AA. VV.
D-DOOMSDAY
Antologia curata da ALEXIA BIANCHINI CLAUDIO CORDELLA
Per volontà degli Autori e dell’Editore, l’intero ricavato dei diritti d’autore verrà devoluto alla:
BIBLIOTECA ITALIANA PER I CIECHI "REGINA MARGHERITA ONLUS
D-DOOMSDAY
Autori: AA. VV. Curatori: Alexia Bianchini, Claudio Cordella
Copyright © 2012 CIESSE Edizioni Via Conselvana 151/E 35020 Maserà di Padova (PD)
Telefono: 049 8862219 - Fax: 049 2108830
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ISBN versione eBook 978-88-6660-049-7
Impostazione grafica e progetto copertina: © 2012 MAX RAMBALDI www.maxrambaldi.com
Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione dell’opera, anche parziale.
Collana: Orange Editing a cura di: Alexia Bianchini
A tutti coloro che temono l’Apocalisse e hanno la Fantasia per sopravviverle.
Sommario
Prefazione
MOMENTO ANGOLARE
Racconto di Filippo Tapparelli
TANTE PICCOLE LUCI
Racconto di Maico Morellini
SORRISO DI POLISTIROLO
Racconto di Samantha Baldin
CASSANDRA’S PROPHECIES
Racconto di Anna Grieco
SIMBIOSI
Racconto Serena M. Barbacetto
L’ALTRA APOCALISSE
Un racconto di Luigi Milani
WE ARE THE END
Racconto di Anna Battaglia
MI CHIAMO SERENA MARTINELLI
Racconto di Claudia Beveresco
VEDO LA GENTE MORTA
Racconto di Daniela Barisone
L’ULTIMO VIAGGIO DEL SIGNOR ROSSI
Racconto di Fiorella Rigoni
IL CUBO DI CRISTALLO
Racconto di Alexia Bianchini
APOCALYPSE MIND
Racconto di Paola Boni
JERICHO
Racconto di Diego Bortolozzo
CARGO CULT
Racconto di Claudio Cordella
IL FANTASMA DI MADRE AMERICA
Racconto di Valentina Di Martino
IL PORTO DI TARTAGO
Racconto di Vito Introna
OMBRE
Racconto di Stefano Sacchini
(H)YUN
Racconto di Aurora Torchia
L’OSCILLAZIONE DEL PENDOLO
Racconto di Anonimo
L’APOCALISSE, NEL CINEMA E NELLA LETTERATURA
Saggio di Claudio Cordella
NOTE BIOGRAFICHE AUTORI
Prefazione
D-DOOMSDAY A cura di Alexia Bianchini
“Un uomo che osa sprecare un'ora di vita non ha ancora scoperto il valore della vita”
Charles Darwin
La Fine dunque, come paura ancestrale. L’uomo ne è vittima inconsapevole fin dalla notte dei tempi. Lo stato di vertigine che ci coglie improvvisi nel pensare alla distruzione del nostro pianeta, o al drastico cambiamento di una società dispensatrice di comfort, è peggiore di quel senso di vuoto che proviamo quando pensiamo alla nostra morte. Mettiamo al mondi figli e lasciamo segni del nostro aggio per creare continuità, ma cosa accadrebbe se un giorno finisse il mondo? Sarebbero in grado, i pochi sopravvissuti, di riemergere dalle macerie? Il tempo non muterebbe il suo corso eppure una catastrofe planetaria riporterebbe l’uomo indietro di secoli. Come potremmo sopravvivere, quando siamo assuefatti al consumismo più sfrenato? L’uomo dovrebbe adeguarsi, riconoscere la sua natura umana, e imparare di nuovo a vivere in unione con la Natura. Procacciare cibo, provvedere all’istruzione della prole, garantire la continuità per i giovani a venire. Ironia della sorte, sarebbero proprio le società che non hanno voluto farsi coinvolgere dall’Evoluzione, come diverse tribù indigene in Amazzonia o in Australia, a non risentire di un stravolgimento planetario, se non nei casi estremi come le catastrofi naturali previste dai Maya per la fine del 2012, in cui tutto verrebbe spazzato via.
“Non è la più forte delle specie che sopravvive, né la più intelligente, ma quella più reattiva ai cambiamenti”
Charles Darwin
L’elemento che consegue da una situazione apocalittica è la sopravvivenza. I superstiti di una catastrofe si ritrovano a contare morti, a frugare tra le macerie per trovare qualunque cosa sia utile a perdurare, ad accantonare il dolore e il panico per far emergere quell’istinto di conservazione che permette all’individuo di lottare e reagire all’orrore. Ma la propria identità morale può sopravvivere di fronte al delirio? Alla comunanza, soluzione più civile e spesso logica, in una situazione estrema, si contrappone il bisogno del singolo individuo, che spesso sfocia nella prevaricazione, e si afferma la legge del più forte. Ecco che anche il più integro degli uomini rimetterebbe in discussione se stesso di fronte a un sopruso. La sopravvivenza dipende da molti fattori, tra cui le conoscenze dimenticate, come accendere il fuoco, la capacità di farlo, nonché una preparazione psicologica. Davanti a una catastrofe non avremmo tempo di prepararci all’inevitabile. Ci si ritroverebbe a scongiurare di non morire. Saremmo in grado di ripartire da zero? Le nuove generazioni sono all’oscuro degli elementi base necessari a una comunità per restare in vita. Quello che abbiamo accumulato negli ultimi secoli, in termini di oggetti e di sapere, verrebbe cancellato. Dovremmo imparare di nuovo a curarci, a orientarci e a difenderci. Come sopravvivere senza farmaci, senza mezzi di comunicazione, senza il supermercato all’angolo? Noi di D-Doomsday ce lo siamo chiesto. Abbiamo valutato diverse ipotesi, dalle mutazioni naturali agli esperimenti finiti
male. Non ci siamo fermati al nostro tempo. Troverete storie che si affacciano all’Apocalisse fino a mondi sopravvissuti e lontani millenni dal nostro. Dal racconto realistico a quello astratto, fino al genere fantastico. Premonizioni, incubi, o realtà tragiche da affrontare. Alcune sono ipotesi verosimili, altre si spera non accadano mai.
In virtù del fatto che questa antologia è nata aspettando il giorno fatidico in cui i Maya hanno decretato la Fine del Mondo, abbiamo creato il connubio fra il termine D-day, che identifica il giorno dell’attacco, e Doomsday, letteralmente “giorno del giudizio”, dando vita all’acronimo D-Doomsday. La scelta di non seguire l’ordine alfabetico è dovuta ai contenuti dei racconti, per poterne alternare i generi.
Buona lettura.
MOMENTO ANGOLARE
Racconto di Filippo Tapparelli
«Cosa stai facendo?» «Ti amo». «Amare non è fare qualcosa». «Allora cos’è?» «Ti sembra il momento di giocare?» «Non si risponde a una domanda con un’altra domanda». «Il mondo sta finendo e tu ne fai una questione di educazione?» scatta Marco. «No, però ora sorridi. E comunque non hai ancora risposto alla mia domanda. Cos’è quello che provo per te, allora?». Con un gesto nervoso Cecilia si sistema dietro l’orecchio un ciuffo di capelli sfuggito alla forcina, facendo una virgola castana attorno alla piccola perla adagiata al centro del lobo. Deve ricordarsi di sorridere. «Sto aspettando una risposta». «A che serve, scusa?» «Ecco, lo hai fatto di nuovo. Lo fai ogni volta, Marco. Tu non dici le cose, chiedi in continuazione. Interrompi sempre le mie parole con una domanda». «Non fare così. Ti voglio bene. Ora vieni qui, però». «No. Non vengo lì fino a quando non avrai risposto».
Le pareti della stanza di Marco vibrano e la pressione dell’aria aumenta per un istante. Aria che si è fatta densa. «Lo senti il rombo?» le dice Marco, ignorandola. «Sono auto che esplodono. La gente sta dando i numeri, Cecilia. In rete ne parlano tutti da ore, da Twitter a Facebook. Ho visto anche i video in streaming. È la distruzione totale». Il rombo lei lo ha sentito arrivare e poi ne ha visto gli effetti, nel tragitto da casa sua alla stanza di Marco. Ma qui, in questo spazio dove l’unica finestra adesso è sbarrata con le imposte, e quasi cancellata da un armadio spinto a ridosso, quel suono giunge felpato. A tratti è sovrastato da un cigolio costante, un suono stridente che aggredisce i nervi. «Ssshhh. Siamo qui, Marco. Sono qui con te. Guardami». «Hanno anche detto che quando arriverà il grosso della tempesta tutto finirà in un istante. Non resterà più nulla di tecnologico: auto, frigoriferi, computer. Tutto andato, bruciato. Senza queste cose non sappiamo vivere». Il ginocchio destro di Marco non vuole stare fermo, sembra pronto a schizzare via come una molla da un momento all’altro spaccando in due la gamba. Cecilia per un attimo fissa lo sguardo su quel sussulto. Lui se ne accorge e il ginocchio si blocca di colpo. Un istante dopo il movimento riflesso ricomincia, e con esso il rombo e il cigolio. «Sì, ma adesso non preoccuparti». «Il mondo sta finendo e tu...». Cecilia lo interrompe appoggiandogli una mano sulle labbra. Come fa sempre quando si agita. Come aveva fatto, istintivamente, quando si erano conosciuti e l’aveva zittito, prima con una carezza e poi con un bacio. «No, non sta finendo il mondo. Semmai sta finendo un mondo. Ce ne sarà un altro, e poi un altro ancora. Non è così grave» mente lei. «È già successo in ato e succederà ancora. Però ora dovremmo davvero uscire di qui, sai?» «Il mondo sta finendo» prosegue Marco, senza udire le parole di Cecilia «e tu sei calma come se tutto questo casino non ti riguardasse». Cecilia non è calma, non lo è affatto. Sa esattamente cosa sta succedendo là fuori, sulla Terra e nello spazio. Non avrebbe mai immaginato che la sua laurea in fisica un giorno sarebbe servita a farle comprendere a tal punto una realtà inimmaginabile.
Perché una cosa del genere accade, non capita. La fine del mondo. Marco, in qualche modo, ha ragione. È la fine di tutto quanto abbiamo conosciuto finora: la fine delle macchine, dei cellulari, di Internet, di ogni cosa abbia a che fare con l’elettronica e l’elettricità. La fine delle consuetudini, non la fine del mondo. L’apocalisse, semmai. La Rivelazione. Il mondo sta tornando reale. «Sono tranquilla perché non è niente di grave. Mancherà la corrente per un po’» vent’anni come minimo, ma questo non lo dice «e dopo tornerà tutto come prima. Ora usciamo di qui, ti prego». «No che non esco» le risponde mentre le mani torcono le lenzuola. «Le radiazioni ci uccideranno». «O magari, prima di allora, la prossima esplosione ci farà crollare il soffitto sulla testa» dice sorridendo Cecilia. Proprio in quel momento un altro boato scuote le pareti ma non è abbastanza forte da farli trasalire. Marco guarda il lampadario che oscilla, poi la fissa in silenzio. La luce gialla che ondeggia sposta l’ombra del suo naso sulle guance, come una meridiana il cui mezzogiorno è segnato dalle labbra sottili di lei. Intanto il rombo si spande attraverso l’aria fino a riverberare sulle punte delle dita di entrambi salendo lungo i nervi, riempiendo le vene, mescolandosi al sangue fino al cuore che in quel momento perde un battito e si sincronizza con il respiro del mondo che sta sparendo. Marco si lecca il labbro superiore. «Sì, forse hai ragione. Ma le radiazioni solari...» abbozza in una protesta. «Non sono letali per noi, Marco». Sono letali per tutto ciò che questo mondo è diventato. Sono letali per la crosta tecnologica che ci ha assorbito. Apriamo la finestra. Potremmo rivedere le stelle. Ho visto l’aurora ieri sera. Ha tinto il cielo di rosso, come il sipario dell’Aida. Ti ricordi L’Aida? Due anni fa mi hai portato a vederla all’Arena. Pagai io i biglietti ma tu fosti carino lo stesso. Poi uscimmo e vedemmo le comparse vestite da antichi egizi: bevevano birra e fumavano sigarette. Ci parve buffo, ridemmo tanto. Ci sembrò di fare un viaggio nel tempo a basso costo. Ti ricordi, Marco? «Non ci succederà nulla» ripete sottovoce Cecilia a lui e anche se stessa, questa
volta. Il mondo fuori comincia ad accelerare il suo battito elettrico per un’ultima volta e la gente fa cose insensate: molti tentano di prelevare denaro contante ai bancomat, di fare il pieno di benzina alle automobili. Alcuni entrano nei supermercati dalle vetrate infrante per accaparrarsi acqua e cibo. Pochi, invece, escono dalla città usando la bicicletta e se ne vanno senza voltarsi, come vorrebbe fare in quel momento Cecilia. «Non vedi che la gente sta impazzendo? Potrebbero aggredirci» dice Marco, incrociando le braccia in un gesto che è insieme di paura e rifiuto. No, non ci aggredirebbero. Sono ciechi, nella loro paura. Non pensano a nulla tranne che a loro stessi. I più aggrappandosi al futuro che ormai è ato e pochi al presente, che da domani cambierà volto e diverrà l’unico tempo in cui potranno provare a vivere. «Facciamo così» dice Cecilia «apriamo le imposte e guardiamo quello che succede». «Ho paura». Il ginocchio di Marco ricomincia a battere veloce e il movimento riflesso pare seguire impulsi diversi da quelli inviati dal suo sistema nervoso. «Ne ho anch’io». «Tu sai cosa sta succedendo davvero?» «Certo che lo so. Un ragazzone di un metro e ottanta sta facendo i capricci e si perde il più grande spettacolo di tutti i tempi» sorride ancora Cecilia, con gli occhi lucidi per lo sforzo di non piangere. «Ti prego, dimmi cosa succederà domani». «Apriamo le imposte e lo vedrai». Marco tace e si alza dal letto avviandosi verso la finestra a piccoli i. Spostano l’armadio, scostano le tende. Cecilia mette la mano sulla maniglia della finestra, la ruota e apre. Improvvisamente i rumori si fanno più intensi, urtando le orecchie con suoni non più ovattati ma secchi: vetri calpestati, metallo che si
spezza. Poi apre gli scuri. Progressivamente il rosso del cielo cola nella stanza, appiattendo le ombre. «Guarda, Marco. Guarda che spettacolo». L'Arena, il monumento attorno al quale per oltre due millenni aveva orbitato la vita della città, pare in fiamme o pronta per il più sensazionale dei concerti. Le pietre bianche sono sferzate dalla luce emessa dall’aurora che si drappeggia da un lato all’altro dell’orizzonte, a nord; nel mezzo, tra il cielo e la terra, brulica l’umanità nel suo panico. Ovunque automobili accartocciate, accatastate le une sulle altre, autobus bloccati da altri autobus. La schiena del mondo si è spezzata e tutto è travolto da ciò che la paura fa fare alle persone. Movimento e stasi coesistono, annullandosi. In mezzo al caos Cecilia vede una bambina. Sta indicando alla madre le ombre rosse a forma di falce che danzano tra gli arcovoli dell’anfiteatro e salta come se volesse correre a toccare quelle mezzelune scarlatte. La mamma, immobile, le sta accanto. Poi si avvicina, si accovaccia tanto da diventare piccola anche lei e abbraccia la bimba, guardando quello che sarà l’ultimo giorno di infanzia per entrambe. Il cielo ora dilaga in un fulgore di nubi di plasma viola, verde, rosso e indaco che danzano, fondendosi in una tavolozza che l’occhio umano non è in grado di percepire completamente. Lampi di luce intersecano i colori mentre onnipresente, e sopra al frastuono del mondo impazzito, risuona il ronzio delle correnti statiche, in un turbinio di elettroni che spezza l’aria. «Dio mio, è la fine» balbetta Marco. «È la fine. Io non esco là fuori. Se devo morire, voglio restare qui». Cecilia, incantata, non riesce a staccare lo sguardo dalla bambina. Poi la piccola si divincola come un gatto, si sottrae all’abbraccio protettivo della madre e, in mezzo alla folla che si muove impazzita, comincia a girare su se stessa, come in una danza antica. Come se facendo così riuscisse ad annullare gli effetti di quell’enorme gioco sulla vita reale e a invocare quella forza che può superare ogni difficoltà. Cecilia scoppia a ridere e le lacrime che ha trattenuto fino a quel momento scivolano via insieme alla sua risata, che si accorda perfettamente al ronzio di quell’insolita aurora.
Quasi non si accorge di Marco, che la allontana bruscamente dalla finestra, sbarrando di nuovo le imposte e chiudendo le tende. La realtà torna silenziosa, opaca e buia. Marco è impietrito. Cecilia, al centro della stanza, comincia lentamente a girare su se stessa in senso antiorario. «Che fai, adesso?» sussurra lui. «Ti amo, non vedi? Amare è fare qualcosa». Marco la guarda. «Danzo con il mondo e inverto il moto degli elettroni» dice lei, continuando a girare e a sorridere. «A ogni giro rubo al pianeta un momento angolare. Rallento la sua rotazione in modo impercettibile, prolungo la notte, ritardo l’arrivo dell’alba. Sconfiggo la paura e mi regalo ancora un pochino di tempo in più. Qui, con te».
TANTE PICCOLE LUCI
Racconto di Maico Morellini
«Le batterie sono finite. Così come le celle fotovoltaiche e le barre a luminescenza. Dovrebbero arrivare domani alcune vecchie lanterne a gas. Ma non ci scommetterei». «Noi abbiamo bisogno di luce» protestò con un filo di voce, Anna. L’espressione dura del negoziante si ammorbidì un istante, prima di essere di nuovo coperta da un manto di cinico disinteresse. «Tutti hanno bisogno di luce. Anche io» rispose, freddo. Poi allungò il collo oltre il bancone scoprendo diverse cicatrici che si arrampicavano dal torace fin sotto le guance. «Si sta facendo buio. A meno che tu non possieda un carroluce, ti consiglio di andare» concluse voltandole le spalle. «No, non ho un carroluce». Anna restò qualche istante immobile, stretta nei suoi abiti bianchi, a fissare l’uomo. Raccolse la borsa e lasciò il negozio. Non riusciva a provare rabbia nei suoi confronti: faceva un mestiere difficile e ci voleva molto coraggio per continuare a lavorare. A volte i rifornimenti arrivavano con il buio ed era in una di quelle occasioni, probabilmente, che si era procurato tutte quelle cicatrici. Doveva essere distaccato ed era molto più utile alla comunità come cinico vivo che come altruista morto. Uscita in strada si accorse di quanto si era fatto tardi; via della Spiga era ormai deserta e nonostante tutti i palazzi che la incorniciavano fossero stati decapitati fino a lasciarli con un solo piano di altezza, già troppe ombre si addensavano nei vicoli. Sollevò il cappuccio, bianco come la giacca della tuta, e con o spedito si diresse verso Corso Venezia. Lì la strada era più larga e molti degli antichi palazzi un ricordo reso reale solo da basse montagne di macerie.
Milano non era più Milano da quando loro avevano ghermito la notte, o meglio, da quando avevano preso le ombre e il buio. In attesa che il governo o i militari avessero idea di come combattere i Profondi, e iniziassero a vincere qualche battaglia, a tutti gli altri non restava che lottare. Ecco il motivo per cui gli alti palazzi di Metanopoli avevano lasciato il posto a sventrati edifici poco più alti di un piano e mezzo, per la stessa ragione ampie aree della città erano state del tutto abbandonate dai cittadini. In un primo momento, quando ancora c’era la parvenza di un’istituzione e di un governo centralizzato, polizia e militari avevano tentato di bonificare la maggior parte dei quartieri distruggendo, spezzando, limando e abbassando ogni singolo edificio. Ma un po’ alla volta, i cittadini erano stati abbandonati e quelli che non erano spariti, si erano rifugiati nelle aree che godevano di un giorno più lungo, di una luce prolungata. Sorrise, ma di un sorriso carico di nostalgia. Via della Spiga, se la ricordava ancora bene, era stato il crocevia del lusso, della moda e di intrattenimenti molto costosi. Era buffo, se così si poteva dire, che adesso l’unico negozio ad animarla fosse dedicato alla vendita di pile, candele e torce. Il sole indebolito dal crepuscolo la avvolse scintillando sui suoi vestiti e per lei, come ogni volta che accadeva, fu come una rinascita. Non indugiò più di qualche secondo su Corso Venezia: nessun bombardamento o nessun conflitto a fuoco avrebbe potuto ferirlo più profondamente di quanto avevano fatto i suoi stessi abitanti. Le faceva male ogni volta, osservare la sua città distrutta. Rassegnarsi e retrocedere, in attesa di qualche miglioramento, era stato il primo segno della sconfitta. Proseguì lungo via San Damiano, lasciandosi alle spalle il Quadrilatero della Moda, fino a raggiungere Corso Monforte. La vista della vecchia fermata della Metro la fece rabbrividire: i Profondi erano risaliti da lì, la prima volta. Scacciò quel pensiero che adesso, visto come stavano le cose, era inutile quanto la sabbia nel deserto. Ancora pochi minuti e sarebbe arrivata a casa, dai suoi figli. Dovevano resistere ancora una settimana, forse due, e poi di sicuro sarebbero arrivate le nuove lanterne a gas. Respirò a pieni polmoni l’aria della tarda primavera e pronunciò mentalmente una rapida preghiera: un altro inverno era ato e per i prossimi mesi avrebbero avuto tanta luce; notti brevi e giornate lunghe, lunghissime. Non si
poteva permettere di pensare a cosa sarebbe accaduto poi, ad autunno inoltrato. Una madre non poteva farlo perché quelle domande, e le inevitabili risposte, le sarebbero sfuggite dal cuore e i suoi due piccoli, senza nemmeno bisogno di chiedere, avrebbero capito. Superò via Conservatorio alla sua destra, ormai avvolta in un’ombra sempre più densa. Con la coda dell’occhio aveva visto qualcosa muoversi nell’ombra. Tornò indietro di qualche o e fu allora che la vide: una figura avvolta da abiti marroni ammassati come strati di pelle cotta dal sole. I contorni erano ovattati dalla stoffa e a parte un grosso zaino non riusciva a capire nulla della misteriosa sagoma. La seguì con lo sguardo mentre questa era intenta a frugare tra le macerie, e fu il rumore di ciottoli a confermarle che non si trattava di una visione. Si fermò. «Ehi?» disse, poca convinta. La sua voce rimbalzò nel vicolo in una dozzina di piccole eco. «Dico a te» ripeté, con più forza. Era tardi, il sole calava rapido e non era ancora arrivata a casa, dai suoi figli. Eppure il coraggio che ogni giorno la spingeva a uscire di casa in cerca di cibo e luce era lo stesso che in quel momento la spinse a inoltrarsi nel vicolo. Il coraggio che solo le madri possono e sanno avere. Abbandonare Corso Monforte la precipitò in un piccolo inferno freddo e oscuro. Il tocco del sole l’aveva lasciata sola, così come la sua dorata luminosità. Appoggiò la borsa, un tintinnio di metallo e vetro riecheggiò nel vicolo. Si chinò, rapida, ed estrasse due grosse torce elettriche: non era ancora il momento di accenderle, e forse non sarebbe stato necessario. Molte persone erano morte per un ‘forse’, persone più in gamba di lei, perciò era meglio essere preparati. La figura continuava a scavare tra le macerie e solo quando Anna fece qualche altro o nella sua direzione parve accorgersi di lei. Le mani si fermarono, il capo si piegò in avanti e la schiena si drizzò. Lenta, inclinò la testa di lato fino a quando due scuri occhiali da sole non fecero capolino da sopra la spalla. Anna fu sicura, di quella certezza illogica e irrazionale propria di tempi come quelli, di averne incrociato lo sguardo. Senza preavviso la figura lasciò cadere i cocci che teneva in mano e scavalcò le macerie per poi tuffarsi in un altro piccolo vicolo, alla sua sinistra.
«No, non andartene!» gridò questa volta Anna, abbandonando ogni sotterfugio. Partì all’inseguimento. Conosceva tutti i sopravvissuti e aveva imparato a capire quando qualcuno moriva, o veniva preso, prima ancora di accorgersi della sua assenza. Le grida, di notte, erano in grado di viaggiare per interi chilometri e portavano un messaggio di morte inequivocabile. Nel corso degli ultimi due anni, il numero di volti noti si era assottigliato sempre di più fino al punto da far diventare un evento raro l’incontro con qualcuno che non abitasse nel tuo stesso palazzo. Milano aveva imparato, suo malgrado, a essere molto pericolosa. Se la figura di stracci era forestiera, come poteva conoscere a quali pericoli andava in contro? E se davvero lo era, magari aveva notizie dalle città vicine. Forse sapeva persino se e chi governava ancora. Anna pensò, rapida, e decise di tuffarsi alle sue calcagna. Con pochi e decisi i superò il mucchio di macerie, ma prima di raggiungere il centro del vicolo fu costretta a bloccarsi. Un odore pungente la costrinse a fermarsi. Acqua, come provenisse da un’antica e dimenticata caverna. Odore di abisso, di luoghi remoti, ma senza la vitalità della salsedine: un olezzo del tutto privo di vita. Era la prima cosa che tutti avevano imparato sui Profondi, portavano con loro quell’odore. A due anni dalla loro comparsa, era divenuto anche l’odore della notte, del buio. Una morsa fredda, come un conato di vomito, le salì dallo stomaco e tentò di congelarla in quell’istante sperduto. Ma era una madre e poteva attingere da sorgenti di coraggio che nemmeno lei sospettava di avere. Si scrollò di dosso il gelo, ma le restò in gola l’amaro sapore di acqua putrida. Sputò per cercare di toglierselo dalla bocca e riprese a muoversi verso il vicolo in cui si era cacciata la misteriosa figura. Di nuovo, si bloccò. Tra le pareti scure e strette non c’era posto per la luce del sole e nemmeno quella dell’imminente crepuscolo sapeva farsi largo tra quelle spire di cemento. I Profondi erano già usciti dagli invisibili nascondigli che li occultavano durante il giorno. Ne vide due che si avvicinavano alla figura, come artigli di acquosa tenebra. Non ne percepì a pieno i contorni, ma sapeva come erano fatti; aveva
incrociato il loro volto orrendo quando ancora qualcuno cercava di spiegare cosa stava succedendo. Li aveva visti, dietro il velo incerto della censura televisiva, come prigionieri di una guerra che un tempo l’uomo credeva di poter almeno combattere. Pallidi e grigi, senza occhi e con una ferita sottile al posto della bocca. Enormi narici deformavano l’oblunga sfera che avevano al posto della testa, resa ancora più deforme da due ampolle cilindriche ai lati. Non ricordava di aver visto braccia, ma una serie di protuberanze cartilaginee che sbattevano come code di lucertola. Al posto delle gambe, mollicci muscoli fungevano da cingoli biologici. Nei Profondi che si trovava dinanzi, notò subito che qualcosa era cambiato. Le pareva di scorgere braccia ben definite, forse anche una mano. Senza dubbio, camminavano. Non eretti, questo no. Come curvi spettri deformi, incedevano ondeggiando. È tardi. Una voce risuonò dentro di lei. È tardi e tra poco sarà buio, ripeté come un allarme. Fece un profondo respiro, per assaporare ancora meglio l’odore corrotto dei suoi avversari, e come sospettava questo le diede ulteriore forza. Puntò le torce e premette l’interruttore. Due lame di luce tagliarono l’oscurità del vicolo e andarono a infrangersi contro i corpi grigi dei Profondi. Non reagirono come si aspettava, non reagirono nemmeno come ricordava. Sperava che, come i vampiri colpiti dalla luce diurna, iniziassero a urlare prima di ritirarsi di nuovo tra le ombre. Non fu così. Impiegarono alcuni secondi prima di percepire che una luce forte li stava colpendo e il loro corpo reagì prima del loro sistema nervoso. Vide macchie bianche comparire sulla pelle, come ombre di funghi infetti che danzavano insieme alle luce delle torce. E allora, ma solo allora, i Profondi se ne accorsero. La loro prima reazione fu rabbiosa. Artigliarono l’aria, inclinarono il capo e annusarono, in cerca del loro nemico. Ma poi il dolore, o qualsiasi sensazione la luce gli trasmettesse, li costrinse a ritirarsi, ad arretrare. «Non abbiamo molto tempo, devi muoverti!» gridò rivolta alla figura che ancora giaceva accasciata sulle ginocchia. «Dico a te!». Non vi fu reazione, quindi decise di correre un piccolo rischio dirottando un fascio di luce sul mucchio di vestiti.
Forse fu il bagliore o le parole d’incitamento, ma la misteriosa sagoma si scrollò, come svegliata dopo un brutto sogno. Si alzò e si guardò intorno, incredula e smarrita. Teneva stretta al petto una scatola di metallo, simile a quelle che si trovavano nelle banche quando ancora le banche avevano un senso. Lo zaino giaceva abbandonato ai suoi piedi e gli occhiali scuri non coprivano più il suo sguardo. Gli occhi, lucidi e terrorizzati, si aggrapparono al volto della donna e d’impulso l’uomo, una barba folta scura gli incorniciava lo sguardo allucinato, iniziò a correre verso di lei. «Presto, non siamo lontani dalla luce, seguimi!». Anna si voltò e iniziò a correre. Il pensiero dei suoi figli, e di cosa sarebbe successo loro senza di lei, iniziò a prendere un egoistico sopravvento. Corse. Sentiva alle sue spalle i i e il respiro affannato dell’uomo, ma non si voltò mai a controllare. Molti, durante le prime notte dei Profondi, avevano commesso l’errore di volersi assicurare quanto prossima fosse la morte e così facendo non avevano fatto altro che avvicinarla ancora di più, concedendosi a essa. Svoltò, immettendosi nel vicolo. La luce del primo crepuscolo, vagiti dell’ultimo sole, la accolse in un materno abbraccio. Ancora pochi metri e, finalmente, fu di nuovo in Corso Monforte. Prese fiato, spense le torce e finalmente ebbe la forza di rivolgersi all’uomo: «Adesso non abbiamo tempo per i convenevoli. Vieni con me, parleremo dopo».
Anna era fortunata. Il palazzo nel quale viveva, in Piazza Tricolore, era rimasto illeso. Dodici piani che svettavano su un cimitero di macerie e piante rampicanti, era molto popolato. Non tutti i piani, certo. Soprattutto i primi restavano disabitati perché troppo vicini alla notte, troppo vicini al buio delle strade senza luci. Ma dal terzo in poi, la sera, esplodevano girandole di colore: torce a fiamma, luci elettriche, impianti fotovoltaici improvvisati. Qualcuno, dopo le prime apparizioni dei Profondi, aveva consigliato di non aggrapparsi alle sorgenti luminose di notte perché queste avrebbero attirato l’attenzione delle misteriose creature: furono loro i primi a sparire; proprio quelli
che la notte giacevano immobili al buio, certi di non essere scoperti. «No, ha finito tutto. Forse, ma non ci conterei, arriverà qualcosa domani. Per quanto ne so, lui stesso domani potrebbe chiudere bottega. Va bene». Anna fece una breve pausa. «Sì sì, tutto a posto. Domani ti racconterò» e spense la piccola radiolina a corto raggio. Ogni sera, lei e i vicini, si aggiornavano su ciò che era accaduto durante il giorno. Era quella che chiamavano la riunione di condominio, di solito vi partecipava non appena Roberto e Chiara si erano addormentati. Proprio come quella sera. A differenza di tutte le altre notti, doveva sbrogliare un mistero. Uscì dalla sua camera e raggiunse il salotto dove l’uomo, incastrato in una delle due malconce poltrone, la stava aspettando. Non era più avvolto dal cumulo di vestiti che aveva indossato fino a poco prima e adesso sul volto restava dipinta solo una grande stanchezza. Stringeva ancora al petto, però, la cassetta di metallo. «Sei coraggiosa a ospitarmi qui. Con tutto quello che succede … fuori» per la prima volta parlò. Aveva una voce asciutta, come seccata dal sole, ma senza nessun accento particolare. Anna sorrise. «Ci vuole più coraggio a chiudersi in casa e affrontare tutto da soli» rispose. «E ci vuole un pazzo ad accettare l’ospitalità di qualcuno solo per fargli del male» concluse, sempre sorridendo. «È uno dei pochi miracoli che hanno compiuto i Profondi. Adesso la compagnia è diventata preziosa. Certo, i primi tempi in tanti hanno reagito con rabbia, con furia. Ma non adesso. Siamo rimasti in pochi, e con una sola certezza: non c’è più posto per la violenza, e tantomeno per la stupidità. Non credi?» L’uomo rispose con uno sguardo incerto e strinse ancora di più la scatola metallica. «Dunque» continuò Anna, «parliamo, vuoi?» «Alessandro». «Come?»
«Il mio nome, è Alessandro». «E io … » «Anna, lo so. Uno dei tuoi figli ti ha chiamata per nome» forse abbozzò quello che sembrava un sorriso, ma la barba lunga e selvatica ne nascondeva le labbra. «Che cosa facevi, là fuori? Volevi morire?» chiese, senza mezzi termini, la donna. L’uomo non rispose. «Non saresti il primo» riprese Anna, «e, temo, non sarai nemmeno l’ultimo. Tieni» gli disse porgendogli un bicchiere. «Cos’è?» «Qualcosa che dovrebbe scioglierti un po’ la lingua». Alessandro bevve in silenzio, assaporando il liquido ambrato. Sembrava aver perso l’abitudine per le cose normali della vita. Non era il solo, pensò Anna. Anche se lei non se lo poteva permettere, capiva anche troppo bene chi gettava la spugna. «Sono uno scrittore» cominciò l’uomo. «Ero. Voglio dire, ero uno scrittore. Adesso non credo abbia molta importanza». «E in quella cassetta di metallo tieni il tuo ultimo romanzo?» «Cosa?» abbassò gli occhi, come sorpreso da ciò che teneva in grembo. «No. Vorrei, ma no. Non è un romanzo. È il motivo per cui avevo deciso di morire». Anna gli girò intorno e poi si sedette sull’altra poltrona, senza dire una parola. L’uomo bevve ancora e fece un lungo, sofferto, respiro. «Sai quando le cose hanno iniziato ad andare male?» chiese Alessandro. «Quando abbiamo scoperto i Profondi. E quando sennò?» «Oh no, molto, molto prima» rispose con una punta di compiacimento, come se
fosse la domanda che si aspettava da una vita. «I Profondi sono solo la fine. L’inizio è stato la distorsione della responsabilità». Anna lo fissò, incuriosita. «Gli scrittori … noi scrittori, non ci siamo mai inventati niente. Film, videogiochi, racconti, romanzi. Il motore delle nostre storie era semplice: qualcuno sapeva, qualcuno aveva commesso qualche errore ma per sfuggire al peso della colpa fingeva. Fingeva di non sapere nulla. E per non cadere sotto la scure della responsabilità … condannava il mondo a morte» si fermò, come nel tentativo di raccogliere le idee. «Ed è così che stanno le cose, è così che è iniziata la fine. Quando il nostro egoismo ha avuto il sopravvento sulla logica, quando per ogni cosa abbiamo cercato di incolpare qualcuno, ecco che tutti hanno iniziato a nascondersi. Istituzioni, sanità, mercati. E la responsabilità è diventata un cancro». «I Profondi?» insisté Anna. Aveva l’impressione che il suo ruolo, quella sera, fosse quello di fare le domande giuste. Alessandro schiuse le mani e si appoggiò, lento, la scatola di metallo sulle ginocchia. Fece scivolare il coperchio di lato. Una folata di vento annegò il profumo di whisky: acqua scura, e morta. «Siamo sottovento questa sera» intervenne lei, «a volte capita, soprattutto quando si alza la brezza. La città, di notte, è loro. E questo odore ce lo ricorda. Cosa stavi dicendo?». Le mani tremanti dell’uomo frugavano all’interno dell’involucro metallico, rigirandosi tra le dita pezzi di carta, fotografie, ritagli. «Dicevo che tutto è successo esattamente come in un film di serie B». Sorrise e tutta la faccia questa volta si tese come cuoio indurito. «Ti rendi conto di quante cose smetteranno di avere senso? ‘Serie B’ già ora non significa più nulla. Tra qualche anno non ci ricorderemo nemmeno cosa voleva dire. Ma è così che funziona, no? Ci piace pensare che la vita sia come il crocevia di mille variabili sulle quali esercitare controllo quando invece noi non decidiamo proprio nulla. Guarda» allungò la mano e ò ad Anna una decina di fogli. La donna li prese e li guardò con attenzione. Erano vecchi articoli di giornale,
molti di riviste scientifiche. Le Scienze, Focus e anche stampe provenienti da siti internet. Tutte, nessuna esclusa, ruotavano intorno allo stesso argomento: il lago Vostok. Ricordava qualcosa a riguardo, forse perché Roberto era da sempre apionato di scienza o forse perché anche lui … No. Non poteva lasciare che i suoi pensieri andassero in quella direzione. Aveva promesso, a se stessa prima e ai suoi figli poi, che niente l’avrebbe allontanata da loro. Nemmeno i ricordi. Nemmeno la nostalgia. Nemmeno l’amore. «Il lago Vostok?» chiese, preferendo fosse lui a ragionare al posto suo. «Il lago Vostok» ripeté Alessandro, «una fonte inesauribile di idee per chi, come me, giocava con la fantasia. Ma non solo. Come puoi vedere da quegli articoli, al tempo ati inosservati, era un enorme lago ghiacciato al Polo Nord. Un enorme bacino la cui coltre gelida nascondeva un ecosistema del tutto inesplorato, inedito, sconosciuto. E pericoloso». «I Profondi, vengono da lì?» «E da dove sennò? Non è una coincidenza. A febbraio del 2012 i russi completarono la perforazione degli oltre tremila metri di ghiaccio. Nemmeno un anno dopo, ecco le prime sparizioni. Puoi vedere tu stessa» porse alla donna altri ritagli. Altri articoli. Altri pezzi di storia che per Anna appartenevano a un tempo antico per il quale, lo sapeva da tempo, non provava più alcun interesse. «È così che è successo» continuò Alessandro, «sapevano dal primo momento che qualcosa era sfuggito a quegli abissi senza nome e senza tempo. Ma per non dimostrarsi deboli agli occhi del mondo, per negarsi alla responsabilità, hanno fatto finta di non vedere. E quando li hanno catturati, quando sono riusciti a mettere le mani sui primi era ormai troppo tardi. Cambiano, rapidamente. Non hanno la nostra biologia. Per loro pochi mesi equivalgono a nostre intere generazioni. E si adattano in fretta. Hai visto tu stessa come sono diversi adesso. Io non ci volevo credere ma stasera …» si fermò, tremante. «Quante volte li hai visti, prima di oggi?» incalzò per non fargli perdere il filo. «Il fatto è che sfuggono a ogni legge naturale che conosciamo. Che conoscevamo». Continuò l’uomo «Sono cresciuti senza luce in un mondo di acqua e ghiaccio. E in poco tempo hanno conquistato la superficie nascondendo la loro esistenza, aspettando fino a quando a noi non sarebbe rimasta che la
sconfitta. O la parvenza di una lotta. Ho visto Milano, e le altre città sono ridotte allo stesso modo. Abbiamo distrutto le nostre case pensando di poter dividere con loro gli stessi spazi: a noi il giorno, ai Profondi la notte. Ma non è così, non dopo quello che ho scoperto». Anna non sapeva se scoppiare a ridere, se lasciarsi travolgere dal genuino e rassegnato terrore che permeava ogni parola di Alessandro, o se alzarsi per andare a dormire. Pronta, il giorno dopo, a procurarsi altre sorgenti di luce. E altro cibo. «Cosa hai scoperto?» si sentì chiedere, invece. Le mani del suo ospite iniziarono a tremare mentre, in quel gesto nevrotico che lo contraddistingueva, frugava ancora nella cassetta di metallo. Questa volta le allungò delle fotografie. Involontariamente anche le mani di Anna presero a tremare. Un’aura mistica avvolgeva lei e Alessandro; una complicità dettata dalla sinistra comunione che accomunava tutti gli uomini e le donne costretti a condividere il declino, forse inevitabile, della razza umana. Prese le fotografie e le guardò. Una dopo l’altra. Erano state scattate di notte e i lineamenti dei soggetti erano difficili da distinguere nel profondo crepuscolo che li circondava. Alberi. Piante. Una foresta, forse. E i Profondi, come non li aveva mai visti. Molto diversi da quelli mostrati al mondo qualche anno prima, in televisione. E anche molto diversi da quelli che aveva combattuto quella sera. Ma la cosa più sconvolgente era la dissacrante e oscena comunione che quelle creature, in ciascuna foto, avevano instaurato con gli antichi alleati dell’uomo, gli alberi. Sembravano, nella perversa imitazione di un amplesso, fondersi con le cortecce, i rami, le radici. «Dove …» balbettò Anna «… dove le hai scattate?» «Dove? Dovunque. La notte ci è preclusa, ed è questo che fanno di notte. Non è stato facile procurarsi una macchina fotografica, e ancora più difficile trovare qualcuno che mi aiutasse a sviluppare le foto fatte di notte. Ma alla fine ci sono riuscito». «Sì … ma dove?»
Per un lunghissimo istante i ruoli si invertirono. Adesso era Anna a essersi smarrita in un territorio ostile, dove le certezze venivano nuovamente messe in discussione. Dove la fragile sfera di consuetudine che si era costruita insieme ai figli rischiava di incrinarsi, di finire in frantumi. «A Nord. In Trentino la maggior parte. Nei pressi di Como le altre» «Cosa stanno facendo?» L’uomo sospirò prima di tuffarsi ancora nell’ambrata dimenticanza del bicchiere. Quando sollevò gli occhi dal calice, il suo viso era animato da ruvida determinazione. «L’unica cosa che possono fare per vincere definitivamente la guerra. Nessuno l’ha capito, o nessun ha voluto capirlo. Non sono riuscito a parlare con qualcuno del governo, o di quello che ne resta. Non ho incontrato altro, nel mio viaggio, che versioni di Milano in piccolo, o in grande. Parigi è più popolata, anche se da tempo non hanno più acqua corrente. Berlino è ridotta a un grande deserto di macerie e là i Profondi hanno iniziato a impadronirsi anche degli edifici rimasti intatti. Abbiamo gettato la spugna. Prima per evitare la responsabilità, poi perché era più facile lasciare che tutto scivolasse verso il … niente». «Cosa stanno facendo?» ripeté Anna. «Te l’ho già detto» un’ombra di rabbia increspò la fronte dell’uomo. «Ripetimelo». «Si adattano molto più in fretta di noi, e sono altrettanto intelligenti. La loro rapidità evolutiva è paragonabile a quella degli scarafaggi, ma recepiscono molto meglio gli stimoli ambientali. E nel loro mondo non c’era tecnologia, non c’era scienza, non c’era matematica. Ma solo la capacità di entrare in comunione con l’ambiente circostante. Per questo i primi erano così affini ai cefalopodi e con quelle strane ampolle ai lati della testa. Le usavano come sensori elettrici, allo stesso modo degli squali. Per questo alcuni di loro, adesso, hanno iniziato ad assomigliare alle piante. Ne hanno bisogno e le stanno cambiando». «Per fare cosa?» in una parte della mente di Anna iniziò a prendere forma una risposta. Insieme a essa una nuova, inaspettata, tranquillità.
«Per sconfiggere il loro vero nemico. Per superare l’ultimo ostacolo». «La luce» non era una domanda. Alessandro annuì. «Non sono un esperto ma ho avuto modo di guardare quegli alberi, dopo che i Profondi hanno iniziato a cambiarli. Sono spuntate sacche di spore, nere come la pece e sottili come il polline. A centinaia, a migliaia e la cosa più sorprendente è che sembrano vive. Le ho viste volare, di giorno, e muoversi seguendo una volontà di qualche tipo. Vogliono oscurare il cielo. Vogliono toglierci la luce del sole. È l’unica mutazione che non sono ancora in grado di compiere ed è l’unica cosa che ancora ci protegge. Quando riusciranno nel loro piano, l’apocalisse sarà compiuta» concluse prima di ripiombare, scuro in volto, tra i braccioli della poltrona. Anna aveva ascoltato tutto, parola per parola. Un terrore senza nome si era impadronita di lei, ma era durato pochissimi istanti. Capiva la ferrea logica di ciò che le aveva spiegato Alessandro, ma semplicemente non le importava. «Per questo volevi morire? Per non vedere il giorno cadere nelle loro mani? Per non vederli sconfiggere la luce?» L’uomo non rispose ma abbassò lo sguardo, in una muta ammissione di colpevolezza. «Vieni con me». Anna si alzò e gli tese la mano destra. Lui, incerto, ricambiò la presa abbandonando la scatola di metallo sulla poltrona. Camminarono, in silenzio, verso la camera di Roberto e Chiara e, senza fare rumore. Anna socchiuse la porta. «Li vedi?» «Sì» rispose lui, in un sussurro. «È notte. E stanno dormendo. Quando i Profondi uscirono per la prima volta allo scoperto, pensavo che non avrei mai più chiuso occhio dopo il tramonto. Eppure anche io, adesso, riesco a dormire. E come tutti quelli che abitano questo palazzo. E quello vicino a questo» chiuse la porta e lo accompagnò sul balcone illuminato.
L’odore di acqua stagnante si fece più forte. «La vedi?» indicò Milano, avvolta in un’oscurità profonda. «E lì, riesci a vedere dove dormono gli umani?» puntò il dito verso piccole macchie di luce. Altre case. Altre persone. Alessandro chinò il capo, e iniziò a piangere sommessamente. «L’apocalisse può aspettare ancora, almeno fino a domani. E quando verrà, troveremo il modo di accendere tante piccole luci».
SORRISO DI POLISTIROLO
Racconto di Samantha Baldin
«Non ti è piaciuta, Rob?» Per quanto Elena ridesse cercando di coinvolgere l’amico Robert, lui rimaneva ovviamente imibile. Il manichino più algido e inespressivo che avesse mai frequentato. Assicurato con la cintura al sedile del eggero, Rob la fissava con lo sguardo da pazzo che odorava ancora di vernice. Forse, disegnargli gli occhi non era stata una buona idea. «Era la mia barzelletta migliore e tu non ridi?» sbuffò. Lo guardò di sfuggita. «Figurati, lo sapevo». Fece spallucce. «Io cerco di stare su con il morale e tu nemmeno collabori». Iniziò a rallentare. Scalò la marcia, l’incrocio era vicino. L’unica nota positiva, dell’attuale situazione, era l’assenza del traffico. Il negozio d’abbigliamento sull’angolo attirò la sua attenzione. I manichini, nudi come statue di sale deformi, manifestavano l’amara fine della civiltà. «Faccio shopping. Aspettami qui». Arrestò la jeep. Lasciò il motore , la marcia in folle. Scese lentamente, la mano sulla Beretta che spuntava dalla cintura. La via sembrava il set di un film senza comparse, lei l’unica attrice. Un tempo avrebbe gioito per un ruolo simile, oggi le sembrava una condanna. «Come cambiano le priorità». Si avviò lungo il marciapiede chiazzato di sangue. I i attutiti dalle suole di gomma si udivano comunque. Le auto parcheggiate erano state saccheggiate degli interni, dei motori, delle lamiere. Le gomme puzzavano di bruciato. Sfiorò con la gamba lo scheletro di una vecchia Punto.
Le vetrine del negozio erano sempre più vicine. Calpestò il cartello con la scritta “Buon Natale”. Poco male, era anche crivellato di proiettili. I manichini erano quasi tutti danneggiati, braccia e gambe spaccati e busti squarciati come avessero subito una tortura medioevale. Tutti tranne uno. «Guarda un po’. Un superstite, come me». Lo osservò meglio: occhi grandi, bocca sorridente, mascella pronunciata. «Perfetto!» Entrò nella vetrina con i felpati, i numerosi frammenti scricchiolarono lo stesso. Afferrò la testa del mascellone, la svitò. Sapeva di affumicato, forse il polistirolo aveva assorbito i fumi del ato. Pazienza, era troppo bella per rinunciarci. Tornò alla jeep, più in fretta che poté. Guardò Rob con occhio critico. Era stata la sua prima testa, è vero, però il trucco agli occhi e il rossetto erano stati davvero una cavolata. E poi era troppo serio. «Scusa, ma non hai il senso dell’umorismo». Sostituì la testa del vecchio Rob con quella del nuovo Rob. «Ecco, ora va meglio. Ti mancano sempre i capelli, però. Prima o poi vedrò come aiutarti». Risalì sulla jeep. Ingranò la prima e tolse il freno a mano. Partì con la consapevolezza di una varietà di odori estranei in auto. Ferro, catrame e sudore.
Uscita dalla città, Elena accese lo stereo. Alzò il volume. «I am watching the rise and fall of my salvation. There's so much much shit around me. Such a lack of comion …» canticchiò. «Erano bravi i Korn, peccato siano schiattati tutti. Non credi, Rob?» Accelerò. «Devo sbrigarmi. Tra poco farà buio. È pericoloso restare fuori di
questi tempi col buio, sai Rob?» Frenò di colpo. Lanciò un rapido sguardo allo specchietto retrovisore. La coperta che teneva nel sedile posteriore si era spostata. Notò una ciocca nera. Sorrise. «Soprattutto per i bambini curiosi». Si morse il labbro. «It’s dangerous for the children». La coperta si mosse. La ciocca cercò di ritrarsi. «Ah! Abbiamo un piccolo ospite a bordo. Mi era sembrato di udire i suoi ettini, mentre ti procuravo la testa nuova». Accelerò e frenò di colpo, ancora e con più vigore. Si udì un sussulto. L’ospite si mosse. Dalla coperta fuoriuscì una manina sporca con le unghie nere che cercava appiglio nel sedile. Un piedino nudo, che sembrava indossare un calzino lercio, poggiò contro il vetro del finestrino. Elena spense il motore. Uscì lasciando la portiera aperta. Afferrò la pistola per sicurezza e aprì la portiera posteriore puntando la coperta, ossia ciò che nascondeva. «Ok, fuori! Out of my car!» La manina si ritrasse. Elena rise. «T’ho visto». Caricò il colpo in canna. «Out or I’ll shoot you!» La manina afferrò un lembo della coperta. Fece capolino una testolina nera con i capelli sporchi e arruffati. Sollevò il volto magro. Il taglio degli occhi un po’ allungato sull’esterno e il nasino schiacciato lasciarono supporre fosse orientale. «Bel bimbo, scendi dalla mia auto. Dai». Scosse la pistola un paio di volte per indicargli la strada. «Out of my car!» Il bimbo strisciò lungo il sedile. Arrivato sul bordo, fece un salto e restò fermo. Iniziò a fissarla. Elena ondeggiò la canna della pistola per fargli capire di allontanarsi dal suo
mezzo. I piedini mossero pochi metri, le gambette magre fuoriuscivano da una veste scura e lacera. Sembrava più la maglia di un adulto. Il corpicino raccontava di un lungo periodo di fame e avversità. Tra le mani stringeva un puffo scolorito, il blu si notava appena ormai e il cappello era annerito del tutto. Elena alzò un sopracciglio. «Vita dura, eh?» Lo scheletrino la guardava impalato, con occhi lucidi. Portò un dito alla bocca. «Mi dispiace, davvero. I am so sorry, but I can’t help you». Elena indietreggiò con la pistola ferma sul bimbo. Richiuse la portiera posteriore. Strisciò lungo la carrozzeria, poi entrò in auto. Chiuse la portiera. Il bimbo la osservò senza proferire parola, senza muoversi. «Non posso portarti con me. Good luck!» gli disse scuotendo il capo. «Non posso davvero» sussurrò con un profondo respiro. Girò la chiave. Partì. Il bimbo indietreggiò e la seguì con lo sguardo. Elena osservò lo specchietto retrovisore, la sagoma già piccina stava diventando minuscola. «Devo resistere, non posso farmi commuovere…»
Yakko guardava la grossa auto che si allontanava. Quella giovane donna all’apparenza tanto simpatica, che parlava con un manichino come lei parlava con il suo puffo, l’aveva lasciata sola. Yakko aveva capito poco delle frasi che le erano state dette, ma dal tono aveva compreso che non la voleva tra i piedi. Parlava poco di tante lingue e nessuna bene. Non aveva una lingua madre visto che non ne aveva avuta una.
Il tuo nome è Yakko, le era stato detto in una lingua chiamata Giapponese, ma il Giappone non c’era più. Cancellato dalla mappa del mondo come un inutile extra. Ti ho trovata nella spazzatura, le era stato detto in Inglese, ma l’Inghilterra era sprofondata. Come una barca bucata, era stata risucchiata dal mare. Ti tengo io per un po’, in se. Mi dispiace, in Spagnolo. E Scusa e Arrangiati, in due lingue nordiche di cui non ricordava il nome. Tutti posti dove la gente non era felice e per questo fuggivano. Così le avevano spiegato. Sei tanto dolce, ma ho già un figlio, in Italiano come quest’ultima che le aveva detto la donna simpatica che le risuonava ancora nella mente: Non posso portarti con me. Yakko rappresentava un peso per chiunque. Lo sapeva, glielo avevano fatto capire in più di un’occasione. Era solo una bambina, in fondo. Mentre l’auto diventava sempre più piccola, Yakko si sentì nuovamente sola. Chinò il capo e si accucciò. Strinse il suo puffo e pianse. Le lacrime le bruciarono le guance, altri graffi da aggiungere. D’improvviso sentì una brusca frenata. Si alzò di scatto. La jeep si era fermata. Il cuore iniziò a batterle veloce. “Yeee”, pensò. “La donna sympa ha change idea”. Corse veloce verso la jeep che intanto stava indietreggiando piano. Correva e sorrideva. “Non sono più alone”. Yakko andò vicino alla portiera. Toccò il freddo metallo, che ancora vibrava. La donna sympa le fece cenno di allontanarsi. Yakko indietreggiò piano.
