Saverio Chiodo
CRIPTOZOO
Romanzo
Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti narrati sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualunque somiglianza con fatti, luoghi o persone reali, viventi o defunte, è da considerarsi del tutto casuale.
PARTE PRIMA
Roma, 25 maggio ore 13.20
Appena giunto nell’atrio del palazzo della periferia di Roma dove viveva in un appartamento al secondo piano, Aldo Mirri aprì la sua cassetta della posta e ne tirò fuori gli immancabili volantini pubblicitari, le altrettanto immancabili bollette che forse un giorno avrebbe pagato e il numero di maggio del mensile Focus, probabilmente l’ultimo che gli sarebbe arrivato a casa dato che il suo abbonamento sarebbe scaduto proprio quel mese. Non aveva i soldi per pagare le bollette, figurarsi se poteva permettersi di pagare l’abbonamento ad una rivista. Di certo, in ogni caso, prima di andare a dormire, a conclusione di quell’interminabile ed afosa giornata di maggio, qualche pagina della sua rivista preferita l’avrebbe sicuramente letta e già il titolo a caratteri cubitali riportato sulla copertina “UNO ZOO DA RECORD”, con il sottotitolo “Entro l’estate, appena fuori Mosca, verrà inaugurato il più grande zoo del mondo. Il proprietario promette che al suo interno saranno ospitate tutte le specie animali terrestri viventi”, aveva stuzzicato la sua curiosità. Gli zoo e gli animali erano stati la sua vita e la sua professione fino ad appena un mese prima. Ma negli immediati piani di Aldo c’era altro prima della lettura. Innanzi tutto, una lunga doccia, in modo tale da potersi scrollare di dosso il sudore e la tensione nervosa accumulati durante la mattinata ata in Tribunale per spiegare al giudice, agli avvocati, ai familiari delle vittime e forse anche a sé stesso, cosa fosse realmente accaduto il mese prima, durante quello che - nei suoi piani e in quello dell’agenzia Mirri Adventures&Reserch che guidava insieme al fratello Mattia - avrebbe dovuto essere soltanto un normale safari in Sudafrica, uno dei tanti che aveva guidato in giro per le lande più esotiche e spettacolari del pianeta, ma sempre su percorsi sicuri, a bordo di veicoli affidabili e con itinerari concordati preventivamente con le autorità. Parafrasando il titolo di una nota serie televisiva, Aldo amava dire ai suoi clienti che “l’avventura è il suo mestiere” mentre lasciava agli idioti il compito di preoccuparsi dei “pericoli”. Nel precedente mese di aprile però, sotto il sole a piombo di un mezzogiorno africano, le cose non erano andate come preventivato: la nuovissima Jeep Sander Trooper che guidava lungo uno sterrato nel deserto del Kalahari, in territorio Sudafricano, a pochi chilometri dal confine con il Botswana, finì fuori strada. Il
cucciolo di gazzella che zampettava ancora insicuro a pochi metri dalla madre, sull’acciottolato della strada subito dopo una curva cieca che costrinse Aldo alla brusca sterzata per evitare di investirlo, rimase illeso, ma la coppia di sposi in giro di nozze che erano seduti nei sedili posteriori della Jeep non ebbero scampo quando il potente fuoristrada finì la sua corsa in un profondo stagno limaccioso. Aldo si salvò grazie alle sue doti di ottimo nuotatore e all’esperienza con i luoghi inospitali accumulata negli ultimi quindici anni ati prima a ricercare gli animali più rari al mondo per conto degli zoo più ricchi e visitati d’Europa e d’America, poi ad accompagnare compagnie di facoltosi turisti in safari e viaggi avventurosi. Ma le sue capacità non erano servite a trarre in salvo i due sventurati novelli sposi, morti annegati prima ancora che Aldo, dopo essersi slacciato le cinture ed essere risalito in superficie a riprender fiato, riuscisse a tuffarsi nuovamente per cercare i due giovani tra i rottami dell’auto. Lo diceva sempre lui, il suo mestiere era l’avventura, non il pericolo, o almeno così rassicurava sempre i suoi clienti che, quando mettevano piede in agenzia, erano da una parte spinti da un sano e adrenalinico sentimento di avventura e dall’altra da un briciolo di paura che, se non veniva subito repressa, poteva far sfumare l’affare. Ma sapeva bene che le due cose – avventura e pericolo - erano inestricabilmente legate da una sorta di vincolo di sangue che, prima o poi, esigeva il suo pegno. Il ritorno in patria con qualche ammaccatura, tanto senso di colpa e un’inevitabile trafila legale da dover affrontare, aveva portato Aldo a dire basta con l’agenzia gestita insieme al fratello e a dire basta ai luoghi esotici e alle bestie feroci: al diavolo i debiti e le banche, che si prendessero tutti i suoi averi, la casa, la sua macchina, la sua sterminata collezione di cd, le sue chitarre e gli altri strumenti musicali che aveva raccattato nei più improbabili posti del mondo, i fucili ereditati dal padre che - eccetto quelli da veterinario che sparavano sonnifero per addormentare le belve - nelle sue mani avevano sparato sempre e solo alle immobili sagome di un poligono di tiro, tutto, anche la sua anima se avessero voluto, ma non sarebbe più tornato in un deserto, in una giungla, in una foresta inospitale, in un qualsiasi luogo distante più di un chilometro dalla “civiltà”. Non era stata solo la tragica spedizione nel Kalahari a spingerlo a queste conclusioni, ma quell’avvenimento lo aveva fatto riflettere sui primi quaranta anni, ancora da compiere, della sua vita. Aveva così raggiunto la consapevolezza di aver ato la prima parte della sua vita da adulto, appena laureatosi in
zoologia, ad estirpare rari animali dal loro habitat naturale per trasferirli a migliaia di chilometri di distanza dal loro mondo, in zoo quasi mai troppo affollati e spesso fuori luogo, per permettere alla gente di meravigliarsi nel vedere quelle creature ai loro occhi a volte strane, a volte buffe, altre volte paurose, ma quasi mai consci del fatto che, quelli dietro le recinzioni delle gabbie, non erano giocattoli in esposizione ma esseri viventi abituati per natura a vivere in terre sconfinate, ma costretti dagli uomini a sopravvivere in ambienti ricreati, piccoli come un medio orticello. Nella seconda parte della sua vita professionale aveva invece fatto una sorta di percorso inverso, guidando strane compagnie di turisti in lungo e in largo per luoghi nei quali non sarebbero riusciti a sopravvivere neanche un’ora senza il suo aiuto. Persone che partivano dai moderni aeroporti occidentali in cerca di avventure forti in posti lontani e dai nomi impronunciabili salvo che, dopo poche ore immersi nella natura selvaggia, alla mercè di zanzare, dissenterie improvvise, caldo micidiale o piogge torrenziali, annoiati, spaventati e con la sola voglia di ritornare nelle loro confortevoli tombe di cemento cittadine, l’unica cosa di cui erano realmente alla ricerca era la linea per il loro dannatissimo Iphone. Era arrivato il momento di lasciare ogni cosa al suo posto: gli animali nella natura selvaggia e gli umani incollati davanti ad uno schermo di computer con un telefono cellulare appiccicato all’orecchio fino a quando, alla fine, se Darwin aveva intuito bene, quell’oggetto così fastidioso sarebbe diventato un vero e proprio organo del corpo umano. Il telefono cellulare, già, proprio quel dannato aggeggio che aveva preso a suonare e vibrare nella tasca dei suoi jeans non appena aveva aperto la porta del suo appartamento. Aldo prese il vecchio Samsung tenuto insieme da uno spesso strato di nastro adesivo nero e lesse il nome di chi lo cercava: suo fratello Mattia.
Più grande di Aldo di otto anni, sposato e padre di due figlie, - al contrario di Aldo, scapolo convinto e incallito - Mattia era il direttore della “Mirri Adventures&Reserch”, l’agenzia di viaggi e ricerca creata dal loro defunto padre, specializzata in due diversi settori, quello dell’organizzazione di vacanze in luoghi esotici e poco trattati dai più comuni tour operator e quello della cattura e vendita di animali rari a zoo, circhi o collezionisti privati. Al contrario di Aldo, dotato di un fisico atletico e imponente, Mattia aveva qualche chilo di troppo,
una vista da talpa ed una naturale propensione alla sedentarietà, quindi si occupava esclusivamente della direzione dell’agenzia dal suo ufficio di Roma, prendendo parte raramente ai viaggi che l’agenzia organizzava e, quando lo faceva, partecipava sempre in qualità di vero e proprio turista in quei rari momenti in cui anche lui aveva bisogno di staccare un po’ dalla routine quotidiana fatta di scartoffie, telefonate e appuntamenti con i clienti. Mentre Mattia, più incline ai numeri e alla gestione burocratica aveva conseguito una laurea in Economia, Aldo aveva seguito le orme paterne diventando zoologo. Quindi venne quasi naturale il fatto che, alla morte del padre che aveva creato l’agenzia, i due fratelli si occuparono separatamente uno del lavoro in ufficio e l’altro del lavoro sul campo. Non appena laureato, Aldo aveva iniziato la sua carriera nel settore della cattura e vendita di animali rari, lasciando, d’accordo con il fratello, ad altri dipendenti dell’agenzia in servizio sin da quando il padre era in vita, il compito di guide turistiche durante i viaggi. Aveva iniziato con entusiasmo, spinto dalla possibilità di poter guardare e toccare animali che, fino a quel momento, aveva visto solo in foto (e in alcuni casi neanche). Ma, dopo pochi mesi, aveva maturato la consapevolezza del fatto che, in fondo, il suo lavoro consisteva in una forzatura delle regole della natura. Continuò a lavorare in questo ramo dell’azienda paterna per circa cinque anni, fino a quando un riccone brasiliano commissionò all’agenzia la cattura di un leone albino per il suo zoo privato. Aldo viaggiò in lungo e in largo per tutta l’Africa per sei mesi, spostandosi in ogni luogo dove gli veniva riferito di voci che parlavano di avvistamenti di leoni albini, fino a quando non riuscì a catturare un cucciolo di pochi mesi in uno sperduto villaggio del Malawi a due giorni di viaggio dalla capitale Lilongwe. Fece il viaggio dal Malawi a Rio de Janeiro nella stiva dell’aereo cargo noleggiato per il trasbordo del rarissimo esemplare catturato. Gli occhi tristi del leoncino bianco che lo accompagnarono per tutto il viaggio aereo e ne condizionarono l’umore, cementando in Aldo la consapevolezza che non era quello il lavoro che avrebbe voluto svolgere nella sua vita. Ma l’animo umano si sa come funziona, e il pensiero del lauto compenso di centomila dollari accordato per la cattura del leone, fungeva da buon freno inibitore della volontà di lasciar perdere con quel mondo. Nessun freno inibitore, tuttavia, lo fece recedere dalla sua decisione quando, arrivati nella sontuosa e pacchiana residenza del ricco committente, questi, una
volta lasciato uscire il leoncino dalla gabbia utilizzata per il volo oceanico, si accorse che il cucciolo era affetto da una lieve zoppia. A nulla valsero le lamentele di Aldo e il proposito di portare il cucciolo in Italia dove avrebbe provveduto a curarlo a sue spese. Il committente aprì una ventiquattr’ore piena di soldi: «Ecco a lei quanto pattuito dottor Mirri». Disse in un inglese strascicato, poi impugnò una pistola dalla fondina di uno degli scagnozzi che lo circondavano e sparò in piena fronte al cucciolo, davanti agli occhi inorriditi di Aldo. «Ha fatto un buon lavoro» continuò sghignazzando, «ma avevo dimenticato di dirle che io il leone albino lo voglio in perfetto stato di salute.» «Ma che motivo aveva di ucciderlo?» urlò Aldo, sconvolto. «Su, su, dottore», disse il borioso riccone, «mi capisca. Non avrei mai tenuto quel leone nel mio zoo… è zoppo, che figura ci avrei fatto con gli amici ed ospiti che vengono a visitare il mio zoo privato? D’altra parte, però, se glielo avessi lasciato portare a casa per curarlo, magari lo avrebbe potuto vendere a qualcun altro. Perché avrei dovuto fare un tale favore a qualche altro apionato come me o a qualche zoo? Ha impiegato sei mesi per trovarmi un leone albino, magari ne sarebbero occorsi altrettanti per trovarne un altro e intanto lei avrebbe piazzato questo esemplare in un altro zoo.» Emise una risata disgustosa: «Non lo avrei mai potuto permettere. Vivo o morto questo leone è mio e lei è stato profumatamente pagato per trovarmelo. Ora se ne vada e se dovesse trovarne un altro, ma in ottima condizione di salute, sarò felice di darle altri centomila dollari.» Questo episodio portò Aldo a non occuparsi più della ricerca di animali rari e da quel momento si impegnò solo al ramo turistico dell’agenzia.
Dopo qualche secondo decise di rispondere: «Ciao Mattia, sono appena tornato a casa dal Tribunale, dimmi tutto.» «Ciao Aldo, vieni subito in ufficio, c’è un lavoro da sbrigare urgentemente.» Disse il fratello maggiore. «Mattia, qual è la parte di frase che non capisci, quando dico “ho chiuso con l’agenzia di papà”? Qualsiasi possa essere il lavoro di cui parli è un tuo problema. Ti ho lasciato tutte le mie quote societarie senza chiedere un centesimo, ho rassegnato le dimissioni da qualunque incarico e ho troppi
problemi qui a Roma di cui dovermi occupare al momento, quindi sbrigati da solo le faccende dell’agenzia.» «Hai finito di lagnarti?» «Non mi sto lagnando, ti sto semplicemente ripetendo un concetto che è da un mese che non riesci a digerire.» Mattia ridacchiò per qualche secondo poi riprese: «Aldo, lascia che ti illustri la tua situazione al momento: sei senza lavoro, hai un mutuo da pagare per la casa e un altro per la macchina, gli avvocati del processo per i fatti del Kalahari da pagare e credo che anche tu ogni tanto hai fame, quindi devi pur mettere qualcosa sotto i denti… e mangiare costa. Ora, è vero che siamo fratelli e per quel che posso ti aiuterò, proprio come ho fatto in questo mese», fece un attimo di silenzio per far tornare ad Aldo in mente il fatto che le rate del mutuo, quel mese, erano state coperte da un assegno di Mattia, «ma quello che ho tra le mani è un affare talmente grosso che ora devi essere tu a muovere subito il culo da quella sedia sulla quale ti stai commiserando e venire ad aiutare me… ed aiutare anche te.» Aldo, nonostante le parole del fratello, non era stato per nulla persuaso a tornare in campo, ma Mattia era suo fratello e non meritava una chiusura netta, almeno avrebbe dovuto concedergli la possibilità di spiegare cos’aveva per le mani. «Che cosa intendi affermando che hai un affare grosso tra le mani?» chiese. «Ci vediamo fra tre ore a Fiumicino e ti spiegherò tutto in volo. Fai una valigia leggera e sii puntuale.» «Cosa? aspetta, aspetta! Fiumicino? Cosa diavolo dovrei venire a fare all’aeroporto io? Non ho nessuna intenzione di muovermi da Roma!» Urlò Aldo. «C’è un Gulfstream che ci aspetta per portarci a Mosca. Ti spiegherò tutto a bordo, sbrigati!» e riattaccò. Aldo restò a guardare per un minuto il cellulare sbigottito e in silenzio, poi disse tra sé e sé: «Mosca? Che devo andare a fare a Mosca? Non ci sono né animali rari né percorsi avventurosi da affrontare a Mosca.» Detto ciò, se ne fece una ragione, prese la sua fedele valigia da viaggio e la preparò con l’occorrente per un paio di giorni di soggiorno.
Aeroporto di Fiumicino, ore 17.40
Quando vide il fratello che, sorridendo, gli veniva incontro lungo l’affollato corridoio del terminal, Aldo si domandò se forse non sarebbe stato meglio girare i tacchi e andarsene, ma capì che ormai era troppo tardi, si salutarono e seguì Mattia fino all’imbarco. L’aereo privato era un lussuosissimo Jet a dodici posti, ma a parte i quattro membri dell’equipaggio, a bordo c’erano solo lui e Mattia. Si accomodarono sulle comode poltrone rivestite di vera pelle e Aldo cominciò: «Beh, credo che ora tu debba darmi qualche spiegazione, vero? In che storia mi stai cacciando?» «Ti è arrivato l’ultimo numero di Focus?» chiese Mattia. «Si, questa mattina, non l’ho ancora letto, ma parlami di questa storia di Mosca.» Rispose tra l’irritato e il perplesso. «La copertina almeno l’hai letta?» continuò Mattia senza badare all’irritazione del fratello. «Si», si calmò subito perché forse aveva iniziato a capire, «parlava di uno zoo immenso che dovrebbero costruire a Mosca.» «Esatto!» disse Mattia, «e noi ora stiamo andando a parlare con il proprietario dello zoo.» Aldo gettò gli occhi al cielo e cercò di mantenere la calma: «Mattia, ti prego, non ne posso più di giungle e belve feroci, trovati un altro, te ne posso presentare altri cento bravi come o più di me a fare quel mestiere! Ci sono i nostri collaboratori in Africa, ‘Nkonu e Mudike, per esempio, oppure Esterria in Colombia, o Martin in Australia, chiama uno di loro.» «Aldo», rispose, sempre pacatamente, Mattia, incurante delle obiezioni del fratello: «mi hanno promesso un compenso che non abbiamo mai neanche sognato. Se portiamo a termine questo lavoro possiamo anche chiudere
l’agenzia.» «A quanto ammonterebbe questo compenso?» «Due milioni di dollari come anticipo, e se riusciremo a portarlo a termine entro agosto, prima dell’apertura, altri cinque!» Il cuore di Aldo perse qualche battito: «Sette milioni di dollari?» Urlò, «Ma la cattura di quale animale può valere una tale cifra?» «Questo non lo so», rispose Mattia, «ci comunicheranno tutto nella riunione di domani a Mosca con i dirigenti della “Dimitrov Exotic”, la società che sta gestendo la realizzazione dello zoo.»
Mosca, ore 22.00
Appena atterrati all’aeroporto di Mosca Sheremetyevo e scesi dall’aereo, da una Jaguar XE nera, parcheggiata a pochi metri dal Gulfstream, uscì un tipo basso e grasso vestito con un abito grigio lucido, - sicuramente di impeccabile fattura, ma che compresso nella sua mole straforme sembrava del tutto fuori luogo - si fece loro incontro. «Signori Mirri, sono Alexey Luskov, responsabile scientifico della “Dimitrov Exotic”. Piacere di incontrarvi.» Al termine dei brevi saluti di rito, Luskov invitò i fratelli Mirri ad accomodarsi sui sedili posteriori della Jaguar dove li attendeva un rigido autista impettito in una impeccabile divisa blu con tanto di cappello che, in pochi attimi, li portò fuori dall’aeroporto, in direzione delle luci della megalopoli russa, patria di magnati del petrolio, tomba delle vestigia dell’ormai crollato Impero Sovietico e, a quanto sembrava, dimora di un modernissimo, immenso zoo. «Ora vi accompagneremo al vostro albergo», disse loro Luskov voltandosi verso i due italiani, «domani mattina, alle nove, eremo a prendervi per accompagnarvi nella sede moscovita della “Dimitrov Exotic” dove incontrerete il presidente della compagnia, Nicolai Dimitrov, per discutere sui dettagli del contratto», sottolineò la parola “dettagli” con una pausa seguita da un sorriso rubicondo, «dopodichè, se non ci saranno problemi… e dubito che ce ne possano essere… nel pomeriggio, dopo un buon pranzo, vi accompagneremo a fare un giro nel cantiere dello zoo.» «Perfetto.» Disse Mattia, proprio mentre Aldo pensava che dal suo punto di vista non ci fosse assolutamente nulla di perfetto in quella situazione. «A che punto sono i lavori?» «Al momento i lavori sono terminati all’ottantacinque per cento circa, ma il rettilario e il padiglione entomologico sono già terminati da tempo, così come il resort, il parco giochi e le strutture più complicate di cui avrete modo di prendere visione sul luogo.» Luskov fece un occhiolino divertito ai due: «Pazientate solo qualche ora ancora. Non resterete delusi dall’attesa.»
«Chiedo scusa», intervenne Aldo, «ho sentito bene o ha parlato di parco giochi e resort? Credevo stessimo per visitare uno zoo!» «Oh certo, signor Mirri», rispose Luskov, sempre con quel fastidioso sorrisetto da ebete sul volto grasso e sudato, «voi, come tutti i turisti che verranno al parco, visiterete uno zoo, ma deve sapere che stiamo parlando di una struttura dalle dimensioni… » si fermò un attimo cercando la parola più appropriata ad esprimere il suo concetto, «beh, direi dalle dimensioni “metropoliche”! Si, direi proprio che possiamo parlare della metropoli degli zoo. Pensate solo che la sua area, pressoché quadrata, ha i lati di circa cinque chilometri. Tra un settore ed un altro, ovviamente, abbiamo pensato bene di inserire negozi, ristoranti, hotel e un parco giochi che, inutile a dirlo, è il più grande della Russia. Le attrazioni del parco giochi sono studiate per interagire direttamente con gli animali e sono integrate in alcuni degli spazi più suggestivi dello zoo: pensate che un tratto delle sue montagne russe percorrerà a velocità ridottissima un binario protetto da materiale trasparente lungo circa cento metri, posto al livello del terreno nel recinto dei leoni. Sarà sicuramente un’attrazione che nessun visitatore vorrà lasciarsi scappare! Anche i collegamenti con Mosca sono relativamente facili poiché il parco è situato circa trenta chilometri a nord della città, nell’area compresa tra Dedenevo e Khotkovo, raggiungibile sia dalla capitale che direttamente dall’aeroporto di Sheremetyevo grazie anche alle nuove autostrade costruite appositamente dalla Dimitrov Exotic. Ovviamente, i visitatori più facoltosi potranno giungere allo zoo grazie ad un servizio di elicotteri messi a disposizione dalla compagnia. Il vostro primo viaggio allo zoo avverrà proprio in elicottero.» «Ma davvero credete di poter ospitare tutte le specie animali terrestri nello zoo? Solo i mammiferi catalogati sono circa cinquemila e cinquecento, senza contare poi i rettili, gli anfibi e gli insetti che sono quasi cinque milioni.» «Beh, è ovvio che un po’ si esagera quando si fa pubblicità.» Rispose Luskov. «Ma di sicuro vi saranno ospitati tutti - e sottolineo tutti - i tipi di mammiferi terrestri conosciuti, mentre il nostro rettilario e il padiglione entomologico saranno, di gran lunga, i più grandi e popolati del pianeta. Per quanto riguarda gli uccelli e i pesci, invece, la Dimitrov Exotic sta studiando le location dove realizzare dei parchi a tema interamente dedicati a loro, ma per la realizzazione di questi progetti se ne riparlerà tra qualche anno. Una cosa però è certa: il signor Dimitrov vuole che il suo zoo ospiti qualcosa di mai visto prima. Non dovranno essere solo le dimensioni del parco e la varietà degli animali a decretarne la sua
fama, ma dovranno esserci delle sorprese tali da rivoluzionare agli occhi dell’opinione pubblica non solo la concezione di zoo, ma la storia stessa della zoologia.» «Che tipo di rivoluzione?» chiese Aldo scettico. «Calma, calma, domani saprete tutto direttamente dalla bocca del signor Dimitrov.» Luskov rivolse nuovamente ai fratelli Mirri i suoi fastidiosissimi occhiolini e sorrisetti, tanto che Aldo avrebbe voluto far fermare l’auto lì sul posto - di qualunque posto si fosse trattato - scendere e tornare a Roma anche a piedi. Non era per nulla convinto dell’avventura nella quale l’aveva coinvolto il fratello, aveva come il timore che i sorrisetti di Luskov e il compenso da capogiro che gli era stato promesso senza spiegargli però quale fosse il compito che avrebbero dovuto svolgere, nascondessero qualcosa di più che la ricerca di qualche animale raro e l’inaugurazione di uno zoo, qualcosa di poco chiaro e probabilmente di pericoloso, e il suo mestiere era l’avventura, non il pericolo. Mentre la sua mente elaboravo quei pensieri scettici, la sua tacita richiesta di fermare la Jaguar venne soddisfatta, ma non dal fato favorevole, bensì dal fatto che erano già giunti davanti ad un lussuoso albergo cinque stelle appena alla periferia nord di Mosca. L’autista scese e aprì le portiere posteriori dell’auto e Luskov accompagnò Aldo e Mattia alla reception, dove un’avvenente e sorridente receptionist registrò i nuovi arrivi e consegnò le chiavi delle loro camere. «Benissimo», disse il responsabile scientifico, «eccoci arrivati. Se avete fame potrete cenare al ristorante dell’albergo. Se volete rilassarvi potrete usufruire di tutti i servigi dell’hotel: sauna, palestra, sala biliardi, massaggi in camera», ennesimo disgustoso occhiolino, «fate come se foste a casa vostra. Tutto è, ovviamente, pagato dalla Dimitrov Exotic e il signor Dimitrov tiene molto a che i suoi ospiti vengano trattati nel migliore dei modi.» Detto ciò, Luskov li omaggiò di un ultimo occhiolino e si accomiatò, ricordando ai Mirri l’appuntamento per il mattino seguente alle nove.
«Che ne pensi?» chiese Mattia ad Aldo. «Penso che domani, quando firmerai quel contratto, sapremo che tipo di morte ci è toccata in sorte. Ma ritieniti fortunato, almeno l’avrai scelta tu… e l’avrai scelta anche per me.» «Smettila di essere così pessimista. Cosa vuoi che ci commissionino? Dovremo di certo scovare qualche specie rara in un posto remoto del pianeta. Niente di nuovo per te, Aldo. Hai ato una vita a cercare animali inafferrabili e pericolosi in giro per il mondo. Hai avuto incontri ravvicinati con anaconde, leoni, pantere nere e Dio solo sa quali altre temibili creature nei posti più inospitali, cos’è che ti spaventa proprio ora?» «Cosa mi spaventa vuoi sapere?» Urlò Aldo in faccia a Mattia sotto lo sguardo perplesso della receptionist che non capiva una sola parola di italiano, ma che aveva ben capito che i due non stavano certo litigando su quale film vedere quella sera, «Mi spaventa il fatto che ho deciso di chiudere con questa vita. E sai perché? Perché, da una parte sono stanco di rapire un animale dal suo habitat per sequestrarlo nella gabbia di uno zoo e, dall’altra, perché dopo il Kalahari, ho iniziato ad avere paura delle strade non asfaltate, delle notti ate a dormire in scomodi sacchi a pelo, delle foreste senza via di uscita, della lontananza da un ospedale! Forse, alla soglia dei quarant’anni, ho capito che voglio vivere da persona “civile” anch’io, voglio gli agi di una moderna città, voglio un letto comodo e una televisione cinquanta pollici dove poter guardare le partite di calcio. Tutto qui, ora voglio questo dalla vita, nient’altro.» «Si, si», rispose di rimando Mattia, sorridendo, «bei propositi per il futuro, Aldo, non posso darti torto. Peccato che il tuo ragionamento è tutto basato su un punto di partenza che ti sfugge: non hai un soldo in tasca.» Detto ciò si avviò verso l’ascensore e andò a riposare in camera, lasciando che Aldo riflettesse un po’ sul suo presente più che sul suo futuro.
Paro, Bhutan, 26 maggio ore 03.20 locali
Markus Strauss si vegliò di soprassalto. Più che un rumore, a svegliarlo era stata una specie di sensazione, una sorta di sesto senso maturato nei lunghi anni ati a contatto con la natura più selvaggia che gli aveva sussurrato, in un recesso della mente, di scappare. Impugnò il suo nuovissimo fucile Breda Grizzly e uscì dal sacco a pelo. Diede uno scossone al suo compagno di tenda e di mille avventure Joseph Stuben che, con un solo sguardo, capì che il suo capo spedizione aveva intuito un pericolo imminente. Impugnò il fucile anche lui, lasciarono la tenda e, immersi in una leggera nebbiolina quasi eterea, si diressero a quella poco distante dove dormivano i due sherpa bhutanesi Namgay e Palden . Ma la trovarono vuota. L’aria era immobile, il silenzio regnava sovrano sulla montagna. Sembrava che tra gli alti alberi che circondavano il piccolo spiazzo dove avevano preparato il campo per la notte tutto fosse morto, assente. Si guardarono intorno, mentre la luce delle torce traava l’oscurità, impauriti come poche volte gli era successo prima: che le leggende tramandate da secoli fossero tutte vere? Che la bestia esistesse davvero? In fondo sentivano di essere vicini alla preda, le impronte sul terreno trovate la mattina precedente gli avevano fatto capire che la stavano stanando, era lì vicino, da qualche parte proprio su quel versante della montagna maestosa. Ma che in breve tempo il loro destino fosse cambiato? Che da predatori fossero diventati prede? Markus distolse subito quel pensiero dalla mente, la tenda degli sherpa era intatta, non c’erano al suo interno segni evidenti di colluttazione o presenza estranea, né aveva sentito rumori strani. E lui si fidava moltissimo sia del suo orecchio che del suo sonno fragilissimo. Da quella sommaria e veloce prima analisi della situazione aveva dedotto che ci potessero essere solo due possibili soluzioni al mistero: o gli sherpa si erano allontanati volontariamente - e lo riteneva poco probabile dato che il prezzo con cui erano stati ingaggiati, e di cui avevano avuto solo un piccolo ma sostanzioso anticipo, avrebbe permesso loro e i loro figli di vivere di rendita - oppure erano stati rapiti da qualcuno che conosceva bene l’arte militare. Si, non aveva dubbi, il suo istinto da navigato militare nei corpi speciali dell’esercito tedesco lo faceva propendere per la seconda ipotesi. In fondo era già da qualche giorno che si sentiva seguito e aveva
confidato questa sensazione a Joseph che, a sua volta, gli aveva detto di aver visto tra la fitta vegetazione del monte Jomolhari una luce, apparentemente di una torcia, a poche centinaia di metri da loro proprio la sera precedente. No, Markus ne era certo, nessuna bestia era venuta a reclamare la sua cena fuori orario, lì c’era lo zampino dell’uomo. Questa consapevolezza divenne una certezza nell’attimo in cui si accorse che sulla fronte di Joseph comparve una piccola lucina arancione. Erano sotto tiro. Neanche il tempo di chiedersi chi, come e perché volesse eliminarli, che la bestia umana, con due colpi di arma automatica sparati da poche decine di metri, mise fine alla loro caccia e sancì l’ennesimo fallimento della Dimitrov Exotics nella sua corsa alla ricerca di miti e leggende da rendere reali.
Paro, Bhutan, ore 07.10 locali
Il commando di quattro uomini aveva da poche ore terminato la sua missione omicida, la seconda in pochi giorni. Avevano abbandonato le divise tattiche a favore di abiti più consoni ai turisti occidentali di aggio per le alte e incantevoli vette del Bhutan. Gli armamenti erano stati nascosti nel fitto della foresta, se avessero avuto bisogno di altre armi le avrebbero acquistate grazie ai tanti soldi donati per la loro causa dalla gentile finanziatrice della Rainbow Militia: Libellula. Tigre, così si faceva chiamare il giovane leader del commando, stava sonnecchiando a bordo del bus che avevano preso da pochi minuti che li avrebbe portati all’aeroporto internazionale di Paro per abbandonare il territorio della piccola monarchia arroccata sull’Himalaya. Il suo telefono satellitare iniziò a vibrare nella tasca del grosso piumino. «Missione compiuta.» Disse divertito, in russo, il militare rispondendo al telefono. «Tigre, sei solo un lurido assassino.» Gli urlò di rimando una voce femminile carica di tensione. «Tu e la tua banda di psicopatici state facendo una strage. Non erano questi i patti, dovevate sabotare le missioni, fermarle, impedire che raggiungessero il loro obiettivo, non uccidere gente con famiglia. Criminali.» «I criminali saremmo noi?» Sbruffò Tigre. «Cara Libellula, quei due delinquenti che abbiamo giustiziato poco fa, erano professionisti nell’uccidere e catturare povere creature per il disgustoso ludibrio di pochi. Attentavano al naturale ordine del mondo. No, se stai cercando dei criminali non li troverai nei membri della Rainbow Militia. Conosci bene gli obiettivi che ci animano. Quelli sono il nostro riferimento, la nostra bibbia, se vuoi tirarti indietro fai pure, ma non fermerai la Militia.» «Senza i miei soldi le avventure della tua Militia sono già finite, Tigre.» Rispose la donna. «Non accetto il vostro modo di operare. È aberrante. Da questo momento in poi, non avrete più né notizie né fondi da me. Anzi, cercherò in ogni modo di ostacolarvi. Il gioco è finito Tigre.» Senza aspettare risposta, la donna soprannominata Libellula riattaccò.
Contenne a stento una crisi di nervi. Si sentiva tradita e sfruttata. Tigre ed il suo schifoso mentore Leone, l’avevano affabulata per mesi con i loro discorsi carichi di alti ideali: la natura prima di tutto, il rispetto per gli animali e tutte le altre forme di vita sul pianeta, l’ecosostenibilità, l’energia pulita. Già, belle parole, bei concetti, davvero un bel mondo. Diede un pugno alla porta del bagno. Il problema è che se per raggiungere tali nobili obiettivi si uccidono delle persone che fanno il loro lavoro, beh, non è certo su delle belle basi che si andrebbe a costruire questo “nuovo mondo”… non è sterminando i toreri che si risolve il problema delle corride! Ma aveva sbagliato anche lei, inutile nasconderlo a se stessa. Si era fidata di uno sconosciuto e solo ora si era resa conto che dietro quel buffone che si faceva chiamare Tigre si nascondeva un criminale. Leone poi era stato ancora più subdolo, troppo tardi aveva capito che a capo di tutto c’era “lui”. Tigre l’aveva contattata tramite un social network. Lui sapeva chi era, conosceva le sue disponibilità economiche, aveva assistito ad alcune sue conferenze sullo sfruttamento delle risorse energetiche e aveva capito che dietro a ciò che diceva c’era dell’altro, aveva capito che lei amava la natura più di qualsiasi altra cosa… nonostante tutto… nonostante la provenienza dell’immenso patrimonio economico di famiglia che un giorno sarebbe stato tutto suo. Proprio su questo fattore aveva fatto leva Tigre per convincerla. Aveva fatto sviluppare in Libellula il senso di colpa legato alla sua ricchezza. Così, come un’ingenua, come una bambina, si era arresa di buon grado alle sue richieste di denaro per finanziare la crociata della Rainbow Militia verso coloro che distruggono il pianeta. Poi, dal momento in cui aveva capito chi fosse Leone, non aveva più avuto via di uscita: o stare ai giochi o confessare tutto, nonostante ciò che ne sarebbe conseguito. Ora anche lei era complice di sei morti. Li avrebbe avuti per sempre sulla coscienza. Il suo obiettivo era appena cambiato radicalmente: non doveva più fermare le missioni di ricerca della Dimitrov Exotics, bensì arrestare la crociata della Militia, era la sua coscienza ad imporglielo. Ma non era quello il momento, doveva ricomporsi, una maschera da indossare la aspettava: sarebbe tornata a lavorare con l’abnegazione di sempre, come se non conoscesse Tigre, come se non sapesse chi fosse Leone, come se non fosse soprannominata Libellula, come se i morti in Guatemala e Bhutan fossero stati uccisi da ignoti bastardi, come se quel mucchio di soldi che era sparito dal suo
conto in banca fosse stato speso per comprare abiti alla moda anziché armi.
Mosca, 26 maggio ore 08.00
Il cellulare di Luskov squillò quando questi era appena uscito dalla doccia. «Presidente Dimitrov, buongiorno, mi dica.» «Alexey, abbiamo avuto notizie dal Bhutan… pessime notizie. La scorsa notte abbiamo perso la spedizione.» Luskov restò interdetto per qualche secondo, poi rispose: «Come in Guatemala signore?» «Come in Guatemala.» Disse secco Dimitrov. Il responsabile scientifico balbettò: «Ma… ma… ma le autorità locali avevano garantito la massima collaborazione e una scorta appropriata.» «Qui c’è lo zampino di un commando ben armato ed equipaggiato Luskov, troppo per quello che le autorità del Bhutan possono affrontare. Gli sherpa hanno comunicato alle autorità locali di essere stati sequestrati e rilasciati poco dopo. I tentativi di contattare Strauss e Miller sono andati tutti a vuoto per tutta la notte. Poi, pochi minuti fa, siamo stati contattati dalla polizia del Bhutan, nel punto indicato dagli sherpa sono stati trovati i cadaveri di Strass e Stuben, un colpo in fronte ciascuno.» Rispose seccato, poi riprese: «Gli italiani sono arrivati?» «Si, signore, ieri sera. Stavo andando a prenderli in albergo per portarli in sede.» «No, portali direttamente allo zoo. Li incontrerò nel mio ufficio nel Centro Direzionale per le nove e trenta. Appena Yelena mi ha comunicato dell’ennesimo fallimento, sono rimasto in ufficio per studiare con lei il da farsi. Abbiamo riflettuto fino ad ora e crediamo che la cosa migliore da fare sia mandare gli italiani in Bhutan anziché in Guatemala. Ciò che cerchiamo in Himalaya è di gran lunga più suggestivo e remunerativo di ciò che potrebbe trovarsi in Guatemala.» «Sono d’accordo con lei presidente. Quindi annulliamo le ricerche in Guatemala?»
«Per il momento si. Abbiamo bisogno di un’attrazione per l’apertura, il tempo stringe e la pista Himalayana è tra quelle più concrete e documentate per le nostre ricerche. Poi non dimentichiamoci della missione in Africa e di quella in Scozia. Dobbiamo per forza ottenere almeno un successo da queste tre missioni. Sai qual è l’obbiettivo del mio progetto, non mi basta avere il più grande zoo del mondo perché, prima o poi, arriverà chi ne costruirà uno di ancora più grande. Voglio essere il primo ad esporre esemplari criptozoologici. Questo record non potrà soffiarmelo nessuno, e solo così il sogno di Olga potrà, finalmente, avverarsi.» «Conosco il suo punto di vista presidente, ne avevamo già parlato altre volte, e concordo con lei.» Rispose Luskov. «Ci vediamo tra poco allo zoo.»
Mosca, 26 maggio ore 09.00 locali
Poco prima delle nove, i fratelli Mirri erano scesi nel ristorante dell’hotel per fare colazione, vestiti in completi eleganti in vista della riunione che li aspettava di lì a poco. Quando erano sul punto di bere gli ultimi sorsi di un disgustoso caffé, Aldo scorse l’ingombrante sagoma di Luskov nella hall. «È arrivato “Occhiolino”.» Fece cenno al fratello. Questi si voltò, e squadrando il responsabile scientifico della Dimitrov disse al fratello: «Si, muoviamoci.» Sorseggiò con poco gusto quanto restava nella tazzina e si alzò seguito dal fratello. Luskov li salutò mettendo in mostra tutto il suo bagaglio di sorrisetti e occhiolini e, dopo aver declinato l’invito per un caffé rivoltogli dai fratelli Mirri, fece strada verso l’ascensore. «Perché saliamo?» chiese Aldo nell’approssimarsi all’ascensore. «Piccolo cambiamento di programma.» Rispose Luskov. «Andremo direttamente allo zoo in elicottero, senza are dalla sede centrale della Dimitrov Exotics.» Salirono fino all’ultimo piano dell’hotel con l’ascensore, poi affrontarono una breve rampa di scale e si trovarono sul tetto dell’albergo dove, sull’apposita pista, li aspettava con i motori già a regime un elegante elicottero riportante sulle fiancate, il logo della Dimitrov Exotics in bella mostra. Il panorama della città di Mosca, in quella giornata tersa e stranamente sgombra persino dalla cappa di smog che solitamente ricopre tutte le metropoli del mondo, era stupendo. Si intravedeva il serpeggiare della Moskova, mentre i moderni palazzi che si stagliavano nel centro davano bella mostra di sé sotto i riflessi del sole mattutino. Poi l’elicottero virò a Nord, dove la città lasciava spazio alla steppa sconfinata. arono ad est dell’aeroporto Sheremetyevo e, pochi minuti dopo aver
abbandonato l’hotel, sorvolarono un’area vastissima di forma pressoché quadrata delimitata da alte mura. Dalla superficie, tra lievi avvallamenti, e in mezzo ad innumerevoli vie e canali artificiali, si stagliavano alte nel cielo decine di gru che lavoravano al completamento di imponenti palazzi dalla foggia maestosa e moderna. Tutta l’area era un continuo brulicare di operai e mezzi di ogni tipo. Luskov mostrò ad Aldo e Mattia alcune costruzioni indicandone la destinazione d’uso: tre alberghi, il centro direzionale, la sede della sicurezza, quella delle poste, un mega centro commerciale, l’ospedale veterinario, il deposito per il cibo e, addirittura, una centrale elettrica che avrebbe trasformato in energia le decine di tonnellate di letame prodotto dagli animali ogni giorno. Grazie a questa centrale, lo zoo sarebbe stato del tutto autosufficiente dal punto di vista energetico. Di certo però, le strutture più magnifiche dell’intero complesso erano quelle che avrebbero ospitato il rettilario ed il padiglione entomologico, la prima costruita con le sembianze di un serpente raggomitolato su se stesso e l’altra dalla caratteristica forma di coleottero con tanto di elitre leggermente sollevate dal corpo. I fratelli Mirri, dai finestrini dell’elicottero, osservavano rapiti quell’incredibile cantiere degno di un film di fantascienza, mentre l’elicottero procedeva spedito il suo volo diretto all’angolo Nord-Ovest dell’area. «Da quanto tempo è iniziata la costruzione del complesso?» Chiese Mattia. «La prima pietra è stata posta tre anni fa, ma per circa quindici mesi i lavori hanno riguardato quasi esclusivamente la realizzazione dell’autostrada che collega lo zoo al resto della rete moscovita e l’installazione della rete idrica, fognaria ed elettrica dell’area. Non dimentichiamoci che parliamo di un’area di quasi venticinque chilometri quadrati, Dio solo sa quanti cavi e tubi sono stati necessari per la costruzione di tali infrastrutture. Dopodichè si è ato ad erigere gli edifici principali che vi ho mostrato prima. Ora siamo entrati ormai nell’ultima fase dei lavori, la costruzione dei circa tremila settori e sedici macroaree nei quali saranno ospitati gli animali.» Fece una pausa, compiaciuto dalle facce sbalordite dei due italiani. «Sembra un numero enorme, ma, in realtà, in questi tre anni, mentre nell’area si costruivano le infrastrutture più grandi, altrove - un po’ ovunque in tutta la Russia - delle ditte specializzate hanno realizzato i prefabbricati delle strutture più piccole che i circa tremila operai ad oggi impiegati nello zoo stanno installando in maniera agevole e veloce.» Rise soddisfatto: «Siamo addirittura in anticipo sui tempi previsti.»
«E gli animali? Dove e quando saranno reperiti?» Chiese Aldo. Dopo una lunga sequela di sorrisi e moine Luskov rispose: «Dato che siete del mestiere, avrete certamente notato che negli ultimi mesi, un po’ in tutti i principali zoo del mondo, si stanno tenendo dei percorsi a tema dedicati a determinate famiglie di mammiferi. Ad esempio, nello zoo di San Diego, si sta tenendo quello sugli ursidi, in quello di Londra tra quindici giorni sarà allestito quello sui camelidi e il mese prossimo, a Sidney, verrà messa in mostra una sterminata quantità di felini rari.» Squadrò i Mirri risistemandosi gli occhiali sul naso, mentre ormai l’elicottero aveva iniziato la fase di atterraggio. «Ebbene, tutti questi animali sono di proprietà della Dimitrov Exotics che li ha prestati agli altri zoo fino all’apertura del suo parco. Ovviamente, gli animali più facilmente reperibili saranno acquistati a ridosso dell’apertura, mentre per ottenere gli esemplari delle specie più rare che ancora non siamo riusciti a reperire, c’è in campo una squadra di ottanta professionisti come voi che sta provvedendo a rintracciarle in ogni dove. Ma ad oggi ne mancano davvero poche, una decina al massimo.» «E a noi quale toccherà trovare?» Domandò Aldo mentre l’elicottero toccava terra. «Suvvia dottor Mirri», fece Luskov, «abbia pazienza ancora un attimo. Queste informazioni le verranno comunicate direttamente dal presidente.» Al solito sorrise e fece l’occhiolino, quindi qualcuno dall’esterno aprì il portellone dell’elicottero. La pista d’atterraggio si trovava in cima all’edificio di sei piani che ospitava la sede della sicurezza. A sinistra della pista si protendeva uno spettacolare ponte sospeso completamente trasparente che andava a congiungersi direttamente con il sesto dei dodici piani del Centro Direzionale. Mentre percorrevano il ponte, Luskov, indicando il tratto di suolo proprio sotto il ponte disse: «Lì sotto sarà riprodotto uno stagno nel quale saranno sistemati coccodrilli e caimani. Tutti gli ospiti che arriveranno al parco in elicottero, dovranno percorrere questo ponte per accedere al resto del complesso e saranno accolti allo zoo dalle fauci spalancate dei coccodrilli sotto di loro. Sono sicuro che sarà elettrizzante.» “Mai quanto trovare un coccodrillo affamato a meno di un metro da te senza
recinzioni o ponti trasparenti a separarvi. Sai che bel bocconcino che saresti con tutto il lardo che ti porti dietro, Luskov?” pensò tra se Aldo ma, per una volta, evitò di palesare le sue considerazioni sarcastiche. Entrati nel Centro Direzionale salirono due piani in ascensore e imboccarono un lungo corridoio a sinistra, lungo il quale, su ambo i lati, erano disposte una decina di stanze. Da alcune porte socchiuse si intravedevano degli uffici in allestimento con gli operai all’opera, mentre un paio di porte erano chiuse. Lo percorsero tutto, fino all’ultima porta, disposta frontalmente al corridoio. Luskov bussò tre volte e aprì. L’ufficio di Nicolai Dimitrov era veramente spettacolare: Ampie vetrate su tre lati davano una visione d’insieme su tutto lo zoo. Dal soffitto, proprio al centro della stanza, scendeva un enorme lampadario in vetro di Murano, mentre il pavimento in marmo rosso era ricoperto da lunghi tappeti di foggia orientale. All’estremità della stanza, a ridosso della vetrata più ampia, faceva bella mostra di se un’elegante scrivania in stile vittoriano, dietro alla quale li attendeva in piedi Nicolai Dimitrov.
Se Aldo avesse fatto una scommessa su che tipo di personaggio avrebbe potuto essere Nicolai Dimitrov l’avrebbe persa. Si aspettava una persona dall’aspetto austero e burbero, tipico dei magnati russi, di quelli che si vedono in tv o sui giornali. Invece si trovò di fronte un sorridente uomo sui sessantacinque anni, dall’espressione simpatica, di media corporatura, con un’arruffata chioma brizzolata e un curioso paio di spessi occhiali da vista. Li accolse con un sorriso sinceramente cordiale, mentre cercava maldestramente di pronunciare la parola “benvenuti” in italiano. Poi, dopo essersi stretti le mani, ò a parlare in un inglese notevolmente migliore del suo italiano per invitarli ad accomodarsi sulle spaziose poltrone in pelle nera. «Eccoci qua», disse, «mi sono informato sulle credenziali e sulla storia della vostra agenzia e non vedevo l’ora di conoscervi per iniziare questa collaborazione con voi. Ma, prima di discutere dei particolari del nostro contratto, lasciate che vi presenti mia figlia Yelena che vi illustrerà le attività e i progetti della Dimitrov Exotics.» Pigiò il tasto dell’interfono sulla scrivania e
parlò brevemente in russo con una voce femminile all’altro capo dell’apparecchio. Dopo pochi secondi, si udì un leggero bussare e, quando la porta si aprì, Aldo si trovò a contemplare inebetito una delle più belle donne che avesse mai visto in vita sua. Alta, bionda, occhi color ebano e un fisico sinuoso: sembrava un capolavoro Michelangiolesco. «Lasciate che vi presenti il vice presidente della Dimitrov Exotics, nonché mia unica ed adorata figlia: Yelena.» Disse Dimitrov. Aldo le rivolse un saluto imbarazzato, mentre Mattia riuscì ad essere più naturale e spontaneo. «Yelena», continuò il padre, «illustra brevemente ai nostri ospiti la storia della nostra compagnia.» La ragazza si appoggiò alla scrivania mettendosi di fronte ai fratelli Mirri e a Luskov e cominciò. «Innanzi tutto, benvenuti allo Zoo Dimitrov.» Disse con voce naturalmente suadente in un inglese oxfordiano. «Questo giardino zoologico nasce dalla volontà di mio padre e della mia defunta madre Olga, di mettere insieme, in un unico luogo, tutte le specie animali terrestri del pianeta. La Dimitrov Exotics, è una costola della compagnia petrolifera Dimitrov Oil, azienda che mio padre ha avviato nei primi anni novanta e che, in poco tempo, ha fatto crescere fino a diventare una delle realtà economiche più prospere della Russia. Oggi, la Dimitrov Oil, possiede anche una compagnia aerea, un’agenzia turistica, un’industria siderurgica e una farmaceutica in India, due squadre di calcio - una in Russia e una in Inghilterra - e una squadra di hockey su ghiaccio negli USA.» Fece una breve pausa per riprendere fiato, si spostò una bionda ciocca sbarazzina dalla fronte e continuò: «La Dimitrov Exotics è stata creata appositamente per realizzare questo zoo e ha in programma quello di costruire, nel prossimo futuro, un acquario e un altro parco interamente dedicato all’ornitologia, ma questi sono ancora in fase di progettazione. Il progetto per il nostro zoo è tra i più ambiziosi che l’uomo abbia mai potuto pensare. Come sicuramente Luskov vi avrà anticipato, per raggiungere il nostro intento primario di ospitare tutte le creature terrestri del pianeta, abbiamo messo in piedi una squadra di ottanta tra i più affermati cercatori di animali del pianeta e, dagli ultimi dati che ho appena
stampato», prese dalla sua portadocumenti The Bridge un fascicolo di una cinquantina di pagine e lo mostrò agli astanti, «abbiamo individuato il novantotto per cento dei mammiferi catalogati dagli zoologi e per il novantasei per cento di essi, siamo già entrati in possesso degli esemplari da esporre.» Aldo, nell’udire quei dati straordinari, emise un ben poco oxfordiano fischio e Mattia gli lanciò un’occhiataccia intimidatoria. «Ma», intervenne Nicolai Dimitrov, «voi non siete stati convocati qui per trovare una delle poche razze catalogate dagli zoologi che ancora ci sfuggono.» Quella strana - e a volte nauseante - sensazione di esser giunti ad una scomoda deduzione colpì Aldo come un diritto micidiale in pieno volto. Chiuse gli occhi e tirò indietro la testa, mentre Mattia pose a Dimitrov la domanda a cui lui aveva già risposto in silenzio: «Se non dobbiamo cercare un animale raro per quale motivo ci avete chiamato?» Il magnate scambiò uno sguardo con la figlia e questa rispose: «Per trovare una criptide.» Aldo riportò la testa in avanti, il mento che oscillava rapido sul petto, gli occhi sempre chiusi e un sorriso nervoso sul volto contratto. Mattia invece restò perplesso e, giustificato dall’ignoranza in materie zoologiche che è possibile perdonare ad un esperto contabile qual era, chiese: «Una che?» «Una criptide, dottor Mirri», rispose Nicolai Dimitrov, sorridente, «chieda a suo fratello Aldo cos’è. Si è laureato con una tesi incentrata sulla criptozoologia.» Aldo per un attimo lasciò da parte le inesprimibili considerazioni riguardo la situazione ridicola e paradossale cui il fratello lo aveva cacciato portandolo in Russia e chiese stizzito: «Cosa ne sa lei della mia tesi di laurea? Non mi vorrà dire che è a conoscenza di quel mucchio di idiozie che scrissi quindici anni fa?» «Suvvia, dottor Mirri», disse Dimitrov con faccia seria, «noi riteniamo che il suo lavoro sulla criptozoologia sia notevole, forse il migliore sull’argomento tra quelli che conserviamo nella nostra biblioteca.» «Ma cosa sta dicendo?» Urlò Aldo. «Quella tesi è stata scritta solo per compiacere il relatore che era un caro amico di mio padre. Non a caso, pochi mesi dopo che mi laureai, il professore è stato praticamente abbandonato al suo
destino dalla comunità accademica, data la sua convinzione relativa all’esistenza delle criptidi. Lasciò l’università – o forse sarebbe meglio dire che lo cacciarono – e di lui si persero le tracce.» «È vero, di lui si persero le tracce, ma solo dieci anni fa, non quindici come ritiene lei. Fino a dieci anni fa è stato nostro ospite qui a Mosca, dove, insieme alla mia defunta moglie Olga, apionata di zoologia e criptozoologia, hanno stilato l’elenco di tutte le razze animali che verranno ospitate nello zoo. Essendo entrambi apionati delle criptidi hanno avuto la geniale idea che, per rendere davvero unico lo zoo, esso avrebbe dovuto ospitare - primo al mondo – uno di questi animali leggendari.» «Ok, ok, ok¸ fermiamoci un attimo!» Interruppe Mattia. «Qualcuno mi può spiegare, gentilmente, cosa diavolo è una criptide?» «Mi rifiuto!» sbraitò Aldo mentre Yelena, con calma e pazienza, prese un altro fascicoletto dalla borsa e mostrò a Mattia alcune figure e foto stampate sulle sue pagine. «Bigfoot, Chupacabra, il mostro di Loch Ness», disse la ragazza, «e tutti quegli animali di cui si riportano notizie di avvistamenti o alle quali presenze vengono associati avvenimenti inspiegabili e strani ma di cui, ufficialmente, non esiste alcuna catalogazione o descrizione scientifica. Gli animali facenti parte di questa categoria sono chiamati, appunto, criptidi e la scienza che li studia è la criptozoologia.» «Da quando la criptozoologia è diventata una scienza?» Chiese ironicamente Aldo. «Statemi a sentire tutti quanti, per favore», diventando di colpo serio, «anch’io, qualche anno fa, ho letto il meraviglioso libro di Michael Crichton Jurassic Park, mi è piaciuto così tanto che ho letto il seguito, Il Mondo Perduto, e ho visto tutti e tre i film della serie e, se un giorno ne uscirà un quarto, state sicuri che lo andrò a vedere. Ma voglio farvi presente che il libro in questione è un romanzo, un’opera di fantasia. A quanto riesco a capire con le mie limitate facoltà intellettive, voialtri vorreste creare una sorta di Criptozoo sul modello Crichtoniano. In fondo avete tutto: con le vostre vagonate di soldi avete creato un parco naturalistico futuristico, inimmaginabile, enorme. Per questo mi congratulo sinceramente con voi: per quanto, personalmente, non veda di buon occhio il fatto che un animale debba stare dietro una gabbia solo per fare divertire noi umani, capisco, da specialista del settore, che anche gli zoo hanno
la loro utilità. Ma, premesso tutto ciò, per onestà intellettuale, devo darvi una brutta notizia: le criptidi esistono solo nelle fantasie di gente come il mio relatore Teodoro Visconti e in quelle di pochi altri sognatori… per non usare altri termini più offensivi.» Mentre Aldo sfogava la sua rabbia repressa, accumulata negli ultimi due giorni ati a Mosca, Mattia cercava di calmarlo, tirandolo per la giacca affinché tornasse a sedersi e, soprattutto, a fare silenzio. Yelena e Nicolai non persero la calma, anzi, reagirono con un sorriso alle esternazioni di Aldo, poi la ragazza rispose: «Ok, signor Mirri, seppur in maniera colorita e un po’ fuori luogo, lei ci ha fatto capire il suo punto di vista che, in fondo, non si discosta di un millimetro da quello della comunità scientifica ufficiale. Però deve sapere che, negli ultimi anni, soprattutto grazie al lavoro di mia madre e del dottor Visconti, abbiamo raccolto una tale massa di dati in grado di comprovare l’esistenza di alcune di queste creature da spingere la compagnia ad impegnare una notevole quantità di risorse economiche per la loro ricerca. Soprattutto per quanto riguarda il Chupacabra, il Mostro di Loch Ness e qualche tipo di dinosauro chiamato in mille modi diversi dalle popolazioni africane, abbiamo la certezza che, al di là dei miti e dei falsi documenti e avvistamenti creati negli anni, questi animali esistano sul serio.» «Anche King Kong e gli alieni di Roswell esistono allora?» chiese sarcasticamente Aldo. «King Kong no e gli alieni di Roswell, se dal momento dell’incidente ad oggi non sono morti, probabilmente si.» Rispose, sempre mantenendo una calma olimpica, Yelena. «Ma gli alieni si troverebbero in USA, e difficilmente gli americani ce li consegnerebbero. Vede dottor Mirri, secondo le nostre ricerche, anche il Bigfoot esiste, ma non possiamo andare a fare le nostre ricerche negli Stati Uniti, altrimenti qualche ricca compagnia in loco potrebbe fiutare l’affare e rubarci l’idea.» «Certo! come no?» Irrise Aldo. «Aldo, ora smettila!» Lo interruppe Mattia imbarazzato e preoccupato dalla prospettiva di perdere una marea di soldi. «Signori Dimitrov, vogliate scusarlo, sta ando un momento difficile per via di un incidente sul lavoro patito lo scorso mese e… »
«Ma che gli vai a dire?» Lo interruppe subito Aldo. «Adesso basta, stai zitto.» Urlò, questa volta, Mattia. «Non credo che persone in grado di edificare l’area in cui ci troviamo in questo momento gettano i loro soldi e il loro tempo in imprese senza senso e senza speranza.» Girò il volto per parlare direttamente in faccia al fratello. «Ricordati che la Mirri Adventures&Research è, a tutti gli effetti, di mia proprietà, e io sono ancora interessato alla commessa per cui l’agenzia è stata contattata.» Si voltò verso Nicolai Dimitrov e la figlia: «Quello che pensa mio fratello da ora in poi, sarà solo un mio problema che non influenzerà in nessun modo il lavoro che la Mirri Adventures&Research è disponibile a prestare, ve lo assicuro.» «Non si preoccupi signor Mattia», rispose bonario Dimitrov, «capisco le motivazioni di suo fratello e, in ogni modo, a conferma delle nostre tesi, ancora non vi abbiamo mostrato le prove e la documentazione in nostro possesso, quindi il suo scetticismo è comprensibile.» Aldo restò in silenzio e Mattia ne fu sollevato, quindi potè porre la domanda più importante: «Bene signori Dimitrov, ci avete parlato di diverse di queste… come si chiamano? Criptidi?» Yelena annuì e quindi Mattia riprese: «Avete nominato Loch Ness, dinosauri e altre creature a me sconosciute, ma quale di queste vorreste che la Mirri Adventures&Research trovasse?» «L’unica che non vi abbiamo nominato fino ad ora», rispose Yelena con un sorriso delizioso, «ma anche quella per cui abbiamo documenti realmente inconfutabili che testimoniano la sua esistenza: lo yeti» Mattia rimase sbigottito da quella parola: yeti. L’aveva sentita dire un mucchio di volte e anche lui era, a malincuore, d’accordo con il fratello nel ritenere che si trattasse solo di un mito. Facendosi forza con quel poco di calma rimasta che era riuscito a racimolare, Aldo chiese: «Posso fare una domanda?» «Prego.» Rispose Yelena. «Tra gli animali che avete trovato o state ancora cercando c’è per caso anche l’Orso Chemo?» Yelena prese il fascicolo in cui era riportato l’elenco degli animali che sarebbero
stati presenti nello zoo e, dopo una rapida ricerca disse: «Orso Chemo, giusto? Si, attualmente è in prestito allo zoo di Lhasa in Cina.» «Benissimo!» Esclamò Aldo. «La nostra ricerca può dichiararsi già conclusa: l’Orso Chemo è lo yeti. Dato che avete letto approfonditamente la mia tesi, sono convinto che avrete sicuramente notato la parte in cui ho sottolineato che per la popolazione nepalese quel tipo di orso è ciò che gli occidentali scambiano per lo yeti.» «Abbiamo letto quel aggio, dottor Mirri», rispose Nicolai Dimitrov, «ma, come lei sa bene, il mito dello yeti è riscontrabile un po’ ovunque in Asia: dalla Siberia al Nepal, dal Kazakistan alla Mongolia, ando per gli sterminati territori della Cina e dell’India. Le caratteristiche somatiche che si associano allo yeti in questi luoghi, possono essere diametralmente opposte tra loro. Probabilmente, come dice lei, in alcune zone dell’Himalaya lo yeti è confuso con l’Orso Chemo, in altre zone, invece, con qualche esemplare di primate dalla stazza particolarmente imponente. Può anche darsi che con il termine yeti, in ato, ci si è riferiti ad esseri umani affetti da gravi casi di ipertricosi o irsutismo[1] che sono costretti a vivere in solitudine, lontano dalle loro tribù, a causa di superstizioni negative associate alla loro condizione. Ma il caso dello yeti avvistato in Bhutan non rientra in nessuna di queste casistiche.» Tornò dietro alla sua scrivania, aprì un cassetto e ne tirò fuori un paio di telecomandi che maneggiò con disinvoltura. In pochi istanti, pesanti tende oscuranti meccanizzate si srotolarono sulle vetrate e da due botole nascoste nel soffitto scesero un videoproiettore e un telo bianco. Con un terzo telecomando attivò il proiettore che iniziò a trasmettere un filmato amatoriale registrato con una videocamera digitale. Nel video si poteva vedere chiaramente, da una distanza di circa quindici metri, la sagoma di un grosso ominide ricoperto da peluria grigia, ripreso dall’alto, che si abbeverava ad un torrente sottostante al punto di osservazione. Centinaia di filmati più o meno credibili riferiti ad avvistamenti dello yeti o del bigfoot erano facilmente reperibili su internet, ma questo aveva delle caratteristiche uniche: innanzi tutto, la bestia, dalla folta pelliccia grigio topo, si poteva vedere nella sua interezza, da tutti i punti prospettici tranne che dal basso. Se ne poteva scorgere la naturalezza dei gesti mentre beveva dal torrente e nel camminare con un’andatura troppo particolare da essere riconducibile a quella di un umano mascherato. Ma, la prova che il video era autentico si ebbe quando la
creatura, appoggiandosi ad un albero, si sedette sulle ginocchia e defecò. Dopodichè, si rialzò e si perse nel fitto della foresta, mentre il fortunato cameraman improvvisato potè tirare un sospiro di sollievo per il fatto di non essere stato visto. Non appena il filmato terminò e la luce del proiettore lasciò risplendere al buio i denti bianchi nelle bocche spalancate dei fratelli Mirri, Dimitrov spiegò: «Queste immagini sono state realizzate da un guardiacaccia nella foresta del monte Jomolhari, in Bhutan. Ritraggono un esemplare maschio di circa due metri e novanta di altezza per trecento chili di peso. Dopo essersi fatto raggiungere, ancora sotto shock, da alcuni colleghi, il guardiacaccia ha raccolto dei campioni delle feci. Grazie ai nostri contatti sul posto, siamo riusciti ad acquistare le feci e le immagini video il giorno stesso in cui sono state realizzate, evitando la diffusione della notizia sia su internet che sui media tradizionali. Dall’analisi del DNA delle feci, fatta eseguire nei nostri laboratori in India, non ci sono dubbi sul fatto che si tratta di una specie non ancora conosciuta alla zoologia ufficiale.» Per una volta, Aldo restò senza parole. Mattia, ripresosi dalla sorpresa, chiese: «Ok, ritengo che queste prove siano sufficienti per iniziare la missione di cattura dell’animale. Quando si comincia?» «Subito!» Esclamò entusiasta Nicolai Dimitrov. «Prima però dobbiamo discutere di alcuni dettagli.» Intervenne Aldo. «Prego, li esponga pure.» «Innanzi tutto, siamo sicuri che una volta catturato, l’animale troverà nello zoo un habitat tale da poter sopravvivere? Seconda domanda: e se l’esemplare nel video dovesse essere l’ultimo della sua specie o, peggio ancora, l’ultimo esemplare maschio, che ne sarà di questi presunti yeti? Ed in ultimo: ammesso che si riuscirà a catturare la creatura, che fare se le autorità del Bhutan non concedessero il permesso di trasferire l’animale in Russia?» «Tutte le sue osservazioni sono pertinenti, dottor Mirri. Comincio a risponderle dall’ultima: si ricordi che la Dimitrov Exotics è una costola della Dimitrov Oil. Lei non ha idea della servilità con cui si mettono al nostro servizio tutti i governi a cui vendiamo gas e petrolio, se mettiamo per iscritto un sostanzioso sconto sulle forniture di idrocarburi, a patto che si dimostrino collaborativi», sillabò la parola ad enfatizzarne i vari significati, «nel rendere agevoli le nostre ricerche.»
