Antonio Riva
ECLISSI
Youcanprint Self - Publishing
Titolo | Eclissi
Autore | Antonio Riva
Copertina di Maria C. Magilla Torre
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ISBN | 9788891137333
Prima edizione digitale: 2015
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PARTE PRIMA
PER LEI
É un cielo di diamante,
di vita vissuta,
di aria tersa,
quello che vedo.
É il sorriso di un bambino,
il suo viso,
quello che vedo.
É il sogno di una notte,
calda come l'amore che esce dal cuore,
quella che vedo.
Non ho avuto questa gioia,
non ho avuto questo regalo,
un figlio nasce dal cuore,
ed il mio non è riuscito a creare.
La mia vita non ha un senso senza te,
e anche se non ci sei,
anche se non sei mai nato,
sei nel mio cuore.
E' il desiderio di te che ti ha creato.
PROLOGO
Ed eccomi qui a scrivere ancora, non sapendo cosa scrivere, ma sapendo di dover scrivere. Le mie parole sono come aria in mezzo ad altra aria, sono come macigni sulla mia testa e sul mio cuore, sono il calore che esplode dalla mia mente mentre le mie mani volano sulla tastiera. Vorrei scrivere di amori immortali, vorrei scrivere di Dei potenti, del Dio con cui sono cresciuto. Vorrei scrivere di storie di ioni e di guerre, di tempi lontani dove le uniche parole erano dettate dal rumore di lance e spade, o di tempi più recenti, dove le bombe ed il rumore degli aerei e dei bombardamenti coprivano il rumore dei pianti e le urla dei disperati. Vorrei scrivere di te, uomo o donna lontano, di te che non conosco, di te che anche ora soffri e lotti per la tua sopravvivenza. Vorrei insomma scrivere, ma tutto quello che so scrivere sono storie crudeli, storie di gente che muore in mezzo a dolori che nessun essere umano dovrebbe patire, ma che in molti, nei secoli ati, hanno sofferto.
Ed anche oggi, mentre io scrivo queste poche parole, c’è un essere umano, una moltitudine di vite, che urlano disperate il proprio dolore verso un Dio che, forse, non li ascolta, o che, ascoltandoli, non sa come porre rimedio alla crudeltà dell’uomo in questa vita, e che aspetta pazientemente che il sofferente giunga in quel luogo dove le sofferenze non hanno più una ragione di essere.
In questi racconti non c’è soltanto dolore e morte, ma c’è anche, in qualche maniera, riscatto e amore. Alla fine ogni nostro sforzo per sopravvivere e per vivere dignitosamente, porta nuove conoscenze, nuovi amori, nuove perdite e vecchi dolori. Ho preferito suddividere il libro in due parti: una parte composta da racconti, piccole storie in cui i personaggi trovano la propria strada attraverso dolori e gioie, praticamente la storia di ogni essere umano in ogni epoca; la seconda parte composta da poesie, risvolti di un animo che, anche se tormentato da dubbi, rimorsi e rimpianti, ha comunque una speranza, la speranza di una rinascita all’amore e alla felicità.
ECLISSI
Controllava che per quel giorno il sole sorgesse ancora sul mondo. Un violento acquazzone bagnava le piante ormai morenti, mentre il cielo rosso cupo diventava, pian piano, nero. Era quello l'effetto di una bomba atomica? Lui credeva di si. E quell'acqua che cadeva dal cielo, bruciava, come acido sulla sua pelle... La deflagrazione era stata violenta ed imprevista, sorprendendo tutti nelle loro attività. Aveva visto suo figlio sciogliersi per quel calore atroce... Ma lui era sopravvissuto, per ora, per poterlo raccontare. Ma raccontare cosa, raccontarlo come. Non si racconta l'orrore di quel calore che ti prende e ti sbalza lontano, bruciandoti i vestiti addosso e tatuando sulla tua pelle il fiore che porti sul panciotto.
Gli cadevano i capelli, se ne accorgeva; lunghi e morbidi un tempo, ora cadevano a ciocche per terra; erano biondi, ieri, ora bianchi come la neve e morti. Vagava e controllava se qualcuno era sopravvissuto e non trovava nessuno. Il solo fatto di esser sceso in cantina nel momento esatto dell'esplosione lo avevano salvato. Ed ora guardava il mondo distrutto e senza vita, di quella città ormai del ato.
E proseguì camminando, piano, sempre più piano, dentro quel mondo distrutto. Un suono! Simile al miagolio di un gatto, lontano, sotto le macerie. E lui si fece attento, guardingo, quasi avesse avvertito un pericolo personale. Si avvicinò piano al luogo di quel rumore e lo sentì di nuovo, distintamente, solo che non era il miagolio di un gatto, ma il gemito di un bimbo. Come era possibile che un bimbo si fosse salvato in quel disastro. E si mise a scavare, con le mani, velocemente, disperatamente. E sentiva che si avvicinava di più al bimbo, nonostante le mani si scorticassero con le macerie e si bucassero con chiodi e ferro. E continuava imperterrito a scavare, pregando quel Dio che, se ancora esisteva, doveva salvare quel bimbo, l'unica speranza di un nuovo mondo. E lo trovò, sotto le macerie, protetto da una porta che, fortunatamente, era caduta sopra la culla. Lo raccolse sorridendo, mentre calde lacrime rigavano le gote, bruciando sulla pelle arsa e sulle piaghe provocate dalle radiazioni. Alzò lo
sguardo al cielo in un muto ringraziamento e si accorse che altre persone uscivano dai loro nascondigli, gente che non sembrava umana, gente che non sembrava gente, ma animali feriti e distrutti da un immenso dolore. E non era forse così, non erano stati distrutti da una forza che poteva ancora ucciderli per i decenni a venire. Ma ora questo non importava. La vita, in tutta quella morte, vibrava potente nelle sue braccia, nel pianto di quel bimbo che svegliava tutti dal torpore del terrore. E lui coprì delicatamente, con i suoi vestiti, il bimbo dalla pioggia e si avviò lento verso il nulla intorno a se.
CAPITOLO PRIMO
Il problema crescente nella modernità è cercare un luogo dove i sogni possano sfogarsi. Ecco perché, da quindici anni, io scendo in cantina, regolarmente, almeno una volta ogni due giorni. E mia madre, da quando ho preso questa abitudine, mi richiama ogni volta alla normalità: “Filippo, Filippo, vieni qui, guarda, in tv c'è un bel talk show. Guarda, c'è il presidente che parla.” Ma che cazzo me ne frega del talk show? Sono così tranquillo in cantina, sto sognando di tornare indietro verso tempi duri e giusti, tempi di rovine e di guerre. E lei mi parla di tv? Ed io non rispondo, preferisco tacere e tornare a sognare. Ed è qui che ho iniziato a scrivere, soprattutto scrivo per me, per raccontare a me stesso come sono fatto. Ed i miei racconti li tengo chiusi nel cassetto di un vecchio tavolo, nascosti al mondo. I problemi del mondo, quando sono in cantina, non mi sovrastano, invece quando sono su e quando sono al lavoro mi distruggono e mi demoralizzano. Ed è per questo che scendo in cantina, per ricaricare le mie batterie e poter continuare a vivere e a subire. E questo è solo una parte dei miei problemi. C'è mia madre, assillante, che pensa che io ogni giorno debba star male. E allora cucina per me tonnellate di cibo, che io giornalmente devo ingurgitare. E non serve dirgli che non hai niente, che non hai fame, né sete, né sonno, che hai solo voglia di silenzio e di un foglio su cui scrivere. E non parliamo del lavoro, massacrante, più mentalmente che fisicamente, che mi uccide ogni minuto della mia vita; ma bisogna pur vivere di qualcosa. E così la cantina è l'unico mio rifugio, l'unica mia risorsa dove trovare un po' di pace e di tranquillità.
Mi guardo allo specchio stamattina… alto e dinoccolato, sembro un tronco di un albero senza foglie. Capelli biondi e occhi azzurri. Le donne mi trovano attraente, ma io non ne capisco il motivo e non cerco le loro attenzioni.
“Ieri ero al bar e, mentre bevevo una birra, una ragazza mi chiese se poteva unirsi a me. Accettai. Lei si sedette, ordinando anche per lei una birra. Per un attimo guardai il suo corpo, ben fatto; meravigliosa, capelli neri e fluenti sulle spalle, occhi nerissimi, come la notte e un corpo mozzafiato. E per un attimo, ma
solo per un attimo, ebbi l’improvviso desiderio di lei, di baciare quel collo ben tornito, quelle labbra carnose e quei seni magnifici e sodi. Ma l’impulso sparì di colpo, così chiacchierammo di cose futili e banali e dopo un paio d’ore andai via, lasciandola lì, sola, seduta al bar.”
Sono strano, vero, amo le donne, ma non cerco il sesso. Vorrei un giorno innamorarmi, però fino ad ora nessuna mi ha fatto voltare la testa e battere il cuore.
Distolgo gli occhi dallo specchio ed inizio a vestirmi. Non so neanche perché al mattino mi alzo, visto che il lavoro che faccio non mi piace, anche se lo faccio bene, e vorrei piuttosto scendere in cantina e leggere un buon libro. E mentre metto i pantaloni sento mia madre che urla dalle scale che è tardi e la colazione è già in tavola e che, se ricordo bene le regole e non scendo tra due minuti, non mangerò nulla. Come se mi importasse qualcosa di quella stupida colazione. Comunque mi affretto e scendo, solo per sentire mia madre lamentarsi che non mi sono pettinato e che sta invecchiando e che è piena di dolori e che dovrei essere più felice di quello che sono, perché secondo lei sono un uomo di successo. Consumo in fretta la colazione, visto che non ho molta fame, salgo su un attimo a finire di mettermi in ordine ed esco per andare al lavoro.
Le strade qui sono dritte e sembrano non finire mai. Devi stare attento a come cammini, il posto è pericoloso anche di giorno, potresti essere rapinato e ucciso, lasciato per terra morente e nessuno si fermerebbe a soccorrerti. Hanno tutti troppo da fare e troppa paura per fermarsi. L’essere umano alla fine è l’unico essere vivente che si riunisce in gruppi sempre numerosi, per aver meno paura e sentirsi meno solo, pur continuando ad aver paura e a sentirsi solo, soltanto per poca fiducia nel prossimo, chiaramente. Perché volenti o nolenti siamo animali e ci comportiamo in tal senso, rubiamo quello che ha il vicino, come un animale ruba il cibo ad un altro.
Mi incammino per la strada, facendo attenzione a non inciampare nelle buche
del marciapiede, e vi assicuro che i miei pensieri non sono mai felici. Avete mai provato a poggiare la testa sul tavolo in cucina e a rimanere dieci minuti fermi a chiedervi perché diavolo avete fatto questo lavoro? Bene, io si, lo faccio spesso. Perché quel giorno che ho detto di sì a mia madre, che mi proponeva di andare in quella maledetta scuola solo perché c’era più opportunità lavorativa, ecco, quel giorno mi si doveva seccare la lingua. Ed il bello è che, anche se lo odio, svolgo il mio lavoro con cura e sono molto meticoloso, sembro quasi avere un sesto senso.
Mi fermo davanti ad una edicola e il signore davanti a me mi da subito quello che voglio; sono venti anni che compro i giornali da lui, tutti i giorni identici, sempre lo stesso. Mentre cammino scorgo i titoli principali e vado in depressione; si parla di crisi, sempre di crisi, di guerre, di omicidi. Mai un bel titolo, mai una nascita. Le notizie belle, se ci sono, per sbaglio, sono confinate tutte nell’ultima pagina, tra gli annunci mortuari ed il cruciverba. Ed ecco perché compro il giornale, per il cruciverba. Tutte le mattine, da venti anni, entro in un bar, sempre il solito, bevo sempre il solito caffè, servito con una bustina di zucchero, che non uso, un cucchiaino, che rimane pulito, e una penna con cui compilo il cruciverba. Sono diventato così bravo da compilarlo in dieci minuti. E poi o altri dieci minuti, mentre il caffè nella tazzina si fredda, a guardare in giro la gente che fa colazione, che parla e sorride tranquillamente, nascondendo il fatto che, nel loro animo, hanno paura. Nascondono i loro problemi dietro ad un sorriso; sorridono con i denti e sbarrano gli occhi, impauriti dalla giornata che sta per iniziare. Oramai il proprietario del bar è abituato, arriva al tavolo con lo scontrino, ritira i soldi e porta via il caffè che io, come tutti i giorni, non ho bevuto. Mi alzo, mi incammino verso l’uscita e mi ritrovo nel caos del mattino. Dopo dieci minuti sono seduto in ufficio. Si! Un ufficio. Perché io sono il direttore della più importante banca del paese.
CAPITOLO SECONDO
Entrando in banca tutti mi salutano cordialmente, in apparenza. Il volere scalzarmi dal mio posto è in cima alla loro lista ed io li lascerei fare, se solo ne avessi la possibilità. Entro nel mio ufficio già di malumore, mentre la mia segretaria mi spiega gli appuntamenti della giornata e quali problemi ci sono stati in mia assenza. Ascolto distrattamente, mentre accendo il mio pc e inserisco la . La mia giornata è così iniziata, mille moduli da firmare, mille documenti da visionare, mille riunioni dove nessuno viene a capo di niente e infine tocca a me decidere. Verso le tredici decido di andare a pranzo in un piccolo ristorante vicino, dove mi reco spesso e dove si mangia veramente bene. È l’unica mia consolazione, perché posso mangiare ciò che voglio senza nessuno intorno. Esco dalla banca e attraverso la strada, rischiando di finire travolto da una ford rossa che sta cercando disperatamente un parcheggio. Si abbassa il finestrino e due occhi di un blu più blu del mare mi scrutano e un viso magnifico mi guarda preoccupata.
“Si è fatto qualcosa? Mi scusi, ma non riesco a trovare un parcheggio.”
E’ una voce gentile, quasi spaventata ed io reagisco di conseguenza, calmandomi e ritrovando quella quiete improvvisa che il cielo ha dopo la tempesta.
“Tranquilla, non si preoccupi. Va tutto bene. Non mi sono fatto assolutamente nulla.”
Ed entro nel ristorante. Il proprietario mi fa sedere al mio tavolo, lo stesso da venti anni. Mi guarda sorridendo e ammicca verso la strada.
“C’è mancato poco. Chi guida dovrebbe stare più attento e chi attraversa non dovrebbe farlo immerso nei propri pensieri.”
Ed io, sorridendo, annuisco. Ha ragione lui, ero immerso nei miei pensieri e non avevo visto la macchina.
“Per fortuna non è successo nulla. Può portarmi un secondo di pesce, per piacere? Faccia lei. E la solita insalata, grazie. Da bere acqua, come al solito.”
“Certo signore. La servo subito. Grazie a lei.”
E va via, silenzioso come era venuto. Mangio piano, senza preoccuparmi di quello che ho nel piatto, immerso così tanto nei miei pensieri da non rendermi conto della persona che ho davanti e che mi fissa incuriosita.
“O è un uomo molto pensieroso o molto maleducato. Sono qui da dieci minuti e non ha alzato gli occhi dal piatto. Spero non si sia fatto niente, mi dispiace molto per l’accaduto.”
Alzo gli occhi e resto folgorato. È una visione paradisiaca. Una donna magnifica, alta, occhi azzurri e capelli oro. Un angelo.
Sorrido imbarazzato, non sapendo bene cosa fare.
“Mi perdoni, ero immerso nei miei pensieri. No, grazie, non mi sono fatto nulla.
Cose che succedono, in questa città caotica. Ma prego, vuole accomodarsi o aspetta qualcuno. Può assaggiare questo meraviglioso piatto di… Ecco! Sono così profondamente immerso nei miei pensieri da non sapere cosa sto mangiando. Ed è sempre così. Però so che è buonissimo.”
“Non aspetto nessuno. Volevo mangiare qualcosa, da sola chiaramente. Accetto il suo invito e prendo lo stesso piatto senza nome.” Mi dice accomodandosi e sorridendomi.
Sono abbagliato dalla sua bellezza, non riesco a distogliere gli occhi dal suo viso. E a lei, accortasene, le si coloriscono le gote e diventa tutta paonazza.
“C’è qualcosa che non va? Ho qualcosa fuori posto?”
Ed io, sorridendo, la rassicuro.
“No, non ha niente fuori posto. Anzi, stavo ammirando i suoi occhi.”
E per più di una ora abbiamo parlato e chiacchierato tranquillamente. La conversazione è stata così piacevole che non mi sono accorto che era arrivato il momento di tornare al lavoro. La telefonata della mia segretaria, preoccupata del mio ritardo, il primo in venti anni, mi ha sorpreso e mi ha svegliato da un sogno. Ho risposto abbastanza maldestramente e le ho detto di trattenere gli ospiti, sarei arrivato in un istante.
“Le ho creato problemi al lavoro? Mi spiace. È stata una conversazione
bellissima, un pranzo veramente piacevole.”
“La ringrazio. No! Non mi ha creato nessuno problema. Ma ora devo scappare. Metta tutto sul mio conto, per piacere, Enrico?”
Vedo distrattamente che lei infila la mano nella borsa.
“No, signorina, insisto. È stato un piacere.” Fermo quella mano che fruga nella borsa in cerca del portafogli e, dopo aver salutato la mia nuova amica, torno alle mie occupazioni.
La giornata sembra non aver termine, piena di impegni e per di più senza alcuna voglia di adempierli. Mi è rimasto impresso indelebilmente il viso della ragazza. Durante il pranzo ero così nervoso e così imbranato da non aver pensato a chiederle il nome. Che cretino.
Esco dall’ufficio pensando a lei e dandomi dell’idiota al solo pensiero di non rivederla più. E invece è li, fuori dalla banca, appoggiata alla ford rossa che mi guarda sorridendo.
“Caro Signore. Sono più di quattro ore che la aspetto. Nessuno dei due si è degnato di chiedere il nome dell’altro. Eravamo troppo assorti a parlare. Ora, non mi piacciono tutte queste formalità, quindi, se vuole iniziare a darmi del tu sarebbe meglio. Mi chiamo Elena!”
“E allora che il “tu” sia. Io mi chiamo Filippo!”
“Bene! Devo chiedertelo io o preferisci farlo tu?”
Ed io imbarazzato e senza capire la guardo. “Cosa dovrei chiedere?”
“Vogliamo ancora uscire a cena? Vuoi?”
“Certo. Certo. Scusa, ma sono stanco e nervoso. Certo che voglio uscire ancora con te. Facciamo venerdì sera? Per te va bene?”
E lei, entrando in macchina, mi guarda sorridendo e annuisce con la testa. “A venerdì, allora!”
La macchina parte ed io sono rimango a fissare quel puntino rosso che piano piano svanisce, svoltando per una strada traversa. Dopo di che mi avvio con calma verso casa. Oggi no, non è stata una giornata qualunque.
CAPITOLO TERZO
Mi sono proprio innamorato di lei. Lo capisco da ogni minimo cambiamento nel mio umore. Il lavoro non è più un peso, perché so che a pranzo lei mi aspetta. Ascolta le mie lagne sempre con una parola di conforto, mi consola per quanto può e, infine, prima di andar via, mi bacia teneramente. È il mio angelo e la mia unica speranza di vita. Poi, alla fine della mia giornata di lavoro, lei è li, fuori dalla banca, sorridente; si affianca a me e cammina fino a casa mia, dove mi saluta senza mai entrare.
E la cantina, d’improvviso, non serve più. Sono perfettamente felice e non ho bisogno di altro.
Ed i giorni ano serenamente.
Elena un giorno mi ha invitato a casa sua, a cena. Per la prima volta nella sua vita, mia madre mi vede prepararmi a puntino, fischiettando. Mi guarda di soppiatto, come solo lei sa fare, arricciando il naso e sollevando con le gote gli occhiali. Non ho mai visto nessuno fare così, al di fuori di lei.
“Dove vai Filippo?” chiede trastullando con le mani il grembiule, convulsamente. È nervosa, perché ha capito che qualcosa è cambiato.
“Esco mamma. Tornerò un po’ tardi.”
“Dimmi la verità, esci con una donna. Stai attento alle donne, non sei abituato.
Non sono tutte come la tua mamma. Le donne ti rovinano.”
“Allora anche tu non eri come la mamma di papà e lo hai rovinato?” chiedo seccato e poi aggiungo, più dolcemente, cercando di mitigare con un sorriso la brutta risposta data, “Non preoccuparti, mamma. Esco solo con una amica. Devi stare tranquilla, non sono più il bimbo di una volta. Me la so cavare.”
“Lo so! Lo so che non sei il bimbo di una volta. Ma una madre ha pure il diritto di preoccuparsi. Io ti ho avvertito, stai attento.”
Ed esce, scendendo lentamente le scale, un gradino alla volta. Ogni volta che scende le scale mi accorgo che il suo o diventa ogni giorno più pesante e che invecchia.
Scendo e la saluto. Lei mi sorride e, come ogni volta, mi raccomanda di stare attento. Io entro nella mia auto, una bmw sprecata per me, perché vado a lavoro a piedi e non esco mai. La metto in moto, pensando che un cambio di olio gli farebbe bene, anche se non ho raggiunto il limite chilometrico. Mi avvio verso la casa di Elena, guidando lentamente perché non sono più abituato, o meglio non mi sono mai abituato, a guidare nel traffico. Arrivo sotto casa sua, lascio l'auto in un piccolo parcheggio a pagamento, leggo la scritta che dice “una ora per un euro”, prendo il biglietto distrattamente e parcheggio. In fondo alla strada avevo visto un fioraio, un piccolo negozietto che ha esposti dei meravigliosi mazzi di fiori. Mi incammino a piedi verso il negozio, entro e compro un mazzo di rose e di viole e, mentre esco, sorrido ripensando dentro di me che ho comprato quei fiori pensando ad una vecchia poesia, al sabato del villaggio del Leopardi “...reca in man un mazzolino di rose e viole, onde, siccome suole, ornare ella s’appresta, dimani al dì di festa, il petto e il crine.” Vecchi ricordi di scuola che ogni tanto riaffiorano nella mia mente.
Vado piano verso casa sua, senza fretta, arrivo sotto il portone di casa sua e guardo in alto. E lei è lì, che mi aspetta, sorridente. Apre il portone senza attendere il suono del citofono e io salgo lentamente le scale, anche se posso prendere l’ascensore. Voglio placare quel po’ di nervosismo che ancora mi rimane quando la incontro. Arrivo sul pianerottolo di casa sua e mi fermo, senza fiato. Ogni volta che la vedo provo un tuffo al cuore. È di una bellezza paradisiaca. Ed io ne rimango folgorato. E lei sorride sempre, anche questa volta, perché si avvicina e mi sussurra ad un orecchio: “Cosa fai? Entri? O ti devo portare la cena qui?” Sorrido! Ha quel potere assurdo di farmi sorridere, anche dopo una giornata estenuante lei ha il potere di darmi la carica. Sorrido ancora ed entro in casa. Con uno sguardo vedo subito che è piccolina, un piccolo appartamento molto ben tenuto, straripante di libri e di quadri, di soprammobili, statuine di ogni genere, ciondoli cascanti dalle pareti, fotografie. E un bel divano in un angolo in pelle nera, molto comodo a vedersi. Dall’altra parte della casa, proprio di fronte al divano, un muretto che divide la cucina dal salotto e a cui è appesa la tv, ultrapiatta, come si usano oggi. E due scaffali con un lettore dvd ed un vecchio videoregistratore. E sotto la tv una scrivania con un pc e vari cd e una stampante con dei fogli bianchi ed immacolati. E poi nell’angolo tra la cucina e la finestra una porta da ad un corridoio che porta di sicuro al bagnetto e alla camera da letto. Di certo non noto tutto in un sol colpo d’occhio, ma piano piano mi abituo a quella casa, che per me è bellissima. Il tavolo al centro del salotto è apparecchiato per due, con gusto, e un profumino arriva dalla cucina. E lei mi fa sedere sul divano, portandomi un bicchiere di vino e sedendosi accanto a me, appoggiando la testa sulla mia spalla felice e sorridente. E dopo due secondi la bacio, lentamente, mentre il mio cuore si apre a lei come un volo di gabbiani leggeri e tutti i miei pensieri di colpo spariscono. E lei lentamente si stacca da me, sorridendo, mi guarda a lungo negli occhi.
“Ora ceniamo, poi io e te parliamo un pochino. Voglio stare con te e godermi questa serata. Sono felice che sei qui. Credo di amarti, lo sai?”
“Anche io credo di amarti. Anzi, ne sono sicuro. Sono curioso di vedere cosa hai cucinato.”
E lei sorridendo mi invita a sedermi e va in cucina. Il pasticcio di anatra che ha preparato è davvero squisito. Deve aver intuito i miei gusti meglio di sicuro di mia madre. Comunque la cena è piacevole e lei mi tiene per mano. Sembra felice e questo riempie il mio cuore di una gioia infinita, mai provata. Dopo cena ci sediamo sul divano e lei mi bacia, cercando con la sua lingua la mia, in una unione perfetta ed inimmaginabile. Ed il contatto dei nostri corpi mi procura un'eccitazione inesprimibile, credo di volare. Le tocco le gambe ben tornite, le mie mani arrivano ai suoi seni sodi e lei emette un gemito folle. Le mie mani toccano il suo corpo, cercando naturalmente i punti più sensibili di lei, entrando nelle pieghe del suo corpo, dove prova più piacere. E lei si alza dal divano prendendomi per mano e mi porta in camera da letto. Inginocchiatasi accanto a me mi bacia lungo il corpo, toccando con la lingua le mie parti più sensibili. Non ho mai provato nulla di simile. Si spoglia piano davanti a me, rimanendo nuda ed indifesa, vulnerabile e bellissima. Ed io la bacio ancora, le bacio il seno turgido e la tocco tra le cosce, delicatamente, fino a farle emettere un grido di ione. E poi tutto è bellissimo, come il temporale che finisce e il vento che porta le nubi di pioggia lontano, lasciando il sereno. Così è stato per me far l’amore con lei. E lei urla di piacere nel momento in cui i nostri due corpi raggiungono il culmine, raggiungono l’orgasmo. E rimango con lei, abbracciato a lei, sorretto dal suo animo, mentre lei lentamente si aggrappa a me e si addormenta sorridente. Ed io la guardo a lungo, prima di piombare in un sonno profondo e pacificatore. Domani non devo andare al lavoro, quindi posso rimanere con lei. E mentre mi addormento, spero con tutto il cuore che lei non vada via, che non porti via con se quella felicità che ho trovato e che non ho mai più avuto lontano da lei.
CAPITOLO QUARTO
Mi sveglio al mattino fresco e riposato. E’ un mese che vado da Elena tutte le sere. E oggi è il primo giorno che mi alzo da solo. Perché mia madre si è sentita male ed io sono dovuto rimanere a casa. Tra un po’ chiamo Elena e vedo come sta. Lei è diventata la mia ancora di salvezza; mi ascolta, mi consola, sa tutto di me e del mio lavoro. Mi dice che io di notte parlo, e che quindi sa tutto dei miei problemi. Ma non mi devo preoccupare, perché il segreto è nascosto in lei; ed io le credo. Vado un attimo in camera di mia madre, dove lei riposa affannosamente. Ha la febbre alta. Il dottore dice che è un forma di polmonite acuta e cronica che è sfociata di colpo. Dice che se erà la settimana, ci sono buone possibilità che sopravviva. Lo spero, perché le voglio molto bene. Scendo in cucina dove preparo il caffè e intanto telefono ad Elena. Al terzo squillo risponde.
“Va tutto bene?”
“Certo che va tutto bene, ora. Come stai?”
“Sto bene, ma mi manchi. Vuoi venire qui?”
“Ma c’è tua madre.”
“Ma è in camera da letto, con la febbre, se vuoi vieni.”
“Va bene, vengo subito.”
Queste sono le parole che ci siamo detti per telefono. Dopo una mezz’ora la vedo arrivare, con la sua ford rossa che ho imparato a riconoscere. Sorrido felice e le apro la porta. Lei entra e mi abbraccia forte, baciandomi teneramente. Poi la porto in cucina dove le preparo un caffè, che beviamo insieme lentamente. Ad un tratto mi chiede della cantina. Io mi alzo e la accompagno e lei rimane impressionata dalla quantità di libri e da tutto quello che negli anni ho scritto. Sembra felice di stare con me, anche se spesso mi fermo a pensare come una ragazza bella come lei possa stare con me. Saliamo su in camera da letto e lei guarda mia madre. Gli occhi si fanno improvvisamente tristi e mi accarezza.
“Filippo, amore, devi farti forza!”
“Ma guarirà, Elena, è una donna forte, stai tranquilla.”
Vedo Elena che si avvicina al letto e si mette una mano sulla bocca, come a reprimere un urlo e poi, girandosi verso di me dice:
“ Dio, Filippo! E’ morta.”
“Ma che dici!” dico con voce alterata, entrando in camera ed avvicinandomi al letto “Non è possibile che sia morta. Guarda che probabilmente dor…..” E le parole mi si fermano in gola. Lei è li, stesa sul letto, serena, come se fosse felice di finire così la sua vita. La guardo a lungo, senza riuscire a piangere o a dire soltanto una parola. Ed Elena è li, accanto a me, appoggia una mano sul mio braccio e mi cinge forte. E una voce interna mi dice che lei è la donna che mi starà accanto per tutta la vita. Ed io ho il bisogno di sentire una voce del genere, e la ascolto.
È lei, Elena, ad organizzare tutto. Chiama il medico, chiama l’impresa funebre, organizza tutto. Ed io resto li, inebetito, sordo al dolore, al troppo dolore. E non mi accorgo neanche quando il carro funebre arriva, quando la bara viene portata in camera e mia madre vi viene deposta. Non mi accorgo quando arriva il parroco a portare l’estrema unzione e a benedire la salma. Cammino come un automa verso la chiesa, ascolto senza sentire l’omelia e la messa e mi faccio portare quasi di peso in cimitero, dove mia madre viene seppellita nella tomba di famiglia. Elena, per essere più tranquilla, vuole portarmi a casa sua, ma io, subito dopo il funerale, voglio andare a casa e lei decide di venire con me. È li che mi sveglio, quando, sedutomi sul divano, vedo il telecomando sul tavolino e sento la sua voce chiamarmi: “Filippo! Filippo! Vieni su che c’è un bel film in tv, non startene rintanato in cantina!” E gli occhi si riempiono di lacrime, premo il viso nelle mani ed inizio lentamente a singhiozzare, disperato. Ed Elena arriva subito, abbracciandomi forte. Mi lascio andare in quell’abbraccio, piangendo come un bimbo e calmandomi piano piano. E lei mi coccola, mi bacia, dicendomi che va tutto bene, che tutto si risolverà e che lei sarà sempre lì, al mio fianco.
CAPITOLO QUINTO
Elena ha venduto casa sua ed ora vive con me, in casa di mia madre. Non ha fatto molti cambiamenti, ha soltanto portato le sue cose, riempiendo così i pochi spazi rimasti vuoti. Io, dietro suo consiglio, scendo ogni tanto in cantina e scrivo tranquillamente. Lei dice che devo farlo perché le cose che scrivo sono magnifiche ed è un peccato non scrivere. Sono felice, anche perché lei, originaria del sud e molto legata alle tradizioni, alla fine dell’anno di lutto vuole sposarmi. Per adesso mi vizia e mi coccola. Anche al lavoro si accorgono tutti che sono cambiato, che non sono più lo stesso. Tendo di più al sorriso, sono meno cupo e meno severo. E gli affari ne risentono positivamente; infatti il consiglio di amministrazione mi ha dato un bell’aumento, adducendo come motivo il fatturato positivo della filiale che dirigo. Non posso di certo lamentarmi, ora; gli affari vanno bene, la vita privata anche, che cosa ho da lamentarmi.
Sono svegliato dal suono del telefono. Ma che ore sono? Le cinque. Chi è che chiama a questa ora.
“Pronto? Si! Sono il socio maggioritario della sua banca. Certo. Vorremmo vederla immediatamente. È urgente. La prego di venire qui subito. Certo la aspettiamo nella sua filale!”
Mi alzo in fretta, faccio una doccia veloce, sveglio Elena per avvisarla e scappo via. Deve essere una rapina o un incendio. Di sicuro qualcosa di grave perché il socio maggioritario si scomodi a venire nella filiale. Corro attraverso le strade deserte della città, dove si vedono soltanto barboni che si muovono sulle panchine avvolti ancora dal sonno della notte ed i primi camion della nettezza urbana. Ad uno svincolo debbo fermarmi per lasciar are una autoambulanza ed una volante della polizia e poi attraverso di corsa il aggio pedonale. Corro a perdifiato perché ho un presentimento orribile. Arrivato davanti alla filiale
della banca vedo due limousine e una volante della polizia. Non capisco, mi sembra troppo poco per essere una rapina o un incendio. Entro dalla porta principale e un poliziotto mi chiede documenti e poi mi indica la porta del mio ufficio. Mi avvio piano cercando di riprendere fiato dalla corsa e busso.
“Avanti!” è la risposta irritata e burbera di qualcuno che è abituato al comando e che è nervoso probabilmente per la levataccia.
Apro la porta e, seduto alla mia scrivania, c’è un uomo di mezza età non troppo alto, baffi curati e folte sopracciglia. Mi guarda di soppiatto e si torce nervosamente le mani. Non è solo. Seduti sulla poltrona ci sono altre due persone, uno ben vestito, calvo con due occhiali molto spessi, tiene sulle gambe un cappello e muove nervosamente la gamba accavallata, l’altro è vestito con un giaccone da mezza stagione e tiene un blocchetto degli appunti in mano.
“Mi ha chiamato, signore?” dico rivolgendomi all’uomo seduto in scrivania.
“Si! Abbiamo bisogno di lei per una questione della massima urgenza e gravità. Ci sono azioni intollerabili e questa levataccia non è solo il frutto di un capriccio, ma qualcosa di ben più grave. Ci sono cose che non si posso occultare per sempre, prima o poi vengono a galla. Noi le abbiamo dato la massima libertà e la abbiamo ricompensata generosamente. E non ci aspettavamo una situazione del genere.”
“Non capisco, sinceramente, a cosa si riferisce, signore!” dico sorpreso. “Il mio lavoro è, a detta di tutti qui in banca, irreprensibile. Se c’è qualche problema la prego di farmene partecipe ed io tenterò di risolverlo nel migliore dei modi!”
“Un problema? Lei lo chiama un problema? Un ammanco di un milione di euro nella sua filiale lei lo chiama semplicemente un problema? E poi venire qui e scoprire che è stato lei a firmare il permesso di dare questi soldi ad una società che non esiste e che lei, di sicuro, non si è preso la briga di controllare? Questo lei lo chiama un problema?”
“Io non capisco! Quale ammanco, quale permesso. Io non credo di aver firmato nulla! Di sicuro è una firma contraffatta!”
“Questa firma è la sua o è contraffatta? Me lo dica lei!”
Prendo i documenti in mano e sbianco, riconoscendo il logo e la mia firma. Sì! Sembra tutto autentico e se è falsa è stata falsificata per bene.
“Devo ammettere, signore, che sembra la mia. Ma, come lei sa, mi vengono fatte firmare decine di fogli ogni giorno e non posso leggerli tutti. È possibile che abbia firmato senza leggere. Stamattina farò di tutto per recuperare l’ammanco e cercherò il responsabile, licenziandolo e consegnandolo alla giustizia!”
“Lei non farà niente di tutto questo. Perché lei da adesso è ufficialmente licenziato e denunciato per frode ai danni della nostra banca. Abbiamo scoperto, anzi, l’ispettore seduto qui vicino a me ha scoperto, che la società a cui sono stati versati i soldi è registrata a suo nome. Lei ha creato una società fittizia per il solo scopo di truffare la banca!”
“Io non ho creato nessuna società fittizia. Vi sbagliate!” Urlo sbiancando in volto. Sono stato abilmente incastrato da qualcuno che vuole la mia pelle ed ha approfittato del mio stato di distrazione per approntare un piano. Mi hanno
incastrato come un bambino.
“Se lei è innocente o colpevole lo diranno le indagini e il processo. Intanto, per paura che lei possa inquinare le prove o tentare di scappare all’estero, sono costretto a trattenerla agli arresti.” dice l’ispettore di polizia alzandosi.
“Ma io….” Balbetto inorridito. “Io non c’entro niente. Voi non potete arrestarmi, venti anni di onorato lavoro e voi mi arrestate senza darmi ascolto, senza credermi e senza appello. Signore, lei non può farlo.”
“Caro direttore!” dice il socio maggioritario “Qui in banca contano i soldi. Basta un piccolo errore per rovinare una carriera e l’errore da lei commesso, se è stato un errore, è molto più che piccolo, è enorme. Anche se lei non ha truffato la banca, cosa che io non credo, ha comunque commesso una negligenza firmando dei documenti senza prendere visione. E qui in banca, ogni errore significa perdere denaro e ogni perdita di denaro la si paga con il licenziamento. Quindi se lei è innocente riguardo alla truffa, saranno le indagini a confermarlo. Per noi rimarrà comunque colpevole di negligenza. Addio, mio caro ex direttore.”
E con queste parole vengo accompagnato fuori dall’ispettore di polizia, che mi consegna ad un agente e vengo portato in commissariato.
La parte peggiore dello stare in prigione è che nessuno ti crede quando ti dichiari innocente. “Si certo! Qui siamo tutti innocenti!” E ti ridono in faccia.
