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Annapaola Prestia

EWAS

AbelBooks

In copertina foto "Piccola Donna" di Manuela Morgia

Proprietà letteraria riservata © 2015 AbelBooks

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AbelBooks – Massimo Lerose editore via Leonardo Da Vinci Pal. CEEPLA snc 04019 Terracina (Latina) ISBN 9788867521685

Al mio verde paese, agli anni migliori trascorsi in compagnia di amici dal cuore grande. Non mi sono mai sentita tanto a casa come qui con voi.

A Susy, che aveva promesso di leggermi sempre.

A mio padre: questo scrivevo, durante le lunghe ore di ospedale. Ecco, adesso puoi sbirciare…

Giovedì 20/12/2012 Ore 23:08

La nebbia sembra aver avviluppato la città. Mi alzo dal divano e scosto le tende cercando di guardare fuori: nient’altro che un grigio sporcato di bianco, punteggiato qua e là da lucine intermittenti inghiottite dall’ovatta. A quanto pare, la nebbia ha deciso di fermare anche il consumismo del Natale che avanza. - Vado di là… - Dico brevemente a mio marito Matteo, che annuisce senza staccare gli occhi dallo schermo piatto a 40 pollici del nostro televisore. Non ho bisogno di spiegare, né di giustificarmi; è da due settimane ormai che il nervosismo non mi abbandona mai, né durante le mie interminabili giornate di lavoro né, più tardi, a notte fonda, quando le poche ore di sonno confuso ed agitato mi accelerano il respiro strozzandomi le urla in gola. - Manca meno di un’ora alla fine del mondo! – Dichiara compiaciuto il conduttore del programma televisivo interamente dedicato alla profezia Maya che sta riempiendo i giornali di tutto il pianeta da almeno due mesi a questa parte. Non riesco a reprimere un brivido che affiora sulla superficie della mia pelle, mentre la telecamera inquadra l’ultimo branco di idioti che ha saggiamente deciso di riparare in un paesino di montagna ed ora festeggia a suon di alcolici e musica da quattro soldi, scrutando il cielo di una notte senza stelle. Socchiudo la porta della stanza che, negli anni, ho battezzato “biblioteca” e mi accoccolo sul divano a luce spenta. Melina, la mia gatta arancione, evidentemente disturbata per un attimo dal movimento che il mio peso ha prodotto accanto a lei, borbotta sommessamente prima di rigirarsi a ronfare sulla pancia. Affondo le dita nel suo pelo soffice e colorato, spruzzato di bianco a strisce marroni e cerco di calmarmi, assorbendo, attraverso le mie estremità, il tranquillizzante alzarsi ed abbassarsi della sua piccola gabbia toracica. Ma non resisto a rimanere seduta troppo a lungo: l’orologio fosforescente brilla nella semi oscurità: sono da poco ate le 23. Faccio mentalmente un conto, un’operazione che compio ormai da anni, in qualsiasi momento della giornata, qualunque cosa mi stia impegnando in quel preciso istante non ha importanza. 23 meno 7 fa 16.

Non è ancora iniziata. È buffo, penso riaccomodandomi sul divano: ai Maya, grandi esploratori ed astronomi precisissimi dovevano essere comunque sfuggiti i misteri dell’orologio cosmico. La fine del mondo sarebbe dovuta avvenire a mezzanotte, ma poiché la notte abbraccia la terra in momenti diversi a seconda dei luoghi, così anche la devastazione dell’Apocalisse avrebbe dovuto colpire il mondo seguendo le regole del fuso orario. Per un momento mi immagino a bordo di un aereo supersonico, in fuga dalla distruzione, in senso contrario al cataclisma: con addosso gli occhiali dei primi avieri ed un foulard colorato attorno al collo, potrei stringere la cloche del timone contro di me e riuscire a precederlo, andando indietro nel tempo, fuso orario dopo fuso orario, potrei riuscire a farla franca? Sorrido di un sorriso amaro: mi sto nuovamente perdendo nei miei pensieri e, intanto l’orologio, crudele, continua ad avanzare. Mi sollevo dal divano, facendo l’ultima carezza a Melina e mi avvicino alla scrivania sotto alla quale, anche a luce spenta, so che spunta il pomello azzurro del mio “cassetto delle carte”. Il “cassetto delle carte” è una sorta di paese delle meraviglie in miniatura, non è semplicemente un contenitore in legno che straripa di documenti, lastre di antiche visite mediche, appuntamenti non mantenuti, appunti di romanzi che sono rimasti poco più che pensieri, pezzi di giocattoli rotti, vecchie pile ormai corrose dall’acido, piccoli elettrodomestici che la modernità e la rivoluzione digitale hanno reso ormai inutili ed inutilizzabili e matite spuntate. Il “cassetto delle carte” è un riassunto della mia vita: lui e questa vecchia scrivania tarlata sono il mio bagaglio esistenziale, sono tutto ciò che, in decenni di traslochi, spostamenti e rivoluzioni, ho sempre portato con me, sono la struttura che tiene assieme ciò che io sono, l’ossatura della mia memoria. Nessuno mette le mani in questo cassetto tranne me; a volte ano degli anni dalla mia ultima visita, magari capita che niente di nuovo vi entri o niente di troppo malandato vi esca anche per parecchi mesi ma il cassetto con il suo fedele pomello di un azzurro laccato ormai consumato e scrostato sulla punta, rimane in vigile attesa, come un amico fidato dalla bocca chiusa. Lo sfioro con l’indice, quindi afferro il pomello con due dita e lo sento cedere, senza alcuna difficoltà. È la notte giusta, penso, per rivelare finalmente qualche segreto, anche il mio vecchio amico sembra stanco di rimanere perennemente in silenzio.

Dò una rapida occhiata alle mie spalle ma non percepisco nulla, al di là del bagliore azzurrognolo della luce da corridoio che abbiamo comprato, qualche mese fa, per diminuire gli incidenti domestici notturni in cui sia io che Matteo continuavamo ad incappare a causa dell’oscurità. - Avrete il corridoio che conduce al bagno più luminoso della cabina di un aereo! - Ci aveva assicurato il commesso per giustificare il prezzo assurdo appena richiestoci. Sorrido, scrollando le spalle: più che una cabina di aereo, il mio corridoio assomiglia al vicolo di una vecchia cittadina infestata dai fantasmi, tutto buio e bagliori azzurrini che disegnano ombre e profili di oggetti che al mattino riconosco e che invece, alla sera, si trasformano in masse informi dalla dubbia identità ma va bene così. Ho sempre pensato che la poesia si nascondesse soprattutto nel mistero. Rassicurata dall’assenza di movimenti sospetti, affondo la destra nel cassetto e o in rassegna tattile le buste con le lettere d’amore dei miei primi fidanzati, il diario segreto della mia quinta elementare con quel ridicolo lucchetto che i miei compagni di scuola avevano forzato al primo colpo con una semplice graffetta, i pezzi in plastica di una sorpresa di chissà quale uovo di Pasqua e, finalmente, trovo quello che sto cercando e lo estraggo con cura, avvicinandolo al mio volto. Mi porto accanto alla porta finestra che dà sul balcone e mi ci appoggio contro con una spalla: ho bisogno del freddo del vetro, sul quale si sta formando una specie di condensa appiccicosa e viscida, per avere il coraggio di rivoltarmi questa cosa tra le mani. - È soltanto una foto… - Mi dico sottovoce, cercando di riempirmi i polmoni di aria – Nient’altro che una vecchia fotografia. La notte, fuori, è fonda e lattiginosa ma non ho bisogno di luce per vedere ciò che la mia mente conosce a memoria: c’è una ragazza, in quella fotografia, se ne sta sdraiata a pancia in su con le braccia incrociate sotto alla testa, i capelli scuri raccolti in due buffi codini di cui uno praticamente sciolto le si spargono attorno al capo come una specie di aureola, una ciocca nera le attraversa la fronte e le copre parzialmente un occhio, come la benda di un pirata dei cartoni animati e le sue labbra sono increspate in un inizio di sorriso misterioso ed ondivago, che sembra quasi guizzarle sul viso come la luce di una fiammella. Il mento della ragazza, magra come uno spillo, punta dritto al cielo così come i suoi occhi,

socchiusi, sotto al quale, forse, stanno iniziando a formarsi dei sogni; a causa della posizione delle braccia, la maglietta leggera, a maniche corte, di un rosa confetto come quello dei vestiti che indossano le Barbie, si è sollevata, lasciando intravedere l’ombelico ed un addome piatto e teso, come quello di un ghepardo affamato e scattante. Scuoto la testa e faccio scorrere le dita lungo il bordo della fotografia: chi è questa ragazza, nella quale non mi riconosco più? C’è stato un tempo, mi chiedo, durante il quale lei era viva ed io non esistevo ancora? E quando è avvenuta la trasformazione, quando è iniziato il cambiamento e la realtà ha fatto breccia nella sua vita, cancellando i suoi sogni, soffocando le sue attese, quando è capitato che io le abbia rubato i giorni ed i respiri, tagliandole i capelli, modificandole gli abiti, fino a farla sparire dalla mia esistenza? Appoggio la fronte al vetro e colgo, per qualche secondo appena, quello che ora è il mio volto: all’apparenza non è poi così diverso dal suo, è più ovale, meno spigoloso, gli occhi grandi adesso sono accompagnati dalle prime linee sottili che si ispessiscono quando mi concentro su un problema di difficile soluzione e altre linee stanno comparendo, agli angoli delle labbra, il mento è meno appuntito, la fronte si spiana con meno facilità. Ma questa, mi ripeto, è solo apparenza; la sostanza è tutta un’altra cosa. Da quell’estate, dei miei quindici anni, a questo inverno dei miei 33, mi sembra di aver attraversato centinaia di vite e mi sento improvvisamente stanca. Forse la fine del mondo è un bene: un lampo di luce a mezzanotte, tutto qui, nessuna gioia, nessun dolore, semplicemente niente di niente. I saggi Maya si sono estinti, portandosi i loro segreti nella tomba, lasciandoci qui alle prese con questa cosa, la vita, che non sappiamo né comprendere né governare e che, quando finisce, ci lascia il più delle volte con l’amaro in bocca. Ripenso a mia madre, a quando la vita l’ha abbandonata una notte di tanti anni fa, alla domanda che le è rimasta appiccicata agli occhi rivoltati verso l’alto, incollata sulla sua fronte sudata, che né la marea di rosso che l’ha quasi sommersa, né i miei disperati tentativi per tenerla stretta a me e a questo mondo, sono riusciti a cancellarle dalla faccia: perché? Già, perché? Perché? Perché? Perché? La domanda mi rimbomba nel cervello e le immagini mi scorrono rapide sotto alle palpebre: è impossibile tentare di non vedere, la mia memoria infantile, invece di cancellarli, ha impresso questi orribili ricordi a caldo direttamente sul mio cuore e la mia mente precipita in un circolo vizioso dal quale, da piccola, riuscivo ad uscire con un unico gesto doloroso. Sollevo freneticamente la manica

del mio pigiama blu scuro, accartocciando, senza vederli, i buffi pinguini che lo decorano da destra a sinistra, avvicino rapidamente pollice ed indice puntando le unghie come se le volessi unire in una sorta di improbabile preghiera e le dirigo verso il mio avambraccio. La visione della mia pelle lattea, quasi rilucente in questa notte ovattata, blocca il pizzicotto prima che questo si possa abbattere, con furia, sulla carne tornita e morbida delle mie braccia e, trasformandolo in un massaggio, mi permette di tirare brevemente il fiato. Pericolo scampato. Ripenso a quando ero adolescente, a come avevo ridotto i miei avambracci a furia di pizzicotti dolorosi, avevo la peste dei Promessi Sposi, mi piaceva pensare, quella che aveva colpito, senza distinzione, la santa Lucia e il peccatore Don Rodrigo, quella fatta di bubboni lividi puntinati di rosso da nascondere al resto del mondo, che nessun altro poteva vedere né, tantomeno, immaginare. Erano il glorioso marchio del mio peccato, della mia colpa e della mia redenzione attraverso la sofferenza. “Io non sono degna…” mi ripetevo, pensando a mia madre, a quella sua ultima notte, al panico che mi aveva assalita: forse lei mi aveva perdonato, così avrebbe detto il prete ma io non ero in grado di perdonare me stessa per la mia incapacità. Infilo, per precauzione, la mano destra sotto al sedere e, in questa notte di ricordi sul ciglio della fine del mondo, preferisco non rischiare ed evitare di cedere alla tentazione: il nostro cervello funziona per associazioni, legami, archi voltaici, fili elettrici che si innescano quando veniamo a contatto con uno stimolo; il rapporto perverso che lega piacere e dolore, vittima e carnefice, sofferenza e redenzione è qualcosa che i miei neuroni non possono aver dimenticato e lì dove mio marito ama affondare i suoi denti quando ci amiamo, sotto strati di pelle di burro e “ciccetta”, forse potrebbe esserci ancora annidata la rabbia e la distruzione. Serro gli occhi, deglutisco e mi prendo qualche secondo, come insegno a fare in studio, ai miei pazienti: “Segua la mia voce, ascolti il suo respiro, si concentri sui movimenti del suo diaframma…E uno…Inspiri…E due…Espiri e soffi fuori tutto…” e tento di fare mie queste preziose massime orientali. Se si potesse, con un respiro, soffiare davvero fuori tutto, rabbia, angoscia, disperazione, se bastasse soffiare via il nostro ato e semplicemente scrivere in una nuova pagina bianca l’inizio del nostro futuro, credo che non avrei più pazienti e dovrei cercarmi un nuovo lavoro. Non appena una parvenza di calma mi scivola dentro, giro la fotografia e, come ogni volta in cui ripenso a mia madre, soffoco un singhiozzo prima che si porti dietro anche una lacrima: non è per lei, questa specie di veglia, non più.

Una mano maschile ha tracciato dei numeri, una data, sul retro della mia fotografia, una data e un’ora, con una forza tale che le cifre si sono impresse, al contrario, su parte del mio viso e del collo e anche senza luce, semplicemente accarezzando al buio, come i ciechi, riconosco ogni numero e lo metto nell’ordine giusto. 12/20/12 h 06:05 pm. Non c’è scritto altro dietro alla fotografia, né c’è bisogno di ulteriori parole. Questa fotografia viaggia con me e con il mio “cassetto delle carte” da 17 anni esatti; per mesi l’ho nascosta, seppellita sotto un mucchio di schifezze, ho tentato di dimenticarla, ho sperato, invano, che ne arrivasse un’altra con nuove scritte, magari altre cifre, meglio ancora, senza cifre, solo parole, ho finito per odiare i numeri, sono diventata allergica alle date. Quando la ricevetti mi ci volle del tempo per comprendere che cosa significasse, quale fosse il senso esatto di questo rompicapo che mi era stato recapitato per posta: dalla sera del 15 agosto 1994 non avevo più sentito parlare di Christian, attorno a lui si era creato una specie di silenzio becero, un misto di omertà e di crudele invidia che non ero riuscita a lacerare in nessuna maniera. Mio padre mi aveva proibito anche solo di nominarlo ed aveva ordinato a Giuseppina, la cameriera che si occupava di me e della casa quando lui era via, di fare altrettanto. In paese le bocche erano state sigillate: nessuno avrebbe parlato con nessuno, tanto meno con me, l’ultima arrivata, la ragazzina siciliana, l’estranea del Sud in un paese incastrato tra le Alpi, la figlia del direttore generale di una nota fabbrica Italiana, che, dalla “bassa”, come gli abitanti del posto nominavano ciò che era al di sotto del fiume Po', aveva deciso di mettere radici in zona. Quando eravamo arrivati io e mio padre, in paese, dicevano i vecchi, erano iniziate tutte le sventure: un inverno praticamente senza fine e senza neve durante il quale il termometro aveva toccato spesso i quindici gradi sotto lo zero, un’estate afosa e senza pioggia, un’invasione di insetti rossi e repellenti che si erano divorati il già scarso raccolto dei campi e l’arrivo di Christian, il diavolo in persona, che aveva squassato l’ordine millenario ed immutabile della montagna, fatto di mucche da mungere e di uova da raccogliere, turbando i sogni delle donne anziane e delle ragazzine in età da marito. Io e Christian eravamo stati avvistati addirittura insieme, durante quella maledetta sera, naturale che nessuno avesse voglia di parlare con me e che, anzi, di più, godesse un sacco a bisbigliare dietro alle mie spalle, pugnalandomi con un finto sorrisetto innocente ogni volta che mi voltavo, di scatto, cercando di mettere a tacere i chiacchiericci sussurrati a mezza voce. Non avevo più avuto alcuna notizia di Christian per oltre un anno, fino all’arrivo di quella foto, in busta chiusa, con quella data e quell’orario, scritti sicuramente da lui, sul retro. Ricordavo perfettamente il giorno limpido, quel pomeriggio

accecante durante il quale me l’aveva scattata, un giorno di agosto del 1994, uno dei giorni più belli della mia vita; che cosa avesse a che fare tutto questo con il 20 dicembre 2012, che, per me e la mia mentalità da ragazzina, rappresentava un giorno futuro così lontano nel tempo da essere quasi inimmaginabile, non lo compresi per parecchio. Mi arrabbiai moltissimo: era ato un anno, un anno intero senza ricevere da lui niente, nemmeno una cartolina e adesso, a 12 mesi e più di distanza, tutto quello che ricevevo, da un posto nel Texas di nome “Huntsville” non era nient’altro che una mia fotografia e delle cifre che per me non avevano alcun significato. Gettai con rabbia la fotografia nel cassetto e lasciai che, lentamente, anno dopo anno, il tempo e la quotidianità fero il loro lavoro, seppellendola sotto altre carte e foto e diari e ricordi di giornate sempre uguali che avrei preferito far scivolare nel dimenticatoio della mia vita domestica. Gli anni ed il divieto, ebbero su di me l’effetto sperato: una damnatio memoriae completa; se, per puro caso, mi capitava di ripensare a Christian, a stento riuscivo a ricordarne il volto, il bagliore riflesso dei suoi capelli corvini o il suono che aveva la sua voce. Lui aveva deciso di cancellarmi, di liberarsi per sempre di me rispedendo al mittente la mia fotografia, quella che aveva giurato di tenere con sé e così avrei fatto io, ripagandolo con la stessa moneta. Parecchia polvere si accumulò sul mio cuore e dentro al cassetto, facendo sparire quella foto e quella ragazza che, per un'estate aveva danzato al chiarore della luna sulle note di una musica indiana, tra le pieghe della storia di tutti i giorni. Fino a quando, dieci anni dopo, non mi capitò di leggere un vecchio articolo sul pensionamento di Jim Willet, soprannominato il “boia di Huntsville”, direttore del penitenziario texano con il braccio della morte più attivo degli Stati Uniti d’America, 89 esecuzioni durante la sua più che onorevole carriera al servizio della giustizia del Texas e una sequela di incubi notturni e sensi di colpa che non lo aveva mai realmente abbandonato. Capii in un battibaleno il significato di quelle cifre scritte a penna dietro alla mia fotografia, di quell’attimo segnato nello spazio e nel tempo, di quel 20 dicembre 2012 che stava inesorabilmente avanzando, un punto fisso nell’universo come, del resto, tutti i secondi che lo avevano preceduto e quelli che, immancabilmente, lo avrebbero seguito, qualcosa di inevitabile e da cui nessuno, nemmeno il mitico Doctor Who con la sua astronave a forma di cabina blu a so per la galassia, sarebbe stato capace di scappare. Mi siedo meglio di fronte alla scrivania ed accendo il mio portatile, schermandomi gli occhi con una mano: mi ci vuole un po’ per abituarmi al ronzio prodotto dai circuiti che si attivano; trattengo il respiro e rimango, per un attimo, in attesa ma non sento altro che il rumore regolare di Melina, che fa le

fusa anche mentre dorme, sovrapposto agli schiamazzi televisivi per l’imminente fine del mondo, in arrivo dal mio soggiorno. Clicco, tra i miei “preferiti” un sito internet senza nome, decorato con una stella bianca in campo rosso, lo apro tutti i giorni, da quando ne ho scoperto l’esistenza: nell’era dell’informatica e della globalizzazione nessun posto è lontano, nemmeno il braccio della morte di Huntsville, Texas. Scorro i nomi ordinati in una tabella di nove colonne per otto righe, scritti in caratteri piuttosto piccoli e gli occhi mi bruciano per lo sforzo, ma non ho alcuna intenzione di accendere la luce: stanotte deve rimanere un segreto, perfino per Matteo. Lo trovo subito, perché ormai so dove cercare: tra l’elenco delle esecuzioni programmate, ordinate per data ed ora, il suo nome figura, in caratteri neri su sfondo chiaro, prima il cognome e poi il nome, come fosse l’elenco scolastico, “Norris Christian, presente!” Mi verrebbe quasi da aggiungere. Generalità, iniziali e dati dei suoi genitori, data di nascita, etnia, codice assegnato al suo caso, data di ingresso nel braccio della morte e, prima tra tutte, nell’ordine, la data della sua uscita dallo stesso, uscita da Huntsville e uscita dalla vita, poco prima della fine del mondo prevista dagli odiosi Maya, il 20 dicembre del 2012. Mi accorgo che il respiro mi diventa affannoso: non ci sono aggiornamenti rispetto a ieri, il nome di Christian, il giorno del suo compleanno, tutto è ancora lì, è il primo della lista; ci sono altri sei nomi che lo seguono ma se i Maya saranno clementi, forse il braccio della morte di Huntsville si svuoterà tutto in un colpo, assieme a quello che rimane di questo mondo senza giustizia. Muovo rapidamente le dita sul touchpad del mio portatile e attivo il collegamento evidenziato in rosso che recita “Offender Information”. Più che al servizio della giustizia, come declama lo slogan del sito del penitenziario, mi sembra che tutta questa meticolosità sia al servizio del desiderio macabro della gente comune di volerne sapere di più. Ed ecco che, dopo meno di un secondo, l’Adsl mi proietta per l’ennesima volta nell’orrore senza fondo della cronaca nera: c’è l’immagine di Christian, il suo viso liscio da angelo venticinquenne all’epoca dei fatti, di fronte e di profilo, com’è giusto che sia nelle foto segnaletiche della polizia, i suoi precedenti, piccoli reati, qualche furtarello, possesso di sostanze stupefacenti e poi, a grandi lettere, il riassunto del caso, in poche righe, il motivo di questo omicidio ordinato dallo stato alle 06:05 pm, ora locale. Mando la pagina in icona, non resisto a rileggere quelle parole, sento che mi sta venendo la nausea e sono costretta a sorreggermi la fronte con una mano per evitare di sbatterla contro la tastiera.

- Christian… - sussurro a bassa voce; - Christian… - ripeto poco dopo, trattenendo il respiro. E, come quando avevo 15 anni, mi volto verso la finestra, ad occhi chiusi e prego, intensamente, con tutto l’ardore che solo il primo amore sa infondere, che lui si materializzi proprio lì, dietro al vetro, che mi tiri i sassolini dalla strada per attirare la mia attenzione. - Christian… - Dico ancora una volta, come se il suo nome potesse essere una specie di parola magica declinata nella lingua morta della sua tribù, che sua madre gli aveva insegnato quando era ancora un ragazzo. Sento in gola il sapore salato delle mie lacrime, lacrime di rabbia nei suoi confronti, lacrime di disgusto nei miei. –Non posso fare altro, Christian, perdonami… - Singhiozzo ad occhi chiusi, cercando di convincermi delle mie stesse parole. – Anche io ho fatto un patto con ewas – aggiungo, asciugandomi malamente una lacrima –come tu avevi fatto il tuo… Scuoto la testa e mi allontano, con tutta la sedia, dalla scrivania; quello che sto facendo non ha alcun senso, non c’è nessuno ad ascoltarmi al di là dello schermo. Lancio una rapida occhiata all’orologio che continua, indifferente, a mandare avanti i numeri sul proprio quadrante, uccidendo un secondo dopo l’altro. Tra poco qui sarà mezzanotte e la mia paura più grande non è l’improbabile fine del mondo, quanto piuttosto la probabilissima continuazione dello stesso. Dopo la mezzanotte i minuti seguiteranno a scorrere e con essi le ore e i giorni e i mesi e le stagioni e non finirà assolutamente niente e mi sentirò per sempre come quei criceti che desideravo tanto quando ero bambina, imprigionati nelle loro gabbiette, che corrono continuamente dentro la ruota, sperando che tutto questo affannarsi li porti veramente da qualche parte. - Il criceto non è un animale da compagnia, è solo un topo, un surci chiù grassu! E i surci fanno schifo, portano le malattie! – Ripeteva sempre Giuseppina a mio padre, tutte le volte che lui, stanco per le mie continue richieste e capricci, si preparava a cedere, a piegarsi al mio volere. E il criceto, Natale dopo Natale, continuava a non arrivare mai. - Il criceto e il topo sono due animali differenti, brutta ignorante! – Strillavo con la voce e poi anche con le dita, gesticolando, mugolando, sputando fuoco e fiamme dagli occhi; ma Giuseppina mi ignorava e se ne tornava in cucina, a preparare l’ennesima, insipida, zuppa di verdure per la cena. - E poi i topi non sono né grassi né malati… - sussurravo più tardi, quando ero sicura che nessuno potesse sentirmi, - io sono come un topolino, lo ha detto lui, io sono…

Interrompo bruscamente il mio pensiero: non ricordo più la parola Tonkawa esatta, quella che, un tempo, definiva con precisione la mia anima; corrugo la fronte e ci riprovo finché, ad un tratto, qualcosa si scioglie, come una bolla di fango all’altezza del mio cuore e risale, potente, lungo l’esofago fino ad arrivare nella parte cosciente della mia mente. - Hanil, ti chiamerò hanil. – Sento la voce di Christian nelle mie orecchie, una voce che credevo di aver dimenticato e che, invece, come per magia è di nuovo accanto a me. Da quanti anni non la sentivo più, così forte e chiara, risuonare nel mio cervello? Spalanco gli occhi e rimango quasi stupita di trovarmi ancora qui, di fronte alla mia scrivania, al buio, una donna sudata e mezza matta che parla allo schermo di un Pc. - Sta andando sempre peggio… - Mi dico, ripetendo quello che lo psichiatra infantile aveva detto a mio padre, in quei giorni, subito dopo la morte di mia madre, quando avevo smesso di mangiare e cercavo di parlare senza usare la voce, ma solamente i gesti. Avevo sentito mia madre, incinta del mio fratellino, urlare dal dolore, contorcersi per quelle che erano state le doglie di una specie di parto troppo prematuro: mio padre non era con noi, quella sera, così come molte altre sere ed io, una ragazzina terrorizzata di soli 12 anni, non ero stata capace di fare niente che non fosse piangere e rimanere, sbalordita, sconvolta, a guardare. Quando ci avevano trovate, al mattino dopo, lei era morta dissanguata e io avevo perso completamente la voce: avevo urlato con mia madre, pianto, lottato assieme a lei e poi vegliato, pregando, piangendo, implorando, chiamando mio padre, supplicandolo di venire da noi ma non era successo niente, perciò avevo deciso di punirlo con la sua stessa arma: il silenzio. Avevo sentito troppo: grida, pianti, sofferenza, dolore e troppo avevo detto, senza ottenere alcuna risposta. C’era una bambina sordomuta che abitava accanto a noi, viveva in un mondo tutto suo in cui niente poteva ferirla, comunicava solo quando ne aveva voglia, i suoi genitori erano stati costretti ad imparare i segni magici per entrare nel suo universo, i suoni di fuori non potevano toccarla, né le risate delle persone felici, né gli strilli di quelle disperate, nulla poteva sfiorarla se lei non avesse deciso di prestarci attenzione. Così divenni sordomuta anche io, volontariamente, mi sarei strappata le orecchie e la lingua io stessa se soltanto ne avessi avuto il coraggio e per oltre tre anni non comunicai praticamente che a gesti. Ma poi arrivò il trasferimento, il vento di tramontana che ci condusse, più o meno volontariamente, dalla Sicilia al Nord, dal mare alla montagna.

- Hanil è il topolino che nessuno riesce ad acciuffare e tu sei magra e veloce proprio come un topolino… Sorrido, al buio, come avevo fatto a Christian 18 anni fa: non mi sembrava che nessun innamorato dei miei romanzi avesse mai paragonato la propria bella ad un roditore, ma hanil era una parola dal suono dolce e mi era subito piaciuta la maniera in cui le sue labbra l’avevano articolata, aspirando lievemente la acca iniziale, come se chiamarmi pronunciando il mio soprannome, avesse potuto togliergli il respiro. Avevo ricominciato a parlare con Christian. All’improvviso sento uno scoppio che mi strappa ai miei ricordi e mi riporta immediatamente alla realtà: corro alla finestra in tempo per vedere un lampo di luce colorata squarciare, per un secondo, la nebbia bianca che non accenna a diminuire. Qualcuno sta lanciando dei petardi, festeggiando, con qualche minuto di anticipo, la scampata fine del mondo; mi sistemo nuovamente accanto a Melina che, svegliata dall’esplosione, ha sollevato il musetto verso l’alto ed annusa l’aria tentando di interpretare le tenebre e le accarezzo le orecchie lunghe e soffici come quelle di una piccola lince rossa. - Stai tranquilla… - le dico, rivolgendomi contemporaneamente anche al mio cuore che ha considerevolmente accelerato i propri battiti a seguito dello scoppio. Melina si stiracchia e decide di saltarmi sulla pancia e, dopo qualche strusciatina, si accomoda con tutto il suo peso impedendomi di muovere le gambe. –E va bene… - concludo grattandola leggermente sotto al mento – la signorina vuole le coccole… -. All’improvviso mi viene in mente un pensiero assurdo, un’idea balzana senza capo nè coda, una di quelle che mio marito boccia di solito all’istante, tacciandole di inconsistenza ma alla quale non so e non voglio resistere. Sette ore, decine di migliaia di chilometri e le mura del penitenziario più sicuro d’America ci separano, ma io e Christian siamo atnon, siamo qualcosa che, per gli dei e gli indiani Tonkawa non si può separare e se questa deve essere la fine del mondo per me e per lui, allora così sia, veglieremo assieme in attesa dell’ultimo minuto. Perciò prendo in braccio Melina e tutte e due ci spostiamo nuovamente sulla sedia di fronte alla scrivania, lì dove è rimasta la mia fotografia, con la maledetta

data scritta a penna e quell’orario, che non si può modificare. Ma c’è ancora tempo, un’eternità di secondi baluginanti sul quadrante del mio orologio: non conosco nessun altro mezzo più potente del pensiero o più magico del ricordo che possa lottare contro l’avanzare del tempo ed è l’unica arma che ho per tenere Christian qui con me. Così faccio un respiro profondo, chiudo gli occhi e immagino di essere sdraiata di nuovo, accanto a lui, nel nostro castello, il cielo aperto sopra di noi che si estende all’infinito oltre le cime delle montagne e tutta la vita a nostra disposizione. Perché io sono hanil e lui è kola, l’uccello che si libra in volo senza lacci né padroni e, insieme, possiamo fare ogni cosa.

Estate del 1994

La scuola era terminata ed avevo scansato la bocciatura per un pelo: i professori erano stati comprensivi con me, soprattutto quelli del liceo del Nord alla quale ero approdata a metà della mia quarta ginnasio e l’insegnante di sostegno che mi aveva accompagnata mi aveva definita con un’intelligenza tutto sommato nella norma, anche se si evidenziavano grossi problemi di condotta e di inserimento. Certo, inserirsi in un mondo di suoni per una ragazzina muta non poteva essere una cosa facile ed essere costretta a farlo, in un ambiente totalmente nuovo doveva essere stato ancora più complicato. Ridacchiavo tra me e me, soddisfatta del mio successo: tutti davano per scontato che io fossi una stupida e, per di più, una stupida muta, probabilmente anche sorda. La gente, soprattutto le persone che non conoscevano affatto la mia storia, cadevano spesso nel tranello e finivano per dire cose, di fronte a me, che avrebbero fatto meglio a tenersi per sé. Ero così abile nella mia finzione che, spesso e volentieri, riuscivo letteralmente a sparire da una stanza, da un gruppo di persone o perfino da una conversazione: avevo sviluppato un talento sopraffino per l’immobilità ed ero capace di rimanere così, ferma e zitta, per talmente tanto tempo che la gente finiva per dimenticarsi semplicemente della mia presenza. In questa maniera mi era capitato di venire a conoscenza di un mucchio di cose, senza fare praticamente alcuna domanda; ero entrata a forza in una società, quella montanara, assolutamente chiusa, basata su regole ataviche che non si potevano mettere in discussione, ero capitata in un paesino nel quale le donne conducevano gli uomini durante i balli, aravano i campi, filavano e tacevano e, al mattino, si bevevano un calice di vino rosso al posto del caffè come buongiorno e la lingua era un impasto di suoni gutturali e complicati da pronunciare che, alle orecchie di un forestiero, sembravano tutti più che altro dei pericolosi insulti, inclusi i saluti. Era evidente che non c’era posto per la nostra famiglia, o per quello che ne restava. Eravamo completamente tagliati fuori, naufraghi alla deriva in un mare di erba verde e montagne. - Mangia quella dannata minestra! – Sbuffò mio padre, voltandomi le spalle e continuando a riempire la propria valigia. Mi lanciai a pesce sul suo letto, incurante delle spiegazzature che stavo procurando al copriletto inamidato e abbassai con violenza il coperchio della sua

ventiquattrore, colpendo con furia le sue dita e negando contemporaneamente con forza, agitando il capo a destra e a sinistra come una furia. - Ma sei impazzita?! Ahia!!!! - Esclamò lui, portandosi istintivamente le dita alle labbra. Aveva gli occhi stanchi, attorniati da cerchi scuri che andavano gettando ombre violacee sul suo viso da uomo quasi vecchio per una ragazzina della mia età. Inspirai ed espirai rumorosamente, restringendo gli occhi fino a trasformarli in due fessure scure: la cosa peggiore dell’essere una bambina muta per scelta era il non poter far esplodere la rabbia e darle voce attraverso le parole; in quel preciso istante sentivo il peso di tutte le lacrime, gli insulti e le preghiere che premevano per uscire, contro il mio palato, riuscivo addirittura ad assaporarne il gusto amaro come fiele in bocca ma sapevo anche che mio padre mal tollerava questa mia scelta e che, continuare a tacere, avrebbe acuito la sua pena ed il suo sconforto. La vendetta richiede tenacia ed impegno… - Piantala una buona volta e cresci! – Mi disse lui, dopo un breve respiro; spostò con voluta noncuranza la ventiquattrore all’estremità del letto e riprese a piegare le due camicie che avrebbe portato con sé nel suo ennesimo viaggio di lavoro, ignorandomi deliberatamente. Notai una sbavatura di rosso che macchiava il colletto di una delle due; stavolta gli avevo fatto male davvero. “Non partire, ti prego, non lasciarmi qui, di nuovo, da sola…” le parole mi martellavano nella mente ma avevo paura di dirle, non volevo apparire, come al solito, una bambina spaventata e piagnucolosa. - Mi dispiace… - Sussurrai invece, incerta. Mio padre era l’unico che conosceva la falsità del mio mutismo; aveva provato a combatterlo in tutte le maniere all’inizio, tentando di farmi ridere, o piangere e, sospetto, perfino urlare con qualche dispetto ma non aveva ottenuto che pochi singhiozzi stentati; poi era arrivato quel buffo signore con gli occhiali come quelli di Mr. Magoo e la barba appuntita, il dottore, lo strizza cervelli, che gli aveva suggerito di lasciarmi fare. E così lui aveva obbedito, piegandosi ai voleri miei e della neuropsichiatria infantile. L’essere stata parzialmente accettata nella mia scelta mi aveva permesso di fare qualche graziosa concessione in cambio: mio padre avrebbe mantenuto il mio segreto col resto del mondo ed io, a mia volta, gli avrei detto qualche parola ogni tanto… La mia voce, solitamente chiusa a chiave in fondo alla mia gola, uscì strozzata, come lo squittio di un topolino spaventato.

- Non so che farmene del tuo dispiacere, sei tu l’unica causa dei tuoi problemi… - Mi rispose lui, portandosi le mani ai fianchi. Doveva essere stato un bell’uomo ai suoi tempi, muscoloso, slanciato, con gli zigomi alti ed il portamento fiero; aveva conosciuto la mamma durante uno dei suoi viaggi, quando già entrambi disperavano di poter trovare un compagno per la vita e lei se n’era innamorata perdutamente; cominciavo ad avere un’età in cui gli uomini iniziavano ad apparirmi interessanti anche se non avevo assolutamente idea di che cosa farmene delle cotte, totalmente segrete e perciò unilaterali, che prendevo, di tanto in tanto, per qualcuno dei miei professori: quei sentimenti profondi erano come onde di acido corrosivo che mi scavavano percorsi sul cuore e rughe di stanchezza attorno agli occhi. Il mio già scarso appetito scompariva definitivamente quando mi innamoravo, iniziavano a tremarmi le gambe, ad imporporarmisi le guance; riempivo decine di pagine di diario segreto con i miei pensieri ed i miei sogni romantici che si concludevano invariabilmente con una fuga d’amore in qualche paradiso del Pacifico e poi, improvvisamente, così com’era venuto, l’amore se ne andava. ava l’estate, mio padre veniva trasferito in un’altra città, si doveva ricominciare tutto daccapo, nuovi esseri umani con cui entrare in contatto, nuovi posti da imparare a conoscere, nuovi rumori notturni cui abituarsi, non c’era di colpo più spazio per l’amore ed io mi risvegliavo, repentinamente, come da un sogno sognato troppo a lungo, vagamente confusa e frastornata ed irrimediabilmente e disperatamente sola. La frase che mio padre aveva appena pronunciato mi colpì come una pugnalata in pieno petto: io non ero affatto, non potevo essere la causa di alcun problema! Era stata tutta colpa sua se la mamma era rimasta incinta, anche se non avrebbe dovuto vista l’età non più giovanissima, perché lui voleva un maschio, perché lui non sapeva che farsene di una bambina che non avrebbe nemmeno trasmesso il suo cognome ai nipoti, perché io non amavo lo sport, non facevo la lotta, non ero brillante a scuola e non mi piaceva fare amicizia. Perché io non valevo niente… - Sei tu l’unica causa dei miei problemi! – Gli ringhiai sottovoce, fissando con ostinazione il pavimento. - Adesso basta, ti avverto, non voglio sentire una parola di più per questa sera. Dovrebbe farti piacere – mi rispose lui – ti do il permesso di stare zitta! E mangia quella minestra del cazzo o per te saranno guai! Non assomigli per niente a tua madre… - Aggiunse dopo un attimo, volgendo su di me uno sguardo disgustato.

Sottovalutando il tono basso e raschiato con il quale mio padre aveva parlato ripresi: - È colpa tua se la mamma è morta! È colpa tua! Tua e solo tua! In quel preciso istante un manrovescio mi colpì così violentemente al viso che rotolai, lunga e distesa, sul letto di mio padre e, per poco, non mi morsi la lingua che, nella caduta inattesa, mi ballonzolò per tutta la bocca. Mio padre non mi aveva mai picchiata prima e, per un lungo secondo, non riuscii a dire o a pensare a niente che non fosse il dolore. - Spero di non assomigliare mai e poi mai a te! Ti odio! – Gridai con tutto il fiato che avevo in gola, spalancando la bocca, sputando, sui suoi mocassini lucidi, un misto di saliva e sangue, quindi, con uno scatto degno di Pietro Mennea, balzai in piedi e corsi a rinchiudermi in camera mia, senza dargli alcuna possibilità di reagire. La luce in cucina si accese, udii distintamente il click del vecchio interruttore a parete, Giuseppina rimase per qualche secondo in attesa e poi tutto ritornò silenzioso e opaco. - Vaffanculo… vaffanculo… - Mormorai tra me e me, tenendomi la testa fra le mani. La guancia mi pulsava dolorosamente e la lingua aveva iniziato a gonfiarsi, rendendomi difficile perfino respirare. Come aveva osato alzare le mani su di me? Mi aveva presa così alla sprovvista che non ero stata capace di reagire, quasi neanche di respirare! Quel vecchio stronzo, pensai mordendo il cuscino e macchiandolo di una traccia rosata ed umida, perché non era morto lui al posto di mia madre? Per quale motivo il destino mi aveva condannata ad un’esistenza legata a doppio filo con un uomo anziano che di me non aveva mai capito niente per il semplice fatto che non aveva nemmeno una volta provato ad entrare nella mia testa e nel mio cuore? - Io non sono più una bambina! – Ringhiai, con la voce spezzata dai singhiozzi ed il muco che mi impediva di respirare. Ero cresciuta di colpo, quando mia madre era morta, avevo perso l’innocenza, la scioltezza, la dolcezza, la morte di mia madre mi aveva come svuotata, trasformandomi in un fantoccio rinsecchito, uno degli spaventaeri che, in montagna, punteggiavano i campi di granturco, solo che quelli erano riempiti di paglia e a me non era rimasto altro che il dolore di cui fare incetta. E la colpa. Sollevai la manica della mia maglietta fino alla spalla ed affondai le unghie nella

mia carne, mordendomi le labbra per non gridare; strizzai con forza gli occhi e delle stelle bianche mi esplosero da dietro alle palpebre chiuse, inspirai ed espirai violentemente col naso, aggiungendo sale e lacrime all’impasto che avevo ormai pronto in gola ed attesi che un livido rotondo, screziato di rosso e viola, si disegnasse, come per magia, sotto al mio tocco. Ero la maga della peste, la fata del dolore color porpora, giudice e giuria di me stessa ed avevo appena sentenziato, legiferato riguardo al mio status. Ancora una volta, ero colpevole: di codardia nei confronti di mia madre, di superbia in quelli di mio padre. Rilasciai lentamente, gradualmente, la pelle violata del mio avambraccio sinistro ed ammirai la perfezione rotonda, il marchio della mia colpa che troneggiava su tutti gli altri segni meno recenti, quasi il negativo di una foto surrealista che rappresentasse un cielo stellato e, per un attimo, la purezza della sofferenza fisica si sostituì ad ogni pensiero. Dovevo fare qualcosa, ma cosa? D’istinto, allungai la mano verso il cassetto azzurro della mia scrivania alla ricerca del mio diario ma mi bloccai dopo qualche secondo appena di esplorazione tattile al contatto con la copertina rigida di cartoncino rosa che racchiudeva tutti i miei segreti. Non avevo bisogno di un amico, riflettei febbrilmente, non quella sera, non più, del resto non ne avevo mai avuto uno vero, almeno non in carne ed ossa. Dovevo dare un segno, qualcosa che potesse ferire mio padre con la stessa violenza con cui lui aveva colpito me e quattro pagine pietose scritte con una calligrafia tremante ed incerta non avrebbero sortito alcun effetto, così come era accaduto tutte le altre volte. Ripensai alla notte maledetta, al mio prima e dopo, al muro in cemento armato che mi aveva separata per sempre e a forza dai sogni della mia infanzia e, nella mia mente, iniziò a prendere forma un piano: mio padre non c’era, quella sera, lui non c’era mai. A causa del suo lavoro gli capitava spesso di fare tardi o di non rincasare affatto, spesso e volentieri faceva lunghi viaggi in varie parti del mondo dai quali tornava, spossato e cambiato, e, ad ogni ritorno, mi sembrava sempre che ci impiegasse qualche secondo in più per riconoscermi. Ero sicura che, alla fine dell’ennesimo viaggio di lavoro, semplicemente mi avrebbe oltreata con lo sguardo, dimenticandosi persino della mia esistenza oltre che della mia faccia. Il piano era semplice eppure efficace: gli avrei reso il favore che, da una vita, stava aspettando: me ne sarei andata io, stavolta e per non fare più ritorno. Del resto lui desiderava ardentemente il bambino morto, quello che aveva creato, quello che si era rubato mia madre in una notte per il desiderio troppo potente di venire al mondo senza aspettare; quel piccolo mostro egoista che, a seconda delle

giornate, disegnavo sul mio quaderno come uno gnomo dal sorriso sadico oppure come un nanerottolo con un paio di forbici in mano, spesso e volentieri mi tormentava in sogno e mi ricordava, giorno dopo giorno, quale fosse la causa della mia infelicità. Perché se lui fosse riuscito a crescere sarebbe stato tutto quello che io non sarei stata mai e mi avrebbe sostituita in tutto e per tutto nell’amore dei miei genitori; di questo, più che di ogni altra cosa, avevo avuto paura quella maledetta sera. E, forse per questo, non ero stata capace, o magari semplicemente non avevo voluto prendere il telefono in mano, chiamare qualcuno, cercare un aiuto: se il nano non fosse venuto al mondo, probabilmente i miei genitori avrebbero continuato ad amarmi o, per lo meno, mio padre ci avrebbe provato. Così avevo lasciato che con le sue lunghe forbici aguzze, nei miei sogni le vedevo chiaramente luccicare in maniera sinistra, il nano squarciasse il ventre di mia madre: un bambino nato prematuro non poteva sopravvivere. Questo mi ero detta, di questo ero sicura, l’avevo sentito alla televisione. Quello che non sapevo, che non potevo sapere, era che nemmeno mia madre sarebbe stata in grado di sopravvivere senza di lui. Lo aveva amato così tanto da preferire lui a me e lo aveva inseguito nel suo mondo di tenebra, lasciandomi, terrorizzata e muta, assieme a mio padre. Di questo ero fermamente convinta: che lei avesse voluto punirci entrambi in tale maniera. Io lo meritavo, perché non l’avevo aiutata; ero assolutamente certa che, nei suoi ultimi istanti, lei mi avesse letto il segreto direttamente negli occhi: ero una piccola assassina, la gelosia mi aveva reso tale, desideravo la morte di mio fratello e avevo cercato di cogliere la mia occasione. E mio padre? Lui era sempre stato il grande assente delle nostre vite, tant’è che, ogni tanto, mi veniva voglia di disegnarli un grosso punto di domanda al posto della faccia. Quella sera lui era via, era tornato tardi, il giorno dopo, troppo tardi, come succedeva sempre. Mia madre non aveva fatto sconti nemmeno a lui: si era presa il loro bambino e se n’era andata, lasciandoci entrambi con un milione di domande che non avrebbero mai avuto risposta e con un fantasmino in mezzo a noi che, nell’immaginario di entrambi, sarebbe stato sempre e comunque migliore di me, la sopravvissuta senza alcun diritto di cittadinanza nel mondo dei viventi. E fu allora che l’idea mi balzò in mente e mi sembrò che la mia camera venisse illuminata a giorno dalla sua potenza: scrivere non sarebbe servito a niente. Io dovevo semplicemente sparire. Proprio in quell’istante udii i i di mio padre spingersi fino dietro alla mia porta e la mia decisione vacillò. Pensai che stesse venendo a chiedermi scusa e mi resi conto di non aver chiuso a chiave la porta. Se lui fosse entrato gli sarei

saltata al collo piangendo per la gioia, gli avrei chiesto perdono con un milione di baci. Io e lui eravamo padre e figlia, eravamo soli al mondo, le uniche cose costanti in un universo che cambiava praticamente ogni anno; promisi a me stessa che avrei cercato di diventare una donna migliore, quella che lui si aspettava, quella che lui avrebbe desiderato e meritato, in un secondo un centinaio di immagini meravigliose mi scorsero davanti agli occhi alla velocità della luce, di noi due che lasciavamo la montagna piovosa e tornavamo in Sicilia e facevamo i bagni al mare e giocavamo insieme a scavare i tunnel sulla spiaggia, io da una parte e lui dall’altra, finché le nostre dita, sottoterra, non si fossero toccate. - Ho detto a Giuseppina che se non mangi la minestra puoi benissimo andare a letto senza cena e senza tv! Non sfiorò nemmeno la maniglia della mia camera, non aggiunse altro, né disse che se ne stava andando, quale fosse la sua meta, o quando lo avrei rivisto. Sentii gli stessi i ripercorrere il corridoio, fermarsi in cucina: due voci, adesso, quella di Giuseppina, che ci aveva seguiti dal Sud, dal forte accento siciliano che, a volte, rendeva le frasi da lei pronunciate praticamente incomprensibili e quella di mio padre, più bassa, assolutamente tranquilla, come se non fosse successo niente. Inghiottii un’ondata di lacrime e rimasi in silenzio, fino a quando non distinsi chiaramente lo sbattere della porta di casa e, dopo qualche attimo, lo scricchiolio dei cardini arrugginiti del cancello al piano di sotto. Da dietro le tendine candide della mia finestra riuscii a vedere mio padre che saliva in macchina, con la ventiquattrore stretta alla mano destra, come lo scudo degli antichi romani. Il gladio era la sua lingua: era capace di dire parole affilate e taglienti come il più preciso dei rasoi. Me ne dovevo assolutamente andare. Afferrai da sotto il letto il mio zaino della ginnastica e lo vuotai rapidamente del suo contenuto maleodorante: feci una rapida cernita di ciò che poteva servirmi, lasciando sul pavimento la maglietta sudata che avevo dimenticato di mettere a lavare e i calzoncini strappati sulle ginocchia dopo l’ultima partita di pallavolo; trovai le due barrette di cioccolato che avevo rubato a quella cicciona di Lara durante la ricreazione, naturalmente per aiutarla, un pacchetto di fazzoletti profumati, “Le tigri di Mompracem”, non potevo partire senza Yanez de

Gomena, il mio eterno amore, e le mie scarpe da ginnastica preferite che indossai senza esitazione. Aggiunsi anche una torcia elettrica, un maglioncino pesante e tutti i soldi del mio portafoglio nascosto; per un attimo pensai di prendere anche il mio diario segreto ma poi decisi di lasciarlo al suo posto. Sarebbe stato suo il compito di testimoniare la mia sofferenza ed il mio disagio. A volte scriviamo sperando che gli altri leggano i nostri segreti, un po’ come quegli uomini, che tradiscono le loro mogli sperando di venire scoperti. Riposi il diario nel mio cassetto azzurro, lasciato volutamente aperto e feci una rapida ispezione con gli occhi della mia camera. Non c’era nient’altro che potesse avere un significato, niente a cui fossi veramente legata: vecchie bambole che da anni non guardavo nemmeno, lo scendiletto consumato che non percepivo più sotto ai piedi, non c’era più niente per me lì dentro, niente per cui valesse la pena restare. Accarezzai l’idea di prendere con me la foto di mia madre che avevo sul comodino: ogni sera la fissavo cercando di ritrovare i suoi tratti nella mia memoria e, tutte le volte, constatavo con amarezza che il ricordo di lei si stava facendo sempre più indistinto, come una sorta di rumore di fondo che mi riempiva le orecchie ma nel quale non riuscivo più ad identificare le singole note che lo componevano. In quella foto, scattata il giorno delle loro nozze, mia madre e mio padre sorridevano, raggianti, al fotografo, mentre percorrevano il corridoio centrale del municipio in cui si era appena celebrato il rito della loro unione. Mia madre indossava una specie di turbante giallo oro, così me lo aveva descritto centinaia di volte anche se i colori erano stati uccisi dal bianco e nero della vecchia pellicola, in tinta con il suo vestito, una lunga tunica dritta e semplice, elegante nella sua sobrietà. Mio padre indossava un completo scuro e dei ridicoli occhiali da sole grandi come gli schermi di un televisore a colori. Non si erano sposati in chiesa perché mio padre non aveva voluto: lui semplicemente non credeva in niente al di sopra di se stesso, così mia madre aveva deciso di andarsene, con il piccolo nano, ad esplorare quel mondo misterioso di cui lui, un atomista con i piedi per terra, aveva sempre negato l’esistenza. Non volevo appesantire il mio zaino portandoci dentro anche mio padre assieme a mia madre, ciò avrebbe significato trascinarmi dietro la zavorra del tradimento, il senso di colpa della fuga. Immaginai il mattino dopo, quando Giuseppina sarebbe entrata come al solito senza bussare nella mia camera e l’avrebbe trovata vuota; avrebbe telefonato alla sede centrale della ditta di mio padre e con il suo italiano traballante avrebbe tentato di spiegare? Mio padre sarebbe tornato indietro di corsa con un aereo supersonico e avrebbe iniziato a cercarmi,

disperatamente, senza tregua, oppure si sarebbe limitato a scrollare le spalle ed a prepararsi una nuova ventiquattrore? Lo vidi seduto sul mio letto, con il mio diario in mano, leggere, pagina per pagina e capire, riga dopo riga, finalmente, tutto il mio dolore e l’intensità del mio essere, del mio sentire. Forse allora avrebbe compreso e, magari, molti anni dopo, avrei anche potuto perdonarlo e, forse, sarei anche andata a trovarlo, a braccetto di mio marito Yanez, a bordo del suo veliero, alla testa del suo manipolo di prodi, di ritorno da un viaggio alla temuta isola della Tortuga. Riappoggiai la foto di mia madre e mio padre sul comodino e la fissai per un’ultima volta: non avrei più avuto occasione di rivedere mia madre, dovevo imparare i suoi lineamenti a memoria. - A menestra! – gridò Giuseppina dal fondo del corridoio. Lei e quella sua odiosa minestra: da quando ci eravamo trasferiti, qualche contadino bifolco doveva averle venduto un quintale di rucola suggerendole che faceva benissimo per i bambini, perché non esisteva piatto in cui non ce la infilasse, rendendolo amaro come il veleno. “A menestra” come la definiva lei, era una brodaglia giallognola che mi veniva propinata ogni sera, nella quale le dannate foglie verdi salivano in superficie come bolle di gas in un geyser sottomarino; aveva un unico sapore: l’amaro che veniva reso ancora più ributtante dall’aggiunta, a posteriori, di zucchero semolato, cosa che mi faceva rimettere il tutto sul pavimento alla velocità della luce e che scatenava dei buffissimi siparietti in cucina, con Giuseppina che saltellava da un piede all’altro gridando che ero una bambina indemoniata e che si faceva una ventina di volte il segno della croce baciando e ribaciando il piccolo crocefisso che portava appeso al collo. - Vattinne! - Le risposi con lo stesso tono di voce. Non avrei mangiato quella maledetta minestra mai più. Attesi qualche minuto e sentii, nel buio della sera, confuso tra il frinire delle cicale ed i muggiti degli animali nella stalla quasi attaccata a casa nostra, il peso di Giuseppina che si sistemava sulla cassapanca in cucina, facendola scricchiolare pericolosamente; evidentemente lo stesso vecchio montanaro doveva anche averle detto che la rucola faceva dimagrire, perché ne ingurgitava a tonnellate, dalla mattina alla sera. Giuseppina non mi sarebbe mancata per niente: era entrata in casa nostra poco dopo la morte di mia madre. Io e mio padre avevamo provato ad arrangiarci per

un po’ ma era stato chiaro, ancora una volta, che io non sarei mai stata in grado di gestire una casa tutta sola. Avevo 12 anni ma non sapevo cucinare, né fare le pulizie, a mala pena mi rifacevo il letto ogni mattina e, quando avevo provato a stirare una delle camicie di mio papà di nascosto, per provargli il mio valore, avevo finito per procurarmi una dolorosissima ustione su di un braccio che lo aveva maggiormente convinto dell’impossibilità di una vita normale per noi due da soli. Ci voleva una donna che stesse con me quando lui non c’era, che non si fe impietosire dalle mie balle sul mutismo e dai miei grandi occhi neri sempre tristi; come se potesse bastare una specie di cameriera a riempire il vuoto che mia madre aveva lasciato e con il quale nessuno di noi due sapeva venire a patti. E così era arrivata Giuseppina, che aveva usurpato prima lo spazio di mia madre, le sue creme, i suoi asciugamani, tanto mio padre non sapeva che farsene ed io ero troppo piccola per poterli usare al suo posto, e poi aveva usurpato anche il mio spazio, dentro e fuori casa. Se andavo a scuola, non potevo andarci da sola, non ne sarei stata capace, così Giuseppina mi accompagnava e rimaneva a fissarmi, a controllare che io entrassi sul serio dentro al severo edificio che ospitava la mia classe, il suo sorriso sgangherato e la sua figura bassa e tozza fasciata in improbabili vestiti neri a fiori rossi erano le ultime cose che vedevo al mattino prima di iniziare la scuola e le prime che rivedevo al pomeriggio, quando era ora di tornare a casa. La spiegazione finale era semplice: io non ero buona a niente, ero solo una ragazzina che dava un sacco di problemi, maneggiare me era come maneggiare la dinamite; a questo serviva la presenza di Giuseppina. A rammentarmi, giorno dopo giorno, la mia totale inutilità cui, negli anni, avevo finito per credere anche io. - Ietta sangu e mori… - le augurai, lanciandole l’anatema siciliano più crudele che io avessi mai sentito, quindi mi avvicinai alla portafinestra della mia camera e spalancai la vetrata: l’aria della sera estiva era calda, appiccicosa, stantia, impregnata dell’afrore del letame sparso per i campi e del sangue delle mucche macellate quel pomeriggio sulla rampa in cemento che conduceva all’unico macello del paese. Avevo smesso di mangiare le bistecche quando, appena trasferiti, una mattina ero stata svegliata dal fragore di muggiti e scoppi e avevo appreso, fissando terrorizzata la scena, quali fossero le modalità per trasformare una mucca in una cotoletta alla milanese; in un paese fondamentalmente basato sulla terra e sull’allevamento, quell’ennesima stranezza aveva aumentato di cento punti la mia scalata al rango di matta e portatrice di sfortuna. All’inizio lo stigma, che si ripeteva, anno dopo anno e città dopo città, mi era pesato parecchio, come una corona sempre più greve da portare sulla testa ma poi, a poco a poco, avevo cominciato ad apprezzare i vantaggi della solitudine: se

adesso eggiavo attraverso i campi ero sicura che nessun ragazzo più grande sarebbe venuto ad importunarmi, se facevo la fila a scuola per comprare una merendina al bar interno, tutti si scansavano borbottando sottovoce. Mi prendevano in giro, pensando che io non li sentissi ma era chiaro che, almeno in parte, mi temevano e avevano paura delle mie reazioni. Avevamo letto “Il Principe” a scuola, quell’anno e, per qualche mese, avevo sognato di poter incontrare Messer Machiavelli per fargli i complimenti di persona: ero stata l’unica, in tutta la mia classe, a capirlo realmente e la sua politica crudele e fraudolenta mi aveva affascinata moltissimo. Era stato lui a sostenere che essere temuti fosse certamente migliore che essere amati e ciò aveva fatto quadrato nella mia mente, rinforzando quello che pensavo sul resto dei miei coetanei: non erano altro che un branco di pecore terrorizzate da ciò che non conoscevano e il modo migliore per non essere ferita dalla loro idiozia era appunto spaventarli a morte, diventando ciò che loro non avrebbero potuto comprendere né assimilare mai. Uscii sul terrazzino caricandomi lo zainetto sulle spalle e guardai in basso: il nostro appartamento occupava il primo piano sopra l’unica farmacia in paese; ci potevano essere due, al massimo tre metri tra me e il suolo, un bel volo se avessi messo il piede in fallo, la mia fuga rischiava di terminare all’ospedale ancora prima di cominciare. Deglutii cercando di non farmi prendere dal panico e tentati di ricordare quello che avevo visto fare alla gatta del mio vicino di casa che avevo scoperto, un giorno, sul mio balcone: doveva essersi arrampicata lungo la grondaia inseguendo un erotto che attiravo quotidianamente, buttando le briciole del pranzo e della cena sul pavimento. L’avevo sorpresa a puntarlo, come fa il cane da caccia con la propria preda, con gli occhi azzurri vigili e spalancati e i fianchi flessi, pronti a scattare in un balzo agile e fulmineo; ero rimasta impressionata da tanta astuzia e crudeltà, affascinata da quell’attimo scolpito nel tempo in cui il ero, ignaro della morte in arrivo, becchettava sul pavimento del mio balcone e la gatta, immobile, confusa tra le ombre dell’imbrunire, ponderava movimento, velocità, forza da imprimere alle zampe e robustezza del morso, conscia di avere un solo tentativo. Quando mi decisi ad intervenire era ormai troppo tardi: la morte, azzurra e bianca, si era appena abbattuta, planando all’improvviso, sul ero che era stato catturato con un solo balzo. Scacciai la gatta con grida e proteste e lei corse via, con il misero fardello stretto in bocca, lesta, giù dalla grondaia, una zampa flessuosa dietro l’altra, in men che non si dica, lasciandosi alle spalle qualche penna color castagna a danzare, per un attimo, nell’aria.

