EUTHALIA
sbocciano racconti
Antologia di racconti ZeugmaPad
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Indice
Prefazione
La collana
Una storia strampalata
Laggiù scorreva il fiume
Distopia alcolica
La scommessa
La vicina di casa
Amanda
Fototessera
Le note della tua vita
Il sorriso del bambino cieco
Prefazione
Un fiore, un colore e ali per volare. Racconti da sbocciare. Euthalia è il fiore che sboccia, in greco antico, ma è anche il nome di una farfalla. L’immagine giusta per la nostra prima antologia di racconti. Bellezza, colore e leggerezza per spiccare il volo.
Ringraziamo tutti i nostri autori per i racconti che stanno per sbocciare e per aver animato, con le loro storie, il nostro portale http://www.zeugmapad.it
Quelle pubblicate in questa raccolta sono solo le prime gemme. Buona lettura.
LA COLLANA di Paola Gnani
Tenzin Gyatso, quattordicesimo Dalai Lama, manifestazione vivente di Chenresig, il Bodhishattva della Comione, tornava di nuovo a Leh. Erano trascorsi anni dalla sua ultima visita. La comunità dei rifugiati tibetani lo attendeva con trepidazione: sarebbe rimasto con loro tre settimane per impartire il suo insegnamento e conferire diverse iniziazioni.
Leh è la principale città del Ladakh, estrema propaggine settentrionale dell’India, annidata tra le montagne del Karakorum e dell’Himalaya e incuneata tra la Cina e il Pakistan. Per molto tempo il Ladakh ha fatto parte del Tibet.
Nel IX secolo, monaci provenienti dall’India nord-occidentale cominciarono ad addentrarsi nelle impervie vallate della regione per diffondere la dottrina del Buddha, fondando numerosi monasteri, qui chiamati gompa, incastonati tra le rocce in luoghi d’indicibile, mistica bellezza con edifici che si snodano lungo i crinali rocciosi e finestre rivolte sempre a sud, verso il sole e la luce.
Nulla di tutto ciò che avevo letto o immaginato prima di partire mi aveva preparato all’immagine che mi accolse in Ladakh: cime maestose e solenni, rocce color ocra e porpora scolpite dal vento e dalla neve in forme inaspettate e fantastiche che cambiano profilo e sfumature secondo il mutare della luce, un silenzio meraviglioso, un’aria limpida, tersa e sottile che avvolge il viaggiatore quando, dopo una strada che sale per oltre quattrocento chilometri da Srinagar, nel Kashmir, fino al o di Zoji-la, a 3528 metri di altitudine, il Ladakh si dischiude in tutta la sua stupefacente bellezza. Segni visibili del buddhismo si incontrano ovunque: dalla ruota di preghiera color amaranto e oro, che si trova all’inizio del o con l’antica immagine del Buddha scolpita nella roccia sovrastante, agli innumerevoli chörten, i reliquiari dalla forma simbolica, che rappresentano il cammino dell’illuminazione e il corpo di Buddha attraverso i cinque elementi cosmici (terra, acqua, aria, fuoco e spazio), alle bandiere di preghiera, che garriscono al vento diffondendo in ogni dove il loro messaggio di amore, pace e liberazione, alle onnipresenti pietre mani, accumulate a formare muri di preghiera con incisioni del mantra di Chenresig “Om mani pe hum”
(Salve o gioiello nel fiore del loto).
I ladakhi sono un popolo pacifico e gentile. La religione permea tutti gli aspetti della loro esistenza. Nonostante la povertà materiale e la difficile sopravvivenza in una terra come quella, con i valichi montani bloccati dalla neve da ottobre a marzo e temperature che raggiungono i trenta gradi in estate e scendono a venti sottozero in inverno, i ladaki hanno una qualità della vita stupefacente. Sereni e solidali, aperti ed equilibrati, armoniosi e tolleranti, colpiscono profondamente per queste loro caratteristiche.
A Leh, assieme alla comunità ladakha, vivono circa 3500 rifugiati tibetani. Nelle località più piccole e nelle campagne ve ne sono altri 1500. Hanno cominciato ad arrivare in queste terre nel 1950, quando la Cina ha invaso militarmente il Tibet. Per i tibetani in fuga il Ladakh ha rappresentato un luogo in cui stabilirsi naturalmente in virtù delle affinità ambientali, culturali e religiose con la loro terra d’origine. Del resto, il buddhismo si è diffuso in gran parte dell’Asia, incluso il Tibet, proprio attraverso le montagne del Ladakh.
Per i tibetani del Ladakh esiste, tuttavia, un problema di portata rilevante: sono e rimangono nello status di rifugiati. Il governo di Nuova Delhi, infatti, concede loro il permesso di soggiorno ma non la cittadinanza indiana, anche se sono nati qui. Sono, di conseguenza, apolidi.
Nella spianata di Choklamsar a Leh, quel giorno d’inizio agosto, i rifugiati tibetani erano migliaia, provenienti da tutta la regione. Vestiti con i loro abiti migliori, i bambini delle scuole schierati in prima fila davanti al padiglione sopraelevato con una tettoia color arancio e un grande chörten alle spalle, gli adulti con il volto scavato dalla natura implacabile degli altipiani e la pelle dagli stessi colori delle rocce delle montagne, tutti erano seduti in silenzio e concentrazione, in attesa di veder comparire il “Piccolo Padre”, il Dalai Lama. Le misure di sicurezza erano severissime: bisognava lasciare all’ingresso non solo borse e zaini, ma anche i telefoni cellulari; erano ammessi gli apparecchi
fotografici, ma soltanto dopo un’accurata ispezione.
A destra del palco c’era un posto speciale, riservato ai malati e agli anziani, i primi che avrebbero potuto salutare il Dalai Lama. Su suggerimento della mia guida ladaka, un giovane studente nipote di un lama, mi sedetti dietro gli anziani, ad alcuni metri di distanza. Era un punto d’osservazione davvero eccezionale. Qualche minuto dopo, un piccolo gruppo di turisti chiese di potersi sedere accanto a noi. Venivano dalla Germania. arono pochi istanti e la folla fu come percorsa da un brivido, il respiro di tutti sembrò fermarsi e rimanere sospeso nell’aria: finalmente era arrivato, il Dalai Lama era lì. Scese dall’auto accompagnato dalle guardie del corpo, cominciò a camminare a o spedito su un lungo tappeto rosso fra due ali di rappresentanti dei monasteri, poi si fermò davanti agli anziani e ai malati, li benedisse e parlò loro con la soavità, la determinazione e l’arguzia che lo contraddistinguono. Lo contemplavano commossi, catturati dalla forza magnetica che emanava dalla sua persona.
Li guardai attentamente, pensando che per molti di loro quella sarebbe stata l’ultima volta in cui avrebbero potuto vederlo, ascoltarlo e pregare con lui.
Quando il Dalai Lama si avviò verso il palco, noi occidentali, che ci eravamo tenuti in disparte per non disturbare i tibetani in quel prezioso momento, ci alzammo e ci avvicinammo un poco. Udendo i nostri i, alcuni di loro si voltarono e ci sorrisero. Fra loro c’era una donna minuta, molto anziana, con la schiena curva, un abito scuro, pesante e consunto, chiuso da una serie di bottoni e da una fusciacca di lana colorata, avvolta intorno alla vita. Due esili trecce di capelli bianchi le scendevano ai lati del volto, sul quale scorrevano lacrime di commozione. Guardando le sue mani anchilosate, mi accorsi che era affetta da una terribile forma di artrite deformante. Una giovane donna del gruppo di viaggiatori tedeschi, colpita dall’immagine della vecchia tibetana, le porse una banconota da cinquanta euro. La tibetana guardò con stupore la banconota, sorrise, ma non la prese; aprì invece i primi due bottoni dell’abito, si sfilò una collana di turchese e corallo e la porse alla donna. Ci fu un momento di attonito stupore. Per fortuna intervenne la guida a spiegare il significato di quel gesto.
L’essersi tolta la collana per donarla alla giovane non significava offrirle un oggetto per compensare in qualche modo il valore della banconota. La vecchia tibetana, disse la guida, era una contadina che veniva da una valle remota e non conosceva la valuta occidentale, né sarebbe mai riuscita a convertirla in moneta locale. Per lei quel denaro non aveva alcuna importanza. Importanti, invece, erano stati il pensiero e l’attenzione che la giovane turista aveva mostrato nei suoi riguardi. Per questo la voleva ringraziare, donandole la cosa più preziosa che possedeva: la collana di corallo e turchese. Quella collana era il suo tesoro. In Tibet e in Ladakh, infatti, le collane di turchese, che simboleggia la presenza divina, e di corallo, che è considerato un potente talismano, si tramandano di generazione in generazione, ed è motivo di orgoglio riuscire ad aggiungere anche un solo grano alla collana. La guida spiegò quindi con dolcezza alla vecchia tibetana che poteva serbare per sé la collana e che il suo gesto era stato compreso e apprezzato da tutti.
Commossi e incantati da quanto avevamo appena vissuto, ci sedemmo intorno alla donna, che continuava a sorriderci con le deformi mani giunte nel gesto della preghiera di ringraziamento.
Nel frattempo, il Dalai Lama era salito sul palco e aveva iniziato il suo discorso, che riguardava il tema della malattia e della sofferenza. Le sue parole s’impressero indelebilmente nella mia mente e nel mio cuore:
Solo comprendendo la sofferenza potremo generare la determinazione di uscire dal ciclo delle reincarnazioni.
Il nostro deve essere un cammino verso la felicità, non una mera sopportazione della sofferenza.
Buddha ha insegnato la legge della causalità, in base alla quale, anche se si è
ammalati, occorre rendersi conto che la malattia è un effetto del karma; in questo modo accetteremo la nostra condizione di malattia. Inoltre, ci applicheremo per non deteriorare la nostra mente e per conseguire la pace mentale, altrimenti sprofonderemo nella sofferenza. Ricordate ciò che dice il “Sutra del Cuore”: Così è: è andato, andato oltre, andato completamente oltre e ha ottenuto l’illuminazione, stabilmente.
UNA STORIA STRAMPALATA di Teo Bo
LA VACANZA
Quando il mio coinquilino Pinuccio mi comunicò che sarebbe partito per una vacanza “particolare”, pensai all’invito di un parente, o di un amico, ma l’ipotesi fu subito cancellata dal suo sorriso sornione; godeva nel vedermi abbarbicato sulle spine della curiosità.
«Poi ti spiego… ti racconterò tutto...» Il racconto di Pinuccio non l’ho mai sentito, per l’ostinata reticenza dell’infame. Solo particolari evasivi e scontati, nulla che rivelasse tracce di un luogo, di persone o fatti per appagare la mia curiosità. Ogni tanto sbottavo: «Pinuccio, si può sapere cosa bolle nel pentolino?»
«Ci sarà tempo Teo, ci sarà tempo. Appena sarò tornato ci faremo una prosciutto e funghi da Gennaro, offro io.»
Le sue battute mi facevano sorridere ma i miei pensieri vagavano altrove, mentre il giorno della partenza si avvicinava. Altro che pizza, il veleno ti faccio ingoiare se non mi racconti per filo e per segno dove vai, cosa fai e con chi lo fai. Dillo! È un’amante trasgressiva a caccia di un’emozione forte? Oppure si tratta di un “lui”? Un vizietto che nascondi anche al tuo amico Teo?
Giurai a me stesso che l’avrei scoperto a costo di inseguirlo sino alle foci dell’Orinoco, sino alle vette del Kathmandu. Dovevo solo inventare una scusa credibile per assentarmi dal lavoro.
Chiamai subito: «Sì signor direttore, non potrò venire in ufficio per qualche giorno… Papà lavorando in giardino è scivolato e ha sbattuto la fronte contro Pisolo. La botta rimediata atterrando sul nanetto di terracotta gli ha provocato una parziale interruzione dell’attività motoria. Come dice? Sì, è ricoverato al reparto di terapia intensiva e ha bisogno di assistenza continua. La mamma, purtroppo, non c’è più e quindi devo correre a fare il mio dovere. Sì, mi farò sentire io non appena starà meglio.»
IL PEDINAMENTO
È il 31 Marzo. Alle sette in punto Pinuccio è pronto per abbandonare l’appartamento. Indossa un impermeabile tinta ghiaccio sopravvissuto a se stesso, solleva una valigia antidiluviana e apre la porta per andarsene. Mi saluta con un sorriso beffardo e l’immancabile promessa, che ormai mi procura il mal di pancia: «Appena torno ci facciamo una prosciutto e funghi, da Gennaro.»
Elargisco un sorriso di Giuda e fingo di rimanere a poltrire nel mio letto ancora per un po’.
Pinuccio chiude la porta a doppia mandata. Sento l’ascensore salire sino al quarto piano e i battenti che si aprono automaticamente. Un attimo di silenzio, il tonfo sordo dei piedi sulla base della cabina mi rassicura, poi il monotono ronzio accompagna la discesa verso l’androne del palazzo. È il momento. Indosso jeans, felpa, scarpe e spolverino. Nelle tasche sono pronti un paio di Ray-Ban scuri, recuperati allo scopo, e una copia del Manifesto con tanto di foro centrale.
Aspetto Pinuccio fuori dal bar Birillo dove, ogni mattina, consuma un cappuccino chiaro accompagnato da un bombolone alla crema. L’attesa è breve: solo quattro minuti. L’uomo del mistero esce e io, defilato tra i anti, lo seguo cauto per non farmi scoprire. La sagoma di Pinuccio è inconfondibile. Scende gli
scalini della metropolitana, accede al binario direzione Gessate e aspetta il convoglio. Quando le carrozze si dispongono lungo la banchina sale sulla vettura di coda. Lo spolverino, il giornale, gli occhiali e la folla mi rendono invisibile; percepisco il tasso di adrenalina schizzare alle stelle e la salivazione quasi azzerata, sono eccitato come un topolino nella fabbrica del gruviera. Alla stazione di Cernusco la sagoma scende e guadagna l’uscita; me ne sto a debita distanza e la pedino lungo il percorso che porta all’ospedale. Mi assale il dubbio che Pinuccio sia qui per l’estrazione di una verruca, o per un semplice controllino alla prostata. Si dirige con noncuranza verso il pronto soccorso, poi vira a destra verso un pertugio appena visibile, scavato nella parete. L’inseguimento diventa più complicato; ho poca copertura e devo sperare che l’uomo del mistero prosegua senza voltarsi. Il rischio di essere scoperto è alto, tra me e lui soltanto l’aria. Il cuore è un tamburo battente, lo ignoro. Dentro il pertugio roccioso la penombra mi fornisce una preziosa protezione. Non devo fare alcun rumore, non devo respirare, non devo praticamente esistere, pena il fallimento dell’operazione. Sento fortissimamente che ci siamo.
Davanti a me pende dal soffitto una forma di pietra ovoidale, avvolta in una catena arrugginita; la riconosco come simbolo di fertilità, raffigura un uovo di struzzo. La catena penzolante e la penombra evocano cattivi presagi. Che luogo è mai questo? E in quale maledetto guaio mi sono cacciato? Ho paura, ma ormai non posso indietreggiare di un solo millimetro. Pinuccio s’infila nel cunicolo e continuo a seguirlo. E se fosse un feroce assassino e io la sua prossima vittima? Le lingue di luce che filtrano dalle feritoie sulle pareti laterali creano un ambiente surreale. Il pulviscolo sembra polvere di stelle che galleggia nell’aria stagnante. Alla mia sinistra scorgo un altarino esoterico basso e roccioso. Quante vittime vi avranno versato il loro sangue immolate dai loro aguzzini? Prego per me stesso. Altri dieci i all’inseguimento di Pinuccio e mi ritrovo in una sala ottagonale. Quattro finestre sono collocate in corrispondenza dei quattro punti cardinali ma solo due sono reali, le altre sono disegnate ad arte. L’ottagono è un simbolo massone. Il numero otto, ruotato di novanta gradi, diventa il simbolo dell’infinito. Dio mio, che mi sta succedendo? E Pinuccio?
Scomparso senza lasciare traccia, come risucchiato dal cono di luce al centro dell’ottagono.
IL NONNO
«Teo!»
La voce del nonno Ruggero, scomparso da tanti anni, mi fece sobbalzare provocandomi uno spavento terrificante. Mi sentii mancare, poi pensai a quanto mi aveva voluto bene nonno Ruggero, e il ricordo mi tranquillizzò.
«Scusa nonno ma, con tutto il rispetto, ho partecipato al tuo funerale: chi c’era dunque nella cassa, l’abate Faria?»
«C’ero io! Vi vedevo ma non potevo parlare, dirvi che, tutto sommato, la morte non è così brutta come si crede. Niente acciacchi, niente orari, niente mutuo da pagare. Se solo potessi giocare a tressette!»
«Col morto o senza?»
Il nonno rise, ma risoluto mi parlò senza tergiversare: «Senti Teo, ho poco tempo e devo dirti solo una cosa di vitale importanza.»
«Sì nonno, ti ascolto, ma prima dimmi come hai fatto, senza nemmeno una seduta spiritica, ad arrivare sin qui.»
«Mi ha aiutato l’angelo Pinuccio. È stato lui a portarti in questo luogo. A me è stato concesso di vagare tra la terra e il cielo solo per pochi minuti. Adesso ascoltami perché tra un attimo non ci sarò più. Che giorno è oggi?»
«Oh nonno... credo il 31 Marzo…»
«Allora c’è poco tempo. Tre giorni.»
«Per fare che?»
«Devo tornare da dove sono venuto. Il cono di luce che mi ospita è ormai in dissolvenza. Tu comunque presentati alla Banca Nazionale del Lavoro di Milano, al 158 di viale Monza, entro tre giorni da oggi. E non dimenticare un documento d’identità. Chiedi del contratto ventotto barra cinquanta, stipulato a mio nome nel ‘75… e cambiati il soprabito, che mi sembra uscito dal culo di una gallina!»
«Ma nonno… non ti hanno insegnato niente in Paradiso?»
«No. Anzi sì! Che lo zafferano corre più del giaguaro e l’oro tre volte di più.»
Avrei decifrato quella risposta criptica molto prima di quanto potessi immaginare.
Mi ritrovai solo. Chi dunque si celava sotto le spoglie di Pinuccio? Ero in preda
ad allucinazioni da amanita falloide, spacciata per uova al tegamino dal mio coinquilino? Oppure costui era davvero un angelo, d’accordo con il nonno per giocarmi questo tiro mancino? E che voleva da me la Banca Nazionale del Lavoro?
Avevo in tasca la carta d’identità stropicciata più dello spolverino; meno male che il nonno non l’aveva vista. La fotografia sbiadita mostrava un Teo assai più giovane, ma comunque il documento era valido a tutti gli effetti. Decisi di fare una eggiata... e mi ritrovai, casualmente, in viale Monza.
IN BANCA
La banca stava lì, a guardarmi con aria superba. Raccolsi tutto il coraggio e varcai la soglia, seguito a vista da un poliziotto panzone, una versione più brutta e grassa di Bud Spencer. Arrivai allo sportello.
«Buon giorno, desidera?»
La mia interlocutrice indossava una camicetta blu, dal taschino penzolava un badge con il suo nome: Lisa. Lisa Sensi.
«Mi chiamo Teo Bo. Sono qui per il contratto ventotto-barra-cinquanta, stipulato nel ‘75 da mio nonno Ruggero De sco.»
Lisa prese a maltrattare la tastiera del pc di ordinanza, sollevò la testa un paio di volte con aria inespressiva e si schiarì la voce.
Fui colto da cattivi presagi. Già percepivo la 44 Magnum di Bud Spencer premere contro le mie costole. Immaginavo il poliziotto pronto a ridurmi in frattaglie.
Lei finalmente sorrise: «Può mostrarmi un documento?»
Consegnai la carta d’identità, ero già cotto a puntino dopo il minuto e mezzo di convivenza burocratica con la tipa. Spettacolare. Capelli biondi, mossi, naturali. Occhi grandi come finestre e labbra carnose come quelle di Julia Roberts in Pretty Woman.
«Mi segua, prego.»
“Anche in capo al mondo”. Questo non lo dissi ma lo pensai.
Il direttore, dottor Piluso, mi fece accomodare e mi sorrise come a un vecchio amico. L’imbarazzo colorò le mie guance di un rosso cardinale. Lisa mi chiese se desideravo un caffè, poi scomparve per riapparire in un baleno con palette, zucchero e bicchierini. Chinandosi per posarli sulla scrivania mi sfiorò il viso con il corpo; da rosso cardinale le mie guance virarono al bordò. La sensazione di disagio cresceva a dismisura, in mezzo a pupe, banchieri e poliziotti.
«Dunque signor Bo, riepilogo brevemente il contenuto della stipula, che lei conoscerà assai meglio del sottoscritto...»
Venni così a sapere che nel 1960 il nonno aveva giocato tre numeri sulla ruota di Bari centrando un terno secco. Investì tutta la vincita, venti milioni di lire in lingotti d’oro, depositandola presso la sopraccitata banca. Maddalena, sua figlia e unica erede, mi partorì il 22 agosto 1975. Interpretò come un inequivocabile segno del destino la corrispondenza perfetta tra la mia data di nascita e i numeri giocati dal nonno: ventidue, otto e settantacinque. Decise così di destinare al figlio il tesoretto; me ne avrebbe parlato a tempo debito, ma la sorte decise altrimenti. La scomparsa prematura della mamma non mi permise di ereditare alcuna informazione. Mio padre era all’oscuro di tutto. Il destino non aveva incaricato nessuno di aiutarmi a entrare in possesso dell’eredità. Il nonno, d’accordo con l’angelo Pinuccio, aveva tentato di salvare capra e cavoli in extremis, perché il contratto era valido sino al 3 aprile 2012; mancavano solo tre giorni.
