Davanti ad un computer
Tina Pepe
EDIZIONI SIMPLE
Via Weiden, 27 62100, Macerata
[email protected] / www.edizionisimple.it
ISBN edizione digitale: 978-88-6259-901-6 ISBN edizione cartacea: 978-88-6259-883-5
Stampato da: WWW.STAMPALIBRI.IT - Book on Demand Via Weiden, 27 - 62100 Macerata
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Prima edizione cartacea gennaio 2014 Prima edizione digitale febbraio 2014
Copyright © Tina Pepe
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A Salvo, ispiratore di questo romanzo
Indice
Prefazione Davanti ad un computer Capitolo uno: La malìa del mare Capitolo due: Salto nel buio Capitolo tre: Lascio la mia Calabria. Capitolo quattro: Casa Caracciolo Capitolo cinque: La mia adolescenza. Capitolo sei: Perché Elisabetta odiava il cibo? Capitolo sette: Decido di scegliere la facoltà di psicologia Capitolo otto: Volevo solo aiutarla? Capitolo nove: Dichiarazione inaspettata Capitolo dieci: La lettera rivelatrice Capitolo undici: Dal medico di Elisabetta. Capitolo dodici: “Basta prediche” Capitolo tredici: Sul gambo di una rosa bianca Capitolo quattordici: La fine di un bocciolo Capitolo quindici: Incontro Angelica Capitolo sedici: La Laurea
Capitolo diciassette: Maddalena: un caso difficile Capitolo diciotto: M’investe qualcosa di travolgente
Prefazione
In una società in cui i soprusi e le truffe sono frequenti, ha suscitato molto scalpore sull’opinione pubblica un fenomeno sconcertante: persone vedenti, disoneste, aiutate da altre senza scrupoli, hanno frodato lo Stato usufruendo, indegnamente, delle pensioni per i ciechi assoluti. Quest’abuso ha gettato discredito sui veri non vedenti che ascoltano, a getto quasi continuo, tali notizie dai telegiornali, con un senso di rabbia e di sconforto insieme. Il mio libro vuole dare una luce nuova alla figura del vero non vedente ed essere per lui uno stimolo perché non si fermi davanti agli ostacoli e scopra i suoi talenti. Nella mia vita ho avuto modo di conoscere non vedenti di grande spessore morale e giudizio critico tali da determinare un carattere forte, rapido nelle azioni decisionali. Il protagonista, infatti, Salvo Riccardi, è un non vedente che, con intelligenza, creatività, forza di volontà e ione, è riuscito a laurearsi in psicologia, aprire uno studio professionale e raggiungere una posizione di prestigio sociale. Ho voluto prendere spunto dalla sua vita e, intorno ad esso, ho sviluppato un romanzo; ho seguito, quindi, le tappe più significative del suo percorso di vita, ma gli ambienti, gli incontri, i sentimenti e le emozioni sono frutto della mia immaginazione. L’autrice
Davanti ad un computer
Capitolo uno
La malìa del mare
Ore diciannove e trenta. È un giorno d’estate; siedo davanti ad un computer. Sembra una macchina rigida e fredda ma fra le mie mani diventa uno strumento docile, caldo, un amico che ascolta, interpreta, scandaglia, ruba i miei pensieri. Fra me e il pc c’è un rapporto di simpatia, potrei dire di telepatia: basta che io entri in connessione con lui perché si metta subito a lavorare: intreccia ato e presente, così pensieri, concetti, sentimenti ed emozioni che, nella mia mente, sono come un getto d’acqua di un rubinetto troppo aperto, prendono forma, colore, logica e sistemazione. È come se si apionasse a raccontare la mia vita. Le mie dita battono freneticamente sui tasti e una voce in italiano con accento straniero legge in contemporanea le mie parole. Adesso non solo leggo e scrivo in Braille ma posso anche ascoltare, dalla voce del lettore, ciò che scrivo e questo è il miracolo della tecnologia, per me non vedente. Ho voluto dare un nome a questo mio amico e per il suo leggero accento tedesco l’ho chiamato Gustav. Mi dice anche l’ora esatta; basta fare un clic sul primo tasto, in alto a sinistra; questo mi aiuta perchè mi stacca per un po’dal mio lavoro di scrittura, mi riporta al momento presente, a ciò che vive intorno a me; m’inserisce, insomma, nella realtà quotidiana e mi fa interagire con essa. Dalla finestra aperta entra la brezza del mare, un mare così vicino che l’odore, direi il sapore, mi riempie l’anima e la bocca; la sera sta calando, mi giunge infatti il cinguettìo degli uccelli, il richiamo notturno ai piccoli dalla quercia grande; sulla riva i pescatori tornano dalla pesca, scaricano le reti mentre si scambiano richiami e battute scherzose che si alternano al dolce suono della
risacca; alcuni intonano canti in stretto dialetto calabrese, dalla melodia un po’ struggente. E’ l’ora del tramonto: adesso il mare si sarà unito al cielo ed avrà cambiato colore; cielo e mare formeranno una soffice nuvola rosa. A quest’ora, a Scilla, se sei sulla riva e guardi l’orizzonte, dicono che ti prende la malìa del mare; vorresti raggiungere quella nuvola rosa e affondare in essa. Qui, al tramonto, quando ero bambino, scendevo per aiutare mio padre a smistare i pesci nei cesti, ma qualche volta mi fermavo a guardare quella luce rosata e mi prendeva la commozione, tanto che i miei occhi si riempivano di lacrime. Alcuni pesci erano così vivi che mi sgusciavano fra le mani e finivano in acqua; non sapevo come rispondere a mio padre che mi chiedeva che cosa avessi. “Salvuzzo, che fai figlio mio, t’incanti a guardare il mare mentre ti scappano i pesci?”. Poi, scuotendo la testa, continuava: “Questo ragazzino ha l’animo troppo delicato, mi darà dei problemi”. Riprendevo a lavorare ma dopo restavo ancora a guardare quello spettacolo di luce fino a quando il sole affondava i suoi raggi nell’acqua; forse allora fotografavo quella bellezza che mi restava dentro se ancora oggi, al tramonto, mi commuovo, sforzandomi di far apparire quella foto, ma è come abbracciare un sogno.
Ore venti. Sento alle mie spalle i i di Luca, il mio secondo figlio di dieci anni, mi dice: “Papà, vado con la mamma a casa di Giulio…. Ma, hai fatto un errore, è sottolineato in rosso”. E’ vero, Gustav me l’ha già segnalato, leggendomi una parola sbagliata. Mio figlio è molto sveglio e conosce già bene il computer. Lo abbraccio forte, “papà mi fai male”; ha ragione, io lo stringo sempre fortissimo, quasi a voler mangiare la sua carne. Affondo le mie dita nei suoi capelli ricci, folti, che porta un po’ lunghi e formano dei boccoli sul collo, non voglio che la madre glieli tagli, mi piace sentire il loro spessore; bacio i suoi occhi, non conoscerò mai il loro colore. Luca ha i capelli di un biondo scuro, la pelle chiara e gli occhi azzurri – mi aveva detto Angelica quando le avevo chiesto com’era nostro figlio. Biondi come, azzurri come?
Biondo come il colore del pane fresco, azzurri come il colore del mare, mi diceva lei. Ma a me piace anche associarli ai momenti belli della vita: biondo come una giornata primaverile quando con Angelica, Luca e Cristina, la mia primogenita, veniamo qui a Scilla in vacanza, scendiamo sulla riva e prendiamo il primo sole; azzurro come quando io e Angelica facciamo l’amore. I colori che avevano riempito i miei occhi quando ero bambino, sono andati via, ma non tutti, riesco anche a ricordare il rosso vivo della barca di mio padre, il verde scuro della chioma della quercia. Quando è nata Cristina, un’infermiera me la mise tra le braccia e a me sembrò d’impazzire per la meraviglia di quel miracolo che era venuto da noi, ma impazzivo specialmente per il desiderio struggente di stringere a me quel corpo, di toccarlo, di palparlo, avevo paura che le mie mani forti, grandi, potessero scalfirlo, ferirlo. Mi avevano detto che mia figlia aveva capelli e occhi neri come i miei, la pelle chiara, rosata. Capelli e occhi neri – pensavo - come la mia cecità, come il nero del mio mondo visivo, ma subito associavo il colore rosato della sua pelle al rosa tenero dell’ora del tramonto sul mare quando mi commuovevo alla vista di quello spettacolo e m’incantavo. Adesso che Cristina è cresciuta, a volte, le dico: “Guardami fisso negli occhi” chissà perchè io li vedo brillare, immagino che brillino, forse perché ricordo quando io mi guardavo nello specchio grande in camera di mia madre. La prima cosa che notavo erano i miei occhi grandi, scuri, profondi, due fulcri di luce, bellissimi. Luca adesso è andato via, ma nelle mie mani sento ancora la bellezza dei suoi capelli folti, soffici come le piume di un uccello; si, degli uccelli… dei fringuelli.
Capitolo due
Salto nel buio
Amavo molto i fringuelli che facevano il nido sulla quercia grande, quella che ancora oggi s’innalza maestosa a destra della finestra della cucina. Il loro canto allegro riempiva tutta la casa di festa e mia madre veniva a svegliarmi. “Figliuzzo bello, non senti il canto dei fringuelli? Sono già tutti svegli e tu non ti muovi?”. Avevo imparato a riconoscere la femmina dal maschio dal loro piumaggio: giallo chiaro e scuro nelle femmine e vari colori nel maschio, dal nero del capo all’azzurro, al rosa, al verde del corpo. Salivo sugli alberi che circondavano la casa per andare a trovare i loro nidi. Mi arrampicavo spesso sulla quercia grande che aveva una chioma foltissima e mia madre, seguendomi dalla finestra della cucina, ogni volta mi richiamava: “Salvuzzo, no, non su quella quercia, scendi!”. La quercia grande era invece il mio rifugio segreto, preferito perché da lassù ero padrone del mondo e riuscivo a distinguere la barca di mio padre all’orizzonte e l’albero rosso su cui sapevo che era affisso il nome di mia madre, Maria. La chioma di quella quercia, da un lato, sporgeva su di una cava dove i muratori che lavoravano nella zona, riponevano i loro attrezzi e accumulavano il materiale di risulta di ogni genere; quel giorno avevo visto, proprio su quei rami sporgenti, il nido dei fringuelli da lontano, volevo raggiungerlo a tutti i costi perché sapevo che c’era una covata e certamente la madre doveva imbeccare i suoi piccoli, per me sarebbe stato bellissimo guardare tutto questo. …Comincio così a spostarmi piano piano, ramo dopo ramo fino a raggiungere il nido… Uno schianto improvviso ed io vengo scaraventato giù nella cava, fra i calcinacci e le pietre aguzze di marmo. Urlo, credo, e non vedo più niente; non posso muovermi ma sento il viso bruciarmi e non riesco ad aprire gli occhi, qualcosa di viscido dall’odore penetrante, simile a quello della benzina, mi copre il volto. Sento le grida degli operai che vengono a soccorrermi e poi la voce disperata di mia madre: “Chiamate l’ambulanza!”
Quando sono salito sull’albero era mezzogiorno - penso - c’era tanta luce, perché adesso è così buio? Tra le mie mani stringo ancora il nido e provo pena perché non sento il pigolìo dei piccoli nati ma solo quello della madre, come un lamento si spande nell’aria. Quel pigolìo a me sembra unirsi al pianto doloroso di mia madre: “Salvuzzo, apri gli occhi”. Le sue mani, con delicatezza, cercano di togliermi quel viscido che copre il mio viso ma appena mi tocca grido per il dolore ed il bruciore: “Mamma, non posso aprirli, portami alla luce, qui è tutto buio”. In ospedale cercano di aiutarmi, sento tutto, la cosa che più mi colpisce è la parola cecità…. Ero caduto nella cava ma niente si era rotto su quelle pietre aguzze; ero però finito vicino ad un secchio di vernice che si era rovesciato sul viso e mi aveva bruciato gli occhi; non ci fu speranza di salvarli. Furono giorni, mesi, ati tra un ospedale e l’altro. Quando tornammo a casa tutti mi vennero incontro per baciarmi ed accarezzarmi, tutti volevano consolarmi ma io mi sentivo in un pozzo profondo; ad un tratto mi baciò una boccuccia morbida e fresca, mi sembrò che mi dissetasse l’anima e una manina mi accarezzò; in quel bacio e in quella manina riconobbi Titti, la bambina che abitava nella villa accanto alla nostra casa di pescatori. Titti era sempre sola in quella grande casa e qualche volta la madre, la signora Anna, la faceva accompagnare dalla cameriera da noi e giocavamo insieme. L’avevo conosciuta quando mia madre andava alla villa a vendere il pesce e faceva qualche lavoretto di cucito alla signora. Titti aveva i capelli neri, gli occhi color violetto e poi una bocca carnosa color corallo. Una volta eravamo stati invitati ad un matrimonio e mia madre aveva appuntato sull’abito una spilla di corallo a forma di cuore, unico gioiello che mio padre aveva potuto regalarle; tutte le volte che guardavo quella spilla pensavo alla bocca di Titti e più la guardavo e più avevo voglia di morderla per gustarne il sapore, ma era soltanto una spilla. Fra le tante bocche di adulti che mi coprivano di baci, riconobbi quella di Titti, capii allora che avrei riconosciuto le persone dal contatto fisico; a otto anni ero già innamorato e oggi mi rendo conto che tutta la mia vita si è svolta nel grande cerchio dell’amore fino all’incontro con Angelica. Il ritorno a casa fu però, per me, un inferno: non riuscivo a star fermo; io padrone degli spazi, che saltavo nei fossi e scavalcavo i muri, non potevo più muovermi senza qualcuno che mi guidasse per non cadere, mi sentivo prigioniero. E allora ripresi a fare tutto come prima: scappavo e correvo all’impazzata sulla riva del mare inciampando tra le barche e le reti oppure mi arrampicavo ancora sulla quercia; conoscevo a menadito quei posti e cercavo di
arrivare a casa di mia nonna dove mi raggiungeva mia madre, ansimando per la corsa e per la salita su per quelle colline e quelle stradine. Scappavo, correvo, forse speravo che la luce potessi trovarla in qualche altro posto che non fosse la mia casa, ero un cavallo imbizzarrito e niente mi fermava; a volte mi sembrava di soffocare e il buio me lo sentivo addosso come una rete di ferro che mi stringeva, allora mi buttavo a terra e finivo per masturbarmi, strofinando il pene fino a farlo sanguinare. Mia madre correva, mi prendeva in braccio e mi cullava dicendo, con la voce piena di dolore: “Figliuzzo mio bello, ieu ti fici nasciri ca’ luci, vuliva mi nascivi ‘natra vota!”Figlio mio bello, io ti ho fatto nascere con la luce, vorrei farti nascere un’altra volta!Capivo il suo strazio e affondavo il mio capo sul suo seno morbido, caldo e quasi credevo di consolarmi sognando di succhiare da quel petto come quando ero appena nato. In quei momenti mi sentivo davvero di nuovo nel suo ventre e ne scaturiva un pianto lungo, ancestrale, che sembrava non finire mai, fino a quando lei non riusciva a farmi addormentare. Quell’anno, a Scilla, venne anche una grande nevicata e fu un altro giorno doloroso per me perché avevo già conosciuto quel bianco, quel candore non ancora intaccato dalle orme quando m’incantavo a guardarlo, senza volerlo toccare. Questa volta non potevo godere di quello spettacolo; piangevo e, pieno di rabbia, mi rotolavo sul terreno, fra i sassi, per farmi coprire tutto da quel bianco, lasciandomi andare mentre mordevo e ingoiavo la neve, non so… pensavo forse che quel bianco potesse togliermi il nero che era dentro e fuori di me.
Capitolo tre
Lascio la mia Calabria.