Per me questa è la cosa più deprimente di tutte. Ed io sono sul serio innocente, ma non so come dimostrarlo. Sono in trappola, lo so e non c’è una via di uscita. Sono realmente stanco. Elena è stata avvisata dal commissario Rossi, adesso so
come si chiama. Lei è venuta in commissariato, mi ha guardato ed io ho visto che neanche lei crede alla mia innocenza. Le prove sono troppo schiaccianti. Abbiamo parlato e lei, per la prima volta, è stata molto dura con me. Mi ha detto che, se non dimostrerò la mia innocenza, lei non tornerà con me, che lei non vive con un ladro ed un truffatore e che, anche se mi ama molto, farà in modo di starmi lontano.
Poi, prima di andare via, mentre io la guardo seduto dall’altro lato del tavolo, si piega verso di me e mi sussurra, piano: “Sai! Stasera volevo darti la bella notizia. Ero così felice di quello che avrei dovuto dire. Sei riuscito a rovinare tutto. Comunque sono incinta. Terrò il bambino ma, se non risulterai innocente, farò in modo che tu non lo veda mai. È una promessa. E soprattutto non gli parlerò mai di te. Non voglio che si debba vergognare di avere un padre ladro.”
“Ma tu devi credermi, Elena. Almeno tu devi credermi. Io sono innocente.”
“Io credo soltanto ai fatti, Filippo. Ed i fatti dicono che sei colpevole. Le indagini andranno avanti e se risulterai innocente, sarò la prima a chiederti scusa e a tornare con te. Io spero che tu sia innocente, ma ho dei forti dubbi. Addio, per ora!”
Sono rimasto di stucco. Avevo pensato che almeno lei avrebbe creduto alla mia innocenza e invece avevo avuto una bella doccia fredda. Guardo davanti a me e vedo il mio viso riflesso alla finestra che ho di fronte. Ed è il viso di un uomo finito.
In quel momento il commissario Rossi entra in parlatorio, si siede davanti a mi fissa cupo e pensieroso.
“Lei non è in una bella situazione. Le prove sono schiaccianti. Però io sono quasi sicuro che lei non c’entra nulla. Il solo unico suo sbaglio è aver firmato documenti senza leggerli. Inizierò a fare le indagini e se troverò qualcosa la scagionerò. Però dovrà avere pazienza.”
“Sono nelle sue mani, Ispettore.”
Lui si alza dalla sedia ed annuisce piano. Poi va via ed io vengo accompagnato in cella. Steso sul letto guardo il soffitto e non credo a quello che mi è successo. Quanto dovrò rimanere in questa prigione. Questo non lo so, ma lo scoprirò presto.
CAPITOLO SESTO
La vita in una prigione è orribile. Ci sono malviventi di tutti i tipi e devi seguire determinate regole, se vuoi sopravvivere. I pasti li consumiamo in cella e le personalità più potenti e brutali finiscono per rubarti il cibo, senza che tu possa lamentarti. Tutto si svolge in cella, non c’è quasi niente in comune, tranne l’ora d’aria. Io frequento la biblioteca del carcere, dove leggo molti libri e poi frequento i corsi di informatica e di pittura, quando li fanno. Faccio di tutto per are il tempo, nella speranza che il tempo i in fretta e possa uscire da questo incubo. Non ho grossi problemi con nessuno, perché io rispetto le regole, ma c’è una persona che mi sta troppo vicino; è un uomo alto e corpulento, arrestato per violenza su minore e pedofilia; dicono sia gay, ma io non so, cerco comunque di stare tranquillo e di evitarlo per quanto posso.
Le guardie sono severe, ma buone per quanto possibile e, se ti comporti bene, sono tolleranti e ti danno qualche piccola libertà. Il problema è che siamo in tanti, in troppi ed è giocoforza che alcune regole non riescono a farle rispettare. A volte qualcuno, troppo debole per sopportare le varie angherie ed i soprusi normali in un carcere, si suicida. E le guardie riescono molte volte a salvarli, ma ci sono momenti in cui arrivano troppo tardi e non resta loro che staccarli dal soffitto e portarli all’obitorio.
E per chi non rispetta le regole tra carcerati, ci sono punizioni inflessibili, che vanno dalle minacce e dalle intimidazioni, alle botte e alle volte a veri omicidi. Ho visto più di una persona impiccata da più uomini e spacciata per suicidio. È terribile vivere con questa ansia, non sapere mai come ti devi comportare, perché non sai come il tuo vicino possa reagire. Comunque fino ad ora è andata bene.
È un lunedì. Ieri è stata una domenica tranquilla. Sono andato a messa nella cappella del carcere e poi sono stato in biblioteca il più possibile. Adesso sto andando in parlatorio, c’è una visita. Spero sia Elena, ma è più di un anno che
sono in carcere e non si è mai fatta sentire. Invece, seduto che mi aspetta, c’è l’ispettore Rossi. Lo guardo e lui abbozza un sorriso rassicurante.
“Le indagini vanno avanti. Non deve preoccuparsi. C’è una pista interessante. Pare che un suo collega sia sparito. Da alcune ricerche sembra che abbia preso un volo per le isole Cayman. E sembra che un conto corrente a nome del suo collega sia stato aperto in quelle isole e che la società aperta da lei abbia trasferito i soldi in quel conto. Considerando che lei è qui e che i soldi sono stati trasferiti prima che il conto venisse bloccato, mi sto chiedendo se il suo collega non abbia architettato tutto per danneggiarla e per arricchirsi alla spalle della banca. Ho mandato, quindi, un mio collega sotto falsa identità alle isole Cayman, con l’ordine di fare amicizia con il sospettato e di cercare di capire come ha fatto a diventare così ricco. Spero che lui riesca a raccogliere tutte le prove. In questo caso ho già pronta la domanda di estradizione e lei sarà libero. Abbia ancora un attimo di pazienza.”
“Grazie Ispettore. Questa è per me una buona notizia. Ho finalmente una speranza. A proposito, lei sa qualcosa di mia moglie? È quasi un anno che non la vedo.”
“Si! So qualcosa. E mi dispiace dover fare io da tramite in queste cose. Mi ha chiesto di convincerla a firmare questi documenti. Sono i documenti per il divorzio. Ha detto che non vuole più essere sposata ad una ladro. Io le ho detto che probabilmente ne uscirà innocente, ma lei non ha voluto sentir ragioni. Senta, Filippo, io le consiglio di firmare. Sua moglie non la ama più, da quello che ho potuto capire.”
Guardo i fogli, stanco. Ho capito tutto. Leggo i fogli e mi accorgo che comunque lei non vuole la casa, ma che porterà via tutti i mobili. Sospiro e firmo. Mi alzo e saluto l’ispettore, ringraziandolo per tutto quello che sta facendo per me.
“Non si preoccupi. Ne uscirà completamente pulito.”
Mentre torno in cella, accompagnato da un secondino, c'è un piccolo trambusto durante l’ora d’aria. Il secondino, dovendo correre a sedare il trambusto e sapendo che io sono una persona tranquilla, mi raccomanda di aspettarlo li, in corridoio, e scappa verso il cortile.
Appena resto solo, il tizio che mi sta addosso esce da una stanza accompagnato da altri due uomini. Si avvicina a me e mi dice, anzi mi ordina, di baciarlo. Io mi ritraggo, dicendo che io non sono gay e che non lo avrei mai baciato. Al che i due uomini mi prendono per le braccia, picchiandomi e maltrattandomi. Un calcio nella stomaco mi costringe a piegarmi su me stesso e loro, ridendo, mi tirano via i pantaloni. “Ora ti divertirai insieme a lui, vedrai che bello. Sei proprio una checca, hai il fisico da donnicciola.” E quell’uomo ridendo mi sodomizza. Io, per evitare di essere pestato ancora, o ucciso, resisto al dolore di quella tortura e, quando tutto finisce, cado a terra esausto. E quell’uomo si avvicina a me e mi sussurra piano: “Tu non hai visto niente, non sai chi è stato. Altrimenti saremo costretti ad ucciderti e non vale la pena di uccidere una checca come te. Ti voglio dire una cosa, non è stato un gran che, non sei stata una bella scopata. Tranquillizzati, non succederà più, non mi è piaciuto. E se te ne starai tranquillo non ti succederà nulla.”
Così sorridendo mi lasciano li, per terra, e vanno via.
Dopo mezz’ora, arriva il secondino che mi accompagna in infermeria. Non dico nulla e non fiato. Dico che non ho visto in volto le persone che mi hanno aggredito, perché erano camuffate e mi avevano pestato e buttato per terra. Da quel momento la vita diventa un incubo. Mi lasciano in pace, ma ogni occhiata dei tre mi fa fremere di paura e di notte non riesco più a chiudere occhio. Le lacerazioni fisiche ano in fretta, ma, da quel momento, non riesco più ad aver fiducia nel genere umano.
CAPITOLO SETTIMO
L’Ispettore Rossi si alza dal letto al suono della sveglia. Sembra che, da anni, tutte le mattine, qualcuno si diverta a prenderlo a bastonate. Geme mentre si gira sul fianco, deciso a prendersi ancora cinque minuti. Ma la sveglia suona implacabile e subito sua moglie entra in camera, apre le finestre e lo desta definitivamente. Non si alza dal letto, ringraziando Dio che sua moglie almeno una brutta abitudine la ha persa negli anni, a furia di pregarla; adesso entra in camera in silenzio, mentre prima lo svegliava parlando e lui non capiva mai cosa diceva. Adesso entra silenziosamente, anche se lui preferirebbe non vederla affatto, apre le imposte e va via. Dopo due minuti che è andata via si sente il profumo del caffè e dei cornetti caldi. Allora si alza e scende a far colazione. Il giornale, fresco di stampa, lo aspetta accanto alla tazzina del caffè e lui lo apre rassegnato ancora prima di sedersi.
Ma quel mattino decide di prendersi ancora cinque minuti. Gli ultimi mesi erano stati estenuanti. Non riusciva a trovare il bandolo di quella assurda faccenda del milione di euro…. Lui crede all’innocenza di Filippo, ma non sa cosa fare. Aspetta buone notizie dalle Cayman, ma sa che sarebbe stata una lunga attesa. Si rigira sul fianco e guarda la sveglia. Le sei e un quarto. Da quindici anni si alza tutte le mattine, preciso come un orologio, alle sei e dieci. E puntualmente esce alle sette. L’auto lo aspetta li dove lui ha parcheggiato la sera prima. Ma stamattina ha deciso di aspettare cinque minuti in più. Si alza piano e va in bagno a farsi la barba. Ecco un’altra eccezione alla regola, lui la barba non la fa mai prima di colazione. Dopo di che decide di scendere, lentamente. La moglie lo guarda stranamente. “Hai già fatto la barba?”
Lui risponde con un grugnito.
Mangia metà cornetto e beve il caffè. Va su a vestirsi e a finire di prepararsi. Esce di casa ed entra in macchina.
La vita è una eclissi totale di luce. Anche se fuori c’è il sole, anche se il mondo gira comunque senza di te, alla fine il buio che hai dentro non si dirada, anzi, si accentua ogni giorno di più. Le strade sempre uguali, come manifesti identici attaccati di seguito ai muri. Il cibo sempre identico, di sapore identico, colore identico, sentore identico. Anche il malessere identico, come se tutto il mondo fosse una copia di un altro mondo già ato, già vissuto e tuttavia mai mutato. La vita con i suoi perché non ti riduce il cuore in brandelli, ma lo divora intero, lasciandoti l’illusione di vivere, mentre sei soltanto un automa, un essere che cammina ancora, malgrado tutto, facendo tutto quello che i manifesti colorati, attaccati al muro uno dopo l’altro e tuttavia identici, ti dicono di fare. Bevi quella bibita, mangia quel panino, vestiti in questo modo, compra quel telefono, vai in quel luogo e vivi come quel tale attore famoso. E la tua vita diventa inutile, perché non puoi sempre fare le stesse cose, non puoi sempre esistere. Ogni tanto devi vivere… e ti ribelli.
Ti ribelli a quel nulla intorno a te, sollevando il mondo oscuro con le tue grida, con gli urli assordanti di una ribellione interiore. Ed in quel momento vedi la luce, giusto per un secondo, fino a che il buio, il freddo che entra nelle tue ossa, non ti riporta giù, non ti fa abbassare la guardia e spegne la rabbia in te. Allora la porta si chiude e tu vivi nel ricordo di quel sole, di quel calore abbagliante che non hai sognato, che hai visto e che ormai è finito.
Pensieri come questo devono are nella mente di un uomo che ha a che fare quotidianamente con la morte. Quel tipo d’uomo deve essere cinico e guardare la vita come ad una indagine incompiuta, da visionare freddamente e dipanare come una matassa ingarbugliata, che non ha un filo visibile e che solo lui deve trovare.
Ma lui pensa, mentre piano guida verso il commissariato, a queste e ad altre cose, chiedendosi come si fa a combattere il male, se questo è radicato anche dentro te, se tu lo senti che si dibatte dentro il tuo animo e ringhia come una animale in trappola, pronto a balzare verso la vittima, appena possibile.
Parcheggia a cento metri dal commissariato, scende, guardando tutte le auto in giro e, per abitudine, i numeri di targa e si incammina, controllando ogni ante, alla ricerca di un indizio che denoti insicurezza e stanchezza. E non trova nulla o non ha la forza di riconoscere.
Il suo ufficio è, come al solito, strapieno di fascicoli di casi irrisolti, sospesi o da riguardare. Si siede alla scrivania, li mette tutti da parte e appoggia la testa tra le mani, in un atteggiamento di disperazione tale da far girare la testa a tutti quelli che ano. Ma alla fine non è poi così disperato, ha solo bisogno di raccogliere le idee, quel mattino, prima di iniziare il lungo lavoro di scavo, alla ricerca di una verità che a volte non si dimostra tale, ma che è necessaria per farlo sentire importante, apprezzato e a posto con la sua coscienza.
Tutto l’odio che c’è nel mondo divora, come il pasto di un condannato, preferibilmente la gente che ne prova di meno. Il destino non è in parte avverso, ma incline a trattare l’uomo come la pedina di una scacchiera. E nel gioco del destino nessuno è immune dallo scacco matto del tempo. Il sole non si alza tutte le mattine per niente, ma per portare un po’ di vita e di pace ad un mondo che, invece di riposare, è stressato dal buio di un segreto inconfessabile e aspetta soltanto l’arrivo del sole per ristorarsi.
Tutte le mattine ti alzi per camminare, consumare energie e lavorare. Quando basterebbe un ora di cammino, arrivare vicino ad un campo e cercare tutto quello che ti può nutrire per poi tornare a casa a giocare e sognare. Ed invece ti alzi e ti affanni alla ricerca di qualcosa che alla fine non trovi, perché non esiste ed è senza senso.
Si riscuote dai suoi pensieri, troppo tormentati oggi. Non gli è mai successo prima di sentirsi così strano, così incline al lugubre pensiero. Di solito agisce come un automa, ma qualcosa quella notte lo ha svegliato dal torpore, aprendogli
gli occhi e riempendogli la mente di parole, che non riesce a mandar via.
È così strano che decide di andare a parlare con Filippo. Vuole sapere come sta, come se la cava. Certo è penoso vedere una persona, di sicuro innocente, perché lui è sicuro che è innocente, dibattersi in quell’orrore che è il sistema carcerario. Ma lui non può far nulla, se non aspettare e sperare.
E chiama la volante, che lo porterà fino all’istituto penitenziario.
Seduto sul sedile posteriore della volante, senza pensare assolutamente a nulla, imponendosi di non pensare, chiude gli occhi e nel nulla del suo pensiero vede, finalmente, la verità. Lentamente sorride e rimane con gli occhi chiusi fino a quando l’auto non si ferma. Tutta la verità è entrata nel suo nulla ed ora lui sa cosa fare. Non dirà niente a nessuno, ma sa che deve telefonare al suo uomo alle Cayman. Gli ordinerà di farsi avanti, di portare al termine la sua missione, con una azione audace e pericolosa, ma necessaria per arrivare a quella verità che tanto costa, alle volte, al genere umano.
CAPITOLO OTTAVO
Ed eccomi finalmente libero.
Sono appena uscito dal carcere ed ora, seduto su un marciapiede, aspetto l’ispirazione per andar via o che svanisca piano l’illusione di vedere Elena venire a prendermi, sorridendo. Le mie mani stringono una borsa di jeans blu, come quella dei marinai e i miei occhi vagano lenti sul quel mondo che sembra tanto cambiato.
Stamattina il direttore del carcere mi ha dato la bella notizia. Posso uscire, perché è tutto finito. Dopo una ora è venuto l’Ispettore Rossi, sorridente. Mi ha raccontato che il truffatore è stato truffato, tratto in inganno e portato in Italia quasi di nascosto. E poi costretto da un interrogatorio serrato di due giorni a parlare. Aveva preso i soldi per se e doveva dare comunque la colpa a qualcuno. E allora ha scelto la persona più esposta, quella che doveva reggere il peso di tutto.
Adesso capisco. Sono stato calunniato e professionalmente distrutto. Ma non mi importa più di tanto. Il pensiero più grosso e il rimorso più pesante lo provo per Elena e, soprattutto, per il figlio che, di sicuro, è nato. A questo proposito chiedo notizie di Elena e di mio figlio.
L’ispettore mi guarda sorpreso. “Figlio? Non c’è nessun figlio. Se le ha detto questo vuol dire che ha mentito. Mi stia a sentire, Filippo. Quella donna, a mio parere, non la ha mai amata. Voleva solo vivere agiatamente. E, per un po’, c’è riuscita. Ora vive, per quanto ne so, lontano con un altro uomo. Quella donna ha sempre finto. Mi creda. Ne ho viste milioni di donne così.”
Abbasso la testa, al pensiero di quel colloquio. Poi mi alzo piano e mi incammino verso la fermata dell’autobus. Salgo e pago il biglietto. Poi mi siedo e aspetto.
La gente, come le bestie quando sentono la paura, sentono che in te c’è qualcosa che non va, qualcosa di non detto. E si scostano da te come se hai la lebbra, come se lo starti vicino acuisse quella sofferenza tipica delle persone inutili. E così tutti si allontanano da me sull’autobus. E io improvvisamente mi riscuoto dai miei pensieri e mi ritrovo praticamente solo, mentre tutti si ammassano all’inizio e alla fine dell’autobus. Finalmente, troppo tardi, per l’impazienza di star solo, e troppo presto, per la poca voglia di arrivare, mi ritrovo davanti alla casa di mia madre. L’ispettore mi ha riconsegnato le chiavi, quel mattino, dicendo che mia moglie gliele aveva affidate. Apro la porta di casa ed entro in quella casa vuota. Vuota non soltanto di sorrisi e di amore, ma vuota anche di mobili e di suppellettili. Mia moglie non ha portato via nulla per se, ma ha venduto tutto per tenersi i soldi. Sorrido, amareggiato, e vado in cantina, dove, fortunatamente, c’è ancora tutto. Trovo un lettino da campo, di quelli che si mettono nelle tende quando si va a far campeggio. Lo porto su e mi stendo, cercando un po’ di riposo. So benissimo che tutto non sarà mai come prima, che il sole si è irrimediabilmente chiuso sulla sua testa e che la fortuna, che mi aveva leggermente sfiorato, non tornerà mai più. Lentamente, con una lentezza che non tiene conto delle sue aspettative, mi addormento, ritrovando per una attimo la pace dell’uomo libero che non riesco a trovare da sveglio.
CAPITOLO NONO
Il problema di ogni persona che rimane per molto tempo in carcere è che si comporta come un animale che è stato rinchiuso per molto tempo in gabbia. Ora, se l’animale è stato soltanto rinchiuso, quando esce annusa un po’ l’aria, perplesso, e poi scappa nella foresta, invece quando è stato anche maltrattato, si rintana sul fondo della gabbia e non vuole uscire. Io sono uscito dalla gabbia e mi sono rintanato in casa, da dove non esco per molti mesi. Consumo tutti i pochi risparmi che ho per mangiare e poi sono costretto ad uscire per cercarmi un lavoro.
Ma non è facile per un ex galeotto trovare lavoro.
“Che altri lavori ha svolto prima?” E’ la domanda ricorrente. “Bè! Ero il direttore di una banca. E poi… sono stato in carcere. Era una accusa ingiusta e sono stato riabilitato!”
“Va bene. Le faremo sapere.” Questa è la risposta.
Chiaramente nessuno si fa risentire. Non importa a nessuno se tu sei innocente. Importa soltanto che sei stato in galera.
Comunque riusco a trovare un lavoro come lavapiatti. Sottopagato, sfruttato, lavorando dodici ore al giorno per seicento euro al mese, riesco a sopravvivere a stento. Però, quando torno a casa, esausto, a sera inoltrata, trovo il tempo di fare quello che non facevo da anni. Riesco a trovare il tempo di scrivere. E così, pagina dopo pagina, rigo dopo rigo, scrivo un romanzo. Tutte le notti rimango
sveglio per ore a scrivere, fino a quando non crollo sui fogli bianchi. Parlo di me, del mio ato, di colpe non mie che ho dovuto espiare. Parlo del carcere, parlo di Elena, con amarezza e rimpianto. E quando il romanzo è finito, quando mi alzo dalla sedia e guardo i fogli sul tavolo, non sapendo più cosa scrivere, mi sento soddisfatto e impaurito. Sì! Proprio soddisfatto ed impaurito. Ho riversato in quei fogli tutta la mia amarezza e la mia rabbia. Mi sento libero e vuoto da ogni pensiero, da ogni dolore. Sono finalmente libero. Libero di vivere la mia vita. Ora tutti i miei dispiaceri sono imprigionati in quei fogli scritti minuziosamente. Come facevo quando era giovane, prendo quei fogli e li chiudo in un cassetto, ripromettendomi di farli leggere a qualcuno, anche se non so bene a chi.
Facendo il lavapiatti ho iniziato a parlare anche con altre persone, cuochi e camerieri e con il proprietario del ristorante che, lasciando perdere il troppo lavoro che affibbia a tutti, è un bravo uomo, in fondo. Parlando con lui, un giorno, mi capita di dire che di notte scrivo e che ho scritto un racconto.
“Hai intenzione di pubblicarlo?”
“Non so! A chi interessa leggere le disgrazie di un uomo!”
“A milioni di altri uomini pettegoli.” Il mio datore di lavoro sorride, incoraggiandomi. “Senti! Ho un amico che fa il giornalista. Proviamo a chiedergli che ne pensa. Magari può aiutarti. Telefono subito!”
E così conosco un editore. Assolutamente innamorato del romanzo, l’editore lo pubblica immediatamente. E il romanzo ha un successo incredibile, insperato ed inaspettato.
CAPITOLO DECIMO
Ormai non ho bisogno più di lavorare. Mi dedico a scrivere e a sognare. Sono uscito finalmente fuori da un incubo atroce. Ho rimodernato la casa, ho tutti i comfort che mi posso permettere. In pratica, facendo quello che mi piace e facendolo fruttare, sono diventato ricco. I miei libri, per fortuna, si vendono. Alla gente piace farsi gli affari degli altri, evidentemente, come giustamente diceva il mio ex datore di lavoro. Adesso ho più tempo per scrivere, ma soprattutto ho più tempo per vivere. E mi sto prendendo le mie piccole rivincite sugli altri uomini e sulla vita stessa. Due giorni fa mi ha telefonato Elena, voleva tornare da me. Ma io le ho detto in faccia quello che penso di lei. E lei piangendo mi pregava di ripensarci. Allora ho chiuso la conversazione, schifato da tanta falsità. Quando avevo bisogno di lei, quanto più lei avrebbe dovuto starmi vicina, tanto più si è allontanata. Mi ha derubato di ogni cosa, mentre ero in carcere, ha lasciato solo quello che non voleva. E soprattutto mi ha derubato della mia dignità, della mia voglia di amare. Ora che sto meglio, ho la forza di mandarla al diavolo. E piano piano troverò la forza di rifarmi una vita e una famiglia. Per ora ho deciso di partire. Voglio fare un viaggio, adesso che i soldi non mancano. Voglio andare in America, in Argentina, voglio visitare tutti i paesi del continente Americano. E poi, al ritorno, vedremo il da farsi.
Senti il profumo della partenza, sapendo già che tornerai, senti quell’odore tipico delle vacanze da tempo rimandate. Il profumo tipico della cucina tipica, delle donne tipiche, della musica tipica, di balli tipici, di tutto ciò che è tipico. Parti verso un mondo che, nella tua mente, è tipico e già prestabilito. Per poi accorgerti che non è poi così tipico trovarti in mezzo a persone che non conosci, che ti sorridono, gentili e imbarazzate, nel momento in cui capiscono di non capirti. E così il profumo cambia, senti per lo più l’odore di casa tua, dove tutti capiscono che sei il tipico rompi scatole che stai bene da solo e che sei andato in vacanza solo per spendere i soldi che hai guadagnato scrivendo sogni e ricordi del ato. E arriva il giorno della partenza, e tu fremente di curiosità per quel profumo intenso di cambiamento e di trasgressione dalla realtà, rapidamente raccogli i tuoi vestiti in un bagaglio che è pieno di cose tipiche per le vacanze, tutta roba che, probabilmente, ti costringerai ad usare per il solo motivo di averla
comprata, accorgendoti che di tipico quella roba non ha nulla, non serviva a nulla se non a ingrassare tipici negozianti sorridenti.
“Partire vuol dir morire!” diceva un famoso poeta, di cui non ricordo il nome. Per me partire vuol dire soltanto trovare una nuova strada, nuove emozioni, nuove sensazioni e conoscere altre persone e altre culture. E poi così posso avere, al mio ritorno, altro materiale, materiale nuovo, da riversare nei miei racconti. Non ho ancora deciso il giorno della partenza, spero presto, i miei affari mi tengono inchiodato qui ancora per un po’. Ieri ho avvisato il mio editore della decisione di andare un po’ in ferie. All’inizio sembrava contrariato, ma poi mi ha proposto una idea, che io ho subito rifiutato. Voleva organizzare un giro di conferenze per promuovere i miei libri anche in America. Ma tu pensa! Io gli dico che sono stanco e voglio riposarmi e lui cerca di farmi lavorare. La mia risposta è stata perentoria: “Ora parto per riposarmi. Quando torno organizziamo un altro viaggio per lavoro. Le due cose insieme non si possono fare.”
Ha insistito un pochino, arrabbiandosi un poco, forse un po’ tanto, ma poi ha dovuto convenire che poteva andare bene anche così. Ed ora eccomi qui, pronto alla partenza, ma niente affatto emozionato dalla partenza. So soltanto che questo viaggio sarà bellissimo e importante per me.
Stamattina sono sveglio da molto tempo. Ieri avevo un po’ di febbre, forse dovuta al fatto che giovedì notte ho continuato ad avere degli incubi atroci ed ho dormito male. Al mattino, al mio risveglio, avevo tutti i muscoli doloranti, ogni nervo tirava in modo davvero orrendo. Non riuscivo quasi a muovermi. Però avevo delle faccende da sbrigare e allora è stato giocoforza alzarmi ed uscire di casa. Poi tutto il giorno fuori, rincorrendo gente che ti ascolta per due minuti, anche perché ha più fretta di te, e scappa via di corsa, non ha di certo migliorato la mia situazione. Quando sono tornato a casa, a sera inoltrata, avevo i brividi e un po’ di febbre. Prendere un antipiretico è stato un obbligo, visto che io odio le medicine, e mettersi subito a letto cercando un po’ di riposo. Per fortuna il sonno è arrivato verso la una di notte.
Però stamattina mi sono svegliato presto e, non riuscendo a stare a letto, mi sono alzato e sono andato alla mia scrivania, dove mi sono messo a scrivere. Ogni tanto mi fermo, come faccio sempre, e penso al ato, a quella riserva, al serbatoio dei ricordi, da dove attingo le mie storie. Verso le dieci mi decido a vestirmi e ad uscire un pochino. La febbre è, fortunatamente, ata e la camminata mi fa bene, perché mi scioglie i nervi. Però verso mezzogiorno inizio ad aver fame ed entro in un ristorantino, dove ordino una semplicissima bistecca al sangue, accompagnata da una semplicissima insalata e da un semplice bicchiere di vino e una altrettanto semplice bottiglia di acqua. Seduto inizio a mangiare tranquillamente, assaporando il semplice sapore di quei piatti. Prima, quando facevo il banchiere, non sentivo nemmeno il sapore dei cibi, pieno come ero di pensieri e distratto dalle problematiche della vita. Ora, tranquillo e rilassato, sento tutti gli odori ed i sapori, vedo le persone davanti a me e mi meraviglio di ogni cosa bella che mi a davanti. Sono diventato un pericolo per gli automobilisti, perché quando attraverso la strada, se vedo una stormo di uccelli, mi fermo a guardarlo ammirato, a bocca spalancata, come un ragazzino di dieci anni. Prima non vedevo niente, ora invece vedo tutto e mi meraviglio della bellezza del nostro mondo, soffrendo per la bruttezza degli uomini. Accanto al mio tavolo c’è una donna. All’inizio non la noto molto, completamente immerso nei miei pensieri, poi, però mi volto per chiamare il cameriere ed incontro i suoi occhi. Con il braccio alzato e la bocca aperta dallo stupore, devo veramente fare la figura dell’idiota. Lei mi guarda dritto negli occhi, sorridendo leggermente, con quegli occhi neri e splendidi. I denti bianchi quasi non si intravedono nel suo sorriso leggero. Il cameriere, vedendo il braccio alzato, accorre ed io devo scuotermi dal fascino di quegli occhi e voltarmi verso il cameriere, chiedendo dell’altro vino. Poi sottovoce chiedo al cameriere di portare del vino alla signora seduta al tavolo a fianco. E lei rifiuta. Però si alza dal tavolo e si avvicina a me, sorridendo. “Non si fa così. Non si offre del vino ad una donna sola. La si invita, piuttosto, al proprio tavolo.” Ed io sorridendo, mi alzo e scosto la sedia davanti a me. “Ha perfettamente ragione. Sono uno sbadato. Vuole cortesemente accomodarsi e pranzare con me? Mi chiamo Filippo, signora?”
Accenna ad un sì con la testa, sedendosi. “Mi chiamo Anna. È un piacere. Certo, accetto il suo invito, visto che sono stata io a suggerirglielo.” Sorride ammiccando, mentre mi sta chiaramente prendendo in giro. “Così non è giusto, però.” Replico facendo il broncio. “Non sapevo come fare a chiederglielo.”
“Bè! Se ti va possiamo iniziare a darci del tu, non sono così vecchia. E poi avresti potuto venire direttamente al tavolo a chiederlo. È più di mezz’ora che cerco di farmi notare. Sono così brutta?”
E’ una schermaglia piacevole ed è l’approccio più strano che ho mai avuto. Ma è anche vero che, a parte Elena, non ho avuto grandi storie e dopo Elena le donne si sono tenute a debita distanza da me, o meglio, io mi sono tenuto a debita distanza da loro. Il cameriere porta quello che Anna ha ordinato al mio tavolo ed io mi meraviglio nel vedere che abbiamo ordinato le stesse cose. Ora la mia bistecca, anche se è fredda, ha un sapore meraviglioso, il sapore del tempo speso bene, parlando con chi ti capisce e ti sa ascoltare. Almeno così sembra a prima vista. Ed io le racconto tutto; mi sfogo come un bambino. Mi meraviglio di me stesso e di come posso raccontare la mia storia ad una perfetta sconosciuta. Comunque finisco di parlare e mi accorgo che lei ha smesso di mangiare e mi guarda….. due grosse lacrime le rigano il volto….. ed io non so cosa fare…… vorrei abbracciarla e baciarla…… ed ora cosa faccio! E lei, accorgendosi del mio imbarazzo sorride, rompendo l’incanto di quel momento, si allunga verso di me e mi prende la mano. “Troppe sofferenze hai ato. Mi sembrava di averti già visto da qualche parte, ma non ricordavo dove. Ora ricordo. Ti ho visto in tv mentre promuovevano il tuo ultimo libro. A dirti la verità il primo libro l'ho già letto ed ora capisco che tutto quello che c’è nel libro è la verità. È un libro bellissimo e tu sei uno scrittore di talento!” E sorridendo riinizia a mangiare, guardandomi di sottecchi.
“Già. Troppo bravo e troppo bello!” E continua a sorridere al mio imbarazzo, prendendomi apertamente in giro. Finiamo di pranzare ed usciamo dal ristorante. E il momento di salutarci, credo. Ma ne io ne lei ci decidiamo a farlo. E così le chiedo se ha qualcosa da fare e lei scuote il capo, senza parlare. Allora le chiedo se vuole eggiare con me e lei risponde a gesti, prendendomi sotto braccio e spingendomi ad avanzare lungo il marciapiede pieno di gente. Parliamo piano, ridendo e scherzando, guardando le vetrine e le nostre immagini riflesse.
Il o del destino ti porta verso strade nuove, sempre impreviste ed imprevedibili. Però a volte ti regala un sogno ed un sole e quel calore che non potrai mai dimenticare. E così cammino con lei, tranquillo e sereno, sognando un giorno di sole in un sogno lungo millenni.
CAPITOLO UNDICESIMO
Più a il tempo e più ci penso.
Sono seduto sul divano di casa mia, con la tv accesa, che non vedo, e a volume spento per non bloccare i miei pensieri. Sono qui seduto che penso al mio incontro con Anna. E anche al mio incontro del ato con Elena. Sulle mie gambe c’è una lettera appena arrivata e appena letta. È di Elena. Io non pensavo che fosse così cattiva, che avesse così subdolamente architettato tutto, soltanto per vivere nel benessere. È una lettera breve, ma chiarificatrice. Ora so come sono andate realmente le cose, eppure ancora faccio fatica a crederci. E se non fosse per il fatto che il mio incontro con Anna è stato del tutto fortuito, potrei nutrire dei dubbi anche su di lei. Perché quando ho incontrato Elena io andavo tutti i giorni in quel ristorante, tutti i santi giorni, mentre ieri sono andato in quel ristorante d’impulso, non c’ero mai entrato e Anna era già li. Il contenuto di questa lettera è così pesante, così brutto, che se non fosse ormai acqua ata mi distruggerebbe. E comunque mi fa male.
“Caro Filippo.”
Inizia proprio così…..
Caro Filippo,
visto la nostra recente conversazione, visto che oramai è ben chiaro che non ti importa più niente di me, non mi sento più in dovere di nasconderti la verità sulla nostra relazione. Come avrai di certo capito, io non ti ho mai amato. Nella
mia vita ho sempre voluto vivere agiatamente e quindi sono sempre alla ricerca di polli da spennare. E tu eri il pollo numero uno del momento. Eri ricco, ingenuo, abitavi ancora con tua madre, non avevi avuto molte esperienze con altre donne, insomma eri l’essere ideale per realizzare i miei sogni. E se non fossi stato così decisamente deficiente da farti incastrare in banca, io sarei potuta vivere nell’ozio per sempre, trattandoti bene, chiaramente, ma spremendoti come un limone, fino all’osso. Di tutti gli essere umani che ho conosciuto, non ho mai trovato nessuno più credulone ed ingenuo di te. Non hai visto la realtà che stava davanti al tuo naso. Non hai visto che io ti ho seguito, ti ho pedinato per giorni, ho scoperto tutte le tue abitudini, sono venuta di proposito in quel ristorante, perché sapevo che tu ci andavi ogni giorni e sempre alla stessa ora, mi sono fatta notare di proposito e ho aspettato di proposito che uscissi dal lavoro. Fare sesso con te non era male, ma ad un certo punto ho avuto paura di non riuscire nel mio intento, perché tua madre era ancora viva e non si decideva a morire o tu a lasciarla. La morte di tua madre è stata per me provvidenziale. E quando sei finito in prigione ho capito che per te era finita, così ho convinto l’ispettore Rossi a convincerti a firmare i documenti per il divorzio. Niente di più facile. Ho venduto i tuoi mobili, ma non ho potuto vendere casa tua, perché intestata a tua madre, altrimenti lo avrei fatto, stanne certo. Quando ho saputo che eri uscito di prigione e che eri diventato ricco ho pensato di rimettermi con te, così da poterti spennare un altro pochino, sicura che tu ancora mi amassi. Ma non avevo messo in conto il carcere ed il cambiamento che può portare alla brava gente. Non sei più un credulone, sei diventato un grande stronzo. Con questo non ho più nulla da dirti. Ora sai tutto e spero di averti fatto, con questa lettera, tutto il male del mondo. Perché quello che mi hai detto al telefono è la verità, ma fino a che io sono stata con te ti ho sempre trattato bene. Ed ora non faccio altro che dirti addio.
Elena.
Questo è tutto. Elena ha capito che sono cambiato, ma non ha capito che non può più nuocermi. Oramai sono corazzato e poi credo di aver trovato una persona adorabile. Ci andrò cautamente, ma non me la farò scappare. Le telefonerò e la inviterò a cena. Spero che lei accetterà.
CAPITOLO DODICESIMO
Esco con lei da sei mesi, tutte le sere. È un angelo venuto in terra per darmi la felicità. Lei non si stanca di me ed io non mi stanco di lei. Ormai vive con me a tutti gli effetti, ma ha preferito tenere l’appartamento dove viveva. Tutte le mattine ci alziamo e facciamo colazione insieme. Poi lei va a lavorare. Le ho detto chiaramente che non serve, che se vuole stare a casa può farlo tranquillamente, ma lei ha detto che mai e poi mai accetterà i miei soldi e che non si farà mai mantenere da me. Ci tiene alla sua libertà e fa bene. Fare l’amore con lei è come partire per il paradiso. Ora voglio partire con lei, sto rimandando soltanto perché lei mi ha promesso di venire appena ha la possibilità di andare in ferie.