Sorrise e prese in prestito uno degli occhiolini di Luskov: «Non credo che il governo del Bhutan muoverà osservazioni, così come non le ha mosse quando abbiamo chiesto di ottenere il video e le feci dell’animale in meno di dieci ore. E se ancora non dovesse bastare, beh, in tal caso metteremo sul piatto delle trattative qualche altro centesimo di dollaro di sconto sulle nostre forniture.» Si accomodò sulla sua comoda poltrona e riprese: «Per quanto riguarda i suoi dubbi sull’habitat che l’animale troverà allo zoo, ritengo che sia davvero l’ultimo dei problemi. Abbiamo così tante gabbie nel parco da riuscire a simulare tutti i climi e gli ambienti del mondo. Anche se si dovessero riscontrare delle esigenze particolari per tutelare la salute dello yeti, sono sicuro che in pochi giorni verrà trovata una soluzione consona e definitiva.» Detto ciò aprì un cassetto della scrivania e ne tirò fuori una grossa busta postale arancione dalla quale estrasse una decina di foto che sistemò ordinatamente sullo scrittoio. «Ora arrivo a risponderle a quello che, anche per noi, è il quesito che sta più a cuore: con la cattura di un esemplare di yeti rischieremmo di compromettere la salvaguardia della specie?» Prese una delle foto scattate dall’alto con telecamere termiche che mostrava una serie di sagome rosse che si muovevano in una fitta vegetazione verdognola. «Queste foto - scattate da un drone il giorno dopo l’avvistamento che avete visto in video poco fa - dimostrano come, a pochi chilometri dal luogo dell’incontro ravvicinato con lo yeti, erano presenti almeno una ventina di esemplari della stessa specie. Le foto sono state scattate a sera inoltrata, quindi non abbiamo riprese in colori reali, ma le sagome in rosso sembrano ricordare, inequivocabilmente, quella dello yeti filmato dal guardiacaccia.» «A quando risalgono il video e le foto?» chiese Aldo esaminandone attentamente una presa dalla scrivania. «Il video è di quindici giorni fa, mentre le foto sono di circa trentasei ore posteriori.» «E perché, in questi quindici giorni, non avete mandato una spedizione? Avete avuto una rapidità da record nel rintracciare il video e le feci, altrettanto celermente avete inviato un drone per fare i vostri scatti, ma non siete riusciti a mandare una squadra in grado di catturare un esemplare?» Chiese Aldo nonostante le occhiatacce del fratello. «Anche questa è una giusta osservazione dottor Mirri!» Rispose Dimitrov scambiandosi uno sguardo con la figlia. Lo sguardo si prolungò quasi a leggere
nella mente dell’altra. Non potevano parlare del disastroso esito della precedente missione in Bhutan. Poi riprese: «In effetti, avevamo già allertato l’equipe di ricerca di ottanta professionisti di cui vi avevamo già anticipato prima. Purtroppo, quando il drone si alzò in volo il giorno seguente, non riuscì a trovare traccia degli yeti e la stessa cosa si ripeté nei giorni seguenti. Così, chiedemmo il parere di alcuni biologi locali che, studiando la documentazione in nostro possesso, concluse che, probabilmente, il gruppo di yeti deve aver fatto perdere le sue tracce nelle numerose caverne della zona. Quindi, per non distogliere l’attenzione dell’equipe dalla ricerca di animali su cui avevano praticamente già messo le mani addosso, abbiamo deciso di organizzare una spedizione dedicata esclusivamente alla cattura dello yeti e per questo abbiamo contattato la vostra agenzia.» «Ma noi non conosciamo la zona, non ci siamo mai stati.» Obiettò Aldo. «Stia tranquillo, la zona del monte Jomolhari è quasi completamente inesplorata dai ricercatori occidentali. Per questo abbiamo già assoldato due guide esperte che incontrerete in Bhutan, appena atterrati all’aeroporto di Paro. Sarete ati, in oltre, dall’ausilio del drone che ha scattato le foto e dal suo pilota. Oltre a questo, è vostra facoltà scegliere un vostro accompagnatore di fiducia - a patto che firmi un contratto di riservatezza con la nostra compagnia - e, per finire, sarete accompagnati da mia figlia Yelena, biologa, esperta di soccorso e sopravvivenza in aree estreme, nonché cecchina infallibile.» Aldo avrebbe voluto obiettare, non tanto per la presenza di Yelena che, di fatto, gli era stata imposta, ma perché, dall’analisi degli elementi in suo possesso, per compiere quella spedizione sarebbero stati necessari almeno un altro paio di professionisti specializzati, considerando che Mattia sarebbe rimasto a Roma o, al massimo, avrebbe fatto da testa di ponte dalla città più vicina al luogo delle ricerche, non essendo tagliato per la vita selvaggia e avventurosa di chi va a caccia di animali rari. Ma preferì mordersi la lingua e decise di parlare di queste cose in seguito, quando si sarebbe ati ad organizzare la spedizione. Ormai Aldo, nonostante le sue remore, aveva raggiunto la consapevolezza di non poter tornare indietro. Capiva che, una volta venuto a conoscenza dei documenti che aveva appena visionato, non poteva più tirarsi indietro e se lui e Mattia avessero dovuto rifiutato quella commessa per colpa sua, avrebbe aperto una frattura insanabile nel rapporto con il fratello. Doveva partire per il Bhutan. Doveva partire un’ultima volta per poter finalmente tagliare i ponti con quella
vita. Raggiunto finalmente l’accordo, la mattinata proseguì con il noioso disbrigo delle pratiche burocratiche relative alle firme sul contratto e alla raccolta di tutta la documentazione utile ad affrontare il viaggio in Bhutan. Si discusse poi delle attrezzature necessarie ad affrontare la missione e della logistica e, proprio con riferimento a ciò, Mattia, come previsto da Aldo, comunicò che non avrebbe affrontato direttamente la ricerca, ma sarebbe rimasto in un campo base nella città più vicina alla zona delle ricerche, Paro. Per ovviare alla mancanza di Mattia, Aldo, nonostante la richiesta di tre aiutanti, ottenne l’autorizzazione a portare con se solo due uomini di fiducia, uno in più rispetto a quanto i Dimitrov avevano preventivato. La spedizione definitiva sarebbe stata quindi composta da Aldo, Yelena, due guide Bhutanesi contattate dalla Dimitrov Exotics e due collaboratori della Mirri Adventures&Research, il cacciatore camerunese Paul ‘Nkonu, specializzato nella caccia ai primati, e l’australiano Jimy Miller, esperto in quella degli animali di grossa taglia. I due furono contattati da Mattia e accettarono immediatamente l’incarico, ingolositi dai duecentomila dollari a testa promessi loro dalla Dimitrov Exotics come premio per la cattura dell’animale, da aggiungersi ai cento che avrebbe loro sborsato la Mirri. Entrambi assicurarono il loro arrivo a Mosca entro tre giorni. Terminata questa riunione preliminare, il gruppo pranzò insieme in una saletta riservata di uno dei ristoranti dello zoo già terminato che, al momento, fungeva da mensa e alloggio per gli operai. Nel primo pomeriggio, i Mirri vennero accompagnati nuovamente in aeroporto dove il Gulfstream della Dimitrov Exotics li riportò in Italia, per permettere ai due di concludere le faccende in corso a Roma. Il mattino seguente, dopo aver atteso che Aldo parlasse con i suoi avvocati in merito alla vicenda del Kalahari e che Mattia salutasse la moglie e le sue due bambine piccole, il Gulfstream ripartì alla volta della Russia. Intorno alle ore 15.00, atterrati a Mosca, la missione di ricerca dello yeti che li avrebbe portati in Bhutan, sulle inesplorate vette dell’Himalaya, potè dichiararsi ufficialmente cominciata.
Mosca, Russia, 27 maggio, ore 15.10
Ad accoglierli all’aeroporto Sheremetyevo, per la gioia di Aldo, quella volta non trovarono Luskov, ma Yelena, in un delizioso tajer giacca e gonna blu con camicia Dolce&Gabbana bianca e risvolti dorati che ne slanciavano magnificamente la figura longilinea e le forme sinuose. A bordo della solita Jaguar, raggiunsero la sede della Dimitrov Oil nel centro di Mosca. Durante il tragitto Yelena e Aldo parlarono del più e del meno, mentre Mattia studiava meticolosamente cartine del Bhutan e appunti vari. Se i palazzi eretti nel Dimitrov Zoo, erano moderni e magnifici, l’edificio sede della Dimitrov Oil, alto dieci piani, era stato ricavato dalla riconversione di uno dei centri direzionali dell’Armata Rossa e conservava tutta l’imponenza ed austerità tipici dell’architettura sovietica. Unica nota di modernità – un po’ troppo sgargiante per la verità – era il logo dell’azienda sulla sommità dell’edificio illuminato da pulsanti luci a led viola. Salirono di qualche piano e si ritrovarono in un’ampia sala conferenze semicircolare a gradoni, quasi un anfiteatro. «Nei prossimi giorni terremo qui le riunioni preparative per la missione.» Disse Yelena. Appena la ragazza e i Mirri entrarono nella sala, da dietro una cattedra ricoperta da un telo bianco posta sul fondo dell’aula, si fece loro incontro un uomo sulla sessantina. «Questo è il dottor Georgij Yerevadze, ex ufficiale dell’Armata Rossa e dell’Esercito Russo, uno dei maggiori esperti di armamenti del paese e responsabile della sicurezza dello zoo.» «Benvenuti.» Disse il russo, rispondendo al saluto degli italiani. «Il dottor Yerevadze ci illustrerà quali sono le armi e le altre attrezzature che porteremo con noi in missione.» Riprese Yelena.
«No, Yelena», nel breve tragitto dall’aeroporto al centro di Mosca i due avevano iniziato a darsi del “tu”, «per quanto riguarda me, le armi sono sempre state degli inutili fardelli che ho sempre portato più per dare sicurezza a chi stava con me che per un mio bisogno. Ma Paul ‘Nkonu e Jimy Miller hanno le loro preferenze quasi maniacali per quanto riguarda le armi e non credo accetteranno mai che qualcuno gliele possa imporre.» «Dottor Mirri, abbia fede.» Rispose Yerevadze in un inglese appena intelligibile: «Non ha ancora visto cosa ho portato con me.» Fece strada verso la cattedra e scostò il telo che la ricopriva. Sullo scrittoio erano sistemate svariate armi riposte nelle apposite custodie. Impugnò un fucile dalla foggia particolarissima, con una canna di lunghezza media, ideale per garantire una facile maneggevolezza in luoghi impervi come quelli che stavano andando ad esplorare e una serie di dotazioni tecnologiche di cui ignorava l’utilità. «Questo è un prototipo di fucile militare non ancora in commercio… » «Tranne che per noi!» Lo interruppe divertita Yelena. L’ex militare sorrise e continuò: «Ovviamente: le costruiamo noi! Lo chiamiamo “orel”, aquila.» Fece per prendere la mira verso un punto alle spalle dei Mirri. «Come un’aquila, se ti punta non ti lascia scampo. Può sparare, sia in automatico sia in semiautomatico, proiettili calibro .577 tyrannosaur. In pratica una raffica di questa arma può sventrare un elefante. Ma non è tutto.» Indicò quattro cannule più piccole poste, due per lato, longitudinalmente alla canna principale. «Da queste cannule possono essere sparati fino a quattro mini-missili a guida termica contemporaneamente, con una carica sufficiente a ridurre in mille pezzi un piccolo bus.» Indicò un minuscolo schermo touchscreen posto sulla canna, in corrispondenza del grilletto. «Basta agganciare il bersaglio su questo schermo collegato alla microcamera posta sul mirino, premere il grilletto e… boom.» Ripose il fucile nella sua comoda custodia in kevlar - che conteneva diversi optional come un kit di pulizia e un mirino laser, oltre a numerose munizioni di scorta – e impugnò una pistola che Aldo aveva visto innumerevoli volte. «Questa è la classica Desert Eagle .44 Magnum.» Aldo annuì. «Vedo che non ha bisogno di presentazioni, vero dottor Mirri?» ò quindi ad impugnare un altro pezzo dell’arsenale noto ad Aldo: un fucile
sparasiringhe Dist-Inject Model 70. Nella custodia del fucile c’erano diverse fiale da un mg di Immobilon, sedativo utilizzato per la caccia ai grandi animali a base di etorfina. Il campionario proseguì con un coltello militare a lama fissa e un altro multifunzione a serramanico, bussole, zaini, tute tattiche, visori notturni, telefoni satellitari e un oggetto tuboidale lungo una trentina di centimetri. «Quest’arnese spara una rete sottilissima e ultra-resistente in fibre di nylon e kevlar. Ha un raggio di azione di dieci metri al massimo, ma la rete è in grado di fermare un ippopotamo in corsa.» «Yelena», disse Aldo dubbioso, «Ma perché dobbiamo portarci dietro quest’arsenale? In genere per le nostre missioni viaggiamo con neanche un quarto di tutta questa roba. È vero che dovremo andare in un posto impervio alla ricerca di un bestione di trecento chili, ma tutte queste armi mi sembrano solo un inutile fardello da portarci sulle spalle durante una scalata, già di suo, poco agevole.» Yelena non poteva raccontare ad Aldo e Mattia quanto era accaduto in Guatemala e in Bhutan pochi giorni prima, come non poteva dir loro tante – troppe – cose, quindi glissò: «Non facciamo altro che adattarci alle raccomandazioni che le autorità bhutanesi ci hanno dato. Se dovessimo trovarci nei guai, prima che i soccorsi riescano a raggiungerci, è possibile che dovremo cavarcela da soli, con le nostre forze e le nostre risorse, per un bel po’ di tempo. La prudenza non è mai troppa, Aldo.» Gli fece un occhiolino – questo sì delizioso, al contrario di quelli di Luskov che, fortunatamente, ancora non si era visto – e lo zoologo sembrò tranquillizzarsi. Terminata l’esposizione dell’equipaggiamento, Yelena fece accomodare i presenti e azionò un proiettore che trasmise delle diapositive sulla parete bianca. «Ora vi mostrerò l’area in cui si svolgeranno le operazioni. Il centro più importante nei pressi del luogo dell’avvistamento dello yeti è Paro, dove è in via di allestimento un ufficio dal quale Mattia farà da testa di ponte tra noi in missione, e la sede della Dimitrov a Mosca. Paro è una città situata a duemilatrecento metri di altezza, a una trentina di chilometri dalla capitale Thimphu: sebbene il clima in questa stagione sarà mite, non è da escludersi che dovremo fare i conti con le prime avvisaglie delle piogge monsoniche,
particolarmente violente nella zona.» Yelena proiettò la prima diapositiva che rappresentava l’area circostante la città di Paro. Dalla foto si notava come questa fosse posta alla confluenza di tre vallate, esattamente in corrispondenza della congiunzione dei fiumi Paro Chhu e Wongh Chhu e circondata da alte vette Himalayane su tutti i versanti. Una freccia rossa indicava l’aeroporto di Paro, l’unico internazionale dell’intero Bhutan. Di seguito, Yelena, proiettò la fotografia di una costruzione abbarbicata sulla montagna, alla sommità di un precipizio all’apparenza infinito, che sembrava essere stata presa direttamente da un libro di fiabe. «Quello in foto è il Taktsang, “Tana della Tigre”. È uno dei più famosi e spettacolari dzong - monasteri fortezza - di cui la città di Paro è circondata.» Bevve un sorso d’acqua e riprese: «Questo dzong – situato novecento metri sopra la città e raggiungibile in meno di una giornata di viaggio - rappresenta per noi l’ultimo avamposto di civiltà prima di inoltrarci nella natura selvaggia. Non appena giunti alla fortezza dovremo, infatti, proseguire il nostro cammino verso est, sempre più in alto sulla montagna, verso il luogo dell’avvistamento, attraverso piste poco o per nulla battute nelle densissime foreste di cipressi e larici. Per non dare nell’occhio, compiremo la risalita da Paro al Taktsang a piedi, vestiti come i tanti turisti che nelle stagioni calde visitano il monastero. Grazie ad una cospicua donazione fatta dalla Dimitrov, abbiamo ottenuto dai monaci dello dzong il permesso di poter dormire una notte nel convento da dove, l’indomani, riprenderemo il nostro cammino verso est.» Yelena proseguì la descrizione dei luoghi mostrando una serie di fotografie satellitari dalle quali si notava l’onnipresente fitta vegetazione cresciuta, quasi magicamente, su dirupi scoscesi e angusti. Da alcune foto, era possibile intravedere l’ingresso a numerose grotte ed anfratti dove, secondo i naturalisti bhutanesi interrogati dalla Dimitrov, avrebbero trovato riparo gli yeti. «È un posto enorme da battere.» Disse dopo un po’ Aldo, serio. «Soprattutto se consideriamo il fatto che non sappiamo che esca o trappola inventarci per poter attirare lo yeti.» «Questo è vero in parte, Aldo. Qualche elemento a nostro favore lo abbiamo.» Rispose Yelena. «Innanzi tutto, dall’analisi delle feci, abbiamo dedotto che l’animale è vegetariano e si ciba quasi esclusivamente di papavero blu, bacche di cipresso e di una particolare erba, la rheum nobile, che cresce tra i quattromila e
i quattromilaottocento metri di altezza. Questa pianta può essere la nostra esca. Infatti, sulla sommità del monte Jomolhari, dovrebbe essere possibile trovarla e con essa lo yeti che se ne ciba. Quindi, il nostro itinerario sinteticamente si svolgerà nella seguente maniera:» rimandò una diapositiva complessiva della zona, «Arrivati al Taktsang, sul versante Ovest della montagna, proseguiremo verso est, scollinando sull’altro versante, fino a giungere nella zona delle caverne, da qui proseguiremo il nostro cammino risalendo fino alla cima della montagna.» «Anche se il percorso non è lunghissimo – una decina di chilometri al massimo – dato il percorso impervio che ci toccherà seguire, ritengo che occorreranno almeno cinque o sei giorni per fare una ricerca appurata.» Intervenne Aldo. «Oltre all’attrezzatura che abbiamo visionato prima, ritengo che dovremo portarci dietro parecchi viveri.» «Abbiamo approntato viveri per una settimana, dopodichè, se necessario, un elicottero ci porterà ulteriori rifornimenti da Paro. Ma, ottimisticamente, riteniamo che in sette giorni, dato il nostro equipaggiamento e la vostra esperienza, la missione dovrebbe essere terminata.» «E se non dovesse essere così, per quanto tempo si protrarranno, in ogni caso, le ricerche?» «Quindici giorni se non otteniamo risultati apprezzabili. Ma se dovessimo avvistare lo yeti, o avere buone prove su dove possa trovarsi, questo termine potrebbe prolungarsi ulteriormente. La durata della missione dipende da molti fattori, Aldo. La Dimitrov Exotics non ha problemi di budget, voi neanche, dal momento che siete stati già pagati con un ricco anticipo sulla somma che vi verrà corrisposta in caso di successo, quindi riteniamo che il tempo sia l’ultimo dei nostri problemi.» Pronunciò quell’ultima frase con la severità tipica dei russi e di chi pretende la massima serietà e professionalità dai suoi sottoposti. Perché Aldo e Mattia erano suoi sottoposti e avrebbero fatto bene a non dimenticarlo. Qualcosa sussurrava all’orecchio di Aldo che - nonostante il “tu” accordatogli da Yelena, e la fiducia quasi cieca riposta nei loro confronti dai Dimitrov, nonostante le sue iniziali resistenze - la bellissima ragazza, rampollo di un immenso impero economico, sarebbe stata una capo missione tutt’altro che malleabile e permissivo.
Dopo un’altra ora ata ad affinare particolari e dettagli tattici della missione insieme a Yerevadze, i tre lasciarono la sede della Dimitrov Oil. «Sarei lieta di avervi come miei ospiti a cena, questa sera.» Disse Yelena appena fuori dall’edificio. «Grazie Yelena», rispose Mattia, «Ma sono stanco e preferirei mangiare qualcosina in albergo e are la serata in camera. Non mancherà sicuramente un’altra occasione per poter cenare insieme in questi giorni.» Aldo invece, ormai cotto a puntino dalle grazie della bella biologa, accettò con entusiasmo sia l’invito a cena che, soprattutto, il rifiuto di seguirli del fratello. Yelena disse all’autista che per quella sera poteva tornare a casa, perché avrebbe guidato lei. Così, accompagnato Mattia in albergo, i due proseguirono a bordo della potente Jaguar fino ad un lussuoso ristorante affacciato su uno dei punti più affascinanti della Moskova.
Mosca, Russia, 27 maggio, ore 20.30
«Sono curioso di sapere una cosa!» Esclamò Aldo mentre mangiava avidamente la sua zuppa borsh, «Cosa ha spinto un magnate del petrolio come tuo padre ad interessarsi di un mondo apparentemente così lontano al suo come quello degli zoo? Insomma, capisco che tua madre aveva la ione per la zoologia e la criptozoologia, ma investire tutti questi soldi uno zoo mi sembra una cosa un po’ anacronistica. Non credo che i tempi siano maturi per simili tipi di attrazioni, gli zoo andavano di moda qualche decennio fa, ora è il momento dei parchi divertimento sul modello di Disneyworld e simili.» «Infatti, il parco divertimento è incluso nello zoo. Anzi, nella nostra idea di ciò che dovrà essere lo zoo, le due cose dovranno convivere sinergicamente. Non potrà avere successo lo zoo se non avrà successo il parco divertimento e viceversa. E poi, prima di avviare questo investimento è stata eseguita una dettagliata indagine di mercato. Mica buttiamo i soldi a caso dalla finestra noi russi.» Aldo la guardò scettico nei suoi meravigliosi occhi neri: «Uhm… spiacente», sorrise, «ma la tua risposta non mi convince. Secondo me c’è dell’altro.» Lei ricambiò il sorriso. «Sei proprio un italiano testa dura.» Rise più rumorosamente, poi continuò: «Hai ragione, testone, c’è dell’altro. È vero quanto ti ho detto prima: anni fa, la Dimitrov ha commissionato un’indagine di mercato i cui risultati avevano dimostrato che il parco, per com’era stato pensato, sarebbe stato un successo. Ma, nelle previsioni fatte allora, quando mia madre era ancora in vita, il parco doveva essere notevolmente più piccolo. Il progetto prevedeva che fosse “semplicemente”» sottolineò con un’espressione divertita la parola, «il più grande del mondo. Non era previsto che lo zoo contenesse tutta questa massa di animali, né, tantomeno, che vi sarebbero state esposti esemplari di criptidi…» Aldo la interruppe: «Se mai riusciremo a catturarne qualcuna…» «Ci riusciremo Aldo, per forza. Il motivo per cui ci riusciremo è legato proprio al perché le dimensioni dello zoo si sono ingigantite fino a diventare quelle attuali.» Il suo viso si rabbuiò. «Mio padre sta costruendo questo parco come se
fosse un tempio dedicato alla memoria di mia madre. Lui, nonostante i trenta anni di matrimonio, è ancora completamente rapito dalla figura di mia madre. Quando è venuta a mancare per una malattia incurabile, lo zoo è diventato il suo unico motivo di vita, l’unica cosa che lo fa andare avanti, la sola cosa che gli impedisce di cadere nella disperazione più totale. Lui mi adora - sono la sua unica figlia - ma a volte penso che sacrificherebbe anche me per riavere indietro mia madre. Mio padre non accetterebbe mai di dover allestire questo zoo senza raggiungere l’obbiettivo di ospitare al suo interno almeno una criptide. Prima o poi - anche dopo l’apertura del parco, se non dovessimo riuscirci prima dell’inaugurazione - si procurerà uno di quegli animali, o morirà nel tentativo di farlo.» «È triste questa storia. Ma è straordinario il sentimento di tuo padre, davvero ammirevole.» Disse pacatamente Aldo, mentre il cameriere serviva dello beefstroganoff. «Comunque vedo che la ione per la zoologia ha contagiato anche te.» «Beh si, la ione di mia madre mi ha contagiata, e poi, sono pur sempre una biologa, dovresti meravigliarti del contrario: che contraddizione sarebbe un biologo che odia la natura? Infatti, non ti nascondo che il mio lavoro in seno all’azienda a volte mi procura un fastidio non da poco perché, il più delle volte, sono costretta a parlare di idrocarburi e cose simili che, ti garantisco, mi apionano molto di meno. Ma che ci posso fare? è inutile nasconderlo, erediterò un patrimonio costruito sul petrolio e quindi mi conviene tapparmi il naso – e a volte anche gli occhi – e fare ciò che è necessario per l’azienda.» Rispose lei. «Tu, piuttosto, come mai ti ritrovi a fare questo strano mestiere?» «Anche per quanto riguarda la mia storia personale c’è una sorta di eredità genetica che mi ha condannato.» Rispose lui, divertito. «Mio padre era zoologo e ha creato l’agenzia Mirri Adventure&research, quando era poco più che ragazzo. Da lui ho preso la ione per gli animali e da mia madre quello di fare polemica a tutti i costi.» Risero sonoramente entrambi, nonostante gli sguardi infastiditi degli impettiti commensali dei tavoli a fianco. «Ero uno spirito troppo libero per poter are le mie giornate dietro ad una scrivania a fare conti come Mattia. Amavo la natura, i posti selvaggi e gli animali. Quand’ero ragazzino poco più che fanciullo - non vedevo l’ora che arrivasse l’estate per poter andare in giro per il mondo con mio padre. Lui ci portava sempre con lui quando poteva, ma, ovviamente, fino a quando non ho avuto l’età per poter badare a me stesso, io, la mamma e Mattia, restavamo nelle città più vicine a dove papà
lavorava. Sarebbe stato troppo pericoloso portarci con lui. È stato così che ho iniziato a conoscere il mondo, ma, come avrai capito, non vedo l’ora di cambiare registro alle mie cose. Sono arrivato in una fase della vita in cui invidio Mattia e le sue scartoffie. Anche questa missione - non è un mistero - la affronto senza particolare emozione, nonostante si stia dando la caccia ad un animale leggendario come lo yeti. Se dovessimo riuscire nell’impresa, avrei fama e gloria, lo so, ma onestamente, non ho più voglia di estirpare un animale dal suo habitat per sequestrarlo in una gabbia dall’altra parte del mondo, non lo ritengo giusto, è una forzatura.» Si fermò un attimo, il viso pensieroso: «Ed io questa forzatura l’ho compiuta troppe volte nella vita.» «Non sei certo furbo a dirmi una cosa simile. In fondo sono il tuo datore di lavoro.» Rispose lei con tono interrogativo più che accusatorio. «Non ho detto che non mi impegnerò al massimo per portare a termine il lavoro, bensì che non mi piace farlo, è diverso. Anche un chirurgo, dopo anni e anni ati a praticare appendicectomie, prima o poi, si stufa, ne sono certo! Ma ciò non significa che la sua noia lo porterà a far morire un suo paziente.» «La sua noia, però, può portarlo a commettere qualche errore di distrazione che potrebbe costare la vita ad un paziente!» Ribattè subito lei. «Quando un calciatore tira un calcio di rigore sulla traversa non lo fa certo per distrazione… e magari quel rigore può costarti la Coppa del Mondo. Gli errori ci saranno sempre e comunque, al di là della noia o della ione con cui si svolge un incarico.» «Hai sempre la risposta pronta tu», constatò Yelena con un sorriso, «mi sa che le donne della tua vita hanno avuto sempre un bel da fare per tenerti testa.» «Le donne della mia vita - a parte mia madre - mi hanno sempre abbandonato perché non c’ero mai quando mi cercavano, sempre in giro per il mondo, un po’ per lavoro e un po’ per scelta… quindi non avevamo mai il tempo materiale di discutere.» Rise sonoramente e la risposta divertì anche lei. «Tu invece? Ogni principessa dovrebbe avere un bel principe azzurro al suo fianco.» «Credo che mio padre dovrà essere un ottimo re del suo impero ancora per un bel po’, poi si vedrà. Involontariamente, con la tua battuta hai colto nel segno: mi sono sempre sentita trattata più come una principessa con una ricca dote cui ambire che una donna con le sue debolezze e manie da rispettare, con i suoi
sogni e le sue aspettative. Voi uomini ambite ai soldi più di tante donne, il fatto è che non ve ne rendete conto.» «È banale dirlo, ma credo che ogni essere umano, sia esso maschio o femmina, ambisca più ai soldi che a tutti gli altri aspetti della vita. La ricchezza è una cosa così meschinamente umana che non consente distinzione di genere… forse è per questo che amo gli animali!» «Ma dopo questa missione cambierai veramente vita?» Chiese lei ritornando seria. «La volontà è questa, ma anche un mese fa avevo deciso di dare un taglio a questo genere di cose. E invece, eccomi qui: a parlare nuovamente di animali rari, di fucili, di notti all’addiaccio e tutto il resto.» «Ma è stato davvero solo il tuo amore per gli animali a spingerti a questa conclusione o c’è dell’altro?» «Vuoi dirmi che non lo sai? Siete riusciti ad entrare addirittura in possesso di una copia della mia ridicola tesi e ora vorresti farmi credere che non conoscete il fatto abbastanza eclatante che mi è capitato un mese fa?» «Si che lo so! Abbiamo seguito la storia del Kalahari, e sappiamo che ne uscirai pulito: è stata una fatalità. Ma sono convinta che tu voglia cambiare vita anche per qualche altra ragione che non vuoi rivelare.» «Ma sei una biologa o una psicologa?» Ironizzo Aldo facendola sorridere. Poi tornò serio: «Quell’evento mi ha fatto capire che tante volte abbiamo il destino delle altre persone sulle nostre spalle e non ce ne rendiamo conto. Durante i safari che conducevo mi preoccupavo affinché qualche turista imbecille non mettesse la testa nella bocca di un leone, o che qualche ippopotamo non ci inseguisse perché disturbato dai flash delle macchine fotografiche o, ancora, che qualche bracconiere non ci sparasse addosso. Mi preoccupavo delle mancanze che i turisti avrebbero potuto avere in un mondo a loro ignoto, non delle mie mancanze. Mai avrei messo in preventivo che i turisti che io guidavo, le persone che si erano fidate di me e avevano lasciato nelle mie mani il loro destino, avessero potuto perdere la vita per colpa mia, per un mio stupido errore al volante. Questa consapevolezza mi distrugge! Chiamala codardia, chiamala come vuoi, ma il motivo è questo, non c’è altro.» Provò a fare un sorriso dopo quelle frasi malinconiche: «Voglio lavorare dietro ad una scrivania in uno
schifosissimo ufficio di Roma!» «erà, Aldo, vedrai che con il tempo questa sensazione erà. Hai trascorso tutta la tua vita in giro per il mondo, non ti disabituerai facilmente a questa routine.» Dopo queste sincere confessioni reciproche, decisero tacitamente di proseguire la serata affrontando discorsi più soft. Avrebbero avuto tempo e luogo di sondarsi rispettivamente nel profondo delle loro anime nelle foreste del Bhutan. Ora, lì, a Mosca, sulla riva della Moskova, era decisamente il caso di are il tempo in maniera più frivola. Dopo il dolce, lasciarono il ristorante, non prima che Yelena pagasse un conto esorbitante con la carta di credito. Poi proseguirono la serata in un elegante pub poco distante, davanti ad un buon bicchiere di vodka, parlando di musica e di calcio. Poco prima di mezzanotte, Yelena riaccompagnò Aldo in albergo. Non appena fermò la macchina, lei gli diede un bacio sulla guancia e lui capì che per quella sera non avrebbe dovuto chiedere altro. Scese dalla Jaguar ed entrò fischiettando in albergo. Si sentiva felice e leggero. Una sensazione che, da tempo ormai, credeva non avrebbe più provato.
Mosca, Russia, 28 maggio, ore 17.00
Dopo che in mattinata, dal Camerun, era arrivato Paul ‘Nkonu, nel pomeriggio, dall’Australia, era finalmente atterrato a Mosca anche Jimy Miller: la squadra era al completo. I due, quando Mattia li aveva contattati qualche giorno prima con il permesso di Nicolai Dimitrov, onde evitare il rischio di essere intercettati telefonicamente, non erano stati informati su quale animale sarebbe stata la loro preda. Era stato detto loro soltanto che si trattava di un animale di grossa taglia e che la paga sarebbe stata incredibilmente alta. Generalmente, ai due sarebbe bastato solo il secondo chiarimento per fargli accettare il lavoro ma, quando a Mosca seppero qual era l’animale che avrebbero dovuto cercare, per un lungo attimo si sentirono presi in giro, reagendo in maniera del tutto simile a come aveva fatto Aldo pochi giorni prima. Soltanto la visione del filmato che immortalava lo yeti, prima li shockò, poi li calmò e, infine, li convinse. Per i fratelli Mirri lavorare con ‘Nkonu e Miller era un piacere sia dal punto di vista umano sia da quello professionale. I due avevano caratteri molto simili, molto inclini allo scherzo e alle lunghe chiacchierate su qualsiasi discorso in grado di far are le interminabili ore di attesa prima che la preda incrociasse il loro cammino. Nel lavoro erano professionali e preparati, con una mira eccellente e una padronanza nell’uso dei fucili - sia da caccia, sia sparasiringhe impareggiabile. ‘Nkonu, qualche tempo prima, in Congo-Kinshasa, in meno di dieci secondi, riuscì prima ad anestetizzare un raro esemplare di okapi con lo sparasiringhe e poi, cambiando fucile, ad abbattere una iena che si era scagliata addosso al povero animale metà zebra e metà giraffa. Miller, da parte sua, poteva vantare la partecipazione a tre olimpiadi in rappresentanza dell’Australia nella specialità della carabina da 50 metri a tre posizioni. Il particolare per cui erano diversi, anzi, diametralmente opposti, era la stazza: mentre ‘Nkonu era alto un metro e novantanove per centotrentacinque chili di muscoli - praticamente come un cucciolo di yeti - Miller era appena un metro e sessanta con una addome prominente che costituiva la maggior parte dei suoi ottanta chili. Come preannunciato da Aldo, i due fecero parecchie resistenze, quando capirono
che avrebbero dovuto usare le armi scelte per loro dalla Dimitrov. Anche in quel caso, Yelena non poteva far parola del fatto che, durante la missione, correvano un considerevole rischio di dover utilizzare armi da guerra come quelle fornite dalla Dimitrov, più che le armi da caccia che costituivano il loro arnese da lavoro, ma riuscì ad utilizzare tutto il suo fascino e la sua pazienza per rassicurarli, promettendo loro che l’indomani mattina, tutti quanti, avrebbero avuto la possibilità di provare le armi in un poligono fuori Mosca. Dopo una cena con tutti i membri della spedizione, oltre che Nicolai Dimitrov e Luskov, terminata intorno alle 22.00, il gruppo andò dormire. L’indomani la sveglia sarebbe suonata presto e dopo un aggio al poligono per prendere dimestichezza con le armi, alle 15.00, la missione avrebbe finalmente preso il volo per Katmandu, scalo obbligatorio per la città di Paro dove i cinque erano attesi per il giorno dopo.
Mosca, Russia, 29 maggio, ore 7.25
Poco prima delle sette e mezza i cinque vennero accompagnati ad un poligono di tiro all’aperto poco fuori Mosca. Ad attenderli trovarono Yerevadze, intento a mettere a punto le ultime regolazioni di precisione delle armi. Appena l’occhio di Jimy Miller cadde sulla strana e sofisticata canna dell’orel, emise un sonoro fischio e diede una gomitata nello stomaco a ‘Nkonu, anche lui rimasto esterrefatto dalla vista di quell’arma così atipica. Yerevadze spiegò velocemente ai due le varie funzionalità del fucile che lo ascoltarono come bambini per la prima volta davanti al cospetto di una console da gioco cui si stava illustrando il funzionamento. Terminate le delucidazioni tecniche, l’ex militare porse a ‘Nkonu il fucile. Il gigante camerunese impostò il fucile su “fuoco manuale” e mirò ad un bersaglio ad una ventina di metri di distanza. Appena fece fuoco, del bersaglio non rimase praticamente nulla, completamente distrutto dal proiettile .577 tyrannosaur. «È incredibile», disse ‘Nkonu, «nonostante il proiettile abbia un calibro mostruoso, il rinculo dell’arma non è dissimile da quello di un normale fucile da cuccia.» «Questo è possibile grazie ad un complesso sistema di micro-ammortizzatori interni e al meccanismo di recupero dell’energia cinetica che, oltre a stabilizzare il fucile durante lo sparo, permette di ricaricare la batteria del computer all’interno dello stesso. Con questo fucile si entra direttamente nella fantascienza.» Allungò una mano verso il fucile e spostò il cursore su “fuoco automatico”. «Prova ora.» disse al camerunese. Questi esplose una raffica contro un grosso bersaglio in legno e paglia a circa quaranta metri di distanza e l’effetto distruttivo fu simile a quello del precedente tiro. «Questa arma ha un solo difetto», disse Yerevadze estraendo il caricatore posto
sotto la canna, «dato il calibro dei proiettili un caricatore può contenere solo venti colpi. Quindi ha l’autonomia di tiro utile ad una sola raffica.» Per circa una mezz’ora, i quattro, sotto lo sguardo compiaciuto di Yerevadze e Mattia, si dilettarono a distruggere bersagli con il micidiale fucile e presero confidenza anche con il mirino laser, aggeggio che Aldo non aveva mai utilizzato. Anche Yelena dava dimostrazione di essere un’ottima tiratrice, malgrado soffrisse leggermente di più il rinculo dell’arma rispetto ai suoi compagni maschi. «Ora vi spiegherò come funzionano i lanciarazzi.» Disse Yerevadze. Mostrò loro come si inserissero nelle cannule adiacenti alla canna principale i piccoli razzi delle dimensioni di un proiettile per pistola di medio calibro. Da una console davanti a lui premette un tasto di invio e da un punto all’orizzonte, a circa cinquecento metri di distanza, un puntino si levò in volo. «Vedete quell’oggetto?» disse indicando il puntino. «Quello è un drone che ci sta venendo incontro.» Tenendo dritta l’arma davanti a se armeggiò con il piccolo display posto sulla canna e fece cenno agli altri di avvicinarsi, mentre, sullo schermo, un piccolo rombo aveva delimitato la sagoma dell’oggetto in volo. «Come potete vedere, il bersaglio è acquisito. Ora basta toccare lo schermo touchscreen in corrispondenza del rombo che circoscrive l’oggetto e dare l’ok con il grilletto.» Non appena toccò il grilletto, un piccolo razzo partì in direzione del drone. Dopo una serie di piroette nel cielo, il razzo proseguì la sua corsa diritto verso il bersaglio che esplose all’impatto. Miller e ‘Nkonu osservarono la scena con meraviglia e vollero immediatamente provare l’arma distruggendo con facilità due droni a testa. Dopo aver lasciato anche ad Aldo e Yelena la possibilità di provare il lanciarazzi, Yerevadze fece loro provare le ottime pistole Desert Eagle e i fucili sparasiringhe Dist-Inject model 70, avvertendoli di evitare in ogni modo il contatto con l’Immobilon contenuto nelle fiale poiché, per un essere umano, anche una minuscola quantità del potentissimo sedativo, sarebbe potuta risultare fatale.
Si ò quindi a prendere confidenza con il resto dell’equipaggiamento: i telefoni satellitari, un piccolo computer portatile, dotato anch’esso di una connessione satellitare dal quale avrebbero potuto visionare le foto scattate dal drone in volo nell’area sopra di loro, l’abbigliamento tattico idrorepellente, le razioni alimentari e il tubo spara-rete con il quale si divertirono a “catturare” delle balle di fieno. A mezzogiorno in punto, un pulmino della Dimitrov con a bordo Nicolai e Luskov, ò a prendere il gruppo e lo accompagnò all’aeroporto Sheremetyevo, distante appena un quarto d’ora. Presso un ristorante dell’aeroporto ebbero l’opportunità di fare un pranzo abbondante, dopodichè si diressero al terminal dei voli privati dove, sulla pista, li attendeva un Lockheed Hercules C-130 con, sulla fiancata, i soliti loghi della Dimitrov Oil. Yelena si piazzò davanti ai compagni di avventura e disse: «Come vi è già stato spiegato, questa missione è segretissima. A conoscere i piani di azione siamo solo noi qui presenti, pochi rappresentanti del governo russo e ancora meno esponenti di quello bhutanese. Le autorità bhutanesi daranno il loro appoggio diretto alla missione solo in caso di estremo pericolo, per il rifornimento di viveri e nel momento in cui dovremo procedere al recupero dell’animale. In quel caso, un nostro elicottero bielica partirà da Imphál, in India, non lontano dal confine con il Bhutan, dove ha sede la nostra industria farmaceutica e ci preleverà, insieme all’animale, nel punto della cattura.» Dopo una breve pausa in cui guardò tutti negli occhi a sottolineare che il capo della missione era lei, riprese: «Come vi è già stato riferito, la missione dovrà svolgersi nella massima segretezza, per evitare ai media e ad eventuali concorrenti di puntare i riflettori su di noi. Quindi, per non dare nell’occhio, voleremo fino a Kathmandu, in Nepal, a bordo dell’Hercules, da dove raggiungeremo Paro nell’unico modo ufficialmente possibile, con un volo della compagnia di bandiera del Bhutan.» il suo volto era serio e professionale come Aldo aveva ormai iniziato a conoscere bene. «Da questo momento in poi le nostre comunicazioni personali con il mondo esterno dovranno ritenersi sospese fino al raggiungimento dell’obiettivo della missione. Vi invito a chiudere i cellulari e consegnarli a Luskov che ve li restituirà non appena saremo di ritorno a Mosca. Giunti a Paro, i nostri unici collegamenti con il resto del mondo saranno Mattia e i due telefoni satellitari che porteremo con noi.» Dopo il breve discorso di Yelena, Nicolai Dimitrov prese la parola per salutare il gruppo.
«State per affrontare una delle avventure più grandiose che un gruppo di esseri umani abbia mai intrapreso. Ritengo che catturare un esemplare di yeti e mostrarlo all’umanità intera sia un’impresa di importanza pari a quella compiuta decenni fa per portare l’uomo sulla Luna.» Sul suo viso si delinearono chiari i segni della commozione. «Se la missione avrà esito positivo, ve ne sarò infinitamente grato... non immaginate quanto.» Diede un bacio sulla guancia della figlia mentre, finalmente, una lacrima gli scese fino al collo. Avrebbe reso omaggio alla sua adorata moglie, ne era certo, il suo sogno sarebbe stato realizzato, questa missione non avrebbe fallito. Dimitrov strinse la mano ai fratelli Mirri e ai loro collaboratori. Poi, mentre anche Luskov salutava a sua volta la compagnia, Nicolai si soffermò un attimo a guardare negli occhi Aldo e avvicinandosi al suo orecchio gli disse con voce così bassa che nessun altro potè ascoltare: «Portami lo yeti, ma, soprattutto, riportami a casa Yelena.» Aldo annuì in silenzio. Si voltò e, seguito dagli altri, raggiunse l’aereo in attesa.
SECONDA PARTE
In volo sui cieli tra il Kazakistan e la Cina, 29 maggio, ore 20.10
Dopo uno scalo tecnico ad Astana, in Kazakistan, per rifornire l’Hercules e un successivo stop sulla pista a causa del maltempo che imperversava nella zona, l’aereo sorvolava placido i massicci montuosi dell’Asia centrale con un leggero ritardo sulla tabella di marcia. Aldo e Yelena erano seduti di fianco, sugli scomodi sedili del rumoroso quadrielica. Mentre gli altri sonnecchiavano, i due parlavano della loro vita, delle loro aspirazioni per il futuro e iniziarono a fare qualche battuta su come avrebbe potuto essere la loro vita insieme, anche se quel concetto restava vago, inespresso, solo un’ipotesi presa ad esempio, nonostante ormai era evidente a tutti che un fuoco fosse nato tra loro. Aldo continuava a ripetere a sé stesso che era solo uno zoologo vagabondo, senza una strada da seguire, con troppe paure da affrontare per poter permettere che un’altra persona potesse imboccare il cammino al suo fianco con il rischio di perdersi inesorabilmente. Yelena, dal canto suo, viveva radicata nella convinzione, già espressa ad Aldo, che gli uomini si avvicinassero a lei essenzialmente per il suo patrimonio. Era una strana situazione di stallo: Aldo non si fidava più di sé stesso, Yelena non si fidava più degli altri. L’infinito scontro tra l’individuo con le sue crisi, e la società con i suoi pregiudizi, aveva creato nei primi momenti del loro rapporto una barriera. Ma una crepa iniziava ad intravedersi in quel muro. Uno spiraglio si stava facendo rapidamente largo nel loro rapporto. Si conoscevano da meno di una settimana e già le loro paure erano diventate più vivibili, più sopportabili al fianco dell’altro. Aldo iniziava a vedere in Yelena - grazie al suo carattere forte e a tratti autoritario - una guida. Lei, invece, aveva trovato in Aldo una persona pragmatica e alla mano, che non celava le sue paure interiori e le sue debolezze, ma che - come aveva dimostrato controbattendo lei e suo padre - non aveva certo timore degli altri. Forse era proprio il fatto che fosse stato in grado di opporsi a suo padre - Nicolai Dimitrov, una persona che, seppur dotata di un carattere
affabile e pacifico, era pur sempre una delle figure più potenti e temute di Russia - ad averla conquistata. Di certo, quando erano vicini, entrambi percepivano un qualcosa che gli suggeriva che le loro paure sarebbero state più facilmente affrontabili, che i loro mondi interiori ed esteriori non erano poi così aspri e inospitali. «Che nome daremo allo yeti?» le chiese Aldo con un largo sorriso. Lei lo guardò e si perse in una delle sue sonore ma graziose risate. «Ma che domanda è? Non lo so. Dovremo chiederlo a mio padre. È lui il capo.» «Beh, se lui è il capo, perché non lo chiamiamo Nicolai?» Rise ancora più forte. «No, non è un nome adatto ad uno scimmione. Chiamiamolo Mattia.» Risero entrambi facendo svegliare ‘Nkonu seduto dietro di loro. «Beh, lui è uno scimmione in effetti, ma credo che le mie nipotine non saranno d’accordo, per non parlare di mia cognata.» «Allora facciamo così: se troviamo un maschio lo chiamiamo Aldo, se troviamo una femmina la chiamiamo Yelena.» Propose lei divertita. «E se insieme a loro troviamo anche un cucciolo?» «No,» rispose lei stando al gioco, «non lo chiameremo come nostro figlio.» «Ma non abbiamo figli.» «Ma potremo averli un giorno.» Si avvicinò e dopo averlo guardato intensamente negli occhi per un lungo momento gli diede, finalmente, un tenero bacio sulle labbra.
Tashkent, Uzbekistan, 29 maggio ore 20.30
Tigre stava leggendo l’email inviatagli dal suo contatto nella Dimitrov. Da quanto gli era stato appena comunicato, sembrava che in Bhutan non si fossero ancora arresi e un’altra squadra sarebbe presto arrivata sull’Himalaya alla ricerca dello yeti. Non ebbe il tempo di pensare al da farsi che il suo telefono con sistema antiintercettazione squillò: «Tigre, sono Giaguaro.» «Ciao Giaguaro, novità?» «Si. Qui in Scozia stanno smobilitando.» Rispose la voce dal forte accento caucasico. «Hanno perlustrato il lago palmo a palmo e non hanno trovato nulla a parte qualche grosso tronco e rifiuti vari. Credo che già domani qui non resterà nessuno. Annulliamo la missione o procediamo ugualmente?» «È inutile procedere all’eliminazione della squadra se non potranno trovare niente. Ne otterremmo solo il fatto di attirare l’attenzione su di noi. Restate nell’area fino a quando non se ne saranno andati. Dopodichè, raggiungeteci a Kathmandu. È sull’Himalaya che ci sarà lo scontro decisivo.» Riattaccò la chiamata con Giaguaro e immediatamente compose il numero di Elefante. Al terzo scatto il suo capo missione in Guinea Equatoriale rispose: «Elefante, qui Tigre, hai novità?» La ragazza ripose: «Credo abbiano individuato qualcosa nella giungla. È da ieri che traspare un certo ottimismo dalle chiamate che abbiamo intercettato. Ma potrebbe trattarsi di qualunque cosa.» «Bene», disse Tigre, «non appena avrete la certezza che hanno trovato ciò che cercano procedete all’eliminazione della missione.» «Agli ordini, Tigre.» E riagganciò.
Paro, Bhutan, 30 maggio ore 10.10
Dopo il cambio di aereo effettuato a Kathmandu, nella prima mattinata, l’interminabile viaggio da Mosca al Bhutan era finalmente terminato. Non appena entrati nel piccolo ma caratteristico e accogliente aeroporto di Paro, Yelena notò i due uomini sui trent’anni dai caratteristici tratti somatici bhutanesi insieme ad un’altra persona più alta, inconfondibilmente di origine russa. Il più alto dei bhutanesi portava un cartello con scritto a pennarello nero il nome “Alina”. «Alina è il tuo secondo nome?» Chiese Aldo a Yelena non appena notò che si stava dirigendo verso i tre. «È un nome in codice, sciocchino.» Lo canzonò lei. «Dato che questa è una missione dal profilo basso, mica potevo dir loro di scrivere sul cartello: “Yelena Dimitrova, figlia di Nicolai Dimitrov, della compagnia Dimitrov Exotics.”» Aldo fece spallucce alla battuta di Yelena e il gruppo si diresse verso i loro collaboratori. I tre si presentarono ad iniziare dal russo: «Maggiore Maxim Nurev.» Disse il biondo militare poco più che ventenne. Yelena e gli altri erano già stati informati da Nicolai che avrebbero incontrato Nurev, ufficiale dell’aviazione e pilota di droni militari, “prestato” alla Dimitrov dall’esercito grazie ai contatti di Nicolai all’interno del Ministero della Difesa. «Cholag.» Disse il più alto dei bhutanesi, quello con il cartello in mano. «Maradona.» Disse il più basso dei due con una pallina di tennis in mano. «Maradona?» Esclamò Aldo, stupito di sentire il nome del famosissimo calciatore del Napoli e della nazionale Argentina in Bhutan: «Che diavolo ci fa Maradona in Bhutan?» «Il mio vero nome è Wang.» Rispose sorridendo l’uomo: «Ma mi chiamano Maradona perché ero bravo a giocare a calcio, forse il più bravo di tutto il
Bhutan. Da ragazzo ho fatto un provino per l’Arsenal, in Inghilterra.» Disse con aria compiaciuta. «Purtroppo, a causa della mia bassa statura non mi hanno preso.» «Ha giocato anche nella nazionale del Bhutan.» Intervenne Cholag. «Ora però a il tempo a dare calci in continuazione a quella stupida pallina di tennis.» «È per mantenermi allenato.» Rispose Maradona. «Chissà che tra qualche anno non ti soprannominino Federer.» Disse Aldo, divertito da quello scambio di battute con i due simpatici ragazzi. I tre fecero strada fuori dall’aeroporto verso un vecchio furgoncino Mitsubishi parcheggiato in seconda fila, nonostante nel parcheggio ci fossero decine di posti liberi. Durante il breve tragitto a piedi, Yelena e Nurev ebbero una fitta conversazione in russo durante la quale lui le o una busta da lettera dalla quale la ragazza estrasse delle foto. Sembrava agitata. Entrati nel furgoncino, Cholag si mise alla guida e, come al solito, Aldo e Yelena si sedettero vicini. Con la scusa di schioccarle un bacio sulla guancia, lui le chiese sottovoce: «Cosa ti ha detto Nurev? Ti ho visto preoccupata mentre parlavate.» Lei restò algida: «Il meteo volge al peggio. Arrivano le prime avvisaglie dei monsoni con troppo anticipo sulla stagione.» Aldo scrutò il cielo dal finestrino e notò che, effettivamente, il cielo si stava rannuvolando, ma, guardando nuovamente in quegli occhi che aveva iniziato a conoscere bene, capì che il meteo era solo una scusa, c’era sicuramente dell’altro in ciò che il militare le aveva comunicato. Aldo decise che per il momento era meglio non pressarla. Avevano viaggiato per quasi un giorno, erano tutti stanchi, meglio riprendere quella discussione in un secondo momento. Dopo un quarto d’ora di viaggio, attraverso una strada moderatamente trafficata da veicoli di ogni specie che scorreva tra due ali di caratteristiche e ordinate abitazioni nel tipico variopinto stile architettonico bhutanese, il pulmino si fermò davanti ad uno dei pochi edifici di foggia occidentale della città, un hotel che sull’insegna riportava quattro stelle. La città, nel complesso, dava l’impressione di essere molto più ordinata, vivibile e tranquilla di come uno sprovveduto
viaggiatore occidentale avrebbe potuto immaginare. «Come tutti i turisti che si rispettino, erete la notte in albergo.» Disse Nurev con fare sicuro. «L’appartamento in cui ho installato l’apparecchiatura elettronica per la guida del drone e per le comunicazioni si trova in un anonimo edificio poco distante da qui, alla periferia di Paro. Da lì potrò far alzare in volo il drone inosservato grazie alla presenza di un boschetto nelle vicinanze nel quale ho ricavato un piccolo spiazzo dove poter fare decollare e atterrare il veicolo.» I cinque scaricarono i loro pesanti zaini dal furgone, all’interno dei quali, tra sacchi a pelo, tende ed equipaggiamento vario, erano ben nascoste le armi. «Vi conviene riposare», disse Nurev, «domani vi attenderà una faticosissima camminata di almeno tre ore fino al Taktsang.» Sul viso di tutti si leggeva chiara la necessità di dormire, ma Mattia disse a Nurev: «Io non dovrò salire con loro domani. Resterò in città con te e mi occuperò delle comunicazioni e degli altri aspetti organizzativi.» Il russo annuì. «Portami nell’appartamento che hai adibito a sala comandi così potrò prendere confidenza con le attrezzature.» Così, mentre Nurev accompagnò Mattia nell’improvvisata sala comandi, le due guide salutarono il gruppo dando loro appuntamento per il giorno dopo. Aldo, Yelena, Paul e Jimy fecero un’abbondante ma rapida colazione e presero posto nelle loro camere dove si addormentarono all’istante.
Paro, Bhutan, 30 maggio ore 19.20
Dopo essersi svegliati e rilassati sotto una doccia calda, i quattro si ritrovarono nell’accogliente hall dell’hotel dove attesero che anche Mattia li raggiungesse, dato che stava ancora dormendo, essendo rientrato in albergo solo poche ore prima dalla sala comandi. Paul e Jimi arono il tempo giocando a poker, mentre Aldo e Yelena approfittarono di quegli ultimi, pochi, momenti di relax per una piacevole eggiata nelle vie limitrofe all’albergo, gustando l’aria frizzante e pulita della cittadina ai piedi dell’Himalaya nelle ultime ore di luce del giorno. Quando stavano quasi per tornare in hotel Aldo le disse: «Yelena, quando in aeroporto hai parlato con Nurev, ho notato che ti ha ato una busta.» La guardò negli occhi per scrutarne lo stato d’animo. «Sicura che sia tutto ok? Ti ho vista incupita dopo quella discussione.» «Aldo», rispose lei prendendogli il viso tra le mani, «questa è una missione segreta e devi accettare che, per il bene della spedizione, ci debba essere qualcosa di segreto anche per te.» Lo baciò sulla fronte non appena notò la sua espressione contrita. «Non è per mancanza di fiducia, credimi, ma certe cose, se è proprio necessario che io debba rivelarle, è meglio che tu e gli altri le sappiate a tempo debito.» «Questa cosa non mi piace Yelena. Se mi nascondi qualcosa vuol dire che stiamo correndo qualche pericolo, non è vero?» «A tempo debito Aldo. Se dovrai sapere, saprai.» «Perché invece di fare così non mi dici cosa potrebbe succedere, in modo tale da poter trovare una soluzione insieme?» «Aldo, io prendo ordini da mio padre, e tra questi ordini c’è quello di mantenere il massimo riservo su alcune…» fece una pausa per cercare il termine migliore, poi concluse: «circostanze secondarie.» «Circostanze secondarie dici? Beh, se in queste circostanze è contemplato il fatto
che io, tu e gli altri potremmo dover affrontare dei pericoli che tu e tuo padre conoscete già, secondo me, più che di circostanze secondarie, direi che si debba parlare di “negligenze primarie”. Ma cosa pensi? Credi che non mi sia insospettito dal fatto che ci stiamo portando dietro un arsenale ipertecnologico? Pensi che io, Paul e Jimy, dopo tutti questi anni ati a setacciare i posti più selvaggi del mondo non sapremmo come comportarci se dovessimo pestare i piedi a qualche bracconiere? No, cara Yelena, noi dei bracconieri e di tutti i pericoli che gravitano intorno a questo mestiere, sentiamo la puzza lontano un miglio, e per nessuno di questi ipotetici problemi la soluzione è un arsenale degno di Rambo, e tu lo sai bene.» Nonostante il forte senso di rabbia che sentiva covargli dentro, cercò di recuperare il controllo, si fermò e l’abbracciò: «Il mio carattere e il mio istinto mi suggeriscono di prendere il primo aereo per andarmene dal Bhutan, ma per me sei diventata troppo importante perché possa lasciarti in balia di una missione così rischiosa già di per sé, senza calcolare le difficoltà connesse al rischio che mi nascondi. Ma spero solo che tu e tuo padre abbiate ragione, che si tratti solo di “circostanze secondarie”. Ricorda che Mattia, Paul e Jimy hanno figli che li aspettano a casa. Ed io ho te…» Troncò così la frase, lasciando che fosse lei a riempire di contenuti il suo silenzio. Sciolse il suo abbraccio ed entrò in albergo, lasciandola da sola in strada, a riflettere.