Molto spesso arrivavo alla villa di Titti e mi arrampicavo al cancello; lei mi vedeva da lontano e mi correva incontro, mi faceva entrare e poi mi prendeva per mano e mi accompagnava in giro, fino alle aiuole delle viole che avevano un profumo intenso. Quando ero con lei, rimanevo tranquillo perché la sua manina nella mia mi trasmetteva una tenerezza infinita, lei me la stringeva quando si accorgeva che volevo correre, aveva paura che finissi per ruzzolare; raccoglieva alcuni fiori e me li faceva annusare e toccare. “Sono blu come i miei occhi, ricordi, Salvo?”. Titti, il mio grande amore degli otto anni, l’ho incontrata ancora, giovane donna, ma lei aveva avuto un altro destino. Io però non ho mai dimenticato quella bocca di corallo come la spilla a forma di cuore e quegli occhi blu come le viole; penso ancora alla piccola Titti, mi piace ricordarla com’era allora, mi sforzo di far riapparire l’immagine quando i miei occhi fotografavano tutto quello che vedevo. Non potevo andare più a scuola, mia madre si disperava perché doveva starmi sempre dietro. I miei parlarono col parroco che riuscì a farmi entrare in un collegio per bambini non vedenti a Napoli. I primi tempi furono penosi perché mi allontanavo dai luoghi che erano miei, da questo mare, a questo cielo, da mia madre; continuavo anche in collegio ad essere un cavallo imbizzarrito, ma fu lì che cominciai a prendere coscienza della mia situazione di non vedente; c’erano le suore che mi riportarono alla calma piano piano con orari da rispettare, regole che bisognava seguire. Suor Carmela, un giorno in cui continuavo a correre nelle stanze o correvo per le scale, forse per conoscere quegli spazi che a me erano estranei, mi fermò appena in tempo prima che ruzzolassi e mi disse: “Ascolta, Salvo, noi tutti abbiamo cinque sensi; tu ne hai perso uno, devi adesso sfruttare il più possibile gli altri quattro: devi imparare a toccare, a sentire bene, ad annusare, ad assaporare, vedrai che diventerai bravissimo e saprai muoverti come i bambini che hanno la vista. Tu, invece, continui solo a correre, lo fai per
conoscere gli spazi che hai intorno, ma non basta, devi imparare tante altre cose”. Cominciai così a scandire il tempo della giornata: attraverso i suoni, i rumori della cucina, capivo che si stava preparando il pranzo; dalla cantilena delle suore sapevo che era l’ora del vespro, il canto degli uccelli verso sera mi diceva che stava calando il buio. Mi piaceva molto l’ora della sveglia perché me la indicava il sole; nella mia camerata c’era una grande finestra e, quando Suor Carmela apriva le imposte, il sole veniva dritto sul mio letto e m’inondava il viso e le mani, sentivo il calore sulla mia pelle, mi diceva anche che il cielo non era nuvoloso, che saremmo usciti al pomeriggio. Il periodo trascorso in collegio fu importantissimo, formativo per l’impostazione della mia vita; imparai che per vivere in una comunità non si può prescindere dall’avere rispetto per tutti e compresi che la libertà di un individuo termina quando lede il diritto dell’altro. Divenni subito padrone del metodo Braille e quindi potevo scrivere, leggere, studiare; mi piaceva molto studiare. Mi rendevo conto che un disabile ha mille potenzialità da poter utilizzare e che se viene seguito da persone competenti,può essere un elemento valido per la società a tutti gli effetti. Il Direttore mi diceva sempre: “Sei un ragazzo intelligente, Salvo; se lo vorrai e ti impegnerai nello studio, potresti diventare un bravo professionista, non so, un insegnante di lettere o di filosofia. Dai risultati che ottieni nello studio, sento che non mi sbaglio, diventerai importante, lo so per certo. Quando finirai il Liceo, sceglierai la facoltà all’Università. Vedo che ti apionano gli studi classici, sei riflessivo, portato all’introspezione, ma sei anche capace di capire, d’intuire i sentimenti, i pensieri degli altri”. Le parole del direttore erano lusinghiere per me, ma dentro avevo molti dubbi, mi sentivo fragile e a volte mi prendeva la desolazione, lo smarrimento, spesso mi mancava la dolcezza malinconica di mia madre, le sue carezze; mi mancava la sicurezza di mio padre, si stagliava davanti ai miei occhi la sua figura forte, possente quando tirava a secco le reti mentre cercavo di aiutarlo come potevo senza riuscirvi; mi mancava il suo coraggio, la sua forza quando affrontava qualsiasi situazione con coraggio. Non gli somigliavo proprio. In collegio ho attraversato momenti di crisi profonda, non sempre riuscivo ad accettare la mia nuova situazione di disabile permanente, ma in quei momenti ebbi modo di apprezzare il sentimento dell’amicizia. Non c’erano solo convittori non vedenti
come me, ma anche ragazzi ipovedenti che imparavano il Braille, dattilografia e, come noi, seguivano le lezioni di computer: imparavano a conoscere la tastiera, non c’era ancora la voce elettronica. Stando vicino a loro imparai a muovermi meglio; Gennaro era uno di essi, un anno più piccolo di me, era minuto, cresceva poco. Divenne l’amico fraterno che mi aiutava in tutto; aveva la retinite pigmentosa e poteva diventare cieco da un giorno all’altro; era un napoletano doc, aperto, dalla battuta pronta; riusciva a trasformare una situazione critica in un momento di fresca ilarità; la camerata o la sala da pranzo diventava un teatro e tutti finivamo per trasformarci in attori insieme a lui. Era molto allegro, divertente, pur con le sue paure e per questo l’amavo più di tutti. Aveva il terrore di aprire gli occhi al mattino e di trovarsi cieco; per questo teneva sotto al cuscino una piccola pila, in modo da poter vedere, svegliandosi anche di notte, sempre una luce; una notte fui scosso freneticamente da qualcuno: “Salvo, Salvo, non vedo più!” La sua voce era incrinata dal pianto, ne fui sconvolto; una speranza si accese nella mia mente, dissi senza crederci affatto: “Gennaro, certamente, tu ieri hai dimenticato di mettere la carica nuova alla pila”. Lui la ricaricò ed io mi sentii stringere dal suo abbraccio con cui mi diceva grazie. La luce, infatti, si era accesa. Allora mi ricordai una frase che da noi, in Calabria, è molto comune: “Perché non la smetti di fasciarti la testa prima di essertela rotta? Così la porterai sempre fasciata! Potresti diventare cieco fra chissà quanti anni oppure non diventarlo mai per i progressi della scienza, non pensarci più”. Gennaro rise e da quella notte non mise più la pila sotto al cuscino, ma qualche volta si svegliava di colpo con l’incubo e allora gli dicevo: “Non è ancora l’alba, non ho sentito i i della suora che apre le imposte, rimettiti a dormire”. Lui si riaddormentava tranquillo. Trascorrevo in collegio gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza. Era l’età critica, l’età degli ormoni che cominciano a circolare e io ero sempre il ragazzo ionale, sensibile che ero a Scilla quando mio padre mi richiamava perché i pesci scappavano e m’incantavo di fronte alla luce rosata del tramonto; si, provavo già gli impulsi sessuali, avevo insomma il cuore pronto ad innamorarsi. Due volte a settimana Suor Virginia ci insegnava canto corale. La sua voce era melodiosa e una voce simile, con quelle tonalità e quelle vibrazioni, doveva appartenere, senza dubbio, ad un viso bellissimo; chiesi al mio amico com’era Suor Virginia. “I capelli non li vedo, sono raccolti in una cuffia, ma gli occhi sono due stelle e il
suo viso somiglia a quello della Madonna di Lourdes nella nostra cappella”. M’innamorai così di Suor Virginia e un giorno sentii talmente la bellezza della sua voce che provai un’intensa commozione e lei, accorgendosi del mio stato, si avvicinò per dirmi: “Che c’è Salvo, non stai bene?”. Non seppi rispondere ma avrei voluto baciare il suo viso; riuscii solo a mormorare: “La sua voce m’incanta ”. E davvero, ascoltando la sua voce, il mio animo si apriva, si allargava in un’atmosfera direi di luce, d’amore verso l’universo intero; com’era possibile che io avessi dentro tutta quella luce se intorno a me c’era il buio? Mi resi conto allora che ciò che provavo in quei momenti era amore, si, l’amavo e per me fu la scoperta di un sentimento che questa volta, coinvolgeva anche tutti i miei sensi, non avevo più otto anni. Suor Virginia capì che ero commosso, mi prese una mano, me la strinse ed io avvertii la seta della sua pelle. Le lezioni di canto corale per me divennero momenti di gioia inesprimibile ma nello stesso tempo momenti di grande sofferenza; la voce di quella suora mi rapiva, sentivo che amavo tutto di lei e cercavo di frenare gli impulsi della mia fragile carne di sedicenne. Non ho mai saputo se lei si fosse accorta del mio sentimento, forse si, perché Gennaro mi lasciò stupito quando mi disse: “Salvo, Suor Virginia ti guarda sempre, specialmente quando tu canti da solista”.
Ore ventidue Dalla finestra sento che l’aria si è rinfrescata; ormai è sceso il buio, i pescatori sono andati via anche se in lontananza colgo qualche voce di richiamo. Il cinguettio dei fringuelli si è spento del tutto; fuori il silenzio è fitto, sento soltanto il lento cadenzare delle onde, un lieve respiro che mi tiene compagnia. Anche in casa i rumori sono sfumati, i ragazzi, stanchi della lunga giornata al mare, saranno già addormentati. Ecco la voce di Angelica: “Salvo, sarai stanco, il capitolo lo finirai domani, è tardi, vieni a letto”. La sua voce è languida, invitante, mi carezza tutto. “Salvo, mi sto addormentando…” Accolgo il suo richiamo, fra due minuti sarò da lei, fra le sue braccia, fra le sue gambe e fra quelle onde dove sprizzano scintille, la mia barca filerà dritta, a vele spiegate. Spengo il computer.
Capitolo quattro
Casa Caracciolo
Riprendo a scrivere oggi, domenica, e subito mi si riaffaccia il ricordo delle domeniche in collegio. Mi trovavo molto bene col mio amico, tanto che la domenica era diventata il giorno più triste della settimana perchè lui andava a pranzo dai suoi, veniva a prenderlo Filippo, l’autista. Mi sentivo solo, specialmente a pranzo, perché mancavano le sue battute spiritose, dette con quella sua voce stranamente robusta da un ragazzo così magro e piccolo di statura, risuonavano in tutta la sala e i commensali e gli istruttori scoppiavano a ridere; mi mancava anche perché lui mi aiutava nel servirmi a tavola e sapeva farlo con destrezza senza farsi notare. Gli istruttori, infatti, non volevano che i ragazzi ipovedenti ci dessero una mano perché avrebbero voluto che noi diventassimo autonomi il prima possibile. Gennaro mangiava moltissimo ma cresceva poco; aveva il dono della leggerezza che non era solo fisica ma traspariva in tutto quello che faceva o diceva per cui sapeva venir fuori agilmente da tutte le situazioni, anche le più complicate. Quando veniva a prenderlo Filippo lui, accorgendosi della mia tristezza, mi gridava dalla macchina: “Salvo, stasera stong nata vota cà! – Salvo, stasera sono di nuovo qui!”. Me lo gridava quando gli altri non potevano sentirlo perché non si doveva parlare in dialetto in collegio, bisognava comunicare solo in lingua italiana, era proibito in quanto i convittori venivano da tutte le regioni d’Italia. Una domenica Gennaro m’invitò a pranzo a casa sua; lui mi aveva già descritto la sua famiglia: la madre era molto dinamica, piena d’iniziative, il padre, costruttore edile, spesso era fuori, in giro per i cantieri, il fratello Federico, prossimo alla laurea in ingegneria. Il problema della famiglia era la sorella Elisabetta perché era malata di anoressia; da quando si era ammalata, aveva lasciato gli studi. Non voleva mai mangiare. Lui mi diceva:
“Mia sorella è bellissima, con i capelli scuri e ricci, tanto che io le canto la canzone di Modugno –La donna riccia non la voglio, ogni riccio un capriccio – e credo che lei faccia proprio i capricci quando non vuole toccare cibo e mia madre si dispera; pensa che la sera è costretta a prepararle la crema al cioccolato, l’unica cosa che riesce a mangiare. Ha gli occhi verdi come quelli di Esmeralda, la gattina che gira nel nostro cortile; l’ha trovata mia madre una sera, sotto la pioggia, tutta bagnata e l’ha chiamata Esmeralda per i suoi occhi verdi.-E continuava con la sua intercalata napoletana e il suo vivo gesticolare, tanto che a me sembrava assistere alla scena- Esmeralda è una furbacchiona, pensa che qualche volta entra in casa o in cucina quando Lucia, la cuoca, prepara la zuppa di pesce; Lucia la scaccia con la scopa: “vattin a cà, vattene da qui.” Lei scappa facendo rotolare pentole vuote e coperchi con un gran fracasso e sai dove va? Va ad appollaiarsi sulla spalla di mia madre che, al rumore, scende a salvarla; Esmeralda lo sa che se sta con lei, nessuno la può toccare, mia madre vorrebbe salvare il mondo intero. E’ molto buona, ha un solo difetto, parla tanto, ti farà molte domande, tu non ti dilungare, altrimenti non ti lascia più”. Stavo ad ascoltarlo, pensavo che mi sarei trovato di fronte una ragazza capricciosa, di quelle che danno problemi alla famiglia, non sapevo quale comportamento avrei assunto; Gennaro mi aveva anche detto: “Spero che tu le sia simpatico, non so se oggi verrà a tavola sapendo che c’è un ospite”. Gennaro apparteneva ad una nobile e ricca famiglia napoletana,la famiglia Caracciolo; abitava in via Posillipo, alquanto lontana dal collegio. …Quando arriviamo a casa tutti lo accolgono con abbracci mentre lui chiama affettuosamente la madre: “Ada, dove sei? Dove ti sei nascosta?”. Lei sbuca da una delle tante stanze che attraversiamo, ci viene incontro e mi stringe le mani; non la vedo naturalmente, ma in quella stretta di mano colgo la sua vitalità, la sua energia che trasmette subito dicendomi: “Tu sei Salvo, mio figlio mi ha parlato tanto di te, so che siete grandi amici”. La sua voce è forte e chiara, penso che Gennaro abbia ereditato da lei quell’esuberanza e quell’ottimismo che lo rendono felice di vivere nonostante il suo grave deficit visivo. Ada mi trascina, credo, verso un divano: “Vieni, Salvo, raccontami quello che ti è successo quando eri bambino”. Interviene subito Gennaro:
“Mamma, oggi è domenica, Salvo te lo racconterà la prossima volta. Se Federico è tornato, perché non andiamo a pranzo? Ho una fame!”. Entriamo in sala, Gennaro mi presenta suo fratello; è un ragazzo robusto e molto più alto di me; la sua voce, infatti, mi giunge dall’alto. Sediamo a tavola, ma Lucia non serve il primo, sembra che si aspetti qualcuno che non arriva, sento Ada chiamare per due volte: “Elisabetta, vieni a tavola, abbiamo un ospite!”. Non viene nessuno; Gennaro allora si alza dicendo: “Non ti preoccupare, mamma, vado io, sistemo tutto io”. Rientra poco dopo e mi presenta sua sorella che mi porge la mano, una manina dalle dita così sottili che la tocco appena per paura di farle male. “Siedi qui,di fronte a me e a Salvo, così puoi vedere quanto noi mangiamo e forse ti verrà la voglia, vuoi?”- Le dice Gennaro dando alla sua voce un’intonazione tra l’ironia e il sorriso. Finalmente Lucia serve il primo: crêpes ai funghi; per alcuni istanti nessuno parla; avverto il tramestio delle posate nei nostri piatti, ma di fronte a noi non sento alcun rumore. Federico mi rivolge delle domande sulla scuola e sulla facoltà che avrei scelto all’università dopo il Liceo; di fronte a noi silenzio assoluto, allora mi faccio coraggio e chiedo: “E tu, Elisabetta, perchè hai lasciato gli studi?”. “Mi è venuta una forte depressione senza un perché”. “Quale facoltà ti piacerebbe prendere quando ti riprenderai, spero presto?”. “Senz’altro medicina perché mi piace aiutare gli ammalati”. La sua voce è bellissima, ha variazioni di tonalità, a volte sembra quella di una bambina; dopo un poco mi sembra vellutata…. A causa della mia menomazione sono diventato sensibile alle voci, capace di riconoscere la voce di chiunque mi abbia parlato anche solo una volta. Lei aveva detto poche frasi, eppure la sua voce mi aveva colpito, dolce e vibrante mi era rimasta dentro, l’avevo anche legata ai riccioli neri e agli occhi
verdi, verde come la barca di Peppe, l’amico di pesca di mio padre e alla grande quercia di Scilla. Ada continua, intanto: “Elisabetta, assaggia almeno un pochino; sforzati, ti prego”. E così per un bel po’mentre Gennaro mi sussurra :“Non ti meravigliare, è storia di ogni giorno”. Ad un tratto Elisabetta si alza di scatto e: “Mamma, adesso basta, non ho voglia di mangiare.. forse stasera, scusami Salvo, ma io odio il cibo”. Grida quasi nel dire queste parole, poi esce dalla sala. L’atmosfera peggiora quando Federico scatta: “E’ sempre la stessa storia, non se ne può più; perché la chiami a tavola, mamma? Viene soltanto per dare spettacolo”. “Federico, non hai ancora capito che tua sorella è malata? Il Professore che la cura non è riuscito ancora a risolvere il suo caso; sono malattie a lungo decorso, ma vedrai che ne uscirà fuori, ne sono sicura”. Provo molto disagio, non so cosa dire né cosa fare; per fortuna Ada chiama Lucia per servire il secondo e il dessert con frutta e dolce mentre Gennaro, per allentare la tensione che si è venuta a creare, comincia a raccontare gli scherzi che spesso lui fa agli istruttori o ai professori. Federico ride, ma gli dice: “Stai attento, fratellino, se esageri, potrebbero espellerti dal convitto”. Quando saluto tutti, Ada m’invita ancora a pranzo per la domenica successiva….
Capitolo cinque
La mia adolescenza.