Adesso dovevo fare come aveva fatto lei, che si era slanciata a capofitto giù dal balcone, senza pensieri e senza paura ma, soprattutto, senza guardare in basso. Scavalcai la balaustra in ferro e mi abbracciai alla grondaia che si agitò, incurvandosi lievemente non appena mi lasciai scivolare giù per il lungo tubo di rame: del resto non potevo pesare molto più di quella gatta, infatti la grondaia mi sostenne per quella manciata di secondi necessari ad arrivare in fondo. Mi bruciai i palmi delle mani e l’interno delle cosce ma riuscii a mantenere il silenzio finché non toccai con i piedi il terreno. Rimasi immobile, appiattendomi contro il muro della farmacia, cercando di placare il mio respiro e, contemporaneamente, di valutare le cose da fare. Nessuno a destra; nessuno a sinistra. Ecco un altro vantaggio della vita in un paesino che contava a malapena 800 anime, galline incluse: c’era sempre la maniera di svignarsela senza dare nell’occhio. Improvvisamente, la grandezza di ciò che avevo appena fatto, mi travolse, costringendomi a rimanere immobile, contro le pareti fresche della farmacia del paese. Ero libera, già ma questo che cosa poteva mai significare? Tentati di essere più realista del re, come amava sempre definirsi mio padre ed analizzai a mente fredda la situazione: avevo un maglione e due barrette di cioccolata e con i pochi soldi delle mie paghette di sicuro non avrei acquistato alcun biglietto su di un transatlantico in partenza per l’America. A parte il fatto che mi trovavo a centinaia di chilometri dal mare e che in America ormai ci si andava in aereo da un secolo su per giù, non conoscevo nessun altro al di fuori di mio padre, di Giuseppina e della piccola vita che avevamo fino a quel giorno condotto, di sicuro, per quanto lo desiderassi con tutte le mie forze, non c’era nessuno Yanez in attesa, dietro alle mie finestre e la pirateria come Salgari la intendeva doveva essere terminata nel 1800 se non addirittura prima. Non sarei mai arrivata da nessuna parte. - Ma devo tentare! – Mi dissi, stringendo i pugni. Almeno una notte potevo cercare di restare fuori, non volevo che anche questo mio tentativo di mostrare al mondo le mie capacità e il mio bisogno di indipendenza naufragasse miseramente come tutti quelli che lo avevano preceduto. Naturalmente, sarei tornata a casa, prima o poi, questo lo sapevo già. Ma avrei dato del filo da torcere a mio padre e, una volta rincasata, avrei finalmente stabilito le mie regole, demarcando i miei confini, lui avrebbe dovuto ascoltarmi per forza, con parole o con i gesti gli avrei fatto capire quanto in realtà io fossi cresciuta. Grazie al cielo, l’estate montuosa era umida e calda, una cosa abbastanza

inconsueta, dopo tutto il gelo dell’inverno che l’aveva preceduta e non c’era pericolo che io morissi assiderata come i barboni nelle grandi città ma dovevo trovare al più presto un posto nel quale trascorrere la notte e la giornata dell’indomani, qualcosa di poco battuto, un luogo dal quale le persone comuni si sarebbero tenute alla larga e che avrebbe potuto nascondermi per parecchie ore. Il lago, a pochi chilometri di distanza dal paese, fu il mio primo pensiero: le sue acque verdi e gelide, formate dagli scarichi della centrale elettrica che avevamo visitato con la scuola, avevano causato la morte di tre fratelli, molti anni prima, che avevano avventatamente deciso di immergersi in tutto quello smeraldo liquido, sottovalutando la profondità e le forti correnti che vi si generavano soprattutto al centro. Qualcuno dei miei compagni, durante la gita scolastica, aveva giurato di essersi sentito sfiorare le braccia da delle dita invisibili, mentre la campana della chiesa suonava le tre del pomeriggio, l’orario presunto della morte dei ragazzi; era un posto che metteva i brividi. Però distava comunque parecchio dalla mia posizione e, probabilmente, vista la sua pericolosa fama, le squadre dei soccorsi vi si sarebbero subito recate alla mia ricerca, senza contare che quello era un posto che, appunto, avevo visitato, dunque sarebbe stato un po’ come l’assassino che torna sul luogo del delitto. Scartai l’idea con un mormorio di disapprovazione. Potevo prendere un sentiero a casaccio nei campi, tanto li conoscevo tutti e dormire in una delle capanne di avvistamento costruite dai cacciatori di caprioli ma i cacciatori erano degli imbecilli molto mattinieri, avrei corso il rischio di trovarmi faccia a faccia con uno di loro. Una volta, tentando di liberare un uccellino intrappolato nel vischio di un bracconiere, mi ero vista spuntare davanti un omone di quasi due metri, armato di fucile, che dopo avermi gridato astiosamente di “tornarmene nel Tacco”, aveva fatto fuoco, colpendo una pietra accanto al mio piede destro e mi aveva fatto capire che lo sbaglio era stato voluto ma che non avrebbe avuto alcuna difficoltà a centrare il bersaglio designato, se non mi fossi dileguata all’istante. Detestavo i cacciatori, li giudicavo dei pazzi sanguinari che però, in questo assurdo mondo di montagna, erano più che tollerati, addirittura ammirati per la loro abilità nell’uccidere; se uno di loro mi avesse sorpresa nel suo rifugio, avrebbe benissimo potuto legarmi mani e piedi a un palo come un capriolo e riportarmi a mio padre, viva o morta non avrebbe fatto una grande differenza. Non potevo rischiare. Mi guardai attorno scoraggiata: le cime delle Alpi sembravano rinchiudersi addosso a me, come le sbarre di un’invalicabile prigione, anche nel buio della sera le loro masse imponenti, più scure delle tenebre, svettavano silenziose,

come dei giganti seduti attorno ad un falò spento, in attesa della mia mossa. Dove potevo andare? L’orologio sul monumento ai caduti batté le dieci di sera; contai tutti i dieci lugubri rintocchi provenienti da quella strana torre che sorgeva al centro del paese: il terremoto del 1976 che qui, come in altre parti della regione, aveva scaricato tutto il proprio furore abbattendosi su case ed esseri umani, l’aveva misteriosamente risparmiata e, dal suo corpo slanciato, non era crollata nemmeno una pietra. Ben altra sorte era toccata alla Pieve del paese, arroccata sulla sommità di una collinetta: perfino dalla strada sottostante si poteva ammirare lo squarcio che il crollo della navata centrale le aveva aperto sul davanti, esponendo alle intemperie i banchi in legno e le statue della Madonna, che nessuno aveva avuto ancora il coraggio di portare via, quasi fossero una specie di talismano, qualcosa che potesse, al contempo, proteggere e fare da memoriale e offerta per i demoni delle profondità della terra. La Pieve! Ma certo! Era lì che sarei andata e avrei trovato rifugio! Conoscevo perfettamente la strada, un sentierino che saliva, ripido, per oltre mezz’ora di cammino e lungo il quale qualche pio cittadino aveva tentato di intagliare nei tronchi degli alberi caduti, delle improbabili stazioni di una Via Crucis che non veniva percorsa mai. La Pieve era stata giudicata pericolante ma ancora nessuno aveva avuto l’ardire di abbatterla per ricostruirne una nuova; le reti arancioni di protezione in plastica ondeggiavano al ritmo del vento ed erano in più punti spaccate e divelte dalla furia della neve e dalla potenza del freddo ma la chiesa era ancora parzialmente coperta da una parte di tetto, ne ero praticamente certa. Il papà di Lara lavorava come operaio per il comune e le aveva raccontato che la Pieve era maledetta, che il terremoto aveva distrutto le tombe del piccolo cimitero che vi sorgeva tutto attorno, facendo camminare i morti sulla terra. Perfino Barbara, la ragazza che aveva più successo con i ragazzi in paese per la facilità con cui concedeva le proprie attenzioni, era fuggita terrorizzata dalle braccia del suo ultimo spasimante quando lui l’aveva condotta, per un’ora di piacere proibito, proprio alla Pieve, sicuro che nessuno li avrebbe visti. La storia aveva fatto il giro della piccola comunità: io, ovviamente, l’avevo sentita a scuola dalle labbra della stessa Barbara la quale, più grande di me di 3 anni, mi giudicava, come tutti, la scema sordomuta. Bisbigliando con la sua amica e compagna di avventure Laura, aveva raccontato di come, sul più bello, avesse deciso di fuggire senza le mutandine, dopo che, dalla tomba accanto a quella su cui lei e Giampaolo stavano limonando, erano uscite delle fiammelle tremule e guizzanti di un colore azzurrino che le avevano fatto accapponare la pelle. Io non

ero riuscita a capire che cosa potesse esserci di bello a farsi una limonata senza mutande su di una tomba, né mi spiegavo la maniera in cui Laura avesse sghignazzato quando Barbara aveva parlato dei limoni, non ero assolutamente interessata alle loro avventure amorose, nelle quali erano immerse fino al collo ma mi ero sempre riproposta di testare il mio coraggio, visitando la vecchia Pieve ed il suo sconnesso cimitero. Strinsi le cinghie del mio zaino sulle spalle e scivolai lungo la parete della farmacia fino a raggiungere l’angolo della strada; approfittando di un lampione spento, attraversai rapidamente nel suo cono d’ombra e mi allontanai dal centro, in direzione del sentiero che conduceva alla collina su cui sorgeva la Pieve; grazie al cielo ero stata così intelligente da portare con me una torcia elettrica, perché il sentiero non sarebbe stato sicuramente illuminato. Incrociai le dita della mano destra, tracciai una croce all’altezza del mio cuore e giurai a me stessa che non mi sarei fatta spaventare da niente e non sarei tornata indietro senza prima aver ato la notte lì. I morti non potevano farmi paura, perché mia madre ormai era parte di loro. Solo del nano avevo timore e delle sue forbici appuntite con le quali mi inseguiva nei miei incubi per farsi, finalmente, giustizia ma il nano, in verità, non si era mai realmente formato se non nei miei sogni, non era stato seppellito alcun cadavere e, questo, almeno in parte, mi rassicurava. Non avrebbe potuto infestare realmente nessun luogo a meno che non fossi stata io quella disposta a farlo venire. Inoltre, io ero la maga della peste, le mie braccia portavano i segni evidenti del mio segreto che, in fin dei conti, in qualche maniera mi accomunava al fratello che avevo ucciso: anche io, infatti, sapevo bene che cosa fosse il dolore.

***

I miei calcoli si rivelarono sbagliati e non di poco: impiegai quasi due ore per arrivare in cima, percorrendo tutto il ripido sentierino che portava alla Pieve. Poiché avevo portato con me la torcia elettrica ma non ne avevo verificato prima il funzionamento delle batterie, dopo circa mezz’ora di cammino mi resi conto che la luce andava via via affievolendosi e che, molto probabilmente, mi avrebbe abbandonata del tutto nel giro di una decina di minuti al massimo; fui perciò costretta a spegnerla e a tentare di camminare abituando gli occhi alle tenebre ed

aguzzando la vista, riaccendendo la pila solo di tanto in tanto per illuminare, brevissimamente, i tratti più sconnessi o le curve a gomito al di là delle quali, se avessi messo i piedi nel posto sbagliato, il dirupo spalancava le proprie fauci scure come un lupo affamato in attesa di una preda. Avanzai lentamente, con tutti e cinque i sensi all’erta, accelerando il o ogni qualvolta i fruscii causati dal vento o dagli animaletti notturni del sottobosco sembravano avvicinarsi a me ed impiegai quasi il quadruplo del tempo stimato per arrivare in cima. Dopo poco più di un’ora di cammino incominciai ad avvertire una sensazione di vuoto allo stomaco che si trasformò, rapidamente, in una specie di leggerezza alla testa; era come camminare sul cotone, ogni volta che appoggiavo un piede mi rendevo conto di oscillare lievemente, come se fossi stata portata da un vento misterioso che solo il mio corpo, ma non la mia coscienza poteva percepire. Avevo fame. Tentai di ripescare, continuando a camminare, le due barrette di Lara dallo zaino ma mi resi conto che fare qualsiasi movimento mi costava ormai una gran fatica ed iniziai a sudare freddo, così decisi a malincuore di fermarmi e mi accovacciai a terra, rimestando nello zainetto alla ricerca del cibo. Purtroppo, mi resi conto qualche secondo dopo, portare della cioccolata in una serata così calda e, per di più, lasciarla in uno zaino a contatto con un corpo sudato era stata semplicemente una pessima idea e mi rimproverai aspramente, piangendo per la mia idiozia. Lo stomaco mi si contorse dolorosamente ma, constatai con disperazione, delle due barrette era rimasto molto poco se non l’involucro da succhiare: la maggior parte della cioccolata, infatti, schiacciata dal peso del libro di Salgari che come un’idiota avevo preso di slancio ed infilato nello zaino e riscaldata dal mio calore corporeo, si era completamente squagliata e, dopo essere fuoriuscita dalla confezione, aveva imbrattato il maglione, il portafoglio e le pareti dello zaino stesso trasformando il tutto in un insieme appiccicaticcio e profumato che non faceva altro che peggiorare la situazione. - Sei una povera imbecille! - Mi dissi, pizzicandomi selvaggiamente la spalla destra; per rendere più efficace la lezione diressi le mie dita sul marchio che mi ero provocata appena un paio d’ore prima e continuai a strizzare con violenza, fino a quando il dolore non mi fece quasi svenire ed un rivolo di sangue tiepido non mi inzuppò la maglietta all’altezza della spalla. Quando mi rialzai da terra, con la stagnola delle barrette tra le labbra, avevo il viso rigato di lacrime e riuscivo a malapena a stare in piedi ma continuai ad avanzare, brancolando nel buio. Ormai non potevo più tornare indietro: ero così stanca ed avvilita che il solo pensiero di rifare tutta la strada al contrario ed in discesa mi terrorizzava; sarei rimasta seduta sulle foglie morte del sottobosco, ma mi sembrava che i fruscii iniziassero ad aumentare e poi avevo sentito cantare l’assiolo, i suoi

richiami striduli parevano una specie di lamento e cominciai a temere che si stesse preparando ad intonare la mia veglia funebre. Feci gli ultimi metri in salita di corsa, senza più badare a dove mettevo i piedi, alle radici degli abeti e dei faggi che potevano fuoriuscire dal terreno, all’oscurità ormai totale che la mia pila quasi scarica non avrebbe certamente potuto contrastare, con il fiato corto, le gambe e le braccia doloranti e la spalla insanguinata arrivai finalmente ad un luogo pianeggiante disseminato di manufatti. Mi sedetti sul primo ripiano liscio che trovai, una pietra fresca e senza imperfezioni, mi ci sdraiai contro e scoppiai in un pianto liberatorio; il bosco era finito, dovevo essere ormai giunta alla Pieve. Dopo qualche secondo appena balzai a sedere di scatto, non solo perché avevo sentito un rumore, come il suono dei i di chi, deliberatamente, stia cercando di non farsi sentire mentre si avvicina ma anche perché la mia mente aveva finalmente fatto uno più uno: la Pieve, o quello che ne rimaneva, si ergeva dritta di fronte a me, a qualche decina di metri di distanza: la sua sagoma scura si distingueva, parzialmente regolare, diversa da quella dei tronchi degli abeti che la circondavano e se quella era la Pieve c’era un solo posto in cui potevo trovarmi in quel preciso momento: nel cimitero che la circondava. Scavai freneticamente nello zaino ed estrassi nuovamente la torcia e, con le mani tremanti ed il respiro strozzato, la puntai ai miei piedi, pregando mentalmente che ci fosse ancora un po’ di carica nelle pile malandate che stupidamente non avevo provveduto a sostituire a casa. Il fascio di luce, tenue e giallognolo, illuminò qualcosa di dritto e scuro che, inizialmente, non riconobbi. Mi ci volle qualche secondo per riuscire a distinguere le forme, sommando la luce artificiale a quella argentea della luna che, parzialmente coperta dalle nuvole, contribuiva a diffondere il luogo di un chiarore altalenante e tremulo. Una croce spezzata giaceva ai miei piedi, poco discosta da me. Mossi la torcia un poco più su, puntandola sul ripiano su cui ero seduta che si rivelò essere il coperchio di una tomba in marmo, parzialmente divelto dal precedente terremoto. Senza saperlo, mi ero accovacciata lì dove il coperchio era stato spostato dal proprio sostegno in pietra; scossi la torcia ed una cosa liscia e lunga, che riconobbi come la tibia di una gamba, brillò maliziosamente sotto al fascio di luce che avevo appena proiettato nello spazio lasciato vuoto dal coperchio su cui continuavo a sedere. Non riuscii a soffocare un grido. Accanto a quell’osso così lungo giaceva il teschio cui, un tempo, quella gamba doveva essere appartenuta: le sue due orbite cave sembrarono animarsi quando la mia luce le investì in pieno. Lasciai cadere la torcia, che si spense all’istante e mi alzai in piedi continuando a gridare. I

morti avevano la porta aperta e potevano tornare a camminare sulla terra! Mi dimenticai della torcia, della stanchezza, dello zaino che avevo abbandonato accanto a me sul coperchio di quella tomba e tentai di muovermi velocemente senza sapere esattamente dove andare: per raggiungere la Pieve avrei dovuto per forza attraversare tutto il cimitero per la sua lunghezza, non avevo più bisogno di altra luce diversa da quella della luna per distinguere i contorni definiti di croci mozze e lapidi semi affondate nel terreno. Quante di quelle tombe erano aperte, pronte ad inghiottirmi ed a richiudersi su di me? - Mamma! – gridai in mezzo alle lacrime; cercai di ripercorrere, a ritroso, la strada che mi aveva condotta dal sottobosco al cimitero ma non riuscii ad orientarmi, il panico mi attanagliò la gola ed una cortina rossa mi offuscò lo sguardo. Mossi qualche o incerto in una direzione qualsiasi, tutto pur di allontanarmi da quel teschio e da quelle orbite vuote e bianche rosicchiate da chissà quanti animali ma il piede mi si bloccò inaspettatamente dentro un avvallamento del terreno e rimase indietro, proiettando il mio corpo in avanti. Il dolore alla caviglia destra mi paralizzò e caddi bocconi in mezzo a due tombe poco distanti l’una dall’altra. Fu in quel momento che qualcosa mi toccò la spalla ed un terrore cieco si impossessò di me; scalciai, lottai contro quello scheletro che stava cercando di afferrarmi per portarmi nella sua stessa fossa a marcire assieme a lui per il resto dei miei giorni, sentivo qualcosa di morbido sfiorarmi la schiena, probabilmente era l’erba con cui stava tentando di ricoprire il mio corpo, mentre una mano grande e pesante si era abbattuta sulla mia bocca per evitarmi di gridare. Morsi, con tutta la mia forza, quella mano che mi stava soffocando. L’ultimo pensiero cosciente fu la morbidezza di quella carne, il suo sapore di spezie e metallo mentre il sangue dello sconosciuto si mescolava alla mia saliva. Curioso, pensai, per uno scheletro, avere una mano ancora così carnosa. Mi sembrò di percepire qualcosa, come una penna bianca che galleggiasse in un mare nero come l’inchiostro, forse era il volo dell’assiolo, mandato da mia madre, in extremis a condurmi nel mondo cui anche lei ormai apparteneva. Di colpo, la stanchezza prese il sopravvento e non fui più capace di muovere nemmeno un muscolo, così mi consegnai definitivamente e senza riserve alle tenebre e persi i sensi.

***

Stelle. Il tremolio luminoso delle stelle fu la prima cosa che riuscii a percepire e sbattei le palpebre più volte, per accertarmi che fossero davvero loro: dunque anche l’inferno aveva le costellazioni? Forse, se ci fossero state le stelle cadenti avrei potuto anche esprimere un desiderio e chiedere, per pietà, che qualcuno mi fe tornare da dove ero venuta. - Ti sei svegliata finalmente, girl! Balzai in piedi o, almeno, cercai di farlo, terrorizzata dal suono di quella voce così umana, in un posto così poco umano com’era quello in cui ero finita. - Quiet…Shhh… - Di nuovo quella voce ed un tocco gentile, ma fermo, che mi sorresse quando il terreno, sotto ai miei piedi, come per magia mi sembrò vacillare. – Sei davvero pericolosa, girl… - Aggiunse poi la voce, facendomi riaccomodare sul terreno. –Hai dei denti che fanno paura! – Concluse, allontanandosi da me. Cercai nuovamente di alzarmi ma riuscii a malapena a sollevare la testa per guardarmi intorno, così scoprii che qualcuno doveva aver trasportato me e il mio zaino attraverso il cimitero fino alla vecchia Pieve dentro alla quale mi trovavo, sdraiata sulle mattonelle ad incastro bianche e nere che ne componevano il pavimento della navata centrale. Sopra la mia testa e prima della volta stellata semi ricoperta da alcune nuvole grigie, un pezzo di tetto, sorretto da quattro colonne con capitelli scolpiti, sovrastava la parte finale di una cappella, sulla cui parete era ancora affisso un pesante crocefisso di legno. Tutto attorno a me, la devastazione selvaggia del terremoto che aveva spaccato in più punti il pavimento ed accartocciato le pareti come fossero un misero fazzolettino di carta, fatto crollare il resto della volta e collassare su loro stesse le colonne rimanenti. In una nicchia ricoperta di polvere e foglie morte, si trovava parte di una statua della Vergine, braccia bianche e manto azzurro nell’atto di portare in trionfo il bambino che invece giaceva, sbriciolato, ai suoi piedi e poi pezzi di legno dei banchi e dei confessionali accatastati al centro della navata, i rottami del fonte battesimale ed i resti dell’altare, spezzato in almeno quattro tronconi ed incastrato sotto le tegole del tetto che avrebbe invece dovuto proteggerlo. Bloccati dentro una parte di parete rimasta miracolosamente dritta, alcuni scalini in pietra, come mozziconi di sigarette fumati a metà e poi gettati via, portavano verso il cielo, partendo a circa un metro dal suolo. Il terremoto si era inghiottito tre quarti almeno della chiesa, lasciando pressoché intatti il campanile e quell’unica cappella con il crocefisso, come se perfino l’orco violento risalito

dalle viscere della terra avesse avuto una sorta di timore reverenziale nei confronti di quell’uomo inchiodato e sofferente. - Come ti chiami, girl? Ricaddi al suolo e battei malamente la testa contro le piastrelle del pavimento. Non poteva essere un sogno, quella voce era reale così come lo era il suo proprietario: vidi un paio di jeans di un azzurro slavato a zampa di elefante sotto ai quali spuntavano degli stivaletti in pelle marrone che avrebbero avuto bisogno di una buona lucidata, una canottiera di cotone attillata, un paio di braccia abbronzate da parecchie ore di sole, una spalla su cui si intravedeva una forma più scura, probabilmente un tatuaggio ed un viso di un ovale perfetto, in mezzo al quale scintillavano i due occhi più viola che io avessi mai visto. Aveva i capelli lunghi fino alle spalle, una moda che, in paese, sarebbe stata ferocemente criticata, sciolti e scuri quasi come gli occhi, in mezzo ai quali danzava la penna bianca screziata di grigio che avevo ritenuto appartenesse all’assiolo, poco prima di svenire. Lo stomaco mi si contrasse dolorosamente ed avvertii un imprecisabile calore al viso che mi fece arrossire violentemente senza che io riuscissi a contrastarlo. L’uomo, il cui viso era ombreggiato da un principio di barba castana, si accovacciò accanto a me e mi appoggiò una mano sulla fronte; era calda e morbida e, nel tocco carezzevole con cui sfiorò la mia pelle, riconobbi la consistenza di ciò che avevo morso poco prima, quando pensavo di stare lottando per la vita contro lo scheletro di un defunto vendicativo e mi sentii una perfetta idiota. - Vuoi che facciamo il gioco del silenzio? – Lui sorrise, distendendo le labbra carnose e scoprendo un paio di denti bianchi che mi stupirono per il contrasto con la pelle quasi olivastra del suo viso, quindi riprese: - Di sicuro non sei muta…Gracchiavi come a’a poco fa, mi hai quasi fatto diventare sordo! – Esclamò, accarezzandosi il mento con fare pensoso. - Cosa…Cos’è un a’a? – Gli chiesi sottovoce: era vero, il gioco della ragazzina muta me l’ero ormai bruciato: mi aveva sentita strillare e gli avevo anche morso a sangue una mano, mi ero scoperta da sola, non potevo fare altro che fidarmi di questo sconosciuto dalla pelle abbronzata, sperando che non spargesse ai quattro venti il mio segreto. A parte il fatto che, al di là dei defunti nelle loro tombe semi aperte, non sembravano esserci altre orecchie umane e viventi nei dintorni, chissà per quale motivo mi stavo convincendo che parlare con quest’uomo, sarebbe stata la cosa più giusta da fare.

- A’a è il corvo nero che lancia il proprio grido di guerra prima di gettarsi sulla terra a mietere un’anima per portarla con sé nell’oltretomba… Rabbrividii e mi sollevai a sedere; la sensazione di leggerezza al capo non mi aveva ancora abbandonata, anzi, a quella si stava andando a sommare una specie di formicolio alla pancia, come un solletichìo interno provocato dalle zampette pelose di un centinaio di coccinelle impazzite al galoppo sulla mia pelle. - Dove ci troviamo? – Che domanda stupida, pensai appena dopo averla formulata. Era ovvio, chiaro come la luce che emanava dalla lampada alimentata a gas che era stata appoggiata, accesa, sul pavimento accanto a noi. Poco più avanti, notai il tessuto grezzo color verde scuro di una tenda mimetica, un piatto di metallo ancora pieno per metà di una brodaglia mista a fagioli, uno specchietto incrinato, un coltello piantato saldamente dentro al muschio che cresceva laddove il terremoto aveva divelto le piastrelle ed una specie di contenitore floscio che, indovinai, doveva esser per forza un sacco a pelo. Che razza di uomo poteva decidere di venire a soggiornare in una tenda dentro una chiesa crollata e sconsacrata, all’ingresso di un cimitero pieno di tombe mezze aperte? Sentii i peli delle braccia rizzarsi ad uno ad uno quando, con la mano, mi sfiorò nuovamente la fronte ed avvicinò i suoi occhi ai miei. - Come, dove ci troviamo? Sicura di non aver battuto la testa? - No…Cioè, sì… - Balbettai, tentando di respirare ed il mio cuore perse, per un lungo secondo, un battito, sistole o diastole non avrei saputo dirlo, mi sembrava di avere tutti gli organi interni sistemati al contrario: com’era possibile che lo stomaco mi fosse scivolato improvvisamente tra le gambe e che la gola mi pulsasse al ritmo della circolazione sinusale? Spalancai gli occhi quando lui appoggiò le sue labbra morbide contro la mia fronte ed attese, rimanendo immobile. Nel mio cervello si fece il vuoto e non riuscii a fare altro che contare i secondi che trascorrevano, con le sue labbra che sostavano sulla mia pelle. Arrivai a 5, o forse a 7, non ricordavo bene se dovessi contare o meno il numero 6. - Mia madre lo faceva sempre…Era un metodo più preciso del termometro! – Ridacchiò, lasciandomi irrigidita e con le mani sudate, premute contro al pavimento. Mi sembrava di pesare più di Lara da tanto mi si stavano indolenzendo le braccia nel tentativo inutile di sorreggermi il tronco. –Puoi

respirare adesso… - Aggiunse, continuando a sorridere – Non dovresti avere la febbre… Avvelenata, ecco quello che doveva essermi successo: le maledette barrette che avevo succhiato, probabilmente erano andate a male nello zainetto; non avevo mai sentito prima di un avvelenamento causato dal cioccolato Kinder ma questo non era un buon motivo per non farsi portare di corsa al più vicino ospedale. La lavanda gastrica sarebbe stata la mia salvezza, ammesso, certo, che qualcuno fosse riuscito a ritrovare il mio stomaco che sembrava, misteriosamente e dolorosamente, sceso ancora più in basso. - Secondo me hai fame, sei troppo magra… - Commentò nuovamente lui, muovendosi verso la tenda e dandomi finalmente le spalle. E solo allora feci come lui mi aveva comandato: respirai, boccheggiai silenziosamente un paio di volte, finché non mi sembrò di stare leggermente meglio. –Non provare nemmeno ad alzarti… - Disse lui, come se mi avesse letto nel pensiero. –Ecco, prendi - aggiunse, tornando verso di me con in mano il piatto di metallo che avevo visto poco prima. –E non fare capricci, girl… Negai con il capo ed allungai la destra e, senza nemmeno rendermene conto, mi ritrovai a masticare un intruglio di fagioli e carne di cui non sentii nemmeno il sapore. - Comunque io sono Christian. –Disse dopo avermi osservata per un attimo in silenzio; mi sentii avvampare sotto a quello sguardo indagatore; per la prima volta mi sembrò di essere nuda, vulnerabile di fronte ai suoi occhi e preferii fissare il piatto, masticando rumorosamente. Per qualche misterioso motivo, Christian parve ponderare attentamente la nostra situazione prima di costringersi, suo malgrado a rivelare il proprio nome, come se anche lui stesse chiedendosi, in quel preciso istante, se fosse o meno una pazzia fornire le proprie generalità ad una ragazzina confusa che gli era svenuta tra le braccia in un cimitero abbandonato in cui, chiaramente, aveva sperato di pernottare da solo. - Chris… - Annuii, continuando ad inghiottire, con la bocca piena. La mia intenzione era quella di ripetere il suo nome per intero ma lui mi bloccò con un gesto della mano. - Chris può andare, hanil… - Hanil?! – Chiesi; ma che razza di lingua parlava? Aveva un accento assurdo,

che non riuscivo proprio a riconoscere. Non era nessuno dei dialetti con cui, nel corso della mia vita, avevo dovuto destreggiarmi grazie ai traslochi di mio padre, non era l’emiliano, aperto e cordiale, né il siciliano, aguzzo e breve e neppure il friulano, dal suono scontroso e quasi cantato, era piuttosto una lingua magica che sembrava uscire direttamente da un altro mondo, una lingua fatta di suoni dolci ed aspirati, un ritmo in accordo con il respiro della terra. –Io mi chiamo Valentina! – Protestai flebilmente, battendomi la mano sul petto, come se stessi parlando ad un alieno, oppure ad un idiota. –Va - len - ti - na! – Sillabai, come avrei potuto fare con il mio fratellino, ovviamente se gli avessi concesso di venire al mondo. - Hanil, ti chiamerò Hanil… - Concluse lui scrollando le spalle, come se darmi un soprannome fosse la cosa più naturale del mondo. Sorrisi e, in segreto, gioii del tempo futuro che aveva utilizzato: poteva chiamarmi come gli pareva, evidentemente ciò presupponeva che ci saremmo visti ancora…Oddio stavo iniziando a ragionare proprio come quell’oca di Barbara! Me ne resi conto con un attimo di ritardo e mi sfuggì un breve sospiro di frustrazione. - Hanil è il topolino che nessuno riesce ad acciuffare e tu sei magra e veloce proprio come un topolino… - Riprese lui dopo qualche secondo di pausa, soppesando l’effetto che le sue parole potevano avere su di me, semplicemente fissandomi negli occhi. Di nuovo, abbassai lo sguardo ed inforcai un’altra cucchiaiata di fagioli. Una specie di vocina iniziò a canticchiarmi fastidiosamente nelle orecchie e mi accorsi che era il suono sgradevole al cui ritmo Barbara e la sua amica si divertivano in cortile durante le ricreazioni, battendosi vicendevolmente i palmi delle mani quando una delle loro avventure amorose andava a buon fine. “Faccio l’amore, bye bye, sotto il balcone, bye bye e mio fratello lo va a dire al mio papà…Così non va, così non va…”.Stupida canzonetta da quattro soldi, perché diavolo mi veniva in mente proprio in quel momento? - Che ci fai qui? – Dissi, quasi urlando. Ennesima idiozia. Possibile che la caduta mi avesse rincitrullita del tutto? - Potrei farti la stessa domanda, Hanil…Perché non inizi a raccontarmi qualcosa? – Rispose Chris, accomodandosi nuovamente di fronte a me e posizionando la lampada a gas esattamente tra di noi. Aveva le gambe lunghe, così le incrociò con l’abilità e la grazia di un fachiro indiano, per evitare di sfiorarmi con la

punta degli stivali. Lui si era fidato per primo di me e mi aveva rivelato il suo nome. Toccava a me fare la prossima mossa. Avrei potuto dirgli che mi ero persa, inventare una balla qualunque ma ero sicura al cento per cento che nessuna mia bugia, nemmeno una delle migliori trovate con cui, solitamente, riuscivo a confondere le altre persone, avrebbe potuto sopravvivere, al vaglio di quei due occhi viola attenti ed imperscrutabili, così preferii scoprirmi un pochino, tentando di rimanere su di un terreno non troppo pericoloso. - Diciamo che sono in fuga… Christian batté le palpebre due volte e mi fissò per un secondo senza parlare; le sue pupille ebbero un guizzo, qualcosa che, in qualche maniera, sembrò contattare la parte più profonda di me. - Anche io… - Sussurrò e la sua voce mi parve più penetrante. Quando rialzai gli occhi su di lui mi resi conto che i nostri corpi si erano, impercettibilmente ed inconsapevolmente avvicinati, come se fossimo stati due burattini trascinati da fili invisibili ed a noi inaccessibili. Quella notte il destino ci stava muovendo a suo piacimento, facendoci ballare come scimmiette ammaestrate. Mi sono chiesta molte volte, nel corso degli anni, che cosa sarebbe accaduto se Christian non fosse mai giunto alla Pieve del mio paese, o se io avessi deciso di non fuggire di casa ma di rimanere a scrivere il mio diario, come avevo pensato di fare in un primo momento, dopo il litigio con mio padre. Ci saremmo mai incrociati, nel tempo e nello spazio? Mi piace pensare che determinati incontri non siano semplicemente casuali ma che siano preordinati, necessari, punti fermi nel tessuto spazio - temporale dal quale tutti noi siamo avvolti. Se non in questa, magari nella prossima vita o in quella ancora dopo ma io e Christian eravamo destinati ad entrare in contatto ed a riconoscerci. La notte tessé la sua invisibile trama attorno a noi e ci rese, accanto a quella luce artificiale e sotto al manto delle sue figlie stelle, conoscenti e, cosa ben più importante, due persone che condividevano un segreto. Due complici. Con tutto ciò che questo status avrebbe comportato, da lì in avanti. Per sempre. Non sapendo bene cosa dire, spaventata all’idea di rovinare quella specie di fragile coperta di silenzi che ci stava, in qualche maniera, avvicinando, tentai: - Da dove vieni? Non conosco la lingua che parli.

Lui si spostò accanto a me, attraversando il fascio di luce e mi indicò la chiazza scura sulla sua spalla destra: era un tatuaggio ad inchiostro nero, che raffigurava la testa con il becco appuntito di un grosso uccello predatore, un’aquila o forse, un falco, pieno di piume e con gli occhi spalancati ed attenti. –È il tuo dio? – Gli chiesi, accarezzando i segni con la punta delle mie dita. - Lui è il mio spirito guida… - Mi rispose, allontanando gentilmente le mie dita dalla sua pelle. –Sono un indiano della tribù Tonkawa, anche se la mia tribù non esiste più da un pezzo e la nostra lingua è morta con gli ultimi di noi che si sono addormentati da uomini liberi. –Disse con un sospiro, spostando lo sguardo all’orizzonte, lì dove cielo e cime si contendevano l’ossigeno. –È stato molti anni fa, io non ero ancora nato… - terminò. Annuii quindi, per la prima volta in vita mia, feci qualcosa di totalmente inaspettato anche per me e sollevai la manica sinistra della mia maglietta, mostrandogli, in silenzio, il mio tatuaggio scarlatto. - Oh God… - Mormorò Chris, senza avere il coraggio di sfiorarmi. Una lacrima salata mi rotolò giù dall’angolo di un occhio e mi finì dritta sulla punta del mento. –Fa male? – Mi chiese, asciugandomi la lacrima con il pollice. Annuii nuovamente ed inghiotti un inesistente grumo di saliva. Faceva male, molto male; che fosse o meno il mio spirito guida, il dio del dolore e della colpa esigeva sacrifici e penitenze ogni giorno, non sapevo che cosa avrebbe potuto fare se non lo avessi nutrito costantemente di sofferenza e rabbia ma avevo una paura mortale di ciò che sarebbe sicuramente accaduto il giorno in cui io mi fossi ribellata alla peste ed alla giuria che, giorno dopo giorno, mi trovava colpevole dell’omicidio di mia madre e di mio fratello. Non dissi una parola ma quando guardai nei suoi occhi viola li scoprii liquidi e spalancati quasi quanto i miei e qualcosa, dentro di me, mi assicurò che Christian aveva capito e che, per il momento, non mi avrebbe chiesto di più. In quel momento, i rintocchi della campana, giù in paese, trasportati dalle ali di una brezza tiepida che aveva iniziato a soffiare dolcemente, suonarono l’una di mattina, giungendo alle nostre orecchie. - È ora di tornare a casa, Hanil.. - Cosa?! – Mi alzai in piedi di scatto e, stringendo le palpebre, resistetti all’ondeggiare del terreno. –Ti ho detto che sono in fuga! Io a casa non ci torno!

– Gli risposi, mentre il mio tono di voce si alzava, di ottava in ottava, parola dopo parola. - Ecco di nuovo a’a! - Mi canzonò lui, alzandosi a sua volta e scuotendo le spalle: gli arrivavo a malapena al torace e mi resi conto che, se avesse voluto, avrebbe potuto farmi fare qualsiasi cosa, non sarei stata capace di opporre alcun tipo di resistenza fisica. - Non sono un corvo! – Gli risposi, sferrandogli un calcio negli stinchi che, naturalmente, andò a vuoto. - Certo che lo sei! Diventi tutta rossa quando ti arrabbi, arruffi le penne proprio come un corvo! A’a! A’a! – Mimò, sbattendo le braccia quasi fossero un paio d’ali nere ed incassando la testa tra le spalle, come l’uccello il cui nome Tonkawa ne imitava il verso alla perfezione. - Ormai è troppo tardi per tornare indietro! – Gli risposi, evitando di raccogliere le sue provocazioni. - No! - Lui negò con forza –Non è troppo tardi, non per te! – Si ò le dita tra i capelli con fare nervoso e, in quel momento, mi sembrò così vulnerabile, così solo di fronte al peso del suo segreto, qualunque esso fosse, che questa visione mi intenerì in una maniera che non avevo mai provato prima. Che cosa avesse voluto dire con quel “non per te” non riuscii a spiegarmelo ma preferii soprassedere, almeno per il momento. Era chiaro che Christian si stesse nascondendo e che, per qualche motivo misterioso, per lui tornare a casa fosse fuori discussione o, per utilizzare il suo linguaggio, fuori tempo massimo; avrei tentato più avanti di sbrogliare la matassa, ammesso che lui mi concedesse nuovamente di avvicinarmi alla sua anima come quella notte. - Anche se lo volessi – gli risposi tentando di spiegare – Non ce la farei mai a rifare la strada al contrario, sono troppo stanca… - Ma io ho ekwanesxaw… - Disse lui, prendendomi per mano e trascinandomi, gentilmente, o dopo o in un’altra direzione– Ho un cavallo d’acciaio e lo metto al tuo servizio, Hanil… Dietro alla tenda, parcheggiata appena fuori dalla navata della Pieve c’era una motocicletta tutta nera ed argentata, con due fiamme rosse appiccicate ai lati ed un comodo sedile in pelle scura, consumato dalle lunghe ore di utilizzo. Chris si

spostava a bordo di quella, immaginai: in sella a quella moto doveva aver percorso centinaia o forse migliaia di chilometri. La motocicletta, immobile come un destriero addormentato, ebbe sul mio cuore di donna una forza di attrazione notevole, così mi avvicinai e lasciai scorrere le mie dita lungo il manubrio color argento e poi sulle cromature che scendevano ai lati, innestandosi direttamente nel cuore del motore possente, in quel momento assolutamente silenzioso. - Io non so se… - “Mai accettare aggi da uno sconosciuto” mi ripeteva sempre Giuseppina; in quel momento mi vennero in mente almeno dieci buoni motivi per i quali non avrei dovuto accettare. Ma eravamo soli, nel mezzo di un vecchio cimitero: se Christian avesse realmente deciso di farmi del male, niente avrebbe potuto fermarlo. - Salta su, girl! – Esclamò, inforcando la moto come se stesse saltando sul dorso del suo destriero e tendendomi la mano. –Se non ti riporto a casa stasera – aggiunse – come potrò rivederti domani? Fu questa frase a convincermi definitivamente: Christian aveva ragione, non era troppo tardi! Mi ero dileguata nella notte come un topolino, come hanil, mio padre era uscito prima ed avevo allontanato Giuseppina in modo scortese, lo ricordavo perfettamente. Nessuno mi aveva sentita fuggire e, se mi fossi arrampicata nuovamente lungo la grondaia, nessuno si sarebbe accorto che stavo rientrando, avrei evitato una punizione certa, la scuola era finita, avevo il permesso di gironzolare per il paese ed i campi di mais e patate che si stendevano a perdita d’occhio appena fuori dal piccolo centro abitato, sarebbe bastato are la mattina a tradurre qualche versione dal latino. Rivedere Christian sarebbe stato facilissimo. Certo, ammesso che lui desiderasse realmente rivedere me. Salii e mi sedetti dietro a lui, stringendomi al suo torace, respirando il suo odore, un misto di cuoio e sudore che mi piacque particolarmente, lasciai che i suoi capelli sciolti mi accarezzassero il viso, appoggiai i piedi ai i cromati della moto e chiusi gli occhi. Nessuno di noi due parlò durante il tragitto, troppo breve, che ci ricondusse al paese da cui avevo giurato di fuggire solo poche ore prima. Sembrava di stare viaggiando direttamente dentro un sogno. Chris spense preventivamente il motore poco prima di raggiungere casa mia e spinse a piedi la moto fino sul retro della farmacia, seguendo le mie indicazioni

sussurrate a mezza voce. - E adesso? – Bisbigliò, senza capire. - Aspetta e vedrai… - Gli risposi con un sorrisetto sprezzante. Non guardai giù e nemmeno su, agguantai la grondaia e mi ci arrampicai, lesta ed aggraziata come non ero stata mai, né prima, né a scuola, durante le ore pietose di educazione fisica che mi sembravano infinite. Non soffrii che parecchie ore dopo per il bruciore ai palmi delle mani e sulle cosce ed i numerosi lividi che avevo collezionato durante quella notte fatata si fecero sentire, come ospiti timorosi, solo l’indomani, quando mi resi conto che avevo la schiena a pezzi e che uscire dal letto mi costava una fatica incredibile. Al momento non percepii altro che una sensazione di leggerezza: mi sentivo come la protagonista di un film, bellissima, come Sophia Loren alle prese con l’uscita di scena più perfetta che avessi mai fatto. - Come farò a trovarti, domani? – Gli domandai, una volta rientrata al sicuro sul balcone. - Sarò io a trovare te, Hanil… - Mi rispose lui, immerso nell’oscurità. E poi scomparve. Aspettai, con le orecchie tese ma non riuscii a percepire né il rumore dei suoi i, nè il rombo del motore della sua moto e dedussi che, silenzioso come un falco, doveva essersene andato senza lasciare alcuna traccia. Entrai nella mia camera e mi gettai sul letto vestita. Impiegai solo qualche secondo per addormentarmi e non sognai né nani ne forbici, né mi svegliai, sudata ed ansante, come mi capitava praticamente ogni sera, quando gli incubi non mi lasciavano tregua. Dormii, placidamente soddisfatta, appoggiata ad una nuvola, cullata dai miei sogni. Finalmente, sapevo perfettamente chi ero: non ero più una bambina e non ero nemmeno Valentina. Non ero la brutta copia di mia madre, né la ragazzina educata che da tanto, troppo tempo, desiderava mio padre Io ero semplicemente Hanil.

***

Mi svegliai presto, il mattino dopo e la prima cosa che feci fu scostare le tendine per guardare giù. Ma naturalmente di Christian non c’era nemmeno l’ombra. Soffocai in uno sbadiglio la prima puntura della delusione e mi spostai in bagno: dovevano essere da poco ate le nove, sicuramente Chris era stanco, riflettei, aveva comunque dovuto fare ritorno alla Pieve per are lì la notte, probabilmente stava ancora dormendo. - Meglio così! – Esclamai ad alta voce alla mia immagine che mi fissava, con gli occhi vagamente stralunati, dallo specchio rotondo posto sopra il lavabo. Mi lavai i denti con diligenza, quindi ai al viso e mi resi conto, con orrore, che il sole estivo mi aveva fatto spuntare, nuovamente, quelle orribili lentiggini per le quali, a scuola, venivo costantemente derisa. - Grandioso! Adesso sono un topo muschiato! – Sbottai, strofinando con violenza l’asciugamano bianco contro la pelle del viso ma non ottenni altro che un brutto alone rosaceo attorno a naso e labbra. Per la prima volta, esaminai con un’attenzione certosina il mio volto allo specchio e, dovetti concludere qualche secondo dopo, lo trovai di una bruttezza spoglia che faceva pietà: avevo ereditato la fronte spaziosa di mia madre ma non la dolcezza del suo sguardo; quanto a mio padre, avrei preferito poter dire di non aver preso nulla da lui ma, dovevo ammetterlo, la forma del naso e, soprattutto, quella del mento, erano il suo marchio più riconoscibile. Le lentiggini dovevano essere state una prerogativa di mia madre e della sua pelle chiara e delicata che, in lei, bionda e soffice, davano vita ad un make up naturale che rendeva il suo nasino così interessante mentre in me, corvina di occhi e capelli, sembravano quasi come un trucco innaturale da pagliaccio del circo. La pelle era troppo pallida e gli occhi troppo neri: sembravo una bambola di porcellana triste, a rischio continuo di fratture. Sbattei con violenza la porta del bagno, indossai un paio di calzoncini corti ed una maglietta sulla canottiera con gli orsacchiotti rosa con cui avevo dormito e che, a mio parere, poteva recare ancora qualche traccia del profumo di Chris e andai a fare colazione. - Si suggiu a principessa… - Commentò, acida, Giuseppina. Preferii ignorarla ed andai verso al frigorifero, intenzionata a mangiare qualcosa ma la vista familiare

ed odiata del contenitore in plastica, pieno della maledetta minestra, mi bloccò lo stomaco stringendomelo in una specie di morsa dolorosa. - Non ho fame… - Mentii, richiudendo il frigo alle mie spalle. Giuseppina iniziò ad apparecchiare la tavola come se niente fosse e, con uno scatto fulmineo, si posizionò tra me e la porta, prima che io riuscissi a raggiungerla. Da quella dannata cucina, almeno per il momento, non mi sarebbe stato possibile squagliarmela. - Dammi il succo, per piacere… - La implorai; c’era un’unica cosa che, al mondo, credevo di detestare più della minestra e cioè il latte troppo caldo da bere con i pezzi di pane inzuppati dentro: la pellicola che si formava sulla superficie e che rimaneva appiccicata alle labbra, assieme al gusto acidulo della crosticina che si solidificava sul fondo del pentolino, da anni utilizzato per questa tortura alimentare, erano altri due motivi, per me, di vomito assicurato ma siccome i miei erano solo capricci ed il latte faceva bene alle ossa, ero costretta a chiudere gli occhi e trattenere il fiato fino a quando una tazza enorme di brodaglia biancastra ed incandescente non mi finiva in gola, o sul pigiama, o sul pavimento, o su chiunque altro si trovasse a are nelle vicinanze. Giuseppina mi allungò la tazza di latte caldo già pronta e rimase in vigile attesa, in piedi, accanto a me, spiando i miei movimenti, volutamente lentissimi. Aspettai, ma lei non diede segno di volersi allontanare, perciò fui costretta ad afferrare la buffa tazza di Minnie, ormai scolorita dai frequenti aggi in lavastoviglie ed a portarla alle labbra in silenzio. Strizzai le palpebre e trattenni il fiato ma non servì a niente; mi bastò percepire la consistenza vischiosa della pellicola contro al palato per serrare l’esofago con una contrazione tutt’altro che involontaria e far risalire a cento all’ora quei pochi sorsi che avevo buttato stoicamente giù, lungo la gola fino a farli arrivare nuovamente in bocca; non potei fare altro che spalancarla e sputare il latte sul tavolo accanto a me. Giuseppina mi maledisse nella sua lingua e si precipitò, come al solito, verso l’acquaio di fronte al tavolo per recuperarne gli strumenti adatti con i quali tentare di togliermi il malocchio che sicuramente avevo addosso, non appena accennai al primo rigurgito: senza nemmeno aspettare che io mi pulissi il mento, riempì il suo piattino delle magie di acqua corrente, me lo posizionò sopra la testa e vi versò dentro un filo d’olio. Siccome rimase in silenzio, invece di far

partire la solita sequela di parole misteriose, appoggiai la tazza sul tavolo con le mani ancora tremanti e voltai di scatto il viso per guardarla in faccia, facendole scivolare il piattino di mano. - Gesù! - Esclamò, portandosi le mani alle labbra, un attimo dopo che il piattino si ruppe in mille pezzi, precipitando al suolo. - Cosa hai visto? – Le domandai, alzandomi in piedi ed allontanando con un calcio la sedia da dietro di me. - Finisci u latti! – Mi rispose lei, inginocchiandosi sul pavimento e raccogliendo, con attenzione, i cocci del vecchio piatto ormai inutilizzabile; l’aria si impregnò di un odore disgustoso di latte acido misto ai miei succhi biliari. - Mi dispiace… - Mormorai, improvvisamente stanca e mi avvicinai alla finestra per spalancarla. Per tutta la giornata, Giuseppina non proferì più parola. Tentai in tutte le maniere di farmi dire che cosa avesse visto durante quel paio di secondi nei quali era rimasta in silenzio, con il piattino sospeso sopra la mia testa, pieno di acqua ed olio; di solito, succedeva che le gocce di olio, invece che separarsi chiaramente, si miscelassero misteriosamente con l’acqua, come a formare una specie di emulsione involontaria. Giuseppina sosteneva che quello fosse un chiarissimo indice di malocchio; per questo motivo, spiegava pazientemente a mio padre, ero così camurriusa, cosa che, in siciliano, significava una bambina cattiva, dispettosa, irrequieta e malata. La mia ostinazione, il mio ostentato mutismo, il fatto che non volessi mangiare quasi niente associato ai miei occhi così grandi erano indizi sicuri di una maledizione che perseguitava la mia famiglia di generazione in generazione. Probabilmente mia madre era morta a causa di questo malocchio che qualcuno di invidioso e molto potente, doveva aver gettato su di noi prima ancora che io nascessi, forse qualche collega di mio padre, arrabbiato per il suo successo, o, magari, qualche amica di mia madre, innamorata segretamente del suo nuovo marito, arrivato quando ormai tutti erano convinti che lei sarebbe rimasta semplicemente zitella. Questa fantasiosa teoria aveva trovato terreno fertile in me, attecchendo come un’edera selvaggia e mettendo radici potenti nel mio cuore, perché confermava come, ancora una volta, fossi io il principale problema, la bambina maledetta, quella marchiata col segno della vergogna all’interno della mia famiglia. L’olio

sulla testa di mio padre non si mischiava mai all’acqua, mentre su di me sembrava che le molecole si fondessero le une con le altre, ignorando i principi della fisica e della chimica che anche io avevo studiato a scuola. Era stata la mia maledizione ad uccidere mia madre e mio fratello, ne ero sicura, presto o tardi anche le altre persone che mi circondavano sarebbero morte: temevo la solitudine più di ogni altra cosa e, molto probabilmente, era alla solitudine che sarei stata destinata. Pensai a Christian ed un brivido mi corse giù, lungo la schiena: non volevo che gli succedesse niente e ciò significava, secondo la teoria di Giuseppina, che, a maggior ragione, avrei dovuto assolutamente tenerlo alla larga da me. Eppure iniziavo a desiderare, intensamente, con tutto il mio cuore, di poterlo rivedere ogni giorno. Fino alle 22 il mio desiderio non si avverò; le ore trascorsero, lente e bollenti, le une dopo le altre, scivolarono via trascinandosi addosso i minuti, appiccicose come la carta moschicida che Giuseppina aveva appeso fuori dalle finestre della cucina e contro la quale, quotidianamente, ronzii furiosi e disperati testimoniavano il subitaneo trao di una decina di stupidi insetti. Mi sentivo anche io così, come una mosca rimasta invischiata sulla carta moschicida, appiccicata al ricordo di un uomo che iniziavo a pensare di essermi solo immaginata. Rimasi a casa tutto il giorno, seduta, in silenzio, sul letto della mia camera; ufficialmente ero molto impegnata con un’ostica traduzione dal greco all’italiano ma, segretamente, avevo deciso di restare per Chris: lui aveva detto che sarebbe venuto a cercarmi: se io fossi uscita per la mia solita incursione nei campi avrei rischiato di mancarlo, di perderlo e non me lo sarei mai perdonata. Così mi trovai qualcosa da fare, tentai di leggere ma, stranamente, le avventure di Yanez e di Sandokan non riuscirono a distrarre la mia mente da quell’unico pensiero fisso. Accesi la radio, ascoltai qualche cassetta che avevo registrato pochi giorni prima, ma la bloccai immediatamente non appena mi resi conto che la musica avrebbe potuto impedirmi di sentire i rumori, sia quelli della casa che quelli esterni, decisamente più importanti. A pranzo mi sforzai di mangiare qualcosa e chiesi a Giuseppina notizie di mio padre, ma lei scrollò le spalle e ricominciò a pulire le foglie di insalata che aveva accumulato sulla tavola, con gli occhi apparentemente fissi a quella marea di verde marcescente ma, me ne ero accorta al mattino subito dopo l’incidente col piattino e l’acqua, segretamente appuntati su di me. Giuseppina mi sbirciava di sottecchi, quando pensava che io non la

potessi vedere, notavo che mi ponderava, socchiudendo le palpebre e mormorando qualche strana litania siciliana, come quando valutava, con estrema attenzione, un pollo da acquistare dal macellaio; ò in rassegna ogni centimetro quadrato di me, la vidi osservarmi i capelli, il rossore che iniziava ad apparirmi sulle guance non appena un rumore inconsueto interrompeva quella specie di forzato silenzio, il ritmo del mio respiro che, sempre più spesso, col are delle ore, si spezzava per trasformarsi in una sequela di brevi sospiri angosciati. Le ore avano, Giuseppina mi sezionava con gli occhi come se si fosse accorta che in me ci fosse qualcosa di diverso, il maledetto piattino doveva averglielo suggerito poco prima di finire in frantumi sul pavimento della cucina e Chris sembrava intenzionato a non voler ricomparire più. Possibile che le macchie di olio sopra la mia testa avessero formato la sua sagoma, magari il disegno del suo tatuaggio, oppure la penna tra i suoi capelli neri, o forse anche un cuore con le sue iniziali? Mi irrigidii, inghiottendo saliva ed acido: dio solo sapeva quali potessero essere i poteri magici di quella strega siciliana; se desideravo realmente rivedere Christian, mi resi conto, avrei dovuto fare moltissima attenzione e tenere il mio segreto ben nascosto sul fondo del mio cuore. Ma cominciava a diventare evidente che Christian non avesse alcuna intenzione, invece, di rivedere me, visto che la giornata volgeva al termine e non era successo assolutamente niente. - Che c’è? – Domandai a un certo punto, spazientita, a Giuseppina, sbuffando per la tensione e la frustrazione causate dalle sue indagini silenziose. Mi faceva impazzire questa sua specie di interrogatorio muto, probabilmente, immaginai, era così che dovevano sentirsi i colpevoli di fronte ai veri poliziotti: non erano le minacce gridate, i pugni chiusi, le promesse di pene incredibili o di altrettanto improbabili sconti sulle stesse, no, era il silenzio l’arma con cui, alla fine di ogni film giallo che si rispetti, il bravo detective inchiodava l’assassino reticente. Io sapevo che Giuseppina sapeva, qualcosa doveva aver intuito tra l’olio e l’acqua ma lei non voleva dirmi di più. Che cosa poi ci fosse da sapere, in realtà, era una grossa sciocchezza, tanto che avevo quasi pensato di confessare, in un primo momento, almeno una parte della verità: potevo semplicemente raccontarle che, dopo il litigio con papà cui anche lei aveva assistito anche se da dietro la porta della cucina, ero uscita di nascosto e mi ero fatta una eggiata notturna nei campi, rientrando, stanca e triste, per l’ennesima inutile marachella. Questo avrebbe posto fine agli sguardi penetranti ed al mutismo ostinato con i quali mi stava tormentando dalla mattina? Non ne ero poi così tanto sicura e, nel dubbio,

preferii resistere e tenermi tutto per me, verità e bugie. Se non altro, non parlare non avrebbe portato a nessuna certezza, quindi a nessuna ulteriore domanda né, tanto meno, ad alcuna restrizione. La mia vita era già complicata senza che io stessa cercassi di peggiorare, parzialmente, la mia situazione sperando in uno sgravio di coscienza. - Si no sapi mancu idda chi c’è… - Commentò ironicamente Giuseppina. E non aggiunse altro. Dopo cena, verso le nove, con la scusa del solito mal di testa mi rinchiusi in camera mia e mi gettai con disperazione sul letto. Christian non si era fatto vivo, lui mi aveva imbrogliata, evidentemente mi ero fatta prendere per il naso come una bimbetta di cinque anni, chissà come se la stava ridendo lassù, sotto la Pieve, ripensando a quella stupida che si era spaventata per una tomba mezza aperta e gli si era stretta addosso come una mammoletta terrorizzata; avevo fatto la figura dell’idiota. - Merda! – Esclamai, riempiendomi la bocca con il sapore proibito che avevano le parolacce, assolutamente vietate da mio padre che, di contro, ne usava in abbondanza. –Stronzo! Vaffanculo! – Continuai, prendendo a pugni il cuscino ed immaginando che fosse la sua bella faccia liscia da indiano orgoglioso per la sua tribù estinta. –Maledetto! – Assestai un altro pugno al cuscino e lo scagliai malamente sul pavimento, inspirando con forza. Non volevo assolutamente piangere ma, chissà perché, mi ritrovai a lottare con un grumo di lacrime che spingeva per risalire lungo la mia gola già dolorante. Non ero altro che una bambina, questo lui doveva aver visto di me, una ragazzina impaurita che non era nemmeno stata capace di scappare di casa; mi resi conto all’improvviso che non poteva esserci niente tra noi due, perché io non avevo niente di interessante per un uomo, non ero voluttuosa come Barbara, né sofisticata come Laura e non ero nemmeno dolcemente disarmante come Lara, ero uno spigolo vivo, un topolino che mordeva e graffiava, un corvo che arruffava le penne e portava sfortuna, in poche parole un problema. Proprio in quel momento, sentii un rumore proveniente dal vetro del balcone, come uno schiocco sordo che squarciò il silenzio della sera paesana. Trattenni il fiato in attesa e, dopo qualche secondo, il rumore si ripetè, più piano, stavolta, come se qualcosa di piccolo stesse colpendo il vetro. Aspettai ancora ed un terzo schiocco mi confermò che il rumore non poteva essere stato casuale. Il mio cuore fece le capriole ma lo frenai, intenzionata ad attendere ancora. Stavolta ci

fu circa mezzo minuto di pausa, mezzo minuto durante il quale mi diedi della stupida almeno un milione di volte; alla fine mi decisi a spalancare la porta finestra e ad uscire fuori. Un sassolino mi colpì con violenza ad un braccio. - Ahia! – Non riuscii ad impedirmi di sbraitare. - Hanil! Allora ci sei! – Rispose la voce che avevo sperato di sentire per tutto il giorno. - Chris! - Mi slanciai contro la ringhiera e mi sporsi per guardare in basso: riuscii a percepire la sua sagoma, illuminata dal bagliore di una sigaretta che gli stava bruciando tra le labbra, appoggiata tranquillamente accanto alla grondaia che avevo risalito meno di 24 ore prima; non avevo più alcun dubbio, lui era tornato proprio come aveva promesso! - Dai scendi giù! – Esclamò, agitando le braccia, chiamandomi con i gesti, come se fossi stata la gatta del mio vicino. Il mio corpo reagì senza che il cervello riuscisse a bloccarlo: durante tutta la giornata, sotto il vigile sguardo di Giuseppina, mi ero immaginata mille volte la scena, mi ero anche creata un bel discorso, ero brava con le parole, acuminata, come mio padre, non gliel’avrei fatta are liscia, lui mi doveva delle spiegazioni, io l’avevo aspettato per tutto il giorno, meritavo almeno qualche scusa! Ma ogni parola svanì quando scivolai giù, lungo la grondaia e me lo ritrovai di fronte, con i jeans azzurri e la canottiera bianca, i capelli sciolti che ondeggiavano alla brezza della sera ed un secchiello di plastica in mano. - Perché non sei venuto prima? Ti ho aspettato… - Mormorai, atterrando a piedi pari sul marciapiede in cemento e mantenendomi ad una prudente distanza da lui; cercai di inzuppare le parole di rabbia e veleno ma non mi uscì altro che un pietoso lamento. - Non potevo venire prima, Hanil - rispose lui con un sorriso che mi disarmò all’istante: i suoi denti bianchi scintillarono nell’oscurità e sentii il suo fiato caldo accarezzarmi il collo ed avvolgermi con un profumo pungente che non avevo mai sentito prima. –Non si può andare a pesca di stelle, di giorno! Forza, andiamo! – Concluse poi, voltandomi le spalle. Era certo che lo avrei seguito e, naturalmente lo feci, elettrizzata dalle sue ultime parole. Non ero mai stata a pesca di stelle e, improvvisamente, mi sembrò per un momento tutto assolutamente chiaro: Chris non era affatto in ritardo, ero stata io che lo avevo

atteso inutilmente, travisando le sue parole. Alla Pieve aveva detto che ci saremmo rivisti, senza però specificare quando: era ovvio che non si sarebbe fatto vedere di giorno, era un uomo in fuga, di questo ero assolutamente certa. Ricacciai sul fondo del mio cervello la voce di mio padre, il suo tono accusatorio con cui mi ricordava che, molto probabilmente, ero appena diventata amica di un fuori legge, in quel momento non poteva avere alcuna importanza: noi stavamo andando a pesca di stelle. Seguii Chris senza parlare, fu lui a farmi segno di tacere, almeno fino a quando non giungemmo alla nostra meta: dopo una decina di minuti di cammino, un po’ affiancati e un po’ in fila indiana, arrivammo all’altezza del ponte che divideva in due il mio paese solo che, invece di attraversarlo e proseguire, in direzione del sentierino che ci avrebbe portati alla Pieve, Chris deviò abbandonando la strada e si avvicinò all’argine del torrente di montagna, che scorreva, placido e bisbigliante, un paio di metri sotto ai nostri piedi. - Sei capace di scendere, Hanil? Deglutii: avevo una paura mortale dell’acqua dopo la gita con la scuola al lago, soprattutto dell’acqua di montagna, verde ed infida. Amavo il mare della mia Sicilia, il suo andirivieni profumato; mio padre mi aveva insegnato a non sottovalutarlo mai, a comprendere la potenza delle onde dalla loro altezza e velocità. Quando, in estate, andavamo a fare il bagno, mi sfidava a riconoscere, ad occhi chiusi, in base al rumore con cui risuonava la battigia, se un’onda sarebbe stata franca e perciò capace di avanzare inghiottendo la sabbia per parecchi metri lungo la spiaggia, o piuttosto sarebbe stato un cavallone violento che però, bloccato dal suo precedente fratello, avrebbe scaricato tutta la propria furia rullando fragorosamente contro il bagnasciuga, esaurendosi tra spuma e schizzi salmastri. Vinceva chi, tra noi due, fosse riuscito a mantenere i piedi asciutti più a lungo possibile. Ma quest’acqua colore smeraldo, che risuonava del rumore di mille monete d’argento, che ti attirava con la promessa di un bagno fresco in una pozza tranquilla e che poi poteva trascinarti con sé, a furia di spinte e gorghi e mulinelli invisibili all’occhio ma, non per questo meno micidiali, proprio non sapevo come interpretarla e, per questo, ne avevo un sacrosanto terrore. - Che fai, non vieni? – Aggiunse lui quando, voltandosi, si accorse che ero rimasta indietro, pietrificata sull’orlo dell’argine e che non avevo mosso nemmeno un o in direzione del torrente. – Guarda che le stelle non

aspetteranno ancora a lungo… - Disse, continuando a camminare. Sentii la ghiaia del fiume scricchiolare sotto ai suoi stivaletti in pelle marrone e lo vidi proseguire: avanzò sino ad un grosso masso accanto al quale l’acqua scorreva rapida, lambendo la roccia e colorandola di uno strato scuro e verdognolo; poteva essere alta pochi centimetri, oppure accanto a quel masso avrebbe potuto anche essersi formata una pozza profonda qualche metro, nessuno avrebbe saputo dirlo con precisione, a meno che non si fosse tuffato a controllare. Sembrava proprio ciò che aveva in mente di fare Christian: lo osservai mentre si accomodava contro il masso e, con un gesto felino ed aggraziato, si piegava su se stesso, iniziando a togliersi gli stivali. - Chris, aspettami! – Gli gridai, rompendo gli indugi ed avviandomi di corsa giù per la piccola discesa franosa. Fui accanto a lui in meno di un secondo, inseguita da una nuvoletta di polvere bianca che mi si attaccò alle ginocchia rendendo la mia pelle ancora più chiara del solito. –E adesso? – Domandai incerta, con il fiatone e le gambe che mi tremavano per la paura e l’eccitazione. Lui mi indicò con un ampio gesto il panorama senza parlare e si tolse anche il secondo stivaletto, arrotolandosi i jeans alle ginocchia, quindi immerse il secchiello in plastica dentro l’acqua del torrente, lo appoggiò accanto a sé sulla sabbia sottile che prendeva il posto della ghiaia poco prima dell’acqua e mi trascinò per un braccio fino lì, costringendomi a guardare: i raggi della luna piena si riflettevano sul piccolo specchio d’acqua ancora in movimento, brillando e baluginando come se il fondo del secchiello fosse stato ricoperto di pepite d’argento. E fu così che iniziammo a pescare le stelle. Trascorsi due ore di felicità bagnata, a pesca di stelle e gamberetti di fiume, le due prede predilette di Chris alla ricerca dei quali ci dedicammo anima e corpo: il fiume era così ricco, quell’anno, che era sufficiente immergere il secchiello nelle pozze più tranquille e non troppo fonde e smuovere delicatamente il fondale sabbioso, per riuscire a catturare senza fare alcuno sforzo, raggi argentei di luna sotto ai quali si nascondevano i grigi gamberetti timorosi. Io non ne avevo mia visto uno prima di allora, vivo o morto che fosse e rimasi molto impressionata dalla loro forma e dalla velocità con cui, se li si lasciava andare, mettendo in moto tutte le loro zampette, ritornavano di corsa a nascondersi sotto alla sabbia o dietro ad un sasso, nuotando vigorosamente in senso contrario rispetto alla corrente del fiume. - Qui, Hanil, qui! - Esclamava all’improvviso Chris, dopo aver avvistato una

pozza popolosa ed io arrivavo dopo un attimo, ad immergere il secchiello di plastica, un tuffo nell’acqua fredda del ruscello di montagna ed il secchiello ritornava su, carico del suo prezioso bottino. Ad un certo punto Chris si tolse la canottiera ormai inzuppata ed altrettanto feci anche io, sfilandomi la maglietta ed i pantaloncini pieni di acqua e di sabbia e la mia carne bianca, per un secondo, sembrò attrarre tutta la luce dell’universo addormentato, tanto che perfino Christian rimase, immobile, a guardare. - Hai le stelle addosso… - Sussurrò, osservandomi per un lungo minuto. La mia pelle rabbrividì sotto agli astri ed al suo sguardo. - Ho la pelle d’oca - gli risposi, uscendo immediatamente dal torrente ed allontanandomi da lui. –Forse è meglio smettere… - Borbottai, incespicando nell’acqua bassa e con il viso letteralmente in fiamme; nessuno mi aveva mai guardata in quella maniera prima di allora, come se, per un qualche motivo, io fossi diventata la cosa più importante sulla faccia di questa dannata terra e le ginocchia mi cedettero, costringendomi ad una rapida seduta sulla cima del primo masso disponibile. Avevo le dita delle mani letteralmente gelate e quelle dei piedi ricoperte di sabbia mista ad alghe verdi ed appiccicose. - Vieni qui… - Chris si avvicinò e si fermò di fronte a me; dovetti alzare la testa per riuscire a mantenere il suo viso nel mio campo visivo mentre i miei polmoni divennero del tutto incapaci di respirare come dio comanda. –Guarda… Aggiunse, abbassandosi e prendendo uno dei miei piedi tra le sue mani – Hai la pelle d’argento e i piedi d’oro. Tua madre è la luna… - Concluse. Non sapeva nulla di mia madre, di quello che le fosse successo e di come fossero andate le cose in quella maledetta notte ma, per un qualche motivo, qualcosa, in fondo al mio essere, mi confermò che Chris poteva capire, che, forse, mia madre in quel preciso momento stava parlando al suo cuore, gli stava raccontando dei segreti che a me sarebbero stati per sempre inarrivabili. Mia madre, la luna, era morta ed ora, con i suoi raggi, mi stava finalmente accarezzando la pelle, ritornando per darmi coraggio, per stringermi in una specie di abbraccio che mi mancava da tanto, troppo tempo. Mi sciolsi in lacrime, piccole perline argentate che stazionavano agli angoli dei mie occhi prima, ruscelli salati che mi colavano fino al mento poi; continuai a fissare la luna, immobilizzata su quel masso appuntito, incapace di frenare i battiti del mio cuore, così vicina eppure, allo stesso tempo, così lontana da mia madre e da quel firmamento in cui da tanti anni risiedeva, che mi sentii ad un

tratto persa e spaventata, un granello di polvere che un vento qualsiasi avrebbe potuto trascinare senza pietà e senza meta per l’eternità. - Ho freddo - Balbettai, asciugandomi le lacrime col dorso umido della mia mano, improvvisamente stanca, come se un tir mi fosse ato addosso più volte, schiacciandomi con tutto il peso del suo carico di tronchi da una tonnellata ciascuno. Chris, che fino a quel momento, si era tenuto un po’ discosto da me, come un soldato vigile in attesa dei miei ordini, si accucciò nuovamente ai miei piedi e me li ripulì, dito dopo dito, dalla sabbia dorata del fiume che li aveva incrostati e che si stava ormai indurendo sotto ai miei talloni; mi rivestì, delicatamente, come fossi stata una bambola di porcellana sul punto di esplodere in mille pezzi e mi sollevò tutta contro la sua spalla, trasportandomi con facilità nuovamente sopra l’argine del fiume, dopo aver frettolosamente reindossato la canottiera abbandonata sui massi al nostro arrivo. - Sei davvero magra, skinny… - Commentò stupito, nella sua lingua che portava impresse contemporaneamente sia le parole della tribù Tonkawa cui sentiva di far ancora parte, che quelle degli oppressori americani che l’avevano fatta estinguere centinaia di anni prima e, per un attimo, mi balenò nella mente il pensiero che in Christian convivessero due anime, quella del distrutto e quella del distruttore e che, a volte, lui stesso non sapesse a quale delle due appartenere e si rivoltasse, lottando e scalciando, per cercare di capire che cosa fosse in realtà. Anche durante la nostra pesca di stelle aveva alternato momenti di ilarità e di gioia quasi infantile a momenti di profondo silenzio e meditazione, durante i quali mi aveva guardata con quello sguardo che mi aveva fatta incendiare dentro e, alla fine dei quali, non aveva voluto darmi alcuna spiegazione. Più volte l’avevo sorpreso a fumarsi quella strana sigaretta con cui era arrivato da me, che aveva un odore pungente ed acre e che, ad ogni tirata, gli accendeva gli occhi trasformando le sue pupille viola in puntini minuscoli che affogavano in un mare di sogni privati e misteriosi, per non parlare della maniera in cui aveva trattato i gamberetti appena pescati: alcuni li aveva rigettati nel fiume, colto da una specie di improvvisa pietà, mentre altri li aveva schiacciati con il tacco dello stivale, trasformandoli in una poltiglia umida e grigiastra, divertendosi un sacco ad osservarli contorcersi, mentre io imploravo per la loro salvezza. - Che dici, Hanil, questo deve vivere o morire? - Vivere! – Avevo gridato io, pregando affinché lui graziasse ogni singolo gamberetto. Chris aveva sorriso di un sorriso freddo, quasi crudele.