Dopo qualche istante ato a contemplare la maestosità delle alte vette himalayane tutto intorno alla città, Yelena, incupita, prese il telefono satellitare e chiamò il padre. «Yelena, tesoro, siete arrivati?» Rispose Nicolai. «Si, papà, siamo in albergo. Domani mattina cominceremo la ricerca. Che novità ci sono dalle altre missioni?» «In Scozia stanno smobilitando. Di Nessie non c’è traccia. Ma questo, in fondo, lo sapevamo. Dalla Guinea Equatoriale, invece, arrivano notizie incoraggianti. Aspetto novità importanti nelle prossime ore.» «Ho visto le nuove foto scattate ieri dal drone. Me le ha date Nurev. Credi che siano ancora qui?» Chiese lei con un filo di voce. «Ma no, ma no! Credo che se ne siano andati. Cosa dovrebbero fare ancora in
Bhutan? Le persone ritratte nelle ultime foto sono solo due, l’altro commando era composto da quattro persone e poi la foto è stata ripresa in un punto particolarmente battuto dai bracconieri, può darsi che si tratti di questi. Non sanno che voi siete lì, stai tranquilla. » «Non avrebbero dovuto sapere neanche della precedente missione in Bhutan, papà, né di quella in Guatemala… » «Questa volta non può esserci stata nessuna fuga di notizie, Yelena, stai tranquilla. Abbiamo organizzato tutto noi due. Oltre a noi solo Luskov e Yerevadze sono al corrente dei particolari della vostra spedizione.» «Gia, Luskov… » esclamò scettica Yelena. «Yelena, te l’ho già detto mille volte, per me è come un fratello, non mi tradirebbe mai. Non voglio ripetertelo più.» Disse Nicolai con tono duro. «Papà, il tuo rapporto con Luskov sarà fraterno finché lo continuerai a pagare lautamente. Stai tranquillo che appena riceverà un’offerta migliore lascerà la Dimitrov e si farà beffe di te.» «Sono trenta anni che lavora per me, perché dovrebbe andarsene ora? Non capisco questa tu avversione nei suoi confronti. Non me ne hai mai spiegato i motivi.» «Chiamalo pure istinto femminile, papà. Ora devo lasciarti. Gli altri mi aspettano dentro. Ci sentiamo domani.» «Stai calma e concentrati sulla missione Yelena, andrà tutto bene. Ciao.» Richiuse il telefono ed entrò nell’hotel. Per un attimo, durante la chiamata, in preda allo stress, aveva temuto che avrebbe confessato al padre perché non si fidava di Luskov, ma riuscì a trattenersi. Erano mesi che pregava affinché il momento di rivelargli quella verità così scomoda non arrivasse mai.
Nel ristorante dell’albergo trovò Aldo, Paul e Jimy che ascoltavano Mattia alle prese con la descrizione delle apparecchiature che Nurev gli aveva mostrato.
«Vi potremo seguire in ogni momento grazie al drone.» Stava dicendo. «Può volare fino a duemila metri dal suolo, un’altezza per cui è praticamente impossibile vederlo da terra. In oltre, grazie alle telecamere termiche potremo vedere dove siete anche di notte.» «C’è solo un problema», intervenne Yelena che si era appena seduta al posto vuoto alla destra di Aldo, «il drone ha difficoltà a volare con la pioggia e il forte vento e per i prossimi giorni le previsioni meteo non sono rassicuranti.» «È vero.» Rispose Mattia, «Nurev me lo ha detto. In tal caso resteremo in contato continuo tramite i telefoni satellitari. Decidiamo già da ora con che frequenza ci sentiremo.» «Una frequenza molto bassa, Mattia.» Disse Yelena. «Ricordate che la segretezza è la priorità assoluta di questa missione, quindi dobbiamo cercare di ridurre al minimo anche le possibilità di essere intercettati telefonicamente.» «Ma chi dovrebbe essere interessato a noi?» Chiese Jimy. Yelena diede un fugace sguardo al volto tirato di Aldo e rispose: «Bracconieri, oppure la concorrenza di qualche altro zoo…» Notò lo sguardo scettico degli uomini della compagnia, ma continuò ostentando sicurezza, «Insomma, il mondo è pieno di malintenzionati - lo sappiamo tutti - meglio non prestare il fianco.» Poi si rivolse a Mattia: «Domani, salvo emergenze, ci sentiremo solo non appena saremo arrivati al Taktsang. Nei giorni seguenti ci aggiorneremo ogni quattro ore, salvo, imprevisti.» Si rese conto che le sue spiegazioni riguardo l’eccessiva prudenza con cui era stata preparata la missione non avevano convinto nessuno. Gli esperti cacciatori, o per professionalità oppure per l’estremo rispetto che portavano ai fratelli Mirri che li avevano coinvolti nella ben remunerata missione, si astennero dal sollevare questioni e chiedere ulteriori chiarimenti, forse anche perché abituati all’imprevedibilità che la caccia ad una animale raro - in quel caso addirittura una criptide - è solita riservare. La serata continuò serenamente, con un’abbondante cena a base di pietanze tipiche del luogo, accompagnata dai coinvolgenti racconti delle più estreme avventure ate in ogni angolo del mondo dai quattro. Anche Aldo sembrò rilassarsi rispetto a qualche ora prima, quando aveva avuto
il battibecco con Yelena, mentre Paul e Jimy diedero libero sfogo al loro carattere allegro e cameratesco. Poco prima delle 23.00, la compagnia, di comune accordo, decise che era ormai arrivata l’ora di andare a dormire. L’indomani la sveglia era fissata per le 8.00 e avevano bisogno di riposare il più possibile in quell’ultima notte in un vero letto prima dell’ascesa verso le zone più inesplorate del versante bhutanese del massiccio dell’Himalaya. Tutti raggiunsero le loro camere al piano di sopra scambiandosi la buonanotte. Aldo però restò ben poco tempo nella sua stanza, decidendo che quella notte avrebbe preferito arla tra le braccia di Yelena. Lei, a sua volta, non appena Aldo bussò ed entrò nella sua stanza, concordò sul fatto che lui avesse avuto proprio un’ottima idea.
Wele-Nzas, Guinea Equatoriale, 31 maggio ore 11.00
Nella fitta foresta della regione del Wele-Nzas, al confine con il Gabon, poco a sud del fiume Mbini, tra i villaggi di Mongorno e Nsoc, la missione aveva finalmente trovato le tracce che cercava. Una serie di enormi impronte fresche, ben visibili grazie alle fitte piogge del giorno precedente, non riconducibili a nessun tipo di pachiderma o altro animale conosciuto nella zona, risalivano il crinale di una collina. «Pronti con i fucili sparasiringhe», disse ai suoi collaboratori il capo spedizione Alan Murray, «ormai ci siamo. Deve essere sull’altro versante della collina. Queste orme hanno al massimo qualche ora di vita.» I quattro inglesi e le due guide locali risalirono spediti la collina, con le menti ormai impegnate a pensare a come avrebbero speso il faraonico compenso che gli avrebbe liquidato la Dimitrov Exotic: «Restate concentrati!» Urlò Murray quando sentì Bradford e Almonth discutere allegramente di quale automobile avrebbero acquistato con la loro parte di soldi. «Fino a quando non avremo impacchettato l’animale - qualunque cosa esso sia - in un container alla volta della Russia, non voglio sentir parlare di altre cose che non siano collegate al buon esito della missione. Ok?» Li guardò con viso minaccioso. Poi fece cenno di proseguire. Giunti quasi alla sommità della collina, la vegetazione era quasi completamente dominata da alberi alti anche più di trenta metri. Notarono che lungo la traiettoria della pista, i più sottili e giovani di questi erano stati quasi divelti, mentre quelli più grossi avevano la corteccia ammaccata e i rami spezzati fino a quasi tre metri di altezza. «Deve essere un animale enorme.» Esclamò Murray. Gli altri si fermarono qualche attimo a contemplare la distruzione che il aggio dell’animale aveva arrecato alla vegetazione, mentre le due guide locali si inchinarono al suolo pregando le loro divinità. A quanto sembrava, le leggende locali non avevano mentito. Un animale enorme e sconosciuto abitava realmente in quello sperduto e impenetrabile angolo di foresta al confine tra Guinea Equatoriale e Gabon. Ora serviva l’ultimo sforzo e dopo un mese ato a setacciare quelle terre inospitali, Murray e i suoi uomini avrebbero potuto far ritorno a casa, pieni di
soldi e gloria. Un boato potentissimo, simile ad un barrito di elefante, ma più forte e cupo, squarciò la monotonia dei suoni della foresta. «Presto, è lui.» Disse Murray incitando i suoi a risalire gli ultimi metri che mancavano alla vetta. Giunsero alla sommità della collina e, in basso, a circa trecento metri dalla loro posizione, una sagoma gigantesca che camminava lentamente verso valle, fece capolino tra gli alberi. Sembrava essere uscito direttamente da un libro di dinosauri con la sua mole enorme che poggiava su quattro possenti zampe, il collo taurino ma non molto lungo e l’ampio muso con corte zanne. Osservandolo con il binocolo, Murray si rese conto che, in realtà, si trattava di un mammifero, un incrocio tra un elefante e un ippopotamo, sicuramente uno strano scherzo della natura che aveva creato quella bizzarra razza di pachiderma enorme e sgraziata alta almeno cinque metri. «Armate gli sparasiringhe con l’Immobilon», disse Murray, «Il primo colpo lo tirerò io, poi, se non dovessi colpirlo, sparate uno per volta. Se gli iniettiamo troppo anestetico rischiamo di ucciderlo. Avviciniamoci lentamente sulla destra.» Il gruppo riprese ad avvicinarsi, quando un nuovo suono squarciò la quiete della foresta. Ma questa volta era un suono ben noto all’orecchio umano: lo sparo di un fucile. Udendo quel boato, l’animale, con inaspettata agilità, prese a correre in direzione opposta a quella dei cacciatori, perdendosi rapidamente nella fitta vegetazione. Dopo un momento di sorpresa, gli uomini si voltarono in direzione dello sparo e notarono tre uomini e una donna a poche decine di metri da loro che li osservavano. Ad un cenno della donna, una serie di precisi colpi di fucile sconvolse la natura circostante. Fu così che la ricerca del mostro della foresta tropicale africana, noto con una miriade di nomi e narrato in centinaia di storie in ogni angolo del continente, si interruppe bruscamente e con essa la vita delle sei persone che erano state ad un o dallo sfatare la sua leggenda.
Tashkent, Uzbekistan, 31 maggio ore 12.20
Tigre aveva aspettato con ansia quella chiamata per tutta la mattina e, finalmente, il telefono squillò: «Missione compiuta, Tigre.» «Perfetto Elefante, sapevo di potermi fidare di te.» Tigre era raggiante, ormai restava solo un ostacolo da superare e avrebbe vinto la partita. «Ora che questa missione è compiuta, dobbiamo terminare i giochi. Venite tutti e quattro a Kathmandu, il prima possibile. Un ultimo sforzo ci attende.» «Agli ordini, Tigre.» Rispose Elefante. «Ci vorranno un paio di giorni per arrivare in Nepal dalla Guinea Equatoriale.» «Perfetto. Mi troverete lì.» Subito dopo aver chiuso la conversazione, Tigre prese la bottiglia della migliore vodka che aveva in casa e la tracannò tutta in pochi minuti. Una sbornia era il suo modo di festeggiare i successi e assaporava già il gusto che avrebbe avuto quella che avrebbe dedicato alla definitiva sconfitta di Libellula la traditrice.
Paro, 31 maggio ore 12.30
Avevano da poco percorso metà dell’irta salita fino al Taktsang che cominciò a piovere a dirotto. Yelena faceva l’andatura seguita d’appresso dalle due guide che, alla presenza dei rari bivi sulla pista le indicavano prontamente la via da seguire. Fino a quel punto il programma era chiaro: raggiungere il Taktsang come dei normali turisti e pernottare nel monastero. Proprio per questo, avendo molto tempo a disposizione, partirono alle nove di mattina, e proseguirono con calma, allo stesso o dei rari turisti che incrociavano. Sapevano che la pioggia sarebbe arrivata ma, come spiegò loro Maradona, in quella stagione era pressoché impossibile stabilire quando sarebbe iniziato a piovere, né per quanto a lungo o con quale intensità e che, in una situazione normale, lui, in quanto guida prudente, avrebbe consigliato di affrontare quel viaggio in un altro momento. Maradona e Cholag, d’altronde, sapevano bene che la tempistica della missione non era modificabile e che sarebbero dovuti arrivare al Taktsang entro la sera di quel giorno. Quindi convennero che la cosa migliore da fare sarebbe stata proprio quella di comportarsi come dei normali cocciutissimi turisti occidentali che, nonostante l’avviso delle loro guide a rimandare l’ascesa, avrebbero voluto comunque raggiungere il Taktsang. La pioggia li tempestò subito violentemente con il preavviso di un solo tuono che esplose il suo grido nella sterminata vallata himalayana. Indossarono le cerate e proseguirono lenti e accorti finché le acque piovane non crearono un vero e proprio torrente sul sentiero. Trovarono rifugio in un pertugio nella roccia della montagna a poca distanza dalla strada che poteva contenere appena i sei temerari e i loro zaini in piedi. «Appena l’intensità diminuirà di un poco riprenderemo il cammino, a poca distanza da qui c’è una piccola osteria dove potremo stare all’asciutto per un po’.» Disse Cholag.
«Se mai deciderà di diminuire.» Sbottò Aldo scrutando scettico il cielo. Dopo qualche minuto in cui credettero di trovarsi in mezzo ad un diluvio di proporzioni bibliche, udirono un rumore simile ad un tuono, ma più basso e prolungato. Cholag e Maradona si scambiarono una rapida occhiata colma di preoccupazione. L’ex calciatore, sempre con la pallina di tennis in mano, fece un o fuori dalla nicchia nella roccia che li proteggeva dalla pioggia e guardò in alto. «Tutti fuori.» Urlò con tutto il fiato che aveva in corpo. Cholag saltò subito fuori e gli altri, dopo un attimo di costernazione lo seguirono e iniziarono a correre verso la strada sulla loro destra seguendo le incitazioni dei due bhutanesi che li precedevano. La frana seppellì il pertugio che per qualche minuto era stato il loro riparo, portandosi dietro rocce, alberi e fango. Appena sulla strada, Yelena, Aldo, Jimy e Paul, sentendosi al sicuro rallentarono fino a fermarsi e si voltarono verso il punto dal quale errano arrivati, contemplando la forza della natura che si stava manifestando con la frana a poca distanza da loro. Ma le due guide non si erano fermate e, non appena si resero conto di non essere seguite, gridarono per richiamare l’attenzione dei quattro. Un altro fronte della frana si stava abbattendo sulla strada, proprio in direzione del punto in cui stavano stazionando loro. Aldo fu il primo ad accorgersi delle urla dei due, attutite dal rumore della pioggia, e della frana che gli stava precipitando addosso e strattonò gli altri per far loro riprendere la fuga. Troppo tardi. La frena colpì di striscio la compagnia e vennero tutti travolti da un fiume di fango e rocce che li portò con sé in basso per una ventina di metri, dove l’impeto della slavina cessò in un piccolo pianoro.
Yelena fu la prima a riprendersi dallo shock e si rialzò in cerca degli altri. A poca
distanza, Aldo cercava di liberarsi dal fango, bestemmiando e imprecando in diverse lingue. Recuperò lo zaino e dopo una rapida occhiata intorno scorse, sollevato, la sagoma di Yelena che gli veniva incontro. A una decina di metri sulla loro sinistra, Paul, il gigante camerunese, riemerse pochi secondi dopo, spostando un piccolo albero che gli era caduto sulle gambe. «Come va Paul?» Gli urlò Aldo. «Sono sopravvissuto ad una carica di ippopotamo Aldo, cosa vuoi che mi possa fare un albero sulle gambe accompagnato da qualche secchiata di fango e pietre?» Rispose scherzando Paul, nonostante un evidente taglio sull’arcata sopracciliare destra. «Hai visto Jimy?» Gli chiese Aldo dopo aver constatato con sollievo che tutti e tre, nonostante qualche taglio ed escoriazione, erano in buono stato di salute. «No!» ripose Paul incupendosi. Poi sentirono le due guide bhutanesi urlargli dalla loro posizione più elevata di cercare in un punto ancora più in basso. Volgendo lo sguardo nella direzione indicata dai due, Paul scorse un braccio fuoriuscire dal fango e discese rapidamente la frana fino al punto in cui giaceva il corpo di Jimy. Subito arrivarono anche Yelena e Aldo e aiutarono Paul ‘Nkonu ad estrarre delicatamente l’australiano dal fango. Respirava, ma era svenuto. Paul lo schiaffeggiò vigorosamente sul volto e Miller si risvegliò con una smorfia di sofferenza. Il camerunese se lo caricò sulle spalle e lo portò in alto al bordo della strada in un posto sicuro e moderatamente riparato dalla pioggia grazie ad un’altra lieve sporgenza della roccia. Aldo e Yelena recuperarono gli zaini e li raggiunsero, mentre i due bhutanesi, utilizzando una cerata, improvvisarono una tenda per riparare al meglio il ferito. «Come sta?» chiese Yelena a Paul, posando uno zaino nei pressi del giaciglio. «È cosciente, ma la gamba è andata.» Rispose Paul mostrando la gamba sinistra di Jimy piegata verso l’interno, con un’angolazione terribile.
Yelena aprì il suo zaino e ne estrasse dei medicinali, dai quali scelse un analgesico in pillola che diede all’infortunato versandogli delicatamente un sorso d’acqua in bocca. «Bisogna ricomporre la frattura.» Disse ad Aldo e Paul. «Tenetelo fermo per le spalle.» I due eseguirono l’ordine e lei, con inaspettata maestria, riportò in asse la gamba con un solo movimento accompagnato da un unico, lacerante urlo di Jimy che svenne subito dopo per il dolore. Yelena aveva l’aria di chi aveva compiuto quell’operazione molte volte e con altrettanta maestria approntò un’improvvisata ma efficace steccatura alla gamba del malcapitato australiano. «Non possiamo portarlo con noi.» Le disse Aldo quando, terminate le operazioni di fasciatura, la situazione si era leggermente tranquillizzata. «No», rispose lei cupa. «È ovvio, non può neanche camminare.» Si fermò a riflettere qualche istante percuotendosi leggermente la fronte con il palmo della mano mentre fuori dal piccolo riparo la pioggia imperversava senza dare segnali di cedimento. Poi con fare autoritario disse: «Montiamo una barella con quello che riusciremo a trovare. Dopodichè porteremo Jimy al Taktsang. Lì Cholag resterà con lui e attenderà finché le autorità verranno a recuperarlo.» Cholag annuì. «Ricordati», disse lei rivolgendosi direttamente al bhutanese, «la versione ufficiale sarà che lui è un turista e tu stavi accompagnando verso il Taktsang solo lui e nessun altro. Non fare parola della nostra esistenza con nessuno, né alla polizia né in ospedale, preserva la segretezza della missione. Non appena arriveremo al monastero chiamerò mio padre e Mattia, li avviserò dell’accaduto e da quel momento sarà un loro problema pensare alla salute di Jimy.» Si voltò verso Aldo, Paul e Maradona: «Per quanto riguarda noi altri, continueremo con una sola guida: Maradona.» I tre non ebbero nulla da obiettare, anche perché Yelena diede quegli ordini con un’autorità tale da far capire di non ammettere commenti o suggerimenti. Dopo un’altra ora di diluvio con intensità quasi costante, finalmente la pioggia diminuì fino a cessare completamente, quando ormai si erano fatte le 15.00.
Aldo dalla parte anteriore e Paul da quella posteriore, sollevarono la barella per trasportare Jimy e la comitiva si incamminò vero l’ultimo tratto di salita. Decisero di non fermarsi all’osteria poiché, a causa della frana che aveva bloccato la strada, sarebbe stata affollata di turisti e pellegrini in attesa che le autorità andassero a recuperarli. Una pausa in mezzo a tutta quella gente, con un ferito in barella al seguito, avrebbe dato troppo nell’occhio. Tagliarono quindi per una stradina secondaria con una pendenza ancora più elevata di quella principale per evitare il aggio davanti al locale. Paul non diede alcun segno di sofferenza nell’affrontare la salita nonostante il peso aggiuntivo della barella sulla quale Jimy cercava stoicamente di resistere al dolore. Aldo, invece, meno robusto del colosso africano, per alcuni brevi tratti ottenne il cambio da Cholag e Maradona e, giunti quasi al Taktsang, quando ormai tutti e tre erano stremati, anche Yelena, imibile, diede un paio di volte il suo contributo nel portare la barella. Si erano fatte ormai le 18.00, quando Yelena e gli altri, terminata l’ultima parte di uno stretto sentiero addossato alla montagna, giunsero, finalmente, al Taktsang. Il maestoso monastero chiamato Taktsang, “La Tana della Tigre”, è un edificio di una bellezza unica, nonché luogo di culto per tutti i bhutanesi i quali, per tradizione, sono tenuti a visitarlo almeno una volta nella vita. Situato su quattro livelli sovrapposti poggiati su un costone di roccia a gradoni, seguendone le linee naturali come se fosse nato per mano della natura stessa, si trova a ridosso di uno strapiombo di quasi mille metri che offre un panorama mozzafiato della valle che sovrasta la città di Paro. Con le pareti bianche e il tetto rosso e giallo, il monastero è costruito secondo le linee architettoniche classiche bhutanesi ed al suo interno vive una comunità di monaci buddisti. La compagnia, con il raggiungimento del tempio, aveva terminato la prima tappa della sua ricerca dello yeti. A causa della pioggia e della frana, ormai da molto tempo i sei non avevano incrociato più nessun turista, e anche il piccolo spiazzo antistante il monastero era deserto. Yelena, seguendo le indicazioni avute da suo padre, bussò ad una porticina laterale del monastero dove un anziano monaco sorridente, magro e
completamente pelato, le aprì e fece accomodare i sei viaggiatori. I monaci li accolsero in un locale al pian terreno della struttura dalla quale, attraverso delle ampie finestre, era possibile ammirare in tutta la sua bellezza, il panorama fiabesco che lo strapiombo sottostante, con sullo sfondo il cielo tempestoso pennellato da incredibili colori, regalava agli osservatori. Appena entrati nella sala, i solerti monaci accorsero immediatamente a sincerarsi delle condizioni di Jimy, osservando con rispettosa curiosità e una punta di timore, l’enorme sagoma di Paul: difficilmente nella loro vita potevano aver avuto la possibilità di incontrare una persona di colore, figurarsi una persona di colore con un fisico colossale come quello di Paul. Ora che avevano trovato un po’ di pace e un sicuro riparo dalla pioggia, Aldo e Yelena si dedicarono con più calma alle cure di Jimy. Non che potessero fare molto per lui, a parte somministrargli qualche analgesico che avevano nella cassetta dei medicinali o cambiargli la fasciatura, ma già la vicinanza umana dimostratagli dai compagni, servì a Jimy per riacquistare un po’ di buon umore, nonostante il dolore avrebbe dovuto essere sicuramente atroce. Quando Yelena decise che la steccatura e la relativa fasciatura potevano andare bene, si appartò nel buio corridoio antistante la sala dove erano stati ospitati e telefonò al padre. «Yelena, grazie a Dio! Queste ore di silenzio mi avevano fatto preoccupare.» Disse Nicolai con il sollievo percepibile nel tono di voce. «Siamo arrivati al Taktsang da una mezz’ora, ma ho potuto chiamarti solo ora perché siamo stati investiti da una frana e l’australiano ha riportato la frattura di una gamba.» «Tu come stai?» rispose lui preoccupato. «Io sto benissimo. La frana mi ha appena sfiorato. Ho qualche graffio e nulla di più. Miller però deve essere recuperato, papà. Se resta al monastero, in queste condizioni, ancora per molto, la sua situazione potrebbe rapidamente aggravarsi.» «Tranquilla, chiamerò il mio contatto nel governo bhutanese e al più presto qualcuno verrà a recuperarlo.»
«Lasceremo una delle guide con lui per non fare saltare la copertura. È già stato istruito sul da farsi: dovrà fingere che il suo compito era quello di accompagnare il solo Miller al Taktsang e che, durante il tragitto, sono stati travolti dalla frana.» «Mi sembra una buona idea. Ma con una sola guida ce la farete a portare avanti la missione?» La voce del padre si era fatta più nervosa. «Tranquillo papà, ce la faremo. Aldo e Paul sono degli ottimi cacciatori e hanno già ato di queste situazioni. La guida che resterà con noi mi sembra molto sveglia e, in oltre, se finalmente dovesse smettere di piovere, potremo contare sull’appoggio delle fotografie del drone.» «Le previsioni meteo non sono buone per i prossimi giorni.» «Mi basta che ci sia qualche minuto di schiarita affinché il velivolo possa scattare delle panoramiche della zona, giusto per essere tranquilli che non ci saranno brutte sorprese lungo il cammino.» Dopo un lungo istante di silenzio, Nicolai si decise a darle la cattiva notizia: «I ragazzi in Guinea Equatoriale non ce l’hanno fatta.» «Non hanno trovato la criptide?» chiese Yelena, sperando di aver mal interpretato il tono di voce del padre. «No, hanno trovato la morte.» Rispose lui, secco. «Yelena, ho il terrore di averti messo in un guaio più grosso delle nostre capacità.» Lei lo sentì piangere dall’altra parte del telefono. «Non dire così papà, stai tranquillo, so badare a me stessa e con me c’è gente preparata.» Ripose lei, omettendo che la frana li aveva travolti proprio perché si erano fermati nel posto sbagliato nel momento sbagliato. «Ricorda che quello che stiamo affrontando è fatto in memoria della mamma, non dimenticarlo.» «Abbi cura di te figliola», singhiozzò lui, «ci sentiamo domani.» «Ok, ciao papà» Restò un attimo a contemplare la luce del display del telefono che lentamente stava sfumando fino a spegnersi, recuperò un po’ di autorità e chiamò Mattia e Nurev a Paro. Li aggiornò della situazione, raccontò della frana e disse anche a
loro come comportarsi con Jimy e Cholag una volta recuperati. Dopo aver rassicurato Mattia sulle condizioni di Aldo, volle parlare solo con Nurev che le disse che in nottata ci sarebbe stata la possibilità di una schiarita e che, in tal caso, avrebbe mandato in volo il drone per fargli scattare qualche foto della zona con la telecamera termica che le avrebbe poi inoltrato per email. Terminò anche quella chiamata e per un attimo si fece sopraffare dallo sconforto. Forse non era un buon leader per una missione così complicata. Lei stessa e il padre avrebbero dovuto mandare qualcuno più addestrato. Ma ormai era in gioco e doveva lottare con le unghie e con i denti. Poi arrivò Aldo che le abbracciò le spalle e in un attimo gettò via la maschera da donna sull’orlo di una crisi di nervi e tornò ad indossare quella del capo autoritario… in ogni caso, sempre di una maschera si trattava.
Non appena Jimy si addormentò, Aldo, Yelena, Paul e le guide si accomodarono all’unica tavola della sala e consumarono la frugale cena preparata loro dai monaci. Non che avessero molta fame dopo quella giornata terribile, ma sapevano che una buona alimentazione li avrebbe aiutati per il prosieguo del viaggio. Quando avevano ormai quasi finito di cenare, una voce incredula alle loro spalle, accompagnata dal brusio dei monaci presenti, esclamò in italiano: «Aldo Mirri! Yelena Dimitrova! Sapevo che un giorno, uno di voi due sarebbe arrivato fin qui, ma mai mi sarei aspettato che ci sareste arrivati insieme!» I due, prima di voltarsi in direzione della voce che li stava chiamando per nome, lì, in un o sperduto monastero buddista alle pendici dell’Himalaya, si guardarono esterrefatti negli occhi. Seppur le uniche parole di italiano che Yelena conoscesse erano le notissime “ciao”, “pizza” e “spaghetti”, riconobbe immediatamente la voce dell’uomo che stava parlando alle loro spalle. Anche Aldo aveva capito chi era. Il viso sorridente del professor Teodoro Visconti era l’ultima cosa che si sarebbero aspettati di trovare in quel posto. Le profonde rughe sulla fronte dimostravano ad entrambi che era parecchio invecchiato dall’ultima volta che lo avevano visto, essendo, ormai, sulla settantina. I folti capelli ricci avevano lasciato spazio alla tosatura tipica dei monaci buddisti e la tonaca rossa lunga
fino ai piedi faceva trasparire un fisico ancora asciutto e in forma, nonostante l’età. «Co… co… cosa ci fa lei qui professore?» Riuscì a dire, non senza sforzo, Aldo. «Potrei rivolgervi la stessa domanda ragazzi.» Rispose lui accomodandosi accanto a Yelena. «Ma io conosco già la risposta: lo yeti. Ci avete messo un bel po’ a capire dove si trovasse ma, alla fine, ci siete riusciti.» «Vuole dire che anche lei è qui per lo yeti?» Chiese Yelena. «Yelena, Aldo, sapete benissimo entrambi che ho ato buona parte della mia vita a studiare le criptidi, prima in Italia all’università, dalla quale sono stato ingiustamente cacciato e poi in Russia con tua madre Olga. Poi, come ben sai, Yelena, poco prima che tua madre morisse me ne sono andato in silenzio, non volevo che qualcuno scoprisse il mio segreto, anche se sapevo che, presto o tardi, uno tra voi due avrebbe trovato le tracce dello yeti.» «Qui si sbaglia professore», intervenne Aldo, «io non ho trovato nessuna traccia, sono stato contattato insieme a mio fratello dalla Dimitrov per la ricerca di un animale di cui abbiamo scoperto l’identità solo a Mosca. Avessi saputo a Roma che si trattava dello yeti, sarei rimasto senza dubbio in Italia.» «Però ora sei qui?» disse sorridendo Visconti. «Ho i miei motivi per esserlo.» Tagliò corto. «Aldo, puoi dire quello che vuoi, ma senza il tuo lavoro di tesi, io ed Olga non avremmo mai capito dove si trovava lo yeti.» «Ma cosa dice professore? Nella mia tesi non ho menzionato nemmeno una volta il Bhutan. Non ho fatto altro che raccogliere una serie di leggende che parlavano di questa criptide e ho delimitato una zona molto ampia, grande all’incirca quanto tutto il Tibet, nella quale l’animale avrebbe potuto trovarsi.» «È vero, ma è proprio in una di quelle leggende che si trovava nascosta la chiave del mistero.» Si alzò dalla sedia: «Aspettatemi qui un minuto.» Disse, e sparì nel corridoio dove poco prima Yelena aveva parlato al telefono. «Di che leggenda sta parlando?» Chiese la ragazza.
«Non ne ho la più pallida idea.» Dopo pochi minuti Visconti fece ritorno nella sala con dei fogli in mano. Si riaccomodò e cominciò a leggere: «… una leggenda del quattrocento riferisce che una grossa scimmia antropomorfa, dal folto mantello grigio, abita le pendici di un monte sacro alla popolazione cinese, chiamato Jomolhari, a nord ovest di una fertile valle dove confluiscono due fiumi…» Alzò gli occhi dal foglio e scrutò quelli di Aldo: «Come vedi, è vero che non avevi mai nominato il Bhutan, ma avevi chiaramente parlato del monte Jomolhari. Tieni presente che fino al diciassettesimo secolo circa, il territorio del Bhutan era governato da uno stato di stampo feudale. È facile, quindi, che la fonte che ha riportato la leggenda abbia parlato di “popolazione cinese” indicando più una macroarea geografica che un delimitato territorio politico.» «Non ricordavo questo o della mia tesi. Ma, in ogni caso, non prova nulla finché non si trova l’animale. E poi questa è solo una tra le mille leggende che circolano sul conto dello yeti.» Disse Aldo. «Infatti, in questi lunghi anni, ho cercato di comprovare la veridicità di gran parte delle altre leggende tramandate fino ad oggi, ottenendo sempre risultati negativi. Questa è l’unica che da sempre mi sembrava la più plausibile. In fondo, se siete arrivati fino in Bhutan anche voi, avrete sicuramente raccolto qualche prova certa. Vero Yelena?» «Beh», rispose lei, «in effetti, abbiamo un video dell’animale e delle analisi del DNA fatte su alcuni campioni biologici che dimostrano, oltre ogni ragionevole dubbio, la presenza dello yeti in questa zona dell’Himalaya. Se vuole le mostro il video.» Fece per chinarsi sullo zaino per prendere il computer portatile, ma il professore la bloccò subito. «Non ce n’è bisogno Yelena, è inutile che mi mostri le prove. Ho visto lo yeti decine di volte in questi anni.» Sorrise. Aldo e Yelena si scambiarono un’occhiata interrogativa. «E perché ha deciso di restare qui?» Chiese Aldo, «Perché non è tornato in Europa dimostrando che aveva ragione? Ora può gridare al mondo accademico che si erano sbagliati sul suo conto. Quale migliore rivincita?»
«No, Aldo. Non sono tornato in Europa fin ora e non lo farò mai più. Perché dovrei? Per rivincita, come dici tu? Per la gloria? Per i soldi? No, Aldo, queste cose non hanno più senso per me. Ora sono un monaco buddista. Ho sposato questo stile di vita ed è così che voglio morire, con un saio rosso addosso e la testa rasata.» «Capisco le sue ragioni», intervenne Yelena, «ma, dato che l’ha visto e sa dov’è, ci aiuterà a trovare lo yeti?» «Ovviamente no!» Esclamò Visconti. «Anzi, vi esorto a tornare indietro sui vostri i e lasciare in pace quelle povere creature. Che diritto avete di disturbarle? Dio solo sa da quanti millenni gli yeti vivono isolati dal resto del mondo, hanno paura dell’uomo e di quasi tutte le altre specie animali. Il loro stile di vita è questo, non possiamo sovvertire l’ordine naturale per il nostro egoismo. Sono solo contento che siate arrivati voi per primi, proprio perché a voi posso dire di tornare indietro.» Quelle parole fecero tornare in mente ad Aldo come, fino a pochi giorni prima, il pensiero dell’ordine naturale da salvaguardare era diventato anche un suo tarlo. E pensò anche a quanto era bastato poco per fargli dimenticare quei bei propositi. «Professore», riprese Yelena, «lei conosceva i miei genitori. Forse lei non lo sa, ma pochi mesi dopo che lei sparì da Mosca, mia madre morì di cancro. Da allora, per mio padre, il desiderio cui mamma mirava di rendere palese al mondo l’esistenza delle criptidi, è diventato un motivo di vita. Ha finanziato con ingenti somme la costruzione dello zoo che anche lei aveva contribuito ad ideare. Ora l’opera è quasi finita, ospiterà tutte le specie animali terrestri di cui si è a conoscenza e, ciliegina sulla torta, vorremmo che ospitasse anche una criptide. Diverse missioni sono state inviate in giro per il mondo alla loro ricerca. Abbiamo cercato il mostro di Loch Ness, il Chupacabra, dinosauri ancora in vita nelle foreste africane e lo yeti. Tutte le altre missioni hanno fallito, ora resta solo questa, se lei ci aiuta il sogno di mia madre si potrà realizzare.» Visconti prese dolcemente una mano di Yelena nelle sue. «Yelena, io ti conosco da quando eri poco più che una bambina. Conosco e stimo tuo padre, un uomo cocciuto ma capace e amorevole. Conoscevo tua madre, una delle persone più straordinarie che io abbia mai incontrato. Ma non sarà per l’affetto che mi lega a voi che cambierò opinione su questa vicenda. Se gli occidentali vivessero un po’
di tempo tra queste montagne, non come turisti imbecilli che fingono a loro stessi di essere Indiana Jones, ma cercando di capire questo mondo e questa gente semplice, che vive la natura in modo scano e guarda oltre i limiti dell’umana esistenza con infinita spiritualità, capireste che ogni cosa deve restare al suo posto: gli uccelli in aria, i pesci in acqua e lo yeti su queste montagne. Sono sicuro che tua madre, donna pregna di coscienza e intelligenza, condividerebbe il mio punto di vista. No, Yelena, non posso aiutarvi. Giù le mani dallo yeti, giù le mani da questo mondo.» Strinse con più forza la mano della ragazza. «Non voglio che questo luogo venga invaso da gente senza scrupoli che vuole lucrare su un essere che ha deciso da solo che tipo di ruolo avere nel mondo.» La ragazza non si rassegnò e riprese: «Sai come io rispetto la natura e quanto la ami. Proprio tu e la mamma mi inculcaste questi valori. Ma parli dello yeti come se fosse un essere umano. Hai affermato che ha deciso da che parte stare, che vita vivere. Beh, tutti gli animali scelgono l’habitat in cui vivere in base alle loro esigenze e in base al bilanciamento tra i punti deboli e i punti di forza fisici e intellettivi loro tramandati dall’evoluzione. L’uomo, per sua natura, è fatto per conoscere, mi ripetevi sempre una frase di Dante Alighieri tratta dalla Divina Commedia…» Yelena pronunciò la frase in russo mentre Visconti la enunciava in italiano: «Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza.» Alzando un dito, Visconti bloccò la ragazza che avrebbe voluto continuare: «Ricorda, Yelena, che Dante fece pronunciare questa frase ad Ulisse e, proprio per aver espresso questo concetto ai suoi uomini, l’eroe greco venne confinato all’Inferno. Ulisse voleva oltreare le Colonne d’Ercole per andare alla ricerca di ciò che non era possibile conoscere, questo è stato il suo peccato. Allo stesso modo, voi, andando alla ricerca dello yeti, state andando a scoperchiare un vaso che deve restare celato, qualcosa che non capireste, qualcosa che l’uomo non è preparato ad apprezzare.» «Suvvia, professore», intervenne Aldo, «non facciamola così tragica. Anch’io ho maturato le mie perplessità sull’utilità degli zoo e sui motivi che spingono gli uomini ad andare alla ricerca di animali rari giusto per metterli in mostra. Pochi giorni fa, in aereo, a Yelena ho detto un concetto del tutto simile al suo riguardo al fatto che un animale non dovrebbe venire strappato dal suo habitat solo per ludibrio. Però, professore, lei ora parla di Dante, di cose inconoscibili, di vasi che non si possono scoperchiare, insomma, stiamo parlando di un animale,
professore, niente di più e niente di meno. Mi sembrano esagerati i suoi concetti.» «Esagerati dici?» Rispose Visconti con irritazione. «Tu non li hai mai visti Aldo. Placa la tua arroganza perché non sai di cosa stai parlando.» Si alzò dalla sedia dirigendosi nuovamente verso il corridoio. Poi si voltò: «Ho settant’anni. Non ho né i mezzi, né la forza per fermarvi fisicamente, posso farlo solo con le parole. Spero che grazie ad una notte di riflessione, possiate capire il mio pensiero. Purtroppo ciò che vi ho detto vi deve bastare perché non posso andare oltre. Domani scendete di nuovo a Paro con il vostro amico ferito e tornatevene a casa, questo è un consiglio ed un’esortazione.» Detto ciò si voltò e se ne andò senza attendere risposte. Solo allora Aldo si rese conto che con la sua affermazione pungente aveva ottenuto l’effetto contrario a quello sperato: il suo intento era di punzecchiare il suo vecchio insegnante affinché rivelasse qualcosa in più sullo yeti e invece ottenne una chiusura totale. La sua boccaccia avrebbe dovuto tacere, lo aveva capito da solo e ne ebbe ulteriore conferma dallo sguardo contrariato di Yelena. «Ti è mai saltato in testa una sola volta nella vita il pensiero di restare zitto? Lo hai fatto scappare.» Lo rimproverò Yelena. «Speravo di estorcergli qualche informazione in più. Volevo scoprire cosa ci ha voluto tenere nascosto.» «Già, ma ormai, grazie ai tuoi modi burberi, non avremo più informazioni da lui. Speriamo di incontrarlo nuovamente domattina prima di partire, magari la notte porterà consiglio anche a lui e sarà più flessibile e comprensivo.» Andarono a dormire. Aldo, Paul, Maradona e Cholag si sistemarono nella stessa stanza dove era stato alloggiato Jimy. Yelena, invece, venne fatta accomodare in un piccolo ma confortevole stanzino laterale. Aldo impiegò diverso tempo a prendere sonno. Lo fecero riflettere le considerazioni di Visconti e si stupì di rendersi conto di avere lo stesso punto di vista per quanto riguardava l’atteggiamento che gli umani solitamente riservano agli animali. Solo che, un po’ per amore, un po’ per soldi, Aldo era riuscito ad accantonare quel freno etico e aveva accettato la missione che la Dimitrov gli aveva proposto, mentre Visconti, superando le delusioni accademiche e sposando la filosofia di vita buddista, aveva dato una svolta radicale alla sua vita
e alla sua visione del mondo e delle creature che lo abitano. Ma la cosa che lo fece riflettere di più, fu l’insistenza con cui il professore aveva sottolineato, a lui e Yelena, che se avessero trovato gli yeti, non avrebbero scoperto solo una criptide, ma sarebbero venuti a conoscenza di una realtà molto diversa da quella che si sarebbero aspettati. Yelena, dal canto suo, riuscì ad addormentarsi quasi subito, ma il suo fu un sonno disturbato da incubi che la perseguitarono per tutta la notte. Sognò di ritrovarsi, nella foresta, con uno yeti che la guidava tra gli alberi tenendola per mano, braccati entrambi da uno stuolo di uomini che indossavano uniformi mimetiche e una maschera nera sul volto. Alla guida del commando c’era un grassone, l’unico senza maschera, e aveva il volto di Luskov. Correvano a perdifiato e lei urlava. Urlava come non le capitava da quando aveva dodici anni, quando si perse durante una scampagnata sui monti Urali in compagnia della mamma e del padre. In quell’occasione, i soccorsi chiamati dal padre, la ritrovarono dopo poche ore, sola ed impaurita seduta tra le lacrime in mezzo alle radici di un alto pioppo. Ma ora non aveva neanche la speranza che qualcuno venisse a salvarla. Continuò a correre, sempre mano nella mano con lo yeti, fino alla sommità di una montagna dove, di fronte ad un profondo dirupo, dovettero fermarsi. Furono subito accerchiati dagli uomini armati. Luskov le andò incontro ghignando e, quando arrivò a pochi metri da lei, alle spalle degli uomini che li circondavano, giunsero Aldo e Nicolai che, inginocchiandosi, implorarono i militari di non far loro del male. Per tutta risposta, Luskov ordinò di ucciderli e i due uomini caddero a terra trafitti da numerose pallottole. Poi i militari puntarono le armi su di lei e sullo yeti e…
Taktsang, nei pressi di Paro, 1 giugno ore 6.30
… Aldo la svegliò strattonandola delicatamente per una spalla. «Incubi?» Chiese lui, baciandola delicatamente sulla fronte. «Stavi gridando e contorcendoti nel sonno.» Le accarezzò una guancia. «Si», rispose lei, «ho fatto un brutto sogno. Sarà la tensione accumulata in questi giorni.» Si mise a sedere sul lettino, stiracchiò gli arti e sbadigliò. Notò che Aldo aveva già indossato la sofisticata tuta militare nera che ne faceva risaltare la possente muscolatura. «Che ore sono?» «Le sei e mezza. Preparati, è quasi ora di partire.» Dopo un ultimo bacio sulle labbra morbide, Aldo uscì dalla stanza. Yelena si vestì rapidamente dopo essersi sciacquata il viso. Raggiunse gli altri nella sala comune dove i monaci avevano preparato per loro la colazione. Da un’ampia finestra che dava sulla valle vide che fuori pioveva ancora a dirotto. «Come sta Jimy?» Chiese ad Aldo. «Sta dormendo, ma si è dimenato parecchio nella notte. Quella gamba gli deve fare un male cane. Prova a chiamare Nurev, magari saprà darti ragguagli su quando arriveranno i soccorsi.» «Ok, vado subito.» Tirò fuori il telefono satellitare dallo zaino e andò nel corridoio vuoto a telefonare. Nurev rispose quasi all’istante. «Buongiorno dottoressa Dimitrova.» «Buongiorno Nurev. Hai avuto comunicazioni riguardo la missione di recupero di Miller?» «Si. Un elicottero dell’esercito bhutanese salirà al Taktsang non appena il tempo migliorerà. Secondo le previsioni, tra un paio di ore dovrebbe arrivare una
schiarita che durerà fino al pomeriggio inoltrato.» «Va bene, Nurev, mi raccomando massimo riserbo.» «Non si preoccupi dottoressa.»
Taktsang, nei pressi di Paro, 1 giugno ore 7.15
Aspettarono che Jimy si svegliasse per poterlo salutare e ragguagliarlo sui tempi e modalità del suo recupero dal monastero. Lui cercò di mostrarsi allegro e guascone come sempre, anche se una maschera di sofferenza appariva sul suo volto tra una risata e l’altra. Salutarono anche Cholag, raccomandandogli di seguire le istruzioni che gli erano state impartite e misero gli zaini in spalla. Data l’ora, la pioggia incessante e la frana che aveva interrotto la strada, nel piazzale antistante il monastero non c’era ancora ombra di turisti e pellegrini e, probabilmente, per tutta la giornata non ne sarebbero arrivati. Dopo pochi i verso l’imbocco della foresta, diretti ad est, una voce ben nota richiamò l’attenzione di Aldo e Yelena. Si voltarono e videro il professor Visconti che li stava raggiungendo a o spedito. «Ragazzi», disse, «abbiate cura di voi e una volta che troverete ciò che state cercando riflettete bene sull’eventualità di rendere nota al mondo la vostra scoperta. Vi capisco, siete giovani e ambiziosi e questa missione potrebbe rendervi ricchi e famosi. Ma riflettete bene se il successo di scrivere il vostro nome nei libri di storia e biologia possa valere ciò che questo comporterà.» «Professore», intervenne Aldo, «perché non cerca di essere più chiaro e ci dice quello che sa? Magari potremo decidere di tornare indietro già ora se le sue motivazioni sono valide.» «Aldo, ciò che so deve restare segreto. Spero che lungo il cammino che vi state accingendo ad intraprendere lo capiate anche voi. Io non posso fermarvi con la forza. Ma voi non potete forzarmi a rivelarvi quello che ho scoperto. Posso solo augurarvi buona fortuna, ma, allo stesso tempo, spero anche che la vostra missione fallisca costringendovi a tornare indietro.» Yelena gli prese la mano e disse: «Professore, se lei è arrivato a questa consapevolezza è perché, come Ulisse, è andato alla ricerca della conoscenza. Noi continueremo il nostro viaggio tenendo bene in mente il suo monito, glielo
assicuro. La vita è fatta di scelte e di rinunce, siamo entrambi abbastanza grandi da saperlo, quando arriverà il momento prenderemo la giusta decisione.» «Me lo auguro per voi e per tutti, ragazzi. Fate buon viaggio.» Le loro strade si separarono, il professore tornò al monastero e i quattro si inoltrarono nella foresta guidati da Maradona.
Foresta antistante il Taktsang, nei pressi di Paro, 1 giugno ore 8.00
Il telefono di Canguro vibrò nella tasca del gilet verde. La voce di Tigre tuonò un solo ordine, prima di chiudere la telefonata: «Canguro, azione! Cancellate col fuoco ogni prova e aspettateci per le diciannove nel punto prestabilito.» Canguro impugnò il fucile e fece cenno ai sei uomini con lui di seguirlo.
Il professor Visconti sedeva al capezzale di Jimy, dove, sotto lo sguardo attento di Cholag, era intento a sistemargli la fasciatura alla gamba e a rassicurarlo. D’improvviso un potente boato proveniente dall’ingresso principale del monastero squarciò il sacro silenzio del luogo di preghiera e meditazione. Giusto il tempo di riprendersi dallo shock che una rapida successione di esplosioni, meno intense e più secche, accompagnate da grida e lamenti, trasformò il monastero in un inferno di fuoco. Qualcuno stava massacrando a colpi di mitra e fucile i poveri monaci inermi. Visconti fissò Jimy pensando ad un modo per ripararlo dalla follia che si stava perpetrando nella sala accanto. «Lo zaino!» Urlò Jimy, indicando la pesante sacca poco distante dalla sua barella. «Apra lo zaino e cerchi al suo interno. Vi troverà un fucile e una pistola.» «Sono un monaco, Jimy, non lo farò mai.» «Allora li prenda per me, mi difenderò da solo.» Visconti, riluttante, prese lo zaino e lo porse al malconcio australiano, mentre nell’altra sala la carneficina continuava. Jimy allungò una mano nella borsa e ne estrasse rapidamente la pistola. Gemendo per il dolore riuscì a rigirarsi su se stesso, sistemandosi prono sulla barella e mirando in direzione della porta.
Quando il primo degli assassini con il volto coperto entrò nella sala, lo freddò immediatamente con un preciso colpo in fronte. Ma Jimy si rese subito conto che le armi che stavano sparando nella sala d’ingresso del monastero erano troppe per poterle contrastare da solo. «Professore», Urlò di nuovo, «prenda quel maledetto fucile dallo zaino e scappi. Sono in troppi. Non riuscirò a fermarli a lungo.» Finalmente, non appena il secondo cadavere mascherato cadde sotto i colpi di Jimy, il professore si diede una scossa. Frugò nello zaino e ne tirò fuori un fucile. «Non quello, professore, non vede che è uno sparasiringhe? Prenda l’altro.» Urlò nuovamente Jimy. Affondò nuovamente il braccio nella sacca e, finalmente, ne estrasse il futuristico fucile “orel”. Ma ormai la sala era diventata un vero e proprio campo di battaglia, con due uomini che, appostati ai lati della porta, sparavano in direzione di Jimy, Visconti e Cholag, protetti solo da un pesante tavolo nel mezzo della stanza, che la guida bhutanese, con forza inaspettata, era riuscito a capovolgere. «Scappate dalla finestra, è l’unica via di fuga.» Detto ciò, il corpo di Jimy si accasciò lasciando cadere la pistola a terra, trafitto da un proiettile che gli si conficcò direttamente nell’occhio destro. Dopo un secondo di panico, Visconti, con il fucile a tracolla, tirò a sé Cholag, e si diresse verso la bassa finestra sul fondo della sala, mentre una gragnola di colpi si abbatteva in ogni dove in quell’ala del monastero. Con uno sforzo aprì la pesante finestra che dava sul precipizio e si apprestò a saltare, pur sapendo che l’abisso sotto di lui era enorme. Cholag fu più veloce di lui ad oltreare il parapetto. Peccato che non lo fece per sua volontà, ma perché sbalzato al di là da un potente colpo di fucile alla schiena. Il corpo del poveretto compì un interminabile volo di oltre novecento metri fino a schiantarsi nella foresta sottostante. Visconti guardò la scena costernato e spaventato. Se fosse saltato avrebbe fatto la stessa fine. Ma poi, con la coda dell’occhio, mentre alle sue spalle continuavano incessanti gli spari e le urla dei pochi monaci sopravvissuti, scorse la sua àncora di salvezza.
Salì in piedi sul cornicione della finestra, proprio mentre una pallottola gli sfiorava il ginocchio destro. Con un salto verso sinistra - riuscito più grazie alla forza della disperazione che per le sue doti atletiche - si aggrappò con tutte e due mani al cornicione di scolo della grondaia. Da lì, spostando lateralmente il corpo di un paio di metri grazie alla sola forza delle braccia, si gettò su un costone della parete rocciosa ricoperto da erba alta. Atterrò pesantemente e per un attimo perse il respiro. Dalla finestra dalla quale era appena uscito, sbucò fuori una testa mascherata. Visconti si rannicchiò tra l’erba alta e la parete del monastero, riuscendo a non farsi vedere dall’assassino che, dopo aver dato un rapido sguardo alla zona circostante, tornò a rivolgere la sua attenzione all’interno della sala. Dopo che il rumore degli spari cessò completamente, Visconti attese ancora qualche minuto prima di decidere il da farsi. Si alzò quindi in piedi e salì altri gradoni di roccia fino a trovarsi quasi all’altezza del tetto al primo livello del monastero. Intanto, udì una nuova sparatoria proveniente dalla parte superiore dell’edificio: gli assassini stavano setacciando la struttura da cima a fondo, alla ricerca dei monaci che erano riusciti a scappare. Visconti si diresse verso il lato del tetto che dava sull’ingresso principale, quello che poco prima gli assalitori avevano fatto saltare con l’esplosivo. Arrivato in prossimità del cornicione notò che un uomo rivolto verso la foresta presidiava l’ingresso, dandogli le spalle. Impiegò solo un attimo a prendere una decisione: doveva rinnegare il suo ideale di pace e fratellanza se voleva restare vivo, tradire la religione che aveva sposato e tornare ad essere un bruto tra i bruti. Ma doveva farlo per salvare se stesso, per avvisare Aldo e Yelena del pericolo che stavano per correre e per salvare la sopravvivenza e il segreto degli yeti. Imbracciò il fucile, mirò alla testa e, non appena il corpo dell’assassino stramazzò a terra, saltò giù dal tetto e si inoltrò nella fitta foresta seguendo le tracce di Aldo e Yelena.
Monte Jomolhari, Bhutan, 1 giugno ore 8.45
Maradona, non smettendo mai di palleggiare e giocare con la sua amata pallina da tennis, guidava il gruppetto di esploratori lungo gli impervi sentieri nella foresta di pini, mentre la pioggia era leggermente diminuita di intensità, ma, probabilmente, non abbastanza da permettere al drone di levarsi in volo. Dopo aver abbandonato il Taktsang, ripercorsero per un breve tratto la via dalla quale erano venuti, quindi presero un sentiero che si inerpicava ad est, verso la sommità del versante sud del monte Jomolhari. «Tutta la maledetta acqua che mi è piovuta addosso negli ultimi due giorni non l’avevo mai vista in tutta la mia vita.» Esclamò stizzito Paul ‘Nkonu. «Ho impressione che, a parte qualche rara schiarita, pioverà ancora a lungo nei prossimi giorni, signor Paul.» Rispose Maradona. Aldo e Yelena procedevano affiancati dietro alla guida e al camerunese, contemplando con attenzione la vegetazione che li circondava, intavolando lunghe discussioni sugli aspetti biologici di alcune piante che incontravano. D’un tratto, Aldo si bloccò facendo cenno agli altri di mantenere il silenzio. Sentivano chiaramente alle loro spalle il borbottio tipico del mulinare delle pale di un elicottero. «Sarà l’elicottero di soccorso inviato per recuperare Jimy.» Disse Aldo. Cercarono di aguzzare la vista per scorgere l’elicottero o il Taktsang, ma coperti com’erano dagli alti pini non riuscivano a vedere che i pochi sprazzi di cielo immediatamente sopra di loro. Decisero quindi di riprendere il cammino, quando il telefono satellitare di Yelena prese vita. «Yelena, come state?» Era la voce sconvolta di Mattia. «Stiamo bene, Mattia», rispose lei, «come mai questa chiamata, secondo i piani
avremmo dovuto sentirci per mezzogiorno.» «Ma voi dove siete?» «Nella foresta, dove vuoi che siamo?» Sentì un lungo sospiro di sollievo e la voce di Mattia che rispondeva ad una domanda di Nurev. «C’è stato un incendio al Taktsang», riprese, «Da qui possiamo vedere gli elicotteri dei soccorsi che stanno cercando un modo per avvicinarsi. Le fiamme si vedono dalla città nonostante la pioggia.» Yelena restò paralizzata e Aldo, percependo lo stato d’animo della ragazza, le si avvicinò subito. «Jimy e Cholag sono stati recuperati?» chiese lei a Mattia. «No, purtroppo no.» Fece una pausa e riprese a parlottare nuovamente con il militare russo, quindi glielo ò. «Nurev, cosa sta succedendo?» Chiese lei in russo. «Il Taktsang è distrutto. Sono uscito per controllare la situazione con il binocolo: i tetti della struttura sono collassati all’interno delle mura. Del monastero non rimangono che le rovine ormai. L’incendio non è stato ancora domato.» «E per quanto riguarda Jimy e Cholag che sai dirmi?» «Niente. Fino a quando non parleremo con le autorità, non potremo avere nessuna notizia.» «Ok, Nurev, chiamerò mio padre e questa faccenda se la sbrigherà lui. Voi restate concentrati sulla missione e manda in volo il drone appena puoi. Noi, da qui, non possiamo fare nulla per Jimy né per il Taktsang.» «Va bene.» Rispose il militare. «Ci risentiamo appena avremo novità.» Yelena riferì agli altri degli ultimi tragici avvenimenti e, subito dopo, Paul si diresse verso uno spiazzo all’interno della foresta ad un centinaio di metri di distanza. «Venite a vedere.» Disse.
Gli altri gli si avvicinarono e dall’altra parte del crinale, scorsero una nera colonna di fumo che saliva alta nel cielo, con due elicotteri che sorvolavano la zona. Il Taktsang non era visibile dal punto di osservazione, ma era ovvio che il fumo salisse proprio dal monastero. Paul e Maradona restarono a fissare la scena per diversi minuti, scambiandosi qualche osservazione, mentre Aldo tirò a se Yelena verso il limitare dello spiazzo, ad una decina di metri dai compagni di avventura. «Credi che questo incendio sia stato solo una sfortunata fatalità o c’è dell’altro? Magari qualcosa che ha a che fare con le fotografie che ti ha mostrato Nurev all’aeroporto?» Le chiese Aldo con una punta di amara ironia. Lei non riuscì a sostenere il suo sguardo intenso e si voltò verso la colonna di fumo. «Aspetta questa notte.» Rispose lei. «Attendiamo gli sviluppi della vicenda e speriamo di avere qualche foto dal drone. Se è il caso, ti dirò tutto dopo che Paul e Maradona saranno andati a dormire. È meglio che loro non sappiano.» Aldo avrebbe voluto controbattere che sarebbe stato meglio rivelare anche a Paul e Maradona quale fosse il nemico che aveva compiuto lo scempio al Taktsang, ma i due, proprio in quel momento, stavano tornando verso di loro e quindi si rassegnò ad aspettare la notte. Ripresero il cammino verso la vetta del crinale e intanto, finalmente, la pioggia aveva concesso loro una tregua. Più salivano, più la vegetazione si diradava, lasciando spazio ad un terreno brullo animato qua e là da strane varietà di fiori e piccoli arbusti. «Oltre quel boschetto c’è una fattoria.» Disse Maradona indicando un gruppo di alberi a poche centinaia di metri sulla destra dei quattro. «Se volete possiamo dirigerci lì per mangiare qualcosa. La gente del luogo è molto ospitale.» «Assolutamente no.» Rispose secca Yelena. «Ricorda la segretezza del nostro viaggio. La vetta è vicina. Appena in cima riposeremo un po’ e mangeremo qualcosa. Intanto, magari, Nurev sarà riuscito a scattare qualche foto con il drone.» Ripresero a salire. Paul si voltò un’ultima volta verso il boschetto indicato poco
prima da Maradona e gli parve di scorgere un riflesso tra gli alberi. Si fermò e impugnò il binocolo. Quello che vide non gli piacque per nulla. «Aldo, Yelena, venite a guardare!» Porse loro il binocolo e i due capirono rapidamente. Si gettarono a terra urlando a Maradona di imitarli, giusto un attimo prima che una violenta raffica di mitra sferzò l’area loro intorno.
Monte Jomolhari, Bhutan, 1 giugno nel frattempo.