Sono seduto davanti alla tv e guardo il telegiornale. Sono preoccupato. Ci sono tensioni tra i paesi occidentali e quelli orientali. È possibile che non riusciremo a partire per il viaggio. All’inizio mi sono rattristato ed ho chiamato Anna. Le ho spiegato tutto e lei mi ha rassicurato. Staremo bene anche qui. L’importante è stare insieme. Riattacco il telefono sentendomi sollevato. Lei è il mio angelo e la mia forza. Sorrido piano e mi stendo sul divano, deciso a riposare un po’.
Chiudo gli occhi e mi addormento. Che sogno tormentato….. sono steso sul divano e sento dei rumori. Nello stesso momento sento la voce del giornalista che mi accusa di essere stato io ad aiutare i traditori. “Ma quali traditori? “ chiedo io… e la voce continua a dirmi che sono io il traditore….
Mi sveglio di soprassalto e in effetti qualcuno mi dice traditore… e sento anche qualcosa che mi preme sul petto…. è una pistola. Guardo in alto e vedo il volto di Elena, rosso fuoco, due occhi che fanno paura, occhi da matta.
“Ti sei svegliato, bastardo. Sei un vigliacco ed un traditore. Io ho bisogno di soldi e tu me li darai.” La sua voce è offuscata dalla rabbia e dalla follia. In che labirinto di follia può finire una persona, quando non conosce altro se non il denaro. Eccola, lo stereotipo dell’essere umano odierno, concentrato sul raggiungimento di uno scopo, con il solo pensiero di vivere nel lusso e nel benessere, cercando di lavorare il meno possibile e conseguendo quello che vuole con il ladrocinio. Ecco la donna odierna, che cerca solo di farsi mantenere, senza amore ne nessun altro sentimento.
Mi alzo a fatica e mi metto seduto. La guardo in faccia e quasi non la riconosco. Quanto è cambiata, oppure sono io che la vedo con occhi nuovi, con gli occhi della mente e non del cuore.
E lei mi guarda con occhi che hanno perso la ragione.
“Ho bisogno di soldi, tanti soldi. E tu me li darai. Ti do il tempo di raccoglierli. Per ora finisce così; verrò tra tre giorni. Hai tutto il tempo di andare in banca. Niente assegni, voglio contanti. Un milione di euro in contanti. Tu sai come fare, hai già lavorato in banca. Quindi ora ti lascio vivo. Se non avrò i miei soldi ti ucciderò come un cane. A proposito, se mi accorgo che hai chiamato la polizia, ammazzerò quella puttanella che ti scopi. E non fare scherzi.”
E detto questo esce di casa, lasciando la porta aperta. Rimango seduto sul divano, angosciato. Le sue minacce sono reali, io lo so, perché dai suoi occhi si capisce che è disperata. Ed ora che fare. Dove trovare un milione di euro in contanti, in un paese dove non te ne danno nemmeno mille. È vero che io ho conoscenze e che alcuni amici mi potrebbero aiutare, ma è comunque un rischio per una banca muovere tutti quei soldi. Chiamo Anna e le racconto l’accaduto. La sua reazioni mi sorprende.
“Tu non devi dargli nulla, neanche un soldo. Ma stai scherzando. Non preoccuparti, ho degli amici nella polizia. Tu fai finta di niente, ci penso io. Contatto i miei amici e vedrai che metteremo fine a questa cosa.”
“Ne sei proprio sicura? Sei proprio sicura che tutto andrà per il meglio?” dico io preoccupato.
“Certo! L’importante è fare ciò che la polizia ti dirà di fare.”
Quella sera viene accompagnata da tre amici. Preavvisandomi dell’arrivo dei tre, mi dice di comprare dei viveri e di dire in giro che ho amici a cena. Così nel caso che ci fosse stato qualcuno a spiarmi non avrebbero destato sospetti. Gli amici di Anna ascoltano la storia e mi dicono di non preoccuparmi. I soldi me li daranno loro, falsi. E loro metteranno delle microspie in casa, così nel momento in cui lei entrerà a riscuotere il denaro, loro la seguiranno. L’indomani dovrò soltanto andare in banca, dove un loro incaricato mi darà la valigetta con i soldi. Così se qualcuno mi seguirà, mi vedrà uscire dalla banca e non avrà dubbi sull’autenticità dei soldi.
E così ho fatto. Il giorno dopo vado in banca e un tizio mi dà una valigetta con un milione di euro in banconote da cinquecento euro false. Esco dalla banca e mi dirigo a casa. Nel frattempo, con la scusa di un guasto al telefono, alcuni poliziotti travestiti hanno messo delle microspie in casa. Entro in casa e tutto sembra normale, niente è stato toccato. Ma io so che loro ascoltano tutto quello che diciamo. A mezzogiorno arriva Anna e pranziamo insieme. Dopo di che esce per tornare al lavoro, come ogni giorno.
L’attesa di un evento, comporta il lento are del tempo. Nessuna parte del giorno a così lentamente come quando aspetti qualcosa. È come se il tempo, crudele ed indifferente, si fermasse a bella posta e il minuto precedente non si
decidesse a dare il o al minuto successivo. Una agonia di minuti che diventano piano ore, che si sovrappongono agonizzando in un tempo che diventa un giorno. E’ così che avverto il aggio del tempo in quel pomeriggio che non si decide a are. Verso le diciotto Anna torna dal lavoro, stanca ma felice di vedermi. Cenare insieme a lei serve ad accelerare il o del tempo. È la mia luce e mi dà un forza tremenda mentre aspetto che quel piccolo imprevisto i. Ma non succede nulla. Andiamo a letto presto e mi addormento stanco e preoccupato. Dormo abbracciato a lei, con la testa poggiata sul suo petto, cercando consolazione e forza nel battito del suo cuore. E mi sveglio all’improvviso, impaurito come se avessi annusato un pericolo imminente ed imprevisto. E lei è li, pistola puntata verso di noi, sorrisetto ironico stampato in bocca.
“Dove sono i soldi!”
“Giù. Nella cassaforte!”
“Però! Il signore ora ha una cassaforte. Quando io vivevo qui non c’era niente. Vedo che hai fatto un bel lavoro in casa. Di questo ne parleremo in seguito, non ti libererai tanto facilmente di me. Ora mi prendo i tuoi soldi, magari domani mi prenderò la casa. Dai alzati e allontanati da quella troietta. Vieni giù a prendere i soldi. No! Non svegliarla. Evitiamo che si metta ad urlare ed io debba ucciderla. Tutto sommato non sono una assassina.”
Scendere giù e andare in salotto, dove c’era la cassaforte, è un’azione tutto sommato veloce. Mi fermo in mezzo al salotto e dico ad alta voce, per farmi sentire.
“Sei davvero spietata, Elena. Mi prendi tutti i soldi, vuoi la casa e poi cos’altro dovrei darti.”
“Caro Filippo. Non sono così spietata come credi. È che io ho bisogno di soldi per poter vivere come voglio. Quindi ora dammi i soldi e facciamola finita. Dopo di che me ne andrò e per un po’ non mi vedrai più. Ma stai sicuro che mi farò viva ancora.”
Apro la cassaforte e le do la valigetta. Lei la apre ed i suoi occhi brillano di cupidigia. È così concentrata a guardare quei soldi, che non si accorge delle persone che entrano in casa. Tutto si svolge in un attimo. La prendono alle spalle, prendendole il braccio con la pistola, che spara un colpo, andando a fracassare un vetro della finestra. A quel colpo Anna esce dalla camera da letto correndo. Quando vede quello che è successo, si siede sulle scale, scossa dai pianti.
“Non avevo sentito nulla. Se ti fosse successo qualcosa. Non avevo sentito nulla.”
“Stai tranquilla. È tutto finito ora. Non può più nuocerci!”
Ed Elena, immobilizzata dai poliziotti, si scaglia comunque contro di noi, con la rabbia di chi non ha ottenuto quello che voleva.
“Avrei potuto uccidervi senza problemi. Volevo solo i vostri soldi. Ma mi vendicherò! Vedrete che mi vendicherò!”
E la portano via.
CAPITOLO TREDICESIMO
La vita prosegue lentamente. Abbiamo oramai rinunciato al viaggio. La situazione resta tesa tra le controparti. I nostri soldati sono all’erta e vigilano sulla nostra incolumità. Ma alle minacce non segue un reale attacco. Però il nostro paese e tutti i paesi occidentali rimangono vigilanti. Non si sa mai. Un attacco è sempre possibile.
Io e Anna ci siamo sposati ieri, in comune. Il sindaco aveva una bella fascia tricolore ed il nostro sì, emozionato ed emozionante, è stato il suggello di un periodo veramente speciale. Ora lei ha venduto il suo appartamento e viviamo insieme nella mia casa. Lei negli anni ha fatto carriera e viaggia spesso in tutta Europa per lavoro. Ed io sono preoccupato quando lei prende un aereo o un qualsiasi altro mezzo di trasporto. E non sono tranquillo fino a che non telefona. Sentir la sua voce è meraviglioso, tutte le mattine e tutti i giorni della mia vita ringrazio Dio per avermi dato Anna. È una donna veramente speciale. Ieri è partita per un viaggio di lavoro ed io sono stato in ansia, come al solito. Dopo cinque ore squilla il telefono… è lei. Mi rassicura che tutto è andato bene. Ed io sono così contento di sentirla e al contempo così triste perché dovrò riattaccare. Il silenzio, quando lei non c’è, è assordante. Mi sento perso in un mondo di rumori e di pensieri che a volte non riesco a controllare. E lei sente questo mio disagio, lo avverte distintamente, evidentemente, perché mi dice sottovoce:
“Ho una cosa da dirti. Volevo dirtela al mio ritorno, ma credo che ti renderebbe meno triste la nostra separazione. Sei pronto? Forse è meglio se ti siedi.” E si mette a ridere.
“Smettila di prendermi in giro. Dai, su, dimmi, cosa è successo? Mi devo preoccupare?”
“Assolutamente! Non c’è nulla di cui preoccuparsi. Ecco, vedi… sai tutti i progetti che abbiamo fatto. Sai tutti i progetti che abbiamo dovuto rimandare. Ecco! Una sola cosa non abbiamo progettato. Ed è proprio questa cosa che si è realizzata. Be!.. vedi…… cavoli! Non so come dirtelo!”
“E dai! Mi tieni troppo sulle spine! Dimmelo e basta. Così mi viene un collasso.”
“Ok! Sono incinta!”
Lei non può vederlo, ma in questo momento ho gli occhi pieni di lacrime, adesso si che mi sento un uomo. È incinta, aspettiamo un bimbo.
“Ne sei proprio sicura? Non mi stai prendendo in giro!”
“No, scemotto! Non ti sto prendendo in giro. È proprio vero! Tra sette mesi sarai papà!”
“Quando torni festeggiamo. Va bene?”
“E’ appunto per festeggiare che sono incinta.”
Mi prende in giro, felice, ed io sono felice come non lo sono mai stato.
Chiudo la conversazione e mi siedo sul divano. Al diavolo tutte le cose brutte del mondo, al diavolo il mio ato, al diavolo tutto. Ora nel mio mondo ci siamo solo io, Anna ed il nostro bambino.
“Tu sei nato sotto un cielo stellato,
sotto un sogno di luna pallido e dorato.
Tu sei nato sotto un mondo di stelle,
un brivido improvviso mi percuote la pelle.
Adesso che io so chi sei,
adesso che so che ci sei,
non potrò mai avere,
ne mai desiderare,
che il sole svanisce lungo la scia del mare.
Tu sei nato in un bianco fiore,
attendi la vita nel caldo del tempo,
e sorride mentre il tuo animo cresce,
lento.
Adesso che io so che arriverai,
preparerò per te il terreno,
dove camminare tranquillo e sereno.
Preparerò quel che più ti piace
e lo porterò su un tempo di amore e di pace.”
CAPITOLO QUATTORDICESIMO
E il bambino nasce in Luglio.
Un bel bimbo dagli occhi azzurri e dai capelli come la notte. Anna dice che mi somiglia, ma non è vero. Somiglia a lei, si vede, ha una grazia innata, tipica delle creature appena nate, indifese e forti allo stesso tempo, fragili e potenti, come la vita stessa. Ed ora egli è qui, con noi, ed io lo tengo in braccio, impacciato come un bambino, pauroso di fargli del male e desideroso di vederlo crescere e vivere. E Anna ci guarda felice, con gli occhi rivolti verso me, fragile uomo di fronte alla maestosità dell’esistenza. Tutti i dolori svaniscono con lui, tutti i ricordi malevoli volano al cielo, lasciando solo la pace in me. Lo cresceremo come meglio potremo, senza rimpianti ne rimproveri. Lo cresceremo come un uomo e sarà il migliore nel mondo, così come ogni genitore desidera che suo figlio cresca, migliore nel mondo.
Però, quando ascolto le notizie che vengono dal mondo, ho paura. Paura perché viviamo in un mondo di odio profondo, paura per mio figlio, per Emilio, che cresce intanto sano e forte; paura che possa accadere qualcosa al suo bel faccino, al suo sorriso che apre le porte del mondo. Ogni giorno una nuova storia, un nuovo conflitto, un nuovo incubo in questo sogno reale che è la vita. Ogni giorno mi invento un gioco, una favola per lui, che cresce e piano impara cosa vuol dire vivere. Le ingiustizie a cui è sottoposto dal resto del mondo lo fanno crescere, in meglio spero, perché io non solo lo proteggo, ma gli spiego perché la gente si comporta così, cerco di fargli capire i motivi di tanta crudeltà. Intanto Anna continua la sua carriera e coccola il figlio come solo una madre può fare. All’età di tre anni mio figlio è bellissimo, tutto sua madre, e sa riconoscere molte lettere, parla quasi correttamente, sa dire il suo nome e cognome, il suo indirizzo e sa come si deve comportare per strada. È un ragazzino intelligente, che si farà strada nel mondo e diventerà una persona degna di essere chiamata “Uomo”.
Ogni tanto, dopo che lo abbiamo messo a letto, ci sediamo sul divano, io ed Anna, abbracciati e felici. Abbiamo coronato un sogno d’amore, una vita insieme ed un figlio tutto per noi. Facciamo progetti per lui, mettiamo da parte tutto il denaro possibile per dargli un futuro tranquillo, cerchiamo di fargli vivere una esistenza serena e senza problemi. La nostra casa è il nostro tempio, dove noi preghiamo ogni giorno per lui, dove noi lottiamo ogni giorno per lui, dove noi tre ogni giorno sorridiamo felici al futuro.
CAPITOLO QUINDICESIMO
“Io non riesco a capire perché devi partire proprio oggi. Domani è il compleanno di Emilio. È proprio necessario, dico io. Non puoi partire dopodomani?”
“Te lo ho già spiegato, Filippo. Devo partire, sono obbligata. Dio solo sa quanto vorrei rimanere qui con voi, ma devo andare. Ho già spiegato tutto ad Emilio, gli ho promesso che, tra una settimana, quando tornerò, gli organizzeremo una festa magnifica. E manterrò la mia promessa ad ogni costo. Lui mi ha detto che va bene e che alla sua festa vuole un clown. Se lui capisce, perché non capisci tu.”
“E va bene! Non è che non capisco, Anna. È che volevo are il compleanno di Emilio insieme. Festeggia i cinque anni. Domani gli insegnerò ad andare in bicicletta, come promesso. E tu non ci sarai. Ma se questo viaggio per te è importante, accetterò la tua decisione. Ok! Vai!”
“Lo sapevo che avresti capito. Ti amo per questo. Ti ho sempre amato e ti amerò per sempre.”
“Lo so! Anche io ti amo!”
E quella sera Anna parte, lasciandoci soli. Telefona, come al solito, al suo arrivo. Parla con Emilio e si fa dire cosa desidera che gli porti. Li vedo sorridere mentre parlano, hanno una intesa perfetta, cosa che a me non riesce, nonostante i miei sforzi. È vero che tra madre e figli c’è un legame unico e si vede tra Emilio e suo madre.
Lo porto a letto presto, promettendoli che l’indomani gli insegnerò ad andare in bici. È eccitatissimo e faccio fatica a farlo addormentare. Dopo di che scendo sul divano e guardo un po’ di tv. E mi addormento sul divano, sognando Anna che lentamente mi bacia. E mentre dormo, sospiro felice. E felice lo sono veramente.
CAPITOLO SEDICESIMO
E la mattina dopo Emilio si sveglia prima di me. Si avvicina al divano e mi tocca leggermente.
“Papà. Papà. Ma ti sei addormentato sul divano. Sveglia, dai. Andiamo fuori.”
Mi sveglio di soprassalto a quella voce. Guardo Emilio e poi l’orologio a pendolo che abbiamo comprato qualche anno prima. Sono le otto e mezzo. Mi metto seduto e lo prendo in braccio.
“Prima facciamo colazione e poi andiamo fuori. Cosa preferisci per colazione?”
“ Latte!”
“Bene. Latte…. e poi?”
“Latte con il cacao.”
“Latte con il cacao… e poi?”
“Latte con il cacao e…. una brioche.”
“Bene. Latte, cacao e una brioche… e poi?”
A quel punto mi guarda spazientito. Vede che gli sorrido e si mette a contare con le dita.
“Latte, cacao, una brioche… e poi…. per piacere.”
“Ecco la parola magica… arriva subito la colazione. Vai a sederti intanto.”
E facciamo colazione, dopo di che gli faccio lavare i denti, lo faccio vestire e lo porto fuori in giardino.
“Papà. Devi insegnarmi ad andare in bicicletta.”
“Si. Ma non mi ricordo più dove l'ho messa. Tu, per caso, ne sai qualcosa?”
“Ma papà. La bicicletta è in cantina. Dai vai a prenderla. Corri.”
“E va bene. Quanta fretta. Voi giovani siete sempre di fretta. Arriverà il giorno che camminerete piano convinti di allungare la giornata.” E ridendo forte vado in cantina.
CAPITOLO DICIASSETTESIMO
Scendo in cantina, felice.
“Ora prendo la bici ed insegno a mio figlio ad andarci.” Ecco cosa penso.
Scendo le scale e mi avvicino alla finestrella che da sul giardino. “Emilio. Non allontanarti. Voglio vederti.” Urlo al mio bimbo.
“Va bene, papà. Sbrigati.” è la sua risposta.
Stacco la bicicletta dalla parete e gli tolgo il sacchetto di plastica che la copre.
Succede tutto in un secondo. Si sente una violenta deflagrazione, un boato assordante, come se mille bombe fossero scoppiate simultaneamente. Corro alla finestra e vedo mio figlio guardare da un’altra parte, attento. Lo chiamo, urlando, ed Emilio si gira, salutandomi con la manina. Allora sospiro sollevato e sollevo la mano in un mezzo saluto. A quel punto la violenza dell’onda d’urto colpisce Emilio. E come in un incubo, vedo Emilio sciogliersi, come se a colpirlo fosse stato un immenso calore. E vedo gli occhi spegnersi ed il corpo bruciare. È tutta questione di un secondo, poi anche io vengo colpito dall’onda d’urto, attutita dalla piccola fessura della finestrella. Balzo indietro e picchio la testa con il muro, sotto la scala che va su in soggiorno. E svengo.
Quando mi riprendo, guardo il soffitto e non vedo altro che buio e nuvole. Tutta la casa è stata portata via, distrutta da una forza immane. E mi ricordo di mio
figlio, di quello che è successo. E allora inizia ad urlare, ad urlare con tutto il fiato che ho in gola. Chiamo mio figlio per nome, chiamo Anna, urlo e piango fino a svenire di nuovo. Quando riapro gli occhi sono più calmo. Capisco che devo uscire da li, che soltanto la scala mi ha salvato, perché è in ferro ed ha bloccato la caduta dei calcinacci. Mi alzo a fatica e con altrettanta fatica esco dalla cantina. Quando sono all’esterno resto di sasso. Non vedo più niente intorno a me. Non c’è più una casa, non si distingue più nulla. Tutto è distrutto. Mi ricordo di mio figlio e mi viene ancora da urlare, ma nessuno sembra sentire in quel nulla, in quel tutto distrutto. Cerco per ore tra le macerie, disperando e speranzoso nello stesso tempo. Ma non trovo nulla. E poi mi siedo, stanco e distrutto da un dolore senza nome, su qualcosa che sembra un blocco di cemento, ma che non è di casa mia, ma di qualche casa vicina. Dal colore sembra una colonna di una casa a cento metri dalla mia. Mi siedo ed aspetto, anche se non so cosa.
Ogni tanto controllo che per quel giorno il sole sorga ancora sul mondo. Un violento acquazzone bagna le piante ormai morenti, mentre il cielo rosso cupo diventa, pian piano, nero. È quello l'effetto di una bomba atomica? Io credo di si. E quell' acqua che cade dal cielo, brucia, come acido sulla sua pelle.. la deflagrazione è stata violenta ed imprevista, sorprendendo tutti nelle loro attività. Ho visto mio figlio sciogliersi per quel calore atroce... Ma io sono sopravvissuto, per ora, per poterlo raccontare. Ma raccontare cosa, raccontarlo come. Non si racconta l'orrore di quel calore che ti prende e ti sbalza lontano, bruciandoti i vestiti addosso e tatuando sulla tua pelle il fiore che porti sul panciotto.
Mi cadono i capelli, me ne accorgo; lunghi e morbidi un tempo, ora cadono a ciocche per terra; erano biondi, ieri, ora bianchi come la neve e morti. Vago e controllo se qualcuno è sopravvissuto e non trovo nessuno. Il solo fatto di esser sceso in cantina nel momento esatto dell'esplosione mi ha salvato. Ed ora guardo il mondo distrutto e senza vita, di quella città ormai del ato.
E proseguo camminando, piano, sempre più piano, dentro quel mondo distrutto. Un suono! Simile al miagolio di un gatto, lontano, sotto le macerie. E io mi
faccio attento, guardingo, quasi avvertendo un pericolo personale. Mi avvicino piano al luogo di quel rumore e lo sento di nuovo, distintamente, solo che non è il miagolio di un gatto, ma il gemito di un bimbo. Come è possibile che un bimbo si sia salvato in quel disastro. E mi metto a scavare, con le mani, velocemente, disperatamente. E sento che mi avvicino di più al bimbo, nonostante le mani si scorticano con le macerie e si bucano con chiodi e ferro. E continuo imperterrito a scavare, pregando quel Dio che, se ancora esiste, deve salvare quel bimbo, l'unica speranza di un nuovo mondo. E lo trovo, sotto le macerie, protetto da una porta che, fortunatamente, è caduta sopra la culla. Lo raccolgo sorridendo, mentre calde lacrime rigano le gote, bruciando sulla pelle arsa e sulle piaghe provocate dalle radiazioni. Alzo lo sguardo al cielo in un muto ringraziamento e mi accorgo che altre persone escono dai loro nascondigli, gente che non sembra umana, gente che non sembra gente, ma animali feriti e distrutti da un immenso dolore. E non è forse così, non sono stati distrutti da una forza che può ancora ucciderli per i decenni a venire. Ma ora questo non importa. La vita, in tutta quella morte, vibra potente nelle mie braccia, nel pianto di quel bimbo che sveglia tutti dal torpore del terrore. E copro delicatamente, con i miei vestiti, il bimbo dalla pioggia e mi avvio lento verso il nulla intorno a me.
EPILOGO
I soccorritori trovarono Filippo che camminava coprendo un bimbo con i propri vestiti. Lo caricano su una autoambulanza e lo portarono in un ospedale da campo, costruito in fretta e furia per l’emergenza. Gli chiesero se il bimbo era suo ed egli disse: “Ora immagino di sì. Lo chiamerò Emilio. Sa, mi figlio si chiamava Emilio ed è morto nello scoppio della bomba. Perché si è trattato di una bomba atomica, vero?”
“Si! Crediamo proprio di si. Non si sa ancora chi è stato, le notizie arrivano confuse. Ora la curiamo, curiamo il bimbo e poi verrete portati fuori dalla zona contaminata. Per fortuna la contaminazione è rimasta contenuta. Speriamo nel tempo, che il vento non porti lontano le radiazioni.”
Curarono Filippo come meglio poterono e videro che il bimbo era in buona salute. Li portarono nell’ ospedale di una cittadina distante una trentina di chilometri. Le ustioni dalle radiazioni non guarivano tanto in fretta e Filippo dovette fare molte cure. Non avrebbe avuto un futuro facile, dicevano i medici. Le radiazioni lo avrebbero divorato giorno dopo giorno, fino ad ucciderlo. Ma c’era il bimbo e Filippo si dedicava a lui come meglio poteva. Ogni tanto doveva sedersi ed il pensiero del figlio lo tormentava. Allora piangeva sommessamente e scuoteva la testa. Era un dolore che non riusciva a sopportare. Aveva parlato con Anna, le aveva dovuto dire tutto. Lei aveva reagito con forza, aveva pianto ed urlato alla morte del figlio e poi aveva detto che sarebbe tornata non appena possibile. Non facevano avvicinare nessuno per il momento, la soglia delle radiazioni era ancora alta.
E così ò un anno. E ritornò Anna. Insieme piansero Emilio, piansero il loro bimbo. Anna disse che avrebbe cresciuto il piccolo come se fosse suo, che li avrebbe portati lontano, lontano da lì, lontano dal loro dolore. E così partirono per l’Argentina. Anna trovò un lavoro e Filippo piano piano sembrò riprendersi.
Ogni tanto qualche capogiro e ogni tanto sveniva senza motivo, ma niente di grave tutto sommato. Il piccolino cresceva tranquillo e loro, pian piano, ritrovarono un po’ di serenità.
A cinquanta anni Filippo era seduto su una sdraio fuori da una piccola casa di campagna, in Argentina. Ultimamente si sentiva sempre più stanco e stava ore ed ore a guardare l’orizzonte lontano. Emilio andava a scuola in paese e Anna lavorava in un ufficio adiacente la scuola. Quando Emilio usciva, lei lo portava a casa ed insieme, tutti e tre, cucinavano e mangiavano. Ma Filippo era sempre più stanco. Era domenica. Avevano appena finito di pranzare e Filippo stava raccontando una piccola storia ad Emilio. Ultimamente era sempre la stessa storia, la sua storia. “Così parlerai di me ai tuoi figli e gli dirai di come ti voleva bene il loro nonno.” Gli piaceva quella parola… “nonno”. Avrebbe voluto sentirla dire, avrebbe voluto sentirsi chiamare così. Ma sapeva che non avrebbe visto i figli di Emilio. Anna gli portò un bicchiere d’acqua con la medicina. Lui la bevve lentamente e sorrise ad Anna. “Cosa hai?” chiese lei guardandolo. “Niente! Sono solo stanco. Ora mi riposo un pochino e poi ti do una mano a mettere in ordine in cucina.” Rispose lui sospirando.
“Tranquillo, ci penso io. Tu riposati.”
Anna entrò in casa e lui rimase a guardare il figlio che giocava con il cane. Lo guardò e gli occhi si appannarono improvvisamente. Allora capì. Chiamò Anna e si fece aiutare. Disse di voler andare a letto, che era stanco. Lei lo accompagnò, lo mise a letto e lo coprì. Stava per andare, ma Filippo gli chiese di rimanere.
Lei si sedette accanto a lui e lui iniziò a parlare, lentamente. “Quando ti ho conosciuto eri bellissima. Adesso sei stupenda. Sei stata per me il sole, un cielo azzurro e un vento forte. Mi hai sostenuto in tutti questi anni, amore mio. Adesso è arrivato il momento che sia io a sostenere te. Non piangere. Sono felice, sto morendo felice. Con te sono sempre stato felice. Li fuori c’è nostro figlio. È un bravo ragazzo e ti renderà orgogliosa di lui. Cerca di raccontargli come sono
andate le cose, io non ne ho avuto mai il coraggio. Ma lui deve sapere tutto, capire cosa è successo, così da non ripetere i nostri stessi errori. Ti amo, lo sai? Con tutto il mio essere.”
E Anna piangeva, piano. Lacrime inconsolabili scendevano sul suo viso, mentre pian piano la vita volava via dal corpo di Filippo. Lui la guardò e disse: “E’ quasi ora. Chiama Emilio.”
Anna si alzò e apri la finestra, urlando il nome del figlio. Egli rispose subito e lei gli disse di venire su subito. Si voltò verso Filippo. “Sta arrivando.” Disse lentamente e rimase di sasso.
Filippo era morto, aveva sviato di proposito la moglie per non fargli assistere all’ultimo atto della propria vita. Anna si inginocchiò vicino al corpo del marito ed Emilio si avvicinò al padre. Insieme piansero calde lacrime, lacrime di un dolore senza nome. Ed Anna promise, promise che avrebbe speso tutti gli anni della propria vita a ricordare al figlio ed ai nipoti che uomo straordinari era stato Filippo.
La primavera ormai volava via. Era l’inizio della nuova stagione. Seppellirono Filippo nel cimitero del paese. Una cerimonia semplice, con poche persone.
E le stagioni volarono ancora ed oggi io siedo vicino ad Anna ormai anziana. Ha appena finito di raccontarmi questa storia e le lacrime scorrono sul suo viso libere da ogni freno. Io le tengo la mano e mi sento come sommerso da quell’onda dei ricordi.
Domani andrò al lavoro. Domani scriverò il mio articolo su quei ricordi. Domani
avrò il mio meritato successo. Ma oggi, oggi è il giorno del ricordo, di quella memoria che forse non morirà mai, che supererà la morte nella memoria di ogni figlio che ascolterà questa storia.
IL FANTASMA
PROLOGO
Il sole piano piano va verso l’orizzonte…. Ed io lo seguo come un cagnolino scodinzolante. La mia vita è iniziata con il nascere del sole. Un sole caldo e agonizzante, un sole che solo l’estate può regalare.
Era mattina ed io nascevo sotto buoni auspici. Peccato che le previsioni non fossero del tutto azzeccate. Vivevo nel piccolo villaggio di Tarbes, nella provincia dei bassi Pirenei. Ogni giorno tutti i miei parenti venivano a trovare me, il nuovo venuto. Ero magro e biondo, quasi bianco, con due occhi che sembravano, e sembrano, due fari grigi nella notte. Grigi, già, perché sono nato albino… albino, rimasero tutti sbalorditi nel vedermi. Nel mio paese essere albini era considerata una sciagura. E infatti cercarono, tentarono in tutti i modi di mascherare la mia condizione di albino, nella paura che io venissi escluso, emarginato, finendo con il peggiorare la mia situazione. Crescendo i miei occhi diventarono sempre più grigi, verso il bianco, la mia pelle era bianco candida, i miei capelli bianchissimi, come la neve. Avevo sempre difficoltà a vedere di giorno, mentre andava meglio di notte perché i miei occhi chiari catturavano la luce notturna. Mio padre mi guardava disperato, sapeva che avevo una intelligenza fuori dal comune, lo intuiva, ma non aveva la forza di portarmi a scuola, di farmi imparare. Così mi insegnò tutto quello che lui sapeva, che era poco e disordinato. E crebbi in un ambiente chiuso, in quattro mura che erano la mia prigione e la mia evasione… una prigione da dove non potevo uscire e una evasione al mio non poter uscire. Mia madre era buona, ma quello che comandava in casa era mio padre. Anche lui era buono, a suo modo, ma a volte mi guardava come se non mi conoscesse, come se fossi un peccato da tenere nascosto, una colpa non detta. Allora mi diceva di ricordare, di ricordare che sono un fantasma, una fantasma bianco uscito da un sogno o da un incubo atroce.
Ed io ricordavo, anche ora ricordo, che sono il fantasma perduto di un onore senza nome. Sono il fantasma che mio padre voleva che fossi, ma che non sono mai stato.
arono così gli anni, lenti e inesorabili come la peste, ed io diventai sempre più grande, sempre più bianco, sempre più odiato, sempre più spaventato da un mondo che non aveva nessun colore, nessun odore. Nessun sapore! Vivevo, e vivrò, una vita da recluso, anche in mezzo alla gente sarò solo, perché sono unico, sono solo, sono albino.
Nel paese dove vivevo, nell’Europa del 1400, anno della mia nascita, questa era una grande colpa. Una famiglia che aveva un figlio albino era una famiglia da ripudiare, era una famiglia maledetta. Mio padre avrebbe potuto facilmente farmi sparire, ma in ultimo non ebbe il coraggio. Ed io ora sono qui a parlare di me a lor signori. Mi accusate di aver ucciso, ebbene sì, lo ammetto, uccisi. Mi accusate di aver rubato, ebbene sì, rubai. Ma se mi accusate di essere il demonio, ebbene no, non lo sono. Sono solo un uomo, un essere cresciuto in un mondo maledetto e trattato da maledetto. Volete ascoltare tutta la mia storia, ne avete tutto il tempo, ormai sono condannato. Voi mi avete condannato, la società mi ha condannato, il colore della mia pelle mi ha condannato. In tutti i tempi il mondo ha emarginato chi non è della massa, chi se ne distingue, chi non ne segue le aspirazioni. In tutti i tempi, gli uomini di colore diverso sono stati torturati. Ed io oggi pago per il mio pallore, per il mio sangue che non è altro che acqua bianca in un mare di morti. Auguratevi un giorno di non avere un figlio come me, perché ne conoscerete il terrore, l’amore, la colpa, la morte.
CAPITOLO PRIMO
Il sole si alzava piano all’orizzonte, quando due uomini, uno anziano e l’altro giovane e strano, sgattaiolarono furtivi lungo il sentiero!
Sembravano scappare!
Proseguirono verso il bosco, nascondendosi tra le fronde, nei primi bagliori del giorno!
Il più anziano incitava il più giovane, che sembrava arrancare nella luce nascente del sole!
“Forza ragazzo, forza! Abbiamo molta strada da fare.”
Proseguirono per chilometri nella foresta, cercando il luogo adatto, il posto prescelto dove fermarsi.
Ogni tanto il figlio parlava al padre, piangendo. E in ogni lacrima c’era tutto il dolore di un mondo.
“Padre, vi supplico! Non mi portate via da mia madre, dalla nostra casa! Ve ne prego, Padre, siate clemente!”
Ma il padre, immerso nei propri pensieri, non rispondeva, o al massimo rispondeva con grugniti.
Il sole, pian piano, si alzava nel cielo azzurro e i due continuavano ad avanzare in un viaggio che sembrava non avere fine.
Non parlavano più ormai, mentre, di tanto in tanto, si fermavano a riposare. Il viaggio era lungo, camminare per i boschi era faticoso, mentre si avvicinavano sempre di più alle montagne, ai Pirenei. Le vedevano lontane all’orizzonte, coperte dalle nuvole e dalle nebbie, ma stranamente vicine e terrificanti.
Verso l’ora di pranzo mangiarono una fetta di pane e un pezzetto di formaggio, bevendo l’acqua pura di un ruscello di montagna e riposandosi sotto le fronde di un vecchio castagno.
Poi proseguirono il cammino.
Arrivarono a sera inoltrata in una radura, dove una capanna delimitava l’inizio di un bosco di castagni, pini e pioppi.
Suo padre si fermò ed aprì la porta.
“Eccoci arrivati, Michel! Questa è casa tua. D’ora in poi vivrai qui. Io non posso tenerti a casa, lo sai. È troppo pericoloso! Qui nessuno ti torcerà un capello.”
Michel guardò la capanna con disgusto. Odiava suo padre perché sapeva che veniva separato da sua madre, conosceva i motivi, suo padre gli aveva spiegato le ragioni, ma lui non riusciva a capire. Non capiva perché era diverso dagli altri, non capiva cosa c’era di male nell’essere un albino e, soprattutto, non capiva perché questo motivo solo poteva giustificare il suo allontanamento dal resto del mondo.
“Cosa ho fatto?” si chiedeva, “ Cosa ho fatto di male?”
Ma la risposta era sempre la stessa: “Niente! Mi pare.”
Suo padre rimase per un periodo di tempo con lui. Quella notte lo guardò a lungo mentre riponeva le sue cose, lo aiutò il giorno dopo a mettere in ordine la capanna e rimase fino a che non gli ebbe insegnato come svolgere il suo lavoro. Sembrava che il tempo non dovesse mai are, persi in quei boschi secolari, dove il tempo scorreva velocemente lento, segnato dal levare e dal calare del sole, dal lavoro e dalla stanchezza. Ma alla fine il tempo, come tutto del resto, a. Il giorno precede la notte e la notte segue il giorno in un susseguirsi di giorni e di tempo.
E arrivò il tempo in cui suo padre dovette partire.
Guardò Michel che piangeva disperato, promise di tornare ogni mese a portare viveri, notizie di sua madre e portare via tutto il frutto del suo operato.
Ma Michel continuava a piangere a dirotto, disperato. Voleva tornare a casa,
vedere sua madre, abbracciarla. Era così giovane, lui, come poteva vivere senza di lei.
Ma suo padre non si fece impietosire, apparentemente. Fece il duro e lo costrinse a rimanere.
E partì. Lasciandolo solo. Solo e disperato. Solo, nella solitudine di quelle montagne, a cui avrebbe dovuto abituarsi. E Michel guardò il padre andar via, lento e curvo sotto il peso dei suoi anni e, cosa che Michel non sapeva, dei suoi dolori.
E Michel, che in quel momento lo odiava, non vide mai, perché non si voltò, il volto del padre rigato di lacrime.
CAPITOLO SECONDO
Il posto era solitario, troppo solitario per un ragazzo. Il lavoro era duro, doveva pascolare gli armenti, proteggere il gregge, fare il formaggio. Suo padre veniva ogni mese per prendere il formaggio, che poi vendeva.
Non c’era giorno, ora, non c’era caldo o freddo, non c’era riposo.
E lavorando si irrobustì, crescendo. Divenne alto e forte, muscoloso, robusto….. e selvaggio.
La sua vita monotona, non era turbata da niente e da nessuno, a parte le visite di suo padre.
E gli anni arono lenti, e veloci per lui che vedeva il suo futuro in quel bosco, oramai.
