FEEL – l’ascesa
By R.R. Keyira
Copryright di R.R.Keyira
Smashwords Edition
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***
Indice
Parte 1 – Chi sono?
Parte 8 – Le scoperte
Parte 14 – Il potere della Pietra
Parte 21 – Quello che vogliono
Parte 23 – Il rifiuto
Parte 29 – Il ritorno
Parte 35 – L’attacco
Parte 40 – Un segreto spezzato
Parte 42 – L’ascesa ufficiale
Parte 57 – Il ato
***
A Pallocchio,
Prefazione Ero peggiorata.
L'involucro. Così iniziarono a chiamarmi.
Non so cosa volessero dire, ma da quel che avevo capito ero un guscio vuoto. Come un pacchetto di caffè, senza il caffè.
Se ridevo? Non ridevo. Se sorridevo? Era solo la bocca a incurvarsi. Movimento meccanico del muscolo. Ordine del cervello.
Se piangevo provavo un dolore straziante. Faceva così male che non volevo farlo.
Involucro: volto imibile, sguardo assente. Contenuto: nessuno.
Emily mi guardava. Emily entrava nella camera buia. Anche lei voleva sapere. “Che cosa è successo?”, chiedeva. Stavo zitta. Non le rispondevo.
Paul mi abbracciava. Paul si sdraiava sul letto accanto al mio. Non parlava. Non faceva domande.
Lilian mi veniva a far visita. Lilian mi visitava come se fossi una malata terminale. Una mano sul polso per controllare il battito, per verificare che funzionasse ancora. Io non reagivo. Non la guardavo nemmeno.
Bob era arrabbiato. Bob voleva spaccare il Mondo. Voleva prendere a pugni tutto.
***
Sunville, Ontario, Canada.
30 mesi dopo.
11 dicembre
Era Inverno. Uno degli Inverni più freddi e rigidi degli ultimi anni.
Le strade erano lande desolate di neve. Si contavano una ventina di gradi sotto zero. Se le nuvole lasciavano il posto al sole le persone si affacciavano sulle strade, e i pezzi di ghiaccio si staccavano dai tetti. Era elevato il rischio di essere colpiti e assicurarsi una giornata al pronto soccorso.
Due anni prima avrei dato qualsiasi cosa per essere colpita da un cubetto di duro ghiaccio. Avrei aspettato sotto i tetti di ogni casa del paese. Prima o dopo, mi avrebbe colpita. Prima o poi mi avrebbe uccisa. Un freddo, colpo, mortale. Volevo morire, quella era la realtà. Il mio posto non poteva essere quello.
***
Capitolo 1 – Il rapimento Un rumore squillante invase la stanza.
Aprii gli occhi.
Avevo fatto di nuovo quel sogno.
Lo schermo del cellulare lampeggiava, illuminava tutta la stanza, dichiarando in maniera insistente che qualcuno mi cercava.
Ignorai la chiamata e, avvolgendomi nel piumone, mi rimisi a dormire.
L'appartamento che avevo preso in affitto era all'ultimo e quarto piano di una casa in stile moderno. Era composto da un enorme salotto con cucina abitabile, una camera da letto, un bagno, uno studio e un piccolo ripostiglio. Il pavimento era in legno a rombi larghi. Quello della cucina e del bagno in piastrelle quadrate.
I muri perlati di tutto il corridoio erano stati riverniciati da poco con una componente che rendeva tutta la superficie liscia e lucida.
Di fronte alla televisione del salotto erano collocati due divani di cotone arancione, che invitavano a sedersi comodamente. Al centro della stessa stanza c’era un tavolo quadrato con quattro sedie. Sulla destra si trovavano una classica cucina americana, bianca laccata, con un bancone in marmo e un frigorifero.
Lo studio era caratterizzato da un mobile antico, che fungeva da libreria, finemente decorato. Alla sua destra si trovava una scrivania in legno di ciliegio e un portatile di ultima generazione.
Il terrazzo di mattonelle rosse circondava tutto l'appartamento. L'unica stanza che non permetteva di accedervi era il bagno, composto da una semplice finestra con anta ribaltabile e una tenda rigorosamente bianca.
Due ore più tardi fui in piedi e, come sempre, non feci colazione.
Accesi la radio e mi diressi in bagno.
La doccia bollente era quello che ci voleva per riscaldarsi e cominciare bene una giornata di dicembre.
Abbandonai il pigiama rosa sul pavimento e mi infilai sotto il getto d'acqua.
Finii per svegliarmi del tutto.
Con l' accappatoio tamponai maldestramente viso e corpo. Sorrisi guardando le immagini a stampo sul telo morbido, di cui, ammetto, mi vergognerei molto a mostrare a qualcuno, ma in casa mia non entrava nessuno dall'Era Preistorica.
I primi occhi estranei che avevano attraversato la porta del mio appartamento erano stati quelli della mia amica Lilian, che con poco tatto aveva iniziato a sghignazzare allegramente della mia mania del rosa. Un intero arredo rosa in bagno: asciugamani, tappeti, saponette, spazzole. Una camera da letto ridipinta di rosa, con effetto spatolato. Bicchieri rosa, posate rosa, piatti rosa, canovacci rosa, tovaglie rosa.
Posai il telo sul bordo della vasca e vagai nuda per il bagno controllando ogni centimetro del mio corpo tonico canticchiando Learning to fly dei Pink Floyd.
Con calma mi coprii con una sottoveste bianca e un completo intimo dello stesso colore, poi andai ad aprire la finestra per far entrare un po' di aria. Un debole
raggio di sole illuminò la stanza, inebriandola di colori tenui e caldi.
Il trillo del citofono mi fece sobbalzare.
In punta di piedi raggiunsi la sala lasciando sul pavimento qualche piccola goccia d' acqua.
Presi la cornetta del citofono:
- Chi è? – chiesi stringendo la cornetta tra le dita sottili. Ero sempre stata pericolosamente magra, da piccola ero nata sottopeso e con il tempo non avevo fatto miglioramenti drastici, quarantacinque chili per un metro e sessantasette. Debole oltre ogni immaginazione, avevo cominciato ad andare in palestra per tonificare il corpo ed essere in grado di portare due buste della spesa senza fermarmi ogni quattro i.
- Aileen, tesoro! Vuoi venire da noi a mangiare? – disse una voce mielosa. Era la mamma.
Presi un po' di tempo prima di risponderle valutando bene la proposta.
- Potrei essere da voi tra mezz'ora.
- Va bene. Non fare troppo tardi.
Sospirai e riagganciai.
Il pranzo assieme a loro era un rito, oltre che un ottimo motivo per mangiare sano.
Prima di uscire, e scendere di due piani per raggiungere la casa dei miei genitori, dovevo finire di vestirmi e sistemare il letto. Se mia madre fosse entrata in casa si sarebbe spaventata del disordine. Infatti, nell'eventualità che ci fosse stata un'inondazione, un terremoto o una qualunque calamità naturale, lei sarebbe stata capace di are l'aspirapolvere, lavare il pavimento e are la lucidatrice, dichiarando utilissime quelle azioni.
Presi un pantalone nero e un maglioncino grigio con i bottoncini color carbone. Abbandonai i pantaloni per una gonna larga, poi tornai ai pantaloni.
Mi guardai allo specchio e decisi per un trucco naturale, con un po' di fard rosato sulle guance. Sistemato tutto nell'astuccio, andai a prendere il pettine rosso dalla mensola del bagno. Quel giorno i miei capelli bruni erano allo stato brado e dovetti rinunciare ad un'energica spazzolata.
ai l'ultimo quarto d'ora a sistemare la stanza e il bagno, ormai mancava solo che iniziassi a rammendare i calzini di Colin, che cercava sempre di rifilarmi, e avrei finito per diventare una vera massaia infelice.
Diedi un'occhiata all'orologio e mi accorsi che era quasi ora di pranzo.
Corsi a piedi nudi per il corridoio e andai a recuperare gli stivali marrone scuro che avevo abbandonato la sera prima sul divano. Il contatto con il pavimento freddo della sala mi fece rabbrividire.
Gettai il portafoglio, e altre cose che non mi sarebbero servite, nella borsa.
Presi le chiavi di casa e andai a recuperare il mio smartphone. Era rimasto sulla mensola del letto. Il display del telefono segnava la chiamata persa di quella mattina. Un tocco leggero sullo schermo mi permise di vedere il numero di telefono della persona che mi aveva cercato. Non lo conoscevo. Secondo una logica ben ponderata, il mio numero lo avevano solo sei persone: mia madre Emily, mio padre Paul, mio fratello Bob, il mio fidanzato Colin, il mio vecchio capo Sarah, e la mia amica Lilian, l'unica che mi era rimasta, gli altri li avevo persi. Avevo una vita sociale poco attiva.
Premetti il pulsante verde.
Qualcuno rispose.
- Pronto? Aileen?
- Buongiorno Michael.
Il mio futuro capo. Con lui la mia rubrica raggiungeva una nuova esaltante quota: sette.
- Ciao ragazza. Ti ho cercata prima, dobbiamo parlare. – Il suo tono di voce non prometteva niente di buono. – Dobbiamo riconsiderare la tua posizione.
Un soffio di vento gelido attaccò le mie mani nude. Indietreggiai, cercando un riparo, fino a colpire la barra del letto e accasciarmi su di esso. – Perché? Cosa è successo?
- Ieri abbiamo avuto una giornata terribile! Mi sono reso conto che farti iniziare a lavorare ora sarebbe molto contro producente.
Il mio cuore perse un battito. Forse ne perse più di uno, e quel soffio di aria fredda si trasformò un'ondata più forte, stringendosi sul petto.
- Inoltre, – aggiunse, – non è arrivata la scrivania che avevo scelto per te. Non è arrivato il computer. Non è arrivata la sedia.
- Quindi sarò costretta a lavorare in piedi con carta e penna? – chiesi con voce di oltretomba, sfumando in una lieve risata isterica.
- Non puoi assolutamente lavorare in queste condizioni! – esclamò. – Dobbiamo prendere del tempo. Ricostruire un piano d'azione che riesca a raggiungere i risultati che entrambi vogliamo. Credimi, lo dico nel tuo interesse!
Guardai fuori dalla finestra. Il sole era scomparso dietro le nuvole. Era svanito anche il mio buonumore mattutino.
- Cosa si intende per prendere tempo?
- Il tempo necessario per capire come possiamo fare per inserirti ed avere tutto a livello logistico! Come posso farti entrare in azienda senza avere nessuno che possa seguirti? Ieri è stata una giornata infernale, non ho avuto un attimo per respirare. Se tu avessi iniziato lavorare ti saresti spaventata. Saresti scappata! Ecco cosa avresti fatto! – si fermò un secondo per riprendere il fiato.
Non capii come si potesse pensare, all'improvviso, dopo aver superato tre colloqui, che io potessi credere a quell'insieme di menzogne!
Sarei scappata?
Per il mio interesse?
Un'ondata di calore invase il mio corpo e affievolì il freddo iniziale: la rabbia.
- Di quanto tempo stiamo parlando?
- E' per il tuo bene, – ripeté lui. – Si parla di qualche settimana. Potresti iniziare anche ora, ma non vorrei farti fare qualche lavoretto da archivio che non avevamo accordato.
Se qualcuno mi avesse dato una mazza da baseball in quel preciso momento l'avrei calata su quella palla gigantesca di bugie!
Ero furente.
- Posso capire che ci siano dei problemi organizzativi. Dovrei dare speranze ad un futuro alquanto incerto? – ribattei serrano il pugno.
-No, cara, – disse con voce mielosa. – Vedrò di sistemare tutto quanto. Il prima possibile. Posso trovare qualcuno che faccia da tramite tra noi due. Una nuova figura professionale. Ma tu non vedere la cosa in modo negativo. Intanto io ti lascio libera di cercare un altro lavoro, – ribatté con voce risoluta.
Di nuovo non capii. Avrebbe sistemato tutto. Avrebbe cercato un nuovo professionista per fare quello che lui non riusciva a fare, e che avrei dovuto fare io.
Non mi aveva messo alla prova e già mi stava licenziando.
- Ragazza, io non ho tempo!
Riattaccò.
Non ebbi il tempo di salutalo. Il mio “arrivederci” e tutte le parole rabbiose che avrei voluto dirgli restarono incastrate sulla punta della lingua.
Dove avrei trovato un altro lavoro il cui contatto con le altre persone tendeva allo zero?
Sospirai.
Feci l'unica cosa che potessi fare in quel caso: urlai. Scagliai un carillon contro il muro, una decina di oggetti in ceramica a terra. Sbattei i piedi sul pavimento con una furia tale che, se fosse stato possibile, avrei rotto il pavimento, sarei finita nell'appartamento del piano inferiore e avrei continuato a sbattere i piedi urlando!
***
Capitolo 2 Dopo aver avvisato mia madre della mia assenza a pranzo, ai il resto della giornata con sbalzi di umore fulminei. Un momento prima ero triste e un secondo dopo mi trasformavo in una furia buia.
Non toccai cibo. Parte del pomeriggio lo trascorsi nello studio, davanti al PC, a fare un po' di ricerche. Raccolsi alcuni dati sul tasso di disoccupazione attuale perché, non contenta della situazione che stavo vivendo, mi piaceva continuare a farmi del male.
Ecco cosa diceva un articolo di giornale:“Non sono confortanti i dati che giungono a noi. Si comunica che sulla base di stime provvisorie il tasso dei
senza lavoro risulta in lieve aumento dal 8,3% all'8,6%. Ad aumentare pericolosamente, invece, è la disoccupazione giovanile, tra i venti e trentacinque anni, il tasso si è attestato al 28,9%, con un aumento di 0,9 punti percentuali rispetto a ottobre e di 2,4 punti rispetto a novembre. Anche in questo caso si tratta di un livello record dall'inizio delle serie storiche di gennaio.”
La forte percentuale di disoccupazione non mi rinfrancava, infatti non riuscivo ad accettare di essere finita in una percentuale.
La crescita di disoccupazione aveva, inoltre, incrementato il numero di suicidi e di persone in cura da psicologi, analisti, terapeuti:“Una ricerca dell'Eures, istituto di ricerche economiche e sociali, delinea un aumento dei suicidi legati alla crisi economica. Dallo studio è emerso un incremento di suicidi tra i disoccupati. Si tratta di un fenomeno aumentato a dismisura nel corso degli ultimi anni e che, dall'inizio dell'anno, ha raggiunto il record di 338 morti, uno al giorno. La perdita di identità dovuta alla mancanza di indipendenza economica è dunque la causa che spinge al gesto estremo. Aumenta anche il numero di persone che si rivolgono ad uno specialista per cercare di curare la depressione emersa per motivi economici.”
I dati non erano confortanti, non volevo certo arrivare a suicidarmi, ci voleva troppo coraggio per farlo, e io non ne avevo mai avuto molto.
Sapevo già che più tardi avrei visto Colin, così mi alzai dalla poltrona, spensi il computer, e andai in camera. La mia relazione amorosa veniva derisa dalla mia amica Lilian: “atempo” la chiamava. Non potevo darle torto. Da quando ero stata abbandonata dal mio ex, Bryan, stavo con Colin. Ma non era mai scattata la scintilla. Tutto questo, tuttavia, rendeva molto tranquilli i miei genitori e quel lato masochista di me stessa che non accettava di dover stare sola per sentirmi bene. Stavamo insieme da due anni, troppi per essere un'avventura, pochi per sposarsi. Non era un rapporto come gli altri.
Il telefono squillò puntuale alle sei di sera.
- Ciao, sto tornando a casa, – disse Colin. – Ci vediamo?
- Va bene, – risposi.
- Ottimo. Al solito posto. Dobbiamo festeggiare!
Non ero dell'umore adatto per un party, non volevo esaltarlo troppo. Optai per un jeans e un maglione blu, largo. Quella sua strana voglia di festeggiare mi aveva preoccupato. Mi legai i capelli in una crocchia.
Prima di uscire di casa con piumino, cappello e sciarpa, presi una borsa capiente per infilare un cambio di vestiti, nel caso più tardi mi fossi vista con Lilian.
Cinque minuti più tardi arrivai al portone di casa di Colin. Anche lui viveva in un appartamento, ma era molto più grande del mio. Era composto da quatto camere, cucina, sala e due bagni. Ho sempre creduto che, nonostante tutto, il mio appartamento fosse più incantevole per il bellissimo terrazzo e le pareti colorate.
Senza entusiasmo ricontrollai l'orologio. Soffiai aria calda tra le mani, il freddo si infilava in ogni parte scoperta del mio corpo. Battei i piedi a terra per cercare di riscaldarmi. Muovermi era l'unica cosa che potessi fare prima del suo arrivo. Colin, infatti, si era rifiutato di darmi le chiavi di casa. Ero sicura che non volesse farsi beccare mentre pomiciava con qualche altra ragazza. Non che mi
importasse, ma era piuttosto fastidioso rendersi conto che mi credesse così stupida.
Lo vidi arrivare in lontananza con cappotto nero e valigetta blu. Era un uomo ordinario emigrato dal Nord Europa, quindi: capelli biondi e occhi chiari. Trenta anni con un' ottimo percorso di studi alle spalle, si era subito affermato come Product Manager.
- Ciao, – disse con freddezza a disinteresse, dandomi un bacio frettoloso sulla guancia.
- Come va? – chiesi strofinandomi le mani e evitando di guardarlo negli occhi. Mi metteva soggezione.
- Ho grandi notizie! – dichiarò, raggiante, prendendo le chiavi e rigirandole nella serratura del portone.
Io gli sorrisi malevolmente, anche io avevo grandi notizie, ma non erano troppo entusiasmanti.
Spalancò il portone, e posizionò il proprio corpo in modo da farmi are per prima.
- Grazie, – risposi secca, dirigendomi il più velocemente possibile verso l'ascensore.
Premetti il pulsante rotondo e bianco, aspettando impazientemente. Il suono metallico, simile ad un dlin-dlon, mi avvisò del suo arrivo al piano. La cabina era lucida e metallizzata, grigio topo. All'interno vi era un solo specchio.
Io e Colin entrammo senza dire una parola. Il mio respiro caldo e affannoso si mescolò al suo, calmo e controllato. Era distaccato.
Un altro dlin-dlon ci avvisò di essere arrivati. Aspettammo che le porte dell'ascensore si aprissero e uscimmo.
Su quel piano c'erano tre porte, e tre tappeti rossi: due sbiaditi, uno nuovo di zecca. Io mi diressi verso quello. Strofinai gli stivali sullo zerbino dell'ingresso per togliere i residui di neve.
Colin, invece, prese le chiavi dalla tasca del cappotto e infilò la chiave nella serratura con la perfetta maestria di chi ha ripetuto quel gesto un migliaio di volte. Aprì la porta senza pulirsi le scarpe e si diresse verso la camera da letto, io andai in cucina. Aprii il frigorifero per vedere cosa potessimo mangiare quella sera. Restai sconsolata nel notare quanto poco cibo ci fosse. Avremmo mangiato di nuovo tonno con pane e pomodori.
Urlò dall'altra stanza: – Aileen, prepara qualcosa da mangiare, ho fame.
Non era facile farlo contento, temevo che mi avrebbe cacciato due urla per qualche motivo che non avrei capito. Una volta fu capace di arrabbiarsi perché la tovaglia era blu invece di rossa.
Sciacquai i pomodori sotto il rubinetto dell'acqua e li tagliai in piccoli spicchi. Li condii con olio e sale, poi aggiunsi il tonno.
Apparecchiai il tavolo, e misi il cibo in due piatti.
- Se vuoi mangiare ho preparato due cose di là, – dissi affacciandomi alla porta della sua stanza bianca. La camera era spaziosa ed essenziale. Un letto a due piazze, un armadio a cinque ante, una cassettiera ed una scrivania sommersa da una parte da agende, fogliettini e penne. Il computer occupava il lato destro.
- Entra un attimo Aileen, – disse gesticolando. – Voglio farti vedere una cosa.
Mi avvicinai alla sua scrivania. Avevo poca voglia, sia di ascoltarlo, sia di vedere qualsiasi cosa avesse voluto mostrarmi.
- Ma come ti sei conciata? – disse contraendo la faccia in un'espressione stranita. – Sembri appena uscita dal letto!
Disgusto. Rabbia.
Sorrisi. Il disgusto era il sentimento perfetto per acquietare il bollente spirito del festeggiamento.
- Guarda qua, – disse con compiacimento, orgoglio e una dose notevole di egocentrismo, indicando il monitor del computer. – Il mio nuovo contratto di
lavoro!
Il sorriso precedente si affievolì immediatamente, trasformando il mio viso in una maschera cinerea.
- Oggi mi hanno contatto quelli della Oracle, sono alla disperata ricerca di una persona con le mie competenze. E indovina? – disse appiccicandomi la faccia contro lo schermo. – Mi daranno cinquecento mila dollari all'anno!
Stima. Fierezza.
Io per poco non svenni. Per fortuna ero così vicina alla scrivania da potermi appoggiare.
- Ti rendi conto? – fece sorridendo sornione. – Questo cambia tutto!
Vero, cambiava tutto. Sarebbe diventato ricco e io sarei finita sotto i ponti a elemosinare qualche moneta per poter campare. E tutto perché non riuscivo a lavorare con molte persone attorno.
- Mi potrò permettere molte più cose! Fare molti più viaggi!
Entusiasmo. Egoismo. Rabbia.
Mi scostai guardando a terra. – Certo, – risposi tremando. – Vado di là a controllare che non si bruci niente.
Ma quanto sei disfattista! – ringhiò. – Possibile che tu non abbia voglia di ascoltare? Non hai mai voglia di fare un cazzo!
Rabbia. Inconcepibilità.
- Torno subito, – farfugliai sforzandomi di sorridere. Staccai le mani dalla scrivania e corsi in bagno. Chiusi la porta di legno alle mie spalle. Avvolsi la testa nell'asciugamano bianco e soffocai la rabbia e l’egoismo. Perché mi sentivo così arrabbiata? La mia testa martellava pulsante di quel sentimento.
Sciacquandomi il viso con l'acqua fredda, pensai che non avrei retto un'intera serata con lui, e nemmeno con Lilian. Così le inviai un messaggio declinando il suo invito.
Armata di coraggio tornai in camera, scoprendo che Colin non c'era. Lo schermo accesso del computer mostrava in lontananza il contratto di lavoro che stavo odiando.
Recandomi in cucina udii il rumore di una forchetta che sbatteva.
- Dov'eri finita? – chiese Colin senza alzare gli occhi dal piatto. – Siediti, così mangiamo.
Collera.
Presi un po' di tonno e lo ficcai in bocca.
Masticai lentamente cercando di fare pensieri più allegri, come la faccia di mio fratello quando inciampai e finii di testa nella torta di nostra madre.
- Sono contento di vederti sorridere, Aileen, – disse Colin riportandomi al presente. – Finalmente ti sei accorta di quando sia importante questo contratto per me.
Compiacimento.
- Già, – annuii tutt'altro che felice.
- Tu quando cominci con il nuovo lavoro?
Invadenza.
- Bhe, ecco... – cercai di tergiversare infilando in bocca un paio di pomodorini. Non avevo voglia di parlarne con lui dato che lo percepivo indisponente.
- Allora? – insisté.
Con la bocca piena gli feci un sorriso. Poi deglutii rumorosamente. – Credo di... di essere stata licenziata.
Colin abbandonò la mano sul tavolo.
Disappunto. Ostilità. Sdegno.
- Cara, si pentiranno, tu sei in gamba. Ti aiuto io, – disse imibile e altezzoso. – Visto che non avrai niente da fare, potrai venire a casa mia a dare una pulita.
Spalancai gli occhi colta da quella rigidità. Dalla sua freddezza.
- Con il mio nuovo lavoro, – proseguì, – avrò meno tempo da dedicare alla casa, per fortuna, potrai farlo tu.
Mi diede una pacca sulla spalla e si alzò. – Lavi tu i piatti, vero?
Arroganza. Superbia.
Sorrise lasciando la cucina.
Lasciai cadere la forchetta nel piatto quasi pieno. Mi ero sforzata di mangiare qualcosa, ma non avevo fame. Colin aveva contribuito in maniera decisiva a farmi chiudere lo stomaco. Appoggiai la testa sul tavolo, presa da nuove emozioni: disinteresse e rabbia. Non erano mie. Ci volle uno sforzo considerevole, ma alla fine riuscii a scrollarmele di dosso.
Decisi di andare via. Quella non era casa mia, né c'erano persone che mi avrebbero aiutato. Con il peso nel cuore mi alzai dalla sedia. Mi affacciai nel corridoio. La porta della camera era chiusa. Avevo campo libero.
Misi il piumino, presi la borsa e, più silenziosamente possibile, aprii la porta. La socchiusi fregandomene altamente di chiuderla.
Scesi le scale due gradini alla volta.
Giunta fuori, presi delle lunghe boccate di aria fredda che entrarono nel mio corpo, raggelandolo. Eppure la temperatura rigida non era niente in confronto all'abbattimento emotivo che provavo.
Mi incamminai con il o pesante e lo sguardo basso. Guardai gli stivali scuri calpestare la solida neve.
Gli sgombraneve avano incessantemente, gettando sale e raccogliendo, o accatastando. Il sentiero era una melma dura, gelida e biancastra.
Svoltai a destra, ai oltre la piccola Chiesa e la farmacia
Uno dei miei stivali slittò. Cercai di tenermi in equilibrio mettendo il peso del corpo in avanti, ma il ghiaccio ebbe la meglio. La schiena ondeggiò in avanti, perdendo completamente l'equilibro.
Pattinai verso il pericolo.
Stavo per schiantarmi, già immaginavo il male che mi sarei fatta. Misi le mani davanti al viso, e mi chiusi a riccio per ripararmi.
Chiusi gli occhi condannata al peggio, ma finii addosso a qualcos'altro. Un uomo. Fu una fortuna, in verità, perché mi sarei potuta schiantare contro la vetrina del negozio di fronte.
Quando aprii gli occhi, vidi un busto robusto coperto da una mantella nera. L'uomo mi resse per le spalle. Ci mise poco a spostarmi e rimettermi in piedi.
Ero perfettamente diritta e, notai con piacere, che le gambe mi reggevano.
- Grazie, – dissi alzando lo sguardo verso il mio salvatore, ma il cappuccio sulla testa gli nascondeva il viso.
Non disse una parola e non fece alcun cambiamento nella sua postura. Il silenzio assoluto. Non era la prima volta che non percepivo le emozioni di qualcuno. A volte succedeva, ma era raro. Fu per quello che lo guardai stranita, inclinando il capo per capire se da una posizione diversa avrei avvertito qualcosa. Ma non
accadde nulla.
Si scostò lateralmente, facendo svolazzare la sua mantella nera contro la mia gamba, poi si dileguò in tutta fretta.
Non gli corsi dietro, non era importante. Rimasi per un minuto a fissare il mio riflesso nella vetrina del negozio. Erano esposti una gran quantità di cappotti e cappelli invernali, fissati su dei manichini alquanto magri e privi di espressione. La mia immagine si perdeva in quegli abiti di lana e cashmere.
Ero io. Un'autostima spezzata all'interno di un corpo integro.
Scrollai la neve dai vestiti e mi incamminai, lentamente. Il capo chino. Lo sguardo perso.
Davanti al portone di casa trovai Lilian, appoggiata al muro, che mi stava aspettando.
Preoccupazione.
- Era ora! – esclamò scompigliando i suoi capelli castano chiaro. – Credevo di fare la notte qui! Cosa significa quel messaggio che mi hai mandato? Non puoi darmi buca!
- Lilian io... – le parole mi morirono sulla lingua sentendo un groppo in gola.
- Stai bene? – chiese avvicinandosi e prendendomi per mano. – Pare proprio di no.
Interesse. Premura.
- Lilian... – singhiozzai.
- Lascia stare, – rispose. Prese le chiavi dalla mia borsa e mi condusse a braccetto nel mio appartamento. Dolcezza. Affetto.
Da buona amica, o pessima, dipende dai punti di vista, aveva versato un goccio di liquore nel flute e me lo aveva porto.
- Ti ascolto, – disse.
Io tra un singhiozzo e l'altro non dissi nulla. Piansi. Bevvi. Non parlai. Piansi e mi addormentai.
Il giorno dopo mi svegliai con una coperta sulle spalle e un mal di testa terribile. Lilian mi aveva lasciato un biglietto sul tavolo: “Chiamami appena ti svegli.”
***
Capitolo 3 “Vendita cervello, poco usato.”
Tre giorni dopo il mio “successo” lavorativo misi in vendita “ironicamente” il mio cervello. Non ce la facevo più a vederlo così solo, così atrofizzato.
Mi sedetti sulla poltrona dello studio e sospirai affranta. Lo schienale alto e comodo mi avvolgeva completamente il dorso, quasi volesse confortarmi.
Diedi un'occhiata al cellulare per vedere se avevo ricevuto qualche telefonata di lavoro, ma trovai solo quella di Colin. Erano tre giorni che lo ignoravo. Erano tre giorni che mi cercava. Ma io sapevo che non era carico di preoccupazione per me, era adirato perché non aveva più nessuno con cui parlare dei suoi successi e dei suoi immensi problemi. Ero riuscita a leggere il messaggio che aveva mandato quando ero scappata: “Aileen devi chiudere la porta quando te ne vai”. Peccato che io non avessi le chiavi.
Un trillo sfuggente mi fece sobbalzare. Alzai lo sguardo verso lo schermo del computer. La mia casella di posta elettronica si era illuminata, indicandomi l'arrivo di una nuova email.
Mittente: Colin Carter. Oggetto: Dove cazzo sei finita?
Selezionai il messaggio e lo cestinai.
Aspettavo proposte lavorative, non avevo tempo da perdere con i suoi rimproveri inutili.
Abbandonai lo studio e andai a prepararmi un panino. Mi ero imbottita di cioccolatini tutto il giorno e avevo saltato il pranzo.
Accesi la luce della cucina perché la sera aveva portato con sé il buio. Mi affacciai sul terrazzo per osservare il panorama che mi circondava. Il cielo era plumbeo e prometteva un'altra nottata di neve.
Rientrando, rabbrividii. La differenza di temperatura mi fece pensare all'estate, al mare, al costume da bagno e alle vacanze che non potevo permettermi. Sospirai e rientrai.
Avevo il coltello incastrato nella fetta del pane quando squillò il cellulare. Era mio fratello maggiore, cinque anni ci separavano. Da un anno si era trasferito per lavorare all'Ottawa Hospital. Viveva con la sua compagna, Marie. Li vedevo raramente perché erano sempre molto impegnati, e appena potevano si godevano un viaggio all'estero.
- Bob?
- Aileen! – disse in tono apprensivo. – Ho saputo del lavoro.
- Fammi indovinare? Nostra madre? Sto bene.
- Non è che mi stai mentendo? – domandò con voce indagatrice.
- No.
- Hai smesso di mangiare?
- No. Proprio ora stavo per mettermi a tavola.
- Va bene, – rispose un po' abbattuto. – Vorrei venire a trovarti, cercherò di liberarmi.
- Bob... non preoccuparti. Ci possiamo chiamare quando vogliamo.
Lasciai il telefono sul divano e tornai a concentrami sul panino, che dovetti abbandonare quando il telefono squillò di nuovo. Controllai lo schermo: l'immagine di Lilian si era impossessata del display. Quella foto l'avevo scattata quando eravamo andate al lago l'estate precedente. La mano sul capo teneva ferma un largo cappello di paglia.
- Ciao Lilian, – feci io.
- Aileen! – Una voce squillante mi perforò il timpano. – Sei pronta per uscire?
- Non se ne parla neanche! – affermai con decisione
- Che noiosa! – rispose scocciata. – Sono giorni che non esci!
- Lo so, ma non ho voglia! – ribattei ancora più decisa.
Provò ad insistere, ma la mia risposta non cambiò. Un attimo dopo aveva riagganciato.
Tornai ad occuparmi della cena.
Il telefono squillò ancora.
A quel punto sbuffai, sbattei il coltello sul tavolo della cucina e ripresi il cellulare. Il numero non lo conoscevo.
- Pronto?
- Pronto? Aileen Grenn? – domandò una voce maschile dall'altro capo.
- Sì, sono io, – risposi seriamente. – Chi parla?
- Salve, la chiamo per conto della mia società. Siamo in cerca di persone come lei.
- Un lavoro? – chiesi entusiasta. – Mi può dire di cosa si tratta?
- Vorremmo fissarle un primo incontro stasera alle nove.
Mi grattai il capo. – Beh, – dissi io, – non si potrebbe fare domani mattina?
- No, stasera alla nove, – ribatté velocemente.
- Se per voi è così urgente... mi lasci l'indirizzo presso il quale devo recarmi, e se può darmi qualche dettaglio sul lavoro gliene sarei grata.
- Bene. A dopo, – rispose.
Riattaccò.
Fissai il telefono interdetta.
Era uno scherzo di cattivo gusto.
Avvolsi il panino ancora integro nella carta e lo conservai nel frigorifero.
Mi era ato l'appetito.
***
Capitolo 4 Più tardi chiusi la portafinestra della camera da letto e mi sfilai i vestiti. Optai per una tuta rossa. Il pigiama rosa era ancora steso ad asciugare e lo avrei preso prima di andare a dormire. Raccolsi i capelli bruni in una coda e mi gettai un attimo sul letto. Forse avrei dovuto prendere una bottiglia di vino, per conciliare meglio il sonno delle nove di sera e godermi un po' di delizia in quella giornata. Prima, però, accesi lo stereo.
Tornai spedita in camera con Orgoglio e Pregiudizio di Jane Austen e un vino novello di piacevole compagnia. Entrando mi gustai il rosa ametista che avvolgeva la stanza. Le pareti di quel colore mi davano sempre una graziosa sensazione di dolcezza e purezza.
Posai i miei preziosi cimeli serali sulla scrivania e andai a chiudere la porta.
I vestiti, che avevo abbandonato sul pavimento, si trovavano ancora lì, così mi chinai per raccoglierli e appoggiarli sulla sedia.
Mi bloccai.
Accanto al maglione vidi due paia di scarpe.
Non erano mie.
Non le avevo mai viste.
Si muovevano.
Lanciai un'occhiata alla porta della stanza e la vidi aperta.
Il corpo tremò, preso da un forte senso di panico e impotenza.
Non avevo circondando la casa con l'antifurto e non ero attrezzata con niente. Una volta avevo pensato di prendere un cane, non un topo, come definivo ogni animale a quattro zampe alto quanto il mio pollice. No. Un bel cane. Un grosso cane. Un bel pastore maremmano. Lo avrei chiamato “Ercole”. Con lui al mio fianco mi sarei sentita al sicuro. Il problema principale di quella razza era il pelo. Masse e masse di pelo lungo e bianco che avrei dovuto raccogliere ogni giorno. Era sufficiente per farmi are la voglia di avere un cane.
- Ciao Aileen, – pronunciò una voce soave e dolce, un incantatore di serpenti che sapeva il mio nome. – Puntali alle nove.
Sobbalzai. Era la voce dell'uomo con cui avevo parlato al cellulare quella sera.
Un pensiero devastante attraversò la mia mente. Stavo per morire. Prima o dopo doveva succedere, avevo pregato troppo.
Non poteva succedere due anni fa? Sarei stata pronta.
Non ebbi il coraggio di guardare quello che stava per accadere. Forse fu per quello che le mie gambe cedettero e caddi in ginocchio.
La mia mente era vuota. Non coglievo nulla che potessi imbracciare e usare come arma. Nessun oggetto che potessi usare per difendermi.
Alzai lo sguardo inavvertitamente. Due figure torreggiavamo su di me. Due uomini con una cappa nera lunga fino alla caviglia. Il cappuccio calato sulla testa.
Uno fissava con curiosità la mia stanza. L'altro fissava me.
Non era affatto semplice decidere cosa potevo fare, quando non ero certa di quello che stava per capitarmi. E lo era ancor meno quando pensavo che la mia vita poteva dipendere dalle azioni, e intenzioni, di qualcun altro. Intenzioni che non sentivo!
Avevo paura. La stanza si impregnò delle mie emozioni. Terrore. Morte. O peggio, violenza. Tortura.
- Una stanza rosa, eh? – con gesto eloquente indicò le pareti all'altro uomo, che per tutta risposta alzò le spalle e disse:
- Fa davvero caldo qui dentro. – abbassò il cappuccio con disinvoltura, slacciò la cintura di stoffa che teneva legata la mantella e, scoprendosi, appoggiò tutto su una sedia. – Non ne potevo più.
Gli occhi e il viso avevano dei lineamenti insoliti. Nell'insieme avrei detto che fosse di un altro paese, ma non avrei saputo dire quale, visto che aveva il mio stesso colore di pelle, la forma dei miei occhi, e parlava perfettamente la mia lingua. Era molto alto, di sicuro mi superava di una quindicina di centimetri. I capelli lunghi neri erano sciolti, e ricadevano disordinati sulla sua maglia.
Si avvicinò quel tanto che bastava per mostrarmi due occhi grigio scuri. Ero sicura, per quanto potesse essere assurdo, che fossero grigi. Non un grigio banale, bensì un grigio metallizzato: come quello della mia vecchia automobile. Quella che avevo distrutto in un incidente un anno prima. Forse, avrei fatto la stessa fine.
Strizzai gli occhi per vedere meglio, non si era mai troppo vecchi per cominciare a diventare ciechi, e mai troppo sobri per cominciare a immaginare le cose.
Lui colse al volo i miei pensieri. – Sono grigi, – disse.
Stavo delirando. Non era possibile che quelle persone erano reali, né che erano nella mia camera.
- Mai visto occhi di questo colore? – chiese.
No, non li avevo mai visti. Ma lui pose la domanda come se fosse impossibile non averli mai incontrati.
- Cuyed, – disse l'incappucciato accanto, – do' un occhiata veloce alla casa e torno.
Fu così che scoprii il suo nome, e osservai con orrore che non era uno comune.
Cuyed non degnò di una risposta il compagno, ma concentrò i suoi occhi sulla mia figura paralizzata. – Non mi guardare così Aileen.
Il mio corpo tremò senza che potessi far niente per fermarlo, o nasconderlo. Non volevo mostrarmi spaventata, ma era esattamente così che mi sentivo. Inoltre, non riuscivo a smettere di fare pensieri tragici. Catastrofici.
- Sono qui da un anno, sono stufo! – sbottò Cuyed, ridestandomi dalla mia immaginazione. – Non è il ritratto della felicità. Da quando sono qui l'ho sentita sempre triste, insoddisfatta.
L'altro sghignazzò. – Forse sapeva che ti avrebbe conosciuto.
Rabbrividii. Oscillai. Battei i denti per l’ansia. Quell’insinuazione mi gettò il gelo addosso.
Cuyed sospirò. – Sono venuto qui per integrarmi e conoscerla, ma non ho potuto. Ho trovato solo desolazione. Stare qui tanto tempo le ha fatto male!
Gli venne lanciata un'occhiata torva. – Risiedere qui per venticinque anni erano gli accordi presi tra Erixia e il Consiglio! Se ciò non ti sta bene potresti parlarne con loro, ma... dubito che ora possa fare qualche differenza!
L'incappucciato si fermò a riprendere fiato, come se stesse omettendo qualcosa di importante, poi riprese. – Non mi lamenterei se fossi in te. Dovresti lasciar perdere queste sciocchezze e contattare Erixia!
- Non ho intenzione di spedirla da lei senza prima averle parlato!
L'amico si irritò e parlò a denti stretti. – Cosa vorresti raccontarle?
- La verità su di noi!
- No! Non ora!
In modo repentino, l'incappucciato alzò il braccio e afferrò Cuyed per le spalle.
Lo spinse contro la parete del corridoio. Lo fece volare fuori dalla stanza ando per la porta aperta.
Io strabuzzai gli occhi. Sobbalzai in preda a spasmi irregolari del cuore. Il clima si stava surriscaldando di violenza. Mi rannicchiai come se potessi allontanarmi da ciò che temevo sarebbe successo. Nel muro si era formata una crepa.
Lentamente, Cuyed si spostò. Era intatto, nemmeno un graffio. Si sistemò la maglia con molta cura, poi scoppiò a ridere. Una risata rabbiosa.
Il tono di voce dell'incappucciato salì prepotentemente. – Non è corretto fornirle ora tutte le informazioni! Quasi non è parte di noi, né di... né di casa nostra!
- Vuoi avere tu l'onore di raccontargliele? – disse Cuyed. – Per questo non vuoi che sia io?
- No. Non è compito mio. Io, a differenza tua, so qual'è il mio posto! Inoltre, – si inumidì le labbra, – avevo votato contro.
Ti ricordo che, ora, lei è qui! Noi siamo qui!
- Lo so. Ma non so se è pronta per questo. – Impugnò una Pietra rosa e la lanciò verso l'alto. La riprese con un gesto fulmineo.
- Smettila di giocare! Sono ati venticinque anni!
L'incappucciato si bloccò. Fermò la Pietra e la strinse nella mano. – Si, sono ati venticinque anni, ma tu hai voluto affrettare le cose! Dobbiamo portarla da Erixia. Spetta a lei il compito di informala! Non certo a te!
Mi aggrappai alla gamba del letto senza controllo e coscienza. – Oh. Mio. Dio.
L'incappucciato si voltò e mi dedicò uno sguardo serio. – Paura?
Rabbrividii, conscia di quello che avevo fatto. Avevo aperto la bocca e attirato l'attenzione. Avevo mostrato la mia debolezza e la mia paura. Quei due avevano smesso di litigare, e mi stavano fissando.
- Aileen, ascolta, – disse Cuyed rientrando in camera. – Sono qui da un anno. Ho cercato di integrarmi. Ho osservato molto il vostro modo di comportarsi, non mi stupisce che tu non riesca a capire. Vi create un velo invisibile, per non vedere le cose. La maggior parte delle volte non comprendete, le altre fate finta di non capire.
Un sorriso lieve comparve sul suo viso e avvicinò, lentamente, la sua mano alla mia. – Se ti dicessi che potrei farti sentire le mie emozioni?
Indietreggiai, fino a quando lo spazio me lo permise, poi la schiena trovò il muro. Ogni poro della mia pelle trasudava terrore.
Cuyed fermò la mano a due i dalla mia. I suoi occhi grigi erano penetranti.
Ma di lui non sapevo altro. Non sentivo nessun sentimento. Non volevo essere toccata. Volevo scappare. Volevo fuggire, correre lontano.
Le sue mani tremarono all'improvviso. Era stato fermato.
- Non puoi, – disse l'incappucciato. – È la sua la prima volta e tu non hai esperienza. Potresti farle male.
Gli occhi di Cuyed divennero più scuri, seri e minacciosi. – Prego.
Li fissai con sgomento. Avrei voluto urlare. Avrei voluto che tutti si allontanassero, ma non ebbi il tempo di dire o fare nulla. L'incappucciato fu rapidissimo. Non mi toccò, non mi sfiorò neanche. Si insinuò nella mia mente.
Sentii.
Venni sopraffatta dalle emozioni. Fui catapultata nelle emozioni dell'incappucciato. Fui sommersa da una miriade di sentimenti. Amore, dolcezza, tenerezza, tristezza, preoccupazione. Tutte cose che provava per me.
Ero finita in un limbo senza tempo.
I minuti si fermarono. Non vidi più nulla attorno a me. La mia stanza era sparita, e con essa il letto e l'armadio. Non ero nella mia camera. Ero dentro il buio assoluto. Rossi, gialli e arancioni. Amore. Affetto. Conforto. Piccole scie
colorate mi avvolsero. Risalirono fino alla punta delle dita attorcigliandosi e dissolvendosi. Ogni emozione dell'incappucciato si traduceva con una nuova striscia colorata che mi accarezzava la pelle. Poi ricominciavano: una nuova emozione, un nuovo colore. Era piacevole e seducente. Mi sentivo bene, felice. Ne volevo ancora. Ancora. Per la prima volta dopo due anni io mi sentivo felice. Ma il colore sfavillò, e si fece accecante.
Sbarrai gli occhi. I battiti del cuore erano accelerati. La vista era appannata.
Le braccia dell'incappucciato stringevano il mio corpo. Come ci era finito così? Non me ne ero accorta. Mi staccai immediatamente.
Lui aveva gli occhi chiusi. I lineamenti del volto erano marcati. Il corpo era solido e roccioso, ma sembrava stremato quanto me. Abbassò il cappuccio su tutto il viso. Si alzò barcollando e uscì dalla porta senza guardarmi.
- Ora ci credi? – disse Cuyed.
Le mie sensazioni era alterate. Mi sentivo una tossica che si era appena fatta una dose. Feci la cosa più stupida che potessi fare: annuii.
Con o lento Cuyed si avvicinò. Allungò il braccio e mi porse la mano.
Io lo guardai in modo incerto, non volevo che succedesse quello che era capitato prima con l'altro.
- Andiamo Aileen, – mi incoraggiò. – È tutto a posto.
Lasciai la barra del letto e mi alzai. Avevo le gambe molli e la testa che girava.
Cuyed mi aiutò ad alzarmi. – Tra poco ti riprenderai, – disse.
Toccandolo, non avvertii nulla. Fu un bene, se fosse accaduto sarei svenuta.
L'incappucciato comparve sulla porta. – Siamo pronti. Preparatevi.
Mi lanciò un'occhiata fugace. Prese la mantella di Cuyed e allungò il bracco per armela. Le sue dita mi sfiorarono, indugiarono appena. Fui percorsa da un brivido che mi costrinse al alzare lo sguardo sul suo viso nascosto. Lui si staccò all'instante, come se avesse fatto qualcosa di sbagliato, e uscì dalla stanza.
Fu Cuyed a trascinarmi in corridoio.
Vidi qualcosa che mi rese poco felice. Cinque mantelle nere, oltre me, incupire il mio ingresso. Uno di loro aveva il cappuccio abbassato. Lunghi capelli biondi e occhi chiari. Mi lanciò un'occhiata furtiva.
Voltai il capo. Avrei voluto chiudere gli occhi, riaprirli e capire che era stato solo un sogno. Ma loro erano lì.
Sentii il mio mondo sussultare, come se il destino stesse per are su un altro binario.
***
Capitolo 5 Scendemmo le scale del palazzo senza luce.
Il buio della notte ci copriva.
Eravamo sei incappucciati, con cappa nera come la pece. Cuyed era l'unico ad esserne sprovvisto.
Davanti a me vi erano l'incappucciato numero uno: quello che mi aveva sommersa di emozioni, e l'incappucciato numero due: il biondo, a cui sfuggivano alcune ciocche di capelli dal cappuccio.
Accanto a me, con un sorriso smagliate e uno sguardo di chi sa di aver già vinto, l'uomo numero tre: Cuyed.
Alle mie spalle vi erano altri tre uomini, che definii semplicemente: il trio.
Guardai l'orologio. 11:30.
La spavalderia che avevo dimostrato poco prima, staccandomi dal letto, era completamente scomparsa e al suo posto era emersa la paura. Un poco di odio verso di loro, e un poco verso me stessa che mi ero lasciata ingannare.
Una vera sempliciotta. Ecco cosa restavo.
Giunti alla fine delle scale l'uomo biondo aprì il portone. Cuyed mi strinse il polso e mi spinse avanti. Un o dopo l'altro. Fui fuori.
Mi voltai per guardare. Stavo per dire addio alla mia casa?
Non avrei voluto mettermi a piangere così strinsi il pugno e proseguii.
Ci fermammo all'angolo della strada.
L'incappucciato numero uno si avvicinò. Sfiorò le mie spalle con la mantella. Fu come ricevere un'altra sniffata di cocaina. Un profumo inebriante di amore e sincerità.
- Aileen, – disse lui. – Devo bendarti.
Annuii obbediente. Non mi opposi quando le sue mani strinsero la benda attorno alla mia testa.
Qualcuno del trio iniziò a spingermi e farmi strada, ogni tanto diceva “gradino”, oppure “palo”.
Inciampai in un sasso, o almeno credetti che lo fosse, e mi feci male alla caviglia. Subito dopo venni ficcata in macchina.
- Guido io, – potei udire da Cuyed.
Per tutto il tempo udii strani tonfi, voci soffuse di incappucciati che non conoscevo, e persone che mi schiacciavano contro la portiera.
Io soffrivo il mal d'auto da sempre, la situazione in cui mi trovavo non avrebbe migliorato la cosa.
Una mano sfiorò la mia. Mi ritrassi velocemente.
- Ti aiuto Aileen. – Era l'incappucciato numero uno.
Un brivido mi percorse la schiena. Non di quelli che avevo per il freddo glaciale. Di quelli che avevo quando avevo paura.
- Fammi abbassare il finestrino, – disse.
Attaccai la schiena al sedile, feci aderire il corpo il più possibile. Non volevo essere toccata. Avevo il timore che potesse succedere lo strano smarrimento che era accaduto poco prima. Tutte quelle emozioni stordenti mi avevano rimbambita.
Avevo sempre avuto una spiccata percezione per i sentimenti altrui. Quando ero piccola, a scuola, era tutto un gioco. “Tu sei triste”, ripetevo. “Tu sei felice ora”. Finché i bambini non iniziarono a evitarmi. Allora non fu più un gioco, ma una condanna. Gli altri non erano come me. Imparai a stare zitta, anche con la mia famiglia.
Ma con quell'uomo non stato era lo stesso. Prima di tutto, non avevo percepito le sue emozioni in modo costante, anzi non le avevo sentite affatto. Secondo, quando mi aveva sfiorata mi ero completamente persa. Avevo vissuto un'invasione di sensazioni così forti da stordirmi, da infilarmi in un buco nero con scie colorate. Le sue emozioni avevano annullato le mie. Per cui ero decisa a non farmi toccare.
Aria gelida invase l'abitacolo ridestandomi dai pensieri. Dalla preoccupazione. Lui non mi aveva toccata.
Mi godetti quel piccolo momento. Feci profondi respiri e lasciai che il corpo assorbisse quanto più gelo possibile. Il freddo era un ottimo strumento per la ripresa mentale.
- Allaccia la cintura, – disse lui.
Le mie mani brancolarono nel buio. – Non vedo niente!
- Faccio io, – disse. ò la cintura sul mio corpo, senza che le sue mani mi sfiorassero, e l'agganciò. Tac, si sentì.
- Oddio! – esclamai presa alla sprovvista. Eppure lo sapevo. Lo sapevo che era solo il rumore della cintura che si agganciava.
- Non è niente – disse lui. – Non senti?
- Non sento niente con voi! – sbottai. Non aggiunsi nulla.
Nel dubbio di ammettere qualche verità sconveniente era meglio tacere. Rimasi in silenzio mentre l'automobile filava indisturbata.
Quando ci fermammo, due mani sganciarono la mia cintura e mi aiutarono a scendere.
Camminai ancora con la benda sugli occhi. Dopo pochi i mi fecero fermare. Mi slegarono. Non riuscivo a vedere in modo nitido. Sbattei ripetutamente le palpebre prima che la vista tornasse quella di sempre.
Davanti a me c'era un cancello nero.
Erano le 11:57. Io credevo di essere stata bendata per ore, invece, doveva essere stato per pochi minuti.
- Siamo arrivati, – disse Cuyed.
Entrai.
Entrammo.
Il prato soffice attutì il rumore dei nostri i. I lampioni a luce bianca schiarivano il buio. Qua e là vidi fontane di architettura antica. Il palazzo davanti davanti a me era d'altri tempi. Un palazzo destinato a qualche antica dinastia. Erano ben visibili le migliaia di mattonelle marroni che rivestivano la facciata esterna. C'erano una ventina di finestroni di forma cupolare. Il palazzo doveva essere composto da una cinquantina di stanze.
Non feci in tempo a vedere altro, anche se tenevo il collo ben alzato. Mi spinsero all'interno. L'ingresso era immenso, prevalentemente vuoto. Il soffitto era spaventosamente alto. Alcune colonne decoravano la sala. Il pavimento di marmo era ricoperto da un tappeto rosso.
- Erixia ti sta aspettando, – disse uno del trio.
Io evitai di annuire e di parlare.
- È un incontro molto importante quello che stai per fare, – disse Cuyed. – Lei è la nostra Imperatrice.
Usando quel termine mi venne in mente la Regina. Forse era lei che avrei dovuto incontrare, ma poi i miei pensieri si persero: numero uno mi fissava. Il suo viso era rivolto verso di me, avevo il suo sguardo addosso. Avrei voluto sfidarlo, alzare la voce e dirgli “che vuoi da me?”, però non mi sembrava opportuno e, inoltre, avevo paura. Ero lì, era stata praticamente rapita, non potevo permettermi niente.
Tutto il gruppo di incappucciati mi era vicino, e che nessuno di loro si era abbassato il cappuccio. Nessuno di loro si mostrava, e la cosa iniziava a darmi fastidio, come il prurito insopportabile di una puntura d'insetto.
- Seguici, – disse uno di loro.
Gli uomini mi scortarono su, per le scale di marmo.
Il mio o si fece più pesante e sempre più vicino alla condanna. La tensione mi stava caricando la mente, non mi permetteva di ragionare lucidamente. Il respiro stava diventando affannoso. Il cuore sembrava che volesse uscire fuori dal petto, si sentiva così forte che, quando arrivammo all'ultimo gradino del primo piano, gli uomini si fermarono per farmi riprender fiato.
Riprendemmo a camminare su quel piano. Ci fermammo davanti alla prima porta. Un portone. Un'immensa porta antica. L'ingresso di una reggia.
Gli uomini mi fissarono, poi guardarono le maniglie delle porte. Annuirono. Aprirono.
***
Capitolo 6 Filtrò uno sfavillante raggio di luce rosa. La sala era enorme e luminosa. Fui quasi accecata. Al centro c'era un pilastro di vetro rosa, di uno spessore rilevante. Doveva essere alto cinque metri. Era quello a emanare tanta luce. Le pareti argentate. Il pavimento lucido di marmo.
Accanto al pilastro si trovava l'Imperatrice. Aveva lunghi capelli biondi, chiarissimi e ondulati, e un vestito da fare invidia al miglior stilista italiano. Azzurro, con spalline spesse. Era finemente decorato con brillanti.
- Benvenuta. – disse con cordialità.
Poiché riuscii a percepire immediatamente quello che provava, mi sentii un po' rincuorata.
Con un gesto della mano congedò i mastini che mi avevano condotta fin lì, e mi rivolse tutta la sua l'attenzione.
- Avvicinati, non aver paura.
Indicò due poltrone di stoffa nera.
Il fatto che mi avesse detto di non aver paura, per me, era del tutto irrilevante. Come dire ad un astice “andrà tutto bene”, mentre volevi infilarlo nell'acqua bollente, ancora vivo. Tuttavia, non sentivo in lei cattive intenzioni.
Dovetti fare attenzione a mettere un piede davanti all'altro senza inciampare nel mantello. La raggiunsi senza un graffio.
- Accomodati, – disse con dolcezza. – Non temere.
Non me lo feci ripete un'altra volta, avevo paura e le gambe tremavano come gelatina.
Lei si avvicinò lentamente, con portamento che mostrava sicurezza. Si accomodò sulla poltrona, davanti a me, e sistemò il vestito in modo da lasciar intravedere la pelle nuda delle sue gambe. Era di una bellezza sconvolgente, senza tempo. Aveva grandi occhi verdi, che definii, brutalmente, “verde ”, come due fari abbaglianti nella notte. Un viso rosa pallido, senza cicatrici, liscio e perfetto come quello dei bambini. Senza rughe.
- Ti starai ponendo molte domande, – disse con voce ferma, ma tradendosi con agitazione e nervosismo. – Vorrei solo chiederti di identificarti e indicarmi la tua età.
Le lanciai un’occhiata piena di agitazione. Malgrado la sua palese cortesia, non credevo che mi avrebbe permesso di tacere. Ero angosciata all’idea di quello che mi sarebbe successo se non avessi parlato. Ma la mia bocca era secca e riarsa e faticai parecchio prima di riuscire ad aprirla.
- Mi. Mi chiamo Aileen Grenn. Ho ventiquattro anni.
Lei inclinò il capo e con aria dubbiosa attese che proseguissi.
- Venticinque tra pochi giorni, – aggiunsi in tutta fretta, prima che quel poco di saliva che il mio corpo era riuscito a produrre, sparisse. – Il trenta dicembre.
Lei raddrizzò la schiena. La sua postura fu impeccabile e sublime. Supposi che avesse ato l'infanzia con educatori e insegnanti di ogni genere, che le avevano mostrato come comportarsi, come sedersi e tutti gli usi e costumi che l'etichetta richiedeva.
- Io sono Erixia. Solo Erixia.
Limpidezza. Purezza.
Io non mossi un muscolo. Non assorbii le sue parole. Mi zittii.
- Quello che ti dirò sarà difficile da accettare, – disse con sincerità. – ma potrò darti le prove della loro veridicità.
Si aggiustò una ciocca di capelli protesa sul viso. – Io vengo da lontano. Potremmo dire, più semplicemente, che vengo da un posto che si trova a molti anni luce dalla Terra, in un altro quadrante della Galassia.
Sbarrai gli occhi, ma avrei voluto nascondere il viso per non mostrare la reazione. Venni sopraffatta da potenti colpi di tosse che spezzarono il silenzio creatosi. Fu solo quando mi calmai che lei riprese a parlare, lentamente e dolcemente.
- Io e il mio popolo abbiamo scoperto la Terra trentacinque anni fa. È stata notata questa potente somiglianza con il nostro Pianeta, e con i terrestri. Come noterai, siamo simili. – Sorridendo si avvicinò. – Gambe, braccia e… tutto il resto. Siamo esseri umani!
Per poco non cascai dalla poltrona, mi tenni stretta ai braccioli neri. Artigliai la stoffa morbida e mi guardai attorno ossessivamente in cerca di speranza.
- Sì, Aileen. Un altro Pianeta.
Lo disse con sincerità. Schiettezza. Onestà.
A quel punto non riuscii a trattenermi. La mia espressione sgomenta era un segnale di paura. La mia mente sapeva che ero stata rapita. Eppure nessuno mi aveva toccata, violentata, torturata. Quindi, mi chiesi perché ero lì.
- E' uno scherzo, – affermai. – Sono in qualche programma televisivo.
Lei scosse il capo. – Il nostro Mondo si chiama Galatria.
Mi guardò curiosamente. Sincerità. Percepii il suo sguardo sulla mia pelle.
- Non è uno scherzo. Lo vuoi sapere perché ti trovi qui?
Impallidii.
Ero l'astice.
La cavia di laboratorio.
Il topo in trappola.
Sudai freddo. Non riuscii a respirare. Cercai di farmi aria con le mani. Le sventolai in modo ossessivo sul viso.
Mi mancò il respiro.
Trovai tra le mani un bicchiere. Bevvi. Il liquido trasparente, che scambiai per pura acqua, aveva un sapore dolciastro.
- Va un po’ meglio, – affermò lei preoccupata.
Il mio sguardo si fissò sul bicchiere. Feci un altro sorso. – Non lo so.
L’Imperatrice si incupì. Le spalle e il corpo presero una posizione rigida e alquanto innaturale.
Cruccio. Dispiacere.
- Aileen, – disse, stringendo lievemente la mia mano e togliendomi il bicchiere vuoto. – Non ti sei mai sentita fuori posto, qui, sulla Terra?
- Io... no.
Mi guardò accigliata. – Hai mai avuto la sensazione di sentire le emozioni degli altri?
- No, – dissi. Ma mi sforzai di fissare un punto lontano.
Costernazione.
- Stai mentendo Aileen! – disse spostando il mio viso e obbligandomi a guardarla negli occhi sfavillanti. – Credi che tuo fratello Bob senta quello che senti tu, quando incontri qualcuno che soffre? O che è felice?
Accanimento. Speranza.
Rimasi paralizzata, inchiodata senza scampo a quella verità che si fece largo nella mia testa.
- Io sono nata qui, sono cresciuta qui! – esclamai piena di terrore. – Ho una madre, un padre, un fratello e tanti parenti! Ho persino le foto di quando mia madre era incinta! Di quando sono nata in ospedale!
- Sei nata qui, è vero, – disse abbassando lo sguardo verso l'abito argentato. – Ma... quasi venticinque anni fa ho fatto in modo che tu restassi in vita. Lo sapevi che stavi per morire?
Onestà.
Sì, ero a conoscenza della storia. Mia madre me lo aveva raccontato tante volte. Ero nata con due mesi di anticipo. Ero podalica. Ed ero uno sgorbio piccolissimo. Di solito, tuttavia, con parto cesareo e qualche tempo in incubatrice si risolveva tutto. Per me non fu così. Appena venni al mondo i medici si accorsero che non respiravo. Loro fecero tutto il possibile per salvarmi, ma sembravo senza speranza. Quando mia madre si svegliò, le dissero che ero in coma e che difficilmente avrei superato la notte. Lei mi raccontò di come ò
tutto il giorno a pregare assieme a mio padre, affinché qualcuno si prendesse la loro vita e la lasciassero a me. “Le preghiere servirono”, mi diceva sempre: “tu ti riprendesti in poco tempo e senza nessuna conseguenza. Un miracolo, il mio piccolo miracolo!” Puntualmente si commuoveva. Papà mi diceva: “Guarda come sei bella, puoi ottenere tutto dalla vita, se c'è l'hai fatta quella volta, puoi farcela sempre, noi ti staremo vicino”. Peccato che non fosse vero.
- Sei viva perché ti ho salvata!
Onestà.
Non volevo capire e, peggio, non volevo accettare. Ero paralizzata, sconvolta.
- Se così fosse, perché?
- Trentacinque anni fa siamo approdati sulla Terra. A Pochi fu concesso di restare, e per periodi piuttosto brevi. L'anno in cui io restai sulla Terra fu anche quello in cui ti conobbi. Fu Wuzol, un galatriano che conosceva la tua famiglia, a portarmi da te.
- Trentacinque anni fa? – feci sbalordita. – E i miei genitori vi conoscevano?
Erixia si schiarì la voce prima di proseguire. – No, no. Non potevano sapere che Wuzol era un galatriano. Lui era solo l'inserviente dell'ospedale in cui ti trovavi tu. Venne da me, mi raccontò di aver avvertito qualcosa in te e che, forse, c'era una possibilità.
Socchiuse gli occhi. Speranza.
- Quello stesso giorno, – continuò, – venni da te, in ospedale. I tuoi familiare erano all'oscuro di ogni cosa. Mi avvicinai a te, e ti sentii. Così piccola, così fragile. – strinse la stoffa del vestito con la mano. – Mai avrei potuto lasciare che una vita si spezzasse, Mai!
La sua onestà mi disarmò. Non riuscii a interromperla.
- Toccandoti, ti diedi la salute, la vita. Ti diedi sufficiente energia per tornare a vivere. Ma non sei galatriana. Il sangue dei tuoi avi. L'energia dei nostri.
Rimasi imbambolata a fissarla, in parte scioccata da quella rivelazione, in parte incredula. – Cosa dovrei dire? Che ci credo?
- Sei simile a noi, – dichiarò con un tono di voce che non ammetteva repliche. – Kheltron mi ha detto che riesci a sentire gli altri.
Mi fissò con apprensione. Tacque, tormentandosi le mani e attendendo che io dicessi qualcosa.
- Sono confusa.
Il suo viso si illuminò quando le risposi, ma tornò subito ansioso. – Ti avremmo rivelato tutto allo scoccare dei tuoi venticinque anni. Cuyed ha affrettato le cose. Siamo in anticipo di due settimane.
- È la verità? – farfugliai io in un impeto di coraggio. – Un altro Pianeta?
- Come potrei mentirti? Se lo fi tu lo sentiresti.
L'avvertii così onesta e buona che non riuscii a ribattere.
Lei si soffermò a guardarmi e scosse il viso. I capelli si scomposero per un attimo, poi ritornarono impeccabili al loro ordine. Calore. Protezione.
- Aileen, significhi così tanto per noi...
- Perché io? Ancora non capisco...
- Perché provammo a salvare altre vite, ma senza successo. Le nostre cure non funzionavano con i terrestri. Con te sì. Una creatura nata con l'interazione naturale, è stata questa la differenza.
Sbattei le palpebre velocemente, non comprendendo pienamente quello che stava spiegando.
- Cosa?
I suoi occhi verdi, già luminescenti, si fecero ancora più brillanti. – A dispetto di altri terresti, potei salvarti del tutto. Tu possiede l'interazione naturale, e di conseguenza hai accettato la nostra cura, la nostra energia. Funzionò con te, perché tu sentivi.
Si alzò fieramente dalla poltrona, sincera, e si diresse al pilastro. Lo toccò leggermente e tornò verso di me portando in mano una Pietra rosa, simile a quella che aveva lanciato l'incappucciato nella mia camera.
- Questa è tua, – disse mostrandomela. – Ti fu data dopo che ti salvammo, ma... Non potemmo fare altro che riprendercela. Il suo nome è Yikira. Non è una Pietra qualunque.
Allungò il braccio per consegnarmela e, nell'esatto istante in cui cadde nel mio palmo, la Pietra si illuminò. Non mi spaventai. Fui, invero, piacevolmente sorpresa. Una debole luce rosa irradiò dalla mia mano e catturò i miei occhi.
- Mia?
- Tua, – affermò con sincerità. – Sono contenta di potertela restituire. Il nostro più immenso tesoro è anche la nostra più grande opportunità.
Rigirai la Pietra tra le dita. Era liscia e dura. Piccola. La potei racchiudere nella mano. Quando la strinsi diventò piacevolmente calda. Guardandola attentamente
notai delle venature sottili. Se gli avessi donato un aggettivo, sarebbe stato: perfetta. Era bellissima. La cosa più armoniosa e potente che avessi mai visto. Non riuscii a distogliere lo sguardo.
Erixia mi sorrise con tenerezza.
Avrei dovuto aver paura, ma quell'oggetto mi inebriò di calma e sicurezza, due emozioni che fino a quel momento non avevo avuto.
- È calda.
- Lo so. – confermò. – Non volevamo privartene, ma era rischioso lasciartela senza qualcuno che potesse spiegarti. Con i membri del Consiglio decidemmo che era meglio darti queste notizie da adulta.
Tenni saldamente la Pietra, terrorizzata che potessero portarmela via di nuovo. Quel pezzo di cristallo era straordinario, eppure pareva assurdo che un oggetto potesse fare quell'effetto.
***
Capitolo 7 Abbandonai definitivamente ogni dichiarazione quando dalla mia bocca sfuggì un lamento incerto che fece preoccupare Erixia. Mi concentrai, invece, sulla storia che girava intorno alla mia vita.
- Quindi... mi considerate una di voi. Ammesso che sia vero, io non ho un briciolo del vostro sangue, né conoscevo la vostra esistenza.
- Lo so, – disse crucciata, – ma hai l'interazione naturale e la Yikira ti ha accettata.
Sfiorò con la mano il ciondolo che aveva appeso al collo, era molto bello. Un filo d'oro bianco con la Pietra rosa al centro, brillava appena.
- La Yikira mi ha accettata?
- Certo, – disse annuendo. – L'energia che mi permise di salvarti la presi dalla mia Yikira. Questa qui. – indicò il ciondolo appeso al collo. – Due giorni dopo te ne portai una pura, avvolta in un panno bianco. Non era mai stata toccata da altri. Lo stesso pezzo che hai tra le mani.
Sincerità.
Lanciai uno sguardo interrogativo all’Imperatrice.
- Dopo tornai su Galatria. Non ti lasciammo sola, ma sotto la protezione di due Custodi. Nei primi anni, ti affidammo a Wuloz, poi a suo figlio Kheltron.
La fissai leggermente irritata. – Mi avete pedinata?
- Sono così dispiaciuta! Non potevamo lasciarti sola, non volevamo perderti. Ma è sempre stata rispettata la tua intimità, – disse con la massima serietà. – Regola tre. A nessun Custode è concesso violarla! È proibito farlo!
Anche se nelle sue parole risuonava la sincerità, l'idea di essere stata spiata, e osservata, in ogni momento della mia vita mi scioccò. Strinsi la Pietra con più forza e trattenni il respiro.
Gettai fuori l'aria in un respiro profondo, senza guardarla.
- Aileen! – mi prese la mano. – Nessun Custode può spiarti nelle faccende intime. Mai! È una Regola. Lo avrei sentito se avessero fatto una cosa del genere. Credimi.
Onestà.
- Potevano entrare in casa? – chiesi con un filo di voce.
- Non lo hanno mai fatto.
Avevo avuto dei cani da guardia per tutta la vita, eppure non erano riusciti a salvarmi quando ne avevo avuto più bisogno. Era possibile che loro non sapessero nulla? Non ebbi il coraggio di chiederlo.
Lei mi fissò con aria seria. Preoccupazione. Apprensione. – Visto le circostanze, e sentendo la tua stanchezza, credo sia il caso di farti andare a riposare.
- Posso tornare a casa? – chiesi speranzosa, dimenticando, per un attimo, tutto quello che mi aveva detto.
- Ma certo che puoi! Ti assegnerò un educatore nei prossimi giorni. Dovrai imparare a gestirla, e usarla nel modo più appropriato, – indicò con un gesto appena percettibile la Pietra che avevo in mano. – Per il resto, continuerai la tua vita.
- Gestire una Pietra?
Dovevo imparare a gestirla? Ma come poteva essere gestita? Dovevo imparare a lanciarla?
Una scossa di calore profondo mi perforò la mano: più che una scossa fu una vivace bruciatura. Scrollai la mano facendo cadere la Pietra. Si spense.
Mi guardai il palmo per vedere se avevo segni, ma la mia pelle era perfetta.
Erixia si preoccupò. Con un gesto lento si chinò per recuperarla. A contatto con le sue dita si illuminò debolmente. Cercò di restituirmela, ma io scossi il capo. Scostai la mano, spaventata. Per quanto desiderassi riaverla, avevo paura che mi fe male. La dolcezza di Erixia trasparì dentro di me e nel verde dei
suoi occhi. Appoggiò la mano sulla mia e mi aiutò a racchiudere la Pietra tra le dita.
- Questo giorno è stato molto lungo. Avremo altro tempo per parlare.
Affetto.
- Ti garantirò, sempre, due Custodi, – disse. – Kheltron, che è con te da quando hai diciotto anni, e Lyoxc, mio figlio, che ti segue da qualche mese. Sarà più semplice, per te, stare con loro che con altri che non ti conoscono.
- No! Perché? Non posso stare sola?
- Facciamo così, – disse comprensiva. – Ti lascio una scelta.
Fece un gesto repentino e davanti a me emerse una fotografia.
Erixia sorrise. – Posso affidare a lui il ruolo di Custode, pur non avendolo mai fatto, potresti trovarti bene.
La foto nitida mostrava un Cuyed molto accigliato. I capelli neri e lunghi incorniciavano un viso rotondo e occhi grigi metallizzati. Le labbra serrate.
Scossi energicamente la testa. – No. Vorrei stare sola.
- Questo non è possibile. Non sei in pericolo ma.. le cose stanno per cambiare. Abbiamo intenzione di mostrarci al tuo popolo.
Determinazione. Onestà.
La guardai stupefatta. – Che cosa?
- Un altro giorno Aileen. Un'altra volta! – Un suo gesto e l'immagine sparì. Indecisione. Timore. Mi guardò. – Suppongo che sia meglio lasciarti accanto due Custodi.
Avevo bisogno di stare un po' da sola, almeno per assorbire la faccenda. Mi sentivo sull'orlo di un baratro. – Non è stata una mia scelta!
- Non va bene? – domandò paziente. – Vuoi Cuyed?
- No. Semplicemente non è una mia scelta perché io scelgo di stare sola. Non credo che il vostro Mondo sia differente dal mio se non mi lasciate la libertà.
Erixia non tollerò il mio tono di voce, né l'insulto che feci al suo Mondo. Il suo viso si incupì.
Rabbia. Collera. La sua Pietra vibrò, illuminandosi intensamente.
- Mi dispiace, mi dispiace. – mi affrettai a dire.
Erixia, però, non mi osservava più, guardava oltre, alle mie spalle. – Non tollero questi comportamenti!
La sua ira non si placò. Potevo avvertirla.
La luminosità della sua Pietra mi accerchiò. La luce iniziò a vorticare e il calore a invadermi. La mia Yikira, quasi volendo rispondere al richiamo dell’altra, ricominciò a bruciare.
Quando mi alzai provai ad indietreggiare. Provai ad abbassarmi, ma non ci fu alcun cambiamento.
- Basta! Per favore, basta! – implorai.
Sentii le forze venirmi meno.
Poi, il buio.
***
Capitolo 8 – Le scoperte Aprii gli occhi.
Entrava una luce grigia nella stanza. La portafinestra era un poco aperta.
Mi faceva male la testa. Cercai di girarmi di lato, ma mi sentivo incollata al materasso. Non mi ricordavo nulla. Con le braccia mi issai su. Seduta sul letto, riuscii appena a voltare il collo. Con un po' di esercizi avrei ripreso il controllo delle funzioni basi del mio corpo. Quando riuscii finalmente a muovermi come desideravo, ai alle gambe. Mi tolsi il piumone e vidi che avevo i pantaloni rossi del giorno prima.
Perfetto!
Avevo, di sicuro, ato un'altra serata a bere alcolici. Di cosa mi ero scoppiata questa volta? Vino? Campari? Vodka?
Appoggiai i piedi sul pavimento di legno e andai in cerca della bottiglia vuota. Dovevo buttarla subito, ma in camera non la trovai. L'unico souvenir che avevo lasciato in giro era un orsetto rosa.
- Non mi guardare così! Ho i miei problemi, – gli dissi guardandolo.
Lo presi e le lanciai sul letto.
- Fatti una dormita!
Lasciai la camera.
Barcollai per il corridoio.
Appoggiai una mano sul muro per non capitolare a terra.
- Buongiorno Aileen.
Due mani si posarono sui miei fianchi e mi rimisero in carreggiata.
Cacciai l'urlo più acuto della mia vita.
La figura si spostò di fronte senza lasciarmi andare. Era poco più alta di me.
- Chi sei?
Occhi blu mi fissarono seriamente. – La serata di ieri non è andata bene, ma
vedo che continuiamo peggio.
La mia vista si offuscò. Un secondo dopo realizzai che non lo avevo ancora sentito. Non lo sentivo!
La sua presa si fece più sicura. – Cosa gradisci per colazione?
Quegli occhi gli avevo già visti. Ma dove? E perché erano in casa mia? Poi, realizzai. Insieme all'alcool mi ero portata a casa anche un nuovo amico.
- Aileen, ti sento irrequieta e preoccupata, andiamo a sederci. Tra poco arriverà Cuyed e darà la colpa a me. Non ho voglia di litigare con lui.
- Chi è Cuyed?
Presi la testa tra le mani. Ma che avevo combinato? Un incontro a tre?
Lui si adombrò. – Meglio se lo chiedi a lui.
Mi trascinai in sala e mi gettai sul divano più grande. Lui mi seguì e si adagiò leggiadro sul sofà accanto. Evitai di fare l'isterica e di porre altre domande.
- Ti è tornata la memoria? – chiese.
Mi voltai a guardarlo. Lineamenti decisi e marcati, eppure così insoliti dalla mie parti. Lunghi capelli scuri arrivavano fino al gomito. Occhi blu. Blu scuro. Blu oltremare. Si! Come quello delle matite colorate. Avevo bevuto troppo.
Vedendomi sempre più silenziosa e in difficoltà mi lanciò un'occhiata indecifrabile. – Questa potrebbe aiutarti.
Lanciò qualcosa che finendo sulle mie ginocchia si illuminò.
Una Pietra.
Una Pietra rosa.
In un lampo tutto mi tornò alla mente.
La sera prima. Due tizi in camera mia. Erixia. Galatria. Alieni. Custodi.
- Oddio! – esclamai facendo cadere la Pietra sul divano.
La vista si offuscò. Non capii più niente.
Un dolore familiare cominciò ad impossessarsi di me.
Strinsi il mio corpo in un abbraccio. Le ginocchia tremarono.
Il dolore aumentò. Il dolore fece male. Raggiunse la pancia.
Non si arrestò. Arrivò allo stomaco. Arrivò la nausea. Stava per sopraffarmi, ma non riuscii a fermarmi.
Mi sporsi oltre il divano.
Vomitai.
Vomitai quello che avevo: nulla. Il mio stomaco era vuoto. Restai con la testa inclinata verso il basso sommersa dagli spasmi, dai conati, dalla nausea. Il dolore mi divorava. Non sarebbe finito finché non si fosse preso tutto. Ogni mia caloria. Ogni briciola di me.
L'uomo accanto a me sbottò. Borbottò tra sé. – Perché stai sempre male?
I suoi occhi blu mi fissarono da vicino. Alzai il capo per incontrare il suo sguardo gelido. Non mi ero resa conto di quanto fosse profondamente fredda la sua espressione. Lui non poteva concepire che io stessi male.
Accasciai il capo, perdendo di vista quegli occhi. Trassi lunghi respiri e li lasciai uscire lentamente.
Un minuto dopo accanto a me c'era Cuyed. Mi guardava. – È stato Kheltron a farti questo?
- Chi? – gracchiai.
- Lui, – indicò l'uomo dagli occhi blu. – Il Custode.
- No – risposi, e malgrado cercassi di mantenere un tono di voce fermo, la paura si sentiva.
- Te l'avevo detto Cuyed. Non l'ho nemmeno sfiorata, tranne quando stava per cadere. In quel caso avevo il dovere di sorreggerla.
- Lo so. Vorrei sapere perché sta così. Le hai detto qualcosa che l'ha turbata?
- No. Credo che le cose che la potevano turbare le sono già state dette ieri. Quasi tutte.