I due sgherri erano appostati in osservazione, binocolo in mano, nel boschetto indicato poco prima da Maradona. «Eccoli arrivati.» Disse indicando un punto poco lontano davanti a loro il tipo piccoletto e magro come uno stecco, chiamato Giraffa, al suo compare Gazzella che, al contrario, era un energumeno di un metro e novanta. «Informo subito Tigre.» Disse l’altro dopo aver constatato l’effettiva presenza dei quattro nella radura con il suo binocolo. Dopo pochi secondi Tigre rispose. «Sono arrivati, Tigre. Sono a poche centinaia di metri da qui.» Disse Gazzella. «Bene, non fatevi notare e seguiteli a distanza. Restate al coperto e indossate sempre le tute termoisolanti. Ricordate che possono contare sull’apporto di un drone che può scattare foto termiche.» «Conosciamo gli ordini Tigre… » un attimo di esitazione, una serie di spari, poi urlò: «Oh merda!» Proprio in quell’istante, Giraffa, vedendosi scoperto dal possente Camerunese che li stava scrutando con il binocolo, esplose una raffica di mitra verso i quattro. Tigre sentì il frastuono dal telefono e urlò: «Che diavolo state combinando?» «Ci hanno visto.» Rispose Gazzella raccogliendo il fucile da terra e mettendosi a correre verso la fattoria alle sue spalle, seguito da Giraffa. «Sparite subito da lì imbecilli. Chi vi ha ordinato di sparare?» Tigre, attraverso il telefono, sentiva i rumori della corsa dei due tra gli alberi, ma non udì alcuno sparo di risposta alla prima raffica. Quando dai rumori e dal chiacchiericcio dei due capì che la loro corsa era terminata riprese: «Dove siete ora?» Dopo qualche secondo Gazzella rispose: «Siamo appena fuori dal boschetto, nei
pressi della fattoria. Non ci hanno seguito, né hanno risposto al fuoco.» «Non fatevi vedere, tenetevi nascosti. Ormai siete stati scoperti e vi garantisco che ne pagherete le conseguenze. Avete dato loro troppo presto la certezza di essere seguiti e dovremo cambiare i nostri piani. In ogni caso, ora cercate un buon posto per nascondervi, e ricordate il punto fondamentale della missione: prima devono individuare gli yeti e solo allora dovrete giustiziarli. Ma per svolgere questo compito arriverà qualcuno che ha più cervello di voi. Mi avete deluso, stupidi idioti. Cercate di non combinare altri danni». Chiuse la comunicazione completamente imbufalito. Fino al Taktsang era filato tutto liscio come l’olio: li avevano spaventati, avevano fatto fuori il loro componente ferito e la loro guida affinché nessuno sapesse. Ora, di certo, Nicolai Dimitrov sarebbe intervenuto personalmente in Bhutan per salvare la figlia. Ma quell’intoppo non ci voleva. I quattro guidati da Yelena avrebbero acuito i sensi sentendosi braccati e Dimitrov avrebbe messo in piedi una vera e propria task-force per raggiungere la figlia, sacrificando, probabilmente, la segretezza della missione. E la segretezza era fondamentale sia per Dimitrov che per la Militia. Quella non era una missione da poter svolgersi con il fiato sul collo dei media, dei curiosi e delle forze dell’ordine locali. Ma ancora non era tutto perduto. Le cose si erano fatte più complicate, ma il successo poteva arrivare ugualmente. Ora però doveva sorbirsi la ramanzina di Leone, e non c’era cosa che lo infastidiva di più.
Monte Jomolhari, Bhutan, ore 11.10
Restarono in silenzio, sdraiati a terra, per un quarto d’ora, tra l’erba rada e i grossi massi, con Paul rivolto verso il punto da cui avevano avvistati gli uomini in divisa mimetica e Aldo rivolto dall’altro senso, controllando che non venissero attaccati alle spalle. «Possiamo andare.» Disse Paul dopo un’ultima perlustrazione con il binocolo. «Nel bosco non c’è più nessuno, l’ho setacciato albero per albero cento volte.» «Ok, ma continuiamo a camminare bassi fino a quell’avvallamento.» Rispose Aldo indicando una gobba del terreno cento metri più su rispetto alla loro posizione. «Una volta dietro la montagnola non saremo più visibili da chi eventualmente si dovesse trovare ancora nel boschetto. Paul, tu vai con Yelena e Maradona, io resterò qui a coprirvi le spalle.» Yelena si rese conto che in quel momento la sua autorità di capo spedizione era stata scavalcata da Aldo. Non lo diede a vedere né se ne crucciò, lo accetto con rassegnazione: una cosa era aver frequentato decine di corsi di addestramento conseguendo attestati e riconoscimento, un’altra era l’esperienza sul campo e Aldo e Paul avevano dimostrato di averne molta più di lei. Lei non si era accorta dei nemici appostati nel bosco, né aveva saputo reagire e gestire la situazione come avevano fatto i due uomini. Le loro vite valevano molto più del suo orgoglio. Fecero come ordinato da Aldo e tutto filò via liscio. Maradona riprese la testa del gruppo e Paul restò nella retroguardia, attento più a guardarsi alle spalle che di fronte. Aldo, dal canto suo, si portava al fianco di Maradona ogni qual volto il sentiero improvvisato li conduceva al cospetto di una curva ceca, di un avvallamento e di qualunque ostacolo intralciasse la loro visuale a campo lungo, e si ripartiva solo al suo segnale. Pochi minuti dopo mezzogiorno, proprio mentre il cielo si era rifatto cupo e un primo tuono aveva ruggito nel cielo sconfinato, avevano raggiunto la cima di quel versante del monte Jomolhari. Ora sarebbero scesi di circa duecento metri di quota verso la zona dell’avvistamento dello yeti. Dopo un rapido sopralluogo
avrebbero puntato a nord, verso la zona delle caverne. Se non avessero trovato tracce dello yeti in quella zona, avrebbero cominciato a risalire la montagna, lungo il versante più alto che portava a oltre settemila metri di quota. Trovarono una piccola radura in un posto sicuro e riparato e vi si accamparono per riposarsi, consumando un pasto veloce. Yelena tirò fuori il computer portatile dallo zaino per controllare la posta tramite la connessione satellitare. Intanto, nell’attesa che il computer si avviasse, prese il telefono e chiamò Nurev. «Nurev, sei riuscito a scattare qualche foto?» Chiese non appena il militare rispose. «Si, le ho inviato le foto per email. Ma cosa diavolo è successo in cima alla montagna? Tramite le immagini del drone abbiamo visto che avete avuto problemi.» «Si, siamo stati attaccati, ma non sappiamo da chi. Nurev, manda in volo il drone ogni volta anche puoi e guardaci le spalle, non siamo al sicuro.» «Il drone è ancora in volo signora, ma tra poco dovrò farlo atterrare perché ricomincerà a piovere. Stia tranquilla, ce la metterò tutta per aiutarvi, ma contro le bizze del meteo non posso fare niente. In ogni caso, suo padre è stato aggiornato in tempo reale sulla vostra situazione. Un’altra cosa: nelle fotografie termiche c’è qualcosa di strano.» «Che cosa intendi per “strano”?» «Beh, mentre nelle foto a colori reali si intravedono le sagome di due persone che corrono nel bosco dal quale vi hanno sparato, in quelle agli infrarossi non si vede quasi nulla, nonostante la loro sagoma avrebbe dovuto vedersi in maniera molto nitida. Ma, le basterà osservare le foto per capire meglio.» Parlottò un attimo con Mattia lì vicino, «Signora, il signor Mirri vorrebbe parlare con il fratello.» «Ok.» ò il telefono ad Aldo. «Aldo», disse Mattia con la preoccupazione tangibile nel tono di voce, «che sta succedendo lassù?» «C’è qualcuno che vuole farci la pelle Mattia, ma ce la caveremo, stai
tranquillo.» «Come faccio a stare tranquillo se so che ti sparano dietro?» «Mattia, sai bene che potrei risponderti che in questa storia mi ci hai cacciato tu, vero?» Disse Aldo corrucciato. «Voi da Paro cercate di guardarci le spalle con il drone. Noi qui terremo gli occhi ben aperti e ce la caveremo, ok?» Si salutarono e Aldo riò il telefono a Yelena. «Sempre carino con tuo fratello tu, eh?» ironizzò lei. «Non cominciare anche tu, Yelena, ti prego.» Lei sorrise e scaricò la posta elettronica. Prima di aprire l’email che le era arrivata da Nurev, decise di fare la telefonata più complicata, quella a suo padre che di certo aveva già scaricato le immagini del drone ed era stato contattato dal militare russo. «Yelena, che succede?» Chiese nel solito tono preoccupato. «Come ti avrà già spiegato Nurev, abbiamo avuto uno scontro a fuoco poche ore fa. Degli uomini ci attendevano quasi in cima al versante che stavamo risalendo. Paul ha notato il riflesso del binocolo che usavano per osservarci e questo li ha allarmati. La cosa strana è che hanno esploso una sola raffica di mitra e sono scappati. Secondo me non volevano ucciderci, altrimenti avrebbero sparato con più continuità. Però mi chiedo cosa vogliono da noi.» «Semplice», rispose il padre, «gli yeti. Vogliono che li conduciate a loro.» Fece una pausa e Yelena sentì la voce di Yerevadze che gli suggeriva qualcosa, quindi riprese: «Yelena, il piano operativo da ora cambia. Non possiamo farvi tornare indietro altrimenti troverete sulla vostra strada nuovamente chi vi sta seguendo e, questa volta, spareranno per uccidere. L’incendio al Taktsang ne è la riprova: prima di dare fuoco al monastero hanno ucciso tutti i monaci. Anche Miller è stato trovato trafitto dalle pallottole, mentre il corpo della guida è stato trovato nella foresta sottostante, dopo aver fatto un volo di oltre novecento metri da una finestra.» Sentì nuovamente la voce di Yerevadze interloquire con Nicolai. «Li avete alle spalle, quindi la vostra marcia può proseguire solo in un verso, ma finché non troverete gli yeti, non cercheranno di farvi fuori, quindi state attenti e se vi accorgete di movimenti strani intorno a voi non reagite istericamente, vi
stanno solo osservando. Stiamo contattando le autorità del Bhutan affinché ci concedano di potervi raggiungere con i rinforzi: ad Imphál, in India, abbiamo due elicotteri e venti uomini che stanno per partire alla volta del Bhutan per venirvi in aiuto, armati fino ai denti. Io sto per partire con l’aereo della compagnia per un volo diretto fino a Paro insieme a Yerevadze e alcuni dei suoi uomini migliori. Appena ci ricongiungeremo con gli uomini di Imphál verremo in vostro soccorso sulla montagna con gli elicotteri… e al diavolo la segretezza della missione.» «Papà, no, è rischioso. Tu non puoi venire!» Urlò Yelena. «Vorresti farmi morire con il rimorso per non esserti venuto a salvare?» «Ce la caveremo papà, non è necessario che intervenga anche tu in prima persona. Stai già mandando venti uomini da Imphál, più Yerevadze e altri suoi sottoposti da Mosca, possono bastare. È inutile che vieni a rischiare la pelle anche tu.» «Yelena, la decisione è già stata presa. Voi state attenti, ma ti ripeto: chi vi segue vuole gli yeti, non vi faranno del male finché non li troverete.» «Ma almeno avete scoperto qualcosa riguardo a chi è che ci segue?» «No, nessuna rivendicazione o cose del genere. Comunque, di questo se ne sta occupando Luskov grazie all’aiuto di personale dei servizi segreti.» «Allora siamo tranquilli.» Disse lei con un sorriso ironico sentendo pronunciare il nome di Luskov. «E ovviamente, nel periodo in cui tu non ci sarai, sarà lui a dirigere la Dimitrov da Mosca, no?» «Yelena, ancora con questa storia? Ti avevo già detto che non mi vanno bene queste tue considerazioni sul conto di Alexey.» «Va bene, va bene, come non detto.» Ormai quella storia avrebbe dovuto risolverla una volta tornata a Mosca, se mai ci fosse riuscita. «Ora mangiamo qualcosa e poi ci dirigiamo alla zona dell’avvistamento video dello yeti. Poi andremo verso le grotte e, se ancora non avremo trovato nulla, saliremo verso nord.» «Perfetto. Io conto di essere lì, con la squadra al completo, al massimo in
ventiquattro ore. Ormai la segretezza non è più la priorità della missione, quindi potremo sentirci anche più spesso. Fate attenzione. Ciao.» «Ciao.» Yelena si sedette un attimo a terra, corrucciata, con le mani tra i capelli. «Arrivano i nostri?» Ironizzò Aldo seduto lì di fianco. «Già. Papà si è messo in testa che deve fare Rambo.» La ragazza armeggiò con il computer e aprì le fotografie che le aveva inviato Nurev. Aldo e Paul le si avvicinarono per guardare lo schermo. Prima aprirono le fotografie a colore naturale. Dai dati riportati in basso si poteva evincere che erano state scattate a circa trecento metri di altezza. Dalla sequenza di foto, si capì subito la dinamica degli eventi: nella prima era immortalato l’attimo in cui Paul si voltava verso il bosco attratto dal riflesso del binocolo dei nemici, nella secondo loro erano stesi a terra dopo che era stata esplosa la raffica di mitra, nella terza, nel boschetto, si intravedevano le figure di due uomini che correvano in direzione opposta alla loro posizione. Ben altra situazione si evinceva però dalle foto agli infrarossi: queste, grazie alla loro caratteristica di poter immortalare le fonti di calore quali i corpi umani, avrebbero dovuto catturare le immagini degli assalitori in tutte e tre le foto, invece, mentre le sagome rosse di Yelena, Aldo, Paul e Maradona erano chiaramente visibili alla sinistra delle fotografie, quelle dei due non erano presenti in nessuna foto. I tre si guardarono stupiti, poi Aldo esclamò: «Quelli che ci hanno sparato contro sono fantasmi?» Yelena aguzzò la vista e zoomò le immagini, fino a scorgere, nella seconda e nella terza foto una sottile linea rossa nel punto in cui, nelle foto a colori naturali, si trovava uno dei due nemici. «Svelato l’arcano.» Disse. «Vedete questa linea rossa?» i due annuirono. «Questa è la canna del mitra che ha sparato. È ben visibile perché ancora calda.
Le figure dei due uomini mancano perché evidentemente erano vestiti con delle tute termoisolanti. Queste tute sono costruite sovrapponendo due strati di tessuto isolante tra i quali si trova una fitta e sottile rete di tubicini con all’interno acqua. Tramite un sistema simile a quello dei condizionatori o dei frigoriferi, queste tute sono in grado di trasmettere all’esterno una temperatura uguale a quella dell’ambiente circostante, in modo da ingannare gli apparati ad infrarossi.» «Geniale. Non ne avevo mai sentito parlare.» Disse Paul, vero esperto di equipaggiamento militare. «Ovvio», rispose Yelena, «queste tute non sono ancora in commercio. Io ho potuto visionare i prototipi perché li produce la stessa azienda che ci ha fornito le nostre armi.» «Vuoi dire che abbiamo lo stesso fornitore di armi di quelli che ci hanno sparato contro?» Chiese Aldo che, ancora una volta, aveva visto oltre. «Già, e dato che l’azienda che produce queste armi è controllata dalla Dimitrov… » Aldo finì la frase per lei: «… avete una talpa all’interno della Dimitrov.» Ritelefonò subito, prima a Nurev per spiegargli perché nelle foto all’infrarosso non comparissero le sagome dei nemici, e subito dopo a Nicolai per fargli avviare delle indagini interne all’azienda per capire chi avesse fatto uscire dall’armeria le tute termoisolanti. Nicolai diede subito disposizioni affinché fosse fatta luce sulla questione. Yelena, dal canto suo, sapeva già come sarebbe andata a finire l’indagine. Mentre la ragazza portava a termine queste ultime chiamate, Aldo e Paul osservarono con attenzione le altre immagini che Nurev aveva inviato per email. Alcune erano state scattate da un’altezza superiore alle precedenti e immortalavano quindi un’area molto più vasta. Su una di queste, scattata all’infrarosso da circa un chilometro di altezza dal suolo e ritraente un area di quasi cinque chilometri di lato, Aldo notò un puntino rosso appena visibile all’estremità sinistra della foto. L’italiano guardò a lungo l’immagine, zoomando più volte, ma il puntino era troppo piccolo perché potesse rivelare la sua vera natura. Avrebbe potuto trattarsi di qualsiasi cosa: un uomo, un animale o anche un rifiuto metallico di qualsiasi genere scaldatosi durante le due ore in cui,
intorno a mezzogiorno, il sole aveva deciso di fare capolino. Neanche Yelena e Paul seppero interpretare la sagoma e anche la visione della stessa inquadratura a colori reali non si rivelò di alcun aiuto, poiché l’oggetto si trovava in una zona coperta dalla vegetazione. Poco prima delle 13.00 ripresero il loro cammino verso valle. Maradona comunicò che, maltempo permettendo, entro un’ora sarebbero arrivati al punto in cui era stato realizzato il video dello yeti e che ad un paio di chilometri da lì avrebbero trovato la zona delle grotte. Puntualizzò però che lui, come tutte le guide locali, non si era mai spinto oltre l’area del loro prossimo obiettivo, poiché, quella che andava da lì fino alla sommità della montagna, era una zona in cui ci si avventurava molto raramente sia per rispetto alle leggende locali che volevano che quel luogo fosse sacro, sia perché gli alpinisti e gli escursionisti in generale, preferivano scalare altri versanti della montagna. Ricominciò a piovere, ma, fortunatamente, con meno intensità rispetto al giorno precedente. Scendendo di quota, la vegetazione tornava a farsi più fitta e imponenti conifere svettavano verso l’alto. Un paio di volte, in lontananza, udirono l’ululato dei lupi tibetani e Maradona li avvertì di prestare attenzione perché avrebbero potuto fare amicizia con loro come con qualche orso. Aggiunse che se fossero saliti di quota nuovamente avrebbero potuto incontrare anche qualche esemplare di leopardo delle nevi. Aldo, che conosceva bene quale fosse la fauna endemica locale, chiese a Maradona se anche da quelle parti avrebbero potuto incontrare il temutissimo cobra. «Beh, si.» Disse la guida. «Anche il cobra può diventare un bel problema, se si decide di avere un incontro ravvicinato con lui tra queste foreste sperdute.» Yelena si attaccò immediatamente al braccio di Aldo. «Scommetto che hai paura dei serpenti.» Le disse. «Paura?» Disse lei sbiancando, «Terrore, direi.» Da quando avevano iniziato la missione, Aldo notò che Yelena, aveva perso la sua aurea di donna determinata e tutta d’un pezzo. Aveva iniziato a mostrare le sue debolezze e le sue paure, diventando molto meno autoritaria nelle scelte, fidandosi delle direttive di Aldo e Paul, riconoscendo tacitamente che loro che erano molto più preparati di lei ad affrontare quel tipo di missione.
Incrociarono il corso di un ruscello molto ingrossato per le piogge delle ultime ore. Lo risalirono per qualche centinaio di metri e sbucarono in uno spiazzo che aveva qualcosa di familiare. Sulle loro teste, poco a sinistra del letto del fiume, a circa quattro metri di altezza, si trovava una sorta di erella semicircolare di roccia lunga una decina di metri che, lentamente digradava da un lato fino a toccare il suolo. Aldo dopo aver guadato il ruscello saltando su dei grossi massi che ne ostacolavano il corso, risalì agilmente la roccia e si sdraiò a circa metà della erella. «Questo è il punto dal quale il guardiacaccia ha realizzato il video dello yeti.» Esclamò. Poi indicò un grosso pino: «E quello è l’albero sotto il quale lo yeti ha fatto i suoi bisogni.» Anche Yelena riconobbe il luogo: «Bene», disse, «Facciamo una breve pausa.» Prese il telefono dallo zaino. «Chiamo Nurev per comunicare la nostra posizione e accertarmi che sia riuscito a scattare qualche altra foto.» Aldo ridiscese dalla roccia e prese una barretta energetica dallo zaino imitando Paul, mentre Maradona preferì are quei momenti di pausa palleggiando con la sua pallina da tennis. Dopo aver chiuso la telefonata, Yelena estrasse il computer portatile dallo zaino. «Nurev ci ha inviato altre foto.» Disse. I tre si avvicinarono alla ragazza improvvisando una tenda sulla ragazza tenendo sollevata una cerata, in maniera da poter osservare lo schermo del computer senza il disturbo causato dalle gocce di acqua che sarebbero cadute sulla custodia impermeabile trasparente che proteggeva l’apparecchio. Dalle nuove foto, scattate un quarto d’ora prima, i quattro riconobbero la loro posizione e individuarono la zona delle grotte poco distante. Ma la foto agli infrarossi li allarmò: quello che nelle precedenti foto era solo un puntino rosso indefinito, ora aveva preso chiaramente le sembianze di una figura umana che li seguiva a meno di un chilometro di distanza.
«Chi diavolo è questo?» Chiese Aldo. «Dubito sia uno di quelli che prima ci hanno sparato contro o che sia un loro compare. Devo ritenere che siano tutti dotati di tute termoisolanti. Anche perché, se come abbiamo appurato, conoscono i particolari della nostra missione, sanno bene anche che siamo scortati da un drone con telecamere termiche.» «Non ne ho idea.» Rispose Yelena. «In ogni caso dobbiamo ripartire prima possibile. Sappiamo bene che siamo braccati, se non ci muoviamo di nostra spontanea volontà qualcuno potrebbe obbligarci a farlo con la forza, oppure farci fuori se ritiene che non siamo più in grado di trovare gli yeti.» Si incupì: «Siamo in una brutta situazione. Non possiamo procedere troppo lentamente da dar l’impressione a chi ci segue che stiamo girando a vuoto, né possiamo trovare gli yeti prima che sia arrivato mio padre con i soccorsi. In entrambi i casi ci eliminerebbero.» Aldo convenne che l’analisi della situazione fatta da Yelena fosse, purtroppo per loro, perfetta. Ma in quel momento, gettando un ultimo sguardo alla foto panoramica sullo schermo del computer prima che Yelena lo spegnesse, gli balenò in testa un’idea, forse folle, ma era pur sempre un’alternativa alla situazione di ime cui erano costretti. «Andiamo.» Disse rimettendosi lo zaino in spalla. «Ho un’idea. Forse non tutto è perduto. Arriviamo alle grotte e se siamo fortunati forse potremo nasconderci, senza farci vedere, al loro interno.» Gli altri lo guardarono non del tutto convinti, ma dalla determinazione dipinta sul suo volto decisero di seguirlo senza fare domande.
Monte Jomolhari, Bhutan, 1 giugno ore 15.30
Camminarono nel bosco per circa due chilometri. Più volte trovarono dei peli grigi rimasti incastrati nella corteccia degli alberi e, in un punto particolarmente morbido del terreno, distinsero nitidamente delle impronte simili a quelle lasciate da un piede umano, ma di dimensioni ciclopiche. Paul, dopo un’attenta analisi, stimò che l’orma non potesse avere più di due giorni. Ciò significava che qualche esemplare di yeti avrebbe potuto trovarsi nelle immediate vicinanze. Quando raggiunsero l’ingresso delle grotte, adagiato al crinale della montagna, una strana sensazione li turbò: la piccola radura antistante la roccia sembrava fuori contesto rispetto alla natura circostante, il luogo sembrava avere più l’aspetto di un orto ordinato che quello della natura rigogliosa e selvaggia della flora tibetana che avevano attraversato fino a quel momento. Le conifere terminavano di colpo ad una ventina di metri dalla parete della montagna, quasi come se qualcuno avesse reciso degli alberi nello spiazzo. Bassi arbusti ne delimitavano i contorni, mentre ordinate file di strani fiori davano un tocco di colore all’area. Yelena si avvicinò ad una fila di alte piante bianco-giallognole, dalla curiosa forma conica causata dalle foglie che si sviluppavano verso il basso. Alla base della pianta le foglie erano verdi, simili a quelle del cavolo. «Questa è la rheum nobile.» Disse la ragazza. «È la pianta di cui, secondo le analisi delle feci, si cibano gli yeti.» Aldo notò la geometria con cui le circa quindici piante crescevano allineate. «Sembrano coltivate.» Disse avvicinandosi a Yelena. «Non sembrano, lo sono.» Rispose una voce alle loro spalle. Dal bosco uscì la figura completamente zuppa d’acqua e sporca del professor Visconti con uno dei loro fucili in spalla. «Professor Visconti», esclamò Aldo, «come ha fatto a raggiungerci?»
«Sono scappato dal Taktsang quando il commando lo ha attaccato.» Rispose mentre si avviò all’ingresso delle caverne per ripararsi dalla pioggia incessante. «È vero che Jimi è morto?» Chiese ansiosamente Paul, legato da anni di amicizia allo sfortunato australiano. «Jimy è stato eroico, ma non ce l’ha fatta. Se non fosse stato per lui ora sarei morto.» «Allora la sagoma che si vedeva nella foto agli infrarossi era lui.» Disse Yelena rivolgendosi ad Aldo. «Si.» Rispose lui. Poi disse a Visconti: «Professore, perché ci ha seguiti? Non era contrario alla nostra spedizione?» «Cosa avrei potuto fare? Con il Taktsang ho perso tutto. Per salvare la mia pellaccia ho dovuto anche uccidere un uomo. L’unica cosa che potevo fare per redimere la mia anima dannata era quella di venirvi incontro per cercare di salvare voi e gli yeti.» «“Le vie dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni” caro professore. Siamo braccati da un gruppo di assassini che ci vuole fare la pelle.» Disse crucciata Yelena. «Ho visto. Ci saranno almeno una decina di persone divise in più gruppi al vostro inseguimento. Le ho viste nella foresta e non sono distanti.» Disse lui. «Ora però dobbiamo trovare una via d’uscita.» Aldo si incamminò verso le caverne e avvicinandosi al professore gli disse a bassa voce: «Io avrei un’idea. Entriamo dentro e gliela espongo.» Chiamò tutti all’interno della grotta principale e accesero un fuoco. Poi iniziò ad illustrare il suo piano. «Professore, lei conosce bene questi posti e queste caverne?» «Si», rispose Visconti, «ci vengo spesso.» «Hanno un’uscita oppure l’unico collegamento con il mondo esterno è questo ingresso.»
«C’è un’uscita che da molto più in alto, a nord. È una bella scarpinata, ci vorrà almeno un giorno di viaggio al buio. Io ho dovuto utilizzare diverse torce per attraversarla ed ero guidato da chi conosceva bene la strada.» «Abbiamo quattro torce elettriche non utilizzate e alcune pile di riserva.» Frugò nello zaino ed estrasse la sua torcia e le quattro pile di scorta che gli erano state fornite. «Ritiene che possano bastare?» «Si, ma se dobbiamo guardarci anche alle spalle dovremo tenerne accese sempre due, una in testa al gruppo e una in coda. In tal caso dubito che possano bastare.» «Non ci servirà guardarci alle spalle. Nessuno potrà seguirci.» «Come fai ad esserne così sicuro?» «Perché abbatteremo l’ingresso delle caverne con i mini missili dei nostri fucili.» Yelena e Paul sorrisero soddisfatti all’idea di Aldo, ma Visconti non era dello stesso avviso: «Aldo, tu sai bene che ogni animale ha il suo habitat e, distrutto quello, difficilmente potrà adattarsi altrove. Ebbene, il giardino che potete ammirare qui fuori», indicò l’area antistante la grotta, «è l’habitat degli yeti. Loro vivono qui, in questa piccola area, coltivano le piante di cui si nutrono e crescono i loro pochi cuccioli in questi pochi metri quadrati. Escono da quest’area per inoltrarsi nella foresta solo saltuariamente, per andare a caccia di marmotte e di takin - una specie di bovino che vive in questi luoghi - di cui si cibano durante gli inverni che ano all’interno di queste grotte.» «Come? Ha detto che coltivano? Ho sentito bene?» Esclamò Aldo. «Si, sono agricoltori stanziali. Se ricordi bene, poco fa ti dissi che quelle piante erano state coltivate. Per farlo utilizzano semplici arnesi come la zappa. Per sezionare le loro prede, invece, usano delle pietre scheggiate. Insomma, sono un po’ come i nostri antenati di dieci-quindicimila anni fa.» «Sono degli ominidi intelligenti quindi?» Chiese Yelena. «Intelligenti all’incirca come i nostri antenati del Paleolitico.» Lo stupore si dipinse sul volto dei quattro, anche Maradona aveva lasciato per un attimo da parte la sua pallina per prestare attenzione alle parole del professore.
«Quanti sono?» Chiese Aldo. «L’ultima volta che li ho contati erano trentadue.» «Solo trentadue?» «Cosa ti aspettavi, che fossero milioni?» Rispose Visconti con un sorriso. «Se fossero più numerosi non credo che sarebbero ati inosservati per così tanto tempo. Il loro numero è dettato da due fattori principali: innanzi tutto il loro habitat minuscolo e, in secondo luogo, un po’ come avviene per i panda, la scarsa fertilità delle femmine. Sono fertili per non più di una settimana in corrispondenza dell’inizio dei monsoni. In questo periodo, tutta la tribù degli yeti, attraversando queste caverne, si sposta in prossimità di un laghetto d’alta quota dove si accoppiano. Dopodichè, i maschi tornano qui per portare il cibo alle femmine. Solo un paio di femmine all’anno vengono ingravidate e, più volte, ho visto con i miei occhi madri che non sono riuscite a sopravvivere al parto.» «Ma questa è una scoperta straordinaria!» Esclamò Aldo: «Ci troviamo di fronte all’essere che nella linea evolutiva si avvicina di più a noi.» «E vorrei che ci restasse Aldo, ecco perché mi oppongo alla vostra volontà di renderli fenomeni da baraccone.» Si alzò in piedi e prese la torcia che Aldo, poco prima, aveva estratto dallo zaino. «Seguitemi, vi mostro una cosa.» Si inoltrarono nella caverna e notarono dei mucchi di erba secca simili a rozzi giacigli. «Si», disse Visconti, notando il loro interesse per quei cumuli, «dormono su quei letti di erba e foglie.» Poco più avanti illuminò con la torcia una specie di teca scavata nella roccia. Avvicinandosi notarono che al suo interno era contenuta una piccola statuina lignea, dai lineamenti vagamente antropomorfi. «Come potete vedere da questa statuina, hanno raggiunto lo stadio di evoluzione in cui si sviluppa l’idolatria. Ogni qual volta si avvicinano a questa teca si inchinano, con un gesto che ricorda il tipico saluto dei giapponesi.» «Straordinario.» Sussurrò Yelena.
«Come fanno a vedere al buio?» Chiese Aldo. «Non credo che si portino dietro delle torce infuocate coperti come sono da una folta pelliccia. A proposito, conoscono il fuoco?» «Hanno una vista notturna sviluppatissima, simile a quella dei gatti, ma conoscono il fuoco e ne hanno timore, ma non vera e propria paura. Non lo usano per riscaldarsi e non hanno ancora imparato a cuocere i cibi, ma sanno accenderlo e lo utilizzano per vedere meglio al buio. Dovete considerare che ci siamo inoltrati nella montagna per non più di cinquanta metri e ancora un po’ di luce naturale arriva, anche se a noi umani non basterebbe per vedere, al contrario dei gatti e, appunto, degli yeti. Ma, inoltrandoci nella caverna ancora di più, non arriverebbe neanche un fotone. In corrispondenza dei punti limite per la loro vista, troveremo delle cataste di legna che usano proprio per farne delle torce. La loro pelliccia in ogni caso non prende fuoco facilmente, deve essere naturalmente protetta in qualche modo.» «Bene, professore, credo che sia ora di prendere le nostre cose e vedere dove sbuca questa caverna.» Disse Aldo. Poi si rivolse a Yelena. «Appena hai un po’ di campo chiama tuo padre e, nel modo più rapido possibile, comunicagli che per un po’ non avrà nostre notizie, ma non dirgli le nostre intenzioni perché temo che i nostri telefoni siano sotto controllo.» Yelena prese il telefono e, non appena tornarono nei pressi dell’ingresso, potè effettuare la chiamata. Quando il padre rispose, la ragazza disse rapidamente: «Papà, non ho tempo per spiegarti, per un po’ non saremo raggiungibili. Ci rifaremo vivi appena saremo al sicuro. Non posso dirti altro perché i nostri telefoni sono intercettati.» Non diede il tempo al padre di rispondere che subito disse: «Ciao.» Riattaccò mentre Nicolai le stava gridando “ascoltami Yelena, avevi ragione…”. La curiosità di sapere a cosa si riferisse era tanta, ma non ebbe il tempo di pensarci oltre perché, a conferma del fatto che erano intercettati telefonicamente, pochi secondi dopo che la telefonata terminò, udirono nitidamente il vociare di alcuni uomini usciti allo scoperto dalla foresta per bloccarli. Paul aprì subito il fuoco e freddò uno degli uomini che stavano tentando di entrare nella caverna. «Caro professore, mi scusi, ma all’habitat degli yeti penseremo un'altra volta.»
Disse Aldo allontanando il professore che stava osservando impaurito la scena. Poi richiamò Paul e disse a tutti i suoi di spostarsi verso l’interno della caverna. Quindi, prese la mira e fece partire un missile dal suo fucile. Questo si diresse verso la volta dell’ingresso e, con un’esplosione assordante, la fece crollare, schiacciando uno degli inseguitori che si era lanciato verso la grotta sotto il peso dei massi e isolando il gruppo di fuggiaschi dal resto del mondo. La polvere impiegò qualche minuto a depositarsi a terra. Il buio li aveva avvolti inesorabilmente e l’unica fonte di luce era la torcia in mano a Visconti. Il professore fece una rapida conta dei presenti e vide che non mancava nessuno. Ma Aldo era inginocchiato, rivolto verso il punto in cui fino a pochi istanti prima c’era l’ingresso alle caverne. Yelena ne capì subito il motivo e gli corse incontro abbracciandolo da dietro. «Ho ucciso un uomo. Non mi era mai successo. Non ho mai ucciso neanche un animale, figuriamoci un essere umano.» Disse lui ripensando all’uomo schiacciato dalla frana a causa del missile che aveva sparato. La determinazione che aveva dimostrato fino ad un istante prima si era dissolta sotto il peso della responsabilità e del senso di colpa. «Hai ucciso un uomo che avrebbe ucciso te se ne avesse avuto la possibilità. Capisco il tuo stato d’animo, ma pensa invece che se la tua idea non avesse funzionato, in questo momento si starebbe consumando una carneficina.» Lo baciò sulla guancia. «Hai fatto la cosa giusta.» Si rialzò ancora visibilmente sotto shock e raggiunse gli altri, accompagnato da Yelena. Visconti fece strada verso le buie viscere della caverna.
Monte Jomolhari, all’esterno delle caverne, Bhutan, 1 giugno ore 16.40
«Maledizione!» L’urlo di Tigre risuonò nella foresta antistante la grotta. «Li abbiamo persi.» La sua missione rischiava di essere un fallimento completo. Se quei cinque avevano fatto saltare l’ingresso era perché sapevano che c’era un’altra via di uscita dalle grotte. Ma dove? Chiese alle sue guide bhutanesi se fossero a conoscenza del punto in cui sbucavano le caverne, ma quelli risposero timidamente che, fino a quel giorno, avevano ignorato anche l’esistenza delle caverne su quel versante della montagna. Non gli restava che una cosa da fare: telefonare Leone. «Si sono rifugiati in una caverna facendo saltare l’ingresso.» Disse teso, Tigre. «Non sappiamo dove sbuchi. Però ora basta giocare al gatto con il topo. Dobbiamo chiudere questa storia, Leone.» «Si, il piano ora cambia.» Rispose Leone. Intorno a lui si sentivano i rumori tipici di un aeroporto. «Sono stato scoperto. Mi sono accorto che le nostre email sono state lette da qualcuno. Quindi ora tutto si complica. Ma non perdiamoci d’animo.» «Ti hanno scoperto? E adesso?» «Tranquillo, so badare a me stesso. Ora però devi trovarli. Non appena individuano gli yeti, elimina Yelena e i suoi compari. Poi aspetta l’arrivo di Nicolai e riserva lo stesso trattamento a lui e ai suoi uomini. Stai attento perché sta arrivando con un vero e proprio esercito.» «E gli yeti?» «Catturane qualche esemplare. Lo zoo non può essere inaugurato senza, lo sai
bene.» «Ma come giustificheremo al mondo la morte dei Dimitrov padre e figlia più quella dei loro uomini?» Leone rise sonoramente: «Vedo già i titoli dei giornali: “Gli yeti reagiscono al tentativo di cattura da parte del magnate del petrolio Nicolai Dimitrov che perde la vita con la figlia. La spedizione riesce a catturare comunque un esemplare che verrà esposto nello zoo che porterà il suo nome.”» Un’altra fortissima risata, poi aggiunse con ironia: «Beh, forse è un po’ troppo lungo per essere il titolo di un giornale, ma il senso sarà quello. In ogni caso, non credo che un soldato della tua esperienza non sappia trovare un modo per depistare un omicidio, vero?» Tigre rise per la battuta di Leone: «Certo, Certo! Stai tranquillo, la guerra in Cecenia mi ha insegnato un sacco di cose al riguardo.» «Datevi da fare», aggiunse, infine, Leone, tornando serio, «un mare di soldi ti aspetta a Mosca.» «Tu che farai?» Chiese Tigre. «Per qualche ora farò perdere le mie tracce. Poi, appena la missione sarà compiuta tornerò a Mosca a dirigere gli affari della Dimitrov. Morti Nicolai e Yelena chi vuoi che venga nominato a capo dell’impero dal Consiglio d’Amministrazione dell’azienda?» «Ma se ti hanno scoperto?» «Tigre, ricorda che la Rainbow Militia è una finzione.» Disse ridendo, sempre più divertito, Leone. «Ormai puoi svestire anche tu i panni dell’ecologista idealista e tornare ad essere un uomo di mondo prima ancora che un mercenario. Non devo certo insegnarti io che con i soldi si può comprare tutto, figuriamoci poi il Consiglio d’Amministrazione di una grossa azienda.» Risero entrambi e chio la chiamata salutandosi.
Monte Jomolhari, all’interno delle caverne, Bhutan, 1 giugno ore 17.00
«Quante volte ha percorso questo tragitto, professore?» Chiese Yelena. «Una sola, accompagnando gli yeti.» «E si ricorda la strada?» «Lo spero proprio.» Yelena non fu per nulla rassicurata da quella risposta, ma preferì non darlo a vedere per non creare ulteriore tensione nel gruppo. Aldo stentava ancora a riprendersi e spesso si voltava alle sue spalle, fissando il buio. «Che rapporto ha instaurato con gli yeti?» Continuò lei, convinta che intavolare una discussione avrebbe contribuito ad evitare che le forze congiunte del silenzio e del buio ottenebrassero le loro menti. «All’inizio li osservavo da lontano. Non nascondo che le prime volte ero davvero intimorito, sono degli esseri enormi e non potevo sapere se fossero pacifici o violenti. Poi, pian piano, mi sono fatto vedere da lontano, lasciandomi alle spalle una via di fuga sicura. All’inizio sembrava che non fero neanche caso alla mia presenza, poi hanno iniziato ad accettarmi e a fissarmi per lunghi istanti, parlottando tra di loro.» «Parlottando?» Lo interruppe Yelena. «Si, hanno una sorta di semplice vocabolario con il quale comunicano tra loro.» Finalmente, anche Aldo sembrò reagire a quella rivelazione e rivolse l’attenzione al prosieguo del discorso del professore. «Vi stavo dicendo che hanno iniziato ad accettarmi e io ho iniziato ad avvicinarmi sempre di più. Poi, un giorno, uno di loro mi si fece incontro offrendomi una foglia di rheum nobile, la mangiai e da quel momento ho iniziato ad inserirmi nella loro comunità per studiarne i comportamenti. Vi garantisco che, se non fosse per l’aspetto fisico, sono così simili agli umani che dovrebbero essere studiati più da antropologi che
da uno zoologo come me.» «Che cosa succederà, secondo lei, quando gli yeti scopriranno che sono rimasti isolati dal loro habitat?» «Sarà traumatico. Dall’altra parte della caverna loro vivono solo per il breve periodo in cui le donne sono fertili. Si accoppiano fino a che non sono sicuri che le donne siano gravide e poi ritornano all’ingresso per tutto il resto dell’anno.» «Come mai, per accoppiarsi, attuano questa specie di trasloco temporaneo?» «Per l’acqua». Rispose Visconti. «Dall’altra parte della caverna c’è un lago e le femmine hanno comodamente a disposizione tutta l’acqua che serve loro perchè, quando sono fertili, bevono tantissimo e mangiano poco. Per questo hanno necessità di avere una riserva idrica a breve distanza. A valle, dove hanno la loro “residenza principale”» sottolineò l’espressione con un sorriso, «l’approvvigionamento di acqua è più difficoltoso perché devono bere dalle sorgenti che, in questa stagione, con l’arrivo delle piogge, spesso sono in piena. Una volta ho assistito alla potenza dell’acqua trascinare uno yeti, nonostante la sua mole.» Mentre il professore descriveva alla compagnia quanto aveva scoperto riguardo gli yeti, il loro viaggio li portava sempre di più all’interno della montagna, dove punti poco ampi, nei quali uno yeti sarebbe ato a fatica, si alternavano a spettacolari stanze ampie e alte, decorate da fantastiche statue naturali create delle stalagmiti e dalle stalattiti. Incontrarono alcuni bivi lungo il loro cammino e Visconti sembrava ricordare sempre con precisione quale strada prendere. «Come fa ad essere così sicuro che la strada che stiamo percorrendo è quella giusta, professore? In fondo, da quanto ci ha detto, ha percorso questa caverna da una parte all’altra solo una volta.» Disse Yelena. Il professore le rivolse un sorriso bonario e indicò il soffitto: «Vedi questa striscia continua nera sulla volta? È il segno lasciato dal fumo delle loro torce. È vero che ci vedono meglio di noi con il buio, ma a questa profondità l’oscurità è assoluta anche per loro.» Rivolse quindi la sua attenzione in basso e dopo qualche secondo indicò dei piccoli tizzoni di legno a terra: «Se poi non riesci a vedere la striscia di fumo perché la volta è troppo alta, basta che guardi a terra e
con un po’ d’attenzione dovresti vedere qualche traccia di cenere. Sono secoli che percorrono questa strada per andare a riprodursi, quindi puoi star certa che di simili rifiuti ne troverai un sacco.» Quando le pile originali e quelle di scorta della prima torcia si esaurirono, Aldo prese dallo zaino la sua e continuarono il viaggio utilizzando quella. Poco dopo, però, rendendosi conto che si erano fatte le 21.00, decisero di fermarsi per mangiare e dormire qualche ora in un punto in cui la caverna si allargava in un ampio locale. All’imboccatura dello stesso, trovarono uno dei tanti cumuli di legna depositati dagli yeti per alimentare le loro torce. Decisero di accendere un fuoco per scaldarsi un po’ e per non consumare la torcia elettrica anche in quel momento in cui erano fermi per mangiare, ma lo spensero poco dopo per non correre il rischio di restare intossicati dalle esalazioni di monossido di carbonio e gettarono le ceneri nel fiumiciattolo che scorreva su un lato della sala. Alla fine di quella interminabile giornata, ognuno cercò di trovare una sistemazione il più possibile comoda e si concessero qualche ora di sonno.
Caverne del monte Jomolhari, Bhutan, 2 giugno ore 5.30
Il professore svegliò tutti con un fischio e, dopo aver concesso ad ognuno un po’ di tempo ed intimità per sbrigare i propri bisogni fisiologici, il gruppo ripartì nell’oscurità. Dopo l’ennesima, interminabile, sequela di corridoi e sale più ampie, scavate nella roccia dalla forza della natura, il professore fece arrestare il loro cammino. Erano arrivati all’ingresso di un ampio ambiente, forse il più grande tra quelli che avevano percorso fino a quel punto. La volta era molto alta, intorno ai quindici metri, e il pavimento era completamente occupato da un basso laghetto profondo pochi centimetri. All’estremità opposta della sala, profonda almeno una cinquantina di metri, si trovavano più aperture. Da quel punto se ne intravedevano almeno cinque, tutte alte poco meno della volta principale e percorse da lenti fiumiciattoli alla base. «Che cosa succede, professore? Perché ci siamo fermati» Chiese Aldo piazzandosi al suo fianco. «Il trucchetto della cenere e del fumo in questa sala non funziona: la volta è troppo alta perché si possa formare il deposito di fumo e il pavimento è ricoperto di acqua e quindi non c’è cenere che ci possa guidare.» «Non ricorda di essere stato qui?» «Si, questa sala la ricordo, quindi di sicuro non ci siamo persi. Ma non ricordo quale aggio dobbiamo prendere per proseguire.» «Il suo istinto cosa le suggerisce professore?» Chiese Yelena. «Il mio istinto dice soltanto che se sbagliamo strada rischiamo di girare a vuoto nelle viscere della montagna fino a quando non moriremo di fame.» «Io credo che ogni aggio porti ad un’uscita.» Intervenne Paul. «Queste gallerie sono state tutte scavate dall’acqua, quindi devono portare in superficie prima o poi.»
«Non è detto.» Rispose Aldo. «Può anche darsi che confluiscano in qualche lago sotterraneo senza sbocco con l’esterno.» «Beh, avviciniamoci, magari troveremo qualche segno del aggio degli yeti e capiremo il percorso da prendere.» Disse Yelena. Si avviarono così verso l’estremità opposta della sala, attraversando con prudenza il laghetto che, comunque, quasi mai arrivava all’altezza del loro ginocchio. Ispezionarono rapidamente le cinque aperture che si aprivano davanti a loro. Mentre le ultime due a sinistra si univano in un unico cunicolo una decina di metri più avanti, le altre sembravano avere vita e percorsi propri. Anche in quel caso, come nella sala principale, a causa dell’altezza delle volte e dell’acqua che scorreva alla base, non era possibile intuire da dove fossero ati gli yeti. «Considerando che le due gallerie a sinistra confluiscono in una unica, abbiamo quattro possibilità.» Disse Aldo. «Chi vuole azzardare una previsione?» «Io prenderei la prima sulla destra.» Disse Yelena. «È la più larga. Questo mi fa desumere che è attraverso di lei che scorre la maggior quantità di acqua che dovrebbe quindi provenire dall’esterno.» «Può essere», disse Visconti, «ma può anche darsi che sia alimentata da una sorgente che cade direttamente dall’alto e che quindi noi non possiamo percorrere dato che non abbiamo l’attrezzatura adatta a scalate troppo lunghe e complicate.» «Credo che a questo punto una valga l’altra.» Disse Aldo. «Prendiamo quella che dice Yelena… e che Dio ci benedica.» Non trovando obiezioni all’iniziativa di Aldo, il professor Visconti puntò la torcia verso la prima galleria a destra e vi si inoltrò seguito dagli altri. Fortunatamente, la volta della galleria, dopo una cinquantina di metri si abbassò repentinamente e constatarono che sulla sua superficie non si intravedeva nessun segno di fumo lasciato dalle torce degli yeti. Quindi decisero di tornare indietro avendo perso solo pochi minuti di tempo in quell’infruttuoso tentativo. Ritornati nella sala dalla quale erano entrati, imboccarono il condotto successivo,
il secondo condotto a destra. Al contrario del precedente, lungo questo tunnel, la volta andava alzandosi sempre più, mano a mano che lo percorrevano, assumendo a tratti quasi le caratteristiche di un canyon con le alte pareti lisce ed il percorso ondulato. L’acqua gelida si manteneva sempre bassa fino alle caviglie, ma la corrente era abbastanza forte da costringere il gruppo a procedere con prudenza per non rischiare di cadere rovinosamente. Dopo due ore di cammino in quel tunnel, senza sapere se la loro scelta era stata quella giusta, Visconti fece fermare il gruppo. «Credo che arrivato a questo punto mi sarei già ricordato di aver percorso questo tunnel. Ma, purtroppo, questi luoghi non mi sono familiari. Ora dobbiamo prendere una decisione: continuare in ogni caso, sperando di trovare una via d’uscita per questa strada o tornare indietro tentando la fortuna in uno dei due tunnel che non abbiamo esplorato?» Il silenzio calò sulla compagnia. Nessuno sapeva cosa rispondere. Notando che la luce della torcia si era ormai molto affievolita, Aldo prese le pile di scorta e chiese a Maradona di illuminare l’ambiente con la sua nel tempo necessario alla sostituzione. Ci fu un breve attimo - tra il momento in cui Aldo spense la sua torcia e Maradona accese l’altra - in cui il gruppo restò al buio e, quell’attimo, diede una svolta al loro viaggio. Scorsero una fioca luce che proveniva dall’alto: un’apertura nella roccia. Subito diressero il fascio di luce della torcia verso l’alto e Paul prese il binocolo per osservare i contorni dell’apertura. La finestra che si apriva sull’esterno si trovava quasi alla sommità della volta dove la parete laterale formava una specie di terrazzo. «Si vede solo la parte superiore dell’apertura.» Disse Paul. «Da qui si scorge una frattura nella roccia alta non più di trenta centimetri, ma che probabilmente continua un po’ verso il basso perché l’estremità inferiore non è visibile a causa
del terrazzamento che si trova subito sotto. È un po’ come trovarsi sotto un terrazzo e vedere solo la sommità della porta del balcone stesso.» «Pensi che valga la pena provare ad arrivare fin lassù?» Chiese Aldo. «Secondo me si. Il problema è come arrivarci.» Le pareti laterali, a parte poche piccole nicchie, erano perfettamente lisce. Solo un ottimo scalatore sarebbe stato in grado di scalare quel tipo di costone roccioso. «Io sono un’ottima scalatrice», disse Yelena, «arriverò fin lassù con una corda e poi potrete salire anche voi.» «Sei sicura?» Chiese Aldo guardandola dritto negli occhi. «Ce la farò.» Rispose lei con una determinazione che sembrava aver perso nelle ultime ore. Si diresse al suo zaino, ne estrasse la corda, se la fisso alla schiena e cominciò la salita. Ogni o verso l’alto sembrava portarle via un’ora di tempo. Gli appigli erano pochissimi e angusti e, dopo un po’, iniziò sempre più spesso a far riposare gli arti stanchissimi e martoriati dal freddo gelido dell’acqua che scivolava lenta lungo la parete. Ebbe solo un’esitazione a meno di un metro dalla vetta, quando un piede le scivolò e sembrò che dovesse perdere la presa, ma reagì subito e riuscì, con un ultimo sforzo, a portarsi sul terrazzamento alla sommità della parete. Ispezionò velocemente la fenditura nella roccia e disse agli altri che il aggio verso l’esterno sarebbe stato agevole. Uscì dalla caverna per trovare un buon appiglio al quale legare la fune, quindi gettò l’altra estremità ai suoi compagni. Il primo a salire fu Paul. Una volta che il camerunese fu sopra, venne il turno di Maradona che, non senza difficoltà riuscì ad arrivare in cima. Per portare in cima il professore, data l’età e la conseguente poca agilità, escogitarono la soluzione di imbracarlo comodamente alla fune e Paul, dall’alto, grazie alla sua forza erculea, lo sollevò fino al terrazzamento, senza apparente sforzo. Venne quindi il momento di tirare su gli zaini e, da ultimo, salì Aldo.
Una volta fuori dalle caverne, dopo quasi un giorno ato nelle viscere della terra, si sentivano come se fossero rinati. Ma il luogo in cui erano sbucati non sembrava essere molto più accogliente delle caverne appena abbandonate. Si trovarono, infatti, sull’orlo di un profondo burrone, circondati da una fitta vegetazione, fatta di alti alberi circondati da sterpaglie e rovi acuminati, che impose loro la massima attenzione nei movimenti, per non correre il rischio di cadere giù. «Professore, riconosce questo luogo?» Chiese Aldo, dopo aver trovato un posticino abbastanza comodo e sicuro su cui sedersi. Il professore vece cenno di no con il capo. «Maradona, tu lo riconosci?» Anche il giovane bhutanese disse di no. Yelena prese il telefono satellitare e una cartina. «Cosa fai?» Le chiese Aldo. «Accendo il telefono, così, tramite le sue coordinate scopriremo dove siamo.» «No.» Disse bloccandole la mano con il telefono. «Non aprire il telefono, sappiamo bene che siamo intercettati. Cerchiamo di cavarcela da soli. Non appena avremo trovato il luogo in cui vivono gli yeti, chiameremo tuo padre, ci faremo venire a prendere e la finiremo con questa storia.» «Hai ragione», annuì Yelena, «ma adesso dove andiamo?» «Verso nord.» Rispose Visconti. «Non so esattamente dove si trova il lago rispetto al punto in cui ci troviamo ora, ma se proseguiremo verso nord la strada andrà sempre in salita, fino a quando il terreno non diventerà del tutto brullo. A quel punto la salita spianerà leggermente e il lago sarà nei paraggi. Non so quanto ci vorrà, ma se faremo così, alla fine, giungeremo al lago, ne sono certo.» Ricominciarono il loro infinito viaggio, ma dopo pochi metri e diversi scivoloni si fermarono nuovamente.
«Il terreno è troppo friabile e la salita troppo pendente per continuare così.» Disse Yelena che aveva appena salvato Maradona da un volo di diversi metri afferrandolo per un braccio e aggrappandosi, a sua volta, ad una radice. «Hai ragione.» Rispose Paul. Prese la sua corda dallo zaino e guadagnò la testa del gruppo. «Procediamo in cordata. Legatevi tutti quanti la corda alla vita. Aldo, tu vieni subito dietro a me.» Si rivolse al resto del gruppo: «Noi due che siamo i più pesanti resteremo davanti, in modo da contrastare con il nostro peso uno scivolone di voi che siete più leggeri.» Si legarono come indicato dal camerunese lasciando qualche metro di corda libera tra l’uno e l’altro. Ne avevano ate talmente tante nelle ultime ore, che qualsiasi idea venisse in mente ad uno del gruppo era accolta di buon grado e senza obiezioni. Ma quella di Paul si rivelò essere una pessima idea nel momento in cui fu proprio lui, poco più avanti, a perdere la presa con il terreno portandosi appresso per parecchi metri il resto della comitiva. Scivolarono velocemente, ruzzolando e sbattendo ogni parte del corpo contro pietre, alberi, rovi e radici. Poi, Paul ebbe la forza e la prontezza di afferrare con tutte e due le braccia il tronco di un grosso albero, bloccando la sua caduta. Subito dopo, Aldo afferrò una radice arrestandosi a sua volta. Gli altri non riuscirono a trovare appigli efficaci e sfrecciarono alla sua destra uno dopo l’altro, fino a che, un paio di metri sotto le gambe dell’italiano, la sezione di corda che divideva Visconti da Maradona, si incastrò in un tronco di pino, lasciando il professore in sicurezza alla sinistra dell’albero, mentre la guida bhutanese e Yelena si ritrovarono a penzolare nel vuoto del burrone sottostante. Dopo un primo istante di smarrimento dovuto alle tante botte prese durante la caduta, il professore si riebbe e cercò di sollevare i due che oscillavano nel baratro, ma erano troppo pesanti per le sue poche forze. «Aldo, Paul, aiutatemi a tirarli su.» Gridò. Il primo a reagire all’esortazione del professore fu Paul. Riuscì a rimettersi in piedi, e con tutta la forza che aveva in corpo, tirandosi dietro il peso di tutta la compagnia, riuscì a compiere un mezzo giro intorno all’albero cui si era aggrappato, in modo tale che il peso dei tre compagni gravasse sul tronco e il suo corpo potesse fungere da contrappeso.
Aldo e Visconti, trovandosi tra i due alberi, riuscirono a slacciarsi lentamente dall’imbracatura per alleggerire il peso della cordata. Maradona, sospeso nel vuoto, chiedeva aiuto e si dimenava, mentre Yelena, in fondo alla cordata, giaceva inerte senza sensi. Paul, dopo aver recuperato un po’ di forze, completò il giro intorno all’albero e iniziò a tirare la corda per sollevare i due compagni, utilizzando il tronco come punto fisso. Intanto Aldo si spostò presso il bordo del precipizio allungando la mano. Maradona riuscì ad afferrare la mano tesa dell’italiano e a risalire il declivio aiutato anche da Visconti. Restava da recuperare Yelena. Il suo corpo immobile era in balia dei movimenti della corda a venti metri di altezza. Sotto di lei, un torrente ingrossato dalle piogge incessanti delle ultime ore, ruggiva con tutta la sua forza. A causa della concitazione di quei drammatici momenti, i quattro sul declivio non riuscirono a coordinare i movimenti di squadra, così, mentre Aldo riusciva ad afferrare Yelena dalla cintura dei pantaloni, Maradona, nello stesso istante, si scioglieva dall’imbracatura. L’improvviso rilassamento della corda fece precipitare di qualche metro il corpo di Yelena che si tirò dietro Aldo, ormai saldamente serrato con la mano destra alla sua cintura . Gravato ora dal peso di due corpi sospesi da dover sopportare, il nodo dell’imbracatura di Yelena cedette e i due precipitarono nel vuoto con un tuffo sordo nel fiume impetuoso.
TERZA PARTE
Paro, Bhutan, 2 giugno ore 10.00
Nicolai Dimitrov, appena arrivato a Paro, si diresse immediatamente nella sala operativa messa in piedi da Mattia e Nurev. Entrò nell’appartamento senza neanche salutare e trovò i due intenti ad osservare scrupolosamente i monitor di tre computer posti in fila su una scrivania. «Mostrami le foto.» Ordinò a Nurev. Il militare armeggiò con il mouse di un computer e, apertasi la fotografia scattata poco prima dal drone, indicò sullo schermo tre figure che risalivano un irto declivio. «Questi sono il camerunese, la guida locale e un terzo soggetto sconosciuto.» Disse Nurev. «Di mio fratello e di sua figlia non ci sono tracce.» Proseguì Mattia, atterrito dalla prospettiva di aver perso il fratello in quell’avventura cui lui stesso lo aveva spinto quasi con la forza. «Puoi zoomare sullo sconosciuto?» Chiese Nicolai, notando qualcosa di vagamente familiare nella postura della figura. Nurev allargò più che potè l’immagine ripresa dall’alto che, grazie ad un’angolazione leggermente frontale alle figure, permetteva di vederne i volti. «Visconti!» Esclamò. «Che diavolo ci fa quel pazzo in questo angolo sperduto del mondo?» Mattia si avvicinò allo schermo e riconobbe subito il volto del professore di suo fratello nonché grande amico di suo padre. «Secondo me, aveva capito prima di tutti dove fosse lo yeti.» Ripose Mattia. «Ed evidentemente ha preferito sparire dalla circolazione, piuttosto che rivelare al mondo la sua scoperta.» Il magnate russo, però, lasciò subito cadere il discorso relativo a Visconti e alle
sue vicende, tornando a concentrarsi ai tema che gli stavano più a cuore: il destino di Yelena e la cattura dello yeti. «Rimanda in volo quel maledetto drone. Setaccia da cima a fondo il Bhutan e l’intero Himalaya se necessario, ma trova mia figlia.» Urlò a Nurev, il volto distorto dalle emozioni. «Spiacente signor Dimitrov», provò a dire il giovane, intimorito, «ma con queste condizioni estreme di pioggia e vento il drone non può volare. Rischieremmo di perderlo.» «Non me ne può interessare di meno delle sorti del tuo giocattolo.» Gridò come un ossesso. «Manda in volo quell’aggeggio. Se dovesse subire danni sarà mia cura comprarne altri cento all’esercito russo.» Nurev mantenne la calma, nonostante il clima infuocato divampato dopo l’arrivo di Nicolai Dimitrov nell’ufficio. «Ho bisogno dell’ordine di un mio superiore per poterlo fare, signore. Quell’aggeggio - come lo ha definito lei - costa migliaia di rubli, soldi dei contribuenti.» «Hai bisogno di un ordine dall’alto?» Sbraitò Nicolai. «Bene, lo avrai.» Uscì dalla stanza e inoltrò una chiamata con il suo cellulare. Mattia e Nurev riuscirono ad ascoltare solo alcuni spezzoni di conversazione in russo, poi Nicolai rientrò nella stanza e porse il telefono al militare: «Il presidente della Federazione Russa avrebbe qualcosina da dirti, soldato.» In realtà Nurev era un Maggiore dell’esercito, non un semplice soldato ma, Dimitrov, lo apostrofò con quel grado per sottolineare quale fosse, al di là dei titoli e dei meriti militari o civili, la vera differenza gerarchica tra il magnate ed il militare. Nurev prese il telefono e, senza ribattere alcuna parola, ascoltò quanto il presidente aveva da dirgli. Dopodichè, restituito il telefono a Nicolai Dimitrov, prese la console di comando del drone e, subito dopo aver premuto un tasto rosso, su uno dei tre monitor sulla scrivania comparvero le immagini del decollo del velivolo provenienti dalla telecamera di bordo. Era evidente come il drone non riuscisse a restare in assetto, sballottato violentemente dalla pioggia e dai forti venti che imperversavano nella zona. Sfiorò più volte le cime degli alberi del boschetto antistante la radura in cui Nurev aveva improvvisato la piccola rampa di atterraggio ma, dopo un’ultima
esitazione, riuscì a guadagnare quota e a dirigersi verso il versante est del monte Jomolhari. Il volo proseguì senza particolari problemi per circa tre minuti. Poi una raffica di vento particolarmente forte lo fece sobbalzare violentemente fino a costringerlo a ruotare su se stesso. Una serie di luci si accesero sulla console e a nulla valsero i mille sforzi di Nurev per far ritornare il velivolo in assetto. Dopo un’ultima giravolta, il suolo si fece sempre più vicino, poi lo schermo divenne nero e le luci dei comandi si accesero tutte contemporaneamente per un’ultima volta. «Quanti droni ha detto che avrebbe comprato, signore?» Disse ironicamente Nurev ad uno shockato Dimitrov. «Guarda caso, me ne servirebbe giusto uno nuovo proprio in questo momento.» Gettò la console a terra e uscì dalla stanza sbuffando, mentre Nicolai cercò, senza trovare, un cenno di comprensione sul viso affranto di Mattia. Il magnate uscì in strada e chiamò a se uno dei suoi uomini, facendo cenno di seguirlo dentro. «Mamonov», disse rivolto all’alto mercenario arrivato poco prima con lui da mosca, «estrapola da questi computer tutti i dati necessari a raggiungere quel posto.» Indicò la foto con le tre figure, diffusa sullo schermo centrale. Mamonov smanettò rapidamente con mouse e tastiere e dopo pochi minuti stampò una serie di fogli. «Possiamo andare.» Disse il mercenario. «So dove sono. Con l’elicottero saremo rapidamente sul luogo.» Dimitrov fece strada verso l’uscita e salirono sulla jeep in attesa.
