e-Reprint NUOVI STUDI DI DIRITTO ECCLESIASTICO E CANONICO Collana diretta da Antonio G. Chizzoniti
NUOVI ITINERARI
1. MICHELE MADONNA, Profili Storici del Diritto di Libertà Religiosa nell’Italia Post – Un 2. NICOLA FIORITA, Scuola pubblica e religione (2012) 3. LAURA DE GREGORIO, Conferenza episcopale italiana. Potere normativo e ruolo pastora 4. FABIANO DI PRIMA, Giudice amministrativo ed interessi religiosi collettivi. Istanze confe 5. STELLA COGLIEVINA, Diritto antidiscriminatorio e religione. Uguaglianza, diversità e lib
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NUOVI STUDI DI DIRITTO ECCLESIASTICO E CANONICO
Stella Coglievina
DIRITTO ANTIDISCRIMINATORIO E RELIGIONE
UGUAGLIANZA, DIVERSITÀ E LIBERTÀ RELIGIOSA IN ITALIA, FRANCIA E REGNO UNITO
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NUOVI ITINERARI
Vietata la distribuzione e la copia anche parziale dell’opera i cui diritti sono riservati all’autore e all’editore
e-Reprint NUOVI STUDI DI DIRITTO ECCLESIASTICO E CANONICO
Collana diretta da Antonio G. Chizzoniti Comitato Scientifico: Manlio Miele, Daniela Milani, Miguel Rodríguez Blanco, Carmela Ventrella Redazione: Isabella Bolgiani, Laura De Gregorio, Anna Gianfreda
Collegio degli arbitri revisori: Romeo Astorri, Andrea Bettetini, Salvatore Bordonali, Adoración Castro Jover, Nicola Colaianni, Rosaria Maria Domianello, Giorgio Feliciani, Antonio Fuccillo, Angelo Licastro, Antonino Mantineo, sco Margiotta Broglio, Roberto Mazzola, Giovanni Battista Varnier, José María Vázquez García-Peñuela, Marco Ventura
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Libellula Edizioni Borè s.r.l via Roma 73, 73039 Tricase (Le) www.libellulaedizioni.com
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INDICE
Premessa
Laura Castelvetri
Introduzione
Parte I
Il livello europeo. Divieti di discriminazione, libertà religiosa e diritti
Capitolo I
Diritto antidiscriminatorio e libertà religiosa nel diritto dell’Unione europea
1. Diritti, libertà religiosa e non discriminazione come principi generali del diritto dell’Unione
1.1 Diritti fondamentali
1.2 Libertà religiosa
1.3 Non discriminazione
2. I diritti fondamentali nella revisione dei trattati. La libertà religiosa tra dimensione individuale e status delle confessioni religiose
2.1 Da Maastricht a Nizza. Il rafforzamento della tutela dei diritti fondamentali nell’Unione europea
2.2 Fattore religioso e diritto dell’UE: il quadro normativo dopo il Trattato di Lisbona
3. L’approvazione delle direttive 2000/43 e 2000/78
4. Struttura e obiettivi delle direttive
Capitolo II Il diritto antidiscriminatorio europeo e la religione. Nozioni e nuovi strumenti
1. Il quadro concettuale del diritto antidiscriminatorio: tra standard europei e tradizioni costituzionali degli Stati
1.1. La nozione di discriminazione diretta e indiretta
1.2. Molestie e ordine di discriminare
1.3. Il diritto antidiscriminatorio e le diversità: le azioni positive
2. Una definizione di religione? I confini applicativi dei divieti di discriminazione
3. Le eccezioni al divieto di discriminazione religiosa. Requisiti occupazionali e organizzazioni di tendenza
4. I mezzi di ricorso e di esecuzione
4.1. Mezzi di ricorso e aspetti processuali
4.2 Mezzi di esecuzione e di prevenzione delle discriminazioni
5. La realizzazione degli obiettivi della direttiva, tra intervento sovranazionale e competenze statali
Parte II
Il livello nazionale. Diritto antidiscriminatorio e libertà religiosa in Italia, Francia e Regno Unito
Capitolo III
Dai principi alle norme. Uguaglianza e divieti di discriminazione in tre modelli nazionali di libertà religiosa
1. Dall’uguaglianza alla non discriminazione
1.1 La distinzione tra principio di uguaglianza e divieti di discriminazione: differenza tra ordinamenti di civil law e di common law
1.2 I significati dell’uguaglianza
1.3 Tre modelli di uguaglianza e la libertà religiosa
1.4 I tre modelli di uguaglianza di fronte al diritto antidiscriminatorio europeo
2. Il diritto antidiscriminatorio nella sua patria. L’attuazione della direttiva 2000/78 nel Regno Unito
2.1 Il quadro normativo prima delle direttive. L’assenza del divieto di discriminazione religiosa
2.2 I concetti nell’esperienza britannica: dal modello per il diritto UE agli sviluppi successivi
3. L’attuazione in Francia. Gli obblighi sovranazionali e le resistenze interne
3.1 Le fasi dell’attuazione
3.2 Le nozioni europee nella patria dell’égalité
4. L’attuazione in Italia. Gli obblighi sovranazionali e le disattenzioni interne
4.1 Tra vecchio e nuovo diritto antidiscriminatorio
4.2 I concetti del diritto antidiscriminatorio nel modello italiano di uguaglianza: tra attenzione per le diversità e disattenzione per gli strumenti europei
4.3 Discriminazione religiosa e diritto penale: un ulteriore ambito di tutela?
5. Tre modelli di uguaglianza, un solo modello di antidiscriminazione?
6. Dove i modelli si distinguono: requisiti occupazionali e organizzazioni di tendenza
6.1 La questione dei requisiti occupazionali
6.2 L’applicazione della deroga ex art. 4.2 della direttiva: le organizzazioni di tendenza
Capitolo IV
Dalle norme alla prassi. La non discriminazione e la tutela della libertà religiosa
Sezione I
I divieti di discriminazione e la libertà religiosa nella giurisprudenza
1. Introduzione
2. La giurisprudenza sulla discriminazione religiosa nei due Paesi di civil law
2.1. L’applicazione dei divieti di discriminazione nel modello di uguaglianza
formale se
2.2. La HALDE
2.3. L’Italia e l’applicazione disattenta dei divieti di discriminazione
3. L’applicazione dei divieti di discriminazione nel sistema britannico di common law
3.1. La giurisprudenza sulle discriminazioni religiose e il modello di uguaglianza e diversità
3.2. Visioni religiose e orientamento sessuale: gli accomodamenti negati
4. L’applicazione del divieto di molestie
5. L’applicazione dei divieti di discriminazione nei tre modelli nazionali di uguaglianza: quale impatto per la libertà religiosa?
Sezione II
La gestione delle diversità religiose oltre i divieti di discriminazione
6. Gli accomodamenti ragionevoli e le azioni positive
6.1 Gli accomodamenti in materia religiosa, tra teoria e prassi
6.2 Le azioni positive per la religione nell’Equality Act 2010
7. Gli equality duties. Verso una funzione preventiva del diritto antidiscriminatorio
Bibliografia
PREMESSA
Laura Castelvetri
Tra i temi del dibattito attorno all’idea e al diritto di libertà religiosa, la legislazione antidiscriminatoria ha assunto rilevanza cruciale. Non solo per la delicatezza sociale e politica che il rapporto tra discriminazione e religione porta con sé, ma anche per la capacità paradigmatica della libertà religiosa di fornire al tradizionale rapporto tra libertà e uguaglianza un angolo prospettico rinnovato. E, tuttavia, il ruolo del diritto antidiscriminatorio in funzione di garanzia del diritto di libertà religiosa è questione ancora poco indagata. Questo volume, dunque, ha – insieme a svariati altri pregi – quello di prospettare, in una trattazione organica, il rapporto tra fattore religioso e divieti di discriminazione, nell’incrocio tra diritto sovranazionale dell’Unione Europea e diritti degli Stati membri. Il primo, rivolto (prudentemente) a fornire una cornice unitaria, i secondi, più o meno consapevolmente, aggrappati in difesa delle rispettive tradizioni nazionali nel momento stesso in cui si apprestano a recepire le direttive comunitarie per poi dare ad esse concreta attuazione. Il campo di osservazione privilegiato prescelto dall’Autrice è quello del diritto del lavoro, ambito di applicazione della direttiva 2000/78 in materia di discriminazione (anche) religiosa. Proprio l’ambito lavorativo, infatti, è diventato, oggi, il luogo della manifestazione di pratiche che denotano un’affermazione identitaria sempre più marcata, legata alla presenza di una società plurale. Una diversificazione particolarmente evidente e che porta a far interagire le tutele tradizionalmente previste per il rispetto delle libertà individuali del lavoratore con nuove ed impreviste esigenze legate alla necessità di rispondere a domande collettive culturalmente e religiosamente orientate. Infatti, se da una parte si pongono in luce la dignità, l’identità personale e la libertà di espressione del singolo, dall’altra emerge con prepotenza la dimensione collettiva di tali diritti e libertà e, nel contempo, la difficoltà nell’individuare un equilibrio tra diversità religiose ed esigenze di uniformità nell’organizzazione del lavoro nell’impresa. Nella convivenza e, talora, nello scontro tra interessi diversi, tra pratiche individuali e collettive nuove per lo scenario europeo, i divieti di discriminazione rappresentano una chiave di lettura fondamentale e un tentativo
di bilanciamento tra valori intangibili ancorché tra loro apparentemente conflittuali o inconciliabili quali l’eguaglianza formale e la parità di trattamento versus le diversità culturali e religiose e la tutela di queste specificità in cui si identifica la personalità dell’uomo che lavora. Le tecniche di concreta trasposizione del diritto antidiscriminatorio assumono, pertanto, un ruolo rivelatore circa i connotati delle politiche e dei modelli di tutela delle diversità religiose, non solo nell’ambito del diritto del lavoro, ma anche, più ampiamente, negli ordinamenti giuridici di riferimento nel loro complesso. Come emerge dal volume, infatti, le modalità di attuazione delle direttive, prima, e la giurisprudenza in materia di discriminazioni religiose nel lavoro, poi, hanno ben rivelato le diverse sensibilità degli Stati-nazione europei di fronte alla questione del rapporto tra uguaglianza e diversità. Sensibilità e approcci che variano a livello nazionale, nonostante le tradizioni costituzionali comuni, come rivela l’esame dei tre prototipi nazionali di uguaglianza adottati in Italia, Francia e Regno Unito. La comparazione delle scelte traspositive di questi Stati, operata con piena consapevolezza e considerazione della loro comune origine nel diritto antidiscriminatorio europeo, mette in evidenza, dunque, sia diverse tipologie di risposta ai problemi delle diversità religiose, sia alcune linee di fondo nell’interpretazione del diritto di libertà religiosa nelle società plurali contemporanee. Il lavoro di Stella Coglievina ha il merito di riflettere su questi itinerari e queste tecniche, mettendo a fuoco le intersezioni tra diritti e discipline giuridiche, favorendo l’emergere di problematiche di amplissima portata con le quali e sulle quali sollecitano l’operatore giuridico di società globalizzate e complesse a confrontarsi e a ragionare con mentalità e approccio sempre aggiornati, posto che il pluralismo giuridico e la relativizzazione delle antiche certezze – anche del diritto – sono ormai un dato acquisito ma, forse, non ancora metabolizzato.
INTRODUZIONE
“Diritto antidiscriminatorio” e “religione” sono due keywords che da sole evocano numerose questioni e interrogativi. Sul significato di religione molto è stato detto dalla dottrina e dalla giurisprudenza; quanto all’espressione diritto antidiscriminatorio, affermatasi di recente nel lessico legislativo dell’Unione europea, il suo significato è in fase di consolidamento e può variare in ragione dell’ordinamento giuridico di riferimento. Così per il giurista britannico il diritto antidiscriminatorio si prospetta come un insieme organico di disposizioni, tanto che se ne imparte talvolta l’insegnamento nelle università; per la dottrina italiana, invece, sulla scorta dell’esperienza europea, è generalmente un mero sinonimo di legislazione relativa alle discriminazioni. A dispetto del rafforzarsi degli interventi sul tema, l’espressione diritto antidiscriminatorio non sembra aver raggiunto quella maturazione, dottrinaria e legislativa, tale da potersi parlare di un insieme sistematico di norme¹ . Più semplicemente – ed è questo il significato che attribuirò in questo volume – la si può intendere come un complesso di disposizioni di varia natura (internazionali, dell’Unione europea, statali) che individuano, da un lato, alcuni concetti, oggi condivisi nel territorio europeo; dall’altro, una serie di strumenti (sostanziali e procedurali) volti a promuovere la parità e la tutela di alcuni specifici fattori. Tra questi vi è, come noto, la religione, che costituisce una delle cause di trattamenti sfavorevoli e di conflitti tipici delle società plurali. Il diritto antidiscriminatorio si propone come strumento di tutela delle identità svantaggiate e, nella sua evoluzione più recente, come un armamentario per la promozione della parità e per la gestione delle diversità; in questo senso risulta di grande interesse per la tutela della libertà religiosa, un diritto che spesso richiede non solo e non tanto un trattamento uguale, quanto piuttosto l’accettazione della diversità. Può il diritto antidiscriminatorio europeo incidere sulle scelte operate dagli Stati in materia di tutela delle diversità religiose? La cornice concettuale condivisa a livello europeo – stabilita principalmente dalle direttive dell’Unione europea dell’anno 2000 – ha finito per determinare modelli comuni di diritto antidiscriminatorio e di libertà religiosa? E ancora: quanto è effettiva la tutela
prevista con l’attuazione delle direttive e quanto può indirizzare la protezione e l’interpretazione della libertà religiosa? Come è stato notato² , i divieti di discriminazione sembrano costituire la forma più attuale di tutela correttiva delle disparità e delle identità deboli. Analizzare questo tema nel suo intersecarsi con il fattore religioso è operazione complessa e articolata: molti gli aspetti da tenere in considerazione, molte le fonti normative, molti gli sviluppi e le connessioni con altre problematiche. È perciò necessario, oltre che opportuno, delimitare il campo di indagine, sia dal punto di vista degli ordinamenti da analizzare, sia per quanto riguarda le tematiche che il diritto antidiscriminatorio finisce col toccare. Anche per questo l’analisi è stata condotta su due livelli – sovranazionale e nazionale – corrispondenti alle due parti in cui è suddiviso il volume. La prima affronta l’analisi del diritto dell’Unione europea, e in particolare di quelle norme relative ai diritti fondamentali e alla discriminazione, a partire dalle quali si sviluppa la lotta alla discriminazione razziale e religiosa. Con l’approvazione delle direttive del 2000, il legislatore sovranazionale è infatti intervenuto anche in materia di libertà religiosa, sempre nel rispetto dei principi generali relativi alle competenze di Unione e Stati membri, codificando concetti e strumenti chiave che costituiscono il nucleo del diritto antidiscriminatorio europeo. La seconda parte del volume esamina come i tre Stati membri selezionati hanno portato a termine gli impegni stabiliti nella normativa dell’Unione, in particolare dalla direttiva n. 2000/78 relativa alla parità nei rapporti di lavoro. I concetti chiave delle direttive europee sembrano spingere verso un’interpretazione estensiva della parità, volta a tutelare le categorie svantaggiate mediante un’attenzione per le diversità: un approccio, come si avrà modo di dimostrare, non sempre fatto proprio dagli Stati. Ad ogni modo, l’applicazione dei divieti di discriminazione ha incrociato spesso la disciplina della libertà religiosa, proprio relativamente all’espressione delle specificità confessionali nell’ambito del lavoro. Nella prospettiva del diritto ecclesiastico, gli strumenti stabiliti a livello europeo consentono di osservare e comparare le diverse letture nazionali del problema delle diversità religiose, evidenziando alcune delle linee interpretative che definiscono oggi il diritto di libertà religiosa.
***
Questo libro è il risultato di una ricerca svolta presso varie strutture universitarie e di ricerca in Italia e negli altri Paesi oggetto dell’analisi. Desidero ringraziare, anzitutto, i professori sco Margiotta Broglio, Antonio G. Chizzoniti e Alessandro Ferrari che in momenti e modi diversi hanno contribuito in maniera determinante alla elaborazione di questo volume. Un grazie speciale alla professoressa Laura Castelvetri per aver accettato di scrivere la premessa e soprattutto per il o nella mia attività di ricerca presso il Dipartimento di Diritto, Economia e Culture dell’Università degli Studi dell’Insubria. Per l’accoglienza e i preziosi momenti di studio e di confronto in merito agli ordinamenti stranieri, sono grata ai professori e ai colleghi della School of Law del King’s College di Londra e del CNRS-Unité DRES Droit, Religion, Entreprise et Societé di Strasburgo. Ringrazio, poi, il mio amico Simone D’Antonio per avermi regalato la foto di copertina.
Last but not least, il mio pensiero grato e affettuoso è per mia mamma e Marianna, per la mia famiglia tutta, per gli amici, i colleghi, per chi in vari modi mi ha aiutato e sostenuto, per chi ho avuto vicino, spesso al di là delle distanze fisiche. Questo lavoro è per tutti loro, e per il mio babbo, nei giorni del suo ventesimo compleanno in Cielo.
[Alcalá de Henares, ottobre 2013]
¹ Ne è prova il fatto che, come si vedrà, ogni fattore di discriminazione riceve una regolamentazione diversa e si applica in ambiti più o meno estesi; inoltre è variabile il ruolo delle fonti internazionali e di quelle interne.
² M. BARBERA, Introduzione, in EAD. (a cura di), Il nuovo diritto antidiscriminatorio: il quadro comunitario e nazionale, Milano, Giuffré, 2007, p. XXIX-XXX.
PARTE I IL LIVELLO EUROPEO. DIVIETI DI DISCRIMINAZIONE, LIBERTÀ RELIGIOSA E DIRITTI
CAPITOLO I DIRITTO ANTIDISCRIMINATORIO E LIBERTÀ RELIGIOSA NEL DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA
1. DIRITTI, LIBERTÀ RELIGIOSA E NON DISCRIMINAZIONE COME PRINCIPI GENERALI DEL DIRITTO DELL’UNIONE
Il diritto antidiscriminatorio europeo nasce da lontano. Come per la maggior parte degli interventi delle Comunità europee – e, poi, dell’Unione – esso è il risultato di un lungo processo evolutivo e di una ridefinizione in itinere di obiettivi e strumenti, che ne ha mutato nel tempo la rilevanza e il ruolo. Le direttive approvate nell’anno 2000 costituiscono il culmine dello sviluppo di questo settore; esse comprendono una serie di divieti, tra i quali quello di discriminazione religiosa, che le collegano indubbiamente alla tutela dei diritti fondamentali. La correlazione tra divieti di discriminazione e diritti dell’uomo, tuttavia, non è un dato scontato per l’ordinamento comunitario. Come noto, infatti, i trattati istitutivi delle Comunità europee¹ non si occupavano inizialmente del tema dei diritti: l’organizzazione sovranazionale cui davano origine era di tipo funzionale, con competenze limitate e riconducibili all’obiettivo di realizzare un’integrazione economica. Gli Stati, in altre parole, avevano rinunciato a parte della loro sovranità soltanto in alcuni ambiti precisati dai trattati, oltre i quali le Comunità non potevano estendere il proprio campo di azione² . Tra le competenze attribuite alle istituzioni sovranazionali, non vi era la disciplina dei diritti fondamentali, né, più in particolare, niente che riguardasse la libertà religiosa e il divieto di discriminazione ad essa collegato. Alcuni divieti di discriminazione erano, sì, presenti nei trattati, primo segnale di una consolidata attenzione europea per questa tematica³ . Già nel Trattato di Roma erano sanciti il divieto di discriminazione in base alla nazionalità e l’obbligo della parità retributiva tra uomini e donne, stabiliti rispettivamente dagli artt. 12 e 141 del Trattato sulla Comunità europea. Tali divieti, tuttavia, non erano stati previsti al fine di tutelare i diritti della persona, ma risultavano funzionali alla realizzazione del mercato unico, obiettivo primario dell’integrazione europea: il divieto di discriminazione fondato sulla nazionalità mirava a favorire la libera circolazione e l’uguale trattamento dei cittadini europei nell’esercizio delle libertà economiche, mentre quello fondato sul sesso era diretto ad evitare la concorrenza sleale che poteva derivare da una minore retribuzione del lavoro delle donne in qualche Stato membro⁴ .
A partire dalla fine degli anni ’60 e poi, più decisamente dagli anni ’70, si assiste a un duplice processo evolutivo. Da una parte le Comunità europee iniziano ad occuparsi dei diritti fondamentali, assumendo – nonostante l’assenza di competenze in materia – un ruolo incisivo nella loro protezione. Dall’altra viene esteso il campo di applicazione e il significato dei divieti di discriminazione, riconosciuti come espressione di un principio generale di uguaglianza e collegati, perciò, alla tutela dei diritti. In entrambe queste dinamiche, trova spazio una certa attenzione per l’elemento religioso, che non è affatto estraneo al processo di integrazione europea.
1.1 DIRITTI FONDAMENTALI
In una prima fase, i meccanismi di tutela dei diritti nell’ordinamento europeo sono determinati dall’attività della Corte di giustizia. Nell’esercizio della sua funzione di interprete dei trattati, essa ha svolto un ruolo creativo, ricostruendo una serie di principi generali caratterizzanti l’ordinamento europeo, soprattutto laddove questo presentava lacune a causa della sua settorialità e incompletezza⁵ . Tra questi principi, la Corte ha incluso i diritti fondamentali, attribuendosi il compito di assicurarne la protezione, nonostante i trattati non contenessero alcuna indicazione al riguardo . L’intervento della Corte era motivato principalmente dalla volontà di salvaguardare la supremazia dell’ordinamento comunitario su quello degli Stati, messa in discussione dal dichiarato intento di alcune corti nazionali di operare un controllo sugli atti delle istituzioni europee in merito al rispetto dei diritti umani⁷ . Per evitare che le norme interne servissero da parametro per giudicare la validità di quelle sovranazionali⁸ , la Corte affermò che la Comunità stessa si impegnava ad assicurare la protezione dei diritti fondamentali, considerati come principi generali del diritto comunitario . Il sistema di tutela dei diritti nell’Unione europea nasce, quindi, sulla spinta di una necessità contingente: quella di difendere l’integrità dell’ordinamento comunitario, di fronte all’intervento degli Stati membri¹ . Non si tratta di un obiettivo originario delle Comunità, ma di un intervento emerso solo successivamente, in funzione degli altri scopi dei trattati e del consolidamento del sistema giuridico da essi stabilito. I meccanismi di tutela così configurati presentano, quindi, alcuni elementi di debolezza che ne condizionano in parte anche i successivi sviluppi. Dal punto di vista formale, i diritti fondamentali sono affermati attraverso la giurisprudenza della Corte di giustizia e non sono sanciti, fino a tempi recenti, da un apposito testo normativo¹¹ ; in assenza di un catalogo dei diritti tutelati dalle Comunità europee, la Corte li ha individuati facendo ricorso alle «tradizioni costituzionali comuni» degli Stati membri¹² e alle convenzioni internazionali sui diritti umani alle quali aderiscono gli Stati dell’Unione¹³ , in particolare alla CEDU¹⁴ . Tali strumenti rimangono norme esterne all’ordinamento comunitario, dalle quali i giudici europei si limitano a trarre ispirazione. Inoltre, per quanto
concerne la gerarchia delle fonti, i diritti sono stati collocati dalla Corte nella categoria dei «principi generali del diritto comunitario» che occuperebbe, secondo la dottrina, una posizione intermedia tra i trattati e il diritto derivato¹⁵ . Ne risulta, dal punto di vista sostanziale, un sistema di tutela affidato in gran parte alla discrezionalità dei giudici e nel quale i diritti vengono valutati nel quadro degli scopi dei trattati¹ . La Corte ha spesso subordinato la tutela delle posizioni soggettive alla realizzazione degli obiettivi – prevalentemente economici – dell’integrazione europea, posti su un livello superiore sia dal punto di vista formale (le norme dei trattati che li stabiliscono sono gerarchicamente superiori ai principi generali), sia sostanziale (sono gli obiettivi primari delle Comunità, per i quali gli Stati hanno rinunciato a parte della loro sovranità)¹⁷ . Inoltre, la Corte ha agito cercando di individuare un equilibrio tra esigenze sopranazionali e «tradizioni costituzionali» degli Stati membri, considerando, anche in base alle materie oggetto delle sentenze, quanto gli Stati erano disposti a cedere, in termini di sovranità, alle istituzioni comunitarie¹⁸ . Il sistema così configurato, peraltro, appare incapace di offrire adeguate garanzie di certezza del diritto, poiché l’individuazione e l’applicazione dei diritti in gioco dipenderebbero dalla valutazione di volta in volta effettuata in via giurisprudenziale¹ . È da notare, inoltre, che la Comunità – e, oggi, l’Unione – non viene dotata di competenze in materia di diritti fondamentali² : la tutela dei diritti riguarda unicamente gli ambiti nei quali l’organizzazione sovranazionale esercita i poteri previsti dai trattati²¹ , in linea con il generale principio di riparto di competenze tra UE e Stati membri. L’Unione non diventa un’organizzazione finalizzata alla tutela dei diritti, sebbene abbia affermato l’impegno a rispettarli nello svolgimento delle sue azioni. Allo stesso modo, la Corte di giustizia non si vede attribuire un generico potere di garante dei diritti umani. Essa esercita il suo sindacato unicamente nel campo di applicazione del Trattato (rectius, nei settori ove i trattati le attribuiscono giurisdizione²² ) e il suo controllo sulla conformità ai diritti fondamentali riguarda principalmente gli atti delle istituzioni comunitarie, estendendosi a quelli di diritto interno solo in alcuni casi: quando diano attuazione al diritto comunitario²³ , oppure operino in ambiti di esclusiva competenza di quest’ultimo²⁴ . Di conseguenza non tutti i diritti sono stati presi in considerazione dal giudice comunitario ma solo quelli emersi negli ambiti di competenza dell’UE. Quest’ultima considerazione è di particolare rilievo per la protezione della
libertà religiosa e dei diritti ad essa collegati, che potrebbero risultare estranei al sistema comunitario di tutela, giacché tra le competenze attribuite all’Unione non vi è alcun riferimento al fattore religioso. Non si può tuttavia affermare una totale irrilevanza del diritto comunitario in materia: alcuni ambiti “classici” di intervento del legislatore europeo, come i rapporti di lavoro o le disposizioni in tema di commercio possono, infatti, riguardare la circolazione di beni o l’attività di operatori a caratterizzazione religiosa²⁵ . La casistica in materia religiosa esaminata dalla Corte di giustizia, seppur non copiosa, dimostra un’effettiva “intersezione” tra le competenze comunitarie e l’elemento religioso, che viene in luce in molti dei settori disciplinati dall’Unione² . I casi così emersi hanno consentito alla Corte di consacrare la libertà religiosa tra i diritti tutelati dall’ordinamento comunitario.
1.2 LIBERTÀ RELIGIOSA
Il diritto di libertà religiosa, sancito sia dalla CEDU e dalle convenzioni internazionali sui diritti umani²⁷ , sia dalle legislazioni degli Stati membri²⁸ , è stato riconosciuto dalla Corte di giustizia per la prima volta nella sentenza Prais del 1976² . Ad una tutela tendenzialmente ampia di tale diritto affermata in questa pronuncia³ , si contrappongono le soluzioni giurisprudenziali in cui – analogamente a quanto accade per gli altri diritti individuati dalla Corte – gli interessi di carattere religioso sono stati valutati alla luce del funzionamento del mercato unico³¹ . Nella maggior parte delle sentenze in materia, infatti, l’elemento religioso non viene considerato in quanto tale, ma in quanto rilevante (in negativo o in positivo) per il perseguimento degli obiettivi posti dai trattati. La Corte ha, quindi, applicato principi del diritto comunitario, quali la libertà di circolazione o il divieto di discriminazione, non per offrire una maggior garanzia alla libertà religiosa, ma per far sì che l’elemento religioso non comportasse eccessive restrizioni per la realizzazione dell’integrazione economica³² . In altre pronunce la Corte di giustizia, oltre a ribadire il principio secondo il quale il suo sindacato è limitato ai settori di azione delle Comunità, ha rinunciato a dettare linee interpretative sovranazionali, dichiarando che spetta ai singoli Stati la regolamentazione delle questioni collegate con l’elemento religioso³³ . Tale affermazione, in realtà, va oltre il rispetto del riparto delle competenze, dato che in alcune occasioni la Corte ha rinviato il caso al giudice nazionale pur trovandosi a decidere su una causa che non esulava affatto dalle materie attribuite all’UE³⁴ . Si può individuare, in queste decisioni, un atteggiamento di particolare restraint delle istituzioni comunitarie ad intervenire in questioni che riguardano da vicino le tradizioni e le caratteristiche storiche e culturali dei singoli Stati³⁵ . Più in generale, l’interpretazione del diritto di libertà religiosa nell’ordinamento comunitario risente della mancanza di un bill of rights della Comunità e – come per gli altri diritti – dipende in gran parte dalla discrezionalità della Corte, chiamata ad operare un bilanciamento tra obiettivi dei trattati, posizioni soggettive e interessi degli Stati³ .
1.3 NON DISCRIMINAZIONE
Accanto alla tutela dei diritti umani, tra i principi generali riconosciuti dalla Corte c’è anche quello di non discriminazione. Come si è accennato, nei trattati si potevano rintracciare alcuni specifici divieti, ma non una clausola “aperta” di non discriminazione né l’enunciazione del principio di uguaglianza³⁷ . Tali divieti di discriminazione erano pensati essenzialmente come strumenti per la realizzazione degli obiettivi economici tipici dell’integrazione europea³⁸ e non erano collegati, come avviene nelle convenzioni internazionali sui diritti umani³ , alla tutela delle libertà fondamentali – argomento peraltro assente dai trattati. In particolare, il divieto di discriminazione fondata sulla nazionalità appariva strettamente necessario per la costruzione del mercato unico, che sarebbe risultato svuotato di significato in presenza di differenziazioni tra i cittadini e gli operatori economici provenienti da Stati diversi⁴ ; quanto al divieto di discriminazione in base al sesso, che potrebbe sembrare connesso alla tutela dei diritti della persona, fu inserito nei trattati principalmente per evitare la concorrenza sleale che poteva derivare da una minore retribuzione del lavoro delle donne in qualche Stato membro⁴¹ . Anche in questo caso la Corte di giustizia ha svolto un ruolo fondamentale nel ricostruire, a partire da queste specifiche norme, un principio generale, quello di non discriminazione o di uguaglianza⁴² . I divieti enunciati nel trattato vengono, infatti, riconosciuti come espressione del principio di uguaglianza, definito «uno dei principi fondamentali del diritto comunitario»⁴³ . È opportuno fare qualche breve osservazione sul ruolo, la portata e il significato di tale principio, che si collega con lo sviluppo del diritto antidiscriminatorio e che ha assunto una notevole importanza per l’ordinamento comunitario. Quanto al ruolo, i principi generali – come già osservato a proposito dei diritti fondamentali – servono da parametro per il controllo sia della legislazione comunitaria, sia di quella nazionale attuativa del diritto europeo. La non discriminazione, pertanto, inclusa tra questi principi, acquisisce un rango più alto nella gerarchia delle fonti rispetto a singoli divieti presenti nel trattato⁴⁴ e viene riconosciuta come uno dei criteri di legittimità e degli elementi fondativi dell’ordinamento europeo.
Se ciò è vero, occorre tuttavia notare che il principio così individuato non ha una portata veramente generale, simile a quella del principio di uguaglianza sancito dagli ordinamenti statuali. Anzitutto, esso opera soltanto nei settori di competenza delle Comunità (e dunque, principalmente, quelli di natura economica), mentre risulta escluso, almeno in questa fase, un intervento più ampio a tutela dell’uguaglianza e contro i trattamenti discriminatori, intesi come violazione dei diritti e delle libertà individuali. Inoltre, anche quando applicato alle situazioni relative ai diritti⁴⁵ , il principio in questione rimane ancorato alle fattispecie di discriminazione contemplate dai trattati. La Corte, infatti, ha ricavato dalle disposizioni presenti nei trattati un principio generale di non discriminazione, ma solitamente non ha compiuto il percorso inverso, quello cioè di dedurre dal principio generale nuovi specifici divieti di discriminazione⁴ . Quest’ultima operazione sarebbe possibile soltanto quando nuove tipologie di discriminazioni vietate siano ricavabili dall’insieme delle disposizioni del trattato e dalle altre fonti attraverso le quali la Corte estrapola i diritti e i principi (la CEDU, le convenzioni internazionali, le tradizioni costituzionali comuni)⁴⁷ . Per quanto riguarda il divieto di discriminazione in materia religiosa, esso è indubbiamente un elemento comune alle tradizioni costituzionali di tutti gli Stati membri, nonché presente nelle convenzioni internazionali sui diritti umani, come corollario del diritto di libertà religiosa⁴⁸ . Occorrerà, tuttavia, attendere alcuni specifici interventi normativi per vederlo inserito nell’ordinamento comunitario⁴ . La mancanza di competenza dell’Unione in materia di libertà religiosa, infatti, ha reso più difficoltoso l’emergere di casi sul tema. Inoltre, l’originaria funzione market related dei divieti di discriminazione ha fatto sì che i (pochi) casi in materia religiosa presi in considerazione dalla Corte siano stati analizzati prevalentemente da un’altra prospettiva, valutando le conseguenze sul funzionamento del mercato e delle libertà economiche tutelate dai trattati. Il momento in cui si interverrà in tema, sarà indicativo, tra l’altro, del valore sociale attribuito alle norme comunitarie sulla discriminazione, non più considerate come meramente strumentali al funzionamento del mercato unico⁵ . L’affermazione di un divieto di discriminazione religiosa a livello normativo, con la direttiva n. 2000/78⁵¹ , non toglie importanza a quanto osservato circa il ruolo e la portata di un principio generale di uguaglianza e di non discriminazione. Ancora di recente, infatti, pur in presenza di uno specifico divieto, la Corte ha utilizzato la categoria dei principi generali per affrontare casi di trattamenti discriminatori⁵² . Al principio di non discriminazione fondata su un motivo specifico sarebbero riconosciuti, peraltro, effetti diretti ed orizzontali⁵³ ,
che invece, in linea di principio, non sarebbero prodotti dalle disposizioni di una direttiva⁵⁴ . Infine, occorre notare che il significato specifico del principio di non discriminazione viene ricostruito a partire dalle convenzioni internazionali e dalle tradizioni costituzionali degli Stati membri, ma sempre in relazione alla funzione che esso svolge nell’ordinamento comunitario. Della presenza di clausole di non discriminazione nelle convenzioni sui diritti umani si è già accennato. Per quanto riguarda il livello nazionale, l’uguaglianza riguarda in primo luogo l’azione del legislatore, interdicendo determinate differenziazioni giuridiche⁵⁵ . I divieti di discriminazione hanno proprio la funzione di esplicitare una serie di caratteristiche – tra le quali, normalmente, figura la religione – che non possono essere utilizzate per operare differenziazioni tra i cittadini; tali differenziazioni, tuttavia, possono essere giustificate se rispondono ad un criterio di ragionevolezza. La verifica sulla ragionevolezza delle distinzioni, tipica del giudizio di uguaglianza, è svolta anche dal giudice comunitario⁵ . Quest’ultimo, tuttavia, privilegia altre sfumature del principio in esame, «manifestando una spiccata attenzione, più che al dato strutturale della norma oggetto di scrutinio […], agli effetti discriminatori che essa in fatto produce»⁵⁷ . Come vedremo, l’attenzione per le disparità che si verificano di fatto è una delle caratteristiche principali delle norme europee in tema di discriminazioni. Si tratta solo di un esempio delle diverse sfumature che il principio di uguaglianza e quello di non discriminazione presentano nei differenti ordinamenti cui facciamo riferimento⁵⁸ . La Corte ha anche affermato che quello a non essere discriminati è uno dei diritti fondamentali da essa riconosciuti. Attraverso la giurisprudenza, quindi, la lotta alla discriminazione è stata collocata tra gli interventi europei relativi ai diritti umani, nonostante l’originario ruolo strumentale del diritto antidiscriminatorio rispetto agli obiettivi del mercato unico. In alcune sentenze, la Corte ha affermato, ad esempio, che la parità di trattamento fra i sessi è uno dei diritti individuali fondamentali garantiti dalla Comunità⁵ e ha espressamente collegato la non discriminazione alla protezione della dignità e della libertà della persona . L’attrazione del principio di non discriminazione verso l’area di tutela dei diritti umani culminerà con l’inserimento dell’art. 13 nel Trattato di Amsterdam e con la conseguente approvazione delle direttive del 2000, nelle quali la non discriminazione non appare più unicamente strumentale agli scopi del mercato unico, ma ad un più generico obiettivo di parità di trattamento. Occorrerà, poi, attendere l’approvazione della Carta dei diritti fondamentali perché una clausola
generale di non discriminazione sia inserita nell’ordinamento comunitario.
2. I DIRITTI FONDAMENTALI NELLA REVISIONE DEI TRATTATI. LA LIBERTÀ RELIGIOSA TRA DIMENSIONE INDIVIDUALE E STATUS DELLE CONFESSIONI RELIGIOSE
2.1. DA MAASTRICHT A NIZZA. IL RAFFORZAMENTO DELLA TUTELA DEI DIRITTI FONDAMENTALI NELL’UNIONE EUROPEA
Con il consolidarsi dell’azione della Corte di giustizia e la revisione dei trattati a Maastricht (1992), ad Amsterdam (1997) e a Nizza (2000) si può osservare una crescente rilevanza della tutela dei diritti fondamentali nel diritto comunitario. In particolare, si possono evidenziare alcune dinamiche evolutive. La prima vede, oltre al rafforzamento dell’azione della Corte, l’inserimento nei trattati di alcune disposizioni che prendono in considerazione espressamente il tema dei diritti e il ruolo dell’Unione in tale ambito. In secondo luogo, si può rilevare l’ampliamento dei settori di competenza dell’Unione e lo sviluppo di una serie di interventi sulle discriminazioni, che vanno a costituire via via una vera e propria politica dell’Unione, non più collegata alle esigenze di mercato, ma alla tutela di determinate categorie sociali deboli. Nello svolgersi di queste dinamiche, gli interventi comunitari finiscono sempre più spesso per incidere, anche se indirettamente, sulla materia religiosa. In terzo luogo, vi è la volontà di ribadire la competenza esclusiva degli Stati in quest’ultimo ambito, in particolare nel disciplinare lo “status” delle confessioni religiose. Per quanto riguarda le prime due dinamiche, nel Trattato che istituisce l’Unione europea (TUE) firmato a Maastricht nel 1992, l’art. 6 stabiliva che «l’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali […] e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario». Questa disposizione, che riaffermava quanto stabilito dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, collocava la protezione dei diritti fondamentali tra i valori “costituzionali” dell’Unione, attribuendole un rango almeno pari a quello degli altri obiettivi stabiliti nei trattati ¹ . Con il Trattato di Amsterdam, inoltre, il nuovo art. 7 TUE ha previsto un sistema di controllo e sanzione nei confronti degli Stati membri che violino «in modo persistente» i diritti umani ² . Per quanto riguarda il diritto antidiscriminatorio, il trattato di Amsterdam ha dotato la Comunità dei poteri per legiferare contro diverse tipologie di discriminazione, diverse da quelle sin qui contemplate, introducendo l’art. 13 TCE ³ . Questa norma può essere considerata un intervento a tutela dei diritti, sia
per la sua collocazione nella parte del Trattato relativa ai valori fondamentali della Comunità, sia per il riferimento a fattori di discriminazione maggiormente collegati alla protezione della dignità umana e delle libertà fondamentali ⁴ , in particolare la razza e l’origine etnica e, finalmente, la religione e le convinzioni personali. In ogni caso, l’art. 13, pur evidenziando un settore nel quale l’UE agisce a tutela dei diritti, precisava che gli interventi intrapresi si sarebbero svolti «fatte salve le altre disposizioni del presente trattato e nell’ambito delle competenze da esso conferite alla Comunità». In questa fase, poi, è stato affrontato il problema della mancanza di un elenco di diritti riconosciuti dall’Unione. Due erano le principali soluzioni proposte: in un primo momento si era ipotizzata l’adesione dell’UE alla CEDU, così da attribuire a quest’ultima il valore di fonte a tutti gli effetti valida anche a livello comunitario ⁵ ; in seguito si è preferito optare per la stesura di una Carta dei diritti dell’Unione, uno strumento giuridico apposito che avrebbe incluso tutti i diritti come garantiti ed interpretati dall’ordinamento europeo. Un simile testo, elaborato da un organo istituito ad hoc (la “Convenzione”), fu approvato e solennemente proclamato dal summit di Nizza del dicembre 2000 . In quell’occasione, tuttavia, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea non fu inserita nel Trattato e non le fu, così, attribuito alcun valore vincolante: essa ha perciò costituito, fino alla firma del Trattato di Lisbona ⁷ , un elenco meramente dichiarativo dei diritti riconosciuti a livello comunitario, certamente importante per la loro visibilità e punto di riferimento imprescindibile per i successivi interventi in materia, ma privo di un valore giuridico preciso ⁸ . La Carta di Nizza ha avuto, ad ogni modo, un importante valore ermeneutico: infatti, la Corte di giustizia vi ha fatto riferimento più volte nella ricostruzione del contenuto dei diritti che si è trovata ad analizzare e a tutelare . La libertà religiosa è contemplata dall’art. 10 della Carta, rubricato «libertà di pensiero, di coscienza e di religione» e formulato negli stessi termini dell’art. 9 della CEDU⁷ . La Carta prevede inoltre il diritto all’obiezione di coscienza (art. 10.2), la libertà di espressione (art. 11), di riunione e di associazione (art. 12), nonché il diritto dei genitori a educare i figli conformemente alle loro convinzioni religiose e filosofiche (art. 14), analogamente a quanto disposto dalla CEDU (prot. Add. 2, art. 1); contiene, poi, sia una clausola generale di uguaglianza di fronte alla legge (art. 20), finora assente dalle fonti di diritto comunitario, sia una norma che vieta la discriminazione fondata su diversi fattori, tra cui la religione. Tali divieti risultano, così, inseriti in uno strumento relativo ai diritti umani, analogamente a quanto accade nei patti internazionali in
materia⁷¹ . L’art. 22 stabilisce, inoltre, il rispetto della diversità culturale e religiosa: un elemento di novità, che in certo qual modo riflette il aggio dalla tutela dell’uguaglianza verso l’ammissione e la protezione della diversità, tipico del pensiero multiculturale⁷² . L’art. 10 della Carta riguarda prevalentemente la dimensione individuale della libertà religiosa – ed è questa una tendenza presente nella maggior parte delle disposizioni della Carta. In fase di elaborazione del trattato di Amsterdam, tuttavia, era stata affrontata esplicitamente anche la dimensione collettiva della libertà religiosa, in particolare il tema del rapporto tra diritto comunitario e confessioni. In base alla dichiarazione n. 11 annessa all’atto finale del Trattato, l’Unione si impegnava a «rispettare e non pregiudicare» lo status delle chiese e delle organizzazioni non confessionali previsto dal diritto degli Stati membri⁷³ . Tale dichiarazione – oggi divenuta un articolo dei trattati – non aveva valore giuridico vincolante ma un indubbio significato politico, determinando un vincolo per l’Unione ad astenersi dagli interventi che potessero incidere sulla disciplina nazionale relativa alle chiese⁷⁴ . Se, infatti, l’Unione non è dotata dei poteri per agire in materia, tuttavia il riparto delle competenze tra Unione e Stati membri non è così netto da escludere qualsiasi rilievo della legislazione della prima su ambiti riservati ai secondi e concernenti l’elemento religioso. In particolare, la dichiarazione n. 11 nasceva dalla constatazione che alcuni interventi dell’Unione (in primis l’ipotesi dell’avvio di politiche fiscali comuni) avrebbero potuto riguardare materie rilevanti per la condizione giuridica delle confessioni religiose e nelle quali si voleva far salva l’esclusiva competenza del diritto statuale.
2.2. FATTORE RELIGIOSO E DIRITTO DELL’UE: IL QUADRO NORMATIVO DOPO IL TRATTATO DI LISBONA
I cambiamenti nella considerazione della tutela dei diritti umani nell’ordinamento comunitario, così sommariamente descritti, sembrano attribuire gradualmente alle istituzioni sovranazionali una maggiore possibilità di intervento a tutela delle libertà individuali, ivi compresa la libertà religiosa. Se si considera, invece, il rapporto tra diritto comunitario e diritto degli Stati in tema di libertà delle confessioni religiose (dimensione collettiva), la tendenza – indicata dalla dichiarazione n. 11, ma anche, in precedenza, dalla giurisprudenza della Corte di giustizia⁷⁵ – sembra essere quella di un restraint da parte dell’Unione e di un maggiore spazio per gli Stati nel disciplinare liberamente la materia. Osservando il quadro normativo definito con il Trattato di Lisbona, tale orientamento sembra confermato. La tutela dei diritti viene riaffermata nei trattati, in base ai quali l’Unione si fonda sui diritti fondamentali, nonché sui valori del pluralismo, dell’uguaglianza e della non discriminazione (art. 2 TUE⁷ ); inoltre, la promozione delle libertà e del benessere dei cittadini, la coesione sociale e la lotta alle discriminazioni figurano nell’elenco degli obiettivi dell’ordinamento europeo (art. 3, par. 3 TUE). Finalmente, poi, il nuovo art. 6 del Trattato sull’Unione europea attribuisce valore vincolante alla Carta dei diritti fondamentali (par. 1, comma 1) e prevede l’adesione dell’Unione europea alla CEDU (par. 2), oltre a ribadire che i diritti umani fanno parte dei principi generali del diritto dell’Unione (par. 3). Si riconferma, poi, un impegno specifico in materia di uguaglianza e di discriminazione. In primo luogo, si afferma il principio di uguaglianza tra i cittadini europei (art. 9 TUE) e nelle disposizioni sulla cittadinanza europea (artt. 18-25 del TFUE) si ribadisce il divieto di discriminazione in base alla nazionalità. In secondo luogo, si prevede che la discriminazione fondata su altri fattori, tra cui la religione, sarà vietata nelle attività dell’Unione (art. 10 TFUE) e potrà essere oggetto di interventi legislativi decisi dal Consiglio all’unanimità (art. 19 TFUE, che ripropone quanto previsto in precedenza dall’art. 13 del TCE).
A livello istituzionale, sempre in questa fase, è stata creata l’Agenzia per i diritti fondamentali, con sede a Vienna, che si occupa dal 2007 delle tematiche dei diritti e non più unicamente del tema dell’intolleranza e del razzismo⁷⁷ . Per quanto riguarda la tematica della libertà religiosa collettiva e dello status delle confessioni, il Trattato di Lisbona “costituzionalizza” la dichiarazione n. 11 annessa al trattato di Amsterdam, divenuta l’art. 17 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea. Si conferma, così, l’impegno dell’Unione a non interferire nelle decisioni nazionali relative al trattamento giuridico delle confessioni religiose, impegno che, collocato in una disposizione nel trattato, acquisisce valore vincolante⁷⁸ . Da notare, peraltro, che sia la Carta dei diritti (divenuta vincolante), sia l’art. 3 del TUE (par. 3, 4° comma) garantiscono il rispetto da parte dell’Unione della diversità culturale e linguistica degli Stati, preservando, in questo senso, l’autonomia dei Paesi membri nel disciplinare gli aspetti relativi alle caratteristiche culturali (e anche religiose) proprie di ogni realtà nazionale. È necessario, tuttavia, evidenziare alcuni elementi che rendono questo quadro più sfumato e che impongono un’analisi più approfondita circa la reale incidenza del diritto comunitario sulla disciplina del fattore religioso. Anzitutto, occorre soffermarsi sul valore e sui contenuti della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. In base al nuovo articolo 6.1 del TUE, la Carta «ha lo stesso valore giuridico dei trattati». Di conseguenza, il diritto – tra gli altri – di libertà religiosa sembra posto, nella gerarchia delle fonti, allo stesso livello delle altre disposizioni dei trattati⁷ . Il valore vincolante della Carta, inoltre, fa sì che i diritti tutelati non debbano più essere individuati ex post dal giudice europeo, ma siano consacrati in un atto specifico, che vincola tutte le istituzioni europee nell’esercizio della loro attività. Tuttavia, la Carta non attribuisce nuove competenze all’Unione e rimane, perciò, evidente il problema di determinare i confini di un intervento delle istituzioni sovranazionali in materia di diritti. La formulazione dell’art. 6 TUE non dà adito a dubbi in proposito, affermando che «le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei trattati»⁸ . Principio ribadito dall’art. 51.2 della Carta medesima, in base al quale essa «non estende l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione al di là delle competenze dell’Unione, né introduce competenze nuove o compiti nuovi per l’Unione, né modifica le competenze e i compiti definiti nei trattati». La protezione dei diritti
sanciti nella Carta riguarda, quindi, soltanto l’ambito di applicazione del diritto comunitario e vincola, come precisato all’art. 51.1 le «istituzioni, organi e organismi dell’Unione» e gli «Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione […] secondo le rispettive competenze e nel rispetto dei limiti delle competenze conferite all’Unione nei trattati»⁸¹ . Il legislatore europeo, quindi, non viene dotato dei poteri per intervenire direttamente in materia di diritti umani, anche se risulta vincolato al loro rispetto nella produzione legislativa e nell’attuazione delle politiche europee; per quanto riguarda gli Stati, essi sono obbligati dalle disposizioni della Carta unicamente nell’attuazione del diritto dell’UE. Quest’ultimo obbligo, sancito all’art. 51.1, è stato interpretato, peraltro, in modo ampio⁸² . In linea con la prassi consolidata in materia di diritti, gli Stati sarebbero vincolati dalla Carta non soltanto nella fase di trasposizione del diritto europeo (ad esempio nell’elaborazione delle norme attuative di una direttiva), ma anche ogni volta in cui agiscono in ambiti di applicazione del diritto dell’UE, quando si dimostri un sufficiente collegamento con quest’ultimo⁸³ . In ogni caso, alla Corte di giustizia non è attribuita una competenza generale a verificare il rispetto dei diritti fondamentali negli atti e nell’operato degli Stati membri⁸⁴ . È, invece, la Corte di Strasburgo ad essere investita di più ampi poteri per controllare la conformità del diritto interno ai diritti sanciti nella Convenzione⁸⁵ . Dunque se la Carta dei diritti diviene vincolante e la tutela delle libertà fondamentali assume un’accresciuta rilevanza dopo l’approvazione del Trattato di Lisbona, l’intervento delle istituzioni dell’Unione sarà comunque limitato dal rispetto del principio di sussidiarietà e dal riparto delle competenze tra Unione e Stati membri⁸ . Un’altra questione che occorre tenere presente riguarda la lettura da dare ai diritti garantiti nella Carta. Si è già notato che la Corte di giustizia, nel suo ruolo di interprete, ha solitamente considerato i diritti in conformità con i principi e il funzionamento del sistema giuridico comunitario, talvolta subordinando la protezione delle libertà fondamentali al raggiungimento degli obiettivi dei trattati. Con l’affermazione dei diritti da parte della Carta e con il valore vincolante da essa assunto, si potrà prevedere un cambiamento nella loro interpretazione⁸⁷ ? In particolare, la lettura del diritto di libertà religiosa risulterà maggiormente orientata alla protezione delle libertà individuali e svincolata dalla ricerca di un equilibrio tra obiettivi economici del Trattato, esigenze sopranazionali e prerogative degli Stati membri? La Corte non si è pronunciata su problematiche relative alla religione in seguito all’entrata in vigore del trattato di Lisbona. Tuttavia è possibile prevedere che la
tutela e l’interpretazione della libertà religiosa continuerà a giocarsi in un simile sistema di bilanciamento di differenti esigenze. Da un lato, si può ipotizzare che il sistema delle competenze determini l’emersione della problematica religiosa prevalentemente in rapporto ad attività previste dai trattati, richiedendo così, molto probabilmente, di contemperare gli interessi religiosi con quelli legati agli obiettivi dell’Unione. Dall’altro, la Carta fa riferimento alla giurisprudenza precedente della Corte di giustizia e a quella della Corte di Strasburgo per individuare i contenuti dei diritti⁸⁸ . Agli orientamenti dei giudici – talvolta poco propensi, come si è visto, a offrire un’interpretazione ampia dei diritti fondamentali – viene attribuita una rilevanza centrale, nonostante sia presente nell’ordinamento europeo un bill of rights ormai vincolante. In particolare, il preambolo della Carta precisa che essa «riafferma, nel rispetto delle competenze e dei compiti dell’Unione e del principio di sussidiarietà, i diritti derivanti in particolare dalle tradizioni costituzionali e dagli obblighi internazionali comuni agli Stati membri», citando in particolare la CEDU e le altre fonti fin qui utilizzate dalla Corte di giustizia per costruire un catalogo di diritti riconosciuti dall’Unione, ora messo per scritto nella Carta. Il preambolo prosegue affermando che i diritti in essa contenuti sono basati non solo sulle convenzioni internazionali e sulle tradizioni costituzionali degli Stati, ma anche sulla «giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea e da quella della Corte europea dei diritti dell’uomo». Ancora, all’art. 52.3 della Carta si prevede che laddove essa «contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione»⁸ . Questa norma interessa da vicino anche il diritto di libertà religiosa, sancito dall’art. 10 della Carta in termini analoghi all’art. 9 della CEDU, così da poterlo considerare “corrispondente” a quest’ultimo per quel che concerne i contenuti e la portata . Per individuare il significato del diritto in questione, non sarà sufficiente osservare il dato testuale ma occorrerà tenere presente la lettura consolidatasi in dottrina e nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo ¹ . Da ciò non discende necessariamente un rafforzamento della tutela del diritto di libertà religiosa in ambito comunitario. Infatti, se la Corte di giustizia non sempre si è pronunciata a favore di tale diritto, ribadendo – come si è detto – l’incompetenza del sistema comunitario in materia religiosa e rileggendo i casi alla luce degli obiettivi del Trattato, del pari gli orientamenti della Corte europea dei diritti dell’uomo hanno rivelato spesso l’intenzione di salvaguardare i sistemi
nazionali di rapporti tra Stato e confessioni religiose, adattandosi ad esigenze anche politiche, anziché offrire una maggiore tutela alle posizioni degli individui ² . Seguire la giurisprudenza di Strasburgo per la ricostruzione dei contenuti del diritto di libertà religiosa significa, quindi, tenere in considerazione anche l’applicazione – talvolta ampia – delle restrizioni ex art. 9.2 e il bilanciamento con gli altri interessi in gioco ³ . Ma la rilevanza della CEDU nella lettura dei diritti sanciti dalla Carta di Nizza presenta alcuni aspetti di problematicità anche dal punto di vista della libertà collettiva. Difatti, nell’interpretazione dell’art. 9 della CEDU, la Corte europea si è trovata sempre più spesso a valutare aspetti relativi al rapporto tra Stati e religioni. Nei casi che riguardano tali questioni, viene applicata solitamente la cosiddetta dottrina del margine di apprezzamento ⁴ . Lungi dallo stabilire criteri fermi per la lettura di determinati diritti, tale dottrina ha consentito alla Corte di Strasburgo di valutare di volta in volta gli interessi nazionali in gioco e di decidere, di conseguenza, utilizzando parametri e principi assai diversi. Così, se talvolta è stata lasciata ampia discrezionalità agli Stati nelle questioni relative alla libertà religiosa, talaltra il giudice europeo ha finito per dettare alcuni principi generali, anche relativi alla disciplina dei rapporti tra Stati e confessioni ⁵ . Se tale lettura del diritto di libertà religiosa – e della sua relazione con il principio di non discriminazione – è da considerarsi corrispondente a quella dell’art. 10 della Carta, allora si potrà osservare l’ingresso nel diritto dell’Unione di alcuni criteri che non riguardano unicamente la libertà religiosa individuale. In alcuni casi sono state affermate alcune linee interpretative che finiscono per incidere anche sul funzionamento dei sistemi di relazioni tra Stato e confessioni e, soprattutto nelle sentenze più recenti, il giudice europeo è apparso talvolta meno deferente verso gli Stati in materia di libertà religiosa (anche) collettiva . Ciò potrebbe contrastare, in linea di principio, con quanto affermato dal nuovo art. 17 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, in base al quale l’UE non interferisce con le decisioni degli Stati in tema di legislazione ecclesiastica ⁷ . Rebus sic stantibus, l’art. 17 TFUE sembra stabilire una barriera invalicabile agli “sconfinamenti” del diritto europeo in aree riguardanti le confessioni religiose; tuttavia il rinvio alla CEDU potrebbe portare anche il giudice comunitario a interpretare la libertà religiosa sulla scorta delle letture più innovative della Corte di Strasburgo, finendo per dettare principi che
riguardano anche lo status delle confessioni ⁸ . A questo proposito, occorre tenere presente che il Trattato di Lisbona ha affrontato, ma non del tutto risolto, il complesso rapporto tra il sistema dell’Unione e la CEDU e tra le rispettive giurisdizioni . Il nuovo art. 6.2 TUE dispone l’adesione dell’Unione alla CEDU, ma senza chiarire secondo quali modalità e con quali tempi. Al momento, il procedimento per l’adesione dell’Unione alla Convenzione – che dovrà prevedere un apposito trattato – non è ancora concluso¹ . Il nodo fondamentale sembra essere quello del controllo da parte della Corte di Strasburgo sugli atti dell’Unione e delle conseguenze che ciò può avere sulle decisioni degli Stati circa l’attuazione del diritto europeo¹ ¹ . Al momento, infatti, gli Stati sono soggetti ad un doppio obbligo di lealtà: sono tenuti, da un lato, ad applicare il diritto dell’Unione, dall’altro a rispettare i diritti sanciti dalla CEDU. Ne consegue che, in linea teorica, essi possono essere chiamati in giudizio di fronte alla Corte di Strasburgo se, nel dare attuazione al diritto dell’Unione, abbiano violato i diritti garantiti nella CEDU e, se richiamati al rispetto della CEDU, potrebbero essere costretti a decidere in modo non conforme agli obblighi derivanti dal diritto dell’UE. Allo stesso tempo, dopo l’entrata in vigore del trattato di Lisbona – che ha attribuito valore vincolante alla Carta di Nizza – sia gli Stati, sia le istituzioni europee possono essere convenuti di fronte alla Corte di giustizia in caso di violazione dei diritti previsti dalla Carta, i quali, però, non sono del tutto corrispondenti a quelli previsti dalla CEDU¹ ² . Finora le due Corti hanno saputo interpretare ed applicare i diritti in modo da evitare simili contrasti¹ ³ . L’adesione dell’Unione alla CEDU potrebbe, in questo senso, determinare un maggiore coordinamento tra i due sistemi e un maggiore dialogo tra le corti. Essa permetterebbe, inoltre, una più efficace tutela degli individui, mettendoli in condizione di adire la Corte di Strasburgo anche nei casi di violazione dei diritti da parte di atti comunitari¹ ⁴ . D’altra parte, il controllo operato dalla Corte di Strasburgo si estenderebbe a tutta l’area del diritto dell’Unione, determinando l’affermazione della sua lettura dei diritti anche relativamente agli atti dell’Unione e all’applicazione nazionale del diritto europeo¹ ⁵ . Per quanto riguarda, ad esempio, casi relativi alla libertà religiosa collettiva e ai rapporti tra Stati e religioni, una lettura derivante dal rigido sistema di riparto di competenze dell’ordinamento dell’Unione potrebbe cedere il o ad una verifica operata dalla Corte di Strasburgo, utilizzando il più flessibile concetto del “margine di apprezzamento”¹ .
Come si può constatare, siamo di fronte a un quadro molto complesso, nel quale si moltiplicano gli attori e i ruoli sullo scenario europeo della tutela dei diritti umani. Uno degli aspetti che emergono in modo più evidente è la ricerca di un equilibrio tra competenze degli Stati e intervento sovranazionale, in generale nell’ambito della tutela dei diritti, e in particolare in materia religiosa¹ ⁷ . Risulta difficile, tuttavia, individuare quali potranno essere le tendenze e gli sviluppi futuri di questo sistema, in gran parte affidato all’intervento delle corti. Nonostante il rafforzamento della tutela dei diritti fondamentali nell’ordinamento europeo, si può quindi constatare che, da un lato, essa dipende ancora in gran parte dal ruolo dei giudici, la cui opera interpretativa diventa, ai sensi della Carta, pressoché vincolante. Dall’altro lato, nel Trattato di Lisbona esiste quasi una ossessione nel ribadire il principio del riparto delle competenze tra Unione e Stati membri, soprattutto in materie delicate come quella dei diritti fondamentali¹ ⁸ . Le dichiarazioni allegate al trattato da parte di Regno Unito e Polonia vanno in questa direzione¹ ; la costituzionalizzazione del principio di cui all’art. 17 TFUE è una conferma della preoccupazione degli Stati circa un’eccessiva ingerenza del diritto dell’Unione in temi sensibili per le tradizioni nazionali. In altre parole, mentre acconsentono a nuovi meccanismi di tutela dei diritti a livello sovranazionale, gli Stati ribadiscono la propria competenza e pongono limitazioni all’azione europea. In questo quadro, il diritto antidiscriminatorio, nato dopo il trattato di Amsterdam, sembra costituire uno dei pochi interventi nei quali sono stati attribuiti poteri al legislatore sovranazionale per agire in ambiti strettamente collegati ai diritti fondamentali e alla libertà religiosa.
3. L’APPROVAZIONE DELLE DIRETTIVE 2000/43 E 2000/78
Il mutato approccio verso i diritti umani e verso il principio di non discriminazione, interpretato in funzione della tutela dei cittadini europei, ha portato all’introduzione di nuovi divieti e all’elaborazione di nuove politiche, non più meramente funzionali alla realizzazione delle esigenze di mercato¹¹ . Oltre a vari documenti, perlopiù di natura politica, sulla lotta contro il razzismo e altre forme di esclusione e discriminazione (ad esempio l’intolleranza religiosa)¹¹¹ , con la revisione dei trattati ad Amsterdam il nuovo articolo 13 del TCE ha posto i fondamenti giuridici per consentire all’Unione di legiferare su tali questioni. In particolare, l’Unione è stata dotata dei poteri per elaborare norme e politiche per combattere la discriminazione fondata su sesso, razza o origine etnica, religione o credenze, handicap, età ed orientamento sessuale. Si è riconosciuto, quindi, esplicitamente il potere dell’UE di intervenire, pur in un ambito delimitato, in materia religiosa; più in generale, l’art. 13 denota sia la rilevanza del diritto antidiscriminatorio, che diviene un vero e proprio settore di attività delle istituzioni europee, sia una sempre maggiore attenzione per la tutela dei diritti fondamentali, alla quale i nuovi divieti di discriminazione si collegano¹¹² . Non si devono però dimenticare alcuni vincoli posti dal diritto comunitario allo sviluppo degli interventi previsti dall’art. 13. Anzitutto, quest’ultimo si limita ad attribuire un potere alle istituzioni comunitarie e non introduce nei trattati il principio generale di uguaglianza in quanto tale, neppure nella forma della non discriminazione¹¹³ . Si tratta, inoltre, di una norma non immediatamente precettiva, tanto nei confronti del legislatore europeo (non obbliga le istituzioni ad un intervento contro le discriminazioni, ma semplicemente lo permette¹¹⁴ ), quanto nei confronti dei singoli (non ha, infatti, effetti diretti)¹¹⁵ . Infine, i poteri attribuiti all’Unione risultano circoscritti. In primo luogo, infatti, le cause di discriminazione inserite nell’art. 13 costituiscono un elenco tassativo, permettendo un intervento rivolto unicamente alle tipologie espressamente enumerate¹¹ . In secondo luogo, la possibilità di adottare provvedimenti in materia è limitata all’ambito delle competenze conferite dal trattato alla Comunit๹⁷ . Su quest’ultimo punto è necessaria una
precisazione. Poiché, infatti, la materia religiosa non fa parte delle competenze comunitarie, il riferimento alla discriminazione basata sulla religione poteva sembrare vano; tuttavia, come notato dalla più attenta dottrina¹¹⁸ , se detta materia è presente in numerosi settori di competenza dell’Unione, non era da escludersi un intervento volto a vietare la discriminazione (anche) religiosa in tali ambiti. Tale intervento, difatti, non si è fatto attendere. Sulla base dell’articolo 13 del TCE, la Commissione presentò un pacchetto di proposte¹¹ che ha dato avvio a quella che è stata definita una «nuova stagione del diritto antidiscriminatorio europeo»¹² . Nel 2000, a pochi mesi dalle proposte presentate dalla Commissione, vengono adottate la direttiva 2000/43, che vieta la discriminazione fondata sulla razza e l’origine etnica, e la direttiva 2000/78¹²¹ , relativa a tutte le altre cause di discriminazione enunciate nell’art. 13, ad eccezione del sesso, per il quale già esistevano strumenti normativi specifici¹²² . Si tratta di due direttive differenti per ambito di applicazione e per approccio alle forme di discriminazione considerate, ma simili quanto a nozioni utilizzate e rimedi proposti¹²³ . Nella direttiva 2000/43 si è predisposta una normativa apposita per una causa di discriminazione specifica, l’origine etnica, che viene tutelata in un insieme piuttosto ampio di settori (lavoro, formazione professionale, prestazioni sociali, istruzione, accesso a beni e servizi, ecc.)¹²⁴ . La direttiva 2000/78, invece, disciplina varie forme di discriminazione – tra cui quella religiosa – con riferimento ad un singolo settore, quello del lavoro¹²⁵ . Le due direttive disciplinano disgiuntamente due tipologie di discriminazione – quella razziale e quella religiosa – che di solito vengono considerate congiuntamente, sia nel diritto internazionale, sia nei numerosi interventi dell’Unione europea contro il razzismo, sia nello stesso articolo 13 del TCE¹² . Da più parti sono state espresse perplessità rispetto a tale scelta¹²⁷ ; peraltro, in fase di elaborazione delle direttive, da parte degli esperti e di alcune istituzioni comunitarie (in primis il Parlamento europeo) era stata sottolineata l’opportunità di predisporre una disciplina antidiscriminatoria comune per il binomio razzareligione¹²⁸ . Questo, ai fini dell’applicazione delle norme, avrebbe evitato all’interprete di cimentarsi nella distinzione tra l’uno e l’altro termine, operazione che può risultare difficile perché si tratta di caratteristiche spesso sovrapposte, specie nel formarsi di stereotipi che danno origine a esclusioni e disparit๲ .
Per cercare di comprendere le possibili motivazioni del risultato che si è invece raggiunto, si deve rilevare che, mentre esisteva un largo consenso per l’approvazione di una direttiva sulla discriminazione razziale¹³ , non si poteva dire altrettanto riguardo agli altri fattori di discriminazione¹³¹ . In proposito, occorre tener presente che tra i fattori di discriminazione contenuti nell’art. 13 TCE ve ne sono alcuni (ad esempio: l’orientamento sessuale) che, oltre a rappresentare una novità nel diritto antidiscriminatorio “classico”, potevano porre delicati problemi al momento di decidere una loro regolamentazione di dettaglio¹³² . Il divieto di discriminazione religiosa, poi, si collega alla regolamentazione di questioni relative all’esercizio della libertà di religione e al rapporto degli Stati con le confessioni, al governo delle diversità religiose e al bilanciamento del principio di uguaglianza con la domanda di tutela delle diversit๳³ ; a questi problemi ogni Stato dell’UE ha dato storicamente risposte assai differenziate, per cui è ragionevole immaginare che il legislatore europeo, nel rispettare il riparto delle competenze, abbia preferito inserire tale divieto solo nella direttiva 2000/78, senza estenderlo, così, ad ambiti ulteriori rispetto a quello del lavoro¹³⁴ .
4. STRUTTURA E OBIETTIVI DELLE DIRETTIVE
Al di là del diverso ambito di applicazione, lo scopo dichiarato dall’art. 1 di entrambe le direttive è quello di stabilire «un quadro generale per la lotta alle discriminazioni», al fine di rendere effettivo il principio della parità di trattamento in tutti gli Stati membri dell’UE. Per raggiungere questo obiettivo, le due direttive introducono in primo luogo alcuni concetti chiave che definiscono i comportamenti che dovranno essere vietati, in primis la nozione di discriminazione diretta e indiretta. L’art. 2, infatti, afferma che la parità di trattamento, principio che le direttive aspirano a rendere effettivo, va intesa come assenza di discriminazioni¹³⁵ . È stato osservato, a questo proposito, che il dato testuale sembra indicare una perfetta coincidenza tra «parità» e «non discriminazione»¹³ , mentre la dottrina prevalente sostiene che la parità di trattamento implica assenza di discriminazioni ma non si risolve esclusivamente in essa¹³⁷ . La precisazione «ai fini della presente direttiva», posta in apertura dell’art. 2, sembra indicare che l’equivalenza tra i due concetti riguarda unicamente l’applicazione della direttiva e non l’interpretazione tout court dei principi di riferimento. Con questa formulazione, il legislatore comunitario avrebbe scelto di occuparsi dell’obiettivo della parità di trattamento solo attraverso i divieti di discriminazione, senza imporre agli Stati obblighi più estesi per la realizzazione di tale fine. Così, a livello statale, il concetto di parità potrà essere interpretato anche in modo più esteso e potrà implicare interventi in positivo per le pari opportunità e per l’uguaglianza sostanziale¹³⁸ . Ciò anche alla luce dell’articolo 8 della medesima
direttiva 2000/78, in base al quale «gli Stati membri possono introdurre o mantenere, per quanto riguarda il principio della parità di trattamento, disposizioni più favorevoli di quelle previste nella presente direttiva», mentre non possono diminuire la protezione antidiscriminatoria già in vigore nella legislazione nazionale ¹³ .
È opportuno ricordare, a questo proposito, che una direttiva si configura proprio come una normativa quadro. Essa, infatti, per definizione, impone agli Stati un obbligo di risultato, uno scopo da raggiungere, senza determinare regole specifiche direttamente applicabili negli ordinamenti nazionali¹⁴ . Di conseguenza, il legislatore europeo ha dettato una cornice concettuale generale, che definisce uno standard comune di tutela e armonizza alcune definizioni in uso nel territorio dell’Unione, lasciando però agli Stati membri la possibilità di scegliere i mezzi più opportuni per realizzare il principio della parità. Oltre alle nozioni di discriminazione e di altri comportamenti vietati, entrambe le direttive contengono una parte sui mezzi di ricorso, a tutela delle vittime di discriminazione, e sugli strumenti «di esecuzione», volti a promuovere la parità. Tra questi ultimi, solo la direttiva n. 2000/43 prevede l’istituzione da parte degli Stati membri di organismi per le pari opportunità (art. 13), i quali, a livello nazionale, spesso sono stati dotati anche di competenze relative alle altre tipologie di discriminazione¹⁴¹ . Infine, l’ultima parte di entrambe le direttive si occupa di alcune disposizioni finali, che indicano i termini e gli obblighi generali relativi alla trasposizione della direttiva negli Stati membri.
¹ Per trattati istitutivi si intende il Trattato sulla Comunità europea e quello che istituisce l’Unione europea (d’ora in avanti: TCE e TUE), con le successive modifiche. Il primo, inizialmente denominato Trattato che istituisce la Comunità economica europea, fu firmato a Roma il 25 marzo 1957 e a più riprese emendato; le principali revisioni dei trattati sono state introdotte dal Trattato di Maastricht (firmato il 7 febbraio 1992), da quello di Amsterdam (firmato il 2 ottobre 1997) e dal Trattato di Nizza (firmato il 26 febbraio 2001). L’Unione europea fu istituita con il Trattato di Maastricht, in base al quale essa «si fonda sulle comunità europee» ma non le sostituiva; il TUE è stato poi modificato in sede di revisione dei trattati ad Amsterdam e a Nizza. L’ultima revisione è stata disposta dal Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007 ed entrato in vigore il 1° novembre 2009: esso stabilisce che l’Unione europea sostituisce e succede alla Comunità (art. 1, co. 3, nella versione consolidata del TUE) e indica, di conseguenza, la collocazione delle materie precedentemente inserite nel TCE nel nuovo Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE).
² L’Unione (come, prima, la Comunità europea) funziona sulla base del principio di attribuzione, o delle competenze enumerate, secondo quanto stabilito dall’art. 5 del TUE (nella versione consolidata dopo Lisbona; già art. 5, 1° comma, TCE). Sul riparto di competenze tra diritto europeo e diritto interno: F. POCAR, Diritto dell’Unione europea, Milano, Giuffrè, 2010³, p. 98 ss.; G. GAJA, A. ADIONOLFI, Introduzione al diritto dell’Unione europea, Bari-Roma, Laterza, 2012, p. 133 ss.
³ Le uniche libertà esplicitamente garantite dai trattati erano quelle di tipo economico: libertà di circolazione di persone, merci, servizi e capitali. Cfr. G. STROZZI, R. MASTROIANNI, Diritto dell’Unione europea. Parte istituzionale, Torino, Giappichelli 2011⁵, p. 4.
⁴ Nel Trattato sono presenti altre disposizioni sulla non discriminazione, volte a garantire la libertà degli scambi e la circolazione sul territorio comunitario di beni e servizi, oltre che dei lavoratori (ad esempio il divieto di discriminare nel trattamento di produttori e consumatori dei diversi Stati membri, all’art. 34.2);
esse dimostrano l’origine «market related» dei divieti di discriminazione nel diritto europeo. Cfr. G. TESAURO, Eguaglianza e legalità nel diritto comunitario, in «Dir. Unione europea», 1999, n. 1, p. 3 ss.; C. FAVILLI, Uguaglianza e non discriminazione nella Carta dei diritti dell’Unione europea, in U. DE SIERVO (a cura di), La difficile costituzione europea, Bologna, Il Mulino, 2001, p. 227 ss.; F. GHERA, Il principio di eguaglianza nella Costituzione italiana e nel diritto comunitario, Padova, Cedam, 2003, p. 85 ss.; G. MORE, The principle of equal treatment: from market unifier to fundamental right?, in P. CRAIG, G. DE BÚRCA (eds.), The evolution of EU law, Oxford, OUP, 1999, p. 543 ss.; M. BELL, Anti-discrimination law and the European Union, Oxford, OUP, 2002, p. 36 ss.
⁵ La Corte ricostruisce una serie di «principi generali del diritto comunitario» allo scopo di colmare le lacune nell’ordinamento comunitario, nato per finalità limitate e privo, pertanto, di quei parametri che consentissero di risolvere eventuali contrasti tra le norme e di spiegarne il significato. In merito si veda: G. STROZZI, R. MASTROIANNI, Diritto dell’Unione europea, cit., p. 204 ss.; G. GAJA, voce Principi generali del diritto (dir. internazionale), in Enc. Dir., Milano, Giuffrè, XXXV, 1986, p. 542 ss. e, con specifico riferimento al principio di uguaglianza, M.V. BENEDETTELLI, Il giudizio di eguaglianza nell’ordinamento giuridico delle Comunità europee, Padova, Cedam, 1989, p. 91 ss.
Cfr. Corte Giust., Sent. Stauder, 12 novembre 1969, causa n. 29/69. Questa pronuncia e le altre citate in seguito sono reperibili sul sito della Corte di giustizia dell’Unione europea: ww.curia.europa.eu. In generale sul tema: G. GAJA, Aspetti problematici della tutela dei diritti fondamentali nell’ordinamento comunitario, in «Riv. Dir. Int.», 1988, p. 574 ss.; E. PAGANO, I diritti fondamentali nella Comunità Europea dopo Maastricht, in «Dir. Unione europea», 1996, 1, p. 168 ss.; B. DE WITTE, The past and future role of the European Court of Justice in the protection of human rights, in P. ALSTON (coord.), The EU and human rights, New York, Hart, 1999, p. 859 ss.; J.H.H. WEILER, I diritti umani nello spazio giuridico europeo, in B. BEUTLER et al., L’Unione Europea. Istituzioni, ordinamento e politiche, Bologna, Il Mulino, 2001², p. 313 ss.; F. BENOIT-ROHMER, Les droits de l’homme dans l’Union
européenne: de Rome à Nice, in L.S. ROSSI (a cura di), Carta dei diritti fondamentali e Costituzione dell’Unione Europea, Milano, Giuffrè, 2002, p. 19 ss.; P. MENGOZZI, La tutela dei diritti umani nella giurisprudenza comunitaria, ivi, p. 43 ss.
⁷ Tale controllo sarebbe stato incompatibile con il principio della «primacy», ovvero della preminenza del diritto comunitario su quello degli Stati membri (un principio non contemplato nei trattati, ma affermato dalla Corte di giustizia a partire dalla sentenza Costa c. Enel, del 15 luglio 1964) e con quello dell’efficacia diretta (affermato nella sentenza Van Gend en Loos del 5 febbraio 1963), che impongono agli Stati di rispettare il diritto comunitario, di non emanare norme con esso contrastanti e di dare diretta applicazione a determinati tipi di atti (regolamenti e decisioni), senza poterli sottoporre a sindacato di costituzionalità. L’affermazione di tali principi, però, era stata messa in discussione dalle Corti costituzionali italiana e tedesca, che si erano riservate la possibilità di disapplicare le norme europee qualora non fossero state conformi ai principi fondamentali dello Stato, tra i quali il rispetto dei diritti umani.
⁸ La possibilità che il diritto comunitario incidesse sulle libertà fondamentali era, d’altra parte, tutt’altro che remota, poiché da un lato era stata riconosciuta la capacità di alcuni atti di produrre effetti diretti nei confronti degli individui: i regolamenti e le decisioni individuali implicano dirette conseguenze sui cittadini degli Stati membri, dunque potenzialmente anche sui diritti della persona. Inoltre con l’ampliamento delle competenze delle Comunità europee, il diritto comunitario aveva disciplinato un numero via via crescente di settori rilevanti per l’esercizio dei diritti (v. E. PAGANO, I diritti fondamentali, cit., p. 165 ss.).
Cfr. sent. Stauder, cit.; sent. Internationale Handelsgesellschaft, 17 dicembre 1970, causa 11/70. Sulla categoria dei principi generali cfr. G. TESAURO, Diritto dell’Unione europea, Cedam, 2009 , p. 108 ss.; G. STROZZI, R. MASTROIANNI, Diritto dell’Unione europea, cit., p. 215 ss.; G. GAJA, Aspetti problematici, cit., p. 574 ss.
¹ Nella sentenza Internationale Handelsgesellschaft, cit., punti 3-4, la Corte afferma chiaramente che «l’invocazione dei diritti fondamentali, per come formulati nella Costituzione di uno Stato membro, oppure ai principi costituzionali nazionali non può sminuire la validità di un atto comunitario o la sua validità nel territorio dello Stato». Cfr. anche sent. Nold, 14 maggio 1974, causa n. 4/73; sent. Hauer, 13 dicembre 1979, causa n. 44/79; sent. Wachauf, 13 luglio 1989, causa n. 5/88, punti 17-18. Cfr., anche per ulteriori riferimenti: J. COPPEL, A. O’NEILL, The European Court of Justice: taking rights seriously?, in «Common Market Law Rev.», 1992, p. 669 ss.; M. PUÉCHAVY, La protection des droits de l’homme dans l’Union Européenne, in A. CASTRO JOVER (a cura di), Iglesias, confesiones y comunidades religiosas en la Unión Europea, Bilbao, 1999, p. 62 ss.; E. PAGANO, I diritti fondamentali nella Comunità Europea dopo Maastricht, cit., p. 170 ss.
¹¹ Da notare che, in questo come in altri ambiti, il sistema comunitario presenta aspetti tipici dei sistemi di common law, nei quali diritti e principi sono ricavati anche da fonti non scritte e l’operato del giudice ha un ruolo centrale.
¹² Tra le prime pronunce che hanno fatto ricorso a tale concetto: sent. Internationale Handelsgesellschaft, cit., punto 4; sent. Nold, cit., punto 13. È da precisare che quando la Corte parla di «tradizioni costituzionali comuni» non intende riferirsi unicamente a principi o norme presenti in tutti gli Stati membri, ma anche a quelli appartenenti ad alcuni ordinamenti soltanto, quando risultino appropriati per la tutela dei diritti in ambito comunitario. A tal proposito, si è parlato di «better law»: ciò non significa che la Corte utilizzerà la tradizione costituzionale che assicura la tutela più ampia per l’individuo, ma quella che è «la migliore» norma per la costruzione del sistema di tutela dei diritti nell’ordinamento comunitario, date le sue peculiari caratteristiche ed esigenze. La Corte opera, in questo senso, con grande discrezionalità e rielaborando i diritti propri degli Stati alla luce delle finalità sovranazionali. Sul punto cfr. G. GAJA, Aspetti problematici della tutela dei diritti fondamentali nell’ordinamento comunitario, cit., p. 577 ss.; G. STROZZI, R. MASTROIANNI, Diritto dell’Unione europea, cit., p. 223 ss.
¹³ È importante ricordare che, mentre gli obiettivi dell’Unione sono, soprattutto all’inizio del processo di integrazione europea, primariamente economici, il tema dei diritti umani è stato oggetto di altre organizzazioni internazionali sorte nel secondo dopoguerra (ONU e Consiglio d’Europa, in primis), in seno alle quali sono state firmate varie convenzioni, sia sui diritti in generale (per l’ambito europeo fondamentale è il riferimento alla CEDU, Convenzione europea per la Salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma nel 1950) sia sulla lotta alla discriminazione (da ricordare qui la Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, CERD, mentre per quanto riguarda la discriminazione religiosa esiste soltanto una Dichiarazione, firmata nel 1981, dal valore appunto non vincolante). Alla CEDU si farà riferimento varie volte nel prosieguo della trattazione; sulle norme internazionali sulla libertà religiosa cfr., sin d’ora B. CONFORTI, La tutela internazionale della libertà religiosa, in «Riv. int. dir. uomo», 2002, n. 2, p. 269 ss.; MORVIDUCCI, La protezione della libertà religiosa nel sistema del Consiglio d'Europa, in La tutela della libertà di religione. Ordinamento internazionale e normative confessionali, a cura di S. FERRARI, T. SCOVAZZI, Padova, Cedam, 1988, p. 41 ss.
¹⁴ Cfr. sent. Nold, cit., punto 12; sent. Hauer, cit., punto 15. In dottrina, tra gli altri, K. LENAERTS, E. DE SMIJTER, A “Bill of Rights” for the European Union, in «Common Market Law Rev.», 2001, 2, p. 276; G. STROZZI, La tutela dei diritti fondamentali tra diritto comunitario e ordinamenti degli stati membri, in Scritti degli allievi in memoria di Giuseppe Barile, Padova, Cedam, 1995, p. 728. Da queste fonti, peraltro, la Corte di giustizia si è limitata a prendere ispirazione: non ha trasfuso nell’ordinamento europeo i diritti da esse sanciti, ma le ha utilizzate per ricavarne i contenuti e l’interpretazione più consoni al sistema comunitario e alla realizzazione delle finalità dei trattati. In base alla giurisprudenza della Corte, infatti, i diritti umani non sono tutelati in quanto sanciti dagli Stati membri o da fonti esterne al suo ordinamento (quali la CEDU e le altre convenzioni internazionali), ma in quanto riconducibili a principi propri del diritto europeo (cfr. G. STROZZI, G. MASTROIANNI, Diritto dell’Unione europea, cit., p. 219 ss.).
¹⁵ I principi generali – tra i quali la Corte include la tutela dei diritti umani – rappresentano un parametro di legittimità per gli atti delle istituzioni comunitarie e per quelli degli Stati quando agiscano in attuazione del diritto comunitario, quindi si trovano in una posizione gerarchicamente superiore rispetto agli atti dell’Unione. Rispetto alle norme dei Trattati, invece, non possono portare ad un loro sindacato di legittimità, ma ne determinano criteri interpretativi (cfr. G. STROZZI, R. MASTROIANNI, Diritto dell’Unione europea, cit., p. 205 ss.). Anche i diritti fondamentali, in quanto principi generali, sarebbero considerati come parametri di legittimità degli atti delle istituzioni comunitarie e come parametri interpretativi delle norme dei Trattati; nei confronti di queste ultime, tuttavia, i principi generali non sarebbero gerarchicamente superiori. In assenza di chiarezza circa la preminenza di una fonte o dell’altra, la Corte di giustizia ha solitamente operato un bilanciamento tra obiettivi dell’integrazione europea, espressi dai trattati, e tutela dei diritti. Con le modifiche introdotte con il Trattato di Maastricht, la protezione dei diritti è sancita da un articolo del Trattato e ne risulta, perciò, una loro mutata posizione nella gerarchia delle fonti (G. GAJA, Introduzione al diritto comunitario, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 105 ss.).
¹ Cfr. J. COPPEL, A. O’NEILL, The European Court of Justice: taking rights seriously?, cit., p. 691-692; J. H. H. WEILER, I diritti umani nello spazio giuridico europeo, cit., p. 317 ss.; G. STROZZI, La tutela dei diritti fondamentali, cit., p. 721 ss.
¹⁷ In generale i diritti fondamentali sono incorporati nel sistema comunitario dalla Corte a determinate condizioni: sono, in particolare, subordinati alla compatibilità con i principi essenziali e con le finalità dell’ordinamento comunitario. La Corte, inoltre, ha ribadito più volte che essa utilizza i principi e i diritti che meglio rispondono agli obiettivi dell’integrazione europea (sent. Wachauf e Grant, cit.; più di recente sent. 30 luglio 1996, Bosphorus, causa n. C84/95; sent. 18 dicembre 2007, Laval, causa n. C-341-05).
¹⁸ La Corte opera, quindi, con grande discrezionalità e rielaborando i diritti propri degli Stati alla luce delle finalità sovranazionali. Sul concetto di
«tradizioni costituzionali comuni» cfr. supra, nota n. 12.
¹ E. PAGANO, I diritti fondamentali, cit., p. 184 ss.; R. BIFULCO, M. CARTABIA, A. CELOTTO, Introduzione, in L’Europa dei diritti, a cura di R. BIFULCO, M. CARTABIA, A. CELOTTO, Bologna, Il Mulino 2001, p. 20 ss.
² Lo ribadisce la Corte nel parere n. 2/94 del 28 marzo 1996, Adesione della Comunità alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, in «Racc. giurisprudenza», 1996, p. I-1759 e in «Common Market Law Rev.», 1996, p. 973 ss., con nota di G. GAJA.
²¹ Corte di giustizia, sent. Grant del 17 febbraio 1998, causa n. 249/96.
²² La Corte non aveva poteri sul c.d. secondo pilastro, ovvero sulla Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC), e competenze limitate nel terzo pilastro, relativo alla cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale. Il Trattato di Lisbona, in vigore dal 2009, ha superato la struttura dei pilastri e alla Corte è stata data competenza nelle materie del terzo pilastro, che viene equiparato al primo (che veniva considerato il pilastro “comunitario”). Sono tuttora previste limitazioni alla giurisdizione della Corte nella PESC, per la quale anche la produzione normativa e le competenze delle istituzioni seguono regole a parte (artt. 275 e 276 TFUE). In merito J. ZILLER, Il nuovo trattato europeo, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 70 ss.; R. BARATTA, Le principali novità del Trattato di Lisbona, in «Dir. Unione europea», 2008, p. 27 ss.
²³ In particolare, deve essere dimostrato un collegamento del diritto in questione con una situazione che rientra in ambiti di competenza dell’Unione. Tra le ipotesi di controllo della Corte su atti di diritto interno, si possono ricordare in primo luogo i casi in cui uno Stato stia attuando una norma dell’Unione (ad esempio un regolamento o una direttiva), dove la ratio è che, negli ambiti in cui
gli Stati hanno rinunciato alle loro competenze, la loro azione dovrà risultare conforme al diritto dell’Unione e quindi potrà essere controllata dalla Corte, alla luce dei principi generali da essa consacrati (tra i quali i diritti fondamentali). Cfr. sent. Wachauf, cit., Cinéthèque, cause riun. n. 60/84 e 61/84, punto 26; Demirel, causa n. 12/86, punto 28; ERT, causa n. 260/89, punto 42; in dottrina, anche per ulteriori riferimenti, J. COPPEL, A. O’NEILL, The European Court of Justice: taking rights seriously?, cit., p. 678; G. GAJA, Aspetti problematici, cit., p. 586 ss.; G. STROZZI, R. MASTROIANNI, Diritto dell’Unione europea, cit., p. 226 ss.
²⁴ La Corte può giudicare degli atti che riguardano settori di esclusiva competenza dell’Unione, anche se non emessi in attuazione di atti sovranazionali, cfr. sent. Rutili n. 36/75. Talvolta si è ammessa la possibilità della Corte a pronunciarsi anche quando il collegamento tra competenze statali e competenze dell’Unione era solo indiretto, ovvero quando uno Stato metteva in atto interventi che si riflettevano su ambiti di competenza dell’Unione o su ambiti di competenza concorrente. La valutazione della Corte determinerà caso per caso la possibilità di operare un sindacato su atti interni (cfr. sent. 15 giugno 1978, Defrenne III, n. 149/77). Da notare che, comunque, il sistema di riparto delle competenze tra UE e Stati non sempre individua confini rigidi e netti.
²⁵ Per alcuni esempi di “intersezioni” tra diritto europeo e fattore religioso cfr. M. VENTURA, La laicità dell’Unione Europea. Diritti, mercato, religione, Torino, Giappichelli, 2001, p. 121 ss.; A. PAULY, Modestes réflexions à propos d’une recherche empirique, in AA.VV., Religions in the European Union Law, Milano, Giuffré, 1998, p. 149 ss.; in generale sul tema F. MARGIOTTA BROGLIO, Il fenomeno religioso nel sistema giuridico dell’Unione Europea, in F. MARGIOTTA BROGLIO, C. MIRABELLI, F. ONIDA, Religioni e sistemi giuridici, Bologna, Il Mulino, 2000, p. 144 ss.; G. MACRÌ, Il fenomeno religioso nel sistema giuridico dell’Unione Europea, in G. MACRÌ, M. PARISI, V. TOZZI, Diritto ecclesiastico europeo, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 79 ss.
² M. VENTURA, La laicità dell’Unione europea, cit., p. 130 ss.
²⁷ La CEDU sancisce all’art. 9 la libertà di pensiero, coscienza e religione, mentre nel Protocollo addizionale n.1, firmato nel 1952, si occupa della libertà religiosa in materia di insegnamento. Tra le facoltà comprese in tale diritto – precisate in varie occasioni dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo – vi sono la libertà di avere o non avere una religione di propria scelta, di cambiarla, di farne propaganda e di manifestarla, di esercitare il culto individualmente o collettivamente, il diritto a ricevere un’istruzione conforme ai propri convincimenti, il diritto a non subire discriminazioni a motivo del proprio credo, quest’ultimo ricavato dalla lettura congiunta degli artt. 9 e 14 della CEDU. In ambito internazionale, il diritto di libertà religiosa è sancito – tra le altre convenzioni – dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (art. 18) e dal Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966 (art. 18). Sulla libertà religiosa nella CEDU: F. MARGIOTTA BROGLIO, La protezione internazionale della libertà religiosa nella Convenzione Europea, Milano, Giuffrè, 1967; C. MORVIDUCCI, La protezione della libertà religiosa, cit., p. 41 ss.; C. EVANS, Freedom of religion under the European Convention on human rights, Oxford, OUP, 2001; M. PARISI, La tutela giurisdizionale del fenomeno religioso in Europa, in G. MACRÌ, M. PARISI, V. TOZZI, Diritto ecclesiastico europeo, cit., p. 162 ss.; sulle norme internazionali cfr. B. CONFORTI, La tutela internazionale della libertà religiosa, cit., p. 269 ss.
²⁸ Se possono esservi alcune variazioni nella modalità di accordare tutela alla libertà religiosa, un nucleo fondamentale di diritti ad essa collegati è riconosciuto in modo sostanzialmente analogo da tutti i paesi dell’UE; più difficile l’individuazione di una «tradizione costituzionale comune» relativa allo status delle organizzazioni religiose e alla libertà religiosa in forma collettiva. Sono note infatti le profonde differenze tra i sistemi nazionali di rapporti tra Stato e confessioni religiose, un ambito nel quale, come vedremo, il diritto comunitario non solo non ha individuato diritti e principi comuni, ma neppure intende intervenire. In merito cfr. F. MARGIOTTA BROGLIO, Il fenomeno religioso, cit., p. 170 ss.; M. VENTURA, La laicità dell’Unione europea, cit., p. 91 ss.; T. GROPPI, Articolo 10, in L’Europa dei diritti, a cura di R. BIFULCO, M. CARTABIA, A. CELOTTO, cit., p. 95 ss.
² Nella sentenza 27 ottobre 1976, Prais (ric. n. 130/75) una candidata a un concorso per funzionari della Comunità lamentava una discriminazione fondata sulla religione, poichè la data del concorso coincideva con una festività religiosa ebraica; la ricorrente si trovava, così, costretta a non partecipare alle prove per non violare un precetto confessionale. Pur rigettando il ricorso, la Corte affermò il dovere dell’amministrazione competente di tener conto delle esigenze religiose e di evitare di fissare – per quanto possibile – concorsi ed esami in corrispondenza dei giorni festivi delle varie religioni. I parametri considerati per affermare il diritto di libertà religiosa sono le convenzioni internazionali ma anche le legislazioni nazionali. Per un commento alla sentenza: G. ROBBERS, Stato e Chiesa nell’Unione Europea, in G. ROBBERS (ed.), Stato e Chiesa nell’Unione Europea, Baden-Baden, Nomos, 1996, p. 354; M. VENTURA, La laicità dell’Unione, cit., p. 31-32.
³ Benché la tutela richiesta dalla ricorrente sia stata negata nel caso di specie, si tratta di un’interpretazione del diritto di libertà religiosa che comprende anche la previsione di un intervento positivo a favore delle esigenze religiose dei singoli.
³¹ Cfr. M. VENTURA, La laicità dell’Unione Europea, cit. p. 149 ss.
³² In particolare, relativamente al divieto di discriminazione, la Corte non lo utilizza come principio orientato a garantire l’uguaglianza nell’esercizio della libertà religiosa (come accade, invece, con le clausole di non discriminazione stabilite dalle convenzioni internazionali), ma in modo che l’elemento religioso non comporti eccessive restrizioni per la libera circolazione e per la realizzazione degli obiettivi del Trattato. Cfr. ad esempio la sentenza 14 marzo 2000, Association Eglise de Scientologie de Paris (causa n. 54/99). Anche il principio di libera circolazione è stato utilizzato dalla Corte per valutare i casi caratterizzati religiosamente, uniformando gli interessi e i diritti di natura religiosa ai parametri del diritto comunitario: cfr. sent. 23 ottobre 1986, van Roosmalen, causa n. 300/84; sent. 5 ottobre 1988, Steymann, causa n. 196/87, nelle quali l’attività di ministri di culto viene equiparata a quella di un lavoratore, così da applicare ai casi di specie il principio di libera circolazione. In
tema, anche per ulteriori riferimenti: M. VENTURA, La laicità dell’Unione Europea, cit., p. 136 ss.; A. PAULY, Modestes réflexions à propos d’une recherche empirique, cit., p. 149 ss.; L.L. CHRISTIANS, Droit et religion dans le Traité d’Amsterdam: une étape décisive?, in Y. LEJEUNE (a cura di), Le Traité d’Amsterdam: espoirs et déceptions, Bruxelles, 1998, p. 212 ss.
³³ Corte giust., sent. 12 nov. 1996, Regno Unito c. Consiglio, n. 84/94, punto 37; sent. 24 marzo 1994, Her Majesty’s Customs and Excise, n. 275/92, punti 60-61.
³⁴ Ad esempio: nei casi relativi al lavoro domenicale (v. sent. Regno Unito c. Consiglio, cit.; sent. 20 giugno 1996, Semeraro Casa Uno Srl ed altri), non si trattava di una incompetenza tout court dell’Unione, dato che la controversia riguardava un settore di sua competenza (il lavoro), quanto di casi nei quali emergeva l’elemento religioso (e culturale) e la Corte ha preferito far salve le caratteristiche degli ordinamenti nazionali. In tema sia consentito il rinvio a S. COGLIEVINA, Festività religiose e riposi settimanali nelle società multiculturali. La normativa italiana alla prova del diritto antidiscriminatorio europeo, in «Laicidad y libertades», 2007, p. 129 ss.
³⁵ A questo proposito si ricordi che l’art. 4.2 del TUE (già art. 6.3 TUE) stabilisce che «l’Unione rispetta l’identità nazionale degli Stati membri», nella quale sono da ricomprendere anche le caratteristiche culturali e religiose. Cfr. F. MARGIOTTA BROGLIO, Il fenomeno religioso nel sistema giuridico dell’Unione, cit., p. 146.
³ Ad esempio nella sentenza del 4 dicembre 1974, Van Duyn (n. 41/74) la Corte di giustizia ha ritenuto legittima la deroga al principio di libera circolazione imposta dalle autorità britanniche ad una appartenente alla chiesa di Scientology, in forza di esigenze di ordine pubblico. La Corte ha fatto salva, in questo caso, la nozione di ordine pubblico utilizzata nel Regno Unito per giustificare una limitazione alla libera circolazione; in altre parole, i principi fondamentali del mercato unico sono stati subordinati all’esigenza di preservare una caratteristica
nazionale. Analoga argomentazione è stata utilizzata nella sent. Association Eglise de Scientologie de Paris, cit., che giunge a conclusioni opposte: il diritto comunitario lascia liberi gli Stati membri di determinare un sistema di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblici (par. 17). La tutela della libertà religiosa nell’ordinamento comunitario – come quella degli altri diritti umani – sembra risultare da un complesso sistema di pesi e contrappesi, nel quale giocano un ruolo fondamentale i principi “economici” che sorreggono l’integrazione europea. Questo atteggiamento, come si vedrà, sembra particolarmente rilevante per la costruzione del diritto antidiscriminatorio che, proprio per sua natura, cerca di bilanciare gli interessi di mercato con i diritti dell’individuo. E ciò in particolare per quanto riguarda il fattore religioso, alla luce dei criteri che guidano il diritto comunitario in materia (in primis la dichiarazione n. 11 annessa al Trattato di Amsterdam, poi divenuta art. 17 del Trattato di Lisbona, sulla quale si tornerà tra breve). Cfr. M. VENTURA, La laicità dell’Unione, cit., p. 160 ss.; L.L. CHRISTIANS, Droit et religion dans le Traité d’Amsterdam, cit., p. 196 ss.
³⁷ Cfr. J. CRUZ-VILLALÓN, Lo sviluppo della tutela antidiscriminatoria nel diritto comunitario, in «Giornale dir. lavoro e rel. industriali», 2003, n. 3-4, p. 351; F. GHERA, Il principio di eguaglianza, cit., p. 94; C. FAVILLI, La non discriminazione nell’Unione europea, Bologna, il Mulino 2008, p. 183 ss. La portata dei divieti enunciati nel Trattato era, peraltro, limitata, estendendosi unicamente al «campo di applicazione del Trattato» (art. 12 TCE), oppure ad ambiti ancora più ristretti, quale la parità retributiva per quanto riguarda la discriminazione in base al sesso.
³⁸ M.V. BENEDETTELLI, Il giudizio di eguaglianza, cit., p. 207 ss.
³ Nella maggior parte delle convenzioni internazionali sulla tutela dei diritti fondamentali, è prevista una norma che vieta la discriminazione nel godimento dei diritti sanciti nella convenzione stessa.
⁴ S. SPINACI, Divieto comunitario di discriminazione in base alla nazionalità e
principio costituzionale di eguaglianza, in «Diritto pubblico», 1/2007, p. 241 ss.
⁴¹ L’art. 141, sebbene appaia collegato con i diritti sociali dei lavoratori e con la tutela del lavoro femminile, nasce dalla volontà dei negoziatori si di evitare una concorrenza sleale nel mercato comunitario, giacché la Francia era l’unico Stato che, all’epoca, applicava la regola della parità retributiva tra uomini e donne: v. M. BARBERA, Discriminazioni ed uguaglianza nel rapporto di lavoro, Milano, Giuffrè, 1991, p. 85 ss.; F. GHERA, Il principio di eguaglianza, cit., p. 89 ss.
⁴² Come notato da C. FAVILLI (La non discriminazione nell’Unione europea, cit., p. 183), la Corte di solito utilizza indistintamente le espressioni «principio generale di non discriminazione» e «principio di uguaglianza», sebbene abbiano, almeno negli ordinamenti degli Stati, significati differenti.
⁴³ Così, ad esempio, la sentenza Ruckdeschel & Co, 19 ottobre 1977: «Il divieto di discriminazione enunciato dalla norma summenzionata è solo l’espressione specifica del principio generale di uguaglianza che fa parte dei principi fondamentali del diritto comunitario». Nello stesso senso, sent. Uberschar 8 ottobre 1980, n. 810/79. Su questa evoluzione: F.J. JACOBS, An introduction to the general principle of equality in EC law, in A. DASHWOOD, S. O’LEARY (eds.), The principle of equal treatment in E.C. law, London, Sweet & Maxwell, 1997, p. 1 ss.
⁴⁴ M. BELL, The principle of Equal Treatment: widening and deepening, in P. CRAIG, G. DE BURCA (eds.), The Evolution of EU Law, Oxford, OUP, 2011², p. 626 ss.
⁴⁵ Occorre ricordare che inizialmente le sentenze sul principio di non discriminazione riguardavano spesso la discriminazione tra prodotti e la libera
circolazione di merci e servizi nel territorio delle Comunità. Attraverso la giurisprudenza relativa all’art. 12 del TCE e lo sviluppo di un sistema comunitario di tutela dei diritti, si è poi applicato il principio anche alle libertà individuali. Cfr. D. SCHIEK, L. WADDINGTON, M. BELL et al. (eds.), Cases, materials and Text on National, Supranational and International NonDiscrimination Law, Oxford-Portland, Hart 2007, p. 3 ss.
⁴ Cfr. C. FAVILLI, La non discriminazione nell’Unione europea, cit., p. 184 ss. La Corte di Lussemburgo, affermando l’esistenza di un principio di uguaglianza, ha svolto un’operazione inversa rispetto a quella che si verifica negli ordinamenti statali, nei quali è dal principio costituzionale di uguaglianza che vengono derivati i singoli divieti di discriminazione (F. SORRENTINO, Il principio di eguaglianza nella giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di giustizia delle Comunità europee, in «Pol. Diritto», 2001, p. 185; F. GHERA, Il principio di eguaglianza, cit., p. 223 ss.). Questi ultimi, quando rivolti al legislatore, servono ad esplicitare quali sono i motivi che rendono illegittima una differenziazione normativa (fatta salva la possibilità di dimostrarne la ragionevolezza); essi non esauriscono i contenuti del principio di uguaglianza, che viene declinato non solo come assenza di discriminazioni, ma anche come uguaglianza sostanziale, e così via. Si tornerà in seguito sulle interpretazioni nazionali del principio di uguaglianza (cap. III, par. 1). Per il momento basti ricordare che le peculiari caratteristiche dell’ordinamento comunitario hanno comportato che il principio sia stato enunciato in seguito ai divieti, e non viceversa. Così, se le tradizioni costituzionali degli Stati possono avere un’influenza sulla ricostruzione dei significati del principio di uguaglianza e di non discriminazione, tale principio assume per il diritto europeo un ruolo e una portata propri; dal livello sovranazionale, il principio può poi tornare ad influire sul livello nazionale, determinando nuovi diritti e obblighi per gli Stati.