Insinuò dubbi e timori senza essere più preciso. Si alzò mostrando indifferenza. Aprì il frigorifero e lanciò una bottiglietta d'acqua che finì nelle mani di Cuyed.
- Sono obbligato a chiederti perdono, – disse andomi la bottiglia.
Feci piccoli sorsi, poi risposi. - Per cosa?
- Avrei voluto usare un approccio più delicato ieri. Non ero sicuro che avrebbe funzionato.
In effetti, nemmeno io ero sicura che un'azione del genere avrebbe dato dei risultati, sarei scappata a gambe levate in ogni caso, se solo avessi potuto.
- Le scuse non sono solo per quello, – disse schioccando un'occhiataccia a Kheltron, che aveva ancora la testa ficcata nel frigorifero. – È stata colpa mia se ieri sei svenuta.
La schiena si curvò debolmente.
- Credevo fosse stata l’Imperatrice.
- È stata la sua Pietra a farti svenire. Non sei abituata a tutta quell'energia. Erixia però lo ha fatto a fin di bene. Lei voleva proteggerti.
- Voleva proteggermi?
Cuyed annuì. – Voleva proteggerti. Da me.
Mi guardò titubante, e capii che aveva altro da raccontarmi. Cose che non mi sarebbero piaciute e, peggio, mi avrebbero fatto ancora male.
- No! – lo liquidai con un gesto della mano e mi alzai nel modo più deciso possibile.
Lui si accigliò e mi afferrò il polso. – Aspetta!
La Pietra legata al suo collo brillò intensamente. Impalata come una statua la fissai spaventata.
- Aileen, io ero entrato furtivamente nella stanza per ascoltare quello che voleva dirti. Non mi era permesso, ma avevo paura che ti dicesse qualcosa che ti potesse spaventare.
Kheltron tirò fuori la testa dal frigorifero e si voltò per un fare un appunto puntiglioso, ma veritiero. - Che la potesse spaventare? Come ora?
Cuyed gli lanciò uno sguardo minaccioso. – Kheltron!
- Insomma basta! – urlai. Mi stupii del mio tono di voce non appena uscì dalle mie labbra. Rabbrividii e mi strinsi nella mia tuta rossa. Non avevo la forza di ascoltarli. Dovevo elaborare tutto quello che mi era accaduto. Cercai di sfilare il
braccio dalla stretta, ma Cuyed non lasciò la presa.
- Devi sapere Aileen! Ascoltami! Ero entrato di nascosto nella camera. L’Imperatrice ha percepito una presenza estranea. Ti ha avvolta in un'energia potentissima, difficile da contrastare. Ti ha difesa dalla mia intrusione. Tu non sei abituata a tanta energia. Hai perso i sensi.
- Se non entravi non succedeva niente? Mi stai dicendo questo?
- Sì. Mi ha punito come si deve, non preoccuparti, – disse abbassando il capo.
Mi staccai finalmente dalla sua stretta e mi misi a riflettere. Erixia non era arrabbiata con me, anche se mi ero ribellata alla sua scelta. Anzi, lei aveva difeso la nostra intimità.
- Ah, – disse Cuyed. – Non sei più arrabbiata! Lo sento!
- Come?
Il rumore di un piatto che cadeva mi distrasse. La ceramica si ruppe in pochi pezzi dopo essere scivolata dalle mani di Kheltron.
- Aileen! – esclamò lui. – Non hai nulla di commestibile in questa casa. Pensi di cibarti di vomito e alcool?
Il tutto fece esplodere la mia testa dolorante. Portai le mani sulle tempie e cercai di massaggiarle con movimenti rotatori. Mi sforzai di mantenere la calma. La cucina era un disastro. Per cercare il cibo aveva svuotato il frigorifero, aperto i cassettoni e rivoltato quello che c'era dentro.
- La mia cucina!
- Non preoccuparti di questo! Io, al contrario di te, investo l'energia nel modo giusto! – si chinò e iniziò a sistemare gli oggetti sparsi.
Lo guardai arrabbiata. Presi un canovaccio sporco e lo gettai sulla sua faccia imibile. Il mio gesto collerico prese alla sprovvista anche me, ma dato che di lui non sapevo niente, e non conoscevo la sua possibile reazione, non gli diedi il tempo di riflettere. Corsi via sbattendo la porta.
***
Capitolo 9 Chiusi la porta del bagno con due giri di chiave. Avrei voluto chiudermi fuori dal mondo.
Quando mi guardai allo specchio, sussultai. Ero in uno stato pietoso. I capelli bruni erano arruffati e aggrovigliati. Ero terribilmente pallida. Era spuntato un enorme brufolo sulla fronte. All'età di venticinque anni una ragazza doveva iniziare a sfiorire, dovevano comparire le primissime rughe d'espressione, a me,
invece, spuntavano i brufoli.
Appoggiai la schiena al mobile bianco e sospirai. Nel giro di poche ore la mia vita era cambiata. Dovevo accettare di non essere come gli altri terresti. Facevo parte degli essere umani della Terra, ma non del tutto. Ero di una nuova generazione, di quelle che può avere interazioni naturali.
Quella era la realtà.
La cosa ancora più strana era che non potevo sentire i galatriani. Avevo ato la vita intera a percepire le emozioni degli altri, a decifrare ogni sentimento. Ma con loro niente. Il silenzio assoluto. Se da una parte era entusiasmante poter avere il controllo e la consapevolezza di quello che provavo, dall’altra era una situazione che temevo. Non potevo intuire le loro emozioni. Non potevo conoscere i loro stati d’animo. Non potevo sapere se erano sinceri.
Se potevo accettare la situazione, ed era davvero difficile, non mi spiegavo la ragione per cui i galatriani non fossero usciti allo scoperto prima. Vi era uno scopo preciso?
Inoltre, non riuscivo a levarmi dalla testa il potere che aveva quella piccola Pietra. Sarebbe stata di enorme interesse per noi, noi della Terra. Era facile immaginare cosa avremmo voluto, ma loro in cambio cosa volevano? Cosa avevamo che loro non possedevano? Se volevano solo conoscerci perché nascondersi per trentacinque anni? Perché agire di soppiatto?
Mi staccai dal mobile prendendo dal ripiano in alto il mio bagnoschiuma preferito. Era in un piccolo flacone rosa. Svitai lentamente il tappo, mi feci
avvolgere dal profumo dei fiori.
Regolai il miscelatore alla temperatura giusta. Gettai la tuta rossa a terra. Mi infilai sotto il getto dell'acqua, sperando di potermi liberare anche dei pensieri. Strofinai bene ogni parte del corpo per rinvigorire la pelle.
Uscii e mi infilai l'accappatoio.
Uno sguardo allo specchio mi mostrò un viso un pochino più rilassato. Mi spazzolai i capelli bagnati e presi l'asciugacapelli dal cassetto.
In quel momento, realizzai di non aver preso alcun vestito pulito. Era talmente nervosa che non ci avevo pensato. Sarei dovuta uscire dal bagno e correre nella mia stanza sperando che non ci fosse nessuno dei paraggi. Spinsi lentamente la maniglia e sbirciai. Non vidi nessuno nel corridoio e la porta della cucina era ancora chiusa. Schizzai fuori, entrando il più velocemente possibile nella camera da letto. Chiusi a chiave.
Scelsi un paio di pantaloni comodi e un maglioncino chiaro. Finii di sistemarmi pensando di restare lì tutto il giorno. Volevo evitare i due stranieri, ma il mio stomaco cominciava a borbottare. Era dalla sera prima che non toccavo cibo, ogni volta che avevo tentato di imbottire il panino ero stata fermata da una telefonata.
Mi fermai davanti alla porta della cucina. Forse era il caso di bussare, per avvisarli che stavo entrando. Alzai il braccio per picchiettare. Mi bloccai. Che stavo facendo? Bussavo in casa mia?
La porta si spalancò.
Kheltron.
- Sai aprire una porta o la sai soltanto chiudere? – mi lanciò uno sguardo arrabbiato e prima che riuscissi a rispondere mi trovai in mano il canovaccio. – Dagli una lavata, ne ha bisogno!
Io arrossii violentemente, abbassai il braccio e feci dietro–front. Con rabbia andai in bagno a mettere gli abiti sporchi nella lavatrice. Borbottai e brontolai. Sbattei con forza lo sportello. Girai la manopola per impostare la temperatura. Misi un lavaggio energico a sessanta gradi.
Con o deciso mi diressi in cucina. Questa volta la porta era aperta e accanto al frigorifero c'erano delle buste piene di alimenti.
- Che cos'è questa roba? – chiesi ancora arrabbiata.
Cuyed si avvicinò. – Ho comprato qualcosa mentre eri sotto la doccia, ero certo che avresti avuto fame.
Io guardai i sacchetti. – Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci e undici! – rigirai una ciocca di capelli tra le dita. – Undici sacchetti? – lo guardai in modo eloquente. – Forse hai esagerato.
- Dove possiamo sistemarli?
Mi portai un dito sulla labbra. – Mettiamoli là sopra, – indicai il bancone della cucina. Kheltron, che era comodamente seduto sul divano, si alzò e spostò i sacchetti. Ne prese quattro per mano.
Io rimasi sbigottita.
- Ti aiuto io – disse Cuyed.
Kheltron, per tutta risposta, sbuffò, e lasciò cadere l'ultima busta prima di arrivare al bancone. Il cibo si riversò sul pavimento. Cuyed sospirò, si chinò a raccogliere le scatole di formaggio e succhi di frutta che erano sparsi a terra.
Io e Cuyed dividemmo il cibo, da ciò che andava messo in frigorifero a ciò che andava disposto nei mobili. C'era qualsiasi cosa avessi voluto: pane, pasta, verdura, frutta, formaggi, carne, pesce, dolci e bevande.
- Cosa vorresti mangiare oggi? – chiese Cuyed sistemando il latte nello scomparto laterale.
- Un risotto alle verdure. Poi un po' di queste, – sventolai delle fettine di carne. – Voi mangiate queste cose o...
Di cos'altro avrebbero potuto cibarsi, energia aliena?
- Certo che mangiamo, – sbottò Kheltron. – Vuoi metterci a dieta?
Rovistò nei cassetti, poi prese una tovaglia bianca con rombi rossi, posate rosa e bicchieri rosa.
Ci mettemmo tutti a cucinare. Cuyed tagliuzzò in malo modo una zucchina, ci mancò poco che si tagliasse un dito. Kheltron lo salvò giusto in tempo, gli tolse il coltello dalle mani e lo ammonì. – Dedicati a qualcosa di più semplice!
Si era fatto solo un leggero taglietto. Notai con piacere che fuorusciva del sangue. Insomma, alieni, ma non troppo. Si sciacquò la ferita e la fasciò con un intero fazzoletto di stoffa. Era piuttosto ridicolo con quel bitorzolo sul dito.
Nel frattempo, io avevo fatto soffriggere, in una padella, la cipolla, il sedano, e la carota. Unii poi la zucchina e il riso e sfumai il tutto con del vino bianco.
Venti minuti dopo eravamo a tavola.
Kheltron mise al centro una candela profumata alla cannella. Rimasi a fissarlo, mentre le sue abili dita fecero girare la rotella dell'accendino. La fiammella prese vita al primo colpo.
- Che c'è? – domandò lui spostando gli occhi verso di me.
- Mi stavo chiedendo... Eri tu ieri sera? Insieme a Cuyed?
Attesi alcuni secondi, ma sembrò un tempo lunghissimo. Ero impaziente di scoprire chi mi aveva ricoperto di emozioni. In particolare a chi dovevo attribuire la colpa di tutto quello.
- Sì.
Era lui. Il Custode che mi aveva osservato negli ultimi anni, che aveva evitato che finissi contro una vetrina, ma che non era stato così diligente come tutti credevano.
Mi penetrò con lo sguardo in maniera così intensa che rimasi immobile con la forchetta nel vuoto. Abbassai il capo e tornai a mangiare. – Allora, – dissi, – credi di saper tutto di me?
Kheltron alzò le spalle.
- Io... non so nulla di voi, – dissi tentennando.
- Che vuoi sapere?
- Beh... le solite cose. Quanti anni avete, che ci fate qui…
Cuyed scoppiò a ridere. – In quanto a conformazione fisica siamo del tutto identici ai terrestri. Tranne per i piedi, abbiamo sei dita.
- Sei dita? – balbettai.
- Certo, – confermò Kheltron. – Sapevi che non abbiamo lo stomaco?
La mia faccia basita li fece ridere forte.
- No, non è vero, – ridacchiò Cuyed. – Scherziamo! Ma la faccenda degli anni, invece, non è semplice. Il tempo non è calcolato nello stesso modo.
Sbattei le palpebre perplessa. – Non capisco.
Lui mi sorrise. – Sul serio, stiamo fisicamente identici a voi, ma un nostro anno è più lungo del vostro.
- Sì, – fece Kheltron. – Abbiamo circa quattro mesi in più. Abbiamo giornate più lunghe.
- Quindi, – dissi giocando con la forchetta, – quanti giorni conta un vostro anno?
- Beh, – rispose Cuyed. – Quattrocentottantacinque sono i giorni su Galatria. Da voi sono meno. Il vostro Mondo è più piccolo. La Terra impiega poco più di trecentosessantacinque giorni per completare la sua orbita intorno al Sole.
Kheltron mi fissò. – Da noi saresti una ragazzina.
- Cosa?
- Direi... – disse Cuyed tirando fuori dalla tasca un foglietto. – Direi…
- Circa diciotto, – rispose fulmineo Kheltron.
- Ma che state dicendo?
- Sì, – disse Cuyed. – Kheltron non si sbaglia.
Mi mostrò un foglietto bianco stropicciato.
G: 485 giorni in un anno: 32 ore al giorno, 3 periodi
T: 365 giorni in un anno: 24 ore al giorno, 12 mesi
1anno e 4mesi Terra = 1 anno perGalatria:
485(G)–365(T)=120 giorniT in più su G: corrispondono a 4 mesiT
G=Galatria
T=Terra
- Vedi, – disse Cuyed, – abbiamo uno scarto di quattro mesi ogni anno. Quando da voi sono trascorsi quattro anni, da noi ne sono ati tre.
Fissai il foglio. Aveva uno schema, una tabella con due righe e parecchie colonne. Le righe contrassegnate con G e T. Le colonne erano numeri, anni. La riga G, rappresentava gli anni galatriani. La riga T, rappresentava gli anni terrestri. Il tempo scorreva, chiaramente, in maniera differente. Se sulla Terra era ati otto anni, su Galatria se ne contavano solo sei. Se su Galatria erano ati dodici anni, sulla Terra erano sedici. Continuava così. G quindici, T venti. G diciotto, T ventiquattro. G ventuno, T ventotto. G ventiquattro, T trentadue. G ventisette, T trentasei.
Con la matematica non ero mai stata brava, ma il concetto era semplice. Sulla Terra avevo ventiquattro anni, che in anni galatriani corrispondevano a...
Guardai il pezzo di carta.
- Cosa significa, tre periodi?
Cuyed sorrise. – Noi non abbiamo suddiviso l'anno in mesi. Abbiamo suddiviso l'anno in tre periodi.
- Insomma... – feci io tremando. Ventiquattro anni corrispondevano a diciotto. A quell'età avevo incontrato il grande amore. Ci eravamo conosciuti in biblioteca. All'epoca non sapevo che mi avrebbe fatto soffrire, che mi avrebbe spezzato il cuore. Del resto, non credevo nemmeno che mi sarei innamorata. Bryan mi ascoltava sempre e si interessava ad ogni cosa che facevo. Ed sempre sincero. Non c'era bisogno che lo chiamassi per raccontargli come era andata la mia giornata, lui mi anticipava sempre. Il nostro primo bacio era stato splendido, non avevo mai provato nulla prima.
Mi ridestai quando Kheltron mi scosse. – Aileen.
- Stai bene? – chiese Cuyed.
- Benissimo, – mi affrettai a ribattere. – Non mi avete ancora detto quanti anni avete!
- Ne ho ventuno, – rispose Cuyed.
- Sei.... giovane?
- Sono molto giovane per il mio Pianeta. Se dovessimo considerare la mia età dal punto di vista terrestre avrei, – si mise a rimirare il foglio, – ventotto anni.
Quella nuova scoperta aveva qualcosa di inquietante. Lo fissai a lungo e alla fine annuii. – Kheltron tu quanti ne hai?
Lui mi gettò un'occhiata carica di risentimento. – Non sono affari tuoi, Aileen. Ti interesserà sapere che sono il tuo Custode e mi devi portare un minimo di rispetto!
L'improvviso peso di quello sguardo duro avrebbe potuto farmi agitare, ma resistetti. Non volevo farmi intimidire di nuovo, non da quell'uomo che dicevano essere il mio Custode. – Non mi sembra di averti mancato di rispetto.
- Non pensarci Aileen, – bisbigliò Cuyed. – È scontroso con tutti.
Io scossi le spalle, contratta. Non risposi, ma osservai Kheltron chiedendogli tacitamente una risposta.
- La mia età non conta. Ti dovresti preoccupati della tua.
- Cosa vuoi insinuare?
- Non siamo sicuri che la Pietra non abbia avuto effetti su di te, – intervenne Cuyed. – Non siamo riusciti a trovare alcuna prova che possa smentire la nostra
teoria.
- Volete dire che può aver alterato la mia età? – chiesi con sgomento. – Che potrei avere diciotto anni?
- Esatto, – ribatté Kheltron.
Un anno sulla Terra, era sempre un anno. Per lo Stato, e per chiunque, avrei avuto venticinque anni tra pochi giorni.
- Ma io ho ventiquattro anni! Per la Terra sono adulta!
- Non è facile, – disse Cuyed. – Potresti avere una crescita tipicamente terrestre. In questo caso saresti considerata adulta anche da noi. Ma potresti avere una crescita più lenta, simile a quella galatriana.
- Cosa sarei? Una bambina?
- Una persona di venticinque anni, nata e cresciuta sulla Terra, non ha diciotto anni su Galatria, perché il suo metabolismo è adattato al suo Pianeta.
- Tu non sei come gli altri, – intervenne Kheltron. – Tu sei diversa, e sei stata toccata dalla nostra energia. E una ragazza di diciotto anni non è adulta sul nostro Pianeta.
Mi tremarono le mani.
- Aileen, – disse dolcemente Cuyed. – La Pietra potrebbe aver cambiato molte cose di te.
- Io mi sono sviluppata come tutte le altre ragazze! – sbottai. – Questa è una prova più che sufficiente!
- Non puoi pensare che quello sia una prova, – osservò Kheltron. – Dovremo aspettare qualche altro anno per capire bene l'evolversi della tua crescita.
Sbattei la forchetta sul tavolo. Mi alzai trascinando la sedia sul pavimento e mi spostai alla parte opposta della sala, sul divano. Fissai Kheltron. La sua faccia imibile, neutra.
- Perché non c'entra nulla? Perché non farebbe differenza?
- Quel fattore dipende da troppe cose. Guardati! Non fanno che spuntarti brufoli!
Mi coprii la faccia. – Non è possibile!
- Ci sarebbe un enorme lato positivo se fosse così.
- Quale sarebbe? Tornare a scuola?
- Anche. E potresti vivere fino a centodieci anni galatriani, – mi guardò in modo eloquente. – Capisci?
Spalancai gli occhi per lo stupore. – Cosa?
- Circa centocinquanta anni terresti.
- Voi vivete così a lungo?
- Anche tu potresti vivere a lungo, e grazie a questo, – disse agitando un tovagliolo e spargendo briciole ovunque, – potresti innamorarti di un galatriano e non avere paura di morire per prima.
- Non voglio innamorarmi di nessuno! – esclamai immediatamente, sentendomi piccata e imbarazzata. – Tanto meno di un galatriano!
Kheltron sorrise con fare allusivo. – Per esempio... di Cuyed.
Io dovetti darmi del leggeri colpi sul petto per riprendermi da quell'insinuazione. Non trovai immediate parole per controbattere, così ficcai le mani sotto il cuscino e strinsi la stoffa. I polpastrelli toccarono qualcosa di liscio e caldo. Era
la Pietra. Senza farmi notare l'afferrai e la misi nella tasca del pantalone. Avrei dovuto gettarla nell'Oceano per tutti i guai che mi stava procurando.
Cuyed aveva lo sguardo perso nel vuoto, come se fosse stato lui a subire uno shock. Aveva il viso cinereo, la mascella serrata e i pugni contratti. Si torturava il dito fasciato.
Mi diressi verso la porta. Uscii dalla cucina. Giunsi in camera con aria moribonda. Non potevo sopportare altri cambiamenti. Mi buttai sul letto.
***
Capitolo 10 “- Ti prego, – insisté la stessa voce. – Svegliati!
Mi sforzai di aprire gli occhi, cercai di ordinare al mio cervello di farlo, ma non ci riuscii. Gli occhi erano incollati e collosi, come se una sostanza appiccicosa me li bloccasse.
Qualcuno mi reggeva la testa. Percepivo appena il resto del corpo, ma sapevo di essere sdraiata.
Delle gocce caddero sul mio viso. Stava piovendo. Poi, sentii. Calore. Protezione. Amore.”
Venni svegliata da dei colpi decisi sulla porta. Gettai i piedi fuori dal letto piuttosto velocemente e mi sedetti. Sulle guance avevo la sensazione di umido e bagnato. Strofinai il viso con il dorso della mano e trovai tutto asciutto. Controllai ancora una volta per rassicurarmi, poi mi alzai.
Era Cuyed.
- Kheltron stai andando via. Vuoi conoscere l'altro Custode?
Dalla mia faccia assonnata non trasparì la gioia che provai nell'apprendere quella novità. Il fatto che Kheltron si levasse di torno era, ovviamente, la più bella delle novità, mentre restavo piuttosto dubbiosa su chi fosse la nuova guardia del corpo.
- È già qui? – chiesi emettendo uno sbadiglio.
- Sì. Ti aspetta in sala.
- Va bene, dammi qualche minuto e arrivo.
Chiusi la porta.
Poteva pensare quello che voleva, ma io avevo bisogno di qualche minuto per
riprendermi. Volevo essere lasciata in pace quando dormivo, soprattutto quando ero nella mia camera, soprattutto perché quei sogni mi spossavano.
Presi il telefono in mano. Volevo chiamare Lilian. Anche se ero sorvegliata, non mi era stato detto nulla a proposito di uscite con le amiche o, eventuali fidanzati. Mi sarebbe piaciuto vedere la faccia di Lilian se le avessi raccontato quello che mi era successo Non credevo che si sarebbe preoccupata più di tanto, al contrario si sarebbe esaltata più di quanto avessi fatto io.
- Ciao! – rispose con il suo solito timbro acuto senza smentirsi. – Che festa ti sei persa ieri! Sono andata in un locale che ha aperto da poco. The Rock.
- Non ne ho mai sentito parlare. Dove si trova?
- Nella nuova cittadella, è un po' fuori dal paese, in aperta campagna. Tu che hai fatto?
- Niente di che...
- Sì, certo! La verità è che ti sei scoppiata di alcool da sola! Dovresti smetterla!
- Non mi sono scoppiata di alcolici, – dissi indignata. Se avesse saputo cosa mi era successo...
- Certo! Oggi non scappi, vengo a casa tua e andiamo a divertirci!
Le sfuggì un “yahoooo” molto entusiasta.
- Ci vediamo dopo, – affermò. – Ciao.
Avrei riprovato più tardi per dirle che non avevo alcuna intenzione di uscire. Del resto, anche se avessi avuto il via libera delle guardie del corpo, non ero sicura di voler prendere una boccata d'aria assieme a loro.
Stropicciai gli occhi e mi diressi in sala.
Casa mia era invasa da tre alieni.
Kheltron stava giocando con il telecomando del televisore.
Cuyed, seduto impeccabile sulla sedia, quando mi vide, sorrise.
L'uomo biondo, ritto accanto alla portafinestra, fece un inchino. Era il biondo della sera precedente. Capelli lunghi fino al gomito. Una Pietra legata al collo. Occhi verdi, per niente insoliti. Un completo identico a quello di Kheltron, maglia e pantalone verde scuro.
- Sono Lyoxc di Galatria, – disse in tono solenne. – Sono lieto di fare la tua conoscenza.
Fece un lieve cenno con il capo, quasi un piccolo inchino, e tornò diritto e composto.
Io mi limitai ad annuire senza aggiungere altro. Non volevo affrontare i cambiamenti. Mi diressi verso i mobiletti della cucina. Restai un po' sconcertata dagli acquisti di Cuyed. Se il mio appartamento prima della sua invasione aveva solo il tè classico, da quel momento ne possedette un'ampia scelta: tè verde, al mandino, alla ciliegia, agli agrumi, al cioccolato, tè nero e una lista piuttosto vasta di tisane. Dato che ne ebbi la possibilità, scelsi quello agli agrumi. Misi l'acqua nel bollitore e andai ad accomodarmi sul divano piccolo, così nessuno avrebbe potuto sedersi accanto. In certi momenti era indispensabile far capire che nessuno doveva starmi vicino. Molti si erano presi la libertà di toccarmi, sia per non farmi capitolare sul pavimento, sia per fermarmi. Era tempo di darci un taglio.
- Aileen, hai riposato bene? – chiese cortesemente Cuyed. – Mi spiace averti svegliata.
Io strappai un filo di cucitura dal divano. – Non importa. È stato meglio così.
Kheltron sbuffò. – Non dovresti chiuderti a chiave. Se non ti senti bene potremmo aver bisogno di entrare.
Feci un sorrisino a labbra strette e il più possibile sarcastico. – Peccato che nessun Custode abbia il permesso di invadere la mia intimità! Voi non dovreste nemmeno essere in casa mia!
Il mio intervento voleva essere un appunto ben preciso, volto a sottolineare di starmi il più possibile alla larga.
Lyoxc scoppiò a ridere. – Mia madre deve averla già informata sulle Regole, giusto?
- Forse ve ne siete dimenticati, – insinuai.
Kheltron lasciò il telecomando sul tavolo e mi fissò incrociando le braccia. – Io me ne vado.
Uscì dalla sala. Uscì da casa mia. Uno in meno.
Cuyed si avvicinò al divano. Appoggiò le mani sul bracciolo fissando un punto lontano. – Lyoxc, figlio di Erixia, è da un anno terrestre che non ci incontriamo.
- Il figlio? – Il mio buonumore si affievolì e i miei occhi divennero freddi. Lo guardai con cauta attenzione, finché serrai le labbra per la preoccupazione.
- In realtà sono innocuo, – rispose Lyoxc. – Ho solo questo problemino agli occhi. Li ho presi da mia madre, ma sono troppo insoliti per i terresti e tutte le volte devo mettermi delle lenti a contatto.
Continuai a guardarlo con circospezione, osservando meticolosamente il colore delle sue iridi. – Non sono proprio uguali a quelli di tua madre.
- Certo, – rispose, ficcandosi un dito nell'occhio e togliendosi una lente, – ho le lenti adesso!
Il salto che feci dal divano spostò i miei capelli sulla faccia e dovetti togliermeli dagli occhi. Un attimo dopo gli puntai un dito contro. – Hai un occhio brillante.
Lyoxc ridacchiò allegramente, come se l'accusa che gli avevo gettato addosso non l'avesse messo a disagio. – Mi tengo alla larga dagli uomini quando non ho le lenti a contatto. Sembro davvero un alieno?
Si tolse anche l'altra lente. I suoi occhi splendettero nella sala, illuminandola di un verde sfavillante. Erano brillanti, violenti e molesti. Molto più accesi di quelli di Erixia.
- Oddio! –
Mi guardai intorno come una ragazzina alla sua prima volta in discoteca. La luce dava al salotto un nuovo aspetto. Le tende bianche che ricadevano dritte avevano assorbito un colore verde smeraldo. Le piastrelle del pavimento sembravano le onde di un oceano pacifico e corallino. Guardai le mie mani nude: avevano perso la loro tonalità rosea, per lasciare posto al color zampa di lucertola.
- Se vado in giro così i terrestri strillano. Per te, Aileen, è un problema se resto così?
- Credo di no... – biascicai gettando un'occhiata al divano: aveva delle sfumature verdi chiarissime. Misi le mani a coppa, coprendo i miei occhi da quel tormentoso luccichio.
Lyoxc puntò la mano verso di me e rise. Una risata melodiosa e carica di allegria.
Pervasa da un forte imbarazzo, scostai le mani dal viso e le abbassai lungo il corpo. – Ti chiedo di perdonarmi per la reazione. Il colore dei tuoi occhi è il più insolito che abbia mai visto. Ognuno di voi ha delle iridi molto affascinanti a cui non sono abituata.
Cuyed si staccò dal divano sul quale era rimasto appoggiato per tutto il tempo e mi venne incontro. – Voi avete dei colori più strani.
Lo guardai perplessa, chiedendomi se fosse scortese fargli notare che i loro erano assai più strani. Mi spostai un poco per mettermi al centro della sala e esitante balbettai un “no”. – I miei sono marroni, sono piuttosto comuni. Due quarti della popolazione mondiale ha gli occhi di questo colore.
- Appunto, – disse delicatamente Lyoxc. – La Terra. Su Galatria nessuno ha gli occhi marroni. La maggior parte di noi li ha grigi.
La curiosità si fece largo in me. – E gli occhi verdi? Sono tutti così da voi?
Scosse il capo facendo scivolare qualche capello biondo sul viso. – Il mio è raro.
– Alzò il viso e mi guardò come un bambino in attesa. Con quei grandi, brillanti, occhi verdi. Spuntò un leggero sorriso sulle sue labbra, e capii che aveva bisogno della mia comprensione.
Sorrisi di rimando. – Mi serve solo un po' di tempo per abituarmi.
Il bollitore fischiò dandomi la possibilità di chiudere il discorso. Mi avviai a i affrettati verso il bancone. Cuyed fu subito accanto a me per aiutarmi.
Sorrisi, grata del suo intervento.
Mi guardò dolcemente. Sorrise.
Per un attimo avvertii le gambe cedere. Il colore dei suoi occhi era di un grigio metallizzato davvero gradevole. Una tonalità grigio scura.
Cuyed distolse lo sguardo cimentandosi con tazze e bustine di tè. Io misi altra acqua nel bollitore.
Quando il camlo suonò, due paia di occhi galatriani mi fissarono. Cuyed, così vicino a me, sembrava guardarmi con aria interrogativa. Lyoxc ammiccò. – Abbiamo compagnia.
- Non aspetto nessuno, – mormorai in preda al panico. – Davvero nessuno.
- È una femmina, – ridacchiò Lyoxc. – Ed è arrabbiata.
- È molto arrabbiata, – confermò Cuyed. – Che le hai fatto?
Mi strinsi al bollitore come un naufrago si aggrappava al proprio salvagente. Se fosse stata mia madre che avrei fatto?
“Mamma, loro sono... due amici”. Due amici maschi. In casa. il cuore di mia madre non avrebbe retto. Dopo il mio ex non avevo fatto entrare nessun uomo in casa, nemmeno Colin.
“Tesoro, uno non ti basta?” avrebbe detto. Avvampai. Mi sarei dovuta inventare qualche altra cosa. “Sono... sono... idraulici.” Questo, forse, poteva funzionare. Avrei finto la rottura di un tubo di scarico o del lavandino. Il camlo trillò nuovamente facendomi sussultare.
- Aileen, – disse Lyoxc. – Aprile prima che si metta a urlare.
Mollai il bollitore sopra il marmo del bancone e andai a o svelto verso la porta. Guardai timorosa allo spioncino. Tirai un sospiro di sollievo nel constatare che non era mia madre. Poi mi morsi labbro perché ero comunque nei guai. – Accidenti!
Non avevo avvisato Lilian. Era fuori dalla mia porta che, spazientita, si lisciava i capelli.
Appoggiai la mano sul pomello della porta e girai. Aprii solo un poco, quel tanto per poterla vedere in viso. Non l’avrei fatta entrare. Non potevo raccontarle la verità. Se l’avessi fatto l’avrei coinvolta in qualcosa di terribile. Doveva restarne fuori.
- Mi fai sempre aspettare! – sbuffò collerica, spingendo la porta e spalancandola.
- Ciao Lilian.
Mi diede un bacetto frettoloso sulla guancia e mi squadrò da capo a piedi – Stai bene? Hai l'aria assonnata. Oh! Che bello questo, – disse afferrando un piccolo portachiavi con un ciondolo rotondo. Era appoggiato sul mobile dell'ingresso. Lo avvicinò al viso. – Che Pianeta rappresenta?
Curiosità.
Gettai un'occhiata distratta verso il gingillo. Non era mio. – Marte?
Lilian rigirò l'oggetto tra le mani. – Come? Non ne sei sicura? Marte è il Pianeta rosso. Questo è blu.
Dubbio.
- Mi sarò sbagliata, me l'ha regalato mia madre proprio ieri. – gli lanciai un sorriso convincente. – Non l'ho guardato bene.
- Oh, va bene, – disse rimettendolo al suo posto con un moto di approvazione. Tuttavia, la sua curiosità non si era placata e ò le dita sul carillon in legno. Una giostra. Diede due gira di corda e i cavalli iniziarono a girare andando su e giù. Lo fissò raggiante. Subito dopo mi lanciò uno sguardo assassino. Si arrabbiò. – Hai intenzione di lasciarmi nell'ingresso di casa? Dove sono finite le buone maniere? Sono sempre la tua migliore amica!
Sul mio viso si formò un cipiglio. – Mi sono dimenticata di richiamarti, non sto molto bene.
Cercai di imitare il tipico atteggiamento degli ammalati. Spalle curve, faccia inespressiva e starnuti finti.
- Ti ho chiamata un paio di volte, – disse togliendosi velocemente sciarpa e cappotto. – Volevo avvisarti che stavo arrivando. Tu non hai risposto! Non dirmi che stai male! Sono arrivata e non ho intenzione di andarmene!
- Ma io non sto tanto bene! Mi fa male la gola! – strofinai il collo e mi toccai la fronte. – Credo di avere anche la febbre.
Lilian si affrettò a toccarmi il viso. – Davvero? – urlò arrabbiata. – Stai solo accampando scuse per evitare un po' di compagnia.
- No, – scossi il capo. – È la verità, mi stavo giusto preparando qualcosa di caldo.
Lilian mise il naso all'aria e annusò. – Stai facendo il tè.
Offesa girò il capo dall'altra parte. Si avviò a o svelto nel mio salotto impedendomi di fermarla. Richiusi velocemente la porta e le corsi dietro, ma quando arrivai lei stava già porgendo la mano a Cuyed.
- Sono Lilian Portman, – apostrofò con fare civettuolo. Era piena di curiosità.
- Sono Carlos, – rispose Cuyed. – Un lontano parente di Aileen. Io e altri ci siamo trasferiti dalla Spagna.
Lui mi lasciò sbigottita, non solo perché si era appena inventato una storia, gli occhi erano incredibilmente marroni. Il bellissimo grigio che poco prima mi aveva incantata era sparito.
- Parenti hai detto? – domandò incuriosita portando una ciocca di capelli dietro l'orecchio.
Io sorrisi nervosamente. – È cugino di terzo grado.
- Certo,– rispose Lilian dubbiosa. – Ci scusi un attimo Carlos? Io e Aileen dobbiamo parlare di faccende private.
Mi spinse oltre la porta dirigendomi verso lo studio. – Che cos'è questa storia? Li conosco tutti i tuoi parenti, e quello non l'ho mai sentito nominare!
Prima che potessi risponderle sbucò Lyocx e Lilian mi fece fermare bruscamente. Sorpresa.
- Buenas tarde, – disse lui sorridendo.
Feci un sospiro di sollievo notando che aveva cambiato abbigliamento, optando per un pantalone e un pullover, gli occhi erano tornati ad un verde terrestre, e aveva legato i lunghi capelli biondi.
- Holaaa, – rispose Lilian ravvivandosi energicamente la chioma. – Tu chi sei?
- Leonardo, – disse Lyoxc presentandosi.
- Io sono Lilian Portman – cinguettò felicemente. – Sono una sua amica.
Mi indicò distrattamente.
- Ci vediamo dopo, – disse Lyoxc, levandomi dall'imbarazzo e lasciandoci sole nel corridoio. Lilian lo seguì con con gli occhi, finché non lo perse di vista, poi si voltò verso di me.
Curiosità.
Entrammo nello studio e chiusi la porta. Lilian si accomodò sulla poltrona da ufficio guardandomi con aria circospetta. Io restai in piedi tormentandomi le mani.
- Allora? – incrociò le gambe. – Non ti stai cacciando in qualche pasticcio? Sono davvero tuoi parenti?
Aveva un'aria molto autoritaria. Pretesa. Attesa.
Dovevo essere sicura e determinata, avevo elaborato una seria di bugie che potevano funzionare, ma se mi fossi inceppata, se fossi sembrata incerta, sarebbe stato inutile.
- Ti ricordi di mio zio Sebastian?
- Il fratello morto di tuo madre? – interrogò immediatamente Lilian. Lei aveva un'incredibile memoria a lungo termine.
- Brava. Come ricorderai lui è il maggiore dei fratelli.
Sebastian era l'unico parente che non avevo mai visto in vita mia, e di cui mia
madre parlava poco. Ben diciotto anni li separavano, Emily era la più piccola della nidiata.
- Non dirmi che quelli sono i suoi figli! – esclamò indispettita.
- No! Lui a vent'anni ebbe cinque figli maschi, tre di loro si trasferirono in Spagna.
- Ah si? – Dubbio.
- Sì, – dissi nel tono più convincente possibile. – Studiarono lì, si sposarono e ebbero altri figli.
- Oh! – esclamò meravigliata. – Che famiglia numerosa e precoce.
- E ora, quei figli, sono nel salotto di casa mia, – sospirai.
Mi guardò per due minuti interi, con aria circospetta e sentimenti contrastanti.
Io mi ficcai le mani in tasca per evitare di iniziare a mordermi le unghie. Se fossi apparsa nervosa non mi avrebbe mai creduta.
- Ottimo! – disse Lilian alzandosi dalla poltrona. – Andiamo subito a conoscerli
meglio!
Allargò le labbra in un sorriso gioioso.
***
Capitolo 11 Ci ritrovammo in quattro nel soggiorno.
Cuyed, o Carlos, come dovetti chiamarlo, aveva finito di preparare il tè.
- Qualcuno vuole qualche goccia di limone? – chiesi.
- Io, – disse festosamente Lilian.
Misi un po' di succo di limone nella sua tazza e nella mia. Io e Cuyed portammo le tazze fumanti sul tavolo. Presi anche qualche biscotto al miele, dato che del pranzo non avevo mangiato quasi nulla.
Gustai lentamente il tè, sorseggiandolo perché bollente.
Lilian e Lyoxc iniziarono a parlare fitto fitto. Sembrò, più che altro, un interrogatorio che lei conduceva su di lui. Curiosità. Euforia.
Presi un biscottino e lo immersi nella tazza, raccolsi la poltiglia con un cucchiaino e la ficcai in bocca.
Cuyed mi guardò assorto, come immerso nei pensieri, eppure abbastanza lucido da dedicarmi uno sguardo divertito. – È buono?
Annuii con le guance piene e gonfie di cibo.
Lui ridacchiò e mi dedicò uno sguardo più serio. – Domani hai il primo incontro con l'educatore.
Mi voltai verso Lilian, terrorizzata all'idea che avesse potuto udirlo. Lei era troppo persa negli occhi di Lyoxc. Era incantata. Nella sua mente c'era solo frastornamento. Deglutii la mia poltiglia di biscotto e tornai a fissare Cuyed.
- Perché domani?
- Perché aspettare? – ribatté. – Non vuoi conoscere il più possibile?
- Sì, però... – mi soffermai a guardarlo con la tazza di tè vicino alla bocca. – Dipende dalle cose che ha da dirmi.
Cuyed si rabbuiò un attimo, fece un piccolo sospiro e mi sorrise. – Sei preoccupata per qualcosa?
- Nulla di specifico. Sono le novità a disarmarmi, e nell'ultimo giorno ve ne sono state parecchie. – lo guardai in modo eloquente, tirando fuori dalla tasca del pantalone la Pietra. – Spero di non svenire di nuovo.
Lui sbarrò gli occhi marroni. Sembrò piccato e smarrito dalla mia schiettezza. – Mi scuso ancora per quello ti ho fatto are. Non accadrà più. Saprò stare al mio posto. Tu non essere nervosa. L'educatore ti racconterà di Galatria. Non sei curiosa?
- Certo che lo sono! Ma io e i cambiamenti non andiamo molto d'accordo.
Cuyed mi fissò, prese un biscotto con la mano fasciata e lo lanciò direttamente nella sua bocca.
- Ah! – esclamai. – Io non sono mai riuscita a fare quella cosa!
- Quale cosa? – disse lanciando un altro biscotto e prendendolo al volo. – Questa?
- Sì! Finirebbe sicuramente sul pavimento.
Cuyed mi mise in mano un piccolo biscotto. – Prova, – disse.
- No! No!
- Troppo difficile? – mi stuzzicò.
- No!
- Un gioco? – si intromise Lilian allegra. – Queste cose la mettono in imbarazzo.
Ridacchiò gongolante portandosi una mano davanti la bocca. Le lanciai uno sguardo torvo.
- È la verità, – disse lei per niente risentita. – Non ti arrabbiare.
Io ero furiosa, non arrabbiata.
Cuyed e Lyoxc mi guardavano divertiti.
- Aileen? – tuonò la voce di Kheltron. Un attimo dopo la porta di casa sbatté.
Lilian mi fissò. – Questo chi è?
Curiosità.
Guardai Cuyed, poi Lyoxc. Panico.
L'altro cugino, – si affrettò a urlare Lyoxc. – L'altro cugino della Spagna.
- Ma quanti siete? – chiese stupita Lilian.
Kheltron si affacciò in sala. Aveva quella ridicola tuta verde, e due occhi blu. I suoi occhi blu, che, per fortuna, potevano sembrare terrestri. Lasciò penzolare tra due dita un oggetto. Il ciondolo che era sul mobile d'ingresso.
- Avevo dimenticato questo, – disse fissando la piccola sfera blu che girava. – Non posso stare senza.
- Aileen? – Lilian mi guardò indispettita. – Non avevi detto che te l'avevo regalato tua madre? Che era tuo?
Le feci un sorrisino insicuro. – Infatti. Infatti.
- Questo è mio, – si intromise lui. Invece di aiutarmi mi stava ficcando in un
pasticcio.
- Già, – dissi. – Quello è suo. Credo che il mio sia rosso.
Con un gesto repentino Kheltron spintonò Cuyed, lo spazzò via dalla sedia come un disinfettante faceva con un insetto, e si sedette accanto a me. – Questa cuginetta è così sbadata! Il suo l'avrà dimenticato in qualche cassetto.
Lilian fissò Kheltron, basita. Tutti lo fissammo basiti. Tutti, tranne Cuyed. Lui lo guardò in maniera torva. Di fatto non lo sentivo, ma la sua espressione era piuttosto decifrabile.
- Colpa dell'alcool, – continuò Kheltron alzando le spalle. Sfoggiò uno sguardo raggiante e per niente colpevole. Lui sapeva che bevevo. Era il mio Custode.
- Oh Aileen! – sbottò sgomenta Lilian. Sbatté la tazza di tè sul tavolo. Collera. – Ti sei distrutta di alcolici davanti a loro?
- Già, – affermò Kheltron. – L'ho assistita mentre tentava di rigettare qualcosa di indescrivibile sul pavimento.
Guardai Kheltron allibita, poi infastidita. Se ne stava lì, strafottente, a spiattellare la mia vita privata.
Lilian sbatté nervosamente la tazza sul tavolo. – Aileen! Stasera non berrai
neanche un goccio di quella roba!
La fissai scioccata, ma non aprii bocca. Non è che potevo giustificarmi più di tanto, per farlo avrei dovuto raccontarle la verità. Farla entrare in una realtà che, anche io, dovevo digerire.
- Torno al mio albergo, – disse Kheltron. – Ero venuto solo per recuperare il mio ciondolo. Quello blu.
I suoi occhi mi fissarono. Mi fissò e si allontanò.
Restammo in silenzio, sconcertati. Ognuno perso nei propri pensieri, nelle proprie emozioni. Lilian fu l'unica a ricomporsi. – Certo che voi spagnoli siete capelloni.
***
Capitolo 12 Quel giorno avrei dedicato alcune ore all'arte e all'utilizzo della Yikira. Non ero entusiasta all'idea di trascorrere così le mie giornate, ma non mi avevano lasciato molta scelta. Inoltre, non avevo un lavoro e le ore del giorno erano prive di impegni. Lyoxc mi aveva detto che mi avrebbe accompagnata in un luogo sicuro, indicato da Erixia, per fare le mie lezioni. Quando andai in cucina lo trovai lì. Era arrivato una mezz'ora prima e lo avevo accolto con piacere. Privo della tuta verde scuro, aveva un pantalone nero, una camicia bianca e un maglione nero. I capelli era stati raccolti in una coda e nascosti sotto il maglioncino. Infine, aveva sostituito i suoi splendenti occhi verdi con un paio di un verde comune.
- Buongiorno Lyoxc.
- Buongiorno a te, Aileen. Sei pronta per la tua giornata?
Scossi le spalle e protesi il braccio per aprire il mobile e prendere lo sciroppo d’acero. Lo posai sul tavolo e andai a prendere i pancake. – Fai colazione ?
- Certamente, – disse sorridendo.
Lontana dalla burrascosa mattinata precedente, Lyoxc si dimostrò sempre educato. Dopo l'episodio del pomeriggio precedente, inoltre, Kheltron non si era più fatto vedere. Con mio immenso piacere avevamo trascorso il resto delle ore senza di lui, in un piccolo pub vicino casa mia. Io e Lilian eravamo rimaste scioccate quando i due “cugini spagnoli” avevano ordinato due bicchieri d'acqua.
Lyoxc si tuffò sui pancake, io non presi niente. Mi alzai e andai a lavarmi i denti.
Cuyed ci aspettava in macchina. Io mi sedetti al lato eggero, mentre Lyoxc si accomodò dietro.
Abbassai il finestrino e guardai fuori. La neve cadeva soffice su strati di ghiaccio. Cuyed guidò prudentemente, lanciando ogni tanto qualche sguardo verso di me. Accostò la macchina vicino un edificio abbandonato. Un magazzino che, una volta, veniva usato per custodire mobili: “Deposito Axa”. Scesi dal veicolo e Lyoxc fu subito al mio fianco.
- Sei pronta?
- Se si tratta di imparare a usare energia per fare le pulizie di casa in tutta comodità, allora sì, sono pronta! – mi grattai la testa. – Per il resto, non tanto.
Lui scoppiò a ridere. – Vedrai che andrà bene.
Aspettammo Cuyed sul marciapiede, poi entrammo nel magazzino.
Lì ci aspettava il mio educatore.
L'edificio era su due piani, immenso. Ai lati delle pareti si trovavano ancora diversi oggetti abbandonati: sedie, lavatrici, mobili di ogni genere e per ogni uso. La ruggine si era formata sui beni in ferro, mentre il legno era scavato e consumato. Non vi erano stanze. Il piano terra era un gigantesco stanzone, metri e metri di desolazione. L'interno era grigio e il pavimento non esisteva, si camminava sul cemento.
- È giunto il momento di conoscerci, finalmente.
La voce vibrante provenne dalla mia sinistra. Mi voltai e vidi un uomo dai lunghi capelli bianchi avvicinarsi a o silenzioso.
- Yela Lyoxc.
- Yela Quezel, – rispose Lyoxc.
- Ye-la? – ripetei io.
- È il saluto che si usa tra Custodi, – disse Lyoxc facendomi l'occhiolino. – Come vedi Cuyed non lo usa, non è un Custode.
Annuii brevemente e tornai a prestare la mia attenzione all'educatore.
- Ben arrivata Aileen Grenn, e benvenuto a te, Cuyed.
Cuyed inclinò il capo. Io lo imitai.
Quezel non era un galatriano giovane. I capelli erano lunghi, lisci e bianchi. Completamente bianchi. Non aveva peli sul viso, ed era molto alto e molto magro. Piccole rughe segnavano gli occhi e il contorno labbra. Occhi piccoli e grigi, più chiari di quelli di Cuyed, mi scrutavano attentamente.
- Grazie, – risposi.
- Dei bellissimi occhi color nocciola, – disse concentrandosi a guardarmi, come
se avesse potuto leggervi dentro, ma distolse subito lo sguardo e si rivolse e Lyoxc. – Avete fatto un buon viaggio?
- Abbiamo l'automobile. L'ho trovata un po' pericolosa, ma più sicura che muoversi a piedi, in mezzo a tanti terrestri.
Quezel si portò una mano sotto il mento. – L'automobile? – scosse il capo.
- Il marchingegno terrestre.
- Oh Sì, – fece Quezel. – Ne ho viste tante in giro. Dovrò provarla. Dovrò assolutamente provarla! Ora non indugiamo, inizierei subito la lezione. Cercherò di dare risposte esaurienti, a meno che tu, – mi guardò, – non abbia domande alle quali solo l’Imperatrice può rispondere.
- Va bene, – dissi.
Quezel mi sorrise, poi si rivolse a Cuyed e Lyoxc, – Voi potete andare. Restate nei dintorni del palazzo. Quando avremo finito, vi chiamerò.
Così dicendo indicò la sua Yikira, legata al collo da un laccio nero, incastrata in un ciondolo.
I due galatriani lasciarono l'edificio e Quezel non mi rivolse la parola finché non fu sicuro che si fossero allontanati abbastanza.
- Come ti senti con loro?
La domanda mi colse alla sprovvista. Ero la prima a non aver elaborato la loro presenza costante, né compreso quello che stava succedendo. Indugiai. Le recenti scoperte, e la pressione psicologica a cui venivo sottoposta, erano tanto forti da non riuscire a stabilire cosa sentivo per loro.
- Sono.... premurosi?
- Mmm... – si toccò distrattamente i lunghi capelli, – non è quello che ti domandato. Vorrei sapere se ti trovi bene con loro, o tutto questo ti turba.
Turbamento era, probabilmente, uno dei tanti sentimenti che si avvicinava a ciò che sentivo.
- Riesci a sopportare questa tensione? – domandò.
- Ecco io...
- Tu?
- Certo che no!
Mi portai una mano sulla bocca scioccata dalla mia stessa confessione.
Lui, con mia grande sorpresa, scoppiò in una fragorosa risata. – Parrebbe strano il contrario! E eresti per bugiarda. Da te traspare ogni emozione.
Aggrottai la fronte e lasciai cadere il braccio lungo il corpo, come un peso morto. – Come sarebbe?
- Ogni galatriano riesce a sentirti, – disse bloccandosi di fronte a me, – in maniera molto distinta. Ogni galatriano possiede l'interazione naturale. Devi usare la Yikira se vuoi che non sentano le tue emozioni.
- Come? – dissi prendendo seriamente in considerazione quello che potevano fare. – Tutto quello che provo? Sempre?
- Esattamente come fai tu. Interazione naturale.
Il mio viso si mutò in una maschera di cera, ma il mio corpo riuscì a tremare e indietreggiare.
Quezel non sembrò preoccuparsene, gestì il mio stato d'animo con molta disinvoltura. – Possiamo farlo e non capiamo come i terrestri non ci riescano. Nessun rapporto con la Terra, con gli animali, con ciò che vi circonda, – disegnò un cerchio nell'aria. – Tutto il vostro mondo siete voi stessi.
- Ma... mi sentite... sempre? – feci io ancora palesemente irrigidita.
- Aileen, sì. Come te.
Scossi il capo con un sorriso. – No.
- Vuoi una prova? Sei frustrata e spaventata. Non conosco i tuoi pensieri, ma posso dedurre che tu ti senta così per quello che ti ho detto. E, ora, ascolta. Senti anche tu.
Fu una questione di secondi, ma nel silenzio che seguì lo sentii. Sconforto. Anche se avrei voluto che fosse il mio, per convincermi che io non ero come loro, sapevo bene che mi sbagliavo. Era un'emozione distaccata dal mio corpo che mi penetrava nella testa.
- Cosa hai sentito? – chiese.
Ingenuamente mi impuntai a mostrarmi indifferente. Scossi le spalle. – Non ne ho idea.
- Aileen! – mi guardò severamente.
Non più irrigidita, ma piuttosto arrabbiata per la sfida che mi stava lanciando, lo
fissai. – Sconforto? Tristezza?
Mi guardò bonariamente. – Sai perché mi sento così?
- No, – risposi. Credevo che mi stesse nuovamente mettendo alla prova.
- Esatto. Non puoi saperlo perché non hai la capacità di leggere nel pensiero! Puoi sentire le emozioni, non i pensieri!
- Quindi, – feci io battendo un piede a terra, irritata che fosse riuscito a portarmi allo scoperto, – chiunque abbia questa interazione naturale può sentire le emozioni degli altri?
- Sì! E anche la sua energia vitale.
- La sua energia vitale?
- Certo! Se ti concentri puoi sentirla.
Corrugai le labbra e incrociai le braccia, dando sfogo a tutta la mia incredulità.
- La sentirai, – disse sorridendo. – Come hai sentito la mia emozione e quelle di tanti altri.
Io ero piuttosto scettica a riguardo. – Sul serio?
- Non mi credi? Non è vero? – inarcò un sopracciglio. – Non è una qualità che puoi decidere di avere o meno. La possiedi. Per cominciare hai sempre sentito le emozioni dei terrestri. I loro sentimenti avrebbero potuto anche influenzarti, qualche volta.
Alzai le braccia, credendo che quello che mi aveva appena detto non poteva essere vero. Non era possibile influenzarmi.
- Cosa succede? Può essere che io diventi felice perché lo è qualcun altro?
- Certamente. Non ti viene in mente nessun episodio particolare in cui ti sei sentita intrappolata in sentimenti altrui?
- È assurdo...
Abbassai lo sguardo e mi bloccai davanti ad un'immagine lontana nel tempo. Nell’eccitazione e desiderio di qualcun altro. In quella notte così vivida.
Alzai lo sguardo colmo di una nuova coscienza. – Anche per voi è così? Potete sentire e venire influenzati?
- Sì. I galatriani sentono sempre, – disse stringendo la Pietra al collo. – Solo la Yikira ci permette di nascondere i sentimenti. Se gli altri la usano noi non sentiamo.
- Usate la Yikira per oscurare le emozioni?
- È l'unico modo per non sentire. È difficile convivere sentendo i sentimenti di tutti. Generalmente li occultiamo, a meno che non vogliamo farci sentire, o ci venga ordinato. – lanciò uno sguardo molto espressivo. – Davanti a Erixia, per fare un esempio, non si possono celare le emozioni, è proibito.
Mi morsi il labbro inferiore. – Questo perché lei è l'Imperatrice?
- Direi proprio di sì.
Una folata di vento gelido attraversò l'edificio. Il ciondolo di Quezel si agitò in maniera violenta costringendolo a bloccarlo con le mani. La Yikira si mosse per un breve momento, brillò e si adagiò immobile.
In Quezel emerse un'espressione autoritaria e controllata. – Il nostro popolo ha sempre posseduto la qualità dell'interazione. Ognuno poteva sentire quello che provava l'altro. Quando trovammo la Pietra, settecento anni fa, scoprimmo le sue potenzialità. Da allora ogni galatriano ne possiede una.
Lo interruppi annuendo vigorosamente. – E la usate per nascondere le vostre emozioni.
- Sì, e abbiamo scoperto che la Yikira non ha alcuna utilità per i terrestri, tranne che per uno, – mi indicò.
A quel punto smisi di fare domande, non dissi nulla e cercai di calmarmi. Darmi un contegno. Ma anche se la mia bocca rimase sigillata, la mia mente galoppò verso labirinti oscuri. Avrei potuto oscurare le mie emozioni ai galatriani? Perché ero nata con quella caratteristica? Era stata una coincidenza che un galatriano lavorasse in quell'ospedale il giorno della mia nascita? Un caso che Erixia venisse da me e mi salvasse con la sua energia? Oppure no? Quanto ero stata veramente toccata dalla Yikira? Quanti anni avevo davvero? Come scorreva il tempo per me?
Troppe domande e per nessuna di quelle volevo la risposta.
***
Capitolo 13 - Le prime nozioni che ti fornirò potresti perfettamente conoscerle. Cosa sai dell'energia?
Lo guardai titubante. Non avevo studiato fisica. Non ero apionata di materie scientifiche. Tremavo al solo pensiero di maneggiare numeri e formule. Ma non volevo mostrarmi troppo ignorante, così buttai il primo pensiero che mi venne in mente.
- Ehm... che fa muovere le cose?
Lui aggrottò la fronte, trasformando il viso in un espressione attonita e basita, gettandomi in imbarazzo. Potevano darmi in mano qualsiasi libro in se, spagnolo, italiano, o in lingua latina, ed ero perfettamente istruita per tradurlo all'istante, ma cose all'infuori di quelle mettevano in mostra la mia scarsa cultura, e me ne vergognavo.
- Vieni, sediamoci.
Andò a prendere due sedie dal mucchio di mobili accatastati alle nostre spalle. Prese le più sgangherate e scomode che avessi visto.
- D'accordo, – feci io.
Mi sedetti lentamente per scongiurare la possibilità di finire con il sedere a terra. Non sarebbe stato dignitoso ritrovarsi con le gambe all'aria.
Lui si portò davanti a me e si sedette con disinvoltura, come se tutti i giorni li asse su sedie invitanti come quelle.
- Dunque. L’energia è la capacità di un corpo, o di un sistema, di compiere lavoro. Possiede la proprietà di presentarsi sotto varie forme, che possono convertirsi una nell’altra. Per esempio: dallo stato liquido a quello gassoso, come l’acqua. Fin qui, ci siamo?
- Sì.
- È molto importante ricordarsi che l’energia può essere trasformata da una forma in un’altra, ma non può essere creata, né distrutta. Per cui, la Yikira non crea nessuna energia e non la distrugge, l’assorbe e la trattiene. La Yikira può assorbire due livelli di energia: emozionale o vitale.
- Avevo capito che si usava solo per nascondere l'energia delle emozioni!
- Non è corretto dire che la nasconde. L'assorbe. La raccoglie. La immagazzina.
Mi grattai il capo perplessa. Se fosse stato un mio insegnate di Università avrei già rinunciato ad ascoltare, oppure lui avrebbe perso la pazienza. Dubitavo che avrebbe potuto avere una classe piena di alunni con una lezione così seriosa e enfatizzata con tanti paroloni, e con sedie tanto scomode.
- Una volta raccolta, – continuò, – la possiamo usare per diversi scopi, tra i quali far funzionare le nostre tecnologie.
- Ricapitolando, – dissi cercando di sistemarmi meglio. – La Yikira ha il solo compito di assorbire l’energia. Energia di due tipi: vitale, o emozionale. Assorbendo quella emozionale si nascondono i propri sentimenti. Ho detto giusto?
- Corretto. Ti porto un esempio. Emozioni come la tristezza, o la rabbia, sono energia potenziale. L'emozione provata, libera sempre energia: all'inizio in
maniera molto forte, poi sempre più debolmente.
- Ah! Quindi anche piangere libera energia?
- Corretto di nuovo, – disse raddrizzando le spalle. Mi guardò soddisfatto mentre sul mio volto avano una miriade di espressioni di stupore e incredulità.
- La Yikira, – continuò lui, – prende l'energia delle emozioni o della vita. Sulla Terra non esiste nulla che permette di fare questo.
- Certo che No! Una fonte d'energia.
- Non è una fonte. È uno strumento adatto per assorbire. La fonte è l’essere vivente che libera energia.
Spalancai gli occhi sempre più emozionata, persa dentro un mondo nuovo. – Sono io la fonte!
- Esatto, ma non solo. La Yikira non ha limiti di immagazzinamento d'energia, può raccoglierne infinita, da te, dagli altri esseri umani, dalle piante, dalla terra, dagli animali. Sei tu a comandare la Pietra e, senza-dubbio, devi stare attenta! La Pietra attira l'energia di un essere vivente.
In quel momento la mia espressione mutò radicalmente. Capii immediatamente che la Yikira era un'arma a doppio taglio. Di base, era usata per nascondere le
emozioni, per avere un po' d'intimità, ma quello che faceva era succhiare energia. Poteva, dunque, uccidere?
- Non deve assolutamente fare del male! – disse lui colto dalla mia preoccupazione. – Secondo una Regola ognuno fa fluire solo la propria energia emozionale nella Pietra. Ci dà la possibilità di nascondere i sentimenti e di non fare male agli altri. Ma è chiaro che è possibile assorbire anche l'energia altrui.
Mi balenarono in testa molti pensieri, alcuni dei quali mi spaventarono più di altri. La Pietra si alimentava degli esseri viventi, di ogni nostra cellula, globulo rosso, neurone e di ogni nostra energia.
- Ricorda, – disse dando il giusto tono ad ogni parola. – È proibito assorbire energia vitale altrui, tranne in circostanze di attacchi, ovvero per difesa personale e altrui. È Proibito assorbire energia emozionale altrui, ad eccezione dei Custodi; di attacchi dai quali bisogna difendere; di luoghi affollati pieni di terrestri che con i loro sentimenti possono confonderci, e di animali.
- Non credevo fosse così potente.
- Aileen! – mi lanciò uno sguardo severo. – Per il momento per te è valida solo l’eccezione degli attacchi. Sei troppa inesperta e potresti far del male. Capisci?
- Certo! – arrossii. – Certo!
- È proibito! E in ogni caso non si può mai assoribire e provocare la morte, altrui
o propria! Regola valida per noi, e per te.
Lo guardai seriamente. Ero venuta a conoscenza di una Regola molto importante, che mi rincuorò. Nessun essere vivente doveva morire.
- Chiaro, – risposi. – Proibito. Non posso prelevare energia vitale, né emozionale altrui. A meno che non debba difendermi, o difendere qualcun altro.
Lui annuì. – Detto ciò, ci vuole molto esercizio.
- Intesi, – dissi con la stessa compostezza che avrebbe usato un militare con il proprio superiore. – Molta pratica!
- Ottimo, – disse lanciando uno sguardo soddisfatto. – Perché solo con la pratica si raggiungono i risalutati.
Prese un sigaro dalla tasca interna dalla mantella e lo accese. Io aggrottai la fronte, rimasi per un secondo stupita, concedendomi una distrazione da fonti di energia e pratiche obbligatorie. Non avevo visto nessun di loro avvicinarsi ad una sigaretta.
- Prima che tu possa chiedermelo, – intervenne, – voglio che tu sappia che credo di essere uno dei pochi, se non l'unico, ad adorare il sigaro. È un piacevolissimo atempo.
Se lo portò alla labbra ed iniziò ad espirare.
Lo fissai interdetta, come se stesse facendo qualcosa di altamente sconveniente. Lui, probabilmente, ignorò la mia palese emozione.
- Come dicevo, – disse. – È proibito. La Yikira è potente e bisogna possedere delle qualità per essere scelti da lei, per poterla usare. Qualità che tutti i galatriani possiedono, – disse fieramente pompandosi come un pavone davanti ad una femmina. Subito dopo iniziò a borbottare sui terrestri e il loro modo di maltrattare la terra, e che non c'era da stupirsi se la Pietra non esisteva sul nostro Pianeta. – Non mi meraviglierei se, trovandovela sotto gli occhi, l'aveste buttata!
Smisi di ascoltarlo, ritornai ai miei contorti pensieri. La Yikira aveva trovato in me le qualità che appartenevano solo ai galatriani, fino a quel momento. Quello era il motivo, apparente, per il quale mi aveva scelta. Quello era successo perché Erixia mi aveva trovata, perché avevo l'interazione naturale.
- Magari venduta per una manciata di monete! – berciò all'improvviso Quezel.
Annuii con il capo e tornai ad ignorarlo. Ero stata salvata dall'energia di Erixia: lei era stata la mia fonte, e la sua Pietra lo strumento. La Yikira, quindi, poteva togliere, assorbendo, e poteva dare, restituendo.
La presi dalla tasca. L’osservai. Mi aveva catapultata in un mondo nuovo: Pianeta Galatria. La paura e il panico iniziali per tutte quelle novità avevano lasciato il posto alla curiosità, al piacere della scoperta, poi alla preoccupazione. Ero rintronata da quegli sbalzi d’umore.
- … bisogna incanalare nella Yikira solo la propria energia, solo in casi estremi quelle di altri esseri viventi, questo garantisce lo stesso ordine d'energia.
- Va bene, – dissi, incurante del fatto che avevo perduto parte dello stesso discorso, in cui elencava cosa era proibito e cosa era fattibile. – Supponiamo che io sia arrabbiata. Come faccio a incanalare il mio stato d'animo nella Pietra?
- Questa è la parte complicata. Devi creare un collegamento tra la tua mente e la Pietra. La Yikira è tua.
Lo guardai dubbiosa, perplessa e disorientata. Come avrei fatto a stabilire un legame così complesso?
-Devo creare un collegamento? E come faccio?
- Ti concentri, – disse lui. – Esercizi di concentrazione.
Guardai la Yikira sempre più stranita e diffidente. – Mi concentro sulla Pietra.
- Corretto. Ma non una qualunque. Non funzionerebbe. Solo la tua!
Si alzò dalla sedia e iniziò a camminare avanti e indietro per un tratto breve, con le braccia incrociate dietro la schiena. Diede l'impressione di essere nervoso.
Prese lunghe boccate di fumo e le rigettò fuori molto velocemente. – La tua Yikira risponderà solo a te.
Il concetto lo capii subito. Io ero legata e lei, e lei a me. Ogni Yikira era legata indissolubilmente a un essere umano.
Ripercorsi, così, quello che non potevo fare. Non avrei potuto trasferire un po' di energia dalle piante del mio terrazzo. Non avrei potuto trasferire alcun tipo di energia vitale altrui. Non avrei potuto assoribire nessun tipo di energia emozionale altrui. L’unica eccezione che mi avrebbe permesso di incanalare energia altrui era la difesa, e preferivo non pensarci. Usarla in quel caso significava essere stati minacciati, o essere in pericolo di vita.
Potevo abbandonare l'idea di prendere la Pietra di altri e provare qualche tecnologia galatriana, perché non avrebbe funzionato. La Yikira rispondeva a una persona.
La mia Pietra, quindi, avrebbe assorbito pochissima energia, solo la mia, e le possibilità di provare immediatamente le loro tecnologie erano scarse.
Balzai dalla sedia illuminata da un'alternativa. – Posso prendere l'energia dalle altre Yikire e trasferirla nelle mia? – chiesi raggiante, con un sorriso che attraversa il viso da una parte all'altra.
- No! No! No! – esclamò – Non ascolti quando parlo? Non è possibile. L'energia della tua Yikira dovrai ottenerla da sola! Prima imparerai a trasferire l'energia delle tue emozioni nella Pietra, poi quella vitale, e poi, forse, quella emozionale degli animali.
Il mio entusiasmo e le mie spalle si affievolirono. La mia Pietra era a corto di energia. Avevo ato anni senza sapere della sua esistenza.
- Prima di cominciare con la pratica,- disse lui, – devi sapere, che in tutti i trasferimenti energetici una parte dell’energia viene convertita in calore, dissipata in questa forma senza che possa essere utilizzata per compiere lavoro. Per questo motivo, la Yikira si riscalderà molto quando trasferirai la tua energia.
- Si riscalda? – domandai lanciando uno sguardo alla mia Pietra, ripensando a quando mi aveva bruciato la mano. – È già capitato.
- Molto bene. Raccontami.
Tergiversai, lasciando che i pensieri si raggrupero in una frase di senso compiuto, ma non ci riuscii. Finii per addentrarmi in una descrizione pietosa.
- È successo dopo alcune discussioni tra me e l’Imperatrice, ero appena stata rapita! – mi affrettai a correggere quando mi lanciò un'occhiataccia. – Voglio dire, ero appena stata prelevata da casa. Ero preoccupata, ansiosa, arrabbiata.
Lui annuì. Camminò e annuì. – Hai compiuto un trasferimento di energia. Probabilmente non te ne sei accorta. A mani inesperte può capitare di stabilere un legame casuale. Ma non sei ancora pratica, hai avuto problemi?
- No, no. Nessuno, – dissi voltando lo sguardo altrove. Avevo avuto
l'impressione di ustionarmi la mano e avevo gettato la Yikira.
- Aileen...– mi guardò con disappunto.
- Oh, va bene, – dissi sospirando. – Ho avuto qualche problemino. Mi stava bruciando la mano!
- Perfetto. Come dicevo prima, servirà molto allenamento.
- Molta pratica, – ripetei io svoltando gli occhi.
- Più calore si genera, più energia si perde. Noi vogliamo che l'energia si accumuli, giusto? – chiese Quezel.
- Certo, – risposi. Certo che volevo accumulare l'energia! Prima di tutto, volevo iniziare a nascondere le mie emozioni, non volevo che i galatriani sentissero sempre quello che provavo; secondo, volevo imparare a usare l'energia. Chissà quanti oggetti alieni avrei potuto usare
- Ci alleneremo in un campo all'aperto, – disse. – Ne cercherò uno isolato, questo edificio è troppo cupo.
- Quanto tempo ci vorrà prima che io riesca a incanalare energia emozionale senza ustionarmi?
Lui alzò le spalle e spense il sigaro. – Dipende tutto da te. Un galatriano inizia il duro allenamento a dodici anni, e di solito in un anno padroneggia il proprio flusso d' energia emozionale e vitale. Ma un ragazzino, quando inizia l’allenamento, è già abituato a far fluire la propria energia, almeno quella emozionale. Il procedimento per te potrebbe essere un po' più lungo.
- Poi, – dissi titubante, – potrò usare l'energia?
- Questa parte la vedremo, ad atto pratico, molto più avanti, – rispose severamente. – Non è difficile se la usi per far funzionare le tecnologie e gli strumenti galatriani, ma se vuoi usarla per altri scopi, quali: difendersi dagli attacchi, o curare altri esseri umani, è molto difficile.
Mi abbandonai alla sconforto più totale.
- Aileen non ti abbattere. Incominciamo con le cose semplici.
Accennai un sospiro. – Va bene.
- Vorrei iniziare fin da subito con esercizi di concentrazione e respirazione. Sono utili per incanalare l'energia delle tue emozioni, così le nasconderai. Porta la Yikira sempre con te.
Lo guardai incerta. – Sempre?
- Esatto. Questo allenamento ti aiuterà a capire come nascondere le emozioni più deboli.
- Ma non è affatto facile! Devo stare sempre concentrata per incanalare l'energia! Stare attenta a non bruciarmi, e stare attenta a non farmi prosciugare!
Quezel mi fissò. – Si comincia adesso!
- Ora? – lo guardai sbigottita.
- Ora! – disse lui deciso.
- Ma non sono pronta!
Quezel inarcò un sopracciglio. – Ora.
***
Capitolo 14 – Il potere della Pietra Io e Lilian andammo in camera per prepararci, o meglio: a preparare me. Lei era già vestita e truccata.
Ci eravamo sentite nel primo pomeriggio e non avevo saputo negarle un'altra uscita. Lilian aveva insistito per venire a prendermi.
Mise mano nei cassetti e nell'armadio, cercando qualcosa che la soddisfe, mentre io mi toglievo il pantalone.
Frizzantezza. Allegria. Ecco che la sentivo. Era lei.
- Questo qui è perfetto, – annunciò tenendo tra le mani un abito chiaro con collo alto e ampio spacco.
- Stai scherzando? – dissi togliendomi le calze. – Con quello morirò di freddo!
Mi sedetti sul letto aspettando che la mia amica si spostasse. Volevo prendere i jeans.
- Siamo in macchina! – mi sbatté l'abito in faccia. – Farai a piedi al massimo cinque metri!
Incomprensione.
- Ma è senza maniche,– protestai. – E con lo spacco!
- Metti questo, ho trovato un cardigan lungo.
Mi mostrò, soddisfatta, un vecchio capo nero. Mi ricordò la mantella dei galatriani.
- Non sono convinta, – dissi.
- Mettiti questi senza fare storie! Poi truccati un pochino. – si ò una mano tra i capelli lisci. – Detto tra noi, sei un po' pallida.
Onestà.
Io le sorrisi a denti stretti, ma non dissi nulla. A me sembrava di essere appena uscita dalla prima lezione di Yoga. A farmi male, però, non era il corpo, era la mente. Lei non si era alzata all'alba. Non era stata tutto il giorno a lezione. Non aveva fatto esercizi di respirazione e concentrazione per quattro ore.
- Muoviti Aileen!
Schiettezza. Impazienza.
Sospirai.
Lyoxc e Cuyed ci aspettavano fuori, quindi ebbi la tranquillità di uscire dalla camera in mutande. Mi lavai i denti, feci una doccia veloce e mi avvolsi nell'accappatoio. Frizionai i capelli con l'asciugamano dirigendomi verso la stanza.
- Sempre rosa, – disse Lilian ridacchiando. – Ti rendi conto?
Io guardai il telo. La mania che avevo per quel colore doveva essere ricollegata, in qualche modo, alla Yikira.
Lilian mi guardò accigliata. – Tutto bene? – domandò.
Sì, – risposi. – Pensavo al lavoro.
- Vedrai che qualcuno ti chiamerà, – disse incoraggiante. – Non ti conoscono ancora, appena si sveglieranno capiranno quanto vali.
Fiducia.
- Speriamo.
Accesi l'asciugacapelli, poi presi la piastra. Quella sera avrei avuto una capigliatura disciplinata e composta. Infilai l'abito e i collant neri e andai a
prendere le scarpe che Lilian aveva scelto per me. Per non smentirsi aveva optato per un paio di stivali con tacco vertiginoso.
- Questi non li metto! – dissi risoluta.
- Non rovinare tutto! Sono bellissimi!
Nervosa. Irrequieta.
Non mi feci influenzare. Presi degli stivali senza tacco.
Abbandonai la Yikira sulla mensola del letto. “Sempre”, aveva detto Quezel, ma io ero terrorizzata al pensiero di perderla.
Raggiungemmo il locale con la piccola macchina di Lilian. Sui sedili posteriori Lyoxc e Cuyed, con abiti sobri e occhi dai colori terrestri, ci intrattennero con il loro aneddoti.
Il pub era gremito di gente, alcuni in giacca e cravatta, reduci da una giornata di lavoro. L'aria era piena di festa, gioia, desideri e piaceri. Presi Lilian a braccetto contagiata da quell'euforia perbenista.
Cuyed e Lyoxc erano al nostro fianco. Non c'era una sola donna che non era si girata meravigliata a guardarli, forse era per il loro fascino straniero. Non avrei scommesso su nessuna di loro se avessero scoperto che provenivano da un altro
Pianeta, e che potevano percepire tutti i loro sentimenti.
Ci sedemmo davanti a un grande tavolo, mentre Cuyed andò ad ordinare due cocktail e due analcolici. Avevo provato a convincerli ad assaggiare qualcosa di alcolico, ma si erano rifiutati dicendomi che “erano in servizio”.
Alzammo tutti i bicchieri e bevemmo.
- Non è carino? – bisbigliò entusiasta Lilian.
Lanciai un'occhiataccia a Lyoxc.
- Secondo me dovresti lasciar perdere, – le dissi in tutta onestà.
Lei scosse il capo facendo volare qualche capello. – Come fai a dirlo? Non mi ha nemmeno rifiutata!
Offesa.
Non le risposi, sarebbe stato tempo perso, ma più tardi avrei fatto un discorsetto a Lyoxc. Se Lilian non voleva rassegnarsi, avrei chiesto a lui di mostrarsi disinteressato.
- Come è andata oggi? – domandò Cuyed poggiando un dito sul bordo del bicchiere e seguendone il contorno. – Scoperto qualcosa di nuovo?
Lo guardai un secondo per organizzare i pensieri. Evitai una risposta sincera perché accanto a me c'era Lilian. – In televisione davano un documentario sull'energia.
- Interessante, – osservò lei, stupita. – Hai deciso di togliere alcune delle tue lacune. Al liceo dovevo fare i compiti al posto tuo.
Lyoxc scoppiò a ridere.
Feci un sospiro accennato e mi morsi le labbra. – Facevo del mio meglio.
- È vero. Il professore era troppo rigido. Dai, accompagnami in bagno.
Mi alzai, lieta di abbandonare un argomento delicato. Ci dirigemmo nella toilette femminile. Era, stranamente, molto pulita.
- Controlli la porta? – chiese Lilian in modo cortese. – Se entra un uomo, urla.
Annuii. Mi guardai allo specchio notando l'effetto miracoloso che il fondotinta aveva avuto sul mio viso.
- Lo sai cosa mi ha detto Leonardo? – disse sghignazzando allegra da dietro la porta.
Euforia.
- Chiii?
- Ma come chi?– sbottò perplessa. – Tuo cugino!
Per un attimo mi ero dimenticata che Lyoxc e Leonardo erano la stessa persona. – No, – dissi. – Cosa ha detto?
- Che sono molto divertente!
Felicità.
Svoltai gli occhi. – Oh bene!
- È incoraggiante, no?
In un impeto di entusiasmo spalancò la porta.
- Incoraggiante. Certo.
- Una volta tanto non potresti spalleggiarmi? – mi lanciò un'occhiataccia. Risentimento.
La fissai mettendo le mani sui fianchi. – Lilian! Mio cugino è della Spagna! Prima o poi tornerà lì e resterai sola!
- Beh, nel frattempo mi sarò divertita.
Speranza.
Aprì il rubinetto per lavarsi le mani.
- Non la trovo una buona idea. Divertirsi comporta molte complicazioni. E per cominciare non sai nemmeno se ti vuole.
- Come?? Certo che mi vuole!
Rabbia.