Ma la sua vita monotona, stava per essere movimentata, disturbata da un evento che avrebbe cambiato la sua vita.
CAPITOLO TERZO
La vita nella foresta era tranquilla. Niente veniva a turbare la quiete di quei boschi. Boschi quasi incantati, magici, dove il tempo era cullato dalla pace, dallo sbocciare di fiori, dal crescere di piante e aggi di stagioni.
E Michel si adattò alla vita solitaria. Il lavoro duro lo impegnava molto, però riusciva a trovare il tempo per andare in giro per i boschi, addentrandosi sempre di più nel folto della foresta. La vita solitaria lo spingeva a cercare luoghi altrettanto solitari, dove poter star tranquillo, riposarsi e pensare.
Era un pomeriggio d’estate, quando, guardando il sole che lentamente tramontava, si accorse di aver fatto tardi. Doveva affrettarsi, tornare rapidamente a casa. Era pericoloso per lui stare troppo fuori dalla zona sicura, cioè fuori dal terreno del padre. Poteva esser visto e, in quel caso, poteva, nella migliore delle ipotesi, venire ucciso. Correva, correva verso casa, ansante, alto e forte, pallido e bello.
Arrivò al vecchio faggio, che delimitava la proprietà del padre, che era quasi buio, e si fermò di colpo, sorpreso e impaurito.
C’era una donna.
E che donna.
Era li. E lo fissava.
Due splendidi occhi azzurri tra ricci castani, un corpo che nemmeno una Dea greca avrebbe potuto avere. Due seni prominenti e in apparenza sodi, un corpo snello, nascosto dalle pieghe di una gonna lunga. Si notavano in lei movenze feline, sensuali e sinuose. E quelle mani… quelle mani che tenevano stretto il lembo del vestito, alzandolo involontariamente e scoprendo due gambe magnifiche. Era bella come una Dea, più di una dea… e piangeva.
Piangeva per la sua misera vita. Nessun dolore, nessun rimorso, solo odio profondo per ciò che era, per ciò per cui era nata. Il suo lavoro era degradante, puzzava di marcio. Il suo lavoro era dare piacere a uomini violenti; era una sgualdrina.
Ma ora era stanca… stanca e piangeva. Lacrime calde cadevano sulle gote e, da li, sui suoi vestiti, mentre il suo cuore cercava di trovare pace nel pianto. Un rifugio dove le brutture potevano essere sanate, le ferite potevano essere cicatrizzate. Ma non era così, lo sentiva. Non si cicatrizzava niente, niente veniva curato. Rimaneva solo un vestito bagnato di lacrime.
Lui intanto si avvicinò furtivo, voleva scappare, aveva in qualche modo paura di lei, credendola pericolosa, però quel corpo, quell’alone sensuale che la circondava e infine quel pianto mesto lo attiravano.
Lei lo vide, fermo al di là degli alberi, una figura bianca e spaventosa, ma solo in apparenza. Più che spaventosa spaventata, anzi terrorizzata.
Lo guardò, spaventata dal principio, poi curiosa, e smise di piangere, asciugandosi gli occhi con la manica della veste… e capì che era un uomo, bello e pallido, con i capelli bianchi, anche se era giovane, occhi grigi come quelli dei
ciechi di certe commedie, occhi che guardavano lontano, al di la del suo cuore tormentato, della sua anima sporca.
E si innamorò di lui, desiderandolo ardentemente dal primo istante. Capì che lui era solo, un lupo solitario spaventato dal resto del mondo. E capì anche che il mondo non avrebbe capito, lo avrebbe visto come una minaccia, lo avrebbe ucciso.
Provò un infinito desiderio di proteggerlo, con il suo amore. Il desiderio di purificare la sua misera vita proteggendo quella creatura così bella e fragile. Povero uomo indifeso, lei lo avrebbe protetto con il suo amore, con la sua ione.
Lui si fermò ancora… era bellissima e provò subito una fitta al basso ventre. In verità, a parte sua madre, non aveva mai visto una donna e ora lei gli sembrava un essere strano, particolare, bello. Gli veniva voglia di abbracciarla. Lei lo guardò, guardò di sicuro i suoi capelli bianchi, il suo viso pallido, gli occhi ghiaccio, guardò di sicuro il corpo robusto. E lui si accorse che guardava la sua anima e capiva tutto. Sapeva già chi era. Non ci furono parole, lei si avvicinò, gli circondò la vita, abbracciandolo, e lui, automaticamente, la strinse a se….
E lei lo baciò. E il suo alito fu come il soffio del vento, il sapore del grano e del mare racchiusi tra quelle labbra. E il suo cuore si unì al suo, prima ancora che fossero i corpi ad unirsi.
Lui sentiva il calore al basso ventre diventare un fuoco, una vampata che gli cingeva i lombi e scendeva più in basso. Non capiva…. Lei lo guardò negli occhi e vi lesse il desiderio che lui stesso non capiva, che lui non sapeva di provare. E lo baciò. Fu un momento unico ... gli istanti che seguirono, le ore interminabili di ione folle e di amore furono i momenti più belli della vita di Michel. Lei
era bellissima, lui le accarezzò i fianchi e le sue mani scesero lentamente verso il basso. Lei si avvinghiò a lui lanciando un gridolino acuto quando entrò in lei, nella pace del suo corpo. Spire di ione si alternavano a miraggi di orizzonti bellissimi. Uragani di colori nella mente di Michel che, piano piano, si liberava dall’oblio e ritrovava la pace. I loro corpi erano uniti da una unica ione, da un unico cuore. E quando raggiunsero l’estasi, fu come entrare in comunione con il loro IO più profondo. Lui entrò in lei potente e rapido, come un animale selvaggio, e tuttavia gentile, dolce, apionato e inesperto. E tutta la sua ione d’improvviso sgorgò, con un movimento e una forza che è creare, prima di procreare. E fu assolutamente perfetto. E lei si legò a lui, diventarono una cosa sola, inseparabili. Rimasero lì, per ore, abbracciati. Il cuore di lui parlava al cuore di lei e ascoltava le parole. Lui le raccontò, senza parlare, il suo disagio di essere inconsistente, cresciuto come un fantasma, vissuto al buio e in solitudine. Lei vedeva una forza, un destino incompiuto in lui, che trapelava dal suo essere. E pianse, pianse perché vedeva in lui un dolore che non aveva confini, un’onta che non poteva essere cancellata solo dall’amore, ma che doveva essere curata dalla società. Lei non vedeva in lui speranze. All’imbrunire si alzarono, lui la guardò, sapendo benissimo che sarebbe andata via, che non poteva rimanere con lui. Ma lei lo aveva capito, lei lo sapeva, che Michel non doveva rimanere nel bosco. Nello stesso istante in cui lo aveva amato, aveva capito che doveva portarlo fuori dal bosco, proteggerlo e sacrificarsi per lui, per dargli il coraggio di affrontare il proprio destino. Lo fissò intensamente negli occhi e non andò via.
CAPITOLO QUARTO
Da quel giorno vissero insieme, nella foresta. Lei lo aiutava nel lavoro, riempiva i vuoti della sua coscienza con baci, parole e carezze. Era l’unione perfetta, per lui, un amore eterno e immutabile. E lei lo amava ogni minuto della sua vita, ogni attimo, dandogli tutto quello che poteva.
Anna gli parlava, a volte per ore. Parlava di lei, della sua vita ata, della sua storia, della sua voglia di amarlo e di avere un futuro con lui.
Un futuro al di fuori del bosco.
“Tu lo sai che ti amo, Michel. Dal primo momento, dal primo istante. Tuttavia non riesco a pensare, ad immaginare di dover rimanere qui, nel bosco, per tutta la vita.”
E Michel ascoltava, senza rispondere. Ascoltava e immense spire di rabbia crescevano in lui, agitando il suo animo. Tutta la sua rabbia era rivolta al mondo che lo circondava, che lo tormentava, che lo emarginava con le sue stupide credenze ancestrali, con un Dio che aveva creato il bene ed il male, diviso l’animo umano in due, acutizzando, così, la lotta tra quello che è giusto e quello che non lo è. Era una rabbia profonda, incontrollabile, che lo pervadeva fin nel profondo dell’anima.
Pian piano avano i giorni, in un alternanza di caldo e freddo, giorno e notte, buio e luce.
E venne il giorno in cui arrivò suo padre, per la consueta visita, in cui portava provviste, vestiti e… notizie. In cambio portava via il formaggio prodotto. Rimase sbigottito nel vedere che il figlio aveva una donna, una giovane e bella donna. Ne rimase sorpreso, felice e impaurito. Felice perché capiva che Michel aveva trovato la sua strada, impaurito perché capiva che quella strada lo avrebbe portato al di fuori del bosco, verso la vita, verso la morte. Ma non disse nulla. Rimase un paio di giorni con loro, parlando per lo più con lei, raccomandandogli di curare il figlio e imparando a rispettare quella donna che aveva scelto di vivere con Michel; una scelta non facile, una scelta pericolosa. Capiva che lei lo avrebbe portato via da li, via da lui, verso la morte. Ma sapeva anche, per esperienza, che al destino non si comanda, non si può lottare contro il fato.
Il vento tra le fronde avrebbe portato il rumore del cielo e degli uccelli e Michel, in quel giorno, sarebbe morto.
Dopo due giorni il padre decise di andar via; via da quel dolore che non sopportava. Vedeva sua figlio felice e sapeva che non sarebbe durato a lungo.
“La felicità è la pausa che c’è tra due dolori.” Si ripeteva. Lui questo lo sapeva bene.
Nel momento dei saluti, abbracciò entrambi. Amava anche lei come una figlia, ora, l’amava di più perché aveva deciso di vivere con Michel, nonostante tutto, aveva seguito il suo cuore.
“Figli miei, questo credo sia un addio. Ho capito quello che voi due ancora non sapete. Vivete la vostra vita come se ogni giorno fosse l’ultimo. Vivete senza paura, con coraggio, e la vita vi sorriderà. Non lottate contro il destino però,
accettatelo, o vi distruggerà. Addio.”
E mentre si incamminava lungo il sentiero, piangendo mestamente, disse addio ai suo figlio più amato.
CAPITOLO QUINTO
E fu così che decisero di partire. Fecero tutti i preparativi del caso, chio la capanna come meglio potevano e partirono. Viaggiavano di notte, per sicurezza. Erano, quelli, tempi pericolosi. Tempi di rapine e scorrerie, dove i soldati sbandati, da qualsivoglia guerra, o mercenari, al soldo di signorotti crudeli, la facevano da padroni incontrastati. E Michel era un diverso, per il suo aspetto. Rischiava nella migliore ipotesi di venire ucciso, peggio ancora di venire preso e usato come attrazione da qualche signorotto, che lo avrebbe messo alla berlina, reso uno schiavo.
arono così molti mesi a girovagare, sempre nascondendosi di giorno, come animali della notte, più spaventati che pericolosi. Quando arrivavano nei pressi di un villaggio, Michel si nascondeva nel folto del bosco e Anna entrava in paese. Cercava un lavoro in qualche casa, faceva la serva in cambio di pochi spiccioli, cibo o vestiti e, quando non trovava nulla, contrattava qualche prestazione. Ora non gli dispiaceva più di tanto doversi prostituire, perché lo faceva anche per dar da mangiare al suo amore, non solo per se stessa. E ava più giorni così, piena di cose da fare, quasi orgogliosa di quello che faceva. A sera, tornava da Michel, stanca, portando con se cibo, vestiti o qualche picciolo. Non era molto, ma a loro bastava. Mangiavano e lei si riposava, adagiata sul petto di lui, che la coccolava, sapendo bene i sacrifici che lei faceva per lui. Poi facevano l’amore, ritrovando il primo bacio sotto il faggio, la prima volta che era entrato in lei, il primo istinto sessuale che avevano provato.
Rimanevano nei pressi di un villaggio per pochi giorni, per precauzione, poi partivano verso un altro villaggio. Viaggiavano senza meta, senza pensieri. Sapevano che dovevano andare avanti, verso il loro destino ed erano felici. E così i giorni seguirono ai giorni, che divennero mesi e ò un anno, poi due e infine quattro. Sempre di nascosto, sempre di notte, sempre fuggendo da un mondo che li braccava non conoscendo la loro esistenza. Apparentemente senza futuro, senza speranza, sempre rinchiusi in una gabbia di pregiudizi.
Ma felici.
“La felicità è solo una pausa tra due dolori, Michel, ricordalo.” Aveva detto suo padre.
E Michel avrebbe presto capito quanta verità c’era in quelle parole.
CAPITOLO SESTO
Camminavano ormai da un mese. Dopo l’ultimo villaggio, dove lei aveva lavorato nei boschi, a raccogliere castagne per un signorotto locale, non avevano trovato più nulla. Ed era il mese di novembre, freddo e umido.
Un mattino arrivarono nei pressi di un piccolo villaggio. Faceva freddo, aveva nevicato. Guardarono quel villaggio per qualche tempo, mentre la luce pallida del sole si alzava nel cielo, cercando di scaldare, senza riuscirci, quel mondo sinistro. Anna iniziò allora a prepararsi ad una nuova giornata di lavoro. Accese un piccolo fuoco, sciolse un po’ di neve e si lavò il viso ed il corpo. Lui la guardava, assorto, stranamente preoccupato.
“Forse è meglio se non vai. Proseguiamo verso un altro villaggio. Ho uno strano presentimento.” Disse Michel.
“Non abbiamo cibo, Michel, né soldi. I vestiti si logorano al freddo e vanno cambiati. Lascia da parte i tuoi presentimenti. Fammi andare.”
Lui insistette, ma lei più pratica, fece il muso duro. Dovevano pur mangiare. E lo lasciò solo e preoccupato.
Michel ò delle ore interminabili aspettandola, dandosi dell’idiota, preoccupato. “Che mai potrà accadere. Sa cavarsela.”
Anna, dal canto suo, entrò tranquilla nel villaggio. Non condivideva le
apprensioni di Michel. Iniziò a cercare un lavoro e trovò da far pulizie in una casa, fino alle dieci del mattino, poi iniziò a girovagare alla ricerca di qualcosa da fare.
Incontrò tre uomini e contrattò una prestazione, incamminandosi in un vicolo solitario e nascosto, parlando con loro allegramente. Arrivati nel vicolo, però, l’umore degli uomini cambiò rapidamente.
Il più alto e robusto le dette un pugno in faccia, mentre il più grasso la prendeva per le spalle, cercando di bloccarla. Nel frattempo il terzo, davanti a lei, si sbottonava i calzoni, mettendosi in mutande. Anna si divincolò, reagì violentemente, graffiando e urlando, e loro per risposta la picchiarono selvaggiamente, buttandola a terra. Distesa per terra, sanguinante, Anna sentiva il sapore del sangue misto a polvere, gli occhi rigonfi di lacrime non vedevano più. Ma si accorse che gli sollevavano la gonna, cercando di violentarla. La paura per quello che stava per accadere e la rabbia per come si erano comportati, la resero inumana, dandogli la velocità di un serpente.
Ogni volta che entrava in un villaggio, per precauzione, metteva un coltello in una tasca nascosta della manica. Lesta Anna tirò fuori il coltello e lo infilzò nella gola del primo che gli arrivò a tiro. Un urlo disumano riempì il viottolo. Il grassone, colpito alla gola, si buttò a terra rotolandosi nella polvere, che, pian piano, diventava fango sanguinolento, e tenendosi la gola con entrambe le mani, nel tentativo di impedire al sangue di uscire. Continuava a urlare mentre la sua voce, pian piano, diventava un gorgoglio sordo, mentre il sangue entrava nella gola e finiva nello stomaco. Era il rumore sordo della morte.
I due amici rimasero intontiti, non capendo da dove venisse quel coltello che la donna teneva in mano, né cosa realmente fosse successo. E fu questa indecisione che diede il tempo, ad Anna, di scappare con tutto il fiato che aveva in corpo. Correva svelta e veloce, come una gazzella per le strade del paese, verso il bosco, verso la salvezza, verso Michel.
Nel frattempo i due, ripresisi dallo sbigottimento iniziale, tramutarono la sorpresa in rabbia furibonda. Iniziarono a inseguirla, dovevano vendicarsi, vendicare il loro amico. Volevano uccidere quella puttanella assassina. La videro uscire dal villaggio, sbracciarsi urlando qualcosa che non capivano, correndo veloce verso il bosco.
Nel frattempo Michel aspettava. Udì il tocco della mezza, guardò il villaggio e poi si mise ad ascoltare i rumori del bosco. Fu sorpreso nel sentire chiamare il suo nome.
Era Anna. “E’ troppo presto.” Si disse. Si alzò allora, guardò di nuovo verso il villaggio e la vide.
Correva, vide che correva, e sentì che lo chiamava, sbracciandosi, chiedendo aiuto. Inizialmente non capì, poi li vide; vide i due uomini che la inseguirono… e capì. In quel preciso momento gli uomini la raggiunsero.
La buttarono per terra, pestandola senza pietà. E senza pietà le strapparono i vestiti, denudandola, e iniziarono a violentarla.
Anna urlava il suo nome, disperata.
E Michel partì, svelto e indemoniato. Furibondo.
Saltò la siepe che separava il bosco dalla pianura, corse rapido e selvaggio,
furioso. Sembrava un demone venuto dall’aldilà per punire quei due scellerati.
I due alzarono gli occhi e lo videro. Non capirono subito cos’era. Poi furono presi dal terrore quando capirono che era un diavolo bianco, una punizione divina per loro, un leone che ruggiva inferocito e assetato di vendetta. E allora scapparono verso il villaggio a gambe levate, ma prima, il più coraggioso dei due, estrasse un coltello e lo infilò nella vagina di Anna, tagliando e recidendo la carne fino all’altezza del petto.
E scappò.
Michel arrivò vicino ad Anna, si buttò letteralmente su di lei, che lo fissava negli ultimi istanti di vita.
Lei lo vide.
Sentiva un dolore sordo al basso ventre; sentiva il sangue uscire e mischiarsi nell’erba e nella polvere; sentiva le viscere scivolare lungo la pancia. Vedeva Michel che tentava selvaggiamente, disperatamente, di rimetterle al proprio posto, di chiudere la ferita. Lo chiamò debolmente.
“Michel.”
Lui la guardò e tutta la sua ira si afflosciò di colpo.
E lei lo guardò negli occhi pieni di lacrime, lo vide bello, forte. Vide il leone che era nato in lui. Vide il suo amore per lei. E tutto il dolore del mondo ò, e fu felice. Felice si, perché moriva per lui, perché aveva fatto tutto quello che doveva, aveva fatto uscire il leone dal suo guscio. Michel avrebbe ruggito per tutto il resto della sua vita.
L’ultimo pensiero fu per lui. L’ultimo sorriso andò a lui. E Michel, in quel momento, la baciò, chinandosi su di lei. E lei vide che la baciava, mentre la vita volava via e il suo cervello si spegneva.
E morì felice.
Michel si piegò sul corpo di Anna, piangendo e urlando, chiamandola a gran voce.
Ma solo pochi minuti gli furono concessi. Rumori provenienti dal villaggio. Si voltò e vide un gruppo di uomini correre verso di lui, armati di spade e forconi, urlando. Senza indugi e prima che lo vedessero, prese il corpo di Anna e scappò nella foresta. Corse a lungo, nascondendosi agli inseguitori. A notte fonda seppellì il corpo di Anna tra le radici di un albero, nella viva terra. Segnò l’albero con due segni: “il cuore e la spada”, “amore e vendetta.”
Rimase fino al mattino dopo accanto alla tomba di Anna, poi dovette nascondersi.
Ma non andò via.
CAPITOLO SETTIMO
Il dolore era immenso.
Per molti mesi visse in una grotta, come un animale selvatico, cacciando e rubando. Andava tutte le notti alla tomba di Anna, piangendo e meditando la vendetta. Di giorno rimaneva nascosto, uscendo soltanto per procurarsi cibo o legna da ardere. La rabbia cresceva dentro di lui ogni giorno, diventando pura ossessione. Voleva ucciderli nello stesso identico modo con cui loro avevano ucciso Anna. E mente fantasticava il piano per la vendetta, la rabbia saliva, il sangue ribolliva come un uragano impetuoso e distruttivo.
“Sarò io il giudice, la giuria ed il carnefice.” Diceva parlando tra sé.
arono così i mesi, vivendo alla stregua di un animale, nutrendosi per lo più di bacche e radici, e qualche volta di carne, quasi sempre cruda. Un giorno, però, la stanchezza lo vinse. Era uscito dalla grotta in cerca di legna da ardere e si sedette, stanco, debole e spossato, per terra. Non poteva continuare così, doveva partire, tornare da suo padre, riprendere le forze per potersi vendicare. Era immerso così profondamente nei suoi pensieri che non si accorse di un vecchio contadino entrato nella foresta a tagliar legna.
Alzò gli occhi e lo vide. Troppo tardi. Troppo tardi per potersi nascondere, troppo tardi per saltargli addosso, troppo tardi per scappare. E allora Michel si alzò, stanco, con l’intenzione di parlare con il vecchio, almeno, con l’intenzione di spiegare, raccontare, sfogarsi.
Ma il vecchio, già pallido dalla paura, appena lo vide alzarsi lanciò un urlo disperato e scappò verso il villaggio. Michel dal canto suo sedette di nuovo, deluso e disperato. Secoli di superstizione avevano creato il mostro. Rimase un ora seduto, riposandosi. Poi udì rumori provenire dal villaggio. Capì che il vecchio aveva raccontato tutto e che stavano venendo a cercarlo.
Il vecchio, dal canto suo, era entrato nel villaggio correndo. Aveva incontrato il primo uomo e lo aveva fermato, crollando a terra, pallido, impaurito e stanco.
“Che ti succede, vecchio?” aveva chiesto l’uomo.
“Raduna tutti gli uomini, dobbiamo catturarlo prenderlo. Andrè aveva ragione, c’è un mostro bianco nella foresta. Un diavolo bianco, lunghe zanne bianche e capelli folti e bianchi. Aveva la bava bianca, mani lunghe e forti. Voleva mangiarmi. Cercatelo e uccidetelo o ci ucciderà tutti.”
L’uomo inizialmente non gli credette. Il vecchio doveva essere impazzito. Ma radunò lo stesso gli uomini e Andrè disse che il vecchio aveva ragione, che ora dovevano credergli. Allora organizzarono una battuta di caccia.
Michel dai rumori provenienti dal villaggio, capì che era un animale braccato. Scappò via portandosi dietro la legna del vecchio e si nascose dentro la grotta. E gli uomini lo cercarono in ogni angolo della foresta, ma la grotta era sconosciuta, nascosta nel folto della vegetazione. E Michel vi rimase per una settimana, nascosto, senza cibo, senza acqua, senza poter uscire.
Alla fine della settimana Michel, esausto, decise di partire. Si avvicinò alla tomba di Anna, furtivo, e baciò la terra sotto cui era sepolta. Poi si avvicinò al
villaggio. Gli abitanti dormivano tranquilli, non lo avevano trovato e quindi, per loro, il diavolo bianco non esisteva.
E Michel guardò il villaggio e la sua ira fu terribile. Agitò i pugni contro le case, urlando la sua rabbia e svegliando il villaggio.
“Tornerò. Tornerò a vendicarmi. Ricordatelo. Il diavolo bianco, il fantasma che avete visto tornerà a chiedere conto dei vostri debiti. Tornerò e chiederò di essere pagato con la vostra vita.”
Gli abitanti furono svegliati da quelle urla minacciose, uscirono dalle case armati. Ma nella pianura non c’era nessuno.
Michel era partito.
Partito verso un mondo senza sole, senza speranza e senza vita, ormai, per lui.
CAPITOLO OTTAVO
E partì.
Fu un viaggio lungo e faticoso. Camminava di giorno e di notte, dormendo poche ore. Mangiava quello che gli capitava, rubando nelle case dei contadini o rapinando qualche malcapitato viandante. Non era difficile rubare, perché quando lo vedevano, bianco, sporco e logoro, si spaventavano e buttavano tutto per terra, scappando.
E così, mentre camminava, mentre si avvicinava a casa, alimentava, diffondeva, senza volerlo, la leggenda del “Diavolo bianco.”
Viaggiò per molti mesi e le stagioni si susseguirono alle stagioni. Percorreva a ritroso, con ritmo incalzante, i chilometri che aveva percorso lentamente con Anna. E, insieme ai chilometri, si rincorrevano anche i ricordi, quasi sempre felici, belli e felici.
Ma Michel non si concedeva il lusso di pensare, non si fermava per paura di perdersi dentro ai ricordi. Procedeva spedito verso la sua meta. Era stanco, ma non lo dava a vedere. La sua sete di vendetta era inesauribile e dava energie immense al suo corpo. E così il tempo ava e lui iniziava a intravedere i contorni di luoghi conosciuti e capì che era vicino a casa. Vicino a suo padre. Presto si sarebbe riposato.
Era un mattino di primavera, il primo dopo un inverno rigido. Il sole era alto nel cielo, non ancora caldo, ma piacevolmente tiepido. E la vita si risvegliava dal
torpore invernale, le gemme pian piano si aprivano al tiepido calore del sole, piccoli fiori spuntavano nei prati e gli uccelli cinguettavano volando nel cielo. La vita si prendeva la rivincita dal freddo inverno. Ma Michel sapeva che era tutta una farsa, lui lo sapeva, sapeva che sotto quella vita, altro non c’era se non la morte spietata. Michel sapeva che, per ogni vita che nasceva, il destino ne pretendeva una in cambio. Camminava assorto nei suoi pensieri, ormai ignaro di tutto ciò che lo circondava. Talmente assorto da non accorgersi, se non quasi in ultimo, di un uomo alto, magro e muscoloso, che camminava davanti a lui. Si fermò giusto in tempo per non essere visto e si mise a controllare bene l’uomo che camminava tranquillo. Non si era accorto di lui….bene.
E Michel deviò nel folto della foresta, lo superò e gli si parò davanti. Alto e forte, in mezzo al sentiero, aspettò che l’uomo lo vedesse.
“Dammi tutto quello che hai.” intimò Michel all’uomo che lo guardava più sorpreso che spaventato.
“Non ho borsa, non ho soldi, non ho cibo. Ma ho una lama affilata, se vuoi.” Rispose l’uomo sguainando la spada. “Tu, piuttosto, dovresti stare più attento con quel volto. Potresti essere scambiato per il diavolo e ucciso.”
“Lo so.” rispose Michel con negli occhi l’odio per il mondo “Questo viso sarà la mia vendetta contro il mondo intero.”
“Vendetta verso il mondo intero.” disse lentamente l’uomo. “Hai di che vendicarti? Giovane come sei. E come pensi di farlo, così conciato. Sei magro, troppo magro, e debole, senza armi. Sai usare una spada?”
“No. Non so usare la spada. Però sono feroce e il mio aspetto fa paura.”
“ Il tuo aspetto? Non basta, ti assicuro che non basta. A me il tuo aspetto non fa paura.”
Così dicendo l’uomo si sedette, su un masso, sul bordo del sentiero, a pensare.
Michel era perplesso. Guardava quell’uomo e non sapeva come comportarsi. Lo guardava rimanendo sulla difensiva, mentre quell’uomo pensava.
Ed effettivamente l’uomo pensava che….forse….
Pensava al suo ato. Era un nobile.
Juan Pablo de Castilla era un nobile spagnolo al servizio del Re.
Una volta.
Juan Pablo de Castilla aveva vinto molte guerre, molte battaglie e aveva avuto molti onori in Spagna.
Una volta.
Juan Pablo de Castilla aveva conosciuto donne e amori, tradimenti e orrori.
Una volta.
Ed ora cosa era?
Chi era?
Ora era Pablo, l’assassino, Pablo il ladro, Pablo il mercenario.
Vendeva la guerra, l’omicidio, il terrore.
Era così che andava il mondo, dalle stelle alle stalle. E ora vendeva la sua lama al migliore offerente. Conoscendo bene l’animo umano e l’arte della guerra, capiva cosa voleva fare il suo nemico al primo sguardo, sapeva dove colpire ancora prima di sguainare la spada. Era astuto, sapeva lottare e ora contava di andare fino a Parigi a vendere i suoi servigi a qualche signorotto se.
Contava di fare questo… fino ad ora.
Ora era seduto e pensava, sconcertato.
Aveva Michel davanti e per la prima volta non capiva. Vedeva quell’uomo, che non aveva paura di mettersi davanti a lui senza armi. Vedeva la sua rabbia infinita, la sua sete di vendetta senza limiti ne confini. Era una tigre, anzi, un leone inferocito. E si vedeva.
Ma non era solo questo.
C’era in lui un destino già scritto.
Ma il leone poteva essere guidato? Poteva essere usato? Poteva diventare l’artefice della sua liberazione?
Era questo quello che pensava, seduto sul masso. Era questo quello che si chiedeva.
E mentre pensava, ritrovava al voglia di rimettersi in gioco. “Perché no.” diceva tra se. Ma sì. Sarebbe stato lui, Michel, la sua carta da giocare. Avrebbe scommesso su di lui. Capì che era la sua ultima possibilità di riscatto. Decise, infine, di seguirlo nel suo cammino.
“Vengo con te.” Disse alzandosi e guardandolo negli occhi. “Se vuoi.”
Michel non rispose, annuì soltanto col capo. Pablo si accodò a Michel nel cammino verso il loro ignoto destino.
E il mercenario saliva sul colle,
sentendo le ali dorati
e il calore del sole sulla pelle.
Il mondo stava cambiando,
e lo si capiva,
da quel sole che il calore già languiva.
Guadagno per lui,
guerre in agguato.
Sofferenze per il popolo e il perseguitato.
E guardando il sole alto nel cielo,
vedeva,
bianchi cadaveri in uno sfondo di nero.
Solleva le braccia e prega il buon Dio,
che tutto il denaro dell’uomo,
infine,
sia mio.
Solleva una muta preghiera profana,
che il Dio della guerra ti dia la vittoria.
Che il sole si offuschi nell’ombra più fosca,
che il sangue schizzi da una spada rimossa,
che tu la vittoria sul buono conosca,
la ferita del cuore guarisca.
Ma che il tuo cuore dopo la guerra,
all’amore, rinasca.
CAPITOLO NONO
Camminavano insieme.
Il sentiero si snodava tra boschi argentati, la natura pian piano rinasceva al sole primaverile. I sassi, ancora bianchi, si riempivano di muschio e qualche animale, ogni tanto, sbucava dal folto del bosco, come a chiedere ragione di quel aggio.
Nessuno parlava.
Poi iniziò Michel a parlare. Le parole uscivano come il mare in tempesta. Il suo cuore si svuotava, la sua rabbia saliva come una febbre costante. Digrignava i denti pensando alla sua giovinezza, piangeva pensando ad Anna.
“Li ucciderò tutti. Tutti. Nessuno rimarrà vivo. Nessuno. Il mio piccolo amore, la persona che si è sacrificata per me, l’unica che mi ha sul serio amato e l’unica che ho amato. Devono morire.”
Pablo lo lasciò parlare, pensieroso. Le ore arono lente, ma inesorabili e Michel raccontava. Sembrava non aver fine la sua sofferenza. Pablo ascoltava ed era incredulo. Intuiva la voglia di riscatto celata sotto le parole, sotto la rabbia.
Sante le parole che toccano il cuore e danno una ragione di vita a due uomini soli.
Pablo non parlò neppure quando Michel ebbe finito. Doveva pensare molto; Michel lo lasciava in pace, assorto nei suo pensieri, dandogli il tempo di assimilare quello che aveva sentito.
E il sole, pian piano, iniziò a tramontare. Il rosso del tramonto aveva il colore del sangue e un vento agitava le foglie. “vento di sera, vento di guerra,” diceva un vecchio proverbio. E Pablo, che pensava questo, si voltò di scatto, verso Michel, guardandolo a lungo con occhi fiammeggianti e ormai sicuri.
“Tu vuoi vendicarti? Lo vuoi sul serio?” E nella sua voce c’era una preghiera e una speranza.
“Certo che lo voglio.” disse Michel digrignando i denti “Li farò a brandelli con le mie mani.”
E nella sua voce c’era l’ovvietà di una cosa già decisa.
“E allora devi imparare a lottare, a combattere. Devi imparare a dominare la tua rabbia, a uccidere solo chi deve essere ucciso. Devi imparare ad usare la spada. Devi imparare la disciplina. Io ti insegnerò, se lo vuoi.”
“Insegnami quello che sai. Poi sarà il destino a decidere cosa sarà di me.”
E iniziarono le lezioni di scherma. ò un po’ di tempo. Michel imparava a combattere e insieme percorrevano i sentieri di quelle montagne interminabili, in
mezzo a boschi millenari. Michel imparava velocemente, conosceva ormai tutti i trucchi e tutte le stoccate, tutto. Ma gli mancava qualcosa.
Era un mattino d’autunno. Pablo si svegliò e si accorse di aver freddo. Stropicciandosi le mani, guardò Michel che si alzava.
“Conosci tutto della scherma, oramai. Dio che freddo stamattina. Ma io ti batto sempre. Hai capito il motivo?”
“Me lo sono chiesto diverse volte, ma non riesco a capire.”
“Perché sei cieco. Ti batti con rabbia, come un animale ferito. Tu ti batti per vedetta, non usi il cuore. Devi imparare a prevedere quello che fa il tuo avversario. E per far questo devi usare il cuore, non la testa.”
“Ci riuscirò, ci proverò. Spiegami come fare.”
“Non posso spiegartelo. Ci riuscirai, lo so. Ma da solo. Pensa bene e troverai il modo.”
Michel ci pensò su e Pablo, pian piano, si accorse che Michel aveva capito e che aveva imparato a lottare. Nel frattempo viaggiavano, e nel loro peregrinare incontravano gente per il sentiero; ladri, assassini, gente della peggior specie.
Ormai Michel non si nascondeva più. E dopo il primo stupore e le prime paure
per l’aspetto di Michel, quella feccia umana trovava in lui il motivo di riscatto, trovava il capo da seguire. E istintivamente si univano a lui. E Michel veniva trattato come il capo e lo era sul serio. Aveva un carisma innato, un attitudine al comando, era un comandante nato. Sapeva parlare con gli uomini, sapeva convincerli, aizzarli, sapeva dominarli e anche impaurirli. E vivevano nei boschi, saccheggiando villaggi e case isolate, rapinando i viandanti. Ma non uccidevano mai nessuno, solo se venivano attaccati. E le loro scorrerie incutevano paura e timore. Tutt’oggi la leggenda del “Diavolo bianco” è viva nella memoria della gente e le storie, vere ma ingigantite dall’orrore che avevano suscitato, vengono raccontate ai bambini di tutte le etnie, per incutere il timore del male oscuro. Nell’incutere paura gli esseri umani sono bravi, di qualunque razza o religione essi siano.
Gli anni arono e Michel era ormai un uomo. Guerre iniziate furono perse e vinte, le stagioni avano e la leggenda cresceva. Michel era stato additato come il male oscuro, ma lui voleva solo vendicarsi e trovare un posto tranquillo dove vivere in solitudine.
E venne il giorno in cui arrivarono al villaggio. Michel guardò Pablo negli occhi e annuì. Era arrivato il momento della vendetta. Il mattino dell’assalto, Michel e Pablo andarono in visita alla tomba di Anna. La scritta era lì, sull’albero, dove Michel la aveva intagliata. “Amore e vendetta”. “Il cuore e la spada”. E Pablo vide tutto e capì tutto.
Tornarono dai loro uomini e Michel parlò loro a lungo; come un padre parla con il figlio, alla vigilia di una prova importante o prima di partire per la guerra, così lui parlò ai suoi.
Li incitò, li aizzò e li distolse dal compiere atti coraggiosi o di clemenza.
Dovevano solo uccidere quei due e avrebbero lasciato stare gli altri, solo però se glieli avessero consegnati. Michel voleva essere leale con la gente del villaggio. Non voleva stragi inutili, gli avrebbe dato la possibilità di salvarsi.
Si avvicinarono, dunque, al villaggio, circondandolo. Michel uscì sullo spiazzo. Mille ricordi si agitavano nella mente. Si fermò proprio nel punto dove Anna era morta e urlò verso il villaggio.
“Voglio parlare con qualcuno. Fatevi avanti.”
Uscì un vecchio. “Sono il capo del villaggio. Cosa vuoi.” disse, mentre guardandolo sbiancava dalla paura.
Michel sorrise soddisfatto, ancora il suo aspetto faceva paura, e disse:
“Vecchio, io non voglio farvi del male, se non mi obbligherete. Anni fa alcuni di voi uccisero una donna, la mia donna. Mi hanno derubato della mia vita e ora io chiedo che il mio debito sia onorato. Io non voglio voi, vecchio, voglio loro. Ma se non me li consegnerete, verrò a prenderli, li stanerò e li farò a brandelli. Vigliacchi. Hanno ucciso l’essere più dolce del mondo, un fiore tenero e bellissimo. Non gli prometto la vita, non posso promettere una cosa simile. Ma gli prometto un combattimento leale. Sarà la sorte a decidere chi dovrà vivere. Se mi uccideranno allora hanno la mia parola che i miei uomini li lasceranno liberi di andare.”
Il vecchio ascoltò le parole di Michel in silenzio. Dopo di che annuì piano e rientrò nel villaggio. Convocò il consiglio del villaggio e parlò loro, esponendo quello che gli era stato detto.
Andrè e Antoine dissero che sarebbero fuggiti dal villaggio, dissero al capo che doveva riferire che i due non c’erano più, che erano andati via.
Ma il capo scosse la testa.