- Per te dovrebbero vivere tutti… - Aveva commentato – Ma non puoi sapere quanti di loro se lo siano meritato davvero… Era stato allora che avevo deciso di seguire il suo esempio e di togliermi i vestiti inzuppati, esponendo la mia pelle bianca con i suoi tatuaggi rossi e viola alla luce della luna, tentando di essere più rapida di lui, precedendolo nella pesca e, possibilmente, nella salvezza di tutto il pescato. Ed il Christian che avevo conosciuto, l’uomo dolce che stavo imparando ad amare, aveva ripreso il posto di quello sconosciuto feroce. Perché il problema era proprio quello, pensavo, mentre, con la testa a penzoloni adagiata alla sua schiena, gli permettevo di scalare la grondaia al posto mio e di riportarmi, sana e salva, nella mia camera da letto: non mi sarei preoccupata di Christian, dei suoi pensieri e delle sue emozioni, se non mi fossi già innamorata di lui, perdutamente, al primo istante, quando ci eravamo incontrati alla Pieve e lui mi aveva salvata dai morti che stavano uscendo fuori dai miei incubi per trasformarsi in qualcosa di minaccioso e reale. Avevo solo quindici anni e non avevo mai incontrato l’amore prima di allora. Ma il sentimento che stavo provando lo avevo etichettato subito e senza alcun dubbio. - Sweet dreams… - Chris mi baciò la fronte e scivolò giù dalla grondaia, silenzioso come era salito; non feci nulla per trattenerlo, la rivelazione mi aveva colpita con l’intensità di un fulmine durante un violento temporale estivo, lasciandomi tramortita e senza forze. Amavo Christian. Lo conoscevo forse da ventiquattro ore. E non sapevo se e quando lo avrei rivisto di nuovo.

***

Il mattino dopo mi svegliai molto tardi e faticai parecchio prima di riuscire ad aprire gli occhi, ricostruendo al contempo, nella mia mente, gli eventi della sera prima: Christian che mi tirava i sassolini per convincermi ad uscire, che mi

trascinava fino al greto del torrente, i suoi occhi improvvisamente diversi, distanti, mentre sfracellava gamberetti col tacco dello stivale, sazio di stelle, fumante di collera e poi, nuovamente lui, che si prendeva cura di me, che mi fissava in silenzio mentre mi puliva i piedi dalla sabbia dorata del fiumiciattolo e mi diceva che mia madre era la luna. Christian, Christian e ancora Christian; sembrava proprio che il mio cervello fosse diventato incapace di formulare una parola diversa dal suo nome. “Sei troppo magra…” mi aveva detto, sollevandomi in braccio. Mi sedetti sul bordo del letto e mi grattai una gamba: non potevo certo dargli torto. Osservai con più attenzione la mia pelle chiara e tesa, solcata da linee sottili ed azzurrine dietro alle ginocchia e sui polpacci, lì dove qualche venuzza iniziava a dare i segni di una timida comparsa, sembrava attaccata all’osso, come le cosce scarnificate di un anatroccolo e le cose non miglioravano né sul ventre, ai lati del quale si potevano contare le costole una ad una, né, più oltre, sul petto, sostanzialmente piatto ed inesistente, o sulle braccia, dal diametro di poco superiore a quello di un mazzo di stuzzicadenti. Sospirai e feci per alzarmi in piedi e, proprio in quel momento, notai una striscia di sabbia dorata sul mio ginocchio destro, che risplendette, subitaneamente riflettendo la luce del sole quasi a mezzogiorno; sbattei le palpebre e la pulii via, sfregando rapidamente la pelle con la mia mano, quindi corsi, tentando di fare meno rumore possibile, in bagno e mi resi conto dell’errore che stavo per commettere: portavo i segni della mia pesca di stelle letteralmente impressi sulla pelle. Mi cacciai sotto la doccia e mi lavai a fondo, cancellando la sabbia e le alghe che si erano rinsecchite ed attaccate all’epidermide dei miei gomiti ed a quella delle mie cosce, quindi mi lavai vigorosamente i capelli ed osservai, preoccupata, un torrente di sabbia marrone finire direttamente nello scarico assieme alla schiuma del mio shampoo alla fragola. Dovevo correre a sbattere le lenzuola, altrimenti Giuseppina, che si occupava di tutto in casa, bucato incluso, mi avrebbe tramortita con un milione di domande cui non avrei potuto dare risposta. Ritornai in camera con i capelli ancora gocciolanti, grazie al cielo l’estate calda avrebbe asciugato le mie impronte umide sul pavimento nel giro di qualche minuto, indossai rapidamente mutandine e canottiera e mi dedicai ad una minuziosa pulizia del letto e del cuscino che durò quasi mezz’ora. Giuseppina spalancò la porta mentre ero affaccendata nel mio compito ed io sobbalzai, inghiottendomi il cuore.

- Faccio un po’ di pulizia! – esclamai, scostandomi i capelli umidi dalla fronte. Lei mi fissò stralunata, come se le avesse appena parlato un asino a pois viola con un bel paio di ali di drago sulla schiena, aprì le labbra e le richiuse senza dire una parola e si voltò, ritornando da dove era venuta. - Adesso arrivo! – Le gridai dietro; il mio stomaco aveva iniziato a brontolare e, dalla luce piena che le tendine della mia camera non riuscivano a tenere fuori, era chiaro che mezzogiorno doveva essere ato da un pezzo. Quando la raggiunsi in cucina e presi posto sulla sedia di fronte a lei, notai con malcelato sollievo che la tavola era stata apparecchiata per due. Mio padre non era dunque atteso per pranzo. Succedeva spesso che lui rimanesse via anche per delle settimane intere, telefonando di rado, solo durante i weekend e, quasi mai, sembrava desideroso di parlare con me, perciò non mi preoccupai per quella sua nuova assenza, sembrava non avere niente di diverso da tutte quelle che l’avevano preceduta ed, anzi, pregai in silenzio che si prolungasse più o meno all’infinito: in questa maniera, rivedere Christian, mantenere il segreto dei nostri incontri, sarebbe stato decisamente più semplice. Mangiai in silenzio, masticando lentamente, con un orecchio distrattamente rivolto alle notizie del telegiornale e l’altro costantemente teso ai rumori provenienti dalla strada. Chris non si sarebbe fatto vedere di giorno, ne ero certissima eppure, dentro di me, c’era qualcosa che non ne voleva sapere di tacere e che, anzi, continuava a tenermi all’erta. Fu così che il mio cuore iniziò a correre a perdifiato sulle montagne russe dell’imprevedibilità, lanciato a cento all’ora lungo i binari del dubbio, Christian avrebbe potuto decidere di comparire in qualsiasi momento o, con altrettanta facilità, pensare di smontare la sua tenda ed abbandonare la Pieve per non farvi più ritorno, ogni secondo avrebbe potuto decretare un balzo ulteriore sulla strada della felicità oppure un tuffo ad occhi chiusi dentro il cratere della disperazione. Mi tormentai una pellicina con l’unghia dell’indice destro fino a farne scaturire qualche goccia di sangue rosso e vivo che andò a macchiare la tovaglia e presi una decisione storica. - Esco… - Borbottai verso le quattro, dirigendomi velocemente alla porta di ingresso. - Unni vai? - Mi domandò Giuseppina, abbandonando per un secondo

l’ennesima puntata del suo solito talk show pomeridiano; la vidi emergere, tra il vapore del ferro da stiro e quello che emanava dalla cucina, sul fornello della quale ribolliva una nuova fornitura delle sua fetida minestra. - A fare un giro! – le risposi, spalancando l’uscio; i raggi caldissimi del sole d’agosto mi colpirono in pieno viso e mi tolsero il fiato per un lungo secondo. - A sorti e a morti unni vai vai ti li porti… - Commentò Giuseppina scuotendo la testa. Rabbrividii nonostante il caldo e feci il giro della casa per arrivare sul retro della farmacia del paese, lì dove avevo lasciato la mia fedele bicicletta rosa qualche giorno prima; la osservai attentamente, così diversa dalla moto di Chris, talmente infantile negli adesivi di cuccioli che vi avevo applicato sopra e nel camlo rotondo e squillante attaccato al manubrio, che mi vergognai profondamente di me stessa. Tentai invano di grattare via almeno qualcuna di quelle ridicole figurine ma rinunciai presto allo sforzo, tanto comunque il rosa pastello di cui era dipinta sarebbe stato sempre il suo biglietto da visita e la inforcai con riluttanza. Purtroppo dovevo arrivare fino in fondo al paese ed ero già madida di sudore, pensare di recarmici a piedi sarebbe stata semplicemente pura follia. Pedalai velocemente percorrendo la strada dritta dall’asfalto liscio e tremolante per il clima equatoriale all’orizzonte, attraversai il paese da una parte all’altra, maledicendo l’aria calda ed immobile che, come un muro vischioso, mi si richiudeva attorno soffocandomi non appena rallentavo la spinta e giunsi, in una decina di minuti appena, alla mia meta, senza incontrare praticamente anima viva. L’ “Allodola”, come l’avevano nominata i giovani del luogo, era una vecchia pizzeria che, durante le ore diurne, funzionava anche da bar, punto di telefono pubblico, sala giochi con biliardo e videogames ed era frequentata, soprattutto d’estate, da un nugolo di militari costretti a soggiornare sulle montagne durante i loro campi, per le esercitazioni stagionali. Per me, ovviamente, era uno dei luoghi assolutamente proibiti e non vi avevo messo piede che una sola volta quando, accompagnata da mio padre, ci eravamo entrati per chiedere un bicchiere d’acqua, andare alla toilette e fare qualche telefonata: quello era stato il giorno in cui eravamo arrivati al paese, con gli occhi straripanti e quasi doloranti per tutto il verde boschivo che, dalle montagne

sembrava pioverci direttamente addosso, disorientati, stanchi ed impolverati per il lungo viaggio in macchina fatto dalla Sicilia e per il quale ci eravamo alzati nottetempo. Mio padre aveva voluto a tutti i costi aspettarmi appena fuori dal bagno, timoroso che io potessi perdermi in quel piccolo locale fumoso dalle tende gialle appiccicate ai vetri sporchi e mi aveva quasi costretta a tracannare il bicchiere d’acqua che avevo ordinato, cercando di farmi uscire al più presto dalla pizzeria incriminata. Se adesso mi trovavo nuovamente di fronte alla sua entrata era perché avevo una missione da compiere; deglutii e tentai disperatamente di lisciarmi i capelli i quali, spinti dall’aria calda che li aveva investiti durante il mio breve tragitto in bici, erano sfuggiti dalla coda di cavallo che mi ero preparata prima di uscire e svolazzavano di qua e di là, sollevandosi come in preda ad una sorta di magia, raddrizzai la maglietta ed i pantaloncini, appoggiai la bici alla parete del locale e mi avvicinai all’ingresso. Ancora prima di spingere il pomello della pesante porta marrone avvertii distintamente gli schiamazzi che provenivano dall’interno, un misto di voci, grida, risate e rumori variegati che, al mio orecchio, risuonarono come totalmente sconosciuti o quasi; non avevo la più pallida idea di quello che avrei detto, una volta varcata la soglia, né di come avrei potuto farlo, visto il mutismo che mi portavo dietro, come uno scomodo bigliettino da visita appiccicato alla mia fronte sudata ma dovevo comunque tentare. Spinsi con trepidazione la pesante porta d’ingresso e la varcai, schermandomi gli occhi con le mani ed attesi qualche secondo, fino a quando le mie pupille non si abituarono alla penombra, permettendomi di avere una visione chiara del posto in cui ero entrata. C’erano parecchie persone in divisa color cachi che stazionavano al bancone, confuse dietro al denso fumo di sigarette che mi fece lacrimare gli occhi e bruciare la gola nel giro di pochi secondi, mentre altre, a gruppetti, erano in piedi accanto alle pareti, o sparpagliate per la sala, a seconda di quale fosse la loro idea di divertimento. Il locale era saturo di effluvi umani, l’aria pesante che vi si respirava con difficoltà era intrisa di umidità e di un sapore dolciastro che era un misto di deodoranti, dopobarba, sudore ed incenso; sebbene la temperatura lì dentro fosse rovente, la porta veniva tenuta ostinatamente chiusa, come a voler celare al resto del mondo le attività che si svolgevano all’interno del locale, e l’unica fonte di rinfresco proveniva da due piccoli ventilatori, che riuscivano a malapena a smuovere quella massa d’aria sudata ed appiccicosa ed a farla rimbalzare da un lato all’altro della sala. Nessuno mi notò, almeno non all’inizio: scivolai dentro di soppiatto e richiusi la

porta alle mie spalle; in quel momento, dei delfini metallici ormai arrugginiti appesi sopra l’architrave tintinnarono provocando un rumore argentino, come quello dei camli delle favole, stonato e decisamente fuori luogo in quell’ambiente foderato di bisbigli e scoppi brevi, di risate sguaiate o di grida alterate e le facce di una decina di persone si voltarono, sobbalzando, nella mia direzione. Inghiottii di nuovo e mi avvicinai al bancone che mi parve esageratamente alto per la mia statura; non tentai nemmeno di arrampicarmi su uno dei pochi sgabelli in gommapiuma rossa e sberciata, lasciati liberi da qualche avventore precedente, né rivolsi la parola alla cameriera che, indaffarata con cinque o sei bicchieri pieni di birra schiumosa e gialla, mi fissò con un mezzo sorriso e rimase immobile, con la mano aggrappata alla spina, come fosse la sua unica ancora di salvezza. Voltai la faccia a destra ed a sinistra: cercavo Barbara e Laura ed ero sicurissima che le avrei trovate lì dentro, lo sapevo perché, per un anno scolastico intero, le avevo sentite ridacchiare e sognare e discutere di quando sarebbe arrivata l’estate ed i soldati, con le loro sigarette ed i loro accenti del sud, si sarebbero riversati all’ ”Allodola” dopo una giornata snervante di esercitazioni sotto al sole, desiderando ardentemente un bel bicchiere di birra ed una ragazza attraente con cui fare conversazione e loro due, naturalmente, sarebbero state lì, pronte ad accoglierli, perciò mi stupii parecchio quando non le riconobbi, tra le poche figure femminili presenti a quell’ora dentro al bar. Feci qualche o in direzione del salone e cominciai ad udire i soliti bisbigli che mi precedevano, oppure mi seguivano, a seconda che io entrassi oppure stessi per lasciare una stanza piena di gente; sicuramente qualcuno del paese doveva aver riconosciuto la mia sagoma esile, o la mia pelle chiara, oppure più semplicemente quella stupida bicicletta rosa abbandonata a sciogliersi sotto al solleone e, di lingua in lingua, riuscii ad immaginare e quasi a vedere il formarsi delle più astruse congetture sulla presenza della ragazza porta sfortuna all’interno dell’ “Allodola”, un santuario giudicato ovviamente inviolabile e sicuro. Almeno fino a quel momento. - Posso offrirti da bere? – un ragazzone grasso e grondante mi si parò davanti prima che io potessi raggiungere il centro della sala e sollevò al soffitto il suo bicchiere, mimando un brindisi; la chiazza di sudore che, da sotto la sua ascella si spandeva fino al torace, trasformando la tela della sua divisa in un fazzoletto

inzuppato e scuro, mi fece arricciare il naso e stringere le labbra in un’espressione disgustata. - Ehi! Capisci la mia lingua?? C’è nessuno? – Aggiunse poi, picchiandosi con l’indice la tempia destra. Tutti i presenti sghignazzarono, inclusa la banconiera. Ma come diavolo poteva essermi venuta in mente un’idea simile? Venire all’Allodola, cercare Barbara, domandarle consiglio su Christian, sul mio aspetto, su di noi, sì, insomma, su come fare per poter diventare attraente ai suoi occhi, come potevo aver pensato, per un solo istante, che questa pazzia avrebbe potuto funzionare? E se anche fossi riuscita a trovare Barbara, oppure Laura, con quali lusinghe, o promesse, avrei mai potuto convincerle, dal momento che, per loro, io non ero altro che un insulso insetto da schiacciare sotto al tacco delle loro scarpette, proprio come Christian aveva fatto, la notte prima, con un centinaio di incauti gamberetti grigi? Scartai sulla sinistra e corsi a perdifiato in fondo al corridoio poco illuminato, sperando che il pavimento sotto ai miei piedi la smettesse di risuonare in quella maniera e, piuttosto, mi ingoiasse senza fare alcun rumore: perché diavolo avevo deciso di uscire indossando un paio di stupide ciabattine in plastica? Dovevo essere apparsa a tutti come una mocciosa frignante in cerca della propria mamma, naturale che non ci fosse stata una sola persona, dentro il locale che non si fosse messa a ridere di me. Grazie al cielo la mia memoria era buona e, se non altro, dovevo riconoscere che il senso di orientamento che quello zingaro di mio padre mi doveva aver trasmesso per via genetica, mi poteva finalmente tornare utile. Afferrai la maniglia di una porta a vetri sulla quale qualche burlone aveva appiccicato delle mutandine da donna affiancate ad un paio di luridi slip e mi infilai nel bagno delle signore, inghiottendo le lacrime. Una volta dentro, mi avvicinai alla vasca in marmo sulla quale pendevano due rubinetti arrugginiti e mi ai le estremità sul viso, iniziando ad inspirare velocemente attraverso le mie dita, tappandomi la bocca prima col dorso e poi con il palmo della mano e mordendomi la carne tenera, tentando di non urlare: ancora pochi secondi e il panico non mi avrebbe più permesso di muovermi. Fu allora che le sentii: due voci, una maschile ed una femminile, provenienti da dietro la porta chiusa di uno dei bagni alla turca che, assieme all’altro accanto, erano tutto quanto l’ ”Allodola” fosse in grado di fornire in tema di servizi igienici - Sei proprio una troietta, lo so che ti piace… - Sussurrò la voce maschile, cui

seguì un rumore, come di qualcuno che stesse frugando in mezzo ad una pila di stoffe. - Piantala, ti ho detto di no! Cazzo! – Riconobbi, con un po’ di difficoltà, la voce concitata di Barbara e mi acquattai, d’istinto, scivolando, lungo la parete di viscide piastrelle bianche chiazzate di marrone, fin dentro il bagno rimasto aperto e, in quel momento, fortunatamente non occupato da nessun altro avventore. Evitai di osservare da vicino il colore dei sanitari e di calpestare, il più possibile, la pozzanghera grigia e maleodorante che non veniva ripulita da giorni, un misto di urina, acqua sporca e resti di carta igienica nel quale galleggiavano un mozzicone di sigaretta e la corazza senza vita di uno scarafaggio nero, mi turai il naso con le dita e rivolsi tutta la mia attenzione alle voci che provenivano dal bagno accanto al mio. - Su, forza, che stai aspettando? – La voce maschile, spazientita adesso, sibilò e si sentì il suono di un sospiro spezzato che non riuscii ad identificare. - Lasciami stare! – Rispose Barbara; sentii rumori, come di una lotta che si stesse svolgendo contro la porta in legno del bagno, ricoperta dalle scritte oscene di decine di utilizzatori con la mania dei graffiti, finché la vecchia serratura cedette e l’uomo uscì per primo, quasi scaraventato fuori dall’angusta stanzetta. - Fai pena! – Fu il suo commento, mentre, con una mano, si risistemava la patta dell’uniforme – Non sei buona neanche per una sega… - No, Giacomo, aspetta! – Barbara schizzò fuori dal bagno di corsa, ansimando – Scusami dai! – Esclamò alla schiena dell’altro, che non si girò nemmeno. Lei si fermò in mezzo alla stanza sporca, si ò una mano sul viso e si guardò allo specchio, appeso proprio dietro ai due miseri lavandini e fu allora che mi vide, la mia immagine riflessa la fece, per un secondo sobbalzare. Mi diedi dell’idiota mille volte in un secondo, perché non ero stata capace di farmi i fatti i miei e avevo aperto la porta dietro la quale mi ero nascosta un attimo dopo che l’uomo era uscito dal bagno, incuriosita da quel fatto che avevo ascoltato per caso, desiderosa di conoscere le fattezze dell’uomo che aveva umiliato la ragazza più bella del paese, senza aspettarmi che anche Barbara potesse tenergli dietro e tentare di seguirlo, di fermarlo, uscendo dal loro squallido rifugio. Aveva due grosse lacrime di mascara nero che le avevano imbrattato le tempie e parte delle guance ed un rossetto sbavato in più punti, come una striscia

di sangue rossa che, dalle labbra, si spandeva sul mento e sul collo, indossava una mini gonna aderentissima che un paio di mani forti dovevano aver sollevato quasi fin sopra il sedere, ed una canottiera da uomo bianca, appositamente molto stretta, che metteva in risalto la sua scollatura mozzafiato. Dopo la sorpresa del momento, Barbara ritornò padrona della situazione e ricominciò a guardarsi allo specchio come se niente fosse successo. - Hai da accendere? – Mi chiese, tirando fuori una sigaretta spiegazzata da in mezzo al reggiseno. Feci segno di non con la testa e lei, continuando a fissarsi allo specchio, si fece impercettibilmente più vicina. - Allora non sei sorda… Riprese, masticando la sigaretta spenta tra le labbra e cancellando le tracce di mascara con un pezzo di carta igienica. Rimasi paralizzata e non mi mossi, dandomi nuovamente della stupida. - Lo sospettavo, sai? – Aggiunse dopo un po’, rimettendo la sigaretta lì dove l’aveva presa; si ò un dito sulle labbra risistemando il rossetto al suo posto, schioccò la lingua e si abbassò la gonna, tentando di pettinarsi i capelli. – Sei molto carina… - Sussurrò poi, venendomi ancora più vicina; credo che non si fosse mai avvicinata così tanto a me in un anno scolastico intero e la fissai allibita, incapace di muovere un solo muscolo; Barbara mi sollevò il mento con un dito e mi studiò a lungo, fissando i suoi occhi da gatta nei miei, con una smorfia compiaciuta. –Ma che bei capelli che hai… - continuò, arrotolandosi una delle mie ciocche ribelli sull’indice. Aspettò un paio di secondi, durante i quali tentati di non respirare e la squadrai con due occhi sorpresi e dilatati. Lei mi strattonò i capelli di colpo, tirando la ciocca con violenza verso il pavimento. - Ahia! – urlai, abbassando la testa e piegando il collo di lato nel tentativo disperato di diminuire la trazione. - E non sei nemmeno muta… - Lei ridacchiò, contenta della propria furbizia. – Non dire a nessuno di quello che hai sentito qui oggi, capito?! – Mi fissò con un paio di occhi gelidi ed inespressivi, stavolta – O saranno guai seri per te… Concluse, senza accennare a lasciarmi andare. Annuii un paio di volte ma lei non sembrò pienamente soddisfatta fino a quando non le allontanai la mano dai miei capelli e non gliela tenni stretta. - C’è qualcosa che vuoi chiedermi, ragazza muta? – Mi domandò sogghignando. Annuii di nuovo.

- E me lo vuoi dire o pensi di scrivermi una lettera, muta? – Sghignazzò e scrollò le spalle, come se si fosse improvvisamente annoiata e si fosse resa conto di stare perdendo il proprio tempo. –Mi sa che sei tutta scema! – terminò, facendo per voltarsi ed uscire dal bagno. E fu allora il mio turno di sorprenderla: afferrandole il braccio sinistro la costrinsi a fare un rapido mezzo giro su se stessa così da ritrovarsi nuovamente a guardarmi in faccia e non potere ignorarmi a lungo. Quando, quasi cinque minuti dopo, uscimmo dal bagno, lei davanti e io che le tenevo faticosamente dietro, saltellandole alle spalle come un cagnolino strattonato dal guinzaglio di un padrone eccessivamente volubile, non riuscivo ancora a credere a quello che ero stata capace di iniziare; lei attraversò il salone e ò con assoluta noncuranza di fronte al tavolo rotondo attorno al quale il ragazzo con cui si era appartata poco prima stava seduto, letteralmente appiccicato ad una biondina dal sorriso vacuo e decisamente stolido, proseguì oltre senza voltarsi e sollevò una specie di tendina in vimini che stava appesa in fondo alla stanza, oltre alla quale regnava una specie di oscurità artificiale. - Resta qui! – Mi intimò, puntandomi l’indice ed affondandolo direttamente nel mio sterno, quindi scese il gradino che separava i due ambienti e dal quale risalivano fruscii e gemiti che non avevo mai sentito prima e sparì, inghiottita dal buio. –Laura! – La sentii gridare, in mezzo ai sussurri ed agli schiocchi. –Laura, andiamo! – Ripeté, dopo un attimo, riemergendo con la sua migliore amica, tutta spettinata e con gli occhi lucidi, attaccata alla mano destra. –È una dark, non è posto per te! – Mi disse, interpretando correttamente l’interrogativo muto che le avevo rivolto con gli occhi. Laura sembrò spazientita e si fece trascinare controvoglia fino sulla porta d’ingresso, mugugnando e dibattendosi flebilmente nel tentativo di resistere a quel rapimento in piena regola. - Ma insomma – sbraitò poi, quando la luce del giorno esterno le ferì gli occhi facendoglieli serrare all’istante – mi dici che cazzo hai? - Spiacente di aver interrotto la tua sveltina… - C’era anche Giacomo prima, in dark, sembrava furioso…Solo perché tu non hai avuto il coraggio di… - Piantala e stammi a sentire! – Esclamò Barbara, riprendendo il controllo della situazione; - abbiamo un’emergenza, qui. – Disse, indicandomi con il pollice.

Laura si zittì all’istante, i suoi begli occhi verdi appena abituati alla luce si rabbuiarono di colpo non appena mi misero a fuoco. - Che diavolo ci fa lei qui? Ti sei bevuta il cervello? – E sputò ai miei piedi, mormorando due parole nel dialetto locale che suonarono alle mie orecchie come una specie di maledizione. - Lei è con me, va tutto bene… - Barbara iniziò ad atteggiarsi a grande capo e, afferrandoci entrambe per le braccia, ci spinse via dallo spiazzo antistante la pizzeria, iniziando a percorrere la stradina che conduceva verso il centro del paese. Mi guardai bene dal protestare per l’abbandono della mia bicicletta rosa che sarei ata a recuperare anche di notte, mi ripromisi, non era il momento di interrompere quel viaggio concitato. - Ciao nonna! – Gridò Barbara poco dopo, spingendo l’uscio di un edificio ed entrandovi senza bisogno di chiavi; nel paese in cui vivevamo, tutti conoscevano tutti e la criminalità era praticamente ridotta a zero, c’era una vigilanza continua effettuata dai vicini su chiunque asse in zona, proprio in quel momento almeno una decina d’occhi, mi immaginai, dovevano aver intercettato il nostro arrivo, da dietro una serie di persiane accostate e di porte socchiuse, congetturando a più non posso sulla natura della nostra neonata società. Quasi sicuramente, in serata, a qualche tavolo si sarebbe discusso della strana amicizia che legava la siciliana muta con le due ragazze del luogo. Barbara viveva al primo piano della casa in cui eravamo appena entrate mentre, al piano terra, sua nonna gestiva l’unica merceria che fungeva anche da boutique per le signore del paese, eleganti oppure no tutte dovevano are dall’atelier della signora Giovanna per poter indossare qualcosa di diverso da un grembiule. Giovanna era anziana e parecchio sorda e spesso e volentieri, appresi in seguito, sua nipote e la sua migliore amica la taccheggiavano senza che lei riuscisse a rendersene conto. A quell’ora del pomeriggio il negozio era chiuso e la temperatura interna era quasi irrespirabile, Barbara, sicura che sua nonna fosse a riposare nella propria camera da letto, ci spinse dentro al negozio facendoci are dal retro, quindi si appropriò delle chiavi che tintinnavano lievemente, appese alla serratura e chiuse a doppia mandata, abbassò anche le tendine alle due vetrine prima di posizionarsi davanti a noi, dietro al bancone del negozio di sua nonna. Eravamo finalmente al riparo dai pettegolezzi e dagli sguardi velati. - La muta si è innamorata… - Esordì Barbara, quando fu certa di aver captato tutta la nostra attenzione. Io arrossii violentemente e picchiai con il pugno sul

banco di legno verde ma Barbara non diede alcun peso a quella mia minacciosa protesta e continuò, rivolta alla propria amica che, adesso, era tutta orecchie e sembrava non stare più nella pelle in attesa del seguito della storia. - È proprio così, Laura, te lo giuro! Non è vero? – Entrambe mi puntarono addosso i loro occhi sprezzanti ed increduli e dovetti annuire, con le narici dilatate, più volte, fissando ostinatamente il pavimento. Cominciavo a pentirmi seriamente del guaio in cui stavo inesorabilmente scivolando. - Oh mio dio! – Scandì, lentamente, Laura, facendo un rapido giro attorno a me, come uno squalo che avesse fiutato una goccia di prezioso sangue in una piscina piena di acqua salata. –E di chi si è innamorata? Forza, diccelo! Negai, continuando a fissare il pavimento; l’odore acidulo di Laura, come quello di un bouquet di fiori rimasto a giacere troppo a lungo in una pozzanghera di acqua morta, mi riempì le nari, pungendomi gli occhi. - Non lo vuole dire…Io gliel’ho detto, che se non ce lo dice, noi non possiamo proprio aiutarla, no no… - Sospirò teatralmente Barbara, scuotendo la testa con disapprovazione. Non dissi una parola e rimasi immobile, tentando di pietrificare le mie labbra ed il mio cuore: parlare di Christian, svelare il mio segreto a quelle due oche sarebbe equivalso sostanzialmente a farmi appoggiare una pistola carica contro la tempia e tentare il gioco della roulette russa. Senza contare il fatto che temevo, più di ogni altra cosa, il fascino che ragazze come Barbara e Laura avrebbero sicuramente esercitato su di un uomo come Chris e che lui avrebbe, di rimando, gettato certamente su di loro, come una specie di incantesimo che avrebbe escluso una delle tre componenti della banda e cioè io. Christian doveva essere protetto ad ogni costo, altrimenti il mio cuore rischiava di sfracellarsi ancora prima di poter spiccare il volo: avevo chiesto aiuto a Barbara, le avevo domandato alcuni consigli: lei sapeva come truccarsi, come ancheggiare, come vestirsi, come comportarsi, in modo da apparire una donna desiderabile agli occhi dei ragazzi. Christian di me aveva detto semplicemente che ero troppo magra, ci voleva qualcosa in grado di attrarlo, di accendere il suo interesse per me e quel qualcosa, non so perché avevo pensato che avrebbero potuto insegnarmelo Barbara e Laura. Avevo assistito, nei giardini della scuola, a così tante conquiste ed ascoltato, carpito, così tante storie piccanti e fortunate che, in quel momento assurdo in bagno, quando Barbara mi era sembrata per la prima volta niente di più che una ragazza sola ed umiliata, mi era parso ovvio e quasi geniale chiederle un aiuto, avevo parlato d’istinto, senza soffermarmi

troppo a pensare alle conseguenze della mia idea folle e sconclusionata ed ecco che mi si presentava in men che non si dica il conto da pagare, un conto alquanto salato e per il quale non ero disposta a trattare. - Se la muta non vuole confessare allora non c’è nient’altro da dire… - Ribadì Laura, fissando per un attimo la sua amica negli occhi. - Eh già… - Mormorò l’altra – Io salgo da mia nonna, voi potete uscire dalla porta d’ingresso. Buona serata, ragazze. Lo sapevo, lo avevo capito perfettamente che quella era tutta una messinscena per costringermi a cedere: la curiosità aveva gli occhi di entrambe, non se ne sarebbero mai andate senza prima aver avuto la certezza di sapere ma il terrore di stare per perdere la mia unica opportunità di piacere a Christian mi trascinò e mi fece piazzare davanti all’ingresso, con lo stesso scatto fulmineo che aveva Giuseppina quando tentava di impedirmi di uscire dalla cucina senza prima aver bevuto fino all’ultima goccia del suo maledetto latte caldo. Allargai le braccia occupando l’intero vano della porta ed attesi, scuotendo la testa a destra e a sinistra. - Mmmmmh… - Mormorò Barbara, avvicinandosi a me – io penso che possiamo fare un patto; noi ti insegniamo qualche trucchetto per sedurre il principe azzurro dei tuoi sogni e, in cambio, tu lo porti all’Allodola, entro la settimana, così io e Laura gli diamo una sbirciatina, che ne dici? Spalancai gli occhi e provai ad immaginare la scena: Christian che entrava, al mio fianco, nel locale fumoso, che si guardava intorno incuriosito, che si avvicinava al bancone per ordinare da bere, una birra per lui ed un bicchiere di acqua di rubinetto per me e la cameriera iniziava a fargli le fusa sedendoglisi in braccio e, ancora, Christian che si spostava nella sala buia, che mi diceva di aspettarlo fuori un secondo e il tempo che ava, inesorabile, prima che lui fe ritorno, con un paio di ragazze spettinate ed ansanti come Laura e Barbara, attaccate ai suoi bicipiti e le pupille mi si offuscarono per la collera mentre il sangue iniziò a martellarmi direttamente nelle tempie. Christian era mio, io ero hanil e non lo avrei diviso con nessuna. Mai. - Allora, affare fatto? – Laura mi tese la destra ed il primo istinto fu di mordergliela a sangue facendola urlare dal dolore; la gelosia mi stava travolgendo con la violenza di un fiume in piena, non avevo mai provato prima

un sentimento così doloroso e parimenti distruttivo. - Vuoi che ti aiutiamo a conquistare il tuo bellimbusto oppure no? Prendere o lasciare, muta! E devi decidere adesso… - Adesso o mai più… - Riprese cantilenando Laura, strisciandomi alle spalle come una vipera velenosa pronta ad affondare i suoi denti aguzzi dentro al mio collo; mi sciolse quel che restava della mia coda di cavallo e si mise a sussurrare al mio orecchio, sensuale come una danzatrice del ventre: - Pensa a quello che potremmo insegnarti…Lo faresti impazzire…Sarebbe tuo, cadrebbe ai tuoi piedi e ti implorerebbe in ginocchio… - ò le dita tra i miei capelli e me li acconciò sulla nuca, scoprendo la vena azzurrina che mi pulsava lungo la gola bianca, mentre Barbara mi afferrò entrambe le braccia e mi condusse di fronte all’unico camerino del negozio, dietro al quale troneggiava uno specchio ovale alto quasi quanto me. Fissai la mia immagine riflessa e stentai a riconoscere quella ragazza accaldata e leggermente stralunata, con i capelli fissati sulla nuca e trattenuti da una matita marrone dalla quale sfuggivano un paio di ciocche delicate che ricadevano, con studiata asimmetria, l’una lungo la tempia destra e l’altra davanti all’orecchio sinistro. - Proprio così… - Barbara si posizionò accanto a Laura, alle mie spalle e soffiò delicatamente contro il mio orecchio, irrigidendo in un colpo solo la lanugine bruna che mi cresceva lì accanto. –Scommetto che non hai mai baciato un ragazzo…Dovremo insegnarti anche quello… - Aggiunse con un risolino provocante, sistemando con un gesto elegante una delle mie due ciocche di capelli fuggitive. Fissammo tutte e tre lo specchio ed io annuii più volte deglutendo, sigillando così il nostro patto scellerato. Ero definitivamente in loro potere.

***

Prima che io potessi aggiungere una sola parola, Barbara strattonò con forza il colletto della mia maglietta, quasi strangolandomi e quello cedette con un crack netto, che indicò l’incontrovertibile scucitura del tessuto.

Mugolai una protesta e tentai di divincolarmi, ma Laura mi tenne ferma, mentre Barbara continuava a tirare la mia maglietta, nel tentativo di abbassarla. Ci vollero un paio di minuti di lotta furiosa ma, alla fine, il colletto ormai strappato della maglietta mi finì oltre le spalle, lasciandomele scoperte. - Vediamo che cosa abbiamo qui…Sta’ ferma! – Sbottò spazientita Laura, voltandomi nuovamente verso lo specchio del camerino. - Dovresti portare più spesso dei vestiti scollati, mia cara! – Aggiunse Barbara, indicando il mio riflesso: le mie spalle magre e bianche risaltavano parecchio a contrasto con le ciocche dei miei capelli scuri che la lotta aveva parzialmente liberato e che ora sfioravano la pelle del mio collo, danzando con le ombre della sera che stava lentamente calando sul paese soffocato dal caldo. Mi rimpossessai del colletto e tentati di rimetterlo al suo posto, anche se ormai il danno alla stoffa era chiaramente irreversibile. - Spogliati, avanti! – Mi intimò Laura. - Non ti vergognerai mica di noi ragazze, no? - Spogliati, ti ho detto! – Stavolta il tono minaccioso di Laura mi spaventò; mi girai di schiena e feci scivolare via la maglietta dal colletto rovinato ed i pantaloncini, rimanendo in canottiera e mutandine rosa. - Tesoro, gli orsacchiotti non sono proprio sexy… - Eh no, che disastro…Avanti, levateli, su, che cerchiamo qualcosa di più adatto… In quel preciso istante gli sguardi di entrambe caddero sul mio avambraccio sinistro e lì si bloccarono per un lunghissimo secondo, durante il quale nessuna delle due emise un solo suono. - E questi che cazzo sono?! – Fu Laura la prima a rompere il silenzio indicando, schifata, la mia peste rosso violacea che faceva bella mostra di sé, segnandomi la pelle come se fossi stata ammalata di vaiolo. – Non sarai mica contagiosa, vero?! – Gridò, allontanandosi da me con uno scatto degno di una lepre terrorizzata in fuga. –Io qui con lei non ci rimango un minuto di più! – Aggiunse, avviandosi verso la porta.

- Fa’ pure come credi… - Le rispose Barbara, senza nemmeno voltarsi a guardarla e si mise a rovistare in un cassetto dal quale una miriade di merletti fuoriusciva, come uno sciame di farfalle delicate che tentasse disperatamente la fuga. –Ci vediamo domani all’ “Allodola”, ciao! - Terminò, continuando a frugare con un tono di voce assolutamente normale. Laura non rispose al saluto, afferrò la maniglia e, continuando a fissarmi come se fossi stata una specie di folletto malefico e velenoso, spalancò la porta d’ingresso del negozio e corse fuori, con una velocità che mi fece sorridere. - Quanti segreti nascondi, bambina… - Disse Barbara, avvicinandosi nuovamente a me; mi porse due o tre corsetti che appoggiò su di una sedia dentro al camerino, quindi, sollevandomi le braccia, fece scivolare via la canottiera ad orsacchiotti e la gettò sul pavimento con noncuranza. Mi coprii il seno con le mani, incrociando le braccia all’altezza dello sterno e rimasi immobile, a tremare nella penombra di quel negozio in cui non ero mai entrata da sola, con l’unica compagnia di una donna che mi pareva di non aver mai conosciuto in profondità. - Prova uno di questi; - disse lei, aiutandomi ad infilare un reggiseno imbottito, velato di un soffice pizzo azzurro che faceva il solletico alla pelle, nelle cui coppe i miei seni ancora acerbi scomparvero senza lasciare traccia. –Direi che così va molto meglio… - Mormorò Barbara, agganciando i gancetti dietro alla mia schiena con delicatezza. –Questi te li sei fatta tu, non è vero? – Mi chiese dopo un attimo osservando, compiaciuta, l’effetto del nuovo indumento intimo sulla mia figura; finsi di non capire e giocherellai distrattamente con le spalline azzurre ma lei strinse volutamente la mia spalla, premendo con la punta delle dita su alcuni dei miei tatuaggi più recenti e non potei trattenere un grido di dolore. - Questo me lo sono fatta io, invece… - Afferrò la mia mano e se la infilò dentro ai jeans, facendomi sfiorare una porzione della sua pelle, appena sotto le ossa del bacino, che sembrava attraversata da una lunga cicatrice dritta, esito di un taglio netto e profondo che mi fece rabbrividire. –Sì, con un pezzo di vetro, la prima volta che l’ho fatto… Per ricordarmi di quanto faccia male, soprattutto quando ti innamori della persona sbagliata… - Gli occhi le si offuscarono di colpo e, per un attimo, sembrò annaspare in un ricordo doloroso che le allagò le iridi di lacrime salate. –Adesso lo faccio con chi mi pare ma non mi innamoro di

nessuno di loro; tutte le volte che mi toccano qui, mi ricordo di quanto può fare male l’amore e non ci casco più. Ritirai rapidamente le dita e feci per allontanarmi ma lei mi trattenne afferrandomi per la vita e mi piazzò un bacio sulle labbra che mi lasciò senza fiato. - Hei, non ti spaventare… - Sussurrò, al mio secondo tentativo di divincolarmi per riuscire a respirare almeno ad un metro da lei e dal suo profumo da quattro soldi. –È così che si bacia un uomo, meglio che tu ci faccia l’abitudine… - Mi strizzò un occhio e, finalmente, mi lasciò andare. - Domani lezione di trucco e pettinatura, ti aspetto qui quando vuoi… - Mi disse, come se mi stesse dando l’elenco delle ripetizioni di greco che, invece, avrei sicuramente dovuto fare prima che la scuola ricominciasse a settembre; mi infilai rapidamente la maglietta sopra il nuovo reggiseno e raccolsi la mia canottiera con gli orsacchiotti da terra. –Naturalmente puoi tenere il reggiseno, tanto mia nonna non se ne accorgerà… - Ridacchiò ed estrasse un altro reggiseno dal cassetto che si nascose in tasca, rendendomi complice del suo furto e colpevole del mio. Indossai nuovamente i pantaloncini, improvvisamente desiderosa di uscire da quella stanza asfittica che puzzava di legno vecchio e degli aliti di tutte le persone che, negli anni, erano entrate a provarsi vestiti e cappelli e sciarpe e mutande, specchiandosi assieme ai propri sogni di fronte all’uscita di quel camerino squallido nel tentativo di migliorare la propria condizione di partenza e mi slanciai verso l’ingresso del negozio. - Barbara, sei tu? – La voce tremolante della nonna di Barbara si fece sentire, poco sopra alle nostre teste. Afferrai la maniglia della porta e mi scaraventai in strada. –Chi era la tua amica? Che maleducata, non mi ha nemmeno salutata… La sentii rimbottare, respirando con difficoltà, dopo aver raggiunto la porta che, nella furia, avevo sbattuto con troppa violenza dietro alle mie spalle e che si era quindi nuovamente spalancata. Corsi verso l’ “Allodola” contro il muro della quale riconobbi lo scintillio rosa della mia bici, che inforcai, pedalando rapidamente nella sera paesana, diretta a casa, con le gambe pesanti e l’odore di Barbara ancora appiccicato addosso. Mi ai con forza il dorso della destra contro le labbra, tentando di cancellare quel bacio che mi aveva preso di sorpresa e, al ricordo del quale, il mio cuore accelerò i battiti: non sapevo se volevo veramente tornare da lei, l’indomani, per

apprendere i segreti del trucco e della pettinatura, il reggiseno rubato mi punzecchiava la pelle delle spalle ed il colletto della mia maglietta, allargato a forza da Laura, mi sembrava quasi una specie di cappio al collo che, in qualsiasi momento, avrebbe potuto stringersi e strangolarmi senza preavviso né pietà. Avevo bisogno di rivedere Christian, di parlare con lui, di fermarmi ad osservarlo, di restare ad ascoltarlo parlare della sua tribù e dei suoi sogni, avevo bisogno che lui rimettesse in piedi il mio mondo, restituendogli il significato che, fino a quel momento, aveva avuto. Quello di cui non avevo bisogno era, invece, la macchina di mio padre, parcheggiata di fronte alla farmacia e la sua sagoma, inconfondibile, che stazionava dietro alle tendine della cucina, probabilmente in attesa del mio ritorno. Siccome ero uscita senza orologio non potevo sapere quanto tempo fossi stata via o da quante ore lui fosse rincasato, ma dal tramonto arancione che incendiava le cime delle montagne attorno al paese potevo immaginare che fosse ormai sera inoltrata. Ero indiscutibilmente in ritardo e, peggio ancora, non avevo alcuna giustificazione per la mia sparizione pomeridiana. Quella sera cenammo tardi; mio padre volle che io gli mostrassi le versioni dal greco che avevo tradotto durante la sua assenza e quelle che, ancora, mi rimanevano da fare; a nulla servirono le mie proteste di stanchezza, né gli occhi gonfi di sonno ed arrossati per il caldo, con il quale lo fissai, supplichevole: era, ovviamente, ancora arrabbiato con me per quello che gli avevo detto prima che lui partisse e pensava che fosse mio dovere mostrare remissione, pentimento e almeno un briciolo di felicità per il suo rientro a casa. Ma questo sarebbe stato ciò che mi sarei aspettata anche io da me stessa prima, prima di Christian, della Pieve, delle stelle nel secchiello e dei gamberetti sotto al tacco del suo stivale, prima di Laura e di Barbara, in poche parole, prima dell’inizio della mia educazione sentimentale. Non mostrai né felicità né interesse per le storie che, invece, solitamente gli chiedevo a gran voce di raccontarmi, né gli domandai dove fosse stato o che città avesse visitato per lavoro, mi sottoposi alla tortura delle versioni ed al suo interrogatorio con stoica rassegnazione, rispondendo a monosillabi, come se fossi stata davvero la bambina muta che tutti pensavano di conoscere e non la creatura nella quale mi sembrava di starmi improvvisamente trasformando. Non seppi se Christian fosse ato a casa mia quella sera oppure no, non riuscii nemmeno ad avvicinarmi al balcone della mia camera, perché mio padre mi accompagnò praticamente quasi fino al letto e rimase a guardare in silenzio,

mentre mi preparavo per andare a dormire; quando mi sollevai la maglietta per sganciare il reggiseno non sembrò prestarmi particolare attenzione e, grazie al cielo, non si accorse della presenza di quell’indumento indiscutibilmente adulto e non mio addosso a me; il suo sguardo mi attraversò da parte a parte, come se il suo corpo si trovasse a casa ma la sua mente stesse vagando, inseguendo chissà quali pensieri: il suo umore si era incupito maggiormente dopo cena e la mia resistenza iva ed ostinata doveva certamente aver contribuito significativamente a quel silenzioso struggimento con il quale sembrava destinato a convivere, almeno per quella sera. - Non so proprio che fare, con te… - Mi disse, quando si avvicinò al mio letto, invece di darmi la solita buonanotte e non mi baciò sulla fronte come, invece, faceva al ritorno da ogni viaggio, forse per cercare di colmare quella distanza che sembrava separarci di giorno in giorno sempre di più ma si limitò a spegnere la luce ed a rimanere, qualche attimo, appoggiato allo stipite della mia porta prima di socchiuderla per dirigersi finalmente in camera sua. Io mi sentivo stanca, sconvolta e frastornata da tutto quello che mi era successo: non sapevo se Christian fosse ato e, se sì, che cosa potesse aver pensato della mia assenza e della mia finestra che era rimasta silenziosamente ma fermamente chiusa, né sapevo come categorizzare Barbara e lo strano pomeriggio rovente che avevamo trascorso assieme ma mi rendevo conto di averle rivelato di me più di quanto non avessi desiderato, senza averle detto in realtà nemmeno una parola e che la mia natura sembrava interessarle a tal punto che la sua migliore amica si era sentita così tanto minacciata da me, da noi, dal patto che avevamo siglato, da doversene fuggire via di corsa. Non ero sicura di essermi fatta un’amica, quella sera, ma, di sicuro, avevo una nemica in più da cui avrei certamente fatto meglio a guardarmi le spalle. Sospirai e mi rigirai nel letto ma faticai parecchio prima di riuscire a prendere sonno, pur essendo così stanca da non farcela quasi a muovere le braccia e le gambe il mio cervello continuava a riflettere, macinando sogni alla stessa velocità con cui l’acqua del torrente del paese scorreva, mulinando, durante le giornate di acquazzoni violenti: ero in bilico, tra l’infanzia e l’adolescenza, in cima al primo spigolo aguzzo della mia vita ed avevo una paura terribile per la scelta che, presto o tardi, avrei dovuto fare. Con o senza l’aiuto di Barbara, il desiderio di Christian mi trascinava avanti, pulsando, dolorosamente, per la prima volta, in mezzo alle mie gambe, lì dove alle bambine non era permesso di toccare e dove Barbara si era fatta una cicatrice terribile, per ricordarsi di quanto

potesse fare male quella cosa ingarbugliata e fisica che era l’amore. Ripensai a mio padre, a quello che aveva detto al capezzale del mio letto e provai un fiotto inarrestabile di pena, nei suoi confronti: non c’era niente che potesse ormai fare, con me, che lui lo volesse oppure no stavo formalmente iniziando ad uscire dalla mia crisalide, abbandonando il mio aspetto di bruco per spiccare il volo come la farfalla che sarei di lì a poco diventata. Non sapevo con esattezza che colore avrebbero avuto le mie ali, né quale sarebbe stata la loro consistenza o se sarebbero state capaci di resistere a tutti i temporali con i quali avrei dovuto fare i conti da lì in avanti ma avevo una certezza riguardante mio padre, che non avrei più potuto ignorare: avrei dovuto necessariamente lasciarlo indietro.

***

Il profumo di frittata e mele mi penetrò nelle narici fino a svegliarmi del tutto e mi misi a sedere sul letto: c’era solo una persona, nella nostra casa, convinta che creare frittate dolci fosse un piatto prelibato e quella persona non era certo Giuseppina. Mio padre doveva essersi messo ai fornelli. - Maledizione… - sibilai, pentendomi immediatamente per quel fiotto di rabbia incontrollata che mi era esplosa sulle labbra. Mio padre cucinava quando c’era ancora mia madre, loro due pasticciavano ai fornelli per delle ore, ridacchiando e scambiandosi battute scherzose e baci rapidi a fior di labbra, quando pensavano di non essere visti, durante i sabati pomeriggio in cui mio padre non lavorava. Di tutte quelle ore ate in cucina, però, lui sembrava essere riuscito ad apprendere solo a cucinare uno strano dolce austriaco che vedeva mescolati zucchero, uova, latte e pezzetti di mela, da presentare, come una frittata rotta, in un piatto con un po’ di crema alla nocciola accanto. Una ben magra presentazione a dire il vero, che lui sosteneva però essere degna del palato del Kaiser in persona. Avrei dovuto essere felice di quell’avvenimento e salutare il profumino di zucchero e mele come una benedizione: era il segno che mio padre voleva seppellire, almeno momentaneamente, l’ascia di guerra e, come gli aveva suggerito ripetutamente lo strizzacervelli anni prima, tentare nuove strade di comunicazione con la sua bambina. Solo che io non ero più una bambina e dubitavo che una frittata sbriciolata

avrebbe potuto farmi dimenticare all’istante tutte le parole che ci eravamo sputati addosso e quelle, ancora più terribili, che non avevamo avuto il coraggio di dirci. C’era Christian, adesso, il suo pensiero pervadeva ogni fibra del mio essere con prepotenza, mi ero aggrappata alla sua immagine come un naufrago fa con una zattera di tronchi in alto mare, c’erano le sue mani dalle dita lunghe e calde, i suoi capelli corvini e liberi, i suoi occhi viola che rivelavano solo parzialmente la sua anima, il suo torace ampio ed i suoi muscoli, che si gonfiavano come per magia tutte le volte che mi sollevava in braccio per portarmi da una parte o dall’altra. C’era Christian ed un mare di lezioni da fare, con Barbara, per riuscire a trasformarmi in qualcosa di anche vagamente desiderabile ai suoi occhi. E tra me e loro si frapponeva mio padre, con le sue frittate rotte e la ventiquattrore in attesa, dietro qualche porta socchiusa. Mi alzai con deliberata lentezza e cercai di fare meno rumore possibile, tentando di ritardare il momento in cui avrei dovuto presentarmi a fare colazione con mio padre e con Giuseppina, la mia famiglia se la si poteva definire tale, fingendo di apprezzare la frittata spiaccicata nel mio piatto, inventando delle cose piacevoli da dire. Prima di Christian, gli sarei volata di corsa tra le braccia e mi sarei fatta trattare da lui come un principe fa con la sua principessa: non avevo giurato, a soli quattro anni, che sarei stata per sempre la fidanzata di papà? Scossi la testa e gettai le lenzuola di lato, mettendomi a sedere sul materasso. Il mio “fidanzato” mi aveva abbandonata così tante volte che, probabilmente, il mio giuramento poteva considerarsi ufficialmente invalidato. E per l’eternità. La sua presenza in cucina significava solo una cosa: un impedimento bello e buono. Lui e le sue dannate frittate mi avrebbero inchiodata a casa per tutta la giornata. Non avrei avuto mano libera per andare da nessuna parte. Sollevai il cuscino e lo appoggia accanto a me, in verticale contro la parete ed iniziai a tempestarlo silenziosamente di pugni; il tessuto molle cedette ben presto sotto al mio assalto, afflosciandosi da più parti, tanto che, in breve, si accasciò da un lato e dovetti prenderlo tra le braccia per evitargli una caduta dal letto direttamente sul pavimento. Far squillare una tromba nell’orecchio per avvertire mio padre che ero ormai sveglia non avrebbe sortito lo stesso effetto. Mi bloccai, immobile, con il cuscino stretto a me, quando, all’improvviso, l’immagine di Christian che mi sollevava tra le braccia per issarmi sulla sua schiena, mi traò il cervello. Chiusi gli occhi ed appoggiai istintivamente la guancia contro il tessuto chiaro stampigliato a cuori, immaginando che fosse il suo viso e, sospirando, schiusi le labbra per baciare, con quella che pensavo potesse essere ione, la sua bocca. Il ricordo del bacio che mi aveva schioccato

Barbara sulle labbra il pomeriggio precedente mi raggelò all’istante e mi fece arrossire con violenza. Proprio in quel momento, la porta della mia camera si spalancò. - La colazione è pronta… - Ah! – esclamai portandomi una mano al petto. Il cuscino stavolta cadde sul pavimento e né io né Giuseppina ci muovemmo per qualche secondo. –C’era… Mi sembrava ci fosse una macchia… - Mi abbassai a quattro zampe sul pavimento e recuperai il cuscino, portandolo di fronte agli occhi ad una distanza ridicola dal mio viso, come una miope che tenti di leggere il giornale senza un paio di occhiali sul naso. –Ecco… - Raschiai con l’unghia dell’indice contro il cotone e lo fissai con insistenza. –Mi pare che non ci sia più, adesso… - Mi voltai a guardare trionfante Giuseppina, ma quella vecchia strega aveva già iniziato a percorrere, borbottando, il pavimento in parquet che conduceva alla cucina. Mi lavai alla bell’e meglio il viso e le mani, indossai nuovamente con un brivido di disgusto la canottiera con gli orsacchiotti che aveva fatto sorridere malignamente le mie due maestre di seduzione, quindi, mi pettinai i capelli senza neppure esaminare la mia immagine allo specchio e corsi in cucina con impazienza. Mi resi conto, nell’attimo esatto in cui abbassai la maniglia della porta, che l’urgenza non era tanto dettata dal desiderio di una figlia amorevole di rivedere il proprio padre, quanto più dal pensiero che attanaglia la mente di ogni torturato sul patibolo della Santa Inquisizione: prima incomincia e, necessariamente, prima sarà finita. - Buongiorno, piccola dormigliona! – Mio padre mi salutò abbandonando il tegame troppo caldo per poter cuocere qualsiasi cosa senza rischiare di bruciarla e si avvicinò a me ma poiché vide che io non mi sporgevo, sulla punta dei piedi, per tentare di baciarlo, mi ò una mano sui capelli arruffandomeli come avrebbe fatto il proprietario di un cane con il pelo del proprio animale. - I capelli no! – Sbuffai, tentando di risistemare le prime ciocche fuggitive dall’elastico verde fosforescente che avevo scelto poco prima. - Anche io sono contento di essere a casa… - Mormorò lui, con il tono di voce che si smorzava di un’ottava. Mi sedetti al mio posto e sospirai senza trovare niente di intelligente da aggiungere.