Lyoxc era un galatriano, un bella differenza con un cugino spagnolo e, soprattutto, con un terrestre.
Uscimmo dal bagno, nel totale silenzio della sala. Il brusio di voci era scomparso.
- Si sono tutti ammutoliti in nostra assenza?
***
Capitolo 15 Un uomo con una maschera sulla faccia sbucò dal nulla. Violenza.
Puntò un coltello alla testa di Lilian.
Non capii del tutto cosa stava succedendo, seppi però cosa significava. Mi paralizzai.
Lei mi guardò, terrorizzata.
Adrenalina. Paura.
Come in una scena al rallentatore, mi voltai. La gente del locale era sdraiata o seduta. Tutte le persone erano sul pavimento, minacciate e spaventate a morte.
Solo quattro uomini erano in piedi e portavano una maschera sul viso.
Guardai Lilian. Era rigida, spaventata, la sua allegria era scomparsa. E con essa, la mia.
Questione di poco e mi ritrovai a dover fronteggiare un problema più grave di Lilian e della sua infatuazione per Lyoxc: la nostra incolumità. Mi guardai velocemente attorno per cercare i galatriani. Se la loro Pietra era carica di energia potevano aiutarci.
Il pub mischiava un condimento acido di sentimenti: paura, isteria, angoscia, smarrimento, orrore. Venni sballottata e spintonata dal rumore assordante di quelle emozioni. Il panico prese il sopravvento e dimenticai quello che dovevo fare. Dovetti prendere la testa tra le mani per riprendermi dai capogiri.
- Dammi tutto quello che hai! – disse l'uomo con voce meccanica.
Assorbii le sue parole cariche di rabbia, facendole finire direttamente nel mio stomaco, che prese a vorticare insieme alla testa. Feci lunghi respiri per tentare di respingere quel flusso di emozioni. L'uomo voleva solo le nostre cose. I nostri averi. Io e Lilian non avevano nulla con noi, lo sapevo perché avevamo lasciato le borse sul tavolo, con Lyoxc e Cuyed.
- Non... non abbiamo niente qui, – balbettò Lilian. Terrore.
- Non fare la furba,– minacciò l'uomo.
- Abbiamo lasciato le borse al tavolo, – dissi con voce affannata, mentre il coltello veniva posato sulla mia guancia. Percepii indistintamente l'odore del metallo.
- Dov'è il vostro tavolo?
Collera. Furia.
Mi torse un braccio dietro la schiena, ma quello che mi faceva male era altro. La mia testa. La mia mente.
- Laggiù, – dissi trattenendo una smorfia di dolore. Indicai con il capo le sedie su cui erano poggiate le nostre cose.
L'uomo iniziò a spingermi tra i tavoli, imprecando e tirando calci a ogni persona che superavamo.
Panico. Nervosismo.
Quando intravidi Cuyed e Lyoxc, notai erano seduti sotto il tavolo e ci fissavano con apprensione. Per quanto la mia mente stesse vorticando, non potrei fare a meno di pensare che era la prima volta che li sentivo.
- Sono queste? – sbraitò l'uomo gettandomi in faccia le borse.
Io annuii.
- Sei stata fortunata, – sibilò. Euforia. Pazzia.
ò la viscida lingua sul mio collo, imbrattandomi di saliva appiccicosa. Odorava di fogna putrida, sporca e marcia.
Disgustata da quell’odore nauseante, mi morsi le labbra. Strinsi forte da farmi uscire il sangue, e da percepire il suo gusto rivoltante.
Sentii Cuyed ringhiare di rabbia e disgusto. Ero sicura che sarei svenuta a causa di quelle emozioni, o che avrei vomitato.
L'uomo era: Eccitato. Esaltato. Urlò gettandomi contro il tavolo.
Prima di finire contro il legno, Cuyed mi agguantò per il busto e mi sistemò sul pavimento. Ero una marionetta in balia del gioco di altri.
Io e Lilian, spaventata, ci ritrovammo a terra accanto ai galatriani, cosicché l'uomo, soddisfatto, ci abbandonò.
Io ero stordita a causa delle emozioni. Tremavo, e anche se l'uomo era andato via, non mi ero ripresa del tutto. Era come se mi fossi bevuta cinque mojito di seguito. Il cuore sembrava volesse uscire fuori dal petto, martellava senza darmi tregua. Cuyed mi strinse la mano così forte che mi vidi costretta a voltarmi per guardarlo. Il suo viso era un cumulo di emozioni. Rabbia, disgusto, preoccupazione, apprensione.
- Non respiro, – farfugliai.
Sfiorò con le dita la ferita che mi ero procurata mordendomi il labbro. Rabbrividii quando mi toccò.
- Ora va meglio, – bisbigliò.
In quell'istante non capii cosa avesse voluto dire, ma ando la lingua sulla pelle, non trovai alcuna ferita.
- Altre ferite? – chiese.
Tutti noi scuotemmo il capo.
- Perché? – feci a bassa voce. – Ci sono feriti?
- Sì, – disse in tono grave. – Un uomo e un cane.
Lilian impallidì. Terrore.
Paura, isteria, angoscia.
Confusione. Era la mia.
Lyoxc strinse a sé la mia amica, che sembrava sul punto di svenire, proprio come me, in un agglomerato di malessere e dolore.
- Non preoccuparti. Ho energia sufficiente per tenerla sveglia.
Io non afferrai subito, ma quando la Yikira brillò intensamente capii il significato delle sue parole. Mi limitai ad annuire. Qualunque cosa in quel momento sarebbe stato utile, ma non sapevo fino a che punto i galatriani potevano spingersi con la Pietra. In particolare, che potere aveva oltre guarire? Poteva tenere sveglia anche me? Togliermi di dosso quella sensazione di soffocamento e frastornamento?
Un suono assordante spaccò le mie orecchie, assieme alla testa. Il suono delle sirene. Da quel momento in poi le mie sensazioni si affievolirono, i miei movimenti si appiattirono, e mi lasciai travolgere dal flusso degli altri. Non ce la facevo più.
I quatto uomini mascherati si lasciarono avvolgere dal panico. Un braccio si levò in aria e sparò due colpi. – Restate a terra! Non vi muovete!
Adrenalina. Paura.
- Il primo che fa una mossa finisce all'altro mondo!
Tirò fuori un coltello lungo e lo lanciò. Si incastrò nel muro, sopra la testa di una donna, che gridò e svenne.
Cuyed mi spinse dietro di lui. Lyoxc fece lo stesso con Lilian. I galatriani avevano gli occhi fissi sui rapinatori. I galatriani stringevano ossessivamente la Pietra.
- Dov'è la tua? – chiese Lyoxc.
- La mia? – mi toccai il collo. – A casa.
Non ero una campionessa di eventi critici, ma avevo visto abbastanza film polizieschi da sapere che la nostra situazione, invece di migliorare, era peggiorata. I ladri, forse, dopo aver preso il bottino, se ne sarebbero andati. Con l'arrivo della polizia non potevano più uscire senza essere catturati. Per cui, uno: eravamo a tutti gli effetti loro ostaggi; due: qualcuno sarebbe morto. Perché moriva sempre qualcuno.
Irrequietezza. Irascibilità. Violenza.
Il mio stomaco fece un nuovo giro della morte. ai una mano tra i capelli. La paura degli altri mi stava prosciugando.
Quando qualcosa mi punse la schiena, mi grattai distrattamente, ignorando il pungolo innocuo, ma una mano mi bloccò. Voltai lentamente la testa perché i capogiri mi toglievano il respiro.
Occhi blu mi fissarono.
- Kheltron?
Era avvolto nella cappa. La Yikira incastrata in un ciondolo, che penzolava da un braccialetto semplice, d'argento.
La sua mano mi lasciò lentamente.
- Ti ho chiamato dieci minuti fa, – mi rimproverò.
- Come sei riuscito a entrare?
Kheltron mi lanciò un'occhiata torva. – Hai studiato a lezione oggi, o hai guardato i pezzi di ghiaccio sfracellarsi al suolo?
- Come? – feci confusa.
- Ah, lascia perdere.
Quando Cuyed e Lyoxc lo videro, tirarono un sospiro di sollievo.
I galatriani si raggrupparono sotto il tavolo. Parlarono fitto fitto, ma io non compresi nulla della loro lingua.
Non sentivo nulla. I miei capogiri erano cessati. Era come se qualcuno stesse assorbendo i sentimenti di tutti, e poiché non potevano esserci molte persone a saper fare quelle cose, i miei sospetti ricaddero su Kheltron.
- Ma loro sono quattro! – disse Lyoxc.
- Conteremo sul fatto sorpresa, – disse Kheltron. – E sul fatto che l'altro si spaventerà e scapperà.
- Dividiamoci, – concluse Cuyed.
Tutti e tre si legarono i capelli. Kheltron si sfilò il bracciale e, spostando un gancio, allungò la catena, facendola diventare una collana. L'allacciò al collo.
Cuyed mi ò accanto, smuovendo quell'aria soffocante. – Aileen, – mormorò, – qualunque cosa succeda... resta sotto il tavolo.
Poi sparirono. Letteralmente.
- Spero che sappiano quello che fanno. – bisbigliò Lilian, spaventata. – Guarda.
Indicò l'uomo ferito e il cane. Erano stesi a terra in una pozza di sangue. La mia amica portò una mano sulla bocca e trattenne un conato di vomito.
***
Capitolo 16 I quattro mascherati, intanto, si erano avvicinati. Li potevo ascoltare.
- Non è stato di alcuna utilità, – ringhiò uno.
- Dovremmo prendere degli ostaggi per uscire di qui, – disse un altro.
- Andiamo, – sibilò un terzo. – Uno a testa, meglio le donne.
Astio. Ira. Violenza.
Lilian non riuscì a placare un urlo di terrore, quando lo stesso uomo che ci aveva minacciato, si fermò al nostro tavolo.
- Tu, – tuonò. – Alzati!
L'indice puntava verso la mia amica.
Lei non riuscì a mettersi in piedi, tremava, spaventata.
L'uomo le tirò i capelli. – Alzati!
Lei urlò più forte.
- Muoviti puttana! – sbraitò tirandola. Violenza. Violenza.
A quel punto cedetti completamente. Il piccolo spiraglio di aria che avevo avuto grazie a Kheltron, come avevo supposto, era cessato. Chinai la testa, sconfitta dall'ira di altri. Gli permisi di entrare, di sconvolgermi. Di possedermi.
Ero collerica. Ero violenta. Era odio.
Alzai il viso e fissai il ladro con il mio sguardo posseduto. Gli occhi scuri come un pozzo profondo. Gli infilzai le unghie nel braccio e, quando gridò, la sua rabbia esplose. La accolsi, e la feci fluire dentro di me come burro fuso in un corpo sano.
Prima che potessi fare altro, come lacerare la sua carne a morsi, Lyoxc sbucò alle sue spalle, lo afferrò, e lo scaraventò a terra.
Lilian si accasciò reggendosi sulle braccia.
Ero concentrata a cercare le mie emozioni, quando un lampo di luce fortissima mi abbagliò. Tre rapinatori vennero scaraventati in tre punti differenti della sala. I tre galatriani erano in piedi con tre Pietre luminose al collo.
I ladri, però, dopo pochi attimi erano in piedi, chi con una pistola in mano, chi con un coltello.
Il quarto uomo non fu toccato. Abbandonò la sua vittima e si avvicinò ai complici per dargli manforte.
I galatriani strinsero la Yikira, ma paralizzarono solo tre dei quattro rapinatori. Tre punti luminosi si allargarono nel locale. Tre rapinatori iniziarono a barcollare, a sentirsi così deboli da far cadere le armi dalle mani.
Il quarto uomo, chiaramente spaventato, lasciò i compagni. Si diresse, col
sentore di vendetta, verso il ferito. Poiché io non avevo ripreso il controllo delle mie emozioni, lo seguii con sguardo languido e perverso.
- Dove vai?
Lilian mi bloccò, terrorizzata, ma mi staccai in fretta dalla sua presa, era troppo scossa e debole per fermarmi.
- Aileen...
I galatriani erano concentrati a bloccare i tre rapinatori per occuparsi anche del quarto, che alzò il coltello verso il petto squarciato dell'uomo ferito.
- Fermatevi o lo uccido, – minacciò, vendicativo.
Non fu udito e nessuno si mosse. Ma il cane lo udì. Barcollò, si rialzò e ringhiò. Un ruggito basso e cupo. La lotta di sentimenti fu rabbiosa, furente, cieca. Entambi si scrutrono attenti, con gli occhi rossi di capillari distrutti. Si minacciarono, come facevano i cacciatori prima di squarciare una preda.
Il cane emise un altro rantolo rabbioso, poi aprì le fauci per mostrare i suoi canini appuntiti. Il suo fetore di morte e sangue giunse fino a me. Infine, fece un balzo e gli saltò addosso.
L'uomo si scansò in tempo, arrabbiato. Il suo pantalone, però, fu lacerato, e
alcuni brandelli di stoffa furono tra i denti del cane.
Io ero arrabbiata. Mi mossi lentamente. Cercai di spostare il ferito, e lo dovetti trascinare perché non riusciva ad alzarsi.
Il cane si avventò sul viso del ladro, spaventato, e gli strappò la maschera .
Mi portai una mano sulla bocca, scioccata, convinta che stesse per squarciargli il viso. Fu così che scoprii che il rapinatore era un ragazzino... un piccolo moccioso alto due metri.
Le fauci del cane si spalancarono ancora. Il ragazzo impazzì. Recuperò il coltello, e in un attimo lo infilzò nella carne del cane.
L'animale emise un latrato di dolore e si accasciò a terra.
Il ragazzo, cieco di rabbia , cercò di colpirlo ancora.
Le sue emozioni fluirono dentro di me, uccidendo ogni briciolo di lucidità.
- NO! – urlai e mi gettai addosso.
Kheltron si ridestò e si voltò verso di noi.
- Aileen fermati!
Ma per me era tardi. Ero dentro i sentimenti di altri. In un luogo lontano, in cui io e le mie emozioni non esistevamo più.
Lilian comparve alle spalle del ragazzo-rapinatore. Era moribonda, ma determinata. Si aggrappò alla schiena e gli saltò sopra. Fummo io e Lilian contro di lui.
Fu la determinazione di Lilian a tenermi in piedi, la rabbia del rapinatore. Cercai di sfilare il coltello dalle mani del bamboccio, ma era forte. Mi graffiò il viso e mi scaraventò via con un calcio, mandandomi a sbattere contro lo spigolo di un tavolo. Poi, strinse le braccia di Lilian e la gettò davanti a lui, facendole scricchiolare le ossa.
Lilian, distrutta sul pavimento, rantolava parole senza senso. Chiuse gli occhi e non la sentii più. In quell'istante persi la speranza.
***
Capitolo 17 Fu questione di attimi.
Kheltron, con un'ultima sferzata d'energia brillante, mandò a terra l'uomo con la maschera, che non si alzò più.
Lyoxc e Cuyed sembravano più lenti, o semplicemente più titibanti, di assorbire in modo così violento l’energia vitale dei due rapinatori. Lanciarono un’occhiata a Kheltron, il più sicuro dei tre, il più anziano, che gli fece un cenno con il capo per indurli ad agire velocemente.
Mentre i due galatriani annuirono, facendo crollare all’istante i ladri, la Yikira di Kheltron splendette, gettandosi sul ragazzino.
Il corpo sobbalzò. Sbattè la testa contro il muro. Si accasciò sul pavimento.
Dopodiché, ll corpo solido di Kheltron si avvicinò a me, coprendomi la visuale di ogni cosa. La sua mano calda si posò rapidamente sulla mia pelle livida e graffiata. Quel contatto mi fece rabbrividire.
- Aileen...
ò le sue dita su ogni mia ferita. La sua Pietra si illuminava intensamente mentre mi guariva. Il sangue tornava a circolare normalmente, il dolore diminuiva. La mia mente tornava lucida. Riuscii ad alzare il busto dal pavimento freddo aiutandomi con le mani. Kheltron era davvero bravo.
- Lilian? – chiesi.
- Se ne sta occupando Lyoxc.
- E Cuyed?
ò il dito sulla guancia scalfita da un graffio. – Sta facendo addormentare gli altri. È l’unica soluzione che abbiamo.
- Gli addormenta?
- Meglio non fargli ricordare troppe cose, – disse stringendo la Pietra al collo – Meno ricordano, meglio è per tutti.
Capii. Non volevano che i terrestri avessero un ricordo troppo vivido di loro e della Pietra che risplendeva.
- Non sento più niente. Perché non sento gli altri? Il cane! Il ferito! – esclamai d'un tratto udendo dei latrati strazianti, ma non le loro emozioni.
- Aileen, il ferito sta abbastanza bene, ma non possiamo fare niente per il cane.
- No! – tuonai cercando di alzarmi in piedi – Voi potete. Dovete!
- Aileen! – sbottò Kheltron riportando il mio sedere sul pavimento. – Vuoi farmi
la cortesia di stare ferma? Sto cercando di guarirti.
Gli afferrai il braccio e lo strinsi con la forza che avevo. – Kheltron, – gracchiai. – Per favore!
- Quelle ferite sono troppo profonde.
Guardai il cane rattristata. – Lo so che è un'animale! Ma è la sua vita!
- La sua vita vale quanto la tua?
Sì. Per me era così. Annuii. Mi strinsi forte nella sua cappa nera. Scura come la vita di quel cane. Dopo la morte non c'era più niente, ne ero convinta. Cos'era, in fondo, la morte paragonata alla sofferenza?
Lyoxc mise una mano sulla spalla di Kheltron. – Possiamo provarci in tre.
- Davvero? – chiesi rianimata di speranza. Mi staccai dalla mantella.
- Chiama l'ambulanza, – sussurrò Kheltron mettendomi tra le mani un cellulare. – Spiegagli la situazione.
- Sarà già fuori.
- Chiamala lo stesso, – tagliò corto. Mi lasciò sola mentre si avviò verso il cane.
Composi il numero dell'ambulanza.
- Due feriti. Un uomo e un cane. Il cane sembra grave. L'uomo sembra star meglio. Ferite da coltello. Gli altri sono sotto shock. Io?
Riagganciai. Di me non dovevano sapere nulla, era meglio.
- Lilian ha il braccio rotto, – disse Cuyed. – Il gomito. Ora siamo stanchi, dopo proviamo a guarirlo.
- Dovete guarirlo!
- Certo Aileen.
Posai le mani sul pavimento gelido, macchiato di sangue, e mi trascinai vicino al grosso labrador. Il suo respiro era irregolare, ma le ferite erano tutte richiuse. Presi tra le dita la targhetta appesa al collo. “Lara”, si chiamava. Accarezzai il suo muso peloso. Lei mi ringraziò dandomi un colpetto affettuoso con il naso.
- Ora dobbiamo andare, – disse Cuyed toccandomi la mano. – Quando entreranno i poliziotti, ci saranno tante domande. Non abbiamo nessun racconto
che possa giustificare lo svenimento dei quattro rapinatori, soprattutto perché non hanno nemmeno un graffio.
- Tranne quello lì, – aggiunse Kheltron guardando il ragazzino.
Mi alzai, aiutata da Lyoxc, e mi diressi verso Lilian, per scoprire come si sentiva. Lei non disse una parola. Non la sentii.
I galatriani ci spinsero averso la porta, sul retro del locale. Zigzagammo tra le persone addormentate.
Cuyed chiese il permesso di poter guidare. Lilian annuì e distrattamente gli ò le chiavi. Mi sedetti velocemente udendo le sirene dell'ambulanza provenire da lontano.
***
Capitolo 18 Arrivammo a casa in pochi minuti, almeno così mi sembrò. I galatriani avevano recuperato la borsa e controllai bene che ci fosse tutto. Lo Smartphone era integro, indicava tre chiamate perse di Colin.
Durante il tragitto i galatriani parlottarono tra di loro, ma io non seppi mai di cosa. La loro lingua era un insieme di suoni a me sconosciuti.
Cuyed tenne come sottofondo una leggiadra musica classica. E mentre io fissavo la neve con la faccia fuori dal finestrino, Lilian, schiacciata da un lato da Lyoxc e dall’altro da Kheltron, fissava la strada con occhi spenti.
Quando Cuyed iniziò le manovre del parcheggio, io ricacciai la testa dentro la vettura.
- Che si fa? – chiesi.
Non volevo lasciare Lilian in quello stato. Non poteva tornare a casa da sola, qualcuno doveva accompagnarla.
Aprii la portiera. Provai a far leva sulla gamba per capire se avrebbe retto, ma uscii barcollando. Cuyed mi afferrò prima che andassi a sbattere contro un'altra automobile posteggiata, trattenendomi per il cappotto. Mi girava la testa, avevo l'impressione di aver fatto giravolte per tutta la sera. Mi dondolai sul piede, cercando di recuperare l'uso dell'altra gamba.
Lilian era sostenuta da Lyoxc.
- Hai un altro letto per farla dormire da te? Una brandina? – domandò Kheltron con lo sguardo rivolto al mio terrazzo.
- No. Hai girato abbastanza casa mia da saperlo.
- Sto io con Lilian questa notte, – rispose Lyoxc.
Fui debole per rispondere subito, ma lo guardai in maniera abbastanza torva.
- Allora che facciamo? – chiese Cuyed. – Decidiamo in fretta.
- Lei dividerà il letto con me, – dissi debolmente.
I galatriani soppesarono le mie parole. Nessuna idea era ottima, ognuno di noi aveva bisogno di un po' di spazio, quindi l'opzione di Lyoxc era la più considerata, tuttavia era quella che più mi preoccupava.
- Tutte bene ragazze? – chiese un uomo sbucando dall'angolo della strada. Due cani di piccola taglia lo seguivano.
Sospirai guardandolo. Evidentemente si era preoccupato nel vedere due fragili donne tra le braccia di tre maschi. Avrei voluto saperlo, ma non potevo, dato che non sentivo nessuno.
- Tutto bene, – risposi nel modo più convincente possibile. Fu davvero difficile mentire, considerato che non stavo affatto bene.
L'uomo annuì, ma continuò a gironzolare in quella zona lanciandoci occhiate furtive.
- Va bene, – disse Kheltron. – Dormirà con te.
Vidi il suo braccialetto e la Pietra brillante. La sua Yikira era tornata a posto.
- Resterò io con loro, – dichiarò Cuyed. – Sono il più indicato per stare con Aileen.
- Non se ne parla. I Custodi siamo io e Lyoxc. Resteremo noi.
Kheltron mi tolse la borsa dalle mani e afferrò le chiavi. Aprì il portone e in un baleno fummo nell'ascensore. In casa.
Cuyed mi appoggiò sul divano. Lilian fu portata in bagno.
Quando vidi Lyoxc entrare insieme a lei, iniziai a brontolare, ma un attimo dopo la porta si richiuse con lui fuori.
- Aileen, – apostrofò Cuyed, – come ti è saltato in mente di gettarti addosso a quel farabutto?
Mi lanciò un'occhiataccia non proprio felice.
- È colpa sua, – dissi sdraiandomi sul divano e prendendo delle profonde boccate d'aria. – Mi ha fatto innervosire. Era così violento.
Lui inarcò le sopracciglia. – Non è una buona idea lasciarsi influenzare.
Lo scacciai con la mano quando cercò di avvicinarsi per guardarmi negli occhi.
- Vuoi dire che dovevo rimanere immobile mentre strattonava Lilian?
- Non ti accuso, ma un'azione del genere può portare a gravi conseguenze.
Non capii perché cercasse di far are un'azione piuttosto coraggiosa, come il più imbarazzante dei comportamenti. Che male poteva esserci a farsi influenzare dalle emozioni degli altri se fatto a fin di bene?
- Non è successo niente, – sbottai.
- Avresti dovuto chiedere il nostro o.
Gli gettai un'occhiata. – Eravate alquanto occupati.
- Basta! – si intromise Lyoxc. – L'importante è che stia bene.
Lo scricchiolio della porta del bagno che si apriva pose fine a ogni discussione.
In sala comparve una Lilian sconvolta, con il braccio ancora penzolante, che si dirigeva verso di noi a i incerti. Aveva la chioma arruffata, le forcine appese malamente. I capelli castano chiaro gli ricadevano davanti, dandole un aspetto inquietante.
- Io dormo, – annunciò. Alzò il braccio sano salutandoci, si diresse, poi, in camera mia.
- Lyoxc? La puoi guarire ora, per favore? – chiesi.
- Sì. Ho raccolto un po' di energia fuori.
Lo seguii con lo sguardo per un attimo, poi alzai gli occhi sul soffitto. Anch'io
ero stanca, e non solo fisicamente. Così spossata che mi sembrava di scorgere dei piccoli puntini sulla parete bianca. Essi scomparirono quando intervenne Cuyed.
- Io vado Aileen – disse.
- Ciao.
- Sì, – fece Kheltron. – Buonanotte.
Cuyed non proferì altra parola, ma il suo sguardo eloquente fu sufficiente per capire che era arrabbiato. La porta di casa si chiuse con un tonfo e io potei tornare a guardare il soffitto. Alzai il braccio e contai quei puntini fissi in alto, quel pallido riflesso della mia mente. Mi sentivo ubriaca, pur non avendo toccato un goccio di superalcolico.
La faccia di Kheltron si intromise così bruscamente che mi fece sobbalzare. Mi guardava con aria circospetta.
- Via, via. Ho da fare, – dichiarai.
- Ti dovresti alzare dal divano e andare a riposare.
***
Capitolo 19 Quando mi svegliai era ancora buio. Il motivo per cui mi ero svegliata era semplice: ero caduta dal letto. Mi grattai la testa chiedendomi come avessi fatto a finire a terra, non mi era mai successo prima. Lanciai uno sguardo al letto e scoprii che il motivo si chiamava Lilian. Aveva allargato le braccia sane e mi aveva spinta sul pavimento. Era inquieta, come se stesse facendo sogni pochi piacevoli.
I pensieri di quello che era accaduto tornarono prepotentemente nella mia mente. La paura, il panico, il sangue. Presi la testa tra le mani. Anche quell'evento mi avrebbe segnata per sempre?
Decisi di sfilarmi gli stivali, il cardigan lungo, e andare a prendermi un bicchiere d'acqua. Barcollando per il corridoio finii, per poggiare la mano sulla crepa fatta dal corpo di Cuyed la sera che lo avevo conosciuto. Il bellissimo muro da poco dipinto, rovinato.
Sospirai rassegnata.
Il salotto era illuminato e poiché non ricordavo di aver lasciato quella stanza, ipotizzai di aver dimenticato la luce accesa.
Rimasi sconvolta quando vidi Kheltron disteso sul mio divano. Parte delle gambe penzolavano nell'aria.
Non gli avevo detto nulla, quando, durante il giorno, piombava nell'appartamento e si sistemava come fosse casa sua, ma la notte doveva stare fuori.
Bevvi un bicchiere d'acqua, poi mi diressi a i decisi verso di lui.
Ero irremovibile. Se ne doveva andare.
Sembrava dormire come un bambino. Un ciuffo di capelli scuri si era appiccicato alla faccia e teneva le braccia incrociate al petto. Aveva un'espressione serena e il respiro regolare.
Lo punzecchiai con il dito.
Lo punzecchiai di nuovo.
Punzecchiai ancora. Non emise nemmeno un rantolo.
Continuai a punzecchiarlo senza ottenere alcun risultato.
Avrei dovuto scuoterlo.
I suoi occhi si spalancarono all'improvviso.
Io non mi svegliavo così velocemente, di conseguenza mi spaventai. Indietreggiai, finché la mia schiena batté contro la sedia e, perdendo l'equilibrio, mi aggrappai ad essa.
- La finisci? – sbottò.
- Te ne vai da casa mia? – biascicai.
Lui si sedette cercando di trattenere le risate. – Perché non te ne torni a dormire invece di svegliarmi?
- Perché, – gesticolai con le mani in modo scomposto, non volendo confessargli che ero caduta dal letto. – Non posso! Tu tornatene a casa tua invece di invadere i miei spazi!
Mi guardò distrattamente, aggiustandosi la maglia della tuta verde. – Hai dimenticato la parte in cui dicevo che restavo qui?
- Non l'hai detto!
In verità, quella parte la ricordavo abbastanza chiaramente. Ma pensavo che restava fuori dal mio appartamento: la mia privacy, la mia intimità, eccetera.
- Te la ricordi eccome!
Tirò i suoi capelli, e con un gesto più disinvolto se li legò. Si alzò lentamente e mi fissò, iniziando a spostarsi in linea orizzontale per raggiungermi. Era chiaro che stava analizzando la situazione e prendendo tempo. Fece qualche o avanti e mi prese per mano. Il tocco fu rude e deciso. I calli del suo palmo era ruvidi, ed ebbi l'impressione che mi stessero grattando la pelle.
L'attesa mi sembrò lunghissima mentre lo guardavo indugiare sulla nostra stretta. Il groppo d'ansia che si bloccò lungo la mia gola, svanì quando Kheltron si mosse. Una semplice spinta mi fece capitolare contro di lui. Il mio cuore prese a martellare molto in fretta, facendomi svegliare del tutto, come dopo una secchiata di acqua gelata. Kheltron mi strattonò, e senza ulteriore indugio, iniziò a trascinarmi. Il suo o veloce e pretenzioso ci condusse verso la mia camera da letto.
- Lasciami! Che fai?
Lui continuò a camminare fino a quando raggiungenmmo la porta socchiusa. Con il braccio libero la spalancò, mostrando Lilian, distesa, in tutto il suo splendore. Lei si era impossessata di tutto il letto. Un letto poco importante, e decisamente piccolo per due persone.
- Ah, – disse lui, guardando nella stanza. – Ora capisco.
- Beh, – dissi infuriata, ma sottovoce, – ti spiace andartene ora? Così dormo sul divano.
Lui si limitò ad alzare le spalle, e trascinarmi nuovamente in salotto. Mi lasciò andare dopo aver lanciato un'occhiataccia nella mia direzione.
Così, con più di una ragione a mio favore, mi infervorai. Senza alcun indugio gli tirai un ceffone.
Il suono echeggiò in tutto il salotto.
Non era un comportamento da signora, ma non mi importava, in quel momento nulla aveva uno scopo preciso. Non mi era capitato di stare con qualcuno, provare una rabbia folle, ma essere sicura che fosse la mia. Sapevo di potermi controllare, eppure non volevo. Era una situazione strana.
Un paio di volte avevo tirato un pugno a mio fratello Bob, perché aveva tentato di propinarmi melma verde per ato di verdure: voleva conoscere gli effetti collaterali delle piante morte. Anche quello era stato un caso eccezionale.
Un pugno ben assestato nello stomaco.
Un pugno sul torace. Uno sulla spalla.
Lui mi fissava senza batter ciglio, e senza scansare nemmeno un colpo. – Hai finito? Se devi sfogarti posso prestarti un punch-ball.
- Non ho alcun bisogno di sfogarmi!
Gli tirai un pugno sul naso.
- Ahi!
- Meglio così, – dissi io incerta. Ritirai la mano sommersa immediatamente dai sensi di colpa.
Kheltron mi lanciò un'occhiatina sfuggente. – Non mi picchi più?
- Ne vuoi ancora? – chiesi dubbiosa.
Lui si sfiorò il naso. – Ahi! Ahi! Ora capisco perché ti sei avventata su quel ragazzino del locale! Sei una violenta!
- No, – farfugliai stringendo la mano sul petto.
Kheltron inclinò il viso per incontrare i miei occhi. – Guarda, – disse colpendosi il naso. – Non mi hai fatto niente. Però non si picchia la gente.
- Tu non mi devi trascinare come un sacco di patate!
Alzai lo sguardo e tolsi la sua faccia dalla mia vista.
- Sei ancora in casa mia! – lo additai.
- E tu sei ancora sveglia! – incrociò le braccia.
Ci guardammo in cagnesco per qualche secondo, poi lui si abbandonò sul divano grande.
- Vieni qui, – fece cenno.
- Perché?
Lui sbuffò. – Perché devi rendere tutto così difficile?
Mi avvicinai senza fare altre storie. Mi sarebbe piaciuto scoprire come si sarebbe sentito se io mi fossi comportata così a casa sua, sempre che ne avesse una.
- Siediti, – mi disse.
Lo accontentai restando in silenzio.
Mi agguantò e mi tirò verso di lui.
- Ehi!
- E non brontolare sempre!
Mi sdraiò sul suo busto, poi mi spostò di lato.
Mi rannicchiai contro il divano, in silenzio. Offesa e piccata.
Un braccio si incastrò tra il peso del mio corpo e il suo, l'altro era schiacciato contro lo schienale. Non osai muoverlo per paura di urtare parti che non volevo toccare.
Kheltron mi guardò.
Le sue braccia mi circondarono.
Mi abbracciò.
Doveva essere impazzito, perché giusto poco prima lo avevo picchiato per una
cosa molto più banale di un abbraccio. Il pensiero di tirargli un calcio si affacciò subito nella testa, ma abbandonai presto l'idea, rapita dalla luce. Lui era così vicino che potei vedere la Pietra brillare più intesamente.
- Kheltron... che fai?
Sentii le forze abbandonarmi. Affetto. Accanto a me apparve una graziosa scia colorata, era arancione. Mi sistemai lasciando ogni preoccupazione ed imbarazzo, posai il viso nell'incavo del suo collo.
- Aileen...
Mi tolse una ciocca di capelli dal viso. Mi piacque. Lo strinsi. Il calore del suo corpo era confortevole mentre scivolavo nel sonno.
La sua mano accarezzò il mio braccio nudo.
- Aileen, – disse scuotendomi un poco, quel tanto che bastava per farmi riaprire gli occhi.
Mi guardava.
- Sono stato io, – disse.
Di che parlava? Cosa diceva?
Avevo così sonno…
Un attimo dopo ronfavo pacificamente.
***
Capitolo 20 Le urla distrussero il silenzio.
- Io so cosa ho visto!
Collera. Sdegno.
Mi alzai di scatto, spaventata e, quando udii la voce stridula di Lilian, mi allarmai ancora di più. Cercai un arnese, magari una delle bottiglie di vetro sotto il letto, ma mi accorsi di essere sul divano.
Perché ero sul divano? Perché non ero nel mio letto? Perché avevo l’abito della sera prima?
Provai a fare mente locale, e quando il ricordo mi assalì, avvampai.
- Non fatemi are per stupida! – sbraitò lei, con rabbia.
Ero senza armi letali, ma afferrai un cuscino. Almeno avrebbe distratto i mal capitati.
La mia amica urlava contro qualcuno.
Gettai i piedi oltre il divano e mi alzai. In salotto non c'era nessuno, le voci provenivano dal corridoio. Affacciandomi lentamente dalla porta vidi Cuyed e Kheltron, accanto a loro, una furiosa Lilian che gridava.
Frustrazione.
- Eccoti qua!– urlò lei indicandomi. – Tu hai visto cosa è successo ieri sera?
Io mi portai una mano sulla testa, valutando le possibili vie di uscita. Che mi sarei inventata? Cosa le avrei spiegato?
- Non mi venire a dire che loro sono tuoi cugini! – sbraitò, collerica. – Stamattina eri avvinghiata a questo qui! – indicò Kheltron.
Cuyed mi fissò.
Distolsi lo sguardo
Kheltron si difese. – Lilian hai bevuto troppo ieri sera!
- Io so cosa ho visto! Voi due, – indicò me e Kheltron, – stamattina eravate abbracciati e, voi due, – indicò i galatriani, – ieri sera avete illuminato il locale e quei... quei delinquenti sono svenuti!
Ira. Ira.
In quel momento, Lyoxc sbucò dallo studio. I capelli biondi erano spettinati e svolazzavano in tutte le direzioni. Il viso era impiastricciato dal sonno, ma questo non gli impedì di fare un sorriso raggiante e buffo, illuminando i suoi occhi da lenti a contatto.
- Buongiorno a tutti!
- Tu, – lo additò Lilian. – Chi sei? L'ho visto quello che hai fatto!
Lyoxc si bloccò a metà strada, spalancò gli occhi e balbettò. – Ha scoperto tutto?
Kheltron lo fulminò. Cuyed gli lanciò un'occhiata truce.
Lilian era irritata e pretendeva delle spiegazioni. Naturalmente, ne aveva tutte le ragioni, ma parlargliene avrebbe comportato un cambiamento radicale. Verità significa sconvolgimento e, come se ne erano resi conti i galatriani, ne stavo prendendo coscienza anche io. Lei, però, era la mia migliore amica, e lo era ancora. Non potevo dimenticare le giornate che aveva ato accanto a me, mentre io mi lasciavo schiacciare dalla depressione. Le sue parole dolci, le sue risate, e il suo silenzio comprensivo.
Il cuscino scivolò per terra, feci un respiro profondo.
- Loro non sono miei cugini – annunciai guadagnandomi la sua attenzione. – Loro vengono da un altro Pianeta. Galatriani, si fanno chiamare, e Galatria è il loro Mon…
Kheltron mi tappò la bocca, e per quanto avessi voluto finire il mio discorso, non potei proseguire. Lui esibì tutta la sua forza, e mi accorsi che non era possibile liberarsi dalla sua morsa senza farsi male.
- Ora basta, – dichiarò lui. – Poniamo fine a questa scenetta.
Lilian mi guardò a bocca aperta, con un misto di incredulità. – Mi credi scema?
Io le avevo detto la verità, ma mi sembrava logico che non mi credesse. Quale essere umano sano di mente avrebbe preso quelle notizie per vere?
- Aileen, – disse Cuyed. – Così non funziona.
Io alzai la voce abbastanza da farla udire a tutti i presenti, ma dalle mie labbra uscì un mugolio incomprensibile. Kheltron fece un lungo sospiro. La sua mano si scostò dalla mia bocca e scivolò sotto il braccio, stringendomi con molta fermezza. Lo guardai collerica, poi sbottai.
- Non funziona? Me ne sono accorta! Avrei voluto raccontare qualcosa di più a Lilian, ma uno di voi mi ha bloccata. Cosa dovrei fare? Inventare un'altra bugia? Non mi sembra la soluzione migliore, soprattutto perché non ne ho una abbastanza credibile che possa giustificare quello che fate! Perché non glielo spiegate voi chi siete?!
- Cosa? – domandò Cuyed. – Perché noi?
- Non hai ascoltato? – gli dissi guardandolo arrabbiata. – Voi mi avete messo in questo casino! E voi me ne liberate!
- Ma Aileen...
Li guardai tutti, facendo sfoggio del mio coraggio. – Ci siamo intesi?
Lilian era perplessa.
Non c'era dubbio sul fatto che il mio atto di intraprendenza non era stato gradito. L'unico guaio era che ormai non si poteva più tornare indietro, Lilian avrebbe saputo tutto, e non da me.
Strattonai il braccio. Abbandonai le facce basite dirigendomi in camera. Chiusi la porta alle mie spalle mentre udivo il brusio di voci indispettite.
Il mio letto. I miei vestiti. Le mie bottiglie. La solitudine come unica compagna.
***
Capitolo 21 – Quello che vogliono Tre ore più tardi ero in piedi, nella mia cucina, a ingurgitare cibo come poche mattine facevo. Non avevo riposato, avevo delle profonde occhiaie a segnarmi il volto e avevo fame. Presi tutti i tipi di brioche che avevo e misi a scaldare l'acqua per il tè.
Kheltron e Cuyed mi gironzolarono attorno in silenzio, desiderosi di accostarsi e parlarmi. Li ignorai e mi ingozzai con rabbia e frustrazione. Finii in fretta la colazione. Puntai i piedi a terra e indietreggiai, trascinando la sedia. Il rumore stridulo provocò un cipiglio sul volto di Kheltron. Lo fissai con astio, gettai la tovaglietta sul tavolo e mi alzai. Raccolsi gli oggetti e li ficcai nella lavastoviglie.
Mi spinsi verso il bagno per farmi una doccia, controllando costantemente che non fossi seguita. Avrei voluto metterci più tempo ma, in realtà, la tensione che avevo addosso mi fece correre come un treno, e dopo dieci minuti ero già fuori,
pulita a vestita.
Cuyed si avvicinò con circospezione, fermandosi nell'atrio nel modo più delicato possibile. Le sue labbra si incrinarono sfociando in un piccolo sorriso.
- Aileen...
Lo bloccai sul nascere fissandolo in modo disinteressato. Il solo udire il mio nome aveva gettato una scintilla di rabbia. – Che vuoi?
Lui tergiversò. C'era un evidente proposito di farmi calmare e di non permettermi di attaccarlo. I suoi occhi si addolcirono e si soffermarono sul mio viso. Mi dedicò uno sguardo imbarazzato ed esitante.
- Erixia vorrebbe vederti.
- Anche io vorrei are la giornata con me! Da sola! Dov'è Lilian?
- Non so dove sia. Lyoxc sta parlando con lei. Ci avevi detto di spiegarle ogni cosa...
- Lo so cosa ho detto.
- Le sta raccontando di noi, – si intromise Kheltron. Era appoggiato allo stipite della porta del salotto. Le sue braccia erano incrociate, e il viso strafottente, ad indicare che non era per nulla intimidito dal mio comportamento.
- Per quanto riguarda Erixia... – insistette Cuyed.
Svoltai gli occhi e lo guardai malevolmente, lieta di aver qualche potere di intimidazione almeno su di lui. – Quando ci vedo andare?
- Mi sembra di notare una certa rabbia, e scontentezza, – disse serio Kheltron scostandosi dalla porta. – Non dovresti, Lyoxc sta facendo quello che ci hai chiesto. Nel frattempo, tu, potresti venire da Erixia.
Sbuffai contrariata. Avevo messo una felpa pesante e dei pantaloni usurati. Non erano il vestiario adatto ad un incontro con l’Imperatrice. Inoltre, non ero emotivamente pronta per un'altra visita da lei.
- Vi avverto, – li guardai minacciosamente. – Non mi lascerò bendare questa volta.
Loro annuirono.
Mi cambiai, di nuovo, e presi la Yikira.
I due galatriani mi aspettavano all'ingresso.
- Vai avanti tu, – disse Cuyed. – Noi ti raggiungiamo dopo. Usciamo separati.
Presi il solito piumino, sciarpa e cappello, e mi avviai. Scesi le scale senza incontrare nessuno, ma sapevo che prima o poi sarei dovuta andare a trovare i miei genitori, o li avrei ritrovati dietro la porta di casa.
Fuori faceva molto freddo, mi strinsi nel giubbotto e girai l'angolo. Il vento arrivò all'improvviso, facendomi indietreggiare di un o, dovetti spingere con la forza delle gambe per procedere dritta. Camminai di qualche metro, per poi fermarmi in un minuscolo angolino: tra due automobili.
Rabbia.
- Aileen!
Le parole si persero nel suono del vento, ma riconobbi la voce. Era Colin.
Non sapevo cosa ci fe vicino casa mia, non si era mai voluto avvicinare.
Mi spostai lentamente, piantando saldamente i piedi sulla neve.
- Si può sapere che fine hai fatto? – urlò. – Ti dovevo parlare!
Soddisfazione.
- Colin, – dissi cercando di dare un timbro fermo alla voce, – non è proprio il momento.
- Che dici? Lo decido io quando è il momento, e questo è il momento!
Prepotenza. Collera.
- È il momento? Lo hai deciso perché non ti rispondo al telefono?
Lui mi guardò, adirato, appoggiando la mano sul cofano di un'automobile blu. Ridusse gli occhi a due fessure piccolissime, e mi gettò una serie incalzante di sentimenti spiacevoli.
Costernazione. Accanimento. Avidità.
- Hai idea di quel che sto ando?? E tu te ne vieni fuori con queste stronzate?
- Colin…
Si spostò dalla sua posizione e si mosse velocemente verso di me. Mi spinse violentemente contro la macchina. – Non vuoi più stare con me? Abbi il coraggio di dirmelo in faccia!
Mi strinse le spalle e sbatté la mia schiena come un frullatore, fino a farmi male. Inizialmente, non riuscii a reagire neanche per un attimo. Mi lasciai sballottare in quel modo, mentre il suo odio iniziava a penetrarmi nella mente, e il mia paura svaniva. Avevo capito che presto i suoi sentimenti mi avrebbero catturata. Funzionava più in fretta quando i sentimenti erano forti e determinati. Le sue emozioni potevano eliminare le mie, e così, come la sera precedente, avrei potuto provare una rabbia che non mi apparteneva.
Un attimo dopo mi sentii libera. Kheltron e Cuyed erano davanti a me, stringendo le rispettive Yikire.
Colin si era fermato e si era accasciato ai miei piedi. Era nel panico. Stremato e sbiancato.
- Stai bene? – mi chiese Cuyed.
Io annuii senza togliere gli occhi da Colin.
Kheltron lo alzò per il bavero del cappotto. – Non voglio vederti più! Non la devi cercare in alcun modo! Per te, lei non esiste più. Sono stato sufficientemente chiaro?
Colin annuì e mugugnò una frase incomprensibile. Si alzò tremante, pauroso, e corse via.
Avevo pensato di averne avuto abbastanza di violenza, ma evidentemente non era ancora finita. Mi sentii spaventata e stanca, ma almeno quelle erano le mie emozioni. Quando alzai gli occhi, ebbi tutta l'attenzione dei galatriani, che mi lanciarono occhiate molto preoccupate. Incurvai i bordi delle labbra per fare un sorriso, ma ciò che venne fuori fu solo un'espressione rattristata. Cuyed mi sfiorò la guancia con un dito, lasciando una striscia di calore là dove mi aveva toccata.
- Grazie, – dissi.
***
Capitolo 22 Il posto lo conoscevo. Era una reggia con immenso giardino. “Granville” la chiamavano i paesani. Un tempo era stata la residenza del Primo Cittadino, poi, quando non era stato rieletto l'aveva lasciata. Come ogni luogo abbandonato si era riempito di erbacce, polvere e fango.
Il cartello vendesi era scomparso. Lo sporco anche.
Erano più di cinque anni che non vedevo entrare nessuno lì dentro, per questo la prima volta, nel buio, non l'avevo riconosciuta. Era stata sistemata, ed era diventata di una bellezza sconvolgente.
Cuyed fermò la macchina fuori dal cancello nero.
Erixia mi aspettava in giardino, avvolta in quella sua cappa nera. Il cappuccio era abbassato, mettendo in mostra dei splenditi capelli biondi e scintillanti occhi verdi. Sorrise. Mi venne incontro e mi abbracciò. – Bentornata Aileen!
Io rimasi sbigottita, per l'abbraccio, per la reale inquietudine, il sano interesse che provava per me.
Erixia si sciolse da quel delicato abbraccio, mantenendo il legame emotivo. – Facciamo una eggiata? – chiese, apprensiva. – Vuoi?
Annuii.
Due enormi cani si unirono al nostro giro: un pastore tedesco, e un bulldog americano.
- Vuoi raccontarmi come ti sei sentita ieri? In quel terribile locale? – chiese lei rabbrividendo. Si coprì meglio con la mantella.
- Non ho molto da dire. Se non ci fossero stati i Custodi sarebbe finita peggio. Così, invece, si sono salvati tutti.
Aggiustai il cappello, mi era finito sugli occhi coprendo ogni visuale, lo raddrizzai con la punta delle dita e poi continuai. – Avrei voluto chiedere di
diminuire la loro presenza, ma dopo questo episodio... dubito che possa fare tale richiesta, e dubito che possa essere possibile.
Abbassai lo sguardo sull'erba ricoperta di neve soffice, sommergendomi nel pensiero più cupo della giornata: provavo insicurezza all'idea di dover fare a meno dei miei Custodi, eppure non li sopportavo. Sentimenti contrastanti. Senza di loro non sarei riuscita a liberarmi di Colin. Senza di loro non ci saremmo salvati tutti. Tuttavia, loro toglievano la mia privacy e avevano minacciato la mia amicizia con Lilian.
Erixia si intristì. – Lo so. Gli ho chiesto di starti più vicino per permetterti di conoscerci meglio. In ogni caso hai la facoltà di mandarli fuori casa. – si soffermò a ponderare le parole, – Cuyed, invece, è più difficile da gestire.
Apprensione. Timore.
- Perché?
Lei sospirò. Ansia. Paura. – Vorresti sederti? – disse tentennando. Il suo stato d'animo mi fece preoccupare, mi rese inquieta.
- Va bene, – annuii lentamente.
Ci accomodammo su una panchina rossa, alle spalle della reggia. Battei piedi a terra per scrollare di dosso la neve accumulata sotto gli stivali, mentre i due cani si fermarono e si accucciarono.
- Quando vuoi rientriamo.
Apprensione.
- Per ora va bene, – risposi io.
- Per rispondere alla tua domanda, – disse lei, – devo raccontarti la storia di Galatria e chiederti cosa sai del nostro Pianeta per evitare di ripetere cose che conosci.
Io annuii, ficcando le mani in tasca. – So che il popolo di Galatria ha sempre posseduto l'interazione naturale, ma la Pietra non l’avete sempre avuta, l’avete scoperta più tardi.
- Esatto, – disse Erixia. – La Yikira è una scoperta, eppure è quella che ci ha permesso di svilupparci velocemente. Scorritempo, Cupole, fonte e strumento, soprattutto, occultamento dei sentimenti.
Persi i nomi che disse. Non sapevo cosa fossero. Non sapevo a cosa si riferissero. Mi concentrai su quello che era più determinante. – Perché è così importante per voi nascondere le emozioni? Qui sulla Terra non vi sentirebbe nessuno, a parte me.
- Sentire sempre un altro essere vivente diventa insostenibile. In una società diventa quasi impossibile capire quello che provo. Non sono più un singolo
individuo, divento un agglomerato di persone. Fino ad ora, – continuò lei, – sei vissuta convincendoti che tutto quello che sentivi non fosse reale e, forse, hai vissuto un po' meglio, ma credo che tu sappia di cosa sto parlando.
Sincerità.
- Credo di sì.
Un'interazione naturale con una singola persona poteva essere gestita. Essere ricoperta da emozioni di tante persone faceva impazzire.
- Nascondiamo le emozioni per permettere agli altri, e a noi stessi, la creazione di un'identità. Per vivere serenamente. Non è un caso che il nostro Pianeta non abbia avuto una popolazione prolifera come la vostra.
Preoccupazione.
La guardai perplessa. – Siete pochi?
Tristezza. – Un milione.
Spalancai gli occhi. – Un Pianeta più grande del nostro e solo un milione di abitanti?
- I nostri antenati vivevano isolati per evitare di scontrasi continuamente o di soffocare nelle emozioni degli altri. Solo grazie alla Pietra il numero della popolazione è aumentato.
- Ah, – dissi incoraggiante, – state crescendo.
Sorrise debolmente, di un sorriso che non dava calore. – Non proprio. Solo centomila donne su un milione di persone.
Il suo timore. La sua speranza. Il suo sguardo implorante, come se io fossi la soluzione ai loro problemi.
- Voi avete la Yikira! – dissi. Misi le mani davanti a qualcosa che iniziava a non piacermi – Potete risolvere tutto.
- Non c'è la facciamo Aileen. Le donne sono poche e i conflitti aumentano. Ogni uomo vorrebbe amare una donna e creare una famiglia.
- Beh, state crescendo! É possibile che in poco tempo ogni cosa si sistemi.
Scosse il capo, decisa, facendo scivolare i capelli all'indietro. – Il tuo popolo è la nostra speranza. Dobbiamo integrarci con voi, dobbiamo unirci.
Raggelai, e non fu per il freddo che aveva iniziato a penetrarmi nella ossa. Rimasi pietrificata, immobile come un manichino spoglio in un negozio di lusso.
Gli occhi di Erixia puntati sulle mie nudità.
Integrarsi era una parola che avevo già udito una volta: l'aveva usata Cuyed. I galatriani cercavano di integrarsi, lo desideravano disperatamente. Per trentacinque anni avevano camminato lesti e furtivi per carpire informazioni. E io non avevo avuto il coraggio di chiedergli per quale motivo. Per cosa? Avevano bisogno di unirsi alla gente della Terra. A noi. Dovevano unirsi alle donne per riprodursi.
Mi alzai di scatto: il mio corpo si era risvegliato.
- Aileen! Calmati!
- Calmarmi?
- Aspetta, – sussurrò lei, spaventata.
- Aspettare cosa? È per questo che vi siete avventurati nello Spazio! Avete trovato noi e vi siete accontentati, non importava se non avevamo interazioni naturali!
- Aileen, – disse lei alzandosi e cercando di mantenere la calma. – Non vogliamo farvi del male!
Angoscia. Agitazione.
- Ma certo! E io a cosa vi servo? Cosa sono? Che mi avete fatto?
La paura agghiacciante di essere un'ibrida scivolò giù lungo la schiena. La paura di non essere nata sulla Terra. Di essere nata sulla Terra, ma aver subito qualche mutazione genetica. ò solo qualche secondo, ma fu sufficiente per pensare a qualsiasi mostruosità. Qualcosa di oscuro che la Yikira poteva fare e di cui non ero a conoscenza.
- Non abbiamo fatto nulla su te! Solo salvarti! Non sappiamo perché avevi l'interazione.
Sincerità.
- Cosa volete da me? Perché non mi lasciate in pace e non ve ne andate?
Lei cercò di prendermi per mano, ma io le sfuggii dirigendomi a i veloci verso il cancello. I due cani mi seguirono abbaiando e ruggendo, ma non avevo paura di loro.
- Aileen, – disse implorante Erixia, mentre mi correva dietro. – Tu sei la Tramite!
Mi bloccai, paralizzata, sperando che non stava per dare vita ai miei pensieri. – Cosa sono?
Erixia tremava e ansimava. – Sei la Tramite, Aileen. Noi ti chiamiamo così. Sei la figlia di terrestri più simile a noi che abbiamo conosciuto. Da quanto sei stata salvata sei la nostra più grande gioia. I galatriani ti amano, io ti amo.
- Mi amate?
- Sei colei che ci permetterà di dimostrare ai terrestri che non abbiamo cattive intenzioni. Possiamo unire i popoli!
Dolcezza. Ansia.
Mi girai di scatto, sbattendo con forza i piedi sul prato. Non ci fu alcun rumore.
- Voi... voi siete egoisti! Pensate a salvare il vostro Pianeta e la vostra gente! Non pensate a noi!
Mi girai e ripresi il o decisa ad andarmene.
Cuyed si parò davanti, determinato, spuntando dal nulla. – Non fare così, Aileen. Non siamo cattivi.
Sincerità.
- Non ti ho chiesto aiuto Cuyed, né consigli!
Erixia intervenne, autoritaria. – Il nostro Pianeta ha poche donne, le lotte si fanno più intense. Per placare la tristezza e la rabbia degli uomini è stata imposta una Regola: ad ogni donna viene assegnato un uomo. L'unione dura un anno. Se in quell'anno non si innamorano la donna è libera. Non ha più vincoli e può decidere liberamente con chi stare.
- Non ho capito.... – feci io. Le mie mani tremarono.
- È un meccanismo spiacevole, ma l'unico a dar speranza agli uomini. Il Consiglio ha ritenuto di sceglierne uno anche per te Aileen, – disse guardandomi piena di comprensione. – Il tuo Prescelto è Cuyed.
Le mie ginocchia cedettero. Le insinuazione di Kheltron fecero largo nella mia testa: “potresti innamorarti di un galatriano. Per esempio di Cuyed.”
- È per questo che lui sarebbe difficile da gestire, – aggiunse lei. – Come potrei chiedergli di starti lontano?
- Mi avete scelto un marito... – balbettai.
- Ora capisci quanto sia barbara questa legge? Capisci perché vorrei integrarmi con i terrestri? Non vi è nulla di male nel provare a unire i popoli!
- Mi avete scelto un marito? – urlai.
- Aileen, – sussurrò Cuyed cercando di sostenermi, era spaventato. – Non essere arrabbiata, io starò al mio posto. Non ti sfiorerò nemmeno!
- No!
Spinsi via Cuyed con una forza che non sembrava essere la mia e corsi fuori dal cancello.
Kheltron non mi degnò più di uno sguardo, ma annuendo mi lanciò un mazzo di chiavi. Pendevano dal portachiavi rotondo e blu. – Io avevo votato contro, – disse con onestà. Si spostò di lato cedendomi il o. Un cenno della mano mi indicò l’automobile parcheggiata.
Non me lo feci ripetere due volte. Accesi il motore a partii sgommando.
***
Capitolo 23 – Il rifiuto Fermai l'automobile sul ciglio della strada. Ero sconvolta. Stremata. Sconfitta. Umiliata. Dilaniata.
Asciugai le lacrime con la sciarpa e cercai di calmarmi.
Avevo paura.
La paura era una maledetta sanguisuga. Non mi fece fare quello che andava fatto. Ci girai intorno. Feci un respiro profondo, cercando di convincermi che la cosa migliore era smascherarli al Mondo intero. Mi ero quasi convinta, ma poi fallii.
Mollai tutto anche se ero pronta.
Il momento era arrivato. Era il giorno, l'ora, il secondo in cui abbandonavo tutto. Era l'attimo in cui decisi che bisognava scappare.
Pensai a un luogo in cui rifugiarmi. Le mete più appetibili erano le grandi città, sarebbe stato più difficile rintracciarmi. Sarei stata lì qualche giorno e poi avrei preso l'aereo. Lontano. Non sarebbero riusciti a ritrovarmi facilmente.
Presi la borsa e controllai i documenti. aporto, patente, bancomat, carta di credito e qualche spicciolo. A tal proposito presi il cellulare e lo gettai dal finestrino.
Mi diressi verso Toronto a velocità sostenuta, per quanto la strada innevata me lo permettesse. In poco più di un'ora raggiunsi la destinazione. Abbandonai l'autovettura nei pressi di Kennedy Park, poi cercai un trasporto pubblico. Ero
stata in quella città altre volte, ma erano due anni che non vi mettevo piede e per questo orientarsi fu un po' difficoltoso. Optai per un Hotel vicino Financial District, prenotai la camera e mi diressi velocemente all'aeroporto.
- Buongiorno, – dissi alla signorina che mi stava di fronte. – Il primo volo disponibile per domani mattina.
- Per dove? – chiese educatamente.
- Europa, – risposi io distrattamente. Mi guardai attorno per controllare che non fossi pedinata. – Un paese vale l'altro.
Lei non disse nulla, ma mi guardò un po' allibita. Perplessa. – Abbiamo un volo diretto per la Polonia alle cinque del mattino. Oppure per l'Italia, ma con scalo.
- Va bene, – dissi io. – Quello per l'Italia.
Avevo sempre desiderato vederla, tanto valeva cogliere l'occasione e approfittarne. Inoltre, sarei stata ancora più lontana.
- Le prenoto il volo? – chiese la hostess cortesemente. Pacatezza.
- Sì, – affermai. – Subito. Lo prendo ora.
Lei si mise a smanettare con il computer. I suoi capelli rosso tinto facevano contrasto con l'abito blu. – Sono ottocentotrentaquattro dollari.
Sfilai la carta dal portafoglio e la poggiai sul bancone. La hostess iniziò a trafficare con il bancomat e con la stampante. Poco dopo mi ritrovai fuori dall'aeroporto con un biglietto di sola andata per Roma.
Entrai in un negozio economico per acquistare un po' di vestiti. Feci tutto così velocemente che alle tre del pomeriggio fui nella camera d'albergo con un panino in mano. Accesi la televisione e cercai di seguire un telefilm poliziesco con scarso successo. La mia testa era invasa di pensieri cupi e altalenanti.
I galatriani erano riusciti a trovare un Pianeta carico di esseri umani: la Terra, e intendevano usarlo per proliferare. Ma lo avevano già invaso, stavano aspettano il momento più opportuno per attaccarlo. Dopo tanti anni avevano sicuramente raccolto una quantità infinita di informazioni per rendere inoffensivi ogni nostra arma. Per farci cadere nella loro prigionia. Cavie per riproduzione di massa. Allevamento intensivo.
Quale che fosse il loro piano d'azione, di sicuro, noi non ne avremmo giovato. Non sarebbe stata una buona unione. Prima di tutto, eravamo diversi; secondo, non si sapeva che cosa ne sarebbe venuto fuori. Figli di terrestri e galatriani. Chi di loro avrebbe posseduto un'interazione naturale? Chi di loro sarebbe rimasto “normale”? Ci saremmo divisi in “gente semplice” e “supereroi”? Schiavi e regnanti?
Mi alzai dal letto e mi affacciai alla finestra per guardare Toronto. Avevo un promesso sposo là fuori, che non avrei voluto nemmeno se fosse stato canadese. Avevo galatriani che mi stavano cercando per adempiere ai miei compiti: sposarmi, figliare e assicurare alla mia gente che erano innocui.
No. Non avrei fatto nulla del genere. E non avrei accettato Cuyed.
La neve ricominciò a cadere fitta sui tetti delle case.
La Tramite mi aveva chiamata Erixia, la sfigata avrei detto io. Negli ultimi due anni non me ne era andata bene una.
***
Capitolo 24 Mi svegliai nel cuore della notte. Raccolsi le due cose che avevo e lasciai la camera.
- Mi potrebbe chiamare un taxi? – chiesi gentilmente al portiere. – Lo aspetto qua fuori.
Prelevai un po' di contanti dallo sportello e attesi l'arrivo del taxi sotto il portico dell'albergo.
- All'aeroporto internazionale, per favore, – dissi dopo essermi infilata in macchina.
Il tragitto fu breve. Pagai e entrai nell'aeroporto. Fui felice di non dover imbarcare i bagagli, la fila era piuttosto lunga. Mi diressi spedita ai controlli, poi al gate.
- Mi scusi, – disse un signore che mi schiacciò il piede con il trolley. Disinteresse.
Mi voltai di scatto temendo che fosse un galatriano, ma non avvertii in quell'uomo nulla di sospetto. Era brizzolato e sistemato a puntino, con giacca e cravatta. Più che un volo di piacere sembrava stesse andando ad un incontro di lavoro molto importante. Lo feci are avanti e vidi che si accomodò in business class. Io avevo un posto economy.
Ero una turista che andava a visitare l'Italia. Non mi ero posta il problema della lingua. Ero una di quelle studiose che era riuscita a imparare persino l'italiano, il greco e il latino.
Mi accomodai sul sedile del corridoio, odiavo stare vicino al finestrino.
Strinsi la Yikira nella tasca del giubbotto. L'avevo messa lì il giorno precedente, prima di andare da Erixia. Inizialmente avevo pensato di gettarla insieme alle altre cose, poi avevo cambiato idea. Mi sarebbe tornata utile per nascondere le mie emozioni e, quindi, la mia presenza ai galatriani. Non ero pratica, ma ero sicura che sarebbe stato meglio di niente.
L'aereo decollò in perfetto orario.
***
Capitolo 25 Arrivai all'aeroporto di Roma la mattina del giorno dopo. Tra il fuso orario, le sedici ore di volo, e le altre ore di attesa a Varsavia, ebbi solo la forza di uscire dall'aeroporto e scegliere l'albergo più vicino. ai il resto di quel lunedì a dormire.
Il giorno dopo mi svegliai di buon'umore, lontano dai galatriani, scioccamente convinta che lì non sarebbero arrivati, e che non ci avrebbero usato.
La temperatura in quella città era decisamente mite. Il termometro di una farmacia segnava cinque gradi. Eppure molta gente era coperta con gli stessi piumini che usavo io a temperature più rigide.
Il clima natalizio si sentiva molto. Le luci colorate brillavano nelle strade e illuminavano le piazze. Nelle vetrine dei negozi si raccoglievano pacchetti e alberi decorati.
Dedicai la mia prima giornata a visitare la città. Trovai la famosa fontana di trevi, il Colosseo, Piazza di Spagna e Piazza S. Pietro. Ogni tanto lanciavo qualche occhiata furtiva attorno a me per vedere se ero seguita, ma tutto mi sembrava tornato alla normalità. I miei spazi. Le mie cose.
Il giorno seguente, invece, lo trascorsi a cercare lavoro. Spesso non riuscivo a spiegarmi bene e dovevo ricorrere all'uso dell'inglese.
Insieme al lavoro trovai anche una camera singola in affitto. Il proprietario del pub in cui sarei andata a lavorare aveva anche diversi appartamenti.
Mi trasferii il giorno stesso. Avrei diviso la casa con due studentesse universitarie. La mia camera singola era arredata con un letto, un armadio e una semplice scrivania. Una finestra dava sul cortile. Era tutto spoglio e triste, ma era sempre meglio di quello che mi aspettava a casa mia.
Trascorsi dieci giorni tranquilli e pacati. La vigilia di Natale trovai il coraggio di entrare in un internet point per chiamare i miei genitori. Loro cercarono invano di ricavare più informazioni, ma a quel punto io riattaccai. Avevo troppa paura di essere rintracciata.
Il ristorante-pub in cui lavoravo si riempiva a mezzogiorno per il pranzo e alla sera per l'aperitivo. La gente entrava e usciva, e le emozioni che si trascinavano dietro mi provocavano sempre dei gran mal di testa. Così, avevo deciso di dedicare alcuni momenti della giornata alla concentrazione. La Yikira era l'unica cosa di cui non mi ero sbarazzata, poteva tornarmi utile per nascondere le mie emozioni ai galatriani. E con esse anche le mie tracce. Non potevo essere sicura di fare progressi, tuttavia, ogni volta che mi concentravo mi sembrava sempre più facile allacciare un collegamento. Brividi lungo la schiena mi avvertivano che il contatto era avvenuto, poi le emozioni fluivano da sole. La Pietra cominciava a scaldarsi, a brillare intensamente. In poco tempo i miei mal di testa sparivano.
Quando mi stancavo, lasciavo perdere.
- Ciao, – dissi a sca. Era intenta a far colazione.
Allegria.
- Ciao, – disse lei. – Che programmi per domani?
Presi dei biscotti dalla credenza e li mangiucchiai velocemente. – Non ne ho nessuno. Il ristorante è aperto, quindi lavorerò.
- Ma è l'ultimo dell'anno! – esclamò lei lanciando il cucchiaio pieno di cereali sulla tovaglia.
Disappunto.
- Infatti. Si lavora di più.
- Cavolo, – disse, rattristata. – Io e Chiara non ci saremo, stasera partiamo per Lecco, eremo alcuni giorni da amici.
Annuii, lasciando la cucina e ignorando quel velo di tristezza che avevo sentito. Mi infilai il giubbotto e uscii in strada.
Avevo trascorso il giorno di Natale da sola, le ragazze erano andate dai genitori, e avrei ato il capodanno da sola.
I rintocchi delle campane indicarono mezzogiorno: l'ora esatta in cui ero nata venticinque anni prima.
La giornata al locale fu abbastanza scarica, la maggior parte delle persone erano in vacanza e il pranzo era stato tranquillo. La sera, invece, si era riempito di coppie e giovani in cerca di qualcosa da bere.
- Cosa vi porto? – chiesi a un tavolo di tre ragazzi stranieri.
- Tre birre, – risposero loro in inglese. Allegria. Spensieratezza.
Io segnai sul foglietto e andai al bancone con la richiesta.
Purtroppo, lavorare lì aveva anche un’altra controindicazione: mi faceva pensare all'ultima, terribile, serata che avevo trascorso con Lilian. Era stata anche l'ultima volta che l'avevo vista. Non sapevo come si erano messe le cose per lei, né cosa aveva scoperto, né a cosa credeva. Una cosa era certa: mi mancava.
Lasciai il locale alle due del mattino.
***
Capitolo 26 Affrettai il o per raggiungere casa. Camminavo per una via stretta e poco illuminata. Il vento sbatteva le tende dei palazzi, provocando dei rumori insoliti. Mi voltai presa dal panico, ma ero sola.
Le mie cose. La mia vita.
In quello stesso istante, da un lampione giallo, a una ventina di i di distanza, una mantella nera sventolò.
In un attimo fui travolta da un sentimento sconvolgente. Il terrore.
Non ero sola, e di certo di non mi aspettavo compagnia in un luogo così isolato. Qualcuno era appoggiato al muro di quella stradina, accanto al lampione. Non sapevo chi fosse, ma una cosa era certa: non sentivo.
Mi concentrai immediatamente, come se quell’azione avesse potuto salvarmi da quello che sarebbe successo. Immersi la mano nella tasca del giubotto e strinsi la Yikira. Al tatto divenne bollente, iniziando a raccogliere la mia energia emozionale.
- Ciao Aileen, – disse la voce di Kheltron.
Mi girai di scatto e iniziai a correre. Angoscia e terrore. Ecco cosa si impossessò di me. Ed erano loro che mi trascinarono lontano da quel luogo.
Non sapevo dove stavo andando, né quanto lui fosse vicino, ma udivo i i dietro di me. I negozi sfilavano accanto come immagini al rallentatore di una pellicola. Forse andavo troppo piano, ma non ero decisa a fermarmi. Continuavo a correre, a fuggire, allontantandomi il più possibile da quella stradina.
L’aria fredda entrava nel naso e nei polomoni, affaticandomi. Mi faceva respirare male. Mi faceva arrancare.
- Ferma, ferma!
Kheltron mi aveva quasi raggiunta, ma con un’ultimo scatto finale lo distanziai.
Non fu abbastanza, lui recuperò presto terreno, e da essermi al fianco, mi superò. Mi sbarrò il o.
Fui costretta a fermarmi.
- Aileen Grenn, volo per Roma, – disse lui sicuro di sé.
Io avevo il fiatone. Il mio corpo piegato in due, con le mani sulle ginocchia.
- Lasciami andare, – arrancai. Il mio tono era debole, ma determinato. Io ero impaziente. Fremevo per scappare via.
- Vuoi are il tuo compleanno da sola? – chiese abbassando il cappuccio. I suoi occhi blu, al buio, sembravano ancora più scuri.
- Sì.
- No. Parliamo invece.
- Non voglio parlare. Non c'è nulla da dire. Lasciami andare Kheltron, – ribadii.
Lui mi guardò. – Non scappare.
- Non tornerò a casa!
- Non ti sto costringendo a farlo, anche se potrei farlo, – intimò prima di lasciarmi andare. – Voglio solo fare una eggiata con te.
- È tardi. Sono stanca.
Mi alzai, e mi guardai attorno attentamente. Vagliai ogni possibile via di fuga, mentre lui mi bloccava la strada da un solo lato.
- È 31 dicembre! Il tuo compleanno è ato da due ore e tu lo hai ato solo a lavorare. Tieni, – mi lanciò una mantella nera. – Metti questa e andiamo da qualche parte. Che ne dici della fontana di trevi? Ho uno scooter. L'ho noleggiato. È molto comodo e non c'è il rischio che ci vomiti sopra.
Lo guardai terrorizzata. Non volevo andare con lui, ma non avevo trovato nessuno che potesse aiutarmi. La strada era deserta. Non avevo molte possibilità di libertà, tranne una. Dovevo provare a correre più veloce di lui. Il mio corpo era pronto a scattare. Velocità. Salvezza.
Un attimo dopo la mai determinazione sparì. Fui avvolta dal buio. Il tempo si fermò. Non vidi più nulla attorno a me, né la stradina, né Kheltron.
Emozioni estranee e intense blandirono la mia mente. Sincerità. Premura. Dolcezza. Il loro calore si espanse nel corpo, eliminando ogni desiderio di fuga. Il mio corpo si calmò. Si adagiò immobile.
Le sue parole entrarono adagio nella testa e rimbombarono nella cassa toracica.
- Ti fidi? – chiese.
La sua voce mielosa mi tramortì, come se avessi ricevuto una botta in testa. Non ne seguì alcun dolore fisico, solo affetto. Il sentimento si impossessò di me. Divenne parte di me. Mi sentii una tossica e lui era la mia droga.
Quando la luce dei lampioni apparve ai miei occhi, mi accorsi che si era stretto
al mio corpo. Mi guardò affannato, come se anche lui avesse fatto il mio stesso viaggio mentale. Tuttavia, riprese in fretta lucidità. Fece scivolare il braccio sulla mano e mi condusse via.
Io lo seguii come un cagnolino ubbidiente fino alla strada parallela.
Mi allacciò saldamente il casco mi e aiutò a salire sullo scooter.
- Ci sei? – chiese. La sua voce ovattata era più grave di quanto non fosse in realtà.
Un momendo dopo sfrecciammo per le strade della città, lasciandoci dietro semafori e automobilisti incazzati. Lasciandoci dietro anche quell’affetto e quella sincerità che mi aveva rimbambita.
Ci volle qualche secondo perché realizzassi che ci eravamo completamente arrestati e che dovevo scendere. Barcollando, appoggiai i piedi a terra. Mi aveva rintronata come la sera del nostro primo incontro, e non ne ero felice. Non andavo fiera di me stessa, mi ero lasciata di nuovo abbindolare facilmente. Ma non riuscivo a riprendermi del tutto.
Lui si incamminò, prendendomi di nuovo per mano, più per mantenermi in piedi che altro.
Svoltando l'angolo di una delle vie principali di Roma, ci ritrovammo davanti al monumento.
- Bella, no?
- Che mi hai fatto? Mi sento scombussolata.
Mi toccai la testa.
Kheltron mi lanciò un'occhiataccia, ma non proferì parola. Scese i gradini e si sedette sul bordo della fontana. Io rimasi a contemplare quello spettacolo da lontano, dall'alto. Il buio donava un'aria davvero magica al luogo. Le luci nella vasca contribuivano a dare un'atmosfera di festa e gioia. Alcune persone, nonostante l'ora tarda, erano lì a chiacchierare o a scambiarsi baci. L'atmosfera e i sentimenti erano piacevoli. La mia mente iniziava a riprendersi.
Mi sedetti sui gradini mantenendo una certa distanza da Kheltron.
Lui mi guardò e scosse il capo, poi si alzò e mi raggiunse.
- Alla fine non l'hai messa, – disse.
- Cosa?
- La mantella.
Fissai la cappa che tenevo stretta. L’avevo tenuta per tutto il tempo sotto il braccio senza rendermene conto. Quello succedeva quando si perdeva il senso delle proprie emozioni.
Kheltron mi fissò serio. – La conosci la storia di questa fontana?
Tirò fuori una monetina dalla tasca.
Guardai i dieci centesimi. Inarcai un sopracciglio. – Lancia la moneta e esprimi un desiderio?
Lui annuì e mi ò la moneta. – Puoi esprimerlo per il tuo compleanno.
Sospirai. – Quello che vorrei sarebbe impossibile. A meno che...
Soffocai con rabbia un ricordo ato, combattendo con una fitta di dolore fisico altrettanto spiacevole. - A meno che? – chiese.
Scrutai il suo viso, nascosto dai capelli scuri. Un volto che non faceva parte di quel ricordo. Non era il viso che mi aveva distrutta, né gli somigliava.
- Vorrei una macchina del tempo.
Mi lanciò un'occhiatina perplessa. – Non potresti cambiare la nostra ascesa sulla Terra.
- Quella è la seconda cosa che cambierei, – dissi quasi ridendo. Quanto mi sembrava sciocco pensare ai miei problemi in un momento come quello. Eppure non potevo farne a meno.
- Non siamo la tua priorità?
- Sì. Non solo.
- Perché dici così? – disse lanciando uno sguardo indagatore.
Lo guardai malamente. – Come perché? Siete qui per un vostro interesse!
Kheltron aggrottò la fronte. – Vogliamo integrarci. Non verrà fatto con la forza o contro la volontà di qualcuno. Aileen, i galatriani soffrono.
- Anche io. Anche noi. Non abbiamo bisogno di altro dolore.
Lui annuì. – Insieme possiamo risolvere i problemi di tutti.
Bugie. Ancora menzogne. Tutto quello che desideravo era stare da sola. Scappare. Ma Kheltron mi fissò seriamente, come a dichiarare che non me lo avrebbe permesso.
- Così, – dissi, – alle donne galatriane viene imposto un uomo. Ci deve andare a letto?
- No! – fece lui, crucciandosi in un’espressione ancora più seria. – Assolutamente no! Non sono costrette a starci insieme per sempre! E non sono obbligate a vederlo ogni giorno.
- Come se migliorasse la cosa!
- Cuyed è il Prescelto. Non un promesso sposo.
- Non cambia niente. Non è una cosa che accetterò.
- Alla fine puoi scegliere.
Feci un sorriso, finché non scoppiai a ridere. Non avevo nessuna scelta e lo sapevo bene. La situazione, sebbene poco piacevole, mi sembrava surreale.
Lui mi fissò. – Cuyed è stato scelto tra una rosa di canditati, tra i venti e venticinque anni galatriani. Ogni uomo del Consiglio ha votato la persona che riteneva migliore.
Buttai fuori il fiato in un'ultima risata isterica, dandomi qualche colpetto al petto. – Fate in questo modo gli accoppiamenti?
Lui mi fissò nuovamente. Sembrava innervosito. – Non è un accoppiamento! Per te si è fatta una votazione speciale. Di solito non si fa così, si fa un sorteggio casuale tra i candidati della propria età.
- Fate una lotteria il cui premio è una donna?
- Come faresti tu, Aileen? Cosa proporresti per calmare gli animi di uomini che sanno di avere una possibilità infinitesimale di avere una donna?
Gettai un'occhiata alla fontana, ridacchiando nervosamente. – Non lo so. Non possono starsene soli?
- Non abbiamo trovato altre soluzioni.
- Sì, immagino. Allora toglimi una curiosità: se la donna avesse già un altro uomo? Un uomo che ha scelto lei, prima della lotteria.
- Il Prescelto viene fissato quando lei compie diciotto anni. I candidati devono avere tra i venti e i venticinque anni.
- Bene. Bene. La donna è costretta a subirsi un Prescelto anche se ama qualcun altro! Dov’è il rispetto per i sentimenti altrui?