Nei giorni seguenti ripensavo ad Elisabetta e alle sue parole -odio il cibo- e non riuscivo a capire quale potesse esserne la causa; pensavo a quella ragazza adolescente che non voleva crescere e trovavo veramente strano che, alla sua età non avesse mai appetito, ma cercavo in tutti i modi di non pensarci, senza riuscirvi, però. M’impegnavo allora nello studio, c’erano le interrogazioni per il secondo trimestre e io e Luigi eravamo gli unici convittori non vedenti che frequentavamo il liceo classico da esterni; ci accompagnava Lorenzo che fungeva anche da bibliotecario; seguivamo le lezioni dei professori e le registravamo per riascoltarle, poi, in collegio. Ricordo il professore di lettere Guglielmi che aveva verso noi due una cura particolare e cercava sempre di non farci pesare la nostra menomazione. Al liceo mi sentivo un po’ spaesato nei primi tempi perchè gli altri ragazzi erano vedenti e questo mi creava imbarazzo. Un giorno, però, accadde qualcosa che riuscì a smuovere le acque. …Quella mattina, chissà perché, entrando nell’aula, perdo l’orientamento e invece di sedermi accanto a Luigi, vado a sedermi in un altro posto; il Professore, molto attento all’ordine, mi dice : “Riccardi, che c’è, ti sei alzato col piede sbagliato stamattina?”. Tutti ridono e Roberto: “No, Professore, Riccardi si è alzato, invece, col piede giusto stamattina”. Arrossisco violentemente; mi sono, infatti, seduto accanto a Manuela, la ragazza più bella e vivace della seconda A…. Era frizzante, direi effervescente, quella che prendeva più note dai professori, che faceva scherzi ai compagni e disegnava pupazzetti tipo fidanzatini di Peynet,
diceva lei. Tutti si erano seduti a quel banco perchè tutti ambivano ad occupare quel posto, ma poi i professori avevano deciso che poteva restare solo sco, un ragazzo molto calmo, studioso, il tipico secchione, nella speranza che fosse di esempio a Manuela. “No, puoi restare per oggi, Riccardi; sco siederà vicino a Luigi, chissà che non vada bene proprio così?”- Mi dice il professore mentre comincio a muovermi per tornare accanto a Luigi. Il professor Guglielmi riprende la lezione, ma sento che nell’aria c’è fermento. Il giorno dopo penso di dover tornare al mio solito banco e, invece, il professore mi dice di restare lì, vicino a Manuela e così… mi svegliai anch’io; la ragazza mi studiò per un po,’ma poi cominciò a parlarmi, a farmi domande e diventammo buoni amici, non solo ma, in seguito, tutti cominciarono ad avvicinarsi a noi più di prima. Manuela continuava ad essere il leader degli scherzi, delle battute, ma non prendeva più tante note come prima perché adesso, cercava anche di aiutarmi leggendomi le frasi alla lavagna per farmele scrivere in Braille. Avevo ormai sedici anni, ma non potevo seguire la mia crescita fisica allo specchio; notavo soltanto che, quando mi stendevo, i miei piedi, adesso, toccavano l’estremità del lettino e superavo Gennaro sempre di più, che avevo molti capelli ricci e cominciava a crescermi la barba. Sapevo di essere un bel ragazzo, me lo diceva mia madre quando qualche volta veniva a trovarmi, ma me lo dicevano anche Maria e Tea, le due ragazze che aiutavano a servire a tavola insieme a Suor Carmela: “Sei un bel ragazzo Salvo, quando ti trovi la fidanzata?”E, quando parlottavano fra di loro, il mio udito, che si era affinato, coglieva anche: i suoi capelli sono neri, come’erano i suoi occhi quando vedeva? Sembrano scuri sotto le palpebre socchiuse. Non vedi che è proprio un calabrese?’ Si, era vero, i miei occhi erano neri e grandi, profondi come quelli di mia madre. E le ragazze com’erano? Me le immaginavo rotondette, ma il viso com’era ? Lo chiesi a Tea, la ragazza che una volta mi aveva sfiorato con una carezza. “I miei occhi e i miei capelli sono castani come il colore delle castagne”. I colori, nelle diverse sfumature purtroppo li avevo dimenticati anche se mi sforzavo di richiamare spesso alla mente quelli visti in circostanze speciali come quello del cielo stellato quando la sera di san Lorenzo, per guardare le stelle cadenti, mi stendevo sulla riva, o quello delle viole nella villa di Titti quando mi diceva, facendomele annusare – Sono blu come i miei occhi. Li richiamavo, ma
tutto si dissolveva in una nuvola, restavano solo attimi così intensi che,nell’illusione di trattenerli più a lungo, mi coprivo con le mani gli occhi stupidamente. A volte era tale lo sforzo di ricordarli che avevo l’impressione di vedere come un pulviscolo formato da minutissimi frammenti dai mille colori come quando, da piccolo, guardavo in un caleidoscopio, ma tutto si dissolveva lo stesso in una girandola vorticosa; era solo un miraggio. Tea, intanto,quando mi ava vicino per servire a tavola, mi sfiorava la mano o il viso e Gennaro, tutte le volte, mi toccava il piede per farmi capire che aveva visto tutto. …Un giorno, uscendo dal refettorio,nel corridoio mi sento chiamare; mi avvicino alla voce; mi sento abbracciare, sono le braccia di una donna, me ne accorgo subito dalla pelle liscia; sono molto carnose e questo mi fa capire che è Tea. “Salvo, ti voglio bene” – mi sussurra in un orecchio. Allungo le mani, ma lei è già scappata velocissima. Racconto tutto a Gennaro e lui:“Salvo, statt’ attient a chella là ca’ t mett ‘inte guai”- Salvo, stai attento che quella ti mette nei guai. La sera mi giro e rigiro nel letto. “Perché non dormi ?” “Non ho sonno”. “Aggi capit, t’ha pigliat n’ata cotta, Salvo la vu frnesc, si o no?”- ho capito, ti sei preso un’altra cotta; Salvo, la vuoi finire, si o no? - e si gira dall’altra parte, indispettito. Scoppio a ridere perché mi redarguisce come può farlo un fratello maggiore mentre è più piccolo di me. Si alza, mi viene vicino. “Quella ragazza non mi piace Salvo, è troppo grossa e poi ha gli occhi tristi, è anche più grande di te. Senti, se succede un’altra volta domani, io mi metterò in fondo al corridoio, così se a qualcuno, mi metto a fischiettare, hai capito? Ma guarda caggia fa’ p chiss” - ma guarda che mi tocca fare per questo! Il giorno dopo, nel corridoio, cammino lungo la parete piano piano,sperando d’incontrarla di fronte;lei invece, mi viene alle spalle e io mi giro per non farla
scappare. “Salvo, posso stare solo pochi minuti, devo tornare da Suor Carmela,altrimenti mi cerca”. “Non possiamo vederci fuori? Qui non è possibile,Tea”. “No,perché mi viene a prendere mio padre il pomeriggio e non mi fa più uscire”. Mentre mi dice queste parole, mi bacia mi abbraccia, mi tocca, ricambio i suoi baci. Sentiamo fischiettare Gennaro e scappiamo tutti e due. Provo piacere,ma sono dominato dalla paura… . Era la prima volta che una donna mi diceva: “Ti voglio bene “e mi baciava in quel modo. Mi ero innamorato di Suor Virginia,ma lei non mi aveva mai baciato; provavo un sentimento vero d’amore perché mi rapiva la sua voce,era certamente un sentimento spirituale e fisico nello stesso tempo. Con Tea era diverso, provavo una certa attrazione fisica solo perché venivo stimolato da lei. ano quattro giorni di questi incontri clandestini fatti di baci e carezze senza mordente da parte mia, con Gennaro che ci fa da palo. Un brutto giorno, però, sentiamo il cigolìo di una porta che si apre; scappiamo, come mai Gennaro non ha fischiettato? In camera mi spiega: “Ho sentito i i di qualcuno,certamente l’istruttore Balducci, quello che parla come uno snob; entrava nella stanza della direzione; per fortuna non mi ha visto perché mi sono appiattito sulla parete, nascondendomi sotto la giacca del Direttore, appesa all’attaccapanni. Te l’avevo detto, Salvo, che sarebbe successo un guaio”. Il giorno dopo Tea non serve a tavola e nel pomeriggio vengo convocato dal Direttore. “Salvo, come mai uno studente bravo come te si è fatto coinvolgere da un’inserviente? Non lo sai che è severamente proibito allacciare rapporti,anche solo confidenziali, fra gli studenti e le ragazze? Sappi, comunque, che Tea è stata licenziata;altre volte aveva già corso questo pericolo. Tu dovresti essere espulso dal Convitto come dice il regolamento,ti salva la condotta che è sempre stata ottima e i risultati degli studi in cui ti fai onore. Che non succeda mai più!”
Chino la testa e ritorno in camera dove Gennaro mi aspetta tutto preoccupato… . Mi dispiaceva molto per Tea; quella strigliata, però, mi servì moltissimo e mi tuffai a capofitto nello studio. Io e Gennaro, quando il tempo lo permetteva, uscivamo nel pomeriggio; lui conosceva benissimo le strade del centro e mi descriveva tutto ricordando quello che aveva visto quando la malattia degli occhi non era così avanzata. Non sempre, però, le suore ci lasciavano uscire da soli, ma, spesso, ci facevano accompagnare da un volontario anziano e questo mi rivelava un altro aspetto del mio amico; sapeva essere furbo, direi, un po’ spregiudicato e io mi lasciavo coinvolgere dalla sua allegria. Ci sedevamo ad un bar e mentre noi gustavamo le sfogliatelle, offrivamo da bere all’accompagnatore e poi andavamo in giro per conto nostro; quando tornavamo lui era quasi addormentato, non si accorgeva mai delle nostre scappatelle. Gennaro sapeva abbordare le ragazze con abilità, così formavamo due coppie. Con le ragazze si eggiava e qualche volta ci scappavano pure baci e carezze. Lui mi faceva ridere quando diceva:“Attento Salvo, non ti lasciar prendere dalle tue cotte facili; noi dobbiamo solo divertirci un po’, sei troppo piccolo per trovarti la fidanzata, hai capito ?”. Io,invece, avevo tanta voglia di trovarmi proprio la ragazza, questo, però, capivo che non era possibile perché volevo continuare a studiare, andare all’università e poi le ragazze non erano mai le stesse. Ero comunque un non vedente, quale ragazza si sarebbe fidanzata con me ? Forse nessuna. Gennaro mi tirava su: “Dai, Salvo, io vedo che tutte ti guardano quando ci ano accanto”. “Mi guardano per comione Gennaro, perché sono non vedente”. Ne ebbi la conferma quando conoscemmo due ragazze filippine, Raquel e Paoline. Parlavano a stento l’italiano, ma erano garbate e si stava bene insieme. Al secondo incontro mi trovai coinvolto in una situazione piuttosto imbarazzante. Raquel mi disse: “Salvo, io avere pena di te non vedere; tu venire a casa mia, io servire te”. Me lo diceva con tono comionevole tanto che mi veniva quasi rabbia. Non avrei mai voluto avere una ragazza che volesse stare con me solo per comione, come mi faceva capire la ragazza filippina; avrei voluto che mi
scegliesse per amore altrimenti avrei sempre preferito la solitudine. Raquel insisteva e non sapevo come liberarmi fino a quando Gennaro non mi tirò per un braccio: “Salvo, è ora di andare,sono già quasi le otto,stasera ci becchiamo una punizione”. Lungo la strada Gennaro mi consolava: “Non te la prendere, solo le ragazze italiane sanno cos’è l’amore,anzi specialmente le ragazze napoletane; Raquel è filippina. Poi, imitandola: “Noi, comunque, cambiare strada domani, io salvare te da ragazza filippina”. Così riuscì a farmi ridere.
Ore venti e quindici. Sento per gli scalini i i di Angelica che torna con Luca. “Salvo, sei ancora qui? - Mi dice abbracciandomi – Sarai stanco”. Prendo il suo viso tra le mani, la bacio sulla bocca che sa di cioccolato; certamente ha mangiato un gelato, glielo faccio notare e lei: “Ma Salvo, siamo in vacanza e la dieta va a farsi benedire; e poi tu sai che ai gelati di Scilla non si può resistere”. Così ridiamo tutti e due . Spengo il computer mentre rispondo sì alla domanda che, ancora ridendo, lei mi fa: “Anche questo stai scrivendo?”.
Capitolo sei
Perché Elisabetta odiava il cibo?
Ore sette. Mi piace scrivere al mattino perché intorno a me c’è il silenzio della casa ancora addormentata, interrotto soltanto dal tic tac del grosso orologio a cipolla sul tavolo del soggiorno; mi è molto caro, dava la sveglia a mio padre quando usciva per la pesca, dopo tanti anni funziona ancora. Mi soffermo ad ascoltare, direi quasi ad assaporare i suoni e i più piccoli rumori della famiglia che si desta: ecco infatti, Angelica si alza, va in cucina per preparare la colazione, fra qualche minuto sentirò il gorgoglìo profumato ed invitante del caffè che sale nella caffettiera; poi si sveglia Luca e scende dal letto con i suoi gridi alla Tarzan che mi rompono i timpani, và dritto in cucina e subito, i suoi gridi alla Tarzan si trasformano in un battibecco di contestazione quando non trova il barattolo della nutella;la madre glielo nasconde perché lui ne mangia troppa; Cristina è la più dormigliona. “Svegliati, sono già le otto, –grida Angelica –non voglio andare al mare quando fa troppo caldo; sbrigati allora, devi fare ancora colazione”. Cristina non si muove fino a quando Luca non inizia a lanciarle qualche cuscino e quella stanza diventa un campo di battaglia. A questo gioco mattutino credo che prenda parte anche ‘Esmeralda due’ con i suoi miagolii e i suoi salti dal divano al letto di Cristina. E’ una gattina della cucciolata della madre, Esmeralda, di casa Caracciolo. Gennaro,che mi è rimasto sempre amico, ha mantenuto il suo visus bassissimo, ma non è diventato cieco; me la portò quando venne a trovarmi a Reggio un Natale con sua moglie Claudia e sua figlia, la piccola Elisabetta. Esmeralda due ha gli stessi occhi verdi della madre e l’ho chiamata così perché è simile a lei. Eccola qua, è venuta a strusciarsi vicino alle mie gambe; Angelica le ha gridato: “Non ti ci mettere anche tu adesso! Vai via”.
Pur avendo i suoi anni ormai, fa le stesse cose della madre: anche lei entra a mettere il muso in cucina quando Angelica prepara la zuppa di pesce e la rincorre con la scopa; anche lei scappa provocando un mezzo disastro; poi va a rifugiarsi sulle spalle di chiunque trovi sulla strada che appartenga alla famiglia, di solito viene da me o da Cristina che la coccola molto. Così comincia una nuova giornata. La casa resta vuota e io posso scrivere indisturbato fino all’ora di pranzo.
Ore nove. Apro la finestra; a quest’ora l’aria è ancora fresca, un leggero vento mi carezza il volto e mi scompiglia il ciuffo dei capelli ormai brizzolati che mi cade sulla fronte. Quando mi sono svegliato Angelica aveva il viso sul mio petto, si era addormentata così e a me piace sentire il suo dolce respiro,sapere che dorme tranquilla, serena, dopo una notte d’amore. Ho cercato di muovermi con cautela per non svegliarla. Ora qui, ripenso e riassaporo la bellezza di questa notte, come delle altre notti: risento il calore della sua pelle, della sua anima che, insieme alla mia, vibra e tutti i suoi sensi, in qualsiasi parte del corpo, anche la più nascosta, sono corde di violino. Il mio amore accarezza e penetra un corpo sinuoso, florido, dai seni grossi e turgidi dove la mia bocca si sofferma e tutto quest’amore mi riempie ogni volta di un incredibile stupore. Non conosco il viso di Angelica, non lo conoscerò mai; so soltanto che ha lunghi capelli biondi, scivolano come seta e io mi attardo ad inanellarli fra le dita;so che i suoi occhi sono celesti, glieli bacio ma non posso perdermi in quelle iridi azzurre. Quando la sento addormentata sul mio petto penso che sia giorno ed immagino che il sole abbia inondato il mio volto, le mie mani come quando, in collegio, mi accorgevo che era mattina perché Suor Carmela veniva ad aprire le imposte. Si, proprio così, sono queste immagini che mi riportano, anche adesso, ai ricordi dei giorni del collegio, a Gennaro, l’amico sincero che sapeva guardare il suo grave problema e il suo futuro con ottimismo, ad Elisabetta,alla sua voce a cui riuscivo, chissà perché, a dare un profumo di gelsomino misto a verbena e alle sue parole - odio il cibo - Perchè rifiutava il cibo? Cercavo di approfondire questi pensieri ricordando i miei primi anni dopo la cecità. A me sembrava impossibile poter continuare a vivere al buio, provavo un senso di soffocamento
e finivo per correre all’impazzata perché forse credevo, speravo che la luce l’avrei trovata,mi sembrava impossibile che non ci fosse più. Volevo solo questo a dieci anni? No! Ricordo invece che, correndo in quel modo, speravo che finissi per spaccarmi la testa, volevo morire. Solo l’amore di mia madre e di mio padre mi riportò alla ragione; anche quello di Titti, aggiungo oggi. Poi ho imparato ad amare la vita in tutte le sue forme e in seguito ne sono rimasto sempre innamorato anche nei momenti critici. Penso che mi abbia molto aiutato credere che noi tutti ci muoviamo nel grande cerchio dell’amore universale, come mi aveva detto un giorno Suor Carmela. Mi paragonavo ad Elisabetta che odiava il cibo, voleva allora autodistruggersi. Perchè? La mia menomazione è un handicap gravissimo e desideravo morire a dieci anni ma lei, che ragione aveva per voler morire? E sarebbe morta se avesse continuato a rifiutare il cibo. La madre aveva detto che era in cura da un medico perché la sua era una malattia psichica. Volevo capire come una mente possa arrivare a questi disagi esistenziali senza conoscerne la causa. Non solo volevo capire, volevo anche aiutare quella ragazza, conoscere la mente umana.
Ore diciannove. Adesso è venuto a trovarmi Peppe, un vecchio amico di mio padre, uscivano sempre insieme per la pesca. Lui mi abbraccia forte, stringo le sue mani callose per la fatica di tirare a secco le reti e per riannodare le maglie che si rompevano spesso;accarezzo il suo viso dalle guance scavate, rugose e a me sembra di abbracciare mio padre diventato vecchio come Peppe. “Salvo, sei venuto anche quest’anno a trascorrere le vacanze a Scilla, nella casa dei tuoi genitori; loro non ti hanno visto laureato,se ne sono andati prima, tuo padre mi manca molto,sono rimasto solo e sto in casa di mia nuora. So che ti sei laureato in ‘sicologia’ e che hai aperto uno studio a Reggio. “No sicologia, Peppe, si dice psicologia; anche i miei non riuscivano a pronunciare bene questa parola”. “Insomma cosa studi?”-Mi chiede lui col tono sbrigativo dei vecchi quando la cosa non è chiara. “Studio la mente umana e cerco di risolvere i suoi problemi quando è possibile”.
“Mah! Come ti è venuta l’idea di studiare la mente degli altri? I giovani oggi studiano cose mai sentite prima”. Sorrido di fronte a tanta semplicità. “Adesso devo andare, sta calando il buio e io non vedo più tanto bene;non senti l’odore del mare, non senti la malìa di quest’ora, Salvo?”. Era vero, non potevo vedere la nuvola rosa che unisce il cielo e il mare, ma sentivo l’odore forte del mare e mi prendeva fortissima la nostalgia di quando ero bambino. Lo abbraccio forte e scrivo tutto l’incontro con Peppe perchè, quando lo rileggerò, mi sembrerà di riviverlo.
