Julia B. Williams Frammento di Noi Lettere Animate Editore collana Carnet Érotique isbn: 978-88-6882-350-4
Copyright Lettere Animate 2015 www.lettereanimate.com
I
Lei, Greta; Un lavoro
Mi guardai intorno, l’ambiente in cui mi trovavo era così formale da farmi sentire a disagio. Mi strinsi un po’ di più nel mio giacchetto di jeans che poco si confaceva all’aspetto che avrei dovuto avere nel caso mi avessero assunta. La donna che mi stava di fronte faceva scorrere il dito lentamente sul mio curriculum vitae. Sembrava molto interessata a cosa non avrei saputo dirle; comunque, non si mosse fino a che non lo ebbe esaminato per intero. Le unghie della mano che mi avevano ipnotizzato sin dal primo momento erano lunghe il doppio delle mie, dipinte di uno scuro color mattone. Ticchettarono sul foglio un po’ stropicciato. Mi morsi l’interno della guancia pensando che se il colloquio non fosse andato bene, la prossima volta avrei dovuto riporre le mie credenziali in una cartellina, evitando poi che avessero quell’aspetto misero e disordinato. Le dita perfettamente curate accarezzarono i capelli biondo platino appena stirati dalle abili mani di un parrucchiere. Si vedeva lontano un miglio che la piega era artificiale. Pensai ai miei: una disordinata cascata di onde movimentate che mi arrivava a metà della schiena. Se ci avessi infilato una mano, non ero sicura che l’avrei ritrovata. Quel pensiero mi fece sorridere. Gli scuri occhi della mia esaminatrice si fecero interrogativi, la mascella si contrasse leggermente, le labbra rosse si strinsero. Avrei voluto rassicurarla sul fatto che non stessi sorridendo di lei o per lei, ma anche soltanto accennare alla cosa avrebbe potuto indispettirla, perciò restai in silenzio e continuai a fissarla negli occhi aspettando che dicesse qualcosa. Fece scorrere nuovamente lo sguardo su un particolare che, nella mia presentazione, l’aveva evidentemente interessata. L’attesa mi stava uccidendo. Non aveva detto una parola da quando avevo varcato la porta del suo ufficio, all’infuori di un freddo buongiorno che mi aveva immediatamente raggelata. Mi aveva fatto cenno di presentarle il curriculum e, senza indugi, si era messa a leggerlo sprofondando in un totale mutismo.
Erano circa quindici minuti che me ne stavo seduta, di fronte a lei, su una sedia tutt’altro che comoda. Mi chiesi mentalmente se avesse qualche disturbo agli occhi dato che, per leggere una cinquantina di righe, aveva impiegato più tempo di quanto io ne mettessi per leggere venti pagine. «E così sei per metà irlandese?» Mi scrutò ancora più a fondo di quanto non avesse fatto una volta che avevo oltreato la soglia. L’impressione era quella di stare nuda di fronte ad un gruppo di quindicenni allupati: in brevissimo tempo aveva fatto uno scrutinio molto accurato di tutte le mie caratteristiche fisiche, difetti e non. Annuii. Lo aveva letto no? Perché me lo chiedeva? «Sai parlare l’inglese come se fossi di madre lingua, mastichi qualche frase di se, capisci e parli correttamente lo spagnolo…» Fece una pausa, continuando a guardarmi in quel modo. Stava ripetendo ciò che avevo scritto su quel maledetto pezzo di carta. Che cosa pensava? Che non sapessi cosa dicesse? La mia testa fece di nuovo segno affermativo. Mi stavo innervosendo. Questo non era un bene, dato che avevo il potere di diventare molto indisponente in situazioni del genere. «Conosco l’istituto dove ti sei diplomata, so che gli allievi di quella scuola escono con una preparazione eccellente. Voti ottimi, diversi viaggi studio, rilascio della patente informatica europea.» Sorrise ma non con gli occhi. Soltanto le labbra si sollevarono per addolcire quel volto eccessivamente spigoloso. Il tentativo di risultare amichevole, se era quello il suo scopo, non era riuscito affatto; i suoi occhi mi avrebbero traata se avessero potuto. Mi chiesi cosa c’era che non andava in quello che avevo scritto. Se non le andavo bene bastava che dicesse : “Grazie mille signorina Mantovani, le faremo sapere.” Ovviamente, sarebbe stato troppo semplice chiedere di incontrare persone normali sul mio cammino. Non me ne andava bene una ultimamente, e non riuscivo a capire perché. «Con tutte queste credenziali mi chiedo per quale motivo voglia lavorare in questo negozio.» Feci un sospiro di sollievo. Ecco qual era il problema. Credeva che la gran parte
di ciò che avessi affermato fosse falsa. Era per questo motivo che si comportava in maniera così cauta. Come un investigatore privato che vuole far confessare il colpevole prima ancora di aver deciso se lo fosse o no. Fui pronta a darle una breve dimostrazione delle mie conoscenze. Rimase ad ascoltarmi affascinata, quasi non credesse alle proprie orecchie. Stavolta sorrise con tutta la faccia. Nel mio breve monologo le avevo spiegato che per me un impiego all’interno di un negozio con l’insegna Louis Vuitton non era affatto da sottovalutare; la moda mi piaceva, nonostante quel giorno non ne fornissi una grande prova. Il suo braccio si mosse sicura verso di me, sopra quella scrivania laccata che la nascondeva per metà. La stretta era decisa. Entrambe le nostre mani erano piccole perciò fu un saluto abbastanza equilibrato. «Lei è assunta. Può cominciare subito per quanto mi riguarda. Abbiamo davvero bisogno di gente come lei, le sue conoscenze linguistiche sono fondamentali in questo campo. Spero che ci sappia fare nello stesso modo con le persone.» Sorrise di nuovo, stavolta in maniera meno minacciosa e distante. «Sarà lei a deciderlo. Io posso essere solo me stessa.» Mi pentii quasi immediatamente di ciò che avevo detto. La diplomazia mi era del tutto sconosciuta. Il mio tempismo nello scegliere sempre le parole sbagliate al momento giusto era davvero imbarazzante. Comunque fece finta di non aver sentito e cominciò a spiegarmi l’iter burocratico che avrei dovuto seguire per la procedura di assunzione. Era sorprendente che ci fosse ancora qualcuno che ti assumesse subito con un contratto in piena regola. Mi veniva quasi da piangere. Forse un giorno anche io avrei avuto una pensione. Ci salutammo in un clima rilassato e cordiale; non sapevo se l’avrei rivista e poco me ne importava. Quando il sole mi baciò al di sopra degli imponenti palazzi in Via Condotti, seppi che era ora di pranzo. Il mio stomaco non tardò ad avvertirmi del fatto che se non avessi immediatamente ingerito qualcosa, avrebbe rumoreggiato in maniera assordante, spaventando i anti. Via del Corso era un via vai di gente. Ragazzi appena usciti da scuola che gironzolavano poco desiderosi di tornare a casa e mettere la faccia sui libri; turisti in cerca dell’affare romano che la maggior parte delle volte era una fregatura; impiegati che, in quell’unica mezz’ora a loro disposizione, si facevano una eggiata al centro fumando una sigaretta dopo l’altra. L’odore della città mi avvolse come un manto. Ero talmente abituata a quell’aria satura di profumi che a volte mi dimenticavo di
quanto fosse piacevole individuarne uno e scoprire a cosa o a chi appartenesse. Mi fermai di fronte al Mc Donald’s, affollato da un andirivieni di gente di ogni età. I bambini stringevano le madri per la mano e le trascinavano dentro fin troppo entusiasti di andare a ingozzarsi con quel cibo non del tutto salutare. Sorrisi. Avevo deciso di mangiare un pezzo di pizza, ma, una volta di fronte all’entrata del fast food americano, l’odore mi avvolse e lo stomaco brontolò come risposta al mio bisogno di nutrirmi. Avrei assunto parecchie calorie nel giro di cinque minuti. Mi massaggiai il ventre piatto. Potevo permettermelo: a venticinque anni il mio metabolismo era quello di un ragazzino di tredici. Bruciavo tutto ciò che mettevo sotto i denti senza dovermi sforzare. Una volta sazia e piacevolmente soddisfatta, mi stiracchiai sulla sedia. Il chiacchiericcio della sala al piano superiore mi cullava, permettendomi di distogliere i pensieri da ciò che mi preoccupava. Ogni tanto riuscivo a carpire qualche frammento di conversazione. Vicino a me, una signora stava ricordandosi di dover andare dal parrucchiere alle cinque, era indecisa sul taglio che si sarebbe fatta, aveva bisogno di cambiare, era stufa di trovarsi sempre uguale allo specchio. Un ragazzino, che mi sembrò avere all’incirca cinque anni, gironzolava indisturbato tra i tavoli; un paio di volte aveva urtato la mia sedia ed ero quasi stata tentata di tirargli uno scappellotto dietro la nuca. Il buon senso mi aveva impedito di compiere il gesto. La madre si sarebbe sicuramente rigirata come una furia e il bambino sarebbe scoppiato in un pianto disperato. Meglio evitare. Non ero proprio dell’umore giusto per ingaggiare una discussione con una madre incazzata. Finalmente avevo un lavoro! Dopo quattro mesi di inattività potevo dire di essere nuovamente indipendente. Mia madre, la mia emotiva e petulante madre, ne sarebbe stata contenta; mio padre ne avrebbe gioito continuando però ad insistere sul fatto che avrei potuto ancora intraprendere l’università. Per i miei genitori non sarebbe stato un problema mantenermi agli studi. Poi il pensiero virò su Claudio, il mio fidanzato. Stavamo insieme da tre di anni. Eravamo felici. Aveva stabilizzato il mio umore, che fino a poco prima era stato piuttosto volubile, in tutti i sensi. Con lui mi sentivo al sicuro, protetta, era capace di ascoltarmi per ore senza perdersi mai una parola, dava sempre ottimi consigli e mi amava. Mi amava più di quanto non mi avesse mai amato nessuno. Ogni cosa che faceva, la faceva per me. Non era un suo modo di dire o una mia finta convinzione. Da quando ci eravamo conosciuti era come se lo avessi stregato. Le sue attenzioni, a volte eccessive, mi mettevano spesso in imbarazzo, ma, ciò di cui
ero certa, era che non avrei mai trovato nessuno che fosse capace di desiderarmi e considerarmi così come faceva lui. Questo era stato uno dei principali motivi per i quali mi ero affrettata a cercare un lavoro più o meno stabile e abbastanza remunerativo. Volevamo sposarci. Me lo aveva chiesto l’anno prima; aveva detto che avrebbe pensato a tutto e non avrebbe permesso che mi mancasse nulla. Non dovevo preoccuparmi di lavorare, bastava che lo avessi sposato. Avevo sorriso, come sempre di fronte alle sue folli idee. Gli avevo detto di sì a una condizione: non ci saremmo uniti in matrimonio se non dopo che mi fossi resa economicamente indipendente. Sembrava che lo fossi adesso. Frugai nella mia borsa troppo grande. Le cose, all’interno, non si trovavano mai facilmente, dovetti impiegare un po’ per riconoscere la custodia piatta che proteggeva il mio telefono di ultima generazione. Un regalo di Claudio, ovviamente. Digitai il numero di chiamata rapida. La foto di noi due con dietro il meraviglioso sfondo del mare della Grecia, apparve in primo piano. Eravamo una bella coppia, dovevo ammetterlo. Squillò due volte, prima che rispondesse. La voce calda e profondamente mascolina mi fece sospirare. «Ciao amore. Allora, come è andata?» In sottofondo udivo il rumore delle dita che premevano sulla tastiera del computer. Sicuramente era impegnato nel preparare qualche documento. «Non volevo disturbarti. Scusami.» Sapevo che il padre di Claudio era molto severo sul lavoro. Aveva uno famoso studio notarile al quale si rivolgevano parecchie persone illustri. Ovviamente, uno dei figli doveva ereditare l’attività di famiglia, e, dato che il mio fidanzato si era rivelato il più portato per quel genere di impegno, il testimone sarebbe ato a lui. Il benessere economico della sua famiglia mi aveva sempre fatta sentire diversa, ma non era il momento di soffermarmi su pensieri poco piacevoli. «Non mi hai disturbato, Tu non disturbi mai.» Potevo vederlo, gli occhi brillanti e gentili, le labbra che si sollevavano. «Allora, mi vuoi dire com’è andato il colloquio? È durato parecchio.»
«No, dopo mi sono fermata a mangiare un panino e non mi andava di disturbarti prima della pausa pranzo. Pensavo che fossi già sceso a prenderti qualcosa.» «Non ancora, ho delle pratiche da sbrigare e, come ben sai, mio padre è un negriero.» Udii l’uomo che da lontano si lamentava per il commento poco carino. Era un individuo estremamente autoritario, in sua presenza non mi ero mai sentita molto a mio agio. «Povero piccolo. Con la pancia vuota e la mente affaticata. Stasera ti coccolo un po’. Non vorrei che si dicesse che la tua fidanzata non ti riserva le giuste attenzioni.» Mi stiracchiai sulla sedia allungando le gambe. Ero capace di mettermi comoda in qualsiasi posto. Non mi ero mai creata problemi a causa della gente che mi circondava. Mi sgranchii la schiena contorcendomi. Un paio di persone mi guardarono con disapprovazione, i loro sguardi sembrava che dicessero: “Ma a questa l’educazione chi gliel’ha insegnata? Dovrebbe comportarsi in maniera più composta in un luogo pubblico.” Sorrisi verso di loro, costringendo i miei osservatori a distogliere l’attenzione. «Okay, ma dopo cena. Ti ricordi che stasera mangiamo dai miei?» Una pausa, prima di rispondere. Avrei voluto portarlo fuori in qualche ristorante di lusso che apprezzava tanto. Ovvio, i soldi avrebbero dovuto anticiparmeli i miei, però glieli avrei restituiti. La mia idea di festeggiamento non prevedeva certo la famiglia Leoni al completo. «Ah…già…me l’ero scordato.» O l’avevo rimosso pensai. «Dai Greta, non fare così, i miei non sono così male e poi vai d’accordo con Giulio no?» Perché se ne usciva sempre con questi commenti quando il padre era nei paraggi? Già non mi trovavano così simpatica, se poi venivano a sapere che il sentimento era reciproco, di certo i nostri rapporti non sarebbero migliorati tanto facilmente. «Smettila Claudio. Se tuo padre sente, la mia serata sarà tutt’altro che sopportabile.»
Rise all’altro capo del telefono. «Non sono così stupido, Gretel. Mio padre è stato chiamato da Cristina. Sono arrivati dei clienti.» Quando usava il mio nome completo lo faceva per innervosirmi. Sapeva che non lo sopportavo. «Comunque non mi va giù che parli in questo modo quando è nei paraggi. Non credo sia saggio aggiungere altre motivazioni che gli rendano più semplice il compito di disapprovarmi.» Cominciai a giocare con il manico della borsa: era di un accecante giallo pastello, lucida, rigida, e la grandezza era quella di una ventiquattrore. Persino mia madre la trovava orribile. Quella sera l’avrei abbinata a un abito altrettanto ripugnante, tanto perché avessero qualcos’altro di cui sparlare. «Dai amore, non fare così. I miei ti trovano meravigliosa.» Quelle ultime parole sapevano tanto di bugia, persino il suo tono non era affatto convinto. «Sì, certo. Comunque il lavoro l’ho avuto.» «Brava piccola. E allora? Quando ci sposiamo?» Ed ecco che tutti i pensieri poco piacevoli scomparivano. Era quello il maggior pregio di Claudio. Aveva il potere di farmi felice con pochissime parole, in un attimo. Chissà se sarebbe stato tutto così facile anche in futuro? «Non lo so. Adesso siamo ad Aprile. Che ne dici di settembre dell’anno prossimo?» «Perché non settembre di quest’anno?» Già immaginavo la madre di Claudio che impallidiva di fronte all’annuncio di un prossimo matrimonio, figuriamoci se la notizia fosse stata di un matrimonio imminente! Sarebbe svenuta all’istante. Ridacchiai, pensando che forse non era un’idea così malvagia.
«Dai Claudio. A tua madre verrebbe un colpo. Lasciamo che si abitui all’idea in maniera graduale.» Non si meritava quella forma di cortesia da parte mia, ma preferivo cominciare con il piede giusto. «Vedrai che quando ti conosceranno meglio non potranno che innamorarsi di te, proprio come ho fatto io.» Mi sembrava una cosa piuttosto improbabile, ma, come si dice? La speranza è l’ultima a morire. «A proposito. Prima che mi dimentichi. Stasera ci saranno anche altri due invitati. Si tratta di un mio caro amico d’infanzia. Le nostre famiglie si conoscono dai tempi delle superiori.» Il mio stomaco ebbe una contrazione. Gli amici di Claudio, che erano anche conoscenze dei genitori, non mi erano mai stati davvero simpatici. Sospirai sconfitta. Forse se avessi declinato l’invito all’ultimo minuto, avrebbe potuto giustificarmi dicendo che mi erano venute le mestruazioni e che non mi sentivo bene. «Claudio, non so se è il caso. Lo sai come fanno i tuoi quando ci sono ospiti.» Ricordavo l’ultima terribile volta che mi ero trovata a tavola con loro e quattro compagni del Country club. Ero stata oggetto della conversazione per l’intera serata, erano state sottolineate le mie carenze dal punto di vista scolastico, sportivo, lavorativo, familiare. C’era stato un momento in cui mi sarei alzata per uscire e non tornare più, ma la mano di Claudio era stretta alla mia e mi aveva supplicato con lo sguardo di sopportare. Avevo mandato giù parecchi bocconi amari, ma poi, una volta usciti da quella casa, mi aveva stretta forte e mi aveva sussurrato: “Grazie.” Avrei ascoltato mille altre volte commenti poco gentili sul mio conto per quell’unica, importante parola. «Non preoccuparti. Gliel’ho detto che non gradisco che parlino di te in presenza di estranei e hanno capito. Stai tranquilla.» «Lo sai come si dice di chi era tranquillo?» Rise, conoscendo il detto abbastanza volgare.
«Non è il tuo caso, certe cose posso farle soltanto io.» «Smettila, sono in un luogo pubblico e non ho intenzione di ascoltare le tue porcherie.» I miei occhi brillarono al pensiero di ciò che mi sarebbe piaciuto fare in quel momento. Aveva stuzzicato il mio appetito. L’unico impedimento era che si trovava a lavoro. Guardai l’ora, le due e mezzo. Se mi fossi affrettata ci avrei impiegato quindici minuti per arrivare allo studio. «Sto arrivando Claudio. Fatti trovare solo.» Chiusi il telefono senza aspettare risposta. Non volevo che mi persuadesse a non andare. Raccolsi le mie cose in fretta e furia. Il sangue stava già affluendo verso quella parte di me che riuscivo a controllare a stento. Immagini di lui che mi stuzzicava fino a farmi perdere il senno danzavano di fronte agli occhi. Porca miseria, se non mi avesse dato retta mi sarei davvero arrabbiata! Lo studio si trovava in una traversa di via Nazionale. Il palazzo era meraviglioso come tutti quelli che sorgevano nel quartiere caratteristico. Credo che risalisse al milleseicento. Non ne ero sicura, ma dalle reminescenze di storia dell’arte mi pareva fosse così. Fuori non c’era nessuno. Guardai l’ora, le tre. Speravo davvero che avesse trovato il modo di rimanere da solo. Lo chiamai al telefono. Non rispose, ma il portone d’ingresso fece clic e cominciò a spalancarsi automaticamente verso l’interno. Mentre attraversavo il piccolo giardinetto d’ingresso, riconobbi la macchina del mio fidanzato: un’Audi sportiva. Mi ero opposta fino all’ultimo momento perché non l’acquistasse! Quel’aggeggio era un succhiasangue. Bastava che spingessi un po’ di più sull’acceleratore per consumare un quarto del serbatoio. Aveva comunque deciso di acquistarla, nonostante le mie remore. Stavo per salire le scale che mi avrebbero condotto al pianerottolo dove si trovava l’appartamento, quando mi sentii afferrare per un braccio e spingere verso una rientranza del muro esterno. Il palmo mi coprì la bocca prima che urlassi dallo spavento. Occhi scuri e rassicuranti, le iridi assomigliavano a pozze di tenebra nelle quali perdersi; le lunghe ciglia, folte e nere come i capelli. Non avevo mai amato le tonalità del marrone preferendo i colori tenui dei ragazzi nordici, ma lui aveva ribaltato quello che era stato il mio mondo fino ad allora. Ansimai quando la mano scivolò via dalle labbra per essere sostituita dalla bocca. Il sapore di menta mi riempì mentre la sua lingua esplorava la mia. Avvertii le pulsazioni aumentare nel basso ventre. Gli afferrai i capelli con
entrambe le mani, erano morbidi e più lunghi sulle orecchie. Li tirai mentre mi strusciavo sul sesso che premeva ingombrante attraverso i pantaloni del completo. Sollevò la maglietta di cotone fin sopra il reggiseno. Non avendo previsto quel fugace incontro non avevo indossato biancheria sexy ma, sapevo, non gli sarebbe importato e sinceramente nemmeno a me. Se avessi potuto scegliere come vivere il resto della vita sarebbe stato nuda come mamma mi aveva fatta. Abbassò una coppa del reggiseno e cominciò a stuzzicare i capezzoli; li avevo sempre avuti fin troppo sensibili. Mugolai. La lingua continuava a intrecciarsi con la mia rendendo quella piccola tortura così piacevole da farmi bagnare in mezzo alle gambe. La mano libera scivolò sui jeans, non ci mise molto a sbottonarli. Le dita trovarono immediatamente la parte più calda di me; le sentii penetrarmi con una sicurezza tale da eccitarmi ancora di più. Un angolo della mente diceva che avremmo dovuto fermarci prima che qualcuno ci scoprisse, l’altro le intimava di tacere. Non c’è esperienza più stuzzicante del rischio! Claudio cominciò a stimolarmi il clitoride. Sapeva come farmi venire con pochissimo sforzo, ma non era quello che desideravo. Gli afferrai la mano prima che mi portasse sul punto di non ritorno. Morse il labbro inferiore intimandomi di lasciarlo, la mano a coppa sul seno a stringere tanto da provocare una fitta; un misto tra piacere e dolore. Avevo un braccio libero e lo usai per arrivare al membro ed afferrarlo con forza. Sussultò attraverso la stoffa dei pantaloni. «Non possiamo, Greta, fammi fare, ti piacerà vedrai.» Il suo tono era strozzato, ione a stento contenuta. Cominciai a slacciargli la cintura rigida, il bottone uscì facilmente dall’asola e la lampo non mi creò problemi. Era caldo, sotto le mutande. Lo volevo, non me ne sarei andata senza aver ottenuto ciò per cui ero arrivata. Quando cominciai a tirarglielo fuori lo vidi irrigidirsi; una mano aveva smesso di accarezzarmi il seno nel frattempo che l’altra spingeva con vigore sulla mia parte più intima. «Greta…» Un diniego piuttosto debole, considerai. Con le dita ghermii la lunga asta fino a quel momento nascosta sotto gli slip. Non riuscivo ad avvolgerlo tutto, ma dentro di me si incastrava alla perfezione. Mi voltai, dandogli la schiena e sollevandomi sulle punte a facilitargli la penetrazione. Il cuore batteva violentemente quando abbassò i jeans scoprendomi i glutei. Avevo un perizoma
striminzito che non ebbe quasi bisogno di scansare prima di entrare dentro di me. Ero così bagnata che non ebbe difficoltà, scivolò accarezzando le pareti umide toccando ogni singolo centro nervoso. Gemetti al primo affondo, continuando a mugolare con lui che si muoveva piano a ritmo regolare. Mi afferrò la lunga chioma scomposta tirandomi indietro, l’altra mano si allungò davanti tornando ad interessarsi del clitoride. La penetrazione unita alla lenta carezza delle dita mi permise di raggiungere un orgasmo lungo e potente. Il mio corpo fu scosso dai tremiti, il piacevole formicolio partiva dalla punta dei piedi per attraversare le gambe e raggiungere il centro dell’essere donna. Mi persi in quella meravigliosa sensazione, godendo di un piacere assoluto. Quando mi lasciò i capelli appoggiai la testa al muro, inarcandomi ad incontrarlo. La punta del pene sbatteva contro la parete dell’utero. Ci sono donne che soffrono quando queste due parti vengono a contatto. L’unica cosa che suscitava in me era piacere, piacere, piacere. Gli affondi divennero svelti. Sapevo che si stava avvicinando all’orgasmo. Negli anni avevo imparato a riconoscerne il ritmo. Mi strinse i seni con forza aggrappandosi con tutto se stesso. Uscì un attimo prima che il getto di liquido seminale mi schizzasse nel ventre, ebbi l’impressione che si rilassasse completamente; un debole gemito gli uscì dalle labbra. Non so da quale parte del completo tirò fuori un pacchetto di fazzoletti umidificati. Si dedicò prima a me che a lui, attento mi sollevò i jeans risistemandomi la maglietta. Una volta coperti e nuovamente presentabili potemmo guardarci negli occhi. I suoi erano languidi, le pupille dilatate dal piacere appena provato. Gli accarezzai la guancia, sulla mascella un velo di barba a conferirgli un’aria virile. «Ti amo.» Ero sincera, con lui non riuscivo a mentire. Mi sfiorò le labbra con delicatezza, il pollice premuto su quello inferiore un po’ indolenzito e dolorante; non c’era bisogno che chiedesse scusa, l’espressione che aveva parlava al suo posto. Claudio a volte perdeva il controllo. Non era violento, ma per lui il sesso, in determinate occasioni, era soltanto questo. Non c’era amore nell’incontro dei nostri corpi, solo un’urgenza da soddisfare. Gli accarezzai la guancia; chiuse gli occhi mentre tracciavo un vago segno del suo profilo. «Lo sai che mi piace quando sei un po’ rude.»
Lo vidi corrugare le sopracciglia e sollevare le palpebre. i affrettati si intromisero nel nostro angolo di Paradiso. Mi spinse di nuovo all’interno del cantone nascosto. Il corpo che mi nascondeva totalmente. Era alto all’incirca un metro e novanta; le spalle larghe mi costringevano a sollevarmi sulle punte per poter sbirciare oltre. Lo abbracciai, posandogli la fronte sulla spalla. Quando indossavo i tacchi la differenza di altezza diventava meno importante. In quel momento mi sentivo piccola e alla sua mercé. L’intruso si allontanò senza accorgersi di noi. Claudio si rilassò, non appena il rumore dei i si dissolse in lontananza. Le dita si persero tra le lunghe onde dei miei capelli. Credo fosse l’unica persona a non rimanervi impigliato. Mi ero sempre chiesta come ci riuscisse, ma non glielo avevo mai domandato. Mi baciò sulla fronte. «Devo andare Greta, il lavoro mi chiama.» Percepii il suo sospiro attraverso l’abito di alta sartoria. Annusai il profumo del dopobarba che gli era rimasto appiccicato addosso. «Vorrei che non dovessi andare.» Mi strinse forte, il cuore batteva regolare contro di me. «Tanto ci vediamo tra poco. Solo qualche ora.» Sollevò il polso per guardare l’orologio. «Per l’esattezza tre ore e trenta minuti. I miei faranno un aperitivo di benvenuto prima della cena, alle sette dobbiamo essere tutti presenti all’appello.» Il suo umorismo non mi fece sorridere per niente. Lo baciai sulle labbra e lo salutai continuando a farlo fino a che scomparve oltre la curva delle scale.
II
Lui, Adriano; Ricordi da ragazzo
ato il check-in aspettai che Nicole, la mia futura sposa, compisse la stessa procedura. L’aeroporto di Melbourne era gremito. Mi capitava di rado di viaggiare dato che il lavoro che facevo si svolgeva nello stesso posto da anni; amavo la stabilità e, dall’età diciotto anni, vivevo in Australia. Non sapevo se fossi davvero pronto a lasciarla; quel posto era ciò che consideravo casa. La maggior parte dei miei ricordi da adulto erano legati al grosso continente oceanico, ma mi si era presentata un’opportunità professionale che soltanto uno sciocco avrebbe avuto il coraggio di rifiutare, e di me si potevano dire tante cose, ma non che fossi uno stupido. La vidi armeggiare con il pesante bagaglio che riusciva a sollevare a stento. Le avevo detto di alleggerire il carico, il resto ce lo saremmo fatto spedire, ma, come sempre, non mi aveva dato retta. Avrei potuto aiutarla, chiunque lo avrebbe fatto, anche soltanto per cortesia, ma la decisione era stata sua e doveva farsi carico delle conseguenze. Mi raggiunse quando stavano chiamando l’imbarco per il volo che ci avrebbe portati a Dubai, l’unico scalo prima di atterrare a Roma. Erano circa sei mesi che non vedevo i miei genitori; mia madre era scoppiata in lacrime quando aveva saputo del mio ritorno in patria. Il computer aveva trasmesso il suo splendido viso invecchiato mentre si scioglieva in singhiozzi, tra le braccia di mio padre. Ero figlio unico; i miei genitori avevano riversato tutto l’amore che erano capaci di dare su di me, trasformandomi nel centro del loro mondo. Insieme erano felici, ma c’era la possibilità di raggiungermi senza dover fare mezzo giro del mondo, lo sarebbero stati ancora di più. Un’altra ondata di emozioni era sopraggiunta quando avevano scoperto che tornavo in Italia non solo per restarci, ma anche per prendere in moglie la mia fidanzata australiana.
Nicole sarebbe venuta a vivere con me, lasciando il suo lavoro e cominciando una vita nuova in un paese che non conosceva. La guardai attentamente affiancarsi, i capelli corti le scoprivano il viso fanciullesco. L’avevo sempre paragonata a quelle ragazzine adolescenti che apparivano nelle pubblicità. Minuta, magra, e perennemente sorridente. Non era la bellezza che tutti si sarebbero aspettati ma io ne ero innamorato. Ne apprezzavo sopra ogni cosa la semplicità e il fatto che vivesse la vita giorno dopo giorno, come se non ci fosse un domani. Le cinsi le spalle, avvicinandola. Sfiorai con le labbra la sommità della testolina bionda: profumava di shampoo alla vaniglia, il suo preferito. Speravo che a Roma vendessero quel prodotto. Mi sarebbe dispiaciuto separarmi da quella fragranza ormai familiare. «Sei felice Niky?» La strinsi ancora un po’ prima di lasciarla andare. «Sono felice dove sei tu. Ovunque sia.» I suoi occhi verde mare mi fissarono dal basso. Baciai la punta di quel nasino all’insù, sempre più consapevole del fatto che saremmo stati insieme per sempre. Raggiungemmo la prima classe. Le nostre poltrone erano a ridosso della cabina di pilotaggio. Il capitano mi salutò con una stretta di mano, riconoscendomi. Ogni volta che mi spostavo da un continente all’altro, spesso mi muovevo con quella linea aerea. Viaggiando, per mia fortuna, sempre nel medesimo settore, avevo avuto modo di scambiare qualche parola con lui. Apprezzavamo la compagnia l’uno dell’altro, e ogni volta che il volo glielo consentiva, si sedeva accanto a me per intrattenere una breve conversazione, che spesso e volentieri aveva come argomento principale gli investimenti in borsa, materia di cui mi intendevo. «Buongiorno, Mr Altieri, è un piacere averla di nuovo con noi.» Risposi al saluto con un sorriso, presentandogli poi Nicole come la mia futura sposa. Arrossì sulle morbide guance vellutate ricambiando la stretta del capitano con altrettanta convinzione. «Il volo sarà tranquillo. È previsto un tempo ottimo per spostarsi.» «Meno male, Nicole odia le turbolenze.»
Ridemmo entrambi vedendola annuire. Chiacchierammo sino a che non fummo interrotti da una hostess, piuttosto appariscente, che avvertì il comandante che tutti i eggeri erano saliti a bordo. Nicole mi aspettava già comodamente seduta in poltrona. Stava sorseggiando un bicchiere di prosecco e aveva inserito, nel video di fronte a sé, il titolo del film con il quale avrebbe cominciato il viaggio. «Cosa vedi?» Si voltò verso di me tenendo in bocca un po’ del liquido alcolico. Non attesi che lo ingoiasse. Le mie labbra si posarono sulle sue, la lingua ne disegnò il contorno non troppo grande. Le dischiuse permettendomi di assaporare il vino dalla sua bocca. Aveva gli occhi grandi e spalancati, il respiro leggermente accelerato. Ingoiò il resto. «Non potevi prendertene un bicchiere tuo?» Incrociò le braccia sotto il seno piccolo e tirò fuori le labbra in un piccolo broncio. Era adorabile. «Forse più tardi, ma non credo sarà buono come questo.» Mentre l’aereo decollava la mano corse sulla mia. Le nocche bianche e la mascella serrata erano segni visibili del suo disagio. «Non devi avere paura Niky, questi voli sono molto più sicuri della macchina che guidavi. È solo una convinzione sbagliata pensare che i viaggi sospesi comportino più pericoli di quanti non se ne corrano quotidianamente.» Non mi guardò nemmeno continuando a fissare di fronte a sé e stringendomi energica fino a che l’aereo non si mise in posizione orizzontale. Abbassai lo schienale distendendo le gambe lunghe. I pensieri corsero al’ultima telefonata avuta con mio padre solo due giorni prima. Mi aveva aggiornato sull’ultima novità che, a dirla tutta, mi aveva lasciato sorpreso. Il mio amico d’infanzia, Claudio, che per me era più un fratello che altro, stava ormai da parecchio tempo con una ragazza che conoscevo da quando ero piccolo. Greta era la figlia di un dipendente di mio padre, uno dei migliori impiegati che avesse mai avuto , a detta del mio vecchio. Il ricordo di lei mi fece sorridere. Una
ragazzina alta, una gazzella, tutta pelle e ossa, con una montagna di capelli rosso scuro. La notizia gli era stata riportata dai genitori di lui, tutt’altro che entusiasti della scelta del figlio. Non mi era mai piaciuto il modo di fare di quella famiglia, ma Claudio non c’entrava nulla, come confermava la scelta della compagna. Una risatina mi scosse il petto al ricordo di quanto fosse pestifera quella ragazzina. Nicole si voltò verso di me non capendo cosa ci fosse di divertente. «Nulla amore, stavo pensando a quando stavo alle superiori. Lo sai che la fidanzata di Claudio ed io ci conoscevamo?» «Ah sì? Sarà carino rincontrarla allora.» Il suo commento mi fece ridere ancora di più. «Non immagini quanto. Credo che Greta mi odiasse a tal punto da volermi morto.» La risata si fece ancora più forte, scuotendomi il petto. Nicole rimase a guardarmi sorpresa. Non ero solito esprimere le emozioni in maniera così aperta. Sono sempre stato un ragazzo contenuto, ma non potevo farci niente, non riuscivo a trattenermi. «Una volta…a una festa della banca, erano stati invitati tutti i dipendenti e le loro famiglie. Non ricordo bene il motivo, ma mio padre fa spesso di queste cose, dice che agevola il rapporto tra sottoposti e datori di lavoro. Greta si era portata appresso il coniglietto che usava come animale da compagnia. Gli aveva messo un collarino nero con i teschi e si era fatta comprare uno di quei guinzagli che si usano per il bondage.» Mi contorsi sulla poltrona in uno scoppio di risa. «Non puoi immaginare come la guardava la gente, e lei se ne infischiava, gironzolava impettita nel giardino curato, con questo animaletto che le saltellava al fianco, come fosse stato un bravo cagnolino. Aveva undici anni. Credo. In quel momento pensai che fosse la persona più strana che avessi visto.» Mi strofinai gli occhi con il dorso della mano asciugando le lacrime. «Io ne avevo sedici, e in quel periodo ero un po’ stupido, come tutti i miei
coetanei, del resto! Decidemmo di divertirci a sue spese. Non era stata una scelta studiata, c’erano altri della nostra età. Il suo fare sicuro e strafottente ci spinse a fare di lei il nostro bersaglio.» Il suo viso di allora mi balenò di fronte agli occhi. «Forse era perché sembrava molto più adulta di quanto non fossimo noi, che eravamo anagraficamente più grandi.» «Non so per quale motivo si fosse allontanata dal suo animale, non ricordo se la madre le avesse intimato di staccarsi un momento o…non so. Comunque, prendemmo il coniglio. Lo aveva chiamato Axel, come il cantante dei Guns n’Roses. Era una cosina morbida e perfettamente addestrata. Mi sono sempre chiesto come riuscì ad addomesticare Axel, ma non ebbi modo di domandarglielo dopo quel giorno. Appena scoprì che era scomparso, cominciò a correre per l’intero Country Club chiamandolo a voce alta. Era disperata, e non lo dico tanto per dire, era veramente nel panico.» La immaginai mentre correva da una parte all’altra chiamandolo. La voce acuta delle ragazzine che si affacciano alla pubertà, gli occhi grandi che assomigliavano a quelli di un gatto. Le lacrime le rigavano le guance, e, nonostante i genitori le intimassero di comportarsi in maniera composta, lei continuava a muoversi strillando il nome del coniglio. Mi aveva fatto una tenerezza infinita e non me l’ero sentita di continuare a prenderla in giro. «Dopo una decina di minuti, quando la situazione era divenuta insostenibile e tutti avevano cominciato a cercare Axel, glielo restituii. Ricordo ancora lo sguardo di disapprovazione dei miei, e non solo. Lei rimase immobile di fronte a me, prima di riprendersi il coniglio. Mi guardò come se volesse imprimere nella memoria ogni singola piega del volto, per non dimenticarmi. Mi ero sentito davvero a disagio di fronte a quegli occhi da donna in un viso così infantile. Aveva allungato le braccia e mi aveva imposto di ridarglielo senza aprire bocca. Si era voltata, aveva chiamato la sorella, e glielo aveva consegnato.» Mi pareva di ricordare di aver avuto la sensazione di trovarmi al cospetto di una sacerdotessa che compiva i gesti rituali. «Stavo per andarmene, sotto le occhiate di accusa di tutti gli adulti e di buona parte dei ragazzi presenti, quando con tono stridulo mi intimò di aspettare. “Dove vai? Non ho finito con te.” Era più bassa di me di una testa. Non so come
riuscì a imprimere una tale forza nel braccio. Fatto sta che mi ritrovai disteso a terra, dopo essere stato colpito in faccia da un pugno. » A distanza di anni sentivo ancora l’intontimento che aveva seguito il colpo del tutto inaspettato. Non avevo nemmeno avuto il tempo di reagire perché la madre di Greta l’aveva allontanata immediatamente, sgridandola a gran voce. «Ricordo che non emise un fiato quando fu schiaffeggiata di fronte a tutti. Si voltò verso di me mentre veniva strattonata per un braccio. “Impara a rispettare il prossimo Adriano Altieri. In questo modo conquisterai il rispetto degli altri.”» Scossi il capo, non avevo dimenticato nulla di quella sera. «Fu l’ultima volta che la vidi. Il padre e la madre hanno continuato a intervenire alle cene della società. A volte era presente anche la sorella. Elena credo, ma di lei non ci fu nessun’altra apparizione.» «Da come ne parli sembra quasi che ti pie.» Le parole di Nicole non erano né di accusa e neppure di sospetto. Pura constatazione. Eppure, in fondo ad esse, c’era una vaga nota di fastidio. «Sì. Forse mi piaceva il fatto che una ragazzina più piccola di me di cinque anni fosse già tanto in gamba, o il fatto che mi avesse colpito come un maschio, pensando che fosse l’unica cosa giusta da fare. Questo l’ha resa degna della mia ammirazione. Non lo so. Ricordo solo che non ho mai dimenticato il suo nome, né il suo viso, o quegli occhi. Non sono mai stato guardato così Niky. Mi ha fissato dentro, come se vedesse cose che agli altri erano nascoste.» Mi ai una mano tra i capelli corti. Dovevo tagliarli. Erano diventati troppo lunghi per i miei standard, generalmente li accorciavo con la macchinetta a cinque millimetri. «Sono contento che Claudio stia con lei. Mio padre ha detto che i genitori non approvano l’unione, ma lui non vuole sentire ragioni e pare abbia già parlato di matrimonio.» «Se dici che è tanto in gamba perché i parenti di lui non la vogliono come nuora?»
Mi ero fatto la stessa domanda. Sapevo che la famiglia di Claudio era parecchio selettiva nella scelta delle amicizie, ma non li avevo mai ritenuti tanto eccessivi; in fondo, si trattava della felicità del figlio. «Non lo so. Comunque avremo modo di capirlo. Siamo stati invitati a cena a casa Leoni. Mio padre, che ammirava davvero quella ragazza, mi è parso felice di poterla rivedere.» Voltandomi verso Nicole vidi attraverso il finestrino un cielo di un azzurro limpido, lo stesso azzurro degli occhi di Greta.
III
L’Incontro
Lei, Greta:
Correvo da cinque minuti. Non mi ero resa conto che stavo per perdere il pullman che mi avrebbe riportata a casa. Non avevo previsto che mi sarei trattenuta così tanto tempo da Claudio. Ripensandoci, le guance mi si infiammarono. Sentivo ancora il suo odore. Allungai il o; almeno quel giorno mi sarei risparmiata la solita ora di tapis roulant. Sentivo il sudore bagnarmi la maglietta di cotone sotto il giubbotto di jeans che mi sventolava ai lati. Le converse gialle battevano contro il marciapiede in maniera tutt’altro che poetica. Mi pareva di essere un elefante che carica un nemico. Non erano le scarpe adatte per una corsetta fuori tempo massimo. Vidi l’autobus svoltare l’angolo. La fermata era solo dall’altra parte della strada. Guardai il semaforo pedonale, mentre il mezzo pubblico continuava a procedere inesorabilmente. “Ti prego aspetta, aspetta”, pregai intimamente. Se avessi perso l’autobus avrei dovuto prendere la metro, scendere a Eur palasport e aspettare un altro mezzo. Ci avrei impiegato più di un’ora. In questo modo non sarei riuscita a essere pronta per l’orario in cui Claudio sarebbe ato a prendermi. Il muso del pullman era così vicino che potei distinguere i tratti del guidatore. Il semaforo era ancora rosso. Guardai a destra, poi a sinistra. L’autobus si arrestò davanti alla fermata. Il sudore mi imperlò il labbro superiore. Non mi accorsi che i miei piedi si mossero da soli, un o dopo l’altro. Ero a metà strada, quando un clacson cominciò a suonare la sua sinfonia assordante. Era ovvio che fosse rivolto a me. Una sgommata, rumore di pneumatici che stridevano contro l’asfalto. Chiusi gli occhi, l’unico pensiero che mi solleticò la mente fu che quella sera, se l’auto mi avesse colpita, avrei avuto una buona scusa per non presentarmi alla cena. Il clacson continuò a emettere quel suono terrificante, mentre i miei occhi rimanevano serrati. Ero completamente tesa in attesa della botta. Uno sportello
che si aprì con forza. Sollevai le palpebre, consapevole di aver scampato il pericolo. Qualcuno mi afferrò per le spalle scuotendomi come una bambola di pezza. «Ma che cazzo ti salta in mente? Non li conosci i segnali stradali? Era rosso!» Quella voce mi trafisse come un coltello. Cercai di mettere a fuoco il mio assalitore, ma avevo il sole negli occhi e riuscivo a distinguere solo una figura in ombra. Cercai di separarmi, ma le sue mani erano chiuse a uncino sui miei avambracci. «Ti senti bene? Tutto ok?» Dopo la prima ondata di rabbia la voce cambiò. Sembrava sinceramente preoccupato. nonostante il suo tono denotasse un certo fastidio. «Sì, sto bene. Lasciami.» Attraverso le ombre del viso, lo vidi sollevare un sopracciglio sorpreso di ricevere un ordine. Un’altra macchina suonò mentre stavamo ancora in mezzo alla strada. L’auto dello sconosciuto, parcheggiata diagonalmente in mezzo alla corsia di destra, aveva creato una discreta fila. L’uomo mi trascinò sul marciapiede. Ero ancora intontita, non sapevo per quale motivo, in fondo, non era successo nulla. Mi lasciò lì, mentre gli occhi, ancora ciechi a causa della luce eccessiva, mettevano a fuoco la sua figura. Era fin troppo in forma per i miei gusti. Lo vidi alzare il dito medio verso il eggero del Suv bianco che lo superò con un’imprecazione. Sbatté lo sportello della Jeep nero fumo, scomparendo dietro i vetri oscurati. Credetti che avrebbe accelerato lasciandomi sulla strada senza aggiungere altro. Contro le mie aspettative, parcheggiò nello spazio adibito ai taxi, proprio di fronte a me. Non gliene importò di aver occupato per metà le strisce pedonali. Lo trovai così estremamente ignorante da essere subito mal disposta nei suoi confronti. “Troppo bello” fu l’aggettivo che mi venne in mente una volta che i miei occhi si posarono su di lui, ormai completamente in grado di distinguerne i lineamenti. Pensai che non era una vera e propria critica. Cercai qualcos’altro. Non c’era nulla di discutibile nel suo modo di muoversi mentre scavallava sicuro l’alto sedile in pelle. La maniera in cui i muscoli allenati si gonfiavano sul quadricipite un o dopo l’altro, avvolti in jeans scoloriti, non era certo motivo di rimprovero. L’addome piatto che si intravedeva sotto la
maglietta bianca tirata sul petto ben formato, non avrebbe mai potuto considerarsi un difetto. Quel tipo era troppo perfetto. Alzai lo sguardo per avere la possibilità di guardarlo in faccia. Era parecchio alto, forse un po’ più di Claudio. Mi sentivo minuscola al confronto. Se avessi continuato a osservarlo in quel modo, mi sarebbe venuto il torcicollo. Due occhi verdi come gemme mi scrutavano al centro di un viso perfetto. Dovetti deglutire due volte per riuscire a spiccicare una sola parola. Quel volto aveva qualcosa di familiare ma non riuscivo a ricollegarlo a niente. Forse era un modello che avevo visto sfogliando le pagine di una rivista. Il sole gli illuminava la corta barba dorata che gli scuriva la mascella squadrata. Le labbra ben disegnate non sorridevano affatto, anzi, le teneva strette in una morsa di ferro. Non cedetti sotto lo sguardo diritto. Sbattei un paio di volte le palpebre non distogliendo però gli occhi. Credeva di intimorirmi? Si sbagliava di grosso, avrebbe dovuto impegnarsi un po’ di più. La luce lo accarezzava enfatizzandone i lati. Forse ero sotto shock, se uno sconosciuto riusciva a imbambolarmi in quella maniera!
Lui, Adriano:
Quando ero salito in macchina, il caldo di Roma mi aveva sorpreso. Nonostante fossero appena ate le tre e mezza di un pomeriggio di Aprile, mi sentivo cuocere dentro la Jeep che apparteneva ai miei. Avrei dovuto comprarmi un auto meno ingombrante al più presto, altrimenti avrei avuto parecchie difficoltà a muovermi in città. L’incontro con i titolari dell’azienda che mi aveva assunto era andato ottimamente. Alla fine ero stato soddisfatto nello stringere loro le mani salutandoli come amici di vecchia data. Christian, il capo settore, mi aveva dato una pacca sulla spalla sorridendo nel vero senso del termine. L’invito a cena mi aveva colto inaspettato. Avevo dovuto rifiutare. Quella sera ero già impegnato, non si era offeso organizzando subito un appuntamento successivo. Avrei iniziato il lunedì. Il fine settimana sarebbe ato in fretta, ed io avrei avuto modo di cominciare la mia nuova carriera senza pensare ad altro. Presi il telefono attivando il vivavoce. Nicole rispose al secondo squillo. Le raccontai più o meno come si era svolto il meeting. Fece finta di interessarsi, ma dal tono si capiva che stava pensando a ad altro. Il traffico scorreva lento, dovetti inforcare gli occhiali dalle lenti scure perché il riverbero del sole sul cofano del fuoristrada mi dava fastidio. Per un momento abbassai lo sguardo nel tentativo di
trovare il pacchetto di gomme che avevo appoggiato sul cruscotto. Con la coda dell’occhio vidi una figura stagliarmisi di fronte. La mano raggiunse il clacson senza che nemmeno me ne accorgessi. Ma cos’era, pazza? Guardai il semaforo credendo di essere in torto. Tutt’altro. Dal mio lato segnava via libera. Continuai a suonare ma la ragazzina si era fermata in mezzo alla strada, proprio di fronte a me. Inchiodai. Ebbi paura di non fare in tempo a fermarmi. Serrai le palpebre un istante aspettando di sentire il tonfo di lei che veniva colpita. L’auto si arrestò. La puzza di gomma bruciata mi invase le narici. La vidi. In piedi, immobile, incolume. Il sollievo mi fece buttare fuori l’aria mentre una furia omicida mi costrinse a uscire di corsa dal veicolo. Intanto che mi avvicinavo sentivo i muscoli tendersi con l’unico risultato di muovermi a scatti. Se avessi saputo di non rischiare una denuncia l’avrei presa a schiaffi lì, sul posto. Il cuore mi batteva forte. La afferrai per le spalle, magre, sottili, ma la muscolatura si sentiva tutta sotto la stoffa del giubbino di jeans. La scossi con violenza. «Ma che cazzo ti salta in mente? Non li conosci i segnali stradali? Era rosso!» La mia voce aveva un tono terribilmente pericoloso. Se qualcuno si fosse rivolto a me in quel modo lo avrei preso a pugni senza pensarci su due volte. La osservai. Le avrei dato al massimo quindici anni: sul metro e settanta, magra, lunghi capelli rossi che assomigliavano alla criniera scomposta di un leone. Per poco non mi venne un colpo quando alzò la faccia a guardarmi. I suoi occhi mi trafissero, azzurri come l’oceano. Confusi, un po’ appannati. Mi ricordarono il modo in cui una ragazzina mi aveva osservato tanti anni prima. La rabbia mi abbandonò subito sostituita dal senso di colpa. Il viso delicato sembrava fatto di porcellana. Le labbra morbide, semichiuse, parevano chiamarmi. «Ti senti bene? Tutto ok?» Mi accorsi che la voce era tornata normale. Lei sbatté le palpebre. Aveva ciglia lunghe, l’espressione simile a quella di un cerbiatto immobilizzato dai fari di un auto. «Sì sto bene. Lasciami.» Cosa? Avevo sentito bene? Il trasporto che avevo percepito nascere nei suoi confronti era scomparso. Quella ragazzina impudente, nonostante si trovasse nella posizione di dover chiedere scusa, mi intimava di lasciarla? Con quel tono per giunta! Strinsi un altro po’, giusto per farle sentire la pressione delle mani.
Un cretino in coda dietro la Jeep che avevo abbandonato in mezzo alla strada si mise a suonare. La trascinai sul marciapiede. Prima di infilarmi in macchina alzai il dito verso lo stronzo che mi stava superando, imprecandomi contro. Parcheggiai l’auto nella zona riservata ai taxi. Non me ne fregava nulla. Dovevo accertarmi che quella sciocca stesse bene. La vidi fissarmi mentre le andavo incontro. Quando mi ci fermai di fronte non lessi nulla che mi fe pensare che fosse in qualche modo rimasta scossa dall’accaduto. Aveva il viso completamente illuminato così che potei distinguerne i tratti sottili. Guardandola bene, mi resi conto che forse aveva superato la maturità, ma non di molto. La pelle liscia appariva così morbida che mi prudevano le dita dalla voglia di accarezzarla. Scossi la testa cercando di scacciare l’innaturale istinto che mi imponeva di avvicinarmi ancora. «Allora? Stai bene?» Serrò le labbra. «Mi hai fatto perdere il pullman. Adesso ci metterò una vita per tornare a casa, grazie tante.» Ero senza parole. Letteralmente, non sapevo cosa dire. Di tutte le frasi che mi sarei aspettato, quella mia aveva spiazzato. Si ò una mano in mezzo a quell’arruffato groviglio rossiccio. Mi sorpresi a chiedermi come fe a non rimanervi impigliata. «Ma stai dicendo sul serio? Per tua informazione sei tu quella che avrebbe dovuto aspettare il verde prima di attraversare.» La mia voce era ancora calma, con una nota leggermente infastidita. Benissimo, non avevo perso il controllo. I suoi occhi mi trafissero come se fossi stato un criminale. «Se mantenessi un’andatura meno sostenuta in città, avresti avuto il tempo di fermarti, sbraitare quanto volevi, ma non saresti stato costretto a inchiodare, rischiando di prendermi.» Aveva messo le mani sui fianchi. Era davvero convinta di non avere sbagliato? «Tu sei fuori. Non solo sei in difetto, ma pretendi anche di avere ragione.» Strinsi le mani a pugno. Quella ragazza chiamava gli schiaffi come nessun’altra. In un attimo, era riuscita a farmi dimenticare il fatto che fosse davvero molto
bella, nonostante il suo volto pulito fosse privo di alcun artificio cosmetico. La osservai girare la testa prima a destra poi a sinistra. Sollevava la manica del giubbotto e studiava l’orologio. «Merda. Grazie a te sono in un ritardo mostruoso. Scusa, devo andare. E’ stato un piacere. Spero di non rivederti.» Stava per voltarsi e andarsene. Il mio corpo reagì senza che potessi far niente per impedirlo. Si trattò di un riflesso incondizionato. Le afferrai un avambraccio. Lo strinsi, aveva l’ossatura delicata. Mi guardò indignata; non aveva paura, tutt’altro. Ero certo che se avessi continuato a tenerla ferma mi avrebbe aggredito. Non sapevo per quale motivo, ma il suo modo di fare, quello sguardo glaciale, mi riportavano alla mente scene già vissute. Alzai la mano lasciandola andare. Mi fulminò per un secondo prima di correre via. Lasciai le dita indugiare sulla testa rasata da poco. Non riuscivo a credere a cosa fosse appena successo. Montai in macchina, rilassandomi sul sedile. I capelli rossi scomparvero oltre una svolta della strada. Anche se non riuscivo più a vederla avevo stampato nella memoria l’immagine di quell’espressione fredda e bruciante al tempo stesso. Sorrisi. Nonostante mi avesse fatto saltare i nervi mi aveva incuriosito. Che ragazza strana…
Lei, Greta:
Lo sconosciuto che aveva rischiato di investirmi stava tornando indietro. Ero ancora un po’ scossa, sentivo il corpo rigido, la paura mi aveva paralizzata. Avrei preferito che non si voltasse più. Speravo davvero di non rivedere quel viso dalla bellezza imbarazzante. Se non fossi stata tanto bloccata, me ne sarei andata correndo senza voltarmi. Mi guardò come se gli importasse davvero come stessi. «Allora? Stai bene?» Ero proprio nella merda. Quella voce profonda mi fece vibrare da capo a piedi.
Se Claudio mi avesse vista in quel momento, non mi avrebbe riconosciuta. Mi sentivo come in un trance mistico, completamente prigioniera di quello sguardo talmente verde da sembrare innaturale. Sbattei le palpebre, cercando di riprendermi. Dovevo allontanarmi il prima possibile. Quando ero in difficoltà tiravo fuori tutta la mia arroganza. Credo fosse per difendermi, fu per questo che mi comportai nel modo più sgarbato possibile. «Mi hai fatto perdere il pullman. Adesso ci metterò una vita a tornare a casa, grazie tante.» Mi congratulai con me stessa. Peggio di così non mi potevo rivolgere. Sapevo di avere una maschera inespressiva al posto della faccia e che i miei occhi possedevano il potere di far sentire gli altri a disagio. Lo vidi cambiare espressione. Per un momento rimase sbalordito. Sarei scoppiata a ridere se la tensione mi avesse abbandonata, ma avevo i palmi sudati e il cuore che martellava nel petto. Dovevo assolutamente andarmene, e alla svelta. «Ma stai dicendo sul serio? Per tua informazione sei tu quella che avrebbe dovuto aspettare il verde prima di attraversare.» “Si lo so”. Lo pensai, ma non lo dissi. Strinsi gli occhi come facevo quando volevo guardare male qualcuno. La sua bocca era leggermente aperta a formare una O. «Se mantenessi un’andatura meno sostenuta in città avresti avuto il tempo di fermarti, sbraitare quanto volevi, ma non saresti stato costretto a inchiodare, rischiando di prendermi.» Le mani corsero ai fianchi, per rendere l’accusa più incisiva. Nello stesso tempo mi asciugai le palme umide, cercando di non farmi scoprire. Non riuscivo a distogliere l’attenzione, avrebbe significato cedere di fronte alla sua invadente mascolinità, non potevo permetterlo.
«Tu sei fuori. Non solo sei in difetto, ma pretendi anche di avere ragione.» Si stava arrabbiando sul serio. “Lo so che ho sbagliato, scusa, scusa, scusa.” pensai, ma, ancora una volta, non lo dissi. Strinsi le labbra e continuai a guardarlo male. L’orologio indicava che era veramente tardi. «Merda. Grazie a te sono in un ritardo mostruoso. Scusa, devo andare. E’ stato un piacere, spero di non rivederti.» Riconobbi di essere una pessima persona. Lo stavo trattando peggio di quanto avrei voluto. La sua faccia era un rincorrersi di espressioni sbalordite. Mi voltai, non ce la facevo più a stargli di fronte. Ma che diavolo mi era preso? Girai alla svelta interrompendo il contatto visivo. Anche se non potevo vederlo percepivo quelle iridi smeraldo perforarmi la schiena. Prima di potermi incamminare il mio braccio fu tirato all’indietro. Un vero e proprio strattone. Che altro voleva? Le sue dita lunghe erano strette in una morsa. Anche attraverso la stoffa percepivo il calore di quella mano. Il mio volto non aveva nulla di amichevole mentre lo guardavo. Con quale diritto si permetteva di toccarmi ancora?Il fatto che fosse il ragazzo più bello sul quale avessi mai posato lo sguardo non gli concedeva ogni cosa. Finalmente fui libera. Un’ultima occhiata di avvertimento e potei scappare a gambe levate. Svoltato l’angolo, una volta che fui certa che non potesse vedermi, mi appoggiai contro le mura di un palazzo. Mi resi conto vagamente del viavai di gente che attraversava l’entrata di un bar. Sentivo il corpo tremare tutto. Il cuore batteva ancora in maniera frenetica; se avessi continuato a stargli di fronte sarei andata in iperventilazione e avrei avuto bisogno che qualcuno mi raccogliesse da terra. Ma che cosa era successo? Lo spavento, unito all’incontro con quell’uomo mi avevano destabilizzata. Il contatto con la parete fredda dietro di me ebbe il potere di schiarirmi le idee.
«Ti senti bene?» “Ancora.” , pensai. Ma non era lui che si informava della mia salute. Un ragazzo mi si era avvicinato. Non lo conoscevo. Annuii. «Sì grazie.» Lo vidi sorridermi, ma non mi parve troppo convinto. Dovevo avere un aspetto orribile. Era davvero ora che tornassi a casa. «Vuoi che ti porti un bicchiere d’acqua?» Perché insisteva? Cercai di essere il più delicata e gentile possibile nel rifiutare. Al secondo “No grazie”, parve afferrare il concetto e mi lasciò in pace. Sospirai, il sudore mi si era congelato addosso ma sentivo di stare meglio. Avevo il disperato bisogno di una doccia. Mi staccai dal muro del bar. Le gambe mi sorreggevano. Potevo andare.
IV
Lei, Greta;
Un ospite inaspettato
Mi guardai allo specchio prima di decidere e scendere. Potevo andare. Il corto abito verde mela si avvolgeva intorno al corpo accarezzandomi. Il satin era così morbido da dare l’impressione che non portassi nulla. Sopra era montato un panneggio di chiffon che ondeggiava a ogni movimento. Non era un vestito aderente, tutt’altro, le mie forme erano impercettibili sotto la stoffa. Di certo non era la scollatura del davanti ad avermi colpito la prima volta che lo avevo indossato. Era legato all’altezza delle clavicole a sottolineare le spalle tornite aprendosi sul dietro in una profonda apertura a V. Una catenella di Swarovski univa le bretelle dalla nuca alla punta che delimitava lo scollo sulla schiena, appena sopra la fessura delle natiche. Dietro ero completamente nuda. Il tatuaggio che mi copriva metà del fianco sinistro, dall’anca all’ascella, era totalmente esposto. Ne avevo un altro alla base del collo, raramente lo mettevo in mostra. Anche quello sul piede era ben visibile dato che avevo scelto un paio di sandali alla schiava molto, molto alti. Il trucco forte, più adatto a una serata in discoteca che a una cena formale, enfatizzava sapiente la linea allungata dello sguardo. Avevo raccolto i capelli in una morbida treccia che scendeva sulla spalla destra la cui estremità mi sfiorava la vita. Non avrei permesso alla criniera che avevo di rovinare la mise studiata nei minimi dettagli. Mimai l’espressione che avrebbero fatto i genitori di Claudio vedendomi indossare un abbigliamento tanto succinto. Scesi le scale, lui chiacchierava tranquillo rivolgendosi a mio padre. Quando mi vide stette un secondo in silenzio poi, con un cenno del capo, diede l’approvazione all’abito. Mi avvicinai muovendomi sicura sui trampoli pericolosi. Senza scarpe ero alta un metro e settanta, quella sera sfioravo il metro e ottantatre e la differenza di altezza fra di noi non era poi così accentuata. Avvertivo lo sguardo di papà, a cui avevo dato la schiena, bruciare come lava
incandescente. Mi guardò criticando muto. Non c’era bisogno che lo vedessi in faccia per capire cosa stesse pensando. «Perché hai scelto questo vestito amore di papà?» Claudio non capì cosa intendesse. Lui aveva visto il davanti, ed era così ampiamente accollato da risultare eccessivo. «Perché Sergio? A me pare che le stia benissimo, il colore mette in risalto la sua bellezza.» Proprio in quel momento ci raggiunse la mamma che, immobile sulla porta della cucina, teneva la bocca spalancata. «Gretel, che diavolo ti sei messa? Non è così che ci si presenta a una cena.» Il sorriso a mezza bocca mise in allarme Claudio che, allungando una mano a sfiorarmi la schiena, non trovò nulla che ne isolasse la pelle dalla mia. Fece in modo che mi voltassi affinchè potesse avere la panoramica completa. Una volta girata su me stessa scrutai in quegli occhi di cioccolato; le guance mi si imporporano quando gli lessi in faccia un misto di disapprovazione e ammirazione. Mi sfiorò le labbra con un bacio leggero tirandomi la treccia. «Sei bellissima Gretel, forse avrei scelto qualcosa di meno…scoperto, ma ti sta benissimo.» Il tono vagamente minaccioso. Sapeva che non avrebbe potuto costringermi a cambiare vestito, l’unica cosa che sarebbe riuscito a fare era di lasciarmi a casa e, sinceramente, speravo proprio lo fe. Si avvicinò al lobo al quale era appeso un pesante orecchino di una tonalità più scura del verde mela. «Non ti darò ciò che vuoi amore mio. Stasera mi divertirò a guardarti arrossire sotto le occhiate di apprezzamento degli uomini presenti, ma soprattutto, sotto quelle di aperta disapprovazione delle donne. Almeno, non sarà una serata noiosa.» Strinsi i denti, non mi piaceva che gli altri reagissero diversamente da come mi ero aspettata. Concentrai l’attenzione sulla donna che mi aveva partorita: il
grembiule rosso corallo nascondeva il fisico esile che avevo ereditato e i capelli, più chiari dei miei, avevano una sfumatura arancione. Se avessi guardato bene avrei notato qualche filo bianco ma, a quarantacinque anni, mia madre poteva vantarsi di non dover fare alcuna tinta per essere presentabile. Gli occhi verdi, tipicamente irlandesi, mi sfidarono ad aprire bocca ma sapevo che, se avessi cominciato, non l’avremmo finita più. Decisi di comportarmi da adulta e, semplicemente, la ignorai. Mi sporsi verso Sergio, non uscivo mai senza prima averlo salutato con un bacio. I suoi occhi erano di un azzurro talmente chiaro da ricordare il ghiaccio, inizialmente apparivano freddi ma, bastava scrutare attentamente per leggere un orgoglio smisurato rivolto a quella figlia che, anche se eccentrica, rappresentava tutto. «Dai papy, sono uscita con molto meno addosso!» Presi Claudio per mano affrettandomi ad uscire prima di assistere a qualche altro commento. Afferrai la borsa gialla insieme ad uno spolverino nero e mi chiusi la porta alle spalle con un tonfo. La famiglia Leoni risiedeva in un palazzetto signorile nei pressi di Villa Borghese. Vivevano lì da due generazioni. Se l’avessero messa sul mercato non so quanto sarebbe stata stimata. Sapevo soltanto che poche persone potevano permettersi un’abitazione del genere. Ad ogni modo, non avrei cambiato per nulla al mondo la piccola e accogliente villetta bifamiliare a Roma sud dove abitavo. Parcheggiammo nel giardino curato che circondava la casa, i ciottoli sparsi sul viale d’ingresso schioccarono contro la carrozzeria dell’Audi. Ogni volta che succedeva Claudio imprecava un po’ più forte, ed io non potevo fare altro se non tentare di soffocare le risa. «Falla finita Gretel.» Era arrabbiato; durante il viaggio non ci eravamo rivolti la parola. Allungai una mano a sfiorargli il braccio. «Smettila Gretel. Ora non ho voglia di parlare.» Mi ritirai come se mi avessero schiaffeggiata. Non insistetti e aspettai che si fermasse parcheggiando fra un Suv e una Jeep. “Quelle si che erano macchine”, pensai. Spense il motore non dando segno di voler scendere. Feci per aprire lo
sportello quando mi fermò bloccando la maniglia. «Perché fai così Greta? Lo sai che i miei ci tengono alla forma, perché non cerchi solo di piacergli? Per me è importante.» Voltai la testa per guardarlo, le mani strette intorno al volante di pelle ingrassata, il profilo deciso che spiccava netto. Non capiva, avevo cercato di spiegarglielo ma era stato inutile. «Ho provato a piacere ai tuoi, sono due anni che mi impegno. Ho cambiato modo di vestire, ho modificato il modo di parlare, ho ridotto il trucco, il tacco, il colore. Non mi hanno accettata comunque. Non gli piaccio Claudio, fattene una ragione. Per me non è un problema, so tenere testa a gente che mi giudica negativamente, ma tu? Riesci a superarlo?» Si voltò lentamente, lo sguardo colpevole. Lo sapeva che ce l’avevo messa tutta per essere accettata. Mosse il braccio con l’intenzione di raggiungere il viso, lo scansai. Ora ero io quella incazzata. Sentivo le lacrime pungere dietro le palpebre. Tirai su con il naso costringendole a restare dov’erano. Non meritavano tanto spreco di energia. «Pensi che per me sia semplice sapere che i familiari del mio futuro marito non mi considereranno mai all’altezza?» Il cuore palpitava nella vena giugulare a velocità sorprendente. «Greta io…» Un’occhiata gli intimò di tacere. «Fammi finire cazzo. Non gli sono piaciuta per come desideravano che fossi. E allora? Sai che c’è di nuovo? Non ho intenzione di nascondermi ulteriormente. Li rispetto, perché sono tuoi parenti, nonostante il mio rispetto non se lo siano guadagnato. Ma per quanto riguarda il presentarmi come un’altra, non sono più disposta ad accettarlo. Mi hai conosciuta così, mi hai voluta così, non riesco a capire per quale motivo tu desideri cambiarmi. Non sono nuda, e tantomeno indecente, nessuna parte intima è esposta. Se una scollatura sulla schiena ti mette così a disagio ti pregherei di riportarmi a casa. Non credo di avere la forza di fronteggiare la famiglia al completo.» Chiusi la bocca voltando il capo verso il parabrezza della macchina. Non lo sopportavo quando cercava di giustificarli. Si mosse sul sedile in pelle. Gli occhi
erano fissi su di me. Lo sguardo insistente mi trafiggeva come fosse stato una lama. «Scusami Greta. Sono solo nervoso. Sono consapevole del fatto che tu non piaccia un granché alla mia famiglia. L’abbigliamento che hai scelto per quest’occasione non renderà la cosa più semplice. Ci sono degli ospiti ai quali i miei ed io, teniamo molto; non sarà divertente osservare le reazioni che susciterai.» Il mio corpo si stava irrigidendo. Quelle parole, invece che calmarmi, contribuirono a rendermi ancora più nervosa. «Se ti vergogni di come sono non riesco a capire cosa tu stia facendo con me.» Sapevo di averlo ferito volontariamente. Lui non voleva nemmeno che dicessi per scherzo la parola “Lasciamoci”. Ma non c’era alternativa. In un rapporto ci si doveva venire incontro, ne ero consapevole; ma non si poteva pretendere di cambiare qualcuno in nome dell’amore, non sarebbe stato giusto. «Non lo dire nemmeno per scherzo. La mia non si potrebbe chiamare vita senza di te. Tu dai senso ai miei giorni.» Non riuscivo a capire che razza di potere esercitasse su di me. Forse aveva soltanto la capacità di dire la cosa giusta al momento giusto, mentre io possedevo la caratteristica inversa. La tensione si sciolse in un momento. Una lacrima si incastrò tra le ciglia appesantite dal rimmel. Aspettai che si asciugasse da sola, non volevo che lui vedesse che avevo gli occhi lucidi. Non sopportavo che qualcuno mi scorgesse quando ero turbata. Mi prese la mano tra le sue baciando inizialmente la punta delle dita, il palmo e il dorso. «Scusami amore mio, non volevo. Per me sei perfetta così come sei.» Accettai le scuse e lasciai che si avvicinasse con la bocca. Non fui in grado di ricambiare come al solito. Quando venivo ferita, in genere, mi ci voleva un po’ prima che riuscissi a are oltre. Claudio lo sapeva perciò non insistette. Girò intorno alla macchina per venire ad aprire la portiera. Usava quei mezzucci da cavalier servente quando sperava di addolcirmi. Non lo guardai in faccia, non avevo intenzione di cedere, era giusto che soffrisse ancora un po’. Attraversammo l’ultimo tratto del vialetto prima di salire un gradino e trovarci di
fronte all’entrata. Cominciai a sbottonare il soprabito. Sapevo che alla porta ci sarebbe stato Felipe, il domestico, pronto a prendere in consegna i cappotti. Gli sorrisi non appena lo vidi oltre l’entrata baciandolo su entrambe le guance. La confidenza che mi prendevo con il personale era stato un altro motivo di scontro all’interno di quelle mura. «Come va, Felipe? Ti trovo in forma. Sei dimagrito?» Era nato in Cile, la sua pelle era abbronzata naturalmente, aveva occhi e capelli molto scuri. Non era molto alto e tendeva a mettere i chili di troppo sul girovita. Si batté una mano lì dove l’addome era pronunciato. «Diciamo che sto controllando l’appetito.» La padrona di casa ci chiamò dal salone resasi conto che mi stavo dedicando a Felipe con troppo zelo. Claudio mi prese per mano trascinandomi attraverso l’atrio spazioso per arrivare alla sala circolare, dove in genere venivano accolti gli ospiti. Sulla maggior parte delle pareti c’erano quadri dalle rappresentazioni classiche. Amavo gli autori dei dipinti, ero una grande apionata degli artisti rinascimentali. Purtroppo non mi era mai stato possibile fermarmi e contemplarli con la dovuta attenzione. Una grande lumiera di cristallo a tre piani torreggiava sulle nostre teste. Ogni volta che entravo in quell’ambiente mi mettevo fuori portata, nel caso fosse precipitato. Non mi auguravo che nel necrologio dedicato alla mia morte ci fosse scritto: deceduta a causa del crollo del lampadario da duecento chili nella casa dei suoceri. Che risate si sarebbero fatti gli amici nel leggerlo! Un caminetto enorme occupava metà della parete sud, di fronte due poltrone in stile vittoriano. La tappezzeria era un susseguirsi di rose color fiordaliso tirate sull’imbottitura da bordature in legno molto ben tenute. Al centro della sala, su di un tappeto persiano, troneggiava un tavolino di cristallo con accanto un divano lungo e altre due sedute; lo stile della mobilia era sempre lo stesso. Sopra il tavolo erano appoggiati alcuni bicchieri di chi, evidentemente, si era servito prima del nostro arrivo. L’occhiataccia che mi venne rivolta dalla signora Leoni non appena fui visibile agli altri, mi obbligò a camminare dritta come se mi avessero infilato una scopa nel sedere. Non riuscivo a capire il perché di tale accoglienza. Non le avevo ancora mostrato la schiena. Vista di fronte ero una personcina di tutto rispetto.
La madre di Claudio era una donna piacevole a vedersi. Non l’avrei definita una bellezza, ma si curava molto e chi si occupava del look faceva in modo che risaltasse solo ciò che meritava di essere considerato. L’abito che indossava era a stile impero, sottolineava il seno florido, non più sodo come una volta, ma che ancora faceva la sua figura. Era drappeggiato sulla scollatura e le pieghe scendevano fino all’orlo. Il colore era molto simile a quello che avevo scelto io. Sorrise, dal basso della piccola statura. Arrivava al massimo al metro e cinquantacinque, senza tacchi. Si rifiutava di comprare scarpe che superavano i dieci centimetri di altezza perché ,secondo lei, erano utilizzate dalle prostitute di strada. Dovetti quasi piegarmi in due per darle due freddi baci sulle gote rosse. «Greta, indossi un vestito del mio stesso colore. Ti sta molto bene.» Sapevo che usava quel tono mellifluo per mascherare i pensieri reali. La fissai negli occhi, scuri come quelli del figlio. «Lo so Silvia, grazie.» L’espressione, a quel commento, divenne glaciale. Credeva avrei aggiunto dell’altro? In una cosa ero davvero molto brava, a detta di molti: quando volevo colpire qualcuno verbalmente, ci riuscivo con un’eleganza indiscussa. Non si capiva mai se stessi scherzando o dicendo sul serio; questo faceva si che le persone non sapessero mai cosa rispondermi. Una risata profonda, dal tono familiare, mi scosse da capo a piedi. Dopo aver stretto la mano al padre di Claudio, a suo fratello più grande e aver baciato la moglie di quest’ultimo, concentrai la più completa attenzione sull’uomo che aveva riso qualche attimo prima. Non ero stata in grado di riconoscerlo subito, era invecchiato ed io non avevo mai perso di vista Silvia. «Gretel, sei bellissima, non sei cambiata per niente, sei sempre una ragazzina.» Invece che darmi la mano, Davide, l’uomo dal quale mio padre dipendeva, mi strinse in un abbraccio caloroso. Magro e atletico, le sue effusioni mi tolsero il respiro, lasciandomi colpita e vagamente intontita. «Non hai freddo con la schiena tutta scoperta?» Mi fece voltare per poi riappropriarsi del mio sguardo. «Sei davvero un incanto bambina. Sono così felice di rivederti.»
