SILVIO BOSCO
CONFESSIONI DI UN EUROPEO
Cavinato Editore International
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TABLE DES MATIÈRES
Note dell'autore
PROLOGO
INIZIO
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
XI
XII
XIII
XIV
XV
XVI
XVII
EPILOGO
SILVIO BOSCO
Note dell’autore
L’uso intenso ed apparentemente eccessivo delle citazioni si giustifica con il fatto che esse sono parte integrante del racconto, delle “confessioni”.
Questo libro e’ dedicato al mio amico Gianni Leon Depalmas senza il quale non lo avrei mai scritto.
PROLOGO
La vita è dappertutto, la vita è in noi stessi e non fuori di noi. Accanto a me ci saranno degli esseri umani ed essere uomo fra uomini, e restarlo per sempre, in nessuna sventura avvilirsi o perdersi d’animo, ecco in cosa consiste la vita, ecco il suo compito. Questa idea e’ entrata nella mia carne e nel mio sangue.
Fëdor Michajlovic Dostoevskij
«l’eroica breve avventura della ‘Rosa Bianca costituisce il capitolo più bello e puro della Resistenza tedesca. Qui non ci sono calcoli di partiti ati o futuri, non sapienti meditazioni sul possibile, sul probabile; non ci sono esitazioni paralizzanti dinanzi al mito della patria in guerra che non bisogna colpire. Qui c’è solo il semplice schietto coraggio morale che, una volta riconosciuto il cammino giusto, decide di percorrerlo e lo percorre con fermezza fino alla fine»
Altiero Spinelli
Ci sono parole che ci cadono dentro, altre, invece, rimangono soltanto in superficie. Le prime portano con sé immagini che sono la sostanza dei sogni, mentre le seconde, nella loro impotenza, nella loro rabbia, possono soltanto fare male.
E le parole del potere sono spesso cosi’ banali, da non avere spessore alcuno tanto da essere esse stesse la personificazione del male, come la condanna che
Roland Freisler, Presidente della Corte del Popolo nel regime nazionalsocialista tedesco, pronuncio’ contro Sophie Scholl e la Rosa Bianca:
« Gli accusati hanno, in tempo di guerra e per mezzo di volantini, incitato al sabotaggio dello sforzo bellico e degli armamenti, e al rovesciamento dello stile di vita nazionalsocialista del nostro popolo, hanno propagandato idee disfattiste e hanno diffamato il Führer in modo assai volgare, prestando così aiuto al nemico del Reich e indebolendo la sicurezza armata della nazione. Per questi motivi essi devono essere puniti con la morte. »
Dice proprio cosi, si!, dei volantini, dei pezzi di carta scritti dalla Rosa Bianca indebolivano la sicurezza armata della nazione; la sicurezza dello Stato nazionale sovrano, totalitario e in guerra era minacciata da volantini scritti da giovani studenti che avevano scelto la nonviolenza come metodo di resistenza.
Come era possibile? quale pericolo contenevano questi volantini per giustificare la reazione di Freisler e di tutto un regime?
Come poteva lo Stato nazionale sovrano più militarizzato di sempre aver paura di 7 (!) volantini? e come l’assenza di secondi fini e la semplicità di Sophie Scholl potevano suscitare l’impaurita ed isterica reazione degli apparati più sensibili della sicurezza dello Stato sovrano?
Certo, in quei pezzi di carta c’erano le idee, si citava Goethe e Novalis, si parlava dell’ Europa e della religiosità, ma quante volte queste stesse parole sono state dette e ridette ed in contesti ben piu’ attrezzati di 7 volantini, il più delle volte senza lasciare traccia, senza convincere nessuno, senza far paura a nessuno, a maggior ragione ad uno Stato armato fino ai denti, centralizzato, sovrano, totalitario e dotato di tutti gli strumenti di potere; ma come era possibile che il riferimento ad un’ Europa libera e federale ed alla libertà poteva intimorire lo
Stato nazionale sovrano per eccellenza, il più forte, il più spietato?
Ma le cose andarono diversamente.
Non c’erano gravi fatti o azioni straordinarie ma soltanto parole scritte sull’effimera carta e corpi inermi che a quelle parole spiritualmente e fisicamente aderivano, quei corpi diventando le parole che così si accendevano di vita: era come se fossero proprio Goethe e Novalis ad alzare il dito accusatore in una capitiniana compresenza dei vivi e dei morti, era come se la speranza di un’ Europa federale e la religione della libertà avessero trovato un corpo, una parola attraverso cui esprimersi perché che cosa é la verità se non viene detta, se non viene vissuta.
Di fronte alle idee di libertà che prendevano vita, una vita reale, che si facevano, letteralmente, carne e sangue si stagliava l’immagine deformata ed orrenda del dispotismo e del suo nichilismo, dell’unilateralità e dell’ignoranza dello Stato nazionale sovrano, oggi come ieri, e della sua banale malignità.
INIZIO I
Quel, che dà legge à gli alti Dei del cielo, Quel, ch’ad un cenno il mondo fa tremare Chi con sua pioggia, e con suo ardente telo. Può sommerger la terra, ardere il mare, Vestì mentito, e vergognoso pelo, Per lascivo pensier, per troppo amare, Fuor d’ogni degnità, d’ogni decoro Prese per troppo amor forma d’un Toro.
Ovidio, Le Metamorfosi, Lib. II
Bagna di pianto la donzella il volto, Che la terra ogn’ hor più s’asconde, e abbassa. Dritto à Favonio il toro il nuoto volto, Cipro, e Rodi à man destra vede, e a. Veder dal lato manco à l’occhio è tolto Le gran bocche del Nil, ch’ à dietro lassa. Ella non crede più poter campare, Ch’altro veder non può, che cielo, e mare.
Ovidio, Le Metamorfosi, Lib. II
Io sono un malato.
Incontrovertibilmente, io sono un malato sin da quando ho ricordi e non sono tanti, anzi, al contrario, comincio col dire che sono più i vuoti, le attese, le infeconde ripetizioni, la noia dell’inconsapevolezza che la memoria di ciò che avvenne e che mai avvenne del tutto avendo, forse, potuto avvenire; e sono più le assenze di qualcosa che ha lasciato pur dovendoci essere, lì, da qualche parte nascosta, incomprensibilmente assente dal suo posto lasciando stupiti e rassegnati, che i fatti da raccontare, le storie, il divenire delle cose.
Avevo solo interpretazioni, tante e contradditorie, di ciò che sarebbe dovuto avvenire, presto o tardi, ognuna corretta ed esatta per il punto di vista che le esprimeva che io ingenuamente credevo fosse sempre uno: ma così non era e non é.
Ed infatti, la situazione é la stessa, ieri come oggi, sembra ato un secolo o appena cinque minuti, ancora, dunque, come ieri io vivo nelle manie della mia irriducibilmente inattiva angoscia del vivere e fermo nelle mie posizioni le vedo ogni giorno travolte dalla malattia e dall’impotenza per rinascere ogni giorno ancora una volta le stesse già vecchie e logore, compagne invise della mia anima a cui la gioia negano nell’ombra scialba della mia esistenza.
La mia é stata una non esistenza piena di pensieri fino all’inverosimile, di dubbi, domande e risposte le più disparate e diverse; di sentimenti che su loro stessi si avvitavano fino a disperdersi e scomparire nei recessi della memoria e mai del cuore, di azioni immaginate ed immaginarie che pretendevano di riempire i vuoti delle assenze e dell’inattività ma lasciando ogni volta il sapore amaro e nevrotico della pochezza.
Io sono, quindi, malato, sono anche angosciato dalla mia inattività e per queste ragioni sono un inguaribile egocentrico: io sono senza dubbio un egocentrico.
Nella malattia e nell’impotenza io, si, io, vedo solo me stesso, tutto mi gira attorno e come in una cella la mia mente cammina seguendo sempre gli stessi i, dicendo sempre le stesse parole ed immaginandosi libera e piena di ragioni e giudizi, incapace di assumere anche per un solo istante il punto di vista di chicchessia, nelle ragioni e nei giudizi senza dubbio ma anche nei sentimenti, nel dare e nel ricevere, nelle simpatie ed antipatie, negli istinti e nelle reazioni fulminee, io sono sempre presente ed in primo piano tutto ando attraverso me, potente filtro che dietro di se lascia tutto eccetto il piacere di se stesso.
Ecco, così inizio questo scritto intitolato “Confessioni di un europeo” e che di Europa vorrebbe parlare riconoscendo che sono un malato, un egocentrico ed un impotente; sono tutto questo e mi occupo di politica e le mie vogliono essere le confessioni di un europeo siffatto che vive si in Europa ma in una patria confinato da una coscienza e da una cultura nazionaliste ignoranti delle proprie possibilità e della profondità degli spazi personali e degli altri, altri luoghi, persone e tempi.
Qual é la mia malattia? Quali le ragioni della mia pena e della comione di me stesso? Essa é ereditaria e si chiama Storia.
Storia della mia terra, del mio ambiente, della mia famiglia e di chi mi generò; la mia malattia é ciò che io sono nella sua odierna attualità e nella trasmissione ad essa di un lontano ato, spesso inafferabile.
La mia Storia vive nella confusione delle identità, tante e diverse, recenti ed antiche, consapevoli o profonde, presenti ed invisibili ma non per questo meno attive nel determinare la vita.
La mia Storia é anche stanchezza del presente che non sa dove andare e ancor meno come andarvi piegata sulla cultura dell’oggi che ha paura della complessità e delle parti dell’anima che le infinite diversità e differenze compongono e sono pronte a svelare.
La mia é la storia di un tradimento delle vocazioni e potenzialità della mia Storia, un rifiuto di esserne parte perché difficile, rischiosa e pericolosa, metafora, gattopardesca e senza identita’ perché infinite ne possiede tutte al di là ed al di sopra dei confini in costante dialogo con altre storie certamente opposte ma per questo così vicine.
Dell’indefinitezza ho avuto paura, alla gioia nella consapevolezza della terribilità della vita ho preferito la ricerca di futili piaceri abbandonando la mia anima ad un destino di chiusura e all’idolatria della ristrettezza e dei confini che la coscienza dell’oggi chiama nazioni.
In una terra stravolta e svuotata sono nato, in preda alle fazioni e ai nemici delle visioni generose che la Storia non vedono come un tutto di infinite parti divise ma connesse a dispetto del tempo e dello spazio succedendo senza sosta, avverandosi in noi stessi e in ciò che ci circonda, rivelandosi sempre presente nelle parole, nelle immagini, nei luoghi e nei sogni.
Nella terra del viaggio sono infatti nato, dove luce e tenebra si confondono definendosi sfumatura ed apparenza, dove alla lacrima non manca la bellezza e alla speranza la verità.
Questa terra é però condannata al tradimento di se stessa laddove non é la sua Storia ritraendosi dal mare, in esso rigettando la dura complessità del non essere una nazione ed ha generato malati che ne sono il corpo infelice staccati dalla propria storia, senza origini e fini producendo violenza ed ignoranza, errori e
povertà ed a questa storia di deformazioni e tristezza non ha potuto sfuggire la mia famiglia infelice anch’essa nella mummificazione delle paure.
II
Il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l'individuo per il quale la distinzione fra realtà e finzione, fra vero e falso non esiste più.
Hannah Arendt
Ma cosa vuoi farci, preferisco la povertà dei napoletani al benessere della repubblica italiana, preferisco l'ignoranza dei napoletani alle scuole della repubblica italiana, preferisco le scenette, sia pure un po' naturalistiche, cui si può ancora assistere nei bassi napoletani, alle scenette della televisione della repubblica italiana. Coi napoletani mi sento in estrema confidenza, perché siamo costretti a capirci a vicenda. Coi napoletani non ho ritegno fisico, perché essi, innocentemente, non ce l'hanno con me.
Pier Paolo Pasolini
La mia terra, dunque, e la famiglia, Storia e storie, avvenimenti e legami, il personale ed il generale, eredità della terra ed erede dei giorni presenti, volti noti vivi ed indelebili nella memoria e nella coscienza, richiami ad un ato che non si vede tanto evanescente quanto determinante, o ancora, a più ati con tanti volti per averne uno riconoscibile e rassicurante.
Legami di persone, cose, di ricordi insignificanti, di follie e santità, idiozie, volgarità e giustizia, sentimenti, ioni, indifferenza e noia, occasioni perdute, lacrime e rimpianti, contraddizioni ed estraneità, opposti ed amore. Così é la mia
terra, piccola isola che nel mare dell’indefinito e delle diversità si nutre e si conserva e che solo gli stolti chiamano nazione e che solo gli infidi chiamono Stato nazionale.
Già, perché se Europa nasce da un mito d’amore e di ione, di sfida verso l’ignoto e di entusiasmo del desiderio negli spazi e nel suo mare muovendosi senza confini, gli Stati nazionali, al contrario, nascono dalla paura della solitudine e dell’ignoto. introversi e non introspettivi, stanchi idolatri di una unicità senza forme e differenze.
Che cosa accomuna la mia terra, rinserrata in una cultura nazionalista, la mia famiglia che in questa cultura ha vissuto e me stesso? Dove finisce la libertà personale e dove cominciano le influenze dell’ambiente? Ma soprattutto, quanto conta la responsabilità del singolo? la sua determinazione ad agire per realizzare davvero la sua unicità, la sua diversità, per essere ciò che é? In che modo l’”ambiente” dovrebbe attrezzarsi per rendere possibile la nostra personale ricerca, il nostro sviluppo verso il riconoscimento e l’accettazione di un Sé molteplice?
Qualsiasi offerta politica dovrebbe essere giudicata su queste domande nella sua intima essenza ed in ultima istanza, perché a che cosa servono i sistemi ideologici e politici se non sono tesi a favorire lo sviluppo della persona e se non pongono la libertà e la responsabilità individuale come base di tutto? Chi infatti può arrogarsi il diritto di dirmi chi sono e da che parte devo andare, chi può credere di prendere il mio posto nel drammatico e spesso tragico cammino del “Conosci te stesso”? la risposta é ovviamente “nessuno”.
Solo nella libertà e di fronte a noi stessi può compiersi questo cammino, solo la nostra responsabilità ha valore, solo gioia e malinconia ci possono accompagnare nel nostro viaggio alla scoperta di noi stessi.
Sulla libertà dunque, la politica, le ideologie e la società devono essere fondate; sulla libertà ed il riconoscimento delle molteplicità e delle differenze che compongono qualsiasi identità. La nazione, invece, proponendo ed imponendo un’identità pre-confezionata e ristretta a soli pochi e molto spesso aleatori caratteri contiene in sé il germe dell’autoritarismo e della subordinazione dell’individuo alle sue ragioni limitandone o annullandone la libertà e spesso la vita o costringendolo a morire in guerre contro altre nazioni che inevitabilmente gli Stati nazionali sovrani presto o tardi si fanno.
Così, allora, come la nazione si sforza di far risaltare gli aspetti e i caratteri comuni, le somiglianze e tutto ciò che é utile per farci dimenticare e porre da parte il fatto della nostra unicità e delle infinite differenze e la molteplicità del nostro stesso carattere di individui che soltanto superficialmente la nazione ammanta con la comunanza di lingua e di cultura, in un modo simile agisce la famiglia costruendo sulla nostra vita un’identità predefinita fondata sulle somiglianze con i membri più disparati della famiglia stessa e sul silenzio posto sulla unicità della persona; anch’essa, quindi, dovrebbe essere fondata sulla libertà, sulla libertà di essere se stessi, sulle differenze, sulla libertà dai sensi di colpa, sul riconoscimento della irripetibilità di ogni persona che liberata dai legami impostigli e cosciente di sé, sul rispetto dei sentimenti e sul disinteresse potrebbe costruire i suoi legami duraturi e sinceri essendo la libertà il primo requisito per amare, la liberazione dalla famiglia il primo requisito per farne parte veramente e con dignità.
Così era la mia famiglia, piena di ragioni, sorda all’ascolto dell’altro e con un’opinione su tutto come se tutto non le potesse sfuggire, inflessibile nel giudicare sentendosi il paragone di tutto ma spesso senza curarsi dell’altro e delle sue ragioni; essa spiega tutto ed ha una regola per tutto come se tutto da essa dipendesse a nessuno ricoscendo un’autorevolezza superione, con nessuno condividendo o collaborando.
La mia famiglia aveva perso la complessità ed una quieta accettazione della semplicità del vivere: chiusa nella cultura delle non differenze, agiva come se il
mondo esterno non esistesse, soddisfatta delle sue idee (poche in verità), temendo le sfide, i dubbi ed i pericoli. L’”altro” ovunque si trovasse, all’esterno o tra i propri demoni, veniva semplicemente rimosso e sostituito da un sapere freddo e sterile e dal poco comprendere.
La mia terra, anch’essa, aveva ed ha perso la complessità, in un parallelismo ed un’interazione che nello scivolamento verso il baratro della disperazione e dell’inattività trova il suo punto piu’ comune. Crogiolandosi nel suo ricco ato fatto nella diversità e in un infinita congerie di contraddizioni che dalla più formidabile bellezza arriva agli orrori ando attraverso l’inettitudine ed il servilismo, la mia terra, ha rifiutato di fare i conti con esso lasciando che nella cultura nazionalista, fatta di vanità e vacuità, si mummificasse e si dissolvesse.
La mia famiglia e la mia terra, dunque, pur essendo figlie della complessità e delle differenze rifugiandosi nei preconcetti e nel nazionalismo e non ponendo al centro la libertà della persona hanno finito per negarle e rimuoverle dall’orizzonte del loro agire, in un pensiero a senso unico, offrendo uno spettacolo di decadenza, settarismo e ristrettezza, complessivamente di pochezza.
Dissociati dalla propria natura e dalla propria storia, la mia famiglia e la mia terra sono scivolati verso il caos e l’incapacità di gestire gli eventi ed in una nevrosi collettiva che facilmente nel fare il male e nella cattiveria scorgono semplici scorciatoie, rinnegando le proprie regole giustificandosi con la necessità delle proprie ragioni e le colpe altrui.
Ed io, ancora una volta, sono un malato.
Come la mia terra e la mia famiglia, anch’io non vedo che me stesso; chiuso nelle mie opinioni, refrattario alle sfide ed ai pericoli, vivo di preconcetti e di
idee a senso unico.
Avrei poturo diventare un impiegato colto al servizio dello Stato diligentemente dividendo il bene dal male, giudicando quando necessario e coltivando i buoni sentimenti; avrei potuto esserlo senza battere ciglio in una democrazia rappresentativa, in una dittatura comunista o nel Reich hitleriano alle dipendenze, magari, del banale Eichmann. Avrei potuto essere tutto questo senza grandi contraddizioni e drammi, avrei potuto accettare il male e le ingiustizie, semplicemente lo avrei accettato.
Così sono cresciuto, questo é Stato il mio “ambiente” dove si privilegiava il “noi” e l’”io”, dove l’”altro” cioé il diverso, il molteplice era il nemico poco definito nella realtà e senza volto, senza dignità, senza diritti.
In questa educazione sono cresciuto, che dalla vita ci si aspettava soltanto il denaro, le relazioni e la morte, mentre il cambiamento, la scoperta dell’altro, la ricerca e le differenze semplicemente non esistevano sennò come vuote parole di dubbia serietà.
Appresi l’esistenza di concetti fondamentali come dio, amore, amicizia, politica nella più totale mancanza di senso critico ma come un dato (da chi?) che solo banalmente avrebbe interessato le mie esperienze e le mie idee; li avrei accettati per come li vedevo, deformati, approfondendoli leggendo tuttalpiù qualche libro ma mai lanciando su di essi la sfida e mettendomi in discussione facendoli miei. La mia cultura non accettava discussioni o radicali cambiamenti, drammi interiori o rotture traumatiche ma solo una disarmante superficialità che agli altri lasciava i compiti piu’ importanti.
Era ed é la cultura degli inetti e delle ricapitolazioni, era ed é come se il fascismo dismettendo le beghe istituzionali avesse afferrato le leve della società e della
maniera di pensare, subdolamente, in una scandalosa ed incostituzionale continuità.
Io, la mia famiglia e la mia terra ci eravamo chiusi in una stanza buia senza saperlo, sognando di essere i figli prediletti di una cultura superiore da trasmettere senza vergogna e per il bene di tutti ma vivendo di fatto nell’indifferenza e nel rifiuto.
Non ricordo infatti nessun membro della mia famiglia che sapesse ridere, così, per il solo piacere di farlo, magari un pò pazzamente, che non esprimesse e non cercasse di trasmettere i suoi sensi di colpa, la sua superficiale serietà, il suo profondo conformismo. Grigi ed impolverati, ottenevano sempre scarsi risultati da tutto ciò che facevano perché incapaci di vivere nella realtà, spesso fuori tempo e soprattutto inadeguati rispetto alle idee che di sé stessi avevano avendo abdicato alle proprie tradizioni e radici e financo alla classe sociale d’appartenenza; era come vivere in un fascismo pasolinianamente inteso che alle persone concedeva l’illusione di sentirsi di più di ciò che in effetti erano, lasciandoli vivere nella dissociazione e nella nevrosi.
A questo fascismo dell’uniformità sembrava non esserci alternativa, sembrava l’unica realtà il resto avendo posto solo nella fantasia; la parola libertà era entrata nelle abitudini e non nella pratica, nel vissuto; non eravamo uomini e donne del viaggio ed ogni crescita ci faceva più piccoli. Lo scandalo non faceva più paura, nulla ci sorprendeva e dietro le tetre cortine dell’indifferenza avamo il nostro tempo mangiando, bevendo e poco altro.
Il benessere era il prezzo dell’accettazione della corruzione dello Stato nazionale e della cultura nazionalista e ci andava bene perché non vedevamo alternative, esso ci sembrava il normale stato delle cose che il benessere ed il consumo sostituissero per sempre le necessità della nostra anima e la ricerca spirituale.
Abbiamo barattato la nostra libertà con il mito della crescita economica, con la corruzione dei debiti e la retorica del lavoro; abbiamo abdicato la multiformità della nostra personalità alle ragioni dello Stato, alla limitatezza dell’esser parte di una nazione ed all’angustia delle sue proprietà quando queste non siano del tutto immaginarie e pericolose.
III
Poiché l'europeo non conosce il proprio inconscio, non capisce l'Oriente e vi proietta tutto ciò che teme e disprezza in se stesso.
Aforisma di Carl Gustav Jung
La vita sprecata dei genitori ha un'influenza molto forte sul comportamento dei loro figli.
Aforisma di Carl Gustav Jung
La libertà significa il diritto di essere eretici, non conformisti di fronte alla cultura ufficiale e che la cultura, in quanto creatività sconvolge la tradizione ufficiale.
Aforisma di Gaetano Salvemini
The awful thing is that beauty is mysterious as well as terrible. God and the devil are fighting there and the battlefield is the heart of man.
