppure desolato. Verso la strada principale, dove a la statale, vedo il bagliore dei fuochi in lontananza. Come un'aurora boreale rossiccia. A tratti convogli di vigili del fuoco a sirene spente o della protezione civile. Per il resto un mortorio. Non si muove una foglia. Potrei chiamare un taxi. Forse c'è ancora un po di gente in giro. Vorrei stare in un posto ben illuminato. Deve pur esserci qualcosa lungo la via. Non a una luce, non un fruscio. eggio in mezzo alla carreggiata. Spero in un’insegna luminosa. Eppure niente, solo il fluire dell'acqua. Riesco a sentire della musica ad alto volume. Mi
avvicino, è un bar, boccali dappertutto. Fanno le ore piccole. Per non sembrare fuori luogo chiedo una birra invece della colazione. C'è un'atmosfera strana, come se non fosse accaduto nulla. Fermo un tizio, chiedo da dove vengono, se sanno cosa è successo, non capisce di cosa parlo. Mi spiega che il motivo per cui è diventato motociclista è che spostandosi continuamente non ha tempo di preoccuparsi a sufficienza. A forza di cacciarsi nei casini, le situazioni gravi non gli sembrano diverse da quelle normali. Parlo, bevo, salgo in sella con uno di loro. Ci allontaniamo. Continuiamo lungo la statale. Mi scaricano a una stazione di servizio. Mi faccio chiamare un altro taxi. Il sole sorge in fondo alla strada. Le prime auto, quelli appena svegli che vanno al lavoro, vorrebbero essere rimasti a dormire. Provo a tenere gli occhi aperti. La luce mi dà fastidio, mi sento tristissimo. Tento di mantenermi vigile, dico al tassista di riportarmi in città. Lui mi fa di no con la testa, risponde è impossibile, per non intasare le vie di comunicazione lasciano accedere solo mezzi di soccorso. Non resta che tornare al motel. Alcuni ospiti ancora assonati affollano la hall. Me ne vado a letto. Di nuovo.
Di nuovo un nugolo di mosche, un puntino nero in uno sciame. A zig zag lungo i binari. Oltre le reti. Oltre ancora, nella foresta. Buia, si appresta ad accogliere i raggi del mattino. Uno sciame, consumiamo tutto, un agglomerato urbano alla volta. L'unico a non sapere che facevamo, ora l'unico a saperlo. Seguo corsi d'acqua, portano sempre a valle, sempre dove dobbiamo andare. Confluisce in un grosso ammasso acquoso, rocce, alghe, tronchi. Entriamo nell'acqua tiepida, ci lava dalla tintura, restituisce noi un volto e un aspetto. Sospinti dallo scorrere, andiamo ad accumularci intorno un piccolo molo, i locali non si scompongono, puliti come siamo ormai dall'oscurità. Molti di noi prendono ad ammonticchiarsi su una grossa chiatta per trasportare tronchi di quelle dei taglialegna, con dei rimorchi attaccati dietro come un tir. Scivoliamo giù lungo il fiume con tutta la chiatta, accatastandoci su altre imbarcazioni incontrate di volta in volta. Stiamo formando un grande convoglio pulito. Un gruppo di semplici sfollati.
Hanno riordinato la stanza . Qualcuno ha appena messo il naso nella mia vita, tra le mie cose. Anche se non la conosco e non l'ho mai incontrata, gli ho concesso una libertà di cui pochi nella mia vita hanno goduto. All’inizio richiede sempre un certo sforzo. Penso ai boxer sporchi di scoreggia, alla montagnella di penny,
alla puzza di scarpe. Ma le cose che mi spaventano non sono queste, piuttosto il vuoto, la banalità della mia camera, l'assenza di un particolare degno di nota. Chi entra lo sente. Un ambiente spoglio. Tento di rassegnarmi alla mancanza di elementi interessanti. Poi tento goffamente di colmarla, pubblicando post non interessanti sulle mie bacheche ad accesso pubblico, riuscendo solo ad amplificarla. Una persona anonima può solo fare cose anonime. Provo a liberarmi dalla ricerca di consenso sociale. Numeri sulla rubrica, chiamo qualcuno. Mentre telefono agli amici ho l'impressione che a uno gli vengono da dire le stesse cose negli stessi momenti. Ha le stesse reazioni a seconda della situazione. Resta un contatto ancora da raggiungere. Non ricordo di chi è. Lascio perdere e mi allungo verso la sponda del fiume. Non lo avrei mai detto, è pieno di barche. Un sacco di gente. Dev'essere una festa. Li vedo tuffarsi. Portano via le piccole scialuppe del molo qui vicino come fossero a disposizione. Forse potrei unirmi a loro per un bicchiere.
Soro un insediamento dopo l’altro lungo il fiume, organizzazioni e associazioni offrono soccorso e beni di prima necessità, ma restano delusi. La carovana di barche continua dritto. Si chiedono come mai. L'affluente ci porta via. Che tristezza, nemmeno ora quelli di città si accorgono di loro. Andiamo avanti, un paese dopo l’altro. Non ci fermiamo. Quelli ad accoglierci rimangono allibiti, poi sorridono confusi. Non possiamo tornare indietro. La nostra è una traversata senza ritorno. Siamo a caccia di un posto dove nasconderci. Non siamo nella condizione di continuare a scappare. C’è qualcuno a bordo che non è uno dei nostri, ha un telefono. Potrebbe farci scoprire. "Fermate quel tizio". Mi schiarisco la gola e provo di nuovo. "Fatelo sparire. Buttatelo in acqua".