Monte Jomolhari, Bhutan, 2 giugno, nel frattempo.
Dopo essersi ripresi dallo shock causato dalla vista dei corpi dei due compagni scomparire nel fiume sottostante, Visconti, Paul e Maradona, ripresero il cammino verso nord. Non avendo con loro né telefoni, né altri modi per poter comunicare con il mondo, decisero di tornare al Taktsang o, comunque, di fermarsi al primo avamposto di civiltà che avrebbero trovato sull’altro versante della montagna dove, al contrario della parete est sulla quale si trovavano ora, con un po’ di fortuna, avrebbero potuto imbattersi in qualche sperduta fattoria. In realtà, Paul, aveva insistito affinché continuassero la missione, ma, Visconti, non senza sforzi, riuscì a convincerlo che se anche avessero trovato gli yeti, non avrebbero avuto modo di contattare chicchessia per avviare una missione di recupero. Paul sapeva che Visconti aveva ragione, ma, allo stesso tempo, aveva capito che il professore non era assolutamente intenzionato a far trovare gli yeti. Se poche ore prima il professore aveva guidato la compagnia lungo le caverne, non era stato per condurli dagli inafferrabili animali, ma solo per salvare le loro vite dalla minaccia rappresentata dai nemici che li inseguivano. Dopo un’ora di cammino lungo il declivio scosceso, finalmente la strada spianò e il paesaggio diventò completamente spoglio e grigio, fatta eccezione qua e là da radi e bassi arbusti e dai silenziosi rigagnoli in cui si era incanalata l’acqua piovana caduta nelle ultime ore. Pioggia e vento concessero una tregua, permettendo ad un pallido sole di fare capolino tra le nuvole. Quando iniziarono a godere del leggero tepore regalato dal sole della tarda mattinata sui loro corpi sporchi, stanchi e zuppi d’acqua, il rumore del temporale appena cessato venne sostituito dal basso e inconfondibile turbinio delle eliche di tre elicotteri che risalivano rapidamente la valle. Paul impugnò prontamente il binocolo, intimorito dal fatto che i velivoli potessero appartenere ai nemici al loro inseguimento. Il suo viso si rilassò, quando notò sulla carlinga dell’imponente bielica in testa alla formazione le insegne della Dimitrov.
«Siamo salvi!» Urlò ridendo come un bambino sbracciandosi nel tentativo di attirare l’attenzione degli elicotteri che, però, avevano iniziato a girare in tondo sulla valle sottostante lontani dalla loro posizione. Corse verso il cespo di arbusti più vicino e utilizzando il suo accendino a petrolio, riuscì a dargli fuoco. Gli uomini a bordo degli elicotteri sembravano non averli ancora individuati. Allora prese dal suo zaino una cerata e la gettò sulle fiamme. Grazie alle materie plastiche di cui era composta, questa iniziò a sprigionare una fitta colonna di fumo nero e maleodorante. Poi indirizzò le lenti del binocolo verso il sole, cercando di indirizzarne i riflessi verso i piloti degli elicotteri. Finalmente, i suoi sforzi ebbero successo e uno degli elicotteri abbandonò l’ordinato volo in formazione per dirigersi verso di loro. Il Sikorsky S-92 atterrò a poca distanza da loro e dal portellone di sinistra scesero tre uomini, mentre si intravedevano all’interno le sagome di altri eggeri rimasti seduti. Riconobbe subito il primo, Nicolai Dimitrov, in una comoda tenuta sportiva color kaki, mentre non conosceva gli altri due, vestiti in tuta mimetica e con un mitra a tracolla. Paul si fece prontamente incontro al magnate che lo salutò con un sorriso stringendogli la mano. Poi, dopo un rapido scambio di battute, insieme, si avvicinarono a Visconti e Maradona. «Teodoro Visconti!» Esclamò Dimitrov con un leggero sorriso sul viso sofferente, «mai mi sarei aspettato di rivederti.» «Beh, effettivamente, ultimamente il Bhutan sembra essere un posto parecchio affollato.» Rispose il professore. «Hai avuto modo di parlare con Yelena?» «Si, so tutto.» «Perchè non è qui con voi? Poco fa, da una foto del drone, abbiamo visto che siete rimasti soltanto in tre. Raccontami cosa è successo.»
Il professore descrisse con calma e precisione a Dimitrov gli ultimi avvenimenti, da quando la compagnia si presentò al Taktsang fino al momento in cui Aldo e Yelena precipitarono nel fiume. Alla fine del racconto Nicolai, indicando il punto in cui gli altri due elicotteri stavano volteggiando, disse: «Allora è proprio in quella valle lì in fondo che dobbiamo cercarla?» «Penso di si.» Rispose il professore. «Ma temo che la forza della corrente, ormai, abbia portato i corpi di Yelena e Aldo molto lontano da qui.» Una lacrima comparve sul volto di Dimitrov: «È mia figlia. La troverò, a costo di radere al suolo l’intero Himalaya e trasformarlo in una pianura.» Si voltò per alcuni lunghi istanti verso gli elicotteri in volo, rispondendo con monosillabi, in russo, ad alcune domande che i militari al suo fianco gli ponevano. Poi afferrò delicatamente una spalla di Visconti: «Teodoro, tu sai dov’è lo yeti. Lo so, l’ho sempre sospettato dal momento in cui sei sparito da Mosca. In nome dell’affetto che ancora lega entrambi ad Olga e in onore del suo nome e della sua volontà, dimmi dove si trova perché almeno il suo sogno possa essere realizzato.» «Nicolai», disse Visconti portandosi una mano alla fronte e volgendo lo sguardo al cielo, «come diavolo fai a pensare ancora a questa follia sapendo che tua figlia probabilmente è morta nel tentativo di trovare quell’animale? Credimi, se Olga fosse a conoscenza di quello che ho scoperto sugli yeti in questi anni, anche lei vorrebbe che venissero lasciati in pace.» «Che cosa avresti scoperto di così sconvolgente?» Il professore lo guardò negli occhi intensamente: «Lo yeti non è una specie di orso o di grossa scimmia come generalmente si supponeva. Si tratta di ominidi a tutti gli effetti e con un notevole sviluppo intellettivo: coltivano, utilizzano utensili, padroneggiano il fuoco e hanno un linguaggio complesso. Non sono animali che dovrebbero trovarsi in uno zoo. Non sono animali che l’uomo dovrebbe conoscere. Nessuna delle due specie è preparata a conoscere l’altra.» «Ma è straordinario!» Esclamò Dimitrov. «Forse la più importante scoperta scientifica di tutti i tempi, non ti rendi conto?»
«Nicolai, ne esistono soltanto trentadue esemplari e vivono in un ecosistema fragilissimo e dalle dimensioni minuscole. Tra l’altro, temo che avendo fatto esplodere l’ingresso delle caverne più a valle, abbiamo già compromesso irrimediabilmente il loro habitat. Penso che l’umana ricerca di conoscenza qui debba fermarsi. Se dovessimo rendere nota al mondo questa scoperta, il Bhutan, da oasi di pace e tranquillità qual è oggi, si trasformerebbe in un luogo affollato di turisti come Roma, Londra, Parigi…» Fece degli ampi cenni di dissenso con il capo, «no, Nicolai non possiamo fare questo. In nome dell’amore che la tua amata Olga aveva per la natura, ti chiedo di fermarti.» «Caro amico», rispose Dimitrov con determinazione e sincero affetto verso Visconti, «Olga non c’è più e non potremo mai sapere come la penserebbe. Io so solo che le ho fatto una promessa prima che morisse e sono intenzionato a mantenerla. Ora, se tu mi aiuterai, la paternità della scoperta verrà attribuita a te e il tuo nome verrà scritto nei libri di storia, riscattando il tuo onore dalle umiliazioni che hai dovuto subire dalla comunità scientifica. Se non vorrai aiutarmi, non porterò rancore, potrai tornare tra i tuoi monaci a pregare, ma non mi fermerai. Ormai so che lo yeti è nei paraggi e ho gli uomini e i mezzi per trovarlo.» «Nicolai, ascoltami,», le parole di Visconti sembravano quasi una supplica, «vai a cercare Yelena. Lei e Aldo sono due persone in gamba e magari sono riuscite a trovare un modo per salvarsi la pelle, ma lascia stare gli yeti.» «Questo vuol dire che non mi aiuterai?» Il professore fece cenno di no con il capo. Nicolai rivolse quindi lo sguardo verso Paul. «Signor ‘Nkonu, il professore le ha detto dove si trovano gli yeti?» Paul esitò un istante e Visconti lo fulminò con lo sguardo, implorandolo tacitamente di mantenere il silenzio. Il camerunese sostenne lo sguardo di Visconti per un attimo, poi abbasso gli occhi a terra: «Si, ci ha detto dove si trovano gli yeti. Credo di aver capito l’area in cui vivono.» Poi tornò a guardare il volto inorridito di Visconti: «Professore, mi dispiace, ma io sono un professionista e ho firmato un contratto con una tale quantità di zeri da poter sfamare l’intero Camerun per molto tempo. Caccio e
cerco animali di ogni razza e dimensione da una vita. Potrà non piacerle, ma è così che mi guadagno da vivere. È così che ho sfamato e fatto studiare i miei tre figli. È così che ho fornito tante attrazioni a molti zoo del mondo ed è grazie a questi animali se tanta gente lavora e sfama a sua volta la sua famiglia. Lei avrà la sua religione e i suoi principi che io rispetto, ma ritengo anche che, purtroppo, il mondo sia dominato dalla legge del più forte che sarà brutale e poco democratica, ma è l’unica che riesce a far mantenere un po’ di ordine in questo mondo. È questa che regola gli equilibri tra le specie ed è in virtù di essa se l’uomo si è evoluto in questo modo rispetto agli altri animali, facendo si che in uno zoo noi siamo gli spettatori e gli altri animali le attrazioni.» «La legge del più forte prevede che se io sono dotato di un’arma più forte della tua, posso ucciderti da un momento all’altro, a mio piacimento.» Urlò Visconti. «Si, forse ha ragione, ma prevede anche che se la persona che possiede “l’arma più forte” è dotata di raziocinio, questa viene utilizzata solo in casi estremi. A cosa pensa che servano le forze di polizia nel mondo? In ogni caso, professore, è inutile continuare a fare sfoggio delle nostre conoscenze di filosofia spicciola, ho firmato un contratto e lo rispetterò.» Si rivolse quindi a Dimitrov: «Prendete una cartina di questo luogo. Deve esserci un lago nei paraggi. A quanto ci ha detto il professore, gli yeti dovrebbero trovarsi sulle sue sponde.» Visconti si girò verso l’elicottero roso dalla rabbia, serrando i pugni e imprecando in italiano. «Va bene», disse, «se è così che deve andare, vi aiuterò, ma a tre condizioni… » si fermò guardando Nicolai negli occhi, il quale, allargando le braccia, gli fece cenno di proseguire, «la prima è che catturerete l’esemplare che vi indicherò io. La seconda è che alla morte di questo esemplare non ne verrete a prendere altri. In fondo l’opinione comune è che lo yeti sia una creatura unica e solitaria, non che sia una vera e propria razza animale quindi, morto quell’esemplare, morto il mito dietro ad esso. La terza condizione è che non rivelerete mai il luogo dove è stato ritrovato.» Nicolai riflettè qualche attimo sulle condizioni dettategli dal professore. Avrebbe trovato ugualmente gli yeti, erano nel posto giusto, Paul glielo aveva confermato. Era solo una questione di tempo ormai. Ma se li avesse trovati alla svelta avrebbe potuto concentrare tutti i suoi sforzi sulla ricerca di Yelena. In fondo, pensò, Visconti avrebbe potuto anche aiutare lo zoo a provvedere alle
esigenze dell’animale, dato che ne conosceva il modo di vivere, scongiurandone così una morte prematura in cattività. Si, gli conveniva farsi aiutare. Decise di essere il più onesto possibile con l’amico: «Teodoro, siamo amici e sai bene che con ciò che sono venuto a conoscenza ora, sono in grado di trovare quegli animali anche senza il tuo aiuto. Tuttavia, per rispetto della tu amicizia e dell’affetto che ti legava ad Olga, ho deciso di accogliere la tua proposta, ma con delle precisazioni: La prima condizione la accetto così come me l’hai posta e sarai tu ad indicarmi l’esemplare da catturare. Accetto anche la seconda, ma ti anticipo sin d’ora che faremo esperimenti genetici sull’esemplare e che quindi, qualora riuscissimo a clonarlo, esporremo nello zoo gli esemplari clonati.» Una smorfia si dipinse sul volto di Visconti nel sentir pronunciare il termine “clonazione”, ma ormai aveva capito che ad avere il coltello dalla parte del manico era Nicolai e che doveva quindi accettare quella sua mediazione. «In merito alla terza condizione, per quanto mi riguarda non c’è nessun problema a tenere segreto il luogo del ritrovamento, anzi, molto meglio per noi se potesse restare tale. Il problema è che, come avrai capito, questa missione è stata seguita da vicino da un gruppo di nemici non ben identificati. Ancora nessuno ha avanzato rivendicazioni, quindi ignoro quali possano essere le loro reali intenzioni e non so se potrò indurli al silenzio. Quindi è una condizione che accetto con il condizionale perché il suo rispetto non dipende solo da me.» Visconti abbassò il capo. Nicolai aveva ragione, nonostante il suo patrimonio, non poteva comprare il silenzio di un nemico che neanche conosceva. Si avviarono verso l’elicottero in attesa. Poco prima di entrare, Nicolai fermò Visconti trattenendolo per un braccio con il rumore delle eliche a smorzare la sua voce. «Perché, anni fa, hai deciso di far perdere le tue tracce?» Visconti sorrise, poi si voltò, mostrando all’amico con un ampio gesto del braccio il panorama che si apriva davanti ai loro occhi. «Cercando lo yeti ho trovato il paradiso… perché mai sarei dovuto tornare all’inferno? Quando gli occidentali capiranno che siamo ospiti su questo pianeta e che dobbiamo rispettarne gli equilibri forse non ci sarà più bisogno di costruire zoo, perché saranno gli animali a venire, in pace, da noi.» Salì a bordo dell’elicottero lasciando Dimitrov a contemplare con occhi diversi il paesaggio da favola che aveva davanti.
Monte Jomolhari, Bhutan, 2 giugno, ore 12.05.
Quando i suoi uomini gli comunicarono le ultime novità fu invaso da un’ondata di euforia. Prese subito il telefono e chiamò Leone. «Leone, abbiamo ottime notizie.» Esordì Tigre. «Hanno trovato gli yeti?» «Meglio, molto meglio. La ragazza e il suo tirapiedi italiano sono morti cadendo in un fiume. Dalle ultime conversazioni radio degli uomini di Dimitrov che abbiamo intercettato, sembra non ci siano dubbi. Due elicotteri stanno sorvolando la valle sotto il monte Jomolhari alla ricerca dei corpi.» «Perfetto.» Esclamò. «Ma la ricerca a che punto è?» «Nicolai Dimitrov è sul luogo a bordo di un terzo elicottero. Ha recuperato gli altri membri della spedizione e ora si stanno dirigendo verso il luogo in cui vivono gli yeti.» «Yerevadze a bordo di quale elicottero si trova?» «Su quello di Dimitrov.» «Perfetto, se lui è con Dimitrov non abbiamo altri problemi. Raggiungeteli, catturate un esemplare di yeti ed eliminate tutti.» «Deve sembrare un incidente», disse, pensieroso, Tigre, «dopo aver ucciso tutti gli uomini di Dimitrov li metteremo nell’elicottero e lo faremo esplodere, simulando un atterraggio andato a male. Poi recupereremo un esemplare della bestia e lo porteremo a Paro dove l’aereo della Dimitrov è in attesa.» «Ottimo.» Rispose Leone. Poi aggiunse: «A meno che non vengano a dar man forte a Dimitrov, non preoccupatevi degli equipaggi degli altri due elicotteri, sono tutti mercenari, comprerò il loro silenzio così come mi assicurerò che l’equipaggio a bordo dell’aereo fermo a Paro non faccia troppe domande.»
«Ok. Spero che la prossima volta che ci sentiremo la missione sarà finalmente compiuta.» «Dovrà essere così, il tempo stringe. Io sono in Lussemburgo, e credo di riuscire a sbrigare le faccende burocratiche di cui mi sto occupando entro il primo pomeriggio. Se tutto filerà liscio, la Dimitrov, lo yeti, lo zoo e tutto il resto, tra poche ore saranno nostri. Nonostante gli intoppi, la fortuna ci sta dando una mano a raddrizzare a nostro favore questa situazione.»
A valle del Monte Jomolhari, Bhutan, 2 giugno, ore 12.15.
Mentre il fiume scorreva vorticoso a meno di un metro dalle sue gambe distese, un tiepido raggio di sole gli illuminò il volto tumefatto. Aldo si svegliò lentamente, intontito e dolorante, la gamba destra quasi immobilizzata dalle acute fitte di dolore provenienti dal profondo taglio che si era procurato nell’impatto con una roccia aguzza. In quel primo lungo momento in cui si rese conto di essere ancora vivo, non riuscì a ricordare dove fosse, cosa stesse facendo e perché gli fe male tutto. Poi, con il piccolo barlume di lucidità che riuscì a recuperare nei recessi del suo cervello, ricostruì con la mente gli attimi infiniti della folle discesa in balia della corrente del fiume. La prima immagine che gli sovvenne fu il momento della caduta. Venti metri di volo, giù, a capofitto, verso le acque turbinose del fiume. Una mano stringeva forte la cintura di Yelena, inerte sotto di lui. In un attimo, con una torsione che non avrebbe mai immaginato di essere in grado di compiere, riuscì a far ruotare i due corpi. Lei si trovò sopra di lui che dava la schiena al fiume. Poi l’impatto, forte, da mozzare il respiro, ma attutito dal pesante zaino che aveva in spalla, senza il quale la sua schiena si sarebbe certamente spezzata in più punti. Quindi iniziarono a scendere a velocità folle verso valle, la potenza delle rapide che tentava in ogni modo di farli sprofondare sempre più giù, fino ad annegarli e la sua forza di vivere che, al contrario, gli dava le energie per restare a galla e tener sollevata oltre il pelo dell’acqua anche la testa di Yelena. Lo zaino si dimostrò essere ancora una volta un fidato amico, quando attutì gli impatti con numerose rocce disseminate lungo il letto del fiume. Arrivarono alla cascata: rumorosa, imponente, potenzialmente leale. Un nuovo volo, un nuovo impatto. Questa volta perse la presa su Yelena. Ruotò su se stesso, le gambe a favore di corrente, e sbattè violentemente contro lo spigolo della roccia piramidale. Un dolore lancinante, l’ennesimo provato
durante quei pochi minuti, la coscia destra che sembrava essere diventata il ricettacolo di tutti i mali terreni. Un urlo ferino. L’acqua nella gola. Il suo campo visivo venne invaso da un caleidoscopio di punti colorati, ma riuscì a tirarsi su ancora una volta. Era la vita a volergli impedire di lasciare questo mondo, o la morte che si divertiva a giocare con lui prima di aprirgli le porte dell’inferno? E se fosse già morto e quello era solo l’antipasto del girone dantesco che gli sarebbe toccato abitare per l’eternità? Poi vide Yelena che galleggiava poco distante, prona, con il volto in acqua. Un’altra scarica di adrenalina invase il suo corpo martoriato, più forte della furia dell’acqua, più intensa del dolore. Sbracciando, la raggiunse e la rigirò su se stessa. Il sole riscaldava nuovamente il suo bel viso rigato di sangue, ma quanto calore fosse rimasto nelle sue membra non era dato sapersi. Con un ultimo, terrificante sforzo riuscì a guidare l’ammasso di lividi dei loro corpi verso una piccola radura sotto un costone roccioso. Trascinò il corpo di Yelena all’asciutto. Immobile. Silenzioso. Spento. Era tutto perduto? Iniziò a praticarle il massaggio cardiaco: nessuna reazione. Poi la respirazione bocca a bocca, poggiando le sue labbra su quelle di lei, fino a poche ore prima calde e morbide, ora glacialmente fredde e marmoree: nessuna reazione. Ricominciò da capo: nessuna reazione. Ma continuò, ancora e ancora, il sangue che colava lento lungo la sua coscia fino a formare una pozzanghera rossa sotto di lui. Ma continuò.
In preda alla disperazione urlò, maledisse il mondo, il genere umano, gli yeti e tutte le cose visibili e invisibili. Poi, senza alcun motivo logico, una stupida scena di uno stupido film visto da ragazzo gli tornò in mente: che una cosa stupida possa davvero salvare una vita? Imitò il protagonista del film e scagliò un violentissimo pugno sullo sterno della ragazza. Lei tossì violentemente. L’acqua sgorgò a fiotti dalla sua bocca. Per un rapido, intensissimo momento, prima di richiudersi, gli occhi di lei si aprirono e incrociarono lo sguardo di lui. Ce l’avrebbero fatta, insieme, ora ne era certo, quello sguardo non poteva mentire. Quando i polmoni furono svuotati dall’acqua, la ragazza diede piccoli cenni di lucidità. Sussurrò il nome di Aldo e gemette toccandosi il ventre. Poi svenne. In quel momento Aldo abbassò gli occhi sulla sua pallida mano insanguinata e notò lo squarcio profondo sul fianco, a sinistra dell’ombelico. Per un attimo il panico lo assalì. Poi ripensò allo sguardo di pochi secondi prima e tutto divenne più facile. Recuperò lo zaino poco distante ed estrasse la valigetta del pronto soccorso. Inondò la ferita di disinfettante, prese ago e filo e cominciò a cucire. Non aveva mai cucito neanche un bottone in vita sua, ma, ad operazione terminata, ritenne di aver fatto un ottimo lavoro. Poi applicò una fascia sul ventre piatto della ragazza per tamponare la fuoriuscita di sangue. Solo allora rivolse l’attenzione su se stesso, sugli infiniti traumi che per alcuni minuti aveva ignorato e sulla pozza di sangue sotto di lui. Capì che la sua carriera di sarto non era terminata con i punti appena applicati a Yelena e, gemendo, disinfettò e suturò anche il suo squarcio sulla coscia. Le forze lo abbandonarono quasi del tutto, ma riuscì a dare un ultimo sguardo a Yelena, capendo che aveva subito anche un brutto trauma alla fronte. Il taglio era piccolo e non necessitava di punti, ma l’ematoma aveva iniziato a occupare tutto il lato destro del suo bellissimo viso.
Disinfettò anche quel taglio e applicò un cerotto. C’erano altre mille cose da fare per mettere al sicuro la salute di tutti e due, ma non c’erano più energie nel suo corpo e nella sua mente…
… E poi il risveglio. Non sapeva quanto a lungo avesse dormito, il suo orologio era completamente distrutto, ma aiutandosi con il sole e le ombre, stabilì che doveva essere all’incirca mezzogiorno, quindi un paio d’ore dopo la caduta nel fiume. Restò disteso alcuni minuti, constatando che lì di fianco a lui Yelena, sudata, respirava velocemente, in stato di incoscienza. La svegliò strattonandola delicatamente per la spalla. Lei aprì gli occhi, cercò di farfugliare qualcosa, ma Aldo capì subito che qualcosa non andava. Le tastò la fronte. Bollente. Per un attimo il panico non lo sopraffece: soli, feriti, perduti tra montagne sconosciute, senza cibo, con poca acqua, pochi medicinali e in balia della natura selvaggia. Cosa avrebbe potuto fare contro la febbre? Innanzitutto fece un veloce inventario di ciò che era contenuto nel suo zaino. Quello di Yelena, purtroppo, era andato perduto nel fiume e con esso i telefoni, il computer e una delle due tende, mentre l’altra era in quello di Paul. Dopo aver estratto il sacco a pelo e la stuoia zuppi d’acqua che erano legati a delle cinghie esterne, iniziò ad ispezionare la cassetta per il pronto soccorso che aveva già aperto per suturare le ferite. Non era molto diversa da quelle che portava solitamente con lui nei suoi viaggi per il mondo: garze sterili, cerotti, lacci emostatici, aghi e filo per le suture, forbici, un flacone di disinfettante e alcune confezioni di soluzione fisiologica. Sul fondo del contenitore in plastica si trovavano due pomate che, grazie ai disegni illustrativi, capì essere utili al trattamento delle scottature e delle punture da insetti. Insieme alle pomate trovò diverse confezioni di medicinali, ma le istruzioni in russo, lingua che non conosceva per niente, lo aiutavano poco. Non poteva arrischiarsi a somministrare a se stesso e a Yelena un farmaco a caso. Doveva cercare di svegliarla, di farla restare lucida per qualche attimo e di farsi indicare che tipo di medicinali era contenuto in quelle scatole.
Date le profonde ferite che avevano ricevuto e la febbre che aveva colpito Yelena, Aldo riteneva che entrambi avessero bisogno almeno di un analgesico e tra l’altro, nelle loro condizioni, per i prossimi giorni, di spostarsi per più di qualche metro dal loro attuale riparo per cercare aiuto non se ne poteva neanche parlare. Avrebbero dovuto sbrigarsela da soli con l’aiuto di ciò che era contenuto nel suo zaino. Continuando con l’inventario, estrasse le armi. Il fucile ipertecnologico era completamente inutilizzabile dato che la canna si era piegata irrimediabilmente dopo uno degli innumerevoli urti patiti contro le rocce. La pistola, invece, era intatta, così come il fucile sparasiringhe. Le custodie in cui erano state stipate avevano assolto nel migliore dei modi al loro compito. Anche le sei boccette di anestetico erano integre così come la bussola, lo strano tubo che sparava la rete per catturare gli animali e i due coltelli, quello multiuso con un’infinità di funzioni e quello militare che, all’interno del manico svitabile, aveva una serie di utilissimi piccoli oggetti quali aghi, ami da pesca, filo di nylon e pietra focaia. Venne poi il turno dei viveri: una borraccia d’acqua, due piccole confezioni di succo di frutta e otto barrette energetiche erano tutto ciò che conteneva la loro “dispensa”. Questa penuria di viveri non rappresentava semplicemente un problema: era una catastrofe! Con quelle provviste non sarebbero potuti sopravvivere per più di un paio di giorni, poi avrebbero dovuto provvedere in altri modi e, nelle loro condizioni, dubitava che sarebbero potuti andare a caccia. In fondo allo zaino - fortunatamente avvolti in uno spesso strato impermeabile di cellophane - trovò una pesante felpa, un paio di pantaloni, un leggero giubbotto k-way, una lunga cerata, una coperta isotermica, alcuni asciugamani e un cambio di intimo. L’equipaggiamento era completato da due corde – una robusta da scalata e un’altra più piccola e sottile – alcuni moschettoni e chiodi da roccia, una piccozza, un martelletto e un set di utensili da cucina da campo. Immediatamente, spogliò Yelena dai vestiti ancora bagnati che aveva indosso e la rivestì con la felpa e i pantaloni asciutti e la coprì con la coperta isotermica, rivolgendone il lato dorato all’esterno, in modo da non permettere la dispersione del calore corporeo.
Venne il momento di studiare attentamente l’area in cui si erano arenati. Si trattava di un anfratto roccioso, piccolo e piatto che si ergeva di pochi centimetri sul livello dell’acqua. Dalla riva del fiume alla parete rocciosa alle loro spalle non c’erano più di cinque metri. La larghezza era all’incirca di dieci metri. Alla loro sinistra, un’alta roccia grigia e appuntita sbarrava la strada verso la foresta retrostante, mentre, a destra, era presente uno stretto pertugio tra l’acqua e la roccia, attraverso il quale era possibile inoltrarsi nella fitta vegetazione. Scrutò il cielo sopra di lui attraverso il piccolo spazio che gli alti alberi concedevano alla vista e capì che la pioggia sarebbe tornata a breve. Doveva escogitare un modo per mettere Yelena al riparo. Per prima cosa doveva approntare un giaciglio per tenerla il più lontano possibile dall’acqua piovana che avrebbe invaso la zona. Ma, innanzitutto, qualsiasi cosa avesse avuto in mente di fare, doveva cercare di rimettersi in piedi, nonostante la ferita alla coscia reclamasse le sue dolorose attenzioni. Strisciò fino al limitare del bosco e trovò un ramo di pino sottile ma resistente. Tagliò i rametti di troppo con il coltello e ne fece la sua stampella. Raccolse quindi altri legnetti, il più possibile asciutti e, grazie all’accendino a petrolio che fortunatamente ancora funzionava e ai foglietti illustrativi delle pomate, riuscì ad accendere un fuoco. Stese lì vicino il sacco a pelo e la stuoia dopo averli torciti con quanta forza aveva in corpo, sperando che si asciugassero prima dell’arrivo del nuovo acquazzone. Poi prese la cerata e ne scucì le maniche, il cappuccio e le cuciture sulle spalle. Il suo intento era quello di ottenere un pezzo di tessuto impermeabile il più lungo e diritto possibile. Quindi, ad un’estremità, cucì il tessuto ricavato dalle maniche e dal cappuccio. Ottenne così una sorta di telo impermeabile lungo all’incirca due metri e venti centimetri per uno e venti di larghezza. Sul lato lungo cucì anche l’involucro di cellophane in cui erano avvolti i vestiti asciutti. Con questo espediente riuscì ad aggiungere un'altra toppa rettangolare di materiale impermeabile di un metro di lunghezza per sessanta centimetri di larghezza. Ora poteva montare una piccola tenda improvvisata. Si accostò ad un tratto della parete rocciosa che era leggermente concavo e vi
fissò alcuni chiodi da roccia, all’altezza della sua cintola. Quindi stese un pezzo della corda più sottile tra i chiodi e vi issò un lato del telo impermeabile. Tese quindi il tessuto e ne fissò l’altra estremità a terra. Ora l’acqua aveva la possibilità di entrare solo dai due lati corti. Per riparare il lato in cui si sarebbe trovata la testa di Yelena, cucì alla struttura il giubbotto antipioggia, fissandolo a terra con un pesante masso inserito nel cappuccio, mentre, sull’altro lato, destinato ai piedi, cucì la sacca in cui era custodito il sacco a pelo, pur non essendo di tessuto impermeabile. Guardò l’opera, dolorante e sfinito, ma soddisfatto. Certo, se avesse piovuto a dirotto l’acqua sarebbe comunque entrata da qualche pertugio, ma con i pochi mezzi a sua disposizione, qualcosa di meglio della tenda che aveva appena eretto, non avrebbe potuto fare. Decise di svegliare Yelena, aveva bisogno di cure e doveva somministrarle subito qualche medicina. «Yelena.» Le sussurrò delicatamente più volte all’orecchio, scrollandola per le spalle. Dopo un po’, lentamente, aprì gli occhi. «Resta sveglia Yelena, solo un minuto. Hai la febbre, ma mi serve il tuo aiuto, altrimenti non potrò curarti.» Fece debolmente segno di aver capito con la testa. Aldo prese la borraccia e le versò un po’ d’acqua in bocca. Poi prese una barretta energetica e riuscì a fargliene mangiare una metà. Per un attimo sembrò, finalmente, più lucida e presente. Aldo approfittò del momento per farle vedere le scatole dei medicinali. «Sono scritte in russo, bisogna che tu mi dici che tipo di medicinali sono. Fai solo questo sforzo e poi potrai tornare a dormire.» Lei annuì e, indicando una scatola rossa e blu, riuscì a sussurrare che vi erano degli antistaminici. Aldo le mostrò quella bianca e lei disse che era un antibiotico e, infine, quella arancione, conteneva degli analgesici.
Non sapeva che tipo di analgesico fosse e, anche volendo, non era in grado di stabilirne la posologia appropriata neanche se la confezione fosse stata scritta in italiano o in inglese. L’unica cosa che capì era che le pillole erano da 500 mg. Cercò di far leggere il foglietto illustrativo a Yelena, ma era scritto in caratteri talmente fitti e piccoli che dopo qualche secondo, fece cenno di non riuscirci. Aldo pensò che, per iniziare, una pillola sarebbe andata sicuramente bene. Poi avrebbe aspettato un miglioramento di Yelena nelle prossime ore e magari sarebbe stata in grado di leggere le istruzioni. La ragazza, subito dopo aver ingoiato la pillola, ricadde in un sonno profondo e tormentato e Aldo la trascinò delicatamente vicino all’ingresso della tenda improvvisata. Gettò altra legna al fuoco e notò con soddisfazione che il sacco a pelo si stava asciugando rapidamente, mentre ancora il tempo si manteneva stabile. Avrebbe adagiato Yelena nel sacco solo quando questo si fosse completamente asciugato e, comunque, mai prima che avesse ricominciato a piovere. Poi mangiò la mezza barretta energetica che aveva lasciato Yelena e assunse una pillola di analgesico. Era sfinito e temeva che, di lì a poco, la febbre avrebbe colpito anche lui. Ma, fino a quando era in grado di ragionare lucidamente, doveva escogitare più soluzioni possibili per mantenere in vita se stesso e Yelena. Due erano i loro più grandi nemici fino al momento in cui la ragazza non sarebbe stata nuovamente in grado di camminare: la pioggia e la fame. Se per ovviare al primo problema aveva messo in piedi la tenda rudimentale, per racimolare un po’ di cibo doveva trovare qualche soluzione alla svelta. Avendo un fiume a poca distanza, iniziò a pensare alla soluzione più banale: pescare. Creò la più semplice delle canne da pesca utilizzando un ramo lungo un paio di metri a cui aveva legato del filo di nylon trasparente e un amo che si trovavano all’interno del manico del coltello militare. Per avere esche in quantità gli bastò mettere piede nella foresta, piantare il
coltello a fondo nel terreno ed estrarne una manciata di vermi. Gettò la lenza nel fiume e fissò saldamente la canna tra due pietre vicino all’ingresso della tenda. Se avesse avuto fortuna avrebbe potuto pescare anche una trota delle nevi, ma aveva ormai capito che se c’era un qualcosa che mancava a quella missione, era proprio la fortuna. Pochi minuti dopo, la pioggia ricominciò lentamente a cadere. Immediatamente, Aldo tolse la coperta isotermica da dosso a Yelena e la stese nella tenda. Poi, con uno sforzo immane per il dolore alla coscia, prese la ragazza di peso e la adagiò delicatamente nel sacco a pelo quasi completamente asciutto. Quindi avvolse nuovamente la coperta intorno alla ragazza, in maniera tale che se anche l’acqua fosse riuscita a filtrare all’interno della tenda, grazie alla coperta impermeabile, il sacco a pelo non si sarebbe bagnato. Poi gli venne un’altra idea. Nella roccia c’era una profonda rientranza asciutta dove, data la profondità e l’angolazione della parete rocciosa, l’acqua sarebbe difficilmente potuta entrare. Decise quindi di spostare all’interno della nicchia alcuni tizzoni ardenti in modo da garantirsi un facile accesso al fuoco una volta che il temporale avesse terminato di flagellare la zona. La pioggia iniziò a sferzare violentemente la tenda. Yelena dormiva, ma era sempre più pallida e con il respiro sempre più affannoso. Aldo lottava per resistere al dolore, ma la posizione nella quale era costretto a stare - rannicchiato con le ginocchia quasi a toccare il mento, a causa dal poco spazio rimasto nella tenda una volta adagiato il sacco a pelo di Yelena - intensificò le fitte. Sentì il calore causato dal sangue che fuoriusciva dalla ferita riaperta scorrergli nuovamente lungo la coscia. Ma di forze per prendere provvedimenti a quell’ennesimo inconveniente non ne aveva più e piombò in un sonno agitato.
Monte Jomolhari, Bhutan, 2 giugno, nel frattempo.
A bordo del moderno e comodo elicottero, in grado di ospitare una ventina di eggeri, trovarono Yerevadze e altri dieci uomini in divisa militare. Dai tratti somatici, Visconti capì che si trattava di una squadra di mercenari multinazionale: dal tipo con gli occhi a mandorla a quello con i capelli rasta e la carnagione marroncina, intuì che quasi tutte le popolazioni del pianeta erano rappresentate su quel velivolo. Solo Yerevadze, che conosceva tutti i nuovi arrivati tranne Maradona, li degnò di uno sguardo e di un saluto, mentre gli altri restano a studiare chi il suo computer, chi alcune scartoffie, chi la sua arma. Nicolai si avvicinò a Visconti con una mappa in mano. «Ci sono tre piccoli laghi in questo territorio. Qual è quello che ci interessa?» Visconti, seppur riluttante e notevolmente dispiaciuto da ciò che stava facendo, indicò con un dito sulla mappa il lago più grande e a nord dei tre. «Cercate di atterrare sulla riva sud. È lì che troveremo gli yeti.» Indicò un altro punto sulla mappa, in corrispondenza di un rilievo che si trovava poco sotto l’estremità inferiore del lago. «Non fate posare l’elicottero troppo vicino al lago, altrimenti li spaventerete.» Dimitrov annuì con un sorriso e gli strinse amichevolmente la spalla destra, poi entrò nella cabina di pilotaggio. Visconti non reagì e si maledisse tra sé e sé. L’elicottero prese subito quota, dirigendosi a nord. Il volo sarebbe durato solo pochi minuti, il lago glaciale non era molto lontano. Dall’oblò il professore notò che il grande elicottero bielica aveva preso a seguirli. Probabilmente, pensò, lo yeti sarebbe stato trasferito all’aeroporto di Paro a bordo di quel velivolo. Appena il volo si stabilizzò, Nicolai tornò a far visita a Visconti. «Teodoro, capisco il tuo stato d’animo, ma hai fatto la scelta giusta.»
«Scelta?» Sorrise amaramente: «Si può fare una scelta solo quando si hanno a disposizione più opzioni, caro Nicolai. Quali erano le alternative che mi avevi messo sul piatto? Nessuna!» Disse alzando la voce. «Ciò a cui mi sto prestando è l’unico modo che ho a disposizione per non farvi fare troppi danni. Quindi, ti prego, non parlare di scelte.» «Non arrabbiarti, Teodoro. Vedrai, appena arriveremo a Mosca, tutti i riflettori saranno puntati su di te, il mondo accademico ti acclamerà e sulla mia scrivania ci sarà un generoso contratto di collaborazione che aspetta solo la tua firma.» «Credi davvero che i soldi possano comprare tutto, Nicolai?» «No, Teodoro, purtroppo no! Se avessi potuto avrei comprato la guarigione di Olga e se potessi, ora, comprerei la salvezza di Yelena, ma non si può.» Si incupì. «Però so per certo che i soldi possono far cambiare la prospettiva con cui si affronta la vita.» Visconti sbottò: «Vieni con me in un monastero, e allora sì che vedrai come si cambia prospettiva.» Poi si alzò e cercò una scusa per terminare quella scomoda discussione: «C’è un bagno a bordo di questa scatoletta con le eliche?» Nicolai sorrise a quell’affermazione e indicò in fondo alla carlinga. «Vedrai, Teodoro, tra qualche giorno, quando tutto sarà più tranquillo, con lo yeti catturato e, magari, Yelena in salvo, tutto questo avrà un sapore diverso, anche per te. Sbrigati a pisciare, tra pochi minuti atterriamo.»
Atterrarono nel punto indicato da Visconti. Dalla sommità della piccola montagnola era possibile osservare il lago per tutta la sua estensione. Guardando in basso con il binocolo, verso la riva, Nicolai Dimitrov ebbe un sussulto: una trentina di enormi yeti, con la pelliccia grigio topo, disposti in semicerchio, come se si trovassero in un anfiteatro, facevano ondeggiare avanti e indietro il busto, un po’ come degli ebrei in preghiera, osservando due esemplari che, davanti a loro, erano impegnati nell’inconfondibile atto dell’accoppiamento. Era chiaro come per gli yeti, l’atto sessuale fosse un qualcosa di sacro e mistico, a cui tutta la comunità partecipava con deferenza e trasporto. «Questo è straordinario!» Esclamò Nicolai. Tutti i presenti osservarono la scena
in riverente silenzio. Si trovavano al cospetto di un mito, lo yeti esisteva veramente, ora lo potevano constatare con i loro occhi. «Aspettate prima di intervenire.» Disse Visconti avvicinandosi a Nicolai. «Hanno un tasso di riproduzione bassissimo. Le femmine sono fertili solo in questo periodo dell’anno e per non più di una quindicina di giorni. Non facciamo fallire questo tentativo di inseminazione, ne potrebbe andare della sopravvivenza dell’intera specie.» Dimitrov annuì e Visconti riprese: «Facciamoli finire. Poi scendiamo lentamente. Quattro persone possono bastare, sono degli animali pacifici e timorosi. Appena ci vedranno inizieranno a scappare verso una caverna che si trova sotto i nostri piedi. Nella fuga, i maschi resteranno in retroguardia, e gli esemplari più anziani occuperanno le ultime posizioni, non tanto per mancanza di vigoria fisica, ma per proteggere i più giovani e le donne.» «Come fai a sapere queste cose?» Gli chiese Nicolai. «Una volta mi è capitato di assistere ad un attacco subito ad opera di un branco di lupi e si sono comportati così.» «Com’è andata a finire quella volta?» Il professore sorrise. «Ho detto che sono pacifici e timorosi, ciò però non vuol dire che non sappiano difendersi se attaccati. Quel giorno dodici lupi restarono uccisi.» Fece una pausa teatrale prima di aggiungere: «Uccisi a calci e pugni. Alla fine, quando alcuni di quei lupi erano ancora vivi, gli hanno spaccato il cranio saltandogli sulla testa.» Nicolai lo fissò perplesso e inorridito. «Tranquillo», lo schernì Visconti, «noi umani non abbiamo mica il coraggio dei lupi! Preferiamo sparare da una distanza di sicurezza per evitare il contatto corpo a corpo. Oppure hai voglia di fare a pugni con uno di loro?» Lo sfottò indicando uno dei colossali animali lì sotto. Il magnate rispose con un sorriso, quindi chiamò a se un uomo dai lineamenti chiaramente indiani. «Dottor Khan, a lei la scelta del dosaggio da utilizzare per addormentare uno di quei bestioni.»
L’indiano basso e magro, sulla quarantina, scrutò un’ultima volta gli animali con il binocolo: «Peseranno all’incirca sui trecento chili, quindi le nostre ipotesi iniziali erano giuste, un milligrammo di etorfina può bastare.» «Signor ‘Nkonu», disse Dimitrov, voltandosi in direzione del camerunese, «prenda il suo fucile e lo carichi con una delle fiale che ha in dotazione. A lei l’onore.» Quello rispose con un cenno deciso del capo. «Quando vuole possiamo scendere. Non fallirò, ci può scommettere.» «Teodoro», riprese Nicolai, «a te indicarci il momento opportuno per iniziare la caccia.» «Il momento opportuno è mai, caro Nicolai.» Disse Visconti, sarcastico. «In ogni caso, dobbiamo ancora aspettare un po’. Il coito degli yeti è molto lungo, può arrivare anche ad un paio d’ore.» «Ora ho capito come hai ato il tempo in questi lunghi anni.» Disse Nicolai sbruffando poi a ridere. Visconti non rispose alla battuta di pessimo gusto, ma si fermò a riflettere su come la mente del suo amico - perché ancora lo riteneva tale - fosse completamente ottenebrata dalla ricerca delle criptidi. Sua figlia era data per dispersa, ma lui, seppur quando ne parlava era realmente dispiaciuto - e Visconti sapeva quanto Nicolai amasse la figlia - in quei momenti sembrava non curarsene. Quando il pensiero del russo era rivolto allo yeti, sembrava vivere in un’altra dimensione, dove le uniche cose che importassero davvero erano, appunto, la cattura di quella povera bestia e l’apertura del suo dannato zoo per come lo aveva ideato insieme ad Olga.
Come previsto, attesero oltre un’ora prima che l’atto sessuale tra i due yeti terminasse. Quando la femmina si rialzò, alcune creature le si avvicinarono, la presero in braccio, e la condussero verso la montagna. «Cosa succede?» Chiese Nicolai. «Le altre femmine hanno preso sotto la loro custodia quella che è appena stata
inseminata e la stanno conducendo all’interno della caverna. era lì i prossimi cinque o sei giorni. Quando sarà chiaro l’esito dell’inseminazione, verrà accudita qui da alcune femmine per tutta la gestazione che dura circa un anno. I maschi, durante questo periodo, torneranno solo di tanto in tanto per portare delle scorte di cibo.» «All’interno ci sono già altre femmine inseminate?» «No. Ho contato gli esemplari qui fuori e ci sono tutti: trentadue. Ma, in questa stagione, proveranno ad inseminare tutte le femmine che sono in età fertile, quindi, a breve, sarà il turno di un’altra coppia.» «Quando possiamo scendere?» «Anche ora, ma lentamente. Non appena le femmine saranno dentro spariamo un colpo in aria così si spaventeranno e metteranno in atto la loro strategia difensiva. Dopodichè vi indicherò l’esemplare da catturare. Loro cercheranno di difenderlo, ma se spariamo in aria, alla fine si allontaneranno e potrete procedere al recupero.» «Va bene.» Nicolai gridò alcuni ordini in russo e poi, in inglese, disse: «Teodoro, ‘Nkonu, Yerevadze, scendete giù con me. Mamonov, il comando degli uomini resta a te fino al mio ritorno.» Cominciarono a scendere lungo il declivio, dal lato sinistro rispetto all’ingresso della caverna. Maradona li accompagnò tenendosi ad una distanza di qualche metro, poco rassicurato dalla presenza di tutti quegli uomini armati appartenenti ad etnie che non sapeva neanche esistere. Poi, non appena Dimitrov si accorse che li stava seguendo, lo bloccò con un’occhiataccia, e il bhutanese restò fermo dove si trovava, a circa metà della discesa, ma di risalire non ne voleva proprio sapere. Nicolai lo guardò con un ultimo sguardo carico di disappunto e proseguì. La discesa era agevole e arrivarono in fretta in basso, a pochi metri dalla riva del lago. Gli yeti erano ad una cinquantina di metri di distanza e non davano segno di averli visti. Nicolai prese la radio e diede l’ordine di far alzare in volo il bielica affinché li
raggiungesse. Poi si rivolse a Yerevadze: «Spara un colpo in aria.» Il militare obbedì e, immediatamente, gli yeti accelerarono il o, spaventati. Alcuni di loro si voltarono ed emettendo dei versi molto simili alle parole, ma incomprensibili a qualsiasi umano, iniziarono a sistemarsi esattamente come aveva previsto Visconti. «Paul, spara al primo yeti sulla destra.» Urlò il professore indicando il grosso esemplare dal o dinoccolato con una macchia bianca e quadrata che risaltava sul mantello grigio della schiena. Visconti sapeva che quello era lo yeti più anziano del gruppo e che, data l’età, non avrebbe potuto più riprodursi. Era l’unico sacrificabile per quella scellerata causa. Il camerunese poggiò il fucile sparasiringhe alla spalla, mirò con concentrazione e fece fuoco. Dopo un rapido volo, la siringa colpì l’animale poco sopra il gluteo destro. L’etorfina contenuta nelle fiale è un sonnifero estremamente potente, utilizzato per sedare gli animali di grossa taglia quali gli elefanti e i rinoceronti. Infatti, dopo pochi secondi, lo yeti, prima barcollò goffamente da un lato e dall’altro e poi si accasciò al suolo dopo un mugolio strozzato. L’elicottero era in fase di atterraggio a una decina di metri dall’animale caduto e il suo arrivò spaventò ulteriormente gli yeti in fuga che, comunque, sembravano riluttanti ad abbandonare il loro simile a terra. Nicolai urlò: «Yerevadze, fai ancora fuoco in aria, mentre ci avviciniamo.» Il militare ubbidì e sparò alcuni colpi verso l’alto. Una strana eco si diffuse nella valle. Poi cessò il fuoco con un’espressione di sconcerto dipinta sul volto. Se le leggi fisiche che governano l’acustica avevano ragione, in quei suoni qualcosa non quadrava. Poi capì: i colpi di rimando che aveva udito non erano l’eco dei suoi spari, bensì fucilate provenienti dalla cima della montagna, dove erano appostati, in attesa, i loro compagni.
Una raffica di mitra fece voltare Mamonov e i suoi uomini verso il basso, da cui stava risalendo velocemente, a o di carica, un’orda di militari vestiti di nero ed equipaggiati di tutto punto per la battaglia. Mamonov ordinò ai suoi di rispondere al fuoco e subito un paio di nemici caddero sotto i colpi dei loro fucili “orel”. Ma l’esito dello scontro cambiò quando gli assalitori misero mano all’artiglieria pesante. Diversi colpi di bazooka costrinsero gli uomini di Dimitrov a non poter rispondere al fuoco e a ripararsi dietro alle pesanti rocce che costellavano l’area. Gli attaccanti avanzarono velocemente e lo scontro divenne un corpo a corpo letale nel quale ebbero facilmente la meglio anche grazie alla loro superiorità numerica.
Quando Tigre sopraggiunse nei pressi del Sikorsky, lo scontro a fuoco con gli uomini rimasti agli ordini di Mamonov era già terminato. «Ottimo lavoro.» Disse, compiaciuto, ai suoi uomini. «Ora metteteli sotto pressione, ma non fateli fuori prima che abbiano caricato l’animale a bordo. Ricordate, né lo yeti, né il bielica devono riportare danni. Intesi?» Quando tutti i suoi uomini fecero cenno di aver compreso, diede loro ordine di sistemarsi sul ciglio del rilievo, proprio nel punto in cui, fino a pochi minuti prima, Dimitrov e i suoi avevano a lungo osservato gli yeti e iniziarono subito a fare fuoco di disturbo. Poi chiamò a sé tre uomini. Indicò un punto alla loro destra e disse: «Andate a piazzarvi su quelle rocce, senza farvi vedere. Da quella posizione avrete una visuale ottima e una distanza adeguata per poter colpire Dimitrov indisturbati. Ricordate, aprite il fuoco solo dopo che l’animale sarà a bordo.»
Maradona era rimasto ad osservare l’avanzata del professore, di Dimitrov e degli altri, seduto su una roccia nei pressi del punto in cui Nicolai lo aveva intimato di non seguirli.
Quando sentì gli spari provenire dalla sommità del rilievo, capì subito il pericolo che si stava manifestando e cominciò a scendere a valle per raggiungere gli altri. Sulla riva del lago, intanto, gli uomini scesi dall’elicottero, incitati dalle urla di Dimitrov, imbracarono lo yeti e si adoperavano a tirarlo all’interno con l’aiuto di una potente carrucola. Yerevadze, con l’aiuto di Paul e di due uomini scesi dal bielica, stava rispondendo al fuoco che proveniva dall’alto, ma né i loro colpi, né quelli dei nemici, potevano essere precisi, a causa della distanza che li separava. Maradona, intanto, correndo come un ossesso in direzione dell’elicottero, capì che c’era qualcosa che non andava. Non si vedeva nessun assalitore scendere a valle dal versante che stava percorrendo lui che era l’unico che conduceva alla riva del lago. Tutti sembravano restare in cima, mantenendo le posizioni e limitandosi a sparare dall’alto con poca possibilità di colpire un bersaglio così lontano. Fu in quel momento che capì il loro piano. Sulla destra del rilievo tre uomini stavano scendendo indisturbati di parecchi metri, verso il costone roccioso che lambiva quel lato del lago. Da quella posizione sarebbero stati distanti non più di una cinquantina di metri dall’elicottero e i loro spari sarebbero stati letali. Il ragazzo stava ancora correndo e si trovava ad almeno settanta metri da Dimitrov e gli altri. Urlò per attirare la loro attenzione, ma il frastuono dell’elicottero unito a quello degli spari non fece mai giungere la sua voce alle orecchie dei suoi compagni di viaggio. Poi ebbe un’idea, un colpo di genio che se gli fosse riuscito, avrebbe giustificato per tutta la vita, il soprannome che portava con orgoglio. Lanciò in aria la sua fidata pallina da tennis e le diede un potente calcio di controbalzo. La pallina un tempo gialla, ma ora quasi completamente scolorita, disegnò un’ampia parabola fino a colpire la spalla destra di Paul ‘Nkonu che si voltò di scatto, allarmato, con il fucile puntato verso Maradona.
Il bhutanese gli fece ampi segni con le braccia, indicandogli di voltarsi verso la roccia alle sue spalle. ‘Nkonu, fortunatamente, intuì al volo il messaggio di pericolo che gli voleva comunicare Maradona, si voltò e con una precisa raffica, in un attimo, mandò tutti e tre i nemici a schiantarsi sulla superficie gelida del lago sottostante che si colorò repentinamente di rosso.
Tigre osservò dall’alto quella scena e capì che quella battaglia contro Dimitrov avrebbe dovuto combatterla da solo. Impugnò il suo fucile di precisione e appoggiò l’occhio al mirino telescopico. Erano distanti quasi duecentocinquanta metri, ma era un ottimo tiratore e credeva di potercela fare. Quando vide che lo yeti era ormai al sicuro nell’elicottero, chiuso in una pesante gabbia metallica, rivolse la sua attenzione su Nicolai Dimitrov che stava per entrare nel velivolo. Zoomo con il mirino fino a quando la sua visuale non fu interamente occupata dalla schiena del magnate. Premette il grilletto. Un’ampia macchia scarlatta comparve sul gilet kaki di Dimitrov che si accasciò a terra. Yerevadze gli si avvicinò per soccorrerlo, ma ebbe appena il tempo di afferrarlo per un braccio prima che il suo cranio venisse traato da parte a parte da un altro proiettile sparato da Tigre. Quindi, riallargò la visuale in cerca di Visconti, di ‘Nkonu e della guida bhutanese. Gli altri militari non gli interessavano, erano tutti mercenari: se Dimitrov aveva avuto i soldi per comprare il loro servizio, lui ora aveva i soldi per comprare il loro silenzio e la loro collaborazione. Ma gli altri appartenenti alla missione no! Dubitava che sarebbe stato in grado di comprarli, e poi sapevano troppe cose per poter restare in vita. Mentre una pesante goccia caduta sulla fronte gli comunicò che aveva appena ricominciato a piovere, scrutò il campo da sinistra a destra, ma dei tre non c’era traccia.
«Seguimi!» urlò Visconti a Paul, ancora intento a rispondere al fuoco che proveniva dall’alto. Il camerunese si voltò e vide i corpi senza vita di Dimitrov e Yerevadze a meno di un metro dal portellone dell’elicottero e per un attimo restò pietrificato. «Seguimi, Paul!» Urlò nuovamente Visconti. ‘Nkonu si riebbe e seguì correndo il professore verso la parete rocciosa davanti a loro. Entrarono in una grotta nascosta da un grosso masso che ne ostruiva quasi completamente l’ingresso. Il corpo colossale del gigante africano ò per un pelo attraverso lo stretto pertugio. «Maradona?» chiese ‘Nkonu, «Lo hai visto? Era qui vicino pochi secondi fa!» Il professore fece cenno di no e mise la testa fuori dalla fenditura in cerca della guida bhutanese. Proprio in quel momento, Maradona stava ando correndo davanti al grosso macigno. Visconti emise un forte fischio che attirò l’attenzione dell’uomo. «Vieni qui, presto!» Gli urlò. Maradona non se lo fece ripetere due volte e, con un salto, fu dentro.
Niente. Ripose il binocolo nella sua custodia constatando con rammarico che i tre uomini erano spariti dalla scena. Di loro avrebbe dovuto occuparsi in un secondo momento. «ami una radio e mettimi in collegamento con l’elicottero.» Disse Tigre al suo addetto alle comunicazioni. Mentre questi gli si avvicinava con la radio in mano, ordinò al resto del gruppo di seguirlo verso il fondo della collina.
«Soldato», disse, rivolgendosi al comandante dell’elicottero che aveva appena risposto alla chiamata, «tu e i tuoi uomini non ci interessate, stai tranquillo. A noi interessa solo la bestia che avete a bordo.» Il comandante attese qualche attimo prima di rispondere, poi disse con voce carica di timore: «Quali sono le condizioni per salvarci la pelle?» Non c’era niente da fare, pensò Tigre sorridendo divertito, i mercenari pensavano solo a due cose: guadagnare soldi combattendo per guerre di cui non sapevano nulla e trovare un modo agevole ed indolore per tirarsi d’impaccio se il loro committente tirava le cuoia durante una missione. Conosceva troppo bene quel lavoro. «Non vi chiedo niente di diverso rispetto a ciò che siete venuti a fare qui. Dovete portate questo elicottero all’aeroporto di Paro e far caricare la bestia sull’aereo della Dimitrov. Niente di più e niente di meno.» «Dov’è il trucco?» «Nessun trucco comandante, sono un mercenario come lei. Aspetti solo che arriviamo lì dove siete fermi ora. Imbarcherà con lei tre dei miei uomini che hanno una valigetta con un milione di dollari tutta per voi. Il giusto prezzo per comprare il vostro silenzio. Vero comandante?» Il comandante sapeva che non aveva alcuna possibilità di scelta. Se avesse cercato di fare l’eroe lo avrebbero certamente abbattuto con i bazooka che vedeva sulle spalle di alcuni degli uomini che lo stavano raggiungendo. Se avesse obbedito, forse, sarebbe riuscito a tornare a casa con un bel gruzzolo di dollari in tasca. «Va bene, vi aspettiamo.» «Ottima scelta comandante.» Prima di chiudere la conversazione disse un’ultima cosa all’elicotterista: «Contatti l’equipaggio dell’altro elicottero che era in volo con voi e inventi una scusa per farlo tornare a Paro, altrimenti dovremo abbatterlo.» «Non si preoccupi, me ne occuperò io.»
Dalla fessura seminascosta tra le rocce, i tre osservarono il gruppo di una ventina
di militari, vestiti di nero dalla testa ai piedi, che si avvicinavano all’elicottero. Dai gesti e dalla riverenza cui i militari gli si muovevano intorno, era stato subito chiaro che il loro capo era quell’uomo sulla quarantina con la carnagione scura e la folta barba nera. Il capo entrò nell’elicottero e diede uno sguardo da vicino allo yeti narcotizzato all’interno della gabbia metallica. Poi scese dal velivolo e fece cenno a tre dei suoi militari di salire a bordo. La donna dai capelli neri e le forme sinuose che si imbarcò per prima aveva in mano una ventiquattrore nera, i due uomini con lei, pur essendo armati, non sembravano particolarmente preoccupati dai membri dell’equipaggio dell’elicottero che avevano deposto le armi e stavano chiaramente collaborando. L’elicottero decollò puntando a sud, verso Paro. Visconti tirò a sé Paul e Maradona: «Seguitemi, dobbiamo nasconderci fino a che non se ne andranno.» Fece strada lungo la buia galleria fino al punto in cui la vista gli permise di andare avanti. Erano senza zaino e senza equipaggiamento alcuno ad esclusione del fucile e del coltello di Paul. Ora dovevano aspettare con pazienza che quegli uomini se ne fossero andati, se li avessero visti dubitava che avrebbero potuto farla franca. Come avevano ucciso Miller al Taktsang, avrebbero eliminato anche loro.
A valle del Monte Jomolhari, Bhutan, 2 giugno, ore 15.35.