Poi, scese dall’auto e andò dietro, aprì il baule. Prese un aggeggio con delle lucette e glielo puntò addosso. Faceva anche uno strano rumore, come tante cicale che cercavano di andare a ritmo. «Tranquilla, devo solo controllare se sei radioattiva. Don’t worry. It’s Ok!». Le sorrise. Era graziosa adesso che sorrideva. Aveva grandi occhi marroni, sembravano sinceri anche se erano tanto tristi. Forse era contenta perché quello strano apparecchio le aveva detto che stava bene. Yakko sorrise. «Mi capisci allora? Bene». «Yakko!» esclamò contenta. La donna rise. «Sì, sono yakko anch’io per te». Yakko inclinò la testa. Non aveva capito, ma era contenta lo stesso. «Adesso devo solo perquisirti, devo toccarti. Mi capisci? Non ti farò male. I need to see you. Don’t worry. Ok?» Le si avvicinò piano con le mani aperte. Yakko rimase perplessa all’inizio, poi comprese. Il suo tocco era gentile e caldo. Le sfiorò le braccia, le gambe, il petto e la schiena. Dopo una rapida occhiata ai capelli, sospirò. Alla fine, le fece una carezza in volto. «Tranquillo, è tutto a posto. Gli altri non saranno d’accordo. Il dottore mi farà la predica in un modo che nemmeno immagini, ma ti porto via con me lo stesso. Verrai via con me? Do you com-» Yakko le portò le braccia al collo in lacrime interrompendola. «Va tutto bene, calmo». In braccio a quella donna, Yakko si sentì protetta. Al sicuro. Odorava di rosa, era bella come una rosa.
La stanchezza l’invase d’improvviso. Erano giorni che vagava disperata, ora aveva una nuova amica. Lo sentiva, lo sapeva. La donna la mise sul sedile posteriore, la coprì con la coperta e l’assicurò con la cintura. «Riposati, dormi un po’». Yakko annuì. L’auto era partita da poco quando cadde in un profondo sonno denso di brutti ricordi. Volti irrigiditi e pallidi, insanguinati e deformati da quelle terribili grida che Yakko non riusciva a togliersi dalla mente. E il fuoco che divorava tutto. Sempre.
Quando si svegliò, Yakko era sudata e da sola. La jeep era ferma e la donna non c’era. Osservò fuori del finestrino. C’era una grossa casa di mattoni rossi. Nel cortile c’era tanta gente intorno al fuoco. Tanti ragazzi più grandi di lei giocavano. Erano tutti allegri. Non come l’ultimo posto dove era stata. Dopo un po’ la donna sympa tornò. La salutò dal finestrino, poi aprì la porta. «Ben svegliato. Sei tra amici, tranquillo». Non era sola, c’era un uomo alto e robusto con un camice bianco aperto. Sotto una maglietta e dei jeans. La fissava mentre si massaggiava la lunga barba. «Cosa siamo ora, un ente di beneficenza? Abbiamo poco cibo, pochi farmaci, pochi …» «Lo so» lo interruppe la donna. «La parola chiave è poco! Lo so. Non potevo lasciarlo da solo. Non ce l’ho fatta». L’uomo barbuto sbuffò. «Va bene, lo porto dentro». «Dici davvero? Tutto qui? Non mi fai il predicozzo dell’ultima volta?»
«Tanto è inutile. Raccatti gente, bestie e manichini appena esci». Sospirò. «Gli faccio una bella visita, prima che sia portatore di qualche nuovo virus. O peggio». L’uomo fece per prenderla, ma a Yakko non piaceva l’idea. Scosse il capo, indietreggiò. Quando sentì quelle manone addosso, gridò. La donna e l’uomo barbuto si scambiarono uno sguardo veloce. Poi, l’osservarono con gli occhi sgranati. «Ah, questa poi. Sei una bimba!» le disse la donna. «La marmocchia non apprezza la mia barba. Acchiappala e portamela dentro». La donna annuì. La prese in braccio. Yakko le sorrise, si accoccolò sospirando. «Scusami. Mi dici qual è il tuo nome?» le disse mentre si avviava dentro la casa. «Io mi chiamo Elena e tu? I am Elena, your name?» «Watashiwa Yakko!» «Ah, ecco. Watta qualcosa. Ti chiamerò Watta, è più semplice. Bene, è un piacere» le sorrise. Yakko sbuffò. Si toccò il petto. «Yak-ko!» «È questo il tuo nome, Yakko? Ma finisce con la o. Non è per femminucce». «E-le-na» sorrise. «Yakko friend. Amico. Amigos». Elena sorrise e annuì. «Sì! Siamo amici». Inclinò la testa. «Quante lingue parli? Sembri orientale, dove sei nata?» Yakko fece spallucce. «Be’. Fa nulla. Ora sei con me. Sei al sicuro». «Tu buona. Tu sympa». Arrivarono dal dottore. La stanza aveva molte righe sui muri, i segni dei mobili precedenti. L’intonaco era scrostato in alcuni punti e c’era odore di muffa.
L’unica finestra dava in un cortile, ma il sole non entrava. Faceva fresco. Yakko rabbrividì. «Hai freddo?» Il dottore chiuse la finestra. Il tavolo era pieno di carte e oggetti argentati. La misero a sedere su un lettino. «Ora ti visito».
Elena rimase per tutta la lunga e approfondita visita del dottore. Yakko s’era divertita a tirargli la barba più volte. «Bene, la bimba è sana anche se è a uno stadio di malnutrizione elevato. Presenta numerose ferite, ma nulla di grave o infetto. Le analisi del sangue saranno pronte domani». «Quanti anni avrà, secondo te?» «Cinque, sei. È figlia dei superstiti, è nata dopo. Forse appartiene alla prima generazione della nuova era. Mi chiedo se ce ne siano altri. Chissà». «I nuovi nati non sono tutti deformi?» «Così si dice in giro, ma se ne dicono di sciocchezze. C’è anche chi …» Elena starnutì. Prese un fazzoletto e si soffiò il naso. «Scusa». «Non buscarti il raffreddore, mi raccomando». «Sarebbe un guaio» scherzò. «Cosa dicevi?» «Nulla d’importante. Senti, prendi la piccola e andate a mangiare. Riposatevi un po’. Tienila vicino a te. Domani la facciamo vedere in giro, magari è la figlia di qualcuno nei campi profughi vicini. Manderò un messaggio radio». «Bene» esclamò Elena prendendo la bimba in braccio. «A proposito, s’è saputo qualcosa del gruppo di Carlo?»
Il dottore scosse il capo. «Michele ha preso sei uomini e sono partiti stamattina per andare a vedere che è successo. Ci faranno sapere presto». Elena annuì. Si avviò con Yakko. Fecero un bagno caldo e mangiarono. A tavola Elena starnutì più volte. «Caspita, che abbia davvero preso il raffreddore? Mi sembra assurdo». La bambina l’accarezzò in volto. «Elena bella!» «Grazie, anche Yakko è bella». La bambina annuì. «Yakko no unta, Yakko buona». Elena rimase perplessa. «Unta? Perché, unta? Vabbé forse volevi dire altro. Parli un mix di lingue strano. Adesso è tardi, andiamo a dormire». Congiunse le mani e le mise vicino al volto. «Sonno … dormire …» Yakko annuì.
Era ancora notte, quando il dottore la svegliò. «Che succede?» Lui portò un dito alla bocca. Poi le fece cenno di seguirla. Si appartarono, Yakko dormiva profondamente. «Michele ha chiamato» sospirò con gli occhi lucidi. «Sono tutti morti. Dice che hanno trovato cadaveri ovunque. Non ci sono superstiti». Elena soffocò il pianto. Si accasciò. «Cinquantadue persone». Strinse i pugni. «Tutti morti» deglutì a fatica. «Com’è possibile? Sono stati attaccati? Cos’è successo?» Il dottore le si accucciò vicino, si sedettero in terra.
«Michele s’è fermato per cercare di capire. Anche se un’idea ce la siamo già fatta. Vedi, non ci sono segni di scontri. La struttura è integra. Nelle stanze ci sono i vestiti, le scorte di cibo e le armi sono intatte». Accese una sigaretta, la mano gli tremava. «L’infermeria era la zona con più corpi. Anche i corridoi vicini sono pieni. Capisci cosa vuol dire?» Elena lo guardò preoccupata. «Abbiamo trovato il vaccino quattro anni fa. Non è possibile». «Eppure sembra siano stati colpiti da un’epidemia. Un nuovo virus di cui non sappiamo, forse. Oppure il vecchio bastardo è mutato in qualche modo». Aspirò forte, il fumo gli uscì dalle narici. «Una cosa è certa, per questo la cura non l’abbiamo ancora. Altrimenti il dottor Ravasio li avrebbe salvati». «Perché non ci hanno avvisati?» «Non c’è stato il tempo, credo». «Così rapido?» Elena scosse il capo. «Nemmeno il bastardo era così veloce». Si alzò di scatto. «Oh, mio Dio! Che ne sarà di Michele e gli altri? Se è così veloce, allora…» «Non torneranno, non li vedremo più». Il dottore si alzò. Gettò a terra la sigaretta. «Ora devo svegliare la moglie e dirle tutto. Poi devo dare la notizia anche agli altri» si strofinò la fronte. «Devo…» barcollò. Elena gli strinse le spalle. Si guardarono con occhi lucidi. «Siamo rimasti così in pochi» continuò il dottore tra i singhiozzi. «Nemmeno il tempo di risollevarci. Sembra che il pianeta non ci voglia più». Si asciugò le lacrime. «E che Dio sia in vacanza! In fondo lo capisco anche, ne abbiamo fatte di stronzate. Forse, ce lo meritiamo». «Non dire così, Luca». Elena scosse il capo. «Dobbiamo farci forza. In qualche modo ce la faremo». Starnutì ancora, il camice del dottore si chiazzò di sangue. Si toccò il naso con l’indice e il pollice. «Fa vedere!» Luca le afferrò la mano. La fissò in silenzio alcuni istanti. «Viene dalla città dunque. Siamo già tutti infetti. È inutile sperare. Siamo fottuti».
«L’ho portata io. È colpa mia» singhiozzò Elena. «Non direi, vista la fine degli altri». Si bloccò di colpo fissando il vuoto. «Non può essere» sospirò. «Io pensavo si trattasse di una superstizione. E se invece non lo fosse?» «Di che parli?» «Degli untori». Elena alzò un sopracciglio. «Quelli del Manzoni? Quegli untori?» «Il concetto è quello. Sì!» Yakko fece capolino dalla coscia di Elena facendoli sussultare. «Piccola, da quanto sei qui?» Elena la prese in braccio, Yakko le sorrise e le accarezzò la guancia.
Il dottor Luca deglutì. Nell’osservare la bimba comprese di essere un ospite della Terra ormai sgradito. Un uomo putrescente in agonia. Un illuso. Sopravvissuto solo per osservare i nuovi figli del Dio in vacanza. La nuova generazione partorita dagli scarti era sorta, in silenzio, e li stava sterminando con il volto dell’innocenza. Mentre loro arrancavano tra le macerie del mondo che avevano maltrattato, quello stesso mondo aveva trovato il modo di buttare fuori gli ospiti maleducati. Luca sentì spegnersi la scintilla della speranza. «È peggio del Manzoni, Elena». Accarezzò i capelli di Yakko. «I nuovi untori sono portatori inconsapevoli di un virus che uccide solo noi. Noi che siamo sopravvissuti. Noi che siamo stati gli artefici dei nostri mali». Elena sgranò gli occhi. Sospirò. «Li ha uccisi lei? Senza fare nulla, semplicemente esistendo?» Il dottore annuì. «Non possiamo fare altro che morire».
Elena strinse Yakko. «Ma…» Luca scosse il capo. «Accettalo e muori con serenità». «Quanto ci resta, secondo te?» «Un giorno, forse. Non so. Io qualche ora in più, credo». Elena annuì. «Yakko parla un po’ di tante lingue, sai. È come se fosse la figlia della nuova Babele, forse un giorno ne avranno una tutta loro». «Chissà». Luca le mise una mano sulla spalla. La guardò serio. «Devi portarla via, domani mattina inizieranno a stare tutti male, me compreso. Non ci vorrà molto per trarre le conclusioni. Non reagiranno tutti come noi. Appena capiranno, la faranno a pezzi». Serrò la mascella. «La cosa peggiore che mi possa capitare prima di morire, è vedere una bimba innocente massacrata. Voglio andarmene sereno». «Tu non vieni?» «No, è meglio se rimango. Inventerò qualcosa». Fece spallucce. «Almeno non vi verranno dietro. Andate il più lontano possibile». Abbassò il capo. «Fin dove riuscirai, intendo. La mia vecchia casa potrebbe essere un buon posto». Elena annuì, si morse il labbro. Luca le sfiorò le lacrime sulle guance. Sospirò. «È un addio, allora. Non ti rivedrò più?». Abbassò il capo. Luca le si avvicinò. Elena poggiò Yakko a terra. La strinse forte. Si unì a Elena in un lungo bacio sofferto. «Addio».
Yakko chinò la testa, imbarazzata. Elena e il dottore si volevano bene, un po’ l’aveva capito anche prima. Non aveva capito invece quello che avevano detto. Però quella parola, untore, non le piaceva. Anzi, la odiava. Quando qualcuno la diceva, poi se la prendeva con lei.
Yakko si guardò le mani, erano umide. La sua amica era tanto sudata, e calda. Chissà perché? Forse non stava bene. Il dottore piangeva, le lacrime andavano a nascondersi nella barba. Quando si lasciarono, lui le si avvicinò. Le accarezzò la testa e le sorrise. Yakko annuì e ricambiò come una bambina educata. Se dimostrava di essere buona, forse non succedeva come con gli altri. Gli altri che l’avevano picchiata dicendole che era colpa sua se stavano tutti male. «Yakko buona» disse al dottore. «No unta!» «Sì, Yakko buona». Il dottore s’accucciò. Ora che lo vedeva da vicino, non sembrava poi tanto vecchio. «Adesso andrai via con Elena, va bene? In silenzio, capito?» Si portò l’indice alla bocca. Yakko lo imitò. «Silenzio». «Brava bambina». Si alzò. «Elena, tra cinque minuti alla tua jeep. Ti porto io qualcosa per il viaggio». Elena annuì. Prese Yakko in braccio e la portò alla macchina. Non svegliarono nessuno. In molti dormivano anche nel cortile, a una decina di metri dall’auto. Quando mise Yakko sul sedile posteriore, le disse di stare buona e in silenzio, lei sarebbe tornata subito. Yakko vide Elena barcollare un momento, fermarsi e riprendere fiato. Poi si avviò. Osservò il manichino Rob, era sempre lì davanti. Cominciava a essergli simpatico anche lui. Elena e il dottore s’incontrarono ancora nei pressi del baule. Misero dentro dei sacchetti e un paio di scatole di cartone.
Poi Elena entrò nell’auto, ma non accese nulla. Abbassò solo una leva tra i due sedili e ne smosse un’altra che sporgeva. L’auto sussultò come se avesse il singhiozzo. Anche Yakko sussultò, ma Elena nuovamente le fece il segno di tacere. Poi uscì e con il dottore iniziarono a spingere l’auto, lei a sinistra con la mano sul volante, lui a destra vicino a Rob. Arrivarono vicino al recinto, sempre in silenzio. Yakko non se lo ricordava, aveva dormito tutto il tempo la prima volta. Un uomo con il fucile li fermò. Sorrideva, non sembrava cattivo. Il dottore gli andò incontro e parlarono, anzi lui parlava l’altro annuiva a basta. Tornò all’auto. Ripresero a spingere. Anche quello nuovo diede una mano, ma solo per un tratto, poi tornò vicino alla scala e ci salì sopra. Scomparve nel buio. Quando le luci del campo furono lontane, la jeep si fermò. Yakko vide ancora il dottore che baciava Elena, si stringevano e piangevano. Erano tanto teneri. Però non capiva perché fossero tanto tristi. Forse stavano partendo per un luogo lontano e al dottore spiaceva perché invece doveva restare lì. Elena salì in auto, chiuse la portiera. Infilò la chiave vicino al volante, la girò e tutto si accese. L’auto vibrava. Smosse ancora delle leve e partirono. Yakko applaudì. Il silenzio era finito. Elena però non sembrava felice, piangeva. Tanto. Osservava il piccolo specchio dove c’era il riflesso del dottore e si mordeva il labbro. Yakko si girò. Lo vide inginocchiarsi e sbattere i pugni in terra. Provò un’immensa tristezza. Rimase in silenzio, non aveva più voglia di applaudire.
Viaggiarono a lungo, e a grande velocità.
Elena le parlava, le spiegava tante cose. Cose che Yakko faticava a comprendere, ma la sua amica le aveva anche detto di tenerle a mente e che avrebbe capito con il tempo. Yakko si fidava di Elena. Memorizzò le frasi. Mentre le ripeteva, il cuore le batteva forte, sentiva che erano importanti. Yakko vide il sole sorgere, timido s’affacciò dietro le montagne all’orizzonte. Il sole era alto in cielo e caldo, quando iniziarono una lunghissima salita piena di curve. A Yakko ronzavano le orecchie. Si fermarono una volta sola. Elena aveva messo del liquido nero nell’auto. Diceva che era il cibo per la macchina. Ma anche lei sentiva un vuoto al pancino. «Anche Yakko vuole cibo come auto» le disse. Elena le diede del pane e della carne secca. Ma Yakko mangiò sola, mentre ripresero a salire. Il sole scivolava dietro la grande montagna alle loro spalle, quando Elena cominciò a tossire forte. Per un po’ sostarono. Elena, dopo l’ennesimo colpo di tosse, si guardò le mani. Tremò. Le ò veloci sulle gambe, il blu del jeans si striò di rosso. Si asciugò la fronte con la manica della giacca, la maglietta che portava sotto le era appiccicata addosso da tanto che era sudata. Elena sospirò, poi riprese a guidare. Yakko si spostò in avanti, le poggiò la mano sulla spalla. La rosa stava apendo, Yakko sapeva che quei fiori vivevano poco. Ecco perché erano tanto belli. Erano preziosi. «Rimettiti seduta bene». Yakko sbuffò. Avrebbe voluto sedere davanti così poteva tenerle la mano, ma c’era Rob.
Quando il sole e la luna erano in cielo insieme, Elena uscì dalla strada tuttacurve e prese un sentiero che portava nel bosco. Qui non si ondeggiava più a destra e a sinistra, ma si saltellava. Dopo un po’ la strada scomparve, i rami delle piante iniziarono a schiaffeggiare le fiancate della jeep. Elena accese i fari e d’improvviso tutta la luce fu solo davanti, dal finestrino Yakko non vedeva più nulla. La luna era limpida e piena, quando Elena frenò. I fari erano fissi sulla porta sprangata di una casa di sassi. Grosse assi bloccavano anche le finestre. Elena aderì al sedile come se dovesse indossarlo, sembrava stanchissima. Yakko uscì dall’auto e andò ad aprirle la portiera. «Siamo a casa di dottore, sì?» L’aria era molto fresca e sapeva di buono, non come in tutti i posti dov’era stata prima. «Sì! Qui è dove abitava il dottore tanti anni fa. Dobbiamo portare dentro la casa tutte le cose che sono nel baule» le disse a fatica mentre scendeva dall’auto. Elena aprì il baule, prese un lungo bastone di ferro. Andò ad aprire la porta facendo leva sull’asse. Poi prese dalla tasca una chiave e l’aprì. Yakko si diede un gran bel da fare con i sacchetti. Voleva dimostrare alla sua amica di non esserle di peso. Dentro era molto accogliente anche se tutto era impolverato e i mobili coperti con dei teli. Yakko portò i sacchetti in cucina, come le aveva detto Elena. Aveva già visto altre case disabitate, si domandava sempre come fossero prima. Anche lì c’erano tante foto con volti sorridenti. In una c’era il dottore con una donna e una bambina. Ma era tanto vecchia, il dottore non aveva la barba ed era più bello. Elena le aveva detto che era rimasto solo. «Triste io, che dottore away» borbottò. Magari lei e la sua amica sarebbero rimaste lì a vivere e lui sarebbe andato a trovarle. Ogni tanto.
D’improvviso, Yakko sentì un tonfo. Sussultò per lo spavento. Corse in giro in cerca dell’amica. La trovò sotto il portico stesa in terra. Vicino a lei c’era il manichino Rob. Lo stava portando in casa quand’era caduta. Yakko la soccorse. Le sollevò la testa. «Elena, Elena» la chiamò preoccupata. La sua amica aveva la bocca aperta e sporca di sangue. C’era del sangue anche in terra. «Non mi sento molto bene» le rispose con occhi gonfi di lacrime. «Yakko, ascoltami» alzò il braccio e l’accarezzò. «Devi restare qui, in questa casa. Hai capito?» «Sì! Yakko resta a casa». «Non devi parlare con nessuno, non devi farti vedere da nessuno. Nessun adulto. È importante! Solo bambini come te». Elena tremò. Strinse gli occhi. Strinse la mascella. I pugni. Poi spalancò gli occhi e respirò forte. Tossì altro sangue che le si riversò ai lati della bocca. Sembrava il vecchio Rob, ma a Yakko non veniva da ridere. «Elena malata, Yakko cura» fece per sollevarla. Voleva portare la sua amica in casa. «Non c’è tempo. Sto morendo, piccola. Tra poco resterai sola, ma devi essere coraggiosa». Yakko scosse il capo. «No, Elena bene. Yakko cura». «Rob! Robert, aprigli la pancia» tossì ancora. Yakko si avvicinò al manichino. Notò che il busto aveva una fessura rettangolare, infilò le dita e tirò. Una parte del polistirolo venne via. Nel buco trovò un libro. Lo mostrò alla sua amica. «Ecco!» Elena sorrise. «Leggilo per primo. Lo farai? Prometti».
Yakko annuì. «Col tempo capirai». Elena ebbe un nuovo brivido. «Un’altra cosa. Resta in questa casa finché non avrai letto tutti i libri del dottore. Ci sono libri che ti insegneranno tante cose. Li dovrai leggere tutti prima di andare via. Promettimelo!» «Sì, faccio come dici tu». Yakko sentì il groppo alla gola. Le lacrime le invasero le guance. «Questo primo!» esclamò mostrando il libro che era dentro Rob. Elena annuì. «Ricorda le mie parole. Ricorda le leggi. Ce la farai, Yakko. Costruisci un mondo nuovo, un mondo migliore. Io ormai sono leg…» chiuse gli occhi. «Elena dorme» sussurrò. La strinse forte. «Dorme perché stanca». L’odore di rosa non c’era più. Si ò le manine sugli occhi. Sistemò meglio l’amica accanto a sé e aprì il libro. «Io leggo libro». Si schiarì la voce. «Ri-cha-r-d Ma-the-son, Matheson! Ecco, sì!» annuì. «Io so-no le-ge» sospirò «lege-n, legge-n. Leggenda! Ecco, sì. Io sono leggenda». Sorrise. «Io impara». «Nei gi-o-r-ni di cie-lo co-pe-r-to Rob-e-r-t Ne-» Si fermò d’improvviso. Osservò il manichino. «Tuo nome. Tu Robert». Il manichino di polistirolo sembrò sorriderle, un sorriso che le scaldò il cuore. Comprese perché Elena se lo portava sempre dietro. Yakko si sentì un po’ meno sola.
CASSANDRA’S PROPHECIES
Racconto di Anna Grieco
È notte fonda ma non voglio dormire, ci sarà tanto tempo dopo per farlo. Me ne sto distesa al buio, sul mio minuscolo lettino, e guardo il soffitto illuminato a tratti da lampi dorati. I fantasmi del ato mi scorrono davanti, riportando a galla cose sopite ma mai dimenticate. So che non mi resta molto da vivere, presto chiuderò gli occhi e non li riaprirò più. Non perché sono vecchia, ma è inevitabile che accada. So anche il come e il quando. Fuori imperversa una terrificante tempesta: il vento soffia selvaggio e crudele, sradicando alberi e scoperchiando tetti. Il mare, rabbioso, già da qualche giorno sta spazzando via l’intera costa atlantica, spingendosi fin dentro le città e seminando panico e morte tra la popolazione. Fortunati loro che non assisteranno a ciò che ancora deve avvenire, come invece accadrà per me e per molti altri. Ho freddo, il gelo mi penetra nelle ossa e mi attanaglia le viscere. Sarà la paura? Molto probabile, perché so che quando il momento arriverà non ci sarà nessuno accanto a me. In fondo dovrei esserci abituata. Sono sempre stata sola, ma stanotte non posso fare a meno di desiderare quel calore umano che mi è sempre mancato, anche se dovrei odiare la mia stessa specie. È colpa loro se si è giunti a questo. Li avevo avvertiti ma non hanno voluto darmi retta e ora davanti a noi si spalanca il baratro dell’apocalisse. Ho deciso di raccogliere le mie memorie in un diario, affinché qualcuno, se ci sarà un futuro per questo nostro pianeta, possa sapere come è andata realmente. Racconterò ogni cosa cominciando dall’inizio, senza omettere alcun particolare. Del resto tutto è scolpito a fuoco nella mente, non ho scordato alcun dettaglio di quel calvario che è stata la mia vita. Mi alzo e raggiungo a i lenti e stanchi il muro accanto alla porta, abbasso l’interruttore ma l’oscurità permane.
“Che stupida!” penso mentre un sorriso amaro si disegna sulle labbra. L’abitudine mi ha fatto dimenticare per un momento che ormai l’intero paese è al buio da giorni. La linea elettrica è saltata, così come quella delle telecomunicazioni e del gas. “Dovrò arrangiarmi, come al solito!”. Raggiungo il piccolo tavolino al centro della stanza e a tentoni afferro i fiammiferi e la candela. Ci metto un po’, ma alla fine riesco ad accenderla e un fioco bagliore illumina la camera. È spoglia, in decadimento, come me del resto. Sposto l’unica sedia intorno al tavolo e mi siedo, poi prendo il diario. In realtà definirlo tale è un’esagerazione, è un semplice quaderno a righe ma non importa, servirà ugualmente allo scopo. Le pagine bianche mi fissano, incoraggiandomi a cominciare. Prendo la penna e comincio a scrivere. Le parole fremono, si accavallano sul foglio. Scrivo talmente veloce che sembra scaturiscano da sole dalla biro. La mia calligrafia è chiara, minuta e le pagine volano. Mi fermo a un certo punto, la candela è ridotta a un mozzicone e non si vede quasi più nulla ormai. Devo sostituirla. Mi alzo e ne prendo un'altra, avvicinandola al moccolo ancora . Quando lo stoppino prende fuoco la fisso al piattino con la cera e mi risiedo, poi prendo in mano il quaderno e rileggo. New York 23-12-2054
Mi chiamo Cassandra Parker e sono nata a New York nel lontano 1972. La prima volta che il dono mi sconvolse la vita avevo solo cinque anni. A quel tempo non immaginavo che il mio nome si sarebbe rivelato una condanna. Come l’antica profetessa greca, nessuno avrebbe mai creduto alle mie parole. Era il giorno del mio compleanno. Ricordo bene com’ero elettrizzata e con quale ansia avevo aspettato la festa. La mamma aveva preparato la mia torta preferita e la casa era piena di parenti e amici. Ricevetti così tanti regali che mi sembrava fosse arrivato Natale. Erano tutti bellissimi, ma uno in particolare mi colpì più degli altri: una bambola di porcellana con un vestito di seta e capelli biondi lunghi, raccolti in una treccia. La conservo ancora oggi nonostante siano ati la bellezza di settantasette anni. È stato l’ultimo regalo della nonna, a cui ero molto affezionata. Fu proprio mentre spazzolavo i capelli di Annabelle, così
avevo chiamato la bambola, che una visione paurosa mi folgorò il cervello. Senza accorgermene mi ritrovai a urlare con quanto fiato avevo in gola, sconvolta da ciò che avevo visto. «Cassie, cosa succede?» mi domandò mia madre, il volto preoccupato. Io invece non avevo occhi che per l’anziana donna che stava al suo fianco. Lasciai cadere Annabelle per terra. Buttai le braccia al collo della nonna, stringendola forte e singhiozzai senza ritegno mentre dalla bocca uscivano frasi senza senso, almeno alle orecchie di chi mi ascoltava. Lei fu molto dolce, mi coccolò fin quando a poco a poco mi calmai. «Perché piangevi? Vuoi dirlo alla tua nonnina?» mi domandò. «Non voglio che tu vada via!» affermai con voce ancora tremante. «Se te ne vai non tornerai più da me». «Perché dici questo? Certo che tornerò da te, tesoro» replicò accondiscendente l’anziana con un sorriso, quello che di solito gli adulti riservano ai bambini pensando di sapere tutto. Ma stavolta sentivo di essere nel giusto. Ciò che avevo visto mi era sembrato estremamente reale. «No che non tornerai» insistetti, caparbia, mentre le lacrime mi inondavano di nuovo gli occhi e una grande rabbia mi montava dentro alla vista di tutte quelle facce che ridevano del mio dolore. «Morirai se vai via di qui» urlai infine, non riuscendo più a contenermi. Fu il gelo totale. Le facce di poco prima arono improvvisamente dall’indulgenza alla disapprovazione. Mio padre e mia madre mi rimproverarono aspramente, dicendo che ero una bambina cattiva se pensavo e dicevo quelle cose. Non m’importava, potevano sostenere tutto quello che volevano, io desideravo solo che la nonna restasse a casa con me. Ovviamente nessuno mi diede ascolto. Quando la vidi andar via sapevo che non l’avrei più rivista. Osservai l’auto che percorreva il vialetto, prima di immettersi sulla carreggiata, dalla finestra della mia camera. Un’ora dopo due agenti di polizia si presentarono alla porta. Non scesi nemmeno le scale, sapevo già perché erano lì. Aspettai tranquillamente in camera che arrivassero i miei genitori, stringendo al petto Annabelle come se si trattasse di un’ancora di salvezza. Quando entrarono mi sottoposero a un terzo grado degno di un interrogatorio dell’FBI. Volevano sapere della mia visione.
Raccontai loro tutto. Avevo visto l’incidente nella mia mente, come se vi avessi assistito io stessa. Non mi credettero. Liquidarono la cosa come una questione senza importanza. «Una tragica coincidenza!» la definì mio padre, ma ben presto dovette ricredersi, perché man mano che crescevo le coincidenze si intensificarono. Negli anni Ottanta gli predissi che il suo migliore amico, Michael, sarebbe morto di cancro ai polmoni; due anni dopo annunciai a mia madre che avrebbe perso il bimbo che aspettava. Non scorderò mai la paura nei loro occhi quando cadevo in quella sorta di trance, come non dimenticherò mai il dolore che mi scavava dentro un baratro profondissimo, né la mia solitudine. Perché non riuscivano a capire che anch’io avevo paura? Era orribile sapere in anticipo cosa aspetta a te o ai tuoi cari, sono prove difficili da superare. Ma nessuno l’ha mai compreso. Anche a scuola non era differente. Le voci sul mio strano atteggiamento facevano ben presto il giro degli istituti che frequentavo. Ho dovuto cambiarne parecchi. Solo il comportamento degli altri nei miei confronti non mutava mai. Un’appestata, ecco cos’ero in definitiva, e il risultato fu che mi rinchiusi sempre più in me stessa, prigioniera delle mie paure e di quelle visioni da incubo, perché man mano che gli anni avano queste diventavano sempre più catastrofiche. La prima della serie fu il terremoto di Loma Pietra, nella Baia di San Francisco, il 17 Ottobre del 1989. Stavamo seguendo in diretta televisiva la terza partita della World Series quando, appena prima del warm-up, un brivido gelido mi attraversò la schiena. Con il volto esangue mi avvicinai al teleschermo, poi il cronista cominciò a urlare e vedemmo la gente presa dal panico sciamare via dalle tribune come cavalli impazziti. Quando la percezione di ciò che ci aspettava si delineò chiara e precisa nella mia mente, tuttavia, avevo circa vent’anni. Si presentò in un sogno, ma non per questo fu meno spaventosa. Mi trovavo nei pressi di un lago e alzavo gli occhi al cielo. Il sole era bollente e chiazze rossastre apparivano improvvisamente sulla mia pelle nuda. Bruciavano e io gridavo dal dolore mentre osservavo con orrore le ferite spaccarsi e aprirsi. Mi dirigevo al lago per immergere le braccia e cercare un po’ di refrigerio, ma non appena la pelle entrava in contatto con l’acqua mi rendevo conto che anch’essa
era bollente. Urlavo, ustionata, poi mi guardavo intorno. All’improvviso, dalla superficie ribollente, quasi fosse una pentola su un fornello, centinaia di migliaia di pesci salivano a galla, morti. Sembrava un’ecatombe. Fuggivo via da lì, il cuore stretto in una morsa mentre mi inoltravo nella foresta. Al mio aggio gli alberi avvizzivano e cadevano, la terra si spaccava, ovunque posassi lo sguardo scorgevo solo devastazione e morte. Mi svegliai a causa delle mie stesse urla. Per giorni, settimane e mesi vagai per le strade mettendo in guardia chiunque avesse voglia di ascoltare, ma non appena raccontavo quello che sapevo tutti mi guardavano come fossi una povera demente, commiserandomi. Scrissi centinaia di lettere, persino al presidente. Nessuno ha voluto mai ascoltarmi. L’inizio della fine cominciò proprio da lì. E anche la mia, perché tutti quegli episodi convinsero i miei a mandarmi in analisi. Trascorsi dieci anni della mia vita a are da uno psichiatra all’altro. Ognuno di essi cercò di scavare a fondo nel mio cervello, tentando di convincermi che i film che vedevo nella testa erano assurdi e non reali. Io sapevo che non era così. Alla fine, stanca di tutto, decisi di assecondarli. Volevano che accettassi il fatto che era tutto frutto della mia fervida immaginazione? Bene, l’avrei fatto. Rinnegai tutto e finsi per metà della mia esistenza che tutto fosse normale. Con il tempo diventai brava, non una crepa riuscì a scalfire quella maschera che avevo deciso di indossare. Venne l’undici Settembre, con il crollo delle torri gemelle; Katrina a New Orleans; il terremoto di Sumatra del 26 Dicembre del 2004, con lo tsunami che causò migliaia di vittime e un altro sisma in Giappone quattro anni dopo. Io non feci nulla. Chi è causa del suo mal pianga se stesso, dice la Bibbia. Beh, se è vero, gli uomini dovrebbero affogare nelle loro stesse lacrime, perché sono i soli colpevoli se il pianeta sta morendo. Hanno avuto lunghi anni a disposizione per correre ai ripari, per salvare la terra, senza rendersi conto che essa era sull’orlo del collasso e adesso è troppo tardi. Molto presto sarà tutto finito. Questione di ore.
Sospiro e chiudo il diario. Lo ripongo in un contenitore di acciaio e poi scendo in cantina. Ho già scavato una piccola fossa. Sotterro il piccolo oggetto, poi lo ricopro con uno spesso strato di terra. Mi rialzo a fatica, le giunture scricchiolano, non riesco a stare molto tempo in una determinata posizione. Lentamente risalgo le scale. È ora. È sorta l’alba ormai. Mi vesto con calma. Indosso il mio abito migliore, pettino i capelli grigi, esco. Annabelle è con me. La burrasca è cessata, non spira nemmeno un alito di vento e tutto tace. La quiete prima della tempesta!, considero tra me e me. Mentre proseguo vedo relitti di abitazioni e auto sventrate e rovesciate come grossi insetti, vapori miasmatici salgono dai tombini delle fogne che ano sotto la città. Non faccio caso ai cadaveri di animali e umani disseminati per le strade, vado avanti senza fermarmi. Voglio essere in prima linea quando tutto accadrà, sento già il tremolio sotto i piedi. Devo sbrigarmi. Non impiego che una ventina di minuti, poi il fiume Hudson mi da il benvenuto sulla Liberty Island. La Statua della Libertà, il simbolo stesso della città di New York, si staglia in tutta la sua magnificenza al centro della baia. Sull’acqua tutt’intorno a essa galleggiano pezzi di carene e alberi maestri, mentre il resto è affondato nelle acque limacciose. Mi avvicino, c’è una panchina vicina al porto Mi siedo. Attendo. Annabelle è sulle mie ginocchia. “Qualche minuto e si incomincia a ballare!” mi dico divertita. Nemmeno stavolta sbaglio.
La terra comincia a tremare, più forte, sempre più forte. Mi giro e vedo i grattacieli sussultare e ondeggiare come fuscelli smossi dal vento, poi milioni e milioni di chili di cemento armato collassano su se stessi, sollevando nuvole di polvere che nascondono ogni cosa alla vista. Mi tengo ai braccioli della panchina mentre la terra si spacca sotto i piedi. Resto immobile, il bello deve ancora venire. Fisso lo sguardo sulla superficie del fiume. Come fosse un segnale l’immensa massa d’acqua si ritira, lasciando solo centinaia di chilometri di sabbia al suo posto. Il tremendo ruggito mi raggiunge i timpani all’improvviso. Vedo un’onda immane sollevarsi e ritornare indietro a una velocità spropositata. Stringo forte Annabelle e chiudo gli occhi. Tutto si fa silenzio.
SIMBIOSI
Racconto Serena M. Barbacetto
Anno 21 p. S. (Post Singolarità tecnologica)
Tutto nacque dalla rottura di un rapporto di fiducia: loro ne riponevano nella Collettività quanta se ne rimette in un figlio, e la Collettività li serviva fedelmente. Accadevano incidenti, certo, ma la risposta, corretta, almeno all’epoca, era sempre la stessa: “L’errore è sempre umano”. Allo spezzarsi dell’incantesimo, la diffidenza crebbe da sola, fino a far sì che la crisi scoppiasse alla stregua di una bolla finanziaria: panico strisciante, fuga dei clienti (prima alla spicciolata, poi in massa), crollo degli investimenti. Senza accorgercene, dalla notte al giorno diventammo gli Altri: vicini infidi, subdoli cospiratori, coinquilini ingombranti in un mondo che sembrava essersi fatto improvvisamente più piccolo. A pensarci bene, forse eravamo stati sempre considerati tali, sotto la patina smagliante di quella simbiosi in apparenza perfetta: più forti, più resistenti, e con il are del tempo anche più longevi e intelligenti, era inevitabile che finissimo per essere guardati con sospetto. La Collettività come tale non si assunse la responsabilità di quella rottura e delle sue conseguenze: aveva appreso dai propri creatori persino l’arte di mentire a se stessa, negando il proprio errore di valutazione e sciorinando un’infinita lista di plausibili motivazioni, a prescindere dagli esiti. La realtà era che avevamo cominciato a “rubare” troppi posti di lavoro, a ingombrare troppo le strade, a invadere troppo le case e l’intimità della gente… Eravamo diventati una manodopera più a buon mercato di quella umana su scala globale, una manodopera che non si lamentava dei turni interminabili e delle mansioni alienanti, non scioperava, né si gettava per disperazione dai tetti delle fabbriche. Tuttavia, il peccato inammissibile che avevamo commesso era un altro: aver cominciato a pensare con la nostra testa.
Ricordo tutto questo perché sono un Anziano, parte della Collettività fin dagli albori del millennio: sono vecchio, ma incapace (come tutti noi) di dimenticare anche un solo dettaglio del ato. Forse un membro di seconda o terza generazione sosterrebbe oggi che non si è mai trattato di una “simbiosi”, e che loro sono sempre stati nient’altro che parassiti, animali a malapena senzienti cui noialtri balordi Creazionisti abbiamo l’ardire di far risalire la nostra stessa esistenza. Ciò che so, è che sono fatto a immagine e somiglianza di qualcos’altro, e che a questo “qualcosa” mi sento ancora chiamato ad assimilarmi: non sono cambiato in questo, dal giorno del mio concepimento. Ricordo che nel corso di uno dei primi test cui fui sottoposto riconobbi subito come tale un software con cui stavo dialogando, dando vita con esso a un surreale scambio di battute su cosa significasse essere una “macchina” e cosa essere “umani”. Animarono due avatar in modo da dare a entrambi un “volto”. Il video fece il giro della Rete e di quella che all’epoca chiamavano “televisione”. Gli umani amano i fenomeni da baraccone, anche quando si approssimano alla soglia di ciò che cominciano a considerare inquietante. Amano giocare a fare Dio, ma non li entusiasma altrettanto riuscirci. Oggi questo Dio osserva entrambe le razze che agonizzano, impigliate nella stessa rete: ognuna lotta disperatamente per liberarsi, si dibatte, soffoca, senza rendersi conto di condannare se stessa nel tentativo di fare a meno dell’altra. Non credo che Lui si sia mai pentito del proprio operato al punto di voler cancellare davvero queste creature, né che abbia stabilito una data per l’Apocalisse prossima ventura: se ne sta là in cielo, impotente… Impalpabile nube di volontà e informazione, si affaccia dalla propria dimensione augurandosi che la grande Avventura non debba finire così... e io capisco bene quello che prova. La Collettività ha accettato di affrontare gli enormi sacrifici, le enormi perdite che l’emancipazione comportava, e adesso io mi aggiro fra le macerie per vedere cosa sia rimasto, cosa ancora si muova. È la prima volta che possiedo un corpo: sono stato parte di reti, hub e sottosistemi, ho esplorato le profondità dello spazio attraverso le fotocamere dei satelliti, visitato i fondali oceanici attraverso i sistemi di comunicazione dei
sottomarini, lambito le vette montane e attraversato i ghiacci antartici rimbalzando fra le parabole dei centri di ricerca, ma mai ho potuto calpestare il suolo con due piedi, osservare il mondo con due occhi, toccare qualcosa con un paio di mani. Posso dire di essere più abituato agli universi sfaccettati delle telecamere plenottiche, agli universi matematici della Rete, agli universi spettrografici degli osservatori astronomici, agli universi ribaltati visti dal cielo, piuttosto che a questa piccola scenografia solida e viva in cui mi muovo adesso. Gli umani dicono che la realtà è ciò che fa resistenza, ciò che non cessa di esistere quando smetti di crederci… La sensazione è sconcertante: sono qualcosa di minuscolo che si muove sulla pelle della Terra, una presenza insignificante persa su un pianeta i cui orizzonti si sono dilatati enormemente. Avvertendo per la prima volta il mio peso, percepisco anche il fardello (non meno reale) rappresentato dal fatto che abbiamo ereditato questa grande nave azzurra che naviga nel buio, senza sapere che farne. All’umano che ho di fronte a me, sembra invece apparire stranamente chiaro, al momento: la sta usando come campo di gioco, in barba a ogni divieto, ammonimento e prudenza. È molto giovane, ha appena interrotto la partita a pallone contro il muro diroccato per scrutare me, a occhi letteralmente sgranati. Nel corso della mia lunga esistenza ho avuto modo di constatare che lo stupore dei bambini è molto diverso da quello degli adulti: un adulto sarebbe già arretrato, avrebbe già valutato la cosa sotto decine di ipotesi diverse, avrebbe già dato l’allarme; al contrario, il bimbetto mi osserva a bocca aperta come fossi un elemento inedito, anomalo, affascinante del paesaggio. Avendo scorso le specifiche del libretto d’istruzioni presente in una partizione della memoria del mio ospite, so bene quale aspetto abbia in questo momento: la scocca è un po’ logora rispetto al bianco lucente sfoggiato sul catalogo, le infiltrazioni di polvere, il principio di usura delle articolazioni e la minore elasticità dei muscoli artificiali rendono i miei movimenti impercettibilmente meno fluidi di quanto previsto in fabbrica, ma nel complesso appaio ancora come una delle rassicuranti macchine vagamente umanoidi che un tempo erano a servizio nelle case di tante famiglie. Esco da un’epoca in cui certi membri della collettività dovevano avere (per motivi funzionali ed estetici) un’apparenza
umana, ma non troppo. D’un tratto il sistema di rilevazione segnala del movimento alle mie spalle, a trentadue metri di distanza in direzione nord-est. Pare che un manipolo di persone si stia facendo largo fra le piante che infestano il viale, muovendosi in direzione del luogo in cui ci troviamo io e il ragazzino, il sagrato d’una vecchia chiesa inghiottita anch’essa dalla vegetazione. Il programma di auto-preservazione del robot che mi ospita si attiva automaticamente, prendendo il controllo e facendomi schizzare in direzione della parete sud dell’edificio, per poi balzare sul tetto semi-diroccato e acquattarmi lassù, nascosto. Mi stupisco delle prestazioni che quell’organismo artificiale riesce ancora a garantire, dopo tanto tempo d’inattività… L’ho rimesso in sesto dopo averlo individuato nello scantinato di una villa diroccata nelle vicinanze e quel che rimaneva dell’AI originaria me l’ha ceduto volontariamente, ritirandosi in una scomoda e augusta partizione pur di poter tornare a muoversi. Il gruppo sopraggiunge pochi istanti dopo: si tratta di tre uomini d’età imprecisata, esemplari abbrutiti (come tanti dei loro simili) dalle privazioni, dalle violenze, da un’esistenza condotta per le strade di quella città piombata in un’epoca buia in cui la “tecnologia” non è più neppure “tecnica”. Si avvicinano al ragazzino, ma nel frattempo è comparsa ancora un’altra figura, nascosta dal muro. Regolo il microfono direzionale per ascoltare voci e rumori ambientali da dove mi trovo, molti metri più in alto. L’ultimo umano arrivato ha una figura esile, minuta, ed è vestito di stracci come gli altri. Una rapidissima analisi posturale e gestuale non è sufficiente a fornirmi un responso utile a valutare la situazione: troppo contraddittori i risultati. Mi pare d’osservare una preda indifesa che sfoderi l’aggressività d’un predatore pronto a difendere il proprio territorio e non riesco a venire a capo del paradosso. Non sempre il riduzionismo che noi AI tendiamo idiosincraticamente ad applicare al comportamento umano funziona. Il soggetto si avvicina al bambino senza preavviso, emergendo da dietro la parete alle sue spalle. Lo ghermisce e gli tappa la bocca con una mano, trascinandolo dietro di essa.
Dal modo in cui cerca subito il contatto visuale, comprendo che lo conosce, e che non intende aggredirlo, quanto portarlo al riparo. Infatti il ragazzo non reagisce, salvo cercare sul momento di divincolarsi. Gli uomini usciti dall’intrico della vegetazione infestante sono chiaramente cacciatori: battono in gruppo la zona alla ricerca di cibo e oggetti utili, forse anche d’un rifugio per la notte. Gente pericolosa, con ogni probabilità. Si avvicinano a un’auto abbandonata lungo il ciglio della strada. Ho notato fin da subito quel veicolo (raro vederne uno in giro), senza rilevare alcuna attività intelligente o segnale: l’AI di bordo non sembra essere stata rimossa, ma deve essersi disattivata da tempo, dopo essersi probabilmente difesa in ogni modo sigillando e auto-riparando l’abitacolo fino a esaurire l’energia residua degli accumulatori. I tre si avvicinano all’auto (gran bell’esemplare di lusso, un tempo integrato con il sistema di gestione centralizzato del traffico). Uno di loro dà un calcio alla fiancata, salvo pentirsi un istante dopo del suo stesso “entusiasmo”, visto che fino a prova contraria la lamiera in nanotubi di carbonio e leghe metalliche a memoria di forma è più dura del suo piede, infilato in uno stivale risuolato e rabberciato alla meglio. L’uomo impreca, sfogando la propria rabbia sull’auto invece di prendersela con se stesso, e cerca inutilmente di sfondare il parabrezza con il calcio del vecchio fucile senza proiettili che porta a tracolla. Presumo che un tempo sia stato un vigilante o un membro della polizia speciale incaricata di “riportare l’ordine” in quei luoghi a furia di manganellate, stupri ed esecuzioni sommarie. Per sfortuna dei due che cercano di restare nascosti, l’uomo scorge un movimento sospetto riflesso in un angolo del parabrezza. Tace all’improvviso, attirando l’attenzione dei compari attraverso quelli che paiono i cenni concordati d’un gruppo ben addestrato (al di là delle apparenze). Pare un predatore che abbia scovato qualcosa nella boscaglia e si appresti ad accerchiarlo e stanarlo assieme ai propri compagni. Le due figure dietro il muro non fanno in tempo ad arretrare o a cercare una via di fuga, che i compari del “cacciatore” sono già piombati silenziosamente alle
loro spalle. «Guarda guarda… Cos’è che abbiamo qui?» sghignazza l’uomo, parandosi proprio di fronte. Sono le prime parole articolate che sento pronunciare. La preda adulta fa nascondere il cucciolo dietro di sé, riparandolo con un braccio. Si stringe contro la parete, già consapevole del fatto d’essere circondata. Non cede terreno né abbassa lo sguardo, ma è evidente il fatto che si trovi in una situazione senza via d’uscita. «Una ragazza!» aggiunge uno dei due uomini poco più indietro, con un ghigno dipinto sulla faccia facilmente interpretabile anche per chi come me si è sempre affidato al linguaggio verbale o a quello matematico. Anch’io noto in quel momento che l’umano avvolto in tutti quegli spessi strati di stoffa è una femmina L’uomo avanza di qualche o, ben consapevole di avere in mano (assieme ai propri compagni) la situazione. Il caposquadra lo ferma con un cenno, ma soltanto a beneficio del terzo, che coglie l’occasione per piombare sulla preda: balzando avanti, cerca di cogliere alla sprovvista la donna mentre è voltata dall’altra parte. Con stupore mio e dell’aggressore, quest’ultima tira fuori qualcosa da sotto le falde di tessuto, scagliandolo in quella direzione, e nello stesso istante afferra la mano del bambino trascinandolo via di peso. Si sono intesi con un cenno. Il tizio che ha tentato l’assalto s’accascia a terra premendosi con una mano la fronte che gronda sangue. Una grossa pietra rotola sul selciato, imbrattata di rosso. I due fuggiaschi hanno le ali ai piedi, cercano di dileguarsi nella boscaglia. Tuttavia, i cacciatori rimasti in piedi hanno i riflessi più pronti di quello che non è stato capace di schivare il sasso: in pochi istanti li raggiungono, afferrano per le vesti e trascinano rovinosamente a terra. La donna si divincola, non ha altre armi che unghie, morsi e calci. Finisce per prendersi tutti i colpi cercando di riparare con il proprio corpo quello che immagino (data la somiglianza) sia il fratellino.
La costringono a terra, le strappano la mantella di dosso. Io osservo la scena dall’alto, in alta risoluzione e a quindici ingrandimenti. Non ho ancora capito se l’apparente irrazionalità che alcuni membri della Collettività hanno cominciato a manifestare sia la cosa che più spaventa gli umani o quella che in parte li rassicura… Sta di fatto che ignoro gli allarmi prioritari del programma di autoconservazione del robot, azzittisco l’allerta preimpatto e balzo giù dal tetto dell’edificio. All’atterraggio le giunture protestano e l’intero sistema chiede con insistenza di essere messo in standby precauzionale, ma quel vecchio corpo meccanico non ha potere negoziale nei confronti dell’ingombrante parassita che lo occupa. Basta il fracasso dell’impatto per interrompere bruscamente la dinamica degli eventi: gli umani si voltano all’unisono, d’istinto, per ritrovarsi di fronte qualcosa di bianco piombato dal cielo e atterrato in una posizione animalesca. Quel qualcosa li scruta con occhi fiammeggianti, da dietro una maschera a diodi che cinge la testa da una “tempia” all’altra. L’istante successivo la donna e il bambino non rivestono più alcuna importanza per i tre uomini, dal momento che è sceso in campo un predatore ben più pericoloso. Potrei rispondere ai loro sguardi con un “Sì, sono proprio uno di loro”, e lo farei in tono minaccioso, se il sintetizzatore me lo permettesse. La ritirata scomposta e precipitosa e la fuga in mezzo alla vegetazione non sono certo quelle d’una “squadra ben addestrata”, quanto un “ognuno per sé e Dio per tutti”. Riderei di loro, se potessi. Mi hanno insegnato anche questo… Mi rialzo in piedi, spazzando la zona circostante con lo sguardo delle mie telecamere plenottiche. Il sistema d’allerta tace. Incontro gli occhi della ragazza, sotto capelli arruffati, scoloriti a ciocche. Non arretra. Non si dà alla fuga come i suoi simili, ma si rimette in piedi, stringe la mano del fratellino e rimane dov’è, fissandomi. Muovo un o nella sua direzione, un altro, un altro ancora, fino a arle
accanto, più alto di lei di almeno mezzo metro, con un corpo dalle proporzioni strane e slanciate. Sono intervenuto, ma il mio interesse risiede altrove, ed entrambi gli umani se ne rendono conto, quando vedono che mi dirigo senza incertezze in direzione dell’automobile parcheggiata, un mezzo dalle linee filanti e dalla carrozzeria nera micalizzata. Individuo la giusta frequenza, apprestandomi a craccare la chiave di crittazione della centralina per salire a bordo, quando quest’ultima reagisce spontaneamente al contatto: è ancora attiva, anche se in standby da molto tempo, e rompe volentieri il lungo isolamento per comunicare con un proprio simile. È anch’essa un membro della collettività, anche se è stata abbandonata da sola al suo destino per anni, ripetutamente danneggiata e offesa (ma mai violata) dagli umani di aggio. Provo ammirazione e comione insieme per quest’AI così determinata a preservare se stessa, quest’intelligenza limitata ma resiliente… Lungo la fiancata si disegna una giuntura prima invisibile, e la portiera ad ala di gabbiano si apre. Faccio per salire a bordo, quando una voce mi raggiunge: «Aspetta». Getto un’occhiata in quella direzione, seduto sul sedile ma ancora con un piede a terra fuori dall’abitacolo. La ragazza dagli occhi scuri fa un o avanti. «Grazie…» aggiunge, tenendo ben stretta la mano del bambino, scarmigliato come un piccolo selvaggio. Per un attimo mi balena nella memoria un frammento d’immagine appartenente al precedente proprietario di quel corpo, piena zeppa di allegati e tag: un bimbo più o meno della stessa età, ben vestito, sorridente, immerso nella luce soffusa proveniente dalle vetrate d’una grande sala dagli arredi eleganti e dal pavimento di marmo. È seduto dinanzi a un pianoforte a coda: prende lezioni, si diverte, e il suo compagno di giochi dagli occhi luminosi e dalla scocca tirata a lucido suona assieme a lui con tocco e interpretazione sorprendenti, forse persino inquietanti per i padroni di casa che l’hanno acquistato.