Ben presto la conversazione si spense del tutto e lo stridio delle forchette e dei coltelli contro ai piatti si sostituì completamente al rumore delle parole; solo quando Giuseppina mi diede la schiena per cominciare a rassettare la cucina e mio padre uscì dalla stanza, mi sembrò di poter cominciare a respirare normalmente. Ci aveva provato, non potevo dargli torto, per quindici minuti buoni mi aveva sommersa con un’ondata di chiacchiere entusiaste che mi avevano praticamente tramortita: nel mio mondo da quasi sordomuta ero talmente abituata ad udire principalmente solo il brusio dei miei pensieri, che tutte quelle frasi inutili condite da un’allegria falsa e forzata come le voci dei venditori ambulanti alle fiere, mi avevano fatto venire il mal di testa. “Nice try…” Lo avrebbe liquidato Christian e poi avremmo semplicemente rivolto gli occhi altrove. - Ta - dà!!! – Esclamò mio padre, affacciandosi nuovamente sulla soglia con una gigantesca scatola impacchettata in una stucchevole carta rosa confetto tra le braccia. –Per la mia principessa! – Aggiunse poi, sorridendo, porgendomela da oltre la tavola. –Per te… - Terminò poi, il sorriso velato, pensando forse che io non avessi capito. La presi senza dire una parola ed iniziai a staccare piano gli scotch che tenevano insieme la carta, tentando di conservarla integra, come faceva sempre mia madre ad ogni ricorrenza, quasi che si rischiasse di sciupare la gioia di un regalo, oppure un’imminente povertà, se anche solo una strisciolina di carta da pacco fosse andata sprecata. - Dai! Strappa! – Mi invitò lui, allungando una mano e facendo a pezzi un’abbondante parte di quel confetto rosa che io stavo tentando invano di conservare. Mi decisi a seguire il suo esempio e, in pochi secondi, feci la carta da pacco a brandelli. Non so che cosa mi aspettassi di trovare in quella scatola, ma quello che vidi produsse un’espressione talmente delusa sul mio volto che non riuscii a mascherarla tanto in fretta quanto, invece, avrei dovuto. C’era un enorme bambolotto dentro, pressappoco delle dimensioni di un bambino vero, con, accanto, ben legati da filo di ferro azzurro, un biberon ed una serie di pannolini dello stesso colore. - Mamma! – esclamò il pupazzo, dimenando la testa. Quando lo udii pronunciare quella parola, per lo sgomento, lasciai cadere la scatola sulla tavola ed il malefico bambolotto smise di parlare. Rimasi assolutamente allibita.

- Non ti piace?! Eppure cinque anni fa, alla fiera di Messina, avevi pianto come una disperata perché desideravi ardentemente una cosa come quella… - Mio padre scosse la testa e prese in braccio il bambolotto con attenzione, quasi come fosse stato un bambino vero, il suo bambino, quel piccolo mostriciattolo assassino che si era portato via mia madre e lo fissò con occhio assente. - Ma no..Ma no… - Allungai timidamente la mano facendo per prenderglielo dalle braccia ma non riuscii a concludere il gesto, così tentai di ricordare per che cosa avessi pianto, cinque anni prima alla fiera in questione, senza riuscire a cavare un ragno dal buco. Di colpo mi assalì il pensiero che per mio padre fossi rimasta una mocciosa di dieci anni, che piangeva perché desiderava tanto una bambola. Possibile che non si fosse accorto che ero cresciuta, che la morte di mia madre mi aveva irrimediabilmente cambiata e che non sarebbe bastato un bambolotto per risistemare le cose tra noi? Perché non provava a trattarmi da donna, invece? Se al posto di quell’impressionante bambolotto, nella scatola, ci fossero stati cinque o sei libri di Salgari gli avrei buttato le braccia al collo con riconoscenza eterna. Ma lui, probabilmente, nemmeno sapeva che io leggevo Salgari, o che amavo il mare, oppure, ancora, che da grande avrei voluto aiutare le famiglie in difficoltà a capirsi, ad imparare, nuovamente, ad amarsi. Lui di me, non sapeva praticamente più niente; nel suo cuore e nella sua mente era rimasto il ricordo, il simulacro, di una bimbetta di dieci anni che desiderava una bambola e, forse, lui stesso aveva voluto rimanere disperatamente attaccato a questo ricordo, nella speranza che potesse riportare indietro la sua famiglia, com’era cinque anni prima, quando la cosa peggiore che avrebbe potuto capitarci erano i miei capricci per un regalo negato o la padella bruciata dopo l’ennesima frittata riuscita male. - Mi piace…Davvero…Grazie… - Aggiunsi, avvicinandomi alle sue spalle incassate. Provai, per la prima volta, un misto di pena e di dispiacere per quell’uomo che, improvvisamente, non mi appariva più come il padre severo, adulto, l’avversario contro cui avevo lottato oppure, in alternativa, come il primo uomo che, nelle mie fantasie infantili, avevo amato ma semplicemente come un vecchio incapace di affrontare la realtà per quella che era realmente. - Te lo entro in camera - disse Giuseppina, tentando di formulare una frase in italiano e gli tolse il bambolotto dalle braccia con tutto il suo corredo di pannolini e biberon. - Vuoi essere la mia mamma? - Sentimmo entrambi la vocina artificiale del

bambolotto, probabilmente riattivata dagli scossoni che stava subendo mentre Giuseppina lo trascinava verso la mia stanza e rabbrividimmo senza avere il coraggio di guardarci negli occhi. - Vestiti che usciamo! – Borbottò mio padre alzandosi dalla sedia. Non ero ancora donna a tal punto da potermi permettere di rifiutare i suoi ordini. E così uscimmo, sotto il sole di mezzogiorno, per una sequela interminabile di commissioni: lavanderia, panificio, ferramenta, tabaccheria e supermercato; al supermercato, o meglio, all’unico negozio di generi alimentari del paese, si fermò parecchio ed io ne approfittai per girovagare tra le corsie, immaginando di dover preparare una cena per Christian, tentando di indovinare i suoi gusti. Ne sapevo ancora così poco di lui e sentivo crescermi dentro una smania che non avevo mai provato prima. Volevo, dovevo saperne qualcosa di più, in una parola, fare parte della sua vita. Qual era il suo dolce preferito? E il colore che più gli piaceva? Da che parte del letto dormiva? Com’erano i capelli di sua madre? Cosa si ricordava del posto in cui era nato? Quanto era grande l’America? Quando aveva imparato ad andare in motocicletta? Quante ragazze aveva già baciato prima di incontrarmi? E, soprattutto, avrebbe baciato anche me, un giorno, come facevano gli attori dei film di Hollywood? Al pensiero di Christian, delle sue labbra piene contro le mie, non il grezzo tessuto di cotone della mia federa e nemmeno quei canotti appiccicosi che sapevano di fragola artificiale delle labbra di Barbara, lo stomaco mi si contrasse di colpo e la fitta mi fece andare a sbattere contro una piccola pila di lattine piene di cibo per gatti, che rotolarono sul pavimento. Fu allora che mi accorsi che, da parecchi minuti ormai, nel negozio non si sentiva altro rumore che un continuo bisbiglio a due voci. Spuntai con la testa da dietro la corsia, raccogliendo l’ultima lattina dal pavimento e sorpresi mio padre e la signora Isabella, la moglie polacca del proprietario, a guardarsi negli occhi. Lei stazionava di là del bancone, appoggiata con entrambi i gomiti al ripiano di marmo su cui stava anche la cassa, una cascata di capelli finto ramati che terminava con dei boccoli rotondi alle estremità e lui, dall’altra parte, sembrava le stesse tenendo una mano. - Ecco il suo resto… - Bofonchiò lei, lasciandogli la mano di corsa e andosela sui seni, al confronto con i quali i miei sarebbero apparsi simili ad una coppia di striminzite olive, anche se sostenuti da dieci reggiseni imbottiti della signora Giovanna, fissati l’uno sull’altro da una miriade di gancetti. - Grazie, grazie…Allora, Titti, andiamo?

- Valentina! – Sbottai, afferrandolo per un braccio e tentando di trascinarlo fuori dal negozio. Non mi piaceva per niente l’espressione che gli avevo visto negli occhi mentre fissava, di proposito, le tette della signora Isabella, come se fossero state due paste alla crema da divorare in un solo boccone. - Quanto sei maleducata, saluta la signora! – lui mi costrinse a fare dietro front ed a ritornare nei pressi del bancone. Rossa in viso per l’umiliazione borbottai un “arrivederci” tra i denti e mi lanciai fuori dal negozio, sperando che lui mi stesse seguendo. Da parecchi anni, ormai, non ero Titti e, dopo quella mattina, non avrei voluto esserlo mai più. Titti era il nomignolo con cui mi chiamavano i miei genitori quando ero bambina ma quel tempo se n’era andato per non tornare, io stavo crescendo, anzi, mi corressi, ero cresciuta, e non volevo più essere Titti per nessuno; potevo essere Valentina per il resto del mondo, incluso mio padre. Per una sola persona, invece, sarei stata sempre e soltanto Hanil. - Guarda che gentile, la signora Isabella, mi ha regalato questo ovetto di cioccolato per te! – Starnazzò soddisfatto il tronfio pavone che sembrava aver preso il posto di mio padre. - Pensi di portartela a letto, questa gran…signora… Per dimostrarle la tua riconoscenza? Non so da dove mi vennero quelle parole che non riuscii a trattenere e che, anzi, feci vibrare di indignazione, calcando la voce sulla “signora”, con tutto ciò che l’utilizzo di quel termine avrebbe dovuto implicare, invece percepii con esattezza il punto esatto in cui il suo ceffone centrò la mia faccia. L’ovetto della cosiddetta signora rotolò per la strada e venne schiacciato da una delle poche macchine di aggio. Nessuno di noi due si fermò a raccoglierlo o disse una sola parola, durante il penoso tragitto che ci riportò a casa. Pranzai tenendo il gomito sulla tavola e la mano sinistra a sostegno e protezione della guancia che mio padre aveva così duramente colpito, utilizzando la bocca per masticare ed ingoiare, costringendomi ad ignorare il sapore di lacrime salate che, ad ondate, sembrava impastarsi con quello del cibo che stavo tentando di introdurre a fatica. Chris aveva detto che ero troppo magra: era solo per lui che dovevo mangiare. Continuavo a ripetermi queste frasi come un mantra, ingurgitando la pasta prima e la bistecca poi, senza emettere fiato. Chissà, forse più tardi sarei anche potuta uscire a recuperare il cioccolatino così generosamente donatomi da quella gran signora…Ghignai, immaginando le sue

belle tette spiaccicate sull’asfalto proprio come lo squallido dono con il quale aveva tentato di blandirmi. “Timeo Danaos…” Pensai, accarezzando con la memoria alcuni versi dell’Eneide imparati a scuola l’anno prima. Non mi importava la vita sentimentale di mio padre, mi dissi massacrando con violenza e sminuzzando nel pugno chiuso il tovagliolino di carta che avrei dovuto utilizzare per pulirmi le labbra a fine pasto, poteva farsi tutte le signore da qui alla Sicilia andata e ritorno senza fermarsi un attimo, avevamo rotto da un pezzo la nostra “promessa” se così la si sarebbe potuta definire. A quattro anni ero stata, come ogni bambina, la fidanzata di papà. A quindici anni mio padre sarebbe stato volentieri il fidanzato di qualcun'altra. Così andava il mondo, tanto valeva farsene una ragione. “E aveva detto di voler uscire con me…” stritolai nuovamente il tovagliolo in un motto di inaspettata gelosia. Dio santo, com’era difficile questa cosa che, a scuola, chiamavano adolescenza. Probabilmente sentendosi in colpa, verso le cinque del pomeriggio mio padre mi informò che dovevamo uscire ancora. Non risposi nulla e lo seguii, a muso duro, lungo la strada. Notai che evitava accuratamente l’ingresso del “supermercato”, ostentando volutamente un portamento sciolto, troppo sciolto e guardando fisso dall’altro lato della via mi condusse fino al negozio della signora Giovanna. Quando feci per proseguire lui mi tirò per un braccio e spinse la porta di ingresso; le chiavi tintinnarono esattamente come avevano fatto il giorno prima, quando io, Laura e Barbara ci eravamo introdotte di soppiatto nel negozio di sua nonna. - Oh, Direttore! – Esclamò l’anziana signora, avvicinandosi all’uscio: aveva ancora tra le dita i ferri da calza con i quali stava lavorando un maglioncino, probabilmente per la sua diletta nipotina che la depredava più o meno in media due volte alla settimana; era evidente che noi dovevamo essere i primi clienti dell’intera giornata. - Buongiorno! Sono venuto qui a vedere se sono arrivate le camicie che le ho ordinato… - Ah ma certo, mi segua… - Mio padre e la vecchia si allontanarono ed io mi misi a gironzolare, irrimediabilmente attratta da un cestino, appoggiato sul bancone, pieno di biancheria intima in pizzo scontata del 50%. Ci affondai dentro le dita e sollevai un paio di mutandine talmente sottili e trasparenti che sembravano fatte di tulle.

- Ah vedo che ti stai facendo un certo occhio per le cose belle… - Prima la voce e poi il viso di Barbara spuntarono da sotto al bancone, facendomi sussultare. – Ma se il tuo principe è solo un minimo apionato, queste te le strappa di dosso e torni a casa nuda, garantito! Io l’ho provato sulla mia pelle! – Sghignazzò, mentre io arrossii violentemente, immaginando, per la prima volta, la mano di Christian sulla cerniera dei miei jeans a sigaretta. - Ah ah…La ragazza muta è una piccola porcellina… - Barbara sorrise nuovamente, indovinando evidentemente i miei pensieri ed ottenendo, come unico effetto, che il mio rossore si spargesse ulteriormente incendiandomi il collo. –Allora, è quello il tuo principe? – Sussurrò, piegando la testa in direzione di sua nonna e di mio padre, che stavano tornando dal retro bottega, con le braccia cariche di camicie sulle tonalità dell’azzurro cielo, il colore che mia madre detestava ma chissà, mi dissi, forse la signora Isabella invece non era dello stesso parere… –Allora?! – Barbara mi tirò i capelli con forza. - Ahio! No! Ma sei pazza?! Quello è mio padre! – squittii, massaggiandomi la testa. Barbara si alzò sulle punte dei piedi, sporgendosi tutta oltre il bancone. - Buonasera… - Civettò, in direzione di mio padre. - Oh buonasera… - si affrettò a risponderle lui, sfoderandole un sorriso a quaranta denti che mi paralizzò. - Quella è Barbara, la mia nipotina… - Aggiunse l’anziana signora, prima di rimettere sotto al naso di mio padre le sue dieci camicie identiche. - Bel tipo… - Commentò Barbara, facendo scoppiare una bolla di gomma americana tra i denti – potrei anche farci un pensierino… - Ammiccò, strizzando le palpebre. - Oddio, stavo scherzando! – Sussurrò poi, roteando gli occhi in un gesto plateale in risposta alle emozioni che doveva avermi letto a chiare lettere stampate sulla faccia. – Dovresti prendere queste! Secondo me con la tua carnagione bianca ti starebbero da urlo! – Aggiunse, cacciandomi in mano un paio di mutandine nere piene di pizzi e fiocchetti con abbinato un reggiseno praticamente trasparente. - Hai visto qualcosa che ti piace, tesoro? – La voce di mio padre mi riscosse di colpo; mi ficcai malamente sotto alla maglietta quell’ennesimo bottino proibito e mi masticai la lingua per il terrore di essere stata colta sul fatto.

- Ho paura che tu sia ancora un po’ troppo giovane per quelle cose… - Ridacchiò la vecchia, prendendomi per la sinistra, visto che continuavo a tenere la mano destra chiusa a pugno sotto alla maglietta. – Che ne dici di una bella canottiera per l’estate? Su questa c’è addirittura la faccia di Minnie! Voltai di scatto la testa e colsi con lo sguardo Barbara che faceva le boccacce dietro alla schiena della nonna mentre mi indicava, con la mano, di sbrigarmi a seguirla, tagliando quell’inutile conversazione. Mi strizzò un occhio sollevando una borsetta trasparente in plastica che scosse, agitandola in aria. Era gonfia di ogni tipo di trucchi per il viso. Non avevo un attimo da perdere. Tieniti quella canottiera ridicola, avrei voluto gridare alla vecchia ma non lo feci. –Papà io, con il tuo permesso… Mio padre si voltò a guardarmi, probabilmente stupito nel sentire che mi stavo rivolgendo direttamente a lui e, ancora più perplesso dal fatto che lo stessi facendo alla presenza di un’estranea per la quale avrei dovuto essere una ragazzina muta o quasi: era dall’incidente con l’ovetto di cioccolato che non avevo praticamente più aperto bocca. - Mi fermerei a giocare con la mia…Amica… - Conclusi, deglutendo ed abbassando lo sguardo, da brava bimbetta educata. Mio padre aggrottò le sopracciglia e rimase a guardarmi fisso, come se stesse ammirando, al microscopio, una qualche specie di insetto raro. –Posso? – Gli domandai con due occhi supplici e dilatati, come quelli del bambolotto che mi aveva regalato quella mattina. Ero di nuovo nient’altro che una bambina che chiedeva il permesso di giocare con un’altra bambina. Forse, per un momento, gli arono per la mente i frammenti di quella nostra disastrosa giornata e di quelle che, da qualche anno, l'avevano regolarmente preceduta, nelle quali io avevo poco o niente a che fare con una bambina dell’asilo che chiedeva educatamente il permesso di giocare e condividevo invece tutti i miei geni con quelli di un’umbratile e cocciuta adolescente ribelle ma è risaputo che l’essere umano crede, anzi desidera ardentemente credere in ciò che sogna e che immagina, fino ad arrivare a sostituire addirittura la realtà con la finzione che più gli aggrada. Così mio padre diede il permesso a ciò che desiderava con tutto il proprio cuore e cioè ad un gioco innocente tra bambine, di cui una sarebbe stata, finalmente, sua figlia, una ragazzina normale, senza problemi, con un’amichetta del cuore; e

invece, nel retrobottega di quel negozio, si sarebbe consumato un rituale ben diverso: avrei imparato ad essere donna, sondando il mistero che ancora ero per me stessa e mi sarei spinta oltre ogni limite pur di ottenere quello che desideravo realmente: niente di più che un uomo in carne ed ossa.

***

Meno di due minuti dopo l’uscita di scena di mio padre, sgusciammo fuori dal retrobottega del negozio della signora Giovanna e ci dirigemmo verso il giardino che circondava l’edificio. - Seguimi! – Esclamò Barbara, senza voltarsi indietro: era sicurissima che non avrei disubbidito e, sebbene iniziassi a detestare la maniera con la quale mi trattava, come un barboncino, come il giocattolo nuovo cui insegnare a fare le evoluzioni, non potei fare a meno di assecondarla. Tutti quei flaconcini e pozioni misteriosi, rinchiusi nel sacchetto trasparente, avevano avuto su di me una specie di fascino diabolico e magnetico: una vocina nella mia testa continuava a ripetermi che mi stavo cacciando piano piano in un mare di guai e che avrei finito per combinare qualcosa dalla quale non avrei potuto tornare indietro mentre l’altra voce, quella che aveva la faccia e gli occhi di Christian, surclassava di parecchie ottave la prima e mi suggeriva che imparare qualche trucchetto non sarebbe poi stato un grave peccato, avrei sempre potuto confessarmi, la domenica, in Chiesa oppure fare ammenda, a modo mio, c’era giusto un pizzicotto ormai in via di guarigione. In fondo al giardino si trovava una ridicola costruzione in plastica di un colore marrone sbiadito e parzialmente deformato dal sole e dagli agenti atmosferici che io riconobbi come una specie di casetta in miniatura, tetto rosso, porticina e finestrina di quello che, una volta, era stato sicuramente un bel verde brillante, tanto di vaso di fiori al minuscolo davanzale e un esercito di sette nani con il cappello a punta a fargli silenziosamente la guardia. - Muoviti! – Sibilò Barbara, spingendomi in avanti e chiudendosi rapidamente la porticina alle spalle. Trovai buffo, per un secondo, che una come Barbara potesse ancora provare il desiderio di giocare con la casetta degli gnomi, immaginando di interpretare il ruolo, tutto infantile, di Biancaneve, ma quando i

miei occhi si furono abituati alla penombra che vi regnava all’interno e dopo che Barbara ebbe una grossa torcia accanto all’uscio, la funzione di quella casa mi sembrò molto meno infantile di quanto io avessi, erroneamente, supposto. C’erano poster di cantanti a torso nudo su tutte e quattro le pareti ed un materasso lurido giaceva, abbandonato, sul terreno, occupando quasi tutto lo spazio. Sulle mensoline in plastica erano appoggiate spazzole, pettini, bigodini ed ogni sorta di arnese per la bellezza e l’acconciatura l’uomo avesse inventato in migliaia di anni di storia, c’erano tubetti di creme multicolori, qualche asciugamano spiegazzato, un catino con delle spugnette, le strisce per depilarsi il corpo e un tonico struccante. - Benvenuta nel mio piccolo regno segreto! – Barbara sorrise di cortesia, come se avesse invitato la propria migliore amica a bere un tè. – Se ti dovesse servire, per stare un po’ con il tuo principe…Basta che io lo sappia in anticipo…Così possiamo mettere un lenzuolo pulito… - Sghignazzò. Strabuzzai gli occhi e deglutii, attenta a non calpestare nemmeno un centimetro quadrato di quel materasso che ora stavo guardando mentre il cervello mi si affollava di idee. - Non fare quella faccia, sei davvero una ragazzina! A cosa credi che mi serva la casetta delle bambole? Qui non viene mai nessuno, a parte me…E chi decido io di portarci…Anche per una notte intera…Basta prendere qualche precauzione, meglio che tu lo sappia in anticipo. Io, ad esempio, non voglio mai che qualcuno mi colga impreparata… - Rovistò su di una mensola accanto al materasso e ne sollevò una scatola in cartone che mi fece ballonzolare davanti agli occhi. - Pro..Fi…Profilati… - Sussurrai, incerta, cercando di leggere ad alta voce il nome stampigliato su quella confezione. A causa dell’umidità, il cartone della scatola si era parecchio rovinato, risultando quasi illeggibile. - Oh mio dio… - Barbara fischiò tra i denti; - tu non hai idea di che cosa sia questa roba vero? Dal silenzio imbarazzato che ne seguì, lei trasse l’unica conclusione possibile. - Ci sarà da divertirsi… - Mormorò tra sé, lieta degli improvvisi sviluppi che il nostro inusuale sodalizio stava portando con sé. –Ogni cosa a suo tempo. Siediti! – Ordinò perentoria, sistemandosi a sua volta sul materasso lurido ai nostri piedi. Presi posto il più lontano possibile da lei che, ovviamente, mi canzonò:

- Lo sai già che non mordo… Avanti, vieni più vicina, come faccio a truccarti, sennò? Mi avvicinai, ormai il dado era tratto; ero assolutamente sicura che in quella borsetta di plastica trasparente ci fosse rinchiusa, assieme ai colori in polvere, ai pennelli ed alle ciprie, anche la chiave della mia felicità. E poi che cos’altro avrei potuto fare? Fuggire urlando? Spalancare la porta di quella casetta degli orrori e correre a casa? L’immagine di Giuseppina, seduta al tavolo con l’ennesima pentola di minestra di fronte a sé, mi inchiodò su quel dannato materasso e mi spinse ancora più vicina alla mia cosiddetta nuova amica, che batté graziosamente le mani dalla contentezza. - Molto bene…E adesso, lasciami lavorare… Rimasi stupita dalla rapidità e dalla perizia con cui Barbara si mise all’opera, utilizzando pennelli di diversa foggia e taglio per armi, dapprima sul viso la cipria ed il fondotinta, quindi il fard per illuminare le guance e la polvere perlacea per delineare il contorno delle sopracciglia. Mi insegnò che cosa fosse un correttore ed io vidi, sotto il tocco delle sue sapienti dita, sparire le mie detestabili lentiggini dal viso e dal collo, rimpicciolirsi le occhiaie di stanchezza da sotto le palpebre e trasformare i piccoli brufoli adolescenziali sulle gote in leggerissimi segni quasi invisibili. Scegliemmo insieme i quattro colori di ombretto con i quali rendere il mio sguardo più interessante, tonalità scure del marrone e del viola, sull’interno e sull’esterno della palpebra, per trasformare i miei occhi da scolaretta imbecille in quelli, felini, di una gatta bruna e misteriosa. Dopo parecchie dolorose prove, imparai a tenere correttamente in mano il pennello per l’eye - liner ed a tracciare una linea scura che potesse allungarsi ai lati, portando con sé l’angolo dei miei occhi, senza traccia di sbavature, quindi ci dedicammo prima a sfoltire e ridisegnare le mie sopracciglia, sfumino e ombretto marrone scuro alla mano, per poi are, armate di mascara, ad allungare e riempire le ciglia scure e vellutate. Provai e riprovai parecchie volte, struccandomi con il tonico e le spugnette che sapevano di menta, strofinandomi la pelle con foga fino a farla diventare di un bel rosa come quello di una pesca matura, fino a quando, tra l’occhio destro truccato con sapienza dalla mia maestra e quello sinistro, agghindato da me sulla base delle sue istruzioni, non ci furono più grosse differenze. - E adesso… Le labbra… - Sussurrò, scavando ancora più in profondità in quella busta segreta delle meraviglie tentatrici con le quali mi aveva completamente

soggiogata; mentre lei estraeva rossetti, matite e nuovi ombretti, io cominciavo a domandarmi, con un’urgenza crescente, in quale negozio del paese avrei potuto procurarmi qualche trucco, senza che mio padre potesse venire a saperlo. - Prendi quelli di tua madre, no? – Barbara seguì il mio sguardo ed indovinò la direzione che stava prendendo lo sciame inquieto dei miei pensieri. - Fai la bocca a cuore… - Mormorò, prima di umettarsi un dito con la saliva e armelo sul contorno delle labbra. –Non arricciarle così, ho sbagliato! Non ho mica la lebbra! Sembrò per un attimo, risentita dalla mia reazione ma si dedicò quasi subito nuovamente alla mia bocca, scorrendo con lo sguardo prima il mio viso e poi la decina di rossetti in suo possesso, senza riuscire a decidersi. – Sei proprio una stupida… - Ricominciò poco dopo, mentre cancellava una nuova sbavatura e tentava un'altra nuance – tua madre si sarà truccata, prima di morire, giusto? Chi vuoi che li usi, adesso, quei trucchi? Di sicuro non tuo padre e nemmeno quella specie di grizzly che ti accompagna a scuola… - Sventolò una mano nell’aria, come a voler scacciare dalla sua mente l’immagine così impietosa di Giuseppina che aveva appena tracciato e riprese: - Saranno in qualche cassetto, dimenticati… Io sapevo perfettamente in quale cassetto si trovassero: un po’ per volta, dopo la sua morte, avevo incominciato a raccogliere e nascondere ogni traccia che, di mia madre, mio padre e Giuseppina sembravano essersi scordati di cancellare. La sua crema per il viso, una boccetta a metà del suo profumo preferito, il puntaspilli che le avevo malamente cucito all’asilo, una catenina che avevo trovato in un angolo, sotto al suo letto, la maglietta che aveva indossato il giorno prima di morire e che era stata erroneamente stirata e riposta assieme alle mie cose ed un beauty case con alcuni trucchi ed una spazzola pieghevole da viaggio, attaccata alla quale c’erano ancora alcuni dei suoi capelli chiari. Tutto questo prezioso bottino, per recuperare il quale ero andata a caccia in casa, perlustrandone ogni anfratto come un cane da tartufo, era stato ammucchiato da me, all’insaputa di mio padre e di Giuseppina e nascosto in una grossa scatola polverosa sopra l’armadio più alto della mia camera da letto. Di tutti gli oggetti che avevo raccolto, come piccoli relitti di un naufragio, quelli cui ero sicuramente più affezionata erano la sua crema per il viso, il cui profumo, anche se ormai smorzato e vagamente inacidito, mi riportava immediatamente alla mente il collo di mia madre e quelle piccole pieghe odorose di carne sulle quali

solevo appoggiare il bacio del mattino e la spazzola da viaggio, per i capelli che vi erano rimasti imprigionati. Avevo visto a scuola il film Jurassic Park e non avevo dubbi: se gli scienziati erano stati capaci di far tornare sulla terra i dinosauri estinti da milioni di anni, grazie al loro dna conservato nel corpo di un insetto fossile, riportare indietro mia madre dal regno dei morti, dopo così pochi anni e avendo a disposizione ben più di un insetto in una goccia d’ambra, sarebbe stato un gioco da ragazzi. Ci volevano solo i soldi, tanti soldi, sì, che avrei guadagnato centesimo dopo centesimo, il resto, la parte più importante, un pezzo qualsiasi di lei, quello ce l’avevo già. Effettivamente, del beauty case che avevo rinvenuto in uno dei cassetti del bagno, poco prima del trasloco dalla Sicilia e del suo prezioso contenuto non mi ero mai realmente interessata. Barbara aveva ragione, avrei potuto usarli io, i suoi trucchi, tanto a lei ormai non servivano più e se qualcuno fosse realmente riuscito a riportarla in vita, feci voto con me stessa che gliene avrei comprati a centinaia, li avrei perfino rubati come, sospettavo avesse fatto Barbara con i propri per riuscire ad ottenere un arsenale simile, pur di restituirglieli, se mai me li avesse chiesti indietro. Ma, per il momento, lei continuava ad essere morta ed io ero solo una ragazzina desiderosa di far innamorare di sé l’uomo dei propri sogni. - Ecco fatto! – Disse Barbara, rilasciando il fiato: aveva scelto per me un rossetto rosso scuro che aveva sfumato, delicatamente, andomi un filo di ombretto con l’indice sulle labbra, quindi aveva delineato i contorni della mia bocca con una matita apposita, per rendere l’effetto finale compatto e non traslucido. – Aspettami qui, facciamo un test! – Esclamò, alzandosi di scatto e spalancando la porta. La sentii chiamare a gran voce qualcuno ma non me ne preoccupai, invece afferrai lo specchio dal manico in plastica rossa che giaceva abbandonato sul materasso a poca distanza da me e vi gettai un’occhiata indagatrice: il misto di terra e di colori che scuriva le palpebre dei miei occhi, alla luce artificiale della grossa pila che rischiarava l’ambiente, contribuiva a formare un alone di mistero che mi fece una strana impressione mentre il rossetto scuro dava una tonalità simile a quella del sangue alle mie labbra. Faticai a riconoscere, in quella dama dallo sguardo triste e distante, la bambina che mio padre credeva che fossi, la Valentina che non parlava mai e piangeva in silenzio, dandosi i pizzicotti sulla spalla e mordendosi la lingua per non gridare, quella che avevo di fronte e che mi stava fissando, con lo sguardo trasognato ed assente, sembrava una donna adulta, tormentata, una donna con una storia segreta, con un ato che l’aveva evidentemente segnata e la speranza di un futuro nuovo, che le si affacciava

timidamente sulle ciglia, lì dove Barbara mi aveva insegnato a spargere una delicata velatura di brillantini. - Hanil… - Sussurrai, ribattezzando senza ombra di dubbio la mia immagine. Valentina, Titti…. Non esistevano più. - Ora chiudi gli occhi, ho una sorpresa per te… - La voce di Barbara mi colse alla sprovvista: ero rimasta così concentrata a studiare la mia immagine da non essermi resa conto del suo ritorno. – No, non ti girare… - Mi afferrò per le spalle, spegnendo di colpo la pila e lo spazio angusto della sua casetta proibita piombò nell’oscurità. Calcolai mentalmente che le otto di sera dovevano essere ormai ate da un pezzo. – Sssh… - Riprese lei, facendomi fare una mezza piroetta su me stessa; - adesso voglio che tu pensi al tuo amore e che ti concentri… Feci come lei mi diceva, confusa, stordita dalle lunghe ore ate seduta su quel materasso sporco, con i sensi smarriti dalle troppe essenze utilizzate in uno spazio eccessivamente ristretto ed asfittico e poi ormai pensare a Christian mi era diventato facile e familiare, come indossare i miei guanti preferiti di camoscio rosso, era come se la realtà fosse diventata lo sfondo sul quale i miei sogni recitavano il loro proprio copione da protagonisti, rubando la scena a tutto il resto. Mi sembrò di sentire due mani che mi sfioravano il collo, immaginai le dita di Christian, la sua pelle tenera e calda che mi faceva sollevare il mento con quella che, mi parve, un po’ troppa urgenza, quindi un paio di labbra, non quelle di Christian, ne ero certa, piombarono sulle mie, forzando la mia bocca, fino a quando una cosa viscida e tiepida non vi si introdusse, sgusciando come avrebbe fatto una vipera su di un masso muschioso. Spalancai gli occhi e tentati di gridare ma sentii due mani tozze spremermi i glutei come se fossero stati due meloni da valutare al mercato, prima di spingerli in avanti contro un corpo sudato con il quale il mio bacino entrò in collisione diretta. Fu allora che decisi di averne avuto abbastanza e assestai un forte morso a quella cosa viscida che girava dentro la mia bocca alla velocità di una trottola. - Ahia, stronza! – Una voce che mi parve di riconoscere, anche se decisamente stravolta dal dolore, mi esplose sopra le orecchie e, finalmente, quelle due mani maleducate mollarono la presa, permettendomi di scansarmi all’istante. Spalancai la porta di quella stanza maledetta con una spallata, divincolandomi dalle dita di Barbara che stavano tentando di acciuffarmi.

- Aspetta, fermati! – la sentii gridare, più divertita che spaventata, prima che la sua voce venisse travolta e surclassata da una sequela di bestemmie e parolacce in dialetto e in italiano, alcune delle quali non avevo mai sentito in vita mia. Mi voltai per un attimo, prima di spiccare una corsa forsennata fuori da quel giardino pericoloso, lontano da quella casetta che aveva l’aspetto di un gioco ma conteneva parecchi strumenti inadatti ad una bambina e colsi, con la coda dell’occhio, la sagoma tozza di Pietro, il cugino di Barbara e mio compagno di classe, che si teneva una mano sulla bocca e saltellava da un piede all’altro e mi venne un conato di vomito che mi bloccò, per un attimo, di fronte al cancello chiuso. Inghiottii e respirai a bocca aperta per due secondi, quindi scavalcai il cancello e fuggii verso casa, tentando di pulirmi le labbra con le mani e, contemporaneamente, di mantenere l’equilibrio alla folle velocità della mia andatura: ne avevo avuto abbastanza di Barbara e delle sue lezioni, per il momento, tutto quello che desideravo era correre a casa e rinchiudermici dentro. Grosse lacrime mi scesero dagli occhi, facendo colare il trucco che vi penetrò all’interno causandomi un bruciore lancinante: il primo bacio che davo ad un ragazzo, quello che avevo sognato per due notti di fila che avrei condiviso con Christian, mi era stato rubato da un imbecille che, a scuola, ancora non aveva capito la differenza tra il greco ed il latino, mio padre era probabilmente l’amante della proprietaria del supermercato del paese ed io non ero che una ladra di biancheria intima che si era fatta una pessima amica. Che altro sarebbe potuto succedere, capace di peggiorare ulteriormente la mia situazione? Quando Giuseppina aprì la porta di ingresso, la sorai con le mani sulla faccia e, protestando che mi era entrata una ciglia in un occhio, marciai a o di carica dentro casa e corsi a perdifiato diretta in camera, sbattendomi l’uscio alle spalle. - Cambiati e scendi, Titti, che la cena e pronta! – Sentii dire a mio padre, con un tono assolutamente tranquillo: forse si era appena fatto la signora dell’ovetto o magari, invece, l’idea che, per la prima volta nella vita, sua figlia si fosse attardata a giocare con un’amichetta, come tutte le bambine normali, le bambine che, solitamente, non somigliavano neanche lontanamente a me, poteva averlo messo di buon umore e ben disposto nei confronti del mio inscusabile ritardo. Che la spiegazione fosse la prima, o la seconda, o magari un misto delle due non mi importava proprio. Mi appoggiai con tutto il mio peso contro la porta della mia camera e, permettendomi finalmente di respirare, accesi la luce con un click. Christian era lì.

Seduto sul mio letto, le lunghe gambe incrociate penzolavano da un lato con gli stivaletti in pelle che sfioravano quasi il pavimento. - È più di un’ora che ti aspetto, girl… - Disse e socchiuse gli occhi, squadrandomi. Mi voltai di colpo, portando nuovamente le mani al viso. Stavo diventando pazza? Il desiderio di vederlo era diventato così incontrollabile da farmi andare in pappa il cervello? Quando era morta mia madre, per oltre un anno mi era sembrato di vederla ovunque, tra le teste dei fedeli in religioso silenzio in chiesa, tra le signore che ondeggiavano in fila alle casse dei supermercati, riflessa nel vetro della mia finestra, in lontananza, persa tra la spuma e i gabbiani che gracchiavano sul mare. Ma lei non era in nessuno di questi posti, lei non poteva più eggiare su questa terra, lei era morta, come aveva più volte ribadito mio padre, liquidando le mie visioni e le mie teorie di angeli che camminavano tra noi, e non sarebbe ritornata. Mai più. Prima me lo fossi ficcato bene in testa e meglio sarebbe stato per tutti. - Perché ti nascondi la faccia, girl? La mia visione parlò, di nuovo e ne approfittai per allargare lo spazio tra il medio e l’anulare ed osservarla, attraverso le mie dita. Le allucinazioni non potevano gualcire i materassi con il proprio peso, perché non avevano un peso, se non quello che possono avere i sogni. - Chris? – Domandai, un po’ titubante. - Titti?! La cena si raffredda! - Gridarono dalla cucina. - Damn it! – Aveva di nuovo quella luce strana, nello sguardo, come la sera dei gamberetti al fiume, quando si era fumato la sua sigaretta e poi aveva iniziato ad oscillare tra la poesia e la crudeltà, come una foglia in balia di due venti diversi e contrastanti. Notai che le mani gli tremavano leggermente, come se l’impulso di fare o di toccare qualcosa fosse stato quasi irresistibile, tanto che, ad un certo punto, si afferrò la destra con la sinistra, facendo crocchiare le nocche di tutte e dieci le sue dita. - Ora arrivo! – gridai, rivolta a chi mi stava aspettando, sempre con una mano contro il mio viso, quindi sgattaiolai in bagno e mi chiusi la porta alle spalle, sicura che, al mio ritorno, avrei ritrovato Christian esattamente dove l’avevo

lasciato. Negli occhi aveva un’espressione appannata e stanca, come se non esistesse altro posto per lui, in quel momento, dove poter andare. Mentre tentavo di lavare via alla bell’e meglio gli strati di trucco indelebile con i quali Barbara aveva abbellito la mia faccia per oltre quattro ore, riflettei e giunsi alla conclusione che Christian fosse venuto in paese alla ricerca di qualcosa e che poi avesse deciso di arrampicarsi lungo la grondaia, per venire a trovare me. Sperai ardentemente che io potessi essere l’obiettivo della sua ricerca, alla fine, ma non potevo affatto esserne sicura. Quando rientrai in camera mia, lo trovai che tentava di forzare il mio cassetto delle carte: si muoveva nel buio, silenzioso come la gatta del mio vicino e, quando posò lo sguardo su di me, glielo vidi illuminato di un bagliore di euforia, simile a quello che aveva avuto lei nel momento esatto in cui aveva colto il ero nella sua stretta mortale. - Ti servono soldi? – Non so che cosa mi spinse a porgli quella domanda ma, dalla maniera in cui le sue spalle si abbassarono di colpo, seppi di aver colto nel segno. - Money, girl…Ewas, lui mi ha letteralmente ricoperto d’oro…Gold, capisci? – Non capivo assolutamente niente ma non mi sembrò saggio interromperlo, perciò mi limitai ad annuire e lui continuò, umettandosi le labbra e andosi le dita tra i capelli spettinati: - Un dollaro d’argento, per lastricare il pavimento fino all’ingresso dell’inferno e adesso, adesso non me ne trovo nemmeno un pochino in tasca… Oh, Hanil… La maniera in cui pronunciò il mio soprannome, il soprannome che lui stesso aveva deciso di darmi, come se non potesse esserci nient’altro capace di aiutarlo, di salvarlo, all’infuori di me, mi fece spalancare il cuore, fu come vederselo spappolare da una palla di cannone sparata in pieno petto e poi farselo ricostruire pezzo a pezzo, dal suono di quella sua voce magnetica. Al diavolo mio padre e la sua prudenza autoritaria, al diavolo mio fratello e mia madre, che si era fatta portare via da lui, al diavolo Barbara, che si divertiva con me come una piccola principessa fa con i suoi nuovi schiavi: nessuno di loro aveva mai avuto realmente bisogno di me, nessuno di loro mi avrebbe mai aspettata, due se n’erano già andati senza voltarsi indietro e gli altri due, presto o tardi, lo avrebbero fatto a loro volta, lasciandomi da sola. - Resta qui… - Gli dissi e mi avvicinai al letto sul quale si era di nuovo seduto. – Hai fame? – Annuì, fissandomi con i suoi stralunati occhi viola, nei quali un vortice di pagliuzze dorate vi sembrava ruotare incessantemente. –Ti porto

qualcosa, appena ho finito, non ti preoccupare, ci sono io, ti aiuto io, promesso! Christian si alzò in piedi di scatto e mi afferrò le mani, portandosele alle labbra ed il mio cuore perse immediatamente un colpo. - Vengo! – esclamai, liberandomi da quella stretta bollente e camminando, al contrario, fino a raggiungere la soglia della mia stanza. Gli voltai le spalle appena prima di aver varcato la soglia, assicurandomi di chiudermi dietro la porta a chiave: se Giuseppina o mio padre fossero entrati e lo avessero incidentalmente visto, non ci sarebbe stato alcun lieto fine, per nessuno di noi due. La cena mi sembrò incredibilmente lunga, mi pareva di stare seduta sulla corona di spine di Gesù Cristo da quanto scomoda e dura mi appariva la panca di legno che ci aveva seguiti, durante tutti i nostri traslochi e non vedevo l’ora di tornarmene in camera mia. Mio padre mi fece una specie di terzo grado e volle conoscere tutti i particolari di questa mia nuova amicizia: inventai, per la maggior parte del tempo, costruendo una storia su misura per me e Barbara che era l’antitesi stessa di ciò che ci era successo negli ultimi giorni; sospettavo che, se Barbara fosse venuta a conoscenza di una sola delle idiozie sdolcinate con le quali stavo riempiendo gli orecchi di mio padre, sarebbe stata capace di sputarmi in faccia dalla vergogna ma, grazie al cielo, Barbara e il suo visetto seducente non erano lì, in quel momento e l’immaginazione, ciò di cui ero sempre stata ricchissima, mi venne prontamente in soccorso. Lentamente, tentando di non farmi vedere, a più riprese riuscii nell’intento di buttarmi in grembo qualche pezzo di pane e formaggio, due belle fette di polenta fritta, perfino qualche foglia di insalata scondita e un mazzetto di fagiolini bolliti; a mio padre non sembrò vero che io avessi tutto quel desiderio di cenare, di sera, e apostrofò malamente Giuseppina in un paio di occasioni, per avermi lasciata temporaneamente con il piatto vuoto sotto al naso. Non so se riuscii ad imbrogliare la vecchia strega siciliana quella sera: se si accorse del mio comportamento ambiguo e del cibo che raccoglievo sotto al tavolo in gran quantità, non lo diede a vedere né disse una parola a me o a mio padre, che praticamente monopolizzò la conversazione per quasi un’ora. - Vorrei andare a letto adesso… - Riuscii anche a fare uno sbadiglio molto veritiero e mio padre commentò garrulo: - Ma certo, ma certo, Titti, sarai sicuramente stanca… - annuì sorridendomi e mi

fissò con uno sguardo a dir poco estatico. Ci voleva così poco, mi resi conto, per farlo contento, avrei solo dovuto fingere di essere normale e lui sarebbe stato perennemente al settimo cielo. Questo pensiero mi ferì parecchio, perché mi resi conto che la sua felicità, a quanto pareva, dipendeva totalmente dalla più completa negazione di me stessa: io non ero normale, non nella maniera in cui lui intendeva il significato della parola, almeno. Negare la mia natura apionata, libera, ostinata, sarebbe stato praticamente come rinnegare ogni fibra del mio essere; per anni avevo sognato e tentato di adattarmi, per sopravvivere al dolore ed alla solitudine, di diventare la figlia modello di cui lui potesse non vergognarsi mai, ci avevo provato con tutta me stessa ed avevo fallito, non potevo essere diversa da ciò che ero o da ciò che stavo rapidamente diventando. Ma avrei finto, avrei finto con lui e non per lui, non per dargli finalmente la gratificazione che aspettava da parecchio ma semplicemente per poter riuscire a fare ciò che desideravo. Era davvero una macchinazione degna di messer Machiavelli e, mentalmente, mi feci le congratulazioni per come mi sembrava di riuscire a muovere la situazione a mio favore. Essere scaltra come Barbara, in effetti, aveva dei vantaggi che stavo appena incominciando ad apprezzare. - Buonanotte papà! – Gli sorrisi sorniona, gli diedi un bacio sulla guancia dal quale lui non si ritrasse, quindi mi voltai, tenendo la maglietta come un tascapane e mi affrettai verso la mia stanza, per tornare finalmente da Christian. - U pedi rintra acìtu aviri a miettiri a idda… - Consigliò Giuseppina, sfiorando con le dita i cocci del suo dannato piattino degli incantesimi. Alzai le spalle continuando a camminare: nessuna magia avrebbe potuto tenermi lontana dalla mia camera da letto, quella sera. Nel frattempo, Christian, si era addormentato: lo trovai nel mio letto, sdraiato di traverso, con il mio cuscino appoggiato sotto al suo torace ed i piedi a penzoloni dall’altro lato. Mi fece un grande effetto quel suo corpo indiscutibilmente da uomo, la spalla abbronzata, i muscoli delle braccia, il bacino stretto, la mascella volitiva ombreggiata da un principio di barba scura, arrotolato tra le lenzuola stampate a cuori del mio letto ed un brivido mi percorse dalla testa ai piedi. - Chris… - Provai a chiamarlo un paio di volte; - Chris, ti ho portato da mangiare… - Gli misi anche la polenta praticamente sotto al naso nella speranza che il profumo del cibo potesse risvegliarlo ma lui scalciò e borbottò qualcosa, rigirandosi su di un fianco e quello fu tutto. Fu allora che, guardandomi intorno,

notai la distruzione dentro la mia stanza, come se si fosse trovata per errore sul percorso di un tornado forza nove. Parte dei miei libri, dalle mensole, era finita direttamente sul pavimento, alcuni impilati, come se fossero stati semplicemente spostati, altri invece, gettati forse con rabbia al suolo, aperti a metà ed abbandonati, come se il loro contenuto li avesse resi meritevoli del più profondo disprezzo. Le ante del mio armadio erano state spalancate e gli appendi abiti spostati di qua e di là, come se Christian avesse tentato di camminarci attraverso, gli oggettini sulla mia scrivania erano stati riposizionati in una specie di processione, dal più piccolo al più grande, alcuni di essi erano finiti nel cestino della carta straccia, assieme ad alcuni fogli appallottolati con, all’interno, scritte delle parole in una lingua a me incomprensibile. Corsi al mio cassetto delle carte che mi apparve immediatamente spostato e come forzato, dovetti imprimere parecchia energia alle mie braccia per farlo tornare a scorrere lungo i propri binari ma, alla fine, si aprì e così potei constatare, con un sospiro di sollievo, che almeno quello non era stato violato. La cosa che più mi turbò fu scoprire che, sotto al mio letto, giaceva il bambolotto che mio padre mi aveva regalato quel mattino, nascosto dai suoi stessi pannolini ed abbandonato a gambe all’aria, le pile ed il disco interno con le poche frasi incise in quella sua vocetta artificiale e squillante, strappate via dalla sua schiena di plastica e gettate accanto, ormai inservibili. Al centro della fronte aveva un segno rotondo e scuro che puzzava parecchio di fumo: evidentemente, Christian doveva avergli spento una sigaretta contro la faccia. Raccolsi con un brivido di orrore i poveri resti del bambolotto, gli chiusi gli occhi con le dita e lo avvolsi delicatamente in un sacchetto di carta: me ne sarei liberata alla prima occasione, di sicuro nessuno, a parte, forse, Giuseppina, avrebbe notato la sua assenza ma, a quel punto, mi sarei inventata una storia qualsiasi, sì, ecco, magari avrei raccontato la frottola che l’avevo prestato alla mia nuova amica per giocare assieme a lei e ogni inchiesta sarebbe morta sul nascere. Essere una bambina normale sembrava avere sempre più lati positivi, non potevo negarlo. Ma adesso avevo cose più urgenti a cui pensare: c’era una stanza da rimettere a posto ed un uomo, nel mio letto, che tremava, nel sonno, smozzicando parole incongruenti ed aggrappandosi con forza al mio cuscino: dovevo assolutamente fare qualcosa! Il mio primo impulso fu quello di incominciare dalla mia camera ma, presto, il compito ingrato di riordinare quel disastro mi apparve non solo inutile ma anche profondamente sbagliato: Christian aveva messo a soqquadro la mia stanza, l’aveva rovesciata dalla testa ai piedi, snaturandola, esattamente come aveva fatto con me, riscrivendomi nella mia essenza, distruggendo la mia anima o quella che credevo di possedere prima di averlo incontrato ed era impossibile, a questo punto, tentare di rimettere assieme i pezzi, come Giuseppina aveva provato a fare con il suo piattino degli

incantesimi. Ciò che era stato rotto, spezzato, doveva essere gettato e bisognava ricostruire, creare, con quello che era rimasto, qualcosa di totalmente diverso e nuovo. Ripresi in mano il sacchetto nel quale avevo adagiato il bambolotto ed iniziai ad aggiungervi gli oggetti che la furia di Christian aveva smembrato, i libri infantili dai quali aveva strappato le pagine, i ninnoli che aveva rimesso in fila, sulla scrivania, tenendo solo quelli realmente importanti, eliminando gli altri, senza pentirmi, senza fermarmi a ripescare, senza concedermi un attimo per pensare. Alla fine la mia stanza mi apparve molto più vuota di prima ma anche decisamente più simile a quello strano animale in cui mi ero ormai trasformata: non c’era più spazio per le curve e le dolcezze dell’infanzia, né sul mio viso né, tanto meno, ai piedi del mio letto. E dentro al mio letto, invece, c’era sempre quell’uomo che tremava e che non riuscivo e non volevo assolutamente svegliare. - Ewas…Ewas… Sono stato cattivo come mi hai detto! - Mormorava Christian, respirando velocemente come chi si stia apprestando ad un’immersione subacquea senza bombole di ossigeno dalla quale non sa se potrà fare o meno ritorno. E per la prima volta, nella mia vita, feci ciò che il mio corpo ed il mio cuore mi dettarono, a dispetto di ogni ragionevole pensiero: mi sdraiai accanto a lui, mi strinsi a lui, cullai il suo corpo, quel corpo grande e forte, dall’odore di uomo che sembrava attrarmi misteriosamente come il profumo e la dolcezza di una foglia di pianta carnivora fa con l’insetto, incauto e curioso. - Non ti preoccupare…Sono qui, non ti lascio…Sei al sicuro, adesso… - Gli sussurrai all’orecchio, glielo ripetei come una specie di litania, aggrappandomi a quelle parole e sperando che, nell’inconscio, riuscissero a raggiungere il suo animo tormentato per portargli almeno un po’ di pace. Non sapevo chi o che cosa fosse questo ewas nè quanto cattivo o pericoloso potesse effettivamente essere, sapevo solo che Christian lo temeva, eppure non riusciva a lasciarlo veramente andare. Mi alzai solo una volta, durante la notte e fu per chiudere a chiave la porta della mia stanza. La mia prima notte con un uomo. E la ai a vegliarlo, sperando di riuscire a proteggerlo dai suoi stessi sogni.

***

La notte più breve, la notte più tenera, la notte più delicata e intensa della mia esistenza la ai con Christian. Ci furono altre, notti sregolate alcune, sensazionali altre, indimenticabili magari, parecchi anni e alcuni uomini dopo ma niente fu mai paragonabile alla notte che trascorsi, abbracciata al primo amore della mia vita. Con il cuore giovane di quindici anni in fiamme, travolta dalle decine di sensazioni in arrivo da tutti i distretti del mio corpo, mi stringevo a quell’uomo, di cui non sapevo quasi nulla e giuravo alla terra e al cielo che nessuno avrebbe mai più potuto fargli del male. Fare l’amore è un lavoro di corpi, l’ho imparato dopo, in parte vittoria e in parte resa, è sudore e tensione, è come cavalcare in groppa ad un destriero sfrenato giù, a perdifiato, lungo la ripida collina del piacere, senza sentire nel sangue altro che la lotta ed il desiderio pulsante. Dormire, invece, è un gesto intimo del cuore: condividere fiati, odori, sogni e lenzuola con un altro essere è la poesia del sesso, è aprire una porta non fatta di carne, che sbuca direttamente nel nostro animo. E io la aprii quella porta, per Christian, la spalancai di colpo e mi resi conto che non sarei mai stata capace di richiuderla, ormai il danno era fatto; la aprii e ci feci sgattaiolare dentro un uomo che dormiva, rannicchiato sul fianco sinistro come un bambino, lui, così grande, rispetto a me, che cercava quasi di farsi piccolo, nel sonno, per non occupare più spazio del necessario. Contai i battiti del suo cuore, appoggiandogli l’orecchio alla schiena, lo strinsi, lo accarezzai, lo manipolai con delicatezza, soffiai sulle sue palpebre con il terrore di svegliarlo e, al tempo spesso, con l’enorme desiderio che lui le aprisse. Mi feci più audace e spinsi le mie mani a scorrere lungo quel corpo così bello e possente, dalla base del collo, lungo il dorso, e poi più giù, seguendo la linea dei suoi fianchi stretti, scoprendo proporzioni e misure di cui non avevo mai sospettato l’esistenza. L’amore si nutre di ciò che a attraverso i nostri occhi e raggiunge direttamente il cuore; in quella notte mi abbuffai di Christian, del suo odore, della sua fisicità e mi innamorai di ogni dettaglio del suo corpo: i piedi grandi praticamente il doppio dei miei, le mani dai palmi larghi e dalle dita lunghe. Era un uomo che avrebbe destato sguardi di ammirazione in qualsiasi situazione si

trovasse, non facevo difficoltà ad immaginarlo vestito in smoking, i capelli raccolti a coda, corvini, a contrasto con lo sparato bianco dell’abito, suonare al pianoforte un pezzo di Chopin, oppure, jeans strappati e canottiera aderente, guizzare in sella alla sua moto cromata facendosi beffe dei limiti di velocità. E quella meraviglia si trovava, per non si sa quale incantesimo, a dormire nel mio letto, mormorando parole dal suono arcano e dal significato misterioso. - No… - Protestò, quando cercai di spostarmi; era quasi l’alba, vedevo il primo chiarore del mattino accarezzare le tende della mia camera, il corpo di Christian e il mio erano ricoperti da un velo di sudore salato, le lenzuola ci si erano avviluppate attorno alle caviglie. Si rigirò di colpo e mi immobilizzò contro il suo petto, afferrandomi saldamente per le spalle e fu allora che li vidi: dei piccoli segni puntiformi, cerchietti violacei irregolari sparsi sulla carne tenera delle sue braccia, nella piega di giunzione dei gomiti, come punture di un insetto fastidioso ed insistente, che si fosse accanito in special modo contro la vena del suo avambraccio sinistro. La traccia irregolare di quelle piccole cicatrici faceva chiaramente intendere che non fossero le linee guida di un altro tatuaggio, per di più la zona del corpo in cui stazionavano non appariva assolutamente consona a tale scopo; più che altro sembrava che Christian avesse subito una decina di prelievi sanguigni nelle ultime settimane, ma quale dottore zelante avrebbe richiesto così tanti prelievi venosi alla stessa persona in un tempo tanto, troppo ravvicinato? - Oh Chris… - Mormorai scuotendo la testa ed appoggiai le labbra su quei puntini, apparentemente innocenti, desiderando ardentemente di guarirlo dai suoi demoni, interiori od esteriori che fossero. - Hanil. – Sussurrò lui, corrugando la fronte. Trattenni il fiato e ricacciai, per il momento, l’analisi sui buchi del suo braccio nella parte più recondita del mio cervello. L’ultimo pensiero coerente prima del sonno, che mi colse del tutto alla sprovvista, fu che, forse, Christian avesse bisogno di un aiuto superiore alle mie possibilità. Ovviamente, quando mi risvegliai, diverse ore dopo, il mio letto era vuoto, ad eccezione di me ma il suo odore incastrato tra le lenzuola umide e la finestra della mia camera spalancata sul terrazzino inondato dal maledetto sole di agosto, testimoniavano come la notte appena trascorsa non fosse stata il semplice frutto della mia mente innamorata. Christian era stato lì, con me, nella mia camera, lo avevo ascoltato respirare, lo avevo cullato, cercando di farlo riposare e lui, per

tutto ringraziamento, aveva deciso di andarsene senza nemmeno svegliarmi per un saluto. Una fitta di rabbia mi colpì, acida, come un pugno nelle viscere e dovetti sedermi rigidamente composta sul letto, per tentare di riprendere fiato e rimettere ordine nei miei pensieri. Christian c’era. Christian non c’era più. A questa sua altalenante presenza avrei fatto meglio ad abituarmici e in fretta, anche. Christian era libero, come il vento che soffiava sulle praterie della sua gente: non avrei mai potuto trattenerlo, sarebbe stato come tentare di contenere un uragano. I resti di quella che, un tempo, era stata la mia camera, dimostravano chiaramente la fine che facevano le cose che si mettevano tra lui e la sua natura: per quanto calda ed accogliente avesse potuto essere la mia stanza, evidentemente, non era bastata a frenare le onde di tsunami che gli agitavano l’animo. Christian era un mistero, doloroso, come quelli del Rosario mariano, i più difficili da recitare, i più tristi da concepire e raccontare: nei piccoli, minacciosi segni che ferivano le sue braccia c’era la promessa ventilata di una sofferenza che non avrebbe potuto fare altro che crescere e peggiorare. - Titti, sei sveglia? Non riesco ad aprire la porta… - La voce di mio padre, un misto di incredula sorpresa, mi riportò immediatamente al presente: stava armeggiando, facendo scattare su e giù la maniglia, spingendo con forza contro il mio uscio, senza capire, o probabilmente senza riuscire a concepire, che il problema da lui riscontrato non fosse di natura meccanica ma il semplice desiderio di sua figlia di mantenere la propria privacy. Spinsi i miei neuroni a pensare a una velocità supersonica mentre, con un unico balzo, mi gettai contro la porta riflettendo disperatamente su che cosa, una bambina “normale” come Titti avrebbe potuto dire per giustificare al suo papà una porta chiusa a chiave. - Eccomi! – Balbettai, girando il chiavistello e socchiudendo la porta. La forza con cui mio padre la spinse me la fece quasi sbattere contro la faccia. – Buongiorno, papà! – Esclamai, gettandogli le braccia al collo e stupendolo con un bacio sulla guancia che lo lasciò spiazzato. L’effetto sorpresa di quell’effusione quasi dimenticata fu un potente anestetico e il blocco della porta sembrò scivolare momentaneamente via dalla sua mente di genitore di successo. - Ciao, tesoro! È quasi mezzogiorno… - Tentai di bloccarlo sulla soglia, ma lui sollevò le mie misere quattro ossa senza difficoltà e con un sorriso allegro un po’

mi spinse e un po’ mi trascinò nuovamente in camera mia. – Che cosa stavi tramando? – Mi apostrofò sorridendo, quindi arricciò il naso e si guardò intorno, strizzando gli occhi. –C’è un odore strano…Che è successo qui dentro? – Domandò più a se stesso che a me. Riuscii ad intravedere i pensieri disegnarglisi sulla fronte: mio padre non era mai stato un grande osservatore né doveva essersi realmente interessato all’arredamento della mia camera prima di allora, comunque lo spazio vuoto sulle mensole, i sacchi di oggetti sparsi sul pavimento e i resti di cibo della sera prima appoggiati sul comodino dovevano aver colpito profondamente i suoi sensi, arrestandogli il sorriso a metà sulle labbra. Ad un tratto, intercettai il suo sguardo indagatore, lo vidi appuntarsi ad un particolare dettaglio che penzolava fuori da uno dei sacchi di plastica in cui avevo rinchiuso gli oggetti da buttare, quelli che non erano sopravvissuti all’uragano Christian, tutto quel ciarpame superfluo che non avrebbe più trovato una collocazione nella mia nuova identità di donna ed il colore abbandonò momentaneamente le mie guance: il bambolotto, il dannatissimo bambolotto, quello su cui la rabbia di Christian si era accanita con maggior veemenza, il cui braccio di plastica sporgeva, fuori dal sacchetto come il manico ricurvo di un ombrello rotto, era quello che stava fissando mio padre. Un’occhiata alla direzione del suo sguardo confuso ed il mio cuore sprofondò. Lui mosse un o incerto verso il sacchetto ed io deglutii, avrei dovuto agire, mentire, inventare, qualsiasi cosa, tutto purché lui non scoprisse la verità. Lo sorai di corsa e afferrai il braccio di plastica, trascinando fuori il bambolotto e una decina dei suoi inutili pannolini da quella busta chiusa male, dandomi mille volte dell’idiota per aver commesso una leggerezza simile: è dai dettagli che Poirot scopre sempre l’assassino, è dal rossetto sul colletto che la maggior parte delle mogli indovina un’infedeltà coniugale. Perché di questo, alla fine, si trattava, di infedeltà. Ero stata infedele e sì, mi sentivo in collera con mio padre, il mio eterno amore dei miei quattro anni, per quel regalo inutile che non mi era piaciuto, perché lui voleva cambiarmi e farmi tornare indietro, perché così com’ero ero evidentemente inaccettabile da amare, da una parte e dall’altra parte mi vergognavo, perché avevo dormito con un altro uomo e glielo stavo tenendo nascosto. - È il mio regalo, quello? – Mi chiese, avvicinandosi a me. Strinsi con forza il bambolotto al petto, nascondendone la fronte sfregiata e gli occhi aperti solo a metà contro la mia maglietta e gli sorrisi, fingendo di cullarlo.