Fyodor Dostoyevsky, The Brothers Karamazov
Se con la memoria ritorno alla mia infanzia, a quel periodo della vita in cui la coscienza matura e prende forma, fissandosi indelebile per il resto della vita, non mi sovviene molto e quel poco che di essa riesco ad afferrare e a riportare alla luce dei giorni presenti é sempre così confuso, aleatorio, incerto e a volte, credo, che la mia attuale coscienza aggiunga qualcosa di suo ai ricordi che di essi, in verità, non fanno parte come se volesse riempire dei vuoti, essere stampella per ciò che da solo non riesce a camminare. La sensazione più forte che ne ricavo di quel periodo é generale quando non generica e con un immagine, direi, avvolto nella nebbia nel senso che non distinguo ciò che fu realmente dalla mia immaginazione a quel tempo ed adesso: tutto sembra soltanto pensato ma mai realmente vissuto o vissuto da un altro che oggi la mia coscienza ha rimosso.
Su nulla la memoria si ferma e si ancora per definire quel periodo e se stessa ma fluisce, anzi, salta da un momento all’altro senza logica, perduta nelle fantasie e nelle angoscie che immancabilmente popolavano quel periodo della mia vita, ieri come oggi, instancabilmente, come in una catena di montaggio dei pensieri, l’uno dietro l’altro, di giorno come di notte, pensieri che erano sogni ad occhi aperti, pensieri del dover essere, pensieri del “non puo’ non accadere”, pensieri vuoti di intelligenza e senso critico, pensieri che non crescevano, non partorivano nulla di nuovo, semplicemente ripetendosi, dimenticandosi e ricominciando daccapo come se più fossero le menti che li producevano, indipendenti, dissociate l’una dall’altra, inconsapevoli della loro stessa molteplicità. Nel vuoto dell’incoerenza cadevano le parole, le mie, dette a me stesso e quelle degli altri e da lì riapparivano come opinioni ed interpretazioni che dal fatto e dalla verità si erano completamente distaccate, irrealistiche ed incomprensibili ma non per questo prive di effetto e di vita; solitarie ed introverse inventavano le cause e gli effetti di ciò che realtà non aveva alienandomi da me stesso, innanzitutto, e dagli altri, isolandomi nel mio mondo di opinioni e giudizi sconclusionati.
Nel vuoto di un nichilismo inconsapevole vivevo ogni giorno della mia vita, senza sosta, senza pause di pienezza, senza la durata delle cose da un lato, nell’immobilismo che della morte era già un anticipo, dall’altro: vivevo senza qualcosa ma la mia mente era fin troppo piena e straripante di nullita’ di ogni genere e tipo.
Si parlava di tutto, di un tutto, però, che sapeva già di morte fin dal suo principio perché qualsiasi esempio, insegnamento, qualsiasi parola era sempre accompagnata dalla sua negazione, ipocrita in alcuni casi ma spesso assolutamente innocente, non voluta, anzi, detta in buona fede, dimostrando così una completa mancanza di senso e di spirito come travolti dal vento, sforzandosi di essere e di assumere la maschera della serietà per nascondere incoerenza e vacuità e la disposizione al giudizio nella superficialità.
Si parlava, dunque, si dicevano tante cose ma niente restava perché erano parole basate sul nulla, sulla negazione della propria storia, delle proprie origini e sul desiderio di andare troppo in fretta ed impreparati al di là dei propri limiti, così, senza alcuno sforzo, senza la conoscenza di se stessi e del proprio deserto ma con tanta arroganza, tanta boria e sorrisini soddisfatti.
Crescevo, vivevo la mia infanzia circondato da persone che mi mostravano la loro esperienza ed il loro sapere cercando di convincermi con parole ed atti il cui senso, il significato profondo loro stessi non conoscevano o avevano incredibilmente perso quando erano diventati adulti; non c’era più ione in loro e in ciò che dicevano e neanche nella loro apparenza mostrandosi infatti sempre dimessi ed uniformi, profondamente conformisti, impauriti ed indisponibili al cambiamento ma soprattutto chiusi a qualsiasi idea di autocritica; così vivevano biascicando e spesso bestemmiando ma ancora di più soffrendo ed accrescendo ogni giorno le proprie pene nell’inferno dell’incoerenza e dell’oscurità ignote a loro stessi ma che ogni giorno di più si mostravano nella stanchezza dei loro volti e nelle ricorrenti crisi di nervi a cui sempre più spesso, con il are del tempo, andavano incontro, divorati dalla nevrosi e dalla depressione continuamente desiderando qualcosa che non era alla loro portata ed incapaci di accettare il loro ato spesso vergognandosene o non sapendone più nulla.
Così nell’inferno dell’immobilità, infliggendosi dolori, non conoscendo gioia e mai sorridendo, si ammalavano, si facevano violenza e la trasmettevano e allo
stesso modo parlavano anche di come cambiare il mondo e ad esso trasmettere le loro delusioni, l’inferno della loro disperazione.
Il Comunismo, il Fascismo vecchio e nuovo e l’intramontabile nazionalismo invadevano infatti tutti i campi, dalla cultura alla comunicazione ando per le speranze ed il futuro del singolo individuo lasciandogli alla fine soltanto delusioni, violenza e più disperazione; ed anche quando il potere si diceva antifascista esso lo appariva ancora di piu’ costruendo limiti, ristrettezze, ignoranza ed egoismo, moralismo senza moralità, disprezzo per la libertà e la complessità ed offrendo una vita senza sfide e ad unico senso; ideologie, che già erano morte nella vita delle persone prima ancora che sui giornali, da fautrici di morte agivano, propagando menzogne ed approfondendo il vuoto delle vite, vampiri che asfissiati e ciechi lasciavano le loro prede assetati del sangue di una vita degna di essere vissuta.
Così il nuovo Fascismo ed i boriosi della sovranità nazionale si preoccupavano di creare e di conservare a ciascuno il proprio inferno, fatto nichilistico, isolato e chiuso all’interno di confini reali e mentali che nella cornice della nazionalità trovavano un’entusiasmante spiegazione ed ineluttabilità e nel senso di appartenenza, una narcotica sicurezza.
Così il nuovo Fascismo ed i sostenitori della Ragion di Stato edificavano muri e punivano i dissidenti ma non già come un tempo sacrificandone il corpo, bensì uccidendo qualsiasi senso critico fin dal suo nascere, qualsiasi immaginazione e la reputazione di essa, nascondendo le storie diverse, l’antichità e la saggezza di esse, travisando e corrompendo ciò che di buono in esse vi era, seppellendo nell’ignoranza del sé la propira complessità e la molteplicità delle proprie origini, trasformando in angoscia il sogno di una vita diversa senza confini, di centomila storie sempre presenti .
Così ava il mio tempo, carico di speranze ma puntualmente deluso lasciando sopravvivere gli errori e gli orrori del ato non curandone le cause anzi
nutrendone la rinascita perché di nuovo i suoi fantasmi tornassero a infestare il presente e a stagliarsi nel futuro; si percorreva lo stesso cammino parlando di ragionevolezza e di moderazione preparando già i tempi di uno squilibrato futuro; ci si convinceva che soltanto in questo modo si potesse vivere e che non c’erano alternative, che un gretto egoismo, cinismo e ragion di Stato fossero inevitabili, che sarebbe stato sempre così; si urlava in nome della giustizia, si applicavano le stesse pene che in ato, si chiedevano punizioni esemplari e si irrideva alla legge.
Lo Stato nazionale sovrano, dentro il quale ci trovavamo e mi trovo a vivere, nonostante le immani distruzioni ed il violento discredito che la guerra aveva con se portato, si rilegittimava, rinasceva dallo stesso sangue che aveva versato ma non con nuovi obiettivi o ideali che di fatto non poteva più esprimere e permettersi, bensi annegando le coscienze nella vacuità, nel disincanto, nell’indifferenza e spesso nella spietatezza. La sua inadeguatezza si mascherava nella violenza, le sue incapacità nella corruzione, il suo fallimento nella propaganda, i suoi inganni nell’ignoranza.
Questo Stato sopravviveva soltanto negando le speranze di libertà, di una società aperta e sinceramente discontinua con il ato, questo Stato, infatti, sopravviveva solo legandosi al ato compreso quello piu’ oscuro ed inquietante.
Questo Stato sopravviveva soltanto impedendo il miglioramento e la crescita della persona umana, i suoi bisogni spirituali, negandone le potenzialità e la complessità della personalità per restringerla in una bassa e bieca soddisfazione nazionalista, nella rabbia che cerca colpevoli, nel desiderio di chiusura ed isolamento, nella meschinità degli interessi personali, nel degrado dei debiti e di un ottuso, prezzolato, consumismo.
IV
Cappellaio Matto: Credi ancora che sia un sogno, non è vero?
Alice: Ma certo, è solo un'invenzione de lla mia mente.
Cappellaio Matto: Questo vorrebbe dire che non sono reale?
Alice: Temo di sì, ma non mi sorprende che io sogni un mezzo matto.
Cappellaio Matto: Ma dovresti essere mezza matta anche tu per sognare uno come me.
Alice: Evidentemente lo sono... mi mancherai quando mi sveglierò."
Alice in wonderland Dal film Alice in wonderland
“Tutti gli uomini sognano: ma non allo stesso modo. Coloro che sognano di notte, nei recessi polverosi delle loro menti, si svegliano di giorno per scoprire la vanità di quelle immagini: ma coloro i quali sognano di giorno sono uomini pericolosi, perché possono mettere in pratica i loro sogni a occhi aperti, per renderli possibili.
Thomas Edward Lawrence, Tratta da "I sette pilastri della saggezza"
Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni.
William Shakespeare
Stordito, i miei sensi attutiti come sotto l’effetto dell’alcool, muovendomi a fatica attraverso lenti ed indifferenti movimenti e gesti come se nulla mi importasse, come se tutto non potesse essere che così per sempre, come se la stessa parola cambiamento fosse un altro modo per affermare il suo esatto contrario, come se il movimento mirasse a rafforzare unicamente l’immobilità, il senso di inutilità e di totale inadeguatezza.
Cieco, definivo normale il mio stato, ineluttabilmente era ciò che era e nient’altro era possibile aspettarsi; pensavo ,così, che il buio fosse una qualità della luce e che quindi il non vedere, l’ignoranza, mi appartenessero naturalmente. Non avevo una direzione, non sapevo neanche che cosa fosse, vivevo i giorni come se questi non assero mai, come se fossero sempre gli stessi.
Ridevo soltanto ripetendo le stesse cause e gli stessi motivi sapendo di ingannarmi, non cercavo ragioni nuove, diverse, per sorridere e non perché ne avessi paura ma per il semplice fatto che non immaginavo potessero essercene altre che valessero la pena, che fero ridere. Ero serio quasi tutto il tempo, ma di una serietà che era mancanza di espressione, paralisi dello sguardo, sofferenza degli occhi, non era la serietà della vita e dei suoi impegni, delle conoscenze e delle scelte difficili.
Parlavo poco, ma il mio silenzio non nascondeva nulla eccetto lo stupore della vacuità, l’imbarazzo del non aver nulla da dire in tutte le occasioni; il mio silenzio era il mio modo d’apparire, creava un equivoco che nella verità aveva origine. Io stesso mi perdevo in quell’equivoco credendo a volte che esso nascondesse più di quanto, in effetti, vi fosse e lasciando credere che così fosse.
A volte sognavo ad occhi aperti però; restavo lì fermo da qualche parte e cominciavo ad immaginare contro ogni buon senso, contro la logica, contro il mio mondo, quello che ogni giorno cresceva dentro di me.
Erano favole, accenni in verità, come degli scatti improvvisi che accendevano le mie emozioni spegnendosi poco tempo dopo ma intensi e piacevolmente mi ci aggrappavo, erano i miei momenti, mi sentivo me stesso e vero durante queste escursioni della mia anima come se fossero finestre aperte dentro di me, nelle mie profondità di cui io nulla sapevo ma che mi davano gioia.
Sognavo di mondi immaginari e senza confini, di racconti fantastici, di città sconosciute al di là del mio balcone avvinghiato alla ringhiera come sul bordo di una nave sorpresa dalla furia della tempesta navigando su mari tenebrosi.
Sognavo stanze immaginarie e in esse entravo “realmente” per nascondermici, camminando lentamente e in silenzio eccitato ed anche un po’ impaurito di ciò che avrei potuto trovare, di ciò che avrei potuto risvegliare ma non ho mai avuto veramente paura perché mi sentivo a mio agio come se le presenze che avvertivo mi appartenessero e non volessero farmi del male, come se la mia sconfinata immaginazione rivelasse il mio bene, rappresentasse la via d’uscita ed una cura.
Da solo immaginavo fatti fantastici, da solo ne parlavo e li vivevo; nella solitudine spegnendo ogni comunicazione con l’esterno io ritrovavo me stesso e l’arte dell’impossibile, la fede nei sogni, la poesia del mondo, il credere contro la
stessa speranza in qualcosa di migliore che da nessun’altra parte potevo veder realizzato o soltanto tentato.
Testardamente e a volte ossessivamente ripetevo i miei sogni dovunque fosse possibile, tutte le volte in cui ero solo, tutte le volte in cui l’immaginazione mi strappava dalla coscienza di questo mondo stupido ed oscuro, tutte le volte sognavo quando potevo, tutte le volte prima di addormentarmi immaginavo di trovare la chiave che la porta dei sogni apre, giù nelle profondità di un lago freddo ed oscuro, ai confini tra l’io ed il sonno e proprio allora la distinzione fra i due mondi si perdeva e lentamente svaniva .
Il sonno é popolato di immagini che l’una sull’altra si sovrappongono e si attorcigliano, scorrendo l’una accanto all’altra in una serie di instanti che non hanno tempo e spazio, in cui gli opposti si toccano sembrando tutto molto naturale, senza fatiche, accettando la stravaganza delle contraddizioni come fanno i bambini quando stabiliscono le regole di un gioco, senza chiedersi il perché.
I sogni scorrono mostrandoci un’altra vita, ci parlano con un linguaggio antico, spesso mitico, spesso non solamente nostro ma comune ai viventi ed ai morti che in essi vivono senza troppe distinzioni. I sogni non abitano la coscienza, vi vivono accanto e spesso fanno sentire la loro voce ma pur sempre rimangono altra cosa da essa che vive ignorandoli e pensando gli opposti come inconciliabili, le differenze e la separatezza come ostacoli insormontabili che vanno istituzionalizzati e resi perenni nella vita dissociata delle persone, delle società e degli Stati.
Ma quando l’angoscia di una vita senza il sogno si impadronisce dell’esistenza condannandola all’aridità, alla assenza di creatività ed al nichilismo delle ragioni e dei giudizi; quando la infinita ricchezza interiore che nei sogni si manifesta deve arrestarsi ai confini della coscienza che di soli pensieri, spesso non suoi, vive; quando la coscienza ci condanna all’enorme stanchezza del vivere tra gli
opposti inconciliabili davanti a se stessi come davanti al mondo, quando tutto ciò accade, si vuole andar via, si vuole scappare, si cerca un rifugio, qualsiasi esso sia, dove i sogni possano riapparire e travasare la loro ricchezza, i loro significati, attraversando una coscienza indebolita ed adeguatamente frustrata.
Nel mio piccolo e ristretto mondo di moralità consunte e di serietà occhiute, il mio rifugio era ,allora, la stanchezza del giorno, l’apparire della sera, l’addormentarsi e l’esser soli: tra il sonno e la veglia, la mia coscienza tremava e lasciava spazio alle mie visioni che a me giungevano ancora sveglio.
Prima di dormire, tra le ombre della luce che muore e la notte della coscienza, chiudendo gli occhi al mondo della veglia così poco attraente nel suo squallore quotidiano e nella sua inconsapevolezza del presente, tutto proiettato in un illusorio ed ingannevole futuro e schiacciato da un ato che non vuole are, mi abbandonavo al desiderio di esser solo, smettevo di ripetere ossessivamente gli stessi errori come se dal mio vivere volessi staccarmi e dimenticarlo.
Cominciava così, in questo moto verso l’oblio, la mia giovanile visione della speranza; cominciava così la mia personale resistenza contro gli autoritarismi dell’anima e del corpo, contro il fascismo dell’uniformità e l’ottusità di un pervasivo nazionalismo che agli incubi del ato ed alle sue colpe mi e ci condannava.
Sorgeva da uno sbattito di palpebre e da un riflesso di luce che nell’oscurità si perde il mio sole, perfettamente circolare, aperto e levigato, flessibile, attivo e sempre in movimento. Raggomitolato dentro me stesso osservavo le evoluzioni e la stabilità di questo terzo occhio che benigno mi guardava mai stancandosi, mai lasciandomi, incapace di incutere paure. Volteggiando con esso, la mia immaginazione e la fantasia, riducevano i pensieri a semplici increspature di un oceano imperturbabile che silenzioso e potente seguiva la sua corrente, così, naturalmente e con gioia.
Gli sorridevo versando le lacrime dell’innamorato che il suo bene vede e riconosce ma da cui nulla si aspetta amandolo proprio per questo, aspettandolo sempre, lasciandosi cullare, nulla chiedendo o pretendendo, non riflettendo su di esso, neanche sulla sua bellezza, e con esso giocavo, cercandolo e nascondendomi, un gioco senza tempo e senza vergogna, scherzando e danzando leggero sulle punte dei piedi della mia fantasia.
Ma eravamo ancora, nella mia mente e nei suoi pensieri, due opposti inconciliabili, mancando la consapevolezza della mia anima perduta nell’ignoranza di vacue nozioni, di giudizi su mondi ultraterreni e terrorizzata da ideologie mortifere.
L’affascinante ed attraente “signora” che per mano avrebbe potuto condurmi verso esso, , colmando gentilmente gli spazi tra di noi con la conoscenza di sé stessi ed un amore intenso, facendo della vita un ponte verso il sublime e l’ineffabile taceva dimenticata nella volgarità, unilateralità e superficialità dello spirito del tempo presente che chiassoso ed inconcludente dominava tanto la vita privata quanto i fatti pubblici, seguendone i pifferai ed ascoltandone i furbi delle suggestive ragioni e delle antiche esperienze ma anche delle boriose affermazioni e della superbia dei fatti.
Urlando e non curandosi di nient’altro se non di se stesso, lo spirito del tempo presente mirava a vincere senza convincere, ad insegnare senza riflessione, a dubitare senza crescere, a dire sempre di si ma senza gioia e con il capo rivolto verso il basso della rassegnazione e del grigiore.
Esso era ed é totalitario, essendo ovunque, tutto ascoltando e parlandoti continuamente perché tu solo con te stesso mai possa restare; vive sulle tue spalle ed é lo spirito che ti fa pesante, taglia le tue ali ed uccide il tuo sorriso; esso vuole essere tutto per la tua vita e nella tua vita, esso, per questo, assume
diverse forme e si adatta continuamente alle tue perplessità, esso diventa te stesso, indistinguibile da te, e si fa chiamare pensiero i confini del quale esso chiama angoscia e paura.
Sognavo ad occhi aperti il mio cerchio ma ancora dormivo perche ad esso non potevo andare, potendo soltanto ammirarlo e riceverne benignità; non potevo in esso perdermi perché ero solo, senza la mia anima segregata nelle celle del materialismo, del clericalismo e di un subdolo nazionalismo che solo separazione e disperazione seminavano nelle società e nelle anime spingendole verso il nichilismo e la violenza.
Nel sonno si perdeva la mia visione, inconcludente, certo, ma rimanendo almeno la promessa di un suo ritorno, la certezza che non mi avrebbe abbandonato, essa stessa sperando in un mio risveglio che presto o tardi sarebbe potuto accadere.
V
Forse non è a scuola che impariamo per la vita, ma lungo la strada di scuola.
Heinrich Böll, Cosa faremo di questo ragazzo?, 1981
L'entusiastica Fantasia ha sempre marinato la scuola.
William Hazlitt, Discorsi a tavola, 1821/22
Lo Stato mantiene le scuole perché i padri di famiglia le vogliono e perché lui stesso, avendo bisogno tutti gli anni di qualche battaglione di impiegati, preferisce tirarseli su a modo suo e sceglierli sulla fede di certificati da lui concessi senza noie supplementari di vagliature più faticose.
Giovanni Papini, Chiudiamo le scuole, 1914
La scuola è fatta per avere il diploma. E il diploma? Il diploma è fatto per avere il posto. E il posto? Il posto è fatto per guadagnare. E guadagnare? È fatto per mangiare. Non c'è che il mangiare che abbia fine a se stesso, sia cioè un ideale. Salvo in coloro, in cui ha per fine il bere.
Giuseppe Prezzolini, Codice della vita italiana, 1921
Ingenuamente cercavo di trattenere quell’immagine dentro i miei occhi, fissandola con la concentrazione della mia mente come fosse una fotografia che perennemente tra le pagine del libro dei desideri avrei potuto conservare, ma così non era perché tutti i miei sforzi immancabilmente l’allontanavano sempre di più, il pensarla la faceva svanire, schiva e timorosa amava la sua indipendenza e così decideva quando a me venire e da me partire. La vedevo congedarsi, trasformarsi in altro di non comprensibile e ad ogni instante farsi sempre più debole fino a svanire.
Cosi’, rimanendo solo nell’oscurità della mia stanza, stanco e deluso, insicuro se mai essa sarebbe ritornata, riapparivano vincitori tutti i pensieri della mia vita quotidiana , nuovamente occupando tutto il mio spazio, incatenandomi all’oscurità che adesso dappertutto si espandeva, dentro e fuori di me: e pensavo, semplicemente pensavo, ostinatamente, un pensiero dopo l’altro, l’uno richiamando il prossimo in una catena di connessioni che sembrava non esaurirsi mai; pensavo il tempo presente, la sua miseria e le sue ragioni, gli scopi e le sue possibilità, il ato con i suoi fallimenti ed insegnamenti, ed il futuro prevedendolo e dimenticando.
Pensavo la mia vita chiedendomi dei perché e dandomi sulla stessa ragione giudizi differenti seminando così altri dubbi che arrestavano sul nascere qualsiasi speranza d’azione e farfugliavo parole incomprensibili quando un pensiero toccava la corda dei sentimenti entusiasmandoli o completamente deprimendoli.
In balia dei pensieri, sempre più cadendo nella confusione e nella certezza dell’inattività, avo improvvisamente nella vita del sonno non avendo i pensieri alcuna sostanza che potesse tenermi sveglio; morivo in realtà perché solo raramente ho vissuto i sogni ed il sonno mi é apparso sempre vuoto o tutt’al più fonte di assurdita’ e meschinerie.
Dormivo allora, dormivo bene e a lungo il sonno della mediocrità che al mattino seguente sarebbe continuato ancora una volta e chissa’ per quante altre volte nei luoghi dell’ignoranza e della malafede.