⁴⁷ Cfr. C. FAVILLI, La non discriminazione nell’Unione europea, cit., p. 189 ss. In alcuni casi, il giudice europeo ha ampliato l’applicazione dei divieti presenti nei trattati; in altre occasioni ha manifestato un maggiore restraint, soprattutto quando le fattispecie considerate non vedevano orientamenti condivisi da parte degli Stati, come nelle questioni sulla parità in base all’orientamento sessuale. L’estensione dell’applicabilità dei divieti si deve a due tecniche: in alcuni casi la
Corte ha deciso tale estensione a partire dall’enunciato del principio di uguaglianza, in altri ha applicato le norme esistenti ad altre fattispecie, per via analogica (ad esempio, il divieto di discriminazione fondato sulla nazionalità è stato applicato non soltanto agli operatori economici, ma anche agli studenti: cfr. sent. 13 febbraio 1985, Gravier v. City of Liège, n. 293-83). Sono state poi progressivamente approvate nuove norme che, pur se limitate ai due fattori di discriminazione contemplati dai trattati, hanno consolidato nel tempo l’azione comunitaria in materia e le hanno attribuito una posizione sempre più rilevante tra i settori di attività dell’Unione europea. Cfr. G. MORE, The principle of equal treatment, cit., spec. p. 536 ss. A. SOMEK, A Constitution for Antidiscrimination: Exploring the Vanguard Moment of Community Law, in «European Law Journal», 1999 (5), n. 3, pp. 243 ss.
⁴⁸ L’esistenza di una simile «tradizione costituzionale comune» non implica di per sé che sia affermata nell’ordinamento europeo: quest’ultimo, come ricordato, prende ispirazione dalle fonti esterne, ricostruendo principi e diritti in base alle proprie finalità e caratteristiche.
⁴ In particolare, la discriminazione religiosa viene espressamente menzionata nell’art. 13, inserito con il trattato di Amsterdam, e vietata dalla direttiva n. 2000/78 del 27 novembre 2000.
⁵ Con il trattato di Amsterdam e l’introduzione dell’art. 13 nel TCE culmina il processo di attrazione della non discriminazione nell’area dei diritti umani.
⁵¹ Sulla direttiva ci si soffermerà ampiamente tra breve.
⁵² Così, ad esempio, la sentenza 22 novembre 2005, Mangold, n. 144-04. In questa pronuncia la Corte ragiona sugli effetti di una direttiva (la n. 2000/78) non ancora recepita e afferma l’esistenza di un principio generale di non
discriminazione in base all’età (v. C. FAVILLI, La non discriminazione, cit., p. 190 ss.)
⁵³ Per effetto diretto si intende la capacità di una norma dei trattati dell’Unione non solo di produrre obblighi giuridici nei confronti degli Stati, ma anche di far sorgere diritti e doveri direttamente per persone fisiche e giuridiche, indipendentemente dall’attuazione della norma comunitaria negli ordinamenti interni (sent. Van Gend & Loos, cit.).
⁵⁴ Sulle caratteristiche e gli effetti di una direttiva v. infra, cap. par. 6.
⁵⁵ Questo vincolo, come vedremo, è connesso al concetto di uguaglianza formale e ne deriva un principio di ragionevolezza, in base al quale situazioni uguali debbono essere trattate in ugual maniera e situazioni diverse in modo diverso. In merito cfr. infra, cap. III, par. 1 e sin d’ora A. CERRI, L’eguaglianza nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, Milano, Giuffrè, 1976, p. 20 ss.; F. MÉLIN-SOUCRAMANIEN, Le principe d’égalité dans la jurisprudence du Conseil constitutionnel, Aix-en-Provence, PUAM, 1997.
⁵ C. FAVILLI, La non discriminazione nell’Unione europea, cit., p. 186-7. Gli Stati tendono a privilegiare il giudizio sull’uguaglianza, analizzando la ragionevolezza delle norme. La valutazione e i concetti tipici del diritto antidiscriminatorio faranno ingresso negli ordinamenti statali, nella maggior parte dei casi, solo dopo l’applicazione del diritto comunitario.
⁵⁷ F. SORRENTINO, Il principio di eguaglianza nella giurisprudenza della Corte, cit., p. 186.
⁵⁸ È stato rilevato (C. FAVILLI, La non discriminazione nell’Unione europea, p. 185 ss.) che vi è un potenziale contrasto tra il principio di uguaglianza interpretato a livello europeo e quello sancito dagli Stati. Infatti, i significati dell’uguaglianza e della non discriminazione, sui quali ci si soffermerà più avanti ampiamente, sono particolarmente diversificati negli ordinamenti statali, e assumono sfumature ancora diverse nell’ordinamento europeo. Ciò è vero anche nell’interpretazione delle varie sfaccettature del principio di uguaglianza: ad esempio, l’uguaglianza sostanziale inizia ad essere considerata nell’ordinamento comunitario (Corte giust., sent. 11 novembre 1997, Marschall, n. C-409/95), ma con molti distinguo e resistenze da parte degli Stati mentre manca una posizione comune sul punto (M. BELL, The principle of Equal Treatment, cit., p. 628 ss.).
⁵ Ex multis, Corte di giustizia, sent. 15 giugno 1978, Defrenne III, cit.
Corte di giustizia, sent. 30 aprile 1996, P. contro S. e Cornwall County Council, causa C-13/94. In merito M. BARBERA, Discriminazioni ed eguaglianza nel rapporto di lavoro, cit., p. 111 ss.; F. GHERA, Il principio di eguaglianza, cit., p. 140 ss.
¹ L’art. 6 ribadisce quanto affermato dalla giurisprudenza della Corte, sia relativamente alla qualificazione dei diritti umani («in quanto principi generali del diritto comunitario»), sia relativamente agli strumenti di riferimento (la CEDU e le tradizioni costituzionali comuni). Se è vero che tale norma fa chiarezza sulla posizione della tutela dei diritti nella gerarchia delle norme, nelle sentenze della Corte tale acquisita superiorità gerarchica non determina sostanziali cambiamenti, poiché la protezione dei diritti continua ad essere bilanciata dagli obiettivi dei trattati. Cfr. E. PAGANO, I diritti fondamentali nella Comunità Europea dopo Maastricht, cit., p. 188 ss.; L.S. ROSSI, Con il Trattato di Amsterdam l’Unione è più vicina ai suoi cittadini?, in «Dir. Unione europea», 1998, 2-3, p. 340 ss.
² Articolo in vigore anche dopo le modifiche di Lisbona, con la medesima
formulazione (art. 7 TUE). In tema cfr. L.S. ROSSI, op. ult. cit., p. 341 ss.
³ Sull’art. 13 cfr. G. CHITI, Il principio di non discriminazione e il Trattato di Amsterdam, in «Riv. It. Dir. Pubbl. comunitario», 2000, 3, p. 851 ss.; L. FLYNN, The implications of Article 13 EC - After Amsterdam, will some forms of discrimination be more equal than others?, in «Common Market Law Rev.», 1999, n. 2, p. 1127 ss.; M. BELL, Anti-discrimination law and the European Union, cit., p. 121 ss.
⁴ G. DE SIMONE, Dai principi alle regole: eguaglianza e divieti di discriminazione nella disciplina dei rapporti di lavoro, Torino, Giappichelli, 2001, p. 75; S. FREDMAN, Equality: a new generation?, in «Industrial Law Journal», 2001, n. 2, p. 150 ss.
⁵ Possibilità negata anzitutto dalla Corte di giustizia, con il già citato parere n. 2/94 del 28 marzo 1996.
Sull’elaborazione della Carta cfr. A. MANZELLA, P. MELOGRANI, E. PACIOTTI, S. RODOTÀ, Riscrivere i diritti in Europa. La Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, Bologna, Il Mulino 2001; R. BIFULCO, M. CARTABIA, A. CELOTTO, Introduzione, cit., p. 13 ss.; K. LENAERTS, E. DE SMIJTER, A “Bill of Rights” for the European Union, cit., p. 273 ss.
⁷ Con la firma nel 2007 del trattato di Lisbona – che determina il quadro giuridico vigente, come si dirà nel par. 2.2 – è stata affrontata nuovamente la questione dei diritti fondamentali e della loro collocazione nell’azione dell’Unione. Tale questione era stata molto discussa anche nell’elaborazione della cosiddetta “Costituzione europea” (Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa), che rispondeva al progetto di dotare l’Unione di caratteristiche tipicamente costituzionali e di dare una connotazione politica all’integrazione
europea, svoltasi prevalentemente nel senso di una integrazione economica e monetaria. La Carta avrebbe dovuto essere inserita in tale Trattato, che fu firmato il 29 ottobre 2004 ma mai ratificato dagli Stati. L’elaborazione della Costituzione per l’Europa generò un ampio dibattito anche sulla presenza nell’articolato di alcuni riferimenti al fattore religioso, in primis sull’ipotesi di inserire nel preambolo una menzione delle «radici cristiane» dell’Unione europea. In tema cfr. O. FUMAGALLI CARULLI, Costituzione europea, radici cristiane e Chiese, gennaio 2005, in OLIR.it, http://tinyurl.com/q6kg938; v. anche M.C. IVALDI, Il fattore religioso, cit., p. 62.
⁸ In tema cfr. L.S. ROSSI (a cura di), Carta dei diritti fondamentali e Costituzione dell’Unione Europea, cit., specialmente i contributi di B. CONFORTI e F. BENOIT-ROHMER; A. PACE, A che serve la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea? Appunti preliminari, in «Giur. Cost.», 2001, n. 1-2, p. 193 ss.; sul dibattito dottrinale circa il valore giuridico della Carta v. C. CARLETTI, I diritti fondamentali e l’Unione europea tra Carta di Nizza e Trattato-Costituzione, Milano, Giuffrè, 2005, p. 53 ss.
Per alcuni esempi C. CARLETTI, op. cit., p. 43 ss.
⁷ Il primo paragrafo riproduce sostanzialmente il disposto dell’art. 9 CEDU; d’altra parte, era stato espressamente previsto di far riferimento, per la stesura della Carta, alla CEDU e alle fonti europee relative ai diritti umani (cfr. R. BIFULCO, M. CARTABIA, A. CELOTTO, Introduzione, cit., p. 14 ss.). Accanto alle somiglianze, si notano alcune differenze con il testo della Convenzione europea. Anzitutto l’art. 10 non contiene una previsione esplicita delle limitazioni al diritto di manifestare la religione o il credo, come nell’art. 9.2 CEDU. Tale assenza non inibisce la possibilità di apporre restrizioni al diritto di libertà religiosa, poiché l’art. 52.1 della Carta prevede che tutti i diritti ivi riconosciuti possano essere limitati per legge, nel rispetto di alcune condizioni. Da ricordare che le restrizioni previste dall’art. 52.1 in linea teorica avrebbero potuto riguardare non soltanto la libertà di manifestare la religione, come stabilito dall’art. 9.2 della CEDU, ma l’intero e più ampio contenuto dell’art. 10
della Carta. La portata di quest’ultima norma, grazie al riferimento di cui all’art. 52.3, dovrà essere, invece, considerata identica a quella dell’art. 9 della CEDU, anche in merito alle eventuali restrizioni (v. Spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali, in «Gazzetta ufficiale dell’UE», n. C-303, 14 dicembre 2007, p. 21. Un’altra differenza rispetto all’art. 9 della CEDU, riguarda la menzione esplicita del diritto all’obiezione di coscienza nell’art. 10 della Carta. Tale diritto, tuttavia, è stato riconosciuto anche nel sistema della CEDU, attraverso la giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Sull’art. 10 cfr. T. GROPPI, Art. 10, cit., p. 92 ss.; C. CARLETTI, I diritti fondamentali, cit., p. 115 ss.; M. VENTURA, La laicità dell’Unione europea, cit., p. 45 ss.
⁷¹ Tra le clausole di non discriminazione inserite nei patti internazionali sui diritti umani si ricordano l’art. 14 CEDU, l’art. 2 della Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo, l’art. 2 del Patto internazionale sui Diritti civili e politici.
⁷² L’art. 22, secondo la dottrina, sarebbe più simile a una dichiarazione programmatica che non a una vera e propria disposizione normativa; si dubita, quindi, dell’opportunità del suo inserimento nella Carta di Nizza, che si propone di sancire i diritti dei cittadini europei per attribuire loro una forma di tutela effettiva (P. FLORIS, L’Unione e il rispetto delle diversità. Intorno all’art. 22 della Carta di Nizza, in Studi in onore di Anna Ravà, a cura di C. CARDIA, Torino, Giappichelli, 2003, p. 421; M. BELL, Equality and European Union Constitution, cit., p. 258 ss.).
⁷³ In merito cfr. F. MARGIOTTA BROGLIO, Il fenomeno religioso, cit., p. 157 ss.; S. BERLINGÒ, La condizione delle Chiese in Europa, in «Dir. eccl.», 2002, p. 1313 ss.; L. L. CHRISTIANS, Droit et religion dans le Traité d’Amsterdam, cit., p. 216 ss.; i contributi in A. G. CHIZZONITI (a cura di), Chiese, associazioni, comunità religiose e organizzazioni non confessionali nell’Unione Europea, Milano, Vita e Pensiero, 2002; M. VENTURA, La laicità dell’Unione europea, cit., p. 239 ss.
⁷⁴ Cfr., per tutti: S. FERRARI, Integrazione europea e prospettive di evoluzione della disciplina giuridica del fenomeno religioso, in A. G. CHIZZONITI (a cura di), Chiese, associazioni, comunità religiose e organizzazioni non confessionali nell’Unione europea, cit., p. 40 ss.; G. ROBBERS, Europa e religione: la dichiarazione sullo status delle chiese e delle organizzazioni non confessionali nell’atto finale del trattato di Amsterdam, in «Quaderni diritto politica ecclesiastica», 1998, n. 2, p. 393 ss. Come si dirà tra breve, con il Trattato di Lisbona la dichiarazione n. 11 è stata inserita in un articolo del Trattato sul funzionamento dell’UE, andando, così, a sancire un impegno giuridicamente vincolante.
⁷⁵ Come si è visto in precedenza, nelle sentenze nelle quali emergono interessi religiosi più strettamente collegati alle tradizioni e alle radici culturali nazionali, il giudice comunitario ha dichiarato l’opportunità di astenersi dal dettare linee interpretative comuni, rinviando la decisione alle autorità statali (ad es. sent. Regno Unito e al. c. Consiglio, cit.).
⁷ Si fa riferimento, di seguito, alla numerazione degli articoli dei trattati nella versione consolidata dopo Lisbona.
⁷⁷ L’Agenzia, istituita con regolamento (CE) n. 168/2007 del Consiglio UE del 15 febbraio 2007, sostituisce il precedente Osservatorio europeo sui fenomeni di razzismo e xenofobia, anch’esso con sede a Vienna, che era stato creato con regolamento (CE) n. 1035/97 del Consiglio, del 2 giugno 1997.
⁷⁸ Tra i vari contributi in tema cfr., anche per ulteriori riferimenti, F. MARGIOTTA BROGLIO, Confessioni e comunità religiose o «filosofiche» nel Trattato di Lisbona, in L. DE GREGORIO (a cura di), Le confessioni religiose nel diritto dell'Unione europea, Bologna, Il Mulino 2012, p. 33 ss.; G. CASUSCELLI, Stati e religioni in Europa: problemi e prospettive, in «Stato Chiese e pluralismo confessionale», Rivista telematica, www.statoechiese.it, giugno 2009; G. MACRÌ, Chiese e organizzazioni religiose nel Trattato di
Lisbona, in «Stato Chiese e pluralismo confessionale», giugno 2008; F. ALICINO, Costituzionalismo e diritto europeo delle religioni, Padova, Cedam 2011; M.C. IVALDI, Il fattore religioso nel diritto dell'Unione Europea, Roma, ed. Nuova Cultura, 2012.
⁷ Questa formulazione, peraltro, non scioglie del tutto alcuni interrogativi sulla posizione della Carta nell’ordinamento dell’UE. Se da un lato si afferma che la Carta ha lo stesso valore giuridico dei trattati, è però vero che le sue disposizioni non sono materialmente inserite al loro interno e perciò sono prive di alcune delle caratteristiche che li contraddistinguono, come l’efficacia diretta. La scelta di lasciare la Carta dei diritti come un testo a parte, attribuendole valore vincolante attraverso un articolo del TUE anziché trasferirne il contenuto in altrettante disposizioni del trattato, fa sì che essa abbia lo stesso valore giuridico dei trattati, ma risultando sottratta alle procedure di modifica di questi ultimi (più lunghe e complesse). Il suo mancato inserimento nei trattati risponde, inoltre, a esigenze politiche, vista la diffidenza di alcuni Stati (in primis il Regno Unito) a “comunitarizzare” il tema dei diritti umani. Cfr. G. TESAURO, Diritto dell’Unione europea, cit., p. 143 ss.; L. DANIELE, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e Trattato di Lisbona, in Diritti individuali e giustizia internazionale. Liber Fausto Pocar, a cura di G. Venturini, S. Bariatti, Milano, Giuffrè, 2009, vol. 1, p. 240 ss.
⁸ Dalla lettura del nuovo art. 6 del TUE appare chiaro che, nel momento stesso in cui l’Unione stabilisce modalità di rafforzamento della tutela dei diritti umani in ambito europeo, sono stati comunque introdotti elementi che confermano alcune caratteristiche del sistema europeo di tutela e del riparto di competenze tra Unione e Stati membri. Da un lato l’art. 6 specifica che non si è determinato un aggio di competenze relativamente ai diritti fondamentali; dall’altro ribadisce che i diritti sanciti dalla CEDU non vengono tutelati in quanto tali, ma in quanto formano parte dei principi generali del diritto dell’Unione.
⁸¹ In proposito C. CARLETTI, I diritti fondamentali, cit., p. 104 ss.; A. MANZELLA, Dal mercato ai diritti, in A. MANZELLA et al., Riscrivere i diritti
in Europa, cit., p. 40 ss., che sottolinea come la difficoltà di individuare un confine netto tra le competenze dell’Unione e quelle degli Stati avrebbe richiesto una maggior flessibilità nel definire gli effetti della Carta nei confronti del diritto interno. È stato inoltre osservato che nella formulazione dell’articolo in esame si fa riferimento al “diritto dell’Unione”, nel quale potrebbe essere inclusa la Carta dei diritti stessa. Si potrebbe, allora, ipotizzare che la Corte sia legittimata ad agire in tutti gli ambiti nei quali gli Stati danno attuazione alle disposizioni della Carta, ovvero in tutte le loro azioni a tutela dei diritti fondamentali. Ma ciò è da escludersi, in quanto sia la Carta, sia il TUE affermano che non vengono estese le competenze e gli ambiti di azione delle istituzioni sovranazionali. K.L. MATHISEN, The Impact of the Lisbon Treaty, in particular Article 6 TEU, on Member States’ obligations with respect to the protection of fundamental rights, in «Université du Luxembourg Working Paper», 2010 (SSRN) p. 26.
⁸² Cfr. Spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali, cit., p. 46.
⁸³ Cfr. K. L. MATHISEN, The Impact of the Lisbon Treaty, cit., p. 24.
⁸⁴ In particolare, non è prevista la possibilità di ricorsi diretti alla Corte di giustizia da parte degli individui in caso di violazione di un diritto fondamentale, determinandosi così, in un certo senso, una mancanza di coordinamento tra la disciplina sostanziale e quella procedurale dei diritti fondamentali (così G. STROZZI, R. MASTROIANNI, Diritto dell’Unione, cit., p. 242).
⁸⁵ Anche in questo caso, tuttavia, la Corte non funziona da giudice supercostituzionale, ma è competente a giudicare dei casi nei quali un individuo si è ritenuto leso nei propri diritti e non ha ottenuto soddisfazione attraverso le vie giudiziarie nazionali. La Corte di Strasburgo, dunque, non verifica la corrispondenza della legislazione nazionale ai diritti garantiti nella CEDU, ma controlla che i giudici abbiano deciso il caso in modo conforme a tali diritti. Ciò almeno in linea teorica: infatti, nella giurisprudenza più recente, la Corte europea dei diritti dell’uomo appare sempre più orientata a offrire – anche se
indirettamente – valutazioni sulle norme nazionali, piuttosto che limitarsi a verificare il singolo caso. In tema cfr. i contributi in R. MAZZOLA (a cura di), Diritto e religione in Europa, Bologna, Il Mulino 2012.
⁸ Questo tipo di limitazione ripropone i meccanismi di attribuzione di competenze alla Corte di giustizia precedenti al Trattato di Lisbona. Con il valore vincolante attribuito alla Carta, quindi, si aggiunge uno strumento di tutela dei diritti ma non si estende l’area di applicazione di questi ultimi.
⁸⁷ G. STROZZI, R. MASTROIANNI, Diritto dell’Unione europea, cit., p. 242 ss.
⁸⁸ Ivi, p. 244 ss.; L. DANIELE, Carta di diritti fondamentali, cit., p. 243 ss.
⁸ In tema C. CARLETTI, I diritti fondamentali, cit., p. 127 ss.; P. MANZINI, La portata dei diritti garantiti dalla Carta dell’Unione europea: problemi interpretativi posti dall’art. 52, in L. S. ROSSI, Carta dei diritti fondamentali, cit., p. 132 ss.
La corrispondenza è esplicitamente affermata – come già accennato – dalle Spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali, cit., p. 33. Le somiglianze tra i due documenti non destano stupore, se si considera che era stato espressamente previsto di far riferimento, per la stesura della Carta, alla CEDU e alle fonti europee relative ai diritti umani (cfr. R. BIFULCO, M. CARTABIA, A. CELOTTO, Introduzione, in ID. (a cura di) L’Europa dei diritti, cit., p. 14 ss.).
¹ B. CONFORTI, Note sui rapporti tra diritto comunitario e diritto europeo dei diritti umani, in «Riv. Int. diritti dell’uomo», 2000, p. 425 ss.; F. MARGIOTTA BROGLIO, Il fenomeno religioso, cit., p. 166 ss.; sulla giurisprudenza della
Corte di Strasburgo in materia religiosa cfr. anche M. PARISI, La tutela giurisdizionale del fenomeno religioso in Europa, in G. MACRÌ, M. PARISI, V. TOZZI, Diritto ecclesiastico europeo, cit., p. 153 ss.; S. LARICCIA, Art. 9. Libertà di pensiero, di coscienza e di religione, in Commentario alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a cura di S. BARTOLE, B. CONFORTI, G. RAIMONDI, Padova, Cedam, 2001, p. 319 ss.
² Tale atteggiamento ha caratterizzato, in particolare, alcune celebri pronunce della Corte di Strasburgo nei decenni scorsi: tra queste si devono citare almeno quella del 25 maggio 1993, Kokkinakis c. Grecia e quella del 20 settembre 1994, Otto Preminger Institut c. Austria. In tema cfr. J. T. RICHARDSON, Minority religions, religious freedom, and the new pan-European political and judicial Institutions, in «Journal of Church and State», 1995, p. 39 ss.; J. MARTÍNEZ TORRÓN, R. NAVARRO VALLS, The protection of religious freedom in the system of the European Convention on Human Rights, in «Helsinki Monitor», 1998, n. 3, p. 25 ss.; M. VENTURA, La laicità dell’Unione europea, cit., p. 55 ss. Più di recente, ad esempio, le sentenze sul velo islamico o altri capi di abbigliamento religiosi (sent. 10 novembre 2005 Leyla Sahin c. Turchia; sent. 4 dicembre 2008 Dogru c. Francia e Kervanci c. Francia) sono tese ad avallare la “visione governativa” del principio di laicità e della libertà religiosa. Cfr. J. MARTÍNEZ TORRÓN, La (non) protezione dell’identità religiosa dell’individuo nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, in R. MAZZOLA (a cura di), Diritto e religione in Europa, cit., p. 56 ss.
³ Emblematico il già citato caso Otto Preminger, sul quale cfr. F. MARGIOTTA BROGLIO, Uno scontro tra libertà: la sentenza Otto Preminger-Institut della Corte europea, in «Riv. Dir. internazionale», 1995, p. 368 ss. Il bilanciamento dei diritti, non sempre agevole, continua a caratterizzare le pronunce della Corte, anche quelle più recenti e talvolta più “interventiste” in materia religiosa. Per una rassegna cfr. M. PARISI, La tutela giurisdizionale del fenomeno religioso, cit., p. 162 ss.; M. LUGLI, J. PASQUALI CERIOLI, I. PISTOLESI, Elementi di diritto ecclesiastico europeo, Torino, Giappichelli, 2012, p. 79 ss. In tema v. anche M. VENTURA, Conclusioni. La virtù della giurisdizione europea sui conflitti religiosi, in R. MAZZOLA (a cura di), Diritto e religione in Europa, cit.,
p. 293 ss.; C. EVANS, Individual and Group Religious Freedom in the European Court of Human Rights: Cracks in the Intellectual Architecture, in «Journal Law and Religion», 26, 2010-2011, p. 321 ss.
⁴ Sulla dottrina del margine d’apprezzamento, cfr. P. TANZARELLA, Il margine di apprezzamento, in M. CARTABIA (a cura di), I diritti in azione: università e pluralismo dei diritti fondamentali nelle Corti europee, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 145 ss.; Y. ARAI-TAKAHASHI, The Defensibility of the Margin of Appreciation Doctrine in the ECHR: Value- Pluralism in the European Integration, in «Rev. Européenne Droit Public», 2001, p. 1162 ss.; R. SAPIENZA, Sul margine d’apprezzamento statale nel sistema della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in «Riv. dir. int.», 1991, 571 ss.. Il margine di apprezzamento è ampliato o ristretto in base ad alcuni elementi, dei quali la Corte tiene conto nelle sue pronunce: la natura del diritto protetto, lo scopo della restrizione, il comune consenso sulla questione.
⁵ Ad es., facendo riferimento alla dottrina del margine di apprezzamento, sopra citata, nel caso Sahin c. Turchia, (sent. 10 nov. 2005, ric. n. 44774/98) si afferma che il divieto di portare il velo è materia che riguarda i rapporti Stato-religioni e che quindi deve essere analizzata dalle autorità nazionali. In altri casi, invece, il margine d’apprezzamento viene compresso a favore di un’analisi più rigorosa dei limiti ex art. 9, così da dare spazio ai principi dettati dal giudice europeo, relativi anche agli aspetti collettivi della libertà religiosa (ad esempio le pronunce sulla “registrazione” delle organizzazioni religiose, tra le quali sent. 10 giugno 2010, Jehovah’s Witnesses of Moscow v. Russia, ric. n. 302/02 e sent. 14 giugno 2007 Svyato-Mykhaylivska Parafiya v. Ukraine). In generale cfr. M. VENTURA, Conclusioni, cit., p. 293 ss.
Ad esempio nella sentenza 9 dicembre 2010, Savez crkava “Rijeç Života” and Others v. Croatia, (ric. n. 7798/08) la Corte si è pronunciata su un caso relativo alla conclusione di accordi con le confessioni religiose, interpretando, quindi, alla luce della CEDU una decisione nazionale di politica ecclesiastica.
⁷ Si ricorda il testo dell’articolo 17, nella versione consolidata, del Trattato sul funzionamento UE: «1. L’Unione rispetta e non pregiudica lo status di cui le chiese e le associazioni o comunità religiose godono negli Stati membri in virtù del diritto nazionale. 2. L’Unione rispetta ugualmente lo status di cui godono, in virtù del diritto nazionale, le organizzazioni filosofiche e non confessionali. 3. Riconoscendone l’identità e il contributo specifico, l’Unione mantiene un dialogo aperto, trasparente e regolare con tali chiese e organizzazioni». Sul punto cfr. gli AA. citati alla nota n. 78; v. anche E. VITALI, A.G. CHIZZONITI, Manuale breve di diritto ecclesiastico, Milano, Giuffrè, 2013, p. 27 ss.
⁸ In particolare, è possibile individuare alcuni principi che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte ribadito a proposito di casi affrontati in base all’articolo 9 della CEDU e relativi anche allo status delle confessioni religiose. Tra di essi: il rispetto dell’autonomia confessionale nel decidere la propria organizzazione interna (in alcuni casi sulle nomine dei ministri di culto); la neutralità dello Stato; la tutela delle minoranze e del pluralismo confessionale. Cfr., tra le altre, sent. 5 ottobre 2006, Moscow Branch of Salvation army v Russia, ric. n. 72881/01; sent. 27 marzo 2002, Metropolitan Church of Bessarabia v. Moldova, n. 45701/99; sent. 26 ott. 2000, Hasan & Chaush v. Bulgaria, n. 30985/96. In tema cfr. J. RINGELHEIM, Rights, Religion and the Public Sphere: the European Court of Human Rights in Search of a Theory?, in L. ZUCCA, C. UNGUREANU (ed. by), Law, State and Religion in the New Europe, Oxford, OUP, 2012, p. 283 ss.
Sul quale cfr. B. CONFORTI, Note sui rapporti tra diritto comunitario e diritto europeo, cit., p. 423 ss.; G. GAJA, Aspetti problematici della tutela, cit., p. 582 ss.
¹ Sui negoziati (v. la pagina sul sito del Consiglio d’Europa http://tinyurl.com/oyne4ca) cfr. A. FABBRI, Unione europea e fenomeno religioso, Torino, Giappichelli 2012, p. 149 ss.
¹ ¹ In tema cfr. F. JACOBS, The impact of European Union accession to the European Convention on Human Rights, in The Future Of The European Judicial System in a Comparative Perspective, Baden Baden, Nomos, 2006, p. 291 ss.; G. GAJA, Accession to the ECHR, in A. BIONDI, P. EECKHOUT, S. RIPLEY (eds.), EU Law after Lisbon, Oxford, OUP 2012, p. 180 ss.
¹ ² Ad esempio, se l’art. 10 della Carta è corrispondente all’art. 9 della CEDU, occorre osservare che l’interpretazione dei diritti sanciti dalla CEDU non è univoca, specie in tema di religione: come già notato, essa è talvolta molto “deferente” nei confronti degli Stati, talaltra interpreta il margine di apprezzamento in modo più restrittivo. Anche nella lettura della libertà religiosa individuale, pertanto, potrebbero non essere individuabili tradizioni costituzionali veramente “comuni” e ridursi così lo spazio di azione degli organi sovranazionali.
¹ ³ In proposito, anche per alcuni riferimenti alla giurisprudenza, v. G.F. FERRARI, I diritti tra costituzionalismo statali e discipline transnazionali, in ID. (a cura di), I diritti fondamentali dopo la Carta di Nizza. Il costituzionalismo dei diritti, Milano, Giuffrè, 2001, p. 75 ss.; B. CONFORTI, Note sui rapporti tra diritto comunitario e diritto europeo dei diritti umani, cit., p. 428 ss.; E. PACIOTTI, La carta: i contenuti e gli autori, in A. MANZELLA et al., Riscrivere i diritti in Europa, cit., p. 22 ss.
¹ ⁴ In proposito bisogna ricordare che – a differenza di quanto stabilito dalla CEDU in merito al funzionamento della Corte di Strasburgo – non è prevista la possibilità di ricorsi individuali alla Corte di giustizia contro atti delle istituzioni europee, tranne quando siano decisioni rivolte agli individui o altri atti che li riguardino «direttamente ed individualmente» (art. 263 TFUE, già art. 230, 4° comma, TCE). Un’ulteriore lacuna, questa, nel sistema comunitario di tutela dei diritti umani, non risolta con il Trattato di Lisbona: esso evidenzia, come notato, una certa discrasia tra disciplina sostanziale e procedurale dei diritti umani (G.
STROZZI, R. MASTROIANNI, Diritto dell’Unione europea, cit., p. 242 ss.).
¹ ⁵ F. JACOBS, The impact of European Union accession, cit., p. 293 ss.
¹ Sul quale cfr. gli autori citati alla nota n. 94.
¹ ⁷ R. MCCREA, Religion and the Public Order of the European Union, Oxford, OUP 2011, p. 91.
¹ ⁸ D. ANDERSON, C. MURPHY, The Charter of Fundamental Rights, in A. BIONDI, P. EECKHOUT, S. RIPLEY (eds.), EU Law after Lisbon, cit., p. 175 ss.
¹ Sull’atteggiamento tradizionalmente prudente del Regno Unito relativamente al ruolo delle istituzioni sovranazionali nella tutela dei diritti cfr., per tutti, G.F. FERRARI, La convenzione europea e la sua “incorporation” nel Regno Unito, in «Diritto Pubblico comparato ed Europeo», 1/1999, p 131 ss.
¹¹ Tra le tipologie di discriminazione considerate dal diritto comunitario trovano spazio, infatti, la razza e l’origine etnica, la religione e le convinzioni personali, la cui disciplina è evidentemente orientata alla protezione della dignità umana e del diritto a non essere discriminati in base a particolari caratteristiche personali o sociali. A differenza dei divieti di discriminazione presenti originariamente nei trattati, quelli introdotti nel diritto comunitario dopo il Trattato di Amsterdam non rispondono allo scopo della realizzazione dell’integrazione economica, ma possono essere considerati parte dell’intervento dell’Unione a favore dei diritti fondamentali e delle categorie svantaggiate. Specialmente considerando il campo del lavoro, un simile intervento può rientrare nella mutata attenzione
dell’UE per le politiche sociali, un’attenzione non del tutto disinteressata, visto che una maggiore efficienza di tali politiche è considerata necessaria per lo sviluppo dell’intero sistema economico e politico. Tuttavia, si tratta pur sempre di un cambiamento di registro nell’approccio ai problemi della discriminazione, prima considerati quasi esclusivamente in funzione della realizzazione del mercato unico, oggi connessi al – seppur limitato – sistema comunitario di protezione dei diritti. Cfr. S. FREDMAN, Equality: a new generation?, cit., p. 145 ss.; G. MORE, The principle of equal treatment: from market unifier to fundamental right?, cit., p. 540 ss.; D. SCHIEK, A new framework on Equal Treatment of Persons in EC Law?, in «European Law Journal», 2002, n. 2, p. 290 ss.
¹¹¹ In particolare una serie di atti di indirizzo politico, non vincolanti, ma che segnano una crescente attenzione delle istituzioni europee per la materia. Se ne veda una raccolta in COMMISSION EUROPEENNE, EMPLOI & affaires sociales, Les institutions européennes dans la lutte contre le racisme: textes choisis, Luxembourg, Office des publications officielles des Communautés européennes, 1997
¹¹² L’articolo 13 rappresenta una tappa significativa verso l’affermazione della non discriminazione come principio slegato da esigenze di mercato e funzionale alla protezione dei diritti umani. In particolare, poi, la possibilità di intervenire in tema di discriminazione razziale e religiosa ha una particolare importanza ai sensi della protezione dei diritti fondamentali nelle società multietniche e pluriconfessionali, in un particolare momento storico di accentuazione di determinati conflitti e problematiche (l’intensificarsi dei flussi migratori e la diffusione di razzismo e xenofobia, recrudescenze nel conflitto nord-irlandese, la vittoria di partiti di estrema destra in alcuni Paesi). In merito cfr. M. BARBERA, Eguaglianza e differenza nella nuova stagione del diritto antidiscriminatorio comunitario, in «Giornale dir. lav. e rel. industriali», n. 99-100, 2003, p. 403 ss.; F. GHERA, Il principio di eguaglianza nella Costituzione italiana e nel diritto comunitario, cit., p. 195 ss.; G. MORE, The principle of equal treatment: from market unifier to fundamental right?, cit., p. 547; M. BELL, Anti-discrimination law and the European Union, cit., p. 121; L. FLYNN, The implications of Article 13 EC - After Amsterdam, will some forms of discrimination be more equal than
others?, cit., p. 1151-1152; C.A. GEARTY, The internal and external ‘Other’ in the Union legal order, cit., p. 328 ss.
¹¹³ C. FAVILLI, Uguaglianza e non discriminazione nella Carta, cit., p. 229.
¹¹⁴ L’articolo 13 era finalizzato ad attribuire al Consiglio la facoltà (non l’obbligo) di prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni, ma la sua formulazione («il Consiglio […] può prendere i provvedimenti opportuni per combattere la discriminazione») lasciava ampia discrezionalità sia sull’opportunità di intervenire, sia sul tipo di atti da approvare. Cfr. G. CHITI, Il principio di non discriminazione, cit., p. 870 ss.; L.S. ROSSI, Con il Trattato di Amsterdam l’Unione è più vicina ai suoi cittadini?, cit., p. 346.
¹¹⁵ Effetti riconosciuti, invece, alle altre norme sulla discriminazione presenti nei trattati: all’art. 141 TCE (cfr. sent. 8 aprile 1976, Defrenne v. Sabena (Defrenne II), n. 43/75); all’art. 12 (rectius, al principio di non discriminazione sulla base della nazionalità, da esso ricavato: cfr. sent. 12 dicembre 1974 Walrave, causa n. 36/74). In tema cfr. G. GAJA, A. ADINOLFI, Introduzione al diritto dell’Unione europea, cit., p. 165 ss.; G. STROZZI, R. MASTROIANNI, Diritto dell’Unione europea, cit., p. 199 ss.
¹¹ C. FAVILLI, Uguaglianza e non discriminazione nella Carta, cit., p. 230.
¹¹⁷ L’articolo 13, infatti, precisa che la Comunità potrà adottare disposizioni per combattere la discriminazione «fatte salve le altre disposizioni del presente trattato e nell’ambito delle competenze da esso conferite alla Comunità». L’articolo non fornisce, quindi, l’Unione di una nuova competenza, fatto che pone dei limiti a l’applicazione del principio di non discriminazione. In merito C. FAVILLI, op. ult. cit., p. 234-235.
¹¹⁸ F. MARGIOTTA BROGLIO, La tutela della libertà religiosa nell’Unione, cit., p. 71.
¹¹ COM (1999) 565 def.: Proposta di direttiva del Consiglio che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro; COM (1999) 566 def.: Proposta di direttiva del Consiglio che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica; COM (1999) 567 def.: Proposta di decisione del Consiglio che istituisce un programma d’azione comunitaria per combattere la discriminazione 2001-2006.
¹² Così M. BARBERA, Eguaglianza e differenza nella nuova stagione..., cit., p. 399 ss. e più in generale sul rinnovato impegno dell’Unione in materia: F. AMATO, Le nuove direttive comunitarie sul divieto di discriminazione. Riflessioni e prospettive per la realizzazione di una società multietnica, in «Lavoro e diritto», 2003, n. 1, p. 127 ss.; S. FREDMAN, Equality: a new generation?, cit., p. 145 ss.
¹²¹ Direttiva n. 2000/43 del 29 giugno 2000, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica; Direttiva n. 2000/78, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro; accanto ad esse, la decisione n. 750 del 2000, che istituisce un programma d’azione contro la discriminazione per il quinquennio 2001-2006, disponendo il finanziamento di progetti per combattere tutte le forme di discriminazione di cui all’art. 13. In generale su questi provvedimenti cfr. M. BARBERA, Eguaglianza e differenza nella nuova stagione del diritto antidiscriminatorio, cit., im; L. WADDINGTON, M. BELL, More equal than others: distinguishing European Union Equality Directives, in «Common Market Law Rev.», 2001, p. 587 ss.; P. BELLOCCHI, Pluralismo religioso, discriminazioni ideologiche e diritto del lavoro, in «Argomenti dir. del lavoro», 2003, n. 1, p. 157 ss.; N. FIORITA, Le
direttive comunitarie in tema di lotta alla discriminazione, la loro tempestiva attuazione e l'eterogenesi dei fini, in «Quaderni dir. e pol. Eccl.», 2004, 2, p. 361 ss.
¹²² Anche il quadro normativo sulla discriminazione di genere è stato emendato, sulla scia dello sviluppo del nuovo diritto antidiscriminatorio. Tra i vari atti approvati si possono ricordare: la direttiva 23 settembre 2002, n. 2002/73, che ha modificato la n. 76/207 sulla parità tra uomini e donne nel settore dell’impiego, e la direttiva n. 2004/113, relativa al medesimo principio nell’accesso ai beni e servizi. In tema, per tutti, C. FAVILLI, La non discriminazione nell’Unione europea, cit., p. 173 ss.
¹²³ Se si guarda all’articolato delle due direttive (ma anche della dir. n. 2004/113) la struttura appare simile: una prima parte sulle nozioni, una seconda parte sui meccanismi di ricorso e sanzionatori, una terza con le disposizioni finali. In particolare, poi, le direttive utilizzano le medesime nozioni di discriminazione e regole analoghe sui ricorsi, le sanzioni, l’onere della prova, ecc. A questo proposito, se di seguito ci si occuperà prevalentemente della dir. 2000/78, che riguarda direttamente la discriminazione religiosa, è opportuno tener presente che analoghi sistemi di tutela sono previsti anche dalle altre direttive. In particolare la n. 2000/43 relativa alla discriminazione razziale potrà risultare rilevante anche per la nostra analisi, stante il collegamento che spesso si verifica tra appartenenza etnica e religiosa.
¹²⁴ Gli ambiti di applicazione sono specificati dall’art. 3.1 della dir. 2000/43.
¹²⁵ Le scelte in merito agli ambiti di applicazione delle direttive dimostrano che, sebbene l’art. 13 consentisse di adottare norme relative anche ad altri settori – a condizione che si trattasse di aree di competenza dell’Unione – quello del lavoro continua a costituire il terreno di sviluppo privilegiato per il diritto antidiscriminatorio. Cfr. M. BELL, Anti-discrimination Law and the European Union, cit., p. 131 ss.; L. FLYNN, The implications of Article 13 EC, cit.,
im; S. FREDMAN, Equality: a new generation?, cit., p. 148 ss.
¹² Cfr. F. MARGIOTTA BROGLIO, Discriminazione razziale e discriminazione religiosa, in «Quaderni dir. e pol. ecclesiastica», 2000, 1, p. 269 ss.
¹²⁷ N. FIORITA, Le direttive comunitarie, cit., p. 363; M. BELL, Meeting the Challenge? A comparison between the EU Racial Equality Directive and the Starting Line, in I. CHOPIN, J. NIESSEN (EDS.), The Starting Line and the incorporation of the Racial Equality Directive into the National Laws of the EU Member States and Accession States, Brussels/London, Migration Policy Group/Commission for Racial Equality, March 2001, p. 25; D. SCHIEK, A new framework on Equal Treatment, cit., p. 311 ss.
¹²⁸ Sulla posizione del Parlamento europeo cfr. ad esempio la Risoluzione sul razzismo, la xenofobia e l’antisemitismo e i risultati dell’anno europeo contro il razzismo (1997), punto 5. Sostenevano l’opportunità di una direttiva comune per combattere discriminazione razziale e religiosa anche le organizzazioni non governative attive in materia, specie lo “Starting Line Group” (cfr. I. CHOPIN, J. NIESSEN (eds.), The Starting Line…, cit.) e l’Osservatorio europeo sul razzismo e la xenofobia (EUMC), successivamente sostituito dall’Agenzia per i diritti fondamentali (FRA). Cfr. E. HOWARD, Anti Race Discrimination Measures in Europe: An attack on two fronts, in «European Law Journal», 2005, n. 4, p. 476; F. MARGIOTTA BROGLIO, Discriminazione razziale e discriminazione religiosa, p. 273 ss.; M. VENTURA, La laicità dell’Unione, cit., p. 41 ss.
¹² Razza e religione sono difficilmente separabili in alcuni gruppi, come gli ebrei, la cui appartenenza etnico-razziale e confessionale si presenta come inscindibile. In secondo luogo, il collegamento tra i due fattori emerge anche negli atteggiamenti discriminatori e razzisti che oggi si verificano, soprattutto ai danni dei migranti: la percezione della loro identità non si limita alle loro origini etniche e alle loro caratteristiche razziali o nazionali, ma è fortemente permeata
di elementi culturali e, spesso, religiosi. In tema, oltre agli AA. citati alla nota precedente: S. FREDMAN, Equality: a new generation?, cit., p. 158; D. SCHIEK, A new framework, cit., p. 313 ss.
¹³ Il consenso era motivato, in primo luogo, da motivi politici contingenti: in particolare, si voleva prendere posizione nei confronti dell’affermazione, in alcuni Paesi, di partiti di estrema destra, dai connotati razzisti e xenofobi (ad esempio l’ascesa politica del partito di Haider in Austria, come ricordato da L. WADDINGTON, M. BELL, More equal than others, cit., p. 610). Elaborare una direttiva incentrata sul divieto di discriminazione razziale permetteva di incontrare in quel momento un largo consenso, anche considerando che l’art. 13 TCE richiedeva, per l’adozione delle misure attuative, l’unanimità dei consensi in Consiglio. In secondo luogo, esistevano già alcuni interventi di cooperazione europea contro il razzismo: gli Stati erano, quindi, più propensi ad accettare una disciplina sopranazionale sul tema e più sensibili a questo tipo di discriminazione (M. BELL, Anti-discrimination Law, cit., p. 59 ss.)
¹³¹ Anche la sensibilità della società civile europea su questi temi ha giocato un ruolo, come rilevato da L. WADDINGTON, M. BELL, Diversi eppure eguali. Riflessioni sul diverso trattamento delle discriminazioni nella normativa europea in materia di eguaglianza, in «Giornale dir. lavoro e rel. industriali», 2003, p. 394 ss.. In particolare, si è notato che l’attività di alcuni gruppi di pressione (il già citato “Starting Line Group”, l’ENAR, altri organismi istituzionali come l’Osservatorio europeo sul razzismo e la xenofobia) aveva portato ad un grande sviluppo di norme sulla discriminazione razziale; al contrario, le lobbies religiose (soprattutto quelle cristiane) si erano espresse in modo non del tutto favorevole a questa normativa (cfr. ad esempio CHRISTIAN INSTITUTE, European threat to religious freedom. A response to the European Union’s proposed Employment directive, London 2000, in www.christianinstitute.org.uk; più in generale sui gruppi di pressione e la religione v. G. MACRÌ, Europa, lobbying e fenomeno religioso, Torino, Giappichelli, 2002).
¹³² Come notato da L. WADDINGTON, M. BELL, Diversi eppure eguali, cit., p.
393 ss., mentre il divieto di discriminazione razziale era presente in tutti gli ordinamenti degli Stati membri, per altri fattori di discriminazione non sempre esisteva una tutela a livello nazionale.
¹³³ F. AMATO, Le nuove direttive comunitarie, cit., p. 131 ss.; P. BELLOCCHI, Pluralismo religioso, cit., im; N. FIORITA, Il diritto antidiscriminatorio in cerca di identità: la religione e le convinzioni personali nella normativa vigente, in G. DE MARZO, M. CAPPONI (a cura di), Contrastare le discriminazioni, Quaderno n. 52, Consiglio Regionale della Toscana, Firenze 2011, p. 73 ss. (all’indirizzo http://tinyurl.com/puxbb47).
¹³⁴ Cfr. ENAR, Combating Religious and Ethnic Discrimination in Employment, Bruxelles, ENAR, 2004, pp. 8-9. Va ricordato, a questo proposito, che alcuni Stati membri – specialmente il Regno Unito – si opponevano all’attribuzione all’Unione europea della competenza a legiferare su ipotesi di discriminazione come la razza e la religione, che erano viste come materie strettamente connesse con le caratteristiche e le competenze nazionali.
¹³⁵ Art. 2.1 direttiva n. 2000/78: «ai fini della presente direttiva, per “principio della parità di trattamento” si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei motivi di cui all’articolo 1».
¹³ In questo senso parrebbe più corretta la formulazione dell’art. 2.1 della direttiva 2000/43: «il principio della parità di trattamento comporta che non sia praticata alcuna discriminazione diretta o indiretta a causa della razza o dell’origine etnica». Qui non si determina un’equivalenza dei due termini, ma un nesso tra uno scopo (la parità) ed una condizione per la sua realizzazione (la non discriminazione). Tale nesso strumentale è confermato dall’articolo 1 di entrambe le direttive del 2000, in base al quale «la presente direttiva mira a stabilire un quadro per la lotta alle discriminazioni […] al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento». Se, però, si analizza il testo delle direttive non solo nella traduzione italiana, ma anche in
altre versioni linguistiche, la differenza tra le due disposizioni scompare ed in entrambe il principio di parità viene ricondotto alla semplice assenza di discriminazioni: ad esempio, nella versione in lingua inglese, in entrambe le direttive l’art. 2.1 recita «the principle of equal treatment shall mean that there shall be no direct or indirect discrimination», o in quella se, «on entend par ‘principe de l’égalité de traitement’, l’absence de toute discrimination directe ou indirecte». Sul punto M.V. BALLESTRERO, Eguaglianza e differenze nel diritto del lavoro. Note introduttive, in «Lavoro e diritto», 2004, n. 3-4, p. 518.
¹³⁷ Cfr., tra gli altri, G. DE SIMONE, Dai principi alle regole, cit., p. 43 ss.; M.V. BALLESTRERO, op. ult. cit., p. 501 ss.; C. FAVILLI, Uguaglianza e non discriminazione, cit., p. 225 ss.; M. BELL, Equality and European Union Constitution, in «Industrial Law Journal», 2004, n. 3, p. 242; M. RODRÍGUEZPIÑERO, M.F. FERNÁNDEZ LÓPEZ, Igualdad y discriminación, Madrid, Tecnos, 1986, p. 76 ss.
¹³⁸ Sottolinea questo aspetto M.V. BALLESTRERO, Eguaglianza e differenze, cit., p. 518, sostenendo che non è per disattenzione che il legislatore europeo ha fatto un tutt’uno di due concetti separati, come la parità e la non discriminazione, ma per lasciare gli Stati liberi di stabilire trattamenti differenziati in relazione ad alcuni dei fattori di discriminazione considerati dalle direttive. Cfr. anche G. DE SIMONE, La nozione di discriminazione diretta e indiretta, in M. BARBERA (a cura di), La riforma delle istituzioni e degli strumenti delle politiche di pari opportunità. Commentario al d.lgs. 23 maggio 2000 n. 196, in «Le nuove leggi civili commentate», 2003, p. 720.
¹³ Si tratta, peraltro, di un principio generale nel rapporto tra fonti comunitarie e nazionali, il cosiddetto «principio del non regresso». Senza entrare nel dettaglio della questione, che è molto dibattuta, specie nell’ambito del diritto sociale e del lavoro, basti dire che, secondo parte della dottrina, le previsioni come quella della direttiva in esame comporterebbero un vero e proprio obbligo giuridico di non attuare le norme della direttiva, qualora comportino una riduzione della tutela dei lavoratori rispetto a quella già presente nel diritto interno. In merito,
per tutti, M. ROCCELLA, Diritto comunitario, ordinamenti nazionali, diritto del lavoro, in S. FABENI, M.G. TONIOLLO, La discriminazione fondata sull’orientamento sessuale, Roma, Ediesse, 2005, pp. 43 ss.
¹⁴ Sulle caratteristiche delle direttive si tornerà infra, cap. II, par. 5.
¹⁴¹ È il caso della HALDE, organismo se per la parità (sul quale cfr. infra, cap. IV, par. 2.2) e della Equality and Human Rights Commission Britannica, che ha sostituito la Commission for Racial Equality (limitata, quest’ultima, a funzioni di lotta al razzismo; informazioni si trovano nel sito www.equalityhumanrights.com; le funzioni della Commissione in materia di antidiscriminazione saranno più volte citate nei cap. III e IV). Una rassegna dei diversi organismi per l’uguaglianza, con le relative competenze, è nel rapporto del 2010 dello HUMAN EUROPEAN CONSULTANCY, Study on Equality Bodies set up under Directives 2000/43/EC, 2004/113/EC and 2006/54/EC, disponibile nel sito www.humanconsultancy.com.
CAPITOLO II
IL DIRITTO ANTIDISCRIMINATORIO EUROPEO
E LA RELIGIONE: NOZIONI E NUOVI STRUMENTI
1. IL QUADRO CONCETTUALE DEL DIRITTO ANTIDISCRIMINATORIO: TRA STANDARD EUROPEI E TRADIZIONI COSTITUZIONALI DEGLI STATI
Dall’evoluzione del diritto dell’Unione fin qui descritta si sviluppa un “nuovo” diritto antidiscriminatorio, costituito in primis da un apparato concettuale teso ad uniformare, negli Stati membri, la lettura della non discriminazione e la tutela della parità¹. Così, la direttiva 2000/78 individua quattro categorie di comportamenti vietati: la discriminazione diretta, quella indiretta, le molestie e l’ordine di discriminare² .
1.1 LA NOZIONE DI DISCRIMINAZIONE DIRETTA E INDIRETTA
Per quanto riguarda la nozione di discriminazione, l’art. 2, par. 2 della direttiva 2000/78 stabilisce che quella diretta si verifica quando, sulla base di una delle caratteristiche indicate all’art. 1, tra cui la religione e le convinzioni personali, «una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga». La discriminazione indiretta, invece, sussiste «quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione […] rispetto ad altre persone», a meno che tale disposizione, criterio o prassi possano essere giustificati³. La differenza principale tra discriminazione diretta e indiretta è che nella prima si è in presenza di norme, criteri o prassi che si riferiscono, più o meno esplicitamente, al fattore religioso e, sulla base di esso, determinano un trattamento sfavorevole per alcune categorie di soggetti. Ciò significa che, per non violare il divieto di discriminazione diretta, una disposizione dovrà essere neutra e non prendere in considerazione i fattori di discriminazione previsti: come è stato detto in dottrina, dovrà «ignorare una differenza»⁴ . Nella discriminazione indiretta, invece, si verifica un trattamento “ingiustamente” neutro, che causa uno svantaggio ad un insieme di soggetti proprio in ragione della mancata considerazione di una certa caratteristica. In questo secondo caso, quindi, sarà necessario differenziare le regole, per evitare una discriminazione ed ottenere una uguaglianza nei risultati⁵ . Dal punto di vista del fattore religioso, è il divieto di discriminazione indiretta a porre, come meglio vedremo, le questioni più complesse: esso, infatti, richiede di stabilire fino a che punto si possano prendere in considerazione le differenti esigenze religiose, in modo da non determinare svantaggi, salvaguardando allo stesso tempo la neutralità della norma e l’unità del diritto. Anche il concetto di discriminazione diretta, in ogni caso, presenta tratti di novità e può risultare uno strumento rilevante per la garanzia della libertà religiosa. Provando a sintetizzare le caratteristiche fondamentali della nozione introdotta dalle direttive, si può in primo luogo osservare che la discriminazione diretta è
intesa non tanto e non solo come una differenziazione, ma come un trattamento deteriore o «meno favorevole» in ragione di una particolare caratteristica (tra cui la religione) . Un secondo aspetto riguarda l’irrilevanza dell’intento soggettivo di discriminare: una misura è discriminatoria se, a prescindere dalla volontà di chi l’ha messa in atto, vi è un nesso causale tra il credo religioso della vittima e la situazione di svantaggio che si è determinata⁷. Queste due caratteristiche hanno fatto parlare di una nozione oggettiva della discriminazione: essa si individua, infatti, non solo in astratte differenziazioni, ma nelle situazioni di sfavore che effettivamente si verificano e indipendentemente dalle motivazioni soggettive di chi le realizza⁸ .
In terzo luogo, si deve far riferimento all’aspetto comparativo. Il trattamento discriminatorio è infatti definito come «meno favorevole» e tale minor favore deve essere rilevato attraverso il raffronto tra situazioni analoghe. A tal proposito, in dottrina si è sottolineato che la comparazione è insita nella nozione di discriminazione e la caratterizza, distinguendola da un generico svantaggio sociale . Si è anche notato che in alcuni casi peculiari la necessità di operare una comparazione viene meno: è il caso dei trattamenti deteriori nei confronti delle donne in ragione della maternit๠. La definizione adottata dalla direttive del 2000 mantiene la centralità del momento comparativo, allargando però, rispetto alle norme previgenti, la gamma dei possibili termini di paragone¹¹. Questi non sono individuati obbligatoriamente in una situazione reale e contemporanea al verificarsi della presunta discriminazione, ma anche in una collegata al ato, oppure addirittura ipotetica (l’art. 2, par. 2, lettera ‘a’, si riferisce a come «sia stata o sarebbe trattata» una persona in una circostanza simile a quella del soggetto discriminato). Ciò aumenta, evidentemente, le opportunità di provare una situazione di discriminazione e lascia, come è stato notato, ampi spazi al lavoro (e alla fantasia) dell’interprete¹². È essenziale, infatti, stabilire un comparator appropriato, operazione particolarmente interessante per la discriminazione religiosa¹³. La valutazione dello svantaggio, infatti, cambierà sensibilmente confrontando una posizione soggettiva con il trattamento di un fedele di una religione di maggioranza, di minoranza, o di una persona non credente¹⁴. Oltre all’allargamento dei termini di paragone possibili, questa “nuova” definizione di discriminazione diretta presenta altre potenzialità per la tutela della libertà religiosa.
Anzitutto occorre riflettere sulla sottolineatura dei caratteri oggettivi, più che soggettivi, della discriminazione¹⁵. L’irrilevanza dell’intenzionalità agevola la prova della discriminazione, specie quando il riferimento al fattore religioso non è esplicito nel comportamento contestato¹ , oppure quando la discriminazione deriva da una norma, con la conseguente difficoltà a rintracciare un elemento soggettivo. L’accento è posto, invece, sugli effetti discriminatori di una misura: partendo dal semplice riscontro di una situazione svantaggiosa di una persona rispetto ad un’altra, a motivo del suo credo religioso, sarà possibile classificare molti atti come discriminatori. Giova ricordare, a questo proposito, che la direttiva non si applica solo ai datori di lavoro o a soggetti privati, ma anche ad enti pubblici che possono determinare trattamenti sfavorevoli attraverso prassi o norme¹⁷. Riguardo a queste ultime, una nozione di discriminazione “oggettiva” risulta particolarmente incisiva. L’obiettivo, infatti, pare essere quello della verifica delle disparità “di fatto” (che limitano l’espressione della libertà religiosa, perché creano uno svantaggio per qualcuno a causa della credenza professata) e della loro rimozione, senza che rilevi la motivazione soggettiva di chi le ha determinate o il fatto che esse derivino da pratiche consolidate o da norme non dirette a discriminare. Ci si può chiedere, allora, se il non tener conto dell’intentio dell’azione non finisca per equiparare qualsiasi svantaggio con una discriminazione, con il rischio di svuotare di contenuto e di specificità la nozione in esame. In questo senso assume un’importanza peculiare, come si è già notato, l’elemento della comparazione. Spetterà agli ordinamenti nazionali, nell’attuazione delle norme in esame, decidere quali criteri adottare – soprattutto nel giudizio antidiscriminatorio – per individuare correttamente una discriminazione. Attraverso la comparazione, il divieto di discriminazione diretta è volto a eliminare gli “svantaggi comparativi” e quindi, come obiettivo ultimo, a realizzare una parificazione della situazione di tutti i lavoratori, a prescindere dalla loro appartenenza confessionale. Una parificazione che dovrà tener conto non solo delle differenziazioni arbitrarie, già rintracciabili attraverso un controllo sull’uguaglianza, ma anche delle disparità “di fatto”; una parificazione che dovrà essere necessariamente “verso l’alto”, dato che la norma europea vieta i trattamenti differenziati e sfavorevoli. È, poi, con la definizione di discriminazione indiretta che il legislatore europeo ha introdotto importanti elementi di novità, specialmente se applicati al fattore religioso. Si parla in questo caso di disposizioni o prassi «apparentemente
neutre», ovvero applicate indistintamente a tutti i soggetti, che possono creare uno svantaggio per una categoria di persone in ragione di una caratteristica tra quelle protette dalla direttiva (nel nostro caso la religione). Anche in questo caso la nozione si fonda sulla giurisprudenza e sulla normativa preesistenti, introducendo alcune novità. Prima delle direttive del 2000, si individuava una discriminazione indiretta in una norma neutra che causava uno svantaggio per una quota numericamente più consistente di soggetti rispetto ad altri, ad esempio di donne rispetto agli uomini¹⁸. Si parlava, cioè, di un pregiudizio proporzionalmente maggiore (il disparate impact della giurisprudenza statunitense)¹ , la cui misurazione si fondava su dati numerici. Nella direttiva 2000/78 non si richiede più alcun calcolo statistico per provare la discriminazione, ma si stabilisce che norme apparentemente neutre sono discriminatorie se «possono mettere» (anche potenzialmente) in posizione di «particolare svantaggio» talune persone rispetto ad altre. I parametri per la dimostrazione del trattamento sfavorevole diventano – come per la prova della discriminazione diretta – meno rigidi, ma anche più vaghi ed opinabili² . C’è da dire che, in questo modo, si tiene conto della difficoltà nell’uso di un criterio di tipo quantitativo per alcuni fattori di discriminazione presenti nella direttiva. Ad esempio, può essere difficile misurare la porzione di soggetti svantaggiati in base alla religione, se mancano statistiche o dati sull’appartenenza e, più in generale, la raccolta di dati sull’appartenenza religiosa e razziale dei lavoratori è fortemente limitata, quando non proibita²¹. D’altra parte, venendo meno un criterio quantitativo (e perciò oggettivo), non è chiarito come possa essere provata la sussistenza di un «particolare svantaggio», né rispetto a quali soggetti (l’art. 2 parla genericamente di «persone che professano una determinata religione […] rispetto ad altre persone»)²². Peraltro, per la direttiva c’è discriminazione non soltanto quando lo svantaggio è reale ed attuale, ma anche quando la misura neutra può crearlo potenzialmente. La definizione in esame è ampia anche per quanto riguarda gli atti che possono determinare una discriminazione indiretta. L’articolato parla, infatti, di «una disposizione, un criterio o una prassi», applicandosi sia a regole presenti nella normativa statale, sia ad altre misure messe in atto da privati²³. Infine, occorre ricordare che non qualsiasi norma o prassi neutra che causi uno svantaggio sarà da classificare come discriminatoria: sarà, infatti, lecita quando sia «oggettivamente giustificat[a] da una finalità legittima e i mezzi impiegati
per il suo conseguimento siano appropriati e necessari» (n. 2, lettera b, sub i). La Corte di giustizia si è spesso misurata con il problema della giustificazione della discriminazione indiretta, dettando alcuni criteri poi codificati nelle definizioni in esame²⁴. La norma neutra deve anzitutto rispondere a un fine legittimo; successivamente si dovrà verificare che, per raggiungerlo, le misure prese siano state proporzionate. Ad esempio, in alcune attività commerciali può essere imposto un codice di abbigliamento, uguale per tutti i dipendenti, che risponde allo scopo legittimo di presentarsi in modo “uniforme” alla clientela. Si dovrà, però, dimostrare la necessità e l’appropriatezza di questa prassi nel momento in cui si dovesse rifiutare ad alcune persone di indossare simboli religiosi, intaccando l’omogeneità della divisa aziendale²⁵. In particolare, occorrerà provare che l’abbigliamento imposto era adeguato a perseguire lo scopo ricercato (appropriatezza) e che non vi erano altri modi (necessità) per preservare l’immagine dell’impresa data alla clientela, se non eliminando i riferimenti ai simboli religiosi. Si tratta, in sostanza, di operare un bilanciamento tra tutela del fattore (in questo caso) religioso e obiettivo della norma neutra, che risponde solitamente ad esigenze aziendali e di mercato. Vi saranno casi in cui sarà facile stabilire la prevalenza di queste ultime sull’attenzione alle diversità religiose: ad esempio, le disposizioni sulla sicurezza dell’ambiente di lavoro non risulteranno indirettamente discriminatorie, pur penalizzando i lavoratori che vogliano portare un copricapo a carattere religioso invece di un casco protettivo. In altri casi, invece, la valutazione dell’appropriatezza della misura neutra rispetto ai diversi interessi in gioco sarà meno netta. È importante ricordare che solo la discriminazione indiretta (rectius: una norma ibile di produrre una discriminazione indiretta) ammette giustificazioni, mentre per il divieto di discriminazione diretta si prevedono solo alcune deroghe, applicabili in casi limitati² . Ciò si spiega con la diversa natura dei due tipi di trattamenti svantaggiosi: mentre in un caso di discriminazione diretta, non si potrà giustificare una norma che contiene una previsione discriminatoria²⁷ , si potrà, al contrario, individuare nella norma neutra uno scopo legittimo ed estraneo dalla causa di discriminazione considerata, e quindi “salvarla” in forza di tale finalità e della adeguatezza dei mezzi utilizzati. Vi sono alcuni aspetti di questa nozione che si collegano ad altrettanti punti di interesse per la tutela della libertà religiosa. In primo luogo, la discriminazione religiosa indiretta si verifica quando disposizioni o prassi, applicandosi a tutti in ugual modo, causano un «particolare
svantaggio» in ragione della loro “cecità”²⁸ alle differenze religiose. Se si pensa alle numerose pratiche ed esigenze religiose specifiche, manifestate anche nel luogo di lavoro, ben si comprende come il divieto di discriminazione indiretta possa essere foriero di conseguenze importanti, perché volto a vietare quelle norme che, senza una motivazione adeguata, non prendono in considerazione le diversità e causano uno svantaggio² . In tal senso, la dottrina ha sottolineato che la proibizione della discriminazione indiretta si collega al concetto di accomodamento ragionevole³ , utilizzato dalla direttiva, in realtà, solo in merito alla tutela dei disabili (art. 5). Strumenti tipici degli ordinamenti canadese e statunitense³¹ , gli accomodamenti possono essere definiti come misure di “aggiustamento” di una norma generale, in modo da tenere in conto e tutelare alcune specifiche esigenze, rimuovendo gli ostacoli a una piena partecipazione di alcune identità nell’ambito lavorativo. Con riferimento ai divieti sanciti dalla direttiva, gli accomodamenti possono essere visti come modalità di rimozione degli svantaggi creati da una norma neutra, indirettamente discriminatoria. Infatti, di fronte a uno svantaggio generato da una regola neutra, l’abrogazione di quest’ultima può non essere sufficiente né opportuna per tutelare taluni soggetti; può risultare, allora, più vantaggioso applicare tale regola in modo flessibile, “aggiustandola” alle diverse esigenze³². La direttiva non prevede alcun obbligo circa la predisposizione di accomodamenti in materia religiosa; tuttavia si tratta di un aspetto rilevante e sempre più discusso nella lettura dei concetti chiave del diritto antidiscriminatorio europeo³³. Un altro aspetto di interesse della nozione di discriminazione indiretta è l’accento posto – come per la discriminazione diretta – sugli effetti discriminatori di una norma o di un comportamento, e non sull’intento soggettivo. Di più: al cuore di questa nozione – a differenza della discriminazione diretta, dove è centrale il momento comparativo – vi è proprio l’individuazione dell’impatto della norma neutra su una categoria di soggetti, definita dalla religione³⁴. A tal proposito, occorre evidenziare che, se per dimostrare la discriminazione diretta è sufficiente un raffronto tra le situazioni di due individui, il concetto di discriminazione indiretta coinvolge solitamente la dimensione collettiva³⁵ : per individuare lo svantaggio causato dalla norma neutra occorrerà far riferimento alle conseguenze che ricadono sugli appartenenti ad un gruppo, definito dal fattore religioso³ . Ciò risulta particolarmente interessante per la tutela del fattore religioso, che spesso si manifesta nelle pratiche di una collettività (organizzata o meno). Una discriminazione indiretta si configurerà come una norma che tenta di
omologare determinati comportamenti, magari assimilandoli a quelli della maggioranza, e creando una condizione di sfavore non tanto per l’esercizio della libertà religiosa di un singolo, quanto per la libertà di tutti coloro che condividono una determinata credenza. Infine occorre considerare che la discriminazione indiretta può essere determinata non solo da un comportamento isolato, ma anche da regole o prassi che, proprio per il loro essere neutre, sono sistematiche (o strutturali)³⁷ e caratterizzano le modalità con cui un ordinamento soddisfa gli interessi religiosi. Come già ricordato, il divieto sancito dalla direttiva riguarda tanto i comportamenti privati, quanto la normativa statale: quando è quest’ultima a determinare una discriminazione indiretta, siamo di fronte a una “struttura”, una regola stabilita nell’ordinamento e che non emerge come discriminatorio al solo controllo sull’uguaglianza. Le norme sulla discriminazione, allora, possono rivelarsi uno strumento particolarmente efficace per individuare, tra le pieghe dell’ordinamento, i casi di trattamenti sfavorevoli “di fatto”, anche quando determinati dalla legislazione in vigore³⁸. Peraltro, in questi casi, un intervento di tipo sanzionatorio (come la rimozione del comportamento discriminatorio, più consona alle ipotesi di discriminazione diretta) potrebbe non essere sufficiente³ , rendendosi necessario intervenire attivamente per soddisfare i diversi interessi religiosi. In ogni caso, sebbene la nozione di discriminazione indiretta favorisca una maggiore attenzione verso le diversità religiose, la direttiva non stabilisce alcun obbligo in questo senso⁴ ; inoltre, nel bilanciamento degli interessi in gioco, le cause di giustificazione della discriminazione terranno conto del fatto che è lo Stato stesso a dettare determinate regole neutre, che molto probabilmente costituiscono mezzi appropriati per il perseguimento di finalità legittime. Resta il fatto che questo concetto è teso a realizzare la parità attraverso la tutela delle diversità più che dell’uguaglianza: una tendenza che, come si vedrà nei capitoli seguenti, incontra non poche resistenze a livello nazionale.
1.2. MOLESTIE E ORDINE DI DISCRIMINARE
Tra le altre condotte vietate dalla direttiva 2000/78, all’articolo 2.3 troviamo un riferimento alle molestie, definite come un «comportamento indesiderato adottato per uno dei motivi di cui all’articolo 1 avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo». Si tratta di una novità per molti degli ordinamenti statali: se, infatti, è da tempo codificato e noto il divieto di molestie sessuali, le molestie generalmente intese non sono state considerate, di solito, se non con l’approvazione delle direttive⁴¹. Con questa nozione, la direttiva intende eliminare non soltanto le discriminazioni in senso stretto, ma anche altri comportamenti che compromettono la dignità dei lavoratori e impediscono – con atti offensivi, umiliazioni e, in definitiva, con la determinazione di un clima ostile – la libera espressione delle loro diverse identità. A questo proposito, è stato notato che le previsioni sulle molestie «non si collegano in senso proprio alla parità di trattamento, ma riguardano diritti di natura diversa come, ad esempio, il diritto all’intimità o privacy, così come il diritto alla dignità personale»⁴². Mancano, infatti, nella fattispecie in esame, alcuni elementi propri della nozione di discriminazione, in primis l’aspetto comparativo⁴³ : per provare l’esistenza di una molestia è sufficiente individuare una violazione della dignità di un soggetto e la determinazione di un ambiente a lui ostile, circostanze dimostrabili anche senza un raffronto con altre persone⁴⁴. È vero però che, quando viene messa in atto una molestia, emerge in qualche modo un atteggiamento teso a preservare l’omogeneità di un ambiente di lavoro, escludendo – attraverso pregiudizi o comporamenti ostili – chi è diverso⁴⁵ ; in questo senso, il relativo divieto si inserisce pienamente nel quadro normativo sulle discriminazioni, definite come trattamenti sfavorevoli che impediscono la parità e il godimento dei diritti. Più nel dettaglio, la nozione di molestia si può scomporre in più elementi. Anzitutto, si parla di «comportamento indesiderato»: l’accento è posto, quindi, in prima battuta sulla percezione della vittima. Questa costruzione del concetto dal punto di vista soggettivo potrebbe portare a interdire una condotta semplicemente perché non voluta dalla vittima, con il rischio di limitare molti comportamenti, soprattutto nel caso di particolari sensibilità personali dal punto
di vista religioso⁴ . Ciò a maggior ragione se si tiene presente che – come per il divieto di discriminazione – la direttiva non attribuisce rilevanza all’intenzionalità dell’azione: un comportamento indesiderato risulta vietato se ha lo scopo o anche solo l’effetto di violare la dignità del lavoratore, a prescindere dalla volontà di chi lo mette in atto⁴⁷. Al contrario, si ritiene che il mero intento di determinare una molestia non sia rilevante se non causa alcun effetto lesivo⁴⁸. Ora, molti comportamenti possono essere ritenuti indesiderati dal punto di vista religioso, data la particolarità di questo fattore e la sua tendenza a regolare e ad avere un proprio punto di vista su ogni aspetto della vita. Potrebbero, così, risultare vietate varie condotte, anche quelle verbali che contrastino con le idee e il sentimento religioso dei lavoratori-fedeli. La questione risulta problematica perché tali condotte non solo sarebbero non intenzionalmente offensive, ma in alcuni casi anche diretta conseguenza dell’esercizio di diritti fondamentali, quali la libertà di espressione⁴ . Il rilievo della percezione soggettiva della vittima è quindi correttamente bilanciato da alcuni aspetti oggettivi della nozione di molestie: il comportamento non deve essere meramente indesiderato, ma causare la violazione della dignità della persona e la presenza di un clima umiliante, intimidatorio, degradante od offensivo. Entrambi gli elementi (mancato rispetto della dignità personale; compromissione del clima lavorativo) sono richiesti per l’individuazione di una molestia, restringendo in parte l’insieme dei comportamenti sanzionabili. Le direttive, tuttavia, non specificano come debba essere individuata una violazione della dignità personale (concetto, peraltro, piuttosto vago), né il quantum di offensività che un «comportamento indesiderato» debba avere per essere assimilato ad una molestia⁵ . Se fosse unicamente la vittima a dover qualificare un atto come ostile, molte condotte, percepite come contrare alla propria dignità personale, finirebbero per essere vietate⁵¹ , con la particolarità che, relativamente alla religione, ciò potrebbe determinare una considerevole restrizione di altri diritti fondamentali, primo fra tutti la libertà di espressione. Appare, perciò, opportuno individuare un equilibrio tra aspetti soggettivi ed oggettivi di questa fattispecie, valutando con attenzione i diversi interessi in gioco. Inoltre, la direttiva non dice nulla sul come si determina un clima intimidatorio od offensivo, in particolare se sia necessaria la ripetizione nel tempo di comportamenti indesiderati⁵². Questi elementi dovranno, quindi, essere specificati dagli Stati membri, come affermato dalla direttiva stessa, in base alla quale «il concetto di molestia può essere definito conformemente alle leggi e
prassi nazionali» (art. 2.3). Occorre, infine, ricordare che è vietato ai sensi della direttiva anche l’ordine di discriminare persone in base a uno dei motivi di cui all’art. 1 della stessa (art. 2, par. 4). Può darsi il caso, ad esempio, di un datore di lavoro che, servendosi di un’agenzia di collocamento per reclutare dipendenti per la sua impresa, richieda di selezionare personale appartenente solo ad una certa razza o religione; oppure di un proprietario di un locale che inciti i camerieri ad offrire un servizio peggiore ai clienti di colore o ai fedeli di una confessione di minoranza. La direttiva stabilisce che tali ordini del datore di lavoro siano equiparati ad una vera e propria discriminazione. Come notato in dottrina, ci si può domandare se siano sanzionabili ordini di discriminare che – sia perché non eseguiti, sia perché non hanno avuto i risultati voluti – non abbiano dato origine ad un effettivo svantaggio⁵³. La direttiva non specifica nulla al riguardo; spetta, perciò, al legislatore e al giudice nazionale valutare la questione. Ad ogni modo, occorrerà considerare che, in alcuni casi, simili comportamenti del datore di lavoro possono causare una situazione deteriore (ovvero una discriminazione) anche per chi riceve il comando e, magari non volendo, dovrà porlo in essere, oppure per chi, rifiutando di agire in base agli ordini del suo superiore, corra il rischio di essere sottoposto a ritorsioni o altri trattamenti di sfavore.
1.3. IL DIRITTO ANTIDISCRIMINATORIO E LE DIVERSITÀ: LE AZIONI POSITIVE
Come già osservato a proposito della nozione di discriminazione indiretta, le direttive non si limitano a perseguire un modello di uguaglianza formale, ma prevedono strumenti più decisamente indirizzati al raggiungimento dell’uguaglianza sostanziale. Tra questi strumenti si possono indubbiamente annoverare le azioni positive. In entrambe le direttive del 2000 (articolo 5 dir. 2000/43 e articolo 7 dir. 2000/78) si prevede espressamente la possibilità per gli Stati membri di predisporre azioni positive⁵⁴ , un concetto già noto al diritto comunitario che, sebbene con alcune titubanze, le aveva previste in favore del sesso femminile nella legislazione sulla discriminazione di genere⁵⁵. La direttiva 2000/78 non contiene una definizione chiara di tali azioni e si limita ad una generica indicazione in base alla quale gli Stati potranno mantenere o adottare «misure specifiche dirette a evitare o compensare svantaggi» correlati, nel nostro caso, alla religione. La formula «misure specifiche» riconduce sommariamente alla messa in atto di strumenti di “diritto diseguale”; meno vago a tal proposito è il testo dell’art. 141 TCE, che si riferisce, in tema di uguaglianza uomo/donna, ad interventi promozionali in favore del sesso sottorappresentato o svantaggiato («misure che prevedano vantaggi specifici diretti a facilitare l’esercizio di un’attività professionale da parte del sesso sottorappresentato, ovvero a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali»). Alla luce della dottrina e delle prassi nazionali ed internazionali⁵ , ad ogni modo, sembra di poter attribuire anche alle azioni positive ex articolo 7 della direttiva il significato di misure preferenziali ricavabile dall’art. 141 TCE⁵⁷. Come chiaramente indicato, tra l’altro, da una risoluzione del 2006 del Parlamento europeo in materia di strategie contro la discriminazione⁵⁸ , le azioni positive nel diritto europeo sono interventi rivolti a categorie sociali svantaggiate (donne, portatori di handicap, immigrati, minoranze linguistiche, ecc.), che stabiliscono – entro certi limiti – una disciplina differenziata o di favore, per riportare tali gruppi in posizione di parità con il resto della cittadinanza, o per facilitarne l’integrazione in alcuni ambiti sociali (ad esempio, per assicurare l’accesso alle scuole di alcune minoranze etniche o nazionali⁵ ). Esse rappresentano una deroga al principio di uguaglianza che, come tale, dovrà essere temporanea ¹ ed essere rigorosamente
motivata da una situazione di svantaggio tale da non poter essere eliminata con i normali strumenti della parità di trattamento. Lo svantaggio o sottorappresentazione sul quale si fondano le azioni positive fa riferimento, di norma, ad un pregiudizio subito nel ato, al quale si intende rimediare; la formulazione dell’articolo 7 della direttiva è più ampia, poiché consente di predisporre misure specifiche dirette sia a compensare, sia ad evitare svantaggi, ovvero a rimuovere situazioni attualmente sfavorevoli per gli appartenenti ad un determinato gruppo, o addirittura a prevenirle ². Al di là di tali caratteristiche generali, comuni ai diversi ordinamenti giuridici, le azioni positive sono state variamente interpretate ed attuate. Semplificando, si può affermare che esse oscillano tra due estremi: il perseguimento dell’uguaglianza dei punti di partenza, da un lato, e quello della parità dei punti d’arrivo, dall’altro ³. Le azioni positive possono essere intese, in altre parole, come interventi per assicurare pari opportunità (specie nell’accesso al lavoro), oppure come misure preferenziali in senso forte, che tendono non tanto all’uguaglianza delle chances, ma al raggiungimento di un risultato preciso per il gruppo svantaggiato (esempio classico: le quote per l’occupazione femminile) ⁴. Quest’ultima lettura è, peraltro, assai contestata, poiché presuppone un’incisiva deroga al principio di uguaglianza formale e la messa in atto di politiche promozionali in favore delle categorie svantaggiate, che possono tradursi in privilegi sproporzionati per alcuni gruppi (e solo per quelli destinatari delle azioni positive) ⁵. Le diverse sfaccettature del concetto in esame e la mancanza di una interpretazione condivisa da tutti gli Stati membri spiegano la scelta di non inserire una definizione dettagliata nelle direttive, ma di indicare una nozione sfumata, adattabile sia alle caratteristiche dei diversi ordinamenti europei, sia a tutti i fattori di discriminazione considerati . Il legislatore comunitario ha lasciato, perciò, ampi spazi agli Stati membri nella scelta delle misure promozionali. Non solo: la discrezionalità degli Stati è massima anche sulla possibilità stessa di porre in essere le azioni positive ⁷. In base all’articolo 7 della direttiva, infatti, la realizzazione di tali azioni resta eventuale e non obbligatoria; il senso di tale norma sembra, piuttosto, quello di autorizzare gli Stati a mettere in atto misure derogatorie del divieto di discriminazione, quando siano funzionali alla rimozione di svantaggi per determinate categorie sociali ⁸. Si può ben comprendere la scelta di non imporre agli Stati la messa in atto di interventi che – è bene evidenziarlo ancora – non sempre sono pacificamente ammessi e che, specie per alcune situazioni di svantaggio, come quelle derivanti
dall’origine etnica o dall’appartenenza religiosa, presuppongono politiche orientate verso la promozione delle minoranze e delle diversità culturali e religiose . In ogni caso, la norma sulle azioni positive – ora pienamente legittimate ed estese a tutti gli ambiti di discriminazione contemplati dalle direttive del 2000 – è un segno dell’affermarsi di un “nuovo” diritto antidiscriminatorio, più decisamente orientato verso la tutela dell’uguaglianza sostanziale. In queste disposizioni, peraltro, si può scorgere una linea di tendenza che, pur non ponendo obblighi per gli Stati, potrà influenzare le politiche nazionali dell’uguaglianza. Quanto al fattore religioso, la predisposizione di trattamenti differenziati può essere diversamente interpretata. Parte della dottrina li ritiene legittimi solo a determinate condizioni, e cioè quando finalizzati a rimuovere effettivi svantaggi e ad eliminare gli ostacoli – parafrasando l’art. 3, secondo comma, della Costituzione italiana – che pregiudicano la partecipazione alla vita sociale o al mercato del lavoro⁷ . La medesima opinione dottrinale sostiene, di conseguenza, che le azioni positive così descritte sono difficilmente applicabili al fatto religioso considerato singolarmente: la religione, infatti, sarebbe incapace di generare di per sé situazioni svantaggiose nell’ambito dell’impiego, provocate, piuttosto, dall’appartenenza etnica e nazionale, eventualmente collegata a quella religiosa⁷¹. Ad esempio, si potrà facilmente individuare un ostacolo nell’accesso al lavoro, tale da richiedere un’azione positiva, per gli immigrati di religione islamica, la cui appartenenza confessionale, sommandosi a particolari caratteristiche nazionali od etniche, determina uno svantaggio; probabilmente non soffriranno lo stesso pregiudizio i cittadini italiani musulmani: la loro religione da sola non sarà sufficiente a causare un’esclusione dal mercato del lavoro. È vero, però, che l’articolo 7 della direttiva 2000/78 amplia la possibilità di mettere in atto le azioni positive in tutti gli ambiti considerati dalla medesima, e non solo nella regolamentazione dell’accesso al lavoro, luogo classico di tali interventi. Ad esempio, con riferimento alle condizioni di lavoro si potranno agevolmente individuare situazioni di sfavore collegate alla religione – e solo ad essa –, per evitare le quali uno Stato potrà scegliere di intervenire con misure specifiche: si pensi al pregiudizio che potrebbe derivare per avventisti ed ebrei da una prassi aziendale che attribuisse una retribuzione maggiore ai dipendenti disposti a lavorare il sabato. Con un’azione positiva, in questo caso, si potrebbe decidere un trattamento specifico che consenta ai dipendenti di osservare il sabato festivo e di accedere ugualmente a maggiori retribuzioni, calcolate sulla
base del lavoro svolto in altri giorni della settimana. È evidente che, se le «misure specifiche» di cui all’art. 7 della direttiva vengono intese come interventi promozionali in favore dei gruppi religiosamente connotati, si determinerà un impegno a tutelare in modo ampio le minoranze religiose nell’ambiente di lavoro⁷². Simili interventi, se interpretati in senso forte, potrebbero avere effetti dirompenti sulla tutela delle diversità religiose, problema centrale nei dibattiti sul multiculturalismo⁷³. Appare, dunque, pienamente logica la scelta del legislatore comunitario di non obbligare, ma di rinviare agli Stati membri ogni decisione sull’opportunità delle azioni positive e sulla tipologia di interventi e di politiche da mettere in atto per la promozione dell’uguaglianza e delle diversità⁷⁴. La piena libertà data agli Stati nella gestione delle misure in questione si collega anche alla volontà del legislatore europeo di non interferire con le politiche nazionali relative alle minoranze religiose: quando si predispone un’azione positiva, per rimuovere gli svantaggi di porzioni di cittadini in base alla religione, è chiaro che si finisce per intervenire sullo status delle confessioni religiose. In questo campo, è bene ricordarlo, l’Unione europea non solo non possiede la competenza ad agire, ma ha altresì ribadito che la sua legislazione non dovrà influire sullo status nazionale delle chiese e delle organizzazioni religiose e filosofiche⁷⁵ ; conseguenza che si sarebbe potuta determinare nel caso si fosse sancito un vero e proprio obbligo per gli Stati di predisporre azioni positive in materia religiosa.
2. UNA DEFINIZIONE DI RELIGIONE? I CONFINI APPLICATIVI DEI DIVIETI DI DISCRIMINAZIONE
Le nozioni fin qui ricordate sono sostanzialmente coincidenti nelle due direttive approvate nel 2000. Tuttavia, a seconda che siano fondati sulla religione o sulla razza ed origine etnica, i comportamenti discriminatori si applicheranno solo all’ambito del lavoro, oppure ad ambiti più estesi. Occorre, pertanto, riflettere sul significato dei termini «religione», «convinzioni personali», «razza» e «origine etnica», utilizzati dalla legislazione europea, al fine di definire i confini dell’applicazione dei relativi divieti. Il legislatore europeo non ha fornito alcuna definizione di tali nozioni, né ha precisato alcunché riguardo al collegamento tra il fattore etnico e quello religioso. Si è difatti limitato ad affermare, al par. 6 del preambolo della direttiva 2000/43, che l’uso del termine razza non presuppone l’adesione dell’UE a «teorie che tentano di dimostrare l’esistenza di razze umane distinte». Questo mancato riferimento al dato biologico nella ricostruzione del concetto di razza – confermato oltre che dalle teorie scientifiche, dalla prevalente dottrina e dalla prassi internazionale e degli Stati europei⁷ – pone l’accento su altri elementi che lo definiscono: tra questi vanno sicuramente ricompresi l’origine nazionale o etnica, la cultura, le usanze e le credenze religiose⁷⁷. Infatti, sia nel diritto internazionale, sia nei documenti dell’Unione – specialmente in quelli relativi alla lotta al razzismo – l’elemento religioso è solitamente incluso tra le caratteristiche tipiche della discriminazione razziale⁷⁸. Per quanto riguarda in particolare l’ordinamento europeo, una dichiarazione comune del 1995 precisò che per discriminazione razziale si dovesse intendere qualsiasi trattamento deteriore fondato non solo su razza ed origine etnica, ma anche sulla religione e l’appartenenza ad un gruppo nazionale⁷ . In base a questa lettura, la direttiva 2000/43, pur riferendosi espressamente alla sola discriminazione razziale, potrebbe riguardare anche alcune forme di discriminazione religiosa, applicando al fattore religioso la tutela antidiscriminatoria anche al di fuori dell’ambito del lavoro⁸ . Tuttavia, il dato testuale e il fatto che l’elemento religioso sia espressamente trattato da un’altra norma non sembra possa permettere un’applicazione ampia della direttiva 2000/43 ai problemi di natura religiosa.
Nella direttiva 2000/78 non vi è una definizione di che cos’è una religione. Come sottolineato dalla dottrina⁸¹ , solitamente si evita di proporre tale definizione la quale, specie se dettagliata, rischierebbe di limitare la protezione della libertà religiosa solo a determinate credenze e quindi risultare discriminatoria⁸². Si fa riferimento, invece, all’art. 1, a un binomio tipico delle convenzioni internazionali sui diritti umani⁸³ : «religione» e «convinzioni personali». Menzionando entrambi i termini, si tutela un ampio insieme di concezioni, religiose o ateistiche, fideistiche o razionalistiche, e di convinzioni di natura non religiosa, ad esempio filosofiche⁸⁴. Nell’interpretazione del concetto di religione e di convinzioni, il riferimento principale è al diritto internazionale, richiamato, peraltro, dal preambolo della direttiva (nn. 1 e 4). È bene precisare, a tal proposito, che in base alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo non tutte le opinioni possono essere considerate alla stregua di una convinzione religiosa, ma solo quelle dotate di un certo livello di forza e coerenza nel definire la visione della vita di un individuo⁸⁵. Se la mancanza di una definizione esatta di religione evita di limitare la tutela antidiscriminatoria a poche credenze, il riferimento al diritto internazionale evita un secondo rischio, quello di estendere all’infinito tale tutela, applicando i divieti di discriminazione a qualsiasi opinione personale. Ciò comporterebbe, in particolare, alcune difficoltà nella concreta attuazione delle norme in esame, soprattutto di quelle che stabiliscono una tutela antidiscriminatoria non solo in negativo, ma anche “attiva”, attraverso le azioni positive e le altre misure orientate alla realizzazione dell’uguaglianza sostanziale⁸ . Peraltro, si deve ricordare che l’approvazione delle direttive – per il contesto, il momento storico e il previo sviluppo del diritto antidiscriminatorio, di cui si è detto – è volta a realizzare l’obiettivo della parità proteggendo alcune categorie deboli, tra le quali le minoranze etniche e religiose. Una garanzia estesa a tutte le idee personali, sebbene ammissibile in base alla formulazione delle disposizioni in esame, parrebbe un obiettivo solo secondario di questa normativa⁸⁷. Infine, si può affermare che l’omissione nelle direttive di qualsiasi definizione dei concetti di riferimento (razza, religione, convinzioni personali, ecc.) può essere vista come un rinvio alle differenti letture nazionali di tali concetti, dalle quali potrà discendere una più o meno ampia applicazione dei relativi divieti di discriminazione⁸⁸.
3. LE ECCEZIONI AL DIVIETO DI DISCRIMINAZIONE RELIGIOSA. REQUISITI OCCUPAZIONALI E ORGANIZZAZIONI DI TENDENZA
Accanto ai divieti di discriminazione religiosa, il legislatore comunitario ha stabilito alcune eccezioni al divieto di discriminazione: queste dovranno riguardare casi specifici e «strettamente limitati» (preambolo, considerant n. 23), al fine di rispettare il principio fondamentale di non discriminazione e di non eludere i divieti fissati dalle direttive. L’articolo 4 della direttiva 2000/78, rubricato «Requisiti per lo svolgimento dell’attività lavorativa» prevede due tipi di deroghe al divieto di discriminazione⁸ : il primo paragrafo consente un trattamento differenziato fondato su uno qualsiasi dei fattori di cui all’art. 1, quando questi costituiscano qualità determinanti per lo svolgimento di una mansione; il secondo stabilisce eccezioni al principio di parità quando il trattamento differenziato – fondato, in questo caso, solo sulla religione o sulle convinzioni personali – sia messo in atto dalle chiese o da «altre organizzazioni pubbliche o private la cui etica è fondata sulla religione o sulle convinzioni personali», in altre parole, dalle cosiddette «organizzazioni di tendenza» . Come si è già osservato, la logica “classica” dei divieti di discriminazione è quella di ignorare le differenze, ovvero di agire, nei vari momenti di un rapporto di lavoro, prescindendo da determinati fattori; l’articolo 4 della direttiva, al contrario, riconosce al datore di lavoro il diritto di operare una scelta proprio in base a tali caratteristiche. Il paragrafo 1 dell’art. 4 si riferisce ai casi in cui uno dei fattori di cui all’art. 1 della direttiva costituisca, stante la natura di un’attività lavorativa o il contesto in cui viene espletata, un requisito necessario per il suo svolgimento (nella formulazione inglese: genuine occupational requirement). L’appartenenza religiosa potrà essere considerata come presupposto per il corretto adempimento di una mansione, così da giustificare, ad esempio, l’assunzione di soli musulmani in una macelleria che praticherà la macellazione rituale secondo la religione islamica. La direttiva si preoccupa, ad ogni modo, di subordinare una simile disparità di trattamento al verificarsi di alcune condizioni: il connotato religioso deve essere «essenziale e determinante» per lo svolgimento dell’attività lavorativa e proporzionato rispetto al fine perseguito; quest’ultimo, inoltre, deve essere legittimo. La proporzionalità del requisito è un criterio particolarmente
importante, attraverso il quale si è inteso stabilire un equilibrio tra la deroga al principio di uguaglianza e il fine da raggiungere; in altre parole, si dovrà dimostrare che il sacrificio dei diritti dei lavoratori (il diritto alla parità e a non essere discriminati) non sia “sproporzionato”, eccessivo, rispetto all’esigenza del corretto svolgimento di una determinata mansione ¹. Questo fa sì che le deroghe all’uguaglianza siano utilizzate solo quando ciò sia veramente essenziale al perseguimento di un determinato fine; le necessità dell’azienda debbono essere, quindi, bilanciate con la tutela della libertà del lavoratore e non limitarla eccessivamente ². Se il paragrafo 1 dell’articolo 4 può essere letto come una (l’unica) possibilità di “giustificare” la discriminazione diretta, ammettendo differenziazioni di trattamento fondate sui fattori protetti dalla direttiva, il paragrafo 2 dell’articolo 4 contiene una deroga del tutto peculiare, che riguarda esclusivamente il fattore religioso. L’art. 4.2 stabilisce che gli Stati membri possono mantenere in vigore norme in base alle quali sono ammesse differenze di trattamento fondate, appunto, sulla religione o sulle credenze «nel caso di attività professionali di chiese o di altre organizzazioni pubbliche o private la cui etica è fondata sulla religione o sulle convinzioni personali» ³. Si tratta, anche in questo caso di genuine occupational requirements, disciplinati, tuttavia, in modo diverso rispetto a quelli sopra analizzati, in forza della loro applicazione all’attività «di chiese o di altre organizzazioni la cui etica è fondata sulla religione o sulle convinzioni personali». A tal proposito, occorre delineare meglio il quadro di riferimento della deroga ex art. 4.2 della direttiva. Se è indubbio che il termine «chiesa» si riferisce qui non soltanto alle chiese tradizionalmente intese (quelle cristiane), ma anche alle comunità religiose lato sensu ⁴ , più incerta è la definizione delle altre organizzazioni cui si rivolge la norma in esame ⁵. La direttiva indica un insieme piuttosto vago di enti la cui «etica» è ispirata dalla religione o dalle convinzioni personali. Ritroviamo qui il binomio «religione/convinzioni», riguardo al quale si ripropongono i problemi già esposti in merito all’art. 1 della direttiva . In realtà, se si guarda alla dottrina classica sulle organizzazioni di tendenza, queste sono caratterizzate non solo da una religione o da una convinzione filosofica assimilabile ad una religione, ma anche da ideologie politiche, sindacali o di altro tipo ⁷. In modo ampio potrebbe essere interpretato anche il termine «etica», la cui indeterminatezza apre le porte ad una dilatazione dell’insieme delle organizzazioni destinatarie della norma in
esame ⁸. D’altra parte, l’uso di tale vocabolo nella direttiva è stato proposto dagli esperti britannici, con riferimento all’utilizzo che ne viene fatto in tale ordinamento per indicare genericamente la “tendenza” e per individuare tutte le organizzazioni che, nel mettere in atto un’attività professionale, si ispirano a un’ideologia o ad un orientamento, di qualunque genere . In realtà, l’applicazione più o meno ampia della deroga in esame, nonché l’individuazione delle categorie di organizzazioni che ne beneficeranno, non potrà che dipendere, come previsto dallo stesso art. 4.2, dalle tradizioni e dalle norme in vigore nei singoli Stati membri¹ . A tal proposito, e a conferma di quanto appena osservato, si deve ricordare che la direttiva opera un ampio rinvio alle legislazioni nazionali: stabilisce, infatti, che gli Stati potranno mantenere le disposizioni in materia già in vigore, oppure prevedere nuove norme per le organizzazioni di tendenza, che riprendano le prassi già attuate alla data di emanazione della direttiva¹ ¹. Occorre poi specificare che cosa si intenda per «attività professionali» delle chiese e delle altre organizzazioni di cui all’art. 4.2. In prima battuta, si può notare che la deroga in esame non si applica all’attività tout court delle organizzazioni di tendenza, ma solo a quella «professionale»¹ ². L’art. 4.2 non stabilisce, cioè, una normativa ad hoc per tutto ciò che concerne le chiese e le altre organizzazioni e i rapporti che esse intrattengono con qualsivoglia soggetto, ma riguarda esclusivamente le prestazioni di tipo lavorativo¹ ³. Da segnalare che la formula «attività professionale» non si riferisce soltanto ai rapporti di lavoro subordinato, ma anche alle varie tipologie di lavoro autonomo che può essere svolto in connessione con l’organizzazione di tendenza¹ ⁴. Nel così individuato ambito dell’attività professionale delle chiese ed organizzazioni “di tendenza”, il legislatore comunitario consente un trattamento differenziato fondato sulla religione, che si affianca a quello previsto dal paragrafo 1 dell’art. 4. Non si tratta, come notato in dottrina¹ ⁵ , di una mera ripetizione o specificazione della norma sui requisiti professionali, ma di una disposizione di maggior favore per le organizzazioni confessionali ed ideologiche. Infatti, alcune delle condizioni poste dal paragrafo 1 per l’applicazione di deroghe alla non discriminazione non sono riproposte – almeno non in termini così stringenti – nell’art. 4.2. La norma in esame ammette un’eccezione al divieto di discriminazione quando si è in presenza di requisiti occupazionali fondati unicamente sulla religione o le convinzioni personali, che siano essenziali, legittimi e giustificati, tenuto conto
dell’«etica» dell’organizzazione; non si richiede, invece, che siano determinanti per lo svolgimento del lavoro, né proporzionati. Quest’ultima omissione determina il venir meno di quel criterio che stabilisce un basilare equilibrio tra la libertà del lavoratore e le esigenze dell’impresa; ciò appare un problema particolarmente delicato per quanto riguarda la libertà religiosa e il rapporto di lavoro nelle organizzazioni di tendenza. Il timore, espresso dalla dottrina, è che queste ultime mettano in atto deroghe e trattamenti differenziati in modo più ampio da ciò che risulta essenziale per lo svolgimento dell’attività lavorativa, anche comprimendo la libertà individuale del lavoratore¹ . A questo proposito è stato osservato che il problema delle organizzazioni di tendenza presenta un aspetto che riguarda, molto più che la non discriminazione, la libert๠⁷. Si configura, infatti, un possibile conflitto di diritti: da una parte il diritto dell’organizzazione ad ottenere che chi lavora per suo conto operi in conformità con la sua etica, dall’altra la libertà del singolo a manifestare il proprio pensiero o a condurre la propria vita in conformità alle proprie individuali convinzioni. Resta ferma, invece, la necessità di dimostrare che la religione o le convinzioni personali costituiscano un requisito «essenziale» per la natura della mansione o per il contesto nel quale essa verrà svolta. Esigere un occupational requirement sarà, quindi, consentito se si è in presenza di un lavoro collegato con la realizzazione dei fini religiosi o ideologici dell’organizzazione, che sia rilevante per il coerente svolgimento della sua attività, oppure quando una mansione si svolga in un determinato contesto, il quale debba mettere in evidenza la “tendenza”¹ ⁸. Esemplificando, in un istituto scolastico cattolico non si potrà richiedere ad un addetto alle pulizie di condividere la religione cattolica (la natura della sua attività non lo richiede), mentre lo si farà con un aspirante al posto di insegnante o di direttore dell’istituto. Anche il contesto in cui si svolge l’attività lavorativa può essere determinante ai fini della deroga: il comportamento di un lavoratore, anche quando l’attività svolta non abbia rilevanza per l’ideologia dell’organizzazione, può creare “scandalo” nel contesto in cui l’attività è esercitata e perciò giustificare un trattamento differenziato¹ . Nell’esempio precedente, si potrebbe ammettere il licenziamento di un addetto alle pulizie che manifesti apertamente la sua avversità alla religione cattolica se, dato il contesto nel quale si svolge il suo lavoro e il suo contatto con il pubblico, ciò creasse un problema di conformità alla “tendenza” dell’organizzazione. La direttiva specifica, inoltre, che le deroghe al principio di parità ex art. 4.2 non possono giustificare una discriminazione fondata su motivi diversi dalla religione¹¹ . Il caso sul quale si è più discusso riguarda il potenziale contrasto
con il divieto di discriminazione fondato sull’orientamento sessuale. Alcune religioni, infatti, non approvano l’omosessualità e di conseguenza potrebbero decidere di assumere, nelle proprie organizzazioni “eticamente” fondate, solo candidati eterosessuali¹¹¹. Ciò potrebbe configurare una discriminazione fondata sull’orientamento sessuale¹¹² , vietata dalla direttiva e non coperta dalla deroga ex art. 4.2. Occorre, tuttavia, notare che parte della dottrina individua nell’art. 4.1 della direttiva una norma applicabile anche alle organizzazioni di tendenza, per quanto concerne i fattori diversi dalla religione e dalle convinzioni personali, mentre l’art. 4.2 riguarda solo questi ultimi¹¹³. Se è vera questa interpretazione – se, cioè, alle organizzazioni di tendenza si possono applicare entrambi i paragrafi dell’articolo 4, e non l’art. 4.2 in via esclusiva¹¹⁴ – tali organizzazioni sarebbero pienamente legittimate a mettere in atto un trattamento differenziato anche fondato sull’orientamento sessuale o su altri fattori, quando costituisca un genuine occupational requirement nei termini dell’art. 4.1. Infine va notato che, in base al secondo comma dell’articolo 4.2, la direttiva non pregiudica il diritto delle chiese e delle organizzazioni di tendenza «di esigere dalle persone che sono alle loro dipendenze un atteggiamento di buona fede e di lealtà nei confronti dell’etica dell’organizzazione». Se criteri come la buona fede e la lealtà all’organizzazione sono «concetti elastici idonei a coniugare la natura della prestazione dovuta dal debitore con l’interesse stesso del creditore»¹¹⁵ , ovvero dell’impresa di tendenza, in questo caso pare esservi la possibilità di un più ampio controllo sul comportamento del lavoratore, che dovrà essere conforme all’etica dell’organizzazione non soltanto quando sia richiesto un requisito occupazionale. Si pone, di nuovo, il problema di raggiungere un equilibrio tra la libertà individuale del lavoratore e il bisogno da parte dell’organizzazione di affidarsi a personale che agisca in modo coerente con una data ideologia. Potranno esservi casi, ad esempio, in cui, nonostante la compatibilità ideologica al momento dell’assunzione, il lavoratore cambi religione o avviso sull’etica dell’organizzazione; oppure situazioni in cui anche il mero comportamento del lavoratore – e non soltanto la sua dichiarata condivisione di un determinato credo – sarà rilevante per garantire l’adempimento degli obblighi contrattuali e la credibilità dell’ideologia dell’organizzazione. L’incompatibilità sopravvenuta tra l’etica personale e l’etica dell’organizzazione può dar luogo all’interruzione del rapporto lavorativo. Tuttavia, spesso non si chiarisce – e neppure la direttiva dice alcunché in proposito – fino a che limite la conformità all’etica dell’organizzazione possa essere opposta a un comportamento “deviante” del lavoratore; in altre parole, non si specifica quanto debba essere grave l’inosservanza dell’etica per
giustificare una discriminazione. L’assenza del criterio di proporzionalità nell’art. 4.2, di cui si è detto, potrebbe portare a un più ampio controllo sulla libertà del lavoratore¹¹ .