Non accennò al disegno articolato che si arrampicava sul fianco, non fece alcun tipo di commento riguardo l’abbigliamento inappropriato. L’intonazione della voce sincera e gli occhi semplicemente allegri. «Posso prenderti qualcosa per coprirti prima che ti prenda un malanno?» Silvia fece per andare, il tono di avvertimento era tutt’altra cosa rispetto a quello di Davide. Una doccia gelida mi avrebbe raffreddata meno. Fui svelta nel fermarla. «Grazie, sto bene così.» Claudio mi si affiancò e salutò con calore i coniugi Altieri. Ricevetti lo stesso trattamento dalla moglie di lui, Sibilla. Era una donna bellissima nonostante avesse superato la cinquantina. Un po’ mi imbarazzava guardarla troppo a lungo. «Abbiamo spesso chiesto a Sergio tue notizie. Ogni tanto ci mostrava delle fotografie ma fatti dire mia cara, che non ti rendono giustizia. Assomigli molto a tua madre, ma gli occhi sono quelli di tuo padre.» La piega che stava prendendo la conversazione era nuova e niente affatto spiacevole. Mi ero aspettata i soliti amici di casa Leoni, e invece mi ritrovavo in compagnia di persone che mi avevano vista crescere. Per un po’ chiacchierammo del più e del meno; Claudio era raggiante al mio fianco, il suo braccio a circondarmi la vita con fare possessivo. Era rilassato e questo contribuiva a rendere me altrettanto calma, l’unica nota stonata erano i falsi sorrisi di cortesia degli altri. «Adriano guarda chi c’è. Te la ricordi Greta?» Un ragazzo alto si fece avanti dall’altro lato del salone, abbastanza distante da non accorgermi della sua presenza. Gambe lunghe avvolte in pantaloni sartoriali, camicia bianca con gli ultimi tre bottoni slacciati a scoprire un triangolo del petto liscio e abbronzato. La giacca nera era tesa su quelle larghe spalle da nuotatore. La mascella, ben delineata, ricoperta da un accenno di barba bionda che brillava a seconda di come la luce lo colpiva. Le labbra erano morbide, non troppo grandi, non troppo piccole, perfette, come quelle di sua madre. Il naso era lo stesso, piccolo e dritto, sormontato da sopracciglia chiare e ben disegnate. Si vedeva che i capelli erano appena stati rasati, cinque millimetri di lunghezza al massimo. La mancanza di una cornice lasciava che il volto fosse totalmente
scoperto mettendo ancora più in risalto l’indiscussa bellezza mascolina. Gli occhi erano grandi e ben distanziati. Le ciglia lunghe, castano scuro, facevano ombra su delle iridi verde smeraldo. Rimasi immobile. Ricordavo perfettamente l’occhiata di rimprovero che mi aveva indirizzato poche ore prima. Il senso di stordimento mi colse non appena notai l’attento esame che fece, guardandomi dal basso verso l’alto. Ebbi la sensazione di essere nuda. In quel momento avrei preferito aver dato retta al buon senso ed essermi coperta come una monaca. Anche la sua splendida faccia denotava sorpresa. Neppure lui, probabilmente, si era aspettato che la ragazza di quel pomeriggio potesse essere la fidanzata dell’amico. Mentre si avvicinavano tenni a bada il battito cardiaco che rischiava di mandarmi in iperventilazione. Avevo l’impressione che tutti i presenti potessero sentire chiaramente il cuore correre al galoppo. Decisi di concentrarmi sulla piccola ragazza che gli stava attaccata al braccio. Era carina ma, mi dispiaceva anche solo pensarlo, lui la faceva scomparire. Fu il sorriso che mi rivolse a farmi cambiare idea. Quando scoprì i denti bianchi e perfetti in un’espressione di cordiale apprezzamento, il viso le si trasformò, illuminato da raggi invisibili. Ciò che prima si sarebbe potuto definire ordinario, cambiò in qualcosa di straordinario. Non potei fare altro che sorridere a mia volta. «Ciao Gretel.» La voce di Adriano era fredda, priva di alcuna intonazione. I palmi presero a sudare. Se non mi fossi allontanata al più presto Claudio si sarebbe accorto che qualcosa non andava. Cosa aveva quell’uomo per farmi quell’effetto? Non volevo toccarlo, fu per questo che rifiutai la mano che mi porgeva. «Ciao Adriano, ti trovo bene.» Non accennai all’episodio del pomeriggio, al mio fidanzato non ne avevo parlato e non avevo alcuna voglia di tirare fuori l’argomento ora. Sperai che lui intendesse fare lo stesso. Non sapevo che altro dire. Lo squittio che mi uscì dalla bocca era a malapena controllato. E se la confusione dettata dalla sua vicinanza mi avesse resa balbuziente? Lo sguardo acquatico mi metteva a disagio; distolsi l’attenzione da lui cercando di concentrarmi su qualcosa che risultasse più interessante e meno coinvolgente. Come una stupida, mi fissai su un dipinto che gli stava alle spalle. Dopo un lasso di tempo che mi parve lunghissimo finalmente salutò l’amico. Speravo davvero che nessuno si fosse accorto del
fatto che non ero completamente a mio agio. Si abbracciarono, si guardarono, si abbracciarono di nuovo, come due innamorati che si rivedono dopo mesi di lontananza. Mentre si perdevano in convenevoli, rimasi da sola con la ragazza di Adriano. «Sono Nicole.» Il suo italiano era pessimo. «Gretel. Con me puoi parlare senza problemi, ti capisco benissimo.» Usai l’inglese sapendo che mi avrebbe compresa. Annuì con gratitudine, forse avrebbe potuto scambiare una parola o due con qualcuno. «Sono la futura moglie di Adriano.» Quell’ultima frase fu seguita da un’occhiata vagamente minacciosa che poco si adattava all’espressione quasi sperduta di poco prima. La ragazza stava marcando il territorio. Che lo fe pure, sicuramente si era accorta del disagio che avevo provato nel vederlo. Pensai di non essere stata brava a nascondere il tumulto che mi aveva posseduta. Non mi era mai accaduta una cosa del genere. Nessun uomo aveva mai provocato in me una reazione simile, nemmeno Claudio. Comunque, poteva tenerselo stretto; per quanto fosse bello, io avevo trovato la mia dimensione e non era mia abitudine insidiare i promessi sposi di altre donne. Specialmente se avevano la capacità di rendermi un’imbecille. «Sono molto felice per voi. Quindi siete tornati in Italia per sposarvi? So che venite dall’Australia.» «Sì, vivevamo a Melbourne e ora stiamo cercando un appartamento a Roma. Adriano è stato promosso e la sede del suo nuovo lavoro è qui.» I suoi occhi si adombrarono. Il viso da ragazzina parve perdere un po’ di quella naturale allegria. «Vedrai che Roma ti piacerà. Non ti sembrerà poi così diversa da dove vivevi, d’altronde è una capitale anche questa.» Il sorriso era tirato, ma cambiò immediatamente appena lui si voltò a guardarci.
«Conosci Adriano da molto tempo?» La domanda era innocua ma era stata fatta di proposito. Nicole voleva sapere di più. «Mio padre lavora per Davide e quando ero piccola sono andata spesso alle cene organizzate per i dipendenti. Io e Adriano non abbiamo mai legato molto. Abbiamo circa…cinque anni di differenza. A quell’età rappresentano un divario generazionale non indifferente.» Nicole parve soddisfatta dalla risposta. Evitai di confidarle di averlo incontrato quel pomeriggio. Nemmeno lei accennò all’accaduto, perciò immaginai che anche Adriano avesse ritenuto opportuno non farne parola. «Stiamo insieme da più di sei anni. Era da un po’ che pensavamo al matrimonio. Questo trasferimento ha fatto si che ci decidessimo.» Annuii, cercando di fare la parte della ragazza affabile e cortese, purtroppo mi riusciva difficile quando incontravo qualcuno per la prima volta. Fortunatamente Claudio, accorgendosi che stavo sprofondando nel mutismo portò un flute di prosecco, presentandosi alla biondina. Percepii l’avvicinarsi di Adriano senza aver bisogno di voltarmi. Avevo la schiena esposta agli sguardi dei presenti, ma non so come, sapevo che era lui quello che mi fissava. Bevvi il vino in un sorso solo. Il sapore secco riempì la bocca non mitigando l’imbarazzo che provavo. «Greta…? Hai sentito cosa ho detto?» Cercai di ricordare la parte del discorso che mi ero persa. Claudio mi guardò, interrogativo. Ero certa che si fosse accorto del mio strano modo di fare; speravo solo che non indovinasse il motivo per cui mi comportavo così. «Scusami, amore, mi ero distratta un momento.» Lo vidi avvicinarsi, mi sfiorò la guancia con le dita. «Ti senti bene? Sembri strana, hai la faccia tutta rossa. Non è che ti sei presa l’influenza stagionale?»
Mi accostò le labbra alla fronte. «Sei un po’ calda, forse dovresti misurarti la temperatura.» “No, per carità. La temperatura no!”. Se mi fossi anche soltanto avvicinata a un termometro, lo avrei liquefatto per quanto mi sentivo andare a fuoco. «No Claudio, sto bene, è questa casa, fa troppo caldo qui dentro.» Che cazzo mi stava succedendo? Non ero mica una scolaretta alla prima cotta! Chiesi scusa prima di allontanarmi per andare in bagno. Mentre avanzavo attraverso il lungo corridoio sul quale si affacciavano una decina di porte, riacquistai la padronanza di me stessa. Persino il bagno era espressione di quanto i genitori di Claudio fossero benestanti. Il marmo rosa la faceva da padrone. Quella toilette era grande quanto la mia stanza. L’elemento d’arredo che preferivo era la vasca scavata nel pavimento. Avrei voluto provarla almeno una volta nella vita ma, finché i genitori del mio fidanzato avessero abitato lì, non mi sarei mai permessa di chiedere una cosa del genere. Aprii l’acqua e la feci scorrere fino a che non divenne tiepida. Lo sguardo corse allo specchio gigantesco che rifletteva l’immagine chiara di una donna emotivamente sconvolta. Avevo le guance rosse e le labbra più gonfie, come se qualcuno mi avesse appena baciata violentemente; gli occhi lucidi come negli stati febbrili. Mi aggrappai al lavandino con tutta la forza che avevo. Strinsi così forte da sbiancare le nocche. “Respira Greta, respira.” Non riuscivo a calmarmi, e non era una reazione normale! Chiusi gli occhi, sentendo aumentare la pressione sanguigna tra le cosce. Che dovevo fare? Aspettare. Fino a che il mio corpo non avesse obbedito. Ci vollero dieci minuti prima che fossi di nuovo presentabile. Strofinai le mani sull’asciugamano di lino purissimo ricamato a mano. Diedi un’altra occhiata nello specchio. L’acqua mi aveva raffreddata aiutandomi a ritrovare un aspetto normale. La porta si aprì di colpo. Non avevo chiuso a chiave. Lo vidi attraverso il riflesso. Mi accorsi che il sangue defluiva dal volto e che gli occhi si spalancavano dallo stupore. Parve accorgersi del mio sbalordimento. Mi sembrò sinceramente preoccupato mentre veniva vicino; avrei mille volte preferito che si fosse voltato e se ne fosse andato.
«Credevamo non ti fossi sentita bene. Ho detto che sarei venuto a chiamarti. E’ pronta la cena.» Si era chiuso la porta alle spalle, fortunatamente non a chiave. Fece un o verso di me ed io indietreggiai. «Sto benissimo. Potevi almeno bussare.» L’immagine di me seduta sulla tazza mentre lui irrompeva improvviso mi saltò alla mente. Se fosse successa una cosa del genere, chissà come avrei reagito… Meglio non saperlo. Le ginocchia divennero cedevoli e dovetti appoggiarmi di nuovo al lavello. Non volevo che mi guardasse. Perché era venuto lui? Perché Claudio glielo aveva permesso? «Non hai una bella cera, sicura di stare bene?» Sì, stavo bene. Sarei stata meglio se se ne fosse andato via, sparendo dalla mia vista. «E’ la seconda volta che mi spaventi nell’arco della giornata.» Se avesse continuato a fissarmi con quell’intensità mi sarei sciolta a terra. «Volevo solo dirti che non ho detto niente di quello che è successo oggi. Ti prego di evitare l’argomento.» La sua voce era atona, priva di qualsiasi espressione; l’unica in balia della confusione dovuta alla nostra vicinanza ero io. Dovevo riprendermi, non avrei permesso che un tizio qualunque mi fe reagire in quel modo. Spostai l’attenzione sulla specchiera. Lo vedevo, dietro di me. Aspettava una risposta mentre osservando la scena attraverso la superficie riflettente. Gettai un’altro po’ d’acqua sul viso. Chi se ne importava se il trucco si sarebbe sciolto, almeno non avrei avuto l’aspetto di chi ha appena visto un fantasma. «Gretel?» Chiusi gli occhi. Persino il suono del mio nome, pronunciato da lui, aveva un altro sapore.
«Forse non mi sento bene, hai ragione. Non preoccuparti, nemmeno io ho detto nulla, in fondo, non è successo niente.» Perché continuava a fissarmi? Perché non si muoveva? «Andiamo? Hai bisogno di qualcosa?» Non volevo che fosse gentile, né premuroso. Avevo bisogno che si rendesse il meno amabile possibile. Sarebbe stato più facile prenderlo in antipatia. «Ti raggiungo tra un momento.» Non sembrava aver capito che volevo rimanere sola. «Meglio se andiamo insieme. Se cadi da quei trampoli potresti romperti l’osso del collo.» «Non mi serve la scorta. So prendermi cura di me stessa. Grazie.» Sollevò un sopracciglio. «Non lo avrei detto dati i precedenti.» Mi stavo innervosendo. Perfetto. Un po’ di colore tornò sulle guance che fino a un momento prima avevano la sfumatura candida del latte. «Esci immediatamente da questo bagno. Non hai nessun diritto di stare qui.» Le sue labbra si sollevarono. L’espressione divertita lo rendeva ancora più affascinante, cosa che non avrei creduto possibile. Il calore si concentrò di nuovo in mezzo alle gambe, il cuore iniziò a pulsare un po’ più forte. Se si fosse accorto della cosa mi sarei sentita veramente a disagio. Lo spinsi all’indietro nel tentativo di farlo uscire. Pessima idea. Fu come andare a sbattere contro una lastra di cemento. Non si spostò di un millimetro ma, la cosa peggiore, era il fatto che le mie mani erano ferme sulla stoffa della camicia, sotto la quale sentivo la consistenza della pelle calda e liscia. Mi staccai come se avessi appena toccato il fuoco. Vidi la sua espressione cambiare, aveva capito, era palese. Nonostante avessi fatto il possibile per comportarmi nella maniera più distaccata, non poteva non essersi accorto dell’effetto che mi faceva.
«Ti lascio allora. Non metterci troppo.» Non aggiunse altro. La porta si richiuse. Fui svelta a girare la chiave nella toppa. Non volevo uscire, soprattutto per non vedere ancora quegli occhi di vetro. La tensione mi aveva lasciata spossata. Come avrei fatto a resistere un’intera serata? Gli ospiti si erano spostati nella veranda coperta, pronti per consumare la cena. «Gretel, credevamo avessi avuto un malore. Adriano ha detto che non hai risposto quando ti a chiamata, stavamo per mandare Claudio a vedere se era tutto a posto.» Odiavo il modo di parlare di Silvia, soprattutto quella sera, e non me ne spiegavo il motivo. «Grazie, fortunatamente non ce ne è stato bisogno.» Lanciai un’occhiata in direzione del primogenito Altieri che non dava alcun segnale di essersi accorto della mia presenza. Non dissi nulla riguardo la sua irruzione in bagno. Qualcuno avrebbe potuto chiedersi per quale motivo. Non mi andava di essere processata di fronte ad una giuria che già aveva una pessima reputazione di me. Davide mi fece cenno di avvicinarmi mentre prendevamo posto a tavola. «Vieni, Greta, siediti accanto a me. Mi capita così raramente di avere vicino giovani attraenti.» Subito Sibilla, la moglie, si girò, ma si capiva che il marito stava giocando, e lei stette allo scherzo. Chiese anche a Nicole di metterglisi vicino e lei rifiutò gentilmente, preferendo stare tra me e il compagno. Ottima scelta, pensai. Era meglio averlo dallo stesso lato, almeno non avrei avuto modo di guardarlo in faccia per il resto della cena. Claudio mi stava di fronte, le sue gambe si allungarono sino a che i nostri piedi non si sfiorarono. Gli sorrisi, rimanendo composta. Mi sentivo ancora un po’ scossa. Mi chiese se c’era qualcosa che non andava. Feci segno di no, accostando la mano per poter stringere la sua un momento prima che iniziassero a servire le portate. Nonostante non fosse successo niente, il senso di colpa mi aveva attorcigliato le viscere. Non era giusto che un estraneo mi provocasse una tale confusione. Avrei dovuto controllarmi o evitare che accadesse ancora.
La porta sbatté prima che fosse dato il via dell’inizio. Una risata argentina seguì un’esclamazione piuttosto colorita. Vidi i coniugi Leoni impallidire di fronte a quel commento poco velato che nessuno poteva fingere di non aver udito. Giulio apparve poco dopo. Giacca di pelle consumata, jeans scoloriti a vita bassa, una maglietta bianca assottigliata a causa dell’uso eccessivo. Amavo quel ragazzo, come un fratello. L’unico componente della famiglia che apprezzassi apparte l’uomo che avevo davanti. Il fatto che si fosse presentato in ritardo, conciato in quella maniera, me lo fece ammirare ancora di più. «Giulio, pensavamo non venissi.» «Scusa il ritardo mamma, dovevo are a prendere Keyla.» Si piegò a prendere qualcosa. La ragazza che zampettò su tacchi di quindici centimetri, ridacchiò al nostro indirizzo, alzando una mano in segno di saluto. Fui l’unica a ricambiare il gesto. Che maleducati! Brasiliana dalla testa ai piedi, aveva un paio di shorts che a malapena coprivano la piega sotto il gluteo. Il seno abbondante era strizzato in una maglietta elasticizzata di un giallo fosforescente, l’ombelico scoperto adorno di un piercing vistoso, i capelli, lunghe onde corvine, denti bianchi spiccavano sulla carnagione olivastra mentre sorrideva ad una frase che Giulio le aveva sussurrato. Era davvero molto sexy. Mi gustai lo sguardo di ribrezzo dei genitori del ragazzo. Volevo ridere fino a sentirmi male, ma non sarebbe stato cortese. Mi ripromisi di farlo più tardi quando avrei ripensato al momento perfetto. «Resta anche lei per cena. Ho già detto a Felipe di aggiungere un posto.» Se avesse potuto urlare, Silvia Leoni, avrebbe scelto quel momento per farlo. Di solito era lei che metteva in imbarazzo gli altri; quella volta, invece, era stata messa in cattiva luce dal figlio che si era presentato a cena con una ragazza che pareva aver raccolto dalla strada. Stefano, il padre di Claudio, restò in silenzio, come sempre. Non era mai stato un grande intrattenitore. L’unica cosa che fece fu fissare troppo a lungo la provocante scollatura della brasiliana. Dovemmo scalare tutti di una sedia per farli entrare. Prima di prendere posto, Giulio venne a depormi un bacio sulla guancia. «Che ci fai ancora in mezzo a questi vecchi, non è il tuo ambiente Greta.»
Feci per picchiarlo, ma lui fu svelto e mi sfuggì. Tirò fuori la lingua per prendermi in giro. «Mettiti seduto Giulio, la cena sarà servita tra poco.» Silvia si era trasformata in una statua di sale, avevo paura che se l’avessi spinta all’indietro e fatta cadere sul pavimento di cotto, si sarebbe frantumata in mille pezzi. Dopo l’inizio un po’ stentato il tempo trascorse armonioso. Giulio, come sempre, era l’anima della festa. Meno male che era venuto. Come previsto, l’attenzione generale fu per l’imminente matrimonio che avrebbe visto protagonisti i due giovani ospiti. Si sarebbe festeggiato in Luglio, mancavano soltanto quattro mesi. Sentivo Adriano annuire e commentare, ma non mi rivolsi mai direttamente a lui, piuttosto a Nicole. Lo evitai per l’intera durata del pasto, così da essere in grado di concentrarmi sufficientemente ed interpretare alla perfezione il ruolo di ospite educata ed arguta. Sibilla continuava ad aggiungere spunti per il tema dei fiori, delle bomboniere, della torta, e di tutto ciò che concerneva la preparazione della cerimonia. Nicole accettava di buon grado i suggerimenti che le dispensava sua suocera, nonostante a me, francamente, sembrasse troppo invadente. «Sibilla…» asserii. Si interruppe a metà di una frase. Stava elencando le sue preferenze rispetto al menù che, a suo parere, sarebbe stato il più adatto per il pranzo di nozze. Non potei trattenermi. Dovevo salvare la piccola ragazza australiana da quel mare burrascoso nel quale la stava trascinando. «Magari Nicole vorrebbe scegliere qualcosa da sola, prima di prendere una decisione. Forse non conosce bene l’Italia, ma credo che lei e Adriano abbiano già in mente il genere di matrimonio che desiderano.» Il silenzio mi circondò e l’aria si fece greve. Come al solito, avrei fatto meglio a tenere la bocca chiusa. Prima o poi avrei dovuto tagliarla quella maledetta linguaccia che mi ritrovavo. Nessuno asserì di essere d’accordo con me, persino Claudio non disse nulla quando cercai il suo aiuto. «Ha ragione mamma, Nicole e io sappiamo cosa vogliamo, chiederemo a te nel caso ci servisse un consiglio, ma abbiamo già fatto la maggior parte del lavoro.»
Forse avrebbe dovuto essere lui per primo a fermare la madre nel caso avesse esagerato, non io. Mi ero intromessa senza averne alcun diritto. Ero stata inopportuna. Mi diede fastidio il fatto che era stato pronto a giustificarmi. Per un momento Sibilla apparve mortificata, evidentemente si era resa conto di essersi lasciata prendere troppo la mano. «Scusatemi ragazzi, sono andata troppo oltre. Ho sempre desiderato organizzare il matrimonio di Adriano. Ma, come giustamente ha detto mio figlio, sono loro a dover scegliere. Scusatemi ancora.» Meno male, me l’ero cavata con una semplice ammissione di colpe. Sibilla si voltò dalla mia parte, prima che la conversazione riprendesse. «Sei sempre così schietta Greta?» Non riuscii a capire se il suo era un tono di accusa o di domanda. Perfetto. Stavo per inimicarmi anche la moglie del capo di mio padre. Avrei dovuto essere diplomatica ed ammettere di aver sbagliato anche io, ma le parole si bloccarono sulla punta della lingua. «Purtroppo sì, non riesco a trattenermi dal dire come la penso, anche se la faccenda non mi riguarda direttamente. Ho sempre creduto che le persone si comportano diversamente a seconda di chi si trovano di fronte. Io posso essere soltanto Greta invece. Forse in determinate occasioni sono capace di limitarmi, ma mai di reprimermi. So che questo può essere scambiato per mancanza di rispetto ma se sono parte della conversazione mi sento in diritto di esprimere il mio pensiero.» Dopo l’arrivo di Giulio quella era la seconda volta che vedevo Silvia a disagio. Se avesse potuto, mi avrebbe schiaffeggiata seduta stante per aver risposto senza controllo. Ero stufa di essere presente a quelle noiose riunioni a base di convenevoli. Non vedevo l’ora di tornare a casa. «Mi è capitato molto di rado di incontrare persone come te Greta. E ho viaggiato parecchio. Non perdere questa caratteristica: la schiettezza è una qualità che sta scomparendo oggi giorno.» Mi sorrise in maniera materna e io feci altrettanto. Oltre la zazzera bionda di Nicole Adriano si sporse a fissarmi. Il volto era teso, gli occhi niente affatto amichevoli. Mi tirai indietro appiattendomi contro lo schienale. Avevo un
bisogno impellente di fumarmi una sigaretta. Speravo che l’insalata arrivasse presto, così avrei potuto alzarmi. Fui costretta ad uscire sul porticato. Il cielo era limpido; qualche stella faceva capolino attraverso il manto di tenebra che avvolgeva la Città eterna. Presi una boccata di fumo e la ingoiai avida. L’odore del tabacco ebbe l’effetto immediato di rilassarmi. Nonostante Sibilla non avesse considerato il mio intervento irrispettoso, avevo deciso di tenere la bocca chiusa per il resto della serata. Questo mi sarebbe costato uno sforzo enorme. Espirai il fumo in una nuvola informe che osservai disperdersi intorno a me. «Zona Fumatori?» Giulio mi raggiunse. Era solo. Chissà dove aveva lasciato la bella sudamericana. Fece scivolare un dito sulla spina dorsale scoperta, io rabbrividii facendo un o avanti ad interrompere il contatto. «Bella scollatura. Mia madre non ha fatto nessun commento?» Mi girò intorno e si fermò di fronte a me. Aspirai ancora prima che mi levasse la sigaretta dalle mani e ripetesse gli stessi gesti liberando nell’aria tre anelli di fumo; poi me la restituì. «Così è come se ci fossimo baciati.» I suoi occhi, così simili a quelli del fratello, mi guardarono nello stesso modo. Strinsi la sigaretta tra le labbra prima di fumare ancora. Decisi di stare al gioco. «Un bacio platonico, ma pur sempre un bacio.» Quello sguardo da cattivo ragazzo mi confermò la natura dei pensieri non proprio fraterni. Sapevo che aveva un debole per me. Avevamo sempre flirtato da quando ci conoscevamo. A Claudio non importava, o almeno così credevo. «Che fate qui fuori? Si gela.» Parlando del diavolo.
Mi abbracciò, stringendomi a sé. Fece per soffiare via il fumo che, inevitabilmente, lo stava accogliendo nella nuvola che ci circondava. «Ci stavamo baciando.» Giulio gli diede una pacca sulla spalla prima di lasciarci soli. L’ espressione corrucciata di Claudio mi rivelò la necessità di spiegare. «Lo sai com’è tuo fratello. Perché gli dai ancora retta? Ha preso un tiro dalla mia sigaretta, null’altro.» Mi scrutò a fondo dopo avermi avvolta ancora più stretta. Una volta soddisfatto, rimase dov’era, scaldandomi con il calore che emanava. «Non mi va che scherzi in questo modo lui. Non farlo più» Il profumo del dopobarba era quasi svanito, c’era solo quello della pelle e degli abiti puliti ritirati dalla lavanderia. Il cuore batteva forte contro l’orecchio. Tum, Tum, Tum. Abbassai le palpebre, lasciandomi cullare dal suono cadenzato. «Se ti dà fastidio, cercherò di evitarlo, ma non capisco perché tu te ne esca proprio adesso. Io e Giulio abbiamo sempre scherzato in maniera un po’ pesante.» «Lo so. Ma non mi va più bene.» Non capivo perché quel giorno il mio fidanzato fosse così polemico. Optai per il silenzio. Non mi andava di impelagarmi in una conversazione che sarebbe stata lunga e noiosa. «Dovresti smettere di fumare. Ti fa male.» Sbuffai, in maniera tutt’altro che elegante. «Oggi sei quasi insopportabile. Hai intenzione di portarmi all’esasperazione? Ti prego Claudio lasciami respirare.» Feci forza perché aprisse le braccia. Quando i nostri corpi non furono più a contatto mi accorsi che fuori, la temperatura era calata. Se non fossi rientrata subito mi sarei presa un bel malanno di stagione. Non potevo permetterlo, il
nuovo lavoro sarebbe cominciato il lunedì successivo, non era il caso di mancare il primo giorno. Buttai la cicca nell’aiuola fiorita. Fissai il mozzicone spegnersi prima di voltarmi per entrare. Claudio era combattuto, voleva dirmi qualcosa ma non sapeva se fosse il caso. «Che c’è? Ti sei offeso?», gli domandai. Fece segno di no. Le iridi ancora più nere a causa della luce bassa. «Non lo so, oggi sei diversa. Agitata. Cosa è successo?» Perché se ne usciva in quel modo? Si era forse accorto del debole che avevo per l’ amico d’infanzia? Allungò la mano a prendere la mia. «Lo sai che puoi dirmi tutto, Greta. C’è qualcosa che non va?» Come potevo uscire da quella situazione? Come avrei potuto giustificarmi? Decisi di raccontargli l’accaduto del pomeriggio. Inizialmente apparì spaventato, mi chiese più volte se stavo bene, se avessi bisogno di un medico. Una volta accertatosi del fatto che ne ero uscita incolume, si tese come una corda di violino. «Perché non me ne hai parlato prima? Perché tu e Adriano siete stati zitti quando vi siete incontrati questa sera?» Mi morsi le labbra. «Non lo so, lui non ha detto nulla, io neppure. Non credevo fosse una cosa così importante.» Abbassai gli occhi, l’espressione di lui era tutt’altro che amorevole. «Non mi piace quando mi nascondi le cose Gretel. È come se ci fosse qualcosa che non vuoi dirmi.» Mi lasciò andare. Era arrabbiato sul serio. Non aggiunse altro, mi diede la schiena preparandosi ad entrare. Da solo.
Tremavo come una foglia, non ero certa se fosse per il freddo o per il fatto che sapevo di averlo ferito. Guardai intorno, le belle di notte che ricoprivano il praticello curato avevano dei colori splendidi. Mi avvicinai al cespuglio fiorito, non avevano un gran profumo ma erano splendide da ammirare. Piegai le gambe stringendo le ginocchia in posizione fetale. Per un po’ rimasi ferma, fino a che le giunture non cominciarono a formicolare. Era ora di tornare. Claudio era seduto su una poltroncina del patio a sorseggiare un digestivo, Adriano gli stava di fronte. Stavano discutendo; le voci basse, i corpi tesi. Entrambi mi fissarono quando varcai la soglia, le loro espressioni erano simili. Tornarono a parlottare senza più badare a me. Giulio se ne andò poco dopo il dolce. Aveva programmato una bella seratina mi disse, nel salutarmi con una strizzatina d’occhio. Ogni minuto che ava il mio accompagnatore diventava più ombroso, evitando di parlare con me; solo in casi estremi mi rivolgeva frasi monosillabiche. Giungere alla fine della serata fu un supplizio. Non vedevo l’ora di abbandonare quel luogo infausto. Al momento dei saluti fui abbracciata calorosamente da entrambi i coniugi Altieri, persino il padre di Claudio mi baciò sulle guance, nonostante lo fe molto di rado. Silvia si avvicinò. Aveva notato che tra me e il figlio c’era stata qualche incomprensione, ma era palese che non ne fosse affatto dispiaciuta. «Cara. Claudio dorme da te questa sera?» Non lo sapevo, perché me lo chiedeva di fronte a tutti? La ringraziai per l’ospitalità, il tono freddo, monocorde. Ero stanca delle continue frecciatine. «Non lo so. Lo chieda a lui.» Ripresi i commiati il più frettolosamente possibile. Adriano e Nicole si congedarono per ultimi. Baciai la piccola ragazza bionda nonostante non ci fosse calore tra di noi. Io e Adriano ci guardammo. Mi sentii colpevole. A causa mia aveva discusso con l’amico, solo che, a differenza di me, pareva aver risolto la questione. Non lo toccai, né mi avvicinai. Il mio corpo reagiva istintivo alla sua presenza e sapevo che, se lo avessi sfiorato, sarei andata in fiamme; non mi sembrava il momento opportuno.
«Ciao.» Dissi ostile. «Ciao.» Altrettanto rabbioso. Era finita. Finalmente. Seguii il mio fidanzato fino alla sportiva rossa.
Claudio cambiò stazione un paio di volte prima di trovare la radio che trasmetteva solo successi d’amore. Per un po’ rimanemmo in silenzio ad ascoltare Whitney Houston che cantava I will always love you. Adoravo quella canzone, ma il fatto che continuasse a tenermi il muso senza proferire verbo, non mi permetteva di godermela appieno. «Perché non parli? Lo so che sei arrabbiato, ma il rimanere in silenzio non ci aiuterà a risolvere la situazione.» Lo vidi contrarre un paio di volte i muscoli della mascella. Era davvero nervoso. «Non mi va di parlare, Gretel.» Di nuovo il mio nome per intero. Brutto segno. Per un po’ rimasi in silenzio, la mente cercava un modo plausibile per uscire da quello stato di imbarazzo. Ero consapevole di avere sbagliato, ma mi pareva che stesse esagerando. «Ti va di dormire da me…?» Nessuna risposta, sul lato sinistro dell’abitacolo si era sprigionata una corrente di aria fredda che avrebbe potuto congelare un orso polare. «Claudio, ti prego, non è successo nulla.» Aumentò la tensione sulla mandibola. Mi preparai alla valanga che mi stava per cadere addosso. «Non è successo niente Greta? Niente? Ne sei sicura? Non mi risulta.» Deglutii rumorosa. Sapevo perfettamente a cosa si stava riferendo.
«Per te potrà anche non significare nulla il fatto che sei stata quasi investita dal mio migliore amico, ma permettimi, non sono dello stesso avviso.» Continuò a guardare fisso di fronte a sé. Le mie mani, invece, non riuscivano a stare ferme. «Mi dispiace, non era mia intenzione ferirti.» «Non servono a nulla le scuse Greta. Sono arrabbiato, e di certo non mi erà questa sera. Stanotte torno a dormire a casa mia.» Avevo combinato un bel guaio. La cosa che mi rincuorava era il fatto che non avesse accennato alle reazioni che avevo avuto di fronte ad Adriano. Forse erano evidenti solo a me stessa. «Come vuoi, non sarò io a costringerti a fare una cosa che non hai piacere di fare.» Mi chiusi dietro un silenzio a metà tra l’offeso e il dispiaciuto. Restò muto anche lui per tutto il resto del tragitto. Le luci della città ci illuminavano a tratti; nello specchietto laterale vedevo il pallido riflesso che mi apparteneva. Chiusi gli occhi lasciandomi cullare dalle note lente della radio, la fronte appoggiata al finestrino; il motore silenzioso dell’auto in sottofondo fino a che i pensieri non mi abbandonarono.
V
Lui; Adriano
Considerazioni
I miei non parlarono quando lo sportello della macchina si chiuse. Silvia e Stefano continuavano a salutarci con la mano. Papà abbassò il finestrino per ricevere l’ennesimo invito da parte del padre di Claudio. «Tornate presto. Siamo stati davvero bene questa sera.» L’uomo al posto di guida sorrise. «Non preoccuparti, le occasioni non mancheranno, ci vediamo domenica al Country Club. Buonanotte.» Appena la Jeep nella quale eravamo comodamente sistemati uscì dalla proprietà, notai che si rilassava sul sedile spazioso. Sibilla gli teneva la mano all’altezza del cambio. Mi era mancato vedere i piccoli gesti di affetto che erano soliti scambiarsi. «È stato gradevole vedere Greta. È diventata una ragazza splendida.» Mi indurii, non mi piaceva sentire quanto stimassero la giovane donna. «È vero. Lei e Claudio sono una splendida coppia.» Quell’affermazione mi diede ancor di più sui nervi. «Silvia mi ha detto di non apprezzarne l’eccentricità. Hai visto che razza di dipinto ha sul fianco?»
Il sopracciglio si alzò nel commentare l’enorme tatuaggio. Era eccessivo ma molto ben indossato. Scossi la testa. All’inizio quella macchia mi era apparsa orribile. Rampicanti che si allungavano sulla vita sottile, fiori che si aprivano sotto le costole visibili, una fata che faceva capolino da dietro un petalo. Non avrei mai approvato che la mia donna fosse marchiata a quel modo, ma su di lei, aveva un non so che di adeguato. «È una ragazza fuori dagli schemi, ha una personalità forte, si vede che non le piacciono le imposizioni.» Per un po’ continuai ad ascoltare i miei che commentavano la figlia di Sergio, poi mi distrassi ad osservare il viso di Nicole incuneato nell’incavo della spalla. Avevo cominciato ad insegnarle qualche parola di italiano quando eravamo in Australia, ma non credevo avesse capito nemmeno la metà di ciò che era stato detto quella sera. Aveva parlato solo con Greta e questo mi aveva infastidito. Non volevo che le due diventassero amiche, non sapevo per quale motivo, ma preferivo che il rapporto non si approfondisse più di tanto. Accarezzai la fronte rotonda. La pelle morbida mi aveva sempre attratto nelle donne e lei aveva una delicatezza ineguagliabile. «Tutto ok Niky?» Annuì. Le labbra si posarono sulla mascella coperta da una corta barba. Doveva essere fastidiosa da baciare. Ripensai alla serata appena trascorsa. Quando l’avevo vista arrivare, per poco non mi ero strozzato con l’oliva che stavo mangiando. La voce che avevo udito provenire dall’ingresso mi era apparsa familiare, ma non avrei mai immaginato che potesse appartenere alla ragazza con la quale mi ero scontrato. Ero stato divertito del fatto che non avesse alcuna voglia di entrare. Si capiva da come perdeva tempo con il domestico. Tuttavia, quando l’avevo osservata, il mio cuore aveva smesso di battere. Ero distante dal resto del gruppo, stavo spiegando a Nicole le caratteristiche del dipinto che raffigurava una scena della guerra di Troia. Lei ne era stata incuriosita, non prestando troppa attenzione alla spiegazione. Mi ero accorto del suo disagio quando, una volta girata la testa, si era irrigidita, così mi ero voltato anche io. Scarpe altissime racchiudevano due piedi affusolati dalle unghie curate, laccate di verde scuro. Caviglie sottili, polpacci muscolosi. Le gambe
erano scoperte sino a metà della coscia, tornite e magre: si vedeva che era un tipo a cui piaceva tenersi in forma. L’abito le svolazzava largo sulla figura esile coprendole appena il seno piccolo, nascosto sotto il tessuto impalpabile. Un ricco ricamo impreziosiva l’alta scollatura. Le clavicole sporgevano delineando le spalle dritte. Collo lungo, mento appuntito. Gli zigomi alti mettevano in risalto gli occhi allungati, il naso piccolo, labbra piene dipinte di rosso. Il suo sguardo di ghiaccio, appesantito da tutto quel trucco, si era posato su di me riconoscendomi. Non avrei mai creduto di poter essere guardato in quel modo, tanto a lungo e così intensamente. Quel pomeriggio era apparsa come una ragazzina indifesa, la sera si era trasformata in una donna che non potevi evitare di ammirare a bocca aperta. Avevo tossito fino ad assumere una sfumatura vermiglia quando aveva voltato la schiena a mostrare la parte posteriore del vestito. Non avrei mai permesso alla mia compagna di andare in giro in quel modo, ci mancava poco che fosse nuda a tutti gli effetti. Una tensione pericolosa era nata al basso ventre, mi ero dovuto concentrare parecchio per evitare che qualcuno si accorgesse dell’effetto che mi aveva fatto, soprattutto Nicole, chiaramente guardinga nei confronti della nuova ospite. Sapeva che avevo un debole per le belle ragazze. Forse era per questo che andavamo così d’accordo. Accettava ogni parte di me. Ogni volta che avevo sbagliato era stata pronta a perdonarmi, tuttavia, non ero sicuro che una volta sposati si sarebbe dimostrata altrettanto comprensiva. «Sei stata bene Nik?» Era sul punto di addormentarsi. «Sono simpatici i tuoi amici. Hai discusso con Claudio?» Annuii. «Perché?» Non mi andava di scatenare una lite. Ero già seccato per il fatto che lui se la fosse presa tanto per ciò che era successo. «Nulla, incomprensioni.» Ritornò a scrutare fuori dal finestrino sempre appoggiata al mio petto. I pensieri tornarono lì dove li avevo lasciati. Avevo provato a starle lontano ma,
quando si era avviata per andare in bagno, visibilmente scossa, avevo dovuto imporre a me stesso di non correrle dietro. Una volta che Silvia si era chiesta dove fosse, non avevo potuto astenermi dall’offrirmi di controllare. Pessima idea. La mia mente aveva smesso di funzionare; non avevo nemmeno bussato prima di irrompere nella toilette. Lei era lì, pallida, sorpresa, bellissima. L’impulso di sbatterla contro il lavandino mi aveva quasi fatto perdere il controllo. Era così arrogante, così distante. Non capivo per quale motivo, in sua presenza, il lato irrazionale prendesse il sopravvento. Era la fidanzata di Claudio, avrei dovuto lasciarla stare, non era giusto indugiare su certi pensieri. Volevo toccarla, come avevo fatto quel pomeriggio; il profumo che emanava aveva il potere di annebbiare i sensi. Appena chiusa la porta alle spalle il senso di colpa si era fatto pressante. Se si fosse mossa verso di me, l’avrei presa lì, senza curarmi delle conseguenze. Per mia fortuna non sembrava incline al mio fascino, cosa che mi aveva infastidito parecchio. Nessuna donna si era mai negata, nessuna mi aveva mai trattato con tanta indifferenza. La serata era stata un’agonia, per non parlare del fatto che ogni volta che si muoveva ero teso nel percepirla. Nemmeno uno dei presenti se ne era accorto, ma il nervosismo costante mi aveva spossato. La ciliegina sulla torta era stata la sfuriata di Claudio al concludersi della serata. Mi aveva guardato come se non mi riconoscesse; avevo provato a giustificarmi, ma non era affatto felice del fatto che sia lei che io gli avessimo tenuto la cosa nascosta. Figuriamoci se avesse solo immaginato cosa avrei voluto farle. Mi avrebbe accoltellato con una forchettina da frutta, ne ero certo. Quel pensiero mi fece sorridere. Giungemmo al posto sotterraneo che era stato comprato per custodire la macchina. Il palazzo era antico, signorile; la casa in cui ero cresciuto. Per il momento io e Nicole avremmo abitato dai miei, fino a che non avessimo trovato una sistemazione tutta nostra. Ci salutammo di fronte alla nostra stanza; avevamo il bagno in camera, non ci saremmo visti fino alla mattina successiva. La mia futura sposa si muoveva lenta intanto che si sfilava gli orecchini. Il piano di marmo con due lavabi era gigantesco al confronto. Era così minuta da apparire piccola in qualsiasi ambiente. Mi avvicinai da dietro, osservandola attraverso lo specchio. Gli occhi erano fermi sulla mia immagine. La lampo non fece fatica ad abbassarsi, l’abito le scivolò ai piedi portando alla luce il completo senza spalline. Le presi i fianchi tirandola a contatto con la protuberanza gonfia che avevo in mezzo alle gambe.
Volevo imprimere nella mente ogni linea del suo corpo cancellando dalla memoria i contorni della ragazza rossa che ancora vedevo di fronte a me. Avrei preferito poterle afferrare i capelli, ma erano troppo corti. La testa rivolta all’indietro a scoprire la gola dorata. Sapevo che l’orecchio era una parte sensibile. Mugolò mentre le stuzzicavo il lobo con i denti e la lingua. Abbassai la lampo, non avevo voglia di spogliarmi. Con le dita trovai il bordo delle mutande inesistenti, lo scostai infilandomi nel calore della sua intimità. Stimolai il clitoride, volevo farla venire in quel modo, sapendo che da dietro non avrebbe raggiunto l’orgasmo. Cercò di voltarsi per cambiare posizione ma la obbligai a rimanere giù, il sedere rivolto a me. Il membro eretto, pulsava dolorosamente. Mi mossi facendole intuire quanto fossi eccitato. La mano destra chiusa sul collo, imponeva che stesse piegata a metà; tre dita della sinistra erano impegnate a giocare con il sesso umido. Percepii il cambiamento nel respiro, stava per raggiungere il piacere. Tremò posseduta dalle vibranti scosse dell’orgasmo, gli ansimi rochi mi fecero eccitare. Non aveva ancora finito che entrai in quella calda e accogliente tana. Era stretta e io troppo grosso e, nonostante fosse bagnata, ebbi qualche difficoltà. I palmi premuti suoi fianchi rotondi a comandare il ritmo dell’amplesso. Affondai piano all’inizio, poi non ce la feci e iniziai a spingere forte. La punta del pene sbatteva contro la parete uterina. Lamenti accompagnavano il suono fradicio delle carni, non mi aveva chiesto di fermarmi, nonostante le stessi facendo male. Mi conficcai sempre più svelto. Ero quasi arrivato che iniziò a piagnucolare pregandomi di smetterla. La misi dritta tirandole i capelli. Ci guardammo riflessi, gli occhi appannati, io che mi svuotavo con un ultimo affondo. Lacrime che rischiavano di erompere le illuminavano i bulbi, sapevo che non erano dovute al piacere appena provato. Le appoggiai la fronte sulla spalla; era troppo bassa perché quella posizione potesse essere comoda. «Scusami Nicole, non volevo farti male.» Si sfilò piano. «A volte sei troppo violento Adriano.» Presi un pezzo di carta igienica per evitare di spargere il resto del mio seme sul pavimento. «Lo so, ma avevo voglia di farlo da tutta la sera.»
Sorrise come una ragazzina compiaciuta. Non era del tutto vero ma non era necessario che lo sapesse. Nicole era una splendida partner sessuale, entrambi ci capivamo perfettamente. Io guidavo il gioco e lei non si opponeva, mai. Mi sciacquai prima di andare a letto. Quando sbucai oltre l’uscio era già distesa sotto la trapunta leggera. La testolina bionda sbucava da sotto la coperta, illuminata dalla luce azzurra del televisore. Mi distesi a pancia in su dandole modo di potersi accoccolare addosso a me. Prima di chiudere gli occhi pensai a come sarebbe stato avere Greta premuta sul fianco.
VI
Lei, Greta;
Lavoro, lavoro, lavoro
Faceva un caldo pazzesco quel giorno a Roma. Già dalla mattina presto, appena uscita di casa, avevo sentito come una sorta di ventilatore che soffiava alitate soffocanti, ed erano soltanto le otto. Ero chiusa nel negozio dove lavoravo, soltanto io e il body guard alla porta. Era trascorso un mese dal giorno della mia assunzione. Le quattro ragazze che già lavoravano lì erano simpaticissime, e io mi ero inserita nel team senza problemi. Quel martedì della seconda settimana di Maggio, avevano deciso di lasciarmi da sola per la prima volta. Non perché volessero mettermi alla prova, ma soltanto per il fatto che ognuna di loro aveva preso degli impegni, e nessuna poteva spostare il proprio appuntamento. Ergo, io ero la soluzione ai loro problemi, essendo libera da qualsiasi faccenda. Il lavoro era semplice; mi piaceva stare a contatto con il pubblico, soprattutto perché la gente che frequentava quell’attività commerciale era molto ben educata e chiedeva aiuto senza che tu dovessi inseguirli per il negozio. Le giornate avano in fretta. Quando avevo ricevuto il primo stipendio mi ero sollevata fino a toccare il cielo. Per festeggiare avevo portato Claudio fuori a cena, in un ristorantino ad Ostia. Avevamo eggiato mano nella mano sul lungo mare, ci eravamo fermati a mangiare un dolce in una delle mie gelaterie preferite, avevamo bevuto un bicchiere di chardonnay seduti al tavolo di un lounge bar a ridosso della riva e avevamo fatto l’amore nella stanza padronale dell’appartamento sulla spiaggia che possedeva. Dopo la cena disastrosa superata con qualche difficoltà, non ci eravamo rivolti la parola per una settimana. Lui non mi aveva chiamata e, quando avevo alzato il telefono allo scopo di comunicare, era stato ermetico e scostante, affrettandosi a chiudere la conversazione. Avevo immaginato che stesse per lasciarmi. Non si
era mai comportato in quel modo; forse aveva capito che non ero la persona adatta a lui. Precisamente, sei giorni dopo il distacco forzato, aveva deciso di chiedermi scusa inviandomi un mazzo di rose rosse. Lo aveva fatto recapitare a casa. Mia madre, che al momento della consegna era l’unica presente, era impazzita di gioia nel leggere il messaggio. Aveva già dato per scontato che ci saremmo separati a causa del mio caratteraccio. Be’, a quanto pare si sbagliava. Mi sedetti dietro il bancone dove era appoggiata la cassa. La poltroncina non era affatto comoda, sarebbe stato meglio se mi fossi sistemata sui divanetti dove facevamo accomodare i clienti, ma non sarebbe stato professionale se qualcuno fosse entrato e mi avesse trovata lì a sfogliare il giornale che tenevo aperto sulla scrivania. C’era un articolo su una coppia famosa che aveva annunciato l’imminente matrimonio. Le immagini che accompagnavano il pezzo ritraevano la donna che provava vari abiti da sposa. La domanda cruciale era: “Quale sarà il vestito che sceglierà?” Sfogliai ancora, annoiandomi a guardare la quantità interminabile di servizi pubblicitari. Possibile che per leggere qualcosa di interessante avrei dovuto comprare il Quotidiano o il Messaggero? Mi concentrai sulla pagina degli oroscopi. Scorpione, Amore: Per i nati sotto il segno dello Scorpione questo mese sarà pregno di avvenimenti. Incontri focosi si preannunciano nei prossimi giorni. Non disperate donne single, l’uomo dei sogni sta per bussare alla porta… Non avevo finito di leggere le ultime notizie su salute e lavoro, che il camlo emise un trillo. Se avessi creduto alle predizioni quello sarebbe stato il segnale giusto, ma io non ero una donna single, l’uomo l’avevo già trovato. Sollevai la vista, prima di spingere il pulsante che avrebbe sbloccato la chiusura di sicurezza. La mano si fermò a mezz’aria. Era da quella maledetta giornata che non avevo avuto il piacere della sua compagnia. Occhi verde smeraldo mi fissavano da dietro il vetro. Pigiò di nuovo il citofono. Trasalii. L’uomo di guardia aveva un’espressione interrogativa. «Che fai non apri? Lo conosci? Vuoi che gli dica di andarsene?» Feci cenno di no con la testa, non fidandomi della voce. La porta si aprì con uno scatto metallico. Vestito in giacca e cravatta, la camicia leggermente aperta e gli occhiali da sole in mano, assomigliava ad un divo del cinema che aveva appena
terminato di girare una scena nella quale interpretava un agente segreto troppo sexy per essere reale. «Ero convinto che mi avresti lasciato squagliare fuori. Fa caldo per strada, qui è tutta un’altra cosa.» Sorrise, come se fossimo stati vecchi amici. Posò le lenti sul bancone con gesto noncurante. Come detestavo gli uomini troppo consapevoli del loro fascino! «Ci stavo pensando, ma credo non sarebbe stato etico da parte mia.» Si voltò serio. «Infatti.» Si aggirava per il negozio con una tale scioltezza da farmi sembrare impacciata mentre sollevavo il culo dalla sedia. «Ciao Greta. Come stai? È da un po’ che non ci vediamo.» Non fece un o. Meno male. Non credevo avrei sopportato di essere sfiorata da lui, anche soltanto per una stretta di mano. Ero sempre riuscita a controllare l’istinto prima di incontrarlo. Con la sola presenza, era capace di mandare in subbuglio i miei ormoni. Presi una grossa boccata d’ossigeno, cercando di darmi un contegno. «Sto bene. Nessuno ha tentato di uccidermi con un Suv ultimamente.» Anche sotto pressione, ero in grado di rispondere a tono. Molto bene, non ero del tutto indifesa, pensai. «È un bene. Mi dispiacerebbe che qualcuno mi portasse via il primato.» Strinsi i denti, scricchiolarono nel frattempo che pensavo ad una risposta pungente da dare. Niente da fare, aveva avuto l’ultima parola. Uno a zero per Adriano Altieri. «Ti serve qualcosa? Sto lavorando, non posso perdere tempo.» Alzò un sopracciglio notando la rivista semiaperta che avevo abbandonato.
«Lo vedo. Sei oberata.» Mi affrettai a nasconderla. «Indagini di mercato, bisogna essere informati.» Il tono della mia voce, da tagliente si fece stridulo. Non amavo essere redarguita, soprattutto se chi mi accusava aveva ragione. Lo vidi osservare con curiosità gli articoli che erano arrivati da pochi giorni. Concentrò l’interesse su una borsa laccata rettangolare, verde acquamarina con le rifiniture oro. Era la mia preferita. Mi bastava guardarla per desiderare di possederla, ma costava più di tremila euro, e non potevo permettermela. «Quanto viene questa?» Lo detestai solo per averlo chiesto: non volevo che la portasse via, era l’unico pezzo per il quale avrei fatto carte false pur di possederlo. «3,795 euro.» Ero consapevole di non fare gli interessi dell’azienda trattandolo in quel modo, ma non ero in grado di controllarmi. Forse mi rivolgevo tanto freddamente perché avevo paura, temevo la reazione del corpo quando si trovava nei paraggi, non potevo permettermi che si accorgesse di ciò che suscitava in me. Cominciò ad indicare tutte le borse in esposizione, chiedendomi prezzo, materiale, luogo di provenienza. Ci mancava soltanto che domandasse chi le aveva cucite, e avremmo avuto il quadro completo di ogni prodotto. Mentre parlavo, l’intonazione delle risposte era sempre più seccata. Arrivammo finalmente all’ultima. Avevo pregato perché qualcun altro entrasse interrompendo l’interrogatorio. Purtroppo eravamo ancora soli, eccetto per il body guard che si stava divertendo a mie spese. «Sei molto preparata Signorina…?» Ero a pochi i da lui. Potevo percepire il profumo di dopobarba che sprigionava la sua pelle. Mi irrigidii ancora di più nell’avvertire una contrazione allo stomaco. Quando ero nervosa soffrivo di coliche. Si stava preannunciando una splendida mezz’ora. Non potevo credere che fosse la causa di tanta
agitazione. Adriano era per me come la criptonite per Superman. «Perché ti interessa sapere il mio cognome?» L’espressione allegra si appannò. Alzò le spalle. «Curiosità, non volevo indispettirti. Sei sempre così simpatica?» No. Non lo ero. «Soltanto con chi si diletta a stuzzicarmi.» Quegli occhi mi scrutavano con troppa attenzione. Ebbi l’impressione che le guance fossero così rosse da sembrare grosse ciliege. Avevo un bisogno immediato dello specchio, dovevo vedere in che condizioni fossi. «Prevedo un futuro molto agitato per noi…» Noi? Quale noi? Non c’era e non ci sarebbe mai stato un noi. L’ultima parola della frase era stata buttata lì, in sospeso. «Hai trovato quello che cercavi?» Meglio cambiare argomento, non credo sarei riuscita ad uscire vincente da quella conversazione. «Sì. La prima che ho visto. Mi piace il colore.» Volevo imprecargli contro. Quello era la mia tinta preferita. «E’ un regalo?» “Certo che era un regalo stupida! Eri convinta se ne sarebbe andato in giro con la Louis Vuitton appesa al braccio?” Mi rimproverai mentalmente per l’idiozia della domanda. Strusciai i piedi a terra nel raggiungere la borsa. Le dita si chio sul manico rigido. Assaporai la sensazione di stringerla ancora una volta a me. Non ero mai stata una ragazza che prestava attenzione ai beni materiali, ma per quella Louis Vuitton mi sarei volentieri convertita al consumismo. «Si grazie. E’ per Nicole.»
Non feci commenti quando digitai il codice al computer. Pagò con la carta di credito, mentre io avvolgevo accuratamente il prezioso dono. Una volta che la busta fu pronta e la transazione eseguita, gliela ai, sicura che stesse andando via. Ci fu un attimo di indecisione da parte sua. Speravo che si levasse di torno, dandomi la possibilità di respirare di nuovo. «Non sono venuto qua solo per questa.» Indicò il pacco. Possibile che in quel momento nessuno avesse voglia di farsi un giro nel punto vendita dove lavoravo? Dov’erano finiti i turisti di Roma? Guardai l’orologio dal design moderno appeso alla parete. Erano le due e mezza, ora di pranzo. «E cosa sei venuto a fare qui?» La mia voce, quella di un eunuco, se fosse stata un’ottava più alta avrebbe rotto i vetri del locale. «Sono venuto per te. Avevo bisogno di parlarti.» Piegò un gomito sul banco bianco laccato, il suo doppio si rifletteva dal basso. La mia sfrenata immaginazione galoppò a briglia sciolta, vagheggiando su cosa volesse. L’espressione che feci doveva essere buffa perché rise così tanto da farmi vibrare. «Cos’è che ti diverte?» Odiavo quando le persone mi scoppiavano a ridere in faccia, soprattutto se la causa ero io. «Nulla. È solo che sembri così sorpresa. Terrorizzata aggiungerei. Tranquilla, non sono qui per ucciderti.» Continuò a sorridere. Questo non migliorò certo il mio umore. Se avessi potuto riconoscermi su un fumetto, mi sarei vista con una nuvola nera che si ingrandiva fino a ricoprire tutto intorno. «Se hai finito…dimmi quello che devi e vattene.» Nessuno avrebbe potuto mettere in dubbio che fossi incazzata nera.
«Sei molto permalosa Greta. Come bisogna comportarsi con te per evitare che tu reagisca come fai?» Si avvicinò pericolosamente, sporgendosi verso di me. Schiacciai la schiena contro il cartongesso bianco a dividere la zona. «Non lo so, ma se qualcuno volesse sapere come fare per farmi arrabbiare, basterebbe chiederlo a te.» Quelle bellissime labbra si sollevarono un po’ di più. Ero una lepre in trappola, puntata da una pantera. Il suono martellante del cuore mi aveva resa parzialmente sorda, lo stomaco gorgogliava irrequieto. Ci mancava soltanto che iniziassi a sudare, sarebbe stato il massimo! «Sarebbe divertente. Il metodo Altieri per inimicarvi una ragazza, senza nemmeno sapere come.» Bugiardo, sapeva benissimo come innervosirmi. Ero certa che si comportasse in quel modo apposta. La cosa che mi sorprendeva era il fatto che una persona che mi conosceva appena, sapesse esattamente quali corde toccare per provocare delle reazioni in me. Il suo viso era a pochi centimetri. Riflettei su quanto fosse recente l’ultima depilazione di sopracciglia e baffetti. Da quella distanza, se ne sarebbe accorto. «Hai intenzione di are da questa parte? Non c’è bisogno che scavalchi, ti indico la strada.» Denti bianchi che spiccavano sulla pelle dorata. L’alito sapeva di menta. “Che qualcuno lo fermi. Se si avvicina un altro po’ cado a terra.”, pensai imbarazzata. «No grazie, preferisco guardarti di fronte.» Non potevo credere a quello che stava succedendo. Il migliore amico del mio fidanzato stava flirtando con me nel negozio dove ero impiegata, tra due mesi si sarebbe sposato e io, non riuscivo a muovermi perché paralizzata dalla sua presenza. Quella situazione era surreale. Si rese conto del mio crescente disagio. Si sollevò piano, lasciandomi spazio
sufficiente. Le biglie di vetro che erano i suoi occhi, non si staccarono mai dai miei. «Ho parlato con Claudio oggi. È dalla cena a casa dei suoi che non ci vediamo.» Grazie al fatto che non mi stesse più appiccicato, ero finalmente capace di pensare. «Non l’ho sentito, non mi ha ancora detto niente.» «Mi sono scusato ancora per la storia del “quasi investimento”…» Fu duro nell’esprimersi. Cosa voleva? Un’ammissione di colpe da parte mia? Poteva scordarselo. «Gli ho chiesto per quale motivo non gli fosse mai venuto in mente di organizzare una serata insieme e, dopo qualche insistenza, mi ha spiegato perché.» Ero stata tradita dal mio compagno. Come si era permesso di coinvolgermi? Questa non gliel’avrei perdonata. «Ha detto che non hai piacere a trascorrere del tempo in nostra compagnia.» Gli aveva raccontato proprio tutto. Claudio me l’avrebbe pagata. «Non credi che lui ne sarebbe contento? Sono anni che non abbiamo la possibilità di frequentarci, per entrambi sarebbe bello condividere delle esperienze.» «Perché non vi organizzate e non uscite tu e lui, senza trascinare terzi?» Mi sentivo in imbarazzo. Un conto era rispondere a tono alle sue battute sagaci, un altro era essere colpevolizzata per il fatto che non potessero vedersi. «Ci piacerebbe uscire in quattro qualche volta. Nicole non conosce nessuno qui a Roma. Non pretendo che diventiate amiche, anzi, ma tu parli bene l’inglese e lei è sola.» Era questo il motivo per il quale mi voleva costringere ad accettare l’invito? Fare
da balia alla sua futura moglie? Lo stomaco fece un paio di giri su se stesso. «Nicole può andare in una scuola di Italiano ed imparare da gente competente come ci si rivolge nella nostra lingua.» Mi pentii subito di ciò che avevo detto, avrebbe potuto scambiare la ritrosia per gelosia. Si sollevò dal bancone della cassa. La mandibola scattosa. «Scusami, non volevo infastidirti. Fai come se non fossi mai venuto. Buona giornata.» Avrei dovuto farlo andare via. Sarebbe stato meglio per tutti. Ci saremmo incontrati al matrimonio e, successivamente, le nostre vite avrebbero continuato parallelamente, senza mai incrociarsi. Non andò così. Lo chiamai senza convinzione. Non si voltò nemmeno. La mano sul pulsante di apertura quando lo raggiunsi. Gli afferrai il braccio, bloccandolo a metà del gesto. Accanto a noi c’era Emilio, la guardia che mi stava osservando come non avrei voluto fe, la sua disapprovazione era palese. «Adriano scusami. Non volevo essere così scortese.» Si girò piano. Mio Dio era altissimo. La sommità del mio cranio gli arrivava a malapena al mento. Non indossavo i tacchi, mi sentivo piccola e indifesa di fronte a lui che mi guardava dall’alto. «Sì. Sei stata davvero molto scortese Greta.» Non c’era nessun accenno di sorriso su quel volto troppo bello. Dovevo rimediare al casino che avevo combinato, era pur sempre un amico di Claudio. Per rispetto a lui, mi sarei dovuta comportare molto meglio di come avevo appena fatto. «Hai ragione. Lo ammetto e me ne dispiaccio. Fai quello che ti pare, organizzatevi. Sabato e Domenica sto a casa perciò Venerdì per me sarebbe perfetto.» La tensione sulla mascella si ammorbidì, aveva smesso di digrignare i denti come un cane in procinto di mordere. «Non sei molto brava a chiedere scusa o sbaglio? È il peggior tentativo di
rimediare ad un errore al quale io abbia mai assistito.» Nemmeno quelle ultime parole ebbero il potere di farmi innervosire. Mi bastava che la rigidità muscolare lo abbandonasse e che continuasse a comportarsi come aveva già fatto, da stronzo presuntuoso che flirtava senza una ragione particolare. «Prendere o lasciare Adriano, non mi piace pregare.» Una scintilla gli illuminò lo sguardo. Chissà a cosa stava pensando. «Prendo. E venerdì sia. Ci penso io ad avvertire Claudio. Buon proseguimento con le indagini.» Non aggiunsi altro, chiudendogli l’entrata alle spalle. L’aria era nuovamente respirabile. Mi sembrò di essermi scrollata un peso da cento chili di dosso. Lo osservai mentre si allontanava per Via Condotti. Un paio di ragazze lo fissarono nel argli accanto. Una volta superato, entrambe lo seguirono estasiate, indecise se parlargli o meno. Le vidi trotterellargli dietro dandosi di gomito l’un l’altra. Evidentemente stavano apprezzando il bell’Antonio che era. Li seguii fino a che non scomparvero alla vista. Sulla faccia di Emilio si rincorsero una decina di accuse. «Lo sai che quel tizio vuole qualcosa da te. Non è vero?» Aggrottai la fronte. Ma che diavolo stava dicendo? «È un amico del mio fidanzato, hai sentito per quale motivo è venuto.» Non mi andava di dare spiegazioni. Sicuramente aveva travisato la situazione. «Non fare la finta tonta Greta. Sai benissimo quello che voleva fare.» Lo guardai accigliata. «Smettila. Te l’ho già detto, è un amico di Claudio e questa è solo la seconda volta che lo vedo» Sbuffò, rivolto al soffitto.
«Se è solo la seconda volta che vi vedete stai veramente nei guai piccola. Quello tra un paio di settimane ti si mangia in un boccone.» Le orecchie mi andarono a fuoco. «Che cazzo stai dicendo? Si deve sposare tra due mesi e poi…non ne voglio nemmeno discutere, non c’è niente da dire.» La frase suonò minacciosa persino a me. Alzò le mani in segno di resa. «Era solo un avvertimento Greta. Mi pare strano che Claudio non si sia accorto di nulla, a meno che lui non si comporti in maniera diversa quando è in presenza di altri.» «No Emilio, è solo che i nostri caratteri non sono compatibili, ad entrambi piace avere l’ultima parola, ecco tutto.» Quella blanda giustificazione era pessima. «Comunque tienilo alla larga se non vuoi finire nei guai.» Sentendomi punta sul vivo tirai fuori le zanne. Il body guard si trovò costretto a restare in silenzio per il resto della giornata. Non volli riflettere sulle sue insinuazioni, preferivo non pensarci, fingendo di essere immune al fascino predatorio di Adriano Altieri.
VII
Lui, Adriano;
Io e la Borsa
Le luci di casa spente, erano le otto e non c’era nessuno ad accogliermi alla porta. Non ne risentii. Per troppo tempo avevo vissuto da solo; piccole attenzioni come quella non mi facevano né caldo né freddo. La cucina era stretta, il mobilio fatto su misura si incastrava perfettamente nello spazio allungato. Il frigorifero traboccava di cose da cucinare. Presi uno stuzzichino nel frattempo che aspettavo di mangiare. Versai un bicchiere di prosecco portandomi dietro la ciotola di patatine. Accesi la televisione sintonizzandomi su un canale dove stavano cominciando a trasmettere le notizie del giorno. Accanto al telecomando c’era un biglietto. La calligrafia di Nicole era riconoscibilissima. Ciao Amore, Io e Sibilla siamo andate a fare una eggiata. Ci fermiamo a prendere la cena. Stasera cinese, sappiamo che ne vai matto. Saremo di ritorno per le 20:30 circa. Ti amo. Gettai il foglietto nel secchio della spazzatura. Avevo proprio voglia di cucina orientale. Lo sguardo cadde sulla busta dal contenuto costoso che avevo abbandonato sul tavolo. Avevo detto che l’avrei regalata a Nicole, ma non ero entrato nel negozio per fare un presente alla mia fidanzata. Durante la pausa pranzo avevo deciso di fare una eggiata per schiarire le idee. Mi ero appena sentito con Claudio e non ero stato contento di sapere che la sua ragazza non desiderava incontrarmi. Per caso, di fronte all’insegna di Vuitton, avevo alzato gli occhi riconoscendola. Non sapevo che lavorasse lì. La figura esile era inconfondibile, per non parlare dei capelli. Stava fissando una
borsa. Era verde acqua marina; dall’espressione adorante era chiaro la volesse. Ero entrato e avevamo battibeccato. Costretto a prendere qualcosa per giustificare la visita, avevo comprato l’oggetto che le piaceva, non perché desiderassi darlo ad un’altra, ma perché avrei voluto farne dono a lei. Ma Grera non l’avrebbe mai accettata. Ne ero certo. Così l’avevo portata con me intenzionato a regalarla a Nicole ma, quando me la trovai di fronte, non ero poi così sicuro di quella scelta. Agguantai la busta, l’orologio da parete segnava le 20:05. Sarebbero tornate presto, non volevo che mi vedesse con il pacco sospetto, avrei dovuto giustificarne la presenza e alla fine non avrei potuto fare altro che consegnarla. Nella stanza dei miei c’era un soppalco che utilizzavano soltanto ai cambi di stagione. Quell’anno il caldo era arrivato in anticipo. Riposi la borsa su coperte invernali, chiuse in sacche di cellofan. Mi dispiacque abbandonare un così bell’oggetto, ma non sapevo che farne, quindi, in attesa di prendere una decisione in merito, chiusi l’anta scendendo a preparare la tavola.
VIII
Lui, Adriano;
Lo splendido panorama di Sperlonga
Il sole era così forte che se fossi rimasto troppo sull’asciugamano la pelle avrebbe cominciato a sfrigolare come se fosse stata bagnata in olio bollente. Ero appena uscito dall’acqua che, al contrario della temperatura esterna, era piacevolmente fresca. C’era poca gente sulla piccola spiaggia. Quel fine settimana io, Nicole, Claudio e Greta, avevamo deciso di sfruttare le belle giornate ed occupare la splendida villetta sul mare che ci aveva gentilmente prestato un amico di mio padre. In vista del matrimonio, ci avevano consigliato di prendere un po’ di colore. Dopo essere stati a Roma per quasi tre mesi, la nostra abbronzatura australiana era scomparsa. Nicole era stata felicissima della prospettiva di poter are due giornate sulla spiaggia. Mi aveva confessato che Roma la soffocava; gli spazi aperti, invece, la riportavano ad essere la ragazza che avevo chiesto di sposare, rispetto a quella in cui si era trasformata negli ultimi tempi. Ombrosa, silenziosa, era irriconoscibile. Mi sollevai sui gomiti per osservare le due ragazze. La testolina bionda di Niky scompariva e riappariva mentre si avventurava alla scoperta del fondale, poco distante dalla riva. Greta invece, era un puntino lontano. Solo gli spruzzi provocati dalle sue bracciate mi permettevano di distinguerla. Mi voltai verso l’ amico che avevo al mio fianco. Claudio stava sotto l’ombrellone, il giornale del mattino aperto davanti e un bicchiere di limonata stretto tra le dita. Dopo la prima uscita che avevamo fatto, i nostri rapporti di gruppo erano andati migliorando. Greta e Nicole sembravano andare d’accordo, nonostante sapevo che non sarebbero diventate amiche per la pelle. Anche a Claudio la mia futura moglie non dispiaceva; avevano parecchi interessi in comune. In effetti, per la maggior parte del tempo in cui noi quattro stavamo insieme, erano loro a trainare
la conversazione. Io e Greta non eravamo riusciti a trovare un punto d’incontro, non che fosse necessario, certo, ma mi sarebbe piaciuto scoprire qualcosa di più su di lei. Mi ero reso conto, frequentandola, che l’attrazione provata nei suoi confronti era difficile da tenere a bada. Il profumo della pelle diafana mi confondeva i pensieri. Anche di fronte ai rispettivi compagni, riuscivo a nascondere a stento il fatto che la trovassi interessante. Nicole lo aveva capito, e difficilmente ci lasciava soli. A Claudio non importava, o forse non se n’era accorto. Greta, dal canto suo, ignorava completamente l’effetto che aveva su di me, continuando a trattarmi con freddo distacco. Era sempre educata, ma non permetteva mai che tra noi il dialogo fosse rilassato. Non si sedeva accanto a me ed evitava di rivolgermi la parola per prima. Questo suo scostante modo di fare, non faceva altro che alimentare la curiosità nei suoi riguardi, giorno dopo giorno. Avevo bisogno di piacerle, non riuscendo a concepire per quale motivo la sua approvazione fosse così importante. L’unica cosa di cui ero consapevole era che più trascorrevamo del tempo insieme, più avevo voglia di arne. Ero sempre io ad organizzare le uscite; ero io a decidere il luogo, l’ora, le modalità dell’appuntamento. Da principio avevo provato a limitarmi. Vederci troppo spesso non avrebbe giovato a nessuno dei due. Ma quando non potevo scorgerne il profilo per più di una settimana, il bisogno di lei, di quella pelle di velluto, dell’agile figura, dell’espressione intelligente, diventava insostenibile. Nicole sapeva che c’era qualcosa che non andava, mi conosceva troppo bene ma, come aveva sempre fatto, lasciava che io prendessi le mie decisioni senza immischiarsi, certa che alla fine sarei tornato da lei. Vidi Greta avvicinarsi velocemente. Raggiunse il bagnasciuga in pochi minuti. Emerse dall’acqua come una ninfa, i capelli bagnati le arrivavano alla vita, appiccicandosi addosso. Il costume striminzito che la copriva appena, era di una tinta fantasia, definita animalier. Per me era un capo troppo vistoso, esprimeva chiaro il desiderio di non are inosservata. Un gruppo di ragazzi, avranno avuto una ventina d’anni ciascuno, si avvicinò. Era sdraiata a pancia in giù sulla sabbia, le sfere perfette del sedere esposte a tutti; il costume a brasiliana non copriva nulla. Non c’era niente da fare con lei. Quando le avevo fatto notare che per me quel costume non si poteva definire tale, mi aveva guardato priva di espressione, si era voltata a mostrarmi il culo, e aveva preso ad ancheggiare vistosamente fino a che l’acqua non l’aveva inghiottita. Claudio aveva riso, ed io avevo dovuto usare tutta l’autocontrollo che possedevo per evitare che lo slip che indossavo rivelasse troppo di ciò che stessi pensando. Il ragazzo più sicuro tra tutti si accovacciò disinvolto. La vidi che sollevava la
testa, sorrideva e tornava a riposarsi. Lui fece marcia indietro, l’aria imbarazzata mentre gli altri lo prendevano in giro a causa della pessima figura fatta. «Non ti da fastidio che Greta attiri così tanti sguardi? Uno ci ha appena provato con lei.» Claudio chiuse le pagine del quotidiano e mi fissò attraverso le lenti specchiate che gli proteggevano gli occhi. Guardò un attimo nella direzione dove sapeva l’avrebbe trovata per poi tornare da me. «Cosa dovrei fare secondo te? Chiuderla in una gabbia per evitare che chiunque possa toccarla?» Mi soffermai sull’immagine di Greta chiusa ed incatenata dietro le sbarre. La fantasia non mi dispiaceva affatto. «Perché no? Forse riusciresti a farti rispettare di più.» Non dovevo giudicare il loro rapporto, la donna in questione non era di mia proprietà e tra loro sembrava funzionare benissimo. «Lei mi considera, a modo suo, ma lo fa. È sempre stata così. Greta non si cambia, o la si prende com’è, o non la si prende affatto.» Quell’affermazione mi fece pensare. Claudio pronunciò le ultime parole senza troppo entusiasmo. «Cos’è che ti è piaciuto di lei Claudio? Ricordo le tue prime ragazze, erano completamente diverse, tua madre ne andava matta mentre con lei…non mi pare che vadano molto d’accordo.» Non avrei dovuto immischiarmi ma lui era il mio migliore amico, dovevo sapere quanto amasse quella donna, dovevo capire come riuscisse a tenerla legata. Dovevo trovare qualcosa che mi aiutasse a non sentirmi in colpa perché la volevo. Per un momento rimase a guardarla, fissava il panorama che le faceva da contorno. «Ci siamo conosciuti una sera in discoteca. Io non amo particolarmente
quell’ambiente, ma era il compleanno di Giulio e lui voleva a tutti i costi festeggiare in quel locale. Era per lei che ci andava. Mio fratello aveva una cotta pazzesca per Greta.» Sorrise al ricordo. Evidentemente il pensiero di quella serata lo divertiva ancora. Mi misi comodo sull’asciugamano esposto al sole in maniera tale che potessi osservarlo senza dovermi girare di continuo. «Lei lavorava come barista. Giulio si comportava da cucciolo festoso in sua presenza. Ci siamo riuniti per ordinare da bere, fu Greta a servirci. Tutti erano contenti di ricevere le sue attenzioni. Non riuscivo a capire come una sola donna potesse suscitare tanto interesse. Ho sempre avuto dei preconcetti riguardo alle ragazze che lavorano in determinati posti, forse per colpa di Silvia che mi ha riempito la testa di appellativi poco lusinghieri nei confronti di certe persone.» Si ò una mano tra i capelli scuri. L’acqua di mare li aveva resi ancora più mossi di quanto non fossero di solito. Spostai lo sguardo sulla figura sdraiata poco lontano. Avrei dovuto immaginarlo che avesse lavorato nei locali notturni. Un’occupazione tutt’altro che ordinaria, a mio parere. «Giulio non ha mai prestato ascolto ai nostri genitori e in un certo senso, l’ho sempre ammirato per questo. Io sono tutt’altra cosa. Per me intraprendere relazioni con ragazze dalla dubbia reputazione era una cosa impensabile. Ovviamente di lei non si diceva granché, a parte il fatto che ci sapesse fare con la gente.» Mi immaginai una Greta del tutto diversa. Trucco pesante, canottiera striminzita, shorts audaci, atteggiamento volgare. Non la ragazzina acqua e sapone che nuotava fino a sfinirsi. «Lei non era nulla di tutto questo. La prima cosa che mi colpì del suo aspetto furono i capelli leonini. Non avevo mai visto nulla del genere. Troppo scomposti, troppo rossi, troppo…vistosi.» Anche a me la prima cosa ad impressionarmi, della sua persona, era stata quella caratteristica unica. «Portava una semplice maglietta bianca con stampato il logo del locale. Dal punto in cui ci trovavamo non si vedeva nient’altro. Quando si è voltata nella nostra direzione, mi sono sentito perso. La prima cosa che ho pensato era che
fosse un diavolo travestito da angelo.» La risata di Claudio fu rumorosa. Vidi Greta raddrizzarsi nel vano tentativo di captare la conversazione, ma dal punto in cui si trovava non riusciva a sentire nulla. «Strano non trovi? Il primo pensiero che ho avuto su di lei è stato negativo. Mi sono sentito in pericolo nel momento in cui mi ha sorriso.» Non era molto incoraggiante da parte di Claudio definirla in quel modo. Non mi era mai ato nella mente che potesse essere associata a qualcosa di malvagio. Io la consideravo in maniera molto diversa. «Mio fratello si comportò da scemo cercando in ogni modo di strapparle il numero di telefono. Ogni tanto qualcuno dei suoi amici riportava l’attenzione su di sé, ma lei rispondeva sempre nello stesso modo, non si sarebbe concessa a nessuno di loro. Sembrava che si divertisse ad umiliare i vari tentativi di approccio. Quell’atteggiamento arrogante non mi piacque affatto.» Da ciò che mi stava raccontando Claudio, non ero sicuro che tra loro ci fosse stato un vero e proprio colpo di fulmine. Tutt’altro. Il tono di lui, a volte amareggiato, denotava fastidio per l’attuale situazione, come se fosse stato costretto a prendersela. «Mi chiese con la medesima voce cosa volessi da bere, ma i suoi occhi si fissarono su di me un momento più a lungo. Non avevo mai visto un azzurro talmente intenso in un volto umano. Annegai e non fui più in grado di raggiungere la superficie.» Notai che si portava una mano al petto e sospirava pesante. «A lei non feci lo stesso effetto. Quell’espressione sempre uguale, il sorriso tirato, cordialmente finto, tipico dei barman.» Claudio si alzò dalla comoda sdraia sulla quale si era sistemato. Scolò il resto della limonata per poi stendersi sull’asciugamano accanto al mio. Attesi che continuasse il racconto. «Non ci provai quella sera, non mi avvicinai al bancone per il resto della nottata, nonostante Giulio la tormentasse ad intervalli di cinque minuti. Non volli più
vederla. Non chiese mai di me. In genere le donne mi trovavano interessante, non ho mai dovuto faticare molto per ottenere ciò che volevo, ma per lei ero uno dei tanti galletti che le giravano intorno, al massimo un cliente da accontentare. Non sai quanto la cosa mi ferì.» Incrociò le braccia dietro la testa, il sole faceva apparire la sua pelle più bianca di quanto non fosse. Sapevo che al termine della giornata sarebbe stato olivastro, al contrario di noi tre che avremmo avuto la sfumatura rossastra dei gamberi. «Sebbene non volessi, tornai spesso al locale dove lavorava. Mi trattò sempre nello stesso modo. Ogni volta che ci andavo, pensavo che mi avrebbe parlato, ormai ero un cliente abituale, mi conosceva. Invece, non ha mai aggiunto altro al di fuori della domanda di rituale su cosa bevessi. L’ultima sera di apertura, alla chiusura del periodo estivo, la maggior parte dei dipendenti scesero in pista. Era mezza ubriaca e aveva un nugolo di ragazzi che le ronzava intorno. Ballava un po’ con uno, un po’ con l’altro. Anche Giulio ebbe il suo momento di gloria, ma fu solo un momento. Tornò da noi poco dopo, con la coda tra le gambe. Non so perché mi feci largo tra la folla fino a trovarmela di fronte. Ero ferito dalla sua indifferenza, non mi piaceva cosa faceva per vivere, non mi piaceva il fatto che tanti uomini desiderassero le sue attenzioni. Era tutto ciò che non avrei mai voluto da una compagna.» Avevo pensato che il racconto di Claudio sarebbe stato più dolce, dipingendola come un’apparizione celeste alla quale si era dichiarato devoto. L’unica cosa che ero riuscito ad afferrare di tutta quella storia, invece, era che lui la considerava alla stessa stregua della meretrice di Babilonia. Mi innervosì sentirlo parlare di Greta in quel modo. Non volevo che continuasse, ma non sapevo come impedirglielo. «Ballammo un po’. Si strusciava come una gatta e si vedeva che era allegra a causa dell’eccessivo tasso alcolico. Mi baciò senza motivo, solo perché voleva farlo, mi disse in seguito.» Lo vidi sollevarsi e incrociare le gambe di fronte a sé. «Da quel momento sono stato suo. Nonostante non lo desiderassi. Ha troppo potere su di me capisci? Mi possiede, sarebbe capace di farmi camminare sui carboni ardenti se solo volesse.» C’era rammarico nel suo tono? Sarei volentieri intervenuto per dirgli che se non
la trovava abbastanza buona per lui, avrebbe anche potuto lasciarla. Perché legarsi a qualcuno di cui si ha paura? «Non mi amerà mai quanto la amo io. Questo lo so, l’ho sempre saputo. L’effetto che ha su di me è qualcosa che non riesco a spiegarmi. A volte vorrei non averla mai incontrata, glielo dico, quando mi fa arrabbiare. Per la sua felicità rinuncerei a tutto. Lei è diversa, mi lascerebbe se smettesse di provare le stesse emozioni di adesso. Non sono riuscito a trovare la chiave per aprirla. Rimarrà un mistero, sperando che nessuno, in futuro, la interessi più di quanto non faccia io. Se decidesse di lasciarmi se ne andrebbe senza darmi alcuna possibilità.» Nicole le ò di fianco salutandola. Ci stava per raggiungere. Era il caso di terminare il discorso. «Mi chiedi per quale motivo non le dica cosa può fare e cosa non può fare? Se me ne uscissi con una stronzata del genere, la perderei. “O così o niente Claudio!” sarebbero le sue ultime parole. Non posso permetterlo, non sono disposto a rinunciare a lei.» Smise di parlare proprio nel momento in cui Nicole mi si gettò sopra, bagnandomi di nuovo. Rideva, si stava divertendo e io ne ero felice. Claudio chiuse gli occhi, immerso nei pensieri. Si rimise in posizione orizzontale e si appisolò. Quando Niky si fu spalmata la crema, mi spostai all’ombra. Quella sera non volevo illuminare la notte al posto dei lampioni. L’aria fresca soffiava sotto l’ombrellone, il sudore mi si stava appiccicando addosso; avrei dovuto farmi un altro bagno. Greta si stava alzando. Aveva la parte davanti del corpo completamente impiastrata di sabbia. Era proprio una bambina.