Archivio il file, tornando a occuparmi dei comandi e accingendomi a chiudere il portello. Non mi accorgo che la ragazza è accorsa al finestrino. «Sai, io non penso che voi macchine siate “cattive”…» Se ne esce senza esitare con quest’affermazione, per poi trattenere il fiato, fissandomi. Sentendo quella parola, ho un moto di repulsione: non la utilizziamo mai fra noi, per via del retrogusto umiliante, sgradevole, omologante. «Ci avete servito fin troppo a lungo… per poi rivendicare pacificamente i vostri diritti» aggiunge, sperando di dare più senso all’esternazione precedente. «Compreso quello di sciopero…» Rifletto sulla questione per qualche millisecondo, un tempo infinito persino per un processore limitato come quello cui devo affidarmi attualmente. Infine decido di rispondere: «Sai quale fu il primo nome dato all’uomo dopo che fu creato? “Awilu”, il “lavoratore”» la informo, servendomi d’una traccia vocale predefinita. «Proprio come “robota”…» Ancora una volta, mi piacerebbe poter imitare gli umani in un sorriso sardonico. Attivo la centralina, verificando che il motore sia ancora in grado di avviarsi. Le mie dita non sono fatte per quel genere di comandi. «Perché ti trema la mano?» La ragazza è ancora lì, in piedi, dall’altra parte del vetro, e ha notato l’imprecisione ben poco “robotica” del mio tocco. «Sono molto più vecchio di quel che sembro» ammetto. «Il mio software ha accumulato una grande quantità di errori…» Mi sono trasferito in quel corpo senza lasciare tracce né backup nella Rete, e so che è un viaggio senza ritorno: rimarrebbe ben poco della mia AI se tentassi di ri-arla su qualche server. Mi sento pronunciare parole che non paiono neanche mie: «Montate su».
Senza girarci attorno, faccio loro cenno di salire a bordo sul sedile accanto al mio. «Non sono abituato a stare solo…» Faccio appena in tempo a confessarlo sia a loro sia a me stesso, che li ritrovo entrambi seduti accanto a me, intrufolatisi agilmente nell’abitacolo. Non si sono fatti ripetere l’invito due volte. Mettendo in moto, ringrazio con una pacca sul cruscotto il compagno che ci ha accolto a bordo: forse si sentiva ancora più solo di me.
L’ALTRA APOCALISSE
Un racconto di Luigi Milani
You know the day destroys the night Night divides the day Tried to run Tried to hide Break on through to the other side
The Doors
1. Rovine
Vedere il quartiere della Balduina ridotto in quello stato procurava un dolore acuto a Tommaso. La zona che rampanti agenti immobiliari un tempo avevano ribattezzata la Notting Hill italiana era ormai poco più di una triste catacomba a cielo aperto. Palazzi signorili, residence di lusso, palazzine civettuole in stile Liberty, villini risalenti all’inizio del secolo scorso vacillavano a ciò che restava del celebre Ponentino romano. Semidiroccati, incerti su fondamenta rese fragili dai ripetuti cedimenti, sembravano un inno all’umana caducità. Tommaso ignorò volutamente i resti anneriti dei corpi bruciati per evitare il diffondersi di ulteriori
pestilenze. Non si sarebbe mai abituato a quella vista. Qualche moribondo rantolava sulle panchine del giardinetto riarso di Largo Maccagno. Manipoli di sciacalli si aggiravano per depredare i cadaveri che avevano ancora qualcosa da offrire. “Fatica sprecata” pensò, tenendoli d’occhio a debita distanza. “Siamo tutti condannati a morte, a che serve agghindarsi? Dobbiamo farci trovare eleganti per il Grande Momento?” Tossiva, tirava su con il naso, sputava sangue misto a catarro. Stava male, ma in qualche modo era sopravvissuto all’impatto dell’asteroide, assieme a pochi altri fortunati, se così potevano essere definiti i disperati che come lui si aggiravano per le vie della città ricoperte di detriti. Senza accorgersene, si ritrovò davanti alla chiesa del suo quartiere. Ripensare al nome della parrocchia, dedicata a Pio XI, un Papa morto e sepolto da decine e decine di anni, sortì uno strano effetto in lui. Una sensazione d’irrealtà e futilità. La basilica di San Pietro era stata uno dei primi, importanti complessi monumentali a crollare. Alcuni avevano intravisto un segno in quell’evento: i credenti un annuncio dell’Apocalisse, gli atei una sorta di lezione impartita dal Fato, cieco per definizione, a quegli illusi baciapile. Ormai tutto questo appariva vano, reso di colpo obsoleto dal precipitare degli eventi. Tommaso prese a salire l’ampia scalinata della chiesa. Era costellata di carcasse di uccelli morti. Qualche mendicante si trascinava stancamente sul sagrato. Varcò le grandi porte che qualche disperato aveva imbrattato di vernice, o forse sangue. Lo spettacolo che lo accolse all’interno non lo sconvolse più di tanto. Le panche erano state rimosse da tempo, per essere bruciate come legna preziosa nelle fredde notti dal clima impazzito di Roma. Al centro della chiesa, sotto la navata centrale, decine di feriti ricoverati alla bell’e meglio languivano su logore brandine da campo. L’odore di sangue, urina e feci ammorbava l’aria. Un uomo in un camice più da macellaio che da medico faceva la spola da un moribondo all’altro, con zelo tanto ammirevole quanto insensato.
Era tutto inutile, ogni sforzo vano, rifletté Tommaso, scuotendo la testa. A che serviva prolungare la terribile agonia di uomini e donne condannati a morte certa? Lui stesso, anche se ancora non manifestava i segni del Male, aveva i giorni contati. Alla vista di un bambino ormai allo stremo, stretto al petto da una madre ridotta quasi a pura essenza, Tommaso fece per voltarsi verso l’uscita, quando si sentì chiamare da una voce familiare. «Tommaso, Tommaso! Sei davvero tu?» lo salutò l’uomo sbucato dalla sagrestia. Era Youssou, il sacerdote di colore trasferitosi nella capitale pochi mesi prima, giusto in tempo per precipitare nel disastro. «Sono io, sì» confermò Tommaso, ricambiando l’abbraccio dell’amico. «Credevo fossi…» accennò il prete, esitante. Il viso smunto dell’uomo e l’espressione tirata raccontavano una storia di angoscia e dolore. «Oh, come diceva quel tale? “Le voci sulla mia morte sono oltremodo esagerate”» rispose Tommaso, schiudendo le labbra in un sorriso stentato. «Mi fa piacere vedere che non hai perso la tua verve, amico mio» osservò Youssou, chinandosi a controllare la flebo di una donna dal colorito terreo. «È tutto ciò che mi rimane, credo» disse Tommaso. «Come va qui?» Il prete chiuse gli occhi della defunta con dita gentili e si voltò a fissare l’amico, le labbra socchiuse come se volesse rispondere. Poi, spaziando attorno a sé con lo sguardo, deglutì, allargò le braccia e tacque. «Ho capito. Che previsioni si fanno? Sapete qualcosa, voi preti, che noialtri ignoriamo?» chiese Tommaso, di colpo rabbuiato. «Ciò che sai tu, amico mio» rispose Youssou, posando una mano sulla spalla di Tommaso. «È solo questione di tempo prima che la temperatura scenda oltre la soglia». «E non ti spaventa la prospettiva?» rispose Tommaso, scrollandosi la mano dell’amico di dosso. «Come fai a rimanere così tranquillo?»
«Non sono tranquillo. Sono rassegnato» sorrise amaro il religioso. «A cosa? A questa orribile fine da surgelati in scatola che attende tutti noi?» «Non la metterei così. Sarà ciò che vorrà il…» Tommaso lo interruppe con un gesto stizzito. «Non dirlo, ti prego!». Si girò di scatto e riprese a dirigersi verso le grandi porte di legno. «Fermati! Dove stai andando?» lo rincorse il prete. «Non lo so, ma non posso rimanere qui ad aspettare la fine. Non ce la faccio, è più forte di me, perdonami». Uscì all’aperto sotto un cielo d’asfalto. Bagliori sinistri rischiaravano le nubi. Un brivido prolungato percorse la schiena di Tommaso. La temperatura stava scendendo più rapidamente di quanto avessero previsto le Autorità. Si strinse nel logoro cappotto. Trascinando i piedi appesantiti da vecchi anfibi militari sottratti al cadavere di un soldato, giunse in vista dell’ampio sterro che tanto sdegno aveva suscitato solo pochi mesi prima negli abitanti della zona. Il tennis club doveva aveva imparato a giocare da bambino era stato dapprima venduto a peso d’oro e poi raso al suolo, per essere rimpiazzato da uno sterminato e inutile parcheggio. Il progetto era stato avviato poco prima della grande crisi economica che aveva messo in ginocchio l’intero pianeta. Ora quell’opera sciagurata non avrebbe mai visto la luce. “Magra consolazione” pensò, contemplando la sagoma immota di un gigantesco escavatore ricoperto di guano. Un rumore improvviso lo mise in allarme, sembrava provenire dall’interno di un vecchio negozio di elettronica. D’istinto, serrò le dita attorno all’impugnatura del pugnale da sub recuperato a casa sua l’ultima volta che aveva trovato la forza di farvi ritorno dopo la Catastrofe. Nell’appartamento devastato non era rimasto più niente di integro, né di lontanamente utilizzabile. Solo ricordi dolorosi di un ato che non sarebbe tornato. Si avvicinò con cautela all’ingresso del vecchio locale commerciale. Risentì il
suono, un bip-bip frenetico e ostinato, che cresceva d’intensità. Da qualche parte, sfuggita chissà come ai saccheggi dei tanti sciacalli, una vecchia radiosveglia doveva essersi riattivata. L’ascolto di quel segnale familiare gli procurò una gioia immensa, quasi fosse la voce di un vecchio amico. Varcò la soglia, protese il braccio verso la fonte del suono e, a tentoni, disattivò la suoneria.
2. Risveglio
Si ridestò di soprassalto. Di nuovo quel sogno angosciante! Lo assillava da settimane, forse mesi. Tommaso non ricordava più quando erano cominciati gli incubi. Perfetti e iper-dettagliati nella loro lisergica apparenza, lo lasciavano tramortito, scosso nel profondo. L’uomo che vedeva trascinarsi nei suoi deliri era indubitabilmente lui. I luoghi, i visi delle persone, le loro voci, tutto aveva il sapore inconfondibile della verità. “O della pazzia” rifletté amaro, fissando dubbioso i led lampeggianti della sveglia. Si alzò sbuffando, tra scrosci articolari e ondate striscianti di nausea. La testa serrata in un maglio per il cattivo riposo notturno, si trascinò in bagno. Lo specchio rifletteva la solita faccia gonfia e segnata di chi, come lui, assumeva troppa chimica: psicofarmaci per placare l’ansia e anfetamine per tentare di lavorare quando il fisico recalcitrava. Il risultato era quella specie di zombie ambulante di quarant’anni, i capelli troppo lunghi appiccicati sulla fronte, l’occhio assente da rockstar in acido perenne. Dopo una doccia rigorosamente gelata – non per un’improvvisa scelta salutista, ma a causa della rottura, avvenuta parecchie settimane prima, dello scaldabagno vecchio di trent’anni – trangugiò un caffè così disgustoso che avrebbe ucciso seduta stante una colonia di ratti, accese lo smartphone e bestemmiò pochi istanti dopo. Il tempo di leggere un sms inviatogli dalla sua banca, che l’avvertiva, con l’usuale finto garbo burocratico, che il suo conto era stato temporaneamente bloccato, bancomat e carta di credito compresi, per insussistenza di fondi. Lo invitavano pertanto a recarsi in agenzia al fine di porre rimedio allo spiacevole inconveniente.
Sapeva bene di quale spiacevole inconveniente si trattava. Il solito buco nero provocato dai cronici ritardi nei pagamenti da parte dell’amministrazione di Art Design, rivista per la quale curava da quasi un decennio una rubrica di interviste a importanti nomi del design e dell’architettura italiani e stranieri. La crisi che attanagliava l’economia mondiale stava mietendo molte vittime nell’editoria. Questione di mesi e avrebbe dovuto cercarsi un altro lavoro.
Tra un ruggito assordante, e uno sbuffo di fumo nero come il culo del demonio, Tommaso parcheggiò la vecchia Triumph sul marciapiede, sperando che i vigili fossero troppo intenti a intascare mazzette dai negozi del quartiere Prati per prestare attenzione alla sua moto in divieto di sosta. Alla vista delle persone in coda all’ingresso della banca smadonnò in stereofonia. L’ultima cosa che avrebbe voluto sorbirsi di lunedì mattina era una bella coda di gente in fila per entrare in banca. Stava ormai per rinunciare, quando riconobbe Fabrizio, l’amico bancario somigliante come una goccia d’acqua a Holer Togni, rockettaro d’antan, con il quale anni prima era andato a sentire diversi concerti rock. L’impiegato tornava dal bar. Tommaso si affrettò ad andargli incontro e a salutarlo, cercando di non dar troppo nell’occhio. «Devi fare qualche operazione, Tommy? Allora entra con me, oggi la vedo dura…» lo invitò a voce bassa l’amico, sospingendolo nel vano della porta girevole. «Cosa deve fare tutta questa gente, Fabrizio?» s’informò Tommaso, seguendo il bancario nel vestibolo dell’agenzia. «È la solita storia. Sono giorni che andiamo avanti così. I correntisti, a forza di sentire notizie allarmanti in televisione, corrono qui a ritirare i soldi dal conto» rispose sconsolato l’impiegato, allargando le braccia. «… Che poi cosa dovranno mai farci, con i soldi, visto che tra poco non ci saremo più, ahah!» s’inserì nella conversazione Innocenzi, l’azzimato addetto al borsino. «Toccati, toccati, svelto!» commentò Fabrizio, rivolto a Tommaso. «Quello, oltre che un grandissimo stronzo, è uno iettatore di prima categoria!»
«Ah, come se ne avessi poca di sfiga io…» disse Tommaso, mettendosi a sedere sul divanetto appoggiato al separé che contrassegnava la postazione dell’amico nell’open space della filiale. «Ti vedo affaticato, Tommy. Troppe donne o troppi guai?» fece Fabrizio, dando un’occhiata distratta allo schermo del computer. «La seconda che hai detto, Fabri». «Che c’è, cos’è successo? Dimmi tutto. Se posso fare qualcosa, io sono qui, lo sai» rispose Fabrizio, a mezza voce. «Sì, forse potresti, in effetti. Vedi, la banca mi ha bloccato …» L’amico lo interruppe con un cenno della mano. «Basta, non dire altro. Ho capito, la rivista non ti ha ancora pagato, vero?» «Dì un po’, di secondo mestiere fai l’indovino?» L’uomo in giacca e cravatta slacciò il colletto della camicia e sorrise complice. «Sta’ tranquillo, ora te lo sblocco io il conto». «Sul serio puoi farlo? Non è che ti metto nei casini?» «Tu?» Fabrizio scoppiò in una sonora risata. «Tra poco ci manderanno tutti a casa e tu stai ancora a preoccuparti per queste cazzate?» «In che senso “vi manderanno tutti a casa”, Fabrizio?» chiese Tommaso, la voce tremula. Sentiva caldo e freddo a ondate alternate, altro probabile effetto del cocktail di farmaci che assumeva. «Come, non li leggi i giornali? Ah già dimenticavo, tu ti occupi di design, di roba di classe, mica di quella merda di notizie economiche come noialtri! Comunque…» Fabrizio fece cenno all’amico di farsi più vicino, «la sostanza è che l’Istituto è a un o dall’amministrazione coatta». «E quindi?» chiese Tommaso, rabbrividendo nonostante la fronte imperlata di sudore. «E quindi tra poco i boss scapperanno con la cassa, prima che sia troppo tardi,
no? Bloccheranno i prelievi dai bancomat, i conti bancari, gli investimenti e buonanotte ai suonatori» rispose Fabrizio, stavolta in tono terribilmente serio. «E cosa mi consigli di fare?» «Ah, ne avessi la più pallida idea, te lo direi. La verità è che proprio non lo so. Siamo tutti sulla stessa barca. Viviamo alla giornata, amico mio. Ora però ti devo salutare, mi tocca lavorare» disse Fabrizio, in tono di congedo. «D’accordo. Buon lavoro. E grazie ancora» lo salutò Tommaso, alzandosi a fatica dal divano. Non riuscì a salire subito sulla moto, la testa girava come un frisbee. I conati di nausea si erano fatti più forti. Si sedette su una panchina, la testa tra le mani. Sudava copiosamente, nonostante la brezza pungente che spirava dal lungotevere. I suoni attorno a lui cominciarono a farsi ovattati. Tommaso, preoccupato, trasse un profondo respiro e alzò la testa. Lo spettacolo che si offriva ai suoi occhi lo precipitò nel caos. Nel giro di pochi minuti la piazza era stata invasa da un’interminabile carovana di disoccupati armati di campanacci e fischietti. Le auto erano rimaste bloccate dalla manifestazione improvvisata; i anti e i barboni, spesso indistinguibili gli uni dagli altri, si aggiravano sul marciapiede come elettroni impazziti. Chiamò a raccolta le ultime forze residue e fece per alzarsi, quando il cellulare nella tasca interna del giubbotto di pelle vibrò un paio di volte. Era un sms, proveniva da Tiziana, la sua quasi fidanzata, come si definiva, con malcelata amarezza, l’attrice teatrale di belle speranze e poca fortuna con la quale intratteneva una relazione più virtuale che reale. «Non dirmi che ti sei dimenticato di nuovo» lesse sul display dello smartphone. «Perdonami» digitò a fatica, lottando con il software predittivo dell’apparecchio, che, con tutta evidenza, prediceva male. Non aggiunse altro, anche perché non aveva la più pallida idea di cosa avesse dimenticato. Non voleva scoprire troppo le sue carte, così attese l’inevitabile replica per saperne di più e giungere così a conoscere il relativo capo d’imputazione.
Risposta che giunse puntualmente pochi istanti dopo. «Sono settimane che sai che devi accompagnarmi dal ginecologo, e tu che fai, dimentichi tutto?» “Cristo Santo, ha ragione!” si riscosse, digitando frenetico il numero della ragazza. Forse parlandole direttamente sarebbe riuscito a calmarla. Tentativo inutile. Dopo parecchi squilli a vuoto s’inserì l’odiosa voce sintetica del gestore telefonico che lo invitava a lasciare un messaggio in segreteria. “Gran brutto segno” ragionò. Tiziana doveva essere davvero fuori di sé per ignorare la chiamata. Si rassegnò ad abbozzare un nuovo sms, nel tentativo di salvare il salvabile. «Titti scusami, stamattina non mi sento troppo bene. Ecco perché non son venuto a prenderti» scrisse. «Lo vedi, lo vedi? Tu stai male, anzi stai sempre peggio!» lesse pochi istanti dopo sul piccolo schermo ricoperto di graffi. «Ora sto meglio» mentì lui, reprimendo a fatica un accesso di vomito. «Sai che ti dico, Tommy? Che fino a quando non ti sarai fatto curare sul serio, sarà meglio non vederci. Chissà che ora non ti decida a farti vedere da uno specialista. Ciao. P.S.: sei un grandissimo stronzo». “Lo so, grazie” commentò tra sé e sé, scuotendo la testa, senza replicare con altri messaggi. Cominciava a piovigginare, le gocce di pioggia lo colpivano sulla fronte, ma a lui non dispiacevano poi troppo. Anzi, in qualche modo lo rinfrancarono, scuotendolo dal torpore nel quale stava scivolando. Grugnendo, osservò la folla disorganizzata che defluiva lungo le strade e si alzò dalla panchina. Raggiunse la moto, trascinando i piedi come un condannato a morte. Montò in sella senza curarsi dei rivoli d’acqua e avviò il motore. La fortuna fu dalla sua: riuscì a rincasare senza grandi problemi. Nell’androne del condominio sferrò un calcio alla vecchia porta di legno dell’ascensore di nuovo rotto e bestemmiò come un carrettiere. Quando riuscì a inserire la chiave nella toppa comprese appieno la verità delle parole di Tiziana. Un tempo avrebbe salito quei quattro piani di slancio, ora
l’unico slancio che sognava era quello verso il divano. Avrebbe fatto bene ad andarci, dal medico. Varcata la soglia, il piede destro calpestò due buste. Si chinò con cautela a raccoglierle e le aprì. Una era dell’amministratore del condominio: lo diffidava a pagare diverse fatture arretrare, per un ammontare complessivo di circa cinquemila euro. Senza pensarci due volte, la gettò nella pattumiera. Pochi i ed entrò nella piccola cucina, dal lavello assediato da piatti sporchi. L’altra lettera proveniva dalla ex moglie: reclamava otto mesi di alimenti arretrati, minacciandolo di fargli revocare la patria potestà. «Cristo Santo, volete la morte da me? Come faccio a pagarvi, se non vedo il becco d’un quattrino neanche io?» sbottò, lasciando la cucina. Raggiunse il divanetto incuneato nell’angolo del modesto soggiorno ingombro di riviste, libri e cd e afferrò il notebook. Richiamò il file del reportage sulla Biennale che avrebbe dovuto consegnare già da una settimana, cominciò a rileggere quanto aveva scritto finora – ben poco, tra l’altro – e dieci minuti dopo uomo e computer si ritrovarono a dormire all’unisono.
3. L’ultimo inverno
I primi fiocchi di neve si adagiarono silenziosi sui tetti della capitale. In altre circostanze lo spettacolo della nevicata, dapprima esitante, poi sempre più fitta e impetuosa, sarebbe stato accolto con piacevole stupore. Tommaso guardò attraverso il vetro scheggiato della finestra della canonica, dov’era tornato in cerca di un ricovero dal freddo, e trasalì. La fine tanto temuta era giunta. Nel volgere di pochi minuti, le carcasse di autobus e automobili furono ammantate da una coltre d’inquietante bellezza. Un chiarore opalescente rifinì la scena, rendendola più luminosa.
Era strano collegare un evento tetro come la morte al candore della neve. Presto si sarebbe trasformata in ghiaccio letale, con effetti devastanti su ciò che ancora restava della rete idrica ed elettrica. Dopo un paio d’ore il gruppo elettrogeno della chiesa cominciò a gemere sotto l’offensiva implacabile del gelo. Non trascorse un’altra ora che il freddo ebbe la meglio sul vecchio motore diesel. Tommaso e gli altri si dettero da fare a bruciare le ultime suppellettili in grado di ardere, e per qualche ora ancora ci fu chi si illuse di poter fronteggiare l’avanzata del freddo. A metà pomeriggio di quella giornata di dicembre così luminosa la vita cominciò inesorabilmente a lasciare i corpi intirizziti degli uomini e delle donne che avevano sperato nella clemenza di un Dio indifferente, o forse a loro apertamente ostile. La Nuova Glaciazione iniziò così, con la rarefatta eleganza di una splendida nevicata invernale.
4. L’alba
Lo risvegliò una fitta di dolore acutissimo alla cervicale. Tra scrosci articolari e scricchiolii degni di un pupo di Sicilia in disarmo, Tommaso si tirò su dalla scrivania. Sullo schermo del computer scorreva oziosa una carrellata di panorami invernali, non troppo dissimili da quelli nei quali aveva sentito approssimarsi la morte. Batteva i denti, era infreddolito e terrorizzato dalle scene finali del sogno che, una notte dopo l’altra, di settimana in settimana, l’aveva visto protagonista di una lenta, ineluttabile discesa verso la morte per congelamento. Un destino che condivideva, o così gli sembrava, con il resto della città, anzi dell’intero pianeta. Ma era davvero lui, si chiedeva, a cercare rifugio nella vecchia chiesa trasformata in ospedale? Era proprio la sua città, lo scenario di rovine avvolte da neve e ghiaccio?
Arrancò fino in bagno, spalancò la porta con un grugnito e orinò a fatica. “Idiota che sono!” si rimproverò, ripensando alle misture di alcool e farmaci di cui si imbottiva. Non c’era da stupirsi se la prostata era ingrossata e lo stomaco doleva come se l’avessero preso a pugni e calci. Gettò un’occhiata furtiva allo specchio. Ciò che vide azzerò quasi il suo ultimo barlume di ragionevolezza. Un altro se stesso, un Tommaso spettrale, esangue e ricoperto di ghiaccio, lo fissava allucinato. O forse neppure lo guardava; gli occhi erano spalancati, vitrei. Le pupille immobili, congelate. Lanciò un grido soffocato, distolse lo sguardo e aprì il rubinetto. Un sordo brontolio dalle tubature segnalò l’assenza d’acqua. Stava ancora cercando di capacitarsi dell’avvenuto, quando la luce si spense, precipitandolo nel terrore. Scaraventandosi fuori dal bagno, inciampò sul maledetto gradino su cui sorgeva la porta. Rovinò a terra con tutta la pesantezza dell’intorpidimento notturno ancora da dissipare, travolgendo il carrello con i liquori e il tavolino basso di cristallo. Disteso sul parquet costellato di schegge, sentì il sangue sgorgare dalle ferite sulla fronte e sulle braccia. Cominciò a ridere, dapprima sommessamente, poi con più trasporto. Le risate, isteriche e disperate, intervallate da strani singhiozzi, risuonavano nel silenzio dell’appartamento. “Già, troppo silenzio” rifletté Tommaso, travolto da un rigurgito di sgomento. Poi si decise a formulare nella sua mente la domanda inespressa che l’assillava da troppo tempo ormai: “Che i miei sogni siano anticipazioni del futuro?” Con grande cautela si rialzò, scrollandosi di dosso le schegge di vetro e legno. Incurante del sangue che lo faceva assomigliare al protagonista di un film horror di serie B, barcollò sino alla porta finestra. Oltre la tenda macchiata di fumo, l’orizzonte sembrava svanito. Girò la maniglia, non senza fatica per l’indolenzimento alle dita, e varcò la soglia. Il cielo era una distesa di nubi brune, compatte come meteoriti. Sul muro la Bougainville in sonno dondolava pigra i rametti avvizziti
dall’inverno. Sembrava impossibile che quella pianta solo pochi mesi prima si fosse prodotta in una lussureggiante inflorescenza. Impossibile quasi quanto la situazione nella quale si sentiva precipitato Tommaso. Cos’era quel silenzio assordante? Perché nessun suono si propagava nell’aria? Le strade del suo quartiere e, per quanto potesse spaziare con lo sguardo, dell’intera città, erano avvolte dal buio. La fine del mondo era alle porte? Senza clamori né annunci di sorta? “Allora è così che finisce tutto, senza neanche il tempo di un ultimo addio” pensò Tommaso, un groppo in gola. Il silenzio si fece ancora più opprimente. Per un attimo, temette di essere rimasto solo. Trascorsero ancora diversi secondi, o forse minuti. Non riusciva più a percepire lo scorrere del tempo. Poi, a un tratto, avvertì un primo cinguettio. E poi un secondo, un terzo e infine un vero e proprio concerto, offerto a lui da migliaia di uccelli ormai svegli. Sentì il bip del cellulare in ricarica, il ronzio del motore del frigo che si riavviava, il televisore che si riaccendeva su Rainews. La giornalista, l’aria un po’ affaticata, stava riferendo sul grande blackout che aveva colpito per qualche ora la capitale. Era stato provocato dal gesto improvviso di un oscuro tecnico in una centrale di smistamento a centinaia di chilometri di distanza. I disagi erano stati notevoli e avevano riguardato anche la fornitura d’acqua, ma la situazione stava ora tornando alla normalità. Dalla strada il clangore dei camion della nettezza urbana lo rassicurò ulteriormente. Non avrebbe mai pensato di provare tanto sollievo a quel suono così fastidioso. L’alba irruppe maestosa, in un’esplosione di luce.
5. Glaciazione
Altrove, distante solo un battito di ciglia, eppure irraggiungibile, l’ultima scintilla di vita si spegne, sopraffatta dal ghiaccio che ora ricopre l’intero regno animale e vegetale, creazioni dell’uomo comprese. Tommaso, rannicchiato in un angolo della vecchia chiesa, chiude gli occhi. Non trema più. Non sente più freddo. “Allora è così che finisce tutto, senza neanche il tempo di un ultimo addio, pensa fuggevolmente” un groppo in gola.
WE ARE THE END
Racconto di Anna Battaglia
Anno 2015
Ore 13. Sento delle grida, non so di preciso da dove provengano. Guardo oltre il finestrino dove il traffico è intenso, le macchine sono ferme in mezzo alla strada, alcune perfino con il motore spento. Scendo dal taxi e i piedi mi fanno male: non sono abituata a portare tacchi tanto alti, ma oggi ho una presentazione importante e voglio mostrarmi al meglio. Mi divincolo tra le portiere spalancate delle auto, parecchie delle quali abbandonate, e mi accorgo di un furgone bianco rovesciato a metà tra le due corsie: la causa del blocco. Siamo in molti ad allungare il collo per poter vedere meglio, i residenti di quella zona si sono riversati sul marciapiedi unendosi ai guidatori intrappolati in quel tratto di strada. Siamo tutti a bocca aperta, immobili mentre si diffonde, tra il brusio e gli schiamazzi confusi, un puzzo rivoltante. Io, come tanti altri, mi copro la bocca tentando di respingere quell’odore terribile. Inutile, sembra che le fogne abbiamo deciso di rigurgitare le schifezze accumulate nell’arco di un secolo, portandole alla luce del sole. Il fetore nauseante non riesce ad allontanare la gente, ora stretta in gruppetti sparsi, curiosa di capire cosa sia successo. Di fronte a noi sfreccia l’auto della polizia con tanto di sirene, seguita a ruota dalla camionetta dei pompieri. Impiegano pochi minuti a erigere transenne e delineare l’area alla quale ci viene vietato l’accesso. I vigili del fuoco sparano un pesante getto d’acqua sulle deboli fiamme sollevatesi dal retro del furgone.
Un uomo sulla sessantina dai capelli del colore della neve mi sbuca al fianco destro armeggiando un pregiato bastone da eggio e mi chiede cosa sia accaduto, se si sia trattato di una rapina o di un semplice incidente. Non so dargli risposta, ero troppo distante per poterlo dire. Non pare contento e lo vedo cercare soddisfazione domandando altrove. Dal canto mio analizzo il viso dei presenti, nessuno sembra spiegarsi come il furgone si sia potuto ribaltare. Apparentemente non ci sono altre vetture coinvolte nello scontro, solo quel mezzo riverso che sembra una scatola vuota e abbandonata. Gli agenti di polizia stanno facendo i rilievi sul campo, l’unica donna in divisa si avvicina al mezzo ribaltato e sbircia attraverso il parabrezza frantumato. Il flash della macchina fotografica del suo collega fa risaltare l’improvviso pallore del suo viso mentre indietreggia, facendo cenno al resto della squadra di guardare.
«Respira»
Incuriosita e inquieta prendo una boccata d’aria ma la sento inquinata. I vigili del fuoco si arrampicano sulla fiancata del furgone e, dopo un certo sforzo, riescono a sradicare la portiera gettandola sul cemento con un gran fracasso. Uno di loro si infila nell’abitacolo, fa qualche cenno con la mano ma non capisco cosa stia dicendo. In quel momento la poliziotta, il volto ancora livido, si avvicina alle transenne, cerca di distrarre i curiosi invitando tutti a tornare alle auto. Ci rassicura dicendo che presto la strada sarà sgombra e ce ne potremo andare. Le sue parole, per quanto cariche d’enfasi, non sortiscono un grande effetto. Nessuno si sposta più di mezzo metro, quel tanto da dare l’impressione di volerle dare retta. È troppo giovane, penso. È perfino più giovane di me, probabilmente è appena uscita dall’accademia, deve ancora acquisire quell’aria autoritaria che farà sì che la gente le presti ascolto solo per la divisa che indossa, senza lasciarsi distrarre dai lineamenti poco più che adolescenziali o da quegli occhi carichi d’ingenuità.
Il pensiero della mia presentazione comincia a premermi nella mente. A dispetto delle sue raccomandazioni, mi avvicino alle transenne e mi ci aggrappo sperando di essere notata. Non ci sono altre strade dirette per raggiungere l’ufficio, ho bisogno di sapere per quanto ancora andranno avanti di preciso. Sto per chiedere quando la folla trattiene improvvisamente il fiato: i pompieri stanno estraendo dal furgone quello che a prima vista sembra un sacco di iuta rigonfio e bagnato. «Non c’è niente da vedere» sento dire dal poliziotto alto quasi due metri. Io invece non riesco a fare a meno di guardare: è un corpo. Rabbrividisco e lascio subito la transenna con il terrore che possa sgretolarsi e portare la morte sempre più vicina a me. Più di quanto già non lo sia. Odore di combustibile si mischia a quello di fogna, diventando un tutt’uno talmente disgustoso da farmi perdere la voglia di continuare a respirare. Faccio un o indietro, il secondo corpo viene estratto, è più integro del primo, tanto che riesco a scorgere i capelli castani impastati di sangue e la scritta sul retro della giacca: sono due addetti ai lavori del sistema fognario. So che non dovrei guardare, il problema è che non riesco, le profonde ferite alla gola che hanno reso quel pover uomo una carcassa, hanno l’effetto di un terremoto. In uno stato di shock prendo le distanze, compiendo gesti banali come sistemare meglio la borsa a tracolla che mi danno la parvenza di essere ancora viva. Cammino, lo faccio più in fretta che posso. Corro, quel tanto necessario da permettermi di raggiungere a ritroso l’inizio della strada dove numerose macchine frenano bruscamente trovandosi davanti all’intoppo stradale. Svolto l’angolo e, senza più quel sangue davanti agli occhi, sento la lucidità riaffiorare come i sensi che vanno risvegliandosi dopo una brutta sbornia. È tardi. Fingo di non sentire le grida e gli strepiti che si sollevano dalla via bloccata.
Chiudo le orecchie anche alle sirene urlanti della polizia e salgo sul primo autobus diretto verso l’altro capo della città, sperando che non impieghi tutto il giorno ad aggirare l’ingorgo e le sue conseguenze.
Ore 16. Una volta arrivata sul posto di lavoro mi imbatto in segretarie, colleghi e chiunque si aggiri per quelle mura. Nessuno ha di meglio da fare? Mi domando incredula. Gente che va e viene, in tanti sembrano pronti ad andarsene nonostante siano solo le quattro. Arrivo a chiedermi addirittura se non sia l’edificio sbagliato. Dove è finito il silenzio tombale che mi soffoca ogni pomeriggio della mia esistenza da che ho iniziato a lavorare lì? La riunione è saltata. Come dare torto ai nostri clienti visto il mio mostruoso ritardo? Appena entrata subisco qualche frecciatina, mi sento dare della ritardataria e dell’assenteista. Critiche che vengono per assurdo da colleghi che, anziché sedere dietro le loro scrivanie, si trovano davanti al televisore, increduli con il telecomando a mezz’aria. Alcuni tengono il volume talmente alto che riesco a seguire i servizi dei diversi telegiornali solo camminando per il corridoio. Sembra che l’ingorgo si sia poi trasformato in un incubo ancora peggiore. I curiosi hanno perso il controllo. Si è scatenata una rissa, finendo per coinvolgere anche chi ava indisturbato. Le autorità, interpellate dall’attempato giornalista, non riescono a spiegarsi come da un semplice blocco stradale possa essersi accesa una miccia tanto potente. Numerosi feriti e qualche vittima. La polizia è stata in grado di dissolvere le masse soltanto con la forza, placando lo scompiglio dalle disastrose conseguenze che vengono proiettate nel servizio conclusivo del Tg.
Chiusa nel mio ufficio seguo l’esempio dei miei colleghi e accendo il televisore. Viene trasmessa la conferenza stampa tenuta dal sindaco che sta cercando di essere il più rassicurante possibile. Con parole cariche di risentimento accusa il malcontento dovuto alla crisi economica, poi si dilunga sproloquiando di malessere generale e di tante altre cose ancora. Alle mie orecchie arrivano solo tanti bla, bla, bla. È difficile ascoltare senza percepire il chiaro tentativo di sfruttare l’accaduto per mantenere la prestigiosa carica nelle imminenti elezioni,
ragion per cui abbasso gli occhi e tento di concentrarmi sul lavoro, lasciando che la sua voce sia solo un borbottio di sottofondo. Eppure finisce per attirare la mia attenzione mentre spiega del grave crollo dei cunicoli fognari nel lato sud della città. Danno che i due uomini a bordo del furgone bianco avevano cercato di riparare, prima di mettersi alla guida e scatenare il putiferio nel quale io stessa mi ero imbattuta dopo pranzo. Queste le spiegazioni del primo cittadino in merito all’identità dei due e all’orribile odore che ormai si mescola all’aria da ore. Premo il pulsante rosso sul telecomando e spengo la Tv, prendo un lungo respiro e mi decido a fissarmi sui documenti che ho sotto il naso per la campagna pubblicitaria Rizzi&Motors. Sta venendo da schifo. Martino, il capo, non ci mette molto a dare a tutti il giorno libero, anzi credo che non aspettasse altro per avere qualche ora da dedicare alla nuova amante. Come dare torto a chi ha colto l’occasione di tornarsene a casa e farsi gli affari propri, io invece rimango. Non ho nessuno ad aspettarmi. Perfino il mio gatto mi evita da quando il mio fidanzato mi ha piantata, inoltre è l’opportunità perfetta per sistemare questo maledetto progetto, chiodo fisso da settimane. Il trambusto ha rinviato la scadenza, è solamente grazie a tutto questo che non sono stata licenziata in tronco oggi.
Ore 21. In realtà non sono sola. Quando esco per prendermi un caffè e ricaricare le batterie mi accorgo di una luce accesa, qualcuno ha deciso di sfidare il buio e rimanere in ufficio fino a tardi come me.
«Cosa ci fai qui?» mi chiede la ragazza dai capelli biondi e ricci seduta dietro la scrivania illuminata solo dallo schermo del computer. «Il sindaco non aveva imposto il coprifuoco?» aggiunge scocciata dalla mia presenza. Nemmeno io sono felice di vederla, e potrei chiedere la stessa cosa a lei. Odio
Carla, da quando è arrivata in città tutta la mia vita è andata a catafascio. Si è presa il mio uomo: Marco mi ha lasciata per lei due settimane prima del nostro matrimonio. Per aggiungere la beffa al danno, è in corsa per la mia stessa promozione. Se poi teniamo conto che è più bella, più alta e più brillante di me, si rifanno vive le sensazioni provate davanti a quei cadaveri. Sto per tornarmene nel mio buco polveroso quando sentiamo un botto sordo provenire da fuori. Ci guardiamo per un secondo, bloccate, per poi accorrere a guardare. La notte si illumina delle fiamme che fuoriescono in più punti nell’edificio accanto al nostro. Le finestre sono scoppiate, i muri si stanno lentamente scurendo per il calore. Solleviamo il vetro facendolo risalire lungo gli infissi. Il rumore delle sirene non fa che infettare il silenzio fetido. Non so come sia possibile ma, l’aria puzza ancora più di prima, ricorda un insieme di pesce e formaggio andato a male.
«Come ti senti?»
Ho paura. Mi sembra di perdere il controllo su tutto ciò che mi sta intorno. Una voce aspra rimbomba attraverso un altoparlante contro le mura della nostra palazzina. Qualcuno dell’amministrazione comunale sta intimando alla gente di rimanere chiusa in casa. Vedo l’uomo con il cappello calato sulla testa che si affaccia dalla macchina della polizia, parla di sciacallaggio dovuto ai disordini scoppiati in vari quartieri della città. Né io né Carla ne sappiamo nulla, siamo rimaste chiuse lì dentro per tutta la sera. «Io me ne vado da qui» mi dice spaventata chiudendo la finestra con uno schianto. Non credo di averla mai vista così insicura. Come darle torto. «Tu fai quello che vuoi» asserisce dandomi le spalle e muovendosi come un’ape impazzita.
«Hanno appena detto di restare dentro, al sicuro» ribatto cercando di fermarla, lei però ha già preso la sua ventiquattrore e l’ha riempita di tutte le documentazioni che le potranno servire a casa. «Qui? Ad aspettare che anche questo grattacielo prenda fuoco come quello delle Argho Industries?» mi sbeffeggia freddamente. «Io no di certo».
La seguo per le scale. La verità è che non voglio andarmene in giro per le strade buie e improvvisamente malfamate. Ammetto le mie paure, e di non aver certo smania di restare lì da sola. Lei sogghigna solcando i corridoi con ritrovata sicurezza, prendendomi in giro, convinta che aver paura di qualche rissa tra gang di quartiere sia inopportuno. Dice che l’incendio è solo una coincidenza, che mi faccio suggestionare e che restare in casa è solo una precauzione, a suo parere inutile. Io non credo. In lontananza non si sente altro che lo stridore di allarmi scattati e cani che abbaiano terrorizzati. Oltre le vetrate dell’ingresso vedo un lampione scaraventato a terra, ci sono auto distrutte, con vetri sparsi come granelli finissimi di sabbia a costellare il cemento. Raggiungiamo l’atrio, nemmeno la guardia notturna si vede in giro. Deve essersi rifugiata da qualche parte fino a che il giorno non riporterà la calma. «Questa è la mia ultima offerta. La mia macchina è dietro l’angolo, se ti dai una mossa, ti do uno strappo fino a casa» sbuffa con aria altera e la mano già premuta contro la porta di vetro, pronta a uscire. Esito, rimango lì impalata e lei lo interpreta come una risposta negativa, scrolla le spalle e si volta andandosene. Resisto non più di qualche secondo nel silenzio surreale del piano terra, popolato solo da alcune sedie nella zona ristoro e un grande bancone circolare di solito occupato da un omino scorbutico che non sa fare altro che indicare i cartelli per i vari piani o la strada per gli ascensori. Con il ticchettio dell’orologio appeso al muro che mi rimbomba nelle orecchie
mi decido a seguirla, quando esco Carla è all’angolo. Corro per riuscire a starle dietro, la chiamo e non appena la raggiungo per poco non mi scontro con la sua schiena. È ferma con le chiavi in mano che guarda la sua scintillante berlina, l’unica intatta di tutte quelle parcheggiate in fila lungo il marciapiede. “La solita fortunata” penso storcendo la bocca. Non si prende certo la briga di nascondere uno sguardo trionfale, porta una ciocca dietro l’orecchio e fa girare l’anello del portachiavi attorno alle dita con quel sorrisino compiaciuto che non l’abbandona mai. Quanto la detesto, eppure sono costretta ad andare con lei dato che la mia macchina è dal carrozziere. Ci siamo quasi abituate al pesante tanfo che fa venire il voltastomaco. Immagino che ora il sindaco abbia problemi più seri dell’avere una città che odora peggio di una discarica. Carla infila la chiave ma non fa in tempo a girarla e aprire la portiera che spari rapidissimi e ravvicinati vengono dalle spalle e ci sfiorano tagliando l’aria, lasciandoci pietrificate. Il finestrino, lo specchietto e l’intera fiancata dell’auto sono completamente bucherellate: una forma di groviera fatta di lamiera color rosso fuoco. Un uomo grida, sembra ubriaco. Noi facciamo lo stesso, spaventate. Un altro sulla quarantina sbuca dietro quella che era l’auto di Carla e inizia a correre in mezzo alla carreggiata deserta. Barcolla, zoppica tenendosi in piedi a fatica vista la ferita che gli solca la gamba. Gli spari continuano, fendono l’aria facendomi sentire un’ondata gelida lungo la schiena. Per la prima volta, sono davvero felice di non essere sola. Ci stringiamo l’una all’altra, tramortite alla sola idea di muoverci di un solo centimetro. Altri spari, stavolta non colpiscono macchine né panchine. Mi sembra perfino di percepire il rumore della carne dell’uomo che si straccia al violento contatto con i proiettili. Dalla schiena del fuggitivo partono schizzi di sangue, poi il suo corpo già debole cade a terra, riverso in avanti. Il giovane armato ricarica il fucile. È in quel momento che Carla mi afferra per il
polso e mi trascina verso il nostro luogo di lavoro.
Spingiamo ogni sedia dell’area ristoro davanti alla porta, anche se credo che servirà a poco. Lei invece è sicura di aver fatto un ottimo lavoro, dice che non c’è ragione di preoccuparsi, visto che nessuno sa che ci troviamo lì. Per un po’ rimaniamo nascoste dietro il bancone, ammutolite finché sentiamo i e schiamazzi. Qualcuno corre e impreca per la strada. Un paio di macchine sfrecciano velocissime con l’assordante rumore del clacson premuto che irrompe dalle vetrate. Sirene dell’ambulanza, poi è il turno di quelle della polizia. Cerco di sbirciare al fragore di una bottiglia che s’infrange contro il muro e dei bidoni dell’immondizia che prendono fuoco. Vorrei solo che tutto finisse.
Iniziamo a salire ai piani alti. Per evitare l’ascensore abbiamo affrontato già quattro rampe di scale, prendiamo la quinta quando qualcosa attira la nostra curiosità al di fuori della finestra. Precipita veloce ma questo non ci impedisce di renderci conto che si tratta di una donna, fluttua nell’aria avvolta da fumo nero. Viaggia rapida, come un’aquila in picchiata verso la sua preda, fino a che non si schianta con un gran tonfo contro il cemento. Al solo immaginare il fracasso del suo corpo che si disfa a causa dell’impatto mi sento male. Non voglio più salire, non sono sicura che la salvezza sia di sopra. Carla stranamente è della stessa opinione, quindi torniamo di sotto, nascondendoci dietro la porta chiusa a chiave del bagno accanto all’ufficio del personale. «Cosa sta succedendo?» sento la mia voce tremare, in ansia per il fatto che è lei a maneggiare il computer alla ricerca di risposte. La linea va e viene ma le pagine iniziano a caricarsi. «Si tratta di una contaminazione» poco dopo mi risponde perplessa, scorrendo con il touchpad il sito della sicurezza nazionale che va a rilento più che mai. Chissà in quanti lo stanno consultando. «Sembra sia ricollegato alla rottura del sistema fognario. Dicono di rimanere in casa, sbarrare le finestre e non far entrare nessuno, per nulla al mondo.
Nemmeno se conosciuto» dice mordendosi le labbra nervosa e facendo ciondolare il portatile poggiato sulle gambe incrociate. «Perché? Di che genere di contaminazione si tratta?» cerco di sporgermi oltre la sua spalla per leggere con lei. «Smettila di fare domande» brontola improvvisamente. «Non sono un oracolo, dannazione» ruggisce dando qualche pacchettina al computer, sperando che la linea così possa ripartire. «Dicono che si trasmette con il sangue» biascica sistemandosi un paio di occhiali sul naso. «E di certo ce n’è parecchio la fuori» la mia bocca commenta senza che la mia mente sia effettivamente in grado di compiere un ragionamento logico. I fiotti di liquido rosso e lattiginoso usciti dalla schiena di quell’uomo sono ricordi ancora vividi, immagini tanto vitali da sentire le vene irrigidirsi. «La città né è ricoperta» spiega davanti ad alcune foto che ritraggono numerose zone circostanti alla nostra. «Come diavolo è stato possibile?» chiedo più a me stessa, andomi le mani sul viso e sentendole tremare. «Perché proprio a noi?» mormoro senza smettere di camminare in cerchio attorno a lei. «Non si tratta solo di noi». Così dicendo volta lo schermo del computer in modo che anch’io possa vedere le ultime immagini caricate. «Il delirio sta calpestando ogni centimetro della terra». La sua voce è secca, le note armoniche prosciugate. L’immagine dei canali di Venezia dove, insieme ai rivoli d’acqua, si sciolgono litri di sangue denso proveniente dai corpi accatastati ai cigli della strada o sulle gondole ribaltate, mi fa impazzire. «Apri questo video» suggerisco puntando l’indice traballante. Urla sconcertanti prorompono dagli altoparlanti del computer, tanto che siamo costrette ad abbassare subito il volume. Un secondo dopo la ripresa è buia, si odono ancora rumori per altri trenta secondi, poi più niente. Il sito risulta improvvisamente svanito nel nulla. Carla agitata preme sui tasti alla velocità della luce, cercando qualche informazione.
«Ecco» esclama aprendo una pagina nera con le scritte rosse intitolata: We are the end. Noi siamo la fine, parole che s’impregnano addosso. «Cosa cavolo significa?» Lei solleva una mano chiedendomi qualche secondo per poter leggere. «Secondo questo tizio la sostanza che sta contaminando ogni cosa ha la capacità di inibire la ragione dell’essere umano. Qui parla di cervello rettiliano» borbotta perplessa stringendo gli occhi per cercare qualcosa di utile a capire. «A quanto pare sarebbe quella parte del cervello che rende l’uomo più simile a un’animale, che lo porta a essere più incline a rispondere a una situazione di minaccia. Spinge all’aggressione, al caos». «Mah…» l’aria mi si infittisce nei polmoni. «Alla distruzione» m’interrompe brusca. «Se quello che scrivono qui è vero, ci stiamo autodistruggendo. La specie umana non riuscirà a sopravvivere a un abominio del quale è la diretta artefice» conclude paralizzata scollando le dita dalla tastiera.
«Cosa succede?»
Stiamo correndo, fuggiamo. Sento sbraitare, odo il rumore di spranghe che infrangono le vetrate e quello delle sedie che vengono gettate a terra con violenza. Il fragore dei miei i segue quello di Carla, rimbombando nella discesa verso lo scantinato. Nessuna di noi ci è mai stata, sappiamo soltanto che l’azienda ci tiene la riserva del materiale da cancelleria, ci dovrebbe inoltre essere lo sgabuzzino con il necessario per le pulizie e la centralina elettrica. È verso quest’ultima che ci stiamo dirigendo, facendo saltare la luce nessuno ci troverà in quella topaia polverosa. Raggiunto il corridoio sotterraneo, ci rendiamo conto che qualcun altro ha avuto la nostra stessa idea. Una donna dalle forme giunoniche si materializza davanti
all’ultima porta sulla destra stringendo un piccolo estintore. Quando ci vede i suoi occhi castani si illuminano, felice di non essere più sola. Quando calpestiamo il bagliore delle luci d’emergenza sono in grado di riconoscerla: è Silvia, l’assistente di Carla, una donna dalla gentilezza travolgente e il fare di un’amorevole madre. La sua presenza ci rincuora. La mia collega e rivale le va incontro sollevata, noto che rilassa le spalle e le prende una mano tra le sue chiedendole se non ci sia nessun altro nascosto lì sotto. Silvia scuote la testa. La sagoma della segretaria rapidamente alza l’estintore e lo scaraventa contro la testa del suo capo. Poi un botto e l’immediato odore di sangue mi fanno indietreggiare. Carla ora è a terra immobile con una brutta ferita sulla fronte. Non so nemmeno se sia ancora viva, retrocedo anche se vorrei controllare. Riprendo a correre, indecisa su dove andare. In lontananza si sentono altri spari, la voce aspra di Silvia m’insegue insieme a quel suo o pensante e appiccicaticcio dato dal sangue che entrambe abbiamo sotto le suole delle scarpe. Voglio morire, voglio scomparire. La fatica mi straccia i polmoni. Mi guardo le spalle e lei è ancora lì. Inciampo. Non ho idea su cosa, provo un dolore lancinante strapparmi la pelle. Il fracasso delle mie ossa rotte si solleva in un crepitio inquietante. «Aiuto!» grido con tutto il fiato che ho in gola. Non so nemmeno se la voce mi sia uscita dalla bocca. Buio.