Capitolo sette
Decido di scegliere la facoltà di psicologia
Come ti è venuta in mente l’idea di studiare la mente degli altri? Mi aveva chiesto Peppe. Non potevo spiegarglielo, sarebbe stato troppo lungo. Scattò per me l’interesse per la psicologia quando conobbi Elisabetta, la ragazza anoressica; il suo rifiuto del cibo, la sua voglia di autodistruggersi, il suo desiderio costante di dimagrire che la consumava giorno dopo giorno, mi sembravano assurdi perché non si conosceva la causa determinante del suo disagio psichico. In convitto pensavo spesso a tutto questo e al medico che non ancora era riuscito a risolvere il caso, ma non avevo alcuna nozione di psicopatologia, mi dispiaceva molto e allora pensai di rivolgermi allo psicologo che ogni mese veniva in collegio per parlare con noi,sia in gruppo sia individualmente. Gli esposi il caso della ragazza; lui mi spiegò che l’anoressia è una malattia abbastanza seria perché è difficile da curare. Il paziente vi si oppone con una volontà di ferro e il rifiuto del cibo diventa così radicato che, a volte, è necessario praticargli delle flebo per portarlo ad un certo miglioramento fisico. Gli chiesi quali possono essere le cause: possono essere tantissime, le più svariate: un comportamento sbagliato di uno dei genitori, una delusione d’amore, un’amicizia tradita in età adolescenziale ,un rimprovero eccessivo ricevuto dal padre di cui, magari, si era innamorata senza saperlo. Quale comportamento bisognava assumere con la paziente? Rispose che si doveva trattarla come una qualsiasi ammalata, cercando di distrarla parlando di attualità, di cose interessanti, senza mai toccare l’argomento cibo. Era necessario farla uscire dal suo isolamento perché sarebbe senz’altro caduta nella depressione. Tutte queste informazioni mi turbarono alquanto e fu allora che scattò in me la decisione di studiare psicologia all’università. Volevo aiutare la ragazza, ma mi dispiaceva anche vedere la sofferenza di tutta la famiglia. Ne ebbi la conferma quando la domenica successiva, per il pranzo, si svolse la
stessa scena della domenica precedente. …Anche questa volta Eli, come la chiama la madre,non si presenta a tavola e non si dà inizio al pranzo; Gennaro risolve la situazione come sempre. “Eli, perché non siedi accanto a Salvo? Hai detto che ti piace aiutare gli altri, potrai così aiutare il mio amico a servirsi, vuoi ?”. Io mi schernisco perché non voglio imbarazzare la ragazza, ma capisco anche che Gennaro spera si apra un dialogo più cordiale, costruttivo fra me e lei. Lucia serve il risotto alla marinara che a me piace moltissimo, mi ricorda quello che preparava mia madre con i gamberi, le cozze e le vongole. Comincio a decantare il risotto mentre cerco di sentire se, al mio fianco, Eli usa le posate. “Anche a te piace questo piatto?”Le chiedo nella speranza che almeno l’abbia assaggiato . “E’ quello in cui si fa meno fatica perché si usa la forchetta e si possono fare piccoli bocconi; sai, io mangio pochissimo - e aggiunge per distrarre l’attenzione degli altri su di lei - ti verso il vino, Salvo ?”. “Si può usare anche il cucchiaio, se vuoi,come faccio io che ho una fame da lupi”. - Esclama Gennaro con il suo tono allegro ed infatti tutti ridono - A me sembra perfino di udire una lieve risata di Elisabetta; questo è già qualcosa, vuole essere una piccola apertura. “Elisabetta , non esci qualche volta con le amiche?”. “No , preferisco leggere”. -Mi risponde seccamente e questa volta mi sembra proprio che voglia chiudere la conversazione appena iniziata, ma interviene suo fratello: “Oggi è una splendida giornata di primavera, io e Salvo andiamo a eggiare sul lungomare, perché non vieni con noi?”. “ Si –aggiunge Ada –ti farà bene e poi potrai descrivere a Salvo il panorama”. Così quel pomeriggio usciamo in tre, Elisabetta mi guida prendendomi il braccio. “E’bello farsi accarezzare dalla brezza come è bello anche camminare vicino al
mare quando soffia lo scirocco ,il libeccio o il forte maestrale” - le dico. Lei annuisce e poi mi chiede come mai conosca così bene i nomi dei venti. “Perché mio padre è un pescatore e deve conoscere i venti per decidere se uscire o meno per la pesca”. Gennaro mi cammina a fianco e ogni tanto mi tocca il braccio per farmi capire che la cosa va bene, che lui è contento. Proseguiamo mentre Elisabetta mi descrive il panorama, quello che vede all’orizzonte, i tavolini dei bar e le persone che sono sedute. Sediamo infine anche noi ad un tavolino, ordiniamo due gelati, ma Eli ordina solo una bibita all’ananas. Parliamo di tante cose, noto che lei è tranquilla,molto naturale, sembra essersi sciolta. Tento allora di entrare nell’argomento scabroso del cibo, forse mi avrebbe dato una risposta. “Non vuoi prendere un gelato? Perchè rifiuti il cibo Elisabetta? Non riesci a capire quale causa abbia determinato questo tuo problema ?”. Lei rimane per alcuni istanti in silenzio, poi: “No Salvo, non lo so,per questo sono in cura; so soltanto che dentro di me c’è una volontà al rifiuto, credimi”. Le parlo allora di quello che mi è successo a otto anni, della mia disperazione dei primi tempi quando correvo come un pazzo perché speravo di spaccarmi la testa e ...qui Elisabetta mi prende d’impulso le mani: “No, Salvo, per fortuna sei qui e stai parlando con noi,adesso basta perché ti fa male ricordare”. Sento che la voce le trema, capisco così che lei non è del tutto distaccata dal mondo che la circonda, come credono in famiglia. “Mi ha salvato l’ amore dei miei e forse anche l’amore di una bambina di otto anni, - continuo sull’onda dell’emozione che colgo nel suo spontaneo gesto delle mani e nel tremore della sua voce –poi ho amato e amo tanto la vita e per questo non riesco a capire il tuo rifiuto del cibo,la tua voglia,stranamente inconsapevole,di distruggerti .La menomazione che mi era piombata addosso in età infantile era un handicap gravissimo, tu invece, hai tutto per godere ed amare la vita. Ma…dimmi, tu vuoi morire?”. Mi fermo di colpo perché Gennaro mi stringe fortemente il braccio e noto che la ragazza si è allontanata di qualche o; forse sono andato troppo oltre - penso. Incontriamo, per fortuna, il fratello di Ada che si ferma per salutarci .Quando torniamo a casa noto con piacere che la voce di Eli ha un tono allegro: “Ciao
Ada, è stato un pomeriggio bellissimo, il mare era incantevole”. Mi si avvicina subito Ada per dirmi: “Torna domenica prossima Salvo, se ti fa piacere; non ho mai visto Eli così serena”…. Quasi tutte le domeniche ormai andavo a pranzo da Gennaro perché Ada m’invitava e io mi trovavo bene, lei mi trattava come un figlio. Adesso,quando andavo a casa Caracciolo, Elisabetta on rimaneva più in camera sua fino all’ora di pranzo,ci veniva, invece, incontro nell’atrio e spesso ci fermavamo a parlare a lungo in salotto. Non facevo più domande,le proponevo argomenti vari per distrarla,raccontavo della nostra vita di collegio, delle marachelle di Gennaro, del liceo che frequentavo da esterno. Lei era molto interessata; si era stabilito fra noi due un rapporto cordiale, sembrava proprio che stesse uscendo dal suo isolamento ma il problema del cibo restava invariato ed era sempre grave. Parlava liberamente con me e addirittura una volta fu lei stessa a farmi delle domande sul mio paese,sulla mia famiglia; ne fui lieto perché ebbi modo di parlare di Scilla e della mia Calabria; le spiegavo che io non ero mai stato a Napoli, non conoscevo niente di questa città, c’era il mare, però, e questo già bastava ,in qualche modo, ad avvicinarmi alla mia terra. Uscendo per le strade del centro, coglievo il frastuono della città, il richiamo insistente dei venditori che quasi si affacciavano alle porte dei negozi per attirare i compratori, il chiacchierìccio dei anti che si fermavano a gruppi; era un vociare chiassoso, allegro. Trovavo tutto questo così diverso dalla gente di Calabria, di poche parole, gente riservata, a volte dall’apparenza rude. Mio padre,pur essendo pescatore, amava conoscere la storia della sua terra,spesso mi portava in giro per parlarmene; mi portava in Aspromonte dove camminavamo lungo la fiumara o attraversavamo stretti sentieri tra rovi, pietre e fichi d’india. “Vedi Salvuzzo, questo pezzo di terra calabrese sembra aspro e selvaggio, qui la natura è intatta e l’uomo quasi non vuole toccarla, poi, via via che scendiamo verso il mare, vedrai invece, che la terra non è più aspra e selvaggia come l’hai vista finora ma si ammorbidisce, si addolcisce; così è la sua gente, sembra scostante e invece ha un cuore generoso e gentile.
Capitolo otto
Volevo solo aiutarla?
Eli mi ascoltava e un giorno mi disse: “Descrivi la tua terra con tanto amore, eppure io vi scorgo un velo di tristezza, Salvo”. “Hai ragione, soffro quando ne parlo perché so che non potrò mai più abbracciare con il mio sguardo tutta quella bellezza ” “Salvo, un giorno io verrò con te in Calabria, andremo nei posti della tua infanzia, sarà come se tu fossi tornato agli otto anni, ti descriverò tutto, nei minimi dettagli ”. Con amarezza replicai: “Elisabetta, il tempo non si ferma, non torna indietro, va sempre avanti e il mio paese, tutta la mia terra non sarà più la stessa,quella dei miei otto anni. Tu invece, hai voluto fermare il tempo per te, stai sprecando questi anni della tua giovinezza dietro un problema esistenziale che ti trascini; devi venirne fuori, gli anni più belli ano e ti ritroverai matura senza averli vissuti e goduti”. Lei non parlò più ed io capii di aver colto nel segno. Incalzavo perché volevo provocare una reazione di ribellione. Lo facevo ogni tanto quando la vedevo disponibile ad accettare le mie parole. Adesso anch’io la chiamavo Eli e quel nomignolo breve,di due sillabe sole, mi faceva pensare a qualcosa di alato, chissà, forse ad una farfalla, la sapevo così minuta e leggera. Qualche volta mi prendeva la mano,era così piccola che a me sembrava di avere fra le mie un erotto, la trattenevo a lungo, volevo trasmetterle la mia anima, il mio amore per la vita; no, volevo trasmetterle il mio amore per lei. Nello stesso tempo mi chiedevo: cosa sto facendo? La voglio solo aiutare oppure mi sto innamorando di lei? Fra un anno dovrò lasciare il convitto, tornare a Scilla, lasciarla. Eli potrebbe soffrirne. Una volta, sempre in salotto, lei si allontanò ma ritornò subito
dicendomi: “Salvo, lo sai,quando mi sento sola ti scrivo delle lettere:tredici marzo, Caro Salvo questa sera sono molto depressa, vorrei chiamare Filippo, l’autista, per farmi accompagnare da te in convitto ma è troppo tardi e le suore non mi farebbero entrare… Quindici aprile, Caro Salvo oggi ho fatto qualcosa che tu condanneresti: è venuta stasera mia madre a portarmi la solita tazza con la crema al cioccolato. Aveva gli occhi arrossati dal pianto e capivo che la causa di quelle lacrime ero io. E’ stato più forte di me, quando lei mi ha lasciata, sono andata nel bagno e ho fatto scorrere l’acqua sulla crema. Sai, l’ho fatto anche altre volte e dopo mi sento in colpa, non so come fare, è più forte di me”. A questo punto Eli aveva la voce sottile, proprio come quella di una bambina; provai un forte bisogno di attrarla a me e di stringerla, di arle le dita sulle labbra perchè tornasse a sorridere come prima. Affondò il viso sul mio petto mentre le mie mani le carezzavano i capelli, quei riccioli scuri; era bellissimo sfiorare con le labbra i suoi capelli,a riccioli piccoli, folti, era come avere tra le mani una pelliccia di agnellino persiano nero che avevo visto un giorno, da bambino, indossare alla madre di Titti e lei me l’aveva fatta toccare; quando la strinsi a me, si rannicchiò fra le mie braccia. “ Perché faccio tutte queste cose, Salvo?”. “Non lo so, Eli, vorrei saperlo per aiutarti a guarire”. Cominciavo a sentire fremere le mie mani e poi tutto il mio essere; lei piangeva. “Salvo aiutami, ti prego, liberami”. “Non piangere, vedrai che uscirai da questo problema psicologico; quelle lettere, però, devi mandarle al tuo medico curante”. “Salvo, io voglio scriverle a te perché tu mi leggi dentro, tu sai capire tante cose, lui no”. “Che dici Eli? Adesso cerca di riprenderti, non voglio vederti piangere”. Provavo la voglia disperata di baciarla sulla bocca, sul collo, sui piccoli seni che avevo avvertito quando l’avevo stretta a me, attraverso la sottile camicetta di seta che indossava. Mi alzai di scatto allora, un attimo dopo sarebbe stato troppo tardi. La salutai in fretta e raggiunsi Gennaro che aveva già chiamato Filippo nell’atrio.
“Che c’è, Salvo?- Mi chiese lui in macchina vedendomi assorto – non ti senti bene?”. “Ho solo un forte mal di testa,ad aprile fa già così caldo”. Quella notte mi svegliai molte volte con gli incubi. …Sogno Eli triste, chiusa in una gabbia da cui non può uscire, io voglio liberarla,sollevarla fra le braccia e portarla lontano, non so, forse sulle ali del vento, raggiungere l’arcano, soli io e lei, ma una folla di persone ci viene contro per strapparla a me. Mi sveglio del tutto ma continuo a sentire la sua voce come una cantilena: ‘Aiutami Salvo, liberami tu’…. Mi sorprendevo a ricordare i momenti dolcissimi della sera prima, quando l’avevo stretta a me e mi sentivo in colpa; che sto facendo,-mi chiedevo-che avrebbero detto Gennaro, Ada, Federico? Eli era così fragile adesso e proprio io rubavo questa sua adolescenza ,insinuandomi nel suo cuore di ragazza? E poi…è lei che s’insinua nel mio, è lei che si fa amare col suo abbandono fiducioso ripetevo dentro di me .
Capitolo nove
Dichiarazione inaspettata
Volevo confidarmi con Gennaro, ma sapevo che lui adorava la sorella. Decisi di frequentare meno casa Caracciolo adducendo che ero molto impegnato per gli studi che, nel terzo anno, erano diventati gravosi. Una sera, però, la madre di Eli mi telefonò per dirmi che sua figlia, da quando io mancavo la domenica, non voleva più uscire dalla camera e rifiutava qualsiasi cibo, non voleva parlare con nessuno, mi pregava di andare. Quel giorno fui sorpreso da Esmeralda che, appena mi vide entrare, mi saltò addosso e si accucciò sulla mia spalla. “Hai visto Salvo,- mi disse Ada - anche Esmeralda vuole festeggiare il tuo ritorno, vieni, andiamo da Eli che ti aspetta in camera”. Quando entrai, Eli non disse nulla, io le presi la mano, sempre più magra e le sedetti accanto. Esmeralda, adesso, si era acciambellata sulle mie ginocchia, tonda, morbida, dal pelo vellutato e non accennava ad andarsene, ma,ad un tratto, lei ebbe uno scatto e la scacciò : “Vai via, vai da Ada, che vuoi da Salvo?”. Esmeralda se ne andò; subito si affacciò alla porta Gennaro: “Perchè hai offeso Esmeralda? Non hai visto la sua andatura lenta e la sua coda rivolta all’insù come un punto interrogativo?”- Le chiese . La voce di Eli era alterata, dalla tonalità bassa quando si rivolse al fratello che voleva farla ridere : “Smettila anche tu”. Fui contento che avesse parlato, sembrava che si fosse chiusa in un mutismo assoluto, come mi aveva detto la madre.