Fuggire. Sfuggire. Giù, lungo la catena della gru usata per issare i tronchi sulla chiatta. Mi calo e cerco di dondolarmi, devo raggiungere la riva. Oscillo tra due possibilità. Mi spingo su una strana altalena, la barca vacilla assecondando il mio moto, va a dritta e a manca del suo baricentro, così come io barcollo a destra e sinistra tra il divenire e il dissolvermi. Lo scrosciare dell’acqua sotto di me diventa forte, le onde accrescono il loro impeto. Gli altri scafi sobbalzano, il fiume è in sommossa. L'imbarcazione perde il suo asse. Le persone sull'imbarcazione perdono il loro asse. Sono a un braccio dalla salvezza e uno dalla fine. I rami degli alberi si fanno più vicini, così come le acque si fanno più
tumultuose e le rocce più affilate. Il rumore diventa più furioso, e le braccia degli uomini ombra più vicine. Mi tengono, ho un piede bloccato dalle loro mani, ho un ramo stretto nella mia. Lo scafo dondola, si piega su un fianco. Il tronco del tralcio che stringo si curva da un canto. Mai stato sì vicino alla salvezza e alla morte. Intorno a me gli scafi delle altre piccole barche si ammassano le une sulle altre. Alcuni uomini ombra scorrono via, li vedo fluire a un o da me. La gru scende verso l’acqua, sempre più giù, il fragore torrenziale ora è assordante, sono praticamente in acqua, tengo il ramo stretto nel pugno, mi tira, in alto, forte, più forte della corrente, mollo la gru, come una frusta il ceppo mi saetta in aria e alla fine abbandono la presa. Volo, lontano, nel grande verde, tra alberi, terrore, vuoto e solitudine. Provo ad afferrare, agguantare l'aria, mi preparo all’atterraggio. Botta. Silenzio. Cinguettio. Muschio verde chiaro. Respiro. Espiro. Il muschio del terreno ha attutito la caduta. Mi rialzo e corro, come non ci fosse un domani, lontano, senza voltarmi, verso la strada, le macchine, il grigio, la puzza, i colori, la salvezza.
Quale che sia la calamità, essa non infierisce mai sulla mia percezione. Finisco per trascorrere ogni momento con banalità e naturalezza. Regolarmente mi scopro a contare i minuti che mi separano dal tornare a programmare futuri acquisti o dall’ambire a maggiori prestigi. Il genere di pensieri che non mancano mai e che mi tengono saldo nel presente non facendomi perdere il controllo. Esiste un tipo di vicende che prima vanno in una direzione e poi in un’altra. Il flusso della storia. Alternanza tra direzioni opposte. Avanti e indietro e poi di nuovo avanti. La democrazia, l’istituzione dei comuni e delle contee. Quante altre cose toccherà ammettere che erano idee migliori. Sono su un camion dei vigili del fuoco. Sirene blu lampeggiano su aree desolate. Talora superiamo una frazione, dei gruppi di case, piccoli centri spopolati e disabitati. Mi scaricano in una sorta di parcheggio con altri civili. Ci viene a prendere un elicottero. Voliamo in alto. Molto in alto. Atterriamo in un aeroporto. Compro dei biglietti per un posto uguale a questo. Entro nella zona dei negozi, dopo il check in. La merce costa di più o di meno a seconda che io sia atterrato o stia per partire. Bevo un caffè orribile pagato più del doppio in piedi. Mi siedo vicino all’imbarco. Osservo il vasto scenario dal grande vetro della zona eggeri. Nuvole infuriate, sempre più infuriate, pare che finalmente stia per piovere. Salgo a bordo. Cerco il mio posto. Quel maledetto corridoio dove non si a in due e i eggeri sono costretti a scavalcarsi. Trovo il mio cazzo di posto. Sono stanco di tutto questo. Le nubi fuori dal finestrino paiono sempre più furibonde.
Il maledetto aereo barcolla in modo progressivamente intenso. Noi eggeri normalmente irrequieti, ora pensiamo solo ad andarcene da qui. Ci stiamo abituando. Il pilota annuncia uno scalo di emergenza in un posto che non conosco. Non sono sicuro di quello che vedo fuori dall'oblò. Prendo un taxi diretto in una città che non conosco ma che già conosco. Il vento sta diventando man mano più rabbioso. Vedo bidoni della spazzatura capovolgersi, alberi fare zig zag. Vedo nuvole scure e, dentro le nuvole, altre nuvole più piccole. Stormi. Stormi di qualcosa. Scendo dal taxi. Tutti stanno scendendo. La preoccupazione ha ceduto alla seccatura. Mi incammino come tutti. Vediamo schiere nere aggrapparsi ad elicotteri e mandarli in may day mentre noi ci reggiamo ai bordi delle cose. Siamo stanchi di tutto questo. Ci ripariamo all’interno di un edificio insieme a tutti. Vediamo droni cadere giù, mucchi di pipistrelli neri in tute alari appesi intorno ai palazzi. Vediamo i razzi, le esplosioni, gigantesche onde d’urto e stormi sfruttare le onde d’urto per schizzare via come aquile. Vediamo elicotteri da combattimento abbattersi. Sentiamo il vento esagerare. Un apparecchio di quelli bianchi, di quelli dei pezzi grossi dello stato col simbolo sul fianco, vediamo un probabile governatore scendere lentamente giù appeso a un paracadute. Lo vediamo finire in mezzo a un nugolo di pipistrelli. Noi sbuffiamo, non per i pipistrelli, non per i razzi, ma perche dobbiamo ricominciare a muoverci. Ancora, controvoglia e senza nessun entusiasmo, iniziamo a scappare, dinuovo, verso la foresta.
Fine.