Mi recavo a scuola ogni mattina, sempre e puntualmente, preparando accuratamente tutto l’occorrente e solitamente di buon umore; c’era infatti una gradevole sensazione che mi spingeva a credere che lì, in fondo, all’interno di quel brutto e mediocre edificio pieno di persone cariche ciascuna della propria storia e del proprio entusiasmo, potesse accadere qualcosa di positivo, che cioé si potesse davvero imparare qualcosa che valesse la pena, che fosse importante, semplicemente tale, qualcosa di importante in cui credere e soprattutto fare proprio, che potesse diventare parte di me e della vita, che potesse in me vivere; questa era, infatti, la ragione del mio consueto buon umore mattutino, sapevo che il giorno avrebbe potuto dare qualcosa, che la scuola avrebbe potuto aprire le porte di un gioioso sapere, ne ero certo.
Ricordo i momenti vissuti durante il tragitto per andarvi come tra i più felici e pieni di speranza: la città che si rianimava lentamente all’inizio e poi sempre più freneticamente, gli odori delle cose buone del mattino che non accettava inganni , i compagni di scuola affamati di vita stipati davanti l’ingresso cercandosi l’un l’altro ed odiandosi, amandosi e scoprendosi nella confusione e tra le non dichiarate incertezze. Tutto era movimento, ronzio, ricerca, nulla di stabile o definito, a quell’eta’ ancora danzavamo leggeri ed eravamo come una materia fluida incandecente a cui é sconosciuta la sua ultima forma.
Ogni mattina mi sentivo piacevolmente pronto a ricevere, ad accettare verità scomode, ad ascoltare le altrui immaginazioni, fantasie ed esperienze, le storie di sacrifici, del valore del silenzio, a scorrere le pagine di un gaia scienza, a scoprire nella malinconia il sorriso più dolce, ad aprirmi, insomma, a tutto ciò che mi avesse aiutato a conoscere me stesso.
Aprirmi, si, spalancare, di fatto, le porte della creatività, immergermi senza
paura nel suo oceano sospinto dalle ali della poesia, dal tremendo potere della musica e dalla castità dei numeri. Così, nell’aria del mattino che non ho mai smesso di amare, urlava dal mio inconscio un irrefrenabile desiderio di sapere, un commovente ed incondizionato si alla vita.
Ma l’illusione durava poco tempo, perché questa forza, questa energia che naturalmente dispiegava la mia giovanile disponibilità al sapere, alle avventure del sapere, veniva irrimediabilmente e sistematicamente, fors’anche scientemente, frustrata e repressa non nella severità e neanche nella ripetitività e noia delle nozioni bensì nella vacuità, nella superficialità di un’espressione stanca della cultura, intristita ed inutile a cui era stato rubato il tesoro della pericolosità, del rischio e della scommessa, che non faceva male ai sentimenti ed anche al corpo, che non risvegliava l’anima ma tutt’al più i pensieri, quelli più astratti e cattivi consiglieri.
Era la cultura delle grandi ideologie che nevroticamente ci innalzava verso propositi e vette al di là di ogni umana misura e realizzazione per poi inabissarci nella depressione della manifesta impossibilità di cavarne qualcosa di reale e per le delusioni cocenti che puntualmente ci aspettavano sulla soglia modesta delle cose semplici e piccole; ci aspettavamo troppo, al di là di noi stessi, misurando continuamente tutta la nostra inadeguatezza di fronte a questi propositi di realizzazione del paradiso in terra; ci dissociavano da noi stessi e con noi stessi entravamo in conflitto quando scoprivamo e sentivamo che l’animale che à in noi insopprimibilmente continuava ad esistere e ad agire nonostante ci avessero fatto credere di poter diventare angeli.
E come se non bastasse, questa cultura che si diceva universalista, queste ideologie che pretendevano di essere comuni al genere umano, erano introdotte ed insegnate nella sola ottica nazionalista: imparavamo a guardare il mondo con i paraocchi della sovranità nazionale, discutevamo di altre culture al riparo dell’egoismo nazionalista, cercavamo nel ato millenario con le categorie di una nazione sorta neanche un secolo prima.
Mancava la cultura delle differenze verso gli altri, verso gli altri popoli e soprattutto verso se stessi facendoci credere, a scuola ma non solo, che la nostra personalità, che noi come esseri umani fossimo un’ unità indissolubile ed uniforme che con ciò che é estraneo deve si confrontarsi ma sempre dal suo punto di vista o che ciò che é estraneo andasse rimosso semplicemente negandone l’esistenza; l’uso della stessa parola “differenza” nascondeva il riconoscimento di una frattura insanabile fra gli opposti.
Prigioniero, tenuto in catene da ideologie totalitarie, nazionaliste e clericali, perdevo il mio tempo senza sapere che cosa fosse la cultura dell’uomo e della natura, della complessità e della molteplicità, del profondo e del non detto perché indicibile; erano le ideologie del solo pensiero, stampelle dell’”io” e di ogni egoismo ma soprattutto erano le ideologie di cui lo Stato nazionale si serviva per formare i suoi professionisti, i suoi impiegati, per reclamare obbedienza ed imporre l’ignoranza di sé.
Non esseri umani ma funzionari, non liberi spiriti, ma burocrati, non uomini della ricerca e viandanti del sapere ma pre-giudicanti, non anime leggere ma pesanti portatori di carta, idealisti adoratori dello Stato sovrano, celebranti senza responsabilità. Brutti e banalmente orribili dietro la maschera dell’ io, torturati e torturatori al riparo di ordini superiori, dalla vita escludendo ogni amore, questo essendo l’ideale di uomo di cio’ che lo Stato nazionale sovrano chiama la sua educazione.
Nel fascismo delle uniformita’ morivano la follia, la fantasia e la creatività ed all’oblio o al caso veniva lasciato il sentimento della religiosità dell’anima come del corpo; vietati alla conoscenza i millenari percorsi della spiritualità e della meditazione solo sulla carta restava il monito del “Conosci te stesso”, reso vuoto e silente dalle ideologie della morte e dalla dittatura del pensiero.
Così, l’ignoranza appariva, mi appariva un rischio da poter correre tranquillamente senza avere la sensazione di perdere qualcosa di buono ed infatti
non imparavo, non riuscivo ad imparare e sempre più perdetti l’interesse nel farlo, in tutto ciò che si potesse chiamare cultura; a parte vuote nozioni, vane ripetizioni e supponenti pretese non restava molto altro di ciò che erano i miei studi e tutto, ogni parola o scritto cadeva nel vuoto senza conseguenze, senza rumori, senza niente.
E niente era ciò che rimaneva, proprio niente se non frasi fatte e slogan ripetuti perché da qualcun altro sentiti o per dispiacere qualcun altro, ma in realtà erano niente; mi dicevo comunista ma non capivo ciò di cui si trattava e tutte le mie parole esistevano soltanto grazie ad un ripetitivo sforzo mnemonico pieno di contraddizioni e falsità; poi mi dissi fascista e così poco sapevo di esso che dovetti cominciare a tessere l’elogio della violenza e del razzismo perché incapace di costruire sulle idee e gli argomenti che non conoscevo e non mi interessavano.
Vagavo così nel mare delle mie contraddizioni, anzi, cadevo nel vuoto della mia vacuità senza potermi fermare; vivevo prigioniero nell’isola della dimenticanza e dell’ignoranza ed ero solo perché avvertivo la disperazione del mio stato nonostante tutto.
Era peggio che vivere in uno Stato totalitario che ci impone l’indottrinamente delle sue idee, riempiendoci la testa normalmente di stupidaggini ed assurdità, perché nel mio caso, lo Stato sovrano, cominciando dalla scuola, imponeva lo svuotamento delle menti, facendoci marciare verso il vuoto e gli abissi del non senso nella piu’ completa confusione chiamando ciò democrazia e rispetto della libertà altrui ma subdolamente mirando a fare dei propri cittadini un’arrabbiata accozzaglia di scalmanati e depressi facilmente controllabili e manipolabili come mai gli antichi Stati totalitari avevano sognato di ottenere.
Quando cerco di rivivere quei giorni, mi rendo conto di non avere ricordi ma di abbracciare i periodi soltanto a grandi linee e gli unici sentimenti che riesco a rievocare appartengono a quando decidevo di non andare a scuola e soprattutto a
quei mattini di primavera ati in una spiaggia ancora vuota godendomi il primo tepore attraverso i vestiti ancora invernali, il silenzio e il paziente sciabordio meditativo delle onde sentendomi pienamente coinvolto e partecipe, sorridente e vivo nel ricongiungimento di corpo e mente indicibilmente offrendosi alla realtà esterna, con gioia e attesa.
Così, con il senno di poi, stavo davanti al Mare dei miti e dei simboli, a quelle onde cariche di storie, le più diverse, tutte, ma proprio tutte, appartenendomi, la mia anima, migrante di questo Mare, mormorandomi la mia molteplicità riflessa da due specchi all’infinito che, oggi scopro, soltanto attraverso un percorso infernale di morte e rinascita può essere pienamente accettata e non soltanto nel mio ristretto ambito individuale ma ben oltre esso se , seppur piangente e con dolore come sempre, Europa, troverà il coraggio di abbandonare ancora una volta i patrii lidi.
VI
Il nichilismo è alle porte: da dove ci viene costui, il più sinistro fra tutti gli ospiti?
Friedrich Nietzsche, Frammenti postumi, 1869/89
Sorge all'orizzonte il contrario del mondo che veneriamo, e del mondo che viviamo e che siamo. Non resta, che o eliminare le nostre venerazioni o eliminare noi stessi. Quest'ultima cosa è il nichilismo.
Friedrich Nietzsche, Frammenti postumi, 1869/89
Ogni specie di pessimismo e di nichilismo diventa nella mano del più forte soltanto un martello e uno strumento in più, per acquisire un nuovo paio di ali.
Friedrich Nietzsche, Frammenti postumi, 1869/89
Che cosa significa nichilismo? Significa che i valori supremi si svalutano. Manca lo scopo. Manca la risposta al: perché?
Friedrich Nietzsche, Frammenti postumi, 1869/89
Il culmine della follia non è forse pensare che l'essere è il nulla? E "nichilismo" non è forse, innanzitutto, pensare che l'essere è nulla?
Emanuele Severino, su Corriere della sera, 2006
Se non c'è Dio, io sono Dio
Fëdor Dostoevskij, I demoni
L'uomo è infelice perché non sa di essere felice. Soltanto per questo. Questo è tutto, tutto! Chi lo comprende sarà subito felice, immediatamente, nello stesso istante.
Fëdor Dostoevskij, I demoni
L'assoluto ateismo si trova sul penultimo gradino della scala verso la fede perfetta (che faccia o no l'ultimo o), mentre l'indifferenza non ha nessuna fede, ma soltanto una stolida paura.
Fëdor Dostoevskij, I demoni
Nel formarsi del disastro psicologico della mia personalità nel rapporto con me stesso e con l’ambiente circostante, nella dissociazione, continua e nevrotica, fra l’ io e le tante altre componenti del mio essere e fra me stesso e la molteplicità complessa e illimitata della realtà esterna, si affacciava la solitudine come
naturale risultato dell’ incapacità di gestire il mio esistente tutt’altro che unitario, certamente fatto di opposti di cui il pensiero non conosce la conciliazione bensì, ove possibile, il loro superamento o ,più semplicemente e sbrigativamente, la netta separazione: uomo, donna, amico, nemico, straniero, connazionale, diverso, simile e così via mi sembravano dover meritare un’idealità superiore che mai, però, sarebbe arrivata o la più volgare e violenta contrapposizione.
Era come stare sulle montagne russe andando su e giù a grande velocità provando paura, paralizzandomi ed esaltandomi quasi allo stesso momento e senza sosta sentendomi naturalmente ed immediatamente inadeguato a trovare una soluzione, ad intraprendere un’attività, a trovare una via d’uscita ed un cammino.
Perdevo, così, il contatto con la realtà, di volta in volta portandola troppo in alto o considerandola indegna di essere vissuta ed in entrambi i casi restando deluso e chiuso dentro me stesso, al di fuori di essa cercando una soluzione o un’alternativa e così, cominciando a delegare agli altri l’onere della risposta e spesso la colpa dei miei propri fallimenti.
All’inizio venne Dio con cui, da bambino, spesso parlavo con la segreta certezza che mi ascoltasse e gli chiedevo di aiutarmi, di rendere nuova la mia vita, di liberarla e di farmi felice, perché al di là di tutto era questo ciò che volevo, volevo essere felice per qualche motivo, per una ragione o magari anche per un torto, qualunque cosa fosse non mi sarebbe importata purché io avessi incontrato la mia felicità; ed in effetti, soltanto un dio avrebbe potuto darmi quella felicità, solo un miracolo, infatti, un atto contro natura, certamente, avrebbe potuto rendere felicità l’ignoranza di sé e la coscienza della separatezza che governavano la mia vita in ogni suo aspetto ed in ogni momento.
Mi ricordo un giorno in cui mi sentivo così inadeguato da non voler più vivere ma neanche morire e decisi allora di invocare Dio per affidargli completamente la mia esistenza, per metterla del tutto nelle sue mani perché io non la volevo più
essendo diventata come un fardello troppo pesante da portare ed ingombrante per darvi un posto, uno qualunque. Ma non invocavo Dio per dargli la mia vita bensì il mio vivere, il mio dover vivere ed agire, il dover fare qualche cosa ed era proprio questo che io, già in giovane età, non volevo più preda fin da allora della piu’ totale inattività e di tutte le mie paure.
Ma non funzionò, Dio non mi ascoltò ed io divenni ateo per snidarlo da qualche altra parte.
I fatti e le vicende politiche diventarono i veri amici del mio tempo, stavano sempre lì disponibili ed interessanti, c’era sempre qualcosa di nuovo, un ultimo sviluppo, una sorpresa o un imprevisto; era una scena aperta a cui tutti avrebbero potuto partecipare, dire la propria e financo avere un opinione.
In un primo momento pensai che la politica fosse un semplice diversivo, una compagna nella costante della solitudine ma a poco a poco cominciai a scorgervi altro di piu’ importante e serio, intuendo che le scelte politiche, le soluzioni, le proposte, soprattutto quando hanno una portata storica che tuttavia mai é data da un singolo evento ma da un susseguirsi di fatti anche lontani nel tempo, non rimangono confinate nella sola sfera pubblica o del sociale ma hanno altresì una ricaduta e delle conseguenze nella sfera individuale e della psiche, a dir il vero, mutualmente influenzandosi. C’era già nel suo sorgere la consapevolezza che la politica é anche psicopolitica e che la sua simbologia poteva dar sfogo alle pulsioni personali ed offrire spiegazioni al malessere della persona donandogli un senso, una direzione e mostrando che la vita era qualcosa di più della somma dei fatti e delle abitudini quotidiane.
Cosi’ vissi, seppur ancora inconsciamente, il mio approccio alla politica cominciando a pensare che qualcosa era andato storto, che qualcosa era sbagliato dentro di me e nella società, i problemi degli uni intrecciandosi con quelli degli altri,, quelli della società con i miei personali e tutti insieme sprofondando nelle nevrosi individuali e collettive.
Ciò che a quel tempo non fui in grado di individuare fu la cornice dentro la quale la società e la politica a quel tempo provavano ad esistere, si trattava del nazionalismo, fosse esso di impronta progressista o conservatrice poco cambiava il fatto che quella cornice rappresentasse un limite terribile al ruolo di rinnovamento della società e delle persone che alla politica si assegnava; il nazionalismo rimaneva sullo sfondo non visibile apparentemente e non dichiarato ma quasi sempre presente come un ombra che da un non troppo lontano ato richiamava i suoi temi e le sue ragioni lavorando pazientemente per dare a questo stesso ato una sua inattesa rivincita.
All’ inizio mi dissi comunista, ma lo divenni ingenuamente, quasi per abitudine e ripensandoci era il mio modo piu’ diretto di continuare a credere in Dio perché in questa “scelta” dovevano trovare risposta le mie ansie di giustizia e di un mondo migliore, ma non fu così.
Non fu così perché fini per difendere la povertà, per scagliarmi contro i ricchi e in genere contro coloro che erano di più, che più di me avevano, che più di me erano; speravo nella loro caduta per ottenere la mia vendetta, finalmente, contro coloro che ridevano ed erano allegri; guardavo di sbieco i “vincitori” segretamente aspettando il momento della loro sconfitta ed umiliazione, nulla per me sperando, non credendo, infatti, importante avere per me alcun beneficio essendo la mia più grande ricompensa la rovina di chi era felice.
Il mio alto ideale era dunque fondato sull’invidia, il mio comunismo era desiderio di vendetta e nonostante me ne rendessi sempre di più conto, non riuscivo a cambiarlo; in qualsiasi cosa dicessi, vi trovavo al fondo un oscuro desiderio di violenza e sopraffazione, certo, ammantato da splendide parole, o semplicemente nulla, minaccioso ed inquietante che sempre verso l’altro mostrava il dito accusatore.
Il comunismo, ancor più del cristianesimo, si prestava felicemente alle mie nevrosi e a quelle delle persone a me vicine e financo della società perché mi e ci convinceva a chiamare i nostri peggiori sentimenti con nomi e giustificazioni altisonanti e nobili dando alla violenza uno scopo ultimo così legittimandola nelle nostre menti e nella pratica.
Ma quale comunismo? Quale comunismo ho conosciuto? parlo di Marx o di Pier Paolo Pasolini? No, assolutamente no, io, con quel comunismo non ho mai avuto rapporti a quel tempo per il semplice fatto che non lo conoscevo nascosto com’era dalla propaganda del vero comunismo a me noto e fatto conoscere: il nazional comunismo.
Gli ideali, le speranze, magari anche la fede e le illusioni, il sogno di liberazione dell’uomo, la sua libertà, insomma tutto ciò che aveva innalzato il comunismo al rango di promessa per eccellenza di un mondo migliore veniva ato al vaglio della ragion di Stato, dei suoi strumenti, delle sue carte e dei suoi codici, del cinismo dello Stato e della sua assenza di fantasia. Era, dunque, il comunismo della lotta per il potere statuale, della sopraffazione dello Stato più grande su quello più piccolo, della sovranità assoluta soprattutto quando si trattava dei diritti della persona.
Era il comunismo che non parlava dei comunisti spesso nascondendoli alla conoscenza,rimuovendone le storie, negandone le diversità e le differenze o semplicemente sacrificandoli alla sua burocrazia e alla lotta per il potere; era il comunismo dell’onnipotenza del partito contro l’uomo, contro le leggi e il diritto, che utilizzava gli ideali e le idee solo se funzionali, ancora una volta, alla lotta per il potere.
Questo mio comunismo, dunque, era ed in me cresceva in forma dissociata, agli ideali e al bisogno di libertà corrispondendo una sordida lotta per assumere o mantenere le leve del potere statuale ed ecco perché esso morì prima nel cuore e nelle menti degli uomini che sulle pagine dei giornali e nella storia, perché fonte
del nichilismo e dell’assenza di valore, perche’ tanto “é tutto uguale” e “sono soltanto belle parole”.
Ricordo di aver perso la speranza e vidi crescere in me il cinismo e la cattiveria, tutti gli ideali cadendo l’uno dopo l’altro di fronte alle oscenità di un potere che si appropria delle idee e sentii che il rancore, l’ignoranza, l’insolenza e financo la violenza trovavano dentro di me il loro posto giustificandosi e sorridendomi compiaciute.
L’indifferenza e il disprezzo seguivano conseguentemente occupando tutti i miei atteggiamenti verso la vita e gli altri non vedendo che me stesso in guerra contro tutti perche’ così non poteva non essere.
Il fascismo allora non fu sufficiente ad esprimere la mia rabbia e diventai nazista.
Questa “scelta” fu l’apice del mio nichilismo di fatto perchè non credevo più in nulla nella maniera più “assoluta” ed odiavo tutti e tutto pensando che un’estrema violenza fosse la giustificazione e la soluzione di tutto, che un’ estrema separazione da tutti e da tutto, che l’unilateralità della mia personalità fossero necessarie, anzi inevitabili e che tutto ciò che fosse diverso e differente non esistesse o dovesse essere distrutto.
Guardavo alla Germania nazista esaltato ed ammirato come sublime esempio di nazione votata alla propria e all’altrui distruzione e credevo che questo fosse l’unico senso, l’unico significato che al tutto si potesse attribuire e che l’obiettivo della morte e dell’auto distruzione fosse l’unico antidoto contro le delusioni e la disperazione presenti e future come se già prefigurassi a me stesso un destino di solitudine e fallimenti.
Per me era la fine a qquel tempo della psicopolitica perché non desideravo affatto un mondo ed una società migliore ma semplicemente distruggerli, farla finita: era il trionfo della dissociazione dalla realtà e dalla mia storia non vedendo più alcuna continuità ma soltanto perversione e corruzione.
Ma era anche il trionfo di quel totalitarismo ideologico e culturale che negli Stati nazionali sovrani trovava e trova il suo fertile terreno, che annegando le differenze, nascondendo le diversità all’altrui conoscenza ed insegnando l’inconciliabilità degli opposti, della persona nutre soltanto la rabbia e la disperazione ed ha bisogno che divenga violenta o verso gli altri o verso se stessa come nel mio caso poiché da quel momento divenni il peggiore nemico di me stesso.
Vivevo nella pratica e nei desideri soltanto sentimenti di morte e di fine, non cominciavo mai nulla e mi lasciavo andare come docile strumento di una cultura di morte assumendo su di me errori che non mi appartenevano negando ogni libertà e gioia ed approfondendo la mia delusione e la disperazione.
La disperazione di tutti i simboli e miti che uno dopo l’altro cadevano miseramente dagli occhi e dal cuore, dell’inadeguatezza e della decrepitezza fino al marcire nella corruzione, nell’impotenza e nella prepotenza degli Stati nazionali sovrani a nulla lasciava spazio se non alla distruttività verso gli altri e verso se stessi ed al nichilismo livellatore del consumismo delle cose, delle persone e di se stessi, la scelta essendo ormai fra il divorare gli altri o se stesso.
Così vivevo, io, da europeo in Europa, figlio di mille storie sempre presenti e di un continente senza confini che vive soltanto se la paura dismette ed intraprende il viaggio verso l’ignoto con dolore, certo, ma anche con accettazione e gioia che costruisce e conosce e del ritorno sogna nostalgicamente.
Cosi vivevo, io, in Europa senza più miti e simboli respirando i miasmi ed il putridume della ridicola e supponente sovranita’ degli Stati nazionali che come in un cimitero fungevano, con le loro ragioni, da becchini delle storie e del divenire di un intero continente.