- A diciotto anni non si è ancora adulti. È difficile che una ragazza sia davvero innamorata di qualcuno. Ma se lo è, non avrà problemi a superare l’anno senza cedere al corteggiamento del Prescelto. O il Prescelto può farsi da parte se ha il buon senso di capire che è innamorata di un altro.
- A diciotto anni si può essere innamorati! E poniamo il caso che la donna si innamori di qualcun altro durante l’anno che deve are con il Prescelto?
Mi fissò. – Deve finire l'anno e poi decidere cosa fare. Oppure, anche qui, il Prescelto può farsi da parte.
- Un Prescelto che si fa da parte? Esiste?
- No. Non c’è mai stato.
- Visto? Va bene. Ho un’altra domanda.
Lui mi fissò seriamente, concentrato e determinando a rispondere in modo tempestivo a ogni mia curiosità. A ogni mia perplessità. – Chiedi pure.
- Se il Prescelto ha già una donna quando viene sorteggiato? È innamorato. Che può fare?
Mi guardò basito. – Ha già una donna? Non è una situazione alquanto reale. Ma se lui si sente già impegnato… può rifiutare. Ci sono molti altri uomini disposti a prendere il suo posto.
Lo guardai. – L’uomo ha libertà di scelta!
- Concluso l’anno la donna può tagliare qualsiasi legame con il Prescelto. È libera di stare con chi desidera. Ma voglio farti notare che le donne galatriane, per quante imposizioni abbiano, possono avere quanti uomini vogliono, anche se sono accoppiate, anche se hanno un Prescelto. Anche se hanno una famiglia. E senza che ci siano conseguenze.
Mi andò di traverso la saliva. – Co-me?
Lui tirò fuori un'altra moneta dalla tasca. – È una cosa comune, – disse giocando con lo spicciolo. – È normale. Voi sulla Terra siete piuttosto monogami, al più avete un amante nascosto al partner. Da noi avviene tutto alla luce del sole.
- Ma, – feci io sconvolta, – se due persone si amano non dovrebbe essere così.
- Aileen, le donne da noi sono poche. Poche. Non puoi capire cosa significa perché sulla Terra non è così. Su Galatria una donna può stare con chi vuole, anche durante l’anno con il Prescelto. Può fare e disfare qualsiasi uomo. E un uomo che ha il privilegio di stare con una donna, si guarda bene dall'allontanarsi, pur se ha altri amanti.
- Vi sta bene così?
- Sulla Terra ci sono luoghi in cui l'uomo può avere più mogli, non è così diverso.
- Se le cose stanno così non avete bisogno di altre donne. Potete essere felici.
- Aileen! Ci sta bene così perché è l'unica via che abbiamo! Questo non rende felice nessuno di noi. Ci sono donne che vorrebbero vivere sole, ma si sentono in dovere di avere un uomo. Sono circondate da essi.
- Queste Regole sul Prescelto saranno abolite con l'integrazione?
- Sì. A nessuna donna, galatriana o terrestre, verrà applicata questa Regola. Scelte in libertà. Aiutaci a riportare stabilità su Galatria e non ci sarà più nessun Prescelto.
- Certo, – feci io. – Lascio le donne terrestri in mano vostra e le condanno!
- A cosa le condanneresti? A scegliere liberamente una vita diversa? Noi non trattiamo male le donne, siamo così remissivi che accettiamo ogni situazione. Non faremo del male a nessuno, né costringeremo a fare qualcosa controvoglia.
- Remissivi? – scoppiai di nuovo a ridere. – E chi me lo dice che non lo farete?
- Hai la parola di Erixia e di ogni, singolo, galatriano. Siamo diversi, la sincerità la puoi sentire, così come puoi sentire la menzogna. Se avessimo voluto ottenere le cose con la forza avremmo potuto farlo, bastava influenzare qualche migliaio di donne terrestri e portarle su Galatria. Chi ci avrebbe fermato? Questi trentacinque anni ci sono serviti per consocervi, per capire qual’era il modo migliore per avvicinarci a voi. Ci mostrermo al tuo popolo, ci integremo lentamente e con i vostri tempi. Lo faremo in modo corretto, senza imporre nulla. Capisci?
Capii.
Capii che Kheltron mi aveva mostrato le cose da una prospettiva diversa. Una nuova.
Come se il tempo avesse ripreso a scorrere, mi accorsi che la mia mente si era ripresa e che ogni stordimento era scomparso.
- Per curiosità, il mio compito quale sarebbe? Dire agli otto miliardi di persone sulla Terra che siete buoni?
- In un certo senso, sì. In quanto Tramite dei due Mondi, è questo quello che ti chiediamo. Siamo qui. Dacci una possibilità.
Sfoggiò un sorriso. Il primo riso dolce che gli vedevo.
- Aileen, – disse lanciando una monetina della fontana. La moneta toccò l'acqua limpida e sprofondò. – Ci penserai senza rancore?
Alzai le spalle.
***
Capitolo 27 Data l'ora tarda, il posto si era spopolato completamente, restavano solamente due giovani e chiassosi ragazzi, che lanciavano monete a ripetizione nella fontana.
- Non esprimi un desiderio per il tuo compleanno? – chiese lui guardando la monetina nella mia mano.
Che desiderio potevo esprimere? Uno solo non sarebbe bastato.
Kheltron mi fissò. Allungò la mano per aiutare ad alzarmi, e a salire i gradini. Lo scacciai e mi alzai da sola.
- So fare da sola le scale!
Lui sorrise. – Giusto! Sei abbastanza grande da poter camminare da sola.
- Non ricominciamo con questa faccenda! Ho venticinque anni! Secondo me ti sei perso qualche pezzo della mia vita! – lo sfidai. – Non hai visto quante cose posso fare?
Fece un o verso di me, con la sicurezza di chi sapeva accettare una sfida. – Vediamo.
Indietreggiai. Un o indietro. Barcollai tra il gradino e il suolo piatto. Poi inciampai nella mantella che avevo in mano. Toccava terra.
Kheltron fu velocissimo. La sua mano si stabilì saldamente sulla mia schiena. Mi tirò verso il lato sicuro della strada. Non mi lasciò. Mi attirò nei suoi occhi blu oltremare, ed ero sicura che mi avrebbe stordita, gettandomi dentro un labirinto di colori ed emozioni. Il suo respirò mi soffiò sulle guance. Il suo alito caldo si mescolò nell'aria. Mi stordì, ma non fu per le emozioni. Le uniche che sentii erano le mie. Rimasi impalata.
- Ecco, – fece lui premendo la moneta sulla mia mano.
Sbattei le palpebre velocemente, per riprendermi. Un pensiero mi balenò nella testa.
- Quanti anni hai? – mormorai ando a lui la moneta. Non riuscii a staccare gli occhi dai suoi. – Quanti anni hai per Galatria?
Lui abbassò il capo. Fece un lancio lungo. La moneta finì nella vasca della fontana.
- Ventisette.
Lo fissai ancora stordita. Lui non sarebbe mai potuto essere un Prescelto. Non più. Il suo tempo era scaduto. Superava di due anni la soglia stabilita. Inoltre era un Custode, non ero sicura che una guardia potesse avere una donna.
- Tieni, – disse, prendendo la cappa e dandomi un pacchettino. – Questo è il per il tuo compleanno.
- Per me? – chiesi. Il regalo, piatto e sottile, era avvolto in una carta dorata.
- Aprilo.
Il nastro rosso non era stretto, fu facile slegarlo. Scartai lentamente. I lembi della carta scivolarono ai lati, mostrando un mucchietto di fotografie.
La foto di un cane di grossa taglia, pelo corto e marroncino. L'immagine della targhetta: “Lara”. La foto di un cucciolo nato da poco.
- È il cane di quella sera! Ma come? Come ha fatto ad avere dei cuccioli?
- Era gravida. Per questo era così difficile salvarla. Quattro cuccioli, ma tre sono morti. Uno solo si è salvato.
- Kheltron, – dissi alzando gli occhi dalle foto. – Io non lo sapevo, non me l'avevi detto!
- Non era il momento, – guardò il mio viso imbronciato. – Sul serio. Avresti sofferto di più.
Immersi gli occhi nelle fotografie. Il cucciolo assomigliava alla madre: pelo uniforme e marroncino. Tirava l'orecchio della madre, sonnecchiava su un cuscino bianco, mordeva un pezzo di stoffa.
- Bene, – decretò Kheltron. – Quel cucciolo ti aspetta a casa, se, e quando, vorrai tornare.
Alzai lo sguardo basita.
- Buon compleanno Aileen.
***
Capitolo 28 Lo rincorsi.
- Kheltron? Che fai?
- Che faccio? – chiese lui senza girarsi.
- Mi regali un cane? – Ero sbigottita.
- Qualche cosa l’ho vista quando eri più piccola. So che ne hai sempre voluto uno.
- Lo usi come sotterfugio per farmi tornare a casa!
Si fermò. Si voltò. Mi fissò. – No! Se vuoi te lo porto qui.
- Me lo porti qui? Io non posso tenerlo, – dissi cercando di giustificarmi. – Dove lo metto? E come lo mantengo?
Kheltron si chinò per togliere la catena dalla ruota del motorino. – Hai solo timore di non riuscire a renderlo felice. Le responsabilità ti fanno venire i brividi.
Spalancai la bocca. – Io, – dissi. – Non è vero!
- Se non vuoi, lo crescerò io.
Avrei dovuto cambiare tattica. Cercare di fargli cambiare idea. Alzai lo sguardo, determinata a mandare avanti la mia linea difensiva, ma lo trovai così assorto a fissarmi che non riuscii a dire nulla. Tra di noi aleggiava ancora quella strana tensione, piacevole e sconvolgente.
Mi lanciò il casco. – Andiamo?
Afferrandolo al volo, annuii.
Fermò il motorino davanti al portone. Scesi velocemente. Gli diedi il casco e presi le chiavi dalla borsa. Lui non scese.
-Allora, – disse – Ti è piaciuta la serata?
- Avrei preferito tornare a dormire.
Lui scosse il capo. – Volevi sartela da sola invece che con me?
- Non ce la siamo affatto sata! Hai cercato di convincermi delle vostre nobili intenzioni. E, inoltre, sei venuto perché te lo hanno ordinato, non certo per il piacere di vedermi.
Lui si alzò bruscamente, lasciò cadere il casco e mi spinse contro le mattonelle del palazzo, riparandomi con il suo braccio. – No, non è vero.
- Kheltron... – dissi spaventata e spiazzata.
Mi fissò, poi sbuffò. – Tu sei confusa! Un secondo prima vuoi una cosa e un attimo dopo ne provi un'altra.
Lì per lì rimasi sbigottita. Non poteva aver davvero intuito cosa volessi. Un frazione di secondo dopo mi resi conto che per farlo avrebbe dovuto sentirmi, ma io usavo la Yikira.
- Perché? Senti ancora le mie emozioni? Non sto migliorando?
Lui abbassò lo sguardo. – Non lo so.
- Lasciami, Kheltron. Questo è un desiderio espresso, può andare bene o farai finta di non averlo udito come quasi tutte le cose che ti chiedo?
Lui si scostò. – Va bene, se la serata è stata così pessima potresti dirmi cosa vorresti. Cercherò di accontentarti.
- Vattene, – dissi senza un filo d'esitazione.
Lui raccolse le cose da terra e partì velocemente. Scomparve nel buio della notte.
Feci un respiro profondo. Entrai nel portone. Salii al primo piano. La casa era vuota, non sentivo nessuno. Aprii la porta della camera e mi stesi sul letto. Guardai il soffitto pieno di decorazioni colorate. Un biglietto sul cuscino: “La torta l'ho comprata. Buon Compleanno”. Lo strappai con rabbia, lo ridussi in minuscoli pezzetti.
Kheltron doveva essere entrato quando non c'era nessuno. Aveva agghindato la camera da decori e lasciato una torta sulla scrivania.
Mi alzai. Presi un foglietto e una penna dal cassetto. Scarabocchiai numeri e feci calcoli, nonostante il mio odio per la matematica. Ventisette anni galatriani corrispondevano a trentasei anni terrestri.
Lessi e rilessi il foglietto, confusa e arrabbiata, finché non ridussi in brandelli anche quello.
Il giorno dopo mi svegliai tardissimo. Dalla finestra filtrava una luce lieve.
La torta al cioccolato si era indurita. Presi lo stesso una fetta e assaporai il gusto deciso del cacao. Mi feci una doccia e andai a lavorare.
Dissi al mio capo che quello sarebbe stato il mio ultimo giorno di lavoro.
Alla mezzanotte tutti si scambiarono baci e tenerezze. Io mi fermai tra i tavoli a godere della loro felicità e fui un po' contagiata dalla loro euforia.
Andai in aeroporto. Non avevo altra scelta se non quella di affrontare la vita.
***
Capitolo 29 – Il ritorno Il viaggio di ritorno fu devastante quanto quello dell'andata. Il fuso orario mi diede il colpo finale. Raggiunsi Sunville con un autobus in partenza da Toronto e per prima cosa andai a salutare i miei genitori.
- Oh Tesoro, – disse mia madre abbracciandomi. – Eravamo così preoccupati. Sono felice che tu stia bene!
Sincerità. Felicità.
Mia madre aveva dei capelli biondi a caschetto, legati da alcune mollette. Aveva dei grandi occhi azzurri. Il viso rotondo, con le guance sempre rosate, come se ci fosse del fard. Le sorrisi mentre richiudeva la porta.
Mi guardai attorno. – Voi state bene? Non vedo papà.
- Oh sta bene lui, – disse la mamma prendendo il mio borsone e portandolo in sala. – Ora è andato a fare la spesa. Vuoi cenare con noi?
Speranza.
- Magari domani, – dissi sedendomi sul divano verde. – Ho bisogno di riposare.
- Va bene tesoro. Ma come è andato il viaggio? Vuoi qualcosa da mangiare?
Apprensione.
- No, no, – dissi rifiutando un po' di biscotti che aveva preso dalla credenza.
- Perché sei andata via senza dirci nulla? Hai avuto problemi?
Preoccupazione. Ansia.
- No mamma, – risposi io cercando di non farmi abbattere dai suoi stati d'animo. – Mi sono fatta una piccola vacanza. Avevo voglia di vedere l'Italia. Ho fatto
molte fotografie, le vuoi vedere?
La mamma annuì, preoccupata. Non mi credeva.
Prendendo lo Smartphone dalla borsa, caddero alcune foto del regalo di Kheltron. Mi morsi un labbro, maledicendomi per non averle buttate.
- Oh, – disse lei raccogliendole, – Un cucciolo!
La mamma mi guardò in mondo eloquente. Interesse. Curiosità. – Hai preso un cane?
- No. Non lo so. Sto decidendo.
- Oh, bene! Ti farà compagnia.
Approvazione.
Tergiversai, tormentandomi le mani e i vestiti. – Sì, forse. Non lo so. Qui tutto a posto? Nessun... movimento strano?
- Cara, – disse lei ridacchiando, – non si è mossa nemmeno la tenda.
Sincerità.
Feci un sospiro di sollievo. Non era successo nulla. Non si era visto nessuno e la vita era proseguita come sempre.
Mia madre si divertì a guardare le foto di Roma, ridacchiando e squittendo come se lei stessa si fosse trovata in quel luogo.
- Oh, che bella! Che bella! Devo convincere tuo padre ad andarci!
- Secondo me, in primavera è ancora più bella.
- Sì, sì, – disse lei, entusiasta.
- Bene, – dissi alzandomi dal divano. – Ti lascio le foto così le fai vedere a papà.
- Sì, – rispose lei. – Così lo convinco.
Le diedi un bacio sulla guancia e me ne andai.
***
Capitolo 30 Salendo le scale decisi di fare un tentativo. Mi concentrai. Io e la Yikira.
Infilai le chiavi nella toppa della serratura e spinsi lentamente la porta di casa. Sbirciai l’ingresso, attenta ad ascoltare il minimo rumore, ma non udii nessuno. Valicai la soglia e richiusi con un tonfo appena percettibile. L'appartamento era al buio. Accessi la luce, abbandonai il borsone nell'ingresso e con o delicato iniziai a esplorare la casa. Andai nella cucina, nello studio e in bagno, aprendo ogni portafinestra. Non c'era nessuno. Mi restava da controllare solo la mia camera da letto, e quando entrai, trovai lui.
Quattro zampe cominciarono a trotterellare verso di me, prendendo di mira gli anfibi. Gli mordicchiò appena con i suoi denti poco sviluppati, lasciando più bava che altro. Alzò il muso e cercò di guardarmi. Fu lì che me ne innamorai. Mi chinai per avvicinarmi e fargli sentire il mio odore. Lui abbaiò, piccoli latrati di cucciolo. Mi leccò la mano, il polso e il braccio prima che io potessi spostarmi.
- Oh, che schifo! – esclamai ridacchiando.
Mi diressi in cucina per prendere un pezzo di stoffa e pulirmi dalla sua saliva. Lui mi seguì barcollando e ruzzolando. Le enormi zampe non gli permettevano di avere un equilibrio stabile.
Dato che in casa non c’era nessun altro, riposi la Pietra nel pantalone.
Rovistai nei mobili e trovai una ciotola arancione e del cibo in scatola. Non sapevo quando avesse mangiato l'ultima volta, ma pensai bene di dargli qualcosa.
Saltò allegramente tra i miei piedi,
abbaiando con la sua voce ancora imperfetta. Posai la ciotola con il cibo sul tappeto, e lui si avventò famelico. Gli accarezzai un orecchio e lo guardai mentre cercava di far are per la bocca più cibo possibile.
Un minuto dopo udii il cigolio di una chiave. Mi alzai di scatto, ficcando la mano in tasca.
Lyoxc spalancò la porta e poi gli occhi. Mi guardò allampanato, come stupito di vedermi, poi mi dedicò uno dei sorrisi più radiosi che avessi mai visto.
- Aileen... ti sento appena...
Io non gli risposi. I pochi giorni di allenamento con la Yikira avevano dato qualche risultato.
- Ero ato per dar da mangiare al cane, – disse lui avvicinandosi.
Notai che era vestito con gli abiti da guardia: pantalone e maglia verde scuro.
- Ci ho pensato io – dissi.
Il cane si avvicinò a Lyoxc e gli mordicchiò le scarpe. Alzò il muso e abbaiò, pretenzioso ed esigente. Il galatriano si acquattò e gli tirò affettuosamente le orecchie. Il cucciolo per gratitudine gli leccò una guancia.
- Eravamo preoccupati, – disse sospirando. – Non sapevamo dove fossi.
Io inarcai un sopracciglio. – Kheltron lo sapeva.
- Non è possibile. Non ci ha detto nulla.
- Chiamalo, – feci io contrariata. – Chiediglielo.
- Non è necessario, – disse Kheltron spuntando alle spalle di Lyoxc. Indossava il completo da Custode.
Il cane gli saltò sulle scarpe, felice di avere altro da mordere, ma non fece in tempo. Kheltron lo sollevò e lo tenne stretto.
- Insomma, – disse Lyoxc alzandosi. – Sapevi dov'era Aileen e non hai detto niente?
Kheltron diedi due buffetti al cane e lo posò a terra. – Già. Lo so.
- Non hai obbedito agli ordini e mi ha messo su una falsa pista! Mi hai mandato in Messico con un sombrero sulla testa!
- Lo so.
Lyoxc allargò le braccia. – Ero ridicolo! Quel cappello non è così utilizzato. E mentre ero lì, con quel cappello sulla testa, avevo il fiato di mia madre sul collo. Era preoccupata.
- Lo so.
- Allora! Spiegami perché!
- Ho ritenuto più importate preservare quello che voleva Aileen.
Io lo guardai stupita. – E da quando pensi al mio bene?
- Ah! – disse Lyoxc spalancando gli occhi verde terrestre. – Va bene.
Annuì sorridente, come se tutto quello che gli aveva fatto fare fosse giustificato.
Kheltron lo squadrò, e senza dire una parola gli fece cenno di non parlare. Dopodiché, si dileguò nel terrazzo.
- Ora ho capito... – mormorò Lyoxc ridacchiando, compiacendosi di sé stesso.– Sono bravo. Ho una grande memoria!
- Capito cosa? – chiesi io.
Corrugò le labbra, facendosi serio. Mosse solo gli occhi, dando uno sguardo a destra, a sinistra, infine su di me. – Regole da Custodi, Aileen. Ma Kheltron potrebbe essere punito perché non ha fatto rapporto. È meglio che gli altri non sappiano niente.
Annuii con fare complice, non mi importava essere una spia, soprattutto nei confronti di qualcuno che mi aveva protetta. Aveva taciuto sul luogo in cui ero scappata.
- Mia madre non lo deve sapere, – disse, – potrebbe avere il dovere di dirlo al Consiglio, e non voglio immaginare il caos che si creerebbe!
- Sentirà che stiamo mentendo!
- Faremo finta di niente, e forse non farà domande.
- Se lo dici tu.
Lyoxc prese un telefono dalla tasca dei pantaloni verdi, ma prima di chiamare mi guardò ancora.
- Aileen... Devo avvisare Erixia per dirle che sei tornata, così la finirà di telefonarmi ogni mezz’ora per sapere se ti abbiamo trovata. Non le dirò altro.
- Ho capito! – dissi incrociando le braccia e sbattendo un piede sul pavimento – Non dirò niente.
Lyoxc alzò il pollice e ammiccò. Quando iniziò a comporre il numero di telefono decisi di lasciarlo solo e raggiungere Kheltron.
Non mi ero ancora tolta il piumino quando uscii sul terrazzo, eppure il freddo mi colpì in pieno viso. Seguii le impronte sulla neve e girai l'angolo. Lui era appoggiato al muretto con lo sguardo assorto.
- Kheltron...
Lui si voltò e mi guardò come ridestato dai pensieri.
- Lo chiamerò Ercole, – dissi indicando il cucciolo ai suoi piedi. – Ti piace?
Per tutta risposta lo tirò su e me lo mise tra le braccia. Fui costretta a togliere la mano dalla tasca.
- L’ho già portato dal veterinario, non gli è piaciuto quando gli ha fatto l’iniezione. Era sofferente. Tu la senti la sua vita?
- No, – scossi il capo dispiaciuta.
- Può essere che giorno la sentirai.
- Sì, forse, – dissi guardandolo come se lo vedessi per la prima volta. Nel suo volto traspariva l'insicurezza. Sentivo il desiderio di rassicurarlo.
Inarcò un sopracciglio. – Che c'è?
- Sai, per la faccenda del tuo mancato rapporto, la mia bocca è sigillata.
Si immobilizzò, divenne tutt'uno con il paesaggio, rigido, composto e freddo. Mi fissò con sguardo imperturbabile, senza lasciar trapelare emozioni, e l'incertezza che avevo visto prima, credetti di averla immaginata.
Proseguii, consapevole che non avrebbe detto niente. – Credevo fossi venuto a Roma per portarmi indietro, invece… Da quanto tempo eri lì?
- Il terzo giorno a partire da quando sei fuggita.
- È così che funziona? Tu mi segui, e io nemmeno me ne accorgo…
- Sono il tuo Custode…
Espirai, buttando fuori l'aria calda per prendere contatto con il gelo. Avevo la necessità di raffreddare il resto del mio corpo, perché mi stava tradendo, stava urlando gratitudine. E non gli importava di essere stato seguito.
- Grazie Kheltron.
Lui aprì la bocca, per richiuderla subito dopo. Si strofinò il mento liscio e tornò in uno sguardo assorto. – Mi stai facendo un favore, lo sai?
- Anche tu lo hai fatto a me, – dissi titubante.
- Ma è diverso, sono il tuo Custode. Tu ti tiri sempre indietro quando si tratta di aiutare un uomo, figuriamoci un galatriano!
- Che ne sai? – risposi improvvisamente piccata, per poi rendermi conto che non importava. – Se non ti sta bene...
- A me va bene, se va bene a te.
- Bene, – dichiarai a quel punto, appoggiando il cane a terra. – A me sta bene.
Mi voltai, desiderosa di rientrare, prima che lui potesse dirmi altro, o che io mi pentissi di quello che avevo fatto, ma mi bloccai. Kheltron mi aveva afferrato la mano. Non me la stava stringendo con forza, né con l'intento di fermarmi per trascinarmi da un'altra parte. Il suo tocco delicato mi fece prendere la decisione di voltarmi, e quando lo vidi persi un battito. All’inizio pensai che fosse per il colore dei suoi occhi, intensi e profondi, poi lo sentii. Capii che dovevo ridurre quell’emozione in una banale parola: Affetto.
- Grazie Aileen.
La sua mano accarezzò la mia mentre si avvicinava. I suoi occhi non si staccarono dai miei e io non riuscii a fare un o. L'atmosfera cambiò totalmente, sebbene fe freddo mi sentii bollente. Calore sulla mano, nel petto. Veloce come un lampo vidi un filamento arancione intrecciarsi tra noi. Altrettanto velocemente sparì, e credetti di aver immaginato anche quello. Eravamo così vicini che non mi resi conto di aver stretto le sue dita, né di quello che stavo per fare. Eppure non mi sentivo influenzata.
Le mie labbra poggiarono sulla sua guancia, e il suono di un bacio si disperse nella neve.
Solo quando sbattei gli occhi, mi accorsi di dov’ero e di quello che avevo fatto.
Avevo trattenuto il fiato.
- Aileen...
***
Capitolo 31 Abbassai lo sguardo. Rintronata com'ero mi girai lentamente. Lentamente tornai in casa, credendo che avrei perso i sensi. Tuttavia, la vista funzionava perfettamente e non riuscì a nascondere Cuyed.
Se un attimo prima ero stata scombussolata, dopo che vidi lui lo divenni ancora di più. Il mio Prescelto aveva pantaloni neri, camicia azzurra, maglione blu e due occhi grigi. I capelli neri erano legati in una coda.
- Aileen! Stai bene?
- Benissimo, – feci io restando immobile. Misi le mani in tasca e cercai di concentrami stringendo la Pietra: l'ultima cosa che volevo era che mi sentisse. Non volevo dare spiegazioni su dove ero stata e su cosa avevo fatto. Soparattuto su quello che era appena succeso, poiché un innocente bacio sarebbe apparso come tradimento. Eppure così mi sembrò, quando Kheltron rientrò nella sala e mi guardò con aria colpevole.
- Ascoltate, – dissi io scuotendo la testa. – Così non si può andare avanti.
- Aileen, – cominciò Cuyed, – vorrei...
- No. No, – dissi alzando un dito. – Parlo io. Ho bisogno dei miei spazi. Se è indispensabile la presenza dei Custodi, ne voglio uno per volta in casa. In questo modo potrete fare dei turni e riposare per conto vostro.
Lyoxc e Kheltron annuirono, e seppi che loro non sarebbero andati contro quella decisione. Il vero problema era un altro, ed era a pochi i da me. Lo guardai esitando.
- Cuyed, vorrei che i nostri incontri fossero programmati.
- Ma...
- Nessuno entrerà in casa mia senza il mio permesso. Niente porte che si aprono, che sbattono.
- Va bene, – disse Lyoxc ridacchiando. – Procurerò un'agenda per tutti per fissare i turni.
- Come desideri, – ribatté Cuyed, – ma ai nostri incontri non voglio nessun Custode. Solo io e te, Aileen.
Scese il silenzio. Le parole ebbero l'effetto di uno schiaffo, a stento riuscii a controllarmi. Lo guardai e lo riguardai, costernata e preoccupata. Infine guardai Kheltron, sperando che dicesse qualcosa, o entrasse nei miei pensieri per suggerire la risposta. Pensai con tristezza a tutto quello che avrei potuto dire se fossi stata libera di parlare. Perché avevo creduto di aver trovato un sistema per allontanarlo? Non avevo fatto altro che avvicinarlo ancora di più e il mio unico conforto era saperlo fuori da casa.
Con rammarico annuii.
Il viso di Cuyed si dipinse di un sorriso vittorioso, e io voletti sprofondare nella Galassia infinita.
Lyoxc spezzò la tensione lanciando un'occhiata a Kheltron. – Come ci organizziamo per i turni?
- Resta tu, io devo andare via. Ora. Non posso rimanere. Ti darò il cambio domani sera.
- Cuyed, – richiamai la sua attenzione. – Sono molto stanca, sono certa che vorrai lasciarmi riposare.
- Certamente Aileen, ma spero di vederti presto. Abbiamo bisogno di tempo per conoscerci meglio. Vorrei comportarmi come tuo Prescelto, d'ora in poi.
Deglutii, serrando i pugni, pregando affinché se ne andasse subito. Ma prima di
abbandonare l'appartamento, sfiorò la mia mano con un lieve bacio che mi fece sussultare.
***
Capitolo 32 Il mio sguardo si fermò su Lyoxc solo dopo molto tempo che Kheltron e Cuyed se ne erano andati.
- Cosa sa Lilian? – chiesi infine, ando una mano tra i capelli.
- Oh, sa tutto. Interazione, Galassia, Pietra, Regole del Mondo di Galatria. Non credeva che tu, che noi, – precisò, – riuscissimo a sentire le emozioni degli altri. Ho faticato parecchio per farle cambiare idea, perché era questo che volevi, giusto? Volevi che scoprisse tutto di noi? Così l'ho fatto. Siamo finiti davanti a un apertivo, suppongo di essermi ubriacato, e abbiamo giocato per diverse ore a: indovina cosa sente Lilian. Ha voluto persino vedere la Pietra, girarla tra le dita e osservala illuminarsi.
- Già, – sospirai. – Ti ha strizzato per bene.
- Lei alla fine ha accettato, e non si è spaventata quando le ho detto che vogliamo integrarci con voi. Era davvero felice. Credo che il suo entusiasmo mi abbia contagiato. Ma non dirlo a Kheltron, mi opprimerà in allenamento.
Finalmente feci un sorriso. – Ti fa lavorare, eh?
- Sì! Sai, sono Custode solo da pochi mesi. Mi sono fatto influenzare da Lilian, è successo perché avevo bevuto, e non sono abituato agli alcolici della Terra. Non accadrà mai mentre sono in servizio, promesso Aileen.
Lo guardai sottecchi. – Mmm... va bene. Come ha gestito la situazione quando ha visto il colore dei tuoi occhi?
- Ah, quelli... - con la mano si grattò il collo. – Non gliel'ho detto.
- Non mi hai appena detto che le avevi detto tutto? Non sa che hai gli occhi a lampadina? Dovresti dirglielo Lyoxc. Dovresti raccontargli che tutti voi avete dei colori insoliti, così, forse, non ti prenderà in giro. Forse.
- A lampadina?
Sorrisi e gli fece cenno di seguirmi. Lo accompagnai fino allo studio e gli mostrai la lampada che avevo sulla scrivania.
- Ecco. Questa piccola sfera incastrata nella lampada. Fa luce, vedi?
Lui annuì soddisfatto della scoperta. – Scusami, la conoscevo, mi era sfuggito il nome. Noi usiamo cose diverse per fare luce.
- Mi piacerebbe conoscerle, o solo studiare. E tu dovresti parlare con Lilian, prima che lo sappia da me.
Lyoxc mi sorrise titubante. – Ci proverò. Aileen? Ti disturba se uso la cucina? Ho un po' di appetito.
- Fai pure.
Ercole trotterellò vicino alle mie gambe, si ribaltò due o tre volte, ma si rialzò sempre. Entrammo insieme nella camera, dove vidi sua cuccia, e un miliardo di altre cose che avevo lasciato in disordine. Chiusi la porta a chiave e misi il mio adorato pigiama rosa.
***
Capitolo 33 “- Aileen! Apri gli occhi!
Sentivo la schiena attaccata al terreno. Non riuscivo ad alzarmi.
Svegliati! Svegliati!”
La coperta era a terra quando mi svegliai. Ercole era ai piedi del letto, avvolto dalle coperte che aveva rubato, intento a fissarmi con i suoi occhioni da cucciolo. Abbaiò e, ruzzolando, saltellando, giunse a me per ricoprirmi di bava. Le mie braccia si avvinghiarono al suo corpicino peloso per abbracciarlo, tenerlo stretto, nella speranza che lui potesse darmi la forza per affrontare quella giornata.
Un minuto dopo mi alzai e presi dei vestiti puliti. Andai in bagno, mi lavai e mi cambiai con Ercole incollato al o.
Supposi che Lyoxc avesse mangiato e, poi, si fosse messo a sonnecchiare sul divano, perché quando entrai in sala era ancora lì sdraiato. Nel vedermi si alzò prontamente.
- Buongiorno Aileen, – disse in tono gioviale, ma assonnato.
Io gli sorrisi. – Buongiorno Lyoxc. Dormito bene?
Si stropicciò gli occhi e mugugnò parole impastate. – Sì, credo. Ho di nuovo fame. Vuoi qualcosa anche tu? Un succo di frutta ?
- No, grazie.
Si stiracchiò e si diresse con o pesante verso il bancone della cucina. – Ah! – bloccandosi a metà strada, tirando fuori dalla tasca un cellulare. – Questo è tuo. L'abbiamo trovato integro sul ciglio della strada. Dovrai caricarlo, però funziona.
- Grazie. L'avevo gettando credendo che voi poteste rintracciarmi.
Mi sorrise. – Cuyed mi ha già telefonato questa mattina, non credo che riuscirai a evitarlo come vorresti. Vuole che lo richiami.
Il gelo penetrò nelle mie ossa. Eppure dovevo farmi forza. Kheltron mi aveva detto che non ero obbligata a vederlo tutti i giorni, e che non ero costretta ad andarci a letto. Non avrei dovuto starci insieme per sempre. Un anno. Solo un anno.
- Dammi il suo numero.
Presi il caricabatteria dalla mia camera e accesi il telefono. Scrissi il numero sul display e mi feci coraggio. Gli chiesi di non salire in appartamento. Ci saremmo visti fuori, il pomeriggio. C'era una cosa che dovevo fare quella mattina: volevo vedere l'educatore.
***
Capitolo 34 L'allenamento fu duro, ma non in senso fisico, era la mia mente ad essere stanca. Così, dopo due ore intense, Quezel mi obbligò a riposare. Riposi la Yikira nella tasca e mi sedetti sul campo da tennis. Fissai il prato innevato attorno a noi.
- Sei molto determinata oggi,– disse Quezel. – Di questo o i tuoi sentimenti saranno irraggiungibili per ogni galatriano. Tuttavia, devi riposare ogni tanto. Durante questa pausa potrei raccontarti qualcosa di Galatria.
- Bene, – sorrisi compiaciuta dai miei progressi. Nessuno avrebbe più potuto ascoltare le mie emozioni e decifrare quello che mi portavo dentro. – Mi stavo chiedendo come vi spostate su Galatria.
- Certo, – rispose. – Con le Cupole.
- Cupole? – lanciai uno sguardo interrogativo. Avevo già udito quel termine dall’Imperatrice, ma non avevo approfondito.
- Le Cupole sono le nostre abitazioni, e anche i nostri mezzi di trasporto. Ovunque vogliamo dentro Galatria.
- Come mettere le ruote ad un appartamento? – domandai scioccamente.
- Le Cupole non hanno ruote, volano.
Lasciai che il flusso di concentrazione con la Yikira mi abbandonasse completamente, e lo guardai stupita. – Volano?
- Certo, – disse Quezel. – Non essere sconcertata. Voi avete gli aerei.
- Sì, ma non ci sono case volanti! Siete giunti sulla Terra con, come si chiamano, le Cupole? Quanto tempo ci avete messo?
Quezel ridacchiò. – Siamo arrivati trentacinque anni fa con due astronavi, che noi chiamiamo: Scorritempo. Ci hanno permesso di fare il Salto nell'Iperspazio. Quando siamo giunti nel vostro sistema solare abbiamo percepito immediatamente una forma di vita. – si toccò la testa. – Come la nostra.
- Ci avete sentito con l'interazione naturale?
- Esatto. Fummo cauti ad avvicinarci, non volevamo spaventarvi. Ma sostando nello Spazio ci accorgemmo che non potevate sentire la nostra presenza! – Quezel mi guardò sconfortato. – Nessuna interazione naturale.
- Non vi sentivamo, mi pare ovvio. Il fatto strano è che non vi abbiamo visto.
- Eravamo schermati, – rispose. – Ogni astronave era schermata. Posso dire, in tutta onestà, che mi rifiutai di scendere per conoscervi. Non avevate la nostra capacità. Pensai a come potevamo integrarci. Ma la decisione di restare fu presa da Erixia. Dieci galatriani scesero sulla Terra, usando le Cupole.
Si avvicinò per mostrarmi un libricino. – Qui ho raccolto i dati sul viaggio che facemmo. Prendilo.
Il piccolo quaderno era di pelle scamosciata, rilegato da un filo di cuoio.
Strofinai le dita sul soffice tessuto solleticando il senso del tatto.
- In verità, – disse Quezel. – Io tornai su Galatria per avvisare gli altri. Non sono a conoscenza di tutto quello che accadde sulla Terra. So che uno Scorritempo restò nello Spazio per sorvegliare i galatriani. Per studiare la vostra lingua, anche se si notò che ve ne era più di una.
- Ci avete studiato.
Quezel si fece serio e in un attimo si schiarì la voce. – Direi di sì. Ci davamo il cambio. Si fecero molti viaggi per imparare quanto più possibile e trasmetterlo. Ma non ci furono più di dieci galatriani per volta sul vostro suolo. Da un mese a questa parte siamo aumentati. Siamo cinquanta, sparsi per il Mondo.
- Lei da quanto tempo è qui? Quando è arrivato?
- In tempo locale sono diciotto giorni.
- E nessuno si è accorto di nulla, – dissi accigliandomi.
- Non preoccuparti, – disse sorridendo. – Non vogliamo farvi del male. Io no di certo.
Sincerità. Bontà.
Sfogliai velocemente le pagine del libricino ignorando le sue emozioni. – Qui troverò tutto?
- Puoi tenerlo. L'ho tradotto nella tua lingua, quello originale è nella mia Cupola, ma non l'ho portato, non sapresti leggerlo.
Alzai lo sguardo. – Dovrò impararla? La vostra lingua? Penso che mi piacerebbe, – dissi abbassando di nuovo lo sguardo. Conoscere la lingua era molto importante, ne ero perfettamente consapevole, avrei potuto capire quello che dicevano anche se avessero parlato galatriano.
Dedicai la mia attenzione ai resoconti di Quezel, che erano più che altro appunti scribacchiati con una penna ad inchiostro nero, il cui testo non era suddiviso in capitoli, ma ogni pagina riportava una data incomprensibile e un luogo con coordinate da me sconosciute. Vi erano anche diversi disegni.
- Questa cos'è? – domandai, mostrando lo schizzo di una sfera con una base schiacciata.
- Quella è la mia Cupola, – rispose. – Ho riportato l'immagine. Come vedi ha una forma sferica a base piatta. È composta da più piani, ed è divisa in più stanze. Da quando sono qui l'ho arredata con qualche oggetto terrestre.
- Cosa? Ha lasciato la sua Cupola sulla Terra?
- Ovviamente! Lo Scorritempo è molto grande, può contenere la mia, e molte altre Cupole. Ogni galatriano ha portato con sé la propria Cupola.
Spalancai la bocca, non riuscivo a crederci. – Qui? Sulla Terra? Nessun terrestre le ha viste?
- No, le Cupole si possono schermare.
Grandi case volanti che permettevano di spostarsi da un posto all'altro, oggi sulle colline e domani sulle rive del mar rosso.
- Potrò vederle? – chiesi non contenendo l'emozione che sentivo. Avevo trovato qualcosa che mi interessava, senza farmi necessariamente paura.
Lui mi dedicò un sorriso semplice. – Non credo che ci saranno problemi a mostrartele, ma dovrai chiedere a Erixia.
- Ah! – esclamai temendo che mi venisse negato il permesso. In ogni caso avrei dovuto prima chiederglielo, il che significava incontrarla. Non nutrivo il desiderio di vederla, perché se mi avesse chiesto qualcosa sul luogo in cui mi ero rifugiata, o su Kheltron, le avrei dovuto mentire, ma i miei sentimenti mi avrebbero tradita.
***
Capitolo 35 – L’attacco Io, Lyoxc e Ercole scendemmo velocemente dal taxi, dopo avergli lasciato una banconota da cinquata dollari.
Rientrammo a casa, ma io ci rimasi poco, il tempo di fare un lauto pranzo. Chiesi a Lyoxc di badare al piccolo Ercole che, restio a vedermi andar via, iniziò a tirarmi il pantalone con i denti. Chiesi a Lyoxc, inoltre, di essere sempre disponibile nel caso in cui avessi avuto immediato bisogno di lui.
Uscii di casa alle tre in punto, con piumino, sciarpa, cappello, borsa a tracolla e un peso nel petto che mi opprimeva. La strada era sommersa dalla neve. Alcuni alberi spezzati occupavano i marciapiedi, impedendone il aggio, eppure riuscii a raggiungere il parco situato dietro casa senza problemi, saltando semplicemente gli ostacoli.
Accanto ad una panchina pulita vidi Cuyed. Aveva un cappotto nero e una sciarpa dello stesso colore, dei jeans chiari. Aveva raccolto i capelli neri e aveva coperto gli occhi grigi con delle lenti a contatto marroni.
Mi concentrai. La Yikira era nella tasca.
- Ciao, – disse sorridendomi. – Era questo il posto?
- Ciao.
- Ti mettevi sempre qui, – disse lui, – su questa panchina.
- Come? – feci io irrigidendomi.
- Io e Kheltron ti vedevamo spesso qui seduta. Ti piace qui?
Non mi piaceva quella panchina, non mi piaceva niente. Andavo lì solo per piangere. Non mi aveva sentita piangere? Non mi aveva sentita triste?
- No. Preferisco altri posti.
- Ti farebbe piacere vedere qualcosa in particolare?
Colpì uno dei miei punti deboli e, per un momento, il mio viso si illuminò. – Sì. – ritrattai subito. – No.
Lui agitò le braccia come se, infastidito, volesse scacciare una mosca. – Aileen, non farò niente che tu non voglia, per favore credimi, ma dato che non riesco più a sentirti come prima, spero che tu mi dica quando faccio qualcosa che ti turba. Ho detto qualcosa di sgarbato?
- No, no, – sorrisi debolmente. – Mi serve il permesso dell’Imperatrice per vedere una Cupola.
- La Cupola! Vorresti vederne una? Io sono il tuo Prescelto, e non ti negherei mai una visita nella mia. Il permesso ti servirà per le altre.
Serrai la mascella quando udii quella parola tanto temuta ed odiata. Tuttavia, la curiosità di potermi addentrare in parte del loro mondo ebbe la meglio. Volevo conoscere più cose possibili su di loro, perché tutto sarebbe tornato utile, un giorno.
- Fai strada.
L'automobile che avevo lasciato a Toronto, fu davanti a me non appena superammo il parco. Era intatta. I galatriani erano riusciti a recuperare tutti gli oggetti che avevo abbandonato.
Ci vollero venti minuti per raggiungere la destinazione, e tutta la mia buona volontà per non vomitare.
- Va meglio? – chiese Cuyed aprendomi la portiera.
Ignorai la mano che mi porse per aiutarmi a scendere, presi, invece, delle profonde boccate d'aria.
Sorrise. – Vieni. Pochi i a piedi ti faranno bene. Siamo quasi arrivati.
Eravamo a nord di Sunville, sperduti da qualche parte in campagna. Il mio senso
dell'orientamento era sempre stato scarso, per cui non seppi riconoscere il luogo.
Uscii dalla macchina e mi accostai a Cuyed lungo il cammino. Durante il tragitto parlammo pochissimo, frasi brevi e rispose monosillabe riferite alla temperatura e al tempo.
La strada era un rettilineo spoglio di suolo innevato, ma sposandosi verso ovest il paesaggio cambiava. Pur restando ricoperto di bianco, il terreno ospitava arbusti.
Non vidi altro, finchè che ci fermammo in mezzo ad un radura immobile e vuota.
- La vedi? – indicò. – Tolgo lo scherma.
Un'enorme sfera bianca, laccata, lucidissima e brillante, apparve davanti ai nostri occhi. La base piatta era appoggiata sul terreno.
Alzai il collo. Spalancai gli occhi. Qua e là si intravedevano zone con vetri scuri, di quelli che permettevano di vedere solo dall'interno.
Era assurdo che nessun essere umano si fosse accorto di una cosa del genere. Non stavamo parlando di un appartamento, ma di una grande astro-casa! Una specie di biglia gigante, alta quanto una villetta di tre piani, che volava.
- Eccoci arrivati, – disse Cuyed. Una leggera pressione delle sue dita sulla
superficie bianca fece aprire un portellone, che scese lentamente dall'alto.
L'entrata era più spaziosa di quelle create da una porta normale, ed era eccessivamente larga. Il portellone recava su di sé cinque gradini laccati bianchi.
- Prego, – disse lui, spostandosi lateralmente per farmi entrare.
Ero intimorita da quell'enorme oggetto alieno. Da quel bianco scintillante e purissimo, materiale proveniente da un altro mondo.
- Vai prima tu – dissi.
Cuyed si intrufolò dentro, con la sicurezza che apparteneva a chi stava per entrare in un ambiente familiare; io lo seguii con incertezza. Il primo o sul gradino fu un piccolo trionfo. Mi fermai un attimo per fare un sospiro di sollievo. Gli altri gradini li salii con più coraggio. L'aria calda che giunse dall'interno mi sembrò irreale, non credevo che usassero strumenti per riscaldare l'ambiente.
Quando il portellone si richiuse alle mie spalle, il locale fu inondato di luce. Misi il naso all'aria e assorbii il mistero di quell'astronave. Le pareti e il pavimento, fatte di un materiale sconosciuto, erano bianche laccate, così laccate che sembravano bagnate. Al centro della stanza rotonda c'era un grande tappeto giallo, rotondo, su cui appoggiai i piedi per volteggiare e godere ogni centimetro di quel posto. Ero all'interno di una casa volante.
Cuyed rise. – Non hai ancora visto niente. Andiamo!
Tolsi il piumino, il cappello e la sciarpa e li incastrai su un appendiabiti tipicamente terrestre.
Cuyed si tolse il cappotto e lo appese accanto al mio. – Questo oggetto l'ho comprato qui. Su Galatria non esisteva niente del genere, ma da qualche mese i galatriani stanno provvedendo per fabbricarli.
- E dove li appoggiavate i cappotti?
- Negli armadi, naturalmente. Non sono simili ai vostri, ma vedrai, vedrai...
Fece un sorriso raggiante che mi piacque, portandomi a pensare che stavo per scoprire qualcosa di magnifico.
Ci incamminammo verso una porta bianca laccata, che si aprì automaticamente da un solo lato. La oltreammo per ritrovarci in un lungo e stretto corridoio, tutto bianco laccato, che curvava a sinistra. Valicammo un altra porta identica alla prima e ci ritrovammo in una sala, non piccola come la mia, e non quadrata, ma rotonda. La vastità di quella stanza mi scoprì a bofonchiare parole di meraviglia. Cinque divani gialli laccati, con intagli argentati e dalla forma insolita, erano posti contro le pareti brillanti e neutre. Non c’erano cuscini, e il materiale duro di cui erano fatti mi fece pensare alla scomidità.
- Vorresti vedere altro? O vuoi fermarti qui?
- Mostrami altro Cuyed! – dissi io entusiasta.
Uscimmo da un'altra porta scorrevole per intraprendere un corridoio in pendenza che si avvolgeva come spirale.
La stanza successiva era una biblioteca. Di forma arrotondata, contava venti scaffali, circolari, bianchi e laccati, carichi di libri. Vi erano, inoltre, due poltrone gialle laccate e una scrivania, (bainca e laccata).
- Questa è la mia sala lettura. Moltissimi libri sono terrestri, ma la maggior parte proviene da Galatria. Te ne mostro qualcuno se vuoi.
- Non so, non conosco la vostra lingua.
Senza aggiungere parole si diresse al terzo scaffale e prelevò un libro dal secondo ripiano.
- Questo potrebbe piacerti, è storia. Racconta quello che è successo quando abbiamo trovato la Yikira. Abbiamo un linguaggio diverso dal vostro, ma è abbastanza semplice, se vorrai impararlo.
Colta dalla copertina laccata del libro, quadrato dai bordi arrotondati, sfogliai le pagine notando che la carta era di un tipo differente dalla nostra. Era giallognola e piuttosto spessa. Ruvida. E il libro era scritto a mano.
- Niente macchine da scrivere o computer?
Lui scosse il capo, e per me fu inevitabile pensare che pur avendo le Cupole, essere riusciti a fare Salti nell'Iperspazio, non dovevano possedere dei computer. Era possibile?
- Non fraintendere, – disse lui. – Noi preferiamo scrivere così. Ti piacerà.
Scossi le spalle ed evitai di fare altre domande, ma restai alquanto interdetta quando Cuyed infilò il libro nella mia borsa a tracolla.
- Vieni, – disse.
Uscimmo dalla sala lettura per dirigerci altrove. Seguimmo lo stesso corridoio procedendo verso l'alto. Quella volta trovammo due porte: una destra, ma Cuyed scelse quella di sinistra, per infilarsi in altro corridoio. Entrammo nella sala da pranzo, anche in quel caso, enorme, rotonda, bianca e lucida. Era composta da un tavolo circolare, bianco laccato. Sedie dalla forma futuristica, dello stesso materiale, con incisi astratti gialli laccati.
Addossati alle pareti lucide c'erano tre armadi che si plasmavano alla stanza. Bianchi laccati.
Lì per lì rimasi sbigottita, finché non mi resi conto che la logica di quella forma era dovuta alla rotondità della sala.
Quando Cuyed mi sorrise e spalancò l'antina, io spalancai la bocca. Quella era la dispensa di un ristorante. Nulla da stupirsi se aveva fatto tanta spesa anche per me.
- Ho qualche cibo galatriano. Residui del viaggio. Il resto è dato da alimenti terresti. Vuoi provare qualcosa? – disse lasciando che le sue labbra si schiudessero in un sorriso aperto, mostrando dei denti bianchissimi.
- No... – dissi incerta. – Non lo so. Fai tu.
- Va bene. Tu siediti.
Prese alcune cose e sparì dietro una porta scorrevole.
Io tergiversai sedendomi e rialzandomi ripetitivamente, guardando la meraviglia attorno a me. La Cupola era stupefacente, pensata per essere un'abitazione e un mezzo di trasporto allo stesso tempo. Confortevole. Spaziosa. Utile.
In principio non presi niente, successivamente non resistetti alla tentazione di toccare con mano gli oggetti. Il tavolo, le sedie, le pareti e persino il suolo.
Quando Cuyed ricomparve con due tazze rosse laccate, mi affrettai ad arretrare le mani dall’armadio e andare a sedermi.
Il dolce sapore della di cioccolata calda infase le mie narici.
Osservai attentamente la tazza rossa, liscissima al tatto, prima di assaporare la cioccolata. Quando le mie labbra si posarono sul bordo, ebbi la sensazione di sfiorare la porcellana. Il liquido scuro scivolò sulla lingua e riscaldò il corpo.
- Buonissima!
- Cacao galatriano. Ha un gusto più deciso e marcato del vostro.
Serrai le labbra, afferrai la tazza con due mani e la poggiai sul tavolo, affatto rincuorata da quello che avevo appena scoperto.
Cuyed spostò lo sguardo dalla tazza a me. Io capii che il mio sforzo di mostrare un'espressione neutra era fallita.
- Non ti piace?
Incurvai la bocca e mi sforzai di fare un sorriso, la pallida imitazione di un sorriso. – Buonissima, davvero. Squisita. Solo che, ecco, non mi farà male? È lo prima volta che assaggio del cibo galatriano.
Sul suo volto si formò un cipiglio – Gli alimenti terrestri sono molto inquinati, pieni di conservanti chimici. Alcuni sono modificati geneticamente, e credimi quando l'ho scoperto ho smesso, per un attimo, di respirare. Il nostro cibo è,
usando un vostro termine, biologico. Può farti male solo perché sei abituata a mangiare schifezze.
Incrociai le braccia un po' piccata per l'offesa subita.
Sospirò alzandosi dalla sedia. – Voglio farti vedere una cosa, magari questa ti piacerà.
Abbandonai la cioccolata calda, tra il dispiacere di non poter finire quella squisitezza e la felicità che non potesse farmi altro male. Seguii Cuyed lungo i corridoi e le porte scorrevoli, notando che il percorso era in discesa. Mi riportò nella sala principale e mi fece accomodare su uno di quei grandi divani gialli. Non erano così scomodi come avevo creduto, ma non avrei potuto sdraiarmi, né sarei riuscita ad addormentarmi.
Lui rimase in piedi. Aggrottò la fronte. – Sei... sei arrabbiata con me?
- No, – risposi mentendo. – Perché dovrei?
Mentii. Ero palesemente arrabbiata con lui. Ero restia a dar fiducia un po' a tutti gli uomini, soprattutto con i promessi sposi che mi erano stati imposti.
- Non ti ho detto subito di essere il Prescelto, avevo paura. Non era una cosa facile da dire, soprattutto a una terrestre. Ti assicuro che non è stato semplice nemmeno per me, perché ho dovuto lasciare casa e abituarmi alla vostra società.
Lo guardai esitante, consapevole che mi aveva appena fatto una confessione. – Potresti togliermi una curiosità?
Lui annuì. – Certamente.
- Non avevi un'altra donna su Galatria?
La sua espressione si intristì. – No. Non ci sono molte donne sul mio Pianeta.
- Già, – dissi usando molto tatto. – E non ci sei rimasto male vedendomi? Non ti aspettarvi qualcuno di diverso?
- Aileen, – disse sfiorandomi la mano. – Tu sei molto bella.
- Ma la bellezza è soggettiva, – dissi ignorando il suo gesto. – Come faccio a piacerti? Non mi conosci.
- Tu mi piaci Aileen. Mi piaci molto.
Si avvicinò pericolosamente al mio corpo.
Io rimasi immobile. Non c'era nessuna aria elettrizzante. Nessun sentimento frizzante. Nessuno sguardo a cui aggrapparsi.
- Non mi sembra il caso Cuyed, – dissi alzandomi.
- No Aileen, non spaventarti. Ti ho spaventata? Scusa, non ti sento bene. Voglio solo darti una cosa.
Mi mise un pacchettino nelle mani. – Per il tuo compleanno, – disse.
Una scatolina blu. Di quelle con i gioielli dentro. Lo guardai con aria preoccupata e la aprii lentamente. L'interno conteneva una laccio di caucciù nero con un ciondolo ovale. Restai sbigottita. Oltre al fatto che i gioielli non era mai piaciuti, quel regalo era stato sicuramente esoso, in tutti i sensi. Per il costo. Per il valore simbolico. Il classico regalo che un fidanzato faceva alla propria fidanzata.
- Cuyed... non lo posso accettare, – dissi richiudendo la scatola.
- Sì che puoi! – disse lui sfilando l'oggetto dal contenitore. – Qui c'è un ciondolo ovale in cui puoi incastrare la Yikira. È perfetto. È utile.
- No, no. Non posso.
- Ma Aileen, – disse con un tono di voce malinconico. – L'ho preso per te. Non hai nulla per tenere la Pietra.
Certo che l'aveva presa per me! Era il mio Prescelto.
- È troppo per me, Cuyed.
- Non è troppo per te! Tu vali molto più di un gioiello.
- Non insistere, per favore. Mi spaventi quando fai così.
- Scusa, – fece lui con voce da oltretomba, rimettendo la collana nella scatola e lasciandosi andare alla tristezza.
Lo sentii terribilmente sconsolato, come se il mio rifiuto gli avesse fatto così male da non poter essere assorbito dalla sua Pietra.
- Usciamo? – chiese lui subito dopo abbassando lo sguardo.
Mi condusse alla sala d'ingresso, dove in tutta fretta ci coprimmo.
Cuyed appoggiò le dita su un piccolo pannello rotondo, che provocò l'apertura del portellone, facendo entrare una folata di vento gelido.
La strada innevata non permise di superare le venticinque miglia all'ora, ma io mi sentii male lo stesso. Non seppi se era dovuto a quello che avevo mangiato,
all'incessante tristezza di Cuyed, o al mal d'auto. Probabilmente era dovuto a tutte quelle cose mescolate assieme, e per diversi momenti persi il contatto con la mia Pietra. Uscii velocemente dal veicolo, cercando aria fredda come acqua per un assettato, ma barcollai. Seppi subito cosa fare: mi appoggiai allo sportello.
- Aileen, non stai bene, – affermò come se non fosse abbastanza evidente. – Lascia la concentrazione con la Yikira, così ti posso aiutare.
Feci quello che mi chiese non perché volessi farlo, ma perché non avevo la forza per restare attaccata alla mia Pietra.
- Mi gira la testa.
Cuyed mi sostenne. – Siamo sotto casa tua. Se entriamo ti faccio stendere sul divano.
- No. Non ci riesco.
Cuyed mi strinse. Prese il mio viso tra le mani e me lo fece appoggiare sul suo busto, contro il cappotto nero. Io non brontolai, ma non ero esattamente felice di trovarmi in quella situazione.
- Ora a, – disse lui. – Non preoccuparti. Ti aiuto io.
Non so quanto tempo rimasi lì, con il freddo a gelarmi le mani, con Cuyed che mormorava parole di conforto e con la sua Pietra che brillava, ma lentamente la nausea si placò.
- Dovresti stare meglio, – dichiarò Cuyed, ando una mano sulla mia fronte.
- Sì, ora sì. Posso andare.
Sì, finalmente potevo andarmene. L'aria densa e soffocante dell'automobile mi aveva tramortita. I gesti appiccicosi di Cuyed mi avevano infastidita. E la cioccolata calda non osai punirla, era stata troppo buona.
Cuyed mi scrutò. – Noi non ci vedremo per qualche giorno. Ti ricordi la punizione che mi diede Erixia?
- Per... per essere entrato in quella camera? Pensavo te l'avesse già data.
- Tornerò su Galatria per dare nuove comunicazioni.
- Sarebbe una punizione tornare a casa tua? – chiesi stranita, ma i pensieri erano rivolti altrove. Non lo avrei visto. Non lo avrei sentito. Libertà!
- Sono contento, certo, ma mi tiene lontano da te, – disse, cercando con lo sguardo i miei occhi. – Posso lasciarti la collana? Se non vuoi, non metterla. Solo, ti va di tenerla finché non torno?
Speranza.
- Ok, – dissi sconfitta da quel sentimento. Dopotutto, non l'avrei visto per un po', potevo fare uno sforzo. Non volevo renderlo nuovamente triste. Presi la scatola e la misi in borsa.
- Aileen...
Mi fissò in maniera intensa. Di colpo le sue emozioni mi travolsero, come un treno in corsa. Il piacere fu così forte che non sentii più né il freddo, né spossatezza. C'era il sapore inebriante del suo tocco sulla mia pelle, del sul respiro caldo sulla mia guancia.
Desiderio. Piacere.
Non c’era il buio. Non c'erano piccole scie di luce. Ma c'ero io. C'era Cuyed. E lo desideravo come lui desiderava me. Ero a un centimetro dalle sue labbra, nella profondità dei suoi occhi marroni. Lo volevo. Oh sì. Lo volevo.
Poi, come se qualcuno avesse staccato la spina, quel desiderio sparì, e io tornai in possesso delle mie facoltà e dei miei sentimenti, mentre Cuyed sembrava ancora inebriato. Mi resi conto della situazione. Poggiai le mani sulla bocca per assicurarmi che non potesse accadere niente, facendo qualche o indietro.
In lontananza, c'era lui. Vidi indistintamente la faccia arrabbiata di Kheltron. Era
avvolto nella sua mantella nera.
La vergogna e l'imbarazzo si impossessarono di me. Ficcai la mano in tasca, ricercando disperatamente il legame con la Pietra, e corsi a perdifiato verso casa mia.
***
Capitolo 36 - Tutto bene? – chiese Lyoxc vedendomi entrare ansimando.
- Sì, sì.
Ercole mi rincorse, ma io mi rintanai in camera. Diedi un'occhiata allo specchio. Il viso era rosso come il cuscino della mia sedia. Avrei dovuto far qualcosa per calmarmi. Aprii la prima antina dell’armadio e ingoiai cinque gocce di tranquillanti. Mi ero spinta oltre con Cuyed, mi ero ritrovata vicino alla sue labbra senza nemmeno accorgermene. ai una mano sul volto. Era inaccettabile.
Mi scoprii e gettai tutto sul letto. Controllai l'orologio. Erano le sei di sera. Avevo trascorso più tempo del previsto assieme a Cuyed. Tirai fuori la scatolina che mi aveva regalato e la nascosi sotto una pila di vestiti. Non volevo vederla più.
Mi diressi verso lo studio, credendo di poter tenere la mente occupata accedendo il computer. La casella di posta indicava altre email di Colin, che ignorai, e una di Lilian che lessi immediatamente.
“Ciao! Mi spiace per la sfuriata dell'altra mattina. Ho provato a chiamarti, ma ho trovato sempre spento. Non essere arrabbiata con me. Un abbraccio”.
Decisi di risponderle dopo, ma alla fine me ne dimenticai. ai un'ora a leggere e cestinare altre email pubblicitarie e tenni da parte quelle interessanti, di cui due proposte lavorative.
- Aileen, – disse Lyoxc affacciandosi nella stanza, – il mio turno è finito. Io vado.
- Oh, va bene, – dissi io, portandomi le mani sulle guance ancora calde. – A presto.
Lui salutò con un cenno e mi abbandonò ai miei pensieri.
Un minuto dopo il camlo trillò, indicando l'arrivo di Kheltron. Avrei dovuto affrontarlo dopo avermi vista, quasi, baciare Cuyed. Ad essere onesta io quel bacio non lo volevo dare. Non sapevo come ci ero finita in quella situazione, ma come glielo avrei spiegato?
Mi feci coraggio e andai ad aprire con il cucciolo al seguito.
- Ciao, – dissi tenendo lo sguardo basso.
- Chiudi la porta, Aileen.
Nel tempo che io impiegai chiudere la porta, lui era già scomparso, e credetti che anche lui non aveva desiderio di affrontarmi. Meglio. Diedi due giri di chiave e cercai di defilarmi nello studio.
- Dove vai? – chiese.
- Di là, – risposi guardando a terra. – Controllo qualche email.
- Dove hai la Yikira?
Tirai la fuori la Pietra dalla tasca del pantalone e gliela mostrai.
- Perché non l'hai usata prima?
- Prima.... prima quando? – feci io guardandomi gli stivali. Sulla punta delle mie scarpe c'era ancora un po' di neve. Correre velocemente verso casa mi aveva fatto dimenticare di pulirmi sul tappeto.
- Aileen, – disse lui, – ti spiacerebbe guardarmi?
Tenni la testa china.
- Kheltron. Per favore...
- Devi allenarti di più! – sbottò lui. – Cuyed ci ha messo un attimo a circuirti! Se non ti avessi liberata, saresti già finita a letto con lui!
Io arrossii violentemente. – Ma che dici? Non ne avevo alcuna voglia! Non so neanche come è successo!
Strinsi i pugni, e a quel punto lo guardai adirata.
I suoi occhi si addolcirono.
- Lo so che non volevi, per questo sono intervenuto.
Si tolse la cappa nera, mostrandomelo per la prima volta con abiti normali. Lo avevo sempre visto con gli abiti verdi. Aveva un paio di jeans e un pullover beige.
- Oddio! Che hai fatto ai capelli?
I suoi capelli scuri erano sciolti e molto più corti.
- Li ho tagliati, direi.
- Eh... solo che prima ti arrivavano al gomito, e ora sfiorano appena la tua spalla.
- Non preoccuparti dei miei capelli, impara a difenderti! Domani ti porto da Quezel, devi allenarti. Non posso starti sempre dietro.
- Ma chi ti ha chiesto niente! Non ho richiesto io una guardia del corpo!
- Non saraei qua se tu fossi in grado di badare a te stessa!
Quella frase fu un pugno diretto ai miei sentimenti.
Sbattei i piedi per terra, colpa dalla rabbia e dal crollo dell'autostima. Poi corsi in camera mia.
Chiusi la porta a chiave. Strinsi la Yikira e mi concentrai, ma non riuscii a fermare le lacrime.
La tristezza era una nemica infida. Si incollava addosso, scivolava troppo lentamente, senza mai andarsene. Era uno dei tanti colori della tavolozza
dell’anima. Solo che era cupa. Era fredda.
Kheltron non aveva torto, non ero mai stata brava a prendermi cura di me stessa, né dei miei sentimenti. Cuyed era riuscito a impossessarsi della mia mente facilmente. Non era colpa di Kheltron, o di Cuyed. Credevo che nessuno dei due volesse farmi male. Uno voleva solo aiutarmi, e l'altro voleva farmi innamorare di lui. Ma nessuno poteva davvero aiutarmi, né farmi amare di nuovo.
Udii gli uggiolii di Ercole da dietro la porta, ma non potevo stare con lui. Non quella sera.
Presi una bottiglia di alcool dalla scorta sotto il letto. Accesi lo stereo e alzai il volume della musica. Feci un lungo sorso di Vodka.
***
Capitolo 37 La luce fece capolino dalla portafinestra.. Mi girava la testa e avevo bisogno di un'aspirina. Quando aprii la porta della camera, trovai Ercole ad aspettarmi. Iniziò a saltellare da una parte all'altra e a fare grandi ruzzoloni, le zampe enormi lo sbilanciavano. Lo presi tra le braccia e gli diedi qualche bacetto, come se quello potesse bastare per farmi perdonare. Lo rimisi a terra e mi infilai nel bagno per sciacquarmi e cambiarmi. Finii di asciugarmi i capelli con la testa china, poi decisi di andare in cucina per prendere un antidolorifico.
- Non hai mangiato niente, – affermò Kheltron spuntando alle mie spalle.
- Buongiorno anche a te, – dissi stizzita. I crampi allo stomaco mi avvisarono di non aver appetito. Presi, tuttavia, il bollitore, e cercai una bustina di tè classico.
- Lascia stare, – disse bloccandomi la mano. – Facciamo colazione fuori e portiamo anche Ercole.
Mi diede un guinzaglio nero, e si fermò a guardarmi. Non ci fu bisogno di convincermi oltre. Non avevo voglia di stare tutto il giorno in casa con Kheltron che mi fissava e borbottava.
Ercole impazzì alla vista della neve, iniziò a tirare il guinzaglio e ad abbaiare. Si tuffò sotto gli strati di bianco, riemergendo umido.
Ci fermammo nel bar, di fronte la piccola chiesa di Sunville. Ci sedemmo ad un tavolino vuoto e legammo il guinzaglio alla gamba della sedia. Kheltron si tolse
un piumino grigio che non gli avevo mai visto, poi gettò un'occhiata al menù.
- Quanti cambiamenti. Vestiti nuovi, taglio nuovo, – dissi io, pentendomene subito. Giusto la sera prima mi aveva criticata perché mi ero interessata al suo look, e non ai miei problemi.
- Ora che non sono solo, e non devo controllarti sempre, posso permettermi di uscire un po'. Le donne terrestri preferiscono gli uomini con questi abiti e questi capelli. Anzi, forse avrei dovuto tagliarli di più.
Io lo guardai inarcando un sopracciglio. – Hai deciso di andare a caccia?
Lui mi fissò perplesso, come se non avesse capito la mia battuta.
- Cosa posso portarvi? – domandò un cameriere fermandosi al nostro tavolo.
- Io prendo un tè.
- Lei prende anche uovo, bacon e formaggio, – disse Kheltron. – E per me lo stesso. Caffè al posto del tè.
Io lo guardai allibita mentre il cameriere prese l'ordinazione.
- Io non voglio l'uovo! – protestai. – Perché l'hai ordinato?
- Tu mangi. Dopo ti porto da Quezel.
Sbuffai contrariata, lanciando un’occhiata carica di costernazione nella sua direzione.
- Vuoi che finisca come ieri? – chiese. – Vuoi che qualunque galatriano sappia attaccarti fino all'eccesso?
- Io... no.
- Ti ricordi cosa è successo quando ti ho attaccato io?
Avvampando, annuii. Speravo che fosse una risposta sufficiente.
- Te ne sei dimenticata Aileen? Vuoi che ti aiuti a ricordare?
- NO!
- Bene. Non te lo dimenticare. E ora, mangia.
C’era stata portata la colazione, ma io non avevo fame. Mangiai lentamente con l'appetito dirompente di un ero, mentre il chiacchericcio e le emozioni degli altri clienti disturbavano i miei pensieri.
- Prendiamo il bus, – fece lui. – In alternativa la macchina di Cuyed. Ha lasciato un paio di chiavi a me e a Lyoxc.
- Prendiamo la macchina. Abbasso il finestrino e guardo fuori. Fa troppo freddo per l'autobus.
- Sei sicura? – chiese fissandomi. – Non voglio pulire la tappezzeria dopo.
Gli lanciai uno sguardo torvo. Ercole, quasi avvertendo la mia ira, si avventò sulle sue scarpe e gli diede un morso.
- Kheltron gli lanciò un’occhiataccia. – Va bene. Prendiamo la macchina.
***
Capitolo 38 L'auto era parcheggiata vicino casa mia. Solo qualche ora prima ero salita su quella stessa macchina con Cuyed. Misi Ercole sul sedile posteriore e mi accomodai al lato eggero.
- Allaccia la cintura! – Kheltron mi ammonì.
- La metto sempre!
- Non sempre. Ti ho visto viaggiare senza.
Ripensai all'incidente di un anno prima, quando, alla guida, non avevo messo la cintura. Ero incuriostita dalla sua affermazione. Quante cose aveva visto di cui non voleva parlare? Quante ne aveva perse?
- Quando? – chiesi.
Mi guardò assordo per un paio di minuti, immerso nei pensieri. Illuminando il suo sguardo, dichiarò di aver raccolto i momenti in cui mi aveva vista senza cintura. – Quando sei sgommata via dalla casa di Erixia. Uscendo da un locale sei mesi fa. Parecchie altre volte alle tue prime, terrificanti, guide.
- Nient'altro? – chiesi io.
Lui alzò le spalle, poi girò la chiave e fece romabare il motore. – Mi sembra un numero sufficiente per ricordartelo.
- Kheltron, – dissi agganciando la cintura. – Preoccupati di andare piano.
Lui viaggiò, per mia fortuna, a velocità molto moderata, e tra questo, e il fatto che guardai continuamente fuori dal finestrino, riuscii ad arrivare senza capogiri.
Ci fermammo fuori Sunville, vicino al campo da tennis abbandonato, totalmente privo di persone.
- Yela Kheltron. Bentornata Aileen Grenn, – disse Quezel spuntando alle mie spalle. – Non sento i tuoi sentimenti.
Mi voltai e additai Kheltron. – Non sono brava. Lui insiste per farmi allenare anche oggi.
Quezel lanciò un'occhiata a Kheltron. – Certo. Lui è molto saggio.
Ercole iniziò a giocare con la neve, ignorandoci completamente.
- Non ho speranza, – dissi rassegnata.
Quezel si adombrò, avvolgendosi nella sua cappa nera. – Tutto è possibile. Prendi la tua Yikira.
La tirai fuori dalla tasca del pantalone e la rigirai tra le dita, era calda.
- È meglio se incominci a usare una catenina, o un bracciale. Non portarla in giro in quel modo, la perderai.
- Non ho una catenina, né un bracciale.
- Aileen, la prossima volta vorrei vederla appesa, così non sarai costretta a stare con una mano sempre in tasca. Puoi chiedere all'Imperatrice, lei avrà qualcosa per te.
Sospirai. Avrei dovuto usare quella di Cuyed. Era l'unica collana ad avere un ciondolo ovale perfetto per incastrare la Pietra. Oppure, avrei dovuto addentrami nella reggia di Erixia e affrontarla.
- Troverò qualcosa, – dissi io, scartando entrambe le alternative.
Feci un respiro profondo e continuai a concentrarmii. Unirmi alla Pietra era apparso sempre più semplice, complice la paura che avevo di essere trovata a Roma, complice il desiderio di non farmi sentire dai galatriani, mi ero allenata assiduamente. Eravamo quasi sempre legate, era diventano facile, quasi come respirare. Eppure non era stato sufficiente per contrastare le emozioni di Cuyed.
Quezel prese un sigaro e lo accese con un fiammifero, mescolando nuvole di fumo con la condensa della nebbia.
- I trasferimenti ti riescono meglio.
- Il problema è che non si sa difendere, – intervenne Kheltron. – Certo, i sentimenti di pochi terrestri ora non le creerebbero problemi, ma se io volessi… riuscirei ad attaccarla in un attimo.
- Non si può pretendere che sappia difendersi dai nostri attacchi.
- Ne ha bisogno Quezel.
Fu la determinazione nella sua voce a intimorirmi. Io non sapevo cosa aspettarmi.
Rabbia. Determinazione. Confusione. Dolore. Venni scaraventata in un mare di sensazioni spiacevoli. Il dolore mi attaccò lo stomaco. Venni colpita ripetutamente, come se la mia carne venisse fatta a pezzi. Mi persi. Non ci fu nessuna luce, nessun filo colorato che si intrecciava, ma persi la coscienza di me stessa. Mi aggrappai alla rabbia come se fosse mia, gettandomi con le braccia in avanti su Quezel.
Un attimo dopo la rabbia scomparve, e sentii il peso del mio corpo, dei mie sentimenti, del gelo che mi attanagliava le membra.
- Questo, Aileen, è un attacco. Come avrai notato è simile a quello che si prova quando si viene influenzati, ma avviene velocemente e in modo devastante. Avviene quando si impone. Si resta coscienti di quello che si ha attorno, ma non di quello che si sente. E questo provoca reazioni che non si possono controllare.
- Io, – dissi tenendomi la testa, – non capisco. Che è successo?
- Non mi aspettavo diversamente, non sei pronta per difederti.
- Ma come ha fatto?– ribadii io guardandolo. – Che mi ha fatto?
Ercole smise di giocare. Tornò, trotterellando, vicino Kheltron, e insieme si allontanarono.
- L'attacco, Aileen, è una delle nostre armi migliori.
- Io non… capisco.
Lui espirò spire di fumo grigio. – Quando si attacca come ho fatto io, è per imporre un immediato sentimento, estraneo alla tua mente. Estraneo nel dato momento in cui si attacca.
- Quindi perdo subito il controllo?
- Esatto. Possiamo confondere. Possiamo imporre qualunque sentimento. Possiamo prelevare tutti i sentimenti, lasciandoti vuota. Infine, possiamo prelevare la tua energia vitale, ma quello lo facciamo per indebolire.
- Oh Mio Dio! – esclamai pietrificata.
- Oh, non è finita, – disse lui. – Come ben sai, senza l’uso della Yikira si può venire influenzati dai sentimenti altrui. Non si fa di proposito, o con cattive intenzione, succede perché sentiamo. Ma usando la Yikira possiamo rendere tutto molto... spiacevole. Possiamo imporre volontariamente, confondere. Questo si chiama attacco.
Mi abbandonai sul suolo gelato. – Potete influenzare i pensieri...
- No. Noi agiamo sulla mente e sul corpo. Solo i sentimenti e l'energia vitale, e solo finché attacchiamo.
- Potete costringere la gente a provare sentimenti distorti!
- È chiaro – disse lui come se fosse una cosa ovvia. – Ma ti assicuro che sui terrestri non abbiamo attaccato.
- Ma voi sapete difendervi da questi attacchi, noi NO! – urlai disperata. – Non lo sappiamo fare!
- È davvero deplorevole attaccare qualcuno, – disse in tono serioso. – Abbiamo combattuto tra di noi qualche volta, lo ammetto, ma più che altro, – svoltò gli occhi, – per questioni amorose. Negli ultimi trecento anno solo uno di noi è morto dopo un attacco. Cosa che non si può dire di voi, che state sempre ad ammazzarvi con pistole, coltelli e violenze varie. Comunque, come ben saprai la
Yikira non riesce a ridare energia a terrestri in fin di vita, non riesce a guarire completamente le loro ferite, e non possiamo ucciderli togliendogli l'energia vitale.
- Potete farli impazzire! Potete attaccare in ogni caso, far prendere il controllo delle emozioni!
- Non voglio mentirti. Potremmo farlo. Ma abbiamo una Regola imposta dal Consiglio, con approvazione di tutto il popolo: non attaccare la mente altrui per alterare i sentimenti. Con l’eccezione della difesa e del…
Lo interruppi. - Ma le Regole si infrangono! Kheltron mi ha attaccata la prima volta che ci siamo incontrati. Cuyed mi ha attaccata proprio ieri!
Quezel si rabbuiò, poi sbottò. – Oh, ragazza! Dovrò avvisare Erixia. Cuyed verrà di nuovo punito. Ma... – mi guardò con aria sospettosa. – Può essere che tu non abbia usato la Yikira per nascondere i tuoi sentimenti, e lui li abbia sentiti? Che abbia pensato che volevi essere avvicinata?
- No! Non volevo! No! Credo che Kheltron mi abbia aiutata, perché all'improvviso mi sono ripresa, e mi sono sentita di nuovo nel mio corpo e nella mia mente.
- Cuyed è impaziente. Questo gli fa commettere gravi errori. Ma di Kheltron non ti dovresti preoccupare.
- Perché no? Anche lui mi ha attaccata! Certo non sapevo che era un attacco, ma lo so ora!
- Non credo che lo abbia fatto con cattive intenzioni. Era stato richiesto solo per controllare che tu sentissi, che avessi ancora l’interazione naturale.