“Che c’è Elisabetta? Non stai bene?”. “La colpa è tua perché mi hai abbandonato”. “Non è vero, non ti ho abbandonato, altrimenti non sarei qui adesso, non ti pare? In questi mesi ci sono le interrogazioni per il secondo trimestre, lo sai. Oggi verrai a tavola, Lucia ha preparato pasta con i funghi porcini, verrai, vero? Verrai almeno per ringraziarmi di essere venuto ”.Mi prese le mani e le tenne per un po’. Fra le sue esili dita sentivo le piccole ossa. “Nel pomeriggio usciremo, faremo una bella eggiata, vuoi?”. “No Salvo, non ne ho voglia”. Provavo una tristezza infinita,ma ero felice di starle accanto, di tenerle le mani. A tavola la scena di sempre. …Federico si alza di scatto dicendo: “Elisabetta, quando la finirai di comportarti come una bambina ?”. Eli chiede scusa a me e agli altri, vorrebbe andar via. La madre ha gli occhi pieni di lacrime; Gennaro mi stringe il braccio per incoraggiarmi a restare e fare qualcosa. “Salvo, vedrai che Eli, adesso, mangerà – dice e, rivolgendosi alla sorella aggiunge - altrimenti anche Salvo ci lascerà”. Eli torna a sedersi e comincio infatti a sentire, al mio fianco,il debole rumore della forchetta. Poi ”Oggi, però, Lucia ha fatto scuocere la pasta”. Queste parole sono la conferma per me che Eli ha assaggiato il primo, rimarrà a tavola anche per il secondo?... Quella domenica era piena di sole; dietro mio invito e dietro le insistenze di Ada, Eli si decise anche ad uscire per una eggiata sul lungomare. Aveva un profumo nuovo, mi faceva ricordare l’erba fresca, ma era misto a quello della mandorla amara. Dopo alcune settimane di digiuno, Eli era ancora più magra, esile come un fuscello, si appoggiava al mio braccio e camminava lentamente. Ci sedemmo subito ad un tavolino del primo bar, io e Gennaro ordinammo due coppe di gelato ma lei non volle niente. “Ho mangiato a pranzo, per oggi basta
così”- mi disse cercando di addolcire la voce per farsi perdonare il rifiuto. “Sta arrivando il mio amico Domenico con la sorella Claudia – annunciò Gennaro- vado loro incontro”. Eravamo rimasti soli e fra la gente, Eli, a volte, era davvero imprevedibile. “Salvo, ti sto guardando, sei bellissimo”. Che altro avrebbe detto ancora? Sono preoccupato. Ad un tratto sento il suo profumo farsi più intenso, perché? Poi le sue piccole mani si avvicinano al mio viso e, con un gesto delicatissimo, mi tolgono gli occhiali scuri che sempre metto quando esco. Mi sussurra: “Stai zitto, non ti muovere, tranquillo, ti prego”. Avverto il tocco morbido e caldo delle sue labbra sulle mie e poi il salire dolcemente di esse fino a raggiungere i miei occhi chiusi. Quando si stacca, sento ancora il calore delle sue labbra, vorrei ricambiare quei baci,ma lei continua: “Zitto, non parlare altrimenti rovini tutto prima che io ti dica: Salvo, perché non capisci che io sono innamorata di te? Me ne sono accorta quando ho cominciato a scriverti le lettere e poi quando non venivi più a trovarmi, provavo una pena al cuore”. Resto senza parola, stordito, ma affascinato da quel suo tocco sulle mie labbra che non mi sembra affatto provocante,ma gentile come la sua anima. Quel baciarmi sulla bocca e poi sugli occhi è per me un gesto delicatissimo d’amore. “Non ti stupire Salvo, ti ho baciato sugli occhi perchè da quelli è partita la tua sofferenza, ma da essi nasce anche la profondità della tua anima e per questo io ti amo”. “Eli, mi hai confuso, non riesco a dirti niente, credimi; cerca di pensare che non posso legarmi a te”. “Perché? Che cosa te lo impedisce? Per me non ha nessuna importanza che tu sia un non vedente. Forse sono io che non ti piaccio, magra come un chiodo perchè non riesco a vincere il rifiuto del cibo, non ci riesco, non ci riesco”. Comincia a piangere. “Eli, ti prego, non fare così, vuoi farmi star male? Non posso vederti piangere, – le prendo la mano -ascolta, non posso legarmi a te non per quello che pensi tu, ma perché devo studiare, potrò rimanere in collegio solo fino a diciotto anni,poi
dovrò tornare in Calabria e lasciarti, ti farei soffrire e non voglio; anch’io ti voglio bene,ma devo essere forte con te; vedrai che è soltanto un ‘infatuazione; quando ti rimetterai, conoscerai altri ragazzi e non penserai più a me”. Sentiamo le voci di Gennaro e dei suoi amici che stanno tornando, ritorniamo a eggiare in comitiva. A casa, Ada : “Come mai Eli sei tornata così triste? Ti sei sentita male?”.Elisabetta, senza rispondere, va subito in camera e io saluto Ada e raggiungo Gennaro per tornare in collegio…. Quella notte la sognai ma non era un incubo, anzi…sognai proprio di far l’amore con lei con ione. Mi chiesi allora cosa avessi fatto perché si fosse tanto innamorata e poi mi rendevo conto che lo ero anch’io, anche se credevo di essere più forte di lei, ma questo non era vero, non ero più forte di lei, perché adesso, avevo voglia di sentirla mia come lo era stata nel sogno. Mi bloccavano mille pensieri contraddittori: vivere quest’amore che io stesso consideravo folle perché lei non era guarita, e inoltre, Elisabetta si era fermata negli studi, io invece volevo continuare i miei, niente poteva fermarmi; dopo la licenza liceale avrei dovuto lasciare l’Istituto e tornare a Scilla, mi sarei iscritto a Messina in psicologia e questa decisione la prendevo proprio per lei.
Ore tredici “Papà - mi dice Luca - ha detto la mamma che fra dieci minuti, il pranzo è pronto, non attardarti, altrimenti trovi tutto freddo”. Luca ha sempre una fame da lupo. Quando a tavola vedo i miei figli mangiare con gusto, sono contento e,immediatamente, ricordo Elisabetta, la ragazza che rifiutava il cibo. A volte quel ricordo mi ossessiona, ripenso alla sua figuretta esile, magra, quella dei giorni precedenti alla sua fine. Riprendo a scrivere dopo due giorni,siamo andati a Gambarie, una località di montagna dove si sente il profumo del bosco, si va in macchina, ma poi si cammina a piedi; si sale, si sale mentre i ragazzi vorrebbero fermarsi e invece, noi insistiamo fino ad arrivare ad una radura dove le persone si accalcano davanti a gazebi per ordinare pane di montagna con formaggio pecorino fresco e salame affettato. Siamo rimasti fino a sera perchè i ragazzi volevano vedere il
tramonto quando il sole, che diventa un disco di un rosso vivo, si staglia e si spezza, potrei dire, sui neri tronchi degli alberi; sembra tagliato a spicchi e ti verrebbe quasi la voglia di andare a prenderne una fetta. Quando ero bambino, mio padre spesso mi portava a Gambarie proprio per assistere a questo spettacolo; adesso sono io che accompagno i miei figli a godere di questa bellezza, io non posso più ammirarla. Angelica mi viene vicino e mi prende la mano per comunicarmi il suo dispiacere e la sua sensibilità mi fa tremare i polsi per la gioia di averla accanto. L’aria adesso è frizzante, molto frizzante e i miei figli mangiano con appetito i panini, mi chiedo se Cristina si ammalasse di anoressia, o anche Luca? Oggi questa malattia psichica si va diffondendo anche fra i maschietti, sarebbe terribile. Nel mio studio, a Reggio, arrivano ragazzi accompagnati dai genitori che non sanno dirti niente, non sanno spiegarsi perché sia venuta questa malattia ai loro figli. o molte ore con l’ammalato in colloqui per cercare di scoprire la causa. Una volta ho curato una ragazza, Antonella, da cui, nei frequenti colloqui, non si tirava un ragno da un buco, fino a quando un giorno mi disse: “Io odio Angela, una compagna di scuola”. “Perchè, che ti ha fatto di male?”. “Avevo indossato, quella mattina, per la scuola, un abito grigio con puntini rossi che mi stava molto attillato; quando mi vide, esclamò: Sei molto elegante, ma ti sei fatto un gran bel sedere! Allora l’ho odiata”. Restammo allibiti io ed Angelica quando, mettendola nuda davanti allo specchio per farle vedere come era ridotto il suo corpo, magro come un grissino, ci aveva detto: “Avete visto che gran bel sedere?”. Capii subito che quella frase dell’amica era stata la causa scatenante del blocco psicologico e del rifiuto del cibo. Ne parlai con la ragazza e riuscii, dopo molti colloqui, a farle capire che era assurdo rovinarsi la vita solo per il commento di un’amica magari anche invidiosa e le consigliai di frequentare una palestra perché il suo corpo si stava sviluppando e doveva acquistare più armonia nelle forme.
Capitolo dieci
La lettera rivelatrice
Dal giorno in cui Eli mi aveva confessato il suo amore,cominciai a ritardare le visite a casa Caracciolo, pur soffrendo. Gennaro diceva che le cose andavano sempre peggio, Elisabetta continuava a non mangiare. Una domenica mi telefonò Ada per invitarmi a casa perché voleva farmi conoscere suo marito. Accettai; che avrebbe detto il padre se Eli si fosse comportata a tavola come le altre volte?. Era un uomo alto, robusto, credo molto più alto di me, me ne resi conto quando mi tese la mano e poi mi abbracciò. A tavola Elisabetta si presentò subito stranamente e Lucia servì le lasagne; Eli cominciò a mangiare. “Lucia , non hai messo il sale in queste lasagne,-disse con voce alta- non mi piacciono, io aspetto il secondo”. “Che dici Eli? Sono buonissime, siamo alle solite, non cambi mai, – replicò il padre con voce alterata –quando torno a casa, dopo mesi di lavoro, trovo le stesse cose, stai seguendo la cura del professore, sono già due anni che vai da lui, andrò a parlargli io”. Pensavo che Elisabetta, davanti al padre, si dimostrasse più malleabile, più docile e invece gli rispondeva con tono scontroso;quella mattina fu per me difficile restare in casa Caracciolo,anche perché il padre, dopo la prima,gentile accoglienza e dopo il pranzo in cui cercai di mantenere una conversazione su argomenti di attualità, andò in salotto e prese subito un quotidiano in cui s’immerse dimenticando del tutto familiari ed ospiti. Non avevo provato un’impressione tanto piacevole del padre, mi era sembrato piuttosto freddo, di quei padri poco disponibili a collaborare con i problemi della famiglia; troppo preso dal suo lavoro che non era semplice, certamente, ma era evidente che tutto ricadeva sulla moglie. Chiesi ad Eli se voleva fare una eggiata con noi,come avevamo fatto le altre volte ma mi rispose che aveva freddo; così uscimmo soli io e Gennaro.
“Hai visto Salvo, Eli è sempre la stessa, non si vergogna nemmeno davanti a nostro padre, –mi disse lui con aria triste –a volte penso che lo faccia apposta a farci preoccupare; quando c’è lui, poi, ancora di più, è come se lo volesse provocare. Cerca di fare tu qualcosa, Salvo, vedo che ti ascolta, anzi devo confessarti, penso che Eli sia innamorata di te”. Mi sentii tremare il cuore perché stava dicendo la verità, non solo, ma io ne ero coinvolto sul serio; mi affrettai a minimizzare: “Ma che dici, Gennaro, stai esagerando, magari può essere un’infatuazione di ragazza, ha soltanto quindici anni, – sapevo di mentirgli – tu ti preoccupi troppo, ti prometto che verrò domenica prossima e cercherò di parlarle, di chiederle perché assume quest’atteggiamento con il padre”. Quando ritornai la domenica successiva, il padre era ripartito. Eli mi venne incontro nel’atrio, aveva in mano una cartella. “Salvo, sai, ho ripreso a scriverti le lettere” – mi disse con un filino di voce e non capivo se quella voce così sottile era dovuta alla debolezza oppure era solo per non farsi sentire da Gennaro che sapeva poco distante da noi. Mi prese la mano e mi trascinò in camera sua, poi : “Senti questa: Caro Salvo, finalmente è partito mio padre, non lo sopporto; da quando non sono più una bambina mi trascura, sta sempre a rimproverarmi perché lui vuole più bene a Federico e a Gennaro. Sento che solo tu mi vuoi veramente bene e tu sei la persona che io amo più di tutti”. –e mi strinse la mano. Decisi questa volta di mostrarmi più severo con lei; allontanai la mano dicendo: “Eli, se davvero mi vuoi bene, devi portare le lettere che mi scrivi al tuo medico, sono importanti perché lui possa curarti, hai capito ?” I l tono della mia voce era duro e lei: “Che fai? Anche tu mi rimproveri adesso?”. Non so come ma sentivo che quelle lettere, specialmente quella che mi aveva appena letto, potevano essere importantissime per il professore, erano i suoi pensieri, forse i più intimi, quello che ancora non era venuto fuori dai colloqui. La salutai, ma lei mi trattenne: “Perché vuoi andar via, Salvo? Resta ancora con me.” “E’ già tardi per il collegio, il direttore vuole che rientriamo per le venti, per la
cena ”. Mi allontanai di corsa; incontrai nell’atrio Ada e Gennaro. “Signora, credo che sia necessario far arrivare al Professore le lettere in cui sua figlia mi confessa i pensieri più intimi, ci penserà Gennaro a prenderle di nascosto”. La madre fu d’accordo perché Elisabetta perdeva peso ogni giorno di più, io invece, sentivo d’ingannarla. Piansi, sapevo di farle un torto pur se agivo per il suo bene.
Capitolo undici.
Dal medico di Elisabetta.
Non riuscivo a concentrarmi nello studio ,pensavo sempre a lei e al torto che le avevo fatto. Gennaro aveva svolto, dopo due giorni, il suo compito con destrezza,come sempre, ma a telefono seppi che Elisabetta, accortasi che la cartella mancava, si era arrabbiata molto. “Lo so chi è stato, è stato Gennaro e gliel’ha detto Salvo, neanche lui mi vuol bene”. Un pomeriggio venne a trovarmi in collegio Ada per dirmi che le lettere erano servite molto al Professore perché, attraverso quegli scritti,finalmente era riuscito a capire la causa del blocco psicologico di Elisabetta. “E lui cosa consiglia ?”- Chiesi col cuore in pena. “Consiglia di rimetterla su con le flebo in questo periodo perché è troppo dimagrita, di farle incontrare gli amici, nella speranza che riprenda a studiare. Poi mi ha chiesto di te, vorrebbe parlarti, Salvo”.
Ore diciannove e quindici. Angelica e Cristina sono tornate dalla spesa; siamo a fine agosto, a quest’ora l’aria comincia ad imbrunire, sento il cinguettio degli uccelli, quelli sulla quercia grande, è rimasta quella quercia e i fringuelli continuano a fare il loro nido sui rami; adesso penso che si chiamino per la notte come io raccolgo i miei cari. Luca torna dal mare. Quando veniamo a Scilla, gli piace scendere sulla spiaggia a quest’ora per assistere al ritorno delle barche dalla pesca e i pescatori lo invitano ad aiutarli nello smistare i pesci nelle ceste. ‘Salvuzzo, che fai,t ’incanti a guardare il mare mentre i pesci ti scappano?’ Risento la voce di mio padre e
richiamo alla mente la scena:i o con le lacrime agli occhi per la bellezza dello spettacolo, preso dalla malìa del mare. “Papà, Demetrio mi ha regalato un sarago e alcune alici, sembrano ancora vive”. Mi dice Luca tutto felice. Ad un tratto qualcosa di caldo mi avvolge il collo e le spalle. “Cosa vuoi Esmeralda? Non posso tenerti, fa troppo caldo, qualcosa devi aver fatto per correre da me”. Sento, infatti, Angelica: “Ma guarda che cosa mi ha combinato la tua cara Esmeralda, si è messa a giocare con la mia sciarpa di lana azzurra e me l’ha bucata”. Non so perché, ma Angelica è l’unica della famiglia che non ama Esmeralda e lei, per questo, le fa i dispetti. Forse è una forma di gelosia perché le avevo parlato di Elisabetta, del mio amore per lei, di casa Caracciolo. Le donne sono gelose di tutte le altre, anche di quelle che non ci sono più. Ada aveva fatto l’impossibile per mettere in pratica i consigli del Professore e potrei dire che, in parte, c’era riuscita. Decisi anch’io di accettare il colloquio col medico. Quando entro nella sala, mi fa sedere alla scrivania di fronte a lui. Mi sento come se fossi io il paziente. “Tu sei Salvo, vero? Lo sai che Elisabetta mi ha parlato molto di te? Mi vuoi dire cosa ti è successo da bambino e come hai fatto ad accettare la tua menomazione per renderti così capace di far amare la vita anche agli altri? Devi sapere che la ragazza si è ammalata di anoressia perchè si era innamorata del padre inconsciamente e questo può accadere talvolta; lei non poteva sopportare che, crescendo, lui non la trattasse più come prima quando le faceva le coccole; così aveva scelto di non mangiare per restare bambina nel fisico. Si era, intanto, formato un circolo vizioso: più lei non mangiava, più il padre la rimproverava, e più lei soffriva. Per fortuna adesso pare che nella sua vita sia entrato l’amore per un ragazzo”. Gli racconto la mia storia, il mio primo impatto con la cecità, il mio scontro con la vita senza luce, il mio voler andare alla ricerca della fine e poi il mio slancio
vitale che dovevo a mia madre; lei era riuscita a farmi capire che continuare così voleva dire soccombere. Mi diceva: “A te, a otto anni, la vita piaceva moltissimo, ora,anche da non vedente, puoi amarla ancora perché è sempre bella, basta imparare a superare i limiti che adesso t’impone e tu ne sei capace”. Furono queste sue parole a riconciliarmi con la vita, come se mi avesse rimesso al mondo. Il Professore mi ascolta in silenzio e prende degli appunti. “Lo sai che tu mi stai dicendo delle cose interessanti, profonde, ma devi sapere anche che Elisabetta adesso è innamorata di te, e tu Salvo?”. A questo punto mi sento perduto e rispondo: “Anch’io lo sono, ma temo di farla soffrire quando sarò costretto a lasciarla, posso restare in convitto fino a diciotto anni, fra un anno dovrò partire”. “Eppure tu sei l’unico che può aiutarla; quando le ho comunicato che potevo, finalmente, dirle la causa del suo blocco, temevo che avesse una crisi e, invece, sai che cosa mi ha risposto? - Non è possibile, Professore, perché io sono innamorata di Salvo, una persona non vedente che mi sa leggere dentro; a me pare poi, di amarlo da sempre. Quindi cerca di starle vicino il più possibile per farla rimettere, deve riprendere a studiare, incontrare gli amici di prima. La madre ha già fatto molto. Devi farlo ora, poi penseremo alla tua partenza. Non puoi abbandonarla se le vuoi bene, devo anche dirti che questa malattia può essere recidiva e, in questo caso, sarebbe la fine per lei. Salvo, hai mai pensato al significato del tuo nome? E’tutto un programma di vita. Sei una persona salvifica”. Si alza e mi porge la mano per farmi capire che il colloquio è finito. Mi accompagna alla porta, ad un tratto si ferma: “Lo sai che sei davvero speciale? Le lettere di Elisabetta che tu mi hai fatto pervenire mi sono state di grande aiuto. Averlo intuito da parte tua, rivela che, probabilmente hai predisposizione per gli studi di psicologia. Perchè non ti iscrivi a tale facoltà, quando andrai all’università?”. “Mi dice qualcosa che mi conferma quello a cui avevo già pensato e devo confessarle che avrei preso questa facoltà proprio per aiutare le persone come Elisabetta che hanno disagio psichico, grazie professore ”.