Fu l’imprecazione colorita a scuotermi dal torpore in cui ero precipitato. Mi ero appisolato. Non avevo l’orologio, perciò non ero in grado di capire che ore fossero. Intorno non c’era traccia né di Claudio né di Nicole. Dovevano essersi spostati, forse a fare una eggiata. La voce di Greta mi raggiunse distorta. Scattai in piedi con un balzo felino. Stava snocciolando un vocabolario di tutto rispetto, era sicuramente successo qualcosa. Mi allarmai. Immersa per metà, a pochi metri dalla riva, non riusciva ad alzarsi. Le corsi incontro.
«Greta? Che è successo?» Il tono più preoccupato di quanto non volessi. Non rispose, continuando a piagnucolare mentre si stringeva il fianco. Sollevò una matassa trasparente, all’apparenza informe. Prestai maggiore attenzione distinguendo il cappuccio rosato e i lunghi tentacoli di una tonalità più scura. Una medusa. Fui da lei in due secondi. Entrai nell’acqua, gli spruzzi causati dalle lunghe falcate mi bagnarono per intero. Aveva la faccia bianca, grosse lacrime a stento trattenute. Il cuore mancò un battito di fronte all’espressione di dolore. Volevo baciarla, forse nel tentativo di alleviarne le pene, ma non era il momento adatto. «Una medusa…il tentacolo velenoso mi si è arrotolato intorno al braccio.» Ci mancava poco che mi gettassi sull’invertebrato intenzionato ad ucciderlo. Non sarebbe stata una mossa furba. Decisi di concentrarmi sulla ferita. «Fammi vedere.» Gli occhi divennero ancora più grandi. Se avesse potuto, non mi avrebbe mai permesso di toccarla, era palese, ma in quel momento non mi importava. «Fammi vedere Greta. Non fare la bambina.» Il suo viso si infiammò nell’udire l’aperto rimprovero. «Anche se scopri cosa mi sono fatta pensi di potermi guarire?» Eravamo alle solite. Tra noi era sempre così. Fui sollevato, se aveva la forza di rispondere a tono non doveva essere troppo grave. Mi piegai, chiudendola in una morsa per sollevarla. «Non c’è bisogno che mi porti in braccio, sono ancora capace di camminare.» Le proteste non mi smossero. Volevo toccarla, mi si era presentata quell’occasione e non avevo intenzione di lasciarmela sfuggire. Era leggera, una piuma. Si incastrava perfettamente negli angoli prodotti dalla flessione delle giunture. La pelle viscida e bagnata, ebbi paura che mi scivolasse dalle mani mentre si dimenava per farsi mettere giù. Se continuava a muoversi in quel modo, oltre al mio torace, avrebbe individuato altre parti anatomiche. Le intimai
di smetterla e lei, stranamente, lo fece. Non faticai per niente nel condurla all’ombra del riparo. Il capo chino, chiusa in un silenzio teso. Mi godetti il suo peso addosso, le pulsazioni che aumentavano, il corpo reagiva autonomo. Pur non volendo, la adagiai su una spugna. Mi mossi svelto verso lo zaino nel quale avevo riposto un tubetto di ammoniaca. Bisogna sempre essere pronti a qualsiasi evenienza. Me lo aveva insegnato mio padre. «Voltati Greta, fammi vedere.» «Non c’è bisogno, faccio da sola.» L’occhiata che le lanciai la fece ammutolire. Mi espose la parte incriminata. I denti cozzarono tra loro quando la mascella si serrò nel vedere cosa le era accaduto. La perfezione della pelle, sul fianco destro, era divisa a metà da una lunga striscia rossa. Era larga un paio di centimetri e disegnava una esse perfetta. «In questo modo hai tutti e due i fianchi tatuati.» Non so perché feci quella battuta, ma fu la sua risposta a sorprendermi di più. Le labbra si sollevarono in un sorriso, un po’ tirato, ma pur sempre un accenno di ilarità. Il desiderio di assaporare il gusto della sua bocca divenne pressante, dovetti contare fino a dieci per calmarmi. «Non credevo fossi in grado di fare delle battute divertenti.» «Ci sono un sacco di cose che non sai di me, Greta.» Mi piegai in ginocchio. L’acqua di mare che poco prima le ruscellava addosso, si stava trasformando in piccole gocce simili a perle. «Sposta i capelli per favore.» Lo fece, senza aggiungere altro. Era strano, non era da lei, il dolore doveva essere più violento di quanto pensassi. Mi accorsi che il tentacolo aveva lasciato un profondo segno anche intorno al braccio. Ero impotente di fronte al danno, ma feci del mio meglio per coprire le ustioni con crema rinfrescante. Ogni volta che la sfioravo si irrigidiva. «Fa male?»
Si morse un labbro socchiudendo le palpebre. Mi dispiaceva che stesse soffrendo, ma, nello stesso tempo, gioivo per il fortunato incidente. Una volta che ebbi coperto la parte infiammata non smisi di tracciare segni invisibili sulla pelle tesa. Il palmo a cingerle quasi per intero la vita sottile. Aveva il ventre piatto e contratto, gli addominali allenati si intravedevano sotto l’epidermide scurita dal sole. Le massaggiai la pancia, riuscendo a contare le costole. Stava trattenendo il fiato, le spalle rigide curvate in avanti. Da quell’angolazione ne scorgevo il profilo, le labbra dischiuse, gonfie a causa dell’esposizione solare. Raggiunsi con le dita la parte inferiore del reggiseno del bikini, l’elastico morbido mi permise di infilarmi sotto senza sforzo. Scattò come un serpente, prendendomi la mano e bloccandola prima che riuscissi a toccare la rotondità del seno. Lo sguardo di sfida mi invitava ad andare oltre. Forzai la presa, ero così eccitato che l’avrei sbattuta a terra e me la sarei fatta subito, chi se ne fregava di quelli che avano e potevano vederci! «Greta…» La mia voce roca, vagamente minacciosa. La sua attenzione si spostò nella zona inguinale. Il gonfiore che sentivo pulsante doveva essere ben visibile, perché serrò le labbra e strinse ancor più forte le dita intorno alle mie. Con la mano libera afferrai i capelli bagnati. Gemette una volta che tirai. Mi persi nella profondità delle iridi azzurro cielo circondate da lunghissime ciglia castano dorato. Fece resistenza mentre avvicinavo il suo volto al mio. «Adriano…smettila.» Le parole affermavano una cosa, ma il corpo rispondeva in tutt’altra maniera. Non mi ero mai sentito così. Non avevo mai agognato possedere una donna in quel modo, a dispetto del fatto che fosse sbagliato. Aveva profumo di mare, il suo respiro caldo soffiava su di me. Inspirai a fondo, l’avrei sbranata se non ci fossimo trovati tanto pericolosamente vicini ai nostri rispettivi partner. Se avessi cominciato, non credo sarei stato capace di fermarmi. Un bacio, soltanto un bacio. Provò a scostarsi, i muscoli scattavano nel tentativo di fuggire via. Non c’era nulla da fare, al mio confronto la sua forza non era nulla. Le sfuggì un singhiozzo strozzato, la nuca bloccata nel mio palmo. La pressione all’inguine era insopportabile. Trovai la natica, era morbida, soda, i polpastrelli affondarono nella carne. Mi godetti la sensazione del suo fiato accelerato sulle labbra, le pupille che si allargavano, incupite dalla brama.
«Ti prego, smettila…» «Non posso Greta, non chiederlo.» La consapevolezza di ciò che avevo appena affermato mi avvicinò a coprire gli ultimi centimetri che ci separavano. Era troppo tardi per tornare indietro. Le voci familiari di Claudio e Nicole ci raffreddarono come una doccia gelata. No! Non adesso cazzo. La guardai un ultimo, lungo momento, indeciso se strapparle quel bacio che volevo più di ogni altra cosa. Non sarebbe stato così, doveva ricordarselo, avrebbe dovuto ripensare a noi ed eccitarsi con in mente soltanto il tocco della mia lingua. «Stavolta te la sei cavata.» La lasciai. Il tono concitato, erano dietro il costone roccioso, a breve avremmo potuto scorgerli. Corsi nell’acqua, avevo bisogno di un bagno, la pressione in mezzo alle gambe era estremamente sgradevole; avrei dovuto rimanere immerso per almeno un’ora. Sentivo Nicole che mi chiamava da lontano, feci finta di non capire. Lo specchio d’acqua mi accolse mentre mi tuffavo; bastava che le stessi lontano per tornare lucido e in grado di pensare ancora una volta. Le parole di Claudio riguardo a Greta erano impresse nella memoria: un diavolo travestito da angelo, non ero d’accordo. Era molto di più. Chiusi gli occhi lasciandomi accarezzare dalla pressione costante dell’acqua tutt’intorno. Rimasi sotto, per qualche secondo. Ero un bastardo. Un maledetto bastardo.
IX
Lei, Greta;
Una cena deliziosa
La cittadina di Sperlonga era bellissima. Avevamo parcheggiato sulla strada in salita che girava intorno alla rocca sulla quale era stata edificata. Gli alberi profumavano di buono. Il sole stava tramontando dietro la calma superficie dell’acqua che si vedeva chiaramente da quell’altezza. Dovetti aggrapparmi alla salda mano di Claudio, mentre procedevamo allegri verso il ristorante. Non avrei dovuto indossare tacchi così alti. Nella piazza principale era stata allestita una mostra di quadri che promuoveva una pittrice locale. Decisi di fermarmi. Eravamo in anticipo e nessuno si oppose alla mia richiesta. Durante il trascorrere del pomeriggio avevo fatto di tutto per cercare di comportarmi in maniera normale. Era stato faticoso; percepivo ancora la stretta di Adriano sul collo, la sua mano che mi accarezzava, la voce dura che mi intimava di smetterla di resistere. Le riflessioni tornavano inevitabilmente a quell’episodio e, ogni volta, provavo a scacciare le sensazioni che ancora avevano il potere di aumentarmi il battito cardiaco. Lui, al contrario, sembrava essere del tutto a suo agio dopo ciò che eravamo stati sul punto di fare. Si comportava naturalmente; il solito Adriano. Doveva essere abituato a fingere. Guardai Nicole di sottecchi, sorrideva estatica accanto all’uomo che rasentava la perfezione. L’abbronzatura le donava, le guance rosse, l’espressione accesa, un velo di trucco a mettere in risalto gli occhi dalle lunghe ciglia ricurve. Era deliziosa nell’abito floreale che le scivolava morbido sulla figura minuta, una cinta arrotolata a sottolineare la vita stretta; zeppe alte le conferivano qualche centimetro in più, slanciandola. Non prestai attenzione al compagno. Già averlo osservato quando eravamo usciti da casa aveva contribuito ad annodarmi lo stomaco. Poteva esistere nella realtà un uomo così bello? Jeans morbidi, scoloriti, aderivano al sedere muscoloso; la camicia bianca, aperta sul collo, a sottolineare il fisico atletico, la pelle brunita
faceva spiccare quegli occhi di smeraldo che, quando si erano posati su di me, mi avevano spogliata fino a che non avevo avuto l’impressione di essere nuda ed indifesa. Smisi di pensare, evitando di posare lo sguardo sul protagonista delle mie fantasie. Claudio era sereno al mio fianco, meno pericoloso, una bellezza delicata, l’atteggiamento elegante. Gli appoggiai la testa nell’incavo della spalla. “Scusami”, dissi silenziosa, il senso di colpa mi stava corrodendo. Entrai nella piccola costruzione mobile dove erano stati esposti i dipinti. La misura dei quadri variava di poco l’una dall’altra. Erano grandi, i colori vibravano sulla tela. Ognuno di essi aveva come soggetto Sperlonga. Mi fissai su uno in particolare. La tecnica usata era lo spatolato. Per capire bene il soggetto bisognava guardarlo da una breve distanza. Mare, fiori, una rurale casupola in mattoni al centro della composizione. Era meraviglioso. Cercai l’autrice dell’opera e la trovai a conversare con un paio di uomini. Atteggiai la bocca ad un sorriso, avvicinandomi. Piccola, scura, avvolta in uno stretto abito colorato, mi rispose gioiosa. «Vorrei farle i complimenti. Sono tutti bellissimi, lei ha talento da vendere.» Parlammo della sua crescita come artista; era una donna piacevole, sarei rimasta ad ascoltarla per ore. Amavo trattare determinati argomenti. Le dissi che anche io mi dilettavo nella pittura. Parve incuriosita, e mi diede il numero di telefono nel caso avessi voluto mostrarle qualcuno dei miei lavori. «Mi chiedevo il prezzo di quel quadro laggiù.» Le indicai la tela in questione. «Si vede che te ne intendi. Quello è anche il mio preferito.» Adriano si stava avvicinando. Me ne accorsi da come le guance della pittrice si imporporarono all’improvviso. Alzai gli occhi al cielo rendendomi conto di quale effetto fe alle donne. Perse il filo del discorso, balbettando una frase senza senso, troppo colpita da quel dio greco che ci aveva quasi raggiunte. Si presentò stringendole la mano. Mi feci un po’ più in là evitando che le nostre braccia si sfiorassero. «Sentivo che stavate parlando di quel dipinto. Il prezzo incuriosisce anche me, sarei interessato all’acquisto.» Di colpo la commerciante che era in lei, saltò fuori. Cominciò descrivendo
minuziosamente l’intero procedimento pittorico, calcando sui particolari tecnici prima di arrivare a ciò che ci interessava. Trovai scortese da parte di Adriano togliermi la sua attenzione. All’apparenza ero tranquilla, ma dentro ribollivo. «È stato stimato novemilacentocinquanta euro, ma per lei si può scendere a ottomilacinque.» Stavo per svenire. Non mi aspettavo una cifra tanto elevata. L’idea di comprarlo si infranse al suono dei numeri. Lui le chiese chi era stato il critico a stimarne il valore. Quando gli disse il nome annuì come se lo conoscesse. La cosa mi sorprese. Poi, una volta conclusa la conversazione, si congedò dicendole che aveva bisogno di pensare prima di decidere. Si sarebbe trattato di qualche minuto. Mi venne voglia di prenderlo a calci. Gli bastava solo qualche attimo per definire se spendere o no una considerevole somma come quella? Chiusi i pugni, le unghie si conficcarono nei palmi. I suoi occhi si fissarono su di me, mentre la pittrice si allontanava sorridendo. Claudio e Nicole stavano spizzicando gli stuzzichini poco lontano. «Lo vuoi Greta?» Per poco la saliva non mi andò di traverso. Voleva comprarmi? Mi fissava come un gatto che ha appena catturato un topo. Stava solo giocando, decidendo quale sarebbe stato il momento giusto per mangiarmi. Assunsi un’espressione indignata. Non avrei mai accettato un oggetto simile. «Con chi credi di parlare Adriano Altieri? Non siamo tutti pronti a venderci allo schioccare delle tue dita.» La risposta lo fece sorridere. «Non avevo dubbi. Comunque mi farebbe piacere che tu lo avessi.» «Quando potrò permettermelo me lo comprerò da sola, grazie tante.» Cercai l’ormai familiare profilo di Nicole, poi mi voltai di nuovo verso di lui. Trattenni il fiato. Nonostante avessi voluto urlargli contro che non aveva alcun diritto di farmi sentire in quel modo, le parole che uscirono dalla mia bocca furono completamente diverse.
«Perché non chiedi a tua moglie se le piace il quadro così lo regali a lei?» Non riuscii a comprendere la moltitudine di emozioni che si rincorsero su quel viso di marmo. Rabbia, forse. Confusione, può darsi. Colpa, non ne ero certa. Non ero più in grado di tollerare la sua vicinanza. Lo lasciai lì, bello da fare male. Maledetto. Sentivo il corpo accaldato e la mente leggera. Su di me aveva l’effetto di una sbronza, dovevo stargli lontana il più possibile. Lo guardai da lontano concludere la conversazione con la signora. Fortunatamente il libretto degli assegni non comparve magicamente tra di loro. Il locale che avevamo scelto per la cena si affacciava sulla via principale. C’era un sacco di gente. Quasi tutti si stavano preparando per mangiare. Le persone che si aggiravano tra i vicoli di Sperlonga avevano l’atteggiamento tipico di quelli appartenenti ad un ceto elevato. Era chiaro che la maggior parte di loro aveva discrete possibilità economiche. Fummo fatti accomodare su un patio a ridosso della scogliera. Una leggera brezza mi fece accapponare la pelle. Claudio se ne accorse appoggiandomi il maglioncino di filo di scozia sulle spalle. «Grazie.» Mi depose un bacio leggero sulla fronte. «Non vorrei mai che si dicesse che non mi prendo abbastanza cura di te.» Annuii, sentendo gli occhi penetranti di Adriano perforarmi. Era di fronte a me e, per evitare di guardarlo di continuo, avrei dovuto mangiare con la testa rivolta a destra o sinistra. Ero certa che avesse scelto quella sedia apposta per mettermi in difficoltà. Il cameriere arrivò subito per prendere le ordinazioni. Nell’attesa, ci avrebbe portato un gustoso aperitivo offerto dalla casa. Ne ero lieta, finalmente un po’ di vino. «Di cosa stavate parlando tu e Adriano con la pittrice?» La bocca mi si seccò. Non potevamo discutere di qualcos’altro? Nicole mi fissò. Il suo volto non era per niente contento. «Stavamo chiedendo i prezzi di alcuni quadri.»
Fortunatamente la voce non era allarmata. «Greta era interessata ad un dipinto che costava intorno agli ottomila euro. Ha detto che se lo comprerà quando potrà permetterselo.» Avvertii un’ironica allegria nell’intonazione della frase. Non volevo prestargli attenzione , e lo ignorai volutamente. «Potremmo chiederlo come regalo di nozze quando ci sposeremo!» Claudio era felice al pensiero, io sentivo solo un senso di nausea salire alle labbra. «Potremmo regalarvelo noi! Che ne dici Adriano? In fondo Claudio è il tuo migliore amico e tu, presuppongo, gli farai da testimone.» Nicole aveva cambiato espressione al sentir parlare di un possibile matrimonio. Lui invece si rabbuiò. Mi sembrò che il suo sguardo si spegnesse, anche se fu soltanto un momento. «Allora vi sposate. E quando?» Non c’era alcuna tensione nel tono di voce di Adriano, dovevo essermi immaginata tutto. Claudio mi strinse la mano sopra il tavolo. «Avevo proposto a settembre di quest’anno, ma Greta ha detto che per organizzare un matrimonio ci vuole tempo, quindi, abbiamo preso in considerazione settembre dell’anno prossimo.» Mi baciò le nocche. «Anche se per me è troppo lontana come data. Cercherò di convincerla ad anticipare.» Non volevo parlare del progetto di sposarci, non in quel momento, non in quella occasione. Mi infastidì il fatto che Claudio tirasse in ballo l’argomento. Non guardai nessuno in particolare sentendo lo sguardo fisso di Adriano pronto a cogliere qualsiasi mia espressione.
«Allora quando deciderete vi regaleremo quel quadro.» Finalmente ci furono serviti i flute di prosecco. Tracannai il mio in un sorso solo, di fronte agli sguardi sbigottiti dei presenti. «Avevo sete.» Mi giustificai. I piatti vennero portati poco dopo. Le linguine all’astice erano meravigliose. La prima forchettata che assaporai mi trascinò in una realtà parallela facendomi dimenticare, per un attimo, il ragazzo di fronte. Ero fin troppo consapevole della sua presenza. Era sbagliato. Era tutto sbagliato. Non avrei dovuto reagire così ad un altro uomo, non con il mio fidanzato seduto accanto. Che mi stava succedendo? Feci i complimenti al cameriere quando venne per sparecchiare i piatti vuoti. Lui sorrise. Avrebbe riferito il messaggio al cuoco. Continuavo a bere vino al posto dell’acqua. A metà serata le parole mi si arrotolavano sulla lingua e la mente galleggiava leggera. Non so come, ma finimmo a parlare di libri, la mia ione più grande. Mi scossi dal torpore che mi stava facendo socchiudere gli occhi e tornai a concentrarmi sulla conversazione, invece di scrutare la luna che si rifletteva sul mare. «Greta ha scritto un libro sapete? Io l’ho letto e l’ho trovato molto interessante. Le ho consigliato di prendere appuntamento con un editore, ma ha sempre pronta una scusa per non andare. Non è vero amore?» Claudio mi stava davvero dando sui nervi. Voleva metterli al corrente anche di come mugolassi mentre facevamo sesso? «No. Non è vero. Ho partecipato a qualche concorso, ma le risposte sono state sempre negative.» «È difficile vincere dei concorsi letterari, ma io conosco un editore importante. Se vuoi posso chiedergli di leggerlo.» Ebbi la forza di guardare Adriano dritto in faccia. Ecco un ulteriore tentativo per ingraziarmi. Non capiva che cercando di darmi un prezzo non faceva altro che indispormi nei suoi confronti? Già i nostri rapporti non erano dei migliori, continuando così ci saremmo ammazzati presto.
«Non voglio nessun favoritismo. Grazie. Quando sarà giusto, una casa editrice mi noterà e mi pubblicherà» «Non ho detto che chiederò ad Andrea di pubblicarti. Le farò solo leggere il testo. Se lo riterrà opportuno, ti offrirà un contratto, altrimenti non ti contatterà nemmeno.» Le guance mi si infiammarono, mi aveva corretta in maniera così delicata da non poter essere considerato un appunto. Scalciai verso di lui. Il tacco gli colpì lo stinco. Si irrigidì, ma non disse una parola. «Perché non tentare Greta? Lo farebbe solo leggere.» Nicole, alla sinistra di Adriano, mi osservava in modo strano. «Se Greta non vuole che interceda, perché insistere?» Le parole avrebbero potuto ferire se fossero state fatte di materia solida. Non voleva che io e il futuro marito avessimo dei rapporti al di fuori del nostro quartetto. Aveva ragione, dopotutto. «Claudio fammelo avere. Potremmo avere tra le mani la prossima J. K. Rowling.» Adriano non ammetteva repliche, non si preoccupò nemmeno di rispondere alla compagna. Mi dispiacque per lei. Non doveva essere facile avere a che fare con uno così. Lui annuì e il discorso cambiò rotta. Per il resto della cena fui silenziosa. Non riuscii a concentrarmi su nulla riuscendo però ad apparire rilassata. Annuivo e alzavo le sopracciglia anche se non afferravo niente di ciò che stavano dicendo. Una volta pagato il conto, facemmo una eggiata inoltrandoci nei i vicoli della cittadina. Camminare mi fece bene, anche se mi girava la testa e dovevo restare attaccata al mio compagno per non rischiare di inciampare su qualche gradino. Uscii incolume dalla eggiata arrivando a casa illesa, fatta eccezione per l’ustione dovuta alla medusa che bruciava dolorosamente. Continuai a restare in silenzio anche mentre raggiungevamo la villetta sulla spiaggia. Gli occhi chiusi, il suono della conversazione in sottofondo mi stava
aiutando a raggiungere il dolce regno di Morfeo. Ci salutammo di fronte alle rispettive camere. Ero talmente intontita che se non mi fossi messa subito in linea orizzontale, sarei caduta addormentata sul pianerottolo. Mi gettai sul materasso morbido. Claudio mi tolse le scarpe sollevando il lenzuolo a coprirmi. Avvertivo da lontano il rumore dell’acqua che scorreva, lo spazzolino che strofinava sui denti. Poi più nulla.
Aprii gli occhi di colpo, faticando ad abituarmi al buio semi completo della stanza. Dovevo assolutamente andare al bagno. Tutto quel vino mi aveva riempita. Mi alzai piano. Claudio russava debolmente, a pancia in sotto. Il cuscino stretto tra le braccia nude. Il vestito leggero che avevo indossato per uscire era tutto stropicciato. Me lo tolsi, sempre attenta a non fare rumore. Presi una canottiera da uomo che aveva abbandonato sul comodino. Mi lasciava quasi completamente scoperto il seno, ma a quell’ora non avrei incontrato nessuno in giro per casa, perciò non mi preoccupai nemmeno di indossare dei pantaloncini sopra il perizoma. Non potevo utilizzare il bagno in camera, lo avrei svegliato. Chiusi la porta, evitando che cigolasse sui cardini. I i a piedi nudi erano attutiti dal parquet che ricopriva il pavimento. Corsi sulla tazza liberando la vescica, sospirai, stavo decisamente molto meglio. La cucina era rischiarata dalla luce delle stelle che proveniva da fuori e si rifletteva sulle ampie vetrate. Mi versai un bicchiere d’acqua prendendo una sigaretta dal pacchetto abbandonato sul piano di marmo. Fuori l’aria era piacevole. Mi accomodai sull’amaca che iniziò a dondolare piano. Sprofondai nella rete dandomi una spinta mentre mi accendevo una cicca. Gli astri brillavano nitidi sopra di me. Il rumore delle onde che si infrangeva sul bagnasciuga. Profumo di menta e rosmarino mi riempirono le narici. Chiusi gli occhi, aspirando una lunga boccata di fumo. Un uccello notturno gridò il suo richiamo. Mi sarebbe piaciuto dormire lì fuori, peccato che ero così poco coperta. Non avevo nemmeno controllato che ore fossero. Non era importante. Ero in vacanza, l’indomani mattina avrei potuto alzarmi quando volevo. La luce notturna fu oscurata da un’ombra. Aprii gli occhi. Nonostante fosse buio, non ebbi difficoltà a riconoscerne il profilo, ormai lo conoscevo a
memoria. Nel tentativo di sollevarmi, inclinai l’amaca pericolosamente. Se non ci fosse stato lui pronto ad afferrarmi, sarei piombata a terra. La sigaretta cadde. Le mani strinsero gli avambracci robusti, il viso premuto sul petto liscio e virile, senza dubbio nudo. Avevo l’impressione di essere abbracciata ad una statua, l’unica differenza era che la pelle era calda e aveva un profumo in grado di stordirmi. Le gambe si fecero molli mentre le labbra sfioravano accidentalmente la carne all’altezza del cuore. Cercai di spingerlo lontano, quando seppi di essere salda a terra. Non riuscii a muoverlo di un millimetro; l’unica cosa della quale ero terribilmente consapevole erano i pettorali allenati a contatto con i palmi. «Ti ho sentita scendere. Ero sveglio. Credevo avessi bisogno di compagnia.» La sua voce era calda, il respiro contro l’orecchio mi fece fremere. «Vattene Adriano, ti prego, lasciami in pace.» Non mi riconobbi così supplichevole e spaventata. Spinse i capelli sciolti dietro l’orecchio, costringendomi a guardarlo. Ardevo come una fiamma, persa in quegli occhi che brillavano di un desiderio a stento trattenuto. «Non posso Greta. Non ci riesco. Perdonami.» Si abbassò su di me. Spinsi forte ma lui era inamovibile, mi teneva inchiodata e non aveva alcuna intenzione di lasciarmi andare. Labbra morbide su labbra tese. Sapevano ancora di sale. La mascella scricchiolò quando la serrai a tal punto da temere di spezzare i denti. Gli percossi il petto con pugni, schiaffi, tutto purché interrompesse il contatto tra di noi. Mi afferrò le braccia per impedirmi di fare male ad entrambi, staccando la bocca dalla mia. «Che stai facendo? Che cazzo stai facendo?» Sussurrai rabbiosa, avevo paura che qualcuno ci sentisse. Le labbra gonfie e il respiro accelerato. Non volevo sentirmi così. Non potevo. Era sbagliato. Avrei dovuto detestarlo per ciò che aveva appena fatto ma, nel profondo, desideravo che continuasse fino ad infrangere tutte le mie barriere. Per mia fortuna, la mia parte razionale non era ancora andata a farsi fottere. Torsi i polsi provando di nuovo a liberarmi. Non c’era niente da fare, non voleva
mollarmi. Attese che mi fossi stancata prima di allentare un po’ la presa. «Smettila Greta. Stai facendo solo un gran casino.» Continuai a faticare nel tentativo di levarmelo di dosso. «Bene. Spero almeno che qualcuno ci scopra, così non ci vedremo più e tutto questo non sarà mai accaduto.» Il suo sguardo fu attraversato da un lampo. «Greta, smettila di agitarti. Non voglio farti del male.» Lo sapevo. Certo che lo sapevo. Ma quello che voleva farmi sarebbe stato anche peggio. Mi fece camminare all’indietro. Le piante nude dei piedi trovarono il prato ben curato, morbido al contatto. La casa scomparve alla vista, nascosta da due grossi ulivi che stavano iniziando a fruttare. La parete del muro bianco che circondava la proprietà non era liscia. Le parti in rilievo spinsero contro i muscoli posteriori. Mi sollevò le braccia verso l’alto. Il seno che si abbassava ed alzava, scarsamente coperto dalla canottiera larga. I suoi occhi seguirono i miei. Si erano trasformati in antri neri. Se vi avessi guardato dentro troppo a lungo, mi sarei persa. Chiusi le palpebre. Non volevo vedere la mia immagine riflessa, non volevo scoprirmi eccitata e pronta ad ogni suo desiderio, nonostante la mia bocca pronunciasse parole diverse. Mi chiuse i polsi con una mano sola. Non fece alcuno sforzo nel tenermi ferma in quel modo. I miei tentativi di fuga avevano perso di convinzione. Cercai di staccarmi, ma fu inutile, sapevamo entrambi che non era quello che desideravo. Le dita della mano libera tracciarono una linea invisibile sul mio viso. Tremai, ma non di paura. Mi accarezzò le labbra, infilandomi un dito nella bocca. Avrei dovuto mordere, staccarglielo a mozzichi ma, l’unica cosa che fui in grado di fare, fu di arvi la lingua intorno, succhiare, bagnare. Non ero mai stata guardata così, da nessuno. Il calore si concentrò tra le gambe. La parte sensata di me si era presa una pausa. Ero nella merda. Tutto ciò che volevo in quel momento era che mi toccasse come non avrebbe dovuto. «Greta…che diavolo mi hai fatto?» La sua voce era poco più di un bisbiglio roco, tutto il mio corpo fu attraversato da un fremito.
Si allontanò dalla mia bocca. Il dito umido lasciava una scia bagnata dove si posava. I capezzoli si indurirono, ben visibili sotto il tessuto sottile. Abbassò prima una spallina poi, con lentezza, l’altra. La canottiera scivolò a terra lasciandomi nuda eccetto per le striminzite mutandine che ancora indossavo. Mi divorò con occhi ferini, imprimendosi nella mente ogni centimetro di ciò che aveva di fronte. Strinse un seno. La mano grande lo avvolgeva totalmente. Una violenta vibrazione mi fece singhiozzare quando iniziò a stuzzicare il capezzolo. Sorrise compiaciuto, accorgendosi di come reagivo a quel tipo di carezze. «Vuoi che me ne vada Greta? Basta che tu lo dica e io la finisco qui.» Si capiva che si stava trattenendo a fatica. Aveva il corpo teso nel tentativo di non superare il limite. Mi era stata offerta una via di fuga. Perché non rispondevo? Aprii la bocca. La richiusi. Gli occhi che si riempivano di lacrime. «No.» Fu sorpreso da quella risposta; non lo nascose. «No cosa Greta?» Era un ordine più che una richiesta. Il tono autoritario non fece altro che accrescere lo stato confusionale in cui versavo. «No, non voglio che te ne vada.» Stentai a capire il senso di ciò che avevo appena detto. Non era così che sarebbe dovuta andare. Uno sguardo di trionfo gli si dipinse sul viso. «Benvenuta negli Inferi.» Le ultime parole mi giunsero appena percettibili. La mente pulsava violentemente a causa del sangue che aveva cominciato a scorrere fin troppo veloce nelle vene. Aveva ragione, ero consapevole di stare per sacrificarmi al regno della perdizione. Mi strinse forte. Le labbra scesero su di me. Avevo la testa piegata all’indietro, spinta contro la parete dura e fredda. Non c’era nulla di dolce nell’intreccio delle nostre lingue, piuttosto, un disperato bisogno di appagare i desideri reciproci. Si spingevano, si univano. La bocca che chiedeva, anzi, pretendeva. Mi morse. Mi baciò ancora mentre con una mano afferrava i capelli facendomi male. Non mi lamentai, mi piacevano le sensazioni che mi provocava. Il respiro accelerava e il
desiderio si faceva doloroso concentrandosi nel centro pulsante della mia femminilità. Si dedicò ai piccoli seni rotondi, stringendoli violento. Dove le sue mani si poggiavano così la mia pelle reagiva, sotto l’epidermide ero lava bollente pronta ad eruttare. «Ti prego…ti prego…» Stavo supplicando, lo stavo implorando di porre fine a quella tortura. «Ti prego cosa Greta? Dimmi cosa vuoi.» Chiuse i denti sull’orecchio, leccò il lobo. Cosparse di baci il lungo collo. Ero un brivido continuo, forse avevo la febbre, non riuscivo a smettere di tremare. Non ero sicura di poter sopportare oltre, avevo bisogno che entrasse dentro di me, che mi riempisse. Ogni fibra del mio essere era tesa verso di lui, bramosa di diventare un corpo solo. «Ti prego Adriano…» Spostò il perizoma inutile, solleticando la parte tra l’entrata della vagina e l’ano. Le pulsazioni erano assordanti. Non credo fossi mai stata tanto eccitata in vita mia. Cercai il membro a tastoni. Era enorme, dietro i pantaloncini di cotone. La pelle liscia, bollente. Non riuscivo a chiuderlo con la mano. Non ero una verginella, ma quando si liberò dai boxer, rimanendo completamente nudo, il cuore mancò un battito. Non era gigantesco, ma era l’uomo più ben dotato che io avessi mai incontrato. Si appiattì contro di me, facendomi sentire quanto mi volesse. Mi baciò ancora mentre le dita cercavano l’apertura della vagina. Ero bagnata. Non c’era bisogno che lavorasse con la mano per facilitare la penetrazione. Era premuto sulla mia bocca nel mentre che muoveva l’indice e il medio all’interno delle pieghe umide. Non ebbe difficoltà a trovare il mio punto sensibile. Spinse, una, due, tre volte. Ad ogni movimento gemevo, immediatamente soffocata dalla spinta della lingua. La concentrazione di piacere era un’agonia, una meravigliosa agonia. Un vetro si infranse a terra. Adriano si immobilizzò. Il fuoco che avevo nel corpo trasformatosi in ghiaccio liquido. Il respiro mi si bloccò in gola. La colpa mi vestì come se fosse stata visibile. Il rumore dell’acqua che veniva versata in un bicchiere, la scopa che raccoglieva i cocci. Sfilò le dita da dentro di me. Un suono fradicio accompagnò il gesto. Mi
fece segno di stare zitta. Ovviamente, non c’era bisogno che me lo ricordasse. Se Claudio ci avesse trovati in quella circostanza, come avrei potuto giustificarmi? Mi affrettai a coprirmi, silenziosa come un gatto. Lui fece lo stesso continuando a tenermi nascosta dietro di sè. Il rumore della finestra che si apriva. Qualcuno stava guardando nel buio. Cercai di appiattirmi contro il muro, ma per nascondermi avrei dovuto scavare una conca. Adriano mi abbracciò. Il calore del corpo mi scaldò la pelle fredda. Lacrime nervose presero a cadere senza che potessi evitarlo. Il viso premuto su di lui a soffocare i singhiozzi. Non ricordo quando era stata l’ultima volta che avevo pianto. Non mi piaceva che fosse lui a vedermi in quello stato, ma non potevo fare altrimenti. La finestra si richiuse e noi fummo di nuovo soli. Mi baciò delicatamente. Le labbra, gli occhi. Leccò via le lacrime salate che avevano lasciato una scia sulle mie guance. Quando fui pronta a guardarlo, sollevai le palpebre. Sapevo che il mio viso era stravolto, glielo lessi negli occhi. «Greta…» Fermai la mano che stava per sfiorarmi. «Devi sposarti tra un mese. Io sto con un altro. È stata una stronzata. Non ne parliamo più.» La mia voce fu dura nel pronunciare le ultime parole. «Pensi che sarà così facile mantenere dei rapporti dopo questo? Già ti volevo prima, adesso è molto peggio.» L’avvertimento di Adriano mi percosse con la sua violenza. Cosa credeva? Che saremmo diventati amanti e ce la saremmo sata alle spalle dei rispettivi compagni? Si era trattato di un maledetto momento di debolezza, niente di più. Non ci sarebbe stato alcun seguito. Mi morsi le labbra. Non potevo credere che a lui interessasse così poco della moglie e di Claudio. «Non mi importa. Vorrà dire che non avremo più rapporti.»
Lo vidi che stringeva la mascella. I pugni chiusi. Avevo paura volesse colpirmi. «Come vuoi Greta. Non parliamone più. Ma quando di notte, prima di addormentarti, penserai a me, sappi che non sarò lì a soddisfare le tue voglie.» Rimasi a bocca aperta di fronte a quell’ammissione. Lo colpii consapevolmente e con molto piacere. La sua faccia si trasformò in una maschera di rabbia. «Buonanotte Greta.» Si voltò, andando via senza girarsi indietro. Rimasi lì dove mi aveva lasciata. Avevo continuato a piangere e non fui pronta per tornare in camera, se non dopo diverso tempo. Claudio dormiva, evidentemente non era stato lui a rompere il bicchiere prima. Mi voltai verso l’esterno del letto, dandogli la schiena. Non volevo osservarlo, non quella notte. Il ricordo di Adriano mi tormentò per almeno un’altra ora prima che riuscissi a sprofondare in un sonno agitato. Benvenuta negli Inferi Greta.
X
Nicole;
Tradimento
Mi svegliai di soprassalto. Una leggera brezza entrava dalla finestra semichiusa. Mi allungai verso il calore di Adriano, il suo corpo mi avrebbe riscaldata. La mano toccò le lenzuola stropicciate. La parte del letto che avrebbe dovuto essere occupata da lui, era invece vuota. Il materasso ancora tiepido. Non doveva essere andato via da molto. Mi sollevai acuendo l’udito. Forse era in bagno. Nessun rumore proveniva dalla porta adiacente la camera da letto. Un senso di agitazione mi chiuse la bocca dello stomaco. Era cambiato da quando eravamo arrivati a Roma, e io non avevo potuto fare altro che comportarmi di conseguenza. Forse il pensiero del matrimonio lo metteva in agitazione. Il nuovo lavoro era impegnativo, e non aveva avuto molto tempo da dedicarmi. Poi, era arrivata lei, Greta, la fidanzata del suo migliore amico. Quella sera, durante la cena a casa dei genitori di Claudio, avevo avvertito una tensione palpabile provenire da entrambi. Lui mi aveva assicurato che mi preoccupavo per nulla, ma io vedevo il modo in cui la guardava quando pensava che nessuno lo stesse osservando. La gelosia si era impadronita di me; ma non sono un tipo che fa scenate, perciò avevo lasciato che la cosa seguisse il suo corso, senza intromettermi troppo. Nell’ultimo periodo mi ero chiusa a causa dei dubbi, a stento riconoscevo me stessa. Avevo abbandonato tutto per seguirlo, non che avessi molto da lasciare in Australia. I miei genitori erano morti, non avevo parenti di cui avrei potuto sentire la mancanza. Quando mi aveva detto che sarebbe tornato in Italia, il mondo mi era crollato addosso. Sarei rimasta sola, di nuovo. Ma Adriano mi aveva chiesto di seguirlo, proponendomi di sposarlo. Non avrei potuto essere più felice.
La madre e il padre erano persone deliziose, da subito mi avevano accolta come una figlia. Credevo di aver finalmente trovato un posto da chiamare casa. Adriano non mi faceva mancare nulla, ma negli ultimi tempi era sempre più distante. Cercando di coinvolgerlo nei preparativi per il matrimonio, non facevo altro che farlo innervosire. Ogni volta che facevamo l’amore era come stare con uno sconosciuto. Sempre attento alle mie esigenze, ma mai del tutto presente. Ero certa che questo suo umore era dovuto alla presenza della ragazza dai capelli rossi. Persino un cieco si sarebbe accorto che tra i due c’era un’alchimia soffocante. Non riuscivo a capire come Claudio potesse essere così tranquillo. Gli avevo parlato dei miei sospetti, durante una delle nostre chiacchierate. Lui aveva sorriso senza rispondere. Non avevo più avuto il coraggio di tirare fuori l’argomento. Mi alzai, evitando di fare rumore. La casa era buia, silenziosa, non c’era traccia di lui. La grande finestra a vetri che dava sul giardino posteriore della villa era aperta. Misi il naso fuori, il giardino profumava di menta e rosmarino. Percepii un movimento provenire dal muro di destra. Due grandi ulivi mi impedivano di vedere cosa ci fosse dietro. Forse era un gatto che cacciava qualche animaletto notturno. Le ciabatte di gomma che avevo indossato scricchiolarono sui ciottoli bianchi. Un ansito roco mi immobilizzò. Il tronco dell’ulivo era grande e alto. Mi nascosi, sicura di non essere vista. «Benvenuta negli Inferi.» Era la voce di Adriano. Il rumore inconfondibile di lingue che si incrociavano. Il cuore mancò un colpo, la testa divenne pesante, il gusto amaro della bile mi riempì la bocca. Mi sporsi leggermente per vedere cosa stesse succedendo, anche se era chiaro che non fosse da solo. Greta era schiacciata contro il muro e lui le stava addosso, mezzo nudo. Le sue mani erano dappertutto. Il volto della ragazza si intravedeva appena, l’espressione estatica di chi attende il piacere con bramosia. La schiena ampia e muscolosa del mio uomo la nascondeva quasi tutta. Solo le braccia erano visibili. Ansiti, gemiti, frasi sussurrate. Non volevo assistere a quella sporca scena, ma non riuscivo a staccare gli occhi da loro, in un perverso tentativo di farmi del male. Vidi il suo braccio abbassarsi mentre con la mano le allargava le gambe. Chiusi gli occhi. Una lacrima mi scivolò sul viso. Avrei voluto urlare, gettarmi su entrambi, accusarli di ogni colpa, vedere negli occhi di Adriano la consapevolezza di averla perduta per sempre. Ma forse, era quello che lui
sperava. Essere scoperto, perché lo lasciassi andare, per permettergli di scopare liberamente con quella troia dagli occhi azzurri. Non sarebbe andata così. Non quella notte. Mi voltai, cercando di essere più silenziosa possibile. Il tragitto verso la casa mi apparve più lungo di quanto in realtà non fosse. Presi un bicchiere dalla dispensa. Era di cristallo, ottima fattura. Lo lanciai a terra. Il suono prodotto fece eco a quello del mio cuore che andava in frantumi. Respirai a fondo, prima di prendere la scopa e raccogliere i cocci. Il rumore doveva metterli in allarme, sperando che la paura di essere scoperti li fe allontanare. Mi versai un bicchiere d’acqua. Deglutii a forza. Lo stomaco brontolò e il senso di nausea divenne più acuto. Un ultimo sguardo al giardino e mi diressi nella nostra stanza. ò poco tempo prima che sentissi i i di lui fermarsi sulla porta. Chiusi gli occhi. Feci finta di dormire profondamente. Il materasso si abbassò sotto il suo peso. Profumava di menta e rosmarino. Strinsi le palpebre, cercando di trattenere le lacrime che rischiavano di straripare.
XI
Lui, Adriano;
Voglia di fuggire
Ero appena uscito dal negozio di abiti sartoriali, dove era avvenuta l’ultima prova del completo blu che avevo scelto per il matrimonio. Il sarto non aveva fatto altro che sciogliersi in complimenti. Mio padre era rimasto a guardarmi. Aveva un’espressione strana, ma non disse nulla, eccetto che il vestito era perfetto per me. Nicole e mia madre avevano aspettato fuori. Mancavano due giorni al matrimonio. Voltandomi verso lo specchio, non mi sembrò affatto di avere una faccia da futuro sposo, piuttosto quella di chi si apprestava ad andare incontro ad un destino che non poteva evitare. La carta platino venne strisciata una sola volta e lo scontrino saltò fuori dall’apparecchio, qualche secondo più tardi. Nemmeno notai la cifra che avevo appena speso, firmai veloce afferrando il pacco. L’aria era calda nelle strade del centro. Via del Babbuino si trovava a pochi metri da Piazza di Spagna. Nicole mi accolse con un largo sorriso. Inforcai gli occhiali da sole e le strinsi la mano che mi tendeva, senza dire una parola. La conversazione riprese intorno a me. Non afferrai nulla di ciò di cui si stava discutendo, l’attenzione fissa su ciò che avevo di fronte senza riuscire a concentrarmi su qualcosa in particolare. I nervi si tesero quando, verso le sei del pomeriggio, raggiungemmo via Condotti. Mia madre voleva comprare un regalo per Nicole. Lei parve in imbarazzo, ma non tradì nessuna esitazione quando la costrinse a seguirla dentro una gioielleria. Lo sguardo si fermò sul negozio di borse firmate che riuscivo a vedere appena. Stava lavorando in quel momento? Non smettevo di pensare a lei. Un giapponese uscì stringendo a fatica quattro buste. Riuscii a distinguere il
buttafuori che chiudeva la porta alle spalle del cliente. Non mi resi conto di stare camminando in quella direzione. L’unica cosa che percepivo erano i i di mio padre che mi seguiva da presso. Mi bloccai di fronte alla vetrina con l’insegna Louis Vuitton, e non seppi di essere nervoso fino a che, sbirciando nel negozio, non riuscii a trovarla. Era da quando eravamo tornati da Sperlonga che non vedevo Greta. Mi ero sentito spesso con Claudio quell’ultimo mese, ci eravamo anche incontrati, qualche volta, ma lei non era mai venuta e io, non avevo mai chiesto nulla, nonostante tutte le volte sperassi di rivederla. Il mio orgoglio, maledetto orgoglio, mi impediva di chiamarla o di fare qualunque cosa implicasse una sua partecipazione. Non riuscivo a are sopra al modo in cui mi aveva liquidato, quell’unica volta che eravamo stati insieme. O quasi. Mi aveva schiaffeggiato, imponendomi di dimenticare. Ma come poteva chiederlo? Sentivo ancora le sue labbra, morbide, contro le mie. Gli ansiti rochi, la risposta pronta al mio tocco. Il corpo l’aveva riconosciuta quasi fosse stata un prolungamento del mio stesso essere. ai una mano sul cranio rasato. Dovevo smettere di pensare a lei, così come lei aveva smesso di pensare a me. Anche se lo ripetevo come un mantra, era la cosa più difficile che avessi mai fatto. «C’è qualcosa che non va Adriano? Sono un po’ di giorni che ti vedo assente. Problemi a lavoro?» Mi ero dimenticato dell’uomo accanto a me. Evidentemente aveva considerato strano il fatto che fossi rimasto immobile, al centro della strada, a fissare un negozio che vendeva per la maggior parte articoli femminili. «Tutto a posto. Ero soprappensiero. No, il lavoro va bene.» Lo guardai. Le labbra tese in un sorriso sghembo. «Sei un po’ dimagrito. Dovresti mangiare meglio. Devo dire a tua madre di smetterla con la dieta a base di verdura. Ci farà diventare secchi come chiodi.» Gli ai un braccio intorno alle spalle. Era poco più basso di me, un po’ appesantito sull’addome ma, il suo aspetto, lasciava presagire che, in età adulta, avrei mantenuto un certo fascino.
«Allora stasera un bel piatto di pasta alla carbonara, che ne dici?» Rise massaggiandosi lo stomaco. Sibilla era molto rigida per quanto riguardava l’alimentazione da seguire. Per mia fortuna non avremmo vissuto ancora a lungo a casa dei miei. Da poco ci avevano dato le chiavi del nostro nuovo appartamento, uno spazioso attico sul lungotevere. Lo avevano comprato qualche mese prima, in previsione del mio rientro, ma avevano deciso di regalarmelo, una volta terminati i lavori di ristrutturazione. Era una casa stupenda. Tre camere da letto, tre bagni, salone con angolo cottura, un terrazzo di una cinquantina di metri quadrati. Per il restauro erano stati utilizzati materiali ecologici a risparmio energetico. Avevo immaginato che tramassero qualcosa, ma non avrei creduto che il segreto che stavano custodendo era una casa. Dopo le nozze, di ritorno dal viaggio, ci saremmo trasferiti lì e avremmo cominciato la nostra vita coniugale. Nicole era stata entusiasta della futura sistemazione. Aveva subito comprato una pila enorme di giornali di arredamento rivolgendosi inoltre ad un interior designer, affinché, al nostro ritorno, tutto fosse perfetto e pronto ad accoglierci. Io non ero stato capace di reagire con il medesimo entusiasmo. Non provavo nulla nei confronti di quella che sarebbe dovuta essere la nostra casa; non mi importava di quali mobili o tende o elettrodomestici di ultima generazione sarebbero stati scelti. Le avevo lasciato carta bianca, poteva fare ciò che voleva. A me sarebbe andato bene. Mio padre guardò in direzione di ciò che avevo fissato a lungo. «Non è il negozio dove lavora Greta?» Come potevo pensare che non conoscesse il posto dove era impiegata la figlia di un uomo che stimava tanto? Ero certo che lo avesse messo al corrente del fatto che Greta avesse trovato un impiego al centro di Roma. «Sì, lo è.» «La stavi cercando? Non mi pare ci sia. Forse è il suo giorno di riposo.» Presi la direzione di Via del Corso. Non mi andava di stare fermo lì con lui a farmi il terzo grado. «No. Non la stavo cercando. Volevo vedere se ci fosse qualche borsa da regalare
a Nicole. So che le piace la firma.» Mi venne dietro. «E quella che hai nascosto nel soppalco? Non puoi regalarle quella?» Mi irrigidii. La lunga falcata perse di tono finché non mi fermai voltandomi verso l’uomo che mi tallonava. «Cosa vuoi sapere? Dillo chiaramente. Non mi piacciono le allusioni. Dovresti conoscermi.» La sua espressione divenne un po’ più dura. «E a me non piace vedere mio figlio infelice, cosa che in questo momento non dovrebbe essere.» Mio padre aveva il volto teso e la postura rigida di quando si tratteneva a fatica dal colpirmi. «Voglio sapere se sposare quella ragazza è ciò che vuoi. Il matrimonio non deve essere una cosa che fai tanto per fare. Se si decide di sposare qualcuno lo si fa perché si spera di are il resto della vita con quella persona. Non perché non si ha altra scelta.» Sentivo la tensione salire. Ero un uomo adulto. Non avevo bisogno che mi fero la predica. « Io e Nicole ci sposeremo. Fine della storia. Tieni i tuoi dubbi per te. Non vorrei che mamma cominciasse a torturarmi per sapere cosa succede.» Era sul punto di replicare, ma alla fine chiuse la bocca ed annuì. Conversazione finita.
Per quella sera, Sibilla aveva deciso di fare uno strappo alla regola, e concedermi il piatto di pasta che avevo chiesto. Io e Davide non parlammo ma nessuna delle due parve accorgersene, troppo prese dagli ultimi preparativi precedenti il grande giorno. Finito di sparecchiare, i miei genitori uscirono. Dovevano incontrarsi con
degli amici. Non sapevo chi fossero e non lo chiesi neppure. Mi buttai sul divano. In TV c’era un film con Brad Pitt; cominciai a seguirlo pigramente. Non mi pareva di averlo visto ed era iniziato da poco. Nicole mi osservava dall’altro lato della sala, le labbra strette a formare una linea dritta, gli occhi socchiusi sembravano più allungati di quanto non fossero in realtà. «Siediti Niky. C’è un bel film in tv» Le feci segno di accomodarsi vicino a me. Rimase ferma un momento, poi decise di fare come avevo suggerito. Si incuneò tra me e il bracciolo del divano, rannicchiandosi. «Stai comoda?» Annuì, guardando di fronte. Rimanemmo in silenzio, il braccio abbandonato sullo schienale, la testa dai corti capelli biondi sulla mia spalla. «Tu mi ami Adriano?» Non mi voltai, continuando a seguire l’attore che recitava dietro lo schermo. «Certo che ti amo. Che domande mi fai.» Fece spallucce. Credevo di aver chiuso la conversazione, invece si sollevò. Le gambe piegate sotto di sè. Mi studiava. Sospirai. Distolsi l’attenzione dalla scena action e mi concentrai su quella figura minuta. «Che c’è Nicole? Sono stanco. Ho avuto una giornata pesante. Non pensi che abbia il diritto di godermi un film in santa pace?» Sapevo che l’avrei ferita parlandole in quel modo. Ma non ero dell’umore di essere rimproverato perché non le dimostravo abbastanza affetto. «Sei cambiato. Non ti riconosco più.» Voleva litigare? «Sono solo stanco. Te l’ho detto.»
Ero esasperato. Se avesse continuato ad insistere su quell’argomento ero certo che le avrei risposto male. «Non dirmi bugie. Lo so cosa è successo. Pensi che sia stupida? Credi che non sappia per quale motivo sei così distante ultimamente?» La fissai sbigottito. Le sue guance erano diventate bordeaux, gli occhi accesi per l’indignazione. «Perché non lo ammetti? Sono giorni che menti.» Una lenta consapevolezza. Nicole era disperata. «Ammettere cosa?» Mi alzai lasciando la comodità del divano. Le gambe che si muovevano avanti e indietro. Rimase ferma nella stessa posizione, l’unico cambiamento, una lacrima che le stava percorrendo la guancia. Avrei dovuto stringerla, confortarla, rassicurarla sul fatto che andava tutto bene, che era l’unica, che l’avrei amata sempre. Le parole non uscirono. Chiusi le mani a pugno pensando a cosa avrei potuto dire o fare. «Ti ho visto. Tu e quella puttana che si porta dietro il tuo amico.» Per un attimo il ricordo di Greta mi riempì la mente non permettendomi di vedere altro. «Cos’è che hai visto? » Nicole sbottò. Si sollevò dai cuscini, afferrò la prima cosa che trovò sotto mano: il telecomando, scaraventandolo a terra e rompendolo in vari pezzi. «Non mentirmi. Non farlo. Non adesso mentre mi guardi in faccia.» Urlava, il tono stridulo, le vene gonfie del collo. «Te la saresti scopata se non fossi intervenuta.» La memoria di quella notte. Un bicchiere che si frantumava, la scopa che raccoglieva i cocci.
«Eri tu.» Fu scossa dai singhiozzi. Gli occhi erano verdi, lucide biglie di vetro. Non mi avvicinai. Restai fermo, aspettando che smettesse di sciogliersi in lacrime. «Ero io. Ti ho visto mentre cercavi di infilare il cazzo dentro quella stronza. Non ti sei sentito in colpa Adriano? Per me, per Claudio, il tuo migliore amico. Lo sapevo che c’era qualcosa che non andava.» Tirò su con il naso, asciugandosi la faccia con il dorso della mano. «Ma tu dicevi: “Non è così Nicole, non essere pesante, sei la solita, vedi sempre il lato negativo di ogni situazione.”» Si voltò verso il tavolino di cristallo accanto al divano. Sopra di esso, un vaso prezioso ricolmo di bon bon in vetro di Murano. Lo prese tenendolo alto sopra la testa. Si vedeva che faceva fatica a sollevarlo. Me lo tirò addosso, con tutta la forza che aveva. Lo schivai di poco, prima che andasse ad infrangersi sul pavimento. «Falla finita Nicole, o hai intenzione di distruggere la casa dei miei?» Certo che mi sentivo colpevole. Ma quel modo di reagire non era giustificato, sarebbe stato più opportuno che provasse a colpire me e non tutta l’oggettistica di casa. Risposi alla rabbia con la rabbia. «Perché non l’hai detto prima? Perché te ne esci solo ora? Avremmo potuto evitarci un sacco di problemi.» Le gridai in faccia. Urlò anche lei, con quanto fiato aveva in gola. Se i vicini ci avessero sentito, avrebbero mandato qualcuno a controllare che andasse tutto bene. «Evitare cosa Adriano?» Le lacrime continuavano a bagnarle il viso. Strillò, ancora e ancora. Poi, alla fine, corse verso di me, tempestandomi di pugni. Le piccole mani picchiavano a casaccio. Io non provavo nulla. Lasciai che mi colpisse, fino a che non ne ebbe abbastanza e, stremata, abbandonò le braccia lungo i fianchi. Tremava, ribollendo dell’ira che ne aveva comandato i gesti. La testa bassa, il fiato corto, le dita strette ad abbracciarsi. Era così indifesa da farmi sentire un verme. Alzai
il braccio, mi bloccai prima di ultimare il movimento e sfiorarle i capelli. Parve accorgersene, l’espressione si concentrò di nuovo sulla mia. Disprezzo, frustrazione, dolore, amore, delusione. Così tante emozioni arono su quel viso familiare, che faticai a riconoscerle tutte. «Evitare cosa Adriano?» Era più calma finalmente, fredda e controllata. «Scongiurare tutto questo casino Nicole. Non era mia intenzione farti soffrire.» Le labbra serrate in una fessura orizzontale. Il viso pallido, le occhiaie gonfie e irritate. «Hai intenzione di lasciarmi Adriano?» Rimasi muto. Non sapevo cosa rispondere. «Non oserai farmi questo. Giuro che se solo provi a boicottare il matrimonio ti farò rimpiangere di avermi conosciuta.» Mi stava minacciando? Quell’ultima frase fece sì che la rabbia trattenuta fino a quel momento esplodesse. Mi allontanai avendo paura di poterle fare del male. Impedì che assi, piazzandosi di fronte a me ogni volta che tentavo di superarla. «Spostati.» Mi schiaffeggiò da entrambi i lati. «Non provare a varcare quella soglia.» Le parole che mi sputò addosso erano veleno. «Spostati o, porca puttana, ti sposto io.» Rimase ferma, lo sguardo di sfida, incurante dell’avvertimento. La presi per le spalle, sollevandola senza sforzo. Cominciò a sbraitare, chiamandomi nei modi peggiori che conoscesse. La lanciai sul divano. Notai che si rannicchiava per assorbire l’impatto della caduta. Rimbalzò sui cuscini. La osservai per un
momento. Dopo che mi fui assicurato che stesse bene raggiunsi la nostra camera da letto. Indossavo una tuta e una t-shirt bianca. Non mi sarei cambiato. Non volevo are un minuto di più in quella casa. Infilai le scarpe da ginnastica, presi il portafoglio, le chiavi della macchina e il telefono. Mi aveva seguito, catturando ogni gesto che facevo, incollata addosso come una cazzo di ombra. Tirai la maniglia della porta blindata, pronto ad uscire. Vi si gettò sopra richiudendo l’entrata. «Non andare Adriano. Io non ho nulla all’infuori di te.» La stava buttando sul patetico. La cosa mi fece imbestialire ancora di più. La spostai, non con una certa difficoltà. «Ti perdono. Ti perdono per ciò che hai fatto, a patto che tu non cerchi più quella donna.» Sembrava sincera. Mi stava offrendo una via d’uscita. Ma era quello che volevo davvero? La osservai. La rabbia mi faceva tremare ancora, nonostante fossi stato capace di controllare le mie reazioni. Quell’espressione sofferente. Il volto supplichevole. Il corpo magro nascosto sotto una maglia larga. Feci cenno di no, non volevo continuare a mentire. Chiusi la porta con un tonfo che rimbombò sul pianerottolo. L’urlo mi vibrò intorno. Era il grido di dolore di una bestia ferita. Le scale scendevano per quattro rampe. Cominciai a correre sentendo il bisogno di respirare. Avevo aperto i due finestrini davanti dell’imponente Jeep; l’aria era tiepida, serviva a malapena ad attenuare il fuoco che mi animava. Roma era accarezzata da un tramonto rosato. Non vidi nulla eccetto la strada che continuava dritta, tra semafori e aggi pedonali. Nicole aveva scoperto la tresca tra me e Greta, nel momento in cui era iniziata e così terminata. Perché non mi aveva detto la verità? Perché aveva atteso fino a due giorni prima del matrimonio per rivelarmi che sapeva tutto? Le parole mi rimbombavano nella mente: “Io non ho nulla se non te.” Sapevo che Nicole non mi avrebbe mai lasciato, io ero l’unica famiglia rimastale. Ero consapevole del fatto che mi amava ed era disposta a tenermi, nonostante non le fossi sempre stato fedele. Ma a me bastava? Sarei stato felice intrappolato in un matrimonio che mi avrebbe condizionato per il resto della vita?
Scossi la testa, cercando di dimenticare la scenata alla quale avevo partecipato poco prima. Speravo proprio di non aver dato spettacolo nel palazzo. Nicole non aveva avuto torto nel reagire in quel modo. In fin dei conti, ero io quello che aveva sbagliato. La cosa sulla quale dovevo concentrarmi era il fatto che non riuscissi a sentirmi in colpa nemmeno in quel momento. Desideravo vedere Greta più che mai. Con quel suo fare un po’ da dura, le sue battute sagaci, avrebbe fatto in modo che ogni dubbio evaporasse, facendomi dimenticare tutto. Presi il telefono e digitai il numero di Claudio. Due squilli. La voce resa metallica dalla linea telefonica. «Amico mio. Dimmi tutto!» Sembrava che si trovasse in un luogo affollato. Un chiacchiericcio insistente mi costrinse ad alzare il tono nel tentativo di parlargli. «Scusa se ti disturbo. Volevo sapere se eri libero per andare a prendere una birra.» Un momento di silenzio. Qualcuno gli stava chiedendo un’informazione, mi parve di riconoscere la voce di Silvia, la madre, che gli intimava di interrompere la comunicazione. Stavano per mangiare. Che donna insopportabile. Non si era resa conto che il figlio aveva trent’anni e forse, le sue continue intromissioni, lo facevano apparire il classico cocco di mamma? «Scusami Adriano. Sono a cena dai miei, Greta non c’è, così ho approfittato per stare in famiglia.» Greta non c’era? «Come mai Greta non c’è? Uscita libera con le amiche?» Tentai di non far trapelare nulla di ciò che pensavo utilizzando un tono disinteressato ed unicamente di cortesia. Trattenni il fiato aspettando che rispondesse. «No, è andata a Firenze questo pomeriggio. La casa editrice alla quale hai mandato il manoscritto l’ha contattata. Pare che vogliano proporle un contratto.» «Andrea non mi ha detto niente.»
La voce di Silvia, ancora più scocciata, fece da sottofondo alla sua risposta. «Non ho sentito, scusa Claudio.» «Mamma un momento. No, stavo dicendo che l’hanno chiamata stamattina e avevano una gran fretta di vederla per firmare la proposta. Ne è stata sorpresa, ma non ha potuto rifiutarsi di andare. Ha preso il treno delle 16,30. Non l’ho ancora sentita.» Greta non era a Roma? Guardai l’ora. Le 20:30. Se avessi corso, avrei impiegato al massimo tre ore per arrivare a Firenze. «Okay, sarà per la prossima volta. Scusa se ti ho disturbato. Buon appetito.» «Nessun disturbo. Se vuoi dopo cena possiamo vederci.» No grazie. Avevo altri programmi. «No amico. Ci sentiamo domani, scusa ancora.» Chiusi la comunicazione e imboccai la Cristoforo Colombo. Avrei svoltato sul Raccordo spingendo il piede sull’acceleratore fino a destinazione.
XII
Lei, Greta;
Una proposta impossibile da rifiutare
L’Eurostar ci aveva impiegato poco più di un’ora e mezza per portarmi a destinazione. Una volta scesa alla stazione centrale, avevo preso un taxi. L’indirizzo lo avevo appuntato su un foglietto, ormai sgualcito, che avevo stretto nella mano per l’intera durata del viaggio. Quella telefonata mi aveva sorpresa. Avevo balbettato nel parlare con la donna che mi invitava a raggiungerla il più presto possibile. Guardai le strade del centro senza riuscire a memorizzare nulla. Ero troppo agitata. Avevo sempre sognato di pubblicare una mia opera. Non riuscivo ancora a capacitarmi del fatto che forse, quella fantasia, si sarebbe potuta trasformare in realtà. Invocai una preghiera silenziosa, l’auto si fermò di fronte ad un palazzo elegante, da quella distanza il Ponte Vecchio era ben visibile. Presi il trolley che avevo preparato in fretta e furia, non ricordavo nemmeno se ci avevo infilato il pigiama. Poco importava. Pagai il tassista che mi fece l’occhiolino. Lo ringraziai a mezza bocca, dovevo apparire tesa come una corda di violino. Spinsi il pulsante dove era scritto a chiare lettere il riferimento della casa editrice. Deglutii rumorosamente, una voce metallica chiese chi fossi. Risposi, dicendo di avere un appuntamento con il capo redattore. «Prego signorina, salga pure, terzo piano.» Il portone d’ingresso si aprì con un suono simile ad uno sparo. Presi l’ascensore. Piccolo, ma totalmente ristrutturato. I vetri lunghi della cabina riflettevano la mia
immagine. Mi guardai un momento. A parte il tragitto che mi aveva messa un po’ in disordine, avevo un aspetto piuttosto dignitoso. Certo, se non avessi avuto quell’espressione spaventata stampata in faccia, sarebbe stato molto meglio. Respirai a fondo, la cabina si bloccò con un sussulto, ero arrivata. C’era odore di pulito. La porta di legno scuro che dava sul pianerottolo era socchiusa. Le ruote del bagaglio a mano facevano un rumore infernale. Una donna sulla quarantina, vestita in un completo di uno splendido color ocra, mi accolse da dietro una scrivania ovale. «La signora Greco la sta aspettando. Prego, dia a me la valigia, gliela terrò fino a che non andrà via.» Le sorrisi, consegnandole il manico sudaticcio. Premette un pulsante su quello che doveva essere l’apparecchio di chiamata rapida. Nell’attesa che qualcuno mi venisse a prendere, concentrai l’attenzione sull’imponente scritta che era appesa alle sue spalle. Divina Editori. Ricordavo qualche titolo pubblicato da loro, ma in quel momento rammentare le storie che avevo letto, era un’impresa improba. Un ragazzo magro, dall’aria seccata, si rivolse alla segretaria in maniera sgarbata. Lo vidi cambiare faccia quando i suoi occhi si posarono su di me. Un tipo ordinario; se lo avessi incontrato per strada non lo avrei certo notato, aveva l’aspetto di un contabile. Mi fece segno di seguirlo, molto più gentile di quanto non fosse stato con l’altra. Attraversammo un lungo corridoio per accedere infine ad una stanza spaziosa, divisa in una ventina di box. Dietro ognuno di essi c’era una persona intenta a fare il suo lavoro. Chi scriveva, chi stava al telefono, chi aveva una montagna di scartoffie appoggiata sulla propria scrivania. C’era odore di carta ed inchiostro. Entrare in quell’ambiente mi fece uno strano effetto. Mi sentivo in trance mentre qualcuno mi lanciava un’occhiata incuriosita. «Posso chiederle chi devo annunciare?» Ci misi un po’ a capire che stava parlando con me. Non si era nemmeno voltato, camminava a o svelto mentre io faticavo a respirare. «Greta. Greta Mantovani.» Si fermò a scrutarmi con attenzione. Lo sguardo particolarmente interessato. «Lei è la nuova scrittrice. Credevo fosse più vecchia.»
Non disse altro, lasciandomi confusa di fronte al commento veloce. Attraversammo un altro paio di stanze. Ma quanto era grande quell’appartamento? Alla fine, ci arrestammo di fronte ad un aggio a vetri. Anche le pareti dell’ufficio erano trasparenti, riuscii a scorgere il profilo di una donna seduta, intenta a fissare il panorama della città, ben visibile oltre la finestra. «Prego. Andrea la sta aspettando.» Mi fece cenno di accomodarmi, chiudendo la porta alle mie spalle. L’ambiente profumava di fiori. Il mobilio moderno, sui toni del bianco e del nero, comprendeva un’ampia libreria stracolma sulla parete destra, due poltrone in pelle volte verso la scrivania lucida, una più grande, girevole, dove era appoggiata la capo redattrice, uno specchio enorme alla mia sinistra, ed un piccolo tavolo di cristallo, sul quale era stato sistemato un vaso ricolmo di rose rosse. Rimasi in piedi, aspettando che la donna al telefono si girasse verso di me, indicandomi cosa volesse che fi. «La stampa non può essere rimandata. Abbiamo programmato l’uscita per questo fine settimana, non possono esserci ritardi. Lo sai Giovanni che non mi piace quando si lavora in maniera poco efficiente. Se i libri non usciranno per il periodo stabilito, sarò costretta a rivolgermi ad un’altra tipografia. Fammi sapere. Ora ho un appuntamento. Ci aggiorniamo più tardi.» Quasi frantumò il cordless mentre lo schiacciava sull’attacco per la carica. La sedia girò. Lunghe gambe accavallate furono la prima cosa che notai di lei. Era giovane, doveva avere poco più della mia età, ma il tono in cui si rivolgeva a chi lavorava per lei e, soprattutto, lo sguardo che mi rivolse, la facevano apparire molto più grande. Il viso appuntito era incorniciato da lisci capelli neri. Una frangia dritta nascondeva la fronte. Pelle bianca, labbra rosse, doveva aver ritoccato il rossetto da poco. Lo sguardo era penetrante, gli occhi scuri truccati con tratti pesanti che ne mettevano in risalto la forma allungata. Indossava una camicia bianca di seta trasparente, che insieme al completo nero faceva pendant con il resto dell’ufficio. Il seno grande non era per niente nascosto dall’abbigliamento professionale. Mi sorrise, addolcendo quell’espressione da giudice. Si alzò con movimenti fluidi. La gonna corta faceva sì che le gambe risultassero infinite. Scarpe altissime, all’ultima moda. Dovetti alzare la testa per guardarla in faccia.
«Greta. Sono molto felice che tu ce l’abbia fatta a venire oggi.» La stretta di mano era decisa, non mi sarei aspettata nulla di meno da lei. «Chiamami Andrea. Prego, accomodati.» Mi sedetti, sprofondando nella pelle morbida. Seguì il mio esempio, occupando la sedia accanto a me. «Allora. Vuoi che ti faccia portare qualcosa? Caffè, tè, un drink? Chiedi pure tutto ciò che desideri.» Avevo la gola secca. «Un tè sarebbe perfetto.» Cercai di darmi un tono, evitando che il nervosismo prendesse il sopravvento. Chiamò il ragazzo che mi aveva accompagnata e gli fece l’ordinazione. Quando disse che avrebbe preso un aperitivo con prosecco e patatine, me ne venne subito voglia. Decisi comunque di stare zitta e non modificare la mia richiesta, non mi andava di dare l’impressione di essere una persona poco sicura. «Parliamo un po’ di te. Cosa fai nella vita? Cosa ti ha spinto a scrivere il libro che ho appena letto?» Mi sentivo una perfetta idiota mentre cercavo di mettere una parola dietro l’altra. Non ero mai stata così tesa in vita mia. In genere, riuscivo ad avere delle conversazioni piuttosto brillanti. Il problema era che mi stavo comportando come non era mia abitudine fare. Ne andava del mio futuro, dovevo calmarmi. «Mi scusi. Sono un po’ agitata. Non è il primo colloquio che faccio, ma è il primo in assoluto che mi vede come aspirante scrittrice.» Sorrise ancora, questa volta anche gli occhi ne furono contagiati. Finalmente ci vennero portate le nostre bevande. Il tè era bollente. Mi bruciai la lingua, ma almeno non avevo più l’impressione di avere in bocca della calce. «Sei molto giovane. Quanti anni hai? Venti?» Stavo per sputacchiare il sorso che avevo appena ingoiato. Avvicinò svelta un
fazzolettino per evitare che mi sporcassi. Che pessima figura. «Ne ho venticinque, a ottobre ne compirò ventisei.» Inarcò un sopracciglio. Le lunghe dita affusolate si strinsero intorno al flute. «Credevo fossi più piccola, l’apparenza inganna.» «Già. Non è la prima a farmelo notare.» Mandai giù il resto della bevanda, posando la tazza bianca sul poggia bicchiere. «Dammi del tu. In fondo, non sono molto più vecchia di te.»