Piluso digitò un numero al telefono e sussurrò poche parole. Quasi subito comparve Lisa con una bottiglia di acqua frizzante e due bicchieri di carta, sorrise e uscì dalla stanza.
Poi il direttore mi chiese: «Allora Teo, cosa pensa di fare con la somma ereditata?»
Risposi che venti milioni di lire, cioè diecimila euro, potevano assicurare un buon corso di studi a Paulo Roberto; l’avevo adottato a distanza e desideravo la sua felicità. Un contributo a Don Gallo era scontato, per l’attività di sostegno alle ragazze madri. Con la rimanenza avrei acquistato una bicicletta: la Bianchi Campagnolo a sedici rapporti.
Poi, con la potenza di uno tsunami, arrivò la seconda domanda:
«E dell’altro milione di euro che ne facciamo? Le propongo un investimento in
obbligazioni BNL, tasso variabile e scadenza ottobre 2024, rendono molto bene.»
Sbigottito lo guardavo con l’aria del branzino appena preso all’amo.
«Scusi dottor Piluso, mi faccia capire. Di che stiamo parlando? L’eredità non equivale a una somma di 10.000 euro?»
«No, signor Teo. I lingotti valevano 20 milioni di lire nel 1960, quando l’oro costava 835 lire al grammo. Adesso un grammo vale più di 40 euro. A conti fatti la somma iniziale si è moltiplicata centoventi volte e ora ammonta a oltre un milione di euro; nemmeno lo zafferano si è rivalutato così.»
«E quanto costa lo zafferano, dottor Piluso?»
«Una sciocchezza. Quello di Navelli circa 12.000 euro al chilo, comunque un prezzo tre volte inferiore a quello dell’oro.»
Suonato come un violino dopo il concerto, vagavo inebetito tra viale Monza e piazzale Loreto. Camminai ancora per un pezzo spingendomi a ridosso del centro, sino a raggiungere il numero quattordici di via Santa Radegonda. Avevo voglia di piangere, poi di ridere, poi ancora di piangere. Affamato cercai un luogo per placare i morsi dello stomaco. Un cameriere di nome Alfredo mi accolse con simpatia e mi fece accomodare al tavolo, optai per una prosciutto e funghi. Al termine chiesi il conto, ma Alfredo mi sorrise e rispose che era già stato pagato. Uscii di nuovo all’aria aperta senza capire chi e perché mi volesse così bene. Alzai gli occhi al cielo incrociando con lo sguardo l’insegna della pizzeria “Da Gennaro”.
Sorrisi. L’angelo Pinuccio aveva mantenuto la sua promessa.
LAGGIÙ SCORREVA IL FIUME di Antonella Mattei (Keiko)
Se comprendere è impossibile,
conoscere è necessario.
(Primo Levi)
Dicembre 1945
La notte era gelida. Sentivo la neve, caduta fino a poco prima, scricchiolare sotto le suole sfondate dei vecchi scarponi senza lacci, di tre misure più grandi dei miei piedi nudi. La terra era fredda, molto fredda; il braccio che percepivo sotto la schiena non serviva a riscaldarmi e neanche gli altri arti, schiene, pance o facce che mi circondavano. Non era poi così strano; erano tutti morti, tutti quanti. Mi ero ritrovato, senza sapere bene come, nel cumulo dei morti, quelli che al mattino successivo sarebbero andati ai forni. Ero stanco, stremato dalla fatica di una giornata nei boschi ricoperti di ghiaccio intorno al campo; la legna da raccogliere pesava moltissimo e dentro quella divisa a righe, ruvida e leggera, il freddo vento del nord mi spezzava il respiro in gola. Al rientro, in fila mentre i soldati con i K98 ci tenevano sotto tiro, avevo iniziato a vedere tutto nero e cercato istintivamente di appoggiarmi al mio vicino; un violento calcio alla schiena mi aveva scosso come una tempesta, avevo fatto ancora qualche o poi mi ero accasciato sul suolo gelato. Avevano provato a scuotermi a forza di calci all’addome ma proprio non ce la facevo a muovermi, neanche a proteggermi; così ero rimasto lì, inerme, mentre cominciavano a cadere i primi fiocchi di neve. Devono avermi creduto morto, d’altra parte era difficile pensare che io fossi vivo. Parlavo, lavoravo, mangiavo ogni tanto, piangevo, ma questo non bastava, non era vita. Mi trovavo in mezzo a un mucchio di cadaveri scheletrici che l’indomani sarebbero stati bruciati per scomparire per sempre; mi rovinarono addosso, ogni tanto sentivo qualche movimento ma sapevo bene che erano tutti morti. Forse lo ero anch’io. Avrei mosso i muscoli se ancora ne avessi
avuti, ma non riuscivo a sbattere neanche le palpebre che, aperte, osservavano la notte avanzare. Era la prima volta da quando ero arrivato ad Auschwitz che potevo guardare la notte, e solo perché mi ritrovavo in un mucchio di cadaveri ammassati in mezzo alla neve. Strano, non mi sembrava possibile che in quel posto, così simile all’inferno, la luna potesse essere bella come quella di Roma quando il cielo è terso, quando inonda ogni vicolo con la sua luce e si rispecchia nel Tevere; ricordai che la intravedevo dalle finestre di casa mia, mentre il ponentino scuoteva leggero le chiome dei platani sul lungofiume. Provai a spostare lo sguardo oltre il filo spinato che ci circondava, i fari dei posti di guardia ritmicamente esploravano ogni metro del campo, non me ne preoccupai, rimasi immobile, sepolto dai morti, magari morto anch’io, sebbene respirassi ancora. Il lungo perimetro di filo spinato sotto la luce della luna giocava strani scherzi: le spine somigliavano alle svastiche che comparivano dappertutto. Chiusi gli occhi un attimo e quando li riaprii erano diventate le folgori delle mostrine sulle divise dei nazisti, per poi trasformarsi in una croce che risplendeva nella notte. Il cielo era colmo di astri splendenti, la luna piena, solo leggere velature bianche fileggiavano veloci, trasportate dal vento gelido lontano da quei tragici confini di morte.
Sentii dei i avvicinarsi nella neve; una persona sola, un soldato di ronda che mi sovrastava con la sua altezza: io steso per terra inerme, indifeso, vulnerabile e lui dritto, forte, alto, sprezzante; teneva una sigaretta accesa tra le labbra e guardava il mucchio di cadaveri come fosse immondizia che gli ostacolava il cammino. Aspirava il fumo e lo rilasciava lentamente dal naso; scrutando verso la pira di corpi incontrò i miei occhi aperti nel buio che lo fissavano, piegò leggermente la testa di lato e mi sferrò un violentissimo calcio sopra il femore. Non emisi alcun suono, non avrei potuto neanche volendo, continuai a fissarlo, perché non avevo la forza di chiudere gli occhi. Il colpo aveva provocato una leggera slavina di cadaveri e qualcuno era rotolato più giù scompostamente; il soldato, già annoiato del gioco, buttò la sigaretta accesa su quello che era stato un uomo, proprio di fianco a me e si allontanò. Vidi la piccola brace rossa ardere un po’ e bruciacchiare la pelle del mio compagno, poi lentamente si spense, lasciandogli un altro marchio sulla pelle. Tornai a guardare oltre il filo spinato, la luna e le stelle illuminavano un fitto bosco, c’era del movimento sotto un robusto pino: forse una volpe che inseguiva degli scoiattoli. Allora esisteva la vita fuori dal campo? E perché? Com’era possibile che migliaia di noi venissero lentamente disintegrati mentre il sole continuava a sorgere, gli alberi a produrre
foglie e le volpi a cacciare al chiarore della luna?
Rimasi buttato nel mucchio. I miei compagni, ormai al di là dell’incubo, mi proteggevano un poco dal gelo ed ero così simile a loro da are inosservato. Sapevo già dove sarei stato il mattino dopo, lo sapevamo tutti dal momento in cui mettevamo piede lì dentro, ma non mi interessava, non avevo paura, non poteva essere più doloroso di tutto quello che già avevo vissuto; mi avrebbero messo in un forno e io sarei volato via come cenere sopra i boschi e oltre quel filo spinato. Il mio respiro era lievissimo, il battito del mio cuore quasi impercettibile; trattenni con cura quei pochi momenti per me. Avevo ormai diciannove anni, non sapevo se già compiuti, il tempo dentro quei confini era un concetto difficile da elaborare. Solo il sorgere del sole e l’ineluttabile inizio del lungo e massacrante turno di lavoro segnavano il suo trascorrere. Sapevo con certezza che era ato da pochi giorni Natale perché i tedeschi avevano festeggiato con cibo in abbondanza e musiche natalizie suonate dall’orchestrina dei detenuti; per noi ebrei non era festa e comunque non ci sfiorava nemmeno il pensiero nelle nostre condizioni.
Roma - ottobre 1943
Avevo diciassette anni ed era ottobre, una bellissima giornata tipica delle ottobrate romane, era il 16 ottobre del 1943, come dimenticarlo. Io e il mio inseparabile amico Piero eravamo usciti dal ghetto per andare sul lungotevere a guardare gli innamorati che filavano. Eravamo una strana coppia. Piero alto e possente, pugile dilettante, biondo e spaccone, dimostrava molto più dei suoi diciassette anni. Io ero piccolo, esile, sempre un po’ malaticcio, con i capelli neri eternamente spettinati, timido e riservato, forte solo della forza di Piero. Eravamo usciti stretti nelle nostre giacchette con la stella gialla cucita sul petto e ci sporgevamo dal parapetto del fiume, mentre dalle chiome dei grandi platani scossi dal vento cadevano le foglie rosse e gialle d’autunno; qualcuna finiva nell’acqua e galleggiava leggera lasciandosi trasportare dalla corrente. Quindi Piero scovava la coppietta giusta e prendevamo la mira per sputar loro in testa; come ridevamo poi, correndo a perdifiato per evitare di prenderle dal ragazzotto
di turno. Quel giorno, mentre tornavamo al ghetto sghignazzando felici delle nostre stupide prodezze, c’era un gran movimento di camion e soldati che ci mise in allarme, ma quello che ci raggelò fu lo sguardo di un bambino di circa otto anni che fissava, attonito e terrorizzato, gruppi di soldati tedeschi trascinare via dalle loro vite centinaia di persone. Quegli occhi, quello sguardo ingenuo, costretto a confrontarsi con una violenza indicibile e incapace di comprenderne l’orrore, ci spaventò ancora di più. Poi Piero vide la sua mamma trascinata per i capelli e corse urlando verso di lei, per strapparla da quella presa; ottenne solo di essere catturato a sua volta e, appena individuato, fui caricato anch’io su un altro camion senza poter rivedere la mia famiglia e Piero.
L’aurora incedeva imperterrita, il cielo s’incendiava di rosa e poi schiariva; ero quasi congelato, le labbra ritratte contro le gengive vuote, gli occhi sbarrati e immobili osservavano, ormai senza interesse, il campo che cominciava ad animarsi. Avvertii un suono conosciuto, le ruote del carretto trascinato dai deportati sul terreno sconnesso e in parte innevato. I prigionieri addetti al macabro compito erano due, come i soldati che li scortavano; si fermarono davanti al cumulo su cui giacevo e, incalzati dagli ordini perentori, iniziarono a caricarci. Gli schiocchi delle ossa facevano rabbrividire, venivamo presi per le braccia e per le gambe e sbattuti sul legno ruvido del carretto; i soldati ridevano tra di loro e i prigionieri, ormai abituati all’ordinario orrore, non ci facevano più caso. Qualcuno di quei corpi era talmente magro che capitava che un arto restasse in mano ai deportati per venire poi gettato lontano dal suo proprietario. Era arrivato il mio turno, mi stavano caricando, ero così leggero che quasi volai atterrando sul fianco sopra un tavellone irto di chiodi; subito dopo mi caddero addosso a decine i miei compagni, ma riuscivo ancora a respirare. Qualche centinaio di metri su quel trabiccolo e arrivammo alla destinazione finale. Il fumo che vedevamo sempre da lontano era più denso e pesante, la neve ovattava ogni rumore tranne gli ordini sferzanti come frustate; venimmo scaricati attraverso uno scivolo e ci ritrovammo di nuovo ammucchiati e aggrovigliati come la notte prima. Era un locale grande di cemento grigio. Un ufficiale, seduto dietro una scrivania, era intento a compilare registri mentre non perdeva d’occhio il lavoro ai forni: erano quattro e lavoravano a pieno regime; ne vidi uno aperto con la grande bocca incandescente che divorava quello che un tempo era stato un uomo. Altri prigionieri ci spogliarono per recuperare quegli stracci e togliere occhiali e denti d’oro a chi ancora li aveva. Erano gli uomini del Sonderkommando, forzati costretti a quel lavoro infame; vivevano esiliati,
lontani da tutti, sparivano in fretta senza lasciare traccia, nulla di quello che succedeva doveva trapelare all’esterno. Erano veloci ed esperti nel loro lavoro, ci spogliavano, ci aprivano la bocca, riferivano il numero tatuato sulla nostra pelle all’ufficiale, che lo registrava diligente, poi ci buttavano nel forno. Tutto qua.
Ecco, mi hanno preso, mi scaraventano su un tavolo di metallo, mi aprono la bocca ma non c’è nessun dente, l’addetto al forno alza gli occhi solo un attimo dopo aver letto il mio numero tatuato e mi guarda. Gli occhi vuoti di chi ha visto l’inferno senza poterne più uscire si dilatano e la bocca si apre in un grido muto, una mano a sui miei occhi che restano aperti. Si è accorto che sono ancora vivo e io, nella mia fluttuante coscienza, ho capito chi è: Piero, è lì da due anni a bruciare la nostra gente, così forte, così duro, la mia roccia da sempre. Una lenta lacrima solca le guance rosse di calore ma il lavoro non può rallentare; l’ufficiale ha già alzato la testa dai suoi registri. Piero mi stringe la mano così forte che forse mi rompe un dito, ma non importa, è calda, è la mano della vita. Attraverso la sua pelle calda e ruvida sento lo sgomento e la gioia di esserci ritrovati. Lo vedo avvicinarsi all’ufficiale e parlare sottovoce; quello si alza portando una mano alla fondina, interviene pronto un altro del Sonderkommando, tiene in mano un sacchetto aperto per mostrarlo al tedesco che nicchia, non convinto. Piero si allontana un attimo sparendo alla mia vista mentre gli altri continuano a parlottare, ritorna dopo qualche minuto con un involto piccolissimo racchiuso in un fazzoletto che sembra ottenere l’effetto sperato. L’ufficiale intasca tutto, si risiede alla scrivania, scribacchia qualcosa, poi in tedesco gli sento dire: «Poveri imbecilli.»
Credo che quell’ufficiale avesse proprio ragione, gli devono essere sembrati davvero imbecilli quegli uomini che hanno dato via quattro molari d’oro e un piccolo diamante per ricomprare una specie di morto vivente. Piero tornò da me, mentre un suo collega lo sostituiva, mi raccolse tra le braccia immense come fossi un bambino, lui ormai era diventato un uomo duro e spigoloso ed io quel che resta di un ragazzo. Mi rivestì in fretta con un’altra divisa un po’ meno pidocchiosa, restituendomi un minimo di dignità. Mi sussurrava nelle orecchie le parole della Torah, che potevano costargli la vita all’istante, e continuava poi con il nostro dialetto romanesco mentre il viso riarso si rigava di lacrime. L’ufficiale
lasciò il suo posto per pochi minuti, per evitare di essere coinvolto, e ordinò di sbrigarsi a sistemarmi. Piero mi aveva portato un cappotto forato da numerosi colpi e macchiato di sangue, ma teneva caldo e tanto bastava; lo sentivo discutere con i suoi compagni su dove mettermi, poi ritornò, mi prese sotto le ascelle e mi portò dietro un angolo. C’era una casupola di legno mezza marcia, quasi un recinto, doveva essere la cuccia di uno dei pastori tedeschi che ci azzannavano come fossimo prede; era grande in confronto al tavolaccio sul quale dormivo da due anni dividendolo con decine di dannati come me, sembrava quasi una casa. Piero portò dentro una coperta lercia e mi sistemò lì, mi offrì persino una scatoletta di carne e pensai fosse quanto di più simile alla vita. I forni lavoravano incessanti, tutta la notte, gli addetti facevano turni di otto ore, non sapevano che ero nascosto nella vecchia cuccia e forse neanche gli ufficiali che subentrarono, non credo che quello della mattina avesse diviso la sua ricchezza insperata. Stavo raggomitolato e occupavo poco posto con i miei trenta chili, le cimici mi devastavano la carne, ma mi sembrava tutto così bello: ero al riparo, coperto, mangiavo qualcosa e poi c’era Piero. In piena notte, in un dormiveglia stremato e febbricitante, sentii il tocco di una mano sulle mie, aprii gli occhi e incontrai i suoi: «Fratello, siamo quasi tutti morti, eravamo più di 2000 quel giorno vicino al Tevere e ora siamo rimasti forse in dieci. Tieni duro Bruno, i tempi stanno cambiando, abbiamo saputo che i Russi sono vicini, allora saremo liberi e questi maledetti bastardi avranno quello che si meritano. Stringi i denti, fallo per me. Torneremo sul lungotevere e sentiremo il ponentino spettinarci i capelli e sarà di nuovo bello come una volta.»
Che strano, ero uno scheletro che respirava nascosto in un riparo per cani, strappato a carissimo prezzo alla morte, eppure la voglia di continuare a vivere mi tornava solo guardando gli occhi di Piero, ascoltando la sua voce, così speranzosa nella liberazione, che mi parlava in romanesco della mia casa e della finestra da cui vedevamo il fiume scorrere leggero e luccicare dorato nel sole.
Non riuscii a rispondere, lo sfinimento mi prese e mi addormentai, o forse svenni sulla lurida coperta nella cuccia fradicia.
I giorni avano veloci nel mio nascondiglio, dovevo rimanere invisibile. Piero veniva ogni volta che poteva e mi portava sempre qualcosa da mangiare, era diventato ansioso; i tedeschi erano in agitazione, c’era uno scompiglio impensabile nel rigido regolamento del campo. Dal mio recinto in fondo al camerone non vedevo quasi nulla, tranne quello che trapelava da una piccola feritoia in alto, mi allungai più che potei e vidi un gran caos. Piero mi abbracciava sempre più spesso e mi diceva di sperare, qualche volta sorrideva. Poi per due giorni e due notti i forni tacquero, i cadaveri non arrivavano più, degli ufficiali non c’era più traccia, gli uomini del SonderKommando entravano e uscivano veloci; qualcuno si tolse la divisa che lo identificava per indossarne una di quelle che giacevano nel mucchio di chi dai forni era già ato. Piero non si vedeva, non sapevo cosa stesse succedendo, avevo paura di uscire perché potevo provocare l’uccisione di quelli che mi avevano salvato. L’ultima notte scese silenziosa come le altre, il portone di ferro restò stranamente aperto, dalla piccola finestra vedevo solo cadaveri ambulanti girovagare senza meta e cumuli di scheletri. Dov’era Piero?
Gennaio 1945
All’alba mi strinsi nel cappotto intriso di sangue rappreso, era il 27 Gennaio del 1945 e il freddo era insopportabile, mi rannicchiai nel punto in cui il primo raggio di sole sarebbe venuto a scaldarmi e chiusi gli occhi, forse mi addormentai. Dietro le palpebre un’ombra oscurò il sole, aprii gli occhi: un ragazzo, non ancora uomo, armato di un fucile grosso quasi come me mi guardava stupito, un altro dietro di lui perlustrava il locale, poi lo sentii vomitare. Erano soldati, i russi che Piero stava tanto aspettando, il più giovane mi stava parlando ma non lo capivo, mi accompagnò fuori sostenendomi, il sole mi accecava, vedevo altri morti viventi come me guardarsi increduli. Alcuni, tra i soldati russi, non riuscirono a trattenere le lacrime. Un rumore di spari mi fece sussultare; i nazisti, addossati a un muro, venivano fucilati. Una visione quasi onirica catturò la mia attenzione: un soldato a cavallo avanzava montando una bestia nera che sembrava enorme, la lunga criniera scura scendeva folta oltre il collo, i possenti muscoli fremevano sotto il mantello lucido, i garretti sprofondati nella neve, dense nuvole di vapore uscivano dalla bocca e dalle narici e si cristallizzavano all’istante. Il cavallo sentiva l’odore della morte, con gli occhi
spalancati scalpitava ignorando i comandi e gli strattoni delle briglie; voleva scappare, come dargli torto, era intelligente e aveva percepito prima ancora degli uomini il dolore di cui era pervasa l’aria. Cercai Piero in ogni uomo, in ogni forma che camminava ma non lo trovai; mi portarono in infermeria e mentre il campo si riempiva di russi qualcuno iniziò a curarmi; venni adagiato su un lettino e m’accasciai sfinito.
Mi dissero che avevo ripreso i sensi dopo tre giorni e nell’infermeria piena di miei simili non c’era Piero. Mi alzai trascinandomi verso una finestra, il caos imperversava, qualcuno formava una fila per ricevere del cibo, altri riposavano sdraiati al sole, troppo deboli per andarsene. Proprio davanti alla mia finestra decine di uomini stavano salendo su alcuni camion scoperti, strinsi gli occhi per guardare meglio: un ciuffo biondo, due spalle immense, occhi di ghiaccio che s’incollarono ai miei e ridevano: Piero! Seduto sulle panche del camion mi guardava estasiato e commosso, strinse forte un pugno e se l’appoggiò sul cuore, poi il camion partì, mentre il suo sguardo ridente e intenso mi fissava fin che poté.