4. I MEZZI DI RICORSO E DI ESECUZIONE Le direttive del 2000 non si limitano a vietare la discriminazione, a formulare definizioni e a stabilire parametri in materia, che siano validi per tutti gli Stati dell’UE, ma indicano anche alcune modalità per realizzare effettivamente la tutela antidiscriminatoria. Si possono distinguere, a questo proposito, due insiemi di norme: quelle relative ai rimedi, con specifici mezzi di ricorso e di protezione delle vittime della discriminazione, e quelle relative alle misure di prevenzione della discriminazione. In proposito, si è notato che le norme che sanciscono l’illegittimità di atti o patti discriminatori sarebbero di ben poca utilità a chi subisce la discriminazione, se non fossero accompagnate da meccanismi riparatori e/o preventivi¹¹⁷. La garanzia di essere liberi da discriminazioni dipenderà, infatti, dai mezzi predisposti per assicurare la cessazione del trattamento indesiderato o per ottenere un risarcimento¹¹⁸.
4.1. MEZZI DI RICORSO E ASPETTI PROCESSUALI
Agli artt. 9-11, la direttiva 2000/78 si occupa dei meccanismi di ricorso e di difesa delle vittime della discriminazione¹¹ . L’articolo 9 impone agli Stati di garantire la possibilità di accesso agli organi giurisdizionali per ottenere tutela contro una forma di discriminazione. Le procedure possono essere giurisdizionali, di tipo amministrativo o di conciliazione, e le vittime possono essere assistite da organizzazioni ed associazioni che hanno un interesse legittimo a che sia rispettato il principio di non discriminazione¹² . Nel lasciare agli Stati la scelta dei mezzi di ricorso adeguati, la direttiva introduce alcuni elementi di novità dal punto di vista processuale. Il primo concerne, appunto, la possibilità per associazioni e organizzazioni di agire per conto della vittima. Una previsione senza dubbio importante, che può agevolare il lavoratore nell’azione contro la discriminazione: l’intervento di un terzo, specie di un organismo che abbia esperienza in materia di lotta alla discriminazione, potrebbe mettere al riparo il soggetto discriminato da eventuali ritorsioni ed aiutare i soggetti deboli nelle fasi processuali. Si è, d’altra parte, rilevato che l’intervento delle organizzazioni deve avvenire, ex art. 9 della direttiva, con il consenso della parte lesa: una scelta, quella del legislatore europeo, che potrebbe finire per inibire la possibilità di effettivo sostegno alle vittime della discriminazione, dato che, in sostanza, spetta sempre a queste ultime la decisione di intraprendere o meno un’azione legale, mentre le organizzazioni di settore possono agire solo con il loro esplicito consenso. A tutela del soggetto discriminato, inoltre, la direttiva vieta la cosiddetta «vittimizzazione» (victimisation), cioè ogni tipo di ulteriore trattamento sfavorevole nei confronti del lavoratore che abbia intentato causa o presentato un reclamo contro il datore di lavoro che l’ha discriminato (art. 11)¹²¹. L’altra novità di rilievo introdotta dalle direttive in merito al giudizio antidiscriminatorio riguarda la questione dell’onere della prova: l’articolo 10 stabilisce che questo ricada sulla parte convenuta, offrendo così maggiori possibilità di azione alle vittime della discriminazione, che non sono più tenute a dimostrare di essere state danneggiate¹²². Si tratta di un alleggerimento del carico della prova in capo alla parte attrice, e non di una vera e propria “inversione”
dell’onere probatorio¹²³. Occorre notare, in proposito, che in ambito comunitario si discute da molto tempo sui problemi della prova della discriminazione, a partire soprattutto dalle direttive sulla parità di genere; solitamente nella legislazione antidiscriminatoria – anche in quella che precede le direttive del 2000 – il regime probatorio è diverso da quello ordinario e deroga al principio generale secondo il quale onus probandi incumbit ei qui dicit, non ei qui negat¹²⁴. Nella direttiva 2000/78 l’articolo 10 ribadisce questo indirizzo¹²⁵. Di conseguenza, la disciplina nazionale del giudizio antidiscriminatorio dovrà prevedere che, quando il ricorrente abbia presentato fatti – anche secondari – dai quali si presume l’esistenza di una discriminazione, spetti alla parte convenuta dimostrare di non averla messa in atto. In altre parole, il convenuto deve provare un fatto negativo che smentisca la presunzione della discriminazione sostenuta dal ricorrente. A quest’ultimo resta il compito di agire in giudizio e di presentare fatti che obblighino l’altra parte a dimostrare l’insussistenza della discriminazione. Come evidente, la finalità di questa norma è quella di agevolare il soggetto discriminato nella introduzione di un ricorso. Infatti, specie nel rapporto di lavoro, tutte le informazioni circa i patti o gli atti che possono risultare discriminatori sono possedute dal datore di lavoro, cosicché le posizioni del ricorrente e del resistente in giudizio sono sbilanciate a favore di quest’ultimo¹² . Stabilendo che il convenuto deve provare l’inesistenza di una discriminazione, si è alleggerito l’onus probandi in capo alla parte attrice, riequilibrando le due posizioni a maggior tutela di chi ha subito la discriminazione. La disciplina del giudizio antidiscriminatorio è particolarmente importante per le conseguenze che può avere sul modo di provare la discriminazione, operazione – come già sottolineato – spesso difficoltosa. È questo il motivo per cui il legislatore e l’interprete si soffermano con attenzione sulle definizioni della discriminazione: da esse dipende, infatti, la determinazione delle modalità con cui deve essere provata l’esistenza di un trattamento sfavorevole¹²⁷. È stato osservato, in proposito, che i divieti di discriminazione e le norme sul ricorso e sul regime probatorio sono strettamente collegati, anche in forza del fatto che la tutela effettiva dalla discriminazione dipende dai mezzi di ricorso, dai rimedi e dalle sanzioni che possono essere imposti per risarcire le vittime¹²⁸.. Se l’inversione dell’onere della prova, di cui all’art. 10 della direttiva, favorisce l’attore rispetto al convenuto, la dimostrazione di una discriminazione resta pur sempre un’operazione complessa. Lo è, in particolare, per la religione, un fattore
che solitamente – pur connotando un soggetto – resta confinato nel foro interno della persona; di conseguenza, non sempre si potrà dimostrare agevolmente che esso costituisca il fondamento di un presunto atto di discriminazione¹² . Ciò accadrà in particolar modo per i casi di discriminazione diretta, ma occulta¹³ . Ad esempio se il direttore di un albergo sceglie i propri dipendenti preferendo quelli appartenenti ad una determinata religione – magari la stessa alla quale egli appartiene – ma senza spiegare a nessuno il criterio in base al quale egli ha operato, sarà difficile dimostrare in giudizio che egli conoscesse l’appartenenza religiosa dei candidati e li avesse selezionati di conseguenza. Inoltre, non esistendo in genere raccolte di dati ufficiali sull’appartenenza religiosa, è inibita la possibilità di fare riferimento a mezzi di prova come l’evidenza statistica, che attesterebbe lo svantaggio subito, a causa della religione, da una categoria di soggetti rispetto ad altri. In questo senso, particolarmente difficile da dimostrare è la discriminazione determinata da una norma neutra: la definizione di discriminazione indiretta – come si è detto – richiede che vi sia un particolare svantaggio, derivante da una regola neutra, per gli appartenenti ad una religione; per individuare una misura indirettamente discriminatoria, la direttiva 2000/78 non indica più la presenza di una quantità proporzionalmente maggiore di soggetti svantaggiati. Ciò da un lato amplia la possibilità di individuare norme neutre e contemporaneamente discriminatorie; dall’altro lato, però, rende più vaga la modalità di prova della discriminazione, che si basa non su un dato incontrovertibile (numerico) ma su una libera valutazione (qualitativa) dell’interprete¹³¹. Caduto l’obbligo della dimostrazione di uno svantaggio quantitativo, le statistiche e i dati numerici possono ancora costituire mezzi di prova nel giudizio antidiscriminatorio, secondo quanto dichiarato nel preambolo della direttiva stessa¹³². Per quanto concerne la religione, tuttavia, l’uso di statistiche non agevola la prova di uno svantaggio. Difatti, occorre ricordare che la direttiva 2000/78 si applica all’ambito del lavoro, nel quale il diritto comunitario e le legislazioni nazionali vietano espressamente le indagini sull’appartenenza religiosa o razziale (i cosiddetti “dati sensibili”) e ne limitano la raccolta¹³³. Un soggetto che, agendo in giudizio contro la discriminazione, voglia addurre dati statistici per mostrare come una norma neutra ponga in posizione di svantaggio gli appartenenti ad una determinata religione, dovrebbe poter accedere proprio a queste tipologie di dati¹³⁴.
Ancora riguardo al regime probatorio, occorre notare che nelle definizioni di discriminazione contenute nelle direttive del 2000 non si fa cenno alla volontarietà della condotta discriminatoria; l’irrilevanza dell’intento discriminatorio è, peraltro, un punto già consolidato nella normativa e giurisprudenza precedenti¹³⁵. Ciò significa che i trattamenti discriminatori sono ritenuti un fenomeno di per sé negativo per le odierne società, tanto da stabilirne la sanzionabilità indipendentemente dal fatto che siano stati messi in atto di proposito¹³ .
4.2. MEZZI DI ESECUZIONE E DI PREVENZIONE DELLE DISCRIMINAZIONI
Al fine di evitare comportamenti discriminatori, la direttiva 2000/78 richiama e sottolinea in modo particolare il ruolo delle parti sociali e delle organizzazioni non governative, che hanno il compito di promuovere la realizzazione del principio di parità (articoli 13 e 14). Il legislatore comunitario stabilisce che gli Stati promuovano il dialogo con le parti sociali (art. 13), le quali dovranno monitorare gli ambienti di lavoro, condurre ricerche e diffondere buone pratiche per promuovere la parità di trattamento; avranno, inoltre, il compito di agevolare l’introduzione di regole antidiscriminatorie nei contratti collettivi stipulati negli ambiti di applicazione della direttiva. Il dialogo sui problemi della discriminazione dovrà coinvolgere, in base all’art. 14, anche le organizzazioni non governative che «hanno un interesse legittimo a contribuire alla lotta contro le discriminazioni fondate su uno dei motivi di cui all’articolo 1»: le stesse organizzazioni che l’art. 9.2 autorizza ad agire in giudizio per conto delle vittime di discriminazione. La direttiva 2000/43 sulla discriminazione razziale ha previsto anche, all’articolo 13, l’istituzione di uno o più organismi nazionali per la promozione della parità di trattamento¹³⁷ , organismi che si sono rivelati un importante punto di riferimento per le vittime delle discriminazioni fondate sull’etnia o sulla razza, effettuando raccolte dei dati, diffusione di informazioni (prevista, tra l’altro, anche dall’art. 10 della direttiva e dal corrispondente art. 12 dir. 2000/78), e assistenza alle vittime¹³⁸. Una previsione analoga, relativa agli organismi per la parità, non è presente nella direttiva 2000/78. Dal punto di vista della difesa dei diritti delle vittime, si è in presenza di una “discriminazione nella discriminazione”, ovvero di un diverso trattamento delle vittime di discriminazioni razziali rispetto a chi subisce trattamenti sfavorevoli fondati sui motivi di cui all’art. 1 della dir. 2000/78. In particolare, nei casi di discriminazione religiosa, spesso collegati con quelli di discriminazione razziale, gli Stati europei non sarebbero tenuti a garantire la medesima assistenza prevista dall’art. 13 della dir. 2000/43; questa diversità è stata colmata, in alcuni casi, dalle norme nazionali di attuazione delle direttive, che hanno esteso ai centri che si occupano della discriminazione razziale la competenza di promuovere la parità di trattamento relativa a tutti i “grounds of discrimination” previsti dalle
direttive del 2000¹³ .
5. LA REALIZZAZIONE DEGLI OBIETTIVI DELLA DIRETTIVA, TRA INTERVENTO SOVRANAZIONALE E COMPETENZE STATALI
A questo punto è opportuno ricordare alcune caratteristiche delle direttive e degli obblighi che esse determinano. Ai sensi dell’art. 288, terzo comma, del TFUE (già art. 249 TCE), le direttive vincolano gli Stati membri a cui sono rivolte «per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi». Si tratta di atti che impongono solo un obbligo di risultato, lasciando liberi gli Stati di scegliere i mezzi più opportuni per raggiungere gli scopi indicati¹⁴ . A differenza dei regolamenti, che hanno portata generale e che prevedono disposizioni direttamente vincolanti, senza necessità di un intervento attuativo da parte degli Stati, le direttive si rivolgono esclusivamente agli Stati membri (di solito a tutti gli Stati), i quali saranno tenuti ad approvare specifici provvedimenti o a modificare la normativa interna in modo di renderla conforme a quanto previsto a livello europeo. In linea di principio, inoltre, le direttive mancano di una diretta applicabilità negli ordinamenti nazionali: esse saranno efficaci solo attraverso gli interventi di attuazione di volta in volta predisposti dagli Stati. L’ordinamento dell’Unione ha previsto questa tipologia di provvedimenti perché non in tutte le materie è attuabile o desiderabile una completa uniformità normativa del diritto di tutti gli Stati membri. In alcuni casi, è sufficiente che le misure adottate a livello nazionale siano indirizzate al raggiungimento di un fine comune, indicato dall’Unione. Nel caso delle direttive del 2000, la lotta alle discriminazioni e il rafforzamento delle pari opportunità costituiscono l’obiettivo da raggiungere, in vista del quale ciascuno Stato ha dovuto modificare e innovare la propria
legislazione, scegliendo i mezzi e le forme più adatte alle caratteristiche nazionali. Il legislatore europeo ha dettato, in questo senso, alcune linee generali (nozioni di riferimento, obblighi quanto alla tutela delle vittime e ai mezzi di ricorso e di esecuzione, ecc.), ma ha lasciato liberi gli Stati di determinare le modalità di attuazione e gli aspetti di dettaglio. Come già accennato, l’art. 13 del TCE consentiva alle istituzioni europee di adottare «provvedimenti» per la lotta alle discriminazioni, senza specificare la tipologia di atti. La scelta di utilizzare uno strumento come le direttive nel caso del diritto antidiscriminatorio ha una sua logica: infatti l’approccio degli Stati dell’Unione al tema della discriminazione (specie quella razziale e religiosa) è piuttosto diversificato e la direttiva permette loro di tenere conto delle norme già in vigore a livello nazionale, delle caratteristiche del fenomeno della discriminazione all’interno della società e di decidere gli strumenti più adatti a combatterla¹⁴¹. Tutto ciò nel rispetto di un quadro concettuale comune, che potrà risultare utile anche per le vittime di atti discriminatori: una tutela efficace su tutto il territorio dell’Unione si baserà anzitutto su una comprensione comune di che cosa si intende per discriminazione e di quali siano i comportamenti vietati. Anche i concetti di base sono stati inseriti nelle direttive mirando all’armonizzazione tra gli Stati, ma tenendo presente l’esistenza di diverse “tradizioni costituzionali” in materia. Queste possono individuare modelli di uguaglianza differenti, persino più avanzati, e leggere il principio di parità come obiettivo che trascende i singoli divieti di discriminazione¹⁴². Per questo i concetti che si riferiscono all’uguaglianza sostanziale (come le azioni positive) non sono definiti in modo dettagliato dalla direttiva, per consentire agli Stati di dare attuazione agli standard
europei con modalità e sfumature diverse. Lo stesso si può dire per quanto riguarda le eccezioni ai divieti di discriminazione, soprattutto quelle relative alle organizzazioni di tendenza: di fronte a un tema che tocca anche lo status delle confessioni religiose, l’intervento armonizzatore dell’Unione europea si arresta e lascia una maggiore discrezionalità al legislatore nazionale. L’analisi dell’attuazione delle direttive negli Stati si rivela, quindi, di grande interesse per comprendere quanto il diritto europeo possa arrivare ad incidere sia nello sviluppo del diritto antidiscriminatorio tout court, sia nella disciplina della libertà religiosa che ad esso si collega.
¹ È importante notare fin d’ora che si tratta di nozioni che – almeno per quanto riguarda l’aspetto religioso – sono codificate per la prima volta nel testo delle direttive; quanto alle legislazioni nazionali, come vedremo, spesso non esistevano vere e proprie definizioni delle condotte in esame, anche se il concetto di discriminazione era conosciuto e ha talvolta inciso sull’elaborazione a livello europeo. Ad esempio il concetto di discriminazione era presente nell’ordinamento britannico, che aveva sviluppato un ampio corpus normativo in materia e ha influenzato lo sviluppo della legislazione europea in tema. Spesso, invece, non esistevano a livello nazionale vere e proprie definizioni di discriminazione. Cfr. M. BELL, Direct Discrimination, in D. SCHIEK, L. WADDINGTON, M. BELL, Cases, Materials… , cit., p. 185 ss.
² Le norme che si esamineranno di seguito sono formulate (salvo dove segnalato diversamente) con termini del tutto analoghi anche nella direttiva 2000/43.
³ La definizione di discriminazione diretta è stata qui codificata distinguendola da quella di discriminazione indiretta, introdotta in ambito internazionale ed
europeo attraverso alcune sentenze della Corte di giustizia (cfr. supra, cap. I, par. 1.3) e della Corte di Strasburgo. Per quanto riguarda quest’ultima, occorre ricordare anzitutto la sent. del 6 aprile 2000, Thlimmenos c. Grecia (ric. n. 34369/97) nella quale per la prima volta – e proprio relativamente a un problema di libertà religiosa – si è definita la discriminazione non solo come trattamento ingiustamente differenziato, ma anche come un trattamento uguale di situazioni diverse, introducendo la nozione di discriminazione indiretta (in merito, per tutti, O. DE SCHUTTER, The Prohibition of Discrimination under European Human Rights Law. Relevance for the EU non-discrimination Directives - an update, Luxembourg, OPEC, 2011, p. 23 ss.).
⁴ Così nel noto scritto di P. ICHINO, Il contratto di lavoro, in Trattato di diritto civile e commerciale, dir. da A. CICU, F. MESSINEO, L. MENGONI, Milano, Giuffrè, 2000, vol. XXVII, t. 2, p. 570. Sul aggio da una tutela classica – dove non discriminare significa astenersi dal considerare alcune caratteristiche – verso una più innovativa tutela delle differenze attraverso il diritto antidiscriminatorio cfr., di recente, J. RINGELHEIM, Adapter l’entreprise à la diversité des travailleurs : La portée transformatrice de la non-discrimination, CRIDHO working paper, 2013/5, p. 3, in http://cridho.uclouvain.be/fr/
⁵ M.V. BALLESTRERO, Eguaglianza e differenze, cit., p. 511 ss.; M. ROCCELLA, La Corte di Giustizia e il diritto del lavoro, Torino, Giappichelli, 1997, p. 131.
M. BARBERA, Discriminazioni ed eguaglianza nel rapporto di lavoro, cit., p. 14; M. RODRÍGUEZ-PIÑERO, M.F. FERNÁNDEZ LÓPEZ, Igualdad y discriminación, cit., p. 92 ss. L’enunciato secondo il quale la discriminazione corrisponde ad un trattamento peggiorativo era già presente nelle convenzioni internazionali sul tema. In merito cfr. E.W. VIERDAG, The concept of discrimination in international law: with special reference to human rights, The Hague, Martinus Nijoff, 1973, p. 19 ss.; M. BOSSUYT, L’interdiction de la discrimination dans le droit international des droits de l’homme, Bruxelles, Bruylant, 1976, p. 29 ss.
⁷ È fondamentale il nesso causale tra la presenza del fattore religioso e il determinarsi dello svantaggio, mentre non rileva l’intenzione di chi agisce. Perciò, nella prova della discriminazione, al centro vi è il momento comparativo, che serve a verificare che vi sia stato un minor favore di un soggetto rispetto a un altro. Cfr. D. STRAZZARI, Discriminazione razziale e diritto, Torino, Giappichelli, 2008, p. 258 ss.
⁸ D. STRAZZARI, Discriminazione razziale e diritto, cit., p. 79 e 317 ss.
In tal senso M.V. BALLESTRERO, Eguaglianza e differenze, cit., pp. 516-517.
¹ Cfr. D. IZZI, Discriminazione senza comparazione? Appunti sulle direttive comunitarie “di seconda generazione”, in «Giorn. dir. lav. Rel. Industr.», 2003, p. 426; R. WINTEMUTE, When is Pregnancy Discrimination Indirect Sex Discrimination?, in «ILJ» 1998, p. 23 ss.
¹¹ Sul punto G. DE SIMONE, Eguaglianza e nuove differenze nei lavori flessibili, fra diritto comunitario e diritto interno, in «Lavoro e diritto», 2004, pp. 535 ss.; D. IZZI, Discriminazione senza comparazione?, cit., p. 425, anche per ulteriori riferimenti alla dottrina e alla giurisprudenza. Altri autori, evidenziando la novità introdotta con la previsione della comparazione ipotetica, sostengono che si sarebbe in presenza di un graduale superamento del legame tra discriminazione e giudizio comparativo: cfr. M. BARBERA, Eguaglianza e differenza nella nuova stagione…, cit., p. 410 ss.; P. CHIECO, Le nuove direttive comunitarie sul divieto di discriminazione, in «Riv. It. dir. lav.», 2002, I, p. 75 ss.
¹² In M. BARBERA, Eguaglianza e differenza, cit., p. 411. D. IZZI,
Discriminazione senza comparazione?, cit., p. 426 ss., si sottolineato il rischio che ciò si traduca in una eccessiva discrezionalità del giudice.
¹³ P. BELLOCCHI, Pluralismo religioso, discriminazioni ideologiche, cit., p. 211, rileva che mentre l’appartenenza ad un sesso propone una semplice alternativa, che rende più facile il raffronto, per la religione non è così. Cfr. anche L. VICKERS, Religion and belief discrimination in employment – the EU Law, European Commission, Luxembourg 2007, p. 14 ss.
¹⁴ L. VICKERS, op. ult. cit., loc. cit.
¹⁵ Secondo la dottrina, l’enfatizzazione dell’effetto discriminatorio (elemento oggettivo) rispetto all’elemento intenzionale/soggettivo rivela che la normativa europea in esame ha principalmente una finalità ridistributiva. Si presta, in un certo senso, attenzione agli effetti “dispari”, in modo da correggerli, e non a individuare e reprimere un atto intenzionale (cfr. D. STRAZZARI, Discriminazione razziale e diritto, cit., p. 214).
¹ A tal proposito, si noti che chi mette in atto il trattamento discriminatorio potrebbe non essere a conoscenza dell’appartenenza religiosa della “vittima”: ipotesi assai plausibile, considerato che le convinzioni religiose fanno parte di una sfera personale che può non emergere in segni visibili all’esterno.
¹⁷ Se si pensa alle disposizioni o alle pratiche che riguardano le religioni – specie quelle tradizionali – e che non hanno un intento discriminatorio, il diritto europeo comporterebbe un’analisi molto incisiva che guardi ai loro effetti più che alla loro ratio, ferma restando la limitata applicabilità dei divieti di discriminazione (all’ambito del lavoro) e la libertà lasciata agli Stati circa gli strumenti per la loro messa in atto.
¹⁸ Una simile definizione era presente nelle direttive in materia di parità tra i sessi, ad esempio la n. 97/80. Cfr. M. ROCCELLA, La Corte di Giustizia e il diritto del lavoro, cit., spec. p. 127 ss., anche per riferimenti a dottrina e giurisprudenza.
¹ M.V. BALLESTRERO, Eguaglianza e differenze, cit., p. 513; G. THÜSING, Following the U.S. Example: European Employement Discrimination Law and the Impact of Council Directives 2000/43/EC and 2000/78/EC, in «Int. Journal Comparative Labour Law Industrial Rel.», 2003, p. 191 ss.; sulle diverse interpretazioni del termine ‘disparate impact’: D. SCHIEK, Indirect discrimination, in D. SCHIEK, L. WADDINGTON, M. BELL et al., Cases, Materials and Text on National, Supranational and International NonDiscrimination Law, cit., p. 397 ss.
² M.V. BALLESTRERO, Eguaglianza e differenze, cit., p. 513.
²¹ In realtà, nella stragrande maggioranza dei Paesi europei esiste una regolamentazione speciale del trattamento dei dati sensibili, compresi quelli religiosi, anche in attuazione dell’art. 8 della direttiva CE del 24 ottobre 1995, n. 95/46. Quest’ultima permette a determinate condizioni la raccolta dei dati personali, anche sensibili (art. 8, par. 2, 3 e 4), ad esempio proprio per fini statistici. In Italia il d.lgs. n. 196 del 2003, già ricordato, consente la raccolta dei dati allo scopo di effettuare statistiche e ricerche (titolo VII; riguardo ai dati sensibili, art. 107); nel Regno Unito esiste una disposizione ancor più mirata, che permette espressamente di utilizzare informazioni sull’origine etnica dei cittadini, quando ciò sia necessario per individuare e monitorare le violazioni del principio di parità di trattamento (Data Protection Act 1998, c. 27, Schedule 3, par. 9). Non solo: nel Regno Unito il sistema nazionale di censimento prevede l’indicazione dell’origine etnica e, dal 2001, anche della religione di appartenenza (in base al Census Act 1920, come modificato dal Census (Amendment) Act 2000). L’uso dei dati personali al fine di favorire la
realizzazione della parità è, poi, prassi abituale negli Stati Uniti, dove una discriminazione indiretta viene individuata da un «disparate impact», ovvero da un impatto quantitativamente negativo della norma neutra su certe categorie di soggetti. Fatta eccezione per il Regno Unito, che ha mostrato qualche apertura in tal senso, tale approccio appare estraneo agli ordinamenti giuridici europei, che prediligono la tutela della privacy alla predisposizione di indagini sulla parità. Su questo tema cfr. ampiamente J. RINGELHEIM, Processing Data on Racial or Ethnic Origin for Antidiscrimination Policies: How to Reconcile the Promotion of Equality with the Right to Privacy?, Jean Monnet Paper n. 08/06 (disponibile sul sito www.ssrn.com).
²² Ciò non significa, anche alla luce di quanto affermato nel preambolo della direttiva 2000/78 (n. 15), che i criteri statistici non debbano mai essere utilizzati per dimostrare l’esistenza di una discriminazione, ma soltanto che non si tratta più di una condizione necessaria per poter definire un trattamento come sfavorevole. Lo stesso considerant numero 15 afferma che la valutazione dei fatti per stabilire se si è verificata una discriminazione sarà effettuata conformemente alle norme e alle prassi nazionali: queste ultime potranno prevedere qualsiasi mezzo di prova, inclusa l’evidenza statistica. Si è operato, dunque, un rinvio sia alla scelte del legislatore nazionale, sia alla discrezionalità dell’interprete.
²³ In questo senso aveva già statuito la Corte di Giustizia con riguardo alla discriminazione indiretta per sesso (C. FAVILLI, La non discriminazione nell’Unione, cit., p. 120 ss.)
²⁴ Si tratta di un punto che ha dato origine a una vasta casistica (anche se non relativa ai fattori disciplinati dalle direttive, e meno che mai la religione), nella quale gli standards di controllo non sono uniformi. Solitamente, ad esempio, la verifica dell’appropriatezza e della proporzionalità della misura neutra è più stretta per quanto riguarda la discriminazione indiretta fondata sul sesso. In generale sul tema, anche per riferimenti alla giurisprudenza, D. Schiek, Indirect discrimination, in D. SCHIEK, L. WADDINGTON, M. BELL et al. (eds.), op.cit., p. 434 ss.). F. SAVINO, Differenze di trattamento e giustificazioni
legittime nella giurisprudenza della Corte di giustizia, in «Lavoro e diritto», 2004, p. 576 ss.; M. ROCCELLA, La Corte di Giustizia, cit., p. 170 ss.; P. CHIECO, Le nozioni di discriminazioni diretta e indiretta nell’ordinamento italiano, in AA. VV., Molestie e discriminazioni: tutela civile e sanzioni penali, UNAR – Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma, 2006, p. 81 ss.; P. CHIECO, Le nuove direttive, cit., p. 88; G. DE SIMONE, Eguaglianza e nuove differenze, cit., p. 536.
²⁵ A tale rifiuto può seguire un demansionamento o il licenziamento, come in alcuni recenti casi britannici, poi analizzati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (sent. Eweida & others v. UK, 15 gennaio 2013; cfr. infra, cap. IV, par. 3)
² Si tratta dei cosiddetti requisiti occupazionali, sui quali si tornerà in seguito: essi sono parte di un impianto derogatorio, e non sono propriamente cause di giustificazione della discriminazione. Cfr. D. STRAZZARI, Discriminazione razziale e diritto, cit., p. 262 ss.
²⁷ In generale sulla “giustificazione” della discriminazione cfr. M. BARBERA, Discriminazioni ed eguaglianza nel rapporto di lavoro, cit., p. 243.
²⁸ Parafrasando la nota espressione «color blind» della letteratura statunitense sulle azioni positive e le politiche multiculturali (cfr. A. KULL, The Color-Blind Constitution, Cambridge-London, Harvard University Press 1992); nella dottrina italiana, con specifico riferimento al diritto antidiscriminatorio, il tema è richiamato, tra gli altri, da M.V. BALLESTRERO, Eguaglianza e differenze, cit., p. 506 ss.; A. VISCOMI, Diritto del lavoro e «fattore» religioso: una rassegna delle principali disposizioni legislative, in «Quad. dir. pol. eccl.», 2001, 2, p. 377. Parla di «cecità alle differenze» anche uno dei testi fondamentali del pensiero multiculturale: C. TAYLOR, La politica del riconoscimento, in C. TAYLOR, J. HABERMAS, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Milano, Feltrinelli, 2003, p. 26 ss.
² Frequenti i casi di regole, in vigore in un’azienda o in un settore produttivo, che stabiliscono tipi di comportamento standard, uguali per tutti, e mettono in una posizione di sfavore alcuni soggetti, non prendendo in considerazione le loro esigenze religiose: solo per citare alcuni esempi, si pensi all’esigenza di rispettare giorni festivi diversi da quelli previsti per legge, o di indossare indumenti religiosi, o di attenersi a precetti alimentari religiosi nelle mense aziendali. Sugli interessi religiosi nella sfera lavorativa e sulle conseguenze del divieto di discriminazione indiretta cfr. L. VICKERS, Religious freedom, religious discrimination and the workplace, Oxford, Hart, 2008, spec. p. 219 ss.
³ Sul concetto di accomodamento – sul quale si tornerà a più riprese, spec. nel cap. IV – e sul suo collegamento con la discriminazione indiretta, alcuni primi rilievi sono in L. WADDINGTON, A. HENDRIKS, The Expanding Concept of Employment Discrimination in Europe: From Direct and Indirect Discrimination to Reasonable Accommodation Discrimination, in «IJCLLIR», 2002, p. 403 ss.; L. WADDINGTON, Reasonable accommodation, in D. SCHIEK, L. WADDINGTON, M. BELL (eds.), Cases, materials and text on National, Supranational and International Non-Discrimination Law, cit., p. 629 ss. Di recente il tema è stato oggetto di varie ricerche, anche relative al fattore religioso. Si veda, ad esempio, J. RINGELHEIM, E. BRIBOSIA, I. RORIVE, Reasonable Accommodation for Religious Minorities: A Promising Concept for European Antidiscrimination Law?, in «Maastricht Journal European and Comparative Law», 2010, 2, p. 138 ss., all’indirizzo http://tinyurl.com/nbyuybb; C. TOBLER, Limits and potential of the concept of indirect discrimination, Luxembourg, European Communities, 2008; vari contributi nel volume A Test of Faith? Religious Diversity and Accommodation in the European Workplace, ed. by K. ALIDADI, M.-C. FOBLETS, J. VRIELINK, Ashgate, 2012; da ultimo il volume di M. ELÓSEGUI ITXASO, El Concepto Jurisprudencial de Acomodamiento Razonable, Cizur Menor, Editorial Aranzadi, 2013.
³¹ In merito, oltre agli AA. citati alla nota precedente, cfr. P. BOSSET, Les fondements juridiques et l’évolution de l’obligation d’accommodement
raisonnable, in M. Jezequel (dir.), Les accommodements raisonnables: quoi, comment, jusqu’où?, Ed. Yvon Blais, Cowansville, 2007, pp. 3-28; J. WOEHRLING, Diversité religieuse et liberté de religion au Canada, in «Rev Droit McGill», 1998, p. 325 ss. Sul tema si tornerà infra, cap. IV, par. 6.1.
³² J. RINGELHEIM, E. BRIBOSIA, I. RORIVE, Reasonable Accommodation, cit., p. 157 ss.
³³ In tal senso, occorre tenere presente che anche nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo si è fatto riferimento alla discriminazione indiretta per cercare di ottenere un trattamento diversificato, un “accomodamento”. Ad esempio, nel caso Thlimmenos, citato, la Corte ha stabilito che gli Stati devono applicare con flessibilità la norma generale, in modo da disporre un trattamento differenziato quando ci sia un motivo oggettivo e ragionevole. Ha evocato, così, pur senza utilizzare il termine, il concetto di accomodamento. La creatività della Corte di Strasburgo nel definire la discriminazione indiretta potrebbe determinare anche uno sviluppo della nozione di accomodamento; finora, tuttavia, in relazione al fattore religioso è emerso un atteggiamento prudente nel predisporre interventi di tutela delle diversità (cfr. M. ELÓSEGUI ITXASO, El Concepto Jurisprudencial de Acomodamiento, cit., p. 205 ss e 260 ss.).
³⁴ D. SCHIEK, Indirect discrimination, cit., p. 471
³⁵ Cfr. G. DE SIMONE, La nozione di discriminazione diretta e indiretta, cit., p. 725 ss.; M.V. BALLESTRERO, Eguaglianza e differenze, cit., p. 515 ss.
³ M. ROCCELLA, La Corte di Giustizia e il diritto del lavoro, cit., p. 131. La rilevanza dello svantaggio di gruppo emergerà chiaramente nell’analisi della giurisprudenza, specialmente britannica, cfr. infra, cap. IV, par. 3.
³⁷ M. BELL, L. WADDINGTON, Diversi eppure eguali, cit., p. 376.
³⁸ Sottolineano questo aspetto, L. VICKERS, Religious freedom, cit., 223 ss.; J. RINGELHEIM, E. BRIBOSIA, I. RORIVE, op. cit., p. 159 ss.; M. ELÓSEGUI ITXASO, op. cit., p. 229. Sul concetto di discriminazione strutturale o istituzionale cfr. C. MC CRUDDEN, Institutional discrimination, in «Oxford Journal of Legal Studies», 1982, 2, p. 303 ss.
³ Come si è appena notato a proposito della possibilità di introdurre accomodamenti ragionevoli, il concetto di discriminazione indiretta sembra aprire ad interventi di tipo “positivo” e di uguaglianza sostanziale.
⁴ A differenza di quanto accade negli Stati Uniti d’America, dove nel Civil Rights Act la mancata predisposizione di aggiustamenti delle differenze religiose viene equiparata ad una discriminazione. Inoltre occorre rilevare che la direttiva 2000/78 prevede espressamente soluzioni ragionevoli (reasonable accomodations, nella formulazione inglese) in favore dei disabili (art. 5); da ciò si può dedurre che, ove il legislatore comunitario avesse voluto obbligare gli Stati a metterle in atto anche relativamente alla religione, lo avrebbe previsto con una norma analoga. In tema cfr. L. WADDINGTON, A. HENDRIKS, The Expanding Concept of Employment Discrimination in Europe: From Direct and Indirect Discrimination to Reasonable Accommodation Discrimination, in «IJCLLIR», 2002, p. 403 ss.; L. WADDINGTON, Reasonable accommodation, in D. SCHIEK, L. WADDINGTON, M. BELL (eds.), Cases, materials and text, cit., p. 629 ss.
⁴¹ Il concetto di molestie (harassment) nasce negli Stati Uniti negli anni ’60, quando il fenomeno delle molestie sessuali viene messo in luce dai movimenti femministi e vietato dalla legislazione antidiscriminatoria. Nella giurisprudenza, a partire dagli anni ’70, le molestie fondate su altri fattori (in particolare sulla
razza) furono riconosciute come un trattamento sfavorevole e discriminatorio, vietato dall’art. 703 del Civil Rights Act 1964. Su questa evoluzione storica e per ulteriori riferimenti cfr. A. MCCOLGAN, Harassment, cit., p. 484 ss.; L. VICKERS, Is all harassment equal? The case of Religious harassment, in «Cambridge Law Journal», 2006, n. 3, p. 579 ss. Anche in Europa il dibattito ha riguardato inizialmente le sole molestie sessuali; è con l’elaborazione delle direttive del 2000 che si è affrontato il problema delle molestie connesse ad altri fattori (A. MCCOLGAN, op. ult. cit., p. 509 ss.).
⁴² J. CRUZ VILLALÓN, Lo sviluppo della tutela antidiscriminatoria nel diritto comunitario, in «Giornale dir. del lavoro e rel. industriali», 99-100, 2003, p. 355.
⁴³ Alcuni sostengono che, pur non essendo necessaria per identificare un caso di molestia, la comparazione con altre situazioni potrebbe costituire un mezzo per provare l’esistenza di un trattamento degradante ai sensi dell’art. 2.3 della direttiva. Cfr. S. SCARPONI, La nozione di molestia secondo il decreto di trasposizione delle direttive antidiscriminatorie. Affinità e differenze rispetto all’elaborazione in materia di mobbing, in S. FABENI, M.G. TONIOLLO (a cura di), La discriminazione fondata sull’orientamento sessuale, Roma, Ediesse, 2005, p. 249.
⁴⁴ Così, ad esempio, costituiscono molestie le offese rivolte ad un lavoratore a causa della sua appartenenza religiosa, indipendentemente dal determinarsi di una situazione deteriore rispetto ad altri. Si tratta di una previsione vantaggiosa per le vittime di comportamenti sfavorevoli, se si considera che qualificarli come discriminatori può risultare particolarmente difficile a causa della problematicità di effettuare una comparazione, specie – come si è osservato – per fattori come la religione. Cfr. M. BARBERA, Eguaglianza e differenza, cit., p. 412; L. MELICA, La problematica delle discriminazioni razziali e la istituzione dell’U.N.A.R., in Molestie e discriminazioni: tutela civile e sanzioni penali, cit., p. 29 ss.
⁴⁵ Cfr. A. MCCOLGAN, Harassment, in D. SCHIEK, L. WADDINGTON, M. BELL et al. (EDS.), Cases, Materials and Text on National, Supranational and International, cit., p. 477 ss.
⁴ D’altra parte, il rilievo dato all’elemento soggettivo può agevolare la vittima, che è tenuta a dimostrare il collegamento tra la condotta e uno dei fattori considerati dalla direttiva, ma non altri elementi (ad esempio l’offensività). Cfr. L. LAZZERONI, Molestie e molestie sessuali: nozioni, regole, confini, in M. BARBERA (a cura di), Il nuovo diritto antidiscriminatorio, cit., p. 382 ss.
⁴⁷ Nella stessa direzione, le direttive introducono una nozione di discriminazione che non tiene conto dell’intenzionalità del trattamento.
⁴⁸ P. CHIECO, Una fattispecie dai contorni sfuggenti: la molestia nei rapporti di lavoro, in «Riv. it. dir. Lav.», 2007, I, p. 70 ss.
⁴ Alcuni esempi: un lavoratore può ritenere indesiderata la pronuncia di bestemmie rivolte alla propria religione di appartenenza, una condotta che potrebbe essere vietata, pur mancando l’intenzione di offendere; espressioni ironiche o continue discussioni relative ad alcune pratiche religiose potrebbero risultare umilianti per alcuni fedeli, ma allo stesso tempo rappresentano una manifestazione della libertà di parola; atti di proselitismo da parte di un dipendente, espressione della sua libertà religiosa, possono essere “molesti” per i colleghi non credenti o appartenenti ad altre fedi.
⁵ Chi stabilisce quanto un comportamento sia offensivo? Quanto è rilevante la percezione della vittima? Un episodio “molesto” isolato può «creare un clima intimidatorio, umiliante od offensivo» oppure è necessario che si tratti di comportamenti ripetuti nel tempo? Su questi aspetti cfr. ampiamente L. VICKERS, Is all harassment equal?, cit., p. 579 ss.
⁵¹ L. VICKERS, Is all harassment equal?, cit., im. Un discorso a parte andrebbe fatto qualora le molestie fondate sulla religione integrino condotte vilipendiose penalmente rilevanti. In questo senso cfr. L. VICKERS, Religion and Belief Discrimination in Employment, cit., p. 16; I. LEIGH, Hatred, Sexual Orientation, Free Speech and Religious Liberty, in «Ecclesiastical Law Journal», 2008, p. 337 ss.
⁵² Come è stato notato, anche un singolo episodio può compromettere l’ambiente di lavoro ed integrare una molestia; la direttiva non richiederebbe una insistenza «quantitativa» di comportamenti molesti, ma una «intensità offensiva» (così L. CURCIO, Molestie e discriminazioni: la tutela giurisdizionale civile, in Molestie e discriminazioni, cit., p. 89).
⁵³ C. FAVILLI, La non discriminazione nell’Unione europea, cit., pp. 165-166; ENAR, Combating Religious and Ethnic Discrimination in Employment, cit., p. 10.
⁵⁴ Art. 7, par. 1, dir. 2000/78: «Allo scopo di assicurare completa parità nella vita professionale, il principio della parità di trattamento non osta a che uno Stato membro mantenga o adotti misure specifiche dirette a evitare o compensare svantaggi correlati a uno qualunque dei motivi di cui all’articolo 1». Il par. 2 del medesimo articolo è dedicato alle misure positive in favore dei disabili. In merito cfr. G. DE SIMONE, Eguaglianza e nuove differenze nei lavori flessibili, cit., p. 545 ss.; P. CHIECO, Le nuove direttive comunitarie, cit., p. 114 ss.; M. DE VOS, Beyond Formal Equality. Positive Action under Directives 2000/43/EC and 2000/78/EC, Luxembourg, European Communities, 2007, spec. p. 28 ss.
⁵⁵ In tema, la sentenza chiave è la Marschall, 11 nov. 1997. Cfr. G. CHITI, Il principio di non discriminazione, cit., p. 858 ss.; G. TESAURO, Eguaglianza e
legalità, cit., p. 6; F. GHERA, Il principio di eguaglianza, cit., p. 150 ss.; O. DE SCHUTTER, Positive Action, in D. SCHIEK, L. WADDINGTON, M. BELL (EDS.), Cases, Materials and Text, cit., p. 801 ss.
⁵ Ampiamente sul tema M. CAIELLI, Le azioni positive nel costituzionalismo contemporaneo, Napoli, Jovene, 2008.
⁵⁷ Cfr. M. NOVELLA, Nuove tecniche di diritto diseguale e principio di eguaglianza, in «Lavoro e Diritto», 2004, p. 561 ss. L’A. estende alle «misure specifiche» ex art. 7 dir. 2000/78 il senso attribuito dall’art. 141 TCE e dalla direttiva 2002/73/CE sulla parità di genere, affermando che anche le azioni positive previste dalla direttiva 2000/78 possono essere intese come «misure che prevedano vantaggi specifici». Secondo M. DE VOS, Beyond Formal Equality, cit., pp. 29 ss., il ricorso nelle direttive alla formulazione «misure specifiche», piuttosto che a quella utilizzata dall’art. 141 TCE («misure che prevedono specifici vantaggi»), non sarebbe un modo per limitare il significato delle azioni positive, ma per assicurarne l’applicazione ad ambiti più vasti e variegati, per i quali i termini della norma sulla promozione del lavoro femminile potevano non essere adeguati.
⁵⁸ Risoluzione del Parlamento europeo su una strategia quadro per la non discriminazione e le pari opportunità per tutti, del 14 giugno 2006, n. 2005/2191(INI). Alcuni aggi di questa risoluzione risultano particolarmente chiarificatori per comprendere il significato delle azioni positive. Al n. 8 si individuano i presupposti per la loro predisposizione: «per rimediare a disparità flagranti di natura ‘endemica’, ‘strutturale’ o ‘culturale’ e ripristinare quindi un equilibrio gravemente compromesso, può rivelarsi necessario in alcuni casi derogare provvisoriamente al concetto di uguaglianza incentrato sull’individuo a beneficio di una ‘giustizia distributiva’, incentrata invece sul gruppo, adottando in questo contesto azioni dette ‘positive’»; al n. 9 il Parlamento «sottolinea che i concetti di ‘azioni positive’, di ‘uguaglianza affermativa’ e di ‘giustizia distributiva’ si riferiscono ad una stessa realtà, che ha il suo punto di partenza nel riconoscimento del fatto che, in alcuni casi, una lotta efficace contro la
discriminazione presuppone un intervento attivo da parte delle autorità per ripristinare un equilibrio gravemente compromesso». Quanto alla loro messa in atto, le modalità sono le più varie: «il concetto di azione positiva non deve essere ridotto all’idea della quota; […] tali azioni possono infatti concretizzarsi nei modi più diversi, quali la garanzia di colloqui d’assunzione, l’accesso prioritario a determinate formazioni che danno accesso a professioni nelle quali alcune categorie sono sottorappresentate, la diffusione di offerte di impiego in linea prioritaria verso determinate comunità o, ancora, il prendere in considerazione l’esperienza professionale anziché i soli diplomi» (n. 9); inoltre «il principio della parità di trattamento non impedisce ad uno Stato membro di mantenere o adottare iniziative specifiche volte a prevenire o compensare svantaggi connessi ad uno dei motivi di discriminazione di cui all’articolo 13 del trattato CE e […] tali iniziative specifiche devono coprire tutti i settori nei quali si possano constatare gravi disuguaglianze, che si tratti dell’istruzione, dell’assistenza sanitaria, dell’alloggio, dell’accesso a beni e servizi o di altri settori» (n. 10).
⁵ Azioni positive in favore dei gruppi etnici sono state predisposte soprattutto negli Stati Uniti, dove si è sviluppato un ampio dibattito in proposito. In merito, e per ulteriori riferimenti: M. AINIS, Cinque regole per le azioni positive, in «Quad. Cost.», 1999, p. 359 ss.; A. D’ALOIA, Eguaglianza sostanziale e diritto diseguale. Contributo allo studio delle azioni positive nella prospettiva costituzionale, Padova, Cedam, 2002, p. 127 ss.; M.V. BALLESTRERO, Eguaglianza e differenze, cit. p. 505 ss.; M. CAIELLI, Le azioni positive…, cit., p. 55 ss.
M. CAIELLI, Le azioni positive, cit., p. 9 ss.
¹ La temporaneità delle azioni positive, valide solo fino a che non risulti rimossa la situazione di svantaggio, non è esplicitamente affermata né dall’art. 141 TCE né dalla giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di affirmative action per l’impiego femminile; tuttavia essa è insita nel concetto di sottorappresentazione, che costituisce il presupposto per la predisposizione delle azioni positive: è naturale che, una volta ripristinata una pari presenza delle
categorie dei lavoratori, mancherà la motivazione per continuare a mantenere le misure preferenziali. In tema P. CHIECO, Le nuove direttive comunitarie, cit., p. 114; S. SCARPONI, E. STENICO, Le azioni positive: le disposizioni comunitarie, le luci e le ombre della legislazione italiana, in M. BARBERA (a cura di), Il nuovo diritto antidiscriminatorio, cit., p. 427 ss.
² M. DE VOS, Beyond Formal Equality, cit., p. 28 ss; K. HENRARD, Equal Rights versus Special Rights? Minority Protection and the Prohibition of Discrimination, Luxembourg, European Communities, 2007, p. 29; S. SCARPONI, E. STENICO, Le azioni positive, cit., p. 423.
³ In mezzo a questi due estremi, individua varie possibilità di azioni positive M. DE VOS, Beyond Formal Equality, p. 11 ss. Cfr. anche M. CAIELLI, Le azioni positive…, cit., p. 3 ss.; O. DE SCHUTTER, Positive Action, cit., p. 757 ss.
⁴ Cfr. M. ROCCELLA, La Corte di Giustizia, cit., p. 153 ss.; A. D’ALOIA, Eguaglianza sostanziale, cit., p. 108 ss.; D. IZZI, Eguaglianza e differenze nei rapporti di lavoro: il diritto antidiscriminatorio tra genere e fattori di rischio emergenti, Napoli, Jovene, 2005, p. 223 ss.
⁵ M. CARTABIA, Le azioni positive come strumento del pluralismo?, in R. BIN, C. PINELLI, I soggetti del pluralismo nella giurisprudenza costituzionale, Torino, Giappichelli, 1996, p. 67 ss.; M. CAIELLI, Le azioni positive, cit., p. 5 ss.; la dottrina individua, in proposito, determinate caratteristiche che le azioni positive debbono possedere per non mutarsi in illeciti privilegi: in particolare debbono essere proporzionate, irretroattive, temporanee, motivate, proprio perché si tratta di eccezioni a un principio fondamentale come quello di uguaglianza (in tal senso, chiaramente, M. AINIS, Cinque regole, cit., p. 368 ss.; più in dettaglio e per ulteriori riferimenti, A. D’ALOIA, Eguaglianza sostanziale e diritto diseguale, cit., p. 287 ss.).
M. DE VOS, Beyond Formal Equality, cit., p. 29 ss.
⁷ Cfr., tra gli altri, O. DE SCHUTTER, Positive Action, cit., p. 821 ss. Secondo l’A., sebbene le direttive non sanciscano un obbligo di predisporre le azioni positive, queste risultano consigliate e promosse da alcuni atti internazionali dei quali gli Stati dell’Unione sono firmatari (atti che – è da ricordare – costituiscono un elemento per la ricostruzione della lettura europea dei diritti umani) e, in alcune occasioni, persino richieste nell’ambito dell’impegno a combattere la discriminazione sottoscritto dalle parti. Ad esempio, l’art. 2.2 della Convenzione ONU sull’Eliminazione della Discriminazione Razziale (CERD) prevede che «States Parties shall, when the circumstances so warrant, take, in the social, economic, cultural and other fields, special and concrete measures to ensure the adequate development and protection of certain racial groups or individuals belonging to them, for the purpose of guaranteeing them the full and equal enjoyment of human rights and fundamental freedoms […]»; analogamente dispone l’art. 4 della Convenzione quadro del 1995 del Consiglio d’Europa sulla protezione delle minoranze. È interessante notare che quest’ultima convenzione non è stata ratificata dalla Francia: ciò evidenzia il peculiare approccio di questo Paese alle problematiche delle diversità etniche, culturali e religiose (come si vedrà meglio in seguito) e mette in luce la non unanimità degli Stati dell’Unione nelle decisioni in materia (e a tal proposito, è comprensibile la formulazione vaga e “prudente” dell’art. 22 della Carta di Nizza sulla tutela delle diversità). Si può allora affermare che se esiste una tradizione costituzionale comune relativa alla possibilità di impiegare misure positive per combattere le discriminazioni, non c’è tuttavia alcun obbligo in tal senso, neppure nelle convenzioni internazionali firmate dagli Stati.
⁸ M. DE VOS, Beyond Formal Equality, cit., p. 28.
Sui diversi approcci al multiculturalismo ed alle azioni positive, specialmente con riferimento agli Stati esaminati nei capitoli successivi, si vedano anche N. COLAIANNI, Eguaglianza e diversità culturali e religiose, Il Mulino, Bologna, 2006; A. FACCHI, I diritti nell’Europa multiculturale, Roma-Bari, Laterza,
2004, p. 11 ss.; M. WALZER, Sulla tolleranza, Laterza, 2000, p. 53 ss.; M. DOYTCHEVA, Le multiculturalisme, Paris, La Découverte, 2005, spec. p. 48 ss.; K. HENRARD, Equal Rights versus Special Rights?, cit.. La scelta di predisporre misure positive dipende anche dalla lettura nazionale del principio di uguaglianza e dall’uso più o meno ampio che viene fatto della declinazione in senso sostanziale di questo principio: cfr. M. AINIS, Cinque regole per le azioni positive, cit., p. 367.
⁷ Così P. BELLOCCHI, Pluralismo religioso, cit., p. 212 ss. Peraltro, stando a quanto affermato dalla dottrina italiana, è la logica stessa delle azioni positive che mira a rimediare ad una situazione di svantaggio, senza mai tradursi, invece, in misure che attribuiscono privilegi ingiustificati ad alcune categorie di cittadini. Di conseguenza, generalmente si ammette che la realizzazione di azioni positive debba rispondere a determinati criteri e che incontri limitazioni. Cfr. M. CARTABIA, Le azioni positive, cit., im; M. AINIS, Cinque regole per le azioni positive, cit., p. 363 ss.; A. D’ALOIA, Eguaglianza sostanziale, cit., p. 287 ss.; per quanto riguarda le misure promozionali relative alla dimensione religiosa, è stata sottolineata anche la necessità di predisporle nel rispetto del principio di laicità (G. DI COSIMO, Coscienza e Costituzione, Milano, Giuffrè, 2000, p. 170 ss.).
⁷¹ Così P. BELLOCCHI, Pluralismo religioso, cit., p. 212 ss. Secondo l’A. i musulmani non sarebbero di per sé un gruppo sociale svantaggiato, ma si troverebbero in situazione sfavorevole solo i musulmani immigrati. Questa lettura, in realtà, appare ancorata all’interpretazione delle azioni positive come misure di promozione dell’impiego femminile. Il parallelismo con la religione è, allora, certamente difficile, come difficile è individuare un gruppo religioso sottorappresentato nel campo del lavoro, tale da giustificare una normativa di favore; si aggiunga, poi, che in quest’ottica, non avendo a disposizione statistiche ufficiali sull’appartenenza religiosa, né dichiarazioni rese dai lavoratori, diventa ancora più complesso misurare quanti lavoratori-fedeli hanno accesso più difficilmente all’impiego. In proposito M. CARTABIA, Le azioni positive, cit., p. 75, ha notato come la giurisprudenza statunitense, che si è misurata da tempo sui problemi delle affirmative actions, ha fatto spesso uso di statistiche per provare la situazione di svantaggio e motivare un’azione positiva.
⁷² Sottolineano la logica della “giustizia di gruppo” che starebbe alla base delle azioni positive, K. HENRARD, Equal Rights versus Special Rights?, cit., p. 29 ss; M. BELL, L. WADDINGTON, Diversi eppure eguali…, cit., p. 380 ss., ove si sottolinea anche la cautela della Corte di giustizia nell’interpretare tali concetti.
⁷³ In tema, e con particolare riferimento agli aspetti religiosi, cfr.: A.G. CHIZZONITI, Multiculturalismo, libertà religiosa e norme penali, in G. DE SCO, C. PIEMONTESE, E. VENAFRO, Religione e religioni: prospettive di tutela, tutela della libertà, Torino, Giappichelli, 2007, p. 29 ss.; C. CARDIA, Principi di diritto ecclesiastico. Tradizione europea, legislazione italiana, Torino, Giappichelli, 2005, p. 184 ss.; R. BOTTA, Manuale di diritto ecclesiastico, Torino, Giappichelli, 1998², p. 24 ss.; G. SARTORI, Pluralismo, multiculturalismo e estranei: saggio sulla società multietnica, Milano, Rizzoli, 2002; A. E. GALEOTTI, Multiculturalismo: filosofia politica e conflitto identitario, Napoli, Liguori, 1999, spec. p. 19 ss.
⁷⁴ M. BELL, L. WADDINGTON, Diversi eppure eguali, cit., p. 380. Un obbligo per gli Stati di prevedere le azioni positive non è stato previsto – nella legislazione e nella giurisprudenza della Corte di giustizia – neppure per i casi di svantaggio legato al sesso. Cfr. K. HENRARD, Equal Rights, cit., p. 31.
⁷⁵ Come stabilito dall’art. 17 TFUE.
⁷ Sul concetto di «razza» si è registrato, in at, un amplissimo dibattito dottrinale, specie tra gli antropologi e i sociologi. Basti qui richiamare i testi classici di A. MONTAGO, La razza: analisi di un mito, Torino, Einaudi, 1966; C. LEVI-STRAUSS, Race and Culture, in UNESCO’s International Social Science Journal, Vol. XXIII, No. 4, 1971; per una ricostruzione storico-giuridica cfr. G. BIANCO, voce Razzismo, in Dig. Disc. Pubbl., XII, Torino, UTET, 1997,
p. 477 ss. Nel diritto internazionale, della questione si è occupata soprattutto l’UNESCO, a partire dalle Dichiarazioni sulla razza del 1950 e del 1951, fino allo Statement on race and racial prejudice del 1967 (i testi fondamentali si possono leggere in Four statements on the Race Question, UNESCO, Paris, 1969; cfr. anche E. W. VIERDAG, The concept of discrimination, cit., pp. 9091). Anche negli Stati dell’Unione europea il concetto di razza non è collegato ad aspetti biologici, ma si adotta generalmente una nozione ampia di discriminazione razziale (sul modello di quella della Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale), così da ricomprendere i vari aspetti riconducibili alle diversità tra i popoli, come la cultura, il colore della pelle, l’origine etnica e nazionale, e così via (cfr., per alcuni esempi, D. SCHIEK, L. WADDINGTON, M. BELL (eds.), Cases, Materials and Text, cit., p. 41 ss.; M. BELL, I. CHOPIN, F. PALMER, Developing Anti-Discrimination Law in Europe. The 25 EU Member States compared, Luxembourg, European Commission, 2007, p. 16 ss.). Sul tema si è pronunciata anche la Corte europea dei diritti dell’uomo, sent. 13 dic. 2005, Timishev v. Russia (punto 55).
⁷⁷ In merito, oltre agli autori citati alla nota precedente, cfr. A.G. CHIZZONITI, Pluralismo confessionale e lotta all’intolleranza religiosa. La legge 203 del 1993 e l’intesa con l’Unione delle Comunità israelitiche: brevi considerazioni di ordine sistematico, in «Quaderni dir. e pol. eccl.», 1997, n. 2, p. 349.
⁷⁸ Il collegamento tra discriminazione razziale e religiosa è richiamato, peraltro, nel preambolo della direttiva 2000/43, che menziona numerosi documenti adottati dalle istituzioni europee in materia di lotta al razzismo e alle discriminazioni (tra gli altri si veda la “Proposta della Commissione europea sul razzismo, la xenofobia e l’antisemitismo” n. COM (95) 653 finale, pubblicata in Les institutions européennes dans la lutte contre le racisme: textes choisis, Bruxelles, Commission Européenne, 1997, p. 67). In ambito internazionale, oltre alle Convenzioni internazionali sul tema, si può ricordare la Raccomandazione n. 7 del 2002 dell’ECRI (Europan Commission against Racism and Intolerance), ECRI general policy recommendation N°7 on national legislation to combat racism and racial discrimination, del 13 dicembre 2002. Si tratta di un atto non vincolante, che fornisce tuttavia un’importante chiave interpretativa, tanto che le
definizioni ivi contenute sono state richiamate dalla giurisprudenza di Strasburgo (tra le altre, Corte eur. dir. dell’uomo, sent. Timishev, cit., n. 34; sent. 5 giugno 2008, Sampanis et al. c. Grecia, n. 43). In dottrina cfr., per tutti, F. MARGIOTTA BROGLIO, Discriminazione razziale…, cit., p. 272 ss.
⁷ Dichiarazione comune del summit di Firenze del 1995, in Les institutions européennes dans la lutte contre le racisme, cit., p. 109.
⁸ A questo risultato, peraltro, si giungerebbe anche utilizzando la nozione di discriminazione indiretta: difatti, un trattamento sfavorevole fondato sulla religione potrebbe risultare indirettamente discriminatorio in base alla razza, consentendo così l’applicazione della direttiva 2000/43 e dei divieti da essa sanciti. Così D. SCHIEK, A new framework on Equal Treatment, cit., p. 313.
⁸¹ Cfr. F. MARGIOTTA BROGLIO, La protezione internazionale della libertà religiosa, cit., p. 35 ss.; N. LERNER, Group rights and discrimination in International Law, The Hague-London-New York, Kluwer, 2003, p. 76 ss.; C. EVANS, Freedom of religion under the European Convention on human rights, Oxford, OUP, 2001, p. 51 ss.
⁸² B. HEPPLE, T. CHOUDHURY, Tackling Religious Discrimination: Practical Implications for Policy-makers and Legislators, London, Home Office Research Study, 2001, p. 25 ss.
⁸³ Così, tra gli altri, l’art. 18 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo; l’art. 9 della CEDU; l’articolo 18 del Patto internazionale sui diritti civili e politici; la Dichiarazione sull'eliminazione di tutte le forme di intolleranza e di discriminazione fondate sulla religione o il credo, adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU il 25 novembre 1981; l’art. 10 della Carta di Nizza.
⁸⁴ F. MARGIOTTA BROGLIO, La protezione internazionale, cit., p. 35 ss.; C. MORVIDUCCI, La protezione della libertà religiosa, cit., p. 44; N. LERNER, Group rights and discrimination in International Law, cit., p. 76. Si noti che anche l’art. 17 del TFUE menziona assieme le confessioni religiose e le organizzazioni filosofiche e non confessionali. In merito al pari trattamento di convinzioni religiose e filosofiche da parte dell’UE cfr. anche M. VENTURA, La laicità, cit., p. 216 ss.
⁸⁵ In questo senso, tra le altre, la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 25 febbraio 1982, caso Campbell-Cosans (ric. n. 7511/76 e 7743/76). Al punto 36 della sentenza si afferma: «the word ‘convictions’ is not synonymous with the words ‘opinions’ and ‘ideas’, such as are utilised in Article 10 of the Convention, which guarantees freedom of expression; it is more akin to the term ‘beliefs’ (in the French text: ‘convictions’) appearing in Article 9 (...) and denotes views that attain a certain level of cogency, seriousness, cohesion and importance». Per ulteriori riferimenti alle prassi nazionali dei paesi europei cfr. D. SCHIEK, L. WADDINGTON, M. BELL (EDS.), Cases, Materials and Text, cit., p. 117 ss.
⁸ In particolare, se dal concetto di discriminazione indiretta discende il dovere di tenere in considerazione, a certe condizioni, le diversità religiose, si determinerebbe un impegno a predisporre «aggiustamenti ragionevoli» per molte convinzioni, anche non religiose (in merito L. VICKERS, Religion and Belief discrimination, cit., p. 19 ss.). Peraltro, anche se il testo della direttiva non fa cenno alle pratiche religiose, sembra possibile interpretare il concetto di religione come inclusivo di queste ultime, cosicché risulterebbero vietati i trattamenti discriminatori motivati sia dall’appartenenza religiosa stricto sensu, sia dai comportamenti a essa riconducibili (anche alla luce dell’art. 9 della CEDU, cfr. M. AIMO, Le discriminazioni basate sulla religione e le convinzioni personali, in M. BARBERA (a cura di), Il nuovo diritto antidiscriminatorio, cit., p. 43 ss.). Ciò significherebbe un numero amplissimo di interventi, difficilmente realizzabili nell’ambito del lavoro, con il rischio di lasciare “sulla carta” le forme di tutela previste – questione che si è posta nel concreto, come si vedrà nel cap.
IV. Per alcuni rilievi generali cfr. P. CUMPER, The accommodation of ‘uncontroversial’ religious practices, in M.L.P. LOENEN & J.E. GOLDSCHMIDT (EDS.), Religious Pluralism and Human Rights in Europe: Where to Draw the Line?, Antwerpen, Intersentia, 2007, p. 199 ss.;
⁸⁷ Un altro aspetto interessante relativo alla definizione dei termini del diritto antidiscriminatorio è la recente tipizzazione dei diritti in materia religiosa come «diritti culturali», emersa specialmente nei contributi dottrinali relativi al multiculturalismo e al pluralismo giuridico (cfr., per tutti, la sintesi di K. KETSCHER, Cultural Rights and Religious Righs, in M.L.P. LOENEN, J.E. GOLDSCHMIDT (EDS.), Religious pluralism, cit., p. 219 ss.). In riferimento al diritto antidiscriminatorio, la connessione tra religione e fattore culturale potrebbe portare – accantonando il problema del rapporto religione/razza – a ridefinire talune pratiche e comportamenti e a classificare un atto discriminatorio come fondato su un elemento culturale anziché religioso, disapplicando le norme a tutela della religione. Una tendenza italiana in questo senso è evidenziata da N. FIORITA, Uguaglianza e libertà religiosa negli “anni zero”, in «Diritto immigrazione e cittadinanza» XIII, 1-2011, p. 36 ss.; più in generale sul tema ID., Alla ricerca di una nozione giuridica di “identità culturale”: riflessioni di un ecclesiasticista, in «Stato Chiese e pluralismo confessionale», www.statoechiese.it, marzo 2009; N. COLAIANNI, Eguaglianza e diversità, cit., ora nella versione aggiornata intitolata Diritto pubblico delle religioni. Eguaglianza e differenze nello Stato costituzionale, Bologna, Il Mulino 2012, spec. p. 32 ss.
⁸⁸ Ad esempio, i divieti di discriminazione religiosa nel diritto del lavoro italiano sono storicamente affiancati dalle previsioni sui divieti di licenziamento per ragioni ideologiche e sindacali e la religione era tradizionalmente inclusa nel più ampio genus della protezione dell’ideologia lato sensu (infra, cap. III, par. 4.1). Secondo P. CHIECO, Le nuove direttive comunitarie sul divieto di discriminazione, cit., p. 80, «la mancanza di confini netti e di nozioni prestabilite» impone anche al legislatore nazionale, in sede di trasposizione delle direttive, di astenersi a sua volta dal fornire «elencazioni analitiche, in quanto esse potrebbero produrre un restringimento dell’ambito di applicazione del divieto». Nello stesso senso B. HEPPLE, T. CHOUDHURY, Tackling Religious
Discrimination, cit., p. 26.
⁸ In generale sull’articolo 4 si vedano: F. ONIDA, Il problema delle organizzazioni di tendenza nella direttiva 2000/78/EC attuativa dell’art. 13 del Trattato sull’Unione Europea, in «Il diritto ecclesiastico», 2001, p. 905 ss.; A. VISCOMI, Lavoro e «tendenza» nelle fonti internazionali e comunitarie, in A.G. CHIZZONITI (a cura di), Organizzazioni di tendenza e formazione universitaria. Esperienze europee e mediterranee a confronto, Bologna, Il Mulino, 2006, pp. 25 ss.; N. FIORITA, Le direttive comunitarie in tema di lotta alla discriminazione, cit., p. 366 ss.; M. AIMO, Le discriminazioni basate sulla religione, cit., p. 61 ss.; G. DE SIMONE, Dai principi alle regole, cit., p. 100 ss.; M.F. FERNÁNDEZ LÓPEZ, F.J. CALVO GALLEGO, La directiva 78/2000 y la prohibición de discriminación por razones ideológicas: una ampliación del marco material comunitario, in «Temas Laborales», 2001 (59), p. 139 ss.
La tutela della «tendenza» (Tendenzbetrieb) si sviluppa nell’ordinamento tedesco (per una ricostruzione delle dottrine in tema: G. LO CASTRO, Individuo e «insieme» nelle organizzazioni di tendenza confessionale. Riflessioni generali, in AA.VV., Rapporti di lavoro e fattore religioso, Napoli, Jovene, 1988, p. 47 ss.; F. SANTONI, Intervento, ibidem, p. 73 ss.; F. SANTONI, Le organizzazioni di tendenza e i rapporti di lavoro, Milano, Giuffrè, 1983, p. 4 ss.). Nella dottrina italiana, vid. le monografie di F. SANTONI, op. ult. cit.; M.G. MATTAROLO, Il rapporto di lavoro subordinato nelle organizzazioni di tendenza, Padova, Cedam, 1983; A. DE SANTIS RICCIARDONE, L’ideologia nei rapporti privati, Napoli, Jovene, 1980); sul concetto di “organizzazione di tendenza” cfr. anche M. PEDRAZZOLI, Aziende di tendenza, in Dig. disc. priv., sez. comm., vol. II, Torino, 1987, p. 107 ss.; R. BOTTA, Rapporti di lavoro in diritto ecclesiastico, in Dig. disc. priv., sez. civ., XVI, Torino, 1997, p. 261 ss.; V. PACILLO, Contributo allo studio del diritto di libertà religiosa nel rapporto di lavoro subordinato, Milano, Giuffrè 2003, p. 227 ss.
¹ F. ONIDA, Il problema delle organizzazioni di tendenza, cit., p. 905 ss.; P. CHIECO, Le nuove direttive comunitarie sul divieto di discriminazione, cit., p.
81 ss.
² La proporzionalità richiede, in definitiva, che il requisito professionale non si trasformi in un controllo della vita dei dipendenti su aspetti che non riguardano l’attività lavorativa e che non si imponga – come ha efficacemente notato sco Onida – come «un generale appiattimento della vita del lavoratore sulla concezione e sui canoni lavorativi dell’impresa» (F. ONIDA, Il problema delle organizzazioni di tendenza, cit., p. 907).
³ Art. 4.2: «Nel caso di attività professionali di chiese o di altre organizzazioni pubbliche o private la cui etica è fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, una differenza di trattamento basata sulla religione o sulle convinzioni personali non costituisca discriminazione laddove, per la natura di tali attività, o per il contesto in cui vengono espletate, la religione o le convinzioni personali rappresentino un requisito essenziale, legittimo e giustificato per lo svolgimento dell’attività lavorativa, tenuto conto dell’etica dell’organizzazione».
⁴ M.F. FERNÁNDEZ LÓPEZ, F.J. CALVO GALLEGO, La directiva 78/2000/CE y la prohibiciòn de discriminaciòn por razones ideològicas, cit., p. 145 ss.
⁵ M. AIMO, Le discriminazioni basate sulla religione, cit., p. 67, che ricorda anche come la proposta di direttiva presentata dalla Commissione (COM 1999/565 def.) circoscriveva l’applicazione di deroghe al divieto di discriminazione alle sole «organizzazioni pubbliche e private che perseguono direttamente ed essenzialmente uno scopo di guida ideologica nel campo della religione e delle convinzioni personali relativamente all’istruzione, all’informazione e all’espressione delle opinioni, nonché per le attività lavorative particolari svolte nel loro seno che vi siano direttamente ed essenzialmente collegate».
Cfr. supra, par. 2. In dottrina è stato notato che, a seconda dell’interpretazione dei termini dell’art. 1, allo stesso modo verrà inteso il concetto di «convinzione personale» in applicazione delle deroghe ex articolo 4: cfr. M.F. FERNÁNDEZ LÓPEZ, F.J. CALVO GALLEGO, La directiva 78/2000/CE y la prohibiciòn de discriminaciòn…, cit., pp. 148-149.
⁷ M. PEDRAZZOLI, Aziende di tendenza, cit., p. 108 ss.; F. SANTONI, Le organizzazioni di tendenza e i rapporti di lavoro, cit., p. 47 ss.
⁸ A. VISCOMI, Lavoro e «tendenza», cit., pp. 31-32. Peraltro, un’interpretazione in senso ampio sarebbe confermata dalla mancanza di un riferimento al fine di lucro collegato alle attività delle organizzazioni di tendenza, omissione che permette di superare ogni dubbio interpretativo – pur evidenziato in ato – circa la possibilità di estendere la protezione della “tendenza” agli enti che avessero scopi di lucro, oltre ad essere “eticamente” orientati. Sul punto cfr. G. LO CASTRO, Individuo e «insieme» nelle organizzazioni di tendenza confessionale, cit., pp. 63-64; M. PEDRAZZOLI, Aziende di tendenza, cit., p. 108; riguardo all’ordinamento italiano G. DE SIMONE, Dai principi alle regole, cit., pp. 143 ss.
Il significato britannico di «ethos» – che pare equivalente a quello ampio di ideologia o di tendenza – emerge dai dibattiti parlamentari in merito alle direttive: HOUSE OF LORDS, Lords Hansard, vol. n. 614, part 115, debate 30 june 2000, c. 1187 ss. (consultabili online all’indirizzo: www.publications.parliament.uk/pa/pahansard.htm); per un inquadramento del tema nel Regno Unito cfr. L. VICKERS, Freedom of Religion and the Workplace: The Draft Employment Equality (Religion or Belief) Regulations 2003, in «Industrial Law Journal», 2003, n. 1, p. 28 ss.; sul ruolo dei negoziatori britannici nella redazione dell’art. 4.2 cfr. A. MCCOLGAN, Discrimination law: text, cases and materials, Oxford, Hart, 2005, p. 664 ss.
¹ L’articolo precisa, infatti, che «tale differenza di trattamento si applica tenuto
conto delle disposizioni e dei principi costituzionali degli Stati membri».
¹ ¹ Il legislatore comunitario, nel lasciare agli Stati la possibilità di disciplinare la materia in base alle tradizioni nazionali, ha delimitato nel tempo la possibilità di stabilire eccezioni al principio di parità di trattamento, in linea con quanto dichiarato nel preambolo, cioè che le eventuali deroghe all’uguaglianza dovranno riguardare casi strettamente limitati. Cfr. N. FIORITA, Le direttive comunitarie in tema di lotta alla discriminazione, cit., p. 368; secondo F. ONIDA, Il problema delle organizzazioni di tendenza nella direttiva, cit., p. 908, tale limite sarebbe il segnale di una sostanziale contrarietà del legislatore europeo all’inserimento delle eccezioni di cui all’art. 4.2, introdotte su pressione delle confessioni religiose.
¹ ² A. VISCOMI, Lavoro e “tendenza”, cit., p. 36 ss.
¹ ³ Ibidem; v. ANCHE M.F. FERNÁNDEZ LÓPEZ, F.J. CALVO GALLEGO, La directiva 78/2000/CE y la prohibiciòn de discriminaciòn, pp. 147-148. Secondo questi ultimi AA., dall’applicazione dell’art. 4.2 restano esclusi i rapporti non equiparabili a prestazioni professionali, come ad esempio quelli disciplinati dal diritto interno delle confessioni religiose.
¹ ⁴ A. VISCOMI, Lavoro e “tendenza”, cit., p. 37. Ciò sarebbe confermato dal fatto che il secondo comma dell’art. 4.2, parlando dell’atteggiamento di buona fede e di lealtà nei confronti dell’organizzazione, specifica espressamente che esso può essere richiesto alle persone «che sono alle dipendenze» dell’organizzazione. Questa differente formulazione rivelerebbe la volontà di riferirsi, nel primo comma, all’attività professionale generalmente intesa, laddove, se si fosse voluto disciplinare solo il lavoro subordinato, si sarebbe utilizzata una disposizione analoga a quella appena citata.
¹ ⁵ M. AIMO, Le discriminazioni basate sulla religione, cit., p. 66; A. VISCOMI, Lavoro e «tendenza», cit. p. 38 ss.
¹ F. ONIDA, Il problema delle organizzazioni di tendenza, cit., p. 908; N. FIORITA, Le direttive comunitarie, cit., p. 367; A. VISCOMI, Lavoro e «tendenza», cit., p. 38.
¹ ⁷ F. ONIDA, Il problema delle organizzazioni di tendenza, cit., p. 914 ss.
¹ ⁸ Così anche l’impostazione della dottrina e della prassi precedenti alle direttive. In merito cfr. M. PEDRAZZOLI, Tutela della tendenza e tendenzschutz, in «Giornale dir. lav. e rel. industriali», 1987, n. 4, p. 759 ss.
¹ F. ONIDA, Il problema delle organizzazioni di tendenza, cit., p. 911.
¹¹ Cfr. N. FIORITA, Le direttive comunitarie, cit., p. 368.
¹¹¹ In merito L. VICKERS, Freedom of religion and the Workplace: the draft Employment Equality (Religion or belief) Regulations 2003, cit., p. 31.
¹¹² Un caso del genere ha suscitato le critiche di alcune organizzazioni religiose, preoccupate di vedersi costrette ad assumere lavoratori che non condividano i loro principi e precetti. Nel Regno Unito, ad esempio, esse hanno fatto pressione sul governo per non accettare la compresenza dei due divieti di discriminazione in questione (religione e orientamento sessuale) nella direttiva, senza peraltro ottenere i risultati sperati (CHRISTIAN INSTITUTE, European threat to
religious freedom. A response to the European Union's proposed Employment directive, cit.).
¹¹³ A. VISCOMI, Lavoro e “tendenza”, cit., pp. 38-39.
¹¹⁴ Questa lettura sarebbe confermata dal fatto che l’impostazione seguita da queste norme non è stata quella di stabilire una disciplina ad hoc per le organizzazioni di tendenza, ma quella di prevedere, in loro favore, deroghe all’applicazione del diritto comune: A. VISCOMI, Lavoro e “tendenza”, cit., p. 26 ss.
¹¹⁵ Ivi, p. 36.
¹¹ L. VICKERS, Freedom of religion and the Workplace: the draft…, cit., p. 23 ss.; F. ONIDA, Il problema delle organizzazioni di tendenza, cit., p. 915 ss.;
¹¹⁷ Così M. BARBERA, Discriminazioni ed eguaglianza nel rapporto di lavoro, p. 234.
¹¹⁸ O. DE SCHUTTER, Methods of Proof in the Context of Combating Discrimination, in J. Cormack (ed. by), Proving Discrimination. The Dynamic Implementation of EU Anti-Discrimination Law: the Role of Specialised Bodies, Migration Policy Group, Bruxelles, 2003, p. 23.
¹¹ In tema: L. CURCIO, Le azioni in giudizio e l’onere della prova, in M. BARBERA (a cura di), Il nuovo diritto antidiscriminatorio, cit., p. 545 ss.; S.
SENESE, Qualche considerazione a proposito dell’onere della prova, in S. FABENI, M.G. TONIOLLO, La discriminazione fondata sull’orientamento sessuale, cit., p. 339 ss.; C. FAVILLI, La non discriminazione nell’Unione europea, cit., p. 166 ss.
¹² In generale cfr. P. CHIECO, Le nuove direttive comunitarie, cit., pp. 107 ss.
¹²¹ C. FAVILLI, La non discriminazione nell’Unione europea, cit., p. 206 ss.
¹²² L. CURCIO, Le azioni in giudizio e l’onere della prova, cit., p. 550 ss.
¹²³ S. SENESE, Qualche considerazione a proposito dell’onere della prova, cit., p. 346 ss.
¹²⁴ Cfr., per tutti, M.T. LANQUETIN, La preuve de la discrimination: l’apport du droit communautaire, in «Droit Social», 1995, n. 5, p. 435 ss.
¹²⁵ L. MELICA, La problematica delle discriminazioni razziali, cit., p. 38 ss.; la direttiva rafforza, così, le innovazioni introdotte in materia anche a livello nazionale (es. in Italia con la l. n. 125/1991): in tema M. BARBERA, Discriminazioni ed eguaglianza nel rapporto di lavoro, cit., p. 234 ss.; A. VALLEBONA, Inversione dell’onere della prova nel diritto del lavoro, in «Riv. Trimestrale dir. Proc. Civile», 1992, p. 811 ss.; L. DE ANGELIS, Profili della tutela processuale contro le discriminazioni tra lavoratori e lavoratrici, in «Riv. It. diritto del lavoro», 1992, I, p. 457 ss.
¹² M. BARBERA, op. ult. cit., p. 234 ss.
¹²⁷ Da ricordare, a tal proposito, che nella direttiva le molestie sono state equiparate alla discriminazione, e dunque anche ad esse si applicheranno le regole procedimentali e i rimedi in esame, e in particolare il regime probatorio agevolato previsto per il giudizio antidiscriminatorio. Cfr. G. DE SIMONE, Eguaglianza e nuove differenze, p. 535; D. IZZI, Eguaglianza e differenze nei rapporti di lavoro, cit., p. 408 ss.
¹²⁸ O. DE SCHUTTER, Methods of Proof, cit., p. 23.
¹² In questo senso è interessante notare che alcune legislazioni nazionali (tra le altre, quella britannica e quella se, sulle quali cfr. cap. III) precisano che sussiste discriminazione anche quando essa è fondata sulla presunta appartenenza religiosa di un soggetto, anche qualora non si dimostrasse veritiera.
¹³ Sono questi, peraltro, i casi più frequenti di discriminazione diretta. È logico immaginare, infatti, che chi compie un atto di discriminazione tenda a non dimostrarlo apertamente.
¹³¹ M.V. BALLESTRERO, Eguaglianza e differenze, cit., p. 513 e supra, par. 1.1.
¹³² Al numero 15 del preambolo si afferma che: «La valutazione dei fatti sulla base dei quali si può argomentare che sussiste discriminazione diretta o indiretta è una questione che spetta alle autorità giudiziarie nazionali o ad altre autorità competenti conformemente alle norme e alle prassi nazionali. Tali norme possono prevedere in particolare che la discriminazione indiretta sia stabilita con qualsiasi mezzo, compresa l’evidenza statistica».
¹³³ Cfr. supra, nota n. 21.
¹³⁴ O. DE SCHUTTER, Methods of Proof, cit., p. 27 ss.
¹³⁵ G. DE SIMONE, La nozione di discriminazione diretta e indiretta, cit., p. 713 ss.
¹³ Sulla prova dell’intento discriminatorio cfr. D. MAFFEIS, La discriminazione religiosa nel contratto, in «Diritto ecclesiastico», 2006, n. 1-2, p. 98 e 105 ss.; l’A. nota che, a fianco della regola generale dell’irrilevanza dell’intenzione di discriminare, il dolo possa essere, invece, ammesso come mezzo di prova. Per una ricostruzione del dibattito e della giurisprudenza italiana sul tema si veda anche M. BARBERA, Discriminazioni ed eguaglianza nel rapporto di lavoro, cit., p. 218 ss.
¹³⁷ C. FAVILLI, L’istituzione di un organismo per la promozione delle pari opportunità prevista dalla normativa comunitaria, in «Dir. Unione europea», 2002, 1, p. 177 ss.
¹³⁸ Per quanto riguarda l’assistenza alla vittime da parte di associazioni ed organizzazioni, dispongono l’art. 7.2 della dir. 2000/43 e l’art. 9.2 della dir. 2000/78. Quest’ultima, a differenza della direttiva sulla discriminazione razziale, non prevede che vi sia un organismo nazionale per la promozione della parità; questo può assolvere, in base all’art. 13 dir. 2000/43 le funzioni previste dalla direttiva in merito di protezione delle vittime e di azione in giudizio. La direttiva 2000/78, invece, si limita a rinviare al legislatore nazionale la determinazione delle associazioni legittimate ad agire ex art. 9.2.
¹³ È questo il caso dell’organismo per la parità britannico istituito dall’Equality Act 2006.
¹⁴ In generale, su caratteristiche ed effetti delle direttive, cfr. G. STROZZI, R. MASTROIANNI, Diritto dell’Unione europea, cit., p. 267 ss.; G. GAJA, A. ADINOLFI, Introduzione al diritto dell’Unione europea, cit., p. 178 ss.; F. POCAR, Diritto dell’Unione europea, cit., p. 272 ss.
¹⁴¹ Aspetto messo in evidenza da I. CHOPIN, Campaigning against Racism and Xenophobia: from a legislative perspective at European level, Bruxelles, ENAR, 1999, p. 2.
¹⁴² Cfr. supra, cap. I, par. 4 e, per le letture nazionali, infra cap. III.
PARTE II IL LIVELLO NAZIONALE. DIRITTO ANTIDISCRIMINATORIO E LIBERTÀ RELIGIOSA
IN ITALIA, FRANCIA E REGNO UNITO
CAPITOLO III
DAI PRINCIPI ALLE NORME. UGUAGLIANZA E DIVIETI DI DISCRIMINAZIONE IN TRE MODELLI NAZIONALI DI LIBERTÀ RELIGIOSA
Le norme delle direttive del 2000 e il quadro concettuale da esse stabilito si innestano su diversi contesti nazionali nei quali è possibile individuare, già prima dell’elaborazione del diritto antidiscriminatorio europeo, principi e norme sul tema¹. Attraverso l’analisi delle legislazioni nazionali sulla discriminazione si può osservare quali modifiche abbia apportato il diritto europeo e come le nuove norme abbiano inciso sulle modalità di tutela della libertà religiosa. A questo fine si sono presi in considerazione tre Stati che, per diverse ragioni, risultano emblematici: Italia, Francia e Regno Unito. In questi tre ordinamenti, anzitutto, si può facilmente constatare una diversa modalità di regolare i rapporti tra Stato e confessioni religiose, tanto che essi sono divenuti i paradigmi per eccellenza – rispettivamente – del sistema concordatario, di quello separatista, di quello con Chiesa di Stato. Si tratta, poi, di tre Stati dove variano le modalità di gestione delle diversità etniche e religiose, in connessione, come vedremo, con diversi “modelli di uguaglianza”. Inoltre, le forme di garanzia dei diritti fondamentali – e, tra questi, la non-discriminazione e la libertà religiosa – hanno caratteristiche diverse in questi tre Paesi. In particolare, mentre in Italia e in Francia – ordinamenti di civil law – si possono individuare principi costituzionali relativi all’uguaglianza e ai diritti fondamentali, dai quali deriva la normativa antidiscriminatoria, nel Regno Unito – oridinamento di common law – il sistema delle fonti è diverso e gli specifici divieti di discriminazione sono elaborati direttamente attraverso le leggi e la prassi giurisprudenziale.
1. DALL’UGUAGLIANZA ALLA NON DISCRIMINAZIONE
Quando si parla di non discriminazione, è naturale operare un collegamento concettuale con il principio di uguaglianza. Come si è visto esaminando il diritto antidiscriminatorio europeo, la Corte di giustizia ha consacrato sin dall’inizio i divieti di discriminazione come espressione del principio di uguaglianza e, oggi, gli obiettivi della parità sono esplicitamente richiamati dalle direttive del 2000. Questo collegamento tra uguaglianza e non discriminazione è patrimonio comune dell’Unione europea, sia dal punto di vista concettuale, sia normativo². L’uguaglianza, infatti, è solitamente posta, pur con diverse sfumature, tra i principi fondamentali delle Carte dei Paesi membri e declinata in divieti di discriminare, anche sulla base della religione. Ci si può chiedere come mai, nonostante la presenza di tale principio e dei divieti collegati, si è avvertita la necessità di introdurre nuove norme sulla discriminazione, specificate a livello europeo e attuate in dettaglio negli ordinamenti interni. Tale necessità è emersa, non casualmente, in un momento di diversificazione culturale e religiosa delle società europee, cosicché la scelta di determinati fattori da proteggere attraverso i divieti di discriminazione appare indicativa dei problemi nella gestione della pluralità nelle società contemporanee. Uno dei principali motivi del ricorso al concetto di discriminazione è che il principio di uguaglianza è affermato ad un livello astratto, come principio-valore assiologico di un ordinamento, mentre i divieti di discriminazione comportano una verifica sulle discriminazioni “di fatto” e quindi conseguenze più concrete per la tutela delle diverse identità presenti nei Paesi europei.
1.1. LA DISTINZIONE TRA PRINCIPIO DI UGUAGLIANZA E DIVIETI DI DISCRIMINAZIONE: DIFFERENZA TRA ORDINAMENTI DI CIVIL LAW E DI COMMON LAW
Tra i Paesi oggetto della presente analisi, vi sono due ordinamenti di civil law – Italia e Francia – nei quali la costituzione (scritta) consacra l’uguaglianza come principio fondamentale, declinandola poi in divieti di discriminare. L’art. 3 della costituzione italiana e l’art. 1 di quella se affermano che tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge, tra l’altro anche senza distinzioni di religione. Per comprendere il perché dello sviluppo di una specifica legislazione sulle discriminazioni, che si affianca a quanto statuito a livello costituzionale, è necessario precisare che per entrambi i Paesi sono diversi i significati e i destinatari di queste due categorie di disposizioni. I divieti di discriminazione presenti nelle costituzioni italiana e se, infatti, sono rivolti in prima battuta al legislatore, il quale non potrà emanare norme che operino differenziazioni illegittime sulla base della religione o della credenza³ , e al potere esecutivo, che dovrà rispettare il principio di uguaglianza nell’applicazione delle leggi⁴. Le norme costituzionali, invece, non riguarderebbero direttamente i rapporti tra privati, sui quali non grava un obbligo generale di rispetto del principio di uguaglianza, ma solo specifiche norme sulla discriminazione (tra le quali quelle di derivazione comunitaria)⁵. Tale posizione non è da tutti condivisa, né considerata così netta: in Italia, ad esempio, se una parte della dottrina e la giurisprudenza hanno sottolineato che dalla norma costituzionale sull’uguaglianza non discende un obbligo di parità di trattamento nel diritto privato, pena l’annullamento dell’autonomia privata e della libertà di contrarre , vi è anche chi ha sostenuto la diretta applicazione del principio costituzionale di uguaglianza ai rapporti tra i privati⁷. Anche in Francia si è discusso sull’applicabilità “orizzontale” del principio di uguaglianza, in particolare nei rapporti di lavoro⁸ : la dottrina è solita ritenere che tale principio non si applica ai privati in modo diretto, ma quando è “mediato” da alcune norme specifiche, tra le quali, appunto, i divieti di discriminazione sanciti dal diritto civile o penale . Tali divieti – che certamente si riconducono al relativo principio costituzionale – sono presenti in alcuni settori del diritto (tra cui il diritto del lavoro) e sono da intendersi come puntuali obblighi per i privati, in ambiti dove regna la libertà contrattuale e la disuguaglianza di fatto.
Senza analizzare il tema nel dettaglio, si deve notare che lo sviluppo del diritto antidiscriminatorio europeo ha in qualche modo superato il problema, applicando i divieti di discriminazione indistintamente a soggetti pubblici e privati¹ . Naturalmente permangono alcune differenze tra il principio di uguaglianza e i divieti di discriminazione sanciti dalle costituzioni, da un lato, e le altre norme antidiscriminatorie, dall’altro. In primo luogo, diversa è la posizione nella gerarchia delle fonti e, di conseguenza, diverse la forza normativa e l’applicazione in giudizio. Il giudizio sull’uguaglianza è tradizionalmente inteso come controllo sulle leggi, volto a valutare la loro conformità ai parametri dettati dalla norma costituzionale¹¹ ; il giudizio antidiscriminatorio mira, invece, a constatare l’esistenza di discriminazioni, cioè di trattamenti sfavorevoli¹² , che si verificano non solo «in diritto» ma anche, e soprattutto, «di fatto»¹³. Una seconda differenza, già accennata¹⁴ , è appunto nel significato del termine «discriminazione», che nelle fonti costituzionali (e nel giudizio che ne deriva) è spesso inteso come «differenziazione»; nel diritto antidiscriminatorio, invece, ha una connotazione negativa e indica un trattamento non solo diverso, ma anche «meno favorevole». Con l’elaborazione recente delle norme sulla discriminazione, dunque, non si è di fronte a una giustapposizione di strumenti giuridici, ma si sono introdotti forme di tutela e concetti nuovi, che hanno ruolo e significati differenti rispetto al principio costituzionale di uguaglianza. Del doppio binario fin qui descritto (principio costituzionale/divieti di discriminazione) fa esperienza in modo diverso il Regno Unito. Qui, in assenza di una costituzione scritta e di una categoria riconducibile a quella dei principi costituzionali, i divieti di discriminazione sono stati introdotti da apposite disposizioni, che col tempo hanno formato un quadro concettuale e normativo ampio e consolidato¹⁵. Il sistema costituzionale inglese, formato dalle leggi («statutes») e dalle decisioni dei giudici, non contiene quindi una clausola generale di non discriminazione, ma solo specifici divieti, stabiliti per legge¹ . Se nel complesso delle norme britanniche sul tema si possono indubbiamente individuare riferimenti all’uguaglianza, tuttavia l’assenza di una costituzione scritta impone cautela nel parlare di principi, che in un sistema di common law assumono un ruolo diverso rispetto a quello di garanzia costituzionale, tipico
degli ordinamenti di civil law¹⁷. Tra l’altro, se in questi ultimi, sempre con riferimento all’uguaglianza, si è affermata la concezione in base alla quale le leggi debbano essere generali e astratte, nei sistemi di common law si attribuisce una rilevanza particolare alle decisioni giurisprudenziali, che per loro natura si riferiscono a casi specifici e concreti¹⁸. Per meglio comprendere il ruolo dei divieti di discriminazione nel Regno Unito, nel rapporto con il “principio” di uguaglianza, bisogna poi fare riferimento alla rule of law – come noto, una delle caratteristiche cardine degli ordinamenti di common law – la quale implica, per sommi capi, che tutti siano soggetti alla legge e uguali di fronte ad essa¹ . Insito nella rule of law vi è quindi uno dei significati essenziali dell’uguaglianza, la parità di fronte alla legge. Ma il «dominio della legge»² è anche alla base dello sviluppo del diritto antidiscriminatorio. Tale principio, infatti, comporta che una condotta sia legittima a meno che non sia contraria a una norma posta per legge²¹ e, in seconda battuta, che nessuno sia punibile se non a causa di una violazione della legge e da parte di un giudice legittimamente stabilito²². Ciò significa, tra l’altro, che i diritti (non scritti) dell’individuo avranno applicazione più o meno ampia a seconda della presenza di limitazioni derivanti da altri diritti, dalle leggi, dalle prassi amministrative o dalla giurisprudenza²³. Ad esempio, nell’esercizio di libertà quali quella contrattuale e di iniziativa economica, taluni comportamenti che potrebbero risultare discriminatori non saranno sanzionabili se non quando esplicitamente vietati da una norma giuridica²⁴. Di qui l’esigenza del legislatore britannico di introdurre specifici divieti di discriminazione, che siano azionabili di fronte a un giudice e che impongano precisi vincoli all’autonomia privata, tutelando le categorie deboli (storicamente, le donne e le minoranze etniche, più di recente anche altre “identità”)²⁵. Se, infatti, negli ordinamenti di civil law esiste una costituzione scritta, contenente una clausola generale di non discriminazione dalla quale derivare una tutela da trattamenti sfavorevoli o ingiustificatamente differenziati, nel Regno Unito saranno necessarie norme o sentenze che individuino espressamente le caratteristiche e i confini del diritto a non essere discriminati. Nasce e si sviluppa, così, un ampio corpus di leggi che ha reso il Regno Unito la “patria” europea del diritto antidiscriminatorio. Occorre altresì ricordare che, accanto alle norme interne, anche le fonti di diritto internazionale fanno parte del diritto britannico e hanno introdotto principi e diritti² . Ad esempio, con l’approvazione dello Human Rights Act del 1998, è
stata resa efficace nell’ordinamento interno la CEDU, e con essa la clausola di non discriminazione di cui all’art. 14²⁷. Una garanzia, questa, che pur avendo rango “costituzionale”, vincola soltanto le pubbliche autorità (legislatore, giudici, pubblica amministrazione): di conseguenza i cittadini potranno agire in difesa dei diritti sanciti dalla Convenzione soltanto nei confronti dei pubblici poteri, e non anche quando vi sia una controversia tra privati²⁸. In questo senso, il “principio” di non discriminazione introdotto con lo Human Rights Act pone (in modo inusuale per un sistema di common law) problematiche analoghe a quelle degli ordinamenti di civil law riguardo alla distinzione tra uguaglianza nel diritto pubblico e nei rapporti tra i privati² . L’esigenza di porre limiti ai privati, affinché rispettino l’obiettivo della parità, attraverso precisi divieti di discriminazione, è un elemento comune ai tre Stati che abbiamo preso in considerazione. Negli ordinamenti di civil law ciò è dovuto principalmente alla non applicazione diretta del principio costituzionale di uguaglianza ai rapporti tra privati; nel Regno Unito, invece, l’esigenza di specificare i divieti di discriminazione per legge discende dalle caratteristiche generali della tutela dei diritti in un sistema di common law. Tali divieti, inoltre, avranno caratteristiche diverse, sia in base all’esperienza degli Stati in questo ambito, sia a seconda dei diversi modelli di uguaglianza che si sono sviluppati a livello nazionale.
1.2. I SIGNIFICATI DELL’UGUAGLIANZA
Del principio di uguaglianza esistono molte letture e diverse implicazioni: se è vero che si tratta di un principio presente in tutti gli Stati europei, che individua una «tradizione costituzionale comune», è vero anche che i suoi significati non sono univoci nei diversi ordinamenti. La Costituzione italiana sancisce il principio di uguaglianza all’art. 3, precisandone in due commi diversi l’accezione formale (comma 1) e quella sostanziale (comma 2). Il primo comma prevede che «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali», stabilendo in primis l’obbligo per il legislatore di emanare norme universali e astratte, alle quali tutti siano soggetti³ . L’uguaglianza formale non si limita al momento dell’applicazione della legge (uguaglianza di fronte alla legge), ma riguarda anche i suoi contenuti (uguaglianza materiale). Ora, dato che l’attività legislativa è «attività per sua natura differenziatrice»³¹ e che non esistono in realtà situazioni tra di loro analoghe in ogni profilo, l’uguaglianza giuridica non è mai assoluta. Nella Costituzione italiana l’art. 3.1 elenca una serie di caratteristiche (c.d. nucleo forte dell’uguaglianza), tra cui la religione, che rendono illegittime determinate differenziazioni. Da questo vincolo la dottrina e la giurisprudenza prevalenti³² hanno ricavato un generale principio di ragionevolezza, in base al quale situazioni uguali debbono essere trattate in ugual maniera e situazioni diverse in modo diverso³³. Dunque, il divieto di discriminazione religiosa ricavabile dall’art. 3.1 della Costituzione non inibisce qualsiasi trattamento differenziato, ma stabilisce una presunzione di incostituzionalità per le norme che operano distinzioni in base alla religione, fatta salva la possibilità di dimostrarne la ragionevolezza³⁴. La lettura del principio di uguaglianza deve poi essere completata dal secondo comma dell’art. 3, dove si afferma che la Repubblica ha il compito di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica,
economica e sociale del Paese». Questa norma, in quanto principio generale, funge sia da canone interpretativo dell’intero ordinamento, sia da criterio orientativo dell’attività legislativa e delle politiche della Repubblica³⁵ : queste, da un lato non potranno essere contrarie alla realizzazione della parità dei cittadini, dall’altro potranno legittimamente predisporre interventi in positivo – anche contrastanti con l’uguaglianza formale – a garanzia della piena libertà e dello sviluppo della persona umana³ . In realtà, nella giurisprudenza costituzionale prevalente le misure differenziate sono state valutate attraverso il primo comma dell’art. 3 (in base al già citato canone della ragionevolezza), mentre il secondo comma è stato utilizzato assai di rado, principalmente per giustificare taluni orientamenti di politica sociale o economica³⁷. Ad ogni modo, nell’art. 3.2 è possibile scorgere un’apertura verso azioni positive o altri strumenti di diritto diseguale, indirizzati specialmente alla tutela delle minoranze e dei soggetti più deboli³⁸ ; dette misure positive potranno investire anche la dimensione religiosa, profilo essenziale nello «sviluppo della persona umana» che il costituente si propone di promuovere³ . A differenza dell’orientamento italiano, l’interpretazione se del principio di uguaglianza predilige l’accezione formale rispetto a quella sostanziale. Tale lettura si inscrive nell’ideale repubblicano dell’unità e indivisibilità della nazione, in base al quale tutti i cittadini sono uguali e sono sottoposti alle medesime leggi; il legame di cittadinanza che si forma tra la Repubblica e l’individuo non ammette differenziazioni normative e attribuisce a tutti gli stessi diritti e doveri⁴ . Preminente è, quindi, l’affermazione dell’uguaglianza di fronte alla legge, che vincola il legislatore nell’emanazione di norme universali e astratte: già la Déclaration des Droits de l’homme et du citoyen del 1789 – il cui contenuto è tuttora valido in quanto parte del c.d. «bloc de constitutionnalité»⁴¹ – all’art. 6 stabiliva che la legge «doit être la même pour tous, soit qu’elle protège, soit qu’elle punisse» e sanciva l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte ad essa⁴². La Costituzione attualmente in vigore (quella del 1958) ribadisce, all’art. 1, che la Repubblica assicura «l’égalité devant la loi de tous les citoyens sans distinction d’origine, de race ou de religion», stabilendo, così, alcuni criteri in base ai quali le differenziazioni di trattamento debbono essere ritenute incostituzionali⁴³. Fin qui, si possono osservare varie somiglianze con il principio di uguaglianza formale sancito dalla Costituzione italiana; nella prassi, tuttavia, l’ordinamento se si distingue dal nostro poiché una norma universale (uguale per tutti) è ritenuta aprioristicamente conforme al principio in questione, senza che sia
valutato l’eventuale conflitto con l’altra “faccia” dell’uguaglianza, quella che richiede un trattamento diverso per situazioni diverse⁴⁴. Di conseguenza, in Francia una differenziazione di trattamento è ammessa ma non risulta mai obbligatoria; anzi, essa deve sempre fondarsi su situazioni obiettivamente diverse e, soprattutto, deve essere giustificata, o da un interesse generale o da un altro scopo legittimo⁴⁵. In base a questa interpretazione, per la tutela delle libertà fondamentali (tra cui anche quella di religione) si ricerca in primo luogo una legge che attribuisca a tutti i cittadini pari diritti: nel nostro caso, una legge che garantisca a tutti uguali possibilità di professare il proprio credo. L’ordinamento se si mostra, invece, molto prudente nel momento in cui si richiedono interventi in positivo a tutela delle varie espressioni della religiosità, tendenti a promuovere le diversità⁴ . Altra lettura dell’uguaglianza si è affermata nel Regno Unito. Anzitutto, occorre ricordare che nel “principio” della rule of law un sub-principio è proprio l’uguaglianza, intesa come parità di fronte alla legge. Questa accezione dell’uguaglianza formale, secondo la dottrina, non esaurisce tutti i contenuti dell’uguaglianza, tra i quali si può rintracciare almeno un divieto di differenziazioni ingiustificate, la cui vigenza sarebbe confermata dalla frequente applicazione giurisprudenziale di un test di ragionevolezza delle norme⁴⁷. Per ricostruire i significati del principio in parola, occorre poi fare riferimento alle leggi e alla prassi giurisprudenziale, che saranno oggetto dell’analisi che segue⁴⁸. Ad esempio, attraverso le norme e le pronunce dei giudici emerge che l’accezione sostanziale dell’uguaglianza non è affatto estranea all’ordinamento britannico⁴ : ne sono un esempio le aperture alle azioni positive, la presenza di normative “speciali” anche in materia religiosa, il largo impiego del divieto di discriminazione indiretta⁵ .