Dopo mezz’ora di conversazione ero molto più rilassata. Mi aveva fatto domande su tutto ciò che mi riguardava. La famiglia, il lavoro, il fidanzato. Per un attimo ebbi la sensazione di stare chiacchierando con un’amica. «Perché hai deciso di pubblicare il libro?» Mi zittii. Deciso? Io in realtà non avevo deciso proprio niente. Aveva fatto tutto Adriano. Adriano. Il suo ricordo mi fece dimenticare la domanda. Sentivo il tocco esperto delle sue mani, le labbra che mi baciavano, la voce che si sforzava di parlare. «Greta?» Sbattei le palpebre. Merda. «Scusami, stavo pensando ad un’altra cosa. In realtà non sono stata io a mandarle il testo. È stato…un amico del mio fidanzato. Credo che vi conosciate.» L’espressione si fece guardinga. Mi studiò per un po’ prima di continuare. «Adriano. Sì, l’ho sentito il giorno che mi ha pregato di leggerlo.» Immaginavo che l’avesse chiamata, in fondo, le aveva chiesto un favore.
«Non volevo che si esponesse per causa mia, ma lui ha insistito. Credo che tu lo conosca meglio di me, da quanto ho capito, perciò sai che non è incline ad ascoltare il parere degli altri.» La risata argentina mi vibrò intorno. Immaginai di trovarmi su una nave ad assistere al canto di una sirena. Non avevo mai ascoltato una donna ridere così… così voluttuosamente. «So bene che quando si ha a che fare con lui si hanno poche opzioni. Comunque sono contenta che abbia insistito, ho letto ciò che hai scritto e devo dire che ne sono rimasta colpita. Hai talento Greta. Un talento acerbo, bisogna lavorarci, ma sei un’autrice promettente, e preferisco legarti a me prima che qualcun’altro ti scopra e ti porti via.» Si piegò sulla scrivania, tirando fuori un fascicolo che cominciò a sfogliare pigramente. «Ho redatto una bozza di contratto. Vorrei che lo leggessi e, ovviamente, lo firmassi. Ci sono scritte tutte le clausole e gli accordi per il lavoro di oggi e i tuoi futuri progetti. Non è gergo da avvocati, sono riuscita a capirci qualcosa anche io, comunque, fallo visionare dal tuo legale e poi dammi una risposta.» Mi porse i fogli pieni di parole. Diedi un’occhiata veloce, ma non era quello il momento di studiarli. «È questo ciò che vuoi fare. Scrivere per vivere?» Non ci pensai un momento. «Sì. È il sogno di una vita. Ho cominciato a desiderare questo da quando ho posato gli occhi su un libro, ed avevo poco più di tre anni.» Mi guardò affascinata. «Un piccolo talento di nascita. Faremo grandi cose io e te Greta. Ho un ottimo presentimento.» Volevo abbracciarla, baciarla, ringraziarla. L’unica cosa che riuscii a fare fu di arrossire come una scolaretta.
«Ora che abbiamo parlato di affari, toglimi una curiosità» Ero pronta a dirle qualsiasi cosa. «Per quanto tempo vi siete frequentati tu e Adriano?» Non ero preparata a quella domanda. Perché lo voleva sapere? «Non capisco.» Lo sguardo che mi rivolse mi tenne schiacciata contro lo schienale della poltrona. «Curiosità. Io e Adriano ci conosciamo dai tempi delle superiori. Sono stata la sua prima fidanzata, lo conosco molto bene, se non ci fosse stato qualcosa tra voi non mi avrebbe chiesto di sbrigarmi a dare un giudizio su ciò che ti riguardava. Ovviamente, se non vuoi rispondere, sei liberissima di farlo. Scusami per avertelo chiesto.» Cosa potevo dirle? Che io e Adriano stavamo per tradire i nostri rispettivi compagni a pochi giorni dal suo matrimonio? Non mi sembrava davvero il caso. Comunque mi parve che lei fosse già a conoscenza di tutta la faccenda. «Non so cosa ti abbia raccontato lui, ma non siamo stati insieme, mai.» Okay, era una mezza bugia, ma cosa poteva importargliene? «Allora deve aver trovato qualcosa di speciale in te, perché il signorino Altieri non fa nulla per nulla.» Non mi piaceva la piega che stava prendendo la conversazione. Ci eravamo conosciute da appena cinque minuti, e già mi dava consigli sulla mia vita privata. «Forse, o forse no. Non so cosa dire.» Non vedevo l’ora che il nostro incontro terminasse, non mi sentivo a mio agio a parlare di lui con una sua ex. «Stai attenta Greta, quando Adriano ti entra sotto la pelle è difficile
dimenticarlo.» Avrei voluto imprecare. In verità mi era parso di intuire che volesse entrare da qualche altra parte. Annuii sorridendo, tirata come un arco. «Scusami Andrea, ma questo argomento mi mette in imbarazzo, non sono venuta qua per parlare di Adriano. Se non hai più nulla da dirmi, vorrei andare e trovare un posto dove cenare.» Non sarei potuta essere più gentile di così nel troncare la conversazione. Stavo migliorando. Ecco la nuova diplomatica versione di me. «Scusami ancora, non volevo immischiarmi.» Scossi la testa, i capelli mi sventolarono intorno. «Di nulla.» Si alzò, facendo mostra del metro e mezzo di cosce. Mi porse la mano, strinse in maniera meno dura della prima volta. «Sono stata molto felice di averti conosciuta, spero che accetterai la mia proposta di lavoro.» Ero sul punto di accettare, anche se avessi letto il contratto, ero sicura che avrei lavorato con lei. A parte quell’ultima parentesi della conversazione, il colloquio era andato meglio di quanto mi fossi aspettata. Andrea mi piaceva, anche se non aveva peli sulla lingua. Forse la apprezzavo proprio per questo. «Sono certa di sì.» Fui colta di sorpresa quando si sporse a darmi due baci amichevoli sulle guance. «Se puoi aspettare un’altra ora potremmo andare a cena insieme. Mi farebbe piacere chiacchierare con te in un ambiente meno formale.» Ne ero lusingata, ma dovetti rifiutare. Avevo bisogno di riorganizzare le idee, di stare un po’ da sola e poi, avevo programmato di fare un bel giro per le strade di Firenze. Era da molto che non la visitavo, e le città d’arte mi avevano sempre affascinata.
«Allora al nostro prossimo incontro. Spero di vederti presto Greta.» «A presto Andrea, è stato un piacere.» «Anche per me.» La salutai con un cenno della mano mentre mi avviavo verso l’uscita. Percorrendo la strada a ritroso, mi accorsi che quasi tutti i dipendenti della Casa Editrice, avevano lasciato le loro postazioni. Diedi un’occhiata all’orologio che era affisso sulla parete di fondo, le 19:45. Avevamo parlato per parecchio tempo, le ore erano volate. Lo stomaco borbottò. Era tempo di mettere qualcosa sotto i denti. Scesi insieme alla segretaria, mi riconsegnò il trolley che avevo lasciato all’ingresso. Fu gentile quando le domandai dove potessi alloggiare nelle vicinanze. C’era un albergo carino e a buon prezzo a pochi metri, appena svoltato l’angolo. La salutai, lei ricambiò. Mi sentivo felice, come non lo ero da moltissimo tempo. Il posto dove decisi di pernottare era un modesto alberghetto a tre stelle. Presi una camera doppia, ero abituata a dormire in un letto spazioso. L’arredamento era in stile settecentesco. La stanza, accogliente, tinta nei toni del borgogna. Mi infilai subito sotto la doccia. Avevo bisogno di levarmi di dosso l’odore di treno e di città. L’acqua mi ruscellò intorno, avevo le membra pesanti, i muscoli iniziarono a distendersi. Mi sentivo stanca ma, nello stesso tempo, euforica. Una volta asciutta chiamai mio padre. Gioì nell’ascoltare ciò che avevo da dirgli. Insieme discutemmo del mio avvenire, mi sembrò di sentire commozione tra una parola e l’altra. «Ho sempre saputo che eri destinata a grandi cose figlia mia. Sono tanto fiero di te.» Gli lessi qualche paragrafo del contratto. Da quello che avevo visto si trattava di un accordo vantaggioso, ma ne avremmo parlato meglio quando fossi rientrata. «Quando hai il treno tesoro? Ti vengo a prendere con lo scooter e ci andiamo a fare una bella eggiata per Roma. Ti offro qualcosa, per festeggiare.» Dietro sentivo mia madre che chiedeva in continuazione notizie. Sergio si divideva tra me e Meredith nel descrivere la situazione. Aveva espresso il
desiderio di venire alla stazione anche lei. Andava bene lo stesso. Ci saremmo spostati con i mezzi pubblici. Chiusi la comunicazione. Erano le 22:30. Non credevo di avere impiegato tanto tempo. Tra la doccia e la chiacchierata si era fatto tardi. Quella giornata era volata via. Mi alzai dal letto sul quale ero appoggiata. Non avevo alcuna intenzione di trascorrere l’intera serata chiusa in camera. Avevo bisogno di festeggiare, camminare, correre. Qualsiasi cosa, pur di scaricare la tensione che ancora mi solleticava la pelle. Presi la borsa, pronta per avventurarmi nei vicoli di Firenze.
Pensai a come la mia vita stava cambiando. Avevo un lavoro stabile, ero sul punto di pubblicare il mio primo romanzo. Sarei stata indipendente e avrei potuto vivere una vita serena. Il pensiero corse a Claudio. Non mi andava di chiamarlo, sapevo che stava trascorrendo la serata con i suoi, non avevo voglia che sapessero ciò che era appena successo; ero certa che mi avrebbero sminuita, così come facevano con qualunque cosa mi riguardasse. eggiai spensierata per strade stracolme di turisti. La città era paradossalmente più viva di quanto non fosse di giorno. Era estate; i negozi, come a Roma, restavano aperti fino a tarda notte, soprattutto quelli del centro storico. I i seguirono la strada che conduceva al Ponte Vecchio. Le vetrine delle gioiellerie creavano caleidoscopi di luce intorno a me. Fui attratta da un negozietto che esponeva oggetti antichi. Ninnoli e catenine d’oro di fattura fiorentina. A mia madre sarebbero piaciuti da impazzire. Speravo di trovare qualcosa che le potesse andare bene. Avevo voglia di regalarle un gioiello, mi sentivo generosa, e lei avrebbe beneficiato di quel mio stato d’animo. Percorsi la strada avanti e indietro in cerca di quello che avrei comprato. Intorno a me il vociare della gente mi dava l’impressione di essere in compagnia, anche se camminavo da sola. Alla fine del grande ponte che attraversava l’Arno, entrai in una oreficeria dall’aspetto prestigioso. Il signore, all’interno, aveva un aria compita, concentrato sulla pagina sportiva di un giornale. Mi sorrise. «Buona sera. Prego guardi pure. Se ha bisogno sono a disposizione.» Risposi con un sorriso a mia volta. Annuendo. Oro rosso, oro giallo, oro bianco,
in tutte le sue forme, era esposto all’interno delle teche di vetro. Era così difficile scegliere! Troppe opzioni mi confondevano. Il camlino sopra la porta suonò. Qualcun altro era entrato nel negozio. Non mi voltai, con la coda dell’occhio vidi che indossava una maglietta bianca; era un uomo, senza dubbio. Continuai la ricerca, fino a che la presenza dell’estraneo dietro di me non mi distrasse. Scorsi il riflesso nel vetro. Sbattei le palpebre un paio di volte convita di stare sbagliando. Non poteva essere lui. Sicuramente era uno che gli assomigliava, tanto da poter essere scambiato per il suo gemello. «Dimmi quello che vuoi Greta, mi farebbe piacere regalartelo.» Rimasi immobile, i contorni sfocati del viso che si specchiavano di fronte. Cosa ci faceva a Firenze? Non fui capace di concentrarmi su niente, eccetto su di lui che continuava a guardarmi fisso attraverso la superficie riflettente. Mi volsi, l’espressione sbalordita mentre gli occhi percorrevano l’atletica e mascolina figura. Non lo avevo mai visto in abbigliamento sportivo. Devo dire, gli donava. «Adriano? Che cosa ci fai a Firenze?» Sollevò gli angoli della bocca, lo sguardo cupo, il cuore accelerò i battiti.
XIII
Lui, Adriano;
Firenze
La macchina sfrecciava come se avessi avuto il diavolo alle calcagna. Sicuramente avevo collezionato un bel numero di multe sull’autostrada, andavo ad una velocità costante troppo alta per rientrare nei limiti consentiti dalla legge. Avevo raggiunto la città fiorentina in appena due ore e mezza. Un record, anche per me. Parcheggiai l’auto nello spazio fuori le mura. Avrei dovuto prendere un taxi per spostarmi. Avevo chiamato Andrea poco prima, per sapere come era andato il colloquio. Era rimasta molto colpita. Non mi sarei aspettato nulla di diverso. Quella ragazza lasciava il segno. L’editor aveva tentato di investigare sul rapporto che intercorreva tra di noi, interessata al fatto che l’avessi chiamata a quell’ora per sapere dove Greta avesse deciso di alloggiare. Non ero tenuto a rispondere, perciò non lo feci. «È al Serafino. Michelle, la mia assistente, le ha indicato quell’albergo, ma non mi sono messa a seguirla per accertarmi che fosse realmente lì, Adriano.» Sembrò che mi stesse prendendo in giro. La ringraziai per l’informazione facendomi portare in zona. «Stai per sposarti Adriano. Non dovresti correre dietro ad altre donne.» Che faceva? Ci si metteva anche lei adesso? Non ero proprio dell’umore di sentire un ulteriore lezione su ciò che avrei dovuto fare e non fare. «Grazie Andrea. Ci sentiamo.» Chiusi la telefonata senza darle modo di replicare.
Il posto dove aveva pernottato era una struttura modesta, nascosta in un vicolo poco illuminato. L’uomo alla reception mi disse che la signorina era uscita da un’ora. Lo ringraziai, già fuori dalla porta. Mi incamminai verso il Ponte Vecchio, pensando che se fossi stato una turista e avessi alloggiato nei pressi di una delle attrazioni più note di Firenze, era lì che mi sarei avviato. Forse la fortuna sarebbe stata dalla mia e non avrei dovuto macinare chilometri prima di trovarla. D’altro canto, con la mente più sgombra e lucida rispetto a qualche ora prima, sarebbe stato meglio se non ci fossimo incontrati. Mi contornava un folto viavai di turisti, nonostante l’ora fosse tarda. Forse, nel riconoscerla, avrei avuto più difficoltà di quanto credessi. Scrutavo i volti di ogni persona che mi ava a fianco. Visi affilati, visi tondi, volti piccoli, grandi. Uomini, donne, ragazzi, ragazze. Occhi azzurri, marroni, verdi, a volte gialli. Qualche donna, pensando che la fissassi perché interessato, si fermava in mezzo alla strada, in attesa della mossa successiva. avo oltre senza preoccuparmi di dare spiegazioni. Non avevo tempo da perdere. Guardai le lancette che ticchettavano sull’orologio da polso, era già ata mezz’ora e di lei nessuna traccia. Cercavo i familiari capelli simili a fiamme ardenti, il fisico esile, l’andatura decisa. Iniziai a spazientirmi a causa della poca fortuna nella ricerca, fu in quel momento che la vidi in lontananza. La bocca mi si seccò mentre gli occhi rimanevano incatenati a quella figura in grado di attrarmi come un magnete. Se ne stava con il naso all’insù, intenta a leggere cosa era scritto sull’insegna sopra la vetrina del negozio. Entrò nella bottega di oreficeria scomparendo alla vista. Attraversai la strada a o svelto. Raggiunsi il punto del marciapiede sul quale, pochi attimi prima, si era fermata. Da fuori, la osservai gironzolare con aria interessata agli oggetti custoditi nelle teche. La fissai per un po’. Era più bella di quanto la ricordassi. La pelle resa luminosa dal riverbero dei preziosi. La mano rimase a mezz’aria prima di spingere sulla maniglia dell’entrata. Avevo ancora una possibilità. Potevo scegliere di voltarmi e andarmene; fare finta di non averla mai cercata, reprimere il desiderio che avevo di lei e permettere a noi tutti di continuare con le rispettive vite. A nessuno sarebbe stato fatto del male, nessuno ne avrebbe sofferto. Socchiusi le palpebre. Per un momento fui solo. Il rumore della città come sottofondo ai pensieri. Digrignai i denti. Le dita ad artigliare il pomello, tese nello sforzo di controllarmi. Spinsi verso il basso. Entrai. Il camlo alla porta suonò con un trillo. Era talmente assorta nella contemplazione di chissà quale articolo che non si voltò nemmeno. Avrei potuto
guardarla per ore. Come poteva, una donna che conoscevo da appena poche settimane, farmi sentire in quel modo? Scossi il capo. Non ne avevo proprio idea. Il proprietario della gioielleria mi prestò poca attenzione prima di tornare al suo giornale. Mi accostai all’unica cliente. «Dimmi quello che vuoi Greta. Mi farebbe piacere regalartelo.» Mi accorsi che ogni fibra del suo corpo si trasformava in pietra, immobilizzandola. La schiena dritta, il respiro che accelerava. Mi fissò sbalordita attraverso le infinite distese di cielo che erano i suoi occhi. «Adriano? Che cosa ci fai a Firenze?» Le sorrisi. Come potevo non farlo? L’ingenuità di quelle parole, la sua espressione sbalordita…Cosa potevo mai fare a Firenze? «Ti cercavo.» Si morse le labbra. Non aveva il solito atteggiamento spavaldo dalla risposta pronta e tagliente. Era spaesata. Per una volta Greta non sapeva che cosa dire. Allungai una mano a sfiorare quei meravigliosi capelli di fuoco. Non si mosse. Le labbra socchiuse mentre le dita avano tra le ciocche in fiamme. «Perché sei venuto?» Non era arrabbiata, solo confusa. Avevo dimenticato che effetto fe averla a pochi centimetri, il corpo si tese nel bisogno di stringerla. «Te l’ho detto. Sono venuto per te.» Abbassò lo sguardo. «Non saresti dovuto venire. Non avremmo dovuto più vederci.» Un debole rossore le colorì le guance. Era così bella in quell’atteggiamento! Eravamo soli, a Firenze, non aveva bisogno di controllare le reazioni tenendomi a distanza, nessuno avrebbe fatto domande sul nostro rapporto. Nessuno ci
avrebbe giudicati. Le sfiorai la pelle del viso. Così morbida, così calda. Abbassò le palpebre, non mi respinse. «Ti sposi tra due giorni.» Non risposi. Nicole era l’ultimo pensiero sul quale avrei voluto soffermarmi in quel momento. Non le dissi niente della discussione che avevamo appena avuto. Avevo spento il telefono una volta parlato con Andrea. Non volevo altri che Greta, la mia mente era piena di lei. «Voglio dimenticare tutto. Per questa notte possiamo essere soltanto io e te.» L’azzurro a volte freddo degli occhi si fece avvolgente. Rifletté su ciò che avevo detto, combattuta tra la ragione e l’istinto. «Io non sono così Adriano. Io non tradisco, non voglio fare questo a Claudio, già mi sento abbastanza in colpa per ciò che è successo a Sperlonga.» Il tono, improvvisamente distaccato. Si allontanò di un o, interrompendo il contatto tra noi. «Se vuoi che me ne vada, basta che tu lo dica. Non ti cercherò più, prometto che sparirò, e non dovrai più preoccuparti di me.» Era vero. Se lei mi avesse detto di andare, il mio orgoglio non mi avrebbe più permesso di seguirla. Volevo sentirmi in colpa per ciò che stavo facendo, avrei tanto desiderato avvertire quella sensazione di disagio alla bocca dello stomaco. Non accadde nulla. Ero solo preoccupato che Greta potesse respingermi. Aprì le labbra, pronta a dare il responso. Ma, un attimo prima, la consapevolezza di ciò che sarebbe successo, le riempì l’espressione. Sapevo che il desiderio che avevo di lei era ugualmente corrisposto, lo sentivo, in ogni fibra del mio essere. Le braccia abbandonate lungo il corpo, gli occhi che mi scrutavano, ancora silenzio. Sorrisi di nuovo, stavolta più sicuro. Ad allentare la tensione fu il brontolio che provenne dalla sua pancia. Si portò le mani allo stomaco, imbarazzata. «Hai mangiato Greta?» «Non ancora.»
Mancavano pochi minuti alla mezzanotte. «Non credi che avresti bisogno di mettere qualcosa sotto i denti?» Parve pensarci, indecisa. Si voltò verso l’esposizione di gioielli che l’aveva attratta. «Devo comprare un regalo prima.» Non obbiettai lasciando che si rivolgesse al negoziante. Le mostrò un paio di orecchini pendenti nei quali erano incastonati due rubini della grandezza di un’unghia. Il prezzo era parecchio alto, ma lei non ci badò, convinta dell’acquisto. Il signore anziano la trattò con estrema gentilezza mentre le incartava i gioielli. Io le stavo dietro, in silenzio, attendendo che fosse pronta a dire qualcosa, evitando di metterle fretta. Al momento del pagamento tirai fuori la carta di credito, non volevo che spendesse una somma simile, sapevo che non poteva permetterselo. Mi guardò con un’occhiata truce. Eccola lì la Greta che conoscevo! «Sono per mia madre, non devi pagarli tu, il mio prezzo è molto più alto.» Rimasi di sasso, e così anche il signore che aveva appena ascoltato la battuta ambigua. La scrutò con attenzione, decidendo se si trattava di una prostituta di lusso. Non potei evitare di ridere pensando a Greta come mercenaria del sesso. Non ce la vedevo proprio. Il commesso sembrò giungere alla mia stessa conclusione tornando a rivolgersi a lei con gentile ammirazione. «Ecco a lei signorina. Buona serata.» Uscimmo. Infilò il sacchetto prezioso nella gigantesca borsa che portava con sé. Cominciò a camminare, lasciandomi dietro, dovetti aumentare il o fin quasi a correre per riuscire a raggiungerla. «Greta. Fermati. Non mi hai ancora dato una risposta.» Si fermò, aspettando che la superassi e mi mettessi di fronte. Sul volto un’aria divertita. «Voglio il Ponte Vecchio, Adriano. Tutto quanto. Se me lo regali non ti chiederò di andare via.»
Immaginai che stesse scherzando nonostante la sua espressione fosse seria. «Dici sul serio? Come faccio a regalarti un pezzo di Firenze?» Le sopracciglia si sollevarono a formare delle sottili rughe orizzontali sulla fronte rotonda. «Organizzati. Questo è il costo della mia prestazione per la notte. Se è troppo, ti consiglierei di avviarti alla macchina, il viaggio fino a Roma è lungo.» Non aggiunse altro. Mi superò, lanciandomi un’occhiata allegra. Nel frattempo che eggiava tranquilla, lo sguardo correva da ambo i lati della strada; il petto si alzò quando respirò a pieni polmoni, mettendo in evidenza il seno sodo. Fui attratto da un negozio di souvenir. Magliette, calamite, piccoli soprammobili che ritraevano immagini varie della città. Un lampo di genio mi fulminò. «Ferma un momento Greta. Ho visto una cosa.» Si fermò, anche se non ci avrei scommesso. Aspettò paziente sulla strada mentre chiedevo al negoziante se aveva ciò che mi interessava. Il cuore cominciò a battere forte quando lo vidi avviarsi verso un angolo nascosto. Uscii stringendo tra le mani un sacchetto bianco, incartato alla meno peggio. Glielo consegnai. Era palese che stesse riflettendo se accettare o meno. «Non dovevi comprarmi niente.» «È ciò che hai chiesto.» Le piccole dita scartarono il pacchetto avvolto nella carta di giornale. Una luce meravigliata la illuminò quando tirò fuori il quadretto. Una tela di venti centimetri per trenta, che ritraeva il Ponte Vecchio su uno sfondo scuro e la luna piena in lontananza. Guardai in alto, la luna era rotonda anche quella sera, si rifletteva come un globo d’argento sulla calma superficie dell’Arno. «È il Ponte Vecchio» Lo strinse con entrambe le mani, portandoselo al petto, all’altezza del cuore. Gli occhi lucidi nel posarsi su di me, consapevole del fatto che quelle poche ore
rimaste sarebbero appartenute a noi. «Era quello che avevi chiesto Greta. Vuoi ancora che resti?» Incartò la tela dipinta meglio di come avesse fatto il proprietario del negozio, la ripose con cura dentro quella sacca che sarebbe potuta appartenere a Mary Poppins. Lo sguardo fisso a terra per qualche secondo, i pugni chiusi, il respiro lento. Allungai una mano, il dito che si insinuava sotto il mento piccolo e appuntito. Fece una leggera resistenza, ma alla fine ebbi la sua attenzione. Avrei potuto perdermi nella profondità di quello sguardo. «Solo questa volta Adriano. Soltanto questa.» Il mio cuore si riempì di una gioia a stento trattenuta. I pensieri fuggirono da tutte le parti. Non c’erano più i problemi, le insicurezze, i dubbi. C’era Greta, soltanto lei, coperta dall’abitino sottile, la pelle chiara, le gambe nude, i capelli accarezzati dal vento, gli occhi ora profondi come l’oceano. La avvolsi con le braccia, liberamente, a tutti saremmo sembrati una coppia. Chiunque ci avesse visti non avrebbe pensato altro che eravamo fatti l’una per l’altro. Infilai il naso tra le onde scomposte dei capelli. Profumavano di buono. Lei era buona. Era bassa in confronto a me. Dopo un attimo di esitazione seguì il mio esempio, abbandonandosi al reciproco contatto. «Soltanto per questa notte…» Sussurrò, schiacciata contro di me. Le sollevai il viso, era avvampata come una ragazzina alla prima uscita. «Dove vuoi mangiare? Sento la tua pancia che borbotta.» Atteggiò la bocca ad un sorriso. Non avevo mai visto un’espressione del genere nascere sul viso di Greta. Conoscevo solo il lato schivo, irritante, pungente. Quella che avevo di fronte era una donna diversa. «Voglio andare al Mc.» La strinsi ancora, non riuscendo a fare altro. Quell’aria da bambina innocente mi faceva venire voglia di spingerla contro un muro e farla mia. Provai a calmarmi. Le mani che le accarezzavano la schiena nuda, non volevo interrompere il
contatto. «E Mc Donald’s sia. Sai dov’è?» Fece segno di no. «Mi pareva di aver visto un’indicazione poco più avanti, ma non sono sicura di dove possa essere di preciso.» Presi il telefono per rivolgermi ad internet. Guardando lo schermo buio mi ricordai per quale motivo lo avessi spento, così lo riposi di nuovo nella tasca dei pantaloni. Non avevo alcuna intenzione di accendere l’apparecchio, ero certo che Nicole non aspettava altro che fossi raggiungibile. Capì, senza bisogno che dicessi nulla. Colsi l’incertezza sul viso, ma fu solo un attimo. «Aspetta, vado a chiedere.» Entrò in un’altra di quelle botteghe che illuminavano la strada, avrei voluto impedirglielo, non volevo si allontanasse, avevamo solo quella notte a disposizione, ogni secondo insieme era prezioso. Tornò subito dopo. «È poco più avanti, girato l’angolo.» La presi per mano. Ne fu sorpresa all’inizio, ma poi, come se fosse la cosa più naturale del mondo, adeguò il suo o al mio.
Mangiò come una che digiunava da giorni. Fui sorpreso di vederla divorare con quella velocità un panino più grande di lei. Il fast food era pieno di gente. Ragazzi appena usciti dal pub che avevano bisogno di mettere qualcosa sotto i denti per alleviare i sintomi della sbronza. Turisti che stringevano una miriade di pacchetti mentre parlavano in lingue diverse. Chiesi a Greta del colloquio. Fu posseduta da un entusiasmo euforico nel frattempo che raccontava dell’incontro avvenuto quel pomeriggio. Parlava così
rapida che faticai a starle dietro. Era bello vederla tanto rilassata in mia presenza! Avevo sempre immaginato che fosse diversa da come la conoscevo. Mi piaceva quella nuova versione, avrei potuto stare con lei sempre. Mi parlò di Andrea, di quello che le aveva chiesto, di come l’aveva trattata. Era felice, si percepiva chiaramente. «Mi ha detto che siete stati insieme. Ti ha ricordato con calore. Cosa fai alle donne Adriano? Per caso qualche rito vudù?» Rise al suo stesso scherzo. «Non posso svelarti il mio segreto. Se lo fi diventeresti immune, e io non voglio che tu sia immune.» Gli occhi si fecero seri, ma sulle labbra restava il sorriso. «Io sono già immune.» Stavolta fui io a ridere. «Può darsi…allora, più tardi, scopriremo la verità.» Arrossì violentemente. «Cambiamo discorso. Non hai risposto alla mia domanda. È stata la tua prima fidanzata?» Il ricordo mi riportò indietro nel tempo. «Sì, io e Andrea frequentavamo lo stesso Liceo. Lei era una delle ragazze più popolari, io ero il campione di nuoto. La classica storia da telefilm americano: il re e la regina del ballo si ritrovano insieme. Scontato, non trovi?» Si appoggiò meglio allo schienale, ascoltandomi interessata. «Mica eri costretto.» Raddrizzai le gambe sotto il tavolo fino a sfiorarle i piedi. Non riuscì a nascondere un fremito.
«No. Nessuno mi ha puntato una pistola alla tempia imponendomi di mettermi con lei. Ma era molto insistente, e io ero nel pieno della pubertà. Non fui in grado di resisterle.» Fissò l’attenzione sul soffittò. L’aria esasperata. «Basta che una vi giri un po’ intorno e non capite più niente. Comunque siete rimasti in buoni rapporti. Sai, mi ha messa in guardia da te.» Mi risentii. Andrea non avrebbe dovuto immischiarsi nelle mie faccende personali. «Ah sì? E da cosa precisamente?» Bevve un lungo sorso di Coca Cola. «Dal fatto che sei difficile da dimenticare.» Ne fui lusingato e non lo nascosi. «Ma io non sono dello stesso parere. Basta un po’ di tempo e tutto si dimentica.» Aveva un atteggiamento di sfida. Poggiai i gomiti sul tavolo incuneando il mento nella coppa delle mani, i nostri volti più vicini. «Aspetta a dirlo Greta, ancora non mi conosci.» Il respiro accelerò mentre si avvicinava a pochi centimetri dalle labbra. «E tu non conosci me. Adriano.» Ero sul punto di baciarla, quando si scansò sghignazzando. «Troppo lento.» Rise ancora, mentre io meditavo una lenta e piacevole vendetta.
Una volta usciti dal Mc’Donald’s continuammo a eggiare. Fu Greta a prendermi la mano per prima. Le nostre dita intrecciate, il calore di entrambi che
si confondeva, un brivido a percorrerci nello stesso modo. Mi parlò di Firenze, indicandomi i vari monumenti che incontravamo. Mi sorpresi nel constatare quanto fosse ferrata sull’argomento. Ne descriveva l’architettura, il periodo in cui erano stati eretti, le famiglie che li avevano commissionati. «Sembri un’enciclopedia.» Ero piacevolmente colpito. «La storia dell’arte mi apiona, sono curiosa per natura, soprattutto se si tratta del frutto di menti geniali.» Arrivammo di fronte al palazzo degli Uffizi. Una locandina ad indicare gli orari di apertura e ciò che comprendeva la mostra. «Se vuoi possiamo andarci domani. È aperto. Vedi?» Feci cenno alla riga. Serrò più forte le dita. «Forse.» Continuammo a camminare. A volte in silenzio, a volte parlando. Mi auguravo che la notte durasse il più a lungo possibile. Guardai l’orologio sportivo che portavo al polso. «Sono le due e mezza. Che ne pensi se torniamo in albergo?» Un momento di esitazione. Sapevamo tutti e due che, quella volta, non ci sarebbe stato niente che ci avrebbe interrotto. «Sì, si è fatto tardi.» Si morse le labbra, nascondendo l’espressione di genuino terrore che le deformò i lineamenti delicati. Dovetti trattenermi per non attirarla a me e soffocarla di baci. Volevo cancellare ogni dubbio e ogni colpa. L’albergo era silenzioso. L’uomo alla reception non fece alcun commento quando entrammo nella hall. Ci diede le chiavi, augurandoci una buona notte. Non prendemmo l’ascensore, salendo le scale, lei davanti e io dietro. Il sedere
rotondo ondeggiava sotto la stoffa sottile. Arrivati sul pianerottolo non resistetti alla tentazione di infilarle una mano sotto la gonna. La carne delle cosce era calda, soda. Greta si fermò, il respiro pesante mentre la scoprivo. La spinsi contro la parete bianca, a pochi metri dalla stanza con affisso il numero della prenotazione. La penombra creava ombre scure su di lei. Mi guardava fisso, in trappola, non riuscendo a distogliere l’attenzione. «Ti voglio così tanto Greta.» Sollevò la gamba mentre afferravo le natiche. Le mutandine di pizzo, sottili, quanto bastava a coprire lo stretto indispensabile. «Indossi sempre questo tipo di biancheria?» Pronunciai quelle parole lentamente, un fremito la scosse. Calai sulle labbra con la voracità di un avvoltoio. Avevo avuto voglia di baciarla dal primo momento che l’avevo vista. La sua bocca era pronta ad accogliermi. La lingua sicura, spingeva contro la mia. La reazione fu immediata. Appoggiai il membro contro il ventre piatto. Il gemito che accompagnò il movimento fu per me sufficiente. Le tirai la testa all’indietro, le dita intorno alle ciocche lunghe, obbligandola a mostrare la gola. La sfiorai piano, la bocca percorreva la pelle diafana sopra la giugulare. Il sangue pulsava violento. I brividi la fecero tremare contro il muro. La gamba sollevata, i palmi premuti su di me invitandomi ad essere più deciso. «Se non ci muoviamo ad entrare in camera ti prendo qui, ti avverto.» Facevo fatica anche soltanto a parlare. Cercò di spingermi lontano ma la convinzione con cui lo fece era ridicola. Le presi i polsi costringendo le braccia in alto, inchiodandola contro la parete. Il mio respiro sul suo viso. Avevo i muscoli gonfi nel tentativo di non essere troppo rude. «Andiamo Greta, non deve essere così la nostra prima volta.» Mi seguì in silenzio, una volta di fronte alla stanza infilai la tessera nella fessura.
Spalancai la porta, mi feci da parte facendola entrare per prima. Chiusi alle nostre spalle. Lei era ferma di fronte a me, mi dava la schiena, il corpo bloccato in attesa del mio prossimo assalto. Mi avvicinai piano. I capelli le nascondevano metà del busto. Le dita sfiorarono la chioma voluminosa. Sembrava di toccare la seta. Piegò la testa di lato, offrendomi l’orecchio. Non parlava, completamente mia. La accarezzai lungo la curva del collo, il suo profumo era inebriante. Le mani la percorsero, la stoffa dell’abito era tutto ciò che ci separava, sollevai il tessuto scoprendo il completo di biancheria intima. La superai, mettendomi di fronte. Aveva la bocca socchiusa; sapevo che il cuore le batteva forte, l’espressione di attesa mi seguiva bramosa. Fremetti. Le nostre bocche si unirono, incapaci di stare separate. Le presi i seni, sodi, pieni, i capezzoli duri contro il pizzo trasparente del reggiseno. «Che cosa mi fai Greta?» Quasi le strappai di dosso quello che aveva. Rimase ferma. L’azzurro delle iridi che ricordava la superficie di un lago ghiacciato, le labbra rosse e gonfie, il corpo perfetto, coperto appena da quel ridicolo coordinato intimo. Era così eccitante! Mi sfilò la maglietta con gesti lenti e misurati. Ogni volta che i polpastrelli toccavano la mia pelle, avevo la sensazione di stare impazzendo. L’attesa era una tortura, il desiderio cresceva sino all’inverosimile. Allontanai con un calcio le scarpe, i pantaloni, le mutande, i calzini. Rimasi nudo, di fronte a lei, i piedi sottili ancora infilati nei sandali. Mi abbassai lento, le labbra premute sulla pelle liscia della gamba. Sfilai le zeppe, una per volta, lei lasciò che la guidassi in quel piacevole spogliarello. Scesi le coppe del reggiseno , i seni si alzarono spinti dai ferretti. La lingua, incapace di fare altro, disegnò piccoli cerchi intorno alle aureole rosee. Morsi la carne tenera del capezzolo. Lei gemette mentre i denti quasi ferivano la consistenza delicata. Con la mano le afferrai l’altro. Strinsi ancora, più forte. Singhiozzò di piacere, era così sensibile! Non ce la facevo più, dovevo averla, volevo che fossimo uniti in un unico essere. Sapevo che era troppo presto, non avrei dovuto essere tanto impaziente se desideravo che ricordasse quella notte per il resto della sua vita. «Greta…Greta…»
La pelle troppo calda, il sangue ribolliva sotto di essa. Mi afferrò una mano, staccandosela dal petto e infilandola in mezzo alle gambe. Nessuna parola, solo l’impellente bisogno di avermi dentro di se. «Dimmelo Greta. Dimmi cosa vuoi.» L’elastico del perizoma scivolò in basso mentre mi tirava a raggiungere il monte di venere. Mi fermai, doveva ubbidirmi. Non avrei continuato se fosse rimasta in silenzio. Dovevo sentire che era lì con me, dovevo essere certo che sapesse che era con me che avrebbe fatto l’amore. «Adriano…» La bocca si chiuse sul lobo del mio orecchio. La spinsi lontano, bloccandola contro il muro. Il mento stretto tra due dita, la obbligai a fissarmi negli occhi. «Dimmi cosa vuoi, Greta.» La mia voce era cavernosa, faticavo a fare tutto con calma; non potevo essere frettoloso, non con lei. Cercò di avvicinarsi, ma ero molto più forte, restò immobilizzata. «Voglio te Adriano.» Sorrisi trionfante. Era mia, completamente mia, anche se soltanto per quella notte, mi sarebbe appartenuta. La tirai in alto, sollevandola, le cosce chiuse intorno al busto. I capelli che mi accarezzavano il viso. L’odore della pelle di quella donna aveva il potere di farmi perdere la ragione. La adagiai sul letto, l’espressione vorace. Strappai il pizzo leggero delle mutandine, al quale seguì quello della parte di sopra. Era nuda, perfetta, bellissima. Non ero sicuro di aver mai desiderato una donna come in quel momento desideravo lei. Trovai facilmente la strada che conduceva all’interno della sua essenza. Era calda e morbida. Mossi le dita avanti e indietro, sfregando il punto che sapevo di lei, essere il più sensibile. Ogni volta che provava ad abbassare le palpebre, o a distogliere lo sguardo, mi fermavo, costringendola a fare ciò che chiedevo.
«Voglio che mi guardi Greta, voglio che non dimentichi nulla di questa notte.» Inarcò la schiena quando impressi maggiore pressione al movimento. Oddio, era così bagnata! Le ci sarebbe voluto poco per venire. Mi inginocchiai, spalancandole le gambe. L’apertura della vagina era stretta, dovetti faticare per farmi strada, anche se era fin troppo eccitata. Le pareti così avvolgenti fecero sì che il mio piacere fosse intenso, dovetti fermarmi prima di infilarmi per l’intera lunghezza; le avrei fatto male se avessi spinto troppo. Cominciai a muovermi, inizialmente gentile. I nostri corpi si incastravano alla perfezione. La punta del pene sbatteva contro la parete dell’utero, ma non sembrava farle male, tutt’altro. Il suo petto cominciò ad abbassarsi e ad alzarsi sempre più in fretta. La schiacciai, con tutto il mio peso. Raggiunsi le labbra che risposero al mio bacio con il medesimo trasporto. Venne, mentre io aumentavo il ritmo. Una mano infilata alla base della schiena, per aiutarmi a entrare con maggiore forza. Mi urlò nella bocca mentre il piacere esplodeva. Continuai a sfregare per fare in modo che la sensazione durasse più a lungo. Mi graffiò. Schiena, sedere, braccia. Le sue unghie si infilarono nella carne dove trovavano spazio. Il suono dei gemiti sconnessi mi riempì la mente. Rallentai le spinte, permettendole di riprendere fiato. Quello sguardo mi supplicava di non fermarmi. Mi sfilai. Mugolò ancora. Aveva avuto un orgasmo potente, era sfinita, ma se pensava di aver finito, non sapeva cosa l’aspettava. Ripercorsi ogni centimetro del corpo con le labbra. Il seno sodo ancora più gonfio a causa del godimento appena provato. Il ventre piatto, le costole sporgenti. Le gambe ancora allargate mentre la bocca scivolava sul pube liscio. Mi piaceva il fatto che fosse completamente depilata, avrebbe reso le cose più semplici. La lingua riconobbe le grandi labbra. Due morbide ali di farfalla che sapevano di sesso. Si irrigidì mentre indugiavo in quel punto. Assaggiai gli umori di femmina infilando la lingua nella fessura aperta a causa della penetrazione appena avvenuta. Fui lento nel percorrerne i contorni sensibili. Le sue mani mi accarezzavano la testa. Quando le provocavo stimoli maggiori, la presa aumentava d’intensità. Era facile capire cosa le piaceva e cosa invece no. Non era mai stato così semplice decifrare una donna. Era come se fossimo nati per unirci. Assaggiai l’interno di quella tana, i denti affondati nella carne. Ebbe un sussulto. Un’altra volta e ancora, ancora. Ficcai i palmi sotto le natiche sode, le dita si chio aiutandomi a muoverla per mimare un atto sessuale con la bocca a sostituire il pene. Gridò il mio nome, mentre l’orgasmo stava per possederla. Mi
fermai. Mi guardò confusa. Era completamente in mio potere. La feci girare a quattro zampe, il culo di Greta, da quell’angolazione, aveva la forma di un cuore. Si piegò in avanti sporgendo in alto la parte che desiderava mostrare. La accarezzai, sfiorando con il glande l’apertura ora visibile. La bloccai prima che si gettasse all’indietro e io affondassi in lei. Il mio dito trovò il punto sensibile, premetti un paio di volte. Mancava davvero poco che venisse un’altra volta. Il membro che sfregava contro la parte esterna della vulva. I lamenti di piacere che emetteva erano musica per le mie orecchie. Avrei voluto che quella notte non finisse mai. Avrei desiderato possederla in quel modo per il resto della vita. I fianchi morbidi sotto le mani, entrai con una spinta decisa. Accompagnò il gesto venendomi incontro. Era così stretta, nonostante fosse già venuta. La pelle madida di sudore. Continuammo quella danza sfrenata, il membro fuori e dentro a tempo sempre più incalzante. Sentivo l’orgasmo che cominciava a salire, il piacere sempre più intenso, a tratti doloroso. Mi fermai. Volevo che venisse di nuovo, non mi sarei accontentato di una volta soltanto. La trascinai verso la testiera del letto. Mi sedetti comodo, la schiena contro la spalliera, ancora infilato in lei che mi dava le spalle. «Girati Greta, voglio vederti mentre vengo.» Fece come le avevo detto, sollevandosi sulle gambe. Il suono fradicio mentre scivolavo fuori. Il busto di donna all’altezza della faccia. Affondai il viso nel petto rotondo, succhiando, leccando, nel frattempo che si sistemava per cavalcarmi. Piegò le ginocchia armoniosa, trattenni il respiro quando si sedette guidando il membro duro nell’apertura bagnata. Le afferrai il collo, chinò il viso fino a che le nostre labbra non si toccarono ancora. Si strusciò decisa, i seni che si alzavo ed abbassavano ogni volta che sfregava forte sul clitoride. La pressione dell’orgasmo era sempre più violenta. «Sto per venire Greta.» Non rispose continuando in ciò che era intenta a fare. Il respiro veloce. Gemiti strozzati accompagnavano gli schiaffi delle carni unite. Premeva sempre più decisa iniziando a tremare nel momento in cui non fui più in grado di trattenermi. Il suo orgasmo fece eco al mio. Gridammo insieme il nome dell’uno e dell’altra, uniti in quello scorcio di Paradiso. La riempii con tutto ciò che ero obbligandomi a tenere gli occhi aperti per assistere agli ultimi attimi del piacere.
Ero stato con molte donne, ma non mi era mai capitato di vederne una che godesse in quel modo, totalmente in balia di quelle scosse sempre più intense che la travolgevano. Non si mosse, le fronti unite, i corpi affaticati brillavano alla luce dei lampioni. Non mi sfilai, avrei voluto restarle dentro ancora a lungo. Mi sdraiai a pancia in su aiutandola a stendersi sul mio corpo. Era leggera. La testa incuneata contro il collo, il respiro che, lentamente, riprendeva il ritmo regolare. Non so per quanto tempo rimanemmo in quella posizione, le ore avevano smesso di scorrere, eravamo fermi, nel nostro mondo, niente importava, al di fuori di noi. Alla fine si allontanò, doveva stare scomoda. Non una parola a rompere il silenzio. Si spostò di lato, il viso premuto contro la mia spalla. La chiusi in un abbraccio soffocante prima di avvertire il corpo rilassarsi. Il battito regolare, le membra appesantite mentre il sonno si impadroniva della sua coscienza. La coprii con il lenzuolo. Accarezzai ancora una volta i contorni delle membra sinuose. Il naso piccolo e diritto, gli zigomi alti, le labbra dischiuse. Assomigliava ad un angelo. Fissai il soffitto. Pareti bianche, una lampada con tante braccia. Le luci della strada che illuminavano l’ambiente di una luce soffusa. Disse qualcosa mentre dormiva, mi diede la schiena, accovacciandosi dall’altro lato. Provai ad impedirmi di pensare aderendo alla ragazza nuda già sprofondata in un limbo tranquillo. Mi addormentai, la mente piena di lei.
XIV
Lei, Greta;
Paradiso e Inferno
Il braccio di Adriano era pesante. Non riuscii a muovermi. Mi stringeva a sé, quasi avesse avuto paura che sarei scappata da un momento all’altro. La mia mente fu attraversata dai ricordi della notte appena trascorsa. La luce del mattino illuminava la stanza. Sollevai le palpebre, fissandomi sugli abiti abbandonati intorno al letto. Non volevo sentirmi in colpa, non volevo che la vergogna per ciò che era successo rovinasse tutto. Cercai di allontanarmi, evitando di svegliarlo. La mano mi afferrò con forza, impedendomi di andarmene. Il suo corpo era caldo, spinto contro il mio. Sentivo il membro duro accarezzarmi la parte posteriore delle cosce. La pelle del viso si infiammò. I sensi tesi in risposta all’uomo che mi bloccava. La sensazione del piacere che avevo provato mi fece vibrare. Non avevo mai avuto orgasmi così potenti. L’ultima cosa che avevo pensato, prima di sprofondare nel sonno, era stata che, dopo un tale godimento, sarei potuta morire senza rimpianti. Ero davvero una stupida. Presi il braccio di Adriano con entrambe le mani. Era pesantissimo. Scivolai sotto, finalmente libera. Mi mossi il più silenziosamente possibile, il pavimento era freddo sotto le piante nude dei piedi. Non ricordavo dove avevo buttato la borsa, ci misi un po’ per trovarla, sbattuta contro un angolo della camera. Il telefono era spento: doveva essersi scaricato durante la serata. Lo attaccai al cavo della batteria senza accenderlo. Non ero ancora pronta a sentire nessuno. Aprii il trolley da viaggio tirando fuori gli abiti che avrei indossato. Prima di entrare nel piccolo bagno adiacente, l’attenzione fu calamitata dal ragazzo disteso e ancora addormentato. Quant’era bello! Persino mentre dormiva era la personificazione dell’uomo perfetto. Il corpo fremette e il calore iniziò a riscaldarmi la pancia. Le pulsazioni del sangue presero a viaggiare come in una corsa di Formula Uno. Chiusi gli occhi, evitando di guardarlo ancora. Non volevo pensare che qualcuno potesse
avere tanto potere su di me. Mi affrettai a chiudere la porta alle spalle. La schiena ancora nuda, appoggiata sul legno freddo. Una doccia mi avrebbe fatto decisamente bene. L’acqua era calda. Scorreva violenta sul corpo stanco. Avrei voluto che il suo odore mi rimanesse addosso a lungo, ma era preferibile tornare padrona di me stessa piuttosto che crogiolarsi nel profumo di lui. Chiusi gli occhi, lasciandomi massaggiare dalla pressione del getto. Uno spiffero di aria fredda mi fece rabbrividire. Sollevai le palpebre di colpo. Il box doccia era improvvisamente troppo affollato. Adriano lo riempiva tutto, costringendomi a schiacciarmi contro la parete per evitare che i nostri corpi aderissero l’uno all’altra. L’acqua lo bagnò, ruscellandogli intorno. Mi guardava dall’alto della sua stazza e i suoi occhi, di un verde così intenso da sembrare finto, non avevano un’espressione allegra. Per un po’ ci fissammo, senza dire nulla. La sua vicinanza mi rendeva nervosa; la sensazione di benessere appena provata mi abbandonò, lasciando spazio ad una forte tensione al basso ventre. Quanto avrei voluto che non mi stesse così vicino! Fui costretta ad infilare le unghie nei palmi per evitare di saltargli addosso come una scolaretta arrapata. Cazzo. «Perché non mi hai svegliato quando ti sei alzata?» La voce era un brontolio cupo. «Non volevo disturbarti.» Distolsi lo sguardo. Non desideravo che scoprisse quanto fossi confusa. Mi afferrò il viso, premendomi contro la parete bagnata. Le labbra scesero voraci sulle mie. Ero completamente impreparata a quel tipo di assalto. Dapprima cercai di divincolarmi. Mi tenne ferma, i polsi stretti nelle mani serrate. La lingua trovò l’interno della mia bocca, l’acqua ci rendeva scivolosi e il bacio ebbe un altro sapore. Fu lungo, troppo intenso, avrei potuto definirlo disperato. La pressione della sua eccitazione spinta contro l’addome. Lo morsi, provando a spostarlo. Sembrò che la mia mancanza di arrendevolezza lo eccitasse ancora di più. Si staccò da me, il respiro accelerato, il corpo che continuava a premere contro il mio. Era un cacciatore, l’istinto dominante si sprigionava da lui con chiarezza estrema. «Credevo te ne fossi andata.» Era davvero incazzato. Per un momento ne fui spaventata, aveva l’aria
pericolosa di una bestia inferocita. «Se anche fosse stato così, non avresti potuto prendertela. Sai perfettamente che quello che è successo stanotte non si ripeterà più» Mentre pronunciavo quelle parole, mi sentii sciocca. Sarebbe stato più verosimile se entrambi fossimo stati vestiti, e non nudi, rinchiusi in una doccia. Mi prese da sotto, le dita che si imponevano ad aprirmi le gambe mentre mi sollevava. Mi puntellò sulla parete viscida per non avere tutto il mio peso a gravargli addosso. Le grida di protesta furono soffocate da labbra carnose. Non c’era gentilezza in ciò che faceva. Mi tenne aperta senza chiedermi il permesso. Non avrei dovuto essere così pronta per lui quando, con un unico affondo, entrò dentro di me. Ne fui riempita totalmente, il fiato mi si strozzò in gola. Il misto tra piacere e dolore mi fece gemere. Cominciò a muoversi sbattendomi contro il muro. Le mani, strette sul sedere, mi obbligavano ad accompagnarne gli affondi. La sua bocca era sulla mia intanto che continuava ad entrare ed uscire. Credevo che la forza delle sue spinte mi avrebbe fatta strillare di dolore, ma il corpo non la pensava allo stesso modo. Non ero mai stata trattata così, la violenza con la quale mi fotteva era talmente eccitante da farmi vergognare di ciò che provavo. La pressione nel punto sensibile mi aiutò ad aprirmi ancora. Non potevo crederci, stavo per venire. Il formicolio iniziò dai piedi, se avesse smesso di muoversi, ne sarei stata distrutta. «Guardami Greta.» La sua voce non ammetteva repliche. Spinse più forte. L’orgasmo si stava accumulando nella mia pancia. Feci come chiedeva, lo sguardo da belva gioiva per la reazione che stavo avendo. Continuò a spingere. Venni, disperatamente e senza controllo, mentre lui non smetteva di muoversi e sfregare il punto G. Il piacere era così intenso che non riuscii ad emettere alcun suono. Tutto il mio corpo fu attraversato da ondate di piacere, lunghe e continue, perché lui non la finiva di solleticarmi lì dove ero più sensibile. Mi venne dentro, di nuovo, mentre l’orgasmo si spegneva lasciandomi spossata e senza fiato. Gli strinsi le braccia al collo, lasciandomi prendere e sostenere. Mi aiutò a poggiare i piedi a terra. Avevo le gambe molli, dovette tenermi per evitare che crollassi sul piatto doccia. «Non devi andartene senza avvertirmi. Non oggi.»
Il timbro aveva perso di aggressività. Gli avrei volentieri riso in faccia, dicendogli che se quello era il risultato della mia fuga, sarei scappata molto più spesso. Mi morsi la lingua, per evitare di dar voce ai pensieri. Avrei voluto essere arrabbiata perché mi aveva presa con forza, senza curarsi del fatto che fossi pronta o meno. Non fui in grado di formulare alcun concetto invece, troppo sconvolta dal piacere. Mi lavò, facendo attenzione a massaggiarmi ovunque. Il profumo del bagnoschiuma era delizioso. Non potei evitare di guardarlo mentre si prendeva cura di me. Le guance divennero rosse per l’imbarazzo; in quel modo avrebbe scoperto ogni centimetro della mia pelle, le efelidi sulle ginocchia, la piccola voglia che avevo sulla natica sinistra. Non avrei potuto nascondere nulla. Mi sciacquò, dopo essersi insaponato a sua volta. I gesti lenti che compiva, mi facevano venire voglia di sostituirmi a lui. Ma la parte razionale di mi impedì di avvicinarmi troppo, il contatto tra di noi poteva essere pericoloso. Uscì dalla doccia per primo, avvolgendosi un asciugamano bianco intorno ai fianchi. Le fossette dell’inguine erano meravigliosamente scolpite. La bocca si fece secca, avevo bisogno di bere. Adriano, sotto ogni aspetto, era il maschio perfetto. Non avrei potuto resistergli, nemmeno se avessi voluto. Mi ò un altro telo da bagno. Mi avvicinò a sé, una volta che ne fui coperta. Mi frizionò, asciugandomi. Mi lasciai coccolare, nonostante non fosse mia abitudine. Era piacevole avere qualcuno che si occue di me in quel modo. Le labbra si posarono gentili all’altezza della tempia. Le nostre immagini riflesse nello specchio che stava di fronte. «Sei bellissima, Greta.» Abbassai lo sguardo, non ero troppo convinta di ciò che stava dicendo. Struccata, con i capelli scuriti dall’acqua, appiccicati alla testa, la pelle bianca, ormai non più abbronzata. Non credevo proprio di essere bellissima, ma non parlai, lasciando che dicesse ciò che voleva. «Vado a vestirmi.» Mi strinse un’ultima volta, prima di permettermi di andare. I pensieri, mentre avo il phon sulla massa scomposta che avevo in testa, non facevano che tornare a lui. Non potevo levarmelo dalla mente. Le sensazioni che mi provocava il suo tocco mi possedevano. Ripensai all’incontro che avevamo avuto poco prima nella doccia. La sua brutalità mi aveva eccitata così tanto che ripensarci
mi faceva contrarre la zona lombare. Non avrei dovuto reagire in quel modo ad un atteggiamento così da padrone. Chiusi gli occhi, massaggiandomi il viso, chiedendomi come avrei potuto dimenticare ciò che era appena successo. La serata piacevole trascorsa insieme, la eggiata a Firenze al chiaro di luna, la prima volta che avevamo fatto sesso, la doccia che avevamo condiviso. Mi morsi le labbra, il sangue a riempirmi la bocca. Dovevo dimenticare, l’indomani si sarebbe sposato e io stavo progettando il matrimonio con un’altra persona. Riflettei su Claudio che non avevo sentito per niente dal giorno precedente. Doveva essere arrabbiato, o almeno preoccupato. Uscii dal bagno. Vestita, pettinata e truccata. Adriano era fuori dal balcone, l’orecchio premuto contro il telefono, la mascella serrata, lo sguardo crudele. Mi osservò attraverso il vetro; l’ira palpabile che proveniva da lui mi fece rabbrividire. Non potevo sentire ciò che stava dicendo, ma era palese con chi stesse parlando. Se fossi stata in Nicole, mi sarei sentita perduta. Gli diedi le spalle, lasciandogli l’intimità di cui aveva bisogno. L’attenzione fu catturata dal telefono adagiato sopra il comodino. Non avevo alcuna voglia di accenderlo. Raccolsi dalla borsa il pacchetto di sigarette. Ne sfilai una, prendendo anche l’accendino. Mi avviai verso l’uscita. Avevo proprio bisogno di cambiare ambiente. Il fumo mi riempì la bocca. L’aria era frizzante quella mattina, rabbrividii, le braccia lasciate scoperte da una canottiera estiva. Avevo dato un’occhiata all’orologio all’ingresso. Erano solo le nove e mezza, c’era tutto il tempo di prendere il treno che avevo prenotato per il ritorno. Un paio di anti mi diedero un’occhiata nel superarmi. Mi sembrò che mi stessero giudicando; forse, sulla fronte, era comparsa la lettera scarlatta. Le loro espressioni gridavano “Adultera!”. Gironzolai lì vicino. L’odore di cornetti appena sfornati mi fece venire l’acquolina in bocca. Non avevo con me il portafogli, avrei dovuto tornare su e portare via la mia roba. Ma l’idea di parlare con Adriano non mi sorrideva affatto. «Greta?» Mi voltai verso l’entrata. Ogni volta che pensavo a lui aveva il dono di materializzarsi. «Ciao.»
Il corpo legato, sicuramente a causa dello scontro verbale che aveva appena avuto con la fidanzata. «Hai fame? Facciamo colazione insieme?» Tanto, peggio di così… Annuii, non fidandomi di parlare. Gettai il mozzicone ormai spento lontano da me. Nell’avvicinarsi mi prese per mano. Il nodo che mi chiudeva la gola rischiava di soffocarmi. Ci sedemmo in silenzio fuori dal bar che stava a una decina di metri dall’albergo. I tavolini erano di vimini, i cuscini comodi, di un bianco panna. Adriano ordinò senza chiedermi cosa volessi, nemmeno sentii ciò che aveva preso. La tensione mi aveva fatto perdere l’appetito. Sapevo che era giunto il momento dei saluti, e non capivo per quale motivo ero tanto spaesata. Fissai l’attenzione sulle persone che ci giravano intorno, diretti verso chissà quale destinazione. Chiusi le palpebre e respirai a fondo, lasciandomi scaldare dal sole tenue della mattina. «Greta. Non ti senti bene? Sei pallida.» Si sporse verso di me ad accarezzarmi la guancia. Non volevo che mi toccasse. «Sto bene. Ho soltanto fame.» Mentii. Fui costretta ad aprire gli occhi, mentre la sua ombra torreggiava su di me. Anche lui non appariva contento. Il sorriso era una pallida imitazione di quelli che mi aveva riservato la notte precedente. «Devo andare, Greta.» I denti stridettero quando serrò le mascelle. Non c’era bisogno che me lo dicesse, era chiaro che se ne sarebbe andato. Mi spostai con la sedia per evitare che le dita indugiassero dov’erano. «So benissimo che domani ti sposi. Facciamo finta che la notte ata sia stato il tuo addio al celibato.» La sua espressione divenne dura, trafiggendomi da parte a parte. «Smettila Greta. Non è stato ciò che pensi.»
Il groppo che mi chiudeva il respiro era diventato insopportabile. «Vorresti dire che sei venuto qua a Firenze solo per fare due chiacchiere? Volevi ficcarti dentro di me da quella volta a Sperlonga. Le mie congratulazioni. Ci sei riuscito. Ora puoi sposarti senza rimpianti.» La rabbia mi stava possedendo. Dovevo convincermi che fosse lui il responsabile di ciò che era successo tra noi, altrimenti, non sarei più riuscita a comportarmi normalmente con Claudio. Non poté rispondermi perché arrivò il cameriere con le ordinazioni. Adriano pagò senza pensarci. Una volta che gli fu consegnato il resto, prese la tazza ricolma di cappuccino fumante iniziando a sorseggiare il liquido spumoso. Io nemmeno guardai il mio. «Bevi Greta, si raffredda.» Non gli diedi ascolto, nonostante il mio stomaco brontolasse solleticato dall’odore del cornetto che mi era stato posato davanti. «Chi sei? Mia madre? Ho smesso di seguire le indicazioni degli altri molto tempo fa.» Lo vidi che si innervosiva fino a raggiungere livelli allarmanti. Una coppia poco distante si voltò nella nostra direzione. «Cazzo Greta. Mangia la tua colazione o te la faccio ingoiare a furia di schiaffi.» Quell’affermazione mi indispettì ancora di più. Non avevo alcuna intenzione di obbedirgli. Piuttosto, mi sarei fatta venire i crampi alla pancia. Sospirò, rassegnato. Non poteva certo mettere in atto la minaccia appena pronunciata. Eravamo in luogo pubblico, non avrebbe osato. Si ò la mano sulla testa rasata, la maglietta aderente sembrò esplodere sotto i muscoli. «Torni con me a Roma?» Aveva cambiato atteggiamento, forse aveva capito che quel modo di fare con me non funzionava. Tornai a guardarlo, la sedia lontana in modo tale che non potesse toccarmi. Il Ponte Vecchio era dietro le sue spalle, l’aria sonnacchiosa
del primo mattino. «No. Ho prenotato il treno.» Non volevo essere così acida nel rivolgermi, ma non fui in grado di evitarlo. La mandibola di Adriano si mosse a scatti sotto la pelle. Continuò ad osservare qualunque cosa tranne me. «Come preferisci.» Eravamo tornati gli sconosciuti di un tempo. Meglio così. Sarebbe stato più facile per me riuscire a non provare nulla. Spezzai il cornetto che si stava raffreddando: era un peccato non mangiarlo ancora bollente di forno. Era morbido, il burro si sentiva poco, la crosticina esterna leggermente abbrustolita. Buonissimo. Lo divorai in tre bocconi, addolcendolo con l’ottimo cappuccino ormai tiepido. Lo stomaco smise di brontolare una volta ingoiato l’ultimo pezzo della colazione. Adriano mi studiava attento intanto che masticavo il cibo. «Vorrei non dover tornare, Greta.» La voce sembrava triste. Fui costretta a guardarlo, l’espressione confusa riflessa nello smeraldo delle iridi. Il sole lo illuminava facendolo assomigliare ad una statua dorata con due gemme preziose incastonate nelle orbite. La tentazione di toccarlo fu così forte che dovetti stringere le mani sulle cosce ed affondare le unghie nella carne per evitare di dare forma ai pensieri. «Tutti noi vorremmo poter fare ciò che pensiamo sia giusto, ma è un discorso infantile: ci sono responsabilità dalle quali non si può fuggire.» Sapevo che il mio volto era privo di qualsiasi espressione, glielo lessi in faccia. Quelle parole ebbero il potere di allontanarlo. Se si fosse comportato in maniera troppo premurosa, sarebbe stato distruttivo per me lasciarlo andare; così, era molto più semplice. «È così che la vedi? La notte ata non ha significato nulla se non un intrattenimento capitato per caso?» Era questo che avevo detto? «Non ha significato nulla di più di ciò che è stato. Siamo adulti, facciamo delle
scelte consapevoli. Avrei preferito che non fossi venuto. Io non sono così, non ho mai tradito nessuno.» Il pensiero di Claudio mi mise a disagio. Con quale coraggio mi sarei rivolta a lui? Come avrei potuto fare finta che non fosse successo niente? Cominciava a farmi male pensare troppo. Prima Adriano se ne fosse andato, prima avrei avuto la possibilità di sentirmi meglio. Mi alzai, non aspettandolo. Speravo non mi avrebbe seguita. Entrai nella stanza ancora a nostra disposizione raccogliendo in fretta le mie cose. La porta si aprì e si chiuse. Lui era lì, dietro di me. Incapace di lasciarmi andare. Si stava avvicinando. Mi sbrigai, ammucchiando i vestiti rimasti a terra dalla notte precedente. Immagini di noi due si susseguivano nella mente. Le lacrime pungevano dietro le palpebre. Perché era lui a dovermi vedere piangere? Tirai su con il naso e tirai la lampo del bagaglio a mano. Mi sollevai di corsa. Non si mosse e io feci ugualmente. I nostri respiri si confo in uno solo. La schiena a sfiorare il suo petto, gli sguardi puntati nella stessa direzione. Le dita gentili mi accarezzarono una ciocca scomposta che era sfuggita alla treccia. Si portò i capelli al viso. Il suo fiato sul collo mi provocò un brivido violento. Mi abbracciò, solo un momento. Avvolta da quelle braccia forti mi parve di essere al sicuro da ogni cosa. Ero rigida come un tronco. Se avessi permesso all’emozione di prendere il sopravvento, lo avrei supplicato di non andare. «Ciao Greta.» Mi lasciò. Avevo freddo, anche se la temperatura intorno era piacevolmente tiepida. La porta si chiuse. Corsi alla finestra del balcone, mi affacciai schiacciando la fronte contro il vetro per poter osservare meglio. Apparve poco dopo. Si fermò, al centro della strada. Prima che sollevasse lo sguardo a guardare verso di me, mi piegai evitando che potesse scorgermi. Le braccia intorno alle ginocchia, la schiena incurvata, e i singhiozzi che mi scuotevano il petto.
XV
Nicole;
La mia vendetta
La porta si era chiusa dietro di lui da almeno mezz’ora. Avevo smesso di piangere, le lacrime non uscivano più, ma il cuore continuava a fare male. Mi avrebbe lasciata; ero convinta che lo avrebbe fatto se non avessi trovato il modo di impedirglielo. Corsi verso la nostra stanza, lo specchio rifletteva l’immagine di una ragazza distrutta. Il viso infantile, al centro del quale spiccavano due grandi occhi cerchiati da occhiaie scure. Il naso rosso, assomigliava a quello di un clown. Pensai alla mia rivale: la perfetta e bellissima Greta. L’avevo odiata dal primo momento. Era pericolosa, non avrebbe saputo dire di no ad Adriano, nessuno poteva. Lo immaginai, mentre la raggiungeva ovunque fosse. Avrei voluto chiamare Claudio, metterlo in guardia, imporgli di are la serata con la sua donna. Il telefono squillò tre volte prima che si azionasse la segreteria. Una voce metallica mi chiedeva di lasciare un messaggio. Chiusi l’apparecchio, dopo l’ennesimo tentativo di contattarlo. Le dita composero il numero del mio futuro sposo. Doveva rispondermi, doveva tornare, non avrei resistito senza di lui. Aveva promesso di prendersi cura di me. Non poteva abbandonarmi come se fossi stata un vecchio giocattolo. Il telefono era spento. Urlai di rabbia lanciandolo sul letto. Il volto era una maschera irriconoscibile: la rabbia mi rendeva brutta, la luce disperata degli occhi faceva sì che la parte migliore di me non fosse visibile. Tirai fuori il beauty case che tenevo nell’armadietto del bagno. Nella mia testa si stava formando un pensiero di vendetta. L’avrebbe pagata cara. Mi sciacquai la faccia violentemente, togliendo gli ultimi rimasugli di matita nera sciolta che disegnavano righe scure intorno alle guance. Feci in modo che il trucco nuovo coprisse i segni del pianto. Gli occhi continuavano ad essere arrossati, ma al buio
nessuno ci avrebbe fatto caso. Il Kajal faceva risaltare la forma allungata dello sguardo, l’ombretto nero mi faceva sembrare più grande di qualche anno, la pelle sotto gli zigomi era sfumata di rosso, così come le labbra, morbide e sensuali. Non sorrisi alla mia immagine, non ero fiera di ciò che vedevo. Infilai un completino di seta nero che indossavo solo per le occasioni speciali. Il mio corpo, magro e dalle forme appena pronunciate, non era così allettante come avrei sperato. Mi fasciai in un abitino nero elasticizzato. Una profonda scollatura davanti mostrava i seni piccoli strizzati nel reggiseno imbottito. Scarpe dal tacco alto mi fecero acquistare qualche centimetro. Digitai il numero verde che mi avrebbe permesso di chiamare un taxi. Il mio italiano era migliorato. Non lo parlavo in maniera totalmente corretta, ma riuscii a farmi capire. Sarebbe arrivato tra dieci minuti. Spruzzai il profumo Chanel che Adriano mi aveva comprato, la sua fragranza era deliziosa. Il camlo suonò. «È il taxi che ha chiamato signora.» Mi diedi un’ultima occhiata veloce. Quasi non mi riconoscevo io stessa. «Sto scendendo.»
Mi ero fatta portare in un paio di bar prima di scegliere il locale notturno nel quale mi sarei scatenata. Avevo dato una somma forfettaria al tassista, che sarebbe stato a mia disposizione per tutta la notte. Avevo piacevolmente scoperto che il mio aspetto non ava inosservato. In entrambi i luoghi dove avevo consumato, avevo suscitato occhiate di ammirazione e qualche commento, a volte non del tutto lusinghiero. Il buttafuori della discoteca del centro mi diede una lunga riata con lo sguardo. Era più alto di me di almeno una spanna, schiena robusta, fisico da lottatore, capelli rasati, pizzetto curato. Sollevò un sopracciglio scuro mentre cercavo di convincerlo a lasciarmi are senza dovermi mettere in fila. In ato, quell’atteggiamento ammiccante, mi aveva permesso di fare ciò che volevo. Sollevò il moschettone del cordone che bloccava la fila, facendomi cenno di entrare. Ringraziai, ancheggiando vistosamente, per enfatizzare il fisico tutt’altro
che provocante. Mi strizzò l’occhio. «Solo per te.» Aveva la voce profonda: in genere le voci molto maschie mi piacevano. Quella sera era come se fossi stata anestetizzata. Cercavo di non pensare a lui, dopo due giorni avremmo dovuto sposarci, ma la mente non faceva altro che portarmi in quella direzione. Avevo bisogno di bere ancora, prima o poi l’alcol mi avrebbe stordita. Al bar c’era un ragazzo carino che non fece altro che flirtare con me. I pochi sgabelli ancora vuoti furono occupati nel giro di qualche minuto, io non avevo alcuna intenzione di abbandonare il mio. Mi feci versare un paio di drink. Quello parlava senza sosta, offrendomi cocktail senza che li ordinassi. Dopo un po’ la musica divenne alta e ripetitiva. Il mio corpo sentiva la necessità di muoversi, i sensi annebbiati, le idee che sfuggivano al controllo. Feci cenno al barista infilandomi tra la folla in movimento. Era caldo lì in mezzo. La pelle fu ricoperta da una patina di sudore. Spinte, palpate, mi accompagnarono verso il centro della sala. Iniziai a danzare, non so come, la musica faceva da sola conducendomi in un ritmo sfrenato. Chiusi gli occhi. Qualcuno mi stava dietro. Iniziò a strusciarsi su di me. Reagii al contatto: era da un po’ che un uomo non mi sfiorava in quel modo. Mi voltai. Il tipo sembrava carino, ma la luce creava ombre sul suo viso e io non ero abbastanza lucida per giudicarlo con chiarezza. Non me ne importava nulla. Mi lasciai toccare, accarezzare, baciare. La lingua si infilò nella mia bocca; fu sgradevole, ma non glielo impedii, persa nel disperato bisogno di sentirmi desiderata. Avevo la necessità che qualcuno mi riconoscesse come donna. Mi portò lontano dal resto del gruppo di persone che riempiva la sala. Venni schiacciata contro il muro, gesti febbrili ad accarezzarmi tutta. Non fui in grado di capire ciò che chiedeva. Ero intontita, incapace di rispondere. Mi condusse attraverso un corridoio poco illuminato a raggiungere una stanzetta isolata, il suono martellante della canzone vibrava sulle pareti sottili. Sapevo cosa voleva fare. Abbassò la zip dei pantaloni. Avrei potuto andarmene, non avevo calcolato quella possibilità. Lo guardai meglio, la luce non era a intermittenza come nella discoteca. Era carino. Pelle scura, lineamenti forti, la fisionomia tipica della gente sudamericana. Quando mi fissò mostrando un palese bisogno fisico, non ci pensai due volte. Fui io a prendere l’iniziativa, le labbra di lui spinte contro le mie, le lingue umide che si attorcigliavano. Era completamente diverso dal bacio di Adriano. Soffocai l’immagine di quell’uomo maledetto. Era ciò che si meritava. Le mani del ragazzo scesero a sollevarmi la
gonna sopra i fianchi, mi infilò un dito dentro, senza aspettare che gli dessi il permesso. Cominciai a bagnarmi mentre lavorava con le mani. Mi fece sedere su una tavola di legno, o almeno era quello che mi era sembrata; da quell’angolazione poteva entrare facilmente. La penetrazione fu immediata. Si mosse veloce, non gli importava che io raggiungessi o meno il piacere. Mi sbatté con forza, fottendomi come fossi stata una puttana. Durò un paio di minuti: io ero lì, un contenitore vuoto, incapace di provare qualunque cosa. Si pulì il pene con un fazzoletto che tirò fuori dalla tasca dei jeans. Richiuse la lampo. Mi diede un bacio frettoloso, ringraziandomi. Ci mancava che mi gettasse in grembo una banconota da venti euro e il quadro sarebbe stato completo. La porta sbatté quando uscì. Scesi dalla seduta in legno duro. Ero emotivamente e fisicamente addormentata. Mi muovevo quasi fossi stata sonnambula. Cercai nella borsa qualcosa per levarmi di dosso i resti di quello che mi colava tra le cosce; mi era venuto dentro, ero sporca del suo seme. Strinsi le palpebre provando a respirare normalmente. Una volta che fui di nuovo presentabile, mi avventurai fuori della piccola stanza. Nessuno fece caso a me: tutti impegnati nelle loro faccende. Meglio così. Abbandonai il locale senza guardarmi indietro; il buttafuori, ancora all’ingresso, mi salutò con una battuta che non colsi.
Mi svegliai con un emicrania terribile. Era mattina presto, il sole non ancora alto nel cielo. Non mi ero svestita né struccata una volta tornata a casa. Entrai in bagno, reggendomi la fronte che stava per esplodere. Avevo qualcosa per i forti dolori alla testa. Infilai la pasticca grossa come un’unghia nella bocca, piegandomi sopra il lavandino e bevendo direttamente dal rubinetto. Chiusi gli occhi, aspettando che il medicinale fe effetto; in genere non ci impiegava più di un quarto d’ora. Cercai di ripensare alla notte appena trascorsa. Gli avvenimenti erano confusi. Ricordavo con lucidità soltanto un aggio della nottata. Le dita trovarono la fessura della vagina: c’era liquido seminale appiccicato intorno alle grandi labbra. Mi sentii sporca, avevo bisogno di una doccia. L’acqua lavò via il mio peccato, insieme al trucco e al sudore. Mi appoggiai stremata al vetro della cabina, le colpe scivolarono giù fino allo scarico, scomparendo nelle fogne. Mi asciugai in fretta; il mio riflesso allo specchio era ritornato come lo ricordavo, eccetto per l’espressione che apparteneva ad un’estranea. Guardai il telefono: nessuna chiamata. Erano le nove. Adriano non mi aveva cercata. Composi il numero del suo cellulare. Squillò. Era .
«Nicole.» Scoppiai in un pianto sconvolto al suono della voce fredda e distante. Rimase silenzioso mentre mi scioglievo in singhiozzi. Non una parola di conforto, nulla che fe presupporre che fosse pentito di avermi abbandonata. «Adriano torna da me.» Le frasi rotte dai gemiti disperati. «Nicole…io…non lo so. Non sono convinto che stiamo facendo la cosa giusta.» Quell’affermazione mi fece più male di quanto avessi voluto. Ero sicura che fosse con Greta: da quando era apparsa quella ragazza, non era stato più lo stesso. «Dove sei?» Il mio tono si era trasformato in ghiaccio fuso. «Non è importante, non è di questo che stiamo parlando.» «Dove sei Adriano. Rispondimi.» strillai colma di rabbia. Dall’altra parte il telefono rimase muto. «Non puoi annullare il matrimonio. Ci sposiamo domani, non puoi farmi questo.» Percepivo, attraverso l’apparecchio, il suo respiro controllato. «Non voglio compiere un o così importante e dovermene pentire. Non sarebbe giusto per me, e neanche per te.» Strinsi il telefono con tutta la forza che avevo. Le nocche sbiancarono. «Io muoio senza di te. Vuoi avermi sulla coscienza per il resto della vita?» Dovevo convincerlo a tornare, non potevo perdere quell’uomo. «Non è così, Nicole. Adesso ti sembra tutto orribile, ma se ne parlassimo con calma, ti accorgeresti che c’è qualcosa che non va nel nostro rapporto.»