Ma proprio in questo paesaggio di morte e nei suoi luoghi più oscuri dove tutto sembrava ormai perso irrimediabilmente, debole e folle indugiava e prendeva forma la speranza dell’inaffidabile ed impossibile sogno contro la realtà del molto probabile ed infatti mi innamoravo, mi innamoravo spesso ma sempre della persona sbagliata; mi innamoravo, si, ma per restare sempre piu’ solo.
VII
L'inferno è la sofferenza di non poter più amare.
Fëdor Michajlovic Dostoevskij
L'arte e la rivolta non moriranno che con l'ultimo uomo.
Fëdor Michajlovic Dostoevskij
A volte l'uomo è straordinariamente, apionatamente innamorato della sofferenza.
Fëdor Michajlovic Dostoevskij
L’amore è lo stato in cui l’uomo vede le cose diverse da come sono.
Friedrich Nietzsche
Nel vero amore è l’anima che abbraccia il corpo.
Friedrich Nietzsche
Dicevo di amare ma stavo sempre io al centro, bisognoso d’amore più che innamorato dell’amore, amavo solo me stesso e solo a me stesso procuravo piaceri o sofferenze, gli altri non esistevano se non come meri strumenti del mio egoismo.
Avevo scelto di vivere separato, avevo scelto le ideologie nazionaliste della separazione che sull’amore prevalevano e lo modificavano in un gretto uso dell’ amato come un qualsiasi oggetto o cosa che confondeva l’amore con una serie di tattiche per ottenere favori e piaceri mai nulla dando.
Eppure mi sentivo solo, l’egoismo non mi bastava e vanamente ne seguivo le esigenze stoltamente credendo che così facendo avrei avuto le mie soddisfazioni, i miei piaceri, ma era una ruota che girava senza fine, una fame insaziabile che alimenta se stessa senza curarsi di nient’altro.
Ero sempre al bivio fra il desiderio e il sentimento ma il più delle volte restavo fermo e solo sognando la grandezza del sentimento d’amore ma confondendolo sempre con i miei piaceri irresistibilmente attratto verso questi anche a costo della dannazione della mia anima che sempre più si nascondeva fino a sparire dietro gli egoismi di tutti i tipi e le ragioni della mente
Mi innamoravo di me stesso in effetti, tutt’al più gridavo la mia richiesta d’aiuto ma il muro dell’egocentrismo era troppo alto per essere superato e raggiungere la vita degli altri e più mi innamoravo. più restavo solo e mi vedevo solo perché soprattutto allora appariva lucidamente tutta la mia solitudine e quanto distante io fossi dal cuore delle persone e nella solitudine scorgevo i miei compagni, i pensieri e le ragioni della mente che fomentavano la mia rabbia, l’odio e l’egoismo in un circolo che non finiva mai neanche per un instante, sempre
presenti a me stesso, sempre ascoltando la loro voce, le giustificazioni e i loro giudizi, vigili di giorno come di notte, facendomi rimbalzare tra gli opposti senza difese o consapevolezza, mi rubavano il sonno ed i sogni e si trasformavano in un incubo quasi volessero impossessarsi di me definitivamente, spezzarmi in una miriade di parti impossibile da ricomporre e votarmi per sempre al culto della morte.
VIII
Il mondo dei sogni
La storia è un incubo da cui cerco di destarmi.
James Joyce
Ho osservato una lumaca strisciare lungo il filo di un rasoio, questo è il mio sogno, è il mio incubo: strisciare, scivolare lungo il filo di un rasoio e sopravvivere
Colonnello Kurtz, dal film Apocalypse Now
La tradizione di tutte le generazioni ate pesa come un incubo sul cervello dei vivi.
Karl Marx
Ogni uomo è un incubo abbandonato soltanto a se stesso.
Thomas Bernhard, La cantina, 1976
La cosa migliore per l'uomo sarebbe prendere alla lettera questa metafora ormai logora: "La vita è un sogno". Dare importanza a questo sogno è volere che degeneri in un incubo
Louise-Victorine Ackermann Choquet, Pensieri di una solitaria, 1882
Un sogno troppo serio che diventa un incubo tra le braccia di un bambino che ancora, tardi nella notte, non riesce a dormire.
Silvio Bosco
Ancora una volta accadeva tra il momento di una veglia calante e quello di un sonno incipiente, ma questa volta non era un sogno bensì un incubo ad occhi aperti che dal sonno e dai sogni mi strappava legandomi e condannandomi alla rupe dei pensieri che non terminano.
Al buio della notte immaginavo e fantasticavo provando inconsciamente a dare una forma alla mia anima perduta, a colei che da lontano, come la morte, mi salutava divenendo più inguardabile ed orrenda man mano che si e l’allontanavo.
Immaginavo e fantasticavo, quasi meccanicamente, come in un processo notturno di catarsi, di eroi e cavalieri, di battaglie immani e di sacrifici inauditi.
Non aprivo mai gli occhi ma non dormivo ed il flusso dei pensieri fantastici scorreva ininterrottamente costruendosi su se stesso certamente senza grandi complessità ma con una tanto ricercata quanto illusoria verosimiglianza, insomma, sognavo ad occhi aperti.
Sembrava non dovesse finire mai o che tutto dovesse interrompersi tuffandosi senza criterio nel vero mondo dei sogni senza soluzione di continuità, senza interruzioni e sarebbe stato un gran bel sogno, fors’anche un’infantile riconciliazione fra il mondo esterno e la mia interiorità perché che altro é la fantasia se non la continuazione dei sogni nella vita della veglia?
Ma così, purtroppo, non accadeva perché una fantasia, un pensiero inconsciamente presentatosi alle mie visioni, come un vecchio disco incantato, indugiava e non andava più via ripetendosi all’infinito chiudendo le porte del sonno e dei sogni.
Erano i cavalieri senza volto, lentamente apparendo da una collina brulla dirigendosi verso di me ad un ritmo cadenzato e lento, molto lento e sempre uguale, ripetitivo e noioso ma senza fine come se fosse incantato.
Non so quanti fossero, forse cinque o sei, magari di meno o di più, non lo ricordo o semplicemente non lo so perche non lo percepivo essendo, o dopo o, incantato dal movimento ondulatorio dei cavalli, neri anch’essi; apparivano, così, minacciosi ma con il pensiero rivolto al bene ed il cuore malato, annerito dalla violenza, senza volto, senza tratti riconoscibili quasi fossero un tutt’uno con i loro cavalli: cavalcavano ma subito si fermavano giusto dopo aver superato la cresta della collina ripetendo infinitamente lo stesso movimento simile a quello dei cavalli a dondolo che continuano a muoversi spettralmente anche quando nessuno li guida e l’anima o l’umanita’ li hanno abbandonati.
Erano essenziali, niente fronzoli e nessun dubbio, la loro determinazione e le loro ragioni non conoscevano sosta o contraddizioni, essi infatti combattevano per il bene, erano degli eroi e alle loro gesta salvifiche tutto doveva essere sacrificato, nessuna opposizione sarebbe stata accettata essendo stato deciso una volta per tutte il fine ultimo.
Sentivo che erano nel giusto, che avevano le loro ragioni, che il loro obiettivo era sacrosanto e che la loro direzione, la loro lotta era quella giusta, oggettivamente corretta e suscitatrice di nobili entusiasmi ma ne avevo paura.
Subito dopo la loro apparizione rimanevo come paralizzato e non riuscivo a spiccicare parola o mutare pensiero, ricorrere ad altre fantasie, meno giuste, magari. Nulla da fare, dovevo rimanere lì bloccato davanti la mia mente soggiogata da quel movimento e dalla sua immutabilità e sentivo che non sarei riuscito a dormire, che non vi sarei riuscito per un lungo tempo, forse per sempre: così, le ragioni dei cavalieri diventavano il mio incubo.
ava il tempo, si inoltrava la notte ma rimanevo stabilmente intrappolato nella veglia della coscienza lontano dal sonno e dai sogni preda dei giusti cavalieri e delle loro ragioni che soltanto una mente notturna poteva ascoltare e fare proprie: lì, davanti a quel movimento monotono e sempre uguale, guardando dal basso verso l’alto spariva la mia intelligenza e si chiudevano le porte dell’anima, di colei che diverso a me stesso mi avrebbe fatto fino al punto di uccidere eroi e cavalieri troppo uniformi e unilaterali essendo le loro verità.
Forse avrei potuto rimanere in quello stato di incantamento fino alla morte, soffocato dalle troppe sicurezze dell’io e dai mille indici puntati contro chiunque e contro la complessità di me stesso; il mio volto sarebbe potuto diventare il ghigno del giudicare, il mio parlare un biascicare violento, i miei desideri una occulta perversione mascherata da perbenismo, i miei pensieri avrebbero potuto sopravvivere nutrendosi nella palude delle grandi cause e delle missioni da compiere.
Forse sarei potuto diventare un seguace di uno o di tutti i cavalieri neri e senza volto seguendone le loro verità anche negli abissi della violenza e della ridicolaggine ed anch’io avrei ricevuto l’incanto di un movimento monotono e sempre uguale per sempre, avrei potuto, cioé, io stesso, diventare un cavaliere nero, senza volto e senza anima.
Avrei potuto seguire la corrente, condannare gli altri per il solo fatto di essere tali, avrei potuto lasciarmi attrarre dalle sole altezze fingendo di non sapere che dal basso esse si scorgono, avrei potuto cercare la sola purezza disprezzando tutto l’amore contenuto in ciò che tale non é, avrei potuto, insomma, rifiutare di vivere e per questo sarei diventato un adoratore della morte dannando la mia anima nel paradiso degli eroi e dei cavalieri.
Ma le strade della vita non hanno una sola direzione, esse sono molteplici e tutte possibili, così diverse le une dalle altre da essere inconoscibili per eroi e cavalieri, grandi e piccole, esse sono spesso difficili ed impraticabili per i pesanti zoccoli dei loro cavalli a cui mancano la leggerezza e le ali della gioia, le piccole cose e il sentimentox della sconfitta.
IX
Nei ricordi di ogni uomo ci sono certe cose che egli non svela a tutti, ma forse soltanto agli amici. Ce ne sono altre che non svelera’ neppure agli amici, ma forse solo a se stesso, e comunque in gran segreto. Ma ve ne sono infine, di quelle che l’uomo ha paura di svelare perfino a se’ stesso, e ogni uomo perbene accumula parecchie cose del genere.
Fedor Michajlovic Dostojewski
Non soltanto una coscienza eccessiva, ma la coscienza stessa e’ una malattia.
Fedor Michajlovic Dostojewski
Sono una persona malata... cattiva. Sono uno che non ha niente di attraente. Credo di avere una malattia al fegato. Anche se d’altra parte non capisco un accidente del mio male e non so cosa ci sia di malato in me. Non mi curo e non mi sono mai curato, anche se della medicina e dei dottori ho rispetto. Oltretutto sono anche estremamente superstizioso; o perlomeno lo sono abbastanza da rispettare la scienza. (Sono sufficientemente colto per non essere superstizioso, ma lo sono.) Nossignori, non voglio curarmi e non voglio farlo per cattiveria. Ecco, probabilmente voi questo non lo capirete. Be’, io invece lo capisco. Ovviamente non saprei spiegarvi a chi in tal modo intenda far dispetto con la mia cattiveria; non certo ai medici medesimi non curandomi da loro! E altresì so bene che così nuocerò unicamente a me stesso e a nessun altro. E tuttavia, se non mi curo, è giustappunto per cattiveria. Il fegato mi fa male? E allora avanti, che soffra ancora di più!
Fedor Michajlovic Dostojewski
I PARTE
Non soltanto ho fallito nell’essere malvagio, non ho saputo es-sere niente di niente: né cattivo, né buono, né furfante, né onesto, né eroe, né insetto. E adesso vegeto nel mio letamaio, punzecchiandomi con la maligna e quanto mai vana consolazione che l’uomo intelligente non può diventare seriamente qualcosa, poiché a ciò già è delegato lo stolto. Sissignori, l’uomo intelligente del diciannovesimo secolo ha il dovere, anzi, è moralmente obbligato ad essere una creatura essenzialmente priva di carattere; viceversa l’uomo di carattere, colui che agisce, è una creatura essenzialmente limitata. Questa è da quarant’anni la mia convinzione. Adesso ho quarant’anni e quarant’anni sono tutta una vita, dico bene? Sono o no la più profonda vecchiaia? Vivere più di quarant’anni è indecente, volgare, immorale! Chi vive oltre? Rispondete sinceramente, con onestà. Ve lo dirò io chi: gli sciocchi e i mascalzoni, nessun’altro. E questa cosa io la dico alla faccia di tutti gli anziani, alla faccia di tutti codesti rispettabili vecchi, di tutti quei vegliardi profumati dalle chiome d’argento! Alla faccia del mon-do intero la dico, questa cosa! Ho il diritto di parlare così, perché io stesso camperò fino a sessant’anni. Fino a settant’anni vivrò, io! Fino a ottant’anni, vivrò!.. Aspettate! Lasciate un’istante ch’io riprenda fiato...
Fedor Michajlovic Dostojewski
La fantasia non fa castelli in aria, ma trasforma le baracche in castelli in aria.
Karl Kraus
Giù, in basso, tremendamente in basso, dove il sole è nero, dove scorgo solo ridicolo, fallimenti, inettitudine e sporcizia; laddove vivono gli opposti del bello galleggiando paurosamente a vedersi e a sentirsi; dove le urla del sentirsi inutile, dell’essere inutile non sono udibili all’orecchio umano bensi al mondo brulicante dei vermi della terra.
Giù, nel profondo senza luce di noi stessi strisciano senza speranza vite mai vissute, sentimenti mai provati, occhi vitrei e senza qualita’; giù nel profondo vivono gli sguardi vigliacchi e lascivi di chi non é mai stato buono o cattivo, di chi non é mai stato niente.
Nel punto più basso di ogni carattere dove si mente per essere chiamati almeno “mentitore”, dove il silenzio é solo disconnessione dall’intelligenza anche l’inferno spegne le sue fiamme e l’impenetrabile ghiaccio della solitudine non trova posto nella tiepida acqua di una vita senza esistenza.
Giù, proprio nel punto più basso cominciavo. tuttavia, a guardare da lontano, a scorgere un “più alto”, ad avere una visione d’insieme sulla linea dell’orizzonte, cominciava quindi, misteriosamente, il sogno del vecchio saggio, vegliardo secco ed acuto, divoratore di idoli.
Si, proprio quando mi ero allontanato dal mare fino a perderlo di vista, fino a non udirlo più, chiuso dentro me stesso in una vita grigia e vuota, lontano dai pericoli del mare, sicuro di non poter essere rapito dai suoi pericoli e dal suo futuro, incatenato alla terraferma ed imprigionato nei suoi confini ormai privi di simboli e speranze, ormai impudicamente nazionalisti e distruttori di creatività.
Nel momento in cui il nichilismo dei massimi ideali e dell’eroismo dei cavalieri
neri dimentichi delle bassezze e delle acque torbide di un’umanità sofferente e folle esercitava la sua massima influenza fino a condannarmi nella gabbia della coscienza e dell’io a tutti i costi,precipitati di rimedi contro i pericoli e la complessità della vita. proprio in quel momento riscoprì la metafora del mare seppur ancora incosciamente e nei sogni, laddove il vecchio saggio, silenziosamente, la via mi indicava.
Non ero ancora pronto ad immergermi nelle sue acque, ad essere portato via da esse navigando senza fine nel mare della creatività e della libertà come Europa fece, rapita dalla saggezza di un dio, ma purtuttavia, il sogno del vecchio saggio preservava in me quell’equilibrio degli opposti, quella speranza di conciliazione fra essi che nella vita della coscienza non sapevo come realizzare.
Nel mare dell’eterno movimento, degli scopritori di terre nuove, dei pezzenti del mondo che ano tra i continenti e vi soccombono lasciando tuttavia il seme di una storia antica, degli innamorati della vita perché vi annegano e vi si perdono morendo a loro stessi; nel mare delle libertà senza confini, unificatore di popoli e creatore di Stati, aspettavo di immergermi e di scoprirlo come Europa fece sfidando inconsciamente le proprie paure e l’autorita’.
II PARTE
Il sogno del vecchio saggio, il sogno ad occhi aperti tra le ragioni della coscienza e l’infinito arbitrario del sonno, sono io, é la mia vita interiore ed il suo sfociare all’esterno di cui riconosco, in esso esprimendosi, i sentimenti, le lacrime e le ansie ma anche la guerra degli opposti, ognuno negando l’altro cercandone la cancellazione lasciandomi ferito, dilaniato ed in preda al nichilismo.
Ma il sogno del vecchio saggio é anche fuori di me, é la storia con i suoi moniti e richiami, con i suoi esempi e i suoi parallelismi, le sue coincidenze ed il suo
destino; é la storia delle idee e del coraggio, é una storia antica e sempre presente; ed é anche la storia dei luoghi, della natura e di tutti i loro simboli.
Il sogno del vecchio saggio è fuori di me ma proprio per questo ne divento parte o scopro di esserlo sempre stato, nella storia, nei luoghi e nella natura riconoscendomi magari soltanto inconsciamente e purtuttavia, così, traformando anche la coscienza.
Il sogno del vecchio saggio e’ anche e forse soprattutto il cenno della follia, l’inoculazione involontaria del virus della follia nella vita, nella mia vita, contagiando lentamente ma inesorabilmente tutte le scelte e lo stesso cammino della vita nel mondo ed esso é infatti anche la vita e il mondo che inconcepibili sarebbero senza la follia: quale orrendo posto sarebbe il mondo senza la follia, quante volte, senza di essa, dovremmo ripetere e dirci che nulla ha valore, che niente é importante e che non c’è nessuna speranza, e senza la follia dovremmo accettare di vivere come burocrati o come soldati, a considerare immutabile l’esistente e a ridere dei simboli, senza la follia eremmo tutta la vita a pensare seduti sulla spiaggia senza essere mai rapiti da una saggezza innamorata, dalla follia di un dio come toccò ad Europa nel mito e all’Europa nella storia che senza follia sarebbe condannata a vivere divisa tra Stati nazionali sovrani che ogni speranza uccidono frammentando la vita e rubando parti e possibilità della nostra esistenza che mai si dispiegheranno e verranno alla luce se non nel superamento definitivo del nazionalismo e della sovranità assoluta degli Stati europei.
Il sogno del vecchio saggio é il racconto della bassezza, laddove sembra tutto finito, oscuro, morto ed in preda al male e nulla lascia pensare che le cose possano cambiare, proprio nell’oscurità piu’ assoluta si può intuire la presenza di una luce accecante causa essa stessa dell’oscurità.
Il sogno del vecchio saggio é infine una piccola cosa, invisibile come una goccia d’acqua trasparente che rimbalzando lentamente, adagio ma regolarmente su una
roccia, di tempo, di tanto tempo ha bisogno per modificarne la forma, per aprire la strada attraverso i millenni ai fiumi che verranno, alle storie possibili ma improbabili, contro tutte le evidenze e verosimilmente destinata al fallimento.
Esso é tuttavia sempre presente, emergendo dal mondo dei sogni alla luce della coscienza attraverso la poesia e l’amore disinteressato essendo questo il mondo e tutto ciò di cui vivono i sognatori ad occhi aperti.
III PARTE
Il sogno del vecchio saggio é un cambiamento di prospettiva, una volta intuito, nella vita di tutti i giorni perché esso cambia i significati e ribalta i valoro comuni, esso muta le consuete direzioni, confonde la prevedibilità e la scontatezza di un fine o di un risultato, esso, infatti, sa combinare gli opposti e viverli pienamente senza scandalo o grandi sforzi: ciò semplicemente avviene.
Nel corso della vita ho creduto e ho imparato che per ogni causa ci fosse un determinato effetto e che ogni cosa avesse il suo opposto e che questi fossero del tutto separati e confliggenti, ho creduto cioé che se avessi fatto qualcosa, non avrei potuto viverne nello stesso momento il suo contrario, che se avessi fatto male, non avrei potuto considerarmi sulla strada del bene, tutto, insomma, mi appariva diviso ed immutabilmente prevedibile, logico.
Non riuscivo a concepire di poter appartenere a più cose, di essere più cose, contraddittorie, contemporaneamente e di poterle vivere con armonia, una direzione escludeva tutte le altre; non intendevo che così vasta fosse la mia personalità e la mia anima tali da poter contenere tutto, ato, presente e futuro.
Così radicata e violenta era la cultura nazionalista nella mia vita e nella società da non potermi pensare non come parte di un tutto ma come un tutto medesimo, non riuscivo, cioè, neanche ad immaginare cosa volesse dire poter essere un europeo includendo in me tutte le diversità e le storie che erano già parte di me se un nazionalismo volgare e menzognero non me le avesse rubate e poste fuori di me rendendomele estranee, straniere.
Il sogno del vecchio saggio mi mostrava la conciliazione degli opposti di una identità molteplice, mi insegnava che muovendomi in una certa direzione, in realtà andavo verso la via opposta semplicemente e senza odio.
IV PARTE
Ama il tuo sogno se pur ti tormenta
Gabriele D'Annunzio
Coloro che sognano di giorno sanno molte cose che sfuggono a chi sogna soltanto di notte.
Edgar Allan Poe
La speranza è un sogno ad occhi aperti
Aristotele
Il sogno comincia con le sensazioni.
Mi trovo in un isola dimenticata guardando un grande mare che non posso attraversare, calmo ma tetro e minaccioso guardiano della mia prigione, un infinita prigione a cielo aperto che intrappola l’amore per l’ignoto, il divenire e la molteplicità delle cose, il coraggio delle avventure dissacratrici, l’accettazione del male.
Seduto sugli innumerevoli granelli di sabbia, ho la sensazione di aver sprecato tutto, di aver sbagliato tutto e che la febbrile macchina del niente senza sosta lavorasse sulle relazioni, i pensieri, le idee, i comportamenti e financo gli sguardi, tutti apparendomi vuoti, irrimediabilmente vuoti e privi di significato.
Non c’erano speranze, per sempre sarei rimasto un prigioniero di me stesso e delle insoddisfazioni e per questo mi sentivo colpevole pensando che se avessi fatto di più, se fossi stato cattivo avrei, forse, ottenuto qualcosa di appagante; ma ben presto a questo sentimento sarebbe succeduta l’angoscia del vivere, la sensazione di essere separato da tutto e di non essere il padrone della mia vita che soltanto individuale non é e che dentro se stessa contiene un ato ed un futuro che l’individualita’ travalicano senza tentennamenti e senza riguardo.
L’impotenza, così, prendeva il sopravvento ascoltando la coscienza che piangendo mostrava per intero l’orrore della sua piccolezza e del suo essere niente, immagine, vacuità, illusione di fronte a questo grande mare che piatto ma minaccioso da tutti i lati mi circondava senza via d’uscita, senza speranza.