“Dove pensate di andare, siamo circondati. Dobbiamo piuttosto decidere se consegnarvi o lottare. Dal canto mio non permetto che si detti legge in casa mia. Preferirei morire piuttosto che sottostare a simili minacce.” Dopo una lunga discussione tutti furono d’accordo e il vecchio uscì dal villaggio e affrontò Michel che, intanto, si chiedeva il motivo di un così lungo silenzio.
“Mi ricordo di questa storia, straniero. Ero tra quelli che ti hanno cercato, quando spaventasti il vecchio. Mi ricordo anche della donna, ha fatto le pulizie in casa mia. Era una puttana ladra e ha fatto la fine che meritava. Non ti consegneremo i due uomini, hanno semplicemente fatto il loro dovere, liberando il mondo da una sgualdrina. Dovrai lottare per trovarli.”
E rientrò nel villaggio senza aspettare una risposta.
E la risposta di Michel fu un urlo feroce.
Mise in suoi uomini in formazione, come Pablo aveva insegnato loro. Erano feroci e facevano paura.
A quella vista, il capo villaggio si rivolse ai suoi.
“E’ la fine. Li vedete? Lotteremo, ma credo che sarà invano. Però non si sa mai. Sembrano agguerriti. Mettetevi tutti in fila, le armi bene in vista e battetevi come potete. E che Dio ci aiuti.”
In quel momento Michel diede il segnale.
“Uomini, all’attacco. Trovate chi ha ucciso e lasciateli a me.”
E fu un massacro.
La prima parte della battaglia, si svolse sullo spiazzo di fronte al villaggio. Gli abitanti del villaggio lottarono arduamente, ma non erano guerrieri e non potevano vincere contro quella truppa. Quando si accorsero che stavano perdendo, scapparono nel paese cercando di nascondersi nelle vie e nei vicoli stretti. Ma fu tutto invano, perché venivano inesorabilmente stanati.
E a capo di tutti, c’era Michel, rosso in volto e sporco di sangue, un vero “diavolo bianco”, che brandiva la spada come un indemoniato, roteandola sulla testa e abbattendola sui suoi nemici. E con gli occhi cercava, cercava i due uomini; li ricordava bene, aveva alimentato il loro ricordo con l’odio, poteva distinguerli tra mille, quei vigliacchi maledetti. E infine li trovò, che tentavano la fuga dal villaggio. Vigliacchi. Il resto del paese aveva lottato per difenderli e loro scappavano come conigli.
Urlò di rabbia e loro si voltarono e lo videro. E seppero di essere morti; sul loro volto comparve la paura, la colpa per quello che era accaduto al loro villaggio.
Seppero che era stata la loro vigliaccheria a provocare questo. Ma ormai non importava, dovevano difendersi, perché Michel, vedendoli, si era scagliato su di loro, sbavando dalla voglia di ucciderli, inebriato dall’odore del sangue e dalla prospettiva della vendetta.
E questo fu un errore. Con i sensi annebbiati, non usò il cuore.
Mentre si scagliava contro di loro non si accorse che Andrè aveva sguainato la spada.
Indietreggiò di colpo, ferito al braccio sinistro. Cadde, ma si rialzò di scatto, parò la stoccata di Andrè e gli infilo la spada nel petto. Andrè guardò il petto trafitto, guardò Michel negli occhi, mentre un fiotto di sangue gli colava dalla bocca e cadde a terra morto, con gli occhi al cielo.
Antoine, nel frattempo, cercò di fuggire, ma Plablo lo bloccò e lo costrinse a tornare.
“Va e battiti, vigliacco. Fatti ammazzare da uomo, piuttosto che scappare come un coniglio. E ringrazia Dio che lui ti vuole, altrimenti eri mio. Puoi ancora sopravvivere.”
E Antoine si avventò contro Michel, che stavolta non si fece prendere in contropiede; bloccò la stoccata di Antoine, bloccò il braccio destro con la mano sinistra e lo traò, estraendo la spada e spingendo il corpo a terra, come schifato da quell’essere immondo.
E con un urlo lacerante, Michel si vendicò dei torti subiti.
E mentre i suoi uomini facevano razzia nel villaggio, sfogando i loro istinti più primordiali, ma lasciando stare donne e bambini, uccidendo tutti gli uomini che trovavano, Michel uscì dal villaggio e andò alla tomba di Anna, con le teste dei due in mano.
“Ecco amore mio.” disse “Ecco che giustizia è fatta.”
E buttò le teste nel bosco.
A fine giornata tutto fu finito. Gli uomini tornarono nel bosco.
Nessun uomo era sopravvissuto nel villaggio.
Da quel momento in poi furono braccati, divennero fuorilegge. Quella battaglia segnò l’inizio dell’era del “diavolo bianco”, che si concluderà anni più tardi in luoghi lontani. Ma per ora dovettero nascondersi e per molti anni dovettero peregrinare per il mondo, perseguitati.
CAPITOLO DECIMO
Ed il loro fu un lento peregrinare, alla ricerca di un posto in cui vivere. Michel spingeva gli uomini incessantemente, fino ai confini del mondo, se necessario. Fu un viaggio lungo, i boschi finirono e attraversarono pianure e colline, fino ad arrivare al mare. Scorrerie e ruberie per poter sopravvivere, per alimentare un viaggio senza una meta apparente, servivano solo ad alimentare una leggenda creata solo da una cultura ipocrita e credulona, da una ignoranza latente che voleva essere legge di Dio.
E arrivarono al mare, nei possedimenti del Visconte di Narbonne. E li si sentirono in trappola. Michel non sapeva cosa fare, non aveva mai vissuto al di fuori della foresta. Questo non era il suo mondo, si sentiva in pericolo costante. E ancora una volta fu Pablo a aiutarlo, a consigliarlo, a metterlo in salvo.
Di notte rubarono quattro barche di pescatori e presero il largo. Dopo qualche giorno di navigazione sbarcarono nei pressi di Barcellona. Li Pablo era ricercato e allora si spostarono rapidamente lungo la costa. arono Valencia e dopo qualche tempo arrivarono a Melada, allora sotto il dominio Musulmano, nella regione chiamata Al-Andalus. Da li arono lo stretto di Gibilterra e si trovarono in una regione meravigliosa, ricoperta di aranci e di uliveti. Meravigliosa, ma anche pericolosa, piena di soldati strani, con le scimitarre, che Pablo ben conosceva. E la arono in fretta, senza fermarsi. Fino a che si trovarono il deserto davanti. Arido, spietato, senza vita apparente. E Michel, senza motivo, decise di attraversarlo. Fecero tutti i preparativi, fecero scorte di acqua e cibo e si avventurarono in quel nulla fatto di sabbia e di sole. Quando alle loro spalle ogni segno di civiltà fu svanito, altro non rimase che il nulla, il nulla più solitario. La solitudine fatta di sabbia e sole.
Avevano ato due nazioni, visto popoli diversi e usanze diverse, conosciuto popolazioni strane e ora quel nulla li affascinava e li impauriva. Si sentivano soli
e persi nel nulla. E non sembrava esserci vita in quel nulla. Ma anche se c’era, la vita era nascosta al riparo dal gran caldo.
Quello che Michel avrebbe visto e patito lo avrebbe ricordato per il resto della sua vita.
Pensavano chiaramente che il deserto sarebbe finito presto. Non immaginavano l’immensità di quel luogo. Non avevano fatto scorte di cibo e di acqua sufficienti e l’acqua iniziò subito a scarseggiare. Non essendo abituati a vivere in quei luoghi, non sapevano dove trovare l’acqua e il cibo. Michel capì che doveva trovare l’acqua; non sapeva come, ma doveva trovarla. Ma fu tutto inutile.
Uno per uno, mentre i giorni avano ed il deserto non finiva mai, i suoi uomini morirono di fame e di stenti. Una morte orribile, ma ben più orribile fu l’ordine che Michel dovette dare. “Nessun aiuto a chi non ce la fa. Si prosegue senza sosta.”
Di giorno faceva un caldo infernale mentre di notte faceva freddo e loro non avevano vestiti adatti per quel luogo. Ma proseguirono senza sosta, anche perché la loro unica speranza era proseguire il cammino, senza meta. Non potevano tornare indietro, potevano sbagliare strada.
Ma il destino è crudele e tutti gli uomini di Michel pagarono con la vita la loro obbedienza.
E rimasero in due, Pablo e Michel. In due a dover ricordare, in due a dover continuare il cammino, in due a dover soffrire.
Fino al giorno in cui capirono che la fine era vicina.
CAPITOLO UNDICESIMO
Era un mattino freddo nel deserto, normale in quel luogo caldo di giorno. Michel e Pablo erano ormai allo stremo delle forze. E Pablo alle prime luci del sole, guardava lontano davanti a se e non vedeva altro che sabbia. In quei luoghi il sole si alzava velocemente, scaldando in poche ore la sabbia e rendendola incandescente. Pablo si sedette sconsolato, niente, non c’era niente.
Svegliò Michel ed insieme iniziarono il loro lento peregrinare.
Verso dove? Verso la morte, pensavano. Camminavano come zombie, stremati. E le ore avano inesorabili. Nessuno dei due parlava, dovevano conservare le poche forze che avevano. Vero l’imbrunire Pablo intravide una nube di sabbia provenire da lontano. Era una tempesta di sabbia. Il vento piano piano si alzava e portava la sabbia alta nel cielo. La nube ben presto arrivò coprendoli e costringendoli a nascondersi, abbracciati per non perdersi. Dandosi coraggio a vicenda, i due riuscirono a sopravvivere anche a questa prova. Il mattino li vide coperti di sabbia. Fu Michel per primo ad alzarsi, a scuotere la sabbia di dosso, e ad aiutare Pablo ad alzarsi. Non avevano mai visto nulla di simile, ne Michel ne Pablo.
Riiniziarono il cammino sotto il sole cocente, quando Pablo intravide ancora la stessa nube, che veniva verso di loro. Non avevano la forza di sopportare un'altra tempesta di sabbia, ma non c’era niente da fare, erano in balia di quei luoghi maledetti. Camminarono tutto il giorno, controllando la nube che, lentamente, si avvicinava.
Fino a che, verso l’imbrunire, la nube mostro loro quello che conteneva. Ne restarono sbalorditi. Assomigliavano a uomini, ma non lo erano, non avevano
forma, ne faccia, ne occhi. Erano, da lontano si vedeva chiaramente, blu. E cavalcavano strani animali, mai visti, che si muovevano dondolandosi, brutti e sgraziati, veramente terribili.
“Michel, ma anche tu li vedi? Guarda, cosa sono?”
“Non lo so. Sembrano diavoli venuti da terre lontane. Sono venuti a prenderci.”
“Hai ragione, sono qui per noi. Andiamogli incontro, così da accelerare il nostro destino. E’, per noi, la fine. E’ stato un onore combattere con te.”
E si incamminarono verso il loro destino. Ma la tempesta di sabbia aveva tolto le ultime forze che avevano.
Non fecero nemmeno cento i che crollarono a terra, esausti.
Si svegliarono al chiarore della sera e… non era possibile.
CAPITOLO DODICESIMO
Mohamed li aveva visti. Due puntini lontani che camminavano piano. Decise di andare a vedere cosa erano quei due puntini lontani. Egli era il capo di una tribù berbera. La sua famiglia aveva abitato il deserto da secoli e Mohamed, dopo anni di capi crudeli, era considerato un capo giusto.
Avvicinandosi si accorse che erano due uomini, stranamente vestiti. Uno in particolare era strano. Pallido, nonostante il sole caldo, con la pelle tutta bruciata dal sole, che aveva provocato più danni in lui che nell’altro uomo. Michel non aveva protezioni naturali contro il sole.
Erano esausti e lui lo vedeva. E infine li vide fermarsi, confabulare, riprendere il cammino e crollare a terra.
Si avvicinò guardingo ai due, li guardò a lungo, discutendo con i suoi uomini. Questi volevano lasciarli li, a morire, perché avevano paura di loro, soprattutto del bianco. Ma lui li convinse. Parlò loro, fece appello alla loro religione e alle loro usanze, che imponevano l’assistenza e l’accoglienza agli stranieri. Li convinse, come sempre, a caricarli su due cammelli e a tornare all’accampamento. Tutti si sorpresero, all’accampamento, nel vederli tornare così presto. E si sorpresero ancora di più nel vedere i due stranieri.
Mohamed chiamò le donne, fece portare i due in una tenda, e ordinò loro di ripulirli e di curarli. E le donne curarono le loro ferite e attesero che la febbre del deserto si quietasse. arono due settimane, le ferite provocate dal sole guarirono e la febbre ò. Non si svegliarono dal loro torpore fino a che la febbre non fu cessata. Però infine si svegliarono.
Michel si svegliò al chiarore della sera.
Dove era? Sembrava un luogo strano e magico. Una tenda soffusa nella luce di candele, profumata da spezie di luoghi a lui sconosciuti, tappezzata da bellissimi tappeti, arazzi dai mille colori. Erano distesi su letti, vestiti in modo strano, con lunghi abiti bianchi, senza calzoncini. Erano puliti e profumati, cosa strana per loro, sempre puzzolenti e poco inclini a lavarsi.
“Sono morto.” pensò “E sono in paradiso.”
E poi si accorse di Pablo. L’amico dormiva profondamente. Alla luce delle candele si vedeva il viso profondamente deturpato dalle bruciature del sole. Povero. Come era conciato.
E Michel ripensò agli altri, sperava con tutto il cuore che la loro fedeltà fosse premiata nell’aldilà, che si fossero meritati, dopo una vita di stenti, un’eternità di felicità. Una fitta acuta gli traò il cuore, si era affezionato a quegli uomini rudi ed ora il rimorso per averli portati alla morte era atroce. E le lacrime, versate solo per Anna, tornarono a rigargli il volto. Lui non poteva vedersi, non poteva vedere i segni sul suo volto della sofferenza e dei patimenti. Sarebbe rimasto sconvolto da quella visione. E le lacrime scesero copiose sul viso, macchiando l’abito bianco e ricordandogli un dolore immenso, a volte rintanato nel profondo del cuore, ma mai dimenticato.
Il momento di dolore fu interrotto da un rumore alle sue spalle che costrinse Michel a voltarsi di scatto.
Rimase senza parole, perché all’entrata della tenda c’era una donna bellissima, di pelle scura. A capo coperto, con il viso circondato dal un velo leggero, vestita con un abito di lino leggero che le copriva il corpo giovane e affusolato.
Michel se ne invaghì all’istante.
“Ben svegliato.” Disse la donna.
Ma Michel non capì una parola di quella lingua strana e guardò la donna come se fosse un angelo stranissimo e bellissimo.
Lei batté le mani ed entrò un soldato che si rivolse a Michel nella sua stessa lingua.
“Mi chiamo Said. Questa è la tribù dei berberi del deserto. Voi chi siete? Capite quello che dico?”
“Si. Capisco quello che dici. Ma come fai a parlare la mia lingua?”
“Sei fortunato, straniero. Parli una lingua comune in tutta l’Europa. Io ci sono stato e con il se sono andato a colpo sicuro. Ma come avete fatto ad arrivare fin qui? Il nostro capo, Mohamed, vi ha portati qui. Eravate svenuti nel deserto.”
E Michel raccontò la sua storia.
“Mi chiamo Michel. Nel mio mondo sono il “diavolo bianco”, il fantasma che ti aspetta nell’ombra e ti balza addosso, come un leone, pronto ad uccidere. Così mi definiscono.”
E proseguì il suo racconto. Raccontò tutte le sofferenze, tutti i patimenti del suo essere uomo. E Said tradusse tutto alla donna, che non poté non piangere al solo pensiero di tanta sofferenza .
“E infine sei qui. Anche io, nel tuo mondo, venivo maltrattato per la mia pelle. Poi sono scappato e sono tornato tra la mia gente. Questa donna è Fatima, figlia del nostro capo. Lei e le altre donne vi cureranno. Qui nessuno parla la tua lingua, ricordalo, a parte me. Siate i benvenuti. Quando starete meglio, Mohamed vi riceverà.”
“Bene. Ringrazia il tuo capo e Fatima da parte nostra.”
In quel momento Pablo si svegliò. Il terrore per quello che vide fu immenso. Aveva sentito parlare di esseri del nulla, che vivevano al calore del sole. Diavoli neri che mangiavano uomini.
Saltò dal letto e si nascose in fondo alla tenda, con in mano un candeliere preso da terra.
Michel parlò con lui.
“E’ tutto a posto, Pablo. Siamo salvi, che ti prende. Ci hanno salvato la vita, amico mio. Vieni qui, vieni.”
“No, Michel. Non farti ingannare. Sono diavoli. Ne ho sentito parlare. Divorano la gente.”
“Ma Pablo. Sempre credenze. Non pensavo che tu potessi credere a cose simili. Loro sono persone, come me, come il “diavolo bianco”. Capisci?”
E Pablo si lasciò convincere dall’amico, si lasciò guidare dalla fiducia che leggeva in lui. E tornò a letto.
Dopo un po’, cullato dal profumo delle spezie e dalla luce delle candele che ballava sulle pareti della tenda, Pablo si addormentò.
E Michel rimase a lungo a guardare il nulla. I ricordi lo assalivano e non gli permettevano di riposare. Il volto di Anna ora si mescolava, nelle diversità, al volto di Fatima, fondendosi in un sonno lungo ere.
Era ancora innamorato di Anna, ma quello che sentiva per Fatima era diverso. Non sapeva dargli un nome, ma solo un volto. Il volto di lei.
Doveva riprendere le forze e poi convincere il padre di Fatima di essere degno di lei. Perché in quel momento l’unica cosa che desiderava era Fatima.
E la mente, stanca della confusione del pensiero, trovò rifugio nel sonno, addormentando contemporaneamente il corpo di Michel.
In quel sonno, stranamente sereno e senza sogni, Michel recuperò la forza e la pace che sarebbero servite per i giorni a venire.
CAPITOLO TREDICESIMO
Dopo qualche giorno Michel e Pablo si alzarono, quasi completamente ristabiliti. E Mohamed li incontrò nella sua tenda, la più lussuosa dell’accampamento. Mohamed era un uomo possente, dalla barba folta e vestito con una tunica blu, tipica dai beduini. Said al suo fianco avrebbe tradotto per lui quello che i due avrebbero detto.
“Sono felice che state meglio, stranieri. Said mi ha raccontato la vostra storia eccezionale. Io penso che nessuno in questo mondo potrebbe vantare più avventure di voi. Dovete però decidere cosa fare. Riprendete le forze, innanzitutto, sarete nostri ospiti fino a che lo vorrete. Insieme decideremo quale è la via che il profeta e Allah hanno scelto per voi. Mia figlia, Fatima, vi curerà ed esaudirà ogni vostro desiderio.”
A Michel quell’uomo piaceva. Aveva una espressione feroce, con la lunga barba nera sul volto scuro, però si vedeva, nel fondo dei occhi, una intelligenza fuori dal comune.
“Vi ringrazio per ogni cosa. Sapremo sdebitarci.”
Quella sera Michel si sedette al di fuori della tenda, guardando il cielo. Le stelle sembravano più grandi li, sembrava si potessero toccare. E la luna, immensa, illuminava la sabbia del deserto. Non aveva notato, da quando era nel deserto, la lucentezza della luna. Troppe erano state le tribolazioni che avevano patito.
In quel momento arrivò Fatima.
“Dovrebbe riposare, Mio Signore. Deve riprendere le forze.” Ma poi si accorse che Michel non capiva, allora si allontanò e ritornò con Said, he ripeté la domanda.
“Guardo la luna e le stelle.” rispose Michel “Come è grande e splendente la luna. Dalle mie parti non è così grande. Molte volte mi sono soffermato a guardarla, nel mio peregrinare, e mai l’ho vista così grande.”
“E’ splendida la luna. Sembra che voi, Mio Signore, siate nato sulla luna. Pallido e con i capelli bianchi. La nostra è una tribù pacifica. Siamo guerrieri, è vero, ma fino ad ora abbiamo difeso solo i nostri accampamenti. Oggi ho sentito mio padre parlare. Credo che cambierà qualcosa, cambierà tutto. Al nostro popolo siete simpatici e la cordialità è una nostra regola di vita. Ma non amiamo, naturalmente, chi ci tradisce. Credo che sia così anche per voi.”
“Certo. Non dovete preoccuparvi, Mia Signora. In questi giorni decideremo il nostro destino, ma non dimenticheremo mai quello che avete fatto per noi.”
A quel punto Michel si alzò, salutò Fatima e rientrò nella tenda, dove Pablo dormiva da tempo.
I giorni seguenti furono felici e trascorsero in fretta. Era arrivato il momento di decidere, ma Michel prorogava la decisione. Aveva paura di perdere Fatima. Si era accorto che Fatima non era indifferente al suo fascino.
Il problema era che non potevano tornare in Europa, soprattutto in Francia e
Spagna, perché erano ricercati. Dovevano trovare il sistema per rientrare, se non in incognito, almeno da conquistatori. Fu Mohamed a dare loro la possibilità di rientrare.
“Ci siamo alleati con il Califfato di Granada, che ha bisogno di aiuto, perché attaccato dal Re di Castilla, Giovanni II. È una impresa difficile. I Cristiani sono potenti e tutti i territori appartenuti a El-Andalus sono finiti nelle loro mani. Rimane solo il Califfato di Granada da difendere. Combattete con noi e poi sarete liberi di fare ciò che vorrete.”
“I territori al di la del mare sono la casa di Pablo. Ci potrà aiutare.”
E i Berberi, l’indomani, iniziarono il viaggio per arrivare alla costa. Dovevano attraversare il deserto. Fu un viaggio lungo un mese. E Michel si stupì di come riuscissero a trovare acqua e cibo in quel nulla, di come riuscissero ad orientarsi. Arrivarono, infine, alla costa, ospiti dell’Emiro di Tangeri.
Si stavano preparando le navi. Sarebbero sbarcati al confine nord del Califfato di Granada e si sarebbero diretti a Cartagena, cercando di conquistare la città.
Il giorno della partenza era arrivato, le navi erano pronte, le alleanze fatte.
Sarebbe stato un successo?
Era tempo di saperlo. La guerra stava per iniziare.
CAPITOLO QUATTORDICESIMO
E in una notte di primavera, le navi salparono. La traversata non era lunga, un paio di giorni al massimo. Dovevano attestarsi al confine, vicino alla costa. L’idea era di difendere il confine e fare delle incursioni in territorio nemico.
L’aria era tersa e limpida, mentre le navi procedevano lente. La navigazione non era pericolosa, il tempo era stabile e bello. Dopo un giorno e mezzo sbarcarono al confine, a un centinaio di chilometri da Cartagena. Pablo annusava l’aria come se fosse cosa viva, qualcosa che gli ricordava amori e lotte lontane nel tempo.
“Aria di casa.” Mormorava sottovoce.
C’era un villaggio di pescatori. Si avvicinarono e chiesero del cibo. I pescatori non avevano paura di loro, conoscevano gli Arabi e gli Spagnoli, vivendo al confine. Diedero loro del cibo e li videro sparire in lontananza.
Il Califfo era non lontano dal confine, che li attendeva. organizzarono l’esercito, i turni di guardia, e Michel, Pablo e Mohamed partirono verso l’interno, per incontrare il Califfo.
“Uomo cordiale, questo Califfo.” Pensò Michel mentre marciavano alla volta dell’incontro “È venuto apposta per incontrare Mohamed.”
Non capiva ancora quanto era disastrosa la situazione in cui il Califfo si trovava.
Si incontrarono in un accampamento non lontano dal confine. Cavalcavano possenti cavalli nella notte, quando udirono il suono di un corno. Mohamed fece cenno di fermarsi e, dopo poco, arrivarono dei soldati, le sentinelle.
“Sono Mohamed. Il vostro Califfo mi aspetta.” Disse alle sentinelle.
“Siamo stati messi al corrente del vostro arrivo, Mio Signore. Che Allah sia con voi. Venite, seguiteci, il Califfo vi aspetta.”
Era una costruzione in pietra sul mare, un avamposto per le guardie, ora designato a dimora del Califfo. Non troppo confortevole, a dire il vero, però adattata alla meglio alle esigenze dell’illustre abitante.
Mohamed e Michel entrarono dal Califfo, mentre Pablo preferì tenere d’occhio i cavalli. Non si fidava ancora del tutto di quelle persone vestite con strani copricapo e con strane spade corte.
“Signori, è un onore accogliervi nel mio regno. Sono il signore di queste terre e per voi ci saranno tutti gli onori degni di un Re.”
“Che Allah sia con te.” Disse Mohamed “non siamo qui in visita di cortesia, come ben sai, ma per aiutare. Siamo guerrieri e, da domani, con il tuo permesso, andremo ai confini per difendere il tuo regno.”
“Permesso accordato, naturalmente. Ma per stasera siete miei ospiti.
Consigliere,” disse rivolto ad un uomo al so fianco “sia portato cibo e bevande. Che la festa inizi. Stasera è una sera di pace, domani andremo in guerra.”
E la serata o serena. Michel non aveva mai visto una festa così lussuosa. Cibo di ogni genere, niente vino, come in uso tra i Musulmani, ma bevande gustose e frutta di ogni genere. E musica e danze, ballerine che si muovevano sinuose al dolce richiamo della musica.
Era notte fonda quando Michel andò alla ricerca di Pablo, portando con se cibo per l’amico. Lo trovò che guardava il cielo, vicino ai cavalli. Gli diede il cibo e si sedette accanto a lui, mentre mangiava, rimanendo con lui a guardare il cielo.
“Domani andiamo in guerra, Pablo. Giovanni II è al confine e sta aspettando il momento opportuno per attaccare. Era l’unico modo per rientrare, amico mio, l’unico.”
“Lo so. Domani andremo in guerra, ma poi io tornerò a casa. Mi seguirai?” chiese speranzoso.
“Non lo so Pablo. Non lo so.” Rispose Michel pensieroso.
E si alzarono e andarono a letto.
Il giorno dopo partirono per il confine. Arrivati sul posto, Mohamed chiamò Michel.
“Tu sei il capo dell’esercito. Portali in guerra. E spero che Allah ci dia la vittoria.”
Marciarono verso il confine e lo superarono, trovandosi di fronte all’esercito nemico.
Volevano conquistare, secondo i piani, la città di Cartagena e poi, da li, avanzare fino ad occupare una parte del regno di Castilla.
Michel aveva trent’anni; ed era stanco. Capiva quello che Pablo aveva detto. Doveva anche lui decidere il da farsi.
Erano posizionati davanti al nemico, Michel al centro sul suo cavallo e Pablo al suo fianco. Sperò che la battaglia finisse nel migliore dei modi, ma era dubbioso. L’esercito Cristiano era immenso e ben fornito.
“Uomini. Miei uomini. L’ora è giunta. Abbiamo davanti a noi un esercito formidabile, ben preparato. Non vi dirò che sarà facile e nemmeno che vinceremo. Molti di noi non torneranno a casa e molte donne piangeranno domani. Ma ci batteremo e lotteremo con coraggio. Nessuno avrà pietà per noi e noi non ne avremo per loro. Che il vostro Dio sia con noi.”
Michel si voltò, guardò la linea scura dell’esercito Cristiano. Vedeva cannoni e archibugi, lance e spade. Molto più di quello che avevano loro. Guardò la bandiera Cristiana che garriva al sole; si voltò e guardò la bandiera Musulmana che, come un sinistro presagio, pendeva inerte.
Ma non si diede tempo per pensare. Alzò la spada in alto e additò il nemico con la punta della spada, e….
“ALL’ATTACCOOOOOO!” urlò con tutto al forza che aveva in corpo.
I fanti avanzavano veloci nella polvere, mentre frecce e palle di cannone mietevano vittime; gli archibugi rombavano, lanciando piccole palle che sventravano chi colpivano. Appena i fanti furono vicini, i lancieri puntarono le lance a terra, infilzandosi a vicenda. E i soldati calpestavano i corpi dei loro stessi compagni, nella frenesia della lotta. Il sangue si mischiava alla polvere e scorreva a fiumi. Michel, sporco di sangue ed eccitato dalla lotta, menava fendenti a destra e a manca, come un leone, mentre difendeva la postazione presa con Pablo. Riuscirono, così, ad aprire una breccia nelle difese nemiche. Michel scavalcava montagne di cadaveri e schivava frecce e colpi di cannone e di archibugi, quando senti il sinistro suono di un corno. Si voltò e vide i cavalieri Cristiani avanzare, temibili nelle armature, con lunghe lance. Fece un segno e i cavalieri Musulmani avanzarono, scontrandosi. Ma Michel capì che non c’era speranza. La sconfitta era certa, l’unica via era ritirarsi, riorganizzarsi e ritornare alla carica.
E fu quello che fecero, scontrandosi più volte con l’esercito nemico. I Cristiani non riuscirono a oltreare il confine, mentre i Musulmani non riuscirono a prendere Cartagena.
Dopo un mese di lotta dura, Giovanni II arretrò, mettendo momentaneamente fine alle attività belliche. A Michel e a Pablo non rimase che difendere il confine.
Era arrivato il momento di decidere.
E il cavaliere guardava!
E vedea,
in groppa al suo destriero,
un campo inondato dal sangue,
in quel giorno battagliero!
Egli sapea,
per voce non detta,
rotear sul suo capo
la lama trucidante!
Con l'arco e la faretra
potea colpir nemici,
nel mentre cavalcava!
Crudele e indemoniato,
terrore ispirava a chi,
per puro caso,
per strada incontrava!
Uccisi, però, i suoi nemici,
a guerra terminata,
solea ar
suo tempo in silenzio assordante,
empio di paura e dolore lancinante!
Chiuso nel suo maniero,
stava il crudel signore,
nel buio dalla luce e dall'amore!
Ma come il sole al mattino
riscalda il mondo freddo,
entrava nel suo cuore
amore e nostalgia!
Amò un angelo biondo,
felice,
e le guerre divennero leggende!
Ed ogni trovatore,
per strada le può cantare,
a gente che felice, pellegrina,
il suo Dio va a lodare!
CAPITOLO QUINDICESIMO
Michel giaceva nel profondo di una cella umida e fredda.
E pensava.
Era oramai ato più di un anno da quando lo avevano catturato. Sapeva di essere un uomo morto. Per loro era il peggior nemico, l’essere immondo da eliminare.
E Michel sapeva anche come sarebbe morto…. Impalato.
Fino ad ora era andata bene, però. A parte pestaggi e piccole torture non aveva subito gravi danni.
Ed ora pensava. Ma non al domani. Quella parola non esisteva più nella sua mente. Pensava a cosa doveva raccontare…. Ed erano ricordi che non avrebbe voluto rivivere.
Si girò a guardare verso la porta che, lentamente, si apriva. Ne entrarono due guardie che gli fecero segno di seguirlo.
Egli si alzò lentamente, sapendo cosa avrebbe dovuto fare. E per quel giorno si avviò verso il suo destino, qualunque esso fosse.
Sapeva già in che modo sarebbe morto….. eppure
CAPITOLO SEDICESIMO
In un mattino estivo, già caldo nonostante l’ora, Michel uscì dalla casa dove viveva. Guardò gli abitanti del villaggio che iniziavano a svolgere il lavoro giornaliero. Come tutti i villaggi di confine, oramai non rimanevano che vecchi a popolarlo. Michel sospirò, perché anche se gli piaceva combattere, non sopportava di veder soffrire la popolazione. Ma non c’era scelta, tutte le guerre sono identiche. Adesso stavano ando un periodo tranquillo, le rispettive parti si studiavano e, a parte qualche scaramuccia, non succedeva nulla di serio.
Uscì in strada e vide Pablo che sellava il suo cavallo. Non capiva cosa volesse fare. Si avvicinò e Pablo si volto e lo guardò seriamente negli occhi; e Michel capì.
“Allora hai deciso. Vai via.” chiese
“Si. È venuta l’ora, mi dispiace ma sono stanco. Vado a riprendermi le mie terre, in Asturia.”
“Va bene. Ti capisco. Io rimango qui. Vorrei sposare Fatima, se mi sarà consentito.”
“Lo spero per te, Michel. Dopo tutto quello che abbiamo ato, meriti un po’ di serenità. Meritiamo un po’ di serenità. Se avrai bisogno, quando vorrai una mano, la mia spada e quella dei miei uomini sono al tuo servizio. Ricordalo sempre, amico mio.”
“Me ne ricorderò.” disse Michel. Non voleva che Pablo andasse via. Ma sapeva che era giusto così.
Lo abbracciò e lo vide salire in sella al cavallo.
“Buona fortuna, fratello mio.” Sussurrò mentre Pablo lasciava il villaggio.
Michel tornò sui suoi i, pensieroso. Era triste perché l’amico era andato via. Sperò vivamente che fosse più fortunato di come non lo era stato con lui. Dal canto suo, lui voleva sposare Fatima, ad ogni costo.
Quella sera, al chiarore delle torce, ne parlò con Mohamed.
“Tu sai quanto io ti sia grato per avermi salvato nel deserto. Per ripagare questo debito ho lottato per te. Con te, con la tua gente, ho finalmente conosciuto la serenità. Voi non mi guardate con un essere immondo, come il diavolo; voi mi guardate come un essere umano. Devo confessarti una cosa, ma non so da che parte iniziare. Forse è meglio se sono diretto. Bene. Mi sono innamorato di tua figlia, Fatima. Farò di tutto, tutto quello che mi chiederai, pur di diventare suo marito.”
“Quello che dici mi fa onore.” Rispose Mohamed “ Ed io so di certo che anche mia figlia ti ama. Però ci sono le nostre leggi, da rispettare, e tu non sei un Musulmano. Un Infedele non può sposare una Credente. A meno che non diventi anche lui un Musulmano. Sei pronto a farlo? Niente mi farebbe più felice che vederti sposo di Fatima.”
“Non sono mai stato un Cristiano. Io non sono niente per la Chiesa. Posso essere tutto quello che voglio. Diventerò Musulmano, imparerò le vostre leggi e le seguirò.”
“Sta bene. Allora dovrai ritornare nel deserto. Partirai domattina. Studierai e imparerai. Quando tornerò, vi sposerete.”
Quella notte Michel non chiuse occhio. Capiva che la promessa fatta era importante per Mohamed. Capiva che, in base a quello che aveva creduto fino ad ora, era meglio andare in guerra, che pregare. Ma se voleva Fatima, se voleva averla per se, doveva superare questa difficoltà. Era eccitato all’idea di rivederla, avendo la sicurezza che il suo amore era ricambiato, tutto cambiava.
La notte ò e all’alba la nave era pronta a salpare. Mohamed abbracciò Michel.
“Dai un bacio a Fatima da parte mia. Dille che tra sei mesi tornerò. Dalle questa lettera, lei saprà cosa fare. Addio.”
E la nave salpò.
Il viaggio si svolse tranquillamente. Oramai era conosciuto nel mondo Arabo e non dovette nascondersi. Visitò città e fu ricevuto dai Sultani dei vari stati che oltreava, fino a che si addentrò nel deserto.
Per sua fortuna questa volta i suoi accompagnatori conoscevano il deserto e dopo tre settimane si ritrovarono all’accampamento. Fatima lo accolse con gioia.
“sono contenta di vederti, Mio Signore. Mio Padre dov’è? E il tuo amico non è venuto?”
“Buongiorno, Mia Signora. Tuo padre sta bene. Questa è una lettera per te. Per quanto riguarda il mio amico, ha scelto di ritornare a casa.”
“E tu? Non torni a casa?”
“No, Mia Signora. Io sono già a casa.”
“Ora, se non ti dispiace, mi ritiro a leggere la lettera di mio Padre. Tu riposati e riprendi le forze.”
E si ritirò.
Seduta su un piccolo sofà, in stile Arabo, Fatima aprì la lettera del padre, iniziando a leggere, commossa.
“Cara figlia mia. Qui va tutto bene. Il deserto, il sole alto nel cielo e la luna immensa mi mancano tantissimo. E mi manca il tuo splendido sorriso. Qui è tutto diverso, fa caldo sia di giorno che di notte e lo stesso vale per il freddo, che non è come il freddo del deserto. È un luogo strano e la gente parla una lingua
che non riesco a comprendere. Presto tornerò a casa, tra sei mesi. Dopo dovrò ripartire. Ho parlato con Michel. Io so che tu lo ami e anche lui ti ama. Conoscetevi e state insieme, quando tornerò vi sposerete. Lui deve diventare un Musulmano, deve abbracciare la nostra fede ed i nostri costumi. Te lo affido, abbine cura. Ti penso, sei sempre nei miei pensieri, figlia mia. Che Allah ti guidi e sia con te sempre. A presto.”
Fatima pianse di gioia al pensiero del ritorno imminente del padre e perché ora sapeva che Michel la amava. L’indomani organizzò tutto quello che suo padre voleva e Michel iniziò a imparare gli usi e costumi berberi e a diventare un buon Musulmano. Michel imparava in fretta, bramoso di sposare Fatima. Alcune usanze musulmane gli erano incomprensibili, tipo il Ramadan. Perché non doveva mangiare durante il giorno per un mese? Che senso aveva? Ma poi ricordò che anche ai Cristiani era proibito, durante la Quaresima, di mangiare carne; anzi il digiuno era meglio.
arono i sei mesi e Mohamed tornò. Feste e danze furono organizzate. Per settimane si danzò tutti i giorni. E Mohamed strinse Fatima a se, vicino al suo cuore, dove doveva stare e dove il ricordo di lei sarebbe rimasto fino alla sua morte.
Dopo due mesi Mohamed decise che i due potevano sposarsi. I festeggiamenti per le nozze durarono una settimana. Dopo di che Mohamed annunciò l’intenzione di tornare dal suo esercito. Fatima cercò di protestare, disse che il suo posto era tra la sua gente, lì con lei perché era suo padre.
“E’ vero, figlia mia. Sono tuo padre. Ma sono anche un condottiero e un capo. Sarebbe un disonore per me.”