Aldo si svegliò di soprassalto. Percepiva una fastidiosa sensazione di freddo alla natica. L’acqua aveva iniziato ad infiltrarsi nella tenda improvvisata e un sottile rigagnolo che scivolava lungo la roccia lo aveva raggiunto. Constatò che in poco tempo il pavimento della tenda sarebbe stato completamente bagnato. Ma grazie alla coperta isotermica in cui aveva avvolto il sacco a pelo con Yelena dentro, aveva scongiurato il pericolo che la ragazza potesse bagnarsi. Ma Aldo si sentiva debole e stanco. La pioggia incessante patita in quei giorni, mista all’umidità della caverna, alla turbinosa discesa nel fiume e alle innumerevoli ferite subite, avevano concorso, tutte insieme, affinché la febbre colpisse anche lui. Era preoccupato anche che la ferita alla coscia potesse infettarsi. Si calò i pantaloni e notò con disgusto che il taglio si era riaperto sul margine superiore e che il sangue che stava continuando a fuoriuscire aveva completamente inzuppato la fasciatura che vi aveva applicato sopra. Prese nuovamente il disinfettante e irrorò la ferita. Poi, urlando, cucì nuovamente una parte del taglio. Le sue grida di dolore svegliarono Yelena. «Che succede?» Chiese con un filo di voce. Aldo non le disse nulla del suo stato di salute e la rassicurò: «Niente, niente. Tu come stai?» Finì di applicare un nuovo bendaggio alla coscia e si rialzò i pantaloni. La ragazza cercò di sedersi, ma Aldo la bloccò. «Hai la febbre alta», le disse, «riposati.» «Ho male all’addome.» Disse lei toccandosi il punto in cui Aldo l’aveva ricucita. «Hai subito una piccola ferita poco fa.» Disse lui, mentendo sulla reale entità del
trauma. Aprì il sacco a pelo e sollevò la felpa della ragazza fino a scoprire la ferita. Neanche quella era un bello spettacolo: arrossata, gonfia e dolorosa. Non erano ate neanche quattro ore da quando l’aveva ricucita e ancora meno da quando le aveva dato l’analgesico, quindi, la sua parte razionale gli suggeriva che non ci fosse nulla di troppo preoccupante per il momento. Però il timore che le cose potessero peggiorare lo terrorizzò. Per un momento il panico lo fece sbandare. Non era un medico e aveva paura di aver sbagliato l’approccio con la condizione di Yelena. Prese il kit del pronto soccorso estraendone i vari oggetti e medicinali contenuti all’interno, ma subito dopo li ripose al loro posto. Non sapeva che fare. Pensò di somministrarle anche l’antibiotico ma aveva paura che l’interazione tra i farmaci avrebbe potuto fare più male che bene e le istruzioni in russo non facevano altro che aumentare la sua rabbia e frustrazione. Yelena intanto restava con gli occhi socchiusi, le labbra e i denti tremanti, la fronte imperlata di sudore. Aldo fu sul punto di urlare, non per il dolore, ma per lo scoramento. Poi un rumore proveniente dall’esterno attirò la sua attenzione, distogliendolo dalla sua tempesta interiore, spingendolo ad affrontare quella che si stava scatenando all’esterno della tenda, dove la pioggia cadeva a dirotto. L’improvvisata canna da pesca era a terra e stava lentamente scivolando verso il fiume. Con quella canna rudimentale, sull’efficacia della quale non avrebbe scommesso un solo centesimo, era riuscito a far abboccare un pesce. Una nuova speranza lo animò. Se fosse stata una bella trota, avrebbero avuto cibo a sufficienza per un giorno. Afferrò la canna prima che cadesse nel fiume e iniziò la sua lotta con il pesce. La canna non aveva mulinello e la lenza era lunga non più di quattro metri. Aveva una sola possibilità per catturare il pesce, rischiosissima date le condizioni della sua gamba: cercare di far avvicinare il più possibile il pesce alla
riva e poi prenderlo direttamente dall’acqua con le mani, il tutto cercando di non far spezzare la lenza. Per tirare a sé la lenza doveva prenderla in mano e per non correre il rischio di tagliarsi, prese da una tasca dei pantaloni un fazzoletto di stoffa con cui si fasciò la mano destra. La lunga lotta cominciò. Doveva far stancare il pesce preservando la lenza. Tirò lentamente, fino allo sfinimento. La pioggia gelida lo inzuppò da capo a piedi in pochi attimi. Poi vide il pesce. Era una trota e anche bella grossa, proprio come aveva sperato. Ormai era ad un o da lui, ma per afferrarla doveva entrare nelle acque impetuose del fiume. Con le ultime energie si immerse nel fiume con le gambe e, con un unico, rapido movimento, afferrò il pesce dalla coda e lo scagliò contro la parete rocciosa cui era fissata la tenda. Scivolò nel fiume con tutto il corpo. L’acqua era molto più fredda di quella già gelida della pioggia. Ma riuscì, per l’ennesima volta, ad aggrapparsi alla vita e a tirarsi in salvo. Afferrò il pesce che si dimenava prima che ricadesse in acqua e lo uccise con il coltello che aveva nella fondina. Noncurante del freddo, lo aprì in due, sviscerandolo. Rientrò nella tenda e tagliò una piccola striscia di coperta isotermica e ve ne avvolse la carne. Poi mise il fagotto nell’anfratto dove alcune delle braci che vi aveva deposto qualche ora prima ancora continuavano ad ardere. Ravvivò il fuoco con dei pezzi di legno asciutto che aveva raccolto nello zaino e si coricò scomodamente al fianco di Yelena, bagnato fradicio, esausto e con la febbre che lo dominava.
Monte Jomolhari, Bhutan, 2 giugno, Ore 16.10.
«Possiamo uscire.» Disse Visconti, dopo aver dato un ultimo sguardo alla riva del lago dalla fessura nella parete rocciosa. Avevano ato oltre un’ora nell’anfratto. Più volte gli uomini vestiti di nero si erano avvicinati al punto in cui erano nascosti, ma non si accorsero della fenditura nella roccia nascosta dal pesante macigno. In fondo, ricordava che neanche lui si era accorto della caverna la prima volta che era andato in quel luogo in compagnia degli yeti. Non sospettava che dietro al grosso monolite, proprio nel punto in cui questo toccava la parete rocciosa, si trovava quell’apertura verso le viscere della montagna. Ma il caso e la fortuna avevano voluto che nella ricerca di un riparo dagli spari che arrivavano dall’alto, si era imbattuto in quel nascondiglio. Uscirono con circospezione, Paul in testa alla fila, con il fucile in mano, pronto a far fuoco. Poi, mentre si accingevano a ripercorrere la via in salita che li aveva condotti sulla riva del lago, udirono da lontano delle urla tonanti alle loro spalle. Urla feroci e inintelligibili. Si voltarono spaventati. Gli yeti, fermi sull’ingresso della caverna in cui dimoravano le loro femmine, urlavano contro i tre. Dei versi acuti e violenti, molto più umani che ferini. Ovviamente nessuno di loro capiva cosa stessero dicendo con le loro parole, ma intuivano che il messaggio degli yeti non doveva essere molto dissimile dalle maledizioni che l’essere umano è solito lanciare contro i suoi nemici. «Fanno bene ad urlare.» Disse Visconti, più a se stesso che ai compagni. «Non devono fidarsi degli esseri umani. Mi auguro che quello di oggi sia il loro ultimo contatto con la nostra specie. Ma temo che non sarà così.» Mentre le urla aumentavano di intensità, il professore fece cenno a Paul e Maradona di proseguire.
Giunsero in cima al rilievo, con nelle orecchie ancora ben impresse le grida degli yeti. Trovarono il Sikorsky distrutto in migliaia di pezzi e annerito dal fuoco. Al suo interno i corpi irriconoscibili degli uomini di Dimitrov divorati dalle fiamme. Probabilmente uno di quelli era proprio il corpo di Nicolai. Capirono subito che era tutta una messa in scena per simulare un incidente di volo. Visconti si fermò per una breve preghiera. In quegli attimi pensò agli anni ati a Mosca, ospite della famiglia Dimitrov. Ricordava la giovialità e la concretezza di Nicolai, la ione per la natura e la gentilezza di Olga e poi c’era anche Yelena, poco più che una ragazzina, ma vivace e intelligente come un’adulta. Il sogno di Olga aveva portato via Nicolai e Yelena, ma gli faceva piacere pensare che ora, dopo la morte di tutti e tre, quella famiglia si sarebbe potuta riunificata nell’aldilà dove Olga avrebbe finalmente saputo dai suoi cari che lo yeti esiste davvero. Un senso di colpa lo afflisse per un attimo, una serie di domande lo bloccò: se avesse reso nota l’esistenza di quegli animali incredibili subito dopo aver compiuto quella scoperta, le cose sarebbero cambiate? Ora si troverebbe lì a piangere per la scomparsa dei suoi amici? No, sicuramente no. Se avesse consegnato subito un esemplare di yeti alla Dimitrov - cosa che moralmente e professionalmente era tenuto a fare, dato che i Dimitrov lo avevano ospitato nella loro casa e profumatamente pagato per anni proprio a quello scopo - Nicolai e Yelena ora starebbero gioendo insieme, nel loro zoo intitolato alla memoria di Olga, dove un esemplare di yeti si troverebbe a fare bella mostra di sé davanti ad un pubblico di bambini spaventati e affascinati. Forse proprio la motivazione che lo aveva spinto ad allontanarsi dal mondo “civile” per addentrarsi in quel paradiso di calma e ricerca interiore, qual era il Bhutan, sarebbe stata la soluzione a tutti quei lutti. Non poteva dare una risposta a quella domanda, né ora né mai, era un dubbio insanabile e sapeva solo che quel tarlo lo avrebbe afflitto per tutta la vita.
Monte Jomolhari, Bhutan, 2 giugno, Ore 16.30
«Missione compiuta! L’aereo è in volo verso Mosca, mentre l’elicottero bielica ritornerà in India non appena finiranno le operazioni di rifornimento del carburante.» Comunicò, raggiante, Elefante a Tigre. «Meraviglioso. Ora manca un solo tassello per terminare la nostra impresa. Andate a trovare l’altro italiano e il militare russo, e restate con loro in attesa. Il monaco, il nero e la loro guida, se ce l’hanno fatta a scappare, cercheranno di raggiungerli e noi dovremo dargli il benvenuto. Intanto puoi mandare gli elicotteri a prelevarci, siamo al campo base.» «Tra meno di un’ora saranno da voi. o e chiudo» Tigre era al settimo cielo. Eliminati Nicolai Dimitrov e Yelena, ora erano padroni della situazione. Sotto la pioggia, si mise a contemplare la natura intorno a sé dall’ingresso della sua tenda al campo base, fissato in una radura a soli due chilometri dal punto di recupero dello yeti. Non fosse stato per quei due imbecilli che si erano fatti beccare, allarmando Yelena e i suoi, e per la fuga – momentanea, ci poteva scommettere – di Visconti, Paul e Maradona, il piano aveva funzionato alla perfezione. Anche gli intoppi erano stati superati brillantemente. Ora doveva soltanto comunicare la bella notizia a Leone che avrebbe pensato al resto della faccenda. Dopodichè avrebbe chiuso per sempre con quella vita da soldato di ventura. Lo attendevano tanti soldi, il lusso più sfrenato e una nuova vita nelle località che più gli aggradavano. Prese il telefono e chiamò Leone. «Il pacco è in arrivo!» Disse. «Perfetto!» Rispose Leone. «Che ne è stato di Nicolai?» «Morto.»
«Yerevadze?» «Lo sta accompagnando all’altro mondo.» «Gli altri?» «Il monaco e gli altri due che erano con Yelena sono riusciti a scappare. Ma li prenderemo a breve. Invece, i mercenari che hanno risposto al fuoco sono stati fatti fuori. A quelli che hanno collaborato abbiamo comprato il silenzio e non creeranno problemi. Le autorità troveranno Nicolai, Yerevadze e i loro soldati morti, a bordo di un Sikorsky distrutto e dato alle fiamme. La versione ufficiale sarà che, non appena il bielica ha recuperato lo yeti, l’altro elicottero è precipitato per un guasto, causando la morte di tutti gli occupanti, tra cui Nicolai Dimitrov.» «Recupera quei tre prima di venire a Mosca, sanno troppe cose e potrebbero crearci dei grossi casini.» «Non preoccuparti, Leone, so già dove andranno a bussare.»
Paro, Bhutan, 2 giugno, Ore 16.55
«Sono ore che non abbiamo più notizie di loro.» Disse preoccupato Mattia a Nurev, dando un fugace sguardo alle previsioni meteo che preannunciavano un ennesimo peggioramento nelle prossime ore, prima della fine della perturbazione attesa in tarda serata. Il russo restò immobile e silenzioso, osservando i monitor dei computer sui quali, ormai da ore, erano fisse sempre le stesse immagini. «Neanche dalla sede della Dimitrov ci rispondono più. Ma abbiamo bisogno di aiuto al più presto. L’Italia non ha una rappresentanza diplomatica qui in Bhutan. C’è un’ambasciata Russa da poter contattare?» Il russo, sempre in silenzio, fece cenno di no col capo. «Beh, allora dovresti chiamare qualcuno dell’esercito. Ormai è chiaro che è successo qualcosa. Se non rispondono né Aldo e Yelena, né Nicolai Dimitrov, né gli equipaggi dei tre elicotteri, è evidente che qualcosa non va.» Insistette Mattia. Il russo sbruffò e rispose urlando: «Basta Mattia, mi stai snervando. È ovvio che qualcosa non quadra, credi che sia scemo? Il problema è che è altrettanto ovvio che la missione è stata sabotata e non possiamo chiedere aiuto proprio a nessuno.» «Come fai a parlare di sabotaggio? Che la missione fosse seguita lo avevamo già appurato, ma parlare di sabotaggio mi sembra troppo.» Disse Mattia allarmato. «Vieni qui.» Gli rispose Nurev che stava cercando di recuperare la calma. Indicò un monitor aperto su una pagina internet con delle scritte in cirillico. «Questa pagina è collegata direttamente con il server dei servizi segreti russi. In questo momento ci sta mostrando tutti i voli da e per l’aeroporto di Paro.» Mise il dito sul monitor ad indicare un orario: 16.23. «Sai a cosa si riferisce questo orario?» Mattia fece cenno di no. Anche lui, come il fratello, non conosceva una sola
parola di russo tranne “vodka”. «Questo è l’orario di partenza dell’aereo della Dimitrov, destinazione: Mosca. Se la situazione fosse normale, a bordo di quell’aereo ci saremmo anche noi. Ma perché nessuno ci ha comunicato niente?» Proprio in quel momento, con quella pesante domanda lasciata in sospeso, confuso con i rumori della pioggia, udirono un rombo ovattato provenire dall’esterno. Aprirono la finestra che dava sul retro e videro un imponente elicottero bielica che si era levato dall’aeroporto e stava viaggiando in direzione sud, verso l’India. Sulle fiancate le inconfondibili insegne della Dimitrov Oil. Mattia, stupito, guardò intensamente Nurev negli occhi. «È l’elicottero della Dimitrov, sta lasciando l’aeroporto.» «Già, e noi due siamo ancora qua.» Disse Nurev. L’elicottero stava ando proprio sopra il loro tetto con un fracasso assordante. Udirono uno schianto provenire dall’altra stanza. Nurev capì subito che i due rumori non erano collegati: «Dobbiamo scappare Mattia!» Urlò, scavalcando con una gamba il davanzale della finestra al pianoterra. «Non c’è fretta!» Rispose una voce femminile alle loro spalle.
A valle del Monte Jomolhari, Bhutan, 2 giugno, Ore 17.50
Questa volta fu Yelena a svegliarsi per prima e a scuotere delicatamente la spalla di Aldo. L’italiano tossì sonoramente e aprì gli occhi. Era zuppo di sudore, debole come non mai. «Aldo, come stai?» Chiese Yelena. Dalla voce capì che anche lei era messa male. «Ti ho sentito parlare nel sonno e mi sono spaventata.» Aldo ricordò di aver fatto uno strano sogno: due strani occhi lo scrutavano da una delle fessure nella tende. Poi una mano enorme, che non avrebbe saputo descrivere, lo aveva toccato in viso. A quel punto aveva iniziato ad agitarsi. Poi Yelena lo aveva svegliato. «Abbiamo bisogno di bere e di mangiare.» Disse lui. «Abbiamo la febbre alta entrambi.» Prese le due bottiglie di succo di frutta e ne diede una a Yelena. Bevvero entrambi avidamente. Si fece forza e riuscì a sollevarsi in piedi, uscì dalla tenda, la pioggia che sferzava il mondo circostante. Arrivò alla teca nella roccia e prese l’involucro con il pesce dentro. La carne avrebbe dovuto cuocere ancora un po’, ma non erano nelle condizioni di fare gli schizzinosi. Divisero la porzione e ingerirono un’altra pastiglia di analgesico. Aldo non aveva più le forze di controllare le loro ferite. Sapeva solo che quella alla sua coscia faceva un male boia. Yelena, dal canto suo, sembrava stare peggio di prima. Forse era un po’ più lucida e presente, ma capiva che il dolore la stava distruggendo. Ormai non aveva più idee. Le sue risorse fisiche e mentali erano terminate.
L’unica cosa che riuscì a fare fu rimettersi a dormire. Se si fosse svegliato per l’ennesima volta, bene, altrimenti significava che doveva andare così.
Monte Jomolhari, Bhutan, 2 giugno, Ore 18.00
Udirono nuovamente il fracasso degli elicotteri. Scrutarono il cielo e decisero di nascondersi tra la vegetazione. «Sono quattro, neri e senza insegne.» Disse Paul. «Ma soprattutto sono troppo moderni perché appartengano alle forze di sicurezza bhutanesi.» Si sistemarono sotto un grosso pino dal quale potevano osservare la vallata sottostante. Gli elicotteri si abbassarono fino a perdersi tra la vegetazione. Erano atterrati a pochi chilometri di distanza da loro. Dopo neanche dieci minuti i velivoli ripresero quota e si diressero verso Paro. «Avranno recuperato i nostri nemici.» Disse Paul. «Si», rispose Visconti, «ma vorrei proprio sapere chi sono quei tizi.» Paul fece spallucce non avendo nessuna risposta a quella domanda. Poi disse: «Maradona, riportaci al Taktsang il più in fretta possibile. Ne ho le tasche piene di questa pioggia, di questa montagna, di questi maledetti yeti e, senza offesa, del Bhutan intero.» Se fossero giunti al Taktsang avrebbero trovato dei rappresentanti delle autorità lì sul posto per capire le dinamiche dell’incendio del monastero. Finalmente sarebbero potuti tornare a Paro e da lì in Europa. Ma un dubbio si insinuò nella mente di Visconti: «Maradona, aspetta.» La guida si voltò verso il professore. «C’è qualche altro sentiero per tornare a Paro, senza are dal Taktsang?» «Si.» Rispose lui. «Possiamo arrivare fino al boschetto dal quale ci hanno sparato contro e poi scendere dal versante est, senza are dal Taktsang. È un sentiero disagevole e poco trafficato, ma da lì arriveremo ugualmente a Paro.» «Bene, prenderemo questa strada.»
«Perché?» Intervenne Paul, contrariato. «Al Taktsang troveremo sicuramente qualcuno.» «Si», rispose Visconti facendo cenno a Maradona di ricominciare la marcia, «ma chi? Non hai ancora capito che c’è qualcosa di più di un manipolo di pazzi vestiti di nero che ci sta braccando?» Paul lo guardò perplesso, poi il professore riprese: «Dobbiamo arrivare a Paro senza essere visti e andare direttamente nella casa dove ci stanno aspettando Mattia e Nurev.» Il camerunese restò fermo, in attesa di metabolizzare la situazione, per qualche secondo. Poi capì che Visconti aveva ragione. Diede un ultimo sguardo alla vallata sottostante e agli elicotteri ormai all’orizzonte e riprese il cammino seguendo i due compagni.
Mosca, Russia, 2 giugno, ore 20.08
La notizia che la bionda conduttrice del telegiornale della RTR stava ando era musica per le sue orecchie: «… le tracce del magnate degli idrocarburi Nicolai Dimitrov e di sua figlia Yelena», il bel viso della giornalista sullo schermo venne sostituito per qualche secondo, da due foto affiancate, ritraenti i volti sorridenti di Nicolai e Yelena, «si sono perse sulle montagne del piccolo stato asiatico del Bhutan, dove entrambi erano impegnati nella ricerca di animali rari da ospitare nello zoo di imminente apertura, in allestimento fuori Mosca, di proprietà della Dimitrov Oil. Dalle prime frammentarie notizie che giungono dal luogo del disastro, sembra che l’elicottero che li trasportava insieme ad un’equipe di specialisti, sia precipitato per un guasto tecnico. Sono in corso le ricerche dei resti del velivolo, rese difficili dalle cattive condizioni climatiche…» Bene, bene. Pensò. Le mazzette rifilate ai giornalisti e alle autorità bhutanesi avevano avuto i loro effetti. Le modalità della scomparsa di Yelena non erano state rese note - e, in fondo, neanche lui le conosceva bene - e l’ipotesi dell’incidente aereo era stata propagandata a dovere. Non si era fatta parola neanche dell’avvenuta cattura dello yeti. Anche questa era una cosa ottima perché, se la notizia fosse trapelata, la clamorosa campagna pubblicitaria per l’apertura dello zoo che si stava organizzando, sarebbe stata in parte rovinata. Mentre era intento ad accendere uno dei sigari pestilenziali che soleva fumare nei momenti di particolare euforia, il suo segretario bussò alla porta. «Dottore, la riunione del consiglio d’amministrazione sta per avere inizio. Tutti i membri sono nella sala conferenze, manca solo lei.» Disse. «Comunichi agli altri che tra qualche minuto arriverò. Prima voglio fumare uno dei miei sigari.» Luskov salutò il suo sottoposto facendo uno dei suoi soliti sorrisetti seguito da una serie di occhiolini. Il consiglio d’amministrazione, da lì ad un’ora, in assenza di Nicolai e Yelena, lo avrebbe eletto presidente della Dimitrov Oil e delle altre aziende satellite. Il momento del suo trionfo era infine arrivato.
A Valle del Monte Jomolhari, Bhutan, 3 giugno, Ore 01.15
Sognava di volare a mezz’aria, tra gli alberi della foresta. Una strana sensazione di caldo lo avviluppava durante quel viaggio a velocità folle, come se fosse avvolto in una specie di bambagia. Sentì Yelena urlare poco distante da lui. Anche lei stava volando, trasportata da un buffo fantasma bianco. Lei chiamava il suo nome, ma lui voleva solo continuare a volare, protetto in quella calda coperta. Abbandonarono gli spazi aperti della foresta per entrare in un luogo chiuso, illuminato e riscaldato da torce e falò. Che fosse giunto finalmente in paradiso? Yelena era al suo fianco. Era nuovamente in silenzio, forse dormiva, non riusciva a capirlo perché non era in grado di aprire completamente gli occhi. Quella che credeva essere una coperta, gli venne levata di dosso e solo allora si rese conto che erano due braccia. Anche lui era stato trasportato da un fantasma come Yelena. Anzi, no! Se erano arrivati in paradiso, quelli dovevano essere angeli, non fantasmi. Che strane creature! Alte, muscolose, completamente ricoperte da pelo bianco. Una creatura gli si avvicinò, strappò il pantalone sul lato della ferita alla coscia e iniziò a tastare intorno al taglio. Prese una manciata di un composto simile al fango e glielo applicò sulla coscia. Bruciava. Tanto. Un urlo. E la lucidità che tornò nella sua mente ottenebrata dalla febbre.
Aprì completamente gli occhi, spaventato.
Non erano fantasmi, né, tantomeno, angeli. Quelli che avevano intorno erano yeti, ma diversi sia da quello visto nel video a Mosca che da quelli descritti da Visconti. I primi erano grigio topo, questi erano bianchi e, se possibile, ancora più alti, più grossi. Dei colossi. L’iniziale sensazione di terrore che aveva provato, lasciò il posto alla curiosità. Il bruciore intenso alla coscia durò solo qualche secondo, poi intervenne una sensazione di fresco torpore, simile a quello provocato dal mentolo o dall’aloe sulla pelle irritata. Evidentemente gli yeti li stavano curando con qualche loro rimedio naturale. Gli animali intorno a loro sembravano docili e amichevoli. Allungò il braccio sinistro e strattonò Yelena sdraiata al suo fianco per svegliarla. Anche lei aveva uno yeti che si stava occupando della ferita al fianco. Dopo una breve occhiata al taglio, prese un po’ della stessa poltiglia che era stata applicata sulla coscia di Aldo e la spalmò delicatamente sulla pelle ricucita alla bene e meglio della ragazza. Come lui poco prima, anche lei gridò per l’improvviso, forte, bruciore alla zona traumatizzata e si svegliò. Si voltò verso destra e aprì gli occhi ancora intontita, incontrando lo sguardo rassicurante di Aldo che le prese la mano. Poi notò gli yeti e Aldo le strinse ancora di più la mano per farle capire che non c’era motivo di spaventarsi. «Sono yeti!» Esclamò lei. «Ma sono… diversi!» «Si. Devono essere un’altra specie di yeti. Questi hanno il pelo bianco e sono molto più grandi.» Gli animali assistettero divertiti a quell’incomprensibile scambio di battute tra i due umani. Yelena notò come fosse incredibile il fatto che, seppure il loro volto era più simile a quello di un gorilla che a quello di un umano, la loro mimica facciale
era pressoché identica a quella umana. O, perlomeno, così sembrava. Aldo cercò di rimettersi in piedi, ma una mano grande quanto il suo torace lo afferrò per una spalla rimettendolo delicatamente in posizione supina. Un largo sorriso illuminava il volto della gigantesca creatura. «Si sono messi in testa che devono curarci.» Aldo, rassegnato, si riaccomodò sul suo giaciglio di paglia e foglie. «Sai una cosa?» Disse Yelena guardandosi le braccia levate verso l’alto. «Mi sento già molto meglio. Credo che questa poltiglia che ho sul fianco abbia un effetto immediato sulla febbre.» «È vero.» Rispose Aldo, che solo in quel momento si rese conto del migliorato stato di salute di entrambi. «Hanno applicato quel fango anche sulla mia coscia e ora ho la tua stessa sensazione.» «Ma come siamo finiti qui dentro?» Yelena alzò lo sguardo a studiare la grotta in cui si trovavano. «Ci hanno portato qui loro. Credevo di sognare. Era come se stessi volando. Durante il viaggio dovevo essere sulle soglie del delirio per la febbre. Poi hanno applicato il fango e mi sono svegliato. Quello che credevo essere un sogno era ciò che stava accadendo veramente: ci hanno raccolto da sotto la tenda e ci hanno portato in questo posto sicuro e all’asciutto. Probabilmente ci hanno osservato a lungo prima di prendere una decisione su come comportarsi con noi.» Un’espressione preoccupata comparve sul volto della ragazza: «Ma ora ci lasceranno andare?» Aldo non sapeva cosa rispondere a quella domanda che, fino a quel momento, non si era neanche posto: «Vedremo. Ora pensiamo a ristabilirci, poi vedremo come si svilupperà la situazione.» Uno yeti, alto quasi tre metri e mezzo, si avvicinò ai due umani con in mano quelle che sembravano essere due grosse canne di bambù di un colore molto scuro, alte all’incirca trenta centimetri. Ne diede una ad Aldo e una a Yelena.
Aldo squadrò l’oggetto tuboidale e capì che al loro interno era contenuto un liquido. La parte superiore della canna era aperta. Non si trattava di altro che di due boccali artigianali. Mise un dito all’interno e toccò il liquido in esso contenuto. Ne assaggiò una goccia con la lingua: acqua. «È soltanto acqua.» Disse a Yelena e cominciò a sorseggiare il liquido dalla canna. Yelena lo imitò. Quindi esclamò: «È l’acqua più pura che io abbia mai bevuto.» Intanto, l’attenzione dello yeti che aveva portato da bere venne attratta dal coltello nella fondina di Aldo. Allungò la mano per afferrarlo, ma Aldo gli fece cenno di no con il dito indice, come se stesse comunicando con un bambino. Poi impugnò il coltello e tirò una foglia dal suo giaciglio. Quando, con un taglio netto, divise facilmente la foglia in due parti, lo yeti si portò una mano alla fronte e rise sonoramente. Quindi allungò di nuovo la mano verso il coltello. Aldo, dimostrandogli la facilità con cui aveva tagliato la foglia, aveva intenzione di comunicare all’animale il pericolo che si corre nel maneggiare un coltello, ma quello, più che spaventato, sembrava divertito. Così decise che doveva are ad un metodo più incisivo. Bloccò la mano dell’animale fermandola delicatamente a mezz’aria. Afferrò una ciocca di pelo bianco dal dorso della mano dello yeti con la punta delle dita e la tagliò con il coltello. Lo yeti ritrasse la mano, spaventato, e Aldo, con tutto il sangue freddo che aveva in corpo, fece nuovamente segno di no con il dito. Lo yeti capì e si ritrasse perplesso, guardando la ciocca di pelo mancante sul dorso della sua mano. Aldo tirò un sospiro di sollievo: quel gesto avrebbe potuto scatenare tutt’altra reazione nell’animale, ma per fortuna, lo yeti aveva capito che il suo era stato solo un avvertimento sul pericolo rappresentato dall’arma. Un altro yeti si fece quindi avanti e porse ai due ospiti degli strani frutti simili a bacche.
«Conosci questi frutti?» Chiese Aldo a Yelena. «Non ho mai visto nulla di simile.» Rispose lei, squadrando i piccoli frutti allungati e con un taglio a metà, simili ai chicchi di caffé, ma di un colore rosso scuro. «Se li mangiamo potrebbero farci male. Potremmo finire addirittura avvelenati. Non è detto che se sono commestibili per gli yeti lo possano essere anche per noi.» «È vero. Ma cosa facciamo? Potrebbero offendersi se non li prendiamo. E poi abbiamo bisogno di mettere qualcosa sotto i denti.» Aldo scrutò le undici creature intorno a loro che a loro volta stavano studiando i due umani con curiosità. «Rifiutiamo. Magari ci portano qualche altra cosa.» Fece nuovamente segno di no con l’indice. Gli yeti si guardarono perplessi l’un l’altro, poi allungarono nuovamente le bacche in direzione dei due e Aldo fece nuovamente segno di no. Iniziò un fitto, incomprensibile, conciliabolo tra gli yeti. Dopo un po’, uno si staccò dal gruppo e scomparve dietro ad una parete rocciosa. Ne ritornò con un grosso pezzo di carne in mano. «Ora si che ragioniamo.» Disse Aldo ad alta voce, facendo il segno di “ok” alzando il pollice della mano destra chiusa a pugno. Lo yeti gli porse la carne e Aldo, tirandosi su nonostante le proteste degli animali, strisciò fino ad un vicino, piccolo, fuoco. Prese un legno sottile da un catasta a fianco e ne appuntì un’estremità con il coltello. Poi infilò la carne nello spiedo e la avvicinò sul fuoco per cuocerla. Quel gesto suscitò la perplessità degli yeti che interpretarono l’atto di avvicinare la carne al fuoco quasi come un qualcosa di blasfemo.
Aldo fece nuovamente segno di “ok” con il pollice e gli animali si acquietarono continuando a studiarlo attentamente. Dopo qualche minuto, quando il grasso della carne aveva ormai cominciato a sfrigolare, ne tagliò un pezzo con il coltello e lo diede a Yelena che lo mangiò avidamente. Aldo notò la curiosità montare nelle espressioni degli yeti che parlottavano tra loro, indicando gli strani gesti che stava compiendo l’umano. Decise di far assaggiare la carne cotta agli animali e ne tagliò diverse strisce offrendogliele. Dopo un attimo di smarrimento nell’assaporare quel gusto totalmente nuovo al loro palato, alcune delle creature sorridenti e soddisfatte, tentarono di ripetere il segno di “ok” con le loro enormi mani. Aldo emise una fragorosa risata quando uno degli yeti, anziché alzare il pollice, alzò il mignolo. Poi mostrò nuovamente il gesto nella maniera corretta e quelli lo ripeterono all’unisono. Per un attimo Aldo si sentì quasi come un dio: se gli yeti avessero imitato in futuro il suo comportamento antropologico di scaldare la carne prima di mangiarla, avrebbe segnato un punto di svolta nella storia degli yeti, catapultandoli in una nuova era che li avvicinava sempre di più al livello evolutivo degli uomini. Uno yeti andò a prendere altra carne e banchettarono a lungo, quasi come se si trovassero ad una grigliata di ferragosto tra amici.
Ad un tratto, quasi in contemporanea, sia ad Aldo che a Yelena, si staccò dolorosamente dalla pelle la poltiglia ormai seccata applicata sulle loro ferite dagli yeti. Notarono che queste si erano sgonfiate di molto e il forte arrossamento presente qualche ora prima aveva lasciato spazio ad un più rassicurante candore rosaceo. Ma, immediatamente, si sentirono più stanchi e deboli, quasi come se quel medicamento avesse avuto l’effetto di un interruttore sulla febbre, spegnendola quando applicato e riattivandola non appena staccatasi dalla pelle.
Gli yeti notarono quanto accaduto e applicarono dell’altro fango sulle loro ferite. Come prima, i due, provarono una nuova, breve ma intensa sensazione di dolore e, dopo pochi attimi, il rassicurante torpore provocato del medicamento. Alcuni yeti si esibirono in rumorosi sbadigli e la compagnia - uomini e yeti decise tacitamente che era arrivato il momento di riposare. Dall’esterno della grotta non si sentiva più il rumore della pioggia e Aldo scorse da un pertugio la rassicurante presenza delle stelle in cielo. «Yelena», disse Aldo a bassa voce per non disturbare il sonno degli yeti, «non appena saremo in grado di alzarci e camminare dovremo trovare un modo per andarcene da qui. A quest’ora gli uomini di tuo padre ci staranno cercando e, se il mal tempo sarà finalmente terminato, intensificheranno gli sforzi per trovarci. Non possiamo perdere questa occasione. Se restiamo chiusi qui troppo a lungo, potrebbero darci per spacciati e interrompere le ricerche.» «Hai ragione, ma hai notato anche tu che non appena il fango che ci hanno applicato si è staccato dalla ferita è tornata la febbre?» «Si, ho avuto la stessa sensazione. Evidentemente in quell’intruglio mettono qualche potente droga che fa sentire subito una sensazione di benessere. Cercherò di convincerli a darci un po’ di quel medicamento per portarcelo in viaggio.» «Certo, ormai parlate la stessa lingua.» Yelena lo canzonò sorridendo. «I giganti dell’Himalaya comunicano con lo sgraziato bestione italiano!» Aldo sorrise: «Non sono io ad essere sgraziato, ma loro… e poi non sono un bestione!» «Stai zitto.» Lo schernì divertita Yelena. «Loro sono più belli di te.» Si avvicinarono abbastanza per scambiarsi un lungo bacio ed il sonno li sopraffece quasi subito.
A valle del Monte Jomolhari, Bhutan, 3 giugno, Ore 08.45
Una brezza tiepida gli accarezzò il viso e Aldo si svegliò, spossato e madido di sudore. Guardò la coscia e vide che il medicamento applicatogli dagli yeti si era nuovamente staccata. Constatò, comunque, che il suo stato di salute senza unguento era migliore rispetto a quando si trovava sotto la tenda. La febbre stava dunque calando, anche se era ancora malato. Yelena dormiva ancora, pallida e sudata, ma non tremava più come qualche ora prima. Approfittando dell’apparente assenza di yeti nei paraggi, si rimise in piedi barcollando. Il taglio alla coscia si faceva sentire e capì che, nonostante i piani tracciati con Yelena il giorno prima, difficilmente avrebbero potuto abbandonare la caverna degli yeti, almeno fino a quando le loro ferite non si fossero richiuse un po’ meglio. Si portò vicino all’ingresso della caverna trascinando la gamba e, all’esterno, vide gli yeti intenti a prendersi cura di una specie di orticello, del tutto simile a quello in cui si erano imbattuti qualche giorno addietro, quando erano stati costretti alla fuga nelle caverne. Alcuni yeti, vedendolo in piedi distolsero l’attenzione dai compiti cui erano intenti e gli fecero degli ampi cenni di tornare dentro. Aldo rispose con l’ormai familiare cenno di “ok”, e poi, eseguendo degli ampi segni circolari con le mani, imitò il gesto dello spalmarsi della crema sulla coscia. Sentiva di aver bisogno dell’unguento miracoloso degli yeti. Quelli, dapprima lo guardarono perplessi, poi dopo che Aldo ripeté il gesto qualche altra volta capirono e uno di loro entrò nella caverna dirigendosi verso uno dei tanti anfratti che si dipanavano nella stessa. Ne tornò con una sorta di primitivo cesto concavo fatto di lunghe foglie intrecciate. Al suo interno si trovava il medicamento che applicò delicatamente sulla coscia di Aldo. Poi si diresse verso il giaciglio di Yelena e ripeté l’operazione.
La ragazza si svegliò sopraffatta dall’ormai familiare intensa sensazione di dolore per poi rilassarsi subito dopo. Mentre lo yeti posò il recipiente a poca distanza dai loro giacigli, Aldo si accostò alla ragazza: «Come ti senti, oggi?» «Molto meglio. Tu?» «Anch’io. Però mi sono accorto che non siamo in condizione di andarcene da qui oggi. Le nostre ferite non si sono ancora rimarginate bene e se dovessimo affrontare un lungo cammino rischieremmo di morire dissanguati o di far andare le lesioni in setticemia. Anche se dovessero darci un po’ del loro medicamento, camminando si staccherebbe presto.» «Io però mi sento benone.» Disse Yelena. «È perché ti hanno applicato la medicazione mentre ancora dormivi. Io mi sono svegliato senza più fango sulla coscia e avevo la febbre, un po’ più bassa rispetto a ieri, ma ero molto spossato. Quando mi sono svegliato ho notato che anche tu eri pallida e sudata. Temo che dovremo restare qui un altro giorno, almeno.» Yelena notò la frustrazione sul volto di Aldo, capiva anche lei che, se fosse stato possibile, andarsene subito sarebbe stata la cosa migliore da fare - suo padre, a quell’ora, avrebbe sicuramente già allertato mezzo mondo per ritrovarla, non potevano starsene rinchiusi in un caverna - ma erano chiaramente impossibilitati a muoversi e a comunicare con il resto del mondo. Aldo prese uno dei cilindri vuoti in cui, la sera prima, gli avevano portato l’acqua e lo fece vedere allo yeti più vicino, facendogli capire, a gesti, che avrebbe voluto riempirlo. L’animale prese subito il rozzo boccale dalle mani di Aldo e recuperò anche l’altro. Si diresse verso una pozza piena d’acqua scavata nella roccia della montagna e li riempì. Aldo porse uno dei boccali a Yelena e bevvero entrambi. «Voglio alzarmi un po’.» Disse Yelena dopo aver poggiato a terra il cilindro. «Con quella ferita all’addome te lo sconsiglio, Yelena.» «Dai», rispose lei con un simpatico broncio, allungando le braccia verso di lui,
«aiutami, non sono mica un mollaccione come te.» Aldo le rivolse uno sguardo contrariato, ma quando lei insistette, la afferrò per le spalle e la mise in piedi. Percorsero solo pochi metri, poi si sedettero su un gradino roccioso posto all’ingresso della grotta. Studiarono gli yeti per tutta la mattinata, scambiandosi opinioni sui loro modi e sul livello intellettivo che dimostravano di avere, rapportandolo a quello di altri animali ritenuti intelligenti quali scimmie, cani e gatti. Concordarono sul fatto che, senza ombra di dubbio, dopo l’essere umano, quella razza, - in fondo così simile all’uomo - era dotata del quoziente intellettivo più elevato dell’intero regno animale. Individuarono nel gruppo di undici animali sei femmine e cinque maschi. Erano tutti intenti a prendersi cura delle piante antistanti l’ingresso della grotta, a pulire e a lavorare con primitivi utensili. Poi, dopo qualche ora, verso mezzogiorno, dall’interno della grotta sbucarono due simpatici esserini pelosi, alti poco meno di un metro e mezzo che, non appena videro Aldo e Yelena, si misero ad osservarli con curiosità e a girargli intorno toccandoli e odorandoli. «Sono i loro cuccioli!» Esclamò Yelena, sorridente e meravigliata. «Sono bellissimi.» Rispose Aldo. «Un maschio e una femmina… se l’uomo li lascerà in pace questa specie ha ancora la possibilità di sopravvivere almeno per una generazione.» «Sei ancora convinta dello scopo di questa missione?» Le chiese Aldo a bruciapelo. «No.» Accarezzò una delle due creaturine sulla fronte a lungo e in silenzio. «Hai sempre avuto ragione tu, Aldo. E aveva ragione anche il professor Visconti. Tutto ciò è una follia. Lo sospettavo già da prima, ma ora ne sono convinta. La natura compie degli sforzi indicibili per preservare queste specie. Sono solo tredici esemplari. Da quanto ci ha detto Teodoro, gli yeti che vivono in cima alla montagna non sono più di una trentina. Neanche cinquanta esemplari in tutto, eppure sono due razze chiaramente diverse. Tutto ciò è straordinario. Ma cosa dovremmo fare ora per portare a compimento il nostro progetto? Catturare un
esemplare di yeti grigio e uno di yeti bianco? No, hai ragione tu, dobbiamo lasciare vivere in pace queste bestie. Non abbiamo nessun motivo di distruggere questo ecosistema e questo gruppo di animali. Il problema è che abbiamo già causato un danno enorme a questa specie distruggendo l’ingresso della caverna dove vivevano gli yeti grigi.» «Hai ragione», rispose Aldo corrucciato, «ma cosa avrei potuto fare? Ci stavano catturando.» «Lo so, Aldo, tu non hai colpe. Abbiamo sbagliato tutti in quanto esseri umani. Noi non saremmo dovuti partire proprio da Mosca per questa missione. Se non ci fossimo impelagati in questa ricerca i nostri nemici non ci avrebbero inseguito costringendoti a sparare quel razzo contro la volta della caverna. L’errore principale l’abbiamo fatto noi della Dimitrov, io e mio padre, tutto il resto è stata solo una caotica concatenazione di eventi scellerati e sfortunati.» Si incupì. «Mi sento terribilmente responsabile. Per il disastro arrecato agli yeti grigi, per la perdita di Miller e della guida bhutanese e di chissà quali altre cose possano essere accadute dopo che siamo caduti nel fiume.» Aldo non rispose e l’abbracciò. Non aveva nulla da aggiungere. Finalmente anche lei aveva capito. Giocherellarono ancora un po’ con i simpatici cuccioli, poi Aldo ripensò ad un discorso intavolato qualche giorno prima con Yelena e mai concluso. «Yelena, ricordi quando abbiamo scorto il fumo provenire dal Taktsang e abbiamo visto arrivare gli elicotteri?» Lei annuì. Aldo continuò: «Mi dicesti che quella sera mi avresti dato delle delucidazioni riguardo alle foto che Nurev ti aveva fatto vedere all’Aeroporto. Poi sono successi tutti i disastri che ci hanno coinvolto e non abbiamo più avuto modo di parlarne.» «Cosa vuoi sapere?» Chiese lei appoggiando la schiena alla parete rocciosa guardandolo intensamente negli occhi. «Beh, direi… tutto!» Esclamò lui.
«Ok. Partiamo dalle foto: Mostravano la presenza di uomini in cima alla montagna, già dal giorno prima del nostro arrivo. Evidentemente non avevano ancora indossato le tute isotermiche, ritenendo che non avremmo mandato in volo il drone prima del nostro arrivo. Invece, Nurev, aveva iniziato una vasta operazione di ricognizione dell’area già molti giorni prima del nostro arrivo. A dirla tutta, Nurev si trovava a Paro da oltre un mese, quando era stato mandato a dare appoggio aereo alla missione di recupero dello yeti precedente alla nostra.» «Come?» Urlò Aldo, stupito da quella rivelazione. «Prima di noi già qualcuno era stato mandato dalla Dimitrov alla ricerca dello yeti? Perché non siamo stati informati di questo fatto?» «Per timore che avreste potuto rifiutare.» Rispose Yelena. «Perché avremmo dovuto? Non c’è nulla di strano a subentrare ad una missione che ha fallito in precedenza, lo abbiamo fatto mille volte. Ma conoscere i motivi del fallimento di una missione può aiutare chi subentra affinché non commetta gli stessi errori.» Yelena fece un sorriso amaro, scuotendo il capo: «Quante volte siete subentrati a missioni finite tragicamente?» Aldo raggelò: iniziava a capire: «Cosa intendi per “tragicamente”?» «Intendo gente uccisa da terroristi, Aldo.» Scagliò un violento pugno sulla roccia nuda. «Vuoi dire che quei pazzi che hanno cercato più volte di farci fuori, avevano già eliminato una spedizione, qui in Bhutan, e voi non ci avete detto niente?» Lei non riuscì a reggere il suo sguardo e, voltando il capo verso l’alto, iniziò a fissare il cielo finalmente azzurro, sopra gli alberi. «In realtà, oltre alla precedente missione in Bhutan, anche una missione in Guatemala, alla ricerca del chupacabra, e una in Guinea Equatoriale, in caccia di un dinosauro della mitologia africana, hanno avuto la stessa sorte.» Aldo era disgustato. Si sentiva tradito, come se fosse stato mandato al macello. «Il vostro è stato un comportamento inaccettabile, Yelena. Avevamo il diritto di sapere. Non si gioca con la vita delle persone.»
Lei scoppiò a piangere: «Lo so Aldo, hai ragione. È stata una follia e sono venuta con voi proprio per espiarmi da questa colpa. Ho voluto mettermi in gioco di persona perché mi ritenevo responsabile. Non hai idea di quanto abbiamo litigato io e papà. Non voleva che io venissi. Ma io non volevo lavarmene le mani un’altra volta. E poi, ho peccato di arroganza: credevo che le altre missioni fossero fallite per incapacità del personale. Credevo che io sarei stata più brava a guidare le ricerche. Credevo che i terroristi non si sarebbero permessi di attaccare una spedizione guidata da me, che avrebbero avuto timore del cognome che porto. Invece no: se non fosse stato per te e Paul sarei morta già al Taktsang probabilmente. Sono stata un’ingenua, una stupida.» Alcuni yeti si voltarono ad osservare la scena, senza capire che cosa stesse accadendo tra i due umani. Uno dei cuccioli allungò un dito ed asciugò una lacrima sul volto di Yelena. Poi la ragazza cercò l’abbraccio di Aldo. Lui era furibondo. Yelena non era stata abbastanza onesta. Anche se ora gli aveva rivelato tutto e l’organizzazione della missione risalisse ad un periodo in cui erano dei perfetti sconosciuti, si sentiva tradito, se non umanamente, sicuramente professionalmente. Ma dopo un attimo di muta riflessione, le lacrime della ragazza placarono la sua ira e la cinse con un braccio sulle spalle. «Parlami di questi terroristi.» Disse dopo che Yelena si calmò. «Non sappiamo nulla di loro. Né noi, né i servizi di intelligence federali. Sembrano essere comparsi dal nulla. Non hanno mai fatto neanche nessuna rivendicazione degli attentati. L’unica cosa di cui siamo certi è che conoscono bene i piani della Dimitrov, per cui, all’interno della compagnia deve esserci una talpa che comunica le nostre mosse.» «Avete dei sospettati?» «Mio padre no. Io uno l’avrei: Luskov.» «Beh, non mi sembra la persona più simpatica del mondo, su questo siamo d’accordo, ma da ciò che ho potuto desumere dalle poche volte che l’ho incontrato, mi è parso molto fedele a tuo padre.» «Tutta apparenza, credimi.» La ragazza, asciugandosi le lacrime si sciolse
dall’abbraccio di Aldo e accarezzò i cuccioli accovacciati ai loro piedi. «In realtà è una sanguisuga di mio padre.» «Cosa te lo fa pensare?» Yelena non rispose subito, ma riflettè a lungo, come se fosse in procinto di dare una lunga risposta ad Aldo. Invece disse semplicemente: «Sensazioni.» Aldo non era convinto: «Solo sensazioni?» «Mai sentito parlare di intuito femminile?» «Ah si, tante volte.» Rispose stizzito. «Però, dato che in questa storia c’è di mezzo la mia vita, quella di mio fratello e quella di alcuni cari amici, preferirei che l’intuito femminile venga accompagnato da qualche argomento più concreto.» «Fidati di me. Cosa vuoi di più concreto?» Si alzò in piedi. «Ho fame, mi sa che dovresti parlare con i tuoi amichetti affinché ci portino qualcosa da mettere sotto i denti.» Aldo capì che Yelena aveva voluto troncare lì un discorso che, in realtà, non era per nulla terminato. La ragazza aveva ancora molto da dire riguardo Luskov e i terroristi, ma aveva preferito tacere. Quel tipo di atteggiamento lo aveva fatto infuriare, ma preferì non darlo a vedere, la loro priorità era mettersi in salvo. Dopo sarebbe arrivato il tempo dei chiarimenti definitivi.
Mosca, Russia, 3 giugno, Ore 16.25
Il camion che trasportava lo yeti era finalmente arrivato allo zoo. Luskov era raggiante. Non solo per la cattura dell’animale, ma per il fatto che ormai tutto l’impero creato da Nicolai Dimitrov era nelle sue mani. Il Consiglio d’Amministrazione della compagnia petrolifera aveva consegnato nelle sue mani i pieni poteri. Non avrebbe potuto essere altrimenti dopo le ingenti tangenti versate ai Consiglieri. D’altra parte, morti Nicolai e Yelena, aveva preso il controllo delle disponibilità economiche della Dimitrov Oil e delle società satellite. Il testamento di Nicolai parlava chiaro e data l’assenza di altri parenti diretti, il secondo nella linea di successione dopo Yelena, per volontà del magnate, era proprio Alexey. Il notaio doveva ancora notificare tutti gli atti alle autorità competenti, affinché l’impero Dimitrov finisse ufficialmente nelle disponibilità di Luskov, ma la gestione provvisoria dell’azienda dichiarata dal Consiglio d’Amministrazione gli concedeva in ogni caso pieni poteri. Seguì, a piedi, il camion bianco preceduto da una lunga processione di mezzi della sicurezza, fino all’enorme gabbia allestita a tempo di record dalle maestranze al lavoro nello zoo, proprio di fianco a quella dei leoni, pressappoco in corrispondenza del punto medio dello zoo. Su un ampio cortile erboso, grande quanto un campo da basket, svettavano sei imponenti larici himalayani. Sul retro trovava spazio una caverna artificiale, sormontata da un tetto che richiamava architettonicamente quelli dei templi Tibetani. Proprio sotto il tetto, - grazie ad una variante al progetto originale realizzata in appena due giorni – ava, sospesa in aria, la rotaia delle montagne russe, contenuta in un tubo trasparente, proveniente dalla contigua area dedicata ai leoni. Quell’area sarebbe stata la dimora dello yeti e i visitatori, grazie al trenino delle montagne russe che ava proprio all’interno del recinto, avrebbero potuto osservare la bestia, senza alcun tipo di pericolo, da pochi metri di distanza. Ovviamente, quell’esemplare non sarebbe stato l’unico: ormai conoscevano con precisione il luogo in cui vivevano gli yeti e, presto, avrebbe commissionato la cattura di altri esemplari.
Per un paio di anni avrebbero fatto affari d’oro grazie allo yeti poi, quando il pubblico si sarebbe stancato, avrebbe fatto catturare il chupacabra o il dinosauro africano. Ormai sapevano dove si trovavano e la loro cattura non avrebbe dovuto essere difficoltosa. Luskov sorrise nel pensare a quanto era stata poco avveduta la scelta di Nicolai che aveva cercato di far catturare tutte quelle criptidi contemporaneamente. Era un’idea assolutamente antieconomica. Per questo aveva ordinato l’eliminazione delle altre missioni, quando erano ormai sul punto di catturare i loro obiettivi. Lui lo aveva detto mille volte a Nicolai: “catturiamo prima lo yeti o il mostro di Loch Ness, perché sono le criptidi più famose cui ipoteticamente possiamo mettere le mani addosso, dato che gli americani non ci faranno mai catturare un bigfoot per portarlo in Russia. Poi, a distanza di qualche anno, cattureremo altre criptidi per arginare i fisiologici cali di visitatori che arriveranno dopo che l’effetto del clamore suscitato dall’esposizione di una di quelle creature terminerà”. Ma quell’inetto di Nicolai non voleva saperne. Pensava solamente a mantenere quella stupida promessa fatta alla moglie e voleva tutte le criptidi nel parco il prima possibile. Allora Luskov aveva dovuto porre rimedio a quella strategia così poco oculata. Doveva sabotare le missioni secondarie per far catturare una delle criptidi per eccellenza: lo yeti o il mostro di Loch Ness. Non avendo trovato traccia del mostro di Loch Ness, tutti gli sforzi si sarebbero dovuti concentrare sulla ricerca dello yeti. Poi a Luskov balzò in mente un’illuminazione che avrebbe definitivamente cambiato il corso della sua vita: perché organizzare tutte quelle manovre sottobanco per favorire, comunque, sempre di più, quell’incompetente di Nicolai e la sua antipatica figlia, quando avrebbe potuto avere tutto quell’impero per sé? Ecco quindi che prese vita il piano per eliminare la famiglia Dimitrov e diventare il padrone incontrastato della Dimitrov Oil. In fondo, se qualcuno avesse scoperto che la mente dietro ai sabotaggi delle missioni era la sua, Nicolai gliel’avrebbe fatta pagare cara in ogni caso, tanto valeva puntare al bottino pieno.
Il pesante cancello laterale del recinto si spalancò con un tonfo sordo. Il camion
si accostò retromarcia all’ingresso e il portellone posteriore venne abbassato. Dopo qualche secondo, un’enorme figura grigia, barcollando, scese dal rimorchio del camion tra lo stupore degli astanti. Lo yeti era arrivato nella sua nuova dimora. Un boato accolse i primi i dell’animale sul prato immacolato. Luskov strinse decine di mani ed elargì infiniti sorrisi ed occhiolini. Era il suo momento di gloria. Ora doveva dare inizio alla faraonica campagna pubblicitaria di apertura del parco. Da lì a quattro giorni, ci sarebbe stata la cerimonia di inaugurazione dello zoo, alla presenza della stampa e delle autorità. Solo un migliaio di persone scelte avrebbero assistito in anteprima alla presentazione dello zoo e dello yeti. Ancora la struttura non era del tutto completata e mancavano gli esemplari di alcuni animali. Ma al momento dell’apertura al pubblico dello zoo, prevista per il tre di agosto, in largo anticipo sui tempi preventivati, tutte le opere sarebbero state completate e tutti gli animali mancanti sarebbero arrivati a Mosca. Più avano i minuti più lo stato d’animo di Luskov entrava in delirio: dopo anni ati a fare da acarte e sguattero per Nicolai Dimitrov, ora era arrivato il momento della sua rivincita.
A valle del Monte Jomolhari, Bhutan, 3 giugno, Ore 17.20
Finalmente erano arrivati a valle della montagna. La città di Paro non era distante. Avevano proseguito a tappe forzate lungo un percorso quasi completamente in ripida discesa, concedendosi solo poche ore di sonno nella notte per arrivare il prima possibile da Nurev e Mattia e poter comunicare cos’era accaduto alla missione. Camminavano sulla sponda di un fiume turbolento raggiunto poche ore prima. Era una giornata stupenda dopo le piogge dell’ultima settimana e l’aria aveva un odore piacevolmente muschiato. Se non fosse stato per gli avvenimenti degli ultimi giorni e per il compito che li aspettava a Paro, tutti e tre avrebbero voluto sdraiarsi all’ombra di uno di quegli alti alberi a contemplare a lungo e con rilassatezza, l’incontaminata natura circostante. «Quanto manca ancora?» Chiese Paul a Maradona. «Domani, per mezzogiorno, dovremmo essere a Paro. Ora il cammino sarà più agevole. Questo è il Wong Chhu», disse, indicando le acque del fiume alla loro sinistra, «ci basterà seguirne il percorso per arrivare in città.» «Facciamo una breve pausa?» Chiese Visconti, visibilmente stanco. «Ok, ma solo per pochi minuti. Poi dobbiamo trovare un posto sicuro per la notte.» Rispose Paul. Si sedettero a terra per dar riposo alle membra sfinite. D’un tratto Paul balzò in piedi e, con il binocolo, scrutò il fiume in un punto poco più a valle. «Torno subito.» Disse, impugnando il fucile e dirigendosi verso la zona che aveva attirato la sua attenzione. Dopo pochi minuti, Paul, bagnato fin sopra il ginocchio, tornò da Visconti e
Maradona con uno zaino in mano. «Questo è uno degli zaini di Aldo e Yelena.» Disse Visconti. «Aprilo, dal contenuto dovremmo capire a chi dei due apparteneva.» «C’è la tenda, quindi è quello di Yelena.» Disse Paul, mentre armeggiava con i lacci esterni della sofisticata sacca. «Se siamo fortunati, allora, al suo interno dovrebbero esserci anche i telefoni.» Infatti, tra i tanti capi di abbigliamento e attrezzature varie che Paul tirò fuori, c’erano anche i due telefoni, chiusi in delle custodie ermetiche. Ne aprì una ed estrasse l’apparecchio. Pigiò il tasto di accensione e, dopo qualche secondo di silenziosa attesa, il telefono si accese. Un urlo di gioia rimbombò per la foresta. Potevano finalmente comunicare con Nurev e Mattia e raccontare gli avvenimenti delle ultime ore.
Paro, Bhutan, 3 giugno, nel frattempo.
Nurev e Mattia erano nell’ufficio, costantemente sotto sorveglianza da parte dei terroristi. L’uomo barbuto che li comandava andava a far loro visita di tanto in tanto e chiedeva ai suoi uomini se ci fosse stato qualche segnale di vita da parte dei dispersi sulla montagna. Tutto taceva da più di un giorno ormai. Ma il capo sapeva che almeno due degli uomini di Dimitrov, oltre al monaco scappato dal Taktsang, erano vivi e quindi raccomandava ai suoi sottoposti la massima attenzione. Dopo quelle brevi visite, tornava nella sala contigua a quella in cui si trovano i computer e si poteva ascoltare spesso la sua voce parlare in russo al telefono. Mattia era spaventato e sudava freddo. Nurev, invece, ogni tanto scambiava qualche parola in russo con i suoi carcerieri e, dal tono e dalla mimica facciale, Mattia capiva che le parole del miliare non erano certo di elogio. D’un tratto, il telefono satellitare prese vita su una delle scrivanie. Dall’altra stanza si udì prima il rumore di sedie spostate e poi quello di i veloci. Il barbuto comandante entrò nella stanza e ordinò a Nurev: «Rispondi, immediatamente. E bada bene a non far capire che avete ospiti in casa, intesi?» Il militare russo lo squadrò con un intenso sguardo torvo, poi rispose al telefono inserendo il “vivavoce”. «Dottoressa Dimitrova.» Disse Nurev. «Non sono Yelena.» Rispose la voce gutturale e profonda di Paul. «Come saprete di lei e Aldo si sono perse le tracce dopo che sono caduti in un fiume. Però abbiamo ritrovato il suo zaino e all’interno c’era un telefono funzionante. Io sono con il professor Visconti e Maradona.» Nurev guardò in volto il capo dei terroristi che gli suggeriva le risposte. «Dove vi trovate?» «Secondo Maradona ci troviamo a meno di un giorno di viaggio da Paro, stiamo costeggiando il fiume Wong Chhu e seguendone il corso dovremmo giungere in
città.» Cambiò repentinamente discorso: «Ma voi avete notizie dello yeti? Abbiamo assistito alla sua cattura e abbiamo visto Nicolai Dimitrov e i suoi uomini morire sotto l’attacco di un gruppo di terroristi. Però l’elicottero con l’animale a bordo è partito.» Nurev attese il “suggerimento” del terrorista e rispose: «Non abbiamo notizie dello yeti, né del dottor Dimitrov. Abbiamo già allertato le autorità locali e quelle russe. Le ricerche sono partite immediatamente. Ora cercate di raggiungerci nel più breve tempo possibile. Io intanto organizzerò il vostro rimpatrio in Russia.» «Avete sentito qualcuno a Mosca?» Chiese Paul. «Si, ci è stato comunicato che la missione è annullata e che appena verrete recuperati voi e le salme degli uomini che erano con Nicolai Dimitrov, tutti faremo ritorno in Russia. Le autorità bhutanesi, invece, si occuperanno della ricerca dei corpi di Aldo e Yelena.» «Notizie dei terroristi?» Il capo impiegò qualche secondo a pensare ad una risposta adeguata. «Nurev, ci sei? Mi hai sentito? Hai notizie dei terroristi?» Ripeté Paul in attesa di risposta. Poi, dopo essersi nervosamente lisciato la lunga barba, ricominciò a “dettare”: «Si. Ora ti sento… deve esserci stato qualche problema di linea. I terroristi sono stati individuati, ma solo dopo che sono fuggiti dal Bhutan. Le autorità di mezzo mondo sono sulle loro tracce, ma non saprei dirvi di più.» «Va bene. Vi richiameremo non appena arriveremo in città.» «Perfetto. Noi non ci muoviamo da qui.»