Vedevo le onde erodere la riva e con sé trascinare, seppur lentamente, tutta la terra impietosamente indicando che ben presto nulla sarebbe rimasto su cui avessi potuto appoggiarmi e che sarei stato inghiottito dal grande mare, che sarei divenuto semplicemente una goccia irriconoscibile di esso invisibile negli abissi e agli occhi di Dio.
Di me non sarebbe rimasto nulla, così pensavo, ma sapevo che questo nulla, questo male di vivere mi sarebbero venuti incontro per pormi delle domande e per abbattere le mie antiche risposte, sapevo, cioé, che gli spiriti della follia dal mare sarebbero venuti e mi avrebbero interrogato.
V PARTE
Avrei risposto a quelle domande, avrei confessato le loro stesse verità che non vedevo e non volevo vedere, avrei ad un certo momento della mia esistenza scritto le confessioni, le mie confessioni, le confessioni di un europeo.
Che la mia vita non appartiene soltanto a me stesso e che essa è, esiste, su un ato, un presente ed un futuro che non è soltanto il suo, su una storia che non é soltanto quella personale, su ricordi che non sono soltanto quelli del mio breve permanere, su culture che non sono soltanto quelle del suo ristretto ambiente o nazione, sugli antenati e su ciò che ancora deve nascere.
Nell’alba di questa nuova consapevolezza io mi sentii europeo, mi sentii di essere innanzi tutto questo e che ogni atteggiamento di chiusura da qualsiasi parte provenisse era sbagliato e pericoloso, sentii che la vicenda degli Stati nazionali sovrani e del nazionalismo rubavano dal tesoro della mia complessità e che immenso ostacolo erano allo sguardo libero verso complessità ancora più alte!
Capii che la ricerca della completezza non poteva accettare confini o chiusure nazionaliste perché le diversità, le contraddizioni, la molteplicità, tutti gli opposti già mi appartenevano, erano in me e più grandi di me e che nessuno Stato nazionale, nessuna omegeneità avrebbe potuto liberarmene.
Capii, infine, che nel superamento completo delle sovranità assolute degli Stati nazionali europei risiedeva la speranza della libertà e della pace con se stessi.
VI PARTE
La malattia che porta al totalitarismo non è mai di quelle malattie che si chiamano incurabili, contro le quali l'organismo colpito non può nulla. È una malattia di cui muore l'organismo che vuole veramente morire, e che rinunzia perciò a difendersi.
Altiero Spinelli, dall'introduzione a Alfred Grosser, Hitler: nascita di una dittatura, traduzione di Eleonora Bortolon, Universale Cappelli, 1959
Comunque penosa sia la situazione presente, comunque avanzato sia il processo di involuzione confessionale della nostra Repubblica, noi, però, non disperiamo. Sulla storia dell'umanità non cala mai il sipario, ed attori del dramma siamo noi, con la nostra volontà e i nostri ideali.
Ernesto Rossi, da PensieriParole
E' la soluzione liberale per eccellenza: quella a cui pensano tutti gli uomini di tendenze progressiste, che si pongono il problema di come uscire dall'attuale marasma per assicurare ai diversi popoli le condizioni necessarie alla vita delle loro libertà.
Ernesto Rossi, Europa, la più nobile, la più bella
Si dovranno creare aggi ariosi tra le cose opposte e strade piane e agevoli condurranno da un polo all’altro
C.G. Jung
Verrà un giorno in cui anche a voi cadranno le armi di mano! Verrà un giorno in cui la guerra vi parrà altrettanto assurda e impossibile tra Parigi e Londra, tra Pietroburgo e Berlino, tra Vienna e Torino quanto sarebbe impossibile e vi sembrerebbe assurda oggi tra Rouen e Amiens, tra Boston e Filadelfia.[...] Verrà un giorno in cui si vedranno questi due immensi gruppi, gli Stati Uniti d'America, gli Stati Uniti d'Europa posti in faccia l'uno dell'altro, tendersi la mano al di sopra dei mari [...]
Victor Hugo, Discorso tenuto al congresso della pace di Parigi, 21 agosto 1849
Il sogno ad occhi aperti del vecchio saggio mi insegnava ad essere europeo, a considerare il sopra e il sotto, l’ andar giù e l’andar su, gli opposti e tutte le diversità come parte di me, dialoganti e convincenti, come l’uno fosse anche l’altro senza scandalo o contraddizione e come creativo fosse il caos e la sua
accettazione.
Il nord, il sud, l’est e l’ovest perdevano i loro confini ideologici e nazionalisti apparendo illusoria ogni rigidità, ogni dito puntato contro l’altro, ogni desiderio di separazione: il sogno del vecchio saggio, insomma, mi insegnava un’unicità mobile, penetrante e aperta, certo, piena di parti gelose del proprio essere ma senza contraddizione con il tutto, senza che essa perdesse la propria identità, tutto rimanendo se stesso nella più indicibile molteplicità e diversità, così, con paura, magari, ma anche con la gioia del rischio e della determinazione.
L’Europa, dunque, il continente mobile e senza confini, il piu’ disparato ed il più identitario, il più piccolo ed il più universale, cominciava a stagliarsi nella mia vita come un tutto diviso che mi apparteneva per intero e a cui volevo e dovevo appartenere nell’unica forma possibile degli Stati Uniti d’Europa, liberi e federati.
VII PARTE
IL SOGNO
In ogni istante della nostra vita abbiamo un piede nella favola e l'altro nell'abisso.
Paulo Coelho, Undici minuti, 2003
Le favole non dicono ai bambini che i draghi esistono. Perché i bambini lo
sanno già. Le favole dicono ai bambini che i draghi possono essere sconfitti.
Gilbert Keith Chesterton, Enormi sciocchezze, 1909
Quel che la favola ha inventato, la storia qualche volta lo riproduce.
Victor Hugo, I burgravi, 1843
La vita è una favola narrata da uno sciocco, piena di strepito e di furore ma senza significato alcuno.
WILLIAM SHAKESPEARE
Curvo ed assorbito da me stesso, cammino lentamente, senza fatica, verso i confini di un bosco a me ben noto che presto supero guadagnando tranquillamente la radura e la luce.
Sono la persona più indolente che esista, il mio sguardo é rivolto verso il basso e non penso a nulla: non penso al bosco perché lo conosco fin troppo bene, non penso alla radura che banale mi appare, come sempre, e non penso neanche alla luce davanti alla quale rimango indifferente in nulla mutando la direzione dello sguardo , l’assenza dei miei occhi.
Non provo alcun sentimento, é come se nulla potesse toccarmi, farmi del male o del bene, così procedo, incurante, evitando ogni contatto, verso il centro della
radura dove mi fermo distratto e quasi annoiato come se qualcosa si ripetesse all’infinito, come se tutto fosse fin troppo prevedibile.
Sono fermo, adesso, proprio al centro della radura circondato dagli alberi, dal bosco e so di essere solo, completamente ed assolutamente solo, ma non ho paura apparendomi la solitudine lo stato più normale, più scontato, nulla di diverso potendosi aspettare chi vive nel bosco, questa essendo la sua normalità, la sua vita.
Nel bosco, infatti, sono consapevole di vivere, nascosto ed in silenzio, nessuno e niente potendomi vedere, potendomi udire. Vi abito da sempre, é l’unico posto che conosca veramente bene, di notte come di giorno, nel freddo come nel calore; non sto mai fermo nel bosco, cammino, cammino pigramente tutto il giorno e come un fantasma mi aggiro durante la notte.
Un tempo correvo nel bosco cercandone la via d’uscita impazzendo come uno sciocco in un labirinto; urlavo, un tempo, e cercavo aiuto e consolazione ma, a mie spese, ho capito che il bosco non ha fine, che non si esce dal bosco e che parte di esso si diventa quando vi si entra già la prima volta, alla mia coscienza individuale rimanendo soltanto il limitato spazio e la luce delle radure.
Conscio, dunque, della mia limitatezza, con grande sforzo, allora, volgo lo sguardo verso il bosco che ho appena lasciato dietro di me ma avendo cura , seppur disulluso, di guardare verso l’alto, scrutando.
Un monte od una collina, non saprei dire quanto alto fosse e se lo fosse ma l’impressione che ne ricavo é che lo sia, che sia davvero alto, quasi perdendosi alla mia vista, dileguandosi tra le nuvole dello spirito.
Ma ha una forma terrena, disordinata ed imprecisa, non lineare e piena di asprezze, quasi ridicola, mi vien da pensare, cominciando con un’ampia base poggiando sulla terra ed allungandosi lentamente verso l’alto in forme ondulate e spesso irregolari fino a scattare velocemente verso la sua cima aguzza e stretta cangiando di fronte alla mia immaginazione e senza contraddizione dall’essere stretta e diritta verso l’alto al curvarsi verso il basso, verso di me.
Io lo guardavo senza grandi ioni, senza paura, senz’altro, ma con rispetto e senza commiserazione.
Lo guardavo senza illusioni o misticismi che da tempo nel bosco avevo seppellito per nasconderli alla mia vista; non era quella una montagna, una visione ultraterrena, una negazione della natura e di questa vita, non aveva nulla di trascendentale ed immensamente serio, nulla di assoluto e di assolutamente puro, tutt’altro.
Esso era, invece, un monte, piccolo o grande, alto o basso, aguzzo o dolce, tutto questo insieme, di volta in volta, naturalmente e senza grandi significati; legato alla terra e alle sue bassezze, dall’alto riconoscendole e facendole proprie, facendo proprie le brutture e gli errori, il ridicolo e la vergogna, il mondo sotterraneo e le condanne.
Era un buon monte, quindi, che nell’andare verso l’alto, umilmente e liberamente, raccoglieva tutto cio’che si raccoglie quando invece verso il basso si scende.
Guardavo il monte e ne osservavo la distanza da me, non apparendomi né lontano, né vicino ma come una parte di me che si era allontanata; così, lontana la sentivo ma anche cosi’ intima alla mia natura e per questo sapevo, come sempre, che avrei dovuto scalarlo, salire su questo monte come la cosa più
naturale ed ovvia che potessi fare; una spinta interiore verso l’autorealizzazione mi diceva che quella era l’unica cosa da fare, ecco perché non c’era nessuna paura in quell’atto, nessun comando, nessuna imposizione.
Guardavo il monte con il sorriso della rassegnazione ma mai della disperazione, della necessità dell’accettazione, del dover accettare la mia natura che in quella proiezione fantastica e sgraziata, simbolica e ridicola si esprimeva: dovevo salire sulla montagna per scendere dentro me stesso e vedere come ero fatto, per dire “si” a come ero fatto.
Così, accettando il mio destino e per ciò, in fin dei conti, contento, senza indugi iniziavo la salita.
Fin dai primi i, la natura di questo monte si rivelava: non c’era niente, niente che alla natura di un monte potesse verosimilmente appartenere.
Esso era scuro, nero, in tutti le sue parti apparendo sempre simile a un angolo oscuro; esso era brullo ed inclemente, non c’era vegetazione di alcun tipo e tutto appariva già morto da lungo tempo.
Non era neanche difficile da scalare, non presentando alcuna ripidezza, bastava camminare, andare lentamente o dopo o verso l’alto , così senza fretta e semplicemente.
Esso era, infatti, semplice, tremendamente semplice, non conosceva vie contorte o curve pericolose ma solo piattezza e prevedibilità; la sua bruttezza non si nascondeva, era lì, evidente ed elementare, indivisa e primitiva ti si offriva senza inganni o giri di parole, senza infingimenti o ripari ed in un certo qual modo
allegramente come il sorriso di un idiota che ride di una gioia sconosciuta.
Fin dai primi i, però, la salita su questo monte mostrava il suo vero carattere, la sua pecularietà: i miei i, procedendo verso l’alto, affondavano in un terreno fangoso a prima vista ma che a ben vedere era formato da soli escrementi, più o meno liquefatti, più o meno solidi, si, proprio così, quel mio monte era ricoperto da uno strato spesso alcuni centimetri di sola merda e null’altro.
E più andavo in alto, più la merda aumentava trovandomi come in un mare dai fondali bassi, completamente circondato da esso, completamente in esso immerso.
Ogni tanto inciampavo ed allora, le mie mani, il mio viso, tutto il mio corpo affondavano negli escrementi e mi rialzavo percependone lo spaventoso gorgoglio, il calpestio e la concreta, fisica presenza su tutto il mio essere come se mi toccasse.
Ma non era tutto, perché nella mia ascesa, non so da chi, non so da quali direzioni, venivo attaccato con un fitto lancio di palle di merda che inevitabilmente mi colpivano facendomi perdere l’equilibrio, facendomi cadere; non vedevo nessuno, non sentivo nessuno, era come se venissero dal nulla solo per colpirmi e tutt‘al più percepivo un ghigno, un riso di scherno che però non sentivo perché tutto era immerso nel silenzio nonostante la loro presenza fosse ugualmente consistente, assordante.
Ma io non ero disperato.
Continuavo a salire, barcollando, ferito e sudicio ma non sentivo la disperazione; ero determinato, sapevo che dovevo andare avanti, che non potevo fare altrimenti; ogni tanto piangevo ma sempre un pizzico di ironia mi accompagnava che di tanto in tanto mi faceva anche sorridere: si, io sorridevo pur essendo coperto di merda.
Sapevo anche che, nonostante tutto, quel sudiciume non poteva fermarmi, certo, poteva rendere la mia salita, la mia vita, schifosa e repellente ma non poteva fermare la mia salita.
C’era tristezza, malinconia, talvolta anche rabbia e vittimismo, autocommiserazione ma andavo avanti per raggiungere la meta, la sommità, strano a dirsi, con sicurezza e consapevole della mia forza che nessuna sporcizia avrebbe potuto vincere.
La meta, la sommità, la vetta del monte, l’agognato punto più alto di tutti, laddove dovevo arrivare trascinato da una forza inconsapevole che la mia volontà non era, stava lì aguzzo e spoglio, essenziale e semplice, piccolo, quasi insignificante.
Su di esso stava un porta la cui essenzialità e semplicità lasciava disarmati e senza parole; essa era leggera e quasi non toccava terra, era fine e sottile come se stesse appesa sul nulla, senza decorazioni eccetto per le figure geometriche che su di essa apparivano impresse.
Ma seppur così fragile alla vista, la porta, la piccola e stretta porta era ferma, immutabile e soprattutto incurante, come se ne fosse staccata, del mondo sudicio e pestilenziale che dal basso urlava la sua rabbia e la sua impotenza.
Essa era incurante anche di me, sapevo, infatti, che non le importavo, che non le importava la mia salita ed il mio penare, la mia stessa vita aveva poca o nessuna importanza di fronte a quella imibilità, a quell’apollinea simmetria delle forme che della semplicità é genitrice.
Imperturbabile e silenziosa, certo, la porta non conosceva alcuna comione, non stava lì per aiutare o tendere la mano, non era la salvezza: ciò lo percepivo fin dall’inizio, che quella meta, che la sommità non erano la fine di qualcosa, di un viaggio, il punto d’arrivo definitivo, la ricompensa o un traguardo e di fatti la porta non era chiusa ma neanche aperta o addirittura spalancata, essa era, in realtà soltanto socchiusa, semiaperta quel tanto necessario per lasciar intravedere un’accattivante luce che di un aggio sembrava la guida.
La porta, dunque, era soltanto un anello, una sottile linea di separazione fra mondi opposti, diversi, con tutto il loro contenuto facilmente intuibile, visibile ed udibile da una parte e dall’altra.
Salivo, dunque, per raggiungere la cima del monte ma non per fermarmici bensì per attraversarla.
Questo era dunque lo scenario iniziale, così il mio sogno ad occhi aperti costruiva se stesso spontaneamente e lasciandomi andare, seppur per poco tempo, libero dai legami, veri o ingannevoli, delle cause e degli effetti, sciogliendo la catena dei pensieri.
Ricordo che a quel tempo non mi ponevo domande, non cercavo spiegazioni ma semplicemente lo accettavo così come era, per quello che era e non chiedevo null’altro se non che continuasse, che arrivasse al suo termine e si ripetesse, che si ripetesse questo stato di veglia accompagnato dal sogno.
Oggi, invece, che ne scrivo, mi meraviglio come tutte queste parti così contrastanti e spesso contraddittorie potessero stare assieme, naturalmente, inevitabilmente come se non potesse non essere così, ed in particolare, quella porta, quella piccola porta così fragile all’apparenza come lo stelo di una rosa ma così forte in realtà tanto da tenere uniti due mondi così diversi, opposti: da un lato la sordida e mediocre montagna e dall’altro la luce che intravedendosi dalla porta lasciava immaginare un mondo completamente all’opposto rispetto a quello in cui mi trovavo inizialmente.
Come poteva, dunque, quella porta essere una anello di congiunzione e non una barriera un muro invalicabile, come potevano l’orrido e il sublime tenersi assieme e trovare un punto di incontro?
Oggi, forse, intuisco la risposta pensando che quella porta rappresenta l’unica forza che possa realizzare il “miracolo” dell’armonia degli opposti, dell’unione del bello con il brutto ed essa é l’amore, l’amore sconfinato che nulla chiede in cambio, per la vita, per le sue immense diversità, per le sue infinite parti, per il ato e per il futuro, per i morti come per i viventi:esso é un incondizionato “si” alla vita che include anche la morte.
Cosi’ ragiono oggi e sempre di più mi sento europeo, contenitore, cioé, di tutte le diversità, così, naturalmente e senza pensarci ma semplicemente essendolo dalle profondità viscerali della mia storia fino ai nostri giorni e come Europa vengo rapito da una forza sconosciuta ed innamorata che liberamente attraverso i mari del divenire e della storia si muove per fondare il possibile laddove altri vedono solo l’impossibile.
Finalmente arrivavo in cima, stanco ed in un certo qual modo barcollante per via dei colpi che durante il cammino avevo ricevuto, ma, nonostante ciò, mi sentivo ugualmente sicuro e composto con la convinzione di aver fatto soltanto il mio
dovere e niente affatto, chissà quale atto di eroismo o sovraumano; ero sfinito ma ancora consapevole e a dispetto del sudiciume che addosso mi portavo, un velo di ironia ava sul mio viso come se l’intera scena non richiedesse un atteggiamento serio o grave ma una battuta, un motto di spirito, una risata; alzavo gli occhi al cielo ma non per domandare o pregare ma per esprimere pazienza e comprensione come se stessi compiacendo un bambino capriccioso che nei suoi giochi insensati mi coinvolgeva e che non volevo far piangere, insomma, in tutto ciò che mi accadeva non scorgevo alcun segno di pesantezza, di assolutezza, di gravità e non desideravo alcuna vendetta perché non mi sentivo vittima di un’ingiustizia, vittima del male, era come se stessi recitando, immedesimandomi nella parte, accettandola senza discutere come, per l’appunto, in un gioco tra bambini.
Provavo sensazioni semplici, tutte accompagnate da un sorriso e magari da una patina di malinconia ma non più di tanto, niente di serio, niente su cui soffermarsi troppo tempo con i pensieri in cerca di giustificazioni e soluzioni; non c’erano colpe, non c’erano peccati, non c’erano indici puntati, non c’era malevolenza, c’era soltanto quella porta che finalmente avevo raggiunto.
La porta stava lì, cosi’ vicina che avrei potuto toccarla, aprirla; la ammiravo, la scrutavo e pensavo che per essa avevo dovuto attraversare la prova, la più sudicia, la più umiliante ed essa stava al suo posto mostrando ancora una volta e con più forza tutta la sua insignificanza, inutilità ed esilità, quella porta potendo stare soltanto lì e in nessun altro luogo, in nessun altro luogo avrebbe potuto essere dignitosamente una porta.
Eppure era la mia porta, per essa avevo lasciato il mio bosco e sapevo che non era la prima volta e che non sarebbe stata l’ultima; ad essa mi avvicinavo ma non mi aspettavo alcuna risposta, nessuna soluzione, nessuna felicità.
Eppure era la mia porta e pur apparendo così deludente non avrei mai mancato un appuntamente con essa, avrei accettato innumerevoli fallimenti ed amarezze
pur di rivederla ancora una volta così vicina.
Non era una bella porta ma era la mia porta e per essa gioivano i miei occhi pieni d’amore, per i suoi richiami di luce che a vagabondare tra le immagini mi invitavano lasciandomi già intendere che cosa dall’altra parte mi aspettava, non un mondo di fatti od accadimenti ma, per l’appunto, di immagini da contemplare, su cui meditare come un’opera d’arte, come una donna da amare per un solo giorno e per cui essere melanconici tutta la vita sognando chimere ed impossibili incontri.
Quella era la mia porta verso un mondo capovolto che mi avrebbe fatto sognare, dove giudizi non c’erano, dove a te stesso apparivi senza paura ed infingimenti; in quel mondo di immagini mi sarei immerso trattenendo il respiro e cercandone i significati che solo il mio vecchio saggio avrebbe potuto sciogliere.
Avrei vagabondato e avrei sorriso, mi sarei sentito in pace anche con ciò che pacifico non era, tutto avrebbe risuonato per me di una dolcissima musica ed ogni cosa avrebbe potuto vivere senza il suo senso, senza drammi nel qui ed ora.
Cosi’ attraversavo la porta per innamorarmi ancora una volta della vita incautamente incapace di farne a meno nonostante gli inganni, la nostalgia ed il dolore, certo che sempre lì sarei ritornato per cercarla.
Come quando la musica diventa le parole degli uomini, da un’unica sorgente sgorgando limpida e cristallina, uguale sulla bocca di tutti e diversa allo stesso tempo per la varietà delle note e la combinazione di esse, così, aprendo la porta, quasi tuffandomici dentro, sentivo come se di una sinfonia fossi parte soggiogato dalle ali della grandezza di una bellezza che al mio sguardo si porgeva spingendolo sempre più al di là della realtà verso l’incanto e la meraviglia.
Davanti a me, fuori dai miei occhi viveva la mia bellissima valle, ampia, luminosa ed armoniosa, grande ma non infinita allo sguardo che su di essa indugiava scorgendone la dolcezza sinuosa delle forme gentili e per nulla drammatiche, circondata da alte montagne, unite, legate le une con le altre da un ritmo lento ma sicuro, da uno svolgimento sinfonico maestoso e radioso.
Fitti boschi l’attraversavano allegramente da una parte all’altra senza interruzioni, come un manto che nulla lasciava scoperto e gli alberi ondeggiavano silenziosamente, quasi segretamente e con grazia indicando il loro sicuro ancoraggio sulla terra ed il proiettarsi verso il cielo azzurro, cristallino senza una compromettente nuvola.
Non c’erano molti dettagli da scorgere, i particolari di questo insieme essendo nascosti da una inattaccata e senza macchia coltre di neve che non una sola piccolissima parte dell’immagine lasciava scoperta, tutto era, così, bianco e soffice, vergine e perenne, puro e lucente come sempre l’avevo sognato nelle mie speranze.