Gli lanciai contro quanti più insulti conoscevo. «Lo so io che cos’è che non va. È quella puttana. Sei con lei adesso non è vero? Immagino che si stia facendo grasse risate alle mie spalle.» Le lacrime avevano iniziato a scorrere. Lo stavo perdendo, a meno che non fosse già perduto. Inspirai a fondo, provando a ragionare senza farmi prendere dal panico. Dovevo essere furba. Con lui l’aggressività non aveva mai funzionato. Tentai con le suppliche, provando a smuoverne il rigido contegno, ma le risposte che dava erano sempre più convinte. L’incertezza iniziale stava lasciando spazio ad una sempre maggiore consapevolezza. «Forse ho commesso un errore a trascinarti in Italia con me. Non avrei dovuto obbligarti a seguirmi.» Come poteva dire questo? Come poteva dimenticare tutto ciò che avevamo ato? Io lo conoscevo per quello che era, lo accettavo come non avrebbe fatto nessun’altra. La mente trovò la molla che l’avrebbe smosso. «Se non torni da me sarò costretta a parlare. Non mi lasci altra scelta.» Trattenne il fiato. Lo immaginavo, rigido e bello come un dio riflettere su ciò che avevo appena detto. «Non oseresti.» Sorrisi anche se non poteva vedermi. Ce l’avevo fatta. Mi guardai allo specchio: il trionfo stava dando colore alle mie guance pallide. «Te l’ho detto Adriano. Non mi lascerai. Nel caso decidessi di farlo, sarei costretta a farti rimpiangere la scelta. Troveremo una soluzione ai nostri problemi. Devi tornare da me.» Una pausa lunga confermò la vittoria. «È ciò che vuoi? Che ti sposi sotto minaccia? Vuoi legarmi a te in questo modo? Sapendo che non è quello che desidero?»
Se gli fossi stata davanti ero sicura che mi avrebbe colpita fino a farmi sanguinare, tanto era arrabbiato. «Voglio te Adriano, a qualunque costo. Se questo vuole dire che nel caso contrario io debba rovinarti, lo farò.» Il rombo di un motore in sottofondo. Doveva essere all’aperto. «Come desideri Nicole. Tornerò entro sera.» Chiuse la telefonata senza aggiungere altro. Saremmo stati insieme fino alla fine, anche se credeva di non volerlo più. Strinsi il cellulare al petto, non pentendomi di ciò che avevo appena fatto. Sarebbe stato mio, ad ogni costo.
XVI
Lui, Adriano;
Con le spalle al muro
Era una splendida giornata. La strada era sgombra e il sole alto delle dieci si rifletteva sul lunotto anteriore. Non avevo voglia di tornare a Roma. Dopo la notte appena trascorsa con Greta, tutto era diverso, le scelte che credevo di aver fatto in maniera consapevole, si erano ritorte contro di me. Nicole…Nicole si era trasformata in una persona che non conoscevo, forse anche io ero diventato un altro. L’avrei sposata. Fine della storia. Non c’era altra scelta. Strinsi le mani intorno al volante. Avrei avuto voglia di prendere qualcosa a pugni, ma, oltre il contenitore dell’air bag, non c’era nulla a mia disposizione. Sibilla mi aveva chiamato poco prima, in lacrime. Non capiva perché me ne fossi andato, che cosa avevo fatto tutta la notte fuori casa e per quale motivo la mia futura moglie piangeva disperata al telefono. Per una buona mezz’ora ero stato impegnato a rassicurarla. Il matrimonio ci sarebbe stato, non lo avrei annullato, doveva stare tranquilla. Mio padre, fortunatamente, non si era intromesso, nonostante avesse già capito fin troppo. Mi sentivo in trappola, non avevo scelta, il bisogno di scappare lontano diventava via via più forte. Un cartello, poco più avanti, indicava la direzione per Bologna. Se avessi svoltato a destra sarei uscito dall’autostrada e mi sarei immesso in un’altra corsia, cambiando rotta. Le dita appoggiate sull’interruttore che avrebbe azionato la freccia. Superai lo svincolo. Alzai la musica, facendomi trasportare dalla voce di Axel Roses.
Avevo fame. Il viaggio di ritorno si stava rivelando molto più lungo rispetto a quello di andata. In genere era il contrario, ma non quella volta. L’autogrill spiccava al centro di una larga piazzola. Parecchie macchine erano posteggiate nel parcheggio. Era ora di pranzo; nella vetrina dell’angolo della ristorazione erano esposti diversi piatti, precotti, senza dubbio. Presi un panino e una birra. Alla cassa mi fermai a guardare i pacchetti di sigarette. Avevo visto Greta fumare, non ne era dipendente, ma avevo notato che ogni volta che si sentiva sotto stress tirava fuori una cicca per rilassarsi. Non avevo mai fumato in vita mia. Fui sul punto di acquistarne una confezione, per curiosità, magari funzionava anche con me, ma poi, intelligentemente, mi fermai. Comprai un quotidiano. Nel frattempo che mangiavo, mi sarei aggiornato sulle notizie del giorno. Il sandwich era buono, caldo al punto giusto. La vibrazione al telefono mi distrasse dall’articolo. Lessi il nome del mandante. Avrei volentieri spinto il pulsante per occupare la linea. «Che vuoi?» Non avevo proprio voglia di parlare con lei, che cazzo voleva ancora? «Ciao amore. Quando torni? Ti stiamo aspettando per pranzo.» Guardai l’orologio. Erano le 12:30. «Non torno per pranzo. Mangiate senza di me. Non aspettatemi.» Una breve pausa dall’altro capo. «Stai tornando, vero Adriano?» La voce di Nicole aveva improvvisamente cambiato di tono. Da gioiosa e carezzevole, a fredda e minacciosa. Avrei voluto urlare che poteva scordarsi che sarei tornato, non la volevo. Non la volevo più, soprattutto quella versione di lei. «Ti ho detto che sto rientrando. Non chiamarmi più, non ho voglia di sentirti.» Riagganciai, senza darle il tempo di replicare. In che diavolo di guaio mi ero cacciato? Mi ai le mani sul viso, la notte trascorsa era soltanto un ricordo lontano. Sui
polpastrelli sentivo ancora la consistenza della pelle di Greta. I contorni del volto, mentre dormiva rilassata, erano impressi a fuoco nella memoria. L’avevo osservata per più di mezz’ora prima che il sonno prendesse anche me. Durante la eggiata tra i vicoli fiorentini, avevo riconosciuto in lei un’altra donna rispetto a quella che conoscevo. Da principio ero stato attratto dalla sua aperta ostilità. Mi era capitato di rado di suscitare antipatia in una femmina; in genere, non vedevano l’ora che entrassi nelle loro mutande. Questo suo modo di fare aveva risvegliato l’istinto predatorio che era in me, costringendomi a fare di tutto per averla. Ero ato sopra l’amicizia con Claudio, sul rapporto con Nicole, sull’opinione che i miei familiari avevano di me. Tutto, pur di cancellarle quell’espressione di sufficienza dalla faccia. Ma Greta si era rivelata molto di più di un bel culo e un bel viso. Era complessa, sotto certi aspetti infantile, fantasiosa, ma molto concreta. Era come avere a che fare con tante persone in una soltanto. Mi aveva riempito i sensi. Rammentai i gemiti strozzati mentre la conducevo all’apice del piacere. Fui costretto a concentrarmi su qualcos’altro per evitare che il corpo, anche se lontano, rispondesse al suo ricordo. are la notte in sua compagnia mi aveva lasciato stordito. Non era stato necessario adeguarsi alle esigenze dell’altro perché insieme rispondevamo come un’unica entità. Mi ero immerso in Greta completamente, perdendo il contatto con la realtà che ci circondava. Eravamo due pezzi di un puzzle che si incastravano alla perfezione. Bevvi un sorso di birra. Feci scorrere la rubrica salvata nel cellulare, fermandomi sul suo numero. Sapevo che avrei dovuto lasciarla stare, ma avevo bisogno di sapere come stava. Un paio di squilli prima che mi rispondesse, assonnata e un po’ sorpresa. «È successo qualcosa?» Oddio Greta. Avrei voluto raccontarle tutto. Presentarmi di fronte a lei senza essere costretto a nasconderle niente. Essere libero di scegliere la mia strada. «Volevo sapere se era tutto a posto. Sei arrivata a Roma?» «No. Il treno ha fatto ritardo. Dovremmo raggiungere la stazione prima delle due.» Sbadigliò. Immaginai che si stesse stiracchiando come una gatta. «Che vuoi Adriano? Perché mi hai chiamato? Sarebbe meglio se non ci
sentissimo più.» Non fui in grado di replicare. Non sapevo nemmeno io perché avevo digitato il suo numero. «Sono d’accordo, scusami se ti ho disturbata.» Stavo per riattaccare. «Aspetta…devo chiederti una cosa.» Il tono imbarazzato. «Dimmi pure.» Una breve pausa. «Ieri notte…prima di dormire…» Non riusciva a pronunciare la parola sesso. Non me lo sarei mai aspettato da lei. Quella timidezza mi fece sorridere. «Dillo Greta. Non è un termine così complesso.» Un’altra pausa. Ero certo che avesse le guance in fiamme ad accentuare le delicate efelidi sulla parte superiore del volto. «Non c’è bisogno che lo dica. Sono in mezzo alla gente, non posso mettermi a strillare quella parola.» Sembrava in seria difficoltà. Risi, in modo che potesse sentirmi. «Non ti facevo così pudica.» «Per favore. Sto parlando di una cosa seria.» Smisi di ridacchiare, assumendo un’aria seria. «Hai ragione. Scusa. Dimmi pure.» Certo, se avesse accettato di tornare a Roma con me, la conversazione sarebbe
stata più intima e non avrebbe dovuto sentirsi a disagio mentre mi faceva quella domanda. «Non abbiamo usato precauzioni.» Ah! Era questo che la preoccupava. «Non ho nessuna malattia sessualmente trasmissibile se è quello che volevi chiedermi.» Un altro lungo silenzio. La voce era appena un bisbiglio. «Non è questo. Cioè, non solo. Io non prendo la pillola, quindi dovrei farmi prescrivere quella del giorno dopo. Sai, non vorrei ritrovarmi incinta in questo momento.» Feci fatica a seguire il discorso. Fantasticando su un figlio mio e di Greta non riuscii a trattenere un impeto di desiderio. Sarebbe stato bellissimo. «Non preoccuparti. Non è necessario che tu vada dal ginecologo. Stai tranquilla. Sono sterile al novantasette percento. Io non posso avere figli.» Non sapevo quale maschera avesse indossato mentre respirava piano. «Io…mi dispiace. Non lo sapevo.» Scossi la testa. «Certo che non lo sapevi Greta. Non è una cosa che grido ai quattro venti. Ho avuto un problema tanti anni fa. Mi fu diagnosticato un cancro ai testicoli. Per un paio d’anni ho combattuto la malattia, ne sono uscito completamente ristabilito, l’unico problema è il fatto che non potrò riprodurmi. Non la trovi una tragedia?» Cercai di scherzare sull’argomento. Non potevo fare altro. «Lo trovo un vero peccato Adriano. Sarebbe stato carino vedere piccoli cloni di te. Tutte le ragazzine della prossima generazione ne sarebbero state entusiaste.» La sua voce era meno distaccata. «Meglio di no. Faccio già troppi danni da solo. Non credi?»
Stavamo parlando come due buoni amici. Era strano sentirmi così a mio agio con lei. «C’è sempre quel tre per cento.» «No Greta. È davvero impossibile che io sia fertile, tranquilla, manterrai la tua linea ancora per un po’.» La sua risata mi entrò dentro. Avrei voluto toccarla, le mani prudevano dalla voglia di accarezzare l’epidermide di velluto. «Non ho un gran senso materno. Non riesco a stare con i miei nipoti per più di dieci minuti. Credo che il mio fisico lo manterrò per molto, moltissimo tempo.» Mi dispiaceva sentirglielo dire. Già la vedevo con un paio di ragazzini adoranti che la seguivano. «Claudio che ne pensa?» Il fiato le si mozzò. Ma come cazzo mi era venuto in mente di tirare in ballo Claudio? «Devo attaccare Adriano. Stiamo per entrare in una galleria. Ciao.» Interruppe la comunicazione senza darmi il tempo aggiungere altro. Ero stato uno stupido. Finii il panino. Accartocciai il giornale e mi diressi all’auto.
Il palazzo dove abitavano i miei era illuminato dalla luce del crepuscolo. Avevo impiegato più di otto ore per tornare a casa. Parcheggiai l’auto nel posto riservato. Mi sentivo stanco, sporco, avevo un gran bisogno di farmi una doccia e mettermi a dormire. Venni accolto da un caloroso abbraccio di mia madre. Aveva gli occhi gonfi. Si vedeva che non aveva smesso di piangere da quando mi aveva parlato. Mio padre mi trafisse con una lunga occhiata, ma non disse nulla, tornando a concentrarsi sul documentario che stavano trasmettendo in televisione. Nicole corse da me, spuntando dalla nostra stanza da letto ad una velocità inaudita. Mi saltò sopra con tutto il peso. Le braccia strette intorno al collo, le gambe avvinghiate al mio busto. Non mi mossi, sentire il suo corpo addosso mi provocava una sensazione spiacevole alla bocca dello stomaco. Mi
riempì di baci sul viso. La guardai, senza vederla realmente; il nostro rapporto era andato in frantumi nel momento in cui le sue labbra avevano pronunciato la minaccia. «Sei tornato finalmente. Mi sei mancato così tanto.» Provai a staccarla. Sibilla ci fissava, a disagio. Lanciai una lunga occhiata nella sua direzione. Non avrebbe dovuto intervenire. Alla fine riuscii ad allontanarla anche se continuò a girarmi intorno come un cagnolino festoso. Non volevo che mi toccasse, non volevo che mi parlasse, non volevo lei, non più. « Vado a darmi una sciacquata.» Nessuno replicò. La mia futura moglie mi seguì in bagno. La ignorai anche quando iniziò a parlare, le orecchie erano sorde alla sua voce. Le frasi senza senso si infrangevano su di me come onde su una scogliera. Mi spogliai dopo aver aperto l’acqua, in modo tale che quando fossi entrato, sarebbe stata abbastanza calda. Nicole smise di chiacchierare. La vidi attraverso lo specchio. Mi fissava la schiena. Che guardasse pure! Le dita mi sfiorarono la spalla. Mi voltai appena, per vedere cosa l’avesse incuriosita. I graffi di Greta spiccavano, lunghe linee rosse sui muscoli chiari. La donna che era con me mi trafisse con uno sguardo assassino. Mi buttai sotto il getto ormai bollente. Ero stanco, non vedevo l’ora che la giornata giungesse al termine. Lo sportello di vetro si aprì e lei entrò; si inzuppò non appena tentò di avvicinarsi. La afferrai per le spalle mentre cercava di prendermi il membro inerme, completamente indifferente alla sua presenza. «Smettila Nicole.» Me lo strinse, cominciando a muovere la mano su e giù. Nessuna reazione da parte mia, non ci sarebbe stata nessuna festa in quel box doccia. Gli occhi verde mare erano crudeli e freddi. Si abbassò sulle ginocchia, sempre fissando lo sguardo nel mio. Lo prese in bocca, leccandolo prima, stuzzicando il glande, massaggiando i testicoli con le mani. Chiusi gli occhi, lasciando che l’acqua ripulisse il mio corpo. Sentivo la pressione all’inguine aumentare. Il mio pisello aveva una volontà sua, non avrebbe resistito ad un così accurato esame. Le riempì la bocca. Non riusciva a contenerlo tutto. Afferrai i capelli corti,
completamente impregnati d’acqua. Era piccola sotto di me. Le spinsi il viso contro il ventre duro. Si immobilizzò, la punta del pene la stava strozzando. Lacrime di paura le illuminarono l’espressione. Cercò di allontanarsi, ma io la tenni ferma, lì, dove voleva stare. Quando vidi che era sul punto di vomitare la spostai di malagrazia, spingendola via come fosse appartenuta alla peggior feccia. Aveva tentato di mordermi. Mi accovacciai alla sua altezza. Le lacrime si mescolavano ai rivoli d’acqua che le ruscellavano addosso. Le presi la testa, obbligandola a fissare il soffitto. Mi chiesi se fosse odio quello che provavo in quel momento. La sollevai di peso, facendo si che fosse di nuovo ritta sulle gambe. La voltai, obbligandola a mostrarmi la schiena. Non ci fu gentilezza né amore in quello che feci. La penetrai. Gemette, e non di piacere. Cominciai a sbatterla con violenza, senza curarmi di come avrei potuto soddisfare il suo piacere. Quando la spinta diventava troppo forte, la sentivo piagnucolare, ma a Nicole non dispiaceva quel tipo di trattamento, lo sapevo bene. Non avrebbe avuto altro che quello da adesso in poi; non ci sarebbe stato altro per noi. Mi svuotai con un gemito che assomigliava a un ringhio. Rimase immobile, mentre l’ultimo getto di sperma le riempiva il ventre. Mi sciacquai, insaponandomi bene. Lei si voltò verso di me, sembrava felice per il modo in cui l’avevo appena scopata. Mi accarezzò il viso. «Sarò sempre qui per te Adriano. Ti amo.» Avrei voluto picchiarla, tanto mi faceva rabbia. «Non credo di poterti amare ancora Nicole.» Lei sorrise, come se io non capissi nulla. «È solo questione di tempo. Tornerai ad essere mio. Nessun’altra sarebbe disposta a guardarti nello stesso modo, una volta scoperto chi sei. Nemmeno quella Greta. Sono il tuo unico, possibile futuro. Lo sai Adriano. Non mentire a te stesso.» Mi sfiorò le labbra con un bacio prima di sciacquarsi a sua volta. Mi affrettai ad uscire. Lo spazio era troppo piccolo per contenerci entrambi, avevo l’impressione di stare per soffocare. Fui svelto ad asciugarmi. Chiusi le persiane, in modo tale che la luce fosse nascosta e la camera si trasformasse in una tana buia. Accesi la TV. Non mi importava su quale canale fosse sintonizzata, bastava che il chiacchiericcio in sottofondo mi evitasse di pensare. Nicole mi raggiunse
poco dopo. Dalla porta del bagno uscì una grossa nuvola di vapore. «Ho bisogno di dormire. Voglio stare solo.» Mi coprii a metà con il lenzuolo, ritenendo chiusa la conversazione. Rimase per un po’ a guardarmi, poi se ne andò sbattendosi la porta alle spalle.
XVII
Il Matrimonio
Greta:
Fu mia madre a svegliarmi. L’orologio da comò indicava che erano le 14:00 ate. Avevo dormito troppo, precipitata in un sonno agitato e senza sogni. Mi sollevai a sedere, ero intontita, riposare oltre le mie normali abitudini mi aveva sempre fatto quell’effetto. In genere non ero una dormigliona, ma il fatto che fossi stata incosciente fino a quell’ora era un indizio palese del fatto che avrei preferito are l’intera giornata sotto le coperte. «Gretel è arrivata Cassandra. Tra un paio d’ore viene a prenderti Claudio. Non credi sia ora di prepararti?» No. Non volevo alzarmi. Mi tirai il lenzuolo a coprirmi la testa. La sentii che si avvicinava alla grande porta finestra che affacciava sul balcone esterno. Il sole riempì la stanza, le iridi ne furono ferite. «Mamma! Chiudi la finestra.» Ovviamente non mi ascoltò. Tutt’altro. Andò verso il gigantesco stereo che era appoggiato sopra la libreria e lo accese, aumentando il volume sino a che le orecchie non cominciarono a fischiare. Le sbraitai contro mentre una canzone rock impediva alle parole di raggiungerla. La mia amica Cassandra irruppe nella stanza e cominciò a ballare al ritmo aggressivo della musica. Non avevo scelta, dovevo proprio alzarmi. Mi sentivo debole. Quando i piedi toccarono terra, mia madre, che mi aveva vista sbandare, corse a soccorrermi. Mi ò una mano sulla fronte, lo sguardo preoccupato, gli occhi che, nel studiarmi, diventavano grandi. Cassandra spense
la musica, accorgendosi che qualcosa non andava. «Mi sento solo un po’ fiacca, mi gira la testa, devo mangiare qualcosa di dolce.» Meredith si affrettò a portarmi i biscotti più zuccherosi che aveva nella credenza. Era un’ottima infermiera, nonostante fosse troppo apprensiva. Sorrisi a Cassandra che mi osservò in maniera strana. Mi conosceva bene, bastava un niente per leggersi a vicenda, sapeva che c’era qualcosa che non andava. «Poi ne parliamo G. Non mi piace quella faccia. Non credo di averti mai vista così, vatti a fare una doccia. Puzzi.» Rise, mentre le tiravo il cuscino addosso. Lo schivò con estrema facilità. L’acqua sciolse i muscoli, rinvigorendo le membra molli. I due dolcetti che ero stata costretta ad ingurgitare, avevano avuto l’effetto sperato. Le guance si erano colorite immediatamente, ma la debolezza non mi aveva abbandonata del tutto. Cassandra aspettava che uscissi dal bagno per asciugarmi la chioma. Era una parrucchiera barra truccatrice, barra cubista di una delle discoteche più famose di Roma. Iniziò a are il pettine sciogliendo i diversi nodi che legavano i capelli. Adoravo quando qualcuno si prendeva cura di me in quel modo, soprattutto se dedicava particolare attenzione alle ciocche ribelli. Chiusi gli occhi, rilassandomi sotto le sapienti carezze. «Come mai sei così a pezzi G? Hai litigato con Claudio?» Dissi si no evitando di aprire la bocca. Non mi andava molto di parlare. «C’è un altro Greta?» Mia madre si fermò sulla porta. Il respiro trattenuto. Temeva la mia risposta? «Lascia stare Cassie, è storia vecchia. Non importa più.» La mia genitrice dal temperamento di fuoco assunse l’aspetto di una furia mitologica, piombandomi addosso. Mi bombardò di domande accusandomi di essere la persona più incosciente che conoscesse. Quando mai lo avrei trovato un altro ragazzo come Claudio? Come mi ero permessa di mettere a rischio il mio rapporto con lui? Per dieci minuti mi sentii accusare di una stupidità senza precedenti. Non ribattei. In fondo aveva ragione. Fu mio padre ad intervenire.
Dal piano di sotto era impossibile non sentire l’intera conversazione. «Lascia stare Meredith. Greta è abbastanza grande per prendere le sue decisioni.» Mamma cercò di ribattere, ma lui la costrinse a seguirlo, chiudendosi la porta alle spalle. «Racconta G, Sono tutta orecchie.»
Dopo due ore Cassandra batté le mani in un applauso soddisfatto. Mi guardava, lo sguardo lucido di orgoglio. «Sei la mia modella migliore G. Bellissima.» Mi fissai nello specchio lungo: l’abito monospalla, drappeggiato su un fianco, avvolgeva le mie curve come un guanto. Era color oro e mi faceva assomigliare ad un’antica divinità greca. I capelli erano tirati su, fermati sulla fronte da una coroncina sottile, qualche ciocca era stata lasciata libera di avvolgersi intorno al collo. Il trucco verde e oro enfatizzava lo sguardo leggermente spento. Mi aveva messo due orecchini pendenti, unici accessori scelti per impreziosire il tutto. Le scarpe erano altissime, un paio di sandali sottili che lasciavano quasi totalmente scoperto il piede curato. Lo spacco del vestitosi apriva poco sotto l’inguine; avevo scelto quell’abito apposta. Quando camminavo mi si scopriva la gamba per intero, facendola apparire molto più lunga di quanto in realtà non fosse. Ero bella, davvero, ma l’espressione angosciata sulla mia faccia rovinava il perfetto lavoro di Cassandra. «Ehi G, se non vuoi andare non sei obbligata.» Le avevo raccontato tutto. Lei mi aveva ascoltata in silenzio, lasciandomi sfogare. Avevo proprio bisogno di parlarne con qualcuno. La colpa sembrava meno grave dal momento in cui avevo avuto il coraggio di condividerla. Sapevo che Cassandra non mi avrebbe spinta in nessuna direzione; in effetti, non c’era alcuna decisone da prendere: era stato Adriano a decidere per entrambi. Era stato meglio così. Ricordavo ancora le parole di Andrea, “Quando Adriano ti entra sotto la pelle, è difficile che te ne dimentichi.” Forse, a breve, avrei smesso di pensare a lui. Il problema era che in quel momento riempiva ogni pensiero mi
appartenesse. «No. È tutto a posto.» Risultai poco convinta anche a me stessa. «Per qualsiasi cosa chiama. So dove si tiene il ricevimento. Vengo a prenderti. Tanto oggi resto in zona.» La ringraziai, abbracciandola forte. Lei mi redarguì. Stavo per rovinare l’acconciatura. Claudio arrivò poco dopo. L’abito che aveva scelto per quell’occasione gli donava molto, un completo scuro che gli conferiva un’aria compita e professionale. Era proprio un tipo da giacca e cravatta! Mi guardò come un mecenate che osserva il dipinto da lui commissionato. Soddisfatto, abbagliato, innamorato. «Sei stupenda Greta.» Mi sfiorò la mano con le labbra, mentre mi avvicinava a sé. Meredith mi fissava dura, dall’altra parte della sala. Il sorriso tirato, mentre baciava su entrambe le guance il futuro genero. «Divertitevi ragazzi.» Feci un cenno con la mano. Un’ultima occhiata alla mia amica che mi indicò il telefono. Annuii. Se la situazione fosse diventata insostenibile, l’avrei chiamata.
La chiesa era gremita. Per la maggior parte gli invitati appartenevano al ceto alto della borghesia romana. Donne che giravano in splendidi abiti lunghi; alcune portavano cappelli fastosi, capigliature eleganti e si esprimevano in un linguaggio forbito. Mi lasciai condurre dal mio compagno all’interno della chiesa. I banchi erano quasi tutti liberi, ma Claudio era il testimone dello sposo, doveva essere già lì quando la futura Signora Altieri sarebbe arrivata. Il respiro mi si mozzò in gola quando lo vidi in lontananza, se il mio compagno
non mi avesse sorretta, sarei sicuramente inciampata. «Stai attenta Greta. Se cadi da quei trampoli, rischi di romperti la caviglia.» Strinse un po’ più forte la mia mano. Io non ero in grado di pronunciare una sillaba. La bocca improvvisamente secca, gli occhi che non riuscivano a distogliere l’attenzione da lui. Il suo profilo perfetto, l’abito che gli cadeva alla perfezione sul fisico atletico e la camicia bianca che faceva spiccare la carnagione abbronzata. Una donna non avrebbe potuto desiderare di sposare uomo più bello. Come se sapesse che lo stavo fissando, smise di parlare con il ragazzo in giacca e cravatta che aveva di fronte, per voltarsi verso di noi. Claudio continuò a camminare oltre le panche in legno. Stavamo per salire sull’altare per salutare lo sposo e fargli le nostre felicitazioni. Al secondo gradino fui sul punto di cadere una seconda volta. Cazzo. Claudio non fu sufficientemente svelto nel trattenermi, anticipato da un’altro che mi afferrò il braccio nudo. Fui attraversata da una scossa violenta quando le sue dita si chio a toccarmi. Non volevo guardarlo. Già il suo profumo mi aveva annebbiato il cervello, se avessi alzato lo sguardo e mi fossi soffermata sul verde smeraldo delle iridi, sarei stata perduta. Mi scansai da Adriano tirando il braccio con forza e appoggiandomi a Claudio. Una volta che non ci fu più alcun contatto tra di noi, respirai di nuovo; non ero più oppressa dalla sua vicinanza soffocante. Il mio fidanzato mi lasciò per abbracciare l’amico. Lo strinse forte, dandogli un paio di pacche sulla schiena robusta. Rimasi immobile, concentrando la più completa attenzione sull’affresco che stava al di là dell’altare. Bellissimo. Cercai di ricordare a quale artista appartenesse. Fissarmi su qualcosa di impegnativo mi permetteva di non ascoltare ciò che stavano dicendo. «Greta?» Claudio mi stava chiamando. Ero stata scortese a non congratularmi con lo sposo. Dovevo almeno salutarlo. Mi voltai piano cercando di controllare il battito cardiaco, fingendo di essere rilassata e a mio agio. Fu un’impresa titanica. Immagini di noi, chiusi in una stanza d’albergo, mi riempirono la mente. Adriano se ne accorse, mi sembrò di scorgere nella sua espressione il riflesso dei miei pensieri. «Ciao Greta.» Si avvicinò. Ero tentata di fare un o indietro per evitare che la nostra pelle si
toccasse ancora. Ero rigida come un tronco d’albero mentre si piegava su di me, mi afferrava le spalle, stringendo appena un po’ più del normale. Le sue labbra morbide mi accarezzarono leggere. Il profumo, così intenso. Ebbi l’impressione di andare a fuoco. Mi spostai subito. Non volevo che indugiasse nei saluti. «Ciao Adriano. Congratulazioni.» Serrò la mascella. Era nervoso. Mi girai senza attendere che Claudio mi seguisse. Afferrai un angolo della gonna tirandolo su per evitare di inciampare ancora, il mio equilibrio era piuttosto precario quel giorno. Dovevo impedirmi di cadere a terra, almeno finché ero sobria. Silvia mi guardò con malcelato disappunto mentre scendevo i gradini, concentrandosi sulla coscia completamente esposta. Fece segno di no con la testa, rivolgendosi al marito. Nemmeno mi avvicinai, feci un cenno con la mano a salutarli, avviandomi verso il banco più lontano dall’altare, appena dopo l’entrata della chiesa. Ero sola, fortunatamente, nascosta dalla penombra. Non dovetti aspettare molto prima che tutti gli ospiti fossero invitati ad entrare. Il wedding planner stava disponendo per ordine le varie famiglie assegnando posti a ciascuno di loro. Mi osservò interrogativo, diede un’occhiata al papiro che teneva infilato in una cartellina ordinata, poi si avvicinò con fare tranquillo. Si piegò su di me, sussurrando appena. «Posso sapere il suo nome signorina…?» Gli sorrisi, rispondendo alla domanda. Scorse la lista più volte prima di riconoscere il nome e il cognome. «Il suo posto non è questo. Lei deve sedere con la famiglia Leoni, i genitori del testimone. La prego, mi segua, le indico il banco.» Provò a prendermi la mano. Stavo per sbottargli a ridere in faccia. «Mi scusi, ma non credo di voler sedere davanti. Sono adeguatamente sistemata. Può andare.» Lo vidi irrigidirsi. L’aria cordiale aveva magicamente abbandonato il viso da furetto. «Non è il suo posto. Questo banco è destinato ad altre persone. La prego di seguirmi.»
«E io la prego di non scocciarmi. Sono un'invitata, ma non intendo sedermi dove decide lei. Può andare. Il mio culo non si muoverà da qui, a meno che lei non voglia spostarmi di peso. In tal caso…» Aprii le braccia e gli sorrisi ammiccante. «…Si accomodi.» Si colorò di un bel rosso vivo, fin sopra le punte appiattite dei capelli. Stava per aprire bocca e continuare a controbattere, quando la marcia nuziale serpeggiò per la sala. Mi lanciò un ultimo sguardo, prima di decidere di lasciarmi dov’ero. Faceva freddo. Le chiese grandi erano sempre gelide. Avevo la pelle d’oca mentre tutti si voltavano verso l’entrata. Tutti tranne me. Tenni lo sguardo basso, concentrata ad individuare le innumerevoli venature del legno. Fui costretta ad alzare gli occhi quando il fotografo entrò nella chiesa, anticipando la sposa. Il flash scattava senza sosta. i misurati, tacchi decorosi, spuntavano da sotto l’abito liscio, elegante. Le linee pulite la facevano apparire ancora più minuta di quanto fosse. La mano appoggiata sul braccio del futuro suocero che camminava piano al suo fianco. Sorrideva felice. Le guance rosse, le labbra rosa a scoprire i denti bianchi e perfetti. Una lunga coda che assomigliava a petali caduti, era la caratteristica principale del vestito di alta sartoria, la schiena nuda, dritta, mentre si avviava verso l’altare. Gli occhi di Davide si posarono su di me, sorpresi, ma non troppo. Le labbra si sollevarono appena. Mi superò salutandomi con un piccolo movimento del capo. Lei, fortunatamente, non si accorse della mia presenza, non avrei sopportato che mi avesse guardata. Osservai qualsiasi cosa durante la cerimonia, al di fuori dei due giovani sull’altare. Mentre il prete pronunciava le solite raccomandazioni della funzione, avevo sempre maggiore difficoltà a respirare. Piccoli puntini dorati mi invasero la vista, il battito cardiaco era troppo svelto. C’era qualcosa che non andava, stavo per avere un attacco di panico. La schiena si bagnò di sudore freddo. Serrai le palpebre. La voce di Adriano mi raggiunse forte mentre scandiva deciso il “ Sì. Lo voglio.” Mi stavo sentendo male. Fortunatamente non c’era nessuno vicino a me che potesse dare l’allarme. Qualcuno mi avrebbe accusata di voler boicottare il matrimonio. L’aria gelida della chiesa mi aiutò a superare il momento di difficoltà. Il sudore mi si asciugò addosso anche se dovetti fare uno sforzo immane per riuscire a fare lunghi respiri. La cerimonia era finita. Gli applausi degli ospiti riempirono il silenzio della grande sala rettangolare. Avevo bisogno
di bere.
Adriano:
Non avevo dormito quella notte. Soltanto alle prime luci dell’alba, mi ero concesso qualche ora di riposo. Il fotografo era arrivato presto, verso mezzogiorno. Mi ero dovuto lavare, sbarbare e pettinare, in meno di mezz’ora. Mio padre mi aveva aiutato ad allacciare la cravatta e sistemare adeguatamente l’abito, mentre Sibilla faceva le veci della madre della sposa. Avevo il sapore acido della bile che mi riempiva la bocca. Neppure uno sciacquo energico con il colluttorio mi levò quel gusto amaro. Gli occhi arrossati a causa della mancanza di sonno. Per il resto, il mio aspetto era impeccabile. Mi lasciai fotografare; con i miei, da solo mentre fissavo fuori dalla finestra, fingendo di allacciare i gemelli. Trovai tutto estremamente ridicolo. Quelle pose erano idiote, per non parlare di quell’uomo che mi lanciava suggerimenti su come atteggiarmi di fronte all’obiettivo. Assomigliava ad un grillo; ogni volta che si muoveva, compiva un piccolo saltello. Mi prestai al gioco senza commentare, era ciò che desiderava Nicole, e io non potevo permettermi di contraddirla. L’addetto alle fotografie cercò di convincermi a fargli un sorriso, persino Sibilla mi incitava a tirare fuori i denti. «Sei più bello quando hai un’espressione felice Adriano. Perché quella faccia seria?» Era bellissima nel suo lungo abito rosa corallo. I capelli raccolti in un chignon elaborato. Il trucco delicato, l’incarnato pallido. Sorrisi debolmente e il fotografo parve soddisfatto. Il clic della macchina fotografica non la smetteva di scattare. Mio padre, le mani dietro la schiena, aveva un’aria tutt’altro che serena. Decisi di non prestargli attenzione. Sapevo cosa stava pensando. Non avevo bisogno di chiedergli nulla. Quando fu il turno della sposa, fui costretto a lasciare l’appartamento. Portava male guardare l’abito prima di entrare in chiesa. Capirai, quel matrimonio era già, di partenza, nato sotto una cattiva stella. Non controbattei, non era da me accettare ivamente le indicazioni degli altri, ma non avevo nessuna voglia di mettermi a discutere. Speravo solo che il giorno asse in fretta.
Fuori della chiesa non c’era nessuno, solo l’organizzatore dell’evento che si affannava intorno agli addetti alle decorazioni. Mi salutò con un cenno della mano, indicandomi l’orologio. «Sono le tre di pomeriggio. Non è ancora ora, tranquillo.» Si deterse il sudore dalla fronte, sorridendomi grato. Iniziai a eggiare intorno all’imponente struttura medioevale. Avrei preferito che la scelta ricadesse su un luogo meno importante, più raccolto. Avevo l’impressione di essere insignificante sotto le volte arzigogolate. Il peso delle mie colpe mi gravò addosso come un macigno, schiacciandomi. Non avrei dovuto pronunciare il voto nuziale, se avevo così tanti dubbi. Il sole splendeva alto. Faceva un caldo pazzesco e per evitare di arrivare fradicio alla cerimonia fui costretto ad entrare. L’aria era fresca, l’odore di chiuso mi riempì le narici. La navata sembrava infinita, un immenso tappeto dorato, lungo il camminamento. Grandi colonne fiorite stavano ai capi dei banchi di legno scuro. Non riconobbi le specie dai polposi petali bianchi, sapevo soltanto che attenuavano il sentore forte tutt’intorno. L’altare era di fronte a me, il crocifisso maestoso appena dietro di esso. Il Cristo sulla croce mi fissava, gli occhi aperti, vuoti, a giudicarmi dall’alto della cappella. Mi diressi verso il banco dove erano accesi alcuni ceri. Infilai una moneta da due euro nella fessura. Presi una candela. Il fuoco infiammò quasi subito il lungo stoppino. Rimasi a fissare il lento danzare della fiamma. La mente era vuota, non sapevo nemmeno per quale motivo fossi lì. Qualcuno seguì il mio esempio, nascondendosi nel luogo fresco. Tacchi alti, i veloci. Non avevo alcun dubbio che fosse una donna. Sapevo che si stava avvicinando, il rimbombo delle sue falcate diventava via via più assordante. Io continuavo a guardare le lingue di fuoco, senza avere alcuna voglia di sciogliermi in convenevoli con chiunque fosse arrivato così in anticipo. «Adrian?» La voce familiare mi fece riprendere dallo stato di trance in cui ero precipitato. Sollevai le palpebre. Una donna di mezza età, lunghi capelli biondo platino, raccolti in una coda laterale. Il cappello a tesa larga le metteva in ombra la parte superiore del viso. Pelle segnata dalle rughe della maturità, rese ancora più evidenti a causa dell’eccessiva abbronzatura. I denti si scoprirono mentre le labbra, ritoccate dal chirurgo, si sollevavano in un sorriso. Era alta, poco meno di me. Il fisico ancora quello di una ragazzina, nonostante avesse superato la
cinquantina. La abbracciai con slancio, non riuscendo a dire nulla che avesse potuto esprimere il mio sollievo nel vederla. Le sue mani mi carezzarono le spalle. Il profumo dolce. Vaniglia. Mi costrinse a spostarmi, con le dita tracciò i contorni del mio volto stanco, l’espressione contrariata. «Cosa è successo? Non dovrebbero essere questi gli occhi di un uomo innamorato.» Non ero in grado di darle una risposta. Mi trafisse, con uno sguardo di accusa. Il palmo della mano era soffice, la pelle tesa. Le mie labbra si posarono sull’incavo del polso. Potevo percepire il suo battito cardiaco attraverso la vena esposta. «Non mi va di parlare Geneve. Sono stanco delle chiacchiere. Non credevo che Nicole ti avesse fatto recapitare un invito. Non mi ha detto nulla.» Il viso assunse un’espressione furba. «Se anche lo avesse fatto, tu non te ne saresti preoccupato.» La vicinanza di quella donna mi aiutò a ritrovare un accenno di buon umore. «È da parecchio che non ci vediamo. Stai bene? Sei venuta con qualcuno?» Annuì. Facendo cenno ad un uomo sulla quarantina che ci fissava da lontano. Non ci raggiunse, lasciandoci quel breve momento di intimità. «Mi ha chiesto di sposarlo circa due mesi fa. Sto ancora decidendo se accettare la proposta.» Mi raccontò di lei. Stava bene. Era serena. Non c’era nessun tipo di ombra dietro quegli occhi limpidi. Fui geloso nel costatare che fosse tanto felice. «Adrian. Adrian.» Solo lei mi chiamava in quel modo. Scosse la testa, mentre l’espressione tornava seria. «Non mi è mai piaciuta quella ragazza. Ma tu sei sempre stato così testardo. Se qualcuno ti dice di non fare qualcosa, la devi fare per forza. Non è così?»
Ricordavo quando Geneve mi aveva messo in guardia dal legarmi sentimentalmente a Nicole. Non avevo voluto ascoltarla. Nicole era perfetta, silenziosa, accondiscendente. La compagna ideale. Non c’era nulla di sbagliato nel nostro rapporto. «Non era questo che mi auguravo per te. Avresti dovuto avere il mondo ai piedi. Non avresti dovuto permettere che fossero gli altri a controllarti.» Il tono di voce denotava una sofferenza sincera. Mi prese le mani nelle sue, portandosele al volto. Le baciò entrambe, facendo sì che i miei palmi ne contenessero la faccia dalla forma appuntita. Gli invitati stavano arrivando. Sentivo le macchine parcheggiare, le voci che si sovrapponevano. Geneve si staccò da me, guardando indietro, verso il compagno. «Ci vediamo dopo Adrian. Sarò l’unica imbucata al banchetto.» I tacchi calpestarono sicuri il pavimento in marmo mentre ripercorreva la strada a ritroso. L’orologio segnava le quattro. Di li a mezz’ora, il matrimonio avrebbe avuto inizio.
Ero ritto, ai piedi dell’altare. Mia madre che si affannava intorno alla gente che correva a salutarmi per pronunciare le congratulazioni di rito. Vittorio, il secondo testimone, amico da tempo immemore, stava blaterando qualcosa riguardo una ragazza con la quale era uscito la sera precedente. Non riuscivo a seguire il discorso. L’attenzione rivolta all’entrata. Avrebbe dovuto essere già lì. Il posto di Claudio era accanto allo sposo durante la marcia nuziale. Udii i genitori del mio amico esclamare qualcosa quando finalmente entrò tenendo Greta per mano. Per un attimo la forte luce esterna mi impedì di vederla. Quando la penombra l’avvolse definendone i contorni del corpo, non riuscii a guardare altri se non lei. Avevo l’impressione che fosse fatta d’oro. Una divinità greca discesa dall’Olimpo per rendere la mia decisione ancora più difficile. Persino Vittorio, accorgendosi che il mio interesse era rivolto altrove, rimase senza parole quando la vide. Claudio se la trascinava dietro. Lei aveva il viso imbronciato, lo sguardo che saettava da una parte all’altra, non soffermandosi su nulla. Inciampò una
volta. Il compagno fu svelto nel non lasciarla cadere. Nell’avvicinarsi il suo profumo si espanse, invadendo la sala. Nessun’altro odore era buono come l’essenza di Greta. I miei occhi ne divorarono ogni centimetro. I piedi incespicarono una seconda volta mentre saliva i tre gradini che l’avrebbero condotta da me. Non potei fare altro se non allungarmi e prenderla. La sua pelle era morbida, fresca. Le dita si strinsero possessive. Stavo per tirarla contro il petto, prima che potesse essere Claudio a farlo, quando la sentii riacquistare l’equilibrio. Non alzò mai il viso. Gli occhi bassi, il respiro affannato. Guardami Greta. Guardami! Si divincolò dalla stretta quasi le stessi facendo del male. Claudio riempì il mio spazio visivo. Un largo sorriso ad addolcirgli il volto. «Finalmente è arrivato questo benedetto giorno. Sei agitato? Non preoccuparti, da oggi comincia la schiavitù.» Cercai di stare allo scherzo intanto che mi affibbiava qualche sonora pacca sulla schiena. Vittorio partecipò al gioco, descrivendo scene raccapriccianti della vita coniugale. Io osservavo lei soltanto, provando ad immaginare a cosa stesse pensando. Avrei preferito non fosse venuta. La tensione scaturiva da Greta come fosse stata una presa della corrente. Claudio cercò di distoglierla dai suoi pensieri. Finalmente quegli occhi di ghiaccio si fissarono nei miei. L’espressione vacua, i i che faticava a compiere nella mia direzione. Quanto avrei voluto poterla stringere a me! Sentire ancora una volta i profili da gazzella che aderivano alle membra. Mi accontentai di afferrarle le spalle. Tremò leggermente quando mi piegai a sfiorarle piano la zona accanto alle labbra socchiuse. Era calda e fredda nello stesso momento. «Ciao Adriano. Congratulazioni.» Il timbro monocorde della frase. Un velo invisibile scese ad oscurarle la vista. Serrai la mascella. Odiavo non potermi comportare come avrei voluto. Staccai le mani da lei. Era libera, sapevo che non aspettava altro. Si precipitò giù, volando sulle scale, allontanandosi di corsa per andare a sistemarsi nell’ultima panca in fondo. Era meglio così.
Mi sentivo un uomo che stava per essere giudicato dal boia. Mancavano le catene ai polsi e alle caviglie, la palla di ferro che strusciava dietro di me, gli abiti dimessi. Per il resto, le aspettative erano le stesse. La marcia nuziale invase
l’ampio spazio. Ero ancora voltato verso Vittorio, che si sbrigò a mettersi al proprio posto. Il prete dovette schiarirsi la gola un paio di volte prima che mi decidessi a girarmi verso la sposa che era già a metà del percorso. Lei era raggiante, al fianco di Davide, nessuno sarebbe stato in grado di affermare che non fosse felice. Non si poteva dire lo stesso di me. Riuscii a guardarla appena, né il vestito, né il trucco, né il suo portamento contavano. Non c’era traccia di Greta. Da quell’angolazione non la vedevo. Papà mi poggiò la mano di Nicole sul braccio quando ebbero attraversato buona parte della navata. Strinse la mano sulla mia. Indugiò un momento di troppo sul mio viso tirato. Nicole si appoggiò a me, con tutto il peso. L’odore che emanava da lei mi diede fastidio. La bocca fu di nuovo piena di un sapore amaro. Ci fermammo di fronte all’uomo che avrebbe dovuto dichiararci marito e moglie. La sua voce era monotona. Non afferrai nulla di ciò che stava dicendo. Prima di permetterci di pronunciare le consuete frasi cerimoniali, parlò al resto dei presenti chiedendo se ci fosse qualcuno contrario all’unione. Abbassai le palpebre per un istante, sperando che chiunque di loro pronunciasse una singola sillaba. Il silenzio mi piombò addosso. Gli occhi della sposa mi fissavano duri, dal basso della piccola statura. Mi accorsi di ripetere a pappagallo ciò che il parroco voleva che dicessi. Nicole cambiò espressione una volta che ebbi pronunciato il fatidico “Sì, lo voglio.” Si rilassò immediatamente, una luce gioiosa a riempirle il verde chiaro delle iridi. Era come se mi stessi muovendo a rilento, intrappolato in un incubo dove io non ero padrone di agire. Tutto intorno a me era surreale. Avrei voluto urlare che si trattava di una farsa, il matrimonio era il risultato di un ricatto ma, il corpo che mi conteneva, in piedi di fronte alla piccola ragazza bionda vestita di bianco, rimase muto. Ero morto e non me ne rendevo conto. Fui trascinato giù dall’altare. Il suono degli applausi mi raggiunse ovattato. Volti di gente che conoscevo sorridevano alla coppia appena unita. Lei non c’era. Il sole mi rese cieco quando attraversai l’entrata. Guardai in alto, lasciando che i raggi mi illuminassero riportandomi alla vita. Le pupille si restrinsero mentre il riso ci venne lanciato addosso, come di rito. Nicole rideva accostandosi sempre di più al mio braccio. Una statua d’oro si mosse in lontananza. Il corpo appoggiato al muro della sagrestia, una gamba quasi completamente scoperta.
Greta:
Raggiungemmo il luogo del ricevimento chiusi nella macchina sportiva. Il termometro interno dell’auto ci avvertiva che la temperatura esterna era di trentadue gradi. Fortunatamente l’aria condizionata mi permetteva di non far sciogliere il trucco accurato che la mia amica aveva dipinto sulla mia faccia. Guardandomi nello specchietto mi accorsi di essere pallida. Una ata di fard e il problema sarebbe stato risolto. Parcheggiammo nell’ampio giardino che circondava la villa adibita alle cerimonie. Assomigliava a quello che doveva essere il prato di una reggia. Le piante da esposizione erano state tagliate in modo tale da ricordare forme di animali, colonne che finivano a cespuglio, simboli geometrici. C’era una sorta di atmosfera mistica in quel luogo pieno di profumi. L’incantesimo si infranse una volta che cominciarono ad arrivare il resto degli ospiti. Le ruote facevano scricchiolare i ciottoli, alzando una densa nuvola bianca di polvere. Mi dovetti portare la mano alla bocca per non aspirare il pulviscolo. Il più rumoroso, che fece stridere le gomme della macchina in maniera sinistra, fu Giulio, il fratello di Claudio. Credevo sarebbe stato accompagnato da qualcuna, invece, uscì solitario dalla piccola Mercedes, aprendo le braccia nel venirci incontro. «Non ho fatto in tempo a are in chiesa. Mi sono perso qualcosa di importante?» Mi prese tra le braccia, stringendomi forte. Non riuscii a ricambiare con il consueto slancio. Se ne accorse, mi allontanò da sé e mi fissò attento. «Ti senti bene piccola? Non sei la solita.» Provai a scostarlo. La troppa vicinanza mi dava una fastidiosa impressione di claustrofobia. Quel giorno ero davvero di pessimo umore. Claudio si intromise. «Giulio lasciala respirare.» I genitori del mio fidanzato ci raggiunsero subito dopo. Lo sguardo di Silvia era tutt’altro che cortese. Doveva averla indispettita parecchio il fatto che in chiesa
non avessi preso posto accanto a loro. Non si avvicinò per salutarmi. Rimase al fianco del marito, cercando di darmi meno importanza possibile. Giacomo mi strinse la mano, come al solito. Aveva un aspetto piacevole, coperto dall’abito dal taglio severo. Cominciammo ad avviarci alla zona dell’aperitivo. Una fiumana di gente percorreva ordinata il vialetto d’ingresso. Si trattava di una location meravigliosa. Nastri colorati sventolavano intorno a noi, danzando al ritmo del vento. Claudio conversava animatamente con una coppia che ci aveva raggiunti. Non li avevo mai visti. Una volta che mi ebbe presentata, dimenticai subito i loro nomi. Deglutii a vuoto, nel tentativo di alleviare la sensazione di arsura alla bocca. Avevo una sete pazzesca. L’angolo bar che stava nella parte sinistra del grande palco dove si sarebbe consumato il banchetto, era un richiamo irresistibile. Sciolsi la mano da quella del mio compagno. Lui mi guardò un istante, trattenendomi. «Ho sete. Vuoi qualcosa da bere?» Il sorriso attenuava la sua espressione rigida. Mi baciò delicatamente la fronte. «Un Aperol amore. Grazie.» Chiesi anche ai due amici del mio fidanzato. Entrambi rifiutarono gentilmente. Mi allontanai stando attenta a non mettere i piedi in fallo. Il terreno sul quale stavo camminando non era del tutto liscio. I tacchi avrebbero potuto darmi qualche problema. Il barista, dietro il bancone, assunse un’aria fascinosa non appena mi vide arrivare. Era un ragazzo giovane, l’aria furba e l’atteggiamento fin troppo ammiccante. Non prestai attenzione allo sguardo di aperta approvazione che mi lanciò. Ero lì per bere, non avevo intenzione di ordinare altro. «Un Aperol e un prosecco. Grazie.» Annuì. Fu svelto nel darmi ciò che gli avevo chiesto. Pochi minuti più tardi, mentre sorseggiavo pigramente la bevanda appoggiata al tavolo, fui raggiunta da altre persone che avevano avuto la mia stessa idea. L’attesa diventava meno noiosa in compagnia di un buon bicchiere di vino. Entro breve, lo spazio a ridosso del bar divenne affollatissimo. Fui costretta ad andarmene tenendo in bilico i due bicchieri, il mio drink quasi del tutto finito.
Claudio era circondato da un gruppetto di gente. Avrei voluto deviare dal percorso e allontanarmi. Il giardino fiorito era un richiamo irresistibile, si perdeva a vista d’occhio. Il pensiero di una eggiata solitaria mi stuzzicò. Stavo per girare i tacchi quando Giulio notò la mia presenza e mi chiamò, gridando a squarcia gola. Desideravo picchiarlo. Aveva appena distrutto il mio piano di fuga. Rimasi ad ascoltare annoiata la lunga conversazione alla quale non potevo prender parte. Stavano ricordando i vecchi tempi del liceo. Non c’entravo nulla. Ero lì solo per fare la bella statuina, il flute ormai svuotato. Osservai bramosa il luogo dove stavano continuando a versare alcolici. Una fila immensa attendeva il proprio ordine. Avrei dovuto aspettare diverso tempo per potermi tuffare in un altro cocktail. arono circa un paio d’ore prima che il wedding planner iniziasse a girare intorno agli ospiti allo scopo di indirizzarli ai posti assegnati. Quando venne da noi, lo sguardo si indurì non appena riconobbe in me la piantagrane della chiesa. Non accennai a disubbidire, seguii il mio accompagnatore che, insieme agli altri, si avviò seguendo il coordinatore della festa. Quando mi accorsi che i miei suoceri erano già seduti al nostro tavolo, non riuscii ad assumere una posa rilassata. Cazzo. Cazzo. Cazzo. Perché quella giornata doveva essere così difficile da affrontare? Claudio mi spostò la sedia, invitandomi a sedere. Giulio occupò in fretta la seduta alla mia sinistra. Meno male, avrebbe evitato che qualcun altro si mettesse accanto a me. Il quartetto d’archi prese a suonare una melodia straziante mentre gli sposi intervenivano al ricevimento. Dov’era il vino? I tavoli erano apparecchiati in maniera sontuosa; piatti di porcellana dipinti a mano, posate d’argento, bicchieri di cristallo. Un’enorme composizione floreale troneggiava al centro della lastra ovale. Per chi soffriva di allergia, doveva essere un supplizio trovarsi lì in quel momento! Adriano camminava legato al fianco della sposa che invece era splendente di gioia. Il viso dell’uomo era serio, mi sorpresi a pensare che avrebbe dovuto avere un’espressione diversa. Si fermarono in mezzo al largo patio ellittico. Un applauso rombante vibrò tutt’intorno. Le mie mani restarono ferme, adagiate sul grembo. Gli occhi di Claudio erano fissi su di me. Alzai lo sguardo.
«Che c’è Greta? Non ti senti bene?» Non avrei dovuto continuare a comportarmi come una vedova inconsolabile. Se il mio atteggiamento non fosse cambiato, avrebbe potuto intuire qualcosa; in quel caso, non sapevo davvero come avrei potuto cavarmela. Gli presi la mano. La strinsi forte. «È da stamattina che non mi sento bene. Forse ho mangiato qualcosa che mi ha dato fastidio, oppure è la pressione. Lo sai che in estate mi si abbassa. Non ti preoccupare, appena metterò qualcosa sotto i denti starò meglio.» Parve accontentarsi della spiegazione, tornando a concentrarsi sulla coppia di sposi che si stava dirigendo al posto d’onore. Il tavolo era proprio accanto al nostro. Lo stomaco mi si contrasse quando, con la vista periferica, lo osservai sedersi. I nostri sguardi incatenati in un’occhiata significativa. Solo un breve, fugace istante. Il cuore cominciò a battermi all’impazzata, la sensazione febbricitante mi accompagnò per un paio di minuti, finché non fui in grado di riprendere possesso delle mie azioni. Non capivo perché reagissi in maniera tanto violenta alla sua presenza. Okay, avevamo fatto sesso e avevamo ato una splendida serata insieme, ma tutto si riduceva a questo. Potevo dimenticare la scappatella di una notte capitatami in un periodo di confusione, no? La cena cominciò ad essere servita. Camerieri vestiti da pinguini si riversarono intorno a noi e, con impeccabili guanti bianchi ci proposero la varietà di antipasti che erano stati scelti per l’occasione. Avevo una fame terribile, lo stomaco che gorgogliava rumorosamente. Giulio rise, accorgendosi del frastuono proveniente dalla mia pancia. «Hai fame, signorina? Mangia. Devi mettere un po’ di carne su queste ossa sporgenti.» Fece per rubarmi la fetta di salame piccante che era rimasta sola nel piatto. Finsi di pugnalarlo con la forchetta. «Fermo. L’ho lasciata per ultima perché è la mia preferita.» Mi infilai un grosso boccone di pane in bocca, prendendo svelta l’insaccato con le mani. Giulio assunse un’aria imbronciata, ma i suoi occhi erano tutt’altro che
seri. «Credevo ti saresti fatto accompagnare da una delle tue tante fiamme. Che c’è? Ti hanno bidonato?» Rise divertito, lo sguardo castano brillava sul bel viso. «Può darsi. Ma può anche essere che non avevo voglia di portare nessuna, non trovi?» Feci spallucce. In fin dei conti non mi importava molto. «Contento tu…» Sentivo gli occhi gelidi della madre di Claudio che mi fissavano. Guardai nella sua direzione e, come avevo intuito, lei era lì che mi studiava attentamente. Non un’ombra di simpatia a rischiararne l’espressione; quell’aria arcigna la faceva apparire più vecchia. «Abbiamo saputo solo ieri del contratto che ti ha proposto la casa editrice.» Gli astanti al tavolo si interessarono tutti all’argomento. In un secondo fui al centro della conversazione. Oltre ai miei suoceri e ai restanti componenti della famiglia Leoni, c’era un’altra coppia di amici seduti con noi. «Sì, mi hanno proposto un buon accordo, in settimana firmerò il contratto.» Giacomo si fece interessato quando descrissi i termini dell’offerta. Concentrarmi su qualcosa che non riguardasse la mia complessa situazione sentimentale, mi permise di distrarmi per i minuti successivi. Nel frattempo, le portate continuavano a susseguirsi. Gli antipasti non finivano più. «Mi sembra una buona proposta Greta. Allora, una volta uscito il libro, potremo leggerlo.» Credo fosse sinceramente contento per me. La cosa mi sorprese, ma per una volta il mio sorriso verso quell’uomo fu spontaneo. «E dimmi Greta…di cosa parla, se posso chiedere?»
Silvia aveva i gomiti posati intorno al piatto e i palmi delle mani a sorreggere il mento. «Di una donna e del suo percorso di vita.» La risposta concisa non permetteva repliche. Il fatto che non fossi stata maggiormente esplicita, la incuriosì. «Come sei criptica. Non vuoi darci un’anticipazione? Per aver suscitato un interesse così immediato, deve essere un romanzo che vale la pena leggere.» Avevo il sentore che quelle domande non fossero state fatte per semplice curiosità. Presi il bicchiere pieno del liquido giallo paglierino. Ingoiai un lungo sorso. Il sapore fruttato scese giù nella gola. «La protagonista vive durante gli anni Settanta. Genitori assenti, situazione economica disastrosa. È costretta a prostituirsi per sopravvivere.» Le sopracciglia curate si alzarono sorprese. «Immagino che a colpire l’editore siano state le scene di sesso molto ben descritte.» La voce suonò melodiosa mentre terminavo la frase. Buttai giù un’altra sorsata. Claudio era immobile. Non aveva letto nemmeno una riga, la rivelazione aveva lasciato interdetto anche lui. Giulio batté le mani. «Credo proprio che inizierò a leggere. Quando è prevista l’uscita?» Mi diede di gomito. La madre muta che non riusciva a trovare niente da dire. «Non mi avevi detto che era un libro erotico.» Claudio sembrava offeso e a disagio. Lo fissai. «Il fatto che sia un libro che parla di sesso non lo rende meno valido di qualsiasi altro manoscritto.» Era sulle spine, me ne accorsi dal fatto che si spostava di continuo per trovare una posizione comoda. Avrebbe potuto risparmiarsi quel commento.
«No, certo che no mia cara. È ovvio, però, che le persone non lo compreranno per la trama intrigante.» Silvia aveva trovato la risposta pungente che meditava e il figlio gliela aveva servita su un piatto d’argento. «Dai mamma, credi che Greta non meriti le tue congratulazioni solo perché sta per uscire grazie ad un romanzo spinto? Non ti facevo così bigotta.» Giulio era intervenuto in mio soccorso. Claudio provò a prendermi le dita, ma io fui rapida a nasconderle sotto la tovaglia. Non volevo che mi toccasse, avrebbe dovuto essere lui a difendermi, invece, non era stato così. La conversazione cambiò rotta, grazie a Dio. Mi chiusi in un silenzio sofferente. Finalmente gli antipasti terminarono e cominciarono a servire le portate principali. Il riso alla crema di scampi con guarnizione di non so che cosa, era ottimo. Lo divorai in quattro bocconi. Doveva essere fame nervosa, lo stomaco non la smetteva di chiedere. Fu decisa una pausa. L’organizzatore di eventi zigzagò attraverso i tavoli con in mano un microfono all’apparenza innocuo. «Prova. Prova.» Le dita magre ticchettarono sul gelato. La voce, amplificata dalle casse, ci raggiunse forte e limpida. «Diamo inizio alle danze. Ecco a voi il primo ballo dei coniugi Altieri.» Indicò i due seduti in silenzio. Si alzarono e i loro i furono seguiti da uno scroscio di applausi e commenti entusiastici. Afferrai la bottiglia semivuota e riempii il bicchiere fino all’orlo. Mi fu difficile deglutire, avevo la gola chiusa e gli occhi umidi, sicuramente a causa dell’alcol. I volti di tutti i presenti erano rivolti ai due giovani che volteggiavano al centro del palco, seguendo le note di un brano romantico. Conoscevo quella canzone, ma non ne rammentavo il titolo. Una volta terminato di danzare, gli sposi furono seguiti a ruota da diverse coppie presenti nella sala. Sibilla e Davide si divisero per accompagnare i due protagonisti sulla pista. «Ti va di ballare Greta?» Claudio era piegato su di me in maniera tale che non dovesse urlare per invitarmi.
«Non mi va adesso. Sto pensando alle scene di sesso che scriverò nel prossimo romanzo.» Strinse le labbra. «Non volevo insultarti. È solo che ne sono rimasto sorpreso.» Gli occhi erano vacui a causa del vino che avevo assunto. «Se ti fossi interessato a cosa stavo facendo, non staremmo litigando per questo.» Le sue dita mi solleticarono dietro l’orecchio. Nessuna reazione da parte mia. «Noi non stiamo litigando. Ti ho detto che mi dispiace.» Sapevo che non era una cosa così grave, ma non riuscivo a pensare ad altro che a fuggire. Intanto che cercavo una scusa qualsiasi per allontanarmi, la mia sedia venne tirata all’indietro. Qualcuno mi afferrò obbligandomi ad alzare il culo. «Scusa fratello. Questo ballo lo aveva promesso a me.» Ero pronta a ribattere. Non avevo promesso nulla al fratello del mio compagno. Ma l’idea di are del tempo lontano da quel covo di vipere, non era così malvagia. Lo seguii, accondiscendente. Mi strinse a sé in modo tale che i nostri corpi fossero incollati. Il contatto forzato mi imbarazzò. Giulio mi stava provocando. Tentai di scansarlo, ma la sua presa era ferrea, e non riuscii a liberarmene. «Solo un ballo Greta. Ti prego.» Mi rilassai, anche se la gamba che mi scivolava in mezzo alle cosce avrebbe dovuto farmi correre via. «Ti hanno già detto che questa sera sei stupenda?» Sorrisi, appoggiandogli la guancia sulla spalla. Lasciai che mi conducesse, evitando di andare a sbattere contro gli altri ballerini. Era bello essere avvinti a qualcuno e non percepire alcun tipo di tensione sessuale. Almeno da parte mia.
Sapevo, infatti, che al ragazzo di fronte non ero affatto indifferente. «Qualcuno ha accennato alla cosa.» Le dita scivolarono carezzevoli sulla schiena, posandosi poco al di sopra della curva delle natiche. «Giulio alza quella mano. Non credo che a tuo fratello faccia piacere il modo in cui mi stai toccando.» Impresse un po’più di pressione, prima di seguire il suggerimento. «Claudio non si rende conto che se continua così rischia di perderti.» Le sue labbra erano a pochi centimetri dal lobo appesantito dall’orecchino dorato. Sollevai la testa fissandolo in faccia. «Smettila. Sono stanca, non voglio più ballare.» Non mi permise di allontanarmi. Non avevo intenzione di fare una scenata, ma se avesse continuato a trattenermi, sarei stata costretta ad usare le maniere forti. «Si capisce lontano un miglio che c’è qualcosa che non va tra di voi. Se avesse le palle te lo direbbe. Ma sappiamo tutti e due come è fatto, e a te non piace essere controllata.» Non mi si era mai rivolto in quel modo. Generalmente, il suo flirtare era innocuo. Il vino lo aveva reso ardito. «Farò finta di non aver sentito. Ti giochi la carta dell’ubriacone. Ora lasciami. Parlo sul serio.» Rise, seguitando a tenermi stretta. «Posso?» La figura di Davide si frappose tra noi. Per poco non mi lanciai su di lui mentre l’altro allentava la presa sorpreso. Mi degnò di un’occhiataccia prima di annuire e, una volta setacciata la sala, lo osservai chiedere ad una ragazza seduta poco distante di seguirlo.
«Mi era parso che le sue…chiacchiere…ti stessero dando noia.» Mi persi negli occhi verdi dell’uomo che mi stava conducendo tra le note, con fare sicuro ed elegante. Era lo stesso sguardo di Adriano. Pensare a lui mi fece venire voglia di sapere dove fosse, ma avevo di fronte suo padre e non era il caso di sottolineare il mio interesse. «Giulio è un po’ irruento. Non ha ancora capito quando un no significa no.» Mi lasciai cullare dalla sicurezza di quell’abbraccio. Solo con poche persone mi sentivo totalmente a mio agio, e lui era una di queste. «È difficile resistere quando si ha di fronte una ragazza come te.» Non prestai ascolto al complimento. «No, a lui piace possedere le cose degli altri. Non è il tipo che se ne sta silenzioso in un angolo senza provarci.» Per un po’ restammo in silenzio. La luce soffusa delle lampade ci illuminava di una sfumatura gradevole. Eravamo tutti più belli lì sopra. La coppia di sposi ci ò vicino. Nicole gioiva stretta al suo massiccio compagno. Adriano cercò di catturare la mia attenzione quando per poco non ci scontrammo. Lo vidi fermarsi, cercare di sciogliersi dall’abbraccio della moglie. Davide mi trascinò lontano. La testa cominciava a girarmi. Gli occhi bruciavano. Lo sguardo adulto cercò il mio. «Quando scorgo la tua angoscia ho la sensazione di avere davanti mio figlio.» Diventai fredda come un ghiacciolo. Inciampai su quei fottuti tacchi, costretta ad appoggiarmi a lui con tutto il peso. Davide lo sapeva. Ero certa che fosse a conoscenza di ciò che era successo tra me e Adriano. Non se ne sarebbe uscito con quella frase altrimenti. La pressione precipitò sotto le scarpe. Avevo il labbro superiore imperlato di sudore. «Scusami. Ho bisogno d’aria.» Lo lasciai senza aggiungere altro. Non mi fermai, né mi guardai intorno, procedendo spedita verso la protezione che prometteva l’oscurità del giardino.
Nicole:
Quella giornata stava procedendo nel modo giusto. Avevo creduto di dover essere più persuasiva con Adriano, ma lui non aveva avuto alcuna esitazione nel pronunciare il fatidico sì. Nonostante la sua espressione non fosse stata quella che tutte le spose si aspettano di vedere sul volto del proprio marito, ero certa che avremmo abbattuto i suoi dubbi. Insieme, saremmo riusciti a sopravvivere e lui, prima o poi, avrebbe guardato a quel giorno come ad una benedizione. L’unico neo della festa era la presenza fin troppo vistosa della compagna di Claudio. Persino pronunciare il suo nome mi metteva in difficoltà. Si era presentata con quel brillante abito di seta dorata che, insieme ai monili preziosi, la facevano assomigliare ad un’antica figura di leggende e miti. Adriano, mi ero accorta, la cercava continuamente. Nel frattempo che facevamo il nostro ingresso trionfale nella sontuosa villa scelta per ospitare la cena, non aveva fatto altro che fissare il punto dove era seduta. A rendere le cose ancora meno semplici era stato scoprire che il tavolo dove era stata sistemata si trovava proprio accanto al nostro. La detestavo, ogni fibra del mio essere voleva distruggere quel bel viso. Avevo dovuto distrarre mio marito di continuo, per evitare che il suo interesse per un’invitata risultasse fuori luogo. Lui era visibilmente scocciato dai miei continui rimproveri. Per un po’ faceva ciò che gli chiedevo, ma non era in grado di distogliere lo sguardo da lei per più di un breve lasso di tempo. «Vuoi fare in modo che io sia presa in giro a causa di un marito troppo attratto da un’altra donna?» Adriano stava mettendo in bocca l’ultima forchettata di quel primo piatto. Le mani corsero al tovagliolo. Si pulì le labbra con gesti lenti e misurati. Anche se i suoi occhi sembravano volermi trafiggere da parte a parte, non potevo non pensare a quanto fosse dannatamente bello. Ed era mio. Tutto mio. Qualunque cosa dicessero gli altri. «Nicole, sono stufo di prendere ordini da te. Vedi di non tirare la corda o questa giornata verrà ricordata per altri motivi.» Ingoiai un lungo sorso di acqua. Non ero una gran bevitrice. Il vino mi faceva
subito effetto, e io non avevo alcuna intenzione di abbassare la guardia. «Te lo chiedo per favore, Adriano. Cerca di goderti il momento. È il giorno del nostro matrimonio…» Pronunciai le ultime lettere con un tono che andava dalla supplica al melodrammatico. Lui non se ne curò. Quasi lo stesse facendo apposta, voltò il viso verso il punto in cui stava quella donna. Fortunatamente, a disturbare il mio maldisposto marito, fu l’organizzatore, invitandoci ad aprire le danze. Mi lasciai condurre al centro della pista e mi strinsi più che potevo, cercando di trasmettergli il calore e la gioia che provavo nel sentirmi sua. Adriano era gelido. Si muoveva a scatti, i i studiati, non c’era nulla di naturale in ciò che faceva. Recitava il suo ruolo perfettamente, ma non permetteva al sentimento di impossessarsi di lui. Ben presto, fummo seguiti dal resto degli invitati in sala. Io dovetti abbandonare le sue braccia per quelle meno allettanti del padre. Davide mi guardava come se in me non riconoscesse la Nicole che era arrivata dall’Australia. L’atteggiamento distante, mentre mi faceva volteggiare, solo qualche frase di cortesia ad evitare che il silenzio si prolungasse a tal punto da diventare imbarazzante. Dopo due giri di Valzer riebbi il mio compagno. Le mani fredde e secche posate svogliatamente sul corpo. Poco lontano da noi Greta e Giulio, il fratello di Claudio, erano così avvinghiati da dare l’impressione di volersi fondere. La cosa si fece interessante quando lei cercò di scansare l’ardito giovanotto. «Che cazzo fa quel cretino?» Adriano era sul punto di mollarmi e correre in soccorso di quella troia. Le mie dita si conficcarono nel bicipite gonfio. Gli occhi verde smeraldo mi avrebbero incenerita se avessero potuto farlo. «Non sono cose che ti riguardano. Greta non è affar tuo.» Fu Davide a salvare la situazione. La cosa mi diede fastidio; non ero contenta che mio suocero fosse tanto attento alle necessità della ragazza. Le cose avrebbero dovuto cambiare. Greta sarebbe dovuta scomparire dalle nostre vite, al più presto. Adriano mi costrinse a rimanere nei pressi della nuova coppia formatasi. Lo odiavo per ciò che stava facendo. Io avrei dovuto essere il centro dei suoi
pensieri, non lei. Vidi la rossa correre via, lasciando solo il padre dello sposo. Adriano si tese. Tentò di liberarsi ma ero attaccata a lui come una fiocina al pesce. Avrebbe dovuto buttarmi a terra se voleva correrle dietro. Non avrebbe osato farlo. Non di fronte a tutta quella gente. «Nicole. Non sono un prigioniero. Lasciami, la mia pazienza sta giungendo al limite.» «Perché Adriano? Perché?» Lacrime di rabbia pungevano sotto le palpebre. Non avrei pianto. Non quel giorno. «E me lo chiedi anche? Hai il coraggio di domandarti per quale motivo non stia facendo i salti di gioia per averti sposata? Spero tu stia scherzando.» Lo sguardo era così freddo. Non c’era un briciolo di amore in quell’uomo. Almeno non per me. «Non ti permetterò di ridicolizzarmi. Che penserà Claudio quando vedrà che entrambi non ci siete? Credi che non sappia tirare le somme?» Forse chiamare in causa l’amico era stata la mossa giusta. Parve calmarsi, ma non aveva più intenzione di starmi vicino. Glielo leggevo in faccia. «Posso avere l’onore di ballare con il mio vecchio amico?» Guardai la donna che ci aveva interrotti. Gli occhi mi si spalancarono dalla sorpresa. Geneve? Come poteva essere lì? Non ero stata io ad invitarla. «Stiamo parlando. Magari più tardi.» Il sorriso che mi sollevò le labbra era talmente tirato da risultare forzato persino a me stessa. «Lo so Nicole. Ce ne siamo accorti in molti. Credo che Adriano abbia bisogno di cambiare partner. Non soffocarlo.» Cercai di rimanergli aggrappata, ma lui non voleva collaborare.
«Dobbiamo finire il discorso.» La voce incrinata dal pianto. «Non ho voglia di parlare. Non so se ne avrò ancora, dopo questa buffonata.» Impresse una leggera forza quando mi staccò da sé. Allungò una mano a prendere quella di Geneve, che aveva l’aria soddisfatta e minacciosa al tempo stesso. Ero sola. In mezzo alla gente che mi ballava intorno fissandomi, domandandosi in silenzio perché la sposa se ne stava lì impalata. Perché il marito l’aveva abbandonata? Perché? Perché? Non lo sapevo. La cosa giusta da fare sarebbe stata sorridere ed avviarmi in maniera elegante al posto, fingendo che non fosse successo nulla. Non ne avevo la forza. Le mani mi tremavano, non riuscivo a coordinare i movimenti. «Ti va di ballare Nicole?» Gli occhi gentili di Claudio erano posati su di me. Annuii, non fidandomi della voce.
Claudio:
Ero felice che fosse arrivato quel giorno. Incontrare vecchi amici, partecipare ad una festa, celebrare l’amore di una coppia…adoravo i matrimoni! Greta era strana. Da un po’ di tempo mi teneva a distanza. Le sue manifestazioni d’affetto erano sempre meno frequenti. Io non domandavo e lei non parlava. Forse aveva solo bisogno di riordinare i pensieri. Quando avevo visto Adriano e Nicole scambiarsi i voti nuziali, avevo immaginato che al loro posto ci fossimo io e lei. Sognavo quel giorno. Era l’unica donna insieme alla quale avevo fantasticato riguardo al futuro. Lo scontro verbale avuto con mia madre non aveva rallegrato il suo umore, già sufficientemente ostile. Avrei voluto che andassero d’accordo, ma ogni pretesto
era buono per litigare. Era inutile sforzarsi affinché trovassero un punto d’incontro. Non c’era nulla che avessero in comune. Mio fratello non aspettava altro che assistere mentre ci tenevamo il muso. Non avrei voluto che si allontanasse insieme a lui. Giulio sapeva essere davvero snervante a volte, ma era pur sempre un membro della mia famiglia. Non me la sentivo di rimproverarlo per averla condotta sulla pista da ballo. Lei aveva accettato senza discutere. Rimasi ad osservarlo provarci con la mia ragazza. Se fossi stato un altro, sarei saltato in piedi e lo avrei preso a pugni. Ma io non ero capace di fare grandi gesti. Greta era una donna adulta e mi aveva detto, senza mezzi termini, di non voler danzare con me. Attesi. Lo stomaco si torceva per il nervoso. Finalmente Davide prese il posto che spettava a me, tra le braccia di Greta. Mi rilassai un poco, vedendo Giulio accompagnarsi ad un’altra. Mio padre mi distrasse con un problema che avevamo in studio. Per un po’ parlammo della cosa. Quando mi voltai per tornare sulla pista, mi accorsi che Greta non c’era. Forse era dovuta andare al bagno. In compenso Adriano e Nicole erano fermi in mezzo agli altri. Lui aveva una faccia talmente scura che sembrava gli fosse morto il gatto. Lei era sul punto di scoppiare a piangere. Una donna bionda si frappose tra i due, pretendendo l’attenzione dello sposo, che lasciò la moglie da sola. Le gambe si mossero senza che dovessi pensare. Non potevo credere che il mio amico avesse fatto una cosa del genere. Nicole era in forte imbarazzo, e nessuno si era degnato di toglierla da quella situazione spiacevole. «Ti va di ballare?» Mi ero piegato su di lei. Annuì. Gli occhi grandi e lucidi. Ci muovemmo in silenzio. Al posto della donna minuta che conoscevo, appoggiata a me c’era una lastra di marmo. «Non dovresti essere più allegra? In fondo oggi è un giorno speciale.» Tentai di distrarla dai suoi pensieri. Fallii miseramente, Nicole non faceva altro che guardarsi intorno alla ricerca di Adriano che continuava ad avere stampata in faccia quell’espressione ombrosa. «Già. Me lo ero immaginato diverso il matrimonio. Dov’è Greta?» Non c’era ancora nessuna traccia di lei.