- Sì, ma…
Mi bloccai, persa nell’unica frase che avrei voluto pronunciare. Come si spiegavano le piccole scie colorate? Con Cuyed non le vedevo, e nemmeno con Quezel. E come confessare che Kheltron mi aveva attaccata anche a Roma? Ne ero sicura. I suoi sentimenti mi avevano avvolta. Mi aveva costretto a provare qualcosa di distorto per non farmi scappare. Tuttavia, non potevo ammetterlo. Avrei infranto la parola data. Avrei rivelato il nome di colui che conosceva il luogo in cui mi ero rifugiata. Avrei messo nei guai anche me stessa.
- Ragazza! In piedi!
Appoggiai le mani sul suolo rossastro del campo da tennis, e mi alzai.
- Concentrati! – ordinò. – Meglio che puoi. Io ti attaccherò.
***
Capitolo 39 ai tutta la mattinata ad allenarmi con Quezel. Agli occhi terrestri poteva sembrare che non stessi facendo niente. Ero immobile nello stesso punto. Ma non era così. Mi concentravo, trasferivo energia e cercavo di contrastare i suoi attacchi: consistevano nel farmi provare rabbia e farmi confondere. La lotta era spietata, ed avveniva tra due menti diverse.
Riuscii a ottenere una pausa per il pranzo. Kheltron mi portò un panino con hamburger e insalata, che divorai in pochi minuti, e una bibita.
Il buio cominciò a calare, quando Quezel decretò la fine di quegli allenamenti. Mi gettai sul prato, sfinita, ed Ercole venne a farmi compagnia.
- Ci vediamo nei prossimo giorni, – disse Quezel. – Domani è meglio se riposi.
Gli allenamenti non era andati molto bene, non ero riuscita a contrastare niente, e l'effetto dell'antidolorifico che avevo preso la mattina era svanito.
- Alzati! – disse Kheltron. – Tra poco inizierà a nevicare.
- Non sai far altro che dare ordini.
Ci avviammo verso la macchina come se stessimo per andare ad un funerale, condannati a restare nella stessa casa per ore. Aprii lo sportello dell'auto facendo salire prima il cane. Solo dopo che si fu sistemato, entrai anch'io. Appena
Kheltron accese il motore, io abbassai il finestrino.
- So fare altre cose, oltre a dare ordini, – disse lui. – Tutte meglio di te.
- È vero. Sei più bravo di me a far arrabbiare le persone!
Schiacciò il pedale dell'acceleratore, come se andando più veloce potesse allontanarsi da me. Io proseguii a guardare la neve fitta che ricominciava a cadere, e a godere del vento gelido mi graffiava la faccia.
Una frenata brusca diminuì la quantità d'aria che entrava dal finestrino. Poi fu tutto molto rapido.
Il rumore delle ruote che inchiodavano. Il vetro del parabrezza che vibrava. Il cane che abbaiava. Il volante che sterzava. La cintura che premeva, ricacciava contro il sedile. Finché l’auto si fermò.
- Ma che diavolo! – dissi portando una mano sulla testa – La strada è libera!
La forza che mi aveva spinta in avanti, e rigettata indietro, aveva agito sulla mia colonna vertebrale, facendomi scricchiolare il collo. Slacciai la cintura, per controllare che fosse tutto a posto.
- Che male, – sussurrai dolorante.
Di colpo, le sue emozioni mi accarezzarono la pelle, mi coccolarono. Un amore e una dolcezza che mi lambirono i sensi. Caldi come un giorno di primavera.
Ero io e stavo amando.
Il buio oscuro invase ogni punto visibile, entrò nei miei occhi e non vidi altro. Il tempo si fermò, il luogo sparì. Le piccole scie colorate. Una rosa mi solleticò il naso, l'altra verde mi accarezzò il collo, lì dove mi faceva male. Erano calde. C’era tepore.
Quando piombò la luce, non era davvero luce. I miei occhi si dovevano abituare. Era la luna a rischiarare il mondo. Era la sua Yikira a brillare.
Ripresi il contatto di me stessa. Sbattei le palpebre rintronata.
Ero tra le braccia di Kheltron. Ero sul suo sedile, sulle sue gambe. Ero certa che non era per volontà mia. Era lui che mi teneva stretta, chiusa nella morsa delle sue braccia.
- Kheltron? – dissi tremando. Ero imbambolata, ma più preparata delle prime volte. Sapevo cosa era successo.
I suoi occhi blu mi stavano fissando.
- No! – disse lui d'impeto. – Non ti ho attaccata! Volevo solo farti sentire che mi dispiaceva per quello che avevo detto, e tu mi sei saltata addosso!
- Io? Sei stato tu!
- No, – gracchiò lui. – Ma adesso spostati.
Mi gettò di peso sull'altro sedile.
- Oh! Ma che modi!
Ripartì, senza emettere un fiato fino a casa mia, mentre io brontolai e borbottai incessantemente sulla scarsa educazione di cui era provvisto.
Kheltron mi ignorò e mi evitò tutta la sera, persino quando entrai in cucina per dare da mangiare a Ercole. Avrei voluto ricordargli che ero io quella che doveva essere arrabbiata.
Suonò il camlo. Entrò Lyoxc, uscì Kheltron.
Dopo una leggera cena, andai in camera con il portatile e guardai un film. Ercole non volle saperne di dormire nella sua cuccia, e fui costretta a stringermi un po' nel letto per fargli spazio.
***
Capitolo 40 – Un segreto spezzato Il giorno dopo Lyoxc mi accompagnò alla Cupola di Kheltron. Il luogo era in aperta campagna, a nord di Sunville, più lontano del posto in cui si trovava l'astro-casa di Cuyed. In ogni caso non mi preoccupai di quello, perché lui era già partito per Galatria, era tra le stelle.
Appena scesi dall'automobile alzai lo sguardo verso il cielo grigio, e fissai il punto più distante che riuscissi a vedere.
- Vedrai che ti troverai bene, – disse Lyoxc richiudendo la portiera.
- Con Kheltron? – chiesi in tono sarcastico. Lo fissai per un attimo con espressione ironica, dedicandogli poi un sorriso forzato.
Lui svoltò gli occhi. – Ne abbiamo già parlato. Sono stato convocavo da mia madre.
Sospirai. Era il ventesimo sbuffo che facevano da quando eravamo partiti. – Perché devo essere io ad andare da lui?
Misi il borsone in spalla, conteneva il cambio necessario, vestiario e dentifricio, e tirai fuori il guinzaglio di Ercole dal baule.
La Cupola di Kheltron era schermata, e solo quando Lyoxc toccò un ostacolo trasparente, si rivelò. Era mastodontica. Più alta di quella di Cuyed, tanto che il mio collo rimase bloccato per qualche secondo, (complice lo stiramento della sera prima).
Era bianca laccata.
Lyoxc si fermò davanti a una superficie liscia e lucida e, quando poggiò le dita, scese un portellone.
- Perché non pensi a divertiti, Aileen?
- Divertirmi? – dissi in tono eloquente. – Con Kheltron?
Lyoxc svoltò di nuovo gli occhi, nascondendo il suo disappunto in un sorriso.
Ercole fu il primo a salire i cinque gradini per sparire nella Cupola, e a nulla servirono i richiami che feci. Rassegnata, mi addentrai a mia volta, seguita da Lyoxc.
- Kheltron? – chiamò lui. – Siamo arrivati.
La camera era calda, ovale, bianca laccata. Il soffitto era circondato da simboli a
me sconosciuti, sembravano minuscole lettere, e mi invitavano a prendere una lente di ingrandimento per decifrare il testo. Alla mia destra si trovava un tavolino in legno, tipicamente terrestre, con dei piccoli oggetti disposti in modo completamente disordinato. Il tavolo era accompagnato da una normale sedia con un cuscino blu. Infine vi era un ritaglio, un piccolo vetro scuro, che mostrava il panorama esterno. Lì davanti si era fermato Ercole.
Kheltron arrivò da un porta automatica sulla sinistra, l'unica che c'era, e ci rivolse un cenno silenzioso. Aveva dei jeans blu e un maglioncino chiaro, i capelli corti erano arruffati e spettinati. Nella mano teneva un'agenda aperta.
- In basi ai turni che abbiamo stabilito, oggi sarebbe il mio giorno di riposo, – disse scontroso.
- Yela Kheltron. Purtroppo sono stato richiamato da mia madre, l'Imperatrice. Non posso sottrarmi all'impegno, nemmeno per Aileen. Così mi è stato chiesto di portarla da te, è suppongo che Erixia ti abbia avvisato.
- Ovviamente, – disse, richiudendo l'agenda in un gesto secco.
Lyoxc si voltò, e fece un sorriso aperto, mostrando tutti i denti, come a dire: “visto che ti troverai bene?”
Sorrisi controvoglia. Mi sarei trovata bene come una principessa si trovava bene rinchiusa nella torre protetta da un drago.
Sarebbe stata un lunga giornata.
Mi tolsi il piumino e lo appoggiai sull'unica sedia della camera d'ingresso. Prima di uscire mi ero infilata dei pantaloni neri e un maglione rosso, ma non mi ero truccata, né mi ero agghindata.
- Io vado alla riunione. Se avete problemi sapete dove trovarmi.
Quando Lyoxc si voltò, e scese quei gradini, cominciai ad essere preoccupata per la mia incolumità. Non sapevo se accanto ad un Kheltron lunatico avrei superato la giornata. Non sapevo se l'avrei superata senza una crisi di pianto, di rabbia o disperazione.
Ero sola. O meglio, ero con il drago.
Tornai a guardami attorno, scoprendo che Kheltron e Ercole erano spariti. Camminai incerta per la stanza, senza avventurarmi per la Cupola, per quanto, dovessi ammettere, mi sarebbe piaciuto vedere il resto della piccola astro-casa di Kheltron.
Presi la Yikira a iniziai a esercitarmi. Sentii i miei sentimenti confluire nella Pietra, o meglio, sentivo il suo calore, e vedevo il suo luccichio. Avrei voluto iniziare a incanalare l'energia di altri. Mi sarei accontenta di sapermi difendere dai loro attacchi, ma bisognava essere molto pratici. Molto bravi. Molto allenati. Insomma, tutto quello che non ero.
Poco dopo Kheltron mi raggiunse nell'ingresso e mi disse di seguirlo. Non osai contraddirlo, ero curiosa di visitare la sua Cupola, e desiderosa di non alterarlo. Sperai che mi fe visitare il posto, ma mi sbagliai. Mi accompagnò in un'enorme sala bianca laccata, rotonda, che contava in tutto un tavolo in vetro e quattro sedie con cuscini verdi. Oggetti terrestri. Il soffitto era bianco, lucido, ma recava dipinti di alberi e foglie.
- erai la giornata qui. Leggi un libro, chiama la tua amica. Fai come vuoi, ma resta qui! Il bagno è la prima stanza a sinistra.
“Kheltron, dimentichi di ammanettarmi”, pensai, ma non lo dissi. Fui abbastanza furba da tenerlo per me.
La prospettiva non era delle più rosee.
Presi il portatile e lo misi sul tavolo. Se mi fossi esercitata con la Yikira davanti a lui avrei rischiato di farlo morire di risate. Soprattutto, prima che lui morisse di risate, io sarei crollata a piangere. O peggio, avrei rischiato di ritrovarmelo addosso, non so come.
Rimasi davanti al computer, senza internet, tra un documento e un altro. Una noia tremenda.
A pranzo mi venne dato un panino, recuperato da una delle misteriose stanze che che mi era proibito vedere. Ercole ci raggiunse giusto in tempo per spazzolare cibo, poi tornò in esplorazione. Avrei dato qualsiasi cosa per poter andare con lui.
Kheltron rimase sempre incollato a me, seduto sulla sedia a fissarmi, gettandomi in un imbarazzo persistente. Mi seguì persino in bagno.
- Hai intenzione di entrare con me? – lo canzonai divertita.
- No, ti aspetto qua fuori.
Gli oggetti erano gli stessi che potevo trovare in qualsiasi bagno, solo che avevano qualcosa di straniero. Il lavandino, il rubinetto, il water, l’enorme boxdoccia: erano bianchi, laccati, freddissimi. Ed era tutto rotondo. Nessun gancio, o porta asciugamani, ma vi era un piccolo armadio, plasmato alla parete, che conteneva prodotti da toilette: teli e saponette. Rigorosamente bianchi. Spazzolino e dentifricio erano terrestri. A quel punto, mi chiesi cosa potesse esserci di così prezioso nelle altre stanze che mi era proibito vedere.
Per cena desideravo qualcosa di più di un panino, così gli chiesi se potevo usare la cucina per preparare un pasto decente, ma per tutta risposta mi diede il suo telefono e mi disse di ordinare qualcosa. Io scelsi cibo cinese e una bottiglia di vino, che non guastava mai. Kheltron ci mise cinque minuti per andare a ritirarlo e portarlo, dopo avermi barricata dentro la stanza.
***
Capitolo 41 Complice il vino, Kheltron parve decisamente differente da come si presentava ogni giorno. Sembrava quasi spensierato. Eliminò ogni battuta eccentrica e di dubbio gusto. Il cibo cinese gli piacque molto, anche se all'inizio era parso scettico.
- Dovrei mangiare questa roba?
- Puoi sempre andare a mangiare qualcos'altro, da qualche altra parte.
Alla fine aveva ceduto.
Ercole si accucciò sotto il tavolo, stanco della lunga ed esplorativa giornata.
Tenni i bastoncini tra il pollice e l'indice. Infilzai un paio di ravioli a vapore. Poi spazzai via dei deliziosi spaghetti di riso con verdure. Kheltron fu abilissimo con i bastoncini di legno, come se avesse ato la vita ad esercitarsi. Lo invidiavo. Io avevo trascorso una cinquantina di serate assieme a quei bastoncini prima di riuscire ad impugnarli senza farli cadere, o infilzarli in un occhio.
- Apri questa, – disse lui indicando la bottiglia di vino.
Lo guardai sorridendo, cominciando a credere che si stesse sciogliendo un po', e che avrei potuto farlo anch'io. Scartai l'involucro rosso che avvolgeva il tappo e stappai con disinvoltura la prima bottiglia.
- Sai, sulla Terra, di solito, – dissi in tono allusivo, – sono gli uomini ad aprire la bottiglia di vino.
Lui mi lanciò uno sguardo incerto prima di togliermi la bottiglia dalle mani. – Non sono abituato a cenare con le femmine della Terra.
Versò il liquido ambrato nel bicchiere e lo riempì di bollicine fino al bordo. Quasi traboccò.
- Fermo. Fermo! Non così pieno!
Appoggiò il bicchiere sul tavolo, versando metà del contenuto sulla tovaglia.
Su una cosa ero piuttosto brava: riempire un bicchiere di alcool. Complici due anni di serate solitarie. Io e la mia bottiglia, rossa, bianca, ambrata, eravamo le amanti di notti solitarie. Una sera, in cui avevo bevuto un po' troppo, misi il volume dello stereo così alto che non udii le lamentele dei vicini. Il giorno dopo fui costretta ad ascoltare la ramanzina dei miei genitori, secondo i quali, fare parte di un condominio implicava lasciare i propri problemi e la propria depressione dentro le mura.
Mio padre era solito dire: “Ma sei.. di buon umore, ora?”. Ma certo che ero di buon umore! Ottimo! Come poteva essere altrimenti? Ero per quello che ogni sera festeggiavo tracannando alcolici. “Non è che ieri hai bevuto?”. Lo diceva senza riuscire a guardami in faccia. Era davvero ingiusto che tirasse fuori faccende come quelle. Come figlia, mi sentivo davvero umiliata ad ascoltare i suoi discorsi su come una ragazza come me poteva affrontare il mondo e ottenere qualunque cosa, più che altro perché, di fatto, non avevo ottenuto nulla.
La serata con Kheltron sembrò trascorrere piacevolmente tra una pietanza e l'altra. Non ridemmo e non scherzammo, almeno mangiammo tranquillamente.
- Ah! – disse Kheltron un po' alticcio. – Non sono abituato a bere questa roba, ma adoro mangiare i dolci.
Indicò un intero vassoio di pasticcini con crema e zucchero, seguito da uno spumante.
- Ma dove li hai presi?
- È un segreto, – disse facendomi l'occhiolino e aprendo la seconda bottiglia d'alcool.
Io non approfittai dello spumante, bevvi solo acqua. Non volevo raggiungere i livelli di comicità e tragicità di certe notti. Inoltre, avrei finito per ubriacarmi e vomitare. Avrei finito per mostrarmi debole.
Lui non protesto, alzò la bottiglia in segno di brindisi e tracannò giù tutto d'un fiato.
Dopo qualche minuto, era più ubriaco e più irriconoscibile. Aveva perso tutto il suo autocontrollo.
- Credo sia finito.
Sventolò la bottiglia vuota. La capovolse. Non cadde nemmeno una goccia. Si alzò e inciampò nelle gambe del tavolo, imprecando ad alta voce.
Non feci nulla per aiutarlo, ma contribuii a farlo sentire a disagio ridacchiando senza ritegno. Per calmarmi decisi di impegnare la bocca, mi allungai per prendere un altro pasticcino cremoso, sperando di ottenere il permesso per poterne prendere due ma, quando mi guardai attorno per cercalo, osservai una camera vuota.
- Kheltron?
- Aiuta–mi Aileen!
Era steso sul pavimento, sotto il tavolo, con la testa contro la gamba della sedia. Aveva il naso innevato di zucchero, di uno dei dolci che aveva mangiato prima.
- Kheltron?
- Sono cadu-to.
Ricominciai a ridacchiare piano. Poi scoppiai a ridere. Risi forte. Risi tanto. Non riuscii a smettete nemmeno quando iniziò a borbottare frasi insensate. Gli sfiorai la mano e mi chinai per tentare di tirarlo su.
- Forza Kheltron! – lo ammonii. – Sei il mio Custode, non puoi restare lì sdraiato!
Dopo tante proteste e borbotti, riuscì ad alzarsi. Si diresse a zig-zag verso il muro sulla destra, sotto il mio sguardo vigile. Ero convinta che sarebbe andato a sbatterci contro. Ero pronta a farmi un'altra risata, ma lui si fermò di fronte la parete e la toccò, diffondendo musica melodiosa. Tornò verso di me e si sedette accanto, incrociando le gambe come un bambino.
- Questa è la mia musica. Ti piace?
Giocherellò con il bracciale canticchiando la melodia. Non capii nulla di quello che disse, un po' perché era nell'altra lingua, quella aliena, un po' perché era ubriaco.
- La tua musica? – lo guardai sbigottita.
- Sì, sì. – agganciò il bracciale al polso. – Suonata da me.
Mi stiracchiai e non feci domande, doveva essere particolarmente ubriaco. Chiusi gli occhi e mi lasciai trasportare dalla musica. In un certo senso, fu piacevole trascorrere una serata in quel modo. La mia vita negli ultimi tempi era cambiata ma, nonostante tutto, la sera mi rintanavo nella mia camera e piangevo lacrime amare. Quel ato mi stava facendo are le pene dell'inferno. Quante persone potevano dire di non essere riuscite a risorgere dopo anni di solitudine? Mi sentivo parte di quella fascia di gente “strana”, quella definita pazza. Ero l'unico essere umano della terra che non poteva essere capito, perché nessuno era come me. Cosa potevo raccontare ai miei genitori? Cosa potevo dire agli psicologi? “Vedete, sono come Biancaneve, per essere svegliata ho bisogno del bacio del vero amore. O una botta di in testa, di quelle che ti fanno dimenticare gli ultimi 30 mesi”.
- Aileen cosa pensi? – disse Kheltron, abbandonando il mento sul tavolo. Posò tutta la sua attenzione su di me. Probabilmente si aspettava che fi una delle mie scenate, che scoppiassi in una delle mie crisi di pianto, o che mi inventassi una bugia. Eppure non lo feci, gli dissi la verità.
- Era meglio nascere in una favola a lieto fine.
- Una favola?
- Ma sì! – gesticolai, segnando ogni punto su un dito diverso. – La magia. Un luogo incantato. Una strega cattiva che viene sconfitta. Degli amici sinceri che non ti lasciano mai. I balli a corte. Un amore che non ti tradisce. Un bosco e la natura. Gli animali parlanti. E alla fine: vissero per sempre felice e contenti.
- Mmm... sembra bello.
Mi pulii il vestito ricoperto di zucchero a velo, incapace di alzare gli occhi per guardarlo.
- Vieni, – disse Kheltron, prendendomi la mano. – Andiamo.
Non gli permisi di tenermi per mano, e mi sganciai un attimo dopo che mi aveva toccata.
- Perché no? – chiese.
Mi prese per mano e mi portò al centro della stanza, quella volta senza proteste da parte mia. Era visibilmente alticcio. La Yikira di Kheltron brillava intensamente, illuminando il buio che si era creato attorno a noi. Un buio poco reale, che vedevo solo io.
Appoggiò una mano sul mio fianco e con l'altra mi strinse le dita.
Chiusi gli occhi e li strinsi forte, mi sforzai di aprirli e di fare quello che era necessario. Dirgli che non volevo. Ma tutto quello che feci fu stringere le palpebre ancora più forte, negando a me stessa ogni cosa.
Kheltron staccò immediatamente la mano dal mio corpo, ma solo per posarla sotto il mio mento. Alzò il mio viso finché non avvertii il suo sguardo addosso. Il suo respiro caldo sulla pelle. Peggio, il mio si fece più affannato. Che mi prendeva?
Lui era troppo sicuro di sé. Per cui aveva in corpo troppo alcool, o si era drogato, e io non lo avevo visto.
Deglutii.
Il suo profumo mi inebriò, mi drogò. Mi offuscò.
Cercai di allacciarmi alla mia Yikira. Provai ad aggrapparmi ad essa per difendermi da qualsiasi cosa lui stesse facendo, ma non sortì alcun effetto.
- Non aver paura.
Si scostò un po' da me e mi accompagnò in una giravolta, poi un'altra. Un'altra ancora. Mi strinse i fianchi e mi fece dondolare dolcemente. La melodia fu un sottofondo piacevolissimo. Le note sembrarono plasmarsi sulla nostra pelle. Un'altra giravolta. A quel punto aprii gli occhi.
Mi stava facendo ballare.
Inclinai il corpo, pericolosamente vicino al pavimento, con la sua mano ferma a sostenermi schiena.
Scoppiai a ridere, una risata liberatoria. Capii che non voleva farmi del male.
Potei udire il battito del suo cuore. Un suono perfetto e armonioso che si espanse nel mio. Sarei potuta svenire in quello stesso istante e lo avrei fatto felicemente. Non voleva farmi male.
- Non è proprio un ballo a corte, – disse lui sorridendo.
Quello era la seconda volta che lo vedevo sorridere.
Ritornammo dritti al centro della sala, trasformata sul momento in pista da ballo. Era assorto, perso nei pensieri e non stava dedicando uno sguardo specifico.
- Tu a cosa pensi? – chiesi.
Lo sguardo pensieroso si spense, mi fissò con nuovo interesse. – Perché piangi tutti le notti? Perchè stai sempre male?
- Come fai a sentirmi? – chiesi guardandolo stupita.
Distolse lo sguardo, ma non si slegò dalla mia mano. – Credimi, – disse. – A volte piangi così forte che si sente in tutte le stanze.
Le mie guance divennero bollenti. – Oh, – dissi balbettando. – Ecco...
- Sono sette anni che ti osservo, – sospirò. – Sette anni che ti seguo. In ato ero solo, e non sempre ero con te. Perciò mi chiedo... che cosa mi sono perso? Mi è sfuggito qualcosa, perché negli ultimi due anni sei diventata sempre più triste, sentivo che ti stavi spegnendo.
Quello fu il momento in cui capii che lui sapeva di essersi perso qualcosa della mia vita. I suoi occhi si colmarono di una tristezza che non avevo mai visto prima. Mi dispiacque vederlo così affranto. Ma non ebbi né il coraggio, né la forza per rispondergli, così mi limitai a non dire nulla.
- Va bene, – disse infine. – Ti dico una cosa di me.
Voleva ottenere la mia fiducia.
- Ho un Simbolo.
Io scossi la testa. – È una caratteristica galatriana?
- Diciamo di sì. Significa che sento sempre le emozioni di qualcuno, anche se usa la Yikira. E quel qualcuno può sentire me.
Inclinai la testa. – Io ti non sento.
Lui scosse le spalle. – Non tu. La mia donna.
Non sapevo che Kheltron ne avesse una, né che i Custodi potessero averla, eppure non mi era mai stato detto il contrario. Forse, come Cuyed, era stato Prescelto, e di amore non ve ne era.
Potei notare il suo dolore, ma non sappi cosa dire. Di solito, era l'amore a legare due persone. Non era il suo caso. La smorfia di sofferenza sul suo volto dichiarava apertamente un'unione non corrisposta, o il dolore di un'amore vissuto a distanza. Le cose che gli altri mi avevano detto quando ero stata male non mi avevano mai aiutata. Erano le solite frasi di circostanza: “vedrai che non il tempo...”. Certo, come no. Il tempo. Forse nella bara. “Il mare è pieno di pesci”. Pensavo che i pesci puzzassero, e più ava il tempo più emanano fetori insopportabili. “Morto un papa se ne fa un altro”. Uno che non poteva ferire. Uno indifferente. Nessun sentimento, nessun rischio di finire nella brace un'altra volta.
- Andiamo a dormire, – disse separandosi da me.
Lasciai che i pensieri fluissero fuori dalla mente e presi la sacca che avevo preparato la mattina, conteneva varie cianfrusaglie tra cui il pigiama e lo spazzolino.
Lo seguii verso la camera da letto, dopo aver attraversato due corridoi a spirale e due porte automatiche con apertura da un solo lato.
L'arredamento era moderno, spartano e spoglio, niente a che vedere con la mia camera. Un letto grande che si plasmava con il pavimento, un armadio e una
cassettiera perfettamente incassati nelle pareti, predendo così la forma aliena e arrotondata della Cupola. Tutto bianco e lucido. Tutto strano e galatriano. La bajour fu l'unico oggetto ad attirare la mia attenzione. La forma ricordava un albero, al quale erano attaccate tre foglie di vetro rosa, intagliate in modo da mostrare le più piccole venature. Immaginai che fosse stato ricavato dalla Pietra.
Ercole trotterellò in camera e si accucciò ai piedi del letto.
- Hai davvero buon gusto nell'arredamento! – esclamai, allargando le braccia e indicando la camera. – Starei ore a parlare con te su come rendere più allegra questa stanza ma, essendo tardi, ti auguro una buonanotte.
Mi voltai e aspettai che uscisse dalla stanza, ma lui ridacchiò.
- Questo è l'unico letto.
- Ah, – fu la mia unica risposta. Cercai contatto con la Yikira, immediatamente, rendendomi conto che era sempre più ubriaco. Non si sarebbe mai comportato in quel modo se avesse avuto il controllo.
- Dato che non ho divani, – fece lui, – o poltrone, possiamo dormire insieme.
Spalancai gli occhi. – Oh. Va bene, – dissi. – Dormo io sul pavimento.
Presi un cuscino e mi diressi velocemente fuori da quella stanza.
- Ma piantala! – intimò. – Dove vai?
Mi voltai a guardarlo. – Non lo vedi? Lontano da te!
Mi strattonò così velocemente che non ebbi il tempo di girarmi. Camminai in retromarcia fino alla camera da letto. Venni lanciata sul letto, poi, lui si avvicinò e si buttò sopra di me.
- Mi fai male! – urlai. – Pesi una tonnellata!
- Non è vero.
Lo picchiai con il cuscino, visto che era l'unica arma che avevo. Arma inutile. Non conoscevo nessuno che si fosse ferito con cuscino. Me lo tolse dalle mani. Mi restava la mia Yikira, ma non sapevo usarla bene. Mi sarei dovuta concentrare, ma con lui addosso era difficile. Ero seppellita dal suo corpo.
- Rimango così tutta la notte se ti azzardi ad alzarti! Ma potresti sempre deciderti a parlarmi e dirmi cos'è che ti fa tanta paura.
Lo guardai arrabbiata. Dovevo prendere tempo ed escogitare qualcosa. Non volevo dormire assieme a lui. Dovevo stare sola, io e le mie notti solitarie.
- Sappi che ho sete! – strillai. – Devo bere! Devo bere! Devo bere!
- Aileen, – bisbigliò delicatamente al mio orecchio. – Non voglio farti niente.
Mi liberò le braccia e mi ò una bottiglia d'acqua.
Maledetto Kheltron! Perché io non ero brava nemmeno la metà? Che rabbia!
Portai la bottiglia alle labbra e bevvi avidamente. Kheltron mi tenne d'occhio, sentiva che stavo architettando qualcosa.
- Tu non bevi? – dissi dopo essermi staccata dalla bottiglia.
- No.
La bottiglia mi sfuggì di mano, e venne posata sulla cassettiera.
Kheltron aveva il pieno possesso della sua mente, delle sue azioni, della sua Pietra. Non era affatto ubriaco! O forse lo era, ed era per quello che si era preso quelle libertà con me. Non capivo più niente. Dovevo calmarmi.
- Non voglio farti male, – dichiarò sinceramente.
- Farò la brava.
- Davvero?
- Sul serio, hai ragione tu. Sono capacissima di restare qui a dormire, con te. – gli sorrisi timidamente. Abbassai lo sguardo. – Insomma, Cuyed non si arrabbierà?
- No, – disse Kheltron. – Non vi siete ancora scelti, e anche se lo aveste fatto non sarebbe cambiato niente. Da noi ci sono così poche donne che l'uomo gli concede sempre di are la notte con chi vuole. È nella nostra educazione.
Tossii e per poco non soffocai. Quella cosa mi sorprendeva ancora.
- La tua donna non si arrabbierà quando lo scoprirà?
Lui si rabbuiò.
Aha! A quanto pareva ogni donna poteva avere tutti gli uomini che voleva, cosa che sulla Terra ti potevi scordare, almeno teoricamente. D'altra parte, le galatriane erano costrette ad avere un Prescelto per un anno intero. Galatria aveva Regole strane.
- Probabilmente sì, ma non posso dormire sul pavimento perché domani sarò di guardia da Erixia. Poi, non posso, e non voglio, vederti dormire a terra per colpa mia. Mi devi scusare se non ho altro su cui dormire, di solito sono solo, – mi scoccò un'occhiata benevola. – Potrei tenermi sveglio con la Yikira ma, per favore, concedimi due ore di sonno.
- Ok, – dissi titubante, pentendomene all'istante.
Affondò il viso nei miei capelli. La sue dita abili sganciarono il bracciale dal polso, gettando la sua Pietra sulla coperta.
Sentii le sue emozioni, le sue sensazioni, la sua tristezza. Sentii sconforto, paura. Nessuna luce colorata. Nessun attacco. Aveva tolto il legame con la Yikira, che per un minuto rimase spenta. E io rimasi salda al mio corpo.
Poi riprese la Pietra, la strinse nella mano facendola brillare e agganciò il bracciale.
- Ora sai cosa provo, – disse. – Non voglio farti del male, e anch'io ho paura a restare da solo con te. Non è un comportamento da Custode, vero?
Tutto quello che lui aveva provato, lo avevo sentito. Erano i sentimenti di Kheltron e non si poteva ridere, non si poteva essere felice. Si poteva capire perché era così duro.
- Perché me lo hai fatto sentire? – chiesi, guardandolo bonariamente. Mi ero
accorta che la sua espressione era tramutata in dolcezza, della stessa bontà e ione che aveva avuto mentre mi guardava sul terrazzo.
- Non c'è bisogno di sentirsi in imbarazzo, – disse, eclissando palesemente la mia domanda. – I materassi sono separati. Io sto da un lato, tu dall'altro.
- Allora perché sei ancora sopra di me?
- Perché ne sei attratta, – sussurrò, lasciandomi sbigottita. – E io più di te.
Una mano sfiorò le mie labbra, l'altra si intrecciò nei miei capelli. I suoi occhi si posarono sui miei.
Scossi il capo. – Tu non sai cosa provo...
- Come quella sera a Roma?
Si abbassò così lentamente che ebbi tutto il tempo di vedere ogni sfumatura dei suoi occhi blu.
Il mio sguardo cadde inevitabilmente sulla linea della sua bocca.
- Aileen...
Io non mi mossi. Avevo le farfalle nello stomaco, nella pancia, nella testa, ma non mi rassegnai all'idea che fosse possibile. Feci cadere la barriera della Yikira, non potevo resistere oltre con quel contatto addosso. La mia concentrazione si stava disperdendo. Vedevo solo il suo viso. Sentivo solo il mio calore irradiarsi in tutto il corpo.
- Aileen…
Si avvicinò con una lentezza devastante, senza esitare. Il mio viso si mosse da solo, andando incontro al suo.
Le sue labbra mi sfiorarono. Le percepii combaciare perfettamente sulle mie. Chiusi gli occhi, permettendo al calore di espandersi e prendere possesso di me. Kheltron, dapprima insicuro, appoggiò le sue labbra con più decisione. Mi baciò. Ci baciammo.
La sua mano indugiò sul collo e scese lentamente, infilandola nella tasca del mio pantalone. Quel gesto mi annebbiò la mente e ogni altro senso.
Mi staccai un attimo per guardarlo negli occhi. Per capire se ero io a fare tutto quello, o ero influenzata. Ma era tutto normale.
Kheltron rimase attaccato al mio viso, con la fronte appoggiata sulla mia, a guardarmi negli occhi. La sua mano stringeva la mia Yikira spenta.
Poi abbassò lo sguardo. Disegnò dei piccoli cerchi sopra il seno, e appoggiò lentamente la Yikira, che ricominciò a brillare.
Infilò l'altra mano nei miei capelli.
Inclinò il capo e lo tuffò nell'incavo del mio collo. Il respiro mi solleticava la pelle. La sua lingua calda mi sfiorò lentamente l'orecchio. La guancia. Le labbra, invitandomi a schiuderle.
No.
Non è che in quel momento non lo volessi, in effetti lo desideravo, ma non volevo essere l'amante di una notte. Come avrebbe detto Lilian: “Non puoi chiamarla limonata quella! Dov'era la lingua?”
Kheltron mi guardò perplesso, e io mi sentii arrossire come i fanali posteriori dell'automobile.
Si allontanò e si mise dalla parte opposta del letto, guardando il soffitto.
- Un bacio casto, come nelle favole. Tu lo volevi, e io... io più di te. Molto più di te. Molto più di un bacio.
***
Capitolo 42 – l’ascesa ufficiale Due occhi blu.
- Buongiorno, – disse Kheltron. Si avvicinò rubandomi un bacio sulla guancia.
Portai il lenzuolo sopra la testa per scansare altri baci. Durante la notte avevo avuto freddo e mi ero infilata sotto le coperte.
Kheltron mi scoprì il viso.
Lo fissai. Aveva degli occhi blu, assonnati. I miei non dovevano essere da meno in quanto a stanchezza, non avevo dormito molto.
Kheltron sorrise malizioso, cercando di avvinarsi ancora una volta.
- No! No! – farfugliai con la voce impastata dal sonno. Temevo di sapere cosa volesse.
Lui scoppiò a ridere mettendosi a sedere sul bordo del letto, gettando le coperte da un lato. Era rimasto accanto a me tutta la notte.
Valicai la soglia del corridoio, per lavarmi, per cambiarmi, per scappare dai suoi gesti, ma tornai sui miei i con un misto di imbarazzo. – Non ricordo la strada...
Lui si alzò, mi prese per mano, intrecciò le dita con le mie e mi fissò. Credevo che si sarebbe chinato per baciarmi di nuovo, ma non lo fece. Mi mostrò, invece, il percorso corretto per raggiungere il bagno. Porta scorrevole. Corridoio. Porta scorrevole.
Mi sciacquai velocemente il viso e altrettanto velocemente lo costrinsi a uscire.
- Che c'è di male se ti guardo?
- Sei impazzito? Ho bisogno della mia intimità!
- Va bene! Va bene! Su quella parete c'è un piccolo pannello. Se lo tocchi due volte la porta si blocca e non può entrare nessuno. Per sbloccarla toccala altre due volte.
Così capii come aveva fatto la sera prima a chiudermi in sala, mentre lui era andato a ritirare il cibo cinese.
Quando uscii dal bagno, mi diressi verso la sala, che per mia fortuna, ricordavo dov'era. Trovai Ercole con la testa attaccata al pavimento lucido e bianco, spazzolava dei cereali al miele.
- Non credo che gli facciano bene...
- Ma ho solo questi! – Kheltron sorrise e sventolò la scatola dei cereali. – Ne vuoi?
- No.
Non avevo fame. Volevo tornare il più presto al mio appartamento. Lontano da Kheltron e da quello che era successo. – Mi accompagni a casa?
La macchina era parcheggiata esattamente dove l’aveva lasciata Lyoxc, e mi chiesi come avesse fatto a tornare indietro.
Kheltron mi accompagnò a casa in silenzio, ma cercando di rubare qualche bacio sulla guancia, senza successo. Io mi scansavo sempre.
Avevo dormito poco ripensando a quello stupido bacio. Non capivo come era potuto accadere. Avrei dovuto prendere quella faccenda in maniera più sobria: me ne sarei dovuta fregare. Eppure quello che avevo provato non aveva nulla a che vedere con le sensazioni di rigidità che avevo avuto con Cuyed. Quel bacio casto mi aveva mandato in corto circuito il cervello, e mi aveva sciolta come burro al sole.
Aprendo la porta dell'ascensore vidi Erixia sulla soglia della mia porta di casa. La guardai basita, primo perché non si era mai azzardata a venire da me, secondo perché come Imperatrice pensavo non si muovesse senza guardie corpo. Era
sola.
Portava un cappotto nero, un gonna verde di lana, degli stivali neri e delle lenti a contatto marroni. Sembrava una comune terrestre.
- Buongiorno Aileen, – disse sorridendo. – Ti aspettavo.
Dolcezza.
Io feci un sorriso tirato e un leggero inchino. Tolsi il contatto con la Yikira.
- Buongiorno, – dissi impacciata, cercando di strattonare la sciarpa: si era incastrata nei manici della sacca e si era attorcigliata intorno al mio corpo. Nel tentativo di liberarla mi sfuggì il guinzaglio e Ercole si fiondò ai piedi di Erixia, annusando e saltando.
- Fermo Ercole! – esclamai rincorrendolo e afferrandolo.
- Non preoccupati, – fece Erixia allargando il suo sorriso dolce. – Io e questo birbante ci siamo già conosciuti.
Si abbassò a fargli qualche coccola e io restai ancora più stranita. La sua dolcezza trasparì in ogni azione.
- Kheltron mi ha avvisata del regalo che voleva farti, – disse alzando il capo e guardandomi. – Non ho saputo resistere. L’ho voluto vedere.
Tenerezza. Piacere.
- Non ne sapevo niente, – dissi alzandomi. – Io non c'ero…– mi bloccai prima di rivelare il luogo in cui mi trovato. – Ero lontano.
Inquietudine.
- Già. Sei fuggita, ma speravo tanto che tornassi.
Speranza.
Kheltron ci raggiunse dalle scale, inondanoci di rispetto. Deferenza. – Erixia! – fece breve inchino con il capo e la fissò con quei suoi occhi blu. Li stessi che si erano fermati sui miei poco prima di baciarmi. Mi portai una mano sulla guancia temendo di arrossire.
- Abbiamo raggiunto un accordo? – fece lui, slacciandosi il bracciale con la Pietra e infilandoselo nella tasca del pantalone.
Erixia annuì e si alzò per riprende una postura ritta. – Sono qui per parlare con Aileen, ho pensato fosse meglio così, e poi, – sorrise, – mi fa bene camminare.
Sincerità.
- Di cosa dobbiamo parlare? – dissi inserendo la chiave nella toppa della serratura. – Perché ogni volta... non finisce bene.
Erixia chinò il capo. Tristezza. Dispiacere. Timore.
Kheltron appoggiò una mano sulla mia spalla spingendomi in casa.
- Lei tu vuole bene, Aileen, – mi bisbigliò nell'orecchio. – Non trattarla male.
Io inarcai un sopracciglio, mi voltai e lo sentii. Comprensione. Fiducia. Scossi il capo senza dire altro.
Ercole si fiondò sulla ciotola e iniziò a morderla, come se non avesse mangiato.
- Se volete togliervi i cappotti, potete appoggiarli sul divano o qui, – dissi, appendendo il mio sull'appendiabiti.
Andai in cucina. Kheltron mi seguì. Si fermò davanti alla portafinestra socchiusa. Sicurezza. Aveva un pantalone marrone, la cintura nera abbinata alle scarpe, e un maglione blu che risaltava il colore dei suoi occhi. Mi incantai a guardare la linea delle sue labbra che la sera prima mi avevano sfiorata.
Istintivamente portai una mano sulla mia bocca. Non avevo idea di cosa mi stava succedendo.
Kheltron mi fissò, ma non rimase a lungo immobile. Due i gli bastarono per avvicinarsi. Desiderio. La sua mano si poggiò sulla guancia.
- Aileen, – sussurrò, con gentilezza. Le dita scesero sul mio collo. Avvicinò il viso sfiorandomi il naso.
Attrazione.
Era maledettamente bello, anche con quel piccolo fattore che odiavo: era galatriano.
Stavo per cedere.
Due colpi di tosse di Erixia ci fecero separare all'istante.
Quello che avevo pensato fosse una gonna era, in realtà, un abito di lana verde con le maniche lunghe e scollo profondo.
- Spero di non essermi presa l'influenza, – fece lei distrattamente. – È piuttosto spiacevole ammalarsi.
Imbarazzo. Clemenza.
Ci aveva sentiti.
Io arrossii inevitabilmente e Kheltron, quasi volendo difendermi da quella situazione, si parò davanti dando ad Erixia un fazzoletto. Sicurezza.
- Nel caso ce ne fosse bisogno, – disse lui, porgendole un pezzo di stoffa rosa.
- Grazie, – asserì lei con evidente impaccio. Imbarazzo.
Mi diressi al bancone per aprire il mobiletto inferiore. Trafficai con pentole e padelle, alla ricerca di una distrazione. – Faccio il tè, ne volete? – chiesi titubante perdendo tempo a cercare il bollitore.
- Volentieri, – rispose Erixia, chinandosi accanto e aiutandomi con la scelta del tè. – Proviamo quello al cioccolato? – domandò. Bontà.
- Va bene, – dissi io ancora turbata. – Kheltron tu ne vuoi?
- Sì.
Sincerità.
Era un tormento sapere che Erixia ci aveva sentiti. Volevo usare la Yikira per nascondere il mio imbarazzo, ma non potevo. Andai ad aprire la portafinestra, poi presi tre tazze rosa e lo zucchero di canna.
- Cuyed è partito, – disse Erixia guardandomi dolcemente. – Proprio ieri.
Sincerità. Curiosità.
- Oh, io... – non sapevo cosa dire. Erano state sufficienti poche ore senza di lui per lasciarmi abbindolare da un altro.
Kheltron si incupì. Rabbia e sconcerto.
Non fui l'unica a voltarmi per guardarlo.
- Tutto bene? – domandò Erixia. Preoccupazione.
- Cuyed non si è comportato bene con Aileen! – disse, furioso. – L'ha attaccata. Se non ci fossi stato io, non so..
Rabbia.
- So già tutto! Ieri alla riunione Quezel me ne ha parlato. Abbiamo deciso che sarà Aileen, – mi indicò con un gesto disinvolto, – a scegliere la punizione.
Fiducia.
- Eh? – feci interdetta dall'ingrato compito che mi era stato assegnato. – Io cosa?
- Dovrai punirlo! – disse, risoluto, Kheltron.
Guardai i palmi delle mani arrossati dal freddo e ancora screpolati. – Non posso fare una cosa del genere! È crudele.
Kheltron si adirò.
Erixia fu perplessa.
- Quello che ha fatto lui è stato crudele! – ribadì Kheltron, facendo scrocchiare le ossa delle dita. – Ti ha circuita apposta per cercare di raggiungere i suoi scopi.
- Non capite. Non vorrei fare disastri, – dissi indietreggiando, e andando a finire contro il frigorifero. – E non saprei cosa fare.
- Aileen, – fece Erixia, posando una mano sulla mia, – potrei consigliarti qualche
giusta punizione?
Delicatezza. Bontà.
- Ma, non so. – Nascosi le mani dietro la schiena, interrompendo il contatto con la sua pelle. – Le punizioni non mi sono mai piaciute, sono barbare.
- È barbaro costringerti a fare qualcosa che non volevi! E senza che potessi respingerlo!
Kheltron era furioso. Erixia alzò una mano per fermarlo.
- Calma Kheltron, non è il caso di arrabbiarsi in questo modo. Ci stai infondendo sentimenti molto spiacevoli e Aileen è già abbastanza sconvolta. Si rimanderà fino a quando, lei stessa, non avrà deciso che punizione infliggergli.
Pacatezza. Autorità.
- Perché? – fece Kheltron, infuriato. – Dovrebbe farlo ora!
Quel sentimento mi intimorì. Se possibile, aderii ancora di più al frigorifero.
- Così è deciso Kheltron! – disse lei, autoritaria. – Vuoi discutere a lungo questa
scelta?
Lui si accasciò sul divano, rassegnato. – Mi piacerebbe, ma non ho speranze. Aileen ha paura di agire.
Io gli lanciai un'occhiata torva, pur sapendo quanto avesse ragione.
- Bene, – affermò Erixia, prendendo il bollitore e versando un po' d'acqua calda nelle tazze. – È tutto a posto Aileen.Vieni a sederti.
Mi sedetti al tavolo, il più lontano possibile dalla furia di Kheltron, che sentivo dispiaciuto e arrabbiato alternativamente.
- Parliamo di cose piacevoli, – disse lei, cercando di infondere un po' di euforia.
Lei sorrise. – Avrai una Cupola!
Gaiezza.
Sbattei le palpebre basita.
- Avrai una Cupola! – ribadì, felicemente. Le sue labbra rosee sfiorarono appena il bordo della tazza di tè.
Mi grattai la fronte un po' sconcertata. – Una Cupola?
- È un mio regalo, – disse allargandosi in un sorriso mieloso e autentico, come quelli che spesso mi donava Lyoxc. Affetto. – L'ho fatta venire direttamente da Galatria. Era il mio regalo per il tuo compleanno! Spero tanto che ti piaccia Aileen!
- Davvero? – chiesi stupefatta. La sua gioia sincera mi fece abbassare le difese che mi ero imposta. – Una tutta mia? Santa Galassia! Poter girare il Mondo senza prendere un’aereo.
- Sì! – affermò. – Così potrai girare il tuo Pianeta senza ostacoli! Magari... senza fuggire? – si azzardò a insinuare, guardandomi timorosa.
Timore.
Abbassai il capo per l'imbarazzo. – Mi dispiace per quello, è difficile accettare tutto. Insomma, non ho mai pensato a un Prescelto, ma...
- Credimi, lo so. Persino le galatriane hanno protestato per quella Regola. Per questo le cose cambieranno presto.
Di colpo Erixia si irrigidì, facendo scomparire la sua radiosità. Frenesia.
La fissai preoccupata, con i crampi allo stomaco in agguato.
- Presto? – chiesi tentennando.
Avvicinò il più possibile la sua sedia alla mia e mi fissò. Timore. Preoccupazione.
Un forte angoscia si impossessò di me.
- Il Consiglio ha deciso di fare le dovute presentazione al Mondo. Ovviamente noi ne siamo entusiasti.
- Ah. Bene.
Riversai la testa sul tavolo e iniziai a tremare come una foglia. Fu l'attimo in cui presi coscienza di quello che sarebbe successo a breve termine. La loro fermata sulla Terra era avvenuta per un motivo specifico, che non era semplicemente quello di conoscerci, era per trovare qualche donna disponibile.
Qualcuno mi prese in braccio e mi portò sul terrazzo, perché mi ritrovai a fissare mattonelle rosse e a respirare aria gelida.
- Respira piano, – disse Kheltron, preoccupato.
- Non. Bene. – mormorai r nervosamente, mentre Ercole mi scrutava con attenzione.
- Posso aiutarti? – chiese Erixia. – Vuoi?
Ansia. Premura.
Annuii appena, qualunque cosa era meglio che stare male. I cambiamenti mi sconvolgevano, era un dato di fatto. Non vi era bisogno di altre conferme. Un minuto prima ero entusiasta per la Cupola, ma era un sentimento che era durato poco, un istante dopo la paura aveva fatto capolino dentro di me. Ed erano mie quelle sensazione.
Potevo notare il viso sofferente e timoroso di Erixia, toccata, anche se mai influenzata, dal mio stato d'animo. La sua Yikira, appesa al collo da un ciondolo e un filo sottilissimo, si illuminò intensamente e mi avvolse in un piacevole calore e conforto.
- Grazie, – dissi.
Lei mi sorrise, rincuorata che avessi ripreso un po' di colore sulle guance, e che avessi la forza per stare in piedi da sola. Eppure fu solo un attimo, quello che ne proseguì immediatamente dopo fu nuovamente timore e preoccupazione.
- Ci dobbiamo mostrare al tuo popolo, – asserì lei. – Capisci? È giusto così. Abbiamo fatto are già troppo tempo senza coinvolgervi. Sei pronta? Perché
non potrei fare un o così importante senza di te...
La guardai respirando con affanno. – A cosa?
- A fidarti di noi, – disse, con speranza, e un tocco di paura.
Guardai Erixia. Guardai Kheltron. – Non so quello che devo fare. Non so se è giusto.
- Tu sei la nostra speranza, la Tramite dei due Mondi.
Affetto. Speranza. Preoccupazione.
Fui scioccata.
***
Capitolo 43 Quando Erixia se ne andò, sapevo che presto, da ogni parte del Mondo, si sarebbero trasmessi su: televisioni, radio e riviste, vari servizi sull'ascesa dei galatriani. Così il pensiero del bacio con Kheltron fu solo l’ultimo dei miei problemi. Cosa si sarebbero inventati i giornalisti? E quanto avrebbero rivelato i galatriani?
Avrei voluto gettarmi sul letto e iniziare a bere, soprattutto volevo bere, ma Kheltron non me lo avrebbe permesso, non di prima mattina.
Andai in camera e presi la scatoletta che conteneva la collana. Allacciai il laccio al collo e incastrai la Yikira nel ciondolo, per poi nasconderla sotto un pullover pulito. A contatto con la pelle del mio petto era tiepida e debolmente illuminata. Non avevo avuto il coraggio, nemmeno il pensiero, di chiedere a Erixia un bracciale o un oggetto su cui incastrare la Pietra. Avevo già qualcosa da poter usare, anche se era un regalo di Cuyed. Dovevo tenere la Yikira vicina se volevo nascondere i miei sentimenti.
- Ho bisogno di uscire, – dissi a Kheltron. – Da sola. Tornerò presto.
- Ti concedo un’ora. Poi ti chiamo.
Mi infilai il piumino, il cappello e chiusi la porta. Lui non mi seguì e nemmeno Ercole lo fece.
Girovagai per il paese. Guardai il viso di ogni persona, più intensamente di quanto avessi mai fatto in vita mia. Guardai le vetrine come se fosse la prima volta. Guardai la strada come se non dovessi vederla mai più.
Una giovane ragazza si rifugiò sotto l'ombrello del fidanzato. Rise, felice, dandogli un bacio.
La neve fioccò e sfumò di bianco la mia vista, ma anche il quel modo, e con quel freddo, Sunville era meravigliosa.
- Aileeeen!
Quando mi voltai, fui al contempo felice e intimorita. – Lilian! Non sei al lavoro?
- Non ci vediamo da settimane e mi chiedi del lavoro? – lanciò uno sguardo carico di rimprovero, poi mi saltò addosso e mi abbracciò.
Era preoccupata.
- Dove sei stata? – chiese. Apprensione. – Ti ho chiamata, ti ho scritto, sono venuta a casa tua! Non ti ho mai trovata. Lyoxc non ha voluto raccontarmi niente.
- Lilian, – sussurrai io mogia. – Sono successe molte cose, non so se ho la forza per affrontarle. E non so se tu vuoi ancora stare ad ascoltarmi.
- Aileen... – sussurrò lei abbracciandomi di nuovo. – Sono in ferie, perché non ci sediamo da qualche parte e parliamo?
Annuii soffiando il naso, più per l'effetto del freddo, che per le lacrime che ostentavano timidezza. Scartai tutti i luoghi chiusi in cui il solo respirare potesse
essere udito, e scelsi le panchine accanto alla piccola Chiesa. La neve era depositata ovunque, ma facendo un po' di pulizia riuscimmo a ottenere un posto pulito.
Le raccontai quasi ogni cosa: dalla mia fuga verso Roma, alla scoperta di quella mattina, omettendo qualche dettaglio, quale: il Simbolo di Kheltron. Le lanciai delle occhiate furtive per verificare la sua reazione, ma lei non si scompose mai. Ogni tanto esclamava: “oh–mio–Dio!”. Spalancava la bocca inorridita. Scuoteva la testa, scioccata.
- Quel Carlos non è affatto innocente! – berciò lei. – Avresti dovuto dargli un ceffone!
- Cuyed, – la corressi, – non Carlos.
- Sì beh, quello che è.
Potei sentire la sua angoscia, e la sua costernazione, e fui felice di scoprire che non solo mi credeva, mi appoggiava.
- Invece Kheltron?
Abbassai il capo. – Veramente il punto saliente di questa storia è il loro debutto sulla Terra.
- Il grande giorno, – disse lei, preoccupata. – Ci sarà il pandemonio. Gli diranno del piano per la ripopolazione?
Scossi le spalle. – Non credo che glielo diranno, spero. Se sono abbastanza furbi non lo faranno. Si tratterà solo di mostrarsi. Dubito che gli dicano di possedere un'interazione naturale.
- Mmm... – fece lei portandosi un dito sulle labbra arrossate, – però sanno fare un sacco di cose fiche, e anche tu ci riesci! Dimmi cosa provo ora!
Curiosità. Eccitazione.
- Lilian... – sospirai. – Non mi sembra il caso.
- Dai, – insistette, spalancando gli occhioni grandi e sbattendo le ciglia. – Per faaavoooreee.
Svoltai gli occhi. – Curiosità.
- Ah! Non vale, era troppo facile, avresti anche potuto indovinare.
Delusione.
- Delusione, – ribattei io.
- Oh! – esclamò, stupita, mettendo le mani sui fianchi. – Allora è vero! Non ho mai potuto mentirti senza che tu lo sapessi.
- Già, ma non ne ero così cosciente prima. Pensavo che le mie fossero intuizioni. Ora è tutto diverso. Sono consapevole di quello che provano gli altri. Devo stare attenta.
Lilian ridacchiò, allegra. – Dì quello che vuoi, ma hai un dono straordinario. Puoi sentire le emozioni della gente!
- Sei più entusiasta di me!
- Tu ti sminuisce sempre! – esclamò puntandomi gli occhi addosso. – Almeno adesso potresti rivedere la tua posizione!
- Ma no! E solo che... non è facile. È trano stare con i galatriani e non sentire niente. E strano stare con gli altri sentirli sempre e sapere che… se perdo il controllo possono influenzarmi. Io non lo sapevo. Non sapevo che funzionasse così.
Lei sorrise. Fiducia.
- Tu che hai fatto in questi giorni ?– le chiesi.
- Oh, – disse lei, lanciandomi un'occhiataccia. – A parte preoccuparmi per te?
- A parte quello.
- Ho lavorato.
Titubanza. Insicurezza.
- Sei sicura di aver fatto solo questo? – chiesi inarcando un sopracciglio. – Non è che nascondi altro? È successo qualcosa?
- Uffa! – si aggiustò una ciocca di capelli. – Ho lavorato e sono uscita con Lyoxc. Un paio di volte.
- Cosa? – dissi io costernata. – Perché con lui?
- Lo sapevo che non l'avresti presa bene, – sospirò, rassegnata.
- È un galatriano! Lo sai cosa vogliono quelli?
- Mi fai la predica signorina “ho un promesso sposo, ma bacio un altro?!”
Sdegno.
- Non è la stessa cosa! – mi difesi. – A me non piace nessuno. Mi rifiuto di mettermi con uno di loro.
- Figurati!.
Incredulità.
- Sono galatriani! Vengono da un altro Pianeta! – sbottai io. – Ti rendi conto di quello che dici?
- Sono solo uomini Aileen! – fece lei, alzando le braccia facendo ricadere la neve sulla sua testa. – Magari, sono anche meglio degli uomini che trovi qui. Lyoxc è la persona più gentile, premurosa e allegra che abbia mai conosciuto!
Sincerità. Fiducia.
- Ma lui può sentirti! – ribattei con ostinazione. – Come fai a fidarti?
- Mi fido proprio perché può farlo! Può capire cosa provo in ogni istante, eppure rimane lì anche se mi arrabbio.
Onestà. Fiducia.
- Oh mio Dio! Ci sei andata a letto? Ti sei innamorata?
Lei non mi rispose e non mi guardò. Timore.
- Lilian, che ci hai fatto? – ribadii.
- Non ci sono andata a letto se è questo che vuoi sapere! – si alzò di scatto e mi fissò. – Non che abbia importanza dato che mi piace, e potrebbe succedere.
Determinazione.
- Potrebbe anche tornare su Galatria!
Sapevo di farle del male, ma era meglio detto da me che, dopo, detto da lui.
- E se andassi con lui? – disse sfidandomi. – Che male ci sarebbe?
Sincerità.
- Lilian…
- Non ci sarebbe nulla di male!
- Non so davvero cosa dire...
- Guarda Aileen, – sbatté un piede nella neve, – la felicità va inseguita e accettata, tu ci giri attorno e la eviti. Chi ti dice che sarai serena con uno della nostra cittadina, e infelice con uno di un Mondo straniero?
La guardai. Era Determinata.
- Nessuno te lo garantisce Aileen! Nessuno!
Davanti a tanta sincerità e sicurezza, mi arresi.
***
Capitolo 44 Nel pomeriggio, gli allenamenti con Quezel si svolsero nello stesso campo da tennis dell'ultima volta. Aveva smesso di nevicare, ma il freddo era aumentato,
anche il solo respirare provocava delle condense di aria calda che si distaccavano dal gelo.
Ercole e Kheltron si erano allontanati per giocare con una pallina.
- Concentrati Aileen! – disse Quezel, alzando le braccia e investendomi con le sue sensazioni.
Cercai di respingerlo, ma furono azioni abbastanza fallimentari.
- Meglio! – Quezel mi dedicò un sorriso fiero. – È esattamente questo che devi fare!
- Che ho fatto?
- Hai reagito, non te ne sei accorta?
Mi grattai la testa. – Non tanto.
- Male, – fece lui soffiando buffi di fumo. – Devi sentire le tue emozioni. Concentrati sulle tue e annienterai le mie.
- È stato solo un caso se ci sono riuscita.
Lui mi fissò. – Sei stata brava, – si avvicinò dichiarandosi sconfitto.
- Possibile?
- Stai stabilendo un legame continuo con lei, – indicò la Pietra con la mano libera dal sigaro. – La tua mente impara ad agire assieme a lei in modo naturale.
- Non capisco. In così breve tempo?
- Hai una mente molto aperta, al pari di un galatriano. Certo, devi imparare molto, ma la Yikira assorbe il mio attacco se tu ti concentri su di te, – disse in tono ammirevole. – Ora che riesci a incanalare l'energia emozionale senza bruciarti e sai controllare la tua mente, potresti farcela a respingere gli attacchi.
- Io quando potrò attaccare?
Volevo imparare. Se potevano farlo loro, potevo farlo anche io.
Quezel tossì, inciampando nel fumo del suo sigaro, poi si schiarì la voce. – Sei impaziente ragazza. Lo sai che dovresti stare attenta? Non puoi attaccare l'energia emozionale, non sei ancora in grado di farlo.
- Ma, teoricamente, come dovrei fare?
- Dovresti abbassare barriera della mia Yikira, devi attaccare qui, – disse indicando la tempia, – la mente.
- E come faccio ad abbassare la barriera? – chiesi perplessa.
- Devi usare l'energia della tua Yikira per togliere la barriera della mia, e non sai ancora farlo.
- Mi sa che è troppo complicato.
Quezel annuì con espressione pienamente soddisfatta. – Sì, per il momento. Ora continueremo ad allenarci nella difesa. Siccome temo che la tua mente si abitui alla mia tattica, emo Kheltron.
- No! – esclamai alzando le mani. – Non con lui!
Quezel inspirò, portando alle labbra il sigaro, ed espirò. – Non preoccuparti, gli chiederò di andarci piano.
- Non sono preoccupata!
Quezel mi squadrò. – Avete litigato?
Sbuffai. Incrociai le braccia.
- Kheltron, – chiamò Quezel. – Vieni qui.
Strinsi la Yikira al collo e mi concentrai, anche se a detta di Quezel oramai eravamo collegate, era meglio essere sicuri. Dopotutto, si trattava di Kheltron. Le cose con lui non sembravano funzionare mai nello stesso modo, e giusto qualche ora prima ci eravamo baciati. Non ero sicura di potermi difendere da quello, e da lui.
Kheltron sbucò alle mie spalle, spaventandomi.
- Sei pronta? – disse lui, girandomi in tondo come a caccia di una preda. I suoi occhi si incollarono ai miei e credetti di essere già stata sopraffatta.
- Sì! – dissi io ostentando una sicurezza che non mi apparteneva.
Se mi attaccò non me ne accorsi minimamente.
Il buio. Il silenzio.
Tenerezza. Protezione. Cioccolato liquido che scivolò sulle mie labbra, sulla mia lingua. Arrivò da lontano la piccola scia di luce, era arancione. Si fermò sulla
punta delle mie dita, ci girò attorno. Mi solletico piano, facendomi ridere.
Il chiarore della luce del pomeriggio. La mia mente. Il mio corpo.
Kheltron mi stringeva. Mi fissava.
Il mio cuore batté velocissimo. Dovetti scacciare l'attrazione che provavo con tutta la volontà.
- Oh, ma insomma! – dissi voltando gli occhi. – Sta diventando un'abitudine!
- Sei stata tu! – insinuò lui. – Tu mi hai attaccato non appena ci ho provato io.
- Impossibile! – ribattei, divincolandomi dalla sua possente stretta. – Non sono in grado di farlo!
- Interessante, – disse Quezel. – Molto interessante.
Io e Kheltron lo guardammo piccati.
- Cosa è interessante? – sbottai io. – Non ho fatto nulla! È stato lui!
- Sei stata tu! – ribadì Kheltron, incenerendomi con lo sguardo.
- Smettetela! Non è stato nessuno dei due! – decretò Quezel. – Kheltron non riesce ad attaccarti.
- Perché? – chiesi io.
- Cosa?? – disse lui.
- È evidente, Kheltron, – fece Quezel, mettendosi il sigaro in bocca più volte. – Quando provi a colpirla, l'attacco non funziona. La tua Yikira si rifiuta di farle del male e, invece di attaccarla, la protegge.
- Cosa?? – dissi io incredula.
- Perché? – urlò Kheltron.
- Non lo sai? – gli lanciò un'occhiata molto eloquente, per me indecifrabile. – Per oggi basta così.
E Kheltron si allontanò dopo avermi lanciato un'occhiataccia.
- Non è colpa mia! – gridai.
Un attimo dopo, mi ritrovai da sola con Quezel, e decisi di approfittarne. Gli consegnai, di nascosto, un foglietto con il mio numero di telefono e la mia email.
- Che cos'è un Simbolo? – bisbigliai. – Come si crea? Come funziona?
Lui inarcò un sopracciglio e mi fissò. – Aileen?
- Per favore, – insistetti io.
Non potevo fare quella conversazione con Kheltron accanto, e non potevo aspettare il prossimo allenamento per scoprire la verità.
Lo guardai implorante, e per essere sicura che capisse la mia apprensione, tolsi il legame con la Pietra, che divenne immediatamente fredda e buia.
Lui sospirò e annuì.
***
Capitolo 45 Lyoxc mi telefonò quando ci eravamo già infilati in macchina.
- Sono all'angolo di casa tua, – disse. – C'è Lilian con me, così non desto sospetti.
Se i galatriani non fossero stati capaci di essere furtivi non sarebbero potuti entrare in casa mia, ma loro lo erano. Per questo trovai banale la scusa che usò per vedere la mia amica.
Riattaccai.
Il tragitto fu imbarazzante, quasi quanto il resto della giornata assieme a Kheltron. Cercai di stringere la mente alla Yikira che, grazie alla collana, era sempre a contatto con la mia pelle
Guardavo fuori dal finestrino, ma qualche occhiata verso di lui mi sfuggiva. Lo trovavo puntualmente a fissarmi.
- Non hai niente da fare? – lo rimproverai, piccata del fatto che fossi stata scoperta. – Guarda la strada.
- Ho un turno da Erixia ora, – disse lui.
Parcheggiò e mi lasciò nelle mani di Lyoxc, dopo avergli fatto un cenno con il capo.
Ercole tirò il guinzaglio, correndo come un forsennato, strozzandosi.
- Ercole! – dissi arrabbiata. – Sembra che non vedi Lyoxc da mesi.
Lui non badò alle parole, né ai fatti, e tornò subito alla carica correndo verso di lui.
- Ciao, – dissi svogliatamente, ma sentendo l'eccitazione di Lilian. – Ci rivediamo presto.
Quei sentimenti non mi influenzarono, mi diedero, invero, alquanto fastidio.
- Ciao Aileen, – dissero all'unisono.
- Il sole è tramontato, – dissi sgarbatamente a Lyoxc. – Rientriamo?
- Subito! – esclamò lui, drizzandosi come un soldatino. Si chinò per dare un bacio sulla mano di Lilian, provocando in lei, euforia.
- Certo, certo, – dissi io, iniziando a trascinare Lyoxc dalla manica di un cappotto blu. – Andiamo ora.
I suoi occhi, di un verde da lenti a contatto, non si scollarono da quelli di Lilian,
finché non girammo l'angolo.
- Lyoxc, – dissi aprendo il portone e guardandolo. – Lei è mia amica. Ci siamo intesi?
- È anche mia amica! – ribatté coraggiosamente lui. – Posso avere il permesso per stare con lei.
- Come fai a voler stare insieme a lei? Non è fastidioso sentire le sue emozioni?
- Sì e no, – fece lui alzando le spalle. – È molto sincera e spontanea. Praticamente non ha nulla a che fare con certe galatriane che ho incontrato.
- Mmm... – dissi io incerta. – Non è che sei un Prescelto anche tu?
- No! Sono il figlio di Erixia. Le donne galatriane fanno la fila per me.
- Stammi bene ad ascoltare, – dissi inducendo il mio tono di voce a quello di un cane rabbioso. – Avete enormi differenze, tu puoi persino vivere più di lei!
- Ma Aileen, – disse lui aprendo la porta dell'ascensore, – non le farei mai del male.
Mi voltai infuriata. Ercole abbaiò. – Non vi aiuterò con i terresti. È sufficiente come minaccia Lyoxc?
- Ailenn Grenn, Tramite dei due Mondi. – disse lui con voce pomposa mentre spalancavo al porta di casa. – Vorrei stare con Lilian Portman della Terra perché lei mi piace. Posso affermare di essere uscito con altre donne, tutte galatriane, e nessuna di loro ha mai provocato in me quello che mi fa sentire lei. Spero di riuscire a guadagnarmi la tua fiducia e dimostrarti che..
- Tutto bene Aileen? – disse la voce del mio, anziano, vicino di casa, sbucando fuori dalla porta. La sfortuna! Avevo avuto bisogno di lui in molti momenti, ma non era mai stato presente.
Invadenza. Curiosità.
- Oh, sì sì, – mi affrettai a dire.
- Avevo sentito delle voci, – disse masticando le parole. – Ma vedo che sei sola. La vecchiaia fa brutti scherzi, cara.
- Sarà stato il cane, – dissi indicando Ercole e sorridendo forzatamente.
- Stanno bene i tuoi genitori? È tanto che non li vedo.
Invadenza. Indiscrezione.
- Benissimo, che io sappia, – dichiarai mettendo un piede in casa. – Stanno due piani più sotto se vuole vederli. Arrivederci.
Sbattei la porta. Liberai il cane. Tolsi il piumino, la sciarpa e il cappello e li appesi con tanta rabbia che l'appendiabiti tremò.
- Vicini impiccioni!
Ercole ringhiò, come annuendo alla mia esclamazione.
Lyoxc si aggiustò la maglia del completo verde, poi mi fissò. – Come stavo dicendo poco prima, spero di guadagnarmi la tua fiducia mostrandoti che so comportarmi bene.
- Sarà meglio per te, Lyoxc.
Chiusi il discorso, scacciando con la mano ogni sua preghiera. Raggiunsi la cucina e tirai fuori la carne e l'insalata.
- Si mangia? – disse Lyoxc.
- Si mangia, – ribattei io.
- Lascia fare a me. Ti dimostrerò che sono un bravo cuoco.
Aggrottai la fronte. – Non è necessario. Aiutami ad apparecchiare la tavola.
Lui mise il broncio, come un bambino, ma un secondo dopo era davanti a me sorridente.
- Ho la mappa della tua Cupola! – esordì, sventolando un pezzo di carta davanti agli occhi. – La vuoi vedere?
Cercai di afferrala con un movimento rapido, ma Lyoxc fu più veloce.
- Fammi cucinare e te la consegno, – disse ridacchiando.
- Sei un bambino Lyoxc! – sbuffai, rendendomi conto che forse lo era davvero. Mi rimproverai tacitamente per non averci pensato prima. – Ma quanti anni hai?
Nei suoi occhi si dipinse uno sguardo fiero. – Diciotto.
- Diciotto? Diciotto?
Lyoxc ridacchiò. Nascose il foglio dietro la schiena.
Voltai la faccia scioccata, stavo giocando con ragazzo più piccolo. Più piccolo persino se considerato in età terrestre. E la cosa più sconvolgente era che era il mio Custode!
Lui sorrise nuovamente, porgendomi il foglio. Lo guardai titubante, incerta. Poi lo arraffai dalle sue mani e lo aprii avidamente. Era una semplice cartina scritta in una lingua incomprensibile.
- Non si capisce niente! – dissi io contrariata.
- Il galatriano, ovviamente.
- Non è che avresti un dizionario? – chiesi io.
- Aspetta, ti metto la traduzione di lato.
- Si, bene, – dissi io. – Facciamo che mi porti un libro o un dizionario, così la prossima volta mi arrangio da sola.
- Vuoi imparare il galatriano? – domandò con il viso sorpreso. – Davvero?
- Davvero!
- Brava! Dopo chiamo Kheltron e gli chiedo di portare il libro adatto. Se hai bisogno puoi chiedere a chiunque di noi.
Ripresi la cartina e la studiai. Contai ventidue stanze, più la sala comandi.
- Quando potrò vederla? – chiesi impaziente.
- Domani Erixia sarà impegnata con i preparativi. emo delle Cupole per compiere un'ascesa ben visibile. Sai, l'idea di usare lo Scorritempo è stata bocciata, è troppo grande e i terrestri potrebbero spaventarsi. Quindi, – disse lui puntandosi un dito sul mento, – io domani mattina sono libero, se vuoi.
- Sì, – dissi io raggiante. – Sì!
E finimmo per saltellare contenti come due idioti.
***
Capitolo 46 Fu una notte popolata da sogni. La mia mente vagò. Il bacio di Kheltron e il suo Simbolo. L'ascesa dei galatriani e la mia Cupola. Non so con quale intensità e in
che percentuale divisi il tempo dei sogni, ma di sicuro mi destarono ansia. La morale fu che mi attaccai alla Yikira anche nel sonno, e quando aprii gli occhi, la sua luce illuminava la camera.
Mi alzai alle sei del mattino e mi rifugiai in una doccia calda. Alle otto, Lyoxc comparve in sala con un'aria ancora assonnata, aveva dormito sulla poltrona dello studio. I suoi occhi verde galatriano erano un po' appannati, eppure la mia casa brillò di un verde scintillante. Era la seconda volta che li vedevo, eppure il desiderio di avere un cappellino, o degli occhiali da sole, non era diminuito.
- Quando farete la vostra la vostra ascesa? – chiesi, cercando uno canovaccio per riparare la vista.
Lyoxc emise uno sbadiglio e si sedette sul divano. – Non lo so, in questi giorni. Faremo meglio ad andare a vedere la tua Cupola dato che abbiamo del tempo libero.
Annuendo contenta, gli ai la scatola dei biscotti al miele. Non lo avrei lasciato morire di fame prima di mostrarmi il mio portentoso regalo. E gli diedi e uno strofinaccio pulito per coprirsi gli occhi.
- Oh Aileen, devo usarlo per forza?
- Sì, per favore, – chiesi in tono implorante, – Mi fa impazzire.
Lui mi fissò con aria furba. – Ho il permesso per vedere Lilian?
Svoltai gli occhi, appoggiandomi alla portafinestra. – Non hai bisogno del mio permesso, Lyoxc. Fai come vuoi.
- Ho bisogno del tuo permesso, Aileen, – disse in modo composto. – Sei la Tramite.
Lo guardai di sbieco. – Godo di qualche potere nell'esserlo?
- Sì, – disse lui ridacchiando.
- Perché prevedo solo guai? Grandi poteri e grandi responsabilità?
Lyoxc sogghignò. – Grandi poteri e grandi responsabilità.
- Ah, ecco, – dissi io raggelando. – Lo sapevo che non avrebbe portato niente di buono.
Lyoxc scosse le spalle e si alzò, gettando luce verde su ogni mobile della sala. – Non lo facciamo di proposito.
Io sospirai, contrariata da quell'altra scoperta, e innervosita da tutta quella luce.
- Ho capito, metto le lenti contatto.
- Perfetto, – dissi.
Si fermò sulla porta, si voltò e mi guardò, davvero, in modo raggiante. – Ho il permesso?
- Hai il permesso!
***
Capitolo 47 La mia Cupola era vicino al campo da tennis, ed era anch'essa schermata.
La grandezza della casa volante sembrava pari a quella di Cuyed. Una biglia gigante, bianca e lucida, con la base piatta.
- Metti la mano qui, – disse Lyoxc, indicando un punto che per me era uguale agli altri, – e spingi leggermente.
Lo sportello scese lentamente, mostrando i cinque gradini interni che mi separavano dall'ingresso. Tenni saldamente Ercole per il guinzaglio: non volevo che riuscisse a liberarsi e impedirmi di girare tranquilla per la Cupola.
- Oddio che ansia! – esclamai entusiasta e agitata.
L'interno era completamente spoglio, tranne per un mobiletto bianco sulla destra, su cui era appoggiata una cartina, la stessa che mi aveva mostrato Lyoxc la sera precedente e che, ora, era nella tasca del mio piumino. La stanza aveva una forma arrotondata. Tutte le stanze che vidi erano rotonde, tutte spoglie e bianche e lucide.
- È così grande. Così vuota, – affermai, entrando in quella che, decisi, sarebbe diventata una camera da letto. – Ci vorranno mesi per arredarla.
- Ultimamente non sei fortunata con il lavoro, – disse Lyoxc prima di beccarsi un'occhiataccia da parte mia.
- Me lo devi proprio ricordare?
- Non hai bisogno di denaro Aileen! – disse alzando le mani. – Mia madre ha già provveduto a riempire il tuo conto in banca. Ti aiuteremo noi in tutto. Scegli come arredarla e provvederemo.
- Cosa? Ho studiato, mi sono impegnata per ottenere ogni cosa! Me la cavo da sola!
Lyoxc giocherellò con il lembo della mantella. – Secondo me potresti cambiar idea.
- No! – apostrofai indignata. – Il lavoro è molto importante per me. Devo mettere un bando per imporre la mia volontà?
Lyoxc scosse il capo e mi guardò seriamente. – Lo dirò io a Erixia, se ci tiene così tanto.
- Bravo, – dissi io, zigzagando tra corridoi e porte scorrevoli. – Dillo tu. Dì a tutti che la Tramite vuole arredare da sola la sua Cupola.
La stanza successiva era decisamente enorme, ed era l'unica a non essere vuota, era equipaggiata con i più tecnologici attrezzi da palestra che avessi mai visto. Questo è meraviglioso!
Mi allontanai da Lyoxc, per addentrarmi nella camera rotonda. Le pareti, rivestite sempre di quel materiale sconosciuto, laccato e liscio, erano giallo chiaro. Era l'unica camera colorata che avessi visto. Su ogni attrezzo c'era l'immagine intagliata della Yikira, e un incavo per incastrarla. Energia aliena. Per curiosità, appoggiai la mia Pietra nel punto indicato, e come per magia il tapis roulant prese vita.
- Fantastico! – esclamai.
Avevo incanalato abbastanza energia da far funzionare gli strumenti galatriani.
- Aileen! – chiamò Lyoxc con un accenno d'ansia. – Dobbiamo andare.
Il timbro della sua voce mi diede l'allarme. Corsi verso di lui trascinando Ercole con me.
- Ci siamo! – disse lui affrettando il o verso l'uscita, correndo tra corridoi e porte automatiche.
- Ci siamo?
- L'ascesa.
- Ma è presto! – protestai. – L'ho saputo solo ieri! Mi hai detto che serviva qualche giorno! E stavo guardando la mia Cupola!
Lyoxc poggiò la mano su un piccolo pannello rotondo, collocato all'ingresso, per aprire il portellone, e mi spinse verso l'uscita.
- La Cupola si chiude nello stesso modo in cui l'hai aperta, – disse.
Lo guardai intontita. – Dove poggio le dita?
- Dove vedi il piccolo ritaglio rotondo.
Appoggiai l’intera mano, per sicurezza. Il portellone si richiuse.
Non avevo avuto il tempo di assaporare tutte le meraviglie. Rimasi con l’amaro in bocca.