Tutto era in silenzio, dall’immagine non scaturiva alcun rumore, tutto essendo soltanto visivo come in un film muto le cui scene non sono interrotte dalle parole, dai suoni, ed ogni immagine ti lascia incantato per sognare ad occhi aperti, per dar libero sfogo alla fantasia.
Era un silenzio completo, perfetto in se stesso e non un’assenza di rumori perché in quell’immagine viveva il silenzio, essa era il suo mondo dal rumore separato, semplice e soddisfatto.
Quel silenzio era anche onesto, nulla nascondendo, nulla preparando in segreto,
era esattamente come si manifestava, senza angoli oscuri, vie contorte o retropensieri ma bonario e sincero, umile e mansueto.
Come da una balaustra, affacciandomi, ammiravo contento tutto cio’ che alla vista mi si presentava; contento e senza paure, così, nell’instancabile scrutare, mi raggiunse quel silenzio, avvolgendomi e dolcemente possedendomi, lentamente e senza panico come se di quel mondo cominciassi a fare parte, ricoperto dalla neve, dalla vegetazione, perdendomi nelle gallerie del silenzio.
Ipnotizzato da una tale perfezione perdevo la coscienza di me stesso per acquistarne una nuova, più elevata che a quell’immagine si adattava e in questa rinata consapevolezza sparivano i miei pensieri, uno dopo l’altro cadendo, slegandosi, spegnendosi per non venire più sostituiti, per cessare di essere, lasciandomi vuoto ed in pace, vivo ed anche un pò morto.
Viaggiavo senza muovermi e ad un certo istante cominciai a cadere, inevitabilmente, necessariamente, velocemente ma senza asprezze come se lo accettassi, per trovarmi di fronte alla mia seconda immagine che sotto la neve ed il silenzio viveva una vita propria a me più cara.
Tutto era notturno e sotterraneo, la luce non vi dominava senz’altro, rivelando quest’immagine, al contrario, il regno oscuro, celato, segreto, innominabile; vi dimorava l’inquietudine e l’intuizione delle minaccie, la sensazione del pericolo ma non la paura perché tutto era spontaneo, inevitabile.
Vedevo un lago di incerta grandezza , una conca delimitata da montagne di cui apparivano soltanto i contorni aspri, aguzzi ed oscuri, erano i guardiani del lago che lo cingevano e lo chiudevano, bastioni e muraglia del mondo di sopra, della sicurezza contro l’insondabile.
Il lago era incredibilmente nero, nero come la pece ma non per assenza di luce bensì per le sue profondità la cui oscurità raggiungeva intatta la superficie; doveva essere una profondità senza fine, sconosciuta, incalcolabile, senza ostacoli e fluida e pensavo che cadendovi non mi sarei mai fermato, semplicemente, sarei andato giù per sempre.
Era un lago calmo, senza increspature, senza tranquillizzanti sciabordii, senza onde, era silenzioso ma non pacifico, era un’immagine perfetta ma divisa in parti tutte diverse, dalle forme sconosciute, slegate ed isolate che soltanto l’oscurità celava, pudicamente, cosicchè la mia fantasia poteva soltanto immaginare quelle inaccessibili profondità, le creature che vi abitavano, i segreti, le verità, gli opposti e la cangiante vitalità, ma tale era l’oscurità per i miei occhi che ad essi non rimaneva che una fredda attesa di niente.
Sul lago vegliava una pallida ma sobria luna la cui luce, lentamente, consentiva soltanto di spiare, lasciando la conoscenza del lago alla mia immaginazione ed alla meditazione; riflessi dorati brillavano sulla superficie e mi incantavano come se mi trovassi nel lago delle fate e le ombre accendevano la mia inquietudine pensando agli infiniti volti, agli sguardi, che nascondevano.
Sul lago galleggiava una barca.
Una piccola barca che intravedevo soltanto, niente di particolare, una barca, una barchetta, semplicemente e nulla più che come una nera gondola nel bel mezzo del lago si dondolava cullata da un’invisibile corrente, trasportata a caso, senza alcuna direzione in balia di tutto ed inerme.
Ma ancora una volta non c’era paura; certo, si sentiva il pericolo essendo
innumerevoli i rischi e i misteri, molti dei quali spiacevoli da scoprire, ma la barca non era estranea al lago, anzi ne faceva parte, non poteva che stare lì, sul lago perduta e solitaria.
Era vuota, la barca era vuota, nessuno, felice od infelice, vi stava e la possedeva, essa era infatti del lago, esso la controllava portandola dove più gli piaceva con le sue invisibili correnti e le gelide acque, nere come la pece, oscure come la notte, cieche come la morte e mi piace pensare che da lì qualcuno ebbe il coraggio di tuffarsi in quelle acque terribili e pericolose, misteriose e strane lasciando in superficie soltanto vaghi segni, nessuna identità, nessun ricordo.
Di tanto in tanto i raggi della luna ne mostravano i contorni, le parti, i movimenti e un senso di inadeguatezza mi pervadeva, quella barca apparendo così insignificante e inutile, così ingannevole ed illusorio il suo distacco dalle acque, così ridicolo il suo galleggiare, così penose le sue speranze di non sprofondare, di non essere sommersa una volta per tutte, così fragili tutte le sue sicurezze.
Ero certo che un giorno sarebbe arrivato il mio turno, che sarei stato strappato da tutte le certezze e sommerso dal caos più profondo, sprofondando senza fine e in esso mi sarei perduto, sarei scomparso, sciolto in inumerevoli identità che dal ato al futuro, attraverso i morti e i viventi abbracciava tutta la terra infuocata dalla lava incendescente.
Così meditavo continuando il mio viaggio solo e senza alcuna ragione.
Tutto sommato, stavo viaggiando in un mondo sconosciuto ma non alieno, in un mondo troppo grande per me ancora troppo piccolo per accoglierlo nella mia vita di tutti i giorni, esso mi si mostrava nei sogni ad occhi aperti come se stesse aspettando sulla soglia per poter entrare ed espandersi ed espandermi.
Queste immagini fluivano, allora, senza spazio e senza tempo, fotogrammi confusi, mescolati ma fluidi e senza cesure, senza intoppi perché non avevano ancora raggiunto la mia vita cosciente e non erano diventate carne della mia carne e sangue del mio sangue ed io stesso, in quei momenti, li trattavo solo come fantasticherie per sopravvivere.
Vivevo nel mondo delle separazioni, degli opposti inconciliabili, del bene e del male; vivevo nel mondo delle certezze stantie e delle tradizioni morenti, vivevo aggrappato ad una patina supeficiale di sicurezze al di sotto della quale non c’era assolutamente nulla.
Vivevo nell’idolatria dello Stato nazione, della sovranità degli Stati, nelle loro menzogne, nell’amministrazione della loro giustizia, nella loro eticità, nella cultura ufficiale o comunque di regime, vivevo nell’orrore e negli orrori dei piccoli borghesi; ero e sono un europeo, a tutte le esperienze del Vecchio Continente sono completamente legato ma mi vedevo circondato da stranieri, da “altri”, da altro da me, vivevo sordo a tutte le voci ascoltanto solo la mia credendo che fosse l’unica.
Raggomitolato nel mondo delle fantasie e dei sogni, mi riappropriavo della mia complessità;come un bambino, in maniera del tutto immatura, quasi vergognandomi, guardavo quelle immagini senza chiedermi alcun perché, senza pensarle con i si e i no, ma accettandole con stupore, accogliendole senza giudicare, per sentirmi bene, per fuggire dalla mia realtà quotidinana e dalla mia mente.
Continuavo a guardare perché sapevo che non era finita che altre immagini sarebbero apparse nella mia mente e, ancor di più, sapevo che dovevo continuare, che altro avrei dovuto scoprire, che le prime immagini avrebbero lasciato il posto ad altre giustificandole, dando loro un senso, avrei dunque
scoperto la saggezza, svelavo, quindi, il “vecchio saggio”.
Niente di troppo serio, si badi, perche’ pur suscitando un completo rispetto quell’immagine non andava esente da una certa ironia di cui lui stesso era al corrente e ne sorrideva essendo questo vecchio saggio proprio un burlone che vestito di bianco, ma non splendente, con una lunga barba grigia, ma poco curata, nascondeva la propria ilarità e le proprie arguzie dietro le effigi della sapienza più pura e sicura.
Sedeva tranquillo e non mi guardava, anzi sembrava non curarsi affatto della mia presenza ma niente può esser detto dei pensieri di questi vecchi saggi burloni essendo troppo imprevedibili e spesso confusionari cosicché non saprei dire se l’indifferenza era il suo modo di fare o se si preparava a darmi qualche tiro mancino lasciandomi di stucco.
Ad ogni modo, dopo un primo istante di incertezza mi diressi verso di lui, o meglio, mi, lanciai, letteralmente, verso di lui inginocchiandomi ed abbracciandogli le ginocchia: lui era tutto per me, mi avrebbe guidato e detto cosa fare, dove andare: così, attendevo, speravo e pregavo.
Ma presto ebbi l’impressione che non c’era serietà in quello che stavo facendo e nei miei pensieri, e che questo da me lui si attendeva, anzi, pensai che in circostanze diverse avremmo potuto iniziare una danza e raccontarci barzellette tanto poco il serio entrava in quello che stava accadendo; era come se stessi recitando, male, una parte, quella di chi si aspetta cose importanti, piene di significato e definitive, ma così non era perché ad un certo punto, chiaramente, io ed il vecchio saggio pretendevamo cose non vere e ci prendevamo in giro.
Ci prendevamo in giro perché chiaro mi apparve quello che lui da me voleva, quale strada mi indicasse puntando con il suo dito lungo ed affusolato verso il
basso, verso la terra e tutto mi sembrò così ilare tanto che dovetti contenere il mio ridere per non mancargli di rispetto a questo vecchio saggio spiritoso.
Proprio così, il vecchio saggio voleva che tornassi giù, ai piedi del monte, al bosco, egli mi ordinava di tornare indietro ma senza ripercorrere le sudicie vie bensì saltando nel vuoto, incoscientemente e senza paura; avrei, dunque, dovuto ricadere in basso per combattere il male, un male che già vedevo non avere volto ed essere estremamente cupo e serio, questo mi diceva il vecchio saggio che con la sua piccola testa assentiva e diceva di si alla vita tanto spiritosamente da non poter trattenere le risa ed avevo paura che al di là delle coperte qualcuno avrebbe potuto udire il mio sogno.
Andavo giù senza perdere troppo tempo, a gambe giunte mi lanciavo nel vuoto senza paura o timori, senza esitazioni, consapevole del mio destino che il vecchio saggio mi aveva indicato ed incurante delle conseguenze.
Era l’unica cosa da fare, in cuor mio pensavo, ed era una via senza uscita; non potevo che combattere questo male indefinito e senza volto, questo “loro” che il mio bosco abitavano nascondendosi negli anfratti e dovunque non ci fosse luce.
Iniziava, così, una vera e propria lotta fra me e loro, fra me e questi fantasmi del mio bosco; una lotta fisica tra me e tutti loro, tra il loro potere e la mia magia, tra opposte arti ed opposti stili.
Era una guerra di attitudini ed atteggiamenti sentendomi leggero ed ironico, fluido nei miei movimenti che contro la pesantezza dell’anonimato ed una rabbia nascosta dovevano misurarsi.
Era una lotta degli spiriti, quello della leggerezza e del sorriso opposto a quello della gravita’ e del risentimento.
Ero certo che avrei potuto uscire vincitore da questo confronto, sentivo di non avere dubbi in proposito, avrei potuto vincere e compiere la rivoluzione del mio spirito, ma proprio quando la battaglia fra me e loro era appena cominciata, tutte le mie insicurezze, tutte le paure ritornavano a coprirmi come una nera marea, così, immemore ed incerto, ogni notte accadendo lo stesso, cadevo preda del sonno e continuavo a dormire.
X
La cognizione del mondo s'acquista nel mondo e non nella nostra camera da studio. I libri soli non v'istruiranno mai, ma suggeriranno molte cose alla vostra osservazione, che altrimenti vi potrebbero sfuggire alla riflessione
Chesterfield
Se vuoi fuggire il silenzio che tutti gli inetti cancella, agisci!
Pindaro
L'uomo che sa tutto: ecco l'ideale moderno. E la mente dell'uomo che sa tutto è una cosa terribile. È come un negozio di cianfrusaglie, pieno di polvere e di mostruosità, dove ogni cosa ha un prezzo superiore di quel che vale.
Oscar Wilde
Sto per intraprendere il mio ultimo viaggio, un grande salto nel buio.
THOMAS HOBBES
Indico quindi in primo luogo come inclinazione generale dell'umanità un perpetuo e irrequieto desiderio di potere dopo potere, che cessa solo in morte.
THOMAS HOBBES
Continuavo a dormire, giù fino a sparire davanti a me stesso, a perdermi davanti i miei occhi, diventavo sordo e cieco, diventavo piacevolmente insensibile e morivo, ogni notte morivo per dimenticare l’insensatezza e la vacuità della mia vita; morivo per la paura di risvegliarmi, per smettere di pensare al risveglio ed invocavo i morti perché mi proteggessero dalle paure che il nulla di questa vita mi causava.
Le paure dell’orrore e delle deformazioni, la paura della mostruosità di un vivere senza vita nutrendosi dei peggiori sentimenti, contorcendo le proprie deformità fino a renderle accettabili e dimenticarle.
Mi nutrivo di me stesso, sacrificando le parti migliori di me e nella mia debolezza ingannavo gli altri con doppi o tripli sentimenti, con tutta l’ipocrisia possibile i cui confini erano ignoti anche a me stesso.
Dormivo per non provare il raccapriccio nell’osservare la violenza esercitata sulle infinite parti del mio spirito e della mia personalità, nella soppressione delle differenze che intatto lasciava un solo mostriciattolo comunemente chiamato “coscienza”; dormivo per dimenticare le oscenità che il nano di una cultura nazionalista andava mostrando impudicamente con le sue buone ragioni, il buon senso e soprattutto con l’odio verso la bellezza e le cose belle dell’”Altro” e degli infiniti altri ed altrove.
Dormivo per morire perché la morte mi appariva l’unica possibilità di aggrapparmi a qualcosa di aperto, infinito, interminabile; dormivo per andare via, per essere da qualche altra parte, per viaggiare.
Dalla malinconia del mio notturno morire che immagine della morte assoluta era, sorse, così. finalmente, un inguaribile desiderio d’andar via, di essere rapito da una forza sconosciuta e superiore alla mia sola individualità che lontano mi portasse e che mi restituisse alla vita e alla mia storia che ad un unico luogo certo non apparteneva ma a tanti se non a tutti in cui quella storia si era svolta e presentemente si svolgeva: cominciavo così ad essere europeo.
XI
Viaggiando alla scoperta dei paesi troverai il continente in te stesso.
Proverbio indiano
Quando vivi in un luogo a lungo, diventi cieco perché non osservi più nulla. Io viaggio per non diventare cieco.
Josef Koudelka
Ma i veri viaggiatori partono per partire e basta: cuori lievi, simili a palloncini che solo il caso muove eternamente, dicono sempre “Andiamo”, e non sanno perchè. I loro desideri hanno le forme delle nuvole.
Charles Baudelaire
Desidero partire: non verso le Indie impossibili o verso le grandi isole a Sud di tutto, ma verso un luogo qualsiasi, villaggio o eremo, che possegga la virtù di non essere questo luogo. Non voglio più vedere questi volti, queste abitudini e questi giorni.
Fernando Pessoa
Di una città non apprezzi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà ad una tua domanda.
Italo Calvino
Il viaggio è una specie di porta attraverso la quale si esce dalla realtà come per penetrare in una realtà inesplorata che sembra un sogno.
Guy de Mauant
Non c’è uomo più completo di colui che ha viaggiato, che ha cambiato venti volte la forma del suo pensiero e della sua vita.
Alphonse de Lamartine
Non smetteremo di esplorare. E alla fine di tutto il nostro andare ritorneremo al punto di partenza per conoscerlo per la prima volta
T. S. Eliot
Arrivando a ogni nuova città il viaggiatore ritrova un suo ato che non sapeva più d’avere: l’estraneità di ciò che non sei più o non possiedi più t’aspetta al varco nei luoghi estranei e non posseduti.
Italo Calvino
Ho attraversato mari, ho lasciato dietro di me città, ho seguito le sorgenti dei fiumi e mi sono immerso nelle foreste. Non ho mai potuto tornare indietro, esattamente come un disco non può girare al contrario. E tutto ciò a cosa mi stava conducendo? A questo preciso istante.
Jean-Paul Sartre
Voglio attraversare la terra, nascosto e sconosciuto come un viandante nella notte; e attraversare a nuoto il fiume della vita controcorrente e con il vento in faccia.
Yulak, poeta zingaro
Viaggiare, dunque, allontanarmi dalla casa paterna, dalla lingua materna; lasciare le terre conosciute, aprirmi a degli spazi ignoti alla mia coscienza, ritrovare luoghi che più grande l’avrebbero fatta; riportare alla luce gli istinti del ato ed osservare gli opposti come cosa che mi appartiene: viaggiavo, così, per sentirmi straniero nel luogo più conosciuto e per immergermi nel mare delle complessità.
Mi sembrava l’unica soluzione, la sola cosa da fare non vedendo altre alternative, sparire, andare via, perdermi nel vasto mare delle diversità, di altre storie, di un’altra natura, di altre lingue e culture alla ricerca di una terra più
vasta di quella che fino ad allora mi aveva posseduto così sicura apparentemente, così scontata ma anche così vuota e pericolante, mostrando, nonostante le parole, tutta la sua nullità ed il volto della morte. Era l’ambiente nel quale avevo vissuto, era la mia vita, permeate entrambe da bugie che finalmente si scoprivano come tali lasciando soltando delusioni e nevrosi; le stesse sicurezze sparivano lasciando il posto alla corruzione, tutto, lentamente ma inesorabilmente, crollando, le speranze per prime, le speranze di poter vivere fuori della realtà, al di là dei propri mezzi.
Fuggire, allora, fuggire il senso della fine, lasciare indietro la mia vita ormai sommersa dalla corruzione e dalle rovine, fuggire gli amici di un tempo, le consuetudini della quotidianeità e della società. Fuggire anche dallo Stato nazionale, dall’imposizione di una nazionalità e dall’ipocrisia di questa che benché causa del male si arroga il diritto ed il potere di offrire soluzioni in realtà a solo vantaggio di pochi privilegiati e spesso parassiti.
Lasciare i confini dello Stato nazionale sovrano e della propria mente, lasciare il conosciuto per lo sconosciuto, saltare al di fuori dei confini esterni e nell’abisso della propria interiorità, per tutto questo volevo viaggiare.
Perche’ mi venisse restituita la libertà ed il senso del rischio, anche per questo volevo viaggiare; per ritrovare la sensazione che qualcosa di nuovo potesse accadere contro la prevedibilità di una vita conformista e chiusa, per questo volevo viaggiare; per rigettare la pesantezza, la ripetitività e la falsità di una società chiusa e compiaciuta della propria decadenza, del proprio morire, per questo volevo viaggiare.
Volevo viaggiare anche per conoscere nuove contraddizioni, gli opposti, le parzialità e vecchi, ma a me sconosciuti, pregiudizi, per distruggerli comparandoli con i miei; volevo rilasciare fino al punto di non ritorno la piena devastante della crisi, deridendo qualsiasi argine e segretamente sperando di poter ricominciare da qualche altra parte.
Viaggiare significa, ma allora non lo sapevo, andare alla ricerca di qualcosa di più grande della propria coscienza in una drammatica discesa verso la propria interiorità con la possibilità di aprirsi ad infinite possibilità quando meno te lo aspetti, magari nel momento più basso della tua vita.
Viaggiare significa, e questo non lo immaginavo affatto, riappropriarsi della propria cultura riscoprendo un nuovo senso d’identità privo di qualsiasi connotato nazionalista, una grande identità che rifiuta i tribalismi e gli indipendentismi, che guarda ai propri opposti riconoscendone l’unità e la necessità, che desidera il ritorno ad un luogo stabilmente vissuto non per farne una stanca e vana ripetizione ma come focolare della creatività che rende visibili tutte le nostre parti, i nostri frammenti, le dissociazioni che prima prosperavano a nostra insaputa rendendoci pazzi e nemici di noi stessi
Volevo viaggiare, dunque, per innamorarmi della vita e non perché la considerassi bella ma per come era fatta, pericolosa e rischiosa, spesso orribile e spietata, ed ancora, volevo viaggiare per riappropriarmi di luoghi sconosciuti che già mi appartenevano e che avrei dovuto soltanto riconoscere.
Volevo viaggiare, pericolosamente nel mare delle differenze e degli opposti non sentendomi estraneo, alla ricerca di una patria dove raccontare le diversità che dalla terra provenendo diventavano me stesso, diventavano creatività: viaggiavo; cosi’, rapito dalla paura come Europa, viaggiavo per diventare europeo.
XII
Il nazionalismo è l'unica consolazione dei popoli poveri.
LEO LONGANESI
Se la guerra è una cosa orribile, il patriottismo non è forse l'idea madre che la nutre?
GUY DE MAUANT
Nonostante il tenero amore che nutro per il mio Paese, non ho mai saputo essere un grande patriota né un nazionalista... E ben presto è nata in me una diffidenza verso i confini e un amore profondo, spesso apionato, per quei beni umani che per loro natura stanno al di là dei confini... Col are degli anni mi sono sentito ineluttabilmente spinto ad apprezzare maggiormente ciò che unisce uomini e nazioni piuttosto che ciò che li divide.
HERMANN HESSE
Il nazionalismo è una malattia infantile. È il morbillo dell'umanità.
ALBERT EINSTEIN
I nazionalisti sono il veleno delle nazioni.
Luigi Einaudi
Il nazionalista ha un grande odio e un piccolo amore.
André Gide
Ogni nazionalista è capace della più atroce disonestà ma è anche — in quanto consapevole di servire qualcosa di più grande di lui — incrollabilmente certo di essere nel giusto.
George Orwell
Il nazionalismo è amore per l'odore della nostra merda collettiva.
Charles Simi?
Ma all’inizio prevalse la rabbia e a volte l’odio e il disprezzo per ciò che mi aspettava; perché,infatti, mi chiedevo, dovevo lasciare le idee e le regole che fino ad allora avevano posseduto la mia vita? Perché dovevo andarmene? e dove, poi?
Mi sentivo deluso, addirittura indignato, il mio mondo ribellandosi all’idea di doverne incontrare altri, non importando ciò che avrei potuto imparare, ciò che avrei potuto ricevere tanto profonda e buia era la prigione nella quale la mia mente viveva, confinata in una cultura nazionalista tale da non immaginare altro che se stessa, egocentrica e cieca vivendo nell’angolo piu’ buio della prigione dove i sensi indeboliti, gli istinti malati soffrivano in balia dei rancori della mente, dei suoi si e dei suoi no e dei suoi giudizi.