Capitolo dodici
“Basta prediche”
Effettivamente il professore mi aveva detto qualcosa che mi faceva piacere, ma nello stesso tempo mi aveva messo in crisi; avrei dovuto occuparmi di Elisabetta ancora di più, invogliarla a riprendere gli studi. Chiesi al direttore del Collegio il permesso di poter frequentare la casa della ragazza più spesso; veniva a prendermi Filippo, l’autista. Adesso, dopo la cura delle flebo, Eli si era rimessa abbastanza. Quando mi abbracciava per salutarmi, non sentivo solo la sua pelle e le sue piccole ossa, ma avvertivo anche la sua carne un po’ più soda, le sue braccia non sembravano più due matite, ma si stavano arrotondando. Naturalmente starle vicino ora, per me era diventato un tormento perchè avevo voglia di baciarla sul viso, sul collo, sulla bocca che certamente era più carnosa del giorno in cui mi aveva baciato seduti al tavolino del bar. Avevo provato il tocco morbido e caldo delle sue labbra, ma adesso sarebbe stato un vero bacio, di quelli avvolgenti. Furono giorni convulsi perché la mattina mi dedicavo ai miei studi liceali, si avvicinavano gli esami,ma il pomeriggio, almeno tre volte a settimana,andavo da lei; aveva ripreso la scuola, frequentava il primo liceo classico e l’aiutavo a farle ripetere la lezione di filosofia o svolgevamo insieme gli esercizi di matematica in cui era più debole. Alcune sere venivano in casa anche due amici, Daniele e Renata e si ava qualche ora a scherzare; mi ero accorto, però, che Daniele era attratto da Elisabetta, spesso le diceva qualcosa nell’orecchio e lei rideva di gusto; sentivo che diventavo geloso, ogni volta di più. Un giorno le chiesi: “Quando viene Daniele sento che ridi spesso alle sue battute, cosa ti dice all’orecchio?”. “Che fai, Salvo, diventi geloso? - Mi rispose andomi un braccio sul collo e dandomi un bacio sulla guancia - Io amo solo te, lo sai. Non vedi che ho ripreso a mangiare da quando vieni spesso? Sono ingrassata”. Dalla finestra entrava, a quell’ora del pomeriggio estivo, un sole caldissimo e lei
doveva aver sbottonato la camicetta perché la mia mano capitò sul suo petto e notai la curva dolcissima del seno. Questa volta mi prese il viso tra le mani e mi baciò ardentemente sulle labbra. Ne fui stordito, cercai di riprendere subito il controllo, ma si sdraiò sul divano attirandomi a sé: “Eli, non fare così, vengo qui per aiutarti, sai anche che ti voglio bene, ma tu non devi esagerare perché…” cercavo di dirle, ma lei continuava a baciarmi impedendomi di parlare - poi: “Perché non vuoi dirmi che anche tu mi ami? Tu non me lo vuoi dire perchè pensi di farmi del male, sai che dovrai lasciare il Collegio fra sei mesi, ma adesso ci sei e tu mi ami, è inutile che ti ostini a negarlo”. Sentivo, intanto,fra le mie mani, il suo corpo di donna che stava fiorendo, il suo seno si sviluppava in una grazia tutta femminile e i suoi fianchi si andavano riempiendo; carezzavo quel viso e quel corpo che non era più quello di una bambina non cresciuta, adesso era bellissimo, in quell’abbraccio ero tutto suo, mi sentivo avvinghiato a lei, speravo quel trasporto d’amore non finisse mai, ma dentro di me avvertivo il pericolo. Lei continuava a baciarmi. “Eli, l’amore è un sentimento forte, non ci si può scherzare sopra, si rischia di rimanerne bruciati” – tentai di dirle. “Basta con le prediche Salvo, ti prego, adesso no!” “Vedo che ti piace anche scherzare con Daniele, così non va”. “Che ti ho detto prima? Che sei geloso, perciò mi ami, si mi ami. –E pose le sue mani sui miei occhi e sulla fronte - Non pensare, non pensare più, non ti sentire in colpa, tu mi rendi felice. Oggi sono qui con te, domani chissà, il dottore mi ha detto di stare attenta perché potrei ammalarmi di nuovo e…” La strinsi a me più forte. “Che dici Eli, tu sarai sempre così, non ti ammalerai di nuovo,giurami che lotterai sempre per non ricadere nella malattia”. Le dicevo queste parole affannosamente perché mi accorgevo che lei tremava, sapevo che poteva avverarsi. “La vita è un mistero per tutti ,non siamo sicuri di nulla” –continuava con voce triste. La stringevo più forte. “Non dire così, smettila amore” – mi lasciai sfuggire. Lei ne fu felice e rise, tornò ad essere allegra come prima.
“Salvo, Eli, smettetela di studiare questa sera, ho preparato la cena, venite a tavola”. Era la voce di Ada che si avvicinava e rompeva l’incantesimo come una frustata e fu per tutti e due, forse, la svolta che ci riportò alla realtà. A cena Eli sedeva accanto a me, sentivo il rumore delle posate e lo scricchiolio del pane che lei stessa spezzava e mi porgeva. “Mamma, domani sera vorrei invitare a cena Domenico e la sorella Claudia, disse Gennaro, domani è festa e Domenico non va a lavorare; ci prepari una bella cenetta?”. Gennaro era molto amico di Domenico, ma era diventato anche molto amico di Claudia; mi aveva confidato che ne era innamorato. Ada accettò di buon grado, lei aveva capito tutto, naturalmente.
Capitolo tredici
Sul gambo di una rosa bianca
Da quella sera avevo deciso ormai tutto: non potevo vivere senza Eli; dopo la licenza liceale, sarei partito per Scilla per iscrivermi all’università, ma sarei tornato a Napoli sempre per incontrare Elisabetta e poi l’avrei sposata; non era solo l’amore che mi legava a lei, era anche il desiderio di seguirla sempre perché non potesse ricadere nella malattia. Con me, col mio amore, era rifiorita e adesso lo sentivo come un impegno, dovevo salvarla. Dopo la licenza liceale, se avesse continuato a star bene come speravo,anche lei avrebbe preso la mia stessa facoltà a Napoli e in seguito, l’avrei portata in Calabria, sentivo che aveva bisogno di me e… avremmo lavorato insieme. Mi rendevo conto che erano sogni,soltanto sogni,forse la vita avrebbe potuto darci un altro destino, ma allora, a diciotto anni, quando studiavo per la licenza che era vicinissima, pensavo tutto questo e ne ero convinto.
Ore diciotto “Salvo, non è possibile, quando sei al computer, non ti accorgi di niente, nemmeno che la casa si sta allagando, -Angelica mi cinge le spalle –sta piovendo e dalla finestra aperta è entrata dell’acqua!”. Mi alzo e vado a chiudere i vetri, ma non del tutto perché mi piace sentire l’odore della pioggia sull’erba del piccolo prato dove lei ha piantato degli anemoni rossi, delle rose bianche, delle rose rosse, di un rosso vivo. Li cura con ione e si è procurata anche un apparecchio che serve a rasare l’erbetta per cui la domenica, quando veniamo a Scilla, la ritroviamo sempre verde. Spesso, al mattino esco, mi piace tanto eggiare sul prato e vado vicino al cespuglio degli anemoni e delle altre piante. Le rose bianche sbocciano presto bellissime e profumatissime, ma durano poco e i loro petali si spargono sull’erba; le rose rosse, invece, che si ergono sul loro gambo lungo e solido, durano molti giorni.
Angelica mi dice che hanno un aspetto superbo. Mi piace allora andarle a toccare, faccio scorrere le dita delicatamente sul lungo stelo per avere poi, nella mano, a rotondità e la corposità del fiore e sentirne il profumo intenso. Quest’anno Angelica ha voluto dare ad ogni pianta un nome: Luca, Cristina, Salvo, c’è perfino Esmeralda. Da qualche giorno ho scoperto sul gambo di una rosa bianca un bocciolo che si è appena aperto; vado a toccarlo tutte le mattine nella speranza di assistere al suo pieno sbocciare, ma non si apre. A questo bocciolo ho messo il nome di Elisabetta, ma ad Angelica non l’ho detto: è un piccolo segreto. Continua a piovere e c’è anche molto vento adesso. “Povere rose bianche, con questo vento saranno tutte a terra, bisognerà pensare ad una tettoia per ripararle”, dice Angelica ed io penso subito al piccolo bocciolo che non riusciva ad aprirsi, non ci sarà più; si era appena dischiuso e io avvertivo, sotto le dita, la delicatezza dei primi petali che spuntavano dal piccolo calice. E ora il vento l’ha portato via con sé.
Capitolo quattordici
La fine di un bocciolo
La vita di Elisabetta è durata proprio come quella di un bocciolo. Il nostro amore era nato spontaneamente: in lei c’era il bisogno di sentirsi accanto una persona sensibile che capisse la sua malattia e credesse davvero che il rifiuto del cibo non era un capriccio; in me aveva trovato qualcuno disposto ad ascoltarla e a crederle; lei sapeva benissimo che io desideravo scoprire la causa del suo blocco psicologico solo perché l’amavo. Notavo, infatti, il suo abbandono fiducioso, il suo chiedermi aiuto. Provavo tenerezza senza fine perchè non riuscivo ad accettare che un’intelligenza così viva si bloccasse per qualcosa che non era voluta ma subita. L’amavo per quella sua fiducia incondizionata in me, per quell’aria malinconica come se avesse un presentimento di non so cosa che mi spingeva a proteggerla; ricordo ancora le parole che mi disse una sera: ‘Salvo,oggi ci siamo, domani chissà …’ Erano ati cinque mesi da quando aiutavo Elisabetta nello studio. Gli esami furono difficili, ma io e Luigi riuscimmo a superarli con bei voti. Ada organizzò a casa sua una grande festa per noi due, ma anche per la promozione di Elisabetta al secondo liceo. La serata fu bellissima, si ballava in terrazza. Io ed Elisabetta facevamo coppia fissa; fra le mie braccia stringevo un corpo di donna che diventava sempre più bello e tutti ne erano ammirati mentre Daniele continuava il suo corteggiamento,ma ero io che,questa volta le sussurravo all’orecchio: “Sono il tuo Pigmalione, vero?”. Lei mi baciava facendo schioccare le labbra per farlo sentire agli altri. Dentro di me, però, avevo un pensiero tormentoso: dopo un mese avrei dovuto lasciare il collegio, Napoli ed Elisabetta. Verso la fine della serata Eli, che era stata allegra sempre, divenne triste e mi poggiò la testa sulla spalla. “Che c’è?” Le chiesi, ma sapevo benissimo quello che pensava anche lei, poi:
“Non ci rattristiamo stasera, Salvo; lasciamo che di questa serata ci resti un ricordo felice” - mi disse sforzandosi di dare alla sua voce un tono allegro - Ci salutammo con un bacio. La notte la trascorsi agitato, non riuscivo ad addormentarmi e avevo gli incubi. Sognavo Elisabetta di nuovo magrissima che poi, piano piano, non vedevo più e mi svegliavo tutto sudato ripetendomi ogni volta: è stato solo un incubo. Arrivò il giorno della partenza; era una giornata nuvolosa, il sole non era entrato dalla finestra della mia camerata e non mi aveva baciato il viso e le mani come le altre mattine. Cercai di essere il meno triste possibile quando andai a salutare tutti a casa Caracciolo: “Eli, ti starò sempre vicino col pensiero, mi raccomando,vai a scuola tutti i giorni e continua con il ritmo che hai preso nell’alimentazione, lo vedi da te che sei diventata bellissima”. La baciai con trasporto, ma dentro, sentivo che non volevo allontanarmi da lei, pur vedendola alquanto serena. A Scilla i miei furono felicissimi; mia madre, dall’intuito femminile molto spiccato, aveva subito notato in me una certa tristezza. “Eh,…Salvo, i tuoi diciotto anni si vedono. Il cuore l’hai lasciato a Napoli, vero? Ora devi pensare all’università, devi darti da fare per i documenti, poi si vedrà”. Cominciai infatti, ad andare in giro, accompagnato da mio padre. Ogni giorno telefonavo ad Elisabetta e sempre lei mi rassicurava che tutto andava bene, ero tranquillo e così, in novembre, m’iscrissi a Messina, nella facoltà di psicologia. Per fortuna le lezioni non erano giornaliere; mi accompagnava un amico ma dopo imparai ad andare da solo sul pullman e poi sul traghetto insieme agli altri studenti. Dopo l’esperienza al liceo, avevo capito che non dovevo isolarmi a causa della mia disabilità, credendo che gli altri avrebbero dovuto, per solidarietà, offrirmi per primi il loro aiuto. No, non era così, avrei dovuto essere io per prima ad avvicinarmi a loro, altrimenti sarei rimasto isolato. In convitto avevo imparato tante cose utili ad un cieco per potersi muovere, conoscere gli spazi; insomma avevo imparato a ‘vivere da cieco’ ma a Napoli eravamo tutti uguali ed ognuno tendeva la mano all’altro spontaneamente. All’Università i ragazzi erano tutti vedenti, dovevo quindi farmi coraggio nel cercare di rompere il ghiaccio. Una mattina mi ero accorto di essere seduto accanto a due studenti che
chiacchieravano fra loro. Era Novembre, ma stranamente, quel giorno, sul traghetto, c’era un sole che dardeggiava. “Senti che caldo fa, eppure siamo a Novembre! ”. “Ed io ho dimenticato pure gli occhiali scuri”. “Io li porto, invece, ma non mi servono perché non vedo il sole da dodici anni, – dico intervenendo nella conversazione - sono un non vedente – e porgo la mano sorridendo- mi chiamo Salvo”. Uno dei due ricambia la stretta. “Mi dispiace, io mi chiamo Giovanni e lui si chiama Antonio”. Continuiamo a chiacchierare in tre; Giovanni mi chiede perché avevo scelto psicologia. “Sai, poiché non posso leggere in viso le persone, ho pensato che avrei almeno potuto leggere nella loro mente, non credi?”. Lui ride alla battuta e subito mi prende sottobraccio. “Sei simpatico, Salvo, sai prendere la tua menomazione con ironia; noi siamo iscritti a Giurisprudenza, ma possiamo incontrarci spesso, possiamo essere amici”. Nei giorni seguenti, infatti, loro mi vennero subito incontro sul traghetto e così entrai anche negli altri gruppi. Giovanni divenne per me un amico sincero,mi ricordava Gennaro perchè, anche lui, cercava di farmi superare la timidezza, voleva farmi conoscere delle ragazze, ma io ero ancorato a Napoli, ad Eli; niente mi allontanava da lei. Ne parlai col mio amico che rimase colpito dalla storia di questo amore per una ragazza anoressica, forse innamorata di suo padre inconsciamente e che, poi, si era innamorata di me. Quando gli mostrai la foto che lei mi aveva dato, disse: “E’ una bella ragazza, non sembra malata di anoressia ”. “Avresti dovuto vederla due anni fa,era tanto magra che, nel prenderle la mano, sentivo sotto la pelle scarna, le ossa sottili ed avevo paura di farle male”. “Allora, il tuo amore l’ha guarita?”.
“L’ho guarita,Giovanni? Non lo so ancora, questa malattia è recidiva, potrebbe ammalarsi di nuovo e sarebbe la fine per lei ;io sono tornato a Scilla per continuare gli studi, ma ho tanta paura che Eli non sopporti la mia lontananza”. Dissi queste parole con ansia e lui cercò di tranquillizzarmi. “Vedrai, andrà tutto bene, Salvo, poi presto andrai a trovarla, vero?”. A Natale, infatti, tornai a Napoli e ritrovai la stessa ragazza fiorente che avevo lasciato qualche mese prima. “Sei bellissima, Eli”. In casa Caracciolo, adesso, tutti erano felici. Ada preparava dei bei pranzetti e spesso Gennaro e Claudia, ormai fidanzati, erano a pranzo o a cena da loro. Furono giorni bellissimi, avevo portato i dolci caratteristici calabresi: i petrali, le susumelle, i torroncini di Bagnara; andai a trovare gli amici del Collegio. Ripartii rassicurato, le telefonavo tutti i giorni. In gennaio la chiamo e lei: “Salvo, oggi non sono andata a scuola perché ho mal di testa”. Il cuore già mi si stringe, ma non voglio dare molto peso alla cosa,anzi mi sforzo di apparire allegro al telefono,ma avverto che è un segnale negativo. Il giorno dopo ancora e ancora per altri giorni; cerco di mostrarmi severo: “Eli, devi tornare a scuola, ti prego, devi farlo se mi vuoi bene”. “Mi viene mal di testa Salvo, io ti voglio bene ma non ci riesco; la mattina me lo propongo, ma subito comincio a sentirmi male, quando vieni?”. Mi sforzo di pensare che forse è una crisi eggera dopo esserci rivisti a Natale; continuo a telefonarle tutti i giorni e sento che la voce si fa sempre più sottile. Telefono al medico, sono ati due mesi e lui mi dice : “Salvo, sono andato a trovarla a casa, chiamato dalla madre; l’ho vista già molto dimagrita, la causa credo sia da attribuirsi al fatto di averti rivisto a Natale e non sia riuscita a sopportare di nuovo la tua partenza; evidentemente nei mesi scorsi in cui tu sei mancato, aveva finito per adattarvisi, ma dopo purtroppo…te l’avevo detto, la ricaduta in anoressia è infausta”. Non finisco nemmeno di ascoltarlo, dico tutto ai miei e parto immediatamente;
mi viene a prendere alla stazione Filippo. “Salvo, Elisabetta sta male, non vuole nemmeno alzarsi dal letto, speriamo che la tua venuta la rimetta su”. Ada mi viene incontro e mi abbraccia: “Vieni, vieni da lei, forse rivedendoti, potrebbe riprendersi; da un mese prende solo tè e succhi di frutta, il suo stomaco non regge alcun cibo, anche le flebo che il dottore ha ordinato ancora non sono servite a niente”. Entro, mi avvicino e la prendo fra le braccia: “Eli, perché, perché? –le chiedo con affanno –Sono tornato, hai visto?” Lei si stringe a me: “Salvo, aiutami tu” mi dice con una voce quasi impercettibile. Ricordo quei giorni con un’intensità tale che ancora avverto la sua voce farsi ogni giorno più flebile, sempre più sottile. Ci lasciò in marzo, all’inizio della primavera, quando già i tigli di via Posillipo erano tutti in fiore; nell’aria c’era un profumo così intenso che io non riuscivo a sopportare; volevo solo ricordare quello di verbena misto alla mandorla amara che lei spesso metteva,ricordare la sua voce dalle tante variazioni, la sua bocca trepidante del primo bacio. Credo di aver provato nuovamente il dolore del mio salto nel buio quando avevo perso la luce. Proprio così: mi mancava la luce come allora, eppure ero già nel buio. La rabbia mi stringeva l’anima, credo di aver scagliato contro il muro, nella mia camera, quello che mi capitava; provavo un senso di colpa,di perdita, di vuoto; il pensiero di non averla potuta salvare mi ossessionava. I miei, a Scilla, mi lasciarono stare, e, dopo un po’ di tempo, ripresi gli studi a Messina. Mi buttai sui libri con accanimento e rabbia quasi, come se studiando di più,volessi distruggere questa malattia che mi aveva rubato Elisabetta. Giovanni mi aiutò a superare in qualche modo la tristezza di quei giorni. Vedevo in lui l’amico sincero che poteva capirmi. “Salvo, soffri troppo, devi subito trovarti un’altra ragazza; sai, chiodo schiaccia chiodo; te ne presento qualcuna”. “No Giovanni, per ora no; ti ho raccontato la nostra storia; ho assistito, via via, alla crescita di quest’amore insieme al suo fiorire di donna e poi al suo declino quando mi sono allontanato da Napoli. Almeno per ora quindi, non potrei iniziare un’altra storia.”