E Fatima si arrese. Michel, dal canto suo, voleva partire con lui.
“Lasciami venire. Sarò il tuo luogotenente.”
Ma Mohamed scosse la testa.
“Devi rimanere, guidare il mio popolo in mia assenza. E se Allah decidesse di prendermi con se, tu sarai il nuovo capo. Promettimelo.”
“Va bene. Te lo prometto. Ma vorrei rimanessi ancora un po’.”
“Anche io lo vorrei, credimi. Anche io lo vorrei.” Disse Mohamed sospirando.
I preparativi per il viaggio durarono due mesi. Mohamed preparò tutto in modo che Michel e Fatima non avessero grossi problemi. ati i due mesi Mohamed sarebbe partito.
Quello fu un periodo felice per Michel e Fatima. Il loro amore era unico e la loro unione assoluta. Ma Fatima sapeva che Michel amava ancora Anna. Lui le aveva raccontato tutto e lei non era gelosa di quell’amore; Anna doveva essere stata una donna forte, speciale e Fatima accettava il ricordo che lui aveva, e lo amava di più perché era un uomo sincero.
Era l’ultima sera per Mohamed; l’indomani sarebbe partito. Fatima e Michel entrarono nella tenda del capo. Lui era li, seduto, intento a finire i preparativi per la partenza; li vide e li scrutò, perplesso. Avevano uno strano sorriso, una smania di svuotare il proprio animo.
“Padre,” disse Michel “Io e tua figlia abbiamo una notizia che, di certo, allieterà la tua partenza.”
“Dimmi. Cosa è successo?”
E Fatima si avvicinò al padre e, senza proferir parola, le prese la mano e la poggiò sul suo grembo.
Gli occhi di Mohamed si riempirono di lacrime. Sua figlia stava per diventare madre. Abbraccio forte Fatima e la coccolò, come faceva quando era bimba.
“Tu sei la mia unica figlia, la mia prediletta. E nei tuoi figli si ricorderà il mio nome. Che Allah vi benedica.”
L’indomani, prima di partire, parlò al suo popolo.
“Amici miei. È tempo di ripartire. Al mio posto vi guiderà Michel, che voi conoscete come un uomo giusto. Ho da farvi un annuncio, prima di partire. Mia figlia è incinta e presto darà alla luce mio nipote. Qualunque cosa accada, festeggiate il nuovo nascituro, non perché è figlio mio, ma perché una nascita nel nostro popolo è sempre festeggiata come un lieto annuncio. I figli sono il nostro futuro. Addio, amici miei.”
Abbracciò forte Fatima prima di partire, benedisse i due e strinse la mano a Michel, raccomandando caramente la figlia.
“Tua madre sarebbe stata orgogliosa di te.” disse e guardando negli occhi i due sposi, con affetto “Siate felici, sono fiero di voi. Michel, cerca di essere un capo giusto. Addio.”
E Partì verso il suo destino.
CAPITOLO DICESSETTESIMO
Gli anni arono. Michel e Fatima vivevano come in un limbo di felicità. L’unico loro pensiero era per Mohamed, che continuava la sua lotta disperata contro i Cristiani Spagnoli. Ogni tre mesi una carovana ava per l’accampamento e portava notizie e qualche volta una lettera. Dopo quattro anni arrivò la notizia della morte di Mohamed.
A Michel e a Fatima non rimase che piangere e continuare la loro vita. Dopo il periodo di lutto iniziò un periodo tranquillo per loro. Michel aveva due figli. Mohamed, il maggiore, era quello designato a sostituire il padre nel governo del popolo. I Berberi erano nomadi e, secondo Michel, erano rimasti troppo fermi. Le tradizioni andavano rispettate. Così iniziarono il peregrinare, di oasi in oasi, nel deserto. I commerci con le carovane gli davano il necessario per sopravvivere e, tutto sommato, erano felici. Ma ogni tanto, a notte fonda, Michel usciva dalla tenda e guardava il cielo. Pensava al suo ato, a Pablo, ad Anna.
Ed è così che a il tempo, scorrendo tra gli affanni fin a che ti svegli un giorno e ti accorgi di essere vecchio. E fu così per Michel.
Una mattina arrivò un messaggero del Sultano Maometto II. I territori dell’Impero Ottomano partivano dall’Algeria fino ai territori dei Balcani, arrivando a Belgrado. Il Sultano chiedeva aiuto alle tribù del deserto contro il nemico Cristiano e, soprattutto, contro il Re del popolo di Romania. Vlad III di Valacchia, detto l’Impalatore, aveva inchiodato i turbanti in testa agli emissari del sultano, perché avevano rifiutato di levarlo in sua presenza, per motivi religiosi. E così Michel, secondo gli accordi presi da Mohamed anni prima, dovette partire in loro aiuto.
Ma si sentiva vecchio… era vecchio.
Il viaggio fu lungo, in territori che lui non conosceva. Ma finalmente arrivò. Intanto raccoglieva informazioni sul nemico e ne rimaneva inorridito. I racconti pensava fossero fantasiosi, ingigantiti, ma avrebbe capito presto che non era così.
E iniziarono le prime scaramucce, le prime battaglie con il nemico. E, invariabilmente, l’esercito di Michel perdeva; non erano avvezzi a certe crudeltà. I nemici uccidevano le avanguardie, gli tagliavano le teste e le catapultavano sui nemici durante le battaglie. E i pochi sopravvissuti venivano impalati a bella posta davanti al nemico, mentre si ritirava.
E arrivò il giorno della battaglia definitiva. Michel ancora non aveva capito quanto il nemico potesse essere spietato. Michel aveva chiamato Pablo in aiuto e lui era venuto in suo aiuto, come promesso.
Erano vecchi, ormai, tutti e due, ma avevano ancora tanta forza in corpo.
Vlad stava al centro del suo esercito, proprio davanti a Michel. Le due armature riflettevano la luce del sole, accecando chi gli stava affianco.
L’esercito di Vlad avanzò, puntando le lance verso Michel, che urlò tutta la sua rabbia.
Sulle lance infatti, c’erano attaccate le teste dei suoi amici, decapitati. L’esercito
di Michel partì all’attacco, feroci e arrabbiati, furiosi per quello che avevano fatto i musulmani…. Pablo era al fianco di Michel.
Michel si voltò a guardarlo, come ogni volta che dovevano lottare, gli strinse la mano augurandogli buona fortuna… proprio in quel momento, veloce come il vento, una freccia trafisse Pablo nell’occhio destro, uccidendolo.
Michel lo vide morire accanto a se, lo vide accasciarsi a terra e, nello stesso istante, si voltò verso il nemico con un urlo, un ruggito, che non aveva niente di umano, un urlo di rabbia e dolore che tutto il mondo non aveva mai udito e che non udirà mai.
I soldati a quel cenno partirono come un fiume in piena, travolgendo l’esercito di Vlad, che parve essere sommerso dall’onda d’urto… ma solo per poco.
Michel menava fendenti come un indemoniato, vendicando il suo amico e tutte le persone che erano state uccise e torturate dal tiranno… urlava come un pazzo, con la faccia e i vestiti sporchi di sangue, pieno di pezzi di interiora e carne che strappava dagli uomini che uccideva con il movimento della spada.
Era sul serio un mostro venuto dal nulla… adesso era il leone bianco, il fantasma crudele pieno di odio feroce… adesso era la creatura mostruosa che il vecchio aveva visto nel bosco anni prima..
Aveva la bava alla bocca, la voglia di sangue la si leggeva in ogni sua azione, era spavaldo e aveva perso ogni remora. La sua anima era assente, era trasformata dall’odio crudele del suo io e dalla sete di sangue.
Infilzava i nemici con la spada, gli tagliava la testa, la alzava la cielo e urlava spietato, mentre il sangue gli colava sul viso… e lui lo beveva, dissetando la sua anima mai sazia di morte e di desiderio di vendetta.
Era questo il diavolo che Anna voleva creare? Era questo il leone bianco per cui aveva dato la vita?
Non lo sappiamo e credo che nessuno lo saprà mai.
Sappiamo soltanto che il suo cuore era ormai pieno di rabbia e di esultante vendetta. Che avrebbe ucciso per giorni e giorni.
Ma il destino è un amico beffardo. Ti prende per mano e ti conduce verso la fine del tuo mondo senza che tu te ne accorga.
E il destino di Michel si compì quando una mazza, lanciata da un soldato, gli colpi l’elmo.
E Michel si fermò. Con la spada ancora nel corpo di un soldato agonizzante, Michel si fermò.
E guardò intorno, mentre il mondo si piegava sotto i suoi occhi, mentre la terra girava su se stessa e un boato, simile ad un tuono pericolosamente vicino, gli riempiva la testa.
E d’un tratto, non capendo perché, vide la terra girate al di sopra del suo capo, e poi… il nulla.
Michel cadde come un sasso al suolo, mentre Vlad era quasi vicino a lui.
Ed i soldati di Michel, rimasti senza comandante, persero la grinta e si dileguarono, sparpagliandosi nei boschi circostanti, mentre tanti nemici li inseguivano falciandoli ed impalandoli sul posto.
Adesso era Vlad che si ergeva su un campo inondato di sangue, fremente ed esultante… aveva vinto una battaglia importante e catturato un signore della guerra, che avrebbe pagato cara l’audacia avuta nello sfidare il principe Dracul.
CAPITOLO DICIOTTESIMO
Michel si svegliò con un gran mal di testa. Michel si svegliò con la sensazione che non era tutto normale, che c’era qualcosa che non quadrava. Michel si svegliò in una cella, legato come un cane al guinzaglio.
Aveva le mani ed i piedi incatenati, era legato al muro da una pesante catena fissata ad un collare, non poteva muoversi. Era disteso per terra mentre i topi e le pulci gli camminavano addosso, mordendolo ogni tanto…
E capì in quel momento che la sua fine era arrivata.. non sapeva quando, non poteva sapere perché, ma sapeva benissimo, dai racconti fatti, come sarebbe avvenuta.
CAPITOLO DICIANNOVESIMO
“Il resto, signori miei,” disse Michel, “lo conoscete. Mi avete torturato, costretto a subire i vostri torti, costretto a raccontare questa mia vita solo per una vostra curiosità. Il mio destino è già segnato. Vi ripeto che io sono e sarò un reietto fino alla morte, un disperato che ha voluto lottare per la sua libertà, riuscendo soltanto a distruggere un sacco di vite. Vi ripeto… se mi accusate di aver rubato, ebbene si lo ammetto. Mi accusate di aver ucciso, è tutto vero. Ma se mi accusate di aver tradito la vostra fede, allora no. Io non ho tradito. È stata piuttosto la vostra fede a tradire me. Anni di isolamento, anni di pericoli solo per il colore della mia pelle, anni di lotte e di scorrerie, solo per farmi accettare.
Ed ora siamo qui. Quale è, secondo voi, la mia colpa? E quale sarà il mio destino?
Qualunque cosa decidiate, ricordatevi sempre che il dolore che mi caete, sarà minore di quello che ho provato in questi anni vivendo.
Fate di me quello che volete, perché il mondo e la cristianità non accetteranno mai la mia persona.
Io sono il Diavolo Bianco, il Fantasma senza nome, come tale son vissuto e come tale morirò.”
Dopo tre giorni, Michel fu condannato ad essere impalato.
Il dolore dell’impalatura fu immenso. La punta del palo era arrotondato e piena di grasso. Lo fecero entrare dall’ano. Si sentiva, mentre lo issavano, impazzire dal dolore, sentiva il palo trafiggergli lentamente le interiora. Era atroce. Ma strinse i denti. Non avrebbe ceduto. Non emise un lamento ed i soldati rimasero pietrificati e sorpresi alla vista di quell’uomo che non si lamentava. Di solito urlavano come maiali quando venivano impalati.
Lo impalarono il giorno di una grande battaglia, contro il Regno d’Ungheria.
Michel aveva ormai 65 anni. Troppo per quell’epoca; ed era stanco. Voleva soltanto che la morte arrivasse a dargli la pace. Sentiva il palo are per lo stomaco, forarlo, salire e sfiorare il cuore, senza trafiggerlo. Sentì che gli perforava un polmone e vide il palo che gli usciva dalla scapola, vicino al collo. Svenne più volte dal dolore atroce, ma mai un lamento uscì dalla sua bocca.
Per lui i giorni della gloria erano finiti, era arrivato il momento della pace.
Un sole rosso si alzava nel cielo, mentre il tramonto avanzava. Era la fine del giorno, della battaglia e della sua vita… Michel lo sapeva.
Guardava quel sole cupo e sorrideva. Ed i soldati di guardia lo guardavano sgomenti… non aveva mai guaito o urlato, neanche quando era stato impalato. Non aveva mai chiesto niente, né acqua, né pietà.
Era rimasto lì, mentre il palo lentamente gli entrava nelle carni senza un parola.
Ed ora Michel guardava il sole…. e sorrideva.
Sorrideva perché vedeva Anna, il suo amore, che era li con lui. E gli parlava dolcemente, incoraggiandolo. Presto finirà, diceva, presto sarai felice, amor mio.
E lui la vedeva, vedeva i suoi capelli, i suoi occhi, le sue mani… e sentiva la pace entrare in lui.
E d’un tratto fu distratto da un rumore, da urla di dolore e pianti. Chi piange in questo momento, chi urla.
E vide il corpo di Vlad, fatto a pezzi, spaventoso, irriconoscibile. Era morto… lo avevano ucciso nella battaglia i musulmani.
E vide i suoi sudditi guardarlo, pieni di terrore…. ai loro occhi ispirava tanto terrore anche da morto. E vide un soldato avvicinarsi e decapitarlo con la spada.
E lui capì che era per quello che Anna lo aveva sostenuto, che era per quello che non era ancora morto. Capì che la sua ricompensa per i torti subiti, per gli anni di dolore, era quella. Vedere il suo nemico morto poco prima di morire.
Che destino beffardo è quello che ci guida. Ci da una gioia proprio alla fine di una vita di dolore.
Adesso Michel lo sapeva…. Adesso Michel capiva a cosa portava la vita di un
uomo. A morire di dolore o a morire nel dolore. Ma pur sempre a morire.
E Michel guardò Anna che annuiva…. Guardò il suo corpo splendente e ubbidì quando lei gli ordinò di chiudere gli occhi.
Ed i soldati lo videro spirare sorridendo.
E quando Michel si svegliò dal proprio sonno si accorse che Anna lo teneva per mano…. Accanto al faggio.
Il faggio?
“Ma quanto hai dormito, amor mio.” disse Anna. “Dai… andiamo a casa, è tardi.”
Si incamminarono lungo il bosco e Michel riconobbe la casa nel bosco, entrò e vide suo padre e sua madre che gli sorridevano felici.
“Allora era tutto un sogno.” pensò “ma come era reale.”
Ed il giorno ò allegramente e arrivò la sera.
Michel ed Anna si prepararono per andare a letto. E lui, svestendosi, rimase di
sasso, spaventato, nel vedere ,vicino al suo collo, un enorme buco, proprio nel punto dove il palo era uscito fuori nel sogno.”
E guardò Anna che gli sorrise e gli fece cenno di si con la testa.
E capì di essere finalmente in paradiso… felice.
IO
PROLOGO
IO guardava, dall'alto di un palazzo ormai in rovina, il mondo che aveva appena distrutto. E non era soddisfatto. IO guardava le città distrutte ed i cadaveri di esseri umani stesi per terra. Vedeva animali che si nutrivano dei corpi, piante che coprivano velocemente, come lui aveva ordinato, i resti. E non era soddisfatto. Accanto a se c’era un bimbo, biondo, simile ad un puttino di vecchi quadri oramai andati distrutti.
Era li! E piangeva.
Vita sconsolata che offri pene in cambio di grandi sorrisi,
sali su un colle,
guarda in basso i nostri visi,
rigati di lacrime amare e sconsolate,
pieni di paura e di sentore della morte
che il giorno morente ed il sonno toglie!
Era questa la frase che ora ava nella mente dell’IO.
Si sedette accanto al bimbo, per terra, come uno straccio, come morto, stanco della troppa sofferenza che aveva causato, perplesso e dubbioso, oramai convinto che, in fondo, avrebbe potuto evitare tutto quel dolore.
Ed il bimbo, che non aveva più un nome, né una famiglia, né un solo amore, si appoggiò a lui piano piano, come a cercar conforto dal suo aguzzino, scaldando la spalla dell’IO con il suo calore.
E le lacrime dal viso del bimbo, arono, con tutta la loro disperazione, al cuore del Dio e al viso dell’uomo e dell’IO.
CAPITOLO PRIMO
Quando il fato creò la terra, creò anche la madre che avrebbe guidato il mondo.
Ella era una Dea. E la Dea creò gli esseri che avrebbero dovuto aiutarla a conservare il mondo.
La Dea creò l’uomo..
E l’uomo crebbe nel timore e nell’amore per la Dea, sorretto da una fede incrollabile nella sua madre.
La Dea insegnò all’uomo tutte le regole per il dominio del mondo, tutto quello che egli doveva sapere per proteggere il mondo affidatogli.
Ma qualcosa andò storto.. la Dea non aveva calcolato il lato oscuro del fato, il lato malevolo del mondo.
E l’uomo, nell’accrescere della sua intelligenza e del suo potere sul mondo, si lasciò prendere dal lato oscuro della vita, ne era affascinato e se ne lasciò guidare.
Per molto tempo ancora, però, la madre continuò a tenere l’uomo sotto il suo controllo e gli esseri umani si dimostravano, tutto sommato, arrendevoli al suo
volere.
Fino al giorno in cui nacque una nuova religione, una religione che idolatrava il lato oscuro della vita, una religione che idolatrava la morte.
E nel momento stesso in cui l’uomo iniziò a idolatrare la morte, si dimenticò il compito assegnatogli, si dimenticò di difendere la vita.
Perse di vista la meta di ogni uomo, perse di vista la Dea madre e iniziò a vedere il mondo come un territorio da conquistare e da sfruttare. Iniziò a vedere il proprio compagno, il proprio fratello come un vicino indigesto a cui sottrarre tutto quello che gli apparteneva.
Iniziò a distruggere quello che la Dea aveva faticosamente conservato…
Il fato allora chiamò la Dea e gli ordinò di trovare un rimedio all’immenso errore da lei commesso… l’uomo doveva essere riportato sulla retta via o doveva essere annientato… l’uomo non doveva continuare a distruggere e doveva ricordarsi che esisteva una forza superiore in questo mondo, una forza che poteva distruggerlo.
Non era una cosa facile, la Dea doveva pensarci bene, doveva trovare un modo per riconvertire l’uomo all’antica religione.. non voleva distruggerlo, era pur sempre un suo figlio, un suo protetto… e lei sentiva di doverlo riportare ai vecchi valori e alle vecchie credenze..
Ci pensò e ci ripensò.. abbozzò un piano e lo distrusse, tentò una mossa e la ritrasse.. e alla fine trovò il sistema..
CAPITOLO SECONDO
Quel mattino il sole, che già scaldava il mondo, iniziò ad irradiare con ancora più forza i suo raggi dorati. La neve del primo inverno si scioglieva lungo il viale mentre i primi fiori primaverili sbocciavano.
La madre vigilava la nascita del figlio, come vigilava la nascita di ogni cosa nel mondo, con attesa spasmodica. Tutto il mondo era in attesa, si sentiva nell’improvvisa densità dell’aria che il mondo attendeva.
Gli uccelli ora non volavano, gli animali si accucciavano al suolo, attendendo. Solo gli esseri umani non erano chiamati a partecipare a questo evento, oramai si erano allontanati così tanto dalla madre, oramai erano così estranei al mondo in cui vivevano, che non sentivano più il richiamo che la madre aveva inviato.
Ed il mondo attendeva. Attendeva la nascita di colui che avrebbe cambiato il destino degli animali e del creato. Attendeva.
Ed il sole scaldava quel mondo in attesa, mentre la madre terra plasmava quel Dio, quell’essere che avrebbe cambiato la storia.
E la madre gli infuse i sentimenti dell’uomo. Nel suo essere vivevano amore e odio, rabbia e pazienza, rancori e sofferenze, nel suo cuore c’era, nascosto, l’amore per la natura, un amore che sarebbe sbocciato molto presto, e con un impeto di ione che neanche la madre avrebbe immaginato di poter creare.
Ed il caldo divenne insopportabile, tanto che anche la madre si lamentò con il sole, che subito ritrasse i suoi raggi.
E così nacque il Dio.
Nacque nel silenzio e nell’attesa, nacque in un mondo che oramai non aveva più niente di salutare, nacque sotto un albero, al riparo dal sole che aveva esagerato.
Lì nacque il Dio, lì nacque l’IO.
CAPITOLO TERZO
Fu la madre a deporlo sul ciglio di una strada… verso il mare.
Fu la madre a decidere chi lo avrebbe cresciuto…
Fu la madre a pregare per lui e a credere in lui.
Fu la madre che lo aiutò quando sbagliò e che pianse quando esagerò.
Fu la madre che lo amò.
CAPITOLO QUARTO
Ned camminava sul sentiero verso il mare. Immerso in pensieri torbidi, camminava.
Sua moglie non si decideva a rimanere incinta e lui voleva assolutamente un figlio, un aiuto per i campi da coltivare, un sostegno per la loro vecchiaia, ma soprattutto un bimbo da amare e da crescere.
E Ned camminava sempre più pensieroso, attraversando il punto dove l’IO giaceva, senza nemmeno vederlo.
E si fermò di colpo…. aveva sentito un rumore alle sue spalle, rumore di i che lo seguivano. Si voltò e non vide nulla, niente, la strada seguiva bianca e immobile dietro di lui. Eppure.
E di colpo vide qualcosa muoversi sotto un salice, una sagoma piccola che si contorceva al fresco dei rami….
Si avvicinò cauto e rimase sconvolto… un bambino.
Un bambino?
Chi poteva aver lasciato un bimbo appena nato in quel posto, da solo, con il
rischio che gli animali selvatici potessero divorarlo.
Si guardò intorno in cerca dei genitori, ma non c’era nessun umano… e allora di chi poteva essere quel bimbo..
La risposta era chiara e salì dal suo cuore alle sue labbra con certezza… “Questo bimbo è mio.”
Lo prese in braccio, lo coprì con un mantello e lo portò a casa.
Sara andò incontro al marito, come sempre, per strada. E lo vide tenere in braccio un bimbo, bellissimo, che dormiva tranquillamente…
“L'ho trovato per strada, solo.” spiegò lui “Se a te va bene, sarà il nostro bimbo, il nostro erede.”
“Se tu lo vuoi, egli lo sarà.” disse Sara “E crescerà sicuro di aver trovato un padre che lo ama e lo amerà.”
E lo chiamarono Jack.
CAPITOLO QUINTO
E si accorsero subito che Jack era diverso dagli altri bambini. Jack non torturava gli animali, non mangiava la carne, stava ore ed ore a parlare con gli esseri della natura.
Era un bambino strano e solitario, a cui piaceva imparare le regole degli uomini e vivere nella natura.
Era forte, più forte del resto dei bambini, e veloce… sapeva farsi ubbidire dagli animali, che facevano tutto quello che lui diceva, come se capissero..
I due genitori ne erano affascinati… e preoccupati.
Il mondo non era un posto idilliaco, gli uomini erano malvagi e avrebbero distrutto il loro figlio, se solo avessero capito che non era come gli altri.
E lo tennero segregato, concedendogli di imparare tutto quello che voleva, tutto quello che loro erano in grado di insegnargli.
E Jack crebbe e il sentimento che la madre aveva infuso in lui crebbe con lui, diventando l’unica ragione di vita.
Quando compì 18 anni suo padre gli disse che ormai era un uomo, che avrebbe
dovuto avere una famiglia e che avrebbe dovuto sposarsi.
Ma Jack rifiutò, istintivamente sapeva cosa avrebbe dovuto fare.
“Domani parto per la città, papà.” disse “Devo conoscere il mondo degli uomini, sono stato troppo chiuso in questo mondo magnifico. È arrivato il momento di conoscere la realtà.”
Suo padre perorò la sua causa, sua madre pianse calde lacrime, nessuno voleva che lui partisse. Ma Jack si mostrò inflessibile.
E partì.
CAPITOLO SESTO
E la madre lo guardò crescere, ben sapendo che sarebbe arrivato il momento per lui di scoprire la verità e di affrontare il suo destino.
E aspettò pazientemente che il tempo compisse il miracolo della crescita, ben sapendo che per lei e per la terra un anno, venti anni o un secolo erano come il battere del ciglio di ogni uomo.
Vide crescere in lui tutto ciò che gli aveva infuso, tutto l’amore per il creato che l’uomo, oramai, non aveva più.
Fu contenta dei genitori scelti, erano buoni e saggi, non erano come la maggior parte del genere umano e amavano l’IO come lei lo amava.
E Jack crebbe, e lei lo vide uscir di casa mentre i genitori piangevano calde lacrime per lui.
E lo vide addentrarsi nel bosco, seguendo il sentiero che lo aveva portato in quella casa.
Sapeva cosa voleva fare, voleva vedere la città… ma era troppo presto.
Lei doveva addestrarlo, accudirlo, lei doveva far nascere in lui la consapevolezza
del proprio destino.
E lo guidò. Ogni suo o lo portava dove lei voleva, dove doveva imparare.
Ed imparò molto, vide i laghi del nord del mondo, vide i deserti del sud, vide le enormi catene montuose, imparò l’amore per la natura, l’unica fonte inesauribile di amore che il mondo conosceva.
E poi vide la città. E fu uno shock.
Lo spavento di chi, abituato al bello del mondo, si ritrova in un ambiente terribile, in apparenza atto a far vivere una vita migliore agli uomini, in pratica un posto crudele e solitario, dove ogni uomo, pur in mezzo a milioni di suoi simili, si sente solo ed in pericolo.
E lui provò pietà per quegli uomini così soli e tristi, per quegli uomini che avevano perso di vista la loro meta, per quegli uomini che stavano andando inesorabilmente verso la catastrofe.
Ma la madre doveva ancora mostrargli qualcosa… lo portò in un mondo surreale, reale nella sua crudeltà… lo portò in un paese lontano, dove gli uomini lottavano gli uni contro gli altri, lo portò in luoghi di orrore, dove uomini e animali venivano crudelmente trattati, lo portò in zone dove le fabbriche inquinavano fiumi e laghi.
E fu allora che la madre gli parlò…
“Tu non mi vedi, figlio mio, ma mi senti. Io sono la Dea che ha creato tutto il mondo, io sono tua madre, la madre che ti ha creato per aiutare, per guarire…
In principio non c’era che luce.. luce e calore… e niente altro.. il nulla.
In principio il fato decise che luce e calore si unissero, riempendo il nulla.
Ed il fato mi fece nascere dalla luce e dal calore, mi diede potere di creare e distruggere, mi infuse amore e tenne per se il lato oscuro, convinto che non sapessi dominarlo.
E noi, il fato ed io, ci unimmo e creammo il mondo, non come lo vedi tu ora. Le foreste e le praterie dominavano tutto il creato, animali di tutte le forme e colori correvano nel mondo, volavano nel cielo. Erano grandi, erano possenti.
E facemmo il primo sbaglio… troppo grandi, la terra non riusciva a dar loro cibo a sufficienza, anche se gli alberi erano giganteschi..
E dovemmo cambiare forma, distruggere il primo progetto e crearne uno più piccolo… e così, dopo innumerevoli tentativi, nacquero le forme che tu ora vedi.
Ed il fato mi diede il compito di gestire, di sorvegliare questo mondo… un lavoro duro. Allora pensai di creare un essere che mi desse una mano, che aiutasse il mondo a crescere. E creai l’uomo.
All’inizio egli si comportò bene, mi venerava come l’unica Dea, ascoltava la mia voce, proteggeva il mondo che gli avevo affidato.
Ma il fato aveva dato al mondo il suo alito divino, e con il bene aveva immesso anche il lato oscuro, il male.
E mi accorsi che l’uomo, più cresceva e si migliorava, più diventava sensibile al lato oscuro.
Iniziò pian piano ad allontanarsi da me, a nutrirsi di carne, a distruggere tutto il creato per i suoi benefici.
Ma ora figlio mio, tutto ciò è diventato intollerabile, ed il fato mi ha chiesto di porvi rimedio.
Per questo sei nato tu, per riportare gli uomini sulla retta via. Ammaestrali, fagli vedere il tuo potere. Tu sarai il figlio della Dea, il mio figlio prediletto. Aiuta gli uomini a ritornare a me, fai quello che puoi, non voglio che vengano distrutti. Gli uomini hanno molti difetti, ma anche molti lati positivi e possono essere il fulcro da cui partire per ricreare un mondo migliore. Ti ho mostrato tutto il mondo, tu sai ora quello che vi succede. Hai visto il bello, il buono, il brutto di questa terra.
Sta a te ora andare avanti. Io ti seguirò e dove potrò ti aiuterò.
Ecco. Io ti dono il potere sulla terra, sulle acque, sulle nubi, sugli animali e sulle piante. Ti infondo il dono di creare e annientare, di far scuotere la terra quando vorrai, di far piovere e di scaldare il mondo, come vorrai. Usa bene i tuoi poteri e la vittoria sarà mia, tua, del mondo che amiamo.
Io ti benedico, figlio mio. La tua missione possa aver successo. Va, ora. Addio.”
CAPITOLO SETTIMO
Jack era perplesso.
Aveva sentito la voce di sua madre, della sua vera madre. Aveva ascoltato con il cuore tutto quello che aveva detto e qualcosa in lui si era risvegliato.
La confusione regnava sovrana.. spire di rabbia si agitavano in lui, mentre guardava il modo in cui l’uomo aveva conciato il mondo, mentre la comione per ciò che l’uomo aveva fatto all’uomo mitigava la sua ira.
Doveva trovare la forza di agire, doveva calmarsi, doveva fermarsi e pensare… e poi agire.
Così ritornò a casa, dai suoi genitori. E vi trovò suo padre e sua madre invecchiati… il tempo vola per gli esseri viventi, mentre lui, immortale, era ancora giovane.
Egli parlò con i propri genitori, parlò loro del mondo che aveva visto, parlò loro della Dea madre, parlò dei poteri che aveva. E loro ascoltarono, e compresero il destino di Jack…
E suo padre gli disse: “Prima di morire, figlio mio, devo dirti una cosa. Tu sei nato per qualcosa di speciale, lo sapevo quando ti trovai, e lo so ora che ti vedo adulto. Fai quello che devi fare, senza paura, e tutto sarà come deve essere.”
E Jack rimase per qualche tempo con i suoi… assistette alla morte del padre. Lo pregò, lo pregò, lo implorò di permettergli di farlo vivere per sempre… ma egli disse: “No, figlio mio, niente è per sempre, tu sei immortale perché sei un Dio, ma noi siamo uomini, fatti di carne e fango, dal fango siamo nati e al fango ritorneremo. E giusto così… è saggio così.”
Ed egli diede l'addio al padre.
Dopo di che partì, ancora dubbioso su cosa fare, ma pieno della forza datagli dalla Dea e dalle parole del padre.
Ma neanche lui avrebbe mai immaginato quanto il lato oscuro del fato influisse sulle azioni degli uomini e su quelle degli Dei.
CAPITOLO OTTAVO
Ed iniziò il suo peregrinare lungo le vie del mondo. E le città seguirono alle città, le campagne alla campagne, i boschi a nuovi boschi, a nuove città e a nuove campagne.
Tutto il mondo gli raccontava la storia, la storia dell’uomo e della Terra, la storia infinita di un mondo oramai alla fine.
Ma la consapevolezza che tutto era perduto, che niente si poteva oramai fare, che l’uomo era destinato alla rovina, sovvenne in lui quando entrò nella città americana di New York.
La città non era più una città, non era più neanche una metropoli, era diventata una megalopoli che comprendeva tutti i distretti della città, più le piccole zone residenziali che una volta erano indipendenti.
In pratica la sola città si estendeva per tutto lo stato, il cemento aveva ricoperto le terre, i campi, i fiumi, aveva aggirato le montagne, ricoprendo i pendii una volta rigogliosi e verdi, di case dal tetto mal colorato e cemento grigio.
Per un Dio amante delle foreste era una vista scioccante.
Solo la consapevolezza che l’uomo aveva distrutto il creato per vivere in gruppo, per non aver paura, per difendersi dai pericoli, poteva salvarlo.
Però entrando nella città si accorse che non era così. Il novanta per cento della popolazione viveva alle soglie dell’indigenza, non c’era lavoro per tutti, il tempo della gloria e del benessere era finito da un pezzo ormai. Il dieci per cento della popolazione comandava la città, era ricca e accresceva il proprio potere alle spalle dei poveri. Per le strade si rischiava la vita sempre, sia di giorno che di notte. Con gli occhi del Dio, Jack vedeva morire uomini e donne, vedeva bambini violentati o massacrati di botte, mandati al macello per pochi denari, per un pezzo di pane. Era questa la grande città? Era questa la giustizia umana? L’uomo viveva insieme credendo di difendersi dai pericoli del mondo, ma non rendendosi conto che l’uomo doveva difendersi da sè stesso.
In un accesso di rabbia, Jack urlò al vento: “Madre. Ma cosa ha fatto l’uomo all’uomo. Quale infinita tristezza e rabbia offuscano il mio cuore. Cosa devo fare? Perché hai scelto me, perché mi hai fatto nascere.”
Ma nell’urlare la sua rabbia, trovò l’unica soluzione possibile al problema. L’uomo doveva rimettersi sulla retta via, o doveva morire.
E lui sarebbe stato il giudice, la giuria ed il carnefice.
E viaggiando nella mente del Dio, Jack si spostò sul monte più alto del mondo, su in cima, dove le nevi una volta ricoprivano la vetta, ed urlò il suo ultimatum al mondo.
Aiutate dal vento le parole dell’IO si sparsero per tutto il mondo; l’uomo ascoltava le parole come si ascolta una profezia. Ascoltava il proprio destino e non capiva, non vedeva, non sentiva. Sembrava che il delirio di onnipotenza coprisse il cuore dell’uomo, così tanto da non fargli intendere ciò che sentiva.
Ed il Dio parlava e parlava, ricordando all’uomo le origini del mondo e intimandogli di tornare indietro, di smettere di vivere in quel modo.
“Uomo. Lo vedi il mondo che hai costruito? Hai costruito case per difenderti dal freddo e dai pericoli, dagli animali e dal vento, ed ora le case sono la tua prigione, la tua unica difesa da te stesso. Hai costruito ponti e strade su cui camminare, macchine per percorrere più velocemente lunghe distanze. Ma oramai non c’è più denaro e combustibile per farle camminare. Hai allevato animali per nutrirti, come se fossero cose inutili, in gabbie strette e chiuse, ed ora non c’è quasi più cibo per te. Hai fatto tutto il possibile per modificare, per adattare quello che ti circondava alle tue esigenze, ed ora non rimane che un cumulo di cemento in rovina.
Il tuo tempo sta per scadere. Torna alle vecchie usanze, alla vecchia vita, alla vecchia religione. Impara ad amare te stesso ed il tuo vicino. Impara a non temere il mondo che ti circonda, perché ogni cosa è stata creata per vivere insieme, un anello non vive senza l’altro. E tu in tutti i tuoi secoli di vita, hai distrutto tutti gli anelli. La tua fine sta per arrivare se non torni indietro. Ascolta la mia voce, la voce del Dio venuto in terra per aiutarti… o per distruggerti. Hai tempo per decidere fin quando il giorno vedrà il sole salire al contrario in cielo. Quel giorno sarà il giorno della tua fine.”
CAPITOLO NONO
E nessuno gli diede retta.
L’uomo si era così allontanato dalla Dea terra, che non sentiva più le voci del mondo. Le parole del Dio furono come vento che ava tra gli alberi, scombussolando solo le foglie.
Ed il giorno della fine arrivò. L’IO aveva atteso, pazientemente, la risposta, ma si accorse che l’uomo non ascoltava, aveva il cuore chiuso, preso dalle attività quotidiane e dalla paura per il prossimo.
Ed era di nuovo sulla montagna più alta del mondo, pronto a distruggere… ma voleva fare ancora un tentativo.
Come un viaggio nei ricordi, veloce come il sogno, fece un viaggio nel pensiero del mondo, ritrovandosi nell’ufficio dell’uomo più importante della terra, il presidente degli Stati Uniti.
Il presidente era intento a leggere dei documenti importanti e non si accorse della presenza del Dio.
Ed il Dio parlò a lui, come un padre parla al il figlio che non ascolta, arrabbiato per qualcosa che il figlio ha fatto, ma con l’intenzione di non punirlo se sarà in grado di rimettere a posto le cose.
“Alzati dal tuo trono, Presidente, e vieni a vedere cosa ho preparato per te e la tua gente, se non inizierai a salvare il tuo mondo.”
Il presidente nell’udire la voce del Dio, sobbalzò nel suo trono. La poltrona su cui era seduto andò a battere contro la vetrata dietro di lui.
“Come diavolo…. In nome di Dio, come hai fatto ad entrare qui?”
E prese il telefono in mano per chiamare le guardie.