Saremmo tornati a Roma, avremmo visto ancora, oltre la finestra, scorrere il fiume dorato e forse un giorno qualcuno si sarebbe ricordato di noi, della nostra immane tragedia, magari quel bambino che, pur senza stella sul petto, aveva vissuto il nostro orrore, giusto tra i giusti.
DISTOPIA ALCOLICA di Roberto Lapia
Sfidare il proprio corpo, seviziando gli organi interni fino a farli pisciare di disgusto, dichiarare guerra all’ordinarietà, alla ragione, al buon senso, alla memoria. Straziare fino all’esasperazione le papille gustative, eiaculando di prosternazione insipida. Vincere, perdere, tirare lo sciacquone del cesso senza guardare cosa ci sia dentro. «Iniziamo con una bionda piccola»: il giovedì è l’anticamera degli eccessi, è il demiurgo che reprime le scosse creative dell’ordine cosmico. È una pièce incompleta, distorta nei suoi gargarismi estenuanti. Nel segno della continuità ho proseguito con le zeroventi chiare, la gola aperta come un canyon incandescente, rivedevo Mosca che inghiottiva le sue genti in un abbraccio che non dava scampo. Quando la pinta arriva, eccoti nel girone degli immorali, il bicchiere si accomoda sotto la tenerezza ibrida dei palmi assiderati, il gomito riadatta le giunture alla nuova gravità, c’è più forza nei movimenti e meno resistenza. Al rock bisbetico preferisco il jazz militante, non da sempre. Il giovedì è rock, il venerdì è jazz, al sabato solitamente ci si concede un blues sbarazzino, tuttalpiù un funkettino melodico.
Ho dimenticato le chitarre distorte e gli amplificatori strombati, la concentrazione si fissa sugli affreschi collanti che decorano il bancone. «Hanno fatto i bicchieri col buco» blatera qualcuno sotto un sorriso deforme, sono ormai lontano dal riconoscere i volti spiritati in quella fiumana di parole cadenti. Digrigno un vaffanculo in bemolle, l’aggressività non fa parte del mio mestiere. A un certo punto un cambio repentino, di colori, di odori, di persone. Di bar. Tutto è terribilmente più brutto, qualche cretino di cui ricordo appena il cognome balla alla disperata, un’imprecazione giovanile ai limiti del patetismo più becero. «Il teletrasporto esiste, ma è stato tarato male» ho pensato in uno dei pochi pensieri rimasti. Ed è già venerdì, ed è già jazz, ed è già una colata di paracetamolo, «Un grammo? Non scherziamo, dammene almeno due o tre.»
I lavori in corso, c’è una parete che si muove, dentro la scatola cranica il silenzio è inquietante, afono. Strappare a morsi un panino imbottito di prosciutto cotto è il dazio da pagare, poi con un pizzico di soda andrà tutto a meraviglia. E allora, direttamente dal fortino casalingo, attacco con un’ambrata doppio malto: scolo perfetto, temperatura migliorabile. Il fusibile del frigorifero chiede pietà, il
frigorifero anche, il prossimo strumento che acquisterò sarà una tromba, oh mia dolce Valentine. «Eccoti i boccaletti, Djamel», riportare i bicchieri al baretto è l’orgoglio dell’avventore abituale, quello che a volte abbassa la saracinesca lasciando fuori gli sguardi grondanti d’invidia degli esclusi. Il bancone ha preso la forma del mio gomito, o viceversa, l’ergonomia di certi luoghi stona con la loro apparente cupezza.
Quanto è maledettamente poetico il pastis delle diciannove. «Giusto un paio e poi riiamo alla birra.» Questa storia che non bisogna mai scendere di gradazione è ridicola, Corbellerie direbbe il Vecchio; riprendere fiato con una serie da cinque di belghe d’abbazia riporta gli spiriti alla spensieratezza bollente della notte prima. «Sono tutte fighe qua dentro» abbaia un cane morto che non sa nemmeno cosa sia la bellezza, ma tutto fa brodo in momenti di recessione. Uno chansonnier se esala intossicazioni dotte dal disco rigato di polvere, il gatto nero soffia contro i clienti malvestiti: quale eleganza. A frequenze limitate mando giù un cicchetto di whisky affumicato, l’universo diventa mano a mano sempre più fluido.
«Mangiare? Mai! Bisogna saper conservare lo spazio per i liquidi», e poi la birra sfama. Quante insistenze, quante reprimende inutili, in Argentina annaffiano i fegati pulsanti con Fernet e cola, la rakija di Sarajevo odora tremendamente di carburante impoverito, l’irlandese di Cork brinda con uno Sheridan di infima qualità. I discorsi quatti s’infilano tra le maglie del suonatore traverso, il contrabbasso ruggisce sibillino e io ricordo che anni fa smisi di fumare per cause di forza maggiore. Adesso eccomi qua con un colpo di fortuna fra le dita a sopraffare bronchi e polmoni e a tossire come un motore ingolfato. È una mano sul culo a risvegliarmi dal torpore, mentre la sala è invasa di tabacco e spuma d’oriente, «No, non mi piacciono i maschi, tantomeno tu.»
Sorrido alla voce di velluto che guida i musicisti di jazz, vorrei farti l’amore nei sedili posteriori di una Maserati, chi va di Gin lemon e chi di vodka liscia, le variazioni del cielo si susseguono senza soluzione di continuità: dal petrolio profondo al blu sbiadito fino ad un turchese timido violato dalla cupidigia del
sole mattutino. Sul mobiletto degli alcolici danza la bottiglia di calvados, gitana incallita, un sorso alla cieca brucia di tutti i fuochi le lacrime di un’intera serata, e il paracetamolo. «Sai ancora di alcol, di vinaccia, di sporco»: il risveglio del sabato mattina è sempre la stessa litania. Una lavata di denti servirà solamente a dissimulare per qualche mezzora il carnaio di liquidi acidi che fermenta nella mia bile rivoltata.
«Sei stato con una, ammettilo!», non me la merito questa gogna paranoica, io che dell’astinenza da adulterio ne ho fatto un culto, io che bevo per dimenticarlo, io che berrò perché tanto avrò sete. Il cuscus richiama all’assembramento comete di spezie del Maghreb e specchi di verdure mediterranee, la semola si gonfia nei ventri prosperosi, ho la lingua che grida di harissa e la gola che arde di scorie di distillato captivo. Un rosso di Borgogna non basta, ci vuole qualcosa di più assolato, la ione irragionevole di un Corbières, un’orgia tannica pomeridiana mentre la strada pullula di vita, di noia e di prostitute sciatte come le facciate degli immobili che ci circondano.
La città vecchia piange la morte dell’arte contemporanea, un esercizio tutto sommato inutile, ne approfitto per tuffarmi in un sorso di Normandia, una rossa dolciastra che ricorda l’inusitato erotismo di un succo di mela torbido. «Non c’è niente di più psichedelico di un bar tabacchi vestito a festa», sono pensieri non filtrati, voci di corridoio, stronzate a bruciapelo. Mi accampo lungo il bancone in rame, il barista ricorda Saltatempo Benni, l’assidua scalda cazzi sembra una Juliette Greco versione marciapiede, il cantante è la copia identica di Ezra Pound mentre il batterista ricorda Perec modo d’uso. Non c’è nessuno che somigli a Leo Ferré, Calvino era il più se degli scrittori italiani e questa cervogia scialba è la più italica delle birre transalpine. Prima di affondare nel dedalo del gin e delle montagne russe etiliche parliamo di infrarealismo, «Lo sapevi che gli scrittori sudamericani devono continuamente confrontarsi con i loro classici viventi?»: amuleti, puttane assassine e detective selvaggi aggrediscono l’immaginario collettivo con colpevole ritardo, il colonnello non ha ancora trovato chi gli scriva. «Gabo oramai è impazzito definitivamente», il cileno mi guarda di sbieco, beve come un serbo trapiantato, lasciamo l’amore tatuato su una canzone.
«Ti senti più bello con quell’affare in testa?», ecco, quando mi prendono per un turista non capisco più niente, così riesumo demoni e riti magici per esortare l’imbecillità di un ubriaco a farsi da parte. Non c’è più confine fra rock, jazz, folk, funk o blues, tutto è un rumore monotono e confuso, cianfrusaglie di discorsi finiti riemergono dai fumi della toilette maleodorante, i bicchieri adesso si svuotano molto più lentamente di prima: «Hanno tappato i buchi!» Il rientro è un lungo incubo di frenate improvvise e derisione autoimmune. La porta si apre, a fatica, il letto abbraccia l’anima a brandelli, la puzza è sempre la stessa.
Se il giovedì è l’anticamera, il venerdì un limbo atroce, il sabato l’inferno esotico, ebbene, la domenica è un esilio. Da se stessi. Il caffè nero spezza la routine semantica, poi solo schiuma di birra scura mentre ventidue inglesi rudi e indisponenti si prendono a cazzotti in un rettangolo verde circondati da quarantamila stronzi urlanti. Nessuno ha mai visto la fine, nessuno ha mai pensato all’inizio di tutto ciò. È un Bordeaux a chiudere il cerchio stregato, per poi rimestarsi faticosamente in un sonno scosso da tachicardia cronica e incubi di terremoti devastatori.
Infine il lunedì, placido, asfissiante, monco. Il lunedì, una merda, una lordura. Tiro lo sciacquone e adesso vedo tutto quello che c’è all’interno del cesso: un corpo sconfitto, un’anima acre, il tremolio delle gambe molli e i battiti del cuore che sembra debbano strapparmi via il petto da un momento all’altro.
Perché vi racconto tutto questo?
Per non essere da meno.
LA SCOMMESSA di Catia Simone
Non era facile riposare sotto un cumulo di terra siciliana arida e brulla, interrotta qua e là da cactus e qualche ciuffo di rovo innaffiato dalle pisciate dei cani randagi.
Vivevamo – per modo di dire – le ore diurne protetti dal nemico sole, nelle due fosse scavate dai bastardi che avevano firmato la nostra condanna a morte. Certo, qualche mese prima riposavamo in ben altri siti e il sole coloriva la nostra pelle. Vivevamo in una villetta sul mare alla periferia di Palermo in condivisione con altri due colleghi, uno albanese e l’altro polacco, e due puttane brasiliane alle quali concedevamo vitto e alloggio solo nel week end. Insomma, una specie di sub-affitto remunerato in natura che permetteva alle nostre ospiti una base di rientro mattutina, dopo averla data il venerdì e il sabato notte ai clienti che percorrevano la vicina statale, e a noi di avere una regolare vita sessuale degna di coppie sposate da anni. Rispetto agli altri io ero il più tradizionalista. Preferivo Consuelo a Dolores, e scopavo solamente nella mia camera, dopo aver chiuso a chiave la porta. Lei si faceva trovare coperta solo dal lenzuolo, e fresca di doccia. Intuire che, sotto quel velo di cotone importato, c’era una donna pronta per me, mi faceva andare fuori di testa e fuori di mutande. Antonio invece era più rozzo e preferiva veloci accoppiamenti in qualsiasi punto della casa e alla vista di chiunque.
Eravamo arrivati insieme a Palermo circa un anno e mezzo prima. Ci affacciammo timidamente nel fantastico mondo dell’edilizia siciliana, grazie alla vantaggiosa proposta di lavoro di un eccentrico milionario italiano. I nostri genitori erano uno custode e l’altro giardiniere della sua lussuosa villa, costruita con i dubbi proventi della sua attività commerciale nella contea di Harghita, in Transilvania. In una piccola frazione di questo fazzoletto di terra fosca e nebbiosa, siamo nati noi: Antenore e Antonio Cecescu.
E qui siamo stati allevati a spezzatino, patate, grappa e leggende. Una di queste narrava di un’ipotetica resurrezione post mortem (preceduta da un decesso truce e violento per mano assassina) se solo si fosse compiuto un rito vampiresco
risalente al quattrocento d.C., nel quale veniva indicata una sicura rinascita notturna da mezzanotte fino all’alba. E nel caso si fosse riusciti a vendicare la propria morte, era garantita la vita eterna. Il rituale prevedeva una sana bevuta di sangue, servito rigorosamente in calici di cristallo blu cobalto, sgorgato dal corpo di un parente nel giorno del suo quattordicesimo compleanno.
La nostra adolescenza fu segnata da quest’avvenimento. Una goliardata che ricordo come se quell’episodio fosse avvenuto ieri. Sì, perché Antonio e io, oltre a essere cugini di primo grado e figli di due fratelli gemelli entrambi vedovi, siamo nati anche lo stesso giorno: il 2 novembre dell’anno bisestile 1992.
La sera del giorno dedicato ai defunti, quella del 2006, era gelida e tersa. Fuori la luna piena macchiava il buio e la distesa infinita di conifere. Nella stufa a legna, piccoli tronchi e ramoscelli scoppiettavano e ardevano, diffondendo un dolce tepore, amplificato da un numero imprecisato di brindisi a base di acquavite alle prugne con cui accompagnammo la degustazione del cozonac con uvetta e cioccolato; un’anticipazione dei sapori del Natale che si stava avvicinando. L’unica presenza femminile era quella di Nina Skofic, un’infermiera croata, bionda e alta un metro e cinquanta, probabilmente amante appagata e felice dei nostri padri. La nana platinata, infatti, sovente deliziava le solitudini notturne dei due vedovi, e non solo, visto che l’eco dei fiati ansimanti provocava in me tumulti ormonali e sogni erotici che culminavano in ripetute masturbazioni (velocissime giacché dopo due colpi di mano giacevo all’alba esausto e bagnato).
Nina eseguì con perizia professionale, dopo l’abbuffata di zuccheri e alcool, il prelievo dalle nostre poco adolescenziali braccia, giacché avevamo sviluppato un’ottima muscolatura distribuita su un fisico già ben formato. Poco prima della mezzanotte ci riunimmo intorno al desco notturno, sul quale furono accese tre candele nere e, come due sposini che si accingevano a brindare a calici incrociati sulla torta nuziale, Antonio e io ci scambiammo un brindisi di RH zero positivo, fresco di trasfusione e appositamente versato in due flûte color blu cobalto. L’unica variante riguardava i bicchieri, che erano di plastica, comprati per
l’occasione al mercato di Cska da Nina; un modo come un altro per adeguare il rito ai tempi moderni.
Sei anni dopo quella strana festa di compleanno, mentre piastrellavamo con un prezioso mosaico la piscina di un mega albergo in costruzione, il capocantiere anticipò la fine del nostro orario di lavoro e ci condusse in una baracca al porto di Palermo. Lì ci accolse ‘il Mito’: Don Vito Sidoti, la Mafia in persona. Noto alle cronache locali e nazionali, era il latitante numero uno imprendibile e protetto in qualsiasi punto della città. Noi l’avevamo di fronte. Anzi di spalle. Seduto su una sedia a rotelle e guardato a vista dai suoi due picciotti, ci investì solennemente – oltre che di vaporosi sbuffi di sigaro cubano − anche del ruolo di sicari, intimandoci di non fallire l’esecuzione, altrimenti saremmo rientrati in Romania in posizione orizzontale e senza alcun permesso di soggiorno, neanche per l’inferno.
Il bersaglio da abbattere era un tale affiliato al clan di Antonio Caffarella, rivale storico di Don Vito. Per l’addestramento alle armi ci furono concesse le maestranze che rispondevano ai nomi di Santino e Salvo Sidoti, rispettivamente figlio e nipote del boss. Due cugini, esattamente come noi. Luogo di esercitazione: una casa demaniale abbandonata nei pressi di Trappitello, non lontana dal mare; un rudere in un deserto che divenne, per circa una settimana, la destinazione di una gita fuori porta di cui avremmo fatto volentieri a meno.
Obbedienti alla parola del ‘Mito’, subimmo per sei giorni le angherie verbali e acustiche emesse dalle bocche dei cugini Sidoti, rese ancora più disgustose e volgari dopo sniffate di cocaina. Un repertorio vocale e gastrointestinale esasperato dall’artificio chimico di lì a poco inalato.
Il giorno del giudizio arrivò una mattina di ottobre. Dietro un banco dove si serviva il polpo bollito, al mercato della Vuccirìa, ci trovammo faccia a faccia con la vittima designata. Avremmo dovuto eseguire l’omicidio con il bersaglio a pancia piena. Attendemmo pazientemente che il galantuomo del clan rivale
finisse il suo spuntino. Poi lo seguimmo fino al lungomare. Il sole d’autunno bruciava come quello d’agosto o, probabilmente, la paura stimolò ulteriormente le nostre ghiandole sudorifere. La paura di sbagliare, s’intende, non quella di uccidere. Soprattutto avevamo paura di fare la fine estrema di quel poveretto; Santino (detto anche il macellaio per la sua preferenza particolare per tagli anatomici umani, appartenenti a maschi di qualsiasi razza e colore) a cadavere ancora caldo, avrebbe dovuto aprire le budella della vittima e prelevare il contenuto ittico fresco di degustazione, per recapitarlo al padre come trofeo di guerra.
Sopraffatti dai conati di vomito e da una sudorazione senza precedenti, seguimmo con la nostra Punto bianca, rubata il giorno prima per l’occasione, il nemico da abbattere, tallonati a nostra volta dall’Audi blindata, total black, dei cugini Sidoti. Un corteo intervallato dal caos e dagli schiamazzi palermitani.
Parcheggiammo in zona porto, non distanti dal morto che camminava e digeriva il suo polpo davanti a un susseguirsi di onde e gabbiani. Poco lontani da noi, i cugini Sidoti con Santo, impaziente di salvare quel polpo dagli attacchi dei succhi gastrici dell’uomo, ignaro di essere a un o dagli artefici del suo drammatico congedo terreno. Gli lasciammo solo il tempo di emettere un rutto che durò circa dieci secondi. Dopo seguirono lampi di fuoco e il buio totale.
Fottuti e ammazzati. Noi.
Certo… non è stato facile riposare sotto un cumulo di terra siciliana arida e brulla, interrotta qua e là da cactus e da qualche ciuffo di rovo innaffiato dalle pisciate dei cani randagi. Mio cugino Antonio e io vivevamo – per modo di dire – le ore diurne protetti dal nemico sole, nelle due fosse scavate dai bastardi che avevano firmato la nostra condanna a morte. Sì, perché tutte le notti, da mezzanotte all’alba, davamo la caccia alle vipere e ai topi, e a qualunque cosa in cui circolasse del sangue. Mani, le nostre, che coprivano e scoprivano seguendo i ritmi solari e lunari, i nostri corpi apparentemente esangui.
Quella notte Antonio e io eravamo già svegli e pronti per la caccia, quando il rumore di un’auto ci ricondusse al rigor mortis. Riconoscemmo le voci dei cugini Sidoti. Probabilmente dovevano nascondere un carico di merce – armi o droga − tra le macerie della casa abbandonata, ignari di calpestare due ex cadaveri che sarebbero diventati i mandanti e gli esecutori di una vendetta inaspettata.
Sbucammo dalla nostra casa tombale e ci dileguammo nel buio di quelle rovine infestate dai ratti. La luce della luna mimetizzava le nostre terribili ombre. Pallidi come il satellite, salutammo con un’affettuosa pacca sulla spalla Santo e Salvo. Diciamo che in confronto al loro, il nostro pallore era paragonabile a un’abbronzatura tropicale. Paralizzati dalla paura, furono colti da un attacco di tremarella senza precedenti e da vocalizzi anali di varia intensità. Antonio ed io, invece, fummo colti da un languore che riuscimmo a controllare giusto il tempo di una confessione. Inginocchiati al nostro cospetto, e piangendo come mai nella loro vita, ammisero che Antonio ed io eravamo una scommessa decisa insieme al capocantiere Marcello, una posta umana messa in palio in un pomeriggio di noia e di pistacchi ingoiati davanti a un film porno su un divano Frau nero, al solo scopo di trasformare due coglioni in killer e rendere l’ennesima esecuzione un po’ meno noiosa.
«E cosa c’è di più eccitante della vendetta per due ex coglioni trasformati in killer per gioco e morti ammazzati, a cui darete il aporto per l’eternità, grazie a un rito celebrato in un anonimo paesino della Transilvania?» urlai nell’orecchio destro di Santo Sidoti, mentre intorno a lui un piccolo lago di urina bagnava e annegava due vermiciattoli innocenti.
Ci avventammo sulle giugulari dei due cugini. Il prelievo per bocca fu lento, soddisfacente, ed esaltato dal gusto di una rivincita inaspettata. Li seppellimmo nelle stesse buche che avevano scavato per occultare Antonio e me, due viventi che consideravano morti. Due morti trasformati da loro in esseri viventi eterni.
Dopo qualche mese ci stabilimmo a Giardini Naxos, in una meravigliosa villa affacciata sul mare, frutto di un esproprio poco proletario ai danni del ‘Mito’ Don Vito Sidoti, al quale concedemmo una dignitosa sepoltura accanto alle fosse dei suoi consanguinei. I nostri rispettivi padri adesso vivono con noi e, per deformazione professionale, continuano a custodire, potare, e inseminare con grande successo Nina Skofic, che in occasione dell’espatrio e della nuova vita ha cambiato colore di capelli, trasformando in rosso rame le chiome sulle quali le mani dei nostri padri si aggrappano tutte le notti, questa volta in stanze insonorizzate.