1.3. TRE MODELLI DI UGUAGLIANZA E LA LIBERTÀ RELIGIOSA
A questo punto, si possono mettere in relazione le differenti interpretazioni del principio di uguaglianza con il fattore religioso. Tutti gli Stati sanciscono l’uguaglianza senza distinzioni di religione e riconoscono la parità nel godimento dei diritti fondamentali, tra cui la libertà religiosa⁵¹. Ma se la lettura dell’uguaglianza cambia, sono differenti anche le modalità di disciplinare il fattore religioso e i rapporti con le confessioni? C’è da notare, anzitutto, che il rapporto tra uguaglianza e libertà – tematica classica nel pensiero politico e nella riflessione giuridica moderna⁵² – assume un rilievo particolare in considerazione delle caratteristiche del diritto di libertà religiosa⁵³. Quest’ultimo, infatti, implica non solo una tutela negativa, che si realizza nell’assenza di restrizioni al suo esercizio, ma anche una tutela positiva, che esige dallo Stato un intervento per dare a tutti la possibilità di professare il proprio credo. Un intervento che implicherà non solo e non tanto la predisposizione di un trattamento uguale, ma anche una tutela diversificata, in base alle differenti pratiche religiose⁵⁴. Così, soprattutto di recente, spesso si è rivelato necessario individuare un equilibrio tra tutela delle diversità e dell’uguaglianza, tra attenzione alle specificità e salvaguardia dell’unità del diritto: un equilibrio particolarmente problematico in contesti – come quelli di molti Paesi europei – di pluralismo confessionale sempre più marcato. A questo proposito, ci si può chiedere come i tradizionali “modelli di uguaglianza” abbiano affrontato la “sfida” delle diversità e se siano cambiate le modalità di tutela della libertà religiosa. Si tratta di un tema assai vasto, che affronteremo attraverso la “lente” del diritto antidiscriminatorio. Le differenti interpretazioni del principio di uguaglianza porteranno, prevedibilmente, a gestire in modi differenti i problemi delle diversità religiose e a modulare in modo differente l’applicazione dei divieti di discriminazione. Pare utile, quindi, sintetizzare le caratteristiche del rapporto tra uguaglianza e libertà religiosa nei tre Stati in esame: ciò consentirà di misurare se e come tale rapporto abbia inciso sulle scelte relative all’applicazione delle direttive del 2000 e se, al contrario, queste ultime abbiano modificato le modalità nazionali di tutela del fattore religioso – al di là dei principi generali relativi al riparto di competenze tra UE e Stati.
Dall’analisi svolta finora si possono individuare un modello di uguaglianza formale forte (Francia); un modello di uguaglianza sostanziale (Regno Unito); un modello intermedio, quello italiano, nel quale entrambe le accezioni dell’uguaglianza sono presenti e, anche se non vi è un’ampia applicazione di strumenti di diritto diseguale, i trattamenti differenziati sono ammessi in base a un criterio di ragionevolezza⁵⁵. Questi modelli di uguaglianza si affiancano a sistemi diversi di disciplina della libertà religiosa e di rapporti con le confessioni, più o meno “aperti” alla tutela delle diversità e delle specificità religiose⁵ . Partendo dal primo, si è osservato che l’uguaglianza formale alla se – che ha un ruolo centrale tra i valori repubblicani e per la costruzione del legame di cittadinanza – lascia ben poco spazio alla tutela delle diversità e ciò appare molto chiaramente nella disciplina del fattore religioso⁵⁷. Anzitutto, il principio di uguaglianza si collega alla tutela dell’unità della nazione se e ciò impedisce di distinguere i cittadini in base a un’appartenenza di gruppo⁵⁸ : così, anche l’appartenenza ad una religione è principalmente un fatto privato e individuale, che non dà origine ad un trattamento “speciale” da parte dello Stato. Se tutti sono uguali (nella titolarità dei diritti e, in definitiva, nel loro rapporto con lo Stato), una regolamentazione universale sembra essere la migliore garanzia; una norma promozionale di un’esigenza religiosa, differenziata rispetto all’interesse generale, andrebbe invece a rompere il legame di cittadinanza, dando rilievo a una determinata caratteristica e quindi a un’appartenenza di gruppo⁵ . Un primo dato, quindi, è l’interpretazione della libertà religiosa come un diritto individuale e tutelata in prima battuta nella sua dimensione negativa. Un secondo elemento fondamentale è la configurazione dei rapporti tra Stato e religioni seguendo il principio di laicità e di separazione, al quale si collega logicamente il principio di uguaglianza . In particolare, in base alla Loi de Séparation del 1905, l’ordinamento se «non riconosce e non sovvenziona alcun culto» ¹ e deve interfacciarsi con le confessioni religiose con imparzialità e neutralità, seguendo, almeno in astratto, una regola di uguaglianza, o meglio di “uguale indifferenza” ². Da notare che il principio di laicità – di cui all’art. 1 della Costituzione se – è stato interpretato nel corso degli anni prevalentemente in modo restrittivo e spesso utilizzato come motivazione per negare gli interventi di riconoscimento o di favore per le prerogative confessionali, quando non per “nascondere” la presenza
del religioso nello spazio pubblico ³. Le caratteristiche fin qui enunciate (l’uguaglianza e l’assenza di una regolamentazione “speciale” per il fattore religioso, la separazione, l’accento sull’accezione negativa e individuale del diritto di libertà religiosa) conoscono, in realtà, alcune attenuazioni. Non mancano, infatti, interventi promozionali, volti a garantire “in positivo” l’esercizio della libertà religiosa, né spazi nei quali le confessioni religiose sono governate da una legislazione differenziata ⁴ : tutti questi casi sono, però, attentamente circoscritti ⁵. Il modello se, insomma, affida la tutela del fattore religioso all’uguaglianza formale, alla laicità e alla separazione; una particolare fiducia viene riposta nella capacità di una norma neutra, uguale per tutti, di garantire la libertà di religione. La questione delle diversità è affrontata seguendo principalmente due linee direttrici: da un lato, rafforzando il legame di cittadinanza, fondamento della garanzia di uguali diritti e di una uguale posizione di tutti di fronte alla legge ; dall’altro prevedendo alcune “eccezioni” (o meglio, “attenuazioni”) alla regola dell’uguaglianza, disposte – in rari casi e in modo non sistematico – dalla giurisprudenza o dalla prassi amministrativa per rispondere a peculiari e concrete esigenze di libertà religiosa ⁷. All’estremo opposto di questa lettura,vi è il modello britannico di uguaglianza. Come si è accennato, è dalla giurisprudenza e dalle leggi che si possono estrapolare i “principi” vigenti nel Regno Unito. In proposito, si è osservato che nell’ordinamento britannico non è presente solo l’accezione formale dell’uguaglianza ma, anzi, è messa in risalto quella sostanziale. Ciò emerge anche con riferimento al fattore religioso, per quale non si escludono interventi di tipo promozionale. La libertà religiosa è garantita, come gli altri diritti, non da previsioni costituzionali o da un Bill of Rights scritto, ma attraverso la common law ⁸. La sua attuazione, con i relativi limiti varia, quindi, a seconda dell’interpretazione giurisprudenziale e delle norme in vigore nelle diverse epoche e situazioni. Si possono rilevare, però, due caratteristiche generali: da un lato il aggio da un’accezione prevalentemente negativa della libertà religiosa verso un’interpretazione, più recente, di libertà positiva ; dall’altro, una certa attenzione per le specificità religiose e per la dimensione collettiva nella quale esse si esprimono⁷ . Per quanto riguarda il primo aspetto, storicamente si è ati da un regime di
mera tolleranza a una tutela della libertà religiosa – nella common law – prevalentemente negativa, ma con una tendenza all’attenzione per le diversità⁷¹. In particolare, si possono ricordare alcune norme derogatorie relative a specifici problemi di alcuni gruppi (le norme in favore dei Sikh, minoranza etnicoreligiosa piuttosto rilevante in Gran Bretagna⁷² ) o alla possibilità di esercitare il diritto all’obiezione di coscienza per motivi religiosi, sottraendosi all’applicazione di una norma uguale per tutti⁷³. Questo metodo – per così dire, di “flessibilità normativa” – sembra tipico di un sistema di common law, nel quale una generale regola di tolleranza delle diverse espressioni religiose si declina in una regolamentazione concreta, caso per caso, delle specifiche esigenze religiose. Di recente, attraverso lo Human Rights Act, all’interpretazione nazionale della libertà religiosa contribuisce anche la CEDU⁷⁴. La Corte di Strasburgo ha spesso lasciato agli Stati un ampio margine di apprezzamento agli Stati per valutare estensione e limiti di tale diritto; non è mancata, però, una certa attenzione per le forme di garanzia positiva e sostanziale della religione e per la considerazione delle diversità confessionali⁷⁵. Un’attenzione alla quale la giurisprudenza interna, pur nella naturale ricerca di bilanciamento tra le diverse esigenze in gioco, non è estranea⁷ . Inoltre, con l’accrescersi del pluralismo della società britannica, alle deroghe e alle norme “speciali” previste nei decenni scorsi si sono aggiunti nuovi strumenti, tra i quali – come si vedrà – il diritto antidiscriminatorio. Quest’ultimo, in particolare, ribadisce un’accezione sostanziale dell’uguaglianza, applicabile anche al fattore religioso: alcuni concetti (come la discriminazione indiretta) assicurano, infatti, non solo una tutela negativa e “indifferenziata”, ma anche la considerazione delle diversità religiose. Questi orientamenti configurano un modello diverso da quello se anche per quanto riguarda l’attenzione alle minoranze e, più in generale, alla dimensione collettiva del diritto di libertà religiosa. Da un lato, infatti, le norme che tutelano le specificità confessionali riconoscono, indirettamente, un’identità di gruppo⁷⁷ ; dall’altro, occorre ricordare che la presenza della Chiesa di Stato non impedisce un approccio ampiamente garantista verso le aggregazioni religiose. Così la Chiesa anglicana, per ragioni storiche, ha una posizione costituzionalmente diversa rispetto alle altre confessioni religiose ma, allo stesso tempo, queste ultime – poste su un piano di parità – si vedono attribuire ampia libertà e autonomia⁷⁸. Peraltro, le norme che tutelano l’uguaglianza in materia religiosa (lo Human
Rights Act e il diritto antidiscriminatorio, almeno per come si è finora configurato⁷ ) tradizionalmente hanno fatto riferimento in primis alla dimensione individuale⁸ . Questo si pone nella linea di tendenza tipica dell’ordinamento inglese che, se si mostra attento e non indifferente alla tutela delle minoranze e delle identità “diverse”, raramente però attribuisce diritti particolari ai gruppi in quanto tali⁸¹ , costruendo un modello che è stato definito di “multiculturalismo liberale”⁸². In sintesi, l’uguaglianza britannica si può definire sostanziale e concreta: sostanziale per l’attenzione alla parità effettiva e alle reali possibilità di esercizio della libertà religiosa; concreta perché la tutela delle diversità è definita con modalità che vengono definite a seconda dei singoli casi, nel bilanciamento tra la libertà religiosa e gli altri diritti. L’ordinamento italiano, infine, sancisce nella Costituzione sia l’uguaglianza formale sia quella sostanziale. Come si è detto, il secondo comma dell’art. 3 non viene richiamato spesso dalla giurisprudenza, che predilige il riferimento al primo comma anche nell’analisi dei trattamenti differenziati, da valutare attraverso una regola di ragionevolezza⁸³. Ciò non significa che sia tralasciata l’accezione sostanziale dell’uguaglianza o che non vi sia un’apertura alla tutela delle diversità. Per quanto riguarda il fattore religioso, una simile apertura viene garantita non solo dalla norma costituzionale generale sull’uguaglianza, ma dal peculiare sistema di rapporti tra Stato e confessioni religiose. Questo, infatti, prevede la predisposizione di una legislazione concordata con le confessioni religiose e, quindi, di regole differenziate per ciascuna di esse. Come noto, il concordato con la Chiesa cattolica (art. 7.2 Cost.)⁸⁴ e le intese con le altre confessioni religiose (art. 8.3 Cost.)⁸⁵ stabiliscono per ciascuna realtà confessionale una regolamentazione specifica, non solo in merito alle relazioni con lo Stato stricto sensu, ma anche relativamente ad alcune peculiarità concernenti l’organizzazione interna o le pratiche religiose. Questi trattamenti differenziati, se ad un primo sguardo paiono in contrasto con il principio di uguaglianza⁸ , possono essere invece interpretati come la via per tenere nella dovuta considerazione le diversità religiose e per predisporre opportuni “aggiustamenti” per la tutela delle esigenze dei cittadini-fedeli. Sono necessarie, a tal proposito, alcune precisazioni. Anzitutto, il primo comma dell’art. 3 della Costituzione, stabilendo che tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge senza distinzione di religione, implica che il diritto “speciale” relativo
ai rapporti con le confessioni non possa determinare condizioni di disparità o di privilegio nel godimento della libertà religiosa individuale, ma sia orientato a favorirne l’esercizio, configurandosi come un legittimo trattamento differenziato di situazioni diverse. Occorre, poi, ricordare che nella Costituzione l’art. 8 differenzia lo status delle confessioni religiose, distinguendo tra quelle con intesa (3° comma), quelle con statuto (2° comma) e tutte le altre (1° comma)⁸⁷. È il primo comma a fare esplicito riferimento al principio di uguaglianza: affermando che «tutte le confessioni religiose sono egualmente libere di fronte alla legge»⁸⁸ , attribuisce una ugual misura di libertà ad ogni confessione, consentendo l’esercizio del diritto di libertà religiosa, senza illegittime distinzioni. È bene ricordare che si tratta di una uguaglianza nella libertà e non di una parificazione assoluta dello status delle confessioni religiose. Anzi: l’art. 8.1, letto congiuntamente con gli altri due commi del medesimo articolo e con l’art. 3, 2° comma della Costituzione (uguaglianza sostanziale)⁸ , non solo non impedisce di predisporre trattamenti diversificati delle confessioni religiose, ma a ben vedere fonda un vero e proprio diritto alla diversità, a condizione che siano garantite pari libertà per tutti i culti. Lo Stato, pertanto, non deve disporre condizioni identiche per tutte le confessioni né eliminare i regimi speciali stabiliti in proposito (voluti, al contrario, dall’impianto costituzionale) , ma piuttosto tener conto delle differenze, in modo che venga tutelata nella misura più ampia possibile la libertà religiosa, anche nella sua dimensione collettiva. In questo senso, questa interpretazione dell’uguaglianza è in linea con le nuove letture affermatesi a livello sovranazionale, particolarmente attente alla tutela delle diversità. Se nelle intenzioni del costituente le intese dovevano disciplinare le specificità confessionali, consentendo ai cittadini/fedeli il pieno esercizio della loro libertà, in linea con il principio di uguaglianza “ragionevole” di cui agli articoli 3.1 e 8.1 e con la promozione della parità ex art. 3.2 della Costituzione, è però vero che il modo in cui si è sviluppata la normativa pattizia ha in parte tradito il disegno costituzionale e ha fatto sorgere dubbi sul rispetto del principio di uguaglianza ¹. In primo luogo, infatti, non tutte le confessioni religiose hanno potuto o voluto concludere un’intesa, rimanendo prive di una legislazione che si occupi delle loro specifiche esigenze. È vero che gli artt. 8.2 e 8.3 della Costituzione stabiliscono una facoltà e non un obbligo (sia relativamente alla autoorganizzazione delle confessioni, sia per la stipula di un intesa ² ), tuttavia, occorrerà verificare se nella procedura per giungere all’intesa lo Stato non abbia
operato esclusioni ingiustificate di alcuni culti dalla possibilità di avviare le trattative ³. Ciò potrebbe risultare contrario all’uguaglianza nella libertà, nella misura in cui lo strumento pattizio attribuisce particolari diritti alle confessioni religiose. In secondo luogo, è necessario soffermarsi proprio sulle materie che vengono disciplinate dalle intese. Se, infatti, queste ultime contenessero unicamente norme sulle specificità confessionali ⁴ , non sarebbero altro che un metodo di aggiustamento ragionevole delle esigenze religiose, attraverso il quale eliminare potenziali discriminazioni indirette: dunque, lo strumento ideale per l’attuazione del diritto alla diversità. Al contrario, qualora tutti gli aspetti relativi alla libertà religiosa dovessero essere garantiti solo attraverso un’intesa, sarebbe evidente la posizione di svantaggio in cui si troverebbero ad operare le confessioni prive di tale strumento ⁵ , e la conseguente restrizione dei diritti degli aderenti ad esse, non solo nella possibilità di vedere garantito il proprio diritto alla diversità, ma anche nell’esercizio stesso della libertà religiosa in regime di parità. Le intese ad oggi stipulate si collocano, in realtà, a mezza strada tra le due situazioni ora ipotizzate: esse, infatti, contengono sia norme sulle specificità confessionali, sia materie che dovrebbero riguardare tutte le confessioni e la cui disciplina per via pattizia può comportare un’illegittima esclusione di alcuni soggetti . Risulterebbe, allora, più opportuno regolare le problematiche comuni attraverso una legge unilaterale sulla libertà religiosa, che attribuisca i medesimi diritti a tutte le confessioni, lasciando alle intese il compito di disporre unicamente la disciplina relativa allo specifico religioso ⁷. Al di là delle problematiche di dettaglio sull’attuazione dell’impianto costituzionale, sulle quali non ci soffermeremo, si può dire che l’ordinamento italiano – almeno nella ratio originaria del sistema pattizio – cerca di conciliare libertà religiosa e uguaglianza proprio attraverso un sistema di attenzione alle diversità, da attuare attraverso le intese, ovvero con una legislazione differenziata che tenga in considerazione le specificità confessionali. Se alla base di questo sistema v’è una lettura dell’uguaglianza “aperta alle diversità”, ci si può aspettare che nell’attuazione delle norme antidiscriminatorie europee non vi sia stato un mutamento radicale di approccio. Occorre, tuttavia, tener presente che il quadro costituzionale si è sviluppato in modo non del tutto conforme alle intenzioni originarie, utilizzando le intese non solo come strumento per tutelare le specificità, ma anche per regolare alcuni aspetti dell’esercizio della libertà religiosa tout court. Ciò può determinare discriminazioni per le confessioni
senza intesa poiché il loro mancato accesso allo strumento pattizio non comporta unicamente l’assenza di “aggiustamenti” che tengano conto delle specificità confessionali – già di per sé criticabile, se si guarda alle tendenze recenti nella lettura dell’uguaglianza – ma anche una minore tutela relativamente ad alcuni aspetti generali della libertà di culto.
1.4. I TRE MODELLI DI UGUAGLIANZA DI FRONTE AL DIRITTO ANTIDISCRIMINATORIO EUROPEO
Tre modelli diversi di uguaglianza fanno dunque da sfondo al diritto antidiscriminatorio comunitario, che stabilisce un quadro comune in materia. Sintetizzando, abbiamo di fronte: un modello di uguaglianza formale, che si esprime nella negazione (salvo poche eccezioni) di una legislazione differenziata a favore delle esigenze religiose e nel sistema separatista e laico tipico della Francia; un modello di uguaglianza sostanziale, quello inglese, che prevede accomodamenti di vario tipo per le peculiarità religiose, con un approccio pluralista alle relazioni con i gruppi; un modello intermedio, quello italiano, che non si limita all’uguaglianza formale e si apre agli accomodamenti, prevedendo, come strumento principale per la gestione delle diversità religiose, l’elaborazione di una legislazione concordata con le confessioni stesse. Un elemento comune a tutti e tre i modelli si può rintracciare in una certa flessibilità quando l’uguaglianza viene applicata allo status delle confessioni religiose: persino il più “ugualitario” e laico dei sistemi, quello se, riconosce in alcuni casi retaggi storici e status peculiari di talune confessioni ⁸ , anziché applicare in modo rigido l’uguaglianza formale. Come reagiscono e come variano questi modelli di fronte alle direttive europee? Esse impongono obblighi agli Stati membri circa l’obiettivo della parità e della non discriminazione, ma lasciano una certa discrezionalità nella predisposizione degli strumenti attuativi. Per cercare di rispondere a questo interrogativo, ci si concentrerà sul recepimento dei concetti di discriminazione (diretta e indiretta) e di molestie, codificati dalle direttive, che dovrebbero individuare tratti comuni a tutti gli Stati nel modo di affrontare il fenomeno della discriminazione. L’analisi sarà invece più sintetica per quanto riguarda l’ambito delle organizzazioni di tendenza, nel quale la direttiva ha lasciato massima discrezionalità agli Stati, non volendo disciplinare in modo uniforme un tema relativo (anche) ai rapporti con le confessioni. Attraverso l’analisi del quadro normativo dei tre Stati e – nel capitolo successivo – della prassi, si potrà valutare la capacità del diritto antidiscriminatorio di fornire nuovi strumenti di tutela o di riorientare la lettura delle problematiche di uguaglianza e diversità in materia religiosa. Inoltre, ricordando che l’Unione europea non interviene direttamente nella disciplina del fattore religioso, si potrà vedere se, nel concreto, la trasposizione delle direttive
negli Sati ha fatto sì che le forme di tutela dell’uguaglianza e della libertà religiosa rimanessero diversificate e legate ai modelli nazionali, o se, invece, esiste una tendenza a far convergere almeno alcuni aspetti di questa materia verso un modello europeo. Si noterà che Francia e Regno Unito hanno attuato le direttive dell’UE seguendo due approcci opposti, nei quali le letture dell’uguaglianza (prevalentemente formale in Francia; sostanziale nel Regno Unito) hanno giocato certamente un ruolo. L’Italia, come per l’interpretazione del principio di uguaglianza, si colloca a mezza strada tra un’applicazione dei divieti di discriminazione in senso favorevole alle diversità religiose (in linea con quanto previsto dall’UE) e una mancata attuazione di alcuni strumenti, pur disponibili, in teoria, per procedere in questa direzione . In una sorta di linea immaginaria, si va dall’estremo dell’ordinamento britannico – che attua la non discriminazione con precisione e compiutezza, anche perché ha ispirato le direttive stesse – all’estremo della Francia, che ha resistito all’introduzione di determinati strumenti, specie quelli che potevano porsi in contrasto con l’uguaglianza formale. In mezzo l’ordinamento italiano, più complicato da inquadrare: sulle sue scelte in materia di non discriminazione hanno inciso anche la consueta disattenzione per le normative derivanti dagli organi sovranazionali¹ . Iniziando dagli ordinamenti che si collocano sui due estremi, il Regno Unito risulta quello con un diritto antidiscriminatorio maggiormente sviluppato e conviene analizzarlo per primo, anche perché è sempre apparso all’avanguardia nell’elaborazione dei concetti chiave relativi a questo settore¹ ¹ : molti di essi sono poi confluiti nelle direttive del 2000 su impulso di esperti anglosassoni¹ ². Si osserverà, quindi, non soltanto un’influenza del diritto europeo sul diritto interno (visibile, ad esempio, nell’approvazione di norme sulla discriminazione religiosa, assenti prima della trasposizione delle direttive), ma anche la presenza di nozioni di discriminazione, elaborate dall’ordinamento britannico prima che altrove, con caratteristiche simili a quelle sancite dalle direttive, quando non più avanzate. Si proseguirà, poi, analizzando l’altro estremo, cioè la trasposizione se delle direttive, per terminare con la descrizione del diritto antidiscriminatorio italiano, caratterizzato da un mix tra norme previgenti e novità provenienti dall’ordinamento europeo.
2. IL DIRITTO ANTIDISCRIMINATORIO NELLA SUA PATRIA. L’ATTUAZIONE DELLA DIRETTIVA 2000/78 NEL REGNO UNITO
2.1. IL QUADRO NORMATIVO PRIMA DELLE DIRETTIVE. L’ASSENZA DEL DIVIETO DI DISCRIMINAZIONE RELIGIOSA Come si è detto, lo sviluppo di specifiche norme sulla discriminazione nel Regno Unito è dovuto in gran parte alle caratteristiche di questo sistema giuridico di common law e all’esigenza di sancire espressamente per legge l’estensione e i limiti all’esercizio dei diritti fondamentali¹ ³. I primi interventi in materia risalgono agli anni ’60 e si riferiscono essenzialmente a due tipologie di discriminazione: quella fondata sulla razza e quella di genere. Nel 1965 fu approvata la prima versione del Race Relations Act, seguita da quella del 1968 e da una terza nel 1976¹ ⁴ ; la discriminazione tra uomini e donne fu affrontata, invece, dall’Equal Pay Act del 1970 e dal Sex Discrimination Act del 1975. Vi sono indubbiamente delle ragioni storicopolitiche per l’introduzione di norme relative a queste due tipologie di discriminazioni: la parità uomo-donna, soprattutto nel rapporto di lavoro, era oggetto di tutela anche nel diritto comunitario e in altri Stati europei; per quanto riguarda, invece, la discriminazione razziale, il Regno Unito è uno dei primi Stati a legiferare in materia, a causa del sorgere (qui prima che altrove) di problematiche legate all’integrazione di etnie e nazionalità diverse¹ ⁵. Ma, come si è accennato, detti divieti sono stati sanciti in questo ordinamento anche per la necessità di stabilire espressamente alcuni limiti alle libertà economiche e i corrispondenti rimedi, azionabili di fronte a un giudice, per garantire gli individui di fronte ad atti discriminatori¹ . Dal 1965 ad oggi, anche attraverso l’applicazione di direttive comunitarie, è stato approvato un consistente numero di leggi e di regolamenti in materia¹ ⁷ , ognuno dei quali riguardava, fino all’emanazione dell’Equality Act 2010, un singolo «fattore di rischio», secondo un approccio definito «ground based»¹ ⁸. Tutte le leggi e i regolamenti relativi a un «ground of discrimination» sono stati formulati sostanzialmente con la stessa struttura¹ : una parte introduttiva, che contiene le definizioni del fattore preso in considerazione e dei comportamenti vietati (discriminazione diretta, indiretta, ecc.); un elenco degli «unlawful acts» contro i quali è ammesso il ricorso dinanzi a un giudice, specificando le attività e i settori nei quali sono in vigore i divieti in parola¹¹ ; la previsione di eventuali deroghe ai divieti di discriminazione; una parte sull’applicazione dei divieti, soprattutto dal punto di vista processuale.
Tra le numerose disposizioni così elaborate, il divieto di discriminazione religiosa è stato introdotto più tardi rispetto ad altri. La gestione delle diversità culturali e religiose è stata a lungo affrontata unicamente dal punto di vista dei diritti delle comunità etniche¹¹¹ e solo di recente il fattore religioso ha assunto una maggiore rilevanza in questo ambito, in parallelo con la centralità acquisita a livello globale¹¹². Con tutta probabilità, alcune caratteristiche dell’ordinamento e della società britannici hanno determinato per lungo tempo l’assenza di disposizioni sulla discriminazione religiosa. Da un lato si è notato che, almeno fino a tempi recenti, la religione è stata raramente una causa scatenante di contrasti sociali di rilievo nel in Gran Bretagna¹¹³ ; dall’altro, c’è da tenere conto del peculiare panorama confessionale del Regno Unito, specialmente del carattere di Chiesa di Stato attribuito alla Chiesa Anglicana e della tradizionale equiparazione dell’identità nazionale con quella religiosa¹¹⁴. Ciò può aver determinato la scelta, soprattutto politica, di tralasciare l’elaborazione di una legislazione contenente specifici obblighi a tutela dell’uguaglianza in materia religiosa, volta ad eliminare o ridurre gli svantaggi subiti dalle confessioni di minoranza¹¹⁵. Va altresì rilevata l’assenza di un generico divieto di discriminazione orizzontale, che avrebbe potuto tutelare, all’interno di un determinato settore, come quello del lavoro, la parità di trattamento fondata su vari fattori¹¹ . Il diritto antidiscriminatorio britannico, in realtà, ha sempre adottato un approccio verticale, ground-based, predisponendo, cioè, una legge per ogni fattore di discriminazione vietato¹¹⁷ ; una prospettiva mantenuta, come si vedrà, anche nel recepimento delle direttive del 2000. Gli «unlawful acts» relativi alla discriminazione religiosa sono stati introdotti nell’ordinamento inglese con la trasposizione delle direttive comunitarie del 2000, operata attraverso i regolamenti del 26 luglio 2003, The Employment Equality (Religion and Belief) Regulations 2003¹¹⁸. Tale intervento si riferiva allo stesso ambito di applicazione della direttiva 2000/78 (il lavoro); qualche anno più tardi, con l’Equality Act 2006, il legislatore britannico ha superato il mero adeguamento agli obblighi derivanti dal diritto europeo e ha esteso la protezione dalla discriminazione religiosa ad ulteriori settori e attivit๹ . Entrambi i testi normativi contenevano una dettagliata definizione di che cosa si intende per discriminazione fondata sulla religione, così da poter determinare che tipo di comportamenti fosse illecito negli ambiti di applicazione specificati. In linea con le direttive comunitarie i regolamenti del 2003 facevano riferimento
ai concetti, già presenti nell’ordinamento nazionale, di discriminazione diretta e indiretta, di vittimizzazione e molestie, applicandoli al fattore religioso (artt. 3, 4 e 5)¹² . Analoghe previsioni erano presenti nell’Equality Act 2006 che vietava, negli ambiti già ricordati, la discriminazione diretta, indiretta, le vittimizzazioni (art. 45), l’ordine e l’incitamento a discriminare (art. 55) sulla base della religione o della credenza. Nella legge del 2006 era invece assente la tutela dalle molestie a carattere religioso, limitata, di conseguenza, al campo del lavoro. Già nel momento dell’elaborazione dell’Equality Act 2006, da più parti era stata sottolineata la necessità di procedere alla risistemazione della normativa antidiscriminatoria, armonizzando in un unico testo le disposizioni prodotte durante gli ultimi decenni ed eliminando le eventuali contraddizioni e incoerenze¹²¹. A tale risultato si è giunti, dopo diverse consultazioni, con l’approvazione dell’Equality Act 2010, l’8 aprile 2010¹²². Quest’ultima legge stabilisce un quadro normativo unitario per tutti i divieti di discriminazione, con il superamento della legislazione stratificatasi negli anni precedenti. Le leggi e i regolamenti previgenti sono, per la maggior parte, abrogati¹²³ e i concetti di riferimento e le definizioni degli illeciti sono codificati in questo unico testo. L’Equality Act 2010 segue in gran parte la struttura delle altre leggi in materia, andando a definire i comportamenti vietati e i fattori di rischio coperti dalla tutela antidiscriminatoria. Inoltre, nel momento in cui si stabilisce una protezione grosso modo uniforme di fronte a tutte le tipologie di discriminazione, viene introdotta anche la nozione di discriminazione multipla («combined discrimination», art. 14). Con questa si intende far fronte in modo migliore alle forme di trattamento sfavorevole che non sono causate da una sola caratteristica della vittima, ma da una combinazione tra più caratteri. In base alla legislazione previgente, era difficile far rilevare una simile forma di discriminazione¹²⁴. Ad esempio, di fronte alla mancata assunzione di una donna musulmana, un’azienda poteva dimostrare che il suo comportamento non era fondato né sul sesso né sulla religione considerati separatamente – specie se aveva impiegato regolarmente manodopera femminile e uomini di religione islamica – e perciò sfuggire all’applicazione delle norme antidiscriminatorie¹²⁵. L’art. 14 dell’Equality Act 2010 vieta ora i comportamenti che recano pregiudizio sulla base di una combinazione di fattori¹² . Vi sono, poi, alcuni elementi di novità: in primo luogo un rafforzamento degli strumenti di tutela dalle discriminazioni. Nonostante la presenza di molte norme e di una consolidata esperienza in materia, alcuni studi avevano sottolineato
l’insufficienza delle norme vigenti per il raggiungimento di una effettiva parit๲⁷. Il diritto antidiscriminatorio “classico” si è sempre basato su «remedies» giudiziali, ovvero sulle possibilità di avviare un giudizio antidiscriminatorio nel caso in cui un soggetto avesse subito trattamenti sfavorevoli: si tratta di strumenti di tutela individuali¹²⁸ , che non incidono sulle strutture sociali e istituzionali che possono determinare discriminazioni. In questo senso, appare rilevante l’introduzione di strumenti denominati «public sector equality duties», che impongono alle pubbliche autorità e a chi svolge una funzione pubblica l’obbligo di eliminare le discriminazioni e di promuovere l’uguaglianza. Attraverso questa previsione, il legislatore non si limita a sanzionare la discriminazione ex post, una volta avvenuta, ma impegna le istituzioni e le autorità pubbliche a intervenire attivamente in materia, nell’esercizio delle proprie funzioni e nell’elaborazione di politiche¹² , anche attraverso azioni di prevenzione dei fenomeni discriminatori¹³ . Oltre ai «public duties», è stata prevista la possibilità di mettere in atto azioni positive (artt. 158 e 159)¹³¹ , concetto sul quale si tornerà in seguito. Qui basti osservare che la tendenza mostrata dalla legge del 2010 sembra essere quella del superamento dei divieti di discriminazione, verso un modello di interventi e tutele più incisivo. Questo a maggior riprova che nell’ordinamento britannico sembra effettivamente in vigore un’accezione sostanziale del principio di uguaglianza¹³².
2.2. I CONCETTI NELL’ESPERIENZA BRITANNICA: DAL MODELLO PER IL DIRITTO UE AGLI SVILUPPI SUCCESSIVI Le definizioni di discriminazione sancite dall’ordinamento britannico sono state, per alcuni aspetti, il modello per le direttive europee; in fase di attuazione è quindi logico attendersi un allineamento a queste ultime da parte del legislatore nazionale. In realtà, soprattutto nelle leggi più recenti, i concetti sono stati ulteriormente elaborati, offrendo in alcuni casi una tutela antidiscriminatoria più rigorosa. Concentrando l’attenzione sulle nozioni di discriminazione diretta, indiretta e di molestie, la definizioni sono attualmente codificate dall’Equality Act 2010 il quale ha stabilito un’unica formula valida per tutti i fattori di rischio. Basandosi sull’ampia elaborazione dottrinale e giurisprudenziale sul tema¹³³ , l’art. 13 della legge individua la discriminazione diretta in un trattamento meno favorevole di un soggetto rispetto ad un altro «because of a protected characteristic», nel nostro caso la religione¹³⁴. La formula «because of a protected characteristic» sostituisce quella presente nelle norme previgenti (art. 3 dei regolamenti del 2003; art. 45 dell’Equality Act 2006), che indicava un trattamento sfavorevole «on ground of religion or belief […]». Quest’ultima era volta a sottolineare che la discriminazione diretta è ravvisabile quando collegata ad un fattore protetto, a prescindere dalla motivazione o dall’intenzionalità soggettiva; una serie di pronunce aveva via via stabilito i criteri per dimostrare che il comportamento era effettivamente «fondato su» quel fattore¹³⁵. Si è sottolineato che il cambiamento operato dall’Equality Act 2010, con il riferimento ad una discriminazione «because of», «a motivo di» una determinata caratteristica, potrebbe mettere in dubbio la nozione fin qui consolidata, rendendo necessaria una nuova elaborazione da parte della giurisprudenza, oppure stravolgere i criteri già affermati, suggerendo ad esempio di dare rilevanza alla motivazione soggettiva nella dimostrazione di una discriminazione¹³ . In realtà, la giurisprudenza ha finora continuato ad analizzare i casi di discriminazione attraverso i medesimi test utilizzati prima della legge del 2010, confermando la concezione oggettiva della discriminazione¹³⁷. Conviene accennare qui anche ad alcune peculiarità, considerate dal legislatore inglese, che possono caratterizzare una discriminazione religiosa. Nelle norme previgenti si specificava, ad esempio, che la religione sulla quale si fonda il
trattamento svantaggioso può essere quella della vittima o di un altro soggetto ad essa collegato, e che può essere contemporaneamente anche la religione del «discriminator»¹³⁸. Mentre quest’ultimo punto è ripreso dall’Equality Act 2010 (art. 24), non è prevista espressamente una tutela dalla «discrimination by association», ovvero dal pregiudizio originato dalla religione di terzi (spesso familiari o persone in altro modo collegate alla vittima). Ancora, mentre la legge del 2006 specificava che la discriminazione religiosa si verifica anche qualora il trattamento discriminatorio sia basato su una supposizione relativa alla religione della vittima, risultando superfluo dimostrare che questa professi realmente quel credo¹³ , la legge del 2010 non dice niente sul punto. Secondo la dottrina, in entrambi i casi («discrimination based on association» e «on perception») l’Equality Act 2010 non avrebbe eliminato una garanzia sancita dalle leggi previgenti, ma avrebbe ricompreso le ipotesi ora menzionate nella formula «because of a protected characteristic»: in base a questa, non è rilevante chi sia il soggetto che possiede la caratteristica né che la possieda realmente, ma solo il fatto che su di essa si fondi il trattamento sfavorevole¹⁴ . Per quanto riguarda la discriminazione indiretta, l’intervento di armonizzazione si innesta su diverse definizioni presenti nelle norme previgenti¹⁴¹. In base all’art. 19 dell’Equality Act 2010, si ha ora discriminazione indiretta quando si verificano le seguenti circostanze: si è in presenza di una norma, un criterio o una pratica neutri, applicati indistintamente agli aderenti ad una determinata religione e ai non aderenti; dalla misura neutra discende un «particular disadvantage» sia per l’individuo destinatario della misura stessa, sia per il gruppo religioso cui egli appartiene, in confronto a soggetti che non ne condividono la religione o la credenza; infine, la norma neutra non risulta essere un mezzo proporzionale al raggiungimento di un fine legittimo. Almeno due aspetti vanno sottolineati: in primo luogo, si forniscono alcuni dettagli su come rintracciare lo svantaggio derivante da una regola neutra. Si è detto che il legislatore europeo, non facendo più riferimento a criteri quantitativi, lascia nell’indeterminatezza la verifica di tale svantaggio. La legislazione britannica, pur utilizzando la medesima generica espressione delle direttive («particular disadvantage»), precisa che occorrerà controllare l’esistenza di un pregiudizio a causa della religione sia per l’individuo, sia per le persone che ne condividono il credo¹⁴². La dimensione di gruppo viene così tutelata, almeno in una certa misura, accanto a quella individuale, prevalente nelle norme antidiscriminatorie¹⁴³. Peraltro, l’Equality Act – conformemente alla direttiva – stabilisce l’illegittimità di tutte quelle disposizioni, criteri o prassi che
potrebbero creare un trattamento sfavorevole e non solo di quelle che l’hanno determinato effettivamente: la verifica sulla discriminatorietà riguarda, quindi, un ampio insieme di atti, comprese le politiche e le norme che possono generare un effetto sfavorevole una volta messe in atto¹⁴⁴. Insieme all’attenzione per il dato di gruppo, ciò risulta di particolare rilievo per la tutela del fattore religioso, poiché prevede una verifica sulle misure che – ancor prima della loro messa in atto – non tengano conto delle diversità e dell’opportunità di differenziare una disciplina per non sfavorire l’espressione di una specificità religiosa. In secondo luogo, occorre soffermarsi sulla questione della giustificazione della discriminazione indiretta. La definizione in vigore non coincide del tutto con la nozione codificata dal legislatore europeo. Le direttive del 2000, infatti, stabiliscono che una misura neutra non sia discriminatoria quando appropriata e necessaria al raggiungimento di uno scopo legittimo, mentre l’Equality Act 2010 – come le norme previgenti¹⁴⁵ – fa riferimento soltanto ad un criterio di proporzionalità, più flessibile nel giustificare le norme neutre. Per spiegare le maggiori possibilità di giustificazione della discriminazione indiretta nell’ordinamento britannico, occorre ricordare che il divieto si estende ad ambiti più ampi rispetto a quanto previsto dall’UE e la sua effettiva applicazione, in relazione a tutti i fattori di rischio, può generare una restrizione eccessiva di altre libertà¹⁴ . Spetterà, poi, alla giurisprudenza valutare nel dettaglio l’applicazione di questo concetto, bilanciando, nei singoli casi, i diversi diritti in gioco. Per quanto riguarda, infine, il concetto di molestia («harassment»), essa era definita dai regolamenti del 2003 (art. 5) come una condotta indesiderata, adottata in ragione della religione o della credenza, che abbia lo scopo o l’effetto di violare la dignità di un soggetto o di creare un clima intimidatorio, ostile, umiliante od offensivo¹⁴⁷. Come già ricordato, il divieto di mettere in atto tali condotte non era presente nell’Equality Act 2006 e perciò era in vigore, per quanto riguarda la religione, solo nell’ambito del lavoro. Il nuovo Equality Act distingue tra molestie a carattere sessuale (art. 26, commi 2 e 3) e molestie collegate agli altri fattori di rischio (art. 26, comma 1). Tra queste ultime, quelle fondate sulla religione e sull’orientamento sessuale risultano vietate nell’ambito del lavoro, ma non in altri campi di applicazione della legge¹⁴⁸ : così, la protezione dalle molestie a carattere religioso non è stata estesa rispetto alla legislazione previgente. Per meglio comprendere questa scelta, si deve considerare che molti comportamenti possono risultare «indesiderati» dal punto di vista religioso, soprattutto se nella determinazione della loro offensività si terrà conto, come richiesto dalla norma in esame, anche della percezione della
vittima¹⁴ . Inoltre, mentre per il diritto dell’UE (art. 2.3 della direttiva 2000/78) la condotta «molesta» deve causare sia la violazione della dignità, sia il determinarsi di un ambiente degradante, ostile o umiliante, per il legislatore britannico è sufficiente dimostrare solo uno dei due risultati della «unwanted conduct»¹⁵ , cosicché è ampia la possibilità che molti comportamenti ricadano nel divieto in parola. Durante l’elaborazione dell’Equality Act era stato fatto notare, ad esempio, che anche talune manifestazioni del pensiero potrebbero risultare «moleste» e che ciò potrebbe determinare una considerevole restrizione di altri diritti fondamentali, primo fra tutti la libertà di espressione¹⁵¹. Per questo motivo, mentre nell’ambito del lavoro si è consolidata una tutela dalle molestie, anche a carattere religioso¹⁵² , per altri settori e attività è apparso più difficile giustificare un divieto generale di compiere qualsiasi atto religiosamente caratterizzato del quale sia provata l’indesideratezza. Peraltro, l’art. 26.1 dell’Equality Act 2010 sancisce una nozione di molestie parzialmente diversa rispetto a quella precedentemente in vigore: si parla, infatti, di comportamento connesso al fattore religioso («related to»), mentre i regolamenti del 2003 facevano riferimento a comportamenti «on ground of religion»¹⁵³. Questa modifica può ampliare ulteriormente la possibilità di applicare la nozione di molestie, ricomprendendo nel divieto anche le condotte che siano motivate da altri fattori (ad esempio l’orientamento sessuale) ma «indesiderate» sotto il profilo religioso¹⁵⁴. Nonostante alcune difformità tra le definizioni europee e quelle britanniche, queste ultime – sia nell’Equality Act 2010, sia nelle leggi previgenti – presentano i tratti essenziali del modello antidiscriminatorio stabilito dalle direttive, ispirato in parte proprio dal Regno Unito. Così, il concetto di discriminazione è oggettivo e non attribuisce rilevanza all’intenzionalità individuale; si sottolineano, poi, gli aspetti sostanziali dell’uguaglianza e una verifica “di fatto” delle disparità¹⁵⁵. Inoltre si può osservare che nella legislazione del Regno Unito si sono specificati alcuni dettagli relativi ai concetti chiave – assenti in altri Stati e persino nel diritto dell’UE. La precisione nell’individuazione delle condotte vietate va ricondotta, indubbiamente, al fatto che i divieti di discriminazione, nel quadro dell’ordinamento britannico, sono posti come limite all’autonomia dei privati: occorre, quindi, circoscriverli attentamente per evitare una restrizione eccessiva di altri diritti. La particolare attenzione per queste nozioni rivela anche un’esperienza del tutto particolare in materia, nonché la consapevolezza che queste disposizioni producono non pochi conflitti tra diritti e problemi nell’applicazione concreta.
3. L’ATTUAZIONE IN FRANCIA. GLI OBBLIGHI SOVRANAZIONALI E LE RESISTENZE INTERNE
3.1. LE FASI DELL’ATTUAZIONE
Al contrario di quanto osservato riguardo al Regno Unito, i divieti di discriminazione sono acquisizione recente dell’ordinamento se, che li ha mutuati in larghissima parte dal diritto internazionale e comunitario. Difatti, a fronte dell’affermata centralità storica e giuridica del principio di uguaglianza, la nozione di discriminazione è estranea al sistema normativo se¹⁵ e, benché sporadicamente utilizzata dalla giurisprudenza¹⁵⁷ , è stata specificata solo in sede di attuazione del diritto antidiscriminatorio europeo¹⁵⁸. Se è vero che in Francia il valore dell’uguaglianza è fortemente radicato e che non sono mancate, anche in ato, norme o politiche sulle pari opportunità, tuttavia l’attuazione delle direttive introduce un approccio e un “linguaggio” diversi rispetto a quanto previsto fino a quel momento¹⁵ . Come si è già osservato, il principio di uguaglianza non si applica ai rapporti tra privati¹ , se non attraverso specifici divieti di discriminazione. Questi ultimi, poi, sono tradizionalmente intesi come derivazione diretta di tale principio: mirano, perciò, più che a vietare le disparità di fatto, a eliminare trattamenti diversificati tra i cittadini, in ragione – ad esempio – del sesso, dell’origine etnica o della religione. Se si guarda il dato letterale, ad esempio, nelle (poche) norme emanate in materia precedentemente all’attuazione delle direttive comunitarie, si fa ricorso quasi sempre al termine «distinzione» («distinction») in luogo di quello di «discriminazione»¹ ¹ , che – come si è visto – ha un altro significato, riferendosi a trattamenti negativi e non solo diversi¹ ². Si può notare, poi, l’assenza, fino a tempi recenti, di riferimenti alla discriminazione indiretta, un concetto che presuppone di controllare, appunto, gli effetti discriminatori di una norma neutra e di conseguenza di esaminare le discriminazioni “di fatto” più che le distinzioni “di diritto”. Tale concetto, collegato a una certa attenzione per le diversità, prevede proprio l’illegittimità di talune norme uguali per tutti, che sarebbero invece conformi all’ideale se dell’égalité. Questa lettura dell’uguaglianza (prevalentemente formale) si riflette, inoltre, nella particolare concezione dell’atto discriminatorio, che ha un carattere prevalentemente soggettivo, anziché oggettivo come nel modello europeo¹ ³.
Tradizionalmente, i divieti di discriminazione sono stati diretti a rintracciare singoli atti contrari all’uguaglianza, ascrivibili all’azione (e all’intenzione) individuale; non sono stati concepiti, invece, come strumenti volti a individuare uno svantaggio oggettivo, che può derivare non solo da un concreto e intenzionale comportamento ma anche – come nel caso della discriminazione indiretta – da un insieme di prassi o norme generali¹ ⁴. Prima dell’attuazione delle direttive, le norme sulla discriminazione religiosa erano presenti – con le caratteristiche appena descritte – nel diritto del lavoro e nel diritto penale. È soprattutto quest’ultimo lo strumento utilizzato, aderendo alla lettura “soggettiva” della discriminazione¹ ⁵. I divieti di natura penalistica, infatti, colpiscono atti che sono intenzionalmente discriminatori e che “distinguono” illegittimamente un soggetto da un altro in ragione di religione, razza o etnia (si intende, quindi, la discriminazione come differenziazione)¹ . Nella Loi Pleven del 1972¹ ⁷ , il legislatore se ha previsto sanzioni penali per una serie di comportamenti discriminatori¹ ⁸. In seguito, il codice penale adottato nel 1992, e attualmente in vigore (non modificato, nella sostanza, dalle recenti leggi relative alla discriminazione)¹ , ha individuato una lista (tassativa) di comportamenti discriminatori vietati, quali il rifiuto di fornire beni o servizi, le azioni volte ad ostacolare lo svolgimento di attività economiche, il rifiuto di assumere, il licenziamento, la fornitura di un servizio a condizioni svantaggiose (art. 225-2). Al fine di qualificare tali comportamenti come discriminatori, si fa rinvio all’art. 225-1, che definisce la discriminazione come «una distinzione» operata tra le persone fisiche (comma 1°) o giuridiche (comma 2°) in ragione di uno dei fattori elencati, tra i quali figura l’appartenenza (o non appartenenza), vera o presunta, ad una etnia, nazionalità, razza o religione. Per quanto riguarda il diritto del lavoro, le norme di riferimento in materia sono contenute nel Code du Travail¹⁷ . Il Codice, adottato nel 1973, stabiliva inizialmente soltanto l’uguaglianza di retribuzione tra uomini e donne (artt. L140-3 e seguenti); in seguito, l’art. 1 della legge 4 agosto 1982, n. 82-689¹⁷¹ introduceva nel Codice del lavoro il nuovo art. L122-45, che vietava di licenziare o di applicare sanzioni disciplinari («sanctionner») in ragione, tra l’altro, dell’appartenenza a un’etnia, delle opinioni politiche, sindacali o delle convinzioni religiose¹⁷². L’art. 122-45 non sanciva un divieto di discriminazione in senso generale, ma disciplinava alcune specifiche fattispecie, tra le quali assumeva un’importanza centrale il divieto di licenziamento discriminatorio¹⁷³. La norma in esame, peraltro, non utilizzava neppure il termine discriminazione: questo concetto verrà introdotto nel Codice solo dopo il recepimento delle
direttive del 2000, disposto dalla legge 16 novembre 2001, n. 2001-1066¹⁷⁴. La legge del 2001 segna una tappa fondamentale nello sviluppo del diritto antidiscriminatorio se. Essa ha emendato il Code du travail, introducendo tre fondamentali innovazioni: in primo luogo, aveva inserito nell’art. 122-45 un richiamo alla discriminazione indiretta, una nozione, come si è detto, fino a quel momento estranea al diritto se¹⁷⁵. Mancava ancora, invece, una vera e propria definizione dei concetti chiave, a dimostrazione della cautela nell’adottare un nuovo approccio alle discriminazioni¹⁷ . In secondo luogo i divieti in esame si riferivano a un più ampio insieme di comportamenti¹⁷⁷ ; in terzo luogo, si stabilivano alcuni dei meccanismi che la direttiva 2000/78 prevede a tutela delle vittime della discriminazione, come il divieto di vittimizzazione e l’inversione dell’onere della prova¹⁷⁸. In questa prima fase della trasposizione delle direttive, alcune delle novità da esse introdotte sono sfuggite al legislatore interno, che non ha riproposto integralmente i parametri europei. Oltre alla già richiamata mancanza di una definizione della discriminazione, si può ricordare l’incompletezza della disciplina delle molestie e dei mezzi di tutela delle vittime¹⁷ . Anche dopo l’approvazione, nel 2007, del nuovo Code du travail, non sono stati apportati sostanziali cambiamenti in materia. Il nuovo codice, infatti, ha raccolto le disposizioni sulla discriminazione in un apposito titolo (il terzo del libro primo, rubricato «discriminations»), che ha riordinato e dato maggiore visibilità alle norme in esame; tuttavia, non aveva innovato quanto all’introduzione di una definizione di discriminazione¹⁸ , né nell’applicazione dei relativi divieti¹⁸¹. Per allineare la Francia al diritto antidiscriminatorio europeo, è stato necessario un intervento dell’Unione, che il 31 gennaio 2008 ha avviato una procedura di infrazione nei confronti di alcuni Stati che non avevano attuato in modo corretto le direttive del 2000¹⁸². A seguito del parere motivato inviato dalla Commissione europea alla Francia, il legislatore interno ha approvato la legge 27 maggio 2008, n. 2008-496¹⁸³ , con la quale si è finalmente provveduto ad integrare l’art. 1132-1 del Codice del lavoro con una definizione della discriminazione diretta e indiretta, ricalcata sul modello del diritto comunitario. Sempre la legge n. 2008496 ha, inoltre, esteso la tutela antidiscriminatoria a «tutte le persone», senza limitarla ad alcune categorie di lavoratori¹⁸⁴. Da notare che il legislatore interno ha abbandonato in questa occasione il metodo solitamente seguito, che, nell’attuazione della normativa comunitaria, tendeva ad
integrare i nuovi divieti e i nuovi concetti nei testi preesistenti, principalmente nei codici¹⁸⁵. Probabilmente sotto la spinta dell’urgenza di adeguare questo settore del diritto al dettato comunitario, la legge n. 2008-496 ha adottato un inedito approccio “trasversale”, applicando orizzontalmente (in tutti i settori descritti all’art. 2 e, ex art. 5, «a tutte le persone») le nuove nozioni di discriminazione e di molestia, contenute nell’art. 1 della medesima legge. Si è così assicurata l’entrata in vigore delle nuove norme sulla discriminazione in ogni settore previsto dalle direttive comunitarie, senza la necessità di modificare una per una le leggi che contenevano un qualche riferimento alla discriminazione. È stato, ad ogni modo, operato un primo ed essenziale coordinamento con le disposizioni previgenti (ad esempio quelle del codice del lavoro, modificate dall’art. 6 della legge in esame, quelle del codice penale, dall’art. 7)¹⁸ . Tra le norme che hanno marcato il graduale avvicinarsi del diritto antidiscriminatorio se agli standard europei, va ancora ricordata la Loi de modernisation sociale del 2002 (legge n. 2002-73), che ha introdotto per la prima volta alcune disposizioni sulle molestie, equiparate alle discriminazioni¹⁸⁷. Con questa legge, peraltro, il legislatore se ha esteso il campo di applicazione dei divieti di discriminazione – compresa quella fondata sulla religione – ad ambiti ulteriori rispetto a quello del lavoro: essa ha modificato, infatti, la Loi Mermaz del 1989 vietando la discriminazione nell’accesso all’alloggio¹⁸⁸. Altre leggi procedono in tale senso: ad esempio, la legge n. 2002-303 sui diritti dei malati¹⁸ ha sancito un divieto di discriminare nel settore dei servizi sanitari, introducendo il nuovo art. 1110-3 del Code de la Santé Publique. Da questa rassegna di norme si nota come il legislatore se, operando una modifica delle leggi già in vigore, ha disseminato i divieti di discriminazione in un ampio insieme di atti, estendendone l’efficacia ad ambiti ulteriori rispetto a quello del lavoro¹ . Resta, tuttavia, la resistenza dell’ordinamento se ad accettare l’uso di concetti ad esso estranei – come quello della discriminazione indiretta – definiti solo di recente, e apparentemente obtorto collo, per adeguarsi alle raccomandazioni di Bruxelles. Una resistenza che, relativamente ai fattori religioso e razziale, sembra essere il sintomo di un approccio tutto peculiare di questo Paese ai problemi delle diversità e dell’integrazione¹ ¹.
3.2. LE NOZIONI EUROPEE NELLA PATRIA DELL’ÈGALITÈ
La resistenza della Francia all’introduzione delle regole europee del diritto antidiscriminatorio emerge particolarmente dall’analisi delle nozioni via via adottate nell’ordinamento interno. Come già ricordato, una vera e propria definizione della discriminazione è stata sancita solo con la legge 27 maggio 2008, n. 496 che riproduce pressoché alla lettera quanto dettato dal legislatore comunitario¹ ². Si tratta di una nozione sicuramente innovativa, che si distingue dall’interpretazione della discriminazione che era individuabile nella giurisprudenza e nelle norme previgenti. Ma, al di là del dato letterale, le definizioni europee sono veramente fatte proprie dall’ordinamento se? In primo luogo, si può osservare che le norme previgenti equiparavano la discriminazione a una «distinzione», definendola, quindi, come una differenziazione di trattamento e non come uno svantaggio subito da alcuni soggetti rispetto ad altri. Adesso, se è vero che si è codificata una nozione della discriminazione con una connotazione negativa (un trattamento «moins favorable», in base all’art. 1 della legge n. 496 del 2008), tuttavia alcune norme continuano ad utilizzare il vecchio concetto, parlando di distinzioni anziché di discriminazioni (è il caso, ad esempio, dell’art. 225-1 del codice penale e dell’art. 6 della loi Le Pors n. 83-634). In secondo luogo, prima della riforma del 2008 il codice del lavoro non si riferiva genericamente ad una situazione sfavorevole, individuabile attraverso una comparazione tra i lavoratori, ma vietava di mettere in atto specifici comportamenti (come il licenziamento) adottati «en raison» della religione o delle convinzioni personali¹ ³. L’espressione «en raison de» – contenuta anche nell’art. 225-1 del codice penale – suggeriva un riferimento alla motivazione che ispira la misura discriminatoria, ponendo l’accento più sul movente soggettivo dell’atto che sull’eventuale risultato sfavorevole¹ ⁴. La rilevanza attribuita dal diritto se all’intenzionalità della discriminazione è, tra l’altro, confermata dalla giurisprudenza¹ ⁵ e dall’uso frequente delle norme penali (che richiedono la dimostrazione della colpevolezza) nei casi di discriminazione¹ . Se il codice penale mantiene in vigore la nozione “soggettiva” della discriminazione, la legge
del 2008 prevede ora una definizione della discriminazione che si riferisce a comportamenti attuati in base («sur le fondement») alla religione, svincolandosi da una formula legata al motivo dell’atto. Alcune caratteristiche, tuttavia, differenziano ancora la concezione di discriminazione à la française da quella britannica, nonostante la prima sia stata modificata in base alle indicazioni europee. Va ricordata, ad esempio, la scarsa rilevanza attribuita al momento comparativo, fondamentale invece nella nozione codificata nel Regno Unito¹ ⁷. Difatti, la giurisprudenza se – come meglio si vedrà – non usa ancora con sicurezza un metodo comparativo¹ ⁸ , volto a rintracciare le disparità che oggettivamente si verificano; peraltro, la nozione introdotta dalla legge del 2008 non utilizza il condizionale per prevedere una comparazione con situazioni ipotetiche, ma il futuro anteriore, più restrittivo nell’individuare i termini di paragone¹ . Il carattere «soggettivo» dei divieti di discriminazione, benché superato dalla legge del 2008, sembra segnare ancora lo sviluppo di questa normativa nell’ordinamento se, restio ad accettare – attraverso nuove forme di giudizio e di comparazioni – una verifica delle situazioni svantaggiose di fatto, anche svincolate da una responsabilità individuale² . Alla luce di queste caratteristiche si può capire la difficoltà dell’ordinamento se ad accettare un concetto come quello di discriminazione indiretta, relativa a condizioni di sfavore che si creano per la presenza di una norma neutra e, perciò, a prescindere da una volontà di determinare uno svantaggio. Tale nozione costituisce un’assoluta novità per l’ordinamento se, che l’ha sancita per adeguarsi al diritto comunitario. Non vi è stata, perciò, una sufficiente elaborazione normativa che ne specificasse gli elementi specifici e si è optato per ricalcare alla lettera la definizione contenuta nelle direttive europee. In particolare, non si specifica (come si fa nel Regno Unito) come debba essere individuato il «particolare svantaggio» di cui all’art. 2.2 della direttiva 2000/78² ¹. In secondo luogo, relativamente ai criteri di giustificazione, la nozione della discriminazione indiretta introdotta dalla l. n. 496-2008 ripropone «mot par mot» quella sancita dalle direttive; tuttavia, guardando alla prassi, si osserva che i giudici si giustificano molto spesso e molto agevolmente casi di discriminazione. Se per la discriminazione diretta è stato talvolta sufficiente dimostrare che un comportamento non aveva una motivazione di tipo religioso per escludere il suo carattere discriminatorio, tale metodo di giustificazione è stato applicato anche ai casi di discriminazione indiretta, per i quali, invece, la verifica dovrebbe riguardare la relazione tra una norma neutra, la finalità che
essa persegue e lo svantaggio subito dagli appartenenti a una determinata religione² ². Infine, riguardo al concetto di molestie, le legislazione se contiene due definizioni diverse. Una prima è nel Codice del lavoro, il cui art. 1152 sancisce la protezione contro le molestie, sia a carattere sessuale sia di altro genere («harcèlement moral»)² ³. La definizione se, nonostante contenga i principali tratti caratterizzanti la disciplina comunitaria delle molestie (il riferimento ad un comportamento che viola la dignità del lavoratore, l’irrilevanza dell’intenzionalità dell’azione, l’assenza del momento comparativo), risulta meno ampia di quella sancita dalla direttiva² ⁴. Innanzitutto, essa fa riferimento ad azioni indesiderate protratte nel tempo («agissements répétés»), requisito che non compare nelle norme europee né in quelle degli altri Stati² ⁵. Le condotte incriminate debbono, poi, causare un degrado delle condizioni di lavoro, che si sostanzia in alcune conseguenze concrete, come l’alterazione della salute fisica o mentale della vittima, la violazione dei suoi diritti o gli ostacoli frapposti alla sua carriera. Pertanto, per poter individuare una molestia vietata dal Codice del lavoro, non è sufficiente rilevare un generico attentato alla dignità del lavoratore e la determinazione di un clima umiliante, ma occorre essere in presenza di una più grave situazione di «dégradation des conditions de travail». Da notare che tale nozione sembra riferirsi in generale a comportamenti degradanti, ma non al tema della parità: difatti non specifica se i comportamenti in questione debbano essere in qualche modo collegati ai fattori di discriminazione vietati² . Le molestie sono vietate anche nel codice penale e nella legge Le Pors n. 83-634 (art. 6 quinquies)² ⁷ , che utilizzano un concetto del tutto simile. Una seconda definizione, invece, è quella disposta dalla legge n. 2008-496 che, procedendo all’adattamento della legislazione se ai parametri comunitari, riproduce – all’art. 1, 3° comma – la formula contenuta nella direttiva 2000/78² ⁸. Tuttavia essa non ha emendato la norma del Codice del lavoro (che permane in vigore, con le relative sanzioni² ), ma ha affiancato la nuova nozione, più ampia e flessibile, a quella previgente²¹ . Di conseguenza, l’applicazione dell’una o dell’altra – che dipenderà dalle scelte dei giudici – potrà comportare forme più o meno ampie di protezione delle vittime di comportamenti umilianti ed offensivi. La redazione di queste norme lascia intendere che il legislatore se abbia voluto approfittare della più estesa
discrezionalità consentitagli dalla direttiva per non misurarsi fino in fondo con il concetto di molestie e con la sua applicazione a fattori come la religione o la razza, rispetto ai quali non vi era un’esperienza precedente²¹¹ , né – a quanto consta – non esiste una giurisprudenza nazionale rilevante. Una ulteriore conferma del fatto che le definizioni in vigore, pur seguendo alla lettera le norme europee, spesso non sembrano assimilate dall’ordinamento se, che mantiene in vigore concetti e meccanismi di tutela diversi, maggiormente in linea con il tradizionale approccio di uguaglianza formale.
4. L’ATTUAZIONE IN ITALIA. GLI OBBLIGHI SOVRANAZIONALI E LE DISATTENZIONI INTERNE
4.1. TRA VECCHIO E NUOVO DIRITTO ANTIDISCRIMINATORIO
Nell’attuazione della direttiva, l’Italia si colloca a metà strada tra i due Paesi finora esaminati. Da un lato, la legislazione previgente contemplava già (a differenza che nel Regno Unito) il divieto di discriminazione religiosa, facendo presagire un’attenzione consolidata per il tema; dall’altro (come in Francia) è stata necessaria la trasposizione degli obblighi europei per inserire alcuni strumenti di tutela e, in alcuni casi, l’apparato concettuale non risulta perfettamente integrato nell’ordinamento interno. Per quanto riguarda le norme preesistenti, i riferimenti alla discriminazione religiosa erano presenti principalmente in tre ambiti: il diritto del lavoro, la normativa sull’immigrazione, il diritto penale. Se in quest’ultimo settore la configurazione del reato di discriminazione presentava analoghi problemi a quelli rilevati nell’ordinamento se²¹² , nei primi due esistevano norme sulla discriminazione (anche) religiosa di respiro abbastanza ampio, che rivelano come il nostro Paese non fosse estraneo a una riflessione sul tema e alla predisposizione di – sia pur limitati – strumenti di tutela. È utile richiamarli brevemente, anche in considerazione del fatto che il d.lgs. n. 216/2003, attuativo della direttiva 2000/78²¹³ , ha mantenuto in vigore parte delle norme previgenti. Il primo riferimento, in ordine di tempo, alla discriminazione religiosa si trova nello Statuto dei lavoratori (legge 20 maggio 1970, n. 300 e successive modifiche), il cui articolo 15 punisce con la nullità gli atti e i patti diretti a discriminare per motivi religiosi, politici o sindacali²¹⁴. In particolare si proibiscono determinati atti – quali il licenziamento, il demansionamento o altre condizioni di lavoro sfavorevoli, la subordinazione dell’occupazione a motivo del credo o di un’opinione personale – che possono condizionare il lavoratore nella sua libertà di pensiero e di coscienza e nella sua autonomia politica e sindacale. La religione figura tra i fattori tutelati dalla legge proprio perché ritenuta – accanto alle opinioni politiche e sindacali²¹⁵ – utilizzabile dal datore di lavoro per danneggiare i lavoratori, attraverso il licenziamento o altri comportamenti ritorsivi²¹ . Accanto a questa norma fondamentale, esistono alcuni specifici divieti: ad esempio l’art. 4 legge 15 luglio 1966, n. 604 vieta il licenziamento discriminatorio, per il quale la legge 11 maggio 1990, n. 108, prevede non solo la nullità, ma anche il reintegro dei lavoratori, ex art. 18 della l.
n. 300/1970. In questo primo ambito la non discriminazione era volta prevalentemente a far sì che il fattore religioso non fosse rilevante nel rapporto di lavoro²¹⁷. Lo si deduce anche dall’analisi di altre norme dello Statuto dei lavoratori: l’art. 8, ad esempio, vieta le indagini sulle opinioni religiose dei lavoratori e dei candidati a un impiego. Come si è visto, il diritto antidiscriminatorio oggi in vigore prevede, accanto a un divieto di discriminazione “classico”, altri strumenti di tutela “in positivo” e si configura, più che come uno strumento di riparazione di singoli comportamenti illegittimi, come uno strumento di giustizia ridistributiva. Le nuove norme, poi, puntano non solo a una parità “cieca”, garantita dall’irrilevanza della religione nel rapporto di lavoro, ma anche e soprattutto all’eliminazione degli svantaggi effettivi, derivanti talvolta dal mancato riconoscimento delle diversità. Un approccio, quest’ultimo, che è in parte rilevabile – attraverso il riferimento alla discriminazione indiretta e altre specifiche forme di tutela – nel secondo ambito di tutela antidiscriminatoria presente in Italia, e in particolare nel d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico sull’immigrazione)²¹⁸. Questo sanciva il divieto di discriminazione – diretta e indiretta – per motivi di razza, colore, ascendenza, origine nazionale o etnica, convinzioni e pratiche religiose (art. 43, n. 1); all’art. 44, inoltre, prevedeva un sistema di tutela delle vittime attraverso un procedimento atipico («azione civile contro la discriminazione») volto a facilitare la rimozione tempestiva di trattamenti svantaggiosi²¹ . I destinatari di queste disposizioni²² , come precisato dall’art. 43, n. 3, non sono solo gli immigrati, ma anche gli apolidi e i cittadini italiani e dell’Unione europea. V’è da dire che il Testo unico del 1998, espressamente dedicato alla regolamentazione dell’immigrazione, conteneva norme relative ad una molteplicità di questioni diverse e, di conseguenza, la tutela antidiscriminatoria era scarsamente visibile²²¹. Ad ogni modo esso ha il merito di introdurre un primo abbozzo di definizione di discriminazione (art. 43), compresa quella indiretta (art. 43.2, lettera e), assente invece nello Statuto dei lavoratori, e di stabilire un meccanismo di tutela che è rimasto in vigore anche dopo la trasposizione della direttiva europea (art. 44). Inoltre, nel quadro della disciplina del fenomeno migratorio, la predisposizione di norme di contrasto alla discriminazione era un segno evidente dell’esigenza di garantire la coesistenza pacifica di razze e religioni diverse e di combattere l’affermarsi di forme di razzismo, xenofobia e intolleranza religiosa. Data la sua ratio, è facilmente
comprensibile che il Testo unico, a differenza delle disposizioni originarie dello Statuto dei lavoratori, affianchi alla religione non più le opinioni politiche²²² , ma l’appartenenza razziale, etnica e nazionale: una scelta funzionale all’applicazione di questa normativa agli stranieri ed alle minoranze etniche e nazionali presenti in Italia, ma anche alla “fenomenologia” della discriminazione religiosa, spesso collegata a quella razziale²²³. Si sposta, così, l’attenzione dal piano della tutela delle opinioni individuali (politiche o religiose) del lavoratore, a quello dell’appartenenza a una religione, nazionalità o etnia, dando rilievo, almeno potenzialmente, alla dimensione collettiva di queste forme di discriminazione²²⁴. Tralasciando per il momento le norme sulla discriminazione presenti nel diritto penale, ci si può soffermare su quali siano stati i cambiamenti operati dal d.lgs. n. 216 del 2003, che ha dato attuazione alla direttiva 2000/78. Esso ha introdotto precise definizioni di discriminazione, diretta e indiretta, e di molestie, prima assenti nel nostro ordinamento; inoltre ha attribuito una nuova centralità alla materia, disciplinando in un atto apposito le diverse tipologie di discriminazione previste dalla direttiva 2000/78. Tuttavia, è opportuno osservare che, come sovente accade in Italia con la trasposizione delle norme sovranazionali, il legislatore interno si è limitato a seguire alla lettera le disposizioni della direttiva, senza operare una elaborazione concettuale approfondita, né un coordinamento con le norme previgenti. Così, se erano già presenti nel nostro ordinamento richiami alla discriminazione e talune forme di tutela in linea con quelle europee, l’intervento di trasposizione risulta disattento e determina – anziché un rafforzamento delle garanzie già stabilite – un sistema disorganico e di difficile lettura, nel quale i divieti di discriminazione sanciti dal decreto del 2003 si affiancano e si sovrappongono a quelli dello Statuto dei lavoratori e a quelli presenti nel Testo unico sull’immigrazione. Relativamente a quest’ultimo, in particolare, alcune sue disposizioni sono fatte espressamente salve dal decreto del 2003, determinando alcuni problemi di coordinamento. In primo luogo, l’art. 2.2 del d.lgs. n. 216/2003 mantiene in vigore l’art. 43, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 286/1998. Il divieto di discriminazione religiosa sancito da tale articolo continua, quindi, ad operare; tuttavia, mentre il campo di applicazione della norma del Testo unico è assai più ampio rispetto a quello coperto dalla direttiva 2000/78 e dal relativo decreto attuativo, la definizione di discriminazione è più limitata e non corrisponde a quella elaborata dal legislatore europeo. Così, chiunque potrà lamentare un caso di discriminazione religiosa non solo nel lavoro, ma anche nella fornitura di beni e
servizi, nell’accesso all’alloggio, all’istruzione, ai servizi sociali, e nelle altre ipotesi previste all’art. 43²²⁵ ; tuttavia, in questi casi dovrà far riferimento alle “vecchie” nozioni di discriminazione presenti nel Testo unico. Secondo alcuni autori²² , in realtà, le definizioni contenute nei decreti del 2003 prevarrebbero su quelle del 1998, in forza, da un lato, dei principi espressi dalla legge delega n. 39/2002 – che imponeva al Governo di adottare definizioni della discriminazione analoghe a quelle delle direttive – e dall’altro lato, nel rispetto del principio generale in base al quale gli Stati membri, qualora sia in discussione una materia disciplinata da una direttiva comunitaria, debbono interpretare il diritto interno alla luce di quest’ultima²²⁷. Tuttavia, sarebbe stato più opportuno modificare espressamente la definizione di discriminazione sancita all’art. 43, introducendovi gli elementi di novità presenti nella nozione della direttiva Ancora, il decreto del 2003 rinviava (art. 4, comma 1) all’art. 44 del Testo unico, il quale (in vigore fino a recenti modifiche²²⁸ ) prevedeva il sistema dell’azione civile contro la discriminazione, ma manteneva contemporaneamente altri schemi procedurali, determinando un meccanismo di tutela giurisdizionale poco chiaro²² . Insomma, se la trasposizione della direttiva è avvenuta riproponendo alla lettera (soprattutto per quanto riguarda le definizioni) quanto previsto a livello sovranazionale, non si è al contempo prestata attenzione alle conseguenze di questa normativa per la tutela antidiscriminatoria nel suo complesso. Non solo non si è effettuato un coordinamento con le norme previgenti, ma non si sono neanche rafforzati i mezzi di ricorso e di esecuzione della direttiva, né si è guardato al reale impatto di questa disciplina per la società. Molte sono le disattenzioni nella predisposizione di un sistema di tutela efficace delle vittime: il divieto di vittimizzazione e alcune garanzie processuali previste dalla direttiva (quali l’inversione dell’onere della prova e una legittimazione ad agire a sostegno delle vittime per un’ampia categoria di associazioni e organizzazioni) sono stati introdotti nel nostro ordinamento solo a seguito di una procedura di infrazione avviata dalla Commissione europea, a motivo della scorretta trasposizione della direttiva²³ . Inoltre, nonostante una certa apertura alla dimensione collettiva delle discriminazioni (presente ad esempio nel T.U. sull’immigrazione), i decreti del 2003 non hanno fatto i avanti su questa strada e, anzi, mantengono la tutela antidiscriminatoria ancorata ad un modello di giustizia individuale, senza fare alcun riferimento a strumenti quali le azioni positive e con aperture molto caute al ruolo delle parti sociali, che potrebbero avere un ruolo incisivo sull’effettiva realizzazione degli obiettivi di parità.
Peraltro, le azioni positive o simili interventi sarebbero pienamente conformi al modello italiano dell’uguaglianza, sensibile alla tutela delle diversità e della parità sostanziale. Si può immaginare che il legislatore interno non abbia voluto imporre ai privati oneri troppo gravosi per la tutela “in positivo” dell’uguaglianza. Un conto, infatti, è stabilire – a livello costituzionale e programmatico – che la Repubblica debba intervenire per rimuovere gli ostacoli che impediscono la realizzazione di una parità effettiva; altra cosa è prevedere che anche i soggetti privati cui si applica la normativa antidiscriminatoria siano chiamati a garantire trattamenti differenziati e promozionali dell’uguaglianza.
4.2. I CONCETTI DEL DIRITTO ANTIDISCRIMINATORIO NEL MODELLO ITALIANO DI UGUAGLIANZA: TRA ATTENZIONE PER LE DIVERSITÀ E DISATTENZIONE PER GLI STRUMENTI EUROPEI
Per quanto riguarda il quadro concettuale, il d.lgs. n. 216/2003 ripropone alla lettera, con poche modifiche, le definizioni di discriminazione e di molestia presenti nelle direttive. Se è vero, come si è visto, che le definizioni europee lasciano ben pochi margini di manovra agli Stati in fase di attuazione, una pedissequa “copiatura” da parte del legislatore italiano è probabilmente dovuta alla scarsa dimestichezza con i concetti del diritto antidiscriminatorio: infatti, nell’ordinamento italiano non esisteva una vera e propria definizione di discriminazione, se si eccettuano le norme del Testo unico sull’immigrazione, per le quali tuttavia la scarsa applicazione giurisprudenziale ha impedito un’elaborazione approfondita e un’assimilazione dei concetti in esame. Inoltre, l’iter di attuazione delle norme comunitarie, caratterizzato dalla fretta di adeguarsi nei termini agli obblighi europei, non ha consentito di riflettere a fondo sulla nozione di discriminazione e sulle sue conseguenze effettive per l’ordinamento interno. Più in particolare, la normativa italiana di attuazione ha stabilito, all’art. 2 del d.lgs. n. 216/2003, che si ha discriminazione diretta «quando, per religione, per convinzioni personali […] una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga», così riproponendo quanto previsto dall’art. 2 della direttiva 2000/78. Come si è visto, la definizione europea ha introdotto una nozione oggettiva di discriminazione, che si sostanzia nell’irrilevanza dell’intenzionalità dell’atto e nella punibilità di trattamenti svantaggiosi – più che diseguali – che si verificano anche qualora vi sia un formale rispetto dell’uguaglianza. Nella legislazione interna previgente era già rilevabile la connotazione negativa e oggettiva della discriminazione, tipica del diritto dell’UE²³¹ : ad esempio, l’art. 4 della legge n. 125/1991 sulla parità tra uomo e donna individuava la discriminazione in un trattamento «pregiudizievole», ovvero sfavorevole, e non dava rilievo all’intenzionalità dell’atto (si parlava, infatti, di «effetto pregiudizievole» di un atto o di un comportamento)²³². Anche l’art. 43 del d.lgs. n. 286/1998 (Testo unico sull’immigrazione), al primo comma si riferisce non tanto ad una
differenza di trattamento²³³ , ma ad una «distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose»; i trattamenti di sfavore così individuati saranno considerati discriminatori quando abbiano «lo scopo o l’effetto […] di compromettere il riconoscimento o il godimento» dei diritti fondamentali²³⁴. Il comma 2, lettera e, del medesimo articolo 43 – utilizzando lo schema dell’art. 4 della l. n. 125/1991 – definisce poi la discriminazione razziale e religiosa nell’ambito del lavoro: questa è integrata da «qualsiasi atto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando, anche indirettamente, i lavoratori in ragione della loro appartenenza ad una razza, ad un gruppo etnico o linguistico, ad una confessione religiosa, ad una cittadinanza […]». Il decreto del 2003, ora, ricalcando le disposizioni della direttiva europea, stabilisce che il trattamento meno favorevole debba essere «sulla base della religione», senza prevedere, quindi, che debba essere dimostrata una motivazione soggettiva dell’atto. Da sottolineare, a questo proposito, che la giurisprudenza relativa allo Statuto dei lavoratori (e in particolare alle condotte antisindacali) è arrivata molto tardi ad affermare l’irrilevanza dell’intenzionalità dell’azione discriminatoria e, anzi, in alcuni casi l’approccio soggettivo ha continuato ad essere presente nel ragionamento dei giudici²³⁵. Come si vedrà, talvolta questo “vecchio” approccio continua a viziare l’applicazione delle norme antidiscriminatorie, nonostante le innovazioni di cui al decreto del 2003. Un altro aspetto riguarda la sovrapposizione delle due definizioni di discriminazione, quella di cui al Testo unico e quella “nuova” del d.lgs. n. 216/2003. Se sotto il profilo dell’intenzionalità, come già detto, esse sono analoghe, quella del 1998 non prevede gli stessi criteri relativamente al momento comparativo: manca, in particolare, il riferimento al raffronto con situazioni ipotetiche. Poiché l’art. 43 del Testo unico è mantenuto in vigore dall’art. 2.2 del d.lgs. n. 216/2003, si è di fronte a due diverse definizioni della discriminazione che hanno pari rango, riguardano gli stessi fattori di rischio (la razza e la religione) e insistono sullo stesso settore (l’ambito del lavoro)²³ . La scelta di utilizzare l’una o l’altra determinerà, pertanto, possibilità più o meno ampie di provare la discriminazione, avvalendosi o meno della comparazione “virtuale”. Come si è già notato, parte della dottrina ha sostenuto che la nozione contenuta nei decreti del 2003 debba prevalere sull’altra²³⁷ ; in quest’ottica, la salvaguardia del disposto dell’art. 43 del d.lgs. 286/1998 avrebbe il risultato di mantenere in vigore il divieto di discriminazione razziale e religiosa anche al di fuori del solo
settore del lavoro, ma non anche quello di far salva una definizione della discriminazione più limitata e meno favorevole alle vittime²³⁸. ando all’esame della discriminazione indiretta, anche in questo caso si è scelto di seguire la formulazione europea, introducendola però con alcuni errori di trasposizione. Una previgente definizione della discriminazione religiosa indiretta è rintracciabile nell’art. 43.2, lettera e, del T.U. sull’immigrazione, per il quale deve ritenersi tale «ogni trattamento pregiudizievole conseguente all’adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori appartenenti ad una determinata razza, ad un determinato gruppo etnico o linguistico, ad una determinata confessione religiosa […] e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa». Questa nozione è superata da quella europea sotto diversi profili: anzitutto, si fa riferimento a uno svantaggio quantitativo, mentre la direttiva ha eliminato la necessità di ricorrere a dati statistico-matematici per la dimostrazione di una discriminazione. Inoltre non si è ancora affermata un concetto ampio della discriminazione indiretta, volto a colpire le norme e le “strutture” sociali neutre ma svantaggiose: si parla, infatti, unicamente di criteri (e non anche di disposizioni o prassi) che creano uno svantaggio, giustificabili se costituiscono un requisito lavorativo²³ . Nel d.lgs. n. 216/2003 il legislatore italiano ha utilizzato la stessa formulazione della norma europea, adeguandosi a quest’ultima in entrambi gli aspetti ora descritti (collegamento della discriminazione indiretta all’esistenza di un «particolare svantaggio», non necessariamente numerico; riferimento a norme, prassi e non solo criteri neutri). La norma del testo unico del ’98 è, tuttavia, mantenuta in vigore dall’art. 2.2 del d.lgs. n. 216/2003, determinando i medesimi problemi di coordinamento di cui si è detto a proposito della definizione della discriminazione diretta. Anche in questo caso la disposizione più risalente risulta meno favorevole alle vittime (ad esempio, per la necessità di usare dati statistici, non sempre a disposizione²⁴ ), ma non è stata formalmente superata da quella introdotta con i decreti del 2003, imponendo all’interprete difficili esercizi di «chirurgia giuridica»²⁴¹. Peraltro, se le direttive parlano genericamente di un «particolare svantaggio», misurabile anche attraverso criteri non quantitativi, non specificano, invece, come si debba individuare detto svantaggio, lasciando la decisione al legislatore e al giudice interno²⁴². In Italia, il decreto attuativo non ha specificato nulla in merito; la scarsa precisione nella definizione di questi criteri si accompagna, poi,
con la scarsa utilizzazione del concetto nella giurisprudenza, che non consente di comprendere appieno l’applicazione di questo divieto. Quanto alla giustificazione della discriminazione indiretta, prevista quando una misura neutra risulti «oggettivamente giustificata da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari» (art. 2.2, lettera b, della direttiva 2000/78), questa parte della norma è stata trasposta in modo non corretto nel nostro Paese. Il d.lgs. 216/2003 prende in considerazione la questione all’art. 3.6, stabilendo che «non costituiscono, comunque, atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2 quelle differenze di trattamento che, pur risultando indirettamente discriminatorie, siano giustificate oggettivamente da finalità legittime perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari». In primo luogo, la norma sulla giustificazione è stata – senza alcuna evidente ragione – inserita in un articolo diverso rispetto a quello che definisce la discriminazione, così che il bilanciamento tra il divieto in esame e la possibilità di giustificazione della misura neutra risulta di difficile lettura²⁴³. Probabilmente si è voluto assimilare detta possibilità a una deroga al divieto di discriminazione: infatti l’art. 3 del decreto elenca tutte le eccezioni al principio della parità di trattamento, consentite dalle direttive. I criteri di giustificazione di cui stiamo trattando, tuttavia, a differenza delle deroghe stricto sensu, non individuano ipotesi nelle quali i divieti in esame non si applicano, ma servono a delimitare il concetto di discriminazione indiretta. In secondo luogo, e dal punto di vista più strettamente letterale, il legislatore italiano ha fatto riferimento a situazioni che già risultano discriminatorie e che pertanto non possono – come vorrebbe la norma in esame – non costituire discriminazione²⁴⁴. La disattenzione riguardo al corretto drafting di questa norma appare ancor più evidente se si considera che il divieto di discriminazione indiretta non riguarda «differenze di trattamento», ma proprio la situazione opposta, ovvero una illegittima neutralità. Per quanto riguarda, infine, il concetto di molestie, anche in questo caso si è riproposto alla lettera il dettato della direttiva, introducendo, così, nell’ordinamento italiano una nozione di sufficientemente ampia e flessibile, diretta ad inibire un gran numero di comportamenti contrari alla dignità dei lavoratori²⁴⁵. Ricalcando la disposizione comunitaria, il divieto di compiere molestie sancito all’art. 2.3 del d.lgs. n. 216/2003 si applica a generici «comportamenti indesiderati», per la cui individuazione si prescinde sia da un giudizio comparativo, sia dalla dimostrazione dell’intenzionalità dell’azione²⁴ . Riferendosi alla compromissione della dignità personale e alla sussistenza di un «clima intimidatorio, ostile, degradante od offensivo», la norma in esame
permette alla vittima di addurre una pluralità di circostanze a dimostrazione del danno subito e non esclude che possa essere considerata in giudizio anche la personale percezione del contesto offensivo²⁴⁷. Parte della dottrina ritiene che una simile impostazione finisca coll’attribuire un’eccessiva importanza al punto di vista delle vittime²⁴⁸ , costruendo una nozione soggettiva delle molestie che finirebbe per limitare l’esercizio di altre libertà, al fine di proteggere anche una particolare sensibilità delle vittime²⁴ . Ciò è particolarmente rilevante rispetto al fattore religioso, dato che anche semplici espressioni di dissenso relative ad una determinata confessione – normalmente tutelate in quanto manifestazioni del pensiero – potrebbero contribuire a creare un clima ostile ed umiliante per alcuni lavoratori²⁵ . In questo senso, occorre guardare anche agli elementi oggettivi della nozione di molestie: in base al citato art. 2.3 i comportamenti vietati non sono meramente «indesiderati», ma implicano la violazione della dignità della persona e determinare un ambiente di lavoro «ostile, degradante, umiliante od offensivo», elementi, questi, desumibili da una valutazione ampia delle circostanze nelle quali si è attuata la molestia, e non dal mero sentire della vittima²⁵¹. Qualche precisazione in più potrebbe derivare dalla giurisprudenza che, tuttavia, non si è trovata ad affrontare per il momento il tema delle molestie a caratterizzazione religiosa; l’orientamento giurisprudenziale e legislativo precedente le direttive (quello, cioè, relativo alle molestie sessuali) sembrava prediligere la visione soggettiva di questi comportamenti, andando a tutelare la posizione (e la sensibilità) di soggetti ritenuti deboli²⁵².
4.3. DISCRIMINAZIONE RELIGIOSA E DIRITTO PENALE: UN ULTERIORE AMBITO DI TUTELA?
Si è già fatto cenno ad un terzo ambito nel quale si può segnalare la presenza di norme rilevanti per combattere la discriminazione religiosa: la legislazione penale. Questo ambito rimane estraneo all’intervento di derivazione europea e non è modificato dall’attuazione delle direttive; tuttavia una breve descrizione delle norme in vigore può servire a meglio comprendere l’atteggiamento generale dell’ordinamento italiano rispetto alla questione della discriminazione razziale e religiosa. La norma chiave è da individuarsi all’interno della legge 13 ottobre 1975, n. 654 che ha ratificato la Convenzione ONU sulla discriminazione razziale (CERD), prevedendo all’art. 3, 1° comma la punibilità di chi diffonde idee fondate sulla superiorità di una razza o sull’odio razziale o incita a commettere o commette atti di violenza o discriminazione motivata dall’appartenenza ad una razza, etnia o nazionalità²⁵³ ; una disposizione particolarmente significativa, se si considera il silenzio nel codice penale relativamente alle condotte discriminanti²⁵⁴. La norma, rimasta in una sorta di limbo operativo, è stata ritoccata e rivitalizzata dalla legge 25 giugno 1993, n. 205 (nota come «legge Mancino») che ha convertito con modifiche il decreto legge 26 aprile 1993, n. 122, Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa²⁵⁵ , proponendo tra l’altro due elementi di novità: l’introduzione dell’elemento religioso tra i fattori che possono determinare atti discriminatori vietati e la punibilità non solo dell’incitamento a discriminare, ma anche dei singoli atti di discriminazione razziale o religiosa. Relativamente al primo è importante sottolineare come nelle scelte del legislatore italiano fosse emerso l’accostamento tra razza e religione, in linea con la tendenza internazionale a disciplinare congiuntamente queste due forme di discriminazione. La riproposizione di detto binomio nella legge n. 205/1993 giunge, peraltro, successivamente alla legge n. 101/1989 di approvazione dell’intesa con le Comunità ebraiche, il cui articolo 2 al quinto comma²⁵ già precisava che «il disposto dell’articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, si intende riferito anche alle manifestazioni di intolleranza e pregiudizio religioso». A questa affermazione pare doversi attribuire un valore erga omnes, nonostante
la sua collocazione in una norma pattizia – volta, probabilmente, a sottolineare la specificità delle comunità ebraiche, strutturate su base etnica e religiosa²⁵⁷. Di questo significato non ha tenuto conto il legislatore del 1993, che ha, infatti, emendato l’art. 3 della legge del 1975 citata, inserendovi espressamente il riferimento all’elemento religioso, come se non fosse stata sufficiente la clausola dell’art. 2.5 dell’intesa²⁵⁸. Come si è visto, nel momento della trasposizione delle direttive il legislatore italiano non ha disciplinato congiuntamente le due tipologie di discriminazione, ma ha riaffermato l’ipotesi di dover affrontare discriminazioni razziali a carattere religioso²⁵ . Quanto alle condotte previste, la legge Mancino del 1993, modificando l’art. 3, 1° comma lett. a) della legge n. 654/1975, ha ipotizzato tre autonome figure penalmente rilevanti: la diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziali; l’incitamento a commettere discriminazioni per motivi razziali, etnici, religiosi, nazionali; i singoli atti di discriminazione, fondati sui medesimi motivi² . Il fattore religioso non viene menzionato nella prima fattispecie, rispetto alla quale – tenuto conto della necessità di operare un bilanciamento con il diritto di libertà di espressione² ¹ e della generale prudenza del legislatore nel reprimere i cosiddetti “reati di opinione” – si è scelto di fare riferimento soltanto alla diffusione di idee particolarmente esecrabili, come quelle razziste² ². Si deve ricordare, però, che in base all’intesa con le comunità ebraiche, è l’intero art. 3 – compresa, quindi, l’ipotesi di diffusione delle idee – a dover essere interpretato estensivamente, includendovi le manifestazioni di intolleranza e di pregiudizio religiosi² ³. Per quanto concerne invece le altre due condotte, la legge in esame non specifica cosa si debba intendere per discriminazione. L’assenza di una definizione è – come già osservato – una caratteristica della legislazione antidiscriminatoria italiana precedente le direttive; ciò nonostante la non chiara tipizzazione delle condotte che la integrano dal punto di vista del diritto penale pone indubbiamente qualche problema rispetto al principio di determinatezza² ⁴. A questo aspetto si debbono aggiungere l’inadeguata gradualità delle sanzioni² ⁵ e la scelta di aver previsto la discriminazione come aggravante di ipotesi già previste dal codice penale² : tutti elementi che portano ad individuare nella normativa in esame un classico esempio di uso “simbolico” del diritto penale² ⁷. Siamo, infatti, in presenza di disposizioni elaborate dietro la spinta di motivazioni contingenti, con la previsione di sanzioni esemplari, ma difficilmente comminabili a causa della non sempre chiara costruzione delle fattispecie vietate. La scarsissima applicazione di questa disciplina da parte della giurisprudenza – nonostante i fenomeni di discriminazione e razzismo siano
tutt’altro che diminuiti – dimostra tutta la debolezza di questo impianto. E se in parte ciò può essere attribuito alla scarsa idoneità del diritto penale nella lotta alle discriminazioni (emersa anche dall’analisi della legislazione se), un simile insuccesso si lega anche all’atteggiamento del legislatore italiano nell’affrontare questi fenomeni, contraddistinto da incertezze e repentine inversioni di rotta. Più di recente, ad esempio, l’art. 13 della legge 24 febbraio 2006, n. 85, nel quadro di un complessivo ridimensionamento dei reati di opinione² ⁸ , ha modificato l’art. 3 della l. n. 654/1975, determinando – al contrario di quanto aveva previsto la legge Mancino – un abbassamento dei livelli di tutela² : si è ati, ad esempio, dalla originaria incriminazione della «diffusione» di idee razziste, al più ristretto divieto della «propaganda»²⁷ ; inoltre, per quanto concerne i reati di discriminazione e di istigazione a discriminare, sono state ridotte le pene edittali con un’evidente incidenza sull’effetto generale preventivo²⁷¹. Anche quest’ultimo intervento, anziché segnare l’avvio di un generale ripensamento sull’adeguatezza del diritto penale ad affrontare la tutela dalle discriminazioni, sembra essere il sintomo di una tendenza tutta italiana a minimizzare tali problematiche²⁷² , come confermano anche gli orientamenti giurisprudenziali (non privi di incertezze ed oscillazioni)²⁷³ , nonché alcuni fatti d’attualità²⁷⁴. Così, mentre l’uso del diritto penale da parte del legislatore interno appare sempre più marcato da spinte emotive (nel 1993, dalla volontà di mostrare la forza contro la recrudescenza del razzismo, nel 2006 da quella di nascondere la diffusione di sentimenti xenofobi e intolleranti, anche per motivazioni politiche), il quadro normativo complessivo sembra caratterizzato da una sordità all’esigenza di disciplinare in modo organico e deciso la lotta alle discriminazioni²⁷⁵ , tenendo conto della crescente difficoltà di gestire i flussi migratori e di favorire l’integrazione delle minoranze etniche e religiose.
5. TRE MODELLI DI UGUAGLIANZA, UN SOLO MODELLO DI ANTIDISCRIMINAZIONE?
Al termine di questa ricognizione del quadro normativo sulla discriminazione religiosa di Italia, Francia e Regno Unito, nella quale si è prestata particolare attenzione ai principali concetti chiave, si può provare a sintetizzare le caratteristiche delle definizioni nazionali e a prevederne alcune implicazioni per la libertà religiosa. Tali definizioni coincidono in larga parte con quelle sancite dalle direttive europee, ma presentano alcune differenziazioni – pur minime – derivanti dai contesti nei quali sono inserite e dai diversi modelli di uguaglianza. Un primo punto riguarda la caratterizzazione oggettiva o soggettiva della discriminazione. La prima è evidente nel Regno Unito e nel diritto dell’Unione (influenzato da quello britannico). Dal carattere oggettivo dell’atto discriminatorio deriva un approccio attento alle disparità “di fatto”, che si esprime in una nozione centrata sul momento comparativo, volto a individuare lo svantaggio più che la motivazione che vi sta alla base. Da questo modello, ci si può attendere una prassi che offre particolari garanzie di parità, in senso ridistributivo/sostanziale, perché non limitata alla valutazione dei singoli atti illegittimi²⁷ . Una nozione soggettiva era invece presente in Francia e (in minor misura) in Italia, prima della trasposizione delle direttive. Se queste ultime hanno portato anche questi due Paesi verso il modello oggettivo dell’antidiscriminazione, è prevedibile che la giurisprudenza esprima ancora un’interpretazione in continuità con i vecchi concetti, rimanendo ancorata a una lettura individuale dell’atto discriminatorio e a un impianto risarcitorio, anziché ridistributivo, di questa materia. Ciò a maggior ragione se si considera che le definizioni previgenti sopravvivono in alcuni settori del diritto nazionale²⁷⁷. Un secondo aspetto da sottolineare è l’introduzione del divieto di discriminazione indiretta. Se nel Regno Unito esso era già presente prima delle direttive, per la Francia si tratta di un’assoluta novità introdotta con il recepimento delle regole europee – peraltro in contrasto con la lettura tradizionale dell’uguaglianza – e in Italia si è codificato un concetto innovativo, anche se non del tutto sconosciuto al nostro ordinamento.
L’estraneità della Francia a questa nozione si ricollega a quanto detto circa il carattere soggettivo e risarcitorio dei divieti di discriminazione previgenti, volti a reprimere singoli atti discriminatori, anziché a valutare le eventuali disparità di fatto derivanti anche da prassi o da disposizioni normative (queste ultime misurate, invece, con i parametri classici dell’égalité)²⁷⁸. A dispetto della formale previsione del divieto di discriminazione indiretta, l’approccio se sarà caratterizzato da una scarsa applicazione di questo concetto e da una preferenza per gli strumenti più tradizionali dell’antidiscriminazione, in linea con l’accezione prevalentemente formale dell’uguaglianza. Per quanto riguarda Italia e Regno Unito, l’analisi della prassi potrà svelare i diversi gradi di attenzione alle diversità religiose che il divieto di discriminazione indiretta implica. In particolare, i criteri di giustificazione delle misure neutre potranno comportare una più o meno ampia capacità di difendere i trattamenti omogenei o, al contrario, di prendere in considerazione le differenze religiose che si esprimono soprattutto nell’ambito del lavoro, campo di azione principale di queste norme. Accanto ad un’attenzione per le diversità, questa nozione attribuisce ai giudici il compito di individuare, nei casi concreti, un equilibrio tra il diritto di libertà religiosa (con l’espressione delle diversità) e altri diritti e interessi in gioco, in primis – ma non unicamente – quelli del datore di lavoro. Un altro punto che è emerso dall’analisi precedente è la coesistenza di definizioni diverse in alcuni Stati, soprattutto in Italia (dove si fanno salve le definizioni contenute nel T.U. sull’immigrazione del 1998) e in Francia (dove rimane in vigore la definizione di discriminazione di cui al codice penale e la definizione di molestia presente nel codice del lavoro e non modificata dall’ultima legge del 2008). Ciò può essere una spia della scarsa attenzione per la trasposizione degli obblighi sovranazionali ma anche di un peculiare approccio alle norme che affrontare i problemi di gestione delle diversità. Per quanto riguarda l’Italia, ad esempio, è possibile rintracciare un atteggiamento schizofrenico che vede, da un lato, lo sviluppo di un quadro concettuale antidiscriminatorio ormai piuttosto consolidato e in linea con le norme europee, dall’altro una serie di altri interventi – legislazione locale, prassi amministrativa o, come vedremo, anche in giurisprudenza – che tendono alla difesa di altri valori, anche se nel rispetto formale dell’uguaglianza²⁷ . Del pari, il recepimento disattento di concetti che avrebbero un grande potenziale per la tutela delle diversità costituisce, certo, una negligenza, ma potrebbe anche nascondere la volontà di non misurarsi seriamente con la gestione del pluralismo (etnico e
confessionale). Se, quindi, le nozioni sancite dalle direttive sono inserite con termini simili nelle varie legislazioni nazionali, tuttavia i diversi modelli dell’uguaglianza sembrano giocare un ruolo nella configurazione di tali norme. Le differenze, poi, emergeranno nell’applicazione concreta dei concetti appena descritti, come si vedrà nel capitolo seguente. A livello normativo, ci si soffermerà ora sul tema delle organizzazioni di tendenza e dei requisiti occupazionali, un ambito nel quale è prevedibile riscontrare maggiori discrepanze nell’attuazione della direttiva, giacché quest’ultima lascia liberi gli Stati di prevedere o meno eccezioni al divieto di discriminazione.
6. DOVE I MODELLI SI DISTINGUONO: REQUISITI OCCUPAZIONALI E ORGANIZZAZIONI DI TENDENZA
La direttiva 2000/78 riconosce la possibilità di operare alcune eccezioni al principio della parità di trattamento nell’ambito del rapporto di lavoro. Come si è già visto²⁸ , l’art. 4 prevede due tipi di deroghe: il primo paragrafo consente un trattamento differenziato fondato, tra l’altro, sulla religione, nel caso dei cosiddetti «requisiti occupazionali» («genuine occupational requirement»); il secondo paragrafo autorizza gli Stati a stabilire eccezioni al divieto di discriminazione religiosa in favore delle organizzazioni di tendenza. La norma lascia ampia libertà al legislatore interno nel disciplinare le deroghe in questione e si presta, stante l’indeterminatezza nella sua formulazione, a molteplici interpretazioni²⁸¹. Pertanto, i tre Stati hanno dato attuazione a queste previsioni secondo modalità diverse, e non sempre col rigore previsto dalla direttiva («in casi strettamente limitati», secondo il preambolo), con il rischio di ridurre anche notevolmente l’efficacia della tutela antidiscriminatoria. Le scelte relative a questo tema specifico ci consentono di osservare le ripercussioni del diritto antidiscriminatorio su un settore del diritto che riguarda da vicino le confessioni religiose: in particolare, le deroghe in favore delle organizzazioni di tendenza sono volte a garantire l’autonomia e la libertà di enti religiosamente caratterizzati e possono incidere, in ultima analisi, su alcuni aspetti della libertà religiosa esercitata in forma collettiva.