“Non conviene che tu chiami qualcuno.” disse il Dio “Nessuno sa che sono qui… nessuno mi ha visto entrare, nessuno deve essere punito, per il semplice fatto che solo la mia anima è qui, mentre il mio corpo è via, lontano, dove le aquile non arrivano, dove tu non vivresti, dove il cuore del mondo pulsa i suoi battiti più forti. Tu sei il capo di questi uomini che vivono sotto il tuo palazzo, squallidamente, massacrandosi ogni giorno, paurosi del futuro e del ato, incuranti del presente, senza speranza, e tuttavia rabbiosi ed avidi. Tu sei forte, non nel fisico, ma nel potere che questi uomini ti hanno dato. Ma non puoi nulla contro il fato che si abbatterà su di voi, se non tornare sulla retta via. La Dea madre, di cui sono figlio, mi ha mandato per avvisarvi, per condurvi sulla strada della salvezza, se accetterete, o per distruggervi, se non ubbidirete. Il mondo non può sostenere per molto il vostro peso. Distruggete, costruite case, distruggendo vita… mangiate distruggendo vita... vivete distruggendo vita. Le vostre mani sanno solo distruggere, le vostre azioni sanno solo distruggere. Pregate per un Dio che parla di amore e di pace, di fratellanza, non rendendovi conto che le vostre parole sono senza significato, perché arriverà il giorno che dovrete nutrirvi di un vostro fratello per vivere. Ma non voglio dilungarmi troppo… ho fretta. Il tempo delle parole è finito, ora è il tempo delle decisioni importanti. Tu dovrai prendere questa decisione per tutti. Vivrai facendo in modo che l’uomo torni ad adorare la Dea madre, facendo in modo che l’uomo protegga il mondo
che la Dea ha creato, riparando tutti i danni commessi. Vivrai a queste condizioni o morirai. E insieme a te moriranno tutti i tuoi simili, senza eccezione. Hai tempo due giorni per decidere. Al terzo giorno, appena il gallo canterà, tutte le forze della terra si alzeranno e vi annienteranno. Il sole cuocerà le vostre carcasse e la vostra fine sarà un urlo di dolore e sofferenza. Questo è deciso. Addio.”
E sparì.
CAPITOLO DECIMO
Il presidente rimase interdetto.. non credeva ai propri occhi e soprattutto alle proprie orecchie. Chi era quell’uomo, se di uomo si poteva parlare, che aveva osato entrare nel suo studio. E soprattutto, chi lo aveva fatto are?
Chiamò le guardie all’entrata, ma nessuno lo aveva visto… sicuramente il presidente non pensava che loro avevano lasciato il posto di guardia, era assurdo, erano sempre stati li… Il presidente li rassicurò.. non lo pensava.
Anzi pensava che era un allucinazione, però come era reale… “Bah. Meglio rimettersi al lavoro.” si disse.
Ma non gli riusciva di lavorare, i fogli si accartocciavano sotto i suoi occhi stanchi, le parole avevano perso ogni significato, rimaneva nella mente l’unica frase sensata che aveva udito quel giorno: “Tra tre giorni morirete… tra tre giorni morirai.”
Il presidente scosse la testa, come a scacciare brutti pensieri. Si alzò e prese un caffè, ne sorseggiò un po’, poi lo buttò via. Era disgustoso.
Tra tre giorni…. tra tre giorni…
“MALEDETTA FRASE” urlò furibondo, lanciando la tazza del caffè contro il muro.
Sentendo il rumore una guardia si affacciò alla porta. “Tutto bene, Presidente?”
“Si va tutto bene, ora vai via, ho bisogno di pensare.”
“Ok. Se ha bisogno di qualcosa, siamo qui fuori.”
“LO SO DOVE SEI, BRUTTO IMBECILLE. ORA LEVATI DAI COGLIONI E LASCIAMI IN PACE.” urlò esasperato il presidente, per accorgersi immediatamente di avere esagerato. “Ecco. Scusami. Non è colpa tua.”
“Nessun problema, Signore. Non si preoccupi.”
E la guardia, chiudendosi la porta alle spalle, si trovò affianco il suo collega. ”Allora, tutto ok?” si sentì chiedere.
“Si.” rispose mesto “ Solo non vorrei, a volte, essere nei suoi panni.” disse indicando la porta dietro di se.
E ne aveva tutte le ragioni, grossi problemi erano alle porte, ma il Presidente non ne aveva, purtroppo, afferrato appieno la gravità.
CAPITOLO UNDICESIMO
Da quel giorno il Presidente non aveva sogni tranquilli, una strana febbre lo portava a camminare tutta la notte, senza sosta, senza stanchezza. Con gli occhi cerchiati di rosso camminava per le stanze grandi della Casa Bianca, salutato da tutte le guardie notturne.
Uno strano pensiero lo teneva sveglio, un presentimento vago, che non poteva raccontare, una paura inesprimibile e senza nome.
Aveva ascoltato il Dio parlare, aveva sentito la sentenza di morte, aveva capito l’ultimatum, ma aveva paura. Paura che fosse tutto frutto dello stress a cui era sottoposto. Paura di confessare a qualcuno, fosse pure a sua moglie, quello che aveva sentito, e sentirsi dare del matto, o peggio, sentire la comione uscire da frasi fatte, tipo: “E’ solo un po’ di stanchezza, caro.”
No. Non poteva raccontare nulla, doveva trovare una soluzione da solo. In fondo era il Presidente del più potente stato del mondo, voleva pur significare qualcosa. Ma era pur sempre un Uomo, un essere che concepiva la paura come tutti gli altri. E quell’avvenimento gli aveva inculcato una paura fottuta. Avrebbe preferito essere il più umile tra gli uomini, credere e poter agire. E invece era li, poteva anche credere, ma non sapeva come agire.
CAPITOLO DODICESIMO
E così arrivò il terzo giorno. Una brama di sapere, una paura latente, insomma qualcosa nella mente di quell’Uomo, lo spinse ad uscire fuori dalla finestra.
L’alba di quel giorno era bellissima, nuvole rosso sangue lambivano l’orizzonte, mentre il sole, piano piano, faceva capolino al di là delle case e dei grattacieli.
E nel vedere il mondo, quell’Uomo fu preso dalla sconforto, e si mise a urlare al cielo la sua collera.
“Non ci sono riuscito. Non ho trovato il modo. Non so che fare. Distruggici se puoi, così mi toglierai dalle spalle questo peso, questa angoscia. Ma sappi che, se succederà qualcosa, non mi tirerò indietro, combatterò, combatteremo con tutte le armi a nostra disposizione. Il mondo degli uomini non si arrenderà facilmente. Tu non sei il mio Dio, anche se credo che tu sia il Dio di tutto il creato. Ma io non ti riconosco e come nemico ti attaccherò, se tu mi attaccherai.”
“E COSI’ SIA.” fu la risposta di una voce potente scaturita dal nulla.
In quel momento il gallo…… cantò.
CAPITOLO TREDICESIMO
“Signor Presidente, Signor Presidente. È’ desiderato al telefono, urgentemente.”
Il Presidente rientrò in camera e guardò con sospetto il ragazzo che lo chiamava, come a convalidare una domanda non fatta.
“Chi è?” rispose bruscamente.
“E’ il Primo Ministro Italiano. Dice che è della massima urgenza.”
Il Presidente sollevò il ricevitore e si rabbuiò di colpo sentendo le notizie che gli venivano trasmesse.
“Va bene, va bene. Forza e coraggio…. Vedremo il da fa…. Presidente, Presidente. Strano! Ha urlato ed è caduta la linea!”
Riabbassò la cornetta e si voltò verso il ragazzo. “Chiama tutti. Sveglia tutti. La guerra è iniziata.”
Il ragazzo guardò il Presidente con sospetto, non capendo cosa volesse dire. E lui si voltò stizzito: “Fa quello che ti dico e non discutere.”
Ed il ragazzo scappò di corsa.
L’Uomo rimasto solo si sedette su una sedia e, con la testa tra le mani, piano piano si fece prendere dallo sconforto e… pianse.
CAPITOLO QUATTORDICESIMO
IO stava sul monte e da li riusciva a vedere tutto il mondo. Mancava poco alla fine dell’ultimatum e la speranza che ci fosse ancora una via d’uscita non cruenta pian piano lo abbandonava. Guardò il sole che si alzava in cielo, parlò un po’ con lui, poi consolò le acque e la terra, salutò la Dea che lo guardava dal cielo, e attese. Era quasi ora, le nuvole diventavano rosse nell’attesa spasmodica della risposta, quando d’improvviso il vento portò le parole del Presidente.
IO divenne rosso dalla rabbia. Non era quello che si era aspettato. Sapeva che quell’uomo non avrebbe potuto trovare la soluzione al problema da solo, ma pensava che avrebbe chiesto il suo aiuto e che, insieme, avrebbero cambiato il mondo pacificamente. Invece quello stolto lo sfidava, lo minacciava. Era furibondo.
Guardò in basso, verso il mondo, e vide la penisola italiana. “Ecco.” si disse “Sarà la prima.”
Parlò con il vento e con le acque del mare, impartì loro gli ordini, parlò con gli animali della penisola, pianse con loro, disse loro addio e diede il via.
Le acque del mare, spinte dal vento, si alzarono in onde alte, gigantesche, che coprirono i paesi italiani, le isole scomparirono subito sotto le acque, sgretolandosi sotto l’effetto dei terremoti, i vulcani eruttarono distruggendo tutto e gli animali che vivevano sulle montagne, scendevano a valle e uccidevano chiunque incontravano. Le piante, per volere del Dio, diventavano veloci e violente, afferravano, uccidevano, distruggevano riprendendosi i loro spazi. Le urla degli uomini salirono alle orecchie del Dio e di sua madre e calde lacrime caddero dalle gote di lei. E fu il diluvio.
Quando le acque si ritirarono non c’era più traccia di vita umana in tutta la penisola, solo morti e macerie.
E gli animali si nutrirono dei resti, vendicandosi di secoli di supplizi e di orrori.
CAPITOLO QUINDICESIMO
La risposta del Dio non si fece attendere.
“Hai visto, uomo. È questa la mia potenza. Cambia idea fino a che sei in tempo, non distruggere con la tua stoltezza tutto il creato. Questo è solo l’inizio. Tutto il mondo cadrà sotto la mia mano. E tu e la tua gente sarete gli ultimi, questo te lo prometto.”
“Noi non ci arrenderemo mai. Sappilo. Mai.” rispose il presidente, ma con meno mordente. Aveva paura, ma non voleva dimostrarlo.
“E così sia.” fu la secca risposta del Dio.
Ed il presidente rientrò con un misto di orrore e paura… e sì, aveva paura. Ma sapeva di non potersi piegare a quel Dio e neanche chiedere il suo aiuto. Gli uomini che lo avevano eletto non avrebbero capito. “Meglio la morte, allora?” si chiese dubbioso. E la risposta fu così immediata che lo stupì: “Si. Meglio la morte.”
CAPITOLO SEDICESIMO
“E così la trattativa è finita.” pensò IO mentre sedeva in cima al monte. “Madre che devo fare? Devo sul serio distruggere? Io lo so quale sarà la tua risposta, non c’è altra soluzione. L’uomo non vuole tornare indietro, non vuole. È troppo preso dalla sua sete di potere e pensa di potermi, di poterci distruggere. Ma tu ed io sappiamo bene come finirà. Li distruggerò, ma piangerò per ogni singola vittima. Perché in fondo loro sono tuoi figli, frutto della tua creazione.”
“Figlio mio.” rispose la madre “Fa quello che devi fare, ma fallo in fretta, in modo che il dolore sia grande e breve nello stesso momento. Hanno scelto il loro destino.”
IO si alzò. Guardò il cielo, guardò il sole e parlò con il vento. “Fate quello che dovete fare, sapete già tutto.”
CAPITOLO DICIASSETTESIMO
Quel mattino il presidente si alzò presto. Aveva un presentimento, una paura. Uscì sul balcone e quello che vide gli diede il terrore.
Il cielo era rosso, di un rosso più cupo del sangue, il vento non solo era forte, non solo era rumore e violenza, ma era parole. Raccontava, nel soffiare, la storia dell’uomo e la punizione. Le case cadevano, mentre gli animali e le piante attaccavano l’uomo, uccidendo. Urla disperate si sentivano in città, mentre fulmini cadevano sulle case, incendiandole. Il vento formava uragani che distruggevano e uccidevano. Era l’inferno.
Rientrò in fretta, giusto in tempo per vedere che i suoi consiglieri portavano tutto via, e li seguì, giù, sempre più giù, fino in fondo alla terra, nel bunker protetto…. E da lì il presidente vide le immagini dei satelliti e sprofondò nella più totale apatia. Tutto era perduto, tutto. Il mondo ormai non esisteva più, gli uomini, la stirpe umana era finita, estinta. E lui era la causa di tutto ciò, lui, che non aveva saputo trovare una soluzione.
Lentamente, mentre le immagini atroci dei massacri si susseguivano davanti ai suoi occhi, si alzò. Lentamente si avvicinò ad un cassetto della propria scrivania, lentamente lo aprì e prese la pistola che c’era dentro. Guardò i propri collaboratori, senza una parola, senza un sussurro, senza un addio, si puntò la pistola alla testa e sparò.
CAPITOLO DICIOTTESIMO
Il massacro continuò per tutto il giorno e per tutta la notte. Il compito era quasi finito quando il sole si alzò sul mondo.
IO era in cima al monte, dirigeva con rabbia il tutto, era lui che comandava le tempeste, era lui che aveva dato vita alle piante, era lui che aveva aizzato le bestie contro gli uomini.
E guardava quello scempio, lo sfacelo del genere umano con rabbia e paura. Avevano combattuto come potevano, aerei erano venuti per distruggerlo, bombe erano state lanciate, ma nulla era servito. Il suo potere era immenso, lo sentiva fluire dal suo corpo, lo sentiva nelle vene e nel sangue che pulsava. Ora non aveva l’aspetto di un uomo, tutto il creato era in lui e partecipava al pasto crudele.
Guardò in basso. Mancava poco. Tutte le città del mondo erano distrutte, oramai. Nelle campagne gli animali rincorrevano uomini, donne e bambini, massacrandoli. Era orrendo, era irreale, ma era la giusta punizione.
E d’un tratto udì una voce. “Guarda.”
E lui guardò.
In quel momento, come se fosse stato lui a dare il comando, tutto si fermò. Una pace si alzò sul mondo, un silenzio rotto soltanto da quello che lui udiva: il
pianto di un bambino.
Veloce come il pensiero il suo corpo si spostò fino al punto dove il bimbo giaceva. Aveva un pupazzo stretto al petto, dal cui tentava di trarre sicurezza, mentre una tigre gli ringhiava contro.
“Hai visto, figlio mio.” disse una voce distante “Il male dell’uomo a cosa ci ha portato. Guarda il bambino. È un essere indifeso. Quanti esseri indifesi sono morti. Guarda il bambino, potrebbe nascere da lui il nuovo mondo. Pensa, figlio mio, pensa. Tutto dipende da te, a te ho dato il potere, e tu saprai come usarlo..”
Ed intanto il bambino piangeva.
CAPITOLO DICIANNOVESIMO
IO guardava, dall'alto di un palazzo ormai in rovina, il mondo che aveva appena distrutto. E non era soddisfatto. IO guardava le città distrutte ed i cadaveri di esseri umani stesi per terra. Vedeva animali che si nutrivano dei corpi, piante che coprivano velocemente, come lui aveva ordinato, i resti. E non era soddisfatto. Accanto a se c’era un bimbo, biondo, simile ad un puttino di vecchi quadri oramai andati distrutti.
Era li. E piangeva.
Vita sconsolata che offri pene in cambio di grandi sorrisi,
sali su un colle,
guarda in basso i nostri visi,
rigati di lacrime amare e sconsolate,
pieni di paura e di sentore della morte
che il giorno morente ed il sonno toglie.
Era questa la frase che ora ava nella mente dell’IO.
Si sedette accanto al bimbo, per terra, come uno straccio, come morto, stanco della troppa sofferenza che aveva causato, perplesso e dubbioso, oramai convinto che, in fondo, avrebbe potuto evitare tutto quel dolore.
Ed il bimbo, che non aveva più un nome, né una famiglia, né un solo amore, si appoggiò a lui piano piano, come a cercar conforto dal suo aguzzino, scaldando la spalla dell’IO con il suo calore.
E allora tutto fu chiaro per IO. Le parole della madre, tutto quel massacro, tutto fu chiaro.
Prese il bambino e scese al suolo. Si piegò a terra e toccò il suolo con la mano. Si aprì un enorme varco, dal quale ne uscì un corpo inerme.
“E’ questa tua madre?” chiese al bambino, che annuì lentamente.
E allora IO la toccò, sul petto, e la donna tossì forte, mentre ritornava in vita.
Il bambino corse verso la madre, la abbracciò forte, mentre IO guardava incredulo e commosso.
E chiese alla donna: “Vuoi essere la madre di tutti gli uomini? La vecchia generazione è ormai morta, se tu vuoi sarai la madre di tutti, e tutti adoreranno la
madre terra, che è la madre di tutti noi.”
“Tu mi hai prima ucciso e poi fatto rivivere.” disse la donna “Tu sei il Dio di tutti noi ed io lo riconosco. Farò quello che tu chiedi.”
Ed IO la guardò negli occhi: “Il mio destino è segnato, donna. Perderò ogni potere e, se tu lo vorrai, sarò il tuo sposo, di modo che una parte divina i nel cuore degli uomini, e l’amore della natura non venga mai meno. Diventerò mortale, come te, e insieme a te, pregheremo la madre di consentirci di vivere il più possibile.”
“E allora sarai il mio sposo, per l’eternità.” disse la donna.
Dall’alto del cielo, la voce della madre benedisse quell’unione. Da quel giorno e per molti anni, Jack, la parte umana dell’IO, e la sua donna, ebbero molti figli. Insegnarono loro l’amore per la terra e per il creato. Da quel punto in poi, e per molte generazioni, gli uomini adorarono il fato e la madre e non si sentì più parlare di guerre, carestie ed orrori.
CAPITOLO VENTESIMO
La madre si presentò al cospetto del fato, soddisfatta.
“Io e mio figlio abbiamo fatto quello che abbiamo potuto. Il mondo è salvo e gli uomini che vivranno adoreranno il nostro nome. Non si poteva fare di meglio, marito mio. Non potevo fare altro.”
Il fato annuì lentamente. Sapeva che per molte generazioni ci sarebbe stata la pace. Ma il mondo che loro avevano creato era mutevole, ed il lato oscuro del fato era sempre lì, in agguato, pronto a cambiare la storia.
Ma per ora andava bene così.
Il fato prese la madre sottobraccio ed insieme, lentamente, si voltarono verso il sole nascente, verso il futuro.
IL RECINTO DALLE SPIGHE DORATE
CAPITOLO PRIMO
L’alba di un nuovo giorno splendeva su un mondo in continuo movimento. E Pablo Rodriguez y Mendez si svegliava sotto un cielo che di nubi non ne voleva sentir parlare. Aveva dormito tutta la notte sopra il tetto di casa sua… tetto… se di tetto si poteva parlare.
“Dove diavolo sono.” Fu il suo commento. E una voce dentro di lui, forse la solita vocina vicina alla nostra coscienza, quella che ci avvisa quando siamo sull’orlo della scelleratezza, quella che non ascoltiamo mai, rispose: “Sei a casa, deficiente. Devi smetterla di bere cerveza e mangiare tapas di chorizo, formaggio di capra e tortilla de papas.”
E Pablo si scosse, si mise a sedere, borbottando un “Vete al carajo, voz de mierda.”
Si alzò pian piano… non debbo più bere birra, ho lo stomaco che reclama la libertà dal mio corpo…. Non debbo più fare quello che ho fatto stanotte…
Ripensava alla notte ata, e capiva che non poteva durare a lungo… troppa birra, troppe schifezze buonissime, troppe donnine che poi alla fine non te la davano, ma che ti spillavano anche l’anima se potevano. Troppa vita o troppa morte.
“Tu eres un hilly polla!” soleva dirgli suo padre. Un cazzone enorme…. E aveva ragione.
E la voce, che non si zittiva, ripeteva e ripeteva di scappare, andar via di la, cercare un nuovo mondo, una nuova vita.
“Ed il mio cuore la ascolta, anche se con la bocca continuo a maledirla, essa è li, ed il mio cuore ascolta…. Ascolta.
E mio padre aveva ragione quando mi dava del cazzone!”, si diceva rientrando in casa da una porticina di ferro dipinta di un marrone schifoso. Entrando guardò il corridoio con la stessa aria schifata… “Ma che cazzo di posto è questo.” Era tutto falso, le pareti ricoperte di carta da parati e dipinta, il tutto come un mosaico.. un quadro, brutto a dire il vero, del Teide, una lampadina che pendeva dal soffitto come stanca di illuminare il mondo ed il pavimento… il pavimento con le piastrelle inesistenti, di plastica incollate al cemento… la cucina, se così si poteva chiamare, composta da un lavandino, un pensile con un piatto, una forchetta, un coltello, un bicchiere, due tazzine da caffè e una moka.. per cucinare un fornellino da campeggio con due fuochi… e un tavolo con quattro sedie… il bagno aveva la doccia, il water, proprio un cesso nel senso stretto del termine e per lavatrice un secchio, non c’era altra definizione, un secchio con un motorino che faceva girare i panni su se stessi… doveva riempirla a mano e per svuotarla aprire un tubo e infilarlo nel water. E i vestiti li doveva strizzare a mano. Ma almeno lavava decentemente. In camera da letto due lettini sgangherati, uniti per non farli cadere, un armadio appoggiato al muro, che cascava se provava a spostarlo e un comodino anteguerra, malridotto. Sul comodino un walkman ed un libro.
E suo padre aveva ragione a dargli del fallito, perché con il suo lavoro avrebbe potuto avere molto di più, se solo non si fosse accontentato.
E la vocina continuava imperterrita a ripetere: vai via... fallito.. non rimanere qui.. c’è un posto migliore, un destino migliore.. segui il mio consiglio..
seguimi.. ti porterò io…. “Devo smetterla di bere.” fu la risposta di Pablo.
Andò in bagno, fece una doccia, giusto per togliersi di mente quella vocina assurda. L’acqua iniziò a scivolare giù per il corpo mentre la sua mente non aveva pace. Alla fine sapeva solo di dover andare via lontano da li... lontano da quella vita che non aveva senso.
CAPITOLO SECONDO
Uscì di casa in fretta e in furia, come se una forza interiore lo guidasse verso luoghi remoti ed inesplorati. Prese la macchina e si diresse verso la Autovia del Norte , diretto verso il vulcano del Teide. Si fermò a Icod de Los Vinos, un piccolo paesino vicino al Teide, il vulcano dalle due facce, innevato nella parte nord e senza neve nella parte sud. Scese dalla macchina con quella voce che entrava perentoriamente nel suo essere, quella voce che gli diceva di andare per di qui o di guardare la. E lui cercava di lottare contro quella voce, ma non ci riusciva, ne subiva le conseguenze.
Si incamminò lungo una strada sconosciuta, per lui senza nome, attirato e guidato da una forza che lo spingeva avanti, avanti e ancora avanti.. fino a che arrivò alla fine della strada, della carettera, e si trovò davanti ad una casa, una villa in aperta campagna, bellissima, circondata di alberi e vegetazione, fiori e prati in mezzo a rocce vulcaniche che avevano disegni strani e astratti.
Si avvicinò alla casa, Pablo, come se in quelle quattro mura ci fossero le risposte ai suoi perché, ai suoi dubbi e alle sue molte incertezze. Si avvicinò alla casa spinto da quella forza che gli dava ordini, da quella voce che diceva: “Entra. Entra. Non sostare sulla soglia, entra in casa, assapora l’odore dell’aria, assapora la pace che c’è dentro, vivi la tua vita in questa casa.”
E Pablo entrò.
Fu come entrare in un mondo incantato, quelle mura bianche ed immacolate emanavano una luce soffusa e magica, gli sembrava quasi di vagare, volteggiare in un mondo fatato, pieno di amore e di pace. E anche se lontano, in quella luce, scorgeva un punto nero, un buio profondo dove la voce non voleva che andasse,
dove lui sapeva che vi aleggiava il terrore e l’orrore, dove il suo corpo era attirato, si sentiva in pace, in una pace che è l’esaltazione della felicità e dell’amore.
E la vocina cantava una nenia lenta e dolce, una canzone cantata ai bambini… “...el patio de mi casa es particular, quando llueve se moja como los de mas…”
Era la voce di bambini, bambini che giocavano in un mondo fatto di fantasia, bambini che portavano la pace nel cuore di Pablo.
Ma quel buco nero lontano, che dava l’impressione di esser pieno di dolore e miseria, iniziò ad allargarsi. Divenne grande e spaventoso e le vocine dei bambini iniziarono a piangere e a pregare Pablo. “Ti prego, proteggici, salvaci da quel freddo. Ti prego cercaci, dacci la pace, non farci andare in quel posto… è buio.”
E fu allora che Pablo si svegliò.
Era disteso in mezzo alla stanza, la luce bianca era svanita e le pareti sembravano ora squallide, macchiate da tutto l’orrore che c’era dentro.
E alzandosi da terra Pablo capì che non si sarebbe potuto mai sottrarre a quello che i bambini volevano. Inconsciamente iniziò a pensare al modo di trovare i corpi di quei piccoli.
CAPITOLO TERZO
Era il sole che entrava, a piccoli fiotti, dalle palpebre doloranti di Pablo… era seduto su un gradino e guardava l’alba che, piano piano, avanzava. Aveva freddo, ma non importava, il sole stava arrivando a scaldare il suo cuore ed il suo animo… aveva freddo….
E si alzò piano, guardando lontano verso l’orizzonte… il suo sguardo si perdeva lungo le valli e gli alberi che pian piano si avvicinavano a lui, confondevano i contorni del tempo e dello spazio, confondendo anche i suoi pensieri ed i suoi dolori.
Ed il sole cominciò a scaldare quel corpo, quell’animo addolorato trovò in quella luce calda l’isola magica dove poter essere sereno per un attimo.
E la testa di Pablo, inconsapevolmente, incominciò a pensare al modo di aiutare, di dare pace a quei piccoli esseri sperduti tra paradiso e violenza.
Decise alla fine di chiedere aiuto.. un piccolo aiuto da una persona che di anime ne parla.. e quindi le conosce..
E tranquillamente, come se da quel o dipendesse il destino dell’umanità, e come se quel destino fosse così tragico da essere posticipato il più possibile, tranquillamente si avviò per le vie del paese, verso la chiesa e verso l’aiuto sperato.
CAPITOLO QUARTO
Entrò in chiesa come se da quell’atto dipendesse tutto il suo destino, ed in un certo senso era vero… il suo destino era aiutare, portare quei bambini alla pace o finire la sua vita in una oasi di follia e di orrore.
Si avvicinò al confessionale, inginocchiandosi lento e parlando come se ci fosse qualcuno dentro… parlava più a se stesso, ripercorrendo le fatiche della sua deplorevole vita, parlava e ritrovava cose che aveva perduto nel cammino, ricordi sorridenti da bambino e nuvole oscure sul suo capo. Sapeva cosa dire, adesso, stava percorrendo la via della sua vita ata e le lacrime calde iniziarono a rigargli le guance, come se il suo dolore fosse così grande da non rendere possibile una redenzione.
E singhiozzando la sua disperazione, trovò piano piano la pace…
CAPITOLO QUINTO
Don Miguel uscì dalla sacrestia e si avviò verso la navata centrale della chiesa. Si inginocchiò davanti all’altare mormorando una lenta preghiera. Nel silenzio della chiesa sentì un ronzio, un lamento. Si fermò per ascoltare meglio e sentì che veniva dal confessionale. Si avvicinò lentamente e vide un uomo accovacciato per terra, che piangeva. Rimase stupito da quell’uomo, non sembrava il classico uomo da chiesa. Vestito di stracci logori, tutto tatuato, pieno di orecchini e piercing, sembrava più un povero sbandato che un uomo in atto di contrizione. Comunque si avvicinò a lui, lentamente, iniziando il suo discorso con la solita routine quotidiana. Oramai sapeva usare le parole giuste.
“Cosa ti succede figliolo. Vuoi confessarti?”
L’uomo alzò gli occhi umidi di lacrime, vide gli occhi languidi e buoni del parroco e si arrese al suo destino.
“Mi chiamo Pablo, reverendo. E avrei bisogno di aiuto.”
“Figliolo, io non ho molte disponibilità, la mia è la chiesa di un paesino piccolo. Però tutto quello che posso darti è tuo.”
“Non ha capito reverendo. Ho bisogno di un altro tipo di aiuto, di aiuto spirituale. Ho bisogno di una mano per scacciare tutti i demoni del mondo.”
E padre Miguel lo guardò, comionevole, e gli disse: “Ti ascolto figliolo. Ti
ascolto.”
E Pablo, con un sospiro, iniziò a raccontare la sua incredibile storia.
Mentre Pablo raccontava la sua storia, padre Miguel si spazientiva sempre di più. Cosa voleva questo qua, cosa veniva a raccontare queste storie assurde. Però lo ascoltò paziente, lo fece sfogare bene bene e poi abbassando gli occhi al suolo, pregò. “Per la santa autorità concessami ti perdono dai tuoi peccati, nel nome del pa…..” In quel mentre Pablo si alzò di scatto e disse: “Ma cosa vuole perdonarmi, Padre. I peccati della mia follia? Lei deve aiutarmi, deve aiutarmi a sconfiggere quell’essere. Solo lei lo può fare. Venga con me, venga in casa, vedrà lei stesso. Porti l’acqua benedetta, porti tutto il necessario. Venga padre, venga.”
“Ma vedi, figliolo, io ho molto da fare, non posso lasciare la chiesa sola ed incustodita.”
“No padre. Lei deve venire, non accetto un rifiuto. Se mi sono sbagliato chiederò scusa. La prego padre, venga, porti con se l’acqua, porti con se la croce.”
“E va bene, figliolo, verrò” disse il parroco sconsolato.
E preparò tutto il necessario, dicendosi che doveva essere impazzito per ascoltare quel ragazzo, di sicuro matto. Quando fu pronto chiamò Pablo e tutti e due si avviarono verso la casa, piano, lentamente, come se il destino, in quel momento, non avesse fretta di palesarsi.
CAPITOLO SESTO
Uscirono insieme al sole e si avviarono tranquillamente verso la casa. Don Miguel era in apprensione, un po’ preoccupato e guardava di sottecchi Pablo che camminava lentamente a fianco a lui. “Poverino.” pensava il parroco, sinceramente dispiaciuto “Chissà quale terribile trauma deve aver avuto.”
Piano piano, senza fretta, arrivarono a quella casa, e il parroco si fermò sorpreso… “E’ questa?” chiese a Pablo.
“Si padre.” rispose lui pacatamente.
“Ma tu lo sai che casa è questa, conosci la sua storia?” disse Don Miguel.
“No padre, non la conosco.”
E padre Miguel, sedutosi su un gradino dell’ingresso, invitò con un gesto Pablo a sedersi ed iniziò a raccontare la storia della casa.
CAPITOLO SETTIMO
C’era un tempo, Pablo, in cui gli uomini dovevano lottare per sopravvivere. Un tempo in cui, per poter vivere, dovevi andare al di là del tuo cuore e diventare duro e spietato. Un tempo in cui il sangue scorreva a fiotti in questa isola. Gli spagnoli erano appena sbarcati qui, e avevano appena finito di sottomettere le tribù indigene che vi vivevano, “Los Guanches”. Erano un popolazione primitiva e furono sterminati dagli Spagnoli. Questa casa devi sapere che è la prima, o una delle prime, abitazioni dell’isola di Tenerife. Vi viveva il console dell’isola. Il console aveva quattro figli, due maschi e due femmine. Tutto filava liscio nell’isola, la popolazione indigena rimasta sembrava tranquilla e gli emigrati spagnoli arrivavano a folti gruppi a colonizzare l’isola, attratti dal clima abbastanza mite e sempre stabile. Tutto sembrava andare per il meglio, ma alcuni indigeni, scontenti di come venivano trattati dai colonizzatori, si organizzarono e imbastirono un piano per attaccare la casa del console.
Quel mattino la casa risplendeva al sole, proprio come oggi. Era nuova, chiaramente, rispetto ad oggi, e le vetrate colorate e le porte con i battenti tutti intarsiati brillavano alla luce del sole.
Le guardie, oramai abituate alla tranquillità del luogo, sonnecchiavano lentamente, non accorgendosi di quello che avveniva intorno. Ma anche se fossero stati vigili, non avrebbero mai saputo cosa avveniva, perché gli indigeni erano esseri silenziosi, abituati a vivere in quel territorio.
Si avvicinarono piano alla casa, lanciando dentro le vetrate frecce infuocate. Dopo di che entrarono in casa e massacrarono tutti.
Il console uscì dalla propria camera attirato dal rumore della colluttazione e
quello che vide lo fece sbiancare dalla paura. La battaglia in quella casa non durò molto. Gli indigeni erano stati veloci e avevano sopraffatto le guardie assonnate. In breve nessuno si salvò, sia il console che la moglie furono decapitati. Dei bambini non se ne seppe più nulla. Da allora si sono verificati strani casi, pianti di bambini e canti infantili. Nessuno ha più voluto entrare in questa casa. Ma è solo una leggenda.
Pablo ascoltava quelle parole e aveva una idea più chiara di cosa fare. “Padre,” disse “dobbiamo dare la pace a quelle povere anime. Io le ho sentite, mi hanno chiesto aiuto. Proviamoci, se ho sognato non succederà nulla.”
“E va bene, Pablo, andiamo. Non so perché lo faccio, ma dentro di me so che devo farlo.”
Ed entrarono in casa.
CAPITOLO OTTAVO
Entrarono in casa, dove gli ambienti spogli e le finestre sporche, le mura bianche macchiate dal tempo, sembravano l’entrata di un paradiso profano. Le ombre trasmettevano figure alate sulle pareti bianche e la poca luce che entrava non riusciva a smorzare il debole buio di quella casa. Padre Miguel posò per terra la borsa, ed iniziò a preparare l’occorrente. Si alzò, mormorando una preghiera, a bassa voce, quasi che volesse parlare al suo cuore e all’animo di Dio. “O Signore. Aiutami in questa impresa. Fa che la tua luce sia la luce di tutte le luci, la via per mezzo della quale queste anime arrivino nel tuo cuore.”
Aprì gli occhi e… rimase sbalordito.
Si trovava in una luce immensa, tutto il contorno della casa non esisteva più. Era come se si trovasse in un limbo, dove le anime perdute vivono in attesa di essere salvate. E sentiva cantare una nenia dolce, da bambini.. “El patio de mi casa es particular… quando llueve se moja como los de mas...” e di seguito risa e giochi da bambini.
E poi vide, vide l’oscurità avvicinarsi ed il freddo lambire le proprie carni.. sentì il canto dei bambini diventare pianto e le voci impaurite chiedere pietà, chiedere aiuto.
E allora fece ciò che il suo cuore diceva: pregò. Alzando la mano in una benedizione solenne pregò per le anime dei bambini, pregò perché quel buio si allontanasse. “Dio di ogni uomo, aiuta questi bambini. Fa che trovino la pace.”
Ed una voce, dura, crudele, tranquilla, la voce di tutte le malefatte del mondo, urlò la sua rabbia… “Chi sei tu, uomo, per tentare di rubarmi queste anime. Sono mie, e lo saranno per l’eternità. Riuscirò, sì che riuscirò a strapparle da questo limbo e le porterò con me, negli inferi, dove il fuoco non scalda e non brucia, dove il freddo è rovente, dove le anime piangono per le proprie malefatte.”
E padre Miguel prese in mano la boccetta dell’acqua santa e la spruzzò lontano, mormorando una preghiera che non aveva nulla di terreno. Ora lui era in contatto con l’altissimo, che gli suggeriva le parole e gli atti da compiere.
E l’urlo lacerante che scaturì sembrava non aveva fine, era come il ruggito della notte, del leone che è ferito, il ruggito di tutte le anime crudeli del mondo.
Ma padre Miguel non demordeva, chiamò Pablo, gli prese la mano e disse: “Ora figlio mio devi credere, credere in Dio, credere nella sua potenza, credere che noi, insieme all’altissimo, due cuori umani e uno immenso, divino, possiamo farcela. Devi aver fiducia in Dio e nel tuo cuore.”
“Si padre, sono pronto.”
E tenendosi per mano, intonarono una preghiera. E si scatenò il finimondo. Le pareti della casa parvero liquefarsi, mostrando all’esterno un mondo che non era quello umano. Le anime smarrite volteggiavano in quel mondo, patendo una sofferenza senza limiti, il fuoco aveva un colore rosso , ma era freddo, immutabile, inalterabile. L’orrore era palpabile, evidente, e la crudeltà era immane.
Ma Pablo era tranquillo, sentiva il contatto con il parroco che gli parlava con la
voce del cuore, consolandolo.
Continuarono a mormorare una preghiera e la casa venne scossa da un terremoto, venne catapultata, distrutta e ricostruita da mani invisibili. E la voce del parroco diceva: “Tranquillo, è solo suggestione, non è reale.”
“VOI.” urlò la voce “VOI COME OSATE VENIRE QUI NEL MIO MONDO. PRENDERO’ LA VOSTRA ANIMA. GUARDATE LE ANIME COME SOFFRONO … E VOI SOFFRIRETE CON LORO.”
“Dio di ogni lode.” rispose padre Miguel “Concedi la pace, ora, per queste povere anime afflitte, perse in un limbo dove dolore e gioia hanno lo stesso colore. Concedi loro la bellezza del paradiso celeste, dagli l’opportunità di vincere il maligno. Dammi la forza Dio, dammi la forza.”
E prendendo il calice di acqua santa e la Bibbia in mano, alzando il libro in alto e lanciando l’acqua tutto intorno disse: “Il signore è il nostro pastore, ci guida lungo il viale della vita. E le prove che ci dà sono immense. Ci ha dato la libertà di scegliere quale via percorrere, ci ha dato la libertà di scegliere quale Dio adorare, ben sapendo che ogni Dio pagano o Cristiano ha il suo cuore. Ci ha dato la forza di vivere in questo mondo. Ed ora mi dà la forza e l’autorità per salvare, per aiutare. Con il potere concessomi dall’Altissimo, io vi benedico, anime del purgatorio. Andate, andate da vostro padre nel cielo, lasciate questo posto, allontanatevi dal pericolo del male. Per la benedizione dell’Altissimo io vi libero, nel nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo.”