La mia mente mi separava continuamente da tutto il resto, dalle diversità, dall’ansia per l’ignoto che mi aspettava, da un’ancora timida felicità e financo dalla grande paura del viaggio sapendo soltanto giudicare e non ascoltare, incapace di essere vento e del sollievo delle lacrime, così, incapace di essere uno zingaro restavo aggrappato alla mia ottusità.
Deluso nei deliri di normalità perbenista non ascoltavo quell’ansia che nascondeva una timida felicità ed una grande paura per ciò che mi aspettava, per il viaggio e per lo sconosciuto a cui andavo incontro nulla essendo preparato.
Difendevo senza alcuna ragione, forse solo per orgoglio, tutto quello che ero stato fino a quel momento; non vedevo altre possibilità, non immaginavo nessuna nuova storia, nessun cammino diverso da quello fino ad allora intrapreso, semplicemente mi lamentavo e il mio piccolo mondo si difendeva per salvare se stesso alzando i muri dell’incomprensione, dei pregiudizi e dei preconcetti così tipici di una cultura nazionalista che il “viaggio” avrebbe posto in discussione, verificato e criticato. Il viaggio li avrebbe, infatti, perduti nelle diversità, rarefatti nel superamento dei confini e nuove nature, nuove consapevolezze si sarebbero affacciate lentamente ma inesorabilmente come in un lungo risveglio della propria anima e di ciù che essa giò sa e conosce.
Il contatto con altre culture é molto di più di un generico avvicinamento ad esse
che suscita la curiosità o il desiderio di studiarle, è molto di più di una semplice visita astratta e inconcludente; il contatto, il permanere in una certa cultura é un immergersi in essa, anche inconsapevolmente, un immergersi nello spirito del luogo, nella sua natura, nella sua storia e fors’anche preistoria e non soltanto in quella dell’uomo ma anche in quella dell’ambiente e di tutta la vita che in esso abita.
Il contatto con un’altra cultura é tutto questo, è il riconoscimento della spaventosa multiformità e ricchezza della nostra anima perchè in quell’incontro essa si scopre, guarda se stessa e in esso non vi trova nulla di estraneo, di straniero.
Esso non é quindi un’astratta comprensione di altre culture ma l’essere le altre culture, appartenervi con la propria anima essendo la mia identità variegata e continuamente alla ricerca.
Cominciai, allora, ad intendere come il nazionalismo fosse un idolo della coscienza che impaurita dall’infinita varietà dell’anima, fatta da chissà quante parti, inabissandosi nel vasto mare delle differenze e delle diversità, costruisce muri e separazioni, indipendenza e sovranità degli Stati al solo scopo di rinnegare ciò che in tutti noi esiste ovvero un irresistibile composizione di differenze ed opposti.
Una disperata e disperante difesa contro il caos della vita, la paura di crescere verso la conciliazione degli opposti, un desiderio di sicurezze sprofondanti nella banalità, un rimedio peggiore del “male” che genera odio e distruzione dimenticando le parti oscure di noi stessi, così mi apparve il nazionalismo, un nano incapace di gestire la gigante complessità della vita e per questo commettendo violenze e condannando i popoli all’ignoranza e al delirio.
Da qui cominciarono le confessioni di un europeo e scoprì il mito di Europa, così carico di vita in tutte le sue forme più grandi ed intense, ovvero l’amore, il desiderio, la paura, il viaggio ed il mare; ed ancora, l’avventura, il rimpianto, la novità, la speranza di qualcosa di nuovo, la creazione di qualcosa al di là di noi stessi.
Zeus ed Europa mi sembravano così diversi e pur tuttavia così uniti da quel viaggio sul mare senza confini, verso l’ignoto, senza sicurezze; Europa lasciando le vecchie consuetudini e le regole della casa paterna molto soffrì ma ciò le permise di scoprirsi creativa e di scoprire altro da sé.
Tutto il mito mi sembrava una metafora ed un simbolo ed al continente che di Europa porta il nome cominciai ad applicarli sempre più certo della necessità che esso come la principessa di Tiro dovesse abbandonare le consuetudini e le regole della casa paterna e della divisione in piccoli Stati nazionali sovrani per salvarsi, ricominciando a viaggiare in un mare senza confini verso l’ignoto e la creatività, verso una società aperta, aggrappato ad uno Zeus trascinatore che a me, oggi, piace chiamare “Stati Uniti d’Europa”.
XIII
L’Europa deve respirare con due polmoni: quello del nord e quello del sud.
(Anonimo)
L’Europa cerca, a ragione, di darsi una politica e una moneta comune, ma essa ha soprattutto bisogno di un’anima.
(André Frossard)
Una guerra tra Europei è una guerra civile.
(Victor Hugo)
Non siamo più inglesi né si né tedeschi. Siamo europei. Non siamo più europei, siamo uomini. Siamo l’umanità. Non ci resta che abdicare dal più grande degli egoismi: la nostra patria.
(Victor Hugo)
L’Europa non è un luogo, ma un’idea.
(Bernard-Henri Lévy)
Sì, è l’Europa, dall’Atlantico agli Urali, è l’Europa, che deciderà il destino del mondo.
(Charles de Gaulle)
L'Europa sarebbe diventata di fatto un popolo solo; viaggiando ognuno si sarebbe sentito nella patria comune... Tale unione dovrà venire un giorno o l'altro per forza di eventi. Il primo impulso è stato dato. Dopo il crollo e dopo la sparizione del mio sistema io credo che non sarà più possibile altro equilibrio in Europa se non la lega dei popoli.
NAPOLEONE BONAPARTE
...we shall fight in , we shall fight on the seas and oceans, we shall fight with growing confidence and growing strength in the air, we shall defend our Island, whatever the cost may be, we shall fight on the beaches, we shall fight on the landing grounds, we shall fight in the fields and in the streets, we shall fight in the hills; we shall never surrender...
Winston Churchill
Ma a quel tempo. quando intrapresi a viaggiare, ancora non capivo e lasciavo la mia coscienza giudicare per paura ed ignoranza costruendo, così, una barriera fra
me e i luoghi, un muro per difendere la cittadella dei miei scarsi ricordi e delle mie immaginarie speranze.
Semplicemente, non capivo.
La mia coscienza si poneva le domande e si dava le risposte, parlavo con me stesso, non ascoltavo e non capivo che essa era deformata e navigava nel buio attratta soltanto dalle sirene della non conoscenza di sè e dalle squillanti promesse della cultura nazionalista che prima di ogni altra cosa corrompe l’anima nascondendola e dimenticandola, torturandola con l’odio verso l’altro, il “diverso”, intrappolandola nella gabbia dello Stato nazione sovrano che espande i suoi veleni e la sua corruzione verso i nostri affetti rendendoci cattivi e cinici, immaturi e deformi pensando che dall’indipendenza nazionale possa dipendere la nostra libertà.
Il male, il male dei totalitarismi, del fascismo, del nazional comunismo e di tutti i nazionalismi, seppur all’apparenza così pieni di contenuti, così roboanti e purtroppo così convincenti, sa essere e forse sa di essere incredibilmente superficiale e banale perchè legandoci ad una parte, ad un partito, ad un solo punto di vista dimentica e rigetta l’infinita varietà della nostra vita e della nostra personalità lasciando alla violenza verbale e non il compito di ovviare al senso di inadeguatezza che immancabilmente sorge dal vivere un’esistenza così insignificante e mediocre, così vuota, così dimentica di se stessa e della propria ricchezza interiore che nello specchio della diversità dei luoghi, delle culture, delle storie, della natura, benevole e sorridenti, trova il suo straordinario riscontro.
Dal profondo, invece, sorge la nostra anima che del viaggio ha bisogno per svelarsi e svegliarsi, della libertà per crescere, della conciliazione degli opposti per essere forte e scoprire il nostro “sè” e di ponti per raggiungere le parti di se stessa più recondite ed antiche, le più difficili da accettare che già, tuttavia, ci attendono dentro noi stessi o all’altro capo del mondo.
Viaggiavo, dunque, e nonostante tutto crescevo, suppur molto lentamente, ma crescevo, il viaggio illuminando parti di me stesso e concependo al contempo qualcosa di nuovo .
Mi sentivo come se dovessi scalare un montagna che ancora da lontano guardavo ma di cui cominciavo a riconoscerne le parti, i luoghi, alcuni così remoti e distanti da me ma altri così vicini e familiari.
Cominciai, allora, ad intravedere luoghi, storie e differenze che a me più intimamente legati erano, a cui appartenevo con più intensità e a questo primo nodo di complessità, a questo primo versante della montagna diedi il nome di Europa.
Piansi, allora, pensando alle divisioni e alle violenze di un’Europa frammentata in Stati nazionali sovrani sempre ingannevoli e macchinatori anche quando di Europa discutono, alle urla e alle minaccie della follia nazionalista avvolta nell’aura delle buone ragioni, dei calcoli e delle convenienze, alle ragioni dello Stato sovrano così principescamente lontane da quelle delle esperienze comuni, così tragicamente sconnesse da quelle degli altri Stati se non per il fatto di considerare libertà e diritto un ostacolo a se stesse e alla loro volontà di sopraffazione.
Pensai alle coscienze risentite che uccidevano la speranza della conciliazione degli opposti soltanto nella quale si trova la gioia di una pace creativa fonte di realizzazione alla quale si tende senza ragione, senza esperienza o fede ma così semplicemente per amore, per amore verso la vita ed i suoi pericoli che non scema un solo istante, che non chiude le sue porte quando la notte arriva.
E più viaggiavo, più mi sentivo europeo e riconoscevo i pericoli del nazionalismo e delle sue separazioni, del dominio della coscienza sull’anima che anche attraverso i luoghi può scoprirsi libera e senza confini per una vita dello spirito piena accanto a quella del tempo e dello spazio.
XIV
Solo se riusciremo a vedere l'universo come un tutt'uno in cui ogni parte riflette la totalità e in cui la grande bellezza sta nella sua diversità, comincieremo a capire chi siamo e dove stiamo.
TIZIANO TERZANI
Il vero viaggio di scoperta non consiste nel trovare nuovi territori, ma nel possedere altri occhi, vedere l'universo attraverso gli occhi di un altro, di centinaia d'altri: di osservare il centinaio di universi che ciascuno di loro osserva, che ciascuno di loro è
MARCEL PROUST
Bisogna somigliarsi un po' per comprendersi, ma bisogna essere un po' differenti per amarsi
PAUL GÉRALDY
Una metà di me non sopporta l'altra. E cerca alleati!
Gesualdo Bufalino
Nessun uomo si bagna nello stesso fiume due volte.
Eraclito
Nessuno può essere libero se costretto ad essere simile agli altri.
Oscar Wilde
Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria | col suo marchio speciale di speciale disperazione | e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi i | per consegnare alla morte una goccia di splendore | di umanità di verità.
Fabrizio De André
Se mai l'Europa si darà una vera costituzione, sarà quando avrà intrapreso una profonda riflessione su sé medesima, ancora una volta a confronto con l'America. Questa volta per rispondere alla domanda: chi davvero noi siamo, che cosa davvero ci distingue, sempre che si voglia essere qualcuno e qualcosa, e non una semplice propaggine. Il Tocqueville di cui oggi avremmo bisogno sarebbe quello che fosse capace di renderci consapevoli, nelle differenze, della nostra identità.
Gustavo Zagrebelsky
Lo ripeto, uno stato di cose sempre lo stesso, genera l'inerzia: la varietà al contrario eccita il corpo e lo spirito alla fatica.
Ippocrate
Nessuno è chiamato a scegliere tra l'essere in Europa e essere nel Mediterraneo, poiché l'Europa intera è nel Mediterraneo.
Aldo Moro
Ma a quale Europa pensavo?
A quale luogo pensavo laddove fosse possibile il dispiegarsi delle potenzialità e di infinite possibilità superando i limiti della coscienza e le ristrettezze, l’unilateralità della cultura nazionalista?
Come poteva essere questo luogo nel quale gli opposti non avrebbero più rappresentato una forza distruttrice e violenta ma al contrario una condizione favorevole per esprimersi e crescere, accogliendoli senza annullarli?
Come sarebbe stato possibile restare se stessi pur essendo molto di più, come è possibile, cioé, conciliare gli opposti, lasciarli vivere?
Quale Europa può accogliere le differenze e le diversità pur restando esse sempre riconoscibili e vitali?
Saprà Europa vincere le sue paure nel suo viaggio verso l’ignoto? e quale forma può prendere questo viaggio, quale tentativo può essere provato, quanti errori, fallimenti e frustrazioni siamo disposti ad accettare?
Di quanto coraggio abbiamo bisogno per realizzare l’improbabile, per convivere contro la speranza e talvolta l’impossibile?
Certamente, non pensavo all’Europa degli Stati nazionali sovrani che con le loro crisi continue, la loro propaganda e le loro folle ragioni rappresentano un limite ed un ostacolo essendo essi ormai completamente inadeguati.
Infatti, se la nostra vita é influenzata non soltanto da fatti personali ma anche e soprattutto da forze che pur appartenendoci, trascendono la persona e che a tutti sono comuni, allora, la forma dello Stato nazione non é piu’ sufficiente, semmai lo è stata, per esprimere quelle forze su cui non abbiamo un controllo potendo soltanto viverle per ciò che esse sono e per la loro infinita varietà di significati a cui corrisponde la multiformità della nostra vita individuale e quel senso di triste precarietà che spesso ci domina nell’angoscia del non definito, dell’oscuro e del sempre cangiante.
Questa varietà infinita di significati e di possibilità che la vita individuale domina va vissuta pienamente e nella sua totalità a meno che non si accetti di pagare il prezzo della non realizzazione di sé e di conflitti distruttivi che dalla sfera personale su quella generale e politica si trsferirebbero come in Europa é già più volte successo.
Di fronte ai problemi della molteplicità e del divenire delle cose, della realizzazione di sé in questo mondo fatto di conflitti e contraddizioni, la forma
dello Stato nazionale sovrano mi apparve non soltanto inadeguata ma soprattutto pericolosa tendendo essa per natura all’unilateralità delle cose e alla ristrettezza dei punti di vista nazionalisti pretendendo così di limitare la nostra vita soltanto a certe parti di essa e non alla totalità, cercando con la forza e la violenza di estendere le proprie possibilità generando così conflitti distruttivi ed autodistruttivi.
Al contrario, l’essere europeo, il divenire europeo mi sembrava un segno della realizzazione di se stessi ed una sfida verso se stessi nel cammino verso la conoscenza di sè, le alternative essendo l’inaridimento dell’ anima e della personalità nel triste e vociferaio nazionalismo da un lato o il perdersi nel vortice delle differenze senza alcun controllo su di esse dall’altro.
Restare se stessi nelle diversità, essere “stabilmente” le diversità, il divenire, l’incognito, ognuno di noi essendo un pò Ulisse ed un pò Gesù, viaggiatori ed audaci dello spirito, nell’infinitamente piccolo ricercare e percepire l’infinitamente grande, essere pericolosi e pazzi porgitori dell’altra guancia, in perenne stato di innamoramento, una follia di tutti i giorni, un dire senpre di si anche quando pronunciamo dei no, un viaggio con poche o nessuna certezza verso l’ignoto, tutto questo e molto di più mi appariva l’essere europeo, un’alternativa all’imperante nichilismo.
Ma in questa immagine dell’essere europeo, così legata alla storia del mito di Europa, un mito di amore e ione innanzitutto, apparve chiaramente anche la certezza che per esserlo non era sufficiente il solo riconoscimento personale, si é infatti europei se l’Europa esiste.
Viviamo ancora negli Stati nazionali sovrani e nella loro cultura e ciò rappresentera’ sempre un ostacolo al pieno dispiegamento di una personalità europea, essa ci trascinerebbe sempre indietro nonostante i successi personali ottenuti come una zavorra che ci spinge verso il basso, verso l’abisso della sovranità dello Stato e delle sue ragioni, verso quel Leviatano che la nostra
libertà ama divorare.
L’Europa deve dunque esistere in diritto, istituzioni e leggi come risposta alle esigenze della nostra creatività che se negate potrebbero assumere, come é già accaduto, forme indesiderate e distruttive per tutti, le persone, le società e gli Stati.
XV
Di tutte le condizioni controllate che la vita ha offerto all'uomo, quelle sotto la costituzione degli USA hanno dimostrato di essere le migliori. Pertanto, stai attento quando inizi a modificarla, corromperla o abrogarla.
MARTIN HENRY FISCHER
La costituzione dà ad ogni Americano l'inalienabile diritto a fare di se stesso un maledetto pazzo.
JOHN CIARDI
Forse appunto perche' il dogma della sovranita' dello Stato e' riuscito a penetrare, quasi inconsapevolmente, nel patrimonio spirituale degli uomini d'Europa, urge dimostrare che esso e' in contrasto insanabile con l'idea di societa' delle nazioni. Poiche' se e' necessario sconfiggere il nemico... sovra ogni altra cosa e' necessario distruggere le idee da cui la guerra e' stata originata. tra le idee feconde di male, se condotte alle loro estreme conseguenze, quella del dogma della sovranita' assoluta e perfetta in se stessa e' massimamente malefica.
Luigi Einaudi
Vogliamo noi combattere per un nome o per una realta'? Ammettasi che la
realta' di uno Stato europeo o anche solo di uno Stato composto di parecchi degli attuali alleati sia difficilissimo a raggiungersi. Tuttavia gli sforzi fatti per costruire uno Stato vivo di vita propria, con indipendente diritto di ripartire imposte sui suoi cittadini senza dipendere dal beneplacito di altri Stati sovrani, fornito di un esercito proprio, atto a mantenere la pace interna ed a difendere il territorio contro le oppressioni straniere, dotato di una amministrazione sua doganale, postale, ferroviaria sarebbero almeno sforzi compiuti per raggiungere uno scopo concreto, pensabile, se pure oggi irraggiungibile. Mentre invece gli sforzi fatti per creare una societa' delle nazioni, rimaste sovrane, servirebbero solo a creare il nulla, l'impensabile, ad aumentare ed invelenire le ragioni di discordia e di guerra.
Luigi Einaudi
Ora su un'immensa terrazza di Elsinore, che va da Basilea a Cologna, che lambisce le sabbie di Newport, le paludi della Somme, i gessi di Champagne, i graniti di Alsazia - l'Amleto europeo osserva milioni di spettri
Paul Valery
Come sarebbe stato possibile far convivere gli opposti senza eliminarli, anzi facendoli vivere ed esprimere senza che però possano nuocere e nuocersi nel loro perenne contrasto; come sarebbe stato possibile rimanere se stessi pur essendo molto altro? Come l’anima europea avrebbe potuto dispiegarsi nella sua multiforme varietà che da tutte le parti rischiano continuamente di sopraffarla?
Quale Europa poteva essere così forte da accogliere in sè tutte le differenze pur rimanendo riconoscibile e al contempo crescere per il fatto stesso di contenere così tante diversità? Quale forma Europa può assumere per intraprendere un simile viaggio e quali tentativi vanno provati, quanti fallimenti ed errori siamo,
ancora una volta, disposti ad accettare?
Di quanto coraggio abbiamo bisogno per tentare l’impossibile di un’unità nelle differenze contro il probabile del disfacimento degli Stati nazionali sovrani?
Dove cercare la follia visionaria di saggi europei ed europeisti? Dove vivono coloro che pur perdendo ogni speranza si fanno speranza e ci insegnano che laddove tutto sembra trascinarci verso il basso e la degradazione in realtà si procede, incrollabilmente, verso l’alto incoraggiati da chissà quale parte di noi stessi, da chissà quale storia?
Quale Europa, dunque? Da quale punto più basso della sua storia poteva essa risorgere in forme unitarie?
Provai, allora, un senso di solitudine e di totale inadeguatezza perchè riconoscevo di non sapere nulla.
Nel viaggio, tutta la cultura nella quale ero vissuto spariva impietosamente incapace di darmi alcuna risposta così impregnata dal male del nazionalismo e rimasi preda di me stesso e dei miei demoni nella più grande delle solitudini.
XVI
La propaganda non inganna le persone; le aiuta semplicemente ad ingannare se stesse.
ERIC HOFFER
Lo scopo confessato della propaganda è persuadere e non illuminare... la propaganda è sempre un tentativo di asservimento.
SIMONE VEIL
Il o successivo [in un movimento fascista] è quello di affascinare gli sciocchi e mettere la muola agli intelligenti, con l'eccitazione emotiva da un lato e il terrorismo dall'altra.
BERTRAND RUSSELL
La società tiene in gran conto gli uomini normali. Educa i bambini a perdere se stessi e a diventare assurdi, e così esseri normali. Uomini normali hanno ucciso forse cento milioni di altri uomini normali negli ultimi cinquant’anni.
RONALD DAVID LAING
I più grandi trionfi della propaganda sono stati ottenuti non con l'azione ma con l'astensione dall'azione. La verità è grande, ma ancor più grande, da un punto di vista pratico, è il silenzio sulla verità.
ALDOUS LEONARD HUXLEY
Perché il sistema consente di arrivare al potere col disprezzo; ma è l'iniquità, l'esercizio dell'iniquità, che lo legittima.
-- Leonardo Sciascia
Ministri, deputati, professori, artisti, finanzieri, industriali: quella che si suole chiamare la classe dirigente. E che cosa dirigeva in concreto, effettivamente? Una ragnatela nel vuoto, la propria labile ragnatela. Anche se di fili d'oro.
Leonardo Sciascia
Un'idea morta produce più fanatismo di un'idea viva; anzi, soltanto quella morta ne produce. Poiché gli stupidi, come i corvi, sentono solo le cose morte.
Leonardo Sciascia
La sicurezza del potere si fonda sull'insicurezza dei cittadini.
Leonardo Sciascia
Soltanto solo, sperduto, muto, a piedi riesco a riconoscere le cose.