- È talmente bello che…Volevo portarlo oggi dalla mia amica Barbara…Per giocarci insieme…Ho messo da parte i miei giochi migliori… - La mia lingua andava ormai a ruota libera. Lo vidi corrugare e poi rilassare la fronte e seppi con certezza di essermi salvata, almeno per stavolta. – Volevo giocare con lei, oggi pomeriggio…Posso, papà? Posso mostrarle il tuo regalo e portarle un po’ dei miei giochi? – Conclusi, con uno sguardo sognante che nemmeno Shirley Temple in persona sarebbe mai stata capace di ripetere. - Ma certo, ma certo… - Lui sorrise e io gli sorrisi di rimando, in bocca il sapore amaro dell’ennesima bugia. The show must go on, da adesso in poi, lo spettacolo, la finzione, sarebbe dovuta andare in scena senza esitazioni. Per lui non sarei mai cresciuta, per la sua felicità e anche per la mia, per Christian e per la sua sicurezza, non ci sarebbe stata più Valentina, né Hanil in quella casa, Titti, la bimbetta di quattro anni, lei sola avrebbe potuto scorrazzare liberamente nell’edificio. Mio padre non mi avrebbe mai potuta conoscere veramente. E forse, dopo tutto, era meglio così. Dissimulai una lacrima dietro un sorriso e mi sfregai rumorosamente gli occhi. - Quella ragazza… - riprese lui toccandosi la fronte ed alzò su di me uno sguardo obliquo e dubbioso – la nipote della signora Giovanna… È più vecchia di te penso…Insomma, sì, non è un po’ troppo grande per… Mi morsi le labbra ed attesi, sospesa, che mio padre concludesse la frase e, con essa, quel pericoloso ragionamento; “sì!”, avrei voluto gridargli, “infatti, è una balla, ti sei accorto che sono cresciuta? Non è solo Barbara, anche io sono troppo grande per giocare ancora con le bambole! Ho conosciuto un uomo, me ne sono innamorata, com’è che ci si sente, papà? Come si sentiva la mamma, quando stavate insieme? Sono una donna, papà, una donna vera e mi sono appena innamorata. Dimmi che cosa devo fare, perché ho paura che questo amore possa fare molto male!”. Ma lui scosse la testa e si riavviò verso il salotto borbottando e le mie labbra rimasero sigillate e mute. Titti si inghiottì le lacrime di Valentina, le si richiuse addosso come una corazza soffocante, imprigionandoci entrambe in un eterno presente. Per amore di Christian, mi dissi, solo per lui, avrei sopportato tutto questo. Il tempo senza Christian si dilatava in una maniera esasperante: Titti, composta

ed educata, si sforzò di sorridere a Giuseppina, mentre il sangue mi ribolliva nelle vene, le fece i complimenti per il pranzo, sdilinquendosi in lodi e profondendo ammirazione; mio padre mi guardava, sorridendo beatamente, come se, finalmente, il suo mondo avesse ritrovato il proprio baricentro: la sua bambina era definitivamente tornata, un miracoloso incantesimo aveva fatto sparire la ragazzina muta e cocciuta e gli aveva riportato l’angelo che, probabilmente, non ero stata mai se non nelle sue fantasie, la piccina affettuosa, la bimba normale, con le amichette del cuore, i segreti ed i giocattoli ed i piccoli problemi dell’infanzia, niente che un bacetto non avrebbe potuto curare. La mia bocca, invece, la bocca di Hanil, desiderava ardentemente altri baci ed altre labbra che le percorressero il corpo, aveva ricordi accesi del brivido che il fiato di Christian le aveva provocato, accendendole il collo con un solo respiro, la notte scorsa, iniziava a sospettare che ci fosse altro, di più, che i baci e i sospiri fossero solo un preludio a qualcosa di indefinito e proibito che avrebbe desiderato sperimentare assieme a lui. E poi c’era Valentina, la parte pratica di me, la donna che avevo appena iniziato a conoscere e nella quale mi stavo rapidamente trasformando, quella che aveva svuotato la mia stanza senza rimpianti, decidendo quali ricordi tenere e quali eliminare per sempre, che adesso aveva un problema da risolvere, alla soluzione del quale si stava arrovellando il cervello, tra i risolini striduli di Titti e le prime fantasie erotiche di Hanil: Christian aveva bisogno di soldi. Mio padre aveva molti, molti soldi. I soldi di mio padre potevano, dovevano arrivare a Christian. Io dovevo arrivare a Christian, io ed i soldi di mio padre, ed i trucchi di Barbara, le sue piccole magie mi avrebbero aiutata a fare in modo che noi tutte, Titti, Hanil e Valentina trovassimo finalmente il nostro posto tra le braccia di un solo uomo. - Perché non ci guardiamo quel cartone animato che ti piaceva tanto? – Proruppe mio padre, afferrandomi le mani. Mi venne un moto di ribrezzo: probabilmente si riferiva a “La Sirenetta”, il film della Walt Disney che lui e la mamma mi avevano donato in videocassetta quando avevo compiuto 11 anni, l’ultimo regalo di lei, lo stesso anno della sua morte. Non lo avevo più rivisto da allora, incapace di far combaciare disegni brillanti ed espressioni felici con il rosso del sangue di mia madre ed i suoi occhi sbarrati e rovesciati al contrario ma mi costrinsi a sorridere e ad annuire entusiasticamente: Valentina aveva bisogno di tempo per escogitare un piano e il tempo è tutto, quando bisogna imbrogliare qualcuno e sperare di farla franca. Giuseppina si ritirò in cucina dopo meno di dieci minuti dall’inizio del film, con l’ennesimo carico di rucola da pulire e il rosario da recitare a memoria.

- Vuoi che ti aiuti? – Titti ci stava prendendo gusto a recitare, finalmente, per un pubblico tutto suo; probabilmente l’avevo uccisa troppo presto, in questa mia adolescenza a tappe forzate e adesso premeva forte, per poter riguadagnare il tempo perduto. Sorrisi a Giuseppina con fare innocente, accarezzando con la mia, la mano di mio padre che soffocò uno sbadiglio e sprofondò più giù nella poltrona del salotto. - Non sconcicari u cani chi dommi… - Mi ammonì lei, scuotendo la testa. Maledetta strega. Dovetti aspettare oltre mezz’ora, tempo durante il quale lasciai che le immagini e le musiche del cartone animato che Titti aveva tanto amato mi scorressero apaticamente di fronte agli occhi: l’avevo visto al cinema, con mia madre l’anno prima della sua morte e l’avevo torturata, ogni giorno, implorando per poterne ricevere la videocassetta in regalo. Avevo imparato a menadito ogni dialogo ed ogni canzone, sognando ad occhi aperti, per ore, l’incontro che anche io avrei sicuramente avuto con il bel Principe Eric, le frasi che gli avrei detto, il modo in cui lui mi avrebbe guardata. Chris non assomigliava nemmeno lontanamente ad un principe e, di sicuro, i buchi sulle sue braccia e il tatuaggio sulla sua spalla non si addicevano ad alcun nobile di alto lignaggio, eppure era un uomo vero, in carne ed ossa e l’infantilismo del cartone animato che tanto mi aveva fatta sognare solo qualche anno prima mi fece quasi schiumare di rabbia. Relegai momentaneamente la dolce Titti in un angolo della mia mente e mi alzai con cautela dalla mia poltrona: era ora di agire. Lasciai mio padre a ronfare sommessamente di fronte alle immagini in technicolor del cartone animato e mi diressi, con o felino, alla porta, trattenendo il fiato: la Sirenetta cantava a squarciagola e Giuseppina pregava in cucina, la sua cantilena ripetitiva e cadenzata penetrava i miei pensieri come la lama di un coltello affilato; sebbene in un qualsiasi altro momento sarei piombata in cucina sibilandole di smetterla con quella sua voce metallica ed insistente, stavolta le fui grata per quelle sue preghiere da fede primitiva: più a lungo l’avessi sentita cantilenare le sue nenie in cui non credevo più, più facilmente l’avrei potuta monitorare, dunque nessun pericolo per la mia missione che si rivelò fin troppo facile. Sgattaiolai in un punta di piedi fino all’ingresso, lì dove mio padre lasciava sempre la giacca e la sua fedele ventiquattrore, e ne tastai le tasche, interne ed esterne. Dopo qualche attimo di ispezione accurata, il suo portafoglio in pelle

morbida marrone mi scivolò sul palmo delle mani sudate. Mi soffermai un attimo, giusto il tempo per guardarmi attorno: che cosa mai avrei potuto dire se qualcuno di casa mi avesse scoperta? Ma non c’era il tempo per potersi immaginare una cosa del genere. Aprii in tutta fretta il portafoglio di mio padre e constatai che conteneva diverse banconote, alcune delle quali di grosso taglio; immaginando che piccoli furti sarebbero stati meno visibili di un unico furto ingente, sottrassi due banconote da venti e da diecimila lire, oltre ad una sola carta da centomila. Sapevo con certezza che mio padre non era un grande osservatore né, tantomeno, un contabile attento: chi ha molto non fa caso a ciò che ha, finché non lo perde del tutto, immaginai, così, mio padre non si sarebbe accorto degli ammanchi nel suo portafoglio fino a quando questo non fosse rimasto completamente vuoto. Mi chiesi se si sarebbe mai accorto della mia assenza, qualora avessi deciso di fuggire, con Chris, a bordo di ekwanesxaw, del suo cavallo di acciaio e non seppi darmi una risposta. Piegai le banconote in piccoli quadratini, la carta stampata era liscia e rigida, difficile da manipolare e me le infilai, una dopo l’altra, sotto la cassa in plastica circolare del mio buffo orologio da polso, uno Swatch rosa che Valentina non aveva gettato nell’immondizia solo perché il suo ampio diametro consentiva un agevole nascondiglio della mia refurtiva, quindi rientrai in soggiorno. Mio padre dormiva ancora e la Sirenetta aveva ottenuto le sue gambe umane in cambio della propria incantevole voce. Feci un sorriso amaro: nessuno ti dà niente per niente, presto anche mio padre se ne sarebbe reso conto. Contai, per l’ennesima volta mentalmente i soldi che gli avevo preso: centotrentamila lire in tutto, decisamente più delle paghette che avevo conservato e guadagnato durante la mia breve esistenza. Sperai che fossero sufficienti per Christian, per le cose di cui aveva bisogno. - Ancora non si sono sposati? – Mio padre aprì un solo occhio ed io gli sorrisi amabile, scuotendo la testa. Giuda si era accontentato di soli 30 pezzi d’argento. Alla fine, come tutte le volte, la Sirenetta sposò il suo Eric, Giuseppina pulì meticolosamente la sua rucola, foglia per foglia, mio padre si stiracchiò sulla poltrona e guardò l’orologio sul proprio polso. Erano da poco ate le cinque del pomeriggio. - Forse a Giuseppina serve della spesa da fare… - Iniziò lui con fare lievemente imbarazzato. –È davvero bello, questo cartone animato, vero Titti? - Aggiunse,

spalancando la porta della cucina. Io lo seguii da lontano, spiandone i movimenti uno per uno: lo vidi aprire il frigo, rivolgere due parole alla domestica che scosse energicamente la testa e ritornare sui propri i con fare convinto. Proprio in quel momento colsi lo sguardo di Giuseppina, i nostri occhi si incrociarono lungo la scia che aveva seguito mio padre abbandonando la cucina e, per una volta, ci scambiammo un’occhiata di pura intesa femminile: avevamo fatto, entrambe, uno più uno. Quando mio padre uscì dal bagno in una nuvola di acqua di colonia, non ebbi più alcun dubbio: come mai non me ne ero accorta prima? Mio padre si stava preparando per andare ad incontrare qualcuno, più precisamente una donna, suggerì Valentina, con una nota di disprezzo nella voce, una donna che apprezzava i profumi da due soldi e i grossi orologi costosi al polso di un uomo. “Lady carrello felice, la signora Isabella!” Esclamò Hanil e Valentina l’applaudì soddisfatta. Sì, decisamente la mia infanzia poteva dirsi assolutamente conclusa. - Mi accompagni? - Mi chiese mio padre, avviandosi alla porta; - Non dovevi uscire anche tu? Annuii con convinzione e gli sorrisi piena di gratitudine. - Due minuti e arrivo! - Esclamai, correndo in camera mia. Mi tolsi la ridicola canottiera ed agganciai, con difficoltà, il reggiseno, il mio primo bottino, dietro la schiena, regolandone le spalline, quindi ci abbottonai sopra una camicetta pulita che avrei potuto togliere facilmente per permettere a Barbara di truccarmi senza macchiarne il colletto, aggiunsi un paio di pantaloncini corti e mi richiusi la porta alle spalle, controllando rapidamente che la refurtiva fosse ancora al suo posto, al sicuro sotto il cinturino del mio orologio. Io avrei dunque accompagnato mio padre dalla sua amante, riflettei, ammantando di innocenza quella sua uscita palesemente fuori luogo per un’inesistente spesa serale e, in cambio, lui avrebbe avvallato i miei giochi con Barbara, che tutto avevano tranne che il candore dell’infanzia. Perciò non eravamo più semplicemente padre e figlia ma due rei che tentavano invano di dividersi reciprocamente la responsabilità delle proprie colpe.

***

Arrivai di corsa di fronte alla ridicola casetta di Biancaneve nel cortile della casa della nonna di Barbara e, senza nemmeno bussare, spalancai la porticina con un colpo, strappando un urlo terrorizzato alle temporanee abitanti dell’edificio. - Ma chi cazzo è? – Riconobbi subito la voce stridula di Laura, il suo fisico asciutto, quasi maschile, sdraiato di traverso sul materasso si scosse quando i suoi occhi misero a fuoco la mia figura che occupava l’intero vano della porta di ingresso. - Ma guarda cosa ci ha portato l’alta marea… - Il tono di Barbara, arrochito dal fumo di una sigaretta che le si stava spegnendo tra le labbra, sembrava più stupito che sconvolto. –Non credevo che ti avrei rivista così presto, muta… - Mi hai fatto sbavare lo smalto, stronza! – Mi apostrofò Laura. Né io né Barbara battemmo ciglio. –Me ne vado! – Aggiunse con tono melodrammatico dopo qualche istante, levandosi dai piedi le spugnette per separare le dita. - Ci vediamo più tardi all’Allodola! – Disse Barbara, continuando a fissarmi. Un sorriso pericolosamente diabolico iniziò a disegnarsi sul suo bel volto da odalisca tentatrice. - Guarda che questa qui porta sfiga… - Continuò Laura, infilando un paio di ciabattine argentate che avrebbero fatto l’invidia delle cocotte del milleottocento. - Sì, sì… - Barbara sbuffò fuori il fumo dalla gola e lo dissipò con la mano. – Chiudi la porta, idiota! – Aggiunse rivolta a me, non appena Laura se ne fu andata – Mia nonna è cieca ma il naso ce l’ha ancora buono! Feci come lei mi aveva ordinato e le sedetti di fronte, occupando il posto tiepido sul materasso lasciato libero dalla sua amica. - Laura è proprio una stupida… - disse – non ha capito che qui c’è da divertirsi! – Quindi mi si avventò senza preavviso addosso e slacciò con gesti pratici i primi due bottoni della mia camicetta. – Bene! – Schioccò la lingua deliziata alla vista del reggiseno rubato a sua nonna che avevo indossato prima di uscire – Vedo che stai cominciando a crescere… Staccai con violenza quelle sue dita ad uncino dai bottoni della mia camicia e

gliele riempii di creme e trucchi, invitandola, con lo sguardo, ad iniziare il suo lavoro. - Ah ah…Non così di corsa, muta… - Lasciò cadere le confezioni di fard e di ombretti a terra e mi fissò, continuando a sorridere. Ebbi l’impressione di sedere, incantata, di fronte ad un meraviglioso cobra dagli occhiali e mi chiesi, in una frazione di secondo, se fossero davvero così belli anche questi serpenti, maestosi, prima di sferrare, come si leggeva nei libri di Salgari, il loro morso feroce e fatale. Squame rilucenti come l’oro e lingua sinuosa e sibilante, anche Barbara, seduta di fronte a me, inondata dai raggi del sole al tramonto aveva il fascino letale del pericolo e sembrava intenzionata a giocare con la sua preda senza fretta. Io mi sentii come il topolino in trappola. Estrassi da sotto il cinturino una banconota da diecimila lire e gliela sventolai di fronte, con mano tremante, sperando di ammaliare il serpente, di distrarne la ferina attenzione.

- Così mi offendi, tesoro… - Disse lei, continuando a sorridere. Per un secondo temetti che non sarebbe successo niente, che saremmo rimaste lì, a fissarci, predatore e preda ed a scambiarci mutuamente i ruoli. Perché se era assolutamente vero che io avevo bisogno di Barbara, della sua esperienza e del suo fascino per poter sperare di avere una chance con Christian, era anche corretto supporre che lei avesse qualcosa da guadagnarci, dallo stare in mia compagnia e non erano solo le diecimila lire che le avevo sventolato di fronte al bel nasino all’insù i proventi che lei stessa si aspettava di ottenere dal nostro incerto sodalizio. Io rappresentavo per lei una sfida, la sfida della creazione di fronte alla quale ogni artista soccombe, io solleticavo il suo ego più di quanto l’intelligenza insulsa di Laura non avesse mai fatto prima, con me avrebbe potuto fare un lavoro egregio, dare origine ad una creatura a sua immagine e somiglianza, ero un terreno virtualmente vergine. E poi c’era anche la mia storia, quel ato misterioso e insanguinato che in paese si sussurrava appena ma che nessuno poteva dire di conoscere realmente, che mi portavo cucito addosso come una rossa maglietta troppo aderente. E c’era questo misterioso Principe Azzurro, per poter conquistare il quale sembravo pronta a compiere qualsiasi bassezza, inclusi furti e menzogne. Nessuno avrebbe saputo resistere al fascino di questi tre elementi messi assieme: colpa, peccato, sesso. Barbara, con la sua andatura sinuosa e la sua lingua sempre pronta, era desiderosa di prendere parte al mio gioco, un gioco di cui avremmo, probabilmente, deciso le regole assieme, tappa dopo tappa. Ma alla fine si mosse lei per prima; si spostò alle mie spalle con un unico scatto ed iniziò ad acconciarmi i capelli, appuntandomeli alti sulla nuca, stavolta utilizzando spazzola e forcine e non più una semplice matita marrone, come aveva fatto il giorno prima Laura, nel negozio di sua nonna. - Ahia! – Sibilai dal dolore; me li stava volutamente strattonando e mi pungeva il cuoio capelluto con le forcine, punzecchiandomi fino a farmelo sanguinare. - Tic tac, l’ora è… - Canticchiò al mio orecchio, facendomi voltare in maniera che ci potessimo trovare occhi negli occhi, alla stessa altezza, sedute, ginocchioni, su due punti contrapposti di quel lurido materasso. – La settimana scade e il tempo a… - Mi sollevò il mento con un dito ed osservò, con fare professionale e distaccato, la maniera in cui la luce giocava con il mio incarnato. Non essendo evidentemente totalmente soddisfatta del risultato, armeggiò con una scatola da cui estrasse delle perle multicolore che mescolò assieme con un

pennello; la sottile polvere color avorio che sparse un attimo dopo sulle mie guance donò alla mia pelle un riflesso lunare che sembrò piacerle particolarmente. –Ecco qua… - Mormorò tra i denti, soffiando qualche brillantino sulle mie palpebre chiuse. –Se non ti scopa stasera deve essere per forza un finocchio… - concluse, accarezzandomi maldestramente uno zigomo. Mi scostai con violenza, digrignando i denti: la natura dell’insulto non mi era ancora del tutto chiara ma il mio sangue si infiammò istintivamente al pensiero che quella sgualdrina avesse potuto anche solo immaginare di offendere il mio amore. Barbara sbuffò e, per un attimo, un’ombra triste, proveniente dal ato, da dentro di lei, le rese più oscuro e più torbido lo sguardo distante. - Tu non hai la più pallida idea di quello che ti sto dicendo, vero? Rimasi immobile, incapace di stare al o con quei suoi repentini cambiamenti di umore. - Tu non sai com’è che va… - riprese e mi sembrò che il suo tono si fosse impercettibilmente smorzato – non sai come andrà, quando avrai dato tutto a un coglione qualsiasi e di te non resterà nemmeno l’orgoglio, cuori e fiori e belle parole e poi, di colpo, si smette di parlare… - Un suono nasale, una specie di singhiozzo soffocato e, per un secondo, riuscii a intravedere qualcosa, oltre la maschera di trucco e menzogne che lei stessa si stendeva sul viso, con abilità, giorno dopo giorno e mi apparve per quello che doveva essere: una bambina cresciuta in fretta, di soli tre anni più grande di me, cui qualcuno, un giorno, doveva avere strappato via qualcosa che non poteva più esserle restituito e provai una fitta di pena che mi fece avvicinare istintivamente a lei. - Non mi toccare! – Sussurrò, indietreggiando sul materasso. –Sono io che decido chi può toccarmi e dove, capito? – Riprese Barbara, con quel tono autoritario ed insieme dolce, come la lama di un coltellino svizzero immersa in un mare di melassa. Annuii con convinzione e non mi sottrassi, quando lei avvicinò le mani al mio seno e, con mia grande sorpresa, richiuse uno dei bottoni della mia camicia che aveva aperto alcuni minuti prima, per verificare quale fosse lo stato della mia biancheria intima. - Non mostrare tutto subito, tesoro, questo è un consiglio gratuito ma farai bene ad ascoltare quello che ti sta dicendo la zia Barbie…Lascia che sbavi, lascia che

immagini, lascia che sogni e desideri di poterti toccare lì dove non può vedere; è questo che fa impazzire gli uomini: desiderare e non essere sicuri di poter ottenere. Detto questo, si distese nuovamente sul materasso ed estrasse una sigaretta dal reggiseno, scoccandomi un’occhiata voluttuosa. - Questi li prendo… - Stiracchiandosi come una gatta in procinto di fare le fusa, si allungò verso di me e, con un balzo, afferrò la banconota da diecimila lire che era rimasta, abbandonata, accanto alle mie ginocchia e la nascose, rapidamente, nella tasca posteriore dei jeans – Mi stai facendo spendere un sacco di soldi in cosmetici! Diciamo che sono un acconto: se stasera va come immagino che vada, avrai presto bisogno dei miei…come li hai chiamati? “Profilati”! – Sghignazzò, buttandomi in faccia quella scatola rigonfia di umidità di cui continuavo ad ignorare l’utilità, facendomi sentire un’idiota per la seconda volta nel giro di meno di ventiquattro ore. – E i pro…profilati – riprese, facendomi il verso – costano parecchio, mia cara…Ma il nostro patto rimane valido! – Concluse, mettendosi a sedere con un’unica mossa elegante. –O tu mi porti quest’uomo all’Allodola entro la settimana o io spiffero tutto al tuo affascinante vecchio…Te lo ricorderai, vero, muta? Annuii, desiderando svincolarmi al più presto dalle spire intossicanti di quella ragazza perversa e tuttavia così mortalmente affascinante e dal fumo della sua sigaretta, che sembrava capace di ottenebrare la mente. - E adesso vai! – Concluse, indovinando i miei pensieri. – E se fai tardi stasera… - Aggiunse, sottolineando con un’occhiata maliziosa l’ultima parola – dì tranquillamente al paparino che ti sei fermata a cena da me…Anche a dormire, se dovesse servirti una scusa! – Gridò. Il suono della sua voce mi raggiunse distante, oltre la cortina vorticosa di pensieri che mi stava rapidamente travolgendo. Christian non assomigliava sicuramente a nessuno degli uomini che lei poteva aver conosciuto nella sua inutile carriera di incantatrice, di questo ero assolutamente certa, perciò la sua esperienza non mi sarebbe stata di alcun aiuto, così come i suoi inquietanti consigli sui desideri degli uomini e i profilati, o come diavolo si chiamassero quei cosi costosi che sembravano poter risolvere ogni problema sulla faccia della terra.

Christian era semplicemente indescrivibile. E, in effetti, anche Barbara, per certi versi lo era. Uscii da quella casetta maledetta, la casetta della strega cattiva di Hansel e Gretel, tutta caramelle all’esterno ma piena di orrori all’interno, con diecimila lire in meno sotto all’orologio ed una certezza in più nel mio cuore: non avrei dovuto, mai e poi mai, a nessun costo, mantenere fede a quel patto scellerato.

*** Il giorno cedeva svogliatamente il o alla sera mentre io ripercorrevo la strada verso casa, diretta alla mia fedele bicicletta rosa, un po’ correndo e un po’ marciando, sperando di non sudare troppo, il cuore aveva già messo le ali e si librava in alto, sognando il momento in cui lo avrei rivisto. Le banconote di pergamena dura, malamente ripiegate dopo il pagamento del tributo a Barbara, prudevano fastidiosamente, compresse tra la plastica della cassa dell’orologio e la pelle del mio braccio, mezze imbevute di sudore; per quanto mi procurassero punture dolorose, mi obbligai a sopportare, mi sembrava un piccolo prezzo da pagare, per il primo furto della mia vita. “Prestito”, mi corresse, indulgente, Titti, la parte ancora infantile di me che sopravviveva, spiegazzata come quelle due banconote, stretta tra i motti del cuore e quelli, appena accennati, della carne, incapace di concepire un pensiero talmente contorto come quello di un furto ai danni del suo stesso padre. Glieli avrei restituiti, quei maledetti soldi, moneta dopo moneta, glieli avrei reinfilati nel portafoglio e lui non se ne sarebbe mai nemmeno accorto. Prestito, ecco quello che avevo fatto, semplicemente preso in prestito. “Hai preso dei soldi, sì, ma per amore, per una gusta causa”, argomentò Hanil, mentre la bicicletta rosa arrancava lungo l’erta che portava alla Pieve, pedalata dopo pedalata, con le guance rosse per lo sforzo e le gambe segnate dalle frustate impietose degli steli alti dei cardi. Hanil amava Christian più di ogni altra cosa al mondo e fare del bene per l’uomo che si ama non può proprio essere sbagliato. “Ladra”, replicò seccamente Valentina, facendomi allungare volutamente un piede dentro il ciuffo portentoso ed intricato di ortiche che cresceva ai bordi del sentierino. Ai ladri, i turchi tagliavano le mani, l’avevo letto di recente nell’ultimo romanzo di Salgari, “La favorita del Mahdi”; le mani mi servivano

per tenere in linea la bici, a un piede, decise il giudice Valentina, avrei tranquillamente potuto rinunciare, almeno per un po’. Il bruciore mi fece quasi sbandare ma proseguii, mugugnando per il dolore e con gli occhi che mi si riempivano di lacrime; di certo Barbara non avrebbe approvato se il mascara mi fosse colato lungo le guance, tutto il suo lavoro mandato in fumo dalla parte più onesta di me. Sarei arrivata da Chris in uno stato a dir poco pietoso. Giunsi alla Pieve dopo oltre un’ora di faticosa pedalata, con i polmoni che mi scoppiavano per lo sforzo e le gambe tremanti, ricoperte di bolle rosacee; gettai con noncuranza la bicicletta tra la radura che lambiva i margini dell’antico cimitero e deglutii, prendendomi qualche attimo per pensare, tentando invano di sistemare, in un unico gesto, il trucco, del cui stato non ero più così sicura e la camicetta, che avevo sbottonato a causa del caldo e della fatica sostenuta troppo a lungo. Alla fine decisi di sciogliermi i capelli sulle spalle, tanto più che le forcine avevano dovuto mollare la presa di fronte ai rami bassi degli alberi che mi avevano spettinata con le loro fronde, mano a mano che il sottobosco si faceva più intricato, avanzando lungo il sentiero; mi diedi una spolverata sommaria ai pantaloncini, massaggiai distrattamente le gambe tentando di far sparire senza successo quei brutti bubboni irritati, quindi, un piede dietro l’altro, mi avviai verso la Pieve. Con la luce del sole al tramonto, il paesaggio assumeva un aspetto decisamente diverso: non più un minaccioso insieme di fruscii scuri, guizzanti tra forme acuminate e geometrie smozzicate, ma uno spiazzo vasto, ricoperto di fiori e di erba, su cui i resti del tetto della Pieve brillavano, incendiati dagli ultimi raggi del sole. Provai ad immaginare gli sguardi degli antichi contadini quando, secoli prima, dovevano essere approdati, con il peso della gerla sulle spalle, dopo più di un’ora di dura ascesa, a quel piccolo fazzoletto di pace, circondato dalle cime delle Alpi, come un gruppo di giganti buoni accoccolati a raccontarsi delle storie. Pensare di costruire qui un cimitero, un luogo in cui onorare la memoria dei defunti ed il dolore dei viventi insieme, doveva essere stata un’idea quasi automatica. Tutto quel verde che cresceva, a dispetto della neve e del vento, tutti quei fiori che sbocciavano, anno dopo anno, portavano consolazione allo sguardo e pace al cuore e nemmeno il terremoto, con i suoi tremendi artigli di violenza, era riuscito a snaturare quel posto ma solo a scalfirne la superficie. Non c’era niente di maledetto in quei luoghi, nei quali ormai solo il vento faceva insieme da guardiano ai morti e da messaggero ai vivi, semplicemente una poesia piena di malinconia che ti si drappeggiava addosso come una coperta tiepida. Per la prima volta da quando ci eravamo trasferiti, chiusi gli occhi ed

inspirai forte, riempiendomi le narici del profumo degli abeti e dei pini e mi sentii improvvisamente a casa. Fu il rumore, la prima cosa che rimise all’erta i miei sensi, gli schiocchi e gli scoppiettii di un fuoco che non avrebbe dovuto esserci e poi l’odore acre del fumo che si insinuava, rapidamente, dietro il miele balsamico delle conifere; mi riscossi dal torpore ed avanzai, saltellando tra le tombe, riacquistando piena consapevolezza di me stessa e di ciò che ero venuta a fare lassù: non certo una gita turistica, io ero venuta a cercare il mio amore: desideravo vederlo, avevo bisogno di parlargli, necessitavo di spiegazioni, volevo certezze ma, soprattutto, bramavo di stare ancora a contatto con la sua pelle. Quello che vidi, però, a primo acchito non mi piacque, anche se non riuscii a comprenderne esattamente la ragione: Chris era seduto, come ripiegato su se stesso, di fronte ad un falò che lui stesso doveva aver , la tenda militare impacchettata malamente trasbordava dalle cinture di cuoio con cui era stata rapidamente imbrigliata, il piatto metallico, che una mano infuriata doveva aver lanciato dentro al fuoco, mandava scintille sinistre da dietro le fiamme. La ghiaia scricchiolò sotto alla suola delle mie scarpe e lui si voltò di scatto; qualcosa gli cadde dalla mano destra. - Oh fuck! – Esclamò, digrignando i denti. Raccolse rapidamente l’oggetto che intravidi, biancastro ed appuntito e lo scagliò anch’esso nel fuoco. - Te ne vai? – Gli domandai, con la voce carica di apprensione. D’improvviso, la situazione mi apparve chiara: la tenda chiusa, il piatto nel falò che scoppiava e fischiava assieme a resti di legno e di cibo e a qualche brandello di stoffa, che riconobbi come la canottiera che aveva indossato, solo un paio di sere prima, con me, al fiume, quando eravamo andati a pesca di stelle. Christian stava cancellando le proprie tracce e quello era il suo modo di fare i bagagli. Bruciare tutto e andare via, senza voltarsi indietro. Nessuno del paese, l’estate successiva, se mai avesse avuto il coraggio di inerpicarsi fin lassù sfidando la malasorte e il fiato dei morti, avrebbe potuto indovinare il significato di un cerchio di erba bruciacchiata rimasto sul terreno. Nessuno avrebbe detto niente, non ci sarebbero stati testimoni; la storia si sarebbe ingoiata Christian assieme a milioni di altre vite. E basta. - What ‘re you doin here, girl? – Articolò con difficoltà, la sua bella voce suadente impastata, la sua lingua rallentata mentre cercava, sforzandosi, le

parole aspre dell’invasore che aveva stritolato la sua gente. - Stai partendo? – Chiesi di nuovo, come una stupida gallina incredula di fronte all’evidenza: la mano che ti nutre è la stessa che ti tira il collo. Non c’è molto da capire. - Non avvicinarti! – gridò, arrestando i miei i a circa cinque metri da lui e da quel suo falò che lanciava scintille di sfida e lingue di fiamme voraci al cielo. Mi immobilizzai immediatamente; qualcosa, nel suo tono di voce, mi fece rabbrividire. – Non ti avvicinare… - Ripeté sottovoce, alzandosi lentamente in piedi – Non devi…Non puoi mai sapere dove senan, la serpe maledetta, nasconda la testa e dove la coda… - Chris, io… - Balbettai, piagnucolando. - Chris, io… - Mi fece il verso lui, crudele, avanzando lentamente verso di me, con il giubbino di pelle nera, senza maniche, sbottonato sul torace nudo e fu allora che lo vidi: un elastico chiaro e spesso che gli stringeva l’avambraccio sinistro, gonfiando a dismisura le vene ed arrossandogli la carne tutt’intorno. - Cos’è quello? - Allungai l’indice della mia mano verso quell’elastico ma lui si ritrasse, lo sciolse rapidamente e lo gettò, con uno scatto, a bruciare nel fuoco. – Mio dio, Chris… - Soffocai le ultime lettere del suo nome, tappandomi la bocca con entrambe le mani. - Cos’è questo, cos’è quello… - Lui si ò due volte le dita tra i capelli, prima di riportare su di me il suo sguardo opaco, venato di cattiveria. –Sempre a fare domande le donne…Ewas lo dice sempre. Le donne…Non servono a niente se non a quello. Ed è per quello che noi uomini perdiamo la ragione… - Si ò la lingua sulle labbra e smise per un secondo di parlare: stava sudando copiosamente, sia per la vicinanza con il fuoco sia per la maniera in cui il suo corpo stava reagendo a qualunque sostanza si fosse iniettato nel braccio poco prima; doveva avere molta sete. - Chris, ti prego, chi è Ewas? - Gli chiesi, mantenendomi a distanza. L’espressione che gli si dipinse per un attimo sul volto, di puro terrore, fece raggelare anche me. - Zitta, non lo nominare! Non lo chiamare! – Sussurrò, afferrandomi per le braccia e trascinandomi ginocchioni sull’erba. Gridai, scalciai, tentati di

divincolarmi e protestai ma le sue mani, strette come morse, non abbandonarono i miei polsi. - Mi fai male! – Esclamai, mordendomi le labbra per non piangere. - Shhhh! – Per tutta risposta mi lasciò un braccio e, con la mano libera, mi tappò la bocca, stringendomi il naso con il pollice; paralizzata dalla paura, respiravo a malapena. Un fiotto di lacrime gli inondò la mano ma lui sembrò non accorgersene e riprese: - Ti ha visto qualcuno mentre venivi qui? Lui ti ha seguita? Feci cenno di no con la testa, mugolando, soffocata dalla sua stretta e dalle mie stesse lacrime; sentivo le gambe sempre più pesanti e avevo il cuore che mi martellava nel petto, non riuscivo a riconoscere in questo lupo stravolto l’uomo che avevo cullato nel mio letto per una notte intera e di cui mi ero disperatamente innamorata, eppure l’aspetto fisico era lo stesso: gli occhi viola di Christian, solo velati, con le pupille strette accese da qualcosa di rapace, come quelle dell’aquila quando vola a cerchio e cinge la preda ignara in un girotondo mortale, le sue braccia forti, solcate da segni che ormai mi erano purtroppo definitivamente chiari, i suoi fianchi muscolosi, le sue mani calde, saldamente strette al mio viso. In Christian, come in ogni uomo, convivevano l’angelo e il demonio, la virtù e la distruzione, il ragazzo sereno ed il tossicodipendente solo che, in quel preciso istante, la lotta per la supremazia sulla sua anima doveva essersi fatta particolarmente accanita. - Ewas è qui, se tu sei qui… - Lui continuava a parlare, fissandomi negli occhi ma senza realmente vedermi, traandomi con lo sguardo, terrorizzato dall’idea di qualcosa acquattata nelle tenebre alle nostre spalle. – Ewas è ovunque e non ci lascerà in pace! Tu te ne devi andare, non devi venirmi a cercare! You got it, girl? Non avevo capito quasi nulla del suo delirante discorso, dettato, parola per parola, dalla paranoia e dalla sostanza bianca che si era introdotto nel braccio. A scuola avevamo parlato della droga e dei suoi effetti sulle persone e c’era un uomo, in paese, l’unico che tutti rifuggivano più di me, dall’aspetto trasandato e dall’età indefinita: viveva ai margini dell’abitato e non lo si vedeva in giro quasi mai, tranne quando si allungava, spinto dall’astinenza, fino in centro ad elemosinare qualche spicciolo, animato da una febbre animale. I ragazzi più piccoli scappavano via terrorizzati, mentre i più grandi testavano il proprio

coraggio con il vecchio George, così lo chiamavano gli abitanti: quale fosse il suo vero nome in realtà poco importava e nessuno ormai se lo ricordava più; con la promessa di una moneta lo spingevano a fare le cose più assurde e degradanti. George non si sottraeva a quello spettacolo pietoso: si inginocchiava, implorava, riceveva insulti e sputi senza battere ciglio, con la pupilla stretta e stralunata ed un tremito che gli percorreva tutto il corpo magro e quasi corroso da quella malattia che non guariva mai e, alla sera, spariva nuovamente nel suo tugurio, umiliato e sfatto, ma con lo sguardo appannato soddisfatto per i soldi racimolati che gli sarebbero bastati appena per un’altra piccola dose. L’ultima, giurava sempre lui. Almeno fino alla crisi successiva. George era ormai un essere perduto, una povera creatura dimenticata su questa terra da dio e dal diavolo, un piccola cosa che strisciava fuori dalla propria tana all’alba e vi rientrava al tramonto, con l’unico scopo di un altro buco, nel braccio o nel collo o ovunque si trovasse ancora uno spazio e di lui mi importava poco. Ma quello davanti a me, che si dibatteva e tremava, ora atterrito come un cucciolo, ora prepotente come il padrone del mondo era Christian, era l’uomo che amavo, e anche se io ero solo una ragazzina, ero assolutamente certa di una cosa: gli avrei salvato la vita ad ogni costo. Perciò annuii, molto lentamente e, racimolando le ultime gocce di forza che credevo ancora di possedere, sollevai una mano, fino ad allora abbandonata lungo il corpo come fosse un’appendice che non mi apparteneva ed iniziai ad accarezzare con dolcezza la sua destra, tentando di fargli allentare la presa sulla mia bocca. Una cosa, di tutte quelle parole farfugliate, mi aveva colpita ed a quella mi stavo, mi volevo, aggrappare disperatamente: Chris aveva parlato di questo Ewas, di cui ero assolutamente intenzionata a scoprire l’identità non appena fossi riuscita a respirare liberamente, aveva detto che era ovunque e che non ci avrebbe lasciati in pace. Ci. Non Christian e non io. Bensì noi. Dunque, da qualche parte, nella sua mente complicata ed affascinante albergava una speranza per noi due, insieme e forse, dopotutto, non gli ero indifferente come i poveri gamberetti che aveva maciullato quella notte al fiume; magari, in fin dei conti, c’era una scintilla di me nel suo cuore e per quella scintilla avrei combattuto, avrei lottato come una leonessa. Perché niente può spingerci all’estremo più di una lontana promessa d’amore. Il mio tocco sembrò sortire un effetto di qualche tipo, perché pochi secondi dopo la sua mano, tremante, liberò la mia bocca gonfia e violacea e potei nuovamente introdurre una buona quantità di aria nei polmoni.

- Ewas… Lui mi fa fare cose… - Shhhh – Fu il mio turno di zittirlo; gesticolai con molta calma, addolcendo la mia voce, sorridendogli tra il muco e le lacrime. –Va tutto bene - tossicchiai – io sto bene, vedi? – Annuii, senza mai lasciare i suoi occhi, come dicono di fare nei manuali delle giovani marmotte, se mai dovessi incontrare un orso bruno sulla tua strada nel bosco: tieni lo sguardo fisso su di lui, non mostrare la paura, muoviti lentamente e trova un rifugio sicuro al più presto. Il mio rifugio sicuro, mi venne in mente in un lampo, era lì, a portata di mano, ce l’avevo sul polso da diverse ore ormai e sarebbe stato il mio aporto per la felicità: Chris, riflettei iniziando a slacciare il cinturino del mio orologio, doveva essere in astinenza già dalla sera prima, per quale motivo, altrimenti, si sarebbe presentato nella mia camera di sera? Mi tornarono in mente le sue parole, sconclusionate, sui soldi ed una fitta di delusione mi attraversò lo stomaco, facendomi male: se io non fossi andata a cambiarmi per la cena, se non lo avessi sorpreso nel mio letto, forse lui non mi avrebbe aspettata neanche, mi avrebbe messo la camera a soqquadro alla ricerca di qualche soldo e poi se ne sarebbe andato, portando il magro bottino con sé. “Non è vero!”Hanil si ribellò a questo pensiero, all’immagine impietosa di Chris, un ladro ed un drogato esattamente come George, capace di qualsiasi cosa pur di potersi bucare ancora. Christian era in difficoltà, Christian era spaventato, okay, probabilmente era anche un tossico ma questo non faceva di lui una cattiva persona. E poi, anche con la mente ottenebrata dall’eroina, uno come lui avrebbe dovuto immaginare che in camera di una ragazzina non ci potevano essere cose di valore, se avesse voluto semplicemente commettere un furto, avrebbe potuto frugare la camera di mio padre nottetempo o quella di Giuseppina, anche un idiota avrebbe pensato che il primo posto utile in cui guardare per trovare del denaro sarebbe stata certamente la ventiquattrore di un uomo di successo e non il cassetto chiuso a chiave nella camera da letto di una bambina. No, Christian non era come George, con il cervello spappolato annegato nel crack e l’unico desiderio di farsi fino a scomparire dalla faccia della terra, Christian aveva dei problemi, grossi problemi, ed era venuto in camera mia non a caccia di soldi ma in cerca di me, del mio aiuto. Misi a tacere Titti, che tremava spaventata e spingeva per una fuga immediata e Valentina, che, con la voce di mio padre, aveva iniziato ad elencarmi tutto ciò che mi sarebbe successo se fossi rimasta lì. Lui era Cristian e io ero Hanil. Non c’era altro da sapere o da fare. Sarei rimasta con lui e avremmo affrontato questa cosa insieme.

- Guarda… - Srotolai dapprima la banconota da venti e poi quella da centomila lire direttamente di fronte ai suoi occhi, la filigrana brillò e sembrò quasi animarsi alla luce cangiante del fuoco alle nostre spalle; anche le pupille di Crhistian si animarono per la sorpresa. Un attimo dopo, mi avvicinai nuovamente a lui e gliele porsi entrambe, tenendole ben distese sulla mano aperta, come facevano gli antichi con i conquistatori delle loro città, come gli ebrei quando stringevano i patti con il loro Jahvè, con i palmi spalancati rivolti all’insù, in segno di supplica e di resa. Ormai non era più possibile tornare indietro, non era più di prestito che si trattava questo era evidente: i soldi di mio padre sarebbero scomparsi per non tornare più; Christian li ghermì in un lampo e si fermò per un secondo a studiarli con attenzione, quasi a saggiarne la loro autenticità. Con quello scambio, con il aggio di denaro dalle mie mani alle sue, mi liberai di tutto ciò che mi era rimasto addosso dell’infanzia, me la scrollai di dosso come una pelle diventata ormai vecchia e raggrinzita dopo la muta e compresi finalmente che, per quanto mio padre potesse implorarmi o tentare di riportarmi indietro, il punto di non ritorno era stato attraversato e Titti era stata inghiottita dal fiume del ato. Il presente, ormai, si chiamava Hanil e stava scrutando negli occhi viola più euforici che avesse mai visto in vita sua. - Hanil! Hanil tu sei…Sei incredibile! Ma come…Ma da dove… - Lo vidi rabbuiarsi per un secondo, percependo l’implicazione di ciò che poteva significare quel gesto, immaginando, forse, la provenienza di quel denaro. In un primo momento avevo pensato di mentirgli, di raccontargli una bugia sulla generosità di mio padre ma ormai sarebbe stato impossibile. Quel aggio di soldi ci legava a doppia mandata, mani e piedi, l’una all’altro, ladra a ricettatore, rea a complice, rendendo la distanza tra noi più sottile della lastra di ghiaccio che rimaneva ad incrinarsi, giorno dopo giorno, sul fiume al sopraggiungere della primavera. Gli afferrai entrambe le mani con convinzione e gliele strinsi, facendo crocchiare le banconote nel suo palmo. - Te ne posso portare ancora, se ti servono, devi solo chiedere… - Conclusi arrossendo. Dal fondo del mio cuore, un brivido trovò la strada fino alle mie braccia. - Hanil ma tu sei gelata! Vieni qui, accanto al fuoco! Se c’è una cosa che la mia gente sa fare bene è un bel falò caldo! – Esclamò lui, sfoderando un sorriso irresistibile; non gli dissi che nessun fuoco avrebbe potuto scaldarmi l’animo bugiardo per parecchio tempo, non me la sentii. –Te li restituirò - aggiunse, facendomi accomodare di fronte al falò; la siringa appuntita, ormai deformata, si

squagliava tra le fiamme emanando un fumo acre e fastidioso. – Appena mi arriva Money Gram, girl, ti coprirò d’oro! – Terminò, trionfale. Era una balla grossa come il campanile che sorgeva ancora, tutto storto, accanto alla pieve, lo sapevo, lo sapevano tutti, come le promesse del vecchio George in paese e stavo per dirgli di lasciar perdere, che non c’era bisogno di promettere cose che non si sarebbero potute mantenere, quando lui fece una cosa che mi disarmò completamente: si sedette dietro a me e mi abbracciò forte con entrambe le braccia, tenendomi stretta al suo petto. –Sei tutta la mia felicità, Hanil – mormorò, strusciando il suo naso tra i miei capelli spettinati. Non dissi niente, non feci niente, non aggiunsi niente, a malapena respirai. Al contrario di quanto si possa pensare, non è affatto facile imbrogliare il cuore umano: noi sappiamo, perfettamente, quando qualcuno ci sta mentendo, riconosciamo le note della lusinga nella voce, ci insegnano sin da piccoli che le bugie hanno le gambe corte. Il vero problema viene poi, quando il cuore ha riconosciuto la falsità e invece di smascherarla, decide scientemente di cedere ad essa. Non è facile imbrogliare il cuore umano a meno che egli stesso non decida di imbrogliarsi da solo. E fu così che diventai Hanil la principessa del castello senza soffitto, con un esercito di fiori e di fantasmi a proteggermi ed un cavaliere dagli occhi viola e dai capelli neri che mi giurò fedeltà in ginocchio, di fronte al falò dei suoi avi. Quella sera, dopo che il fuoco si estinse tra le sterpaglie, Chris mi portò a fare un giro nel nostro castello, mostrandomene ogni anfratto: di quel poco che era sopravvissuto al terremoto, Christian conosceva ogni dettaglio. Dedussi che da qualche mese almeno doveva risiedere stabilmente in quei luoghi ed immaginai che fosse sceso più volte in paese per approvvigionarsi, facendo poi perdere momentaneamente le proprie tracce; ecco come aveva fatto, la prima volta, ad accompagnarmi a casa e poi a ripartire, scomparendo con tanta facilità ed ecco svelato il mistero del suo sapere approfondito sul fiume e sui suoi abitanti a otto zampe e più. In pochi mesi di permanenza, Christian aveva conosciuto molto più di me del paese in cui risiedevo da un tempo che mi sembrava infinito e stava iniziando a farmelo vedere attraverso i suoi occhi, da ragazzo sognatore a caccia di avventure. - Come…Vieni con me, girl. – Mi tese la destra ed io gliela afferrai senza pensarci su due volte. –Saliamo su… Gli tenni dietro a stento quando, con mano sapiente, assestò due rapidi colpetti

alla serratura che chiudeva la porta del campanile; qualche scricchiolio e la pesante porta in legno, gonfia per anni di pioggia e neve affrontati senza alcuna manutenzione, cedette al suo tocco. L’aria stantia ed umida dell’interno ci investì con un odore dolciastro ed appiccicoso che non arrestò la nostra andatura: o dopo o, ci arrampicammo sui sessanta gradini in pietra sconnessi che portavano alla sommità del campanile, con le mani aperte ben piantate sulle strette pareti viscide per evitare di rotolare al suolo ed il cuore leggero per la felicità che ci spingeva avanti. - Saliamo ancora, Hanil? Sei stanca? Feci segno di no con la testa, continuando a sbuffare, avanzando, calpestando muschio ed insetti e riempiendo dei nostri fiati la stretta tromba delle scale; chi le aveva scolpite non aveva certo pensato alla comodità del povero campanaro, ma quei gradini grigi e tozzi, che si tenevano aggrappati l’uno all’altro per tentare di rimanere al loro posto, creando geometrie primitive che il terremoto si era accanito a sovvertire e ridisegnare, mi sembrarono la cosa più vicina alla perfezione su cui io avessi mai camminato. E poi ci fu la vista, quando finalmente sbucammo sulla sommità della torre campanaria: la poetica luce argentata dei primi raggi lunari che ci aveva impedito di mettere mille volte i piedi in fallo, penetrando dalle strette feritoie del campanile, era niente se paragonata a quello che vidi da lassù: sembrava di nuotare in un mare di inchiostro e stelle. La cerchia delle montagne, tutt’intorno, appariva vicinissima e quasi tangibile, bastava allungare un po’ le braccia per riuscire quasi ad avvertire la granitica consistenza delle rocce sotto alle dita e poi, giù, come inchinati ai nostri piedi, i tetti del mio paese, irriconoscibili da lassù, delle chiazze indistinte ed assonnate di color mattone sotto alle quale i buoni e i cattivi riposavano senza distinzione. Agli occhi di Dio, da quell’altezza, dovevamo apparire più o meno tutti uguali. E sotto una di quelle macchie di porpora doveva trovarsi anche mio padre, lo immaginai ad aspettarmi, dietro alla porta di ingresso, le pupille affondate nella nebbia della sera in cerca di una qualche traccia che potesse ricondurmi a casa ed un motto di nostalgia mi sorprese. Com’ero lontana, distante anni luce, da quella casa e da quella bambina tanto attesa che non avrebbe più fatto ritorno; al suo posto, una donna avrebbe spalancato l’uscio, che gli pie oppure no, mio padre avrebbe dovuto accettare prima o poi il fatto che ero cresciuta, che le nostre vite erano state cambiate per sempre una notte di alcuni anni prima, che in tutte le esistenze esiste un “prima” ed un “dopo”con il quale doversi confrontare e noi non

avremmo certo fatto eccezione. Guardai più in su, indovinando i contorni di qualche nuvola eggera che rendeva più oscuro il manto della notte, mi domandai se mia madre potesse vedermi, con il suo bambino in braccio, seduta sul suo trono di stelle, forse da quella prospettiva avrebbe finalmente potuto giudicare in maniera diversa il niente che ero ed accordarmi una piccola quota di innocenza per quello che avevo e soprattutto che non avevo fatto. - È il posto più bello che io abbia mai visto. – Dissi a Chris, quando lui si avvicinò a me ed insieme guardammo nuovamente in giù, lungo le strade percorse dagli uomini. –Credo che a parte noi, non ci abbia più messo piede nessuno da quasi vent’anni. In paese, hanno tutti paura… - E tu? Non hai paura, girl? - Mi domandò, inseguendo il mio sguardo e catturandolo appena oltre la balaustra di recinzione del campanile. Mi interrogai in profondità, sondando la mia anima e rimanendo per un po’ in silenzio. Forse avrei dovuto avere realmente paura ma, chissà perché, in quel momento non provavo altro che una felicità senza precedenti, capace di farmi rasentare la sommità delle montagne. - No. – Risposi seria. – Non ne ho. Chris… - Aggiunsi, evitando di guardarlo. – Christian, chi è ewas? - Non potevamo continuare a nasconderci dietro un dito. Mi sembrò che lì, al cospetto dei morti e delle stelle, il momento fosse giusto per discutere finalmente di questo argomento. Gli vidi stringere il ferro della vecchia balaustra con forza e le nocche farsi bianche per lo sforzo, lo sentii inspirare più volte e preferii continuare a non guardare in quei suoi due occhi viola carichi di tensione. Adesso o mai più, pensai: prima che l’adrenalina della sua dose lo abbandonasse, sfinito, forse c’era lo spazio per poterne sapere qualcosa di più su quest’uomo dalla pelle ambrata e dal ato inafferrabile. - Ewas…Ewas è… è il diavolo, Hanil, te l’ho detto. Tu l’hai mai conosciuto, il diavolo? Annuii ed un sorriso triste mi si dipinse sulle labbra. Io lo conoscevo bene il diavolo: aveva due forbici taglienti in mano ed il mio stesso sangue gli scorreva nelle vene eppure, quando tentavo di immaginarne il viso, era il mio, quello che visualizzavo. Forse io stessa ero un demonio, un ewas, solo che nessuno lo sapeva, nessuno a parte me. - Anche io l’ho conosciuto, molti anni fa, avevo 19 anni quando io ed ewas

abbiamo fatto il patto. Ma per ogni patto che si rispetti c’è un prezzo da pagare… - Scosse la testa e tacque, continuando a stritolare il ferro con le sue dita. - Di quale prezzo parli? Chris, non posso aiutarti se non mi aiuti a capire! - Anche mia madre lo incontrò. – Riprese lui, come se io non avessi proferito parola. A quel punto, decisi di non interromperlo più: sembrava che non stesse parlando direttamente a me ma a se stesso, come se stesse facendo una confessione al cielo ed alle stelle, la mia presenza lì, in qualità di spettatrice, era praticamente ininfluente. Così mi trasformai nuovamente nella ragazzina muta cui la gente non prestava attenzione, quella che scompariva dalle conversazioni e dalla vista dei presenti, che si mimetizzava contro la carta da parati dei salotti delle compagne di classe come il camaleonte fa con i rami degli alberi nella giungla; Chris in quel momento aveva bisogno di raccontarsi una storia ed io non lo avrei di certo fermato. - Aveva sedici anni, era giovane e molto carina e lavorava in una stazione per l’oil, per l’oro nero…Faceva i rifornimenti, riceveva le mance, piaceva ai clienti, ce n’erano molti, di tutti i tipi. Ewas era l’unico, però, più ricco e potente di chiunque altro, le promise molti soldi, money, always dirty silly money, mia madre voleva un amore che durasse una vita, ma dovette accontentarsi di qualche ora di nascosto a bordo di una Rolls… e quando non poté più tornare a casa, non aveva altro posto in cui andare se non da ewas a fare il suo patto… “Vogliamo tutte quante un amore che duri una vita” avrei voluto dirgli, con una consapevolezza antica, che derivava probabilmente da generazioni di donne che mi avevano preceduta, mettendo al mondo figlie, per odio oppure per amore, con quel pensiero fisso in testa; mi limitai ad osservarlo, lasciandomi travolgere dalla sua bellezza ferita, da quel suo viso tormentato, cui la barba non fatta da un paio di giorni conferiva un’aura di peccaminosa inquietudine. - Ewas mantenne il patto - riprese Chris, accarezzandosi inconsapevolmente l’avambraccio morsicato dalle punture crudeli di zanzare che non succhiavano ma che iniettavano veleno nel suo corpo con il suo aiuto. – Ewas mantiene sempre il patto. Ma i patti vanno rispettati da entrambe le parti. E l’oro pesa talmente tanto che ti trascina all’inferno per forza, incatenando il tuo cuore senza che tu nemmeno te ne accorga.