6.1. LA QUESTIONE DEI REQUISITI OCCUPAZIONALI
Prima di esaminare la questione delle organizzazioni di tendenza, è opportuno qualche rilievo sull’attuazione dell’art. 4.1 della direttiva, anche per chiarire che cosa si intenda per «requisito occupazionale» e per vederne le conseguenze in materia religiosa²⁸². L’art. 4.1 consente di temperare il principio di parità di trattamento del lavoratore, quando per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, la religione costituisce «un requisito essenziale e determinante» per il suo svolgimento, purché «la finalità sia legittima e il requisito proporzionato». Il legislatore comunitario, dettando le condizioni in base alle quali è possibile derogare al divieto di discriminazione, ha individuato una clausola generale, applicabile ogni volta che una determinata caratteristica del lavoratore appaia necessaria per il corretto svolgimento di una mansione. In questa cornice, spetta agli Stati membri precisare in quali «contesti» e per quali tipi di attività la religione rappresenti un requisito occupazionale ai sensi della direttiva. Occorre osservare che tale precisazione dovrà essere operata necessariamente caso per caso, visto che – almeno per quanto concerne i tre Stati in esame – nella normativa di attuazione è stata inserita una disposizione del tutto analoga a quella contenuta all’art. 4.1. Non sempre, peraltro, questa materia era stata regolata in questo modo. In alcuni casi, anziché disporre generici criteri in base ai quali ammettere eccezioni ai divieti di discriminazione, si prevedeva un numerus clausus di requisiti occupazionali consentiti, restringendo notevolmente la facoltà di derogare al principio di parità di trattamento. Ad esempio, nelle norme nazionali sulla discriminazione fondata sul sesso e sulla razza era presente un elenco di professioni o di mansioni le cui peculiari caratteristiche permettevano deroghe ai relativi divieti²⁸³ : un caso riguardava la possibilità di selezionare attori appartenenti ad una determinata etnia, in ragione del ruolo che dovevano impersonare. Tale approccio era seguito anche dalle direttive comunitarie più risalenti, in primis nella n. 76/207 sulla parità tra uomini e donne che, autorizzando gli Stati membri ad escludere dall’applicazione del divieto di discriminazione le attività professionali «per le quali, in considerazione della loro natura o delle condizioni per il loro esercizio, il sesso rappresenti una condizione determinante», stabiliva, all’art. 9, che il legislatore interno specificasse espressamente tali attività e valutasse periodicamente l’opportunità,
«tenuto conto dell’evoluzione sociale, [di] mantenere le esclusioni in questione». Nelle direttive del 2000 non c’è traccia di simili disposizioni; da un lato, infatti, la determinazione a priori di un elenco di requisiti occupazionali relativi a ciascun fattore di discriminazione sarebbe stata assai difficoltosa, dall’altro è plausibile che il legislatore europeo abbia voluto lasciare una maggior discrezionalità agli Stati, soprattutto nel disciplinare il rapporto di lavoro in relazione a caratteristiche personali particolarmente delicate. In occasione della trasposizione delle direttive, gli Stati hanno adottato norme sufficientemente flessibili da ammettere ampiamente la presenza di requisiti occupazionali. In Italia, la formulazione dell’art. 4.1 della direttiva è riproposta dall’art. 3.3 del d.lgs. n. 216/2003, come modificato dalla legge n. 101 del 2008. Quest’ultima, in particolare, ha inserito nell’art. 3.3 il riferimento – prima assente – alla pertinenza dei requisiti occupazionali ad uno scopo legittimo; inoltre, ha soppresso la disposizione che consentiva di valutare la presenza di alcune caratteristiche ai fini dell’impiego nelle forze dell’ordine e di polizia, senza che ciò costituisse discriminazione: una specificazione superflua, poiché anche per quel caso era sufficiente la clausola generale sui genuine occupational requirements²⁸⁴. Al di là di queste marginali variazioni rispetto alla disposizione comunitaria, il legislatore italiano ha scelto di non precisare cosa debba intendersi per «natura» o «contesto» dell’attività lavorativa, alimentando così – anche alla luce del successivo art. 3.5, marcato, come vedremo, da rilevanti imprecisioni – il rischio che interpretazioni poco rigorose della disposizione possano restringere la protezione dalla discriminazione²⁸⁵. Spetta, pertanto, al giudice stabilire un corretto equilibrio tra l’obiettivo della parità e le pretese del datore di lavoro in merito alle qualità personali collegate ai fattori di discriminazione vietati; un’operazione che deve essere comunque svolta alla luce della direttiva, ovvero limitando tali pretese a casi strettamente necessari²⁸ . In questa direzione sembra già essersi orientata da tempo la giurisprudenza, chiamata a risolvere casi di contrasto tra comportamenti (o interessi) del lavoratore e adeguamento di quest’ultimo alle esigenze dell’impresa: al di là della diversità dei giudizi sui casi concreti, si tende solitamente a verificare la reale pertinenza dei «requisiti» imposti dall’azienda alla natura della prestazione, privilegiando, in caso contrario la libertà personale²⁸⁷. L’attenzione per la tutela del diritto di libertà religiosa del lavoratore è emersa principalmente in merito ai rapporti di lavoro nelle organizzazioni di tendenza, ambito di centrale rilevanza per l’operatività dei requisiti occupazionali di natura religiosa²⁸⁸. Questi ultimi,
tuttavia, possono investire tutte le mansioni “ideologiche”, che siano svolte o non all’interno di organizzazioni religiosamente orientate²⁸ . In Francia, precedentemente all’attuazione delle direttive, le norme sulla discriminazione non prevedevano niente in specifico sui genuine occupational requirements² . È solo con la legge n. 496-2008 che viene introdotta una apposita disposizione in merito, in base alla quale il principio di parità «ne fait pas obstacle aux différences de traitement fondées sur les motifs visés à l'alinéa précédent lorsqu’elles répondent à une exigence professionnelle essentielle et déterminante et pour autant que l’objectif soit légitime et l’exigence proportionnée». Conformemente all’articolo 4.1 della direttiva, le «exigences professionnelles» debbono risultare essenziali e determinanti, rispettare il criterio di proporzionalità ed essere collegate a una finalità legittima; nella norma se non si fa cenno, invece, al contesto e alla natura dell’impiego, che dovrebbero circoscrivere l’applicazione delle eventuali deroghe ai divieti di discriminazione. Ciò potrebbe comportare un’interpretazione ampia di tali eccezioni, considerato il significato impreciso e potenzialmente onnicomprensivo dell’espressione «esigenze professionali». A complicare il quadro e a renderlo ancor più sfuggente rispetto alla garanzia della non discriminazione, contribuisce l’esistenza di una clausola generale, il già citato art. 1121-1 del Code du travail² ¹ , che consente di porre limitazioni ai diritti fondamentali del lavoratore – dunque anche alla parità di trattamento in materia religiosa – qualora siano giustificate dalla «nature de la tâche à accomplir» e proporzionali all’obiettivo perseguito dall’impresa. Natura della mansione e criterio di proporzionalità evidenziano una certa assonanza con le previsioni sui requisiti occupazionali, individuando, tuttavia, criteri più flessibili rispetto a queste ultime per giustificare le pretese del datore di lavoro. La giurisprudenza che ha utilizzato l’art. 1121-1 nella ricerca di un contemperamento tra gli interessi del lavoratore e quelli dell’impresa, rivela la scarsa propensione del diritto se a privilegiare i primi rispetto ai secondi² ². È, dunque, concreto il rischio che interpretazioni non rigorose dei genuine occupational requirements finiscano per tutelare il versante aziendale e per limitare la portata della legislazione antidiscriminatoria. Anche il Regno Unito ha seguito il modello comunitario, prevedendo i requisiti occupazionali come eccezioni al principio di parità. Le leggi sulla discriminazione hanno introdotto, così, una disposizione di carattere generale relativa ai G.O.R. (genuine occupational requirement, nell’acronimo utilizzato nel mondo anglosassone), sul modello dell’art. 4.1 della direttiva 2000/78² ³. In
particolare, l’art. 7 dei Regolamenti del 2003 stabiliva che i divieti di discriminazione non si applicano quando, tenuto conto della natura dell’impiego o del contesto nel quale viene svolto, l’appartenenza (o la non appartenenza) a una determinata religione rappresenti un requisito occupazionale essenziale, determinante e proporzionato al caso concreto² ⁴. Nella disciplina vigente, stabilita dall’Equality Act 2010, ciascun fattore di rischio contemplato dalla legge – tra cui la religione – può essere oggetto di un «requisito occupazionale», necessario per lo svolgimento di una mansione, tenuto conto della natura e del contesto lavorativo² ⁵. Nell’operare l’armonizzazione delle disposizioni previgenti, sono state inserite alcune puntualizzazioni: da un lato, si è precisato che il requisito deve essere un mezzo proporzionato per raggiungere uno scopo legittimo; dall’altro, che spetta al datore di lavoro dimostrare che tale requisito era conforme alla legge e non integrava una discriminazione² . Inoltre, come già nei regolamenti del 2003, i requisiti occupazionali permettono di derogare soltanto al divieto di discriminazione e non anche a quello di arrecare molestie o ad altri comportamenti vietati dalla legge (ad esempio la vittimizzazione)² ⁷. Una precisazione che manca negli altri ordinamenti considerati² ⁸ , benché sia desumibile dal nesso logico che intercorre tra il concetto di «requisito occupazionale» e quello di discriminazione nel rapporto di lavoro. Dall’analisi delle norme dei tre Stati emerge che, sebbene con qualche variante, i requisiti in esame non possono che essere applicati in ipotesi ben precise, quando strettamente pertinenti al lavoro svolto e nel rispetto delle condizioni rigorose richieste dalla direttiva. Entro questi rigidi confini, un requisito occupazionale relativo alla religione sarà difficilmente configurabile² (almeno al di fuori delle organizzazioni di tendenza), poiché raramente in un ambiente lavorativo “neutro” sono presenti mansioni tali da richiedere necessariamente l’appartenenza religiosa³ . È però vero che, in tempi di rivendicazione di peculiari esigenze religiose (anche) nell’ambito di lavoro, si potrebbe pretendere la “non appartenenza” ad una religione, così da evitare, ad esempio, di assumere qualcuno che poi rifiuti di maneggiare determinate sostanze o cibi, o che rifiuti di lavorare in alcuni giorni od orari. In queste ipotesi, tuttavia, sembra più opportuno collocare il contemperamento tra gli interessi datoriali e quelli del lavoratore nella cornice del concetto di discriminazione indiretta, piuttosto che in quello dei requisiti occupazionali: questi ultimi, infatti, si configurano come una sorta di condicio sine qua non per lo svolgimento della mansione³ ¹ , molto difficile da applicare ad esempi come quelli sopra citati. Più plausibilmente, si tratterà di regole generali (ad esempio l’orario di lavoro, uguale per tutti), che potranno svantaggiare gli appartenenti ad una religione rispetto ad altri,
individuando così un’eventuale discriminazione indiretta. Le possibilità di giustificare trattamenti sfavorevoli variano a seconda che si applichi la norma sulla discriminazione indiretta (per la quale un comportamento deve essere oggettivamente giustificato da una finalità legittima ed essere appropriato e necessario per il suo raggiungimento) oppure quella sui requisiti occupazionali (che per essere legittimi debbono essere essenziali e determinanti per lo svolgimento di una mansione, tenuto conto della natura e del contesto in cui vengono applicati; perseguire una finalità legittima ed essere ad essa proporzionali). La pertinenza a una particolare mansione sembra essere il tratto caratterizzante di questi ultimi, mentre eventuali discriminazioni indirette emergono dai comportamenti e dalle norme che regolano nel complesso il mercato del lavoro, consentendo una tutela più ampia delle esigenze aziendali³ ².
6.2. L’APPLICAZIONE DELLA DEROGA EX ART. 4.2 DELLA DIRETTIVA: LE ORGANIZZAZIONI DI TENDENZA
I requisiti occupazionali finora descritti assumono un rilievo particolare nell’ambito delle attività «di chiese o di altre organizzazioni pubbliche o private la cui etica è fondata sulla religione o sulle convinzioni personali» (art. 4.2 della direttiva 2000/78). In questo caso, infatti, il contemperamento tra gli interessi del lavoratore e quelli dell’impresa deve tener conto degli obiettivi perseguiti da quest’ultima, anch’essi collegati alla religione e solitamente tutelati da parte degli Stati in quanto espressione degli interessi dei cosiddetti “corpi intermedi”. Appare, dunque, coerente che rispetto alle organizzazioni di tendenza, portatrici di interessi di tipo religioso, il legislatore comunitario abbia previsto criteri meno rigidi per la valutazione della legittimità dei requisiti occupazionali³ ³. La redazione della norma, lasciando ampia discrezionalità agli Stati membri nella specificazione di questa disciplina, consente di stabilire regimi derogatori anche molto estesi, che rischiano di ridurre notevolmente la portata del principio di parità. In particolare, come già notato, la direttiva attribuisce agli Stati il compito di precisare quali soggetti sono compresi nella categoria delle «chiese ed organizzazioni» eticamente fondate, per quali attività professionali sono applicabili le deroghe in questione³ ⁴ , quale sia il rapporto tra la tutela della “tendenza” e quella del lavoratore – tenuto conto dell’assenza del criterio di proporzionalità, che solitamente ispira le decisioni in questo settore ³ ⁵.
Non sempre gli Stati sono apparsi all’altezza del compito loro
affidato. In Italia, ad esempio, una disattenta trasposizione della direttiva ha stravolto la dicitura «organizzazioni la cui etica è fondata su una religione», a favore di un insieme eccessivamente ampio di soggetti legittimati a non applicare i divieti di discriminazione³ . In Francia, poi, si è scelto di non dettare specifiche norme in materia, con il rischio che la discrezionalità del giudice sia ampia e finisca per garantire la “tendenza” piuttosto che i diritti dei lavoratori. La direttiva, tuttavia, pur lasciando piena facoltà agli Stati di consentire eccezioni al principio di parità, ha posto alcuni “paletti” per far sì che le deroghe in questione non siano applicate in modo incontrollato. Anzitutto, le scelte del legislatore interno sono state limitate da una clausola di tipo temporale, in base alla quale le disposizioni in favore delle chiese e delle imprese di tendenza sono ammesse solo quando confermino una normativa già in vigore o codifichino prassi vigenti al momento dell’attuazione della direttiva³ ⁷. In secondo luogo, l’art. 4.2 ha ribadito la salvaguardia dei principi generali del diritto comunitario – tra cui quello di non discriminazione – e di quelli costituzionali degli Stati membri, che devono guidare l’eventuale predisposizione del regime derogatorio. Guardando i tre Stati oggetto della presente analisi, occorre anzitutto notare che tutti avevano affrontato la tematica dei rapporti di lavoro nelle organizzazioni di tendenza ben prima del recepimento della direttiva. Tuttavia, in nessun caso si può individuare la presenza di una legislazione organica in merito: le disposizioni rilevanti sono disseminate in testi di diversa natura e gran parte dei criteri guida sono stati dettati attraverso la giurisprudenza³ ⁸. Ciò rivela la difficoltà ad inquadrare in categorie predefinite una materia così delicata e nella quale molte sono le varianti, a seconda della tipologia di organizzazione di tendenza e di attività svolte. In questo senso, affidare la disciplina
di tali questioni ai giudici, se da un lato può significare una diminuzione della certezza del diritto, dall’altro rappresenta una scelta opportuna per adattare gli strumenti a disposizione alle mutevoli fattispecie e ai diversi casi di contemperamento degli interessi che si possono presentare in questo ambito. Ora, per Italia e Regno Unito l’attuazione delle direttive ha rappresentato l’occasione per procedere a una (seppur minima) codifica delle regole fondamentali emerse fino a quel momento nella dottrina e nella giurisprudenza; al contrario, nell’ordinamento se, che ha preferito non dettare disposizioni sul tema, si dovrà fare riferimento a quanto stabilito dai giudici. In Italia, in realtà, il risultato ottenuto in sede di recepimento è stato insoddisfacente sotto vari punti di vista. L’art. 3.5 del d.lgs. n. 216/2003, infatti, segue il disposto dell’art. 4.2, senza preoccuparsi di controllare la conformità della nuova norma ad eventuali leggi e prassi preesistenti³ : ne deriva un regime derogatorio più ampio di quello precedentemente in vigore, sia sotto il profilo delle organizzazioni alle quali si applica, sia per i criteri più blandi stabiliti per la valutazione della legittimità dei requisiti occupazionali. Quanto al primo aspetto, il legislatore interno – se consapevolmente o no, ciò non pare rilevante³¹ – si è discostato dalla lettera della direttiva, omettendo il riferimento all’«etica» che contraddistingue le organizzazioni di tendenza³¹¹ : le eccezioni ex art. 3.5 sono, infatti, applicabili all’attività professionale svolta da enti religiosi o da «altre organizzazioni pubbliche o private», non meglio caratterizzate. I requisiti professionali “ideologici”, quindi, potrebbero essere richiesti – sempre se collegati alla natura o al contesto in cui vengono svolte determinate mansioni – da qualsiasi organizzazione, indipendentemente dal fatto che sia “portatrice di tendenza”. Viene a mancare, così, la finalità
religiosa o ideologica che normalmente giustifica la contrazione del principio di parità dei lavoratori e che compare tra gli elementi qualificanti le imprese in questione³¹². Pur mancando una vera e propria definizione di «organizzazione di tendenza» nell’ordinamento italiano, le norme e le pronunce sul tema hanno sempre individuato tale tipologia di enti in base all’orientamento confessionale, ideologico o politico, con il risultato di delimitare, piuttosto che ampliare, la platea dei beneficiari della speciale regolamentazione di questo settore. In dottrina, ad esempio, si era discusso se la protezione della tendenza potesse applicarsi a organizzazioni con scopo di lucro; ancora, la giurisprudenza aveva precisato che la tutela della tendenza dovesse riferirsi unicamente all’ente religioso e non anche alle imprese e istituzioni ad esso collegate³¹³. La direttiva, non facendo riferimento in alcun modo al fine di lucro, consentiva, in qualche modo, di superare tale dibattito³¹⁴ ; tuttavia, il legislatore italiano ha forzato ancor più la mano, eliminando anche il nesso con l’ideologia ed estendendo le eccezioni ai divieti di discriminazione a un indistinto insieme di organizzazioni. Riguardo, poi, ai criteri che debbono indirizzare il contemperamento degli interessi dell’impresa e di quelli del lavoratore, il riferimento operato dall’art. 3.5 a «natura o contesto» dell’attività svolta appare in linea con quanto già affermato in dottrina e in giurisprudenza³¹⁵ ; non altrettanto si può dire relativamente alla mancata menzione del criterio di proporzionalità. Il silenzio su questo punto, benché conforme ai parametri dettati da Bruxelles, non tiene conto della decennale esperienza nazionale in materia e del ruolo centrale di detto criterio nella ricerca del giusto equilibrio tra la tutela della tendenza e quella della libertà del lavoratore e nell’individuazione del limite oltre il quale non si può esigere il rispetto dell’ideologia dell’impresa. Per comprendere meglio quali siano i principi che
ispirano la regolamentazione della materia nel nostro ordinamento e quale mutamento sia intervenuto con l’approvazione del decreto del 2003, occorre soffermarsi brevemente sulla normativa e sulla giurisprudenza pregresse. Come già accennato, precedentemente alla trasposizione della direttiva, ben poche erano le disposizioni che affrontavano ex professo questa materia. Va indubbiamente ricordata la speciale disciplina, di derivazione pattizia, relativa a taluni rapporti di impiego nell’Università Cattolica del Sacro Cuore³¹ : l’art. 10, 3° comma dell’Accordo di Villa Madama – che ripropone quanto stabilito dall’art. 38 del Concordato del ’29 – impone una sorta di “requisito occupazionale confessionale” subordinando la nomina dei docenti al «gradimento, sotto il profilo religioso, della competente autorità ecclesiastica»³¹⁷. La celebre sentenza della Corte costituzionale sul noto caso del prof. Cordero ha, inoltre, esteso la tutela della tendenza dell’Università Cattolica anche al momento del licenziamento, che può intervenire qualora l’adesione del docente ai principi della religione cattolica venga meno³¹⁸ ; il protocollo addizionale n. 6 all’Accordo del 1984 impone di tener conto dei principi affermati in tale pronuncia nell’interpretazione della relativa norma. Nell’ambito del diritto “comune” del lavoro, invece, tra le sporadiche norme in tema si può annoverare la già menzionata legge n. 108/1990 che, pur nella vigenza del divieto di licenziamenti discriminatori, esclude le organizzazioni di tendenza dall’obbligo della reintegrazione del lavoratore in caso di recesso senza giusta causa (c.d. «tutela reale») ex art. 18 dello Statuto dei lavoratori ³¹ .
È, poi, nella giurisprudenza che vanno rintracciati i principi che hanno orientato la regolamentazione di questa materia
nell’ordinamento italiano³² . I giudici – così come la dottrina – si sono occupati principalmente di casi di licenziamenti, spesso intervenuti in seguito a un mutamento nelle convinzioni del lavoratore, tale da far venir meno la sua adesione all’ideologia dell’azienda e l’utilità del suo apporto alle finalità di quest’ultima³²¹. Nella valutazione delle opposte posizioni, la giurisprudenza ha spesso tutelato la “tendenza” a scapito della conservazione del rapporto di lavoro³²² ; tuttavia, più di recente è emersa la regola in base alla quale il sacrificio della libertà dei dipendenti deve limitarsi a quanto strettamente necessario per lo svolgimento della prestazione, non essendo ammessi requisiti occupazionali sproporzionati rispetto agli obiettivi dell’organizzazione³²³. In particolare, costituisce un punto fermo per la giurisprudenza e la dottrina l’irrilevanza dei comportamenti extra-lavorativi per la disciplina del rapporto di lavoro “di tendenza”³²⁴. Ora, al contrario, la mancanza del principio di proporzionalità nel disposto dell’art. 3.5 del d.lgs. n. 216/2003 rende possibili eccezioni più estese al principio di parità, essendo sufficiente dimostrare che l’appartenenza religiosa è essenziale, legittima e giustificata per lo svolgimento dell’attività professionale. È partendo dall’interpretazione dell’essenzialità e della legittimità che dovrà essere ricostruito il limite oltre il quale le finalità “di tendenza” non possono pretendere l’allineamento del lavoratore sui canoni dell’impresa ³²⁵.
In sintesi, si deve sottolineare che l’art. 3.5 del decreto del 2003 ha una particolare rilevanza, vista l’assenza di un’apposita disciplina sulle organizzazioni di tendenza. Tale norma, da una parte, colloca stabilmente la disciplina della questione nell’ambito della tutela antidiscriminatoria, configurando i rapporti di lavoro “ideologici” come un’eccezione ai divieti di discriminazione
religiosa – come tale, limitata a casi strettamente previsti³² . D’altra parte, appaiono particolarmente gravi la dilatazione della disciplina di favore a generiche organizzazioni pubbliche e private e la mancata previsione del criterio di proporzionalità: due scelte che rischiano di stravolgere il delicato equilibrio individuato da dottrina e giurisprudenza consolidate tra tutela della tendenza e libertà del lavoratore. Nell’ordinamento britannico, le deroghe per i datori di lavoro con un «ethos based on religion or belief» sono attualmente previste dall’Equality Act 2010, all’allegato (schedule) n. 9³²⁷. Si tratta di requisiti occupazionali (definiti, in senso generale, dal par. 1 dell’allegato 9) che risultino essenziali per lo svolgimento di una mansione e proporzionali rispetto alla singola situazione, tenuto conto dell’etica religiosa del datore di lavoro. Quest’ultimo deve quindi dimostrare che, data la natura dell’attività e il contesto in cui viene esercitata, è ragionevole pretendere la conformità del lavoratore alla religione sulla quale si basa l’azienda. Il criterio di proporzionalità riveste in queste norme un ruolo centrale, che emerge anche nella giurisprudenza³²⁸ ; si è solitamente valutata l’opportunità del requisito occupazionale nel caso concreto, per non comprimere eccessivamente la libertà dei lavoratori³² . Come in Italia, anche nelle pronunce britanniche si è affermata la distinzione tra incarichi “portatori di tendenza” e incarichi neutri: non si ritiene, infatti, sufficiente la mera ispirazione religiosa nello svolgimento di una professione, ma si ricerca il nesso funzionale tra appartenenza religiosa e corretta esecuzione di un lavoro ³³ .
Oltre alla deroga ora descritta, l’Equality Act 2010 ne prevede anche altre. Mentre in base all’art. 4.2 della direttiva 2000/78 il
regime in favore dell’impiego di tendenza consente trattamenti differenziati fondati esclusivamente sulla religione, ma non può comportare la violazione del divieto di discriminazione fondato su altri fattori, nel Regno Unito, invece, alcune eccezioni in favore delle confessioni religiose erano inserite anche nella normativa sulla parità di genere e sull’orientamento sessuale, per consentire di riservare alcune funzioni (come quella di ministro di culto) soltanto ad un sesso³³¹ o di richiedere, nello svolgimento di dette funzioni, il rispetto della dottrina religiosa riguardo all’orientamento sessuale³³². Con l’abrogazione delle leggi «ground specific» che le contemplavano, queste ipotesi sono state rifuse nell’Equality Act 2010 (par. 2 dell’allegato 9), che ammette requisiti occupazionali relativi al sesso, all’orientamento sessuale e anche allo status matrimoniale³³³ per le mansioni svolte «for the purposes of an organised religion». Non si tratta, quindi, propriamente di una deroga in favore delle organizzazioni di tendenza, ma solo delle confessioni religiose stricto sensu; inoltre l’eccezione è ammessa non per qualsiasi attività, ma per quelle caratterizzanti la «missione» di una religione. La disciplina di questi «requisiti occupazionali» rimane, in questo, invariata rispetto a quella previgente³³⁴. Riguardo alle condizioni per la loro applicazione, l’Equality Act 2010 prevede che detti requisiti possono essere imposti quando finalizzati al rispetto di un principio di «compliance» o di «nonconflict»³³⁵. Il primo (par. 2.5 dell’allegato 9) è inteso come il rispetto della dottrina di una certa religione; il secondo (par. 2.6) consente di applicare un requisito in materia di orientamento sessuale (o di matrimonio) quando, per la natura o il contesto del lavoro, si voglia evitare un contrasto con le convinzioni di un «significant number» di fedeli. Soprattutto quest’ultimo punto appare controverso, perché potrebbe giustificare discriminazioni fondate sulla tendenza sessuale solo in ragione del fatto che, ad esempio, gli omosessuali sono «sgraditi» ad un «significant number» di fedeli.
Con riferimento a particolari tipologie di lavoro, sono da ricordare ancora le disposizioni contenute nell’allegato n. 22, che fanno salvi, tra l’altro, i meccanismi di assunzione di insegnanti e direttori di scuole e istituti universitari religiosi ³³ .
Per quanto riguarda i settori diversi dal lavoro, sono previste alcune eccezioni al divieto di discriminazione religiosa per le scuole confessionali, per le «charities» e per le associazioni con finalità religiose, ipotesi che possono essere ricondotte alla tutela delle «organizzazioni di tendenza» lato sensu intese. Inoltre sono disciplinati alcuni casi specifici nei quali una discriminazione (religiosa o fondata sul sesso o l’orientamento sessuale) è ammessa, nell’accesso a beni e servizi³³⁷ : si tratta di norme volte a tutelare la libertà di organizzazione interna di organizzazioni religiose che possono scegliere di offrire determinati servizi senza rispettare alcuni divieti di discriminazione. La situazione se è totalmente differente da quelle italiana e britannica. Il legislatore interno non prevede, infatti, alcuna specifica norma di legge relativa alle organizzazioni di tendenza, neppure nelle disposizioni attuative delle direttiva 2000/78³³⁸. La categoria della «entreprise de tendance» è emersa, peraltro, nella giurisprudenza e nella dottrina se, determinando, a certe condizioni, la tutela della pretesa del datore di lavoro circa un’adesione dei lavoratori ai fini ideologici dell’ente³³ . Le pronunce in materia, relative per la maggior parte a casi di licenziamento, non sono univoche e presentano soluzioni diverse a seconda delle singole situazioni: se talvolta lo scioglimento del rapporto di lavoro è stato ritenuto legittimo, anche quando motivato da un comportamento extra-contrattuale del dipendente³⁴ , in altre occasioni è stata sottolineata l’assenza di
un «trouble caractérisé» (turbamento) nel contesto in cui l’organizzazione operava, con la conseguenza che il licenziamento del dipendente è stato considerato senza giusta causa e sanzionabile in quanto discriminatorio³⁴¹. Non vi sono, a quanto consta³⁴² , sentenze recenti sul tema e non si può, pertanto, verificare se i parametri dettati dal legislatore comunitario possano trovare applicazione diretta nell’ordinamento se, benché non esplicitamente sanciti in fase di recepimento della direttiva. Parte della dottrina ha, peraltro, sottolineato che i criteri elaborati dalla giurisprudenza a proposito delle organizzazioni di tendenza non sono altro che un’applicazione «assouplie» del diritto comune e un adattamento dei principi generali di diritto del lavoro (divieto di discriminazione, divieto di licenziamento senza giusta causa, valutazione dei comportamenti del dipendente in relazione alla natura e alle finalità proprie di un’attività) al carattere ideologico di talune imprese ³⁴³.
¹ Il titolo di questo capitolo evoca quello del volume di G. DE SIMONE, Dai principi alle regole, cit. Ho voluto evidenziare così, fin da subito, il diverso peso e ruolo del principio di uguaglianza e delle norme antidiscriminatorie.
² Come si è visto nel capitolo primo, la giurisprudenza dell’Unione è solita richiamare il legame tra non discriminazione e principio di uguaglianza, individuando indubbiamente in quest’ultimo una «tradizione costituzionale comune» (cfr., tra gli altri, F. SORRENTINO, Il principio di eguaglianza nella giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di giustizia, cit., S. SPINACI, Divieto comunitario di discriminazione, cit.; C. FAVILLI, La non discriminazione nell’Unione europea, cit.). Tra i moltissimi riferimenti dottrinali su principio di uguaglianza e discriminazione, e solo per citare alcune
monografie di rilievo: M. RODRÍGUEZ-PIÑERO, M.F. FERNÁNDEZ LÓPEZ, Igualdad y discriminación, Madrid, Tecnos, 1986; A. CERRI, L’eguaglianza nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, Milano, Giuffrè, 1976, spec. p. 24 ss.; M. BARBERA, Discriminazioni ed eguaglianza nel rapporto di lavoro, Milano, Giuffrè, 1991; G. DE SIMONE, Dai principi alle regole, cit.
³ A. CERRI, Uguaglianza giuridica ed egualitarismo, L’Aquila, Japadre, 1984, p. 67 ss.; L. PALADIN, Il principio costituzionale d’eguaglianza, Milano, Giuffrè, 1965; G. AMATO, A. BARBERA, Manuale di diritto pubblico, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 266 ss.; B. CARAVITA, Art. 3, in Commentario breve alla Costituzione, a cura di V. CRISAFULLI, L. PALADIN, Padova, Cedam, 1990, p. 14 ss.; con riferimento al fattore religioso: G. CASUSCELLI, Uguaglianza e fattore religioso, in Digesto discipline pubblicistiche, XV, Torino, UTET, 1999, p. 433; F. FINOCCHIARO, Uguaglianza giuridica e fattore religioso, Milano, Giuffrè, 1958, p. 29 ss.; per quanto riguarda la dottrina se cfr. F. MÉLINSOUCRAMANIEN, Le principe d’égalité dans la jurisprudence du Conseil constitutionnel, cit.; CONSEIL D’ÉTAT, Sur le principe d’égalité. Extrait du Rapport public 1996, Paris, La Documentation française, 1998
⁴ F. FINOCCHIARO, Uguaglianza giuridica e fattore religioso, cit., p. 70 ss.
⁵ Per la dottrina maggioritaria, è da escludere un’applicazione generale del principio di uguaglianza ai rapporti privati, anche se in alcuni ambiti operano divieti di discriminazione o regole sulla parità derivanti da tale principio. Cfr. L. PALADIN, voce Eguaglianza (diritto costituzionale), in Enciclopedia del diritto, Milano, Giuffrè, 1965, vol. XIV, p. 531 ss.; G. AMATO, A. BARBERA, Manuale di diritto pubblico, cit., p. 274; fondamentale è poi il riferimento a P. RESCIGNO, Il principio di uguaglianza nel diritto privato, in «Riv. Trim. Dir. Proc. Civile», 1959, p. 1515 ss., anche per una sintesi delle posizioni dottrinali sul tema.
Riguardo all’assenza di una regola generale di parità nei rapporti tra privati, la
dottrina ha sottolineato che, al di fuori di specifiche previsioni contrarie, il contraente è sempre libero di riservare un trattamento diverso alle sue controparti, rifiutando di contrattare o proponendo a suo piacimento il contenuto di clausole contrattuali. Pertanto, risulta di fondamentale importanza l’esistenza o meno di uno specifico divieto di discriminazione, che sarebbe, però, altra cosa rispetto al principio di parità o di uguaglianza. La giurisprudenza ha accolto tale impostazione: in particolare si fa riferimento alle pronunce della Cassazione (sez. unite, sent. 29 maggio 1993, n. 6030 e 6031) nelle quali si afferma che «nel nostro ordinamento non esiste un principio di parità di trattamento nei rapporti tra privati (non essendo esso desumibile dagli artt. 3, 36, 37 e 41 Cost. né dagli artt. 1175 e 1375 c.c.)». Più sfumata la posizione di P. RESCIGNO (op. cit., p. 1528 ss.) secondo il quale l’obbligo di parità di trattamento tra i privati è limitato al divieto dell’arbitrio nel regolamento di casi simili: non si preclude, quindi, ogni differenziazione, ma solo quelle arbitrarie. Per una sintesi cfr. D. MAFFEIS, Offerta al pubblico e divieto di discriminazione, Milano, Giuffrè, 2007, p. 61 ss.; V. PACILLO, Contributo allo studio del diritto di libertà religiosa nel rapporto di lavoro subordinato, Milano, Giuffrè, 2003, p. 37 ss., dove si fa riferimento all’applicabilità delle norme costituzionali al rapporto di lavoro.
⁷ V. CRISAFULLI, Diritti di libertà e poteri dell’imprenditore, in «Riv. giur. lav.», 1954, p. 73 ss.; cfr., in altro senso, P. BARILE, Istituzioni di diritto pubblico, Cedam, Padova, 1982, p. 562, secondo il quale dalla norma costituzionale discenderebbe un diritto soggettivo a non essere discriminati; per una ricostruzione v. anche F. FINOCCHIARO, Uguaglianza giuridica, cit., p. 88 ss.
⁸ P. WAQUET, Le principe d’égalité en droit du travail, in «Droit social», mars 2003, p. 276 ss.; più in generale cfr. anche D.LOCHAK, Les minorités et le droit public français: du refus de différences à la gestion de différences, in A. FENET, G. SOULIER (eds.), Les minorités et leurs droits depuis 1789, Paris, L’Harmattan, 1989, p. 115 ss.
F. MESSNER, P.-H. PRÉLOT, J.-M. WOEHRLING (dir.), Traité. Droit
francçais des religions, Paris, LexisNexis, 2013, p. 88.
¹ Peraltro vi è chi ha sostenuto l’irrilevanza del problema: siccome il principio di uguaglianza è riferito alla generalità dei rapporti giuridici, non sarebbe decisivo definire i confini della sua applicazione soggettiva (A. CERRI, L’eguaglianza nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, cit., p. 59 ss.).
¹¹ A.S. AGRÒ, Art. 3, in Commentario alla Costituzione, a cura di G. BRANCA, Bologna (Zanichelli)-Roma (ed. Foro Italiano), 1975, 130 ss.; L. PALADIN, Corte costituzionale e principio generale d’eguaglianza: aprile 1979 - dicembre 1983, in «Giur. Cost.», 1984, I, 219 ss.; A. CERRI, L’eguaglianza nella giurisprudenza della Corte, cit., im. Sulla giurisprudenza costituzionale se F. MÉLIN-SOUCRAMANIEN, Le principe d’égalité, cit., spec. p. 130 ss., 280 ss.
¹² In questo senso, un recente rapporto della Corte di Cassazione se sulle discriminazioni precisa che, pur riconducendosi al medesimo principio, le regole dell’uguaglianza e della non discriminazione si applicano in modo diverso in giudizio: la prima richiede una comparazione per accertare una differenziazione di trattamento in base ai parametri costituzionali; la seconda mira a verificare l’esistenza di uno svantaggio, che può anche prescindere da una comparazione. Cfr. Rapport annuel de la Cour de cassation 2008. Les discriminations dans la jurisprudence de la Cour de cassation, Paris, La Documentation Française 2008, p. 86 (all'indirizzo http://tinyurl.com/dy9zh4).
¹³ A questo proposito, D. STRAZZARI, Discriminazione razziale e diritto, cit., p. 9 ss., propone una distinzione tra discriminazione «di diritto», generata da norme, provvedimenti, attività amministrativa, e discriminazione «di fatto», messa in atto dai privati. In queste due macrocategorie si possono ancora distinguere discriminazioni dirette e indirette. Se le discriminazioni «di diritto» (specialmente se discriminazioni dirette) sono assai poco frequenti e risultano vietate dal principio costituzionale di uguaglianza, senza necessità di ulteriori
norme di dettaglio, non si può affermare lo stesso per le discriminazioni di fatto. È vero che in alcuni settori (come quello del lavoro) le regole antidiscriminatorie sono da tempo consolidate; tuttavia, i comportamenti dei privati sono generalmente orientati da obiettivi e interessi contrastanti con la non discriminazione. Il diritto antidiscriminatorio più recente si propone proprio di affrontare le discriminazioni operate dai privati, che spesso sono segnali di radicati pregiudizi o esclusioni. Lo scopo, sicuramente ambizioso, di promuovere le pari opportunità in quanti più ambiti possibile non può dirsi ancora realizzato: esso si scontra, in particolare, con l’autonomia dei privati, la libertà contrattuale e con altri diritti e interessi.
¹⁴ Cfr. supra, cap. II, par. 1.1.
¹⁵ Sulle varie norme in materia, in una trattazione quasi sistematica (che caratterizza la dottrina britannica, come si è accennato nell’introduzione a questo volume), cfr. K. MONAGHAN, Equality Law, Oxford, OUP, 2007; N. BAMFORTH, M. MALIK, C. O’CINNEIDE, Discrimination Law: Theory and Context, London, Sweet & Maxwell, 2008.
¹ Pur applicandosi ad un insieme sempre più ampio di settori, le norme antidiscriminatorie presenti nel Regno Unito non hanno determinato l’introduzione di un principio generale e “supremo” di uguaglianza e non definiscono una tutela onnicomprensiva, ma limitata ai settori menzionati dalle leggi. Cfr. S. FREDMAN, Discrimination law, Oxford, OUP, 2002, p. 68 ss.; K. MONAGHAN, Equality Law, cit., p. 31; C. MCCRUDDEN, Equality and NonDiscrimination, in D. FELDMAN (ed. by), English Public Law, Oxford, OUP, 2009, p. 520 ss.
¹⁷ In particolare, la dottrina sottolinea che il principio della sovranità del Parlamento sembra prevalere su altri principi “costituzionali” nell’ordinamento britannico e l’assenza di un sistema assimilabile al sindacato di costituzionalità, tipico della civil law, potrebbe giustificare la presenza di leggi contrarie ai diritti
o all’uguaglianza (cfr. in generale il classico di A.V. DICEY, Introduzione allo studio del diritto costituzionale: le basi del costituzionalismo inglese, ed. it. a cura di A. TORRE, Bologna, Il Mulino, 2003, p. 33 ss.; con particolare riguardo al tema dell’uguaglianza v. J. JOWELL, Is Equality a Constitutional Principle?, in «Current Legal Problems», 1994, II, p. 3 ss.). I cosiddetti “principi” avrebbero, allora, un valore diverso e servirebbero semplicemente a indirizzare ex ante l’azione del legislatore, il quale sarebbe tenuto a giustificare l’emanazione di una legge ad essi contraria (J. JOWELL, op. cit., loc. cit.).
¹⁸ Si noti che di recente l’amplissima produzione legislativa del Regno Unito ha in certa misura avvicinato tale ordinamento ad alcuni caratteri degli Stati di civil law.
¹ Sulla rule of law, oltre a DICEY, Introduzione allo studio del diritto costituzionale, cit., p. 151 ss., cfr. P. LEYLAND, Introduzione al diritto costituzionale del Regno Unito, Torino, Giappichelli, 2005, p. 29 ss. Sul rapporto tra rule of law e uguaglianza cfr. ancora J. JOWELL, Is Equality a Constitutional Principle?, cit., p. 3 ss.; LORD LESTER OF HERNE HILL, Equality and United Kingdom Law: Past, Present and Future, in «Public Law», 2001, p. 85 ss.
² Così la traduzione italiana di rule of law nell’edizione a cura di A. Torre del volume di DICEY, Introduzione allo studio del diritto costituzionale, cit.
²¹ Infatti, in base alla rule of law, ogni esercizio del potere dovrà essere autorizzato dalla legge; e dunque a contrario, se non esiste una limitazione stabilita per legge, le singole libertà finiscono coll’acquisire la massima estensione possibile.
²² Cfr. A.V. DICEY, Introduzione allo studio del diritto costituzionale, cit., p. 156 ss.; M. PATRONO, La forza dei diritti. Il Regno Unito dalla Rule of Law allo
Human Rights Act 1998: sulle tracce di un lungo inseguimento, in La Costituzione britannica - The British Constitution, a cura di A. TORRE, L. VOLPE, Torino, Giappichelli, 2005, vol. I, p. 80 ss.; A. LESTER, K. BEATTIE, Human Rights and the British Constitution, in The changing constitution, ed. by J. JOWELL, D. OLIVER, Oxford, OUP, 2007, p. 61.
²³ Oltre agli autori citati alla nota precedente cfr. P. LEYLAND, Introduzione al di ritto costituzionale del Regno Unito, Torino, Giappichelli, 2005, p. 29.
²⁴ M. PATRONO, La forza dei diritti, cit., p. 81; P. LEYLAND, Civil Liberties and Human Rights: the Parliamentary Legacy Re-examined, in La Costituzione Britannica, a cura di A. TORRE, L. VOLPE, cit., p. 119 ss. Da ricordare, inoltre, che i diritti non sono sanciti da una fonte di rango costituzionale, ma trovano fondamento nella common law, e prevalentemente nelle decisioni giurisprudenziali dalle quali – con un procedimento inverso a quello seguito nei Paesi di civil law – si ricavano i principi “costituzionali”. Ciò è vero anche per il diritto a non essere discriminati, che non può essere estrapolato da un principio, ma al contrario deve essere riconosciuto da leggi o sentenze che ne specifichino i contenuti.
²⁵ Cfr. infra, par. 2.1.
² N. BAMFORTH, M. MALIK, C. O’CINNEIDE, Discrimination Law: Theory and Context, London, Sweet & Maxwell, 2008, p. 13 ss.
²⁷ Lo «Human Rights Act» ha operato la incorporation della CEDU nell’ordinamento britannico, ma con alcuni limiti, dovuti alla concezione nazionale della tutela dei diritti fondamentali, diversa dall’approccio del Consiglio d’Europa e degli Stati di civil law. In particolare è estraneo al Regno Unito il principio della judicial review, ovvero del sindacato costituzionale sulle
leggi; inoltre, la supremazia del Parlamento e della rule of law ha determinato una certa resistenza ad accettare un sistema giurisdizionale esterno (e sovraordinato) come quello previsto dalla CEDU (un simile atteggiamento si rileva anche nell’apposizione di alcune clausole di opt-out alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea). Lo «Human Rights Act» consente ora ad ogni cittadino britannico di agire in giudizio per una violazione dei diritti riconosciuti nella CEDU, ma soltanto nei confronti delle pubbliche autorità. Cfr., anche per ulteriori riferimenti, F. ROSA, Lo Human Rights Act e il processo di internazionalizzazione dei diritti fondamentali, in «Politica del diritto», 2000, p. 679 ss.; G.F. FERRARI, La convenzione europea e la sua “incorporation”, cit., p. 125 ss.
²⁸ F. ROSA, op. ult. cit., loc. cit.; S. FREDMAN, Discrimination law, cit., p. 85 ss.
² Peraltro, con riferimento ai meccanismi di giustizia costituzionale, la dottrina ha rilevato una recente evoluzione del sistema britannico, sempre più simile a quelli continentali, specie dopo l’istituzione della Supreme Court ad opera del Constitutional Reform Act 2005. In tema cfr., per tutti, M. LOUGHLIN, The development of Public law in the United Kingdom, in «Diritto Pubblico», 1998, 3, p. 636 ss.; A. TORRE, La Corte Suprema del Regno Unito: la nuova forma di una vecchia idea, in «Giornale di storia costituzionale», 2006, 1, p. 259 ss.
³ La dottrina ha sottolineato che l’uguaglianza «davanti alla legge» si compone di due aspetti: l’obbligo per il legislatore di elaborare leggi universali e l’obbligo di applicare le norme con uguale forza a tutti coloro alle quali sono rivolte (quest’ultimo assimilabile al principio di legalità). In proposito: G. AMATO, A. BARBERA, Manuale di diritto pubblico, cit., p. 265 ss.; A. CERRI, Eguaglianza giuridica ed egualitarismo, cit., p. 42 ss.; A.S. AGRÒ, Art. 3, 1° comma, cit., p. 130 ss.; F. GHERA, Il principio di eguaglianza nella Costituzione italiana e nel diritto comunitario, cit., p. 16 ss.; A. CELOTTO, Art. 3, 1 co., Cost., in Commentario alla Costituzione, a cura di R. BIFULCO, A. CELOTTO E M. OLIVETTI, Torino, Utet 2006, pp. 65 ss.
³¹ M. BARBERA, Discriminazioni e uguaglianza nei rapporti di lavoro, cit., p. 24.
³² A. CERRI, L’eguaglianza nella giurisprudenza, cit., p. 25 ss.; B. CARAVITA, Art. 3, cit., p. 15 ss. e 27; A.S. AGRÒ, Art. 3, cit., p. 130 ss. In giurisprudenza, questo orientamento della Corte Costituzionale emerge già nelle sentenze più risalenti: tra le molte, si vedano la n. 3 del 16 gennaio 1957 e la n. 53 del 9 luglio 1958.
³³ Come noto, questa interpretazione è stata elaborata a partire dalla riflessione aristotelica su uguaglianza numerica e uguaglianza proporzionale (cfr., per tutti, A. CERRI, Eguaglianza giuridica ed egualitarismo, cit., p. 20 ss.).
³⁴ Su detta presunzione, in generale cfr. B. CARAVITA, Art. 3, cit., p. 27 ss.; A. CERRI, voce Uguaglianza, in Enc. Giur. Treccani, Roma, 2005, vol. XXXII, p. 5; A. CELOTTO, Art. 3, co. 1, cit., p. 67 ss. Riguardo al tema religioso G. CASUSCELLI, Uguaglianza e fattore religioso, cit., p. 428 ss., sottolinea che il divieto di distinguere in ragione della religione va considerato assoluto per quanto riguarda il godimento dei diritti fondamentali, tra i quali per l’appunto anche quello di libertà religiosa.
³⁵ Il secondo comma dell’art. 3 è stato spesso interpretato come una norma meramente programmatica, e perciò spesso sottovalutato dalla dottrina. Cfr. G. AMATO, A. BARBERA, Manuale di diritto pubblico, cit., p. 312 ss.; B. CARAVITA, Art. 3, cit., p. 29 ss.; L. PALADIN, Eguaglianza (diritto costituzionale), cit., p. 545 ss.
³ Per un’efficace sintesi delle posizioni dottrinali sul punto, oltre agli autori
citati nella nota precedente, M. CAIELLI, Le azioni positive nel costituzionalismo contemporaneo, p. 21 ss.
³⁷ G. AMATO, A. BARBERA, Manuale di diritto pubblico, cit., p. 276 ss.; B. CARAVITA, Art. 3, cit., p. 32-33; U. ROMAGNOLI, Art. 3, 2° comma, in Commentario della Costituzione, a cura di G. BRANCA, cit., p. 171 ss. M. CAIELLI, Le azioni positive, cit., p. 47 ss. ricorda il caso delle leggi che hanno disposto benefici in favore degli ebrei perseguitati durante il regime fascista, che la dottrina ha giustificato proprio attraverso l’art. 3.2 della Costituzione.
³⁸ G. AMATO, A. BARBERA (a cura di), Manuale di diritto pubblico, cit., p. 276 ss.; A. CERRI, Eguaglianza giuridica, cit., p. 142 ss.; M. CAIELLI, Le azioni positive, cit., p. 23 ss. Sull’art. 3.2 letto in collegamento con uno dei rari riferimenti espliciti alle azioni positive nella legislazione italiana (la legge n. 125 del 1991 relativa alla parità tra uomini e donne), G. DE SIMONE, Dai principi alle regole, cit., p. 171 ss.
³ E. VITALI, A.G. CHIZZONITI, Manuale breve di diritto ecclesiastico, cit. p. 38; C. CARDIA, Manuale di diritto ecclesiastico, Bologna, Il Mulino, 1996, p. 204 ss.
⁴ L’idea di fondo, che deriva dalla Rivoluzione se, è una concezione del corpo sociale come omogeneo; di conseguenza, si afferma l’obbligo di uguaglianza, intesa come identico trattamento di individui ritenuti tutti uguali. La tutela delle diversità, allora, è ritenuta sia in contrasto con questo fondamento repubblicano, sia una minaccia all’unità della Nazione; le minoranze e le collettività, che romperebbero l’unità nazionale, solitamente non sono considerate. Cfr. D. LOCHAK,Les minorités et le droit public français , p. 113 ss.; di recente M. LOPEZ, El modelo francés: un dificil compromiso entre unidad y diversidad, in A. CASTRO JOVER (dir.), Interculturalidad y Derecho, Cizur Minor (Navarra), Thomson Aranzadi, 2013, p. 295 ss.
⁴¹ Il bloc de constitutionnalité è costituito dalle norme di riferimento per il controllo di costituzionalità delle leggi e comprende non soltanto le disposizioni della Costituzione, ma anche i principi stabiliti nel preambolo, che richiama la Dichiarazione del 1789 e il preambolo della Costituzione del 1946. Il valore costituzionale di questi ultimi è consacrato da una sentenza del Conseil Constitutionel (16 luglio 1971, n. 71-44). In tema cfr. CONSEIL D’ÉTAT, Sur le principe d’égalité, cit., p. 24 ss.; F. MÉLIN-SOUCRAMANIEN, Le principe d’égalité, cit., p. 29 ss.; F. LUCHAIRE, Un Janus constitutionnel: l’égalité, in «Revue Droit Public», 1986, p. 1274 ss.
⁴² L’art. 6 della Dichiarazione recita: «La Loi est l’expression de la volonté générale. Tous les Citoyens ont droit de concourir personnellement, ou par leurs Représentants, à sa formation. Elle doit être la même pour tous, soit qu’elle protège, soit qu’elle punisse. Tous les Citoyens étant égaux à ses yeux, sont également issibles à toutes dignités, places et emplois publics, selon leur capacité, et sans autre distinction que celle de leurs vertus et de leurs talents». In questa formulazione riecheggiano i principi della Rivoluzione se, tra cui la fiducia nel ruolo della legge, espressione della volontà generale e, proprio per questo, dotata dei caratteri di universalità e astrattezza che pongono tutti i cittadini su un piano di parità. Da ricordare anche l’art. 1 della Dichiarazione, che riconosce l’uguaglianza «naturale» di tutti gli uomini: «Les hommes naissent et demeurent libres et égaux en droits». Per una ricostruzione storica sul principio di uguaglianza in Francia v. CONSEIL D’ÉTAT, Sur le principe d’ègalité, cit., p. 21 ss.
⁴³ F. MELIN-SOUCRAMANIEN, Le principe d’égalité, cit., 75 ss.
⁴⁴ La giurisprudenza costituzionale ha dichiarato l’illegittimità non solo di norme che operavano distinzioni, ma anche di quelle che stabilivano trattamenti di favore (discriminations positives), anch’esse ritenute contrarie al principio di uguaglianza di fronte alla legge. Sul punto si possono ricordare le sentenze del
Conseil Constitutionnel n. 99457 del 24 ottobre 1990 e n. 91-290 del 9 maggio 1991, la prima relativa a una riserva di posti nell’amministrazione pubblica per candidati originari del dipartimento d’outre-mer di riferimento; la seconda, sullo Statut de la Corse, ha ribadito l’unitarietà del popolo se e l’inammissibilità di differenziazioni tra gruppi etnici o nazionali. In tema v. CONSEIL D’ÉTAT, Sur le principe d’égalité, cit., p. 35 ss.; M. MAISONNEUVE, Les discriminations positives ethniques ou raciales en droit public interne : vers la fin de la discrimination positive à la française, in «Revue Française Droit istratif», 2002, p. 561 ss.
⁴⁵ CONSEIL D’ÉTAT, Sur le principe d’égalité, cit., p. 37-38 e 44; D. STRAZZARI, Discriminazione razziale e diritto, cit., p. 359 ss. Sui criteri di giustificazione, in particolare, P. GIRO, Egalité devant la loi, in O. DUHAMEL, Y. MÉNY (a cura di), Dictionnaire constitutionnel, Paris, Presses universitaires de , 1992, p. 351 ss.; F. MESSNER, P.-H. PRÉLOT, J.-M. WOEHRLING, Traité, cit., p. 81.
⁴ Ciò si ricollega, come vedremo meglio tra breve, al principio di laicità e alla modalità di tutela della libertà religiosa. Sul principio di laicità e il suo rapporto con quello di uguaglianza cfr. F. MESSNER, P.-H. PRÉLOT, J.-M. WOEHRLING, Traité, cit., p. 630 ss. Sul rapporto tra uguaglianza e differenze e i diversi modelli di gestione delle diversità religiose (con speciale riferimento a Francia e Gran Bretagna) N. COLAIANNI, Eguaglianza e diversità, cit., p. 19 ss.
⁴⁷ J. JOWELL, Is Equality a Constitutional Principle?, cit., p. 7 ss. e le pronunce ivi citate; C. MCCRUDDEN, Equality and Non-Discrimination, cit., p. 520 ss.
⁴⁸ Trattando del Regno Unito, avrebbe avuto senso anteporre la descrizione del quadro normativo a quella dei “principi costituzionali”; la collocazione scelta è volta ad agevolare la comparazione tra i tre ordinamenti in esame.
⁴ Per una ricostruzione J. JOWELL, Is Equality a Constitutional Principle?, cit., p. 3 ss.
⁵ Tra le norme che tengono conto delle differenze di cui sono portatori alcuni gruppi religiosi, si possono ricordare le deroghe in favore dei Sikh previste dal Road Traffic Act 1988 (art. 16) e dal Criminal Justice Act 1988 (art. 139) rispettivamente all’obbligo per i motociclisti di portare il casco e alle regole sul porto d’armi. Questi e altri esempi caratterizzano l’approccio britannico in favore dell’uguaglianza sostanziale e non solo formale. Cfr. C. BARNARD, B. HEPPLE, Substantive equality, cit., im; S. FREDMAN, Equality: a new Generation?, cit.., p. 156 ss.; B. HEPPLE, M. COUSSEY, T. CHOUDHURY, Equality: a new framework. Report of the independent review of the enforcement of UK anti-discrimination legislation, Oxford-Portland, Hart, 2000, p. 27 ss.
⁵¹ Tali principi sono espressi chiaramente dalle norme sovranazionali, in primis dall’art. 14 della CEDU, che occorre tenere presente – benchè sullo sfondo – nella ricostruzione del quadro concettuale in materia. La CEDU, con l’“incorporation” nell’ordinamento britannico avvenuta attraverso lo Human Rights Act, ha introdotto nel Regno Unito i contenuti del principio di uguaglianza (anche in relazione alla religione), pur mancando una costituzione scritta.
⁵² Impossibile dare conto esaustivamente delle riflessioni sul tema, in merito al quale occorre ricordare almeno il classico di N. BOBBIO, Eguaglianza e libertà, Torino, Einaudi 1995; l’efficace sintesi del pensiero filosofico-politologico moderno di G. SARTORI, voce Democrazia, in Enciclopedia delle Scienze Sociali, Treccani 1992, in www.treccani.it; per ulteriori spunti e riferimenti alla dottrina italiana T. MAZZARESE, Eguaglianza, differenze e tutela dei diritti fondamentali, in «Ragion pratica», 2006, 2, p. 299 ss.
⁵³ La dottrina si è interrogata, tradizionalmente, sulla compatibilità tra uguaglianza e sistemi di relazioni con le confessioni religiose. Nell’ambito del diritto ecclesiastico italiano è naturale il riferimento a F. RUFFINI, La libertà religiosa come diritto pubblico subiettivo, Bologna, Il Mulino 1992 (riedizione dell’originale Corso di diritto ecclesiastico. La libertà religiosa come diritto pubblico subiettivo, Torino, Bocca, 1924) e a F. SCADUTO,Libertà religiosa: conciliabile con quali sistemi? genesi, uguaglianza, «La Corte d’appello», 1914, 5, p. 5 ss.; in merito al dibattito sul tema cfr. ampiamente F. FINOCCHIARO, Uguaglianza giuridica e fattore religioso, cit., p. 2 ss.; per una ricostruzione generale G. CASUSCELLI, Uguaglianza e fattore religioso, cit.; S. BORDONALI, L’incidenza del fatto religioso nei percorsi formativi della legge nell’ordinamento italiano, in «Anuario Derecho Eclesiástico del Estado», vol. XXVI, 2010, pp. 719 ss. Cfr. anche F. ONIDA, Uguaglianza e libertà religiosa nel separatismo statunitense, Giuffrè 1970; ID., Appunti per una riflessione in tema di attuazione del quadro costituzionale in materia religiosa (a proposito di libertà e di uguaglianza), in «Diritto ecclesiastico», 1990, I, p. 423 ss.; V. TOZZI, La cooperazione per mezzo di accordi fra Stato e confessioni religiose ed i principi di specialità ed uguaglianza, in «Diritto Ecclesiastico», 1990, I, pp. 122 ss.; N. COLAIANNI, Eguaglianza, non discriminazione, ragionevolezza, in Diritto ecclesiastico e Corte costituzionale, a cura di R. Botta, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 2006, pp. 72 ss.
⁵⁴ Così, chiaramente, S. FERRARI, Introduzione a F. RUFFINI, La libertà religiosa come diritto pubblico subiettivo, Bologna, Il Mulino, 1992, p. 52 ss.
⁵⁵ F. FINOCCHIARO, Uguaglianza giuridica e fattore religioso, cit., p. 47 ss., dopo aver ricordato l’attitudine interventista dello Stato democratico moderno (e quindi l’ammissibilità di interventi promozionali dell’uguaglianza) ricorda come l’uguaglianza sostanziale (o materiale) ex art. 3.2 della Costituzione italiana risulta sempre strumentale rispetto all’uguaglianza giuridica e non pone altro obbligo allo Stato se non quello di creare le condizioni di base (i punti di partenza) perché la parità si realizzi.
⁵ Non si tratta di individuare una regola sempre valida sulla corrispondenza tra i sistemi di rapporti Stato-confessioni e le varie letture del principio di uguaglianza. Indubbiamente, però, alcune caratteristiche di quest’ultimo principio, aiutano a comprendere meglio l’approccio sia al diritto antidiscriminatorio sia alla libertà religiosa e alla gestione delle diversità.
⁵⁷ Si è detto (supra, par. 1.2) che il principio di uguaglianza non impedisce di applicare alcune differenziazioni, soprattutto se si considera la lettura “classica” in base alla quale occorre prevedere trattamenti uguali per situazioni uguali e diversi per situazioni diverse. Tuttavia, i trattamenti differenziati sono applicabili unicamente se giustificati, specie da un’esigenza di interesse generale; in materia religiosa, potranno essere ammessi se rispondono all’esigenza di prendere in considerazione le necessità proprie di alcune confessioni. In tema F. MESSNER, P.-H. PRELOT, J.-M. WOEHRLING, Traité. Droit français des religions, cit., p. 80 ss.
⁵⁸ CONSEIL D’ÉTAT, Sur le principe d’égalité, cit., p. 67 ss. In tema cfr. anche N. COLAIANNI, Eguaglianza e diversità culturali e religiose, cit., p. 44 ss. e 105 ss.; P.-H. PRELOT, Les religions et l’égalité en droit français, cit., p. 340 ss. Si noti, tra l’altro, che l’ordinamento se non parla, solitamente, di «minoranze» (e la Francia non ha mai ratificato la Convenzione del 1995 del Consiglio d’Europa sulla protezione delle minoranze).
⁵ Il legame di cittadinanza, infatti, stabilito in modo forte tra lo Stato e il cittadino, non ammette, se non a certe condizioni, una rilevanza dei gruppi o dei corpi intermedi. Di conseguenza i trattamenti differenziati, che presuppongono il riconoscimento di una specificità di gruppo, sono assai limitati e mai considerati obbligatori. In questo senso si è espressa, di recente e molto nettamente, una pronuncia del Conseil Constitutionnel, la n. 2004-505 del 19 novembre 2004, relativa alla conformità all’ordinamento se del Trattato costituzionale europeo (poi mai adottato): in essa si afferma che i principi consacrati dalla
Costituzione se (in particolare l’uguaglianza e la laicità) «s'opposent à ce que soient reconnus des droits collectifs à quelque groupe que ce soit, défini par une communauté d'origine, de culture, de langue ou de croyance» e che i medesimi principi «interdisent à quiconque de se prévaloir de ses croyances religieuses pour s'affranchir des règles communes régissant les relations entre collectivités publiques et particuliers».
P.-H. PRELOT, Les religions et l’égalité en droit français, in «Revue Droit public», 2001, n. 3, p. 737 ss.; CONSEIL D’ÉTAT, Sur le principe d’égalité, cit., p. 74 ss.; F. MELIN-SOUCRAMANIEN, Le principe d’égalité, cit., p. 85 ss.; cfr. anche il «Rapport Stasi»: COMMISSION DE REFLEXION SUR L’APPLICATION DU PRINCIPE DE LAÏCITE DANS LA REPUBLIQUE, Rapport au président de la Republique, Paris, La documentation française, 2003, spec. p. 20 ss. In giurisprudenza, la stretta connessione uguaglianza/laicità è menzionata, tra l’altro, dal Conseil d’Etat, sent. 16 marzo 2005, n. 265560.
¹ Loi du 9 décembre 1905 concernant la séparation des Eglises et de l'Etat. Per una sintesi cfr. F. MESSNER, P.-H. PRELOT, J.-M. WOEHRLING, Traité. Droit français des religions, cit., p.; B. BASDEVANT, Etat et Eglises en , in G. ROBBERS (ed. by), État et Églises dans l’Union européenne, Nomos, Baden Baden, 2008² (versione online), p. 169 ss.
² P.-H. PRÉLOT, Les religions et l’égalité, cit., p. 738 ss., che sottolinea, tra l’altro, la discrasia tra il principio teorico di uguaglianza e neutralità nei confronti delle confessioni religiose, da un lato, e le situazioni concrete e storiche nelle quali i rapporti Stato/confessioni si muovono, dall’altro.
³ È quasi scontato ricordare, a tal proposito, la legge sui simboli religiosi del 15 marzo 2004 n. 2004-228, Loi sur le signes religieux ostensibles dans les établissement d’enseignement public, sulla quale cfr., per tutti, A. FERRARI, La lotta dei simboli e la speranza del diritto. Laicità e velo musulmano nella Francia di inizio millennio, in E. Dieni, A. Ferrari, V. Pacillo, Symbolon/Diabolon.
Simboli, religioni, diritti nell’Europa multiculturale, Bologna, Il Mulino, 2006, pp. 193 ss..
⁴ Si ricorda, anzitutto, la situazione dei dipartimeti di Alsazia e Mosella, dove la legge del 1905 non si applica (B. BASDEVANT, Eglise et Etat en , cit., p. 169 ss.; P.-H. PRÉLOT, Les religions et l’égalité, cit., p. 737 ss., che sottolinea come non vi sia, in realtà, un’uguaglianza assoluta in materia di religione. Ad ogni modo, gli interventi in deroga all’uguaglianza delle confessioni religiose, che riconoscono uno status peculiare ad alcuni gruppi, sono una vera e propria eccezione, che ha peculiari radici storiche.
⁵ Alcuni hanno sottolineato come la giurisprudenza abbia talvolta applicato con una certa flessibilità le norme generali, accomodando le diversità religiose (cfr. F. AST, Etude de cas de discrimination, in F. AST, B. DUARTE (dir.), Les discriminations religieuses en Europe: droit et pratique, Paris L’Harmattan 2012, p. 149 ss.); ancora, si è riconosciuto il diritto all’obiezione di coscienza, disapplicando per motivi religiosi alcuni obblighi uguali per tutti (su questo e altri esempi cfr. F. MESSNER, P.-H. PRÉLOT, J.-M. WOEHRLING, Traité, cit., p. 720 ss.). Interventi che stabiliscano per legge regimi differenziati e specifici, in deroga a una norma generale, sono invece assai rari. Come si è già notato, tenendo presente il principio di uguaglianza, i trattamenti diversificati devono sempre essere giustificati e non sono mai obbligatori; allo stesso modo per gli “accomodamenti”, che possono essere negati per rispetto a un superiore interesse generale, rientrando nella discrezionalità dei pubblici poteri la decisione sulle modalità di disporli. Se queste problematiche si presentano in generale nel momento in cui si predispongono accomodamenti (cfr. infra, cap. IV, par. 6.1), questi ultimi sembrano incontrare particolari “resistenze” nei principi dell’ordinamento se.
Il mantenimento di tale legame ha interessato di recente la dottrina e il dibattito pubblico, che si sono interrogati sulla tenuta dei valori del “vivere insieme” di fronte alle rivendicazioni identitarie e alle spinte cosiddette “comunitariste”: cfr. M. LOPEZ, op. cit., p. 295-6 e la bibliografia ivi citata.
⁷ Alcuni esempi in F. AST, Etude de cas, cit., p. 170 ss.; EAD., L’apport du droit à la non-discrimination à la protection du pluralisme religieux. Regards croisés des juridictions et de la HALDE, in B. DUARTE (dir.), Manifester sa religion: droits et limites, Paris, L’Harmattan 2011, p. 177 ss.
⁸ Supra, par. 1.1. In generale sul tema cfr. P.W. EDGE, Legal responses to Religious Difference, The Hague, Kluwer Law Int. 2002; D. FELDMAN, Civil Liberties and Human Rights in England and Wales, Oxford, Clarendon Press 2002², p. 70 ss.
Cfr. R. SANDBERG, Law and Religion, Cambridge University Press, 2011, p. 194; N. DOE, National Identity, the Constitutional Tradition and the Structures of Law on Religion in the United Kingdom, in Religions in the European Union Law, Proceedings of the colloquium Luxembourg/Trier, 21-22 November 1996, European Consortium for Church-State Research, Milano, Giuffré, 1998, p. 107 ss.
⁷ R. SANDBERG, Law and Religion, cit., p. 59; M. HILL, R. SANDBERG, N. DOE, Religion and Law in the United Kingdom, Kluwer Law Int. 2011, p. 45 ss.
⁷¹ R. AHDAR, I. LEIGH, Religious Freedom in the Liberal State, Oxford, OUP, 2005, p. 90 ss.; R. SANDBERG, Law and Religion, cit., p. 29 ss.
⁷² Tra le norme che tengono conto delle differenze di cui sono portatori alcuni gruppi religiosi, si possono ricordare a titolo esemplificativo le deroghe in favore dei Sikh previste dal Road Traffic Act 1988 (legge 15 nov. 1988, art. 16, che consente ai motociclisti di quella religione di indossare il turbante anziché il casco) e dal Criminal Justice Act 1988 (art. 139), che “accomoda” le regole sul
porto d’armi per consentire ai Sikh di avere con sé il coltello, anch’esso oggetto dal significato religioso. Cfr. S.S. JUSS, The Constitution and Sikhs in Britain, in «Brigham Young University Law Review», 1995, p. 523 ss.; M. HILL, Church and State in the United Kingdom: Anachronism or Microcosm?, in S. FERRARI, R. CRISTOFORI (eds.), Law and Religion in the 21st Century. Relations between States and Religious Communities, Farnham-Burlington, Ashgate 2010, p. 200.
⁷³ R. SANDBERG, Law and Religion, cit., p. 31 ss.
⁷⁴ In base all’art. 2 dello Human Righs Act, infatti, i giudici nazionali hanno l’obbligo di “tenere in considerazione” le decisioni di Strasburgo (art. 2).
⁷⁵ Cfr. cap. II, par. 1.1, nota n. 33. La giurisprudenza di Strasburgo oscilla tra casi di accomodamento (ad es. nella sent. Thlimmenos, citata) e valutazioni più limitate del diritto alla diversità (sent. 3 aprile 2012, Sessa v. Italia); si ricordi anche, per quanto riguarda il Regno Unito e il tema della discriminazione religiosa, il caso Eweida (citato), nel quale la Corte cerca di individuare un bilanciamento tra tutela delle diversità e limitazioni al diritto di libertà religiosa. In tema cfr. N. HERVIEU, Un nouvel équilibre européen dans l’appréhension des convictions religieuses au travail, in Stato, Chiese e Pluralismo confessionale, febbraio 2013; J. RINGELHEIM, Adapter l’entreprise à la diversité, cit., p. 19 ss.
⁷ R. SANDBERG, Law and Religion, cit., p. 191 ss., rileva che in vari casi i giudici britannici hanno prestato attenzione a specifiche esigenze religiose che richiedono una tutela positiva. Peraltro, alcuni Autori notano che nella fase di attuazione dello Human Rights Act si è tenuto conto del fatto che l’applicazione di alcuni articoli della CEDU avrebbe potuto contrastare con i diritti delle confessioni religiose (cfr. R. AHDAR, I. LEIGH, Religious Freedom in the Liberal State, cit., p. 327 ss.).
⁷⁷ A questo proposito, si è sottolineato che la garanzia di diritti collegati alle collettività presentano il rischio di concepire le identità di gruppo in modo rigido, in base a stereotipi e come se esistesse un legame di appartenenza immutabile (per cui i diritti sono garantiti o fuori o dentro il gruppo, senza concepire posizioni mediane), così N. COLAIANNI, Diritto pubblico delle religioni. Eguaglianza e differenze nello Stato costituzionale, Il Mulino, Bologna, 2012 (nuova ed. di Eguaglianza e diversità culturali e religiose), p. 24 ss.
⁷⁸ Le confessioni religiose nel Regno Unito hanno lo status di associazioni private (R. SANDBERG, Law and Religion, cit., p. 91). Peraltro, il tema dell’applicazione del principio di uguaglianza alle organizzazioni religiose non sembra avere qui la stessa problematicità che si osserva negli Stati che prevedono sistemi di riconoscimento dei culti: i privilegi della Church of England vengono, è vero, criticati e tacciati di anacronismo, ma risultano più simbolici che effettivi. In tema cfr. R. AHDAR, I. LEIGH, op. cit., p. 131 ss.)
⁷ Come si vedrà, esistono linee di tendenza diverse, a partire dall’inserimento nello Equality Act 2010 di norme che superano il sistema di ricorsi individuali contro la discriminazione (infra, cap. IV, par. 7).
⁸ Cfr. il report di A. DONALD, Religion or belief, equality and human rights in England and Wales, Equality and Human Rights Commission Research report n. 84, Manchester 2012, p. IV e im, dal quale emerge una delle questioni poste dall’applicazione del “nuovo” diritto antidiscriminatorio, sulla quale si avrà modo di tornare infra, cap. IV: quella del rapporto tra tutela dell’individuo e tutela del gruppo di appartenenza.
⁸¹ Fanno eccezione alcune norme specifiche, spesso legate al peso storicosociologico di alcune minoranze (ad esempio le leggi, già ricordate, in favore dei
Sikh).
⁸² Sui modelli di multiculturalismo, e con riferimento alle scelte “liberali” del Regno Unito, cfr. tra gli altri W. KYMLICKA, Multicultural Citizenship, Oxford, OUP 1995, p. 198 ss.; J. REX, La sociologia politica di una società multiculturale: l’esempio britannico, in T. BONAZZI, M. DUNNE (a cura di), Cittadinanza e diritti nelle società multiculturale, Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 121 ss.; RUNNYMEDE TRUST, The Future of Multi-ethnic Britain, London, Profile Book 2000; G. SARTORI, Pluralismo,multiculturalismo e estranei, cit. Da notare, peraltro, che l’ordinamento britannico ha storicamente affrontato il problema delle diversità a partire dagli aspetti etnici, che pur presuppongono una dimensione di gruppo (cfr. infra, par. 2.1, nota 121). Sul dibattito recente sul tema nel Regno Unito cfr. A. DONALD, Religion or belief, equality and human rights, cit., p. 16 ss.
⁸³ Cfr. supra, par. 1.2
⁸⁴ L’art. 7, 2° comma della Costituzione stabilisce che i rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica sono regolati dai Patti Lateranensi, poi modificati nel 1984 con l’Accordo di Villa Madama (legge di ratifica ed esecuzione n. 121/1985); in merito, per tutti, C. CARDIA, Manuale di diritto ecclesiastico, Bologna, Il Mulino, 1996², p. 227 ss.; F. FINOCCHIARO, Diritto ecclesiastico, Bologna, Zanichelli, 2003 , p. 115 ss..
⁸⁵ L’art. 8, 3° comma, relativamente alle confessioni diverse dalla cattolica, afferma che i rapporti di queste ultime con lo Stato «sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze». Questa disposizione, letta congiuntamente all’art. 7.2, individua il cosiddetto principio pattizio. In proposito, tra i molti: C. CARDIA, Manuale di diritto ecclesiastico, cit., p. 215 ss.; S. BERLINGÒ, voce Fonti del diritto ecclesiastico, in Digesto delle discipline pubblicistiche, vol. VI, Torino, Utet, 1991, p. 467 ss.; G. CASUSCELLI, S. DOMIANELLO, voce Intese con le confessioni religiose
diverse dalla cattolica, ivi, vol. VIII (1993), pp. 518-543; E. VITALI, A.G. CHIZZONITI, Manuale breve, cit., p. 12 ss.
⁸ B. RANDAZZO, Diversi ed eguali. Le confessioni religiose davanti alla legge, Milano, Giuffrè, 2008, p. 147, sottolinea come l’apparente contrarietà del sistema pattizio rispetto al principio di uguaglianza deve essere riletta alla luce del criterio secondo il quale l’uguaglianza non impone trattamenti identici, ma ammette, o talvolta richiede, un trattamento diversificato quando le situazioni da disciplinare sono differenti. Cfr. anche supra, par. 1.2.
⁸⁷ Questo modello segue quella che è stata efficacemente definita «teoria dei cerchi concentrici»: A.G. CHIZZONITI, Luci ed ombre della legislazione regionale, in AA.VV., Norme per la realizzazione degli edifici di culto. Atti dell’incontro di studio, Brescia 6 luglio 1999, supplemento a Ex Lege, 1999, 3, p. 30.
⁸⁸ Sul dibattito in Assemblea Costituente in merito alla redazione dell’art. 8.1 Cost. cfr. F. FINOCCHIARO, Diritto ecclesiastico, cit., p. 110 ss.; A. VITALE, Corso di diritto ecclesiastico, Milano, Giuffrè, 2005¹ , p. 193 ss.; G. LONG, Alle origini del pluralismo confessionale. Il dibattito sulla libertà religiosa nell’età della Costituente, Bologna, Il Mulino, 1990, p. 348 ss.
⁸ Sul collegamento tra art. 8 e principio di uguaglianza sostanziale cfr. F. FINOCCHIARO, Diritto ecclesiastico, cit., p. 174 ss.; più in generale sul significato del 1° comma dell’art. 8 si vedano C. CARDIA, Manuale, cit., p. 204 ss.; G. CASUSCELLI, S. DOMIANELLO, Intese con le confessioni religiose, cit., p. 422 ss.; F. FINOCCHIARO, Uguaglianza giuridica e fattore religioso, cit., p. 143 ss.; B. RANDAZZO, Diversi ed eguali, cit., p. 75 ss. e im.
Il primo comma dell’art. 8 costituisce il presupposto teorico per la
predisposizione di trattamenti differenziati delle confessioni religiose; accanto a questo, il principio di autonomia confessionale (2° co.) e quello pattizio (3° co.) individuano nella legislazione contrattata tra Stato e confessioni religiose la via principale attraverso la quale potranno essere disciplinate le specificità religiose. Lo Stato, infatti, nel rispetto della distinzione degli ordini e del principio di laicità, non potrà regolare materie relative alle caratteristiche interne ed ai precetti propri di una confessione (principio di autonomia confessionale); pertanto, nel momento in cui tali materie assumano una rilevanza nell’ambito civile, la negoziazione con le rappresentanze confessionali diventerà la via costituzionalmente legittima per un intervento da parte del legislatore. F. FINOCCHIARO, Diritto ecclesiastico, cit., 129 ss.; S. BERLINGÒ, Fonti, cit., p. 470 ss.; G. CASUSCELLI, S. DOMIANELLO, Intese, cit., p.428 ss.; A.G. CHIZZONITI, Le certificazioni confessionali nell’ordinamento giuridico italiano, Milano, Vita e Pensiero 2000, p. 114 ss.
¹ G. CASUSCELLI, Uguaglianza e fattore religioso, cit., p. 428 ss.; F. ONIDA, Appunti per una riflessione in tema di attuazione del quadro costituzionale in materia religiosa, cit., p. 423 ss.; da ultimo, anche la Cassazione, pronunciandosi sulla questione dell’accesso all’intesa (Cass., sezioni unite, sent. 28 giugno 2013 n. 16305, su ricorso del Consiglio dei Ministri avverso la pronuncia del Consiglio di Stato dell’18 novembre 2011, n. 6083) ha fatto riferimento alle intese come strumenti che devono assicurare, contemporaneamente, una diversificazione delle discipline e l’uguaglianza in materia religiosa.
² Cfr. E. VITALI, A.G. CHIZZONITI, Manuale breve di diritto ecclesiastico, cit., p. 39 ss.; C. CARDIA, Manuale, cit., pp. 192 e 248.
³ In proposito, alcuni elementi di riflessione sono stati posti dalle sentenze (richiamate alla nota n. 91) del Consiglio di Stato e della Cassazione sulla questione dell’accesso all’intesa all’Associazione degli Atei e Agnostici Razionalisti (UAAR). Senza entrare nel dettaglio della vicenda, si può ricordare che le decisioni hanno avuto ad oggetto proprio alcuni aspetti procedurali, quali la qualificazione dell’Associazione come “confessione religiosa”, condizione
preliminare per la negoziazione, e la natura (politica o meno) della decisione della Pubblica Amministrazione circa tale caratterizzazione. Cfr. J PASQUALI CERIOLI, Accesso alle intese e pluralismo religioso: convergenze apicali di giurisprudenza sulla “uguale libertà ” di avviare trattative ex art. 8 Cost., terzo comma, in «Stato, Chiese e pluralismo confessionale», luglio 2013; Id., Il diritto all'avvio delle trattative per la stipulazione delle intese ex art. 8, 3° comma, Cost. (brevi note a Cons. Stato, sez. IV, sent. 18 novembre 2011, n. 6083), in «Stato, Chiese e pluralismo confessionale», aprile 2012; M. CANONICO, La stipulazione di intese con lo Stato: diritto delle confessioni religiose o libera scelta del Governo?, in «Stato, Chiese e pluralismo confessionale», aprile 2012.
⁴ Questo era il loro fine principale, come sottolineato in dottrina (cfr., tra i molti: G. CASUSCELLI, Uguaglianza e fattore religioso, cit., p. 428 ss.; A. VITALE, Corso di diritto ecclesiastico, cit., p. 243 ss.; F. ONIDA, Appunti per una riflessione, cit., p. 423 ss.; V. TOZZI, La cooperazione per mezzo di accordi fra Stato e confessioni, cit., p. 129 ss.).
⁵ Come notato da F. ONIDA, Appunti per una riflessione in tema di attuazione del quadro costituzionale in materia religiosa, cit., p. 429, “il problema [del rispetto del principio di uguaglianza] sarebbe molto più grave – praticamente insolubile – se per mezzo di Intese potesse essere concesso qualsiasi privilegio” e non soltanto le specificità confessionali.
La struttura ed i contenuti delle intese finora stipulate presentano più analogie che differenze, tanto da far parlare di “intese fotocopia” (R. BOTTA, Manuale, cit., p. 112; A. VITALE, Corso di diritto ecclesiastico, cit., p. 243).
⁷ Sono note le difficoltà di giungere all’approvazione di una legge generale sulla libertà religiosa, per la quale vari progetti di legge sono stati presentati negli ultimi vent’anni e mai giunti all’approvazione. Sul tema cfr., per tutti, L. DE GREGORIO, La legge generale sulla libertà religiosa. Disegni e dibattiti parlamentari, Tricase (LE) Libellula ed. 2012; i contributi in V. TOZZI - G.
MACRÌ - M. PARISI (a cura di), Proposta di riflessione per l'emanazione di una legge generale sulle libertà religiose, Torino, Giappichelli 2010 e quelli raccolti nel numero monografico de «Il diritto ecclesiastico», 2007, n. 1-2, “Studi e opinioni sul progetto di legge sulla libertà religiosa”. Accanto a questa problematica, si è assistito anche ad una lunga fase di stallo nella elaborazione di nuove intese, giunte ad approvazione solo di recente e anch’esse strutturate secondo il medesimo “schema fotocopia”. Si ricordi, ad ogni modo, che esistono alcune, benché limitate, forme di tutela nelle norme unilaterali, prima fra tutte la legge n. 1159 del 1929 che – depurata, anche grazie all’intervento della Corte costituzionale, degli aspetti liberticidi ed illiberali tipici del periodo precostituzionale – ha dimostrato in alcune occasioni di essere uno strumento di risposta alle esigenze delle confessioni senza intesa. Non mancano altre norme unilaterali a garanzia della libertà religiosa, anche nella legislazione regionale: a tal proposito, la Corte costituzionale ha affermato che una “disciplina, posta da una legge comune, volta ad agevolare l’esercizio di un diritto di libertà dei cittadini” non può applicarsi alle sole confessioni con intesa, pena la violazione del principio di uguaglianza e non discriminazione (così nella celebre sentenza 27 aprile 1993, n. 195).
⁸ Come si è ora visto, l’uguaglianza non viene applicata in modo assoluto alla posizione giuridica delle confessioni religiose: in estrema sintesi, nel Regno Unito vi è una Chiesa di Stato e quindi una confessione sola (la Church of England) gode di un trattamento giuridico particolare; in Italia lo status delle confessioni è “ragionevolmente differenziato” a seconda della presenza di uno statuto o di un’intesa; in Francia si mantiene in vigore, in Alsazia e Mosella, il concordato napoleonico con la Chiesa cattolica e la legislazione che attribuisce ad alcune confessioni religiose uno status particolare.
Si tratta di una situazione simile, per alcuni aspetti, a quella che si può osservare circa l’attuazione del quadro costituzionale sui rapporti con le confessioni religiose: gli strumenti per il governo del pluralismo e per la tutela delle diversità sono previsti, ma nella loro predisposizione non sempre si realizza una simile tutela. Questa “tendenza”, relativamente al diritto antidiscriminatorio, emergerà più chiaramente nell’analisi della prassi e della giurisprudenza (cfr. infra, capitolo IV).
¹ Cfr. tra gli altri, N. FIORITA, Le direttive comunitarie, cit., p. 374 ss.; M. AIMO, Le discriminazioni basate sulla religione, cit., p. 73 ss.
¹ ¹ Sulle origini del diritto antidiscriminatorio britannico e sulle nozioni utilizzate cfr. B. HEPPLE, S. FREDMAN, Labour law and industrial relations in Great Britain, Deventer - Boston, Kluwer, 1992, p. 179 ss.
¹ ² D. SCHIEK, L. WADDINGTON, M. BELL et al. (eds.), Cases, materials, cit., p. 14 ss.
¹ ³ Cfr. supra, par. 1.1.
¹ ⁴ Il Race Relations Act 1976, del 22 novembre 1976, è stato successivamente emendato nel 2000 e nel 2003.
¹ ⁵ In particolare, l’ordinamento britannico, al termine del secondo conflitto mondiale, si trovava a dover governare una massiccia immigrazione proveniente dalle ex colonie e la conseguente frammentazione etnica del tessuto sociale. La differenziazione etnica e culturale verificatasi nella società britannica si accompagnava con una situazione del tutto peculiare dal punto di vista delle politiche della cittadinanza: difatti, i primi immigrati, giunti nella “madrepatria” già nell’immediato dopoguerra, erano a tutti gli effetti di nazionalità britannica, in base alla nozione di «British subject», in vigore durante l’epoca coloniale ed abolita solo alla fine degli anni ’40. Il loro trattamento, se all’inizio fu equiparato a quello dei cittadini inglesi, col tempo subì un deterioramento, anche in conseguenza di politiche migratorie più restrittive, elaborate negli anni ’60 per far fronte ad una fase di minore sviluppo economico. Gli immigrati continuavano, così, a rappresentare una fonte di manodopera a basso costo per
l’economia inglese, ma non potevano più godere automaticamente dello status di cittadini e iniziavano a chiedere migliori condizioni di vita, pari opportunità sul lavoro e nell’istruzione, protezione dagli episodi di razzismo. Si poneva, già allora, il problema della convivenza multiculturale, e una prima risposta fu l’adozione di leggi sulla discriminazione razziale. Cfr. S. FREDMAN, Discrimination law, cit., p. 39 ss.; STRAZZARI, Discriminazione razziale e diritto, cit., 320 ss.
¹ Come si è visto supra, par. 1.1, infatti, in base alla rule of law, ogni esercizio del potere dovrà essere autorizzato dalla legge e dunque, a contrario, se non esiste una limitazione stabilita per legge, le singole libertà finiscono coll’acquisire la massima estensione possibile. Per limitare gli atti discriminatori, talvolta derivanti dall’autonomia privata e dall’esercizio di libertà economiche, occorre, quindi, stabilire espliciti divieti. È con il Sex Discrimination Act 1975 che si prevede per la prima volta la possibilità di introdurre ricorsi individuali di fronte ai tribunali civili o del lavoro, in applicazione dei divieti di discriminazione; lo scopo di stabilire strumenti di ricorso sarà alla base anche del Race Relations Act 1976, cfr. B. HEPPLE, Equality. The new Legal Framework, Oxford-Portland, Hart, 2011, p. 9. In dottrina viene spesso ricordato come le singole tipologie di discriminazione (ad esempio quella fondata sulla razza) fossero legittime prima che intervenisse un’apposita legge in materia: cfr. B. HEPPLE, Race Relations Act 1965, in «The Modern Law Review», 1966, 3, p. 807.
¹ ⁷ Lo stratificarsi di norme, concetti e giurisprudenza del tema consente di individuare un vero e proprio settore del diritto («antidiscrimination law») con nozioni e meccanismi di tutela ben precisi. Oltre alle norme sulla discriminazione fondata sulla razza e sul sesso, già ricordate, nel 1995 è stato introdotto il divieto di discriminazione fondata sulla disabilità (Disability Discrimination Act 1995 e successive modifiche); altri divieti sono stati sanciti con la trasposizione delle direttive comunitarie del 2000, come vedremo tra breve. Tali leggi sono state per la maggior parte abrogate dall’Equality Act 2010 e permangono in vigore solo nell’Irlanda del Nord. Una tabella delle norme vigenti è in A. MCCOLGAN, Report on Measures to Combat Discrimination: Directives 2000/43/EC and 2000/78/EC. Country Report 2011 United Kingdom,
Migration Policy Group, Bruxelles, 2012, p. 178, http://tinyurl.com/p2h4lwj.
¹ ⁸ A. MCCOLGAN, Reconfiguring Discrimination Law, in «Public Law», 2007, p. 75 ss.
¹ K. MONAGHAN, Equality Law, cit., p. 7 ss.
¹¹ Da notare che, proprio in ossequio al principio secondo cui un comportamento è legittimo se non vietato da una regola giuridica, gli atti discriminatori illeciti («statutory torts» o «unlawful acts») sono individuati in modo estremamente dettagliato, elencando le singole attività e le categorie di soggetti punibili (datori di lavoro, ordini professionali, ecc.).
¹¹¹ In qualche caso, il problema delle diversità religiose è stato affrontato attraverso la legislazione sulla discriminazione razziale, grazie ad un’interpretazione estensiva del concetto di razza, nella quale sono state ricomprese le tradizioni religiose di un gruppo. Così, ebrei e Sikh avevano ottenuto di essere classificati come gruppo etnico, protetto dal Race Relations Act (v. la celebre sentenza della House of Lords del 24 marzo 1982, Mandla v. Dowell-Lee. Le sentenze britanniche che saranno citate, salvo quando diversamente specificato, sono state consultate nel database www.bailii.org). Una simile operazione, evidentemente, poteva essere fatta solo per quelle religioni che avevano un legame con un’identità etniconazionale, mentre rimanevano fuori dalla tutela antidiscriminatoria un ampio insieme di convinzioni religiose, oltre che filosofiche e personali in senso lato. Cfr. B. HEPPLE, M. COUSSEY, T. CHOUDHURY, Equality: a new framework, cit., p. 47 ss.; H. BEYNON, N. LOVE, Mandla and the Meaning of ‘Racial Group’, in «Law Quarterly Review», 1984, 120 ss.
¹¹² P. WELLER, The dimension and Dynamics of Religious discrimination:
Findings and Analysis from the UK, in N. GHANEA (ed. by), The Challenge of Religious Discrimination at the Dawn of the New Millennium, Leiden-Boston, Martinus Nijhoff, 2003, p. 61 ss.
¹¹³ Contrasti che, invece, erano presenti nell’Irlanda del Nord, dove è sancito un divieto specifico di discriminazione religiosa sin dagli anni ’70 (Fair Employment Act 1976 e Fair Employment and Treatment Order, con le successive modifiche). Nell’Irlanda del Nord la legislazione antidiscriminatoria ha, quindi, seguito un percorso totalmente differente rispetto alla Gran Bretagna, che non sarà descritto in questa sede, tranne che per un aspetto peculiare relativo alle azioni positive (cfr. infra, par. 5.1.1). Per approfondimenti e ulteriori riferimenti bibliografici cfr. S. FREDMAN, Discrimination law, cit., p. 143 ss.; B. HEPPLE, M. COUSSEY, T. CHOUDHURY, Equality: a new framework, cit., p. 67 ss.
¹¹⁴ P. WELLER, The dimension and Dynamics of Religious discrimination, cit., p. 60.
¹¹⁵ In tema cfr. St. J. A. ROBILLIARD, Should Parliament Enact a Religious Discrimination Act?, in «Public Law», 1978, pp. 379 ss. Da ricordare che, al di là dell’assenza di un divieto specifico di discriminazione, le esigenze di alcune minoranze religiose erano state prese in considerazione già prima dell’attuazione delle direttive europee (cfr. supra, par. 1.3).
¹¹ Fanno eccezione alcune norme che si riferivano ad alcune circoscritte fattispecie, nell’ambito del lavoro: ad esempio, le disposizioni che vietavano il trattamento sfavorevole nei confronti degli insegnanti in ragione delle loro credenze (art. 146 del Education Act 1996, c. 56) o il licenziamento per motivi (anche) religiosi (art. 58 del Employment Protection (Consolidation) Act, c. 38, del 1978). Quest’ultima norma, in ogni caso, non stabiliva un divieto generale di discriminazione, ma si riferiva soltanto al licenziamento seguito al rifiuto – per ragioni di coscienza e di religione – del lavoratore di aderire a un sindacato o ad
altra organizzazione di settore (cfr. ST. J.A. ROBILLIARD, Should Parliament Enact a Religious Discrimination Act?, cit., p. 387 ss.; N. DOE, The Legal Framework of the Church of England, Oxford, Clarendon, 1996, p. 273). Una clausola generale di non discriminazione è presente, inoltre, nello Human Rights Act 1998, il quale, tuttavia, come già accennato, non si applica ai rapporti tra privati, risultando scarsamente efficace nella tutela dalla discriminazione – soprattutto quella «di fatto» (cfr. K. EWING, The Human Rights Act and Labour Law, in «Industrial Law Journal», 1998, p. 275 ss.).
¹¹⁷ A. MCCOLGAN, Reconfiguring Discrimination Law, cit., p. 75 ss.
¹¹⁸ Cfr. L. VICKERS, The Employment Equality (Religion or Belief) Regulations 2003, in «Industrial Law Journal», 2003, 3, p. 188 ss.; K. MONAGHAN, Equality Law, cit., p. 265 ss. Da notare che, anche in questa occasione, il legislatore britannico ha scelto di adottare il consolidato approccio «ground based», sebbene la direttiva 2000/78 avesse una struttura differente. A fianco del regolamento appena citato, ulteriori provvedimenti normativi hanno successivamente disciplinato gli altri fattori di rischio considerati dalle direttive. In generale v. anche D. MCCLEAN, United Kingdom, in M. HILL (ed.by), Religion and Discrimination Law in the European Union, Trier, European Consortium for Church & State Research, 2012, p. 333 ss.
¹¹ La legge, approvata il 16 febbraio 2006, ha vietato infatti la discriminazione fondata su religione e credenza nell’accesso a beni e servizi offerti al pubblico (art. 46), nella vendita o affitto di immobili (art. 47-48), nella scuola (artt. 49-5051); inoltre si stabiliva l’obbligo per le pubbliche autorità di non discriminare nell’esercizio delle proprie funzioni (art. 52). Per una prima lettura R. SANDBERG, To Equality and Beyond: Religious Discrimination and the Equality Act 2006, in «Ecclesiastical Law Journal», 2006, p. 470 ss.; S. COGLIEVINA, L’“Equality Act 2006” ed il divieto di discriminazione religiosa, in «QDPE», 2006, 2, 425 ss.
¹² Si tornerà in seguito su questi concetti (par. 2.2), analizzando come sono stati codificati nell’Equality Act 2010.
¹²¹ Cfr. BELL M., Diversity of religion and belief at work – the new legal framework, in A. MCCOLGAN (ed. by), Achieving Equality at work, London, Institute of Employment Rights, 2003, pp. 64-65; B. HEPPLE, M. COUSSEY, T. CHOUDHURY, Equality: a new framework, cit., p. 21 ss. L’Equality Act 2006 non adottò tale soluzione, benché anche a livello politico si fosse iniziato a riflettere sul punto.
¹²² Dopo le numerose consultazioni (sulle quali cfr. DEPARTMENT FOR COMMUNITIES AND LOCAL GOVERNMENT, Discrimination Law Review. A Framework for Fairness: Proposals for a Single Equality Bill for Great Britain, London, 2007), la legge è stata approvata in tempi piuttosto rapidi: la proposta di legge è stata presentata nell’aprile 2009 e approvata poco meno di un anno dopo (cfr. http://services.parliament.uk/bills/2009-10/equality/stages.html). In fase di elaborazione della legge del 2010, alcuni autori avevano evidenziato, di fronte al «patchwork normativo» esistente, l’opportunità di riflettere sull’assenza di un principio generale di uguaglianza, al quale poter fare riferimento, ad esempio in caso di lacune legislative. La proposta di inserire nella legge l’affermazione del principio di uguaglianza o una clausola generale di non discriminazione non è stata, però, seguita. Cfr. B. HEPPLE, Equality. The new legal framework, cit., p. 12 ss.; K. MONAGHAN, Equality Law, cit., p. 3. Sull’Equality Act e il fattore religioso: G. PITT, Keeping the Faith: Trends and Tensions in Religion or Belief Discrimination, in «ILJ», 2011, 4, pp. 384 ss. (numero monografico sulla nuova legge).
¹²³ Degli atti in materia di discriminazione religiosa, rimane in vigore unicamente la parte dell’Equality Act 2006 che ha istituito la Commission for Equality and Human Rights.
¹²⁴ In generale cfr. S. HANNET, Equality at the Intersections: the Legislative and
Judicial Failure to Takle Multiple Discrimination, in «Oxford Journal Legal Studies», 2003, 1, p. 65 ss.
¹²⁵ Cfr. Blackstone’s Guide to the Equality Act 2010, ed. by J. WADHAM, A. ROBINSON, D. RUEBAIN, S. UPPAL, Oxford, OUP, 2010, p. 36 ss.
¹² In tema cfr. B. HEPPLE, Equality. The new legal framework, cit., p. 62.
¹²⁷ Discrimination Law Review. A Framework for Fairness, cit., spec. p. 13 ss.
¹²⁸ C. BOURN, J. WHITMORE, Anti-Discrimination Law in Britain, London, Sweet&Maxwell, 1996, p. 3 ss.
¹² Su questi strumenti cfr. B. HEPPLE, Equality, cit., p. 19 ss.
¹³ Cfr. E. MCLAUGHLIN, From Negative to Positive Equality Duties: The Development and Constitutionalisation of Equality Provisions in the UK, in «Social Policy & Society», 2007, p. 115 ss.
¹³¹ In merito cfr. B. HEPPLE, Equality. The new legal framework, cit., p. 128 ss.
¹³² Cfr. supra, par. 1.2.
¹³³ In sintesi si può ricordare che la discriminazione, già nei Regolamenti del 2003 e nell’Equality Act 2006, così come nella nuova legge, era definita come un trattamento sfavorevole, e non soltanto differente (S. FREDMAN, Discrimination law, cit., p. 94 ss.) e interpretata come un fenomeno oggettivo, da individuare a prescindere dall’intenzionalità dell’azione (cfr. M. BELL, Direct discrimination, in D. SCHIEK, L. WADDINGTON, M. BELL et al. (eds.), Cases, materials and Text on […] Non-Discrimination Law, cit., p. 227); inoltre, aveva un grande rilievo il momento comparativo e si era prevista la possibilità di operare comparazioni ipotetiche (ora sancite con la formula in base alla quale si confronta la situazione della vittima rispetto a come «sarebbe stata trattata» un’altra persona in una situazione analoga). Su quest’ultimo punto e sul problema di trovare un corretto termine di paragone («comparator») cfr. S. FREDMAN, op. ult. cit., p. 109; B. HEPPLE, T. CHOUDHURY, Tackling religious discrimination, cit., p. 34; D. STRAZZARI, Discriminazione razziale e diritto, cit., p. 329 ss. (ivi anche per riferimenti alla giurisprudenza).
¹³⁴ È l’art. 10 che nell’Equality Act vigente definisce che cosa si intende per religion e per belief. In tema rinvio a S. COGLIEVINA, Divieti di discriminazione e fattore religioso: la normativa britannica dopo l'«Equality Act 2010», in «Quad. dir. pol. Eccl.», 2011, 2, p. 332 ss.; G. PITT, Keeping the Faith, cit., p. 386 ss.
¹³⁵ Cfr., oltre agli autori citati nella nota n. 133, B. HEPPLE, Equality. The new legal framework, cit., p. 55 ss..
¹³ Così B. HEPPLE, Equality, cit., p. 59.
¹³⁷ Ad esempio nella sent. 26 aprile 2013, IPC Media Ltd v Millar (2013 UKEAT n. 0395_12_2604, http://tinyurl.com/p5nrc6m) si afferma che «The use of the phrase “because of” in place of the terminology of “reason” or “grounds” in the predecessor legislation clearly does not connote any different test»; la sent. 27 marzo 2013 Dowsett, R (on the application of) v Secretary of State for Justice
[2013] EWHC 687 (all’indirizzo http://tinyurl.com/ovhvxe3) ribadisce che il motivo soggettivo non è rilevante (punto n. 48).
¹³⁸ Art. 45.1 dell’Equality Act 2006 e art. 3.1 dei regolamenti del 2003, come modificato dall’art. 77.2 dell’Equality Act 2006.
¹³ Art. 45.2 dell’Equality Act 2006. Una precisazione particolarmente importante, se si tiene conto che il fattore religioso non sempre è «visibile» all’esterno e che spesso all’appartenenza nazionale o etnica viene collegata (anche erroneamente) la presenza di una determinata religione, generando pregiudizi e trattamenti di sfavore particolarmente condannabili, soprattutto nei confronti delle minoranze.
¹⁴ Cfr. B. HEPPLE, Equality. The new legal framework, cit., p. 60; l’Autore nota, tuttavia, che sarebbe stato preferibile ribadire esplicitamente la tutela dalla discriminazione «by association» e «based on perception».
¹⁴¹ B. HEPPLE, Equality. The new legal framework, cit., p. 64 ss. individua quattro formulazioni differenti nella legislazione precedente l’Equality Act.
¹⁴² Entrambi gli elementi sono necessari: non è sufficiente rilevare il carattere discriminatorio di una misura nei confronti di un gruppo, ma deve essersi verificato anche uno svantaggio per l’individuo. Si è così cercato di conciliare la dimensione collettiva con quella individuale. La prima, in particolare, è tipica della discriminazione indiretta che, specialmente ai suoi esordi nella legislazione statunitense, si collega all’esistenza di un “disparate impact”, ovvero una conseguenza svantaggiosa della norma neutra nei confronti di un intero gruppo. In tema cfr. D. SCHIEK, Indirect discrimination, cit., p. 397 ss. Le definizioni previgenti coincidono su questo punto con quella dell’Equality Act 2010, segno dell’esistenza di caratteristiche consolidate nel diritto antidiscriminatorio
nazionale: cfr. DTI (DEPARTMENT OF TRADE AND INDUSTRY), Explanation of the provisions of the: Employment Equality (Sexual Orientation) Regulations 2003 and the Employment Equality (Religion or Belief) Regulations 2003, p. 7 (disponibile all’indirizzo internet www.berr.gov.uk/files/file29350.pdf) e, relativamente all’Equality Act 2006, S. COGLIEVINA, L’Equality Act 2006…, cit., p. 429 ss.
¹⁴³ Su questo aspetto, specialmente riguardo alle definizioni britanniche previgenti, S. FREDMAN, Discrimination law, cit., p. 109 ss.; C. BARNARD, B. HEPPLE, Substantive equality, cit., p. 568; B. HEPPLE, T. CHOUDHURY, Tackling religious discrimination, cit., p. 36 ss.; più in generale M.V. BALLESTRERO, Eguaglianza e nuove differenze, cit., p. 512 ss.
¹⁴⁴ Cfr. Equality Act 2010. Explanatory Notes, all’indirizzo http://tinyurl.com/pbc74wt. Sulla tipologia di misure neutre che possono integrare una violazione della discriminazione indiretta, si è notato che le norme più risalenti (il Race Relations Act e il Sex Discrimination Act) si riferivano a «requirement or condition», ovvero a specifici requisiti che il soggetto non poteva soddisfare a causa di una sua caratteristica (la razza o il sesso), ponendo, quindi, l’accento sullo svantaggio subito dall’individuo. A partire dai regolamenti del 2003 attuativi delle direttive, la definizione britannica della discriminazione indiretta fa, invece, riferimento a «provision, criterion or practice», chiamando in causa non soltanto singoli requisiti aziendali, ma tutta una serie di misure che possono ricomprendere anche leggi dello Stato o regolamenti di settore. In tema, ampiamente, D. SCHIEK, Indirect discrimination, cit., p. 348 ss.; D. STRAZZARI, Discriminazione razziale e diritto, cit., p. 341 ss.; C. BARNARD, B. HEPPLE, Substantive equality, p. 569.
¹⁴⁵ Tale definizione coincide, anche se non letteralmente, con quella già presente nei regolamenti del 2003; rispetto all’Equality Act 2006, invece, si sono stabilite condizioni più rigide per quel che concerne la giustificazione della discriminazione indiretta. Per la legge del 2006, infatti, la misura neutra non era discriminatoria semplicemente se era motivata da un fattore estraneo alla
religione della vittima; non era necessario, invece, dimostrare che fosse proporzionale rispetto allo scopo, come richiesto dalle direttive (l’art. 45.3 dell’Equality Act 2006 richiedeva che la misura neutra fosse giustificata ragionevolmente «by reference to matters other than B’s religion or belief»). Cfr. K. MONAGHAN, Equality Law, cit., p. 342 ss.
¹⁴ Si deve ricordare, a tal proposito, che il divieto di discriminazione indiretta riguarda la possibilità di sanzionare misure uguali per tutti e di richiedere trattamenti differenziati sulla base dei vari fattori tutelati dalla legge. Di conseguenza, è particolarmente rilevante la previsione di criteri di giustificazione, poiché senza di essi si stabilirebbe l’onere di tener conto in ogni caso delle diversità (religiose, etniche, ecc.), senza poter controbilanciare la loro regolamentazione con l’eventuale esigenza di operare trattamenti indifferenziati (ad esempio per fini aziendali). In tema cfr. A. MCCOLGAN, Report on Measures to Combat Discrimination, cit., p. 70 ss. e, in generale, L. VICKERS, Religion and Belief Discrimination in Employment – the EU Law, cit., p. 13 ss.
¹⁴⁷ Cf. L. VICKERS, Is all harassment equal? The case of religious harassment, cit., p. 579.
¹⁴⁸ L’art. 29.8 esclude l’applicazione del divieto di molestie nell’offerta di servizi pubblici; gli art. 33.6, 34.4 e 35.4 nel settore immobiliare; l’art. 85.10 nelle scuole; l’art. 103.2 nell’ammissione ad associazioni.
¹⁴ Il comma 4 dell’art. 26 prevede, in questo senso, che nel decidere se una condotta costituisca una molestia, «each of the following must be taken into - (a) the perception of B; (b) the other circumstances of the case; (c) whether it is reasonable for the conduct to have that effect» (corsivo mio). Cfr. L. VICKERS, Is all harassment equal?, cit., im.
¹⁵ L’art. 5 degli Employment Equality (Religion or Belief) Regulations 2003 e oggi l’art. 26 dell’Equality Act 2010 utilizzano una formula disgiuntiva «the conduct has the purpose or effect of - (i) violating B’s dignity, or (ii) creating an intimidating, hostile, degrading, humiliating or offensive environment for B».