-Pier Paolo Pasolini
Nulla è più anarchico del potere, il potere fa praticamente ciò che vuole. E ciò che il potere vuole è completamente arbitrario o dettato da sua necessità di carattere economica, che sfugge alle logiche razionali. Io detesto soprattutto il potere di oggi. Ognuno oggi ha il potere che subisce, è un potere che manipola i corpi in una maniera orribile e che non ha niente da invidiare alla manipolazione fatta da Himmler o Hitler. Manipola trasformandone la coscienza, cioè nel modo peggiore istituendo dei nuovi valori che sono valori alienanti e falsi. I valori del consumo, che compiono quello che Marx chiama: "un genocidio delle culture viventi". Sono caduti dei valori e sono stati sostituiti con altri valori sono caduti dei modelli di comportamento e sono stati sostituiti con altri modelli di comportamento. Questa sostituzione, non è stata voluta dalla gente, dal basso, ma sono stati imposti dagli illustri del sistema nazionale. Volevano che gli italiani consumassero in un certo modo e un certo tipo di merce e per consumarlo dovevano realizzare un altro modello umano. Il regime, è un regime democratico, però quella acculturazione, quella omologazione che il fascismo non è riuscito assolutamente a ottenere, il potere
di oggi, il potere della società di consumi è riuscito a ottenere perfettamente, distruggendo le varie realtà particolari. E questa cosa è avvenuta talmente rapidamente che noi non ce ne siamo resi conto. È stata una specie di incubo in cui abbiam visto l'italia intorno a noi distruggersi, sparire e adesso risvegliandoci forse da quest'incubo e guardandoci intorno, ci accorgiamo che non c'è più niente da fare. L'uomo è sempre stato conformista. La caratteristica principale dell'uomo è quella di conformarsi a qualsiasi tipo di potere o di qualità di vita trovi nascendo. Forse più principalmente l'uomo è narciso, ribelle e ama molto la propria identità ma è la società che lo rende conformista e lui ha chinato la testa una volta per tutte agli obblighi della società. Io mi rendo ben conto che se le cose continuano così l'uomo si meccanizzerà talmente tanto, diventerà così antipatico e odioso, che, queste libertà qui, se ne andranno completamente perdute.
-- Pier Paolo Pasolini
Non mi restava più niente, mi sentivo svuotato.
Il viaggio stava scomponendo pezzo dopo pezzo tutta la mia personalità, i luoghi stavano portando alla luce nuove parti di me dissotterando nuove coppie di opposti di cui non ero stato consapevole fino ad allora e, almeno, così facendo, il conflitto si faceva visibile.
Precipitavo in balia di me stesso, giù, verso la confusione senza potermi aggrappare ad una coscienza, ad una parte, dove scompariva nel ridicolo e nella meschinità, nella ristrettezza e nella limitatezza quella cultura nazionalista che mi aveva illuso che una parte potesse essere il tutto e che l’idolo dello Stato sovrano potesse dare risposta alla mia angoscia, alle mie insicurezze.
Volevo ancora vivere ma non sapevo come esistere e cercai, allora, di dimenticarmi, di andar via da me stesso.
Non volevo sapere più nulla di me stesso per non dover sentire il lugubre scricchiolio di tutto ciò che fino ad allora era stato e che per sempre era andato perduto ma la certezza del vuoto e delle menzogne nelle quali avevo vissuto permanevano riempiendo la mia sensibilità e quanto fallaci, ambigue ed ingannevoli mi si mostravano adesso quelle menzogne non soltanto prive di verità ma nemiche di essa fino al punto da nasconderla chiamando se stesse sicurezza.
La cultura ufficiale, quella cultura di regime, nazionalista ed antieuropea avevano sottratto alla luce la verità uccidendola alla conoscenza, rimuovendola dall’orizzonte delle possibilità lasciando l’ignoranza e l’angoscia di fronte alla quale nulla la mente poteva con i suoi pensieri, di fronte alla quale anche la morte appariva più dolce.
Vissi così perduto agli altri e a me stesso raggiungendo il punto più basso di quest’isola deserta e senza libertà che era la mia coscienza assistendo disperato al crollo degli ultimi ponti che ancora alla terraferma mi legavano rimanendo senza più vita e senza più morte, incapace, ormai, di amare alcunché.
Non trovavo più risposte e le domande mi apparivano ingannevoli e fuorvianti, parte esse stesse della menzogna di quella cultura che di me era da lungo tempo parte, prodottasi nell’ufficialità e nella propaganda dell’unilateralità la quale, ormai, percepivo come violenza contro l’ampiezza delle infinite possibilità della vita contro le quali il nazionalismo come il totalitarismo si facevano testimoni e portatori, portatori di morte per la vita dei popoli e dei singoli alla cui individualità é negato l’accesso a quelle infinite possibilità di crescita senza le quali la vita non ha alcun senso arrestandosi ed imputridendo nell’aridità di un
gretto egoismo, nelle società ad un’unica dimensione ed omogenee, lacerandosi nel conflitto tra gli opposti, tra l’io e il tu, tra il noi e il loro.
Al contrario, nel progetto unitario europeo vedevo un primo ma essenziale o verso il riconoscimento della complessità che dentro e fuori di noi abita e che ci appartiene contro di esso lavorando instancabilmente tutti i totalitarismi, i nazionalismi e gli independentismi di ogni sorta che per le loro ragioni e il loro modo d’essere quel progetto rubano alla conoscenza, ne nascondono la storia e gli uomini, le donne, che quella storia hanno fatto, ne sostituiscono il metodo agendo, tutti i giorni, contro la verità secondo la quale il progetto unitario europeo é innanzitutto una risposta contro gli errori e gli orrori, l’inadeguatezza e l’unilateralità degli Stati nazionali sovrani.
Essi confondono e rendono folli con le loro buone ragioni e i loro giusti interessi, urlano apionatamente per ingannare, per impaurire, per imporre alle coscienze la scelta fra essi e il nulla, fra un Europa divisa in Stati nazionali sovrani e la presunta perdita delle identità nazionali, indicando se stessi come unico antidoto alla solitudine dell’uomo di fronte alle infinite diversità, creando confini e rancori fra le genti giustificandosi con la necessità di proteggerci da ciò che é estraneo e strano, dall’incomprensibile.
Essi promettono l’inferno a coloro che osano dubitare che l’idolatria dello Stato nazionale sovrano non é il rimedio al male ma é esso stesso il male che dell’uomo si impossessa come un cancro divorando la sua complessità, la sua forza di essere vento nel mare infinito delle differenze e delle diversità, della problematicità e delle sfide, dello sviluppo e della crescita di se stessi al di là di se stessi e dell’io verso la propria anima e nel cuore della spiritualità che in tutti i luoghi e in tutte le storie, in tutte le nature e in tutte le culture trova riscontro e a cui indissolubilmente siamo legati attraverso la nostra individualità e le ate generazioni, attraverso la natura e le antiche civiltà.
XVII
La mia solitudine non dipende dalla presenza o assenza di persone; al contrario, io odio chi ruba la mia solitudine, senza, in cambio, offrirmi una vera compagnia.
Friedrich Nietzsche
La solitudine è la vera condizione dell'uomo.
Wystan Hugh Auden
La solitudine significa pensieri seri, densi di contenuto, significa contemplazione, calma, saggezza.
Michail Bulgakov
A condannare un uomo alla solitudine non sono i suoi nemici ma i suoi amici.
Milan Kundera
La solitudine fa maturare l'originalità, la bellezza strana e inquietante, la
poesia. ma genera anche il contrario, lo sproporzionato, l'assurdo e l'illecito.
Thomas Mann
Poco per volta comincio a vedere chiaro sul più universale difetto del nostro genere di formazione e di educazione: nessuno impara, nessuno tende, nessuno insegna a sopportare la solitudine.
Friedrich Nietzsche
Là dove la solitudine finisce, comincia il mercato; e dove il mercato comincia, là comincia anche il fracasso dei grandi commedianti e il ronzio di mosche velenose.
Friedrich Nietzsche
Necessaria è una cosa sola: solitudine, grande solitudine interiore. Volgere lo sguardo dentro sé e per ore non incontrare nessuno; questo bisogna saper ottenere.
Rainer Maria Rilke
Chi non ama la solitudine, non ama neppure la libertà, poiché soltanto quando si è soli si è liberi.
Arthur Schopenhauer
La solitudine può portare a forme straordinarie di libertà.
FABRIZIO DE ANDRÉ
La capacità di stare da soli è la capacità di amare. Può apparirti paradossale, ma non lo è. E’ una verità esistenziale: solo le persone in grado di stare da sole sono capaci di amare, di condividere, di toccare il nucleo più intimo dell’altra persona, senza possederla, senza diventare dipendenti dall’altro, senza ridurla a un oggetto e senza diventarne assuefatti. Le riconoscono libertà assoluta, perché sanno che se l’altro se ne va saranno felici come lo sono adesso: l’altro non può privarli della loro felicità, perché non è da lui che arriva.
Osho
La solitudine e' per me una fonte di guarigione che rende la mia vita degna di essere vissuta
Carl Gustav Jung
Ho vissuto in solitudine, ho vissuto, allora, laddove non c’era piu’ nessuno, laddove non c’era più neanche me stesso, ho vissuto perdendo, perdendo me stesso e la mia storia, gettando via la mia vita e in un certo senso mi sentii morire, nella solitudine mi lasciai morire divorandomi.
Tutta la mia storia e la Storia che conoscevo mi apparivano senza senso non dandomi alcuna risposta, sentivo di essere stato ingannato da un mare di niente durante tutti questi anni, di fronte al quale non avevo alternative o speranze e così mi lasciai andare, mi chiusi in me stesso e mi persi rifiutando la lucidità, l’intelligenza e i sentimenti perché mi sembravano parte di quella enorme bugia nella quale avevo vissuto.
Mi sentivo già morto o che avrei potuto morire senza la sensazione di stare perdendo qualcosa, quale senso poteva avere, infatti, la mia vita, che cosa significava sentirsi europeo, figlio di queste storie e di tutta la loro complessità, quale forma avrebbe potuto assumere quell’esigenza di completezza della mia storia nel più vasto ambito della storia collettiva che dentro di me sentivo scuotersi furiosamente, come avrei potuto riconciliarmi con essa per viverla pienamente e in tutte le sue parti? come la mia complessità si sarebbe risvegliata e riconosciuta nel tentativo di conciliazione degli opposti che ci appartengono senza creare mostri, senza scivolare nella disperazione che il nazionalismo genera e nutre ancora oggi? Come sanare quella percezione di separazione che dal guardare se stessi arriva fino ai rapporti fra gli Stati nazionali sovrani? Come liberare tutte le nostre storie perché ad ognuna sia dato il diritto di esistere dentro e fuori noi stessi? Come conciliare la vita interiore e quella collettiva senza sprofondare nella pazzia della più incontrollabile confusione o nell’ apimento dei propri sentimenti e nella dissociazione dalla propria anima e dalla realtà complessa, spesso tragica, della vita?
Dove erano le risposte, c’erano le risposte? così echeggiavano dalla mia solitudine tutti i miei dubbi e più ancora in essa sprofondavo.
Sprofondavo negli eccessi della solitudine e vi toccavo il fondo laddove tutti i legami con l’antica vita, l’antica cultura ufficiale e di regime sparivano senza più alcuna possibilità di ritorno lasciandomi in balia di me stesso e di una insopportabile sensazione di nullità, la stessa sensazione che provavo quando “sognavo” di salire sulla montagna che al mio vecchio saggio mi avrebbe
portato, la stessa sensazione di inutilità e sporcizia, di fine e di completo abbandono, la sensazione di aver toccato il punto piu’ basso.
Qui mi accingo a terminare il mio libro, qui terminano le mie confessioni, perché, per capire me stesso oggi, al ato di quel sogno ritorno, in un movimento circolare che in realtà nulla della nostra vita consuma anche se spesso dimentica e ci fa sentire soli dentro noi stessi pur di non dover affrontare tutta la nostra complessità, pur di non dover dire di si all’immane lavoro della conciliazione della molteplicità e di tutti gli opposti che noi siamo, che io mi vado scoprendo essere, ed in questo ato stava già il futuro e nei sogni il suo presentimento ed in esso stava anche la libertà ed il prezzo che va pagato per goderne e mantenerla.
In quel sogno giovanile chiara era, infatti, la percezione che nonostante provassi la sensazione di non avere più alcuna via d’uscita, non stavo sprofondando, non stavo andando giù, al contrario stavo risalendo, andavo verso la cima della montagna, la malattia essendo parte della cura e cominciai a capire che le risposte che cercavo le avrei potute trovare soltanto nella solitudine di cui dovevo toccare il punto più basso, non averne paura e che, ancora, la cultura dei solitari e dei pazzi avrei dovuto scoprire, la cultura dei dimenticati che avendo toccato il loro punto più basso avevano cominciato la risalita, e di Europa avrei, allo stesso modo, dovuto indagare il punto più spaventosamente basso in cui il nazionalismo e gli Stati nazionali sovrani la scagliarono con violenza inaudita per trovarvi, per scorgervi il movimento verso la risalita e la sua unità.
Adesso tutto mi appariva connesso, tutto appariva legato, la vita individuale e collettiva, il nichilismo della mia esistenza e il nazionalismo, il nichilismo della società e la mia solitudine, la cultura di regime, ufficiale e quella dei ripudiati, dei cancellati, la mia storia e la Storia, l’unità europea e il permanere degli Stati nazionali sovrani; tutto agitandosi dentro di me e dentro ognuno più o meno consapevolmente, sbiadendo il confine fra individualità e vicende collettive il cui contrasto nessuna soluzione individualistica avrebbe potuto da sola comporre e conciliare esigendone in aggiunta una politica che a me appariva poter essere
solo l’Europa unita o per meglio dire, gli Stati Uniti d’Europa.
Tutto era connesso, tutto si teneva, il mio Sé richiedendo la complessità e l’equilibrio.
EPILOGO
Non sarà possibile conseguire una integrazione economica e monetaria senza procedere al tempo stesso ad una integrazione democratica e politica... Come si può concepire la creazione di una forte banca centrale indipendente che controlli una moneta usata da 340 milioni di cittadini, senza paralleli sviluppi politici e democratici e una identità politica europea?
JACQUES DELORS
Questo senso dell'Europa come portatrice di civiltà, e di una civiltà comune, si precisa e si definisce in senso unitario nel periodo tra le due guerre e prima della tremenda devastazione hitleriana. Ma è un culto che rifiorisce soprattutto dopo la grande delusione e dopo le terribili esperienze della seconda guerra mondiale
GIOVANNI SPADOLINI
Per me, e per coloro che condividono le mie opinioni, l'idea dell'unità europea fu sempre cara e preziosa; essa rappresentava qualcosa di naturale per il nostro pensiero e per la nostra volontà. [...] La vera Europa sarà creata da voi, con l'aiuto delle potenze libere. Sarà una federazione di liberi Stati, con eguali diritti, capaci di far fiorire la loro indipendenza spirituale e la loro cultura tradizionale, sottomessi contemporaneamente alla comune legge della ragione e della moralità
THOMAS MANN
Il problema che in primo luogo va risolto, e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell'Europa in Stati nazionali sovrani. Il crollo della maggior parte degli Stati del continente sotto il rullo compressore tedesco ha già accomunato la sorte dei popoli europei, che o tutti insieme soggiaceranno al dominio hitleriano, o tutti insieme entreranno, con la caduta di questo, in una crisi rivoluzionaria in cui non si troveranno irrigiditi e distinti in solide strutture statali
ALTIERO SPINELLI
Uno Stato europeo stabilito sulla base del governo rappresentativo, che garantisca la libertà politica e il suffragio universale, fornirebbe il meccanismo in grado di portare a quella libertà politica ed economica desiderata da tutti i popoli d'Europa. Vi prenderebbero, inoltre, parte paesi in numero sufficiente da assicurare stabilità per la democrazia, in modo tale che, nel caso in cui in una parte della Federazione si manifestassero tendenze a sopraffare le sue basi democratiche, la stabilità degli altri membri sarebbe sufficiente per resistere all'attacco
R. W. MACKAY
Questo processo di unione europea, che e' direttamente opposto alla competizione dei nazionalismi e sta contro di essi e un giorno potra' liberarne affatto l'Europa, tende a liberarla in pari tempo da tutta la psicologia che ai nazionalismi si congiunge e li sostiene e ingenera modi, abiti e azioni affini
Benedetto Croce
La cultura dei pazzi e dei solitari, il loro punto più basso nelle vicende della loro esistenza e il punto più basso della storia d’Europa, cominciai a cercarli, e subito mi accorsi di quanto connessi avrebbero potuto essere la pazzia di pochi imprudenti e le loro vicissitudini nel contesto della storia d’Europa che toccava il suo fondo; non li avrei trovati cioé laddove c’era ancora speranza ma laddove tutto sembrava perso ed essi stessi si fecero speranza per sé e per gli altri.
Li avrei trovati soli di fronte alle prepotenze dei vincitori e alla rabbia dei perdenti, di fronte all’incomprensione, alle derisioni, al sapere quotidiano, alla loro inattualità e li avrei onorati come antichi fondatori di Stati, come vecchi saggi con il gusto della risata, scoprendoli continuamente nella compresenza del ato con il presente, nelle parole e nelle azioni riconoscendovi una Storia più grande di loro ma ad essa indissolubilmente legati come cosa unica, indivisibile, la Storia della libertà contro la quale i totalitarismi di ogni genere ed i nazionalismi oppongono la schiavitù e la violenza.
Proprio allora, quindi, proprio quando il totalitarismo ed il nazionalismo avevano ridotto in schiavitù l’intero continente europeo sommergendelo in un mare di sangue celebrando già tra i fanatismi di ogni sorta il proprio spudorato trionfo, quando sembrava che ormai non ci fosse più speranza e che la battaglia della libertà fosse andata perduta per chissà quanto tempo, quando l’Europa toccò il punto più basso della sua storia in quell’anno 1941 in cui da tutte le capitali di questo continente con l’eccezione della coraggiosa Londra echeggiavano i tamburi del tribalismo e della sottomissione, della violenza e dell’ anti diritto in una macabra rappresentazione che dall’Atlantico agli Urali dava orrenda mostra di se’ ripetitiva e sempre la stessa come un’ossessione, come un incubo ricorrente, proprio allora, proprio in quel momento seppi che avrei dovuto cercare la risposta, la reazione, l’essere speranza contro la disperazione, sentivo che in quell’abisso di morte in cui l’Europa dei nazionalismi, dei fanatismi e dei feticisti idolatri dello Stato nazionale sovrano rantolava tutte le sue miserie e debolezze, avrei trovato le mie risposte, proprio quando tutto sembrava perduto e la libertà condannata alla solitudine e all’illusione, con determinazione mi accinsi a scorgere la risalita e la luce laddove appariva impossibile, laddove,
razionalmente, luce non c’era.
Non dovetti andare molto lontano, dovetti semplicemente alzare lo sguardo perché alla periferia d’Europa, sperduta sul mare e sconosciuta a chi non ha la consapevolezza della propria libertà, ricca di immagini e di bellezza, sta l’isola di Ventotene, terra eminentemente dell’anima perché in essa gli uomini dovettero rinunciare al corpo a causa di un potere statuale che tutto pretendeva di vedere e che agli sfortunati negava financo la vista del mare.
Tra queste roccie sperdute, in questo carcere, tra una struggente, infinita bellezza e l’orrore quotidiano di vite spezzate, sprofondate nella solitudine e nella disperazione , nel momento più cupo della Storia d’Europa che verso inesplorati abissi correva, scoprì che nonostante tutto, assurdamente come capita soltanto a chi é innamorato, il movimento andava verso l’alto.
Nel giugno del 1941, quando la Germania nazista dava inizio, con i suoi alleati europei, ad una delle più colossali operazioni militari della Storia invadendo l’Unione Sovietica, su di sé attirando tutte le attenzioni, tutte le paure e procedendo con ragionevoli possibilita’ di successo, proprio allora da quella minuscola ed insignificante isola del Mar Tirreno cosi’ apparentemente lontana dal centro degli eventi, proprio allora dall’isola di Ventotene abitata da uomini le cui vite sembravano valere poco o nulla, proprio allora Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni con la preziosa collaborazione di Ursula Hirschmann scrissero la prima stesura del Manifesto di Ventotene per un’Europa libera e unita.
Il Manifesto di Ventotene nel momento più detestabile della Storia europea, quando il furore dei nazionalismi e delle sovranità nazionali aveva raggiunto il suo culmine non solo contro ciò era considerato straniero e diverso ma anche e forse soprattutto contro i propri cittadini privati della libertà, manovrati come marionette ed uccisi senza alcun freno o pietà, offriva, in maniera apparentemente folle, l’alternativa, ovvero un’Europa libera, unita e federata che
avrebbe posto fine alle inevitabili degenerazioni dello Stato nazionale sovrano quand’anche esso avesse assunto i connotati delle istituzioni liberali ed offriva inoltre una nuova prospettiva di vita alla persona, non soltanto agli europei, più ampia e complessa, ma proprio per questo più completa potendo la Federazione Europea consentirle di riappropriarsi delle molteplici identità e storie che ad essa già appartengono ma che i nazionalismi hanno dilaniato, dando una forma istituzionale al non potersi non dire europei, dando una risposta al nichilismo europeo, offrendo alle vite delle persone, agli individui, una reale alternativa di vita più completa, più ricca e più carica di futuro.
Le “Confessioni di un europeo” terminano così perché non parlerò oltre del Manifesto di Ventotene sennò per dire che esso diede e continua a dare le risposte che cercavo in un continuo fluire di possibilità e soprattutto di grandi difficoltà contro i quali la Federazione Europea e tutti i suoi significati e simboli, ancora oggi, si scontrano.
Il Manifesto di Ventotene é stato per me come un punto d’arrivo illuminante ed anche riassicurante, mi ha mostrato la vetta e la purezza dell’aria che in essa si respira lontano dai miasmi dei nazionalismi, ma l’arrivo in cima ha aperto lo sguardo anche verso un altro versante della montagna di nuovo verso il basso, dovendo di nuovo discendere verso le difficoltà, le lotte, la ricerca del coraggio e della determinazione, verso ciò che puro non é, anzi é sicuramente sporco ed intollerabile; la Federazione Europea non é un obiettivo statico, non ha caratteri fissi come quelli presunti della nazionalità, essa é un processo che non finirà mai di realizzarsi perché infinite sono le possibilità e le complessità che essa raccoglie e non sarà solo un fatto europeo, essa porterà il suo esempio altrove, ripetendosi, essendo così labili ed indefiniti i confini dell’Europa.
Ripensavo allora, ancora una volta al mio sogno ad occhi aperti del “vecchio saggio” che così spesso visito’ la mia vita e le mie notti, ripensavo alla sudicia montagna da dover scalare, alla sensazione di averlo già fatto infinite volte, ripensavo alla benevolenza della sommità, al bellissimo panorama e all’inquietante lago nero; rivedevo il poco serio vecchio saggio che nulla mi
diceva sennò indicarmi la via, di nuovo, verso il basso. Pensai a tutto questo e che per questo avevo vissuto una vita che non poteva essere soltanto la mia agitandosi in me ciò che a tutto il resto, fuori di me, mi legava; mi sentii allora parte di qualcosa di più grande dei miei semplici fatti quotidiani e l’incontro con il Manifesto di Ventotene me ne diede la prova non cambiando la mia vita verso chissà quali chimere o illusioni ma rendendola consapevole di se stessa, legandola a se stessa, al proprio vissuto, alla sua temibile ma essenziale complessità e percepì, per la prima volta nella mia vita, che ciò era buono.
Silvio Bosco