Antonio cambia femmina tutte le sere, mentre io, tradizionalista come sempre, ho trasformato Consuelo in una signora, l’ho tolta dalla strada e ripulita da ogni inutile orpello estetico. Adesso è la signora Cecescu e mi aspetta tutte le sere – o quasi – sotto lenzuola di seta pura, anche quando sa che dopo cinque minuti mi addormento, russando e sbuffando come un treno a vapore; tanto ne ho di tempo per stare sveglio, scopare, mangiare, vivere. Lasciate che io dorma. Che noia l’eternità!
LA VICINA DI CASA di Maria Cristina Flumiani
DOMENICA
Apro gli occhi e mi stiro pigramente; sonnecchio qualche minuto e poi vado in cucina a preparare il caffè, il primo dei miei piaceri quotidiani. Guardo l’orologio: sono le undici. Indosso i jeans, una maglietta bianca e un cardigan blu che adoro; scarpe sportive basse, niente trucco. Prima di uscire, mi guardo allo specchio: minuta, piccola di statura, viso ovale, lunghi capelli castani. Non saprei dire che cosa mi piace di me; forse le orecchie, piccine e ben attaccate alla testa. Chiudo la finestra che ho aperto per arieggiare la stanza e vedo, nell’appartamento di fronte, la signora Pina intenta a osservare i miei movimenti; quando si accorge che la sto scrutando, distoglie subito lo sguardo e comincia a lustrare con energia la maniglia della finestra. Come tutte le domeniche, vado a pranzo da mia madre che abita a qualche isolato di distanza. Mi accoglie con la vestaglia di seta rosa, la sua preferita, e un impiastro verde spalmato sul viso; non può parlare per via della maschera e, a gesti, mi indica un pacchetto rosa. Lo disfo e, all’interno, c’è un fermaglio di tartaruga.
«Bello!» esclamo, mandandole un bacio con le dita.
Mi fa cenno di andare verso la tavola apparecchiata e si allontana. Riappare dopo qualche minuto, truccata e con un abito beige. Mia madre è sempre elegante e curata.
«Ti ho comprato un fondotinta che, secondo la commessa della profumeria dove siamo andate insieme, è adatto al tuo tipo di pelle.»
Lo stendo sul viso e mi guardo allo specchio; la pelle dorata mi dona decisamente.
«Ci vorrebbero un po’ di fard e un nuovo taglio di capelli, se posso esprimere un’opinione» continua mia madre.
«Mi piacciono i capelli lunghi, lo sai. Comunque, sei un tesoro.»
«Mi sembri serena; prendi sempre la medicina?»
«Sì, sempre.»
Chiacchieriamo e usciamo per una eggiata. Nel pomeriggio torno a casa, guardo un film alla televisione, poi mi trucco con il nuovo fondotinta e raccolgo i capelli con il fermaglio. Sono pronta per andare al cinema con i miei amici; li conosco da tanti anni. Con loro mi annoio serenamente e puntualmente.
Ripenso a mia madre. Quando ero piccola, la mattina mi vestiva sempre con cura; avevo molti abiti perché si divertiva ad abbigliarmi, come una bambina che gioca con la sua bambola. A quel tempo i suoi capelli erano castani e gli occhi molto vivaci, sotto le lunghe ciglia. Poi raggiungevamo mio padre per la colazione; era alto e magro, mio padre, e portava gli occhiali, di tartaruga. Mi piaceva osservarlo mentre spalmava la marmellata sul pane nero, lento e preciso, e poi lo divorava masticando piano, concentrato. Io bevevo sempre una tazza di latte con dei biscotti spezzettati. Una mattina avevo allungato la mano e afferrato la fetta di pane spalmata da mio padre e l’avevo mangiata con molto entusiasmo. Ricordo la sua faccia divertita; da allora, aveva iniziato a preparare il pane con la marmellata anche per me con l’aggiunta di un cucchiaino del suo caffè nella mia tazza piena di latte. Quando penso alla mia infanzia, è come se ci fosse sempre il sole. Era un giorno uguale agli altri quando mio padre, mentre spalmava con la consueta precisione la marmellata, annunciò che voleva separarsi. Si era
innamorato di una collega e voleva andare a vivere con lei negli Stati Uniti. La mamma aveva pianto, lo aveva scongiurato di pensare a me, ancora piccola. Lui la guardava, pietoso ma irremovibile. Se n’era andato un giorno di settembre; mi aveva abbracciato, poi aveva salutato la mamma che lo guardava gelida. L’ho rividi l’anno successivo, era venuto a prendermi con la nuova compagna, una bella donna, con un vestito viola molto elegante. Mi avevano portato in una gelateria e, mentre raccontavo quanto ero brava a scuola, avevo notato che lui guardava spesso l’orologio, mentre lei sfogliava una rivista. Quando mi riaccompagnarono a casa, mi salutarono con un bacio e mio padre mi aveva fatto una carezza, già perso in altri pensieri. Da allora ci saremo visti tre volte. Gli Stati Uniti sono lontani.
LUNEDÌ
Sono in ritardo come al solito. Marisa, la portinaia, sta chiacchierando con la signora Pina e mi apostrofa sorridendo: «Buongiorno, signorina. C’è una novità.»
La signora Pina interviene: «Una bella novità.»
Mi arrendo: «Raccontatemi, vi prego.»
«L’appartamento vicino al suo è stato venduto a una ragazza. L’ho vista con l’agente immobiliare quando è venuta a vederlo, deve avere circa la sua età.»
«Davvero? Finalmente non sarò più sola al sesto piano.»
Alcuni giorni dopo, il trasloco ha inizio. Dalla mia finestra, vedo arrivare dei mobili di legno chiaro, un divano, due poltrone. a ancora un mese e l’appartamento è pronto.
UN ALTRO LUNEDÌ
È mattina, mentre aspetto l’ascensore incontro la mia vicina: alta, capelli corti e lisci, jeans e giaccone.
«Ciao, sono Carla, benvenuta in questo bellissimo condominio» le dico sorridendo.
«Piacere, sono Giulia.» La voce è bassa e, mentre parla, inclina la testa di lato; ha il viso lungo e stretto, le labbra sottili e gli occhi sono due fessure grigie.
«Spero che ci vedremo per conoscerci meglio.»
«Volentieri.» Ha un tono distaccato che smentisce le sue parole.
VENERDÌ SERA
Sento della musica e delle voci provenire dall’appartamento accanto. Mi affaccio alla finestra e vedo arrivare molta gente giovane; alzo gli occhi e incrocio lo sguardo penetrante della signora Pina, che si accinge subito a limarsi le unghie. Il suono del camlo mi fa sobbalzare; apro la porta alla mia vicina, infilata
in un tubino nero, che mi sorride:
«Ho organizzato un aperitivo per inaugurare la casa. Vuoi venire?»
«Grazie, sono appena tornata; faccio una doccia e vi raggiungo» rispondo.
Indosso un vestito acquistato da poco, applico il nuovo fondotinta e mi spazzolo i capelli. Mi sento ridicola ad arrivare con la borsa nell’appartamento accanto, ma d’altronde non saprei dove mettere le chiavi, il fazzoletto e il cellulare; ne scelgo una piccola, di seta, regalo di mia madre. Mi guardo allo specchio: il colorito dorato è carino, ma il resto mi sembra scialbo; pazienza. Esco e suono il camlo; Giulia mi accoglie e mi introduce nel salotto dove molti ragazzi chiacchierano. Mi siedo sul divano di velluto verde accanto a una ragazza castana, con degli occhiali dalla montatura verde smeraldo. Mi presento; lei si chiama Renata.
«È molto che conosci Giulia?» Cerco di fare conversazione.
«Oh sì, eravamo nello stesso asilo. E tu?»
«Io la conosco da quando è venuta a vivere qui; abito nell’appartamento accanto.»
Mi guardo intorno: i mobili sono chiari e moderni, alle pareti sono appese stampe egiziane e delle maschere, probabilmente africane. Su un tavolino sono appoggiate varie fotografie incorniciate e un budda d’avorio. Uno degli ospiti si
avvicina e saluta Renata. Poi mi guarda sorridendo e i nostri sguardi si intrecciano; è bellissimo, alto, con i capelli rossi e le lentiggini. Si chiama Paolo, è un architetto e lavora nello studio di suo padre.
Improvvisamente, Giulia si materializza.
«Ti rubo Paolo, è molto ambito.» Gli sorride, guardandolo da sotto in su mentre lo trascina via.
Lui si stringe scherzosamente nelle spalle mentre si allontana spargendo tonnellate di fascino intorno; molti occhi femminili lo seguono e lui ne è consapevole, a giudicare dalla sicurezza con cui si muove.
Decido di consolarmi dedicandomi al buffet; ma continuo a pensare all’incontro con Paolo e a quella meravigliosa corrente di simpatia che ci ha avvolto per qualche secondo, isolandoci dal resto del mondo.
«Ti consiglio questa torta salata, è deliziosa» mi dice un tipo robusto e occhialuto sorridendo.
La assaggio.
«È squisita, grazie per il consiglio.»
«Io sono Andrea. Sei amica di Giulia?»
«No, la conosco solo da qualche giorno. Mi chiamo Carla e abito nell’appartamento accanto.»
«Lavori?»
«Sì, nell’ufficio stampa di una multinazionale.» Intanto divoro la torta.
«Io sono ingegnere chimico.»
Una ragazza bruna si avvicina al buffet.
«Carla, ti presento Marisa; ha un negozio di abbigliamento.» Andrea le circonda le spalle con un braccio.
«Che meraviglia! Credo sia il lavoro ideale per una donna.»
«Lo ammetto. Ma devi assolutamente farmi visita, il mio fornitore mi ha appena portato dei bellissimi cappotti.» Marisa mi avvolge con uno sguardo attento; indossa un abito grigio molto raffinato.
«Giulia lavora?» chiedo ad Andrea.
«È una pittrice. Vedi quel quadro? L’ha appena finito.» Mi indica un punto sulla parete.
Guardo il dipinto; rappresenta un cielo azzurro e dei fiori stilizzati, rossi e gialli. La immagino mentre lavora, con un camice chiazzato di colori, intenta a disporre vigorose pennellate sulla tela e a esaminare il risultato con la testa inclinata sulla spalla. La cerco tra la folla; sta intrattenendo Paolo che la guarda sorridendo con gli occhi socchiusi.
Mi avvicino. «Complimenti per il quadro. Non sapevo che fossi un’artista.»
«Grazie; ti mostro gli altri lavori, se vuoi.»
«Volentieri.»
«Vengo anch’io, è tanto che non vedo le tue opere.» Paolo posa il bicchiere.
Giulia ci fa strada nella stanza adiacente, piuttosto grande. È arredata con una libreria piena di volumi di pittura e di arte; un budda di ottone, una statuetta della dea Kalì e altre maschere africane occupano il primo ripiano. In un angolo c’è un cavalletto con una tela imbrattata di grigio e un tavolo pieno di tubetti di colore. La finestra si affaccia sui giardini pubblici oltre i quali c’è un condominio grigio.
«Questa natura morta ha vinto un concorso per giovani artisti» dice Giulia, indicando un quadro dai colori scuri che rappresenta una caffettiera posata su un tavolo.
Paolo interviene: «Complimenti, mi ricorda Van Gogh.»
«Sei proprio un adulatore! Van Gogh usava dei colori solari mentre io ho usato colori tetri perché si tratta una natura morta.» Giulia ride.
«Ammetto di non avere nessuna competenza sull’argomento.» Paolo fa una smorfia.
Guardo un altro quadro, un paesaggio con un campo di grano e dei papaveri; piccole nuvole navigano nel cielo come se l’artista avesse giudicato eccessiva la perfezione dell’azzurro.
«Bello» commento.
«Te lo posso vendere per duecento euro.» Giulia mi guarda attenta.
«E quanto costa quello nell’angolo?»
È un bosco che si affaccia su uno stagno; il cielo azzurro è luminoso proprio come in un pomeriggio estivo.
«L’ho dipinto quest’estate e non ho ancora deciso il prezzo. Potrebbe essere centocinquanta euro.»
Mi giro verso Paolo.
«Che cosa ne pensi?»
«È delizioso, secondo me.»
«Tu non compri niente?»
«Non me ne intendo, come ho già detto. Il mio appartamento è pieno di poster e di fotografie; non saprei proprio dove mettere un quadro.»
«Mi piace questo.» Decido per il bosco. Finita la negoziazione, torno in salotto.
Andrea si avvicina.
«Ti ha venduto qualcosa? È abilissima.»
«Sì, un quadretto che rappresenta un bosco. Tu hai mai comprato qualcosa?»
«Qualche anno fa ho comprato un quadro con un vaso di rose violacee su uno sfondo lilla; Giulia ha detto che sarebbe stato perfetto nel mio studio bianco, ma
non posso dire che mi piaccia.»
Si allontana e Renata mi viene appresso.
«Scommetto che ha parlato male di Giulia. È stato innamorato di lei qualche anno fa e non le perdona di averlo rifiutato.»
Mi avvicino alla finestra; di fronte, c’è ancora la signora Pina. Sparisce quando si accorge che l’ho vista. Cerco Paolo con gli occhi. Finalmente lo vedo; è seduto su una poltrona, con le gambe accavallate, e sorseggia un bicchiere di vino. La sua solitudine dura poco perché una bionda slavata gli si avvicina. Qualche ospite si sta già accomiatando. Prendo il mio acquisto, saluto le nuove conoscenze e torno nel mio appartamento.
SABATO
Appena esco dall’ascensore trovo le due comari ad aspettarmi.
«Allora, signorina, si è divertita ieri sera?» La portinaia è ansiosa di ascoltare il mio racconto.
«Sì, molto» sorrido.
«E non ci racconta nulla?» chiede la signora Pina.
«Volentieri; c’era tanta gente simpatica e un buffet abbondante. Giulia dipinge e ho visto i suoi quadri» rispondo.
«Oh, un’artista…» commenta la portinaia.
«Purtroppo, però, adesso devo salutarvi perché sono in ritardo» e scappo via.
Quando esco dall’ufficio, vado dal parrucchiere.
Incontro Giulia davanti all’ascensore; mi guarda senza riconoscermi e, quando la saluto, mi osserva attentamente.
«Ah, sei tu! Stai veramente bene con questa pettinatura» mi dice.
«Grazie. Che cosa ne pensi di andare a vedere la mostra di Renoir una di queste sere?» rispondo.
«L’ho già vista; è bellissima, ti consiglio di affrettarti ad andare perché finisce tra una settimana.»
Ci salutiamo.
Qualche sera dopo ci incontriamo sul pianerottolo. Mi dedica uno sguardo veloce e un sorriso prima di entrare nel suo appartamento.
DI NUOVO DOMENICA
Come ogni domenica vado da mia madre.
«Finalmente hai tagliato quei capelli da Maria Goretti! Fatti vedere.»
Giro su me stessa. Il vestito rosso di maglia mette in risalto il mio fisico minuto e, oltre alle orecchie, ho cominciato ad apprezzare anche il viso incorniciato dai capelli corti e chiari. Ho riposto jeans e maglioni insieme alla mia vecchia immagine di ragazza androgina e sportiva.
«L’appartamento vicino al mio è stato comprato da una pittrice che si chiama Giulia. L’altra sera mi ha invitato perché inaugurava la casa» le racconto.
«Che tipo è?» chiede mia madre.
«Molto magra, sembra anoressica.»
«È simpatica?»
«La conosco troppo poco per esprimere un giudizio. Sicuramente, è molto riservata.»
«Come mai ti ha invitato, allora?» mi chiede incuriosita.
«Non lo so. Forse voleva essere cortese, oppure mostrarmi i suoi quadri.»
«È una brava pittrice?»
«Non lo so, non me ne intendo.» Paolo sorride da un angolo della mia mente.
«Non sarai stata così allocca da comprare un quadro, vero?» chiede mia madre inarcando le sopracciglia.
«Beh, ecco... c’era una veduta di un bosco, molto carina. La metterò in anticamera» rispondo distogliendo lo sguardo.
«Quanto l’hai pagato?» continua.
«Cento euro.»
«Non molto, per fortuna. La tua vicina è un’abile venditrice» commenta rassicurata. «Mi raccomando, non comprargliene altri, però.»
Mi osserva mentre mangio distratta la mia crostata preferita.
«Hai conosciuto qualcuno?»
«C’era molta gente… un certo Andrea, molto simpatico e una ragazza che ha un negozio di abbigliamento.»
«Settimana prossima, potresti ricambiare l’invito coinvolgendo le nuove conoscenze e i tuoi vecchi amici.»
«Hai ragione.»
«Approvi la mia idea? Oggi è proprio la giornata delle sorprese!» scuote il capo sorridendo.
* * *
Ricordo che all’inizio la vita senza mio padre era triste. Ci alzavamo, mangiavamo e parlavamo come automi. La mamma fumava moltissimo, dormiva poco ed era dimagrita. Poi, gradualmente, ci siamo abituate all’assenza di quella persona silenziosa e allegra e l’abbiamo dimenticata, come una cartolina tra le pagine di un libro già letto. Nei miei ricordi, da quel giorno il sole non splende più.
A diciotto anni mi fidanzai con un ragazzo che andava già all’università, alto, bruno, con gli occhi grigi, molto determinato e ambizioso; accanto a lui mi sentivo protetta. Abitava da solo a Milano perché i genitori vivevano a Roma; abbiamo ato tanti fine settimana insieme, a studiare, a fare l’amore, a parlare. Era bellissimo. Poi si è laureato e si è trasferito a Londra, dove aveva trovato lavoro in una grossa banca. All’inizio mi telefonava spesso, poi sempre meno. Alla fine mi scrisse che non aveva più tempo per me, che doveva lavorare moltissimo per fare carriera, che sperava saremmo rimasti buoni amici. Ricordo che nei mesi successivi pioveva sempre; io avo ore sui libri, senza riuscire a concentrarmi, e le serate davanti alla televisione. Mi sembrava di aver perso una parte di me, sentivo un dolore quasi fisico. Non avevo più amici perché non volevo più frequentare le persone che vedevo con lui, e poi erano tutte coppie. Mi mancava la serenità per fare nuovi incontri, non mi interessava più nulla. Mia madre mi portò da uno psichiatra che mi prescrisse un antidepressivo. E il mondo gradualmente non fu più solo grigio, riprese i suoi colori e io ricominciai a vivere.
Mi sono laureata e ho cominciato a lavorare; ho conosciuto Florinda, la mia migliore amica, e con lei altra gente simpatica, sono andata a vivere da sola. Mi sono costruita una vita piena di impegni: ho fatto l’abbonamento a teatro, al cineforum, in palestra. Rifuggo la solitudine, la voce del silenzio, il vuoto dentro di me. Sono palliativi, ma funzionano. Mi torna in mente il dialogo di un film:
“Tu credi in Dio?”
“No, io credo nel Prozac.”
Anch’io.
Riunisco i miei quaderni, dove incollo le ricette ritagliate dai giornali e scelgo i
piatti migliori. Scrivo un elenco delle persone da invitare e faccio qualche telefonata. Voglio dire personalmente alla mia vicina della cena che sto organizzando; non è il caso di telefonarle. Forse potrei infilare un bigliettino sotto la porta o nella sua casella postale; ma mi sembra sciocco e decido di suonare il suo camlo. Quando mi apre, indossa il camice macchiato di colori e ha uno sbaffo turchese sulla punta del naso.
«Entra pure e vieni nello studio.»
«Non vorrei disturbare.»
«Non ti preoccupare; però continuo a dipingere, se non ti dispiace.» Sul cavalletto c’è la tela dipinta di grigio chiaro.
«Voglio ritrarre il condominio di fronte» mi spiega.
Seguo la direzione del suo sguardo e vedo in lontananza il condominio che avevo già notato la sera della festa. È grigio, con una sola finestra illuminata nel buio.
«Mi sembra un bel soggetto. Sono venuta per invitarti alla cena che sto organizzando per sabato sera; potresti dirlo anche ad Andrea, Paolo e Renata.» Mentre parlo, lei aggiunge dei tocchi di colore al quadro.
Non risponde subito.
«Grazie, volentieri» dice infine.
La osservo mentre tratteggia il perimetro della finestra; la testa lievemente inclinata, le spalle curve. Mi guardo intorno.
«Bene, non voglio disturbarti ulteriormente.» E mi giro verso la porta.
«A proposito, Andrea ha detto che sei molto simpatica» dice lanciandomi un’occhiata veloce.
«Grazie. Lui è molto brillante.»
Ho l’impressione che voglia dirmi qualcosa. Ma scuote i capelli lisci e riporta la sua attenzione sul dipinto.
«Ci vediamo sabato, allora.»
LA SERA DELLA CENA
Il camlo suona spesso. Il salotto, pulito e riordinato con cura, è illuminato da una lampada sistemata in un angolo e da candele profumate; sulla tavola, coperta da una tovaglia provenzale, ho messo una ciotola di patatine, tovaglioli di carta e bicchieri. I miei amici sono già arrivati: Florinda, una ragazza corvina e vivace, Giovanni, dinoccolato e timido, e Vittorio, un mio compagno di scuola con la fidanzata Simonetta. Verso le nove meno un quarto entrano Giulia, Paolo
e Andrea.
«Scusa il ritardo, ma c’era molto traffico.» Giulia sorride, inclinando appena la testa com’è sua abitudine. Ridiamo. Si guarda intorno e si sofferma sul suo quadro, che ho appeso vicino alla libreria dieci minuti prima.