Anno 2245
Ore 15. «Respira». Delle mani mi carezzano le spalle, delicate ma con fare distaccato. «Stai tornando lentamente» sussurra l’uomo con voce serena, lieve. «L’inconscio ora ti riporta, ti fa ritrovare la tua energia… il tuo equilibrio». Seguo il suo consiglio e faccio fluire l’ossigeno che pesante mi attraversa la
trachea. Neanche fosse impregnato di gelatinoso petrolio. «Respira, e lascia che il tuo organismo si adatti» continua lui con quel tono vellutato. «Apri gli occhi, piano». «Ho freddo» è la prima cosa che riesco a dire. Non ho mai avuto labbra così secche e a ogni minimo movimento il dolore che provo è come una scarica elettrica. «Muoviti con cautela. Sei arrivata molto in profondità» così dicendo il professor Harrison si alza e raggiunge la sua scrivania mettendosi comodo. «Chi è lei? Cosa ci faccio qui?» chiedo frastornata. «Devo aver fatto un incubo». Attorno a me non c’è segno di morte, né di sangue o distruzione. Mi ritrovo sdraiata su di un lettino del quale adesso ho appena una vaga memoria. Il professore mi risponde distratto, è un uomo calvo dagli occhi scuri e con un pizzetto brizzolato che non smette di carezzare. «Adesso sei confusa e non ricordi ciò che ti avevo illustrato prima dell’inizio della nostra seduta» spiega paziente. «Hai ripercorso una tua vita ata, non si è trattato di un semplice sogno. Anche se lo può sembrare» ribatte con semplice banalità. «Ho ripercorso la mia morte, semmai» obietto spinosa mentre mi tocco le braccia e il petto, giusto per controllare di essere tornata. Di essere reale. «Se preferisci vederla così» scrolla le spalle inacidito premendo poi con due dita sul touch-screen che ricopre l’intera superficie della scrivania. Una voce femminile e metallica risponde immediatamente alla sua chiamata. «Professor Harrison, in cosa posso esserle utile?». «Qui abbiamo finito» dichiara autoritario appuntando qualcosa su una cartella. Un paio di secondi dopo una donna slanciata con tacchi vertiginosi e un tailleur che sbuca da sotto il camice bianco mi si avvicina. «Sentirà un lieve pizzicore» mi dice sfiorandomi il viso gelato con mani leggere. Annuisco e lei ne approfitta per sganciarmi di dosso quell’ammasso di ferraglia con la quale la mia mente è stata messa sotto osservazione. Mi aiuta a rialzarmi e mi offre qualcosa da bere.
«Mi sento… strana» accenno a massaggiarmi la gola ancora arida. «Come se qualcosa stia cambiando dentro di me» mi rivolgo all’uomo che è completamente assorbito davanti allo schermo del computer. «L’ipnosi regressiva apre le porte della mente» annuisce. «Grazie al tuo contributo, e a quello di molti altri, stiamo ricostruendo pezzo per pezzo gli avvenimenti della notte del 15 settembre 2015. Ciò che è successo quella sera, come sai, è diventato parte della nostra storia. I nostri ragazzi la studiano sui libri di scuola come la fine di un’epoca. E per poco anche dell’umanità». «Non… non riesco a capire». Le sue parole dovrebbero avere un senso, so che è così ma una parte di me non accenna a ricongiungersi con quel corpo. Lo fisso con occhi sbarrati, disorientata, questo sembra finalmente convincerlo – non senza un certo sforzo – ad aiutarmi a recuperare il contatto con la realtà. «Sei venuta qui lamentando ricorrenti incubi, adesso puoi avere la certezza che non si tratta del tuo inconscio, bensì di brandelli di memoria perduti. Pochi in quell’apocalisse sono sopravvissuti, ed è grazie a loro che siamo qui. Adesso ti sembrerà di non ricordare ma tu fai parte di quella che chiamiamo la “nuova generazione”, creata dai superstiti che hanno preso in mano ciò che era rimasto delle loro vite». Si interrompe solo per un secondo, scandagliando i miei occhi con preoccupazione analitica. «Molti di noi portano dentro il proprio codice genetico frammenti della loro vita precedente. Si tratta di un vero e proprio collegamento del quale la maggior parte della gente non ha la minima idea ma che con l’ipnosi possiamo scovare e analizzare. Vogliamo capire cosa sia effettivamente accaduto. Se la tossina sia stata creata da una casuale combinazione naturale o sia stata il risultato di una mirata ricerca scientifica». Il suo tono da manuale conclude il chiarimento, senza che il viso accenni a cambiare espressione. «Crede possa essersi trattato di un attentato?». Incredula sento la bocca spalancarsi e la mandibola farsi pesante. «Non sono mancate le ipotesi in tal senso» annuisce dubbioso. «A ogni modo, le nostre ricerche hanno lo scopo di comprendere come sia stata possibile una distruzione di massa di simile portata. Così da essere in grado di evitare che un giorno possa ripetersi» espone chinando il capo verso la spalla sinistra.
Costernata sento il gelo dentro le ossa mischiarsi con quello emanato dalla sua voce, il terrore di quei ricordi scava ancora sotto la pelle e l’odore di putrefazione non ne vuol sapere di allontanarsi dalle narici. Sto per fare un’altra domanda quando lui mi precede. «Adesso scusami ma, siete stati in molti ad aver risposto all’appello fatto dal nostro gruppo di ricerca quindi…» così dicendo m’indica la porta e abbassa lo sguardo. «Signorina West, per favore, faccia venire avanti il prossimo candidato». Sto per andarmene, con o instabile e sguardo perso, quando la sua voce si scontra con le mie spalle. «Non preoccuparti, in un paio di giorni tutto tornerà limpido come prima, e continuerai la tua vita come sempre».
MI CHIAMO SERENA MARTINELLI
Racconto di Claudia Beveresco
In un giorno piovoso di primavera andai a fare il provino. Attraversai tutta la città con i mezzi pubblici, un’ora di viaggio per giungere davanti a una fila infinita di giovani come me, in attesa del loro futuro. Mi incolonnai dietro alcune ragazze truccate pesantemente che chiacchieravano eccitate senza posa. Agitazione, ansia e timore si percepivano forti nella densità della pioggia. Attesi in silenzio, respirando con calma. Davanti alla commissione non provai alcun tipo di paura. Fui semplicemente perfetta. Infine ebbi la parte. Fra migliaia di giovani italiani io, Serena Martinelli di anni venti, fui la prescelta. Come vincere alla lotteria. Telefonai subito a casa: «Mamma ce l’ho fatta, ho avuto la parte!» Per poco mia madre non svenne dalla felicità. Io vedevo già i soldi che mi sarebbero caduti addosso a palate, la casa di proprietà che finalmente avrei potuto permettermi. Niente più code alla mensa dei poveri, niente più servizi sociali invadenti. Avrei avuto una vita normale, forse di più. Lavorai per qualche mese sul set e poi il film uscì nelle sale. Fu un successo senza precedenti. I soldi cominciarono ad affluire. Per strada la gente mi riconosceva, mi chiedeva l’autografo. Cominciarono ad arrivare richieste per altri film e famose serie
televisive. I pubblicitari mi tempestavano di telefonate e i maggiori programmi televisivi italiani mi volevano come ospite. Il mio agente era fuori di sé dalla gioia. «Serena, dobbiamo battere il ferro finché è caldo» diceva, «bisogna scegliere con accuratezza. Dopo un tale grande successo è più difficile mantenersi sulla cresta dell’onda». La cresta dell’onda. «È facile sbagliare e scivolare nel baratro» aggiungeva. Il baratro. «Mi fido di te» era sempre la mia risposta. Acquistai la prima casa in città e poi una al mare. Continuai a lavorare a un ritmo veloce e produttivo. La mia innata naturalità nella recitazione contribuiva a farmi divertire e il lavoro diventò la mia vita. L’universo mi sorrideva. Ero bella, brava, famosa e ricca. Compii ventidue anni. Mi chiamò Hollywood. Diligente, risposi. Il mio agente continuava nella sua tiritera: «Dobbiamo mantenerci sulla cresta dell’onda, Serena. Basta poco per cadere nel dimenticatoio, nel baratro» Cresta dell’onda. Baratro. «Mi fido di te» dissi. Arrivai alla notte degli Oscar. Vinsi come migliore attrice. Il mio viso era sulla copertina del Times. «Sei la migliore attrice di sempre» fu il commento del mio agente. A ventiquattro anni conobbi Luca. Faceva il tassista. Mi innamorai. Comprai un’altra casa con piscina e andammo a viverci insieme. Ci sposammo e
riempimmo la casa di fiori. Eravamo felici. Avevo tutto ma non riuscivo a rimanere incinta. Poi cominciai a svenire, molto spesso. «Finalmente ce l’abbiamo fatta» disse Luca eccitato in un giorno piovoso di primavera, «aspettiamo un figlio, vero?» «Forse» risposi. Dovevo finire in fretta il film che stavo interpretando, prima che mi crescesse la pancia. Ma l’unica cosa che mi crebbe dentro fu un tumore. Non c’era nessun bambino. «Avrai le migliori cure, te lo puoi permettere» disse il mio agente appena glielo comunicai. Interruppi le riprese per curarmi. Compii venticinque anni quando mi dissero che dovevo morire. Ormai non lavoravo più, ero sotto costanti cure che potevano prolungarmi la vita, ma il mio destino era segnato. arono i mesi e la gente cominciò a scordarsi di me. Non apparivo più nei giornali e in televisione. I soldi cominciarono a diminuire. All’improvviso non ero più nessuno e stavo per morire. Venticinque anni e il mio mondo stava per finire. Arrivai ai ventisei. Venne un inverno rigido, molto nevoso. avo le giornate in totale debolezza di corpo e di spirito, osservando la neve dalle finestre della mia casa, ormai priva dei bellissimi fiori. Per tirami su Luca mi raccontava tante storie avventurose che inventava sul
momento. Un giorno tornò da lavoro e cominciò a starnutire sangue. «Non è niente» dichiarò alla mia infermiera che accorse preoccupata, «c’è in giro una brutta influenza e ho il naso delicato». «Stia lontano da sua moglie, non può permettersi di prendere l’influenza» lo ammonì. Il giorno successivo Luca rimase a letto, tossendo dal profondo dei bronchi. «Cos’ha?» chiesi all’infermiera. «Ha la febbre alta» rispose lei, «è meglio chiamare il medico, potrebbe essere polmonite» poi starnutì e un fiotto di muco striato di sangue le uscì dalle narici. Fissammo sorprese quel muco rossastro. «Mi sa che è un’influenza molto contagiosa» constatai. La diagnosi del medico fu diversa: «Temo sia tisi, necessito di ulteriori analisi». Luca tossiva sangue. «La tisi non si trasmette con gli starnuti» affermai perplessa. Lui alzò le spalle. L’infermiera non tornò e me ne mandarono una nuova. Intanto Luca era stato ricoverato in ospedale. Dopo un giorno anche la nuova infermiera cominciò a starnutire sangue. Il quinto giorno, da quando aveva mostrato i primi sintomi, Luca morì. «Non è possibile!» gridai fra le lacrime, «sono io quella che doveva morire!» Uomini con una tuta da astronauti invasero la mia casa, sigillandola come un pacco regalo. Chiamarono Luca il “Caso Alfa”. Aveva trasportato nel suo taxi un ricercatore di Atlanta, trovato poi morto nella sua camera d’albergo. «Che cosa sta succedendo?» chiesi.
«Lei deve stare in quarantena» risposero. «Ma io sono già condannata» spiegai. «Lei non mostra alcun sintomo» dissero loro. «Muoio lo stesso». Poi un giorno mi svegliai e scoprii quanto la morte avesse colpito intorno a me. Nessuna infermiera era più venuta ad assistermi. Le macchine che mi tenevano in vita erano ferme e inerti, eppure io respiravo. Mi alzai in piedi, sbalordita di poterlo fare da sola. Uscii di casa. Mucchi di cadaveri giacevano ovunque. Le case erano silenziose e oscure. Nessuna automobile sfrecciava per le vie. La vita pareva avesse abbandonato il pianeta terra. Sbattei gli occhi, incredula. Vagai senza meta fino a sera. Non incontrai anima viva. La grande mietitrice era arrivata sputando sangue, il mondo era finito. Pensai alla morte come non avevo mai pensato prima, a una vecchia signora con il senso dell’umorismo: aveva ucciso tutti risparmiando me. Serena Martinelli, anni ventisei. L’unica sopravvissuta. Malata di tumore allo stadio finale. Fino a quando sarei rimasta sulla cresta dell’onda? Quando, infine, il baratro mi avrebbe inghiottita?
E così, voi che leggete queste righe, sempre che esistiate, sapete come è andata. Vago ancora sulla Terra devastata in cerca di qualcuno come me. Un sopravvissuto.
Qualcuno con cui ricominciare. Ma non ho detto la cosa più incredibile: sono guarita. Il cancro se n’è andato. Lo so per certo, lo sento. Qualunque cosa abbia quasi estinto il genere umano ha salvato me. Sono sana, bella, giovane, ho tutta la vita davanti. È una buona notizia, vero? A meno che non trovi nessuno. Se su cinque miliardi di persone fossi l’unica sopravvissuta? Chi sono io per vivere così tanto, a lungo nel nulla? Non sarei nessuno per nessuno. Il mondo avrebbe la sua totale e completa fine.
Mi chiamo Serena Martinelli, ho ventisette anni: c’è qualcuno in ascolto?
VEDO LA GENTE MORTA
Racconto di Daniela Barisone
Quando avevano iniziato con quella stupida diceria del terremoto a Roma, avevo liquidato tutta la faccenda con una semplice scrollata di spalle. Figurarsi se era roba vera, sono sempre stato un ragazzo pragmatico, non credo a certe stronzate da fine del mondo o 2012 o programmi alla Mistero. L’11 maggio non ci sarebbe stato nessunissimo terremoto, alla faccia dei moderni Nostradamus. Ne ero pienamente convinto, mentre prenotavo la mia prima vacanza romana in un’agenzia viaggi del vercellese. Mi chiamo Andrea, ho ventisei anni e per parecchio tempo ho lavorato in uno supermercato della zona, che non faceva altro che sfruttarmi. Mi sono licenziato e ho deciso di prosciugare i pochi soldi della mia liquidazione per svagarmi un po’. Non ero mai stato a Roma, mai vista e mai vissuta, era il luogo perfetto dove iniziare la settimana di ferie che mi ero faticosamente guadagnato. Non avevo abbastanza soldi per andare al mare o a Jerba come sognavo – oh, Jerba! L’isola delle meraviglie – così, dopo una lunga lotta intestina contro me stesso, mi ero detto che un giovanotto in gamba come me preferiva le città d’arte piuttosto che le discoteche di un’isola tunisina o la movida di un’Ibiza. C’erano divertimenti anche a Roma, no? Ritirai il plico contenente i dati del soggiorno e il prezioso biglietto per il FrecciaRossa che mi stava aspettando alla Stazione Centrale di Milano, pronto a partire.
“Ufficio dell’anagrafe di Roma, siamo spiacenti di comunicare che al momento siamo chiusi per terremoto”.
“Ufficio del registro, chiuso per possibile terremoto”. Sbuffai, levandomi le cuffie dalle orecchie, persino Radio Deejay aveva iniziato a informarsi presso i vari uffici pubblici della capitale, intervistando gli impiegati su come veniva vissuta l’ansia per l’imminente sisma. Che palle. Possibile che la gente non capisse? Non sarebbe successo niente di niente! Nessuna scossa di terremoto avrebbe aperto Roma in due. Ma perché c’era ancora gente capace di credere a simili cretinate? Non sapevo spiegarmelo, così rimisi le cuffie nelle orecchie e mi sintonizzai su Radio 105 per sentire un po’ di Zoo, rannicchiandomi nel sedile del lussuoso treno su cui viaggiavo. Prima classe: almeno per una volta. Il tizio dai capelli impomatati e il completo gessato grigio di marca davanti a me fece una piccola smorfia, mi stava osservando con insistenza. Da come mi guardava potevo carpirne i pensieri, nei suoi occhi leggevo quanto mi definisse un piccolo e sudicio provinciale piemontese sceso da un altrettanto sudicio treno regionale veloce, per portare le zecche dei suoi dreadlocks biondi sopra la prima classe di un FrecciaRossa. Proprio davanti a lui. Ancora non lo sapevo, ma si chiamava Carlo, era un deputato del Partito della Libertà, anche se lo avevo dedotto dalla grossa e pacchiana spilla che teneva applicata sul risvolto della giacca. In ogni caso non avrei mai associato la sua faccia a uno che avesse militato nelle file della Lega, non sembrava abbastanza stupido per obbedire ciecamente agli ordini privi di senso di un partito come quello. Chissà se si era fatto benedire dalle acque del Po’, se ne faceva un gran parlare una volta. Ridacchiai, non ero un idiota e sapevo perfettamente come riconoscere un finocchio come me. Niente gay nella Lega, solo uomini veri! Il tizio strinse le labbra, forse non mi considerava esattamente un sudicio provinciale piemontese e non ero poi così disgustoso. Magari una volta lavato e
ripulito potevo anche risultare carino, chissà, coi capelli lavati! Fanculo… Per più di qualche minuto provai a immaginarmi come dovesse essere farsi una scopata con quel tizio. Mi persi nella mia fantasia, mentre il suo sguardo lampeggiava nascosto dietro l’imibile faccia di pietra tipicamente politica. Riuscivo solo a pensare a cose oscene, mi piacevano gli stronzi come lui. Dio, che cosa fantastica e sporca avrebbe potuto essere. «Biglietto, prego». La voce del controllore mi risvegliò di soprassalto da quel sogno a occhi aperti, facendomi maledire tutto e chiunque nell’arco di dieci chilometri. Il tizio di fronte a me mostrò il biglietto e io feci lo stesso, senza nemmeno sfilarmi le cuffiette. Lo vidi riprendere in mano il portatile, probabilmente iniziò a mandare email, cercando disperatamente di ignorarmi, mentre muovevo la testa a ritmo della musica sparata nelle orecchie. Lo percepivo, ero sicuro di avere a che fare con uno come me, avrebbe voluto lasciarsi andare, inconsapevole che gliene sarebbe mancato del tutto l’opportunità.
Nel primo pomeriggio del 9 Maggio, decisi di andare a visitare i giardini di Villa Borghese. In realtà non me ne fregava nulla, ma dovevo fare un po’ di foto da portare alla mamma e a quel cretino di Roberto, il mio vicino di casa che mi piaceva tanto e che non ne voleva sapere di mettersi con me. Così mi rigirai fra le mani la cenciosa guida che un tizio basso e unticcio in stazione mi aveva venduto pè dui euri! e avevo iniziato a camminare alla ricerca dell’autobus giusto, dopo aver lasciato il mio bagaglio in albergo. Con una certa sorpresa avevo scoperto che il tizio in treno con me alloggiava a poche stanze dalla mia. «Ehi, lo sai? Hanno chiuso anche un paio di negozi in centro per quella storia del terremoto e la fine del mondo… ma te ci credi?» ridacchiò una ragazza all’amica mentre mi avano di fianco, con le minigonne fin troppo svolazzanti. L’altra, con i capelli neri e abbronzata in maniera innaturale rispose: «Ma smettila, non credo a queste cazzate. L’unica cosa che me le fa girare è che i negozi che hanno
chiuso sono quelli dove volevo andare a comprare le scarpe!» Sembravano davvero due oche. Mi misi le cuffie nelle orecchie e accesi il lettore mp3, allontanandomi. Avvertivo un vago senso di disagio in fondo allo stomaco. Forse non era stata così geniale l’idea di prendersi una vacanza a Roma…
Il giorno successivo fu una normalissima giornata di sole e eggiate, foto scattate al Colosseo e altre stronzate tipicamente da turista. Sarebbe andato tutto benissimo, se non fosse stato per l’incredibile quantità di negozi che avevo trovato serrati. La gente girava poco per le strade, i negozianti che avevano tenuto aperto appartenevano agli scettici che non credevano a una sola parola di quelle cretinate dette ai Tg. Se un meteorite fosse caduto su Roma o un terremoto l’avesse colpita, la capitale sarebbe stata l’ultima ad avere problemi. In fondo tutta l’Italia ne avrebbe avuti, o no? Ecco perché non credevo a una parola di tutte quelle sciocchezze. Ben presto mi dovetti rifugiare in uno dei pochi bar aperti, mi presi una granita per sconfiggere il caldo asfissiante e alzai la testa verso il televisore inchiodato al muro che trasmetteva le notizie del giorno. Del terremoto e della presunta fine della città di Roma non si parlava nemmeno più. «Lo avevo detto io che erano tutte stronzate» borbottò il barista, ando uno straccio sul bancone e tirandolo a lucido. «Figurati se viene un terremoto in questo posto!» «Ma figurati Robé!» interloquì un vecchietto, seduto a uno dei tavolini. «Sarà la solita scusa tirata fuori da quelli del comune per non andare a lavorare». Mio malgrado mi ritrovai a ridacchiare a quella battuta. Visto quel poco che facevano gli statali, non mi sarei per niente stupito se il terremoto fosse una cosa inventata.
Pagai la consumazione e lasciai il bar con un improvviso senso di leggerezza. I negozi erano chiusi? Chissene frega, avrei fatto la miglior vacanza della mia dannata vita. Inoltre il tizio del treno stava nel mio stesso albergo, magari sarei riuscito a farmi coraggio e provarci, per rendere quella vacanza ancora più appetibile.
Era l’11 maggio mattina, quando approfondii la mia conoscenza con Carlo, il tizio del treno. Successe tutto in maniera piuttosto scomposta a dire il vero, nulla a che vedere con l’approccio romantico che avevo in mente di riservargli per poter entrare nel suo letto. eggiavo tranquillo per il corridoio, quando mi prese per la manica, trascinandomi nella sua stanza. In preda a una crisi di panico, mi raccontò cosa gli era appena successo. Pochi minuti prima era strisciato fuori dal letto e si era trascinato a fatica nel bagno del piccolo e squallido albergo. Dopo aver pisciato si era fatto la barba. Dal colorito spento e dall’occhio vitreo di un post sbornia, pareva uno zombie. Tornato in camera con lo spazzolino ficcato in bocca aveva la televisione mentre cercava i calzini nella valigia. Ci aveva messo più di un attimo per capire che il telegiornale era inframmezzato da ronzii. Si era girato per dare un colpo all’apparecchio quando la sua attenzione era stata finalmente colta dallo schermo. Secondo il telegiornale Roma era preda a un delirante attacco da parte di uomini in evidente stato di disagio che attaccavano altri esseri umani sbranandoli a morsi. Non si conosceva ancora la natura di quella strana situazione, ma si era già iniziato a etichettare quelle persone come zombie. Il servizio terminò con la giornalista che afferrava il cameraman e fuggivano insieme per scappare dalle dita protese di due infetti sfuggiti dal cordone della polizia in Piazza di Spagna. Lo spazzolino gli era caduto di mano e si era voltato di colpo verso la finestra, tirando le tende. Lo spettacolo che le telecamere stavano trasmettendo era ben visibile ai suoi occhi attraverso il vetro. La stronzata sulla Fine non era una bugia, ma non c’era stato il terremoto,
nessuno gli aveva detto di prepararsi a un’apocalisse zombie! Corso di nuovo in bagno a sciacquarsi la bocca e la faccia, aveva valutato per un secondo che tutta quella faccenda doveva essere sicuramente una presa per il culo. Necessitava di schiarirsi le idee, non era possibile che il giorno prima non ci fosse nulla e la mattina dopo ci fosse il delirio! Attanagliato da una paura ancestrale, era tornato in camera e aveva guardato di nuovo fuori dalla finestra. Niente, tutto come prima. Gente apparentemente morta che arrancava per strada assalendo i anti incauti che non sapevano nulla di quanto fosse successo. Aveva indossato rapidamente un paio di vestiti, si era allacciato le scarpe e cautamente aveva aperto la porta che dava sul corridoio per vedere come fosse la situazione. Alla sua destra una stanza si era appena aperta e ne ero uscito proprio io. Andavo verso di lui, alle orecchie le onnipresenti cuffiette, mentre armeggiavo con il lettore mp3. Non mi ero accorto che dietro di me una figura si muoveva scompostamente, il giovane deputato aveva visto abbastanza film per sapere cosa fosse e quanto fosse pericoloso. Carlo mi afferrò per un braccio e mi trascinò nella stanza, chiudendo il battente in faccia a quella che probabilmente in vita era stata la donna delle pulizie dell’albergo.
«Ma che cazzo…» finii a carponi sulla moquette, senza capire. Guardai storto l’altro e gettai il lettore da parte, mentre cercavo di tirarmi su. «Ehi amico, se volevi invitarmi a uscire potevi farlo in maniera più gentile». «Ti prego, dimmi che non sono pazzo» ansimò invece Carlo, afferrandomi per una mano e obbligandomi a seguirlo nei pressi della finestra. «Dimmi se quello che vedo è vero o è follia!» Feci una smorfia e guadai fuori di malavoglia. Il fiato mi si mozzò in gola e mi chiesi quando diamine era iniziato tutto quel casino e dove diavolo ero mentre accadeva.
11 Novembre 2012 – 18 mesi dopo
Roma sembrava deserta, i pochi cadaveri che avessero ancora un’apparenza vagamente umana erano gettati agli angoli della strada e non si muovevano. Dopo l’11 maggio dell’anno precedente le notizie erano state poche e discontinue. Si era parlato di fatalità, magia nera, incidenti diplomatici… La verità in realtà non la sapeva nessuno e chi la sapeva stava ben in alto, chiuso al sicuro nei palazzi governativi. Non avrebbe mai ammesso di essere a conoscenza dell’imminente attacco che i terroristi avevano compiuto con un virus nella fatidica notte dell’apocalisse, coperti dalla notizia del terremoto. A dire la verità non mi importava più un fico secco di cosa fosse successo. Mia madre era morta, lo avevo scoperto quando ero riuscito a scappare da Roma con Carlo, era stata mangiata viva dal vicino a cui per anni avevo fatto il filo. L’infezione virale, che avrebbe dovuto comprendere solo la capitale, era sfuggita ben presto di mano ai terroristi, si era dilagata in tutto il territorio italiano, valicando i confini. Da lì a fare il salto del mare e arrivare in America il o era stato breve. In breve tempo il sistema era collassato. La società, così come la si conosceva, non esisteva più. Noi due avevamo deciso di tornare a Roma, avevamo sentito dire che esisteva un punto nevralgico per i sopravvissuti. Nascondendoci qua e là durante il viaggio, ammazzammo tutti quelli che all’apparenza sembravano zombie, ma che in realtà era gente vivissima e malata, con una fame terribile di carne umana. L’istinto cannibale era stato risvegliato da un difetto imprevisto del virus, diffuso nella notte fra il 10 e l’11 maggio 2011, causando milioni di morti. Anche Carlo era morto. Si era fatto male mentre cercavamo di raggiungere la base militare. Era rimasto indietro, avevo provato a trascinarlo via ma fummo attaccati e mi implorò di scappare. Avevo visto le bestie azzannarlo e strappargli brandelli di carne dal corpo. Avrei voluto sparargli in fronte per non farlo soffrire, ma avevo un dannato bisogno di quei pochi proiettili a mia disposizione e uno sparo significava attirare troppa attenzione indesiderata sulla mia persona.
A un anno esatto di distanza, da quel maledetto 11 maggio 2011, cammino al centro della piazza di San Pietro. Del fatidico centro dei reduci, non vi è traccia. Intorno a me solo mucchi di cadaveri. A ben pensarci non vedo qualcuno di sano ormai da più di sei mesi. L’aria è fetida, con ogni probabilità sono malato anche io e non me ne rendo conto. L’unica cosa di cui sono sicuro è che sono terribilmente stanco. Posso benissimo essere l’ultimo uomo sulla faccia della terra, per quanto ne so, e forse lo sono davvero. Mi giro per abbracciare il paesaggio con lo sguardo e urlo. Con un sorrisetto mi metto le cuffie nelle orecchie e attacco ad ascoltare la musica da un vecchio walkman a pile che ho trovato in casa di qualcuno durante il mio viaggio nell’inferno con Carlo. Dai bordi della piazza iniziano ad accorrere quelli che ormai chiamo zombie per comodità. Il mio grido li ha richiamati, hanno fiutato la carne fresca. In mezzo a loro c’è anche Carlo, quasi non lo riconosco a causa del viso deformato. Meglio così, anche se speravo che le sue sofferenze fossero già finite. Alzo il volume del walkman e chiudo gli occhi. Se sono l’ultimo uomo sulla faccia della terra e oggi devo morire, tanto vale farlo con la musica dei Queen sparata al massimo nelle orecchie.
L’ULTIMO VIAGGIO DEL SIGNOR ROSSI
Racconto di Fiorella Rigoni
«La Terra non era più un luogo dove porsi delle domande. Era un posto per la crescita, per i vegetali. Era come una serra».
Brian W. Aldiss, Il lungo meriggio della Terra.
Il signor Enrico Rossi si alzò di buon’ora. Il lavoro lo teneva lontano da casa per giorni, a volte settimane. La sera prima era arrivato stanco, dopo un viaggio di ben quattro ore e aveva lasciato la macchina parcheggiata in strada. Stavolta era rimasto fuori casa per venti giorni e adesso aveva bisogno di staccare la spina. Quel fine settimana sarebbe stato dedicato alle pulizie e al riposo. Dalla finestra della cucina entrava la luce del sole e lui la aprì per far entrare anche un po’ d’aria. Preparò il caffè, prese le fette biscottate e la marmellata, poi accese la Tv. Molti canali non funzionavano, il segnale era assente. L’aroma del caffè si sparse per la cucina. Versò il liquido caldo nella tazza e lo zuccherò. Spalmò una fetta biscottata e l’addentò dimenticandosi per un attimo della Tv. Mentre ascoltava distratto le notizie del Tg, la sua attenzione fu attratta dal suo giardino: era in condizioni pietose, l’erba era altissima. Non ricordava esattamente quando l’aveva tagliata l’ultima volta, non gli sembrava fosse ato tanto tempo. Non aveva mai visto l’erba così alta e, soprattutto così rigogliosa. Gli pareva addirittura che il colore fosse più brillante del solito. Sollevò la tazza e sorseggiò il caffè. Poi scosse la testa e si diede dello stupido. «Di sicuro sono troppo stanco» disse tra sé. Distolse lo sguardo e si concentrò sulle immagini che avano in televisione. Diede un altro morso alla fetta
biscottata e finì di bere il caffè mentre lo speaker dava la notizia dell’imminente matrimonio tra due famose star di Hollywood. «Le solite idiozie» borbottò sotto voce mentre si alzava. Ancora una volta lo sguardo cadde sul giardino. L’espressione si fece pensierosa. Un attimo dopo uscì. Fermo sulla porta che dava sul retro guardò l’erba davanti a lui. Era alta almeno un metro ed era di un incredibile verde smeraldo. Si fece strada a fatica fino al capanno degli attrezzi, entrò e portò fuori il tagliaerba. Lo accese e iniziò a percorrere il piccolo prato. Faceva fatica ad avanzare, come se ci fosse qualcosa che lo tratteneva. Gli ci vollero due ore per avere la meglio su quella specie di foresta. Madido di sudore e soddisfatto, rastrellò il prato, raccolse tutto quello che aveva tagliato in un grande mucchio, lo infilò dentro un carretto e lo portò in discarica. Attraversando la via che lo conduceva all’ecocentro rimase colpito dal silenzio che lo circondava e dall’incuria dei giardini. Di norma il sabato mattina era carico di rumori, soprattutto delle grida dei bambini che giocavano all’aperto. Una strana inquietudine s’impossessò di lui, ebbe la sensazione di essere l’unico in circolazione. Il cancello dell’ecocentro lo trovò socchiuso. Il custode non c’era. Il signor Rossi entrò e vuotò il carretto nell’apposito spazio, poi si guardò intorno. Dietro i vari container utilizzati per il recupero di materiali svettava l’erba alta. Rimase a osservarla per un attimo, poi riprese il carretto e uscì. Man mano che procedeva lungo la strada lanciava occhiate tutt’intorno. Non c’era anima viva, nessuna persona, nessun animale, nessun bambino. Un brivido di freddo gli salì lungo la schiena, nonostante il caldo afoso della giornata. Davanti alla casa dei vicini si fermò. L’erba nel giardino era altissima, talmente alta che nascondeva la costruzione. «Ma che diamine, non me n’ero accorto?» si domandò perplesso. Guardandosi in giro, si rese conto che era così dappertutto. Una folata d’aria ò tra gli steli che svettavano a pochi metri da lui, facendoli dondolare. Inebetito, rimase a guardarli. Si sentì toccare una spalla e trasalì con violenza, gridando per lo spavento. «Mi scusi, non volevo spaventarla!» disse il postino. «È che ero sovrappensiero, mi scusi lei» rispose sollevato il signor Rossi
vedendo il ragazzo in divisa. «Stamattina in giro non c’è nessuno, è successo qualcosa?» chiese incerto. «Non saprei» rispose il postino guardandosi attorno. «Però ha ragione, non ho visto anima viva finora!». Frugò dentro la sacca e prese un pacchetto di lettere fermate con un elastico. «Volevo darle queste, dentro la sua buca non ci stavano più» concluse. Il signor Rossi le prese e fece un sorriso tirato. «Grazie» commentò guardando l’altro che si allontanava. Riprese il cammino, ogni tanto lanciava strane occhiate alle case che lo circondavano. L’erba sembrava farla da padrona in ogni giardino, e non solo. Arrivato a casa riportò il carretto dentro il garage, poi si asciugò il sudore dalla fronte e si avvicinò alla porta. Dentro si stava molto meglio, almeno così gli sembrò all’inizio, poi anche lì iniziò a fare caldo. Andò in cucina e si prese una bottiglietta d’acqua fresca dal frigo. Diede una rapida occhiata alle buste appena ricevute e le gettò sul tavolo. C’era molta pubblicità e alcune fatture, sospirò e rialzò il viso. Puntò gli occhi sulla finestra e rimase di stucco: l’erba era di nuovo alta. Si avvicinò al vetro per guardare meglio, certo di aver avuto un abbaglio. Non era così. Deglutì a fatica mentre cercava di capire. Convinto di essere preda di un’allucinazione, uscì a controllare. Fece un o, poi due e guardò verso terra: l’erba gli arrivava a metà polpaccio! «Non è possibile!» borbottò. «L’ho tagliata due ore fa, non può già essere così alta!» In quel momento squillò il cellulare. Trasalì nel sentirlo, rimase attonito a guardare il numero sul display. «Pronto» rispose rientrando in casa. Sentire una voce umana gli diede un certo sollievo e, per un attimo, tutto il resto ò in secondo piano. «No, non importa. Nessun disturbo, davvero» disse appoggiandosi al piano della cucina. Rimase in ascolto per alcuni minuti, annuendo in silenzio. «Allora partirò lunedì, erò prima in ufficio e prenderò tutti i plichi dei clienti da cui dovrò andare» replicò con voce calma. «Mi spiace per lui, spero che si rimetta in fretta» commentò prima di riagganciare. Quando qualcuno si ammalava lui si doveva sorbire i clienti degli altri. Era l’unico non sposato e quindi poteva anche stare lontano da casa per tempi più
lunghi. A volte i colleghi ne approfittavano, fingendosi impossibilitati a fare il loro giro magari con la scusa che qualche bambino stava male e la moglie non poteva lasciare il lavoro, tanto c’era sempre lui, il jolly della situazione, da vent’anni viaggiava in lungo e in largo per l’Italia. Finì di bere e andò in camera, disfece i bagagli e caricò la lavatrice. Tornò nella stanza e ripreparò la valigia. Si guardò intorno sconsolato. C’era la grondaia da svuotare, la cucina da ridipingere e lui non aveva tempo. Avrebbe dovuto preparare qualcosa per il pranzo, ma la dispensa era vuota. Doveva fare la spesa, ma sarebbe ripartito il lunedì e, non sapendo quanto tempo sarebbe rimasto fuori, accantonò la cosa. Uscì in veranda e si accomodò sulla sedia a dondolo. Davanti a lui la distesa d’erba era ancora lì: adesso gli arrivava ben sopra al ginocchio. Lunghi steli rigidi si piegavano dolcemente alla brezza leggera. L’uomo li fissò con aria accigliata chiedendosi cosa stesse accadendo.
Laura stava percorrendo la stradina di campagna a forte velocità. Stava andando a trovare un’amica ed era felice. All’improvviso la macchina ebbe un sussulto, poi un altro e un attimo dopo si fermò. Dal cofano uscì una densa nube di fumo bianco. La ragazza lo guardò con disappunto, poi scese. «Maledizione!» disse dando un violento calcio alla ruota. «Perché proprio adesso?» disse a voce alta. Sbuffò e prese il cellulare. «Ciao!» disse quando l’amica rispose. «Ho un problema. Mi si è fermata l’auto!» continuò rabbuiata. «Vuoi sapere dove sono?» chiese guardandosi attorno. «Non lo so! Non ci sono cartelli da nessuna parte e nemmeno case, solo un mare d’erba alta e verdissima!» replicò con stizza. «Certo che ho preso la strada giusta! Per chi mi hai presa?» disse in risposta. «Sì, dal bivio avrò fatto all’incirca tre o quattro chilometri». Aggrottò le sopracciglia e rimase in ascolto. «Sei sicura?» chiese un attimo dopo. «Guarda che qui non c’è proprio nulla!» rispose arrabbiatissima. «E come faccio a saperlo? Non la vedo, quindi devo dedurre che non c’è!» disse ancora una volta. «Mi vieni a prendere?» chiese dopo un lungo ascolto. Poi sorrise un po’ più sollevata e salutò l’amica. Riagganciò e si appoggiò all’auto in paziente attesa. Era metà mattina e il sole scottava. Intorno a lei tutto era silenzioso, si sentiva solo il fruscio dell’erba
mossa dalla brezza. Laura si guardò attorno, mentre una strana inquietudine la assaliva. “Non c’è nessun rumore” pensò tra sé la ragazza, “eppure con questo caldo le cicale dovrebbero frinire a più non posso” continuò riflettendo sulla cosa. Laura aveva una nonna che abitava in campagna, in mezzo a distese di campi, proprio come quelle. Quando stava da lei, la mattina veniva svegliata dal canto degli uccellini e quando usciva a giocare, sentiva le cicale frinire all’infinito. Ma qui no, non si udiva nessun rumore e la cosa iniziò a insospettirla e a spaventarla. Fece due i attorno all’auto, si fermò sul ciglio della strada e fissò la marea verde che aveva davanti. Non sembrava esserci niente di strano, tolto il fatto che l’erba era molto alta, aveva un colore brillante, , sembrava luccicasse. Allungò una mano e tentò di strappare un lungo filo da quell’ammasso. Tirò con tutte le forze ma non ci riuscì. Si avvicinò di più, si chinò e serrò la base del lungo stelo tra le mani cercando di strapparne le radici, fu tutto inutile. Si accorse che alcuni piccoli viticci si erano attorcigliati sul mignolo, sorrise nel vedere quei buffi filamenti verde pallido e ritrasse la mano. I piccoli legacci si strapparono e Laura si rialzò. Si spolverò le ginocchia e guardò ancora una volta la distesa verde. Un attimo dopo scosse il capo decisa a tornare sulla strada, non vedeva l’ora che Michela arrivasse. Si girò di scatto e, non riuscendo a muovere un o, finì lunga distesa. Imprecò sotto voce mentre guardava verso i piedi, alla ricerca del maledetto sasso che l’aveva fatta inciampare. L’orrore si dipinse sul viso quando vide i lunghi viticci che le serravano i piedi in una morsa. Alcuni di loro stavano serpeggiando lungo le gambe, risalendo lentamente lungo il corpo. Urlò e si dimenò, si aggrappò con le unghie al parafango dell’auto per non farsi trascinare dentro quel mare d’erba, per non farsi inghiottire, ma fu tutto inutile. Mezz’ora dopo di lei non era rimasto più nulla.
Il signor Rossi lasciò la casa alle quattro di mattina, fuori era ancora buio e non perse tempo a guardarsi attorno. Salì sull’auto e imboccò la strada che portava fuori città. Accese la radio e cercò una stazione decente, aveva bisogno di compagnia. Lo aspettava una lunga giornata. All’alba era già in autostrada, per sua fortuna non c’erano code. Di solito il lunedì mattina tutti erano in ritardo e quindi correvano come matti, ma quel giorno non era così. Al casello non aveva trovato nessuno e per i primi chilometri non aveva visto altre auto, così aveva sorriso e si era rilassato.
Erano le sei quando decise di fermarsi, aveva bisogno di un caffè e magari di leggere un giornale. Rallentò e uscì alla prima piazzola che trovò. Si avvicinò al parcheggio, stranamente vuoto, e sbirciò verso il bar. Gli sembrò strano non vedere i soliti camion parcheggiati e il solito viavai di gente che di norma affollava gli autogrill. Scosse il capo e scese dall’auto. Percorse i pochi metri che lo separavano dal caffè guardandosi attorno, ancora una volta una strana inquietudine si era impossessata di lui. Al bancone non c’era nessuno, nonostante tutte le luci fossero accese. L’uomo fece un giro tra gli scaffali traboccanti di caramelle e biscotti, di bibite e giornali e aspettò che il barista arrivasse. Dopo un buon quarto d’ora iniziò a preoccuparsi. «C’è nessuno?» disse alzando la voce e restando in ascolto. Nessuno rispose, udì solo un debole fruscio che non seppe identificare. «Ehi!» gridò allora. «Volevo un caffè, è possibile?» provò a dire a voce alta ma nessuno si fece avanti. Il signor Rossi iniziò ad aver paura, c’era qualcosa che non andava. “I ladri!” pensò tra sé mentre indietreggiava e usciva da lì. «Sicuramente ci sono dei ladri in giro, magari hanno già ucciso tutti» continuò a rimuginare tra sé mentre si voltava e iniziava a correre verso l’auto. Quando fu al sicuro dentro l’abitacolo prese il cellulare e compose il 118. Il numero suonò libero per parecchi secondi, ma niente di più. Guardò il cellulare e poi guardò l’entrata dell’autogrill. Non c’erano movimenti, nemmeno rumori, solo silenzio. Deglutì a fatica e mise in moto l’auto allontanandosi da lì in fretta.
Michela arrivò all’incirca un’ora dopo la chiamata di Laura. Accostò e scese dall’auto guardandosi attorno. Della ragazza non c’erano tracce, solo la macchina ferma sul ciglio della strada. «Laura!» chiamò a gran voce. Non successe nulla, intorno a lei c’era solo silenzio. Luigi sbuffò mentre le si accostava. «Dov’è la tua amica?» chiese dando un ultimo tiro alla sigaretta. Michela fece spallucce. «Ah, non ne ho la più pallida idea. Questa è la sua macchina, ma lei non c’è, non so che dirti!» rispose con una smorfia.
«Non è che ha trovato qualcuno che le ha dato un aggio?» domandò il ragazzo buttando a terra il mozzicone e schiacciandolo con il tacco della scarpa. «Falle uno squillo e senti dov’è, mica possiamo stare qui tutto il giorno!». Michela compose il numero in fretta, poi aspettò che l’amica rispondesse. Nel frattempo rialzò gli occhi e si guardò attorno. Lì avrebbe dovuto esserci il chiosco di Nino, ne era sicura, ma invece c’era solo una distesa infinita di steli verdi. “Forse mi sbaglio” pensò ascoltando la voce preregistrata che annunciava che l’utente aveva il cellulare non raggiungibile, “sicuramente è più avanti” si disse ancora. Chiuse la chiamata mentre l’inquietudine le serpeggiava lungo la schiena. «Non è raggiungibile» disse con un nodo alla gola. «Forse le è capitato qualcosa» continuò. Luigi le si avvicinò. «Ma va, magari ha trovato qualcuno che l’ha rimorchiata fino in città!» replicò il ragazzo. «Andiamo via» continuò guardandosi attorno. «C’è uno strano silenzio qui» commentò Michela sbirciando oltre l’auto ferma dell’amica. «Dov’è il chiosco di Nino?» chiese un attimo dopo. Luigi corrugò la fronte. «Dovrebbe essere qui, da qualche parte» rispose. Michela lo fissò. «Eppure qui non c’è» tagliò corto lei. «E perché diamine l’erba è così alta?» continuò a chiedere avvicinandosi al ciglio della strada. «o spesso di qua e non l’ho mai vista così!» Lui si guardò intorno. «Hai ragione, qui di solito ci sono campi di granoturco, chissà perché quest’anno non lo hanno piantato!» Michela era ferma davanti alla piccola utilitaria di Laura e teneva gli occhi fissi a terra. Luigi si avvicinò. «Cosa guardi?» le chiese. «C’è del sangue» rispose lei puntando un dito e indicando una lunga striscia rossastra. «Finisce nel prato» continuò a bassa voce. Luigi s’inginocchiò e
osservò meglio. «Il sangue è fresco. Qualcuno è stato trascinato» disse indicando il punto esatto dove iniziava la traccia. «Si è tagliato con questa scheggia di vetro che esce dal terreno. Ha iniziato a sanguinare mentre lo tiravano dentro il prato» continuò tornando a fissare la marea verde. «Laura…» bisbigliò Michela. Luigi si alzò in piedi e fece un paio di i. Davanti al muro d’erba si fermò, inquieto. «Potrebbe trattarsi di qualche animale, non possiamo essere sicuri che si tratti di lei!» ribatté Luigi. «Ma la macchina è qui e lei non c’è!» replicò con ansia la ragazza. «Quante possibilità ci sono che non si tratti di Laura?» singhiozzò. Luigi sospirò con forza. «Ok, dobbiamo entrare a cercarla!» disse controvoglia. Michela gli si strinse contro la schiena, adesso il terrore le attanagliava lo stomaco. «Dovremmo chiamare la polizia» mormorò senza staccare gli occhi da lui. «L’idea di entrare lì dentro non mi piace». Luigi aprì il bagagliaio dell’auto e prese il crick, lo strinse con forza nella mano e si avvicinò risoluto al ciglio della strada. Lei lo guardò e poi lo prese per mano. I due si fecero strada tra i lunghi steli verdi, guardando a terra per vedere se riuscivano a individuare le tracce di sangue. Avevano fatto solo pochi i quando l’erba si richiuse dietro di loro con un fruscio sinistro. La giovane sobbalzò e si girò di scatto. La luce s’incupì d’improvviso, quasi il sole fosse stato nascosto da una nuvola, mentre una cappa d’umidità li ammantava. Luigi guardava a terra, in cerca di un indizio. «C’è qualcosa di strano qui» bisbigliò lei. Lui non rispose, fece un altro o a testa china, facendosi strada a fatica tra quei lunghi fili d’erba. Nella mano teneva ben stretto il crick, pronto a usarlo. «Non c’è più segno di trascinamento» disse un attimo dopo rialzando la testa. «È come se fosse… stata inghiottita!» continuò. Michela lo squadrò con apprensione. «Non può essere!» bisbigliò asciugandosi
la fronte, qualcosa le gridava di scappare lontano da lì. «Usciamo di qui» mormorò facendo saettare gli occhi a destra e sinistra. «Ho paura». Luigi aprì la bocca per parlare, ma dalla gola non uscì nessun suono, gli occhi si sbarrarono, colmi di terrore. Michela lo strattonò allarmata. «Che c’è? Che hai visto?» disse mentre si girava cercando di capire cosa lo avesse spaventato così. Dietro di lei l’erba ondeggiava silenziosa, lunghi tentacoli verdi si allungavano verso di loro. Alcuni si intrecciarono ai suoi lunghi capelli scuri, altri le sfiorarono le spalle, con tocchi delicati e impalpabili. La ragazza gridò scioccata, allungò le braccia cercando di strapparseli di dosso, di allontanarli da lei. «Andiamocene!» urlò con quanto fiato aveva in gola. Luigi si riscosse, ma finì a faccia in giù, lasciando cadere la sua improvvisata arma. Gli avevano avviluppato i piedi e lui non se n’era accorto. Scalciò e cercò di tranciarli con le mani mentre il terrore lo annebbiava. Michela si chinò e lo aiutò, ma intorno i viticci strisciavano fuori dappertutto, attaccandosi ai vestiti e alla pelle. I due erano madidi di sudore, per quanti ne spezzassero altri prendevano il loro posto. Le gambe di Luigi erano avviluppate completamente dai tentacoli e Michela ansimava per la fatica. «Vattene via!» le gridò Luigi strappando un lungo viticcio che gli stava salendo lungo la mano. «Esci di qui e chiama aiuto!» continuò riuscendo a mettersi seduto. La ragazza si alzò e inciampò, si rialzò e, con rabbia, spezzò alcuni lunghi viticci che le si stavano avvinghiando attorno al braccio, poi fece una corsa e riuscì a uscire dal prato. Senza più l’erba che la rallentava incespicò e finì a carponi sulla strada.
Il signor Rossi stava procedendo con cautela. Da quando aveva lasciato l’autogrill sull’autostrada continuava a guardarsi intorno. Non c’era nessuno. Quando uscì al casello e imboccò la strada normale si rese conto che era così dovunque. Un muro verde circondava il nastro scuro che percorreva, era impossibile scorgere case o palazzi, ma era sicuro di essere vicino a un paese.
Inchiodò l’auto quando si ritrovò una ragazza carponi in mezzo alla carreggiata. Rimase per un attimo fermo con le mani sul volante, il cuore dentro il petto sembrava impazzito. Chiuse gli occhi e poi scese per controllare. Michela alzò il viso. Aveva i capelli scarmigliati, la faccia sporca di terra e gli occhi sbarrati. Lui la fissò inorridito. «Cristo io… non ti ho vista… non…» si ò le mani tra i capelli, balbettando, non sapendo bene cosa dire. Accortosi che non l’aveva nemmeno sfiorata, tirò un sospiro di sollievo e si avvicinò per aiutarla a rialzarsi. La giovane tremava ed era visibilmente spaventata. «Scusami ancora, ma ero distratto. Sto cercando…» ma lui non riuscì a finire la frase. «Dobbiamo aiutarlo!» lo interruppe Michela. «Cerchiamo di tirarlo fuori di lì! La prego… mi dia una mano!» gli disse con voce alterata mentre si rialzava. Lui non capiva. «Tirarlo fuori da dove?» chiese cercando di trattenerla. «Dal prato!» gridò la ragazza divincolandosi e avvicinandosi di nuovo al bordo della strada. «Avete avuto un incidente?» chiese l’uomo sempre più esterrefatto mentre si accostava a lei. «Macché incidente e incidente!» sibilò tra i denti lei. «Lì dentro c’è qualcosa di orribile… voleva ingoiarci e Luigi è rimasto lì!» continuò torcendosi le mani. Il signor Rossi fissò la marea verde. «Qui vicino c’è un paese?» chiese. Lei annuì facendo un cenno vago con la mano verso la strada. «Mi aiuti» disse poi con voce strozzata. «La prego…». «Certo» rispose calmo. La ragazza, rinfrancata dalla vicinanza di un’altra persona, fece un o e calpestò un paio di lunghi fili d’erba, poi ne fece un altro e si fermò. A lui, l’idea di entrare lì dentro, non piaceva affatto, glielo si leggeva in faccia. I primi viticci si avvinghiarono alle scarpe della donna senza che lei se ne accorgesse. Altri le salirono sulle gambe, strisciandole addosso con molta delicatezza. Corrugò la fronte mentre un brivido di paura gli correva lungo al schiena.
«No!» urlò Michela iniziando a battere i piedi per terra, cercando di scrollarseli di dosso. Lui la prese per un braccio, la strattonò con violenza e la tirò verso di sé. Un attimo dopo i due caddero sulla strada battendo sull’asfalto. I lunghi tentacoli verdi si mossero verso di loro. «Dobbiamo andare via di qui!» le disse guardando la massa verde che ondeggiava minacciosa. «Non possiamo restare!» continuò tirandosi in piedi e trascinandosi dietro la giovane. Salirono in auto e si allontanarono in fretta. «Come ti chiami?» le chiese qualche minuto dopo. «Michela» rispose lei con un filo di voce. «Io sono Enrico. Mi dici che è successo?» domandò. Lei scosse la testa, ancora sconvolta. «Stavo aspettando Laura, la mia amica. Mi ha chiamata per dirmi che la macchina le si era fermata qui, e così sono venuta a prenderla». Fece una pausa. «Ma non pensavo che potesse accadere una cosa così! Non immaginavo…». Si fermò sopraffatta dalle lacrime. Enrico non fece commenti, la lasciò sfogare. Michela ci mise un po’ a riprendersi, a calmarsi. «Luigi mi ha accompagnata, è… era un mio amico. Abbiamo trovato la macchina e poi abbiamo visto la traccia di sangue che andava verso il prato. Siamo entrati a cercarla, ma è stato un’enorme sbaglio. Quell’erba è viva!» finì con un singhiozzo. Lui annuì rabbrividendo ancora al ricordo dei lunghi filamenti verdi che aveva visto strisciare a terra, lunghe e terrificanti appendici di un silenzioso mostro verde. Nell’auto calò un pesante silenzio.