Capitolo quindici
Incontro Angelica
Il ricordo della morte di Elisabetta, ancora oggi mi disorienta e quando, allo studio di Reggio, arriva una ragazza malata di anoressia, è come se curassi lei; i colloqui sono frequenti, quasi non do tregua alla paziente e resto in piedi la notte per leggere sul computer gli appunti presi durante gli incontri e se riesco a capirne la causa psicologica scatenante, sono felice. M’iscrissi al secondo anno di psicologia e qualcosa cambiò nella mia vita. S’iscrisse al primo anno della mia stessa facoltà una ragazza, Angelica, di Bagnara. …L’incontro per caso davanti all’ingresso e non vedendola, le sbatto contro, facendole cadere tutti i libri che ha in mano. “Ehi, ma che fai, non ci vedi?! Mi hai disperso tutti i fogli della dispensa del Professore, con questo vento di scirocco poi, chissà dove saranno finiti!”Resto lì impalato e lei: “Non mi chiedi neanche scusa? Ma insomma, ti vuoi muovere ad aiutarmi? Sei proprio un maleducato”. “Sono cieco, ti chiedo scusa, ma non posso aiutarti, mi chiamo Salvo Riccardi, frequento il secondo anno di psicologia, mi sono caduti anche gli occhiali scuri, bisogna cercarli ”. “Scusami tu, allora, – e mi porge la mano - Angelica Sirtori. Eccoli qui i tuoi occhiali, sono tutti sporchi di terra, li pulisco con un fazzolettino di carta, – me li porge- no, non li mettere, sei più bello così; adesso sediamoci su questa panchina e mettiamo in ordine questi fogli che ho raccolto, certamente ne mancherà qualcuno”. “Non ti preoccupare, forse è la stessa dispensa dell’anno scorso, io ce l’ho, ti darò i fogli che mancano”.
Ci sediamo e subito mi mette sulle ginocchia il gruppo dei fogli raccolti e mi dice di contarli: “Sta attento, mi raccomando che non ti scappino di nuovo con questo ventaccio; guarda come mi ha ridotto i capelli, ha ragione mia madre quando mi dice - se tira vento forte, legali quei capelli che vuoi portare sempre così lunghi”. E’ una ragazza che parla molto, senza alcuna timidezza, la voce mi giunge allo stesso livello del mio orecchio sinistro, ne deduco che deve avere la mia altezza. Nello sfiorarla, seduti vicini, mi sembra che indossi i pantaloni. “Anche io porto gli occhiali, ma spesso non li metto, non mi piacciono, la lente mi sfiora le ciglia lunghe, mi dà fastidio e preferisco le lenti a contatto. Ehi, sono già le due, fra mezz’ora parte il traghetto. Tu sei di Reggio? Andiamo allora”. Senza aspettare la risposta mi prende per mano e mi porta con sé mentre io lascio fare perché devo prendere il traghetto per davvero, ma anche perchè quel trascinarmi con sé, come la cosa più naturale del mondo, quel parlarmi in modo confidenziale come se mi conoscesse da tanto,mi piace,è come seguire un’avventura capitata per caso da cui puoi aspettarti di tutto. Sul traghetto il vento si è accentuato e preferiamo ripararci nella sala. Mi chiede della mia cecità. “Devi avere una forza di volontà notevole per aver superato i limiti della tua menomazione,sei già al secondo anno; io, invece, sono debole nella volontà,spesso mi arrendo e vorrei quasi abbandonare gli studi, poi magari, riprendo coraggio; forse puoi darmi tu la carica se diventiamo amici; vedo che tu vai avanti velocemente per la tua strada; una persona come te che è riuscita a superare i limiti del tuo handicap la vedo come una grande quercia piantata sulla roccia;sei di Reggio? Io vengo da Bagnara e devo prendere il pullman”. “Anch’io, sono di Scilla; prima mi accompagnava mio padre, poi ho imparato a muovermi da solo”. “Capisco, non ti fa paura nulla, sei bravissimo”. “Da quando mi è capitato il grave incidente, ho dovuto farmi molto coraggio con l’aiuto di mia madre e poi in collegio a Napoli ho imparato a vivere da non vedente; piano piano ho capito che dipendeva soltanto da me se volevo amare la vita come l’amavo prima. Non è vero però, Angelica, che non abbia paura di nulla, c’è qualcosa che mi fa sentire perduto nelle mie condizioni ed è il mare
quando è in tempesta. Anche la chioma di una quercia piantata sulla roccia trema se c’è una burrasca. Conosco il mare, so nuotare, sono figlio di un pescatore, ma se mi trovassi senza alcun punto di riferimento, un punto d’appoggio, perso nel mare con la mia cecità, finirei per annegare senza lottare. Da quando ho iniziato a viaggiare spesso sul mare, anche se per brevi tratti, tutte le volte che il traghetto o l’aliscafo traballa, vado in ansia”. Lei mi ascolta con attenzione, poi: “Non ti preoccupare, ti salvo io; qualche anno fa ho fatto la bagnina a Scilla e al corso di formazione ho imparato tante cose; ho imparato che basta colpire con un pugno sul collo il bagnante in pericolo perché perda i sensi e, diventando più leggero, lo si può trascinare a riva più facilmente”. Metto in tasca gli occhiali scuri, ma ogni tanto cerco di rimetterli e lei, sempre pronta: “Perchè vuoi rimetterli, stai meglio senza ”. Mi chiedo il perché io continui a seguire quello che mi dice, mi sembra che sia tutto giusto, parla con una sicurezza che non ammette replica. Scendiamo dal traghetto, prendiamo il pullman e continuiamo a parlare a lungo. per tutto il viaggio. Ci ritroviamo il giorno dopo e così tutti i giorni quando abbiamo lezione lo stesso giorno. Le chiedo di descriversi e lei mi dice che i suoi capelli sono lunghi e biondi, mentre gli occhi sono azzurri; immagino subito una giornata di sole e il mare di Scilla quando a mezzogiorno specchia un cielo azzurrissimo. E lei: “Tu hai i capelli neri e ricci; attraverso le palpebre che a volte dischiudi, sembrano neri anche i tuoi occhi”. “Erano neri e grandi come quelli di mia madre e quando io me li guardavo allo specchio, vedevo dentro pagliuzze dorate che brillavano, metto gli occhiali per proteggerli dal vento, dalla polvere”. Continuiamo così a vederci sempre e fra noi c’è uno scambievole aiuto: io nel farle ripetere le lezioni del Professore, lei mi detta appunti che trascrivo in Braille. I suoi primi esami vanno molto bene, mi dice: “Salvo, se non ti avessi incontrato, non avrei preso questi bei voti, lo sai?”. “Ma no Angelica, è solo che fra noi si è creata subito un’intesa, anche perché …”
“Anche perché ?”. “Anche perché noi siamo fatti l’uno per l’altra, non ti pare?”. Le o il braccio intorno alla vita mentre lei cerca di divincolarsi: “Ci stanno guardando tutti, che figura facciamo?”. “Siamo due innamorati, che male c’è se ci vedono? Ma perche vuoi scappare? Non puoi farlo perchè ti tengo stretta tranne che tu non voglia buttarti in acqua trascinandomi con te ”. La stringo più forte e lei mi cinge le spalle con le braccia. “Vedi, adesso, con le nostre braccia abbiamo formato un piccolo cerchio nel grande cerchio dell’amore universale che racchiude il mondo”. E’un momento dolcissimo, ci baciamo e poi mi chiede: “Chi ti ha detto queste cose ?” “Me le ha dette suor Carmela, una suora semplice; credo che non abbia studiato molto, ma era una persona speciale; quando parlava ti lasciava dentro sempre qualcosa su cui riflettere. Amava molto la natura ed era lei che ci preparava i decotti,gli sciroppi con le erbe quando avevamo la tosse o il mal di gola. In quegli anni, lontano dai miei,era lei che mi faceva da mamma, mi diceva anche: Stai attento Salvo, tu sei troppo sensibile, vedo che ti piace Tea, la ragazza che serve a tavola e credo che t’innamorerai sempre, ma ricorda che innamorarsi è bellissimo, ma non bisogna lasciarsi prendere la mano. Salvo, tu devi innamorarti della vita per tutto quello ch’essa ci offre. Un giorno incontrerai certamente una donna che sarà la compagna della tua vita, non puoi restare da solo”. “E tu ti sei innamorato molte volte?”- Mi chiede Angelica con tono serio. “Sin da piccolo, a otto anni ero innamorato di Titti, la bambina della villa accanto, poi m’incantavo alla voce di Suor Virginia e m’innamoravo di lei che c’insegnava canto corale; poi ho conosciuto Elisabetta, malata di anoressia. E’ stato un amore davvero sofferto perché volevo aiutarla a tutti i costi, ma la sua mente piombò per la seconda volta nella malattia e per lei fu la fine. E’ stato allora che decisi d’iscrivermi alla facoltà di psicologia. Adesso sei arrivata tu,
ora sono pazzo di te”. “Salvo, allora potrei non essere l’ultima?” Mi dice con una voce alquanto triste. “No Angelica, qui voglio mettere il punto, sei tu la donna della mia vita”…. Durante l’ultimo anno di Università, infatti, ne ebbi la conferma; un giorno, tornando sul traghetto, il mare s’ingrossò; eravamo seduti sul ponte e io avevo le mani poggiate sul parapetto; evidentemente lei si accorse che tremavano e allora me le strinse fra le sue cercando di distrarmi, parlandomi del professore di filosofia che era particolare e ripeteva sempre le stesse frasi tipo: ‘Parlo a voi o al vento? Mi avete compreso?’. Capii allora che Angelica sarebbe stata la mia compagna ideale perché mostrava la sua sensibilità nel momento in cui avevo più paura ricordando quello che le avevo detto il giorno in cui ci eravamo conosciuti.
Capitolo sedici
La Laurea
La mia laurea arrivò un anno prima della sua. Decidemmo di sposarci ugualmente e di fare un tirocinio in ospedale perchè avevamo intenzione di aprire uno studio privato per lavorare insieme; ci univa la stessa ione. Cominciammo subito, la targa sulla porta dello studio, al primo piano,portava i nostri nomi: Salvo Riccardi e Angelica Sirtori, psicoanalisti. Presto avemmo un discreto numero di pazienti che,in seguito cominciò a crescere. A volte chiedevamo di fare terapia di gruppo per tutta la famiglia. Si voleva cercare di capire perchè si venivano a creare patologie nella mente di una ragazza o di un ragazzo. Spesso era proprio il comportamento di uno dei componenti del gruppo familiare a determinare il blocco psicologico del paziente. Un giorno vennero due genitori con il figlio Aldo, un ragazzo di tredici anni,ben sviluppato. Si dimostrò un caso veramente difficile perché Aldo rifiutava di partecipare alla terapia di gruppo e uscì fuori dalla sala. Angelica cercò di parlargli con dolcezza, ma lui cominciò a piangere e, alla fine, le spiegò: “I miei genitori non mi amano abbastanza:mia madre pensa solo a se stessa, al suo lavoro di avvocato; mio padre, la sera, va al Circolo e non sta con me e io mi vado a chiudere in camera, adesso sono io che non voglio parlare con loro”. Decidemmo che non era possibile per Aldo parlare davanti ai genitori. Fu necessario avere con lui molti colloqui prima di affrontare di nuovo la terapia familiare. Proponevo un tema da trattare e nasceva un vero psicodramma molto interessante in cui venivano fuori le paure, le ansie, i turbamenti di ciascun familiare, così si riusciva a trovare la causa che aveva determinato il comportamento patologico dei figli.
Ore diciotto. Sento suonare il citofono: sono i due figli di Titti, vengono a giocare con Cristina e Luca. Titti, l’amore degli otto anni di cui ho un ricordo indelebile, adesso è una donna con un matrimonio fallito alle spalle. Viene quasi tutti gli anni in vacanza a Scilla con i due figli che vedono il padre solo una volta al mese. Anno per anno ho assistito allo sfaldamento del loro matrimonio fino alla separazione e poi al divorzio. Ne abbiamo parlato insieme spesso e tuttora non riesco a capire come una persona sensibile come Titti abbia avuto un destino tanto crudele; un amore che a lei sembrava bellissimo, si sarebbe rivelato, in seguito, un vero fallimento. A volte penso: e se capitasse anche a noi? Se fosse Angelica a lasciarmi? Credo che non lo sopporterei perché è la madre dei miei figli, la donna della mia vita; penso questo anche quando la vedo stanca, un po’ sciatta per il troppo lavoro o quando la sento gridare per Luca o per Cristina e la sento mormorare: finalmente è finita anche questa giornata.
Capitolo diciassette
Maddalena: un caso difficile
Ore nove. Squilla il telefono: sono i genitori di Angelica che annunciano il loro arrivo da Bagnara per domani pomeriggio. Vengono a trascorrere alcuni giorni da noi; sono ancora arzilli, viaggiano molto, attivi e pieni d’iniziative. L’arrivo dei nonni a Scilla porta sempre tanta gioia nei ragazzi, ma anche tanta fibrillazione in casa perché Angelica vuole preparare tante cose, tante ricette nuove, le stanze si riempiono di giocattoli vari per Luca, giocattoli tutti rumorosi, roteanti, vocianti, squillanti in cui inciampo spesso. In questa confusione sono felice anch’io, in fondo, anche se mi viene a mancare il mio angolo, il mio spazio. I nonni, comunque, portano sempre la loro esperienza, la loro saggezza e, di questo, le nuove generazioni hanno un bisogno assoluto. Queste riflessioni mi fanno riaffiorare alla mente un’altra figura di nonno, nonno Andrea, un signore molto distinto ed elegante che si presentò un giorno nello studio di Reggio.Quella mattina Angelica non era ancora venuta, ero solo. Lo feci entrare e accomodare sulla poltrona di fronte alla mia. Notai che le sue mani tremavano leggermente quando me le porse per presentarsi. “Sono venuto da lei, Professore, perché mi hanno detto che è un bravissimo psicanalista, che ha fatto molti studi sull’anoressia, che è una persona in gamba, lei deve aiutarmi,la prego. La mia nipotina Maddalena, di quattordici anni, ha dei problemi. I suoi genitori, ma specialmente mia figlia, non vogliono ascoltarmi, dicono che non devo preoccuparmi perché Maddalena vuole solo essere al centro dell’attenzione e che è meglio non dare importanza. Io, invece,do molta importanza alla cosa perché la ragazzina è dimagrita, non solo, ma,quando la mamma cucina, va persino a vedere se nel brodo di pollo ci siano bollicine di grasso e le toglie ad una ad una col cucchiaio. Lei deve aiutarmi in qualche modo perché qui, secondo me, ci sono già i sintomi dell’anoressia, ho letto il suo libro: ‘Non ho appetito’.
Lo ascolto con molta attenzione. “Vorrei aiutarla, ma devo vedere Maddalena perché solo se le rivolgo alcune domande specifiche, potrò dirle di che cosa si tratta;vediamo un po,’ possiamo incontrarci in via Marina,cerchi di portarla domani pomeriggio, si faccia accompagnare da lei per una eggiata. Se è d’accordo, ci vediamo domani, non si preoccupi molto perché le posso assicurare che è stato bravissimo, è venuto presto da me; vedrà che riusciremo”. Mi salutò con una stretta di mano che voleva essere forte, grata, avvertivo ancora il leggero tremore. Incontrai il nonno il giorno dopo in via Marina; sentivo che era una giornata splendida di sole, un giorno di primavera. Il signor Andrea sembrava molto contento di fermarsi a parlare con me,ma non c’era la ragazza. Glielo stavo chiedendo quando sentii un piroettare di pattini e una voce garrula: “Nonno, ho visto che mi cercavi, che volevi dirmi? Sono qui.” “Eccola professore, non sta ferma un minuto, ha voluto accompagnarmi, ma a condizione di poter pattinare, - mi disse il nonno quasi per scusarla –Maddalena, fermati adesso, voglio presentarti un mio caro amico, Salvo”. “Ciao Salvo, io sono Maddalena.” - Mi squillò continuando a piroettare. “Fermati un po,’ il mio amico ha una figlia della tua età e vorrebbe conoscerti meglio,”disse il nonno acchiappandola per un braccio e facendola sedere accanto sulla panchina dove c’eravamo fermati. Da alcune domande che le rivolsi, compresi subito che il problema di Maddalena era un caso tipico di anoressia conclamata, che la ragazza era stata salvata dal nonno appena in tempo. Quando lo salutai lui mormorò tristemente: “Oggi i figli credono di sapere tutto loro e non vogliono ascoltare più le persone anziane”. I suoi genitori non avevano dato nessuna importanza ai problemi della ragazza, presi com’erano dai loro impegni spesso mondani ed era proprio questa mondanità, questo prendere parte spesso alle feste in casa di amiche della madre dove l’argomento dieta era costante, a scatenarle la forma patologica. Maddalena era ossessionata dai rotoli di grasso di cui la madre parlava sempre, quelli che si formano intorno alla vita e che, stupidamente, le donne chiamano ‘le maniglie dell’amore’. Stava diventando donna e seguiva gli esempi delle amiche della madre, o o .