***
Capitolo 48 Entrammo in macchina velocemente, e più in fretta possibile rientrammo a casa. Erano le undici del mattino quando accesi la televisione e iniziai ad aspettare impazientemente. Avrei voluto che ci fosse Kheltron accanto perché, per quanto fosse burbero, mi avrebbe dato un po' di conforto e sicurezza. Lyoxc, invece, era agitato, si muoveva continuamente.
Scomposta sul divano guardai le lancette muoversi.
arono tre lunghe ore senza che succedesse nulla, senza che le notizie fossero diverse dalla solita cronaca nera e capricciosità politica. Ore in cui io mi distrussi le unghie, in cui Lyoxc percorse miglia sul mio pavimento.
- Quando arriva Kheltron? – chiesi rompendo il ghiaccio.
- Non oggi, devo recuperare un turno, – rispose tenendo lo sguardo sullo schermo della TV. Non lo avevo mai visto così teso. Lui era un campione di allegria e spensieratezza.
Controllai l'orologio. Erano le due e cinque minuti. – Se lo chiamiamo… potrà raggiungerci?
Lyoxc si staccò dal televisore e mi fissò. – Se glielo chiedi tu, sì.
- Okey, okey.
Andai in camera, seguita da Ercole, e chiusi la porta. Non volli ammettere di aver bisogno di Kheltron, un uomo e un galatriano. Sarebbe stato un terribile colpo basso alla mia autostima. In realtà avevo bisogno di lui e della sua determinazione.
- C'è la posso fare, – dissi guardando il cucciolo, che inclinò la testa e mi fissò.
Sullo schermo del telefono scorsi la prima chiamata di Kheltron, la sera del nostro primo incontro. Mi appoggiai al muro rosa facendo lunghi respiri. Il battito del cuore impazziva nel petto. Se possibile, sarei svenuta, mi sarei risvegliata e sarei svenuta di nuovo. Sventolai la mano davanti al viso per farmi aria. Era solo una telefonata, non era niente paragonato a quello che stavano per vivere miliardi di persone della Terra.
Premetti il pulsante verde, poi quello rosso. Era più semplice dire, che fare.
Premetti nuovamente il pulsante verde. Sussultai quando squillò.
- Aileen?
Deglutii. La Yikira si illuminò. Lasciai ricadere il braccio libero lungo il corpo
-Nien-te, – dissi balbettando e incespicando. – Verresti oggi?
Avevo bisogno di acqua. La gola era secca e riarsa.
- Lyoxc ha bisogno di un cambio?
- No, no, – farfugliai. Presi un pezzo di carta e lo sventolai ossessivamente.
- Ha bisogno di aiuto?
- No, – dichiarai, aprendo la bocca e infilando un po' di aria anche lì.
Ercole abbaiò.
- Dove sei?
- A casa, – affermai, andando sempre più in iperventilazione.
- Arrivo.
Riattaccai senza salutare. Ero riuscita a farlo venire da me, anche se non gli avevo spiegato nulla.
Mi alzai aggrappandomi al letto.
Tornai in sala tremando. ai dietro il bancone prendere un bicchiere d'acqua.
La Yikira appesa al collo si illuminava intensamente.
Pensai di aspettare un attimo prima di voltarmi e farmi vedere da Lyoxc, ma lui mi raggiunse per prendere un bottiglia di birra.
- Bevi a quest'ora? Non hai mai bevuto...
- Lo so, – ribatté lui. – Ne ho bisogno. Kheltron?
- Sta arrivando, – dissi io.
Alle 02:15 Kheltron suonò il camlo e Lyoxc finì la birra. Aprii la porta cercando di non arrossire. Ercole mi raggiunse saltellando.
- Allora? – chiese tempestivamente Kheltron.
Avvampai all'astante. – No, – dissi io evitando il suo sguardo. Indietreggiai fino a sbattere contro il muro.
Lui chiuse la porta e si tolse il cappotto velocemente, aveva gli abiti da Custode. - Perché sei agitata?
- Volevo solo che fossi qua per quando faranno l'annuncio.
- Hai paura.
- No!
- Sì. Volevi vedermi?
- No, – balbettai.
- Sei una bugiarda! – infilò la mano tra il muro e la mia schiena. – Una pessima bugiarda.
Appoggiò le labbra sul collo, facendo scivolare l'altra mano tra i capelli.
- Kheltron... – dissi ansimando.
- Se stai per dirmi che non vuoi, sappi che non funzionerà.
- Aileen! Kheltron! – urlò Lyoxc. – Hanno interrotto il telefilm!
Gli occhi di Kheltron indugiarono sulla mia bocca. Si inumidì le labbra.
- Ci tocca andare, – disse staccandosi.
- Sì.
- Ma prima prendi questi.
Prese dalla tasca del cappotto tre libricini: Inglese e Galatriano, se e Galatriano, Grammatica Galatriana.
***
Capitolo 49 Il cronista della BBC si trovava a Toronto. Alle sue spalle c'era l'Università. L'immensa Cupola era ferma sopra di essa.“Avvistamenti certi sono avvenuti in diverse parti del Mondo. Toronto, New York, Città del Messico, Sidney, Londra. Alcuni cittadini nell'ora di pranzo giuravano di aver visto qualcosa nel cielo, ma il tempo nuvoloso aveva trasformato questi avvistamenti in allucinazioni. Il servizio renderà evidente una volta per tutte ciò che tutti pensano da molti anni: NON siamo soli! Gli alieni, al momento, pare abbiano cercato di mettersi in comunicazione con noi, non hanno ottenuto il permesso di atterrare. Non sappiamo che lingua utilizzino, né che aspetto abbiano. Esperti della NASA e scienziati da ogni parte del Mondo sono appena stati contattati per fare chiarezza. Io mi trovo a Toronto, alle nostre spalle possiamo notare l'enorme astronave che sorvola l'Università. La zona inizia a essere evacuata, e caccia militari tengono sotto tiro le astronavi. Quello che si domandano tutti è: chi sono? E cosa vogliono?”
Cambiai canale velocemente, la cronista bionda sembrava spaventata. “Siamo in diretta da New York, la città è sotto assedio da alcuni caccia miliare e dall'astronave, comparsa da noi da circa dieci minuti. La popolazione ha smesso di lavorare, di divertirsi, di dormire, è riversa nelle strade a rimirare il grande spettacolo. Questa astronave è piuttosto grande. Non sappiamo chi ci sia a bordo.”
Cambiai canale. Un uomo sulla cinquantina, tarchiato, con i capelli brizzolati si trovava a città del Messico, aveva un forte accento spagnolo.“La ciudad està nel panico. Un'enorme sfera blanca sorvola le nostre teste, le persone corrono da una parte all'altra. Estan en cerca de un sitio sicuro, che possa essere un degno rifugio. Tantos personas cercano de varcare el confine degli Stati Uniti, inutilmente, ma... ci giunge ora la notizia: està l'invasione anche a New York y Barcelona…”.
Cambiai di nuovo canale. Londra. “Come potete notare le strade sono un agglomerato di urla e di gente che cerca di scappare. L'astronave sorvola il Big Bang con aria minacciosa, non sappiamo chi si trovi all'interno.”
Abbassai il volume e mi accasciai sul divano. Il cellulare suonò, mostrando l'immagine di Lilian. Lanciai il telefono a Lyoxc.
- Rispondi tu, io non ce la faccio.
Kheltron si sedette accanto a me.
- Forse dovrei andare lì, – dissi a Kheltron – a Toronto.
Lui mi fissò con quegli occhi blu enigmatici. – A fare che?
- A parlare con la mia gente, spiegargli le cose, che non volete attaccare e che...
Lui mi bloccò, mettendo un dito sulle mie labbra. Lanciai un'occhiata a Lyoxc, ma lui non mi guardò, si alzò e andò fuori dalla sala.
- Non se parla, Aileen. Non è il momento. Saresti messa sotto interrogatorio!
- Ma... se vi attaccano?
- Non eri preoccupata per i terrestri?
- Kheltron! Santa Galassia!
Sospirò, dedicandomi un'espressione seria. – Vedrai che li lasceranno nelle Cupole per un paio di giorni, finché non si renderanno conto che se vogliono conoscere i fatti devono farli scendere, o almeno far scendere qualcuno.
- E se vi attaccano? – ribadii preoccupata – Avrete trovato un modo per respingere le nostre armi?
- No. Non ne siamo capaci. Ma, non lo faranno, non possono permettersi di farlo. Non sanno che siamo una società senza armi, per loro potremmo essere anche più potenti.
- Ma...
- Ti dico io come andranno le cose, – disse prendendomi per mano. – Permetteranno di scendere sulla Terra solo ad alcuni di galatriani. Si impunteranno su alcune città piuttosto che su altre. Magari chiederanno di spostarsi in luoghi deserti. Sarà Erixia a rappresentare Galatria, e avverrà a Toronto.
- Erixia è sulla Cupola? Da sola? – domandai sconvolta.
- Non è sola, – disse ando la mano tra i miei capelli. – Sulla sua Cupola ci sono paio di galatriani. Per quando scenderà ci saremo io, Lyoxc, e altri Custodi.
- No, – dissi poco convinta. – Verrò anch'io.
- No.
- Non ti sto chiedendo il permesso Kheltron! – dichiarai staccandomi e alzandomi. – Sto dicendo che lo farò! Non puoi discutere ognia mia decisione! È una mia scelta… quella… quella di Tramite.
Si alzò e mi fissò seriamente. – Vanno in contrasto con gli ordini di Erixia. Non posso permetterlo.
- Sono contro la mia volontà!
- Mi dispiace Aileen, – affermò burbero. – Non puoi.
In quel momento Lyoxc entrò in sala, interrompendo la sfuriata che stavo per fare.
- No! – esclamai adirata, pronta per un’altra sceneggiata. Un’azione tipica di un’adolescente e non da adulta. – Andrò da Lilian. Io e Ercole. Vedremo!
Vedremo se potrete fermarmi anche in questo.
Sbattendo i piedi per terra, andai in camera, perdendo tutto il mio entusiasmo per aver chiamato Kheltron. Presi uno zaino, infilai vestiti e pigiama e mi diressi verso la porta di casa.
- Ti accompagniamo noi, – si offrì Lyoxc. – Arriverai prima.
- Vado a piedi, – sbottai. – E non seguitemi!
***
Capitolo 50 Quello a cui non pensai furono i terrestri. Non mi preoccupai di loro, della loro paura o della loro felicità. Mi angosciai per i galatriani, in particolare, per Erixia, in modo quasi fraterno. Dopotutto, lei poteva essere mia madre.
Sapevo bene che i galatriani non possedevano armi. Non ne avevano bisogno. Tutto ciò che gli bastava era la loro interazione naturale. Quella sì che era un'arma con i fiocchi, ma non sufficiente per attaccare otto miliardi di persone. Il tempo di fare una cosa del genere, avrebbe dato ai terrestri la forza necessaria per contrastarli e farli fuori subito. Un eccesso di paura dei terrestri e addio ai galatriani. Un paio di missili e tanti saluti.
Trascorsi, così, quattro giorni di preoccupazione in casa di Lilian. Lei aveva una
bella villetta con giardino e veranda. Al primo piano c'erano due camere da letto e il bagno, al piano inferiore la cucina, la sala, un ripostiglio e l'ampio ingresso. Ercole fu libero di scorrazzare, entrare e uscire in tranquillità.
- Li faranno scendere! – esclamò Lilian all'alba del quinto giorno. L'alba del tredici gennaio, che avrebbe cambiato il destino della Terra.
- Ci sarà un incontro questo pomeriggio alle tre, – proseguì. – Faranno scendere l'Imperatrice.
Entusiasmo.
- Era ora! – dissi scendendo le scale rapidamente, quasi inciampai e capitolai a terra. – Non ne potevo più. Ci hanno messo troppo.
Lilian mi guardò sorridente. – Dici così solo perché conosci i galatriani.
Comprensione. Dolcezza.
- Dico così perché se avessero voluto far del male lo avrebbero già fatto. Non ci vuole un genio per capirlo.
Lilian appoggiò le mani sui fianchi. – La popolazione ha paura, – disse lei. – Si sono già formati dei comitati anti-alieno.
Disapprovazione.
Sbuffai. – Se è per questo si è creato anche un comitato in loro benvenuto. La gente non sa mai come reagire ai cambiamenti.
Ilarità. Lilian scoppiò a ridere. – Detto da te è davvero strano!
Ercole ci raggiunse e saltò sulle nostre scarpe abbaiando e giocando.
- Ciao palla di pelo, – dissi salutandolo con due buffetti sul capo. – Tu sei un bel cambiamento e ti ho accettato subito.
Dubbio.
- Non ti credo! – sbottò Lilian, perplessa. – Avrai ato almeno un paio di giorni di totale confusione prima di decidere!
- L'ho trovato a casa mia, – dissi alzando il capo verso di lei. – E l'ho tenuto.
- Lo sapevi già che ti aspettava! Me l'hai raccontata tu la storia di Kheltron che ti ha raggiunto a Roma, che ti ha portata alla Fontana di Trevi, che ti ha regalato un cane...
Insinuazione.
- Sì, sì, – dissi io. – Lo conosco il racconto!
- Ti ha addobbato la stanza, – proseguì sempre più allusiva. – Ti ha lasciato una torta al cioccolato... e tu cosa hai fatto?
- Cosa ho fatto io? – domandai contrariata. – Ho fatto quello che andava fatto. Sono tornata qui.
- L'hai mandato via! – esclamò, con impertinenza. – Kheltron è stato educato con te e tu lo hai cacciato!
Disappunto.
- Uff Lilian, – dissi, scacciando con la mano le sue insinuazioni. – L'ho invitato gentilmente a lasciarmi sola. Ma cosa importa? Stavamo parlando dell’ascesa dei galatriani.
Mi diressi in cucina per evitare l'occhiataccia di Lilian, ma lei mi seguì a o deciso.
- Vedi che non ne vuoi parlare? – fece lei, indignata. – Solo perché hai paura del
cambiamento, che è avvenuto lo stesso. Hai preso il cane. E hai baciato Kheltron.
- Non l'ho baciato io! – dissi adirata. – Lui mi ha baciata! Mi deve aver confuso e l'ho lasciato fare. Comunque, non mi importa. Perché insisiti?
Lilian mi guardò, allibita. Alzò un dito. – Perché sono quattro giorni che gironzola da queste parti insieme a Lyoxc. Non hai voluto che lo fi entrare! Lyoxc ha dovuto cambiare i turni.
- Vogliono solo pedinarmi, – borbottai, prendendo del succo di frutta dal frigorifero. – La conosci la faccenda dei Custodi che mi devono controllare.
Bevvi avidamente, come se potessi inghiottire i pensieri che mi avevano tenuta sveglia diverse notti. L'email di Quezel, quattro giorni prima, la mattina del nove gennaio.“Cara Aileen,davvero strabiliante questo internet, credo che non riuscirò più a farne a meno. Sarebbe magnifico portarlo da noi. Tra poco sarò a New York e non avremo modo di vederci per qualche giorno, per questo mi appresto a scriverti ora. Ho pensato molto a quello che mi hai chiesto, e resto ancora basito nel credere che qualcuno te ne abbia parlato perché è qualcosa di cui andiamo molto gelosi. Il marchio, chiamato più comunemente Simbolo, è una voglia che si forma su un punto qualunque della pelle umana. Il colore è pallido, tendente al bianco, per questo su una carnagione molto chiara è quasi impercettibile. La forma che prende il Simbolo non è casuale, ma non siamo riusciti a capire bene a cosa collegarlo. Può essere qualsiasi cosa, un cerchio, un fiore, un quadrato, una striscia. Detto in maniera molto semplice, è una voglia. Simboleggia l'amore che una persona prova per un'altra. Il legame che si crea può essere verso il sesso opposto, ma anche verso lo stesso. L'amore di una madre per il figlio, ad esempio, tende a procurare sulla pelle della donna questa voglia. Quando si ha il Simbolo, si sentono sempre le emozioni della persone alla quale si è legati, pur usando la Yikira. Il Simbolo si crea solo quando l'amore è molto forte, e non per il semplice affetto che si prova per un amico. Il Simbolo scompare se l'amore
viene a mancare. Spero di aver tolto i tuoi dubbi e le tue insicurezze. Continua ad allenarti. Q.”
Avevo letto quell'email talmente tante volte che l'avevo imparata a memoria. Non avevo detto nulla a Lilian per evitare di farla preoccupare, soprattutto perché avrei dovuto accennarle del Simbolo di Kheltron, cosa che non avevo fatto.
Rimisi il barattolo del succo di frutta al suo posto.
Se Kheltron aveva il Simbolo, e non mi aveva mentito, era chiaro che era innamorato di quella donna di cui mi aveva parlato, e che ci stesse male perché non era ricambiato, o perché non era sulla Terra. Nella disperazione di non poterla avere, aveva baciato me.
Ero un ripiego.
Scossi il capo e chiusi il frigorifero, aguzzando l'udito verso Lilian che stava ancora borbottando contro di me.
Il camlo suonò. Curiosità.
Lilian andò ad aprire e io sbirciai dalla porta.
- Ciao Lilian, – disse Lyoxc nel suo cappotto blu.
- Ciao, – cinguettò lei aggiustandosi il maglioncino azzurro. – Entra pure.
Felicità
- No, no, – affermò Lyoxc. – Avrei una proposta per voi ragazze.
Mi lanciò uno sguardo divertito e alzò il braccio per salutarmi.
- Che vuoi Lyoxc? – domandai acidamente, avanzando di qualche o e incrociando le braccia.
- Kheltron mi ha detto che non avresti resistito a questa proposta! – ridacchiò. – Dobbiamo andare a Toronto a vedere l'ascesa di Erixia. Volete unirvi?
Entusiasmo. Ebbrezza. Lilian mi guardò.
Lo guardai sottecchi. – Dov'è la fregatura? – chiesi poco fiduciosa.
- Andiamo Aileen! – disse Lilian guardandomi con due occhi grandi da cucciolo.
Esaltazione. Eccitazione.
- Sì, – disse sorridendo Lyoxc. – Unitevi!
- All'improvviso possiamo venire?
Lyoxc alzò le braccia. – Siamo riusciti a convincere i membri del Consiglio a farti partecipare. Sei la nostra Tramite.
- Per favore Aileen, – supplicò Lilian avvicinandosi e tirandomi un braccio. – Andiamo.
Eccitazione.
- Andiamo, – annunciai senza troppi capricci, volevo esserci. – Prendo il cappotto e lascio un po' di cibo nella ciotola di Ercole.
Felicità. Euforia.
- Ti aiuto io, – disse Lilian.
***
Capitolo 51 Fuori non nevicava, ma il gelo aveva reso tutto un'enorme lastra di ghiaccio. Kheltron ci aspettava appoggiato alla portiera della macchina, con la mano faceva dondolare il mazzo di chiavi. Mi lanciò un'occhiata che io ignorai. Ero ferita e furiosa.
- Ciao, – disse lui.
- Ciao, – rispose Lilian sorridendogli.
Io non dissi nulla, aprii lo sportello del eggero e mi infilai al calduccio.
- Come va? – domandò Kheltron salendo in macchina.
- Bene, – fece, allegramente, Lilian. – Aileen è arrabbiata con te.
Felicità. Sincerità. o.
Il suo buon umore non era il mio, mi voltai e la fulminai con lo sguardo. Lyoxc scoppiò a ridere.
Kheltron mise in moto l'automobile, premette il pulsante posto al suo lato per abbassare il mio finestrino, poi, mi guardò. E io guardai fuori.
- È tutto a posto, no? – chiese titubante Lilian. Preoccupazione.
Io non mi voltai a guardarla, né gli altri fecero o dissero qualcosa. Kheltron ingranò la marcia e partì alla volta di Toronto. Accesi la radio ponendo fine e qualsiasi, possibile, discussione. Per tutto il tempo avvertii l'agitazione e il bisbigliare di Lilian.
- Ci sono i posti di blocco, – affermò Kheltron dopo un po'. – Ho idea che non sarà facile entrare.
Preoccupazione. Ansia. In quei momenti non avrei voluto sentire Lilian, avei desiderato che potesse nascondere le sue emozioni.
- Dovremmo influenzarlo, – disse Lyoxc. – Non abbiamo altre scelte.
Caddi nel panico. Sapevo cosa si provava a essere influenzati, ed ero totalmente contraria a quell'idea.
- No! Non potete! C'è una Regola che...
- Calmati Aileen, – sussurrò Kheltron. Abbassò il volume della radio e rallentò fino a fermarsi del tutto. Abbassò il finestrino.
- Buongiorno! – disse il militare armato. – Non è consentito l'accesso.
Lo disse con Autorità. Ordine. Comando.
- Abbiamo bisogno dell'ospedale, – disse con calma Kheltron. – La ragazza dietro non si sente bene.
Lilian mimò con perfetta maestria, seppur con nessun preavviso, un fantastico svenimento. Io non ce l'avrei fatta. Lyoxc resse il suo capo e le mise un fazzoletto sulla fronte. Il sapore del nervosismo si diffuse in un attimo.
- Mi dispiace, – fece risoluto il militare. Un ragazzo giovane, ventenne, ma di sicuro determinato. – Non potete are. Tornate indietro e prendete la prima uscita disponibile, ci sono altri ospedali dislocati dal centro.
Kheltron si voltò e mi fissò, tirò su la manica del cappotto grigio per mostrami il braccialetto e la Yikira.
- Possiamo Aileen? – bisbigliò Lyoxc. – La Regola si può infrangere con il tuo consenso.
Annuii velocemente, eppure controvoglia. Non avevo molte alternative. Se volevo vedere l'ascesa di Erixia dovevo andare a Toronto, per farlo dovevo avere il permesso di quel militare. Un rivolo di sudore sarebbe sceso dalla mia fronte, a dimostrazione della mia agitazione, ma non era possibile perché faceva troppo freddo.
Le due Pietre si illuminarono intensamente.
Sul viso del ragazzo sembrò are un'ombra. Uno stato di inquietudine leggero, ma percettibile. Ci guardò e sorrise. Comprensione.
- Sarebbe un peccato avere sulla coscienza la vita di una ragazza, – disse a quel punto Kheltron. – Non sarebbe più saggio farci are?
- Ma certo, – disse, comprensivo, abbassando l'arma e concedendoci il transito. – Fate presto prima che peggiori. Buona fortuna.
Kheltron partì velocemente, mentre la sua Pietra cominciò a tornare del colore abituale, un luccichio debole.
Eccitazione.
- Strabiliante! – esclamò Lilian rialzandosi. – Come avete fatto?
- Che avete fatto? – aggiunsi io, giusto per accertarmi che non gli avevano fritto il cervello. A me non era mai successo niente, se non un deciso stordimento, ma io avevo l'interazione naturale, il militare ne era sprovvisto. – E da quando la Regola sull’influenzare i sentimenti si può infrangere così facilmente?
- Abbiamo alternato le sue emozioni. – disse Kheltron senza spostare le mani dal voltante. – Non preoccuparti, non è potente come un attacco. E la Regola ha due eccezione. Dovrebbe avertele dette Quezel. Può essere infranta per difendersi. Può essere infranta se la decisione è presa dalla Tramite. Cioè da te. Nemmeno Erixia ha potere. E lo sai perché?
- WOW! – fece Lilian girandosi verso Lyoxc e sorridendo. Effervescenza.
- Quindi, – dissi io tentennando. – Quindi, ho un'altra responsabilità?
- Sì, – rispose lui. – Sì.
- Ma perché? Mi avete dato tutto questo potere senza consultarmi! Una mia parola e potete influenzare chi voglio. L’avete visto come ha ceduto in fretta? L’avete confuso? E con cosa l'avete confuso? Come l’avete attaccato?
- La vostra preoccupazione, – disse voltando il capo verso di me. – Quella tua, e di Lilian.
- Aileen – intervenne Lyoxc. – Non è un attacco violento.
Lo sguardo di Kheltron tornò attento sulla strada. Sterzò a sinistra per imboccare la via che ci avrebbe avvicinato all'Università, mentre io ero lambita dai pensieri di responsabilità. I galatriani mi avevano posto a capo di uno degli incarichi più difficili che io potessi gestire. Perché io? Perché non Erixia? Ed eccolo, tutto a un tratto, un pensiero che mai e poi mai avrei voluto affrontare. Ma in quel
momento considerai l’eccitazione più importante di ogni altra cosa, e la feci fluire abbondantemente. Erixia era l’Imperatrice di Galatria, era la maggior esponente di riferimento, ogni decisone veniva presa da lei e dal Consiglio, composto da un numero sconosciuto di persone. Io, invece, ero nata sulla Terra e a tutti gli effetti potevo essere considerata terrestre, con un tocco galatriano. Quindi, che toccassero a me alcune decisioni per la Terra? Era quello il motivo per cui solo io, tra tutti, potevo decidere se era possibile influenzare un terrestre? Nell’attimo esatto in cui accettai il mio dovere mi sentii forte. Sentii addensarsi un potere strano e allo stesso tempo libero. Il militare in quel momento doveva essere confuso, rintronato dalla mia preoccupazione. La causa era stata la mia scelta di influenzarlo. Libertà di decisone. Io ero libera, e i galatriani erano incatenati a quella Regola. Da lì balenò un altro pensiero.
- Ehi! – dissi. – Come facevi a sentire che ero preoccupata? Come facevi a conoscere quello che provavo?
- Ho solo prelevato il vostro stato d'ansia, – rispose. – E gliel'ho fatto vivere. Non mi chiedere come farlo, è presto per te.
- Ma come facevi a sapere che ero preoccupata? – ribadii io guardandolo. Non avevo abbassato la barriera della mia Yikira, mi pareva alquanto strano che fosse riuscito a sentirmi.
- Siamo arrivati, – disse lui fermandosi. – Oltre non possiamo andare con la macchina. Tutti fuori, si va a piedi!
Slacciò la cintura e uscì.
Mi voltai per cercare Lyoxc. – Tu mi sentivi?
- Non so Aileen, – disse aprendo la portiera. – Io ero occupato a concentrarmi su Lilian.
- Cosa? – feci io, ma lui uscì e non mi ascoltò.
Misi il cappello e uscii dalla vettura, sbattendo con violenza lo sportello. I due galatriani e Lilian si incamminarono per una delle vie grandi, le strade erano affollate di gente. Io li seguii a o lento, intenta a rimuginare su Kheltron e sulla sua capacità di sentirmi. Guardai l'orologio, erano le tre del pomeriggio. Puntali per vedere Erixia e la sua comparsa ufficiale sulla Terra.
- Aileen, – disse Lilian. – muoviti!
Un attimo dopo misero il turbo e mi lasciarono indietro con Kheltron. Affrettai il o per cercare di raggiungerli, ma andò male. Lui mi afferrò e mi fermò. Il contatto con la sua pelle mi fece rabbrividire.
- Perché mi eviti?
- Non è vero! – ribattei cercando con lo sguardo la mia amica, ma vidi solo altre mille fecce e la Cupola che galleggiava nell'aria.
- Aileen! – esclamò lui tirandomi il braccio. – Sei una bugiarda. Sono quattro
giorni che ti telefono e non rispondi.
- Beh, – feci io strattonando il braccio e liberandomi. – Avevo da fare.
Lui sospirò e riprese a camminare. – Stammi vicino almeno.
Non risposi e lo ignorai. La folla che si era accalcata vicino all'Università era accerchiata, per lo più, da giornalisti, stazioni televisive e radiofoniche, polizia e militari. Il caos dei loro sentimenti mi assalì.
Agitazione. Ardore. Animazione. Furore. Curiosità. Ansia. Trepidazione. Paura. Rifiuto. Impazienza. Smania.
- Dai, vieni Aileen, – disse Kheltron porgendomi la mano. – Dobbiamo addentrarci nella folla e avvicinarci il più possibile.
Guardai la mano come se fosse un ragno velenoso e mi fosse stato chiesto di toccarlo.
- Andiamo! – disse lui afferrandomi. – Dobbiamo stare vicino a Erixia!
Il contatto con la sua pelle mi inebriò di calore. La sua Yikira brillò più intensamente, la mia mente cominciò a sentirsi sempre meno frastornata dal rumore della gente, dal chiacchiericcio continuo delle emozioni. Fu un sollievo immenso. Probabilmente stava assorbendo l'energia delle emozioni della gente,
per questo non li sentivo. Con altrettanta probabilità li stava anche calmando, perché ci facevamo largo tra la folla troppo facilmente. Volevo protestare, quello che faceva non era sicuramente “legale”, ma non ero convinta. Poi lui era bravo, e la mia testa ne giovava molto. Rinunciai.
***
Capitolo 52 Fummo in prima fila senza tanti problemi. Oltre le transenne c'era un gruppo di giornalisti, militari armati fino ai denti, e vari politici: il Primo Ministro del Canada e il Governatore Generale, il Presidente dell'Ontario e gli altri a seguire.
- Vedi quel gruppo di reporter? – bisbigliò Kheltron tenendomi stretta. – Loro hanno ottenuto un'intervista esclusiva con Erixia.
- Sul serio? Erixia si fa intervistare dai giornalisti? Mi pare così assurdo.
- Sì, – fece lui annuendo. – Abbiamo chiesto l'imparzialità del servizio e duecentomila dollari.
Per poco non soffocai. – Avete chiesto soldi?
- Ci hanno fatto delle offerte, ne abbiamo scelta una. Dici che sono pochi? – domandò guardandomi. – Io li uso da quando sono qui, ma non sono ancora pratico.
- Come non sei pratico? Dopo sette anni qui?
- Noi preferiamo l'energia.
- Questa è nuova! – dissi storcendo il naso. – I soldi servono!
- Infatti, – continuò lui, – per questo, credo, abbiamo accettato, e poi, sarebbe parso strano il contrario.
Dovevano essere molte le reti televisive e i giornali che avevano chiesto un'intervista esclusiva con i galatriani. Il primo contatto con altri umani non terrestri. Chissà quali erano le proposte economiche che si erano trovati sotto il naso! A pensarci bene duecentomila dollari era una cifra ridicola.
- Ma come fai a sapere queste cose? Erixia non è sulla Cupola?
Kheltron indicò con la mano un gruppo di giornalisti. – Lo so da loro. Hanno detto in TV che abbiamo accettato il denaro.
La disinformata ero io, era stata così in ansia che non avevo voluto accendere neanche la radio.
La Cupola iniziò la discesa molto lentamente. Tutta la folla gli puntò addosso gli
occhi. La frenesia, il brusio, l'agitazione entrarono, per un attimo, in scena.
- Scusa, – disse Kheltron. – sono troppi da gestire.
Una giornalista mora, con un cappotto cortissimo e un cappello siberiano annunciò la loro ascesa: – Siamo in diretta da Toronto. Miliardi sono gli occhi puntati oggi su questa città, è il motivo è lo stesso da cinque giorni. Galatriani, si fanno chiamare, provenienti da un punto imprecisato dell'altro quadrante della nostra Galassia, sono del tutto simili a noi. Non abbiamo ancora prove che ciò sia veritiero, tuttavia parlano perfettamente inglese e se, e sembrano avere interesse per denaro, cibo locale. Tutto il Mondo sta puntando su questo giorno, che speriamo, possa essere ricordato come uno di quelli che cambiò la nostra vita in meglio. Alcuni sono scettici riguardo la data fissata per il nostro incontro, il tredici è da sempre un numero temuto o venerato, ma noi confidiamo che possa essere di buon auspicio. L'astronave è appena atterrata in una zona di tutta sicurezza, recintata da tralicci di filo spinato elettrificato. Presidente, quali saranno le prime domande che porrà?”
Strinsi forte la mano di Kheltron. La gente, e la stessa giornalista, emanava un'insieme di emozioni contrastanti, tra agitazione, ansia e paura.
La giornalista proseguì, guadagnandosi nuovamente la mia attenzione. – Il portellone dell'astronave si è appena aperto. L'ansia che ci avvolge in questo momento è sicuramente percepibile anche da voi a casa. Qui, davanti a noi, i galatriani!
Diretta in mondovisione.
La figura di Erixia emerse dalla nebbia formata dal gelo. Aveva un cappotto bianco pieno di pelo, con bottoni neri ricoperti dai suoi capelli dorati. Ai lati di Erixia c'erano due galatriani dai capelli lunghi e scuri che non conoscevo, agghindati con abiti invernali. Il loro aggio era seguito da dozzine di telecamere, centinaia di soldati e milioni di terrestri.
- Zumma, zumma, – disse la reporter al suo compagno. – Riprendi la donna. Eccitazione. Ansia. Curiosità. – Il momento atteso è finalmente giunto. Possiamo affermare con certezza che si tratta di un essere umano di sesso femminile, e due di sesso maschile. Come noi devono soffrire molto il freddo, indossano abiti molto pesanti. Pare che la femmina abbia un colore molto insolito di occhi, ma aspettiamo che si avvicini.
Erixia si fermò a qualche metro di distanza da noi. Le transenne ci bloccavano, e impedivano a lei di farsi più vicina. Mi lanciò un'occhiata con i suoi occhi verdi brillanti, colorando appena l’atmosfera, ma facendo scivolare esclamazione di meraviglia e costernazione da tutti i presenti. La sua espressione rimase seria e composta, dimostrando di essere capace di affrontare la situazione,con coraggio e ardore.
Quando finalmente la giornalista richiuse la bocca per lo stupore, si avvicinò per farle la prima domanda in assoluto. Il primo contatto ufficiale tra galatriano e terrestre.
Io ero lì, e avevo i brividi. Ma qualcuno bussò alla mia spalla facendomi perdere il primo intervento.
- Sei tu la Tramite?
Un uomo che pareva sulla quarantina, con i capelli neri lunghi legati in una coda e gli occhi marroni da lenti a contatto, mi stava fissando.
- Io, cosa? – feci presa alla sprovvista.
- Yela Joxon, – disse Kheltron.
- Yela Kheltron, – sussurrò lui. – Come stai? Ho visto tua padre in giro. È arrivato da poco. Questa è la nostra Tramite?
Kheltron si irrigidì e annuì. – È lei. Questo è Joxon, Aileen. Uno dei Custodi di Erixia.
Io non seppi cosa fare, a parte arroventare qualche borbottio di protesta: mi stava facendo perdere l’intervista. Cercai il contatto con la Yikira, il più intensamente possibile, per evitare di far fuoriuscire qualche sentimento imbarazzante. Allungai distrattamente il braccio libero per stringergli la mano, ma l’effetto non fu quello desiderato. Lui mi guardò un po' stranito, come perplesso del gesto che mi ero spinta a fare. Poi allungò la mano e tenne il braccio sospeso nel vuoto.
Guizzai la vista da Kheltron a Joxon, basita. – Non è qui da molto, vero? – Avanzai di un o, incerta su quello che dovevo fare, poi intrecciai le nostre mani. – Piacere di conoscerla Joxon.
Spalancò gli occhi grandi e scuri, sembrava sentirsi in trappola, come se il mio tocco fosse stato la gabbia per un topo. La sua tremò quando provò a
divincolarsi. – Piacere mio, Tramite, – inchinò il capo, sfuggì velocemente dalla stretta. Il suo colorito piuttosto pallido si fece vivace, le guance si colorano di corallo fino a divetar porpora. A quel punto abbassò lo sguardo, quasi intimorito. Sbattei le palpebre velocemente, imbarazzata e, per la prima volta, consapevole del potere che potevo suscitare in uno di loro.
- Non tocchiamo spesso le donne. – bisbigliò Kheltron.
Ricacciai immediatamente la mano nella tasca del piumino. – Non volevo.
- Tutto bene qui? – chiese l’uomo accanto a Joxon.
- Wuloz! – rispose Joxon. – Qui c'è la Tramite, e tuo figlio. Da quanto non vi vedete? Qualche mese mi pare.
L'uomo avanzò fino a mostrarsi, aveva una postura rigida e tipici lineamenti galatriani, simili a quelli di Kheltron. Aveva capelli scuri e lunghi oltre le spalle, legati, occhi seri con lenti a contatto marroni. Era un galatriano adulto, imponente e con un’espressione contratta.
- Padre, – disse Kheltron lasciando velocemente la mia mano. – Bentornato. Sono felice di vederti.
Wuloz non dedicò più di uno sguardo al figlio, si soffermò a lungo su di me, mirandomi con aria seria e accigliata. Poi sorrise. – Sempre più bella, – fece un leggero inchino con il capo. – Spero che mio figlio stia facendo il suo dovere,
visto che spesso si è dimenticato di farlo.
Le sue parole furono seguite da un’occhiata torva. Quel rimprovero così severo, fatto sotto gli occhi di altri e, soprattutto, sotto i miei, mi fece rabbrividire.
- Kheltron adempie perfettamente ai suoi compiti.
- Meglio così, – rispose freddamente. – Almeno puoi crescere tranquilla, come quando ti facevo io da Custode.
- Ne sono sicura, – sorrisi debolmente, anche se avrei voluto fare un sorriso composto. La causa era della tensione che mi premeva addosso. Dopotutto era il padre di Kheltron, nonché il mio Custode fino ai diciotto anni. La stessa persona che aveva avvisato Erixia e che aveva dato un continum alla mia vita, suppur una vita differente da come l’avevo immaginata. – La ringrazio di averlo fatto con tanta cura.
Wuzol sorrise davvero. – Un onore per me.
In quella frase sembrava esserci una buona dose di sincerità e responsabilità, non riuscivo a sentirlo, ovviamente. Eppure era sufficiente la sua espressione.
Per quanto fosse importante quel momento, e ogni pensiero riaffiorava nella mia mente: perché lavorava in quell’ospedale? Come aveva fatto a capire che avevo l’interazione? Cosa sapeva? Non riuscii a porgerli alcuna domanda, e la mia curiosità rimase insoddisfatta.
Inquietudine. Timore. Oppressione. Tutte nella mia testa, tutte poco prima che riuscissi ad apire la bocca per parlare con Wozol. Mi distrassero. La spalla sinistra iniziò a tremare e farmi male. Riuscii a voltarmi e notare che l’Imperatrice i fissava e annuiva. Sentivo lei.
- Aileen, – fece Kheltron. – Che hai?
- Non io! – dissi con un cenno di voce. – Lei!
- È Erixia, – intervenne immediatamente Wuloz. – È nervosa. Aiutiamola.
Non vidi le loro Pietre brillare, nascoste sotto i loro abiti pesanti, ma ero sicura che erano pronti a usarle.
L’Imperatrice sembrò non curarsene, mi fissò nuovamente e, senza annuire, spostò lo sguardo su qualcos’altro. Ripeté il gesto. Guizzò lo sguardo da un capo all’altro. Seguii con gli occhi la traiettoria che percorreva, per capire cosa ci fosse di interessate da guardare, mentre la sua ansia mi riempiva il petto. Fissava un uomo, e non qualcosa. Un uomo rasato, con una folta barba.
- Vieni, – dissi tirando il cappotto di Kheltron, distraendolo dalla sua concentrazione.
- Che fai? – sbottò lui. – Sto cercando di...
Sbuffai e lo abbandonai. Dovevo avvicinarmi all'uomo corpulento, se non altro per provare a sentirlo. Senza l'aiuto di Kheltron dovetti spintonare e abbassarmi ripetutamente. Ci impiegai un quarto d'ora per fare dieci metri: le emozioni delle persone mi rintronavano, come un chiacchiericcio di voci incessanti. Quando arrivai, lo spazio in cui era collocato quell'uomo era vuoto. Aveva scavalcato la transenna e nessuno se ne era accorto. Nemmeno io, che ero occupata a tenere la mente più sgombra possibile. Tutti avevano gli occhi puntati su Erixia. L'uomo si dirigeva a o svelto verso di lei. Non riuscivo a sentire le emozioni di lui, era troppo distante.
- Noi galatriani non possediamo armi, – disse Erixia rispondendo al microfono. – Che assomiglino alle vostre. Non abbiamo polvere da sparo, non sappiamo nemmeno cosa sia.
- Quella è un'arma, – disse la cronista indicando un fucile. – Non avete cose simili sul vostro Pianeta.
- No, – disse lei.
- Non avete mai avuto guerre? – chiese un reporter esterrefatto.
- No.
- E cosa mangiate?
- Mangiamo i frutti della terra, – rispose.
- La carne? Il pesce? Li avete?
- Li abbiamo. – fece lei. – Lo stretto necessario. Noi non alleviamo.
Avvertii il suo incessante timore, e non riuscii a spiegarmi perché riuscissi a sentirla dato la distanza che ci separava. Ma ero troppo agitata per preoccuparmene. L’uomo gli era, ormai, molto vicino. Scavalcai la transenna con l’abilità di un bradibo, tanto che la scena poteva essere comica, se non fosse che non lo era affatto. Lo stivale si incastrò alla sbarra di ferro facendo perdere altro tempo. Imprecai e borbottai fino a che non riuscii a liberarmi. Corsi verso Erixia, verso l'uomo che ancora non sentivo. Corsi veloce. Corsi fino a perdere il fiato, a farmi venire i gelone alla mani e i ghiaccioli attorno al naso. Corsi perché la paura di Erixia fluiva nel mio corpo.
- Fermo! – urlai. Il dolore alla spalla mi stava tormentando, era solo un incentivo per spronarmi a correre più veloce, come se ne valesse della mia vita. Ma miei piedi erano stanchi, e il mio corpo cedeva rovinosamente verso terra. Quando lui si voltò, si bloccò. I suoi occhi iniettati di sangue e il suo sorriso arcigno mi sconvolsero.
Violenza. Rabbia.
L’Imperatrice mi spostò appena in tempo. Il pugno mi sfiorò la guancia, ferendomi, lasciando dolore e calore dove prima avevo solo il gelo. Kheltron e Wuzol si misero tra di noi, riparando me ed Erixia. Dissero addio alla loro copertura. E a quel punto niente fu come prima.
Le telecamere, allertate, presero la nostra direzione e ci puntarono addosso le loro luci artificiali e la loro viscida invadenza. Il gruppo di militari, armati fino alle orecchie, ci raggiunse subito dopo, mentre l’uomo pazzo gridava ossesso: – A morte gli alieni! A morte gli alieni!
- Che è successo qui? – chiese il militare dai capelli brizzolati.
- Quell'uomo mi ha ferita, – dissi.
Mentii, vero, o meglio: non dissi tutta la verità. Ma non potevo dire tutta la verità! Non avrei potuto dire che Erixia si sentiva in pericolo, che io lo sapevo, e che preoccupata avevo azzardato un inseguimento. Come avrebbero reagito se gli avessi detto che sentivo? Non bene, credevo.
- Questo viene con noi, – disse un altro militare prelevando l'uomo. – Grazie, – fece poi rivolgendosi ai due uomini galatriani.
La stessa giornalista mora si avvicinò a o svelto verso di noi, preoccupata e allo stesso tempo entusiasta, probabilmente per l’opportunità che gli era stata concessa: – Un attimo di panico qui a Toronto. Un uomo è riuscito a eludere la sicurezza superando le transenne e ferendo questa ragazza. Si può notare la ferita che ha sul volto, non sappiamo se l'attacco fosse destinato alla galatriana, o se, invece, fosse diretto proprio a questa donna.
- Aileen! Aileen! Che ti ha fatto? – disse Erixia. – E voi due Custodi, date i vostri cappotti a Wuzol e Kheltron, poi mischiatevi con la folla.
Premura. Preoccupazione. Angoscia.
I galatriani a me sconosciuti furono velocissimi, in un attimo sparirono.
- Un graffio, – dissi io. – Solo un graffio.
- Mi dispiace, – fece lei, apprensiva. – Volevo che avvisassi gli altri, non che ti lanciassi da sola! – mi lanciò un'occhiata di puro rimprovero. – Ma mi dispiace così tanto! Oddio…
- No, per favore…
- Puoi raccontarci cosa è successo? – il gruppo di cronisti mi circondò. – Sai chi è stato? Cosa voleva? Lo conoscevi?
Erixia, Kheltron e Wuzol si pararono davanti.
- Un incidente davvero increscioso, – ammise Erixia. – Che una terrestre sia rimasta coinvolta in una situazione simile mentre si cercava di instaurare un rapporto tra popoli diversi.
- Lei lo conosceva? – chiesi la giornalista, impertinente.
- Lo so io cosa è successo, – dissi alzando la voce per ottenere un briciolo di attenzione. Le telecamere si spostare sul mio lato, surclassando la vigilanza dei due galatriani.
- Cosa ragazza? – domandò uno.
- Un terrestre mi ha ferita! – esclamai. – Una galatriana è venuto in mio soccorso, – indicai Erixia. Posi l'accento su “galatriana” per evidenziare la sua presenza. La sua importanza. Lei mi aveva salvata. Lei. Di nuovo.
I giornalisti mi guardarono stupefatti annuendo come ebeti.
***
Capitolo 53 Il sole era già tramontato quando mi alzai dal divano. Lyoxc aveva lasciato sul tavolo la lista delle persone che mi aveva cercato: tutti giornalisti. Accanto c’era una lista di riviste, accatastate una sopra l’altra. Nella prima pagina di tutti i giornali vidi la mia faccia. Vicino c’era quella di Erixia. “Aria di Cambiamenti” era il titolo di un articolo. “Un Aiuto dal Cielo” diceva un altro. Non mancavano i pezzi più subdoli: “Una montatura per accettare il nemico”, con tanto di fotografia ritoccata, in cui Erixia, acerrima nemica della Terra, sorrideva al mio assalitore dandogli una lauta mancia per il lavoro svolto.
Ero ufficialmente ata dalla parte dei galatriani, ero su un nuovo binario.
Toccai la guancia liscia e perfetta. Subito dopo l'interrogatorio di quella notte, Erixia mi aveva curato la ferita, e ora non era rimasto nulla, nemmeno una piccola cicatrice. Tuttavia, non avevo più visto Wuzol, sembrava essere sparito, forse tornato su Galatria. Mi angosciava molto sapere di non averlo più incontrato, le mie domande erano rimaste sospese, lì nella mia testa.
- Sei famosa, – disse Lyoxc comparendo dal corridoio con occhi verdi sfavillanti, dai quali mi riparai con degli occhiali da sole. Lui aveva insistito per poter essere libero di vagabondare senza le lenti a contatto, e i ero stata costretta a trovare un rimedio.
- Ho perso il conto delle telefonate che ho ricevuto! – sospirai, accarezzando il bracciolo del divano. – Come avranno ottenuto il mio numero di telefono?
Lyoxc ridacchiò.
- Mi hanno proposto così tanti soldi, – proseguii, – che se accettassi potrei cambiare vita.
- Ti lamentavi di non avere un lavoro, – fece l'occhiolino.
Presi il cuscino del divano e glielo lanciai addosso. La confidenza che sentivo crescere nei suoi confronti mi permise di lasciarmi andare a quel gesto. Poi sbottai. – Non è divertente Lyoxc! Ho ato la notte in commissariato a spiegare com'erano avvenuti i fatti. A mentire!
- Lo so! – disse, rilanciandomi il cuscino come una palla da baseball. – Abbiamo dovuto tenere fermo Kheltron per non farlo irrompere nella stanza. Era furioso, diceva che ti stavano tartassando ingiustamente.
- Infatti, infatti! Lo hanno fatto! Mi hanno chiesto la stessa cosa almeno cinque volte. Forse, – mi ai la mano tra i cappelli bruni, – volevano vedere se mi tradivo.
- Ti riferisci al fatto che alcuni dei terrestri credono che sia stata una messa in scena?
- Già! – esclamai sbattendo un piede sul pavimento. – La gente si inventa di tutto.
- Non può reggere quella storia, – si fece serio e legò i capelli con un nastro nero. – Quell'uomo era capo del club “a morte gli alieni”.
- Se consideri che ha fatto più di quattro milioni di iscritti in cinque giorni... – dissi io. – Puoi ben immaginare in quanti ci credono.
- Però, – alzò le mani, – il club di benvenuto ha raggiunto i sette milioni!
- Già, – feci io andomi la mano sul viso, ma bloccandomi a metà guancia. Il telefono squillò di nuovo, facendomi sprofondare nell’esperazione totale. Lo lasciai suonare.
Lyoxc, invece, rise. – Mi sa che ti toccherà rilasciare qualche intervista.
- Lyoxc! Non sarà affatto divertente! Per nessuno lo sarà. Dovrò mentire a miliardi di persone.
- Scusa! Capisco che il momento sia molto difficile per te, lo è anche per noi. Se non fosse per quell’uomo non saremmo in questa situazione e potremmo agire diversamente. Non era nei piani tutto questo. Tu avresti dovuto aiutarci, mostare le nostre buone intenzioni, ma non così!
- No, – scossi il capo. – Non sempre. Non va come stabilito.
- Per questo ti consiglio di parlare con giornalisti che ti garantiscono trasparenza e imparzialità. Stare con quelli che simpatizzano per noi non ci aiuterebbe, stare con quelli che hanno paura ci metterebbe solo in cattiva luce. Ma qualunque cosa tu scelga, fallo in fretta.
Mi ficcai un pezzo di cioccolato in bocca. – Ottimo consiglio, manager! Il problema è sapere quali sono quelli neutri!
- Me ne occupo io, se vuoi. Potrei trovarlo stimolante e utile, seguirei i tuoi spostamenti da bravo Custode. – si mise una mano sul petto e iniziò a cantare l'inno americano.
Svoltai gli occhi. – Hai visto troppi film! E poi qui siamo in Canada!
Lui si zittì immediatamente, ponendo uno sguardo attento. L’espressione tipica di chi aspetta una risposta.
Cercai di guadagnare qualche minuto facendo finta di sfogliare una rivista.
La proposta non era da gettare via. Ogni intervista mi avrebbe permesso di guadagnare qualcosa per mantenermi da sola e, forse, avrebbe convinto il mio popolo sull’assenza di complotto tra Erixia e l’aggressore. Inoltre, se avessi avuto accanto dei Custodi, avrei potuto chiedergli di usare la Pietra per nascondere i sentimenti degli intervistatori, concedendomi la possibilità di parlare senza il rischio di essere influenzata.
Presi il guinzaglio di Ercole e mi infilai piumino, cappello e sciarpa.
- Va bene, – dissi. – Ma voglio pensarci ancora mentre faccio un eggiata con il cane.
- Non credo sia il caso, – mi fermò Lyoxc. – Guarda fuori dal terrazzo.
Brontolai prima di slanciarmi fuori per dare un'occhiata in strada. La cacofonia prodotta dai giornalisti mi lasciò sgomenta.
- Santa Galassia! – dissi appoggiando le mani sul muretto di mattonelle rosse. – Oddio!
- Eccola! – esclamarono un paio di uomini indicandomi dal basso. – È lei!
Rientrai immediatamente nell'appartamento, più sconvolta che altro. – Oddio! Adesso che faccio?
Lyoxc mi mise sotto il naso la rivista “Abitare Oggi, Annunci”.
- Che cos'è questa roba? – chiesi scioccata.
Il camlo della porta suonò, facendomi irrigidire all'istante.
Lyoxc, con o felpato, si diresse alla porta. Non ebbe bisogno di alzarsi sulla punta dei piedi per guardare dallo spioncino. – È tua madre, – mi lanciò un'occhiata. – Con Kheltron.
- Con Kheltron?
A quel punto non mi restava altro da fare. Erano tutti impazziti. Persino mia madre aveva indetto un colloquio con i galatriani. Mi diressi a o svelto verso il ripostiglio. Presi le tre valigie che avevo e i due borsoni.
- Hai cambiato idea? Ti serve aiuto?
- No. Sì! Falli entrare, parlerò con loro mentre preparo le cose per una destinazione più tranquilla.
- Va bene.
Un attimo dopo la porta di casa si aprì e l’ansia di mia madre proruppe su tutte le pareti. – Tesoro! Ma cosa vogliono queste persone da te? Mi hanno assalita sul portone d'ingresso!
Preoccupazione. Ansia.
- Non guardi i giornali? O la TV? – dissi alzando due valigie vuote e dirigendomi in camera mia.
- Certo che li vedo! – sbottò lei entrando in camera da letto con rabbia. I suoi capelli corti erano arruffati e retti da due pinzette di colore diverso. Gli occhi erano arrossati, come se avesse finito di piangere da poco.
Costernazione.
- Cielo che disordine! – disse mettendosi le mani nei capelli. – Dobbiamo pulire immediatamente!
- Mamma! Non dobbiamo pulire! Dobbiamo andare via! Io devo andare via!
- Tu! Tu non vai da nessuna parte con queste persone!
Timore.
- Non vado via con giornalisti, mamma, ma con loro. – Indicai i due galatriani dietro di noi.
Mi madre si voltò a guardarli. Sdegno. – È esattamente con loro non che non devi andare! Sono due di loro! Due alieni! Ed è per colpa loro che ti hanno fatto del male! E guarda come sono strani gli occhi di quel… di quel coso biondo!
Tormento. Agitazione
Io indossavo ancora i miei occhiali da sole, per cui ero abbastanza immune al colore degli occhi di Lyoxc, ma mai madre non lo era. Strizzò gli occhi cercando di guardalo, con scarso successo.
Lyoxc parve alquanto offeso dall’insinuazione di mia madre. Misi un muso lungo, e le spalle si curvarono, mostrando nel complesso un corpo cupo e intristito.
- Con tutto il rispetto, signora, – disse Kheltron. – Ho cercato di aiutare sempre Aileen, e continuerò a farlo.
- Mia figlia lei non la tocca! – urlò arrabbiata mia madre.
Lyoxc a quel punto tossì, due colpi decisi. Tirò fuori dal maglione blu la sua Yikira e la fece dondolare .– Volete un po' di calma?
- Fuori! – dissi guardando i galatriani. E loro si dileguarono socchiudendo la porta.
Approvazione. – Ben fatto tesoro.
- Mamma aiutami a fare le valigie, per favore.
- Non capisco dove tu voglia andare, appena rilascerai qualche dichiarazione, i giornalisti ti lasceranno in pace.
Convinzione.
Gettai nel borsone tutto quello che tiravo fuori dall’armadio. – Io non credo. Soprattutto perché continuerò a stare con i galatriani.
- Sei impazzita! – apostrofò tirando fuori i vestiti che io mettevo nella valigia. – Con quei mostri? Ma che ti hanno fatto?
Dissenso. Opposizione. Rimprovero.
- Mi hanno salvata mamma! – urlai perdendo il controllo delle parole e delle azioni. Gettai tutti i vestiti fuori dall'armadio e li ammucchiai uno sopra l’altro. – Tu più di tutti dovresti ringraziarli.
Mia madre si portò una mano sulle labbra e impallidì. – Che dici tesoro..
Rifiuto. Resistenza.
Mi opposi ostinatamente a quei sentimenti, con la Pietra al collo che brillava e mi riscaldava, generando una rabbia interna che mi fece perdere le staffe. E le mie labbra si aprirono per dire la verità.
- Non sono stati i dottori, non sono state le preghiere a salvarmi! È stata quella donna in televisione. È stata lei!
- Non sai quel che dici. Ti hanno drogata!
Condanna.
- In effetti, io non se odiarli, o ringraziarli. Ma tu scegli da che parte stare, ora.
- Sono sempre dalla tua parte, – disse lei tremando. – Ma non andare con loro, ti prego.
Paura.
- Starò bene, – le sorrisi. – Meglio che in qualsiasi altro posto.
Mia madre, seppur carica di disapprovazione e timore, mi aiutò a sistemare i vestiti nelle valigie, ma non disse altro: si ammutolì. Quando aprii la porta della stanza, non smise di fissare i galatriani, di provare sentimenti di odio, paura e rifiuto, mandando in confusione tutti quanti.
- Allora, – dissi a Lyoxc. – Chiama un galatriano che possa seminare i giornalisti, in macchina possibilmente. La Cupola sarebbe un po’ troppo. E l’auto di Cuyed desterebbe troppe domande.
- Va bene! – affermò Lyoxc iniziando a trafficare con il cellulare – So già chi chiamare.
Un attimo dopo ebbi degli occhi blu intenti a fissarmi.
- Sei convinta? – chiese Kheltron.
- Mi seguiranno dovunque, – dichiarai – Stare in affitto qui, o stare da un’altra parte, non cambierà molto. Ma mi darà la possibilità di uscire senza essere accerchiata.
Presi il giornale dal tavolo della sala e guardai gli annunci. Scelsi una villetta in stile vittoriano, alla periferia del paese, poi feci chiamare Kheltron per un incontro quella sera stessa.
L'automobile arrivò un'ora dopo, infilandosi tra la folla di giornalisti. Chiesi a Kheltron e Lyoxc di fare qualcosa per poter are in mezzo alla gente senza essere assalita. Qualcosa che riguardava la mia responsabilità e il mio potere. Mi mostrarono la Pietra e io annuii.
Mi aggiustai gli occhiali da sole. Il guinzaglio di Ercole fu saldo in una mano mentre con l'altra arpionai una valigia.
Ad un o dal portone salutai mia madre, che aveva le lacrime agli occhi.
Un attimo dopo udii lo schiamazzo delle persone. Le loro grida, i loro incitamenti, le loro emozioni.
Animazione. Furore. Curiosità. Ansia. Trepidazione.
Lyoxc spalancò il portone e uscì con una valigia e un borsone, mentre Kheltron, al mio fianco, teneva il resto della mia roba.
I giornalisti si accalcarono attorno, si gettarono addosso.
- Questi sono quelli che ci hanno pagato, Aileen, – disse Lyoxc sfiorandomi appena con la spalla. – Magari potresti dirgli due parole.
- Che dovrei dirgli?
- Una domanda Aileen! – si rivolse a me quella mora.
Mi voltai per dargli un briciolo della mia attenzione.
Curiosità. Ansia.
- Queste emozioni stordenti… – sussurrai. – Fate qualcosa.
Loro annuirono muovendo il capo, poi la loro espressione si fece seria e concentrata. Tutto scomparve in un barlume di niente. Il silenzio dei sentimenti. Pace.
- Cosa ne pensa dell'aggressione subita? – domandò allungando la mano con il microfono.
Alzai un sopracciglio, pensando a quanto fosse sciocca quella domanda. – Che
era meglio se non ci fosse stata.
- Ci sarà un processo. Lei testimonierà in favore dei galatriani?
- Io testimonierò contro quell'aggressore.
- È in partenza signorina? – chiese un uomo biondo della stessa rete televisiva. – Ha due guardie del corpo di Galatria, che ne pensa di loro? Lo sa che il Canada ha accettato la presenza dei galatriani purché si apprestino a tutti i controlli medici?
- Io...sì.
In realtà non ne avevo proprio idea.
- Su di noi i controlli si stanno già effettuando, – si intromise Kheltron. – Non abbiamo il permesso di mostrarveli ora, ma li avrete presto. Come riportano molti giornali siamo esseri umani.
- Lei non è quello che è intervenuto nello scontro di ieri? – chiese la donna.
- Sì, – tagliai corto io. – L'imperatrice di Galatria era interessata al mio stato di salute e ha voluto farmi omaggio di due guardie del corpo. Ora, se volete scusarmi... – dissi ricominciando a camminare. – Ho una macchina che mi aspetta.
Lyoxc e Kheltron mi gettarono nella vettura nera, con vetri scurissimi, e richio lo sportello. Ero sul sedile posteriore, con mio rammarico, insieme al piccolo Ercole, che non stava fermo un secondo. Gli altri aggiustarono le valige e chio il baule. Aprirono la portiera e si sedettero accanto a me. Misi Ercole sulle mie ginocchia e lo accarezzai per cercare di calmarlo.
- Partiamo! – ordinò Lyoxc.
Joxon, Custode di Erixia, e sul momento autista, partì lentamente.
- Andiamo alla mia Cupola? – interruppe Kheltron. – È schermata.
- NO! – esclamai forte.
Due paia di occhi galatriani mi fissarono perplessi.
- No – dissi abbassando il tono di voce. – Andiamo alla mia!
- Ma la tua è vuota! Come faremo?
- Va bene così, – ribattei. – Questa sera ho un appuntamento per vedere una villetta. Per qualche tempo ci arrangeremo.
Kheltron e Lyoxc si guardarono scuotendo le spalle.
***
Capitolo 54 La Cupola, effettivamente, era davvero spoglia. La cartina che era rimasta sul tavolino dell'ingresso era, forse, insieme al bagno e alla palestra, l'unica cosa che arredasse quel posto.
Lyoxc mi abbandonò con Kheltron, dicendo che il suo turno stava per finire e doveva andare a fare le analisi del sangue.
- Non è che state imbrogliando? – chiesi io dubbiosa.
Lui ridacchiò. – Questi esami non servono a niente, se non a dimostrare che siamo umani. Temo la risonanza magnetica alla testa, ma quella non è nella lista delle cose da fare. Tra l'altro, ognuno di noi può decidere se pubblicare i risultati delle analisi mediche.
- Per fare che? – lo guardai titubante. – Non sono rischiose? E perché non ne sapevo niente?
- Servono a far star tranquilli il tuo popolo. Erixia ha detto di farle, poi
pubblicarle su un sito in creazione. I soldi degli sponsor saranno tutti devoluti per associazioni benefiche.
- Pubblicherete i referti su intenet? È assurdo! Sapranno persino il vostro gruppo sanguineo!
- Sì! Lilian ha detto che è una splendida idea. Quindi lo farò, se non hai niente in contrario.
- Lilian? – chiesi io stupefatta. Lui sorrise allegramente facendo brillare i suoi occhi verdi, portandomi ad aggiustare gli occhiali sa sole. – Segui i suoi consigli ora?
- Sì. Adoro sentirla felice.
Scossi le spalle mentre andava via. Poi pigiai sul quadrante per chiudere il portellone, non volevo che entrasse altra aria gelida.
Voltandomi, notai di essere rimasta da sola con Kheltron. Lo guardai con astio.
- Tu che intenzioni hai di fare? Una pubblicazione a scopo benefico?
- Non è di questo che dovremmo parlare, – disse. Mi guardò e cercò di avvicinarsi lentamente.
Presa alla sprovvista, cercai un argomento valido per cambiare discorso. – Forse è ora di andare a vedere quella villetta.
Indietreggiai, finendo contro una parete bianca e laccata.
Kheltron, non si diede per vinto, proseguì verso di me, schiacciandomi.
- Aileen... sul serio mi vuoi evitare?
- Sì. No.
Mi accarezzò i capelli. Chiusi gli occhi godendomi quell'attimo, pur sapendo che era finto, che non era altro che menzogna.
- Sei un po' combattuta, – disse lui sfilandomi gli occhiali. – Vuoi dirmi perché?
Appoggiai la mano sul torace per spingerlo via.
- Per favore, – dissi facendo uno sforzo considerevole. – No.
***
Capitolo 55 Quello che nessuno si aspettava, soprattuto io, era che Kheltron si spostasse e mi guardasse con aria dispiaciuta, abbattuta. In quel momento, in fondo, ci rimasi male, perché credevo che avrebbe disobbedito e avrebbe insistito con le domande, così io avrei confessato e lui mi avrebbe detto che era tutto falso, che non aveva nessun Simbolo che lo legava ad un'altra donna. Non fu così, lui si scostò.
Mi portò a vedere la villetta, che era semplice, con giardino. Il piano superiore era composto da due camere vuote e un bagno grande già arredato. Il piano terra aveva una cucina e una sala da pranzo distaccati, anch’esse già ammobiliate. Dissi all'agente immobiliare che l'avrei presa subito, se fosse stato possibile. Di solito non si affittava così velocemente una casa, ma sapevo che avrei accordato interviste per centinaia di dollari.
Il giorno dopo avrei firmato il contratto di locazione, e da lì a due giorni avrei già potuto occuparla. Si trattava di trovare il modo di vivere un paio di giorni in quella Cupola spoglia.
Quando rientrammo nella Cupola trovammo Lyoxc ad attenderci.
- Hai dimenticato qualcosa? – chiesi.
- Mi servirebbe la macchina, voglio portarti due brandine.
- Eccezionale! – dissi tutt'altro che entusiasta. – Grazie, ma andrò io a comprare qualcosa domani.
- Ah, sì? – fece lui ridacchiando. – Prima o dopo le tue interviste?
Spalancai la bocca. – Perché? Ne ho tante?
Kheltron borbottò, appoggiando una mano sulla parete esterna della Cupola.
- Aileen, – fece Lyoxc, – non c'è nulla di cui preoccuparsi, ho scelto accuratamente i giornalisti. Tra l'altro, domani avrai un viaggio programmato per New York, vogliono far scendere i galatriani da quella Cupola. C'è Quezel lì sopra.
Mi accigliai, gettando il piumino sul tavolino. – Queste cose le hai decise senza il mio consenso.
- Lei non si muove! – affermò Kheltron. – Lei resta qui!
- Non credo che Aileen abbia molte alternative, – disse Lyoxc. – Prima farà le interviste prima la lasceranno in pace.
- Quando hai deciso queste cose?
- Non ho deciso da solo, Aileen mi ha detto che andava bene. Inoltre, più del 50% dei terrestri vorrebbero che lei spiegasse cosa è avvenuto per dimostare che non si tratta di una montatura. Si fidano di lei, non di noi.
- LYOXC! Dove hai ottenuto queste informazioni?
Lui si toccò le dita in modo nervoso, gesticolando e balbettando. Sembrava intimorito. – L’ho visto in TV. Ho pensato che se serviva a fargli stare tranquilli avremmo dovuto accontentarli. Ho chiamato Erixia dopo le analisi e gli ho chiesto un’opinione. Era favorevole.
Lyoxc si fermò. Fece scorrere lo sguardo da Kheltron a me. Mi fissò un po' preoccupato. – Potrai raggiungere Quezel con la tua Cupola mostrando ai terrestri che sono del tutto innocue, sicure e stabili. Non piloterai tu, Joxon è un ottimo pilota e un bravo Custode.
Ero troppo stordita per dire qualcosa, così rimasi zitta stringendo il guinzaglio del piccolo Ercole. Riversando le emozioni nella Yikira.
- Hai esagerato Lyoxc, – fece Kheltron tra i denti stretti – Aileen non è abituata a stare tra la folla per tanto tempo.
- Sono in giorni programmati, – si difese lui. – Venerdì a Londra. Mercoledì a Sidney. Avrà un'intervista al giorno, tranne domani che ne avrà due: alle dieci a Toronto, e una a New York per il pomeriggio, dopo l'atterraggio della nostra Astronave.
- Un'intervista al giorno? Vuoi farla impazzire?
- Non sono un bravo manager? – mormorò colpevole. – Mi dispiace.
Con un o si avvicinò e mi ò un'agendina aperta. Accanto ad ogni incontro c'era la cifra che avrei guadagnato. Ero sicura che i miei problemi economici sarebbero scomparsi.
***
Capitolo 56 La Cupola la sistemai per benino in poco tempo, mi feci aiutare dal gusto sobrio di Erixia, che invitai da me dopo l'incontro a New York. Arredai in poche ore le camere più utilizzate. L'ingresso, riccamente decorato da fiori colorati e dai due comodi divani del mio vecchio appartamento, e la camera successiva, composta da quattro nuove poltrone, un nuovo tavolino in vetro e un vecchio tappeto rosa. Le altre stanze erano off-limits, ma le arredai appena con cose del mio appartamento: armadio, cassettiera e prodotti per il bagno.
Trascorsi due settimane infernali. Girai mezzo Mondo con la mia Cupola, scoprendo che non soffrivo il volo, e che mi entusiasmava parecchio. D’altra parte, non avevo mai avuto problemi nemmeno con l’aereo.
Tutti mi acclamarono, mi adorarono o finsero di farlo. New York, Washington, Sidney, Hong Kong, Mosca, Londra, Parigi, Barcellona. Per due settimane ebbi parrucchiera, truccatrice e stilista private. Tacchi alti, vestiti attillati, gioielli, quasi da non sentirmi più me stessa.
Tutto era programmato a puntino.
Trovavo migliaia di persone ad attendere l’ascesa, che veniva fatta, sempre, in coincidenza con quella dei galatriani, tra cui Quezel.
Alla fine di gennaio contai una trentina di nuove conoscenza galatriane. Ovviamente, tutti maschi. La mia vita sociale sembrava essere decollata.
Dopo una breve intervista con i giornalisti facevo accomodare nella mia Cupola i due terrestri vincitori. Venne fatto in tutte le città visitate, tranne New York. Il gioco indetto da Lyoxc venne chiamato “Un Viaggio Cupoloso”.
- Un Viaggio Cupoloso? – avevo chiesto guardandolo esterrefatta prima di partire. – L'hai chiamato così?
- L'idea è stata di Lilian, – aveva risposto lui sorridendo allegramente. – Non è magnifica?
La gente era entusiasta. Non si parlava di altro. Coloro che desideravano salire sulla Cupola dovevano rilasciare dei commenti sul blog di Lyoxc. In quel modo si escludevano automaticamente le persone anziane che non erano pratiche con il computer, portando considerevoli vantaggi anche a me, che non ero costretta a temere che svenissero per cuore debole. Tuttavia, furono imposti dei limiti: si accettavano solo persone della città in visita; solo un commento a persona. L'estrazione era fatta a sorteggio casuale, in diretta televisiva.
Mi sorbii, quasi ogni giorno, un'oretta con terrestri che mi ponevano sempre le stesse domande.
Come sono loro? Da vicino sono come in televisione? Potrei avere l'autografo di Kheltron? E una foto di Erixia?
Erano così carichi di speranza che, dopo il primo incontro, avevo capito di dover far qualcosa. Stipai l'ingresso e la sala, le uniche stanze a cui permettevo l'accesso, con foto e autografi dei galatriani, cosicché i terrestri, entusiasti, mi lasciassero un po' libera.
La sera partecipavo a cene sfarzose in ristoranti prenotati, assieme ai due o tre galatriani appena scesi dalla Cupola. Venivano proposti cibi locali e svariati. Per quanto mi sforzassi di mangiare non riuscivo mai a finire le portate che arrivavano. I galatriani facevano di tutto per mettermi a mio agio, erano sempre molto riverenti e servizievoli, quasi fossi la loro Imperatrice. Erano tutti giovani a vedere, segno di una demografia in crescita. Capelli lunghi, occhi in prevalenza grigi. E nomi, tanti nomi da imparare, da ricordare. La sera dormivo negli Hotel scelti dai governi locali. Erano i galatriani, quelli appena scesi dalla Cupola, a monitorare le mie notti, restando fuori dalla camera d'albergo.
Inutile dire che le giovani fanciulle avevano fondando club in tutto il mondo: il tema principale era chi fosse, dei giovani galatriani, più bello, affascinante e meritevole di essere sposato. Quelle ragazze erano più aggiornate e sfacciate di me. Io davanti alle avance delicate dei giovani galatriani ridacchiavo nervosamente, rispondendo che avevo già un Prescelto. Quelle ragazze gli sarebbero saltate addosso.
Ercole, ovviamente, fu la mia colonna portante, perché mentre viaggiavo non ebbi la compagnia di Lyoxc o Kheltron, ai quali, fu dura ammetterlo, mi ero affezionata.
Joxon era la mia spalla destra durante le interviste e in mezzo alla gente, assorbiva la loro energia emozionale, rendendomi tutto più vivibile. Il resto del tempo lo trascorreva nella sala comandi della mia Cupola, e dato che non era propriamente giovane, ma assomigliava più a mio padre, non era una sfarzosa compagnia.
Erixia mi avvisò che non c'era stata Nazione, tra quelle della NATO, Europee e Asiatiche, che non avesse accettato il patto di libera circolazione per i galatriani, soprattutto dopo essersi accertati dalle analisi, che erano esseri umani.
Nel poco tempo libero a disposizione riuscii a studiare un po' di galatriano, telefonare a Lilian e Lyoxc, a regalare un viaggio ai miei genitori per Roma, e a fissare una festicciola alla mia nuova villetta con mio fratello Bob, anche lui fan sfegatato dei galatriani. Per mia fortuna non ebbi abbastanza tempo per pensare a Kheltron, ma ogni volta che capitava mi intristivo e mi agitavo. Lui non mi aveva più cercata, e io avevo fatto lo stesso.
- Siamo arrivati Tramite Aileen, – annunciò Joxon entrando nella palestra. – Siamo a casa sua.
Eravamo di ritorno da Barcellona.
- Grazie, – dissi scendendo dalla cyclette e sganciando la Pietra dall'incastro. Poi feci un fischio acuto, ma corto, per ottenere l’attenzione di Ercole, che alzò il muso e mi raggiunse. Attraversammo corridoi e porte scorrevoli fino a giungere nell'ingresso. Mi infilai piumino, sciarpa e cappello. Gennaio era finito, e con esso le terribili giornate di interviste.
Pigiai il palmo della mano sul pannello rotondo e il portellone si aprì, mostrandomi un cielo nuvoloso e spettrale. Eravamo a Sunville.
***
Capitolo 57 – Il ato La Cupola era atterrata vicino alla mia villetta, in uno degli spazi vuoti e desolati
tipici delle periferie. Non sapevo schermarla, quindi lo feci fare a Joxon.
Ad accogliermi trovai Cuyed e Kheltron, con la sua cappa nera e il cappuccio abbassato. La sua postura era rigida e composta, il viso contratto in un’espressione dura e le braccia si intrecciavano dietro la schiena. Cuyed, al contrario, era vestito sobrio, con abiti tipicamente terrestri, un dolce sorriso stampato sulle labbra e due occhi grigio galatriano. O come avrei detto io: grigio metallizzato.
- Bentornata Aileen, – disse facendo un piccolo inchino. – Come stai?
- Ciao Cuyed, – feci io schioccandogli un bacio sulla guancia che lo lasciò interdetto. Kheltron mi fissò altrettanto stupito.
Avevo steso il mio progetto. Dovevo star lontana da Kheltron. Lui mi avrebbe fatto soffrire, e non era nei miei programmi.
Lasciai andare un'occhiata tenera verso Cuyed. Potevo superare il fatto che mi aveva attaccata. Dovevo farmelo piacere.
- Sono un po' stanca, in effetti. Ho bisogno di una doccia e poi una bella cenetta. Ho chiesto a Lyoxc di fare un po' di spesa ieri, così festeggiamo per bene.
- Fantastico! – esclamò lui, azzardandosi a are una mano tra i mie capelli bruni. – Ci sarà anche lui? – indicò Kheltron.
- Sì, so che non fa parte dell’accordo, – feci io alzando le spalle, come se la cosa mi disturbasse. – Farai un’eccezione? In fondo non saremo soli. Come accennato ci sarà mio fratello con la sua compagna Marie.
Lui annuì, offrendomi il braccio per accompagnarmi in casa. Io accettai sorridendo, ma non fu qualcosa che feci di buon grado. Tuttavia, il tratto fatto a braccetto fu brevissimo, la porta a vetri della villetta distanziava venti i.
- Come è andata su Galatria? – feci io, spalancando l’uscio, facendo entrare Ercole e i galatriani. – Un viaggio lungo?
Fece ricadere il braccio lungo il corpo, facendosi pensieroso, come se gli avessi posto una domanda difficile alla quale rispondere.
Richiudendo la porta, mi staccai completamente da Cuyed, gettando un’occhiata alle mie spalle per controllare che fossero entrati tutti.
Kheltron era proprio dietro di me, slegava la cintura della mantella. Ercole era accanto a lui, gli tirava i lacci delle scarpe. E infine Cuyed, era al mio fianco, ritto e pensieroso.
Sospirai, lasciando le chiavi sul mobiletto dell'ingresso, lo stesso del mio vecchio appartamento. Avevo chiesto a Lyoxc di fare il trasloco del mobile, del letto, dell’appendiabiti, e di tutti i miei oggetti: vestiti, suppellettili, prodotti alimentari, bevande e alcool.
- No, – disse Cuyed dopo molto tempo. – Il viaggio non è particolarmente lungo, i Salti nell'Iperspazio ci permettono di arrivare in tre giorni galatriani. Il resto è andato molto bene, alcuni del Consiglio erano addirittura euforici per come si sono messe le cose.
Mi azzardai a sorridere, sperando di ottenere informazioni con le buone maniere.
- Avete deciso di spedire alcuni uomini qui? – chiesi scostandomi per togliere il piumino. – O farete delle proposte di viaggi spaziali?
Cuyed scosse il capo. – Nulla di tutto questo. È troppo...– si bloccò. – L'hai messa!
Toccò la collana che avevo sotto il maglioncino scollato.
- Già, – dissi io abbassando lo sguardo sulla Pietra. Il contatto con lei era diventato una costante.
Cuyed mi sfiorò il collo. – Ti piace?
Prima che potessi rispondere, o respirare, Kheltron ci venne addosso. Cuyed finì contro il mobiletto. Io restai in piedi, in bilico tra i due corpi.
Kheltron tergiversò su di me, quasi imbarazzato. – Ho perso l'equilibrio.
Lo guardai stranita, incapace di credere che lui potesse perdere il controllo. Invero, dovetti accettarlo: Cuyed e Kheltron iniziarono a fissarsi in cagnesco.
- Vado di sopra, – dissi mollandoli lì. Quello che avrebbero fatto in mia assenza non sarebbe stato un mio problema, o almeno cercai di convincermi che fosse così. Chiaro che quei due avevano un problema: io.
Mi affacciai dalla scalinata e gettai un'occhiata furtiva, anche se mi ero defilata avevo paura che assero alle mani. Siccome parlottavano tra loro e sembrava che fosse tutto sotto controllo, proseguii senza indugio, ma quando raggiunsi l’ultimo scalino dovetti fermarmi. Il tono di voce dei due galatriani era aumentato prepotentemente, fino a raggiungere le distanze di un soprano.
- Ci siamo baciati, ma è colpa mia, – gridò Kheltron. – L'ho confusa. Era un allenamento. Niente che valga la pena ricordare.
Il mio cuore perse una pulsazione. Nell’immediato secondo che seguì, dovetti appoggiarmi al muro.