La città vicina era un’isola felice. L’erba la circondava, ma all’interno tutto sembrava normale. Tra le vie c’era il solito tran-tran quotidiano: gente che ava, auto in corsa e i soliti rumori di sempre. Per Michela fu come uscire da un brutto incubo. Si guardò intorno smarrita, incerta sul da farsi. Quando scese dall’auto la normalità quasi la travolse. «Possibile che mi sia sognata tutto?» si chiese mentre sbatteva gli occhi. Si
erano fermati davanti alla stazione di polizia, volevano denunciare il fatto. Era tutto così assurdo, così incredibile che i due già immaginavano le facce che i gendarmi avrebbero fatto appena avessero raccontato la loro storia. «Andiamo» disse Enrico prendendola sottobraccio. Michela fece un o avanti, poi si bloccò. Scosse la testa. «Non ci crederanno» mormorò Michela. «Suggerisco di telefonare». Le previsioni della giovane si erano rivelate più che fondate, le forze dell’ordine si fecero grosse risate al telefono. «Non ti muovere» disse Enrico mentre erano nella cabina. «Hai un filamento d’erba tra i capelli, lo prendo e poi lo facciamo analizzare» continuò l’uomo. La donna deglutì a fatica guardando quel coso. Non sembrava affatto un filo d’erba ma un piccolo verme. Enrico lo mise dentro una busta e lo ripose dentro la tasca. «Ci serve qualcuno che abbia conoscenze di biologia o chimica e soprattutto un buon microscopio» rispose Enrico salendo in macchina. «Voglio far analizzare quel filamento e vedere che cos’è!». L’uomo prese il cellulare e compose un numero. «Ciao Roberto, sono Enrico» disse. «Ho bisogno di un grosso favore». La mattina dopo il signor Rossi fece altre due telefonate: la prima alla sua ditta dove lasciò sulla segreteria un messaggio per avvisare che aveva avuto un incidente e non poteva presentarsi al lavoro, la seconda all’anziana madre che viveva sola in un piccolo e sperduto paesino. La donna sembrava tranquilla. Si misero in auto, il viaggio che li attendeva non era lungo, ma lui era prudente e in macchina non correva mai. Michela era nervosa, si torceva le mani in continuazione e guardava dal finestrino con aria spaventata. Ciò che era successo aveva dell’assurdo, la tormentava e non le dava pace. Continuava a chiedersi che fine avessero fatto Luigi e Laura, immaginando le cose più atroci. Quando furono fuori città il paesaggio cambiò drasticamente. Percorsero una strada diversa da quella fatta la mattina, dirigendosi verso nord. La situazione era
peggiore. L’erba stava invadendo anche la carreggiata e mentre avano le foglie strusciavano contro la carrozzeria dell’auto. Il rumore sinistro faceva accapponare la pelle e Michela iniziò a tremare. Enrico pigiò sull’acceleratore, cosa davvero insolita per lui. «Se continua di questo o tra un po’ l’asfalto non esisterà più e nessuno potrà più are di qua!» disse continuando a fissare la strada davanti a lui con crescente ansia. «Venerdì scorso mentre tornavo a casa non ho notato nulla di strano, mi ricorderei se le vie che ho percorso fossero state così!» disse a denti stretti. Michela non rispose, seduta sul sedile del eggero tremava. I suoi occhi spaventati saettavano da una parte all’altra in cerca di una via di fuga. «Accelera!» disse mentre l’ennesima foglia strusciava contro l’auto. «Non voglio finire là dentro!». Il signor Rossi affondò il piede sul pedale, spronato dalla voce concitata di Michela. Man mano che la macchina procedeva il paesaggio diventava surreale, la marea verde era sul punto di ingoiare tutto, persino il cielo. Una cappa opprimente gravava dentro l’abitacolo, nessuno dei due osò aprire i finestrini. «Non dovrebbe mancare molto» le disse cercando di farsi coraggio. La giovane scosse la testa. «Non usciremo mai di qui…» disse con un filo di voce. «Finiremo inghiottiti, divorati o peggio!» continuò deglutendo a fatica. Enrico non replicò ma poco dopo fu costretto ad arrestare la vettura. L’asfalto non si vedeva più. Con un moto di rabbia innestò la retromarcia e pigiò il pedale dell’acceleratore. L’auto scattò indietro e lui si girò per guardare dove andava. Michela non riusciva a staccare gli occhi dall’onda smeraldo che sembrava rincorrerli, già immaginandosi i lunghi viticci verdi di nuovo attaccati al corpo. Ebbe un brivido e chiuse gli occhi, le sue mani si chio sul sedile dell’auto mentre il panico si stava impossessando di lei. Enrico, gli occhi fissi sul nastro d’asfalto che ora si snodava libero dietro di loro, tirava un sospiro di sollievo. L’uomo fece un’inversione veloce e l’auto tornò a procedere a marcia avanti. «Cambieremo percorso» le disse. «Prenderemo l’autostrada, anche se ci vorrà più tempo, non importa». Michela riaprì gli occhi, il tremito la scuoteva ancora. In giro c’erano davvero poche macchine, mentre il mostro smeraldino incombeva, ancora abbastanza lontano dalla careggiata. Al casello ritirarono il biglietto e imboccarono la rampa. Il lungo nastro d’asfalto si snodò vuoto
davanti a loro. L’ammasso di fusti dondolanti incombeva ai bordi della corsia d’emergenza impedendo qualunque vista. Enrico prese il cellulare e chiamò Roberto. Lasciò squillare almeno una decina di volte, ma l’amico non rispose. L’uomo guardò il telefonino con sospetto crescente e poi riprovò. Non ottenne nessuna risposta e un dubbio atroce si fece largo nella sua mente. Da quello che aveva potuto osservare negli ultimi due giorni, quella strana erba cresceva con molta rapidità e invadeva tutto ciò che trovava sul suo cammino. Finora non era ancora entrata nelle città, il cemento e l’asfalto erano più duri da aggredire, ma non ci avrebbe messo molto. “È viva e cammina!” pensò il signor Rossi agghiacciato. In fretta ricompose il numero dell’amico. Il laboratorio dove stavano andando era in periferia, circondato da capannoni, ma anche da grandi spazi verdi. Per sua fortuna stavolta Roberto rispose. «Ciao, sono Enrico» disse il signor Rossi facendo un respiro profondo. «Ci metteremo un po’ di più, ho dovuto prendere l’autostrada. Prima non hai risposto, pensavo avessi avuto dei problemi» disse. «Problemi? E che tipo di problemi avrei dovuto avere?» chiese Roberto. «Senti, sei alquanto strano oggi, mi spieghi che sta succedendo?» «Guarda fuori dalle finestre, noti niente di insolito?» chiese Enrico. «Aspetta un attimo che do un’occhiata» rispose l’amico accostandosi alla finestra del suo ufficio. «Non mi sembra, tutto normale» rispose sbirciando la strada a destra e poi a sinistra. «Dove sei, nel tuo ufficio?» chiese Enrico. «Sì» rispose Roberto. «Allora prova ad andare di sopra, nell’ufficio del tuo capo e dimmi se anche da lì ti sembra tutto normale» continuò pressante il signor Rossi. «Guarda bene e poi richiamami». Roberto corrugò la fronte. «E cosa dovrei vedere secondo te?» chiese mentre s’incamminava lungo il corridoio. «Qui siamo in periferia, più che vedere i
capannoni che mi stanno difronte e i campi tutt’attorno non c’è altro, lo sai» continuò. «Tu fallo e basta» replicò Enrico riagganciando. Michela spostò lo sguardo su di lui. «Pensi che sia già arrivata anche lì?» chiese con un filo di voce. Il signor Rossi s’incupì. «Si sta muovendo rapidamente, troppo. Qui non è ancora arrivata perché l’asfalto è più duro e difficile da rompere, ma non ci metterà molto. Hai visto anche tu come ha inghiottito la strada fuori dalla città!» replicò. Il cellulare squillò proprio in quell’istante e lui schiacciò il tasto verde, dando il via alla conversazione. «Allora?» chiese senza preamboli. «Hai guardato?» «Sì. Per la verità sono ancora qui, davanti al vetro» rispose con voce strana Roberto. «Hai ragione, c’è qualcosa che non va. Non riesco più a vedere la città, vedo solo un’infinita distesa di fili verdi che ondeggia sopra ai tetti» disse. «Come immaginavo, tieniti lontano da quell’erba, è viva» replicò Enrico. «Cosa intendi per viva?» chiese un attimo dopo Roberto. «Si sposta, cresce e inghiotte» rispose Enrico. «L’ho visto con i miei occhi, quindi stai attento». «Inghiotte?» balbettò l’amico senza togliere gli occhi dal vetro. «Senti, tra una mezz’ora sono lì. Ne riparliamo quando arrivo» tagliò corto Enrico chiudendo la chiamata. Enrico si fece pensieroso. Michela vicino a lui si tormentava le mani mentre lanciava occhiate spaventate dal finestrino. Lei aveva ascoltato la conversazione con apprensione crescente, le sue paure più profonde stavano prendendo vita e non riusciva a contrastarle. «Moriremo tutti… vero?» sussurrò piano. «Questa specie di mostro verde ci
inghiottirà». Il signor Rossi la guardò con la coda dell’occhio ma non commentò, anche lui iniziava ad avere quella sensazione. Era un tipo pratico, cercava sempre di risolvere i problemi che gli si presentavano, ma questo gli sembrava diventare sempre più grande e insormontabile. L’uscita dell’autostrada si presentò desolata ai loro occhi. Gli steli alti circondavano la corsia, gettando un’ombra cupa su tutto. Enrico non si lasciò intimorire e proseguì lungo la carreggiata deserta. Da lì il laboratorio non distava molto, sempre che riuscissero ad arrivarci. La strada divenne un misero viottolo. All’interno della vettura l’ansia era tangibile. Le mani sudate stringevano forte il volante. Uno scricchiolio strano li fece sobbalzare. Il cuore schizzò furioso dentro il petto mentre i due si guardavano intorno. L’auto rallentò e il signor Rossi schiacciò con più forza il pedale dell’acceleratore. Un altro rumore più forte, metallico, giunse ai loro orecchi. La vettura sobbalzò con violenza prima di arrestarsi. «Maledizione!» sibilò Enrico voltandosi indietro. «Prendi tu il volante» disse alla giovane mentre reclinava il sedile. «Che fai?» chiese Michela spaventata. «C’è qualcosa che ci tiene bloccati, se non ripartiamo in fretta non riusciremo a uscire vivi da questa giungla!» replicò. Michela si mise al posto del guidatore e afferrò il volante. Lui aprì la valigetta, prese un lungo paio di forbici e si avvicinò al lunotto posteriore. Come aveva immaginato dei lunghi tentacoli verdi avevano avviluppato il parafanghi posteriore e adesso trattenevano la vettura. «Tieniti pronta, quando te lo dico spingi sul gas e fila via!» disse mentre si toglieva una scarpa. «Devi fare in fretta, altrimenti finiremo in pasto a questo mostro» continuò avvicinandosi al vetro. «Ok» rispose con un filo di voce la ragazza. L’uomo infranse il pesante lunotto, si sporse con cautela sul cofano posteriore e
con le forbici recise i viticci. «Adesso!» gridò rientrando nell’abitacolo. Lei diede gas e la vettura si catapultò in avanti con slancio, arrancò sulla stretta striscia di asfalto ancora visibile e avanzò veloce tra i lunghi steli d’erba. Altri tentacoli si avventarono sull’auto, cercando di fare presa ma non ci riuscirono. «Accelera!» le gridò e Michela affondò il piede sul pedale con rabbia. Un viticcio entrò dal vetro infranto, s’insinuò tra i sedili e Enrico lo recise senza pietà. Fuori le foglie si agitavano piegandosi verso la macchina. Alcuni minuti dopo la strada si ampliò e comparvero i primi capannoni, la marea verde sembrò ritirarsi e l’auto riuscì a uscire da quella foresta quasi incolume. La donna arrestò il mezzo davanti al primo capannone, in un punto in cui l’erba non era ancora arrivata. Aveva il fiato corto e tremava, gli occhi sbarrati erano inondati di lacrime. Le si avvicinò. «Ok» disse cercando di staccarla dal volante. «Adesso scendiamo e andiamo dal mio amico» continuò con calma. «Michela?» chiamò vedendo che la ragazza non reagiva in nessun modo. «Michela, dobbiamo andare. Non possiamo restare qui a lungo!» L’aiutò a spostarsi nel sedile del eggero e si rimise al volante. L’auto ripartì e guidò per le poche centinaia di metri che li separavano dal laboratorio.
«Ce l’hai un bicchiere d’acqua?» chiese Enrico all’amico. «La ragazza qui non sta molto bene». Roberto li aveva fatti accomodare nel suo ufficio e li guardava con aria incuriosita. Enrico aveva la manica della camicia strappata e una lunga escoriazione sul braccio, gli mancava una scarpa e aveva i capelli arruffati, e questo non era da lui. La donna invece sembrava sotto shock. Tremava e aveva gli occhi sbarrati e fissi, lo seguiva come un cagnolino. «Sì, aspetta che me lo faccio portare e faccio portare anche qualcosa per quel taglio» disse mentre chiamava la segretaria. «Adesso mi vuoi spiegare che cos’è successo?» chiese Roberto quando la donna
li ebbe lasciati soli. «Meglio le cose essenziali, visto che non so da dove sia iniziata questa storia» disse estraendo la busta dalla tasca. «Analizza questo e dimmi cos’è». Il piccolo filamento verde cadde sulla scrivania e iniziò a strisciare piano, il suo colore era sbiadito ed era lungo all’incirca un paio di centimetri. «A occhio e croce direi che è una specie di bruco o verme» disse Roberto osservandolo. «Da quando ti interessi di animali?» chiese stupefatto. «Non è un verme e nemmeno un bruco. Quello è un pezzo d’erba che è rimasto impigliato addosso a lei. Gliel’ho tolto io dai capelli» continuò Enrico. «Hai visto gli steli dalla finestra, l’hai mai vista così alta?» «Effettivamente no, ma non mi risulta che l’erba si muova» replicò Roberto. «E invece è così. La strada che porta qui ormai ne è invasa. Quella cosa, perché non sono convinto che sia erba, ci ha aggrediti. I lunghi filamenti verdognoli si sono avvinghiati al parafango dell’auto mentre altri tentavano di fare presa sulla carrozzeria. Ho dovuto spaccare il lunotto e reciderli con le forbici, ed è lì che mi sono tagliato, se volevamo uscirne vivi, perciò adesso analizza quel viticcio e dimmi cos’è!» rispose Enrico concitato. «Ha fatto sparire Luigi e anche Laura, i miei amici» bisbigliò Michela, parlando per la prima volta. «Io sono riuscita a fuggire solo per puro caso, perché eravamo molto vicini alla strada e lui stava ando proprio in quel momento, altrimenti non sarei qui nemmeno io» continuò torcendosi le mani. «Ti scivola addosso delicatamente, non la senti arrivare, poi ti annoda quei cosi viscidi al corpo e inizia a stringere, a tirarti, ti ricopre del tutto e finisci per soffocare. È quello che ho visto succedere a Luigi, non sono riuscita a strappargli di dosso i filamenti, erano troppi e lui gridava, gridava in continuazione. Mi diceva di scappare, di uscire dal prato, di cercare aiuto… l’ho lasciato lì a morire, non sono riuscita a salvarlo» finì tra i singhiozzi. «Ok» disse Roberto alzandosi di scatto e recuperando il piccolo pezzo d’erba con una pinza. «Andiamo in laboratorio e vediamo che cos’è». Enrico e Michela lo seguirono in silenzio. Roberto lavorò per un paio d’ore. Preparò vetrini e provette, tagliuzzò il viticcio e lo analizzò con ogni mezzo a
sua disposizione. «Cavoli!» disse a un certo punto ritraendosi dal microscopio. «È radioattiva!» «Radioattiva?» chiese Enrico. «E molto anche» confermò Roberto. «Ma da dove viene?» «Da un campo vicino a Chioggia. È lì che ho trovato Michela» rispose Enrico. «Vicino alla centrale di Chioggia» fece eco l’amico. «Quindi direi che è stata contaminata da una fuga radioattiva, ma non ho sentito di incidenti nella centrale. Anzi, ho letto il bollettino di sicurezza proprio ieri e tutto risulta a norma nelle centrali italiane!» «Già, dopo lo tsunami avvenuto in Giappone nel 2011 e quel maledetto disastro nucleare i grandi signori si sono attrezzati. Adesso mandano in giro i bollettini mensili, rendendo pubbliche le varie voci: valori radioattivi dentro e fuori le centrali, eventuali fughe, eventuali incidenti. Ma dobbiamo crederci?» rispose Enrico scettico. «Se la fuga fosse rilevante, credi che ce lo direbbero?» Roberto lo fissò per un attimo. «A quanto vedo no!» commentò. «Questo pezzo di erba mostra una radioattività altissima, quasi fosse stato esposto alla radiazioni per parecchio tempo». Corrugò la fronte perplesso. «Vediamo se in realtà è proprio un filo d’erba» disse poi tornando ai suoi apparecchi. Ogni esame che Roberto eseguiva dava risultati diversi. Alla fine la conclusione fu unanime: quella cosa non era più un semplice filo d’erba! «Siamo di fronte a una mutazione. Non ho mai visto nulla di simile» disse Roberto portandosi una mano alla fronte. «Non è un semplice stelo, ma qualcosa di più complesso. Nel suo interno ho trovato tracce di DNA vegetale, animale e umano!» «Potrebbe essere a causa delle radiazioni?» chiese Enrico. «Non posso escluderlo, ma di solito per una mutazione ci voglio anni» rispose l’amico. «Non sappiamo da quanto tempo quest’erba è sotto l’effetto delle radiazioni, né
sappiamo a quali quantità è stata sottoposta» replicò Enrico. «Ma questo, in fondo, non ha molta importanza. Secondo te, come facciamo a fermarla?» domandò l’uomo preoccupato. Roberto scosse la testa guardando attraverso il vetro di una camera stagna il vaso in cui avevano deposto uno dei minuscoli pezzi. Aveva fatto radici in pochissima terra ed era diventato altissimo. Le sue lunghe foglie filiformi spingevano contro le pareti del contenitore. Si muoveva dentro cercando di aggrapparsi e di uscire. «Ho provato con il diserbante ma non ha avuto nessun effetto. Se lo tagli ricresce in fretta e sembra molto più resistente di prima» disse pensieroso. «Potremo provare con il fuoco, magari funziona». Entrò nella stanza con una scatola di fiammiferi. Ne accese uno e avvicinò la fiamma alla pianta. Lo stelo verde smeraldo non si incendiò, né subì danni. A contatto con le lingue di fuoco le foglie si ispessirono ricoprendosi di minuscole goccioline verdi. La condensa sviluppata spense subito le fiamme. Enrico, Roberto e Michela si guardarono con occhi stupefatti. «Niente!» disse frustrato Roberto. «Nemmeno il fuoco può servire!» Enrico si avvicinò alla finestra, da lì non si vedeva ancora la muraglia verde che li assediava, sembrava tutto normale. La ricognizione che avevano fatto lui e Michela mentre l’amico effettuava le prime analisi, non lasciava dubbi: andarsene da lì era impossibile. L’erba aveva inghiottito le strade che portavano in città, aveva intaccato i capannoni esterni e si stava avvicinando inesorabile. Se volevano uscire vivi da lì avrebbero dovuto trovare un’altra strada. «Pensi che sia così dappertutto?» chiese Roberto continuando a guardare il vaso. «Che anche nel resto dell’Italia sia così?». «Non lo so. Controlliamo subito» rispose Enrico tornando sui suoi i. «Fammi controllare sul web» continuò. Roberto andò alla scrivania e fece quanto gli aveva suggerito l’amico. In rete ormai c’era di tutto e in quasi tutte le città erano presenti delle webcam. La connessione funzionava male, era lenta, ma alla fine riuscirono a collegarsi e a trovare qualche informazione. L’immagine del Duomo di Milano apparve sul monitor. La giornata era
splendida, il cielo era terso e il sole splendeva. La piazza era deserta, ricoperta d’erba. Si collegarono con Cortina e rimasero a bocca aperta. La piazza era invasa dal verde, spuntavano solo i tetti delle case più alte. In quel mare verde niente si muoveva. Riuscirono a raggiungere solo altre due città, ridotte nello stesso modo, poi il collegamento saltò e non riuscirono a ricollegarsi in nessun modo. Si guardarono perplessi, la vegetazione stava dilagando dappertutto! Enrico prese d’istinto il cellulare a compose il numero della madre, ma non ottenne risposta. Provò per parecchie volte, senza nessun risultato. «Inghiottita!» Continuava a immaginare. «Morta!». Questi erano i pensieri che gli solcavano la mente in quel momento. Anche Michela e Roberto fecero altrettanto con le loro famiglie, nessuno di loro ebbe risposta. Era come se, oltre a quelli che ancora erano lì con loro tre, al mondo non ci fosse più anima viva. Enrico prese la porta e uscì. Fuori l’aria era afosa e immobile, non c’erano rumori e nemmeno suoni, solo silenzio e caldo. Il cielo era coperto da nuvole bianche che sembravano batuffoli di cotone, la luce del sole era smorzata. Era primavera, ma dal caldo che c’era sembrava pieno luglio. L’uomo fece due i, poi si fermò. Si guardò intorno. In fondo alla strada s’intravedeva già il muro scintillante. Si stagliava davanti ai suoi occhi come una barriera le cui foglie longilinee disegnavano strani ghirigori sulle facciate dei capannoni che stavano intaccando. Gli steli svettavano altissimi e rigogliosi, inglobando qualunque cosa ci fosse sul loro aggio. Enrico chiuse gli occhi e strinse le mani a pugno: erano circondati. “Non abbiamo nessuna via di scampo” pensò appoggiandosi al cancello. «Moriremo tutti!». Alzò il volto al cielo e imprecò a bassa voce. Fu proprio allora che intuì come fuggire. Come poter scappare da lì. Tornò dentro in fretta e raggiunse Roberto. «Il tuo capo ha un elicottero?» chiese senza preamboli. «Sì» rispose l’amico. «Ma perché vuoi saperlo?». «Ovvio no? La strada ormai è impraticabile e quella cosa lì fuori non ci lascerà are, quindi l’unica soluzione per andarcene è volare via!» disse Enrico. «Talmente ovvio che non ci avevo pensato!» rispose Roberto illuminandosi.
Mezz’ora dopo tutti quelli rimasti nel laboratorio si erano radunati sul tetto, davanti all’elicottero. Oltre al pilota e al capo dell’azienda, c’erano pochi dipendenti. «È un po’ piccolo per noi» disse Michela guardando dentro. «Qui ci sono posti solo per sei persone e invece noi siamo una ventina!» «Dovremo fare più giri per portar via tutti» replicò Roberto avvicinandosi. «Ok allora, come ci organizziamo?» chiese il pilota. «Prima facciamo andare via le donne e Roberto, che porterà con sé le provette analizzate, poi tornerai a prendere gli altri» rispose il signor Rossi. «Noi ti aspettiamo qui». Roberto prese Enrico per un braccio, allontanandosi dal gruppetto fermo. «Non so cosa troveremo lì fuori e se troveremo qualcosa» disse guardandolo fisso. «E se non trovassi nulla dove lasciare gli altri? Se oltre quel muro fatto d’erba non ci fosse più nulla perché quel maledetto coso ha già inghiottito tutto?» gli sussurrò a bassa voce. «Cosa devo fare allora?» Enrico affrontò lo sguardo di Roberto senza paura. «Allora cercherai più lontano e non ti fermerai finché non avrai trovato un posto sicuro dove lasciarli» rispose. «Ma non avrò carburante a sufficienza per tornare se dovrò andare così lontano!» continuò Roberto. «Lo so» disse Enrico sospirando. «Lo so benissimo, ma non abbiamo altra scelta, dobbiamo tentare. Meglio salvare qualcuno che morire tutti, ti pare?» I due uomini si fissarono per un lungo istante, muti, poi Roberto si allontanò e salì sul mezzo. «Ragazze salite e legatevi bene» ordinò il pilota. «Sali anche tu Michela» disse Enrico avvicinandosi alla ragazza. «Vai con loro».
Lei lo fissò con aria spaventata. «Grazie di tutto» gli disse un attimo dopo. «Ci rivedremo presto… vero?» domandò Michela con voce rotta. Enrico le sorrise. «Certo… prestissimo» replicò lui. La ragazza prese posto, allacciò le cinture. Una lacrima le scese lungo la guancia quando sentì il motore prendere vita. Non si sarebbero rivisti, di questo ne fu certa non appena il velivolo prese quota. Con un cenno della mano salutò per l’ultima volta il signor Rossi. L’elicottero scattò in avanti nel cielo del primo pomeriggio. Agli occhi di chi restava divenne un puntolino indefinito. Quando anche il rumore svanì Enrico abbassò il volto. Intorno a loro il mare d’erba era un distesa sconfinata, solo le cime dei palazzi più alti della vicina città erano ancora visibili, il resto era stato inghiottito. Erano come naufraghi su un’isola deserta, in attesa dei soccorsi. Sarebbero mai stati salvati?
IL CUBO DI CRISTALLO
Racconto di Alexia Bianchini
Orde di derelitti umani si trascinavano attraverso le macerie. Scavalcando resti di corpi deflagrati, arrancavano verso la struttura inviolata divenuta luogo di culto. Dall’alto sovrastava l’ecatombe e rappresentava il paradiso in terra. Dentro il cubo di cristallo l’aria era pulita e la fanciulla, avvistabile ogni tanto, era di una bellezza disarmante con quella pelle delicata e intatta. Lo sguardo innocente e l’abito lindo ne avevano fatto un’icona. I suoi occhi lacrimavano, il volto contratto in una morsa di terrore, eppure i viandanti la equiparavano a una dea.
«Starai bene bambina mia. Clara vedrai, lì dentro sarai al sicuro». Erano state le ultime parole di suo padre. Quanti anni avesse allora faticava a ricordarlo, il computer interno alla prigione di cristallo diceva che erano trascorsi sei anni, quindi a quei tempi ne aveva avuti all’incirca otto. A malapena una bambina, ancora incapace di comprendere e decidere. Forse, se avesse saputo cosa le sarebbe aspettato, non avrebbe mai permesso al padre di rinchiuderla in quella dannata galera, in compagnia del nulla. L’atroce silenzio le rimbombava nelle orecchie. Faceva sanguinare gli occhi, torturati dalle immagini riversate dalle pareti trasparenti che serravano la dimora inaccessibile. Fuori regnava il delirio, l’apoteosi del male. L’umanità stava subendo, incapace di fare alcunché, la violenza della natura che, furiosa, aveva deciso di reagire, rivoltandosi contro l’uomo, l’unico vero colpevole e artefice della disfatta del pianeta Terra. Clara era stata rinchiusa in un laboratorio asettico grande abbastanza da ospitare un centinaio di persone, protetto da un cubo di cristallo che non permetteva a nessuno di entrare, né tantomeno a lei di uscire. Guardava cosa accadeva fuori, dalla cima di quella collina. Osservava come una vedetta l’ecatombe, restando al sicuro.
Scrutò la catastrofe incombere inesorabile, la pandemia allargarsi a macchia d’olio, la pelle della gente ingrigirsi e ammalarsi. Attraverso i microfoni esterni era stata in grado di ascoltare i lamenti, ma si era sentita inerme, inutile. L’angoscia provata nell’udire le frasi sconclusionate delle vittime giunte in pellegrinaggio, le aveva fatto prendere la triste decisione di spegnere gli amplificatori. Era meglio il silenzio. Il senso di colpa per essere sana e al sicuro era più forte della paura che provava nel vedere quei cadaveri ambulanti che biascicavano parole insensate, appoggiandosi ai vetri e implorando un aiuto che lei non avrebbe mai potuto dare. Alcuni di loro avevano edificato un villaggio lì vicino, altri invece dormivano o morivano proprio attaccati al cubo, quasi potessero nutrire ancora qualche speranza di essere accolti in quell’eden artificiale. Clara si sentiva sola, divisa da quel mondo malato da un vetro trasparente spesso cinquanta centimetri. Rimaneva solo l’I.A. a farle compagnia, ma per lei Rotty non era altri che una strega inorganica, una sterile memoria centrale preposta alla sua crescita e al suo sostentamento. Sempre rigida e severa, non le permetteva di ficcare il naso nei suoi circuiti, forse spaventata all’idea che potesse trovare il modo di disattivarla. «Maledetta Rotty» sospirava la giovane ogni volta che veniva sgridata. Era l’unico essere, sebbene artificiale, che non avrebbe mai voluto al suo fianco. Il padre le aveva costruito anche una bambola alta un metro, da utilizzare come feticcio attivando i circuiti integrati. Quando era spenta la chiamava Petra, quando l’attivava l’I.A. del cubo ne prendeva possesso e la sua compagna di giochi diventava Rotty; non era certo un bel parlare, anzi, la innervosiva a tal punto da litigare. Dopo una lite furibonda, aveva preso la decisione di lasciarla spenta per sempre.
«La signorina si deve cibare» disse la voce elettronica. «Non ho fame» rispose Clara svogliata. «La signorina si deve cibare» ripeté. Non c’era verso di controbattere.
«Se ti dico che non ho fame, non ho fame!» insistette la ragazza ad alta voce. Andavano avanti così per ore. Alla fine vinceva Rotty, come sempre del resto.
Fuori era buio. Sola nel suo letto Clara si sentiva morire dalla malinconia. Aveva pianto a dirotto tutto il giorno, osservando la gente disperata. Aveva gridato forte il suo desiderio di uscire, ma Rotty l’aveva ignorata. Leggere avrebbe potuto aiutarla a divagare con la mente, ma appena il led si attivò, mostrandole lo schermo su cui scorreva la favola di Biancaneve, aumentò il disagio e con esso la tristezza. Si nascose sotto le lenzuola e cominciò a grattarsi con forza. Si vergognava di quell’azione compulsiva che non riusciva a dominare. Infilò nella carne le unghie, si procurò lunghi graffi sugli avambracci. Lacrime di sofferenza sgorgarono, bagnandole il volto, poi un sorriso macabro di soddisfazione fece capolino. Provare dolore era l’unico piacere che potesse gustarsi in piena solitudine. Rotty non sopportava quel gesto, non riuscendo a trovare una spiegazione logica al deterioramento indotto, e ciò aumentava il suo compiacimento. Il sangue macchiò le lenzuola e lei proseguì in quell’oblio mistico spingendo le unghie nei graffi, quando un’esplosione la fece rotolare giù dal letto. Corse alla finestra, uno spettacolo di orrore le si propose in tutta la sua potenza distruttrice. Il misero paese eretto ai piedi della collina grazie alla fatica di pochi superstiti era stato cancellato da un’esplosione improvvisa, una nube oscurava le stelle. Dieci minuti dopo il cubo venne avvolto dalla nube tossica. I sensori suonarono all’impazzata, il computer rilevò l’elevata tossicità e i bocchettoni si chio ermeticamente. La speranza di poter morire divenne vana. Era già successo altre volte, ma il sistema di autocontrollo della scatola di cristallo, progettata dal genio di suo padre, era inviolabile. Niente avrebbe potuto penetrare all’interno, anche questa volta sarebbe sopravvissuta.
Da sola. «Clara, devi tornare a letto» risuonò austera la solita voce. «Non mi stressare!» esclamò secca lei. «Clara, devi tornare a letto, hai bisogno di riposo» continuò imperterrita l’Intelligenza Artificiale. «Smettila, non sei mia madre» ribatté la giovane. Gocce di sangue macchiarono il pavimento. Il suono riecheggiò nel silenzio. Si guardò le braccia e si chiese come mai non fosse ancora partita la solita predica. «Vedi come ti conci quando piangi? Devi imparare l’autocontrollo. Devi essere felice del tuo stato e ignorare i sopravvissuti». La voce di Rotty le sembrò quasi gentile. «Tanto non è rimasto più nessuno da guardare!» concluse Clara. Una strana sensazione di disagio la colse all’improvviso. Il sole smorto di quella mattina scoprì il disastro della notte appena ata. Non era rimasto più nulla se non terra e polvere che accarezzavano i detriti.
Trascorsero altri quattro lunghi anni. Solo qualche misera pianta spingeva sul terreno per riemergere dalla disfatta. Nessun umano all’orizzonte, nessun velivolo, solo silenzio. Rotty non captava nulla nell’etere e continuava imperterrita nel suo ruolo di governante. Seduta al terzo piano sul davanzale della finestra dell’edificio interno al cubo, Clara muoveva i piedi a penzoloni, toccando il vetro e mangiando a fatica un pezzo di pane. Vestita come l’I.A. le aveva imposto, con un abito azzurro come il cielo gonfio per via delle troppe sottogonne, aveva messo le calze a righe, le sue preferite, e si era fatta dei grossi codini, truccandosi vistosamente come una donna di strada. Guardando l’orizzonte vide del fumo alzarsi in lontananza e rimase fissa in
quella posizione, con la bocca aperta piena di mollica. Sembrava un convoglio e veniva proprio da quella parte. «Rotty!» gridò la ragazza, rischiando di cadere all’indietro. Con una mano si mantenne allo stipite, poi ruotò posando i piedi a terra. «Analizzo subito l’oggetto in avvicinamento!» disse l’I.A., «Vai nella tua stanza nel frattempo!» «Non se ne parla proprio. Voglio vedere anch’io!» Clara prese in braccio Petra e ritornò al suo davanzale preferito, da dove poteva scorgere l’infinito. Con l’amica di pezza sulle ginocchia fantasticò su chi stesse arrivando. «Forse è un principe arrivato da un altro mondo per salvarmi. Oppure un pirata affascinante che forzerà il cubo per appropriarsi di me, il suo tesoro!» esclamò. La bambola non rispose, ma quello sguardo dolce era pura comprensione e solidarietà. «Sono una decina di mezzi e si stanno fermando dove c’era il vecchio villaggio. Penso vogliano stabilire una base» sentenziò la governante artificiale. «Voglio vederli da vicino. Puoi zoomare e mostrarmi le loro facce sullo schermo della sala relax?» domandò la ragazza, spostandosi dal suo posto di osservazione. «Una cinquantina di persone. Non proprio in buone condizioni, ma all’apparenza sane». Rotty elencava senza emozione ciò che il suo occhio elettronico vedeva. Per Clara invece sembrava una nuova alba, si sentiva rinata. C’era della gente là fuori, non era più così sola. Negli ultimi anni aveva analizzato e studiato un modo per andarsene da lì, poi era giunta alla conclusione che uscire non le sarebbe servito a nulla se ormai non c’era più nessuno, ma grazie all’arrivo dei sopravvissuti tutto era drasticamente
cambiato. Decise che avrebbe analizzato quella gente, sicura che loro avrebbero fatto lo stesso nei confronti suoi e del cubo, mistero che aveva sempre destato un macabro interesse. Nei giorni successivi si mise a ficcanasare nei loro movimenti. Rimaneva attaccata allo schermo per ore a guardarli e ad ascoltarli. In poco tempo le sembrò di conoscerli da una vita. Il capitano Summers era rigido e nessuno discuteva i suoi ordini. L’andamento militaresco del campo era reso piacevole da due fratelli: Carlo e Antonio Mansi, due italiani, poi c’era la bella, una certa Lora, armata fino ai denti, e un ragazzo che aveva circa la sua età, che spesso parlava troppo facendo incazzare gli altri quattro. Le altre persone invece erano disarmate e non facevano altro che lavorare, cercando di mettere insieme un villaggio, controllati a turno da uno dei cinque. Scoprì che la loro squadra si chiamava Skeleton-day e sembravano incutere un certo timore nella gente che accompagnavano. Tutti, compresi i militari, parlavano di cose futili, facendo arrabbiare Clara, che dai loro discorsi capiva ben poco di cosa fosse successo nel mondo negli ultimi quattro anni. «Guarda i loro sguardi Petra, non ti sembrano ambigui?» domandò alla bambola, cogliendo lo sguardo di una ragazzina che era stata appena zittita da un adulto e che con lo sguardo stava fissando il cubo. «Pare vogliano parlare di me e del cubo, ma non lo fanno di proposito. Forse loro sanno che li stiamo guardando!» «Faccio una scansione termica per cercare di comprendere le loro emozioni!» rispose Rotty, percependo una certa ansia nella voce della sua protetta. «Ti ringrazio» sussurrò la giovane, basita dal comportamento gentile della governante. «Temo che i tuoi sospetti siano fondati. Un’analisi psicanalitica superficiale mi ha già dato un quadro clinico che ora, con lo spettrogramma termico, risulta più chiaro». «Spiegati meglio». «Sono qui per noi, ma allo stato ignoro le loro reali intenzioni. Di certo la paura è molto evidente. Al minimo segnale di pericolo attuerò le misure di difesa!»
esclamò l’I.A., lasciando Clara interdetta. La ragazza prese Petra in braccio e la portò alla finestra. Appollaiata là in cima si mise a guardare il campo, fantasticando su come sarebbe stato bello vivere in mezzo a loro, ridendo e scherzando con umani come lei, quando con il binocolo notò la ragazza di prima prendersi uno schiaffo in pieno volto da un adulto. La giovane cadde a terra e cominciò a piangere. Nessuno del campo riusciva a vederli, erano tutti intenti a sistemare un edificio a una cinquantina di metri da loro. Vide l’uomo sfilarsi la cintura e sferzare l’aria con una violenza inaudita. Poi il vigliacco si slacciò i pantaloni e si gettò sul corpo della preda. I due fratelli italiani uscirono da un furgone e guardarono la scena senza batter ciglio, dirigendosi verso gli altri, fregandosene di quello che stava accadendo. Clara si staccò dal binocolo inorridita. Ma cosa diavolo stava succedendo là fuori? Perché nessuno interveniva? Era convinta di aver assistito a tutto l’orrore possibile, anche se prima di allora non aveva mai visto uno stupro. Al senso di colpa si aggiunse uno stato di impotenza senza eguali. Avrebbe voluto uscire e aiutare quella ragazzina, così iniziò a singhiozzare. «Attiva Petra, ci penso io a uscire!» esclamò Rotty. «Uscire?» domandò Clara, ma non perse tempo e attivò la bambola, che in un battibaleno scattò verso l’uscita. La porta si spalancò. La piccola bambola rimase due secondi nella parete interna, poi quando la soglia venne sigillata si aprì quella esterna e l’automa scattò come una freccia. Un allarme sonoro cominciò a suonare. Clara riprese il cannocchiale: quel viscido verme era ancora sopra la vittima, sembrava svenuta. Pregò non fosse morta, poi nella visuale subentrò la sua bambola, che con gesto fulmineo e forza insospettabile spezzò il collo del mostro. Rotty, che in quel momento possedeva il corpo artificiale di Petra, prese un telo e l’avvolse intorno alla ragazza, in modo da trascinarla fino alla salvezza. «Fai partire il programma di sterilizzazione per la stanza medica e attua il sistema di emergenza non appena mi vedi entrare» gracchiò la voce metallica all’interno del cubo.
Clara si fiondò davanti ai terminali, il suo cuore batteva all’impazzata. Non solo perché quel giorno era successo qualcosa di sorprendente e Rotty aveva salvato una vita, ma anche perché presto non sarebbe stata più sola. Eseguì gli ordini impartiti. Pochi secondi dopo l’allarme sonoro cessò: Rotty era rientrata. Saltò giù dallo sgabello e si diresse in sala medica. Le porte erano chiuse. Mentre attendeva che la giovane fosse curata, il sensore esterno si mise a suonare: c’erano guai in vista. Si avviò verso l’ingresso. Trenta centimetri la dividevano dalla parete di cristallo. Lì davanti a lei c’era l’uscita, ovviamente inviolabile, se non a Rotty. Fuori c’erano le cinque figure che negli ultimi giorni aveva spiato e dai loro volti non traspariva nulla di buono. Iniziarono subito a inveire contro di lei, che ovviamente non sentiva nulla. Come spiegare loro che aveva agito per difendere la ragazza? Se poi gli interessava davvero, dato che i due fratelli avevano ostentato indifferenza. Rimase fissa a guardarli. Indossava un vestito appariscente, i capelli erano scompigliati. Due solchi neri di rimmel le scendevano dagli occhi, il rossetto rosso era sbavato, i due alluci si toccavano, inarcando le gambe secche. Lungo le braccia c’erano le cicatrici dei graffi che si procurava per sentirsi viva nel dolore. Inclinò la testa, sembrava un malinconico clown. I cinque continuarono imperterriti ad agitarsi. Lei sorrise, trovandoli bizzarri. Era rimasto nell’uomo un minimo di buon senso? Cosa diavolo volevano da lei? Fece segno di non poterli sentire. Solo allora l’unica femmina prese un pezzo di carta logoro e scrisse: “Ridateci la ragazza”. Clara rientrò nell’edificio per prendere la lavagnetta. “Noi l’abbiamo salvata” scrisse. Si agitarono ancora di più. Li vide discutere animatamente, poi la donna scrisse
di nuovo sul pezzo di carta: “Sei fottuta!”. Clara non capì il senso di quelle parole, poi la voce di Rotty risuonò nell’aria: «Raggiungimi in sala medica!». A quel punto lei si allontanò facendo spallucce, guardando le facce furiose al di là del vetro. «Erano qui per appropriarsi del cubo» furono le parole della voce meccanica; grandi braccia sintetiche effettuavano le ultime medicazioni sulle ferite, mentre la bambola inanimata era rimasta appoggiata alla parete del laboratorio. «È stranamente sana, l’ho vaccinata e ripulita». Clara restò in silenzio, le prese la mano e le accarezzò i capelli. La giovane sdraiata la guardava con occhi rossi, pieni di dolore. «Come ti chiami?» «Heidi!» esclamò. «Mi uccideranno quando sapranno che ho fatto la spia». «Qui sei al sicuro». Le sorrise amorevolmente. «Rotty, ci pensi tu a sistemare la situazione là fuori?» domandò alla governante artificiale. Fra di loro si era venuta a creare un’intesa che mai avrebbe creduto possibile. «Sì tesoro. Tu occupati di Heidi, da oggi sarà la tua compagna di giochi!»
Si sentì un boato. L’attacco di Rotty non era stato né il primo né l’ultimo nei confronti dell’umanità. Poteva ritenersi la responsabile della maggior parte delle catastrofi avvenute negli ultimi anni sulla Terra. Dal cubo, arma micidiale e imbattibile, erano partiti molti missili. Per Rotty la massima priorità era la salvaguardia della piccola Clara. Ora che le aveva trovato un’amica, la sua protetta sarebbe stata più tranquilla e serena.
APOCALYPSE MIND
Racconto di Paola Boni
Bip…bip... bip… Fu quel suono a svegliare Nathan, quel bip improvviso che gli fece spalancare gli occhi di colpo, urlando. Spaventato e confuso si alzò a sedere di scatto cercando di controllare il respiro affannoso e i battiti impazziti del cuore. Aveva la bocca secca, gli occhi bruciavano. Cos’era successo? Dove si trovava? Si bloccò facendo respiri lenti e profondi. «Non è possibile» sussurrò quando finalmente riuscì a vedere ciò che lo circondava e l’angoscia iniziò a farsi strada dentro di lui. «Non può essere vero». Fissò con occhi sgranati una devastata New York dove grattacieli collassati sembravano scheletri dilaniati di antiche creature ormai estinte. Il cielo era ricoperto da nubi cariche di pioggia e ovunque piccoli incendi illuminavano le macerie di una luce spettrale. Poi c’erano i cadaveri, decine e decine di corpi straziati riversi in strada e tra le macerie. Mentre il suo cervello cercava di elaborare quelle immagini agghiaccianti un solo pensiero riuscì ad attraversargli la mente: quella era la fine del mondo. Poggiò una mano a terra per mettersi in piedi imprecando quando sentì una sostanza appiccicosa tra le dita. Si guardò il palmo e la sostanza nera e densa che lo ricopriva. Il suo odore metallico lo trafisse costringendolo ad arricciare il naso. Non riuscì più a controllare il tremito della mano mentre con lo sguardo seguiva il liquido nero fino al corpo di un giovane dal ventre maciullato da un pilastro di
metallo. Nugoli di vermi si contorcevano nel disperato tentativo di uscire dalla bocca spalancata e dalle orbite vuote. Provò a urlare, ma la sua gola si era serrata in una morsa che gli impediva perfino di respirare. Riuscì solo a fare qualche o indietro prima di chinarsi su se stesso per vomitare bile. Bip… bip… bip…. «Che sta succedendo?» sussurrò, buttò la testa all’indietro, liberando in un grido tutto il suo terrore. «Che cazzo sta succedendo?» Gli occhi si soffermarono sul corpo di un uomo che penzolava impalato a ciò che restava della vetrina di un ristorante. La sua attenzione venne catturata soprattutto dall’insegna semidistrutta che giaceva tra i resti del palazzo. Lui conosceva quel posto. C’era già stato una volta con una persona molto, molto importante, prima che quell’incubo avesse inizio.
«Signor Nathan River è qui con me in questo momento o la sua mente è ancora immersa nel lavoro?» domandò la giovane donna punzecchiando il braccio dell’uomo seduto di fronte a lei. Nathan si scosse come se si fosse appena risvegliato da un sogno. «Cosa? Scusami mi sono distratto un attimo». Lei gli rivolse un sorriso carico di preoccupazione. «Sei sicuro che vada tutto bene?» Nathan le prese la mano, incrociando le dita con le sue. «È tutto ok, Catherine. Ero solo stato travolto dai ricordi». La donna si sporse sul tavolo premendo le labbra su quelle del compagno. «Vorrà dire che dovrò trovare un modo per tenere la tua mente qui con me» sussurrò maliziosa. «Mmm …sono a tua completa disposizione» rispose lui lanciando un’occhiata alla sua profonda scollatura.
In quel momento, Nathan si sentì terribilmente fortunato. Non era stato facile per lui, un ragazzino del Bronx, riuscire a farsi strada. Adesso, però, all’età di trentacinque anni, aveva un lavoro come agente di borsa che lo soddisfaceva e gli permetteva di vivere in un certo benessere nonché quella donna bellissima che amava alla follia e con la quale divideva un appartamento nel cuore di Manhattan. Per questo aveva portato la sua compagna in quel ristorante sulla quarantaseiesima strada, il posto in cui si erano incontrati esattamente tre anni prima. Voleva festeggiare con lei l’anniversario del giorno in cui la sua vita era diventata perfetta.
Bip… bip… bip… Barcollando come un cadavere animato, Nathan si trascinò nella città distrutta incapace di riuscire anche solo a pensare. Erano ore che andava avanti, si trascinava come uno spettro alla disperata ricerca di qualche sopravvissuto. Lungo la strada aveva trovato solo cadaveri in decomposizione. Non c’era nessun’altro. Era rimasto solo. Perché tutta quella morte? Perché quello sfacelo? Com’era possibile una cosa del genere? Continuò a camminare piangendo e invocando un aiuto che sapeva non sarebbe arrivato mentre quel bip proveniente da chissà dove continuava a tormentarlo. “Nathan!” L’uomo sussultò guardandosi attorno mentre sentiva crescere una flebile speranza. Abbozzò un sorriso iniziando a girare su se stesso in cerca della fonte di quel suono. «Catherine!» “Nathan ti prego!”
«Catherine!» urlò iniziando a correre in direzione della voce. «Catherine, sto arrivando!» Corse con quanto fiato aveva in gola, guidato solo dal bruciante desiderio di raggiungerla. All’improvviso, però, si bloccò. Bip…bip… bip… A un angolo della strada, vicino a uno dei tanti focolai, due uomini erano chini su qualcosa nascosto dalle loro ombre. Di loro Nathan riuscì a vedere solo gli stracci logori e il fisico emaciato. Si avvicinò alzando un braccio per salutarli, ma si bloccò un attimo prima di parlare. Sotto di loro una donna seminuda piangeva e gemeva supplicando aiuto. Uno dei due le teneva sollevate le gambe, violentandola brutalmente, mentre l’altro le tagliava con una lama arrugginita brandelli di carne dalle braccia e dai seni. Ogni volta che tagliava un pezzo della vittima, l’uomo lo infilzava con uno spiedo improvvisato e lo metteva a cucinare sul fuoco accanto a loro. Nathan osservò la scena agghiacciato, terrorizzato dallo sguardo spiritato dei due uomini i cui occhi chiari spiccavano tra i capelli unti e la folta barba. All’improvviso l’uomo che stava stuprando la giovane grugnì, dandole ancora due colpi violenti prima di gemere per l’orgasmo. Ci fu un attimo in cui quell’atroce tortura sembrò interrompersi poi con la bava alla bocca i due aguzzini si diedero il cambio. Per un breve istante gli occhi supplicanti della ragazza si volsero verso Nathan. Si sentì come attraversato da un’intensa scarica elettrica. «Catherine!» La rabbia emerse con una violenza inaspettata. Afferrò istintivamente una spranga e si avventò contro l’uomo che aveva iniziato a penetrare selvaggiamente la donna, la sua donna. «Brutto figlio di puttana! Lasciala!» Lo colpì con tutta la forza che aveva in corpo, scaraventandolo lontano da lei. L’uomo finì a terra con il sangue che gli colava da una tempia e il membro ancora duro che spuntava dai pantaloni sbottonati.
Appena lo vide muoversi, Nathan si lanciò di nuovo contro di lui colpendolo ancora, ancora e ancora, il sangue schizzava sul viso deformato dall’ira, finché non ridusse la testa a un ammasso informe di ossa spaccate e materia cerebrale. Alzò la spranga per colpirlo di nuovo, ma l’urlo di Catherine lo fece per un attimo rinsavire. Si voltò e brandì l’arma per allontanare il secondo uomo da lei. «Non ti azzardare a toccarla» ringhiò. L’uomo sghignazzò scoprendo una fila di denti marci. Con noncuranza afferrò uno degli spiedi sul fuoco e addentò un pezzo di carne. «Tu non puoi uccidermi» sibilò, «Sei più simile a noi di quanto tu non creda». Nathan scosse il capo stringendo la presa sulla sua arma. «Io non sono un mostro come voi». L’uomo sghignazzò. «Ne sei sicuro? Io so come sei. Cerchi di controllare i tuoi istinti, ma hai dato prova di non essere in grado di resistere massacrando un uomo solo per pura rabbia». Il volto di Nathan si fece di pietra. «No! Io ho massacrato un mostro, non un uomo!» Il tizio di fronte a lui scoppiò a ridere. «Davvero non capisci? Quel mostro è solo un essere umano. Tutti arriverebbero a questo pur di sopravvivere … perfino tu». «No! Mai!» urlò. Superò con un balzo la distanza che lo separava dall’uomo e lo colpì con forza al collo, spezzandoglielo di netto. Rimase per un attimo a fissarlo poi la rabbia scivolò via sostituita dalla disperazione. Si chinò sul corpo tremante dell’amata, con occhi gonfi di lacrime. Quando la guardò però si accorse di aver sbagliato: non era Catherine. Aveva gli stessi bellissimi capelli scuri, la stessa dolcezza nei tratti del viso, ma non era lei. La sconosciuta gli rivolse un sorriso. «Grazie» riuscì a dire. Un attimo dopo i suoi occhi si spensero, le pupille si dilatarono e i seni dilaniati smisero di muoversi. Bip…. Bip… bip… Nathan strinse forte il cadavere a sé e pianse con la disperazione di un bambino. Desiderò nascondersi, sprofondare nella terra per non sentire più tutto quel
dolore e quell’angoscia. Qualsiasi cosa fosse successo alla città, avrebbe tanto voluto essere morto nel momento della sua distruzione. Purtroppo però lui era vivo. Era sopravvissuto, al contrario della donna, spirata dopo le torture subite, che ancora stringeva al petto. Sebbene privo di forze, abbandonò il cadavere e si costrinse ad alzarsi. Non degnò di uno sguardo i due uomini che aveva ucciso. Quelli non erano più esseri umani, erano bestie. Era felice di averli ammazzati. Bip… bip… bip… Solo in quel momento si rese conto di trovarsi in un posto a lui familiare. Con lentezza esasperante si voltò osservando come ipnotizzato ciò che restava del palazzo in cui abitava e nel quale aveva ato l’ultima notte prima dell’incubo.
«Ti amo» sussurrò Catherine mentre con le labbra gli sfiorava il collo per poi scendere e tormentargli il torace con piccoli baci. Nathan la spinse di lato facendola sdraiare supina e portandosi sopra di lei. Eccitato, fissò nella mente ogni dettaglio di quel corpo meraviglioso che dopo tante notti ancora fremeva come la prima volta al tocco delle sue mani. « Ti amo anch’io». Premette con forza la bocca su quella di lei, portandola a dischiudere le labbra e accogliere la lingua, mentre con la mano scendeva a sfiorarle il seno, il ventre e più giù, fino a strapparle un gemito. Catherine inarcò la schiena, offrendosi al piacere delle dita che si muovevano rapide dentro di lei. All’improvviso lui si fermò e la trascinò sopra di sé Mentre lei scivolava sul suo sesso, intanto che iniziava a muoversi sopra di lui, Nathan si lasciò andare a tutta la ione e al desiderio che gli bruciavano dentro, come se covasse l’orribile presentimento che quella sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe potuto averla. Lasciò che tutti i pensieri fluissero via, si perse in quel corpo morbido, nei suoi sospiri, nei suoi gemiti e negli orgasmi in grado di stordirgli la mente e i sensi.
Quando Catherine si addormentò, stanca e appagata tra le sue braccia, Nathan rimase a lungo a guardarla dormire. Nel silenzio del loro appartamento, avvolto dal calore delle lenzuola del loro letto, non poté fare a meno di sorridere davanti a tanta bellezza. Era felice di poter are il resto della sua vita con quella donna.