Ma non era solo questo il problema, c’era ben altro. Non andava bene a scuola perché non studiava, frequentava assiduamente la palestra e, in casa, continuava a fare ginnastica per dimagrire ancora. Angelica mi aiutò a comporre la scheda descrittiva di Maddalena come era necessario fare per ogni paziente. Aspetto fisico: Alta, snella, occhi castani molto vivaci, curiosi, sguardo un po’ sfrontato, capelli lunghi biondi, una massa; indossa, già oggi primo giorno, una minigonna vertiginosa su gambe magre, calze di seta e tacchi abbastanza alti,un maglioncino di lana aderentissimo. Ha un atteggiamento spavaldo, viziata da una madre bellissima a cui lei vorrebbe somigliare . Problemi: anoressia accompagnata da altri disturbi nel comportamento scolastico, non accetta rimproveri dai professori da cui pretende voti sempre alti e litiga con le compagne, dimostrandosi asociale. Ciclo mestruale a tredici anni, ma già quest’anno che ne ha quattordici, il ciclo non si è presentato per alcuni mesi per alimentazione inadeguata. Pur mangiando poco, dimostra già un corpo di donna in evoluzione. Il colloquio con la madre era stato deludente. “Professore, mi sono convinta a portare Maddalena in analisi per accontentare mio padre, ma ritengo sia del tutto inutile il suo intervento su mia figlia, anche se conosco i suoi studi e i suoi libri. Vede, mia figlia è una personcina diversa dalle altre ragazze, lei ama la libertà, non ama ubbidire, non ama imposizioni di nessun genere; con me ha un rapporto conflittuale pur volendo somigliarmi e si scontra con me in tutto; ama molto gli animali e porta a casa qualsiasi cagnolino o gattino malandato e vorrebbe curarlo e tenerlo in casa, ma lei, professore, sa benissimo che non è igienico avere animali, specialmente se sono malati. Io glieli faccio sparire subito. Mi odia naturalmente e mi scaglia oggetti contro. La lascio stare per ora, un giorno le erà ma adesso voglio che si senta libera di fare ciò che vuole”. “Signora, non credo che le conceda molta libertà da quanto mi dice se non le lascia tenere in casa neanche un gattino. Non posso prometterle niente perché, dalla scheda che abbiamo compilato e dalle domande che ho rivolto a sua figlia, il problema non è solo l’anoressia, forse quello è il problema meno grave, ce ne sono degli altri che vanno studiati; voi genitori finora, siete rimasti assenti e vi siete occupati pochissimo dei disagi di Maddalena. Vedremo, vedremo”. Il quadro non era certo roseo.
Quando io e Angelica avevamo deciso di lavorare insieme, fummo subito d’accordo di dividerci i compiti secondo le necessità, di solito le ragazzine erano attratte da Angelica mentre i ragazzi venivano volentieri a parlare con me, ma i casi difficili Angelica li affidava a me e Maddalena era uno dei casi veramente difficili. “Facciamo scegliere a lei da chi preferisce andare, è troppo viziata, le decisioni vuole prenderle lei”, mi disse Angelica quando rileggemmo la scheda che avevamo compilato insieme. Non so perché, ma speravo che scegliesse Angelica e invece non fu così.
Capitolo diciotto
M’investe qualcosa di travolgente
Maddalena, infatti, scelse di venire nel mio studio e iniziai la terapia pur avvertendo, dentro di me, una certa tensione, cosa che non mi era mai successa prima per nessun altro paziente. Maddalena era vivacissima, sempre in movimento; aveva mille cose da dire sulla scuola, sulle compagne, sulla madre. “Oggi il professore di matematica mi ha messo cinque al compito, ma io non lo meritavo, lui non mi può vedere; Rita, la mia compagna di banco, ha portato a scuola uno zaino nuovo tutto rosa con le impunture azzurre, me lo farò comprare anch’io; mia madre non vuole che io diventi più bella di lei,ma io diventerò più alta e più magra di lei”. Non era mai tranquilla, sedeva per un po’ di fronte alla scrivania, ma poi si alzava e girava per lo studio esprimendo le sue osservazioni su tutto quello che l’aveva interessata. Perchè era sempre così agitata? Questa domanda mi assillava e dovevo capirne la causa altrimenti non avrei potuto guarirla. Fui costretto a farla sedere accanto a me per cercare di tenerla ferma più a lungo, facendole una leggera pressione sul braccio quando tentava di alzarsi. Cominciavo intanto, a notare atteggiamenti che non mi piacevano: si presentava sempre molto profumata, certamente profumi rubati nei cassetti della madre; a volte mi sfiorava le gambe con la sua minigonna, credo, o con le sue gambe dalle calze di seta. Spesso indossava un maglioncino di lana aderentissimo e, quando arrivava e mi abbracciava con trasporto, addirittura mi diceva: “Hai visto, Salvo, che adesso sto mangiando? Tocca, tocca i miei seni, sono cresciuti”. Qualche volta mi prendeva le mani e se le ava sul viso, sulla bocca fresca e morbida, sugli occhi, sui lunghi capelli biondi e, dopo, con uno scatto, portava la testa all’indietro ridendo a gola spiegata. Capivo tante cose, ma non riuscivo assolutamente a comprendere come mai provasse tanta attrazione verso di me che, invece, non le avevo dato alcun adito perché questa potesse nascere, anzi cercavo di trattarla con distacco. Forse presagivo il pericolo? A quell’età gli ormoni circolano e lei sentiva l’attrazione verso di me anche per il
transfert che era davvero scoppiato in lei. In altri casi,il transfert arrivava lentamente, via via che il paziente si avviava verso la guarigione, ma in lei era arrivato di colpo; ne capivo tutto il trauma,ma questo procurava in me un turbamento insolito. Il suo corpo giovane, snello, longilineo, quella cascata di capelli biondi in cui mi faceva immergere le mani, quei suoi miagolii che, spesso, mi sussurrava nell’orecchio, i movimenti sbarazzini e, nello stesso tempo, felini come quelli di un gattino vivace ma pieno di paura perhé non c’era dubbio, Maddalena aveva tanta paura e si sentiva sola con quei genitori, che pensavano a tutt’altro, mi turbavano tantissimo. La madre mi aveva detto che la figlia portava a casa gattini bisognosi di cure e lei glieli faceva sparire. Il quadro della psiche della ragazza cominciava a schiarirsi: lei imitava il miagolìo perché desiderava le coccole della madre che gliele negava. Ogni giorno, però, il gattino diventava sempre più invadente, provocante, ma lasciavo fare,pensando: le erà; mi seguiva, a volte, come un cucciolo. Da bambina, la mamma l’aveva affidata ad una babysitter o al nonno perché lei aveva troppi impegni mondani; per questo Maddalena aveva poi preteso di seguire la madre ovunque, anche nelle feste con le amiche e per questo, nell’età dell’adolescenza, aveva iniziato già a sentirsi donna. Cominciavo ad entrare in crisi: mi era capitato altre volte con le ragazze, quando arrivava il transfert, ma era sempre contenuto, sempre riportato nella misura che ritenevo giusta. Con Maddalena era tutto più difficile e non sapevo proprio come comportarmi. Un pomeriggio uscivo dallo studio accompagnato da uno studente che faceva delle ore di tirocinio prima della laurea. Ad un tratto, in macchina, cominciammo a sentire un miagolìo dal sedile posteriore. Frenammo; dietro c’era lei, Maddalena, rannicchiata e tutta bagnata perché pioveva da molte ore. “Che fai qui, non sei andata a casa? Come sei entrata?”. “Salvo, il tuo amico aveva lasciato la macchina aperta quando è venuto a chiamarti, pioveva e sono entrata; non volevo tornare a casa; mamma era fuori ed io volevo stare con te”. L’accompagnammo a casa, la madre era preoccupata. Meno male, - pensai allora- qualche volta la madre si preoccupa di questo gattino spaurito. Mi faceva tanta tenerezza, avrei voluto asciugarle gli occhi e baciarle quella bocca che
certamente immaginavo triste, corrucciata. Ormai sessantenne, mi sentivo forte dopo aver conosciuto tanti pazienti ed aver ascoltato tante storie, eppure Maddalena, quattordici anni, piena di vitalità, di ione, presa da questo sentimento verso di me, mi aveva turbato al punto che non vedevo l’ora di averla vicina e, quando entrava nello studio con la sua voce squillante, con il suo ‘Ciao Salvo’, era come se entrasse la luce nel mio buio, nella mia nera cecità. Ne ero attratto, lo sentivo e mi piaceva da morire quando mi si sedeva accanto e poi iniziava le sue moine erotiche, i suoi miagolii mentre io mi alzavo e facevo finta di andare nell’altra stanza cercando di ferirla in tutti i modi. “Smettila, Maddalena, non sei un gattino, io devo curarti, non cercare d’impietosirmi, hai capito? Devo essere duro con te”. In me tutto era cominciato come se ascoltassi una musica, prima un andante lento, leggero, dolce; poi erano arrivati i momenti febbrili quando mi provocava troppo, poi di nuovo l’andante dolce, lento, poi ancora picchi di ione, magari quando non si presentava e mi mordeva la voglia di vederla; temevo che, capricciosa e viziata con’era, non venisse più. Come definire quei momenti in cui avevo dimenticato il decalogo di un medico dove primeggiava la frase: ‘Il paziente è sacro?’ Mi sentivo un perdente. Quando, dopo il colloquio, mi allontanavo per scrivere appunti sul computer, lei continuava a venirmi dietro, sentivo che fra noi due c’era un feeling, l’attrazione era bivalente, non so capire come potesse accadere questo tra due persone così diverse per età, eppure era così. Lei mi cercava e io non vedevo l’ora che arrivasse. Capivo che questa volta ne ero innamorato; Maddalena era la tentazione senza remore che s’insinuava nei miei sessant’anni. Mi sembrava di rivivere le emozioni della giovinezza, quando m’innamoravo di Tea, di Suor Virginia, ma non paragonavo questo turba mento al sentimento d’amore che avevo provato per Elisabetta e poi per Angelica;era un’evasione dagli stress della vita di lavoro, dalle preoccupazioni quotidiane. Un giorno mi venne dietro come al solito e mi disse: “Perché non vuoi dirmi la verità? Io ti piaccio Salvo, lo so che ti piaccio, una donna se ne accorge sempre. Vedo l’espressione di piacere che fai quando ti sussurro nell’orecchio miei miagolii o quando accarezzi i miei capelli ”. Quel suo modo sfrontato di parlare come una donna di mondo che avesse avuto chissà quanti amori, mi turbò al punto che mi girai di scatto, volevo allontanarla,
anzi avrei voluto picchiarla, ma me la trovai stretta tra le braccia, mi porgeva la bocca, sentivo il suo cuore battere all’impazzata, il mio sembrava fuoruscisse dal petto; mi fece il solito scherzo di prendermi le mani e farmi cadere sopra la massa color oro dei suoi capelli e poi, con un movimento repentino, li portò all’indietro liberando il viso piccolo, impertinente che rimase tra le mie mani grandi. La baciai allora con rabbia sulla bocca, mordendo quelle labbra carnose, leggermente dischiuse, di bambina prepotente e viziata, da cui spuntavano alcuni dentini aguzzi. “Avanti, dimmi, volevi questo, Maddalena? Volevi toccare un corpo maschile?”. Una ridda di pensieri contrastanti nella mia mente: lo volevo anch’io? Si, volevo stringerla a me, adesso la desideravo fortemente. Ma che cosa sto pensando? Io sono un medico, sono impazzito, forse? “Ecco, adesso, che altro vuoi Maddalena? Vuoi di più? Avanti, dillo vuoi fare l’amore?”. “Si” - mi rispose con sfrontatezza – “Io sono disponibile, ma non adesso, - cercavo di prendere tempo per riacquistare il controllo - possiamo darci un appuntamento, quando vuoi tu”. “Allora, se sei d’accordo, Salvo, possiamo incontrarci domani pomeriggio a casa mia, quando mia madre va dall’estetista”. Di fronte a tale sfrontatezza mi sentii ferito come medico e in quel momento provai una tale rabbia che le mollai veramente una sberla. Silenzio assoluto. Mi assale il panico resto smarrito. Lei si è accasciata a terra e accucciata vicino alle mie gambe, sembra proprio un gattino tremante, il miagolio questa volta è flebile, lamentoso. La sollevo e mi accorgo che sta piangendo ed è un pianto disperato, a singhiozzi; continuo a baciarla anche per calmare il suo pianto che non finisce…. Quel pomeriggio si era messo a piovere, una pioggia sottile prima, poi era diventata scrosciante, picchiettava sui vetri della finestra e il rumore m’innervosiva anche perchè sembrava accompagnare i singhiozzi di Maddalena.
Perché le avevo parlato in quel modo? Volevo ferirla, ma nello stesso tempo sentivo la voglia di abbracciarla forte, stringerla a me anche solo per pochi minuti. Lei adesso aveva smesso di piangere, finalmente; poggiò la mano sul mio braccio. “Salvo, io non sono stata con nessun altro uomo, non so nemmeno come si fa l’amore; volevo far la prova con te, solo con te perché ti voglio bene, tu vuoi aiutarmi. Tu invece, se mi hai trattato così, mi giudichi una donnaccia”. “No!-gridai quasi, coprendole la bocca con la mano perché non ripetesse ancora quella parola - Che dici?- Non sei una donnaccia, sei solo una ragazzina che vuole diventare donna in fretta”. Questa volta le sfiorai appena le labbra con un bacio. “Perdonami piccola,ma ho voluto scuoterti per arrivare ad un punto di rottura,devi ammettere che non era possibile andare avanti così, non credi? L’attrazione che tu provi per me è il transfert che tutti i pazienti ,prima o poi ,provano verso lo psicanalista, solo che a te è arrivato di colpo. Hai detto che mi vuoi bene ma questo sentimento che tu provi è il bene dell’anima che tu hai confuso con qualcos’altro, presa come sei dalla fretta che hai a volerti sentire donna al più presto. Ed eri diventata provocante, troppo provocante;sei riuscita a mettere in crisi anche me, lo sai? - Sorrido e aggiungo- Adesso sei tu che devi decidere se vuoi continuare la cura con me o vuoi are da Angelica ma è meglio che io parli con tua madre”. “No, non voglio che parli con mia madre, non voglio are nello studio di Angelica, voglio rimanere con te perché tu hai capito che mi sento sola; fammi stare con te, ti prego, non ti darò più disturbo, mi comporterò come una brava ragazza, ti prometto che farò tutto quello che mi dici e vedrai che guarirò”. Da quel giorno cominciò la nostra risalita, devo definirla così: la mia, durissima, faticosa; la sua, meno perché aveva capito benissimo quanto bene le volessi e quanto avrei desiderato la sua guarigione; non era colpa sua se si comportava in quel modo; in una ragazza viziata come lei il transfert agiva da padrone. In me sì che c’era la colpa perchè io sapevo a che cosa potesse andare incontro una ragazza così pronta a sentirsi donna e avrei dovuto subito allontanarla, invece … Tutto cambiò piano piano in lei. Era più tranquilla, i miagolii erano finiti, si sedeva composta vicino a me, ma non mi prendeva più le mani per arle tra i
capelli; stava guarendo, ma io stavo morendo di turbamento. Mi mancavano tanto le sue moine erotiche, quel suo sentirsi gattino spaurito che si accucciava accanto perchè le fi delle carezze,quella sua spavalderia quando entrava dicendo: ‘Salvo, oggi per la strada, tutti gli uomini mi fischiavano dietro per la mia minigonna travolgente’ e io sapevo che lo diceva solo per farmi ingelosire, magari non era nemmeno vero. Mi sentivo un perdente che aveva tradito il suo mandato e dovevo assolutamente riprendermi. Non ne avevo mai parlato con Angelica perchè era una cosa mia ,molto sofferta e lei, gelosa com’è, ne avrebbe fatto un dramma. Continuai a curare Maddalena con una grande forza di volontà,imponendo a me stesso di vederla soltanto come una paziente. Dovevo risalire, lo dovevo per prima a me stesso che amavo la vita e questa ione me la complicava al punto che erano cominciati litigi con Angelica su cose banali della quotidianità e poi, lo dovevo ai miei figli, agli altri pazienti. arono due anni difficilissimi per me: quello che provavo per Maddalena era qualcosa che mi aveva sconvolto la vita e non mi ritrovavo più. Non potevo confidarmi con nessuno, la forza di uscire da questo tsunami che mi era piombato addosso dovevo trovarla soltanto in me. Un giorno venne a trovarmi il nonno per ringraziarmi. “Lo sa che Maddalena è cambiata ?Adesso mangia tutto, va bene a scuola ed è diventata campionessa di pattinaggio nella sezione giovani?”. Sapevo già tutto questo e ne ero felice. Se Maddalena non si sentiva più gattino spaurito, se da una crisalide era sbocciata una farfalla, pronta a volare, se tutto questo è successo con mio grande sacrificio, devo dire che ho vinto anche questa volta la mia battaglia con la vita.
Ore ventitré Angelica è venuta a darmi la buona notte, ma io ho cercato di distrarla per impedirle di leggere quest’ultima pagina, non voglio che lei sappia di questo mio sbandamento,di questa mia ione verso una paziente, una ragazza adolescente per di più. Forse lo leggerà più in là, forse quando darò alla stampa, se deciderò, questo mio lavoro, chissà.. . Ora la casa è tutta addormentata, non sento alcun rumore. Siamo negli ultimi
giorni di agosto, chiudo la tapparella e i vetri; l’aria, la sera, è diventata fresca. Le vacanze, a Scilla, anche quest’anno, sono finite; fra qualche giorno ritorneremo a Reggio; i ragazzi torneranno a scuola, io ed Angelica riprenderemo il nostro lavoro che svolgiamo con tanta ione. Ho voluto chiudere il libro con questo capitolo perché parlo di qualcosa che ha sconvolto la mia vita e che, per molto tempo, mi ha fatto sentire un perdente, ma è stato un incidente di percorso, grave, da cui sono uscito a fatica . Quando scrivo un libro mi piace raccontare sempre la vita con le emozioni che essa ci offre, giorno dopo giorno, siano esse entusiasmanti o dolorose, violente o di quelle che turbano la coscienza, con i sentimenti che le danno un senso ed un percorso, perché è sempre la vita che rimane nel libro. Ciao Gustav, a presto.
Davanti ad un computer - Tina Pepe
Stampato nel mese di gennaio 2014 da www.stampalibri.it - Boon on demand - Macerata
Versione digitale realizzata da: Eugenio De Angelis nel mese di febbraio 2014