«Qualcosa non quadra.» Disse Paul accigliato dopo aver spento il cellulare. «A cosa ti riferisci?» Chiese Visconti. «Ti è mai capitato di telefonare ad un numero di emergenza?» Il professore fece cenno di no con il capo. «Beh», Riprese Paul, «se ti dovesse succedere, sappi che l’operatore ti farà un sacco di domande perché è lui che deve rendersi conto della
tua situazione e darti le migliori indicazioni possibili.» Visconti lo guardò perplesso. «Caro professore, nel nostro caso, il numero di emergenza di questa missione era il numero di Nurev e, come avrà constatato, le domande le ho fatte solo io. E poi, com’è possibile che sappiamo più cose noi che lui? Non mi voglio bere la storiella che non sappia che fine abbia fatto il bielica con a bordo lo yeti. Avrà di certo seguito i tracciati radar dei voli su Paro tramite i computer. No, troppe cose non mi tornano.» Visconti non capiva dove il camerunese volesse arrivare, ma percepì il suo stato d’animo. «Credi che Nurev sia implicato con i terroristi?» «No, credo che i terroristi siano da Nurev. Come siamo stati intercettati noi, lo è stato anche lui. Quindi, mentre sulla montagna i terroristi cercavano noi, in città avranno dato la caccia a Nurev e Mattia: quale miglior modo per metterci sulla strada sbagliata se non costringendoli a darci le indicazioni errate?» Visconti annuì con il capo. «Ora sanno dove siamo e da quale punto arriveremo in città. Dobbiamo studiare un modo per tendergli un’imboscata, non abbiamo scelta.» Disse Paul. Visconti sbruffò una risatina scettica: «Facile a dirsi, Paul. Noi siamo solo in tre. In quanto ad armamenti abbiamo solo una pistola ed un fucile mezzo scarico. Di contro, loro sono almeno una ventina e armati fino ai denti. Credo che la soluzione più semplice sia quella di chiamare la polizia dicendo che ci siamo persi nella foresta.» «Bella idea, professore!» Rispose Paul ricambiando lo scetticismo dell’altro. «Il problema è che lei dimentica che siamo intercettati. Le assicuro che nel tempo che impiegherà la polizia per iniziare le ricerche, i terroristi ci avranno già trovato e mandato all’altro mondo.» Si chinò per raccogliere lo zaino di Yelena. «E poi non è vero che siamo così disarmati.» Disse, soddisfatto, estraendone la pistola, il fucile e lo spararete. «Ok, forse hai ragione.» Ammise, non completamente convinto, Visconti. «Ma come possiamo fregarli? Ormai non possiamo neanche tornare indietro verso il Taktsang. Se entro un giorno non avranno notizie ci taglieranno la strada anche da quella parte della montagna. Possiamo puntare solo su Paro.» Maradona, che fino a quel momento era stato in tacito ascolto, estrasse una
cartina del luogo e srotolandola esclamò entusiasta: «Io avrei un’idea!»
Tigre tornò nella stanza in cui aveva fatto predisporre il suo ufficio. Chiamò a sé i suoi più stretti collaboratori e li informò delle novità. Uno sguardo feroce e determinato era dipinto sul suo volto. Non vedeva l’ora di andare a Mosca a ritirare i soldi che gli spettavano. Poi sarebbe tornato nel suo amato Uzbekistan. Lì, spostandosi a piacimento tra la moderna Tashkent e la leggendaria Samarcanda, avrebbe potuto finalmente vivere la vita tranquilla e agiata che, era convinto, spettasse ad ogni mercenario in pensione, dopo aver portato a termine l’ultima, eccezionale, missione di una carriera ata sempre in prima linea. «Elefante, prendi con te nove uomini e domattina, appena sorge il sole, andategli incontro. Cercate di bloccarli prima che arrivino a Paro.» «Cosa ne facciamo di loro?» Chiese lei. «Fatene cibo per lupi. Non ci servono prigionieri.»
A valle del Monte Jomolhari, Bhutan, 3 giugno, Ore 20.10
Il medicamento si staccò nuovamente dalla coscia di Aldo. Questa volta, però, sentì solo un leggero stato di stanchezza, senza più tremore, pallore e respiro affannoso. La febbre era quasi del tutto sparita. Anche la coscia aveva un aspetto più rassicurante. I lembi della ferita si erano rimarginati a tempo di record grazie alla poltiglia degli yeti. Se avesse ato un’altra notte con l’impacco applicato, il giorno dopo sarebbe stato sicuramente in grado di riprendere il cammino verso Paro. Richiamò l’attenzione di Yelena, ancora intenta a giocare con i cuccioli di yeti. «L’impacco si è seccato e la ferita è quasi guarita. Anche la febbre è ata.» Lei staccò il medicamento dall’addome e constatò che anche la sua ferita era sul punto di guarigione. Non si era rimarginata bene come quella di Aldo, ma il dolore era sparito, così come la febbre. «Domani mattina partiamo.» Disse lui. «Non possiamo aspettare oltre.» Lei annuì. «Hai ragione. Ho notato che poco fa uno yeti ha portato del pesce fresco. Era ancora bagnato e si muoveva, quindi il fiume non deve essere molto distante da qui. Se ricordo bene la morfologia del luogo quello che scorre qui vicino è il Wong Chhu, e se ne seguiamo il corso arriveremo a Paro.» Il pesce che aveva visto Yelena in mano ad uno yeti fu la loro cena quella sera. Aldo aveva mostrato ai curiosi giganti bianchi che, come la carne, anche il pesce si poteva cuocere sul fuoco e gli yeti, soddisfatti dal gustoso sapore, gradirono il suggerimento. Cercarono di comunicare il più possibile con i misteriosi animali ma, purtroppo, si resero conto che, al di là delle cose più elementari, gli yeti non riuscivano a comprendere messaggi troppo complicati. Ad esempio, chiesero loro dove si trovasse il fiume, oppure se avessero visto altri esseri umani, ma il divario culturale tra le due razze era troppo ampio per essere colmato in così breve tempo e senza nessuna competenza antropologica e linguistica in grado di aiutare Aldo e Yelena a comunicare.
Capirono comunque che quella era una strana società, come mai era capitato loro di osservare personalmente o leggendo sui testi scientifici: non sembrava esserci un vero e proprio capo branco, anche se avevano notato che spesso il maschio più grosso, con una evidente cicatrice in fronte, era quello che si occupava di alcuni dei compiti più importanti quali la disposizione dei fuochi o la raccolta delle piante da mangiare. Questo però non si traduceva in diritti di precedenza quali scegliere il cibo migliore o occupare il posto più comodo nella caverna. Anche la loro vita familiare e sessuale era ancora un mistero per Aldo e Yelena, in quanto sembrava che fossero un’unica, grande, famiglia senza sostanziali differenze sociali tra i componenti del branco. In fondo, che si trattasse di un’unica famiglia, era un fatto evidente, essendo soltanto tredici i membri del gruppo. Quando la compagnia era quasi sul punto di andare a dormire, con alcuni yeti già appoggiati alle pareti di pietra della caverna, ad un o dal prender sonno, la tranquillità della serata venne disturbata da un profondo ululato proveniente dalla foresta circostante. Subito gli yeti si incupirono e divennero visibilmente nervosi. Due esemplari femmina presero i cuccioli per mano e li accompagnarono nel profondo della caverna, lontano da ogni spiraglio di luce. Gli ululati si fecero sempre più vicini. I lupi tibetani stavano arrivando velocemente. Gli yeti maschi si piazzarono davanti all’ingresso della caverna, per sbarrare l’entrata ai lupi. L’esemplare più grande, con l’ampia cicatrice sulla fronte, si posizionò un o avanti agli altri con le possenti gambe divaricate. Fu finalmente chiaro ad Aldo e Yelena che lui era effettivamente il capo branco. Le altre femmine si disposero qualche metro dietro di loro, con un’espressione di fiera combattività. Anche Aldo si preparò allo scontro, estraendo il coltello dalla fondina e dicendo a Yelena, disarmata, di stare dietro a lui. Lei afferrò un tizzone ardente da uno dei fuochi nella grotta e obbedì. Poi l’attacco. Il branco di lupi attaccò lo sbarramento degli yeti come se fosse una carica di
cavalleria. Lo yeti più a destra, probabilmente il più anziano, crollò a terra dimenandosi, con tre lupi che cercavano di squarciargli la folta peluria e la pelle spessa. Gli altri yeti si difendevano molto meglio: con un solo pugno erano in grado di ridurre a terra, senza conoscenza, un lupo. Quando la prima carica sembrò terminata, con una decina di lupi che battevano in ritirata verso la foresta, gli yeti incolumi andarono a dar man forte al loro compagno a terra, sempre con i tre lupi che cercavano di ferirlo con le possenti zanne bianche. Lo yeti urlava e scalciava, non riusciva a liberarsi dai lupi ormai artigliatisi alla sua pelliccia. L’intervento dei compagni però, mise rapidamente fine a quell’assalto e i lupi si trovarono scagliati fuori dalla caverna. Troppo tardi gli yeti si resero conto che quella dei lupi era stata una tattica diversiva. Infatti, mentre tutti i maschi si erano spostati verso destra, per aiutare il loro compagno a terra, gli altri lupi riattaccarono dal lato sinistro ormai sguarnito, riuscendo ad entrare nella caverna e ad attaccare le femmine. Almeno venti lupi erano riusciti ad entrare e la battaglia infuriò a lungo, con le femmine che si difendevano come, se non meglio, dei maschi. Poi una di loro cadde a terra, con un lupo che le mordeva il collo. In quel momento, Aldo, distante solo un paio di metri, decise che era arrivato il momento di intervenire. Si lanciò contro il lupo brandendo il coltello e lo colpì ripetutamente al ventre finché non si accasciò al suolo privo di vita. Il grosso yeti con la cicatrice assistette alla scena e rivolse un fragoroso urlo ad Aldo, rivolgendogli un “ok” con la mano destra. Yelena si portò qualche o avanti e spaventò i lupi con il tizzone ardente che aveva in mano. Grazie al parapiglia causato tra gli attaccanti dall’intervento degli umani, gli yeti riuscirono a colpire numerose volte i lupi, ora spaventati e disorientati, e la caverna fu di nuovo libera dagli assalitori.
Mentre gli yeti soccorrevano i loro simili feriti, Aldo e Yelena accesero alcuni fuochi proprio sull’ingresso della caverna per scoraggiare nuovi attacchi da parte dei lupi. Lo yeti più anziano, che era caduto per primo, versava in gravi condizioni, così come la femmina che era stata morsa al collo. Venne loro applicato lo stesso medicamento che avevano dato ad Aldo e Yelena ma, dalle espressioni dei loro visi, si capiva come le condizioni dei feriti fossero disperate. Anche altri due yeti avevano riportato delle ferite, ma di entità modesta, mentre Aldo contò otto lupi morti a terra, tra i quali quello che lui stesso aveva accoltellato. Nessuno chiuse occhio quella notte, né Aldo e Yelena, né gli yeti, intenti ad accudire i due feriti. Proprio al sopraggiungere dell’alba, con i primi raggi del sole che battezzavano il nuovo giorno e gli uccelli che iniziarono a ravvivare quella mattinata di giugno con i loro canti, l’anziano yeti cessò di vivere, tra le urla e i pianti dei suoi simili, mentre la femmina sembrava potercela fare. Col are delle ore, la situazione si tranquillizzò, e la femmina ferita, si addormentò. I maschi, con espressione fiera, sollevarono mestamente il cadavere del loro compagno e, seguiti dalle loro compagne, lo trasportarono nei meandri della caverna, probabilmente in una camera adibita a sepoltura. Aldo e Yelena non ebbero il coraggio di seguirli in quella mesta processione, rispettando il loro composto dolore che tanto somigliava a quello umano. Li seguirono però con lo sguardo, abbracciati e tristi come gli yeti. «Andiamocene ora che siamo soli.» Disse Aldo a Yelena. «È meglio sparire come se non ci abbiano mai conosciuto. Abbiamo invaso già abbastanza il loro mondo.» Uscirono dalla caverna senza voltarsi e si inoltrarono nella foresta, in cerca del fiume.
A valle del Monte Jomolhari, Bhutan, 4 giugno, Ore 09.15
Il punto indicato da Maradona era quello. La cascata, alta circa cinque metri, produceva un rumore profondo e costante. «Se ci vengono incontro, risalendo il fiume, devono per forza are da qui.» Disse la guida bhutanese. Paul annuì osservando attentamente il paesaggio intorno a loro. Sulla destra della cascata una gradinata naturale discendeva dolcemente, collegando il pianoro a lato della cateratta, con il sentiero sottostante. Chiunque volesse oltreare lo sbarramento naturale rappresentato dalla cascata doveva per forza risalire la scalinata di pietra. L’unica l’alternativa era percorrere una lunga deviazione nella foresta. Maradona guidò Paul fin sotto la cascata. Sempre sul lato destro era possibile entrare in un pertugio che dava accesso ad una cavità che si apriva proprio sotto l’acqua che precipitava violentemente dall’alto. Paul restò in silenzio, ma maturò la consapevolezza che forse il piano di Maradona non fosse così folle ed impossibile come pensato appena la guida lo aveva esposto. «Quindi vorresti che io mi piazzi qui, proprio sotto la cascata, e apra il fuoco contro i terroristi, non appena arriveranno sul sentiero che costeggia il fiume?» Chiese il camerunese, continuando a guardarsi intorno con attenzione. «Esatto.» Rispose Maradona. «Intanto io e il professore ci nasconderemo sopra quei massi di fianco alla cascata e spareremo da lì. Se saremo veloci e precisi non avranno neanche il tempo di rispondere al fuoco.» «Dipende da quanti terroristi ci verranno incontro.» Rispose Paul, che preferì non ricordare al coraggioso bhutanese che, malgrado la baldanza che dimostrava, non aveva mai esploso un solo colpo in vita sua e che non conosceva la reale differenza tra sparare ad un uomo e tirare un calcio ad un pallone. «Comunque
non vedo alternativa a questo piano. Lei cosa ne pensa professore?» «Penso che quando non c’è alternativa ad un piano folle bisogna cercare di farlo diventare razionale.» Disse Visconti scrollando le spalle. In realtà, il professore pensava che dei tre l’unico preparato a reggere un confronto a fuoco fosse Paul. Lui aveva sparato solo una volta in vita sua, al Taktsang, da distanza ravvicinata ad un uomo girato di spalle, non proprio un’impresa da eroi. Maradona, poi, gracile com’era, difficilmente sarebbe riuscito a restare in piedi dopo il rinculo del primo colpo di pistola che avrebbe esploso. “La minestra si fa con le verdure che si hanno a disposizione”, pensò Visconti, ricordando un vecchio detto che gli ripeteva sempre suo padre, quindi era inutile dare spazio ai tanti dubbi in campo e sarebbe stato meglio pensare ai pochi vantaggi che il piano presentava. Di certo il luogo in cui si sarebbe nascosto Paul era ottimo per un attacco a sorpresa: nascosto da una cascata d’acqua avrebbe potuto far fuoco per diversi secondi prima che i terroristi avrebbero individuato il punto da cui provenivano gli spari. Anche il nascondiglio suo e di Maradona non era male: la posizione di controllo sopra le cascate, per lo meno, gli garantiva un minimo di vantaggio in caso di fuga perché i nemici avrebbero dovuto scalare la parete rocciosa a lato della cataratta prima di poterli raggiungerli. Il problema principale però era rappresentato da quanti terroristi li avrebbero braccati. Avevano potuto constatare che in tutto erano almeno una ventina, se gli si fossero fatti incontro in cinque o sei, forse il piano avrebbe funzionato. Se fossero stati di più, beh, avrebbero fatto meglio a scavarsi la fossa da soli. Si misero in posizione e attesero. Paul, ogni tanto faceva capolino da sotto la cascata e scrutava i punti più lontani della valle alla ricerca di tracce dei terroristi. Visconti e Maradona, piazzati uno di fianco all’altro, si raccontarono i fatti principali della loro vita, quasi a voler ripercorrere, un’ultima volta, il cammino delle loro esistenze prima dello scontro imminente che avrebbe potuto essere fatale.
Aldo e Yelena trovarono il fiume a neanche cinquecento metri dalla caverna degli yeti. Ne seguirono il corso a tappe forzate, nonostante il leggero zoppicare di Aldo e i gemito emessi dalla ragazza per il dolore all’addome che, di tanto in
tanto, tornava a farsi sentire. Non pensavano più né a mangiare, né a bere, né a riposare, volevano semplicemente lasciare quella foresta prima possibile e tornare a Paro, da dove avrebbero preso il primo aereo per l’occidente, qualunque fosse stata la meta. Il fiume scorreva veloce e gonfio, a causa delle piogge intense degli ultimi giorni e il suo sordo boato accompagnava il cammino dei due. Notarono con sollievo che stavano percorrendo un sentiero battuto. Ciò significava che non erano molto distanti dalla civiltà. Arrivarono alla conclusione che forse, entro la giornata, sarebbero giunti a Paro. Il boato del fiume divenne sempre più fragoroso e le rapide sempre più violente e veloci. D’un tratto si fermarono, attratti entrambi da qualcosa in lontananza. «Una cascata!» Esclamò Yelena. «Si, ho visto.» Rispose lui aguzzando la vista. Poi allungò un braccio, indicando un punto sulla destra del fiume. «Ma quelli che si trovano proprio davanti a quei grossi massi, non sono Visconti e Maradona?»
Infine, dopo un’attesa durata quasi tre ore, le sagome dei terroristi comparvero all’orizzonte. Erano dei professionisti, era chiaro. Infatti, non arrivarono dal sentiero, bensì da un percorso improvvisato poco distante, ma all’interno della foresta. Paul se ne accorse grazie al binocolo e ad un po’ di fortuna, altrimenti ci sarebbero state buone possibilità che i terroristi sarebbero arrivati quasi fino alla parete rocciosa al suo fianco prima che avesse potuto scorgerli. Li contò, erano dieci. Non era una buona notizia: troppi per loro. Purtroppo non poteva comunicare con Visconti e Maradona sopra di loro, per metterli sull’attenti, se avesse urlato avrebbero potuto sentirlo.
Toccava a lui dare inizio alle danze, gli altri avrebbero reagito per come nelle loro possibilità, e sapeva bene che non erano molte. Aspettò ancora qualche secondo, affinché si avvicinassero di una decina di metri. Poi si sporse in una posizione più comoda dal pertugio tra la cascata e la roccia e prese la mira con il piccolo schermo sul fucile. Puntò al corpo di un terrorista a metà del gruppo per aver più possibilità di colpire diversi nemici con un solo mini-missile e sparò. L’ordigno volò veloce fin dentro la foresta ed esplose con un boato fragoroso. Una palla di fuoco si alzò tra gli alberi e un pino gigantesco venne avvolto dalle fiamme quasi istintivamente. Purtroppo, però, molti dei terroristi si accorsero del missile prima che giungesse a destinazione e si gettarono a terra. Quando la palla di fuoco svanì nell’aria, in otto tornarono in piedi nella foresta. Paul tornò sotto la cascata e iniziò a sparare delle veloci raffiche, senza poter prendere adeguatamente la mira a causa dell’acqua che pioveva dall’alto. Mentre i nemici cominciarono a sparare all’impazzata verso di lui, dalla sommità della cascata sentiva arrivare il rumore dei colpi del fucile di Visconti. Poi vide la scia di un altro mini-missile dirigersi verso i nemici. Paul restò impressionato dalla forza di volontà di Visconti, fino a quel momento aveva dubitato che sarebbe stato in grado di sparare contro i nemici, ora, addirittura, contro ogni previsione, aveva utilizzato anche i mini-missili.
All’improvviso udirono il boato di un’esplosione e un fungo di fuoco si levò dalla foresta. Aldo e Yelena corsero a perdifiato in direzione di Visconti e Maradona che si erano nascosti, spaventati, dietro alle rocce. Yelena arrivò per prima e prese il fucile dalle mani del professore che la guardò sorpreso. Diede una rapida occhiata a quanto stava accadendo sotto di loro e iniziò a fare fuoco. Poi, impiegando solo qualche secondo, mirò e fece partire un mini-missile che centrò in pieno un terrorista, mandandone a terra gambe
all’aria, insieme a lui altri due. Aldo afferrò la pistola nelle mani inesperte di Maradona e sparò alla cieca, con molta meno professionalità di Yelena. «Dov’è Paul?» Urlò a Visconti, rannicchiato a pochi centimetri da lui. «È sotto, dietro la cascata.» «Che significa “dietro la cascata”?» Chiese Aldo, abbassando la testa per proteggersi da una scarica di mitra proveniente dal basso. «Dietro l’acqua che cade da quassù c’è un incavo nella roccia. È nascosto lì dentro e sta sparando contro i terroristi.» Rispose Visconti, terrorizzato dalla pioggia di fuoco che si stava scatenando contro di loro. Yelena continuava a fare fuoco e sentì anche gli spari di Paul provenire dal basso. Ma, sporgendosi verso la vallata sottostante, Aldo si accorse che i nemici stavano guadagnando terreno. In due erano quasi arrivati ai piedi della parete rocciosa. Poi scorse un cilindro familiare che sbucava da una tasca del professore. «Questo è lo spararete?» Chiese, afferrandolo. «Non ho idea di cosa diavolo sia, non avevo mai visto questo aggeggio in vita mia. Paul mi ha detto di portarlo e l’ho fatto. Ma non so a cosa serve.» «Lo so io, tranquillo.» Rispose Aldo. Si portò alle spalle di Yelena che stava ricaricando il fucile. «Falli avvicinare alla parete rocciosa, ho un piano per risparmiare qualche pallottola.» Disse a Yelena, indicando i due terroristi più avanzati. Questi si avvicinarono e Paul iniziò a fare fuoco da sotto la cascata. I due risposero immediatamente al fuoco che proveniva dalla loro destra, da un punto indefinito dietro all’enorme massa d’acqua che cadeva dall’alto e distolsero lo sguardo da ciò che accadeva sopra di loro. Quel momento di distrazione fu fatale per i terroristi.
Aldo attivò lo spararete e i due si trovarono aggrovigliati da un ammasso di fili di nylon e kevlar fittamente intrecciati. Persero l’equilibrio e caddero nel fiume che li trasportò con sé, lontano.
Paul, dalla sua posizione, osservò con meraviglia la scena dei nemici avvolti nella rete che stavano venendo risucchiati dalla corrente. Possibile che Visconti avesse queste risorse nascoste? Evidentemente si! Questo insperato avvenimento lo rincuorò e riprese a sparare con maggior vigore e fiducia. Ma durò poco. Dopo l’ennesima raffica quasi alla cieca, il caricatore scattò a vuoto. Aveva finito le munizioni. Sparò i tre mini-missili rimasti in canna, ma senza nessun risultato, poiché i terroristi rimasti vivi si erano nascosti bene. Poi, anche dall’alto non sentì più giungere alcun suono di spari. Per un attimo si udì solo il rumore della corrente del fiume. Poi una voce femminile urlò dall’interno della foresta. «Uscite fuori con le mani in alto oppure spariamo. Non avete scampo. Noi abbiamo munizioni a volontà, voi le avete finite. Oppure sbaglio?» Aggiunse con un ghigno. Dopo qualche secondo, due nemici, usciti allo scoperto dalla foresta, si avvicinarono alla cascata e, puntandogli il fucile alla fronte, gli intimarono di uscire. Obbedì mestamente e si spostò sul sentiero che costeggiava il fiume. Poi i due terroristi risalirono la parete rocciosa e, lentamente, con le mani incrociate dietro la nuca, scesero sul sentiero prima Visconti e Maradona e quindi, tra lo stupore di Paul, anche Aldo e Yelena.
«Chi se lo sarebbe mai aspettato? La cara figlioletta di Nicolai Dimitrov era
ancora viva e con lei il suo amichetto italiano.» Disse la terrorista al comando del gruppo, squadrandoli con una smorfia cattiva. Aldo non la guardava, attratto da un movimento alle spalle della donna, nella foresta. Questa gli si avvicinò ulteriormente: «Quando parlo voglio essere guardata negli occhi.» Aldo, per tutta risposta, le sputò in viso. La donna venne accecata dalla rabbia e iniziò a colpirlo con il calcio del fucile, fino a farlo inginocchiare a terra. Il piano di Aldo stava funzionando. «Riprendi la scena con la videocamera.» Ordinò ad uno dei suoi scagnozzi. «Tigre si divertirà un sacco nel guardare e riguardare la scena che stiamo per girare.» «Tigre… » Disse a denti stretti Yelena. Aldo si voltò di scatto per guardarla negli occhi. Anche la donna sentì. «Conosci Tigre?» Chiese la terrorista con un largo sorriso. «Dato che sei sua amica, vorrà dire che ti uccideremo per prima.» Il gruppetto di sei terroristi esplose in una fragorosa risata. «Chi è questo Tigre?» Chiese Aldo alla ragazza con voce tesa e sguardo sospettoso. La ragazza abbassò gli occhi, non riuscendo a mantenere lo sguardo su quelli di Aldo. «Su, su», rispose la terrorista, «ormai non c’è più tempo per le presentazioni dottor Mirri, mi dispiace.» Si voltò verso i tre uomini alle sue spalle: «Fateli inginocchiare in fila sulla riva del fiume, così sarà più scenografico.» Aldo non obbedì subito alla richiesta di inginocchiarsi, preferendo prendere altre botte: anche quello faceva parte del piano. Quando, finalmente, Aldo, con un sorriso diabolico sul volto tumefatto, si inginocchio al fianco di Yelena, la terrorista fece un cenno all’uomo alla sua destra, con la videocamera in mano, ed esclamò ridendo come una pazza appena entrata in manicomio: «Ciak!»
Alzò il fucile sulla spalla per mirare alla fronte di Yelena. La ragazza osservò la canna del fucile abbandonando ormai ogni speranza di salvezza. Dopo quell’avventura incredibile e drammatica, la sua vita era giunta al termine, la pressione di un dito sul grilletto di quell’arma la separava dalla morta, con la consapevolezza che nessuno avrebbe mai pianto la sua morte e nessuno mai si sarebbe disturbato di erigere una lapide in sua memoria. All’improvviso, però, il piano che Aldo aveva silenziosamente messo a punto si materializzò con successo. Una figura bianca comparve alle spalle della soldatessa. In un istante, senza sforzo apparente, la sollevò sopra la testa e la scagliò in acqua come fosse un fuscello. La donna perse il fucile e si dimenò per qualche metro, ma trascinata dalla potenza del fiume, andò a sbattere violentemente il capo contro una roccia e i suoi arti smisero di divincolarsi nelle acque gelide. Gli altri quattro terroristi restarono di ghiaccio alla vista dell’enorme yeti bianco, con un’evidente cicatrice sulla fronte, che gli si parava ora di fronte emettendo un urlo ferino che aveva molto di umano. La loro fine fu ancora più atroce di quella del loro capo. L’uomo con la telecamera ancora accesa in mano fu sollevato per una gamba e scagliato contro ai suoi compari. Tutti e quattro caddero rovinosamente a terra e lo yeti di oltre trecentocinquanta chili, saltò addosso a quel groviglio di corpi, calpestando i loro crani fino a farli esplodere con un rumore sordo in una disgustosa poltiglia di sangue e materia cerebrale. Gli ostaggi, intanto, si rimisero in piedi e si spostarono verso il centro del sentiero. Paul, Visconti e Maradona non erano meno spaventati dei terroristi appena morti. Aldo e Yelena, invece, erano rilassati e contenti di vedere il nuovo arrivato: il grosso yeti con la cicatrice aveva restituito ai due il favore della sera prima, quando con il loro intervento, i due umani erano stati determinanti nella vittoria contro i lupi. Fortunatamente, Aldo aveva intravisto lo yeti che li stava seguendo al momento della loro cattura e subito intuì qual era il piano che avrebbe potuto salvarli dall’ennesima disavventura ata in quei giorni. Aveva deciso quindi di sacrificarsi, incassando tutti quei colpi dai terroristi prima di inginocchiarsi, in modo tale che l’animale avrebbe capito che lui e Yelena erano in pericolo, sperando che lo yeti sarebbe intervenuto in loro soccorso. Per loro fortuna, Aldo
aveva visto giusto. Lo yeti li squadrò con quello che sembrava essere un sorriso. Poi portò in avanti la mano destra con il pugno chiuso e alzò il pollice: “ok”! Aldo e Yelena ricambiarono il gesto e, subito dopo, con un ultimo sguardo amichevole, il bestione si voltò e corse verso la foresta ad altissima velocità, scomparendo per sempre alla vista dei cinque in pochi secondi. «Cos’era quello?» Chiese Visconti, balbettando sbalordito. «Uno yeti, professore», rispose Aldo, «solo che questo è bianco ed è più grande rispetto a quelli che ha conosciuto lei. Sono soltanto dodici esemplari, tra cui due cuccioli.» «È straordinario.» «Già.» Fece Aldo chinandosi a terra per raccogliere la videocamera del terrorista. Riguardò il video della loro tentata esecuzione fino all’arrivo dello yeti, quando il cameraman improvvisato venne sollevato da terra e scagliato contro gli altri terroristi. Le immagini erano nitide e definite e i compagni si erano portati alle sue spalle per osservare il filmato. Al termine del video, Aldo richiuse l’apparecchio, si guardò intorno ad incrociare lo sguardo di tutti i suoi compagni e poi, come un lanciatore di baseball, scagliò la videocamera lontana nel fiume. «Perché lo hai fatto?» Chiese Paul, osservando l’apparecchio finire nell’acqua. «Perché lo scopo di questa missione è totalmente sbagliato. Ecco tutto. Non sarò io a catturare uno yeti, o a mettere nelle mani di televisioni e giornali di serie B un video, o altra notizia, che testimoni la loro reale esistenza, puoi starne certo.» «Peccato che qualcuno lo abbia già fatto.» Rispose mestamente Visconti sedendosi a terra, seguito, subito dopo, dagli altri. Paul e Visconti, alternandosi, raccontarono ad Aldo e Yelena le peripezie che avevano affrontato dopo la loro caduta nel fiume. Descrissero con tutti i
particolari che riuscivano a ricordare la cattura dello yeti, l’arrivo dei terroristi, l’omicidio di Nicolai e li resero partecipi del loro sospetto che Nurev e Mattia potessero essere sotto sequestro. Yelena non seguì l’ultima parte del racconto, sciogliendosi in lacrime non appena venne a conoscenza della sorte toccata al padre. Fu la volta di Aldo di raccontare le loro vicende, dall’approdo sul pianoro roccioso, all’incontro con gli yeti bianchi, fino al loro arrivo al fiume non appena iniziata la battaglia contro i terroristi. Yelena era ancora scossa, ma aveva finito di piangere. Aldo si alzò e le tese la mano aiutandola ad alzarsi. «Vogliate scusarci», disse al resto della compagnia, «ma io e Yelena dovremmo parlare per qualche minuto in disparte, se non vi dispiace.» Sia i tre uomini che la ragazza restarono perplessi dopo quell’uscita di Aldo, ma la ragazza lo seguì silenziosamente nella foresta poco lontano. Appena fuori dalla portata delle orecchie degli altri le disse: «Bene Yelena, ora è arrivato il momento di dire finalmente tutto - ma proprio tutto - quello che sai riguardo a questa storia. Chi è Tigre? Cos’è che mi stai nascondendo da sempre?» alzò l voce, quasi urlando, «Ricorda che io a Paro ho un fratello che ha una moglie e due figlie. Non ti permetterò di giocare con la sua vita.» La ragazza ricominciò a piangere sommessamente, poi, singhiozzando, confessò.
«Conosco Tigre, non di persona, ma ho parlato più volte con lui. È uno dei capi di questo gruppo terroristico che si fa chiamare Rainbow Militia, il secondo nella scala gerarchica.» La ragazza si asciugò le guance rigate dalle lacrime, mentre Aldo attendeva in silenzio il resto del discorso. «L’ideale che li muove è l’ecologismo anarchico ma, in realtà, sebbene molti ambientalisti fanatici finanziano e appoggiano attivamente le loro attività, quella della difesa della natura è solo una copertura montata ad arte per abbindolare questi facoltosi ecologisti.»
«Come fai a sapere queste cose?» Chiese Aldo. «Sono stata avvicinata da Tigre tramite social network e, come una stupida, sono caduta nella loro trappola e, all’insaputa di mio padre, ho cominciato a finanziare le loro attività.» Aldo rimase a bocca aperta, non sapeva cosa dire, cosa fare, cosa pensare. Yelena gli mise una mano sul braccio per calmarlo. «Sono stata una stupida, Aldo, lo so. Se mio padre è morto è colpa mia. Se non li avessi sostenuti io, questi terroristi non sarebbero stati in grado di finanziare questa finta crociata ambientalista.» «Quindi sono stati loro a mandare all’aria la precedente missione in Bhutan e tutte le altre che avevate organizzato?» Chiese Aldo. Lei annuì col capo. «Ma allora perché hanno catturato comunque lo yeti? E qual è il loro vero scopo? Mi sembra tutto così contraddittorio.» «Questo lo ignoro anch’io. In effetti ciò che hanno fatto non ha senso. Ho capito che i capi della Rainbow Militia non stanno portando avanti questa lotta per gli interessi della natura, ma per soldi. Però non ho capito dove andranno a pescarli questi soldi.» «Yelena, dimmi tutto!» Urlò Aldo infuriato come non mai. «Smettila di dirmi le cose a metà. Come fai a sapere di questa enorme montatura?» La ragazza ricominciò a piangere copiosamente: «Ti ho già detto che Tigre è il numero due nella scala gerarchica. Il numero uno dell’organizzazione si fa chiamare Leone e il suo vero nome è Alexey Luskov.» Fece una breve pausa per asciugarsi le lacrime, mentre Aldo restò nuovamente senza parole. Luskov, oppure “Occhiolino” come preferiva chiamarlo lui. Aveva visto giusto nel non fidarsi di lui. La ragazza riprese il racconto: «Io non mi sono mai fidata di quel porco. Anche mamma non aveva stima di lui, lo considerava un leccaculo che viveva alle spalle di mio padre. Papà però lo ha sempre trattato come un fratello.
Evidentemente era riuscito ad abbindolarlo a dovere sin da quando erano due ragazzini squattrinati che vivevano di espediente nei sobborghi di Mosca durante la Guerra Fredda. Un giorno entrai nell’ufficio di Luskov. In realtà era mia intenzione entrarvi prima o poi, per sincerarmi che i miei sospetti sulla sua fedeltà fossero veri. L’occasione si presentò quando mio padre lo chiamò all’improvviso nel suo ufficio perché, con largo anticipo rispetto all’appuntamento fissato, erano arrivati alla sede della Dimitrov Oil alcuni fornitori dello zoo. Conoscevo quegli uomini e i motivi della visita, quindi sapevo che la riunione sarebbe durata a lungo. Colsi la palla al balzo e mi intrufolai nella stanza di Luskov trovando, fortunatamente, il computer . Io sapevo che era un viscido, ma, onestamente, non avevo avuto nessun sentore che lui fosse implicato con gli affari di Tigre. Questo collegamento saltò fuori quando controllai la sua posta elettronica trovando una fitta corrispondenza tra lui e Tigre. Capii anche che Leone, il capo dell’organizzazione, era lui. In quelle email, si faceva spesso riferimento al fatto che se il loro piano fosse riuscito avrebbero incassato un sacco di soldi e altre cose del genere, senza fare mai nessun riferimento alla tutela dell’ambiente.» «Perché non lo hai detto subito a tuo padre?» «Ero implicata nella faccenda fino al collo. Accusare Luskov sarebbe equivalso ad accusare me stessa.» Aldo cercava di far combaciare i pezzi di quel puzzle. Aveva avuto a che fare mille volte con le stranezze della gente facoltosa, ma qui si superava il limite: l’unica erede di un impero economico che finanzia le attività di un gruppo terroristico guidato da una delle figure apicali della società del padre e che combatte contro gli interessi della compagnia stessa. Non ci capiva nulla. «Ma possibile che non avevi capito che i tuoi soldi venivano utilizzati contro gli interessi della tua stessa compagnia?» Chiese, cercando di capire, per lo meno, cosa avesse spinto Yelena a comportarsi in quel modo. «In realtà lo sapevo benissimo. Eravamo d’accordo sul fatto che la Militia si sarebbe limitata a sabotare le missioni, e a me andava bene così. Ho dovuto mascherare il fatto di essere contraria ai piani di mio padre perché, altrimenti, per lui sarebbe stato un tradimento che non avrebbe mai digerito. In fondo c’era sempre la storia della promessa fatta a mia madre che ne alimentava le ambizioni. Però io la penso come te sugli zoo. Per non parlare della cattura delle
criptidi: ho sempre ritenuto fosse una follia. Ma, quando ho capito i veri scopi della Rainbow Militia e constatando che Tigre stava effettuando delle vere e proprie carneficine contro le nostre missioni di ricerca, beh, ho deciso che questa pazzia dovesse finire e mi sono messa in prima persona nel vostro gruppo per rintracciare lo yeti, ritenendo che catturare questa criptide sarebbe stato di gran lunga il male minore. Mio padre non avrebbe mai mollato, ormai lo avevo capito, tanto valeva scendere direttamente in campo, sperando che la mia presenza li avrebbe fatti desistere. Ho ingenuamente creduto che Luskov non si sarebbe mai permesso di fare la guerra direttamente a me. Invece mi sbagliavo, per l’ennesima volta. E ti ripeto: non so perché hanno preso lo yeti. Ma di certo, la montagna di soldi cui facevano riferimento nelle loro lettere, era legata alla sua cattura.» Yelena aveva finito il suo racconto e fissò Aldo. Lui però non aveva alcuna voglia di rispondere. Non sapeva cosa pensare. «Non mi dici niente?» Disse lei. «Perché dovrei? Non so se mi posso più fidare di te, Yelena.» Si alzò. «Avresti dovuto dirle prima queste cose. Un sacco di persone, tra amici e nemici, ha perso la vita tra queste montagne. Non si gioca con le vite della gente, Yelena, te l’ho già detto altre volte.» «Hai ragione Aldo, ho sbagliato e mi dispiace. Mi sto maledicendo in ogni attimo. Ma ora non posso far altro che cercare di rimediare agli errori commessi, e tu sei l’uomo giusto per aiutarmi.» «Non arrogarti nuovamente il diritto di scegliere per me, Yelena.» Rispose bruscamente. «Il mio unico obbiettivo ora è quello di uscire da questa situazione surreale che si è andata creando in compagnia delle persone che sono qui con noi, recuperare mio fratello e riportare il mio maledetto culo su una poltrona nel mio appartamento a Roma. Il tempo dirà a chi dovrai rispondere dei tuoi errori ma, una volta fuori dal Bhutan, non sperare di poter contare sul mio aiuto.» Si voltò incamminandosi verso il sentiero dove gli altri erano in attesa. «C’è un’altra cosa.» Gli gridò alle spalle Yelena, in ginocchio, con le mani sul volto. Lui si fermò senza voltarsi. «All’interno dell’organizzazione mi chiamavano Libellula. Ognuno di noi portava il nome di un animale.» Non sapeva perché avesse deciso di rivelargli quel particolare così insignificante in
quel momento estremamente drammatico per il loro rapporto, ma forse pensava che, avendo deciso di dirgli tutto, era giusto che confessasse anche quel fatto. «Ah si?» Rispose lui con stizzosa ironia, «Secondo me, ora dovresti farti chiamare Struzzo… e poi nascondere la testa sotto terra.»
Paro, Bhutan, 4 giugno, Ore 19.45
Ripresero il cammino verso Paro. Aldo e Yelena non si erano più scambiati né uno sguardo né una parola dopo il loro ultimo, tesissimo colloquio. Lui camminava in testa al gruppo, al fianco di Maradona, lei più indietro, con Visconti che le faceva muta compagnia, avendo capito che qualcosa tra lei e Aldo non stava andando per il verso giusto. Il sole era quasi tramontato, quando incontrarono le prime abitazioni di contadini alla periferia di Paro. Si fermarono. «Che facciamo adesso, Aldo? Andiamo prima dalla polizia o da Mattia e Nurev?» Chiese Paul. «Teniamo fuori da questa storia la polizia per il momento. Come gliela spieghiamo l’avventura che abbiamo vissuto in questi giorni? Ci presentiamo alle autorità dicendo: “Siamo stati attaccati da un gruppo di terroristi mentre cercavamo lo yeti e ora anche mio fratello è in pericolo!” No, non credo che ci crederanno. Cerchiamo di sbrigarcela da soli andando a liberare Mattia e Nurev. Se tutto filerà liscio il militare potrà contattare l’esercito russo che ci evacuerà senza troppe domande.» «Magari fosse così facile, Aldo. Da quanto abbiamo avuto modo di vedere, dovrebbero esserci almeno un'altra decina di terroristi che ci attendono a Paro.» Rispose Paul. «Da quando è iniziato questa missione non ho trovato una sola cosa che sia stata facile da affrontare, non mi meraviglio che non lo sia neanche adesso. Dobbiamo intrufolarci nell’edificio nottetempo e cercare di recuperarli senza farci scoprire.» Aldo si voltò a guardare i suoi compagni. Sembrava determinato e con le idee ben chiare in testa. «Maradona, tu ormai sei arrivato a casa. Prima di lasciare definitivamente questa compagnia ti chiedo un ultimo favore: puoi procurarci un furgone, un secchio pieno d’acqua e degli asciugamani?» «Datemi dieci minuti e tornerò qui con il camion di mio padre e qualche
asciugamano.» Rispose la solerte guida bhutanese senza chiedere spiegazioni. «Grazie, te ne saremo per sempre grati.» Aldo gli strinse la mano e Maradona si incamminò, da solo, verso la città. «Paul», riprese Aldo, «ti è rimasta qualche fiala di sonnifero nello zaino.» «Si, ne ho usata soltanto una, me ne restano cinque.» «Perfetto. Aspettiamo che Maradona ritorni e poi metteremo fine a questa storia.»
Non ò neanche mezz’ora che un vecchio camion rosso mezzo scassato, con rimorchio scoperto, si fermò sul ciglio della strada, nel punto in cui Maradona aveva lasciato gli altri. Dal boschetto lì vicino ne uscì la figura di Aldo che andò incontro alla guida bhutanese. «Questo è il camion di mio padre.» Disse, scendendo dalla cabina. «Non è un grande mezzo, ma ancora si comporta bene, nonostante i quaranta anni e due milioni di chilometri sul groppone.» «Andrà più che bene.» Rispose Aldo con una pacca sulla spalla. «Nel rimorchio c’è una bacinella piena d’acqua e qualche asciugamano.» Continuò Maradona. Poi risaltò a bordo per prendere un fagotto riposto sul sedile del eggero. «Qui invece ho qualcosa per i vostri stomaci che, sicuramente, a quest’ora staranno implorando cibo.» Aprì l’involucro al cui interno c’erano numerose fette di pane aromatico preparato secondo la ricetta della cucina tradizionale locale. «Maradona, sei un grande uomo.» Disse Aldo, mettendogli entrambe le mani sulle spalle e guardandolo fisso negli occhi. «Non so se il piano che ho in mente avrà buon esito, in tal caso, ritroverai il camion di tuo padre parcheggiato all’esterno dell’aeroporto. Ci sei stato di grande aiuto, ma ora vai. Non restare altro tempo con noi, ti abbiamo causato solo una quantità infinita di guai.»
«Non dica così, signor Mirri, questa è stata l’avventura più bella che ho vissuto in vita mia. Non dimenticherò mai questi giorni e non dimenticherò mai nessuno di voi.» Si strinsero la mano, poi il bhutanese rivolse un saluto con la mano agli altri compagni che osservavano la scena dall’interno del boschetto e riprese il cammino verso Paro. Per lui quell’avventura era finalmente terminata.
Aldo portò il pane ai compagni e tutti insieme mangiarono avidamente. «Ora che si fa?» Chiese Paul. «Per prima cosa accompagniamo Yelena e Visconti in aeroporto.» Si rivolse verso i due: «Piazzatevi il più vicino possibile ad un posto di polizia. Comportatevi come se foste dei turisti, cercate di non dare nell’occhio. Se entro le prime ore dell’alba non siamo arrivati rivolgetevi ai poliziotti, raccontategli tutto e speriamo che non vi chiudano in un manicomio.» «Io vengo con te.» Disse Yelena. Aldo non la degnò nemmeno di una risposta e si rivolse direttamente a Paul. «Noi due andiamo a recuperare Mattia e Nurev.» Il camerunese annuì senza fare domande, come suo solito quando prendeva ordini da Aldo. A Yelena però non piacque l’indifferenza di Aldo e ripeté, questa volta urlando: «Io vengo con te.» «Professore, stia attento a che Yelena non combini altri guai. Dato che conosce la lingua locale parli solo lei e non le faccia prendere alcuna iniziativa.» «Come ti permetti? Non sono una bambina. Non puoi trattarmi così.» Sbraitò lei. Ma Aldo, sempre più indifferente alle parole della ragazza, si voltò e salì sul camion, facendo cenno a Paul di sedersi al suo fianco. «Professore, lei e “la ragazza”», accentuò con disprezzo quella parola, «salite nel rimorchio.» Yelena scoppiò a piangere e Visconti, abbracciandola delicatamente per le spalle, la accompagnò a bordo.
Il camion partì con un rombo sordo. Il solo fatto che riuscisse a camminare era un miracolo: tutte le spie erano fuori uso, probabilmente da anni, lo sterzo era così consumato dall’uso che in alcuni punti il metallo sporgeva da sotto la gomma che lo ricopriva, la frizione era dura e non lineare, il cambio gracchiava come un corvo, raggiungere la velocità di quaranta chilometri orari era un miraggio. Però camminava, e questo bastava. «Svuota lo zaino e lascia al suo interno solo gli indumenti e qualche altra cosa che potrebbe portarsi dietro un normale turista. Le armi e tutto il resto vengono con noi.» Disse Aldo a Paul che obbedì prontamente, mentre l’italiano iniziò a descrivergli il piano che aveva in mente. Il viaggio verso l’aeroporto durò solo pochi minuti, attraversando strade completamente deserte. Aldo fermò il camion e prese lo zaino ripulito dagli oggetti che avrebbero potuto destare sospetti. Scese dalla cabina e aiutò Visconti e Yelena a scendere. La ragazza rifiutò la mano tesa da Aldo per facilitarle la discesa e si allontanò da lui che non si voltò a guardarla. «Professore, prenda questo zaino.» Disse Aldo. «Paul lo ha svuotato dalle armi e da tutto ciò che un turista non si porterebbe normalmente in giro. Comportatevi come turisti e cercate di non dare nell’occhio. Spero che potremo rivederci presto. Altrimenti rivolgetevi alla polizia, senza aporti non potrete imbarcarvi.» «Aldo», rispose Visconti, «Yelena mi ha raccontato tutto. Ti capisco, ma lei ti ama, è fin troppo evidente. Non trattarla così.» Aldo non rispose, ma si fermò un attimo a pensare. Guardò la ragazza quasi sulla porta dell’aeroporto e capì che quella avrebbe potuto essere l’ultima volta che l’avrebbe vista. Ma, con uno sforzo più forte di quelli patiti in quei giorni ati in Bhutan, riuscì a trattenersi dal correrle dietro. Strinse la mano al professore e tornò a bordo del camion lasciato in folle. «Paul, probabilmente il piano che ho in mente è del tutto folle, se non vuoi seguirmi puoi scendere anche tu, non ti biasimerei.» Disse al camerunese prima di ripartire. «Falla finita con queste ciance. Andiamo a spaccare il culo a quei terroristi.»
Rispose Paul, scambiando un sorriso d’intesa con Aldo. Con un ultimo sguardo nello specchietto retrovisore, l’italiano si accertò che i due fossero entrati nel piccolo terminal dell’aeroporto, quindi ingranò la prima e diede gas. Rientrarono nell’abitato quasi contiguo all’aeroporto e si avviarono verso l’edificio dove li aspettavano Mattia, Nurev e Dio solo sapeva quanti terroristi. Parcheggiò il camion con la cabina rivolta verso la via di fuga ad un centinaio di metri dalla casa e scese insieme a Paul. «Legati un asciugamano dietro la nuca, facendo bene attenzione a tappare bene la bocca e il naso. Dovremo respirare con questa rudimentale maschera antigas perché, non appena arriveremo all’esterno dell’edificio, inseriremo l’Immobilon nella vaschetta del liquido refrigerante del condizionatore d’aria. Non so che effetto possa avere il suo principio attivo, l’etorfina, se inalato anziché assunto per via endovenosa o intramuscolare, ma è un farmaco potentissimo e spero che conservi le sue proprietà anestetiche. Proprio per questo, non appena il gas inizierà a diffondersi nell’ambiente, faremo irruzione all’interno e imbavaglieremo Mattia e Nurev con degli altri strofinacci.» «Dire che è una follia è un eufemismo», rispose Paul, «ma mi piace!» Aggiunse sorridendo. «È stato un piacere lavorare con te, Aldo.» «Anche per me, Paul.»
La notte a Paro era dominata dal silenzio. L’educata e tranquilla popolazione locale non amava il rumore e gli eccessi. Alle dieci di sera, ormai, tutti i locali erano chiusi da un pezzo e per le vie non si vedeva anima viva. Aldo e Paul si avvicinarono strisciando alla casa scelta da Nurev come base operativa. Sullo stesso lato della strada non asfaltata che dava sul retro si trovavano soltanto altri due edifici. Dall’altra parte c’era solo foresta. Arrivarono sul retro della casa e individuarono subito l’unità esterna del condizionatore d’aria. Era fissato alla parete ad un’altezza di circa un metro e mezzo.
Aldo sbirciò cautamente dalla prima finestra e vide distintamente Mattia e Nurev seduti dietro alle scrivanie cui erano riposte tutte le attrezzature tecnologiche del russo. Non erano distanti dalla finestra, neanche mezzo metro, ma si trovavano proprio sotto il condizionatore. Dovevano agire in fretta se non li volevano avvelenare con l’anestetico. A completare il quadro, dall’altra parte della stanza, si trovavano due terroristi armati, ma del tutto disinteressati a quanto Mattia e Nurev stessero facendo e tantomeno a quanto stesse accadendo fuori dalla casa. Si alzò in piedi nello spazio tra le due finestre che davano su altrettante stanze differenti e svitò un tappo azzurro sulla sommità del condizionatore. Con un gesto chiese a Paul di argli le fiale di Immobilon e, lentamente, facendo attenzione a non toccare il composto in esse contenuto, le svuotò nella vaschetta del liquido di refrigerazione. A bassa voce disse a Paul: «Appena noterò che qualcuno all’interno denota segni di scompenso di qualsiasi tipo, io sfondo la finestra, entro e recupero Mattia e Nurev, tu spara ai due tizi in fondo alla stanza.» Il camerunese annuì. Pochi secondi dopo, fu proprio Mattia ad iniziare a tossire convulsamente, con Nurev che lo guardò preoccupato. Fu un attimo. Aldo irruppe nella stanza spalancando la finestra con una spallata. Paul, da dietro, fece fuoco con precisione da cecchino, colpendo entrambe le guardie in piena fronte, prima ancora che potessero rendersi conto di quanto era appena accaduto davanti ai loro occhi. Anche Nurev iniziò a tossire e Aldo mise uno strofinaccio sui volti di entrambi. Poi li tirò per le spalle e li avvicinò alla finestra. Aveva appena iniziato a spingere oltre il davanzale il corpo di Mattia, in preda alle convulsioni, che dalla stanza accanto irruppe un altro terrorista. Paul non diede scampo neanche a questo, ma sentì che altri ne stavano arrivando dalla stanza adiacente. Mattia e Nurev vennero fatti are al di là della finestra da Aldo senza troppe cerimonie con Paul che copriva la fuga sparando verso la porta d’ingresso.
Quando anche Aldo stava per scavalcare il parapetto, nella stanza entrò un uomo barbuto che lo fissò intensamente. Si scambiarono uno sguardo gelido e Aldo non ebbe dubbi: quello era il capo. Quello era Tigre. Tigre provò a sparargli con la sua pistola, ma Aldo era già con entrambi i piedi a terra sulla strada. Si caricò il fratello sulle spalle e iniziò a correre verso il camion. Paul si fece carico del corpo di Nurev e lo seguì, mentre, dall’interno della casa si sentirono forti colpi di tosse causati dall’Immobilon diffuso dal condizionatore. Le luci delle case vicine si accesero e volti perplessi e spaventati fecero capolino dalle finestre, salvo ritirarsi subito dopo, alla vista di quella scena da guerriglia cui erano storicamente poco abituati. Caricarono i corpi di Mattia e Nurev sul rimorchio del camion. «Paul, vai dietro con loro e bagnagli il volto con l’acqua nella bacinella, falli bere affinché le particelle di Immobilon che hanno inalato vengano diluite. Insomma, cerca di farli riprendere in qualche modo.» Disse Aldo. Salendo a bordo della cabina, si voltò indietro e vide cinque terroristi per strada. Fortunatamente, nessuno di loro sembrava in grado di poter usare le armi, afflitti com’erano dai forti spasmi della tosse. Con un ultimo sguardo, notò alcuni di loro cadere a terra, in preda a forti convulsioni. Mise a moto il malandato camion e prese la strada per l’aeroporto. Quel vecchio trabiccolo andava maledettamente piano e più volte Aldo prese a pugni lo sterzo, innervosito dalla frustrazione. Dopo poco più di un chilometro, guardando nello specchietto retrovisore, si accorse che non erano più soli. Una ford blu, non più recente del suo camion, ma di certo più veloce, li stava raggiungendo. Un terrorista si sporse con tutto il busto dal finestrino con un fucile in mano e iniziò a fare fuoco. Paul, dall’interno del rimorchio, rispose agli spari con la sua arma, ma doveva centellinare i colpi, poiché sapeva di essere ormai a corto di munizioni. L’inseguimento tra i due mezzi mal messi e fatiscenti proseguì lungo le strette e
deserte vie del centro di Paro. Ad Aldo, in quel momento, sfuggì addirittura un sorriso pensando che l’inseguimento che lo stava vedendo protagonista era l’esatto opposto del clichè riproposto spesso nei film, dove, in genere, auto ultramoderne e superveloci si inseguono su larghe strade intasate dal traffico. Paul aveva ormai finito di rispondere al fuoco e anche i terroristi si stavano limitando ad inseguirli sperando di incontrare un tratto di strada più largo dove poterli sorare e bloccare. Il camerunese e gli altri nel rimorchio si erano sdraiati sul fondo del cassone ed erano quindi irraggiungibili dai proiettili dei terroristi che dovevano sparare da un’angolazione molto più bassa rispetto alla loro. Allo stesso modo, per i terroristi era inutile sparare anche alle ruote del camion perché il portellone metallico abbassato del rimorchio, copriva quasi per intero gli pneumatici come se fosse un’armatura. Finalmente, alla sua sinistra, Aldo vide scorrere la lunga recinzione della pista dell’aeroporto e il suo cervello partorì l’ennesima follia. Scartò improvvisamente a sinistra, travolgendo la rete metallica che divideva l’area dell’aeroporto dalla strada e si trovò sul prato che circondava la pista. La Ford lo seguì e diede gas, avendo finalmente spazio a sufficienza per sorarli. Immediatamente, alcuni mezzi della sicurezza dell’aeroporto si diressero verso di loro e Aldo, invadendo la pista, andò loro incontro. Quando la Ford li aveva ormai affiancati, Aldo sterzò di colpo verso destra colpendola con il rimorchio. L’auto sbandò per qualche metro poi, vedendo i mezzi di soccorso ormai a meno di un centinaio di metri da loro, i terroristi decisero di tornare indietro, uscendo dal buco nella recinzione aperto poco prima da Aldo. L’italiano, vedendo la ritirata della Ford, fermò il camion e scese con le mani alzate, dirigendosi verso il retro del camion. I tre eggeri sembravano fortunatamente in buono stato.
Yelena e Visconti, seduti su una scomoda panchina all’interno del terminal, dalle finestre videro arrivare numerose auto della polizia, alcune ambulanze e un camion pieno di militari bhutanesi. Si guardarono negli occhi, stupiti, credendo che tutti quegli agenti fossero arrivati lì per loro. Poi una porta che dava sulla pista si aprì e, accompagnati da una decina di poliziotti e altri inservienti dell’aeroporto, entrarono nel terminal, ammanettati, Aldo, Mattia, Nurev e Paul. Yelena fece un lungo sospiro di sollievo vedendo Aldo e gli altri vivi, ma le manette la fecero preoccupare. Poi Aldo la vide e, dimenticando gli ultimi dissapori, le fece un sorriso caloroso e un occhiolino. «Cerchiamo di non dare nell’occhio, Yelena.» Le disse Visconti all’orecchio. «Osserva la scena fingendoti incuriosita ma non mostrare nervosismo, oppure girati dall’altra parte.» La ragazza seguì il consiglio di Visconti e guardò altrove, cercando di distogliere l’attenzione dal corteo di poliziotti e uomini ammanettati. In pochi minuti il terminal fu invaso da poliziotti e militari e arrivarono anche un paio di giornalisti che rivolgevano domande agli agenti senza ricevere alcuna risposta. Yelena, nonostante avesse visto le manette ai polsi di Aldo e degli altri, ora si sentiva tranquilla grazie alla massiccia presenza di forze di sicurezze nell’aeroporto: nessuno avrebbe dato loro la caccia fino a quando erano circondati da tutti quegli uomini armati. Dopo un po’, un ufficiale della polizia si avvicinò a Yelena e Visconti chiedendo loro in inglese: «Signor Visconti? Signora Dimitrova?» I due annuirono, turbati. «Seguitemi.» Ordinò senza aggiungere altro.
Li condusse in un ufficio al secondo piano dell’edificio dove, all’interno, insieme ad un nugolo di poliziotti e militari, trovarono i suoi compagni, seduti su delle poltroncine, liberi dalle manette che chiacchieravano rilassati tra loro. Yelena corse ad abbracciare Aldo che rispose dapprima freddamente, poi mostrando un po’ più di affetto, le accarezzò la nuca. «Come state?» Chiese lei. «Bene.» Rispose lui, cercando di restare imibile ma, in realtà, visibilmente sollevato dal rivedere la ragazza. «Abbiamo fatto un po’ di casino entrando in aeroporto dall’ingresso sbagliato», aggiunse sorridendo, «ma, appena a Nurev è stata concessa l’autorizzazione di chiamare il comando dell’aeronautica militare russa, i bhutanesi si sono messi a disposizione. A quanto ho capito, Nurev ha parlato con un generale amico di tuo padre che ha garantito per noi. A breve dovrebbe partire un aereo da Mosca che verrà a prenderci per riportarci in Russia.» Yelena gli accarezzò il viso e, dopo aver salutato Mattia e Paul, parlò a lungo con Nurev che la delucidò sul colloquio avuto con il suo superiore. I solerti e gentili bhutanesi portarono agli stranieri da mangiare e da bere, lasciando a loro disposizione la sala in cui si trovavano, fino all’arrivo dell’aereo dalla Russia, atteso per la tarda mattinata del giorno seguente.
Paro, Bhutan, 5 giugno, Ore 11.15
Si imbarcarono sull’Antonov dell’aeronautica militare Russa dove li attendeva il generale Ivan Popov, amico di Nicolai Dimitrov e padrino di battesimo di Yelena. Mentre l’aereo era già in fase di decollo, i due, sedendosi a fianco, si abbracciarono e lei si sciolse in lacrime, cominciando a raccontare all’ufficiale le avventure ate in Bhutan e le vicende legate alla morte del padre. «Le cose non si stanno mettendo per nulla bene.» Le disse Popov. «Il Consiglio d’Amministrazione della Dimitrov Oil ha eletto presidente Luskov e, in base al testamento redatto qualche tempo fa da tuo padre, ora tutte le proprietà della tua famiglia eranno nelle mani di Luskov.» «Ma io sono viva!» Esclamò Yelena. «Lo vedo. Le proprietà torneranno ad essere tue. Il problema è vedere cosa ha lasciato Luskov nelle disponibilità delle aziende. Ti spiego: se la ricostruzione che mi hai appena fatto, relativamente alle macchinazioni che quel pallone gonfiato ha perpetrato ai danni di tuo padre, sono vere, dobbiamo mettere in conto anche che abbia già spostato tutti i capitali della Dimitrov in qualche paradiso fiscale. Questi conti saranno difficilmente rintracciabili e, in ogni caso, a suo nome, o di qualche suo prestanome.» «Vuoi dire che sono senza un soldo?» «Questo lo scopriremo solo a Mosca… ma ho come l’impressione che il tuo conto sarà bloccato.» Aggiunse Popov. «Io lo denuncio!» Urlò Yelena. «Quale giudice non mi darà ragione? Ha ucciso mio padre e i suoi uomini, ha ordito una macchinazione pazzesca.» Popov la fissò silenziosamente per qualche istante. «Secondo me, nessuno ti darà ragione, Yelena. Tu hai anche potuto capire il piano di Luskov, ma non hai una sola prova che possa dimostrarlo.»