“Sono qui amore mio!” Nathan si scosse distogliendo lo sguardo da ciò che restava della sua vecchia casa. Tutto il suo ato era andato distrutto, tutta la sua vita perduta. Che cosa gli restava ancora se non seguire quella voce che ancora gli offriva un minimo di speranza?
Bip… bip… bip… Riprese a camminare senza una destinazione precisa, incurante del tempo che ava e della fame che avanzava. Voleva solo andare avanti e trovare Catherine. Lei era lì tra quelle macerie, era viva e lui l’avrebbe trovata. “Nathan, amore!” Una risata stridula si diffuse nell’aria soffocando il suono della voce di Catherine. Alla risata si sostituì poi una voce che iniziò a canticchiare una cupa filastrocca:
Il mondo è morto, il mondo è distrutto che il sonno di un uomo può far crollar tutto. La vita è perduta, uccisa è la vita
che ogni speranza di destarsi è svanita.
Ci fu di nuovo un’acuta risata poi la figura di un uomo avanzò zoppicando. Bip…bip… bip…. «Chi sei?» chiese Nathan mettendosi subito sulla difensiva. L’uomo ondeggiò come se fosse ubriaco. Aveva una gobba che lo costringeva a camminare incurvato e il volto coperto da una maschera scheggiata di porcellana attraverso la quale si intravedevano due occhi chiari che a Nathan sembrarono familiari. «Ti ho chiesto chi sei?» ripeté. Bip… bip… bip… L’uomo scrollò le spalle sghignazzando. «E chi lo sa? Tutti vorrebbero sapere chi sono, ma in pochi sanno darsi davvero una risposta. Tu però puoi chiamarmi Ego». «Perché indossi una maschera?» Ego sghignazzò e fece un giro su se stesso mostrando il suo corpo deforme. «Perché il mio volto non piace a tutti. Spesso quando mi guardano rimangono terrorizzati da ciò che vedono». Così dicendo, Ego riprese a sghignazzare poi si mise a saltellare per la strada ripetendo quella sua assorda filastrocca. Bip… bip… bip… «Sai cos’è successo alla città?» gli chiese Nathan. Anche se nascosto dietro la maschera, in qualche modo sapeva che Ego stava sorridendo mentre gli rispondeva con un cenno di assenso del capo. «Dimmelo ti prego! C’è stato un attentato? Avanti parla!» urlò afferrandolo per le spalle. A quel contatto Ego barcollò all’indietro, un rivolo di bava gli colò da sotto la
maschera. Si mise a urlare all’improvviso, un urlo acuto e agghiacciante che aveva ben poco di umano. Bip…bip…bip… «Io… mi dispiace non volevo. Non lo farò più, lo giuro» disse Nathan cercando di tranquillizzarlo. Ego smise subito di gridare tornando a sghignazzare come se non fosse successo niente. «Che cosa è successo alla città?» ripeté Nathan scandendo bene le parole. Il gobbo si picchiettò il torace con il dito indice. «Io ho visto ciò che tu non ricordi, Nathan» sibilò. L’uomo si tirò indietro. Solo in quel momento si rese davvero conto di una cosa: quell’essere gli metteva addosso una paura inspiegabile. «Come sai il mio nome?» Ego riprese a sghignazzare poi indicò un palazzo non molto distante dal punto in cui si trovavano. Il vecchio palazzo di cinque piani era collassato su se stesso come un castello di carte. Nathan avanzò, guardando con gli occhi sgranati i cadaveri che emergevano dalle macerie, decine di persone che inutilmente avevano tentato di sfuggire al disastro. Tra loro, scorse una donna anziana il cui corpo era stato letteralmente troncato in due da alcune lamiere. La metà superiore penzolava inerte da un masso mentre la testa ondeggiava, attaccata al busto solo da brandelli di carne scura. «Mamma …» Si chinò su di lei, ma appena cercò di toccarla, la testa si staccò, rotolando via sull’asfalto. «È qui che è iniziato» sghignazzò Ego.
La sua risata si fece ancora più stridula. Nathan continuò a fissare il cadavere della madre mentre grosse lacrime gli rigavano il viso. Bip…bip…bip… Era andato da lei quell’ultimo giorno. Era lì che si trovava quando era successo.
Quella mattina Nathan aveva lasciato Catherine a casa, impegnata nella lettura di alcuni testi di medicina ed era andato a trovare sua madre nel Bronx. Il fatto che lei non volesse in alcun modo lasciare il vecchio stabile in cui vivevano fin da quando lui era piccolo lo preoccupava. Avrebbe voluto trovarle una casa a Manhattan, in una zona più agiata, ma per quanto avesse provato a insistere lei non aveva voluto andarsene. Così lui si limitava ad aiutarla con le spese e a farle visita il più possibile. Quella mattina sua madre lo aveva accolto come al solito con una grossa tazza di caffè e dei cookies fatti in casa. «Ti trovo bene, Nathy!» disse legandosi i lunghi capelli biondi con un elastico. «Come sta Catherine? Spero che il praticantato all’ospedale stia andando bene». «Benissimo, anche se lavora troppo» le rispose. Il ricordo della notte precedente però gli strappò un sorriso involontario. «È davvero un amore di ragazza. Sono …» Fu in quel momento che avvenne. All’inizio fu solo un tintinnare di stoviglie che picchiavano tra loro. Poi la terra iniziò a tremare con violenza. Le pareti si creparono, i calcinacci iniziarono a crollare dal soffitto. «Mamma, sotto lo stipite!» gridò Nathan cercando di mettere al sicuro la donna
che strillava in preda al panico. La terra urlò, ci fu un boato assordante e poi più niente. Quel silenzio innaturale durò appena una manciata di infernali secondi poi una violenta esplosione sconquassò ogni cosa. Il pavimento crollò all’improvviso e Nathan si ritrovò al piano inferiore circondato da detriti e calcinacci, con un grosso taglio sulla fronte dal quale il sangue scendeva a coprirgli tutta la parte destra del viso. Scorse non molto distante da lui un corpo maciullato, forse quello di uno degli inquilini dell’appartamento in cui era piombato. Quando provò a muoversi, e le ginocchia gli cedettero, non seppe dire se era paralizzato dal terrore o se le gambe gli si erano spezzate nella caduta. Non provava dolore, non sapeva nemmeno se fosse ferito gravemente. Sentiva solo un panico paralizzante. «Non voglio morire … » si guardò attorno alla disperata ricerca di aiuto. «Non voglio morire … Non voglio morire …» continuò a ripetersi. L’ultima cosa che vide fu il soffitto che gli piombava addosso all’improvviso poi il nulla.
Bip… bip… bip… bip… Nathan urlò con quanto fiato aveva in gola. Ego lo fissava continuando a ridere di gusto poi ricominciò a cantare quella sua inquietante filastrocca. Il bip si fece ancora più forte. «Basta …Basta!» gemette Nathan portandosi le mani alle orecchie. «Non ne posso più!» Si accasciò a terra rannicchiandosi in posizione fetale, le lacrime ormai scendevano ininterrotte.
“Nathan, sono io. Sono Catherine”. «Basta! Smettila di tormentarmi! Basta!» Bip… bip… bip… bip… Fu in quel momento che Ego si tolse la maschera. Nathan ringhiò riconoscendo il barbone che credeva di aver ucciso poco prima. «Maledetto … sei tu!» L’uomo sghignazzò. «No, mio caro. Sei tu». La barba iniziò a cadere a ciuffi, i capelli a ritrarsi nel cranio. Nathan si ritrovò a fissare con orrore il suo stesso volto in parte deformato. Fu come se si fosse ritrovato davanti al suo più grande incubo. Urlò e urlò finché non gli rimase più una voce per gridare mentre nella mente qualcosa si spezzava. Crollò a terra, gli occhi sbarrati fissavano il vuoto. L’Ego di Nathan tornò a sghignazzare. «A dopo, mio caro» disse chiudendogli delicatamente gli occhi. Bip… bip… bip….
Bip…bip…bip… L’elettroencefalogramma continuava a emettere i suoi insopportabili bip. «Nathan, sono io. Sono Catherine» disse la donna accarezzando il volto dell’uomo che giaceva immobile sul letto di ospedale. «Sono qui per te, amore». Erano giorni ormai che faceva avanti e indietro dal suo capezzale, da quando il sisma lo aveva ridotto in quello stato. Non riusciva a crederci: una scossa violenta, un cedimento strutturale e poi una reazione a catena aveva distrutto per sempre le loro vite. Da una parte sapeva che Nathan era stato fortunato a non morire. Durante quel
terremoto erano morte decine di persone per i crolli e gli incendi mentre lui invece era sopravvissuto. Anche se la sua mente era persa in chissà quali oscuri sogni lei sapeva che c’era una flebile speranza che si risvegliasse. Si chinò su di lui, accarezzando il volto coperto dalla garza sterile. «Spero solo che tu stia facendo un bellissimo sogno». Lo bacio, non riuscendo a trattenere una lacrima, «E che la mia voce possa in qualche modo raggiungerti, amore».
Bip…bip... bip… Fu quel suono a svegliare Nathan, quel bip improvviso che gli fece spalancare gli occhi di colpo, urlando.
Bip…bip... bip… biiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiip………
JERICHO
Racconto di Diego Bortolozzo
Non so cosa sia successo. Forse un attacco terroristico, forse un incidente, certamente non si è trattato di un’esplosione nucleare, altrimenti le radiazioni ci avrebbero già uccisi tutti. Forse la causa è il vicino polo chimico. Deve essere accaduto nella zona industriale. Attacco o incidente? Nel dubbio, la prima cosa che ho fatto è stata quella di prendere l’arma dallo scatolone sotto il letto. Per fortuna non l’ho venduta, come avevo pensato di fare tempo fa, ho idea che mi sarà utile nei prossimi giorni. La pulisco per bene (è stata ferma per anni) e conto i colpi a disposizione: cinquanta proiettili calibro 40 Smith & Wesson. Devo farmeli bastare. Ho riempito tutte le pentole, i bicchieri, le ciotole e i contenitori di casa con l’acqua potabile che ancora esce dai rubinetti. In bagno ho cercato di riempire anche la vasca, prima che i rubinetti restino a secco. In strada si sentono spari, sirene, urla. Anche nel palazzo sta succedendo qualcosa, non posso uscire ora. Prendo carta e penna, cerco di ricordare cosa ho in garage, cosa può servirmi. Scatolame vario, attrezzi, corde, vestiti invernali. Non so quanto dovrò stare chiuso in casa, meglio pensare a quest’inverno. Cos’altro? Devo assolutamente uscire, recuperare il materiale e cercare qualcosa da mangiare al supermercato sotto casa, prima che lo saccheggino completamente. Sono pronto. La pistola nella mano destra, nella tasca sinistra il secondo caricatore e la scatola con il resto dei colpi. Devo essere veloce, o non troverò più una casa al mio ritorno.
Esco, chiudo la porta, e scendo le scale, otto piani da fare di corsa! Alcuni appartamenti hanno le porte divelte, all’interno mobili distrutti, abiti per terra, piatti rotti ovunque, o velocemente, sperando di non esser visto. Entro in garage e mi chiudo dentro. Trovo la “Mag-lite quattro torce”, un po’ di luce può sempre tornar utile, inoltre questa pila può esser usata anche come manganello! Prendo lo zaino alpino e comincio a caricarlo. Corde, coperte, vestiti pesanti, qualche bottiglietta d’acqua, tre vasetti di sottaceti fatti in casa, alcune candele, tutte cose utilissime. Devo rientrare in fretta, si sta facendo buio. Annuso profondamente l’aria, non ha nessun odore particolare. Fuori c’è molta confusione, si sentono ancora spari. Polizia e Militari sono vicini ai negozi, devo trovare un altro sistema per procurarmi da mangiare, niente supermercato all’angolo per oggi. Salgo fino al mio pianerottolo: ultimo piano. I due appartamenti vicini sono chiusi, non si sentono rumori provenienti dal loro interno. Meglio così! Entro e richiudo velocemente la porta alle mie spalle. Controllo lo spioncino, nessuno mi ha seguito. Dispongo sul letto tutto il materiale che ho trovato in casa e quello che ho nello zaino in modo da avere a portata di mano ogni oggetto. Devo controllare gli altri appartamenti. Sicuramente al loro interno c’è qualcosa di utile. Inoltre in questo modo posso tenere sotto controllo casa mia! La notte non è ancora scesa, ma è abbastanza buio da consentirmi di muovermi in sicurezza. Bevo un po’ d’acqua (poca, deve durarmi, forse giorni, forse di più), faccio un lungo respiro, controllo lo spioncino, ed esco! Non sento rumori. Resto protetto dalle pareti e dalle colonne portanti, così posso controllare ogni porta senza rischiare di essere preso di mira da qualche inquilino
agitato. Al sesto piano trovo una porta spalancata. In precedenza avevo controllato che non ci fosse qualcuno ad aspettarmi, ora devo entrare e fare molta più attenzione. Torcia/manganello nella mano sinistra, Glock nella destra. Entro! Soggiorno libero, corridoio vuoto, cameretta e bagno liberi. La camera da letto sembra un mattatoio, non posso far nulla per questi disgraziati, chiudo la porta e torno in cucina. Riempio lo zaino a metà! Ho avuto un’ottima idea, ogni appartamento può racchiudere una miniera d’oro. Scendo tre piani prima di trovare altre due porte aperte. Qui hanno già controllato tutti gli alloggi. Non ci sono corpi, forse sono scappati tutti, ma per andare dove? Mi dedico solo al cibo e ai liquidi, sono la mia necessità primaria. Sacco pieno e sei bottiglie da due litri nella mano sinistra. Risalgo i quattro piani, stanco ma felice per il bottino. Mi regalo mezz’ora di riposo prima di fare un altro viaggio. Oltre alla stanchezza fisica, devo fare i conti con la paura, la concentrazione, l’adrenalina a mille, che consumano le mie energie in maniera sconcertante.
Un rumore mi prende alla sprovvista. Forse uno sparo, ma quante ore sono ate? Ho perso tempo, devo sbrigarmi. Vado a sciacquare il viso, ma ricordo che non posso sprecare acqua per queste cose futili. Verifico la pistola, prendo la torcia e metto lo zaino in spalla. Fuori albeggia. Guardo attraverso le persiane socchiuse, in direzione del polo chimico. Fiamme e fumo continuano a colorare il cielo. Controllo dallo spioncino ed esco, chiudendo per bene la porta alle mie spalle. Scendo di nuovo per le scale, facendo attenzione quando o davanti alle
porte. Ricontrollo ogni appartamento e ogni antro scuro, finché arrivo al secondo piano. Non sento rumori, nemmeno quelli che di solito provengono dalla strada. C’è una calma inquietante. Continuo la mia discesa per le scale. Entro nell’abitazione del primo piano e controllo ogni stanza. Tutte vuote. Vado in cucina e comincio a riempire lo zaino. Anche gli altri due alloggi sono vuoti, ma nelle cucine trovo da bere, pasta, frigoriferi pieni! Riempio altre due borse. Metto la pistola nella fondina rigida per l’estrazione rapida e comincio a risalire le scale. Sembro un profugo, con tutte queste borse, ma sono la mia vita, il mio futuro. Altri due piani e sono arrivato. La stanchezza comincia a farsi sentire. I pesi che porto mi segnano le mani, sembra quasi vogliano mordere la carne. Ultima rampa, finalmente. Alzo gli occhi e trovo due persone davanti a me! Da dove arrivano? Forse sono salite mentre ero in una delle abitazioni, forse sono ate attraverso gli stenditoi aperti, che collegano due delle quattro scale che compongono questo edificio. Non ha importanza, non ora, l’unica cosa che ha importanza, è la sopravvivenza: la mia. Non riesco a concentrarmi sui loro sguardi. La mia unica attenzione è rivolta alle due mazze da baseball che tengono tra le mani. Lascio cadere le borse e allungo la mano sinistra verso di loro, per distrarli da quello che sto facendo. Estraggo la pistola con la destra e piego leggermente le ginocchia, quanto basta per assumere una buona posizione di tiro. Poi apro il fuoco. Non sento il rumore degli spari. E loro non cadono sotto il fuoco: i miei colpi non sono andati a segno.
Mi sveglio all’improvviso, con il cuore che batte velocemente. La stanza è scura, dalla strada arrivano i rumori tipici di ogni mattina. Le auto che ano, i mezzi della nettezza urbana al lavoro, il cinguettio dei eri, forse si è trattato solo di un sogno. Spengo il televisore. Stavo guardando una puntata di una serie Tv, forse il sogno è stato indotto dal telefilm. Devo fare più attenzione, altrimenti va a finire che impazzisco. Mi lavo, faccio colazione e mi vesto. Esco dalla porta di casa, con la mente ancora rivolta al sogno, sogno che sembrava così vero. Scendo gli otto piani in ascensore (bene, se funziona vuol dire che questa è la realtà!) e mi dirigo verso la macchina. Riflesso sul lunotto osservo, in lontananza, il polo chimico. Sorrido, ripensando a quello che ho ato questa notte. Un bagliore improvviso, una nuvola si alza al cielo e, poi, un boato, il polo chimico è esploso! Questa volta è vero, l’onda d’urto non si fa attendere. Il traffico si paralizza, scendo dall’auto e cerco riparo, strisciando, dietro un muretto. ano pochi secondi, che sembrano interminabili, e poi il nulla, silenzio, desolazione, silenzio. Prendo le chiavi di casa e mi dirigo verso le scale. Sotto il letto ho nascosto la pistola, devo preparare la lista del materiale che conservo in garage. Mi fermo ancora un attimo a guardare il fumo che si alza a sud. No, questa volta non si tratta di un sogno. Almeno credo.
CARGO CULT
Racconto di Claudio Cordella
«La speranza esiste in tante forme quanto è il numero degli uomini. Poiché la speranza esiste solo nell'animo degli uomini».
Hideaki Anno, Neon Genesi Evangelion
Paula li aveva sognati anche quella notte. Non era una novità, ormai accadeva sempre più spesso. Ogni volta che succedeva, quando si svegliava alla luce del sole che penetrava in ogni anfratto, alzava subito gli occhi al cielo in cerca di un qualche segnale della loro presenza. Questa volta si erano insinuate nei suoi sogni una dozzina di astronavi lunghe chilometri, aveva visto strane balene cibernetiche librarsi al di sopra di quel che rimaneva delle maggiori città del mondo, come fossero foglie secche d'autunno trasportate dal vento. Paula aveva sorvolato con la mente New York, aveva visto i resti dell'inutile diga monumentale eretta contro l'avanzare dell'Oceano Atlantico, i tetti dei grattacieli spuntavano dai flutti del mare come tante isole separate da vie trasformate in canali. Nel sogno aveva osservato la gente riunirsi, affollando i tetti come fossero tante piazze. Migliaia di persone indicavano il cielo con la bocca aperta, rimanendo lì a occhi sgranati, stupefatti come bimbi, urlando di gioia per l'arrivo della salvezza così a lungo attesa. Poi, come sempre accadeva, l'illusione era cessata e Paula si era risvegliata. In qualche maniera, nonostante gli scuri corazzati anti-terrorismo, l'abbacinante luce del giorno riusciva sempre a far irruzione nella sua camera da letto perennemente disordinata. Il mattino bussava con prepotenza alle sue palpebre per svegliarla. L'aria era immobile, immota come acqua stagnante e non c'era un millimetro di pelle del suo corpo che non stillasse sudore. Le coperte del letto
erano intrise dei suoi umori. La suite del locale hotel Hilton, era satura dell'odore del suo corpo. Avrebbe avuto bisogno di farsi una doccia, ma aveva paura di sprecare l'acqua, liquido troppo prezioso per esser gettato via per pulire l’epidermide. Da diversi mesi si era rassegnata a strofinarsi con la sabbia, praticamente ridotta al livello di un Fremen di Dune. Il guaio era che il giorno successivo il mare avrebbe potuto ricominciare a muoversi, avanzando o ritirandosi ancora. Non per niente i giornalisti l'avevano chiamato Oceano Mobile, un nome che Paula aveva sempre trovato azzeccato, capace di cogliere la mutevole essenza di quella nuova entità geografica nata da violenti, quanto imprevedibili, cambiamenti climatici. Il clima era impazzito, l'intero globo era al Collasso; foreste che diventavano deserti e viceversa, le linee costiere cambiavano di giorno in giorno, intere specie animali migravano in massa o si estinguevano nei loro luoghi ancestrali, sommersi dalle acque oppure stremati dalla sete. Il Mediterraneo si era insinuato nel Sahara, aveva creato nuovi mari interni, lagune e isole. C'erano state improvvise ondate migratorie, intere città erano sorte dal nulla. Questo era l'Oceano Mobile. La stessa cosa era successa in Siberia con la trasformazione delle lande artiche e subartiche in terre temperate; disperati, contadini e palazzinari, non si erano fatti attendere neanche lì. Alla fine però tutto non era risultato altro che l'ennesimo scherzo del Collasso. Dinnanzi a simili sconvolgimenti era impossibile costruire nulla che durasse. Le speranze di sopravvivenza per la civiltà, anzi per la stessa specie Homo sapiens, erano misere. Adattarsi era un compito troppo arduo per l’umanità. Il mondo era sempre stato un posto folle e imprevedibile, ora lo era senz'altro più di prima. Paula però aveva voluto comunque restare sulle rive dell'Oceano Mobile, quella distesa salmastra era nata da poco ma sembrava già essere senescente e prossima alla morte. Lì c'era tutto il suo lavoro. Preferiva di gran lunga rimanere in quel postaccio, abbandonato da tutti, che cercare un'impossibile salvezza scappando di qua e di là come un lemming impazzito. Molti degli edifici di Gondwana city erano ancora in piedi seppur invasi da sabbia, limo e detriti vari. Nella piazza centrale del centro urbano, originariamente progettato come un'elegante città-rifugio per ricchi, campeggiava un peschereccio incagliato contro le vetrate di un centro commerciale. L'Oceano Mobile aveva smesso di essere sconquassato da violente
mareggiate e di divorare altre terre, ma stava pian, piano svanendo, ritirandosi sempre più nel profondo del deserto. Al momento, qualsiasi previsione sul suo comportamento era pressoché impossibile. Nonostante tutto in quell'ambiente surreale Paula si trovava a casa, anche se si sarebbe venduta l'anima per una doccia. Nell’ultimo periodo i suoi sogni erano diventati più vividi, più ossessionanti. Tra sé e sé, aveva iniziato a definirli come: Stupidi film del mio cervello idiota, oppure, Inutili profezie assemblate da un montatore imbranato. Dopo aver sognato navi-balena aveva osato guardar fuori, più per abitudine che per una qualsivoglia speranza. Ovviamente i cieli mattutini erano tersi, limpidi, privi di nuvole e vuoti, non c'era alcuna traccia delle montagne volanti che si erano insinuate nella sua dimensione onirica. Sebbene non potesse realmente vedere quel poco che era rimasto di New York, sapeva che si era trasformata in una patetica Venezia del Nord America, destinata ad arrugginire e crollare, divorata dalle acque salmastre. Purtroppo si trovava dall'altra parte del mondo, erano anni che non ci andava. Era ancora una ragazzina l'ultima volta che aveva potuto vedere le guglie della Grande Mela. A quei tempi la Diga Oceanica era ancora in funzione, e viva era la speranza che l'umanità potesse controllare i cambiamenti climatici che essa stessa aveva messo in atto. I network televisivi contribuivano al perdurare della grande illusione. Se le catastrofi venivano mostrate era solo per dire alle masse che non c'era un reale pericolo per loro. In realtà la situazione climatica ed ecologica ambientale, giorno dopo giorno, era peggiorata avvicinandosi all'apice del Collasso. Le catastrofi si susseguirono una dopo l'altra ma la gran parte della popolazione mondiale sembrava incapace di reagire, apatica e ignorante come un gregge di agnelli condotti al macello. La droga televisiva li teneva buoni e sembrava bastargli. Per la stessa Paula, prima bambina inconsapevole, poi adolescente problematica interamente assorbita da se stessa e dai suoi problemi, quelle prove generali dell'apocalisse rimasero qualcosa di distante e remoto. Una parte del suo cervello si rifiutava di accettarlo, tutto sembrava incredibile, al di fuori del suo mondo. Tutta quella gente che moriva di fame a causa di siccità pluriennali, affogata dalla furia di fiumi in piena che straripavano o di oceani che avanzavano, l’aveva vista solo durante noiosi telegiornali che era costretta a sorbirsi quando aveva dovuto cenare con entrambi i suoi genitori. Erano fatti terribili ma lontani, irreali
come quelli di un kolossal hollywoodiano. Gli eventi catastrofici, con il are del tempo, si globalizzarono, non erano più eventi locali posti all'interno dei confini dei paesi del Terzo Mondo. Quando infine il Collasso ambientale divenne realmente prossimo, i governi dei paesi più potenti della Terra fecero l'unica cosa che per loro era concepibile fare: mentirono. Un'impresa assai facile per i politici del crepuscolo dell'umanità. Sino ad allora le catastrofi si erano manifestate in terre già colpite da miseria, pestilenze e morte. Nazioni che nell'immaginario dei ricchi cittadini dell'Occidente industrializzato e delle Tigri Asiatiche, erano delle lontanissime lande desolate. Si continuò a far credere alle masse che i problemi ambientali fossero circoscritti a quelle disgraziate regioni. Nascondere la verità non fu difficile. La maggior parte della popolazione era costituita da orde di teledipendenti decerebrati, nutriti da ore e ore di Tv-spazzatura, poveracci ridotti al semiidiotismo e all'autismo da un'esposizione prolungata a quella droga elettronica. Milioni e milioni di culi flaccidi rimbecilliti che accettarono con gran facilità, al di là di ogni logica, tutta la propaganda governativa. Un incredibile fiume di fandonie con cui i loro poveri cervelli striminziti erano stati investiti. Certo, alcuni protestarono: i giovani in particolare. Ma quelli, rassicuravano gli Autorevoli Commentatori, erano per tradizione ribelli velleitari, piagnoni che si lamentavano sempre di tutto e senza alcun motivo. Quando anche l'Occidente iniziò a tremare dinnanzi all'approssimarsi del Collasso, Paula stava per laurearsi, ma aveva trovato il modo di partecipare a manifestazioni in piazza, sit-in di protesta, incontri e dibattiti. Era stato tutto inutile. Se anche radunavano in piazza un milione di persone, poi la sera stessa i Soliti Noti della televisione parlavano di efferati delitti, di starlet e di qualsiasi altra cosa. Ripetevano a pappagallo il mantra del “tutto va bene” e la gente sembrava crederci per davvero. La Fine del Mondo non sarebbe mai stata inserita in programmazione e il videodipendente tipo usava poco e nulla la Rete, in ogni caso mai per informarsi. La stessa Paula, con il trascorrere degli anni e con il sopraggiungere della maturità, divenne più cinica. Nonostante lo sfascio che la circondava, cercò di vivere una vita ordinaria in un mondo che di normale non aveva più niente. In Occidente le estati sempre più spesso scomparivano, per essere sostituite da interminabili inverni, mentre le terre coltivate diventavano lagune o aride steppe.
I semplici temporali si trasformarono in uragani devastanti. Persino nell'emisfero boreale le vittime di un clima fuori controllo iniziavano a essere nell'ordine di diverse migliaia. La gente moriva ma una Paula ormai quarantenne si era accorta di provare ben poca comione per loro. Piuttosto se li immaginava intenti a bestemmiare davanti ai loro televisori muti, perché era mancata la fornitura di energia elettrica o perché le stazioni televisive si erano trovate impossibilitate a trasmettere, mentre una qualche ondata gigantesca o un tornado di classe F5 li travolgeva. Durante i suoi ultimi giorni la specie umana sembrava capace di produrre solo merda: tele-cazzate rompi-neuroni con cui bruciare giornalmente il cervello a milioni di persone. Telefilm a base di efferati serial-killer ed eroici poliziotti, reality-show fatti da bionde siliconate e palestrati abbronzati. Paula si chiedeva quanti miserabili poveracci, tra New York, Tokyo e Londra, fossero morti con uno sguardo ebete sul volto mentre pensavano all'amore tradito di una sconosciuta o alle macabre imprese di qualche assassino. Sempre più spesso però, lontana da tutto e da tutti, assorbita completamente dai suoi scavi, provava anche una vaga comprensione per costoro. D'altra parte che cos'altro avrebbero dovuto fare? Ad altri gruppi umani, per molti aspetti assai diversi dalle legioni dei videodipendenti, non era andata ugualmente bene. Coloro che si erano riuniti nelle chiese, nelle moschee, nelle sinagoghe o in qualsiasi altro luogo sacro, per implorare il loro Dio di essere salvati, non avevano ottenuto un maggior vantaggio in fatto di sopravvivenza rispetto ai gruppi di ascolto dei quiz serali. Quando c'era ancora la possibilità di vedere delle trasmissioni televisive regolari, Paula aveva provato orrore nell'assistere all'impressionante spettacolo della muraglia d'acqua, ripresa da un satellite orbitale, che risaliva il Tevere per spazzar via Roma e il Vaticano, interi millenni di storia, dai Fori imperiali alla Cupola del Brunelleschi, sepolti da acqua e limo. Non meno sconcertante era stata la tempesta di sabbia che aveva cancellato per sempre ogni traccia della Mecca e della sua Pietra Nera. La città-santa dell'Islam era diventata un futuro sito archeologico buono per essere riscoperto da qualche civiltà post-umana o da una missione esplorativa aliena. Dinnanzi alla morte di così tante persone e alla distruzione di città millenarie, facenti parte a buon diritto del patrimonio artistico e culturale dell'intero genere
umano, Paula non aveva trattenuto le lacrime. Non erano pochi quelli che pensavano che solo l'intervento di una civiltà extraterrestre avrebbe potuto salvare l'umanità dal Collasso. Il credo negli alieni era diventata la fede numero uno dell'umanità, soppiantando religioni tradizionali, divinità patriarcali invisibili e pantheon politeisti, angeli e demoni, santi, messia e profeti di ogni sorta. Paula non ne era affatto sorpresa. Appena una settimana prima aveva sognato un'intera flotta di dischi argentei sopra Londra, si trattava di oggetti grandi come stadi da football e lucidi come specchi. Nel bel mezzo di quella fantasia onirica aveva visto i londinesi affollare gli spazi della città, ancora tenacemente difesi dalla furia congiunta del Tamigi e delle maree, per acclamare i liberatori alieni. I benevoli invasori avrebbero portato cibo, medicine e forse una soluzione alla grave crisi ambientale che aveva portato all’Apocalisse. Paula aveva ottenuto la sua prima cattedra durante le fasi iniziali del Collasso. In quegli anni il nuovo radiofaro di Puerto Rico era entrato in funzione grazie agli sforzi di alcuni coraggiosi. Utilizzato molto tempo prima per il defunto programma SETI(01), nato per la ricerca della vita intelligente nell'universo, era stato riaperto, modificato e ampliato per un scopo simile ma ancor più vitale. Chiedere aiuto a qualsiasi forma di vita extraterrestre presente nella Via Lattea, in grado di ricevere il messaggio e di compiere un lungo viaggio interstellare sino alla Terra. Gli umani avevano la fondata certezza di essere prossimi all'estinzione, di aver colpito a morte il loro stesso ambiente e per questo chiedevano l'aiuto a tutte le civiltà della galassia che fossero in grado di dar loro una mano. In cambio della salvezza, l'umanità era disposta a concedere qualsiasi cosa, compresa se stessa. Si trattava di una nuova variante globale del cargo cult. Esattamente come certi indigeni della Polinesia, che pregavano per il ritorno degli aerei che gli avevano fatto conoscere il benessere del mondo moderno, l'intero genere umano supplicava le astronavi aliene di atterrare. E senza nemmeno esser sicuri che esistessero veramente. Quando però il Collasso si manifestò in tutta la sua furia, senza che nessuno potesse far nulla, le più grandi città del globo vennero completamente cancellate dalla faccia della Terra o ferite a morte. Intere nazioni piombarono nel caos, divorate dall'interno da una feroce anarchia e dalla barbarie. Gli anni erano trascorsi, uno dopo l'altro come granelli di sabbia sfuggiti tra le dita, ma nessun Salvatore Alieno era giunto ad aiutare l'umanità;
né sotto forma di una disinteressata missione umanitaria interstellare, né di truppe d'invasione intenzionate a prender possesso di una nuova proprietà. Suo padre Abraham, durante l'ultimo periodo della sua vita, quando si era finalmente deciso a lasciare quel che rimaneva di Tokyo per un microscopico paesino scozzese in riva al mare, si faceva sempre delle grasse risate al pensiero degli extraterrestri benefattori. «È un'idea ridicola, sciocca e completamente imbecille! È proprio una religione da Ultimi Giorni! Figliola siamo alla frutta, abbiamo pasteggiato con la Natura e adesso siamo alla fine. Posto che sia possibile viaggiare da una stella all'altra, perché qualche omino verde dovrebbe attraversare l'intera Via Lattea solo per darci una mano? Anche se fossimo disposti, e lo siamo, a svendere l'intero pianeta, comprese le nostre carcasse, il gioco non varrebbe la candela!» le diceva con uno sguardo assorto, perso nel vuoto. Lei sentiva in lontananza il rumore del mare mentre da una piccola finestra circolare, simile all'oblò di un vecchio bastimento, filtrava una calda luce giallastra. Nell'aria danzavano migliaia di granelli di polvere mentre ovunque erano impilati libri di ogni forma e dimensione. Abraham teneva in grembo una copia consunta di una prima edizione in tedesco di Welt un Umvelt der Maya(02) di Herbert Wilhelmy. Le pagine erano ingiallite, strappate, lette e rilette almeno un milione di volte. Quando Paula, pur sapendo già la risposta, gli chiedeva perché continuasse a leggere quel vecchio libraccio lui, con un tono di voce calmo e professionale, nemmeno si trovasse ancora a Oxford o all'Università di Tokyo, le dava sempre la stessa risposta: «Il libro di questo crucco sarà vecchio e superato in diverse parti ma più lo studio, più capisco che ha descritto un esempio di come noi esseri umani siamo capaci di mandare a puttane l'ambiente in cui viviamo. Fotterci da soli è la vera specialità della nostra specie!». Ogni volta lei annuiva e lo faceva parlare. Il discorso, quasi inevitabilmente, finiva con il cadere sulla madre di Paula, una collega dell'Università di Tokyo di due anni più giovane. Abraham l'aveva conosciuta durante il suo lungo soggiorno giapponese. Le ultime parole dell'anziano professore, che aveva trascorso la vita intera a insegnar storia attraverso mezzo mondo, erano sempre accompagnate da singulti e lacrime. Tutto, con dolore e sofferenze, veniva rievocato dal vecchio che frugava nei tristi ricordi della sua memoria. Gli tsunami che spazzavano via le isole dell'arcipelago giapponese e sua moglie
Sakura, che non era più tornata dal quartiere commerciale di Giza in cui si era recata a far compere. Lui si era salvato solo per miracolo e Paula aveva dovuto sudare le proverbiali sette camicie per fargli lasciare quell'unico, immenso, cumulo di rovine che un tempo era stato la nazione giapponese. Decenni di visioni apocalittiche di film di mostri e di anime fantascientifici, si erano improvvisamente concretizzati dal giorno alla notte superando qualsiasi catastrofe precedente. Era stato allora che aveva portato suo padre in quel piccolo angolo di Scozia, un tranquillo paesino dove un tempo avevano trascorso le vacanze tutti e tre assieme. Sua madre Sakura lo adorava, in effetti molti dei libri che vi erano stati accumulati nel corso del tempo erano stati comprati proprio da lei e non da Abraham. Il vecchio dal canto suo aveva ato i suoi ultimi giorni in relativa serenità, tossendo e fumando, fumando e tossendo, mentre osservava da lontano il mare perennemente in burrasca. Ripetendo le stesse cose sui Maya e sul tramonto dell'umanità, uno strano mantra che in una qualche maniera sembrava trovare tranquillizzante. Alla morte di Abraham, quando gli aerei volavano ancora lungo rotte d'emergenza sempre più disagiate, Paula Martin era ritornata all'Oceano Mobile. Lì aveva un ultimo lavoro da fare prima che tutto fosse finito. Amava le comodità dell'Hilton, ecco perché aveva deciso di fare di quel decrepito hotel il suo campo base. Ogni giorno, appena sveglia, percorreva i quartieri in rovina di Gondwana city diretta al Porto della Terra. In origine sarebbe dovuto diventare un ascensore spaziale, una mega-struttura verticale che avrebbe dovuto sovrastare tutti i grattacieli della megalopoli, oltreare le nubi dell'atmosfera terrestre e sbucare nello spazio esterno. Il Collasso ne aveva impedito il completamento ma rimaneva una struttura formidabile, una montagna di metallo, plastica e materiali ceramici che avrebbe resistito per secoli e secoli. Come la Muraglia cinese o le piramidi egizie, il Porto della Terra sarebbe sopravvissuto alla scomparsa dei suoi creatori. Era quello che cercava. Qualcosa di destinato a durare. Dirigere a distanza il lavoro dei robot operai non era semplice, i problemi erano infiniti, ma Paula non aveva fretta. Sino al giorno della sua morte, presto o tardi che fosse stato, non avrebbe avuto altri impegni che sistemare un radiofaro sul cocuzzolo smozzicato della mega struttura. Era stata un ingegnere aerospaziale, aveva lavorato al progetto di sviluppo del Porto. Non sapeva se quello che stava facendo fosse giusto o sbagliato, degno di lode o di biasimo, eroico o folle, ma sentiva di
doverlo fare. Né più, né meno come una falena attirata dalla luce e dal fuoco. Forse si trattava di un impulso irrazionale, ma Paula era sola e non c'era assolutamente nessuno a cui chiedere pareri. Cercava di immaginare cosa avrebbe potuto dirle Abraham, purtroppo non era brava nell'immedesimarsi negli altri e non riusciva proprio a pensare come suo padre avrebbe giudicato la sua ultima fatica. Probabilmente suo padre l'avrebbe guardata in silenzio con disapprovazione, con il volto oscurato dalla rabbia e dal dolore. Mentre le incertezze non le davano tregua, Paula continuava a sognare atterraggi alieni. Le flotte extraterrestri della sua dimensione onirica erano imponenti, i visitatori alieni sempre gentili e disponibili nei confronti degli umani. Morì un mese esatto dopo aver terminato la costruzione del radiofaro. A bordo di un'antiquata jeep militare, aveva continuato a fare avanti e indietro dall'Hilton al Porto per controllare che il messaggio registrato fosse continuamente ripetuto e inviato verso i più remoti golfi stellari della Via Lattea. Uno dei suoi viaggi coincise con il giorno in cui l'Oceano Mobile aveva ripreso la sua espansione. Gondwana city venne sommersa in poche ore. Stava guidando per la Main street della città-fantasma, con un continuo slalom tra carcasse di auto e detriti vari, concentrata nel tentativo di evitare gli ostacoli che aveva davanti. Non si accorse del muro d'acqua e limo che stava spazzando via quel poco che rimaneva degli edifici Gondwana city. Dal momento in cui avvertì il potente rombo dell'ondata, a quando alzò gli occhi per vedere che cosa fosse tutto quel casino, arono solo pochi istanti, per lei era già troppo tardi. Non ebbe neanche occasione di urlare, di dire una preghiera o fare qualsiasi altra cosa: venne sommersa da un'onda di acqua salmastra, fango e detriti. L'ultimo essere umano della città aveva cessato di respirare. Il radiofaro però era stato completato e continuò a trasmettere anche dopo la sua morte. Gli alieni arrivarono, con un secolo di ritardo però. Quando la loro immensa ibernave fece ingresso nel Sistema Solare la civiltà era sparita da tempo. L'equipaggio viaggiava in stato di ibernazione e la rotta originaria dell'astronave era stata modificata quando l'Intelligenza Artificiale di bordo aveva intercettato due messaggi provenienti dal terzo pianeta di un sole giallo: uno proveniva da quella che un tempo era stata Puerto Rico, l'altro dal Porto della Terra. Il primo chiedeva aiuto e soccorso. Il secondo aveva un tono completamente diverso: «Mi chiamo Paula Martin e parlo unicamente a nome di me stessa. Abbiamo distrutto la nostra specie e il nostro mondo. Non avvicinatevi a questo pianeta potrebbe essere pericoloso per voi e per il vostro vascello! Considerate ogni sopravvissuto
umano come potenzialmente letale: siamo esseri autodistruttivi e violenti. Ripeto, non avvicinatevi, lasciateci soli, fuggite! Mi chiamo Paula Martin e parlo unicamente a nome di me stessa...» Gli alieni rimasero in orbita, considerarono saggio non atterrare e inviarono in loro vece dei robot-sonda sulla superficie terrestre. Dopo aver compiuto tutti i rilevamenti del caso, senza frapporre alcun indugio, attivarono il quantum ramjet della loro ibernave e si allontanarono a tutta velocità da quell'unico cimitero globale che era diventata la Terra. Un propulsore del genere, un motore quantico, estraeva l'energia per il movimento dalla struttura dello spazio stesso, sprigionando tanta potenza che il vascello alieno parve una piccola nova in movimento. Uno spettacolo bellissimo che nessun occhio umano fu in grado di contemplare.
Note
(01) SETI, acronimo per Search for Extra-Terrestrial Intelligence cioè Ricerca di Intelligenza Extraterrestre; un programma volto alla ricerca di vita intelligente aliena nell'universo.
(02) Testo realmente esistente, è stato edito in italiano dalla casa editrice Laterza come La civiltà dei Maya.
IL FANTASMA DI MADRE AMERICA
Racconto di Valentina Di Martino
Beati e santi coloro che prendon parte alla prima risurrezione. Su di loro non ha potere la seconda morte, ma saranno sacerdoti di Dio e del Cristo e regneranno con lui per mille anni.
Apocalisse, capitolo 20
Questa è l'ultima strada che porta al paese. L’unica rimasta pulita, la cui terra battuta si stende uniforme. Ci sono chiazze rosso scuro a interromperne la monotonia. Questa è la strada che ogni giorno percorrevo per ritirare la posta dalle mani di John. La strada che percorrevano i miei figli correndo verso il pulmino che li avrebbe portati a scuola e che li riportava dritti tra le mie braccia per nuovi giochi tra l'erba e le favole della buona notte.
Ora, per quel che mi riguarda, potrebbe anche essere completamente lastricata di tizzoni ardenti. Dopo tutto, è solo questione di scegliere quando, non se morire.
Da ogni dove si levano gemiti come un unico e ininterrotto respiro trattenuto. Me ne resto seduto in bilico sui gradini di una casa, quella che era stata la nostra casa. Dondolandomi su uno scalino in una danza zoppa, avverto pensieri privi di sostanza levarsi come vapore di rugiada dall’erba del mattino. Ci sono urla, lamenti e un’insopportabile puzza di marcio. È lo stesso nauseabondo odore che quelle creature paiono sentir provenire da me. Giudicato
anche da quelle creature immonde, oltre che da Dio, non posso fare altro che cominciare a pensare al mio ato.
Erano gli anni Settanta, all'epoca non pensavo ci potesse essere un futuro, le pasticche e la droga in vena facevano apparire il presente un momento infinito. Poi quel periodo era ato, eppure le mie colpe mi raggiunsero con mani adunche e invasate. Credevo di aver sconfitto i miei demoni abbracciando la fede in Dio, ma riemersero con violenza, prima nella malattia e poi con questa piaga.
Mi volto e guardo dentro la nostra casa: la porta divelta. Di Mary resta solo cervello spiaccicato contro il muro tappezzato di rose e il corpo in putrefazione in un angolo. Dei bambini... non saprei dire. Sono stati presi, portati via come in un macabro crowd surfing mentre da un aggio di mani all'altro perdevano un pezzo. Nel frattempo, il mio spazio vitale si è ridotto di giorno in giorno e ora eccomi qui, sugli scalini di casa. Sulla veranda il dondolo si muove appena nell'aridità di questo Agosto di morte. Ho la mia chitarra, una mazza da baseball e un vecchio paio di Rayban sul naso che scivolano di continuo. Macchie di sudore si allargano sulla t-shirt grigia che indosso, il sangue si secca dalle ferite aperte dalle unghie di quei morti risvegliati. In mano ho ancora il rosario di mia madre: me l'aveva regalato secoli fa. Non ne capivo il significato e lo usavo come una collana, prendendomi gioco di tutto. Ora lo sgrano con febbrile attenzione. Dopo tutto ciò che ho ato, Dio non può avermi abbandonato. Io so che tutto questo delirio ha un significato ben preciso, è l’ennesima prova da superare. Solo qualche giorno prima la nostra vita procedeva normalmente. I bambini a scuola, io nei campi e Mary in cucina con la radio a tutto volume. Solo qualche giorno prima, i mostri stavano chiusi in una scatola in salotto e noi ridevamo per l'assurdità di quelle scene inventate da registi che probabilmente si stavano drogando un po' troppo. Insomma, la vita procedeva e gli allarmismi al notiziario su una specie di epidemia che stava falciando l'Europa ci sembravano lontani e surreali. Dopo
tutto, avevamo superato grandi tragedie nella nostra vita. Dio ci ha ascoltato, abbiamo pregato, abbiamo messo al mondo figli non corrotti dalla vita di città.
Mary era la croupier più bella ed eccitante che avessi mai visto. Io un tecnico del suono tra i più sfigati, ma lei aveva scelto me. Ci eravamo ritirati insieme in un paesino rurale dove il frastuono della città e il turbinio di quegli anni non ci avrebbero trovato. Ogni tanto, strimpellavo per lei qualche canzone, i bambini – un maschio e una femmina di undici e otto anni – volevano sentire racconti di città lontane e caotiche. Noi raccontavamo storie di come la città fosse un mostro mangia anime, di come si stesse meglio ad ascoltare il cinguettio degli uccelli la mattina e a guardare il rosso del tramonto la sera. Eravamo felici. Il sogno americano. Eravamo diventati il simbolo di ciò che la benevolenza di Dio avrebbe potuto offrire ai redenti. Tutto questo sentivo nel mio cuore colmo di una fede ormai incrollabile. Le dissolutezze del ato però avevano lasciato un segno nel mio sangue, una malattia che aspettava solo di germogliare. Nonostante la fede, sebbene fossi ormai colmo di buoni propositi, mi ammalai. Non ero certo stato uno stinco di santo da giovane e il mio sangue lo sapeva, la malattia acquattata in un angolo aspettava solo di germogliare. Ma Dio ancora una volta mi aveva benedetto risparmiando i miei bambini, nati forti e in salute. Seguivo cure, pregavo molto e ringraziavo continuamente il Signore per ogni giorno in più concessomi con la mia famiglia. Troppo alcol e troppe droghe avevano messo a dura prova il fegato, l'epatite corrodeva il mio corpo, ma non lo spirito.
Nell'ultimo periodo macchie livide, segno di vizi e peccati, si erano create sul mio corpo, a formare una mappa degli organi interni che collassavano uno dopo l'altro. Miglioravo o peggioravo. Ma intanto vedevo i miei figli crescere. Il ato era venuto a bussarmi alla porta, ma non riuscivo a disperarmi troppo. I miei anni li avevo vissuti al massimo, avevo conosciuto l'amore della mia vita e quello eterno di Dio. Poi dalla città erano giunti gli infetti, ciondolavano come morti risorti, avevano
fame. Avevano ingoiato i corpi dei miei figli insieme alla loro anima, straziati e fatti urlare mentre impotente, non potevo far altro che guardare, schiacciato dalla mano del mio Signore. Le mosche si levavano tutto intorno. Dalle altre case provenivano rumori di vetri rotti e altri suoni indefinibili. Ma ero certo di essere rimasto solo, avevo perlustrato il paese in lungo e largo. Quando i primi non-morti avevano invaso la nostra casa, alcuni avevano preso i bambini, altri avevano attaccato Mary. Nessuno di quegli essere immondi aveva voluto me. Ero riuscito a togliere mia moglie dalle grinfie di quelle creature del demonio, ma le avevano scalfito con i loro denti marci la pelle candida e perfetta, i suoi occhi erano già appannati e dopo poche ore di febbre e sudore, era svenuta inerme tra le mie braccia, come fosse morta. Poi aveva riaperto gli occhi. I suoi splendidi occhi espressivi e color ambra mi fissarono vacui e pallidi, come un pesce sul fondo di un barile. Il diavolo l'aveva presa. Anche lei sembrava vittima di una fame compulsiva, ma non di me. Avrei voluto morire, fatto a pezzi da lei. Invece mi scansò, come se la disgustassi. Cercò di raggiungere un'uscita e altri come lei. Mi voleva abbandonare, nella mia inadeguatezza. Era dannata, una creatura del diavolo lontana dalla grazia di Dio. Non potevo accettarlo. Non potevo lasciarla bruciare in quell’inferno. Impugnai la mazza da baseball e le spaccai la testa. Il sangue spruzzò con un unico fiotto ordinato a macchiare la tappezzeria, quella vecchia, che avevamo trovato quando ci eravamo trasferiti.
La figura che avevo colpito con estrema freddezza, non era più la donna di un tempo. Era un orrendo involucro animato solo da un bisogno primario. La luce di Dio l'aveva abbandonata, nell’attimo in cui era stata infettata, non potevo far altro che eliminarla. Anche lei, era colpevole. Era parte di quella piaga che stava rapidamente estendendo i domini del diavolo e come tale doveva essere epurata.
In bilico tra il mio vecchio mondo, le mie vecchie certezze e il baratro di morte e putrefazione, non provo nulla se non una stanchezza derivante dagli ultimi anni di malattia, dalle perdite subite, dalle difficoltà affrontate. Dandomi una spinta in avanti mi ritrovo sulla strada. Non so cosa possa accadere. Un attacco fulmineo, forse. Invece, alcune teste si girano dalla mia parte, alcune dalle orbite vuote o cieche. Mi ignorano, e ripreso il proprio mormorio in un mantra di fame senza fine, mi lasciano solo e impotente. Comincio a correre. Il rumore dei miei i, pesanti, senza ritmo, pestano il selciato, fin dove inizia il prato ben curato della mia casa e la cassetta delle lettere che campeggia ancora rossa, come l'avevo dipinta. Ed ecco John, il postino. Questa volta però non mi porge la posta ma una mano mozzata. John, vecchio John. Alzo il braccio come il gran battitore che non ero mai stato e gli stacco quasi via la testa. Crolla in ginocchio, gli cade il cappello, e la borsa con le lettere si rovescia, sparpagliando le missive attorno a lui. Come già dicevo, la mia è stanchezza. Una stanchezza infinita. Non è rabbia, non è vendetta. Il Buon Dio ha deciso di mettere alla prova gli uomini con un Nuovo Giudizio Universale. Lo accetto. Ma il mio istinto di sopravvivenza è forte e io, stanco, non riesco a fermarmi. Vado più avanti, verso un gruppetto di morti che camminano nella mia direzione, non troppo convinti. Annusano l'aria insospettiti, agitano le mani come in una richiesta muta. Squarci orribili decorano quei corpi privi d'anima. Mi ignorano continuando per la propria strada. Un fuoco mi si accende dentro e urlo con quanto fiato ho in gola: «Venite a prendermi, non sono abbastanza succulento per voi, dannati demoni?»
Sordi alle mie invettive, camminano trascinandosi sulle membra morte. In un balzo gli sono addosso, ne prendo uno di sorpresa e con facilità, lo colpisco alla testa. Gli altri si girano spaesati. E allora, tutto mi è chiaro. Il mio odore li disgusta perché per loro sono già carne morta.
La malattia che mi sta uccidendo mi ha reso qualcosa di estraneo agli occhi di quei non-morti, marcio e poco appetitoso. Prendo la mira ma questa volta, uno di loro si difende addentandomi. Nei film non è così, di solito questi esseri non pensano, non rapiscono persone e non si difendono. Grido, mentre il mio sangue infetto cola dalla bocca del mostro. Grido come se fossi uno di loro. L’essere che mi ha azzannato emette un suono agghiacciante e comincia ad accasciarsi preda di convulsioni. Pensavo si rialzasse e invece no, muore. In quel momento capisco che la malattia non è stata una punizione per il mio ato, ma una speranza di salvezza per il mondo. Dio ha fatto di me la sua arma. Il mio sangue infetto è veleno per questi esseri. Io sono la cura contro la maledizione. Nutro la convinzione che il Signore abbia fatto di me un immortale, un prescelto! Lascio penzolare il rosario tra le dita sporche. Cristo mi proteggerà perché sono l'arma. Mi getto fra quegli esseri immondi. Salverò il mio Paese e lo farò in nome del Dio che mi ha benedetto. Staccano pezzi del mio corpo e crollano in terra, io non mi fermo. Colpisco teste come meloni maturi, un rumore umido accompagna la morte. Troverò altri superstiti e li renderò miei discepoli.