- Aileen è mia, Kheltron! – la voce possessiva di Cuyed mi fece rabbrividire. – Sono io il Prescelto, ti devo ricordare, invece, qual'è il tuo posto?
- So qual'è il mio posto!
Ercole si avvicinò, mi annusò dandomi dei leggeri colpi sul ginocchio,
probabilmente per controllare che fossi viva. Io ero rimasta immobile, schiacciata dal peso di quelle parole. Lui mi trascinò via tirandomi il pantalone.
In quel momento fu chiaro che per Kheltron non ero importante, ma fin lì ci ero arrivata da sola. Lo shock fu un altro: per Cuyed ero una proprietà. Un uomo, senza una donna, poteva ridursi davvero male. Un uomo, alla presenza di una donna, poteva giungere pari livello.
Andai nel bagno dalle piastrelle color arcobaleno, aprii il rubinetto e riempii la vasca di acqua bollente. Gettai i vestiti sul pavimento, presi il barattolo rosa del bagnoschiuma e mi infilai nella vasca.
Una lacrima scivolò involontariamente sulla guancia. Immersi la testa sotto l'acqua. Tenni gli occhi aperti per vedere la Pietra illuminarsi e caricarsi di quella piccola, triste, energia. Dovetti ricordarmi che era per situazioni come quella che ero tornata a Sunville, che avevo deciso di fare la loro Tramite. Le donne galatriane non dovevano più subire quei trattamenti ingiusti. Le donne dovevano scegliere liberamente.
Gettai il capo fuori dall'acqua, e feci un respiro profondo.
Avvolsi il corpo in un asciugamano bianco e mi diressi, carica di pensieri cupi, verso la nuova camera. Aveva una parete color borgogna, il resto bianco e immacolato. Così l’aveva trovata, e così l’avevo lasciata. Il letto, al centro della stanza, era lo stesso che avevo nel vecchio appartamento. I mobili erano cambiati: un armadio in legno nero e una cassettiera dello stesso colore. Tutti acquisti che avevo chiesto di fare a Lilian.
Scelsi un vestito a maniche lunghe, nero. Nero come il mio umore. Asciugai i capelli e li lasciai sciolti. Misi un paio di stivali alti, anch'essi neri. Completai il look con uno smokey scuro per coprire gli occhi arrossati dalle lacrime.
Alle sette in punto suonò il camlo e decisi che era il momento di scendere. Corsi ad aprire la porta, mentre Kheltron mi venne incontro. D'istinto strinsi la Pietra che avevo al collo.
- Tutto bene? – chiese lui.
Io voltai il capo, ignorandolo. Aprii la porta dedicando un sorriso a mio fratello, che non vedevo da tre mesi.
Gioia. Felicità. Affetto.
Bob mi abbracciò forte. – Come sta la mia sorellina?
Era, ovviamente, un bel ragazzo. Capelli corti, bruni. Alto, muscoloso, con due bellissimi occhi celesti, gli occhi di mia madre.
Premura. Dolcezza.
- Come sta il mio fratellone? – sorrisi.
- Un po' congelato, – disse. – Non vedo l'ora di approfittare del calduccio della tua bella villetta!
Mi spostai per farlo entrare e lo abbracciai. Marie, era la fidanzata. I due erano insieme da prima che il mio ex fidanzato, Bryan, si mettesse con me. Lei aveva un groviglio di capelli rossi e due occhi verdi che incantavano. Niente a che vedere con i due fari di Lyoxc.
- Come stai Marie? – chiesi.
Tenerezza. Sincerità.
- In perfetta forma. Ma tu? – disse lei dandomi un delicato bacio sulla guancia. – Devo ammettere che vorrei sapere tutto di questi giorni! Come li hai vissuti?
Alzai le spalle facendole strada verso la sala, dove avrebbe potuto appoggiare il cappotto. Aveva un maglione chiaro e una gonna marrone.
- Le giornate sono state stancanti!
Comprensione. Dubbio.
- Ti abbiamo seguita in televisione, sei stata bravissima. Soprattutto con il giornalista della CCN.
- Devo dire che mi ha fatto arrabbiare! Accusarmi di essere complice di quell'uomo per avere successo!
- Già, come se fosse possibile essere amici di quel pazzo. C’è una cosa, però, che mi perplime. Come sei riuscita a essere in città? Io e Bob non eravamo a Toronto quel giorno, come quasi tutti. – Appoggiò il cappotto sul bracciolo. – Tu come hai avuto il permesso di entrare in città?
Curiosità.
- Bella domanda… Il fatto è che Lilian si era sentita male in macchina, e Toronto era il posto più vicino. Ci hanno fatto are per raggiungere l'ospedale. Alla fine non era nulla di grave, solo un po' di influenza. Ma dato che eravamo lì abbiamo deciso di restare per vedere la Cupola..
Lei annuì, sorridendo e ravvivandosi i capelli. Comprendente. Disponibile.
Le indicai la strada per la cucina, e a o lento ci avviammo.
- Quindi eri lì con Lilian?
Invadenza.
- Certo. Con chi? – ridacchiai nervosamente. Mentire non era un’abitudine piacevole.
- Credevo fossi sola. Non sarebbe strano. A te piaceva stare sola.
- Sì, ecco… mi piace ancora. Solo che le cose sono cambiate. Non ho più molti momenti per stare... sola.
Marie si spostò di lato, curiosa. Si affacciò nel corridoio per guardare Kheltron. – I galatriani? Sono loro il cambiamento, vero? Non vedo l'ora di chiedergli qualcosa sul loro Pianeta!
Le sorrisi forzatamente, sapendo che non le sarebbe stato rivelato ogni cosa, e che quel poco che avrebbe saputo sarebbe stato distorto.
- Non dirmi nulla! – esclamò lei. – Voglio saperlo da loro.
Sincerità. Euforia.
ai due dita sulle labbra, dichiarando tacitamente il mio silenzio assoluto. Lei sorrise, felice.
Entrando in cucina trovammo Cuyed intento a preparare dei piccoli antipasti caldi. Si fermò appena, pulendosi le mani su un canovaccio pulito.
- Buonasera, io sono Cuyed, – si presentò lui, afferrando la mano di Marie.
- Io sono Marie, – fece lei arrossendo. – La cognata.
Timidezza. Imbarazzo.
Cuyed non badò al suo imbarazzo, come non lo feci io, piuttosto spostò lo sguardo su di me per guardarmi con interesse.
- Aileen, mi sono permesso di portarti un regalo da Galatria, – disse indicando un mazzo di fiori rossi e gialli posti in un vaso rosa. – È arrivato sano e salvo.
- Sono… sono bellissimi. Grazie, – dissi io piena di imbarazzo, non degnando più di uno sguardo ai fiori . Invece, intrecciai le dita e serrai la mascella.
- Intanto stavo preparando qualcosa. Sarai stanca.
- Sto bene, Cuyed. – mi sforzai di sorridergli. – Vai di là, ce ne occupiamo io e Marie.
Ci abbandonò con un sospiro, mentre Marie gli lanciò un'occhiata dubbiosa. Subito dopo si rimboccò le maniche del maglione, prese le ciotole di stuzzichini caldi e si diresse fuori dalla cucina. In lei aleggiavano sentimenti di indecisione.
Imbarazzo.
Mezz'ora dopo eravamo sparsi nella sala. In piedi. La stanza aveva un'enorme vetrata che dava sul giardino innervato. Bob e Marie erano accanto. Io mi ero isolata del tutto, mettendomi vicino ad Ercole, con un bicchiere di vino in mano.
- Allora, come vi sembra la Terra? – chiese Bob, spezzando il rumore di bocche che masticavano. Curiosità.
- Caotica, – rispose Kheltron.
- Un'opportunità per integrarsi con altri umani, – disse Cuyed lanciandomi un'occhiata veloce.
Lo fissai per un minuto interminabile, senza parole. Avevo molte cose da dire, ma nessuna abbastanza sottile.
Quando notò la mia espressione accigliata, voltò il capo altrove.
Bob ridacchiò, prendendo un involtino caldo. – E integrazione sia! Ma tu Kheltron, forse, non ti trovi bene.
Dubbio.
- E’ presto per dirlo, – dichiarò lui. – Troppa confusione. Tante culture diverse. Su Galatria non ci sono molte persone e c’è un unico stile di vita. Qui mi devo ambientare.
Aggrottai la fronte, mutando il mio viso in un’espressione perplessa. In sette anni non si era abituato alla gente? Che bugiardo!
- Davvero siete pochi? – chiese curiosamente Marie. – Non è una notizia diffusa tra i giornali.
Dubbio.
- Ai giornali preoccupa soltanto sapere se i galatriani sono fidanzati, e se sono innocui, – risposi io acidamente, scolando poi tutto il vino nel bicchiere. Non ero riuscita a trattene a lungo i miei pensieri.
Mentre mio fratello scoppiò a ridere, Kheltron mi fissò accigliato. – Siamo pochi. Contiamo un milione di abitanti.
- Uh! – fece Marie. – Siete molto pochi! C’è una spiegazione?
Tolleranza. Curiosità.
- In effetti, – disse lui. – Siamo semplicemente poco proliferi. Abbiamo un vita longeva e quasi priva di malattie, ma allo stesso tempo poco riproduttiva.
Marie si fece assorta, persa dentro pensieri che non potevo conoscere. Era disorientata.
- C'è la faccenda dell'energia! I giornali hanno parlato molto della Pietra! – si intromise mio fratello. – Siamo tutti curiosi di sapere qualcosa.
Pretesa.
- Con le cose terrestri non funziona, – dissi velocemente, ma pentendomene all'istante.
Bob mi squadrò, perplesso. Marie alzò lo sguardo su di me, ridestandosi dalla sua concentrazione, basita. Kheltron e Cuyed mi lanciarono un’occhiataccia.
A quel punto feci l’unica cosa che potessi fare, distolsi lo sguardo e guardai Ercole. Era accucciato ai miei piedi.
- Ma tu ne hai una, – insinuò Bob, indicando la Yikira che portavo al collo. – Che ci fai se non funziona?
Indiscrezione.
I miei occhi tornarono attenti su di lui. Dovevo mostrarmi sicura, seppur
mentendo, e non fare altri strafalcioni.
- È solo un regalo che mi ha fatto l’Imperatrice. Non ha alcuna utilità.
- È vero quello che dice Aileen, – fece Cuyed. – Sembra che l'energia che ricaviamo dalla Pietra non funzioni con gli oggetti terrestri.
- Non sarebbe bello trovare una soluzione? – intervenne Marie. – Potremmo rinunciare al petrolio e ad altre materie inquinanti.
Speranza.
- Faremo il possibile. Abbiamo consegnato una Pietra a uno dei vostri scienziati.
- Non funzionerà mai, – dichiarai io, beccandomi sguardi straniti ed emozioni scioccate.
Non ero riuscita a stare zitta. Di nuovo. Non potevo incolparmi più di tanto. Mi sembrava una bella rimpatriata, ma ricca di bugie.
Era ovvio, per me e per i galatriani, che nessuno avrebbe trovato nulla di speciale in quella Pietra, perché agiva solo con chi possedeva interazione naturale: cosa che nessun altro terrestre, a parte me, aveva. Senza l'aiuto dei galatriani, i terrestri non avrebbero mai combinato nulla. Era una Pietra vuota, un sasso inutile.
- Perché dici così? – apostrofò dubbioso mio fratello.
Sospirai, sapendo che non avrei potuto rivelargli nulla. Cercai di dimostrarmi più diplomatica.
- Bob, le nostre tecnologie sono diverse.
- Ma certo. Possiamo apprendere da loro come costruirle. Un o alla volta.
Fiducia. Aspettativa.
- Nuove tecnologie di Galatria, – ammise Marie.
Titubanza.
- Galatria? – ribadii io.
- Si potrebbero organizzare dei viaggi, per vedere come si usano, – continuò lei, con speranza. – Sarebbe fattibile?
Sul viso di Kheltron ò un'ombra, si dipinse un'espressione di incertezza. – Si
potrebbe.
- Marie? – dissi sarcasticamente. – Sono appena arrivati e già li vuoi mandare a casa?
- Oh no! – fece lei. – Sono io che vorrei andare.
Desiderio. Sincerità.
- Ti piacerebbe? – chiese Cuyed. – Non credevo ci fosse qualcuno di voi disposto a visitare il nostro Pianeta.
- Mi piacerebbe. Non credo di essere l’unica ad aver maturato questo desiderio. Potremmo imparare molto da voi.
Bob si schiarì la voce. – Se fossero possibili questi viaggi... Oltre le tecnologie, ci sarebbe Aileen. Non l’ho mai vista così… come oggi. Forse le farebbe bene stare con voi.
Ostinazione.
- Che cosa? – feci io sconvolta.
- So che nostra madre non sarebbe d’accordo. Ma guardati! Sei in mezzo a noi da più di un’ora e non sei ancora fuggita in un’altra stanza. Non ti sei isolata.
Ostinazione.
A quel punto l’ostinazione si fece largo anche dentro di me. Tuttavia, era un sentimento dettato da un’esigenza ben differente. Sbattei il calice di vino sul tavolo ottenendo, per un attimo, sguardi perplessi.
- Non so, – disse Kheltron. – Ne parlerò con l’Imperatrice. Potremmo organizzare qualcosa in piccolo.
Alzando lo sguardo verso di loro, mi accorsi che dentro di me si stava agitando qualcosa, sentimenti definiti che mi appartenevano e mi riempivano il petto. Non mi opposi al timore, alla rabbia, né al rifiuto. Gli permisi, invece, di sprizzare fuori.
- No! – dissi.
- Aileen cosa c’è? – fece Bob, preoccupato.
Marie si portò una mano sul cuore, sobbalzando. Timore.
- No! – ribadii. – Non potete!
Mio fratello si mosse verso di me in un modo che non avrei voluto, afferrandomi il braccio con quel tatto delicato che si usava con i bambini, per convincerli a smettere di fare i capricci.
- Aileen, non fare così. Non volevo ferirti. Dimentica quello che ho detto.
Anche se i suoi gesti furono garbati, la sua preoccupazione lo tradì.
Mi sentii così arrabbiata da non riuscire a mantenere costante il controllo, e temetti di venire presto sopraffatta dalle mie emozioni. Come se fosse possibile venire schiacciati dai propri sentimenti! Ma Kheltron intervenne, piazzandosi tra di noi e liberandomi dalla quella stretta lieve. Mi guardò con espressione bonaria, adagiando il suo sguardo sul mio viso. – Non succederà nulla.
Un istante dopo abbassò lo sguardo verso la Pietra che avevo al collo, e con un gesto appena percettibile la indicò. Si era illuminata intensamente, facendo sfoggio di tutta la sua bellezza, un luccichio così potente che presto si sarebbe notato. Non potevo permettere che vedessero la mia Pietra brillare in quel modo, non avrei avuto una spiegazione logica da dargli. Infilai la catenina nella scollatura nell'abito nero.
- Fate come volete, – dissi infine.
Abbassai il viso, stringendo i pugni. A quel punto dovevo rilassarmi. Dovevo accettare l’idea che Bob aveva notato un cambiamento che io avevo trascurato. Non mi ero mai soffermata molto in mezzo alla gente. Tanto meno in una folla.
In particolare, negli ultimi due anni avevo avuto la tendenza a isolarmi. A respingere qualsiasi rapporto sociale. Qualsiasi emozione. Il motivo di quella scelta si strinse nel petto.
- Ditemi, come funzionano le televisioni? – chiese Cuyed. – Quella sì che è una fantastica tecnologia.
Alla fine salutai Marie e Bob sulla veranda. Non rientrai, ma mi sedetti sul dondolo con la unica compagnia di Ercole. Era stata una serata molto intesa, non meno impegnativa di quelle che avevo trascorso nelle ultime settimane. Quando anche Cuyed si congedò, ebbi la possibilità di liberare quello che sentivo. Abbassai gli occhi sul vestito nero, stavo morendo di freddo. Stavo morendo dentro, di nuovo.
***
Capitolo 58 Chiusi la porta della camera, mi infilai il pigiama rosa, e abbracciai il cuscino. Un fiume di lacrime rigò il mio viso, il collo, la federa, facendo disperdere il trucco di quella sera.
Certi dolori non si potevano descrivere. Si vivevano. Erano come le pagine vuote di un libro, non le guardava nessuno, ma sapevano dividere un capitolo dall'altro. A me bastava poco per finire lì.
Soffocai i rantoli immergendo il viso sul cuscino. Ercole cercava di ricavarsi una spazio tra me e il materasso. Richiamava l'attenzione dandomi piccole spinte con
le testa.
Mi sentivo forte del fatto che le lezioni mi avevano insegnato a costruire una barriera, non permettendo ai galatriani di percepire le mie emozioni. Quello che non potevo fare era nascondere le mie grida di dolore. Dovevo occultarle in qualche modo, e il cuscino era un ottimo strumento per farlo.
Inciampai nelle coperte, quando tentai di raggiungere la bottiglia di Campari sotto il letto. Era ancora il mio nascondiglio preferito. Lyoxc aveva fatto un buon lavoro eseguendo le mie istruzioni senza lamentarsi.
Sbattei la gamba contro lo spigolo. Incurante della botta, mi accasciai sul pavimento.
Sbattei le spalle contro l'armadio. Dolore su dolore. La rabbia e i sensi di colpa mi accecarono. Quell'incessante senso di inadeguatezza mi attanagliava il corpo e la mente.
La Yikira illuminata assorbì ogni cosa. Raccolse la mia disperazione.
Mi rannicchiai e appoggiai la testa sulle ginocchia. Mi chiedevo quando sarebbero finite quelle notti. Quando sarei tornata a essere felice?
La porta si spalancò. Alzai il capo rigato di lacrime. Kheltron era sulla soglia.
Mi affrettai ad asciugare il viso con la manica del pigiama. Non volevo che mi vedesse così.
- Basta! – esclamò guardandomi con rimprovero. – Non c'è la faccio più a sentirti così! Credevo che stessi meglio.
- Come fai a sentirmi? – singhiozzai.
Con un o mi raggiunse. – Alzati! – ordinò.
Io mi limitai a voltare il capo verso il muro. Intravidi la sua ombra inginocchiarsi.
Mi prese il viso tra le mani. I suoi occhi blu si rispecchiarono nei miei, ma non vidi nulla di bello, né di romantico.
- Come devo fare con te? – chiese in tono quasi disperato.
Gli lanciai uno sguardo pieno di disprezzo. Quale potere pensava di avere su di me? Non era nessuno per dirmi cosa fare. Nessuno per preoccuparsi.
- Che ti importa?
I suoi occhi si rabbuiarono per un secondo, poi si spalancarono. – Mi importa invece!
Non lo guardai. Non gli credetti. Lui era un bugiardo!
Volli scuotere il capo per dimostrargli che le sue menzogne non le bevevo più, ma mi tenne saldamente e non riuscii a girarmi.
- Tu non capisci! – disse lui.
- Cosa vuoi da me Kheltron?
Ero infuriata, ed ero delusa. Puntai le mie unghie sul suo braccio.
- Lasciami, – gracchiai. Una lacrima rigò di nuovo il viso. – Lasciami!
- Non posso, – mormorò.
Un istante dopo spinse il suo petto contro il mio. Mi abbracciò.
Mi strinse più forte.
Lo odiavo, ma ero troppo debole per allontanarmi.
Affondai il viso nel suo pullover e ricominciai a piangere. Le lacrime sgorgarono naturalmente, ero una fonte infinita di tristezza. Mi aggrappai ai suoi vestiti, come se potessero salvarmi, come se potessero parlarmi e dirmi che andavo bene così com'ero.
Scostandomi un poco mi accorsi di aver bagnato la sua maglia. – Mi dispiace, – indicai il suo maglione.
Non avevo finito la mia fonte di dolore. Stavo ancora male.
Mi prese per mano e mi condusse verso il letto.
Il mio sguardo era assente. Vuoto.
Mi gettai sul letto a peso morto, seguita da Ercole, che si accoccolò sul bordo.
Kheltron mi rimboccò le coperte. Avvertii il lenzuolo sulle ginocchia, poi sul palmo delle mani e infine contro la guancia. Sperai di svenire, o di addormentarmi di colpo, ma non accadde. Le ondate di dolore che si erano infrante addosso, come era successo in altre notti, si innalzarono davanti a me e si abbatterono addosso. Ma quella volta non sopportai il pensiero di restare sola.
Bloccai la sua mano, tremando, così come tremò la mia voce. – Resti qui?
Lui sospirò. – Dove vuoi che vada?
- In camera con me, – balbettai.
Un barlume di indecisione gli ò sul volto. Era perplesso, anche se non lo sentivo, lo intuivo; d’altra parte mi aveva vista trascorrere ogni sera da sola per ragioni che non conosceva.
- Vuoi che stia con te?
Nuove lacrime riaffiorarono ai bordi degli occhi. Il malessere emotivo mi faceva stare male fisicamente.
- Kheltron, – mormorai. Ero sull'orlo di un'altra crisi, ma per la prima volta non volevo restare sola.
- È quello che vuoi, davvero?
Con un cenno del capo annuii. Non mi sentivo in pericolo.
- Va bene. Fammi cambiare.
Uscì per togliersi gli indumenti da guardia e mettersi qualcosa di pulito. Io restai a guardare il soffitto e a girare nervosamente il lenzuolo tra le dita.
Temetti di non vederlo tornare.
Pochi minuti dopo si affacciò alla porta. Aveva una maglietta a maniche lunghe e un pantalone sportivo.
- Eccomi qui, – disse allargando le braccia. – Pulito e profumato.
Il mio corpo tremò, come se il gelo invernale si fosse impossessato della stanza e fosse penetrato nelle ossa. Ma in realtà la camera era calda e accogliente.
- Hai freddo? – chiese.
- No – balbettai. I respiri erano spasmi lenti. – Sto bene. Ora a.
Un attimo dopo piombammo nel silenzio assoluto. Il ticchettio dell'orologio e il rantolare di Ercole facevano da sfondo a quel vuoto. Potevo udire il respiro leggero di Kheltron, ma non mi azzardai a voltarmi per vedere se mi stava osservando. Improvvisamente, non capii perché gli avevo chiesto di rimanere, quando mi ero ripromessa di stargli lontana.
- Aileen, sei sveglia?
- Perché? – chiesi, gettando le braccia fuori dalle coperte.
- Perché piangevi? Non ti porteremo su Galatria.
- Non era niente, – risposi.
- Aileen! – mi ammonì. – La verità.
Tremai quando si avvicinò al letto e si sedette sul bordo. Le coperte aderirono al peso del suo corpo, stringendomi.
- Vuoi avere informazioni private – biasciai.
- Assolutamente no! Volevi che restassi, ricordi?
- Sì, – farfugliai, – ma non voglio parlare.
Lui ridacchiò. – Allora come pensi di ricambiare il mio gesto di bontà?
- Non dirai sul serio?
- Sono molto serio, – sussurrò, ma intanto ridacchiava.
- Kheltron... – piagnucolai.
- Non fare così Aileen, – disse dolcemente, lasciandomi per un secondo stordita. Il suo busto si piegò pericolosamente, rasentando il mio. Con un movimento fluido e lento mi asciugò la guancia. Mi ripresi subito, e mi arrabbiai.
- Ma figurati, – sbottai. – Vuoi avere le informazioni per raccontarle a Cuyed.
- Ah si? – mi guardò divertito. – E chi te l'ha detto?
- Nessuno! – incrociai le braccia.
- Chi te l'ha detto? – insisté.
- Nessuno! – ribattei testardamente.
Mi guardò più intensamente. – Non ti ho mai dato motivo per pensarlo.
Io girai il capo dall'altra parte. – Ti ho sentito dire del nostro bacio a Cuyed.
Kheltron si mise a ridere. – Non ci credo! Hai origliato?
- Non l'ho fatto certo di proposito! È capitato.
Mi stavo giustificando di un'azione del tutto innocente. Il traditore era stato lui.
- Già. E per caso sei rimasta ad ascoltare. Cosa potevo dire a Cuyed? È il tuo Prescelto, era un dovere dirglielo.
Io arrossii. – Questo non fa di te un cavaliere!
- Pensi che noi galatriani non abbiamo desideri? Cuyed ti vuole e te l'ha dimostrato. – mi guardò intensamente. – Volevo scoraggiarlo un po'. Così ti avrebbe lasciata in pace. Io non tollero i comportamenti di Cuyed. Aileen, non puoi non averlo capito
- Non capisco mai niente di te! Le intenzioni di Cuyed sono molto più definite e limpide.
Ridacchiando, sussurrò. – L'hanno capito tutti tranne te...
Sbarrai gli occhi. Persi un battito. Non capii a cosa significasse.
Un attimo dopo il suo sarcasmo sparì, la sua espressione si fece seria e profonda. – È Per quello che piangevi?
Mi misi le mani sulle orecchie per non ascoltarlo. Se avessi permesso ai ricordi di riaffiorare mi sarei persa.
- Aileen...
Scossi il viso facendo volare i capelli da ogni lato, provando a scacciare i ricordi e la paura. Io stavo impazzendo.
- Non voglio farti male, voglio solo capire!
Chiusi gli occhi e li strinsi forte, sempre più forte. Alcune nuove lacrime iniziarono a bagnarmi il viso. Strinsi la Yikira. Mi concentrai. La sentii fremere e arroventarsi nella mia stretta.
- Non riuscirò mai a capire perché stai così male! È un disastro, – disse chiaramente frustrato.
Lo avrei spinto lontano da me. Riuscii a scostare leggermente la sua mano dalla mia gamba, ma durò un attimo, giusto il tempo che lui fe più pressione.
Fu così che feci l'unica cosa che poteva salvarmi: cercai di attaccarlo.
Mi concentrai.
- Ferma Aileen! – disse spaventato. – Cosa fai?
Non lo volevo ascoltare, non mi importava più.
- FERMA AILEEN! – strillò disperato.
Il suo corpo era addosso al mio. Cercò di tenermi ferma. Tentò di togliermi la Pietra e, giuro, avrei creduto di sentirlo terrorizzato. Un ultimo sforzo e le forze mi abbandonarono. Il battito del mio cuore diminuì. Le forze vennero a mancare. Forse non sarai riuscita ad attaccarlo, ma almeno avrei perso conoscenza.
All’improvviso, venni investita da un flusso d’energia devastante.
Mi misi subito seduta colta da una forte adrenalina.
Kheltron era ai piedi del letto assieme a Ercole, che abbaiava.
- Stai bene, – sussurrò.
Mi sentivo rinvigorita come se avessi dormito per ventiquattro ore. Al contrario Kheltron era moribondo. La sua Yikira era spenta.
- Che ti hanno fatto Aileen? – domandò con un filo di voce, mentre rovesciava il capo sul lenzuolo. – Cosa mi sono perso?
- Che è successo? – chiesi.
Mise un braccio sugli occhi per coprirsi. – È colpa mia. Se avessi fatto il mio dovere ora saresti... più felice.
Lo guardai perplessa. Io stavo benissimo, e lui era atterrito. Alzai il braccio dal suo volto. – Kheltron che è successo?
- Per favore Aileen.... dimmi perché.
- Cosa?
- Per favore, – implorò. – Perché stai così male?
Certamente, lui sapeva molte di cose di me, avendomi seguita per sette anni, ma non tutto.
Mi coprii gli occhi con le mani. Non ne avevo mai parlato con nessuno, nemmeno a Lilian. Forse, se glielo avessi raccontato, forse mi avrebbe lasciata in pace.
- È difficile.
Si sedette sul letto con molta fatica. – Prova.
Mi misi in ginocchio sul letto e mi avvicinai. Strinsi la Yikira nel caso gli fosse venuto in mente di fare qualche strano scherzo. Mi misi di lato, in modo che se avesse voluto guardarmi avrebbe dovuto voltare la testa. Mi rannicchiai. Le mie labbra erano vicino al suo orecchio. Un orecchio galatriano uguale a tutti quelli degli esseri umani. Uguale a tutti gli uomini che odiavo.
Sospirai. Dovetti stringere le mani per evitare che mi tremassero. Sospirai ancora.
- Devi prima farmi una promessa.
- Quello che vuoi, – disse debolmente, ma senza esitare. – Quello che vuoi.
- Stringi la tua Yikira e giura di non farne parola a nessuno.
Lui strinse la Pietra con entrambe le mani e giurò.
Tutto di un fiato, dovevo farlo in quel modo. Quando dovevo prendere una medicina funzionava, anche se dopo mi lasciava un retrogusto amarognolo sulla lingua.
- Girati dall'altra parte così non mi vedi.
Lui voltò la testa prontamente, anche se mormorò un “ahi”.
Presi un respiro profondo e gettai fuori l'aria con poche parole. – Sono stata violentata.
***
Capitolo 59 Presi fiato. Mi allontanai velocemente, appoggiando la schiena contro il muro.
Kheltron non reagì, sembrava essersi irrigidito come una statua di cera.
Peggio delle parole c'era il silenzio.
Lui si voltò, lentamente, e mi guardò con occhi colpevoli. – Puniscimi Aileen. Tu devi punirmi.
Non era la reazione che mi ero immaginata. Credevo che mi assalisse di domande. Credevo che mi abbracciasse e mi stringesse, come a consolare qualcuno che faceva pena. Ma lui, invero, mi chiese di punirlo.
- Sei impazzito? Insomma, non sei mica... stato tu. – abbassai gli occhi sulle coperte con i disegni astratti, iniziai a seguirne la loro sagoma
- Hai ragione. Prima lo uccido, poi potrai punirmi. – rigirò la Pietra tra le mani. – Mi servono forze.
Lo disse con una razionalità folle e un voce fredda. Spietata. Assassina.
- Kheltron, smettila di dire idiozie!
- Me lo dici tu, Aileen? Tu che più di tutti dovresti desiderarlo? Per alcune persone bisogna fare un'eccezione.
- Io non desidero la morte di altri!
Inarcò le sopracciglia. – La sua dovresti.
- Non servirebbe a nulla. Non mi farebbe sentire meglio, non cancellerebbe quello è successo. Vorrei tornare indietro e cambiare… cambiare tutto.
- Oh Aileen…
Si prese la testa tra le mani e fissò il vuoto. Cercai di decifrare la sua espressione, strizzando gli occhi alla luce artificiale della lampadina. Il suo sguardo era torvo, pieno di preoccupazione e di dolore. Cercai di scuoterlo tirandogli la manica.
- Kheltron?
- Aileen Aileen, – ripetè assorto. Assente.
Le mia mente tremò, si perse in quel tempo ato in cui non avevo potuto far nulla per difendermi. E avevo scoperto il perché. Le emozioni influenzavano. Le emozioni attaccavano. Le emozioni distruggevano.
Quasi godere di quella violenza e restare vuota subito dopo. Senza spiegazioni. Senza motivi. Non mi ero perdonata. Non mi perdonavo. L’avevo capito.
- Faccio schifo…
Alzò il capo di scatto, allarmato. – NO! No Aileen! L'unico che si deve far schifo sono io. Dov’ero quanto è successo? Lo sai dov’ero? Io sì. Non merito di
essere il tuo Custode.
Si prese la testa tra le mani. Si prese a pugni.
- Ma... – balbettai incerta, intimorita dal fatto che fosse così duro con se stesso, come nemmeno io ero stata.
- Stai zitta, per favore.
- Ma che dici? Prima insisti per voler sapere la verità, poi vuoi che non parli più?
Avrei voluto sbatterlo fuori a calci. Gli avevo rivelato il segreto più grande della mia vita e lui se ne stava in silenzio a prendersi a pugni.
- Sei arrabbiata? – disse non muovendo un muscolo, ma fissandomi meravigliato.
Lo minacciai agitando l'orsetto di peluche. – Fuori!
- Mi dispiace, – disse levandomi il pupazzo dalla mano. – Scusami. Non so che mi sia preso. Non mi allontanerò da te, a meno che non ci sia qualcun altro di cui mi fido. E ora non c'è nessuno in casa, a parte me e Ercole.
- Non è un problema mio!
- Ho fatto un errore imperdonabile e per questo mi punirai, ma non permetterò più che tu resti sola.
- Non è un po' troppo tardi per i sensi di colpa? Lo sai da quanto tempo li ho io?
- Hai ragione. Fai bene ad essere arrabbiata con me. Ma non ti lascio da sola a piangere. Niente notti solitarie.
- Così viene a mancare la Regola fondamentale dei Custodi: nessun Custode può eludere l'intimità di un'altra persona. In questo caso, la mia.
- Sarò punito anche per quello, – disse alzando le spalle. – Non mi importa.
- Oh bene! – esclamai. – E quando dovrai fare le tue cose in intimità?
- Ti lascerò a Lyoxc, o da Erixia. Non resterai mai sola con Cuyed.
- Sei impazzito, – dichiarai. – Vai fuori!
Kheltron si alzò, barcollando. Si appoggiò al mobile nero spegnendo la luce.
-Resto qui. Prova a dormire ora, io baderò a te.
- Oh no! – dissi, cercando di sbattere gli occhi velocemente per abituarli al buio. Mi alzai dal letto. Cercai di raggiungerlo. Dato che non vedevo niente, procedetti a tentoni, sperando di non inciampare nei vari suppellettili.
Brancolai tenendo le braccia in avanti, sforzandomi di non cadere. Dopotutto, quella era la mia nuova stanza e non la conoscevo bene.
Gli finii addosso. Mi prese saldamente.
Urlai ogni cosa indegna e inimmaginabile, finché non rimasi senza voce. Provai a scuoterlo.
- Vai a dormire, – disse.
Stufa della sua indifferenza me ne tornai lentamente a letto. Mi infilai sotto le coperte.
Chiusi gli occhi.
Odiavo gli uomini.
Nessuno meglio di una donna avrebbe potuto capire il mio stato d'animo.
L'odio non era un sentimento che mi spingeva a respirare, o a ragionare con calma prima di agire. No. Mi esortava a reagire d'istinto. Correre. Scappare. Fuggire. Evitare la vita. Autodistruzione o distruzione. Tra le due avevo scelto la prima. Per questo bevevo, e non per piacere. Non mi importava del gusto delle cose che scivolavano in gola.Quando ero di buon umore mi riempivo di tranquillanti. Era convinta che fossero meno nocivi. Una ventina di gocce e ronfavo come un ghiro. Il mio corpo saturo di alcool, o farmaci, mi faceva dormire. Star male. Vomitare. Sanguinare. Andava bene. Tutto era meglio di quella realtà che mi aveva inghiottito.
***
Capitolo 60 Il risveglio non fu uno dei peggiori, né uno dei migliori. Kheltron era ancora appoggiato al mobile con gli occhi spalancati. Mi fissava.
Io ero riuscita a dormire qualche ora. Non avevo fatto sogni idilliaci, ma non avevo fatto incubi. Mi sentivo, comunque, uno straccio. Mi sentivo arrabbiata. Mi sentivo nuda. Quello che mi era successo mi aveva portato via l'amore per la mia vita, ed era il mio peso quotidiano. L'avevo confessato e mi sembrava di essermi spogliata di ogni barriera. Non c'era più quel vetro spesso che potevo alzare per estraniarmi dal mondo. Non c'era più quell'odio che potevo tenere solo per me. Quel tormento dovevo condividerlo con Kheltron.
Guardai i suoi occhi vacui e stanchi.
- Se ti vesti ti porto in un posto, – disse alzandosi faticosamente.
- Dove?
- In un bel luogo, – rispose sorridendo debolmente. – Ti piacerà.
Lo guardai incerta, ancora avvolta dalla coperta pesante.
- Senti, – disse abbassando le difese che gli dava la Yikira. – Non mento.
Mi rilassai. Sincerità.
- Va bene. Se esci dalla stanza mi alzo.
Lui si diresse a o lento verso il corridoio. Udii i suoi i scendere le scale.
Mi ai una mano tra i capelli. Avrei voluto darmi una lavata.
Presi distrattamente dei capi dagli ultimi acquisti che avevo fatto e andai nel
bagno. Feci tutto il più velocemente possibile. Non mi aveva messo fretta, ma non volevo farmi trovare impreparata. Un'occhiata allo specchio mi mostrò una me stessa piuttosto accettabile. Con il mio maglione bianco, con fiocco laterale, e la camicetta azzurra.
- Aileen, – disse Kheltron comparendomi accanto. – Sei pronta?
- Sì, credo.
- Non preoccuparti di fare colazione, ho preso qualcosa io e ho infilato tutto in un borsone.
Inclinai il capo. – Non faccio mai colazione.
- Hai ragione. Ho preso lo stesso qualcosa.
Uscendo dalla villetta salutai Ercole. Chiamai Lilian per chiedergli di are e dare da mangiare al cane finché non fossi tornata.
- Ci penso io, – rispose assonata.
Spensi il telefono. Ero troppo vigliacca per affrontare Cuyed.
Io e Kheltron camminammo per dieci minuti in stradine isolate. Erano le cinque del mattino e il paese non era ancora sveglio. Il vento gelido pizzicava la pelle. Avvolsi la sciarpa su tutto il viso, lasciando scoperti solo gli occhi. Kheltron era avvolto nella sua cappa nera. Col tempo avevo scoperto che quel tessuto era davvero miracoloso contro il gelo.
- Siamo quasi arrivati, – disse voltandosi. Il suo sguardo era serio e composto.
Annuii, infilando le mani nelle tasche del piumino blu. La mantella, seppur tenesse caldo, era troppo tetra per i miei gusti.
In lontananza vidi la Cupola di Kheltron, non era schermata. – È lì che stiamo andando? Questo è il posto che mi sarebbe piaciuto? Sai che non ne posso più di Cupole? Ci ho ato sopra due settimane!
Lui non rispose.
La casa di Kheltron.
Scacciai i pensieri scuotendo la testa, non potevo permettermi di divagare.
La sciarpa, sferzata dal vento e dal mio movimento, si slegò e iniziò la sua caduta. Kheltron fermò la sua discesa.
- Tieni, – disse ridandomela e aprendo l'uscio della sua Cupola.
L'ingresso era cambiato. C'era un enorme divano rosso. Un mobile di legno con specchiera e vasi di piante grasse. Arredamento terrestre.
Lo guardai sbigottita.
- Ho seguito il tuo consiglio, – disse alzando le spalle.
Posai il piumino e la sciarpa sul divano.
- Vieni, – disse. – Ti faccio vedere una cosa.
Mi condusse in zone della Cupola che non avevo visto. Le porte scorrevoli si aprirono e si chio tra i corridoi bianchi e lucidi.
Gettai un'occhiata preoccupata alle mie spalle. Non mi sarei mai ricordata la strada verso l'uscita.
Si spalancò un'altra porta. Davanti a me c'era una sala rotonda con, al centro, due sedie gialle galatriane. Attorno alla stanza vi erano alcuni comandi per la navigazione della Cupola. Lo schermo seguiva la forma della sala, per cui, ovunque mi girassi, potevo vedere quello che accadeva fuori.
- Non eri mai entrata in una sala comandi?
- No. Nemmeno quando mi sono spostata con la mia Cupola. Spesso ero troppo stanca per fare qualsiasi cosa.
Lui scosse il capo. – Questa volta puoi restare qui. Vuoi?
Io annuii.
- Bene! – disse, spostandosi sui comandi. – Si parte!
Kheltron posò leggermente le mani su alcuni comandi e la Cupola iniziò a oscillare. Mi dovetti aggrappare alla seggiola.
- Pronta?
- Sì, – risposi. – Ma abbiamo il permesso per spostarci?
- Aileen … – mi guardò con ammonimento. – Ti ricordo che abbiamo agganci politici importanti.
- Sì... però...
- Nessun però. Possiamo circolare liberamente, anche perché i terrestri non ci sentono e non ci vedono se schermo la Cupola.
Non avevo capito bene il “Trattato Intergalattico” tra galatriani e terresti. Pensavo che si dovesse sempre comunicare una partenza intorno alla Terra. Persino quando usavo la mia Cupola credevo che qualcuno, Erixia, chiedesse il permesso per sorvolare i cieli.
La Cupola iniziò ad alzarsi da terra.
Guardai Kheltron terribilmente concentrato.
- Interazione anche con la Cupola? – chiesi perplessa.
- Non proprio.
- E l'energia da dove la prendi? – chiesi.
Kheltron sbatté la mano sulla fronte. Poi mi guardò allibito. – Usi la Cupola e non ti sei mai chiesta come funzionasse?
Risposi guardando i tetti delle case rimpicciolirsi sotto di noi. – Credevo funzionassero come i nostri aerei. Più o meno.
- Noi non usiamo le vostre fonti d'energia, lo sai. Usiamo la Pietra per alcuni pezzi della Cupola. Prima di muoverci raccogliamo energia emozionale dagli esseri viventi che ci circondano. Ne basta davvero poca. Accumuliamo energia, come voi fate il pieno di benzina.
Spalancai gli occhi. – Ma non era proibito prendere energia emozionale degli esseri umani?
Sorrise. – Per te sì!
- Non mi sembra giusto! Perché?
- È proibito, Aileen. Ma io posso.
Mi imbrociai, ma durò un attimo. Il mio viso si illuminò, colto dal motivo per il quale lui poteva.
- Perché sei un Custode!
Kheltron non rispose, si accigliò.
Io mi tappai la bocca.
La sera prima, la faccenda del Custode lo aveva avvilito. Si era sentito responsabile di quello che mi era successo. Cercai di non pensare ai sensi di colpa che si era lanciato addosso. Dedicai il mio sguardo al panorama. Non eravamo ancora sopra le nuvole. Potevo vedere il paesaggio completamente innevato. Avevo la visuale di ogni angolazione. Era come guardare attraverso un vetro gigante.
- Quanto ci vorrà? – chiesi.
- Quattro ore, circa, non voglio andare troppo veloce. Se ti annoi puoi girovagare per la Cupola.
- Non importa, – dissi. – Resterò qui.
***
Capitolo 61 Una mezz'ora prima dell'atterraggio, Kheltron mi sbatté fuori dalla sala comandi.
- Ma dove vado? Non so dove andare!
- Fatti un giro, Aileen.
Lasciai la sala. Rimasi fuori dalla stanza, gironzolando per il corridoio bianco laccato. Sembravo un'anima in pena. Ero preoccupata. Non aveva voluto accennarmi del luogo in cui mi stava portando. Inoltre, non avevamo ancora affrontato l'argomento pungente della notte precedente.
Andai avanti e indietro in quello spazio ristretto. Sbuffai spazientita e carica di tensione, finché
iniziò la discesa e atterrammo.
Kheltron uscì dalla stanza. Mi guardò sbigottito. – Sei rimasta qui?
Gli lanciai uno sguardo torvo. – Non conosco la tua Cupola. Non volevo perdermi.
Sorrise. – C'è una piantina nell'ingresso. Dopo prendila così ti sentirai sicura a spostarti.
- Kheltron, sei a corto di battute oggi?
Lui si incupì.
- Era solo per sapere, – aggiunsi. – Per stare preparata..
- Andiamo, – disse incenerendomi con lo sguardo.
Giunti all'ingresso presi il piumino e la sciarpa.
- Questi non ti servono, – disse Kheltron levandomeli dalle mani.
- Se mi ammalo la colpa sarà tua!
Kheltron non si degnò di darmi risposta. Si tolse la cappa e prese il borsone. Aprì il portellone.
Fuori c'era il sole. Fuori c'era il cielo limpido e azzurro.
Kheltron mi spinse giù per i cinque gradini. I miei stivali affondarono nella sabbia.
- Il sole... – fu tutto quello che riuscii a dire, coprendomi gli occhi.
- Benvenuta sull'isola!
Acqua cristallina risplendette nei miei occhi.
Il profumo della salsedine affondò nelle mie narici.
Il calore del sole riscaldò la mia pelle.
Mi sedetti. Presi un pugnetto di sabbia bianca. Scivolò tra le mie dita. Luccicava.
- Aileen, – disse Kheltron chinandosi. – Ti ho preso dei costumi da bagno che ho trovato nell'armadio.
Alzai lo sguardo. Alcuni gabbiani volavano sopra di noi. Allargai le braccia per abbracciare la luce.
- Aileen... cosa c'è? Che succede?
- Grazie, – dissi semplicemente.
Sorrise. – Io mi spoglio. Fa troppo caldo!
Si diresse verso la Cupola.
Io rimirai i costumi sparsi sulla sabbia. Scelsi quello nero, gettando l’altro nel borsone. Mi alzai e presi un telo rosa molto grande. Alle mie spalle, in lontananza, c'era un'immensa distesa verde. Palme e arbusti si perdevano a vista
d'occhio, ma sembrava una piccola isola. Dove eravamo?
Decisi di addentrami un poco, per cambiarmi e per assaporare l'odore della terra, delle piccole cose. Non andai molto lontano. Mi posizionai in modo da poter vedere ancora la spiaggia. Lì potei udire il frusciare delle foglie e il cinguettio degli uccelli.
Riuscii a cambiarmi, coprendomi con il telo. Ma dopo giorni di freddo intenso e cappotti pesanti, mi vedevo nuda e pallida. Il costume copriva giusto le parti più intime.
Mi accertai che la Yikira fosse ben salda sul ciondolo, poi mi incamminai verso la spiaggia. Kheltron non era ancora arrivato. Stesi l'asciugamano lontano dalla Cupola, vicino alla riva. Mi sdraiai guardando il sole.
Era avvolgente la sensazione del calore sul corpo.
Kheltron mi raggiunse in maglietta e pantaloncini.
Alzai il capo per guardalo meglio. – Niente costume?
- No, – rispose secco.
- Farai il bagno così?
- Sì.
- C'è qualcosa che non va? – domandai stranita. – Ti senti in imbarazzo?
- No. Sto bene così Aileen. Fine delle domande.
Io mi voltai dall'altra parte, mormorando un “mah” tra le labbra.
Kheltron si mise un capellino estivo in testa. – Ne vuoi uno anche tu?
Scossi il capo. Volevo godermi un po' il sole, probabilmente, poi, me ne sarei pentita. Sarei tornata a casa con qualche rossore sul viso, ma poco importava. Ne valeva la pena.
- Ma dove siamo Kheltron? – chiesi.
- In un isola dell'oceano atlantico.
- Avrà pure un nome quest'isola! – sbottai.
Alzò le spalle. – Siamo nel mare caraibico, se non l'hai notato. Non ti basta?
Gli lanciai uno sguardo truce. – Ma davvero?
Sbuffò. – Siamo su un'isoletta di Honduras. Vicino Isla de Utila.
Annuendo, tornai a stendermi. Adoravo il mare! Dovevo trasferirmi in uno di quei luoghi. Mojito e costume ogni giorno. Diedi alla mia Yikira un po' di felicità. Il suo luccichio si confuse con i raggi del sole.
Nel frattempo, Kheltron montò una piccola tenda e infilò il borsone all'ombra. – Che ne dici di fare un bagno?
Mi coprii gli occhi con la mano. – Per me va bene, ma tu vieni davvero conciato così?
- Sì – disse alzandosi.
Lo fissai. Stava sudando parecchio. – Almeno togliti la maglietta- Starai morendo di caldo.
Si tolse il capellino e lo gettò sul telo. Come non detto.
- Posso entrare con la Yikira? – chiesi dubbiosa.
- Certo! Al massimo si rovina la catenina, ma considerato chi te l'ha regalata non è una grave perdita.
Kheltron non aveva parole gentili per il Prescelto. Io sperai che la collana restasse intatta, non volevo offendere Cuyed.
Toccai con la punta del piede l'acqua fresca dell'oceano. – Che bella sensazione. Vero?
Non rispose. Mi girai.
Era sparito.
- Kheltron?
Nessuna risposta.
Decisi di andare a fare una nuotata da sola. Mi immersi nel verde smeraldo poco alla volta. L'acqua era fresca e mi arrivava alla pancia. L'orizzonte era senza nubi.
Due mani si agganciarono alla mia schiena a mi fecero affondare. La mia testa finì sott'acqua. Spaventata, cercai di respirare, ma inghiottii acqua. Bolle
riaffiorarono sulla superficie. Cercai di riemergere agitando le braccia, spingendo il mio corpo verso l’alto. Il livello del mare non era alto, non potevo affogare! Emersi annaspando. Sputacchiai acqua salata dalla bocca. Tossii. Presi delle difficoltose boccate d'aria.
- Hai bevuto? – chiese Kheltron. Lo udii ridacchiare mentre mi teneva stretta.
- Kheltron... – balbettai tossendo. – Aspetta che ti metta le mani addosso...
Lui sghignazzava. – Non smetterai mai di essere violenta?
- Togli le tue manacce! – dissi cercando di colpirlo. – Toglile.
- Oh guarda, – disse lui. – Una medusa! La corrente la spinge qui.
- Dove? – chiesi stropicciandomi gli occhi. – Dove?
- Guarda, – rispose. – È vicino al tuo polpaccio.
Non la percepii. Non vedevo niente. Il sale mi bruciava gli occhi.
- Oddiooo, – dissi. – Oddio! Non sopporto le meduse! Kheltron! Allontanala da me!
Qualcosa mi toccò la gamba. – Kheltrooon!! – urlai. Cercai di dimenarmi. Aggrapparmi a qualcosa, ma c'era solo Kheltron.
- Vai! Scappa Aileen, – disse lui lasciandomi libera.
Io corsi alla cieca verso la riva. Feci dieci metri in mezzo secondo. Ero salva. Ansimando, mi voltai. Kheltron era rimasto nell'acqua con tutti i vestiti appiccicati addosso. I capelli erano bagnati e piatti. Stava ridendo.
- Vieni, – urlò. – È andata via.
- Sei sicuro? – chiesi per sicurezza.
- Sì!
Tornai nuovamente in acqua. Non è che potevo rinunciare a un bagno per un po' di paura. Kheltron mi aveva assicurato che era andata via.
- Andiamo un po' al largo? – chiese avvicinandosi.
- Così altre meduse mi attaccano? No, grazie.
- Dai, non fare la fifona! – disse tirandomi per mano. – Non c'era nessuna medusa. Ti prendevo un po' in giro.
- Cosa? – dissi esterrefatta. – Non ti eri divertito abbastanza a farmi affogare?
- Che affogare? Stavo solo giocando. La prossima volta ti prendo il salvagente.
- Kheltron! – urlai.
Lui alzò le mani. – Ma se ti ho portato in questo posto paradisiaco!
Lo mollai lì e me ne andai a fare una nuotata più lontano. Mi concentrai sulla Yikira. Dovevo sbollire.
Restai nell'acqua finché le mani non si annichilirono. Quando tornai a riva, Kheltron era sdraiato sul telo. Aveva cambiato la maglietta. Ne indossava una asciutta, bianca. Non capivo questa mania di stare coperti su un spiaggia con quaranta gradi.
- Ti sei calmata? – chiese.
- Può darsi.
- È tutto difficile con te. Se mi comporto come l'educazione di Galatria mi ha insegnato, non ti va bene perché mi vedi troppo composto e rigido. Se mi azzardo a scherzare un po', ti offendi. Non ne faccio una giusta.
- Non ti ho chiesto niente, – risposi gettandomi sul telo.
- Lo so. Vorrei solo provare ad avvicinarmi.
- Avvicinarti? – chiesi guardandolo incredula. – Tu sei solo il mio Custode.
Serrò le labbra, colpito e affondato, ma poco dopo prese fiato. – Non potrei esserti amico?
Mi voltai. – Non so Kheltron, gli amici non mi seguono ovunque.
- Già, – disse lui.
Mi concentrai.
Non poteva essere mio amico. Lui mi aveva perseguitata per sette anni. Sapeva quasi ogni cosa di me senza che glielo avessi raccontato. Quello che non sapeva glielo avevo detto io. Gli amici non ti costringevano a dire le cose. Non ti spiavano. Non ti baciavano. Non ti attaccavano.
***
Capitolo 62 Mi alzai con il costume asciutto e la testa bollente. Decisi di prendere un po' di refrigerio sotto la tenda. Mi sedetti, lasciando i piedi nudi sulla sabbia calda, il resto del corpo all'ombra.
Aprii il borsone per prendere qualcosa da bere. Bevvi avidamente da un bottiglietta blu.
- Posso? – chiese Kheltron avvicinandosi.
Annuii, portandomi le ginocchia al petto. Lui si sedette accanto.
- Ailenn... – disse dandomi un colpetto con il braccio. – Me lo dirai?
- Cosa? – chiesi. Sapevo dove voleva andare a parare. Era arrivato il momento della giornata in cui si affrontava l'argomento violenza.
- Chi è stato?
- Non lo so, – dissi abbracciando le gambe, come se potessi ripararmi dai ricordi.
- E quando?
- Lo sai quando!
- Va bene, – disse lui dolcemente. – So l'anno. Posso circoscrivere i mesi. Non so il giorno, né il momento.
- Secondo te, segno sul calendario questi eventi? – domandai lanciandogli uno sguardo carico d'odio.
- No.
Si avvicinò quel tanto che bastava per far aderire i nostri corpi. Le nostre spalle e le nostre gambe si toccarono. Mi voleva raggirare per ottenere altre informazioni. Mi guardò. Sistemò una ciocca di capelli ribelli dietro il mio orecchio.
Mi voltai e lo guardai. – Ma che fai? – dissi arrabbiata. – Il carino?
- Se fossi tuo amico me lo racconteresti? Se rinunciassi a essere il tuo Custode...
- Tu non sei mio amico! E anche se lo fossi non ti direi niente!
Lui si rabbuiò. Non disse nulla e io non aggiunsi altro. Qualunque cosa avesse voluto da me non l'avrebbe avuta. Si alzò e si piazzò davanti alla mia splendida vista. Il suo viso non era più coperto dall'ombra. I capelli corti, scuri, era schiariti dal sole.
- Guarda, – disse abbassandosi i pantaloncini.
- Kheltron, ma sei impazzito?
Chinai velocemente il capo. Appoggiai lo sguardo sulla sabbia bianca.
- Non essere maliziosa! Guarda! – sbottò.
- No!
- Aileen... per favore. Non ti fidi mai e hai i tuoi motivi per farlo. Almeno senti, tolgo la barriera.
Tranquillità. Sincerità.
Le sue emozioni non erano né squallide, né minacciose. Alzai lentamente il viso.
- Ah! – esclamai. Non aveva abbassato i pantaloncini, aveva solo scostato il bordo dell'elastico. C'era una voglia pallida sulla pelle.
- Questo è il Simbolo, – disse irrigidendo le spalle.
Mi alzai per guardarlo meglio. Era per questo che si era coperto tutto. Non voleva farlo vedere. Era piccolo, a forma triangolare.
- Questo è quello che mi tiene legato a lei, – disse.
- Kheltron... – dissi cercando di sfiorarlo. – Ma come?
Lui spinse la mia mano sulla voglia. La sua pelle bruciava in quel punto.
- È giusto così, l'ho voluto io. Sono uno dei suoi amanti.
Sincerità.
Tolse il bracciale con le Pietra e lo lanciò sul telo, lasciandomi interdetta. Non capii il motivo di quel gesto.
- Meglio essere amante che non avere divertimento? – chiesi io. – Ma non mi risulta che possa esserci un Simbolo se non ami una persona.
Mi sistemò un ciuffo di capelli dietro l'orecchio, di nuovo.
Affetto.
- Kheltron non... non fare... così. – dissi disorentiata e confusa. – Mi fa paura. Cosa vuoi da me?
- Davvero? – domandò lui incredulo. – Per questo mi eviti?
- Tu ami un'altra! E io ho Cuyed.
Scosse il capo, scoraggiato. – Il Simbolo rappresenta l'amore che prova una persona per un'altra, ma non nel mio caso. Il mio è un Simbolo imposto.
Incrociai le braccia basita, la sua sincerità traspariva in ogni parola, e si sentiva vibrare. – Ma di che parli? Hai appena detto che lo volevi tu!
- Le emozioni delle persone possono essere influenzate, lo sai.
- Lo so! Nel vostro caso solo se si attacca! – dissi io contrariata. – Non prendermi per stupida!
- No! Non lo sai, – fece lui abbassando il capo. – Si può attaccare fino a creare un Simbolo. Non per questo si ama davvero.
Sincerità. Sconforto.
Aggrottai la fronte. – Fino a creare un Simbolo? E come fa a rimanere se non ami?
- Il Simbolo lega le persone e le loro Yikire. Lei trasferisce il suo amore nella mia Yikira e mantiene vivo il Simbolo.
Indietreggiai di un o, distrutta da quella rivelazione – E tu... tu la ami quando ti attacca?
- Sì.
Sincerità.
Se una cosa simile era possibile, la galatriana doveva trovarsi sulla Terra, altrimenti come avrebbe potuto trasferire continuamente le emozioni?
- Lei è qui!
- Sì.
- Oddio! – esclamai. – E tu glielo permetti? Come puoi volere una cosa del genere! Solo per divertiti un po’!
- Non è così semplice. Quando l’ho richiesto le cose erano diverse, – disse alzando lo sguardo su di me.
Onestà.
Appoggiò un dito sulle mie labbra. Quel contatto mi fece rabbrividire.
- Tu non sei come lei, – disse. – Vorrei cambiarle le cose.
Speranza. Attrazione.
Indietreggiai di un altro o. Non potevo prendermi quella responsabilità, non volevo. Lo sapevo che chiunque al posto mio, in quel momento, si sarebbe gettato tra le sue braccia, ma io avevo paura.
- Non io, – balbettai. – Non vorrai legarti a me come amante? Te lo scordi!
- Amante? – scoppiò a ridere per un attimo, come per sfottermi, poi si fece serio.
Terribilmente serio. – No. Non mi basterebbe. Vorrei che tu fossi mia. Solo mia.
Una voragine mi squarciò il petto. Mi illusi di tenerla sotto controllo, ma mi ritrovai raggomitolata su me stessa. Le braccia strette al corpo. Il respiro corto.
- Ho un Prescelto, – balbettai.
- Per Cuyed non provi nulla, – aggiunse lui, sinceramente. – Io lo so. Io lo sento. E so cosa provi per me.
- Tu… tu non sai niente.
- Io non sono come quell'uomo che ti ha fatto male, né sono come quell'idiota di Bryan che ti ha lasciata.
Verità. Disgusto. Disappunto. Determinazione.
- È per questo che ti ha lasciata, vero? Gliel'hai detto e ti ha mollata? O l'ha scoperto da solo?
Accadde tutto molto velocemente. Il dolore risalì. – Io... gliel'ho detto... io.
- Ieri hai detto di farti schifo. No. Non posso permettere che tu pensa questo.
Sono gli altri a doversi sentire in quel modo, non tu.
Determinazione.
Incrociai le braccia al petto, cercando di chiudermi a riccio. Il dolore aumentò. Mi tremarono le ginocchia. Strinsi forte gli occhi e mi concentrai, ma non si fermò. Arrivò alla stomaco. Non mi avrebbe mai lasciato in pace.
Kheltron mi accarezzò il braccio nudo. Amore.
Il mio dolore mischiato all'amore.
Amore.
Nausea e amore.
Percepii il sue dita sotto il mento e sui capelli. C'era l'odore della salsedine.
Pace. Serenità.
Il dolore si attenuò.
Dolcezza.
Quando alzai gli occhi, le sue iridi erano a un centimetro dalle mie.
- Non respingere quello che senti.
- Amore? – sussurrai, perdendomi nel suo blu.
Lui sorrise.
Amore.
Quel che sentivo era amore? Non poteva aver rialzato la barriera, la Pietra era sul telo.
- È anche il tuo, – bisbigliò, inclinando il capo.Prese il viso tra le mani e mi baciò. Un dolce, piccolo, bacio d'amore. Le mie labbra restarono attaccate alle sue senza muoversi. Mi sentii stonata, offuscata.
Si staccò. I suoi occhi ardevano. Non lasciavano i miei. Ero incatenata al suo sguardo.
- Aileen … – sussurrò pieno di desiderio.
ai la lingua sulle labbra per assoporare il suo odore e il gusto del sale.
- Posso? – chiese.
Non capii. Timore. Eccitazione. Amore. Ma per cosa?
Mi diede un piccolo bacio sul naso. – Vuoi che mi fermi?
- No, – surrurrai.
Mi trascinò sulla sabbia. I granelli finirono nei capelli, sulla schiena, tra le dita dei piedi. Mi aggrappai alle sue spalle.
Voltai il capo dall’altra parte. Quelle sensazioni mi sembravano fuori luogo. Il mio viso bruciò. Non sapevo se la colpa era del sole, o se era il mio imbarazzo.
- Non scappare Aileen... – disse con voce roca. Appoggiò le labbra sul collo e iniziò a baciarmi. Sentivo la sua lingua sulla mia pelle. Il suo desiderio. Il suo ardore.
Ma quando schiuse le labbra sulle mie per cercare un bacio vero, io mi intimorii. Lui si staccò. Si sdraiò accanto.
- Non riesci a baciarmi. Hai timore. Vado troppo in fretta?
- Io, non lo so, – farfugliai abbassando lo sguardo.
- No, no, – mise un dito sotto il mento e mi obbligò ad alzare la testa. – Questi baci casti mi faranno impazzire, ma andrò piano. Vorrei che ti fidassi di me, che ti lasciassi andare.
Speranza. Amore.
Mi diede un bacio sulla guancia.
- Andiamo a farci un bagno. Ne abbiamo bisogno. Io ne ho bisogno.
Avevo la sabbia dappertutto.
- Sì – risposi alzandomi e riprendendo fiato. – Tu vieni sempre vestito?
Lui annuì. Raccolse la pietra e mi prese per mano, andammo sulla riva. Ci immergemmo e nuotammo. Ridemmo e giocammo. Ogni tanto mi abbracciava e mi dava piccoli baci salati sulla guancia, sul collo, ma poi si fermava. Era così dolce e lento che mi straziava il cuore, che, forse, avrei potuto fidarmi di lui.
Ci sdraiammo sul telo e ci asciugammo sotto i raggi del sole.
***
Capitolo 63 - Che si fa ora Kheltron? – chiesi guardando il tramonto.
Lui mi baciò il dorso della mano. – Torniamo al freddo.
Ci alzammo e iniziammo a sistemare le cose. Io mi avvolsi nel telo, preferendo cambiarmi nella Cupola. I miei capelli erano ancora umidi.
Stavamo tornando nelle mia villetta e, non solo non ne avevo voglia, avevo paura. Io avevo Cuyed che mi aspettava, e Kheltron era l'amante di un'altra donna. Non era una faccenda semplice. Io e Kheltron saremmo diventati amanti? Tornati a casa avrei dovuto far finta di nulla? Come se niente fosse successo?
Kheltron mi prese la mano. – Che succede?
- Niente, – risposi liberandomi e prendendo una bottiglietta d'acqua dal borsone. Feci qualche sorso.
Lui si mise il borsone sulle spalle, allacciò il bracciale, e si incamminò verso la Cupola. Io lo seguii.
Entrando, posai la bottiglia sul mobile e presi la piantina. Era disegnata in maniera semplice, ma dettagliata. Su ogni stanza c'era scritto il nome: cucina, bagno, sala comandi. Ovviamente era in galatriano, però io avevo studiato un pochino.
- Allora, – dissi. – Io vado a farmi una doccia veloce. O preferisci farla prima tu?
Lanciò il borsone sul divano. – Vai prima tu, io la faccio quando torniamo. Ora vado nella sala comandi. Ti aspettò lì.
Mi diede un bacio sulla guancia e si avviò.
Presi i vestiti che avevo lasciato nella sacca, poi guardai la cartina. Per giungere al bagno dovevo solo attraversare la sala. Mi diressi verso il corridoio di sinistra e la porta si aprì.
Il bagno era identico a come l'avevo visto l'altra volta. Piuttosto grande. Tolsi il telo e il costume.
All'interno del box–doccia, lungo e largo il quintuplo del mio, potevano accomodarsi due persone. Due sgabelli, due miscelatori e due rubinetti. Veniva da pensare che era stato progettato per fare la doccia insieme.
Mi sciacquai senza insaponarmi. Volevo mantenere addosso l'odore della salsedine.
Mi asciugai con uno dei teli bianchi che trovai nell’armadio laccato, e mi rivestii.
Prima di raggiungere Kheltron, volli sbirciare la sua Cupola. Con la cartina in mano era una cosa fattibile. Andai in camera da letto, che era il luogo in cui ci eravamo baciati per la prima volta, e mi fermai a guardarla. Era rimasto tutto uguale, tranne per le coperte, che erano arancioni, e per due cornici sulla cassettiera. Presi tra le mani la prima fotografia. L'immagine mostrava un Kheltron più piccolo, con i capelli lunghi, accanto alla sua famiglia. C'era la mamma, il fratello, e il papà Wuzol. Guardarlo provocò una fitta lancinante al petto. Non ancora riuscita a parlargli. Che fine aveva fatto?
Erano abbracciati e sorridenti. Si dovevano trovare in mezzo ad un bosco, dietro di loro c'erano alberi e cespugli. Doveva essere un pezzo di Galatria.
L'altra cornice mi lasciò un po' basita. Mostrava me stessa ad una fiera dolciaria. Abbracciavo sorridente un peluche di zucchero. A quella fiera ci ero andata più di tre anni fa con Bryan.
Rimisi sul mobile gli oggetti e mi diressi nelle altre stanze.
La sala giochi era una stanza enorme, piena di schermi spenti. La sala musica era piena di strumenti musicali, quali: batteria, basso, chitarra, contrabbasso. Libreria. Cucina. Sala. Altre camere vuote. Sala sport. Erano troppe, ammobiliate, in parte, con cose terrestri.
Alla fine, dopo aver percorso un corridio a spirale, giunsi nella sala comandi.
- Ciao, – disse Kheltron. Abbandonò i comandi per stamparmi un bacio sulla guancia.
Eravamo in viaggio. Davanti a noi iniziavano a intravedersi le nuvole. Ero ansiosa, tesa, preoccupata, irrequieta.
Kheltron mi spinse contro lo schermo senza un motivo apparente.
- Kheltron... – farfugliai in preda al panico. – Non ti sento.
- Scusa, – disse lui sganciando il bracciale, appoggiandolo sui comandi. – Ora andrà meglio.
Curisità. Desiderio. Impazienza.
- Se si rompe qualcosa finiamo di sotto, – dissi.
- Non si rompe niente. Dimmi cosa ti preoccupa, per favore.
- Prima non ti interessava, perché ora..
Mi zittì con un bacio frettoloso sulle labbra. – Per favore... – disse lui, ansioso.
Mi arresi. – Che facciamo una volta a casa? Io e te?
Guardai fuori. I crampi alla pancia aumentarono.
Mi accarezzò la guancia. – Stiamo insieme.
Sicurezza. Decisione.
- Come? – chiesi. – Tu hai lei, e io Cuyed.
- Gli parliamo.
Determinazione.
- Cosa?? – dissi spalancando gli occhi. – Non possiamo.
- Possiamo invece. E lo faremo.
- Io non c'è la faccio, – dissi deglutendo saliva e tensione. – E poi Cuyed è il Prescelto, resterà lo stesso.
- Meglio parlargli. Se hai paura Cuyed lo intuirà e lo à contro di te. Ti dirà che sei insicura e non ti lascerà stare.
- Oddio! Ma io ho paura!
- Ci sarò io con te, non sarai sola.
- Non sono sicura di farcela, – dissi ansimando. – No, non ce la faccio.
Kheltron mi guardò in modo ambiguo. Disorientato. – Non vuoi stare con me?
- Io non lo so, – farfugliai. – Forse...
Si incupì, afferrò il bracciale e non sentii più nulla.
- Perché mi hai lasciato fare? – sbottò. – Perché mi hai dato speranze?
- No Kheltron! – allungai il braccio verso di lui. – Non ti innervosire. È
complicato.
Voltò le spalle. – Cosa è complicato?
Io non volevo fargli del male. Avevo paura. Lui era galatriano, aveva un'altra. Io avevo Cuyed che mi perseguitava. Non sapevo se ero abbastanza forte per farcela.
Strisciando sullo schermo mi lasciai cadere a terra. Il mio sguardo era vuoto e spaventato.
Kheltron sospirò e si avvicinò. Si chinò di fronte a me. – Lo sai cosa vuoi?
Io scossi la testa.
Lui sbuffò. – Hai paura di me?
- No.
- Cosa allora?
- Di tutto il resto. – guardai le nuvole sotto di noi.
- Se non vuoi stare con me perché non vuoi che mi allontani? Cosa vuoi che faccia?
La sua logica era innegabile, ma io la mia l'avevo smarrita.
- Non lo so. Resta e basta.
- Aileen, tu sei confusa. Dici cose senza senso.
Nuvole nere e tempestose minacciavano anche il mio precario equilibrio mentale. Di sicuro vicino casa stava nevicando.
- Resta, – ribadii implorante.
Si ò una mano tra i capelli. – Non mi chiedere di restare se non mi vuoi.
Perché all'improvviso avevo un disperato bisogno di lui? Kheltron mi piaceva. Molto più molto di qualsiasi altro. Sapeva tutto di me, ma era rimasto.
- Adoro stare qui, – dissi, sviando il discorso e la richiesta di Kheltron. – C'è il sole.
Kheltron sospirò. – Non mi hai risposto.
Lo guardai. – Perché hai una mia foto in camera?
- Quella foto mi ricorda te, quando eri felice.
- Ogni tanto lo sono ancora, – ribattei tirandomi su. – Felice.
Mi domandai se ero stata bene quel giorno. I pensieri cupi non avevano dominato tutta la giornata e, per quanto fossi stata sempre sul piede di guerra e sulla difensiva, mi ero rilassata. Se mi fossi lasciata andare mi sarei divertita di più.
- Bene, – disse. – Perché desidero che tu lo sia ancora.
Si rimise sui comandi e iniziò la discesa.
- No, – esclamai. – No Kheltron! Fermati!
Lui fermò la Cupola appena sopra il grigiore del cielo. Si voltò. – Che c'è?
- Non voglio! Fermati! – dissi in preda al panico.
Lui mi fissò stranito. – Siamo fermi.
- Puoi venire qui?
Lui non si mosse e fissandomi incrociò le braccia. – Coraggio, puoi farcela.
Io diedi un'occhiata fuori. Eravamo immobili, probabilmente sopra la mia villetta. Vicino Ercole, certo, ma troppo vicino a Cuyed, alla mia vecchia vita. All'alcool, ai ricordi, al dolore. Le gambe tremarono.
Raggiunsi Kheltron, appoggiato a dei strani comandi lucidi e lampeggianti, e mi bloccai a due i da lui.
- Kheltron, – dissi più convinta che mai. – Non voglio tornare a casa ora. Non voglio!
- Dove vuoi andare?
- Non mi importa. Andiamo da qualche parte insieme, decidi tu dove.
Sospirò. – Va bene. Scendiamo qui? Non siamo vicino a casa tua, siamo al Glen Major Forest. Restiamo nella mia Cupola e pensiamo a cosa fare questa sera. Può andar bene?
Annuii.
- Vieni qua, – disse prendendomi la mano e posizionandomi davanti ai comandi. – Ti faccio vedere come funziona.
Lui si accomodò alle mie spalle. Cominciò a elencarmi le cose da fare.
C'era un pulsante rosso che avrei dovuto schiacciare in un momento preciso, e un altro subito dopo. Quando sbagliai tasto, la Cupola sobbalzò e gracchiò come un'automobile.
Kheltron ridacchiò.
Sotto la sua supervisione, cercai di atterrare in uno spazio piuttosto grande, ma finii contro un albero.
- Ops...
Kheltron scoppiò a ridere. – Se ti avessi chiesto di atterrare sull'albero saresti finita contro una montagna.
Lo guardai indispettita.
Appoggiò la sua mano sopra la mia e mi aiutò a fare manovra. Con un tonfo toccammo terra.
- Ora non mi porti a casa, vero? – dissi voltandomi .
- No. Però il mio turno è finito, dobbiamo avvisare Lyoxc.
Mi morsi il labbro.
- Tieni, – disse mettendomi tra le mani il suo cellulare. – Devi dirglielo tu.
- Perché io? Non puoi farlo tu?
Lui sospirò. – La tua parola vale più della mia. Fallo e basta.
Io cercai il numero nella rubrica e schiacciai il pulsante verde.. Al secondo squillo Lyoxc rispose.
- Ciao! – una voce allegra irruppe nella cornetta. – Tra dieci minuti sono da voi. Ci sono problemi?
- No Lyoxc, – risposi io. – Sono Aileen.
- Ah! Ciao Aileen, è successo qualcosa?
- Tutto bene, volevo solo avvisarti di non venire. Io ho chiesto a Kheltron di restare.
- Ah, va bene. Io esco con Lilian allora. Ciao ciao.
Riposi il telefono nelle mani di Kheltron.
- Come è andata? – chiese.
- Bene, – affermai con poca convinzione. Lyoxc mi aveva lasciata interdetta, quasi sapesse che tra me e Kheltron ci fosse qualcosa.
- Ottimo! – disse Kheltron. – Andiamo a fare un giro nella Cupola, vediamo cosa c'è da mangiare. Poi, vado a farmi la doccia.
***
Capitolo 64
L'unica cosa che facemmo quella sera fu andare a mangiare nel posto più vicino, e rintanarci al calduccio della Cupola.
- Ne vuoi parlare ora? – chiese inaspettatamente Kheltron mentre stavo per infilare un pezzo di pizza in bocca. – Di quella cosa di due anni fa?
- No, – risposi secca. Dopo qualche minuto mi rifece la stessa domanda, e così per quasi tutta la sera, finché non mi adirai e gli dissi che se me lo avesse chiesto ancora gli avrei tirato un ceffone. Lui non me lo chiese più.
Ci infilammo nella libreria, che contava scaffali bianchi laccati, circolari.
- L'ho arredata da poco, – disse lui. – Le poltrone sono terrestri.
Io scelsi Orgoglio e Pregiudizio, con rammarico di Kheltron che scelse un libro galatriano. Ci accomodammo su due poltrone differenti, ma la distanza e la lettura durarono poco. Ero agitata. ai il resto del tempo con un occhio incollato al libro e l'altro a osservare Kheltron.
Ci infilammo, poi, nella sala della musica perché volevo sentirlo suonare.
- Prova questo, – gli chiesi indicando la chitarra.
- Ora quest'altro, – indicando la tastiera.
Lui mi accontentò, ma al mio decimo sbadiglio decise di portarmi a dormire.
- Vediamo... – disse lui accompagnandomi in camera da letto. – Tu domi qui e io vado sul divano.
- Non dormi con con me?
Lui inarcò un sopracciglio. – Non dormo se mi stendo sul letto con te, ma verrò a controllarti spesso.
Non aveva tutti i torti, non dopo quello che era successo tra di noi.
- Quindi, – disse. – Buonanotte.
Mi diede un bacetto sulla guancia e si allontanò.
Mi tolsi il maglioncino e la camicia, rimanendo con la maglietta intima, poi mi misi sotto le coperte.
Più tardi, quella stessa notte, mi alzai. Andai dritta nell'ingresso, seguendo le istruzione della cartina, dove avrei trovato il divano rosso. La luce era spenta, quindi procedetti a tentoni.
Kheltron era sotto un plaid.
Mi sdraiai accanto, rubandogli un po' di spazio e di coperta. Non c'era pericolo di cadere perché il divano era stato trasformato in un divano-letto.
- Che ci fai qua? – chiese Kheltron alle mie spalle.
- Scusa! Non volevo svegliarti. Ho freddo.
- Ah! – sbuffò. – Non fa niente. Ti ho sentito arrivare.
Appoggiò il suo torace contro la mia schiena a mi abbracciò. – Lo sai che non dormirò più con te qui? Quindi, iamo direttamente alla roba divertente?
- Kheltron!
Sosprirò. – Era una battuta.
- Kheltron…
- Sì? – fece lui con tono innocente. – Che c’è?
- Non voglio che tu stia con quella donna.
Il suo corpo si irrigidì.. – Nemmeno io voglio che tu stia con Cuyed.
- Mi aiuterai ad affrontarlo?
- Non preoccuparti, non ti lascerò nelle sue mani. C’è qualcosa in lui che non mi piace. Ora, però, mi devi aiutare tu.
- Cosa devo fare?
- Ti dovresti calmare.
- Sono calma, – ribattei io. – Non dovresti sentire nulla, ho la Pietra.
Il suo viso si mosse, scuotendo i capelli che mi solleticarono la guancia. – Non mi sembri calma. Il tuo corpo è addosso al mio.
Mi voltai di scatto. Kheltron illuminava l'angolo con la Yikira, permettendomi di vederlo. Era visibilmente eccitato.
Mi staccai, lasciando un po’ di spazio tra di noi.
***
Capitolo 65 Mi svegliai insolitamente tranquilla, considerato chi avevo accanto. Un luce bianca e lieve proveniva dal piccolo vetro dell'ingresso. Non era la prima volta che avevo dormito con Kheltron, ma sperai che fosse la prima in cui, per entrambi, non sarebbe cambiato niente. O meglio, per me.
Il viso mi bruciava, segno di troppo sole preso in un solo giorno.
Kheltron aprì gli occhi poco. Si stiracchiò. Mi sorrise.
- Buongiorno Aileen, – disse con la voce impastata dal sonno. Si soffermò a guardarmi per un momento lunghissimo, poi ridacchiò. – Hai il viso bruciato.
Mi toccai delicamente, eppure bastò per farmi sobbalzare. Avevo preso troppo sole.
Un istante dopo Kheltron si gettò addosso, facendomi notare quanto mi bruciasse il corpo. Cercai scacciarlo ridacchiando e brontolando. La coperta di plaid finì rovinosamente a terra. Kheltron rise.
- Fa freddo, – brontolai.
- Ma ci sono io!
- Non sei morbido e caldo come una coperta, Kheltron!