Ed un rombo percosse la casa, le pareti sembravano crollare sotto il peso di quel rumore, un urlo che nessun essere umano ha mai udito, un grido di rabbia.
E poi fu l’inferno delle anime che solcavano l’aria, entrando ed uscendo dai corpi e cercando di prendere le anime dei bambini.
Ma ora erano lì, sia Pablo che padre Miguel li vedevano. Erano lì, inondate da un fascio di luce caldo, immensamente bello. E li videro salire in alto, sorridenti.
E tutto tacque.
CAPITOLO NONO
Padre Miguel e Pablo uscirono alla luce. Quello che avevano visto li aveva segnati profondamente, ed ora erano stanchi.
“Domani, padre” disse Pablo “cercherò i resti di quelle povere creature, li porterò da voi così li benedirete e gli troverete un posto sicuro.”
“Va bene, figliolo. E grazie.”
“Grazie di cosa, padre?”
“Grazie perché oggi le anime buone di quei cari bambini sono al sicuro. Grazie perché hai avuto fede e coraggio, perché hai accettato di aiutare, anche se era da folli credere. Grazie perché ora so che Dio non mi abbandonerà quando avrò bisogno di aiutare.”
“Va bene padre. E grazie a lei per la bontà e per l’aiuto. Che Dio la benedica padre.”
“E benedica te Pablo.” disse padre Miguel allontanandosi, facendo lentamente il segno della croce in aria con la mano destra.
Pablo si voltò, guardò le mura esterne della casa. Era soddisfatto.
E con un sospiro di sollievo, entrò in quella casa che oramai era tutta la sua vita.
PER ME
Ti amo con la stessa voglia d'amarti.
I miei silenzi solfeggiano nei tuoi sudori.
Basterà solo un attimo di pace
Per far si che il mondo riprenda i suoi colori .
E dove siamo noi si volta Dio,
da subito emergere l'eco di un infinito,
accarezzandoci il cuore con tocco divino,
che poi diventa polvere di stelle .
E muoiono i miei sogni nelle tue mani,
mentre disteso sul tuo petto assaporo
una fragranza d'universo,
un morso di vita segreta,
un piacere unico, l'attimo dopo
è il tuo dolce abbraccio ....
PARTE SECONDA
SENZA TITOLO
Mi perdo guardandoti,
solo sollevandoti il viso
e osservandoti.
I tuoi occhi mi fanno volare,
attraverso un blu come mare.
Mi perdo osservando i tuoi pensieri,
mentre curi con calore i miei mali,
ascoltando con sorpresa la tua voce,
che mi parla,
brillante e vivace.
Mi perdo contornando i miei pensieri,
del ricordo di te quando ieri,
seduto su quel lettino ti guardavo
mentre il tuo lavoro svolgevi piano piano.
E quando non ci sei mi perdo ancora,
nella speranza che quel giorno ricolora,
di un azzurro bello quanto il mare,
di quel ricordo così speciale.
E' probabile che un futuro non sarà,
è possibile che questo sogno finirà,
ma non importa se il ricordo,
di un sorriso e di uno sguardo,
rimarranno nel mio cuore,
insieme alla promessa
di non dimenticare....
ASPETTO LA NEVE
Oggi le mie note,
vagano sul mondo,
tristi, lente e sorde,
come un piano rotto.
Oggi le mie poesie,
scritte con mano ferma,
incerte nel da farsi,
se ridere o disperarsi.
Caldo quel sole alto,
non scalda la mia solitudine,
solco il mare e raffiche
di vento in burrasca,
capovolgono la barca.
E' la notte che preferisco,
mentre sogno baci e sorriso,
mentre leggo libri e mi perdo,
in un sogno e in un firmamento.
Oggi i miei occhi,
azzurri e incerti,
tristi,
cercano riscontri,
in piccoli e caldi gesti.
Solco mari aperti,
con la mente persa,
in nuvole di sabbia,
di un deserto in tempesta.
Sorvolo cieli neri,
di nuvole minacciose,
aspettando quella neve,
che copre tutte le cose....
COGLI LA ROSA DEL TEMPO
Cogli la rosa del tempo,
quel nudo tormento
di un sogno represso,
di un amplesso durato un momento
o un millennio di ione in un minuto.
Cogli quel fiore,
che pallido cuore non possa più amare,
prima che il sole tramonti
lungo la fascia del mare.
Come le foglie,
come le piante,
come quel solco del campo
che l'aratro traccia,
senti il mio alito sulla tua faccia,
vicino a quel tempo che fu,
e che mai tornerà.
Cogli l'amore,
come un amplesso di gioie e dolori,
di colpe e di forti sapori,
che danno quel senso di vita,
quel nutrimento alla terra,
come il sole nutre le foglie
del fiore che ho colto...
per te....
E CADE LA NEVE
Giorno dopo giorno,
anno dopo anno,
le cicatrici che hai nel cuore,
si richiudono....
forse!
Ed il sole,
che prima non scaldava,
entra nel tuo cuore
come un faro nel buio.
Guarda in alto le stelle lucenti,
come punti luminosi ed iridescenti.
Guarda al di la di quel prato,
guarda la persona che hai amato....
e capirai!
Non ti so dire cosa capire,
ne come parlare,
ne come sentire,
ti posso dire come quel sole,
che prima non ti scaldava,
ora da calore.
Ti posso dire che quel dolore,
che anche io ho avuto
e che porto nel cuore,
sale nel cielo su ali leggere
e porta la pace....
e cade la neve.
E OGGI VA COSÌ
Ero in solitudine,
triste nel cammino del tempo,
debilitato da ere di glaciali parole,
senza un senso.
Era meraviglia,
meravigliandomi del calore di un bacio
e di una carezza sul viso.
Ero un sognatore,
un esule nel cuore del mondo,
in mezzo a persone che non conosco.
E ora chi sono....
Salgo sul monte,
al di la delle nuvole,
dove il sole non arriva a coprire,
con il suo calore,
l'aurora che nasce dal mio canto.
Salgo e vi ritrovo
come cose perdute nel tempo,
pensieri lontani, appartenuti al mio vagare.
E ora chi sono....
Mi siedo su quel prato,
dove l'erba ha il sapore dell'eterno,
dove la vita non è vita
e il dolore è lontano,
dove, se voglio,
mi ritrovo in un campo di grano.
E ora chi sono...
Il viaggio finisce,
al limite del sorriso,
dove il sole solca un ombra,
lì, vicino al tuo viso.
Ecco chi sono...
Nei miei sogni ho vagato,
per le cime dei monti,
dove il tempo ti porta ricordi,
che non vivranno che in te.
Ecco chi sono, il tuo sogno... in me.
E SORVOLIAMO
Sorvolo il tempo
nella brezza autunnale,
insieme alle rondini
che volano al sud,
nel mio mondo virtuale.
Sorvolo il cielo
e da lontano ti vedo,
inafferrabile angelo
nel mio pensiero.
Sei vicino al mio cuore,
vicino e altrove,
sei più grande
della parola amore.
Sei soltanto un sogno,
un mio desiderio,
che poi è semplice,
basta volare,
mano nella mano,
con me,
nel cielo.
FORSE LO SO
E con il tempo che a,
rivedo le cose accadute,
perdute,
estinte,
in mille ricordi gioiosi..
E con il are delle ore,
il tuo calore va via dal mio corpo,
stupendo ricordo di un attimo di gioia.
Sapere di amarti è per me stupendo,
ansia di vivere ogni momento con te,
ricordi che in attimo volano via,
come uccelli verso il paradiso del tempo,
verso il cielo volano in un momento,
lasciandomi il ricordo del tempo che fu.
Eccomi, nello sguardo tuo vicino,
mentre il tuo sorriso mi porta lontano
e mi ritrovo a pensare ad un ato futuro.
Eccomi, mentre ascolto la tua voce,
che mi parla,
mentre il mio cuore ascolta il tuo
e si rinnova ad ogni gentilezza,
ad ogni nuova tenerezza,
ad ogni nuovo giorno d'amore,
nei miei sogni a tutte le ore.
COMINCIAMO DAL CASO
Cominciamo dal caso,
da quel guizzo del tempo,
che pone un tormento in una nota.
Cominciamo dal nulla,
da quel vuoto che ti circonda
e che esplode in frenesia e parole,
quando si alza il sole.
Cominciamo dal cielo,
azzurro, rosso e a volte nero,
quando il tempo in quel mattino,
porta il cielo dall'azzurro
al più bel turchino.
Cominciamo.... a vivere il tempo,
perché è lui che a,
senza tornare indietro,
perché è lui che ci pone davanti a un destino,
proseguire il cammino fino al nuovo arrivo.
E guardai quegli occhi scuri,
mentre il pianto scendeva come un diluvio
dalle gote di quell'angelo del mattino,
che mi guarda negli occhi e mi dona il sorriso.
MI PERDO
Mi perdo guardandoti,
solo sollevandoti il viso
e osservandoti.
I tuoi occhi mi fanno volare,
attraverso un blu come mare.
Mi perdo osservando i tuoi pensieri,
mentre curi con calore i miei mali,
ascoltando con sorpresa la tua voce,
che mi parla,
brillante e vivace.
Mi perdo contornando i miei pensieri,
del ricordo di te quando ieri,
seduto su quel lettino ti guardavo
mentre il tuo lavoro svolgevi piano piano.
E quando non ci sei mi perdo ancora,
nella speranza che quel giorno ricolora,
di un azzurro bello quanto il mare,
di quel ricordo così speciale.
E' probabile che un futuro non sarà,
è possibile che questo sogno finirà,
ma non importa se il ricordo,
di un sorriso e di uno sguardo,
rimarranno nel mio cuore,
insieme alla promessa
di non dimenticare....
NIENTE TITOLI
Il cavaliere guardava
e il cielo si oscurava.
Nuvole nell'aria,
tersa aria di sera.
Quante volte avrei voluto,
in groppa al mio destriero,
volare sopra un cielo
e baciare il tuo sorriso.
Quante volte avrei voluto.....
Il cavaliere sospirava,
sottovento,
nascosto ai nemici
nel buio del firmamento,
invisibile per chi
non aveva nessun colpa,
se non di esser cavalieri
della parte contrapposta.
Quante volte avrei sperato
in una pace duratura,
seduto sopra quella torre,
a difendere le mie mura.
quante volte avrei sperato.........
Mentre aspetta il cavaliere,
quella freccia traditrice,
spacca il cuore in due vite.
Una va al creatore,
con i sogni da cavaliere,
mentre l'altra segue il cielo,
che man mano si fa nero.
Quante volte avrei voluto,
morire nel mio letto,
con accanto il tuo sorriso,
e la tua mano sul mio petto.
NIENTE TITOLI
Non posso sapere
cosa accadrà di me,
il futuro è una incognita folle,
il fato decide
ed io devo ubbidire,
a costo di soffrire,
a costo di morire.
Non posso sapere
per quanti anni ti amerò,
ma so che un solo giorno,
un solo momento sarà eterno,
se lo vorrai,
se mai potrai amare me.
Non conosco il tuo cuore,
le tue pene e la tua ione,
so soltanto che,
quando sono accanto a te,
il mio cuore va come un treno,
come il fulmine dopo il sereno...
Ti amerò,
anche se non vorrai,
e per un minuto sarà realtà,
per un attimo l'eternità
spazzerà questa vita.
SCRIVERE
Scrivere è come sorridere,
perdersi in un nulla,
solo a te visibile,
contornare la tua vita,
di sogni irrealizzabili,
di promesse mantenute
e di dolori immutabili.
Scrivere è un po’ svuotarsi,
aspettare che la luna,
su nel cielo,
si alzi.
Guardarla brillare
e pensare allora,
che l'indomani, al suo posto,
il sole scalda ancora.
Scrivere è come morire,
in ogni parola un attimo sottile,
uno sguardo che si perde
al di la del tempo,
sottile, come fumo,
verso il firmamento.
Vorrei scrivere di te al mio fianco,
mentre guardo il tempo
armi accanto,
mentre seguo pian piano
il o dell'uomo,
che va verso un mondo
che più non colora.
Scrivere è come amare,
morire ogni giorno,
per poi resuscitare
al ricordo di un sorriso
o di una lacrima fugace,
di un tempo che divora,
che ti fa sentire in pace.
SE POTESSI DIRTI
Non posso dire quello che provo
e neanche quello che sento.
Il mio cuore è come un uragano in tempesta,
dove i sentimenti volano nella bufera.
Ma sul mio viso nulla si palesa.
Nel mio animo l’amore è immenso,
grosse gocce di ione ardono
di un fuoco eterno.
Eppure sul mio viso c’è la calma eterna.
Il tuo sorriso mi riempie il cuore,
mi ricorda epoche di ione remote,
dove le colline ondulate di una verde ione,
si sovrappongono a visioni ed illusione.
Non posso dirti quello che provo,
anche se lo farei all’istante,
perché l’amore che ho nel cuore,
non si può definire con le parole.
Ah! Se potessi dirti quanto ti amo!
Ah! Se potessi dirti quanto ti amo!
Devo finire di colorare
Il mondo in cui vorrei abitare.
SOCCHIUDI
Socchiudi i tuo occhi
e pensa al ato.
Vedi orde di anime
che vagano per il mondo
in cerca di un sonno eterno.
Scava lungo il solco del tempo,
guardando la luna
nel suo firmamento.
SOTTO QUEL FOSSO
Sotto nel fosso
di ginepro rosso,
accolsi come un esule
il tuo sorriso.
Il tuo bel viso cantava storie,
mentre la tua mano,
leggera ed ammaliante,
curava il mio male.
Sotto quel fosso,
raccoglievo gli allori,
le foglie di savi ed imperatori,
sognando acclamato da acclamatori,
da popoli felici e orde di vincitori.
Sotto quel fosso, in quel fossato,
giace il corpo di quel soldato.
Sopra quel fosso,
che ho appena scalato,
c'è il tuo viso tanto sognato,
che ho accarezzato,
che ho accarezzato,
c'era quel viso di angelo dorato.
SVANISCE
Solo un momento per pensare,
al di la dell'infinito,
al di la
del mare.
Solo un momento per pensare,
a quel ricordo che mi fa paura,
che mi fa tremare,
al sorgere del sole
oltre le nubi del tempo
e quel tormento
che non vuol are.
Solo un momento di solitudine,
può far sparire mille anni di umanità,
solo un momento
in cui due occhi guardano i miei,
due occhi del colore del cielo
possono cancellare il dolore.
Solo un momento per pensare,
a quel sorriso che mi fa tremare,
a quel tuo parlare
mentre mi accarezzi piano,
al calore della tua mano.
Solo un eternità per programmare,
per ritrovare una vita persa altrove,
li, dove il cielo si colora,
di quel rosso così ,
che anche il cuore mi divora,
li, dove tutto svanisce,
dove anche la paura
pian piano illanguidisce,
in un sogno ideale,
in un sogno felice,
una realtà tutta nuova
al di là del cielo,
svanisce.
TESTE E CIELO
Teste e cielo,
sole nero e cupo,
un giorno dove il lupo
forte e muscoloso,
urla alla luna la sua rabbia.
Teste e cielo,
dentro il mio cuore
battono le ore del sonno
e del ricordo.
Teste e cielo
di un blu luminescente,
dove il sole scalda cuore e mente
e solleva gli occhi ad un cuore che ricorda.
Il giorno in cui ti incontrai,
fu come il battito di mille ali
che nel mio animo volavano veloci,
fu come il suono di mille strumenti,
tutti all'unisono perdenti.
Il giorno in cui ti incontrai,
teste e cielo si schiarirono
e le acque si divisero
sul cielo dove le nuvole
sono andate via.
TU
E quando ti incontrai,
nei pressi del ruscello,
angelo sperduto e bello,
fu li che mi innamorai.
Perduto nei meandri
del sole che si è perso,
sparuto cantautore
di parole senza senso,
cerco la mia vita
in due occhi blu di cielo.
Sarà che non conosco
il profumo dei tuoi baci,
di carezze che sogno ancora,
di occhi che non vedo
se non nel mio sognare.
Sarà che la mia vita
ha un senso solo in questo,
sognare dentro a un letto
e fuori c'è la vita...
ci sei tu.
Ricordo il primo giorno,
ti vidi dentro un sogno,
ti ascolto nel potere
di parole mai dette.
Sarà che nel mio cuore,
c'è un vuoto senza fine,
riempio le giornate
di un pensiero che non c'è.
E quando ti incontrai,
e vidi il tuo sorriso,
l'amore è attesa
di un tempo che non c'è.
VOGLIO
Voglio esserti accanto,
nella realtà come nel sogno.
Non importa quanto ere devo aspettare,
prima o poi ti amo e ti potrò amare.
voglio essere l'unico tuo appiglio segreto,
fragile, forte e discreto,
sollevare il tuo viso e vederti felice,
quel sorriso che mi fa volare in pace.
Voglio essere l'uomo che ti consola,
che ti tratta da regina,
mentre il sole ricolora
ogni nostra storia
di un colore raggiante,
un blu cobalto
o un giallo iridescente.
Voglio vivere con te in ogni minuto,
are la mia vita vicino al tuo sorriso,
accarezzarti piano
mentre la notte scende
e baciarti lentamente,
ardentemente.
Toccare con le dita
il punto del tuo cuore,
dove c'è la pace,
dove nasce l'amore,
scoprire ogni tuo difetto,
e tu capire i miei, tanti,
lo ammetto,
e conoscere ogni tratto
del tuo corpo perfetto,
baciarti, fino a dormire sul tuo petto.
So che si avvererà,
il cuore mi dice che sarà,
un giorno di sole e una primavera di baci,
sarà forse un giorno felice.
Mi basta un minuto,
anche un solo secondo,
voglio vederti amarmi per un momento.
E voleremo insieme lontano dal mondo,
perso in un sogno,
che non ha tempo.
CAPIRE
Capire è impossibile,
quelle delusioni,
quei dolori che ti prendono piano,
e ti portano in un lido lontano.
Capire è difficile,
trovare quel sorriso tra la gente,
che ti guarda incazzata e indifferente,
lontana dalla porta che dal cuore,
porta alla ione ed all'amore.
Capire e volere aiutare,
capire e sapere di morire,
non serve a cambiare il mondo intero,
non serve a sentire il battere del cuore.
Capire che soltanto con il cuore,
si può cambiare il senso di parole,
dette in un momento di sconforto,
dette in un periodo di conflitto.
Capire quella gente che cammina,
senza guardare la strada che declina,
lenta, verso un sole che già nasce,
e capire quei visi giù per terra,
a guardare il cemento che cammina,
senza alzare quel viso al cielo azzurro
e sognare i tuoi occhi da bambina.
Il cuore è un sorriso che non si vede,
è un sogno di una notte che scende,
è la vita di una vita che non muore,
è il canto che sale senza parole.
SORPRESO
Sorprendo il tuo corpo su di me,
mentre piano il mio animo si risveglia,
contornato da un mondo di sogni
e di ioni, di solide emozioni.
Sorprendo i tuoi occhi luccicanti,
di un colore indefinito,
e brillanti di gioia e felicità.
Sorprendo me stesso a baciarti,
lentamente, e con calma abbracciarti,
come se il tempo non avesse luogo,
come se il luogo non avesse fine.
E sorprendo il mio animo ad aspettare,
un tuo bacio o quel tocco che,
lentamente,
mi fa eccitare.
Accarezzo il tuoi fianchi sodi,
bacio l'interno delle tue emozioni,
la tua pelle morbida nella mia mano,
lentamente ti porta piano verso il mio viso,
verso quel centro del piacere infinito,
mentre il tuo grido lento e vivace,
mi porta in un sogno, mi da la pace.
E mi sorprendo svegliandomi ancora,
dal quel sonno che ti porta alla realtà,
a quel cielo che non sai più di che colore è,
ma che lo vedi del colore della realtà che non c'è.
BUONANOTTE
Buonanotte,
vivi tra la realtà e l'oblio,
barbaramente trucidato,
da millenni di schiavitù e di peccato.
Buonanotte sognatore,
tu che scrivi poesie di dolore
e parole d'amore,
mentre il cuore,
piano piano,
si sgretola e va a dormire,
evitando così la paura di morire.
Buonanotte a tutti voi,
in questa notte dove un uomo muore,
mentre un Dio risorge per noi,
in questa notte dove tutto era nero,
mentre ora è soltanto un rosso fuoco,
e un azzurro cielo.
Buonanotte amore mio,
tu che vivi lontano,
tra la realtà e la poesia,
persa in un mondo tutto tuo,
dove non c'è spazio
per i dubbi e le incertezze,
dove ci sono buie notti e amarezze.
Buonanotte al mondo interno,
che sia un anno di cambiamento vero,
dove tutto diventi chiaro come il sole,
e si veda la verità
dietro al mare di parole.
IO
Sono io,
quello che il giorno fa are,
guardando il sole,
che svanisce in un cielo d'amore.
Sono io,
quello che ha paura,
di un amore che dalla follia,
porta a un futuro senza ombra.
Attendo la fine,
con la pazienza del tempo che a,
che il mio destino mi porti
lontano, lontano,
lontano lungo un sogno che non cede,
che non a,
che è sempre presente
in un mondo di realtà latente.
COMPLETO
Completo il o del tempo,
dolce l'incanto che dal cuore sale,
verso il cielo azzurro mare.
Completo la vita ata,
raggranellando la scia
di una lama sfregiata.
Sapessi quante ione,
versate in candide parole
e ate in amare delusioni.
PENSIERI
Ho pensato che il mio cuore,
si perdesse dentro un dolore,
quando partisti per il mondo,
ripensando al mio ato.
Ho pensato e ripensato,
ai fantasmi del ato,
che non ho mai saputo,
che non ho mai combattuto.
Ho creduto che l'amore,
sia dare più che avere,
ma col tempo ho capito
che non è proprio così.
L'amore è una condivisione,
di parole in emozione,
di sapere e di provare,
di sorridere ed amare.
Ho pensato e ripensato,
al sorriso di un bambino,
quando,
al sole del mattino,
aspettavo il mio futuro,
perso dentro ad un ricordo,
che svanisce nel ato
e nel buio.
RICORDI
Il salotto di casa mia,
ridotto ormai a brandelli,
muri screpolati e
finestre disastrate.
La vita che complesso
di emozioni e sapori,
una caos di giravolte
intorno a tanti soli.
Non vorrei fermarmi
lungo la via del vento,
binari di un treno fermo,
di un cuore oramai spento.
Io non vorrei parlare
di tutto il sentimento
che ho nel cuore mio,
e che non riesco a dare,
se non nelle poesie.
Il semplice tocco di una mano,
che porge affetto al mio cuore,
carezzandomi il viso con affetto,
senza amore.
Il semplice parlarmi senza parole,
scoprire che sei uguale a me,
scoprire pian piano il tepore,
di un viso che ora non c'è.
Sorriso,
perso in quel madido tempo,
umido pianto,
pioggia infinita,
da nubi di azzurro
e cristalli di sabbia.
Sai quante volte,
vorrei riposare,
steso per terra,
tra il cielo e il mare.
Sai quante volte,
volando dentro al tempo,
ripenso alla vita
prima di ricordare
che sono morto,
bruciando,
nel vento.
C’E’ UNA COSA
C'è una cosa
che vorrei dirti
e che non riesco
a tirar fuori.
Una improvvisa forza
in un tempo di lotta,
in un mondo sconfitto
dal denaro e dal vizio.
Una catastrofe,
questo vivere inutile,
immedesimandosi in tempi,
in luoghi remoti,
pieni di sentimenti ignoti.
C'è una cosa,
al di la del tempo
e della vita,
che riporta il mondo
a una nuova salita,
apportando cambiamenti
al cielo azzurro,
che dal blu a al nero
e al rosso fuoco.
Rosso fuoco,
rosso di sera,
rosso di sangue e di preghiera
mai espressa,
mai usata,
solo abusata in parole non credute,
dette solo per quietare e dare pace.
C'è una cosa che vorrei pregare,
nel mio cuore c'è un po’ di sole,
nel mio animo c'è il vento
e nella mia vita c'è un.....
NIENTE TITOLI
I tuoi fianchi,
come solcano la mia mente,
mentre ripenso ai minuti ati con te.
I tuoi occhi,
spendenti nella luce del tramonto,
guardano i miei ormai lontani.
Ma alla fine è tutto un sogno,
questa follia,
questo amore che esiste solo in me,
che viaggia per un mondo di parole,
solo le mie dentro al mio cuore.
ECO
E' un eco profonda,
parole che volano nel cielo,
perdendosi in un vento leggero.
E' un oasi d'amore,
quella che porti nell'animo
e nel cuore,
quella che ti fa alzare
e camminare lontano,
verso un futuro indeciso e arcano.
E' quella parola che vorresti dire,
che ti manca nel cuore
e che non sai pronunciare,
quella frase che libera tutte le ioni,
tutte le fantasie e le illusioni.
E' quello che ho visto quando ti ho perso,
un cielo di stelle cadute sul mondo,
è l'oscuro presagio di un futuro perso,
di un sogno che muore,
nascendo in quel momento.
ERA IERI
Motore della vita,
intrisa d'armonia,
amore che va via,
lontano dal sole.
Adesso io ripenso
con calma al mio ato,
tessuto di matasse
di sogni e di pensieri.
Era ieri....
Sorpreso dalla calma,
dalla vita che arriva,
dalla sorte che è avversa
alla vita che non vive.
E lo sento quel calore,
quel sogno nel mio cuore,
quella voglia di abbracciare,
un cuore da amare.
E ora ripenso
e ripenso
a come il mio futuro,
coperto da quel muro
che non mi permette di vedere,
al di là delle apparenze,
del sole e delle assenze,
a come il mio futuro
arriverà comunque,
colpendo a muso duro.
Era ieri....
E’ FINITA
E' finita così,
in un battito di ali,
che volano dalla terra
verso il mare.
E' finita così,
cinguettare di un uccello,
che non canta il suo lamento,
ma la gioia del firmamento.
E' finita così,
aria di tempesta,
fresca e battagliera,
porta novità
e aria nuova.
E' finita così
quella sera che ho incontrato
il mio destino,
il mio fato trasfigurato in un sorriso.
Inizia il mondo del perdono,
dove l'uomo è il solo,
l'importante nella vita
è l'amore ed il rispetto
per il cuore e l'intelletto.
E' finita così,
il nostro mondo è arrivato
ad una svolta nuova,
un epoca di pace e armonia,
che la tempesta non porta via,
non spazza il tuo cammino
verso il sole e l'amore.
Sorrido mentre scrivo,
perché vedo chiaramente
il tuo futuro,
interrotto da riflessi del pensiero,
come acqua in un lago,
come cerchi dentro un sogno
come il grano che maturo
guarda il sole e il nuovo giorno.
Come il cuore che nel cielo
guarda il battito e un pensiero,
mentre il cuore,
piano piano,
batte lento dentro al petto.
E' finita la stagione del dolore,
ora inizia il futuro
e un firmamento sotto il sole.
ERA’
erà il sole,
ed il tempo delle parole,
prima o poi,
finirà.
Il tempo è un incanto,
fugge via piano
e non torna indietro.
erà il tempo del pensiero,
quell'attimo acuto che va,
come un lampo,
dal fulmine al sereno.
Non so cosa sarà,
della vita di questo mondo,
delle carni che vivono
e muoiono sotto il sole.
Non so che sarà,
del sole nascente,
quando arriva allo zenit,
e piano piano,
se ne scende.
Sorvolerò le pianure del mare,
acque chiare e cristalline
e sognerò il cielo azzurro
mentre dormo lentamente.
Planerò tra le pianure,
aspettando che il sole,
lentamente sale in alto
e lentamente se ne muore.
erà questa vita,
tra ricordi e amarezze,
gioie gaie e tristezze,
tra pensieri e ambizioni
e tra un nulla di emozioni.
erà piano il tempo,
tra il pensiero e il firmamento,
quelle stelle che nel cielo,
brillano nel songo come nel vero.
AMORE
Sei bella come il tempo che fugge,
come quel solco d'acqua che diventa fiume,
come l'aurora,
fresca nel chiarore nascente del mattino,
mentre fingo di dormire accanto a te.
Potessi toccarti,
piano piano accarezzare
quei fianchi sodi e belli,
come un cielo senza nubi.
Potessi guardare i tuoi occhi,
come la notte e lucenti,
splendenti e magnifici.
E dormo pensandoti,
nel mio letto solitario,
mentre aspetto con ansia,
che il destino si avveri...
A TE
Affronto la vita,
come se fosse una sfida,
portando con me,
le ombre del tempo,
tacito accordo tra me ed il futuro
è voler bene senza un ritorno.
Affronto la vita
a braccia aperte,
aspettando quel colpo
che mi uccide il cuore,
sperando che risorga
alla luce e all'amore.
Ti amo gioia mia,
ogni volta che il sole sorge,
ogni volta che vedo la luce
del giorno splendente.
Ti amo
ogni volta che un colpo mi uccide,
ogni volta che mi parli di te
e che sorridi al mio cuore.
Ma tu non devi sapere,
di questo amore,
perché il solco del tempo
è distante da me,
perché non puoi amare
questo uomo che è in me,
questo uomo che aspetta la fine del tempo,
come se fosse la libertà dal sogno.
Ti guarderò amare
e sarò felice.
TRISTE
Sento,
come i lenti,
il tuo spirito in me.
Ombre,
e fantasmi,
come fonti di sofferenza,
si agitano in me.
Ti vedo e ti sento,
bambina mia,
che il vento ti ha portato via,
in una notte fredda e senza cielo,
ti ha strappato da questo mondo,
dall'amore vero.
Chi ti ha ucciso,
non lo conosciamo,
sappiamo solo che può esser un uomo.
Sento i tuoi i,
e la tua voce,
che chiede pace,
che vuole pace.
Sento il suono del tuo respiro,
che da lungo diventa freddo.
Troverai una strada e la percorrerai,
vai verso la luce e li troverai,
come un sole la promessa di pace,
che avevi perso nel mondo reale.
GRIGIO
In un contorno grigio,
contornato dal rossore,
vedo le tue gote
ed i tuoi occhi risplendenti.
Vedo il tuo sorriso
perso tra i meandri di un bel viso.
Ho visto,
costernato,
l'armonia del ato
tramutarsi, diventare un sogno,
mentre il tuo cuore smetteva di battere,
per un momento.
Ma con il tempo ho capito,
che al di la del sole,
lì, all'orizzonte infinito,
c'è una parte di te
che reclama di tornare,
che vorrebbe amare,
a cui permetterei di restare.
SENZA TITOLO
Che cosa hai fatto a questo mondo,
se non crearlo e lasciarlo solo.
Solo di crescere e prolificare,
di far del bene o del male.
Che cosa hai fatto a questa terra,
creando animali, piante e cielo,
creando un mondo quasi perfetto,
dove la crudeltà è solo un destino.
Che cosa hai fatto a questo sole,
se può solo scaldare la terra nuda,
il cielo e il mare.
E quando hai creato l'essere umano,
che cosa hai fatto di così strano,
gli hai dato quello che non dovevi,
la possibilità di creare e di soffrire,
la possibilità di inventare,
in ogni momento,
una scusa per lottare.
Che cosa hai fatto a questa terra,
tu lo sapevi,
che con l'uomo creavi la guerra,
creavi l'odio innaturale,
verso chi non ha forza per lottare.
Che cosa hai fatto a questa terra,
quando hai deciso di amarla,
di crearci un mondo perfetto,
che si distrugge per smania di affetto,
che si distrugge alla ricerca di un cuore,
che si distrugge assetato d'amore.
C’E’ UN TEMPO
C'è un tempo
e c'è un momento,
in cui ti senti
profondamente stanco,
in cui vorresti riposare,
o almeno sederti e aspettare.
Senza correre o perdere,
senza pazzie e sotterfugi,
vorresti arrivare al traguardo
senza dover vendere il cuore.
C'è un tempo
e c'è un sorriso,
in cui vorresti ritrovare
quella sorte che non viene,
quella felicità che conosci
lontana anni luce... da te.
E allora alza gli occhi
e guarda il sole,
lo senti quanto è caldo,
lo senti il colore
della felicità,
di quello che non c'è,
ma forse ci sarà.
C'è stato un tempo
dove il cielo
era azzurro, quasi nero,
dove il tempo era un sorriso,
che ava sul tuo viso.
C'è stato un tempo
dove l'acqua
che bagnava la mia vita,
si asciugava dentro un mondo
di calore e armonia.
C'è stato un tempo dove amore
era la parole sul mio cuore,
dove aspettavo piano piano
l'arrivo di un aeroplano,
che ti portava qui.....da me.
E allora alza gli occhi
e guarda il cielo,
lo senti il colore
di un azzurro intenso,
lo senti il guizzo
della serenità,
di quello che non c'è,
ma un giorno ci sarà.
C'è un tempo per pregare,
e forse un tempo per morire,
c'è un tempo per risalire,
la china di montagne amare.
C'è un tempo per sognare,
e cantare al mio ato,
c'è un tempo per un flauto
che ritorni dal futuro.
C'è un tempo per millenni,
per uomini e serpenti,
c'è un tempo per colpire
e un tempo per subire.
C'è forse un tempo per l'amore,
per quel battito del cuore,
che ora aspetta il ritorno
di un sole in pieno giorno.
E allora alza gli occhi
e guarda il cielo,
lo senti il calore
che riempie il velo,
la senti la tristezza,
che si scioglie nel petto,
che oggi non c'è
in un giorno perfetto.
C'è un tempo per pagare
tutti gli sbagli di una vita,
c'è un tempo per tornare
a correre in salita.
c'è un tempo per sedersi
e lentamente riposare,
c'è un tempo per sorridere
e c'è un tempo per sognare......
NON FATE CASO
Non fate caso a me,
io sono di aggio,
tra le pagine di un libro,
racconto i miei perché.
Non fate caso a me,
tra il dire ed il non fare,
tra il fare senza dire,
o il tempo a sognare.
Di giorno sono io,
un uomo solo in terra,
che lotta la sua guerra
per giungere alla riva,
navigando in un mare
per sempre alla deriva.
Di giorno vedo il cielo,
le nuvole nell'aria,
come gregge impazzito
che naviga leggero.
Di notte sono voi,
pagine di un libro,
racconto il mio esistere
e invento la mia fine,
l'epilogo del libro
che non vuole più finire.
Le pagine bianche scorrono,
come acqua sotto un ponte,
dove vedi solo onde senza vita,
con pesci nascosti bene
dall'azzurro di una scia;
e così le mie parole,
in versi o in racconti,
nascosti in fogli bianchi,
come neve sopra i monti.
Non fate caso a me,
vivendo il mio futuro
nascosto in un ato,
ogni giorno nel suo buio.
Non fate caso a me
che parlo con l'inchiostro,
che guardo il cielo rosso,
al tramonto delle stelle
che sono in me.
INDICE
PARTE PRIMA
PER LEI
PROLOGO
ECLISSI
CAPITOLO PRIMO
CAPITOLO SECONDO
CAPITOLO TERZO
CAPITOLO QUARTO
CAPITOLO QUINTO
CAPITOLO SESTO
CAPITOLO SETTIMO
CAPITOLO OTTAVO
CAPITOLO NONO
CAPITOLO DECIMO
CAPITOLO UNDICESIMO
CAPITOLO DODICESIMO
CAPITOLO TREDICESIMO
CAPITOLO QUATTORDICESIMO
CAPITOLO QUINDICESIMO
CAPITOLO SEDICESIMO
CAPITOLO DICIASSETTESIMO
EPILOGO
IL FANTASMA
PROLOGO
CAPITOLO PRIMO
CAPITOLO SECONDO
CAPITOLO TERZO
CAPITOLO QUARTO
CAPITOLO QUINTO
CAPITOLO SESTO
CAPITOLO SETTIMO
CAPITOLO OTTAVO
CAPITOLO NONO
CAPITOLO DECIMO
CAPITOLO UNDICESIMO
CAPITOLO DODICESIMO
CAPITOLO TREDICESIMO
CAPITOLO QUATTORDICESIMO
CAPITOLO QUINDICESIMO
CAPITOLO SEDICESIMO
CAPITOLO DICESSETTESIMO
CAPITOLO DICIOTTESIMO
CAPITOLO DICIANNOVESIMO
IO
PROLOGO
CAPITOLO PRIMO
CAPITOLO SECONDO
CAPITOLO TERZO
CAPITOLO QUARTO
CAPITOLO QUINTO
CAPITOLO SESTO
CAPITOLO SETTIMO
CAPITOLO OTTAVO
CAPITOLO NONO
CAPITOLO DECIMO
CAPITOLO UNDICESIMO
CAPITOLO DODICESIMO
CAPITOLO TREDICESIMO
CAPITOLO QUATTORDICESIMO
CAPITOLO QUINDICESIMO
CAPITOLO SEDICESIMO
CAPITOLO DICIASSETTESIMO
CAPITOLO DICIOTTESIMO
CAPITOLO DICIANNOVESIMO
CAPITOLO VENTESIMO
IL RECINTO DALLE SPIGHE DORATE
CAPITOLO PRIMO
CAPITOLO SECONDO
CAPITOLO TERZO
CAPITOLO QUARTO
CAPITOLO QUINTO
CAPITOLO SESTO
CAPITOLO SETTIMO
CAPITOLO OTTAVO
CAPITOLO NONO
PARTE SECONDA
SENZA TITOLO