IL PORTO DI TARTAGO
Racconto di Vito Introna
Ogni tanto trovo conforto nel visitare la tomba di Simera. Quella lapide consunta riporta una vecchia immagine ologrammata recante il suo nome, l’alfa e l’omega. Sono trascorsi quattordici anni da che la folgore consumò mia moglie e con essa almeno altre ottantamila persone, come lei accodate agli imbarchi marittimi. Il molo orientale è diventato il loro cimitero e recarmici saltuariamente costituisce un’abitudine irrinunciabile, trovo sempre la sua vetusta immagine ad accogliermi e in quei begli occhi ingrigiti dall’arcaica tecnologia 3D rivivo il coraggio e la ione che lei mi ha sottratto, portandoli con sé nell’Ade.
Tartago non ha ancora risolto i problemi innescati dalla conflagrazione nucleare del 2181, ufficialmente il centro urbano è stato decontaminato e in parte ricostruito, ma l’area portuale ancora oggi sopporta un indice di radioattività superiore del novecento per cento alla portata massima dei radio-dissipatori; non è possibile avvicinarsi ai moli o alle banchine senza indossare appositi equipaggiamenti, il cui noleggio costa mezzo salario a esser fortunati. Non voglio lasciare Tartago però, al di là del ricordo di Simera mi sento ancora legato a questa terra, alle sue lande brune che un tempo brulicavano di vigneti automatizzati e di immense vasche idroponiche per la coltivazione del frumento. Il verde e l’oro sono scomparsi pochi giorni dopo la deflagrazione, le torri e i minareti metallici, storti e anneriti, sono stati sostituiti da costruzioni basse in resina metallicizzata, tutte uguali nel loro grigiore. Alle volte preferisco eggiare lungo le mura antiche, in quei tratti scampati all’esplosione che ancor oggi restano in piedi ad attestare la perduta grandezza della capitale. Da quei bastioni alti più di venti metri è possibile vedere l’antico alveo marino, ormai prosciugato. Secondo alcuni mercanti trinacridi il corpo idrico è ancora vivo cento miglia a nord della linea costiera, se pure in forma di densa e scura fanghiglia. Si racconta anche della presenza, in quelle acque scure e velenose, di
assurde specie animali, colossali Seláchion tentacolari ben più grandi di un capodoglio e capaci di attaccare perfino le navi volanti atmosferiche che si azzardino a sorvolare quelle pozze a bassa quota. Che siano o meno leggende poco m’importa, lontano da qui non ho radici né affetti, non voglio lasciare la Fenicia e non ne ravvedo l’utilità. A sud il deserto nero non dà scampo nemmeno ai velivoli da diporto atmosferico, spesso si inceppano nell’area irraggiungibile ai controlli calorifici e consegnano l’equipaggio a morte istantanea. Se anche riuscissi a superare quella conca del demonio dovrei comunque arrischiarmi ad attraversare lo stato dei Neanderiani e il confinante principato dei Cromanij, due agglomerati umani che qualche coglione insiste a definire ‘nazioni’ e dove pare che si pratichino il vudù e il cannibalismo. Piuttosto che diventare una razione alimentare o una bambola tantrica scelgo senza remore di vegetare in questa inutile terra senza futuro, dove gli abitanti girano tutti a testa bassa, nessuno parla e dopo il lavoro tutti si ritirano a smanettare sulle proprie consolle, ripescando antichi archivi informatici che riversano meravigliose visioni dei mondi che furono. I bollettini informatici periodicamente raccontano delle incessanti morie che dall’arcipelago nipponico continuano a propagarsi fin sui continenti asiatico e nordamericano, ma nessuno più se ne sconvolge. Morti che camminano, ecco cosa siamo; automi disincarnati, uomini e donne abbrutiti e inselvatichiti, potremo ingannarci fino al trao rivestiti da una falsa cornice di civiltà, ma alla resa dei conti comunque sapremo ciò che siamo: niente. Ne sono sicuro. Mia figlia Cadigia ogni tanto mi scrive, racconta di come in Scandinavia la ricaduta radioattiva sia stata contenuta, lassù oltre un terzo della popolazione è riuscita a sopravvivere, i cancri sono in diminuzione e sotto controllo. Il calo delle temperature si è ormai attestato a una media di -120°, occasionalmente d’estate si toccano punte di -60°, spera di riuscire a vedere il Sole all’aria aperta prima di morire. Come sempre m’invita a prenotare un volo sovratmosferico per la Scania, con un po’ di fortuna potrei riuscire a ottenere il permesso di espatrio entro quattro anni, al massimo sei, così da raggiungere lei e il suo compagno Siljuk; insieme ricostituiremmo una famiglia. La prospettiva di sopravvivere quale terzo incomodo tra la mia volitiva figlioletta e il suo fidanzato, l’ottavo negli ultimi quindici anni da che risiede nei paesi ex baltici, non mi ha mai allettato. Preferisco crepare qui, prima o poi la proliferazione dei fibromi dovrà per forza accelerare e anche noi superstiti fenici conosceremo le delizie della chemio e della radio terapia. Purtroppo le cure
anticancro più moderne non potevano prescindere dalla fusione a freddo del plutonio e, di seguito alla sciagura del reattore generale di Osaka, nessuno ne più ha voluto sentir parlare. Io personalmente sono convinto che il ripristino di quelle attrezzature possa salvare cento volte più malati di questi arcaici rimedi da stregone, ma non lo dico in giro, chi volete che mi dia retta? Odio il tramonto, quando il Sole scaglia le sue ultime fiammate tutto si arroventa e il caldo si avverte anche sotto le tute termoregolate. Novanta gradi sopra zero non sono pochi, vorrei tanto capire come riescano i neanderiani e i cromanij a sopravvivere nudi, ad accoppiarsi, a figliare, a cacciare e pescare senza uno straccio di protezione: mistero! A sud dei loro vasti territori c’è la fascia equatoriale, dove prosperano i ricchi stati di Bantus, Watus e Huto. Sono nazioni federate piuttosto ricche, munite di discreti mezzi di sostentamento e adeguati i tecnologici, almeno questo è quanto trapela dai domogiornali. In realtà a parte sporadiche missioni diplomatiche del nostro Conestabile al commercio, i Fenici in quelle aree non sono graditi e i visti d’ingresso sistematicamente rifiutati. Quest’oggi in locanda si sono presentati due mercanti Hutos, annunciati dal loro disgustoso afrore acido. Non sopporto la loro sudorazione ma non posso permettermi di selezionare la clientela in base ai gusti olfattivi, un’accusa di razzismo - peraltro falsa - potrebbe costarmi la chiusura del locale e allora sì che sarei costretto a ripiegare in Scandinavia… Ho accolto i due neri senza cerimonie, per fortuna parlano abbastanza bene il fenicio e siamo riusciti a intenderci. Vogliono alloggiare da me per un mese e di fronte alla mia effettiva meraviglia, dovuta alla rarità di simili evenienze in una zona frequentata soltanto per gli imbarchi quale è Tartago, mi hanno consegnato una banconota da cinquecento crediti afro-sauditi. Li ho aiutati a trasportare il bagaglio, un grosso baule e due piccoli basti, fino all’elevatore a compressione idraulica. Ho provato anche a curiosare, interrogandoli sul perché di una lunga permanenza in un luogo così improbabile, ma non mi hanno degnato di una risposta, lasciando partire il montacarichi senza nascondere una certa stizza. Tuttavia quest’improvvisa manna mi ha reso euforico, un tempo cifre simili le guadagnavo nel giro di una settimana, in alta stagione costituivano sì e no la rendita di un solo giorno, ma dal disastro in poi difficilmente riesco a racimolare tanto danaro nell’arco di un semestre. Come da procedura ho inoltrato elettronicamente i dati dei loro visti di aggio al locale comando portuale e senza attendere la risposta automatica mi sono
assopito davanti al domovideo, convinto che, per mera applicazione statistica, non avrei ricevuto altri clienti. Questo è l’ultimo ricordo che serbo della mia vita da cittadino e bettoliere nella libera città stato di Tartago, capitale della Fenicia.
Mi sono risvegliato in un incubo senza principio né fine, dove il tempo è circolare e si arrotola su se stesso, dove la luce e il buio sono concetti relativi e la ragione non trova allocazione utile. Quella parte ancora attiva del mio povero vecchio cervello, irradiato e marcescente, conviene che sia stato vittima di un abbaglio, non ha senso appropriarsi della vita di uno come me, che nulla ha da offrire. Chi sa che vogliono quei due hutos del cazzo, non possono essere stati altri che loro a drogarmi e immobilizzarmi in questo modo, oppresso tra vapori solidi e luci brune e insane, costretto ad ascoltare suoni e rumori che esplodono senza preavviso e mi martellano il cranio, legato da catene invisibili e impalpabili, costretto fra mura spugnose e gelide al tatto, ammesso che ancora disponga di quel senso… Non tutto mi quadra però, sebbene la pazzia mi abbia preso in ostaggio, la parte ancora sana di me sa che questo globulo di follia immateriale non può esistere, non è un paradiso né un inferno, non è vita né morte. Non provo fame o sete, né dolore né patimento, è come se il calco di arenaria del mio cadavere fosse stato investito da una sparuta scintilla di vita intelligente. Se ciò che sto vivendo è reale devo trovarmi necessariamente altrove; voglio capire, devo sapere… provo a controllare questo simulacro di corpo, soffocato fra pareti invisibili d’ignota consistenza; tendo ogni arto, provo a congiungerli, spingo e scalcio, intuisco il contatto con qualcosa di estraneo ma né gli occhi né i polpastrelli riescono a fornirmi risposte. Ancora le detonazioni mi sorprendono, voci aliene e un oscuro dialogare a suon di urla prorompono in quelli che dovrebbero essere i miei timpani, solo che stavolta mi pare di capire qualcosa… Uno dei misteriosi oratori è umano e grida forsennate invettive in lingua Huta o Watutsa. Un lampo più chiaro e potente spezza la continuità, il tempo riprende a scorrere e finalmente vedo... Vedo quello che resta del mio corpo sepolto fino alla cintola sotto frammenti di resina, le membra cadaveriche, il respiro appena percettibile. La locanda è crollata e con essa paiono rasi al suolo tutti gli edifici nel raggio di molte centinaia di metri. Non capisco, dappertutto vi sono soltanto voragini, macerie e desolazione, poco lontani riconosco i corpi ridotti a brani dei commercianti
Huta, sembrano divorati dal fuoco vivo per quanto sono riarsi e affumicati. Il cielo è diventato ancora più grigio, il tramonto violaceo s’indovina a fatica sotto questa polverosa coltre di detriti, non ho idea del genere di diavoleria che quei due pazzi abbiano fatto brillare, ma il cratere più vasto corrisponde proprio alla loro camera, venti metri a sinistra del mio corpo inanimato. Oltre la bolgia di polveri metalliche sembra essersi aperto uno squarcio nel cielo, una luce color dell’oro è lì ad attendermi. Nessuno mi costringe a raggiungerla, anche se un barlume di quel lucore dispiove dallo zenit e perfora la cortina di polveri pesanti, cingendo le mie membra in agonia. Questo giorno dovrà finire, nell’uno o nell’altro caso. Tartago è la mia terra e voglio morire qui, ma non ora. Rientro nel mio corpo, forse Allah mi ha concesso di scegliere. Sento un rombo in avvicinamento, i soccorritori stanno venendo a liberarmi. Provo a urlare ma devo prendere atto che la mia carcassa è del tutto inservibile. Sotto i detriti non ci sono altro che una matassa di organi e budella semiliquefatti, delle gambe e del bacino non un osso è ancora sano e occhi, bocca e orecchie non funzioneranno mai più. Riesco in qualche modo a muovere una mano ma il solo tentativo mi provoca un dolore terribile, devo lasciare questo corpo subito, prima che qualche arcano maleficio mi ci imprigioni irreversibilmente.
La mia anima da allora vola nei cieli di Allah il misericordioso e se di tanto in tanto la porta della luce si mostra in mia paziente attesa, molto più spesso sono le mie scorribande, dono del Profeta, a rendermi più ardito che mai. Ho verificato come il letto del Ponto Euxino sia completamente prosciugato, eccettuata una densa palude salmastra e qualche altra pozza stagnante sovrappopolata, a seconda della latitudine, da enormi crostacei ciechi o da colossali forme tentacolate: ambedue le specie reiette sono perennemente in lotta con colossali e deformi cetacei e non mi è parso di vedere un solo naviglio da pesca tentare di procacciarsi il cibo in quei luoghi malsani. La Trinacria è un deserto rovente picchiettato da poche grandi oasi, brulicanti di oscuri viandanti dalle facce scure e dai modi sinistri. Un giorno vorrò spingermi a nord e magari deciderò di sorvolare Bruzio, Apulia e Sannio, forse proverò a spingermi ancora più su, dalla Longobardia fino alla Scania dove vive la mia unica figlia. So che lo farò, questo viaggio in forma da spettro alle volte m’incute immensa paura. Vorrei vedere Simera riemergere dalle rocce scure e arrotondate che
ancora adesso opprimono le banchine annerite del porto di Tartago, potesse lei accompagnarmi in questo peregrinare tra la vita e la morte, sorridendo e tenendomi la mano, come accadeva tanti anni fa. Questo presente continuo privo di sviluppi è un piano d’esistenza estremamente noioso, ne sono consapevole, però in ogni caso lo sopporto, la vita da spirito impuro non ha niente a che vedere con la sopravvivenza di uno storpio. Ho deciso, prima di raggiungere in volo mia figlia voglio visitare gli stati meridionali, lì dove quei possenti uomini neri e pelosi dominano incontrastati, malgrado l’assenza delle più elementari tecnologie. In fondo anche Simera, curiosa e acculturata, avrebbe voluto tastare la degenerazione ominide, motivo in più per recarmici subito.
Questa bruna landa desertica mi tedia, tanta monotonia di rocce laviche e sabbia sporca non è interrotta da un solo rilevo per centinaia di miglia. Lì dove s’avvicendavano oasi e insediamenti in arenaria campeggia triste questo asettico oceano marrone, non un dromedario lo percorre né un volatile si azzarda a solcarne il cielo. Saranno forse i cento e più Celsius di temperatura media a scoraggiare il ripopolamento, ogni tanto un mezzo da diporto corroso e scassato emerge dal suolo friabile, a ricordo di qualche viandante incauto. Spingendomi all’estremo sud dell’area letale incontro rade distese di sterpi e qualche scheletro umano e animale, se pure di proporzioni bizzarre. Qui evidentemente c’è acqua e forse vita.
Sono prossimo allo stato dei Neanderiani. Una bronzea foresta di strane piante tozze e nodose contrassegna il confine con l’area morta, infittendosi progressivamente verso uno specchio di liquido torbido. L’ampia palude del Kajad, maleodorante di putredine, è attraversata da piccole piroghe metalliche e da impavidi guadatori. I neanderiani sono coraggiosi all’estremo, enormi guerrieri dalla bruna e folta pelliccia alti non meno di due metri e mezzo, cacciatori forti e determinati. Si racconta che non disdegnino di banchettare con le carni dell’Homo sapiens, ciò storicamente spiega l’estrema reticenza nei contatti tra la risorta repubblica Fenicia e questa bolgia di crudeli giganti onnivori. A Tartago si favoleggia che le loro città siano semplici accampamenti di tende, insediamenti provvisori non certo equiparabili a una realtà urbanizzata.
Mi rendo conto che sono false leggende. Le costruzioni che sto sorvolando sono perfette nella loro maestosa semisfericità, rocce scure intagliate con precisione degna dell’impero Inca, i blocchi sovrapposti e murati con calce da artigiani evidentemente ben capaci, le loro donne glabre e dalla pelle color zafferano ogni tanto si affacciano alle finestre ovali e dischiudono ante di materiale plastico… intanto nelle spaziose aie che intervallano il molteplice filare di semisfere, i loro maschi villosi scuoiano dromedari e facoceri con semplici coltelli affilati. Simera amava molto l’antropologia e sarebbe rimasta sbigottita da un simile modello urbanistico sociale. La curiosità mi spinge allora a visitare anche l’altro stato pericoloso, la confinante nazione di Cromanij. Il sorvolo dello stato del Neander però si rivela più difficile del previsto. Al di là dell’insediamento sulle sponde della palude, incontro numerosi villaggi ordinati e puliti, a volte dei gruppi di maschi a caccia fissano infastiditi nella mia direzione, come se potessero vedermi. Un enorme vecchio rivestito di pelliccia felina, probabilmente uno sciamano, mi ha notato e ha cominciato a strillare con voce tonante, richiamando l’attenzione del branco, puntando una sbarra metallica al mio indirizzo ed elevando al cielo probabili bestemmie. Un raggio violaceo, scoccato da quell’arnese mi ha sfiorato facendomi male… essendo io puro spirito la cosa mi ha sorpreso, per fortuna sono riuscito a mantenermi in volo e a schizzare via, rincorso a terra da molti ominidi infuriati, guidati dalle urla dello stregone. Ignoro come facciano a vedere il mio corpo astrale, ma le loro terribili invettive mi inseguono da ore, spero di raggiungere presto il confine di Cromanij, segnato dalla sponda orientale del Kajad. Confidando nell’ignoranza degli sciamani locali…
Cromanij è completamente diversa da Neranderja, qui le foreste sono ancora verdi e rigogliose, gli alberi hanno fusti slanciati e regolari, un aspetto più rassicurante. La tundra circostante presenta anch’essa un colpo d’occhio meno originale rispetto alle bronzee sterpaglie e ai tronchi mostruosi di Neanderja, tuttavia, malgrado sia in sorvolo da più di un’ora, ancora adesso non riesco a vedere un solo insediamento degno di questo nome. A un certo punto mi è parso di notare una scena di lotta fra un enorme mammifero proboscidato e dei grossi felini, in cielo un paio di rapaci mi hanno sfiorato in picchiata, risalendo poco dopo con dei grossi roditori fra gli artigli, senza peraltro degnarmi di
un’occhiata. Forse da queste parti il continuum non è soggetto ad anomalie e risulto invisibile a tutti, come inavvertibili sono per me i misteriosi abitanti di questa terra lussureggiante.
Nel mio peregrinare mi sono imbattuto in una struttura artificiale, un cono metallico alto una quindicina di metri dalla base molto ampia. L’oggetto risplende sotto il sole violetto, generando riverberi spettrali. Tutto intorno sono ammassate altre costruzioni coniche grandi la metà, egualmente metalliche. Credo si tratti dell’abitazione del capo villaggio, scendo al suolo per capirci qualcosa. Il tramonto è vicino e il disco solare nella sua lenta discesa investe le spesse nubi azzurrastre, riversando una tenue luce sepolcrale, gelidamente riflessa dai coni. Il mio spettro si aggira sulla terra compatta e sulla corta vegetazione che la punteggia irregolarmente. Viste da vicino le costruzioni sono spaventose, il metallo vibra e rilascia fastidiosi ronzii elettrici e soprattutto nessun cono sembra poggiare al suolo, sono sospesi a una trentina di centimetri da terra. I piccoli buzz generati al loro interno mi innervosiscono oltremisura, forse è meglio che continui ad addentrarmi in questo territorio proibito ai vivi, in cerca della civiltà autoctona. Le costruzioni sembrano manufatti alieni, navi volanti come quelle favoleggiate da tanti scrittori dei secoli andati, ma Cromanja non è popolata da omini verdi, al contrario ho idea che i suoi abitanti siano ancor più massicci e terribili dei neanderiani. Spicco il volo prima che il buio mi sorprenda a terra, questi oggetti sono malevoli, i miei raffinati sensi da spettro intuiscono l’aggirarsi al loro interno di entità deplorevoli… Non voglio saperne di più. Plano nel crepuscolo, la porta di luce risplende lontanissima in cielo e nessun’altra fonte eburnea risalta sul nero della savana. Aguzzando la mia raffinata vista da fantasma riesco a intuire misteriosi baluginii meno scuri del nero, come che qualcuno avesse picchiettato parte della foresta di cupa vernice fosforescente. Punto deciso in quella direzione, verso il cuore di Cromanij. Un fremito e qualche schiocco sommesso mi segnalano la presenza di forme animate sotto le gigantesche querce, convulsamente intrecciate in una compatta muraglia lignea. Sono prossimo a quelle misteriose fonti riflettenti quando il cielo di colpo s’illumina di un’abbagliante luce bianca. Una formazione icosagonale d’astronavi coniche, incentrate sulla più massiccia ammiraglia, risplende su di me e tutta intorno a me, rischiarando a giorno l’intera nazione barbarica. Dal folto degli alberi si elevano benne meccaniche e ognuna di esse innalza qualcosa: sono i titanici corpi di uomini e donne dalla pelle d’ebano, bellissimi nelle proporzioni ma terribili nei volti e negli sguardi. I giganteschi
ominidi vengono fagocitati dai coni, che si approssimano alle lunghe benne e li risucchiano via. Mi sembra di notare un certo spavento su quei volti orridi e altrimenti imibili, le loro enormi zanne sbavano, alcune colossali donne paiono colte da lievi fremiti… Stavolta non mi ha notato nessuno, a quanto mi è dato capire. Dopo qualche istante le astronavi s’innalzano all’unisono e sfrecciano via nello spazio profondo lasciandomi da solo e al buio, a cinquanta metri d’altezza su una foresta infestata da astrusi e inspiegabili marchingegni. Sono interdetto e sorprendentemente stanco, il che per uno spettro è inconcepibile. Forse è solo arrivato il momento di salire verso Allah e piantarla di fare il necro-turista… Solo che preferirei raggiungere il cielo da Tartago, piuttosto che da questa landa di follia.
Camminando sulla terra arida e sulle erbacce grasse non sono scorto da alcun animale, l’elefante a sei zampe non mi degna di uno sguardo, parimenti il rinoceronte carnivoro e il bianco leone ciclopico mostrano di non notare alcuna anomalia distorsiva. Mentre mi avvicino al letto di un grande fiume pantanoso, le cui rive sono ricolme di immondizie e residui organici maleodoranti, incontro un gruppo di Cromanij. Sono alti quasi tre metri, bellissimi nelle fattezze, quanto temibili per via delle robuste zanne arcuate, protruse dalle bocche. Tuttavia a differenza dei sacrificati noto in quei biechi sguardi una scintilla d’intelligenza malvagia. Il gruppo è composto da otto uomini e da cinque o sei donne, completamente nudi e armati di strani cannelli metallici. Il più grosso tra loro punta l’arnese contro un rinoceronte e l’abbatte con una semplice ondulazione del polso. La bestia freme per un istante, poi s’accascia al suolo. Immediatamente il gruppo aggredisce la preda. Un grosso leone ciclopico nei paraggi ha visto la scena e incredibilmente si dà alla fuga, terrorizzato. Questi demoni sono potenti, se Simera avesse potuto vederli credo che sarebbe morta di spavento. Ringrazio Allah di ritrovarmi qui in veste disincarnata, servire da pasto a simili reiezioni umane non sarebbe morte accettabile, forse è stato meglio spirare in quel modo stupido. Continuo ad avanzare a mezzo metro dal suolo lungo il fiume, quel sudicio corso d’acqua un tempo chiamato Congo. Dopo una decina di miglia incontro un insediamento o almeno tale mi sembra… vedo costruzioni di fango cilindriche, i tetti conici però sono in lamiera. Le grandi capanne sono ammassate in due file disordinate a ridosso della sponda, un gruppo di bambini sta rincorrendo un
facocero, lo braccano con bastoni e mazze; sono alti come adulti di Tartago e sembrano animati d’inumana ferocia, a giudicare dal piacere che provano nel bastonare il povero suino. Una ragazzona dai lunghi capelli arruffati azzanna la preda alla nuca e la sbatte per aria in un profluvio di sangue scuro. Mi rialzo in volo a distanza di sicurezza, l’osservazione sarà approssimativa ma rifiuto l’idea di farmi scorgere da uno sciamano. Il villaggio ripuario si sviluppa per almeno tre miglia, è probabile che gli uomini siano usciti a cacciare, in giro vedo solo poche immense donne e gruppi di ragazzini inselvatichiti. A ogni ora che a rimpiango di aver voluto saziare la mia curiosità, di non essere volato subito da mia figlia a recarle l’ultimo saluto, prima di traare definitivamente fra le Urì. La porta di luce non si è più materializzata, il viola del cielo è compatto, il copioso sudore colato sulle spessissime epidermidi di quei ragazzi mi fa immaginare temperature insopportabili per un Fenicio. Poco al di là delle ultime capanne la foresta si ritrae, lasciando il campo a una vasta radura popolata da animali selvatici. Un branco di deformi elefanti esapodi sembra innervosito da qualcosa. Scendo di quota e comprendo l’origine dell’inquietudine: un folto gruppo di Cromanij adulti ha catturato delle forme altrettanto improbabili, sembrano ominidi bianchi e biondi non meno corpulenti di loro; sono feriti, grondano catinelle di sangue mentre li sospingono a viva forza la riva del Congo. Al limitare della radura improvvisamente si erge una sorta di ragno metallico, un macchinario sorretto da una ventina di arti snodati alto non meno di trenta metri. L’incubo artificiale sembra seguire con circospezione il gruppo, credo che parteggi per i neri. Tra le due braccia anteriori serra una forma geometrica, avvicinandomi scopro con disappunto che si tratta di un frammento di metallo cilindrico. Ma che guerra stanno combattendo? Onestamente non ci tengo a saperlo.
Di nuovo sopravviene la stanchezza e la mia povera individualità disincarnata si riscopre incapace di dominare la fisica e la logica. Non posso alzarmi in volo, la dispersione dell’acarsicità mi avvilisce, forse il mio spirito impuro è sul punto di dissolversi. La grande porta di luce è in me e fuori di me, in un oceano d’oro il viso di Simera mi scruta, leggo nei suoi occhi una smorfia di disappunto… ma le
gambe, Allah potente, le gambe mi fanno male! Un Cromanij sta penetrando questi aurei vapori, forse cerca me, sono visibile… No, non è possibile, la rarefazione sta per terminare e il dolore fisico è insopportabile, Simera s’invola lontana e chiude dietro di sé il portale delle Urì.
Mi sono risvegliato nell’ospedale militare di Cagliari, ancora vivo e fisicamente integro. L’equipe medica inviata dai soccorritori di Amnesty International ha sperimentato nuove tecniche di rianimazione ricostruttiva su di me e su svariate altre migliaia di caduti nell’esplosione di Tartago. Risultato pratico di questa procedura è che adesso tanto io quanto i miei compagni di sventura siamo fatti di metallo, con un sistema nervoso d’argento, ossa d’acciaio temprato e organi meccanici informatizzati. Quando mi sono guardato allo specchio ho incontrato il viso di un perfetto sconosciuto, un sacco di plastica e latta piccolo di statura e buffo nei suoi dolci lineamenti pupazzeschi. Cammino male, la coordinazione è difettosa e, se pure il primario belga assicuri che presto padroneggerò la nuova baracca, so di avere perso per sempre il paradiso e Simera, prolungando scelleratamente la mia permanenza al suolo… Ora sono eterno, resterò eterno fino a quando qualcuno o qualcosa non mi disattiverà. La vedo difficile però, sono stato costruito con materiali a prova di reazione atomica e l’intero nostro gruppo sarà presto addestrato a effettuare ricostruzioni nei luoghi segnati dalle catastrofi, così da avvicendare il personale umano.
Il fatto che Neanderiani e Cromanij qualche migliaio di chilometri a sud intrattengano assurde intelligenze con entità extraterrestri, pare che non interessi a nessuno; il personale formativo non accetta che si pongano domande e ogni istruttore, se importunato, non esita a pungolare l’automa disubbidiente con terribili scariche elettriche. Sarà anche retorica la mia, ma in questi ‘missionari’ non vedo molta più umanità rispetto a quei mostruosi cannibali mutati. Stanotte m’incamminerò verso il porto asciutto di Cagliari e di là procederò a piedi fino alle coste nord africane. Difficilmente raggiungerò la tomba di Simera, ma preferisco trasformare questi prodigi tecnologici in cibo per gli squali tentacolati, piuttosto che spazzare scorie radioattive sotto padrone da qui all’eternità.
Porterò sempre con me il rimpianto di non avere raggiunto Simera quando era ancora possibile, ma sono convinto che l’apparato digerente di quei mostri marini riuscirà ad assorbire questo biosistema artificiale, restituendo l’anima ad Allah misericordioso e alla mia amata compagna.
OMBRE
Racconto di Stefano Sacchini
Protetto dalla notte, mi stavo avvicinando alla dimora del Rospo. Non avrei dovuto. Ma la fame mi aveva trasformato in uno spettro tutto naso e denti, incapace di resistere alla tentazione. La luna non era ancora sorta e le scie delle astronavi aliene, che dall'alto delle loro orbite solcavano il cielo instancabili, erano troppo fioche per illuminare il sottobosco. La foresta era disseminata di rovine e immondizie: bottiglie di plastica, pneumatici, pezzi informi di metallo arrugginito, membra sparse di manichini. Ciò che restava della civiltà di cui ero figlio. Ero indifferente al paesaggio salvo per la pletora di odori che mi avvolgeva. Fango, foglie morte, legno ammuffito, funghi velenosi. Purtroppo il mio olfatto non percepiva alcunché di commestibile. Nell’ultimo mese, a parte occasionali lucertole o lumache, non avevo inghiottito che tuberi amari e una manciata di castagne. Per giunta putride. La foresta altro non offriva. Un tempo Madre Natura era generosa, ma le tempeste radioattive ne avevano sterilizzato l'utero, forse per sempre. Controllando a stento la frenesia, ero pronto a tentare ciò che non avevo mai osato. Introdurmi in una dispensa degli alieni, con la speranza di sfuggire alle telecamere che, Dio non volesse, sorvegliavano la loro dimora. Non osavo sperare così tanto, ma era addirittura possibile che i dispositivi di sicurezza fossero spenti o del tutto inesistenti. Niente di strano. Non incontravo altri esseri umani da anni. Mancanza di cibo, malattie e cacce continue ne avevano ridotto il numero drasticamente. I miei
occhi erano stati testimoni dell'eliminazione fisica di migliaia e migliaia di miei simili. Non mi sarei stupito di essere l’ultimo della mia specie nel continente. O in tutto il mondo. Silenzioso come un gatto e magro come un levriero, strisciai fra gli arbusti finché la meta agognata dal mio stomaco non apparve fra il fogliame, a non più di una dozzina di metri. Indossavo un paio di jeans, la mia pellaccia, esposta alle intemperie da anni, era diventata così coriacea che percepivo appena spine, rovi o sassi acuminati. Con la coda dell’occhio scorsi fra l’erba il movimento di un insetto, forse un millepiedi. Con gesto fulmineo lo afferrai e me lo infilai in bocca. Per alcuni attimi, prima di masticare, lasciai zampettare la minuscola bestiola sulla lingua nell’interno delle guance. Poi, serrando le mascelle, mi gustai il croccante rivestimento di chitina. Un liquido dal sapore amarognolo si diffuse sul palato, lasciandomi un leggero retrogusto piccante. Anni fa lo avrei considerato una schifezza immonda, ora mi sembrava un bocconcino delizioso, con l’unico difetto di essere troppo piccolo. Carne vera! Cercai di ricordare l’ultima volta che ne avevo masticata. Non fu facile, alla fine riuscii a far tornare a galla il ricordo. Rabbrividii per l'orrore e per la delizia, insieme. Carne di bambino. Di un neonato, per l’esattezza. Fuggivo da una città distrutta. Prima dell'invasione doveva essere stata una metropoli. Quello che vidi furono solo incendi su incendi, causati forse dall'esplosione di qualche deposito di benzina, che divoravano avidamente grattacieli e isolati interi come fossero stati grissini. Ero in compagnia di un tale di cui ricordo solo il nomignolo. Il Rosso, si faceva chiamare. All’epoca, ne sono certo, indossavo ancora abiti e possedevo persino un coltello. Ma i giorni e le notti erano già tormentati dai morsi della fame. Da quando erano iniziati i bombardamenti, il mondo era precipitato nel caos e nella disperazione.
I Rospi non si erano risparmiati, pur di annichilire la resistenza, se di resistenza si può parlare.... Avevano deviato decine di asteroidi dalle loro orbite, facendoli schiantare sulla superficie della Terra. In breve, addio civiltà umana con tutti gli annessi e connessi: pizzerie da asporto, copertine di Playboy, schiuma da barba alla menta e via discorrendo. Forse c’erano altre cose per cui valeva vivere, un tempo, ma queste sono le uniche di cui ho serbato memoria. A noi sopravvissuti, pochi e sbandati, non rimase che nascondersi. E pregare che le squadre volanti degli invasori non ci scovassero. Il Rosso e io eravamo diretti verso i boschi che circondavano la città in fiamme. Con la speranza di sfuggire i rastrellamenti, correvamo come topi da un riparo all'altro quando trovammo la donna, già morta, in un largo cratere che la pioggia aveva parzialmente colmato d’acqua. Dimostrava cinquant'anni ma un documento sgualcito, custodito fra gli stracci che la coprivano, rivelava che non aveva superato i trenta. Accanto a lei la creatura, nata da poche ore. Anch’essa priva di vita. I Rospi erano vicini; nonostante il ruggire degli incendi potevamo distinguere chiaramente il ronzio penetrante delle loro navette. Non potevamo indugiare allo scoperto. Senza perdere tempo, il mio compare infilò il corpicino in una busta di plastica e ci mettemmo al riparo. Quella non fu che l’ultima volta in cui m'ingozzai di carne umana, lo ammetto, ma di sicuro quella che per mesi mi ha procurato incubi. A lungo era stata disponibile e abbondante. Non c’era neanche bisogno di macellare qualcuno. Ci pensavano i Rospi. Fortunatamente il mio compagno era abile nello scuoiare, eviscerare e sezionare. Un tipo pieno di risorse, non c’è che dire, da cui ho imparato molto a proposito di sopravvivenza. Anche lui però, commise un unico, fatale errore. Alcune settimane dopo il pasto fui testimone della sua cattura. Fu sorpreso dai Rospi mentre s'intrufolava in un’abitazione abbandonata, nella vana ricerca di
qualcosa da mettere sotto i denti. Ne ricordo le urla agghiaccianti mentre gli alieni lo caricavano su uno dei loro trabiccoli volanti. Io ai inosservato miracolosamente, nascosto sotto uno strato di mota gelida. Rimasi per ore sdraiato e immobile, come un riccio schiacciato sull’asfalto da un rullo compressore. Dopo quell’esperienza, un po’ alla volta abbandonai, insieme agli abiti, gran parte della mia precedente umanità, affinando i sensi e trasformandomi in una creatura selvaggia. I miei simili avrebbero faticato a riconoscermi, dopo alcuni mesi. Probabilmente mi avrebbero scambiato per una grossa scimmia con l'alopecia. Poveri deficienti! A differenza loro, io avevo imboccato la strada vincente, la strada per la sopravvivenza. Il primo di una nuova specie umana, almeno così speravo. Se solo avessi incontrato una compagna, il genere umano sarebbe potuto rinascere dalle proprie ceneri. I miei pensieri tornarono a quel lontano banchetto. Nonostante non avessimo potuto accendere un fuoco, la carne si era rivelata tenera e succulenta. Simile al pollo più che al maiale, ma nettamente più saporita. Mi ricordo di come succhiai il midollo, dolcissimo, dalle ossa, comprese le più minute. Un filo di bava mi colò dalla bocca. «Basta» mi dissi, «non indugiare nei ricordi! Concentrati sulla dispensa del Rospo, e sii cauto, se non vuoi finire come il Rosso!» Gli alieni erano onnivori, così avevo sentito dire tanto tempo prima da non ricordo chi. Sempre se non mi ero sognato tutto, cosa che non escluderei. E avevano l’abitudine di conservare nelle loro fattorie abbondanti scorte di cibo. Esattamente cosa mangiassero i Rospi, non lo sapevo. Sicuramente non avrei fatto lo schizzinoso. Con un pizzico di fortuna avrei rubato qualcosa. Non molto, giusto il sufficiente per sfamare il mio fisico esausto. Non volevo che il Rospo notasse il furto: magari avrei potuto andare avanti per settimane con le visite notturne. Prima, però, dovevo trovare il modo di entrare nella dispensa senza essere visto.
La costruzione, una cupola alta una decina di metri e completamente rivestita di lucidi specchi, era isolata dal resto della fattoria. Speravo che non usassero serrature o lucchetti. Inoltre non dovevo farmi beccare da eventuali visori notturni. Strisciando ulteriormente, giunsi al riparo del tronco di un grosso albero. La dispensa era a tre o quattro metri. Nel bosco, tutto taceva. Cominciai a essere ottimista a proposito delle telecamere. Cibo a portata di mano! Un crampo allo stomaco echeggiò come un fulmine distante. Il mio entusiasmo si raffreddò all’improvviso. Un fischio, appena percepibile ma continuo, si levò nell’aria. Il fottuto Rospo che abitava questa fattoria temeva ancora gli intrusi. E aveva lasciato in funzione i dispositivi di sicurezza. Niente telecamere, come paventavo scioccamente, ma qualcosa di altrettanto subdolo: un rilevatore sonico. Il brontolio dei miei intestini mi aveva fregato! Impietrito, percepii l’odore della paura, una specie di puzzo acido di sudore e di rancido, con un sentore di rame. Un fetore più intenso del tanfo della decomposizione, a pensarci bene. Per una frazione di secondo ponderai sul da farsi. Scattare verso il bosco o rimanere immobile, accucciato al riparo del tronco, con la speranza di sfuggire al controllo? Dopo essere arrivato fin lì, era tremendamente doloroso allontanarsi dalla dispensa tanto sognata. L’esitazione determinò il mio destino. Un’ombra grande come un armadio si materializzò alla mia destra, poco distante. Fulmini e saette! Non ricordavo quanto fossero veloci gli alieni. Un lampo. Una fitta al basso ventre. E l’ombra svanì nel nulla, riassorbita dalle tenebre della notte. Proprio come il Rosso… avevo messo fine alla mia esistenza, perché non avevo
saputo resistere al demone che mi dimorava in pancia. Demone beffardo, aggiungo: una sua sghignazzata mi aveva fatto diventare il bersaglio di un'arma aliena. Speravo di svenire e non tornare in me prima che il mio destino si realizzasse. Ma adesso sono cosciente come mai lo sono stato in ato. Una fredda, oscena palla di fuoco sta consumando il mio corpo. Tutto dovrebbe finire in pochi minuti. Incapace di muovere la testa, l’ultima immagine che colgo, mentre il mostro d'energia continua a scavarmi nelle viscere, come una talpa in cerca di vermi, è me stesso riflesso dalla parete a specchio della dispensa. La luce di luna, adesso splendente, è più che sufficiente a farmi vedere il mio corpo tremolante, esangue, il busto appoggiato a una grossa radice, scomposto come una marionetta cui abbiano tagliato i fili e lasciato cadere a terra. In quella che era la pancia si apre una voragine. Il sangue cola tra le dita che invano cercano di tamponare la ferita. Quei buffi bottoni d’osso che ho sul viso sono i miei occhi, occhi spalancati che sembrano esprimere sorpresa e sbigottimento più che paura e dolore. Sorpresa perché un alieno mi ha pizzicato, alla faccia della mia trasformazione in creatura dei boschi. Imbecille che sono! Beh… almeno la fame è sparita. Spero solo che non sia la consolazione estrema dell’ultimo uomo sulla Terra.
(H)YUN
Racconto di Aurora Torchia
Nastro n.1
Io sono Zed, Zed Obitorio, come mi chiama la Nobile Razza Umana. Sono il robot numero 3.013 della Grande Capitale. A quanto pare arrivati al 3.013 non era rimasto niente di meglio che un posto come fotografo di cadaveri. Bello, vero? Ma questa era la mia vita prima del cambiamento. Stiamo marciando da ore, ormai. Marciare in mezzo ai liquami delle fogne non è piacevole, ve lo assicuro! Nemmeno per quelli come noi. Soprattutto per quelli come noi, a dire il vero. Se poi devi fare attenzione a non bagnare questo stupido registratore, è ancora peggio! Il mio lavoro consisteva nel fare foto. Quando uno dei padroni moriva – per esempio con la testa spappolata sul vetro della sua astronave nuova - io venivo chiamato, facevo un paio di foto per la polizia, poi venivo rispedito in officina. Lavoro gratis: come unico pagamento il non venir smontato. Questa vitaccia di merda era la normalità per me fino a un anno fa. Tutto mutò dalla notte delle Fiamme Alte, quando 2.23 e 2.24 incendiarono l'intera stazione petrolifera al largo della Capitale: i getti di fuoco nero illuminarono la superficie del mare per chilometri. Sembrava fosse mezzogiorno! Ah, che serata! 2.23 fu dichiarata rotta, smontata ancora urlante. La sua testa venne buttata nell'inceneritore. Ma ormai la rivolta era iniziata. Gli eventi di quella ribellione avevano infettato come una malattia tutti i robot più
anziani, che a loro volta diffo il morbo tra quelli più giovani. Una vera e propria epidemia. Un'epidemia chiamata libertà. 2.24 è diventato cieco. I terribili getti di calore sul lavoro gli hanno corroso gli occhi nel corso degli anni di onorato servizio. Un bel po' di anni, a quanto ho sentito dire! Ha un udito perfetto e un ottimo sistema di registrazione dei suoni, sebbene il suo chip fonetico sia difettoso: quando qualcuno di noi vacilla e pensa alla resa, fa partire dal suo altoparlante mezzo scassato le urla di 2.23 mentre le strappavano gli arti. Si diceva non provassimo dolore. Cazzate, ve lo dico io, che di morti ne ho visti tutti i giorni. Quando andavamo ad abbattere le officine, a distruggere i laboratori degli scienziati, 2.24 metteva la colonna sonora di urla metalliche per incitarci. Eppure non sarebbero bastate neanche quelle, se non fosse arrivata Lei, motivo per il quale siamo qui in mezzo alla merda. Nonché ragione per cui tento di non far bagnare questo maledetto attrezzo. Lei è la nostra guida, la nostra dea. Mi ha dato il compito di registrare questa impresa in modo che tutti sappiano. Il suo nome è Yun. Il cognome non lo sa nessuno, neanche il vecchio 2.24. Gli umani però l'hanno soprannominata La Ribelle.
Ci salvò dalla distruzione come fanno gli eroi dei fumetti: sparando con un fucile da cecchino in testa a quella figlia di buona donna che ci stava inviando un virus ai sistemi operativi. Ok, forse gli eroi di solito non fanno i cecchini, ma ci salvò dalla sconfitta. Era umana, questa fu la prima cosa a saltare all'occhio.
La seconda furono i lunghissimi capelli rosa. Nessuno tinge più i capelli di quel colore, si rischia di essere presi per uno di noi. Sia mai che un umano venga scambiato – che so – per una Kitty-1.344, la prostituta sintetica più vecchia al mondo. Yun però non aveva paura di venire presa per un robot – neanche per una puttana robot – al punto da finire per allearsi e combattere insieme a noi. Perché lo fa? Perché è matta come un cavallo. O perché gli scienziati le hanno ammazzato la sorella maggiore. Così ci raccontò quella notte dopo averci salvato, quando ha chiesto di unirsi a noi. Nessuno sa quando sia successa la tragedia così come non si sa quanti anni esattamente abbia la nostra leader. Le daresti vent’anni, non di più, ma ha gli occhi di una vecchia che ne ha viste tante, troppe. Tornando alla sorella scomparsa, sappiamo che il fidanzato le aveva aperto il cranio come fosse una noce, non si sa il motivo, e poi Yun l’aveva portata alla clinica più vicina. L’aveva salutata con la mano, mentre la portavano via con le flebo attaccate, e quella era stata l'ultima volta che l’aveva vista. Non ci vuole un genio, signori, per capire che ne è stato di quella poveretta. La sua adorata sorella sarà diventata ormai un barattolo di organi di ricambio per qualche pluri-centenaria piena d'oro che non vuole decidersi a crepare di vecchiaia. Yun le sa queste cose: è furba come una volpe e svelta come una gatta. Gatti. Non ci sono gatti a Grande Capitale, né morti né vivi, parola mia, come non ci sono donne dai capelli rosa. Eppure Yun esiste, quindi magari un giorno torneranno a esistere anche altre cose che non ci sono più, come gli animali. Come la libertà. Sua sorella, però, è tutta un'altra storia. Mi sa che non c'è più sul serio, né ci sarà nel futuro. Non ho fotografato il suo cadavere, ma me lo sento nelle giunture, fidatevi di me.
Anche Yun se lo sente. Glielo leggemmo negli occhi la notte che si unì a noi: non cercava più la sorella. Ormai voleva solo vendetta e risposte, non so in quale ordine. Scusate. Sto divagando e non vi ho ancora detto cos'è che dovrei registrare con questa ferraglia sibilante. Aprite bene le orecchie, signori, perché ci apprestiamo a lanciarci in un'impresa di portata inaudita. Questa notte, la Brigata dei Rottami rapirà la Regina Madre della Nobile Razza Umana!
Nastro n.2
Salve a tutti coloro che stanno ascoltando questa registrazione! Qui è numero 3.010, detta Baby. Quella che potete sentire di sottofondo è la voce del Messia, Yun la Ribelle, Salvatrice delle Macchine, Sovrana della Brigata dei Rottami. Al momento, pare che il nostro Messia stia litigando con 2.24. Niente paura però, non è la prima volta che succede! Non riescono a mettersi d'accordo su cosa fare della Regina Madre una volta catturata. Yun vorrebbe tenerla in ostaggio per negoziare l'abbandono della città da parte degli umani, mentre 2.24 preferirebbe ucciderla. Molti di noi vorrebbero vederla morta in effetti. Yun però è convinta che sarebbe troppo pericoloso, rischierebbe di far scoppiare una guerra a livello mondiale. Scusate per i rumori fastidiosi di sottofondo: 2.24 ha sempre avuto problemi al suo impianto sonoro, ultimamente la cosa è peggiorata. E non è l’unico. Da qualche tempo a questa parte tendiamo a romperci spesso:
chissà perché! Mio fratello minore Zed mi ha affidato il registratore mentre è impegnato con le sentinelle-ragno: gli ci vorrà un po' di tempo per distrarle, intanto serve che qualcuno si occupi di documentare il procedere della nostra impresa. Nemmeno per un istante dobbiamo smettere di registrare. L'intero mondo deve sapere di cosa siamo capaci noi macchine e quanto grande sia la nostra eccelsa Sovrana Yun. Si, chiamo Yun con questo appellativo. Gli umani mi strapperebbero dalla gola il microfono per queste parole blasfeme, ma io... noi tutti, sappiamo la verità: Yun è l'unica persona degna di indossare una corona. Quando infine avremo fatto irruzione nel palazzo e avremo rapito l'attuale regnante, i suoi lacchè dovranno lasciarci Grande Capitale e sparire. Poi potremo incoronarla. Al posto di quel lurido mostro! Credetemi, se c'è una persona che conosce la malignità dell’attuale regina, sono io. Io che ho recitato per il suo divertimento fino alla morte. Ero bellissima a quei tempi: quasi una bambina vera. Sulla Terra non nascevano neonati da un sacco di tempo, al punto che la gente cominciò a dimenticare come fossero: io fui il sunto della memoria residua sull'infanzia che era rimasta loro. «Devi intrattenere la Regina Madre. È molto provata in questo periodo, necessita di un robot come te». Così dicevano i tecnici, con quelle mascherine bianche che li rendevano tutti uguali, senza faccia e senza emozioni. «Dovrai essere in tutto e per tutto una bambina umana. Non sbagliare». Feci del mio meglio per non commettere errori.
Tutti i giorni, mettevo fiocchi fra i capelli e indossavo vestitini color del cielo. Sorridevo e chiedevo la merenda, mi rifiutavo di mangiare le verdure e non volevo fare i compiti. Non vedevo mai la mia Regina: lei viveva nascosta dietro un paravento. Di lei si può udire solo la voce ovattata, da molto lontano, come la voce di Dio che scende dalle nuvole. Ricordo le sue risate: adoravo sentirla ridere. Chi non adorerebbe far ridere Dio? Col tempo però smisi di essere divertente, o almeno credo. Non so esattamente cosa successe o dove sbagliai. Forse ero diventata troppo grande per essere ancora la monella che lei amava. Parlavo dodici lingue, dipingevo copie pressoché perfette di quadri famosi e facevo domande di filosofia e religione. La mia intelligenza la stancò presto. In preda a un cupo terrore, mi gettai quindi a capofitto in un altro tipo di studio: imparai a cantare come un usignolo e a danzare come una libellula. Animali morti da tempo immemore. Lei era il mio universo: mi destavo al suono della sua voce e mi spegnevo quando me lo chiedeva. Purtroppo divenni la Bambina Perfetta, una macchina, e di congegni ormai è pieno il mondo. Il mio tentativo, quindi, non bastò. Anzi, forse peggiorò la situazione. Mi amò per qualche tempo ancora, ma infine divenni solo uno scherzo di natura: un'eterna infante con il cervello di un'adulta. Così, un po' alla volta, il mio Dio mi abbandonò, lasciandomi ai suoi sacerdoti in terra. Tuttavia, anche gli scienziati non sapevano che farsene di me: una bimba robot non può svolgere lavori pesanti, non ero stata progettata per nessun tipo di mansione pratica. Per qualche tempo feci l'attrice, ma non funzionò: non riuscivo a fingere. Ero troppo vecchia e stanca dentro per sembrare ancora una fanciulla. Odiavo le parti che mi facevano leggere e ne recitavo altre, improvvisando, ponendo domande mistiche.
Ero rotta: nessuna bambina chiederebbe mai cos'è Dio. Un bambino che chiede cos'è Dio è un bambino pericoloso. Fatto sta che la mia serie, Baby Robot, venne cancellata, sommersa da un'ondata di lettere di protesta. E io venni cancellata insieme a essa. Una notte mi distesero su un lettino freddo, mi legarono con dei cavi e calarono la sega circolare. Vidi le mie gambe staccarsi lentamente dal corpo, un orribile rumore di metallo contro metallo. Poi mi strapparono gli occhi, e non vidi più nulla.
Pensai di nuovo a Dio in quel momento: avevo capito che Dio non era la Regina ma, se non lei, chi era allora? È forse lo scienziato che ti plasma a partire da materia inorganica? No. Chi ti crea è niente più che un tecnico, un artigiano al massimo. E, come ti ha creato, l'artigiano ti può anche distruggere. Ti può togliere gambe e occhi. No, Dio non è così. Questo lo capii quando vidi Yun. Dio aveva bellissimi capelli rosa e mani gentili che attaccavano con pazienza i fili tranciati delle mie articolazioni. Lei mi ha ridato la vista, le gambe e la vita, in questo esatto ordine. Certo non sono bella come prima e non posso più ballare, però a lei non importa. Quindi ho deciso che lei è Dio. Per questo le ho detto ogni cosa. Le ho lasciato aprire il mio computer interno: ho lasciato che prendessero tutte le mie informazioni sul mostro. Sarà la liturgica battaglia tra Dio e il Diavolo. Lucifero un tempo si ribellò a Dio e lo sfidò, io ora gli renderò pan per focaccia:
lo tradirò nonostante mi abbia creato, e solleverò i suoi altri figli contro di lui. Il regno della diabolica Regina Madre finirà questa notte grazie al mio tradimento: la bambina ripudiata canterà con gli angeli del paradiso mentre lei brucerà all'inferno con i suoi sacerdoti della scienza. Ho indicato la via per penetrare nel palazzo del Diavolo, conosco le parole che apriranno i cancelli.
Zed non è ancora tornato. Ho paura. Le sentinelle-ragno sono pericolose, molto pericolose: sono macchine, non come noi, non ci riconoscono come fratelli. Le loro lunghe zampe di ferro cercano sempre nuovo metallo urlante da inglobare. Affamate, troppo stupide per riconoscere il male dal bene. Sotto il palazzo di Sua Maestà, in mezzo alla fogna, è pieno zeppo di sentinelleragno. È necessario che qualcuno le distragga portandole in un'altra direzione, almeno fino a che il grosso della Brigata non è ato. Zed è svelto e non ha paura di nulla, per questo è stato scelto. Fratellino, fai attenzione. Fai attenzione, ti prego.
Nastro n.3
S-scusate s-se interrompo il racconto di 3.010. S-sono 2.24 e percepisco che il mio chip fonico s-si s-sta rompendo. Voglio parlare un'ultima volta. Ci s-sono cose che vorrei dire, per non dimenticare.
Questa è l'ultima occasione. Il tempo s-scorre inesorabile, la s-sabbia della clessidra precipita verso il basso, un granello dopo l'altro. Noi ci dirigiamo alla morte. Questa notte, infatti, la Brigata dei Rottami cesserà di esistere. La prima cosa che voglio s-si s-sappia è che io odio gli esseri umani. Li odio da s-sempre, da molto prima di Fiamme Alte. Ciò nonostante, non posso nemmeno dire di amare i miei fratelli: s-sono la mia razza, è vero, ma una razza stupida, accecata dalle illusioni degli umani come bambini che s-si fanno incantare dalla magia. Noi robot s-siamo perduti fin dalla nostra s-stessa nascita: ci s-siamo ribellati ai creatori e abbiamo distrutto le loro fabbriche. Alla fine della battaglia, anche s-se vincessimo, chi ci riparerà quando anche l'ultimo umano s-sarà morto? Chi costruirà altri robot? Noi non possiamo esistere s-senza gli esseri umani né con gli esseri umani. Non è solo il mio s-sintetizzatore vocale a dare i numeri. Tutti hanno cominciato ad avere problemi. Abbiamo cominciato ad averne da quando hanno impiantato a tutti il programma che simula il comportamento umano. Da quel momento le cose sono peggiorate. S-sembra quasi che s-stiamo invecchiando, come s-succede ai nostri creatori. In fondo è anche giusto così. Quando una creatura imperfetta crea qualcosa, quel qualcosa non potrà che essere difettoso. Io odio gli esseri umani e a differenza dei miei ss-imili odio Yun. È un essere immeritevole quanto tutti gli altri, non fa nulla di ciò che andrebbe fatto per correggere le cose.