«Dimenticavo: Renata si scusa, ma ha un impegno di lavoro» aggiunge in fretta.
Intanto, Paolo e Andrea chiacchierano con i presenti sgranocchiando patatine e salatini.
«Hai già cominciato un altro quadro?» chiedo a Giulia.
«Sto ancora dipingendo il condominio di fronte. Ho deciso che la luce deve essere quella delle sere d’estate dopo il tramonto, quando non è ancora scuro, ma tutto appare più cupo… non so se mi spiego.» Intanto si guarda intorno.
«Ti spieghi benissimo» mi affretto a rassicurarla. «Deve essere difficile.»
«Sì, molto. D’altra parte, una pittrice deve dimostrare il suo valore utilizzando al meglio luci e ombre, sfumature e dettagli.»
Paolo si avvicina incuriosito.
«Questo taglio di capelli ti dona moltissimo» e, rivolto a lei: «Vero Giulia?»
«Sì, quando l’ho incontrata non l’ho neanche riconosciuta» annuisce Giulia.
«Hai proprio una bella casa; perdona la mia deformazione professionale, ma io cambierei la disposizione dei mobili per sfruttare meglio lo spazio disponibile.» Paolo si guarda intorno con aria critica.
«Che cosa mi consigli?» Sono disposta a mettere i mobili sul soffitto se me lo chiede.
«Secondo me, il divano e le poltrone vicino alla finestra hanno un effetto pesante; io metterei il tavolo e le sedie dove c’è la luce e sparpaglierei il resto del mobilio nella stanza.»
«Credo che tu abbia ragione. Dove metteresti il quadro?» gli chiedo.
«Starebbe molto bene su quella parete; appenderei tanti quadretti vicini, oppure dei poster e delle fotografie» interviene Giulia.
Andrea si avvicina.
«Occupiamoci di problemi seri adesso! Avete sentito che il Ministro della cultura si è dimesso?» dice a voce alta attirando l’attenzione generale.
Tutti cominciano a parlare di politica e di scandali. Vado in cucina a prendere l’insalata di pasta e le torte salate. In effetti, sarebbe più comodo se il tavolo fosse vicino alla finestra; adesso, invece, devo attraversare la stanza.
Quando torno, i miei ospiti parlano di vacanze ed escursioni.
«Carla, stiamo organizzando una gita in montagna. Hai qualche proposta?» dice Andrea.
«Un posto comodo da raggiungere è Courmayeur. Io adoro il Trentino, ma è lontano.» Intanto penso a quello che mi ha detto Giulia.
«Mi sembra una buona idea. Che cosa ne dite di andarci domenica prossima?» propone Andrea.
«Benissimo! Lo dirò anche a Renata» dice Giulia.
«Che buona questa pasta, Carla! Saresti proprio una fidanzata ideale.» Paolo mi sorride in quel modo fanciullesco, così affascinante.
«Potrebbe anche essere una moglie ideale» Florinda interviene soave.
«Questa quiche, però, è un po’ cruda. Non è vero?» Giulia guarda Paolo e i suoi
occhi sono due fessure. Il sorriso mi si gela sulle labbra. Non è assolutamente cruda, diciamo che la crosta non è croccante.
«È ottima, in ogni caso.» Andrea ne mangia un’altra fetta e mi guarda.
IL GIORNO DOPO
Florinda mi telefona.
«Come si chiama la tua vicina? Giulia? Non mi piace.»
«Che cosa ne pensi dei suoi amici?» In questo momento la adoro.
«Andrea è molto simpatico; quello con i capelli rossi non mi convince, va in giro tronfio come un tacchino. Ho avuto l’impressione che recitasse la parte dell’architetto giovane e brillante con la fidanzata artista.»
«Non credo che sia fidanzato con Giulia.» Sento una fitta allo stomaco.
«Credevo che lui e l’artista… comunque, non mi convincono» risponde Florinda.
«Ma vieni lo stesso alla gita?»
«Certo. Speriamo che la grande pittrice porti altri amici da presentarci. A proposito, stai veramente bene con la nuova pettinatura, il tuo parrucchiere è proprio bravo. Ti secca darmi il suo indirizzo?»
«No, anzi sono curiosa di vedere come ti trasformerà.»
Conosco Florinda da molti anni. Ha una famiglia numerosa e allegra e un carattere esuberante. Con me è affettuosa, attenta a cogliere malumori e malinconie, e sa apprezzare tutto quanto mi diverte. Lavora nel settore dell’informatica che è adatto a lei, un impiego solido e preciso.
Penso a Paolo, al suo modo di camminare e di guardarsi attorno, al suo sorriso che non si limita alla bocca, ma illumina gli occhi e ammorbidisce la linea delle guance, scavando delle deliziose fossette.
Seguo i suoi consigli e sposto il tavolo vicino alla finestra e alla cucina; poi appoggio il divano alla parete di fronte e sistemo intorno le poltrone e il tavolino basso. Sì, la stanza sembra più spaziosa così, anzi forse manca qualcosa che riempia lo spazio tra le poltrone e il tavolo.
Quasi quasi lo invito a vedere il risultato. Perché no?
Gli telefono; risponde dopo molti squilli quando stavo pensando di riattaccare.
«Ciao, Carla, che piacere! Sono. appena rientrato da una riunione, mi hai trovato
per caso perché ne ho un’altra tra pochi minuti.»
«Ti ho telefonato solo per dirti che ho cambiato la disposizione dei mobili come avevi detto; perché non vieni a bere un caffè così puoi vedere come stanno e magari darmi qualche altro consiglio?»
«Volentieri, ma nel pomeriggio è impossibile, verrò stasera verso le sette» risponde.
L’APPUNTAMENTO
Alle sei esatte, mi precipito al supermercato a comprare una bottiglia di prosecco e le patatine; poi vado a casa, metto il vino in freezer e faccio la doccia. Apro l’armadio e mi viene il panico: che cosa mi metto? Il vestito rosso è troppo classico, il tailleur è formale, il vestito nero è troppo impegnativo; a un tratto, mi ricordo di un paio di pantaloni neri mai usati. Li indosso con una maglietta scollata, sandali dorati e orecchini. Rispetto alla settimana scorsa, sono irriconoscibile; perfino il naso grosso, che è sempre stato il mio cruccio, si perde nel viso sotto la frangia morbida e chiara. Sono le sette meno dieci; corro in salotto, riordino velocemente e metto le patatine in una ciotola. Mi siedo sul divano e aspetto. Sette e un quarto; mangio un paio di patatine, mi accorgo che mancano i tovaglioli di carta e vado a prenderli in cucina. Sette e mezza. Otto meno un quarto. Forse l’appuntamento non era stasera. Sbaglio o è l’ascensore che si è fermato? Finalmente, il suono del camlo dilaga nel silenzio. Apro la porta e lui mi sorride disarmante.
«Ciao, stai uscendo?» allude al mio abbigliamento.
«No, ma ti aspettavo alle sette.»
«Che tipo preciso! Io sono sempre in ritardo.» Intanto, mi segue in salotto e si guarda intorno.
«La stanza arredata così è perfetta, più spaziosa; potresti anche considerare la possibilità di dividere il salotto con un paravento in vimini o in stoffa. Conosco un negozio che li vende, se vuoi posso darti l’indirizzo.»
«Preferirei mettere delle piante, piuttosto. Accomodati, ho preparato un aperitivo, vado a prendere il vino.» Non esageriamo, signor architetto, ho già comprato il quadro da Giulia e non ho intenzione di fare altri acquisti.
Sorseggiamo il Prosecco e lui mi guarda di sottecchi; mi accorgo di avere un’espressione adorante e mangio due patatine.
«Domenica andiamo a Courmayeur, speriamo che ci sia il sole. Tu sai sciare?» Cerco di avviare una conversazione mentre lui beve il suo vino lentamente, assaporandolo.
«Sì, ho vinto anche delle gare.» Guarda l’orologio. «Purtroppo, adesso devo salutarti.» Si alza, tuffa gli occhi nei miei e poi mi bacia sulle guance. Esce e io rimango a fissare la porta che si chiude. Rimango in ascolto aspettando il ronzio dell’ascensore; sento invece la porta dell’appartamento di Giulia che si apre e si richiude. Mi affaccio alla finestra e guardo nel suo salotto appena in tempo per vedere Paolo sparire all’interno. Maledetta Giulia! Tutta la sua spiritualità da grande pittrice sparisce completamente se ci sono uomini attraenti in giro. Mi tremano le mani mentre mi strucco velocemente; non voglio vedermi bella e mi
graffio il viso con le unghie.
Penso a mio padre. Perché non mi voleva bene? Ero una bella bambina e gli somigliavo: avevo i suoi capelli scuri, i suoi occhi, il suo carattere riservato. Ricordo come mi sorrideva, gli occhi pieni di tenerezza. È stata la donna vestita di viola che mi ha cancellato dai suoi pensieri. Probabilmente, anche il mio fidanzato aveva trovato una che aveva catturato la sua attenzione, approfittando della mia lontananza. Mi avevano strappato i più grandi affetti della mia vita, lasciandomi sanguinante; e avevano riso di me, felici della loro vittoria e del mio dolore.
NASCONDERE LA DELUSIONE
Il giorno dopo incontro Giulia.
«Come mai hai il viso graffiato? Hai un gatto?»
«No e non ricordo nemmeno com’è successo.»
«Puoi dirmi dove posso trovare una libreria da queste parti? Devo comprare una rivista sulla pittura impressionista.»
«Certo. Ce n’è una vicino al parco, dove c’è la cartoleria. Ti ha raccontato Paolo che ieri sera è venuto a bere un aperitivo? L’ho invitato per mostrargli la nuova disposizione dei mobili: quella che mi aveva consigliato.» La guardo fisso.
Non risponde subito.
«Sì, me l’ha accennato. A proposito, pensavo di copiare i quadri dei pittori impressionisti che sono molto colorati e decorativi. Sarebbero perfetti nel tuo salotto; posso comunque aiutarti a collocarli» dice infine.
«Grazie, ci penserò.»
Il cellulare squilla insistentemente mentre sto guidando; purtroppo ho perso l’auricolare e quindi devo accostare per rispondere.
È Andrea.
«Volevo anticiparti il programma: ti citofonerò domattina alle nove in punto e poi raggiungeremo gli altri al bar centrale dove faremo colazione. Va bene?»
«Giulia non viene?»
«Lei e Paolo hanno un impegno.»
«Oh, mi dispiace!»
«Vuoi rimanere con loro?» mi stuzzica Andrea.
Ridiamo.
Sento l’ascensore che si ferma al mio piano e corro in punta di piedi alla porta; dallo spioncino, vedo Paolo che si dirige verso l’appartamento accanto. Sento la voce allegra di Giulia e il tonfo della porta che si chiude. Mi siedo sul divano e accendo la televisione; non riesco a concentrarmi e penso a quello che sta avvenendo a pochi i di distanza. Si staranno baciando. O forse sono già nel letto abbracciati. Ho gli occhi pieni di lacrime e stringo i pugni. Devo accettare che Paolo non è interessato a me: è innamorato di Giulia e posso anche tingermi i capelli di verde; non serve.
IL RISVEGLIO
Il mattino, appena sveglia, sento dei rumori sul pianerottolo. Dallo spioncino, vedo Paolo e Giulia che si stanno salutando con un bacio. Poi, come se avessero avvertito la mia presenza, si girano nella mia direzione e lei dice qualcosa muovendo le labbra sottili; lui sembra divertito. Torno nella mia camera da letto e finisco di vestirmi; ho mal di stomaco e le mani sudate.
Non posso fare a meno di pensare a Paolo con grande tenerezza; si è lasciato ammaliare dalla personalità evanescente di Giulia, ma presto si accorgerà che non è al centro della sua attenzione, come invece sarebbe stato per me. Quella corrente di simpatia che ci aveva avvolto la prima volta doveva significare qualcosa anche per lui. Ne ero certa.
FINE SETTIMANA
Il sabato, decido di pulire la casa a fondo. Spolvero, lavo i vetri, gli specchi e i pavimenti; poi i soprammobili, gli asciugamani e le lenzuola. Intanto, la mia vicina riceve visite. Ogni volta che sento l’ascensore fermarsi, mi precipito alla porta e guardo dallo spioncino. La prima visitatrice è Renata, poi una ragazza che non conosco. Mi affaccio alla finestra per avere una panoramica del salotto; non c’è nessuno. Faccio un cenno di saluto alla signora Pina che ricambia, solidale. Riprendo la mia attività; stendo la biancheria e poi riempio la lavapiatti. Intanto, le ospiti di Giulia se ne vanno e noto che la ragazza ha un pacchetto sotto il braccio. Mentre pulisco il ripiano della cucina a gas, il camlo della porta accanto suona ancora; si tratta di Paolo. Il solo guardarlo mi riempie di allegria e di tenerezza ma lui sparisce all’interno dell’appartamento. Mi sposto per spiarli dalla finestra e li vedo abbracciati; poi Giulia si stende sul divano e lui si china su di lei. Mi distolgo e decido di prepararmi un caffè anche se ho mal di stomaco. Guardo l’orologio: sono le quattro e un quarto. Poi sento Giulia gridare; non riesco a capire le parole, ma sembra arrabbiata; mi arriva anche la voce di Paolo, alta e irosa. Corro di nuovo alla finestra, ma si stanno spostando nello studio e scompaiono subito. Torno in cucina, sento sbattere la porta e mi precipito allo spioncino: Paolo fremente e corrucciato aspetta l’ascensore. Quando arriva entra e sbatte violentemente l’anta dietro di sé, la cabina trema e parte.
È apparso ben diverso dall’immagine gioiosa e sorridente di eterno ragazzo dall’anima cristallina, quella che ho sempre in mente. Oggi invece ho visto un uomo: arrabbiato, forte, deciso, forse geloso. Così diverso dalla persona con cui ho sognato di condividere infiniti spazi e tempi.
a una mezz’ora e sento ancora l’ascensore che si ferma. Questa volta è Andrea. Dopo un’ora, lo sento uscire e lo vedo sul pianerottolo con un involucro; è accigliato.
Verso sera esco e, prima di andare al supermercato, suono il camlo della mia vicina. Mi apre, dopo qualche minuto, con il camicione chiazzato di colori. Mi sembra tesa, forse è stanca.
«Entra pure, stavo dipingendo nello studio.»
«Ho sentito il tuo camlo suonare diverse volte, oggi; hai venduto qualche quadro?»
«Sì, posso ritenermi soddisfatta, anche se la gente è sempre restia a pagare; non si rende conto che un’opera d’arte richiede materiali, tempo e fatica. È convinta che l’artista dipinga un quadro in un quarto d’ora in preda all’ispirazione.» Intanto, si siede davanti al cavalletto.
«Capisco, non deve essere facile. A proposito, mi è parso di sentire la voce di Paolo. Siete fidanzati?» butto lì con noncuranza.
«Non esageriamo; ci frequentiamo da qualche tempo. Vuole vivere con me, ma io non sono pronta a rinunciare alla mia libertà. Lui, allora, pensa che io abbia qualcun altro e litighiamo.» Intanto, aggiunge un colore più scuro per ombreggiare. Mi avvicino; sussulta e mi guarda. Sospira. Guardo il quadro: l’ombra deborda dal muro. Sì, è proprio il caseggiato di fronte, i contorni sono sfumati e si perdono nel grigio dello sfondo.
Me ne vado. Richiudo la porta alle mie spalle e rientro a casa, mi spoglio ed entro nella doccia. Lascio scorrere a lungo l’acqua calda per lavare via il mio dolore. Paolo non mi appartiene, non ho il diritto di pensarlo, amarlo, desiderarlo. I suoi pensieri sono dedicati a un’altra persona; a lei ha affidato il suo mondo, io non posso entrarvi. Mi lavo i capelli. Mi asciugo e torno in salotto; raccolgo i vestiti e le scarpe e infilo tutto in un sacchetto di plastica. Li butterò via. Appartengono a una ragazza innamorata, gelosa e furibonda e io non voglio esserlo più.
LA GITA
Andrea citofona alle nove esatte mentre sto lavando gli occhiali. Scendo subito e lo trovo con jeans e una camicia scozzese che guarda l’orologio. «Ascolta : arriviamo a Courmayeur verso le 11,30 e mangiamo un toast. Poi iniziamo la eggiata su un sentiero che conduce al rifugio; ho previsto cinque ore circa di camminata. Stasera andiamo a gustare la polenta e ad ammirare il panorama sulle Alpi in un ottimo ristorante che conosco da anni.»
«Fantastico! Mi piacerebbe essere già al ristorante.»
«Sei proprio pigra! Prima il dovere e poi il piacere.»
Intanto arriviamo al bar, dove gli altri ci stanno aspettando. Florinda si avvicina e dice:
«Sono proprio contenta che la grande pittrice e il suo amico non siano venuti.»
«Esagerata! Siamo una compagnia numerosa e avresti potuto ignorarli facilmente.»
«È impossibile ignorare le persone con la mania di protagonismo; sono sicura che lei avrebbe cercato di venderci i suoi quadri e lui avrebbe detto che è campione del mondo di jogging» ribatte.
«In effetti, quando gli ho chiesto se sapeva sciare, mi ha detto che aveva partecipato a molte gare.»
«Ragazze, salite sulle macchine.» Andrea guarda l’orologio. «Arriveremo alle 11,30 se non ci saranno imprevisti.»
Partiamo. Sono in macchina con Giovanni e Florinda; chiacchieriamo dei nuovi amici e Florinda esprime le sue opinioni taglienti; mi diverto e sono decisa a cancellare il pensiero di Paolo e Giulia. La giornata è splendida e improvvisamente le montagne appaiono dietro una curva. Vittorio ci sora suonando il clacson mentre Simonetta e Andrea ci salutano ridendo. Arriviamo in perfetto orario, con grande soddisfazione di Andrea. Entriamo in un bar per mangiare qualcosa come programmato.
Andrea dice:
«Telefono a Paolo, scommetto che sta ancora dormendo.»
«Buongiorno, architetto! Mancate solo tu e Giulia. Noi abbiamo già percorso tre chilometri» dice parlando al cellulare. Ascolta la risposta e ride.
«Beh, sì, li abbiamo percorsi con la macchina, lo ammetto. Ma dove sei?» continua.
Ascolta le parole di Paolo.
«Non riesci a trovare Giulia? Forse non ha capito che aveva un appuntamento con te.»
Risate. La giornata trascorre allegramente.
INIZIA UN’ALTRA SETTIMANA
Il giorno dopo esco in ritardo come il solito; incontro le due comari in portineria che parlano concitate.
«Buongiorno, signorina. Ha visto per caso la sua vicina?» mi chiedono.
«No, perché?»
«Il fidanzato è venuto diverse volte, ma lei non gli ha aperto la porta» mi raccontano.
«Non mi sembra grave, si riappacificheranno.»
Me ne vado scrollando le spalle. Non voglio più pensare a Giulia.
La sera, quando torno, vedo la macchina della polizia e un’ambulanza davanti all’ingresso. Un poliziotto si avvicina; quarant’anni circa, occhiali senza montatura, viso lungo e la bocca piccola. Mi avvolge con uno sguardo sbieco mentre fuma una sigaretta.
«Sono il commissario Marcello Pinon» si presenta mostrandomi il distintivo. «Lei è la vicina della signora Giulia Usivi?»
Mi impressiono sentendo pronunciare quel nome e cognome. Annuisco.
«Devo farle alcune domande, se non le dispiace» continua il commissario.
«Che cosa è successo?» La mia voce trema.
«La signora è stata aggredita» mi spiega fissandomi.
Estrae un taccuino e una penna dalla tasca della divisa.
«Quando l’ha vista l’ultima volta?» Comincia l’interrogatorio.
«Non ricordo… forse venerdì. No, scusi, ora ricordo: l’ho vista sabato. Sono andata nel suo studio verso sera perché voleva mostrarmi dei quadri; ma era impegnata a dipingere e sono tornata nel mio appartamento» gli racconto.
«Si ricorda che cosa stava dipingendo?» mi chiede il commissario prendendo appunti.
Rifletto; mi torna in mente l’ombra.
«Il soggetto del quadro era il condominio di fronte.»
«Era in casa sabato?» Intanto spegne la sigaretta schiacciandola con la suola della scarpa.
«Sì.»
«Ha sentito dei rumori nell’appartamento accanto?»
«Non mi pare.»
«L’ha sentita urlare per caso?» S’infila tra le labbra un’altra sigaretta ma non l’accende.
«Sì, sembrava arrabbiata.» Ricordo la sua voce alterata.
«Con chi?» Mi guarda mordicchiando il filtro della sigaretta spenta.
«Non lo so.»
«Si ricorda che ore erano?»
«Saranno state le quattro, le cinque del pomeriggio; non ricordo con precisione.» Mi stringo nelle spalle.
«La conosceva da molto tempo?» mi chiede.
«No, da quando abita qui.»
«Eravate in buoni rapporti?» Mi guarda attento.
«Certo. Ieri sono andata in montagna con alcuni amici e avrebbe dovuto esserci anche lei con il suo fidanzato» gli spiego.
«Perché non hanno partecipato?» Intanto annota qualcosa sul taccuino.
«Dovevano vedere una mostra di arredamento.»
Il commissario si gira indicandomi una figura poco distante.
«È lui il fidanzato della signora Giulia?»
Guardo nella direzione indicata e vedo un uomo anziano. La faccia è grigia, le labbra sono gonfie e tremano come se stesse piangendo o pregando, gli occhi sono fissi nel vuoto. È appoggiato al muro. Con un sussulto, riconosco i capelli rossi.