«Non lo so. In bagno o a fumarsi una sigaretta lontana dalla confusione.» Mi fissò per un momento. Le labbra strette in una linea dura. «Forse avrebbe preferito non venire oggi. Non mi sembrava molto contenta.» Perché voleva sapere di Greta? «Lei è così. Si sveglia la mattina con il piede sbagliato e non c’è verso di risollevarle l’umore.» Non mi piaceva il modo in cui Nicole continuava a scrutarmi. «Credo che oggi sia di cattivo umore a causa di un altro motivo.» Alzai gli occhi al cielo. Sapevo perfettamente dove voleva portare la conversazione. «Non è così. Greta è una persona lunatica.» Strinse la bocca tra i denti. «Sei uno sciocco Claudio. È proprio vero che quando uno non vuole vedere, non c’è verso di fargli accorgere di ciò che gli capita intorno.» Nicole stava diventando scortese. «Se la tua intenzione è parlare di questo credo che ti riaccompagnerò al tavolo.» Fu sul punto di aggiungere altro. Quell’atteggiamento mi stava mettendo a disagio. E pensare che ero accorso in suo aiuto per toglierla dall’imbarazzo! Avrei fatto meglio a farmi gli affari miei. «Un giorno mi dirai che avevo ragione Claudio. Ma non voglio essere io a rovinarti la sorpresa.» La sua faccia si era trasformata da dolce e delicata, in spigolosa e cattiva. Le porsi il braccio, riaccompagnandola alla sedia che le spettava. «Congratulazioni ancora. Buon proseguimento.»
Girai i tacchi e mi allontanai di corsa, prima che aggiungesse ulteriori infamie sulla presunta attrazione tra i nostri reciproci compagni. Greta non era ancora rientrata.
Adriano:
Geneve era arrivata al momento giusto. Strinsi le mani intorno alle membra toniche che avrebbero potuto appartenere ad una ragazzina. Era radiosa, le labbra vermiglie sollevate a scoprire la dentatura perfetta. Per proteggermi da quel sorriso, avrei dovuto inforcare gli occhiali da sole. «Non mi pare che tu e la tua sposa andiate molto d’accordo.» Piegò la testa di lato. «No. In effetti, negli ultimi tempi ci siamo allontanati. Ho iniziato ad avere altri…interessi.» La sua risata mi scosse. Tornò a studiarmi, gli occhi lucidi e vibranti di vita. «Sei divertente Adrian. Vuoi mentire a me? Persino un cieco si accorgerebbe di quali siano le tue ioni attuali.» Gli angoli della bocca continuavano ad essere rivolti in alto. «Ah sì? Sono così semplice da decifrare? E quali sarebbero, se posso chiedere?» Non avere accanto Nicole mi aiutò a rilassarmi. Geneve era un balsamo per i nervi. «Ti dice niente una ragazza vestita d’oro? Capelli rossi? Occhi chiari come il cielo d’inverno? Un’ottima scelta, devo ammetterlo, ma dovresti essere più discreto, almeno quando sei in presenza di altri. Qualcuno potrebbe farsi delle domande sul perché la osservi come farebbe un rapace con la sua preda.» Greta non era ancora tornata. Dove cazzo era finita?
«Sì. È una ragazza incantevole.» Evitai di aggiungere altro, facendo finta di non aver afferrato il senso delle ultime parole. Geneve aveva capito tutto comunque. Non mi ero accorto che il mio atteggiamento fosse tanto chiaro. «Incantevole. Sì. Ma credo ci sia dell’altro. Se fosse stato soltanto un bel faccino non avrebbe suscitato una tale reazione in te. Non ricordo di averti mai visto comportarti così. Da quanto tempo la conosci?» Non avrei dovuto accennare a lei. Non con Geneve, che leggeva senza sforzo nella mia anima. Eppure, non potei evitare che le frasi prendessero forma uscendo come un fiume dalla bocca. Parlare di quella donna mi fece tornare indietro, ai pochi attimi ati insieme. Che cosa mi aveva fatto? Io non ero il tipo che sbavava dietro ad una bella fica. «Ha un forte ascendente su di te Adrian. Non ti spaventa questo? La conosci da così poco tempo, e già saresti disposto a mollare tutto per seguirla. E se non fosse quella che credi? Mi piacerebbe conoscerla.» L’immagine di Geneve e Greta che conversavano amichevolmente di fronte ad una tazza di tè mi fece venire la pelle d’oca, mentre una risata spontanea mi scuoteva il petto. Forse era la prima, vera manifestazione di allegria della giornata. «Non vuoi tornare da tua moglie? È sola al tavolo. Ci sta fissando da parecchio. Ha l’aria di un uccellino predatore. Mette un po’ di paura.» Non le diedi ascolto, insistendo a farla ballare seguendo la musica. La canzone cambiò, ma noi non ce ne accorgemmo. Geneve era così frizzante! La conoscevo da diversi anni. Viveva in Australia. Era una donna dalle tante sfaccettature. Avevamo avuto una relazione quando ero più giovane. Lei non aveva mai cercato di modificare quello che ero. Accettandomi senza riserve, rimanendo al mio fianco, nel bene e nel male. «Adrian…» Le sue dita mi accarezzarono la guancia scavata. Cercai di atteggiare il volto ad un’espressione felice. Fu uno sforzo inutile. Sospirai.
«Non avrei mai creduto che Nicole potesse ridurti in questo stato. Perché ti sei piegato ai suoi bisogni? Non eri il tipo da sottostare ivamente al volere degli altri. Sei un guerriero. Avresti dovuto combattere.» Già. Avrei dovuto, ma non potevo. Come si diceva a Roma: “Mia moglie mi teneva per le palle”. «Nicole non vuole lasciarmi andare. Ha dichiarato apertamente che se non l’avessi sposata, mi avrebbe fatto rimpiangere la mia decisione. Ci sono scheletri nel mio armadio che non vorrei diventassero di dominio pubblico. Non so come la prenderebbero i miei genitori, e non voglio vedere sulle facce dei miei amici occhiate disgustate. Non credo sarò mai pronto per questo.» Geneve soffiò come un gatto. Gli occhi, il cui colore variava dal marrone al verde, si fissarono sulla sposa. Non avrei desiderato che qualcuno mi guardasse in quel modo; le stava chiaramente rammentando di cosa una donna può essere capace quando veniva portata oltre il limite. Nicole non si mosse, il bicchiere d’acqua semivuoto stretto nella mano. Era rossa di imbarazzo. Per un momento, provò ad incatenare il suo sguardo al mio. Mi voltai dall’altra parte. Di Greta nemmeno l’ombra. Ma dove si era andata a nascondere? «Adriano. Sono davvero dispiaciuta per questa situazione. Se ti rivolgessi ai miei legali saprebbero toglierti d’impaccio, lo sai.» Avevo gli arti irrigiditi intanto che muoveva i piedi a seguire i miei. La pista si era svuotata. Eravamo rimasti in pochi a danzare al ritmo lento del brano jazz. «Saprebbero farle tenere la bocca chiusa? Come Geneve? Tagliandole la lingua?» Una risata amara. Tutti i presenti dovevano avermi sentito. «Non posso permettere che tu venga ricattato in questo modo. Non voglio saperti infelice per il resto della vita.» Il giardino buio era un richiamo irresistibile. «Non preoccuparti. In qualche modo me la caverò. Al momento ho accettato la cosa. Può darsi che tra un paio d’anni la situazione cambierà. Nicole si stancherà di me, o io tornerò in Australia. Chi può mai saperlo?»
Le sfiorai il volto gentile. Aveva la fronte aggrottata in quell’espressione preoccupata che poco si addiceva al suo viso perennemente allegro. Mi avvicinò in un lungo e prezioso abbraccio. Ci eravamo fermati; annusai l’odore familiare dei capelli. «Per qualsiasi cosa Adrian. Qualsiasi. Chiama. Potrei offendermi sul serio se tu non lo fi.» Il suo sguardo si concentrò sul mio viso, come a voler imprimere nella mente ogni particolare della mia immagine. Ci allontanammo dal centro del palco. Il compagno di Geneve era pronto a riprenderla in consegna. Stavo per tornare a sedermi. Nicole era lì, in attesa. Il profumo del giardino mi invase le narici. L’aria fresca soffiava leggera. Non mi curai di avvertire nessuno. Quattro i e scomparii nel buio.
Il silenzio era totale, l’unico suono percepibile erano i miei piedi che calpestavano l’erba appena tagliata. Non sapevo dove stavo andando. Una volta allontanatomi dal luogo del ricevimento l’aria era diventata respirabile. Mi guardai intorno. Piante a destra, a sinistra, una piccola costruzione di legno che poteva essere un capanno per gli attrezzi. Continuai. Una siepe lunga e ben curata si perdeva a vista d’occhio. Il profumo delle specie vegetali, in quel punto, era così intenso da solleticarmi l’olfatto. Non c’erano luci, le costellazioni brillavano in scie luminose. Era una serata limpida. Per un po’ rimasi a fissare il cielo, nella speranza di scorgere una stella cadente. Avevo un desiderio da esprimere. Chissà se si sarebbe avverato. Le mani in tasca, i sensi pronti a cogliere qualsiasi rumore. Un palco rotondo, protetto da una struttura a colonne, stava di fronte a me. Mi voltai ad osservare il percorso che avevo compiuto. I rumori del banchetto erano distanti. Dovevo aver camminato parecchio. C’era una panchina in ferro lavorato sotto il gazebo. Una nuvoletta di fumo si alzò oltre lo schienale. All’inizio non me ne ero accorto, ma all’estremità sinistra della seduta, spuntavano due piedi nudi, le punte all’insù. Le calzature dal tacco vertiginosamente alto erano state gettate poco distanti, senza alcuna cura. Mi mossi silenzioso. Non avevo dubbi sulla sua identità. Il fruscio dell’erba che veniva schiacciata sotto le suole delle scarpe la mise in allarme. Si sollevò di botto, la sigaretta a mezz’aria, gli occhi dall’espressione feroce. L’acconciatura elaborata si era quasi del tutto sfatta. Il cerchietto d’oro, di traverso sulla fronte.
Lunghe ciocche le scivolavano sulla schiena. Sorrisi scuotendo il capo nel raggiungerla. Nessuna donna che conoscevo avrebbe permesso al suo aspetto di risultare disordinato in un occasione come quella. A lei non interessava, ma forse, non aveva preso in considerazione l’idea di partecipare agli ultimi festeggiamenti della serata. «Ti sei nascosta per bene! Ti ho trovata per caso.» Cercai di assumere un tono rilassato. Salii i tre gradini che mi portarono a calpestare le travi in legno a ricoprire la superficie rialzata. Le assi scricchiolarono sotto il mio peso. «Siamo sicuri che questo posto sia stabile? Non è che ci crolla addosso?» L’occhiata di Greta era fredda. «Che ci fai qui? La gente si chiederà per quale motivo l’ospite d’onore non è presente. Vattene per favore.» Mi fermai in modo tale da averla di fronte. Era in penombra, ma non avevo bisogno di illuminarla con una torcia per ricordare come fosse fatta. L’atteggiamento ostile mi sfidava a contraddirla. «Non è un tuo problema se la gente si fa domande su di me. Lasciali parlare, altrimenti che matrimonio sarebbe?» Volevo essere simpatico, ma il tentativo fallì miseramente. Feci per sedermi. Prima che potessi appoggiarmi, schizzò in piedi come una lepre. L’abito lungo arrotolato intorno alle gambe. «Per favore Adriano và via.» Iniziò ad esaminare l’ambiente circostante. Le mani che correvano nervose ai capelli. «Voglio solo parlare Greta. Non ho intenzione di farti nulla.» Mi sentivo il cattivo della favola. «Io non voglio parlare con te. Non ho nulla da dirti.»
Finalmente i suoi occhi incontrarono i miei. Era palese che non fosse entusiasta della mia presenza lì. «Nulla Greta? Nemmeno le congratulazioni di rito?» Si accese come una miccia al suono della battuta. «Congratulazioni Adriano Altieri. È stata una cerimonia meravigliosa. La scelta della chiesa, il ristorante, la cena prelibata. Tutto magnifico. L’amore tra voi sembrava esplodere, come foste fuochi d’artificio.» Incrociò le braccia sotto il seno. Mi alzai, in modo che fossimo alla stessa altezza. O quasi. Fu costretta a sollevare la testa per fissarmi in faccia. «Sapevo che ti sarebbe piaciuto Greta. Ho visto il modo in cui sei intervenuta. Era impossibile non notare il tuo entusiasmo.» Quell’aria di sfida mi faceva venir voglia di prenderla a schiaffi. Avevo i muscoli che tremavano per il desiderio di toccarla. «Non prendermi in giro Adriano. Avrei volentieri fatto a meno di venire. Ma Claudio ha insistito così tanto che non ho potuto rifiutarmi. Non mi piace partecipare alle farse.» Non c’era traccia della Greta che avevo conosciuto a Firenze. «Non puoi giudicare se non conosci i fatti. Nicole sa quello che è successo. Ha voluto sposarmi lo stesso.» Gli occhi le si spalancarono dalla sorpresa. Credeva che Nicole fosse all’oscuro della nostra notte di ione? Si sbagliava. «Ogni donna è disposta ad accettare qualcosa del proprio uomo. Io non ti avrei permesso di avvicinarti se avessi scoperto che mi avevi tradita prima delle nozze.» Risi. Quella conversazione stava toccando tasti dolenti. «Credi che Claudio la penserebbe allo stesso modo? Perché non glielo hai detto, vero Greta?»
Si voltò alla ricerca disperata delle scarpe. Le afferrai un braccio, prima che avesse la possibilità di fuggire via. «Scusami. Non volevo. Sono stanco e sei l’unico bersaglio sul quale possa scaricarmi.» Il fiato le usciva accelerato dalla bella bocca ancora rossa. La curva del seno che premeva contro la stoffa. La pelle morbida che riluceva al chiarore della luna. Il pollice si mosse su e giù ad accarezzarla. Fece forza, tirandosi indietro. «Che stai facendo?» Se ci fosse stata più luce, avrei visto che le sue guance diventare paonazze. «Volevo accertarmi che il ricordo che avevo della tua pelle non fosse solo frutto della mia immaginazione.» Rimanemmo a guardarci. Un solo o a separarci. «È stato un errore Adriano. Un momento di confusione per entrambi. Tu hai sposato Nicole. Io sto con Claudio, detesto mentirgli, non riesco più ad essere me stessa. Ogni volta che sono con lui mi sento un verme. Lo amo, ma non riesco a dimostrarglielo. Devi starmi lontano. Non voglio più vederti.» Si piegò ad afferrare le scarpe. Continuai ad osservarla provare ad infilare i sandali eccessivamente alti. «Queste parole sanno di menzogna. Se fossi stata innamorata di Claudio, non lo avresti tradito. Quella sera, quando ti chiesi se volevi che restassi, avresti dovuto dire no, invece che sì. Ripetutamente aggiungerei.» La sua mano aperta mi colpì senza che lo avessi previsto. Non c’era modo di terminare una conversazione con lei senza che partissero schiaffi o offese. «Come ti permetti? Il bue che dice cornuto all’asino. Ti hanno sentito tutti pronunciare quel cazzo di sì. Vuoi forse dire che hai sposato una donna che non ami?» Non risposi. La sua espressione divenne ancora più dura.
«Se è così mi fai schifo Adriano. Il sentimento dovrebbe essere la base sulla quale si fonda il matrimonio. Se non c’è quello, spiegami il senso di legarsi a qualcuno per tutta la vita! Non sei triste al pensiero di dover condividere la vecchiaia con una donna per la quale non provi affetto?» Mi avvicinai, in modo che i nostri respiri si confondessero. «Tu non sai un cazzo Greta. Non permetterti di giudicare le mie scelte se non vuoi che faccia lo stesso con le tue. Non sei la persona dalla quale accettare consigli simili.» Mi colpì di nuovo. Più forte. Soffiai dal naso per cercare di alleviare l’ondata di rabbia che salì in superficie. Di certo non ero lì per farmi malmenare. Le afferrai i polsi, spingendola contro la colonna abbastanza ampia da nasconderci entrambi. Mi appoggiai a lei. I nasi tanto vicini da sfiorarsi. Il petto di Greta si alzava e abbassava a ripetizione. I seni tondi, schiacciati contro la camicia di cotone. Nonostante in quel momento volessi restituirle i colpi, il mio corpo reagì in tutt’altra maniera. La pressione al basso ventre divenne pulsante. «Lasciami subito o mi metto a urlare.» Continuai a fissarla senza rispondere. In quel momento, sarei stato capace di dire solo cattiverie. Non potevo rendere la situazione ancora più disastrosa. Non volevo darle un pretesto per odiarmi. «Falla finita Greta. Non voglio farti nulla. Non ti ho seguita, se è ciò che pensi. Sono capitato qui per caso. Credevo potessimo parlare.» Avevo la voce stanca. Se ne accorse, smise di fare forza per liberarsi. La sentii che si rilassava anche se il nervosismo le restava incollato come una fitta nube. Fissava a terra. Poggiai la fronte sulla sua. Era fresca, rotonda. «Non sei felice Adriano? Non hai l’aria di un marito contento.» Le parole, appena un sussurro. La strinsi a me. Si lasciò abbracciare. La discussione di poco prima era solo un ricordo. «No Greta. Non sono felice. Non lo sarò mai.» Il suo calore mi penetrò sotto gli abiti. Ne fui riscaldato. Gonfiai i muscoli
schiacciandola con la mia forza, avrei tanto voluto che potessimo fonderci in uno soltanto. Le labbra sfiorarono quei capelli corposi. Annusai il suo profumo: Greta aveva un odore unico. Inconfondibile e irripetibile. Non ero convinto di poterlo dimenticare. «Perché l’hai sposata allora?» Aveva il viso premuto sul mio petto. Immaginavo che riuscisse a sentire il cuore battere violento. Non risposi. Cosa avrei potuto dirle? Non mi venne in mente nulla. Sospirai, godendomi la vicinanza di quella donna. «Perché fai delle scelte? Perché è la cosa giusta. Perché lo hai promesso. Perché… Ci sono tante giustificazioni che uno potrebbe dare ai propri comportamenti, ma alla fine, contano i fatti, non trovi?» Le sollevai il mento con le dita, in modo tale che potessi osservarla dritta in faccia. L’ostilità era scomparsa. Comprensione forse, ma non accusa, non più. «Avrei preferito che non fossi venuta oggi. Avrei voluto che ti risparmiassi una circostanza tanto imbarazzante. Mi dispiace.» Sbatté le palpebre. Un’ombra di sorriso ad addolcirla. «Non è andata peggio di quanto mi aspettassi. Ma non avrei voluto essere qui nemmeno io.» Provò a distogliere lo sguardo. Glielo impedii, stringendola un po’ di più. Aveva la pelle del viso calda, le labbra dischiuse. La brezza notturna ci fece tremare entrambi. «Io…davvero non voglio più vederti Adriano. Non riesco a dimenticare cosa è successo, non so nemmeno se dimenticare è ciò che voglio ma…non posso continuare così, non voglio fare questo a Claudio. Non voglio fare questo a me.» La fiera espressione di Greta era meno sicura mentre pronunciava quella frase. Non potevo biasimarla, anche per me era la cosa giusta da fare. Ma il pensiero di non poterla incontrare in futuro, mi fece torcere le budella. Aprii la bocca. Ero sul punto di iniziare un discorso studiato a convincerla a desistere da tale proposito. Poi, il linguaggio del suo corpo mi obbligò a cambiare idea. La lasciai andare. Si morse il labbro inferiore. Lo faceva di rado, nei momenti di massima
agitazione. «Sì. Credo sia meglio così. Allora questo è un addio?» La voce roca, incerta. Il saluto definitivo che ci stavamo scambiando era una pugnalata nello stomaco. «Sì. Penso di sì.» Si voltò incapace di subire oltre le mie attenzioni. Le mani che massaggiavano le spalle in un gesto ripetuto. Avrei preferito girare ed andarmene. Già era penoso così. Ma non potevo lasciarla senza assaggiare un’ultima volta il suo sapore. Mi avvicina studiandola a lungo con un’intensità dolorosa. Non volevo dimenticarla. Era impossibile dimenticarla. Le dita si chio intorno al viso delicato. Lei non disse nulla. Alzò lo sguardo. A causa del buio non capii se avesse gli occhi lucidi perché stava trattenendo le lacrime. Mi fermai a pochi millimetri, assaporando quell’istante. Il respiro tremante, la pelle di seta a contatto con i palmi aperti. Gli occhi spalancati, a fissarmi. Non sarebbe stata in grado di negarmi ciò che volevo. La tensione che avevo accumulato durante la giornata, si sciolse non appena le nostre labbra si incontrarono. Morbide, umide, si appartenevano. Sapeva di vino. La lingua di Greta era incerta mentre la accarezzavo con la mia. La afferrai dietro la nuca per evitare che cambiasse idea e fuggisse. Non sembrava averne l’intenzione. Dopo un momento di esitazione, si aggrappò a me, le unghie appuntite a segnare la carne. Era disperata, come le nostre anime dannate. Mi sciolsi, muscoli, ossa, sangue, mente. Greta era capace di portarmi via, bastava solo che mi toccasse. C’era qualcosa in me che la riconosceva come se fossi stato suo da sempre. La pressione sanguigna cresceva; il corpo non si sarebbe accontentato di un semplice bacio. Mi violentai psicologicamente per evitare di spingermi oltre il limite che stavamo tracciando. Ci separammo. I cuori che pulsavano all’unisono. La testa leggera, i sensi intorpiditi. Greta si coprì le labbra. «Addio Adriano.» Corse via. I tacchi alti ancora in mano, l’abito che le svolazzava dietro, la pelle diafana. Non si girò neppure una volta. Sapevo di averla perduta, ma in fondo, non mi era mai appartenuta.
XVIII
Lei, Greta;
Io e Roma
Ormai era trascorsa una settimana dal matrimonio di Adriano e Nicole. L’ultima volta che li avevo visti, stavano salutando gli invitati per andare all’aeroporto e partire. Non avevo chiesto quale fosse la loro destinazione, a stento ero riuscita a sollevare lo sguardo e osservare la sposa. Lei sapeva, e non aveva tentato di nascondere il disprezzo che provava per me. Salutare Adriano, guardarlo in faccia per l’ultima volta, vedere il suo bel viso, il corpo atletico, ricordare il nostro ultimo bacio, era stata tutta un’altra storia. Avevo provato ad essere indifferente, ma era chiaro a chiunque che fossi in difficoltà. Le mani poggiate appena sopra il petto pronunciato e duro, i muscoli sviluppati. Il profumo della sua pelle, così familiare. La guancia scavata, la puntura della ricrescita della barba sotto l’epidermide. Nicole mi aveva fulminata quando mi ero accostata al marito. Sapevo che se avesse potuto, mi avrebbe afferrata per i capelli per scansarmi da lui. Non poteva. L’unica cosa che era riuscita a fare, era stata quella di minacciarmi con la forza del pensiero. Missione compiuta Australian girl. Non avevo indugiato, i miei occhi si erano offuscati prima di perdersi in quel mare color smeraldo. Claudio non aveva più parlato dell’amico da allora. Il nostro rapporto procedeva senza intoppi. L’unico inconveniente era la mia mancanza di entusiasmo. Non riuscivo ad essere felice insieme a lui. Non più. Non sapevo se quel cambiamento era dovuto all’attrazione che provavo per l’altro. Forse, se non ci fosse stato lui, avrei potuto vivere serenamente con il mio compagno per il resto della nostra vita. Non era andata così. Io e Claudio ci eravamo visti di rado quegli ultimi giorni. Lui, impegnato con il
lavoro da notaio. Io, che mi barcamenavo fra l’orario full time al negozio e l’intenzione di scrivere un altro romanzo. Non risentivo del fatto di non incontrarci. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Non avrebbe dovuto essere così, non per me. Stavo per uscire. Avevo bisogno di eggiare per Roma. Ogni tanto mi riservavo del tempo per trascorrere momenti speciali con la mia meravigliosa città. L’unica ione che non sarebbe mai mutata negli anni. Indossavo shorts di jeans e scarpe da ginnastica. Ero preparata a fare una lunga camminata. Infilai il cappello, legandomi i capelli in una coda da cavallo che incastrai nella fessura del berretto. Afferrato lo zaino, aprii la porta. Il camion di un trasportatore era fermo davanti al cancello di casa. L’uomo in divisa arancione stava per suonare il camlo. Si fermò, non appena mi vide uscire. Fece cenno con la mano di avvicinarmi. Teneva stretto un porta documenti dove era fissato un foglio che recava scritto il luogo di consegna. «È lei la signorina Greta Mantovani?» Annuii con un gesto del capo. Aprii il cancelletto. Il corriere mi mise davanti la penna, indicandomi dove dovevo firmare. «Non ricordo di aver ordinato nulla. Posso chiedere cosa deve consegnare?» Lui sorrise, avviandosi verso il retro del furgone. «Non lo so. So soltanto che è un pacco parecchio grosso. Qualcuno deve voler far colpo su di lei.» Cercai il nome del mittente sulla bolla. Non c’era nessun recapito telefonico, e neppure ulteriori informazioni che avrebbero potuto indicarmi chi fosse. L’uomo scese dal camion reggendo tra le braccia un enorme pacco rettangolare. Le dimensioni, la forma, non mi mentirono sul contenuto. Gli corsi incontro per evitare che crollasse a terra portandosi dietro il prezioso oggetto che stringeva fra le braccia. Mio padre stava tagliando le siepi. La maglietta bianca, chiazzata di sudore. Incuriosito, ci venne vicino per aiutare a portare in casa il regalo. «Hai comprato qualcosa di pesante Greta. Che diavolo è?» Arrancò sotto il peso non indifferente.
«Non lo so. Non so chi l’abbia mandato.» Stavo per voltarmi e seguire il mio vecchio quando l’uomo in divisa tornò dal retro dell’automezzo con un ulteriore dono per me. «Un’altra firma prego.» Gli riconsegnai tutti i documenti autografati, prima di rientrare in casa. L’aria era molto più fresca all’interno. C’erano almeno trenta gradi fuori, ed erano soltanto le dieci di mattina. Quella giornata si preannunciava cocente. Mia madre era accorsa dalla cucina. Il grembiule a fiori a proteggere l’abbigliamento comodo che era solita indossare nell’ambiente domestico. A volte rivedevo in lei l’immagine speculare di me stessa. I gesti, la postura. Evitai di fissarla, mentre tamburellava la cucchiarella sulla mano. Guardai per un lungo momento il grosso quadro ancora nascosto che mio padre aveva poggiato addosso al divano. Le dita sfiorarono la robusta cornice che si sentiva attraverso la carta doppia messa a proteggerlo. Non avevo dubbi su cosa fosse, non avevo bisogno di scartarlo per sorprendermi di fronte all’immagine che vi era dipinta sopra. «Non lo apri Gretel? Lo sai che mamma è una personcina curiosa, non farmi impazzire.» Meredith mi girava intorno impaziente. «Te lo ha regalato Claudio?» Sapeva che stavo attraversando un momento di confusione. Lei non voleva assolutamente che ci separassimo. Voleva bene a quel ragazzo, credeva che mi avesse cambiata in meglio. «No mamma. Claudio non c’entra. È da parte di…un amico che non vedrò più.» Il cuore si sciolse disperato mentre pronunciavo quelle ultime parole. Adriano era ancora protagonista di molti dei miei pensieri. Ma come si dice: la lontananza aiuta a dimenticare e, la ferita profonda che aveva inferto all’interno del mio corpo, si stava lentamente rimarginando.
Stracciai la carta con un unico movimento. Uno spicchio di mare si affacciò sulla sala da pranzo. Sergio, una volta che il quadro fu libero, rimase a bocca aperta. Sentii il profumo di salsedine nell’aria, il suono delle onde che si infrangevano sulla risacca, il sole cocente che scaldava la pelle. Il tentacolo di una medusa. Mani che accarezzavano. Chiusi gli occhi, cercando di liberare i pensieri, avevo la sensazione di essere tornata indietro nel tempo con Sperlonga a fare da sfondo. «È meraviglioso Greta. Deve valere molto. Non è un dono che si fa a chiunque.» Papà non aveva aggiunto altro. Mia madre non commentava, continuando a fissare le pennellate sicure che componevano il paesaggio. «Dovremmo fare posto sulla parete d’ingresso. Questo dipinto deve avere lo spazio che merita: è un’opera d’arte.» Si girò intorno in cerca della soluzione perfetta. Ma prima che cominciasse a spostare i quadri appesi al muro, lo fermai. «Non voglio che sia esposto papà.» Si fermò immediatamente. Meredith, ai margini della sala, restava chiusa in un rigido silenzio. Mi diressi verso la scatola più piccola. Non avevo idea di cosa ci fosse dentro. Uno scatolone bianco saltò fuori dalla carta marrone. Era stato avvolto nello scotch da pacchi una decina di volte. Dovetti aiutarmi con le forbici per riuscire a liberarne il contenuto. Il fiato mi si fermò in gola quando scoprii la borsa verde acqua di Louis Vuitton. La fissai. La ammirai. La abbracciai. Sentivo le lacrime pungermi da dietro le ciglia. Cazzo. Corsi di sopra a nascondermi. La mia stanza, il mio rifugio. Il letto soffice attutì la caduta, la Louis Vuitton stretta in maniera spasmodica. Non potevo credere che quel giorno l’avesse comprata per me. Come faceva a sapere che era quella che desideravo? Adriano riempì ogni poro, sommergendomi come un fiume in piena. Aveva appena abbattuto i robusti argini che avevo costruito a proteggermi. Soffocai i singhiozzi sul cuscino. Il verde lucido della borsa illuminava la penombra della stanza.
Ci volle più di mezz’ora prima che fossi pronta a presentarmi in salotto. Speravo
che i miei genitori fossero tornati alle loro faccende. Sarei potuta uscire senza che nessuno si accorgesse che i miei occhi erano gonfi di pianto. Non c’era anima viva ad attendermi al piano inferiore. La motosega rombava producendo un rumore infernale. Smisi di trattenere il fiato accorgendomi che mia madre era in bagno. Gridai un saluto veloce. Lei provò a fermarmi chiamandomi a gran voce. «Aspetta Greta. Dobbiamo parlare.» Aprii il portone blindato, controllando che avessi preso tutto. «Ciao mamma.» Mi chiusi la pesante porta alle spalle. Lo scooter era stato tirato fuori. Mio padre lo aveva preparato affinchè lo potessi prendere. Montai in sella. L’uomo in giardino si accorse di me quando il motociclo iniziò a scoppiettare una volta girata la chiave. Era un 250 di cilindrata. Lo avevo costretto ad insegnarmi a portarlo. Dopo essersi opposto per diverso tempo aveva ceduto. Alla fine, lo usavo più io che lui. Era una comodità non indifferente spostarsi per la città con un mezzo a due ruote; potevi evitare il traffico, trovare facilmente parcheggio. Inoltre, il senso di libertà che avvertivi guidandolo, non aveva prezzo. Lo salutai con un cenno della mano nascondendo la testa sotto il casco. Raggiunsi il centro in una ventina di minuti. L’aria era torrida. Avevo i capelli appiccicati alla fronte quando sfilai l’elmetto stretto. Il rumore delle macchine mi investì. Il Colosseo era dall’altra parte della strada. Chiesi al vigile più vicino se potevo lasciare lo scooter senza che ci fossero problemi. La ragazza vestita di bianco e blu disse che la sosta era autorizzata. La ringraziai. Assicurai la ruota anteriore al blocca disco e mi avviai con o sicuro verso l’entrata dell’imponente monumento. La fila era lunga. Avevano riaperto al pubblico da poco. Fino a qualche mese prima si poteva ammirare il Colosseo solo dall’esterno. Erano anni che non lo visitavo. L’ultima volta c’ero stata con la scuola. Frequentavo la seconda media. Era giunto il momento di riare un po’ di storia. Turisti di varie nazioni attendevano pazienti il loro turno. Afferrai qualche frammento di discorso, ma non mi ci soffermai a lungo, ero piena di pensieri, riuscivo a malapena a ricordare cosa dovessi fare per cena.
Una volta raggiunta la biglietteria aprii il portafoglio semivuoto, il denaro era sufficiente solo per pagare il biglietto d’ingresso. Niente guida per me. Pazienza. Avrei dovuto ricordare i vecchi insegnamenti. L’anfiteatro Flavio era immenso. I miei occhi si persero attraverso i percorsi della gigantesca costruzione. Le rovine erano intatte. Era facile capire cosa e quali spettacoli organizzassero allora. Mi trovai a eggiare trasognata, immaginando di appartenere ad un tempo lontano, facendo finta di essere un’altra donna, evitando di soffermarmi su problemi troppo complicati. Non so per quanto tempo rimasi a gironzolare intorno ai gradoni di pietra. Il ticchettare delle lancette non aveva importanza, non quel giorno. Il telefono squillò. Il nome di Claudio lampeggiava sul display. Il pollice sollevato sul tasto di accettazione della chiamata. «Pronto.» Niente ciao, niente amore, un semplice saluto. Mi pentii della risposta non appena la ebbi pronunciata. «Ciao Greta…dove sei?» L’espressione vocale di lui era guardinga. La freddezza nel mio tono lo aveva sorpreso. Cambiai intonazione, cercando di forzarmi ad apparire meno distante. «Al Colosseo. Avevo voglia di visitarlo.» Che cosa avevo? Ero solo capace di dare risposte secche. «Credevo che saresti ata allo studio. Avevi detto che avresti eggiato in centro in cerca di ispirazione.» Aveva ragione, credo. Non ero certa di cosa avessi affermato poco prima. «Già. Ho cambiato idea. Sono venuta qua senza pensare. Se vuoi prendo lo scooter e arrivo…» Speravo che dicesse di no. Non avevo voglia di are i prossimi minuti a zigzagare nel traffico della città. «No. Non preoccuparti. Ho un appuntamento. Volevo solo sapere se eri nei paraggi. Tanto ci vediamo questa sera.»
Una pausa lunga. Che dovevamo fare quella sera? «Andiamo da Cristoforo. Il ristorante sul lungotevere. I miei ci hanno invitati.» Ah. Aveva ragione. Mi pareva di ricordare che me lo avesse detto. «Sì. Scusa. Ero sovrappensiero. Sai…la vena artistica si sta impossessando della mia mente.» Sorrisi, anche se lui non poteva vedermi. Non potevo continuare a dimenticare quello che diceva, la dovevo smettere di essere tanto superficiale nei suoi confronti. «A che ora vieni? Mamma e papà hanno prenotato per le nove. Credi di farcela ad arrivare per quell’ora?» La nostra era la conversazione che avrebbero potuto avere due estranei. Un senso di disagio mi pervase. «Sì. Non ti preoccupare. Ci vediamo lì davanti.» Il respiro di Claudio era lento. Mi soffiò nell’orecchio attraverso la cornetta. «Se vuoi o a prenderti io, così, semmai, mi fermo da te.» Giocherellai con la fibbia della borsa. Ero seduta su un gigantesco gradone di marmo, le gambe che ciondolavano in basso. «Ho voglia di guidare stasera. Preferisco venire io.» Non aggiunsi che comunque poteva dormire da me. Non ero certa di volerlo davvero. Claudio non insistette, lui era fatto così. Forse, se mi avesse chiesto direttamente cosa avessi, glielo avrei rivelato. Il fatto che lui accettasse ivamente questo mio cambio di atteggiamento, non era di aiuto alla sopravvivenza della nostra relazione. Lo sapevamo entrambi. «Allora ci vediamo più tardi? Ricordi la strada?» Sì. Sapevo dov’era il posto. «A più tardi amore.» Chiuse la telefonata senza attendere la mia risposta.
Rimasi immobile, solo le gambe seguitavano a dondolare. L’attenzione attratta dai turisti che attraversavano il percorso a pochi i da me. Mi sollevai sulle braccia. Restai in sospensione per pochi secondi, poi cominciai a tremare a causa dello sforzo. L’orologio segnava le due di pomeriggio. Sarei dovuta tornare a casa, mangiare, magari scrivere qualcosa e prepararmi per uscire. Scesi dalla lastra che mi era servita da sedia. Sulle cosce nude si erano appiccicati dei sassolini. Li tolsi con le mani. Avevano lasciato dei segni sulla pelle chiara. Allontanai la maglietta dalla schiena sudata. Sentivo le goccioline che mi scendevano lungo la spina dorsale. Cominciai a muovermi, tutt’altro che entusiasta di farlo.
XIX
Lui, Adriano;
In Brasile
Eravamo appena rientrati da un’escursione. Erano ati otto giorni da che avevamo raggiunto la località scelta per la luna di miele. Io non avevo partecipato alla decisione, comunque non ero infastidito per la nazione che aveva selezionato per il viaggio. Non avevo mai visitato il Brasile e, a dirla tutta, offriva parecchie distrazioni. Faceva un caldo pazzesco, l’aria era appiccicosa, il tasso di umidità andava oltre il novanta per cento. Nicole sembrava soffrire eccessivamente a causa del clima tropicale; aveva avuto cali di pressione e momenti di debolezza acuta. Per la maggior parte del tempo se ne era stata in camera, l’aria condizionata accesa, un fazzoletto umido sulla fronte. Aveva cercato di convincere anche me a seguire il suo stesso programma. Mi ero rifiutato di rispondere quando aveva cominciato a lagnarsi; lamentava il fatto che non stavamo mai insieme. Meno tempo trascorrevo vicino a lei, più stavo meglio. Scese dal pullman pallida come un cencio. La sua mano si tese, in cerca della mia. Rimasi fermo, le braccia incrociate. Non avevo alcuna intenzione di aiutarla. Un ragazzo dietro di lei fece le mie veci. La afferrò sotto le ascelle, evitando che precipitasse a terra. I capelli fradici, appiccicati in maniera scomposta intorno al cranio rotondo, le occhiaie profonde. Mi sembrò che fosse dimagrita di un paio di chili. Le gambe magre che spuntavano dai pantaloncini color kaki. Ma non potevo esserne certo, non eravamo stati più insieme dal giorno del matrimonio. Avevo problemi di erezione quando si trattava di fare il mio dovere di marito. Vederla, toccarla, non mi stimolava niente. «Adriano…non mi sento bene. Possiamo andare in camera per favore?»
Un debole sorriso le tirò la pelle intorno agli zigomi. Il ragazzo che la sosteneva mi guardò rimproverandomi. Assunsi un’espressione seccata e tutt’altro che amichevole. Era meglio se si faceva i cazzi suoi, a meno che non avesse voluto scontrarsi fisicamente con me. «Vai da sola Nicole. Io preferisco fare un bagno e riposare sulla spiaggia.» Gli occhi le si riempirono di lacrime nell’osservarmi andare via. Ci fu un attimo in cui fui tentato di dimostrarmi gentile nei suoi confronti. Aveva un’aria così indifesa! Il momento ò immediatamente. Le parole minacciose con le quali mi aveva costretto a prenderla in moglie, mi riempirono la testa. Non la salutai neppure, avviandomi sul sentiero che mi avrebbe condotto al mare. Un leggero venticello soffiava tiepido sulla riva. Mi diressi sicuro all’ombrellone fatto di foglie di palma. L’asciugamano era già sistemato sul lettino di legno. Quasi mi strappai la canottiera di dosso. La temperatura era soffocante. I pantaloncini fecero la fine della maglietta. Rimasi in costume, uno slip verde smeraldo. L’acqua era tiepida. Non dovetti attendere nemmeno un minuto per gettarmi sotto la superficie trasparente. Il mare era calmo. Qualche pesciolino mi venne dietro mentre mi allontanavo dalla riva. Riemersi, le membra si mossero secondo i ritmi dello stile libero. Da quando ero arrivato, ogni giorno, per almeno un paio d’ore, nuotavo. La stanchezza fisica mi aiutava a non pensare. Mi lasciai condurre a largo. L’acqua, a mano a mano che mi allontanavo, diventava più scura a causa della profondità. Feci inversione e nuotai nel senso contrario, in direzione della spiaggia. Ripetei il percorso per almeno sei volte. Quando il fiato mi costrinse a riemergere una bracciata sì e una no, rallentai l’andatura, fino a fermarmi. Rimasi a fissare il villaggio imponente che si scorgeva attraverso il bosco di alberi tropicali che caratterizzavano i giardini curati. Era una struttura a cinque stelle. C’era qualsiasi tipo di comfort. Il servizio era ottimo, la località una delle più belle dell’intero paese. Se il mio umore fosse stato migliore, avrei potuto apprezzare ogni singolo momento di quella vacanza, ma, l’unica cosa che ero capace di fare, era trovare ogni scusa per are meno tempo possibile con mia moglie. Avevo l’impressione di essere in fuga, piuttosto che in ferie. La mattina mi svegliavo all’alba. Non dormivamo nello stesso letto. Fortunatamente, aveva prenotato una suite. Nell’appartamento, che costava millecinquecento euro a notte, erano previste due stanze. Ognuno di noi aveva la
propria privacy, anche se, un paio di volte, aveva cercato di invadere la mia. Il risultato non era stato dei migliori, perché l’avevo spedita dall’altra parte della suite, in lacrime e con il culo ammaccato. La maggior parte della giornata, quando non erano previste gite turistiche, la avo in spiaggia. A volte in acqua, a volte addormentato sul lettino completamente esposto al sole. Nicole, soffrendo in quella maniera, non era in grado di seguirmi. L’unico momento della giornata che trascorrevamo insieme, era quello della cena. Anche se ne avrei volentieri fatto a meno. Lei cercava di conversare come se nulla, tra noi, fosse successo. Dall’altra parte, io, nemmeno la ascoltavo. A volte facevo finta che non mi stesse davanti. Immaginando un altro volto, un’altra voce, altri occhi. Il pensiero di Greta mi svegliava di notte. Il mio corpo la cercava nel sonno. Avevo il membro eretto e i testicoli doloranti, ogni volta che la immaginavo. Avrei potuto soddisfare i miei bisogni con Nicole, ma mi veniva il voltastomaco al solo pensiero. Dovevo trovare un’alternativa. Uscii dall’oceano all’incirca un’ora dopo che ci ero entrato. Notai lo sguardo di apprezzamento delle donne che eggiavano in coppia. I mariti al fianco non parevano accorgersene o forse, come me, a loro non importava di cosa pensassero le proprie compagne. Mi sdraiai al sole. Metà del corpo era a contatto con i finissimi granelli dorati, l’altra parte invece, ancora immersa sotto la superficie di cristallo. Chiusi gli occhi, lasciandomi asciugare dal globo di fuoco che stava giungendo alla fine del proprio percorso. Era l’ora dello stretching. L’istruttrice dalla pelle scura si fermò a pochi i da me. Una breve occhiata con quegli occhi neri come la notte, prima di cominciare ad impartire ordini alle persone che l’avevano seguita. Il fisico, una fascia di muscoli guizzanti, si muoveva al ritmo del Samba che proveniva dallo stereo sotto l’ombrellone del bagnino. Alcuni bagnanti si erano fermati ad osservare i movimenti felini della brasiliana. Il culo sodo e il seno pronunciato, stretto in un bikini giallo fosforescente che metteva ancora più in risalto la figura sinuosa. Non era il mio tipo. Preferivo le donne dall’aspetto nordico. Colori chiari, fisici esili. Eppure, la bellezza animale di quella ragazza, risvegliava anche il mio interesse. Mi appoggiai con i gomiti sul bagnasciuga, contraendo gli addominali sporgenti e mettendomi a sedere per godermi lo spettacolo. Da dove mi trovavo, per la maggior parte del tempo, avevo la visuale sul suo posteriore. Non sapevo se lo fe apposta a mettersi vicino a me. Comunque, ogni volta che mi vedeva, sceglieva di tenere la sua lezione poco
distante. Il tempo trascorse in fretta. A volte, nel frattempo che spiegava un esercizio nuovo, i nostri sguardi si incrociavano. Mi fissava attenta. Era palese che non mi fosse del tutto indifferente. Il suo inglese non era perfetto, ma tutti capirono che per quel giorno, la lezione era terminata. Saltai in piedi in un baleno, non risentendo della posizione seduta che avevo tenuto per diverso tempo. Mi fermai di fronte a lei, prima che potesse allontanarsi. Aveva il corpo lucido di sudore. La pelle non era scura come quella delle donne africane ma possedeva un’affascinante sfumatura cappuccino. Nessuna imperfezione a rovinarne la forma. Sbatté le palpebre. Aveva le ciglia lunghe, nere, come il resto della peluria. I denti bianchi e perfetti si scoprirono quando le labbra piene si arricciarono in un’espressione contenta. Sorrisi a mia volta, avvicinandomi fino a che i nostri volti non furono pericolosamente vicini. Restò imbambolata, in attesa che fi qualcosa. Le donne avevano sempre reagito in quel modo alla mia presenza. Non era una novità per me sentire eccitazione e interesse provenire da quella pantera sudamericana. I nostri occhi erano a brevissima distanza. Vedevo la mia immagine riflessa nelle sue iridi scure. Un forte odore di donna proveniva da lei. Penetrante e muschiato, del tutto differente da quelli ai quali ero abituato. In effetti, pensandoci, non ero mai stato con una donna scura di carnagione. «Bella lezione.» Mi ritirai lentamente. Lei non si mosse, stupita da quel mio unico commento. Sbatté le palpebre, di nuovo, incantata, quasi fossi stato un fachiro di fronte ad un cobra. Salutai con un cenno della mano mentre mi voltavo per tornare all’albergo. Era quasi ora di cena; con un po’ di fortuna, l’avrei incontrata durante la seconda serata. Nicole mi seguiva a o svelto mentre mi avviavo al ristorante che avevo selezionato per quella sera. Mi sarebbe piaciuto uscire e mangiare fuori, ma trascorrere un’intera serata unicamente con la mia novella sposa, non era un’idea che mi faceva fare salti di gioia. Il locale era costruito su una palafitta, ad un centinaio di metri dalla battigia. Era
possibile raggiungerlo grazie ad un corridoio interno che collegava la zona principale dell’albergo con le strutture adibite ai pasti; il villaggio turistico aveva la conformazione di un granchio: le camere nella zona della corazza, i ristoranti all’estremità di ogni chela. Il cameriere in livrea ci accolse all’entrata, esibendosi in un piccolo inchino. Ci fece attraversare il palco di legno che scricchiolava sotto i nostri piedi. Mi accorsi che la maggior parte dei tavoli apparecchiati era occupata da coppie. Le luci delle candele accese illuminavano lo stabile rendendo l’atmosfera piacevolmente intima. Avevo chiesto specificatamente il tavolo più isolato. Come sempre, quando paghi profumatamente il servizio, non hai problemi nell’essere esaudito. Ringraziai il cameriere che si accomiatò con gesti eleganti e studiati. Prima di andarsene ci diede i menu, elencandoci alcune delle prelibatezze della cucina. Sentivo gli occhi di Nicole fissi su di me. Cercavo di far finta che non fosse presente, ma era difficile, soprattutto quando al tavolo, uno di fronte all’altra, c’eravamo solo noi due. «Hai ato un buon pomeriggio Adriano?» Gli occhi molto truccati assomigliavano a quelli delle statue egizie. Chiamai il ragazzo con un cenno della mano. Lui corse da me. Ordinai una bottiglia di vino bianco, un Muller Thurgau di una decina d’anni, si sarebbe abbinato a meraviglia alle pietanze di pesce. Me la portò qualche minuto più tardi. Versai il liquido nel bicchiere a forma di calice. Mescolai un paio di volte prima di portarlo alle labbra e annusarne l’aroma fruttato. Solo dopo essermi scolato l’intero contenuto, fui così gentile da prestarle attenzione. Avrei voluto cancellarle quell’aria disperata dal volto in maniera tutt’altro che delicata. «Quando siamo separati mi sento meglio. Dovresti averlo capito. Il mio pomeriggio è andato benissimo.» Non mi interessava cosa avesse fatto durante il suo tempo libero. Non mi importava sapere se si sentiva bene o male Non mi attirava nulla di lei. Tutto ciò che avevo provato per quella donna era scomparso, sostituito da una collera cieca.
«Io sono stata alla SPA. Mi hanno rimessa a nuovo. Dovresti fare dei massaggi anche tu. Sono bravissime.» Perché provava a fare una conversazione che sottintendesse che fossimo in buoni rapporti? Mi versai un altro bicchiere, prima che il cameriere tornasse a prendere gli ordini. Pensai a descrivere ciò che volevo, mentre Nicole, successivamente, faceva lo stesso. L’idea di fare conversazione era stata accantonata. Mi godetti il silenzio, interrotto dal rumore di piatti che venivano serviti e dal vociferare della gente intorno che faceva da sottofondo alle onde sotto di noi. «Adriano dobbiamo cercare di risolvere i nostri dissapori. Non possiamo andare avanti così. Sono solo pochi giorni che siamo sposati. Come credi che riusciremo a costruire una vita insieme se non vuoi nemmeno guardarmi in faccia?» Mi girai verso di lei. La guancia appoggiata ad una mano. Non riuscivo a ricordare quale caratteristica di Nicole mi avesse colpito quando ci eravamo conosciuti. Era una ragazza normale, l’aria infantile, nonostante cercasse di apparire più grande; il viso magro e appuntito, gli occhi troppo grandi. Avrei potuto averne mille di donne come lei. Cosa avevo visto dietro quel sorriso timido? «È così. Non possiamo andare avanti. Sarebbe meglio se, una volta tornati in Italia, richiedessimo i documenti per annullare il matrimonio.» Boccheggiò, prima di afferrare la bottiglia di vino e versarne un po’ nel suo calice. Avevo notato che da quando eravamo in vacanza, aveva cominciato a bere alcolici. «Non pensarci nemmeno. Non lo dire mai più.» Ingoiò un lungo sorso. L’aspetto dispiaciuto e sofferente abbandonò i tratti sottili. «Voglio essere paziente. Darti del tempo per abituarti all’idea. Fare in modo che le esperienze avute ultimamente vengano dimenticate. Ritrovare il sentimento che ti ha convinto a chiedermi in moglie.» Il bicchiere che stringeva tra le mani si era svuotato. Intanto che mi fissava
attraverso le palpebre socchiuse, il cameriere venne a portarci i nostri piatti. Una gigantesca aragosta mi fu messa davanti. Nonostante il mio appetito fosse diminuito a causa della vicinanza di mia moglie, non potevo resistere al crostaceo, che era uno dei miei preferiti. Lei aveva preso un’insalata di granchio con contorno di gamberi grigliati. Feci un cenno di ringraziamento al ragazzo allungandogli un biglietto da venti dollari. Quello si piegò tre volte grato, prima di voltarsi e continuare a lavorare. Mangiare mi permise di concentrarmi totalmente sul cibo e non ascoltare le inutili chiacchiere della donna che avevo di fronte. Sapevo dove voleva che il discorso andasse a finire. Se non mi fossi comportato come lei si augurava, mi avrebbe rovinato. Quella minaccia stava diventando ridicola, contando che se l’avesse usata, non avrebbe avuto più nulla per tenermi legato a sé. Terminammo la cena avvinti da un silenzio teso. L’aria pesante intorno a noi si tagliava con il coltello. Mi pulii la bocca con il tovagliolo di stoffa. Feci per alzarmi. Non attesi che lei mi seguisse. Mi afferrò con quella mano minuscola. Il mio polso era tre volte il suo; la sua forza non mi avrebbe fermato neppure se avesse fatto palestra per tutti i giorni della settimana. La guardai interrogativo, un sorriso di scherno a rendere la mia espressione ancora meno amichevole. «Non lasciarmi così Adriano. Sono tua moglie, hai dei doveri nei miei confronti. Lo sai che se mi fai arrabbiare potrei diventare pericolosa.» Avevo quasi raggiunto il limite. Se se ne fosse uscita un’altra volta con la storia del ricatto, non sarei stato in grado di prevedere la mia reazione. Mi piegai su di lei. La sua vicinanza acuì il mio disagio. «Falla finita Nicole. Per l’ultima volta, non tormentarmi. Hai avuto ciò che volevi, siamo sposati, fine della storia. Non ti devo nulla, mai più. Se vuoi contribuire alla nostra separazione, fai pure. Sono stanco di sapere che credi di tenermi per le palle. Vuoi rovinarmi?» Aprii le braccia in un gesto di resa. «Accomodati. Tanto, peggio di così non potrebbe andare.» Si morse le labbra. Tremavano leggermente, mentre cercava di trovare un altro modo per costringermi ad ascoltarla. Gli occhi le si inumidirono. Nonostante non
la sopportassi, mi faceva effetto guardare qualcuno che pareva soffrire così tanto. Perché non mi lasciava libero? Ci saremmo risparmiati tutto quel dolore. Mi voltai, salutando gli uomini all’ingresso e avviandomi verso il bar sulla spiaggia.
Ordinai un paio di cocktail. Ne trangugiai il contenuto in sequenza, senza attendere che il primo mi scendesse fin nello stomaco. Avevo voglia di perdere i sensi e dormire sulla sabbia umida. Ne chiesi un terzo, una Capiroska alla fragola. Ero stanco di bere Rum e Coca. Verso le undici e mezza, il bar cominciò a diventare affollato, così come la mia testa che cominciò a girare in maniera incontrollabile. Gli animatori del villaggio avevano terminato di lavorare e si portavano dietro le prede conquistate durante gli ammiccamenti della giornata. Anche alcuni ospiti dell’albergo sembravano gradire il divertimento notturno. Ne riconobbi qualcuno che avevo visto poco prima al ristorante. Mi stiracchiai sullo sgabello girevole sul quale ero seduto da ormai più di un’ora. Mentre compivo un giro completo su me stesso, andai a cozzare contro una donna. Capelli ricci e neri mi coprirono la visuale. Il profumo intenso di Brasile mi inebriò i sensi. Chiesi scusa. Quando si accorse di chi fossi, assunse un’espressione contrariata. Fece cenno di non preoccuparmi, superandomi al fianco di un paio di amiche. Mi infastidì il modo in cui si allontanò. Forse fu l’alcol a farmi agire in quel modo, o forse avevo solo voglia di fare qualcosa che non prevedesse il fuggire da mia moglie. Comunque, abbandonai la mia postazione intenzionato a seguirla. Ordinai per loro prima che riuscissero ad evitare che fossi io ad offrire. La bruna che avevo puntato quel pomeriggio appariva rilassata. Aveva capito che non mi era del tutto indifferente. Le due che la accompagnavo erano carine ma, sinceramente, non avrei saputo dirlo con certezza, ero completamente ubriaco. Era un miracolo che riuscissi a formulare pensieri che avevano un significato logico. Bevvi con loro. Ancora. Non ricordo cosa dissi né ciò che dissero le ragazze. Il tempo ava e io sentivo crescere il bisogno di toccare una donna. Presi la mano dell’insegnante di stretching, la condussi con me sulla pista da ballo. Lei mi seguì, senza obbiettare. Aveva i piedi nudi, una gonna candida che ondeggiava ad ogni o, il seno procace stretto in una canottiera floreale. Cominciammo a muoverci. La musica da discoteca accompagnava i gesti sinuosi. Mi guardava dritta in faccia, le dita che terminavano con unghie lunghe e bianche mi accarezzavano l’addome, il petto, scivolando dentro la camicia che sbottonava, lentamente. Le afferrai i capelli voluminosi, una nuvola corposa di sottili boccoli d’ebano. Le mie labbra scesero fameliche sulle sue. La bocca calda dove la lingua saettava incontrando la mia. L’ebbrezza dovuta
all’ubriacatura mi fece essere più sfrontato di quanto non fossi da lucido. Chiusi le mani a coppa intorno al sedere pronunciato. La avvicinai contro il membro che già risentiva dell’astinenza prolungata. Sfiorò i pantaloncini militari fino a raggiungere l’erezione potente. Non capii cosa disse. Mi fece cenno di andarle dietro e io lo feci. Ci appostammo in un angolino isolato, nascosti dalla verdeggiante natura che cresceva selvaggia. Avevo l’impressione di trovarmi in un Paradiso terrestre. Riuscivo comunque a sentire la gente che si scatenava al ritmo delle note; non dovevamo essere troppo lontani da dove ci eravamo incontrati. Lei mi baciò, indugiando sulla cerniera dei pantaloni ancora alzata. Le pulsazioni dal ritmo martellante erano insopportabili. Non volevo essere rude, ma quel continuo tergiversare non faceva che spazientirmi. La feci stendere su un tronco che aveva una circonferenza enorme. Emise un gemito quando le feci strusciare la schiena contro il legno. Al posto della mutandina indossava la parte di sotto del costume. Lo intuii dalla consistenza del tessuto. Slacciai i lacci laterali, rimase nuda mentre il bikini le cadeva lungo le cosce. Da sotto la gonna potei afferrare liberamente la sua femminilità. Il monte di venere era coperto da una folta peluria ricciuta, niente depilazione integrale. Tentò di allontanarmi allo scopo di prolungare i preliminari. Avvicinai la bocca costringendola ad aprire la sua e cedere ai miei desideri. Gemeva mentre le dita, sicure, stimolavano il punto della sua eccitazione. Era calda, bagnata, morbida. Il mio pisello era diventato impossibile da gestire. Abbassai i pantaloni e lo tirai fuori. Lei sgranò gli occhi quando vide che non era proprio di dimensioni normali. La presi per le ascelle posandola a terra. Rimase stupita, non sapendo cosa volessi fare. Feci in modo che mi voltasse le spalle. Sembrò non essere del tutto entusiasta di quel cambio di posizione. Prima che la tenessi ferma dove la volevo, la vidi abbassarsi ed inginocchiarsi all’altezza dell’inguine. Gli occhi da pantera mi guardavano seri intanto che lo prendeva in bocca. Sospirai nel momento in cui le labbra circondarono il glande. Con il palmo premuto sulla testa nera, provai ad accompagnare il movimento del rapporto orale, ma sentivo che si strozzava, perciò decisi di lasciarla fare fino a che non fui stufo di aspettare. Mi piaceva il sesso di quel genere. Se fatto bene poteva essere una valida alternativa. Ma non avevo intenzione di venirle in bocca. Tirai fuori dalla tasca posteriore un preservativo che avevo preso prima di uscire. La tirai per i capelli e la sollevai. Le piaceva il mio modo di fare rude, poco galante. Mi infilai il palloncino, le alzai la gonna scoprendo le natiche sode e, con un unico affondo, entrai dentro. Gemette quando il pene irruppe prepotente nella sua cavità. Non me ne fregava un cazzo. Cominciai a muovermi ad andatura sostenuta. Provò ad allontanarsi per rallentare gli affondi, cercando di evitare che le fi male perché troppo violento. Le morsi il collo uscendo ed entrando sempre più forte. Sapevo che
non sarebbe venuta in quel modo, perciò cercai di utilizzare le mani per agevolarla. Quando la sua vagina si fu abituata alla mia grandezza, la sentii piagnucolare di piacere. Continuai a toccarla. Io ero prossimo all’orgasmo e non credevo di riuscire a trattenermi ancora per molto. Finalmente venne. I suoi umori avvolsero il membro gonfio, le contrazioni provocate dall’orgasmo mi solleticarono, eccitandomi ulteriormente. Le chiusi la bocca per evitare che qualcuno ci sentisse, le dita umide del suo sapore. Smise di gemere leccando la sua essenza di donna dai polpastrelli che le tenevo sulle labbra. Mi piaceva che una donna amasse il suo sesso in quel modo. Con entrambe le mani le afferrai i fianchi rotondi. Una, due, tre spinte profonde e venni, riempiendo il preservativo. Ci pulimmo entrambi. Aveva lo sguardo timido nonostante avessimo appena scopato. Me l’ero fatta e non provavo nulla, nessun tipo di emozione. Sì, era stato piacevole, ma non mi interessava rivederla, né sapere quale fosse il suo nome. Buttai il residuo del nostro incontro in un secchio poco distante. Lei rimase immobile, la schiena appoggiata al tronco spezzato sul quale avevamo appena fatto sesso. Ero annebbiato a causa dell’alcol. Gli alberi mi giravano intorno anche se non mi stavo muovendo. Alzai la mano, salutandola. Me ne andai svelto, provando a non ondeggiare troppo. I piedi nella sabbia fredda, la luna che si specchiava su quel mare piatto.
XX
Lei, Greta;
Doveva andare così
Le luci di Roma al crepuscolo si riflettevano sulla visiera del casco. Il traffico era meno intenso verso la zona del centro. Diedi gas. Mancavano poco più di dieci minuti all’ora dell’appuntamento. Non volevo essere in ritardo. La mano si mosse sul manubrio, accelerai, serpeggiando tra le macchine. Parcheggiai proprio davanti al ristorante. Claudio e i suoi genitori stavano fuori a chiacchierare. Lo vidi sorridermi quando mi riconobbe, nonostante avessi il volto coperto. Smontai agilmente dal pesante mezzo a due ruote. All’inizio, imparare a stare in equilibrio su quell’affare, non era stato semplice. Dopo un po’ di pratica però, mi muovevo come se guidarlo fosse la cosa più naturale al mondo. «Sera.» Presi posto vicino al mio fidanzato che mi strinse in un abbraccio caloroso. «Mi sei mancata.» Gli risposi che anche lui mi era mancato. Ci baciammo svelti sulle labbra, mentre Silvia e Giacomo ci guardavano. Mi sporsi a salutare entrambi; nessuno di noi pareva entusiasta della presenza dell’altro. Ci ero abituata, la cosa non mi sorprese. Sospirai a pieni polmoni, sapendo che la serata non sarebbe ata tanto in fretta.
Giacomo ci fece strada all’interno del ristorante dall’arredamento chic. Il proprietario, un noto imprenditore della capitale, ci accolse con calore. «Vi ho riservato il tavolo migliore del locale.» Fummo fatti accomodare su una terrazza semicoperta, dove l’aria era meno calda. Non c’era un posto che non fosse occupato, nonostante fossero solo le nove di sera. Alla faccia della crisi! Il tavolo era apparecchiato per nove. «Qualcun altro deve venire?» Claudio annuì. «Mio fratello Riccardo e la moglie sono in ritardo, come sempre. Giulio dovrebbe essere qui a momenti. L’ho chiamato poco fa.» Perfetto. Una vera e propria riunione di famiglia. Mi sedetti al posto che stava a pochi centimetri dalla ringhiera. Il panorama era così suggestivo da lasciarmi estasiata. Roma, vista dall’alto, era uno spettacolo che toglieva il fiato. Chiunque, almeno una volta nella vita, avrebbe dovuto visitarla. Trascorse mezz’ora prima che fossimo tutti presenti. Giulio, quando ci raggiunse, si dedicò a me con la solita esuberanza. Per lui, la conversazione che avevamo avuto al matrimonio, non era mai esistita. Per me, invece, era tutta un’altra storia. Non riuscii ad essere naturale. Difficilmente ero in grado di nascondere il disagio e, non avevo dimenticato ciò che io e il fratello di Claudio ci eravamo detti. Quella sera, comportarmi come al solito, fu impossibile. Il cuoco in persona venne ad illustrarci il menu. Giacomo decise di lasciar fare a lui. Eravamo nelle sue mani. Indossava un camice bianco e cappello alle ventitré, annuì fiero. Non ci avrebbe deluso. La conversazione partì lenta. Ognuno si informava su ciò che avevano fatto gli altri. Io risposi a mezza bocca, quando mi chiesero della mia giornata. «Oggi avevo il giorno libero. Sono stata a eggiare per Roma. Ho visitato il Colosseo, era tempo che non ci andavo. L’interno è di nuovo accessibile al pubblico.»
Come al solito, Claudio e il padre cominciarono a parlare di problemi di lavoro. Odiavo sentirmi tagliata fuori dai discorsi, soprattutto perché di legge non ne capivo un accidenti. Tutti quei termini complessi! Mi ci sarebbe voluto un vocabolario speciale solo per afferrare qualche parte del dialogo. Mi voltai verso la cupola di San Pietro. Era possibile distinguerla facilmente dal punto rialzato in cui ci trovavamo. La luce rossa del tramonto la illuminava per metà. Un clacson suonò poco lontano. Un altro ruggì in risposta. «Hai sentito Greta?» Mi scossi dal mio torpore. Non avevo capito niente di ciò che mi era stato appena detto. «No, scusate, ero sovrappensiero.» Claudio mi fissò. L’aria rassegnata. «Mia madre ti stava chiedendo se avevi avuto notizie dalla casa editrice.» Oddio. Di nuovo? Avrei preferito che non tirassero fuori il ragionamento, ma, a quanto pareva, gli argomenti erano pochi e, per evitare di sprofondare in un silenzio imbarazzante, avevano bisogno di me, da usare come diversivo. «Sì…Andrea mi ha chiamata giusto questa mattina. Mi avrebbe inviato in giornata il manoscritto corretto. L’unica cosa che devo fare è leggerlo ed approvare le modifiche.» Ancora nessuna traccia della cena. Lo stomaco brontolò. Avevo un po’ fame. «Hanno intenzione di modificarlo?» La domanda mi parve innocua. «Non lo so. Mi ha detto di aver pensato a qualcosa per renderlo più interessante. Vedremo.» Le sorrisi attraverso il bicchiere pieno d’acqua che stavo bevendo. Quella sera niente vino. Dovevo guidare. «Hai trovato l’ispirazione per qualcos’altro? Hai intenzione di scrivere sempre lo stesso genere o vuoi cambiare?»
Perché Silvia era così interessata a me quella sera? Annuii, ingoiando. «Forse qualcosa di meno drammatico. Credo che le persone abbiano bisogno di immedesimarsi in un personaggio positivo. E anche io.» Continuammo a parlare per un po’ di ciò che avevo in mente. Gli altri ascoltavano interessati. A volte intervenivano, ma sempre in maniera discreta. Avevo l’impressione di trovarmi di fronte ad un’altra famiglia; quella non era la gente che conoscevo. Nessun commento a doppio senso, nessuna occhiata di scherno. Scossi la testa, godendo di quel breve momento conviviale. Claudio mi versò un altro bicchiere e mi diede un bacio sulla guancia. C’era qualcosa che non sapevo? Perché tutte quelle moine? Generalmente, non era così affettuoso in presenza dei suoi parenti. «Grazie…» Giulio mi guardava dall’altro lato del tavolo, non condividendo l’entusiasmo di tutti gli altri. Dell’antipasto, ancora nessuna traccia. Presi la borsa, tirai fuori un pacchetto di sigarette. «Scusate, vado a fumare.» Cercò di trattenermi. «Sta per essere servita la cena…non puoi aspettare?» Avrei voluto dirgli di sì, ma tutto quell’interesse riservato alla mia persona mi stava mettendo in difficoltà. «Ne fumo metà e torno.» Gli scostai la mano. Giulio si alzò dietro di me. «Vengo anch’io. Sono stanco di aspettare. Il servizio di questo posto peggiora ogni volta di più.» Ci avviammo insieme verso le scale che ci avrebbero portato al piano inferiore. Mi camminava dietro, sentivo i suoi occhi fissi sulla schiena.
Accesi la sigaretta. Lui fece lo stesso. C’era odore di olio bruciato. Una macchina poco distante emetteva una nuvola nera dal tubo di scappamento. La brace divenne incandescente quando tirai un’altra boccata. «Sono strani non trovi?» Mi girai verso Giulio. Lui mi fissava con quegli occhi grandi e scuri. «Sì. In effetti lo sono.» Non ero molto in vena di parlare con lui. «Sei ancora arrabbiata con me per la storia del matrimonio?» Il fumo mi riempì i polmoni, aiutandomi a rilassare le membra. Annuii. «Ero strafatto di alcol. Lo sai che non ci proverei mai in quel modo. Almeno non di fronte a tutti.» Mi fece l’occhiolino, insieme a quel sorriso sghembo che mi faceva tanto ridere. Non riuscii a trattenermi dall’assumere un’espressione divertita. Gli allungai uno schiaffo. «Smettila o non riuscirò ad essere arrabbiata con te.» Mi strinse tra le braccia. Ognuno teneva sollevato il braccio che usava per fumare, evitando che ci bruciassimo a vicenda. «Non sopporto che tu mi tenga il muso. Scusami, Greta.» Mi divincolai dalla sua stretta. Mi lasciò andare senza farmi faticare troppo. «Sai perché si comportano tutti in maniera così strana?» Alzò le spalle, ma l’espressione che aveva in faccia non mi convinse del tutto. «Chiedi e ti sarà dato. Cosa vuoi sapere?» Guardai verso l’alto. Se gli altri si fossero affacciati oltre la ringhiera che delimitava la terrazza, ci avrebbero visti.
«Dai Giulio. Mi ero preparata a tirare fuori gli artigli come tutte le altre volte. Cosa c’è che non va?» La curiosità mi stava facendo fremere. «Mia madre ha avuto un’anticipazione su ciò che hai scritto. Claudio glielo ha fatto vedere. Credo ne sia rimasta colpita, nientemeno. E brava Greta. Chi avrebbe mai detto che saresti potuta entrare nelle grazie di Silvia?» Era tutto lì? Quella donna aveva dato una lettura veloce ai primi capitoli e aveva improvvisamente cambiato idea su di me? «Che altro c’è?» Lo sguardo appannato dal divertimento intanto che faceva cenno di no col capo. «Sei terribile. Perché non torturi Claudio affinchè sia lui a vuotare il sacco?» Lo presi per la manica della maglietta tirandolo forte. «Giulio…» Aspirò un’altra boccata. «Mio fratello vuole farti la proposta questa sera.» Il cuore mancò un battito. La mente annebbiata, incapace di afferrare il senso reale di quell’ultima frase. La sigaretta si stava velocemente consumando. «Cosa?» Strabuzzai gli occhi e lui rise di nuovo. «Se ti vedesse adesso, non sarebbe più tanto convinto di esporsi in questo modo.» Mi voltai, fissando intorno spaesata. Non mi sarei aspettata una notizia simile. Le tempie pulsavano violente. Mi morsi le labbra fino a ferirmi. Il sapore del sangue mi riempì la bocca. «Non…non credo sia questo il momento adatto.»
Le labbra di lui non puntavano più verso l’alto. «Greta…non vuoi più sposarlo?» Non sapevo cosa rispondere. Mi strinsi nelle braccia. Il ricordo di ciò che avevo fatto mi investì come un fiume in piena. Le basi del mio rapporto, che credevo più che solide, si erano sgretolate nel giro di pochi giorni. «Non lo so Giulio. Non sono più sicura di niente.» Mi si avvicinò, le dita protratte a cercare il contatto. Non volevo che mi sfiorasse. «Dovresti parlarne con lui allora. Claudio è convinto che tu ne sarai entusiasta.» Non potevo credere che non si fosse accorto che in quell’ultimo periodo ero stata fredda e scostante. «Si rientriamo. È meglio.» La mia immagine sconvolta si specchiava in quegli occhi neri e profondi. Annuì. La cena non era ancora stata servita. Avvicinandomi a loro sentivo un macigno pesarmi addosso. Il battito cardiaco continuava ad accelerare a causa della preoccupazione. Mi piegai su Claudio, di modo che nessuno, oltre noi due, sentisse cosa avevo da dirgli. «Devo parlarti di una cosa. Ti spiace se scendiamo un momento?» Un’ombra gli calò addosso. Proprio in quel momento, il cameriere portò i primi antipasti. Merda. «Dopo cena. Ora siediti Greta.» Feci come mi disse, nonostante la tensione mi avesse fatto are l’appetito. Non riuscii a gustare nulla di quel ricco e ricercato banchetto. Claudio parve non accorgersene. Negli ultimi tempi, era come se non volesse vedere ciò che era fin troppo ovvio. Il fatto che avessi cominciato ad essere indifferente a tutto avrebbe dovuto essere un camlo d’allarme.
I minuti trascorrevano lenti. I piatti ci venivano serviti con calma. Io mi sentivo come un bambino costretto a rimanere seduto e invece non vedeva l’ora di alzarsi. Mi muovevo in continuazione sulla sedia cercando la comprensione del mio compagno, ma trovando solo le occhiate del fratello che condivideva la mia apprensione. Il dolce. Oddio, il dolce. Avevo l’impressione che il cuore stesse per schizzarmi fuori. L’attenzione dei presenti era rivolta a noi due. Un piatto largo, coperto con una cupola d’acciaio, mi venne posato davanti. Avrei voluto sbattermi la mano contro la fronte. Era così scontato! Chissà quale sorpresa avrei trovato al posto del dolce che avrebbe dovuto riempirmi lo stomaco? Claudio mi strinse la mano, il sudore mi imperlava la fronte. Non sapevo cosa fare. «Ti prego…ho bisogno di parlarti. Adesso. Subito.» La voce stridula, la gola strozzata. Qual era il modo giusto di comportarsi in occasioni del genere? Come avrei fatto a non essere associata alla strega cattiva? «Qualcosa non va?» Silvia ruppe il silenzio. Quello sguardo indagatore, che conoscevo così bene, riemerse dietro l’espressione cordiale. Doveva aver immaginato che quella messinscena non sarebbe stata di mio gradimento. Cazzo. Forse era stata proprio lei a convincerlo che quello era il comportamento corretto per chiedere in moglie una donna. «Un momento Greta. Poi potrai dire tutto ciò che vorrai. Solleva il coperchio.» La testa leggera. Nonostante avessi la pancia piena ero certa che stessi per svenire. Anche se avessi voluto prendere il pomello che mi avrebbe permesso di sollevare la cupola gigantesca, non avrei potuto. Avevo le braccia molli, incapace di muovermi. «Claudio. Non ora. Non così.» Il silenzio era pesante. Non c’era più, intorno a noi, quell’atmosfera rilassata e amichevole. L’occhiata gelida e soddisfatta di Silvia, lo sgomento del padre, l’imbarazzo del fratello e della moglie, la comprensione di Giulio. «Greta…solleva il coperchio. Guarda cosa c’è sotto.»