¹⁵¹ B. HEPPLE, Equality. The new legal framework, cit., p. 80 ss. Un discorso a parte andrebbe fatto qualora le molestie fondate sulla religione integrino condotte vilipendiose penalmente rilevanti (cfr. L. VICKERS, Religion and Belief Discrimination in Employment – the EU Law, cit., p. 16). A questo proposito è da notare che nell’ordinamento britannico le molestie sono vietate anche dal diritto penale, in particolare dal Public Order Act 1986: per approfondimenti cfr. I. LEIGH, Hatred, Sexual Orientation, Free Speech and Religious Liberty, in «Ecclesiastical Law Journal», 2008, p. 337 ss.
¹⁵² Ciò anche in ragione del fatto che normalmente la vittima di molestie nell’ambiente lavorativo si trova in una posizione di particolare debolezza. Si pensi ai dipendenti appartenenti a minoranze etniche o religiose, che possono essere facilmente sottoposti a trattamenti vessatori o umilianti. A questo proposito è stato notato (L. VICKERS, Is all harassment equal?, cit., p. 588) che una restrizione della libertà di espressione derivante dal divieto di compiere molestie può essere più facilmente giustificabile quando applicata all’ambiente di lavoro, nel quale spesso un soggetto non può sottrarsi dall’ascolto di espressioni offensive.
¹⁵³ B. HEPPLE, Equality. The new legal framework, cit., p. 79.
¹⁵⁴ Ad esempio, comportamenti religiosamente orientati possono integrare trattamenti sfavorevoli verso persone omosessuali oppure, viceversa, una condotta collegata alle tendenze sessuali può rivelarsi indesiderata ed umiliante per un lavoratore credente: cfr. L. VICKERS, Is all harassment equal?, cit., p. 579 ss. Da notare che la nuova definizione di molestie «related to [religion]» ha determinato un riallineamento della normativa britannica con le direttive europee
del 2000 (K. MONAGHAN, Equality Law, cit., p. 351 ss.).
¹⁵⁵ Oltre agli aspetti già ricordati, si è notato che anche l’importanza attribuita al momento comparativo (rilevabile soprattutto nella giurisprudenza) pone l’accento su criteri di verifica non soggettivi ma oggettivi (cfr. D. STRAZZARI, Discriminazione razziale e diritto, cit., p. 343).
¹⁵ S. LATRAVERSE, Report on Measures to Combat Discrimination: Directives 2000/43/EC and 2000/78/EC. Country Report 2011 , Migration Policy Group – Network of Legal Experts on Discrimination, 2012, disponibile all’indirizzo www.non-discrimination.net, p. 3 ss.; GROUPE D’éTUDE ET DE LUTTE CONTRE LES DISCRIMINATIONS (GELD), Le recours au droit dans la lutte contre les discriminations : la question de la preuve, Note n. 2 du Conseil d’orientation du GELD, Octobre 2000; M. MINE, Approche juridique de la discrimination raciale au travail : une comparaison - Royaume-Uni, in «Travail et Emploi», 1999, p. 91 ss.
¹⁵⁷ In particolare è stato notato che riguardo alla discriminazione razziale si potevano annoverare, almeno precedentemente al recepimento delle direttive comunitarie, pochissime sentenze, tra le quali Cour de cassation, chambre sociale, 8 Aprile 1992, No. 256, Boufagher; Cour de cassation, chambre sociale, 10 febbraio 1998, n. 78, Mohamed Mamri (v. GELD, Le recours au droit, cit., p. 17; D. LOCHAK, Réflexions sur la notion de discrimination, in «Droit Social», 1987, p. 778 ss.). Le sentenze si, salvo quando diversamente specificato, sono reperibili nel sito www.legi.gouv.fr.
¹⁵⁸ Cfr., tra gli altri, C. AUBIN, B. JOLY, De l’égalité à la non-discrimination: le développement d’une politique européenne et ses effets sur l’approche française, in «Droit Social», 2007, n. 12, p. 1299 ss.; K. BERTHOU, New Hopes for French Anti-Discrimination Law, in «IJCLLIR», 2003, p. 109 ss.
¹⁵ É FASSIN, Introduction. Actualité des discriminations, in É FASSIN, J.-L. HALPÉRIN, Discriminations: pratiques, savoirs, politiques, Paris, La Documentation Française 2009, p. 15.
¹ Cfr. supra, par. 1.1. In tema v. anche J.-L. HALPÉRIN, Le droit français et les discriminations, in É FASSIN, J.-L. HALPÉRIN, op. ult. cit., p. 23 ss., il quale sottolinea che le persone fisiche o giuridiche non sono obbligate a rispettare lo stesso obbligo di uguaglianza che si applica al legislatore – perlomeno in alcuni ambiti, ad esempio i rapporti di lavoro, che possono essere stabiliti in libertà e discrezionalità, pur nel rispetto di alcune limitazioni di carattere generale.
¹ ¹ Ad esempio si parla di diritti «senza distinzioni» («sans distinction») nell’art. 6 della legge 13 luglio 1983, n. 83-634, relativa ai diritti e doveri dei funzionari pubblici (Loi Le Pors); nel Code de l’éducation, approvato nel 2000, il cui articolo L442-1 garantisce l’accesso agli istituti scolastici (anche privati) a tutti, «sans distinction d’origine, d’opinion ou de croyances». Ancora si può ricordare la legge 22 dicembre 1972, n. 72-1143, che all’art. 2 prevede, per realizzare l’uguaglianza tra donne e uomini nella remunerazione, che quest’ultima sarà stabilita da regole identiche per i due sessi. Sulla lettura dell’uguaglianza, che sta alla base di queste scelte, cfr. supra, par. 1.2; v. anche M.T. LANQUETIN, voce Discrimination, in Repertoire de droit du travail, Dalloz, 2010, par. 3 e ss.
¹ ² Cfr. parte I, cap. II, par. 1.1.
¹ ³ D. STRAZZARI, Discriminazione razziale e diritto, cit., p. 214 ss. e im.
¹ ⁴ Per quanto riguarda le norme che, pur non dirette a discriminare, determinano un trattamento sfavorevole, l’ordinamento se ha mostrato molte esitazioni nell’introdurre (e poi applicare) il concetto di discriminazione indiretta. Da un lato, le disposizioni normative uguali per tutti sono solitamente ritenute
aprioristicamente legittime (nel rispetto del principio di uguaglianza) e non si intende introdurre un obbligo di trattamenti differenziati (CONSEIL D’ÉTAT, Sur le principe d’égalité, cit., p. 35 ss.; S. BRISSY, Discriminations, in JurisClasseur Travail Traité, fasc. 17-11, Lexis Nexis, par. 8), dall’altro la discriminazione è solitamente concepita – anche a causa del peso del diritto penale per questa materia – come atto intenzionale (S. BRISSY, op. ult. cit., par. 11). La difficoltà con la quale la discriminazione – intesa in questi termini – emerge(va) nell’ordinamento se ha fatto parlare persino di “invenzione” della discriminazione, e ciò da il segno anche dell’estraneità di tale concetto in questo Paese (cfr. D. FASSIN, L’invention française de la discrimination raciale, in «Rev. Fr. Sc. Pol.», vol. 52, 2002, n. 4, p. 403 ss. V. anche F. LEMAIRE, La notion de non-discrimination dans le droit français : un principe constitutionnel qui nous manque, in «RFDA» 2010, p. 301.
¹ ⁵ S. LATRAVERSE, Report, cit., p. 4 ss.
¹ L’art. 225-1 del Codice penale definisce la discriminazione come una differenziazione tra le persone in ragione di determinati fattori: «Constitue une discrimination toute distinction operée entre les personnes […]».
¹ ⁷ Legge 1° luglio 1972, n. 72-546, Loi relative à la lutte contre le racisme, in JORF, 2 luglio 1972, emanata ad un anno di distanza dalla ratifica della Convenzione ONU sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale (CERD).
¹ ⁸ Alcune disposizioni del Codice penale, modificate dalla Loi Pleven e da successive norme, tra cui la legge 12 luglio 1990, n. 90-602 (Loy Gayssot), vietavano la discriminazione razziale e religiosa in un campo di applicazione piuttosto ampio. In particolare: l’art. 187-1 del codice vietava alle pubbliche autorità di negare l’accesso a un diritto a causa dell’appartenenza religiosa, etnica o nazionale di un individuo; l’art. 416 sanzionava chiunque avesse rifiutato o sottoposto a condizioni la fornitura di beni o servizi, oppure avesse
rifiutato l’assunzione o avesse licenziato qualcuno, sempre in ragione dell’appartenenza etnica, religiosa o nazionale. Con la loi Pleven, tra l’altro, si era anche modificata la Loi sur la liberté de la presse del 29 luglio 1881, introducendovi il divieto di atti collegati al razzismo e l’incitamento all’odio razziale e religioso (cf. A. GIANFREDA, Diritto penale e religione tra modelli nazionali e giurisprudenza di Strasburgo (Italia, Regno Unito e Francia), Milano, Giuffrè 2012, p. 49-50).
¹ Il Codice penale attuale è in vigore dal 1° marzo 1994 ed è stato approvato con legge 16 dicembre 1992, n. 92-1336 (Loi relative à l’entrée en vigueur du nouveau code pénal et à la modification de certaines dispositions de droit pénal et de procédure pénale rendue nécessaire par cette entrée en vigueur), JORF, 23 décembre 1992.
¹⁷ Il Codice, approvato con legge 2 gennaio 1973, n. 73-4 (in JORF, 3 gennaio 1973), è stato successivamente e a più riprese emendato; nel 2007 è stato promulgato un nuovo testo del Codice del lavoro (Ordonnance n. 2007-329 du 12 mars 2007, relative au code du travail - partie legislative nouvelle) che è entrato in vigore in parte il 1° marzo 2008 e in parte il 1° maggio 2008, e al quale si farà in seguito riferimento. In generale sulle norme del Codice relative al diritto di libertà religiosa cfr. G. DOLE, La liberté d’opinion et de conscience en droit comparé du travail, Paris, L.G.D.J., 1997, p. 48 ss. La discriminazione è vietata, inoltre, dalla legge Le Pors del 1983 (citata, supra, nota 161), per quanto riguarda i funzionari pubblici.
¹⁷¹ Loi n°82-689 du 4 août 1982, relative aux libertés des travailleurs dans l’entreprise (detta «Loi Auroux»), in JORF, 6 août 1982.
¹⁷² L’art. L122-45 del Codice del lavoro recitava «Aucun salarié ne peut être sanctionné ou licencié en raison de son origine, de son sexe, de sa situation de famille, de son appartenance à une ethnie, une nation ou une race, de ses opinions politiques, de ses activités syndicales ou de ses convictions religieuses.
Toute disposition contraire est nulle de plein droit».
¹⁷³ Il licenziamento discriminatorio rimaneva il divieto principale sancito dalla norma, benché la legge 31 dicembre 1992, n. 92-1446 avesse aggiunto alcuni fattori di discriminazione vietati all’art. 122-45 del Codice del lavoro ed ampliato il campo di applicazione del divieto di discriminazione ad alcuni comportamenti, tra cui l’accesso all’impiego.
¹⁷⁴ Loi n. 2001-1066 du 16 novembre 2001, relative à la lutte contre les discriminations, in JORF, 17 novembre 2001, p. 18311, sulla cui approvazione cfr. COMMISSION NATIONALE CONSULTATIVE DES DROITS DE L’HOMME(CNCDH), La lutte contre le racisme et la xénophobie. Rapport d’activité 2001, Paris, La Documentation Française, 2002, p. 132 ss.
¹⁷⁵ Cfr. C. AUBIN, B. JOLY, De l’égalité à la non-discrimination, cit., p. 1299.
¹⁷ S. LATRAVERSE, Report, p. 16 ss.; D. STRAZZARI, Discriminazione razziale e diritto, cit., p. 355 sottolinea che il legislatore se ha preferito elencare una serie di comportamenti discriminatori piuttosto che misurarsi con il problema di stabilire il significato della discriminazione.
¹⁷⁷ L’art. L122-45, come modificato dalla legge del 2001, conteneva un elenco meramente esemplificativo di comportamenti vietati e faceva riferimento, oltre al licenziamento discriminatorio, a una generica categoria di «misure discriminatorie».
¹⁷⁸ Il divieto di vittimizzazione era sancito dall’art. 122-45-2, mentre il comma 3 dell’art. 122-45 vietava di discriminare chi avesse testimoniato atti
discriminatori. L’inversione dell’onere della prova era, invece, previsto al comma 4 dell’art. 122-45. Inoltre, la legge n. 2001-1066 ha inserito nel Codice un nuovo art. 122-45-1, relativo alla possibilità che associazioni ed organizzazioni sindacali hanno di intervenire nel giudizio antidiscriminatorio a sostegno della vittima. Alcune di queste novità hanno investito anche altri testi legislativi: ad esempio l’art. 11 della legge n. 2001-1066 ha inserito nell’art. 6 della loi Le Pors, n. 83-634 del 1983, che vieta la discriminazione nei confronti dei funzionari pubblici, il riferimento alla discriminazione indiretta e il divieto di vittimizzazione.
¹⁷ CNCDH, La lutte contre le racisme et la xénophobie, cit., p. 139.
¹⁸ Originariamente, infatti, l’art. L1132-1 riproponeva quanto previsto dal vecchio art. 122-45, permanendo privo di una definizione di discriminazione.
¹⁸¹ Si superava solo parzialmente la limitazione ratione personae della tutela offerta dalle norme del Codice del lavoro: se in origine esse riguardavano i soli lavoratori dipendenti, dopo la riforma del 2007 l’art. L1131-1 aveva elencato diverse categorie di lavoratori cui si applicano le disposizioni sulla discriminazione, senza però estendere la tutela alla globalità dei soggetti operanti nel settore del lavoro (art. 113-1: «Les dispositions du présent titre sont applicables aux employeurs de droit privé ainsi qu’à leurs salariés. Elles sont également applicables au personnel des personnes publiques employé dans les conditions du droit privé»).
¹⁸² Cfr. la nota in OLIR.it – Osservatorio delle Libertà e Istituzioni Religiose, all’indirizzo internet http://www.olir.it/news/archivio.php?id=1519.
¹⁸³ Loi portant diverses dispositions d’adaptation au droit communautaire dans le domaine de la lutte contre les discriminations, in JORF n. 123, 28 mai 2008, p.
8801. In merito all’approvazione di questa legge, cfr. C. HUMMEL, Rapport d’information n° 252 fait au nom de la délégation aux droits des femmes et à l’égalité des chances entre les hommes et les femmes sur le projet de loi n° 241 (2007-2008) portant diverses dispositions d’adaptation au droit communautaire dans le domaine de la lutte contre les discriminations, Senat de la République, Annexe au procès-verbal de la séance du 1er avril 2008, all’indirizzo internet http://www.senat.fr/rap/r07-252/r07-2521.pdf, p. 11 ss., ove si osserva che, in base alle osservazioni presentate dalla Commissione europea, si è reso necessario riprodurre pressoché «mot pour mot» le disposizioni delle direttive comunitarie. D’altra parte – come già notato – la definizione della discriminazione è ritenuta uno dei punti chiave della normativa antidiscriminatoria europea, poiché da essa dipende la costruzione del giudizio antidiscriminatorio e la possibilità di agire per la difesa dei propri diritti.
¹⁸⁴ Art. 5, loi n.2008-496: «Les articles 1er à 4 et 7 à 10 s’appliquent à toutes les personnes publiques ou privées, y compris celles exerçant une activité professionnelle indépendante».
¹⁸⁵ C. HUMMEL, Rapport d’information n° 252, cit., p. 14 ss. Come vedremo, la tecnica di trasposizione utilizzata in Italia ha invece dato origine a sovrapposizioni di norme che rendono difficile nel nostro Paese il corretto utilizzo degli strumenti di tutela antidiscriminatoria.
¹⁸ M.T. LANQUETIN, Discrimination, cit., par. 9.
¹⁸⁷ Sulla nozione di molestia si tornerà più avanti; qui basti osservare che anche questo concetto rappresenta una novità, poiché il diritto se prevedeva unicamente disposizioni sulle molestie sessuali (cfr. CNCDH, La lutte contre le racisme et la xénophobie, cit., p. 139).
¹⁸⁸ Art. 1 della legge «Mermaz» relativa ai rapporti di locazione (legge 6 luglio 1989, n. 89-462), come modificato dalla legge 17 gennaio 2002, n. 2002-73.
¹⁸ Loi n. 2002-303 du 4 mars 2002 relative aux droits des malades et à la qualité du système de santé.
¹ K. BERTHOU, New Hopes for French Anti-Discrimination Law, cit., p. 112 ss.
¹ ¹ Cfr., per tutti, CONSEIL D’ÉTAT, Sur le principe d’égalité, cit., p. 67 ss.
¹ ² Art. 1, l. n. 2008-496: «Constitue une discrimination directe la situation dans laquelle, sur le fondement de son appartenance ou de sa non-appartenance, vraie ou supposée, à une ethnie ou une race, sa religion, ses convictions, son âge, son handicap, son orientation sexuelle ou son sexe, une personne est traitée de manière moins favorable qu’une autre ne l’est, ne l’a été ou ne l’aura été dans une situation comparable».
¹ ³ L’art. 122-45 menzionava, ad esempio, i licenziamenti, il rifiuto di assumere ed altre azioni che, pur costituendo un elenco non esaustivo, delimitano il campo di applicazione del divieto di discriminazione.
¹ ⁴ D. STRAZZARI, Discriminazione razziale e diritto, cit., p. 355 ss.
¹ ⁵ Il giudizio antidiscriminatorio, in effetti, si è tradizionalmente fondato sull’individuazione della motivazione di un atto o di un comportamento: quando
tale motivazione è ritenuta ragionevole ed estranea (nel nostro caso) al fattore religioso, il comportamento in esame sarebbe giustificato. Così, ad esempio, in alcuni casi di licenziamento di dipendenti che indossavano il velo islamico: Cour d’appel de Paris, sent. 16 marzo 2001, n. 99/31302, e Conseil de Prud’hommes de Lyon, sent. 16 gennaio 2004, entrambe in «Droit social», 2004, p. 360 ss., con un commento di J. SAVATIER, Conditions de licéité d’un licenciement pour port du voile islamique, ivi, p. 354 ss.
¹ La concezione della discriminazione nel diritto penale, in effetti, è differente, poiché per configurarsi la punibilità di un trattamento discriminatorio devono essere presenti alcune caratteristiche, tra le quali il riferimento al soggetto che compie l’atto. In Francia, l’uso del diritto penale in tema di discriminazioni è sicuramente preferito prima dell’attuazione delle direttive; da ricordare, a tal proposito, che alcuni comportamenti nell’ambito del lavoro, come il licenziamento discriminatorio, sono vietati sia dal codice penale (art. 225), sia dal codice del lavoro. In generale sul tema G. DOLE, La liberté d’opinion, cit., p. 88.
¹ ⁷ D. STRAZZARI, Discriminazione razziale e diritto, cit., p. 355 ss.; D. LOCHAK, Réflexions sur la notion de discrimination, cit., p. 778 ss.
¹ ⁸ Sulla giurisprudenza si tornerà nel cap. IV; come si è visto, la comparazione è centrale nell’approccio britannico alla discriminazione, approccio che ha influito sulle scelte del legislatore europeo nel prevedere che la situazione della vittima può essere paragonata con situazioni analoghe presenti, del ato, e anche ipotetiche (supra, cap. II, par. 1.1).
¹ I. RIASSETTO, Discrimination Religieuse (Droit français), in F. MESSNER (dir.), Dictionnaire du Droits des Religions, CNRS, Strasbourg, 2011, p. 189. Alcune forme particolari di comparazione sono i cosiddetti «test situazionali», in base ai quali alcuni soggetti (solitamente operatori giuridici ed esperti) riproducono una situazione simile a quella ritenuta discriminatoria al fine di
osservare il comportamento di coloro che sono stati accusati di aver posto in essere un trattamento sfavorevole. Ad esempio, grazie al testing si è potuto smascherare una pratica discriminatoria dei proprietari di un locale pubblico, che avevano rifiutato l’ingresso ad alcuni giovani di colore (Cass. Pen., sent. 12 settembre 2000, n. 99-87251); in questo caso il trattamento subito dalle vittime non è stato comparato con circostanze reali, ma con un episodio messo in atto appositamente per fini processuali. In proposito C. AUBIN, B. JOLY, De l’égalité à la non-discrimination, cit., p. 1301.
² GELD, Le recours au droit dans la lutte contre les discriminations, cit., p. 11; M. MINE, Approche juridique de la discrimination raciale au travail, cit., p. 97 ss.
² ¹ L’art. 1, comma 2 della legge n. 496 del 2008 stabilisce che «Constitue une discrimination indirecte une disposition, un critère ou une pratique neutre en apparence, mais susceptible d’entraîner, pour l’un des motifs mentionnés au premier alinéa, un désavantage particulier pour des personnes par rapport à d’autres personnes [...]».
² ² D. STRAZZARI, Discriminazione razziale e diritto, cit., p. 354 ss. Sulla giurisprudenza relativa all’applicazione delle nozioni in esame ci si soffermerà in seguito (cap. IV). Peraltro, come meglio si vedrà, spesso i giudici hanno applicato, invece dei divieti di discriminazione, un’altra norma del Code du travail, l’art. 120-2 (nel nuovo codice: art. L. 1121-1), che consente di giustificare ancora più facilmente i comportamenti che possono essere contrari alla discriminazione. Tale articolo prevede, infatti, che una restrizione dei diritti del lavoratore sarà legittima quando giustificata dalla natura dell’impiego e proporzionale al fine perseguito dall’impresa. Dunque, sarà sufficiente collegare una misura discriminatoria (sia essa diretta o indiretta) alle caratteristiche di una mansione e ad una finalità aziendale per poter legittimare la limitazione del diritto di libertà religiosa che ne deriva. In merito G. DOLE, La liberté d’opinion et de conscience en droit comparé du travail, cit., p. 54 ss.
² ³ Come ricordato, la nozione di molestia è stata inserita nel codice con la legge n. 2002-73 (loi de modernisation sociale). L’art. L1152-1 del codice del 2007 stabilisce: «Aucun salarié ne doit subir les agissements répétés de harcèlement moral qui ont pour objet ou pour effet une dégradation de ses conditions de travail susceptible de porter atteinte à ses droits et à sa dignité, d'altérer sa santé physique ou mentale ou de compromettre son avenir professionnel»; i successivi paragrafi si occupano di vietare alcuni specifici comportamenti collegati ad azioni “moleste” (il n. 2); di stabilire la nullità di un’eventuale rescissione del contratto di lavoro, derivante da una molestia (n. 3); il n. 4 stabilisce che il datore di lavoro debba impegnarsi a creare un ambiente di lavoro rispettoso della dignità di tutti, prendendo le misure appropriate per evitare che vengano messe in atto molestie; il n. 5 impone sanzioni disciplinari ai lavoratori che compiano molestie; il n. 6 prevede una procedura di conciliazione tra attori e vittime dei comportamenti in questione.
² ⁴ C. HUMMEL, Rapport d’information n° 252 fait au nom de la délégation aux droits des femmes et à l’égalité des chances entre les hommes et les femmes, cit., p. 23 ss.
² ⁵ Almeno confrontando la definizione con quella della trasposizione britannica ed italiana della direttiva, si nota come in questi due ordinamenti non si faccia riferimento alla necessità di un comportamento reiterato per la dimostrazione di una molestia.
² S. LATRAVERSE, Report on Measures, cit., p. 71 ss.; C. HUMMEL, Rapport d’information n° 252, cit., p. 24.
² ⁷ Art. 222-33-2, introdotto dalla legge n. 2002-73: «Le fait de harceler autrui par des agissements répétés ayant pour objet ou pour effet une dégradation des conditions de travail susceptible de porter atteinte à ses droits et à sa dignité,
d'altérer sa santé physique ou mentale ou de compromettre son avenir professionnel, est puni d'un an d'emprisonnement et de 15000 euros d’amende».
² ⁸ L’art. 1, 3° comma recita: «La discrimination inclut : 1° Tout agissement lié à l'un des motifs mentionnés au premier alinéa et tout agissement à connotation sexuelle, subis par une personne et ayant pour objet ou pour effet de porter atteinte à sa dignité ou de créer un environnement hostile, dégradant, humiliant ou offensant».
² L’art. 1155-2 del Code du travail prevede anche una sanzione penale per chi compie molestie sessuali o «harcèlement moral».
²¹ M. DINI, Rapport d’information n° 253 fait au nom de la commission des Affaires sociales sur le projet de loi, adopté par l’Assemblée Nationale après déclaration d’urgence, portant diverses dispositions d’adaptation au droit communautaire dans le domaine de la lutte contre les discriminations, Sénat de la République, Annexe au procès-verbal de la séance du 2 avril 2008, p. 13 ss. (disponibile sul sito del Senato se).
²¹¹ La legislazione se – come nella maggioranza degli Stati europei – prendeva in considerazione unicamente le molestie sessuali (cfr. supra nota n. 187).
²¹² In particolare la dimostrazione dell’intenzionalità di discriminare e altre caratteristiche tipiche della norma penale hanno limitato molto le possibilità di applicare questa disciplina e di rendere il relativo divieto di discriminazione uno strumento di tutela effettiva per le parti deboli. Sul tema si tornerà più avanti (infra, par. 4.3)
²¹³ D.lgs. 9 luglio 2003, n. 216, Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. In merito cfr. M. AIMO, Le discriminazioni basate sulla religione e le convinzioni personali, cit., p. 43 ss; N. FIORITA, Le direttive comunitarie in tema di lotta alla discriminazione, cit., p. 361 ss.; J. PASQUALI CERIOLI, Il divieto di discriminazione religiosa sul luogo di lavoro: riflessioni critiche, in «QDPE», 2005, 1, pp. 93 ss.; M. RIZZO, Il recepimento italiano delle direttive comunitarie n. 43 del 29/6/2000 e n. 78 del 27/11/2000, in «D&L-Riv. Critica dir. lavoro», 2004, n. 2, p. 221 ss.; L. CALAFÀ, Le direttive antidiscriminatorie “di nuova generazione”: il recepimento italiano, in «Studium Iuris», 2004, p. 873 ss.
²¹⁴ In tema cfr. R. BORTONE, voce Discriminazione (divieto di), in Digesto discipline pubbl., Torino, Utet, p. 19 ss.; G. DE SIMONE, Dai principi alle regole, cit., p. 53 ss.; D. IZZI, Eguaglianza e differenze, cit., p. 374 ss.; E. GHERA, artt. 15-16, in Commentario dello Statuto dei lavoratori, dir. da U. PROSPERETTI, Milano, Giuffrè, 1975, t. 1, p. 400 ss.
²¹⁵ Successivamente l’area di protezione prevista dall’art. 15 si è ampliata alla discriminazione “politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso”, in seguito alle modifiche introdotte dalla legge 9 dicembre 1977, n. 903, ed alla discriminazione “di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali”, in forza, appunto, dell’art. 4.2 del d.lgs. n. 216/2003.
²¹ G. DE SIMONE, La nozione di discriminazione diretta e indiretta, in M. BARBERA (a cura di), La riforma delle istituzioni e degli strumenti delle politiche di pari opportunità. Commentario al d.lgs. 23 maggio 2000, n. 196, in «Le nuove leggi civili commentate», 2003, p. 712. legge 9 dicembre 1977, n. 903 ha inserito tra i fattori di discriminazione vietata ex art. 15 dello Statuto dei lavoratori anche le “convinzioni personali” intese in senso lato.
²¹⁷ Cfr. P. ICHINO, Il contratto, cit., p. 570; P. BELLOCCHI, Pluralismo religioso, cit., p. 172 ss.; J. PASQUALI CERIOLI, Il lavoro subordinato, in G.
CASUSCELLI, Nozioni di diritto ecclesiastico, Torino, Giappichelli 2009, p. 121 ss. In generale sul fattore religioso nel lavoro cfr. V. PACILLO, Contributo allo studio del diritto di libertà religiosa nel rapporto di lavoro subordinato, Giuffré, Milano, 2003; R. BENIGNI, L’identità religiosa nel rapporto di lavoro, cit.; A. DE OTO, Precetti religiosi e mondo del lavoro. Le attività di culto tra norme generali e contrattazione collettiva, Ediesse, Roma, 2007.
²¹⁸ In merito L. CASTELVETRI, Le garanzie contro le discriminazioni sul lavoro per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, in «Dir. Rel. Industriali», 1999, n. 3, p. 321 ss.; B. NASCIMBENE, Straniero e musulmano. Profili relativi alle cause di discriminazione, in «Dir. immigrazione e cittadinanza», , 1999, n. 4, p. 19 ss.; A. VISCOMI, La legge italiana del 1998 sul lavoro immigrato extracomunitario, in F. A. CAPPELLETTI, L. GAETA (a cura di), Diritto, lavoro, alterità: figure della diversità e modelli culturali, Napoli, ESI, 1998, p. 283 ss.
²¹ Si trattava di un procedimento di tipo cautelare, con particolari misure di garanzia per i soggetti deboli. Cfr. sul tema P. CAVANA, Pluralismo religioso e modelli di cittadinanza: l’azione civile contro la discriminazione, in «Dir. eccles.», 2000, I, p. 165 ss.. Il procedimento non è più in vigore dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 150/2011, sul quale infra, nota 228.
²² Gli articoli 43 e 44 ricalcano gli artt. 41 e 42 della l. 6 marzo 1998, n. 40.
²²¹ A. SIMONI, G. BONI, Anti-discrimination Legislation in EU Member States. A Comparison of National Anti-Discrimination Legislation on the grounds of racial or ethnic origin, religion or belief with the Council Directives. Italy, European Monitoring Centre on Racism and Xenophobia, Vienna, 2002, p. 13.
²²² Da notare che nel diritto del lavoro la tutela antidiscriminatoria era pensata
per agire “in verticale”, allo scopo di garantire la parte debole di fronte al potere datoriale; più di recente i divieti di discriminazione sono stati invece orientati a una tutela “in orizzontale”, cioè al perseguimento della parità di trattamento dei lavoratori. Cfr. M.V. BALLESTRERO, Eguaglianza e differenze, cit., p. 503.
²²³ L’accostamento tra razza e religione, oltre a collocarsi nella linea percorsa dal diritto internazionale e da consolidata dottrina, rivela come i problemi della discriminazione religiosa nel nostro Paese siano di consueto affrontati in stretta connessione con il fenomeno della discriminazione razziale. D’altra parte la disomogeneità religiosa della società italiana è dovuta in larga parte proprio all’incremento dei flussi migratori, alla presenza di stranieri o di particolari gruppi etnici, riguardo ai quali tracciare una linea di confine tra l’identità etnica e quella culturale o religiosa è talvolta difficile. Cfr. tra gli altri P. BELLOCCHI, Pluralismo religioso, cit., p. 162 ss.; F. MARGIOTTA BROGLIO, Discriminazione razziale e discriminazione religiosa, cit., p. 269 ss.; N. FIORITA, Le direttive comunitarie, cit., p. 369.
²²⁴ Basta osservare l’elenco di atti discriminatori presente al comma 2 dell’art. 43, con la ripetizione dell’inciso «a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia…» (corsivo mio). La dimensione dell’appartenenza ad un gruppo diviene, inoltre, ancora più evidente nella norma relativa alla discriminazione religiosa sul lavoro (art. 43, n. 2, lettera e), ove si fa riferimento – forse in modo non del tutto appropriato – all’appartenenza «ad una determinata confessione religiosa». Ed è, ancora, rafforzata dalla possibilità di ricorrere contro discriminazioni di carattere collettivo, dirette a pregiudicare un insieme di lavoratori e punibili anche qualora non sia rintracciabile un soggetto concretamente leso dalla condotta discriminante (art. 44, n. 10). Ciò a dimostrazione di quanto il divieto di discriminazione in esame sia funzionale alla tutela dell’appartenenza a determinati gruppi, in primis gli stranieri. Cfr. M. AIMO, Le discriminazioni basate sulla religione, cit., p. 43 ss.; L. CASTELVETRI, Le garanzie contro le discriminazioni, cit., p. 321 ss.
²²⁵ Nell’art. 43 del Testo unico sull’immigrazione gli ambiti di applicazione del divieto arrivano quasi a coincidere con quelli di cui alla direttiva 2000/43.
²² P. CHIECO, Le nozioni di discriminazioni, cit., p. 57.
²²⁷ M. ROCCELLA, Diritto comunitario, ordinamenti nazionali, diritto del lavoro, in S. FABENI, M. G. TONIOLLO (a cura di), La discriminazione fondata sull’orientamento sessuale, cit., p. 29 ss. Il principio in questione è ribadito anche dalla direttiva 2000/78 stessa, ove si afferma che gli Stati dovranno adeguare il proprio diritto interno ai principi dettati dalla direttiva. Più in generale sul tema: G. GAJA, Introduzione al diritto comunitario, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 117 ss.
²²⁸ Il d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione) ha infatti previsto che le azioni contro la discriminazione saranno regolate dal rito sommario di cognizione (art. 702-bis, ter e quarter del c.p.c.) e non più dal procedimento cautelare atipico di cui all’art. 44 del T.U. immigrazione (cfr. http://www.asgi.it/home_asgi.php?n=1822&l=it)
²² L. CURCIO, Le azioni in giudizio e l’onere della prova, in M. BARBERA (a cura di), Il nuovo diritto antidiscriminatorio, cit., p. 533 ss.; per dettagli sul tema (complesso) dei ricorsi contro la discriminazione cfr. M. CAPPONI, Il nuovo diritto processuale antidiscriminatorio tra idealità e disincanto, in Contrastare le discriminazioni, a cura di G. DE MARZO e M. CAPPONI, cit., p. 201 ss. (spec. p. 270 ss.); R. DONZELLI, Tutela contro le discriminazioni (dir. proc. civ.), Diritto online 2012, Treccani, all’indirizzo web http://tinyurl.com/owbn4v7.
²³ L’art. 8-septies della legge 6 giugno 2008 n. 101, introduce nel d.lgs. n. 216/2003 un riferimento all’inversione dell’onere della prova (lettera b, che ne
modifica l’art. 4) e il divieto di vittimizzazioni (lettera c), prima assenti. Inoltre, alla lettera d, legittima ad agire a sostegno della vittima non più soltanto le organizzazioni sindacali (così il testo originario dell’art. 5 d.lgs. n. 216/2003) ma anche «le associazioni e le organizzazioni rappresentative del diritto o dell'interesse leso».
²³¹ G. DE SIMONE, La nozione di discriminazione diretta e indiretta, cit., p. 712 ss.
²³² Art. 4, comma 1: «Costituisce discriminazione, ai sensi della legge 9 dicembre 1977, n. 903, qualsiasi atto o comportamento che produca un effetto pregiudizievole discriminando anche in via indiretta i lavoratori in ragione del sesso». Cfr. G. DE SIMONE, Dai principi alle regole, cit., p. 55 ss.
²³³ Sull’esistenza di una differenza di trattamento pone, tuttavia, l’accento ancora spesso la giurisprudenza, con la conseguenza che, anziché applicare i rigidi criteri di verifica di una discriminazione stabiliti dalle direttive, si analizzano le situazioni attraverso un generico criterio di ragionevolezza: così, ad es., Trib. Bologna, Ord. 28 dicembre 2006, n. 2968/06, che, pur riconoscendo l’esistenza di una discriminazione nell’applicazione di rette universitarie più alte per gli studenti non italiani, afferma che «previsioni contrattuali differenziate per persone di diversa provenienza etnica sarebbero legittime se fondate su motivi ragionevoli, che giustificassero razionalmente e fondatamente il trattamento differenziato». L’orientamento del tribunale di Bologna segue, peraltro, quello della pronuncia della Corte Costituzionale del 2 dicembre 2005, n. 432, che ha ritenuto discriminatoria e contraria all’art. 3 Cost. una normativa regionale che limitava ai soli cittadini italiani taluni benefici sociali.
²³⁴ Il richiamo espresso allo «scopo o l’effetto» del comportamento discriminatorio evidenzia come non sia necessario che questo sia intenzionalmente diretto a discriminare. In merito P. CHIECO, Le nozioni di discriminazioni, cit., p. 54 ss.; in giurisprudenza: Trib. Milano, sez. lavoro, sent.
30 maggio 2008, n. 2545/08, sed contra Tar Toscana, sent. 4 nov. 2011, sulla quale si tornerà in seguito.
²³⁵ Così D. STRAZZARI, L’attuazione della direttiva 2000/43 in Gran Bretagna e Italia: prime riflessioni per un modello “europeo” di legislazione antidiscriminatoria, in «Dir. Pubbl. Comp. Eur.», 2005, II, p. 729. Sull’irrilevanza dei motivi soggettivi v. Cassazione, SS.UU., sent. 12 giugno 1997, n. 5295.
²³ Sui problemi di coordinamento tra queste due nozioni cfr. P. CHIECO, op. ult. cit., loc. cit.; A. SIMONI, Report on Measures to Combat Discrimination. Directives 2000/43/EC and 2000/78/EC. Country Report 2010 Italy, Migration Policy Group, Brussels, 2011, p. 18 ss. (disponibile sul sito www.migpolgroup.org).
²³⁷ Cfr. supra, par. 4.1.
²³⁸ In altre parole, l’utilizzazione del T.U. sull’immigrazione nella soluzione di casi di discriminazione (peraltro più frequente rispetto all’applicazione dei decreti legislativi n. 215 e 216 del 2003) non impedirebbe di adoperare alcuni strumenti predisposti dalle direttive, tra cui le comparazioni ipotetiche, offrendo così possibilità più ampie di provare la discriminazione. Sull’applicazione di queste norme cfr. anche la versione aggiornata del Rapporto degli esperti europei: C. FAVILLI, Report on Measures to Combat Discrimination. Directives 2000/43/EC and 2000/78/EC. Country Report 2011 Italy, Migration Policy Group, Brussels, 2012.
²³ Su questo punto e sul cambiamento della legislazione britannica (e, in seguito, europea) cfr. supra, nota n. 144.
²⁴ Solitamente, infatti, non si dispone di sufficienti dati per poter verificare quali sono le porzioni di individui appartenenti ad una razza o ad una religione che risultano svantaggiati a causa di una misura neutra. In Italia il trattamento dei cosiddetti «dati sensibili», tra i quali sono inclusi quelli relativi alla religione e ad altre convinzioni, è consentito solo a determinate condizioni (artt. 20 e 26 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196) e in ogni caso è vietato il loro utilizzo a fini discriminatori. Si ricorda, a questo proposito, anche il divieto di indagini sulla credenza dei lavoratori, disposto dallo Statuto dei lavoratori (cfr. supra, par. 4.1). Questione diversa è invece la possibilità di ipotizzare forme di monitoraggio degli appartenenti a confessioni religiose, se dirette a soddisfare le esigenze di culto dei cittadini. In generale sul trattamento dei dati sensibili: E. VITALI, A.G. CHIZZONITI, Manuale breve, cit., p. 240 ss.
²⁴¹ P. CHIECO, Le nozioni di discriminazioni diretta e indiretta, cit., p. 79-80.
²⁴² Così prevede anche la direttiva 2000/78, nel preambolo al n. 15 (come già ricordato supra, cap. II, par. 1.1).
²⁴³ Nella (scarsa) giurisprudenza nazionale sulle discriminazioni razziali e religiose si è iniziato, peraltro, ad utilizzare le norme dei decreti del 2003, anche se spesso i ricorsi sono presentati facendo riferimento al T.U. sull’immigrazione. I casi più frequenti riguardano l’impiego pubblico (specie nel settore sanitario) e il requisito della cittadinanza italiana, solitamente ritenuto indirettamente discriminatorio sulla base dell’origine etnica e nazionale. Tra le varie sentenze in tema, cfr. Trib. Milano, sez. lavoro, sent. 30 maggio 2008, n. 2545/08, dove sono stati analizzati il concetto di discriminazione indiretta e i relativi criteri di giustificazione, dichiarando il requisito della cittadinanza italiana un criterio non appropriato né necessario per lo svolgimento della professione di infermiere. Nonostante la formulazione dell’art. 3.6 del d.lgs. n. 216/2003 (e del suo “gemello” art. 2.4 del d.lgs. n. 215/2003, richiamato nella pronuncia in esame) potesse generare mancanza di chiarezza, il giudice ha applicato correttamente la
nozione di discriminazione indiretta al caso di specie.
²⁴⁴ M.V. BALLESTRERO, Eguaglianza e differenze nel diritto del lavoro, cit., p. 514; G. DE SIMONE, Eguaglianza e nuove differenze nei lavori flessibili, fra diritto comunitario e diritto interno, in «Lavoro e diritto», 2004, n. 3-4, p. 537.
²⁴⁵ L. LAZZERONI, Molestie e molestie sessuali: nozioni, regole, confini, in M. BARBERA, Il nuovo diritto antidiscriminatorio, cit., p. 382 nota che la definizione così introdotta non procede alla tipizzazione dei comportamenti indesiderati, che avrebbe determinato un restringimento dell’area di tutela, ma si applica a tutti i comportamenti che possono qualificarsi come contrari alla dignità personale.
²⁴ Sui singoli aspetti della definizione italiana cfr. L. LAZZERONI, op. ult. cit., p. 382 ss.; S. SCARPONI, La nozione di molestia, cit., p. 233 ss.
²⁴⁷ Cfr. L. LAZZERONI, Molestie e molestie sessuali: nozioni, regole, confini, cit., p. 382 ss.; S. SCARPONI, La nozione di molestia, cit., p. 243; N. FIORITA, Il diritto antidiscriminatorio in cerca di identità, cit., p. 82 ss. nota come l’accento sulla percezione da parte della vittima può indurre a qualificare come molestia comportamenti di diversa gravità e non necessariamente protratti nel tempo.
²⁴⁸ P. CHIECO, Una fattispecie dai contorni sfuggenti: la molestia nei rapporti di lavoro, in «Riv. it. diritto del lavoro», 2007, 1, p. 67.
²⁴ In proposito, relativamente all’ordinamento britannico, ma con riflessioni valide anche in generale: L. VICKERS, Is all harassment equal?, cit., p. 579 ss.
²⁵ L. VICKERS, Is all harassment equal?, cit., p. 583 ss.; N. FIORITA, Il diritto antidiscriminatorio in cerca di identità: la religione e le convinzioni personali nella normativa vigente, cit., p. 84, fa notare, peraltro, che nella società odierna è piuttosto frequente la messa in atto di comportamenti collegati alla religione che possono configurare una molestia: ad esempio un’ostentata esposizione di simboli religiosi, o «il dileggio dei valori fondamentali di una determinata identità», segnali di un diffuso atteggiamento di intolleranza verso le minoranze etniche e religiose.
²⁵¹ N. FIORITA, Il diritto antidiscriminatorio, cit., p. 82 ss.; L. LAZZERONI, Molestie e molestie sessuali, cit., p. 398. Da notare, per inciso, una svista che ancora una volta caratterizza la trasposizione delle due direttive comunitarie da parte del legislatore italiano: mentre nel decreto n. 216 del 2003 il testo della direttiva è stato riproposto correttamente, nel decreto n. 215 l’espressione «clima umiliante od offensivo» è stata sostituita con «clima umiliante ed offensivo», limitando, così, la fattispecie di molestia alle sole situazioni nelle quali il clima risulti contemporaneamente caratterizzato come degradante, umiliante, offensivo. Questo errore di trasposizione è stato corretto solo di recente dall’art. 8-sexies della legge 6 giugno 2008, n. 101, Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 8 aprile 2008, n. 59, recante disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee.
²⁵² L. LAZZERONI, Molestie e molestie sessuali, cit., p. 392 ss.; riguardo alla versione “soggettiva” od “oggettiva” delle molestie, S. SCARPONI, La nozione di molestia, cit., p. 243 ss. rileva la differenza tra molestie e mobbing, quest’ultimo legato a parametri più oggettivi, come la ripetizione nel tempo di un comportamento vessatorio, le conseguenze sulla salute psico-fisica della vittima (in questo senso Corte Cost., sent. 7 giugno 2006, n. 239) o l’esplicita volontà di chi agisce, «diretta alla persecuzione od all’emarginazione del dipendente» (così la Cassazione, sez. lavoro, sent. 11 settembre 2008, n. 22858).
²⁵³ R. PASELLA, La répression des discriminations en droit pénal italien, in «Rev. int. droit pénal», 1986, p. 54 ss.; G. SACERDOTI, Italian Legislation and Case Law on Racial and Religious Hatred and Group Libel: International Aspects, in «Israel Yearbook on Human Rights», 1993, vol. 22, 235 ss.; P. CARETTI, Manifestazione del pensiero e istigazione all’odio nell’ordinamento italiano, relazione al XVI Congresso dell’Accademia Internazionale di Diritto Comparato, Brisbane, 14-20 Luglio 2002, in www.ddp.unipi.it; A. AMBROSI, Libertà di pensiero e manifestazione di opinioni razziste e xenofobe, in «Quad. Cost.», 2008, 3, p. 519 ss.; per un inquadramento generale F. MARGIOTTA BROGLIO, Discriminazione razziale, cit., p. 273.
²⁵⁴ R. PASELLA, La répression des discriminations en droit pénal italien, cit., p. 51 ss.
²⁵⁵ Su questa normativa si veda: G. DE SCO, Commento all’art. 1 del D.l. 26/4/1993 n. 122, conv. con modif. dalla l. 25/6/1993 n. 205, in «Leg. Pen.», 1994, 2, p. 174 ss.; A.G. CHIZZONITI, Pluralismo confessionale e lotta all’intolleranza religiosa, cit., p. 348 ss.; P. ZAVATTI, A. TRENTI, Legislazione italiana in tema di discriminazione razziale, etnica e religiosa, in «Rassegna It. Criminologia», 1995, p. 565 ss.
²⁵ Si fa qui riferimento all’articolo 2.5 della legge n. 101/1989, che corrisponde all’art. 1, 5° comma, dell’intesa. Come noto, infatti, spesso quanto sancito dalle intese viene riprodotto con un ordine diverso nelle leggi di approvazione.
²⁵⁷ Dal punto di vista dei principi costituzionali, le intese previste dall’art. 8, 3° Cost., in quanto finalizzate a disciplinare i rapporti tra la Repubblica italiana e le confessioni religiose, dovrebbero riguardare prevalentemente (se non esclusivamente) materie nelle quali l’ordinamento statale e quello confessionale entrano in contatto e che lo Stato, per il principio della distinzione degli ordini, non può disciplinare unilateralmente. Anche per questo gli effetti di quanto pattuito dovrebbero essere limitati nella loro vigenza ai soli soggetti sottoscrittori
(fedeli appartenenti) impedendo ogni possibile ultrattività al di fuori di tale cerchia. In quest’ottica l’introduzione di disposizioni relative all’allargamento della tutela penale delle religioni (art. 2.4 intesa ebraica) o alla tutela dall’intolleranza (art. 2.5 della medesima) in una norma pattizia, pare doppiamente inopportuna: anzitutto perché si tratta di questioni relative all’intera cittadinanza e non ai «rapporti» – intesi stricto sensu – tra lo Stato e le confessioni religiose, e in secondo luogo perché, ove si volessero intendere tali norme come limitate ai soli appartenenti alle Comunità israelitiche, integrerebbero una ingiustificata violazione del principio d’uguaglianza. Tuttavia, come osservato da attenta dottrina (A.G. CHIZZONITI, Pluralismo confessionale e lotta all’intolleranza religiosa, cit., p. 346 ss.), non mancano nelle intese e nell’Accordo con la Chiesa cattolica previsioni che interessano anche i non appartenenti alle relative confessioni, nel novero delle quali si può includere anche l’art. 2, 4° e 5° comma, della l. n. 101/1989 il cui valore erga omnes emerge con chiarezza dal dato letterale (si fa riferimento, ad es., alla parità nella tutela dei cittadini e di tutti i culti). La previsione di cui al 5° comma dell’art. 2 sarebbe da ricollegare alla volontà di precisare un tratto tipico della Comunità ebraica e di non perdere la tutela derivante dalla sua caratterizzazione etnico-razziale, proprio nel momento in cui essa si presentava, invece, come confessione religiosa, al fine di stipulare un’intesa con lo Stato. Presupponendo quindi la liceità di tale disposizione, occorre aggiungere che, stante la natura di legge rinforzata unanimemente riconosciuta alle intese concluse ex art. 8 3° comma (cfr. S. BERLINGÒ, Fonti del diritto ecclesiastico, cit., p. 465 ss.; C. CARDIA, Manuale di diritto ecclesiastico, cit., p. 215 ss.), da ciò deriverebbe un preciso vincolo per il legislatore nelle eventuali modifiche dell’art. 3 della l. n. 654/1975 (che dovrebbero sempre tener conto del collegamento razza/religione risultante dal combinato disposto dell’intesa ebraica e della legge del 1975) e all’interprete nella lettura delle fattispecie previste da quest’ultima (così, anche se con esplicito riferimento al solo art. 2, comma 4°, F. FINOCCHIARO, Diritto ecclesiastico, cit., p. 224; per ulteriori dettagli sull’intera vicenda A.G. CHIZZONITI, Pluralismo confessionale, cit., im).
²⁵⁸ Si può ipotizzare (cfr. A.G. CHIZZONITI, Pluralismo confessionale e lotta all’intolleranza religiosa, cit., p. 362-363) che il legislatore del 1993 abbia voluto razionalizzare il combinato disposto delle due precedenti norme (art. 3 della l. n. 654/1975 e art. 2.5 della l. n. 101/1989), esplicitando la rilevanza della religione, accanto alla razza/etnia, nelle fattispecie vietate. Ciò a maggior ragione qualora
si consideri che con la legge n. 205/1993 si è proceduto – come si vedrà tra breve – ad una ridefinizione delle ipotesi di reato.
²⁵ Benchè con scarsa incisività: l’art. 1 del d.lgs. n. 215/2003, attuativo della direttiva 2000/43, afferma che si terrà conto “dell’esistenza di forme di razzismo a carattere culturale e religioso”.
² Così facendo, il legislatore ha orientato queste norme non soltanto alla repressione di comportamenti che hanno una rilevanza per l’ordine pubblico e potenziali ricadute sulla coesione sociale (come la diffusione di idee o gli atti di violenza), ma anche alla protezione degli individui dal subire atti discriminatori. In tema A. CAPUTO, Discriminazioni razziali e repressione penale, in «Questione giustizia», 1997, I, p. 476 ss.; R. PASELLA, La répression des discriminations, cit., p. 55 ss.; G. DE SCO, Commento all’art. 1 del D.l. 26/4/1993 n. 122, cit., p. 180-1.
² ¹ In tema, per tutti: P. CARETTI, Manifestazione del pensiero e istigazione all’odio, cit.; C. SALAZAR, I “destini incrociati” della libertà di espressione e della libertà di religione: conflitti e sinergie attraverso il prisma del principio di laicità, in «QDPE», 2008, n. 1, p. 77 ss.; A. AMBROSI, Libertà di pensiero e manifestazione di opinioni razziste e xenofobe, cit., p. 536 ss., che ricorda come l’Italia, al momento della firma e poi della ratifica della Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale abbia reso una dichiarazione in base alla quale le norme in essa contenute (in particolare l’art. 4) debbano essere interpretate tenendo nella dovuta considerazione la tutela della libertà di pensiero.
² ² G. DE SCO, Commento all’art. 1 del D.l. 26/4/1993 n. 122, cit., p. 177 ss.; A.G. CHIZZONITI, Pluralismo confessionale e lotta all’intolleranza, cit., p. 356 ss.
² ³ Per lo meno limitatamente alle Comunità ebraiche, ove non si volesse accogliere l’interpretazione estensiva dell’art. 2, 5° comma della legge n. 101 del 1989, a favore della quale, giova sottolinearlo, gioca senza dubbio il suo tenore letterale (“Il disposto dell’articolo 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, si intende riferito anche alle manifestazioni di intolleranza e pregiudizio religioso”) che non pare lasciare spazi per una lettura meramente programmatica della stessa. Le difficoltà nell’attribuire un significato anche operativo a questa norma impongono una più ampia riflessione sull’opportunità di disciplinare per via pattizia materie di interesse generale. Queste ultime non dovrebbero essere oggetto di contrattazione con le confessioni religiose, nel rispetto dei principi costituzionali, e tuttavia vengono regolarmente inserite nelle intese: lo Stato, infatti, mostra di utilizzare il diritto pattizio come strumento privilegiato per intervenire a favore degli interessi religiosi dei cittadini (V. TOZZI, La cooperazione per mezzo di accordi fra Stato e confessioni religiose ed i principi di specialità ed uguaglianza, in «Diritto Ecclesiastico», 1990, I, p. 122 ss.; C. CARDIA, Manuale, cit., p. 204 ss. E. VITALI, A.G. CHIZZONITI, Manuale breve, cit., p. 48). La norma dell’intesa ebraica, poi, pone alcuni ulteriori problemi in quanto relativa al diritto penale, settore nel quale vige una stretta riserva di legge. Riserva che è stata formalmente rispettata (le intese, infatti, sono approvate con legge) e anzi, essendo la legge n. 101/1989 una legge rinforzata, potrebbe porsi il problema dell’impossibilità per il legislatore di modificare la disciplina in esame con legge ordinaria; tuttavia appare inopportuna la scelta di negoziare con una confessione religiosa un intervento in materia penale, concernente l’intera cittadinanza.
² ⁴ G. DE SCO, Commento all’art. 1…, cit., p. 174-5; A.G. CHIZZONITI, Pluralismo confessionale e lotta all’intolleranza religiosa, cit., p. 361; E. FRONAZA, Osservazioni sull’attività di propaganda razzista, in «Riv. int. dir. uomo», 1997, 32 ss. Più in specifico sul principio di determinatezza nel diritto penale si veda F. MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, Padova, Cedam, 2007⁵, p. 59 ss.; F. C. PALAZZO, Il principio di determinatezza nel diritto penale, Padova, Cedam, 1979.
² ⁵ In proposito si sarebbe dovuto tener conto dell’esistenza, nel diritto penale, del principio della proporzionalità della pena, in forza del quale questa deve
essere fissata in base al valore dei beni giuridici alla cui tutela la norma penale è finalizzata ed in modo da essere la sanzione più efficace (F. MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 716 ss.). Se nel caso dei reati a sfondo razzista l’uso del diritto penale sarebbe giustificato, visto l’alto valore dei beni giuridici da tutelare (l’uguaglianza e la dignità delle persone), è anche vero che le norme elaborate in materia dovrebbero essere meglio formulate per consentirne un’applicazione efficace; al contrario, le aspre sanzioni stabilite per reati noti e invisi all’opinione pubblica non sono facilmente applicabili, svelando l’uso simbolico del diritto penale in questo caso.
² Lo conferma l’inciso iniziale della norma in esame «Salvo che il fatto non costituisca più grave reato…». In merito P. MOROZZO DELLA ROCCA, Gli atti discriminatori nel diritto civile, alla luce degli artt. 43 e 44 del t.u. sull’immigrazione, in «Dir. di famiglia e delle persone», 2002, n. 1, p. 112 ss..
² ⁷ Ibidem; v. anche A.G. CHIZZONITI, Pluralismo confessionale, cit., p. 355; A. AMBROSI, Libertà di pensiero e manifestazione di opinioni razziste, cit., p. 542 ss.
² ⁸ Cfr. A.G. CHIZZONITI, La tutela penale delle confessioni religiose: prime note alla legge n. 85 del 2006 “Modifiche al codice penale in materia di reati d’opinione”, in «QDPE», 2006, 2, p. 448 ss.; M. PELISSERO, Osservazioni critiche sulla legge in tema di reati di opinione: occasioni mancate e incoerenze sistematiche (II), in «Dir. penale e processo», 2006, p. 1197 ss.; v. anche, di recente, A. GIANFREDA, Diritto penale e religione, cit., spec. p. 157 ss.
² N. FIORITA, Il diritto antidiscriminatorio in cerca di identità, cit., p. 99 ss.; M. PELISSERO, Osservazioni critiche, cit., p. 1205 ss.; C. SALAZAR, I “destini incrociati” della libertà di espressione e della libertà di religione, cit., p. 84 ss.
²⁷ A.G. CHIZZONITI, La tutela penale delle confessioni religiose, cit., p. 448-9.
²⁷¹ In base alle modifiche della legge del 2006 in esame, l’art. 3, comma 1, della legge 13 ottobre 1975, n. 654, in base alle modifiche della legge del 2006, punisce «chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi»; le sanzioni saranno la reclusione fino ad un anno e sei mesi o un’ammenda pecuniaria (fino a 6.000 euro). In tema cfr. UFFICIO NAZIONALE ANTIDISCRIMINAZIONI RAZZIALI (UNAR), Relazione sull’effettiva applicazione del principio della parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica e sull’efficacia dei meccanismi di tutela, presentato al Parlamento il 27 gennaio 2006, Atti parlamentari, Doc. CCXXV, n. 1, p. 23-4; ECRI, Terzo rapporto sull’Italia, Strasbourg, Council of Europe, 2006, p. 8 ss. (disponibile sul sito internet http://www.coe.int/t/e/human_rights/ecri/).
²⁷² N. FIORITA, Il diritto antidiscriminatorio in cerca di identità, cit., p. 99 ss.; si ricordi in proposito che l’intervento legislativo del 2006 è stato dettato da motivazioni di carattere essenzialmente politico ed emanato poco prima dello scioglimento delle Camere, senza aver avuto alla base una riflessione sulle scelte da adottare (A.G. CHIZZONITI, La tutela penale delle confessioni religiose, cit., p. 441).
²⁷³ Ad es. la Corte di Cassazione ha talvolta ritenuto censurabili espressioni ingiuriose, classificandole come discriminatorie, (tra le altre, Cass. Pen., sez. V, sent. 17 marzo 2006, n. 9381 e Cass. Pen., sez. III, sent. 16 novembre 2006, n. 37733); altrove (Cass. Pen., sez. III, sent. 3 aprile 2007, n. 13678, che ricalca quanto sostenuto nella più nota sent. della quinta sez. penale, n. 44295 del 5 dicembre 2005, ric. «Paoletich») ha escluso la punibilità di comportamenti simili, ritenendo che per applicare l’art. 3 della l. n. 654/1975 si debba essere in presenza non di una «qualsivoglia condotta che sia o possa apparire contrastante con un ideale di assoluta e perfetta integrazione […] fra soggetti di diversa razza, etnia, nazionalità o religione», ma di una condotta «consapevolmente finalizzata
e almeno potenzialmente idonea a rendere percepibile e suscitare in altri proprio quel sentimento di odio (e non altri di diversa natura o intensità quali la semplice avversione, l’antipatia, il disprezzo e simili), ovvero a dar luogo al concreto pericolo di immediati o futuri comportamenti discriminatori».
²⁷⁴ Nel momento in cui si procedeva all’approvazione della legge del 2006, si poteva leggere, dalle pagine dei maggiori quotidiani, un crescente allarmismo da parte dei media per gli scontri e gli incidenti innescati dalla presenza di stranieri nel nostro Paese, ma allo stesso tempo la serie di episodi di violenza e di intolleranza, anziché innescare una riflessione sugli strumenti di prevenzione e di repressione del razzismo e della xenofobia, ha determinato talvolta tentativi di negare l’esistenza di tali fenomeni in Italia (cfr., tra gli altri, S. RODOTÀ, L’incubatrice del razzismo, in «La Repubblica», 23 settembre 2008, p. 1). È evidente che nella tendenza a minimizzare queste problematiche possa esservi l’influenza di un particolare clima politico, ma è anche vero che il nostro Paese viene accusato da più di una organizzazione internazionale (ECRI, Terzo rapporto sull’Italia, cit., p. 22 ss.; EUROPEAN FUNDAMENTAL RIGHTS AGENCY (FRA), Report on Racism and Xenophobia in the Member States of the EU, FRA 2007, p. 31 e im) di non prendere sul serio i reati a sfondo razzista.
²⁷⁵ F. MARGIOTTA BROGLIO, La discriminazione di religione e di convinzioni personali, intervento in Atti del Convegno «Tra uguaglianza e differenze: il nuovo diritto antidiscriminatorio», Firenze, pubblicazione della Regione Toscana, 2007, p. 32 ss.
²⁷ In generale sul tema S. FREDMAN, Human Rights Transformed. Positive Rights and Positive Duties, Oxford, OUP 2009, p. 175 ss.
²⁷⁷ Ad esempio nell’ambito del diritto penale (soprattutto in Francia, cfr. supra, par. 3.2), ma si può ricordare anche la sovrapposizione, in Italia, tra nuove nozioni e disposizioni del Testo unico sull’immigrazione (supra, par. 4.2).
²⁷⁸ Cfr. supra, par. 1 e par. 3.2.
²⁷ Così N. FIORITA, Uguaglianza e libertà religiosa negli “anni zero”, cit., p. 30 ss. (ivi anche alcuni esempi).
²⁸ Cfr., in dettaglio, supra, cap. 1, par. 5.
²⁸¹ Così G. DE SIMONE, Dai principi alle regole, cit., p. 86 ss.
²⁸² Si vedrà più avanti (cap. IV, par. 2 e 3) come il concetto di requisito occupazionale sia stato utilizzato, in alcuni casi, per giustificare un trattamento direttamente discriminatorio.
²⁸³ Così disponevano, nel Regno Unito, il Sex Discrimination Act 1975, all’art. 7, e il RRA 1976, all’art. 5; in Francia, relativamente all’uguaglianza tra uomini e donne, l’art. 123-1 del codice del lavoro stabilisce che «Un décret en Conseil d'Etat détermine, après avis des organisations d’employeurs et de salariés les plus représentatives au niveau national, la liste des emplois et des activités professionnelles pour l’exercice desquels l’appartenance à l’un ou l’autre sexe constitue la condition déterminante […]»; la lista, che in base al codice doveva essere soggetta periodicamente a revisione, è stata disposta dal decreto 25 maggio 1984, n. 84-395, inserito nella partie réglementaire del Codice stesso, all’art. R123-1. In Italia, riguardo al sesso, l’art. 1 della legge n. 903/1977 escludeva dall’applicazione del divieto di discriminazione le professioni svolte nei settori della moda, dell’arte e dello spettacolo, quando l’appartenenza ad un sesso fosse essenziale allo svolgimento di una determinata mansione. Cfr. M. BELL, Direct Discrimination, cit., p. 277 ss.; D. STRAZZARI, Discriminazione
razziale, cit., p. 81 ss.
²⁸⁴ La norma, nella versione consolidata dopo la riforma del 2008, recita: «Nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, e purché la finalità sia legittima, nell’ambito del rapporto di lavoro o dell’esercizio dell’attività di impresa, non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2 quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla religione, alle convinzioni personali, all’handicap, all’età o all’orientamento sessuale di una persona, qualora, per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività medesima».
²⁸⁵ N. FIORITA, Il diritto antidiscriminatorio in cerca di identità, cit., p. 89 ss.
²⁸ M. AIMO, Le discriminazioni basate sulla religione, cit., p. 62 ss.; F. ONIDA, Il problema delle organizzazioni di tendenza nella direttiva 2000/78/EC, cit., p. 906 ss.
²⁸⁷ In proposito, e per alcuni esempi, P. BELLOCCHI, Pluralismo religioso, cit., p. 182 ss.. Un interessante tema collegato a quello in esame riguarda la vigenza del divieto di discriminazione religiosa nei contratti: si v. ampiamente D. MAFFEIS, La discriminazione religiosa nel contratto, in «Diritto ecclesiastico», 2006, n. 1-2, p. 55 ss., dove, per quanto qui rileva, si afferma che il divieto di discriminazione non si applica quando la qualità personale (in questo caso la religione) ricade sulla prestazione. Tra gli esempi portati dall’A., vi è il caso di un contraente che ricerchi qualcuno che possa lavorare di sabato o cucinare cibi che la sua religione non gli impedisce di toccare: in tali ipotesi l’appartenenza (o la non appartenenza) a una religione rappresenterà un requisito determinante per il corretto adempimento della prestazione e potrà, quindi, essere legittimamente presa in considerazione per la stipula del contratto, senza che ciò integri una discriminazione (ivi, p. 108 ss.).
²⁸⁸ Così G. DE SIMONE, Dai principi alle regole, cit., p. 87. Cfr. infra, par. 6.2.
²⁸ Tra i “requisiti occupazionali” si potrebbe annoverare la qualifica degli insegnanti di religione. Nel nostro Paese, la disciplina che subordina l’assunzione di un docente di religione cattolica nelle scuole pubbliche al possesso del nulla osta rilasciato dall’autorità confessionale può rappresentare un esempio delle deroghe alla parità di trattamento di cui all’art. 4.1 della direttiva: infatti, la religione dell’aspirante docente – rectius, la sua “conformità” alla dottrina cattolica, attestata dall’autorità confessionale – costituisce un requisito necessario e determinante per lo svolgimento di quella specifica professione. Si tratta, in verità, di una materia oggetto della legislazione pattizia, riguardo alla quale non si sono poste mai questioni relative all’applicazione dei concetti del diritto antidiscriminatorio.
² Cfr. S. LATRAVERSE, Report on Measures to Combat Discrimination, cit., p. 108.
² ¹ In merito cfr. supra, par. 3.1.
² ² Almeno per quanto riguarda la tutela antidiscriminatoria, e specialmente in materia religiosa. In tal senso, chiaramente, Cour d’appel de Paris, sent. 16 marzo 2001, cit., nella quale il licenziamento di una dipendente che indossava il velo è stato ritenuto legittimo a motivo dell’interesse economico dell’azienda e data la natura della mansione svolta: in sostanza, si è giustificato il comportamento discriminatorio del datore di lavoro argomentando che il contatto della dipendente con il pubblico avrebbe comportato conseguenze negative per le vendite e che, dunque, una limitazione della sua libertà sarebbe stata ammissibile. Così, il giudice ha accettato di limitare la libertà individuale in forza degli interessi della produzione ed ha in qualche modo avallato un pregiudizio collettivo riguardo alle donne “velate”, che non darebbero buoni
risultati nelle vendite perché invise alla clientela. Cfr. J. SAVATIER, Conditions de licéité d’un licenciement, cit., p. 354 ss.; D. STRAZZARI, Discriminazione razziale e diritto, cit., p. 354 ss.; infra, cap. IV, par. 2.1.
² ³ Nel Race Relations Act 1976, ad esempio, è stato inserito l’art. 4A, modificando l’approccio precedente che prevedeva una lista tassativa di professioni alle quali applicare i requisiti occupazionali.
² ⁴ Art. 7 Employment Equality (religion or belief) Regulations 2003.
² ⁵ Paragrafo 1 dell’allegato n. 9. A differenza che nei regolamenti del 2003, non viene riproposta la formula «genuine and determining occupational requirement», ma il riferimento a un «occupational requirement» va inteso comunque – in base all’interpretazione consolidata nell’ordinamento britannico – come un requisito «essenziale» per lo svolgimento del lavoro (Equality Act 2010. Explanatory Notes, n. 796; B. HEPPLE, Equality. The new legal framework, cit., p. 89).
² Si afferma esplicitamente, infatti, che il datore di lavoro deve dimostrare che il trattamento differenziato era un requisito occupazionale; tra l’altro, riprendendo una formulazione presente nei regolamenti del 2003, il datore di lavoro dovrà provare che il destinatario del requisito è stato escluso perché non aderisce alla religione richiesta, oppure perché si hanno ragionevoli motivi per pensare che non vi aderisca («reasonable grounds for not being satisfied that the person meets [the requirement]»). Si tratta di una puntualizzazione utile per quanto concerne la religione, poiché può essere difficile verificare l’effettiva sussistenza nel dipendente (o nel candidato a un impiego) di una caratteristica relativa all’appartenenza confessionale e potrebbe darsi il caso in cui qualcuno, allo scopo di ottenere un impiego, finga di voler rispettare il requisito religioso.
² ⁷ Sulla normativa previgente cfr. DTI, Explanation of the provisions of the: Employment Equality […]Regulations 2003, cit., p. 16 ss.
² ⁸ In Italia, ad esempio, la disposizione sui requisiti occupazionali esclude la illegittimità degli “atti di discriminazione ai sensi dell’art. 2” del decreto n. 216/2003, ma l’art. 2 comprende anche le molestie e l’ordine di discriminare, equiparati (in base a quanto previsto dalla direttiva) ad una discriminazione.
² Insistono sulla difficile adattabilità delle deroghe ex art. 4.1 della direttiva a determinate caratteristiche M. BELL, Direct discrimination, cit., p. 275 ss.; L. VICKERS, Freedom of Religion and the Workplace, cit., p. 27.
³ Non mancano, tuttavia, esempi di rilevanza del carattere religioso per attività svolte in aziende non di tendenza. Oltre al caso degli insegnanti di religione, già ricordato, un requisito occupazionale di natura ideologica potrebbe riguardare una clinica che voglia assumere personale per il servizio di assistenza spirituale, per il quale dovrà richiedere una specifica appartenenza confessionale. Se in Italia questa materia riceve una speciale disciplina attraverso il diritto pattizio, in altri Paesi potrebbe essere rimessa alla comune regolamentazione dei rapporti di lavoro, ai quali si applicano le norme sui G.O.R..
³ ¹ Ad esempio, nel caso in cui si ricercasse qualcuno disposto a lavorare anche il sabato, si dovrebbe porre un requisito che escludesse espressamente ebrei e avventisti, giustificandolo con la necessità assoluta che quella mansione sia svolta di sabato, per un fine legittimo e rispettando la proporzionalità tra la pretesa e il fine, ipotesi piuttosto difficile da configurare. Non solo: la formulazione di un simile requisito non terrebbe nella debita considerazione il fatto che l’appartenenza confessionale non sempre determina il rispetto di una pratica religiosa, per cui riservare il posto di lavoro ai “non ebrei” potrebbe illegittimamente escludere un ebreo che non osserva il sabato.
³ ² D. STRAZZARI, Discriminazione razziale e diritto, cit., p. 81 ss.
³ ³ Come già ricordato (supra, cap. 2, par. 4) detti requisiti non devono più essere determinanti e proporzionali rispetto allo scopo (come nell’art. 4.1), ma soltanto essenziali, legittimi e giustificati per lo svolgimento dell’attività professionale, tenuto conto dell’«etica» dell’organizzazione. Come notato da G. DE SIMONE, Dai principi alle regole, cit., p. 88, «il parametro di valutazione diviene non la necessità oggettiva» rispetto allo svolgimento di un’attività, ma «l’opportunità in relazione all’etica dell’organizzazione».
³ ⁴ A. VISCOMI, Lavoro e “tendenza” nelle fonti internazionali e comunitarie, cit., p. 31 ss., nota come la discrezionalità lasciata agli Stati finisca, in qualche occasione, per dilatare eccessivamente la categoria dei beneficiari delle deroghe.
³ ⁵ N. FIORITA, Le direttive comunitarie in tema di lotta alla discriminazione, cit., p. 367 ss.; F. ONIDA, Il problema delle organizzazioni di tendenza, cit., p. 907 ss.; M. AIMO, Le discriminazioni basate sulla religione, cit., p. 67 ss.
³ Sul punto si tornerà tra breve. In merito alle conseguenze di questa “dilatazione” cfr., tra gli altri, N. FIORITA, Le direttive comunitarie, cit., p. 374 ss.; M. AIMO, Le discriminazioni basate sulla religione, cit., p. 73 ss.
³ ⁷ L’art. 4.2 prevede, infatti, che «gli Stati membri possono mantenere nella legislazione nazionale in vigore alla data d'adozione della presente direttiva o prevedere in una futura legislazione che riprenda prassi nazionali vigenti alla data d'adozione della presente direttiva, disposizioni […]» che consentono, in favore delle organizzazioni di tendenza, deroghe al divieto di discriminazione religiosa. F. ONIDA, Il problema delle organizzazioni di tendenza, cit., p. 909 ss., vede in questa disposizione il segno di un atteggiamento di sfavore del legislatore europeo verso le deroghe per le chiese, che sono state imposte dalle
pressioni degli Stati (e delle organizzazioni di tendenza stesse). Perciò, secondo l’A., l’Unione non si è “fidata” fino in fondo della autonomia statale nello stabilire tali eccezioni, ma ha voluto ribadire una sorta di clausola speciale di non regresso. In questo senso cfr. anche G. DE SIMONE, Dai principi alle regole, cit., p. 87 ss.
³ ⁸ Sottolineano frammentarietà e non sistematizzazione delle norme in materia: riguardo all’Italia, A. VISCOMI, Lavoro e “tendenza”, cit., p. 26 ss.; G. DE SIMONE, Dai principi alle regole, cit., p. 89 ss.; riguardo alla Francia, F. MESSNER, P.-H. PRÉLOT, J.-M. WOEHRLING, Traité de droit français des religions, cit., p. 1211 ss.; nel Regno Unito, come già ricordato, la trasposizione delle direttive ha introdotto per la prima volta una specifica normativa sulla discriminazione religiosa, nella quale si prevedono eccezioni per le organizzazioni di tendenza, mentre precedentemente erano presenti soltanto alcune disposizioni relative alle scuole confessionali (School Standards and Framework Act 1998; The Education (Scotland) Act 1980: in proposito DTI, Explanation of the provisions of the: Employment Equality (Sexual Orientation) Regulations 2003 and the Employment Equality (Religion or Belief) Regulations 2003, cit., p. 20; B. HEPPLE, T. CHOUDHURY, Tackling religious discrimination, cit., p. 51 ss.).
³ Art. 3.5, d.lgs. n. 216/2003: «Non costituiscono atti di discriminazione ai sensi dell’articolo 2 le differenze di trattamento basate sulla professione di una determinata religione o di determinate convinzioni personali che siano praticate nell’ambito di enti religiosi o altre organizzazioni pubbliche o private, qualora tale religione o tali convinzioni personali, per la natura delle attività professionali svolte da detti enti o organizzazioni o per il contesto in cui esse sono espletate, costituiscano requisito essenziale, legittimo e giustificato ai fini dello svolgimento delle medesime attività».
³¹ Con ogni probabilità, non si tratta di un mero errore di trasposizione, visto che l’art. 3.5 non è stato modificato dalla legge n. 101 del 2008, che si è occupata, all’art. 6 sexies, di correggere alcuni errori presenti nei decreti attuativi.
³¹¹ In realtà, il riferimento all’«etica» è stato inserito nella direttiva basandosi sulla cornice concettuale britannica (cfr. supra, cap. 2, nota 111), ma non si tratta di un concetto presente negli altri ordinamenti giuridici europei. Tale nozione risulta, perciò, di difficile codificazione in Italia, anche se nel decreto di recepimento della direttiva si sarebbe potuto meglio specificare che la deroga in esame è riferita solo alle organizzazioni di tendenza, e non a un generico insieme di «organizzazioni pubbliche o private».
³¹² In questo senso, l’art. 4 della legge 11 maggio 1990, n. 108, offre una prima categorizzazione delle imprese di tendenza, identificate nei «datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto». In giurisprudenza, ex multis, Cassazione, sez. lavoro, sent. 16 giugno 1994, n. 5832: «le organizzazioni di tendenza sono costituite da quelle entità costituite e operanti per il perseguimento di finalità ideali o confessionali o politiche o sindacali».
³¹³ Ad esempio, secondo la Cassazione (Sez. unite, sent. 11 aprile 1994, n. 3353) un istituto scolastico, anche se gestito da una congregazione religiosa, non beneficia del regime speciale ex art. 4 l. n. 108/1990 (relativo ai licenziamenti), poiché assimilabile a un’impresa, mentre l’organizzazione di tendenza stricto sensu sarebbe unicamente la congregazione (nello stesso senso, di recente, Cass. Civ., sez. lavoro, ordinanza 3 febbraio 2011, n. 2673, in «Quaderni dir. e pol. eccl.», n. 3/2011, p. 715). Questo orientamento giurisprudenziale, come ricordato da F. SANTONI, Le organizzazioni di tendenza e il rapporto di lavoro, cit., p. 60, si fonda su una pronuncia della Corte Costituzionale che ha sostanzialmente equiparato i datori di lavoro non imprenditori a quelli portatori di tendenza (C. Cost., sent. 8 luglio 1975, n. 189). Per una ricostruzione delle posizioni in dottrina cfr. M. PEDRAZZOLI, Aziende di tendenza, in Dig. disc. priv., sez. comm., vol. II, Torino, 1987, p. 107 ss.; F. SANTONI, op.ult. cit., p. 47 ss.
³¹⁴ A. VISCOMI, Lavoro e “tendenza”, cit., p. 30-31.
³¹⁵ La natura della mansione e il «contesto» in cui viene svolta sono elementi rilevanti – come già osservato – anche per i requisiti occupazionali generici e correttamente menzionati dall’art. 3.5 del d.lgs. n. 216/2003 relativamente alle aziende di tendenza. La valutazione del contrasto tra interessi del lavoratore e dell’impresa deve, perciò, tener conto che non si può richiedere a tutti i lavoratori di condividere l’ideologia dell’ente, ma soltanto a quelli che svolgono attività “portatrici di tendenza”. Così, ad esempio, la Cassazione (sent. 16 giugno 1994, cit.) ha dichiarato illegittimo il licenziamento per ragioni ideologiche di un insegnante di educazione fisica impiegato in una scuola cattolica, poiché si trattava di una materia che «prescinde completamente dall’orientamento ideologico del docente» e che non poteva orientare il credo degli alunni. Nella medesima sentenza, la Suprema Corte ha sottolineato, inoltre, che un’impresa di tendenza potrebbe procedere alla risoluzione del rapporto di lavoro anche nel caso di mansioni neutre, quando nel loro svolgimento risulti che il dipendente abbia «diffuso e propagandato […] idee e atteggiamenti in contrasto con l’indirizzo» dell’ente; in altre parole quando dal «contesto» lavorativo derivi un danno all’orientamento ideologico dell’organizzazione. In dottrina cfr. F. SANTONI, Le organizzazioni di tendenza e il rapporto di lavoro, cit., spec. p. 175 ss.; R. BOTTA, Rapporti di lavoro in diritto ecclesiastico, cit., p. 261 ss.; G. LO CASTRO, Individuo e «insieme» nelle organizzazioni di tendenza, cit., p. 47 ss.; F. ONIDA, Il problema delle organizzazioni di tendenza, cit., p. 910 ss.; P. BELLOCCHI, Pluralismo religioso, discriminazioni ideologiche, cit., p. 181 ss.; V. PACILLO, Contributo allo studio del diritto di libertà religiosa nel rapporto di lavoro, cit., p. 237 ss.
³¹ G. FELICIANI, Lo status delle università di tendenza in Italia, in A.G. CHIZZONITI (a cura di), Organizzazioni di tendenza e formazione universitaria, cit., p. 263 ss., ricorda che l’Università Cattolica del Sacro Cuore è l’unica università di tendenza italiana tutelata sul punto da apposite norme di legge.
³¹⁷ In generale sul tema: F. FINOCCHIARO, Diritto ecclesiastico, cit., p. 168 e
423 ss.; E. VITALI, A.G. CHIZZONITI, Manuale breve di diritto ecclesiastico, cit., p. 155 ss.; M. NAPOLI, Lo statuto dei docenti, in A.G. CHIZZONITI (a cura di), Organizzazioni di tendenza e formazione universitaria, cit., p. 52 ss.
³¹⁸ C. Cost., sent. 29 dicembre 1972, n. 195.
³¹ Cfr., per tutti, G. DE SIMONE, Dai principi alle regole, cit., p. 140 ss.; V. PACILLO, Contributo allo studio del diritto di libertà religiosa, cit., p. 270 ss.
³² Per una ricostruzione cfr. R. BENIGNI, L’identità religiosa nel rapporto di lavoro, Napoli, Jovene 2008, spec. p. 151 ss.
³²¹ R. BOTTA, Dieci anni di giurisprudenza su fattore religioso e diritto del lavoro, in «Quaderni Dir. e politica ecclesiastica», 2001, n. 3, p. 740 ss.
³²² M. NAPOLI, Lo statuto dei docenti, cit., p. 48 ss.
³²³ Così N. FIORITA, Le direttive comunitarie in tema di lotta alla discriminazione, cit., p. 374 ss.; V. PACILLO, Contributo allo studio, cit., p. 251 ss.
³²⁴ Solo la manifestazione di idee contrastanti con la tendenza o la modalità di espletamento dell’attività lavorativa possono giustificare una restrizione dei diritti dei lavoratori, mentre saranno irrilevanti le scelte di vita personali che non influenzano la diffusione dell’ideologia dell’organizzazione. Ad esempio, la Corte di Cassazione, nella già citata sent. 16 giugno 1994, ha dichiarato
illegittimo il licenziamento di un docente di una scuola cattolica, motivato dal fatto che questi, agendo in modo non conforme alla dottrina cattolica, aveva contratto matrimonio civile e non religioso. Questo indirizzo giurisprudenziale (confermato da Cassazione, sent. 1 agosto 2000, n. 10640) ha superato quello della stessa Suprema Corte, che con sentenza 21 novembre 1991, n. 12530, aveva dichiarato assistito da giusta causa il licenziamento di un’insegnante di inglese da parte di un istituto religioso, sempre a motivo della scelta del matrimonio civile da parte della docente. Per una sintesi degli orientamenti giurisprudenziali in materia, e ulteriori riferimenti: R. BOTTA, Dieci anni di giurisprudenza…, cit., p. 740 ss.; R. BENIGNI, Identità religiosa, cit., p. 167 ss.; cfr. anche P. BELLOCCHI, Pluralismo religioso, cit., p. 182 ss.
³²⁵ F. ONIDA, Il problema delle organizzazioni di tendenza, cit., p. 910 ss.
³² M. NAPOLI, Lo statuto dei docenti, cit., p. 47 ss., individua in questa collocazione una nuova fase nella regolamentazione della materia
³²⁷ Precedentemente tali eccezioni erano ammesse dall’art. 7.3 dei regolamenti del 2003, quando «being of a particular religion or belief is a genuine occupational requirement for the job» e «it is proportionate to apply that requirement in the particular case». Cfr. M. BELL, Diversity of religion and belief at work – the new legal framework, in A. MCCOLGAN (ed. by), Achieving Equality at work, London, Institute of Employment Rights, 2003, p. 61; L. VICKERS, Freedom of Religion and the Workplace: The Draft Employment Equality, cit., p. 28.
³²⁸ Dalla ricostruzione operata dai giudici, emerge uno stretto legame tra la «proportionality» e la ragionevolezza, per cui si dovrà tener conto della relazione tra il requisito e il fine perseguito dall’impresa. Il test sulla proporzionalità stabilito dalla giurisprudenza britannica prevede che si debba rispondere ai seguenti quesiti: «First, is the objective sufficiently important to justify limiting a fundamental right? Secondly, is the measure rationally connected to the
objective? Thirdly, are the means chosen no more than is necessary to accomplish the objective?» (si v., tra le molte sentenze che richiamano questi parametri, Employment Appeal Tribunal, 30 marzo 2007, Azmi v. Kirklees, par. 71 ss.).
³² Tra le altre: Employment Tribunal of Shrewsbury, sent. 15 maggio 2008 Sheridan v. Prospect, e sent. 15 maggio 2008 Hender v. Prospect (entrambe reperibili in www.olir.it), relative ai rapporti di lavoro in una organizzazione caritativa di ispirazione cristiana, la quale aveva imposto un G.O.R. relativo alla religione anche per impieghi che non presupponevano necessariamente l’appartenenza religiosa (come l’assistenza ai disabili ed il o in alcune attività da essi svolte). Da notare che ai dipendenti dell’organizzazione veniva richiesto, in fase di assunzione, di sottoscrivere l’adesione ad una lista di principi (“Basis of faith”) nella quale era possibile assicurare semplicemente la propria “non contrarietà” alla dottrina cristiana, pur non dichiarandosi fedeli. Analizzando questa situazione, il Tribunale conclude che per alcune mansioni l’appartenenza confessionale non era da considerarsi proporzionata al fine perseguito e tale da giustificare il trattamento discriminatorio.
³³ Cfr. Sheridan v. Prospect, cit.; Employment appeal Tribunal, sent. 17 gennaio 2007, Glasgow City Council v. McNab [2007] UKEAT 0037, spec. par. 20 ss.
³³¹ Il Sex Discrimination Act 1975 all’art. 19 escludeva dall’applicazione del divieto di discriminazione di genere tutte quelle funzioni riservate da una confessione religiosa a persone dell’uno o dell’altro sesso. Il riferimento riguarda i ministri di culto, come indicato dalla rubrica («Ministers of religion etc.»), e l’esenzione di questa materia da quanto stabilito in generale dal diritto antidiscriminatorio appare sicuramente appropriata, anche al fine di tutelare l’autonomia delle confessioni religiose nella loro regolamentazione interna. Cfr. R. SANDBERG, N. DOE, Religious Exemptions in Discrimination Law, in «Cambridge Law Journal», 2007, 2, p. 304 ss.;. P.W. EDGE, The Employment of Religious Adherents by Religious Organisations, in Law and Religion in Contemporary Society, a cura di P.W. EDGE, G. HARVEY, Aldershot, Ashgate,
2000, p. 159 ss.; D. MCCLEAN, United Kingdom, cit., p. 344 ss.
³³² Gli Employment Equality (Sexual Orientation) Regulations 2003 stabilivano che nel caso di attività lavorative svolte da una «organised religion», si possono imporre requisiti occupazionali relativi all’orientamento sessuale al fine di «rispettare la dottrina di quella religione» o di non turbare («conflict») i convincimenti religiosi di un numero significativo di fedeli (art. 7.3). In proposito L. VICKERS, The Employment Equality (Religion or Belief) Regulations 2003, cit., p. 191 ss.; R. SANDBERG, N. DOE, Religious Exemptions, cit., 304 ss.
³³³ Si tratta di un nuovo fattore protetto dall’Equality Act 2010 (art. 8). La discriminazione può, quindi, essere individuata dallo stato civile di una persona (ovvero, se essa sia sposata o abbia concluso una «civil partnership»).
³³⁴ Riguardo ai regolamenti del 2003, la Royal Court of Justice, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità di questa disposizione (sent. 26 Aprile 2004, “Amicus MSF Section, R (on the application of) v Secretary of State for Trade and Industry” [2004] EWHC 860 ()), ha affermato che l’art. 7.3 era finalizzato a tutelare la libertà delle chiese, prevalentemente nella nomina dei ministri di culto, così da non imporre ai tribunali civili il compito di valutare i casi in cui l’orientamento sessuale sia rilevante per lo svolgimento di mansioni in ambito confessionale.
³³⁵ Anche in questo caso, si ripropongono i criteri stabiliti negli Employment Equality (Sexual Orientation) Regulations 2003.
³³ Sui rapporti di lavoro nelle scuole confessionali, già l’art. 39 dei regolamenti del 2003 faceva salve le disposizioni dello School Standards and Framework Act 1998, relative all’assunzione e al licenziamento dei docenti, e dell’Education
(Scotland) Act 1980, che dispone una peculiare disciplina per le nomine degli insegnanti delle «denominational schools» scozzesi. L’allegato 22 fa riferimento non solo a tali tipologie di scuole, ma anche ad altri istituti nei quali la disciplina delle nomine del corpo insegnante rimane slegata dall’applicazione dell’intera parte 5 dell’Equality Act 2010 (discriminazione nel lavoro); ad ogni modo si tratta pur sempre di un insieme tassativo di scuole e università, la cui regolamentazione è affidata ad altre leggi (menzionate al par. 3.6 e 3.7 dell’allegato 22).
³³⁷ Per una descrizione delle eccezioni ai divieti di discriminazione in ambiti diversi dal lavoro, rinvio a S. COGLIEVINA, Divieti di discriminazione e fattore religioso: la normativa britannica dopo l'«Equality Act 2010», cit., p. 340 ss.
³³⁸ F. MESSNER, P.-H. PRÉLOT, J.-M. WOEHRLING, Traité, cit., p. 1211 ss.
³³ Ibidem; cfr. anche E. HIRSOUX, Conclusions du colloque, in Echo du colloque «Les motifs de licenciement dans les entreprises de tendance», in «L’année canonique», 1997, p. 159 ss.; G. DOLE, La liberté d’opinion et de conscience, cit, p. 127 ss.
³⁴ Emblematica, ad esempio, la sent. della Cour de cassation, Assemblée plénière, del 19 maggio 1978, n. 76-41211, Dame Roy, nella quale è stato ritenuto legittimo il licenziamento di un'insegnante di una scuola cattolica, che aveva contratto nuove nozze in seguito a divorzio. Da notare la diversa rilevanza attribuita dalla giurisprudenza italiana e se ai comportamenti extralavorativi, qui considerati motivo legittimo del licenziamento, in Italia ritenuti non determinanti per escludere l’applicazione del divieto di discriminazione. In tema, tra gli altri, G. DOLE, La liberté d’opinion, cit., p. 135 ss.; B. BASDEVANT, La prise en compte des convictions religieuses en droit du travail, in Gestion et Croyances, Toulouse, PU, 2001 (Histoire, gestion, organisations, n° 8), p. 339 ss.
³⁴¹ Cass., Chambre sociale, sent. 17 aprile 1991, Painsecq c. Assoc fraternité St Pie X, relativa ad un celebre caso nel quale un sacrestano omosessuale era stato licenziato a motivo della contrarietà della sua tendenza sessuale alla dottrina cattolica. La Cassazione ha affermato che i presupposti per il licenziamento sono da rintracciarsi nel legame tra la pretesa fedeltà all’ideologia e la natura dell’attività svolta e nel turbamento del contesto. Mancando quest’ultimo elemento, poiché l’orientamento sessuale del ricorrente non era noto alle persone che frequentavano l’ente confessionale, il licenziamento è stato ritenuto illegittimo. Cfr. in merito B. BASDEVANT, La prise en compte des convictions religieuses, cit., p. 339 ss.
³⁴² S. LATRAVERSE, Report, cit., p. 14 ss.
³⁴³ E. HIRSOUX, Conclusions du colloque, cit., p. 173: «les motifs de licenciement dans les entreprises de tendance ressortissent du droit commun; un droit commun qui se trouve simplement er justement assoupli dans sa mise en œuvre. Autrement dit, plutôt qu’un droit dérogatoire, un droit adapté». Cfr., però, G. DOLE, La liberté d’opinion et de conscience en droit comparé du travail, cit., p. 135 ss., che mette piuttosto l’accento sulla specificità del contratto di lavoro nelle organizzazioni di tendenza, pur richiamando una serie di principi generali di diritto del lavoro (lealtà, buona fede, corretta esecuzione del contratto).
CAPITOLO IV
DALLE NORME ALLA PRASSI.
LA NON DISCRIMINAZIONE
E LA TUTELA DELLA LIBERTÀ RELIGIOSA
SEZIONE I. I DIVIETI DI DISCRIMINAZIONE E LA LIBERTÀ RELIGIOSA NELLA GIURISPRUDENZA
1. INTRODUZIONE
Per osservare se e in che misura il diritto antidiscriminatorio abbia inciso sulle modalità di tutela della libertà religiosa nei tre Stati presi in esame, occorre andare oltre l’analisi delle norme che hanno recepito le direttive dell’Unione. Come si è visto, a parte alcune differenze, il quadro normativo è ormai comune ai Paesi membri; la prassi, tuttavia, cambia, in base alle diverse esperienze e ai diversi modelli di uguaglianza e di libertà religiosa precedentemente descritti. L’analisi che segue riguarderà l’applicazione delle principali nozioni del diritto antidiscriminatorio (in particolare: discriminazione diretta e indiretta e molestie) nei tre ordinamenti presi in considerazione, valutando in che modo sia stato utilizzato il potenziale dei nuovi concetti per la tutela della libertà religiosa, e specialmente nella gestione delle diversità. Non è oggetto di approfondimento, invece, il tema delle organizzazioni di tendenza¹. La giurisprudenza in questo ambito, infatti, non riguarda tanto la questione delle diversità religiose e della loro tutela, ma piuttosto il rapporto tra libertà religiosa del lavoratore e autonomia delle organizzazioni ideologiche, alle quali si permette – come si è visto – di “discriminare” i propri dipendenti per conservare una conformità ai valori che definiscono la “tendenza”². Nell’esame dell’impatto del diritto antidiscriminatorio sulla libertà religiosa, si è scelto di concentrare l’attenzione sulle modalità di tutela delle specificità religiose attraverso le nozioni codificate dalle direttive, osservando i diversi approcci nazionali alla luce dei modelli di uguaglianza precedentemente descritti. In questa prima parte ci si soffermerà soprattutto sulla giurisprudenza, con l’avvertenza che essa ha un ruolo e un peso differenti nei paesi di civil law e di common law. Occorre ricordare, infatti, che nel Regno Unito è proprio la giurisprudenza che spesso delimita e definisce diritti e “principi”; essa risulta, perciò, fondamentale per comprendere l’effettiva applicazione del diritto antidiscriminatorio e le sue conseguenze per la libertà religiosa. Se, storicamente, i diritti nell’ordinamento britannico nascono dall’azione delle corti, negli Stati di civil law essi discendono dalle norme costituzionali. Così, nell’applicazione della legislazione antidiscriminatoria, è facile prevedere che la tutela e l’interpretazione dei diritti terrà in speciale considerazione i principi costituzionali e le relative pronunce dei giudici avranno un carattere meno “creativo” rispetto ai sistemi di common law. V’è inoltre da ricordare che in
Francia e in Italia la giurisprudenza sarà indirizzata dal alcuni principi costituzionali sovraordinati, tra cui quello di uguaglianza con le sue diverse letture, e che l’applicazione delle direttive si affianca ai divieti di discriminazione religiosa previgenti: questi ultimi, come si è visto, hanno avuto un peso nella fase della trasposizione e talvolta entrano in gioco anche nella prassi successiva, influenzando le scelte relative alla tutela della parità e delle diversità religiose³. Il diritto a non essere discriminati in materia religiosa risulterà, insomma, dall’interazione tra principi costituzionali, norme di recepimento delle direttive e disposizioni previgenti. Ancora, si può anticipare che le pronunce italiane e si sulla discriminazione religiosa non sono abbondanti; al contrario, si rileva un cospicuo numero di sentenze britanniche sul tema. Se ciò si collega, indubbiamente, al diverso ruolo della giurisprudenza nei sistemi di common law, tuttavia altre motivazioni di fondo contribuiscono a spiegare la scarsa attenzione per il tema delle discriminazioni religiose in Italia e in Francia. In generale, vi sono talune difficoltà, soprattutto dal punto di vista procedurale, nell’applicazione delle norme da parte delle vittime delle discriminazioni⁴. Nei paragrafi che seguono si osserverà, poi, se e in che modo la diversa sensibilità dei tre Paesi per le questioni dell’uguaglianza e delle diversità religiose incida sulla quantità e sulla tipologia della giurisprudenza nazionale⁵. Infine, è necessario delimitare l’ambito dell’analisi. I divieti di discriminazione relativi alla religione sono stati implementati in primis con riferimento all’ambito lavorativo, sulla base della direttiva n. 2000/78. Si spiega così il fatto che in Italia e in Francia la (scarsa) giurisprudenza in tema sia da rintracciare quasi esclusivamente in questo settore. Nel Regno Unito, sia la consolidata esperienza in materia di antidiscriminazione, sia la presenza di leggi recenti che non limitano la lotta alla discriminazione religiosa ai rapporti di lavoro, hanno incoraggiato ricorsi e sentenze anche in altri ambiti. Tuttavia, per rendere più chiara la comparazione dei tre ordinamenti, l’analisi che segue si concentrerà prevalentemente sui casi di discriminazione religiosa nel lavoro. In questo settore emergono frequentemente questioni relative alle pratiche religiose dei lavoratori e ciò rende lo studio di tali problematiche particolarmente interessante per la valutazione della tenuta dei modelli di uguaglianza di fronte alla sfida delle diversità. L’apparato concettuale introdotto dalle direttive fa pensare ad un rafforzamento della tutela della libertà religiosa, sia negativa, sia positiva. Per quanto riguarda
la prima accezione, si fa riferimento in modo particolare, ma non esclusivo, al divieto di discriminazione diretta: le caratteristiche di questa nozione, come codificata dal legislatore europeo , possono garantire una tutela più attenta della libertà religiosa del lavoratore. Il divieto di discriminazione indiretta, invece, tende a far sì che i datori di lavoro (sia pubblici, sia privati) tengano conto delle specificità religiose e degli svantaggi che possono determinarsi per alcune espressioni della libertà religiosa, offrendo una garanzia anche per l’accezione positiva di questo diritto.