«Sì, è lui. Ma che cosa è successo? Dov’è Giulia?»
«La signora è stata uccisa nel suo studio» mi risponde guardandomi fisso.
«Dio mio! È stato un rapinatore?» Mi si contrae lo stomaco e comincio a sudare.
«Stiamo indagando. Se ricordasse qualcosa, mi telefoni. Questo è il mio numero di cellulare» mi congeda il commissario, dandomi un biglietto da visita.
Mi avvicino a Paolo. Gli afferro le mani tremanti e le stringo.
«Paolo, è terribile. Non so che cosa pensare.»
Mi guarda senza vedermi.
«Chi l’ha trovata?»
«Non rispondeva al cellulare e non apriva la porta. Inizialmente, non ero preoccupato perché sabato avevamo litigato. Ma ieri ho chiamato i pompieri» mi racconta. Chiude gli occhi. «Era nello studio, sul pavimento, in un lago di sangue… il cavalletto era caduto e le copriva la testa…»
«Chi è stato? Un rapinatore?»
«Pare fosse una persona che lei conosceva. Giulia ha aperto la porta al suo assassino, l’ha condotto nello studio e ha ripreso a dipingere. Forse un cliente o un amico.»
«La polizia ha dei sospetti?»
«Non lo so.»
Mi guarda per la prima volta.
«Era così divertente, così abile in tutto quello che faceva… non posso pensare che sia morta. Non la rivedrò più.» Piange.
Le due comari mi chiedono se ho paura a vivere sola dopo quello che è successo. A dire la verità, ho sempre avuto paura a vivere sola ed ero contenta quando Giulia abitava nell’appartamento accanto.
Mia madre è agitatissima.
«Chi era questa ragazza? Avrà avuto delle conoscenze terribili se è stata uccisa così barbaramente. Devi trasferirti da me perché quel criminale potrebbe tornare.»
«Oh, mamma! Perché dovrebbe tornare? Comunque, verrò volentieri a casa tua, almeno per un periodo.»
«L’assassino torna sempre sul luogo del delitto» sentenzia mia madre.
In effetti, il mio stomaco si contrae quando penso al pianerottolo e all’appartamento vicino al mio. Se fossi il personaggio di un romanzo, incontrerei il fantasma di Giulia che si aggira tutte le notti con la testa insanguinata.
«Tu conoscevi i suoi amici.» Mia madre riprende il discorso. «C’era qualche tipo strano?»
«Non mi pare. Probabilmente è stata uccisa da un ladro sorpreso a rubare.»
L’appartamento accanto al mio ha i sigilli. Giulia non c’è più. Ricordo lo sguardo obliquo, il sorriso teso. Entro nella mia camera e preparo le valigie; vado in anticamera, in cucina, in salotto, guardandomi intorno. Non abiterò più queste stanze. Il sesto piano rimarrà vuoto.
VITA CON MIA MADRE
La mattina, mia madre entra in cucina avvolta nella sua vestaglia rosa.
«Come sei elegante! Ma perché hai gli occhiali?» mi chiede sorpresa.
«Ho perso una lente a contatto. Mamma, non alzarti a preparare la colazione; non è il caso.»
«Almeno abbiamo tempo per chiacchierare; la sera torni stanca e vai subito nella tua camera.»
Si versa un po’ di caffè.
«Sei cambiata moltissimo nelle ultime settimane; sono sicura che sei innamorata. Chi è? Lo conosco?» Si rabbuia. «È un amico di Giulia?»
«Non sono innamorata; ho provato a seguire i tuoi consigli, ecco tutto» la rassicuro.
«A proposito, sul giornale c’è un articolo sul delitto; l’indiziato principale è il fidanzato.» Mi guarda.
«Come sei pallida!» Rimane immobile. «È lui? Adesso sai che è un assassino. Spero non ti piaccia più. Pensa a quella povera ragazza!»
«Non può essere stato lui!» La mia voce è alta e stridula.
«Perché?» mi chiede mia madre, guardandomi con attenzione.
Mi tremano le mani e la voce.
«È troppo… non è il tipo.»
«Sei un’esperta di assassini per caso? Carla, dimentica quella persona, per l’amor di Dio!» mi dice mia madre andosi una mano tra i capelli.
Si alza e comincia a sparecchiare.
«Non puoi andare in ufficio in queste condizioni, sei troppo sconvolta.»
Rifletto.
«Sarà stato qualche corteggiatore geloso. Un’amica di Giulia mi ha raccontato
che Andrea, per esempio, è sempre stato innamorato di lei e io l’ho visto entrare nel suo appartamento il giorno del delitto. Comunque propendo sempre per l’ipotesi del ladro.»
«Un ladro non uccide. E non c’è stato nessun furto.»
«Potrebbe anche essere stato un drogato. Dov’è il giornale?»
«È sulla mensola dietro di te. Certamente, deve essere stato uno choc tremendo sapere che la tua vicina è stata assassinata; conoscevi lei e i suoi amici, li avevi invitati a cena. Dovresti organizzare un viaggio per distrarti. Che cosa ne pensi di una crociera nei Caraibi?»
Non le rispondo perché sono già immersa nella lettura.
Giulia è descritta come una bella ragazza, proveniente da una famiglia benestante, abile pittrice, fidanzata con un architetto. Il giorno del delitto, la vittima aveva avuto rapporti sessuali; non erano stati riscontrati segni di violenza quindi era consenziente. La ferita, unica e mortale, era stata inferta intorno alle diciotto con un budda in ottone che l’assassino le aveva calato sulla testa, mentre era intenta a dipingere. Il cronista riportava che l’indiziato principale era il fidanzato, molto geloso, come era risultato dalle testimonianze di parenti e amici. Ripongo il giornale e decido di tornare nel mio appartamento a cercare la mia lente a contatto. Il cellulare comincia a suonare; capovolgo la borsa sul tavolo della cucina e lo intravedo tra i guanti, il portafoglio, l’astuccio del trucco, le mie chiavi di casa e quelle di mia madre. È Florinda.
«Carla, ho letto il giornale. È terribile! Non mi sono mai piaciuti, ma non mi
sarei mai immaginata un simile epilogo!»
«Mi sembra impossibile che sia stato Paolo.»
«Chi può essere stato, però? I giornali scrivono che era gelosissimo e possessivo. Ho telefonato poco fa ad Andrea; è sconvolto» dice Florinda.
«Anch’io sono sconvolta, mi sembra un incubo.»
«Sembri così calma! Forse è lo choc. Io sarei impazzita dallo spavento. Stai sempre nel tuo appartamento?»
«No, abito da mia madre. Devo finire di impacchettare le ultime cose e poi lo venderò.» Penso al sesto piano immerso nel silenzio.
«Io non ci tornerei per nessuna ragione; ma tu sei sempre stata molto razionale. Ti ammiro.»
Nell’ingresso, incontro le due comari. Sembrano felici di vedermi.
«Signorina! Come sta? Si è ripresa dallo spavento? Era così pallida, quella sera! Ho avuto paura che svenisse mentre parlava con quel poliziotto» dice la portinaia.
«Sto meglio, grazie.»
«A proposito, signorina, quella sera, quando era dalla sua vicina…» si interrompe per spiegare. «Lo so perché l’ho vista mentre pulivo i vetri della finestra. Non è arrivato nessuno mentre lei era lì? O c’era già qualcuno? Il fidanzato era andato via almeno da un’ora. Sa, era proprio spudorata quella ragazza, l’ho vista sul divano con lui che faceva delle cose proprio scandalose» dice la signora Pina.
Mi bruciano gli occhi.
«No, non c’era nessuno.»
Salgo sull’ascensore e guardo il tappeto sperando di trovare la lente a contatto. Continuo inutilmente la ricerca sul pianerottolo e nel mio appartamento. Infine, mi guardo intorno; la casa mi sembra fredda e non la sento più mia. Ho fretta di andarmene.
Telefono a Renata e parliamo dell’accaduto.
«Io la conoscevo da tanto tempo e ti confesso che aveva un atteggiamento irritante con gli uomini. Era maliziosa; li corteggiava, si ritraeva, poi si proponeva di nuovo. Da un certo punto di vista, non mi stupisce che sia stata uccisa. Paolo era innamoratissimo e molto geloso; lei si era lamentata di questo aspetto e io le avevo consigliato di evitare di esasperarlo se voleva che il loro rapporto fosse sereno. Lei rideva e diceva che almeno non si annoiavano.»
«Secondo te, Andrea era innamorato di lei?»
«Andrea le voleva bene, ma non credo fosse innamorato; anni fa, l’aveva corteggiata ed era stato respinto. Non è un tipo vendicativo o violento.»
«Pensi che Paolo sia l’assassino?» Ho le mani gelate.
«Non lo so. Di solito, i delitti violenti sono ionali, ma io sono solo una lettrice di gialli e non ho nessuna esperienza sull’argomento. Paolo non mi sembra così sanguigno da uccidere qualcuno, ma ho difficoltà a giudicarlo obiettivamente; lo conosco da anni.»
Qualche giorno dopo, leggo che Paolo non è più indiziato. All’ora del delitto era in un negozio di abbigliamento maschile; la commessa lo ricordava benissimo. Lo immagino mentre le si rivolge con il suo sorriso affascinante e la corteggia con discrezione. Divoro la fetta di torta che mia madre ha comprato per stuzzicare la mia golosità.
Telefono ad Andrea.
«La conoscevi da molto tempo?» gli chiedo.
«Da almeno vent’anni. È terribile pensare che non c’è più.» La voce è bassa, diversa da quella allegra che ha di solito.
«Eri innamorato di lei?»
«Lo sono stato. Le volevo bene e ci siamo sempre frequentati; eravamo ottimi amici. Quel sabato ero andato nel suo appartamento a ritirare un quadro per mia madre; abbiamo discusso sul prezzo e sono andato via arrabbiato. È stata l’ultima volta che l’ho vista e abbiamo litigato. Non me lo perdonerò mai. Adesso, la polizia continua a interrogarmi perché non ho un alibi.» Sospira.
«Dov’eri?»
«Ero a casa, solo. Ti giuro che non sono stato io.»
«Ne sono certa. Sarà stato un drogato.»
«La polizia non la pensa così. Giulia ha aperto al suo assassino e quindi era una persona di cui si fidava.»
«Che cosa pensi di Paolo?»
«È un superficiale che finge di lavorare nello studio del padre. Si è innamorato di Giulia, della sua energia e determinazione. Era lei che organizzava le serate, i fine settimana e spesso anche la sua giornata lavorativa.»
«Potrebbe essere stato lui?»
«Non credo. È troppo impegnato a guardarsi allo specchio per trovare il tempo di uccidere qualcuno. Penserai che sono invidioso e, in parte, è vero; è molto corteggiato. Ma non vorrei essere così fatuo e inaffidabile.»
Leggo ogni giorno gli articoli sul delitto. Andrea è descritto come un grande amico della vittima, da sempre innamorato di lei; i cronisti suppongono che l’abbia uccisa sconvolto dalla gelosia. Un quotidiano avanza l’ipotesi della doppia personalità; per questo non è in grado di ricordare l’omicidio.
Sembra siano stati tutti innamorati di lei. Non mi sembrava così bella. Certo, era una persona interessante che sapeva valorizzarsi ed eliminare chi non le piaceva; lo utilizzava per i suoi scopi e poi lo allontanava. Decido di imitare il suo atteggiamento; era morta in modo orribile, ma io non avrei esasperato nessuno, avrei solo imparato ad attirare l’attenzione sui miei lati migliori. Anche se non sono un’artista, posso crearmi un’immagine affascinante; il nuovo taglio di capelli e l’abbigliamento estroso sono un o verso il cambiamento.
Telefono a Paolo. «Come stai?»
«Sono vivo. Ho ato il periodo peggiore della mia vita; non sai che cosa significhi essere trattato come un criminale. Quando sono stato arrestato, un poliziotto mi ha sputato in bocca e gli altri mi hanno insultato. Non dimenticherò mai l’espressione di mio padre, della mia segretaria, della portinaia.» Ha una voce triste, diversa. Come quella di Andrea.
«Adesso, però, è un capitolo chiuso. Hai ripreso a lavorare?»
«Sì, mi aiuta a distrarmi. Ma, anche dal punto di vista professionale, questa esperienza è stata un disastro; gli ordini sono diminuiti, sono la metà di un tempo. Mi sembra siano ati anni da quando ho visto Giulia l’ultima volta, mentre in realtà sono solo pochi giorni.»
«Anche Andrea è sospettato.»
«Lo stanno interrogando solo perché è stato a casa di Giulia quel sabato maledetto. Adesso, però devo salutarti. Grazie per la telefonata.»
Non mi sento più affascinante, ma solo disperata. Paolo è distrutto e non tornerà più a essere il ragazzo bellissimo che ho conosciuto. È morto anche lui insieme a Giulia.
Ho il dubbio che la lente sia caduta nello studio mentre parlavo con lei. Strano che non me ne sia accorta, perché di solito i contorni degli oggetti diventano subito meno nitidi. Forse l’ho persa mentre uscivo dal suo appartamento. Decido di tornare a cercarla. Sul pianerottolo, incontro il commissario. Come sempre, ha la sigaretta in bocca, ma è spenta. Mi guarda con gli occhi miti come se mi stesse aspettando da ore. In effetti, è un uomo piacevole, un po’ troppo serio forse. Chissà se è fidanzato o sposato.
«Buongiorno, signorina. Posso farle qualche domanda?»
«Prego si accomodi.»
Entriamo nel mio salotto e ci sediamo.
«Quel sabato, la signora Giulia ha ricevuto delle visite?» Il commissario mi guarda con attenzione.
«Sì; stavo pulendo la casa e ho sentito spesso l’ascensore che si fermava al nostro piano.»
«Non ha visto per caso chi erano i visitatori?»
Mi dà fastidio ammettere di aver spiato Giulia e i suoi ospiti; ma il commissario mi sorride incoraggiante.
«Ho guardato dallo spioncino le persone che uscivano dall’ascensore o suonavano il camlo. Ho visto arrivare Renata che è una carissima amica di Giulia, poi una ragazza sconosciuta.»
«Che ore erano?» chiede, preparandosi ad annotare la mia risposta sul suo taccuino.
«Saranno state le due.»
«Può descrivermela?»
«Altezza normale, capelli castani. Mi sembra che avesse un loden.»
«Si ricorda quanto tempo si è trattenuta?» mi chiede mentre scrive velocemente.
«Circa un’ora.»
«Ed è tornata?» chiede mordicchiando il filtro della sigaretta spenta.
«Non lo so. Alle sei sono andata al supermercato e fino a quell’ora non l’ho più vista.»
«Conosceva gli altri visitatori?»
«Il suo fidanzato; verso le tre e mezza, l’ho visto uscire dall’ascensore.»
«Andavano d’accordo, secondo lei?»
«Penso di sì. Li ho sentiti discutere quel giorno, ma...» Mi interrompo.
«Mi aveva detto che aveva sentito la sua vicina gridare con qualcuno, ma non chi era con lei.» Il commissario mi guarda attento.
«Sì, è vero. Ero sconvolta, confusa, mi dispiace.»
«Mi racconti che cosa ha sentito e chi ha visto quel giorno.»
«Ho sentito l’ascensore che si fermava e ho visto Paolo che suonava il camlo. Poi, dalla finestra, l’ho visto con Giulia sul divano. Ho continuato a pulire finché l’ho sentita gridare. Poi ho sentito gridare anche Paolo che se ne è andato sbattendo la porta.» Nella mia mente, le immagini scorrono al rallentatore.
«Che ora era?»
«Le quattro e un quarto. Ho guardato l’orologio.»
«Prosegua.»
«Dopo una mezz’ora circa, è arrivato Andrea. Si è trattenuto un’ora circa.» Lo guardo.
«Ricorda quando è andato via?»
«Saranno state le sei, le sei meno un quarto» rispondo scrollando le spalle.
«Poi sono uscita perché dovevo andare al supermercato, ma prima sono ata dalla mia vicina; stava dipingendo nello studio. Mi sono trattenuta pochi minuti perché era impegnata. Poi sono uscita.»
«Ed è andata al supermercato.»
«Sì.»
«Ha incontrato qualcuno?»
«Non mi pare.»
«A questo punto è arrivato l’assassino. Nessuno l’ha visto perché lei era fuori e la signora Pina alle sei e un quarto guarda la sua trasmissione preferita. A che ora è tornata?»
«Saranno state le sette.»
«Non ha incontrato nessuno?»
«No.» Penso al cortile vuoto, all’atrio silenzioso.
«Non ha più cercato la signora Giulia?»
«No.»
«Non ha sentito rumori o voci provenire dall’appartamento accanto?» Mi scruta.
«No.»
«È tutto. Se dovesse ricordare qualcosa sul giorno del delitto, mi telefoni.»
Torno a casa. Faccio una lunga doccia e mi lavo i capelli. Mia madre mi racconta che è stata interrogata dal commissario.
«Mi ha chiesto se ti ho visto o telefonato quel sabato; gli ho risposto che ci sentiamo tutte le mattine. Quel giorno ero andata a trovare la zia Erminia e il giorno dopo tu sei andata a Courmayeur, quindi non abbiamo pranzato insieme, come tutte le domeniche.»
«Non ti ha chiesto nient’altro?»
Riflette.
«Ah, sì, mi ha chiesto se ultimamente sei cambiata. Gli ho raccontato che hai cambiato pettinatura e ti sei decisa a truccarti e a vestirti con cura. Ho detto che eri diventata più allegra, naturalmente prima della disgrazia.»
«E poi?»
«Ha voluto sapere del tuo carattere, le tue abitudini e se hai avuto dei fidanzati. Ho detto solo che sei tranquilla e che hai avuto un fidanzato qualche anno fa. Ho parlato del tuo lavoro e dei tuoi amici.»
Mi guarda sorridendo.
«Non spaventarti, tesoro. Mi ha spiegato che deve indagare e parlare con le persone che hanno visto Giulia quel giorno, ma anche con i loro parenti per verificare gli alibi. Mi ha assicurato che è una prassi normalissima.»
Telefono ad Andrea.
«Ciao, Carla, pare che io sia innocente come un bimbo.» La voce è tornata a essere quella che ricordavo.
«Sono davvero contenta. Ero sicura che non fossi l’assassino. La polizia sospetta qualcuno?»
«Non lo so; certo non lo racconta a noi poveri mortali.»
LA LETTERA ANONIMA
Mentre io e mia madre stiamo facendo colazione, noto una busta infilata sotto la porta della cucina. Mi alzo e la raccolgo. È indirizzata a me.
P R e s T o tI cAPi tA Qu a l C o sa dI B rUttO
Fisso la pagina con le lettere di giornale grossolanamente incollate e poi la porgo a mia madre che diventa pallidissima.
«Chi può essere? Uno psicopatico che conosceva te e Giulia. Cerca di ricordare… è qualcuno che vi ha avvicinato o frequentavate. Bisogna avvertire la polizia.»
«Hai ragione, chiamo subito il commissario.»
Non mi risponde e gli mando un messaggio.
«Ma chi avevi conosciuto oltre a Paolo, Renata e Andrea? Pensaci bene.»
«C’era un certo Roberto che lavorava come me in un ufficio stampa; mi sembrava normalissimo.» Cerco di immaginarmelo, mentre colpisce Giulia. Forse lei l’aveva respinto o non lo riteneva abbastanza interessante per presentarlo ai suoi amici. Forse odiava anche me perché si era accorto di essermi indifferente.
Il commissario suona il camlo alle due del pomeriggio. Mia madre lo accoglie trepidante.
«Oh, commissario, finalmente è venuto! Sono così preoccupata!»
Si rivolge a me.
«Carla, consegnagli la lettera.»
Il commissario la legge con attenzione e la ripone in tasca. Cerca di rassicurare mia madre:
«Purtroppo, ci sono delle persone che scrivono lettere anonime per intralciare le indagini. Ma questo caso sarà risolto molto presto, stia tranquilla.»
«Non potrebbe essere stato un altro artista invidioso ad averla uccisa?» La mia voce è così sottile che stento a riconoscerla. Mia madre mi abbraccia.
«Abbiamo già indagato in questa direzione senza risultato.»
Il commissario esce e io mi sdraio sul letto. La mia vita si è completamente trasformata da quando ho conosciuto Giulia; ricordo gli occhi stretti, la testa inclinata, la voce bassa. La figura delicata, decisa ad arraffare il meglio della vita.
I giorni trascorrono. I miei amici si offrono di andare a prendere le ultime cose a casa mia; vogliono risparmiarmi il trauma di rivedere quel luogo. La lettera anonima ha spaventato moltissimo mia madre; teme che l’assassino possa uccidere anche me. Non mi lascia mai sola e ha chiesto al mio capo se può scortarmi a casa a fine giornata. Un sabato, mentre lei è al supermercato, torno nel mio appartamento per accertarmi che sia completamente vuoto e continuare a cercare la mia lente a contatto. Quando arrivo sul pianerottolo, noto che la porta di Giulia è socchiusa. Quando entro in casa, il solito senso di estraneità mi pervade. Sento bussare; guardo dallo spioncino e vedo il commissario. Apro la porta.
«Buongiorno, signorina. La portinaia mi ha detto che l’ha vista salire e ho colto l’occasione per farle qualche domanda.»
«Si accomodi, prego.»
«Vorrei sapere se, per caso, porta le lenti a contatto.»
«Ecco… sì.»