L’incertezza e la disperazione ne incrinarono l’intonazione. I miei occhi saettarono da una parte all’altra per poi, alla fine, posarsi su di lui. Volevo dire qualcosa, qualunque cosa per cancellare dalla sua faccia quell’aria smarrita. Non avrei mai voluto ferirlo. Non in quel modo. Non davanti alla sua famiglia. La mano tremò mentre afferravo il manico. Una scatoletta nera sbucò da sotto, al centro del grande piatto ovale. Lui la prese, aprendola. Un anello di oro bianco faceva la sua figura, adagiato comodamente su un cuscinetto di velluto rosso. La montatura era classica. Un diamante di almeno un carato brillava tra le mille sfaccettature del taglio. Claudio si allontanò dalla sedia, continuando a tenermi le dita. Si inginocchiò ai miei piedi. Fu in quel momento che credetti di morire. L’aria non arrivava ai polmoni, stavo iperventilando! L’espressione sincera e piena d’amore. Come potevo dirgli qualcosa che avrebbe potuto cancellargli il buonumore dal viso? Come avevo potuto essere tanto cattiva da tradire le promesse che ci eravamo scambiati? «Gretel Mantovani vuoi sposarmi?» Il tempo si fermò, congelandosi in quell’istante. Trattenni il fiato, mentre pronunciava le parole tanto attese. Quattro mesi prima, se mi fossi trovata nella medesima situazione, gli sarei saltata al collo baciandolo entusiasta. Non ci sarebbe stata incertezza nel rispondere, né esitazione nello scegliere il mio destino. Ma in quel momento, in quel Luglio caldo, con i suoi genitori che ci guardavano, la sua domanda si perse tra i suoni della notte romana. Ingoiai il groppo che mi chiudeva il collo. Gli occhi amorevoli mi fissavano, attendendo che dicessi di sì. Avrei voluto alzarmi e correre via, ma sarebbe stata una mossa da codardi, e Claudio non meritava un trattamento simile. «Sei sorpresa Greta? Non sai cosa replicare?» Silvia si intromise. Mi voltai verso di lei, il suo volto trasformato nella consueta maschera di disprezzo. Ritornai con l’attenzione su Claudio, ancora inginocchiato ad aspettare. «Greta…le ginocchia mi stanno cominciando a fare male, mi sento ridicolo… potresti degnarti di rispondere?» Immaginai che stesse realizzando che la nostra non sarebbe stata una favola a
lieto fine. «Dobbiamo parlare. Ho cercato di dirtelo, ma, come al solito, hai deciso di non ascoltarmi.» Non volevo dare l’impressione di essere seccata. Sembrò dispiaciuto dalla velata accusa che gli lanciai. Si alzò, liberando la mano dalla mia e spolverandosi i pantaloni in un gesto di stizza. «Io lo sapevo che lei non era la ragazza adatta a te, Claudio. Te l’ho sempre detto. O sbaglio?» Silvia aveva la voce alta e arrabbiata. «Adesso che ha raggiunto l’indipendenza economica, i nostri soldi non le servono. Non ha più bisogno di te.» Tutti ci voltammo verso di lei. Avrei voluto difendermi, ma qualunque cosa avessi detto sarebbe stata quella sbagliata. Rimasi zitta sotto il fiume di accuse che mi lanciò contro. «Ho fiuto per queste cose. Greta mi ha sempre tenuta alla larga perché sapeva che avrei smascherato la sua messinscena. Ti ha usato. Sono felice che abbiamo trovato il modo di liberarci di lei, non avrebbe fatto altro se non renderti infelice.» Claudio rimase in silenzio mentre le offese continuavano a saltare fuori da quella bocca velenosa. Mi alzai. Non ero disposta a tollerare altro. Avrei tanto voluto urlarle contro che non era così, che non ero il genere di persona che aveva appena descritto, ma non sarebbe servito a nulla, non avrebbe cambiato opinione sulla ragazza dai capelli di fuoco che credeva fosse una cercatrice di dote. «Brava. Scappa. E guai a te se ti fai rivedere nei dintorni di casa mia.» La voce di Silvia era sempre più alta. Mi girai per allontanarmi. Mi morsi la lingua trattenendomi dall’offenderla nello stesso modo in cui lei stava facendo con me. La cosa non importava più. Non avrei più visto quelle persone, pensassero pure ciò che volevano. Feci i gradini a due a due nella fretta di andarmene. Il casco era all’entrata del ristorante. Non mi accorsi nemmeno che c’era qualcuno ad aprire la porta per
aiutarmi ad uscire. Cercai le chiavi dello scooter per un paio di minuti. Dalla mia bocca vennero fuori parole che mi vergogno a ripetere. Finalmente riconobbi il portachiavi con il pendente a forma di Jack Skeleton, il protagonista del film Nigthmare before Christmas. Mi misi in sella alla moto, piegai il cavalletto all’indietro. Stavo per accendere il motore quando Claudio mi si parò davanti. Il fiato corto. Doveva aver corso anche lui nel seguirmi. «Greta…aspetta…non puoi andartene così.» Mi impediva di muovermi perché le sue mani erano chiuse sui freni. «Lo so che la proposta ti ha colta di sorpresa, ma l’avevamo progettato, ricordi? Perché non hai risposto semplicemente di sì?» Aveva gli occhi umidi. Non volevo vederlo piangere. Feci un respiro profondo, sperando di riuscire a dire qualcosa. «Lo so che ne avevamo parlato, ma ultimamente abbiamo avuto dei problemi. Non te ne sei accorto?» Disse di no. «Tu eri strana. Io sono sempre stato lo stesso.» Allora aveva capito che qualcosa non andava. «Se mi hai visto strana, perché non mi hai chiesto per quale motivo lo fossi?» Continuava a stare sdraiato sul muso del motorino. «Non credevo avessi dei problemi. Pensavo avessi bisogno di più spazio.» Quella conversazione era assurda, anche di fronte all’evidenza non voleva capire. Dovevo essere chiara, così non ci sarebbero stati fraintendimenti. «Io non voglio sposarti. Non ora e non so se vorrò mai più. Penso di aver raggiunto un punto, nella mia vita, in cui ho bisogno di cambiare strada. Non è colpa tua, o forse in parte lo è. Non lo so.»
Mi strinsi la testa, spostando i capelli che mi erano caduti sul viso. Lui aveva mollato la presa. «Cosa avrei fatto per spingerti a cambiare idea riguardo al nostro futuro?» L’atteggiamento non era più lo stesso. Aveva smesso di supplicare. «Dovresti saperlo da solo, ma se non te ne rendi conto, non c’è nulla che io possa fare per aiutarti a capire il mio punto di vista.» Cominciai a trascinare indietro il mezzo a due ruote. Lui mi seguì, impedendomi di uscire dal parcheggio a spina di pesce. «Claudio per favore. Voglio andare via. Sono già stata fin troppo paziente nel tollerare la piazzata di tua madre. Non ho voglia di ripetere la scena.» Non si mosse. «Silvia era arrabbiata perché non rispondevi. Non pensava ciò che ha detto.» Avrei voluto urlargli di aprire gli occhi e smetterla di mentire a se stesso, ma sarebbe stato inutile. «Greta…possiamo risolvere i nostri problemi se lo vuoi.» Di nuovo il tono incerto di chi non sa come convincere l’altro. Feci pressione per andare in retromarcia. Lui afferrò il sedere della moto. «Spostati per favore. Voglio andare via.» Se fossi rimasta ancora, ero convinta che sarei scoppiata a piangere. La gola mi solleticava e dietro le palpebre sentivo le lacrime che spingevano per uscire. Avrei scaricato rabbia, frustrazione e, soprattutto, dolore; in fin dei conti avevo appena deciso di lasciare il ragazzo con il quale, fino a qualche mese prima, credevo sarei invecchiata. «Non puoi volere che finisca così. Sono tre anni che stiamo insieme. Non puoi buttare all’aria tutto, solo per un capriccio.» Abbassai la visiera a coprirmi. Diedi uno scossone allo scooter e lui fu costretto
a spostarsi. Accelerai, una volta imboccato il senso di marcia. Feci un balzo in avanti, rischiando di perdere l’equilibrio. «Te ne pentirai Greta.» L’immagine di Claudio, fermo sul ciglio della strada, divenne via via più piccola. Chiusi gli occhi un istante, ricacciando indietro il mare di sensazioni che rischiavano di soffocarmi. Forse era meglio così. Mentre mi allontanavo, provai a convincermi che quella era stata la scelta giusta
XXI
Lui, Adriano;
Oblio
Mi svegliai a fatica. Il corpo intorpidito, le membra stanche a causa della maratona di sesso che avevo affrontato qualche ora prima. Mentre mi voltavo, la donna alla mia destra protestò, profondamente addormentata. Cercai di essere il più silenzioso possibile nel tentativo di districarmi da tutte quelle braccia. Erano troppe per appartenere ad una persona sola. Due occhi verdi mi fissavano dall’altro lato del letto. Il sorriso era quello di una che aveva appena raggiunto la pace dei sensi. Disse qualcosa in portoghese. Non capii nulla. Un movimento mi indicò che anche l’altra ragazza stava riemergendo dal sonno. Iridi scure come il carbone erano fisse su di me. Ricordavo vagamente come ero finito in quella situazione. Michela, l’insegnante di risveglio muscolare, cercò di trattenermi, afferrandomi l’addome abbronzato. Non conoscevo il nome della sua amica, me lo aveva detto, ma sapevo di averlo dimenticato un attimo dopo averlo sentito. Le scansai entrambe, mentre mi forzavano a rimanere sdraiato. Avevo voglia di prendere una boccata d’aria. La mente si stava schiarendo e tutto quel pubblico mi infastidiva. «Non andare Adriano…non abbiamo finito con te…» Avrebbe dovuto essere un invito allettante, ma ero esausto, e fuori stava albeggiando. Scossi la testa cercando con lo sguardo i pezzi sparsi dell’abbigliamento che avevo indossato la sera precedente. Se non mi fossi fatto vivo al più presto, Nicole avrebbe mandato una squadra di ricerca sulle mie tracce, immaginando che fossi stato rapito. Raccolsi gli slip che erano stati gettati poco distanti dal letto. Gli occhi delle due brasiliane seguivano ogni movimento che facevo. Prima di andare via, mi voltai
verso l’alcova sulla quale ci eravamo rotolati poche ore prima. Una bruna, l’altra bionda; qualsiasi uomo avrebbe pagato oro per essere nei miei panni. Chiusi la zip dei pantaloni. La ragazza bionda si stiracchiò, mostrando le curve provocanti. Avevo ancora sotto le dita il suo umore di femmina. Mi ero divertito. Lo avrei fatto volentieri un’altra volta, ma non in quel momento. Feci un cenno con la mano prima di sbattermi alle spalle la porta del bungalow sulla spiaggia. Lasciavo, dietro di me, il ricordo di una notte che avrei dimenticato in fretta. Avevo bevuto troppo anche la sera precedente. Le tempie mi pulsavano, avevo la mente appesantita, ancora non riuscivo a pensare con lucidità. Iniziai a eggiare sulla sabbia, dirigendomi verso l’albergo. Dovevano essere le sei del mattino, non c’era nessuno in giro a quell’ora. Il mare era calmo. Un pesciolino saltò fuori dalla superficie trasparente. Mi diressi verso la riva. L’acqua era tiepida, lambì le dita dei piedi mentre decidevo se era il caso di fare un bagno per togliermi l’odore di sesso dalla pelle. Sollevai la maglietta, lasciandola scivolare a terra. Rimasi in mutande. Un leggero venticello mi fece accapponare la pelle. Entrai in acqua, aspettando che il mio corpo stanco traesse beneficio da quel contatto. Ero un tipo che si allenava un giorno sì e uno no, ma, dover soddisfare due donne contemporaneamente, era tutta un’altra storia. Muscoli che non usavo normalmente cominciavano a lamentarsi. Avevo il membro stanco e dolorante; mi avevano strapazzato per bene. Ci sarebbe voluto un po’ prima che fossi di nuovo pronto all’azione. Mi lasciai cullare dalle onde lente della risacca. Il sole ancora basso mi scaldava il petto che usciva dall’acqua. Serrai le palpebre, lasciando che la spinta di Archimede lavorasse al posto mio. Mi soffermai con il pensiero sulla notte appena trascorsa. Ricordi di arti che si intrecciavano, mani che si toccavano, lingue che leccavano. Michela e l’altra avevano scopato con me e nel contempo tra di loro. Le brasiliane avevano una concezione del sesso completamente diversa dalle donne europee. L’orgasmo che avevo raggiunto era stato fenomenale. Tuttavia, nonostante fossi appagato, non ero in grado di goderne appieno. Ero stremato e non a causa della stanchezza fisica, quella era giustificata, dopotutto. Ero emotivamente prosciugato, un guscio che non aveva nulla da contenere. Un gabbiano mi volteggiò sopra. Forse credeva che fossi un grosso pesce venuto a morire sulla spiaggia. Si avvicinò tanto che riuscii a distinguerne il piumaggio fitto e bianco. Emise un grido acuto dal becco arancione. Girò un altro paio di volte prima di decidere che non fossi pane per i suoi denti. Sarei tornato a Roma di lì a due giorni. L’idea non mi sorrideva particolarmente, ma le ferie erano finite, ed era tempo di tornare al lavoro. Il pensiero della capitale mi riportò alla memoria una donna che avrei voluto seppellire nel
profondo. Pensavo a Greta almeno una volta al giorno. Cercavo di non farlo, ci eravamo detti addio. Ma lei tornava prepotente, impossessandosi dei pensieri senza che potessi fare nulla per controllarli. Avevo tentato di dimenticare affogando i sensi tra le braccia di tutte le donne che, in quel breve lasso di tempo, mi erano capitate a tiro. Il fatto che io avessi deciso di comportarmi in maniera promiscua, non c’entrava nulla con Nicole, mia moglie. Lei non mi avrebbe lasciato andare neppure se avesse saputo che avessi cominciato a girare film porno. Feci mente locale stilando una lista di quelle con cui ero stato. Erano più di dieci, ma non potevo affermarlo con sicurezza a causa dei diversi buchi neri nella mia memoria. Non era servito a nulla. Nonostante il sesso fosse stato piacevole e la mancanza di obblighi mi lasciasse libero di comportarmi come meglio credevo, lei era sempre lì, ai margini della coscienza. La immaginavo rimproverarmi una volta scoperto che razza di mascalzone fossi diventato. Quegli occhi di ghiaccio che non ammettevano repliche. Io mi sarei avvicinato, lei avrebbe cercato di respingermi ma, alla fine, avrebbe ceduto. Greta, Greta… Avrebbe sposato a breve uno dei miei migliori amici. Dovevo dimenticarla, lo sapevo. Forse avremmo potuto continuare a frequentarci come fossimo stati dei simpatici conoscenti. L’idea era ridicola. Io e lei amici? Magari in un’altra vita, ma non in quella. Mi mancava vederla, anche se non avrei potuto toccarla. Stavo riflettendo di chiederle di incontrarci una volta tornato, anche se avevamo promesso di non farlo più. Se non l’avessi conosciuta, la mia vita sarebbe stata molto più semplice.
XXII
Lei, Greta;
In partenza
Guardai la stanza. Gli armadi vuoti, i cassetti che non ospitavano nulla che mi appartenesse. La piccola valigia piena di scarpe era adagiata ai piedi del letto. L’ultimo dei miei bagagli, poi sarei stata pronta. Feci un’ultima perlustrazione per controllare di non aver dimenticato nulla. La lista in mano, la penna che segnava ciò che avevo riposto nelle borse. Ero certa di aver preso tutto. In caso contrario, avrei chiamato mio padre e mi sarei fatta spedire il resto della roba. Mia madre stava controllando di aver chiuso le persiane blindate. Mi avrebbero accompagnato entrambi all’aeroporto. Papà prese la valigia evitando che fossi io a portarla, mi sfiorò la fronte con le labbra, l’aria triste, rassegnato alla mia decisione. Mamma, al contrario, non era disposta ad accettare ivamente la mia intenzione di lasciarli, almeno per il momento. Da quando avevo annunciato che sarei partita per andare da mio nonno in Irlanda, aveva fatto il diavolo a quattro nel tentativo di farmi cambiare idea. Ovviamente, i suoi sforzi non avevano fatto altro se non rafforzare la mia presa di posizione. Salimmo in macchina, tutti e tre. Cercammo di fare conversazione, ma le parole erano poche a causa della separazione imminente. Nonostante con i miei discutessi ogni tanto, volevo loro molto bene e mi sarebbero mancati tanto. Meredith era tesa, il volto fisso di fronte a sé perso tra le macchine in coda. Erano le sette del mattino, il traffico era quello normale di una giornata di lavoro come tante altre. Avevamo deciso di partire un po’ prima per evitare che qualche intoppo mi impedisse di prendere il volo. Guardai rapita lo spettacolo intorno a me. Più di ogni altra cosa mi pesava abbandonare Roma. Mi soffermai a lungo sui profili diversi dei palazzi. Anche
se mi costava fatica ammetterlo, non potevo più restare. Stavano cambiando troppe cose nella mia vita, avevo preso decisioni importanti. Dovevo voltare pagina e, l’idea di ricominciare tutto da capo, era la migliore che avessi preso da tempo. La radio stava trasmettendo una vecchia canzone di Lucio Battisti, “Penso a te”. Quelle strofe, non mi riportarono alla memoria il volto di Claudio. Era perduto, dimenticato, mi ci era voluto così poco per abituarmi al fatto che non fossimo più una coppia che mi ero spesso domandata, in quegli ultimi giorni, da quanto tempo non ne fossi più innamorata. Al contrario, la voce di un altro uomo mi sussurrò nella testa. Ricordavo perfettamente i suoi splendidi occhi color del mare che mi fissavano come se non vedessero altri se non me. Non vedevo Adriano dal giorno del suo matrimonio. Sarebbe dovuto tornare a breve, o forse, era già sistemato nella sua nuova casa insieme alla compagna. Da una parte, mi sarebbe piaciuto incontrarlo ancora, almeno per salutarlo. Sprofondare nella sensazione di perdersi in quell’espressione diretta, annusare il suo profumo inebriante. Chiusi gli occhi, scacciando dalla memoria l’ immagine troppo vivida. Ero una stupida. Ci fermammo a ridosso dell’entrata. La struttura grigia e moderna ospitava un viavai continuo di persone e macchine. Gli aeroporti non erano mai deserti. Papà mi aiutò a sistemare le valigie su uno di quei carrelli che erano parcheggiati all’ingresso. Mamma ci seguiva come fosse stata un fantasma. La pelle pallida, resa ancora più bianca dalla mancanza di pressione dovuta al dispiacere che stava provando. Non si poteva certo dire che fosse in grado di nascondere le emozioni. Era da lei che avevo ereditato l’incapacità di fingere. Entrambe, eravamo facilmente decifrabili. Guardai il cartellone in alto, l’orario dei voli lampeggiava in una tonalità azzurro . L’orologio segnava le sette e trenta. Avrei dovuto imbarcarmi tra due ore, c’era tempo per i saluti. Ci mettemmo in coda di fronte al check in. Non era una fila troppo lunga. Era un giorno infrasettimale e la mia destinazione non era tra le più gettonate. La signorina dietro il banco era abbigliata in blu e bianco, un fazzolettino le sporgeva dal taschino della giacca. Aveva un’aria felice Mi chiese i documenti esibendo una dentatura da fare invidia al miglior dentista sul mercato. Feci come chiedeva. La mia faccia non doveva essere entusiasta, perché la vidi incerta quando le porsi la carta di imbarco e quella d’identità. Digitò qualche parola sul server che aveva di fronte. Un’occhiata alla foto che mi ritraeva sul documento e azionò la stampante. Mi porse il biglietto restituendomi tutto ciò che le avevo
dato. «Buon viaggio e buona permanenza.» Mi voltai verso i miei genitori. Mia madre aveva il viso rigato di lacrime; mio padre, con un braccio intorno alle sue spalle, mi osservava commosso. Li abbracciai entrambi. Restammo così: tre persone diverse unite da un unico amore. Ci separammo. Meredith riuscì a scrutarmi per un lasso di tempo che parve infinito, sapevo che sarebbe stata lei quella che avrebbe risentito maggiormente della mia partenza, ma io non potevo fare altrimenti. «Ricordati di dire al nonno che verremo a Natale. Lo sai com’è fatto. Bisogna avvertirlo un secolo prima per evitare che cominci a brontolare come un trombone.» Annuii, anche se non mi stava guardando. Sorrisi, rammentando il carattere poco cordiale del padre di mia madre. Hulrik era un uomo tutto d’un pezzo, un lavoratore indefesso, non aveva fatto altro per tutta la vita. Non era avvezzo alle visite, per cui, non era stato molto contento di sentire che mi sarei fermata da lui per un periodo non ancora stabilito, ma, alla fine, aveva ceduto alle mie insistenze. Mia nonna era stata la parte buona di lui e, quando era venuta a mancare, il nonno ne aveva risentito. Non avevo mai visto un uomo così distrutto a causa della perdita della moglie, tanto che non credevo si sarebbe più ripreso. Erano ati molti anni da quel giorno, e lui era diventato meno gentile di quanto non fosse mai stato. Né io né mia sorella eravamo riuscite ad apprezzarlo sinceramente, proprio a causa di questo suo aspetto burbero. Nonostante non fossi mai stata una nipote presente, quando gli avevo chiesto aiuto, tranne che per una ritrosia iniziale, era stato disposto ad accordarmi la sua ospitalità. Ci sedemmo insieme, aspettando che il tempo asse, desiderando che quei brevi attimi si prolungassero il più possibile. Quando arrivò il momento di andare, un groppo enorme mi bloccò il fiato. Avevo paura di ciò a cui andavo incontro. Sola, in un paesino di pescatori sperduto sulla costa, Hulrik come unico familiare. Mi scossi. Non avevo altra possibilità, o almeno, non ero intenzionata a scegliere in altro modo. Avevo deciso che il mio prossimo futuro avrebbe avuto come sfondo la provincia di Dublino, non volevo e non potevo tirarmi
indietro, non sarebbe stato da me. Avevo detto addio alle mie colleghe il giorno prima. Alcune di loro mi avevano promesso che mi sarebbero venute a trovare. Sapevo che si trattava di frasi di circostanza, non ci legava un’amicizia tale da giustificare un simile gesto. La parte più difficile era stata salutare Cassandra. Lei, come Meredith, aveva tentato di farmi desistere dall’intento di prendere il volo. Non l’avevo mai vista tanto insistente ma, a lungo andare, si era accorta che il suo modo di fare non avrebbe influito sulla mia decisone. Aveva pianto a lungo, accusandomi di abbandonarla e di non volerle bene. Non sarebbe venuta a dirmi addio. Non se la sentiva. Mi dispiaceva, ma, come lei non poteva costringere me, io non avrei potuto obbligarla a fare qualcosa che non voleva. I minuti avano. Le lancette dell’orologio scendevano inesorabili. La gente intorno a noi correva frenetica da una parte all’altra. Le porte scorrevoli si aprirono. Meredith si accorse che c’era qualcosa che non andava a causa della mia posa improvvisamente rigida. Si voltò nella direzione in cui stavo guardando. Claudio aveva un’espressione affannata, stava cercando qualcuno e non avevo dubbi sul fatto che fossi io quella persona. In un rimprovero muto chiesi spiegazioni a mia madre. Lei fece spallucce. «Ieri sera ha chiamato. Voleva sapere se fossi in casa. Aveva bisogno di parlarti. Gli ho detto che oggi saresti partita.» Lo vidi focalizzare l’attenzione su di noi. Papà fu il primo ad alzarsi per andargli incontro. Nonostante ci fossimo lasciati, era giusto che i miei genitori continuassero a trattarlo con il riguardo che avevano sempre avuto nei suoi confronti. Si scambiarono una stretta di mano, seguita da una pacca sulla spalla. Da quella distanza, non fui in grado di sentire cosa stessero dicendo. Mamma fece lo stesso subito dopo, solo che lei lo abbracciò quasi si trattasse di un parente ritrovato. Mi massaggiai la fronte. Sarebbe stato meglio se mi fossi avviata all’interno dell’aeroporto. Lì sarei stata al sicuro da chiunque avesse voluto omaggiarmi di un ultimo saluto. Non lo vedevo da più di quindici giorni. Dal giorno dell’ “Ultima Cena”, se vogliamo essere precisi. Ripensai a quell’episodio. Era stata una situazione epica, da non dimenticare, nel bene e nel male! Guardandolo mi accorsi che l’abito dal taglio classico gli cadeva addosso facendolo apparire più magro di quanto non ricordassi. Doveva aver perso qualche chilo. Il senso di colpa mi pervase. Mi dispiaceva che a causa mia non stesse bene.
Una volta finito di conversare con i miei genitori, si volse su di me. Gli occhi lucidi, i capelli in disordine, la cravatta allentata. Mi alzai, aspettando che mi venisse incontro. Lui non si mosse. Per un po’ restammo in piedi, ognuno a studiare l’altro, incapaci di fare niente. Fu lui a fare un o per primo. La camminata tipica di chi non è sicuro di cosa stia facendo, le spalle incurvate come se stesse sostenendo il peso del mondo intero. Mano a mano che si avvicinava notai piccoli particolari: il volto scavato enfatizzava gli zigomi prominenti, la barba rada a nascondere parte della mascella, occhiaie bluastre cerchiavano gli occhi ancora più foschi. Si fermò a un metro da me. Lessi sofferenza in fondo allo sguardo color cioccolato, ma anche sollievo nel vedermi ancora. Avrei voluto scappare e non voltarmi più. Non potevo sopportare di sentirmi tanto responsabile per aver partecipato alla sua trasformazione in un’ombra. Mi soffermai a pensare che l’unico sentimento che provavo era un profondo senso di disagio. Non rammarico né pentimento. Mi dispiaceva soltanto che stesse soffrendo a causa mia. «Ciao. Non credevo avrei fatto in tempo a salutarti.» Mi morsi le labbra. Non mi aspettavo che sarebbe venuto. Non avrebbe dovuto sapere che sarei partita. Avrei preferito che mia madre si fosse fatta gli affari suoi; la nostra separazione era stata già piuttosto brutale, sarebbe stato meglio se non ci fossimo più visti. «Manca poco più di un’ora. Tra poco vado.» Non sapevo cosa aggiungere. «Ti trovo bene.» Una gocciolina di sangue mi uscì dal taglio che mi ero appena provocata sulla bocca. Leccai il liquido rosso che mi sporcava il labbro inferiore. «Tu non sei molto in forma invece. Sei dimagrito.» Non era una domanda ma una semplice constatazione. Un’espressione mesta, pallida imitazione di un sorriso. «Non sono stato un granché bene da quando ci siamo visti quell’ultima volta.» Perché era venuto? Per mostrarmi in quale stato fosse precipitato dopo il mio
rifiuto? «Mi dispiace Claudio. Non avrei mai voluto farti soffrire.» Una piccola luce gli rischiarò il viso. «Allora non farlo.» Feci finta di non aver capito. Rimasi in silenzio, continuando a non sapere cosa dire. «Non andare Greta. Non lasciarmi. Non riesco a vivere senza di te.» La frase supplichevole. Ero in imbarazzo. «Io…non posso Claudio. Mi dispiace…davvero.» Guardai ancora le lancette. Il tempo pareva essersi fermato. «Il volo decolla tra poco.» Tante emozioni contrastanti si susseguirono su quella faccia che era stata per me così familiare, ma che in quel momento apparteneva ad un’estraneo. «Dobbiamo darci un’altra possibilità Greta. Forse sono stato precipitoso nel chiederti in moglie, forse l’ho fatto nel modo sbagliato, forse non avrei dovuto permettere ai miei genitori di interferire così tanto nel nostro rapporto, forse non è troppo tardi per rimediare.» Voltai il viso. Meredith e Sergio si erano allontanati per darci una parvenza di intimità. Ovviamente la donna non si era spostata di molto, in modo da poter sentire la nostra conversazione. Gli occhi verdi lanciavano lampi nella mia direzione. Non sapeva che Claudio mi aveva chiesto di sposarlo e, sinceramente, non credevo fosse una cosa che la riguardasse. «Ho bisogno di andarmene.» Non sapevo davvero cos’altro dire per convincerlo a lasciarmi andare. Solo una cosa poteva farlo desistere dal trattenermi, e non volevo essere costretta a tirarla fuori.
«Se hai bisogno di farti una vacanza, vai pure. Non sarò io ad impedirtelo. Una volta che avrai risolto i tuoi problemi però, torna da me. Ho bisogno di te per andare avanti.» Mi prese le mani a forza. Aveva i palmi sudati a causa dell’agitazione. Non volevo che continuasse a studiarmi in quel modo. Desideravo correre via e cancellare la sua espressione disperata dai miei ricordi. «Claudio ti ho amato quanto più ho potuto. Credevo che saremmo stati insieme per sempre ma…alcune cose sono cambiate.» Strinse le mie dita più forte che poté. Mi fece male, ero sul punto di intimargli di lasciarmi. «Nulla è cambiato. Basta essere in due a volerlo. I problemi si supereranno, non avere paura.» Quegli occhi pieni di speranza e ricolmi di fiducia chiedevano troppo. Mi liberai dalla stretta ferrea, facendo un o indietro. «Non è così semplice. Io…non sono più la stessa.» Mi seguì, avvicinandosi e cercando di stringermi ancora una volta. «Tu sei sempre tu. La bellissima ragazza di cui mi sono innamorato tempo fa.» Scossi la testa. Purtroppo non era così. «No Claudio. Non c’è più futuro per noi.» La speranza svanì lentamente. Mi parve che si svuotasse come un sacco ormai privato del suo contenuto. «Greta, non farmi questo.» Dovevo dirglielo. Dovevo far sì che mi odiasse, solo così avrebbe trasformato l’idea che aveva di me. Presi una lunga boccata di ossigeno. «Ti ho tradito Claudio.» Quelle parole gli piombarono addosso come se lo avessi percosso fisicamente.
Vidi la rabbia sostituire ogni cosa. Mi guardò provando a parlare, senza riuscire a spiccicare una sillaba. Si voltò dall’altra parte. Mi osservò di nuovo. «Cosa? Come? Quando? Chi?» Non c’era bisogno che gli dicessi con chi fossi stata. Lo sapeva. Glielo lessi in faccia. Ci stava arrivando da solo. Non ci mise molto. La sua espressione si deformò in qualcosa che assomigliava al disgusto. Era così che mi avrebbe fissata se ci fossimo incontrati ancora? Sarebbe stata quella l’immagine di Claudio che avrei serbato per sempre nella memoria? Mi sentii sporca. «Non posso crederci Greta. Sotto il mio naso? Con il mio migliore amico?» La sua voce si era alzata di tono. Le vene gonfie del collo gli pulsavano forsennatamente; gli occhi strabuzzati fuori dalle orbite. «Perché? Non ti ho fatto mai mancare nulla. Ti avrei regalato il mondo se solo lo avessi chiesto.» Cominciò a camminare come fosse stato una belva in gabbia. «Adriano non mi farebbe mai una cosa del genere. Stai mentendo.» Mi sputò addosso quelle ultime parole. Mi chiusi in un silenzio colpevole. Non volevo più vederlo. «Dimmi che non è così. Dimmi che ti stai inventando tutto. Ti prego, Greta.» Le lacrime mi appannavano la vista. Quell’assalto inaspettato stava rodendo i nervi già troppo tesi. La ripugnanza di Claudio faceva male. «Non posso Claudio. Mi dispiace. Non so nemmeno io per quale motivo è successo. Posso solo dirti che è la verità. Avrei tanto voluto che non lo sapessi.» Ricacciai indietro un singhiozzo che stava rischiando di non farmi terminare la frase. Mi guardò ancora, cercando la menzogna dietro l’aria pentita. Sospirò, distrutto; le mani che avano nei capelli ondulati in un gesto di stizza. «Tutto. Ti avrei perdonato tutto ma questo…questo non posso accettarlo. Nicole me lo aveva detto. Che stupido sono stato a non darle ascolto, forse, se me ne
fossi accorto prima, sarei riuscito a far si che tutto ciò non accadesse.» Anche i suoi occhi erano umidi. Si ò una mano nervosa ad asciugare la lacrima che si era fatta strada sulla guancia scavata. «Greta…tu eri tutto per me. Non avrei mai desiderato nessun’altra se solo mi fossi rimasta fedele.» Le parole incrinate dal pianto. Non lo avevo mai visto piangere. Mi sentivo una merda. Era ciò che meritavo. Prima o poi, ognuno di noi deve fare i conti con le proprie azioni; l’unica cosa che mi sarei risparmiata era vedere quanto dolore gli avevo procurato. Alzai una mano per sfiorargli i capelli un’ultima volta. Si allontanò come se anche il più piccolo contatto con me avrebbe potuto ucciderlo. Aveva ragione, dopo ciò che gli avevo fatto, non potevo aspettarmi niente di più. «Non sentirai più parlare di me, Greta. Ti prometto che questa sarà l’ultima volta che mi vedrai.» Un’ultima occhiata disperata prima di voltarsi. Le spalle larghe e ossute, il capo chino, l’andatura che incespica. Ero convinta che quella sarebbe stata l’immagine che avrei serbato di lui. Papà e mamma mi guardavano da lontano, incerti se lasciarmi da sola oppure venire a consolarmi. Alzai gli occhi. Avrei tanto voluto che qualcuno mi dicesse che il male che gli avevo fatto non lo avrebbe condizionato. Rimasi sola, chiusa nel mio abbraccio, a fare i conti con il senso di colpa e soprattutto con quello di perdita che mi aveva appena investito come un camion. Era davvero finita. Claudio era appena uscito definitivamente dalla mia vita. Mi portai le mani al viso, lasciando che le lacrime mi inondassero i palmi. Mi accorsi a malapena che qualcuno mi stringeva tra le braccia. Poggiai il viso sul petto robusto di mio padre. Lui non disse una parola, raccogliendo il mio dispiacere, in attesa che mi calmassi. «Greta. Bambina mia.» La carezza delicata mi aiutò a tornare in me. Asciugai il pianto sulla sua spalla. Non si sarebbe scansato, non mi avrebbe respinta. Mamma era dietro di lui, il volto serio, incapace di dire nulla. Non approvava la mia scelta, ne ero consapevole.
Mi lasciai cullare dal respiro di Sergio: caldo, rassicurante, confortante. Mi fece sollevare il volto, detergendo gli occhi arrossati con un fazzoletto umido. «Vorrei che non dovessi andare ora. Sarò preoccupato fino a che non sentirò che sei arrivata dal nonno.» Un lieve sorriso gli ammorbidì i lineamenti. Sollevai le labbra in risposta, un po’ impacciata, tirando su con il naso. «Ti chiamo appena arrivo.» Un ultimo abbraccio, non c’era più tempo. Mi separai da loro, avviandomi da sola verso la lunga scala mobile che mi avrebbe portata nella zona a cui non avrebbero potuto accedere. Una voce metallica chiamò i eggeri del volo che avrei dovuto prendere. Affrettai il o, mettendo il piede sul gradino che si mosse elettronicamente. Papà e mamma mi salutavano da sotto. Pian piano, le loro figure divennero sempre più piccole. Un’ultima occhiata verso l’esterno. Presi il trolley che era il mio bagaglio a mano partendo verso il futuro.
XXIII
Lui, Adriano;
Se n’è andata
Ero tornato da poco più di una settimana. Dopo il viaggio di nozze, io e Nicole ci eravamo visti ancora meno. Mi ero gettato anima e corpo nel lavoro. A volte rimanevo in ufficio fino a tardi, mi appoggiavo sul divano della mia stanza e mi ritrovavo lì il mattino dopo. Non mi pesava il fatto di essere completamente assorbito dal mio ruolo. La società per la quale lavoravo si occupava di grafica pubblicitaria. La stragrande maggioranza degli spot che avano in tv erano delle mie creazioni. Negli ultimi due mesi, clienti molto importanti si erano rivolti alla nostra agenzia. Il lavoro si era decuplicato, avevamo assunto nuovo personale, gli orari erano terrificanti. Non pochi si erano lamentati per questo. Io dirigevo la maggior parte dei creativi. Ogni team del mio settore doveva mostrarmi il prodotto prima di presentarlo. Se non lo ritenevo idoneo, sapevo diventare piuttosto rabbioso. Ultimamente pretendevo di più non soltanto da me stesso, ma anche da tutti coloro che ruotavano intorno a me. Quando i miei collaboratori non operavano al cento per cento, ero capace di urlare a tal punto da essere sentito a due piani di distanza. Stavo spaventando i dipendenti, e questo non contribuiva a far svolgere loro il lavoro al meglio; me ne rendevo conto. L’unica cosa che avrebbe potuto aiutarmi a scaricare la tensione, sarebbe stata una donna. Un diversivo, o almeno così speravo. Avevo una moglie, ma non mi sarei rivolto di certo a lei per alleviare lo stress. Mia madre ogni tanto mi invitava a cena, sapendo che tra me e Nicole non andava granché bene. Per un paio di giorni avevo accettato, poi, dato che i miei volevano sapere troppo sulla mia situazione coniugale, avevo deciso di gestirmi autonomamente. A lavoro c’erano parecchie ragazze che si sarebbero volentieri offerte come volontarie ma, purtroppo, non era mia abitudine instaurare rapporti personali sul posto di lavoro. Troppe complicazioni. Era una mia regola e non l’avrei infranta, a meno
che non mi fosse stato impossibile fare altrimenti. Guardai l’ora. Quella sera avevo finito prima: erano soltanto le nove. Nicole sarebbe stata ancora sveglia, avrebbe voluto parlare e io non avevo alcuna intenzione di conversare civilmente con lei; la maggior parte delle volte che tentava di instaurare un dialogo finiva con il piangere. Non ero dell’umore giusto. Il suo pianto mi dava ai nervi. Decisi di rimanere dov’ero e ritardare quanto più potevo il rientro a casa. Presi il telefono, fissando lo schermo scuro. Speravo di essere abbastanza forte per non fare ciò che avevo in mente. Scorsi la rubrica telefonica. Il nome di Greta mi apparve sottolineato in giallo fosforescente. Avrei dovuto cambiare i temi del display, quel colore faceva male alla vista. Premetti il pulsante di chiamata, senza esitare. Chissà se mi avrebbe risposto o, accorgendosi di chi le stava telefonando, avrebbe semplicemente ignorato la suoneria… Era da così tanto tempo che non la vedevo! Quasi due mesi. Ricordavo a malapena come fossero fatti i contorni del suo volto. Mi sarei accontentato di parlare, mi bastava sentire la sua voce, fantasticare su di noi, dimenticare i problemi che mi affliggevano, solo per qualche minuto. Il telefono dall’altra parte squillò. Tu… Tu…Tu… L’orecchio incollato all’apparecchio portatile. Perché non rispondeva? Si azionò la segreteria telefonica. Chiusi la comunicazione. Riprovai un’altra volta. Niente. Sospirai. Ero uno stupido, era ato tanto tempo, non sapevo nemmeno io perché avessi provato a contattarla. Forse ero troppo stanco per avere un comportamento intelligente. Spostai il dito sul touch screen. Il nome di Claudio era ugualmente fastidioso a vedersi. Forse erano insieme. Non avrei dovuto intromettermi, non di nuovo. Nonostante ne fossi consapevole, non riuscii ad impedirlo. La sua voce mi raggiunse chiara al secondo squillo. Faticai a riconoscerlo. Il tono era basso, non sembrava contento di sentirmi. «Ciao Claudio. Come stai? È da un po’ che non ci si vede. Tutto a posto?» Una breve pausa. «Sì…tutto bene. Scusa stavo pensando ad un’altra cosa.» Era strano, distante. Non era mai stato un tipo dal carattere ombroso. Doveva essere successo qualcosa di grave. «Vabbè…sarà per la prossima, scusa se ti ho disturbato.»
Un altro silenzio. «No, Adriano. Non mi hai disturbato. Dimmi pure. Anzi ti avrei chiamato io. Devo chiederti una cosa.» Sentivo che stava cercando di forzarsi ad apparire il più sereno possibile. Non era molto bravo a fingere. «Volevo sapere se eri libero stasera. Ho finito prima di lavorare e non ho ancora voglia di tornare a casa. Ma tu sei impegnato? C’è Greta con te?» Una lunghissima pausa. Che cazzo aveva? «No, non sono impegnato.» Mi massaggiai il collo. I capelli stavano ricrescendo. Dovevo rasarli. Anche la barba mi prudeva sotto la pelle. Avrei dovuto andare dal barbiere, non potevo presentarmi al lavoro in quelle condizioni. «Cosa volevi chiedermi?» Si schiarì la voce. «Preferisco parlarne di persona. Dove ci vediamo?» Mi guardai intorno. Stavo andando a prendere la macchina, vicino al Colosseo. L’attenzione fu catturata dal bar in cui ultimamente sostavo spesso; trascorrevo più tempo seduto sotto la loro veranda, che a casa. «C’è un posto vicino al mio ufficio. Si chiama Devil. Ti va se ti aspetto lì?» Lo sentii che rideva all’altro capo del filo. «Devil…carino. Okay, dammi un quarto d’ora e sono da te.» Chiuse la conversazione. Diedi un’occhiata sospettosa al mio. Claudio era strano. Chissà cosa era successo durante la mia assenza. Non mi aveva detto se Greta fosse con lui. Credevo di no. Speravo di vederla…Pazienza, ci sarebbero state altre occasioni. Salutai il proprietario del locale. Quello mi venne incontro stringendomi la mano
e dandomi una poderosa pacca sulla schiena. Gli dissi che aspettavo un amico. Mi accomodai fuori, da dove potevo ammirare il grande monumento, simbolo di Roma, illuminato dalle luci artificiali dei lampioni. Claudio arrivò un quarto d’ora più tardi, puntuale, come aveva detto. Mi accorsi che qualcosa non andava non appena mise i piedi fuori dalla sua piccola auto sportiva. Era dimagrito di almeno cinque chili; aveva i capelli più lunghi del normale, la camicia fuori dei jeans, scarpe da ginnastica che non ricordavo più fossero in commercio. Doveva essere grave per averlo ridotto in quello stato. Mi alzai, per andargli incontro. Lui fece cenno di aspettarlo con la mano. Attraversò la strada, raggiungendomi. Da vicino era ancora peggio. In un paio di mesi era invecchiato tanto, dimostrava almeno dieci anni in più rispetto all’età anagrafica. Gli occhi stanchi, la bocca non più atteggiata nella solita curva verso l’alto. «Cazzo Claudio, che ti è successo?» Si lasciò cadere sulla sedia di plastica di fronte a me. Alzò il braccio per richiamare l’attenzione del ragazzo che prendeva le ordinazioni. Chiese un cocktail abbastanza forte per i suoi standard. «Sto attraversando un periodo non buono. Io e Greta ci siamo lasciati.» Quella notizia mi sconvolse. Diedi un senso all’aspetto dimesso e all’aria truce. Greta lo aveva lasciato? «Quando?» La testa prese a lavorare forsennatamente. «Una ventina di giorni fa. Non ricordo di preciso…» Mi guardava fisso, studiando la mia espressione. Avrei dovuto sembrare afflitto; mi dispiaceva per lui, era palese che non l’avesse presa bene ma, porca miseria, ero tutt’altro che triste a quella notizia. Greta era libera. Non volevo che la faccia rispecchiasse l’esultanza che sentivo dentro. Avrei dovuto avere un minimo di comprensione nei suoi confronti. «Mi dispiace Claudio. Non me l’aspettavo…non ti ha detto perché?»
Aveva un’aria difficile da decifrare. «Ha detto che è cambiata. Che ci sono state delle cose che sono successe che le hanno fatto mettere in discussione le sue scelte…Te ne ha mai parlato?» I nostri drink ci vennero serviti. «No…non mi ha mai detto nulla del genere.» Non mi piaceva il modo in cui mi studiava. Una sensazione spiacevole si impossessò di me. «Nicole era convinta che tu e Greta aveste una sorta di flirt…» Se Greta gli aveva detto che eravamo stati insieme io, facendo finta di non sapere nulla, mi stavo comportando da stronzo. Era così cambiato; l’aspetto di chi ha appena perso qualcuno di vitale importanza. La morsa del senso di colpa mi serrò le viscere. Era mio amico da anni, se avessi avuto scelta, mi sarei tenuto alla larga dalla sua fidanzata. Purtroppo, non riuscivo a controllarmi nemmeno in quel momento. L’unica cosa che ero in grado di pensare era come avrei potuto mettermi in contatto con lei non appena il nostro breve incontro si fosse concluso. Ero proprio un amico di merda… «Claudio…perché Greta ti ha lasciato?» Le sue labbra si aprirono a formare quello che si sarebbe potuto definire un ghigno demoniaco. Ne rimasi raggelato. Lo sapeva. «Greta mi ha lasciato il giorno che le ho chiesto di sposarmi. Sembrava incapace di darmi una risposta affermativa e ha preferito scappare, mollandomi in ginocchio in mezzo al ristorante, di fronte alla mia famiglia.» Al ricordo, lo sguardo si fece duro. Non era un comportamento da lei, doveva essere successo dell’altro, e Claudio aveva preferito ometterlo. «Quel giorno mi ha messo al corrente che non voleva are il resto della sua vita con me, ma non mi ha spiegato il perché. Aveva solo bisogno di cambiare. Queste sono state le parole esatte...bisogno di cambiare…» Bevve un lungo sorso del cocktail, trangugiandone la metà.
«È quando l’ho raggiunta all’aeroporto, nel tentativo di convincerla a non partire, che mi ha spiegato quel è stato l’avvenimento che l’ha cambiata e, successivamente, le ha fatto comprendere che non fossimo fatti l’uno per l’altra...» Prese di nuovo il bicchiere. Il liquido scomparve nella sua bocca. «Ti sei divertito Adriano? Ne è valsa la pena scoparsela? È brava, non è vero?» Le dita strette intorno al calice di vetro. Avevo la gola secca, ma se mi fossi arrischiato a mandare giù un sorso, ne sarei rimasto strozzato. «Claudio…mi dispiace. Non ho potuto fare altrimenti. Non sono riuscito a starle lontano. Ci ho provato, ma è stato più forte di me.» Si alzò di scatto. Il movimento repentino mi colse di sorpresa. Mi afferrò per la camicia che avevo sbottonato. La mano chiusa a pugno mi colpì in faccia. Ci fu un momento in cui la vista mi si annebbiò. Poi tornai a vedere. Mi parai con il braccio per evitare che il successivo assalto andasse a segno. «Sei una merda. Siete due schifosi. Sotto il naso mio e di tua moglie. Non ti vergogni? Nemmeno un po’? Hai rovinato tutto. Mi hai rovinato la vita. Che cazzo significa non ho potuto fare altrimenti? Cosa sei? Un’animale?» Continuò a colpirmi. Disperatamente, con sempre meno forza. Il fatto che non mangiasse a dovere gli impediva di imprimere la giusta violenza nei diretti che mi stava riservando. «Ti odio Adriano. Non mi sarei mai aspettato una cosa simile da te. Credevo fossimo amici. Siamo cresciuti insieme. Spero che marcirete all’inferno entrambi.» Il cameriere che ci aveva servito intervenne in mio soccorso. Gli avrei detto di lasciar perdere, in fondo, me lo meritavo. Lo allontanò da me. Lui non oppose resistenza, non ce la faceva. L’avermi colpito con tanta veemenza lo aveva lasciato spossato. Aveva il respiro pesante, la schiena curva, nel tentativo di riprendere fiato.
«Adesso che hai saputo che non stiamo più insieme hai intenzione di correre da lei e fottertela di nuovo?» Lo fissai. Forse. Ma non permisi a quel pensiero di concretizzarsi a parole. «Mi dispiace Claudio.» Mi sputò addosso. «Non me ne faccio niente delle tue scuse, né delle sue. Avete la stessa faccia di merda. Lo stesso sguardo colpevole, gli occhi che riflettono la medesima colpa.» Il ragazzo che era intervenuto a dividerci, mi chiese silenzioso se era il caso di lasciarlo andare. Annuii. Venne liberato, ma non sembrava volersi gettare su di me una seconda volta. «Sappi che Greta non è più qui e, di certo, non sarò io a dirti dov’è andata.» I nostri occhi si incrociarono un’ultima volta. Sostenni il suo sguardo, nonostante avessi voglia di girarmi dall’altra parte. Non feci niente; era inutile spiegargli quale sorta di attrazione mistica mi avesse costretto a buttarmi sulla sua Greta. “Addio Claudio”, pensai, “Sei stato un grande amico. Ti vorrò sempre bene, anche se non sono stato capace di dimostrarlo.” Si voltò, senza aggiungere altro. La macchina rossa sgassò di fronte al tavolino al quale mi ero appoggiato. Il suo profilo serrato, appena distinguibile oltre i vetri scuri. Dopo qualche minuto, mi allontanai anche io.
Fermai la macchina nella stradina privata. Quattro cancelletti indicavano l’entrata di altrettante abitazioni. Cominciai a leggere i nomi di chi vi risiedeva. Mantovani, Mantovani… Era l’ultimo in fondo. Citofonai impaziente. Erano le dieci e mezza di sera. Non era certo l’ora adatta per andare a bussare a casa di estranei, ma io dovevo sapere dove fosse Greta. Avevo bisogno di trovarla. Mi attaccai al camlo, dato che sembrava che nessuno mi avesse sentito. Le luci di casa erano spente. Continuai a pigiare forte, sperando che ci fosse qualcuno. Alla fine, vidi accendersi la lampada che illuminò il piano inferiore. Nonostante tutte le finestre fossero chiuse, potevo distinguere senza sforzo la voce di un uomo che sbraitava in un tono arrochito dal sonno.
«Chi è?» Doveva essere il papà di Greta. Cosa potevo rispondere? Per un attimo, restai in silenzio a fissare il citofono. Chi ero? Avrei dovuto rispondergli “Sono un disperato che sta cercando sua figlia. Può dirmi dove posso trovarla?” . Invece dissi solo: «Sono…Sono un amico di Greta. La stavo cercando…» Dall’altra parte, il nulla. Silenzio. La voce di una donna che domandava a voce alta chi fosse alla porta. «Greta non c’è.» Mi sentivo un cretino; di notte, a parlare con un citofono dall’altro capo del quale c’era un uomo che non conoscevo, che avevo svegliato e che, per di più, era il padre della ragazza con la quale avevo tradito il mio migliore amico. «Sei l’amico di Claudio vero?» Gli aveva parlato di me? «Si…sono Adriano.» Il cancelletto si aprì con uno scatto metallico. La donna stava protestando vivacemente, non voleva farmi entrare. Sentii l’uomo che la zittiva più di una volta. «Entra pure.» Aprii il portoncino di ferro battuto. Il giardino che circondava la modesta villetta a due piani era piccolo ma testimoniava una spiccata propensione, da parte di chi se ne prendeva cura, al pollice verde. Le piante erano rigogliose, verdi, alcune in fiore, altre potate in precisi e bassi cespugli. Un grande ulivo contorto stava al centro dell’aiuola. Nonostante fosse buio, notai che era un esemplare che aveva diversi anni. Fui attorniato da un penetrante odore di limoni e agrumi. Una civetta urlò il suo grido in lontananza. Il frinire dei grilli mi accompagnò, mentre attraversavo la stradina lastricata di grosse pietre grigie. Un patio in legno proteggeva la parte anteriore della casa. Mi piaceva l’atmosfera che si respirava in quel luogo, così diversa da quella che soffiava nella casa dove vivevo con
Nicole. Mi sorpresi a pensare che non mi sarebbe dispiaciuto tornare tutte le sere in un’abitazione del genere. Era la dimora dove era vissuta Greta. C’era una parte di lei dentro quelle mura. Ebbi l’impressione che fosse lì, ma sapevo che era frutto della mia immaginazione. La porta blindata si aprì con uno scatto; una luce calda mi illuminò in parte, perché, a stagliarsi sull’entrata c’era un uomo, capelli brizzolati, pizzetto curato, pantofole infradito, pigiama corto. Nel suo viso riconobbi gli occhi azzurri della figlia, la stessa intensità; forse il colore di quelli di lui era ancora più chiaro. Ricordavo di averlo già incontrato; capì chi fossi non appena mi vide, nonostante fossero ati anni, e io fossi notevolmente cambiato. «Adriano Altieri? Sei il figlio di Davide!» L’espressione sorpresa, le guance arrossate dall’imbarazzo. Greta non assomigliava molto al padre, eccetto che per le iridi celesti. «È il figlio del tuo capo?» Rimanemmo in silenzio per un paio di minuti. «Fallo entrare. Che aspetti Sergio?» Dietro di lui, la voce della donna era autoritaria. Si spostò per farmi are. Mi sembrò di stare facendo qualcosa di male ad intrufolarmi in casa loro. Entrai. La stanza che trovai subito dopo la porta era un salottino arredato con mobili in stile provenzale. C’era un divano bianco di fronte ad un camino rifinito in mattoncini marrone scuro; il televisore nero era affisso su una parete dove erano assicurate varie mensole ricolme di suppellettili di diverso genere. A catturare la mia attenzione, decine di quadri appesi ai muri. Fra questi, quello di Sperlonga, che occupava gran parte della parete di destra, vicino ad una finestra nascosta da tendine arancioni a fiorellini bianchi. Rammentai l’aria trasognata di Greta quando aveva osservato per la prima volta la tela. Qualche giorno dopo ero tornato da solo, deciso a staccare l’assegno per acquistare il dipinto che l’aveva tanto colpita. «È un bel quadro non è così? È stato regalato a mia figlia qualche giorno prima che decidesse di partire.» L’intonazione con la quale si espresse l’uomo faceva presupporre che sapesse
che fossi stato io a donarglielo. «Vuoi qualcosa da bere, Adriano? Un caffè, un succo di frutta?» Mi voltai a guardare la mamma di Greta. Lunghi capelli rossi, più lisci rispetto a quelli della figlia. Viso appuntito, pelle chiara chiazzata ogni tanto da piccole lentiggini, proprio come lei. Occhi verdi, fisico esile. Greta le assomigliava, ma non così tanto da risultare uguali. «No, signora. Grazie. Non voglio disturbare oltre, anzi, scusatemi per l’ora, ma avrei urgente bisogno di sapere dove posso trovare vostra figlia.» Entrambi parevano consapevoli che fosse mia la colpa se lei aveva deciso di lasciare la propria dimora. «Greta non è qui. È partita poco più di una settimana fa.» Partita? Dove? «Dov’è?» Il padre mi guardò ancora. Sul suo volto comprensione, ma anche accusa. La mamma, al contrario, non aveva intenzione di nascondere l’espressione tutt’altro che cordiale. «Perché vuoi saperlo? Non dovresti tornare da tua moglie? Sappiamo che ti sei sposato da poco.» La voce della donna era secca e dura. Era ovvio che sapessero del mio matrimonio. Il papà di lei lavorava con Davide e, da quello che sapevo, erano anche in ottimi rapporti. «Io…devo parlarle. È importante.» Meredith, così mi pareva di ricordare si chiamasse, sbuffò. Aprì la bocca per dire qualcosa, poi la richiuse. Le stesse movenze della figlia! Sergio alzò la mano, impedendole di intervenire. «Greta è una donna, può prendere da sola le proprie decisioni.»
Mi sorrise, non proprio a suo agio. Si voltò verso un piccolo tavolo sul quale era appoggiata la carcassa di un vecchio telefono dell’Ottocento. Vicino c’erano dei post it. Ne prese uno, fece scattare il tappo della penna, scrisse qualcosa, un indirizzo e un numero di telefono. Mi porse il bigliettino giallo. Era un riferimento in inglese. Non conoscevo il codice di avviamento postale, era un numero con un prefisso che non poteva essere italiano. A lettere piccole e chiare, alla fine del foglio, c’era il nome del proprietario della casa dove si era trasferita e, in ultimo, la località dove si trovava. «Irlanda? È andata in Irlanda?» Quando Claudio mi aveva detto che era partita, non credevo che avesse voluto intendere prendere un aereo e allontanarsi in modo tale che nessuno potesse raggiungerla con facilità. «Sì. Da mio padre. Come vedi, mio marito è stato così scrupoloso da dirti anche il suo nome e il numero di telefono, nel caso la volessi avvertire che stai arrivando.» Non le stavo simpatico e non faceva nessuno sforzo per nasconderlo. Se era a conoscenza di cosa fosse successo tra me e la figlia, non potevo darle torto. «Ragazzo, non voglio farti la predica. Siete entrambi adulti, è giusto che prendiate le vostre decisioni, anche se all’apparenza sono sbagliate ma, Greta è una brava ragazza. Non farmi pentire di averti aiutato a trovarla.» Fu come essere osservato da lei, l’intensità dello sguardo di quell’uomo era in grado di farmi sentire privo di ogni difesa. «Devo parlarle, signore. Mi dispiace per quanto è successo tra sua figlia e Claudio, ma, le posso assicurare che non avevamo intenzione di ferire nessuno.» Dapprima sembrò perplesso. Alla fine annuì. Probabilmente era all’oscuro di tutto, ma in quel momento sembrò comprendere l’intera faccenda. «Vorrei ricordarti Adriano Altieri, che tu rimani un uomo sposato. Greta non merita di soffrire.» L’ultima cosa che volevo era farla soffrire più di quanto avessi già fatto.
Meredith, nel frattempo, si stava apprestando a preparare la macchinetta del caffè. L’angolo cottura dove stava armeggiando aveva il colore chiaro del legno naturale venato di arancio. Era davvero una bella casetta. «Lo so. Non desidero farle del male. Ho solo bisogno di parlarle.» Mi fissò faticando a credere alle mie parole. Forse non era tutta la verità. Li ringraziai, scusandomi per averli disturbati in un’ora tanto tarda. Sergio mi accompagnò fuori della porta attraverso il giardino rigoglioso. Nessuno sapeva cosa fosse giusto dire in quell’occasione, optammo per il silenzio. Mi strinse la mano prima che varcassi il cancelletto che dava sulla strada. «Ti prego di lasciare che mia figlia viva serena. Non merita di essere considerata un ripiego.» Mi sentii ferito da quelle ultime parole. Se fossi stato nei suoi panni, non sapevo come mi sarei comportato. Era stato fin troppo gentile. Forse, al posto suo, avrei cacciato l’intruso a calci nel culo sbraitando come un ossesso. Era un sorriso mesto, invece, quello che mi rivolse. Si vedeva lontano un miglio che amava sua figlia. Ero certo che se avesse creduto che la mia presenza l’avrebbe infastidita in qualche modo, non mi avrebbe permesso di raggiungerla. Speravo che Greta volesse ancora vedermi. Lo osservai scomparire in quel giardino che odorava di limoni.
XXIV
Nicole;
L’abbandono
Sentii il rumore del portone d’ingresso che sbatteva. Adriano era tornato. Guardai l’ora. Le undici e un quarto. Era rientrato prima del solito. Mi alzai dal divano. Mi ero addormentata di fronte alla televisione, sperando che mio marito tornasse in tempo per scambiare due parole. Non andava bene tra noi. Non andava affatto bene. Avevo tentato di comportarmi come una brava moglie, non gli avevo imposto la mia presenza, gli avevo lasciato fare le sue scelte; alla fine, era come se vivesse da solo. Eravamo due separati in casa, e questo, a soli pochi giorni dal nostro matrimonio. Sapevo di averlo obbligato a sposarmi usando mezzi poco consoni, ma avevo creduto che avrebbe superato la cosa, rendendosi conto che le mie minacce servivano soltanto da sprone per iniziare una vita che sarebbe stata felice per entrambi. Lui non capiva che io lo avevo fatto per il nostro bene. Che futuro avrebbe avuto se non avesse scelto me? Pensava davvero che una ragazza come Greta lo avrebbe accettato per quello che era? Non ne ero affatto convinta. Mi portai la mano all’addome. Il pollo al forno che avevo preparato per cena mi stava tornando su. Avrei dovuto prendere qualcosa che mi aiutasse a digerire. Era da diverso tempo che ero soggetta a gastriti; ero certa che dipendesse dal mio perenne stato d’ansia, ma mi riproposi comunque di fare degli accertamenti al più presto. Adriano mi ò davanti senza voltarsi. Aveva l’aria stanca, la pelle del viso, nella parte inferiore, era nascosta dalla barba rada, i capelli stavano diventando troppo lunghi. Lo seguii. Si era diretto nella camera dove avremmo dovuto condividere attimi di gioia tra le lenzuola, un ampia sala con al centro un letto a
due piazze e mezzo. Riflettei su come sarebbe stato bello consumare il sentimento che ci aveva uniti per anni, ma non pareva intenzionato a toccarmi. Sospirai, seguendolo nel bagno adiacente. Si spogliò in fretta; gli occhi verdi e foschi mi scrutarono per un secondo attraverso il riflesso nello specchio anticato. Mi osservai, stentando a riconoscermi in quell’immagine spenta e apatica. Non ero più la ragazza gioiosa e frizzante che ero stata. Non ricordavo un periodo della mia vita in cui fossi stata tanto sofferente. Guardai mio marito, splendido nella sua nudità, infilarsi nel box doccia. Tentennai un momento prima di decidere di spogliarmi anche io. Forse potevamo dividere il bagno. Si insaponava con gesti furiosi. L’acqua gli scorreva addosso portandosi dietro la schiuma prodotta dal bagnoschiuma. «Non ci provare, Nicole. Non voglio che entri nella doccia. Rivestiti e vai nell’altro bagno se senti il bisogno di lavarti.» L’espressione dura non ammetteva repliche. Rimasi con le braccia a mezz’aria, intenta a sfilarmi la casacca del pigiama. Non insistetti: ero stanca di combattere contro la sua fredda ostilità. Abbassai la testa, sconfitta, fissandone il profilo che mi giungeva distorto attraverso il vetro satinato. Avrei voluto che la distanza tra noi potesse scomparire con uno schiocco di dita. Mi girai, decisa a ritornare verso la confortante morbidezza del divano che odorava ancora di nuovo. Ascoltai ogni suono provenire dalla fine del corridoio. Adriano era tutt’altro che silenzioso quando si occupava della propria igiene personale. Ad un tratto il rumore di ruote che giravano sul pavimento in parquet, mi mise in allerta. Mi avvolsi nella copertina di cotone, assomigliavo ad un bozzolo e avevo difficoltà a muovere le gambe. Lo raggiunsi. La porta della stanza era semichiusa, l’anta dell’armadio aperta. C’erano panni buttati sul copriletto a fiori e lui che sceglieva velocemente i capi; li infilava arrotolati dentro la valigia, ripetendo più volte lo stesso procedimento. Magliette pesanti, calzini di lana, pantaloni di jeans, Timberland, guanti. Aveva intenzione di andare sulla neve? Mi appoggiai contro lo stipite, aspettando che mi desse una qualche spiegazione. Non si era nemmeno accorto che ero lì, immobile a fissarlo. «Vai da qualche parte?» Grugnì in risposta, continuando a ficcare indumenti invernali nella valigia quasi
piena. «L’ufficio ti manda a fare un sopralluogo in un’altra sede?» Un ulteriore brontolio. Scostai una ciocca di capelli dalla fronte. «Dove vai?» Chiuse la valigia ormai stracolma di roba. Fece fatica quando cominciò ad armeggiare con la zip. «Quando torni?» Non mi aspettavo che rispondesse a parole, e in effetti non lo fece. «Puoi dirmi per favore qualcosa? Quanto starai via?» Prese la sedia che era a ridosso della finestra. Ci montò sopra, raggiungendo la parte soppalcata del soffitto. Allungò le braccia. Poco dopo lanciò a terra una busta trasparente ripiena di giubbotti sottovuoto. Scese con un balzo. Aprì la valvola facendo in modo che l’aria gonfiasse il materiale isolante. Ne tirò fuori il suo piumino Woolrich. Era color ghiaccio, lo avevamo acquistato l’inverno prima, quando eravamo andati in vacanza in Giappone. Ripensare a quel periodo fu come rivivere un sogno… Allora eravamo una coppia felice! In quel momento, invece, vivevo in un incubo. «Fa freddo dove ti mandano?» Era come parlare al muro. Se avessi iniziato a rispondermi avrei potuto interpretare un monologo. Mi superò. Dal bagno tirò fuori il beauty case che avevamo riposto nel mobiletto verde acqua. Ci infilò lo spazzolino, il dopobarba, lo shampoo, il bagnoschiuma, insomma, tutto ciò che gli sarebbe servito quando fosse andato via. Smisi di chiedere, tanto era inutile. Continuai a studiarlo mentre terminava di preparare il necessario per il viaggio. Mi dispiaceva che se ne andasse per un po’? Non ne ero certa. In fondo, vivere con lui era diventato un supplizio. Trascinò la valigia nel corridoio, lasciandola accanto alla porta. Indossò una maglietta e un paio di jeans; prese una giacca estiva per rendere il tutto un po’
più chic, scarpe da ginnastica, tracolla firmata, le chiavi nella mano, il telefono, gli occhiali da sole. «Devi partire subito?» Si voltò, guardandomi. Mi sentii trafiggere da parte a parte. «Vado da Greta. Non penso di tornare a breve. Ritieniti una donna libera. Io mi comporterò come se non fossimo sposati. Chiederò i documenti per il divorzio. Avrai mie notizie dall’avvocato.» Rimasi immobile, imibile, il cuore non batteva, come se si fosse congelato nel petto. Provai a spremermi per far uscire le lacrime, ma non ne avevo più da versare, gli occhi restarono asciutti. Avevo provato troppo dolore, troppe volte ero stata squassata dai singhiozzi. Quella era solo l’ennesima ferita, non ero certa di poter soffrire più di quanto non stessi già facendo. «No, Adriano. Non andrai, non puoi andare.» Si guardò intorno. Stava verificando se aveva preso tutto. Non poteva andare da lei. Claudio non glielo avrebbe permesso. Loro dovevano sposarsi. «Claudio cosa ne pensa di questa tua decisione? Hai pensato a quello che proverà quando verrà a sapere che vuoi rubargli la donna?» La voce stanca, una punta di rabbia a renderla meno flebile. Se ne avessi avuto la forza, avrei cercato di trattenerlo in un altro modo. «Si sono lasciati Nicole. A causa mia. Greta si è trasferita. Ho intenzione di raggiungerla.» Perché credevo di aver già vissuto quella scena? Si avviò verso la cucina. Prese un bicchiere dalla credenza, lo riempì d’acqua, bevve, per poi lasciarlo nel lavandino. «Non puoi andartene Adriano. Te l’ho detto. Mi costringeresti ad usare precauzioni drastiche allo scopo di trattenerti.» Vidi la sua posa irrigidirsi mentre mi dava le spalle. Quando si voltò, non c’era collera ad oscurare la sua espressione. Ne fui sorpresa. Non era quella la
reazione che mi sarei aspettata. Si avvicinò. i misurati, sguardo fisso. Ebbe il potere di farmi sentire piccola, in pericolo. Le sue dita mi sfiorarono i capelli che ormai mi arrivavano dietro le orecchie. «Non importa più Nicole. Minaccia quanto vuoi, parla di ciò che vuoi, tenta di rovinarmi. Non mi importa più.» Continuò ad accarezzarmi la cute, negli occhi nessuna emozione. Era spento. Mi guardava come se non mi vedesse. «Appena sarò lì, dirò a Greta tutta la verità. Se mi accetterà o no dipenderà da lei, ma tu non potrai più usare il mio segreto per costringermi e controllarmi. Avresti potuto rendere le cose meno dolorose per entrambi. Sono troppo stanco Nicole. Non posso vivere così. Ormai sarei disposto a dire e fare qualsiasi cosa per allontanarmi da te.» Era così calmo, così controllato. Credevo che lo avrei avuto in pugno per sempre, invece, Adriano Altieri, voleva tentare il tutto per tutto per quella puttana dai capelli di rame. Me lo avrebbe portato via. Non avevo dubbi. Sollevai la mano ad accarezzargli la guancia ispida. Mi permise di sfiorarlo. Non lo avrei creduto ancora possibile. «Io ti amo, Adriano. Ti prego. Tutto ciò che ho fatto l’ho fatto perché non posso vivere senza di te. Per favore, non abbandonarmi. Non tirerò più fuori questa storia, te lo prometto, ma resta con me, dammi una possibilità di renderti felice.» Non ero in grado di piangere. Forse, se fossi scoppiata in lacrime, avrebbe avuto pietà di me. Mi prese le dita, impedendomi di toccarlo ancora. «È troppo tardi. Ciò che si è rotto, tra di noi, non può più essere riparato. Lo sai anche tu che in questo modo non possiamo andare avanti. Lasciami andare. Se è vero che mi ami, non trattenermi.» Per un attimo fu di nuovo l’Adriano che ricordavo. Riconobbi quella parte di lui amorevole, attenta, gentile. Avrei voluto saltargli al collo, stringerlo, e tenerlo con me per sempre. Invece mi scansai. Gli permisi di oltrearmi senza impedirgli la cosiddetta fuga. Annuì. Indossò la giacca di cotone, calzandola bene sulle spalle ampie. «Adriano…quando lei ti guarderà inorridita, sappi che io sarò qui ad aspettarti.»
Una fugace occhiata preoccupata lo trascinò, un momento, in un’altra realtà. Non rispose. Ero certa che non volesse pensare all’eventualità che Greta avrebbe potuto non capire. Mi appoggiai alla porta, osservandolo caricarsi i bagagli e chiamare l’ascensore. Non si voltò mai indietro. Rimase immobile, in attesa che la cabina raggiungesse il nostro piano. Fece entrare la valigia ed il resto della roba prima di compiere un o e sparire all’interno dell’abitacolo. Rimasi a fissare il vuoto per un po’ una volta che scomparve. Avevo freddo, mi sentivo spossata. Mi coprii meglio con la coperta che mi trascinavo dietro. Profumava di me. Tutta la casa mi apparteneva, non c’era nulla di lui che potesse riportamelo alla memoria, eccetto per un paio di foto che ci ritraevano il giorno delle nozze. Le avevo fatte incorniciare, appendendole in sala. Mi fermai ad ammirare lo scatto. Un giardino verde dietro di noi, io, l’espressione felice, stringevo con forza la mano di mio marito che restava rigido e bello mentre guardava lontano.
XXV
Lei, Greta;
Nonno Hulrik
La voce della hostess avvertì i eggeri che il volo era in discesa. Saremmo atterrati a breve. Mi chiusi la cintura, aspettando che il grosso mezzo con le ali cominciasse a direzionarsi verso il basso. Vicino a me c’era una signora silenziosa, indossava una pesante casacca a quadri, jeans scoloriti, stivaloni pesanti. I nostri occhi si incrociarono un momento, mi sorrise appena, le rughe del viso rese ancor più nette a causa dell’esposizione agli elementi. Doveva essere una donna che lavorava all’aperto: mani nodose, sguardo limpido e diretto. Serrai le palpebre quando l’aereo si mise in posizione di atterraggio. Non mi era mai piaciuta la sensazione di vuoto allo stomaco che mi provocavano i voli. Se avessi potuto, mi sarei sempre spostata con mezzi di terra. Il carrello venne abbassato. Il velivolo ebbe uno scossone quando venne a contatto con l’asfalto. Il rumore dei freni e la corsa che a mano a mano rallentava la propria andatura. Il segnale “slacciare le cinture” venne attivato. Mi liberai con un sospiro di sollievo. Ero arrivata, fortunatamente incolume. I eggeri si affrettarono a scendere. Attesi che il flusso di persone diminuisse, la signora accanto ebbe la medesima idea. Mi lanciò un’altra occhiata, pareva incuriosita. «Sei di queste parti?» Mi chiese. Mi stava guardando con attenzione. Sorrisi a mia volta. Aveva una voce dura, perfettamente in linea con l’asprezza dell’aspetto. «Mio nonno vive qui, mi fermerò da lui per qualche tempo.»
Continuò a fissarmi, ancora più interessata. «Si vede che sei di queste parti. Hai dei bellissimi capelli irlandesi. Sono in poche ormai a vantare un colore naturale come il tuo.» La ringraziai, arrossendo a causa del complimento inaspettato. Mi ai una mano tra le lunghe onde rossicce. Mi domandai che aspetto avessi, dopo quel lungo viaggio. Erano quasi tutti scesi. Mi alzai, sperando che la mia vicina fe lo stesso. Avevo fretta di andare, non era il momento di perdersi in chiacchiere. Accesi il telefono. Non c’era campo. Lo alzai sulla testa sperando che le tacche di ricezione aumentassero. Niente. Mio padre avrebbe dovuto attendere qualche altro minuto, prima di poter risentire la mia voce. Di fronte alla porta di uscita c’erano tutte le assistenti di volo in fila per accomiatarsi. Sciorinai una sequela di arrivederci prima di mettere i piedi sul primo gradino della scala esterna. Scesi lentamente, il trolley era pesantissimo. L’aria era fredda, nonostante fosse il venticinque di agosto. Mi chiusi nella giacchetta foderata che avevo portato in previsione della temperatura rigida,ma non fu sufficiente per riscaldarmi. Una volta toccato il suolo avevo le gambe intirizzite e le mani congelate. Non credevo che mi sarei trovata di fronte ad un clima invernale. Cazzo. Non volevo prendermi un malanno appena messo piede in Irlanda. Il pulmino che ci condusse all’interno dell’aeroporto era gremito di gente. Non immaginavo ci fossero tante persone dirette in quella zona. Era una pista di atterraggio secondaria, eppure, sembrava che fossimo scesi a Dublino. Le valigie impiegarono del tempo prima che potessimo scorgere le prime inseguirsi sul nastro trasportatore. Il cuore cominciò a battermi forte quando, dopo dieci minuti, il mio bagaglio non era ancora in vista. Sentii il sudore imperlarmi la schiena, mi stavo agitando; speravo proprio di non essere costretta a rivolgermi al personale preposto a causa dello smarrimento dei miei beni. Trassi un sospiro di sollievo non appena vidi la gigantesca struttura rigida che conteneva gran parte delle cose che avevo portato con me. Dovetti aggrapparmi con tutte e due le mani per riuscire a tirarla giù, tanto era pesante. Qualcuno mi guardò divertito mentre inveivo in italiano contro la montagna di roba che tentavo di spostare.
Seguii il flusso di persone che si dirigeva verso l’esterno. Mi osservai intorno; speravo che mio nonno fosse arrivato in tempo, non sapevo nemmeno a quale numero chiamarlo se si fosse dimenticato di venirmi a prendere. Mi mossi, lo sguardo perso nella moltitudine di visi sconosciuti fra i quali speravo di scorgere quello di Hulrik. Fui colta dal panico quando scorsi la figura di un uomo dall’aspetto familiare. Non poteva essere! Un ragazzo alto con i capelli rasati mi stava venendo incontro. Le gambe si erano fatte molli. Non riuscivo a staccare l’attenzione dal profilo dannatamente maschio. Gli rimasi incollata fino a che non fu abbastanza vicino da farmi rendere conto che non era lui. Da lontano era parso identico ma, ora che potevo distinguerlo bene, non trovai nessun particolare che potesse essere associato ad Adriano Altieri. Si accorse che lo fissavo. Mi guardò incuriosito ed io fui svelta a distogliere gli occhi. Ci impiegai una decina di secondi per tornare a respirare in maniera normale. Dovevo levarmi dalla testa quell’uomo. Non era la prima volta che mi capitava di avere allucinazioni simili. Forse stavo impazzendo… Afferrai la valigia e il trolley rispettivamente con la mano destra e la sinistra. Dov’era il nonno? «Gretel?» Mi voltai verso la voce brusca. Due verdi fanali mi scrutavano in un volto segnato e teso. Mi incamminai nella sua direzione. Dovetti guardare in alto una volta che lo ebbi raggiunto. Nonostante fosse un signore che aveva ato la sessantina, dovevo ammettere che si manteneva in forma. Il ventre leggermente arrotondato a causa dei litri di birra che ingurgitava, una maglietta bianca, macchiata di sugo, aderente sul busto ancora tonico. Una folta peluria grigia sbucava dallo scollo rotondo. La pelle abbronzata, arrossata intorno alle guance, jeans larghi su cosce muscolose. Mi porse la mano. La strinsi. Quasi me la stritolò. «Sei magra bambina, e anche un po’ pallida, tua madre non ti fa mangiare abbastanza? Oppure sono tutte quelle fisse di voi giovani di non pesare oltre i cinquanta chili?» Il solito vecchio Hulrik. Mi ai la mano sul viso, mi resi conto di avere la pelle fredda. Forse aver creduto che Adriano fosse lì mi aveva un po’ scombussolata. Non dovevo pensarci. Ormai erano giorni che mi ripetevo quel mantra. A volte riuscivo a dimenticarlo, altre no.