Non mi era più chiaro, a questo punto, a chi si stesse riferendo Christian e di chi fosse il cuore che l’oro di ewas, del diavolo, fosse riuscito a corrompere ed a soffocare, se quello di una giovane ragazza Tonkawa spaventata ed in difficoltà, o quello di un uomo dagli occhi viola che bruciava le proprie tracce e si lasciava una piatto annerito dal fumo alle spalle prima di cambiare città, sperando di ricominciare. “Animum debes mutare, non caelum”, mi tornò in mente la massima di Seneca, la sua esortazione ad un amico che sperava, attraverso il viaggio, di liberarsi dai propri demoni. Stavo nel frattempo iniziando a mettere assieme i pezzi. - Il mio patto con ewas dura da sei anni quasi; a volte mi sembrano sei secoli, a volte desidererei che questi giorni non finissero mai. Lui mi ha fatto ricominciare, mi ha dato un’altra chance. – Mi diede le spalle ed iniziò, mestamente a ridiscendere i gradini del campanile, senza accertarsi che io lo stessi seguendo o meno. - Aspetta, Chris! – Gridai, tentando di tenergli dietro; a questo punto avevo bisogno di sapere la cosa più importante di tutte, prima che quella confessione finisse e che il mondo, con tutti i suoi richiami, ricominciasse a fare breccia nelle nostre vite. C’era mio padre e c’era Giuseppina, c’erano scuse da inventare e un altro genere di patto, quello con Barbara e Laura, in qualche maniera da onorare, per certi versi così simile ai patti che stava descrivendo Christian e poi c’era tutto il resto della mia vita, il mio futuro, da srotolare piano, come un tappeto pregiato da maneggiare con la massima cautela. “Ma da domani” mi dissi, convinta. Questa sera era una serata speciale, per Christian e me e per nessun altro. - Chris, ti prego! Tu che patto hai fatto? Che cosa hai promesso in cambio? – Gli domandai, correndo a perdifiato giù per i gradini scoscesi, senza riflettere su dove stessi mettendo i piedi; sapere e comprendere, mi sembravano in quel momento le uniche due ragioni per cui valesse la pena vivere. - Oh, Hanil… La mia anima, la mia vita. Non capisci? È solo questione di tempo ma so che lui verrà a riscuotere quanto gli spetta, prima o poi. Tre erano le cose di cui ero assolutamente certa mentre discendevo nuovamente verso il paese, alcune ore dopo la mia ascesa al campanile; avevo lasciato Christian addormentato, esausto, accanto ai resti del suo falò spento. Di sicuro,

per quella notte, non sarebbe scomparso da nessuna parte. Incapace di restare sveglio, travolto dalla stanchezza che lo aveva ghermito all’uscita del trip in cui la droga doveva averlo proiettato, si era assopito, sdraiato accanto a me, sulle mattonelle bianche e nere della chiesa sconsacrata. Mi aveva chiesto di cantargli una canzone, “a lullaby” e si era addormentato senza accorgersi del violento rossore che mi aveva colta quando, con la mano, provando ad avvicinare i nostri due corpi, si era fermato sul mio seno acerbo e ne aveva percepito i contorni con le dita, oltre il tulle imbottito che avevo indossato prima di uscire. Per un lungo, lunghissimo secondo, mi si era arrestato letteralmente il cuore. Mi alzai a fatica, scostando lentamente la sua mano dal mio petto e mi accertai che stesse ancora dormendo, ascoltando il suo respiro pesante e regolare, chiedendo mentalmente scusa al Signore, o alle stelle o a chiunque fosse in quel momento in ascolto, per aver violato il silenzio prezioso ed incontaminato di quella valle con la mia voce che intonava, a stento, alcune note tratte dal film “La Sirenetta”, le uniche che mi erano venute in mente per rispondere alla richiesta del mio Bell’Addormentato. Mi rassettai i pantaloncini e la camicetta e recuperai la mia bicicletta, preparandomi ad affrontare, da sola ed al buio, un percorso che ormai stava diventando parecchio familiare a tutti i miei organi di senso; ripensai alla prima volta che ero arrivata al cospetto di questa Pieve, terrorizzata, disperata, arrabbiata, sola ed a come ne ridiscendevo adesso, vigile, riflessiva, adulta. Punto primo: la madre di Chris doveva averlo avuto molto giovane, probabilmente con qualche cliente, di nascosto dai suoi genitori che non dovevano averla più voluta, una storia peccaminosa degli anni settanta, che non poteva averle lasciato molta scelta. Questo fantomatico Ewas poteva essere il suo datore di lavoro, il padrone dell’oil, un uomo anziano, ricco e potente, che in cambio di soldi per lei ed il bambino doveva averle chiesto qualcosa di terribile, che doveva averla uccisa. Perché, punto secondo, da come ne parlava Chris, ero sicurissima che anche sua madre fosse morta e che questo fatto avesse qualcosa a che fare con ewas ed il suo famigerato patto. Ed infine, terzo punto, lo stesso uomo ricco e potente, lo stesso ewas, che nulla doveva avere di ultraterreno pur possedendo una natura luciferina ed insaziabile, poteva essere la persona cui anche Chris si era rivolto, in un momento di grande difficoltà. Per sua stessa ammissione, quest’uomo lo aveva aiutato a ricominciare, che equivaleva a dire che lo aveva reso un fuggitivo, da circa sei anni, gli aveva messo una moto potente in mezzo alle gambe e lo aveva invitato alla fuga, fuori dagli Stati Uniti, fuori dalla sua riserva indiana, verso un mondo nuovo, lontano un milione di

miglia dal proprio ato, da ciò che Chris aveva o credeva di aver commesso. Chiunque fosse quest’uomo, pensai con spavalderia, non gli avrei permesso di avvicinarsi a Christian nemmeno per un attimo, me ne sarei fregata dei patti e delle ricompense, avrei protetto il mio amore con tutte le mie forze. Naturalmente ammesso che il mio amore avesse deciso di volersi far proteggere da una come me. “Sei tutta la mia felicità, Hanil…”. Con la melodia della voce di Chris nelle mie orecchie e la sensazione delle sue braccia virili che mi avevano stretta, solo un’ora prima, spalancai la porta di casa e trassi un profondo respiro. Mio padre, esattamente come lo avevo immaginato, stava dormendo, con il viso affondato contro il bracciolo della poltrona, un grosso libro di economia e finanza abbandonato, aperto, sulle sue ginocchia e la televisione accesa ma senza l’audio, segno inequivocabile del suo tentativo di percepire i rumori provenienti dal di fuori. Non fui capace di dargli un bacio, rimasi ad osservarlo in silenzio, per alcuni minuti, domandandomi mentalmente che cosa avrei fatto, di lì in avanti: per quanto tempo ancora sarei stata capace di mantenere la finzione? Voltai lo sguardo sui mobili del soggiorno che mi restituirono diverse fotografie, tutte mie, scattate negli anni della mia infanzia: Titti che sorrideva all’obiettivo, reggendosi al dito della mamma, Titti, con due buffi codini in testa ed una cartella rossa sulla schiena nel suo primo giorno di scuola e ancora Titti imbronciata con gli stivaletti per la pioggia addosso, Titti… Non c’era spazio per Hanil in quella casa, per il sentimento potente che stava mettendo radici nel suo cuore. Christian aveva detto che sua madre aveva appena 16 anni quando aveva conosciuto l’amore che avrebbe desiderato durasse per sempre, io ne avevo 15, eppure il desiderio era comune. Lei non aveva più potuto tornare a casa. Avrei potuto farlo io? Immaginai le labbra di Christian su di me, le sue mani nuovamente sul mio seno, la sua bocca che esplorava zone, del mio giovane corpo, di cui a stento conoscevo io stessa l’esistenza e la consistenza ed un desiderio irresistibile di essere toccata, accarezzata, di diventare parte di un altro essere mi invase, colorandomi le guance e riscaldandomi il sangue. Avevo studiato a scuola la riproduzione umana, dal punto di vista prettamente “tecnico” sembrava una cosa meccanicamente scomoda, una cosa da introdurre in un’altra cosa, posizionata in una maniera tale per cui il magico incastro poteva essere piacevole o mortalmente spiacevole per una o per entrambe le parti della coppia; l’avevo affrontata con un interesse puramente scientifico, come avevo fatto con il sistema respiratorio o con quello circolatorio in terza media ma, mi resi conto con rammarico, nessuno degli schemi sul libro di scienze avrebbe mai potuto

prepararmi per quello che sentivo ora, dentro ogni fibra del mio essere. La riproduzione aveva un unico fine, quello da cui prendeva il proprio nome: era l’atto con cui due vite generavano una nuova vita. Immaginai la ragazza di 16 anni, con gli occhi viola di Christian ed il fisico asciutto di Laura, salire su di una grande macchina americana, elegante come Barbara, tremante, come ero stata io la prima volta che Chris mi aveva presa tra le braccia, con l’unico desiderio di piacere all’autista, la vidi spogliarsi e poi rivestirsi e ridiscendere da quella stessa macchina cambiata dal di dentro, pazzamente felice, incredibilmente triste, con una vita normale troppo stretta ed una pancia che si allargava a dismisura. Avrei fatto anche io quello che aveva fatto lei, la sua stessa fine? Ero diventata signorina da un pezzo ma non avevo ancora collegato la scomodità del ciclo alla possibilità di fare un figlio. Ci pensai lì, per la prima volta, nel salotto di casa mia, all’eventualità di diventare madre, di unire carne a carne per generare una vita, di fronte a mio padre che, nel sonno, continuava a borbottare come una caffettiera lasciata troppo a lungo sul fuoco: non c’era nient’altro che lui potesse fare per me. Avevo bisogno di Barbara, dei suoi “profilati” di cui ora cominciavo ad intuire lo scopo, avevo bisogno di qualcosa di vagamente simile ad una madre o, in assenza di lei, di una donna disponibile a discutere di queste cose con un’altra donna, con me. E, ancora, avevo bisogno di Christian, un bisogno disperato ed assoluto che lui mi portasse via da quella vita infantile che ormai era stata completamente demolita, un po’ come aveva fatto il terremoto con la vecchia Pieve, lasciando solo spaesati fantasmi e scalini mozzi. Andai in camera senza svegliare mio padre, non avrebbe avuto senso dirgli che ero tornata a casa: quella che si spogliò quella sera e si mise a letto era solo un simulacro, un fantoccio, la vera me, in quel momento, stava facendo qualcosa che assomigliava all’amore, per la prima volta nella sua giovane vita, sul pavimento di una chiesa sconsacrata, assieme ad un indiano dai capelli neri.

***

La felicità è una cosa strana: ci toglie le parole dalla mente e le sostituisce con le visioni, aumenta le nostre percezioni ed, improvvisamente, trasforma il mondo sotto ai nostri occhi, dilaga nel nostro cervello come un’inarrestabile marea che tinge dei propri colori tutto ciò che tocca. La felicità è come una droga, la più

potente ed ineffabile, l’uomo, nei secoli, ha provato a replicarla, a sintetizzarla ma non c’è niente di vagamente simile alla felicità umana ed io, in quella manciata di giorni di agosto, divenni dipendente da essa. Come descrivere quelle mattinate in cui mi alzavo tardi, stringendo le lenzuola umide di sudore tra le cosce, immaginando fossero le mani e le braccia di Christian che desiderava are un’ora ancora abbracciato a me. Mi lavavo sommariamente il viso, mi vestito con degli stracci casuali e poi rimanevo, assorta, a contemplare la vita, ignara, degli abitanti che la condividevano con me; mio padre, evidentemente in ferie, leggeva il giornale e cucinava le sue frittate, ogni tanto mi sorrideva, vagamente incuriosito dal mio cambiamento di umore, dal fondo della sua poltrona preferita ed io gli sorridevo di rimando, la mente protesa al prossimo furto escogitava, nel frattempo cento, mille modi diversi per non farsi scoprire da lui, ma soprattutto, da lei. Giuseppina, la strega sicula, era ben più difficile da imbrogliare: pur non avendo più il fedele piattino rivelatore, era ancora capace di farmi arrossire con una semplice, prolungata, occhiata; ai suoi sguardi penetranti di donna che molto aveva taciuto di ciò che, nel corso della propria esistenza, doveva aver visto, non poteva essere sfuggito il sottile cambiamento nella maniera con cui, adesso, avo dei quarti d’ora di fronte allo specchio, oppure nel modo in cui mi accarezzavo di nascosto le gambe o le braccia, saggiando la morbidezza della mia carne. Giuseppina sapeva, sapeva e taceva, lei sola riusciva a mandarmi in confusione, rischiando di frantumare il mio piccolo piano criminale. Fortunatamente, il mio essere felice rendeva mio padre ancora più felice e, quasi, rilassato, in quei giorni accaldati di agosto e se Giuseppina borbottava qualcosa, sputacchiando o facendo gesti e segni scaramantici verso di me, bastava una un mio sbuffo disperato appena accennato per far ruggire il vecchio leone che credeva ancora di essere il mio fidanzato. - Giuseppina, vuoi lasciarla in pace? È solo una bambina! – Giuseppina cedeva momentaneamente le armi, ritirandosi in cucina a pulire la sua amata rucola, smozzicando antichi rituali e maledizioni nella sua lingua che non volevo nemmeno sentir pronunciare ed io sghignazzavo sotto ai baffi, inanellando una nuova vittoria. In fin dei conti, ero solo una bambina e come tutte le bambine uscivo per fare i compiti per casa assieme ad una amichetta, non poteva esserci niente di male in tutto questo. E allora via: prima un aggio in ingresso, dove sottraevo qualche soldo al portafogli di mio padre, quindi in camera mia, a recuperare il mio vocabolario di greco da inserire nello zaino. Ovviamente, non traducevo più una versione da quasi due mesi ma quel vocabolario, il solo libro sulla faccia della terra che

detestassi più della rucola e di Giuseppina messe assieme, aveva una caratteristica sorprendente: era pesante e vistoso. Così me lo caricavo sulla schiena, senza dimenticare la trousse contenente i trucchi e le creme di mia madre, anche questi finivano nello zaino, inghiottiti e resi invisibili dalle pagine di greco che non avrei mai sfogliato e la trasformazione era completata: una brava bambina che andava a lezione, solo che le lezioni erano lezioni di vita, impartite da professori e professoresse che mio padre non avrebbe di certo approvato. Mi ero fatta spavalda, nei miei movimenti, ero rapida come hanil ma viscida e infida come senan, il serpente velenoso, corrosa dal desiderio, stupita dalla facilità con cui mio padre si lasciava abbindolare da me. –Ti piace il mio orologio, papà? – Gli chiedevo, sventolandogli sotto il naso il polso ancora infantile, con il cinturino sotto cui spuntava un angolo di banconota bianca che lui non notava mai. Del resto, ero praticamente certa che anche mio padre avesse molto da fare, in quelle stesse giornate estive: il pomeriggio, subito dopo pranzo, sembrava che entrambi venissimo presi dalla medesima febbre. Lui si chiudeva in bagno per una mezz’ora buona, ne emergeva rasato e pettinato di tutto punto, profumato come se avesse fatto la doccia sotto l’acqua di colonia e mi tendeva la mano. Uscivamo assieme io e mio padre, era una cosa che non facevamo più da parecchi anni ormai. Ci salutavamo in silenzio, alla prima curva, un po’ impacciati, come due indiziati prima dell’interrogatorio, incerti sulla fiducia da accordare al proprio complice, timorosi di guardarci in faccia per leggerci, sul volto, incisa a caratteri cubitali, ciascuno la propria colpa. Era una specie di patto tacito: io non facevo domande su una spesa quotidiana che durava tre ore e che non riempiva mai il frigorifero di casa e lui evitava di chiedersi quanto lunghe potessero essere quelle versioni, da richiedere pomeriggi e serate intere di studio, neanche avessimo avuto da tradurre l’intera Iliade. Semplicemente, ognuno di noi tradiva e taceva. Lui si fermava al negozio della signora Isabella io, invece, proseguivo verso la casetta maledetta della strega di Hansel e Gretel, luogo in cui mi aspettava, impaziente, la mia prima insegnante. Le lezioni, dentro quella che, solo da fuori, aveva l’aspetto di una bomboniera, erano pratiche e brutali: data la mia magrezza e la mia capacità di muovermi senza fare alcun rumore, a me spettava il compito quotidiano di taccheggiare la signora Giovanna; entravo ed uscivo più volte dalla sua minuscola bottega attraverso la porta di servizio, aspettando, acquattata nell’ombra delle scale che conducevano alla sua abitazione, che l’ultima cliente se ne fosse andata, per poter entrare in azione. Penetrare nel negozio, strisciare sotto agli occhi velati

dalla cataratta della nonna di Barbara, agguantare biancheria, corpetti, giarrettiere e calze a rete dai cestini e dalle vetrine e rientrare, con il fiato mozzo per la paura e l’emozione, dentro la casetta degli orrori, gettando il mio bottino sul lurido materasso che fungeva da pavimento ed, insieme, da giaciglio per Barbara ed i suoi occasionali spasimanti durava meno di dieci minuti, minuti necessari, continuavo a ripetermi, senza i quali non avrei mai potuto ottenere l’interesse dell’uomo che amavo. E poi io pagavo per quelle lezioni: diecimila lire per ogni pomeriggio ato in quello squallido rifugio per adolescenti interrotte; solitamente, tremante e scossa dall’adrenalina che mi pompava nelle vene, iniziavo con il vomitare il pranzo appena fuori dalla porticina della casetta. Barbara non si faceva scomporre dai rimorsi tardivi della mia coscienza che avano attraverso i moti delle mie viscere: aspettava, in silenzio, che io mi fossi rialzata e ripulita, quindi batteva con eleganza una mano accanto a lei, invitandomi a prendere posto sul materasso e l’addestramento aveva inizio. Come abbinare correttamente reggiseno, mutandine e giarrettiera, come camminare sui tacchi alti senza rotolare al suolo, come ancheggiare, dove massaggiare, in quali zone appoggiare le mani, cosa stringere e cosa tirare, come usare gli occhi, la voce e la lingua, a quali domande rispondere, quanto sospirare, quante gocce di profumo mettere e dove per far impazzire un uomo. Barbara era loquace e mi sommergeva con un fiume in piena di consigli ed ordini, mi spogliava e mi rivestiva con malcelato piacere, tra le sue mani ero una bambola di pezza, ubbidiente e taciturna, ero la sua creazione più riuscita, una sua copia più magra ed acerba, con una luce da gatta in amore negli occhi ed il pudore di una vergine quasi pronta per il proprio sacrificio. Il vocabolario finiva immediatamente sotto al materasso, dimenticato, al suo posto saltavano fuori creme e lozioni, ombretti e matite colorate; di ogni marca, Barbara conosceva prezzi e qualità, era una specie di enciclopedia della beauty farm; non sapevo chi le avesse insegnato tutte quelle cose o da dove derivasse la sua conoscenza: i suoi genitori erano morti in un incidente d’auto quando lei era ancora molto piccola e mi riusciva difficile immaginare la signora Giovanna, una pigra matrona cieca, che la prendeva per mano e le insegnava come infilare un preservativo al momento giusto evitando così i rischi di una gravidanza indesiderata. Doveva esserci tutta una rete di informatori e informazioni che scorreva, sotterranea, evidente solo a chi desiderava realmente coglierla, tra la chiesa e la scuola e la pizzeria Allodola, un mondo di conoscenze cui anche io ero stata, incredibilmente, ammessa. Era bastato accendere l’interesse della regina Barbara per poter ottenere un posto privilegiato alla sua corte. Perché le

lezioni non terminavano certo dentro a quella casetta per inesistenti bamboline: da lì uscivamo in bicicletta, truccate di tutto punto, con lo zaino carico di vestiti, altri trucchi e magiche pozioni, dirette alla volta dell’ Allodola; dentro a quei bagni luridi si compiva definitivamente la mia trasformazione, la minigonna aderente sostituiva i pantaloncini da maschiaccio, la canottiera scollata prendeva il posto della maglietta stampata con i personaggi dei cartoni animati, prima di entrare in quei bagni ero semplicemente una bimba con la faccia sporca di rossetto e, quando ne uscivo, ero una donna misteriosa ed affascinante, che attirava più di qualche sguardo di voluttuosa ammirazione sul proprio fondoschiena. Venivamo fuori da quei servizi, che ben poco avevano di igienico, tenendoci a braccetto, io e Barbara, l’allieva e la maestra, unite da un’alchimia viscerale incomprensibile. Lei mi esibiva, come una scimmietta ammaestrata, mi faceva accomodare al bancone, mi faceva ordinare da bere, mi metteva alla prova, saggiando i miei limiti con una luce da lupa negli occhi. Gli uomini ci ronzavano attorno come falene attratte dalla fiamma, le loro lingue proferivano parole e sciorinavano proposte per le quali Giuseppina avrebbe baciato sette volte il rosario, le loro mani ci sfioravano in maniera assai poco casuale, le loro braccia ci obbligavano a stare in equilibrio sulle loro ginocchia. Io tremavo come una foglia, ad ogni tocco, ad ogni proposta, ad ogni ruvido abbraccio, ad ogni fiato caldo che mi si appiccicava sul collo reagivo con uno scatto nervoso che, in genere, suscitava qualche scoppio di risa sguaiate. - È tutta scuola… - Mi sussurrava Barbara all’orecchio, accarezzandomi pigramente un braccio e strizzandomi un occhio complice. Quell’esposizione durava almeno mezz’ora, durante la quale gli sguardi carichi di qualcosa di molto simile all’odio di Laura, l’amica abbandonata per causa mia, anch’essa un habitué del locale da ben prima della mia educazione sentimentale, non mi lasciavano un solo secondo. Quando, finalmente, la mia maestra aveva trovato qualcuno di più interessante con cui appartarsi, mi concedeva graziosamente il permesso di andarmene ed io saltavo giù dal bancone, in mezzo ad un coro di fischi delusi, acquistavo qualche panino ed alcuni sacchetti di patatine, caricavo nuovamente il mio zaino e ripartivo, con il pianto incastrato tra le ciglia ed un disgustoso sapore amaro in gola, a bordo della mia bicicletta fedele, alla volta della mia felicità. Pedalavo verso la mia gioia, piangendo a dirotto, per la mia infanzia perduta, per tutte quelle cose sul mondo che andavo scoprendo, in una maniera così carnale e violenta, per tutte le bugie che, negli anni, mia madre e mio padre e i miei romanzi preferiti mi avevano raccontato, perché, alla fin fine, i rapporti tra sessi non erano altro che uno squallido gioco ad incastri che si consumava nei cessi di una pizzeria inqualificabile.

- Chriiis! Oh Chriiis! – Urlavo a squarciagola, al termine della salita, inspirando a pieni polmoni l’aria purificatrice della montagna, riempiendomi la bocca con il suo nome; gli correvo incontro e gli saltavo al collo. Lui era lì, era sempre lì: a volte lo trovavo che riposava dentro il nostro castello senza soffitto, altre volte mi appariva di fronte, sbucando da dietro l’ultima curva, come se il suo sesto senso indiano avesse potuto avvertirlo del mio silenzioso arrivo. Mi prendeva tra le braccia e mi faceva volare in alto, più vicina a quel cielo azzurro e senza nuvole che si inghiottiva le nostre grida e le nostre parole, mi faceva volteggiare sospesa, sulle note della musica della sua tribù, una musica antica che Christian padroneggiava molto bene, suonandone i bassi e gli acuti dentro un flauto dal suono dolcissimo. Come tutti i suoi avi, Christian era anche un grande cantastorie: mi raccontava per ore le leggende della sua tribù, le canzoni che, per anni, la sua gente aveva composto, i canti di guerra che avevano intonato i guerrieri e i cacciatori, sulla piste percorse per inseguire awasatak, i possenti bisonti delle praterie e quelli, pieni di ione, che avevano scritto le donne per i loro giovani amanti. Io lo stavo ad ascoltare per ore, affascinata, sdraiata sul pavimento a piastrelle bianche e nere, con un filo d’erba tra i denti, la minigonna scomoda che risaliva pericolosamente lungo le ginocchia, desiderosa di cogliere, nel suo sguardo lontano, che bucava il ato e resuscitava i miti, un’occhiata di vero amore diretta soltanto a me. Perché Christian era indiscutibilmente felice di vedermi, le mie visite, lo aveva confessato, gli arrecavano un piacere infinito ma io non ero affatto sicura di piacergli, almeno non quanto lui piaceva a me. Mi aveva promesso che non sarebbe più sceso in paese ad approvvigionarsi di quella maledetta cosa che si era iniettato in vena quel giorno davanti al fuoco e, per quel che ne sapevo, stava apparentemente mantenendo quella promessa. –Niente più spade, Hanil, te lo giuro - mi ripeteva, con un sorriso obliquo che mi accendeva il sangue nelle vene. Le spade erano le iniezioni, un nome poetico, di altri tempi, adatto ad una cosa che può tagliarti in due il cuore con la facilità con cui un ago ti penetra in un braccio. Volevo disperatamente credere alla sua parola e verificavo, con l’occhio attento del padrone al mercato degli animali, che i segni, sulle sue braccia non aumentassero in numero o in estensione. Per il momento, Chris era pulito, il suo sguardo sgombro da ragnatele testimoniava la sua lucidità. Mi aspettava lì, alla fine della salita, con un sorriso sulle labbra ed un pentolino sul fuoco da campo. Riscaldava i panini che gli portavo. - Mangia, girl, mangia! – ed io mangiavo, delusa dal fatto che di me, del mio corpo che stava sbocciando sotto ai suoi occhi, lui non riuscisse a notare niente di più di una ragazzina che non si nutriva a sufficienza. Accettava le banconote che gli

porgevo guardando a terra, le faceva scivolare in una piccola borsa di pelle che teneva appesa alla cintura, dentro alla quale schioccavano due piccole pietre scure da cui non si separava mai e diventava, per qualche secondo, improvvisamente silenzioso. - Se solo arrivasse Money - gram, girl, potrei restituirti il doppio di quello che mi dai…. - Non ti preoccupare, Chris, davvero, io ne ho molti… - Lo rassicuravo sorridendogli. –Non sentirti in debito con me. E invece sì, una piccola, sordida parte di me, la parte che assorbiva le lezioni di Barbara all’Allodola, desiderava disperatamente stabilire un legame, di qualsiasi tipo, fosse anche la semplice necessità di ripagare un favore, voleva creare una nuova dipendenza con cui sostituire quella vecchia. “Finché avrà bisogno dei tuoi soldi, dei soldi di tuo padre” mi correggeva Valentina acida “starà qui ad aspettarti, sarà qui per te…”. Non avevo il coraggio di domandarmi che cosa sarebbe successo poi, quando mio padre fosse ripartito, a fine ferie, per i suoi soliti viaggi di lavoro portandosi via il suo portafogli gonfio di soldi. Per quel giorno, speravo ardentemente che Christian si fosse innamorato finalmente di me. Non riuscivo ormai ad immaginare altro futuro se non uno che ci vedesse insieme. - Ma insomma, ti ama? Te l’ha detto? L’avete fatto? Ti ha toccata? Hai stretto le gambe come ti ho insegnato? – Barbara mi sommergeva di domande quando, dopo il tramonto, ritornavo all’Allodola a cambiarmi, ebbra di felicità, con il cuore leggero e le gambe a pezzi per la pedalata. Negavo, scuotevo la testa da destra a sinistra fissando il pavimento ed arrossivo, non volevo parlare, raccontare dei miei sogni, delle piccole cose che io e Chris facevamo insieme, che a me apparivano tutte così importanti e che poi, riferite ore dopo, di fronte a quelle piastrelle macchiate che, negli anni, dovevano aver sentito e visto di tutto, diventavano improvvisamente insignificanti come la mia figura, privata degli orpelli, dei vestiti di due taglie più grandi e del trucco, lavato via dal latte detergente che si portava con sé anche tutta la mia sicurezza. Ed ero nuovamente una ragazzina di quindici anni alle prese con le prime pene d’amore, bisognosa di un consiglio, senza nessuno cui chiedere, nessuno a parte Barbara. Allora smozzicavo parole, raccontavo cose a metà, cercando di evitare i dettagli, nascondendo ciò che, all’istinto da segugio della mia maestra, sarebbe potuto apparire come troppo interessante per non farle desiderare di seguirmi, prima o poi, lungo la stradina per l’antica Pieve, che mi assicuravo di percorrere, sempre, da sola. Non volevo rivelare a nessuno la posizione esatta del mio castello senza

soffitto, temevo che, se Barbara con il suo fascino fatale, oppure Laura con le sue lunghe ciglia si fossero avvicinate troppo a quello che consideravo ormai il mio posto, lo avrebbero immediatamente ed irrimediabilmente contaminato, attirando il brutto tempo e la mala sorte su di me e su Christian con la stessa facilità con cui il parafulmine compie il proprio lavoro, in una giornata di pioggia. Facevamo insieme la strada del ritorno, Barbara ed io; da lontano, chiunque ci avrebbe scambiate per due amiche del cuore, inseparabili, affiatate; da vicino, vittima e carnefice barattavano banconote rubate e silenzi carichi di tensione in cambio di trucchi ed esperimenti di seduzione.

***

- Come sto? – Mi chiese mio padre quel pomeriggio: era appena venuto fuori dal bagno in cui aveva sostato per l’ultimo quarto d’ora e si era fermato, in punta di piedi, sulla soglia della mia camera da letto. Osservai il suo riflesso dallo specchio, di fronte al quale stavo tentando di pettinarmi: i codini si addicevano a Titti, e, secondo Barbara, anche a me: incorniciavano il mio viso magro conferendogli un tocco di infantile sensualità. A detta della mia maestra, con i codini ed un lecca lecca da succhiare tra le labbra brillanti per il gloss, sarei stata irresistibile come una piccola mela da cogliere al volo ed addentare, per sentirne la polpa acerba e dura crocchiare tra i denti ed il palato. - Bene - gli risposi, sistemando il secondo codino. Continuai a guardarlo: aveva indossato una vecchia t - shirt a maniche corte, che gli aderiva al bacino mettendo in evidenza il suo fisico asciutto ed i pettorali appena accennati; non gli avevo mai visto addosso quella maglietta, o, forse, era un residuo del nostro prima, quando eravamo ancora una famiglia vera e mia madre stirava la biancheria, riponendola nei vari armadi. Non avevo mai visto mio padre così: euforico, trasognato, vagamente intimidito da me, realizzai dopo qualche attimo di sconcerto e strabuzzai gli occhi, continuando a lisciarmi i capelli ormai a posto da un pezzo: stava di fronte a me in attesa del mio parere, come lo scolaretto che aspetti il voto dalla maestra per il suo primo compito in classe. Promosso o bocciato? Poteva andare bene, quell’abbigliamento, per la spesa fantasma? In altre parole, sarebbe piaciuto agli sguardi ammiccanti della signora Isabella? Non ci potevo credere: mio padre mi stava chiedendo un parere ed un

parere da donna. - Molto giovanile… - Aggiunsi, masticandomi le labbra. Lo vidi abbassare lo sguardo e arsi una mano, riflessiva, tra i capelli: adesso si stava vergognando, si stava vergognando di fronte a me! Se solo avesse saputo… - Ridicolo, eh? – Commentò. – Ma che cazzo… - Borbottò, spostandosi dalla mia soglia. Avrei voluto richiamarlo e dirgli che non era vero, che non era affatto ridicolo, che il suo fisico, sciupato da ore di voli e viaggi in giro per il mondo, era ancora comunque molto bello, che la maglietta senza maniche gli conferiva un aspetto da monello cui non si può resistere ma non dissi niente, una piccola punizione per il mio fidanzato traditore. Tanto, soggiunsi mentalmente quando lo vidi uscire dalla sua camera con l’immancabile camicia addosso e la t - shirt appallottolata in una mano, la signora Isabella sarebbe stata maggiormente interessata a ciò che stava sotto ai vestiti, di qualsiasi foggia fossero. Era un pensiero adatto a Barbara, quello che avevo appena generato, Titti non si sarebbe mai sognata di concepire un’immagine simile: il suo papà che salta addosso alla moglie del salumiere. Ma Titti, ormai, sembrava esistere soltanto nelle vecchie foto di famiglia e non aveva più voce in capitolo. “Rimandato a settembre” decisi, dopo aver salutato mio padre, con una semplice stretta di mano, alla solita prima curva, quella che divideva i nostri sogni immettendoli su due corsie parallele e continue: forse, dopo tanti anni ati con me e con Giuseppina, due esseri femminili inguardabili sotto qualsiasi altro punto di vista che non fosse quello dell’affetto, la sua sicurezza da uomo convinto di piacere doveva essergli venuta meno. Avrebbe avuto bisogno di un’insegnante, una come Barbara, che lo ripreparasse a settembre, per gli esami di riparazione in rapporti umani: da questo punto di vista, io, con i miei quindici anni ed i codini, ero andata avanti anni luce, rispetto a lui e di questo pensiero mi compiacqui masticandomi un’unghia con piacere. Anche i segni sulle braccia stavano scomparendo, la maga della peste si stava rapidamente trasformando nella signora della seduzione; il mio corpo, mi aveva detto Barbara, era l’unica arma che avevo per attrarre il mio uomo. Violarlo, lì dove poteva essere visibile a chiunque, avrebbe sortito l’effetto opposto. L’arte della perfezione richiedeva fatica e costanza, teoria e pratica, studio ed esercizio ed io mi applicavo, diligente, teoria dentro la casetta degli orrori, master in furto, diploma in taccheggio, laurea honoris causa in trucco, attestato di partecipazione in

biancheria intima coordinata e poi c’era la pratica, quella era la parte più complicata, con gli uomini dell’Allodola, resistere alle loro dita, imibile di fronte alle loro battute, immobile, sotto alle loro carezze. Più si accendevano più io mi avvicinavo alla meta, più ne eccitavo le fantasie, maggiormente affinavo le mie arti da geisha, più proposte indecenti ricevevo, più mi sembrava di diventare donna. Nessuno aveva riconosciuto in me la ragazzina muta e spaurita che, solo alcuni giorni prima, era entrata in quello stesso posto in cerca di una maestra: io e Barbara eravamo le regine dell’Allodola; gli uomini parlavano di noi, non di due adolescenti col moccio al naso ma di due donne, incredibilmente belle, che facevano coppia fissa, che rubavano i sogni e le notti con il loro fascino a chiunque le avesse incontrate. Purtroppo tutta la mia baldanza scompariva quando uscivo dal locale e inforcavo la bicicletta per pedalare verso la Pieve: perché di quegli uomini, soldati, ragazzi comuni, abitanti del paese che, sotto le spoglie del macellaio o del postino mi salutavano, salutavano Titti la bambina muta e suo padre, con un cenno annoiato la domenica a messa, non mi importava niente, che mi amassero o mi odiassero mi era ormai totalmente indifferente. Di Christian, invece, non ero mai sicura, di ciò che provava o non provava per me; non mi aveva ancora baciata, nemmeno una volta e quell’attesa spasmodica per qualcosa che desideravo con tutta me stessa ma che finiva per non arrivare mai mi stava facendo rapidamente impazzire. - Bastardo! Maledetto bastardo! – Udii distintamente la voce di Barbara, carica di odio elettrico, arrochita da sigarette e lacrime, esplodere da dietro la porticina della sua casa delle bambole e mi immobilizzai, senza sapere esattamente cosa fare; lei era lì dentro, come ogni pomeriggio, questo era sicuro ma quello che stesse succedendo in quel momento non riuscivo proprio ad identificarlo. Di solito lei mi aspettava, seduta sul materasso, i trucchi in una mano, una lattina di birra rubata chissà dove nell’altra, le labbra lucide e gonfie, come se fosse appena tornata da un appuntamento galante e la musica metal che ti spaccava i timpani penetrando dentro ogni cellula del tuo corpo, l’unica musica capace di darti il brivido giusto per una scopata, a detta sua, ma stavolta non c’era musica, oltre al rumore sordo dei suoi singhiozzi. Socchiusi incerta la porta della casetta ed un rossetto mi colpì sul braccio. - Vattene al diavolo! – Gridò con quanto fiato aveva in corpo. Chiusi l’uscio alle mie spalle e mi sedetti, a una distanza prudente, sul solito materasso macchiato, tentando di mettere a fuoco le immagini: nella penombra della casetta, con entrambe le finestrine socchiuse da cui filtrava qualche raggio di sole polveroso, vidi i miei trucchi, i trucchi di mia madre, sparsi di qua e di là, la sua trousse

rovesciata e svuotata giaceva, spalancata, in un angolo dell’angusto locale. Estrassi il vocabolario dallo zaino, lo appoggiai come al solito in un punto qualsiasi del materasso e poi, in silenzio, iniziai a raccogliere i pezzi di mia madre, arrabbiata con Barbara, perché aveva toccato le mie cose, inquinandole, senza chiedermi alcun permesso e con me stessa, perché alla fin fine glielo avevo permesso io, facendole credere che tutto, di me, la mia anima, la mia storia, potesse appartenerle, in cambio della possibilità di giocare a trasformare il mio corpo. Piantala! – Sibilò diretta a me, asciugandosi il viso con entrambe le mani. La ignorai, digrignando i denti. – Piantala! – Ripeté, ficcandomi una fotografia a colori sotto al naso. Mi fermai ad osservarla, tentando di capire: ritraeva una coppia di sposi di mezza età, lei, una grassa signora infagottata in un abito che la faceva assomigliare ad una specie di enorme meringa glassata e lui, un pingue pavone con la pancia e gli occhiali ed il viso vagamente familiare, che l'abbracciava, puntando con noncuranza l’obiettivo. “Alla mia bambina di oro” c’era scritto dietro la fotografia. Guardai nuovamente la foto, i ritratti di quei due idioti, sospesi tra la consapevolezza e l’ottundimento dei sensi, annegati dal bianco del vestito di lei, esageratamente rilucente e poi Barbara, con il viso tirato e le occhiaie bluastre, continuando a non capire. Stringeva convulsamente un braccialetto, un semplice elastico cui erano stati infilati una decina di camli d’argento che trillavano ad ogni scatto nervoso delle sue mani e fissava quella fotografia con un’intensità tale che avrebbe potuto quasi appiccarle il fuoco con lo sguardo. Se soltanto il pensiero potesse uccidere… Afferrai la fotografia e me la rigirai tra le dita, incerta se aprire o meno la bocca. - È lui. – Disse lei, tirando su contemporaneamente col naso e sollevando il mento in un gesto di sfida. –È mio zio, il fratello più grande di mia madre… La mascella mi cadde per la sorpresa e mi afflosciai sul materasso come una bambola inanimata. Era lui, mister cicatrice, la prima volta di Barbara, l’uomo per cui si era mutilata, quello che le aveva insegnato l’amore ed il dolore e che di lei aveva preso tutto, quando era ancora troppo piccola per capire che avrebbe dovuto tenere qualcosa per sé, era lui, il suo ewas, quello che l’aveva fatta diventare donna facendole pagare ogni lezione a caro prezzo, privandola, insieme, della sua verginità e della sua infanzia, sostituendo le bambole nella

casetta con i trucchi ed i preservativi. Era lui: ci avevo fantasticato una sera, chiedendomi che aspetto avesse potuto avere l’uomo che era stato capace di far perdere la ragione alla mia maestra di seduzione e adesso, che me lo ritrovavo davanti, non riuscivo a riscuotermi dalla sorpresa. Nient’altro che un pedofilo, il fratello di sua madre, un uomo normale, uno qualunque, uno che, all’Allodola, non sarebbe stato considerato da nessuno, il corpo tozzo, di un’età che a me pareva avanzatissima, lo zio che aveva abusato della fiducia e dell’affetto di sua nipote, insinuandosi nel suo letto, avvelenandole la mente, quando lei doveva essere ancora una bambina; non vidi amore, nelle nuove immagini con cui il mio cervello andava completando la storia di Barbara e della sua infanzia spezzata, solo un grumo squallido di menzogne e sotterfugi. Quel grasso rapace si era infilato nel nido di sua sorella, rimasto senza protezione, rubandone l’uovo più prezioso, l’aveva danneggiato dal di dentro, facendone uscire una creatura malata, che difficilmente si sarebbe ripresa dall’esperienza. La cicatrice, rosea, netta, leggermente in rilievo, non appariva recente, sulla pelle perfetta di lei; quanti anni poteva avere Barbara, mi chiesi, quando se l’era procurata? Diciassette o sedici anni? Magari anche quindici o forse di meno, chissà da quanto tempo portava impresso quel marchio sul suo corpo, un monito sanguinante, un’ammonizione e, insieme, una maledizione per tutti i suoi giorni a venire. - Si è sposato, quello stronzo! Mi aveva detto che andava a cercare fortuna in America e che, quando sarebbe tornato, le cose avrebbero cominciato a girare per noi…Mi aveva detto… - Ma non riuscì a completare la frase, la voce le si incrinò e lei ricominciò a respirare rumorosamente. Guardala lì, avrei voluto dirle, la sua fortuna: una cicciona strizzata in un ridicolo abito a sirena, due occhi piccoli e la bocca a cuore come quella dei maialini nei cartoni animati: non era particolarmente bella, magari nemmeno troppo acuta, ma i diamanti cuciti sul vestito testimoniavano che, per quella cerimonia, non si era badato a spese. Probabilmente i soldi se li era fatti, lo zio di Barbara, nel vero senso della parola. Mi domandai chi fosse, esattamente quella “bambina di oro” citata sul retro della fotografia, se la moglie priva di fascino ma ricca di diamanti oppure la ragazzina senza futuro ma con il paio di gambe più dritte ed affusolate che io avessi mai visto. “Al buio, tesoro” mi aveva detto un giorno Barbara, quando le avevo fatto notare con un cenno che la linea nera che stava disegnando sotto alla propria palpebra non era perfettamente dritta “siamo tutte uguali. Abbiamo un buco, dentro cui ce lo infilano, se non si accende la luce qualsiasi cosa può andare bene”, aveva terminato sghignazzando.

E come suonavano crudelmente dure, adesso, quelle sue parole, così inadatte sulle labbra di una bambina eppure così tristemente vere: suo zio spegneva la luce tutte le sere, magari pensava anche a lei prima di avvicinarsi alla sua nuova moglie ma intanto aveva trovato una fortuna da curare e la ragazzina sbagliata, quella che non si sarebbe mai potuta esibire in una fotografia con l’abito bianco addosso, doveva necessariamente rimanere indietro e farsi bastare un gingillo con una decina di camli attaccati sopra. Le porsi un fazzolettino di carta, senza sapere esattamente che cosa fare. La vidi rifiutare elegantemente il mio aiuto con un gesto svolazzante, poi estrarre l’accendino dalla tasca posteriore dei pantaloncini, accendersi la solita sigaretta spiegazzata, osservarla per un attimo bruciare, tenendola stretta tra il pollice e l’indice, quindi avvicinarla alla fotografia dei due sposini felici e cancellarne le facce e le espressioni, spingendola con violenza contro la pellicola fotografica. Un rivolo di fumo grigio si portò via la gioia coniugale del pedofilo e dell’americana e due buchi smangiati ed anneriti ai bordi si sostituirono ai loro due visi a colori. - Basta così… - Lei si riscosse, asciugandosi le lacrime con il dorso di una mano, diede un paio di tiri profondi alla sua sigaretta, quindi la spense nuovamente e se la inserì, ancora calda, nel solco in mezzo ai seni; la vidi stringere le palpebre per quell’ennesimo dolore fisico, volontariamente offerto al suo corpo, per quella nuova cicatrice che si sarebbe andata a sommare a tutte le altre, negli angoli più o meno remoti del suo cuore ma non udii alcun lamento sfuggirle dalle labbra. Si alzò in piedi, in equilibrio precario sul materasso, con gli occhi che saettavano lungo tutta la stanza, quindi il suo braccio si abbatté su di me, ghermendomi il polso con forza. –Vieni, andiamo! È ora della pratica! Basta con le cazzate, è venuto il tuo momento! Adesso ce li facciamo, tutti quanti, io e te, gliela faccio vedere io a quello stronzo finocchio di cosa sono capace! E anche tu! È giunto il momento di imparare! L’amore non esiste, sono tutte smancerie per imbrogliare le donne, da quanti giorni lo vedi, il tuo misterioso stallone? – Non attese la mia risposta e mi fece alzare a mia volta, trascinandomi verso l’uscita – E state ancora a parlare di api e di fiori! – Concluse, con un’espressione a metà tra l’incredulo e lo schifato. –È ora di fare sesso e di smetterla con la poesia. La poesia fa male… - terminò, la voce carica di un’amarezza che sembrava scivolarle addosso goccia dopo goccia, come se le avessero dato uno sciroppo dal sapore cattivo, obbligandola a berlo tutto di un fiato. – Mi ci vuole un vero uomo – aggiunse, bloccandosi di colpo, con la mano già appoggiata alla maniglia della porta – qualcuno che non mi sono ancora

scopata in questa merda di paese…Magari il tuo vecchio! – Esclamò, sollevando le sopracciglia con un’espressione di pura estasi. Strattonai violentemente il polso fino a riuscire a liberarlo dalla sua presa cattiva e mi appoggiai a quella porticina in plastica con tutto il mio peso, prendendone a pugni la superficie consumata: era di mio padre che stava parlando! Bloccai la porta di uscita con il mio corpo: non l’avrei fatta andare da nessuna parte! L’idea che lei potesse contaminare mio padre, sedurlo, assimilarlo a quello schifoso pedofilo per cui stava ancora schiumando mi fece vedere rosso, come un toro inferocito. - Uo, uo, uo, uo! Non ti scaldare tanto, ragazzina! Tuo padre è uno stallone, lo sanno tutti in paese che si sbatte la polacca nel retro del negozio, o pensi che gli si sia rattrappito il manico solo perché è rimasto vedovo? Chissà quante se ne fa, quando viaggia, in tutti i suoi weekend di cosiddetto lavoro…Non dirmi che non ti è mai venuto il dubbio, sarà venuto anche a tua madre immagino… All’improvviso, come un torrente che erompa dagli argini, la voce di Barbara materializzò di colpo un milione di immagini terribili, rivoltanti, di mio padre, nel mio cervello, il suo corpo nudo, sudato, stretto a quelli di decine di sconosciute, e poi avvinghiato a Barbara, alle sue forme che ormai conoscevo bene, nel suo letto, suo e di mia madre, a dissacrarne la memoria facendole tutto quello che gli uomini dell’Allodola promettevano di fare a me e non resistetti all’impulso. Afferrai la prima cosa che mi capitò sotto mano, il mio vocabolario di greco e glielo scaraventai in faccia, colpendola, di taglio, sulla guancia. - Smettila! Smettila! Smettila! – le urlai, colpendo una, due, tre volte, sul viso, sulle braccia, sulle gambe, con rabbia, con violenza, con l’istinto animale della femmina che vuole proteggere ad ogni costo i propri congiunti, con la forza del sangue di mia madre, che sentivo scorrermi potente nelle vene, che mi spingeva a picchiare selvaggiamente quella ragazza per ciò che mi stava facendo, a me ed alla mia famiglia, al simulacro più prezioso, al nucleo più intimo ed inviolabile che, di essa, avessi conservato. Non le avrei permesso di farlo a pezzi, di trasformarmi ancora una volta, basta, non ne volevo più sapere di patti e di pozioni, non volevo crescere nella sua scia maledetta, non volevo più imparare nessuna delle sue cosiddette lezioni. Il vocabolario cadde a terra con un tonfo, l’angolo delle ultime pagine si tinse della ruggine del sangue di Barbara; lei si accasciò, nuovamente sul divano,

portandosi una mano tremante al viso. Mi fissò, attraverso la maglia allargata delle dita con cui si stava schermando gli occhi; riuscii ad indovinare un taglio di alcuni centimetri, appena sotto lo zigomo sinistro, lì dove lo spigolo aguzzo del vocabolario doveva averla colpita e, più in giù, una chiazza rossa sulla spalla, a testimonianza del secondo colpo che le avevo inferto, che presto avrebbe virato al viola gonfio dell’ematoma. La mia peste, la rabbia color porpora, aveva trovato la strada fuori dal mio corpo in una maniera del tutto inaspettata ed esplosiva. Arretrai di qualche o, appoggiandomi nuovamente alla porta e ne abbassai la maniglia, con le dita contratte e sudate; prima di voltarmi per andarmene colsi un’ultima occhiata di Barbara, in ginocchio, sul suo materasso sporco: annuiva molto lentamente nella mia direzione, un sorriso insanguinato a labbra aperte e denti serrati dipinto sul bel volto rovinato, il mento scosso da un tremito e le pupille di ghiaccio, inespressive, crudeli, cieche. Me l’avrebbe fatta pagare molto cara. Pedalai verso la Pieve gridando e piangendo, con gli occhi gonfi ed i codini sfatti, senza prima are dall’Allodola per cambiarmi ed acquistare del cibo, incurante di chi, in quel pomeriggio di quasi ferragosto, avrebbe potuto vedermi o decidere di seguire la mia corsa infuriata. Non mi fermai neanche un momento, spingendo i polmoni al massimo, pedalando e bestemmiando, maledicendo e sbraitando, distruggendo, calpestando sotto alle mie ruote gusci di lumache innocenti e piccole rane sorprese nel sonno tra l’erba soffice ed alta del sentiero; quando arrivai da Christian, sudata ed ansante, gli domandai, per pietà, un bicchiere di acqua e gli crollai svenuta tra le braccia. Mi riscossi dal mio sonno pesante, affondato in una nebbia rossastra, dopo non so quanto tempo, con la gola contratta e secca e le gambe indolenzite per lo sforzo precedente; mormorai qualche parola e tentai di alzarmi ma una mano calda, una mano che avevo imparato a conoscere come la mia, mi impedì di muovermi e mi riappoggiò, con delicatezza al suolo. Giacevo su di una cosa morbida, che profumava di cuoio; cercai di indovinarne, al tatto, i contorni e sorrisi, ad occhi chiusi, quando compresi dove mi trovavo in quel momento. La tenda di Chris, stampata di verde e grigio militare, le cinghie con cui veniva riposta e chiusa appena sotto le mie dita, la brezza calda del tardo pomeriggio che ne gonfiava l’estremità producendo un rumore ritmico e costante, tutto il mio universo, quello importante, si era stretto attorno a me, per tenermi al sicuro. Sorrisi di nuovo inspirando ed espirando aria, molto lentamente, Barbara, il suo taglio sotto lo zigomo, il mio vocabolario intriso di rosso nell’angolo più esposto, i trucchi di mia madre scagliati con noncuranza di qua e di là che

disseminavano il pavimento della casetta della strega e poi mio padre e la sua t shirt e la signora Isabella che gli sbottonava la camicia nella penombra del suo retrobottega, tutto mi sembrò improvvisamente distante mille miglia da me, dalla bolla calda e protettiva nella quale stavo galleggiando. Spostai le braccia lungo il corpo stiracchiandomi, flettendo i muscoli delle spalle indolenziti per il prolungato riposo nella medesima posizione e socchiusi gli occhi. Una penna bianca danzò nel mio campo visivo per una frazione di secondo; Chris doveva essersi rapidamente chinato su di me. Non appena percepii la vicinanza tra i nostri due corpi, mi irrigidii all’istante, immobilizzandomi nella posizione che avevo assunto, i sensi all’erta, pronti a carpire ogni suo più piccolo movimento, i peli delle braccia dritti, carichi dell’elettricità della ione appena risvegliata; un attimo prima ero sdraiata inerme, come un cucciolo ferito ed ecco che un attimo dopo il mio corpo acerbo si risvegliava, desideroso di nuove ed inesplorate attenzioni: ero un guazzabuglio, un garbuglio di nervi, ossa e sentimento. - Shhhh… - Lui soffiò sulle mie palpebre chiuse che immediatamente si rilassarono. –Come stai, girl? Che ti è successo? Chi ti ha fatto piangere e gridare contro il cielo? – Mi chiese, accarezzando la punta del mio naso con l’indice. Deglutii, incapace di rispondere: il mio cervello non sembrava essere in grado di formulare una frase in una lingua qualsiasi. Il suo dito saltò giù, dal precipizio del mio naso, rotolò sulle mie labbra schiuse e si arrestò al centro del mio mento. –Come sei bella, Hanil… - Aggiunse, avvicinando pollice ad indice e chiudendo dolcemente la fossetta del mio mento tra le sue due dita lunghe ed aggraziate. Sorrisi ed aprii gli occhi: l’intensità viola in cui mi ritrovai a danzare mi mozzò il respiro in gola. - Guarda – mi disse, tirando fuori qualcosa dalla sua piccola sacca in pelle; all’inizio pensai che fosse una banconota, il famoso money - gram tanto atteso doveva essere finalmente arrivato, ciò poteva significare solo una cosa, Chris non aveva più alcun bisogno di me. Feci cenno di no con la testa, non volevo vedere, scritta a chiare lettere su di una banconota da centomila lire la fine di una storia che non era ancora iniziata ma lui mi piantò quel foglietto arrotolato di fronte agli occhi. –Avanti, guarda! – Mi suggerì con fare tranquillo –Giuro che non morde… -. Non era una banconota, era una fotografia, doveva essere stata scattata con una Polaroid qualche attimo prima del mio risveglio. C’ero io in quella foto, con le braccia incrociate dietro la nuca, i codini sfatti, una ciocca di capelli maliziosa

che mi accarezzava un occhio socchiuso, le labbra increspate come le onde del mare quando soffia la brezza estiva e profumata che viene direttamente dall’oceano ed il mento puntato dritto al cielo. Niente trucco, niente abiti sexy rubati dal negozio di un’anziana signora, semplicemente io: il mio viso magro, le mie guance rosse, la mia ridicola maglietta rosa che avevo dimenticato di cambiare nella furia di fuggire dalla casetta degli orrori, il mio ventre piatto e muscoloso, allenato da giornate di pedalate faticose fatte tutte di corsa ed in salita, il mio ombelico, rotondo ed elegante. Io. Una donna. Hanil. Mi sollevai sui gomiti ed affondai le mie pupille in quelle dell’uomo che mi stava accanto. - Christian, io… - La porterò sempre con me, Hanil, te lo giuro. La metto qui – disse lui, coprendo la mia voce con la sua, quasi ansioso di dire cose o di non farle dire a me. –Qui dove ci sono le cose importanti, le pietre degli spiriti ed il mio animale guida. - Christian… - Ci riprovai, allungando una mano e portandola, timidamente, a contatto con la sua coscia. - No, Hanil, no…Io non sono…Non facciamo cose che non possono essere fatte. Non diciamo cose che non possono più essere cancellate. Non c’è il tempo, il tuo tempo, il mio tempo… Timing…Oh for God’s sake! – Esclamò con una rabbia dolente che non gli faceva trovare i termini adatti - I nostri tempi non coincidono! –Quindi, dopo un attimo di silenzio, prese dolcemente la mia mano, se la portò rapidamente alle labbra e me la riappoggiò in grembo, allontanandosi di qualche o da me. Rimasi come tramortita, sulla stoffa grezza della sua tenda da campeggio, trascinata avanti dalle sue parole e poi rigettata indietro, come il rullo di un’onda anomala, dai suoi gesti, dall’agilità affrettata con cui aveva rimesso una discreta distanza tra di noi. Io non riuscivo a capire più nulla! Quindi c’era qualcosa, tra di noi, qualcosa che stava nascendo, qualcosa che poteva venire al mondo, qualcosa che io desideravo e che lui respingeva con tutte le sue forze. Perché mi aveva scattato quella foto, se non ne voleva sapere di me? E perché baciarmi la mano e poi appoggiarmela rapidamente addosso? Che cosa c’era che non andava in me? In che cosa ero, ancora una volta, manchevole? Mio padre non mi amava,

Barbara mi detestava, avevo fallito come figlia, fallito come bambola di pezza, fallito come muta e come assassina e criminale, perfino come ostetrica, fallito, fallito, fallito sotto tutti i punti di vista. E adesso c’era Chris, che saltellava a piedi pari sulle piastrelle bianche e nere del pavimento sconsacrato della Pieve, fingendo di giocare ad una sorta di labirinto per bambini canticchiando una canzoncina infantile, come se non fosse successo proprio niente. Il mio mondo era stato nuovamente capovolto e lui sembrava divertirsi lanciando sassolini contro un pezzo di tegola rotta. - Che cosa posso raccontarti, girl – mi chiese, non appena mi alzai in piedi e mi avvicinai a lui – Che ti faccia tornare il sorriso? La vuoi una storia? La leggenda di hacsokonayla, il coyote che batté il mostro facendo risuscitare le anime di un intero villaggio? - Io voglio la storia di Christian! – Esclamai, accomodandomi di fronte a lui. Non volevo sentire altre favole: di storie belle e di storie brutte ne avevo sentite a bizzeffe in quelle giornate, ognuno mi aveva raccontato una storia, dal suo punto di vista, tutti avevano cercato di riempirmi la mente con le loro, di storie: mio padre, e Barbara e perfino il suo codazzo di ammiratori della pizzeria. Io volevo sapere di Christian, della sua vita, perché se, per il momento, la via diretta che portava alle sue labbra sembrava chiusa per volontà del loro stesso proprietario, c’era un’altra via percorribile, probabilmente più tortuosa ma sicuramente più affascinante: la via che portava dritta al centro del suo cuore. E così ne seppi finalmente qualcosa in più di lui e della sua esistenza, la sua “vita nuova” dopo che Ewas gli aveva concesso la fiducia del suo patto che non si poteva dire. Christian si era dato alla fuga, con il suo cavallo di acciaio, lungo le strade polverose degli Stati Uniti prima e in quelle della vecchia Europa poi; aveva visto praticamente quasi tutto il mondo in quei sei lunghi anni di asfalto e di niente, bivaccando di qua e di là, aiutando come bracciante agricolo, come pescatore o cacciatore, perfino come tosatore di pecore e raccoglitore di arance, non c’era lavoro che non avesse fatto. Tutti stagionali, tutti a termine. Christian aveva una sete di libertà e di vita che sembravano non dover avere mai fine. Ewas lo seguiva e lo sorvegliava, con discrezione, a distanza, continuando a mantenere fede al proprio patto: da lui, sospettai, erano sempre arrivati i soldi con cui Christian riusciva a pagarsi la benzina per i viaggi, i lavoretti saltuari che faceva potevano andare bene per riparare una gomma o acquistarsi un paio di stivali nuovi ma non sarebbero certo stati sufficienti a mantenerlo per sei anni ed a pagare gli extra che, a volte, si concedeva e di cui avevo avuto un assaggio

alcune sere prima. Christian domandava, Ewas pagava i conti sicuro che, al momento giusto, Chris li avrebbe saldati tutti in un colpo solo con la propria vita. Per un motivo che rimaneva per me saldamente oscuro, Chris era certo che il patto col diavolo dovesse avere una fine e che sarebbe stato lo stesso Ewas a decidere quando e dove riscuotere quanto gli spettava di diritto. Rabbrividii al pensiero di quella condanna, di quella spada di Damocle appesa sulla sua testa con cui Christian conviveva, dall’alba al tramonto di ogni giorno. L’aria alpina della sera si fece gradualmente più fresca accarezzando la pelle delle mie spalle, sapevo che era ora di rientrare a casa. - Il posto più bello che io abbia mai visto, Hanil, è il salto dell’Angelo, in Sudamerica. Can you ever immagine it, girl? - Mi domandò, fissando le montagne che si coloravano di scuro sulle cime frastagliate ed immobili; basse nuvole cominciarono ad addensarsi tutt’attorno alle sommità ed ai rilievi alpini, la montagna iniziava ad indossare il suo minaccioso cappello di ovatta grigia e quindi, come dicevano i contadini del luogo, l’acquazzone estivo era praticamente inevitabile. Mi sarei bagnata tutta, rientrando, ma non me ne importava niente, avrei preso tutta la pioggia del mondo, ci avrei nuotato dentro da qui a Singapore pur di poter rimanere, un’ora ancora, ad ascoltare Christian e la sua voce vellutata, raccontare di salti, di Angeli e di avventure. –Una cascata che non arriva a terra, girl, uno spettacolo incredibile! Ti ci devo portare! Lo devi vedere, Hanil, la cascata più alta del mondo! Pensa, che volo incredibile faremmo insieme! Tornai a casa, quella sera, fradicia di pioggia e di felicità: il salto dell’Angelo, il nostro salto, in un nuovo continente, un tuffo a piedi pari in una nuova vita, io e Christian sospesi alla stessa fune che osservavamo, contemplandolo, il mondo degli uomini che veniva inghiottito dall’acqua di una potente cascata senza fine. E poco mi importava che, solo alcune ore prima, la mia maestra in lacrime mi avesse parlato di promesse molto simili fattele da un uomo senza cuore, che aveva trovato in America una fortuna da cui lei era stata totalmente esclusa. L’amore ci fa felici. L’amore ci rende vulnerabili e distratti. L’amore si fiuta a chilometri, perché l’amore non si riesce né si fa nascondere ed io profumavo di un amore potente e di una nuova speranza, quando spalancai l’uscio di casa mia, quella sera, di ritorno da quella che consideravo la mia personale versione della montagna incantata.