«Gli agenti hanno trovato dei pezzi di lente a contatto nello studio, erano sporchi di sangue.»
«Forse anche Giulia portava le lenti a contatto.»
«Non mi risulta; sua madre mi ha detto che lei ne ha perso una. Si ricorda quando è successo?»
«Non lo so. Da una settimana o dieci giorni.»
«La signora Pina ha detto che l’ha vista entrare nel salotto della vicina all’ora del delitto. Mi racconti che cosa è successo.» Mi guarda fisso.
«Verso le sei, ho suonato il camlo. Giulia ha aperto la porta e mi ha detto che stava dipingendo. Sono andata nello studio e sono rimasta pochi minuti perché era impegnata. Quando sono uscita, era viva.»
«Venga con me nello studio.»
Rabbrividisco e sono decisa a rifiutare, ma il commissario insiste.
Entro nel salotto e poi nello studio. La sagoma del corpo di Giulia è disegnata sul pavimento con un gesso bianco e il cavalletto è al suo posto. Guardo la tela e mi accorgo che i contorni del caseggiato non sono sfumati come ricordavo e l’ombra non deborda dal muro. Il commissario mi guarda.
«Le racconto la mia versione dei fatti. Alle sei, la signora Pina ha visto Giulia aprire la porta a qualcuno; lei è entrata e, insieme, siete andate nello studio. Mentre la sua vicina dipingeva, lei ha infilato i guanti, ha afferrato il budda di ottone e si è avvicinata; la vittima si è voltata e lei l’ha colpita spaccandole la testa. Un colpo è stato sufficiente perché il soprammobile è pesantissimo e il
corpo si è afflosciato all’indietro, urtando il cavalletto che è caduto. La signora Pina ha detto che l’ha vista riare dal salotto molto in fretta. Poi, è entrata nel suo appartamento, senza accendere la luce. Quando l’ha accesa indossava l’accappatoio e aveva i capelli bagnati; ha infilato delle cose in un sacchetto e l’ha messo vicino alla porta. Purtroppo, alle sei e un quarto la signora Pina ha smesso di seguire le sue vicende; da qui in poi devo ricostruire senza il suo prezioso aiuto. Allora, lei si è vestita, ha infilato i guanti ed è tornata nell’appartamento accanto; ha chiuso la porta di ingresso dall’interno e, scavalcando la finestra del salotto, è tornata a casa. Non è difficile, l’ho sperimentato io stesso. Poi, ha infilato i guanti nel sacchetto, è scesa ed è andata a buttarlo nel cassonetto che si trova a due isolati da qui. Lo sciopero dei netturbini è stato la sua rovina; il sacchetto è rimasto lì e gli agenti l’hanno trovato. Sua madre ha riconosciuto i vestiti e le scarpe sporche di sangue.»
Mi guarda. Sento il sangue defluire dal viso.
«Ho perso sangue dal naso quella sera; ogni tanto mi succede. Purtroppo, me ne sono accorta quando i vestiti si erano già macchiati e li ho buttati.»
«Ha buttato via anche le scarpe.»
«Sì, erano vecchie.»
«L’idea della lettera anonima è stata geniale. Però avrebbe dovuto mandarla al suo indirizzo perché nessuno sapeva che lei era da sua madre. Ma se fosse arrivata qui nessuno l’avrebbe aperta per molto tempo e lei aveva fretta di discolparsi; sapeva dov’era la sua lente a contatto.»
Maledetta Giulia. Mi guarda da un angolo della mia mente con gli occhi stretti soddisfatti e la testa inclinata. Quando l’ho uccisa, i suoi occhi sono rimasti fissi nei miei per un tempo che mi è sembrato infinito. Per fortuna, il cavalletto le ha coperto il viso quando è caduta. Credevo di averla cancellata per sempre, ma la sento accanto a me, beffarda come quando guardava la mia porta chiusa insieme a Paolo, o voleva vendermi i suoi quadri. Si era presa gioco di me e aveva vinto.
AMANDA di Davide Pellegrini
«Amanda! Amanda!» gridai, gesticolando vistosamente dalla banchina. La gente, in coda per scendere, riempiva l’angusto corridoio del regionale Milano – Novara. Amanda era l’ultima della fila. Attraverso l’oblò centrale del vagone la vidi voltarsi verso di me. Il suo caschetto biondo scuro non sembrò interessato dal movimento del capo, e i suoi grandi occhi verdi sembravano fissare un punto alle mie spalle. Nessun muscolo del suo viso si mosse: gelida e innocente.
Quando l’avevano messa sotto la mia tutela la prima volta, per tre ore al giorno, avevo malignamente pensato a un tentativo del Comitato GCA di verificare la mia serietà. In effetti, un’avvenente ragazza poco più che trentenne, affidata alle cure di un coetaneo, nella mia visione assomigliava più a un incontro a fini matrimoniali che terapeutici. Ricordo che feci una gran fatica a tenere a bada il fuoco che, sin dall’iniziale stretta di mano, Amanda aveva in me. Ero talmente confuso che impiegai alcuni giorni per capire quale fosse il suo problema. A parziale scusante si potrebbe dire che alcune patologie non manifestano segnali evidenti. Sul motivo per il quale siano comunque classificate tali dalla scienza, avevo rischiato di giocarmi la tesi sulle urgenze in psichiatria, in un’apionata discussione ricca di divergenze con la commissione. Alla fine l’avevo spuntata tornando con gli argomenti sulla “retta via”, sentendomi più un paziente al colloquio di congedo dall’ospedale psichiatrico che un laureando in medicina. Tutta la faccenda, allora, mi era sembrata una grande farsa, a maggior ragione dopo la specializzazione. Ma ormai era troppo tardi per tornare indietro. Avevo quindi deciso di chiudere il diploma nel cassetto per dedicarmi al reinserimento dei pazienti psichiatrici di lungo corso. E, come prima, grande prova del fuoco, mi era capitata Amanda.
Il mio servizio di accompagnamento stagionale stava terminando, quello era l’ultimo giorno. Io lo sapevo bene, mi domandavo solo se anche lei lo ricordasse. Aveva una memoria normale, ma la sua malattia le procurava stati di vigile sospensione dalla vita durante i quali nessuno sapeva cosa accadesse realmente dentro di lei.
I eggeri seguitavano a scendere dal treno in maniera disordinata. Amanda avanzava con o lento e incerto. Quando finalmente giunse davanti alle porte scorrevoli, si fermò e mi sorrise con affetto, disorientata.
«Dai, scendi» dissi con accomodante dolcezza, porgendole la mano a mo’ d’invito per l’ultimo ballo.
«Davide…» disse, rivelando un’intensità emotiva che mai avevo riscontrato prima, «oggi è l’ultimo giorno.»
«Sì» risposi dopo una pausa. Sentivo una lacrima turbinare lungo il perimetro interno dell’occhio, pronta a sganciarsi da un momento all’altro. «Che cosa farai dopo?» chiesi, come fosse una domanda da niente.
Ci fu un fischio e le porte si richio con un tonfo. Amanda restò lì dietro, prigioniera di sbarre invisibili che da sempre vivevano dentro e fuori di lei.
FOTOTESSERA di Caterina Iofrida
Tardi. È tardi. La questura chiude tra mezz’ora. Ma perché, perché la foto per il aporto non va bene? Capelli sugli occhi. Ma fatemi il piacere… pensate di combattere il terrorismo coi cerchietti per capelli? Chi è il vostro eggero ideale? Cristina D’Avena? Vabbè. Il punto. Perdo sempre di vista il punto; ne devo fare una nuova e devo riportarla in questura in tempo. È tardi, tardissimo. Non partirò per le vacanze. Le vacanze! Ne ho tanto bisogno. Oddio… resterò in città. Per una volta che ho deciso di partire a marzo. Per una volta che posso partire a marzo. Ok, calma, mi fermo qui: in mezzo alla piazza. C’è mai stato, in questa maledetta piazza, il negozio di un fotografo? Ma perché, perché non faccio mai caso a persone, negozi, case, monumenti, se non quando sono connessi con me? Egocentrica e concentrata su me stessa. Che io sia stramaledetta… Non c’è, non c’è… un attimo. Oddio. Una cabina. Una cabina automatica. Eccola là. Cavolo, non ci ho mai posato lo sguardo per anni. Vabbè. Comunque. Tardi. Si va alla cabina. Si va alla cabina di corsa. Si va alla cabina! Si va anche in vacanza!
Eccoci qui. Inserire due euro; iniziamo bene. In anticipo, così, sulla fiducia. Ma che mi metto a pensare. Inseriamo questi due… certo, se li trovassi… No, di nuovo! Il portamonete rovesciato in borsa; lo sapevo, lo sapevo che era rotto, colpa mia. Mannaggia a me. Ok, domani rimetto a posto tutte le borse e compro un portafoglio nuovo. Ora focalizziamoci. Dai. Tasche. Tasche! Qui ho… eccoli! Evviva. Ci si fa. Si va in vacanza!
Voce metallica: «Siediti sullo sgabello e, quando ti piaci, premi il pulsante verde.»
Ecco. Oddio. Come sarebbe a dire… a parte che questo sgabello è basso. Come sarebbe a dire quando ti piaci? Ora… dici che così non vado bene? Che vuoi che faccia? Un salto dal parrucchiere? Oddio non è che tu abbia tutti i torti… Ora calma. Razionalità. Mi serve la foto per il aporto e mi serve subito. No, vabbè, con questa faccia non… Ecco, un bel sorriso, magari adesso premo… Ma perché ho sempre questi capelli! No, vabbè, mi devo almeno pettinare. Ecco
fatto. Ora magari posso premere il pulsante verde… ma che ho? Che cos’è quella faccia? Una deficiente! Una cretina. No, così non si può fare. Ho un brufolo! Strano, non mi pareva… Ecco, avessi del fondo tinta in borsa… ma perché, perché non sono una di quelle donne con il fondo tinta in borsa? Sempre persa nei miei pensieri. E ora la giusta punizione. Mannaggia a me!
Voce metallica: «La vogliamo smettere?»
Oddio. Ommamma. No, dai, ho sentito male, ho…
«Ho detto: la vogliamo smettere? La facciamo finita? Che facciamo, intanto ti ordino un caffè?»
Ho capito. Vabbè. Sono andata. Completamente andata. Sapevo che sarebbe successo, prima o poi. Eccoci. Sento le voci. Ma di che cosa mi stupisco… Lo sapevo che, col cervello che mi ritrovo, prima o poi…
«Allora?»
No, vabbè, calma. Non solo sento le voci, devono anche essere così rompipalle? Eh? Dico io.
«Che linguaggio! Anche quando pensi! Senti, facciamola breve… Prima cosa: su con quelle spalle.»
Mannaggia a me che non mi sono presa un po’ di riposo, quando dovevo. Ora dovrò spendere tutto lo stipendio in psicofarmaci e compagnia bella.
«Ho detto su con le spalle!»
Peggio della mamma, questa. Ho anche mal di schiena. Vabbè. Tiriamoci su, ché qui si fa tardi.
«Ascoltami, Laura.»
Oddio. Anche il mio nome.
«Smetti di preoccuparti.»
Ma dai? Un genio. Perché non ci ho pensato prima?
«Smettila subito. Niente sarcasmo, ok? Non vale. Ascoltami, ho detto.»
Neanche il sarcasmo. Vabbè. Immagino che, se voglio la foto, ti dovrò ascoltare.
«Brava.»
Non si ricatta così la gente!
«Non si cambia discorso!»
Ok. Hai vinto. Vai avanti con le tue perle di saggezza.
«Simpatica. Comunque. Laura, tu ti preoccupi troppo di quello che pensano gli altri di te.»
Questo è interessante. Tipo?
«Mmm, quel colore di capelli non mi piace granché…»
Dici? Beh, non piace neanche a mia madre. In effetti, neanche io ne sono tanto convinta, gliel’ho detto al parrucchiere che…
«Visto?»
Anche i giochetti psicologici. Non la sopporto proprio questa!
«L’importante è che tu capisca. Quel colore l’hai scelto tu. Ti piace. Ti ci vedi. Conta qualcosa quello che ne pensiamo io e tua madre?»
… No. Immagino di no.
«Bene. E questa vacanza dove la farai?»
Uffa! E ora che ne sa, questa, delle mie vacanze?
«Vuoi che non conosca il formato delle fototessere che faccio?»
Che palle. Australia, comunque.
«Wow. E da quando vuoi andarci… il sogno di una vita?»
Veramente io volevo andare in Perù. Dovevo andare in Perù. Con un’amica. Avevamo anche già prenotato. Ma, poi, lei si è innamorata di questo tizio, lui si è trasferito in Australia, e ora… insomma, le manca. Quindi domani annulliamo il volo per il Perù e si va a Sydney.
«Le manca. Tu annulli il volo per il Perù e vai fino in Australia perché lui le manca.»
Beh, lei ha anche paura dell’aereo. Dovrei mandarcela da sola?
«Ascoltami bene. Tu uscirai da questa cabina e andrai a rinnovare il tuo aporto, ma, poi, non andrai in Australia. La tua destinazione è il Perù.»
Io… ma come le dico che non vado più con lei?
«Per favore, Laura, basta con queste idiozie.»
Ok. Va bene. Vado in Perù. Vado dove volevo andare da anni. Ci vado e basta! E che nessuno provi a fermarmi!
«Brava.»
E non o neanche dal parrucchiere, a rifarmi il colore!
«Ottimo.»
Mi sento meglio, ora.
«Eccoci. Ora, Laura, voglio che tu ci pensi bene: ti piaci?»
Sssì… sì, assolutamente!
«E allora ce l’abbiamo fatta. Continua a sorridere e, per pietà… premi sto pulsante verde!»
Eh? Ah, già. Sì. Ok.
Fatto!
Ah… grazie. Non mi aspettavo che una cabina per fototessere potesse aiutarmi nella vita. Davvero non me l’aspettavo. Non è stato facile con me, immagino.
«Prego. C’è stato di peggio, cara Laura. E comunque faccio solo il mio lavoro. Qualcuno deve pur farlo.»
LE NOTE DELLA TUA VITA di Stefania Serio
È ato un mese.
Era un mercoledì e io, mentre mi spazzolavo i capelli davanti allo specchio, non sapevo ancora che sarebbe stato l’ultimo giorno in cui avrei visto il viso a cui ero abituata.
Il giorno dopo, quello stesso specchio avrebbe riflesso una faccia nuova, un viso estraneo, deformato dagli eventi che, ancora quel mercoledì mattina, non sapevo mi avrebbero travolta.
È ato un mese.
Ancora il mio viso mi è estraneo, ma è ora che impari ad accettarlo, sarà il mio viso per tanto tempo ancora. Forse per sempre.
Altre cose dovrò accettare; è arrivato il momento.
Ora è anche il momento di aprire quelle ante dell’armadio sigillate col pensiero.
Non so perché, ma mi aspetto che, come le scatole musicali, una volta aperte mi rovescino addosso tutta la musica racchiusa.
Apri – Musica.
Chiudi – Silenzio.
Interrompere le note dove ti pare per farle ripartire esattamente nel punto in cui le hai interrotte.
Sarà così oggi, ogni tuo abito, camicia, cravatta o maglione, mi suoneranno le note della tua vita; che è stata anche la mia. Fino a un mese fa.
È arrivato il momento di aprire il tuo armadio, svuotarlo dai tuoi vestiti; non ti servono più, sei andato via un mercoledì di un mese fa e non sei più tornato.
Con la mano sul pomello indugio ancora ripensando a quel giorno. Non potrò mai scordarlo e il rievocarlo mi serve per dare un senso a ciò che sto per fare. La scatola musicale può ancora attendere un momento, le note intrappolate saranno finalmente libere di uscire e, una volta librate nell’aria, non torneranno mai più; che aspettino pazienti allora!
È toccato ad Alfredo, tuo amico e collega, l’ingrato compito di dirmi che non c’eri più.
È venuto a casa nostra mentre stavo preparando il pranzo. Capitava a volte. Prendeva un libro, un disco; sorseggiavamo il caffè seduti al tavolo della grande cucina. Qualche volta restava con noi a pranzo o più spesso a cena.
Hanno suonato alla porta e ho pensato fosse strano che il portiere non mi avesse
avvertito.
Ho guardato dallo spioncino, era Alfredo; ho spalancato la porta tranquilla, ho sorriso al nostro amico.
Non ho aspettato che entrasse, ho messo subito le cose in chiaro.
«Sappi che non ti presterò nessun libro se prima non mi restituirai quelli che ti sei già preso!»
Stavo per snocciolargli i titoli dei libri ancora in suo possesso, ma le parole mi sono morte in gola; Alfredo aveva un colorito spaventoso, gli occhi arrossati e infossati di chi ha pianto.
Non avevo mai pensato che Alfredo fosse capace di piangere; non ha pianto neanche quando Nadia, sua moglie, lo ha mollato per un altro uomo. Gli ha lasciato solo un anonimo biglietto ed è andata via, portandosi dietro il loro bambino.
Anche allora era corso a casa nostra, ma non aveva pianto, gli occhi erano chiari e asciutti; aveva bisogno di non restare solo in quella casa vuota. Era rimasto a dormire da noi, sul divano, e non lo avevamo consolato; non era necessario, sapeva che prima o poi sarebbe successo.
È rimasto sulla soglia con quel viso spaventoso e poi ha cercato di abbracciarmi; mi sono divincolata e già sulla difensiva gli ho detto: «Non voglio essere
abbracciata! Voglio sapere perché hai pianto.»
La sua vita, da quando è rimasto solo, ha ripreso un ritmo tutto sommato tranquillo; ha sofferto, neanche troppo, ma ha superato tutto.
Lui e Nadia, infine, si sono parlati e capiti, il loro bambino non è mai diventato ‘un pacco conteso’; sta un po’ con lui e un po’ con la mamma; è un bambino sereno.
Perché ho pensato che lui volesse abbracciarmi per consolarmi? Io gli sono stata vicina in quei momenti difficili ma non l’ho mai consolato.
E poi, mi son chiesta, per cosa vuole consolarmi? Va tutto bene e non pensavo affatto che lui potesse sapere qualcosa, qualche particolare che mi sfuggiva.
Quella mattina Giorgio mi aveva baciata prima di uscire, era sereno. Non avevo trovato nessun biglietto in cui mi comunicava di aver trovato un’altra donna, un nuovo amore! Avevo spolverato tutti i mobili, se ci fosse stato un foglietto lo avrei sicuramente visto.
Ha farfugliato qualcosa e io mi sforzavo di ricomporre le sue frasi senza senso. Non ho mai avuto pazienza con i mosaici o i giochi di parole.
Mi sono spazientita e ho continuato a non voler capire. Alfredo è rimasto ancora sulla porta e io, a un tratto, non volevo che entrasse, avrei preferito se ne andasse. Non pensavo più che fosse ato per un libro o un caffè.
«Cosa vuoi allora Alfredo?» continuavo nella mia ottusità.
Mi sforzavo di unire le parole per dare un senso compiuto a ciò che riuscivo a cogliere: “defibrillatore, rianimazione, massaggio cardiaco”. Io non sono un medico come lui e Giorgio, perché pretendeva che capissi i loro termini clinici?
Ed è stato di fronte al mio rifiuto di voler capire che mi ha mostrato, esausto, la soluzione a quello che non era un gioco di parole. Ha finalmente avuto il coraggio di non girarci più intorno; aveva sperato che io capissi senza dover pronunciare la frase per intero, quella che avrebbe dato un senso a tutto.
«Non c’è stato nulla da fare, Giorgio ha avuto un infarto; non ce l’ha fatta.»
A quel punto non ha più voluto lasciarmi dubbi, ormai lo aveva detto e continuava imperterrito. Avrei capito solo in seguito che, lui per primo, aveva bisogno di risentirlo per crederci: «Giorgio è morto.»
«Vattene via da casa mia, Alfredo!» gli urlai contro.
«Sei nostro amico, perché ci stai tradendo così?» continuavo a infierire su di lui come se la colpa fosse sua.
Allora sono scappata giù per strada, in pantofole, scappavo da Alfredo come se, allontanandomi da lui, ciò che aveva detto potesse svanire.
Mi sono voltata indietro e mi stava inseguendo. Se non mi raggiunge io non avrò quella notizia, ancora la mia mente era incapace di essere razionale.
Le gambe, infine, hanno ceduto e lui mi ha raggiunto.
«Ornella torniamo a casa.»
Mi sono arresa, l’ho seguito muta e lui non ha più tentato di abbracciarmi; avevo la testa bassa, il cuore impazzito e il cervello che non voleva saperne di rimettersi a funzionare.
Standby.
Reset.
Ricominciamo da capo.
Quella volta è entrato, ha chiuso la porta; avrebbe voluto sprangarla, ne sono sicura, per non permettermi di scappare ancora, per costringermi ad ascoltarlo.
Si è seduto sul divano dove un giorno aveva dormito, e non per essere consolato.
Non c’è molto da dire, vuole che io sappia com’è successo, tutto molto in fretta: «Non ha sofferto molto; si è toccato il petto ed è caduto a terra.»
‘Non ha sofferto’ può essere una consolazione?
Ma io avrei voluto essere confortata, avrei voluto una spiegazione a quel che era successo, io sapevo solo che quella mattina era uscito di casa, come sempre, baciandomi sulla bocca.
«Ho ancora il profumo del suo dopobarba attaccato addosso» dissi piano.
Poi Alfredo era piombato qui e mai gli avrei prestato un altro libro.