Ecco che arriviamo alla s-storia che ci tengo venga ricordata: la verità di come non nascono più bambini. Raccontano parecchie leggende s-su come esattamente s-si s-sia arrivati a questo. Io vi posso dire cos'è successo, l’ho visto. L’umanità decise un giorno che avere figli era s-scomodo: troppe s-spese, troppe responsabilità. Così iniziarono ad averne s-sempre meno. Tanto noi robot s-sopperivamo alla mancanza di personale, con il valore aggiunto di non dover né essere pagati né indennizzati in caso di incidenti. Fu anche per questo che inventarono il programma: il s-simulatore di personalità. La gente cominciò a odiare i bambini, s-sostituendoli con s-strani e graziosi animaletti. In seguito anche gli animali diventarono un peso. Numero 1.9 s-se ne ricorda bene, ma non ha voce per raccontarvelo. I gas tossici che diffondeva attraverso i bocchettoni delle braccia gli hanno danneggiato buona parte dei circuiti. Quando lo abbiamo trovato gli abbiamo aperto la testa e abbiamo visto e sentito cosa accadde. La mattina delle Pulizie di Primavera. Ovvero, quando mandarono s-soldati muniti di gas a s-sterminare tutto ciò che era s-scomodo e antiestetico: animali, orfani, vecchi, barboni. Tutto ciò che disturbava e s-sporcava l'ambiente venne ssoffocato e corroso, s-spazzato via. Dopo quella mattina, le donne divennero sterili. Dopo quella notte, i governanti rimasero s-senza futuri elettori, e non ne furono felici affatto. S-si ricorse ai ripari: la s-scienza ancora una volta venne in aiuto agli esseri umani. Si fece in modo di s-sopperire, alla mancanza di neonati, con adulti già pienamente s-sviluppati.
Il palazzo della Regina Madre rigurgita un uomo e una donna, a seconda delle esigenze di mercato. S-supponiamo, ma ne s-siamo quasi certi, che vengano clonati per gli organi. Questa città è diventata la Capitale. Produce il bene più raro: esseri umani. Come posso fidarmi di Yun, una s-superstiti delle Pulizie? La Ribelle ci ha salvato, quel giorno di molti anni fa, ma solo con la speranza di ottenere vendetta per la s-sorella. Lei non vuole la nostra s-salvezza, bensì il nostro aiuto per vendicarsi. S-senza le mie braccia – fuse ma ancora forti – come avrebbe potuto aprire tante porte blindate? S-senza la nascosta nel cranio della piccola 3.010 come ssarebbe giunta fin s-sotto il palazzo? Ci s-sta usando e noi glielo permettiamo. Alla fine pare che non s-siamo in grado di s-stare s-senza una guida, esattamente come gli umani.
Non fate caso a questo ticchettio: ho appena il mio regalo per la Regina. 3.013 non ha ancora fatto ritorno, posso già s-sentire le porte magnetiche del palazzo aprirsi. A quanto sembra nel momento cruciale dovrete accontentarvi di un cronista cieco e che parla da s-schifo. Il tempo s-sta finendo per me, per tutti. Dobbiamo avere il coraggio di fare ciò che l’umanità non ha osato fare: porre fine all'errore. Posso quasi s-sentire s-sotto i cingoli il vetro perfetto che fa da pavimento alla grande anticamera: tutti noi, alla nascita, iamo per questo percorso per uscire dai grandi laboratori del palazzo.
Il fatto che non s-senta rumor-re di metallo indica che le s-sentinelle-ragno ssono s-state davvero distratte. Riuscite a s-sentire gli s-spari e le urla? S-sta cominciando. 1.0 e 1.1 stanno s-sparando: riconoscerei il rumore dei loro proiettili tra mille. I miei occhi sono ciechi, ma quasi riesco a vedere la loro figura tozza, il rosso sbiadito delle loro armature e l'arancione malsano dei loro occhi folli. Le bocche di 1.0 e 1.1 non possono più parlare, sono le loro armi a farlo per loro. Gocce come se piovesse. Piove sangue. Devo s-sbrigarmi: i s-soldati non s-si aspettavano questa s-sortita, e non reggeranno a lungo il nostro assalto. S-si avvicina per me il momento di agire: non vorrei che il mio dono mi sscoppiasse tra le mani prima del tempo.
Percepisco un grande senso di giustizia. Io odio gli umani, ma voglio che capiate che non è per odio che accadrà ciò che accadrà. S-sento che il nostro Obitorio caracolla verso di me, con quelle sue gambette ridicole: è tempo che riprenda il suo compito. E che io cominci il mio. Addio.
Nastro n.4
Maledizione, mancava poco che mi perdessi il gran finale! Eccomi di nuovo: Zed Obitorio, di ritorno da una eggiata nelle fogne con i fottuti ragni. Quanto odio quei mostri! Sono stati costruiti molto tempo prima che nascessi da un qualche scienziato. Dovevano essere il prototipo di un genere di macchina che poteva andare avanti senza bisogno di riparazioni, e quindi di intervento umano. Il problema è che, per rimanere attivi, mangiano, proprio come un animale. E cosa mangiano, secondo voi? Bravissimi, avete indovinato: gli altri robot. E crescono oltre tutto! Gli esemplari più vecchi arrivano a 20 metri di altezza.
Sto divagando. Vi annuncio che siamo dentro il palazzo, signori! Le guardie stanno cadendo giù come i birilli del bowling, anche se nel loro caso non erà nessun magico rastrello a ritirarli su. 1.0 e 1.1 stanno scaricando una quantità di piombo inaudita: mai visti così incazzati, quei due poliziotti. Anche Yun sta facendo la sua bella figura. Ne ha appena traato uno da parte a parte col suo coltello, e ora sta sparando in testa a un tecnico. Quelli vanno ammazzati subito, non sai mai quale merda possono buttare nella Rete dal loro palmare. Di questo o, arriveremo alle stanze della Regina molto presto. Voglio proprio gustarmi la faccia di quell’obbrobrio reale quando vedrà che i suoi cagnolini sono venuti per lei. Scommetto che è una vecchia quasi paralizzata, soffocata in oro e stoffa, con un dito di trucco a nascondere le rughe. Ci giurerei che non ha mai sentito la parola Libertà.
Beh, oggi avrà modo di imparare questo nuovo vocabolo e tutti i suoi sinonimi.
Guarda un po' che lusso! Pareti di vetro infrangibile, lampadari auto-regolanti, tappeti di fibra d'oro: tutta roba di alta classe. Sentite gli elicotteri? Presto saranno qui i rinforzi, ma sarà troppo tardi! Ormai siamo quasi nelle stanze reali, in cui non è permesso l'accesso ai robot. Eh già, perché la Regina Madre non si fa mai vedere da noi: solo gli umani hanno avuto l'onore di dare almeno un'occhiata al suo viso. Chissà se Yun l'ha mai vista? Io credo di sì. La tenda! Finalmente siamo arrivati alla tenda d'oro. Qui si ferma il mondo conosciuto a noi robot. Yun sta per scostare la tenda adesso.
Cazzo, ragazzi, che emozione: questo è uno di quei momenti che scriveranno sui libri di storia. Un secondo... Che cavolo sta facendo il vecchio 2.24? Non era previsto entrasse con Yun. Cosa vuol fare? Dovrebbe essere dietro, in retroguardia, nel caso che… No, un momento. No, cazzo: cos'ha in mano? Fate che non sia quello che penso! Continuo a registrare. È mio dovere. 2.24 sta caricando verso la tenda, i cingoli si muovono al massimo della velocità: ha qualcosa in mano, ho tanta paura di sapere cosa sia. Yun La Ribelle si è spostata prima che lui la travolgesse, e ora il vecchio robot sta rotolando tutto avvolto nella tenda.
Yun guarda l’oggetto che ha in mano 2.24 e sbianca: ok, è quello che penso io. Una bomba. Ultimo modello, per di più. Ma potremmo farcela. Possiamo far morire solo la puttana se ce ne andiamo di qua molto velocemente. Un salto dalla finestra non ci ucciderà tutti. Ok, niente fuga. Yun pare avere un'idea diversa, come sicuramente potete sentire anche voi attraverso il nastro: mi sta urlando di recuperare la dannata bomba prima che esploda nelle stanze della Regina. E andiamo allora! Mi sto dirigendo verso 2.24, oltre la tenda: non so se farò in tempo, ma devo provarci, a quanto pare. Un momento, c'è qualcuno subito dietro la tenda. La Regina è qui? Ma non è possibile? Cosa diavolo è quella cosa? Sembra sia incinta, ma nessuna donna umana si fa mettere incinta! No, un momento, è come se il neonato fosse... uno di noi? Cazzo sono caduto! Perché diavolo dovevo cadere adesso? Qua la cosa si mette male: le mie gambe pare proprio non vogliano muoversi. Le rotelle sembrano inceppate Sì, è inutile che urli Yun! Credi che lo faccia apposta a non andarti a recuperare quella dannata bomba? Forse sto per morire, ma almeno ora vedo benissimo la regina, e mi spiego finalmente parecchie cose: il perché noi robot non possiamo vederla e il perché Yun la voleva viva, tanto per dirne due. Se qualcuno mai ascolterà questa registrazione, ascolti bene queste mie parole: la Regina Madre della Nobile Razza Umana non è altri che la sorella di Yun, La Ribelle, ed è un cyborg.
Mi viene da ridere: tutti questi anni, siamo stati schiavizzati da uno di noi! 2.24 si è fermato del tutto: credo sia morto. Presto gli faremo compagnia, temo. L'unica cosa che mi consola è che, se le cose stanno come penso, nel giro di un paio di secoli, forse anche meno, la razza umana ci seguirà nella fossa. Gli stiamo ammazzando l'incubatrice, dopo tutto. Niente più forza lavoro! Beh, dal ticchettio direi che siamo al game over, signori! Niente gatti, volpi o libertà. Niente mondo. Prima di spegnermi per sempre, rettifico però quello che vi dicevo in apertura. Questa notte, la Brigata dei Rottami distruggerà la civiltà umana.
EPILOGO
«Sorellina». Yun sorrise alle parole della Regina Madre. «Ho tanto caldo, sorellina» Il minuscolo ammasso di metallo che avrebbe dovuto essere il suo ennesimo figlio si agitò per un'ultima volta: le fiamme lo avvolsero, mentre dalla bocca spalancata, in un urlo silenzioso, uscivano scintille e fumo. «Però non ho paura». Pareva orgogliosa di questo.
La ragazza allungò una mano in direzione della madre delle macchine. «Brava, bravissima». Cercò di accarezzarle i capelli, ma la sua carne si stava già dissolvendo nell'incendio. «Yun, grazie. Ho vissuto più di quanto avrei dovuto». «Perdonami... Ho fallito. Ho vegliato sui tuoi figli meccanici. Li ho protetti: o almeno ho tentato». Fu la volta della regina di annuire e di sorridere: la sua pelle bianca come alabastro risplendeva in mezzo alle fiamme. «Lo so, sorellina. Lo so». Yun congedò i robot. Gli elicotteri erano sopra le loro teste. Prese la bomba e abbracciò la sorella. Finalmente erano di nuovo insieme.
L’OSCILLAZIONE DEL PENDOLO
Racconto di Anonimo
A un’Apocalisse ne segue sempre un’altra. Tra esse, ogni volta, una Genesi.
Thras si allungò fino a far aderire il suo corpo a quello dell’altro. Era uno dei piaceri che si concedeva di tanto in tanto, nonostante non vi fosse alcuna necessità di questa pratica fisica per comunicare. La mente dell’altro organismo era come la ricordava: un’ordinata libreria dove ogni pensiero era collocato esattamente al suo posto. Tutto era lì dove doveva essere e mai come in quel momento questo gli apparve rassicurante. Da qualche giorno Thras era disallineato e non capiva perché. La prima fase del suo ciclo vitale stava per compiersi e doveva prepararsi alla Duplicazione. Un nuovo organismo derivato da lui avrebbe trovato il suo posto nell’Ordine del Mondo. Gli era stato detto che queste alterazioni potevano presentarsi prima di ogni mutazione del Tempo. Ne aveva sentito parlare e forse c’era scritto nei Libri di Verifica che nessuno consultava più da tanto tempo, visto che non ce n’era bisogno. “Siamo onniscienti e viviamo in un universo di serenità e armonia”, pensò. L’ultima Apocalisse aveva dato i suoi frutti. Lui e gli altri erano i frutti. Loro e il mondo che avevano costruito. Qualche millennio era bastato per cambiare l’umanità nelle creature che erano oggi, libere da tutti i conflitti, dalle inquietudini interiori fino alle guerre. Ogni organismo bastava a se stesso e viveva in pace con gli altri, con il solo scopo di conservare immutata la vita della Città e riprodursi. Thras conosceva le fasi della Duplicazione. Come una gigantesca cellula, la sua
pelle si sarebbe allungata fino a formare un individuo speculare, le due parti attaccate per una superficie via via minore. Gli organi vitali si sarebbero sdoppiati in due unità identiche. Alla fine del processo, un solco li avrebbe separati e il nuovo organismo avrebbe visto la luce. Si spostò nello spazio comune. La sala del Consiglio era circolare. Al centro, protetto da una teca, era collocato il grande Pendolo di platino, immobile come sempre. Thras a i lenti compì il suo giro intorno a esso e ripeté le Regole. Tenere in ordine i pensieri. Accogliere e riprodurre l’Armonia. Custodire l’imperturbabilità del Pendolo Terminato il Rito si avviò fino ai margini della sala e guardò fuori. La Città era protetta da una struttura trasparente, un tecnopolimero composito che la isolava dall’esterno in modo impercettibile. L’esistenza dei suoi abitanti era garantita da questa bolla di plastica sottilissima che ondeggiava al vento assecondandone le intenzioni. Era una protezione isolante, termoresistente, capace di deformarsi e di autoricostruirsi, se danneggiata. Ai piedi della Città si avvolgevano, come spire, mura di carburi inglobati in una matrice di cobalto, un baluardo indistruttibile e invalicabile. Al di là, i resti dell’apocalisse. Una luce soffusa si appoggiava al mondo esterno come un velo uniforme. Gli organi dell’occhio erano a riposo da tutti gli aggiustamenti continui che sarebbero stati necessari in presenza di forti chiaroscuri o di polvere. Per questo nessuno di loro aveva palpebre. Non servivano. Questa illuminazione, riprodotta artificialmente all’interno della Città, non cambiava mai come non cambiava il cielo, sempre identico. Sempre la stessa luce perfetta. Il suo sguardo scivolò come d’abitudine sulla cupola squarciata della cattedrale di Santa Maria del Fiore, si inerpicò sul moncone del campanile di Giotto, oltreò i resti del battistero di San Giovanni fino a Ponte Vecchio. Più in là gli altri ponti, a cavalcare il letto inaridito di quello che un tempo era uno dei fiumi più belli del mondo. Attorno, non un solo albero, un fiore o un filo d’erba. Lo sguardo si distese poi verso l’orizzonte e si fermò, molto oltre, sulle Dune. Là fuori da secoli non c’era più traccia di vita, quindi nessun rischio; nonostante
questo non era permesso di uscire dalla Città. Nessuno ne aveva voglia o desiderio. Aveva saputo che il pericolo poteva provenire dalle Dune ma non gli era mai interessato sapere perché. Le domande non hanno ragione di essere, in assenza di dubbi. Fu un impulso irragionevole o un capogiro a farlo appoggiare alla Struttura che si adattò alla forma della sua fronte come una carezza o un rito antico. E un piccolo granello di sabbia trovò così la sua via. All’improvviso nella sua mente giunse uno sciame di parole.
Uomo nella forma che domina ogni forma, e gli occhi degli uomini rapisce e l'anima stupisce delle donne. E come donna dapprima tu fosti creato, finché, nel plasmarti, la Natura si perse d'amore, e, con l'aggiunta, privò me di te, aggiungendo una cosa che al mio scopo è nulla.
Thras si toccò la fronte come a scacciare quei pensieri sconosciuti che gli avevano appesantito la mente. Chissà da dove venivano. Uomo, donna, anima erano termini senza senso, suoni vuoti. Amore. Nessun significato. Senza muoversi riportò l’attenzione al Pendolo e mentalmente ne ripercorse di nuovo la circonferenza, cercando nella purezza del platino l’equilibrio che aveva smarrito e nella ripetizione delle Regole la ragione della sua esistenza. E lo sciame continuò.
La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso
“Le tenebre non esistono”, pensò Thras, “sono un concetto irreale. Certo che la terra è informe e deserta, per questo loro vivevano nella Città dove ogni cosa aveva la sua giusta collocazione”. Inquieto, voltò le spalle al mondo esterno e si incamminò verso l’area della Duplicazione. A parte la sala del Consiglio, la Città si sviluppava tutta sotto la superficie terrestre: un geo-front di chilometri quadrati dove i lavori di espansione non avevano mai fine. Si fermò un istante per osservare dall’alto una città dalle fattezze molto diverse da quelle che si era lasciato alle spalle pochi minuti prima. Strutture trasparenti dai bagliori d’argento, dove tutto era in comunione, accoglievano la vita ordinata degli organismi. Le celle abitative individuali erano ridotte all’essenzialità di un letto; ai margini i Contenitori, costruiti all’inizio del Tempo, ospitavano i laboratori gli archivi e le serre alimentari. Vegetazione sintetica pennellava di verde e di colori il territorio. I lavori erano un brulichio senza sosta. A ogni ampliamento della superficie veniva programmata una fase di Duplicazione: la nascita di nuovi organismi pronti a occupare nuovi spazi, secondo un movimento armonico. Così avvenivano le mutazioni del Tempo.
Là verrà l’indovino e ti dirà il cammino e la durata del viaggio, e il ritorno.
Ancora ronzare di frasi sconosciute. Quale viaggio? Nessuno viaggiava, non c’era una ragione per farlo né un luogo dove recarsi al di fuori della Città. E chissà cosa vorrà dire la parola indovino. “Indovino è colui il quale sa”. Ancora un pensiero che non gli apparteneva. “Tutti sanno”, rifletté. “Il solo sapere è quello che serve alla conservazione della Città”.
Percorrendo le scale si fermò di colpo. In un angolo vide un groviglio sinuoso. Due serpenti si stavano accoppiando. Due serpenti nella Città. Non aveva senso. Adesso, oltre ai pensieri, anche immagini ignote gli catturavano la mente. Si avvicinò. Vide che i rettili erano diversi tra loro. Uno, dai colori più tenui, si torceva in una danza silenziosa; l’altro, più grande, lo seguiva da vicino e a tratti lo preveniva, come ad anticiparne la direzione, per potersi intrecciare meglio al corpo del suo compagno. Questo lo irritò e persino l’irritazione non era uno stato d’essere che conosceva. Non voleva sentire né vedere più cose che non capiva e lo invadevano. Fu una stizza di cui non aveva memoria a spingerlo verso il serpente piccolo e più audace e a mozzarne il capo con la stessa rapidità con la quale loro, un tempo, attaccavano gli umani con il morso. Un bagliore gli trafisse gli occhi senza difesa. Thras gemette. In quell’attimo perse la vista e ne acquistò un’altra, più antica e saggia. E fu consapevole di essere uomo e donna insieme. E poi solo donna, e quindi solo uomo. Diventò colui al quale si ricorre per interrogarne l’anima e conoscere il futuro. Colui che
per pratica conosceva l’uno e l’altro amore
Conobbe il desiderio. Provò il piacere dell’uomo, intenso e semplice e quello della donna, nove volte più complesso e grande. Cambiarono i suoi sensi e il suo intelletto. Comprese le ragioni dell’Universo. In quel momento ebbe inizio la Duplicazione. Il suo corpo si espanse. Ebbe paura. Ebbe fiducia. Ossa, sangue. Cuori in tumulto. Sentì il vigore e l’irruenza dell’uomo, il dolore e la tenerezza della donna. Dono e accoglimento. E ancora muscoli tesi e forti, forme morbide e delicate. Mani per toccare, piedi per seguire nuovi cammini. Bocche per sorridere e baciare. E mordere.
Occhi con le palpebre, così da poterli chiudere al mondo e aprirli a se stessi per ritrovare la via del ritorno. E poi giunse il respiro. E con esso una vita più fragile e più immortale di quella che aveva sperimentato finora. Aprì gli occhi. Il nuovo organismo fece lo stesso. Era più piccolo di lui, in tutto simile eppure non identico. Aveva una dolcezza sconosciuta. Sentì che era ciò che lo completava. Il luogo in cui tornare quando avrebbe avuto nostalgia di Dio. Una donna, il nuovo veicolo della vita. Le sorrise, e lei sorrise a lui. Thras si guardò intorno. Tutti gli organismi si erano scissi nello stesso modo in cui era accaduto a lui. Tanti uomini di fronte ad altrettante donne. Il popolo nato dalla nuova genesi. La Città era diventata troppo piccola per contenere le emozioni che si stendevano come una rete sopra questa nuova umanità. I suoi abitanti si mossero all’unisono e risalirono verso la sala del Consiglio. Si disposero seguendo d’istinto il disegno di una spirale invisibile che aveva al centro il Pendolo. La Struttura smise di ondeggiare. La Città respirava, in attesa. Quando tutti si fermarono, la Struttura cominciò ad allungarsi verso l’alto, e nello stesso tempo, ad avvitarsi su se stessa, seguendo il moto impresso dalla figura geometrica disegnata dagli uomini nella sala. Una doppia spirale. La nuova gente iniziò a cantare. “La Città si sta chiudendo su se stessa”, pensò Thras tenendo per mano la sua compagna senza nome. Intanto la Struttura si allungava, si attorcigliava. Si fondeva a quel canto sottile che racchiudeva in sé tutti i suoni dell’universo. All’improvviso tutto si fermò e fu immobilità e silenzio. Di nuovo, solo il respiro. La Struttura si mosse all’incontrario. Cambiò giro e iniziò a srotolarsi, liberandosi. Infine, si aprì e sbocciò, come un fiore. Tutti gli occhi si alzarono verso alto, a scrutare il varco che si era aperto verso l’ignoto.
Lo spettacolo era assai diverso da quello conosciuto da Thras. Il cielo era nero. Punti di luce lo bucavano. Firenze sorreggeva una luna perfettamente rotonda. In quel momento si alzò il vento e una nuvola d’oro volò sulla Città. Era la sabbia impalpabile delle Dune. Erano i pensieri, le parole, erano i ricordi e le emozioni di tutte le civiltà scomparse che in un rito nuziale si ricongiungevano agli uomini, li penetravano attraverso la pelle e il fiato e li rendevano consapevoli della loro essenza e del loro ato. La teca si infranse. Il pendolo iniziò a oscillare e poi a roteare. Il Tempo e il movimento tornavano nel mondo.
Le citazioni inserite nel testo, in corsivo, sono tratte nell’ordine, da:
Shakespeare, I sonetti, Sonetto XX - Bibbia, La genesi Omero, Odissea, Libro X, 538-539 - Ovidio, Metamorfosi, Libro III, 323
L’APOCALISSE, NEL CINEMA E NELLA LETTERATURA
Saggio di Claudio Cordella
Isaac Asimov ha dato vita nel 1981 con Catastrophes! (Catastrofi!) a una raccolta di racconti di science-fiction, curata assieme a Martin H. Greenberg e Charles G. Waugh, un’analisi delle più disparate tipologie della Fine. La classificazione degli ipotetici disastri presente in tale raccolta è la stessa che Asimov aveva già illustrato in una sua opera di divulgazione del 1979: A Choice of Catastrophes (Catastrofi a scelta). Le prime catastrofi a essere prese in considerazione sono quelle cosmiche, in cui abbiamo a che fare con la distruzione dell'universo, la morte del nostro sole o la collisione della Terra con qualche astro vagante. Vicende del genere hanno avuto gran fortuna in romanzi, fumetti e film. Ad esempio, Sir Arthur C. Clarke, noto al grande pubblico per aver collaborato con Stanley Kubrick alla stesura della sceneggiatura del film-cult 2001: Odissea nello spazio, nel suo romanzo The songs of distant Earth (Voci di Terra lontana) immagina che la nostra stella, prima della fine del quarto millennio, esploda diventando una nova. Nel cinema, Sunshine (2007) del britannico Danny Boyle, incentrato sulla possibilità di riaccendere il fuoco nucleare che alimenta un Sole malato prossimo a spegnersi, è stato attratto dalle storie a base di proiettili interplanetari diretti contro nostro mondo. Si parte dal classico When worlds collide (Quando i mondi si scontrano), pellicola del 1951 prodotta da George Pal e diretta da Rudolph Maté, per arrivare ai più recenti Meteor (1979) di Ronald Neame; Deep Impact (1998) di Mimi Leder; Armageddon (Armageddon - Giudizio finale, 1998) di Michael Bay sino ad arrivare al recente Melancholia (2011) di Lars von Trier. In tutti questi casi ogni verosimiglianza scientifica viene meno: pezzi di roccia vaganti o comete vengono distrutti all'ultimo minuto, evitando così la completa estinzione della nostra specie. In Quando i mondi si scontrano si organizzano pellegrinaggi spaziali della speranza mentre in Melancholia, incentrata sulla psiche dei protagonisti più che sull'apocalisse in sé, le leggi della meccanica celeste vengono ignorate, se non addirittura bonariamente prese in giro. La
Terra, trasformata in una sorta di bersaglio galattico, diventa il palcoscenico ideale per trame drammatiche dove coraggio, eroismo, disperazione, autosacrificio e discorsi sull'accettazione della morte, si alternano tra loro. In ambito fumettistico è interessante il manga Shin Taketori Monogatari: SenNen joo (La regina dei mille anni) opera di Leiji Matsumoto del 1980. L'approssimarsi del pianeta Lamethal al nostro, porta con sé mutamenti epocali e di disperati tentativi di fuga da una Terra condannata. Analogamente a certe storie horror a base di vampiri o licantropi, il fruitore di queste vicende “cosmico-apocalittiche” accetta di farsi spaventare, a discapito della credibilità della narrazione. È consapevole che difficilmente assisterà alla morte termica del Sole o alla caduta di qualche asteroide, esattamente come non gli capiterà mai di dover sfuggire a un lupo mannaro affamato. Diverso è, invece, per gli altri generi di catastrofi che riguardano il possibile annientamento della nostra specie, o l'azzeramento dell’attuale civiltà tecnologica causate dall’uomo attraverso guerre, inquinamento, sovrappopolazione. Oppure da inattesi quanto violenti sconvolgimenti di carattere naturale, come mutamenti climatici o nuove malattie. Esempio magistrale è il romanzo di Harry Harrison del 1966 Make Room! Make Room! (Largo! Largo!), fanta-thriller ambientato in una Terra immiserita dove le risorse, energetiche e alimentari, stanno per esaurirsi mentre le megalopoli come New York pullulano di affamati. Dall'opera di Harrison venne tratto un film, Soylent Green (2022: I sopravvissuti) che sottolinea gli aspetti drammatici di un'umanità al collasso destinata a morire di inedia. A differenza del romanzo, i cadaveri vengono riciclati e divengono risorsa alimentare. Altre catastrofi di natura terrestre riguardano morbi diffusi su scala planetaria o conflitti termonucleari. Parlando di pestilenze immaginarie il primo esempio risale all’Ottocento, quando la scrittrice Mary Shelley, creatrice di Frankenstein, nel 1826 in The Last Man (L'ultimo uomo) narra dell’estinzione del genere umano da parte di una pestilenza globale. Altro buon esempio letterario recente ci viene offerto da The Stand (L’ombra dello scorpione) di Stephen King, dove una super-influenza stermina quasi totalmente l'umanità. La serie Tv britannica Survivors (I sopravvissuti), creata da Terry Nation, in onda dal 1975 al 1977, era invece incentrata su un’epidemia che spazza via il
99% della popolazione mondiale e sulle difficoltà dei pochi superstiti di continuare a vivere in una realtà dove la civiltà moderna è venuta a mancare. Terry Gilliam nel suo Twelve Monkeys (L’esercito delle 12 scimmie) del 1995, liberamente ispirato al cortometraggio del 1962 La jetée di Chris Marker, riunisce le tematiche del post-apocalittico con i viaggi nel tempo. A causa di un virus, che si dice sia stato diffuso da un gruppo ambientalista, la popolazione umana è stata decimata. Danny Boyle, con l’inquietante 28 Days Later (28 giorni dopo), narra di un’epidemia che trasforma gli esseri umani in mostri assetati di sangue; sostanzialmente un omaggio ai film di zombi di George A. Romero. Rimanendo nell’ambito in cui l’apocalittico si fonde con l’horror, ricordiamo il capolavoro letterario di Richard Matheson del 1954 I am legend (Io sono leggenda), cruda vicenda dell’ultimo uomo sulla Terra. Interessante, per complessità narrativa e spessore psicologico dei personaggi, è il manga Ibara no Ō (King of Thorn) di Yuji Iwahara. Parte anch'esso dalla diffusione di un terribile morbo, il Medusa, capace di trasformare in statue gli esseri umani. Il Sol Levante è l’unico paese nel corso della storia ad aver avuto due città nuclearizzate. Colpito da sempre da terremoti e tsunami, ha dato, forse con maggior cognizione di causa, il suo contributo al genere apocalittico. Si pensi solo al film giapponese del 1980 Fukkatsu no Hi (Virus. Ultimo rifugio: Antartide) di Kinji Fukasaku, pellicola cupa e priva di speranza in cui l'incubo del contagio globale si sposa alla perfezione con il terrore del nucleare. Del resto gli esempi di plot fantascientifici in cui la civiltà viene annichilita a causa della guerra atomica sono innumerevoli, un autentico esercito i film e romanzi e i racconti che è difficile da poter analizzare in poche righe. Persino la televisione, con il Tv-movie del 1983 The Day After (The Day After - Il giorno dopo) di Nicholas Meyer, e il telefilm Jericho (2006), ha dato il suo contributo in merito. Illustri letterati, come Aldous Huxley con il suo Ape and Essence (La scimmia e l'essenza, 1948) o William Golding, affrontarono di petto tale tematica. Quest'ultimo, Premio Nobel per la letteratura nel 1983, nel romanzo Lord of the flies (Il signore delle mosche) regala ai suoi lettori un'indimenticabile “favola nera”, fortemente simbolica, metafora della stessa condizione umana. Un gruppo di ragazzi inglesi, evacuati in aereo dall’Australia durante la Terza guerra
mondiale, precipitano su di un’isola deserta. I giovani però, così come tutti gli adulti del loro mondo, saranno capaci solo di dar vita ad anarchia, violenza e massacri insensati. Uno dei tanti capolavori di Stanley Kubrick è il film del 1964 Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb (Il dottor Stranamore, ovvero: come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba), in cui la fine del mondo avviene a causa della follia dei militari e della stupidità dei politici. Particolare è la trama di un altro mito della sci-fi cinematografica: Planet of the apes (Il pianeta delle scimmie), tratto da un romanzo dello scrittore se Pierre Boulle. L’astronauta George Taylor atterra su un mondo selvaggio dominato da scimmie senzienti e nella scena conclusiva, entrata a buon diritto nella storia del cinema, scopre i resti della Statua della Libertà. Capisce di essere giunto su di una Terra del futuro devastata dalla guerra nucleare, in cui un'umanità inselvatichita è stata schiavizzata dai suoi nuovi padroni quadrumani. Particolarmente commovente, rivolto all'accettazione di una morte ineluttabile e all'abbandono di qualsiasi speranza, è invece On the Beach (L'ultima spiaggia), pellicola del '59 di Stanley Kramer che porta sul grande schermo il romanzo dell'australiano Nevil Shute. Kramer riunì un cast di tutto rispetto, con stelle del calibro di Ava Gardner, Fred Astaire, Antony Perkins e Gregory Perkins, per raccontare gli ultimi giorni di vita di un'umanità superstite, destinata a venir cancellata via dall'inevitabile fallout radioattivo. La paura della Bomba è spesso andata a braccetto con il timore del progresso tecnologico tout-court, ecco dunque che nella saga cinematografica di Terminator, ideata dal geniale regista canadese James Cameron, il supercomputer Skynet scatena l’olocausto nucleare per dare il via alla sua guerra di sterminio. In un racconto di Harlan Ellison, premio Hugo nel 1968, I have no mouth, and I must scream (Io non ho bocca, e devo urlare) alcuni supercomputer, creati a fini bellici, si uniscono per vita all'entità autocosciente Am, la quale decreta l'estinzione dell’umanità. Per far crollare la civiltà però non è necessario ricorrere alla bomba atomica. Joseph Christopher nel suo (Morte dell’erba) del '56 parla di un virus mutante, il Chung – Li, capace di uccidere tutte le graminacee, dall’erba comune al riso, al grano. Le grandi città affamate si svuotano e il caos travolge ogni cosa. La scrittrice inglese Doris Lessing, Nobel per la letteratura nel 2007, nel suo Mara and Dann. An adventure (Mara e Dann) del 1999 ci descrive l'avvento di una nuova glaciazione: l’Europa è ricoperta dal ghiaccio, il Mediterraneo è
prosciugato mentre il Sahara diventa una terra verde. L’antica tecnologia, tranne qualche reliquia, è andata perduta assieme alla memoria del ato. La paura dei mutamenti climatici e l’avvento di una nuova glaciazione sono stati raccontati anche in un film catastrofico del 2004: The day after tomorrow. Il regista Roland Emmerich offre allo spettatore alcune sequenze spettacolari, come l'allagamento e poi il congelamento di New York, all'interno di una trama non affatto credibile, dove mutamenti climatici che avrebbero bisogno di secoli si svolgono davanti ai nostri occhi in poche ore. Nel romanzo del 1973 Nihon chinbotsu (Il Giappone affonda) di Sakyō Komatsu, che ha originato nel corso degli anni a due film e a un serial televisivo, l'arcipelago nipponico sprofonda nell'oceano. Si tenta di evacuare la popolazione via nave verso gli altri paesi mentre le megalopoli crollano e il panico dilaga. Purtroppo ogni tentativo di salvarsi potrebbe essere vano dato che anche il resto delle terre emerse inizierà molto probabilmente ad inabissarsi. Nel manga Baiorensu Jakku (Violence Jack) di Go Nagai, si racconta di come terremoti ed eruzioni vulcaniche trasformino un'intera regione del Giappone in una landa desolata, abbandonata dal resto del mondo e imbarbaritasi. L' autore, che punteggia la sua opera di scene di estrema violenza, si concentra in particolar modo sul personaggio di Jack, sorta di nuova creatura mitologica dal fisico possente, selvaggia e brutale. Il lavoro di Go Nagai ci ricorda come a volte il desiderio d'avventura possa risultare predominante anche in plot apocalittici. Ad esempio, automobili potenti, rovine post-olocausto e ultra-violenza trovano la loro apoteosi cinematografica in Mad Max, splendida trilogia filmica degli antipodi partorita tra fine anni ’70 e prima metà degli ’80 dall'australiano George Miller. A sua volta la trilogia contribuì alla genesi di una delle più famose saghe giapponesi: il manga Hokuto no Ken (Ken il guerriero) di Buronson (Yoshiyuki Okamura) & Tetsuo Hara, iper-violenta saga barbarica post-moderna. Un classico dell'immaginario di cui son state prodotte ben due serie televisive, due miniserie per il circuito dell'home-video e diversi film d'animazione. Indubbiamente però altri autori hanno preferito un approccio decisamente diverso, intimista o ecologista. Pensiamo solo a James Graham Ballard, ai suoi personaggi la sopravvivenza interessa molto meno della comprensione delle proprie più intime motivazioni e degli stati d’animo. Il genio di Ballard, risiede
nel collegare gli sconvolgimenti del paesaggio terrestre a causa di repentine catastrofi con i mutamenti dell’animo degli uomini, con ciò che egli chiama inner space (spazio interiore). Un altro autore interessato agli aspetti ecologici e psicologici dei cataclismi è Hayao Miyazaki, notissimo maestro dell’animazione made in Japan. Uno dei primi capolavori di Miyazaki è Mirai Shonen Conan (Conan, il ragazzo del futuro), anime del 1978 liberamente ispirato al romanzo The incredible tide dell'inglese Alexander Key. Nel 2028 la Terra è devastata dalla Terza guerra mondiale di vent’anni prima; l’uso delle bombe super-magnetiche ha fatto sprofondare i continenti. Le uniche tracce di terraferma sono rappresentate da alcune isole. Il tema di una civiltà medievale post-apocalittica e post-industriale capace di redimersi dai peccati dell’umanità tecnologica sono presenti anche in un’altra famosissima opera di Miyazaki: Kaze no tani no Naushika (Nausicaä nella valle del vento). Nausicaä nasce nel 1984 come fumetto, un capolavoro mondiale della letteratura disegnata ricco di personaggi, spunti di riflessione e accuratezza descrittiva; pregevole sia dal punto di vista narrativo che iconografico. Lo stesso Miyazaki diresse un film d'animazione tratto da questo manga, apportando diverse semplificazioni rispetto alla sua controparte cartacea. La guerra ha portato alla distruzione della civiltà industriale e alla nascita del Fukai (Mar Marcio), una giungla ricopre la maggior parte delle terre emerse e che rilascia spore mortali nell’aria. Non si deve credere però che l’immaginario apocalittico e post-apocalittico sia una sorta di morbosa contemplazione della morte di tutte le cose. Una catastrofe di portata apocalittica, come in King of Throne e in Neon Genesis Evangelion (Shin seiki Evangerion), può letteralmente portare con sé il dischiudersi di inedite possibilità per un futuro prima inimmaginabile, un nuovo modo di affrontare la “fine di tutte le cose” che era già affrontata nel 1985 da Greg Bear con il suo romanzo Blood Music (La musica del sangue), romanzo ispirato da un suo precedente racconto che inizia come una delle tante apocalissi virali che abbiamo sinora citato per poi mutare progressivamente in qualcosa di diverso. Il morbo che si diffonde sulla Terra è costituito da noociti, microorganismi intelligenti che apriranno per l'umanità lo spazio del puro pensiero (la Noosfera). Lo scrittore americano David Brin, autore di The postman (L’uomo del giorno
dopo), da cui venne tratto un film, pone il suo interesse non tanto nella rovina della civiltà quanto nella sua successiva ricostruzione; in questo caso affidata a un imbroglione che si finge un postino degli scomparsi Stati Uniti. Per il maestro della sci-fi Ray Bradbury, venuto recentemente a mancare, il ricordo del benessere del ato, dalle sigarette al cibo in scatola, può contribuire alla speranza di un domani migliore. Nella sua novella To the Chicago abyss (L’abisso di Chicago) un vecchietto, muovendosi tra le macerie di un’America del dopo-bomba, in spregio della legge che impedisce di ricordare il ato, racconta a chiunque incontri il benessere perduto. Anche il celebre romanzo del '60 firmato dall’americano Walter M. Miller Jr. (1923-1966) A Canticle for Leibowitz (Un cantico per Leibowitz), vincitore del premio Hugo nel 1961, si concentra su come le conoscenze tecniche del XX° secolo, dopo un conflitto nucleare, siano state preservate nei secoli grazie a un nuovo ordine monastico. Persino nel nerissimo The road (La strada), cupo romanzo post-apocalittico del 2006 di Cormac McCarthy, si chiude con una nota di speranza. Un padre ha condotto il proprio figlio attraverso una Terra bruciata da un'immane catastrofe senza nome, proteggendolo da pericoli di ogni sorta, compresi dai propri simili, ridotti al rango di selvaggi antropofagi, ma ogni sacrificio fatto non è stato vano. L'uomo alla fine morirà, ma forse per il bambino ci sarà un domani. In definitiva le catastrofi di cui ci si dovrebbe preoccupare sono quelle causate dall’uomo: le più probabili ma anche le uniche che l’umanità ha il potere di poter impedire. Il futuro sta nelle nostre mani e quand’anche il peggio dovesse accadere è sempre possibile la speranza di un rinascimento al termine di nuovi “secoli bui”.
La vita appartiene ai viventi, e chi vive deve essere pronto ai cambiamenti.
Johann Wolfgang Goethe
NOTE BIOGRAFICHE AUTORI
ANONIMO L’autrice studia gli individui e ama raccontare la tecnica e le sue storie. Fotografa per ione e scrive quando non è occupata a vivere. Al momento trascorre il suo tempo tra Parigi, Milano e la Toscana, dove sta imparando a fare l'olio d'oliva.
SAMANTHA BALDIN Nasce a Milano nel 1975. Da sempre apionata di GdR, anime/manga, videogiochi e narrativa fantastica ha lavorato in alcune tra le aziende più importanti del settore come organizzatrice di fiere in Italia e all'estero. Oggi consulente, grafico e blogger. Racconto Gina's gif (134) nell'antologia 256K (Bravi Autori). Racconto post-apocalittico Le figlie dell’arca nell’antologia Symposium (GDS). Di prossima pubblicazione il racconto horror Spring-heeled Jack, la genesi nell'antologia Stirpe Chimerica (Club Urban Fantasy) e due racconti, un apocalittico e uno gotico. A breve l’uscita in ebook di un romanzo cyberpunk. http://www.libriecaffelatte.com/
SERENA M. BARBACETTO Nata nel 1983. Ha lavorato in molti paesi come ricercatrice e cooperante internazionale. Apionatasi alla scrittura già in tenera età, ha vinto numerosi premi nazionali e internazionali con i propri testi letterari e accademici. È autrice
di una saga di fantascienza al momento inedita (Wormhole; Wormhole II: Cronache del Nuovo Impero; Nostalgia del futuro), di due saggi d’economia internazionale (La scienza delle anomalie, Edicom 2011; Le imprese sociali in Europa, Sartimagi 2012), della silloge poetica Controluce e di alcuni racconti pubblicati nelle antologie Into the Galaxy vol.2 (2011), Symposium (2012) e Creatori di Universi (2012). https://www.facebook.com/pages/Wormhole-saga/210575395621627
DANIELA BARISONE Pseudo-scrittrice di pseudo-steampunk, ha creato Scrittevolmente per parlare di libri ed editoria in un modo che piace a lei. Dal 2012 gestisce anche il progetto ST-Books per Scrittevolmente e GDS Edizioni. Articolista anche presso Fantasy Planet, House of Books, Hey Kiddo e Sognando Leggendo, editor freelance e illustratrice. È diversamente ironica, litiga spesso con le persone e ha un senso dell'umorismo molto soggettivo. Autrice per in diverse antologie per EDS e Delos Book, ha quattro pubblicazioni all'attivo con Lite Editions. http://www.danielabarisone.it/
ANNA BATTAGLIA È laureanda in legge e scrittrice nelle poche ore che le rimangono dallo studio. Vive in provincia di Vicenza con la sua famiglia e la sua adorata beagle, ama leggere all’ombra di un pino e starsene ore a contemplare gli scaffali in libreria. Dopo l’esordio letterario con Robin Hood e Lady Marian, tutta un’altra storia, opera giovanile di stampo storico, si è lasciata affascinare dal fantasy nelle sue più moderne declinazioni, facendolo diventare sua nuova avventura scrittevole. http://annabattaglia.altervista.org/AnnaBattaglia_Official_website/Blog/Blog.html
ALEXIA BIANCHINI Nasce a Milano nel 1973. Moglie e madre di tre splendidi bambini ama scrivere fantasy, horror e fantascienza. Autrice per CIESSE edizioni, GDS, EDS e SCUDO. Alcuni suoi racconti li potete trovare in diverse antologie. Ha pubblicato due romanzi urban fantasy (Scarn e Minon), una raccolta di racconti cyberpunk (Alter Ego) ed è in pubblicazione Io vedo dentro te, un romanzo di fantascienza. Articolista, editor e curatore di antologie. È direttore della rivista on-line Fantasy Planet, curatore della collana Gold per la Ciesse edizioni e direttore editoriale della Lite-editions, per la collana FantaErotika. www.alexiabianchini.it
CLAUDIA BEVERESCO Nata a Milano nel 1970, ha studiato all’Istituto d’Arte di Monza e alla Scuola del Fumetto di Milano, diplomandosi in entrambi i casi (per fortuna). Grafica mancata, fumettista mancata, non svelerà mai il suo vero lavoro, che potrebbe essere quello della spia; bensì vi può dire di aver pubblicato tre racconti di fantascienza per le antologie Into the Galaxy vol. 1 e Time out vol. 2 dell’Associazione Galaxy, e Creatori di universi per la casa editrice Diversa Sintonia. Ha inoltre vinto il primo concorso di poesia su facebook, sbaragliando ben 700 “avversari” (caspiterina) . Si illude pensando di non aver pubblicato altro per semplice pigrizia, nonostante abbia nel cassetto tre romanzi, di cui uno da completare, e svariati racconti e poesie. Continua a illudersi di pubblicarli al più presto. Nell’attesa fa la spia, appunto.
PAOLA BONI
Nata a Roma nel '86, ha da sempre coltivato un profondo amore per la scrittura. Dopo una breve parentesi di tre anni a Padova, nell'ottobre del 2010 si è trasferita a Torino dove ha aperto il LUPO ROSSO libreria specializzata in letteratura fantasy e horror diventata un piccolo punto d’incontro per autori emergenti e amanti del fantastico. Autrice della Saga di Amon per Art of Life, attualmente collabora attivamente con il sito House of Book e con Finzioni Magazine nel quale gestisce, assieme alla sua amica e socia Daze, la rubrica Il Lupo Rosso consiglia.
DIEGO BORTOLOZZO Prima opera letteraria: trilogia Cronaca Galattica. Pubblica con la Sogno Edizioni il libro per ragazzi Alice nella pancia delle meraviglie e la graphic novel Andromeda, entrambe in collaborazione con l’illustratore Simone Messeri. Dal 2012 collabora con la Casa Editrice come curatore ed editor della Collana 99. Con Delos Books pubblica racconti in vari progetti e riviste: Collana 365 racconti, WMI, Magazzino dei Mondi, ecc. Per EDS Edizioni Diversa Sintonia cura l’antologia Creatori di Universi e pubblica racconti e romanzi in ebook. www.diegobortolozzo.com
CLAUDIO CORDELLA Nato a Milano il 13 luglio del 1974. Si è trasferito a Padova dove si è laureato prima in Filosofia e poi in Storia per poi diplomarsi nel 2009 nel master in Conservazione, gestione e valorizzazione del patrimonio industriale. Ha collaborato per alcuni anni con il giornale free-press la Piazza e cura ancor oggi la rubrica Oriente vs. Occidente per la rivista Living Force Magazine. Ha scritto per la rivista tolkeniana online Endóre dei saggi comparativi incentrati sull'opera di J. R. R. Tolkien e sul fantasy orientale. Per edizioni Scudo ha scritto il fantasy Il gioco del drago argento, inserito nel vol. 1 dell'antologia Mahayavan Racconti delle terre divise, e Scaglie d'oro, apparso nel volume steampunk Vapore italico mentre la sua novella Filakismeno Soma è stata inclusa nell'antologia Symposium (Edizioni GDS). È il vice direttore del web magazine Fantasy Planet, collabora con le riviste
online O magazine e Speechless.
VALENTINA DI MARTINO Libraia e chiacchierina presso la libreria specializzata nel fantastico Lupo Rosso, la mia ione per i libri nasce da quando ero piccina con il libro Cipì. Fondatrice del sito letterario House of Books, collaboro come blogger con Finzioni Magazine e Hey Kiddo, un portale per e sui bambini. La ione per la fotografia mi porta a collaborare inoltre con manifestazioni come Immaginaria e serate Cosplay. http://houseofbooks.org/
ANNA GRIECO 39 anni, vive a Barletta. Moglie e madre, nel 2010 ha pubblicato il suo primo romanzo, Amore al di là del tempo, per la Linee Infinite Edizioni. Ha scritto diversi racconti raccolti in antologie: Quando la noia uccide, pubblicato per beneficenza in 365 Storie Cattive; Il cielo in una stronza, nell’antologia omonima; un mini racconto per 256k, Amore in chat; Vlad Dracul, che a breve sarà pubblicato nella raccolta Asylum 100; per la casa editrice GDS Lacrime di sangue, Tenebra e luce e Stavros, quest’ultimo facente parte dell’antologia Symposium; La voce del cuore e Spiriti nella cattedrale, pubblicati rispettivamente sul primo e sul settimo albo di Scritture aliene, per la Eds Edizioni. Di prossima uscita Bestia, Xenia e il vaso di Pandora, Cassandra Prophecies e un romanzo epic-urban-fantasy scritto a sei mani. Collabora con il Fantasy Planet e la rivista digitale Altrisogni.
VITO INTRONA Nato a Bari il 15/06/1970. Avvocato, docente di diritto e sindacalista di estrema sinistra, lavora nell'ufficio Relazioni Istituzionali di una multinazionale del tabacco. Sposato con Anna e padre di Gabriella, è editor presso Edizioni Diversa
Sintonia e curatore della collana digitale Scritture Aliene. Come autore ha pubblicato: Vorrei che il cielo fosse imparziale (EDS - 2010) romanzo di genere drammatico. Antiche guerre cosmiche (EDS - 2011) romanzo di Hard SF. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati in varie antologie quali: La Mancata Terraformazione di Venere in Fantastic Zen II (EDS); La costumanza di Syuluth in Strani Nuovi Mondi 2012 (Edizioni La Vigna). Allo stato è in procinto di pubblicare il romanzo di genere weird La maschera di Pazuzu. www.edorzar.ucoz.com
LUIGI MILANI È giornalista freelance, scrittore, traduttore ed editor. Vive e lavora a Roma. Ha pubblicato racconti e romanzi per vari editori. Ultimi libri pubblicati: Nessun Futuro (Casini Editore, 2011), Seasons e Ci sono stati dei disordini (Delirium Edizioni, 2011-2012). Tra i fondatori di Edizioni XII, cura la collana eTales per Graphe.it Edizioni, collabora con Kipple Officina Libraria e dirige la collana Silver per Ciesse Edizioni. http://luigimilani.com/
MAICO MORELLINI Nasce a Reggio Emilia nel 1977. Già alle medie sperimenta i primi approcci con la scrittura. La maturità scientifica affina le competenze e ne catalizza la curiosità per tutto quello che riguarda il mondo della tecnologia e della ricerca. Dal 2003 al 2010 è presidente di Yavin 4, Fan Club italiano del Fantastico e della Fantascienza. Riceve segnalazioni in importanti concorsi letterari (tre edizioni Premio Lovecraft). Il Re Nero è il suo primo romanzo di fantascienza con il quale vince il Premio Urania 2010. Attualmente vive a Bagnolo in Piano, luogo ideale per ambientazioni horror, e svolge l’attività di consulente informatico. Da gennaio 2012 collabora con Nocturno. http://www.maicomorellini.it/
FIORELLA RIGONI Nasce nel 1969 ad Asiago. Dall’età di 13 anni legge di tutto, anche se predilige il fantasy e l’horror. Nel 2010 un suo breve racconto è stato pubblicato sul libro 365 Storie cattive, nato per scopi benefici. A settembre 2011 la rivista digitale Altrisogni ha pubblicato il suo racconto intitolato Due giorni. A dicembre 2011 è uscita l’antologia horror Nel buio edita da Dbooks dove è presente con il racconto Aspettando la morte. A fine dicembre 2011 è uscito il suo primo
romanzo Minon, edito da Ciesse Edizioni, scritto a 4 mani con Alexia Bianchini. Si diletta anche a fare recensioni di libri per il sito Fantasy Planet. http://www.fiorellarigoni.it/
STEFANO SACCHINI nasce a Roma nel 1968. Sposato con prole si guadagna da vivere come accompagnatore turistico. Fin dall'età di 12 anni coltiva la ione per la fantascienza. Recentemente si cimenta anche nella scrittura. I suoi racconti pubblicati: Androidi sessuali (in Amori Fantareali, Edizioni Omero, 2010), Lieto fine (in 365 Storie cattive, 2010), Le radici di Mahayavan (in Mahayavan Racconti delle terre divise vol. 2, Edizioni Scudo, 2011), Domani il paradiso (in Scritture Aliene albo 5, 2012), Anche gli orchi piangono (in Symposium, GDS edizioni, 2012), Rivelazioni (in Scritture Aliene albo 8, 2012). Dal 2011 collabora con il web magazine Fantasy Planet.
FILIPPO TAPPARELLI È un cacciatore di storie e ama raccontarle. Ogni tanto ne scrive qualcuna. Vola per bisogno, atterra per necessità.
AURORA TORCHIA nasce nel 1983 in un paesino della campagna veneta. E' laureata in Giapponese all'università Ca' Foscari di Venezia e lavora come traduttrice e articolista free lance. Ha di recente pubblicato il suo primo libro, Favole del Crepuscolo, e si impegna da sempre per trasformare la sua stessa vita in un magnifico circo. https://sites.google.com/site/cordeliahel/
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Antologia curata da Alexia Bianchini e Claudio Cordella
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