***

- Si può sapere dove minchia sei stata?? – La voce di mio padre, aspra, affilata, mi colpì come una frustata in pieno viso, bloccandomi sull’uscio. Vidi la testa di Giuseppina spuntare, oltre la sua spalla, i suoi i strascicati dirigersi dalla nostra parte, il suo grasso sedere accomodarsi su di una delle sedie dell’ingresso, a disposizione per ospiti che non avevamo mai avuto e per il loro comfort: la strega maledetta non voleva perdersi l’occasione di uno spettacolo serale in diretta dalle prime file. - Allora? – Un nuovo tuono, un altro scroscio di pioggia dietro di me. Sotto ai miei piedi si stava iniziando a formare una pozzanghera di acqua gelida ma era evidente che avrei dovuto attendere parecchio, prima di poter andare in camera ad asciugarmi. - A studiare…Da Barbara… - Mi prendi per il culo? Credi che io sia stupido? Negai, abbassando gli occhi a terra. La famiglia felice del Mulino Bianco non c’era più, di colpo, così com’era venuta, per chissà quale sortilegio, se n’era andata via, come Mary Poppins, non appena era cambiato il vento. Scrollai le spalle. Se non si parlava più di famiglia con la effe maiuscola, allora tanto valeva non parlare proprio; e fu così che, come nella leggenda degli indiani Tonkawa, il coyote magico risuscitò la bambina sordomuta, quella che taceva fino a cavarti la pelle dal cuore, quella che ti fissava e non rispondeva, quella che mio padre detestava. Voleva fare il duro con me? Che si accomodasse pure, stavolta gli avrei dato del filo da torcere. - Ho visto Barbara, è venuta a cercarti qui, a casa, questo pomeriggio… E brava Barbara, tanto di cappello anche a lei, pensai sorridendo di un sorriso sghembo: la vendetta della mia maestra era cominciata e la prima manche era stata giocata. Lei era stata a cercarmi a casa, perché sapeva che lì non mi ci avrebbe ovviamente trovata, lo aveva fatto apposta, doveva aver atteso che mio padre rincasasse dalla sua spesa erotica e poi, con gli occhi luccicanti di lacrime

fasulle, doveva avergli raccontato chissà quale storia, svelando un pezzetto del segreto che le avevo affidato. Nice shot, avrebbe detto Christian, un bel colpo di fucile che aveva ferito mio padre, insinuando nella sua mente il dubbio e aveva azzoppato me, scoprendomi bugiarda, rendendo palese a tutti che, quel pomeriggio, dovevo essere stata necessariamente da qualche altra parte. Ma siccome eravamo sulla stessa barca noi ragazze, una barca lurida di nome Allodola, molto probabilmente non era stato detto tutto, di ciò che facevamo, nei nostri pomeriggi di cosiddetto studio; Barbara non era una stupida e la vendetta è un piatto che va sempre servito freddo. Io mi ero ribellata, l’avevo picchiata ma, soprattutto, mollata, era chiaro che non avrei tenuto fede al nostro iniziale patto, gli eventi ci avevano sostanzialmente preso la mano, così lei doveva aver fatto la sua apertura, come negli scacchi, col pedone che va avanti, in un balzo, di due caselle, lasciando gli altri pezzi, sorpresi, indietro. Il nero vince e il bianco perde, signori, fate il vostro gioco. Ero stata davvero una stupida sprovveduta. - Sono quasi le dieci di sera! Me lo vuoi dire o no dove cazzo sei stata? - E tu? – Stavolta fu il mio turno di sbraitare; era difficile, i poteri del coyote magico, lontano dal Texas, dovevano aver funzionato solo a metà e la bambina muta, come nei film dell’orrore di serie B, era ritornata sì, ma come zombie, difficile da controllare, debole e strisciante: in quei giorni avevo parlato, anche troppo era complicato, adesso, all’improvviso, chiudere il rubinetto e far seccare la lingua. Le emozioni premevano: rabbia, livore, dolore, gelosia, tutte insieme, sbattevano i loro pugni violenti contro la mia epiglottide, agitavano le mie mani facendole serrare con forza attorno all’orlo gualcito dei miei pantaloncini, facevano vomitare parole difficili da dimenticare. –E tu, tu dov’è che sei stato? Dov’è che vai tutti i pomeriggi dopo aver fatto il bagno nel profumo? Almeno quella stronza te lo fa uno sconto sulla spesa quando avete finito? Uno schiaffone e poi un altro, la testa a destra, la testa a sinistra, come diceva la mia insegnante di danza quando ero bambina, “un, deux, trois, quatre… A la droite, a la gauche, tres bien, mes filles!” prima di darci una caramellina e di rispedirci nei camerini, chiudendo il sipario. Strizzai gli occhi tentando di mantenere l’equilibrio e le stelline bianche, come le pailettes dei nostri ridicoli costumi da danzatrici in miniatura, brillarono dietro alle mie pupille. Poi un fischio all’orecchio esplose e mi dovetti appoggiare con le spalle contro la porta d’ingresso per non cadere. - Ti…Ho…Chiesto… - Mio padre, il braccio ancora pericolosamente alzato,

incombente su di me, parlò piano, scandendo bene, una parola alla volta, fremendo dalle narici, respirando rapidamente con la bocca; si vedeva che stava facendo uno sforzo immane per non picchiarmi ancora. La sua voce bassa e calma, un ossimoro in mezzo alla rabbia pulsante che ci stava avvolgendo, mi fece tremare come una foglia. Stavolta l’avevo fatta grossa, avevo scelto il momento sbagliato per crescere, per squarciare il velo delle bugie, per fargli capire che non ero più una bambina da premiare o punire a suo piacimento ma una donna indipendente, con un cuore, dei diritti e delle esigenze che non si potevano più calpestare, probabilmente era troppa la carne che stavo mettendo al fuoco e, adesso, il barbecue delle nostre vite bruciava, inondando il cielo del fumo acre e denso di ciò che rimaneva di noi, ex padre ed ex figlia, gli scheletri del nostro ato, rinchiusi negli armadi delle nostre menzogne per anni, esposti allo scherno senza orpelli del presente. Non sarebbe rimasto più niente di noi, della nostra famiglia, da quella notte in avanti. –Dove…Sei…Stata…Valentina. pronunciò il mio nome per la prima volta, con lo sguardo fisso su di me, niente più Titti, come se mi stesse vedendo solo allora, per quella che ero, come se avesse di fronte un’estranea, come se la sua tenera figlia innocente fosse uscita da quella porta, il pomeriggio e gli alieni gliel’avessero sostituita con un tostapane, con un elettrodomestico, con una macchina senza cuore che lo stava ferendo fino a farlo sanguinare. - A studiare, te l’ho detto… - Gli risposi sottovoce. Adesso non ero più tanto sicura di poter resistere alle lacrime. Mi concentrai sullo sfondo: Giuseppina, seduta sulla sedia più lontana da me, aveva portato il crocefisso alle labbra dimenticando di baciarlo, stupita, probabilmente, da quanto stava accadendo, lo teneva stretto accanto alla bocca tra il pollice e l’indice, come un lecca lecca che non si decidesse a succhiare e il portafogli di mio padre, la sua ventiquattrore che stazionavano, solitamente, all’ingresso, entrambi sembravano momentaneamente scomparsi. Merda. - Ma non da Barbara… - Corresse lui, facendo un o indietro. Ero stata a studiare, non era una menzogna, avevo appreso una grandissima lezione quel giorno, che gli adulti sono i primi a tradirci, padri, zii, genitori, insegnanti, si prendono gioco di noi, decidendo quando dirci che cosa, rimandando ciò che loro stessi non sono pronti ad affrontare, credendo, per il nostro bene, che i giovani desiderino prolungare all’infinito l’età dell’infanzia ma non è vero: l’innocenza sparisce, si dissipa come la nebbia quando sveliamo gli inganni dei grandi, orditi per tenerci all’oscuro dai meandri più reconditi di un mondo creato da loro e non c’è niente di peggio che crescere all’improvviso, perché si è persa

la fiducia in qualcuno che credevamo degno di fede. Non risposi niente, alzai lo sguardo su di lui, sfidandolo, con gli occhi, a continuare con il suo interrogatorio, a tentare, con le minacce o le percosse, di ristabilire il suo potere su di me. Ormai lo avevo smascherato per sempre, lui ed il suo mondo di adulti ipocriti, Chris mi aveva mostrato i buchi sulle sue braccia e la disperazione nei suoi occhi, Barbara, bene o male, mi aveva svelato quali erano i pensieri malati che le menti degli adulti generavano e nascondevano approfittando della fiducia dei più piccoli, non sarebbe stato possibile, per me, allo stato attuale, ricominciare a giocare con le bambole. Il gioco dei sessi lo avevo capito molto bene, frequentando l’Allodola e i subumani che lì si davano appuntamento, era uno scambio equo, un dare e avere senza romanticismo e senza mezzi termini. Che pie o meno a mio padre, era in quei termini, ormai, che il nostro rapporto avrebbe dovuto svolgersi da ora in avanti. Lui mi oltreò, studiò la porta d’ingresso per un secondo, quindi si voltò e stese la destra nella mia direzione, non una stretta di mano in segno di resa o di pace, bensì una nuova richiesta, un ultimo, disperato tentativo di riportare l’ordine e la gerarchia. Appoggiai le chiavi nel suo palmo, facendo bene attenzione a non sfiorare nessuna delle sue cinque dita spalancate; lui chiuse l’uscio rapidamente, un giro di catenaccio serrò le mie parole nuovamente in fondo al cuore. Si mise le mie chiavi in tasca, le sentii tintinnare, quasi come i camlini che il pedofilo aveva inviato in regalo alla sua bambina di oro, un suono innocente e puro, che strideva, in netto contrasto con ciò che quel regalo aveva voluto significare. - Da oggi e fino a nuove disposizioni sei in punizione. –Il mio carceriere si volse nuovamente a guardarmi e mi sembrò che, finalmente, riuscisse ad intravedere qualcosa di me; forse furono le gocce di pioggia, che mi avevano incollato i capelli al viso rendendo trasparenti i miei vestiti estivi, o forse fu la posizione delle mie braccia, incrociate sul petto, a proteggere i miei seni dal suo sguardo sospettoso e indagatore ma qualcosa dovette avergli suggerito che era una donna, quella che lo stava fronteggiando, un insieme di spigoli aguzzi e curve nascoste che, probabilmente, più di qualche occhio esperto doveva aver indovinato, una cosa umorale e cocciuta, calda e pulsante, una specie indomita che non si sarebbe più fatta piegare. Una cosa che dovette fargli alquanto paura. - Non potrai più uscire, se non accompagnata da Giuseppina oppure da me. –Il cane da guardia siciliano lasciò finalmente andare il rosario e sbuffò, il trionfo le

si disegnò sul viso carnoso alterandone le rughe ed i lineamenti marcati che detestavo: era stata messa da parte, a cuccia, per alcuni giorni ma ecco che veniva nuovamente richiamata al dovere. Cominciai a guardare il soffitto: sentivo freddo alle gambe e avevo fame, il discorso stava ormai perdendo interesse per me. Non c’era niente di nuovo sotto il sole. –Mio dio… - Aggiunse sottovoce mio padre, come tra sé e sé, andosi le mani tra i capelli, quindi inspirò profondamente e riportò la sua attenzione su di me. –Sei troppo selvatica, troppo scontrosa, troppo disubbidiente e troppo supponente, che tu ci creda o no, là fuori ci sono uomini…Ci sono persone… - Si corresse al volo; dannata ipocrisia. –Che potrebbero fare qualsiasi cosa di te. Mi mossi, puntando alla mia camera: quelle persone, quegli uomini, avevano già fatto molto, con me, con la mia anima, più di quanto lui potesse ottusamente immaginare. Un piede dietro l’altro, lentamente, gli camminai al fianco e lo sorai di qualche centimetro. - Non ho ancora finito! Domani alle undici devi essere pronta. Isabella ha detto che c’è un collegio in città, di suore, molto valido, che accoglie le ragazze di buona famiglia, quelle come te… Quelle come me…Alzai gli occhi al cielo e proseguii senza voltarmi indietro, chiudendomi la porta della mia camera alle spalle. Adesso anche Isabella pensava di conoscermi, forse perché mio padre le dava una riata sperava di riuscire ad indovinare com’ero fatta, oppure avevo un marchio, qualcosa, in mezzo alla fronte, che io non riuscivo a vedere ma che caratterizzava me e tutte quelle come me, magari era il neo sul braccio sinistro, quello che, assieme agli altri, sembrava ripercorrere la costellazione dell’orsa maggiore, oppure era il colore degli occhi, o magari dei capelli, come nel Medio Evo. Sospettai che, in un’altra epoca, la signora Isabella avrebbe premuto per farmi bruciare viva al rogo, come strega o ragazza indemoniata. Quelle come me…Non c’era nessuna, come me, né in quel paese così distante da ciò che ero, né sulla faccia della terra che non avevo visto ancora, Christian me lo aveva detto, il suo pensiero mi dava una forza che non avevo mai provato prima. E brava la signora Isabella; scagliai le scarpe da tennis zuppe di pioggia contro l’uscio chiuso della mia camera e mi gettai bocconi, sul letto, dovevo ammettere che era stata una grande stratega: si stava preparando il terreno, eliminando fisicamente la propria rivale. Un collegio per signorine educate, un posto lontano cento chilometri, chiuso da cancelli, vigilato da suore silenziose, un posto nel

quale sarei cresciuta di nascosto, allontanandomi per sempre da mio padre, il mio ricordo si sarebbe diluito nei suoi pensieri fino quasi a scomparire senza fare male, assieme a quello di mia madre, il suo, il nostro ato insieme sostituito dal presente della salumiera polacca con le tette enormi ed i capelli rossi. Mi asciugai una lacrima, senza riuscire realmente ad odiarla e mi sentii il cuore gonfio di tristezza, come quando avevo lasciato la Sicilia, sicura che non l’avrei più rivista. Amavo mio padre, al di là di tutto, per quell’irragionevole sentimento che si annida nei nostri geni, che nasce con noi e muore con noi e si trasmette ai figli e ai figli dei nostri figli, nonostante ciò che mi aveva detto e fatto, lo amavo ancora con l’amore puro della bimba che ero stata e che non sarei stata più e mi preparavo ad abbandonarlo, a lasciarlo indietro, a permettergli di percorrere la sua nuova strada, con quella donna che se lo stava aggiudicando ad un’asta cui solo lei aveva preso parte. In effetti, ammisi con me stessa, avevo peccato di superbia immaginando che anche lui mi avrebbe amata per sempre, per il semplice fatto che ero sua figlia, carne della sua carne e sangue del suo sangue, da lui generata per amore. Ma l’amore è avido, muta di forma e di sostanza e deve essere nutrito, altrimenti a. Mio padre mi voleva bene, questo era certo, ma non eravamo più solo io e lui, l’amore sarebbe stato diviso, adesso e, forse, non ce ne sarebbe più stato abbastanza per tutti e tre. Mi sedetti sul letto e osservai, con noncuranza, la pioggia che batteva, violenta, contro i vetri della mia finestra. Sarei andata con lui, domani, a vedere il collegio, nella grande città, lo avrei seguito, docile e silenziosa, gli avrei fatto fare perfino bella figura con la Madre Superiora. Il mio animo volava con Chris, giù dal salto dell’Angelo, la mia vecchia vita ormai, era finita e quella nuova, presto, sarebbe iniziata e non servivano le chiavi della porta d’ingresso che mio padre mi aveva appena requisito per riuscire a tenerla fuori, oppure a tenere dentro me. Sarei partita con Christian dopo ferragosto. Il mio cuore aveva deciso.

***

Alle undici in punto ero pronta per la nostra gita in città; varcai la soglia della cucina e, con mia grande sorpresa, trovai la tavola disadorna. Giuseppina stava

lavando le scodelle della colazione in silenzio, lo sciabordio dell’acqua nel lavello copriva i rumori provenienti dall'esterno. Sbirciai fuori e colsi il riflesso di un mondo bagnato fradicio: era la vigilia di ferragosto e stava piovendo a dirotto da quasi quindici ore. Di sotto, la strada era deserta, accanto alla piazza principale giaceva, abbandonato, un carretto carico di alcune balle di fieno che dovevano servire alla costruzione della grande piscina temporanea da inaugurare per i festeggiamenti dell’Assunta e di San Rocco, protettori del paese. Qualcuno doveva averlo trascinato fin lì e poi, ferito dalla pioggia incessante, doveva aver deciso di lasciar perdere: il fieno si sarebbe comunque bagnato l’indomani, i ragazzi avrebbero sguazzato dentro quell’improvvisata piscina fatta di paglia coperta da un telone impermeabile fino a rendere l’acqua gelida presa dal torrente, di un triste color marrone; con la pioggia o con il sole si sarebbe fatta la festa, Barbara e Laura ne parlavano, emozionate, da quasi una settimana. Tutti i più bei ragazzi del paese si sarebbero sfidati in un antico rituale di caccia e di forza fisica e poi, il vincitore, avrebbe incoronato la propria bella, scegliendo tra le migliori ragazze disponibili. Trovavo assurdo che due come Barbara e Laura potessero ancora emozionarsi per delle idiozie simili: sarebbe bastato schioccare un dito per poter avere ai loro piedi qualsiasi uomo dal paese alla città, chiunque, all’Allodola sarebbe stato disposto ad inginocchiarsi al loro trionfo; probabilmente, quasi tutti lo avevano già fatto. Ma quella era una festa pubblica, una festa perbene per persone rispettabili, una festa antica, risalente ai tempi in cui d’amore non si poteva che bisbigliare e in ritrovi come quelli nascevano storie fatte di sguardi e pensieri che duravano per l’eternità. Tutte le donne subiscono il fascino arcaico dell’amore romantico, per quanto possano essere grigie e corrotte le loro anime getterebbero ogni cosa all’aria se un Principe Azzurro venisse a bussare alla loro porta. - Disse iddu chi u latti lu poi cùociri tu… - Giuseppina si masticò le guance, continuando a darmi le spalle. Ecco qua, adesso ero di colpo una donna, le attenzioni ed i privilegi che prima mi erano riservati in qualità di Titti erano stati revocati la sera prima. Avevo voluto l’indipendenza ed il diritto di tenermi i miei segreti, in cambio avevo perso l’accesso alla tenerezza. Molto meglio così: il latte bollente con la panna bruciacchiata era una di quelle torture cui avrei rinunciato con piacere. Feci per avvicinarmi al frigorifero quando mio padre si affacciò in cucina, vestito di tutto punto con giacca e cravatta abbinate, nessuna traccia di acqua di colonia. Evidentemente, anche le mie parole dovevano aver lasciato il segno. - Andiamo. – Disse semplicemente. Lo seguii senza fare colazione, con la testa

leggera per il digiuno prolungato ed un vago senso di nausea e mi sedetti in macchina, sul sedile posteriore, avevo perso anche il diritto all'uso della radio, a quanto pareva, che rimase ostinatamente sintonizzata su di un noioso canale di sport durante tutto il viaggio. Giungemmo nel popoloso capoluogo di provincia, eggera ed autista ed impiegammo una buona mezz’ora a trovare il luogo ed il parcheggio: il collegio, un’antica costruzione di color senape da poco ristrutturata, si ergeva proprio in centro città, a ridosso di alcuni piccoli negozi chiusi, in un rione che sembrava abitato solo da fantasmi, era formato da un corpo centrale, curvilineo che seguiva, lambendolo, il profilo della strada e da due ali, a barchessa, che si sviluppavano a destra ed a sinistra, chiuse da pesanti cancelli sormontati da reti in ferro che terminavano con punte aguzze. Mi domandai quante ragazze avessero tentato, negli anni, di fuggire saltando quei cancelli bloccati e quanti dei loro i sogni fossero riusciti invece a varcarli indenni; la costruzione non era brutta ma piuttosto severa, senza statue o mosaici, senza niente ad ingentilirne la facciata. Suonammo un camlo ed un grosso portone a doppia battuta in legno si aprì per metà, introducendoci in un androne umido e fresco, dalla bassa volta a botte. La faccia slavata di una donna di un’età indefinita si affacciò ad una finestrella e prese a fissarci senza dire una parola. Aspettammo così, spiati da quel volto, al centro di quell’androne che odorava un po’ di muffa, con gli ombrelli che gocciolavano pioggia sulle mattonelle lucide ed un silenzio carico di elettricità che ci teneva a distanza, come due magneti voltati dalla stessa parte della calamita: se io mi muovevo verso mio padre, lui si spostava subito dalla mia traiettoria; se lui si avvicinava per vedere qualcosa che si trovava accanto a me, io mi ritiravo, correndo ad occupare il suo posto, come quei ballerini degli antichi carillon, mossi da dispositivi nascosti sotto agli specchietti, costretti a ballare sempre la stessa musica lungo percorsi predefiniti che non prevedevano alcun intreccio. - Buongiorno, accomodatevi, scusate se vi ho fatto attendere. - Da una porticina laterale seminascosta nel muro in pietra, una velo nero ed un abito grigio parlarono rivolti a noi e ci fecero segno di seguirli. La faccia dietro alla finestra allungò il collo per non perdersi un secondo della scena che si stava svolgendo nell’androne. –Vi siete bagnati? Il Signore ha proprio deciso di scatenarsi in questi giorni! In Sicilia non se ne vedono, di acquazzoni così, non è vero? – Il velo nero, al di sotto del quale spuntavano due occhialini rotondi ed un mento aguzzo, si era rivolto improvvisamente a me. – Luigina? Luigina porta un bicchiere d’acqua ed un caffè per i nostri ospiti! – La voce argentina ma ferma

della reverenda Madre sortì l’effetto magico di far staccare la faccia dal lungo collo dalla finestra e la persona che si chiamava Luigina, la proprietaria di quel collo e di quel viso, si avvicinò a me per spiarmi con malcelato interesse. - Luigina! – La Madre la richiamò all’ordine e quella donna, con il suo scialle rossastro ed un paio di pantaloni informi, si allontanò in direzione di quelle che io ipotizzai potessero essere le cucine. - Non fare caso a Luigina, è qui con noi da quando è nata, l’abbiamo trovata fuori dal portone quando era ancora una neonata, molti anni fa…Allora, tuo padre mi ha detto che ti piacerebbe venire a studiare qui da noi… Sollevai le spalle e non dissi nulla, tanto mio padre aveva già parlato in vece mia, a quanto pareva. Luigina ritornò poco dopo, portando su di un vassoio un bicchiere di plastica per me ed una tazzina istoriata piena di un liquido bollente per mio padre. Nessuno di noi due toccò nulla. Da come si muoveva, dagli sguardi che lanciava, da come mi osservava, senza pudore, dall’assoluta non considerazione con cui veniva trattata dalla Madre e dalle altre suore che ci capitò di conoscere quel giorno, dedussi che Luigina doveva avere qualche problema, probabilmente un ritardo mentale, la causa più probabile del suo abbandono in tenerissima età. Nessuno la vedeva realmente in quel luogo mentre, lei, l’immaginazione a briglia sciolta, dal suo posto privilegiato di ultima della società, era in grado di vedere e sentire ogni cosa. Mi piacque subito, quella matta dall’età indefinibile e dai vestiti sformati cui nessuno faceva caso e, probabilmente, anche io la incuriosii: al di là dei problemi cognitivi le nostre anime dovevano essersi riconosciute, due scarti, per motivi diversi, della società, due abbandonate dalle rispettive famiglie. Mio padre stava per farmi quello che i suoi genitori avevano fatto a lei e quanto a mia madre e a mio fratello, loro non si erano nemmeno presi il disturbo di trovarmi una nuova sistemazione, se n’erano semplicemente andati. La Reverenda Madre ci fece visitare la struttura e chiacchierò con mio padre per parecchio tempo: scoprirono un ato comune, dei periodi d’infanzia trascorsi in altri luoghi, si attardarono a discutere dei bei tempi andati e della poca educazione delle giovani generazioni; fummo invitati a pranzo, mio padre con le suore, nel refettorio a loro riservato, mentre io fui sistemata al tavolo con alcune bimbette dell’asilo, anch’esso gestito dalle stesse religiose. Compressa in quella sediolina in miniatura rimasi zitta a sorbire un cucchiaio di minestra dietro l’altro; nel salone austero era sceso il silenzio: molto probabilmente il mio viso

poco amichevole e chiuso non invitava ai giochi o alle domande. - Sei stata brava… - Mi disse mio padre quando, nel pomeriggio, uscimmo dal collegio per recarci a fare compere a piedi. La Reverenda Madre ci aveva dato una sfilza di cose da acquistare, per l’inizio del mio nuovo anno lì: avrei continuato a frequentare la mia vecchia scuola ma quel collegio sarebbe diventata la mia nuova casa almeno fino all’arrivo del diploma; mi occorrevano della biancheria, un paio di ciabatte da camera, lenzuola nuove, un corredo per il bagno, qualche pigiama con le maniche lunghe, delle coperte pesanti e poi ancora spazzolino, dentifricio e sapone, tutte cose che avremmo anche potuto acquistare facilmente in paese nei prossimi giorni, nella boutique della signora Giovanna o, addirittura, nel negozio della puttana polacca, invece mio padre preferì andare a fare compere in centro, sospettai per levarsi subito il peso della decisione che aveva preso. Via il dente e via il dolore: prima avesse concluso questa faccenda, prima avrebbe potuto sbarazzarsi di me e del suo senso di colpa. Ero stata brava, mi aveva appena detto. Brava in che senso? Probabilmente si aspettava da me qualche gesto inconsulto o qualche scenata da ragazzina isterica, o che io mi gettassi contro il cancello, oppure che implorassi perdono giurando di non disubbidirgli mai più e, chissà, magari sarebbe bastato anche chiedere scusa e confessare, per poter ritornare addirittura a casa. Il fatto era che io, a casa, non ci volevo tornare e non ci sarei tornata; non avevo fatto alcuna scenata perché non ero più una bambina, questo ormai mi era lapalissianamente chiaro e perciò non mi sarei mai e poi mai comportata come tale, mai più. E, inoltre, quello che mio padre non sapeva, non poteva neanche lontanamente immaginare, era che io mi ero spinta molto in là, nei miei pomeriggi di studio, al di là della nostra inesistente famiglia, al di là del paese o del collegio, avevo affondato la vista direttamente nella trama indistinta del mio futuro. Era facile essere brave, quando si aveva un piano B stampato a lettere d’oro nel cervello: io sarei fuggita con Christian, ormai il dado era stato tratto. Di quello che aveva detto la Reverenda Madre, orari, permessi, piccoli diritti, grandi doveri, aule studio, possibilità di ascoltare la musica, cena in compagnia, menù speciale, marmellata la domenica a colazione, non avevo sentito una sola parola, come Luigina, avevo lasciato che quel fiume di inutili sillabe mi asse da parte a parte senza smuovermi di un millimetro, come i sassi millenari che bloccavano il o al torrente, costringendo l’acqua a trovare una nuova strada, un diverso percorso. Io li avrei lasciati tutti a bocca aperta, costringendoli a fare i conti con me, con la mia assenza, da donna libera avevo preso ormai quella decisione e niente

avrebbe potuto farmi cambiare idea. C’era un dettaglio solo da considerare e di cui avevo molta paura: Christian; non sapevo ancora se avrebbe accettato di portarmi con sé, a bordo del suo cavallo cromato, lungo le strade del mondo che ancora non aveva percorso ma immaginavo di chiederglielo, non appena ne avessi avuta l’occasione e l’occasione me la sarei creata, al ritorno dalla città. Purtroppo rientrammo in paese verso sera, silenziosi, stanchi, con il portabagagli carico di pacchetti, ingombro di lenzuola, vestiti e biancheria su cui Giuseppina avrebbe dovuto ricamare le mie iniziali: aveva scelto tutto mio padre, più che scelto aveva infilato alla rinfusa nel cestino calzettoni e mutande senza nemmeno fare caso alla taglia. Io non lo avevo gratificato nemmeno con mezza parola, eravamo risprofondati, come un mese prima, nelle sabbie mobili della mia rabbia silenziosa. Meglio così. Fu una specie di agitazione serpeggiante che ridestò i sensi di entrambi, non appena imboccammo la strada principale che conduceva alla Piazza e, più avanti, alla farmacia sopra la quale abitavamo noi: vidi Giuseppina in piedi, sulla soglia, con un rossetto rosso, da carnevale sulle labbra, allungare il collo a destra e a sinistra come in cerca di qualcosa. - Ma che diavolo è successo? – Si chiese mio padre a voce alta. Giuseppina non usciva mai, se non per andare a messa, molto presto al mattino, oppure per accompagnarmi o ritirarmi da scuola, come un qualsiasi pacco postale. Quando però gli eventi e la sua curiosità da femmina impicciona la spingevano sulla porta, si sistemava sull’uscio pittandosi le labbra, rendendosi presentabile, secondo lei, casomai qualcuno avesse desiderato rivolgerle la parola. Avevo sempre riso di questa sua sciocca abitudine mutuata da un mondo arcaico in cui alle donne non era nemmeno concesso di uscire ogni qualvolta lo desiderassero, tanto più che, in quel paese chiuso, nessuno avrebbe avuto voglia di parlarle, non ad una straniera come lei almeno ma vederla ora, in piedi sulla soglia, con quel sorriso grottesco sulla faccia sbavato di un rosso , uno di quelli che nemmeno Barbara avrebbe osato indossare, mi fece vibrare una corda di agitazione nello stomaco. - Vuole unirsi alle ricerche? – Il salumiere in persona, marito ignorante della rossa Isabella, bussò con le nocche al finestrino della nostra macchina ed apostrofò mio padre, in attesa della risposta, il cappello di paglia a falde larghe che gocciolava, sotto la pioggia incessante.

- Ricerche? – Domandò mio padre senza capire, accostando e fermando il motore proprio sotto casa. - La nipote di Giovanna, la merciaia…È sparita da stamattina e non si trova… Non è tornata né a pranzo né a merenda e l’amica del cuore non l’ha vista… Mio padre diede una rapida occhiata allo specchietto retrovisore ed incontrò i miei occhi, improvvisamente attenti e spalancati, ma non disse niente. - Stiamo organizzando delle squadre, ci stiamo dirigendo verso il lago…La nonna è andata dai carabinieri nel frattempo… - Ho dei pacchi da scaricare. – Rispose brevemente mio padre, quindi aprì la portiera ed uscì con un gesto fluido dall’auto, iniziando a vuotare il portabagagli ingombro di roba. La conversazione era finita. Ed ecco la seconda mossa della mia maestra: la mossa del cavallo, quella che va in orizzontale e poi ti sorprende, scattando di due lunghezze in verticale, percorrendo un’imprevedibile elle che gli permette di arrivare nel posto esatto cui stava, subdolamente puntando dall’inizio della partita. And the winner is… Barbara! Barbara, maledetta lei, mi aveva giocata una seconda volta. Dove diavolo poteva essersi cacciata, adesso? Mentre aiutavo in silenzio mio padre con gli strati acquistati di tessuto che andavano rapidamente appesantendosi per la pioggia, ripercorsi, mentalmente, la giornata precedente, l’ultima in cui l’avevo vista: non era finita bene, in effetti, le avevo quasi tagliato un occhio picchiandola furiosamente col dizionario e poi l’avevo lasciata lì, tramortita, sul suo lurido materasso a meditare vendetta. Ero stata una stupida: avevo avuto troppa fretta di scappare via e non avevo dato il giusto peso a quello che era accaduto subito dopo. Rividi il viso di Barbara, composto, tumefatto, il suo sguardo carico di odio, i suoi occhi vitrei scintillanti di disprezzo. Me l’aveva giurata, aveva annuito nella mia direzione, come a dirmi “scappa pure, vai avanti, ti riprendo quando voglio” e, di fatti, con quella seconda trovata mi aveva ampiamente ripresa, doppiata e superata. Adesso aveva lei il vantaggio del mistero, tutto il paese si stava mobilitando per cercarla. Che cosa potevo fare? Avevo una mezza idea di dove potesse essere Barbara in quel momento, un’idea terrificante, un’idea che più tentavo di dimenticare e più cresceva e metteva radici nella mia mente, nutrendosi della mia paura: temevo che, in qualche maniera, Barbara potesse essere salita alla Pieve, in cerca di Christian, del mio famoso stallone, come lo aveva soprannominato lei, che avesse scoperto il luogo

in cui mi recavo, dopo le nostre lezioni. Ma no, non era possibile; cercai di calmarmi e di ragionare, mantenendo lucido il pensiero: ero sempre stata attenta, ogni volta, fuori dall’Allodola girovagavo in bici senza meta per almeno quindici minuti per fare perdere le mie tracce ad eventuali curiosi, prima di imboccare il sentierino che puntava in alto, era un rituale che avevo ripetuto tutti i giorni in cui poi ero salita a trovare Christian, tutti i giorni, tranne uno, l’ultimo. Mi presi la testa tra le mani e mi tirai la pelle del viso fino a farmi male: ero stata davvero un’idiota ma non c’era nulla che, per il momento, potessi fare. Udii mio padre chiudere la porta di casa a chiave e dare a Giuseppina gli ordini per la cena: tra il diluvio e la mobilitazione generale, se anche fossi riuscita a scivolare giù dalla grondaia della mia camera senza rompermi l’osso del collo, mezzo paese mi avrebbe vista correre da qualche parte nella notte, come una forsennata, in sella alla mia bici. Avrei portato la gente dritta nel nascondiglio di Chris, nel nostro nascondiglio, mettendo così in pericolo la nostra fuga ed il nostro fragile futuro. Non se ne parlava, per quella notte almeno sarei dovuta rimanere al mio posto, rimandando i progetti all'indomani. Qualcun altro venne a cercarci, più tardi, a casa. Giuseppina stava ricamando il mio nome sulle etichette di tutti quegli inutili abiti che tanto non avrei mai indossato e mio padre stava riguardando un film in bianco e nero che davano in televisione, obbligandomi a rimanere in salotto con lui, le immagini mi scorrevano di fronte, senza che una sola riuscisse a fare breccia nel mio cuore: davanti agli occhi avevo Christian e poi Barbara, bella e sensuale e poi ancora Christian, le sue iridi di un intrigante viola cupo che le scivolavano sulle gambe, come avevo visto fare a tutti quei soldatini senza cervello all’Allodola, Barbara che si prendeva ciò per cui stavo lottando disperatamente, che si accendeva una sigaretta e veniva a raccontarmi come era stato, come faceva con Laura, quando andavamo a scuola. L’angoscia e la gelosia mi stavano facendo andare letteralmente fuori di me. Ad un tatto suonarono alla porta; Giuseppina si alzò, incredibilmente silenziosa ed andò ad aprire: udii delle voci, conosciute alcune, sconosciute altre, venne chiamato in causa mio padre. Erano quasi le undici di sera. Dopo qualche minuto, il piccolo gruppetto fu fatto accomodare in ingresso e mio padre mi chiamò a gran voce: non c’era alcun posto in cui potessi nascondermi così, un po’ incuriosita ed un po’ intimidita, mi affacciai da dietro la porta del salotto. Riconobbi la nonna di Barbara, bagnata fradicia, che piagnucolava come una

bambina e poi, subito dietro a lei, Laura, con gli occhi gonfi, in mezzo a quelli che indovinai fossero i suoi genitori. Chiudevano il drappello Roberto, l’unico carabiniere in dotazione al mio paese, con l’uniforme scura per tutta l’acqua presa ed un altro poliziotto che non mi sembrava di aver mai visto prima. Tenevano in mano degli oggetti pesanti e occhieggiavano nella mia direzione. - Prego, accomodatevi…Titti, siediti qui. – Mio padre fece strada e si accomodarono tutti sulla dura cassapanca della cucina, mentre a me fu riservato il posto d’onore a capotavola. Mi sentii improvvisamente sotto processo ed iniziai ad avere difficoltà a respirare: perché diavolo stavano tutti seduti a fissarmi con quelle facce appese? E che cosa volevano da me quei due poliziotti? - Sei stata tu! Sei stata tu! Strega!– Il latrato di Laura mi perforò le orecchie mentre il suo dito vindice puntava direttamente al mio petto. I suoi genitori le strinsero gli avambracci, tentando di calmarla. Io continuai a rimanere in silenzio. –Lei lo sa dov’è Barbara! Perché non glielo dici, strega? Che incantesimo le hai fatto? Barbara era la mia migliore amica, prima che arrivassi tu! – Scoppiò in lacrime, la povera cosa, quella povera cosa con i capelli color stoppia bruciata, che smoccolava accasciata sulla spalla di sua madre. “Ringraziami” avrei voluto gridarle “ti ho salvato la vita! La tua cosiddetta amica è una perversa manipolatrice e ti stava trascinando con sé lungo il sentiero della distruzione!”. - Io non ho idea… - balbettai invece, rossa in viso; sembrava la brutta scena di un film a colori degli anni cinquanta. - Bugiarda! Tu l’hai vista ieri! Io lo so, lo sanno tutti dove andavate insieme e che cosa facevate! – In quel momento Laura si alzò in piedi ed afferrò, con violenza, il pacco rettangolare che il poliziotto sconosciuto teneva appoggiato sulle proprie ginocchia. La trousse di mia madre, i suoi rossetti e le sue creme, gli ombretti che avevo preso e portato nella casa degli orrori di Barbara, si sparsero sul nostro tavolo da cucina, con un rumore sordo di cose che rotolino a pezzi. Vidi mio padre strabuzzare gli occhi, cercare di capire, strizzare le palpebre e infine riconoscere e ricordare e soffrire vedendo sul tavolo della cucina, un tavolo anonimo, come tanti, un tavolo da due soldi, i pezzi di mia madre che, negli anni, credeva di aver perso per sempre. Fu un po’ come se Laura ne avesse scoperchiato la tomba gettandoci i suoi miseri resti sulla faccia. - La mia Barbara è una brava ragazza… - Pigolava intanto la signora Giovanna

tra le lacrime. - Basta così, grazie… - In mezzo a tutta quella baraonda, il carabiniere che conoscevo appoggiò il mio vocabolario di greco accanto alla trousse di mia madre quindi, con l’aiuto del collega, accompagnò Laura, i suoi genitori e la signora Giovanna direttamente alla porta. Per loro poteva bastare. Per me, invece, il calvario era appena iniziato, il mio vocabolario sul tavolo lo testimoniava, quella chiazza, color ruggine, sull’angolo inferiore della copertina blu gridava al cielo vendetta, mostrava a tutti la mia colpa. - Titti? - Mio padre, ancora incredulo, si stava rigirando un rossetto tra le mani, scuotendo la testa, incapace di rimettere assieme i pezzi. - C’è qualcosa che vuoi dirci? – Il carabiniere del paese fece riaccomodare, con difficoltà, la propria pancia dietro alla tavola, sulla cassapanca. Il suo collega silenzioso aprì un taccuino ed iniziò a scribacchiare alcune parole, prima ancora che io iniziassi a parlare. Tentai di allungare il collo, improvvisamente interessata a ciò che quell'uomo, di me, stava sicuramente scrivendo, probabilmente da quelle sue parole vergate su di un blocchetto anonimo sarebbe dipesa la mia vita e quella dell'uomo che amavo. - Mia figlia non sa niente…Vero Titti? - Fu mio padre, incredibilmente, a venire in mio soccorso, all'ultimo momento, come il cavaliere senza macchia che indossa l'armatura, la sua bellissima armatura scintillante e parte al galoppo, lancia in resta, per salvare la principessa dal drago cattivo; era nuovamente il mio eroe, l'eroe dei miei quattro anni, l'unico in grado di proteggermi in quella notte di pioggia e di segreti. - Mia figlia e la sua amica hanno litigato ieri. Feci cenno di sì con la testa; si sentiva solo il graffiare della matita sulla carta; il secondo poliziotto prendeva celermente appunti, riempiendo foglio dopo foglio. - È per questo che Barbara aveva un taglio, sotto l'occhio? Un mio nuovo cenno del capo ed un altro foglio a quadretti venne riempito di segni incomprensibili. - Vi truccavate, a casa di Barbara, per…Per piacere ai ragazzi, all'Allodola? Mio padre trattenne il fiato, me ne accorsi; strinse con forza una matita nera, sottile e la frantumò, spezzandola con la mano. Non avrebbe avuto senso, a quel

punto, mentire; quando un carabiniere ti fa una domanda non vuole una risposta ma una confessione. Le incursioni mie e di Barbara all'Allodola dovevano ormai essere di dominio pubblico e, del resto, la quantità di trucchi e pozioni sparse sul tavolo testimoniavano che la nostra attività era ben più di un gioco tra adolescenti che si acconciano di fronte ad uno specchio. Erano strumenti di fascino e piacere, quelli che mio padre stringeva convulsamente tra le dita, erano ciò che le donne usavano per fare colpo, erano cosmetici professionali, bombe ad orologeria nelle nostre mani esperte, era ovvio che li avevamo usati per sedurre, negare non sarebbe servito a niente. Quindi annuii di nuovo. Il poliziotto silenzioso continuò a scrivere, senza fermarsi un attimo; notai solo in quel momento che aveva ancora addosso gli occhiali a specchio rigati di pioggia e mi chiesi che cosa non volesse far vedere del proprio sguardo agli altri. - Ma ieri non ci siete andate, vero? - Suppongo di no… - Di nuovo mio padre, la sua voce, solo apparentemente tranquilla, aveva una nota di strisciante agitazione che io ormai conoscevo bene. - Barbara, la ragazza scomparsa, è ata di qua ieri pomeriggio, verso le cinque, a cercare mia figlia. Piangeva. Mi ha detto che avevano litigato… Tacque, come incerto se continuare con il racconto oppure tacere; alla fine optò per la seconda scelta, ando momentaneamente sotto silenzio il mio disastroso rientro a casa della sera precedente. Una cosa alla volta. - C'è di mezzo un ragazzo? E' per lui che avete litigato? Feci nuovamente segno di sì con la testa. In effetti, vista da quella prospettiva, la storia che andava delineandosi poteva anche avere un senso: io e Barbara in competizione per un ragazzo,due amiche che litigano per gelosia, una delle due decide di andarsene facendo perdere le proprie tracce, non c'erano implicazioni, per me, in quel gesto, in quella sparizione, Christian non veniva nominato e non sarebbe comparso da nessuna parte. Sospirai di sollievo; il poliziotto silenzioso non fermò la matita nemmeno per un secondo. - E tu sei andata da quel ragazzo, ieri pomeriggio, dopo aver litigato con Barbara? Un altro mio cenno di silenzioso assenso. Non ebbi il coraggio di guardare dal lato del tavolo che stava occupando mio padre. - È tutto? - Domandò lui, con la voce improvvisamente stanca.

- Tu non hai idea di dove possa essere andata la tua amica? - Riprese Roberto, in vece mia - Avevate un posto segreto, oltre alla casetta in giardino? Rabbrividii al solo pensiero che quella casetta maledetta venisse definita come il nostro posto segreto: su quel materasso sporco avevo lasciato i brandelli della mia innocenza, avevo barattato la mia anima in cambio di qualche trucchetto di seduzione, non era il mio posto del cuore, avrei desiderato ardentemente di vederlo bruciare, possibilmente con dentro la sua proprietaria. La sua proprietaria che, al momento, risultava comunque ancora ufficialmente scomparsa. Un altro cenno negativo da parte mia, ripetuto, convinto, perché era vero, io non sapevo proprio dove potesse essere andata a cacciarsi Barbara, c'era solo quel retropensiero su di lei, sulla Pieve e su Christian che, però non avevo coraggio o voglia di esplorare ancora. - Mia figlia può andare, Roberto? E' molto stanca e, di solito, a quest'ora è già a letto. Il grasso carabiniere che entrambi conoscevamo perché ci aveva accolti al nostro primo arrivo in paese, accennò ad un sorriso nella mia direzione, il collega taciturno con gli occhiali a specchio contrasse la mascella ma non disse nulla; quando feci per alzarmi, la sua destra bloccò il mio braccio impedendomi di lasciare il mio posto a capotavola, mentre la sinistra mi srotolò davanti agli occhi un foglio. Per un attimo mi si mozzò un grido in gola. La pagina che campeggiava di fronte a me non era il foglio scritto di un blocco per appunti e nemmeno un'insieme di misteriosi geroglifici stampati su di una pergamena antica; era una foto segnaletica, di Christian indovinai, un Christian più giovane, sbucato dal ato, il Christian dell'epoca del patto con ewas, messo di fronte e poi di profilo, le sue misure in pollici, stampigliate sotto di lui ed una scritta, inequivocabile, come quella che compariva sulla testa dei fuorilegge nei film sul vecchio West “Wanted” recitava, conferendo al quadro un'aria incredibilmente surreale. Il poliziotto silenzioso, quello che faceva il duro, puntò l'indice verso il viso di Christian, i begli occhi viola fissavano, sprezzanti l'obiettivo e mi guardò, con fase interrogativo. Deglutii quindi, molto lentamente, mossi il capo da destra a sinistra, sperando di metterci quanta più convinzione fossi in grado di trovare, mi costrinsi a guardare quella foto senza realmente vederla, a confondere i pixel

dell'immagine sulla mia retina, fino a non riuscire più a percepire il soggetto di quegli scatti. Non era Christian, non era il mio Chris quello che stavo guardando, non era niente di più che un ammasso di puntini colorati che niente avevano a che fare con lui e con me. Le mie gambe, sotto al tavolo, tremavano senza riuscire a fermarsi. Mio padre e Roberto si scambiarono una specie di cenno silenzioso tra uomini; compresi che mi era stata accordata una certa quota di fiducia, una specie di piccola proroga temporale, un'ipoteca sulla mia innocenza: lo spettacolo era stato convincente, per quella sera, almeno, sarei stata graziata. Il poliziotto silenzioso non parve felice dell'accordo appena siglato, dalle rughe di indignazione che gli si indovinavano agli angoli degli occhi e che gli arrivavano quasi fino alle tempie, tradendolo dal di dietro dei suoi occhiali a specchio, si capiva che la mia dichiarazione muta non doveva averlo soddisfatto, non del tutto almeno. Ma il figlio di Roberto andava a scuola con me, lui e mio padre si offrivano vicendevolmente il caffè al mattino, entrambi forestieri del paese, condividevano una sorta di cameratismo tra stranieri che faceva fare loro squadra. Il Robocop dalla fibra d'acciaio dovette cedere, almeno momentaneamente e la sua mano abbandonò il mio braccio. Mi allontanai con calma, infilando un o dietro l'altro, le mie gambe avevano la consistenza fluida del budino e avevo la gola secca come se avessi corso i mille metri nel deserto ma cercai di non tradirmi e mi avviai, piano piano, in direzione della mia camera da letto. Il mio intento era duplice: da un lato non volevo dare, al robot con gli occhiali, l'idea che io morissi dalla voglia di fuggire, sarebbe stato un po' come ammettere che avevo, effettivamente, qualcosa da nascondere e, dall'altro desideravo sentire almeno una parte di quello che i tre uomini, nella mia cucina, si stavano ancora raccontando e che aveva di sicuro a che fare con Christian. - Chi è? - Sussurrò mio padre, indicando la fotografia dell'uomo con cui progettavo di fuggire il giorno dopo. - È un fuggiasco. Ricercato dalla polizia americana; abbiamo ragione… Hem – Roberto si schiarì la voce – Il collega della Digos ha ragione di credere che si aggiri per queste montagne e che si nasconda qui da qualche parte. Qualcuno, in paese, lo ha visto, gli ha dato qualche lavoretto da fare, pare… - Ma qui non ha cerato problemi – Intervenne mio padre.

- Qui no…Ma in Texas ha… - Roberto tentennò, evidentemente chiedendosi quanto fosse saggio proseguire e rivelare magari pezzi di indagini ancora coperte dal segreto istruttorio. - Stuprato ed assassinato una ragazzina. - La voce metallica, un po' nasale, dell'agente che fino ad allora era stato silenzioso, mi fece precipitare il cuore fin sotto alle ciabatte. - E si è dato alla fuga. Stanno inseguendo quel figlio di puttana da sei anni. E' riuscito a sfuggire alle polizie di mezzo mondo, facendo sempre perdere le proprie tracce. Deve rispondere di stupro ed omicidio. La ragazzina aveva appena compiuto dodici anni, sembra fosse ancora viva, quando è stata abbandonata per strada, in mezzo al niente. Peggio degli animali. Cadde un silenzio imbarazzato nella mia cucina, mentre nel mio cervello esplodeva qualcosa di molto simile ad una bomba atomica di sentimenti. Non era possibile, ci doveva essere un errore, non potevano parlare di Christian, del mio Chris, di quell'uomo dolce e tormentato di cui mi ero innamorata alla velocità della luce, loro stavano parlando di ewas solo che non lo sapevano, nessuno di quei tre idioti supponenti poteva nemmeno lontanamente immaginare quanto fosse meravigliosa la persona cui stavano dando la caccia. E poi una vocina, molto simile a quella di Barbara, pungente, seducente, una di quelle vocette saccenti che non si potevano non ascoltare iniziò a farsi strada, attraverso gli strati di cotone delle lenzuola, mentre tentavo disperatamente di prendere sonno, mordendo il cuscino per non urlare. Christian era un angelo e Christian era un diavolo, Christian si bucava, quando si metteva una spada nel braccio, chi sapeva di quali cose poteva essere capace, quell'indiano dagli occhi viola? In definitiva, io, Christian, non lo conoscevo affatto, sapevo di lui solo ciò che lui mi aveva voluto raccontare ma non avevo la benché minima idea di quanto profondo potesse essere l'abisso che albergava in lui e nel suo animo. Christian fuggiva da qualcosa, questo me lo aveva detto e adesso sapevo, con esattezza, da che cosa stava cercando di scappare. La bambina di cui i poliziotti avevano narrato la triste fine aveva appena compiuto dodici anni, io ne avevo a malapena quindici, Barbara ne doveva avere avuti pochi di più quando suo zio aveva abusato di lei…Pedofilo, così lo avrebbero chiamato i giornali e così andava correttamente definito chi corrompeva una bambina innocente. Ma Christian non mi aveva affatto corrotta! Protestai, immaginando di dover testimoniare ad un qualche fantomatico processo, con le lacrime agli occhi e la voce ferma, di fronte ad una folla di squali e giornalisti che si contendeva, a colpi di flash, la notizia più succosa e ghiotta del momento. Ma potevo poi esserne realmente certa? Ero sempre stata cosciente, in sua compagnia? Soltanto il giorno prima gli

ero svenuta tra le braccia e mi ero risvegliata sotto alla sua tenda! Mentre dormivo, lui mi aveva addirittura scattato una fotografia. E poi aveva avuto paura di toccarmi, quasi timore, a starmi vicino; in quel momento in cui io avevo cercato di dirgli che lo amavo, lui mi aveva allontanata, con dolcezza ma in maniera ferma, quasi definitiva. Che cosa aveva detto? Timing, così lo aveva definito lo stacco temporale tra di noi, tra le nostre età. Christian era grande e forte, avrebbe potuto fare di me qualsiasi cosa, per quale ragione avrebbe dovuto fermarsi, se niente oltre alla lussuria lo avesse spinto avanti? Però c'era sempre quella bambina di soli dodici anni, abbandonata a morire, in un deserto Texano, lasciata a decomporsi, gli occhi vuoti, la bocca spalancata, una coetanea di Barbara, se solo avesse potuto proseguire, lungo il corso della propria esistenza. Non riuscivo a pensare lucidamente e gli occhi, a dispetto di tutto, mi bruciavano e mi si chiudevano per il sonno: avevo trascorso più di una notte agitata, da quando l'immagine di Christian si era impressa, anima e corpo, ben fissa sopra al mio cuore ed il mio organismo, contro ogni previsione, aveva bisogno, bramava il riposo che alla mente non sembrava essere concesso. - Tieni chiusa a chiave la tua porta, stanotte… - Roberto ammonì mio padre, prima di levare definitivamente il disturbo, portandosi dietro il veleno dei segreti che aveva sparso sul nostro tavolo e con cui aveva ammorbato la cucina di casa. Udii mio padre serrare l'uscio a doppia mandata ed aggiungervi il rinforzo della catena in metallo. Mi domandai, lugubremente, se un chiavistello di acciaio potesse servire davvero a tenere lontano ewas, il diavolo che, nonostante tutto, come Chris aveva predetto, era riuscito a trovarci, attaccandosi alle nostre calcagna e sconvolgendo, in un solo secondo, le vite di tutti noi. Mio padre spense le luci della cucina e quelle del salotto, Giuseppina doveva essere andata a dormire da un pezzo, quindi ò oltre alla mia camera e scivolò rapidamente nella sua ma qualcosa lo spinse a ritornare indietro ed a fermarsi davanti alla mia porta. Bussò. Preferii tacere ma lui spalancò l'uscio ed avanzò, incespicando nei pantaloncini che avevo abbandonato in mezzo al pavimento. Ficcai la testa sotto al cuscino sperando che se ne andasse, implorandolo, mentalmente, di non parlare. Non avevo spiegazioni da dargli quella notte, anche io, come lui, avevo l'animo in tumulto e il cuore pieno di angosciose domande che cozzavano le une sulle altre, sommergendo la mia mente che annaspava, in cerca di un appiglio.

- Che ci facevi, all'Allodola? - Sussurrò mio padre, la voce affranta del marito tradito che venga a sapere di una sequela infinita di corna perpetrate, negli anni, alle sue spalle. Dunque di questo voleva parlare, non dello stupratore pedofilo indiano che poteva avere qualcosa a che fare con me, o della sparizione di Barbara, l'amica che, dopo il nostro litigio, era venuta a cercarmi, con un occhio nero e un taglio appena sotto lo zigomo. - Con i trucchi della mamma, poi… Mormorò, la voce incrinata dalla sofferenza e capii di averlo colpito a freddo e molto, giù, nel profondo. Probabilmente troppo. - Io davvero non so… Rispondimi, maledizione! - Quasi gridò, assestando un pugno alla testiera del mio letto, che mi fece vibrare la mascella. Non dissi nulla. Non avevo, oggettivamente, niente da dire, o meglio, niente che lui avrebbe potuto comprendere, niente per aiutarlo a lenire il dolore. Faceva semplicemente parte della mia crescita, il desiderio di piacere, quello di mostrarmi ed ottenere lodi ed approvazioni, la voglia che tutte abbiamo di essere guardate, non solo viste, bensì notate, accarezzate dagli sguardi degli altri, apprezzate, valorizzate per il nostro aspetto e per il nostro cuore. Forse era colpa sua, del suo amore annacquato, del suo non riuscire più a cogliermi al di là della mia armatura camaleontica. Perchè da anni, ormai, indossavo un'armatura anche io, brutta, trasprente, cambiacolore, l'avevo pagata a caro prezzo, un soldo di dolore per ogni piastra che mi rendeva invisibile al mondo. Magari mi ero stancata di essere la bambina invisibile, forse se lui mi avesse guardata e mi avesse parlato come si fa con una persona adulta non avrei sentito tutto quel bisogno di essere notata da altri. Ma le cose, ormai, erano irrimediabilmente andate così e non si potevano raddrizzare, un po' come le pieghe di un abito stirato male, con il ferro troppo caldo: o ce lo facciamo piacere oppure buttiamo via l'abito e ne compriamo uno nuovo. Strisciò i piedi, dopo un paio di secondi di attesa e si portò finalmente verso l'uscita. - Guai a te se ti avvicini a quella porta. - Terminò redarguendomi a voce bassa, prima di lasciare la mia stanza. “Non temere” pensai, ricominciando finalmente a respirare, mezza soffocata dall'ovatta del cuscino che avevo usato come scudo per tenere mio padre ostinatamente al di fuori. “Non è a quella porta che mi devo avvicinare.”. In effetti sarebbe stato sufficiente un raggio di sole. Ed una grondaia, appena fuori dalla mia finestra.

***

E finalmente, anche quella notte trascorse: agitata, umida, sudata, complicata da pensieri e fantasie che il mio inconscio proiettava all'impazzata sullo schermo della mia mente e a cui, mio malgrado, la parte conscia di me doveva partecipare senza potervisi sottrarre. Benedissi il nuovo giorno, ferragosto, ed i raggi tiepidi di un sole timido ancora imbrigliato da spesse nubi grigie, sfilacciate alle estremità e mi alzai dal letto piena di una smania che poteva definirsi in una sola maniera: terrore. Mi lavai il viso silenziosamente, la mia casa era taciturna quel mattino, essendo giornata di messa, mio padre e Giuseppina dovevano esservisi recati senza avvertirmi, una piccola concessione alla bambina stremata dall'interrogatorio della sera prima. Mi avvicinai dapprima, di soppiatto, alle loro camere da letto quindi, confortata dal vuoto, oltreai la soglia del salotto e della cucina: non c'era un'anima viva. Il catenaccio era stato disinserito dall'interno ma, quando provai ad abbassare la maniglia, mi scontrai con la resistenza della porta d'ingresso che era stata chiusa a chiave. Scossi la testa, lanciando un pensiero in direzione di mio padre, che si illudeva ancora che una porta sbarrata avrebbe potuto tenermi dentro, al sicuro, dal mondo di fuori; magari quello era anche possibile. Ciò che non si poteva davvero più fare era tenermi all'oscuro del mio mondo interiore, al sicuro da me stessa. Ritornai in camera e mi vestii: non avevo tempo da perdere. Sbarrai la porta ed accesi la radio a tutto volume, immaginai che quelle voci incorporee senza padrone avrebbero potuto darmi un po' di vantaggio, quindi guardai l'orologio: era quasi mezzogiorno, ancora trenta minuti circa e la messa sarebbe finita, non si poteva aspettare un secondo di più. Stavolta mi attrezzai meglio: un paio di pantaloncini addosso ed una tuta di ricambio nello zaino, due o tre capi di biancheria pulita, un ombrello, un paio di scarpe, le mie due camicie da notte più carine (io e Christian avremmo dormito insieme sotto alla sua tenda militare? A quel pensiero mi ritrovai il cuore in gola), spazzolino e dentifricio. I trucchi di mia madre mi erano stati confiscati, perciò non potei fare altro che sperare che il mio viso potesse piacere al mio amore esattamente per quello che era. Mi issai lo zaino sulle spalle ed uscii sul terrazzino, incurante di ciò che mi stavo

lasciando dietro; per un attimo mi sfiorò il pensiero del pavimento in legno della mia camera, che si sarebbe probabilmente gonfiato d'acqua se la pioggia ci fosse arrivata sopra, ando attraverso alla finestra che avrei lasciato spalancata ma lo soffocai con uno sbadiglio. Il pavimento, così come quella casa ed i suoi abitanti, non erano più affare mio ormai. Mio padre meditava di rinchiudermi in un collegio, la prima mossa verso l'abbandono l'aveva effettuata lui, a me spettava la sorpresa della contromossa, la possibilità di lasciarlo io, per prima, arrogandomi il diritto di decidere come quell'abbandono si sarebbe svolto. E sarebbe andata esattamente così, decisi, una sparizione in piena regola: Barbara sarebbe tornata a casa, di questo ero certa, un'altra ragazzina, invece, sarebbe scomparsa e chissà, magari negli anni a leggenda si sarebbe aggiunta leggenda, ed altri bambini, in gita al lago misterioso, avrebbero avuto i peli delle braccia dritti dalla paura, immaginando di venire sfiorati dalla nuova ragazza fantasma. Alla fin fine, avrei addirittura fatto del bene: al mio paese, aumentandone i profitti derivanti dal turismo, a mio padre, permettendogli di risparmiare sul collegio e di vivere la sua nuova vita assieme alla polacca saccente e al mio cuore, concedendogli il lusso di poter battere, sistole e diastole, accanto all'uomo che amava. E poi c'era Christian e il peso delle accuse che pendevano sul suo capo, accuse che io avrei cancellato, giorno dopo giorno, con la mia silenziosa presenza al suo fianco. E se Christian non mi avesse voluta? C'era anche questa ipotesi, da vagliare, un'ipotesi che mi faceva molta paura. In quel caso, però, avrei cercato di non essergli di peso e l'avrei semplicemente pregato di darmi un aggio fino ad un posto abbastanza lontano sulla faccia della terra, lontano dal paese e da mio padre, un posto in cui ricominciare tutto da sola. Giurai che, se lui avesse preferito proseguire lasciandomi indietro, non l'avrei mai e poi mai implorato per riprendermi con sé, non sarei stata una catena da trascinare o di cui non ci si può sbarazzare. Mi sembrava un accordo accettabile, perciò mi ripetei mentalmente frasi e pensieri, tentando di renderli i più chiari e lucidi possibili, sia per me che per lui, cercando di anticipare obiezioni e domande, rispondendo a tono alle difficoltà oggettive che si sarebbero potute presentare mentre scivolavo, silenziosa ed agile, lungo la grondaia resa viscida dalla pioggia appena trascorsa, giù dal terrazzino e raggiungevo la mia bicicletta, appoggiata al muro principale della farmacia. Il paese, dal canto suo, sembrava come paralizzato: le persone che potevano camminare o per lo meno reggersi in piedi, dovevano essere più o meno tutte a messa, a riempirne i banchi, per farsi notare, per poter dire di essere stati presenti

in quella grande cerimonia che si rinnovava di anno in anno. Poco importava che poi quelle stesse persone bazzicassero l'Allodola alla ricerca di fugaci piaceri o che conducessero vite nascoste e parallele, di cui era meglio non dire, al riparo di anonimi numeri al fermo posta, la statua in gesso della Madonna Assunta sembrava abbracciare tutti e perdonare qualsiasi cosa oppure, dall'alto del suo trono sorretto da putti, nuvolette e cherubini, non le doveva riuscire facile scrutare, giù, fino al sagrato della chiesa per distinguere, a colpo d'occhio, santi e peccatori tra la folla confusa che pregava, a capo chino, muovendo le labbra ma immobilizzando il cuore. Da tempo immemore, ad ogni messa comandata cui tutto il paese partecipava, ritenevo che la Madonna dovesse avere urgente bisogno di un bel paio di occhiali nuovi. Giunsi al sentiero che ormai conoscevo ad occhi chiusi un po' dopo mezzogiorno, senza incontrare nessuno sul mio cammino, né pance strizzate in uniformi da carabiniere, né inquietanti lenti a specchio, non c'erano, come si usava nel medioevo, manifesti affissi ai tronchi degli alberi che inneggiassero al ritrovamento, vivo o morto, del ricercato in fuga o notizie che parlassero del ritorno in paese della ragazza scomparsa. A mezzogiorno esatto le campane della Chiesa suonarono a festa: non avevo ancora molto tempo, perciò accelerai, pedalando convinta lungo la salita che mi avrebbe proiettata di lì a poco dentro il mio futuro color confetto. Solo che Christian non c'era, o meglio, c'era la sua tenda, impacchettata alla perfezione e chiusa dalle strisce che profumavano di cuoio, c'era uno zaino, anch'esso mimetico, da cui spuntava qualche posata in alluminio ed una borraccia d'acqua, c'erano i suoi vestiti, i jeans e la canottiera scura che si asciugavano al sole, la sua moto, il suo cavallo d'acciaio, quello in groppa al quale avremmo dovuto fuggire invece no, al suo posto, l'erba verde calpestata ed un po' ingiallita, gli steli piegati e spezzati in più punti, testimoniava, muta, l'assenza del peso che l'aveva sormontata fino a poco prima. Il mio cuore cominciò ad accelerare i suoi battiti. - Chris! Chris! Christian! - Chiamai, prima sottovoce e poi mettendomi ad urlare; il vento della valle si portò via la mia voce, trascinandola chissà dove. Entrai di corsa nella Pieve, le suole gommose delle mie scarpe da ginnastica squittirono come un branco di topolini spaventati ma Christian non era nemmeno lì; feci due o tre giri su me stessa, senza decidermi sul da farsi; la Pieve era silenziosa, ad eccezion fatta di una colomba bianca che, sentendomi gridare,

decise di volarsene via a cercare un riparo più tranquillo, in un frullo di ali e piume soffici. Ero completamente sola. - Christian! - provai a chiamare ancora: mi ero preparata a tutto, tranne alla possibilità che anche Christian avrebbe potuto abbandonarmi, chissà come mai avevo pensato che, almeno lui, mi avrebbe aspettata, che, magari, a lui sarebbe piaciuto scoprire come ero fatta veramente. E invece no. Una lacrima di delusione mi rigò la gota destra. E adesso, che cosa potevo fare? Tornare a casa? Risalire lungo la grondaia? Aspettare di vedere le etichette cucite da Giuseppina sui nuovi vestiti che non mi piacevano neppure, facendo are un giorno dopo l'altro, fino all'ingresso in collegio? E se non fossi tornata a casa, che altro avrei potuto fare? Non avevo che le gambe ed una ridicola bicicletta rosa: il poliziotto robotico con gli occhiali a specchio mi avrebbe ritrovata nel giro di ventiquattro ore, efficiente, freddo e mi avrebbe riconsegnata a mio padre, consigliandogli magari di sculacciarmi un po' più spesso. Mi sedetti sulle fresche piastrelle bianche e nere, mentre gli occhi mi si appannavano ed il naso cominciava a dare segni di cedimento e fu allora che lo vidi: un oggetto rotondo, abbandonato in un angolo, che brillava, catturando l'unico raggio di sole capace di penetrare la fitta cortina di polvere che aveva protetto la Pieve negli anni. Mi avvicinai con cautela e lo sollevai, prendendolo con la punta delle dita ed un trillo argentino, come il suono di mille camlini festosi, mi trafisse il cuore, non appena lo scossi, incuriosita dalle sue fattezze. Il braccialetto di Barbara, non avevo alcun dubbio, quello che lo zio le aveva inviato assieme alla propria foto di nozze, comprato su chissà quale bancarella per mezzo dollaro americano, un regalino squallido, da due soldi, un gingillo che avrebbe dovuto fare felice la bambina cui era destinato. Ed eccola qua l'ultima mossa, scacco alla regina: arroccata nel mio castello, le pedine, le armate della mia maestra mi avevano raggiunta e spodestata, assediandomi e penetrando fin nel profondo di ciò che mi apparteneva. Avevo riposato su quelle piastrelle e sognato di farci l'amore con Christian, di baciarlo, di accarezzarlo, avevo giocato ad immaginare il mio, il nostro futuro, seguendo con gli occhi gli incastri bicolori di quelle forme geometriche che il terremoto aveva solo parzialmente sovvertito e adesso scoprivo l'amara verità. L'altra regina, la regina nera, quella che stava sempre un o avanti a me, si era

impossessata del mio alfiere e del mio re, li aveva giocati entrambi, rigirandoseli sulla punta delle dita: a mio padre, il mio alfiere, aveva fatto credere cose, aveva fatto capire che c'era di più, rispetto a ciò che lui stesso immaginava, qualcosa di sordido, che si annidava nel cuore della sua bambina, un tradimento viscido, proprio dentro la sua casa e a Christian, al mio re, doveva aver fatto intravedere illusioni, con le sue arti magiche e seduzioni che andavano ben oltre la mia misera capacità di truccarmi gli occhi con mano ancora insicura. Dunque la partita era finita. Quel braccialetto non era stato abbandonato lì per caso, non c'era niente che Barbara non fe senza averlo prima programmato, senza averne saggiato pregi e difetti, pericoli ed opportunità: quel braccialetto era lì, per me, puramente per il mio disastro e per il suo divertimento, stava a significare che lei aveva calpestato quelle mattonelle di sera, che era scivolata fin lì sorprendendo Christian nella sua solitudine, accarezzandolo alle spalle nel momento di maggior vulnerabilità. Corsi fuori dalla Pieve, con il respiro spezzato, setacciai l'erba in cerca di altri segni di falò, resti di siringhe liquefatte, qualsiasi cosa: avevo visto come poteva trasformarsi Chris, come una sostanza iniettata nel suo braccio avesse il potere di cambiarlo, facendo emergere il lupo affamato, il suo lato oscuro. Immaginai Barbara, la seducente, bellissima, ingannatrice Barbara, il suo dannato braccialetto che friniva, come la coda del serpente a sonagli, il suo profumo che, all'Allodola, accendeva i maschi: abbracciava Christian da dietro, gli faceva scorrere un indice sui muscoli della schiena poderosa, gli soffiava parole all'orecchio, mentre il fuoco del falò li riscaldava entrambi, inondandoli di una luce dorata e sensuale. Quanto avrebbe potuto resistere Christian al canto di quella sirena ammaliatrice? Gli uomini di Ulisse si erano gettati in mare ed erano morti per molto, molto meno. Ritornai dentro la Pieve come un'Erinni, localizzai il braccialetto lì dove le mie dita lo avevano fatto cadere, un attimo dopo averlo riconosciuto, come se il metallo ridicolo con cui era stato fatto avesse potuto prendere fuoco a contatto con la mia pelle e gli scagliai un calcio portentoso; mi accanii per oltre cinque minuti su quell'oggettino, scalciando e sbraitando, calpestando e stritolando finché l'elastico non si spezzò ed i camlini, lordi di fango, muti, intasati di muschio, non si sparsero rotolando sul pavimento bianco e nero. - Maledetta! Maledetta! Maledetta! - Continuai a gridare fino a quando non mi mancò il respiro e dovetti appoggiarmi alla parete della Pieve per riprendere fiato. Se Christian e Barbara avevano fatto…Se lui e lei…Sì, insomma, se adesso Barbara era la ragazza di Christian non c'era più niente che io potessi fare

a parte trovarmi un posto dove andare silenziosamente a morire. In un colpo solo, Barbara si era impossessata di tutte le mie possibilità, di entrambe le mie strade, lasciandomi con un palmo di naso: poteva tornare a casa, in paese, sarebbe stata accolta come una regina ed i festeggiamenti per San Rocco si sarebbero presto trasformati in un giubilante Te Deum, in un inno di ringraziamento per il suo ritrovamento. Barbara la bella era tornata a casa; la gioia di averla riavuta avrebbe fatto tacere bocche e chiudere occhi, il perdono le sarebbe stato accordato prontamente da chiunque, in primis dalla signora Giovanna, le sue scappatelle all'Allodola sarebbero state ridimensionate, niente più che un gioco infantile con una ragazza sbagliata, quella ragazza che, ora, non aveva più un posto dove andare. E se invece lei e Christian fossero rimasti insieme, Barbara non aveva che da scegliere la destinazione verso cui la moto cromata l'avrebbe portata, macinando chilometri su e giù per i cinque continenti, stretta a quello che avrebbe dovuto essere il mio uomo, a vivere la vita, il futuro, che avevo cercato di preparare per me stessa. Barbara aveva avuto tutto, come sempre, il mondo intero era nuovamente ai suoi piedi e glielo avevo servito io su di un vassoio d'argento e brillanti. Come diavolo era successo? Come avevo potuto essere così miope e sprovveduta? - Ti senti meglio, ora, Hanil? Christian avanzò, con cautela, all'interno della Pieve, il suo o felpato non fece alcun rumore, avvicinandosi a me. - God, you're a dangerous woman… - Commentò, impressionato dalla fine che avevo fatto fare al braccialetto della Regina Nera. - Ma dove sei stato? - Gli corsi incontro, tempestandogli il petto di pugni, ero arrabbiata, furiosa e pazzamente felice di vederlo, a torace nudo, con i suoi jeans blu e gli affezionati stivali ai piedi. Lui mi afferrò entrambe le mani ed affondò le sue pupille nei miei occhi, sollevandomi di una decina di centimetri da terra senza alcuna difficoltà. - Sei così impetuosa, Hanil, è questo che a…Che mi piace, di te. Non cambiare mai! - Concluse tossicchiando e riappoggiandomi delicatamente al suolo. - Piantala! - Gli sferrai un calcio negli stinchi, spinta da una furia cieca che poteva avere un solo nome: gelosia. - Lei dov'è? - Gli chiesi, occhieggiando lo spazio alle sue spalle e constatando, con piacere, che era assolutamente vuoto. A parte noi due non sembravano esserci altri esseri umani lì dentro.