«Ci sono le email tra lui e Tigre.» «Si, le email tra Luskov e Nagaiev», Popov, poco prima, aveva spiegato a Yelena che il vero nome di Tigre era Boris Nagaiev, ex militare dell’esercito russo di origini uzbeke, «e secondo te permetteranno che quelle missive verranno recuperate? Non essere ingenua.» Yelena accettò mestamente il fatto che Popov avesse ragione, poi chiese: «Però, se anche non ho prove contro Luskov e non potrò recuperare i soldi della Dimitrov Oil, la proprietà della compagnia tornerà nelle mie mani… sono viva!» «Beh, quello si, ma bisognerebbe vedere i bilanci della compagnia. Ho come l’impressione che a quest’ora saranno in profondo rosso… ha già spostato tutti i capitali altrove, credimi.» «Poco mi importa, la compagnia è tutto ciò che resta della mia famiglia.» «Se è questo che vuoi, non credo che ci saranno molti problemi. Ma quello che avrai sarà solo una scatola vuota e poi sarà un tuo problema riempirla di soldi.» «Sono pronta ad accettare la sfida.» Disse lei determinata. Popov annuì soddisfatto per la forza d’animo che la ragazza stava dimostrando di avere. Lui aveva dovuto dirle la cruda verità, per non farla illudere, ma ammirava il fatto che lei avesse ancora tutta quella voglia di lottare, nonostante quello che aveva ato negli ultimi giorni e le difficoltà che le sarebbe toccato affrontare una volta rimesso piede in Russia. «Non appena arriveremo a Mosca ti porterò da un giudice mio amico. È una persona fidata e ci potrà dare qualche dritta su come comportarci. Intanto, prima di aver parlato con lui, eviterei di divulgare la notizia che tu sei ancora viva.» «Va bene», rispose lei, «faremo così.» Dopo averlo ringraziato, si alzò dal posto di fianco a Popov, per andare a sedersi vicino ad Aldo che, sorseggiando una bibita, contemplava i paesaggi himalayani che scorrevano veloci sotto di loro dall’oblò alla sua destra. «Sei ancora arrabbiato con me?» Gli chiese accarezzandogli il braccio sinistro.
«Come una furia.» Rispose lui, secco. «Non era mia intenzione mettervi nei pasticci. Ricorda che a causa del mio comportamento ho perso mio padre.» «Penso che questo debba ricordarlo tu, non credi?» «Oltre a chiederti scusa non so che altro fare. Se poi vuoi che io sparisca per sempre dalla tua vita basta che me lo dici, ti capirei, ma non è ciò che io voglio.» «Yelena, mi hai nascosto troppe cose… non so più se potermi fidare di te. E poi le tue implicazioni dirette con la Rainbow Militia: è sconcertante. Hai finanziato una guerra contro i tuoi stessi interessi, è follia!» «Si, hai ragione, sono stata una folle. Ma, se ti fermi un attimo a pensare, senza farti accecare dalla rabbia, capirai che gli ideali che mi hanno spinto a commettere quegli errori sono gli stessi che animano te. Tu sei testardo come un mulo Aldo, ormai l’ho capito bene, quindi mettiti un attimo nei miei panni e rispondi onestamente, a te stesso più che a me, se nelle mie condizioni non ti saresti comportato nella stessa maniera. Neanche tu ti saresti fermato a pensare a questioni economiche o familiari, avresti semplicemente difeso il tuo ideale. Ti voglio ricordare solo che non fosse stato per Mattia, tu non saresti partito per questa missione, nonostante i debiti e tutto il resto. Perché non volevi partire Aldo? Rispondimi, te ne prego.» Aldo fissò a lungo il poggiatesta del sedile davanti a lui, senza profferire verbo. «Vedi che ho ragione Aldo? Te lo leggo negli occhi che mi stai dando ragione.» «È vero», rispose infine lui, «non volevo partire per non tradire i miei ideali. Ma tu avevi sicuramente altre strade da poter percorrere per evitare tutto ciò.» Yelena gli si avvicinò, mettendoglisi quasi davanti, per fissarlo negli occhi: «Aldo, ricordi quando hai fatto saltare la volta della grotta degli yeti uccidendo un terrorista? Ricordi com’eri scosso da quell’evento? Mi dicesti che quella era la prima persona che avevi ucciso in vita tua, è vero?» Lui annuì. «Bene», riprese Yelena, «in questi giorni non hai pensato che, probabilmente ci
sarebbe potuta essere un’altra via di uscita da quella situazione? Io sono convinta di si - anche se non ti faccio una colpa per aver ucciso quell’uomo - ma c’è sempre una seconda via, per ogni cosa! Il problema è che spesso dobbiamo agire d’istinto, e non sempre l’istinto ci consiglia la strada giusta. È successo anche a me, sono stata stupida, ingenua e ingrata nei confronti di mio padre. Ora ne sto pagando le conseguenze, ma posso ancora rimettere alcune cose al loro posto e ho il dovere morale di farlo.» Aldo la fissò intensamente, poi prese il suo volto tra le mani: «Yelena, promettimi che non stai nascondendo altro se vuoi che io resti al tuo fianco.» Yelena annuì con un sorriso e lo abbracciò.
Mosca, Russia, 5 giugno, Ore 12.10
«Cosa significa che sono scappati?» Le urla di Luskov risuonarono per tutto il complesso amministrativo dello zoo. «Sono riusciti a fare irruzione nell’appartamento dove avevamo gli ostaggi e poi hanno raggiunto l’aeroporto. Un Antonov dell’aeronautica russa è venuto a prelevarli. È ripartito neanche un’ora fa.» Rispose Tigre. «E voi siete stati a guardare?» «Non so come hanno fatto, ma sono riusciti a introdurre qualche tipo di sostanza tossica nell’appartamento e ci siamo sentiti tutti male, non eravamo preparati ad un attacco simile. Cerca di capirlo Leone.» «Non chiamarmi più Leone, Nagaiev, smettiamola con questa pagliacciata di soprannominarci come le bestie, il gioco è finito. Mi confermi almeno che la ragazza non era con loro?» «Si. Quelli che hanno fatto irruzione erano solo in due, l’italiano più giovane e l’africano. Con noi c’erano l’altro italiano e il militare russo. Non ho visto altri.» «Sei sicuro? Li hai visti imbarcarsi sull’aereo?» «No, sono stati scortati fin sotto l’Antonov con un mezzo militare e non sono riuscito a vedere chi saliva a bordo.» «Non so perché, ma ho come l’impressione che questa storia ci riserverà altre brutte sorprese.» Disse Luskov furibondo. «Nagaiev, mi hai deluso, ti hanno fregato come un pivello. Ma ormai il danno è fatto. Raccogli ciò che resta del tuo gruppo e venite a Mosca il prima possibile, mi serve un po’ di sicurezza extra per l’inaugurazione di dopodomani.» «Va bene, Luskov. Entro domani saremo lì.»
In volo per Mosca, Russia, 5 giugno, Ore 14.00
Si erano svegliati quasi contemporaneamente dopo aver dormito per qualche ora, abbracciati, in una posizione tutt’altro che comoda. «Yelena», chiese Aldo, dopo essersi assicurato che la ragazza era vigile e sveglia, «cosa ci aspetterà a Mosca?» «Un gran bel casino!» Esclamò lei. «Luskov ha dichiarato morti sia me che mio padre. Così facendo ha convocato immediatamente il Consiglio di Amministrazione della compagnia che lo ha nominato Presidente. Come se non bastasse, quel bastardo era riuscito a convincere mio padre a indicarlo come erede universale nel caso in cui io fossi morta senza eredi. Ciò vuol dire che, in questi giorni, ha avuto tutto il tempo a disposizione per spostare i fondi della Dimitrov Oil su conti correnti sicuri in qualche paradiso fiscale. Appena arriverò a Mosca chiederò indietro le mie proprietà che, sicuramente, mi verranno restituite, ma i soldi non potrò più recuperarli. Senza soldi l’impero di mio padre non reggerà neanche una settimana. Non puoi neanche immaginare quanto erano gonfi quei conti correnti.» Aldo, in realtà, si era fatto una vaga idea di quale potesse essere l’entità dell’impero dei Dimitrov ma, per rispetto, preferì non dirlo. «Brutta situazione, non c’è che dire! Cos’hai intenzione di fare?» «Il generale Popov mi porterà da un suo amico giudice che mi darà qualche dritta sul da farsi. Intanto abbiamo deciso di non rendere pubblica la notizia che io sono ancora viva. Meglio procedere con cautela. Tanto, ormai, Luskov avrà già attuato tutti i punti del suo piano, chissà da quanto tempo lo aveva pianificato, figuriamoci se si è potuto prendere il lusso di perdere anche un solo attimo non appena ha saputo che io e papà eravamo morti.» «Hai ragione, è proprio un bel casino.» Rispose Aldo, perplesso. «Tu, invece, che farai?» Gli chiese Yelena. «Qualche ora fa ho scelto di fidarmi ancora di te, quindi resterò al tuo fianco. È così che si fa, no?» Le sorrise.
Lei lo baciò: «Grazie Aldo. Non so come avrei fatto senza di te durante questa folle avventura.» «Probabilmente saresti morta ma, come hai potuto constatare, la vecchia signora col mantello nero e la falce sulle spalle è una mia amica.» Risero entrambi rumorosamente e proseguirono il viaggio osservando in silenzio, abbracciati, la sterminata steppa siberiana che scorreva veloce sotto la rotta dell’aereo.
QUARTA PARTE
Mosca, Russia, 6 giugno, Ore 12.30
Aldo era nella sua camera in un albergo fuori mano alla periferia sud di Mosca. Aveva ato lì la notte insieme a Yelena. La ragazza era andata insieme al generale Popov dal suo amico giudice per trovare una soluzione a quell’intricata faccenda. Come le era stato preannunciato, Yelena non trovò un solo rublo sul suo conto così come risultarono bloccate le sue carte di credito. La camera d’albergo per la notte era stata pagata dal generale, mentre Mattia, prima di ripartire per l’Italia con il primo volo della mattina, aveva lasciato ad Aldo tutti i soldi che aveva con sé. Non appena arrivato a Roma, Mattia avrebbe girato sul conto corrente di Aldo la sua parte dell’anticipo che, fortunatamente, la Dimitrov aveva liquidato loro prima della partenza per il Bhutan. Anche Paul si era imbarcato per Roma con Mattia. In Italia avrebbe ottenuto il compenso per il suo lavoro e poi sarebbe ritornato a casa sua, in Camerun. Visconti, dal canto suo, senza più un soldo e un luogo dove andare a vivere, accettò di tornare in Italia, ospite di Mattia. Una volta giunto nel “Bel Paese” avrebbe certamente trovato l’ospitalità di qualche comunità buddista con la quale terminare i suoi giorni nella preghiera. Per loro l’avventura era finita. “Beati loro”, pensò Aldo. Per lui e Yelena, invece, quella storia non era affatto terminata. Sapeva che, in un modo o in un altro, Yelena avrebbe dovuto affrontare Luskov un’ultima volta ed era sicurissimo che la resa dei conti sarebbe stata tutt’altro che pacifica. Ma lui aveva scelto di restare per lei e con lei. Non poteva più tirarsi indietro. Quella notte, mentre Yelena dormiva profondamente, aveva ripensato attentamente a tutte le vicende della missione, a cosa era andato storto, alle falle nel piano di Nicolai e, soprattutto, alle bugie di Yelena.
La sua conclusione era stata che, in fondo, più che di bugie, quelle di Yelena erano state omissioni. A mente fredda non se la sentiva di condannarla. Certo, aveva sbagliato a dar retta alla Rainbow Militia, ma Aldo ammise a se stesso che se quei delinquenti avessero contattato lui, con ogni probabilità sarebbe caduto nel tranello. Aveva ragione Yelena: lei era stata mossa dagli ideali che condivideva con lui. Per quanto riguardava il resto delle omissioni, bisognava riconoscerle che, essendo la ragazza a capo di una spedizione che aveva fatto della segretezza uno dei punti cardini, era suo dovere preservarla e non era tenuta a fare alcuna eccezione, tantomeno con lui. Nella notte aveva quindi terminato il suo processo contro Yelena, sentenziando di doverla perdonare pienamente e non solo in virtù della forte attrazione e dell’affetto che provava per lei. Aveva appena iniziato a sentire le prime proteste da parte del suo stomaco affamato che la porta della stanza si aprì. Yelena entrò, seguita da Popov. Ne studiò i volti e capì che il colloquio con il giudice non era stato molto proficuo. «Com’è andata?» Chiese, mettendosi a sedere sul letto. «Ho presentato l’istanza di esistenza in vita affinché mi venga restituita l’eredità. Ci vorrà qualche giorno, ma sapevamo già che questo non è un ostacolo difficile da superare. Il problema sono i soldi. Se Luskov li ha spostati all’estero non li troveremo più, e dato che il mio conto personale è stato prosciugato, non ho dubbi sul fatto che anche gli altri, appartenenti a papà e alla compagnia, abbiano avuto la stessa sorte.» «Ma legalmente non si può fare nulla?» «Potrei denunciarlo. Ma poi? Dovrei riuscire a dimostrare i suoi legami con la Rainbow Militia ma, mentre io non ho una sola prova in mano, lui ora ha tanti soldi per potersi difendere dalle accuse.» «Sono comunque convinto che non appena Luskov saprà che sei ancora viva, taglierà la corda.» Intervenne Popov. «Le proprietà torneranno ad essere tue e per lui non ci sarà più spazio nella Dimitrov.»
Quello era vero, intuì subito Aldo. Luskov non poteva certo restare in Russia con Yelena in vita. Sarebbe stato estromesso dalla compagnia e, subito dopo, accusato di averne distratto i capitali verso conti correnti privati all’estero, un reato per cui in Russia non guardano in faccia nessuno. Prima o poi avrebbe pagato per i suoi misfatti. Yelena scrutò Aldo in volto e capì che stava escogitando una delle sue idee malsane: «A cosa stai pensando Aldo?» «L’inaugurazione dello zoo è domani?» Chiese. «Si, domani sera alle venti.» «Beh, che aspetti allora? Trova un bel vestito: domani sera ti porto allo zoo!» Si alzò in piedi, prese la giacca e, uscendo dalla stanza seguito dai due, iniziò a spiegare il suo piano.
Mosca, Russia, 7 giugno, Ore 19.45
Lo spettacolo che si presentava agli occhi degli ospiti, era magnifico. L’ingresso dello zoo era una sfarzosa replica della mitica Porta di Ishtar a Babilonia, niente a che vedere con la copia fatta realizzare da Saddam Hussein in Iraq: questa era realizzata con i migliori materiali reperibili e seguendo con la maggior attinenza possibile le descrizioni dell’edificio giunte fino ad oggi. In una sola cosa si discostava da quella che doveva essere la porta originale, le dimensioni: questa era tre volte più grande. Nel progetto definitivo dello zoo, subito dopo l’ingresso, gli ospiti avrebbero dovuto scegliere se salire su dei trenini che, a bassa velocità, avrebbero percorso un intero giro del parco, effettuando delle fermate nei punti di maggior interesse, oppure se affrontare a piedi il fantastico viaggio all’interno dello zoo. Ovviamente, la prima soluzione era quella più congeniale per coloro che potevano are solo un giorno nel parco poiché dava la possibilità di visitarlo nelle sue attrazioni principali, più una sosta di due ore al parco giochi, in dodici ore. La seconda soluzione era invece pensata per coloro che intendevano fermarsi per più giorni allo zoo e dormire all’interno degli alberghi nella struttura. Per loro erano presenti anche una serie di piccoli taxi elettrici con conducente che avrebbero potuto accompagnare i turisti in ogni punto del parco. Pur essendo posizionate le rotaie, la linea ferroviaria non era ancora stata messa in funzione e gli ospiti della serata vennero accompagnati sotto il palco delle cerimonie con dei pullman. Poco importava a Luskov se nessuno avrebbe potuto vedere tutte le attrazioni dello zoo quella sera. Gli unici protagonisti previsti per la notte della sua gloria erano lui e lo yeti. Non a caso, il palco era stato montato alla destra dell’area in cui era ospitato lo yeti. Le alte cancellate della gabbia erano coperte da uno spesso sipario che ne copriva per intero la visuale all’interno. Come ultimo sfregio alla memoria di Nicolai Dimitrov, sui teloni del sipario era stata raffigurata una romantica gigantografia del volto sorridente del defunto magnate che osservava la luna. Questa scena melensa non sarebbe ata inosservata al cospetto delle tante telecamere attese lì quella sera.
Il capo dei veterinari che si occupava della salute dello yeti comunicò che all’animale era stata iniettata la forte sostanza eccitante che lo avrebbe tenuto sveglio e sufficientemente nervoso da dare spettacolo di sé nel momento dell’apertura del sipario. Non potevano permettersi il lusso di presentare al mondo uno yeti docile e mansueto, la gente aveva bisogno di brividi lungo la schiena e di adrenalina, altrimenti nessuno sarebbe stato invogliato ad andare a visitare uno zoo con un grosso bradipo umanoide come principale attrazione... no, a Luskov serviva uno yeti cattivo e indomabile, proprio come solo i peggiori incubi dei bambini avrebbero potuto rappresentarlo. Sbirciò fuori dalla porta aperta del pullman che lo aveva prelevato poco prima dalla direzione amministrativa trasportandolo nel piazzale sul retro del palco. Scorse le autorità sedute ordinatamente in prima fila. Neanche al presidente della Federazione Russa era stato svelato quale fosse l’attrazione principale della serata. Il mondo intero sarebbe rimasto senza fiato. Poi controllò il palchetto dove erano assiepati i media. Sorrise soddisfatto: un centinaio di giornalisti e diverse decine di telecamere erano in fervida attesa che lui salisse sul palco. “Caro Nicolai, ecco cosa ti stai perdendo! Se solo mi fossi stato a sentire…” pensò tra sé e sé Luskov. Controllò l’ora sull’elegante Audemars Piguet che aveva al polso, acquistato cinque giorni prima in una lussuosa gioielleria lussemburghese: mancavano quattro minuti alle venti. Lo spettacolo poteva avere inizio.
“L’ingresso è riservato alle sole persone provviste di invito”, questa era la dicitura riportata sul cartello appeso alle transenne che incolonnavano gli ospiti verso l’ingresso. Ma non era un loro problema, tutti e tre ne erano provvisti. Infatti, il generale Popov era stato regolarmente invitato all’inaugurazione insieme alla moglie e al figlio. Yelena era una trentina d’anni più giovane della moglie di Popov, e Aldo non aveva un solo tratto somatico lontanamente riconducibile a quello tipico dei russi, ma di certo, nessuno degli uomini all’ingresso, dopo aver visto il distintivo
militare di Ivan Popov, una delle figure più importanti nello scacchiere militare russo, si sarebbe mai sognato di chiedere spiegazioni su chi fossero le persone che lo accompagnavano. Nessuno avrebbe obiettato che la giovane ed aitante Yelena non era la sua anziana e rattrappita moglie, né che l’aitante Mattia non fosse l’unico figlio di Popov, affetto da Sindrome di Down. L’unico a presentare un documento all’entrata fu Popov che disse ai tre addetti all’ingresso: «Questi sono mia moglie e mio figlio.» Dagli sguardi costernati che ne seguirono, Aldo capì subito che almeno due dei tre uomini avevano riconosciuto Yelena, ma evitarono di aprire bocca noncuranti anche del fatto che il metal detector, al loro aggio diede il segnale d’allarme - facendoli entrare indicandogli un bus ancora mezzo vuoto poco distante, in attesa di partire verso il palco delle cerimonie. I tre salirono a bordo senza parlare. Aldo e Yelena presero posto su due sedili contigui, Popov si accomodò dietro di loro, senza nessuno al fianco. Solo un’altra decina di persone salì dopo di loro e, alle venti meno un quarto il pullman partì. Il percorso che seguirono non era quello panoramico, bensì quello più breve per raggiungere il palco, posto all’incirca a metà dello zoo, in quello che avrebbe dovuto essere il punto più frequentato dell’intero complesso. Durante il tragitto constatarono che l’impianto era quasi finito e, grazie alle luci posizionate nei punti strategici delle varie gabbie, intravidero numerosi esemplari di animali, alcuni noti, come gli elefanti e le giraffe, altri molto più rari come l’okapi e il panda rosso. Raggiunsero il piazzale antistante il palco alle venti in punto. Yelena ebbe un senso di nausea nel vedere la gigantografia di suo padre sul sipario poco distante, fatta erigere dal mandante del suo assassino, ma si trattenne e nascose il viso contro la spalla di Aldo. Ebbero appena il tempo di prendere posto su delle sedie nelle ultime file della platea che la cerimonia cominciò. Le imperiose musiche del brano Innuendo dei Queen diedero il via alla cerimonia, tra faraonici giochi di luce e fuochi artificiali. Quando, a metà del
brano, la voce di Freddie Mercury lasciò spazio alle roboanti chitarre in stile flamenco, sul palco fece la sua comparsa il primo protagonista della serata: Alexey Luskov.
Sembrava più magro rispetto a quando erano partiti da Mosca, “forse i sensi di colpa lo stavano consumando dall’interno” pensò Yelena. «Signore e signori, benvenuti all’inaugurazione del Dimitrov Zoo.» Esordì Luskov tra gli applausi più di circostanza che di entusiasmo degli astanti. «Tutti voi sarete ormai a conoscenza della tragica scomparsa di Nicolai Dimitrov e della sua adorata figlia Yelena, avvenute nei giorni scorsi in Bhutan, nel corso di una missione di ricerca strettamente correlata con le attività dello zoo.» Il pubblico, sentendo nominare Nicolai e Yelena, proruppe in un nuovo applauso, questa volta più fragoroso e convinto. Luskov prese la palla in balzo per un colpo di teatro, forse banale, ma di sicuro effetto sui media: «Signori, proprio in memoria di Nicolai Dimitrov e sua figlia Yelena, propongo di osservare un minuto di silenzio.» Tutte le telecamere erano puntate su di lui. Dietro al viso sapientemente trasfigurato da finto dispiacere, Luskov era raggiante. Si sentiva come se avesse il mondo ai suoi piedi. Dopo un minuto preciso, scandito dalle lancette del suo costosissimo orologio, Luskov stesso diede inizio ad un nuovo, lungo applauso, sempre in memoria delle persone che lui stesso aveva ordinato di uccidere. «Bene», riprese, «negli ultimi giorni, sulla stampa nazionale ed internazionale, ho avuto modo di constatare che sono apparse diverse ricostruzioni e indiscrezioni sulle modalità dell’incidente accorso ai Dimitrov e sugli obiettivi della missione. Si sono lette tante cose, alcune totalmente fuori dal mondo, altre più precise e veritiere. Oggi è il momento di mostrarvi cosa Nicolai Dimitrov e sua figlia Yelena sono riusciti a trovare. Perché la missione, non fosse stato per un incidente all’elicottero che trasportava i miei cari amici, era tecnicamente terminata nel migliore dei modi.»
Yelena si sentiva ribollire di rabbia, Aldo le stringeva forte la mano, gettando, di tanto in tanto, alcune occhiate intorno per rendersi conto dei livelli di sicurezza che erano stati predisposti da Luskov. «Non riesco a credere che sia così folle.» Origliò la ragazza all’orecchio di Aldo. «Stai calma, tra poco la pagherà.» Rispose lui voltandosi verso di lei. Fu in quell’attimo che il suo sguardo individuò un ben noto volto barbuto: Tigre era lì. «C’è Tigre!» Le disse con un filo di voce, distogliendo subito lo sguardo. «Dove?» chiese lei, allarmata. «A cinquanta metri sulla sinistra. Non voltarti, continua a guardare il palco. Non tradire nervosismo altrimenti rischiamo di dare nell’occhio.» Yelena impallidì, ma seguì il consiglio di Aldo e ritornò a prestare attenzione a quanto aveva ancora da dire e mentire Luskov.
«Come ormai sapete bene, quello in cui ci troviamo in questo momento è lo zoo più grande del mondo.» Continuò, raggiante, Luskov. «Il genio visionario di Nicolai Dimitrov aveva previsto di ospitare al suo interno esemplari di tutte le specie animali terrestri viventi.» Fece una pausa teatrale bevendo un sorso d’acqua, pur non avendo sete. «Ebbene, grazie anche all’ultima, tragica missione che ha visto lo stesso Nicolai protagonista, oggi possiamo affermare che il suo sogno si è avverato. In questo zoo, che ora voi potrete ammirare in anteprima, sono realmente esposte tutte le specie animali terrestri conosciute. Ma c’è di più!» Luskov fece un cenno ad uno dei tecnici e subito dagli amplificatori si diffo le musiche avvolgenti di Oxygen part I di Jean Michel Jarre. Uno spettacolare gioco di luci aveva preso vita grazie a delle luci laser, degne degli spettacoli dei Pink Floyd. Luskov, con il radiomicrofono in mano, si spostò dal podio sistemato a metà del palco da cui aveva parlato fino a quel momento, verso il lato destro del palco,
quello più vicino alla gabbia coperta dal sipario. «Il mio caro amico Nicolai voleva di più!» Esclamò Luskov. «Era un ambizioso, uno che pensava in grande! Meglio ancora: riteneva che se una cosa si può pensare, beh, si può anche realizzare. Aveva ragione.» Yelena doveva ammettere che quel delinquente sapeva tenere alta la suspance del pubblico. Tutti gli occhi erano rivolti verso di lui. «L’ultimo, fantastico obiettivo di Nicolai Dimitrov era quello di ospitare una criptide nel suo zoo.» Il pubblico accolse con freddezza quella notizia. Ma Luskov sapeva perché: probabilmente nessuno dei presenti aveva mai sentito pronunciare quel termine. Il neo presidente della Dimitrov fece un ulteriore cenno ai tecnici e sul maxischermo alle sue spalle venne proiettato un breve filmato tratto da un collage di fotografie e video di presunti avvistamenti di criptidi: dal celebre video del bigfoot che cammina ciondolante in un bosco americano, alle note foto taroccate del mostro di Loch Ness, ando ad altri video e foto più o meno noti. Luskov scrutò la platea e vide che, finalmente, gli astanti erano rapiti e incuriositi. «Cari signori, quelli che avete avuto modo di osservare nel video sono testimonianze dell’esistenza delle criptidi, animali di cui si suppone o si tramanda l’esistenza, ma di cui nessuno mai è riuscito a catturare un esemplare o a confutarne scientificamente l’esistenza.» Ennesima pausa teatrale, poi esclamò: «Tutto ciò fino a qualche giorno fa.» Mentre la gente borbottava stupita da quell’affermazione, Luskov attese un cenno dal veterinario sotto al palco, proprio di fianco alla gabbia. Quando l’“ok” arrivò, il corpulento e sudatissimo improvvisato presentatore, estrasse dal taschino della giacca un piccolo telecomando. Le musiche di Jean Michel Jarre erano terminate e il silenzio pieno di attese della platea venne colmato dall’imponente Introduzione del Così parlò Zarathustra di Richard Strauss, resa celebre dal film 2001 Odissea Nello Spazio. «Signore e signori!» Disse con un fremito nella voce. «È con orgoglio e soddisfazione che presento ai vostri occhi e a quelli del mondo intero lo yeti.» Il sipario si spalancò in un attimo non appena premette il pulsante del telecomando.
L’enorme sagoma dello yeti grigio che correva nervosamente avanti e indietro nel recinto, fece restare tutti a bocca aperta. Il pubblico si alzò dalle sedie e corse velocemente alle transenne vicino alla gabbia. Anche una persona generalmente algida e composta come il Presidente della Federazione Russa, saltò dalla sedia come un bambino incuriosito e si avvicinò all’animale. Lo yeti era lì, a pochi metri dalla recinzione, perfettamente visibile grazie all’illuminazione a giorno che era stata studiata per quell’area. Era irrequieto e gridava. Si: gridava! Perché i suoi non erano versi riconducibili a quelli che solitamente si riscontrano nel regno animale, quelle erano vere e proprie urla di un essere umano, umiliato, spaventato e disperato. Yelena inorridì. Cosa avevano fatto? Aldo si accorse del suo malessere interiore e l’abbracciò. Era arrivato il momento di mettere in atto il piano. «Avviciniamoci sotto al palco e facciamo in modo che ci veda.» Le disse, tirandola per un braccio, facendola riprendere dal suo immobile stupore. Lo yeti, spaventato da tutta quella gente che urlava e dalle migliaia di flash che lo investivano, cercò di tornare all’interno della grotta artificiale dove era disposto il suo giaciglio. Purtroppo per lui non potè farlo perché una paratia era stata calata per impedirgli di nascondersi all’interno. Lui non lo sapeva, ma era a tutti gli effetti la star della serata, molto più di Luskov e, come ogni star, non poteva ritrarsi alla luce dei riflettori nel momento di maggior successo.
Luskov rideva e stringeva mani a ripetizione. Dopo l’apertura del sipario, tutti i membri del Consiglio d’Amministrazione erano saliti sul palco per congratularsi con lui e - perché no? - per farsi immortalare in una delle tante foto scattate in
quella storica serata… magari qualche giornale avrebbe potuto pubblicare proprio “quella” foto ritraente Luskov in compagnia di “quel” personaggio! Da sotto il palco, una voce cominciò a gridare insistentemente il nome di Luskov: «Alexey! Alexey! Alexey Luskov!» Abbassò lo sguardo verso le prime fila di sedie e vide che a gridare il suo nome era qualcuno che non avrebbe mai immaginato di poter rivedere. Anche molti membri del Consiglio d’Amministrazione guardarono sotto al palco e riconobbero subito la bella ragazza con il tajer blu. Lo sguardo degli Amministratori si spostò da Yelena a Luskov. Questi deglutì ripetutamente, con il volto deformato dalla rabbia. Imboccò le scale e corse verso l’auto che lo attendeva sul retro del palco, dribblando alcuni dirigenti della Dimitrov che, riconoscendo Yelena, avevano iniziato a porsi delle domande a cui lui non avrebbe mai voluto rispondere. «Inseguiamolo!» Disse Aldo a Yelena e Popov. Si precipitarono sul retro del palco e arrivarono giusto in tempo per vedere Luskov salire a bordo della sua macchina. Aldo si guardò intorno e vide un’auto incustodita poco distante. Si avvicinò: le chiavi erano nel cruscotto. Salì a bordo seguito da Yelena e Popov e cominciò una folle corsa all’inseguimento di Luskov, rischiando più volte di investire qualche ospite o inserviente del parco che veniva a trovarsi sul suo tragitto. «Si sta dirigendo al Centro Direzionale.» Disse Yelena. «Perfetto.» Rispose Aldo. «È esattamente quello che volevamo. L’importante è che non riesca a salire sull’elicottero.» Viaggiarono a folle velocità per quasi dieci minuti, nelle strade del parco sempre più deserte man mano che si allontanavano dalla piazza centrale dove si trovavano il palco e la gabbia dello yeti. Luskov parcheggiò la macchina proprio davanti all’ingresso del complesso nel quale entrò correndo, con inaspettata agilità data la sua massa.
Aldo e gli altri arrivarono una ventina di secondi dopo. Due uomini della security di guardia al Centro Direzionale gli si fecero incontro con la chiara intenzione di bloccarli. Yelena urlò qualcosa in russo ai due uomini che si bloccarono di colpo, paralizzati, come se avessero visto un fantasma, anzi, date le ultime notizie cui tutta la stampa nazionale aveva dato ampio risalto, i due poveri agenti erano letteralmente convinti di avere davanti un fantasma. I tre entrarono di corsa nel palazzo, sotto lo sguardo sempre più incredulo degli agenti e si diressero verso l’ascensore. Occupato. Luskov stava salendo verso il sesto piano da dove, attraversando il ponte trasparente che collegava il Centro Direzionale con la sede dei Servizi di Sicurezza, sarebbe potuto salire a bordo dell’elicottero in attesa sulla pista. «Generale, aspetti qui e salga con l’ascensore. Io e Yelena saliremo a piedi.» Disse Aldo, conscio del fatto che Popov non era più un ragazzino e non avrebbe potuto tener loro testa in una corsa per le scale. Affrontarono le scale a perdifiato, una rampa dopo l’altra, salendo i gradini a due o tre per volta. Yelena si levò le scarpe con il tacco per correre più agevolmente. Arrivarono al sesto piano e, nel corridoio rischiarato solo dalle luci d’emergenza blu poste poco sopra il battiscopa, intravidero la corpulenta figura di Luskov che correva annaspando e ciondolando verso destra, in direzione della porta che collegava il piano al ponte esterno. Aldo capì che Luskov era sfinito e, con un ultimo scatto, lo raggiunse proprio nel momento in cui il russo aveva messo la mano sulla maniglia della porta. Lo afferrò per il colletto sudato della camicia e lo buttò a terra senza troppe cerimonie. «Dove credevi di andare, sacco di letame?» Disse Aldo, scagliando un forte calcio nel costato dell’uomo a terra. «Rialzati, infame.» Arrivò anche Yelena che lo guardò fisso negli occhi con disapprovazione e
sdegno. Non riuscì a trattenersi e gli sputò in faccia. «Lurido bastardo!» Urlò. «Hai fatto uccidere mio padre e hai tentato di far uccidere anche me. Questa è la tua gratitudine per tutto ciò che la mia famiglia ha fatto per te?» «Tuo padre aveva sbagliato tutto.» Ebbe il coraggio di rispondere con inaspettata baldanza Luskov. L’unica risposta di Yelena fu un sonoro ceffone in pieno viso che vece sanguinare il naso dell’impostore. «Dove mi portate? Lasciatemi! Non potete farmi nulla, non avete alcuna prova contro di me!» Gridò quando Aldo, afferrandolo rudemente per il braccio destro, aveva iniziato a trascinarlo verso le scale. «Tranquillo, buffone!» Gli disse Aldo. «Vogliamo solo portarti nell’ufficio di Nicolai. Dovrai fare una cosetta per noi.» A metà corridoio Popov li raggiunse. «Luskov», disse, cercando il suo sguardo rivolto a terra, «sei una carogna. Nicolai ti ha dato tutto ciò che un uomo potrebbe desiderare dalla vita e tu lo hai ricambiato così.» Luskov, imperterrito, continuò a mentire e a fingersi innocente: «Ma cosa ho fatto? Voi non avete lo straccio di una prova con cui potermi accusare della morte di Nicolai.» «Ah si? Perché, dove pensi che eravamo noi quando sono arrivati i tuoi scagnozzi a massacrare Nicolai e gli altri?» Chiese, ironicamente, Aldo che, effettivamente, non era presente nel momento dell’omicidio di Nicolai. Ma questo Luskov non poteva saperlo. Salirono le due rampe di scale che li condussero sul lungo corridoio alla fine del quale si trovava l’ufficio di Nicolai. Luskov era ridotto ad un brodo di sudori, camminava a fatica e Aldo si era affaticato nello spingerlo su per le scale.
Dall’esterno dell’edificio si udivano i boati dei fuochi artificiali e dalle finestre filtravano i lampi di luce dei laser: la festa era continuata anche senza Luskov. Entrarono nell’ufficio di Nicolai che Luskov aveva avuto il buon senso di non modificare. Aldo ordinò al russo si sedersi dietro la scrivania, mentre accendeva il computer. «Bene, bene!» Esordì Aldo con un ghigno malefico sul viso: «Ora, caro Luskov… o preferisci essere chiamato Leone?» Aggiunse con enfasi, «Ci dirai in quale banca hai dirottato i soldi che si trovavano sui conti correnti di Yelena, di Nicolai e della Dimitrov. Ti conviene farlo subito perché non abbiamo tempo da perdere con te.» «Io non spostato nessun soldo… » Aldo non gli diede il tempo di raccontare quell’ennesima menzogna che la testa di Luskov si ritrovò spiaccicata sul pianale della scrivania. «Ho detto che non abbiamo tempo.» Ripeté con voce ferma. «Connettiti alla banca in questione e apri il tuo conto. Ti avverto che non te lo ripeterò.» Estrasse da sotto la giacca una pistola Beretta e gliela puntò alla tempia. Un odore dolciastro e nauseabondo pervase rapidamente la stanza: Luskov se l’era fatta addosso. Mentre quello, piangendo e declamando in russo qualche incomprensibile preghiera, digitava l’indirizzo della BIL Banque Nazionale à Luxembourg, Aldo lo schernì con rabbia: «Sei proprio un porco, non senti quanto puzzi?» Aldo era fuori di sé, tanto da sembrare divertito dal suo atteggiamento diabolico. Yelena non lo aveva mai visto così arrabbiato, ma capiva che il suo atteggiamento era dettato dallo scarico delle tensioni accumulate nell’ultima settimana. Luskov intanto era entrato nel sito e aveva inserito le sue credenziali per poter effettuare le operazioni online. Quando Yelena vide l’ammontare del conto indicato sulla pagina web ebbe quasi un sussulto. Ricordava bene i dati dell’ultimo bilancio della Dimitrov Oil e la cifra che campeggiava sul conto intestato ad Alexey era di molto superiore, alle
già enormi disponibilità economiche della compagnia. Era evidente che l’ex consigliere tuttofare di suo padre, negli anni, era riuscito a estorcere ingenti capitali dal patrimonio aziendale, senza che nessuno se ne accorgesse. «Ti facevo più idiota, sai?» Gli disse lei, stupita dalla cifra che leggeva sul monitor, «Non hai rubato i nostri soldi solo dopo la morte di mio padre, ma lo hai fatto ripetutamente negli anni, vero?» «Solo tu credevi che io fossi così imbecille, bambina!» Rispose Luskov sbeffeggiando Yelena. Aldo non aspettava altro per liberare un violento manrovescio sulla sua guancia paffuta. «Yelena», disse Aldo, «ora tocca a te.» Fece alzare Luskov dalla sedia tirandolo dal colletto della giacca e fece posto a Yelena che, rapidamente, inserì i dati di uno dei suoi conti correnti in Russia su cui far migrare quella somma da capogiro. Non appena la ragazza pigiò il tasto “invio”, un boato, diverso da quelli prodotti dai fuochi artificiali della festa di inaugurazione che stava continuando all’esterno, squarciò il silenzio del Centro Direzionale. Un proiettile partito dal corridoio, entrando dalla porta lasciata spalancata, colpì in piena fronte Popov. Era arrivato Tigre, con quattro scagnozzi al seguito.
Yelena, di riflesso, si buttò addosso al corpo senza vita di Popov, mentre Aldo esplose alcuni colpi alla cieca in direzione del corridoio. Luskov, approfittando del trambusto, scappò dalla presa di Aldo e, strisciando, si diresse verso il corridoio. L’italiano capovolse la pesante scrivania in modo tale da adoperarla come barricata dietro cui ripararsi dalla gragnola di colpi che arrivava dal corridoio. Tirò a se Yelena e le disse: «Questa volta non commetteranno l’errore di dichiararci morti senza aver visto i nostri corpi crivellati dai proiettili.» «Vuol dire che venderemo cara la pelle.» Rispose lei, determinata, estraendo la pistola che aveva nascosto nella borsetta.
Due terroristi erano appena entrati nella stanza, ma ebbero il tempo di fare solo pochi i prima che gli spari incrociati di Aldo e Yelena li freddassero. Luskov aveva intanto raggiunto Tigre e lo strattonò per la giacca, spingendolo dietro al riparo offerto da una colonna nel corridoio: «Sbrigati», disse, «non abbiamo tempo da perdere con loro, scappiamo, c’è un elicottero che ci aspetta. Se riusciremo ad arrivare in fretta all’aeroporto potremo imbarcarci sull’aereo della Dimitrov e scappare in Uzbekistan prima che le autorità riescano a far luce su quanto sia realmente accaduto.» Tigre continuò a sparare per qualche attimo. Era combattuto sul da farsi: avrebbe voluto fare fuori quei due che gli avevano causato tutti quei problemi, ma allo stesso tempo sapeva che una fuga immediata sarebbe stata la soluzione migliore. In fondo, lui era stato già profumatamente pagato da Luskov, poteva far tranquillamente terminare lì la sua carriera di mercenario. Al diavolo Aldo Mirri e Yelena Dimitrova, un mucchio di soldi lo attendevano in una banca di Taskent! Lasciò i suoi due uomini sopravvissuti al loro destino e corse verso le scale insieme a Luskov. Aldo si accorse della fuga dei due: «Yelena», gridò, mentre si abbassava dietro alla scrivania per ricaricare la sua arma, «prima mi sbagliavo! Luskov e Tigre stanno scappando.» La ragazza, incuriosita si sporse un po’ troppo per osservare la scena. Esplose un colpo e centro al petto uno dei due terroristi rimasti, ma questi, prima di accasciarsi al suolo senza vita, sparò a sua volta colpendola alla spalla destra. Venne sbalzata a terra con un urlo. Aldo, preoccupato, le scivolò vicino: «Come stai?» chiese terrorizzato. «Sto bene, sto bene!» Disse lei con la voce impastata dal dolore. «Ha preso in pieno la spalla, ma la pallottola è uscita.» Aldo le accarezzò i capelli, mentre il terrorista sopravvissuto, appostato sul lato destro della porta, sparava contro il pianale della scrivania che ormai stava iniziando a creparsi. Dovevano uscire da quello stato di eme il più rapidamente possibile.
Afferrò un faldone pieno di fogli caduto dietro di lui, ne aprì i lembi e lo lanciò in direzione della porta. Il faldone si spalancò facendo volare per la stanza centinaia di fogli. Il terrorista, distratto da quell’improvviso diluvio di pagine bianche, si accorse troppo tardi che Aldo si era alzato da dietro il suo nascondiglio. Cadde a terra colpito da due proiettili al torace. Aldo si abbassò per dare un ultimo sguardo a Yelena: «Tieni duro, tra poco arriverà qualcuno. Io vado a dare una lezione a Luskov e Tigre.» Corse a perdifiato fino alle scale e poi scese a capofitto le due rampe di scale fino al sesto piano. Girò a destra e vide i due fuggitivi che stavano imboccando la porta che dava accesso al ponte trasparente. La fortuna gli venne in soccorso quando Luskov, stravolto dalla fatica, inciampò, aggrappandosi a Tigre che cadde insieme a lui. «Fermi.» Ordinò loro. Ormai era a meno di dieci metri di distanza dai due corpi ancora a terra. Tigre si voltò e sparò. Il primo colpo mancò Aldo di pochi centimetri. In quel millesimo di secondo Aldo capì che era finita: lui, che stava ancora correndo, aveva la pistola puntata verso il basso, mentre Tigre aveva corretto la mira di quel poco che gli bastava per fargli saltare la testa. Questa era una delle tante differenze tra un mercenario e uno zoologo! Quant’era stato ingenuo e sprovveduto. Stava morendo per un suo stupido errore. Il millesimo di secondo ò con la rapidità che gli è nota e Tigre premette nuovamente il grilletto: Click! Il caricatore era scarico. Come in Bhutan, nello scontro a fuoco della cascata, era accaduto alla sua compagnia di restare senza munizioni, ora il destino aveva cambiato simpatizzante. Aldo fermò la sua corsa e percorse gli ultimi metri al o, sorridendo trionfante. «Hai finito di scappare, Tigre.» Disse Aldo con la pistola puntata alla fronte
dell’uzbeko. Poi schernì Luskov: «Alexey, tu stai seduto e rilassati ora, tutto questo movimento non ti fa bene, potresti rischiare un infarto!» Tigre lo guardò dapprima sprezzante, poi, d’improvviso, proruppe in una fragorosa risata. Aldo restò di stucco per quella reazione apparentemente fuori luogo e inarcò le sopracciglia come a volerne sapere di più. Il terrorista, con volto compiaciuto, indicò con l’indice destro un punto dietro alle spalle di Aldo. L’italiano si voltò lentamente e a pochi metri da lui ad attendere le sue mosse, c’era un uomo di Tigre, evidentemente lasciato al piano di sotto come palo, con il fucile puntato alla sua testa. Nel nuovo millesimo di secondo di panico che ne seguì, Aldo tornò a darsi dello stupido e a salutare in silenzio la sua vita terrena. Ma, di colpo, dopo un’ormai familiare boato che rimbombò nei corridoi vuoti, un terzo occhio, di colore rosso vivo, aprì le sue palpebre frastagliate e senza ciglia sulla fronte del terrorista. Quando il nemico cadde inerte nel suo sangue, dalle sue spalle sbucò la sagoma dolorante e insanguinata di Yelena con la pistola in mano. Era riuscita ad eseguire quel colpo precisissimo sparando con la mano sinistra, pur non essendo mancina, a causa dell’impossibilità ad utilizzare il braccio destro ferito. Si, la fortuna aveva proprio cambiato direzione! Pensò Aldo. Quell’attimo di stasi permise però a Tigre di rialzarsi e abbattere Aldo con una spallata in pieno petto. Iniziò una violenta scazzottata, durante la quale Aldo perse di mano la pistola. Yelena cercava di prendere al mira, ma non sparò per non correre il rischio di colpire Aldo. Tigre riuscì a girare Aldo su se stesso e ad afferrarlo con il braccio sotto al collo. Con una presa che, se solo avesse leggermente accentuato, avrebbe strozzato l’italiano, gli impose di rialzarsi, e usò il suo corpo come scudo umano tra sé e Yelena.
«Ora, tu, posi quell’arma, lentamente.» Disse Tigre a Yelena con voce tesa, mentre stringeva lentamente la presa al collo di Aldo. La ragazza fece per posare l’arma a terra, ma Aldo urlò con l’ultima stilla di fiato che gli era rimasta nei polmoni: «Spara, Yelena, ci ucciderà comunque!» Dicendo queste parole, con uno sforzo sovrumano, inarcò il suo corpo, sollevando Tigre da terra ed esponendone per un solo attimo la schiena indifesa alla vista di Yelena. La ragazza non si fece sfuggire il momento ed esplose due colpi. Il primo prese di striscio il terrorista alla spalla destra, il secondo volò oltre la testa di Luskov, ancora a terra, e si conficcò nella parete destra del ponte di plexiglasss alle sue spalle, lesionandolo. Tigre mollò la presa per il dolore e Aldo se lo scrollò di dosso. Si lanciò sul fucile del terrorista ucciso poco prima da Yelena e cercò di prendere la mira, ma Tigre, con uno sgambetto, lo fece volare in aria. Il proiettile partì comunque e si conficcò nuovamente nel rivestimento del ponte, pressappoco nel punto in cui precedentemente era andato a cozzare il proiettile di Yelena. Una parte della copertura laterale andò in frantumi aprendo un’ampia finestra frastagliata. Ma questa volta, Tigre si trovò totalmente allo scoperto e Yelena sparò senza ostacoli. «Questo è per mio padre!» Disse, sparando una prima volta, cogliendolo ad una gamba. «Questo è per Popov!» E sparò all’altra gamba. Tigre urlava come un dannato. Aveva messo più volte in preventivo la possibilità di poter essere torturato nell’espletare il suo lavoro, ma era la prima volta che gli capitava davvero. Non credeva che si potesse provare così tanto dolore. La ragazza lo guardò imibile, avvicinandosi fino ad un metro. Godeva nel vederlo urlare in quel modo, ma doveva chiudere quel gioco. «E questo è per il diavolo che accoglierà la tua anima.» Sparò un’ultima volta e il volto di Tigre venne reso irriconoscibile dal colpo esploso da distanza ravvicinata.
Aldo scrutò il viso di Yelena, non aveva più i lineamenti delicati e ben curati con cui l’aveva conosciuta e frequentata. Ora sembrava in trance, gli occhi socchiusi e il corpo rilassato, nonostante la recente ferita alla spalla. Per un attimo credette di avere di fronte l’angelo della morte. Non degnò di uno sguardo il corpo di Tigre che si accasciava all’indietro e rivolse tutte le sue attenzioni a Luskov, ancora a terra. Aldo si rialzò: «Non ucciderlo, Yelena, potrebbe tornarci utile in un processo. Chissà quante informazioni ci ha nascosto che potremmo recuperare.» Yelena si fermò ad ascoltare quelle parole ma non rispose. Dopo un attimo di riflessione, imibile, fece un altro o verso Luskov. Questi si alzò di scatto e corse verso il ponte. Non appena lo imboccò, Yelena prese la mira ma non sparò subito. Attese qualche attimo, non voleva soltanto ucciderlo: voleva di più. Quando il momento giusto arrivò, fece fuoco. Lo colpì al ginocchio destro, proprio mentre stava ando davanti allo squarcio nel plexiglass aperto poco prima dalla fucilata di Aldo. Luskov, perse l’equilibrio e venne sbalzato verso la parete. Istintivamente allungò le mani per pararsi dall’urto, ma non trovò il plexiglass trasparente a proteggerlo da un volo di oltre dieci metri, bensì il vuoto della profonda lesione nella copertura del ponte. Con una sola gamba utilizzabile non riuscì a sorreggere il fardello dei suoi chili di troppo e precipitò nello stagno sottostante. Aldo arrivò sul ponte, al fianco di Yelena, giusto in tempo per assistere al banchetto che i coccodrilli sotto di lui avevano iniziato a fare con il corpo ancora vivo e urlante di Luskov. Che strano, pensò, Luskov aveva avuto proprio la fine che lui stesso gli aveva augurato la prima volta che lo aveva accompagnato allo zoo. Per qualche strano motivo, aveva percepito che quel ponte trasparente aveva qualcosa a che fare con la fine del russo. Yelena lasciò cadere la pistola a terra, si inginocchiò e, coprendosi il volto con le mani, iniziò a piangere a dirotto. Aldo l’abbracciò e le accarezzo la nuca.
«È tutto finito.» Le disse. «Vendetta è fatta. Ora puoi piangere in pace la morte di tuo padre.»
EPILOGO
Paro, Bhutan, un anno dopo.
In quell’ultimo, drammatico, momento, Aldo era stato fin troppo ottimista dicendo a Yelena che “era tutto finito”. La vicenda, infatti, si protrasse ancora per lunghi mesi, con i suoi strascichi legali. In quella storia troppa gente aveva perso la vita in circostanze poco chiare e la magistratura russa aveva, ovviamente, aperto un’inchiesta. Le telecamere a circuito chiuso del Centro Direzionale avevano immortalato tutte le fasi della battaglia avvenuta nell’edificio la sera dell’inaugurazione dello zoo e Yelena - accusata di omicidio volontario con l’aggravante della brutalità per la morte di Tigre e Luskov - dovette attivare tutte le sue conoscenze nelle alte sfere affinché quei filmati venissero “smarriti”. Fortunatamente per lei, alcuni pezzi grossi del governo russo accolsero di buon grado il fatto che lei, anziché lasciare i tanti soldi trafugati da Luskov in un conto lussemburghese, avesse deciso di riportarli in Russia. Fu così che, “casualmente”, il processo venne affidato al giudice amico del generale Popov, che conosceva bene le vicende accorse all’interno della Dimitrov e tifava palesemente per la ragazza. Fu così che, non trovandosi più i filmati che l’avrebbero incastrata, il giudice scagionò la ragazza dall’accusa di aver ucciso Tigre e gli altri terroristi, ritenendo si fosse trattato di legittima difesa, mentre le indagini della polizia che trovò solo alcuni brandelli del corpo di Luskov divorato dai coccodrilli giunsero alla conclusione che Alexey, in realtà, si fosse suicidato lanciandosi dal ponte. Yelena, in poco tempo, ritornò nel pieno possesso delle proprietà di famiglia e lo zoo venne aperto al pubblico nel giorno stabilito. Il numero di visitatori, solo nel primo mese dall’apertura, fu tre volte superiore alle aspettative e i tour operator più prestigiosi del mondo facevano a gara per poter ottenere il maggior numero possibile di ingressi e pernottamenti negli hotel del parco. Aldo e la ragazza discussero a lungo sull’opportunità di continuare ad esporre lo yeti nello zoo, ma la natura diede rapidamente il suo insindacabile responso sulla
vicenda. L’animale, infatti, trovandosi al di fuori del suo delicatissimo habitat, riuscì a sopravvivere solo per due mesi dopo l’apertura del parco. Decisero quindi di farne imbalsamare il corpo e di esporlo all’ingresso dello zoo. I due stabilirono anche di non rivelare mai il luogo esatto in cui era stato trovato lo yeti, smentendo tutte le indiscrezioni di stampa che affermavano un collegamento tra il ritrovamento dell’animale e la morte di Nicolai in Bhutan. La versione ufficiale della Dimitrov fu che la missione in cui morì il magnate era destinata al ritrovamento di alcuni animali autoctoni del Bhutan e non dello yeti. Lo yeti stesso, secondo il comunicato ufficiale della Dimitrov, era stato catturato in un non ben precisato punto dell’Himalaya, pressappoco sul confine tra Cina e Nepal, in una zona inaccessibile e difficilmente raggiungibile sai per motivi geografici che politici, ad oltre mille chilometri di distanza dal Bhutan. Ovviamente, d’accordo con Visconti e Paul, decisero di non fare parola con nessuno riguardo l’esistenza dello yeti bianco. Ma Yelena si sentiva profondamente in debito anche con il popolo del meraviglioso Regno del Bhutan, adagiato sulle maestose vette dell’Himalaya. Si sentiva responsabile perché, a causa sua e della missione organizzata da suo padre, uno degli edifici più spettacolari del pianeta, simbolo di quella nazione, il Taktsang, era andato distrutto. Si impegnò quindi in prima persona affinché il monastero venisse ricostruito precisamente per com’era, stanziando milioni di rubli e investendo dell’incarico i migliori architetti e le più prestigiose compagnie di costruzioni del mondo. Dopo un anno erano di nuovo lì, sulle alture antistanti la città di Paro, questa volta arrivando comodamente in elicottero, in compagnia di Visconti, Paul e Maradona, in attesa che il Re del Bhutan in persona presenziasse alla riapertura del monastero. Mattia non aveva potuto raggiungerli perché oberato dal lavoro che il Dimitrov Zoo commissionava continuamente alla Mirri Adventures&Research, per sostituire gli animali che in quei mesi erano morti nel parco. «Grazie davvero.» Disse Visconti a Yelena. «Grazie a te ho di nuovo una casa in cui poter vivere.» «Era il minimo che potessi fare, professore. Se non fossimo arrivati in questo posto dimenticato dal mondo a portare scompiglio, il taktsang sarebbe ancora
immacolato e la strage che è stata perpetrata al suo interno non sarebbe mai avvenuta.» Si avvicinò anche Aldo e Visconti volle rivolgere ai due un’ultima frase di augurio: «Che le disavventure ate un anno fa vi servano da lezione per il prosieguo della vostra vita insieme. Vogliatevi bene e amministrate il vostro patrimonio con un occhio sempre rivolto agli altri e alla madre terra che ci ospita.» Si abbracciarono a lungo e tutti e tre versarono una lacrima, consci del fatto che probabilmente non si sarebbero mai più rivisti.
Un lungo applauso accompagnò il taglio del nastro da parte del Re del Bhutan con al suo fianco il Segretario delle Nazioni Unite e il Direttore dell’UNESCO. Aldo applaudì felice. Finalmente sentiva di poter affermare che quella storia era veramente finita. Quell’anno aveva portato molti cambiamenti nella sua vita. Non avendo più impellenti problemi economici, alla fine era riuscito a mettere un punto ai viaggi pericolosi in lungo e in largo per le terre più inospitali del pianeta. Diventando ufficialmente il compagno di vita di Yelena, aveva accettato la comoda scrivania del Direttore dello zoo, nonostante la sua naturale avversione per quel tipo di parchi. D’accordo con Yelena, stabilì che gli animali ormai contenuti nello zoo sarebbero rimasti al suo interno, così come i cuccioli che sarebbero nati nel tempo ma, per quanto riguardava gli animali rari e in via d’estinzione, una volta fosse sopraggiunta la morte degli esemplari ospitati nel parco, lo zoo non avrebbe provveduto a sostituirli cercandone altri allo stato brado. Oltre a ciò, istituì un centro per il reinserimento delle specie rare in natura. Sotto la sua direzione lo zoo era divenuto un esempio di ecosostenibilità con un’importanza particolare data alla didattica, prevedendo forti sconti per gli ingressi delle scolaresche e dei bambini, a cui veniva spiegato dalle guide che il posto giusto in cui quegli animali dovevano vivere non era dietro alle sbarre di una gabbia, ma nel loro habitat naturale.
Aldo gettò un lungo sguardo allo strapiombo che dominava la vallata e si ricordò di una delle cose che aveva avuto più a cuore nella preparazione di quel viaggio: «Maradona», chiamò Aldo, «vieni qui, ho una cosa per te.» La piccola guida bhutanese si avvicinò. Aldo estrasse un fagotto dalla sacca che aveva in spalla. «È per te, aprilo.» Maradona, raggiante, aprì l’involucro e ne estrasse, estasiato, una maglia azzurra. Non era una maglia qualunque. Sulle schiena vi era stampato a caratteri bianchi il numero dieci e sul petto, all’altezza del cuore, era impresso lo stemma della squadra di calcio del Napoli. Sopra la stampa dello sponsor, sul ventre, campeggiava uno scarabocchio fatto con un pennarello. Maradona lo riconobbe subito: l’autografo del “vero” Maradona, quello che aveva contribuito a portare tanti trionfi nella bacheca della squadra di calcio partenopea e che aveva vinto il Mondiale di Calcio del 1986, in Messico, con la sua Argentina. Il bhutanese, senza parole, abbracciò Aldo: «Come l’hai avuta? È una maglia originale degli anni ’80! Non ho parole per ringraziarti.» «In Italia se ne trovano tanti di questi gingilli.» Rispose Aldo, restando sul vago. «Comunque nel pacco c’era dell’altro. Controlla bene.» Maradona guardò meglio nell’involucro e ne estrasse una pallina da tennis nuova di zecca. «Con questa potrai divertirti, mentre guiderai tanti occidentali ignoranti fino al taktsang ormai restaurato.» Gli disse l’italiano. Maradona sorrise: «Ho finito con quella vita, Aldo. Con i soldi che mi ha dato la Dimitrov ho acquistato il miglior albergo di Paro e se proprio voglio arrivare qui su personalmente, affitto un taxi!» Risero entrambi e si salutarono calorosamente. Era ormai arrivato il momento di ripartire e, dopo aver Salutato le autorità, Yelena, Aldo e Paul - che ormai era diventato la loro inseparabile guardia del corpo, dopo essersi trasferito in Russia con tutta la famiglia - risalirono a bordo dell’elicottero lasciando per sempre il suolo bhutanese.
Maradona osservò l’elicottero prendere il volo e scomparire nella vallata sottostante, in direzione dell’aeroporto di Paro. A cerimonia conclusa si diresse verso l’albero dove aveva lasciato il suo zaino da campeggio e si inoltrò nella foresta. Aveva già stabilito che, prima o poi, avrebbe riaffrontato il percorso che l’anno prima aveva fatto con gli amici occidentali e quello gli sembrava il momento migliore per farlo. Camminò per due giorni, dapprima nei posti che conosceva bene e poi inoltrandosi nei luoghi più inesplorati del monte Jomolhari. La sera del secondo giorno, sedutosi sulla riva di un torrente a riposarsi, sentì un violento fruscio che scosse la foresta davanti a lui, facendo alzare in volo numerosi uccelli in un turbinio di cinguettii nervosi e battiti d’ali. Incuriosito aguzzò la vista, pensando di aver nuovamente incrociato il cammino di uno yeti. Dopo qualche istante, infatti, la creatura apparve ad una cinquantina di metri da lui, al di là del fiume. Era più alto e più grosso di tutti gli esemplari che aveva visto l’anno prima, ma la cosa che lo colpì di più fu che il mantello di questo yeti era completamente nero.
Ringraziamenti
Nessuna persona che si accinge a scrivere un libro, non può esentarsi dal ringraziare in primis, gli scrittori che lo hanno ispirato e ai quali si rifà. Nel mio caso, è d’obbligo ringraziare scrittori del calibro di Clive Cussler, James Rollins, Michael Crichton, Ted Bell, Andy McDermott, Douglas Preston & Lincoln Child, Matthew Reilly.
Un ringraziamento particolare a Daniela, per la pazienza, per alcune delucidazioni scientifiche senza le quali sarei ancora fermo alla prima pagina e
per alcune idee geniali che hanno indirizzato la storia in determinati binari… peccato non abbia provato molta simpatia per Yelena: fosse stato per lei sarebbe morta dopo poche pagine! A Lello per le dritte legali e la lettura del testo in anteprima. A Gabriele per la copertina. A Carmen per le torte. A tutti i familiari e agli amici per il sostegno. A chi rema contro e cerca di mettere i bastoni tra le ruote perché, altrimenti, la vita sarebbe una monotonia senza di loro. [1] Con i termini Ipertricosi e Irsutismo ci si riferisce a malattie che causano un anomala crescita di peli in zone dove, solitamente, questi dovrebbero essere assenti o radi.