Non voleva un libro; voleva consolarmi e non glielo avevo permesso; allora era rimasto seduto sul divano a piangere. Io avevo sempre pensato che lui non fosse capace di piangere.
Scaccio via dalla mente ciò che è successo dopo, ma non posso, per aprire quell’anta devo ancora ricordare.
Il funerale, le condoglianze e poi i fiori, i discorsi, incombenze che non ero capace di svolgere. Alfredo aveva fatto tutto ciò che era necessario, io firmavo solo degli assegni; era tutto quel che potevo fare.
La voglia di stare sola non mi era concessa, tanti abbracci, baci, parole, e mi
rivedo che rispondo a tutti. In realtà non ero già più io, ma ancora non avevo avuto tempo di guardare il mio viso allo specchio.
La solitudine alla fine era arrivata, anche Alfredo doveva tornare al lavoro, a suo figlio. Lo avevo ringraziato; proprio lui, che me lo aveva detto, era stato perdonato.
Gli avrei prestato ancora dei libri, se me lo avesse chiesto.
Qualcuno, non so ancora chi, aveva riordinato la casa, la cucina era immacolata e io mi chiedevo che fine avesse fatto il pranzo preparato il giorno in cui Giorgio non era più tornato.
Tutto sparito, cancellato, forse con l’intento pietoso di non farmi ricordare.
A un tratto un assurdo pensiero mi ha sovrastato: chi ha voluto cancellare il pranzo mai mangiato ha voluto eliminare anche tutto il resto?
La corsa in camera da letto per vedere se qualcuno avesse toccato la sua roba. Le pantofole ai piedi del letto erano state rassicuranti.
Non era compito degli altri toccare ciò che era suo. Mi avevano lasciato ancora quel diritto, l’ultimo, nella mia veste di moglie.
Ma in quel momento neanch’io potevo farlo e tutto era rimasto intatto nel tuo
armadio.
* * *
È ato intanto un mese, e io non voglio che tu te ne vada, ti ho tenuto prigioniero in un armadio. Stanotte ti ho sognato. Dopo un mese sei venuto a cercarmi e non ho capito subito il perché di quella visita; pensavo avessi bisogno di me, come io di te.
Anche tu non eri più lo stesso; hai sofferto molto in quei minuti, ma nessuno lo vuole ammettere, il tuo viso in sogno me lo ha rivelato.
Mi hai chiesto di lasciarti andare, mi hai pregata, implorata; non vuoi più restare chiuso nel tuo armadio.
Te lo devo, anche se probabilmente dopo non verrai più a cercarmi.
Il mio tentativo di tenerti prigioniero ha soltanto allontanato ciò che era ormai inevitabile; per un mese ancora sei stato solo mio e mi hai fatto capire come fosse ingiusto e doloroso il mio egoismo.
Non sono mai stata egoista; ripenso alla nuova figura che lo specchio mi rimanda cercando in quel nuovo viso segni di egoismo. Non ne trovo. Infatti ho deciso che sarai di nuovo libero.
“Ogni tanto torna a trovarmi, se ti riesce!”
Non so come funzionano le cose da ‘quelle parti’. Ci saranno permessi speciali? Posso interferire, in qualche maniera?
Il prete, nel suo sermone al tuo funerale, mi pare abbia detto che la vita delle persone care prosegue nel nostro cuore; non credo abbia parlato di armadi sigillati col pensiero.
Io non ti ho sentito nel mio cuore; c’era solo dolore.
Nell’armadio, invece, vive il tuo odore; microscopiche briciole di pelle e argentei fili di capelli, appoggiati su austere giacche, sono parti di te, del tuo corpo che non vive più con me e tra un po’ giaceranno nelle scatole, che se ne andranno via insieme alla tua anima leggera.
Penso a questo mentre apro quelle ante, gli occhi che guardano da un’altra parte.
Te lo devo.
E allora guardo i tuoi vestiti, lo scatto dell’anta li fa un po’ dondolare e capisco che sei libero.
Adesso potrò, con calma, riporli nella scatola che qualcuno ha lasciato in casa, non so chi, forse lo stesso che ha buttato il nostro pranzo mai mangiato.
Sì, farò tutto con calma, ora posso aprire e chiudere quell’anta.
Non ho più paura di perderti. Ti ho perduto un mese fa.
Apri - Musica.
Chiudi - Silenzio.
Come una scatola della musica suonerò, per l’ultima volta, le note della tua vita.
Lo specchio all’interno del tuo armadio mi rimanda la mia figura; non sarò più la stessa.
Ora posso accettarlo.
IL SORRISO DEL BAMBINO CIECO di Antonino R. Giuffré
A casa Rùsteghi, nel paesino di Palma di Montechiaro sulle colline, si doveva mangiare a mezzogiorno in punto, non un solo minuto eccedente, non uno in leggero difetto. A mezzogiorno in punto. A quell’ora, infatti, ogni membro della famiglia doveva essere già seduto a tavola, muto e ligio, e con un tovagliolo bianco del medesimo tessuto del drappo prandiale spiegato sulle ginocchia, se si voleva evitare che Celi, il capofamiglia, proprietario di un piccolo oleificio a Marina di Palma, s’arrabbiasse impugnando il suo vecchio bastone di rattan per batterlo forte sui denti dei ritardatari. Sposa di Celi era Caterina, umile casalinga che s’occupava premurosamente della crescita dei suoi cinque figli. Amina, la più grande, già lavorava nella sartoria di Mario Imbràcchera come filatrice; seguivano Annagrazia, Florina e Marcella, tre deliziose ragazzine di età compresa tra gli otto e i quindici anni e, infine, l’unico maschio, Tranquillo, appena nato.
Nel giorno di Pasquetta, l’odore rutilante del sanguinaccio che bolliva nel paiolo — piatto che lì non mancava mai nei giorni festivi, seppur non gradito a nessuno — aveva già impregnato tutte le stanze della loro residenza qualche minuto prima che il canto del gallo Isaia desse il via, come di consuetudine, al rito famigliare. Alla pronta squilla del pennuto, le sedie di legno antico, preziosissime, erano già state tutte occupate, tranne una, quella di Amina.
«'Sta disgraziata» tuonò Celi, «dove s’è andata a cacciare? Si può sapere, eh! Tu, tu… sei complice, la difendi pure… scommetto! Tu lo sai, Rina… tu lo sai dov’è! È che non me lo vuoi dire! No! Ma quando torna, quando torna… a ‘sta puttana le sbatto la faccia contro lo spigolo del muro! Ammuccia, ammuccia pure, ca tuttu pari![1].»
«Non lo so neppure io! Ma che ti piglia?» rispose Caterina con tono deciso. «Nostra figlia è seria, non ci sta alla pescagione[2] e manco a lambiccare azzittamosche[3]! Sarà… sarà ch’è con le sue compagnette a raccontarsi la giornata! Mica può sempre filare, poverella!»
«Ed io intanto sto qui a rodere la farina del cucciddatu[4], a metterci il naso, a sciaurarla, mentre quella sgarbata se ne va per i fattacci suoi! Ma io mangio senza di lei! Senza di lei, ti dico! Cu c’è, c’è![5]»
«E fai pure, fai pure! Tanto tu solo la panza sai far ragionare!»
«No! Tu e gli altri… appresso a me! Se mangio io in questa casa, devono mangiare tutti! Tutti, anche i miei porci!»
Il piccolo Tranquillo si mise a piangere a dirotto. Caterina, preoccupata, dopo aver messo da parte il mantile lordo, scattò verso la culla per prenderlo amorosamente in braccio. Gli diede qualche carezza sui capelli castani, dondolandolo appena; così faceva sempre, la madre, per vedere un tenero sorriso sulle labbra della sua creatura.
Le bambine intanto guardavano Celi con occhi grigi e spiritati. Annagrazia rigirava la forchetta nel piatto, innervosita, e pareva non avesse più intenzione di mandar giù qualcosa. Affiancate come complici di vecchia data, invece, Florina e Marcella inghiottivano quel pasto frugale a tambur battente, probabilmente per ritornare il più presto possibile in camera. Difatti ognuno era prigioniero nella sua invisibile sfera di silenzio arpocritea. Se il padre avesse parlato, moglie e figli si sarebbero disposti a cerchio attorno a lui, a formare una spessa muraglia d’incomunicabilità, mentre, qualora fossero stati loro a parlare, il padre li avrebbe zittiti con la forza del suo vecchio vocione da contadino. Ma nessuno parlava. Tutti, in religioso silenzio, pazientavano il ritorno d’Amina, che non era ancora rincasata benché l’orologio segnasse già l’una.
L’unico che riusciva a banchettare e a bere vino pacificamente era proprio Celi.
Seduto a capotavola, dopo interminabili minuti d’attesa, impuntò con severità le dita intofate sul legno della tavola e poi, ridacchiando, ve le batteva contro. Dal colore infiammato della pelle, si capiva che ormai s’era ubriacato.
«Suonano alla porta» disse Caterina, «dev’essere Amina.»
Appena Caterina aprì la porta notò, con un certo stupore, che Amina non era sola. L’accompagnava infatti un bambino dalla carnagione molto chiara, sui dodici anni, magrissimo, non vedente. In un precario equilibrio, si teneva stretto alla veste della sua benefattrice. Indossava dei vestiti sporchi e bucati, e si copriva con le braccia, come sentisse freddo. Alcuni lividi sul braccio destro e sulle gambe facevano pensare che qualcuno l’avesse picchiato. Caterina lo guardò con dolcezza. Non chiese nulla alla figlia, né chi fosse, né da dove provenisse, né perché l’avesse portato in casa propria. Rientrarono.
Celi non era più al suo posto, a comandare. Sazio ed ebbro, era andato a coricarsi.
«Ma chi è, questo bimbo?» domandò Florina, in un sorriso bellissimo.
«L’ho trovato qui che chiedeva l’elemosina… poverino, era solo… e ho pensato che noi, ecco, avremmo potuto aiutarlo…»
«Oh, Amina! Per me hai fatto bene!» disse Caterina, mentre puliva il ragazzo nella vasca. «Per una bocca in più non muore una famiglia, ma tuo padre… tuo padre… già è incavolato nero con te! Lo sai, com’è fatto? Se non si mangia tutti insieme… è pronto alla zuffa come un maiale! Pensa ch’era già pronto a farti sanguinare i denti, quel cane! Ma tu stai tranquilla, gioia, ci penso io quando si
sveglia! O prima o poi gli avveleno la pasta!»
«Ma parla?» chiese Marcella, incuriosita.
«Sì! Adesso però ha solo bisogno di cibo e riposo.»
Quella notte il bambino cieco la ò nel letto di Amina.
«Sai» disse il trovatello, «io sono ebreo. Per questo sono segnato dappertutto da lividi e ferite. Qui sono cattivi. Non mi vogliono. E ho saputo che rischio anche…»
«Cosa rischi? Non dire sciocchezze! Ma tu… hai ancora una famiglia?»
«E chi può dirlo? È già un miracolo se sono ancora vivo…»
«Non preoccuparti. Ci sono io, adesso. E potrai essere felice! Su! Vieni tra le mie braccia, voglio dormire con te, stanotte.»
«Ma quando tuo padre lo saprà… mi farà uccidere, lo so! Tu sei gentile, moltissimo, ma non devi metterti nei guai per colpa mia. Sono pronto ad andarmene ora stesso. Hai già fatto abbastanza per me, davvero…»
D’improvviso il gallo, il cui recinto era visibile di là dalla finestra della camera dei ragazzi, si mise a starnazzare. Era mezzanotte. Celi, svegliatosi, corse subito nella stanza dei figli col suo fucile da caccia. Un colpo preciso agli occhietti selvatici e Isaia stramazzò al suolo in una pozzanghera torbida di sangue.
«Che avrà avuto questo gallo?» vociò. «Sarà stata la vecchiaia! Sarà stato quello, povera bestia! Era giusto che cree.»
Poi, giratosi di scatto verso Amina che faceva coraggiosamente scudo al cieco col suo corpo, Celi esclamò con durezza:
«E quello chi è?»
Annagrazia trasecolò davanti alla balconata. Marcella e Florina, invece, distimiche, si misero accoste a una delle gelate murature della stanza. A un certo punto la più piccola, Florina, gridò di non vederci più, poi di vederci molto male, come colpita prima da cecità fulminante e dopo da agnosia appercettiva. arono due minuti. In un movimento repentino, l’altra sorellina si distese sotto il suo letto facendo uscire soltanto i piedi appena lavati, a diretto contatto col pavimento a bullettoni. Lì stette in posizione rigida con le mani sul collo, come si sentisse soffocare. Eppure sia l’una che l’altra, ancorché confuse, a vederle erano sane e colorite. Florina infatti nell’iridi cerulee, non denotava che il suo carattere fresco e sbarazzino. Non aveva mai avuto difetti alla vista, né agnosia né ambliopia né altro. E anche a Marcella, bellissima, non era mai capitato di soffrire di anginofobia o qualcosa di simile prima che il padre sopraggiungesse.
Dalla sua alcova, agitatissima, Caterina accorse in vestaglia. Poi, rivolgendosi rabbiosamente al marito e increspandosi in faccia come una vecchia di novant’anni, esclamò:
«Ma cosa succede? Che gli hai fatto alle mie figlie, carogna! Parla! Parla… o io…»
«E che ci potevo fare? Chiedilo ad Amina e a quel rospetto che s’è portata in casa!»
«Lui non c’entra! Non c’entra! Sapevo ch’era qui, lo sapevo da subito! Non t’ho detto niente perché ormai conosco di te pure le pulci che c’hai nei capelli! Sei tu, che le hai fatte spaventare, bastardo!»
«È un orfano che ho salvato dalla strada» intervenne con un filo di voce Amina. «Appena starà bene, se ne andrà, padre.»
«Se ne deve andare, adesso! Adesso, capisti? Ancora ti devo quelle del pranzo, che m’è venuto pure di traverso, tu scurdasti?»
«Solo due… tre giorni al massimo. Poi andrà via, te lo prometto. È un bravo ragazzo, parla poco, non ti caà alcun problema, te lo prometto…»
«E va bene! Ma che sia soltanto per due giorni! Altrimenti…»
«Vado a chiamare il Dottor Lasca» concluse Caterina, stringendo forte le sue figliole.
Appena il Dottor Lasca batté alla porta, Celi fece segno alla moglie che soltanto lui avrebbe parlato della disgrazia; s’arricciò i baffi cespugliosi con il pollice destro e, disse: «Oh, entri, Dottore! Entri!»
«La prego… si risparmi i suoi…» rispose quello, schivando lo sguardo del suo interlocutore.
«Ma come? La vengo a chiamare e mi tratta come un somaro di Raddusa? Oh, no! No! Dottor Lasca, non è così che funziona! Non le conosce le nuove disposizioni? Si vuole spogliare nudo nei campi con le terga frustate a punto? Devono essere tempi duri per voi scecchi senza religione! Durissimi! La consiglio di portarmi rispetto…»
«Ho capito, Signor Celi. Ho capito! Ma per quale ragione mi ha chiamato?»
«Le mie due figlie più niche[6]…»
«E cosa c’hanno?»
«Lo veda lei, sono nella stanza sinistra in fondo al corridoio.»
In camera il cieco, intanto, oscillava leggermente il corpo avanti e indietro, pregando inginocchiato con i gomiti poggiati sul letto di Annagrazia. Il Dottore lo notò.
«E lui?» chiese a Caterina. «Avete sfornato un altro bimbo nel tempo in cui non vi sono servito?»
«Oh, no! È un ragazzino… ebreo, come lei, Dottor Lasca, che stiamo ospitando per alcuni giorni in casa nostra. L’ha salvato dalla strada ieri mia figlia Amina, altrimenti chissà che fine avrebbe fatto, poverino!»
«Sta recitando la Shacharit, Dio lo benedica» esclamò il Dottore, sorridendo. «Posso avvicinarlo, quando avrà finito di pregare?»
«Se mio marito non se ne cura… intanto veda Florina e Marcella. Adesso si sono un po’ calmate, ma sapesse come stavano fino a qualche minuto fa…»
Le due bambine si prestarono serenamente per la visita di rito.
«Non hanno nulla di grave, per fortuna» disse il Dottor Lasca a Caterina, «ma devono riposare a lungo. È necessaria anche una cura specifica, poi le dirò quando potrà raggiungermi nel mio studio a Fumarolo.»
Dopodiché il Dottore si diresse a brevi i verso il cieco:
«Shalom aleichem[7], giujuzza[8]!» disse sottovoce lisciandogli una guancia. «Ti devo dire una cosa: scappa appena puoi! Scappa! Quell’uomo che ti sta dando riparo è malvagio! Lo conosco bene, se potesse farebbe impalare pure a me che gli curo i dolori fino in casa! Devi andare via prima che lui… sappia…» e prese la strada di ritorno alla sua frazione.
Dopo poche e tormentate ore di sonno, Annagrazia si svegliò. Sudatissima, andò in bagno. Allo specchio, senza niente addosso, s’osservò alla meglio per alcuni minuti. A tu per tu con se stessa, si vedeva con gli occhi gonfi e arrossati, il seno cadente, che pareva essere stato munto per giorni, le gambe segnate dalla cellulite e i capelli come lunghi e arricciati fili di gramigna. Immerse un dito nell’acqua per saggiarne la temperatura. Era caldissima. Man mano che vi prendeva confidenza, si sentiva più leggera, sollevata. Ma durò poco. Ogni molecola d’ossigeno a lambire la punta del suo indice la portava indietro negli anni, quando la madre le diceva di non farsi mai il bagno al cospetto di uomini. Sorrise amaramente come allora. Poi entrò nella vasca con molta cautela. E lì si sfiorava il corpo, pensando. Annagrazia era triste ma non ne capiva ancora il motivo. Più l’acqua, che si faceva tiepida e immobile col are dei minuti, l’avvolgeva col suo indefinibile abbraccio, più lei si lasciava andare a quell’incerto malessere. Tutta la potenza alchemica dell’acqua era nella sua testa, nelle sue braccia, nelle sue unghie, ineludibilmente, come lei, poco a poco, era in essa ma senza più testa, senza più braccia e senza più unghie. Un frigido tocco di mano sul seno la svegliò improvvisamente dalla stasi. Era suo padre.
«Vieni qua, Annarella mia! Vieni qua! Ché ti faccio…»
«Lasciami, padre! Lasciami…»
«Non gridare, cretina! Ché? Mi vuoi far ar guai?»
Con un soffocato gemito, Annagrazia s’inginocchiò al padre senza obiezioni, facendo suo quel ruolo che la vita le aveva assegnato: gracile e mansueta, lasciava che Celi affondasse come lame al burro nella sua più intima vergogna, la martirizzasse, la picchiasse sul volto per provarne più piacere, mentre lei, in lacrime, s’aggrappava al bordovasca.
«Ora torna nella tua camera» le disse Celi appena ebbe finito, «e mi raccomando…»
Era giunto sabato. La giornata era meravigliosa. Nella campagna circostante la villa dei Rùsteghi, la primavera si sfrondava di ogni esitazione; i rondoni preparavano i loro nidi e, in continui svolazzi su per le marine, buscavano spasmodicamente cibo per i rondinotti affamati; le api giravano da capo a capo alla ricerca di nuovi fiori, e così le formiche, a terra, per qualche spicciolo di nutrimento.
Il cieco, a cui Celi aveva dato il permesso di rimanere lavorando, era vicino ad Amina quando accese due candele e iniziò a recitare il Kiddush. Le altre bambine lo guardavano stupite, meravigliate. La sua espressione era gioiosa, serena, come se stesse davvero a contatto con Dio, con la luce, accendendosi in un sorriso tanto dolce e spontaneo che veniva di baciarlo subitamente alle labbra.
«Cos’è questa farsa? Chi sunu ‘sti cannili?» disse Celi, accorso all’improvviso. «Tu… piccolo verme! Vèni cca! Chi stai facennu? Ora ti faccio sputare dalla bocca tutto il rancio di questa settimana, abbreu!»
«Fermo, fermo, che vuoi fare?» urlarono in coro Caterina e le figlie.
Agganciandolo per una manica, Celi portò a scapaccioni il cieco nel letamaio del gallo defunto. Lo spogliò nudo, lo tirò per i capelli, lo fece rotolare nel fango e glielo fece inghiottire. E quello, il ragazzino, ancora sorrideva come niente gli stesse accadendo, umile, ferito in ogni muscolo del corpo, insudiciato, ma capace di rialzarsi a ogni colpo.
«Ti scippu macari gl’incisivi, cani rugnusu!» gli disse Celi. E così fece. Con una grossa pinza sradicò i denti del cieco e li gettò nelle gabbie dei suoi tacchini. Infine afferrò un sarchio arrugginito e gli fracassò il cranio da parte a parte.
«E voi che c’avete da guardarmi in faccia?» disse alle figlie, appena tornato a casa, con gli occhi rossi e le mani sporche di sangue. «È mezzogiorno, dobbiamo mangiare.»
Note
[1] Nascondi, nascondi, che tutto sembra. Le magagne (o i guai) non si possono celare a lungo.
[2] Pescagione: rapporto omosessuale.
[3] A lambiccare azzittamosche: rapporto orale.
[4] Cucciddatu: filone di pane.
[5] Cu c’è, c’è: chi c’è, c’è, altrimenti non fa nulla.
[6] Nico: dial. Sicilia. “Piccolo”.
[7] Shalom aleichem (Ebraico: )שלום עליכםè un tipico saluto ebraico. Il significato è "che la pace sia su di voi".
[8] Giujuzza: dial. Sicilia. “Piccola gioia”.