- Lei, chi? - Lui ridacchiò sotto la barba ancora da fare e si ò un dito sul mento, come fingendo di sforzarsi a ricordare. Stupido orgoglio maschile. - Lei, Barbara! Sono sicura che è stata qui! - Con un piede gli indicai, disgustata, la strage di camlini che avevo perpetrato pochi secondi prima della sua comparsa; non avrebbe potuto mentirmi. - Ah vuoi dire pancew… Lo fissai senza capire e vidi il suo sguardo incupirsi quando riprese: - La piccola ape fastidiosa che ti stordisce con il suo incessante ronzio e poi affonda il pungiglione quando meno te lo aspetti… Rimasi muta, assimilando quella definizione di Barbara data da Christian: non sapevo quante ore avessero trascorso assieme o che cosa avessero fatto ma lui l'aveva capita e tratteggiata, con quelle poche parole, per ciò che realmente era. Le ho permesso di dormire qui e di mangiare un po' dei miei fagioli e stamattina l'ho mandata via, prima che si scolasse la mia unica bottiglia di whiskey. Ha detto di essere tua amica, girl e che l'avevi mandata tu… - Non è mia amica, Chris, te lo giuro! Io non le ho detto niente, non avrei mai rivelato a nessuno il nostro, il tuo nascondiglio, devi credermi! - Lo implorai, seguendolo mentre si dirigeva, a o lento, verso la tenda ed i suoi pochi effetti personali; l'idea che lui potesse considerarmi una traditrice, una che si era venduta i suoi segreti preziosi in cambio dell'amicizia viscida con la ragazza più “in” del paese era un pensiero che non sarei stata capace di digerire. Io ero venuta per stare con lui e per capirlo, per difenderlo e per avvertirlo: c'era un segugio sulle sue tracce. Solo in quel momento mi venne in mente il poliziotto taciturno dagli occhiali a specchio ed un lungo brivido mi corse giù per la spina dorsale. Chi poteva dire quanto tempo avevamo ancora a disposizione? - L'ho allontanata, girl, stai tranquilla, puzzava di guai, quella ragazza, ci si era tuffata dentro con tutte le scarpe. Le ho detto che non volevo guai e di tornarsene in fretta a casa ma non sono sicuro che lo abbia fatto sul serio. Dunque era andata così: il mio Christian aveva resistito al fascino della serpe ammaliatrice, il suo morso letale non lo aveva colpito né il veleno pericoloso si era sparso per il suo corpo, incendiando i suoi sentimenti; eravamo ancora kola e hanil ed un sorriso molto femminile mi si dipinse subitaneamente sulle labbra.

- You beated her, right? - Dopo qualche secondo di riflessione, Chris mi afferrò il mento con le dita, indovinando quello che era successo alla faccia di Barbara: doveva avere ormai un bell'ematoma sotto l'occhio, avrei dovuto sentirmi in colpa, lo ammetto ma sondai inutilmente il mio animo in cerca di un sentimento tale senza trovarlo. Al momento risplendevo di qualcosa che si sarebbe potuto definire semplicemente la luce della vittoria. - Tu l'hai picchiata… - L'altro ieri… - Mormorai, abbassando a terra uno sguardo di finta contrizione. Poi sono venuta da te e lei deve avermi seguita, almeno in parte, indovinando la strada. E' scomparsa ieri mattina presto, immagino che sia venuta a vedere da chi correvo tutti i pomeriggi, è una ragazza morbosamente curiosa. - Terminai. Avevo molti altri vocaboli in mente che meglio si adattavano a Barbara ed alla sua mania di voler sapere ogni dettaglio della mia vita privata ma mi bloccai; Chris aveva voltato gli occhi sul proprio campo base in disordine, le sue iridi avevano incontrato il bozzolo della tenda chiusa, i suoi bagagli a metà, la moto argentata riportata al punto di partenza che riluceva da lontano, invitandolo silenziosamente a cavalcarla. Adesso non sorrideva più. - No… - Mormorai, attaccandomi al suo braccio. - Ti sarei venuto a salutare, Hanil – rispose lui, indovinando il mio pensiero. Stanotte, mi sarei arrampicato sul tuo davanzale come un principe delle favole… - Io non voglio un Principe delle favole! Al diavolo i principi e le principesse! Sbottai - Io voglio te! - Glielo avevo detto, finalmente ci ero riuscita. - Io voglio te; - ripetei, con voce pacata e tranquilla. - No, no, no, Hanil, no, tu non vuoi, non puoi volere…Tu sei solo una bambina! - Io non sono una bambina! - Gridai, con quanto fiato avevo in corpo – Non sono una bambina! E va bene – aggiunsi, asciugandomi delle lacrime inopportune che mi stringevano la gola premendo per saltare fuori – ho quindici anni ma non sono una bambina! Ho smesso di credere ai principi ed alle favole e non gioco più con le bambole! Io ti amo, Chris! - Tu non sai quello che dici… - Mormorò lui, arretrando di qualche o; si abbassò ed iniziò ad armeggiare con le cinture della sua tenda, già perfettamente chiuse. - Io lo so invece, Chris! Pensi che io non sappia amare? Credi che ti amerò in

maniera diversa o che io sarò diversa quando avrò diciotto, venti, trenta o cento anni? Pensi che io non possa provare l'amore, credi che mi stia inventando tutto? - La voce mi si spezzò e dovetti prendere fiato un paio di volte per riuscire a proseguire. - Guardami, Chris. Io ti amo come non ho amato mai nessuno prima di te e sono certa che non amerò nessuno dopo di te e non dirmi… - Alzai una mano di scatto, facendogli morire l' obiezione sulle labbra – non dirmi che avrò una vita lunga e che adesso non posso sapere, perché conosco il mio cuore. Una donna lo sa, quando si innamora Chris, questo te lo posso giurare; lo sapeva mia madre e lo so io e lo sapranno le mie figlie, perché quando succede noi non siamo più le stesse, smettiamo di essere ciò che eravamo per diventare un'altra cosa, la metà di un altro essere. Tacqui; Chris scuoteva la testa dolcemente. - Oh, Hanil, honey, what, how…Che cosa ti ho fatto? - Tu non mi hai fatto niente, Christian Norris, nessuno di noi ha fatto niente. E' semplicemente capitato… - Gli accarezzai timidamente un avambraccio; non si ritrasse, era troppo impegnato a riflettere sulle parole che gli avevo appena gettato addosso. - E non c'è niente che gli altri, che il mondo, possa fare, a questo punto. Io ti amo, questo solo so. Che ti piaccia oppure no. - Conclusi, abbassando la voce. Perché forse il problema ero io e la verità era che non gli piacevo abbastanza. Mi ritirai in me stessa, facendomi piccola, per la prima volta alle prese con la timidezza dell'amore, con quelle insicurezze da donna, incerta di sé stessa, del proprio corpo; non avevo mai pensato a me come a qualcuna capace di attrarre, in termini di bellezza e magnetismo, avevo iniziato a sognare con Christian e adesso mi ritrovavo a fare i conti con l'incompiutezza della mia educazione sentimentale. Non avendo avuto una madre con cui potermi confrontare, avevo interiorizzato un modello femminile inarrivabile di bellezza ed onestà, un modello che io stessa avevo contribuito a sopprimere, questo non avrei potuto dimenticarlo mai. Come essere sicura, adesso, delle mie capacità, del mio poter piacere realmente a qualcuno? Fu in quel momento che Christian mi prese in braccio: mi sollevò da terra come fossi stata una piuma quindi, camminando e sorreggendomi contemporaneamente contro al suo petto, si sedette su di un pezzo di cornicione grigio che doveva essere stato precipitato direttamente dal paradiso della cuspide della torre campanaria all'inferno dell'erba verde del suolo dalla forza vindice del terremoto, continuando a tenermi stretta a sé. Le mie narici si riempirono del suo

odore maschio, di sapone, cuoio e muschio, i miei occhi si dilatarono per mettere perfettamente a fuoco il suo viso, a meno di dieci centimetri dal mio. Non eravamo mai stati così vicini prima. - Quanti anni hai, Hanil? - Mi chiese sottovoce, accarezzandomi la guancia sinistra con un dito. - Quindici…Lo sai… - Deglutii; il suo dito scorse gentilmente dalla guancia al collo, seguendo parzialmente il profilo del mio mento. - Io ne ho venticinque. - Di nuovo quel dito, malizioso, sensuale che si spostava lungo la curva delle mie labbra, su e giù, una carezza appena accennata che faceva fremere la mia pelle e tremare la mia bocca, desiderosa di ricoprirlo di piccoli baci ardenti. La mia testa si piegò impercettibilmente in avanti e la sua fece lo stesso e finimmo per appoggiarci l'una all'altro, fronte contro fronte. Inspirai profondamente e chiusi gli occhi, le mani immobili, le braccia rigide abbandonate contro al mio corpo: pur avendo una gran voglia di muoverle, dovetti arrossire, confessando a me stessa di non avere la più pallida idea di dove si cominciasse a toccare un uomo. Tutte quelle cosiddette lezioni, dentro la casetta degli orrori prima ed all'Allodola, poi e non avevo imparato un accidenti di niente. - La legge, Hanil…Oh God… - Mormorò, quando finalmente trovai il coraggio per accarezzargli il collo, percorrendo, con la punta delle mie dita inesperte, il triangolo di carne tenera che chiudeva la sua fossetta giugulare. - Don't…Non… Oh boy, please… - Gli appoggiai un bacio, il mio primo bacio da donna, su quel triangolo caldo, un bacio timido, un bacio tremulo; percepii il suo corpo irrigidirsi e tendersi, le sue mani, a coppa, chiudersi sul mio capo, stringendo teneramente i miei capelli. - Non…Ti piace? - Gli domandai, un velo di preoccupazione trasformò la mia voce in un sussurro tiepido. Non mi rispose ma mi abbracciò stretta, premendo la sua faccia contro il mio petto, circondandomi con entrambe le braccia, avvinghiandosi alla mia maglietta ed al mio corpo, come fa un naufrago con uno scoglio fortunosamente risparmiato dalle onde che appaia in pieno oceano, come se io potessi essere, assieme, la sua ancora e la sua scialuppa di salvataggio, come se lo potessi fortificare e proteggere da tutto quello che sarebbe capitato. - Ti lascerò in pace…Andrò via… - Mugugnò, la sua bocca ostinatamente

premuta contro il mio stomaco tentava di parlare, masticando parole ma, in effetti, dispensava piccoli baci brevi che accendevano la parte più intima di me. - Mi lascerai? Anche adesso? - Gli appoggiai un bacio sulla nuca, tra il collo e l'orecchio e, nuovamente, il suo corpo si irrigidì sotto di me. - Sì… - Mormorò, inspirando dal naso. - Anche così, ti lascerò… - E così? - Un piccolo morso sull'altra orecchia, saggiando la cartilagine morbida e compatta. - Pensi che te ne andrai? Sussurrò qualcosa, continuando a tenermi stretta, immobile contro il suo petto. - Credi davvero che mi lascerai? - Un altro bacio, alla base del collo, sulle prime vertebre sporgenti della sua colonna cervicale. Mi strinse maggiormente; sentii le mie ossa scricchiolare. - Sì – rispose – Finché sono ancora padrone di me. Non posso – Sollevò il viso di scatto verso il mio in maniera da far combaciare i nostri quattro occhi sul medesimo piano visivo; - non voglio essere il tuo ewas. Ancora lui, ewas, che fosse maledetto nei secoli l'uomo che l'aveva ferito ed umiliato, chiunque fosse giurai a me stessa che non avrei potuto perdonarlo mai per quello che aveva fatto al mio amore. Bastò il suono di quella parola, di quel nome, per farci riprecipitare addosso l'inferno in terra che era stata la serata precedente: la sparizione di Barbara, l'interrogatorio da parte di Roberto, il poliziotto silenzioso che mi aveva ghermito il braccio, srotolandomi sotto al naso la fotografia di Christian con tanto di generalità, il mio patetico tentativo di negare, quel suo taccuino dannato, pieno di frasi indecifrabili tra le quali, ne ero sicura, la colpa veniva attribuita totalmente a Christian e poi quella bambina, appena evocata e riesumata nella mia cucina, due occhi pesti, una bocca spalancata senza voce, stuprata e uccisa, barbaramente lasciata a morire in un deserto senza nome, “Tra le alture bruciate dal sole del Texas”, come scandiva lo speaker nei primi fotogrammi di “Duello al sole”, il film western preferito da mio padre e da lui conosciuto a memoria. C'erano dei pezzi, nell'animo di Christian, che non si potevano più incollare e c'erano delle magagne, nel mio, che non si potevano rimarginare, entrambi portavamo, incisi sul cuore, i capi d'imputazione per ciò che avevamo o pensavamo di avere commesso. - Chris… - Tentai, accarezzandogli la fronte con la punta del mio naso – Tu non

sei ewas tu non potresti mai e poi mai fare del male… - Mia madre aveva solo sedici anni, Hanil, nemmeno diciassette! Si ritrovò un bambino nella pancia senza sapere come. A casa non poteva tornare, troppa vergogna per la nostra tribù, perciò si rivolse ad ewas… Annuii, questo pezzetto della storia in parte la sapevo ed in parte l'avevo indovinata, perciò cercai di non interromperlo, limitandomi ad incoraggiarlo, dandogli qualche lieve pacca sulla spalla e sperando che la mia presenza fisica, lì, accanto a lui, sopra di lui, potesse aiutarlo finalmente a liberarsi del suo fardello. - Ewas era vecchio, molto potente e mia madre molto disperata. Lui le diede dei soldi, parecchi soldi per il bambino, per me… - Si corresse. - Ma pretese la mia vita in cambio. Al compimento dei miei sedici anni sarei, a mia volta, diventato suo. - Diventato suo? - Ripetei, senza riuscire a capire. Il commercio di esseri umani, di anime per la verità, rientrava tra i poteri del diavolo per come la mia cultura lo conosceva ma quello di cui mi stava parlando Christian sembrava una specie di rapimento in piena regola. Chris annuì, quindi sollevò la mano sinistra e la ruotò di fronte ai miei occhi, esponendo il polso, con le vene azzurre e sporgenti, alla mia vista: notai per la prima volta una specie di disegno, come una stella iscritta in due emisferi che si sfioravano alla base, un tatuaggio di un viola scuro, simile al segno che avevo visto apporre alle mucche da macello, sulle loro carni per identificarne con chiarezza proprietà e provenienza. Dunque era quello il marchio di ewas, il marchio del diavolo: una stella infantile, apparentemente innocente che aveva decretato l'ingresso e l'appartenenza di Christian ad una famiglia che non era la sua, una famiglia che lo possedeva, anima e corpo. - All'inizio erano piccole…Commissioni – Socchiuse gli occhi e ritrasse la mano, come per tentare di nascondere il segno alla mia vista, come gli appestati timorosi che i propri bubboni si intuissero al di sotto dei vestiti. - Commissioni? - Mi stavo trasformando in un gracchiante pappagallo ma la mia mente semplice di quindicenne faceva fatica ad assimilare quel genere di nozioni complicate. - Furti, rapine, traffico di armi e droga, niente di veramente serio… -. Rabbrividii, senza sapere che cosa dire; improvvisamente i miei peccaminosi

pomeriggi all'Allodola non mi sembrarono niente, paragonati con ciò che Christian aveva dovuto vedere e condividere quando era ancora molto giovane. Mia madre morì poco dopo la mia iniziazione. Così disse ewas. Io lo seppi parecchio tempo dopo, non ci vedevamo più… - Tacque e mi guardò fisso, forse aspettandosi da me la giustizia ritardataria che non era mai stata dispensata, oppure la certezza della pena, la scure del boia diretta sopra il suo capo. Le cicale gracchiavano senza sosta ed il vento soffiava impetuoso, serpeggiando tra l'erba alta; una raffica più forte delle altre mi scompigliò i capelli. Con un gesto lento e dolcissimo, Chris ripose la ciocca ribelle dietro al mio orecchio e rimase in silenzio. - C'è un uomo che ti cerca, in paese, un poliziotto… - La frase uscì dalle mie labbra, prima che il mio cervello riuscisse a bloccarla, rimbalzò tra di noi come una palla da tennis scagliata in alto e che ricada al suolo, dopo un lancio portentoso, la sua eco perdurò per qualche secondo, prima di spegnersi inghiottita dall'aria che mugghiava, scendendo con forza a valle. - Io…Ho visto la tua foto segnaletica, Chris… - Singhiozzai, stringendo le mani a pugno ed appoggiandogliele sul petto. In quel momento la mia fiducia in lui vacillò: la persona che Christian mi aveva appena presentato, un criminale di mezza tacca dedito al furto ed allo spaccio, poteva essere compatibile con ciò che il poliziotto aveva detto di lui a mio padre. “Ha stuprato e ucciso una bambina di dodici anni”. Ancora lei, quella bambina insepolta, che sgretolatasi sopra la sabbia e sotto al sole del Texas, gridava, senza polmoni, invocando giustizia. - Dimmi che cos'è successo, te ne prego, Chris! - Lo implorai – Dimmi qualsiasi cosa. Che tu sia innocente o colpevole per me non importa ma voglio, ho bisogno di sapere quale sia la verità, per favore! - E mi resi conto in quell'istante che l'amore mi aveva fatto pronunciare quella frase, in cui credevo profondamente: ero andata così avanti, ormai, nel sentimento, che effettivamente non avrebbe fatto alcuna differenza sapere della sua innocenza o della sua colpevolezza. Quello che io desideravo era capire fino in fondo la sua anima, i moti del suo cuore, le motivazioni che potevano averlo spinto a commettere un gesto simile. Non riuscivo ad avere paura di lui, del suo fisico statuario ed affascinante, delle sue maniere a volte brusche ed a volte gentili, avrei amato comunque tutto di lui ma avevo disperatamente bisogno della sua sincerità. - Quella notte andai da ewas per parlargli. - Con mia grande sorpresa Christian ricominciò a raccontare, la sua voce, piatta, incolore, attirò nuovamente tutta la mia attenzione. - Mi ero stancato di quella vita, l'unica che conoscevo, quella che lui mi aveva fatto conoscere, quella che aveva comprato ad un prezzo irrisorio e

che utilizzava a suo piacimento, ero stufo di essere una pedina, di minacciare e picchiare e tramortire, di dover dormire con una pistola carica sotto al cuscino ed una dose di roba buona infilata nella tasca dei pantaloni. Avevo diciannove anni e non avevo ancora visto niente del mondo. Ewas aveva detto ai suoi tirapiedi di non disturbarlo ma io potevo entrare nel suo covo, occupavo un posto speciale nel suo cuore, così diceva lui e godevo di una piccola parte della sua fiducia, condividendo con lui alcuni dei suoi…Privilegi. Non dissi nulla, non osando immaginare a quali privilegi si potesse riferire; per un attimo immaginai la vita di Christian, un'esistenza vuota, fatta di violenza e droga e lo ammirai per la sua forza d'animo, per la decisione con cui aveva deciso di affrontare ewas, il suo capo, per la sferzata che aveva tentato di dare alla sua vita. Molto probabilmente doveva aver scelto la serata sbagliata. - Quando entrai nel bunker e lo vidi, Hanil, all'inizio non riuscii a capire che cosa fosse successo. The smell, Oh God, l'odore, quello non lo dimenticherò mai. E il colore…Samox, rosso, Hanil, rosso violento, spruzzato sulle pareti. Aveva una cosa in mano, un fagotto, fermo, floscio, rosso e rosa…E nero… Kaxaw. - Un singhiozzo potente gli squarciò il petto. Non potei fare altro che stringerlo a me con maggiore forza. - Il fagotto immobile non pesava, non si dibatteva, non emetteva suono. Però aveva un viso…Un viso di bambina, un viso rosso e rosa e nero… - Chris si portò entrambe le mani sugli occhi, nel disperato tentativo di non vedere ma non è possibile accecare gli occhi della memoria, purtroppo questo lo sapevo molto bene. - Mio Dio, Chris… - Balbettai. Eccola lì, la bambina morta, che faceva il suo ingresso nella storia distruggendo, con i suoi colori sbagliati, il presente dell'uomo che stringevo con forza a me. Mi sentii stupidamente arrabbiata con quella bambina, colpevole solo di una leggerezza, magari di aver accettato un aggio su una grande macchina nuova, o forse una caramella, da un signore sconosciuto e ben vestito con l'accento da uomo perbene. Stupida, piccola idiota, avrei voluto gridarle, non ti ha insegnato niente il tuo papà? Ma feci immediatamente subito il parallelo con la mia vita: non mi aveva forse mio padre proibito di uscire meno di ventiquattro ore prima? E qual era stato il risultato di quella sua proibizione? Mi trovavo seduta sulle ginocchia di un probabile omicida di dieci anni più vecchio di me. Se solo la gioventù sapesse. - E' stato un incidente, mi disse ewas, non stare lì impalato, aiutami! Io non mi muovevo, Hanil, avevo visto già dei cadaveri, ma nessuno così piccolo e c'era

sangue dappertutto. Sbrigati! Mi intimò lui e la sua voce faceva paura. Ti darò i soldi, aggiunse poi, ficcandomi quella cosa pietosa tra le braccia, quella specie di tappeto sfilacciato che non poteva essere una bambina, non più, non dopo che lui aveva finito con lei. Ti darò molti soldi, disse così Hanil, perché conosceva il mio tarlo, sapeva quale fosse la mia debolezza. E ormai avevo il suo sangue addosso. Ti darò tutti i soldi che vuoi, ragazzo! Non volevo fare un patto, non con lui, non con Ewas ma c'era sangue ovunque e la cosa non si muoveva, non più. A chi pensi che crederanno? Tu sei un drogato, hai già dei precedenti, io sono ricco. Ed era vero, Hanil, dirty money, silly money, damned money! Ti sto dando una chance. Falla sparire e poi vattene, via, lontano, pagherò io i tuoi conti, tutti i tuoi conti, perché il patto firmato col sangue non può essere rotto da nessuna delle due parti. - Oh, Chris… - Mi misi le mani tra i capelli e gli appoggiai la testa in grembo, cominciando finalmente a capire. I soldi per la droga, i soldi per la benzina, il famoso Money - gram che ancora non era arrivato. Ewas aveva pagato il suo silenzio, lungo tutto l'arco della storia, conosceva gli spostamenti di Chris perché era lui stesso a comunicarglieli: quando aveva bisogno di soldi gli inviava un qualche tipo di messaggio. Perché il patto firmato col sangue non può venire rotto da nessuna delle due parti. Ewas lo aveva onorato, almeno quasi fino a quel momento e Chris aveva fatto del suo meglio: si era addossato la responsabilità di uno stupro, di un omicidio, dell'occultamento di un cadavere, era stato questo il prezzo che aveva dovuto pagare per poter riconquistare la propria vita e la propria libertà ed il diritto di circolare liberamente in questo mondo. La sua moto rombava perché Ewas continuava a pagare, regolarmente, per il buon servizio che Chris gli aveva reso e così sarebbero continuate le cose, fino alla resa finale dei conti. - Chris tu devi parlare, tu devi dire la verità! Chi è questo Ewas? Denuncialo oggi stesso! - No, Hanil, no… - Lui scosse la testa e mi sollevò il mento con le dita. - Sì, invece! Ti prego, Chris, tu devi raccontare a tutti quello che hai visto, quello che è successo! Non è giusto! - Piagnucolai, prendendolo nuovamente a pugni, per l'accettazione stoica del suo ato, per la tranquillità con cui sembrava accogliere il proprio destino da fuggiasco. - I patti col sangue si onorano, Hanil, i patti di sangue…

- No! - Esplosi, liberando il mio mento dalle sue mani. - Mi rifiuto di pensare… Al diavolo i patti! - Hanil, shhhh… - Lui riportò nuovamente a contatto le nostre due fronti bollenti ed imprigionò le mie mani tra le sue. - Se quello che dici è vero e quell'uomo, a policeman, mi sta cercando non abbiamo più molto tempo, right? - Andiamo via, Chris, andiamocene via! - Improvvisamente mi resi conto dell'inesorabile are del momento, attimo per attimo e percepii la minaccia incombente che la confessione di Christian aveva temporaneamente cancellato dal mio cervello. A questo punto non me ne importava più niente di quale fosse la verità: credevo a Christian, alle sue parole. La giustizia avrebbe potuto aspettare, la giustizia non era di questo mondo ma io sì, invece, volevo vivere in questo mondo e volevo farlo con Christian. Era tempo di levare le tende per sempre. - No, Hanil, non posso portarti con me. Ascolta, ascoltami! - Aggiunse, percependo la mia ribellione alle sue parole. - Tu sai la verità, adesso, qualsiasi cosa ti diranno tu sai che io non mento. Ci sono cose da fare, ci sono cose da dire quando tu sarai…Più grande…Damn it! - Esclamò in preda alla frustrazione. - Io verrò a cercarti, quando sarà il momento, Hanil, quando sarà il momento giusto, te lo prometto… - No, no, no, no, no! - Ne avevo abbastanza delle promesse degli uomini, ne avevo sentite di tutti i tipi, negli ultimi giorni, nessuna di quelle era stata sincera, non aveva funzionato per Barbara e per il suo grande amore, né per me e per mio padre, perché mai avrebbe dovuto funzionare adesso? In che cosa, Chris, era diverso dagli uomini che avevo conosciuto, che forse avevano amato ma di sicuro c'era solo il fatto che avessero infine tradito? E fu in quel momento che lui mi baciò, cogliendomi completamente di sorpresa, afferrò il mio viso con entrambe le mani e lo portò di fronte alle sue labbra. Fu quello il nostro primo, lunghissimo bacio, seduti su di uno scomodo pezzo di cornicione, nei paraggi di una chiesa ormai sconsacrata. Le sue labbra tiepide cercarono le mie, con tenerezza, le schio con una carezza; non era affatto come baciare il cuscino della mia camera o come essere baciata a tradimento dal cugino di Barbara, dentro la sua lurida casetta, era come navigare sulla cresta di un'onda spumeggiante, senza alcuna direzione reale da prendere, bastava lasciarsi andare, permettere all'onda di trasportarti lontano. Baciai e ribaciai

quelle labbra ed accarezzai le sue spalle e le sue braccia, con i gesti lenti che non avevo mai saputo di possedere, dentro di me, con tutta la ione del mio primo amore, finalmente sbocciato perché giunto a maturazione. - Llao - llao… - Sussurrò Christian, la sua bocca ancora contro le mie labbra. - Prego? - Gli chiesi io e non era chiaro se lo stessi pregando di spiegarmi ciò che aveva appena detto o, piuttosto, di ricominciare con quello che avevamo appena interrotto. Lui sorrise, accarezzandomi il naso con i denti e mordicchiandomi il mento con grazia. - Sweet sweet…Dolce dolce…Così direbbero gli indiani Mapuche, se potessero assaggiare le tue labbra. Non riuscii mai ad approfondire quell'argomento, né ad ottenere il secondo bacio che tanto bramavo. Udimmo un rumore di erba calpestata, un attimo prima che una voce, tagliente, severa, amplificata dal tubo di un megafono, gli ordinasse di lasciarmi immediatamente e di allontanarsi subito da me. Lo scatto metallico di una pistola automatica che si armava ci raggelò all'istante, facendo sprofondare i nostri cuori nel sottosuolo. Portarono via Christian in manette, legato, imbrigliato come un animale feroce, con le mani dietro la schiena, non gli permisero nemmeno di indossare una canottiera, il poliziotto di acciaio lo fece sdraiare a terra e gli mise un piede sulle spalle, cercando di immobilizzarlo, probabilmente temeva che gli si dileguasse da in mezzo alle dita, sparendo magicamente come aveva fatto, per sei lunghi anni. Ricordo poco di quella cattura, delle persone che mi avevano sollevata di peso: mio padre, che mi abbracciava e tentava di calmarmi mentre io urlavo e scalciavo e mordevo e graffiavo pur di cercare di ritornare indietro, dovettero tenermi in tre e somministrarmi più di un calmante prima di riuscire a riportarmi verso casa. Ricordo che Christian non si dibattè né oppose resistenza, quello era il momento di Ewas, l'attimo che lui aveva scelto per chiudere definitivamente il patto ed esigere il prezzo contrattato molti anni prima, continuò a tenere lo sguardo fisso su di me, fino a quando non l'obbligarono ad abbassare la testa per infilarlo nella macchina della polizia, il suo corpo statuario contenuto a stento da quella scatoletta di alluminio. Pensai che avrebbe potuto liberarsi in qualsiasi momento, come Maciste, come Sansone, squarciando quella ridicola macchina dal di dentro, strappandomi alle braccia di mio padre per caricarmi a bordo della sua moto fiammante e sparire, noi due insieme, verso il nostro brillante futuro.

Sarebbe stato un finale perfetto per un film perfetto. Un finale che non si realizzò mai. Dei giorni successivi a quella memorabile cattura ricordo ancora meno; appresi di nascosto, sbirciando i giornali locali, che era stata Barbara, la ragazza coraggiosa con il viso rigato di lacrime e gonfio a causa delle botte ricevute dal suo misterioso rapitore, a portare la polizia nel covo dello stupratore; secondo quanto sosteneva la stampa, Christian aveva rapito Barbara dopo averla incontrata a eggio nei boschi, l'aveva maltrattata e stuprata per una giornata intera finchè lei non era riuscita eroicamente a liberarsi ed a tornare in paese in cerca di aiuto. I giornalisti più morbosi, poi, riportavano altri succosi particolari: i segni sul viso e sul corpo di Barbara erano tracce evidenti che ci fosse stata una colluttazione ed un rapporto sessuale nelle ventiquattro ore precedenti alla cattura di Chris. Sorrisi amaramente: probabilmente c'era stato ben più di un rapporto ma non con Chris, all'Allodola c'era l'imbarazzo della scelta. Io venivo nominata solo tangenzialmente, come un'altra probabile vittima del mostro. Mio padre si era a lungo battuto, con le unghie e con i denti, affinché io, noi, venissimo lasciati una buona volta in pace, fuori da quella marea di fango nero. Non volli sporgere alcuna denuncia nei confronti di Chris che, comunque, fu estradato e processato per i crimini commessi negli Stati Uniti. L'ipotetico, ridicolo rapimento di Barbara non era che la ciliegina sulla torta del suo ato criminale. La vicenda si chiuse con l'effettiva partenza del pedofilo assassino alla volta del Texas e della sua spietata giuria. Anche io patteggiai, col mio ewas, anche io accettai un patto siglato col sangue, quella notte stessa, non il sangue di una ragazzina morta ma il sangue che nutriva i miei geni, quello che aveva formato le mie cellule e che mi legava direttamente all'altra parte in causa, a mio padre. Mi tenne stretta, mi accarezzò, mi rimase accanto, nell'ospedale in cui fui trasportata, in stato di shock, con una tenerezza che non credevo gli potesse appartenere. Io non parlai, rimasi muta, sfinita, dentro quel letto con le sbarre, incapace di articolare un suono qualsiasi diverso da un urlo di disperazione; fu lui a dire, per tutti e due. Mi promise che non avremmo più parlato di Christian, di ciò che era successo in quell'afoso agosto, quando io ero diventata donna e lui non se ne era nemmeno accorto; non sarei andata in collegio, né quell'anno né durante tutti gli anni a venire. - Ce ne andiamo, Valentina, appena starai meglio, via da questo posto troppo freddo. Ce ne torniamo in Sicilia, al sole, io e te.

Lo guardai, incredula di fronte a quelle parole. E la signora Isabella? Avrei voluto domandargli, sarebbe venuta in Sicilia con noi? - Non voglio che niente si metta di nuovo tra di noi, amore mio, tesoro mio… Afferrò la mia mano esangue e se la portò alle labbra. - Noi siamo una famiglia, Valentina, noi due soli. Quando quei poliziotti sono venuti a dirmi che la tua amica era stata ritrovata sono corso in camera tua per darti la bella notizia. Ho visto che non aprivi e non rispondevi, la paura mi aveva come paralizzato. I poliziotti hanno buttato giù la porta della tua camera a spallate. Dovremo farla riparare, tesoro…Oh ma chi se ne importa… - Rideva e piangeva e continuava a baciarmi la mano, come aveva fatto Christian solo poche ore prima. Se non potevo avere il mio amore, mi dissi, almeno avrei potuto riavere mio padre. E fu così che patteggiai anche io, per il suo affetto, Christian in cambio di mio padre, la mia vecchia vita resuscitata al posto di quella nuova che non si sarebbe concretizzata mai più. - Quando ho visto la finestra spalancata ho creduto di morire, amore mio, ho temuto di averti persa per sempre… - Perché non mi hai voluta lasciare andare? - Gli domandai in un sussurro. Non mi aveva mai desiderata, era mio fratello, quello che non era mai nato, il suo ideale di figlio perfetto: gli avevo dato l'occasione di liberarsi una buona volta di me, perché diavolo non l'aveva colta? Lui mi sorrise di un sorriso candido ed avvicinò il suo naso al mio; il suo odore confortante, di colonia, tranquillizzò per un secondo il mio cuore in tumulto. - Perché tu sei mia figlia, Valentina ed io non potrei vivere senza di te. Siglammo il nostro patto quella sera: assieme a Chris sparì anche la ragazzina muta, la lasciammo al paese da cui ci trasferimmo appena qualche mese dopo, assieme alla rossa Isabella, che pianse lacrime da coccodrillo quando vide mio padre montare in macchina, con me al suo fianco, per allontanarsi da quel posto ostile e non farvi più ritorno. Io rinunciai a Christian e lui rinunciò a lei. Eravamo nuovamente una famiglia con la effe maiuscola, scampata all'uragano, nuovamente riunita sulla stessa zattera, fragile, inesperta, esitante, complicata ma pur sempre una famiglia. Non sentii parlare di Christian mai più.

E poi arrivò quella foto.

***

- Tesoro, va tutto bene? – Di chi è questa voce? E dove mi trovo, adesso? Qualcosa di appuntito mi perfora la carne tenera del braccio, un batuffolo di pelo morbido sussulta, per la subitaneità con la quale i miei muscoli si sono contratti; al buio, nascosta dalle tenebre, sono di nuovo io, non più Hanil, né Titti o Valentina: sono Tesoro, adesso, sono nuovamente un’altra cosa. Inspiro ed espiro, una, due, tre volte, tentando di capire che cosa sia successo e di riportare la pace e la tranquillità nel mio cuore. - Sì, tutto bene, amore, sto scrivendo… - Mento. La mia voce, questa voce nuova, diversa da quella di Hanil, mi riporta distrattamente indietro e, come in un disaster movie, colgo, in una frazione di secondo proprio lei, Hanil che scivola gridando, senza appigli, lungo le pareti di acciaio viscido del pozzo senza fondo che è la mia memoria mentre io me ne arrampico faticosamente fuori, aggrappandomi con le unghie che stridono sul metallo luccicante della mia parte cosciente; ci siamo incrociate a metà strada, la donna che non è riuscita a vedere la luce e quella che ha patteggiato riempiendo una parte del proprio cuore di tenebra, ci siamo riposate un attimo, l’una di fronte all’altra, stupite da quell’incontro rimandato da tanto, troppo tempo e adesso siamo di nuovo in viaggio, lei verso l’abisso, io verso il presente della fine del mondo. Per Dottoressa, ciò che sono ora per i miei pazienti nel piccolo studio in affitto, ho lottato con tutte le mie forze, sono orgogliosa di queste mie nuove identità, costruite nel corso degli anni successivi a Christian, con tenacia e determinazione; sessanta lunghi mesi di studio, esami, tirocini e master e notti ate a ripetere fino al sopraggiungere dell’alba per quella Dottoressa che ha tirato fuori dai guai in primis me, aiutandomi a risalire da quel pozzo in cui Hanil doveva necessariamente essere sepolta. Per Tesoro, invece, è stato tutto incredibilmente facile, sono stata corteggiata, immaginata, descritta, amata, sommersa di immeritato affetto. Fidarsi non è propriamente ciò in cui riesco meglio ma Matteo sembra avere una quantità di fiducia sufficiente per entrambi. Bene così.

Guardo l’orologio scintillante nell’oscurità: meno di sette minuti separano il mondo dalla propria fine. Sollevo lo sguardo in alto, tentando di riconoscere qualcosa ma, al buio, non ho alcuna possibilità: potrei essere seduta alla mia scrivania oppure appoggiata ad una branda dura in attesa della mia esecuzione, potrei essere con Christian, in questo momento, chissà come starà ando questi ultimi minuti veloci? Inizio ad andare in iperventilazione, scaccio Melina dal mio grembo ignorando le sue proteste, non c’è niente che io possa fare ma non riesco, proprio non ce la faccio a rimanere così, con le mani in mano. All’improvviso afferro il cellulare, compongo a memoria le cifre di un numero che non chiamo quasi mai. Non posso correre da Matteo, volargli tra le braccia, lui non sa, non potrebbe capire, negli anni ho sempre apprezzato la delicatezza con cui ha cercato di non venire a patti con il mio ato e con il mio cassetto delle carte. Matteo sa che ho dei segreti ma preferisce aspettare che venga il suo turno; forzandomi non caverebbe da me nulla se non il silenzio. Mi ha sempre detto che il ato è una parte importante di noi ma che lui è più interessato al presente e che questo presente è il nostro, il mio ed il suo; finchè il ato rimane chiuso a chiave in un cassetto azzurro non c’è alcuna minaccia che si addensa sopra il nostro capo. Perciò non posso dirgli, ora, che ho appena spalancato quel maledetto cassetto, il cui contenuto, come i fili di una lunghissima ed impalpabile ragnatela si allungano fin qui, che il ato non può restare immobile perché è vivo e striscia e ogni tanto ci raggiunge, come il mostro sotto al letto che, da piccoli, ci insegnano a dimenticare. Il mostro è lì, appena fuori dal nostro occhio, in agguato, acquattato in silenzio, siamo noi che, crescendo, smettiamo semplicemente di vederlo e gli iamo oltre e spostiamo la rete e cambiamo il materasso. Ma il mostro rimane e, ogni tanto, allunga una mano pelosa con cui ci afferra una caviglia e torniamo di colpo bambini irrazionali, in totale balia delle emozioni. Hanil non può rivolgersi a Matteo, alla sua andatura sicura da padrone del mondo, perché non lo ha ancora conosciuto; Valentina allora afferra il cellulare in cerca di aiuto. - Sì… - Al secondo squillo la voce dell’impiegato zelante, sempre pronto alla chiamata, del commesso viaggiatore che ha fatto delle partenze la propria ragione di vita mi riporta nuovamente indietro. - Papà… - Non so bene che cosa dirgli o meglio, lo so, quello che mi manca è il modo per farlo. I minuti continuano, veloci, insensibili, crudeli, la loro corsa verso il niente, sbattendo gli uni contro gli altri, ammucchiandosi sul fondo di quest’ora insonne.

- Dimmi… - Mi risponde lui; senza un ciao o un come stai, senza tracce di sonno nella voce, non abbiamo bisogno dei fronzoli noi due, non dopo quell’agosto cui forse stiamo ripensando entrambi. Rimango in silenzio e tendo le orecchie cercando di captare qualcuno dei rumori del suo mondo: non c’è Rosa, la seconda moglie che già detesto, il sottofondo è silenzioso, a parte il ronzio ovattato della nostra linea telefonica. Siamo nuovamente sulle due sponde opposte di un ponte, fragile e magnetico e non sappiamo chi di noi due desideri fare il primo o o se il ponte reggerà sotto il peso di quello che stiamo per dirci. Ma è quasi la fine del mondo, questo pensiero mi spinge avanti ed allungo un piede, tremante, nella sua direzione. Se i Maya dovessero avere ragione, se questa telefonata dovesse interrompersi bruscamente e il ponte elettromagnetico sbriciolarsi sotto di noi e farci cadere malamente, senza rete, nel vuoto dell’etere, non riuscirei mai a perdonarmi per non averglielo detto almeno una volta. - Ti voglio bene, papà… - Sussurro alla cornetta. Nonostante tutti questi anni e la vita, che ci è ata addosso tramortendoci con la forza di un Eurostar, rimango, sospesa, in attesa della sua risposta, masticandomi un’unghia, rapita, ad un tratto, dall’ansia, la ragazzina di quindici anni che non è sicura di piacere, la bambina abbandonata che non vuole amare, perché perdersi fa tanto male. Alle volte, dico sempre ai miei pazienti, trattenere una fune ci distrugge le mani, tagliandoci malamente i palmi, imparare a lasciarla andare aiuta a guarire. Questo è ciò che dico ma tra il dire e il fare… - Anche io… - Mi risponde semplicemente lui. Non sembra stupito per questa telefonata fatta quasi nel cuore della notte o per la mia tardiva rivelazione di affetto. Il suo tono è disteso, rilassato, forse un sorriso gli sta solcando perfino le labbra, ci sentiamo così di rado che non posso esserne certa. Ridacchio e lui mi tiene dietro, imbarazzato forse dal silenzio, come capitava a scuola, prima dell’avvento dei telefoni cellulari, quando ti avi un bigliettino nascosto sotto al banco e poi dovevi aspettare i comodi dell’altro, senza sapere esattamente che cosa ci avresti trovato in risposta. Silenzio, ora: siamo i due contendenti ai lati opposti del campo minato delle emozioni, le bombe hanno già dilaniato i nostri eserciti fragili di sentimento, una mossa sbagliata e rischiamo entrambi di saltare in aria. Arrocco al re, come negli scacchi, dietro la torre, protetto dalla notte, il signore all’altro capo del filo, il mio avversario lascia a me la prossima mossa. Ci impiego un solo secondo a

mirare, calibrando il peso del missile che non riesco ad impedirmi di lanciare. - Sono incinta, papà. – Le lacrime mi scorrono lungo le guance senza emettere un suono; non l’ho ancora detto a nessuno, non a Matteo, nemmeno a me stessa, non mi sono ancora concessa un minuto per sedermi a pensare, rendendo concreta questa vita che, al momento, sono solo due linee orizzontali comparse, quasi per caso, sullo schermo a cristalli liquidi di un test acquistato un paio di giorni fa. Aspetto un bambino, una vita nuova, una pagina diversa che ha già cominciato a scriversi, anche senza il mio consenso, nel grande libro dell’esistenza. - È una cosa bella… - Commenta, cauto, lui. Non so se il missile abbia o meno frantumato la sua torre, forse siamo entrambi in scacco, adesso, scacco matto e ci ha giocati un grumo di cellule che non ha ancora né nome né sesso. - Sì… - Annuisco, tirando su col naso. Ne sono convinta, che sia una cosa bella, ne sono sicura, che sia una cosa mia, mia e di nessun’altro, una cosa che non mi abbandonerà, una cosa che non lascerò, una cosa che mi amerà per come sono oggi, per quello che sono stata ieri, una cosa che non conoscerà altro che il mio, di amore, senza patti, senza eccezioni. Mi sta praticamente scoppiando il cuore. - Fai sogni tutti d’oro… - Dice mio padre, la sua voce improvvisamente incrinata, come addolcita dopo la rivelazione. Sembra non esserci il bisogno di aggiungere di più. - Anche tu… - Gli rispondo in un soffio – D’oro, d’argento e di brillanti. Scoppiamo a ridere entrambi, tra le lacrime ed interrompiamo simultaneamente la conversazione, felici, euforici, così ci davamo la buonanotte prima, quando io ero Titti e mia madre veniva a rimboccarmi le coperte chiudendomi gli occhi con un bacio. Credo che farò così anche adesso, con quel bambino che aspetto e che, all’improvviso, non vedo l’ora di conoscere; meno di dieci minuti fa era solo una nausea mattutina cui non volevo pensare e adesso non desidero altro che vedere lievitare il mio pancione per poter annunciare al mondo intero questo mio incredibile traguardo: sono stata capace di generare una vita. Socchiudo gli occhi e ritorno, con la mente, al mio castello senza soffitto, a quei giorni ati ma non trascorsi del tutto, mi sembra di percepire nuovamente il solletichio dell’erba alta contro i miei polpacci mentre avanzo, di corsa, fendendo gli steli, calpestando i sassi, in cerca di Chris, dei suoi capelli neri. Lo

scorgo, in fondo, lì dove la curvatura della collina sembra proiettarlo direttamente contro il cielo azzurro di un’eterna giornata d’estate, seduto sulla sua moto, che si gode il sole d’agosto, puntando il volto dalla carnagione abbronzata e senza difetti in alto, più su delle nuvole. - Chris! – Lo chiamo a gran voce, distogliendolo dalla sua piacevole pennichella, i suoi occhi viola si fissano su di me. –Chris! – Ripeto, accelerando la mia corsa, con il fiato grosso per l’emozione. –Chris devo dirti una cosa! Chris! – Ma c’è un muretto basso, tra noi, una costruzione di cemento che nei miei ricordi di quindicenne non c’è mai stato; mi arresto a due i da quell’ostacolo grigio, delusa, triste. Capisco in un lampo che non lo raggiungerò mai più. È in quel momento che inizia a trasformarsi: allunga le braccia verso di me e poi le spalanca al sole, alzandosi in piedi di scatto e non è più Christian, non l’uomo di carne inchiodato al suolo, rinchiuso in una prigione per un patto maledetto, è finalmente kol’atak, l’aquila maestosa, che si alza in volo libera, lanciando il proprio richiamo temerario al vento, i suoi capelli trasformati in piume, il suo sorriso splendente in un becco elegante color oro. Descrive due lunghissimi cerchi lenti, esattamente sopra di me, mi schermo gli occhi per poter seguire quel suo primo fantastico volo intriso di libertà, sento il suo verso acuto, che mi penetra nel cuore come facevano, un tempo, le sue parole imbevute di quella sua voce calda e sensuale, la morte è solo un aggio, una porta stretta, che ne ha alterato le forme ma non la sua vera essenza. È questo, Christian, adesso e per sempre. “Io verrò a cercarti, quando sarà il momento, Hanil, quando sarà il momento giusto, te lo prometto”. Adesso lo so, che ci sarà, quel momento, ci sarà per noi, per me e per Christian, ci sarà per mia madre e per tutti quelli che se ne sono andati. Perché nessuno è morto davvero, finché qualcuno lo ricorda. La mezzanotte è ata da cinque minuti esatti.

***

- Pare che siamo ancora qui, signorina… - Dico all’orecchio di Melina, che deve avermi perdonata molto rapidamente per la maniera brusca con cui l’ho scacciata

dalle mie ginocchia qualche attimo prima e si è riaccomodata ronfando in braccio a me. –Noi tre, almeno… - le strizzo un occhio; adesso sa anche lei il mio segreto, quello che si nasconde ancora, al sicuro, nella parte più profonda di me. Dunque la profezia era sbagliata, i Maya ed il loro ridicolo calendario, hanno fatto bene ad estinguersi quegli incapaci, per i conti, almeno, non dovevano essere dei fenomeni. Accendo nuovamente il Pc e ristabilisco la connessione web, nemmeno quella è saltata a dispetto di maledizioni ed ammonizioni scandite dai quattro angoli della terra, riportandomi sull’ultima pagina memorizzata nella mia cronologia, la pagina del dipartimento di giustizia del Texas. Il nome di Christian non compare più tra quelli in lista per l’esecuzione e, per un secondo, il cuore mi si ferma nel petto: magari il misterioso ewas si è fatto avanti per una confessione tardiva e, come nei film, la pena capitale è stata annullata o rinviata a data da destinarsi, provo ad immaginare il boia che ripone le sue fialette letali, il pubblico che se ne va, deluso, a capo chino, la sete di sangue non placata che invischia loro la gola e le mani e Christian che viene riportato in cella, un o strascicato dopo l’altro ma poi mi torna in mente la mia visione, quell’aquila splendente che si è levata in volo, gridando euforica per la ritrovata libertà. La mezzanotte è ata e la giustizia, in Texas, è puntuale come l’orologio: guai a fare aspettare la morte, è meglio non far arrabbiare la vecchia signora che, qui, credono di controllare attraverso i moduli e la burocrazia. La morte dovrebbe essere un evento naturale; in Texas è lo stato a decidere per lei; fino ad adesso la morte non si è mai ribellata, forse si accontenta di mietere il proprio carico, indifferente a quale sia la modalità con cui quel carico umano le venga preparato, spedito e ricevuto. Perciò so dove ritroverò il nome di Christian e le sue generalità. Cambio pagina, mi sposto sul link che rimanda alle esecuzioni andate a buon fine, suddivise per anno e clicco con il tasto sinistro del mio mouse: eccolo lì, la pagina è stata aggiornata alle 6.05 pm ora locale, Christian Norris non ha più un posto nel mondo dei vivi e finalmente è libero di camminare in quello dei morti, niente più pene da scontare né patti cui mantenere fede. Stavolta è davvero finita. Scuoto la testa. Ora che Christian è libero spero tanto che il suo fantasma possa tornare sulla terra, arrabbiato, vendicativo, che possa tormentare i sogni di Ewas, se ancora esiste, da qualche parte, preparandolo per l’inferno che sicuramente lo

attende, alla fine del viaggio: Chris deve aver ato anni, nel braccio della morte, rispettando il patto, rimanendo in silenzio, mai un segno di pentimento, mai un tentativo di confessione. Forse per questo gli è stata assegnata, dal giudice, la pena più severa che possa esistere, quella capitale, il suo silenzio è stato frainteso, scambiato per freddezza e crudeltà. Nessuno poteva sapere che stava onorando un patto e che lo avrebbe fatto fino alla fine, pagandolo con la vita. Che esistenza potrà mia condurre ora quell’uomo, Ewas? Possibile che non abbia saputo di Christian, che non sia mai andato a trovarlo, in prigione, magari anche solo per rinsaldare un antico legame, oppure per congratularsi o per schernirlo, insomma, come puoi vivere sapendo che un uomo morirà al tuo posto, per i peccati che tu hai commesso? Dove sono i gruppi dei diritti civili, quelle persone che si battono per l’abolizione della pena di morte, quando servono? Dov’erano quando l’uomo sbagliato veniva arrestato, processato e condannato a marcire, per anni, nel più maledetto dei penitenziari degli Stati Uniti? Non si è mobilitato nessuno, per Christian, per questo ennesimo omicidio ordinato dallo stato: sono tutti innocenti, avranno pensato, dicono tutti così ma oggi è la fine del mondo, a che serve lottare? Rincasiamo presto e teniamo al sicuro i nostri bambini, ci penseremo nuovamente domani, se ci sarà un domani. E intanto Christian è stato ucciso e il mondo non è finito per niente. Maledetto Ewas. - Tesoro, andiamo a dormire? – Mio marito mi sta chiamando, dal salotto, probabilmente stanco per la giornata appena trascorsa ed annoiato dallo stupido programma sulla fine del mondo che deve ormai necessariamente essere stato soppiantato da qualcosa di diverso. Il mondo non è affatto finito, forse possiamo tutti dormire sonni tranquilli. - Vengo tra un minuto! – Gli rispondo, mandando quella pagina in icona e aprendo il mio motore di ricerca preferito. Voglio andare a riposare in pace, sono stanca anche io: Christian non c’è più, è diventato un’aquila bellissima, è finalmente libero, forse è ora che anche io seppellisca la mia ascia di guerra, non voglio che mio figlio cresca assorbendo il mio odio, desidero nutrirlo con amore e, forse c’è ancora una cosa che posso fare, per Christian e per me. Digito rapidamente sulla tastiera e trovo alcuni siti interessanti sulla cultura scomparsa degli indiani Tonkawa: come si vestivano, quali erano i loro territori, i rapporti con le tribù vicine, la famosa leggenda del coyote magico, che Christian stesso aveva cercato di raccontarmi. Sorrido, accarezzandomi le labbra.

Ecco una cosa che potrò narrare al puntino che mi cresce nella pancia senza esserne stato autorizzato; ha deciso di fermarsi dentro di me, il suo primo, piccolo gesto di ribellione e non è ancora nato: sono certa che mi darà del filo da torcere. Clicco ancora, sul collegamento ad un rapido e rudimentale dizionario che contiene alcune parole in lingua Tonkawa e la traduzione che più le approssima all’inglese, assieme ad una sorta di guida fonologica registrata: dette da quella voce anonima le parole sembrano i suoni arcani di una specie di formula misteriosa. Dette da Christian, dalla sua voce, erano tutta un’altra cosa. Digito ciò che ricordo e ritrovo con qualche difficoltà, gli accordi che conosco bene: hanil, kola, ekwanesxaw e perfino pancew, la definizione pungente che Christian aveva dato di Barbara e sorrido ancora, soddisfatta del mio apprendimento. “Ewas”, digito, con mano tremante, nel campo predisposto per la parola Tonkawa, chissà che cosa mi apparirà, nel corrispondente spazio per la traduzione in inglese. “Father” è ciò che brilla, colorato in azzurrino. Ci deve essere uno sbaglio e gli occhi mi si appannano di colpo. Provo a cambiare lingua: tedesco, se, italiano… Vater, Père, Padre, non c'è nessuno sbaglio. Dov'è finito il diavolo, il demonio che mi ha rovinato la giovinezza? Che cosa significa quel sostantivo maschile singolare che identifica, nei miei pensieri, l'uomo amorevole cui ho appena confessato di stare aspettando un figlio, l'uomo che si è preso cura di me, che ci ha provato, almeno, nonostante tutto, dopo l'arresto del mio amore? Scuoto la testa tentando di capire e, di colpo, mi vengono in mente i dettagli, adesso che ho rivissuto tutto, il quadro generale, riavvolgo il film della mia estate d'amore, l'estate in cui sono diventata improvvisamente donna e ripenso ai particolari cui non avevo mai dato importanza prima. Il patto di Christian, il patto col diavolo, lo stesso diavolo con cui aveva patteggiato sua madre. - Mio Dio! - Esclamo, ritentando per l'ennesima volta una traduzione di cui so già perfettamente il risultato. L'uomo potente, l'uomo da cui sua madre credeva di essere stata amata, l'uomo vecchio e corrotto era lo stesso uomo con cui lei lo aveva concepito. Ecco perché, scopertasi incinta, era corsa da lui a chiedere aiuto, aveva fatto ciò che avrebbe fatto ogni donna, aveva tentato di trovare un appoggio nell'uomo di cui si era fidata. Quell'uomo, però, non le aveva accordato

alcun privilegio, abituato, forse, a vedere la vita in termini di numeri, somme, ricavati, dividendi e guadagni, le aveva proposto un patto: le avrebbe dato dei soldi, per sostenere quel figlio inatteso e, in cambio, quegli stessi soldi avrebbero acquistato il bambino, pezzo per pezzo, un braccino il giorno del suo primo compleanno, una gambetta paffuta per ogni anniversario. Sedici anni di versamenti, sedici anni di cambiali e Christian era stato suo, di Ewas, di suo padre, anima e corpo. “I patti stretti col sangue” aveva detto Christian ma anche “i patti di sangue” non potevano essere rotti. Non avevo dato peso, allora, a quella piccola correzione, imputandola ad uno stupido senso indiano del dovere e dell'onore e invece no: Christian era stato fedele a suo padre, nonostante fosse un demonio, un pedofilo che aveva stuprato ed assassinato una ragazzina addossandogliene l'intera colpa. Riapro di corsa la pagina dedicata a Christian sul sito maledetto del dipartimento di giustizia texano, quel sito che ho giurato a me stessa di cancellare, una volta per tutte, dai miei preferiti; rileggo le informazioni su di lui, scorro rapidamente le sue generalità. Ci sono le iniziali dei suoi genitori e le date di nascita e di morte. Guardo quelle di suo padre: X.P. Non mi dicono assolutamente niente, probabilmente gli è stato dato il cognome di sua madre, la signora M.N., quello che mi importa sono i numeri. Per evitare di sbagliare attivo il programma calcolatrice sul mio Pc e mi dedico ad un conto da cui sembra dipendere la mia sanità mentale: la signora M.N: è nata nel 1952 ed è deceduta nel 1986, giovane, troppo giovane, come aveva detto Christian, non conosco le circostanze della sua morte ma posso indovinarne i motivi: troppo dolore. E poi o al misterioso X.P., l'uomo potente di cui non verrò mai a capo: anche lui è nato e morto, 1929 - 1994…1994, non posso crederci! Stringo le palpebre, strabuzzo gli occhi, conto di nuovo, provo a riflettere. 1994, l'anno del nostro incontro e della cattura di Christian, l'anno in cui ho conosciuto l'amore e l'ho perso per sempre. Il nostro anno meravigliosamente bello e maledetto. 1994. Ecco perché il famoso Money - gram aveva smesso di arrivare: ewas doveva appena essere deceduto e Christian non lo sapeva nemmeno. L'avrà saputo, poi? Mi chiedo, sostenendomi la guancia con una mano ma mi rendo conto che non avrebbe avuto alcuna importanza. Christian avrebbe semplicemente continuato a tacere, ad onorare quel patto sciagurato con un padre che lo aveva acquistato come si compra un animale al mercato, perché il sangue non mente e non perdona, non sente ragioni e non si cancella, non lo togli facilmente dai vestiti e rimane per anni attaccato alla tua pelle. Christian ed Ewas erano padre e figlio, erano le due facce opposte della stessa medaglia,

probabilmente Ewas non meritava un figlio come Christian ma non sempre tutti hanno ciò che si meritano, in un senso e nell'altro. Abbasso il coperchio del computer e lo disattivo, ho appena promesso a mio marito che sarei andata a dormire presto. Il giorno vecchio si è portato via una vita, il giorno nuovo me ne ha restituita un'altra, un'opportunità, una nuova chance, una possibilità per ricominciare, senza patti, né mezze misure, una motivazione per cui valga davvero la pena vivere: un bambino, mio figlio. - Andiamo, Puntino – Mi dico, accarezzandomi il ventre piatto, identico eppure diverso da quello che era un'ora fa, rivolgendomi al mio piccolo segreto, che è insieme il mio futuro. - Ti racconterò una storia, per farti addormentare, la storia bellissima di una giovane principessa coraggiosa, regina di un castello senza soffitto e di un indomito principe straniero dagli occhi viola, che le insegnò il vero significato della parola “Amore”.

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