2. LA GIURISPRUDENZA SULLA DISCRIMINAZIONE RELIGIOSA NEI DUE PAESI DI CIVIL LAW
2.1. L’APPLICAZIONE DEI DIVIETI DI DISCRIMINAZIONE NEL MODELLO DI UGUAGLIANZA FORMALE SE
Iniziando con l’analisi della prassi giurisprudenziale dei Paesi di civil law, nell’ordinamento se emergono con particolare chiarezza alcune delle caratteristiche ora menzionate, quali l’importanza del principio costituzionale di uguaglianza e l’incidenza delle norme antidiscriminatorie previgenti sulla costruzione delle pronunce in questa materia. In primo luogo, la centralità del sovraordinato principio di uguaglianza, nella sua accezione formale⁷ , ha finora portato a un’interpretazione “classica” dei divieti di discriminazione: ad esempio, assai di rado si sono messi in discussione criteri o norme neutri e il concetto di discriminazione indiretta non è mai emerso nelle sentenze pronunciate fino ad oggi. In secondo luogo, le norme previgenti in materia hanno in parte influenzato l’interpretazione giurisprudenziale del nuovo diritto antidiscriminatorio e la scarsità di pronunce sul tema rivela la reticenza dell’ordinamento se a introdurre parametri di verifica delle discriminazioni “di fatto”, che rischierebbero di mettere in pericolo il tradizionale giudizio di uguaglianza, impostato sul primato dell’égalité formelle⁸. Esaminando la giurisprudenza relativa alle problematiche religiose nel lavoro, è utile distinguere tra impiego pubblico e privato, per i quali si possono individuare differenti riferimenti normativi e giurisprudenziali, sui quali si innestano – pur con i ritardi e le resistenze di cui si è detto – i “nuovi” divieti di discriminazione. Nell’impiego pubblico (regolato dal cosiddetto droit de la fonction publique) hanno un ruolo centrale i principi di neutralità e di uguaglianza, tra di loro collegati. Da essi deriva in primo luogo una regola di parità nell’accesso all’impiego pubblico: le convinzioni personali – assieme ad altre caratteristiche – non possono essere alla base di trattamenti differenziati dei funzionari, né devono rilevare nella loro selezione . In secondo luogo, nello svolgimento del rapporto di lavoro, la libertà religiosa può essere limitata per un’esigenza di rispetto della neutralit๠. Anche questa regola si collega al principio di uguaglianza: poiché quest’ultimo implica che le confessioni e le credenze siano trattate su un piano di parità, nel servizio pubblico gli agenti dello Stato debbono essere imparziali e non esprimere, in linea di principio, alcuna appartenenza
religiosa¹¹. Nel rapporto di lavoro privato, invece, governato dal Code du Travail, il principio generale è la tutela della libertà religiosa individuale¹². Esso si esprime in due modi: in senso negativo, le convinzioni religiose non dovranno essere considerate per la stipula e nell’esecuzione del contratto e si dovrà, quindi, rispettare il diritto del lavoratore a non svelare le proprie convinzioni e a non subire sanzioni, licenziamenti o altri trattamenti sfavorevoli a motivo della religione. In senso positivo, i lavoratori potranno manifestare la propria libertà religiosa, senza essere tenuti, a differenza dei funzionari pubblici, al rispetto della neutralità: quest’ultimo, infatti, è un principio che governa i rapporti tra Stato e individui, ma che non influisce – almeno in linea di principio – sull’esercizio dei diritti in ambito privato. Il diritto di esprimere la propria libertà religiosa, ad ogni modo, non sarà assoluto, ma incontrerà alcune limitazioni, derivanti dalle esigenze dell’impresa o dalla tutela di diritti altrui o di altre esigenze di carattere generale: si fa riferimento, in tal senso, all’art. L 1121-1 (già art. 122-35) del Code du travail, in base al quale ogni limitazione all’esercizio delle libertà fondamentali dovrà essere giustificata da esigenze legate alla natura dell’impiego e dovrà essere proporzionata al fine da perseguire. Le norme di derivazione europea sembrano offrire una tutela che si collega e rafforza questi due aspetti della libertà religiosa del lavoratore – il diritto a non svelare le proprie convinzioni e ad essere trattati in modo uguale, a prescindere da esse; la libertà di esprimere il proprio credo. Il primo aspetto viene protetto, in particolare, dal divieto di discriminazione diretta, depurato ora della necessità di provare l’intentio dell’azione e di altri elementi soggettivi, tipici delle norme più risalenti. L’interdizione della discriminazione indiretta, invece, rafforza la garanzia di cui al citato art. 1121-1: quest’ultimo prevede una generica tutela dei diritti del lavoratore e, insieme, la possibilità di giustificarne una limitazione attraverso il criterio di proporzionalità; la nozione di discriminazione indiretta introduce – almeno potenzialmente – il dovere di tenere in considerazione l’espressione di diversità (anche religiose), fatta salva la possibilità di giustificare una norma neutra¹³. Entrambi i divieti sono stati inseriti sia nel Code du travail, sia nella loi Le Pors sui diritti dei funzionari¹⁴. L’applicazione dei divieti di discriminazione nella prassi, tuttavia, non è stata frequente, almeno nelle controversie relative al fattore religioso. Se è vero che tali controversie sembrano emergere a fatica
nell’ambiente di lavoro, data una generale tendenza se a intendere la libertà religiosa come un fatto prevalentemente privato e di “foro interno”, è anche vero che nei casi che si sono presentati si è fatto uso dei nuovi divieti solo raramente. Come si è notato a proposito della trasposizione legislativa, l’ordinamento se non si trova a suo agio, anche per motivi “di principio”, con un apparato concettuale e sanzionatorio tipico dei sistemi anglosassoni, tanto che la giurisprudenza ha spesso preferito l’applicazione di criteri tradizionali e già consolidati. Per quanto riguarda la discriminazione diretta, si può fare riferimento ad alcune pronunce che hanno sanzionato – sia nell’impiego pubblico, sia nel privato – il licenziamento discriminatorio motivato dalle convinzioni del lavoratore¹⁵ o un’esclusione discriminatoria nell’accesso ad un impiego¹ . In questi casi non si poneva in discussione una tutela positiva della libertà religiosa e si è fatto ricorso a strumenti normativi tutto sommato classici, che hanno tutelato la riservatezza dei lavoratori e il loro diritto a professare un credo senza che questo rilevasse nell’esecuzione del contratto. Se si guarda l’argomentazione nel dettaglio, il concetto di discriminazione non viene sviluppato o spiegato: semplicemente si definiscono “misure discriminatorie” quelle decisioni che hanno utilizzato la religione come criterio per distinguere un individuo da un altro, violando l’uguaglianza tra funzionari o tra lavoratori e creando una restrizione illegittima della loro libertà religiosa. In altre parole, i divieti di discriminazione appaiono, essenzialmente, come una sorta di apparato sanzionatorio del principio di uguaglianza¹⁷. Con riferimento alla discriminazione indiretta, risulta ancor più evidente che l’approccio se diverge dagli indirizzi europei in materia. Infatti, quando l’esercizio della libertà religiosa – attraverso pratiche o altre espressioni del culto – si scontra con un trattamento uguale per tutti previsto nel rapporto di lavoro, la giurisprudenza se ricorre a principi e criteri di vario tipo, ma rifiuta di applicare il divieto di discriminazione indiretta, pur recepito in conformità alle direttive del 2000¹⁸. Nelle sentenze relative all’impiego pubblico, in particolare, si nota immediatamente come il tema della discriminazione non venga neppure evocato: la possibilità di manifestare la religione viene valutata attraverso il principio di neutralità. Secondo una giurisprudenza consolidata¹ , gli agenti pubblici, in quanto rappresentanti dello Stato, non possono esprimere una preferenza per un
credo religioso e la loro libertà religiosa potrà essere compressa per preservare la laicità dello Stato – nello specifico, la neutralità del settore pubblico. Pertanto, nelle controversie originate da manifestazioni pubbliche del credo di un funzionario (ad esempio atti di propaganda)² , o dalle richieste in merito alla possibilità di indossare il velo nel luogo di lavoro²¹ , i giudici hanno semplicemente valutato le restrizioni della libertà religiosa, affermandone la legittimità laddove l’espressione del credo era stata evidente ed “ostentata”²². Cadono, così, sotto la scure del principio di neutralità, varie espressioni di diversità religiose: il velo, altri simboli, persino il parlare di religione²³ non devono emergere nell’impiego pubblico. La regola neutra sulla neutralità non è vagliata attraverso i concetti del “nuovo” diritto antidiscriminatorio²⁴ , probabilmente perché ritenuta diretta espressione di un principio costituzionale, di rango superiore. Si può, comunque, ipotizzare che, se anche si riconoscesse un trattamento sfavorevole per alcuni funzionari in ragione del loro credo, l’approccio se potrebbe individuare un’indiscutibile giustificazione della discriminazione indiretta proprio nella salvaguardia dell’uguaglianza e della laicità della pubblica amministrazione. Peraltro, l’orientamento generale della giurisprudenza amministrativa – e in particolare del Consiglio di Stato – è quello di usare primariamente il principio di uguaglianza, considerando la non discriminazione un mero contenuto di quest’ultimo²⁵. Seguendo l’interpretazione dell’uguaglianza “alla se”, si presuppone in prima battuta la correttezza di una regola uguale per tutti, senza rilevarne i risultati “di fatto” discriminatori; i trattamenti differenziati sono, sì, talvolta ammessi, se si fondano su situazioni effettivamente diverse e rispettano l’interesse comune² . Nei casi ati in rassegna, un trattamento diversificato dovrebbe comunque preservare l’interesse generale della neutralità dello Stato: si ammetterebbero, così, con difficoltà le espressioni di specificità confessionali nell’ambito del pubblico impiego²⁷. La prevalenza dei principi repubblicani dell’uguaglianza e della neutralità nella sfera religiosa e uno scarso uso della non-discriminazione caratterizzano, quindi, la giurisprudenza amministrativa. ando al settore privato, sono pochi i casi in cui la giurisprudenza ordinaria ha esaminato controversie relative a una manifestazione della libertà religiosa. In essi – che pure riguardano questioni tipiche delle società plurali, come l’abbigliamento religioso nei luoghi di lavoro, questioni che potrebbero essere affrontate attraverso la discriminazione (soprattutto) indiretta – le norme di derivazione europea non vengono quasi mai usate. Si è fatto, invece, ricorso a criteri generali per valutare la legittimità dei limiti all’esercizio dei diritti
fondamentali del lavoratore (ex art. L.1121-1 del Code du travail), o la presenza di una giusta causa nel licenziamento, intercorso dopo la messa in atto di una pratica religiosa. In base all’art. 1121-1, sia misure restrittive che fanno riferimento esplicito alla religione, sia regole neutre che non prendono in considerazione le specificità religiose sono state ritenute legittime se giustificate dalla natura dell’impiego e dallo scopo da perseguire²⁸. Per quanto riguarda, poi, la verifica della legittimità di un licenziamento, talvolta è bastato individuare una causa reale, oggettiva, «estranea a un qualsiasi tipo di discriminazione»² . L’applicazione di simili criteri, se vede una valutazione caso per caso³ , ha consentito di far prevalere spesso le esigenze aziendali su quelle della libertà religiosa. Difatti, la verifica sulla giustificatezza di una misura e sulla sua proporzionalità rispetto ai fini dell’impresa precede ed elude un controllo sulla presenza di uno svantaggio: ad esempio, una regola sull’abbigliamento in un centro commerciale è giustificabile dallo scopo di dare una determinata immagine dell’azienda, ma lo svantaggio per i dipendenti che indossano un simbolo religioso emerge difficilmente, poiché non si utilizzano i parametri del giudizio antidiscriminatorio³¹. I giudici si limitano, in particolare, a verificare proporzionalità e legittimità della misura, mentre non applicano i criteri previsti nel diritto europeo circa la comparazione tra situazioni analoghe, l’individuazione del fattore (religioso) sul quale si fonda il trattamento sfavorevole, la verifica di uno svantaggio “particolare” derivante da una norma neutra. Talvolta, poi, si evidenzia l’assenza di un’attitudine discriminatoria (utilizzando, cioè, un elemento soggettivo)³² per escludere l’esistenza di una discriminazione. Questa scarsa elaborazione concettuale, che non segue le definizioni europee, pare normale nelle pronunce risalenti³³ , quando il “nuovo” diritto antidiscriminatorio muoveva i primi i nell’ordinamento se. Tuttavia, la nozione di discriminazione à la européenne non trova spazio neppure in casi più recenti³⁴ , dove, pur non negando la presenza di una discriminazione, i giudici non hanno sfruttato fino in fondo il quadro normativo da ultimo introdotto. In particolare, è opportuno soffermarsi su due pronunce della Cassazione, entrambe del 19 marzo 2013³⁵ , che hanno esaminato due controversie relative all’abbigliamento religioso nell’ambiente di lavoro e che hanno tracciato alcune linee sul tema. Si trattava, in entrambi i casi, di dipendenti musulmane, licenziate per aver
indossato il velo islamico in forza di un regolamento interno che imponeva la neutralità dei lavoratori e che sanciva un divieto generale di portare simboli religiosi. Un classico esempio, a guardarlo con la lente delle direttive, nel quale si può individuare una discriminazione indiretta. Il ragionamento della Corte nei due casi è stato differente: in uno, trattandosi di un organismo di diritto privato ma che forniva un servizio pubblico, si è affermato che la tutela della neutralità può legittimamente limitare una manifestazione della libertà religiosa (analogamente a quanto accade nel pubblico impiego)³ . Nell’altro, il celebre caso “Baby-Loup”, si è sostenuto che la restrizione stabilita dal regolamento interno non era giustificata – non trattandosi di un servizio pubblico, ma di lavoro svolto in un asilo privato – e che il licenziamento era stato discriminatorio. Se la prima pronuncia, centrata sulla questione dell’applicazione dell’obbligo di neutralità, evita di fare uso delle norme antidiscriminatorie, la seconda le richiama ma non segue esattamente il modello dettato dalle direttive europee. Anzitutto, si può notare che non si è fatto cenno alla discriminazione indiretta, nonostante il ricorso riguardasse una regola aziendale che è stata definita dalla Corte stessa come «générale et imprécise» e che, vietando i simboli religiosi, aveva creato uno svantaggio per la dipendente musulmana. Il regolamento interno dell’asilo è stato ritenuto illegittimo non tanto perché, essendo neutro, causava una situazione di sfavore a motivo della religione³⁷ , ma perché contrario agli articoli L.1121-1 e L.1321-3 del Code du travail, ovvero ai principi generali sull’esercizio dei diritti fondamentali del lavoratore. Così, il limite alla libertà religiosa è stato ritenuto illegittimo, poiché la natura dell’impiego non richiedeva la neutralità dei dipendenti: di conseguenza, si è dimostrato che la misura restrittiva non rispettava il criterio di proporzionalità, ai sensi degli articoli del Codice citati. La Corte ha potuto affermare che il licenziamento era stato pronunciato per un motivo discriminatorio (ovvero la religione), ma non ha specificato il significato della discriminazione né utilizzato in modo esplicito la nozione della discriminazione indiretta. L’art. L.1132-1 del Code du travail, che vieta le discriminazioni, figura nell’elenco delle norme richiamate dalla sentenza e tuttavia non si fa riferimento alle nozioni da esso consacrate. Le sentenze della Cassazione, benché uniche a considerare, recentemente, il tema della discriminazione religiosa, consentono di azzardare alcune osservazioni di carattere generale. In primo luogo si può notare che, se nella giurisprudenza amministrativa si predilige il principio di uguaglianza rispetto alla non discriminazione, in quella ordinaria vi è una progressiva apertura all’uso
delle nozioni di derivazione europea, pur nell’ottica di una declinazione del principio “tradizionale” di uguaglianza³⁸. Un’apertura che, in ogni caso, risente di una scarsa elaborazione concettuale del “nuovo” diritto antidiscriminatorio e che si accompagna spesso con l’applicazione di altre norme e di criteri consolidati, come quelli di cui all’art. 1121-1 del Code du travail. Ancora, si è talvolta utilizzato il codice penale in luogo delle nuove disposizioni³ : i divieti di tipo penalistico possono agevolmente reprimere una discriminazione diretta, mentre più difficilmente potranno affrontare ipotesi di discriminazione indiretta⁴ . In secondo luogo, si può osservare che i richiami solo generici alla discriminazione e la non applicazione di quella indiretta limitano fortemente la possibilità di individuare gli svantaggi “di fatto”, specie quelli derivanti da norme neutre. Nel caso Baby-Loup, ad esempio, si è accordata tutela alle specifiche esigenze religiose attraverso un riferimento sia alla discriminazione, sia all’art. 1121-1 del Code du travail; tuttavia, non si è messa esplicitamente in discussione la regola contestata, alla luce della discriminazione indiretta. Di conseguenza, la valutazione del trattamento discriminatorio si limita a quel caso specifico, senza procedere all’individuazione di uno svantaggio per un gruppo religioso. Si tratta di un approccio individuale e risarcitorio alla discriminazione, che caratterizza l’ordinamento se e che prevale su quello ridistributivo e collettivo⁴¹. Quest’ultima caratteristica emerge anche se si guarda al di fuori dell’ambito del lavoro: in alcune sentenze si sono dichiarate illegittime le esclusioni da corsi di formazione di ragazze musulmane che portavano il velo⁴² , ma in nessuna di esse si è utilizzato il concetto di discriminazione indiretta, che avrebbe consentito di affermare criteri generali per reprimere eventuali trattamenti neutri non giustificati⁴³. Una volta introdotto – in linea con gli obblighi europei – il divieto di discriminazione indiretta, l’ordinamento se appare ben attento a non affermare un meccanismo sistematico di tutela delle diversità che da esso potrebbe derivare⁴⁴. In altre parole, sebbene il concetto di discriminazione indiretta abbia avuto ingresso nell’ordinamento se e si siano poste le condizioni per la sua applicazione nei singoli casi oggetto di giudizio, la giurisprudenza non lo ha ancora utilizzato in modo da farne derivare un obbligo a prendere in considerazione le diversità religiose⁴⁵. Infine, sembra che in luoghi sempre più numerosi – e, da ultimo, anche nell’impiego privato⁴ – la questione prioritaria sia stabilire se si applica o meno un obbligo di neutralità, anziché verificare se una regola che vieta i simboli (o che impedisce altre pratiche) sia discriminatoria. Se tale obbligo è in vigore,
infatti, sembra più difficile, se non impossibile, operare un controllo sugli effettivi svantaggi subiti da una parte dei lavoratori.
2.2. LA HALDE
Se nelle sentenze della giurisprudenza amministrativa e ordinaria è possibile vedere una tendenza scarsamente favorevole alle diversità religiose e, anche quando si riconosce una violazione della libertà religiosa non si fa uso dei “nuovi” concetti di discriminazione, un altro orientamento è individuabile in parte dell’attività dell’Autorità per la lotta alle discriminazioni (HALDE). Autorità amministrativa indipendente, rimasta in funzione dal 2005 al 2011, essa era dotata del potere di pronunciare raccomandazioni, nonché deliberazioni che proponevano una mediazione o costituivano la base per l’avvio di un procedimento giudiziario⁴⁷. Alcune tra le sue deliberazioni seguono i medesimi orientamenti della giurisprudenza ordinaria. Nei casi sui simboli, ad esempio, la HALDE ha spesso dichiarato la legittimità della restrizione della libertà religiosa⁴⁸ , utilizzando l’art. 9.2 CEDU⁴ – il quale consente maggiori margini di manovra (rectius, di “apprezzamento”) rispetto al nuovo diritto antidiscriminatorio – oppure il già citato art. 1121-1 del Code du travail⁵ . Altre volte invece, la HALDE – organismo indipendente e quindi, almeno in teoria, più libero di adottare criteri decisionali differenti – ha mostrato una maggiore apertura verso la tutela di particolari esigenze religiose, utilizzando i concetti di derivazione europea per misurare la discriminatorietà di taluni trattamenti, derivanti soprattutto da norme neutre. Ad esempio, si è affermato che è indirettamente discriminatorio fare indagini sulle pratiche alimentari e scartare un candidato a un posto di lavoro perché rifiuta di assaggiare le pietanze destinate ai bambini, nel rispetto delle prescrizioni alimentari della propria religione. Si trattava, infatti, di un criterio applicato a tutti che poneva in posizione di svantaggio chi deve seguire una dieta particolare per ragioni religiose o di salute⁵¹. Benché si tratti di decisioni non vincolanti, la posizione della HALDE mostra che l’ordinamento se non rimane del tutto sordo alle esigenze di tutela delle diversità religiose. In dottrina, poi, si è iniziato a sottolineare l’insufficienza del concetto di discriminazione diretta per regolare simili problematiche⁵². In questo senso si può osservare una certa schizofrenia
nell’ordinamento se: da un lato il legislatore continua ad affermare la sua contrarietà alle azioni positive e agli strumenti che, come la discriminazione indiretta, portano a predisporre accomodamenti per le diversità religiose⁵³ ; dall’altro, soprattutto nella prassi amministrativa (più raramente nella giurisprudenza), non mancano aggiustamenti per le esigenze religiose⁵⁴. Probabilmente ciò che distingue la Francia dalla comune tendenza europea verso un maggiore riconoscimento delle diversità, è la volontà di non stabilire una tutela obbligatoria in questo senso, lasciando agli operatori del diritto l’opportunità di valutare le situazioni caso per caso⁵⁵. L’applicazione dei concetti del diritto antidiscriminatorio, come si è visto, non è, infatti, sistematica; inoltre, al di là di alcune naturali oscillazioni, la giurisprudenza se appare sempre attenta a non riconoscere l’operatività di un vero e proprio diritto a trattamenti differenziati, soprattutto quando entra in gioco la tutela del principio di laicità e di uguaglianza formale⁵ . Da parte sua, neppure la HALDE ha affermato un obbligo a differenziare i trattamenti in base alla religione, limitandosi alla decisione dei casi di specie. È poi indicativo il fatto che tale organismo, più “aperto” alla considerazione delle specificità religiose, sia stato soppresso⁵⁷. Insomma, oltre allo scarso ruolo della giurisprudenza, anche la politica relativa alle discriminazioni rimane limitata e non riesce a scalfire il ruolo predominante dell’uguaglianza (soprattutto) formale.
2.3. L’ITALIA E L’APPLICAZIONE DISATTENTA DEI DIVIETI DI DISCRIMINAZIONE
Come in Francia, anche in Italia la giurisprudenza sull’applicazione delle direttive, con particolare riguardo al fattore religioso, non è abbondante. Già una decina d’anni orsono, la dottrina segnalava che gli interventi dei giudici in tema di pratiche religiose nel lavoro erano stati sporadici⁵⁸. Ciò poteva essere ascrivibile alla situazione della società italiana, nella quale non vi era ancora una vasta diffusione di diverse comunità etniche e religiose, con le relative esigenze e richieste; così, mentre in Francia già emergevano alcuni casi relativi al velo islamico o ad altre pratiche di confessioni di minoranza, nel nostro Paese le controversie riguardavano soprattutto le organizzazioni di tendenza o il lavoro dei religiosi e solo in minima parte il problema delle diversità religiose nell’ambiente di lavoro. Oggi, nonostante i mutamenti della società italiana in senso multiculturale, le pronunce sul fattore religioso in questo ambito restano rarissime e il potenziale di tutela contenuto nel diritto antidiscriminatorio non viene molto sfruttato. Diversi possono essere i motivi di questa mancanza, sia generali (il fatto che i “portatori di diversità religiose” nel nostro Paese siano spesso stranieri, con oggettive difficoltà, sul piano sociale ed economico, nell’accesso alla tutela giurisdizionale⁵ ; la inadeguata conoscenza e consapevolezza dei diritti garantiti; la presenza di forme alternative di risoluzione delle controversie nell’ambito del lavoro, quali la conciliazione stragiudiziale), sia legati al diritto antidiscriminatorio in sé (la complessità della normativa e dei concetti di riferimento, che ne determina una difficile interpretazione e applicazione; l’assenza, nei decreti attuativi delle direttive, di alcune garanzie dal punto di vista processuale) . Altri motivi sono probabilmente legati al modello italiano di uguaglianza e libertà religiosa ¹ : la scarsità di pronunce riguarda, infatti, in particolare il fattore religioso, mentre gli altri fattori di discriminazione sono stati più spesso oggetto di giurisprudenza ². Si dovrà osservare, quindi, se determinati problemi sono affrontati, piuttosto, attraverso il ricorso ai principi costituzionali (uguaglianza ³ , laicità, principio pattizio, libertà religiosa) e si proverà ad ipotizzare alcune ragioni per cui il diritto antidiscriminatorio per il momento non ha avuto un ruolo così incisivo. Le sentenze che prendono in considerazione – anche in modo marginale – la disparità di trattamento in materia religiosa si possono dividere in due sotto-
insiemi, caratterizzati da alcune tematiche ricorrenti: da un lato, le pronunce che hanno avuto ad oggetto una norma della pubblica amministrazione o un comportamento di un datore di lavoro pubblico, dall’altro quelle relative a controversie avvenute in aziende private. Nel primo gruppo, il problema più frequente è quello della presenza di simboli religiosi in un luogo di lavoro pubblico, tema che ha caratterizzato, peraltro, varie vicende in materia religiosa emerse in Italia negli ultimi anni, anche al di fuori dell’area lavoristica. Nel secondo, i casi che considerano le norme sulla discriminazione riguardano perlopiù ipotesi di discriminazione diretta, collegata alle convinzioni personali del lavoratore, e in particolare il licenziamento ideologico. Partendo dalla prima serie di sentenze, si può immediatamente notare che in alcune le norme sulla discriminazione non vengono neppure utilizzate. Questo è comprensibile se si considera che la questione principale pare quella dell’ammissibilità di un simbolo religioso nel luogo di lavoro pubblico, e solo secondariamente quella dell’individuazione di un trattamento sfavorevole ad esso collegato. Così, nel celebre caso del giudice Tosti ⁴ , che aveva rifiutato di tenere le udienze in aule di tribunale ove fosse esposto il crocifisso, le norme di derivazione europea non vengono applicate e il ragionamento segue altri criteri (anche se i termini «discriminazione» e «discriminatorio», riferiti al simbolo religioso, sono presenti nel ricorso e negli atti del processo) ⁵. Nel caso “Coppoli” , ancora relativo alla presenza del crocifisso, le nozioni di discriminazione sono, invece, presenti sullo sfondo delle argomentazioni del giudice, ma non sono state applicate in modo del tutto corretto. Si trattava, stavolta, di un docente di scuola superiore che lamentava di essere stato discriminato per le sue convinzioni personali (ateistiche), poiché il dirigente scolastico lo aveva obbligato a insegnare in presenza del crocifisso e, in seguito al suo rifiuto, aveva attivato una sanzione disciplinare e minacciato l’intervento della Procura della Repubblica. Il giudice ha respinto il ricorso ⁷ , negando la presenza sia di una discriminazione (diretta e indiretta), sia di una molestia. Se vi è stato, in questo caso, l’uso di tutte le nozioni di cui al d.lgs. n. 216/2003, l’elaborazione concettuale non appare però approfondita. Difatti, dopo aver enucleato i divieti di discriminazione e di molestie, il giudice, anziché operare una comparazione e analizzare le eventuali cause di giustificazione della condotta, ne esclude il carattere discriminatorio affermando che l’azione del dirigente scolastico aveva un altro scopo, quello cioè di rispettare la volontà della classe di esporre il crocifisso. Ora, ai sensi della direttiva e del decreto attuativo del 2003, proprio la presenza di uno scopo legittimo, perseguito con
mezzi necessari e proporzionati, può escludere il carattere discriminatorio di una norma neutra (nella specie: la circolare relativa all’affissione del crocifisso nella classe, rivolta a tutti gli insegnanti). Nell’ordinanza, in realtà, il giudice non ha valutato la necessità e legittimità della norma neutra, limitandosi ad affermare che il comportamento del dirigente sarebbe stato diretto a garantire il pluralismo e a tutelare la coscienza degli alunni ⁸ , e non a porre il docente in situazione di particolare svantaggio. Con ciò pare attribuirsi rilevanza all’intenzione che ha ispirato la condotta, nonostante l’opposto orientamento delle norme antidiscriminatorie recenti. Anche l’affermazione in base alla quale non si sarebbe di fronte a un caso di molestie è ata dal rilievo che l’azione non era connotata da intento discriminatorio, mentre la legislazione europea sottolinea l’importanza dei soli effetti discriminatori o “molesti” . Come si è accennato, se il legislatore italiano ha correttamente codificato la nozione europea “oggettiva” di discriminazione, resiste ancora una tendenza giurisprudenziale che attribuisce rilevanza ad elementi soggettivi, come l’intenzione di discriminare. Questa impostazione è presente anche in un altro caso, nel quale il concetto di discriminazione resta sullo sfondo ma viene comunque evocato, appunto con questa sfumatura soggettiva. Si tratta di una sentenza del TAR Toscana⁷ , chiamato a pronunciarsi sul carattere discriminatorio di una norma comunale sul sistema di turnazione delle aperture domenicali delle farmacie. Il ricorrente, un farmacista ebreo, riteneva il comportamento della Pubblica Amministrazione svantaggioso nei suoi confronti, poiché, chiudendo il suo negozio il sabato per poter rispettare le prescrizioni religiose sul riposo, egli non poteva recuperare i turni la domenica, subendo così un pregiudizio economico. Nella sentenza si fa cenno al problema della disparità di trattamento, ma senza far riferimento alle norme di derivazione europea e si esclude esplicitamente l’esistenza di una discriminazione perché mancherebbe l’intenzione di mettere in atto un trattamento sfavorevole⁷¹. La sottolineatura dell’elemento soggettivo in questi casi ha reso sicuramente più difficile l’emersione di una discriminazione: occorrerebbe, infatti, dimostrare che la religione era stata presa in considerazione espressamente e volontariamente per creare uno svantaggio, prova non agevole, soprattutto nell’ambito dell’impiego pubblico, che si basa, solitamente, su criteri neutri. Ne risulta una lettura tradizionale delle problematiche contestate, piuttosto miope riguardo alla tutela delle diversità. Altre sentenze, invece, ricostruiscono correttamente la nozione di
discriminazione, correttamente trasposta – come si è visto – nel decreto attuativo della direttiva 2000/78. Un’interpretazione conforme a quella europea si può leggere, ad esempio, in un caso analizzato dal TAR Puglia⁷². La sentenza ha rilevato il carattere discriminatorio di un bando pubblico che selezionava medici e ostetriche per i consultori cittadini, a condizione che essi non fossero obiettori di coscienza ai sensi della legge n. 194/1978 sull’interruzione volontaria di gravidanza. Il giudice amministrativo – anche alla luce della giurisprudenza comunitaria – chiarisce, in primo luogo, che vi è facoltà di impugnare una disposizione discriminatoria anche se l’effetto lesivo non si è attualmente verificato. Nel caso di specie, i ricorrenti non avevano neppure partecipato alla procedura di selezione e perciò non era scattata la loro esclusione, dovuta allo status di obiettori; era possibile, ad ogni modo, far rilevare l’illiceità (potenziale) della clausola del bando⁷³. In secondo luogo, dopo aver individuato una discriminazione diretta, si utilizza correttamente la previsione sui «requisiti occupazionali», affermando che non era possibile, nel caso di specie, giustificare il trattamento dispari⁷⁴. In un altro caso recente⁷⁵ , nuovamente concernente la presenza di simboli in una scuola, si sono applicati i concetti di derivazione europea, pur con alcune particolarità. Ad Adro (Brescia), un’immagine dal significato politico affissa nei locali di un istituto scolastico è stata ritenuta all’origine di un effetto svantaggioso per i lavoratori, che si trovavano in un ambiente “saturo” ideologicamente⁷ . Se il ricorso faceva riferimento a una discriminazione indiretta, integrata da un simbolo diffuso e quindi applicato indistintamente a tutti, la sentenza sposta l’analisi sull’esistenza di un pregiudizio per la libertà di espressione e di insegnamento e utilizza, a questo fine, il concetto di molestie come codificato dal nuovo diritto antidiscriminatorio. Al giudice preme precisare che non sempre la presenza di simboli è atta a creare una discriminazione o una molestia: infatti, una situazione «che pure può risultare “sgradita” […] non potrebbe da sola intaccare la sfera delle convinzioni personali». In particolare, sussiste una molestia non solo e non tanto quando vi è una percezione negativa dei dipendenti rispetto a una data condotta, ma piuttosto quando si determinano condizioni lavorative “inquinate” dalla diffusione di immagini che suggeriscono una visione di parte e che impediscono a docenti e discenti lo svolgimento libero e neutro delle attività di insegnamento⁷⁷. Dal punto di vista concettuale, vengono precisati alcuni punti che sembrano di
interesse, specie per sviluppi futuri. In primo luogo, analogamente alla sentenza del Tar Puglia già richiamata, si afferma che non è necessaria la presenza di uno svantaggio reale ed attuale: se, la direttiva 2000/78, relativamente alla discriminazione indiretta, ha parlato di norme neutre che possono causare uno svantaggio⁷⁸ , qui si è ricordato che il controllo può riguardare anche condotte «destinate a colpire intere categorie» di persone (comprese, quindi, disposizioni normative?), benché non abbiano ancora spiegato i propri effetti. Un ruolo particolare è, pertanto, attribuito alle organizzazioni e associazioni, legittimate ad agire per la tutela antidiscriminatoria anche quando non sia individuabile un soggetto leso; questo approccio proietta la tutela antidiscriminatoria in senso preventivo e non solo risarcitorio. In secondo luogo, si è espressamente esclusa la necessità di dimostrare un elemento soggettivo o intenzionale per rintracciare un comportamento discriminatorio, ribadendo l’introduzione di un concetto oggettivo di discriminazione e di molestia⁷ . Il divieto di discriminazione indiretta, richiamato in quest’ultimo caso, rimane, invece, sullo sfondo della dimostrazione del trattamento illegittimo. Negli altri casi, come si è visto, esso non viene neppure applicato, cosicché le prassi consolidate e strutturali, come quelle legate alla religione di maggioranza, non vengono messe in discussione⁸ . In particolare, per quanto riguarda i simboli religiosi, come si è visto anche per la Francia, il concetto di discriminazione indiretta non ha portato a un controllo più incisivo ed oggettivo sugli svantaggi subiti da alcune categorie di persone: le pronunce in merito hanno considerato la conformità al principio supremo di laicità e alla libertà religiosa, mentre i divieti di discriminazione non hanno apportato novità di rilievo. ando, ora al settore privato, anche qui le pronunce che hanno preso in considerazione le norme sulla discriminazione con riferimento al fattore religioso riguardano, tutte, ipotesi di discriminazione diretta. In due di esse si è trattato di stabilire se un licenziamento era stato motivato, rispettivamente, dall’appartenenza del lavoratore a un gruppo religioso⁸¹ o dall’espressione di determinate convinzioni⁸². In entrambi i casi il giudice ha applicato le norme del decreto n. 216/2003, escludendo l’esistenza di una discriminazione. Nel primo, si è affermato che alla base del licenziamento vi era una causa estranea all’appartenenza confessionale, e cioè una condotta irresponsabile del dipendente, la quale – a prescindere dalla religione – avrebbe costituito una giusta causa per la fine del rapporto lavorativo⁸³. Nel secondo caso, la convinzione personale del ricorrente non era stata sufficientemente delineata e perciò risultava inidonea a fondare la presunta discriminazione⁸⁴.
Sulla qualificazione del «ground of discrimination» si è soffermata, di recente, anche la sentenza della Corte d’Appello di Roma relativa alla mancata assunzione dei metalmeccanici della Fiom da parte delle fabbriche Fiat di Pomigliano⁸⁵. Richiamando svariate norme e pronunce internazionali, il giudice ha precisato che la nozione di «convinzioni personali» è da intendersi in senso ampio: essa «racchiude una serie di categorie di ciò che può essere definito il “dover essere” dell’individuo» e può evocare, tra l’altro «una sorta di “credo” laico», come ad esempio l’affiliazione sindacale⁸ , che era all’origine del trattamento svantaggioso contestato⁸⁷. Riconoscendo in tale trattamento una discriminazione diretta collettiva, la Corte afferma, poi, che essa non può essere giustificata se non nel caso in cui le opinioni sindacali in questione costituiscano un requisito essenziale e determinante ai sensi dell’art. 4.1 della direttiva 2000/78⁸⁸. Ciò avrebbe comportato di provare la corrispondenza tra il requisito e un obiettivo dell’azienda e l’esclusione di un qualsiasi collegamento tra tale requisito e la discriminazione, prova non addotta nel caso di specie; del tutto irrilevante, invece, a questo fine – e lo si afferma chiaramente – è la dimostrazione dell’intenzione soggettiva di discriminare⁸ . Al di là dei profili più strettamente attinenti al diritto del lavoro e sindacale, si deve sottolineare che in questa sentenza il giudice ha equiparato – ai fini dell’applicazione del diritto antidiscriminatorio –opinioni sindacali, religione e convinzioni. A ben guardare, anche gli altri casi ora esaminati riguardano ipotesi di discriminazione ideologica , fondata su convinzioni personali che si trovano al confine tra la religione e le “opinioni laiche”. Parte della dottrina – soprattutto giuslavoristica – ha rilevato che il binomio religione/credenza può essere senz’altro inteso in modo ampio e che non sarebbe necessario chiarire che cosa si intende per religione, quanto piuttosto proteggere la libertà del lavoratore ¹. Tale interpretazione, oltre a non essere del tutto in linea con la giurisprudenza europea ² , pare non corrispondere alla ratio che aveva ispirato l’emanazione delle direttive comunitarie: quella, cioè, di favorire l’inclusione sociale e le pari opportunità di persone e gruppi svantaggiati, più che la libertà ideologica tout court nel rapporto di lavoro ³. Nei casi finora emersi nel nostro ordinamento, in realtà, pare che sia proprio la libertà ideologica lato sensu a essere tutelata attraverso le norme sulla discriminazione, mentre la libertà religiosa in quanto tale trova più ostacoli ad emergere quale obiettivo del diritto antidiscriminatorio. A tal proposito, benché la giurisprudenza sia davvero troppo esigua per rintracciarvi una linea di tendenza, è possibile rilevare una caratteristica comune a tutte le pronunce esaminate, nell’impiego pubblico e in quello privato: in
nessuna di esse si affrontano i “problemi religiosi” attraverso la discriminazione indiretta, benché sia una nozione citata dai giudici in varie occasioni. Ora, è vero che i problemi emersi non riguardano tanto il contrasto tra una regola neutra e le pratiche cultuali e che sono perlopiù relativi alla laicità di luoghi pubblici (di lavoro) o a discriminazioni dirette nell’assunzione o nel licenziamento. Tuttavia, si può immaginare che non manchino controversie relative alle pratiche religiose e alle diversità nel lavoro ⁴. L’assenza di pronunce in tema, probabilmente, è una spia della disattenzione, o della difficoltà, o della scarsa volontà nell’affrontare tali problematiche. Avendo esaminato la trasposizione delle direttive, si può anzitutto pensare a una generale disattenzione per il diritto antidiscriminatorio e ad una scarsa esperienza degli operatori del diritto, che si accompagna ad una tutela ancora incompleta dal punto di vista processuale ⁵. Da questo punto di vista, è importante che alcune delle sentenze più recenti abbiano allineato il quadro concettuale a quello europeo e ribadito sia il ruolo delle organizzazioni a sostegno delle vittime della discriminazione, sia le agevolazioni sul piano probatorio . Tuttavia permangono le difficoltà a far rilevare una discriminazione, e si può immaginare che gli strumenti a disposizione dei lavoratori non siano del tutto utilizzati da parte di chi si trova in una situazione già di per sé svantaggiosa, sia per la situazione attuale del mercato del lavoro nel suo complesso, sia per l’appartenenza ad una minoranza etnica o nazionale (appartenenza che, in Italia, spesso caratterizza coloro che rivendicano un trattamento diverso in base alla religione) ⁷. Tuttavia, oltre ad una disattenzione (di giudice e legislatore, in primis) e ad una difficoltà nell’uso dell’armamentario del diritto antidiscriminatorio (da parte delle vittime della discriminazione, e non solo ⁸ ), va anche rilevata una possibile tendenza dell’ordinamento italiano a non affrontare compiutamente i problemi del pluralismo religioso. Si tratta di una questione complessa, che travalica l’analisi dell’applicazione del diritto antidiscriminatorio. In ogni caso, la sporadica applicazione di quest’ultimo è rivelatrice: talvolta non si utilizzano i criteri della non discriminazione anche quando sarebbero rilevanti, oppure ci si limita a una valutazione del singolo caso, senza operare un controllo sugli svantaggi effettivi creati, ad esempio, da una norma consolidata . Tale atteggiamento – mostrato prevalentemente degli operatori del diritto – contrasta con lo sviluppo e il consolidamento del quadro normativo antidiscriminatorio, derivante dagli obblighi europei. Appare, tuttavia, allineato con le tendenze di politica legislativa che portano il nostro ordinamento a preservare lo status quo
(si pensi alla tutela dei simboli della religione di maggioranza o all’approvazione recente di norme locali che preservano l’identità locale, come le c.d. norme “anti-kebab”¹ ) e a non prestare una sufficiente attenzione al pluralismo confessionale ormai diffuso (si pensi soltanto al sistema delle intese, che è rimasto in una situazione di ime per molti anni e che non riesce a individuare una tutela per la seconda religione del Paese)¹ ¹. In questo senso, fuori dal campo di applicazione del decreto n. 216/2003, sembrano indicative alcune decisioni nelle quali i giudici non hanno tenuto conto né delle conseguenze dispari di un provvedimento neutro, né della presenza stessa di un’esigenza religiosa, espressa da confessioni di minoranza. Così, il Tribunale di Brescia, pur dichiarando l’illegittimità di una normativa sulle riunioni e cerimonie in pubblico¹ ² , lesiva del diritto di libertà religiosa, ha avallato un’ipotesi di discriminazione indiretta¹ ³ ; il g.i.p. di Milano¹ ⁴ , poi, nei confronti di un imputato musulmano che aveva rifiutato di togliersi un copricapo tradizionale durante un processo, non ha riconosciuto, da un lato, un trattamento indirettamente discriminatorio¹ ⁵ e si è disinteressato, dall’altro, della motivazione del rifiuto, omettendo totalmente di considerare l’elemento religioso¹ . Tra i pochi casi nei quali si è avuta un’attenzione per le diversità religiose vi sono quelli relativi alle festività religiose e ai riposi settimanali. Se è vero che nella recente sentenza sui turni di apertura delle farmacie non è stata ravvisata una discriminazione¹ ⁷ , in altre controversie più risalenti (quelle celebri dei portieri d’albergo avventisti, che rifiutavano di lavorare il sabato¹ ⁸ ) la disparità era stata individuata. Ciò a partire dalla constatazione che per ebrei e avventisti era stato sancito – per così dire – un “diritto alla diversità” per mezzo delle intese stipulate ex art. 8.3 della Costituzione. Si potrebbe allora affermare che in Italia come in Francia l’applicazione del diritto antidiscriminatorio risente dei relativi modelli di uguaglianza: se nell’ordinamento se l’interpretazione formale dell’uguaglianza blocca l’utilizzo della discriminazione indiretta, in Italia gli strumenti costituzionali di uguaglianza, libertà e diversità indirizzano (e limitano) l’uso degli strmenti del diritto antidiscriminatorio. In altre parole, se il nostro ordinamento sceglie di tutelare le diversità, lo fa prevalentemente attraverso lo strumento predisposto a tal fine dalla Costituzione – le intese, che pure nascono come una sorta di “accomodamento” delle specificità confessionali – mentre lo strumentario del diritto andiscriminatorio, e in particolare il divieto di discriminazione indiretta,
rimane largamente inutilizzato¹ . Ciò almeno per il momento: non si può escludere, infatti, che la normativa in esame possa acquisire una maggiore efficacia in futuro, con un più profondo radicamento nella cultura giuridica italiana. Inoltre, è possibile che essa abbia già influenzato (anche se non palesemente) strumenti di tutela extra-giudiziale o forme di attenzione alle diversità a livello delle singole imprese¹¹ , funzionando quindi in senso deterrente-preventivo delle discriminazioni¹¹¹.
3. L’APPLICAZIONE DEI DIVIETI DI DISCRIMINAZIONE NEL SISTEMA BRITANNICO DI COMMON LAW
3.1. LA GIURISPRUDENZA SULLE DISCRIMINAZIONI RELIGIOSE E IL MODELLO DI UGUAGLIANZA E DIVERSITÀ
A fare da contraltare alla scarsità di casi italiani e all’incertezza se nell’applicazione delle norme in esame, vi è l’ordinamento britannico, nel quale, come già detto, la giurisprudenza è fondamentale per la definizione dei diritti garantiti¹¹². Il modello britannico di uguaglianza¹¹³ non è estraneo alla tutela delle diversità e anche il diritto antidiscriminatorio gioca un ruolo in questo senso: a differenza di quanto accade negli ordinamenti italiano e se, nel Regno Unito si è spesso applicato il divieto di discriminazione indiretta e attraverso tale concetto si è valutata l’opportunità di predisporre “accomodamenti” per le diversità religiose, sanzionando trattamenti ingiustamente neutri. I casi di discriminazione diretta, invece, tendono a divenire meno frequenti¹¹⁴ , poiché i datori di lavoro – o gli altri soggetti tenuti al rispetto delle norme antidiscriminatorie – prestano una particolare attenzione a non prendere decisioni fondate sul fattore religioso; non mancano, però, alcune sentenze in proposito. Partendo da queste ultime si nota che, nonostante la nuova formulazione dell’Equality Act 2010¹¹⁵ , l’ordinamento britannico continua ad applicare un divieto di discriminazione legato a elementi oggettivi e non soggettivi. L’apparato concettuale risulta, così, ampiamente garantista e i lavoratori riescono a utilizzarlo anche per ipotesi inusuali di trattamenti sfavorevoli: così, le pronunce recenti sulla discriminazione religiosa diretta riguardano prevalentemente casi nei quali si è tentato, spesso con successo, di ottenere tutela per una credenza non religiosa o non tradizionale. Facendo ricorso all’ampia nozione di religion or belief – sancita, da ultimo, dall’art. 10 dell’Equality Act 2010 – alcuni lavoratori hanno lamentato di aver subito un licenziamento o un altro tipo di svantaggio a causa non soltanto di una religione, ma anche della loro non-credenza o di una loro convinzione personale non religiosa. Si è trattato, pertanto, di verificare che il trattamento sfavorevole fosse effettivamente fondato sul ground of discrimination protetto dalla legge. In merito al concetto di credenza, l’Equality Act parla di «religious or philosophical belief» e la giurisprudenza – anche più risalente – ha costantemente affermato
che deve trattarsi non di una semplice opinione su alcuni fatti specifici, ma di una visione religiosa o filosofica della realt๹ , che indirizzi la vita dell’individuo e che abbia un certo grado di serietà e di coerenza¹¹⁷. Solo in questo caso la convinzione sarà tutelabile ai sensi della legislazione antidiscriminatoria. Nelle sentenze recenti, l’orientamento dei giudici è stato piuttosto ampio: si sono, così, riconosciuti trattamenti sfavorevoli fondati su convinzioni umanistiche o ambientaliste¹¹⁸ e, in alcuni casi, i giudici si sono spinti a equiparare a una convinzione filosofica un’idea su come intendere la propria professione e l’etica aziendale¹¹ . Come si è visto, il problema di stabilire che cosa sia “religione” e che cosa “convinzione”, ai fini dell’applicazione del diritto antidiscriminatorio, è emerso anche in Italia¹² . Nell’ordinamento britannico, così come nel nostro, vi è una tendenza a equiparare credenze “laiche” e religiose e ad offrire una tutela onnicomprensiva, rivolta a un insieme molto vasto di convinzioni personali¹²¹. Questo per quanto riguarda la discriminazione diretta: nell’applicazione di quella indiretta, infatti, i giudici sono più cauti nel garantire protezione a tutti i tipi di convinzione. In altre parole, finché si tratta di tutelare “negativamente” la libertà religiosa, evitando principalmente esclusioni e svantaggi direttamente riconducibili alla religione, i divieti di discriminazione si estendono a molte credenze; quando si tratta, invece, di antidiscriminazione intesa come tutela delle diversità, l’orientamento è talvolta meno ampio¹²². ando, ora, a descrivere i casi nei quali si è contestata una discriminazione indiretta, si deve anzitutto rilevare la maggiore frequenza, rispetto a Italia e Francia, con la quale queste ipotesi sono considerate dai giudici inglesi. La maggiore esperienza in tema si unisce, in questo senso, a una certa attenzione per le espressioni delle specificità confessionali, tipica di questo ordinamento¹²³. Tale attenzione, tuttavia, non è pacifica e pone alcuni problemi, proprio nell’applicazione delle norme antidiscriminatorie. In una sorta di procedimento per tappe, la nozione di discriminazione attualmente in vigore richiede di verificare, in prima battuta, la presenza di uno svantaggio sia per l’individuo, sia per il gruppo di appartenenza; in secondo luogo, una volta individuato un disparate impact, si procede a considerare se la norma neutra possa essere giustificata¹²⁴. È sulla prima fase di questo “test” che la giurisprudenza recente si è concentrata in modo particolare. Di fronte a una norma neutra della quale si contesta il carattere discriminatorio, i giudici verificano in primis l’esistenza di un
“particolare svantaggio” per chi professa una religione. In questo step di giudizio, alcuni elementi sono stati ricorrenti: uno è la verifica sull’esistenza di una situazione sfavorevole sia per il ricorrente, sia per le persone che ne condividono il credo – ex art. 19 dell’Equality Act. Un altro punto riguarda la pratica religiosa che, “ignorata” dalla norma neutra, determina lo svantaggio: i giudici si chiedono se tale pratica sia essenziale per una religione, o se invece si tratti di un atto che, benché sincero, non costituisce un precetto confessionale obbligatorio. Le due questioni appaiono collegate. Infatti, nella maggior parte dei casi, una norma neutra sarà svantaggiosa solo per l’individuo quando inciderà negativamente su un’espressione personale del credo, che non costituisce un precetto o una prassi condivisa da tutto il gruppo religioso; viceversa, se non viene “accomodata” una pratica obbligatoria e “tipica” di una determinata confessione, lo svantaggio sussisterà sia per l’individuo, sia per il gruppo. Peraltro, questa verifica sembra riconnettersi a quella, operata per i casi di discriminazione diretta, tesa a individuare il collegamento tra lo svantaggio subìto e il fattore religioso. La giurisprudenza recente, in effetti, sembra suggerire che, quando la pratica esercitata dalla presunta vittima non è condivisa da altri “correligionari”, il trattamento sfavorevole non è causato dalla religione stricto sensu, ma da una scelta individuale circa la manifestazione del culto¹²⁵. Uno degli esempi più chiari a questo proposito è nel celebre caso di Nadia Eweida, la hostess di British Airways licenziata per non aver rimosso una catenina con la croce, mentre il codice di abbigliamento aziendale imponeva di non indossare oggetti di gioielleria o simboli visibili sulla divisa¹² . Il caso è stato oggetto di una recente pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha riconosciuto una violazione del diritto di libertà religiosa della ricorrente¹²⁷ ; prima, i giudici nazionali avevano respinto il ricorso, proprio sulla base del fatto che lo svantaggio derivante dal codice aziendale neutro sussisteva solo per quella hostess e non anche per coloro che ne condividevano la credenza (in altre parole, il regolamento sulle divise non causava un disparate impact per tutti i dipendenti cristiani della British Airways). Ciò si spiegava, a detta dei giudici nazionali, con la constatazione che, a differenza dei simboli e indumenti religiosi che costituiscono un vero e proprio precetto confessionale, portare un crocifisso non rappresenta un obbligo per i cristiani, ma era solo un’espressione personale del credo della ricorrente. Ragionamento simile, ma con risultati opposti, si può leggere nella sentenza Chatwal¹²⁸ , dove il ricorrente era un Sikh che riteneva vietato toccare e mangiare carne e lamentava di essere stato discriminato indirettamente perché
nel luogo di lavoro gli era richiesto di partecipare alle pulizie della cucina comune, dove egli rifiutava di maneggiare eventuali resti di carni. La credenza in questione non è condivisa da tutti i Sikh; così, in prima battuta, era stata esclusa la presenza di una discriminazione perché non era stato individuato uno svantaggio per altri soggetti oltre al ricorrente. La sentenza d’appello, tuttavia, con l’ausilio di pareri di esperti, ha riconosciuto una discriminazione indiretta, poiché la prescrizione di non toccare carne risulta obbligatoria per un gruppo – interno alla religione Sikh – di cui faceva parte il ricorrente. Una simile valutazione, nella quale i giudici si pronunciano sul carattere vincolante delle pratiche religiose, ricorre in altre sentenze recenti, anche al di fuori dell’ambito del lavoro¹² . Essa suscita alcuni dubbi su dove debba collocarsi il limite della competenza dei giudici statali, i quali si accingono a valutare il valore (obbligatorio o meno) e i presupposti religiosi di alcune prassi e manifestazioni del credo¹³ . In linea di principio, questo metodo presenta il rischio di non tener conto delle esigenze individuali, tendendo a tutelare dalla discriminazione indiretta solo le credenze e le pratiche notoriamente condivise da una collettività. Ad esempio, un individuo che interpreti in modo autonomo talune pratiche religiose, avrebbe non poche difficoltà a far riconoscere una discriminazione indiretta nei suoi confronti; lo stesso dicasi per chi non riuscisse a dimostrare uno svantaggio per un gruppo ben definito di persone accomunate da un determinato credo¹³¹. Ora, è vero che il concetto di discriminazione indiretta, essendo costruito per consentire la presa in considerazione delle diversità religiose, non può non prevedere dei limiti applicativi. Il risultato contrario sarebbe quello di dover prevedere una disciplina “non neutra” per qualsivoglia convinzione personale, e un moltiplicarsi di richieste di tutela delle diversità – anche le più bizzarre o legate a credenze soggettive – costruendo un meccanismo che diverrebbe probabilmente impossibile da gestire¹³². Tuttavia, come notato dalla dottrina¹³³ , sembra che nelle pronunce recenti l’esistenza di una discriminazione sia automaticamente negata quando la norma neutra non incide su un precetto religioso obbligatorio¹³⁴ ; inoltre – concentrandosi sulla rilevazione dello svantaggio¹³⁵ e sul legame tra questo e l’obbligatorietà della pratica religiosa – i giudici spesso non hanno neppure accennato al secondo step della valutazione, quello che riguarda la giustificazione della norma neutra. I criteri di giustificazione, in realtà, sono stati previsti appositamente per bilanciare gli interessi in gioco: attraverso di essi, pur
nella varietà delle soluzioni trovate, si potrebbe valutare forse più agevolmente la rilevanza di una pratica religiosa nel caso concreto, la presenza di uno svantaggio, il peso di altri diritti e interessi. Il meccanismo di giustificazione della discriminazione indiretta, lo si è già visto¹³ , è meno stringente nel Regno Unito rispetto a quanto previsto dalle direttive¹³⁷. In base all’Equality Act, infatti, una misura neutra sarà giustificabile quando è semplicemente proporzionata (e non anche appropriata e necessaria) al raggiungimento di uno scopo legittimo. Si segue, quindi, un parametro di ragionevolezza più che di necessità, tendendo da un lato a giustificare più facilmente i comportamenti aziendali e ponendo, dall’altro, un problema di certezza del diritto, giacché si lascia al giudice (e alla sua sensibilità e discrezionalità) il compito di decidere se un dato comportamento è discriminatorio o no¹³⁸. Ne consegue che le esigenze in gioco saranno valutate caso per caso, senza procedere a una tutela “automatica” di tutte le diversità religiose¹³ ; una tutela che, priva di un necessario bilanciamento, determinerebbe una limitazione eccessiva di libertà – soprattutto quelle economiche – altrettanto meritevoli di protezione¹⁴ . Nei casi finora emersi, in effetti, la presunta discriminazione indiretta è stata quasi sempre generata da prassi e regole interne alle imprese, che sono state esaminate proprio alla luce dei criteri di giustificazione. Ad esempio, nel contrasto – più volte emerso – tra una regola aziendale neutra sull’abbigliamento e un precetto religioso in tema, la prima non sarà discriminatoria se proporzionata alla finalità perseguita. La proporzionalità della richiesta neutra viene, solitamente, valutata tenendo conto il contesto e la tipologia della mansione svolta. Così, il divieto di portare indumenti che coprano interamente il volto è stato ritenuto appropriato e legittimo nel caso di una insegnante che indossava il niqab (lo scopo del divieto essendo quello di permettere una più facile comunicazione con gli alunni)¹⁴¹ , mentre è stata meno scontata la giustificazione di norme neutre sull’abbigliamento o sull’aspetto fisico in altri ambienti professionali¹⁴². Altre vicende hanno visto contestare un’organizzazione degli orari di lavoro che non teneva conto delle richieste relative all’osservanza dei giorni festivi religiosi. Se è legittimo lo scopo della regola neutra – da individuare in una gestione il più efficiente possibile dei turni di lavoro – tuttavia negare il godimento di determinati giorni festivi può non risultare proporzionale alle esigenze dell’impresa e quindi integrare una discriminazione¹⁴³. Le sentenze sul
tema hanno valutato, ad esempio, se per l’impresa era possibile modificare le regole sugli orari di lavoro e, se ciò non costituiva un onere eccessivo, il rifiuto di “accomodare” le esigenze religiose è stato spesso dichiarato indirettamente discriminatorio¹⁴⁴. A maggior ragione, una discriminazione è stata rilevata quando era stato il dipendente stesso a rendere note all’azienda le proprie esigenze circa i giorni festivi¹⁴⁵. Si può dire che, una volta superato il problema di stabilire l’esistenza di uno svantaggio – verificando se una norma neutra abbia inciso negativamente su un gruppo definito dalla religione e, in particolare, se la pratica religiosa “non accomodata” derivi da un precetto religioso – la legislazione antidiscriminatoria appare un valido strumento per la gestione delle diversità. Dunque, con riguardo alle pratiche religiose più “tradizionali”, come quelle relative alle festività religiose¹⁴ , per le quali è più facile dimostrare un disparate impact per l’intero gruppo, il divieto di discriminazione indiretta risulta funzionale e applicabile più agevolmente. Peraltro, al di là delle soluzioni dei singoli casi – diverse tra loro, come logico che sia nell’analisi giurisprudenziale – l’uso di tale divieto risulta essere in linea con il modello britannico di uguaglianza, mostrando una particolare attenzione per le specificità religiose e per la dimensione di gruppo¹⁴⁷. Maggiori difficoltà esistono per le pratiche religiose meno condivise o per le espressioni della libertà religiosa che non risultano, a detta dei giudici, “intimately linked” alla dottrina della confessione di riferimento. È stato notato, a questo proposito, che una simile tendenza a interpretare restrittivamente la libertà religiosa, collegandola quasi esclusivamente alle pratiche obbligatorie di una determinata confessione, suggerisce quasi che il lavoratore possa omettere talune manifestazioni del proprio credo per evitare di subire una discriminazione indiretta¹⁴⁸. Altrettanto complessa appare, poi, la soluzione di controversie relative al rapporto tra diverse forme di discriminazione, e in primis al conflitto tra fattore religioso e orientamento sessuale.
3.2. VISIONI RELIGIOSE E ORIENTAMENTO SESSUALE: GLI ACCOMODAMENTI NEGATI
Tra le ipotesi di discriminazione religiosa nel lavoro, alcune sentenze hanno avuto ad oggetto la situazione di lavoratori e funzionari pubblici chiamati ad applicare, nello svolgimento delle loro mansioni, una norma dello Stato alla quale essi si opponevano per motivi religiosi, come le disposizioni sulle civil partnership e sulle adozioni da parte di coppie di persone dello stesso sesso. Ad esempio, nel caso McClintock¹⁴ un giudice di pace aveva rifiutato di assegnare minori in adozione a coppie omosessuali, mentre nel caso Ladele un’addetta ai registri dello stato civile rifiutava di registrare civil-partnerships¹⁵ . I ricorrenti consideravano la legge statale – con gli obblighi professionali da essa derivanti – una regola neutra e indirettamente discriminatoria poiché non avrebbe tenuto conto delle loro “obiezioni” per motivi religiosi¹⁵¹. Ancora, nella controversia McFarlane v. Relate¹⁵² un consulente psicologico aveva espresso la sua difficoltà, per motivi religiosi, a trattare con coppie di persone dello stesso sesso e il suo ricorso intendeva far rilevare il carattere indirettamente discriminatorio della regola interna dell’ente nel quale egli lavorava, volta ad offrire il medesimo servizio a tutti i pazienti. In questi casi, esaminati attraverso la legislazione antidiscriminatoria, le esigenze religiose non vengono mai “accomodate”. Anzitutto, l’uso del concetto di discriminazione diretta in alcune di queste pronunce porta i giudici a chiedersi – come già nelle altre sentenze su questa tipologia di discriminazione – se il trattamento sfavorevole sia fondato sulla religione¹⁵³. Affermando che lo svantaggio nasce dall’ostilità dei ricorrenti verso persone portatrici di un determinato orientamento sessuale, o dal rifiuto di espletare le proprie funzioni (caso Ladele)¹⁵⁴ , si nega l’esistenza di una discriminazione diretta. Si tratta, nuovamente, di capire fin dove, nella tutela antidiscriminatoria, si possa applicare il concetto di credenza e dove, invece, si tratti di una mera opinione che, pur legata a un credo, non vale a fondare una discriminazione vietata¹⁵⁵. Quest’argomentazione risulta particolarmente rigorosa quando – come in questi casi – si deve considerare un’opinione (o convinzione) relativa ad un altro “fattore di rischio” protetto dalla legge; inoltre è in linea con quanto affermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, da ultimo proprio nella sentenza
relativa a questi casi britannici¹⁵ : a proposito dell’art. 9, la Corte ha sempre ribadito che non tutti i comportamenti ispirati dal proprio credo sono “manifestazioni” della libertà religiosa¹⁵⁷ e, inoltre, che questa può essere limitata per proteggere i diritti altrui (nel caso in esame, la non discriminazione per orientamento sessuale). Quanto alla discriminazione indiretta, il riconoscimento delle civil partnership e le modalità di trattamento delle coppie same-sex possono essere considerati come regole neutre, ai sensi della direttiva, dalle quali derivano obblighi professionali applicabili a tutti. Regole che ben possono determinare uno svantaggio per alcune confessioni religiose, a causa della loro dottrina sul tema; tuttavia, l’orientamento dei giudici è stato finora costante: si è sempre affermato che la regola neutra è giustificata e che non vi è stata discriminazione indiretta. Così, nel caso Ladele (e analogamente in McFarlane) si afferma che nel momento in cui una legge dello Stato prevede le unioni tra persone dello stesso sesso e consente loro di adottare figli¹⁵⁸ , un pubblico funzionario non può rifiutare di svolgere la propria professione affermando di essere contrario, per motivi religiosi, a quella legge. È quest’ultima, infatti, che fornisce la giustificazione per un trattamento neutro, che non prende in considerazione le particolari esigenze religiose. Si evidenzia, in particolare, che la norma “indifferenziata” ha un obiettivo legittimo (la tutela di diritti per le coppie omosessuali) il quale giustifica la discriminazione indiretta. In questi casi, nell’applicazione del divieto di discriminazione indiretta, la verifica si concentra particolarmente sulla legittimità dello scopo e meno sulla proporzionalità della misura nel caso concreto¹⁵ . Nella sentenza Ladele, ad esempio, si afferma che il dovere di offrire un servizio senza discriminare in base all’orientamento sessuale¹ costituiva un obiettivo legittimo e che un accomodamento per fini religiosi avrebbe compromesso tale finalità. Una minore attenzione viene prestata, invece, alla proporzionalità e necessità della misura applicata alla ricorrente; anzi, si osserva che nell’ufficio dove ella lavorava, erano disponibili altre mansioni, che non le avrebbero creato conflitti di coscienza¹ ¹. Tale affermazione non pare particolarmente rilevante ai fini della decisione del caso, ma dà il segno della difficoltà nel garantire, conciliandole, le “diverse diversità”: sembra, infatti, indicare la prevalenza di un fattore di rischio sull’altro e l’opportunità per il lavoratore di nascondere l’espressione di una diversità, possibilmente svolgendo una mansione meno problematica o in un ambiente di lavoro più omogeneo. A questa tendenza
aderisce in parte anche la Corte europea nell’analisi di questo caso, affermando che la possibilità di cambiare lavoro può dimostrare che non vi è stata discriminazione; tuttavia, per non svuotare di contenuto il divieto di discriminazione religiosa, i giudici europei si preoccupano di ricordare che, data l’importanza della libertà religiosa nelle società democratiche contemporanee, la soluzione migliore è individuare un bilanciamento, considerando se la restrizione di tale libertà è stata proporzionata¹ ². Occorre tener presente che la controversia ora esaminata si è verificata nello svolgimento di un pubblico ufficio e, quindi, si può immaginare una minore disponibilità a predisporre accomodamenti che compromettano altri diritti garantiti per legge (in questo caso il diritto delle coppie same-sex ad usufruire di un servizio comunale, vedendo registrata la propria unione). Inoltre, il ragionamento dei giudici suggerisce che un ambiente di lavoro debba essere laico e non accomodare determinate espressioni religiose: un principio che può funzionare (come si è visto anche in Francia) per l’impiego pubblico, ma non sempre per quello privato. In quest’ultimo, dove gli interessi religiosi devono essere bilanciati con quelli di un’azienda o di un datore di lavoro privato – e non, quindi, con un obbligo ad offrire un servizio pubblico in modo non discriminatorio – la prevalenza della non discriminazione per orientamento sessuale su quella religiosa pare più difficilmente giustificabile e si dovrebbe cercare un bilanciamento tra le due. In realtà, nei casi emersi finora, anche al di fuori dell’ambito del lavoro¹ ³ , vi è quasi un automatismo nell’affermare che la necessità di eliminare la discriminazione fondata sull’orientamento sessuale giustifica un trattamento discriminatorio (diretto o indiretto) fondato sulla religione¹ ⁴. Le motivazioni di questa lettura sono, probabilmente, anche politiche: l’ordinamento britannico ha scelto di tutelare in modo ampio, nella legislazione antidiscriminatoria, entrambi i fattori di rischio, e di recente ha approvato vari interventi per il riconoscimento di diritti per le coppie omosessuali. Ad ogni modo, anche dal punto di vista giuridico, il diritto alla diversità e alla non discriminazione religiosa non sempre è stato interpretato dai giudici in modo ampio¹ ⁵ ; a maggior ragione, si può ben comprendere che la tutela della religione sia limitata a proposito di queste tematiche molto controverse. Un segnale della difficoltà a bilanciare i diritti in gioco può essere scorto anche nell’introduzione nell’Equality Act 2010 di svariate disposizioni che specificano attività e ambiti di non applicazione dei relativi divieti di discriminazione¹ : quasi a mostrare che in alcuni casi la decisione sulla legittimità di un
comportamento, per questo tema così delicato, non può essere demandata ai giudici.
4. L’APPLICAZIONE DEL DIVIETO DI MOLESTIE
Nell’analisi svolta finora si è presa in considerazione l’applicazione dei divieti di discriminazione, diretta e indiretta. Per quanto riguarda l’altra nozione introdotta dal diritto antidiscriminatorio europeo, quella di molestie¹ ⁷ , la giurisprudenza nei tre Stati non è copiosa. In Italia, come si è visto, il concetto di molestia è stato citato dai giudici in alcuni casi¹ ⁸ , ma non si può certo affermare che esso abbia avuto un impatto particolare nella gestione del fenomeno religioso nell’ambiente di lavoro. L’utilizzo di tale concetto, infatti, è piuttosto sporadico per quanto riguarda fattori diversi dal sesso¹ . In Francia, si è fatto talvolta riferimento alle molestie di natura religiosa soprattutto a sostegno della dimostrazione di altri trattamenti dannosi subiti da un lavoratore, ad esempio il licenziamento¹⁷ . Le molestie appaiono in questi casi come una eventuale “aggravante” di comportamenti assimilabili a discriminazioni dirette; in ogni caso i giudici non sempre hanno fatto ricorso alle disposizioni di derivazione europea¹⁷¹. L’uso di questo concetto appare perciò in linea con l’approccio se di tutela dell’uguaglianza formale e della dimensione negativa della libertà religiosa: il lavoratore ha il diritto di non rivelare le proprie credenze e di non essere discriminato o turbato a causa di esse e il divieto di molestie serve ad evitare che l’appartenenza confessionale venga messa in luce da colleghi o datori di lavoro, facendone un motivo di derisione, ostilità, esclusione¹⁷². Infine, per quanto riguarda la giurisprudenza britannica – che si basa su una maggiore esperienza in materia – troviamo sia sentenze su molestie fondate sulla religione, sia pronunce che hanno dettato alcuni parametri generali. Una prima questione affrontata è quella del collegamento, come per la discriminazione¹⁷³ , tra il trattamento molesto e uno dei fattori contemplati dalla legge. A questo proposito bisogna ricordare che l’Equality Act 2010 parla di condotte «related to religion», individuando, quindi, un insieme più ampio di comportamenti anche solo connessi alla religione e non “fondati” su di essa. Di recente, un tribunale di Londra si è soffermato su questo punto, sottolineando la possibilità di rintracciare una molestia anche nell’espressione di opinioni critiche
semplicemente collegate a una confessione religiosa, se degradanti per l’ambiente lavorativo e per la vittima¹⁷⁴. Circa la caratterizzazione del «protected ground», poi – come si è visto anche per la dimostrazione della discriminazione diretta e indiretta – si è posto il problema di dare una definizione della religione e delle convinzioni meritevoli di tutela. In tema di molestie per orientamento sessuale, peraltro, i giudici britannici hanno precisato che i fattori protetti dall’Equality Act non dovranno necessariamente essere interpretati in conformità alla direttiva 2000/78¹⁷⁵. Si porranno, quindi, i medesimi interrogativi visti per le sentenze sulla discriminazione, relativamente alla lettura più o meno restrittiva del binomio religion/belief. In secondo luogo, si può constatare il tentativo di bilanciare il diritto a non subire molestie in materia religiosa con altri diritti, come la libertà di espressione. In una recente sentenza, ad esempio, l’Employment Appeal Tribunal si è pronunciato su un episodio dove un responsabile di redazione di un quotidiano si era espresso, verbalmente, in merito alla visita del papa nel Regno Unito in una maniera percepita come indesiderata da un dipendente cattolico¹⁷ . Il giudice ha ritenuto che si era trattato, in realtà, di semplice turpiloquio e che mancavano alcuni elementi per qualificare la condotta come molesta. In particolare, il comportamento del direttore non aveva avuto né il proposito né l’effetto di creare un ambiente ostile ai cattolici o di violare la dignità del lavoratore: si era trattato di un’esclamazione isolata, proferita senza determinare quel clima di intimidazione ed esclusione tipico della nozione di molestia. L’appello è stato, quindi, respinto, e la percezione del ricorrente è stata bilanciata con gli elementi oggettivi di tale concetto¹⁷⁷. In un altro caso, invece, proprio la dimostrazione dell’esistenza di un clima ostile per il lavoratore ha consentito di individuare una molestia fondata sull’orientamento sessuale e sulla religione¹⁷⁸. La controversia nasceva da espressioni ripetute di dileggio nei confronti di un soggetto che era ritenuto omosessuale e “pagano” da parte di colleghi Testimoni di Geova. È interessante notare che, secondo il giudice, è irrilevante il fatto che la vittima avesse effettivamente quelle caratteristiche: ciò che conta è che il comportamento molesto si sia fondato su di esse, anche se si trattava di pregiudizi o stereotipi (nella specie: il fatto che il ricorrente non amava il football ha fatto sì che fosse creduto omosessuale). Riguardo a quest’ultimo punto, si può ritenere che il divieto di molestie possa divenire un potente mezzo per evitare stereotipizzazioni ed esclusioni negli
ambienti di lavoro, che divengono sempre più “plurali”. Tuttavia, occorre tener conto del rovescio della medaglia, ovvero del rischio di vietare talune espressioni (verbali e non) connesse alla religione e percepite come moleste. Ciò potrebbe portare a cercare soluzioni giudiziarie per un crescente numero di episodi, anche relativi a semplici incomprensioni tra colleghi¹⁷ . Inoltre, come ricordato nella sentenza Fraser v. University College Union, nelle controversie che riguardano sia la libertà religiosa (collegata al divieto di molestie), sia la libertà di espressione, occorre sì tutelare la sensibilità delle vittime, ma anche preservare la tolleranza e il pluralismo, specialmente se – come in questo caso – l’espressione di dissenso era di segno più politico che religioso¹⁸ . Tenendo presenti tali problemi, in alcune pronunce, oltre a stabilire la colpevolezza e un eventuale risarcimento del danno, si è stabilito che il datore di lavoro predisponesse alcuni interventi per le pari opportunità, per promuovere la mutua comprensione tra persone diverse e rendere consapevoli i dipendenti dei loro diritti e degli obblighi derivanti dalla legislazione antidiscriminatoria¹⁸¹. In base alla legge britannica, infatti, i giudici possono emettere una raccomandazione perché chi ha commesso una discriminazione (datori di lavoro, pubblica amministrazione) compia determinate azioni per ridurre le disparità, senza limitarsi all’aspetto rimediale e risarcitorio dell’antidiscriminazione¹⁸².
5. L’APPLICAZIONE DEI DIVIETI DI DISCRIMINAZIONE NEI TRE MODELLI NAZIONALI DI UGUAGLIANZA: QUALE IMPATTO PER LA LIBERTÀ RELIGIOSA?
A partire dall’ultima osservazione svolta, si può riflettere sull’efficacia e sui limiti dei divieti (di discriminazione e di molestie) introdotti con la trasposizione delle direttive negli Stati considerati. In particolare, ci si può chiedere se una mera proibizione di comportamenti degradanti o sfavorevoli sia sufficiente a gestire le diversità religiose o a creare un clima lavorativo più attento alla parità. A questo proposito, come si vedrà, alcuni ulteriori strumenti (come la possibilità, appena ricordata, di raccomandare interventi attivi per ridurre il danno discriminatorio) sono stati predisposti, soprattutto nel Regno Unito, spostando il focus di questa normativa verso un ruolo preventivo e promozionale e non soltanto risarcitorio. Si tratta di un processo ancora lento e non del tutto realizzato ma che, in prospettiva, potrebbe determinare cambiamenti di particolare rilievo anche in materia religiosa. Ripercorrendo le novità presenti nel quadro concettuale e sintetizzando le caratteristiche dell’attuazione giurisprudenziale, si nota, in primo luogo, che una nozione oggettiva di discriminazione diretta può portare a sanzionare più facilmente un trattamento sfavorevole, visto che non è più necessario dimostrare l’intentio di chi ha agito. Se questo elemento è consolidato nell’ordinamento britannico, una maggiore incertezza caratterizza la giurisprudenza italiana e se, nelle quali talvolta riemerge la tendenza a considerare il movente soggettivo dell’azione. Anche in questi due Stati, ad ogni modo, il recepimento delle direttive dell’UE ha permesso di affrontare il divieto di discriminazione diretta in modo oggettivo, in linea con la lettura sovranazionale. Altri problemi, tuttavia, sono rilevabili nell’applicazione di tale divieto. Una prima questione – verificatasi soprattutto nel Regno Unito e, in misura minore, in Italia – è quella di individuare se la presunta discriminazione si sia effettivamente fondata su una religione o convinzione. La definizione di questo fattore è stata, generalmente, ampia e ha consentito una tutela non soltanto della libertà religiosa in quanto tale, ma anche di una più generica libertà ideologica. Si è notato, anzi, che talvolta quest’ultima viene protetta più agevolmente rispetto alle espressioni religiose, o perlomeno viene in luce più di frequente,
mentre controversie relative alla religione stricto sensu sembrano emergere più a fatica¹⁸³. Ciò potrebbe mostrare come, nella tutela antidiscriminatoria, il riferimento principale sia ancora lo svantaggio individuale, legato alle convinzioni personali, benché nuovi strumenti – come la discriminazione indiretta – abbiano sviluppato un’attenzione per il dato di gruppo¹⁸⁴. Inoltre, la garanzia delle credenze, oltre che delle religioni, fa pensare ad uno slittamento della protezione antidiscriminatoria da strumento pensato per le parti deboli¹⁸⁵ a legislazione rivolta a (e utilizzata da) un gran numero di identità diverse, sia di minoranza, sia di maggioranza¹⁸ . Il rovescio della medaglia è il timore, che si legge in parte della giurisprudenza britannica, di un’estensione all’infinito della gamma delle convinzioni tutelabili, con il rischio di un’eccessiva frammentazione dell’ambiente lavorativo (e sociale). Come si è visto, in alcuni casi si è allora disapplicato il divieto di discriminazione, in forza di una definizione più restrittiva del concetto di religion/belief. Così, se l’attuazione del diritto antidiscriminatorio europeo sembra portare a una lettura ampia della libertà religiosa¹⁸⁷ , quest’ultima sembra non dissolversi, a livello statale, in un’onnicomprensiva libertà di opinione. Oltre a delimitare il concetto di religione, alcune pronunce esaminate hanno evidenziato la questione della possibilità di giustificare trattamenti direttamente discriminatori, una possibilità pretesa talvolta dai datori di lavoro per il perseguimento delle loro finalità. Come noto, la direttiva prevede un unico metodo a questo proposito, quello dei requisiti occupazionali: questi consentono a un datore di lavoro di fondare un trattamento differenziato proprio sulla religione, ma solo nel caso in cui essa sia un criterio determinante per lo svolgimento di una data mansione. La difficoltà di applicare tale criterio di giusitificazione al fattore religioso ha favorito, nelle pronunce italiane, una certa tutela del pluralismo sul luogo di lavoro¹⁸⁸ ; in Francia, invece, l’uso di altre norme (prima fra tutte l’art. 1121-1 del Code du travail) ha consentito di giustificare più agevolmente le discriminazioni, anche dirette, attraverso un criterio di ragionevolezza. Così, sono stati ritenuti legittimi alcuni limiti alla libertà religiosa, a fronte dei quali il diritto antidiscriminatorio non è stato efficace¹⁸ . Guardando, poi, al divieto di discriminazione indiretta, è noto che, a certe condizioni, esso impone di predisporre trattamenti differenziati, o “accomodamenti”: nell’ambito del lavoro, con la presenza di molteplici pratiche religiose differenti, siamo di fronte a uno strumento di tutela delle diversità, che viene però utilizzato dagli Stati in modo ancora incerto o – come nel caso della
Francia – non applicato. Come si è visto, non si tratta soltanto di “resistenze” di carattere generale: limiti e confini applicativi sono insiti nella nozione stessa di discriminazione indiretta, volti a bilanciare esigenze diverse, tra principio di uguaglianza e apertura alle differenze. I giudici nazionali si sono trovati, così, a decidere, da un lato, quali pratiche, comportamenti e identità tutelare (ponendosi, di nuovo, la questione della caratterizzazione del ground of discrimination), dall’altro lato a individuare un equilibrio tra tutela delle pratiche religiose e garanzia di altri diritti o interessi. È chiaro, infatti, che nel momento in cui si contempla una tutela di tipo “positivo”, con interventi per “accomodare” le specificità religiose, non si potrà esigere che un ordinamento (e tanto meno un soggetto privato, primo destinatario del diritto antidiscriminatorio) predisponga un trattamento diversificato per tutti e per ciascuno. A tal proposito, una tendenza che si può evidenziare è la distinzione tra belief ed action¹ : i trattamenti sfavorevoli che incidono su una credenza (o sulla sua manifestazione) sono solitamente puniti, mentre quelli derivanti da semplici azioni “ispirate” dalla religione sono valutati diversamente, a seconda dei casi¹ ¹. Nel Regno Unito, ad esempio, l’impostazione più frequente ha tutelato le diversità religiose quando si trattava di pratiche obbligatorie, strettamente connesse con la dottrina di una confessione e condivise da un gruppo. Un’impostazione talvolta criticata dalla dottrina, che vi scorge il rischio di interpretare in modo limitante la libertà religiosa¹ ² : sembra, infatti, che siano tutelate solo le credenze tradizionali, condivise, e non le pratiche personali o eterodosse. E ancora, ci si domanda se, quando si tratta di comportamenti motivati dalla religione e che vanno a incidere su altri fattori protetti (come l’orientamento sessuale), non si finisca per pretendere un believing without acting¹ ³. Quest’ultima tendenza sembra rintracciabile anche in Francia, dove tradizionalmente si intende la libertà religiosa come diritto principalmente privato e di foro interno (believing), mentre le pratiche religiose (acting) emergono di rado in contesti come quello lavorativo. In particolare, i funzionari pubblici vedono limitata l’espressione della loro libertà religiosa al fine di tutelare la neutralità dello Stato; il diritto antidiscriminatorio, in questo senso, non apporta un contributo determinante, soprattutto perché l’ordinamento se si nega ad utilizzare la nozione di discriminazione indiretta e a valutare le eventuali conseguenze sfavorevoli di una norma generale. Se nel settore privato le soluzioni sono più varie, tuttavia l’espressione delle diversità religiose non ha ricevuto una tutela ampia e, anche quando vi è stata un’apertura verso
qualche “accomodamento”, in Francia non si è mai sancito un obbligo di predisporre trattamenti differenziati. Peraltro, una caratteristica della legislazione e delle pronunce si è, come si è più volte ricordato, l’interpretazione della discriminazione come “differenziazione” e non come svantaggio oggettivo, che potrebbe derivare anche da un trattamento “indifferenziato”. Questa lettura, classica, non è ancora cambiata in modo significativo; perciò, non pochi sono gli ostacoli a uno sviluppo della tutela delle diversità religiose attraverso questa normativa. Se nell’applicazione della discriminazione diretta alcune problematiche sono comuni ai tre Stati e possono individuare linee di lettura “europee” della libertà religiosa (tra le altre abbiamo ricordato la rilevanza delle convinzioni personali individuali e il tentativo di tracciare un confine tra convinzioni e mere opinioni), la nozione di discriminazione indiretta è maggiormente indicativa delle differenti posizioni degli Stati di fronte alle diversità religiose. Così, in Francia l’assenza di casi esaminati sotto questo profilo rinvia al modello di uguaglianza formale; nel Regno Unito, la tutela delle diversità attraverso la discriminazione indiretta rivela un’apertura all’uguaglianza sostanziale e un’attenzione ai casi concreti da “accomodare”, tipica dei sistemi di common law. Ora, è da notare che anche nell’ordinamento britannico emergono alcune difficoltà nella protezione delle diversità, che quindi incontra sempre alcuni limiti: i criteri di giustificazione delle norme e delle prassi neutre, stabiliti dalla normativa antidiscriminatoria, sono stati utilizzati talvolta per evitare la presa in considerazione delle esigenze religiose¹ ⁴. In Italia, infine, si ha, anche in questo caso, una situazione intermedia: da un lato una scarsa applicazione del divieto di discriminazione indiretta, dall’altro una certa attenzione per alcuni strumenti di “accomodamento” nel quadro costituzionale. Questi ultimi hanno un ruolo preminente rispetto a quelli disposti dal diritto europeo: si pensi alle intese ex art. 8 Cost., previste appositamente per tutelare le specificità religiose. La nuova legislazione antidiscriminatoria non sembra avere determinato conseguenze particolari per il sistema delle intese, non regolando direttamente tali questioni di rilevanza costituzionale. Ad ogni modo, se interpretate come strumenti di “accomodamento”, le intese mostrano una caratteristica simile a quella rilevata nell’ordinamento britannico: riferendosi in modo diretto alla categoria di confessione religiosa, rivelano una maggiore attenzione (e una maggiore “fattibilità”) per gli accomodamenti di pratiche condivise, confessionali in senso stretto. Non risultano essere, invece, strumenti efficaci per la tutela dei fenomeni “più diversi”, specie di quelli che sfuggono alla caratterizzazione confessionale e che non possono accedere agli strumenti predisposti dalla Costituzione¹ ⁵. In
questo senso, il divieto di discriminazione indiretta potrebbe costituire un rilevante strumento di tutela della diversità; finora, però, il suo potenziale è rimasto largamente inutilizzato nel nostro Paese. Al di là della scarsa casistica relativa alle discriminazioni nel lavoro in Italia e in Francia, ci si può chiedere se il diritto antidiscriminatorio non abbia finito per incidere ugualmente su tali ordinamenti, influenzando alcune linee interpretative o ponendo i germi di nuovi strumenti per la gestione del pluralismo confessionale. Per quanto riguarda l’interpretazione, soprattutto giurisprudenziale, si è già visto come in Italia e in Francia i concetti del diritto antidiscriminatorio vengano spesso confusi con i principi costituzionali di uguaglianza e non discriminazione. Se in Francia, l’uguaglianza (formale) prevale sempre nell’analisi dei casi relativi alle diversità religiose, in Italia le nozioni introdotte con le direttive hanno talvolta fatto breccia nel ragionamento dei giudici, anche in casi che esulavano dal campo di applicazione del d.lgs. n. 216/2003. Ad esempio, in un caso relativo all’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, i giudici hanno richiamato espressamente i concetti di discriminazione derivanti dal diritto europeo¹ ; anche la Corte costituzionale, in una sentenza relativa alla rimozione delle barriere architettoniche per i disabili¹ ⁷ , ha adottato una lettura ampia dei concetti di uguaglianza e di non discriminazione. Si tratta di casi finora sporadici¹ ⁸ , ma che possono rivelare un ruolo del “nuovo” diritto antidiscriminatorio come ausilio interpretativo nelle controversie sulla gestione delle diversità. Per quanto riguarda la predisposizione di altri strumenti di tutela, ci si soffermerà brevemente in seguito su alcuni esempi di scelte nazionali conseguenti o contemporanee alla trasposizione delle direttive europee. Tali strumenti vanno nella direzione di un superamento del modello risarcitorio dei divieti di discriminazione – applicati per via giurisprudenziale – e tentano di stabilire interventi di prevenzione delle discriminazioni e di promozione delle pari opportunità, che possono essere più incisivi per il trattamento delle diversità, anche religiose.
SEZIONE II. LA GESTIONE DELLE DIVERSITÀ RELIGIOSE OLTRE I DIVIETI DI DISCRIMINAZIONE
Se le nuove “versioni” dei concetti di discriminazione (specialmente quella indiretta) e di molestie proiettano la normativa in esame verso una tutela delle diversità, oltre che dell’uguaglianza, alcuni peculiari strumenti spingono ancor più in questa direzione. Nelle direttive, ad esempio, si sono previste azioni positive e accomodamenti ragionevoli che, pur non stabiliti in specifico per la religione, possono tuttavia indicare alcuni orientamenti al legislatore nazionale¹ . In particolare, simili strumenti disegnano una tutela antidiscriminatoria non più limitata alla possibilità di ricorrere al giudice, individualmente, per ottenere la cessazione di un trattamento sfavorevole (modello risarcitorio o riparativo). Delineano, invece, una tutela di gruppo, già presente nel concetto di discriminazione indiretta² , e un modello di parità ridistributiva. Nel Regno Unito, poi, lo sviluppo della legislazione in materia vede la previsione di misure di carattere preventivo e di promozione della parità, attraverso interventi (affidati perlopiù ai pubblici poteri) per garantire il pluralismo e la non discriminazione. Questi temi, di grande interesse per la tutela delle diversità (anche) religiose, verranno qui soltanto accennati, al fine di segnalare alcune possibili linee di sviluppo futuro del diritto antidiscriminatorio. Un’analisi più approfondita, infatti, dovrebbe attendere di misurare l’impatto effettivo sulla libertà religiosa di concetti e di misure che sono stati introdotti di recente (come gli equality duties nella legge britannica del 2010) o che hanno un’eco ancora limitata negli ordinamenti nazionali.
6. GLI ACCOMODAMENTI RAGIONEVOLI E LE AZIONI POSITIVE
6.1. GLI ACCOMODAMENTI IN MATERIA RELIGIOSA, TRA TEORIA E PRASSI
Gli accomodamenti ragionevoli costituiscono un primo strumento di tutela che supera il mero divieto di discriminare. Nel corso dell’analisi svolta, si è già fatto implicitamente ricorso a questo concetto, che la direttiva 2000/78 prevede per il fattore disabilità, ma che in altri ordinamenti (Stati Uniti, Canada) viene utilizzato per altre categorie di rischio, tra cui la religione² ¹. Nella direttiva non esiste una definizione esatta di che cosa si intende per accomodamento (o aggiustamento) ragionevole² ². Dalla norma della direttiva si può dedurre che si tratta di varie tipologie di misure che, senza comportare oneri eccessivi (ovvero “ragionevoli”), siano necessarie, nelle situazioni concrete, a garantire l’accesso al lavoro o il godimento di determinati diritti alle persone che possiedono una determinata caratteristica. Ad esempio, nel caso della disabilità, le persone portatrici di un determinato handicap saranno svantaggiate nell’impiego o nell’ottenere determinati servizi se non vengono predisposti degli aggiustamenti (ad esempio, la previsione di un orario di lavoro flessibile, l’attribuzione di particolari mansioni, la predisposizione di segnaletica per i non vedenti, e così via). Tra i vari tipi di accomodamento, quelli applicabili alla religione sono prevalentemente deroghe a una regola generale, o un’applicazione differenziata di disposizioni o di prassi che altrimenti creerebbero uno svantaggio. È evidente come questo concetto si colleghi a quello di discriminazione indiretta che individua, come noto, uno svantaggio determinato da una norma neutra, che non prevede diversificazioni (accomodamenti?) per le esigenze di una categoria di persone. Nonostante la vicinanza concettuale, è opportuno notare che nel vietare le discriminazioni indirette la soluzione è spesso quella di dichiarare illegittima la norma neutra (fatta salva la possibilità di giustificarla), mentre non sempre si determina un impegno ad “aggiustare” in positivo le diverse esigenze venute in luce. L’accomodamento ragionevole può, allora, essere interpretato come una risposta, una soluzione alla circostanza indirettamente discriminatoria: infatti, potrebbe prevedere misure specifiche che, senza abrogare o compromettere la norma neutra, la adattino al caso concreto² ³. A tal proposito, occorre anche tener conto che le norme neutre possono essere giustificate da una finalità legittima e
che quindi la loro rimozione – tesa, è vero, ad evitare una discriminazione indiretta – potrebbe pregiudicare proprio il raggiungimento di quella finalità. Gli accomodamenti previsti dalla direttiva - come quelli per la religione nella legislazione statunitense - sono obbligatori in quanto siano ragionevoli, ovvero quando non comportino un onere eccessivo per chi li predispone. Il criterio di ragionevolezza si ricollega a quello di proporzionalità che giustifica la discriminazione indiretta; è stato notato, a tal proposito, che una norma indirettamente discriminatoria, benché proporzionale ad uno scopo, non potrebbe essere giustificata qualora si dimostri la possibilità di predisporre un accomodamento ragionevole² ⁴. Anche in questo caso, quindi, si può scorgere uno strumento che, nella protezione di soggetti svantaggiati, che va oltre il mero divieto di norme discriminatorie, imponendo – nel rispetto della ragionevolezza – un intervento positivo a tutela delle specifiche esigenze religiose. La lettura fin qui descritta è esclusivamente teorica, visto che ad oggi, nonostante l’interesse della dottrina per questo tema, non si sono dati casi nei quali si è ipotizzata la predisposizione di “aggiustamenti” in materia religiosa. Alcune tendenze legislative spingono, però, in questa direzione, anche se non sempre si utilizza esplicitamente il concetto di accomodamento ragionevole. In primo luogo, il Regno Unito ha applicato in vari casi il divieto di discriminazione indiretta, riuscendo a tener conto delle diversità religiose; in alcune guidelines, inoltre, si è fatto riferimento proprio al nesso tra discriminazione indiretta e reasonable accommodations, che i datori di lavoro (in particolare) dovrebbero prevedere per evitare uno svantaggio² ⁵. Diversa la situazione in Francia e in Italia. Se per l’Italia, come si è notato, strumenti come le intese possono dare una tutela in parte assimilabile agli accomodamenti, maggiori interrogativi suscita il modello se di uguaglianza formale, che rifiuta, in linea di principio, la tutela delle diversità. In realtà, nemmeno in Francia vi è una negazione tout court di accomodamenti in materia religiosa. Come già si è osservato, ciò che l’ordinamento se rifiuta è l’obbligo di differenziare i trattamenti in base alla religione o in base ad altri fattori, i quali creerebbero un riconoscimento di gruppi distinti dalla comunità dei cittadini. Dunque, la legislazione se non vieta gli accomodamenti di esigenze religiose, ma neppure li prescrive come obbligatori. La tutela delle specificità religiose non è, naturalmente, ignorata ed è parte del
diritto di libertà religiosa² . Tuttavia è interessante notare che essa viene disposta in modo “tacito” o nascosto² ⁷. Così, da un lato la giurisprudenza non ha mai utilizzato il divieto di discriminazione indiretta e non ha mai affermato l’obbligo di differenziare le norme per venire incontro alle esigenze confessionali; dall’altro, alcuni accomodamenti sono stati previsti direttamente dalla prassi amministrativa o dai datori di lavoro² ⁸ , senza ricorrere alla via giudiziaria per far affermare quello che potrebbe essere letto come un “diritto alla diversità”. Sono state, così, emesse alcune note ministeriali sull’opportunità di riconoscere – nelle scuole e negli uffici pubblici – giorni festivi diversi da quelli previsti civilmente, per rispondere alle esigenze religiose² ; altrove, sono stati i giudici a disporre, ad esempio, il rinvio di un’udienza per tener conto di una festività religiosa²¹ . Ancora, si prevede, solitamente, la possibilità di avere menu diversi per ragioni religiose, nelle scuole e nelle strutture obbliganti, anche in questo caso stabiliti da note di servizio o dall’iniziativa di singole strutture²¹¹. Tutti questi accomodamenti, in linea con l’approccio se, non sono stabiliti per legge né, quando disposti dalla giurisprudenza, previsti per un’intera categoria di persone, ma stabiliti per un singolo caso concreto, in modo da dare effettiva tutela al diritto di libertà religiosa ma senza stabilire un’automatica presa in considerazione delle diversitಹ².
6.2. LE AZIONI POSITIVE PER LA RELIGIONE NELL’ EQUALITY ACT 2010
Oltre agli accomodamenti ragionevoli, un altro strumento per la tutela delle diversità è da rintracciarsi nelle azioni positive, peraltro collocate in una prospettiva ridistributiva del diritto antidiscriminatorio. Si è già fatto riferimento, analizzando le direttive²¹³ , al concetto di azione positiva e alla possibilità, data agli Stati, di prevedere misure specifiche per «evitare o compensare svantaggi correlati» (anche) alla religione (art. 7, dir. 2000/78). Nella discrezionalità lasciata ai Paesi membri, le azioni positive in materia religiosa non sono state previste quasi mai per legge, neppure nelle norme che recepiscono la direttiva²¹⁴. Fa eccezione il Regno Unito, in linea con il modello di uguaglianza che lo caratterizza²¹⁵. Nella parte n. 11 dell’Equality Act 2010, intitolata «Advancement of Equality», si stabiliscono alcuni strumenti per il rafforzamento della parità, scopo, questo, indicato dal legislatore britannico in fase di approvazione della legge del 2010²¹ . La legislazione in materia, infatti, si era fino ad allora basata unicamente su «remedies» giudiziali, ovvero sul diritto di avviare un giudizio antidiscriminatorio nel caso in cui un soggetto avesse subito trattamenti sfavorevoli. Si tratta di strumenti di tutela individuali²¹⁷ , che spesso non incidono sulle strutture sociali e istituzionali che possono determinare discriminazioni. Per questo appaiono importanti alcune disposizioni, previste nella legge del 2010, che prevedono le azioni positive e gli equality duties. Le prime sono contemplate dagli articoli 158 e 159 dell’Equality Act²¹⁸. Con il concetto di azione positiva, come già visto²¹ , si indicano misure di vario tipo che, favorendo una determinata categoria di soggetti, risolvano situazioni di disuguaglianza e promuovano la parità. L’art. 158 dell’Equality Act individua, con una formulazione piuttosto ampia, varie tipologie di positive actions, applicabili in tutti i settori disciplinati dalla legge²² . Trattandosi di interventi che stabiliscono un trattamento più favorevole per alcuni soggetti, e quindi differenziato, il legislatore precisa che essi non costituiscono discriminazione quando sono ragionevolmente diretti a realizzare obiettivi di parità. In
particolare, si consentono: le misure volte a favorire una determinata categoria di persone che si trovino in una situazione di svantaggio o siano sottorappresentate in una data attività in ragione di uno dei fattori protetti dalla legge (art. 158, n. 1, lettere a e c); le misure volte a rispondere alle particolari necessità che caratterizzano un gruppo e che non sono condivise da altri (n. 1, lettera b). Quest’ultima tipologia sembra poter ricomprendere gli interventi di tutela di specifiche esigenze religiose, consentendo di giustificare trattamenti differenziati fondati sulla religione. L’art. 159, invece, si occupa più specificamente delle azioni positive in ambito di assunzioni e di promozioni sul lavoro, consentendo trattamenti preferenziali per le categorie svantaggiate o sottorappresentate nello svolgimento di una determinata attività. Una previsione simile era contenuta nell’art. 25 degli Employment Equality (Religion or Belief) Regulations 2003. Questo tipo di azioni positive, rispetto a quelle previste dall’art. 158, appare più difficilmente applicabile al fattore religioso, perché impone di individuare un gruppo caratterizzato da una credenza, del quale si possa provare la condizione di disparità: la sotto-rappresentazione, ad esempio, sarà difficilmente dimostrabile se non si hanno a disposizione i dati sull’appartenenza confessionale dei dipendenti (o dei candidati ad un lavoro)²²¹. L’art. 159, tuttavia, consentendo di predisporre azioni positive quando «si ritenga ragionevolmente che le persone che condividono una certa caratteristica subiscano uno svantaggio», agevola il datore di lavoro che voglia agire in questo senso, subordinando la misura differenziale semplicemente al rispetto del criterio di ragionevolezza²²². Ad ogni modo, in entrambe le disposizioni, le azioni in questione sono facoltative e non obbligatorie, anche sulla scorta di quanto previsto dalle direttive europee²²³. Ancora più rilevante, in questo senso, appare l’introduzione dei «public sector equality duties», sui quali ci si soffermerà qui di seguito.
7. GLI EQUALITY DUTIES. VERSO UNA FUNZIONE PREVENTIVA DEL DIRITTO ANTIDISCRIMINATORIO
L’art. 149 Equality Act 2010 stabilisce alcuni “equality duties” che impongono alle pubbliche autorità e a chi svolge una funzione pubblica l’obbligo di eliminare le discriminazioni e di promuovere l’uguaglianza. Attraverso questa previsione, il legislatore non si limita a sanzionare la discriminazione ex post, una volta avvenuta, ma impegna le istituzioni e le autorità pubbliche a intervenire attivamente in materia, nell’esercizio delle proprie funzioni e nell’elaborazione di politiche²²⁴ , anche attraverso azioni di prevenzione dei fenomeni discriminatori ²²⁵.
Precedentemente all’Equality Act 2010, alcuni «statutory duties» erano stati stabiliti per combattere la discriminazione fondata sulla razza²² , il sesso e la disabilitಲ⁷. La nuova legge stabilisce, all’art. 149, un «public sector duty» più ampio, volto a promuovere l’uguaglianza fondata su tutte le caratteristiche considerate dalla legge, compresa la religione²²⁸. Nello specifico, le pubbliche autorità, indicate dalla legge²² , nell’esercizio delle proprie funzioni dovranno tenere nella «dovuta considerazione» tre finalità principali: in primo luogo l’eliminazione di discriminazioni, molestie, vittimizzazioni e delle altre condotte vietate dalla legge; in secondo luogo far progredire («to advance») le pari opportunità per le persone portatrici di un determinato fattore di rischio²³ ; infine la promozione di buone relazioni fra i diversi gruppi. Relativamente alla religione, è stato notato che il dovere di
favorire le pari opportunità imporrebbe oneri piuttosto gravosi per il settore pubblico, relativi al trattamento delle diversità religiose presenti nel Regno Unito²³¹. L’art. 149.3 precisa, in questo senso, che allo scopo di «advance equality of opportunity» occorrerà «venire incontro alle necessità» («meet the needs») di chi presenta una determinata caratteristica protetta dalla legge. Le pubbliche autorità dovrebbero, quindi, promuovere attivamente le medesime opportunità per tutte le religioni e le credenze, rispondendo ai bisogni derivanti, ad esempio, dalle varie pratiche confessionali²³². Si configura, così, un impegno nell’attuazione di politiche a favore delle diversità (anche) religiose: una novità indubbiamente positiva per la tutela della libertà religiosa, ma che può avere effetti dirompenti e problematici a seconda del modo in cui verrà attuata la norma. Ci si è chiesti, ad esempio, come realizzare concretamente il «duty» di tutelare in modo paritario le specificità religiose – non sempre, peraltro, facilmente «accomodabili» – senza contraddire i principi cardine dell’ordinamento e il principio di neutralità della pubblica amministrazione ²³³.
Ora, la formula impiegata dall’art. 149, lungi dall’imporre un obbligo incondizionato o di risultato, prevede che le pubbliche autorità «must […] have due regard» per gli obiettivi di parità: sarà piuttosto agevole, di conseguenza, dimostrare che non è mancato un certo grado di attenzione in questo senso. Occorre tener presente, ad ogni modo, che i «public sector duties» non sono una mera esortazione per le autorità interessate e che, al contrario, negli ultimi anni si stanno consolidando meccanismi – anche giurisdizionali²³⁴ – per assicurarne la messa in atto. Un ruolo preponderante in questo senso è quello giocato dalla
Commission for Equality and Human Rights, istituita dall’Equality Act 2006, che tra i suoi compiti ha proprio quello di vigilare sull’attuazione delle politiche di pari opportunitಳ⁵. La Commissione, infatti, oltre a svolgere studi e indagini, produrre codici di condotta, offrire consulenza o mediazione tra le parti in caso di violazione della legislazione antidiscriminatoria, ha il potere di emettere una «compliance notice» (avviso di conformità) se ritiene che un soggetto non abbia adempiuto agli «equality duties»²³ . Normalmente, se il destinatario di tale provvedimento non si conforma ad esso entro 28 giorni, la Commissione può avviare un procedimento per obbligarlo ad agire nel senso indicato. Da notare che un’azione legale per far rilevare la mancata applicazione degli «equality duties» ex art. 149 dell’Equality Act 2010 può essere promossa sia da individui, sia dalla Commissione, mentre quest’ultima è competente in via esclusiva per quanto riguarda gli «specific duties» che potranno essere stabiliti in base agli articoli 153 e 154²³⁷. Alla luce di queste competenze della Commissione, la promozione delle diversità religiose nel Regno Unito – a fianco dell’obiettivo della non discriminazione – potrebbe divenire, a determinate condizioni, un interesse «enforceable». La tutela delle diversità nel Regno Unito, quindi, si arricchisce di nuovi strumenti, tra i quali alcuni indicano una prospettiva preventiva della discriminazione, attraverso la promozione della parità (o addirittura delle diversità). Questa prospettiva, di grande interesse per la tutela della libertà religiosa, costituisce anche un dato indicativo circa l’efficacia della legislazione antidiscriminatoria. Sembra, infatti, che il modello risarcitorio e di giustizia individuale sia tutto sommato scarsamente incisivo nel garantire la parità e, soprattutto, nel tutelare le diversità religiose²³⁸. Al contrario, azioni di prevenzione
e di promozione come quelle appena viste potrebbero fornire una maggiore tutela, direttamente rivolta alle categorie svantaggiate e predisposta ex ante. Si tratta di un’osservazione che può essere riferita anche agli altri Stati esaminati, i quali però sono rimasti legati a un modello più tradizionale del diritto antidiscriminatorio, senza predisporre strumenti simili agli equality duties. In conclusione, è interessante notare che con gli statutory duties l’ordinamento britannico ha affidato ai poteri pubblici il ruolo di tutelare attivamente la parità. Come si è visto, il diritto antidiscriminatorio delle origini è rivolto ai privati, con il fine di tutelare le parti deboli; più di recente, invece, sembra aprirsi ad altre soluzioni che coinvolgono le autorità pubbliche. È ancora presto per dire se tali soluzioni segneranno una nuova rotta per questa normativa. Certa è la constatazione che, nello sviluppo del diritto antidiscriminatorio come strumento di tutela delle diversità, emerge spesso l’insufficienza di rimedi classici, come quelli attuabili dai singoli e per via giudiziale²³ . Diventano, perciò, di particolare interesse le sperimentazioni nazionali di trattamento delle diversità, le quali, nella circolazione del diritto nello spazio europeo, possono indicare nuovi spunti per i differenti modelli di uguaglianza e di libertà religiosa ²⁴ .
¹ Per una ricostruzione del quadro normativo cfr. supra, cap. III, par. 6.
² La giurisprudenza nazionale su questo tema ricerca un equilibrio tra autonomia e libertà religiosa dell’organizzazione, da un lato, e libertà religiosa individuale
del lavoratore, dall’altro. Quest’ultima non potrà essere compressa eccessivamente dalla prima, in base al criterio della proporzionalità, di cui si è fatto cenno (cfr. supra, cap. II, par. 3; cap. III, par. 6). In tema, oltre alla bibliografia già ricordata supra, cap. III, par. 6.2, alcuni riferimenti alla giurisprudenza più recente si trovano in R. BENIGNI, L’identità religiosa nel rapporto di lavoro, cit., spec. p. 152 ss.; M. CORTI, Diritto dell’Unione europea e status delle confessioni religiose Profili lavoristici, in «Stato, Chiese e pluralismo confessionale», febbraio 2011 (anche per alcuni riferimenti alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo sul tema); per quanto riguarda la Francia F. MESSNER, P.-H. PRÉLOT, J.-M. WOEHRLING, Traité, cit., p. 1123; per il Regno Unito v. il rapporto di A. DONALD, op. cit., p. 94 ss.; più in generale sul tema J. PASQUALI CERIOLI, Parità di trattamento e organizzazioni di tendenza religiose nel «nuovo» diritto ecclesiastico europeo, in «QDPE», 2013, 1, p. 71 ss.; C. CARDIA, Voci in dialogo: organizzazioni, istituzioni di tendenza religiose e diritti delle parti. Prima voce, ivi, p. 203 ss.; N. COLAIANNI, Voci in dialogo: organizzazioni, istituzioni di tendenza religiose e diritti delle parti. Seconda voce, ivi, p. 215 ss.; A. MOTILLA, The right to discriminate: Exception to general prohibition, in M. HILL (ed.by), Religion and discrimination law, cit., p. 43 ss. e ivi gli altri contributi sui singoli Stati.
³ Come si è notato a più riprese nel cap. III, spesso la redazione delle norme di trasposizione delle direttive risente dell’approccio precedente al diritto antidiscriminatorio. Nella giurisprudenza, come si vedrà, spesso le norme antidiscriminatorie previgenti appaiono come uno strumentario consolidato, “concorrente” con le nuove disposizioni e i giudici si e italiani sovrappongono vecchie e nuove nozioni.
⁴ Cfr. il rapporto della FUNDAMENTAL RIGHTS AGENCY , Access to justice in cases of discrimination in the EU – Steps to further equality, Luxembourg, Publication Office European Union, 2012 http://tinyurl.com/prgabdu e l’Eurobarometro n. 393, Discrimination in the EU in 2012, Luxembourg, Publ. European Union 2012, all’indirizzo http://tinyurl.com/bv2zpqc.
⁵ Oltre a rilevare una minore frequenza di casi sulle discriminazioni religiose in Italia e in Francia, c’è da notare che spesso questi due Paesi affrontano i problemi della libertà e dell’uguaglianza in materia religiosa prevalentemente attraverso i principi costituzionali, oppure per mezzo di altri strumenti (ad esempio, le intese nell’ordinamento italiano). Al contrario, l’uso dei divieti di discriminazione, rivolti principalmente ai rapporti interprivati, è più comune nel Regno Unito, dove mancano sia “principi” asssimilabili a quelli costituzionali degli ordinamenti di civil law, sia una concezione pubblicistica dei diritti fondamentali. Questi ultimi, storicamente, negli ordinamenti di civil law nascono con il fine di garantire i cittadini di fronte ai poteri pubblici, mentre nel Regno Unito – come si è accennato supra, cap. III, par. 1.1 – si sviluppano nel diritto privato e non come limite alle autorità dello Stato. Ciò può spiegare, almneo in parte, il diverso approccio alla tutela della libertà e delle diversità religiose: maggiormente connesso al principio costituzionale di uguaglianza, e quindi con una scarsa giurisprudenza di merito, nei Paesi di civil law; con un ruolo preminente della normativa discriminatoria e della giurisprudenza relativa ai rapporti inter-privatistici, nel Regno Unito.
Ad esempio, come si è visto, la codificazione di una nozione oggettiva di discriminazione, assieme con le agevolazioni sul piano probatorio, consente alla vittima di dimostrare più agevolmente la discriminazione, senza dover provare l’intento soggettivo.
⁷ Cfr. supra, cap. III, spec. par. 1.2, 1.3 e 3.1.
⁸ Da questo punto di vista, la dottrina ha sottolineato che l’approccio classico al problema della discriminazione continua ad essere quello dei divieti sanciti dal codice penale, ad esempio con una concezione soggettiva del divieto di discriminazione (D. STRAZZARI, Discriminazione razziale e diritto, cit., p. 349 ss.). Più in generale, i divieti di discriminazione farebbero riferimento a un’accezione di uguaglianza che può essere definita “concreta” e che non si applica in modo ampio nell’ordinamento se, legato principalmente alla concezione filosofica e astratta dell’uguaglianza. Cfr. S. BRISSY,
Discriminations, cit., n. 4; P. WAQUET, Le principe d'égalité en droit du travail, cit., p. 281; F. CURTIT, , in M. HILL (ed. by), Religion and Discrimination Law in the European Union, cit., p. 152.