- Ne riparleremo più avanti, quando mi implorerai per avermi.
Feci finta di fare l'offesa. – Non ti implorerò mai!
- Lo vedremo, – dichiarò.
Un attimo dopo sfiorò la guancia con la punta del naso.
Mi baciò il collo.
Mi baciò l'orecchio. Scese di nuovo sul collo.
- Kheltron... – annaspai.
Mi baciò la guancia. Mi baciò l'angolo delle labbra.
Socchiusi la bocca per accogliere le sue labbra morbide, il suo profumo.
- Allora, – disse lui fissandomi. – Ora lo vuoi un bacio?
Lo guardai. Ero molto più orgogliosa di quanto potessi pensare. Cercai di trovare delle parole che potessero essere convincenti per essere baciata, per baciarlo. Parole che non sembrassero una supplica disperata.
- Ti sei fermato?
- Basta chiedere, – disse risoluto.
Fissai le sue labbra. Non mi piaceva chiedere.
Desiderio. Attrazione.
Un lampo e quel desiderio divenne il mio. Lo volli disperatamente. Fu come il respiro, non potei farne a meno. Abbandonai ogni concetto razionale. Il buoio mi invase. Un filamento rosso apparve dal nulla. Eccitazione. ione. Mi sentivo liquefatta in quei sentimenti dirompenti. Il mio corpo bravama e desiderava essere suo. Subito. Ero pronta ad accoglierlo.
- Aileen!
Sbarrai gli occhi. Non ero più sotto di lui. Ero seduta, con le gambe aperte, contro lo schienale del divano rosso, schiacciata dal corpo mezzo nudo di Kheltron. Richiusi immediatamente le gambe. Lui sembrava sconvolto ed eccitato.
- Che è successo? – chiesi sbattendo le palpebre. Mi tastai il collo per controllare i battiti. Il cuore sembrava pronto per un Gran Premio.
- Ti ho attaccato, credo.
- Ah sì. Volevi convincermi a baciarti! – inarcai un sopracciglio.
Le sensazioni che avevo addosso non erano piacevoli. Rabbrividii.
Lui abbassò il capo. Mi diede un bacio sulla fronte.
- Perdonami Aileen.
- Va tutto bene.
Abbassai le difese della Yikira, pur sapendo che avrebbe avvertito la mia inquietudine.
- Senti? – dissi. – Sto bene.
- Ah, non stai bene. Sei scossa.
Mi guardò. Si inginocchiò sul divano e mi prese la mano, come se un gesto così galante potesse calmarmi.
Mi fece sorridere. – Non funziona troppo bene.
Si staccò e mi fissò. Alzò un sopracciglio, perplesso, ma si rilassò all'istante e nei suoi occhi apparve uno sguardo dolce.
- Ho un'idea, – disse togliendosi il bracciale. – Senti ora!
I due occhi blu oltremare mi guardarono. Amore. Fiducia.
- Molto meglio! – dissi io, rincuorata di averlo sentito, senza essere attacata.
Kheltron sorrise. – Visto? Via i sentimenti spiacevoli!
Ridacchiai, stupita. – Come hai fatto?
Alzò il braccio, mi fece notare il polso senza la Pietra. – Non posso attaccarti senza Yikira. Nessun pericolo.
Nell’istante che seguì, un cellulare squillò.
- È il mio, – disse lui. Si alzò e lo prese dalla tasca del cappotto. – Pronto?
Preoccupazione.
In un attimo recuperò il bracciale e lo legò. La Pietra ricominciò a brillare e non sentii più nulla.
Silenzio.
Arrischiai un'occhiata. Sembrava mummificato. Si era pietrificato. Il braccio irrigidito, il pugno serrato. Il volto sbiancato.
- Kheltron? – mi azzardai a dire. – Tutto bene?
Si mise un dito sulle labbra. Dovevo far silenzio. Restai zitta, persa dentro un'incomprensione che si trasformò rapidamente in irritazione.
- Non posso. Sono in servizio, – disse.
Si voltò. Le spalle si incurvarono.
- A dopo.
Uscì dalla stanza.
Fissai la coperta a terra. Che era successo?
Kheltron mi lasciò da sola per una buona mezz'ora. Rimasi sul divano a vagliare tutte le possibili tragedie. Poteva essere Erixia. Poteva esserle capitato qualcosa, o aver ricevuto nuovi, terrificanti, ordini dal Consiglio. O peggio, Cuyed.
La porta del laccata si spalancò. Ricomparve con un volto funereo, a dir poco peggiore di quello che aveva quando aveva lasciato la stanza.
- Allora, – dissi. – Che è successo?
Ostentai un tono di voce sicuro e determinato, ma stavo tremando di preoccupazione.
Kheltron si mantenne distante. – Stamattina avrei dovuto incontrarla, me ne ero
dimenticato.
- Lei? – dissi facendo un respiro affannoso.
- Sì.
A lei non avevo pensato. La donna di Kheltron. Perché lui aveva una donna, lo sapevo. Era quello che più mi aveva bloccata. La donna, il Simbolo, Cuyed. Il triangolo. A quel punto dovevo saperla lunga, o almeno essere più preparata della prima volta. Eppure la mia parte emozionale non riuscì a trattenersi dal reagire. Piantai un magone lungo e patetico.
- Non preoccuparti. Sistemo tutto.
Annuii per niente rincuorata. Abbassai lo sguardo e fissai il pavimento laccato.
- Posso accompagnarti, – mormorai.
- No. Andrò da solo.
- Ti posso aspettare fuori. In macchina.
Fece una risatina poco convincente. – È una pessima idea. Sentirà quello che
provo, vorrà delle spiegazioni. Se mi presento con te come pensi che possa reagire? No. Tu potrai stare a casa con Lyoxc.
- Io ti aspetterei in macchina, – insistetti.
- Per favore, Aileen. Puoi aspettare a casa?
- Va bene.
Lo guardai. Quello che mi aveva chiesto era di lasciarlo andare da quella galatriana, da solo. Non mi andava affatto bene.
Si avvicinò. Mi diede un bacio sulla guancia.
Alzai le spalle preoccupata. Angosciata. Infelice. Libera di poter provare tutto sapendo di non poter essere sentita.
***
Capitolo 66 La mia villetta era al buio. Inserii la chiave nella toppa e Ercole cominciò ad abbaiare. Lo avevo lasciato solo per un giorno intero, non era mai capitato. Ovviamente lui era venuto con me sempre, sulla Cupola e in giro per il Mondo.
Non era mai rimasto solo per più di qualche ora.
Kheltron spinse la porta.
Ercole mi saltò addosso scodinzolando. Poi fu il turno di Kheltron.
Accesi la luce.
L'ingresso fu inondato di luce gialla artificiale. Mi tolsi il piumino e lo appesi. Decisi di farmi un bella doccia calda, se non altro per il freddo che avevo preso negli ultimi venti minuti. Kheltron aveva lasciato la Cupola un po' fuori zona, poi l'aveva schermata per non dare sospetti. Per tornare a casa avevamo camminato. Nella speranza di non incontrare nessun fotografo ci eravamo tenuti per mano. Kheltron era bravo. Più di me. Sapeva sempre quando qualcuno stava per arrivare, e cambiavamo strada, o ci nascondevamo in un vicolo, dietro un albero. La piccola farmacia del viale segnava dieci gradi sotto zero.
- Vado a farmi una doccia, – dissi.
Salii le scale e presi un ricambio pulito. Il gelo mi era penetrato nei vestiti e nella pelle. Andai in bagno, accesi la stufetta. Mi infilai sotto il getto d'acqua bollente, rimpiangendo il sapore del sale e il calore del sole. Uscendo dalla doccia diedi un'occhiata veloce allo specchio, il mio viso era rosso e bruciacchiato. Il corpo non era messo meglio.
Tornai in camera vestita, con un morbido maglione di cashmere e pantalone
comodo. Ercole mi raggiunse e si strofinò sulle mie gambe.
Presi lo smartphone dalla tasca del vecchio pantalone e lo accesi. Il battito aumentò subito. La spia si illuminò e il display prese vita. Distolsi gli occhi dal telefono e guardai fuori dalla finestra. Il mio terrazzo non c'era più. Avevo un bel giardino, perfetto per Ercole. Perfetto in primavera.
Fuori aveva ricominciato a nevicare, ma non credevo che fosse vera neve, non a quella temperatura. Erano pallini di ghiaccio.
Gettai un'occhiata allo schermo, lampeggiava. Segnava due messaggi non letti. Uno era di Lilian. L'altro era di Cuyed.Ma non dicevano nulla. Erano quei messaggi che ti informavano della chiamata ricevuta mentre il telefono era spento.
- Aileen?
La voce di Kheltron fu seguita dal rumore dei suoi i. La casa era in totale silenzio, per cui fu facile udire il leggero tonfo prodotto dalle scale.
- Sono in camera!
Nascosi il telefono sotto il cuscino.
Diede due colpetti sulla porta aperta e si affacciò.
Mi alzai e gli andai incontro.
- Sai, – disse lui, – non so cosa te ne fai di questa villetta quando hai una Cupola.
- La Cupola è troppo grande, io sono sola e Ercole sarebbe prigioniero come nell'appartamento. Niente giardino in cui scorrazzare.
Kheltron rise. Tornò serio. – Ti sei affezionata a lui.
Sorrisi senza emettere alcun suono.
- Lyoxc sta arrivando. L'ho chiamato, – disse più seriamente.
Misi le mani in tasca e abbassai lo sguardo. – Se hai cambiato idea, posso ancora accompagnarti.
Kheltron scosse il capo. – Per stasera sarò di ritorno. Ti chiamerò appena finirò.
Lyoxc suonò il camlo.
Fui invasa dalla paura. Dalla rassegnazione. Non potevo andare con Kheltron.
Potevo anche arrabbiarmi, ma sapevo di dover stare al mio posto.
Kheltron mi baciò leggermente la guancia. – Mi sembri preoccupata.
- Tu non lo sarai quando dovrò parlare a Cuyed?
Lui storse il naso. – Sì, lo sarò.
Scesi le scale. Aprii la porta. Uscì Kheltron. Entrò Lyoxc.
***
Capitolo 67 - Tutto bene? – chiese Lyoxc.
Annuii distratta, richiudendo la porta.
Lyoxc indossava un cappotto blu, che appese, e il completo verde. Non glielo avevo più visto dal tredici febbraio, quando l'intero mondo galatriano aveva deciso di venire allo scoperto, ma eccolo di nuovo in servizio. Il tutto era incorniciato dai suoi spendenti occhi verdi.
Io cercai di ricordare dove avevo lasciato gli occhiali da sole. Dove erano finiti dopo il trasloco. Ma non riuscii a pensarci per più di due minuti. I pensieri tornarono fissi su Kheltron.
- Aileen! Ci sei? – disse Lyoxc. – Potremmo organizzare insieme l'agenda degli impegni. Ci sono nuove proposte.
Mi riproposi di distrami. Dovevo divergere la mente ad altri argomenti. – No. Voglio almeno una settimana di vacanza!
Lui ridacchiò. Si legò i capelli biondi. – Quello che vuoi. Valuta e decidi.
- C'è qualcosa di nuovo?
Non avrei sopportato altri viaggi con persone strillanti ed eccitate. Un'ora con loro mi bastava per avere mal di testa tutto il giorno. I giornalisti erano peggio. Sempre pronti con domandine trabocchetto. Con i loro dubbi e le loro insinuazioni. Persino quelli che annuivano e sorridevano, sotto la facciata, non mi credevano. Doveva esserci, per forza, qualcosa che a loro sfuggiva.
Non avevano tutti i torti.
Lyoxc spostò il peso del corpo su una gamba sola. – Io non ero presente alla cena con tuo fratello Bob, ma ho saputo del viaggio spaziale.
Il mio umore, se possibile, peggiorò. – Chi è stato a dirtelo?
- E... ho avuto una discussione con Cuyed.
- Per cui, – dissi, – c'è questo in programma, ora? Devo andare in giro a dire che state progettando un viaggio spaziale?
Si schiarì la voce. – No, no. Insomma, non si sa..
- Penso che ve la dovrete cavare da soli questa volta. Io non voglio sapere niente.
- Sì, Cuyed mi ha raccontato. Non preoccuparti. Non siamo sicuri di farlo.
Puntai i piedi. Innervosita. Eppure agitata. Non mi importava nulla del viaggio spaziale, di Galatria, di Lyoxc, nè delle sue proposte. In quel momento era altro a occupare la mia mente. Angoscia. Timore. Disperazione.
- Aileen! Mi ascolti? Sto parlando da solo… Non vuoi nemmeno discuterne?
Scossi il capo decisa, più che altro per farmi vedere coinvolta. Ma non funzionò.
- Va bene, – disse lui. – Oggi hai qualcosa che non va. Pensavo che ti saresti divertita con Kheltron, e ti ritrovo così!
Abbassai il capo. Strinsi il pugno. Strinsi la Yikira.
- La prossima volta non vi lascio soli tutto quel tempo, – dichiarò.
Ercole trotterellò ai miei piedi. Si fermò. Appoggiò il muso sulle scarpe.
Ero nervosa. Tesa. Avrei potuto distruggere la Pietra se solo fossi stata più forte, sempre che si potesse rompere.
- Aileen? Pronto?
Il magone che avevo dentro poteva essere nascosto, le espressioni del volto no. Temevo che sarei scoppiata a piangere. Probabilmente a urlare. A dirgli tutto quello che sentivo. La Yikira assoribiva, si illuminava intesamente, facendo concorrenza alla luminosità degli occhi di Lyoxc.
- Va bene, non sono affari miei, – disse. – Me ne vado in salotto, accendo la TV e faccio finta di niente, come sempre. Vuoi che dia da mangiare a Ercole?
Il birbante alzò il muso. Abbaiò e scodinzolò.
Alzai il viso, solo un poco, perché il bagliore dei suoi occhi verdi era accecante. Fu un grave errore. Lo vidi disponibile, con uno sguardo interessato e
amichevole.
Il mio corpo fremette, un vulcuno pronto ad eruttare. Lava e rabbia. Rabbia e lava.
Esplosi. E da lì, distrussi il silenzio.
– Lyoxc! Portami da Kheltron! Dalla sua amante!
Lui spalancò gli occhi. Aprì la bocca. La richiuse. – Te l'ha.... te l'ha detto lui? Sì, ovvio che te l'ha detto lui. Te l'ha detto lui?
- Che sai di lei? Che cosa sai?
- E che... non siamo in molti a saperlo. Voglio dire... io e mia madre, e suo padre.
Sbarrai gli occhi, scioccata. Shock. Quella fu l’espressione che si formò sul volto. Qulla fu l’emozione che provocò la sua frase. - Il padre… il padre di Kheltron?
- Sì. Lui lo sa. E mia madre, e io.
Le mani tremarono, come prese da una forte scossa. Proprio come il vulcano,
che eruttando faceva tremare il terreno.
- Che altro? Che sai di quella donna, Lyoxc?
Glielo chiesi in tono implorante. Lasciai cadere per un attimo la barriera della Pietra, stostandola dalla pelle. Mi aveva sentita tantissime volte prima che usassi la Yikira. Non potevo vergognarmi proprio quando dovevo sapere: ero disperata.
Lyoxc deglutì rumorosamente. Spostò il peso sull'altra gamba. – Beh... non molto. Non so molto. Lui che ti ha detto?
Mi ai la mano tra i capelli, frustrata. – Per favore Lyoxc! Ora lui sta andando da lei. Sta andando da lei, a dirle di me e di lui... e...
- Di te e di lui? – sgranò gli occhi.
Aprii la bocca. Mi bloccai.
Lyoxc fece un sorrisino allusivo. Incrociò le braccia.
- Per favore! Tu sei mio amico, no?
- Sono il tuo Custode. Regola uno: devo proteggerti, curarmi che non ti venga
fatto del male, sia emotivo che fisico. Regola due: se il male è inevitabile devo scegliere quello che ritengo minore. Regola tre: non devo mai minacciare la tua intimità nel fare il mio lavoro, a meno che non vada contro con la Regola uno o due.
- Regole? – lo guardai stupefatta.
- I Custodi sono vincolati a tre Regole. Tre.
- Non sapevo che ci fossero tre Regole! Non me le avete mai elencate! Ma ora non importa. Ho bisogno di sapere! Oh, insomma, non è il mio male minore conoscere le cose?
Mi guardò titubante, colto da un’espressione di indecisione che si trasformò presto in determinazione. Mi prese il braccio. Mi trascinò in salotto. Chiuse la porta.
Lyoxc chiuse le tende. Spense la luce. I suoi occhi verdi brillarono nella stanza.
Gettai un'occhiata attorno. Era tutto verde. Gli occhi di Lyoxc splendevano. – Perché ci siamo barricati in sala?
- Si chiama Arina, – sussurrò.
Avevo un nome. – Arina.
- È sulla Terra da un anno. È la seconda e unica donna galatriana a essere qui. Non so perché lui ha scelto lei, so solamente che a un certo punto ha desiderato frequentarla.
- Bene. No. Male. Ma Lyoxc, Kheltron oggi andava da lei per chiudere la loro storia. E io…
Tenni il capo chino verso il tavolo, gli occhi fissi sul legno chiaro, diventato al momento verde. Il dolore cominciava a pesare. Mi rifiutai di romperlo, di fare la prima mossa e fargli una domanda diretta.
- E tu sei preoccupata, – concluse da solo.
Scossi il capo, ero piena di dubbi. Il mio cuore batteva a singhiozzo, e non sapevo cosa avrei dato per mostrarmi sicura.
- Vedrai che tornerà presto, – disse.
- Lui ha detto così. Mi avrebbe chiamata, ha detto.
Mi diede una pacca sulla spalla. – Visto? Andrà tutto bene.
Annuii poco convinta. Mi sforzai di tornare lucida e razionale.
Lyoxc aprì la tenda e la luce grigia e tetra di Sunville rischiarò la stanza. I piccoli fiocchi di ghiaccio erano diventati grandi. Cadevano a fiotti. Il tempo si preparava per una bufera di neve.
Il rumore di una motoslitta in lontananza ridestò i miei pensieri.
Andai in camera a prendere il telefono. Alzai il livello della suoneria al massimo. Non soddisfatta misi anche la vibrazione.
- Aileen, – urlò Lyoxc da basso. – Perché non facciamo i conti dei tuoi guadagni? Controlliamo che ci sia tutto?
Fare i calcoli era una buona idea. Io non ero brava con la matematica. Mi sarei sicuramente distratta.
***
Capitolo 68 Alzai gli occhi dalle scartoffie. Lyoxc, penna alla mano, era intento a rifare un calcolo. Guardai l'orologio appeso al soffitto del salotto per la cinquantesima volta. Erano le undici di sera. Controllai il cellulare. Nessuna telefonata.
Posai il foglio sul tavolo e sbuffai. La testa mi girava come una trottola. Ero
piena di immagini angoscianti, alcune cercavo di reprimerle. A primo impatto niente mi sembrava chiaro. Le idee erano troppo confuse, attorcigliate. Ma più mi avvicinavo a uno stato di coscienza, più mi rendevo conto che vi era uno solo punto fermo: era successo qualcosa.
- Basta, – dissi gettando all'aria la biro. – Non c'è la faccio più!
La testa di Lyoxc fece capolino dal foglio. Il suo viso, dapprima bonario, si fece serio e contratto.
- È tardi! Ci vogliono dodici ore per chiarirsi? – domandai esausta.
Lyoxc non disse una parola. Lanciò un'occhiata veloce al suo telefono.
- Lo chiamo, – dissi.
Lyoxc mi fermò. – No. Lascia stare. Lo faccio chiamare da mia madre. È più sicuro.
- Oh, – feci io impallidendo. Il volto di Lyoxc era una maschera di preoccupazione. – Pensi anche tu che sia successo qualcosa?
- Aileen, ho bisogno di sapere cosa c’è stato tra voi due. Per sapere quanto Arina può aver preso male la faccenda. Kheltron può essere rimasto semplicemente a consolarla.
Corrugai le labbra. Per parecchi minuti tremai violentemente, poi rilassai i muscoli e mi abbandonai allo sconforto più totale.
- Noi...
Il camlo trillò. Ercole abbaiò.
Mi alzai di scatto dalla sedia e corsi verso l'ingresso. Il mio cuore si fece più leggero.
Aprii la porta. – Kheltron!
In piedi, sulla veranda, c'era Cuyed.
Il mio cuore tornò più pesante di prima. – Che fai qui?
Lui tergiversò. Mi guardò. Abbassò lo sguardo. Mi guardò di nuovo. – So che dovevo aspettare che mi chiamassi, ma... non c'è l'ho fatta. Ieri sei sparita, avevi il telefono spento. E oggi sei sparita, non hai chiamato. Pensavo... ero preoccupato.
Scossi il capo infastidita. Non lo sopportavo. – Ero con Kheltron, cosa poteva succedermi? Non pensi che Erixia lo saprebbe se mi fosse accaduto qualcosa?
Non pensi che tutti lo saprebbero?
- Io volevo vederti, – confessò. – Non riesci a capire?
Spalancai gli occhi davanti a tanta schiettezza. Tra la preoccupazione per Kheltron e la rabbia che avevo provato nel trovarmi davanti Cuyed, mi ero dimenticata di una cosa importante: lui non era solo il mio Prescelto. Era colui a cui piacevo. Era colui che avevo tradito poche ore prima. Ed era lì, davanti alla mia porta, perché provava le stesse cose che io provavo per Kheltron. Era preoccupato perché non lo avevo chiamato.
Sospirai. – È tardi Cuyed, ma se vuoi posso offrirti un goccio di vino. Ne ho bisogno anch'io.
Mi misi di lato, contro la porta, lasciando l'uscio aperto. Lui entrò. Strofinò le scarpe sullo zerbino in modo impacciato.
- Grazie.
Si tolse il cappotto e lo appese.
Non mi avrebbe ringraziato se avesse saputo cosa avevo in mente. Dovevo affrontare la situazione, non potevo permettere che continuasse in quel modo. Dovevo parlargli, chiarire le cose. Gli avrei fatto male, ma era sempre meglio che mentire.
Lo accompagnai nel salotto.
Lyoxc alzò il capo e fece un cenno. Era al telefono a parlare fitto fitto. Probabilmente con Erixia.
Cuyed si sedette e mi fece un sorriso debole. Nel suo viso vidi una nota di dolore.
Andai in cucina a prendere del vino rosso. Tre bicchieri. Tornai in salotto tenendo in equilibrio precario gli oggetti.
- Aileen! – urlò Lyoxc, facendo sobbalzare la bottiglia che tenevo sotto il braccio.
- Sì, sì. Eccomi. Arrivo.
Poggiai tutto sul tavolo.
Lyoxc spostò la cornetta dall'orecchio. L'aria era così carica di tensione che temetti di vedere i bicchieri infrangersi da soli.
- Ho bisogno di sapere, Aileen, – disse Lyoxc, lanciando un'occhiata a Cuyed.
- No, io...
- Sono in comunicazione con mia madre. Mi ha detto che il telefono di Kheltron è spento. Che doveva are da lei un'ora fa, ma non si è fatto vivo. Anche il telefono di Arina è irraggiungibile.
Il suo viso era un cumulo di espressioni indecifrabili, ma terribili.
- Io...
Guardai Cuyed agitata. Lui guardò me. Gli avrei spezzato il cuore.
- Aileen! – urlo Lyoxc con una nota di impazienza.
Il male minore. Non potevo fare altro. Versai un po' di vino nel calice e lo tracannai in fretta. – Io e Kheltron ci siamo baciati, di nuovo.
Abbassai il capo. Il cuore pesò come un macigno. Non osai guardare Cuyed.
- Vai avanti Aileen, – fece Lyoxc.
Alzai il capo, ma guardai solo Lyoxc. – Lui prova dei sentimenti per me. Insomma! Andava lì per chiudere la storia con lei.
Lyoxc sbuffò spazientito. – Può chiuderla benissimo senza farle sentire nulla.
Scoppiai in una risata isterica. – Ma che dici? Ha il Simbolo.
Lyoxc impallidì. Rimise la cornetta all'orecchio.
- Mi dispiace tanto, – mormorai rivolgendomi a Cuyed, prima di capire che non era alterato, anzi era tranquillo. A quel punto lo fissai.
- Non importa, – fece lui serio. – Sono sempre io il tuo Prescelto.
Io restai frastornata dalle sue parole. Qualunque altra persona si sarebbe arresa. Avrebbe lasciato il posto. Se non altro, per amor proprio. Non serviva a nulla rincorrere qualcuno che non ti voleva.
- Tu sei sicura che lui abbia il Simbolo? – chiese Lyoxc.
- Sì. L'ho visto.
- Ma è così grave questa storia del Simbolo? – chiesi frastornata.
Cuyed si ò una mano tra i lunghi capelli neri. – Tu non sai cosa comporta. Non può stare con te. Sta solo giocando.
Le sue parole mi fecero infuriare. Il tono duro e solenne. La voce di chi condanna. Ma non ebbi il tempo per dire nulla. Lyoxc riagganciò e si alzò in fretta e furia.
- Aileen, io devo andare.
Mi scostai da Cuyed. Mi avvicinai a Lyoxc. – Dove? Dove vai? – dissi isterica.
- A cercare Kheltron. Resterà Cuyed con te.
Si defilò dal salotto per affacciarsi nell’ingresso.
- No! – strillai. – Io vengo con te.
Lui si voltò. Mi fissò con i suoi occhi verdi, carichi di emozioni. Ma non sapevo quali. – Tu resti qui. Magari torna. Magari chiama.
Scossi il capo. – Non se ne parla. Io vengo con te. Se chiama, ho il telefono.
- Resti qui Aileen.
Si infilò il cappotto. Non poteva andarsene via lasciandomi lì. Io ero responsabile di quello che era successo. Io avevo baciato Kheltron. E io l'avrei cercato.
Lyoxc abbassò la maniglia della porta.
- Fermo! – dichiarai.
- Sto perdendo tempo prezioso.
Dovetti farmi furba. – Che istruzioni ti ha dato Erixia?
Lui aggrottò la fronte. – Di andare a cercarlo da Arina.
- Ti ha detto che non potevo venire?
Lui arricciò il naso. – Beh... no.
- Io vengo con te.
- Dove pensi di andare, Aileen? – si intromise Cuyed.
Lyoxc prese il controllo. – Aileen, tu resti qui. Te lo ordino come tuo Custode. Te lo chiedo come amico.
Puntai i piedi a terra. Ercole si drappeggiò accanto. – Sono sempre la vostra Tramite? Lo sono?
Lui indugiò. Si grattò la guancia. – Sì. Lo sei.
- Allora vengo con te. E tu non ti opporrai.
Lyoxc fece ricadere il braccio lungo il corpo. Ma io proseguii.
- Cuyed, resterai a casa mia, nel caso Kheltron tornasse. Ercole ti farà compagnia.
Guardai Cuyed, lo additai. – Mi lascerai andare, considerala una punizione per avermi influenzata.
***
Capitolo 69
Cuyed si irrigidì, un velo di rabbia ò suoi occhi, sulla sua espressione. – Va bene.
Sul momento non mi feci domande. Venne da credere che era così infuriato da volermi legare in casa per non farmi uscire. Eppure non lo sentivo, quindi potevo solo supporlo.
- Le chiavi della macchina, Cuyed. Con quelle faremo prima.
Mi lanciò le chiavi come se volesse gettarmele addosso.
- Grazie, – dissi – Dov’è l’auto?
- Di fronte la villa.
Infilai il piumino, allacciai la cerniera.
Lyoxc uscì dalla veranda e io lo seguii. La porta a vetri della villa si richiuse alle mie spalle. Il vento gelido e la neve ci colpì in pieno viso.
Entrambi corremmo verso la macchina di Cuyed. Mi sedetti al volante, infilai la chiave. Era la prima volta che guidavo una macchina dopo l'incidente. Ma sapevo di doverlo fare.
Lyoxc era accanto a me. Si allacciò la cintura.
- Erixia mi ha detto che la Cupola di Arina è ad Algoquin Park, ma non conosce l'ubicazione esatta.
- Algoquin Park? Non è proprio dietro casa.
- Con la Cupola è un attimo.
Spensi il motore. – Prendiamo la mia.
Lyoxc strabuzzò gli occhi. – Cosa?
- La sai guidare, no? Sei o non sei un Custode? Sarà più facile avvistare Arina, piuttosto che girare a piedi per ore.
Lyoxc si fece pensieroso. Indubbiamente i suoi pensieri fecero perdere tempo. Contribuirono a mettere a repentaglio il mio umore. Ogni sospetto sorto tra Kheltron e Arina aumentò a dismisura. Loro due avvinghiati in un letto. Magari Kheltron l'avrebbe fatto solo sotto l'influenza di lei. Potevo considerarlo come una violenza. Era più di quanto potessi sopportare.
- Andiamo, – si decise a dire Lyoxc. – Hai la Yikira con te?
- Certo!
Tirai fuori la collana da sotto il piumino. Risplendeva come non mai. Il mio stato d'animo non era ivo e tranquillo. La Pietra lo sapeva.
Ci vollero due minuti per scendere dalla macchina e catapultarci vicino lo spazio di atterraggio. La Cupola era schermata e mi mossi con attenzione per non andare a sbatterci contro. Salimmo di corsa anche i cinque gradini. Presi, per sicurezza, la mappa sul tavolino. Lyoxc, però, sapeva già dove dirigersi.
Porta. Corridoio. Porte. Corridoi.
La sala comandi era al piano alto. Lo capii perché il corridoio era in pendenza. Io non c'ero mai stata. Era bianca. Lucida. Schermo immenso che circondava la sala rotonda. Una sola sedia galatriana.
Lyoxc ci mise un attimo a sedersi, controllare il livello d'energia e a far accedere i motori.
La Cupola tremò. Si librò. In un attimo si staccò dal suolo.
Non potei appoggiarmi ad alcun appiglio, era tutto plasmato a forma della Cupola, lisco, laccato. Senza spigoli, senza rientranze.
- Devo cercare le coordinate – fece Lyoxc. – Dammi un secondo e ci muoviamo.
- C'è una cosa che non capisco, – dissi guardando i punti luminosi di Sunville. – Anche voi siete preoccupati che lo attacchi?
Lyoxc alzò lo sguardo dai pulsanti. – Nessuno di noi sapeva che Kheltron ha un Simbolo! Come fa ad averlo se... – i suoi occhi indugiarono su di me. – Se prova qualcosa per te?
- Oh, non lo so, – dissi. Andai a sbattere di faccia contro lo schermo quando la Cupola vibrò. – Kheltron mi ha detto che si può creare e mantenere con il giusto attacco.
Mi staccai dalla schermo per rimettermi composta.
- Già. Se Arina riesce ad attaccarlo fino a quel punto... beh, può fare di lui ciò che vuole. Qualunque cosa.
E a quel punto l'aria si fece densa. Carica di tensione. La sua espressione era seria. La mia era tetra.
***
Capitolo 70 Lyoxc fu davvero veloce. Quanto ci avremmo messo con la macchina? Non lo
so. Ma so quanto ci mettemmo con la Cupola. Dieci minuti.
Il cellulare non aveva squillato, per cui c'era solo da sperare che stesse bene, che fosse con Arina, e che non fosse successo altro.
Io, ad essere onesta, non avvistai la Cupola. Eppure avevo gli occhi incollati allo Schermo. La bufera non faceva vedere niente.
- Eccola lì, – indicò Lyoxc.
Socchiusi gli occhi per focalizzare. Niente. Era troppo buio. – Non vedo. Non si dovrebbero vedere le luci accese della Cupola?
- In effetti sì. Ma sono spente. Brutto segno.
- Come brutto segno? Cosa vuol dire brutto segno?
- Probabilmente non ci sono. Non sono da Arina. Scendiamo e vediamo.
Lyoxc iniziò la manovra di discesa.
Il mio cuore prese a battere a ritmo sostenuto. Avevo paura. Temevo che fosse troppo tardi per poter fare qualcosa.
Aspettai che la Cupola poggiasse a terra. Furono i minuti più lunghi di tutta la giornata. Io dovetti reggermi il più saldamente possibile per non capitolare sul pavimento bianco e lucido.
- Ecco, ci siamo, – disse Lyoxc. Lasciò i comandi.
Uscimmo dalla sala correndo. Corridoio e porte alla velocità più sostenuta.
Prima di uscire dal portellone, Lyoxc mi fece un sorriso tirato. – Non preoccuparti. Tra poco sarà qui anche mia madre.
Scendemmo i gradini.
Il buio della notte era penetrante. Le nuvole coprivano le stelle e la luna. La Cupola di Arina mi era visibile. Era avvolta nell'oscurità, ma schiarita dal verde degli occhi di Lyoxc.
Posò le dita sulla sua superficie, ma non accadde nulla.
- Non ci sono, – affermò.
- Si dovrebbe aprire automaticamente?
- No, a meno che non abbia lasciato il portellone socchiuso.
- Come avere la porta serrata senza chiudere a chiave?
- Sì, più o meno la logica è quella.
- Va bene, – dissi io. – Ma come fai a sapere che non c'è nessuno? Magari si sono solo barricati dentro. No?
- No, – disse lui voltandosi. – Non credo. Anzi, sono sicuro. Non sento l’energia vitale di nessuno, e quella non si cela.
Mi girai di scatto. Non vidi niente. Non sentii nessuno. Un groppo d'ansia si bloccò in gola. Afferrai la manica di Lyoxc.
- Non sento niente, – sussurrai.
- Andiamo. Addentriamoci.
Avvolsi la sciarpa su metà viso, fino a coprire il naso e le orecchie, mentre la neve cercava di farsi strada ovunque.
Ci inoltrammo negli alberi. Il bosco e il terreno era pieno di neve. Avevo ai piedi soltanto un paio di scarpe da ginnastica. Affondai fino alla caviglia. Abbandonai la possibilità di guardare dritto davanti a me e mi concentrai su come mettere i piedi. Lyoxc fece luce sulla neve, illuminando una distanza di trenta i. Ma dovetti fare attenzione, perché potevo inciampare in qualcosa di assolutamente non visibile. Udii lo scricchiolio dei nostri i, l'affanno dei nostri respiri e i versi sporadici degli animali.
Lyoxc mi fece fermare dietro alcuni alberi.
- Cosa c'è? – bisbigliai.
- Laggiù, – indicò. – C'è qualcuno lì.
- Io non sento nulla, come prima.
Alla fine di quegli alberi si vedeva il lago di Algoquin park, probabilmente ghiacciato.
- Dobbiamo uscire allo scoperto, ma prima avviso Erixia.
Cellulare alla mano.
Io cercai di non ascoltare la conversazione. Puntai gli occhi sul quello che ci aspettava là fuori. Era buio pesto, senza gli occhi di Lyoxc sarebbe stato
impossibile vedere alcunché.
Fece un cenno con la testa e ripartimmo. Ci ritrovammo senza la protezione degli alberi.
Davanti a noi il lago in tutto il suo splendore. Udivo lo scrosciare dell’acqua. Non si era ghiacciato.
Sicurezza. Soddisfazione.
- Sento! – esclamai.
- Anch'io! Il che riduce la possibilità che siano galatriani, a meno che non vogliano farsi sentire!
- Giusto, – dissi. – Ma se non sono loro che facciamo?
- Magari è qualcuno che ha visto qualcosa.
Un'ombra comparve in lontananza. L'ombra di uomo che si avvicinava a noi.
Compiacenza. Appagamento.
- Buonasera, – strillò l'uomo. Alzò la mano e salutò. – Cosa vi porta qui di notte?
Guardai la figura perdere le distanze.
Bloccai i i. – Fermo! Fermo Lyoxc.
Lui si voltò e mi fissò. – Che c'è?
Il mio cuore singhiozzò. – No! no! C'è qualcosa che non va.
Il terrore mi assalì, mi fece sentire totalmente intrappolata.
- Perché dici così? – disse Lyoxc, puntando i suoi due fari su di me.
- Perché non è tanto felice di vedermi, – disse l'uomo. Si fermò a tre i da noi.
Sereno. Accontentato.
Lyoxc si voltò e lo fissò. Illuminò il viso della persona accanto a noi. L'espressione di Lyoxc si fece seria e cupa.
Mi tremarono le mani.
L’uomo scoppiò a ridere. Ilarità. – Vi aspettavamo.
- Chi ci aspettava? – fece Lyoxc, irrigidendosi.
Il fruscio degli alberi lontani mi assalì. Il profumo della neve e della paura mi invase i sensi. L'aria era tetra. Densa.
- Si riferisce a me.
La voce limpida di una donna spuntò con un soffio di vento. Ci girammo lentamente. Alle nostre spalle c'era lei.
- Arina! – fece Lyoxc. – Ti stavamo cercando.
- Lo so, – disse lei, aggiustando la massa di capelli ricci. La cappa nera l'avvolgeva. Il cappuccio non era calato sulla testa.
Lei mi gettò un'occhiata gelida. Assassina.
Lyoxc la fissò. – Arina. Non troviamo Kheltron. Sappiamo che sarebbe venuto da te. Sai dove si trova?
Lei spostò il suo sguardo su Lyoxc. – Sì.
Lui sembrò rilassarsi e riprendere colore. Io mi sentii peggio di prima. Un crampo alla pancia mi avvisò che le cose non si stavamo mettendo bene.
- Puoi portarci da lui? – chiese.
- Ma certo.
Sorrise. Un sorriso alquanto incerto e crudele.
Aggressività.
***
Capitolo 71 Sbatteri le palpebre, stordita. Ero distesa a terra. Non sapevo come, dove, né perché, ma ero sdraiata in posizione fetale. Avevo i muscoli del corpo tutti indolenziti.
Un odore nauseabondo mi giunse al naso. L’odore di marcio. Feci una smorfia disgustata.
- Ben svegliata, – disse una voce femminile.
Attorno a me era c’era legno. Legno chiaro. Pavimento e pareti. Persino il tavolino e le due sedie. Su una di esse, c'era lei. Un griviglio di ricci biondi. Un abito rosso.
- Sei in un cottage, Aileen Grenn. La Tramite.
Ero io. Parlava con me.
Alzai il busto, faticosamente, e mi toccai la testa. Mi doleva. Qualcuno doveva averci aggrediti, ma non attaccato. Avevano optato per un’azione terrestre. Un gesto dal quale non potevamo difenderci molto.
Arina si alzò. Nel suo abito lungo, rosso, era sconvenientemente alta. Mi superava di diversi centimetri. Avrebbe potuto sopraffarmi facilmente. Si avvicinò, facendo tintinnare i tacchi dei suoi stivali. Aveva un’espressione collerica.
- Che hai di speciale per avere la Yikira? Che hai di speciale per essere come noi?
Non le risposi. Distolsi lo sguardo dai suoi occhi grigi. Chiari, quasi bianchi. La sua pelle era spaventosamente pallida e perfetta. Non aveva segni d’età, non aveva rughe, cictrici o macchie.
- Dov'è Lyoxc?
- Non preoccuparti per lui. È figlio dell’Imperatrice, non gli accadrà nulla. Sta solo… dormendo.
- Dov'è Kheltron?
Lei sorrise. Un sorriso inquietante. – Vieni. Te lo mostro.
Mi alzai a fatica. Mi sentivo stordita. Poggiai la mano sul tavolo per mantenermi in equilibrio.
- Seguimi, – disse. Si diresse verso l'unica porta di legno chiusa.
Inciampai in un asse. Mi tenni salda sulle gambe.
L'interno della stanza era buio. Quando Arina chiuse la porta alle mie spalle, accese una piccola lampadina gialla appesa al soffitto. Vidi l’arredo spoglio e l’ambiente tipico di cottage, con il legno a far da padrone. Un camino accesso e
un tappeto. Ma non fu quello a scioccarmi.
Kheltron era in piedi, a torso nudo, legato ad una corda, sia mani che gambe, a un tronco di legno verticale. Il bracciale con la Pietra era sparito. Sbatté gli occhi offuscati. – Aileen?
Mi portai una mano sulle labbra. Spaventata. Scossa. Inorridita. – Khe... Kheltron? – balbettai.
Colin comparve nella stanza. Esaltato. Aveva una pistola in mano. – È crollato con il cloroformio.
Lei rise. – Vedi Aileen, noi non abbiamo armi come le vostre. È così difficile difersi da ciò che non si conosce.
Guardai la camicia bianca di Colin. Era sporca di sangue.
Allungai la mano, cercando di raccogliere i cocci di una vita sbagliata. Il dolore riempì gli occhi. Frammentò la vista. – Che hai fatto? Che hai fatto?
Mi lanciai contro lui. Ma mi afferrò. Mi strinse le braccia. Mi spinse a terra, facendomi inginocchiare. Mi tenne stretta. Era triofante.
- Voi umani siete così semplici da gestire, – disse lei. – Così facili da controllare.
- Arina! – urlò Kheltron. Le sue braccia legate strattonarono invano la corda.
Lei rise. Lo ignorò. – Colin, va meglio ora? Nessuno ti porterà via Aileen. Kheltron non te la porterà via come faceva Bryan.
Sgranai gli occhi. Mi ribellai dalla stretta. Inutilmente.
- Aileen è mia! – disse Colin, ridendo come un pazzo.
Perfidia.
Mi bloccò le braccia dietro la schiena. Me le strinse così forte da farmi male. Gemetti.
- Ma certo che è tua!
Un macigno cadde sul mio cuore. Sbiancai. Nessun suono. Arina sapeva tutto.
- Arina! – biascicò Kheltron.
Lei gli si avvicinò. Gli accarezzò la fronte. – Non lo avresti mai immaginato. La
piccola Aileen sa tenere bene i segreti. are gli ultimi due anni con lo stesso carnefice.
Kheltron le sputò in faccia.
- Non si fa, – disse lei. Il viso si irrigidì. Lo schiaffeggiò con forza. – Non l'ho mica costretta io a restare con Colin.
ò la sua mano tra i capelli di Kheltron, strappandogliene un ciuffo. Lui non emise un rantolo, ma se avesse potuto l'avrebbe uccisa con lo sguardo.
- Diglielo Aileen, – fece Arina fissandomi. – Digli come hai deciso di distruggerti negli ultimi anni! Condannandoti con lo stesso uomo che ti aveva fatto a pezzi!
Aprii la bocca, ma non uscì nulla. Solo aria. Avrei voluto urlare, ma l'unica cosa che riuscii a fare fu abbassare il viso rigato di lacrime. Fatto di un dolore così forte che non mi permise di difendermi.
- No? – fece lei battendo i tacchi sul pavimento e raggiungendomi. Mi tirò i capelli. Mi gettò a terra.
- No? – disse. – Lo farò io. Spero che vi piaccia questa storia. Riguarda tutti noi.
Appoggiai la testa sul pavimento di legno, sconfortata, pronta a partire un
viaggio che mi avrebbe distrutto. Che avrebbe distrutto tutti quanti.
- Sette anni fa, Kheltron lasciò la nostra splendida Galatria. Era divenuto Custode, come suo padre prima di lui. Era stata stabilita una vita diversa. Il destino era cambiato da quando Wuzol aveva trovato la piccola Aileen. Ma stare sulla Terra, per Kheltron, ed essere il suo Custode, fu troppo impegnativo. Per questo motivo, dopo quattro anni, iniziò a disertare le Regole.
- No Aileen, non volevo… - sussurrò lui.
- E la vita di Aleen cambiò. – disse lei aggiustandosi i lunghi capelli chiari. – Lei aveva ventidue anni.
- Aileen, – tentò di giustificarsi Kheltron. – Se solo potessi tornare indietro...
Ma io lo ignorai. Ero già indietro, negli anni ati. Mi stavo trasformando nell'involucro.
Arina rise. – Nessuno poteva sapere che da lì a poco, Colin, folgorato dalla sua bellezza, decidesse di averla.
Kheltron strattonò la corda.
Colin mi lanciò uno sguardo lascivo. Lussurioso. Mi toccò le gambe. Si leccò il sangue sulla mano.
- Colin era scappato dall'Irlanda diversi anni prima. Rapina a mano armata, – disse Arina.
Fissai Colin disgustata.
Arina si avvicinò a me. – Aileen a quel tempo era con Bryan. Legati da amore eterno.
I miei occhi si riempirono di tristezza.
- Oh, – disse lei, abbassandosi e accarezzandomi la guancia. – Colin non fu molto delicato.
Arina mi sollevò il capo e lo sbatté a terra. Un dolore sordo mi raggiunse la tempia.
- Hai gridato aiuto e nessuno ti ha sentita?
- Lasciala! – urlò Kheltron.
- Qualunque cosa sia successa, quella notte ha cambiato per sempre la vita di Aileen. Colin l’ha distrutta.
Io ero riversa su quel pavimento di legno, ma non c'ero più. Quelle erano le immagini che mi perseguitavano da quasi tre anni. Da trentadue mesi. Le lunghe mani di Colin che mi strappavano i vestiti. La sua lingua che si insinuava nella mia bocca, tra i miei seni, tra le mie cosce. Nel buio di della notte del diciotto giugno, una parte di me, morì.
Arina mi riportò al presente, calpestando l’asse in maniera possente. – Kheltron non c’era per proteggerla. No. Lui disertava le Regole.
- Aileen… – Kheltron strattonò con forza i lacci che lo tenevano legato. Non si ruppero – Mi dispiace.
Arina era in piedi, si aggiustava il vestito rosso. – Vorrei davvero conoscere i dettagli di quella sera, ma proseguirò per non diventare prolissa. Aileen, violentata, venne respinta dal suo dolce fidanzato, Bryan. E lei si rifugiò nell'unica persona che poteva ucciderla del tutto.
Mi fissò. Si portò una mano sulla guancia. Scosse il capo.
- Non sbaglio, – affermo lei. – Colin è il suo compagno da allora. E non erro nel dire che cercò la morte in tutti i modi possibili.
No. Nessuno sapeva cosa voleva dire violenza. L'uomo non capiva, si prendeva quello che voleva e poi lo sbatteva via senza curarsi di nulla. Volevo morire. La mia vita non valeva più niente, avevo perso tutto quello in cui credevo. La sera del diciotto giugno dell'anno seguente presi la macchina e mi schiantai. Dritta
contro un albero.
La galatriana scoppiò a ridere. – Quanto sono sciocchi i terrestri! Non si accorgono di niente! Vero Kheltron? – si avvicinò con o deciso verso il suo prigioniero. – Lei non sa che tu non ti davi pace nel sentirla morire dentro. Lei non sa che l'hai salvata TU da quell'incidente!
- Kheltron? – mormorai, alzando appena il viso. – Eri tu?
Fui vicina alla morte ma, con mio rammarico, mi salvai. “Gocce di sudore ricadevano sul mio viso. Ero semi cosciente, percepivo appena quello che mi succedeva attorno. C'era quella voce che mi chiamava. Quel sudore cadeva dall'alto sulle mie guance. Una voce mi chiamava con insistenza. Due occhi mi fissavano. Due occhi blu.”
Arina urlò. – Povera Aileen! Senza l’energia di Kheltron sarebbe su una sedia a rotelle! Salvandola però, si è creato questo delizioso legame, – disse indicando una voglia molto piccola sul suo petto.
Il Simbolo!
Lampi di un attacco. Sofferenza, maledizione, affanno, infelicità, struggimento. I miei occhi si appannarono di lacrime, mentre lei mi attaccava.
Arina scoppiò in una risata nervosa. – Kheltron amava Aileen.
Alzai lo sguardo verso Kheltron. Lui non mi guardava.
- Ma la storia non è ancora finita, – continuò lei. – Kheltron, sommerso dalla paura delle conseguenze del Simbolo, implorò Erixia di tornare su Galatria. Quando il permesso gli fu negato, cercò qualcosa per scampare al Simbolo. Mi supplicò di alleviare le sensazioni portatrici della voglia. E dato che io lo amavo ancora prima che partisse per la Terra, e avevo il Simbolo, fu facile attaccarlo e marchiarlo. Ma come si può notare, il Simbolo di Aileen è ancora sul petto di Kheltron.
Una voglia rotonda. Chiarissima. Quello era il Simbolo naturale che lo legava a me. Sotto c'era quello imposto da Arina.
- Io non lo sapevo... - mormorai con la bocca impasta di lacrime.
- Non è una condanna il Simbolo, Aileen. – sussurrò Kheltron.
- Certo, – fece Arina. – Non è una condanna ora che anche lei prova qualcosa per te, ma prima lo era. Prima avevi paura. Prima temevi di avvicinarti e sentirla. Ora hai un giuramento con me, e non puoi scappare così velocemente! E credo che Colin rivoglia Aileen.
- Esatto! – Colin puntò la pistola contro Kheltron. – Aileen è mia!
Possessività.
- Colin, – apostrofò Arina. – Non puoi stare tranquillo per cinque minuti? La cosa va sistemata con calma. Lascia fare a me.
- Aileen è mia!
Rabbia. Furia. Odio. Vendetta.
Assorbii ognuna di quelle emozioni, e come un uragano che distruggeva ogni cosa sul suo o, io mi issai e lo guardai negli occhi. Io lo odiavo. Io volevo vendetta. Mi gettai su di lui quando pigiò il grilletto.
Il proiettile mi colpì.
- Aileeeen! – urlò Kheltron.
- Colin! – urlò Arina. – Sei impazzito! Fermati!
Colin sbiancò impaurito. Terrorizzato di aver colpito me.
Il dolore mi raggiunse un attimo dopo. Ricaddi a terra. Dolore acuto. Sangue scuro. Finii sul pavimento di legno come un animale ferito.
Arina ne approfittò, si concentrò, si gettò su di lui, ma non abbastanza in fretta.
Lui sparò un secondo colpo e lei si accasciò a terra, accanto a me. Una macchia scura si formò sul suo bellissimo abito rosso. Si toccò il petto e riversò gli occhi indietro.
- Muori! – disse Colin, adirato. La pistola fu nuovamente contro Kheltron. Ma la mano tremava. Era incerto.
Strinsi la Yikira e mi concentrai. Non ero capace di attaccare. Dovevo almeno provare. Arina era a terra. Kheltron era legato, ma capii che cercava di contrastare la mente di Colin. Era perso e concentrato. Senza la sua Yikira non poteva fare molto, ma io avevo ancora la mia. La mente di Colin fu semplice da individuare. Arrogante. Debole.
Chiusi si occhi. “- Quezel, teoricamente, come dovrei fare per attaccare? Dovresti togliere la barriera, devi attaccare la mente. - E come faccio ad abbassare la sua barriera?- Devi usare l'energia della tua Yikira. Poi, attacchi.”
Fissai Colin. Lui non aveva barriere. Lui era terrestre. Doveva essere più facile.
- Aileen.. - la voce moribonda di Arina. Mi ò una Pietra tra le mani. – Usala tu.
Non le chiesi il perché. Strinsi l'altra Pietra. Si illuminò. Si scaldò. Brillò insieme alla mia.
- Ora Aileen! – urlò Kheltron. – Insieme!
L'unica cosa che Colin non sapeva fare era amare. Lo guardai. Lo sentii. Per me. Perché non mi avrebbe portato via nient'altro. Entrai nei suoi sentimenti. Nella sua mente. Era tutto buio. Rabbia. Egoismo e Vendetta. Gli portai via tutto, finché di lui non rimase un guscio vuoto e due occhi vacui.
Colin si accasciò sul pavimento. Poi fu il mio turno.
***
Capitolo 72 - Allora, – disse una voce maschile. – Dov'è?
- Là, – rispose una voce femminile.
Silenzio. Udii solo il respiro pesante delle due presenze.
- Aspetteremo che si svegli, – fece l'uomo.
- Non succederà nulla se aspettiamo, – disse la donna.
Vi era il rumore di i che si allontanavano, della porta che si chiudeva.
Cercai di aprire gli occhi.
Il soffitto era bianco e lucido. Non era il bianco dei soffitti di casa. Era quel bianco e lucido delle Cupole. Quel materiale sconosciuto.
Il letto su cui ero sdraiata aveva delle coperte arancioni. Di lato c'era una bajour a forma di albero. Due cornici che avevo già visto. Ero nella Cupola di Kheltron.
Mi toccai la testa per controllare che fosse integra. Mi tastai il busto. Mi sedetti. Mi guardai le gambe. Mossi i piedi. Era tutto perfettamente funzionale. Mi toccai il collo. La collana e la mia Yikira erano al loro posto. Ma l'altra Pietra non c'era.
Dovevo alzarmi e controllare. Verificare quello che era successo. Dov'era Lyoxc. Kheltron. E Arina. Anche lei era stata ferita.
Appoggiai le gambe sul pavimento. Mi alzai. Mi raggiunse un dolore acuto e pulsante. La gamba sinistra mi doleva terribilmente. Mi dovetti sedere sul bordo del letto.
Tolsi i pantaloni, lentamente, senza fare gesti bruschi o inconsulti. La coscia era fasciata da una benda bianca che tolsi delicatamente. L'interno della gamba era segnato da una cicatrice. Niente sangue. Niente punti. La pallottola mi aveva colpita lasciando inevitabilmente il suo ricordo, e probabilmente era stata guarita
dai galatriani. Lentamente rimisi la fasciatura.
Erixia entrò in quel momento. Apprensione. In fretta, sganciai la Yikira dal ciondolo.
- Aileen! Ti sei svegliata!
- Dov'è Kheltron? Lyoxc? Arina? – la guardai disperata.
- Stanno bene, – disse dolcemente. – Lyoxc è a Granville con Arina. Kheltron è qui.
- Posso vederlo?
Dolcezza. Comprensione.
- Sicuro, – disse ridacchiando. – Appena ti sarai rivestita.
Mi guardai le mutande di pizzo nere. – Oh! Oh, certo!
- Aileen... tesoro...
Rammarico
- Sì?
La guardai negli occhi verdi sfavillanti. Erano buoni. – Putroppo anche una donna ossessionata da un uomo può ridursi davvero male. Abbiamo scoperto che Arina ha cercato Colin un mese fa. Ha raccolto quante più informazioni possibili da lui e si sono alleati.
Fece alcuni i e sedette sul bordo accanto a me. Preoccupazione.
- Non mi fa male, – indicai la gamba ferita. – Davvero.
Lei mi accarezzò i capelli. – Ieri hai aiutato tantissime persone.
- Ho preso le Yikire e le ho usate.
Sorrisi, dubbiosa. – Le Yikire?
- Sì, Arina mi ha ato la sua Pietra. Gliel'avete ridata?
Erixia si tormentò le mani, ansiosa. – Tu sai che non puoi usare le Pietre degli altri, vero?
- Lo so. Ma quella Pietra ha brillato. Mi ha accettato.
Erixia abbassò lo sguardo, inquieta.
- Va bene, – dissi. – Che c'è? Cosa devo sapere?
- Non credo che fosse la Pietra di Arina. Era quella di Kheltron. Solo quella poteva risponderti. Una Yikira appartiene solo ad una persona...
- Tranne nel caso in cui la persona abbia un Simbolo! – esclamai esterrefatta.
- Sì, – disse, comprensiva. – Sì.
- Ma certo! – dissi io alzandomi istintivamente. – È per questo che Kheltron non mi può attaccare! È per questo che mi sente sempre! È il Simbolo!
Erixia mi guardò, stupita. – Esatto. Il Simbolo lo lega a te, sente ogni emozione che provi. La sua Yikira appartiene a te quanto a lui.
Felice della mia brillante conclusione, saltellai e risi, e la fitta alla gamba raggiunse l'apice del dolore. Mi sedetti miseramente sul letto.
Timore. Ansia.
- Sto bene, – aggiunsi subito.
- Scusami Aileen. Mi rendo conto di essere troppo apprensiva.
Sorrisi.
Si intristì. Gli occhi verdi si colmarono di acqua. Una lacrima rigò la sua guancia perfetta.
- Ho detto qualcosa di male? – chiesi intristita a mia volta, ma non per essere stata influenzata, perché non volevo che fosse triste.
Lei si asciugò il viso immediatamente. Pena. Cruccio. – Assolutamente no!
Erixia sorrise. Cercò di darsi un contegno. Raddrizzò le spalle e si alzò dal letto. – Ti lascio rivestire con calma.
- Erixia, – dissi tentennando. – Colin dov'è?
- Sotto nostra sorveglianza. So cosa ha fatto Aileen, per cui non chiedermi di essere comprensiva con lui.
Collera. Rabbia.
Scossi il capo. – Non lo chiederò.
Lei annuì soddisfatta, e si avviò alla porta. Si voltò un'ultima volta. – Dimenticavo! Nell'altra stanza ci sono anche Lilian e Ercole, ti aspettano.
- Grazie, – dissi. – Vorrei vedere Kheltron prima.
Lei fu perplessa.
Abbassai il capo timidamente. – Lo so che ho ancora un Prescelto.
Comprensione.
- Lo faccio venire subito.
La porta automatica si chiuse alle sue spalle.
Mi infilai in fretta i pantaloni, tra vari gemiti di dolore, e aspettai con ansia e trepidazione l'arrivo di Kheltron. Riagganciai la Pietra, anche se non sarebbe
servita a molto. Mi alzai dal letto, cercando di non apparire ferita, ma la gamba mi faceva male. Tornai a sedermi.
La porta bianca scorrevole si aprì. Kheltron era avvolto nella divisa verde. Al polso aveva il braccialetto con la Yikira. Quello che mi aveva permesso di aiutare tutti.
- Aileen, – disse lui sorridendo. Gioia.
Mi alzai dal letto felice di rivederlo. Incurante della fitta alla gamba, gli andai incontro e gli gettai le braccia al collo.
Mi abbracciò. Amore.
Ecco. L’amore. Per l'amore potevo rischiare la vita, e non perché la mia valesse meno di un'altra, ma perché era importante quanto la mia.
- Stai bene? – chiesi io.
- Sì, – annunciò lui. – Tu?
Preoccupazione.
Scostai il viso per guardarlo negli occhi. – Non prendermi in giro! Lo so che puoi sentirmi sempre! Hai il Simbolo! Me lo chiedi perché vuoi sapere se ti dico la verità?
Lui mi guardò dapprima colpevole, come consapevole di essere stato scoperto, poi sorrise. – Hai ragione.
- Mi devi delle spiegazioni!
Lui si stupì. – Adesso?
- Adesso!
Fece due i verso il letto. – Sediamoci prima. So che sei stanca.
- La mia energia vitale è debole? Avrò bisogno di intimità allora, non posso affrontare più di una persona alla volta.
Sospirò, con rassegnazione, avviandosi a o deciso al piccolo pannello, e lo toccò due volte. Aveva chiuso la porta.
- Va bene?
- Perfetto.
Misi il cuscino contro il muro del letto e mi appoggiai comodamente. Kheltron si mise di fronte e incrociò le gambe.
- Voglio sapere tutto dal principio, – dissi. – Da quando sei arrivato qui.
Lui annuì, incerto. Prese fiato.
- Sette anni fa sono arrivato sulla Terra. Sul tuo Pianeta. Era il 30 dicembre, il giorno del tuo diciottesimo compleanno. Sono arrivato per prendere il posto di mio padre, che a quel tempo era tuo Custode. Come ben avrai capito, fu piuttosto difficile ambientarmi sul tuo Pianeta. Sentivo tutti i terrestri e, per quanto fossi allenato, era impossibile gestire tutte le loro emozioni. Mi frastornavano.
Confusione. Agitazione.
- Su Galatria eri abituato a non sentire nessuno, – aggiunsi io attenta a non perdermi nessuna parola.
- Ovviamente, – fece lui. – Il silenzio assoluto di Galatria contro il caos imperante di qui. Fu una bella sfida per me. I primi tempi non andò molto bene. Più comprendevo i terrestri, più mi rendevo conto di quanto fossero egoisti ed egocentrici.
- Ehi!
- Non tutti, – aggiunse lui, comprensivo e sincero. – Non tutti lo erano.
Mi fissò intensamente, colpito da una forte attrazione.
Abbassai il capo. – Vai avanti, – dissi.
- Penso che fu per quello che mi attaccai a te in maniera morbosa, – confessò lui sinceramente. – Tu eri diversa. Tu sentivi. Eri molto più simile a me. Ed eri, quasi, l'unica amica che avessi, assieme ai pochi galatriani che c'erano. Ma quando capii di essermi attaccato troppo a te, scappai. Disertai le Regole dei Custodi. Tu avevi Bryan. Io non ero niente per te, non esistevo.
Rabbia. Collera.
Lo guardai piena di comprensione. Il suo viso dolorante, le sue emozioni, mi fecero capire quanto doveva essere stato difficile affrontare tutto da solo.
- Stavo tornando da una festa quella sera, – dissi io. – Ero a Ottawa. Bryan non c'era. Colin si avvicinò chiedendomi se avevo un accendino. Lo sentii subito. Scappai immediatamente. Ma lui mi acciuffò e mi gettò in un vicolo. Abusò di me. Ma la parte peggiore venne dopo, quando mi ripresi. Lui mi aveva mi influenzata e non ero riuscita a reagire. Capisci? In quel momento, quell’atto, poteva persino piacermi. Io non ero riuscita a difendermi in alcun modo.
Furia. Ira.
- Aileen sono così arrabbiato! Non mi perdonerò mai. Se solo potessi strangolarlo con le mie mani!
Scossi il capo decisa. Quella sera era arrivata la mia morte. Poi, sì, il mio corpo era andato avanti, ma dentro non avevo più niente. Ero un involucro. Avevo studiato bene la mia posizione, con una razionalità folle, da sembrare pazzia. Volevo chiudere definitivamente con la vita, mi ero detta.
- L'unica persona a cui lo raccontai, – dissi io, – fu Bryan. Era l'unico di cui mi fidavo. Ma lui non mi credette, dentro di lui si insinuò il dubbio, la rabbia e infine, il disgusto.
Incomprensione. Gettò il peso della schiena in avanti e si sporse verso di me. Mi guardò dritto negli occhi. – Perché Aileen? Perché hai continuato a vedere Colin?
- Non avevo più niente da perdere, – dissi abbassando appena lo sguardo. – Non avevo più voglia di vivere. Credevo che stare con lui mi avrebbe permesso di ottenere quello che volevo: morire.
Kheltron sbatté un pugno sul materasso. Collera. Incomprensione.
Alzai le spalle tremanti. Alzai gli occhi. – Tocca a te, – dissi.
Si dondolò sul materasso, molleggiando. Rigirò il bracciale diverse volte prima di fare un sospiro e fermarsi. Se dapprima sembrò incollerito, un leggera carezza da parte mia lo rese sconfortato.
- Quando fui rimproverato per aver disertato le Regole, tornai a cercarti. Ma era tardi. Ti trovai spenta. Bryan era sparito. Tu eri sparita. La tua gioia. La tua bontà. Era tutto morto.
Colpa.
- Iniziai a seguirti ovunque, – disse, con rimpianto. – Non capivo cosa fosse successo. Presi un caravan e mi appostai sotto casa tua. Dormivo quando dormivi tu. Mi svegliavo quando ti svegliavi tu.
Lo guardai tremare, di rabbia. Allungai il braccio e gli presi la mano. Lui le diede un piccolo bacio.
- Quante volte ti ho vista piangere su quella panchina, Aileen. Col freddo. Col caldo. Con la pioggia e la neve. E non potevo fare niente.
Lui mi fissò. Serietà. – Assorbivo l’energia dei tuoi sentimenti, sperando che potesse portarti un po' di conforto, ma quel giorno in macchina capii che non era servito a nulla
- Kheltron, non ce la facevo più. Il dolore emotivo era insopportabile. Ma, mi ricordo di te. Mi ricordo di te che mi chiamavi. Mi imploravi di aprire gli occhi.
Questo lo rattristò, ma lo fece anche arrabbiare. – Mi hai spaventato! Non credevo che andassi a schiantarti contro un albero! E non sapevo nemmeno perché!
- Ora lo sai. Probabilmente non ti sembrerà un motivo sufficiente per farlo. Per me lo era.
Lui sbuffò, scontroso. – Le tue ferite mi avevano fatto pensare il peggio. Eri zuppa di sangue. Ero nel panico più assoluto. Non ti svegliavi.
- Suppongo di doverti ringraziare per avermi dato energia per guarire e camminare.
- Già, – disse lui raddrizzando le spalle e fermando il dondolio. – Ci sono riuscito.
Dubbio.
- Non eri sicuro? – chiesi inclinando il capo e massaggiando la gamba ferita.
- Speravo di farcela. – disse lui, studiando la mia espressione affaticata. – Quel che non sapevo è che si sarebbe formato il Simbolo. Non so perché proprio in quel momento.
Alzai lo sguardo per incontrare i sui occhi oltremare preoccupati e angosciati. Non sapendo se la sua preoccupazione si riferisse al mio dolore o al suo, mi azzardai a tirar fuori la seconda ipotesi.
- Il Simbolo ti ha fatto male? È stato doloroso riceverlo?
Kheltron scosse il capo. – Non fece male. Avvertii solo un formicolio sul petto. Come quando si addormenta un piede. Sul momento non ci badai molto, avevo te da curare fino all'arrivo dell'ambulanza. Il Simbolo lo vidi nella mia Cupola.
- Fu uno shock?
Mi guardò, disorientato. – Sì.
Sincerità.
- Ma perché non me lo hai detto quando ci siamo incontrati a dicembre?
- Non sarebbe stata una buona idea. Ma quella sera... sul divano di casa tua... ho cercato di dirti che ero stato io.
Svoltai gli occhi. – Mi stavi facendo addormentare, come puoi pensare che gli avrei dato importanza? O che lo avrei associato a qualcosa che nemmeno conoscevo?
- Ci ho provato, – disse lui, speranzoso.
- Ma perché non fosti tu il Prescelto? Non sarebbe stato più logico scegliere qualcuno che mi amava?
Lui scosse il capo. – Non volevo. Erixia era l'unica a saperlo e me lo propose, ma non accettai. Avevi ato gli ultimi due anni a odiare gli uomini, non volevo che odiassi anche me. E sei così piccola Aileen, piccola per me. Io ho ventisette anni.
Determinazione.
Arrossii di imbarazzo. Il pregiudizio che avevo creato nei confronti dell'uomo era così evidente da farli scappare prima ancora di provarci.
Kheltron mi fissò, preoccupato.
***
Capitolo 73 - Beh, – dissi. – Vediamo il Simbolo.
- L'hai visto ieri sera.
- Non è che abbia visto molto!
Lui mi guardò, stupito. – Come vuole, Tramite.
Si sfilò la maglia verde.
La prima cosa che notai furono i suoi muscoli, molto sviluppati e perfettamente sani. Nessun graffio. Arina non sembrava avergli fatto del male. Poi mi avvicinai. Scrutai.
Attrazione.
Sul petto, vicino al cuore, c'era il piccolo Simbolo. Un cerchio con i raggi. Un sole pallido. Quello era il Simbolo. Guardai più in basso in cerca di quello di Arina.
Kheltron sorrise. – È inutile che cerchi. Non c'è. Non c'è più quello di Arina. È tutto a posto.
Sbarrai gli occhi. – È tutto a posto dopo avermi fatto morire di paura!
- Ora sono qui! – disse lui.
- Se non fosse per me saresti ancora legato ad un tronco!
Sbigottimento. – Arina mi aveva attaccato! Altrimenti non sarebbe successo!
- Questa volta ho badato io a te, – lo canzonai.
- Già, – disse lui guardandomi, con attrazione.
Si avvicinò. Appoggiò il suo peso contro di me, facendomi affondare nel cuscino. Desiderio. I suoi occhi si incollarono ai miei. Le due Yikire brillarono intensamente.
- Kheltron... alza la barriera.
Lui si scostò appena. Incomprensione.
- La mia Yikira brilla. Sono già legato a lei.
- Ma io ti sento.
Lui mi fissò, dubbioso. – Mi prendi in giro?
Incrociai le braccia al petto. – Dimmelo tu se ti sto prendendo in giro! Hai il Simbolo, mi senti sempre, dimmi se sto mentendo!
- Non stai mentendo. – mi fissò, sconcertato. – Spogliati.
- Cosa?
- Togliti il maglione Aileen – insistette, preoccupato.
Lo sfilai dalla testa. Sapevo che non aveva brutte intenzioni.
Kheltron studiò minuziosamente ogni centimetro di pelle. Le braccia. Il collo. Spostò i lembi di cotone della maglietta. Mi guardò la pancia. La schiena. Ansia. – Togliti anche i pantaloni, – disse.
- Ma Kheltron! – protestai.
I suoi occhi blu erano limpidi. Bontà. - Guardami Aileen. Non voglio farti male.
Kheltron mi aiutò a sfilare i pantaloni. E, per quanto sciocco fosse, arrossii. Mi gettò gli occhi addosso. Partì dalla caviglia fino a risalire alle gambe. Io cercai di
guardare altrove per non alimentare il mio imbarazzo.
Preoccupazione.
Lo guardai ansiosa. Non capivo perché avesse paura.
- Kheltron posso sapere che stai facendo?
Lui non rispose. Era perso nella sua incomprensione. Mi prese in braccio come un sacco di patate. Protestai, sì, ma non è che ebbi la forza per fare altro. Ero stanca. La gamba mi doleva. E, in fondo, di lui mi fidavo.
Porte e corridoi. Entrammo in sala comandi. Mi accomodò sulla poltrona. Azionò i pulsanti. Controllò l'energia. Partì.
Mi sforzai di capire cosa volesse fare. Cosa fosse successo. Lo sentivo insicuro. Poi timoroso. Un sali e scendi di emozioni contrastanti.
- Posso riavere i miei vestiti?
Lui si voltò e mi fece l'occhiolino, ma non diede nessun vestito. La sala comandi era calda, e non avevo freddo. Tuttavia, non potei fare a meno di notare che eravamo, entrambi, mezzi nudi.
- Mi vuoi dire che succede? E Lilian? Erixia? Cosa penseranno?
- Mi guardò. – Non è che possiamo restare a Algoquin park per sempre. Gli altri avranno capito che stiamo tornando.
Superammo le nuvole grige e tetre. Fummo molto in alto. Sopra di esse. Quando fece capolino un brillante sole, fermò la Cupola.
I suoi occhi si fecero ardenti, affettuosi. Mi ò la mano sul collo, mentre il sentimeto di affetto si diffuse nella stanza. Nell’aria aleggiava il profumo della dolcezza. Le labbra toccarono la pelle. ione. Mi soffermai sulle sue labbra morbide e calde. Avevano un sapore dolce.
- Kheltron... se mi attacchi vedo le luci colorate.
Lui ridacchiò. – Non voglio influenzarti. La Yikira non funziona bene con il Simbolo che ho. Si crea una lotta tra i due. Posso togliere il bracciale. Avremo più controllo.
Per sicurezza, slacciai anche la mia catenina e la lasciai cadere a terra. Lui slacciò il bracciale e lo posò al lato opposto. Poi mi sorrise, con occhi splendidi e divertiti. Amore. Desiderio. Lo sentivo: le sue emozioni per me.
Mi baciò le labbra. Un bacio squisitamente dolce. Allacciai le braccia al collo. Lo spinsi con più forza contro di me. Desiderio. Appoggiai, titubante, la punta della mia lingua sulle sue labbra. Lo sfiorai appena. Lui mugugnò un verso roco
e piacevolissimo. Amore. Kheltron schiuse le labbra e mi baciò il labbro inferiore. Ci ò la lingua sopra. Le nostre labbra, perfettamente aderenti, si schio. Le nostre lingue si toccarono. Amore. Desiderio. Non ci fermammo. Non si fermò. Mi baciò. Era caldo. Ero Arrendevole. Era diverso. Era amore. Si staccò sorridendo. Non disse nulla. Non c'era nulla da dire.
Incurvai la schiena. Aprii le gambe, mi allacciai al suo corpo. Ruzzolai dalla poltrona. Kheltron mi tenne salda. Finimmo sul pavimento. Io sopra di lui. Mi prese il viso tra le mani e mi baciò di nuovo. ione. Insinuò la lingua tra le mie labbra. Persi un gemito. Il suo desiderio pulsò nella mia testa, poi nel mio corpo, senza attaccarmi. Kheltron era ardente come me. Le sue mani si posarono sulla schiena e poi scesero. Scesero. Mi toccarono. Mi accarezzarono. Ansimai. Il suo corpo era solido.
Kheltron mi bloccò. Era spaventato. Attratto.
Lo guardai un po' stranita, un po' rintronata.
- Aileen, – disse lui respirando affannosamente, – se la tua pelle nuda viene a contatto con il mio Simbolo siamo spacciati. Stai attenta a dove metti le mani.
Guardai le mie dita ferme sul suo petto. Non so come erano finite lì, un attimo prima avrei giurato di averle attorno al suo collo. La sua pallida voglia era a un centimetro dalla mia mano.
- Mi attacchi? – chiesi, cercando di riemergere nel mondo reale.
- No. Nessun attacco. Tu influenzi me. E il tuo desiderio è così forte che perderei il controllo, – disse, agitato.
- Oh, – feci io. Cercai di riprendere lucidità. Scivolai supina di lato, sul pavimento laccato. Le nuvole erano molti metri sotto di noi. Guardai fuori, il cielo limpido e sereno.
Nel mondo bastava poco per essere influenzati, ed esistavano tanti modi per venire sopraffatti.
### FINE LIBRO PRIMO
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La storia Questo libro è frutto di fantasia, e nasce molto tempo fa. Avevo diciannove anni, quando pensai a cosa sarebbe successo se avessi potuto sentire i sentimenti degli altri. Stavo camminando per strada, diretta verso il supermercato. Era primavera. Finalmente avevo potuto indossare abiti più leggeri, e il sole aveva fatto capolino dopo mesi di assenza. Fu quel giorno che andai a scontrarmi contro un ragazzo. Lasciatemolo dire, un bel ragazzo. Non so come successe, ma so che mi fissò con espressione truce. Forse si era arrabbiato perché gli ero finita addosso. Forse, era solo una mia impressione. Non lo saprò mai. Quello che so, è che avrei voluto sentire la sua emozione, per capire.
Dopo quell’episodio, rimasi incollata ai miei pensieri, al mio desiderio, che nella vita reale era irrealizzabile.
Il mio romanzo nasce da questo, ma si è sviluppato dieci anni dopo. E si è formato, pensando a tutto quello che avrebbe comportato se qualcuno avesse potuto sentire davvero.
Pensateci. Nella vita reale non esiste nessuno che sa farlo. Ma se voi foste in grado di farlo? Se solo voi poteste farlo?
Iniziai a pormi molte domande.
Perché avrebbe dovuto sentire? Era strano? Era pazzo? Aveva un potere? Era stato morso da un ragno?
No.
Nessuna di quelle idee mi piaceva. Sentire i sentimenti non doveva essere attribuito a un supererore. Doveva essere un umano qualunque, con un dono speciale.
E se foste proprio voi?
Così è nata l’idea di un nuovo popolo, un Mondo lontano dalla Terra. Scorritempo. Cupole. Qualcuno che non solo sentiva le emozioni, ma anche la
vita. Qualcuno che abbracciava ogni essere vivente.
Non sarebbe bellissimo poter stringere la vita? Vivere capendosi?
La risposta che mi diedi fu: dipende.
Bello. Bellissimo. Forse.
Se quel qualcuno sentisse sempre le emozioni degli altri, riuscirebbe a vivere bene? A non esserne influenzato?
No. Verrebbe influenzato, e finirebbe in situazioni pericolose, finirebbe per impazzire.
Per questo è nata la Pietra. Energia. Energia pulita. Il cerchio si chiude, in modo naturale.
Sentire sì. Sarebbe bellissimo, ma solo se non influenzati.
Questo libro ha una piccola parte autobiografica, riletta in maniera più torba e violenta. L’episodio iniziale, che presenta la protagonista come un involucro, risale a un periodo della mia vita. Dilaniata da quello che mi era successo, ho fatto ogni o descritto nel libro. Una violenza molto vicina, quasi vissuta. E mai denunciata. Perché è difficile parlarne. È davvero difficile. Lo è ancora di più, quando ti confessi con un tuo amico, o il tuo fidanzato, e non si viene
creduti. Si viene derisi.
Questa parte l’ho inserita per raccontare, per liberarmi una volta per tutta del peso che portavo avanti.
Descriverlo, e riviverlo, anche se non nello stesso modo e non nello stesso luogo, mi ha aiutato moltissimo. Parlarne con i lettori mi fa sentire più forte. Forse qualcuno finirà per credermi. E se quel qualcuno è una donna, e ha vissuto quello che è toccato alla protagonista, con chiave di lettura diversa, perché è spinta dalle emozioni di Colin, posso dire che capisco. L’abbraccio. La stringo, forte. Le infonderei tutto l’amore possibile. Non le direi nulla. Perché di parole incoraggianti, fatte per aiutare, non esistono.
Non è un libro di denuncia. Non è fatto per accusare nessuno. Ma nemmeno fatto per raccontare un dolore inventato. Il mio dolore era tutto vero. Gli uomini non odiano, invidiano. E farebbero di tutto per avere una donna.
C’è un piccolo eroe che più di tutti vorrei ringraziare, per avermi ridato la forza di andare avanti. La forza di vivere, e sorridere. È quel piccolo animale chiamato Pallocchio. Un grazioso porcellino d’india che ho trovato in ENPA (ente protezione animali), presso cui facevo volontariato.
Abbandonato quando era solo un cucciolo, i volontari dell’ente, grazie al loro straordinario lavoro, lo hanno salvato.
Il romanzo è dedicato a lui, e al suo musetto buffo. Ogni giorno penso che è stato lui a salvare me, e non il contrario. È straordinario rendersi conto che si può tornare ad amare, dopo aver ato un terribile momento. Eppure si può.
Grazie Pallocchio. Grazie ENPA.