In particolare, l’art. 6 della Loi Le Pors n. 83-634 del 1983 vieta di operare discriminazioni (rectius «distinzioni») fondate sulla religione e garantisce la libertà d’opinione. Quanto alla parità nell’accesso all’impiego pubblico, si può ricordare l’art. 18 della medesima legge, che vieta le indagini sulle convinzioni religiose e su altri dati personali dei funzionari, in modo che esse non rilevino nella selezione; un obbligo di imparzialità e parità è stato ribadito poi dalla giurisprudenza. Tra le sentenze più rilevanti, si ricorda quella del Consiglio di Stato del 28 maggio 1954 (caso “Barel”), che collega non discriminazione e neutralità: «Le principe d'égal accès à la fonction publique constitue une [...] illustration du principe de neutralité du service public». Così, non sarà possibile, senza violare l’uguaglianza e la neutralità, selezionare un funzionario in base alle sue opinioni. Questo ragionamento, che riguardava le convinzioni politiche, può essere esteso senz’altro a quelle religiose. Si veda il rapporto sul sito del Conseil d’Etat «Presentation des Grands Arrets», http://tinyurl.com/pcfcj7a.
¹ Ad esempio, come vedremo tra breve, si sono giustificati in nome della laicità i divieti di portare indumenti o simboli religiosi nell’impiego pubblico. Cfr. HAUT CONSEIL A L'INTÉGRATION, Charte de la laïcité dans les services publics et autres avis, Paris, La Doc Française, mai 2009, http://tinyurl.com/nmutryx; sui diritti e doveri dei funzionari pubblici cfr. anche Les droits et les obligations, sul portale del Ministère de la Réforme de l'État, de la Décentralisation et de la Fonction Publique, http://tinyurl.com/b2py2fj.
¹¹ Si tratta sempre di un’interpretazione dell’uguaglianza strettamente collegata al principio di neutralità, come già osservato anche nel cap. III, par. 1.2. Cfr. HAUT CONSEIL À L’INTÉGRATION, De la neutralité religieuse dans l’entreprise. Rapport d’activité de la Mission Laïcité, in Rapport au Premier ministre 2011-2012, Paris, La Documentation Française 2012, p. 128 ss.; R.-S. ALOUANE, The practice of Religion in the French Public and Private
Workplace: in search of an Elusive Balance, in K. ALIDADI, M.C. FOBLETS, J. VRIELINK (eds.), A Test of Faith?, cit., p. 207 ss. (ivi anche per ulteriori riferimenti).
¹² In tema, anche per ulteriori riferimenti, F. MESSNER, P.-H. PRÉLOT, J.-M. WOEHRLING, Traité, cit., p. 1171 ss.; F. GAUDU, Droit du travail et religion, in«Droit Social», 2008, p. 959
¹³ Sui concetti di discriminazione si rinvia sempre al cap. II, par. 1.1.
¹⁴ Sul quadro normativo cfr. supra, cap. III, par. 3. Da ricordare che l’art. 6 della loi Le Pors non ha introdotto le definizioni sul modello europeo, ma utilizza il termine «distinction».
¹⁵ È ritenuto illegittimo un licenziamento espressamente motivato dall’appartenenza ad un movimento religioso di una collaboratrice scolastica: Cour Appel Melun, sent. 15 febbraio 2005 n. 01-36305 (il ricorso è stato introdotto ex art. 6 della legge Le Pors). Nel settore privato è stato ritenuto discriminatorio il licenziamento di un dipendente ebreo, conseguente al suo rifiuto di trattare con imprese con sede in Paesi ritenuti pericolosi per la sua appartenenza etnico-religiosa (Afghanistan, Algeria): Cass. Civ., sent. 12 luglio 2010, n. 08-45509.
¹ La giurisprudenza amministrativa ha ritenuto illegittime le indagini sulla credenza religiosa di un candidato un concorso e dei suoi familiari (Conseil d’Etat, 10 aprile 2009, n. 311888).
¹⁷ Questo criterio rimane costante: sia le pronunce più risalenti, sia quelle emesse
dopo l’attuazione delle direttive si limitano a ribadire la funzione originaria e classica dei divieti di discriminazione nel lavoro, quella, cioè, di evitare che la religione condizioni l’accesso ad un impiego o determini un licenziamento ideologico.
¹⁸ Come si è già ricordato, tale concetto non collima con la lettura nazionale dell’uguaglianza, formale prima che sostanziale, e con il “culto” della legge uguale per tutti. Per questo motivo, l’applicazione del diritto sovranazionale, che prevede tale nozione, è stata vista con sospetto e, come si è visto (cap. III, par. 3.1) nel recepimento delle direttive alcuni concetti sono stati introdotti solo in un secondo momento.
¹ La pronuncia di riferimento, anche per i casi successivi, è la decisione del Conseil d’Etat, Avis 4/6 SSR, 3 maggio 2000, n. 217017, "M.lle Marteaux".
² Conseil d’Etat, 15 ottobre 2003 n. 244428; Trib. istratif Versailles, 7 marzo 2007, n. 0504207 (reperibile in www.droitdesreligions.net). Entrambe sono relative a comportamenti di propaganda del proprio credo da parte di impiegati pubblici, classificati come atti “ostentatori” e di “proselitismo”, contrari al principio di neutralità (nel primo si trattava di uso di email per scopi personali, legati alla diffusione di un’associazione religiosa; nel secondo dell’invito fatto da un’impiegata ad alcuni colleghi a partecipare ad attività parrocchiali). Tra i doveri dei funzionari pubblici vi è, infatti, il dovere di riserbo (Les droits et les obligations, http://tinyurl.com/b2py2fj)
²¹ Oltre al parere del Conseil d’Etat del 3 maggio 2000, già citato, si può ricordare la sentenza Trib. . Lyon, 8 luglio 2003, n. 0201383, M. Nadjet Ben a.; Trib. . Paris, 22 febbraio 2007, n. 0415268, Mme Latifa.
²² Si ricordi che l’art. 6 della loi Le Pors garantisce la libertà di espressione dei
funzionari pubblici. L’espressione delle proprie convinzioni quindi, non sarà limitata in modo assoluto; si ammettono, tuttavia, per preservare la neutralità, solo le manifestazioni della religione discrete. Nelle sentenze, infatti, la valutazione riguarda talvolta il carattere «ostentatoire» di una pratica, come precisato, ad es., nella sentenza citata del Tribunal istratif di Versailles del 7 marzo 2007: quando si tratta di un simbolo (come il velo islamico) o di altra manifestazione esteriore ed evidente del proprio credo, si ritiene che tale comportamento sia contrario alla neutralità del pubblico impiego e si legittimano le restrizioni della libertà religiosa.
²³ Come nel caso analizzato dal Tribunale amministrativo di Versailles, citato nella nota precedente. Altri esempi sono ricordati nel rapporto del HAUT CONSEIL À L’INTÉGRATION, De la neutralité religieuse dans l’entreprise, cit., p. 139.
²⁴ Una resistenza ad usare i concetti del diritto antidiscriminatorio caratterizza spesso la giurisprudenza del Conseil d’Etat anche con riferimento ad altri fattori di discriminazione. Emblematica in questo senso la sentenza 14 novembre 2008, n. 311312, Fédération des syndicats généraux de l'Education nationale, che ha escluso una discriminazione indiretta nelle regole concorsuali relative a posti di insegnante di educazione fisica, le quali non prevedevano misure compensatorie per i disabili, ponendoli in una situazione di evidente svantaggio ed esclusione. In generale sul tema S. HENNETTE-VAUCHEZ, Discrimination indirecte, genre et liberté religieuse : encore un rebondissement dans les affaires du voile, «AJDA» 2012, 163 ss.
²⁵ Come sottolinea L. CLUZEL-MÉTAYER, Le principe d'égalité et de nondiscrimination dans la jurisprudence du Conseil d'État et de la Cour de cassation : analyse comparée dans le domaine de l'emploi, in «Revue Française Droit istratif (RFDA)» 2010, p. 309 ss., ando in rassegna le sentenze sulla discriminazione e l’uguaglianza.
² Ibidem. Cfr. supra, par. 1.2 e la bibliografia ivi citata.
²⁷ In questo senso è molto chiaro il parere del HAUT CONSEIL À L’INTÉGRATION, De la neutralité religieuse dans l’entreprise, cit., 136 ss., secondo il quale la neutralità è necessaria per evitare le discriminazioni e mantenere buone relazioni nell’ambiente lavorativo; al contrario, gli accomodamenti delle specificità religiose presentano il rischio di disgregazione e di una deriva “comunitarista”, tanto temuta dalla Francia repubblicana.
²⁸ Così, in alcuni casi nei quali i datori di lavoro avevano vietato alle dipendenti musulmane di portare il velo islamico si è proceduto a valutare se tali restrizioni erano finalizzate allo svolgimento di una particolare funzione o a perseguire uno scopo aziendale legittimo in base all’art. 1121 (già art. 120) del Code du travail. In particolare, si è tenuto conto del rapporto con la clientela nel commercio o di condizioni di sicurezza e di igiene. Cfr. Cour d’Appel Paris, sent. 16 marzo 2001, n. 99/31302; Cour d’Appel de Versailles, sent. 27 ottobre 2011, n. 10/05642, Mme Fatima L. c. Association Baby Loup (in www.droitdesreligions.net), nonché le sentenze dei Conseils de Prud’Hommes (giurisdizione di primo grado in materia di diritto del lavoro) di Parigi (17 dicembre 2002) e di Lyon (16 gennaio 2004) (citate supra, cap. III, nt 195 e commentate da J. SAVATIER, op. cit. In tema v. anche L. PERU-PIROTTE, Droit privé et religion, in B. DUARTE (dir.), Manifester sa religion, cit., p. 172 ss.
² Parlano di «elements objectifs étrangers à toute discrimination» sia il Conseil de Prud’Hommes de Paris, nella pronuncia cit. del 17 dicembre 2002, sia la Cour d’Appel de Paris nella sentenza d’appello sul medesimo caso (Soc. Teleperformance - Mlle Tahri, 19 giugno 2003, n. 03-30212). In questo caso, il licenziamento di una dipendente musulmana che portava il velo è stato ritenuto nullo, dato che la misura restrittiva della libertà religiosa non era giustificata, nella specie, da interessi aziendali oggettivi ed estranei alle cause di discriminazione. È stato invece pronunciato per giusta causa il licenziamento di una dipendente che non aveva adempiuto alle condizioni contrattuali per poter
rispettare i riposi dal lavoro prescritti dalla propria religione: ciò è stato ritenuto un’insubordinazione tale da giustificare la rottura del contratto (Cour d'appel de Versailles, 23 mars 2011, n. 10/03264). In quest’ultimo caso, peraltro, la religione non sembra rilevare affatto nella valutazione dei comportamenti del lavoratore da parte del giudice. Analogamente, anche se in relazione ad un impiego pubblico, Cour istrative d'Appel de Paris, 31 marzo 2009, N° 08PA01648: anche in questo caso si tratta di una controversia relativa a una richiesta di accomodamento dei turni di lavoro per motivi religiosi (nella specie: una dipendente avventista delle Poste chiedeva di non lavorare il sabato). L’organizzazione del lavoro voleva che tutti i dipendenti fossero disposti a lavorare il sabato, imponendo quindi una norma generale che poteva essere valutata attraverso il concetto di discriminazione indiretta. Quest’ultima, però, non viene neppure evocata. Si giustifica, invece, il trattamento sfavorevole affermando che esso non è motivato dall’appartenenza religiosa della ricorrente, né dalla «volonté de la hiérarchie de La Poste de la décourager dans sa pratique religieuse mais par le choix persistant et fautif de l'intéressée de ne pas assurer [...] son service le samedi», attribuendo perciò un rilievo alla volontà (elemento soggettivo) dell’impresa o dell’ente. Per altri esempi R.-S. ALOUANE, The practice of Religion, cit., 213 ss.
³ A differenza che nell’impiego pubblico, dove la garanzia di neutralità prevale sempre e non prevede una valutazione del caso di specie circa il bilanciamento tra libertà religiosa e altri interessi.
³¹ Ad. es. Cour Appel Paris 19 giugno 2003, n. 03/30212, cit.
³² Così Cour Appel Paris, sent. 16 marzo 2001, n. 99/31302; Cour istrative d'Appel de Paris, 31 marzo 2009, cit.
³³ Anche nelle ipotesi di discriminazione diretta, come già notato, la nozione di discriminazione non viene sviluppata, ma ci si limita a vietare il licenziamento discriminatorio in quanto attua un trattamento differenziato motivato dalla
religione.
³⁴ Oltre alle sentenze della Cassazione del 19 marzo 2013, sulle quali cfr. la nota seguente, si può ricordare – tra i rari casi in cui è stata rintracciata una discriminazione – la sentenza 11 gennaio 2012 della Cour de cassation, chambre sociale, n. 10-28213, relativa ad un caso di licenziamento seguito a una controversia sull’abbigliamento di un cameriere di un ristorante, al quale era stato vietato di indossava un accessorio di gioielleria femminile. A detta della Corte, tale restrizione aveva integrato una discriminazione fondata sul sesso e sull’aspetto fisico; manca, tuttavia, una ricostruzione della nozione di discriminazione e, inoltre, si fa riferimento sia all’art. 1132 del codice del lavoro, sia all’art. 1121-1. Interessante, poi, notare come una regola sull’abbigliamento, in questo caso, venga riconosciuta come discriminatoria, mentre ciò non avviene quando è in questione il bilanciamento tra regole religiose e laicità.
³⁵ Cour de cassation, Chambre sociale, sentenze 19 marzo 2013, n. 536 (ric. n. 11-28845), Baby Loup e n. 537 (ric. n. 12-11.690)Mme X c. La caisse primaire d’assurance maladie de Seine-Saint-Denis, et autres. In merito E. DOCKES, Liberté, laicité, Baby Loup: de la très modeste et très contestée résistance de la Cour de cassation face à la xénophobie montante, in Droit Social, 2013, p. 388 ss., P. ADAM, Baby Loup: horizons et défense d’une jurisprudence anathème, in Rev. Droit du travail, 2013, p. 385 ss.
³ Sent. Caisse primaire d’assurance maladie de Seine-Saint-Denis, «les principes de neutralité et de laïcité du service public sont applicables à l’ensemble des services publics, y compris lorsque ceux-ci sont assurés par des organismes de droit privé » e quindi il regolamento interno er auna restrizione legittima, perché « nécessaire à la mise en oeuvre du principe de laïcité de nature à assurer aux yeux des usagers la neutralité du service public».
³⁷ Da ricordare che la “neutralità” della norma e lo svantaggio determinatosi per gli appartenenti a una religione sono gli elementi che occorre considerare per
individuare una discriminazione indiretta (per la ricostruzione del concetto cfr. supra, cap. II, par. 1.1). In questi casi si, peraltro, non si procede nell’indagine degli altri elementi tipici della nozione di discriminazione indiretta, ad esempio il verificarsi di uno svantaggio non solo per la vittima della norma, ma anche, più in generale, per gli appartenenti a una religione. La dimensione collettiva della discriminazione indiretta, perciò, non emerge, in linea con la concezione se della libertà religiosa come diritto prevalentemente individuale.
³⁸ Cfr. L. CLUZEL-METAYER, Le principe d'égalité et de non-discrimination, cit., p. 314 ss. L’A. nota che, mentre nella giurisprudenza del Consiglio di Stato uguaglianza e non discriminazione sembrano confondersi nel medesimo concetto e spesso sono utilizzati indistintamente, la giurisprudenza della Cassazione è più chiara sul punto. Nella giurisprudenza di merito, peraltro, l’applicazione caso per caso delle norme antidiscriminatorie può portare ad “accomodare”, almeno in alcune circostanze, le esigenze religiose. Cfr. AST F., DUARTE B. (dir.), Les discriminations religieuses en Europe: droit et pratique, cit.; G. CACERES, Reasonable accommodation as a Tool to manage religious diversity in the workplace: What about the “transposability” of an American concept into the French Secular Context?, in A Test of Faith?, cit., p. 299 ss.
³ Ad esempio, al di fuori dell’ambito del lavoro, Cour d’Appel de Nancy, sent. 8 ottobre 2008, n. 616/2008, sul rifiuto di fornire beni e servizi a motivo della religione (nel caso di specie, l’accesso ad un agriturismo).
⁴ In tema cfr. supra, cap. III, par. 3.
⁴¹ Cfr. D. STRAZZARI, Discriminazione razziale e diritto, cit., p. 358 ss. e im; sul ruolo della non discriminazione come strumento di giustizia «ridistributiva» cfr. invece M. ELÓSEGUI ITXASO, El Concepto Jurisprudencial de Acomodamiento Razonable, p. 205.
⁴² Ad esempio nella sent. della Cour d’Appel de Paris, 8 giugno 2010, n. 08/08286.
⁴³ Il ragionamento riguarda, invece, caso per caso, la caratterizzazione dell’istituto di formazione e l’applicazione o meno della legge 15 marzo 2004 n. 2004-228, Loi sur le signes religieux ostensibles dans les établissement d’enseignement public che vieta, come noto, i simboli religiosi ostensibles nelle scuole pubbliche.
⁴⁴ In alcune sentenze è evidente il rifiuto di prevedere eccezioni per le specificità confessionali o anche solo una flessibilità normativa per “accomodare” le pratiche religiose. Ad esempio, nella sent. della Cour istrative d’Appel de Paris, 31 marzo 2009, Mme Henriette c. Poste, si afferma che l’impegno ad assicurare il servizio il sabato si applicava a tutti e che non era possibile dispensare la ricorrente (di religione avventista) da tale obbligo. Non si usa il concetto di discriminazione e quindi non è possibile controllare tale comportamento sotto il profilo della proporzionalità e necessità della misura neutra. Anche in altri casi, non relativi al lavoro, si rifiuta di prevedere un’eccezione a una regola neutra per favorire l’esercizio della libertà religiosa: tra le altre, Cour de cassation, chambre civile, sent. 18 dicembre 2002, n. 0100519, dove si dichiara che nella gestione di un immobile non sussiste l’obbligo di accomodamenti per consentire agli ebrei di rispettare il riposo sabbatico (nella specie, si sarebbe trattato di predisporre un sistema di apertura del portone di uno stabile senza che gli inquilini ebrei dovessero digitare, il sabato, un codice per l’accesso).
⁴⁵ G. CACERES, Reasonable accommodation, cit., p. 303 ss.; F. Ast, op. cit., im.
⁴ Soprattutto successivamente alle sentenze del 19 marzo 2013, si è sviluppato
in Francia un ampio dibattito, politico, dottrinale e anche a livello di opinione pubblica. La questione affrontata, infatti, era per entrambi i casi la possibilità di portare simboli religiosi nell’ambiente di lavoro e aveva suscitato l’interrogativo sull’opportunità di estendere l’obbligo di neutralità a determinati ambiti disciplinati dal diritto privato, limitando sì l’espressione della libertà religiosa, ma preservando l’uguaglianza e il “vivre ensemble”. In maggio 2013 si è anche avviato il dibattito in Parlamento su una proposta di legge in merito (E. CIOTTI, Rapport fai tau nom de la Commission des Lois Constitutionnelles, de la législation et de l’istration Générale de la République sur la proposition de loi n. 998 de M. C. Jacob [et al.] relative au respect de la neutralité religieuse dans les entreprises et les associations, Ass. Nationale, rapport n. 1084, 29 maggio 2013).
⁴⁷ Organo istituito dalla legge 30 dicembre 2004, n. 2004-1486 (Loi portant création de la Haute Autorité de Lutte contre les Discriminations et pour l'Egalité (H.A.L.D.E.)). La loi organique n. 2011-333 del 29 marzo 2011 ha istituito il Défenseur des droits, che accorpa e assume le funzioni della HALDE e di altri organismi per la tutela dei diritti umani. Alla HALDE (e adesso al Difensore) sono stati attribuiti compiti di studio, sensibilizzazione e sostegno alle vittime delle discriminazioni, ma anche, e più incisivamente, poteri di indagine, di mediazione tra le parti, di intervento nei procedimenti di accertamento delle discriminazioni. Il collegio dell’Haute Autorité può essere adito o può avviare un’indagine per sua propria iniziativa, per accertare l’esistenza di una discriminazione: i risultati di questa fase sono pubblicati in una deliberazione. Nel caso in cui sia stata individuata una discriminazione, la HALDE potrà formulare una raccomandazione, proporre una mediazione o trasmettere il dossier agli organi giudiziari competenti (raramente, però, è stata avviato un procedimento in seguito a sollecitazione della HALDE). In tema cfr. G. SGUEO, Il nuovo sistema di difesa civica se: dal Mediatore della Repubblica al Difensore dei diritti, in «Giornale dir. Amm.», 8/2011, p. 3 ss., e il sito http://halde.defenseurdesdroits.fr.
⁴⁸ Tra le altre, v. le deliberazioni 14 maggio 2007, n. 2007-117; 3 sett. 2007, n. 2007-210; 2 giugno 2008, n. 2008-167, reperibili in http://halde.defenseurdesdroits.fr. Per approfondimenti cfr. F. AST, L’apport du
droit à la non-discrimination à la protection du pluralisme religieux, cit., p. 177 ss.
⁴ Ad es. délibération HALDE 15 settembre 2008, n. 2008-193.
⁵ Ad esempio délibération HALDE 6 novembre 2006, n. 2006-242.
⁵¹ Così la délibération n. 2008-10 (interessante l’accostamento tra esigenze religiose e di salute, quasi a dire che non si tiene conto di un’identità religiosa particolare, ma di più interessi che potrebbero risultare violati dalla norma neutra). In altri casi, relativi a simboli religiosi e all’abbigliamento, si è sottolineato che è necessario esaminare le singole fattispecie e valutare la proporzionalità tra la restrizione della libertà religiosa e le esigenze aziendali (deliberazioni n. 2009-117; 2008-32; 2009-311). Ancora, si è analizzata la questione dei giorni festivi religiosi diversi da quelli stabiliti per legge: in alcuni casi si è riconosciuto che c’erano stati tentativi di “aggiustamento” e perciò non c’è stata discriminazione (n. 2009-151 e 2008-34), in altri l’accomodamento necessario sarebbe mancato (n. 2007-301).
⁵² F. AST, L’apport du droit à la non-discrimination, p. 179.
⁵³ Atteggiamento che si rileva anche in gran parte della giurisprudenza citata, che non utilizza mai il concetto di discriminazione indiretta.
⁵⁴ Al di là delle decisioni della HALDE, autorità amministrativa appositamente preposta all’analisi dei casi di discriminazione, alcuni “accomodamenti” sono stati predisposti da decisioni di giudici o amministratori in alcuni casi concreti: cfr. quelli riferiti da F. AST, L’apport du droit à la non-discrimination, p. 215 e
230.
⁵⁵ La dottrina se ha sottolineato, a tal proposito, il diverso approccio dei giudici europei rispetto alla tradizione nazionale in materia (v. F. AST, L’apport du droit à la non-discrimination, p. 204 ss.), indicando nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo (specie nella sent. Thlimmenos, cit.) un più deciso indirizzo verso il dovere degli Stati di predisporre aggiustamenti o discipline differenziate per evitare una discriminazione indiretta.
⁵ Come nei casi, citati, dei simboli religiosi, specie nell’ambito scolastico.
⁵⁷ La Halde è stata sostituita, come si è detto supra, nota n. 47, dal Defenseur des Droits. Peraltro, non erano mancati pareri sfavorevoli relativamente all’attività e ai poteri, secondo alcuni eccessivi, attribuiti alla HALDE (per tutti, Y. MAYAUD, La HALDE, une trop «haute» autorité?, Droit social 2007 p 930 ss.; cfr. anche F. CURTIT, , cit., 148 ss.
⁵⁸ R. BOTTA, Dieci anni di giurisprudenza su fattore religioso e diritto del lavoro, cit., p. 740 ss.
⁵ Per questo motivo la direttiva sottolinea l’impegno degli Stati a offrire le corrette garanzie procedurali, nonché di mettere in atto misure di promozione dei diritti dei lavoratori (attraverso, ad esempio, il dialogo sociale), impegno non del tutto attuato dall’Italia. Un’inversione di questa tendenza, con una maggiore presenza di contenzioso relativo alle esigenze delle minoranze religiose, è stata notata – non a caso per altri Paesi, come il Regno Unito – da J. RINGELHEIM, Religion, Diversity and the Workplace. What Role for the Law?, in K. ALIDADI et al. (eds.), A test of faith?, cit., p. 338.
Con riferimento alla giurisprudenza in tema di discriminazioni etniche, ma con rilievi validi in generale, cfr. L. MUGHINI, Rassegna della giurisprudenza in materia di azione civile contro la discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, in G. DE MARZO, M. CAPPONI (a cura di), Contrastare le discriminazioni, Firenze 2011, spec. p. 136 ss.
¹ Di cui si è detto supra, cap. III, par. 1.3.
² Ad esempio, una serie di sentenze hanno preso in esame la discriminazione fondata sull’origine etnica e la cittadinanza, cfr. la rassegna di A. CASADONTE, A. GUARISO, L’azione civile contro la discriminazione: rassegna giurisprudenziale dei primi dieci anni, in «Diritto, immigrazione e cittadinanza», 2010, 2, p. 59 ss.
³ N. COLAIANNI, Voci in dialogo: organizzazioni…, cit., p. 223, nota per esempio che «i divieti di discriminazione, collocati nell’art. 3 Cost., sono stati prevalentemente teorizzati e applicati all’interno del principio di eguaglianza» e che ciò ha impedito un loro «approfondimento autonomo».
⁴ La vicenda ha visto da un lato un ricorso da parte del giudice alla giustizia amministrativa, per chiedere la rimozione del crocifisso; dall’altro un doppio procedimento (penale e disciplinare) nei confronti del Tosti per omissione di atti d’ufficio. In merito cfr. M. CROCE, Il «caso Tosti»: un’altra «vittoria di Pirro»?, in «Quad. Cost.», 2011, n. 4, p. 949 ss.; S. LARICCIA, Poco coraggio e molte cautele in una sentenza della Corte di Cassazione sul tema della presenza dei simboli religiosi nelle aule di giustizia, in «Giur. Cost.», 2009; le pronunce e ulteriore documentazione si trovano nel sito dell’UAAR, Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti www.uaar.it.
⁵ Analoghe osservazioni si possono esprimere per quanto riguarda il caso
“Galvagno”, un ispettore di polizia che aveva lamentato la presenza di immagini sacre presenti negli edifici del Comune presso il quale lavorava. Nella sentenza di primo grado il giudice aveva riscontrato una violazione della libertà religiosa del ricorrente, ateo. In appello, il Tribunale di Catania (sez. Paternò, sent. 22 gennaio 2008) ha respinto l’esposto presentato da Galvagno, sulla scorta della propria incompetenza sulla materia e in seguito la Cassazione (sent. 30 luglio 2009, n. 17789/09) ha riconfermato l’inammissibilità del ricorso. Le argomentazioni seguono criteri del tutto diversi da quelli del diritto antidiscriminatorio, benché si faccia riferimento ai diritti soggettivi del lavoratore, tra cui quelli di cui all’3 della Costituzione.
Analizzato in prima istanza dal Tribunale Civile di Terni, ordinanza 24 giugno 2009 e in composizione collegiale, su reclamo, con ordinanza 5 ottobre 2009. Per documenti e approfondimenti si veda il sito dell’UAAR, www.uaar.it.
⁷ Tribunale di Terni, ordinanza 24 giugno 2009, in www.olir.it.
⁸ Peraltro, appare interessante il riferimento alla volontà della classe nel gestire questo tipo di problematiche, ma dal punto di vista delle norme antidiscriminatorie la soluzione del caso non segue criteri del tutto corretti.
Sulla definizione europea oggettiva della discriminazione e delle molestie cfr. supra, cap. II, par. 1; della persistenza di elementi soggettivi in alcuni Stati si è detto a proposito della Francia, ma anche a proposito della tendenza italiana previgente alle direttive (supra, cap. III, par. 3 e 4, e cap. IV par. 2.1).
⁷ Tar Toscana, Sezione II, sent. 4 novembre 2009, n. 1575, in www.olir.it.
⁷¹ Si afferma, in proposito che «per potersi parlare di atto discriminatorio, occorre, mutuando la giurisprudenza formatasi in tema di discriminazioni perpetrate dal datore di lavoro in danno dei suoi dipendenti […], che l’atto stesso sia qualificato da tipici motivi illeciti, cioè dall’intento del datore di lavoro (qui, della P.A.) […] di nuocere ad altri lavoratori, a causa, tra l’altro, del loro atteggiamento religioso» (corsivo mio). Da notare, ad ogni modo, che il ricorso è stato presentato al giudice amministrativo e non al giudice ordinario ex. art. 44 del d.lgs. n. 286/1998, il che avrebbe consentito di utilizzare i parametri del giudizio antidiscriminatorio.
⁷² TAR Puglia, sentenza 14 settembre 2010, n. 3477 (in OLIR.it, http://shar.es/zJmwf).
⁷³ A tal fine, si sottolinea come lo svantaggio potenziale possa essere fatto rilevare anche da parti terze. Si stabiliscono, a questo proposito, alcuni criteri circa la legittimazione degli interventi ad adiuvandum da parte di associazioni e organizzazioni, il cui interesse per la tutela dei diritti richiamati nel caso di specie dovrà risultare dagli scopi indicati dai loro statuti.
⁷⁴ Nel caso di specie, il riferimento alle convinzioni personali (il fatto, cioè, che gli aspiranti ai posti nei consultori fossero «non obiettori») avrebbe dovuto essere un requisito «essenziale e determinante» ai fini dello svolgimento della mansione per non essere qualificato come discriminatorio. Fatto che non si è verificato e che ha consentito di rintracciare una discriminazione vietata.
⁷⁵ Trib Brescia, ordinanza 29 novembre 2010, n. 2789-29 (in «D&L» 2011, n. 3, con nota di V. PROTOPAPA, Sul divieto di discriminare sulla base delle convinzioni personali: il caso del "sole delle Alpi") e ord. 7 febbraio 2011, n. X7 “CGIL c. Istituto comprensivo di Adro” (in «D&L» 2011, n. 4, p. 992 ss., con nota di V. PROTOPAPA, Il d.lgs. 216/2003 alla prova dei “Soli padani”).
⁷ Si trattava del simbolo del “Sole delle Alpi”: secondo la parte resistente, esso era utilizzato come simbolo della cultura e dell’identità regionale, mentre in base alla ricostruzione dei giudici, essendo uno stemma riconducibile alla Lega Nord, costituiva un’espressione ideologica, che poneva in condizioni di svantaggio i lavoratori dell’istituto.
⁷⁷ L’indagine, secondo il giudice, deve svolgersi «sull’interferenza tra la condotta indesiderata e i fini o gli effetti che la stessa determina sull’ambiente lavorativo e, quindi, sulle condizioni di lavoro di chi in quell’ambito debba operare esprimendo le convinzioni personali»: tale interferenza sarebbe sufficiente a dimostrare una molestia. Altra cosa è ritenere «che la “saturazione” ideologica o partitica dell’ambiente possa attentare […] alla persistenza delle convinzioni personali di ciascuno». Quest’ultima ipotesi sarebbe da escludere nel caso della semplice presenza, anche diffusa, di un simbolo. Si fa anche riferimento, in questo caso, alla neutralità dell’istruzione pubblica, per rafforzare l’affermare del carattere “inquinante” e “molesto” del Sole delle Alpi; sembra, però, che il giudice voglia scongiurare l’ipotesi che ogni presenza di simboli ideologici e religiosi, in forza della laicità della scuola, sia ritenuta discriminatoria. Il pensiero va, mutatis mutandis, alle conseguenze di un simile automatismo per quanto riguarda la presenza del crocifisso nei luoghi pubblici, spesso fatta salva proprio in forza di un suo presunto valore per la neutralità e il pluralismo scolastico. Cfr., tra l’amplissima bibliografia, C. CARDIA, Identità religiosa e culturale europea. La questione del crocifisso, Torino, Allemandi 2010; S. MANCINI, Il potere dei simboli, i simboli del potere. Laicità e religione alla prova del pluralismo, Padova, Cedam, 2008; E. DIENI, A. FERRARI, V. PACILLO, I simboli religiosi tra diritto e culture, cit.
⁷⁸ La tutela antidiscriminatoria ha anche un «carattere anticipato e preventivo rispetto al realizzarsi della lesione del diritto soggettivo» e «ben può precedere l’individuazione della singola persona lesa» (Trib. Brescia, ord. 29 nov. 2010, citata). Analogo ragionamento nella sent. del TAR Puglia del 14 settembre 2010, citata.
⁷ L’interpetazione oggettiva della discriminazione, come si è già notato, fatica ad affermarsi negli ordinamenti nazionali, probabilmente perché implicherebbe una verifica molto più attenta degli effetti discriminatori e una maggiore attenzione per la tutela delle diverse identità.
⁸ Se solitamente non si svolge una valutazione degli effetti discriminatori, ma si tende a verificare altri elementi (anche quelli soggettivi), si può immaginare che ancor più difficilmente si procederà – almeno attraverso queste norme – a verificare gli svantaggi derivanti da norme vigenti, che possono creare discriminazioni indirette “di diritto”. Cfr. D. STRAZZARI, Discriminazione razziale e diritto, cit., p. 9 ss.
⁸¹ Così la Corte di Cassazione, sent. 16 febbraio 2011, caso “Volpi c. Helitalia”.
⁸² Tribunale Ariano Irpino, ordinanza 3 febbraio 2004, in «Giur. Civ.», 2004, p. 662 ss., con nota di M. VACCARI, Le molestie ai danni del lavoratore: tra discriminazione e mobbing.
⁸³ Nella specie, il ricorrente aveva affidato lo svolgimento di test attitudinali in azienda a un’organizzazione religiosa (dalle note di cronaca si apprende che si trattava di Scientology), sulla quale non aveva effettuato un preventivo monitoraggio. Ciò costituiva una colpa in vigilando, a prescindere dall’appartenenza del lavoratore a tale organizzazione.
⁸⁴ Il tribunale ricorda, in particolare, che per qualificare un atto come discriminazione o molestia, occorre dimostrare il suo collegamento con uno dei fattori contemplati dalla normativa europea. E quanto al concetto di «convinzioni personali» si specifica che esse non sono «le mere idee che ciascuna persona esprime sui diversi fatti del vivere quotidiano, bensì le sue convinzioni politico-ideologiche, vale a dire quel bagaglio di esperienze,
convincimenti ideologici, politici, morali e sociali, che concorre a formare la personalità di un individuo, differenziandolo e al tempo stesso qualificandolo come tale nella generalità dei rapporti sociali».
⁸⁵ Corte d’Appello di Roma, sez. lavoro, sent. 19 ottobre 2012, “Fabbrica Italia Pomigliano c. FIOM-CGIL Nazionale”. Per alcuni commenti A. GUARISO, Pronuncia antidiscriminatoria, autonomia privata e ripristino della parità, in «D&L» 2012, p. 661 ss.; L. CALAFÀ, La discriminazione per orientamento sindacale: prima nota a Corte d’appello Roma 19 Ottobre 2012, nella pagina web della CGIL http://tinyurl.com/otdntjr; S. BORELLI, Il diritto antidiscriminatorio nella vicenda Fiat/Fabbrica Italia Pomigliano (Fip)-Fiom, in «D&L» 2012, p. 369 ss.
⁸ La riconducibilità delle opinioni sindacali nel genus delle convinzioni personali permetteva, nel caso di specie, l’applicazione delle norme processuali relative al giudizio antidiscriminatorio (ora disciplinate, come si è visto, dal d.lgs. n. 150/2011, cfr. supra, cap. III, par. 4.1, nota n. 228). Si tratta di una delle prime applicazioni del decreto del 2011 e, come sottolineato nei primi commenti alla sentenza, il problema di determinareil fattore di discriminazione potrà riproporsi anche in futuro in giurisprudenza. Cfr. L. CALAFÀ, op. ult. cit.
⁸⁷ Interessante anche che il giudice si soffermi sulle modalità con cui si prova che il trattamento sfavorevole sia realmente collegato alle opinioni sindacali. A tal fine, viste le peculiarità del caso, si è fatto ricorso anche a dati statistici, oltre che ad elementi di fatto; inoltre, in linea con l’orientamento europeo, si è sottolineato che spettava alla resistente in giudizio il dovere di addurre prova contraria per dimostrare l’insussistenza della discriminazione (provando, cioè, che la mancata assunzione era avvenuta per motivi oggettivi e non discriminatori).
⁸⁸ Cfr. supra, cap. II, par. 3. È opportuno ricordare che i requisiti occupazionali sono previsti dalla direttiva come uniche cause di giustificazione della
discriminazione diretta.
⁸ Secondo la Corte «la violazione del principio di non discriminazione ha una portata assolutamente oggettiva e prescinde dalla volontarietà e dalla consapevolezza del comportamento». Affermazione che ha allineato la nozione della discriminazione con quella europea, mentre la Cassazione, nel caso “Volpi c. Helitalia” citato, faceva ancora trasparire una certa considerazione degli elementi soggettivi.
A quelli già citati si può aggiungere il caso della giornalista Tiziana Ferrario, che aveva subito trattamenti sfavorevoli (revoca di incarichi, ecc.) da parte della RAI: secondo i giudici, lo svantaggio subito era discriminatorio in base ai motivi elencati dall’art. 2 del d.lgs. n. 216/2003, dal momento che la Ferrario aveva «manifestato convinzioni personali non coincidenti con quelle della direzione» (così il Tribunale di Roma nell’ordinanza 24 febbraio 2011; cfr. anche l’ordinanza, su ricorso d’urgenza, del 28 dicembre 2010).
¹ Cfr. P. BELLOCCHI, Pluralismo religioso, discriminazioni ideologiche e diritto del, cit., p. 167; M. AIMO, Le discriminazioni basate sulla religione, cit., p. 43 ss.
² Che ha distinto le convinzioni (beliefs) dalle mere opinioni, poiché queste ultime non sarebbero atte a indirizzare la vita di un individuo con un certo grado di cogenza Cfr. supra, cap. II, par. 2, nota n. 86. A tal proposito, peraltro, la Corte di Roma tiene a precisare che nel caso di specie l’affiliazione sindacale si è manifestata in una particolare concezione del lavoro e ha ispirato determinati comportamenti, come una vera e propria credenza.
³ Da notare che nel diritto del lavoro italiano i divieti di discriminazione religiosa sono storicamente affiancati dalle previsioni sui divieti di licenziamento
per ragioni ideologiche e sindacali (cfr. cap. III, par. 4.1).
⁴ Che infatti non mancano di essere riportate, specie dalla stampa (solo per citare uno dei casi più recenti: Z. DAZZI, Milano, discriminata per il velo: "Vuoi lavorare? Allora toglilo", in “La Repubblica”, 12 Aprile 2013, http://tinyurl.com/pj2m5tu. Si può vedere anche, in OLIR.it, la rassegna settimanale di cronaca a cura di L. De Gregorio http://tinyurl.com/pd69a23.
⁵ In questo senso, come si è visto, i giudici talvolta rimangono ancorati ai vecchi concetti “soggettivi” di discriminazione, chiedendo una prova eccessiva ai ricorrenti.
Cfr. TAR Puglia, 14 settembre 2010, cit. (supra, note 71-72) e le ordinanze nel caso della scuola di Adro (supra, nota n. 75). In generale sul tema A. CASADONTE, A. GUARISO, L’azione civile contro la discriminazione, cit., im; L. MUGHINI, Rassegna, cit., p. 108 ss.
⁷ L. MUGHINI, Rassegna della giurisprudenza, cit., p. 138 ss. Da ricordare anche che è mancata in Italia un’esperienza come quella della HALDE se, che ha costituito un punto di riferimento sia per ottenere pareri, sia per tentare una mediazione tra le parti o agire in giudizio a fianco delle vittime della discriminazione (cfr. supra, par. 2.2).
⁸ M. CAPPONI, Il nuovo diritto processuale, cit., p. 201 ss. sottolinea che gli strumenti del diritto antidiscriminatorio non sono ancora divenuti oggetti della “cassetta degli attrezzi” degli operatori del diritto.
Approccio già evidenziato per quanto riguarda la Francia (supra, par. 2.1). Cfr.
N. FIORITA, Uguaglianza e libertà religiosa negli “anni zero”, cit., p. 33; M. CAPPONI, op. ult. cit., loc. cit., dove si afferma però che per taluni pregiudizi e svantaggi consolidati, non è conveniente né sufficiente un intervento del giudice. In questo senso, come si vedrà infra, sezione II, altri strumenti – come le azioni positive o gli equality duties – possono offrire una maggiore tutela, prevedendo meccanismi preventivi o promozionali, non limitandosi a reprimere ex-post singoli atti di discriminazione.
¹ Si tratta di regolamenti comunali che vietano alcune attività lavorative e commerciali, come i ristoranti etnici e venditori di kebab, nei centri storici. Tali regolamenti sono stati dichiarati discriminatori, oltre che contrari alla libera concorrenza, dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, cfr. bollettino n. 35 del 17 settembre 2012 http://tinyurl.com/ozp9sze). Cfr. N. FIORITA, Uguaglianza e libertà religiosa negli “anni zero”, cit., p. 31 ss.; in generale v. anche A.G. CHIZZONITI, Il rapporto fra istituzioni civili e soggetti religiosi collettivi a livello amministrativo; interventismo, sussidiarietà e rapporti con le autonomie, in G. MACRÌ, M. PARISI, V. TOZZI, Proposta di riflessione, cit., p. 104 ss.
¹ ¹ Cfr. per tutti A. FERRARI, La libertà religiosa in Italia. Un percorso incompiuto, Roma, Carocci 2012, p. 79 ss.
¹ ² Tribunale di Brescia, ordinanza 29 gennaio 2010, n. 71 (in OLIR.it, http://tinyurl.com/kump5lt, cfr. N. FIORITA, L. JOVANE, Commento all’ordinanza del giudice di Brescia, dd. 29 gennaio 2010, n. 71 concernente il carattere discriminatorio dell’ordinanza del Sindaco di Trenzano (Brescia) n. 312 dd. 5 dicembre 2009 relativa all’uso della lingua italiana nelle riunioni pubbliche e al termine di preavviso all’Autorità di Pubblica Sicurezza per la promozione di funzioni o pratiche religiose aperte al pubblico, in www.ASGI.it, 2010, all’indirizzo http://tinyurl.com/kc3mov8) sulla legittimità di un’ordinanza del sindaco di Trenzano relativa alla «disciplina delle riunioni pubbliche o in luoghi aperti al pubblico da parte di Associazioni, comitati o enti che perseguono scopi culturali, religiosi o politici». Quest’ultima imponeva l’uso della lingua italiana
nelle riunioni pubbliche e obbligava a dare un preavviso all’Autorità locale di Pubblica Sicurezza per le cerimonie o pratiche religiose aperte al pubblico e svolte fuori dai luoghi destinati al culto. Tale ordinanza, come altri provvedimenti dei sindaci, era stata emanata sulla base del d.lgs. 18 agosto 2000 n. 267, Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, il quale dispone che «il sindaco, quale Ufficiale del Governo, adotta con atto motivato provvedimenti, anche contigibili ed urgenti nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento, al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana» (art. 54, come modificato dalla l. n. 125 del 24 luglio 2008). Da ricordare che, dopo l’intervento della Corte costituzionale (sent. 7 aprile 2011 n. 115), i provvedimenti in questione sono ammessi solo se contigibili e urgenti.
¹ ³ Il tribunale, infatti, ha riconosciuto sì una disparità di trattamento nell’imposizione dell’uso della lingua italiana nelle riunioni (requisito che sarebbe stato irragionevole e non motivato, più che discriminatorio), mentre ha negato il carattere discriminatorio dell’altro elemento contestato, ovvero l’obbligo di preavviso. A suo parere, tale obbligo non costituisce discriminazione poiché «si rivolg[e] a tutte le pratiche religiose (di qualsiasi confessione)» e non differenzia il trattamento di una o dell’altra. In questo modo non si è tenuto in considerazione che il concetto di discriminazione indiretta si riferisce proprio a norme che si applicano a tutti in egual maniera e che risultano più svantaggiose per alcuni (in questo caso, l’obbligo di preavviso può creare, effettivamente, un particolare aggravio nell’esercizio della libertà religiosa per le confessioni che incontrano difficoltà nell’ottenere un luogo di culto stabile all’interno di un territorio).
¹ ⁴ Ordinanza 26 febbraio 2009. Il testo dell’ordinanza e la ricostruzione del caso sono in OLIR.it, http://shar.es/zJmOR.
¹ ⁵ Si afferma, infatti, che «l’imputato […] è stato invitato a togliere il copricapo, così come sarebbe avvenuto per qualsiasi altra persona presente in udienza», senza verificare se un simile criterio applicabile a tutti potesse risultare
svantaggioso per alcuni, a motivo della religione.
¹ È vero, però, che in seguito a questo caso il Consiglio Superiore della Magistratura ha deciso che «deve essere garantito il pieno rispetto di quelle condotte che, senza recare turbamento al regolare e corretto svolgimento dell’udienza, costituiscono legittimo esercizio del diritto di professare il proprio culto, anche uniformandosi ai precetti che riguardano l’abbigliamento e altri segni esteriori», delibera 22 febbraio 2012, http://shar.es/II2VN.
¹ ⁷ Tar Toscana, sent. 4 novembre 2009, citata. Da notare, sempre a proposito della disattenzione o difficoltà nell’applicazione delle norme antidiscriminatorie, che il ricorso in questo caso non è stato ai sensi dell’art. 44 del d.lgs. n. 286/1998 o del d.lgs. n. 216/2003.
¹ ⁸ Pretura Bologna, Ordinanza 7 marzo 1996, in «Riv. It. Dir. lavoro» , 1996, II, 826 ss., con nota di G. PERA; Pretura Roma, 5 gennaio 1999, in «Dir. Ecclesiastico», 2000, I, 95 ss., con nota di T. RIMOLDI, ibi, 101 ss. e di C. VALSIGLIO, ibi, 114 ss.). Tribunale ordinario di Roma – I Sezione Lavoro, sentenza 26 marzo 2002 (le ultime due sul caso “Mascherini”). In tema cfr. il mio Festività religiose, cit., p. 119 ss.
¹ Tale “non-efficacia” del diritto antidiscriminatorio, peraltro, finisce per porre in luce la posizione di particolare svantaggio di quelle confessioni che non hanno stipulato un’intesa con lo Stato italiano e che non possono beneficiare né degli “accomodamenti” disposti dalle norme pattizie, né di un’effettiva applicazione dei divieti di discriminazione. Per una riflessione di più ampio respiro sul ruolo delle intese e del diritto “comune” di libertà religiosa nella gestione delle diversità cfr., di recente, A. FERRARI, Libertà religiosa e nuove presenze confessionali (ortodossi e islamici): tra cieca deregulation e super-specialità, ovvero del difficile spazio per la differenza religiosa, in «Stato, Chiese e pluralismo confessionale» (www.statoechiese.it), luglio 2011..
¹¹ Ad esempio, alcuni accomodamenti sono previsti a livello di singole imprese o nella contrattazione collettiva (cfr. gli esempi già citati da N. FIORITA, L’Islam nei luoghi di lavoro: considerazioni introduttive sul ricorso alla contrattazione collettiva, in «Coscienza e Libertà», 2005, p. 9 ss., nel mio Festività religiose, cit., p. 104 ss.; cfr. anche A. DE OTO, Precetti religiosi, cit.).
¹¹¹ M. CAPPONI, Il nuovo diritto processuale, cit., p. 281 ss., sottolinea il significato sanzionatorio/deterrente delle norme antidiscriminatorie, che darebbero, tra l’altro, un peso particolare ai soggetti privati nella tutela della parità e delle diversità, proprio nel momento in cui gli interventi dello Stato sociale in questo senso manifestano non poche difficoltà.
¹¹² Cfr. supra, par. 1 e cap. III, par. 1.1.
¹¹³ Sul quale v. cap. III, par. 1.2 e 1.3.
¹¹⁴ Cfr. A. DONALD, Religion or belief, equality and human rights, cit., p. 45.
¹¹⁵ La nuova definizione (sulla quale cfr. supra, cap. III, par. 2.2), parla di discriminazione «because of religion», suggerendo che la motivazione dell’atto sfavorevole abbia un peso. In realtà, la struttura consolidata del giudizio antidiscriminatorio continua a dare rilievo solo agli elementi oggettivi della nozione della discriminazione. Quanto alla previsione sulla discriminazione fondata sulla religione di altri soggetti (“discrimination by association”) e alla possibilità che essa si fondi su una supposizione relativa all’appartenenza religiosa (“discrimination on perception”), la giurisprudenza non si è finora pronunciata, almeno con riguardo alla religione.
¹¹ Così si esprime la sent. dell’Employment Appeal Tribunal del 31 ottobre 2007, UKEAT/0223/07/CEA, McClintock v. Department of Constitutional Affairs: «to constitute a belief there must be a religious or philosophical viewpoint in which one actually believes; it is not enough to have an opinion based on some real or perceived logic or based on information or lack of information available» (par. 45). A questa affermazione si fa riferimento anche in vari altri casi successivi.
¹¹⁷ È la già citata sentenza Grainger PLC & others v. Nicholson che, evocando anche la giurisprudenza della Corte europea, ha stabilito uno schema per sottoporre a test le convinzioni personali e decidere se costituiscono una credenza ai sensi delle norme antidiscriminatorie. Al punto n. 24 si afferma che «(i) The belief must be genuinely held. (ii) It must be a belief and not, as in McClintock, an opinion or viewpoint based on the present state of information available. (iii) It must be a belief as to a weighty and substantial aspect of human life and behaviour. (iv) It must attain a certain level of cogency, seriousness, cohesion and importance. (v) It must be worthy of respect in a democratic society, be not incompatible with human dignity and not conflict with the fundamental rights of others». Riguardo a quest’ultimo elemento, si citano le sentenze della Corte di Strasburgo Campbell (in merito supra, cap. II, par. 2) e della House of Lords, 24 febbraio 2005, Regina v. Secretary of State for Education and Employment and others ex parte Williamson. Circa il caso McClintock, citato da questa pronuncia, cfr. infra, par. 3.2.
¹¹⁸ In particolare sono stati ritenuti «philosophical beliefs» una credenza ambientalista relativa ai cambiamenti climatici (Employment Appeal Tribunal, Grainger PLC & others v. Nicholson, 3 novembre 2009, UKEAT/0219/09/ZT); lo spiritualismo (Empl. Appeal Tribunal, 12 novembre 2009, Greater Manchester Police Authority v Power, UKEAT/0434/09/1211); l’umanesimo non religioso (London Employment Tribunal, Streatfeild v London Philharmonic Orchestra Ltd, ET/2390772/2011, in questo caso non si è però individuata una discriminazione); la convinzione di un animalista, contrario alla caccia (Southampton Employment tribunal, 31 gennaio 2011, Hashman v. Milton Park,
n. 301555/2009). Non sono invece «beliefs»: una teoria sul complotto relativo all’11 settembre (Sheffield Employment Tribunal, sent. 16 giugno 2011, Farrell v. South Yorkshire Police, n. 2803805/2010); la convinzione che occorra ricordare i morti con un fiore appuntato all’occhiello nei giorni della commemorazione dei defunti (Watford Employment Tribunal, sent. 27 settembre 2011, Lisk v Shield Guardian Co Ltd, n. ET/3300873/11).
¹¹ Ad esempio, in Maistry v BBC (ET/1313142/2010) il giudice del lavoro ha ammesso, nell’udienza preliminare, che una convinzione sull’etica della televisione pubblica («public service broadcasting has the higher purpose of promoting cultural interchange and social cohesion») sia equiparabile a una convinzione filosofica o religiosa. Il ricorso è stato poi respinto dall’Employment Tribunal di Birmingham (ric. n. ET/1313142/10, una sintesi si trova in K. DANIELS, Employment Law, London, CIPD 2012, p. 112). Un’interpretazione molto ampia del concetto di “belief” – pur non confermata dal Tribunale, in questo caso – può finire per sanzionare come discriminatoria una semplice divergenza tra datore di lavoro e dipendenti, limitando (forse eccessivamente) la libertà dell’imprenditore di licenziare o assumere in base a una consonanza di intenti professionali o addirittura mettendo i lavoratori nella condizione di poter obiettare ai propri doveri o a una linea aziendale a motivo di credenze ed opinioni di ogni tipo (in questo senso cfr. l’argomentazione dell’Employment Appeal Tribunal nella sent. 19 dicembre 2008, London Borough of Islington v. Ladele, UKEAT/0453/08/RN, par. 72-73, dove si ricorda che l’allargamento del ground of discrimination è problema particolarmente delicato nei casi di discriminazione diretta, che non ammette giustificazioni). Problema analogo si è posto nel caso Hawkins v Universal Utilities Ltd t/a Unicom (Empl. Tribunal of Newcastle upon Tyne, sent. 21 marzo 2013, n. 2501234), nel quale si è discusso se fosse meritevole di tutela la convinzione che non si debba mentire (collegata a un credo religioso, in questo caso): la tesi del ricorrente (non accolta) era che tale convinzione aveva causato il suo licenziamento da addetto alle promozioni telefoniche, poiché per tale mansione il datore di lavoro l’avrebbe obbligato a ingannare i clienti.
¹² Da ultimo con la sent. della Corte d’Appello di Roma sul caso “Fabbrica Italiana Pomigliano c. Fiom” (cfr. supra, par. 2.3).
¹²¹ Un’evoluzione rispetto al diritto antidiscriminatorio delle origini, che non prevedeva una tutela per il fattore religioso se non per i casi, limitati, in cui esso si poteva collegare all’appartenenza etnica.
¹²² Come si vedrà tra breve. In generale sul tema M. FREEDLAND, L. VICKERS, Religious Expression in the Workplace in the United Kingdom, «Comparative Labor Law and Policy Journal», 2009, p. 597 ss.; R. SANDBERG, The Adventures of Religious Freedom: Do Judges Understand Religion?, marzo 2012, in SSRN http://ssrn.com/abstract=2032643, p. 17 ss.; A. DONALD, Religious Freedom, cit., p. 52 ss.
¹²³ Si è parlato, tra l’altro, di questo aspetto descrivendo le caratteristiche del “modello britannico” di uguaglianza, supra, cap. III, par. 1.3.
¹²⁴ Sulla nozione di discriminazione indiretta si rinvia al cap. III, par. 2.2. La verifica da svolgere è descritta nella sentenza del 29 luglio 2008 della Royal Court of Justice, R (on the application of Watkins-Singh) v Aberdare Girls’ High School Governors [2008] EWHC 1865. In particolare, si specifica, al par. 38 «It is common ground that in considering the claimant’s case on grounds of indirect discrimination whether under the RRA or the EA, it is necessary to go through the following steps, which are:
a) to identify the relevant “provision, criterion or practice” which is applicable;
b) to determine the issue of disparate impact which entails identifying a pool for the purpose of making a comparison of the relevant disadvantages;
c) to ascertain if the provision, criterion or practice also disadvantages the claimant personally; and
d) whether this policy is objectively justified by a legitimate aim; and to consider (if the above requirements are satisfied) whether this is a proportionate means of achieving a legitimate aim.» Questa dimostrazione della discriminazione indiretta viene poi richiamata dalla giurisprudenza successiva (ad es. nella sent. dell’Employment Appeal Tribunal sul caso Eweida, di cui si dirà tra breve).
¹²⁵ Parlano di mera scelta o «preferenza individuale» le pronunce sul caso Eweida, sul quale cfr. qui di seguito.
¹² Eweida v British Airways Plc, sentenze 20 novembre 2008 (Employment Appeal Tribunal, UKEAT/0123/08/2011); 15 ottobre 2009 (Court of Appeal, Civil division, n. A2/2008/2984A); 12 febbraio 2010 (Court of Appeal, Civil division, n. A2/2008/2984). In tema cfr. N. HATZIS, Personal Religious Beliefs in theWorkplace: How Not to Define Indirect Discrimination The Modern Law Review, (2011) 74(2) 287-305.
¹²⁷ Sent. 15 gennaio 2013, Eweida and others v. UK. La Corte ha analizzato il caso congiuntamente ad altri tre (Chaplin, McFarlane, Ladele), cui si farà in seguito riferimento. Su questa sentenza dei giudici di Strasburgo cfr. cap. III, nota 75.
¹²⁸ Employment Appeal Tribunal, sent. 6 luglio 2011, Chatwal v. Wandsworth Borough Council, Appeal No. UKEAT/0487/10/JOJ.
¹² Ad esempio nella sentenza della High Court of Justice del 16 luglio 2007,
Playfoot (a minor), R (on the application of) v Millais School, EWHC 1698 (), si è ritenuto che un anello simboleggiante la castità, portato da un’alunna cristiana, non fosse una manifestazione del suo credo né un obbligo religioso, cosicché la regola sulle divise scolastiche che vietava di indossare gioielli non integrava una discriminazione indiretta. Al contrario il bracciale (kara) indossato dalle ragazze Sikh farebbe parte delle pratiche religiose di questo gruppo e, quindi, regole analoghe sull’abbigliamento nelle scuole, se non opportunamente giustificate, sono state ritenute indirettamente discriminatorie (High Court of Justice, sent. 29 luglio 2008, Watkins-Singh, R v. Aberdare Girls’ High School & Anor, EWHC 1865 ()).
¹³ In un caso analogo a Eweida v. British Airways, un’infermiera cristiana era stata prima assegnata ad altro ufficio e poi licenziata per avere indossato una catenina con la croce, contravvenendo alle regole sull’abbigliamento e la sicurezza interna all’ospedale (Exeter Employment Tribunal, sent. 21 maggio 2010, Chaplin v Royal Devon and Exeter Hospital NHS Foundation Trust). Secondo quanto si riferisce in un commento alla sentenza (che non è pubblicata), in questa occasione i giudici avevano chiesto alla confessione di appartenenza informazioni sul carattere obbligatorio della pratica di indossare un crocifisso: cfr. Case notes, in «Ecclesiastical Law Journal» 2011, p. 242..
¹³¹ Incidentalmente, affronta questo problema anche la recente sentenza della High Court of Justice del 10 febbraio 2012 National Secular Society & Anor, R (on the application of) v Bideford Town Council [2012] EWHC 175 (), nella quale si lamentava il carattere discriminatorio di una regola che prevedeva un momento di preghiera o raccoglimento all’apertura delle assemblee del Council di Bideford. Il ricorso – presentato da un non credente – è stato accolto per altre motivazioni (la regola in questione è stata considerata ultra vires), mentre la discriminazione indiretta non è stata rilevata. Infatti non è dimostrabile che il ricorrente abbia subito uno svantaggio rispetto ad altri che non ne condividono le convinzioni ateistiche: il gruppo che risulterebbe svantaggiato non è ben definito dalla “non credenza”, poiché lo svantaggio esisterebbe anche per i consiglieri comunali che non volessero partecipare alla preghiera, pur essendo credenti (cfr. n. 45 ss.).
¹³² Il problema era già stato rilevato, mutatis mutandis, agli esordi della riflessione su discriminazione e religione, dalla Corte di giustizia delle Comunità europee nella sentenza Prais (citata, cap. I, nota 29) dove si afferma che tenere conto di tutte le esigenze religiose individuali sarebbe impossibile per la pubblica amministrazione. Una possibile soluzione, suggerita dall’Avvocato generale in quell’occasione, era quella di coinvolgere le confessioni religiose, enti adatti a comunicare esigenze e richieste di accomodamento ai soggetti di volta in volta competenti. Al di là del rilievo – di indubbio interesse ecclesiasticistico – sul ruolo delle confessioni, una simile impostazione del problema sottolinea come possa risultare centrale il riferimento alla dimensione di gruppo e, in un certo senso, all’aspetto “istituzionale” per la gestione delle diversità religiose e, forse, anche per poter applicare le vigenti norme sulla discriminazione indiretta (almeno nella formulazione britannica: in realtà, come già si è sottolineato, quest’ultima è molto più attenta al dato di gruppo rispetto alla definizione europea di discriminazione).
¹³³ R. SANDBERG, The Adventures of Religious Freedom: Do Judges Understand Religion?, marzo 2012, in SSRN http://ssrn.com/abstract=2032643, p. 17 ss.
¹³⁴ Questo in quasi tutte le sentenze recenti che hanno avuto ad oggetto le diversità religiose meno “istituzionali”, come l’indossare i simboli religiosi a prescindere dalle prescrizioni confessionali (così nei già citati casi Eweida e Chaplin; analogamente, fuori dall’ambito del lavoro, High Court of Justice, sent. 16 luglio 2007, Playfoot (a minor), R (on the application of) v Millais School, EWHC 1698 (), dove si è affermato che un anello simboleggiante la castità, portato da un’alunna cristiana, non fosse una manifestazione del suo credo né un obbligo religioso, cosicché la regola sulle divise scolastiche che vietava di indossare gioielli non integrava una discriminazione indiretta).
¹³⁵ Sulla valutazione in termini di svantaggio (oggettivo) e i problemi che ne
derivano cfr. anche D. STRAZZARI, Discriminazione razziale e diritto, cit., p. 332 ss.
¹³ Supra, cap. III, par. 2.2.
¹³⁷ Cfr. supra, cap. III, par. 2.2.
¹³⁸ Ciò pone problemi soprattutto per il divieto di discriminazione indiretta, che riguarda norme o comportamenti neutri, che non prendono in considerazione direttamente ed esplicitamente il fattore di rischio considerato. Gli operatori economici ad es. non sono in grado di sapere in anticipo quali comportamenti dovrebbero evitare (D. STRAZZARI, L’attuazione della direttiva 2000/43 in Gran Bretagna e Italia, cit., p. 720-721).
¹³ Si pone, nuovamente, la questione di individuare dei limiti alle forme di tutela delle diversità, per le quali non si possono prevedere infiniti accomodamenti. Se in Francia una simile delimitazione sembra un’esigenza primaria, ribadita molto spesso persino in rapporti ufficiali e ritenuta un necessario baluardo contro l’avanzata del comunitarismo, anche nel Regno Unito, Paese più aperto al pluralismo religioso, emerge la necessità di stabilire dei criteri in materia.
¹⁴ È da ricordare, peraltro, che la tutela antidiscriminatoria è affidata prevalentemente ai privati, e in particolare ai datori di lavoro: i criteri di giustificazione della discriminazione servono, pertanto, a individuare un bilanciamento tra le diverse esigenze e a non imporre ai privati un onere eccessivo nella tutela delle specificità (anche) religiose. Sull’applicazione delle norme antidiscriminatorie ai privati nel Regno Unito, cfr. cap. III, par. 1.1.
¹⁴¹ Sent. Azmi v. Kirklees, cit., par. 59 ss.
¹⁴² Ad esempio: è stata rilevata una discriminazione indiretta in un caso di mancata assunzione di un’aspirante parrucchiera che indossava il velo islamico, poiché il criterio neutro di mostrare i capelli alla clientela non era giustificato (London Central Employment Tribunal, sentenza 13 giugno 2008, Noah v Desrosiers t/a Wedge, n. 2201867/2007, in «Equal Opportunities Review», n. 187, in www.rubensteinpublishing.com). È proporzionato e appropriato, invece, l’obbligo di presentarsi al lavoro rispettando determinati standard di pulizia e di ordine personale, benché percepito come indirettamente discriminatorio da un autista rastafariano che portava i tipici dreadlocks (Employment Appeal Tribunal, sent. 3 ottobre 2007, Harris v. NKL Automotive Ltd and another). In quest’ultima sentenza, si evidenzia come la regola in questione non interferisce, in realtà, con il precetto religioso, poiché non vieta al ricorrente di avere i dreadlocks, a condizione di mantenerli in ordine. Cfr., anche per altri riferimenti alla giurisprudenza, R. SANDBERG, Law and Religion, cit., p. 112 ss.
¹⁴³ In generale sul tema S. COGLIEVINA, Festività religiose e riposi, cit., p. 120 ss.
¹⁴⁴ Ad esempio Birmingham Employment Tribunal, sent. 10 ottobre 2006 Edge v Visual Security Services Ltd, n. 1301365/06, nella quale si afferma che la richiesta di lavorare di domenica sarebbe in linea di principio legittima, ma ne deve essere dimostrata la proporzionalità. Poiché l’impresa si è limitata a dichiarare che la predisposizione di aggiustamenti sarebbe stata difficoltosa, si deve concludere che la richiesta in questione è indirettamente discriminatoria. Nello stesso senso, tra le altre: Nottingham Employment Tribunal, sent. 2 dicembre 2004, Williams-Drabble v Pathway Care Solutions, n. 2601718/04; London South Employment Tribunal, sentenza 18 agosto 2006, Estorninho v Zoran Jokic t/a Zorans Delicatessen, n. 2301487/06. Le massime sono consultabili in https://www.law.cf.ac.uk/clr/networks/lrsncd.html.
In un altro caso, un dipendente musulmano aveva domandato di assentarsi all’ora di pranzo del venerdì per poter pregare in moschea; dopo un periodo in cui ciò era stato concesso senza problemi, l’impresa aveva avuto un nuovo committente e le condizioni lavorative erano cambiate. In questo caso il rifiuto di concedere un’ora libera tutti i venerdì è stato valutato proporzionato allo scopo, considerando le mansioni da svolgere e tenendo presente che il datore di lavoro aveva proposto accomodamenti (come il recupero delle ore nel sabato o nella domenica), rifiutati dal ricorrente (Employment Appeal Tribunal, sent. 24 maggio 2011, Cherfi v G4S Security Services Ltd, EAT/0379/10).
¹⁴⁵ Ad es. nel caso Williams-Drabble v Pathway Care Solutions, citato.
¹⁴ L’“utilità” delle norme sulle discriminazioni in materia religiosa appare evidente se si confrontano le sentenze più recenti con casi di qualche anno fa, che non si basavano sulla violazione dei regolamenti sulla parità, ma più genericamente sulla legittimità dei limiti alla libertà religiosa. Ad esempio, con riguardo a un caso relativo al lavoro domenicale e ad una richiesta di regime differenziato per motivi religiosi, Court of Appeal (civil division) sent. 25 luglio 2005, Copsey v WWB Devon Clays Ltd, [2005] EWCA Civ 932. Il ricorso non si basava sui Regolamenti del 2003 e non contestava l’esistenza di una discriminazione, ma l’esistenza di un limite eccessivo alla libertà religiosa (dichiarato, invece, legittimo dal giudice).
¹⁴⁷ V. supra, cap. III, par. 1.3.
¹⁴⁸ R. SANDBERG, The Adventures of Religious Freedom, cit., spec. p. 19 ss.; ID., Law and Religion, cit., p. 84 ss.
¹⁴ Employment Appeal Tribunal, sentenza 31 ottobre 2007, McClintock v. Department of Constitutional Affairs, n. UKEAT/0223/07/CEA.
¹⁵ La vicenda processuale è come segue: il tribunale di Londra aveva affermato in primo grado che il Borough di Islington non poteva obbligare la ricorrente a registrare le civil partnerships e così facendo aveva discriminato indirettamente (Employment Tribunal of London, sent. 8 luglio 2008, Ladele v. London Borough of Islington, disponibile nel sito del Christian Institute http://www.christian.org.uk/lillian-ladele/). Il borough aveva poi presentato appello e vinto (Employment Appeal Tribunal, sent. 19 dicembre 2008, Islington v. Ladele, Appeal No. UKEAT/0453/08) sulla base della considerazione della proporzionalità e legittimità del requisito neutro imposto a Miss Ladele. Infine, l’appello proposto da quest’ultima per tentare di ristabilire i criteri della sentenza di primo grado è stato respinto, ribadendo la non discriminatorietà del comportamento della pubblica amministrazione (Court of Appeal, Civil division, sent. 15 dicembre 2009, Ladele v. London Borough of Islington). La Supreme Court britannica, infine, ha dichiarato l’inammissibilità di un nuovo ricorso e la ricorrente ha adito la Corte europea dei diritti dell’uomo (Lillian Ladele and Gary McFarlane v. UK, application n. 51671/10 e 36516/10 del 27 agosto 2010 e 24 giugno 2010), che ha emesso poi la sentenza Eweida and others v. UK del 15 gennaio 2013 (citata).
¹⁵¹ Ipotesi simili sono state analizzate tradizionalmente sotto il profilo dell’obiezione di coscienza, che presenta certamente alcune assonanze con l’applicazione del divieto di discriminazione indiretta: il fatto, ad esempio, che in entrambe le situazioni ci si trovi di fronte ad una norma uguale per tutti e svantaggiosa per alcuni a motivo della religione o della credenza; il fatto che per tutelare la libertà religiosa si debba operare, anche ammettendo un’obiezione di coscienza, una differenziazione di trattamento, un “accomodamento”. Diverse, tuttavia, le tecniche di valutazione dei diritti in gioco: in particolare – e senza esaminare in dettaglio un tema così vasto e complesso – nelle vicende dell’obiezione di coscienza si ragiona sulla possibilità di introdurre un’eccezione alla norma generale; nell’applicazione del diritto antidiscriminatorio la visuale è sulla norma stessa, che viene valutata per verificare se la sua “cecità alle differenze” ha determinato uno svantaggio per alcune categorie di persone. Ancora, diverse sono le fonti di riferimento, poiché il diritto all’obiezione di coscienza è oggi riconosciuto per legge in vari ambiti (militare, sanitario, ecc.) e si affida al giudice la valutazione del singolo caso. Più flessibile è invece il
rapporto tra legislazione e giurisprudenza nel diritto antidiscriminatorio: come si è osservato nei paragrafi precedenti, raramente si riconosce un vero e proprio diritto a ricevere – per così dire, automaticamente – trattamenti differenziati. Si tratta, piuttosto, di individuare un bilanciamento tra gli interessi del datore di lavoro e le esigenze di diversità, fondate sui fattori protetti. Sull’obiezione di coscienza, in generale, R. NAVARRO-VALLS, J. MARTÍNEZ-TORRÓN, Le obiezioni di coscienza. Profili di diritto comparato, Torino, Giappichelli 1995; R. BERTOLINO, L’obiezione di coscienza modema. Per una fondazione costituzionale del diritto di obiezione, Torino, Giappichelli 1994; cfr. anche E. BRIBOSIA, I. RORIVE, In search of a balance between the right to equality and other fundamental rights, Luxembourg, European Commission publication, 2010, p. 57 ss.
¹⁵² Employment Appeal Tribunal, sent. 30 novembre 2009, McFarlane vs. Relate Avon LTD, UKEAT/0106/09/DA.
¹⁵³ Cfr. supra, par. 3.1. Questo argomento è presente specialmente nella sent. McClintock, citata (v. anche supra, nota 116).
¹⁵⁴ Nella sentenza dell’Employment Appeal Tribunal (citata alla nota n. 150), par. 80 e ss.
¹⁵⁵ Cfr. in particolare la sent. McClintock, par. 45. In questo caso la posizione del ricorrente, relativa al rifiuto di assegnare bambini in adozione a coppie omosessuali, viene considerata un’opinione su un fatto specifico (che riterrebbe peggiore far crescere un figlio con genitori dello stesso sesso) e non come una convinzione religiosa. Da notare che, seguendo l’argomentazione delle sentenze già analizzate, i comportamenti relativi all’omosessualità sarebbero eccome espressione di un precetto obbligatorio.
¹⁵ Eweida and others v. UK, citata.
¹⁵⁷ Analogamente a quanto affermato in altre sentenze britanniche (cfr. supra, par. 3.1), nella sentenza Eweida si afferma (par. 82) che una manifestazione del credo deve essere “intimately linked” alla religione.
¹⁵⁸ Si veda, da ultimo, la legge 17 luglio 2013 Marriage (Same Sex Couples) Act 2013che equipara al matrimonio le unioni same-sex; in precedenza alcuni diritti delle coppie dello stesso sesso erano previsti dal Civil Partnership Act 2004 (c 33) del 18 novembre 2004.
¹⁵ Leggendo la definizione ex art. 19 dell’EA 2010 sembra che la rilevanza della proporzionalità sia addirittura maggiore rispetto a quanto previsto dalla direttiva e, nei casi visti in precedenza, è un criterio che emerge, benché a fatica, quando si tratta di giustificare una discriminazione indiretta. Nei casi sull’orientamento sessuale, invece, l’argomentazione del giudice si arresta spesso al controllo della legittimità della regola contestata. Ad esempio, nella sentenza Mc Farlane si è affermato che lo scopo della regola neutra è legittimo e non vi è pertanto discriminazione; non si è dato rilevanza alla possibilità da parte del datore di lavoro di predisporre eccezioni per i dipendenti che obiettavano a determinate mansioni per motivi religiosi. In questa situazione specifica, poi, per il giudice lo scopo della prassi neutra era il predisporre un servizio uguale per tutti, che non escludesse le coppie omosessuali, ed era quindi legittimo richiedere a tutti i dipendenti di adattarsi alla policy dell’organizzazione.
¹ La soluzione di situazioni come quelle ora citate deve, peraltro, tenere conto anche della discriminazione fondata sull’orientamento sessuale, anch’essa vietata dalla legislazione antidiscriminatoria britannica accanto a quella religiosa. Le norme sulle civil partnership mirano proprio alla parità in materia di genere e orientamento sessuale.
¹ ¹ Par. 101: «there were other jobs which the claimant could fill, including possible jobs within the council itself, which would not give rise to this dilemma. This was not a fundamental undermining of her religious beliefs».
¹ ² Sent. Eweida & others v. UK, cit., par. 83. A me pare che, nel momento in cui la religione è divenuta un fattore protetto dalla legislazione antidiscriminatoria, risulta quantomeno discutibile affermare che, per non incorrere in discriminazioni, si può cambiare lavoro. Sembra, in questo senso, che la posizione della Corte europea rimandi ad alcune posizioni tradizionali del diritto antidiscriminatorio, evocando, ad esempio, l’idea in base alla quale il fattore religioso, essendo un fattore “scelto” e non “immutabile” della persona, potesse ricevere una tutela minore da parte delle norme sulla discriminazione (in merito cfr. P. BELLOCCHI, Pluralismo, cit., p. 163 ss.) e che, quindi, una volta assunto un obbligo lavorativo, la libertà di scelta potesse consentire anche di rinunciare a determinate manifestazioni di tale fattore (L. VICKERS, Religious Freedom, cit., p. 51 ss.; A. DONALD, op. cit., p. 57 ss.).
¹ ³ Alcuni casi hanno avuto origine nel rifiuto, da parte di gestori di strutture alberghiere, di alloggiare coppie omosessuali, per motivi religiosi. Si v. ad esempio Bristol County Court, sent. 4 gennaio 2011, Hall and Preddy v. Bull and Bull, n. 9BS02095; più di recente Slough County Court, sent. 18 ottobre 2012 n. 0UD02282, Michael Black and John Morgan v. Susanne Wilkinson e in appello Court of Appeal sent. 9 luglio 2013, Black & Anor v Wilkinson [2013] EWCA Civ 820, cfr. la nota di F. CRANMER, Gay couples, B&B and human rights again: Black & Anor v Wilkinson, nel blog «Law and Religion UK», http://tinyurl.com/p79t4su). Ancora, la Royal Court of Justice (sent. 28 febbraio 2011, R (Eunice Johns and Owen Johns) v Derby City Council) ha esaminato il caso di alcuni candidati per un’adozione che avevano espresso idee contrarie all’omosessualità, a motivo del loro credo; il comune li aveva ritenuti “potenziali discriminatori” verso bambini loro affidati che avessero manifestato un orientamento omosessuale.
¹ ⁴ R. SANDBERG, The Adventures of Religious Freedom, cit., p. 21
¹ ⁵ Lo si è visto nell’analisi delle sentenze sulle pratiche religiose, nel par. 3.1.
¹ Sulle disposizioni dell’Equality Act 2010 in tema cfr. supra, cap. 3, par. 6.2.
¹ ⁷ Sulla quale v. supra, cap. II, par. 1.2.
¹ ⁸ Nel caso della scuola di Adro e nella sentenza del 2004 del Tribunale di Ariano Irpino (dove, però, si nega la presenza di una molestia, visto che non si poteva dimostrare il nesso tra condotta ostile e convinzione del lavoratore). Cfr. supra, par. 2.3.
¹ Relativamente alla novità dell’estensione del concetto di molestie al di là del divieto di molestie sessuali si è già detto, supra, cap. II, par. 1.2 e nei paragrafi sull’attuazione negli Stati. Sul tema sia consentito il rinvio a S. COGLIEVINA, Il divieto di molestie in materia religiosa: tra parità, libertà religiosa e altri diritti, in «QDPE», 2013, 1, p. 145 ss.
¹⁷ Cour Appel Douai, 20 novembre 2007, RG. 06/2254: il ricorrente, licenziato per inadempimento contrattuale, aveva lamentato di aver subito una discriminazione e una molestia, dimostrabile attraverso il fatto che egli veniva appellato come “arabo” o con altri termini dispregiativi. Il giudice non ha seguito questa argomentazione.
¹⁷¹ Non si fa cenno alla nozione di molestie nella sentenza della CA di Douai, citata; altrove (Cour de Cassation, sent. 17 giugno 2010, n. 09-67417), pur facendo riferimento al termine «harcèlement», si parla più in generale di un
danno subito ex art. 1382 del Codice civile e non si utilizzano le norme introdotte con la trasposizione della direttiva.
¹⁷² In questo senso, cfr. Cour de Cassation, sent. 26 giugno 2012, n. 11/14297, che fa riferimento ad un vero e proprio clima persecutorio ed escludente, fondato su vari motivi, tra cui la religione.
¹⁷³ Sul punto ci si è soffermati supra, par. 3.1; sulla nozione di molestie nell’ordinamento inglese v. cap. III, par. 2.2.
¹⁷⁴ Employment Tribunal of London, sent. 22 marzo 2013, Mr R Fraser -vUniversity & College Union (n. 2203390/201). Il caso si è svolto nell’Università UCL di Londra, dove il ricorrente, dissociandosi dall’organizzazione sindacale dei dipendenti dell’ateneo, lamentava una molestia subita in ragione della sua religione ed origine etnica: il sindacato, infatti, aveva espresso idee contrarie alle politiche di Israele e aveva attuato dei boicottaggi di prodotti israeliani. Il giudice ha ritenuto che tali critiche erano relative ad un Paese che, per quanto collegato a un’origine etnica e ad una religione, non può essere assimilato ad esse; tuttavia ha ribadito che la definizione di molestia attualmente in vigore consente di reprimere anche comportamenti “collegati” alla religione e non solo fondati su di essa.
¹⁷⁵ Royal Court of Justice, sent. 19 dicembre 2008, English v Thomas Sanderson Ltd [2008] EWCA Civ 1421.
¹⁷ Employment Appeal Tribunal, 17 gennaio 2013, Heafield v. Times Newspapers Ltd.
¹⁷⁷ Si è già detto della distinzione tra elementi soggettivi e oggettivi della nozione di molestie (supra, cap. II, par. 1.2). Nella sentenza si precisa che debbono esistere tutti questi elementi: l’indesideratezza della condotta; il fatto che quest’ultima si sia fondata su uno dei protected grounds; la compromissione dell’ambiente di lavoro o la violazione della dignità del lavoratore. Il test per la dimostrazione di una molestia è stato fissato in EAT, sent. 12 febbraio 2009, Richmond Pharmacology v. Dhaliwal [2009] UKEAT 0458_08_1202.
¹⁷⁸ Empl. Tribunal of Newcastle upon Tyne, sent. 29 marzo 2012, Austin v Samuel Grant (North East) Ltd, ET case n. 2503956/2011.
¹⁷ P. UCCELLARI, Banning Religious Harassment: Promoting Mutual Tolerance or Encouraging Mutual Ignorance?, in «Equal Rights Review», II, 2008, p. 23 ss.
¹⁸ Si guarda, insomma, alle circostanze del caso, rilevando se effettivamente le espressioni di dissenso hanno creato una situazione di svantaggio e di debolezza del ricorrente. Nel caso ora esaminato, peraltro, la diversità delle opinioni delle parti in causa era nota già prima del verificarsi del conflitto: il ricorrente conduceva un’attività politica filo-israeliana, sapendo di scontrarsi con visioni politiche opposte del sindacato.
¹⁸¹ Nella sentenza Austin v. Samuel Grant, citata, si invita la parte resistente ad attivare una migliore azione contro le discriminazioni e per la parità, in modo da evitare il ripetersi di episodi come quello esaminato.
¹⁸² Equality Act 2010, art. 124, comma 3.
¹⁸³ Così almeno per quanto riguarda l’Italia, cfr. supra, par. 2.3.
¹⁸⁴ N. FIORITA, Alla ricerca di una nozione giuridica di “identità culturale”: riflessioni di un ecclesiasticista, in «Stato Chiese e pluralismo confessionale», marzo 2009, p. 21 ss.
¹⁸⁵ La tutela delle parti deboli, come obiettivo del diritto antidiscriminatorio (cfr. supra, cap. I par. 3 e 4), emerge in particolare attraverso la previsione di strumenti di compensazione e promozione dell’uguaglianza (quali le azioni positive, sulle quali cfr. infra, par. 6.2) oppure dalla costruzione di determinati concetti, come quello di discriminazione indiretta. Quest’ultima, in particolare, è volta a proteggere alcune identità dagli svantaggi derivanti da una norma neutra (generale, uguale per tutti) che è, nel fondo, espressione di una maggioranza che non tiene conto delle differenze (o minoranze). Cfr. D. STRAZZARI, Discriminazione razziale e diritto, cit., p. 441; sulla tutela delle cosiddette categorie deboli, anche per ulteriori riferimenti, N. COLAIANNI, Voci in dialogo, cit., pp. 217-8.
¹⁸ Come notato da S. DOMIANELLO, Conclusioni. Salutari esercizi di liberalismo nel «farsi» del diritto antidiscriminatorio in materia di religione, in «Quad. dir. e politica eccl.», 2013, 1, p. 239, il diritto antidiscriminatorio contemporaneo opera a pieno campo e in riferimento a tutte le credenze, in forza della vigenza del principio di laicità. Come si è visto, tuttavia, in Italia si pone ancora, in primis, il problema di gestire l’espressione delle diversità e delle minoranze, che non riceve una tutela effettiva e innovativa con l’applicazione del diritto antidiscriminatorio, rivelando un atteggiamento talvolta poco attento al pluralismo religioso.
¹⁸⁷ In Italia, ad es., la citata sent. della Corte d’Appello di Roma del 19 ottobre 2012 ha adottato una concezione piuttosto ampia di convinzioni, ricomprendendo nella tutela antidiscriminatoria talune opinioni sindacali.
¹⁸⁸ Ad es.: Tar Puglia, 14 settembre 2010, cit., sull’ammissione di medici “non obiettori” ad un bando; Corte d’Appello di Roma, sent. 19 ottobre 2012, sull’illegittima esclusione di alcuni lavoratori in base alle opinioni sindacali.
¹⁸ Cfr. supra, par. 3, e cap. III, par. 1.
¹ Su questa distinzione, nell’interpretazione del diritto di libertà religiosa, cfr. C. LABORDE, W.F. SULLIVAN, Religious Exemptions? A dialogue on the impossibility of religious freedom, in «QDPE», 2013, 1, p. 11 ss.
¹ ¹ Si tratta, peraltro, di un orientamento emerso a più riprese nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. In merito, da ultimo, i contributi in R. MAZZOLA, Diritto e religione in Europa, cit.
¹ ² R. SANDBERG, The adventures, cit., im.
¹ ³ Parafrasando la famosa espressione della sociologa G. Davie “believing without belonging” (Religion in Britain since 1945: Believing without belonging. Oxford, Blackwell 1994) ci si chiede se la libertà religiosa reinterpretata attraverso il diritto antidiscriminatorio non abbia assunto una nuova caratteristica, quella appunto di esprimersi solo attraverso pratiche vere e proprie, e non attraverso altri atti motivati dal credo. Tali atti, dettati dalla coscienza, potrebbero essere, sì, estrinsecati ma senza poter pretendere la tutela antidiscriminatoria. Un ritorno alle obiezioni di coscienza tradizionalmente intese? Oppure, in modo più incisivo, un modo per “nascondere” le espressioni di religiosità dissidenti (rectius, non allineate con la maggioranza)? O ancora, si può forse leggere in questo approccio un tentativo di limitare le manifestazioni della religione ad ambiti nei quali è più agevole trovare un bilanciamento: nelle
imprese, ad esempio, e non nella sfera pubblica, nella quale la tutela delle diversità incontra maggiori restrizioni, in nome della laicità.
¹ ⁴ In particolare, come si è visto, il giudizio antidiscriminatorio nel Regno Unito si concentra sull’esistenza di un disparate impact, mentre sono scarsamente usati i parametri di proporzionalità, atti a giustificare una norma neutra e ad individuare un miglior bilanciamento tra i diritti in gioco. O ancora, nei casi relativi a religione e orientamento sessuale, la legittimità della richiesta neutra ha giustificato quasi automaticamente una evenutale discriminazione indiretta (supra, par. 3.2).
¹ ⁵ A. FERRARI, Libertà religiosa e nuove presenze confessionali, cit.
¹ Trib Padova, 30 luglio 2010, in OLIR.it, http://tinyurl.com/nnef95b. Il caso riguardava la predisposizione dell’insegnamento alternativo alla religione cattolica in una scuola pubblica, eppure i concetti di discriminazione richiamati sono quelli sanciti dal decreto n. 216/2003, relativi unicamente all’ambito del lavoro.
¹ ⁷ C. Cost., sent. 4 luglio 2008, n. 251.
¹ ⁸ Ad esempio, esaminando altri casi relativi all’IRC, non si ritrova più il riferimento alle nozioni di discriminazione come nella sentenza del tribunale di Padova, ora citata.
¹ Per una ricostruzione dei concetti nel diritto europeo cfr. cap. II, par. 1.1 e 1.3.
² Si veda cap. II, par. 1.1 e i par. precedenti in questo capitolo per l’applicazione del concetto. La questione della rilevanza della dimensione di gruppo nella discriminazione indiretta è emersa in particolare nella giurisprudenza britannica, come si è visto nel par. 3.1.
² ¹ Negli Stati Uniti gli accomodamenti ragionevoli sono stati stabiliti inizialmente proprio per la religione, e successivamente estesi a tutela di altri fattori, tra cui la disabilità. Nel Civil Rights Act la mancata predisposizione di aggiustamenti delle differenze religiose viene equiparata ad una discriminazione. In Canada si tratta di un principio di origine giurisprudenziale. Cfr. P. BOSSET, Les fondements juridiques et l’évolution de l’obligation d’accommodement raisonnable, cit.; J. WOEHRLING, Diversité religieuse et liberté de religion au Canada, cit. In Europa si è seguito il percorso contrario: la direttiva 2000/78 prevede espressamente soluzioni ragionevoli (reasonable accomodations) in favore dei disabili (art. 5), mentre non dispone nulla in questo senso per la religione o altri fattori. In merito cfr., per tutti, L. WADDINGTON, A. HENDRIKS, The Expanding Concept of Employment Discrimination in Europe: From Direct and Indirect Discrimination to Reasonable Accommodation Discrimination, in «International Journal of Comparative Labour Law and Industrial Relations» (IJCLLIR), 2002, p. 403 ss.; L. WADDINGTON, Reasonable accommodation, in D. SCHIEK, L. WADDINGTON, M. BELL et al., Cases, materials and Text on National, Supranational and International NonDiscrimination Law, cit., p. 629 e 683 ss.
² ² Cfr. quanto già osservato supra, cap. II, par. 1.1.
² ³ J. RINGELHEIM, E. BRIBOSIA, I. RORIVE, Reasonable Accommodation for Religious Minorities, cit., p. 138 ss.; M. ELÓSEGUI ITXASO, El Concepto Jurisprudencial de Acomodamiento Razonable, p. 47 ss.; in generale sul tema Reasonable Accommodation, in D. SCHIECK, L. WADDINGTON, M. BELL (eds.), Cases Materials, cit., p. 683 ss.
² ⁴ J. RINGELHEIM, E. BRIBOSIA, I. RORIVE, op. ult. cit., p. 147 ss.
² ⁵ ACAS (Advisory, Conciliation and Arbitration Service), Religion or belief and the workplace. A guide for employers and employees, London, ACAS www.acas.org.uk, 2004; una nuova edizione (2009) è all’indirizzo http://tinyurl.com/o7v5sgl; si veda, poi, sul sito della Equality Commission, le varie guide e i report che consentono a datori di lavoro e ad altri operatori di gestire la problematica delle diversità (all’indirizzo http://tinyurl.com/3repekb).
² F. MESSNER, P.-H. PRÉLOT, J.-M. WOEHRLING, Traité, cit., p. 720 ss.
² ⁷ G. CACERES, Reasonable accommodation as a Tool to manage religious diversity in the workplace, cit., p. 302 ss.; più in generale, con riferimento al principio di laicità e al suo rapporto con eventuali accomodamenti, A. FERRARI, De la politique à la technique: laïcité narrative et laïcité du droit. Pour une comparaison /Italie, in B. BASDEVANT GAUDEMET, F. JANKOWIAK (DIR.), Le droit ecclésiastique en Europe et à ses marges (XVIIIXX siècles), Peeters, Leuven 2009, pp. 333 ss.
² ⁸ F. AST, L’apport du droit à la non-discrimination, p. 215 e 230.
² R-S. ALOUANE, The practice of religion, cit. p. 214; per quanto riguarda le scuole, che esulano dal nostro campo d’analisi, si deve ricordare anche il «rapporto Stasi»: COMMISSION DE REFLEXION SUR L’APPLICATION DU PRINCIPE DE LAÏCITÉ DANS LA RÉPUBLIQUE (prés. par B. Stasi), Rapport au président de la Republique, Paris, La documentation française, 2003.
²¹ F. AST, L’apport du droit à la non-discrimination, p. 215. La stessa Autrice
(Etude de cas, in F. AST, B. DUARTE, Les discriminations, cit.) nota che le circolari ministeriali e gli altri esempi di “accomodamenti” sono accettati dall’ordinamento se fin tanto che non si tratta di una prise en compte delle diversità sistematica od obbligatoria.
²¹¹ G. CACERES, Reasonable Accommodation, cit., p. 301.
²¹² Si noti, peraltro che in alcune circostanze, quando gli accomodamenti non sono più “nascosti” e risultano noti all’opinione pubblica, si sono reazioni di timore che vedono nell’apertura alle diversità una deriva verso il “comunitarismo”, ovvero un riconoscimento – attraverso determinate pratiche – di comunità e gruppi (religiosi, etnici), che si porrebbe in contrasto con l’identità nazionale se. Anche per ulteriori riferimenti a bibliografia e attualità, si può consultare il blog gestito dall’Unité DRES di Strasburgo http://communautarismes.hypotheses.org/
²¹³ Supra, cap. II, par. 1.3.
²¹⁴ Da ricordare anche l’approccio al tema dell’ordinamento se, che ben si inserisce nel modello di uguaglianza formale delineato supra, cap. III, par. 1. In Francia, infatti, come si è più volte sottolineato, il principio di uguaglianza non comporta, in prima battuta, di prevedere trattamenti differenziati, come invece vorrebbero le azioni positive. In materia religiosa, poi, esse attribuirebbero, in una certa misura, rilevanza giuridica a identità specifiche, distinguendole dal citoyen, e ad una dimensione di gruppo, che non è propria della concezione se di uguaglianza e libertà religiosa. Interessante notare che il diritto se non utilizza neppure il termine “azioni positive” ma parla di “discrimination positive”: un’espressione che pare un ossimoro, tenendo conto che per il diritto europeo il vocabolo “discriminazione” ha un connotato peggiorativo, ma che si può comprendere se si pensa al significato tradizionalmente attribuito in Francia (dove discriminazione è equiparata a una differenziazione: dunque una “differenziazione positiva”). Sul tema, in generale,
J. BOUGRAB, Vers des « affirmative actions » à la française?, in L. Ferry (dir.), Pour une société de la nouvelle chance. Une approche républicaine de la discrimination positive, Paris, La Documentation Française, 2005, p. 87 ss.; E. DESCHAVANNE, La discrimination positive face à l’idéal républicain : définition, typologie, historique, arguments , ivi, p. 67 ss.; G.CALVES, La discrimination positive, Paris, PUF, 2008.
²¹⁵ Peraltro, l’uso delle azioni positive ha una radice storica nel Regno Unito, poiché nell’Irlanda del Nord sono state previste misure per determinare condizioni più eque tra cattolici e protestanti, anche nell’ambiente del lavoro (cfr. infra, nota 221)
²¹ Infatti, nonostante la presenza di molte norme e di una consolidata esperienza in materia, spesso gli strumenti di cui il Paese si era via via dotato sono apparsi insufficienti per raggiungere un effettiva parità. Cfr. Discrimination Law Review. A Framework for Fairness, cit., spec. p. 13 ss.
²¹⁷ C. BOURN, J. WHITMORE, Anti-Discrimination Law in Britain, London, Sweet&Maxwell, 1996, p. 3 ss.
²¹⁸ In merito cfr. B. HEPPLE, Equality. The new legal framework, cit., p. 128 ss.
²¹ Supra, cap. II, par. 1.3. Per una completa ricostruzione del concetto e per approfondimenti sul tema, si rimanda a M. CAIELLI, Le azioni positive nel costituzionalismo contemporaneo, cit., spec. p. 75 ss.; M. DE VOS, Beyond Formal Equality. Positive Action under Directives 2000/43/EC and 2000/78/EC, Luxembourg, European Communities, 2007; O. DE SCHUTTER, Positive Action, in D. SCHIEK, L. WADDINGTON, M. BELL et al. (eds.), Cases, materials and Text, cit., p. 757 ss.
²² Fanno eccezione il settore del lavoro (di cui si occupa l’art. 159) e l’art. 104, relativo alla ripartizione dei seggi elettorali, nella quale è quindi escluso ogni sistema di «quote» o altre azioni positive.
²²¹ A questo proposito occorre ricordare le norme sulle azioni positive nell’Irlanda del Nord, dove la storica contrapposizione tra cattolici e protestanti ha determinato la sotto-rappresentazione dei primi in alcuni luoghi (lavoro, scuola, forze dell’ordine). In questo caso si hanno a disposizione dati sulla composizione della forza lavoro e quindi la predisposizione di azioni positive appare più agevole. In merito cfr. MCCOLGAN A., Report on Measures to Combat Discrimination , cit.; S. FREDMAN, Discrimination law, cit., p. 143 ss.; B. HEPPLE, Discrimination and Equality of Opportunity. Northern Irish Lessons, in Oxford Journal of Legal Studies, 1990, n. 3, p. 408 ss.; A.M. GALLAGHER, Majority Minority Review 2: Employment, Unemployment and Religion in Northern Ireland, Coleraine, University of Ulster, 1991, disponibile online all’indirizzo: www.cain.ulst.ac.uk/csc/reports/majmin2.htm.
²²² Un esempio, inserito nei testi esplicativi della norma, chiarisce questo punto riguardo al fattore religioso: se un’azienda che si trova in un’area a forte presenza islamica non ha dipendenti musulmani, la scelta di assumere un appartenente a tale religione può essere considerata un’azione positiva e non si potrà reclamare una discriminazione nei confronti dei candidati non musulmani, poiché si poteva ragionevolmente dimostrare che i musulmani erano sottorappresentati e quindi svantaggiati. Da notare il carattere “volontario” della misura (l’azienda può scegliere di assumere un musulmano, ma non è tenuta a farlo) e la definizione dell’azione positiva come deroga all’uguaglianza (la conseguenza è di tutelare il datore di lavoro da eventuali ricorsi antidiscriminatori da parte dei non musulmani). Cfr. la brochure pubblicata dal Government Equalities Office: Equality Act 2010: What do I need to know? A Quick start guide to using positive action in recruitment and promotion, 2011, all’indirizzo http://tinyurl.com/psxgzlc.
²²³ Ad oggi, a quanto consta, non si sono verificate controversie relative alla predisposizione di azioni positive in materia religiosa.
²²⁴ Su questi strumenti cfr. B. HEPPLE, Equality. The new legal framework, cit., p. 19 ss.; L. VICKERS, Promoting Equality or Fostering Resentment? The Public Sector Equality Duty and Religion and Belief in «Legal Studies» 2011, p. 157 ss.; S. FREDMAN, The Public Sector Equality Duty, in «ILJ» 2011, p. 405 ss.
²²⁵ Cfr. E. MCLAUGHLIN, From Negative to Positive Equality Duties: The Development and Constitutionalisation of Equality Provisions in the UK, in «Social Policy & Society», 2007, p. 115 ss.
²² Art. 71 del Race Relations Act 1976, modificato nel 2000 con l’introduzione di «equality duties» più stringenti (Race Relations (Amendment) Act 2000). Questi emendamenti furono adottati sulla scia del The Stephen Lawrence Inquiry: Report of an Inquiry by Sir William Maherson of Cluny (all’indirizzo http://tinyurl.com/d8kt), un rapporto stilato in seguito all’uccisione di un ragazzo di colore e dal quale emerse che le autorità pubbliche (in particolare la Polizia municipale) non avevano agito correttamente nella fase di inchiesta, al fine di rilevare la connotazione razzista del delitto. Il «public sector duty» così sancito e, in seguito, le ordinanze che introducevano obblighi specifici in materia (ad esempio The Race Relations Act 1976 (Statutory Duties) Order 2001) erano finalizzati a combattere gli atteggiamenti di razzismo e di discriminazione di carattere «istituzionale» all’interno delle stesse autorità pubbliche. Cfr., tra gli altri, K. MONAGHAN, Equality Law, p. 625 ss.
²²⁷ Art. 49 del Disability Discrimination Act 1995, e successive modifiche; art. 76 del Sex Discrimination Act e successive modifiche (per una sintesi: K. MONAGHAN, Equality Law, p. 631 ss.).
²²⁸ Il «public sector equality duty» sancito dall’art. 149 è di carattere generale ed è entrato in vigore il 5 aprile 2011. L’art. 153 dell’Equality Act 2010 ha previsto, inoltre, la possibilità di introdurre «specific duties» attraverso appositi regolamenti. Tra gli «specific duties» relativi alla razza, ad esempio, vi era il cosiddetto «impact assessment», ovvero l’obbligo di considerare, prima di elaborare una determinata politica, il suo potenziale impatto sull’uguaglianza razziale. La dottrina ha sottolineato come queste norme rappresentino il cambiamento più rilevante della legislazione antidiscriminatoria degli ultimi anni (cfr., per tutti, K. MONAGHAN, The Equality Bill: a Sheep in Wolf’s Clothing or Something More?, in «European Human Rights Law Review», 2009, 4, p.512 ss.). In generale sugli «equality duties» si può consultare anche il sito della Commission for Equality and Human Rights (www.equalhumanrights.com).
²² Le autorità pubbliche tenute all’applicazione degli «equality duties» sono elencate nell’allegato n. 19 (aggiornato nell’aprile 2011 con una nuova lista). Si tratta di un numerus clausus, e questo può rappresentare una limitazione nell’applicazione di questa, pur importante, previsione normativa.
²³ Secondo B. HEPPLE, Equality. The new legal framework, cit., p. 135, la formula «advancing equality of opportunities» comporterebbe un intervento più attivo da parte delle pubbliche autorità rispetto a quanto previsto dalla legislazione previgente (che indicava il più generico dovere di «promote equality»).
²³¹ Cfr. A. LESTER, P. UCCELLARI, Extending the Equality Duty to Religion, Conscience and Belief: Proceed with Caution, in «European Human Rights Law Rev», 2008, 5, p. 567 ss.
²³² B. HEPPLE, Equality. The new legal framework, cit., p. 135, ricorda, ad esempio, che dalla norma potrebbe essere ricavato il dovere per alcune autorità pubbliche (autorità sanitarie, istituzioni scolastiche, ecc.) di provvedere alle
necessità dei fedeli che vogliono rispettare le norme religiose sull’alimentazione.
²³³ Alcuni interrogativi sui problemi che la norma può generare nella gestione delle diversità religiose sono formulati da A. LESTER, P. UCCELLARI, Extending the Equality Duty to Religion, Conscience and Belief: Proceed with Caution, cit., p. 571 ss. Gli Autori fanno anche notare che l’accomodamento dei «religious needs» attraverso interventi pubblici può determinare, anziché l’uguaglianza e la comprensione reciproca dei vari gruppi, occasioni di scontro e di divisione.
²³⁴ Ci troviamo nell’ambito del diritto amministrativo e il mezzo utilizzato per far valere un «equality duty» di fronte ad un giudice è quello della «judicial review», la « revisione» o supervisione delle decisioni amministrative (in generale sul tema cfr. P. LEYLAND, Introduzione al diritto costituzionale del Regno Unito, cit., p. 148 ss.). Riguardo ai «public duties» relativi all’uguaglianza razziale, il numero dei casi analizzati dai giudici è di recente aumentato e sono stati presentati ricorsi anche da parte di individui che avevano un interesse legittimo nell’attuazione delle norme in questione: cfr. M. BELL, Judicial Enforcement of the Duties on Public Authorities to Promote Equality, in «Public Law», 2010, p. 676 ss.
²³⁵ Sul ruolo e sui poteri della Commissione cfr. A. LESTER, K. BEATTIE, The new Commission for Equality and Human Rights, in «Public Law», 2006, p. 197 ss. e, in dettaglio, la pagina web www.equalityhumanrights.com.
²³ Art. 32 Equality Act 2006, in vigore dopo l’approvazione dell’Equality Act 2010.
²³⁷ Così l’art. 32.11 dell’Equality Act 2006, letto in combinato disposto con gli emendamenti introdotti dall’Equality Act 2010 (allegato 26, paragrafo 19).
²³⁸ S. FREDMAN, S. SPENCER, Beyond Discrimination: it’s time for enforceable duties on public bodies to promote Equality outcomes, in «European Human Rights Law Rev.», 2006, p. 599 ss.
²³ S. FREDMAN, Human rights transformed, cit., p. 189 ss.
²⁴ In questo senso, alcune nozioni come quella di “accomodamento ragionevole” (sulla quale cfr. supra, cap. II, par. 1.1 e cap. IV, par. 6.1) sono state “importate” da altri ordinamenti. La lettura della libertà religiosa, poi, da un lato vede un movimento verticale di influenza dalla Corte europea dei diritti dell’uomo verso gli Stati (e in questo si può constatare una crescente attenzione alle diversità: cfr. A. CASTRO JOVER, Interculturalidad y derecho en el ambito regional y supranacional europeo, in EAD. (dir.), Interculturalidad y derecho, cit., p. 23 ss.), dall’altro può risultare dal dialogo tra Corti sovranazionali e Stati membri (cfr. R. MAZZOLA, Introduzione. La dottrina e i giudici di Strasburgo. Dialogo, comparazione e comprensione, in ID. (a cura di), Diritto e religione in Europa, cit., p. 9 ss).
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e-Reprint NUOVI STUDI DI DIRITTO ECCLESIASTICO E CANONICO Collana diretta da Antonio G. Chizzoniti
PERCORSI STORICI
1. LUIGI LUZZATTI, Dio nella libertà. Scritti scelti su libertà religiosa e relazioni tra Stato e