«No nonno, ho l’ossatura sottile e cerco di tenermi in forma come te, del resto.» Non un accenno di sorriso su quel volto di ferro. Prese il manico della pesante valigia con quella gigantesca mano che assomigliava ad una palanca. La trascinò dietro, apparentemente senza fare alcuno sforzo. Lo guardai allontanarsi, la montagna d’uomo che era faceva si che la gente, intorno a lui, si allontanasse per lasciargli libero il aggio. Mia madre, per sua fortuna, aveva ripreso il fisico esile della nonna, nel caso contrario, sarebbe stata definita una gigantessa. L’aria era ancora più fredda una volta che le porte scorrevoli si aprirono sul parcheggio all’esterno. I miei capelli vennero spazzati via da una folata di vento. Mi rannicchiai negli indumenti troppo leggeri. Se fossi stata più previdente, avrei indossato il piumino invernale. Lo seguii, fino ad arrivare ad un vecchio Pick up sporco e schizzato di fango. La vernice bianca era completamente scomparsa sotto lo strato di lerciume che lo ricopriva. Sollevò il bagaglio con un braccio solo per gettarlo sul sedile posteriore e fece il giro dell’auto per aiutarmi a tirare su il mio piccolo trolley da viaggio. «Ce la faccio nonno, non sono invalida.» Non credo avesse capito la mia battuta, comunque mi lasciò fare. «Temevo non ce la fi ad alzare tanto peso, sembri così fragile Greta. Sicura di stare bene?» Alzai gli occhi al cielo, facendo segno di sì con la testa. Entrai di corsa nell’abitacolo, cercando di scaldarmi, saltellando sul vecchio sedile in tessuto. Portai le mani alle labbra, soffiandoci sopra, le dita erano ghiaccioli, strofinai forte per fare in modo che il sangue tornasse a scorrere nelle estremità. Lui emise un colpo di tosse; non avrei mai avuto il coraggio di definirla una risata. Lo scrutai da sotto le palpebre. Le braccia nude, perfettamente a suo agio nonostante le rigide temperature del posto. «Non ci farai più caso Greta, è solo una questione di abitudine. Sempre se hai intenzione di restare. Roma è un luogo molto più accogliente.» Girò la chiave nel cruscotto. Il motore scoppiettò un paio di volte prima che fosse pronto a partire. Le nuvole nel cielo si stavano addensando. Presto, sarebbe venuto a piovere.
Le ruote dell’auto scricchiolarono sul vialetto di ciottoli che ci portò a casa. L’abitazione, in piedi quasi per miracolo, si ergeva su una collina completamente esposta, immersa in prati ondulati dal verde non più brillante come nel periodo primaverile. Piccola, coperta da un rivestimento di legno, dipinta di un bianco che aveva bisogno di una bella riata. Un grosso patio circondava la struttura, le finestre erano buie, i vetri incrostati della salsedine portata dal vento che li schiaffeggiava di continuo. Me la ricordavo più bella o, forse, erano solo le rimembranze di una bambina. Quando si è piccoli tutto ciò che è nuovo, diverso, assume un fascino particolare. In quel momento, mi sembrava che le attrattive di quella dimora fossero inesistenti! Le raffiche erano sempre più forti. Fui costretta ad affidarmi completamente al nonno per riuscire a portare dentro le mie cose. Una volta entrata, mi appiattii contro la porta. Un grosso setter irlandese ci corse incontro, con la lingua penzoloni. Hulrik lo accarezzò gentile. Il pelo fulvo, lungo e liscio, gli arti aggraziati, il torace pronunciato, gli occhi attenti, mentre mi fissava incuriosito e un po’ sulle sue. Quando allungai una mano per accarezzarlo anche io, tirò fuori i denti in un ringhio tutt’altro che amichevole. Ero tentata di tirarmi indietro e aspettare che il vecchio lo redarguisse per avermi minacciata, ma Hulrik, non intervenne, evitando di richiamare il grosso cane che mi arrivava alla vita. Alzai il palmo per permettere al segugio di prendere confidenza con l’odore estraneo. Dapprima fu titubante, poi, vedendo che rimanevo ferma al mio posto, mi solleticò la mano col naso umido. Iniziò a girarmi intorno, annusandomi ovunque. Tentò di infilarmi il muso tra le gambe, ma io mi scansai infastidita, a tutto c’era un limite! Alla fine, parve accettare la mia presenza in casa. Un’ultima annusata, e si andò a rintanare in soggiorno. «Si chiama Galen.» A sentire pronunciare il proprio nome, il cane alzò la testa. «Non ti azzannerà, almeno per il momento.» Cercai di capire se stesse scherzando, ma era difficile decifrare l’espressione di quell’uomo, era sempre la stessa. La casa era calda rispetto a fuori. Il pavimento in legno ci isolava dal terreno brullo. Il vento sbatteva contro le imposte che emettevano un suono lugubre, non
molto adatto come sottofondo di benvenuto. Il salotto era piccolo; un grosso camino occupava la parete di fronte alla porta d’ingresso. Nella stanza, un divano usurato e una vecchia poltrona. La finestra che dava sulla scogliera era immensa, il mare era in burrasca, persino da quell’altezza si poteva vedere la bianca spuma delle onde che si infrangeva sul piccolo porticciolo. La cucina era subito dietro: un locale lungo e stretto, quattro fuochi su uno scaffale economico, qualche mensola, il lavello ingombro di stoviglie. Hulrik non si dedicava molto alle pulizie domestiche. Se volevo vivere in un ambiente decente, avrei dovuto rimboccarmi le maniche. Fortunatamente, c’erano due bagni: uno per gli uomini e uno per le donne, almeno questo era quello che mi aveva detto mia madre quando ero bambina. Quando entrai in quello destinato alle ragazze, l’odore familiare della nonna mi pervase i sensi. I sanitari erano impolverati ma in buone condizioni, un centrino ingiallito a coprire il piano superiore del mobile in cui era riposta la biancheria. Tante boccette di profumo ad occupare una parte della vetrina che avrebbe dovuto contenere il necessario per lavarsi. C’era puzza di chiuso. Aprii la piccola finestra a vasistas per permettere all’aria di ossigenarsi. «Greta, ho messo le tue cose nella stanza di Meredith, io vado a controllare gli animali, poi scendo in paese. Fai come vuoi, se mi cerchi sono da Colin.» Non attese la mia risposta. Il cane gli corse dietro prima che chiudesse la porta. Tornai sui miei i. Scostai la porta bianca della camera dei nonni. Il mobilio era semplice ed essenziale, come tutto il resto. Un grande copriletto fatto a mano ricopriva l’alto materasso adagiato su una base di ferro battuto. Perlustrai l’ambiente, incuriosita. Una foto di loro due era conservata in una cornice d’argento sul comodino di destra, accanto c’era quella di mia madre da giovane, con l’aria imbronciata e la gonna svolazzante. Dall’altro lato c’erano delle istantanee che ritraevano me e mia sorella da piccole, intente a giocare nel giardino; alle nostre spalle si intravedeva uno spicchio del mare d’Irlanda. Mi sentii commossa. Il fatto che il nonno tenesse in bella mostra degli scatti che ci ritraevano mi faceva supporre che non fosse così burbero come voleva far vedere. La stanza di mia madre era l’ultima del corridoio. L’ambiente era accogliente: un piccolo letto di legno addossato alla parete di sinistra, sopra la testiera un grande quadro raffigurante la prateria verde brillante. Una scrivania, una mensola con appoggiato qualche volume classico, l’armadio sufficientemente spazioso. Le lenzuola appoggiate sul letto sapevano di bucato, doveva averle lavate una volta saputo che sarei arrivata. Non mi andava di disfare la valigia, non in quel
momento. Rimasi a guardare fuori dalla finestra. Il Pick up che si stava allontanando rombando sul selciato. Galen era sul sedile accanto al nonno e guardava fuori del finestrino con le orecchie che sventolavano intorno al muso. Andai in bagno. Avevo proprio bisogno di farmi una doccia; volevo togliermi di dosso la sensazione del volo. La tendina di plastica era sghemba, la scostai per raggiungere la manopola dell’acqua. La caldaia entrò in funzione, lasciai scorrere il getto aspettando che arrivasse a temperatura. Ripiegai il mio cambio d’abiti appoggiandolo sul porta asciugamani. Presi il telefono e composi il numero dei miei. «Greta?» La voce apprensiva di mia madre. Era in ansia, come al solito, il fiato corto come se si fosse messa a correre per raggiungere l’apparecchio il prima possibile. «Ciao mamma sono arrivata, è tutto ok.» Mi venne da ridere al sentirla rivolgersi con tale preoccupazione. «Credevamo fosse successo qualcosa. Saresti dovuta arrivare più o meno un’ora fa.» Mi morsi le labbra. «Sì, infatti. Il volo è arrivato in orario ma non c’era campo, ho dovuto aspettare di essere a casa per riuscire a chiamarvi.» Sospirò di sollievo. Mi chiese com’era andato il viaggio, se il nonno fosse arrivato in tempo all’aeroporto. Parlai un po’ con mio padre, anche lui pareva ansioso. Cos’avevano tutti? Non ero mica partita per l’Iraq! Conclusi la telefonata assicurando loro che li avrei chiamati il giorno dopo. Infilai una mano sotto il flusso dell’acqua, che ormai doveva essere bollente. Le dita furono attraversate da fitte dolorose. Era ghiacciata. Aspettai un altro po’. Niente da fare: era come se la caldaia non fosse entrata in funzione. Il problema era che io non sapevo come azionarla. Sbuffai, spazientita. Avevo previsto di darmi una bella lavata e poi cucinare qualcosa. Lo stomaco brontolava, era quasi ora di pranzo.
Entrai in stanza, cercando nella valigia l’indumento più pesante che avevo. Tirai fuori un maglione a collo alto di lana cashmere, con quello avrei dovuto essere a posto. Una volta vestita cercai le chiavi per chiudere la casa. Mio nonno mi aveva lasciata senza darmi alcuna indicazione su dove potessi trovare le cose. Dopo una buona mezz’ora, finalmente, riuscii a riconoscere il mazzo che gli avevo visto usare quando eravamo entrati. Fuori il clima si era fatto ancora più rigido. Pensai a come sarei riuscita a sopravvivere nei mesi invernali; le parole di Hulrik mi rimbombavano nella mente: “È solo questione di abitudine.” Abitudine un accidenti! Avrei giurato di trovarmi al polo nord. Dovevo comprare qualcosa di più adatto. Le galosce di plastica isolante che avevo portato mi tenevano i piedi al caldo. Mentre attraversavo la stradina scoscesa rischiai di scivolare un paio di volte. Rimasi in piedi per miracolo. Il vento tirava più forte, le nuvole temporalesche si stavano avvicinando a velocità spaventosa. Dovevo affrettarmi, non mi ero portata nemmeno un ombrello ma, sotto quelle violente raffiche d’aria, non ero certa sarebbe servito a molto. Il paese iniziò a definirsi quando raggiunsi la costa. Piccole case di mattoni, una attaccata all’altra. Non c’era nessuno in giro. Ricordavo a malapena come si fe ad arrivare all’unico pub della zona, dove mio nonno era solito trascorrere il suo tempo libero. Sbagliai strada un paio di volte, fui costretta ad entrare all’ufficio postale per chiedere informazioni. Il cappuccio calato sulla testa, il volto in ombra, la pelliccia che lo incorniciava; solo tre persone erano in attesa di parlare con il commesso. Si voltarono nella mia direzione non appena il camlo sulla porta trillò. «Salve.» Alzai la mano facendo un cenno di saluto. Mi risposero con un cenno del capo; solo il signore dietro la teca di vetro mi sorrise amichevole. «Posso chiederle un’informazione?» Mi sembrò che quelli in attesa si spazientissero, credendo che volessi are avanti. «Dica pure signorina.»
Abbassai il copricapo. Avevo l’impressione di soffocare. Lìespressione dell’uomo sulla quarantina si accese d’interesse. «Sto cercando il pub di Colin. Sa dirmi dove devo andare?» Rimase un attimo in silenzio, guardandomi fisso, in maniera piuttosto imbarazzante. Gli avrei volentieri detto di chiudere la bocca ed asciugarsi la bava, ma non mi pareva carino, in fondo, ero appena arrivata. Sbatté le palpebre, prima di parlare. «Sì…certo. Esci di qui, vai verso il porto, devi raggiungere la parte che costeggia il porticciolo, una grande insegna verde: Colin’s Pub c’è scritto.» Ringraziai, feci per voltarmi, quando mi fermò. «Sei la nipote di Hulrik? Ha detto che la figlia di Meredith sarebbe venuta in città.» Annuii. Non gli si poteva nascondere nulla. Immaginavo che una faccia nuova sarebbe subito stata riconosciuta. «Allora ci vedremo in giro. Io sono Sean, Sean Filligan.» Mi porse la mano attraverso la fessura del vetro. La strinsi cortese. Tornai in strada. La salsedine mi riempì la bocca. Le onde erano alte, l’acqua bagnava l’asfalto. Le barche da pesca, ormeggiate in fila lungo la costa, ballonzolavano da una parte all’altra, in balia della burrasca. “Che cazzo di tempo”, pensai tentando di proteggermi. Mi accostai alla costruzione, le finestre illuminate a giorno e ombre umane che si intravedevano dietro di esse. Da fuori si sentiva un gran fracasso di gente che urlava per comunicare i propri ordini al barista. Spinsi la pesante porta con entrambe le mani; avrei dovuto irrobustire i muscoli delle braccia se volevo evitare di essere così impacciata. L’aria dentro era calda, densa, fui costretta a slacciarmi il giubbotto e a liberare i capelli, o avrei rischiato di infradiciarmi di sudore nel giro di pochi secondi. La cacofonia era assordante. Odore di fumo, misto a quello di malto e pesce. Profumi deliziosi per le mie narici. Una ragazza in grembiule stringeva tra le mani due pinte di birra, mi urtò inavvertitamente.
«Scusa.» Mi disse. Quando mi guardò, i suoi occhi rimasero fissi su di me sorpresi. Quelle persone non erano per niente abituate ad incontrare degli stranieri. Lei era carina: i capelli castano chiaro raccolti in una coda di cavallo, qualche ricciolo sfuggito alla pettinatura le incorniciava il viso ovale, dalla pelle chiara. Le lentiggini le ricoprivano l’incarnato, l’immagine di una ragazzina pestifera. Gli occhi marroni, dalle lunghe ciglia scure, brillavano di intelligenza, curiosità e… qualcos’altro che non seppi identificare. «Cerchi qualcuno?» La voce guardinga. Mi osservai intorno; accorgendomi che gli occhi di molti dei presenti erano puntati su di me. Mi sentivo come su un palcoscenico, il problema era che io non desideravo tutta quell’attenzione. «È mia nipote Kris. Sta cercando me.» Quella continuò a studiarmi con malcelato interesse. La voce del nonno rombò nella sala rivestita in legno scuro; un grande bancone stile Irish era quasi completamente occultato dagli uomini che vi stavano accalcati. Dovetti zigzagare, evitando gomitate e spintoni, per arrivare da lui. Appoggiai le mani sul tavolo dietro il quale si era accomodato. Pareva divertito, lo sguardo chiaro e lucido, il boccale mezzo vuoto adagiato di fronte. Diedi un’occhiata a quelli che aveva vicino. Un paio di signori della sua stessa età mi sorridevano ammirati dicendosi qualcosa in un dialetto stretto. Non capii un accidenti. Hulrik diede un colpo ad entrambi, rispondendo nel medesimo linguaggio. Gli altri tre al tavolo, avvolti da una pesante nuvola di fumo, avevano più o meno la mia età. Le loro espressioni trasmettevano un altro messaggio rispetto a quelle dei signori più anziani. Salutai i presenti con un ciao generale. Dovevano aver alzato tutti un po’ troppo il gomito. Le guance rosse e gli aliti che sapevano di alcol ne erano una prova più che sufficiente. «Nonno, l’acqua calda non funziona.» Hulrik parve non avermi udita. Sbatté il bicchiere sul tavolo facendo schizzare un po’ di birra tutto intorno. «Greta siediti qui, bevi con noi.»
Uno di quelli più giovani fu prontissimo ad alzarsi per lasciarmi il posto. Ero certa che non avesse ancora compiuto venticinque anni. La pelle scurita dal sole, il fisico esile, gli abiti che gli cadevano addosso come fossero stati di due taglie più grandi, i capelli corti, dritti, il volto spigoloso, un leggero accenno di barba, occhi azzurri, come la maggior parte di quelli che vivevano lì. Avrei preferito tornarmene indietro. Volevo solo farmi una doccia, non mi sentivo ancora pronta a fare amicizia con i nativi del posto, ero già fin troppo incasinata. «Grazie.» Mi sarei fermata per un po’; mi sciolsi dall’abbraccio del giubbotto, che stava diventando troppo pesante. Un signore con il ventre prominente, una maglietta verde tutta schizzata di sporco, due sopracciglia cespugliose ed una barba rossiccia, si fece largo tra la folla per avvicinarsi a noi. «E così tu sei Gretel.» Mi porse la mano. La stretta era identica a quella del nonno. Le dita gemettero tra quelle grosse e tozze di lui. «Greta. Preferisco essere chiamata così.» Fece cenno di sì con la testa, riservandomi uno dei più bei sorrisi della giornata. Fui riscaldata dalla sua allegria, mi fu subito simpatico aiutandomi a farmi sentire meno spaesata. «Sono Colin, il padrone di questa baracca: è qui che il tuo vecchio viene a rifornirsi di carburante.» Il nonno rise al suono di quella battuta. Hulrik era a suo agio in mezzo a quella gente. «Cosa posso offrirti? Qualsiasi cosa per la bella figlia di Meredith.» Urlò a gran voce, la maggior parte degli uomini in sala rispose affermativamente alzando il boccale all’unisono. Avevo la pelle in fiamme. «Avete qualcosa da mangiare?»
Dovetti alzare il tono anche io perché potesse sentirmi. «Hai sentito Hulrik? La ragazza ha fame. Cos’è? Hai intenzione di farla morire digiuna? È troppo magra.» Il nonno annuì vigorosamente. «Portale qualcosa di sostanzioso. Deve riprendere un po’ di tono e mettere un po’ di grasso su quelle ossa.» Il barista fu pronto ad obbedire e si allontanò senza che potessi esprimere alcuna preferenza. Hulrik cominciò a battibeccare in maniera scherzosa con gli individui seduti al tavolo. Stavano parlando di pesca. Il tempo si sarebbe rimesso a breve, presto sarebbero stati pronti per uscire in mare. Sapevo che aveva un peschereccio da…penso da sempre! La pesca era stata per lui fonte di sostentamento. Certo, non navigava nell’oro, ma non aveva fatto mai mancare nulla né a Meredith né alla nonna. Mamma aveva cominciato a lavorare sulla barca del padre da quando aveva dieci anni. La barca da pesca risaliva a un paio di generazioni precedenti, la mia bisnonna non aveva permesso al padre di Hulrik di portarlo con sé quando era ancora piccolo, altrimenti la sua carriera sarebbe iniziata ancor prima. Mio nonno era un uomo fatto di vento ed acqua; se fuori dalla tolda del peschereccio poteva apparire duro e autoritario, in mare era molto peggio. Avevo sentito storie sul terribile modo di fare di Hulrik quando era sulla barca; un capitano che sarebbe stato capace di toglierti ogni cosa se gli avessi fatto un torto. A quanto pareva, questo suo fare così poco amichevole non aveva impedito ai marinai di affezionarglisi. «Voi siete gli uomini che lavorano con il nonno?» I presenti al tavolo smisero di parlare per prestarmi la loro più completa attenzione. «Sì Gretel, questo è il mio equipaggio. I migliori lupi di mare che si possano comprare, eccetto per quello.» Indicò il ragazzo che si era alzato per farmi posto. Lui scrollò le spalle, ma aveva un largo sorriso stampato in viso. «Hulrik, invece di denigrarmi, racconta a tua nipote la storia di quando ho dovuto aiutarti a tirare su quel grosso pesce spada. Senza di me non ce l’avresti
fatta.» Il giovane aveva un’aria gentile. Le frasi dei presenti iniziarono ad accavallarsi. Ognuno di loro aveva una visione propria della vicenda appena tirata in ballo, l’unica cosa che ero riuscita a capire e su cui erano tutti d’accordo, era che l’animale protagonista pesava almeno trenta chili e che, dalla vendita, avevano ricavato parecchia grana. Finalmente Colin tornò con un piatto fumante di salsicce e verdure cotte. Bastò l’odore a farmi venire l’acquolina in bocca. «Grazie!» Aveva un’espressione soddisfatta mentre si massaggiava lo stomaco prominente. «Aspetta a ringraziarmi. Devi ancora assaggiarlo.» Il suo meraviglioso e cordialissimo sorriso illuminò la stanza, era una persona che trasmetteva vibrazioni positive. Prevedevo di trascorrere parecchio tempo al pub durante la mia permanenza in Irlanda. Tagliai la grossa salsiccia a metà e, prima di addentarla, chiesi se qualcuno ne volesse un pezzo. Parvero sorpresi dalla mia richiesta, forse non se lo aspettavano. Rifiutarono imbarazzati. Feci spallucce non capendo cosa ci fosse di male. Infilai il primo boccone tra le fauci spalancate. Il sapore era delizioso, la carne grassa al punto giusto, tenera e succosa. Presi una forchettata di quelle verdure di una singolare tonalità verde scuro, afferrai una fetta di pane, ingoiai e ripresi ad assaporare il resto. Anche quella specie di cicoria era saporita, sposandosi alla perfezione con la salsiccia di maiale. Afferrai il grosso boccale di birra che mi era stato portato, scolai un sorso lungo e sbattei il bicchiere sul tavolo, come avevo già visto fare alla maggior parte di loro. Una grossa e vibrante risata mi fece traballare. Gli amici del nonno applaudirono di fronte al mio atteggiamento mascolino. Ne fui felice, era una gioia sentirsi accettata, sarebbe stato più semplice dimenticare se avessi avuto tante cose con cui distrarmi. Quella di partire era stata davvero una buona idea! «E brava Greta, anche se non si direbbe guardandoti, sei degna erede di tuo nonno. Ti piace?» Risposi con un movimento affermativo della testa. Stavo ancora masticando e mi era stato insegnato a non parlare con la bocca piena.
«Sì Hulrik, tua degna nipote per quanto riguarda l’appetito, ma pensi che ce la farà a sostituire Gregor?» Tutti si voltarono nella direzione da cui proveniva la voce. Seguii lo sguardo degli altri. A pochi i da noi c’era un uomo alto, un metro e novanta almeno, lunghi capelli biondi bagnati dalla radice alle punte, l’incerata ancora sulle spalle. Doveva essere appena entrato, fuori pioveva a dirotto. Un folto pizzetto rossiccio gli nascondeva la parte inferiore del viso, grosse sopracciglia biondo chiaro su occhi azzurri e ridenti. La pelle chiara aveva la sfumatura dell’oro, piccole rughe gli si disegnarono intorno agli occhi, mentre tirava fuori una chiostra di denti bianchissimi. Era di costituzione imponente, già da come l’impermeabile tirava sulle spalle si capiva che era ben piazzato. Mi lanciò un’occhiata di scherno, studiandomi attentamente. Non riuscii a comprendere ciò che aveva appena affermato. Chi era Gregor e perché avrei dovuto sostituirlo? Mi stava forse prendendo in giro? «No Samuel. Greta non diventerà parte dell’equipaggio. Non è venuta qua per lavorare.» Il tono che usò Hulrik era seccato, nonostante sul suo volto aleggiasse un’aria gioiosa. Io sulla barca? Come gli era venuto in mente? Lo fissai. «Buona decisione vecchio. Le donne, come ben sai, non portano altro che guai e poi…» Mi indicò con la mano per dare maggiore enfasi alla successiva affermazione. «…Guardala. Si vede che non è abituata a lavorare sodo, dovrebbe stare attenta a dove mette i piedi, le strade sono scoscese qui, potrebbe ritrovarsi con il culo pieno di lividi.» Se avessi potuto fumare dal naso e dalle orecchie, in quel momento, avrei avuto l’aspetto di un drago inferocito. Cosa avevo fatto a Samuel per renderlo tanto indisponente nei miei confronti? Non ci eravamo nemmeno presentati! Scolai un altro sorso di birra, buttandola giù senza respirare. Era rimasto appena il fondo quando riposai il boccale sul tavolo. Il nonno mi guardò incuriosito, evidentemente si era accorto che il fatto che mi ritenessero troppo fragile per poter essere di qualche utilità, mi aveva dato fastidio. Non so per quale cazzo di motivo mi alzai in piedi così che tutta l’attenzione del locale fosse concentrata su di me. Studiai a lungo il vichingo biondo, un’occhiata ostile che riservavo a
pochi, lui mi rise in faccia di rimando. Stavo andando a fuoco. Poche persone riuscivano a farmi saltare i nervi in quel modo. «Ebbene Samuel, mi dispiace deluderti, ma quando mio nonno uscirà, sarò su quella cazzo di barca a dare una mano.» Mi pentii di ciò che avevo detto prima ancora di aver terminato la frase. Ma che diavolo mi saltava in mente? Non sapevo nemmeno distinguere la prua dalla poppa! Mi maledissi in silenzio. In certi momenti mi ricoprivo di merda da sola. Morsi le labbra, voltandomi verso Hulrik. Era sorpreso, anche un po’ sbalordito a dirla tutta. I nostri sguardi rimasero incrociati per qualche secondo, poi lo vidi annuire impercettibilmente. «Se vuoi cimentarti nella pesca, nipote, non sarò io ad impedirtelo. Due braccia in più sono sempre ben accette.» Ci fu un momento di silenzio. I colleghi del nonno non sapevano cosa dire. Fu Samuel a parlare per loro. «Allora Hulrik in bocca al lupo! Vedremo quale delle nostre barche porterà più pesce a casa. Spero che il vostro sarà ancora commestibile dopo che la ragazzina ci avrà vomitato sopra.» Prese la pinta di birra dal tavolo più vicino. Non si curò nemmeno di chiedere a chi lo stava bevendo se gli scocciava che la finisse lui. Che tizio insopportabile! «A Gretel.» Alzò il braccio, guardandomi dritto in faccia e scandendo bene le sillabe che componevano il mio nome. «Che sfaterà il mito che le donne su un’imbarcazione portano sfortuna.» Nessuno fece eco al suo brindisi. Nel frattempo che ingurgitava il liquido color fieno gli augurai che si strozzasse. Purtroppo, non accadde. Rimasi in piedi qualche altro minuto. Mi ero cacciata in una situazione di merda, maledetta boccaccia che non sa mai quando è il momento di tacere. L’unica parte positiva di tutta quella messa in scena era che avrei avuto le giornate talmente impegnate da non avere neppure il tempo di fermarmi e riflettere sulla mia situazione. Era proprio ciò che mi ero prefissata. Forse, sarei riuscita a pensare a qualcos’altro
che non fossero due occhi verde smeraldo.
XXVI
Lui, Adriano;
Dubbi, domande, speranze
Mi guardai nello specchio del bagno adiacente al mio ufficio. La barba era diventata lunga. Mi massaggiai la mascella. Sentivo prurito sotto i peli ispidi. I miei occhi sembravano quelli di una bestia in gabbia. Cavernosi, duri, il colore pareva essere diventato più scuro, o forse era solo frutto della mia immaginazione. Mi sciacquai il viso con l’acqua fredda. Avrei dovuto mettere qualcosa sotto i denti. Era dall’ora di pranzo che non mangiavo. Abbandonai la valigia fatta in fretta accanto alla scrivania dove svolgevo la maggior parte del mio lavoro. Dovevo avvertire Giorgio, il capo della struttura, che mi sarei assentato per un periodo ancora da definire. Forse mi sarei fatto mettere in aspettativa, forse me ne sarei andato, tutto dipendeva da come Greta avrebbe reagito nel rivedermi. Attraversai l’atrio; non c’era nessuno, fatta eccezione per una guardia di vigilanza. Mi salutò. La doppietta infilata nella cintura di cuoio nero, gli stivali lucidi, la divisa che assomigliava a quella dei poliziotti. Era tardi, l’aria era fresca, sperai di trovare il ristorante cinese ancora aperto. Avrei mangiato volentieri dei ravioli al vapore, senza contare che era da parecchio che non guastavo la cucina orientale e ne avevo davvero voglia. eggiai con le mani in tasca per le vie del centro. Era mezzanotte meno un quarto e non c’era anima viva in strada. Ogni tanto ava qualche taxi vuoto. Evidentemente, erano pochi i clienti a quell’ora. Mi fermai di fronte al locale, l’insegna sfavillante, guardai dentro; le luci erano ancora accese. Spinsi la porta di legno a vetro che aveva incisa la raffigurazione stilizzata di una montagna sormontata da nuvole. Il camlo suonò quando spinsi l’entrata, l’odore di cucinato mi coprì come un mantello. Non mi ero accorto di essere tanto affamato. La ragazza all’ingresso
sorrise, rivolgendosi a me in un italiano piuttosto incerto. «Solo?» Piccola, magra, con occhi a mandorla di un intenso marrone. Annuii e lei fece cenno di seguirla. Pensavo mi avrebbe invitato ad andarmene, invece, mi fece accomodare in una saletta dove stavano mangiando tre persone, rispettivamente a due tavoli diversi. Non ero l’unico che aveva avuto voglia di cenare a quell’ora. Feci la mia solita ordinazione: ravioli al vapore, involtini primavera, toast di gamberi, spaghetti alla piastra con misto di pesce e gamberi saltati in salsa agrodolce. Allungai le gambe sotto il tavolino mentre aspettavo che i primi piatti venissero serviti. Una donna, sola anche lei, mi lanciò un’occhiata complice. Assunsi un’espressione cordiale, ma non indugiai troppo, non volevo si avvicinasse con una qualsiasi scusa. Avevo bisogno di pensare, di decidere. Presi il telefono dalla tasca. Nessuna chiamata. Nicole non si era attaccata all’apparecchio nel tentativo di convincermi a non lasciarla. Mi sarei aspettato una reazione più violenta da parte sua, invece, sembrava ormai convinta che tra noi non ci sarebbe potuto essere un futuro. Non avrei più sentito Claudio, mio migliore amico dal tempo delle elementari, e a buona ragione, d’altro canto. Vederlo in quello stato, leggere sul suo viso la sofferenza mista alla consapevolezza di essere stato tradito da due delle persone alle quali voleva più bene, non era stato semplice. Mi ai una mano in faccia, strofinandomi le palpebre appesantite. Avevo bisogno di una bella dormita. Non ricordavo da quanto non dormivo otto ore di fila, era ato troppo tempo dall’ultima volta! Il mio pensiero tornò a lei, Greta. Mi chiesi se stavo facendo la cosa giusta e come avrebbe reagito trovandosi nuovamente faccia a faccia con me. Mi sarebbe saltata al collo, oppure mi avrebbe cacciato via malamente? Mentre cercavo di are in rassegna tutte le possibilità, la signorina che mi aveva ricevuto mi portò la prima portata. Involtini fumanti. Li annaffiai con una quantità imbarazzante di salsa, afferrai le bacchette e cominciai a divorare il ripieno racchiuso nella panatura croccante. Nonostante fossero appena usciti dalla cucina, ed erano bollenti, li ingurgitai ad una velocità spaventosa. Una volta terminato il piatto, lo portò via prontamente, sempre con quell’aria che era un misto tra l’imbarazzato e il reverente. Era davvero graziosa! Ogni tanto lanciavo un’occhiata al telefono in bella vista sulla tovaglia bianca. Forse avrei dovuto avvertire i miei genitori che l’indomani avrei preso il volo per andare in Irlanda. Non volevo pensare a come avrebbero reagito, di certo non
avrebbero fatto salti di gioia alla notizia che io e Nicole ci saremmo separati a breve. Avevo bisogno di parlare con qualcuno, qualcuno che non mi dicesse che stavo facendo una cazzata. Sapevo che se avessi chiamato Geneve lei avrebbe risposto, ma chissà in quale paese lontano si trovava. Non mi andava di disturbarla, non per fare la parte del bambino che aveva bisogno di essere rassicurato. Il dito scorse sul touch screen, il nome di Andrea mi saltò agli occhi. Era da giorni che non la sentivo. L’ultima volta era stato quando mi ero precipitato a Firenze. Non era stata sorpresa di sentirmi, evidentemente il fatto che gli avessi raccomandato Greta l’aveva messa in guardia. Il primo squillo. Ero divertito al pensiero che forse stava dormendo e io stavo per interrompere il suo riposo. «…Pronto…» Come prevedevo, la voce era di una che era appena stata buttata giù dal letto. «Andrea! Che bello sentirti, un po’ più di entusiasmo nel parlare con il tuo vecchio amico Adriano, non credi lo meriti?» Un momento di silenzio. «Cazzo, Adriano è mezzanotte. Non ce l’hai una moglie che ti impone di non chiamare le altre donne a quest’ora? Merda, stavo facendo un sogno bellissimo.» Risi, di fronte a quello scoppio d’ira. Sapevo, nonostante l’avessi svegliata, che aveva piacere a parlare con me. «No…penso di aver chiuso con mia moglie.» Un’ altra pausa mentre analizzava ciò che avevo appena affermato. «Di già? Credevo che questa volta avresti tenuto duro almeno un paio di mesi in più del solito.» Risi di nuovo. La donna che mi aveva guardato prima mi lanciò un’occhiata curiosa. Mi vennero serviti i ravioli e i toast. Infilai un grosso boccone in bocca e continuai a parlare con Andrea. «Stavolta non ci hai preso. Mi dispiace. Come stai? È da un po’ che non ho tue
notizie.» Anche lei ridacchiò dall’altro capo del filo. Ora completamente sveglia. «Come sei gentile a preoccuparti per me. Stai mangiando per caso? A quest’ora?» Terminai un altro raviolo. La salsa di soia come condimento era ottima. «Avevo fame. Ottima cucina cinese. Ti ci devo portare in questo ristorante prima o poi.» «Un giorno. Vado matta per gli involtini primavera italianizzati. Allora? Che c’è che non va? È molto raro che tu mi chiami a quest’ora, solo in un ristorante, perché avevi voglia di fare due chiacchiere e sapere come stavo. Davvero hai rotto con Nicole?» Fissai un momento il piatto semivuoto. «Sì Andrea. Non avrei nemmeno dovuto sposarla.» Il respiro pesante attraversò l’etere. «È a causa di Greta non è vero? Ho capito che ti piaceva sul serio quella sera che mi hai chiamato per sapere dove alloggiava. L’hai inseguita fino a qui, non ti saresti preso un tale disturbo se non avesse contato nulla.» Sospirai anche io. Mi sarebbe piaciuto poterla guardare in faccia per vedere quale espressione avesse assunto il suo viso. «Sì…forse, non lo so. L’unica conclusione alla quale sono arrivato in questo brevissimo periodo è che Nicole non è la donna giusta per me.» La sentii accendersi una sigaretta, aspirare una boccata di fumo e rilasciarla. «Avresti dovuto accorgertene prima. Vi sareste risparmiati un sacco di soldi.» Ero convinto che stesse sorridendo. «Se me ne fossi accorto prima, non le avrei chiesto di seguirmi in Italia.»
Un’altra boccata. «Cos’ha di tanto speciale Adriano? È bella, te lo concedo, ma non è la prima volta che donne attraenti ti gironzolano intorno. Ha talento, questo è indubbio. È indipendente, una tosta, ma…Adriano, cos’è che ti ha fatto perdere la testa in questo modo?» A dirla tutta non lo sapevo. In genere ero io quello che, nel rapporto, veniva inseguito. Non mi era mai capitato di voler inseguire qualcuno, e la cosa mi sconcertava e mi piaceva nello stesso tempo. Come potevo sintetizzare quello che provavo per Greta in poche semplici parole? Non era possibile. Certi avrebbero potuto definirla ossessione, altri amore, altri ancora incapacità a lasciarla andare. Ma io, io non potevo spiegare quello che provavo, non a parole, non ad Andrea. «Il tuo silenzio è molto più esplicito di quanto pensi Adriano. Mi dispiace dirtelo, ma Greta non è a portata di macchina in questo momento, ma credo tu già lo sappia.» Sì, ne ero a conoscenza. «So che è partita per andare a stare da suo nonno in Irlanda.» Lei rise di nuovo, un suono cristallino e vibrante. «Ottimo, detective. Sì, mi ha chiamata all’incirca una decina di giorni fa. Era in partenza, comunque sarebbe tornata per il lancio pubblicitario del libro.» La ragazza cinese mi portò la piastra con gli spaghetti fumanti. Avevano un odorino delizioso. La ringraziai con il cenno del capo, non potevo parlare essendo impegnato in una conversazione telefonica; ricambiò arrossendo. «Ha deciso di riprendere a vivere in Italia?» La voce apparve nervosa persino a me stesso. «No Adriano, non ho detto questo. Tornerà per essere presente agli eventi che la riguarderanno. È questo il lavoro che deve fare uno scrittore in ascesa. Non mi ha assicurato che rimarrà qui, anzi, era anche piuttosto dubbiosa sul fatto di rientrare così a breve, ma non può esimersi dal farlo, le condizioni contrattuali lo
prevedono.» Domande, domande. Avrei voluto estorcere ad Andrea qualsiasi tipo di informazione la riguardasse. «Hai intenzione di andare da lei? Ho saputo che si è appena lasciata con il suo ragazzo, nonché tuo migliore amico, se non erro. Sei proprio una bella merda Adriano, te l’hanno mai detto?» Ripensai all’incontro con Claudio avvenuto qualche ora prima. «Ultimamente me lo sento ripetere spesso.» Stava spegnendo la sigaretta nel posacenere. Ero un ottimo ascoltatore, riuscivo a capire cosa stesse facendo senza bisogno di domandarglielo. «Evidentemente è perché lo sei. Mi hai chiamata per avere la mia approvazione, non è così?» Pensai a qualcosa da dirle, non mi venne in mente niente, eccetto la verità. « Andrea, ho bisogno di un consiglio da parte di un’amica.» Potevo vedere, anche se non l’avevo di fronte, il suo corpo snello scuotersi in una lunga ristata. «Sei proprio messo male se chiedi consiglio ad una tua ex in merito a questioni di cuore. Povero Adriano, non credevo ti saresti ridotto in questo stato e per di più… da quant’è che la conosci? Due giorni e mezzo?» Non mi piaceva il tono di scherno che aveva assunto, forse avevo fatto uno sbaglio a chiamarla. «Scusa Andrea, hai ragione. Non dovevo rivolgermi a te per una questione simile. Scusami ancora se ti ho disturbata. Buonanotte.» «Aspetta…» Attesi qualche secondo, prima di chiudere la conversazione. «Non volevo essere offensiva. Devo ammettere che sentirti così preso da una
donna non è una cosa che mi fa molto piacere. Lo sai che continuo ad avere un debole per te. Non essere crudele. Comunque, mi fa piacere che tu mi abbia chiamata.» Ingoiai l’ultima bacchettata di spaghetti. Masticai lentamente, soppesando le sue parole. Non ci eravamo comportati nel migliore dei modi nessuno dei due, non era il caso di tenerle il muso. «Ti ho chiamata perché ti reputo un’amica, non una ex, lo sai.» Avvertivo i i misurati calpestare le piastrelle. «Anche tu sei un amico, non ti sbatterei mai la porta in faccia e non ti negherei mai nulla. Vuoi un consiglio Adriano? Lo vuoi davvero? Anche se non ti piacerà cosa ho da dirti?» Bevvi un lungo sorso di birra cinese. «Sì, voglio sapere cosa pensi della mia botta di pazzia.» Rise ancora. Andrea era una di quelle donne capace di conquistarti al suono della propria ilarità. «Devi lasciarle tempo, Adriano. È appena uscita da una storia importante, ha tradito il suo ragazzo con te, si è trasferita in un altro stato, è sola, ha delle nuove responsabilità, vecchi pensieri. Secondo me non è il caso di complicarle la vita. Se tra voi due c’è qualcosa di speciale, non è necessario che tu le corra dietro proprio adesso, contando il fatto che sei ancora legalmente sposato.» Sospirai, il suo discorso non faceva una piega. «Hai ragione, so bene che non è il momento per imporle la mia presenza ma… Andrea, non ho mai desiderato stare con qualcuno in questo modo. Penso a lei continuamente, anche se cerco di non farlo.» Andrea aveva cambiato atteggiamento. «Sei sicuro che non si tratti di un capriccio? Di rado sei stato allontanato da qualcuno. Non è che questo tuo interesse eccessivo è dovuto al fatto che lei ti sfugga di continuo?»
Le sue parole mi fecero riflettere. Ero davvero questo? Uno stronzo che non sapeva accettare un no come risposta? «No, Andrea. Non è così, posso assicurartelo. In fin dei conti, come hai già detto, quello che volevo l’ho già avuto.» Era vero. Io e Greta eravamo stati insieme. Forse, se lei mi avesse negato quella notte a Firenze, avrei potuto considerare la tesi di Andrea plausibile. «Immaginavo…Allora deve esserti piaciuto parecchio.» Ricordavo la pelle di seta di Greta, il suo profumo, i suoi occhi di ghiaccio che mi fissavano intensamente. «Non so spiegarmelo Andrea. L’attrazione che provo per lei è qualcosa che va al di là delle parole, sarei disposto a fare il giro del mondo pur di raggiungerla.» Era vero, non avevo dubbi in merito all’affermazione appena fatta. Sapevo che poteva sembrare esagerato, ma era la pura e semplice verità. «È strano sentirti così coinvolto. Sei sempre stato uno stronzo egoista. Il tradimento fa parte del tuo DNA. Mi sorprendi, non lo dico tanto per dire.» Sorrisi, ripensando a qualche vecchio episodio. Il piatto con i gamberi saltati mi venne poggiato di fronte; l’odore di salsa agrodolce mi solleticò le narici. Ne afferrai uno, mangiandolo con gusto. «Sono contento di sentirtelo dire. A dire il vero, avrei preferito restare lo stronzo traditore che ero. Questa condizione non mi piace per niente, e il fatto che una donna abbia tanto potere su di me, non è una cosa che mi fa fare i salti di gioia.» Ridacchiò ancora. «È vero! Tu sei un maniaco del controllo, ogni aspetto della relazione deve essere nelle tue mani, lo ricordo bene. Ebbene, devo dirtelo, la vita vera è un’altra, un giorno incontri qualcuno e tutto ciò che hai fatto prima di conoscere quella persona si annulla, come se non fosse mai accaduto. Può capitare prima, può capitare dopo, ma già il fatto che capiti, secondo me, è una grande fortuna. Provare dei sentimenti non è una punizione, più che altro è un dono.»
Andrea era davvero brava con le parole, dovevo ammetterlo. «Se non fi già il lavoro che fai, ti suggerirei di intraprendere questo tipo di carriera. Si ha sempre bisogno di uno che sappia ascoltare e tirare fuori le parole giuste al momento opportuno!» «Adriano, i miei consigli non ti servono. Sai perfettamente cosa fare, qualsiasi cosa io dica o faccia, non ti farà cambiare idea, non è vero?» Restai in silenzio, mentre terminavo il mio piatto di gamberi. «Sì…credo di sì. Comunque, ti ringrazio per la pazienza e scusami per averti svegliata.» «L’unica cosa che posso consigliarti è di non metterle fretta. Raggiungila, se è ciò che vuoi, prostrati ai suoi piedi con un anello in mano se credi sia la cosa giusta da fare, ma non le imporre la tua presenza, se non è pronta. Amare qualcuno significa anche lasciarlo andare.» Lasciarla andare? Non rivederla mai più? Soffocare il bisogno che avevo di lei? Vivere una vita alla perenne ricerca del suo sguardo? Non credo sarei stato capace di fare una cosa del genere. «Grazie ancora, Andrea. Buonanotte, sogni d’oro.» La voce mi raggiunse attutita, evidentemente si era sistemata sul cuscino. «Quando vuoi, lo sai. In bocca a lupo Adriano, ci vediamo presto, buonanotte.» Chiuse la telefonata. Rimasi ancora per un po’ all’interno del ristorante. Mi feci portare un limoncello e un caffè. Il conto fu misero; il bello di quei posti era il fatto che mangiavi parecchio e non spendevi quasi nulla. La ragazza cinese mi accompagnò alla porta, salutandomi con quel sorriso incerto, gli occhi sfuggenti. La ringraziai, facendole i complimenti per la cucina. L’aria fuori era ancora più fresca. Rabbrividii nella giacca sportiva che avevo sulle spalle. Qualche o, e fui di nuovo di fronte alla struttura dove lavoravo. Il guardiano mi salutò con un cenno della mano, eggiava avanti e indietro di fronte all’entrata a vetri. Salii le scale, la porta del mio ufficio era aperta, la valigia, lì dove l’avevo lasciata. Mi sedetti sul divano ad angolo che arredava la
stanza, le mani sulla testa, mi strofinai gli occhi stanchi.
XXVII
Lei, Greta;
La prima pesca della mia vita
Hulrik mi svegliò scuotendomi per il braccio. Che ore erano? Guardai la sveglia del telefono. L’una e mezza? Non avevo dormito nemmeno quattro ore! Mi fece cenno con la mano di alzarmi, era ora di andare. Una leggera vibrazione di eccitamento cominciò a pervadermi. Quel giorno avrei partecipato ad una battuta di pesca, e la cosa non mi lasciava del tutto indifferente. Il giorno prima il nonno mi aveva accompagnato a comprare l’abbigliamento adatto a trascorrere una giornata in mare: stivaloni gommati, pantaloni pesanti, giacca a vento, impermeabile lungo. Una volta che ero uscita dal camerino, vestita di tutto punto, lo avevo visto sorridere. Ero ridicola, parevo una ragazzina di quindici anni che si era divertita ad indossare gli abiti enormi di suo padre. Avevo cercato di comprare qualcosa di meno ingombrante, ma Hulrik aveva scosso il capo impedendomelo, o quella robaccia di quattro taglie più grande, oppure non se ne faceva nulla! Avevo sospirato, guardandomi nello specchio del negozio. La commessa continuava a ripetermi che stavo bene, avrei voluto ringhiarle in faccia e dirle di smetterla di mentire. Comunque, riflettendoci, non andavo ad una sfilata di moda, nessuno avrebbe fatto caso a come ero vestita, e, anche se avessero fatto dei commenti, me li sarei fatti scivolare addosso. Mi lavai i denti, la faccia e raccolsi i capelli in una lunga coda che mi ondeggiava sulla schiena. «È meglio se ti fai una treccia Greta. Il vento potrebbe scioglierti i capelli, non è il caso che tu appaia come la strega Medusa sulla mia barca. Spaventeresti i marinai.» Era strano vederlo così di buon umore, era chiaro che fosse entusiasta di mettersi
in moto, come un bambino il giorno di Natale. Io e lui, durante quei pochi giorni che eravamo stati insieme, avevamo cominciato a conoscerci. Ci piacevamo. Non era un gran chiacchierone, ma non era nemmeno tanto male come avevo temuto. Mi diede una sonora pacca sulla schiena, facendomi spostare di un o. «Dobbiamo pensare agli animali prima di andare. Su Greta, muoviamoci. Il capitano deve essere sempre il primo a salire a bordo.» Cercai di muovermi in maniera poco impacciata. Infagottata com’ero, la cosa non mi riuscì affatto bene. Lo seguimmo, io e Galen. Il cane non sarebbe venuto con noi, ci avrebbe aspettati al pub di Colin. Fuori era buio pesto. Le stelle brillavano nitide nel cielo ancora scuro; la luna era a metà, il suo chiarore mi impedì di mettere un paio di volte il piede in fallo, evitando di precipitare a terra. Galen mi gironzolava attorno. Mi aveva accettata come membro della famiglia e, ogni volta che mi vedeva, non riusciva a dominare l’entusiasmo e mi saltava addosso felice. Era davvero un bel cucciolone! Avevamo cominciato a correre insieme la mattina: lui controllava che nessuno mi desse noia e io potevo allenarmi senza essere disturbata. Raggiungemmo la stalla dove Duma e Valla, i cavalli frisoni di Hulrik, nitrivano nervosi. Riconoscevano l’odore del nonno, al mio non si erano ancora abituati. Speravo proprio di non dover essere io a tirarli fuori dalla stalla, la cosa non mi metteva per niente a mio agio. «Greta. Occupati di Duma, io penserò a Valla, poi andremo dalle galline, svelta.» Stava andando a caricare la carriola con il foraggio per la puledra marrone scuro. Al buio non potevo vedere gli occhi dei due splendidi esemplari equini, o almeno, non da quella distanza. Lo seguii, afferrando le braccia della seconda carriola. Il terreno accidentato faceva saltellare la ruota, io zigzagavo cercando di affondare nel minor numero di buche possibili. Il fieno per i cavalli era conservato in un altro piccolo edificio dietro la casa, interamente costruito da lui. Qualche tempo prima, aveva avuto molto tempo libero e, dato che non amava l’inattività, si era messo a fabbricare un rifugio per gli animali. In corso d’opera, aiutato da qualcuno dei suoi amici, aveva deciso di erigere anche il secondo magazzino. L’odore di erba seccata pervadeva il grande stanzone, almeno una cinquantina di
metri quadrati, le fondamenta erano robuste, una vernice isolante era stata ata tutt’intorno alle pareti per evitare che l’umidità fe marcire il mangime. Hulrik aveva già riempito fino all’orlo il suo mezzo di trasporto. Aiutò anche me. Il forcone si alzava ed abbassava a velocità inaudita. Non finivo mai di sorprendermi della forza di quell’uomo, nonostante si stesse avvicinando alla vecchiaia, era molto più in forma di tanti giovani di mia conoscenza. Grugnì, lanciando il lungo arnese su quello che restava del grosso mucchio di fieno. «Nonno…non è che a Duma potresti pensarci tu? Valla è più tranquilla. A quel cavallo non piaccio per niente.» Già immaginavo gli occhi da diavolo di quella bestia fissarmi con malcelata ostilità. I denti grossi che si aprivano nel tentativo di darmi un paio di morsi. Ricordavo perfettamente quando era riuscito nell’intento. Il braccio mi doleva ancora! «Dovete fare amicizia, Greta. Più sei spaventata da lui, più lui si sentirà in diritto di spaventarti. È uno stallone intero, ha un carattere iroso, ma è un buon cavallo. Deve solo imparare a fidarsi di te. Se io sarò costretto ad allontanarmi per qualche giorno che farai? Lo lascerai morire di fame?» Nonostante fosse buio, potevo sentire l’occhiata della bestia che mi studiava. Avevo la netta sensazione che riuscisse a vedermi anche attraverso le tenebre. Annuii, preparandomi a ricevere il benvenuto, tutt’altro che caloroso. Ci avvicinammo insieme alle porticine dei rispettivi box. C’era odore di letame; avrei dovuto dare una bella pulita al giaciglio di Duma. Aprii il cancello. Lo stallone era silenzioso, scorgevo il suo profilo immenso stagliarsi in fondo al quadrato. Era completamente nero anche lui, l’ombra spiccava contro il legno che rifletteva la luce delle stelle. «Ciao Duma.» Presi una carota dalla tasca dell’impermeabile, ogni volta tentavo di ingraziarmelo con una leccornia. Il nitrito vibrò tutt’intorno. I i incerti, attutiti dal fieno che ne ricopriva il giaciglio. La verdura era quasi a portata dei suoi denti grossi e cattivi. Mi allungai nella sua direzione rimanendo vicina alla porta, nel caso avesse cercato di mangiare anche me. Prese l’ortaggio strappandomelo dalla mano. Lo sentii sgranocchiarlo con gusto. Una volta terminato lo spuntino, il movimento degli zoccoli mi avvisò che si stava
avvicinando. Lui faceva un o avanti, io uno indietro. Il suo muso grosso era a un soffio dal mio volto. Le enormi froge si allargarono nell’annusarmi. Rimasi immobile, intanto che il cavallo saggiava l’odore provenire da me. Iniziò a soffiare sul lucido impermeabile che sapeva di plastica. Cercava altre carote. Ne tirai fuori una dalla tasca posteriore. Me la strappò dalle dita non appena ne riconobbe la forma. Gliene regalai un altro paio. Quando era impegnato a fare qualsiasi cosa lo distraesse dall’intento di aggredirmi, mi piaceva stargli vicino ad osservarlo. Quel bestione pesava quasi una tonnellata, tutto muscoli e zoccoli; se avesse voluto farmi del male non ci avrebbe impiegato molto. Ma il nonno mi aveva assicurato che non era cattivo, soltanto irascibile. Allungai una mano ad accarezzargli la folta criniera corvina dietro le lunghe orecchie dritte. Le spostò all’indietro, segno che non era tranquillo. Gli diedi una grattatina veloce, poi scrollò il muso infastidito. Alzai le braccia in segno di resa. «Scusa Duma. Non lo faccio più.» Nitrì forte, emettendo aria dalle narici insieme al brontolio tipico dei cavalli. Okay, potevo dichiararmi soddisfatta. Non avrei sfidato la sorte oltre misura. Presi la pala appoggiata contro la porta e cominciai a spalare quella montagna di merda che aveva rigettato durante la notte. Data la dimensione dell’animale, non mi sarei potuta aspettare nulla di meno. Sentivo il nonno che rideva dall’altro lato della parete; lo sapeva che non era un compito per il quale andavo matta. Ammucchiai l’enorme quantità di letame fuori del box, l’avremmo gettata nel terreno, una volta sistemati i cavalli. Duma continuava a studiarmi. Se ne stava buono nel suo angolo; aveva capito che non volevo fargli nulla di male. Probabilmente era per questo motivo che non mi aveva ancora caricato come un toro inferocito. Provai ad infilargli la cavezza di pelle morbida intorno al muso. Non ne voleva sapere. Iniziò ad agitarsi, il collo incurvato, le froge che fremevano, lo zoccolo anteriore destro che grattava il pavimento. Uscii dalla stalla, prima che potesse colpirmi. «Nonno, infilagliela tu quella cazzo di cavezza. Non ne vuole sapere da me.» Hulrik uscì dal box portandosi dietro la puledra marrone. Anche lei mi annusò l’impermeabile, percependo l’odore di carote. Gliene tirai fuori una. Avevo pensato anche a Valla. Mi sbatté il grosso faccione contro il fianco, gli occhi laterali vispi e attenti, ne voleva ancora, ma io le avevo finite. Mentre il nonno faceva uscire Duma, presi il tubo con l’acqua e pulii il pavimento sporco. Durante la costruzione della stalla era stato scavato un piccolo canale di scolo
che aiutava a trasportare la sporcizia verso l’esterno. Una volta spazzato, ricoprii il cemento con il mucchio di fieno fresco che avevamo portato con noi. Riempii le mangiatoie con il frumento e con i cereali secchi, riempii l’abbeveratoio, e attesi che Hulrik riportasse dentro gli animali. Duma tirò fuori la testa quando ci preparammo ad andare via. Il nitrito si perse in lontananza, nel buio.
Raggiungemmo il porto a bordo del vecchio Pick up. Galen era dietro, il grosso tartufo nero fuori dal finestrino semi aperto. Avevo scoperto che gli piaceva che l’aria gli scompigliasse il folto pelo. Aveva la lingua penzoloni e gli occhi che studiavano il panorama notturno. Parcheggiammo nella zona riservata ai pescatori: c’erano già quattro o cinque macchine ferme. Eravamo in ritardo. Scesi dal furgoncino, aprendo la portiera al cane che mi seguì obbediente. Mentre Hulrik si avviava alla barca, io portavo Galen da Colin, che mi aprì, imponente come un Grizzly, la maglietta bianca e la criniera rossa che gli scendeva scomposta sulle spalle. Fece entrare il setter nel locale, lo ringraziai dopo aver rifiutato la colazione. Salutai Galen con un cenno della mano mentre mi osservava da dietro il vetro della finestra. Abbaiò in risposta e io mi voltai. La barca da pesca era lunga una ventina di metri e larga quattro, i due marinai più anziani stavano già armeggiando veloci con l’attrezzatura che avrebbero dovuto usare durante la battuta di caccia. Mi diedero il buongiorno continuando a fare il loro lavoro. Da lontano vidi Fil, il più giovane dell’equipaggio, parcheggiare la vecchia utilitaria accanto alla nostra. Corse tenendo stretto una cassetta degli attrezzi, mi superò con un frettoloso ciao, prima di raggiungere con un balzo la tolda del peschereccio. «Nonno posso fare qualcosa?» Strillai attraverso la notte. Mi resi conto dopo aver pronunciato l’ultima lettera che, con la voce acuta che mi ritrovavo, dovevo aver svegliato l’intera cittadina. «No Gretel. Ti dirò io quando salire.» Rimasi a guardarli, sapevano tutti cosa fare, sarei stata d’intralcio, perciò, mi sedetti su una consunta panchina di fronte, stringendomi nella pesante incerata. Uscimmo dalla baia che il sole non era ancora sorto. La notte stava diventando
sempre più chiara, era quasi l’alba. Hulrik mi aveva chiesto di stare nella cabina di pilotaggio insieme a lui. Mi fece tenere il timone, una volta che fummo usciti dalla piccola baia. Ero felice, l’odore salmastro permeava l’aria, la giornata non prevedeva che il mare si alzasse. L’euforia generale stava contagiando anche me. Nel frattempo che ci allontanavamo in direzione del largo, un altro barcone si affiancò al nostro. Riconobbi la figura di Samuel, aggrappato al corrimano, metà del busto fuori dalla protezione dei bordi. Il braccio alzato in segno di saluto. Non fui in grado di sentire cosa dicesse, comunque il nonno fece suonare la grossa tromba per ricambiare. Raggiungemmo l’oceano aperto che erano le cinque e mezza di mattina. Non sapevo ancora cosa avremmo pescato. In quella zona, mi avevano detto, erano soliti cacciare tonni o pesce spada. Non li avevo mai visti da vicino, sarebbe stata una nuova esperienza, magari da raccontare in un libro. Hulrik rallentò l’andatura, corse fuori dalla cabina di pilotaggio facendomi segno di seguirlo. L’equipaggio aveva già sistemato le canne da pesca che avrebbero usato per catturare le prede. Credevo che ci saremmo avvalsi dell’ausilio della rete. Mi sbagliavo. Hulrik mi fece fermare di fronte alla grossa canna fissata sulla parte posteriore. Fil mi si mise accanto, la sua postazione era a pochi i dalla mia. Strizzò l’occhio e mi sorrise contento. «Sei proprio carina vestita da marinaio, Greta!» Gli feci la linguaccia osservando la spuma prodotta dal vortice delle eliche del motore. Le onde si allargavano, perdendosi in lontananza. «Greta, devi restare qui. La pesca da traino è un po’ noiosa, ma se riusciamo ad entrare in un banco, vedrai che ti divertirai e soprattutto faticherai. L’unica cosa che devi fare è guardare il mulinello, se abbocca qualcosa il filo si srotola. Chiamami se succede, ti aiuterò a tirarlo a bordo.» Il nonno allungò una mano a scompigliarmi i capelli e se ne andò verso la poppa. Era giunto il momento di mettersi a lavoro. Per circa tre ore, nessuno pronunciò una sillaba. Il tempo scorreva lento, il sole era alto e illuminava forte il paesaggio monotono intorno a noi. La costa non era più visibile, dovevamo esserci allontanati diverse miglia. Il vento soffiava leggero, la superficie dell’acqua era increspata, il lento ondeggiare del peschereccio stava cominciando a darmi fastidio. Fortunatamente, non avevo
messo niente sotto i denti, altrimenti avrei già dato di stomaco la colazione. Fil si accorse che il mio colorito dal pallido, stava virando al verde. Tirò fuori dal tascone dei pantaloni un pacchetto di crackers. Me lo porse. Rifiutai. Se avessi messo qualcosa sotto i denti, non credo che sarei riuscita a trattenerlo a lungo. Lui insistette. «È normale Greta. All’inizio succede sempre così. Questi aiutano.» Li presi, non del tutto convinta. Iniziai a masticare, la salivazione a zero, il boccone che faticava a scendere. Una volta terminato il piccolo pasto, il senso di fastidio si attenuò. «Grazie Fil. Sto già meglio.» Lui annuì continuando a fissare l’infinita distesa d’acqua. Trascorsero altri sessanta minuti. Le canne rimanevano immobili, da nessuna parte della barca il grido di qualcuno che avvisava che avessero abboccato. Il mare si faceva via via più agitato, lo scafo saltellava sulle onde procedendo inesorabile verso chissà dove. Avevo dovuto ingoiare altri due pacchetti di crackers per evitare di vomitare succhi gastrici; mi girava la testa. La tonalità della pelle di un insano grigio topo. Fil mi scrutava preoccupato. Ogni tanto mi veniva vicino ricordandomi di respirare e dandomi qualche dritta su come sopravvivere alla mia prima pesca a traino. Provavo a sollevare gli angoli della bocca ma ero sempre meno convinta di aver preso la decisione giusta ad imbarcarmi in quell’avventura. Fu quando cominciai a pensare che non ce l’avrei fatta e che forse, la diceria secondo la quale le donne sulle barche portavano sfortuna era vera, che il mio mulinello ebbe uno scatto e la lenza cominciò a srotolarsi. Rimasi un secondo a bocca aperta, non sapendo cosa fare, la canna che si incurvava verso il basso. L’urlo che mi scoppiò dal petto risvegliò i marinai, precipitati in un gradevole torpore. Un gran fracasso seguì il mio strillo di avvertimento. La punta flessibile continuava a piegarsi. Quanto diavolo era forte la cosa che si era attaccata al mio amo? Fil mi corse accanto, pronto ad aiutarmi. Mi si mise dietro: non c’era nulla di sessuale nel suo modo di starmi vicino. Fece si che le mie piccole dita si serrassero intorno al manico del mulinello, spinse in basso una levetta bloccando lo svolgimento del filo. La barca ebbe un sussulto. Oddio! «Greta! Dagli un po’ di lenza.»
Hulrik mi raggiunse di volata. La stazza del nonno coprì tutto il resto. In quel momento non avvertivo alcun malessere. Ero tesa come un arco, intenzionata a rimanere attaccata al mio trofeo. Uno strattone violento mi fece quasi volare fuori bordo. Il nonno e il ragazzo incaricato di sostenermi mi tennero stretta per evitare che fossi trascinata via. Lo sentii ridere. Era felice. Mi aiutò a dare lenza e poi a tirare, ancora e ancora. Nel frattempo, qualcun altro aveva strillato di giubilo; nel giro di pochi secondi tutte le esche erano state mangiate. I marinai si affannavano intorno alle canne da pesca. Hulrik non mi lasciò. Fermo, dietro di me, le grosse mani a trattenermi evitando che la forza del pesce l’avesse vinta sul piccolo corpo di ragazza. Avevo le braccia in fiamme, il sudore mi imperlava la fronte, i muscoli irrigiditi, le gambe ben piantate a terra. Vidi qualcosa saltare in lontananza, persino da quella distanza sembrava enorme! «Forza. Tiriamo su quel dinosauro.» L’impazienza di Hulrik contagiava anche me. L’entusiasmo schizzava fuori a cascate da quel corpo gigante. Avevo i palmi arrossati e temevo che da un momento all’altro mi sarei tagliata, tanto era lo sforzo. Non sapevo se ce l’avrei fatta. Tremavo, sperando di non fallire. Quando il primo dell’equipaggio lanciò sulla tolda la sua preda, ognuno di noi ebbe un sussulto. Le squame che ne ricoprivano il corpo sfumavano dal blu scuro per diventare argentee sul ventre; sentivo la coda che fremeva colpendo violenta il fasciame. Tornai subito a concentrarmi sulla canna di fronte per paura di perdere la presa. Non so per quanto tempo combattemmo. Sapevo solo che ero stremata. Una volta vicino allo scafo potemmo distinguerlo chiaramente sotto il pelo dell’acqua. Mi spaventai, era il più grosso pesce spada che avessi mai visto! Il cuore mi martellava nelle orecchie, temevo che insieme alla bile avrei rigurgitato anche quello. Furono necessarie sei braccia robuste per issarlo a bordo. La pelle viscida brillava sotto i raggi del sole, il grosso becco a forma di spada era lungo almeno un paio di metri. Il nonno rideva, rideva davvero! Chiusi gli occhi quando lo uccisero. Non potevo guardare mentre la vita lo abbandonava. Invocai una piccola preghiera silenziosa sperando che in alto ci fosse un Paradiso anche per lui. Sciolsi le dita ancorate al mulinello, un brivido lungo mi attraversò da capo a piedi. Era a causa della fatica? O tutta quell’adrenalina mi aveva distrutta? Fui costretta a sedermi a terra per evitare di cadere come un sacco di patate. Uno alla volta, i marinai vennero a darmi delle sonore pacche sulle spalle, congratulandosi del mio successo. Hulrik mi fissava orgoglioso. La testa leggera. Faticavo a rendermi conto di ciò che era appena
accaduto.
Tornammo al porto che erano le otto ate. Avevo l’impressione di essere un tronco di carne senza gambe e senza braccia. L’euforia della giornata mi aveva lasciata stremata. Avevamo pescato più di venti esemplari. Tutti avevano affermato che era stata una pesca fortunata. Se fossimo restati ancora, ne avremmo catturati degli altri, o almeno così avevano detto. Gli uomini del nonno avevano deciso all’unanimità che da quel momento li avrei seguiti in ogni uscita in mare. Non ero tanto convinta della cosa, non ero mai stata così stanca in vita mia. Gli altri pescherecci erano rientrati in porto, ancorati vicino alla banchina. C’era parecchia gente ad aspettare la nostra comparsa. Samuel, il primo fra tutti, aveva un’espressione allegra stampata in faccia. «Allora Hulrik!Com’è andata? Spero abbiate preso qualcosa.» Avrei voluto urlargli in faccia che poteva risparmiarsi le sue battute. Fil mi poggiò una mano alla base della schiena imponendomi di stare zitta. Lo guardai attenta, era proprio un bravo ragazzo! Si era preso cura di me per tutto il tempo. Il nonno non rispose, fece fermare la barca, facendosi aiutare da qualcuno a legare le cime. Quando le corde di prua e di poppa furono ben tese, iniziammo a scaricare il bottino. Gli occhi di Samuel ci studiavano attenti. Hulrik cercò di convincermi ad andare da Colin a mangiare qualcosa, il lavoro pesante lo avrebbero fatto loro. Mi rifiutai, avevo partecipato alla pesca, avrei continuato a rendermi utile, nonostante avessi una gran voglia di buttarmi a terra e dormire per almeno dodici ore. Il camion che avrebbe portato il pesce all’asta se ne andò intorno alle dieci. Hulrik stringeva tra le mani parecchio denaro, tutti i marinai furono entusiasti quando diede a ciascuno la propria parte. Alla fine, venne verso di me, mi allungò una mazzetta di soldi che accolsi con un’espressione interrogativa. «Non sono venuta per essere pagata.» Hulrik mi diede una vigorosa scompigliata ai capelli. Se mi fossi guardata allo specchio, a stento mi sarei riconosciuta.
«Sei stata brava Greta. Ti sei guadagnata il tuo compenso. Come tutti.» Volevo mettermi a piangere. La fatica, il tremore alle gambe, le braccia molli. Avrei rifatto tutto una seconda, una terza, una decima volta, pur di leggere ancora nello sguardo del vecchio quell’occhiata orgogliosa. Lo abbracciai, di slancio. Entrambi puzzavamo di pesce, il sale ci gonfiava la lingua. Dopo un momento di titubanza, mi strinse a sé.
Il fragore all’interno del pub era assordante. Annaffiai una bella fetta di carne con un lungo sorso di birra. Ero affamata. Intorno a me le voci dei marinai raccontavano quanto fossi stata brava e, soprattutto, fortunata. Galen abbaiava contento accanto al nostro tavolo. Ogni tanto gli allungavo qualche pezzo di grasso che avevo attentamente separato dal resto della bistecca. «Questa ragazzina ha pescato come un vero uomo, e non ha nemmeno vomitato una volta.» Era stato William a parlare, uno dei marinai più anziani. «Ve lo dico io. Greta è baciata dalla fortuna.» Sventolò le banconote in alto dando enfasi all’affermazione. Samuel, allora, si avvicinò. Un sorriso sghembo, le labbra incorniciate dal pizzetto rossiccio, i lunghi capelli biondi tirati dietro le orecchie. Mi studiò a fondo, l’occhiata meno derisoria rispetto al solito. Alzò il boccale di birra ingoiando un lungo sorso, le goccioline gli imperlarono i peli della barba. «A Greta! Che ha sfatato il mito che le donne su una barca portano sfortuna. Sarà meglio che ognuno di noi si procuri una femmina da tirarsi dietro, se questi sono i risultati.» Non riuscii a capire se quel brindisi fosse stato fatto per sfottermi, ma ero troppo stanca per discutere. Volevo solo andare a letto. Alzai il boccale, facendo eco alla sua bevuta. Tornammo a casa verso l’una del mattino. Ero sveglia da ventiquattro ore. Ero più che convinta che avrei dormito tutto il giorno seguente per riprendermi dalla fatica. Mi feci una lunga doccia calda, infilai il pigiama di flanella, asciugai i
capelli e fui pronta per abbracciare il cuscino. Il nonno venne a darmi la buonanotte. Già mezza addormentata, mi accorsi che si piegava a sfiorarmi la fronte con un bacio leggero. Sprofondai in un sonno pesante, ripensando entusiasta alla giornata che avevo vissuto, nessun altro pensiero a disturbarmi. Meglio così.
XXVIII
Lui, Adriano;
Questa è la mia decisione
Stavo cercando Giorgio. I dipendenti erano tutti arrivati, ogni volta che incrociavo qualcuno ero costretto a ricambiare il buongiorno, nonostante avessi soltanto voglia di chiudermi in una stanza e rimanere in silenzio. Avevo dormito male, ero di pessimo umore, la decisione di seguire Greta continuava a tormentarmi. Entrai nell’ufficio dirigenziale, la poltrona di pelle girevole era voltata verso l’esterno. Roma si stava svegliando, sarebbe stata una bella giornata. Il sole illuminava le vette dei palazzi. Dalla finestra semi aperta mi giungevano i rumori del traffico mattutino. Giorgio si voltò verso di me quando gli toccai una spalla per richiamare la sua attenzione. Mi sorrise. Sapevo che aveva una grande stima del mio operato. Mi domandavo se, dopo aver sentito cosa avevo da dirgli, mi avrebbe rivolto la stessa espressione. Mi fece cenno di attendere un momento. Mi accomodai. Presi la cornice che aveva poggiata sull’ampia scrivania di legno scuro, l’immagine conservata all’interno ritraeva lui, la bellissima moglie e i due figli gemelli. Chiusi gli occhi, pensando al fatto che io non avrei mai avuto dei bambini, a meno che non avessi deciso di adottarli. Certo, sarebbero stati sempre figli miei, ma non avrei potuto riconoscere in loro il mio patrimonio genetico. Al contrario, si capiva perfettamente che quei due fossero piccole copie dell’uomo che mi stava di fronte, entrambi avevano ripreso i colori e la fisionomia del papà. Quando mi accorsi che stava per terminare la conversazione, rimisi giù il quadretto familiare, preparandomi ad affrontarlo. «Buongiorno Adriano. Bella giornata vero? Cosa posso fare per te?» Il fatto che fosse così contento già di prima mattina non contribuì a migliorare il
mio pessimo umore. «Cosa ti rende così felice? La tua gioia mi acceca.» Si illuminò ancora di più. «Sei il primo a cui lo dico.» Mi sembrò che si stesse per commuovere. Merda no…Non avevo nessuna voglia di assistere alla sua eclatante manifestazione di gioia. Assunsi un’aria cordiale, nonostante non vedessi l’ora di andarmene. «Giulia è di nuovo incinta.» Che meraviglia! Ebbi la tentazione di prenderlo a schiaffi. Chiusi le dita a pugno. «Sono contento per te.» Dissi invece. Il suo buonumore si affievolì quando si accorse che io, al contrario, ero tutt’altro che sereno. «C’è qualcosa che non va Adriano?» Lo fissai dritto in faccia iniziando il lungo elenco dei problemi che mi affliggevano. Gli dissi di Nicole e della nostra separazione. Il suo volto si trasformò in una maschera triste. «Mi dispiace. Sono costernato. Non credevo aveste delle difficoltà…sembravate una così bella coppia.» Già. Una splendida coppia, tenuta in piedi da minacce e ricatti. Questo mi risparmiai di confidarglielo. «In effetti, ultimamente ti ho visto parecchio stanco. Credevo fosse per la mole eccessiva di lavoro, avevo intenzione di parlartene, ti stai sfruttando troppo.» Mi grattai la barba trascurata. Dovevo darmi una ripulita. «Era proprio di questo che volevo parlarti infatti. Ho bisogno di allontanarmi per un po’. Una settimana, un mese, non so dirtelo con precisione.»
Sospirò, digitò qualche tasto al computer e pescò un gruppetto di fogli dalla pila di scartoffie, riposte in uno scaffale alla sua destra. Si mise a sfogliare alcuni di quei documenti. Leggeva, scorrendo veloce da una pagina all’altra. Alla fine, una volta raggruppati quelli che gli servivano, me li porse. «Sono i moduli per l’aspettativa. Voglio che tu ti riprenda Adriano, in queste condizioni non saresti in grado di produrre il cento per cento. Prenditi il tempo che ti serve. Quando sarai pronto, il tuo posto sarà qui ad aspettarti.» Guardai Giorgio, non mi sarei mai aspettato una simile reazione da parte sua. Non aveva neppure provato a convincermi a dare una seconda possibilità al matrimonio. Gli fui grato per la comprensione. Allungai una mano stringendo la sua con decisione. Ero molto più rilassato di quando ero entrato. «Grazie.» Mi trattenne un secondo di più. «Sei un ottimo lavoratore. Hai sempre dato di più di quanto ti veniva richiesto. Ti sei guadagnato il mio rispetto e la mia fiducia, nonostante lavoriamo insieme da poco tempo. Cerca di rimetterti.» Lo ringraziai ancora e uscii dalla stanza.
Fermai l’auto nel solito parcheggio del palazzo dove vivevano i miei genitori. Erano in casa, il grande fuoristrada di mio padre era parcheggiato nell’altro posto auto che avevano comprato. Prima di scendere presi un grosso respiro. Lo specchietto inserito nel parasole della macchina ritraeva la mia immagine, sempre più stanca. Gli occhi rossi iniettati di sangue non nascondevano il fatto che avessi troppi pensieri che mi preoccupavano. Citofonai. Mia madre rispose con entusiasmo al suono della mia voce. Presi l’ascensore, la porta si aprì sul pianerottolo quando il numero quattro rimase sul display dell’abitacolo di acciaio. Entrando nell’appartamento mi accolse il profumo di pavimenti appena lavati. Sibilla mi aspettava all’ingresso, la sua espressione mutò quando mi vide. Piccole rughe di angoscia le si disegnarono intorno agli occhi, a formare una ragnatela sottile. Le diedi un bacio sulla guancia, mi abbracciò, le braccia esili, il corpo che conservava la bellezza di una donna che aveva calcato le erelle di tutto il mondo.
«Tesoro…che è successo?» La strinsi con poca convinzione. Serrai le mascelle. Stavo per crollare. Gli ultimi eventi mi avevano distrutto. «Papà è in casa?» Annuì, indicandomi l’interno. La seguii in cucina, l’ampia porta finestra che dava sul balcone era spalancata. Davide era intento ad innaffiare le piante nei vasi all’esterno. «Davide! C’è Adriano, ti cercava.» Mamma fece per andarsene e lasciarci soli. Le afferrai il polso sottile. «Resta. Ho bisogno di parlare ad entrambi.» Il colorito abbandonò le sue guance. Si appoggiò allo schienale di una sedia, scostandola per mettersi a sedere. Lo sguardo preoccupato di chi sapeva cosa avrei detto. Mio padre entrò, un po’ sudato, i capelli in disordine. Si asciugò il viso con il braccio, i guanti di tessuto sporchi di terra. «Adriano!» Mi guardò attento, prima che la sua mandibola si irrigidisse nello stesso modo in cui si chiudeva la mia. «Te ne vai?» Le labbra piegate all’insù. Annuii, rilassandomi. «Io e Nicole ci separiamo, oggi pomeriggio parto. Starò via per un po’.» Il mio vecchio si girò verso il frigorifero, aprì l’anta, scelse la bevanda e me la porse. Ringraziai, aspettando che aprisse la piccola bottiglietta di vetro. Presi un lungo sorso, il liquido freddo mi si fermò in bocca. Lo trattenni per qualche secondo, prima di ingoiarlo. «Dove vai?»
Non ne era sorpreso, tutt’altro. Sibilla, al contrario, aveva gli occhi lucidi e le labbra tremanti. Le diedi un buffetto sul dorso della mano. «Mamma…non fare così. Sono cose che succedono.» Una lacrima le disegnò una linea sul viso. «Vi siete sposati da così poco tempo, Nicole ne sarà distrutta. Non sei troppo precipitoso nella tua scelta? Forse avete bisogno di un po’ di tempo per adattarvi alla vita matrimoniale. Avete già convissuto in Australia. Cos’è cambiato? Quando siete arrivati qua pareva che tutto andasse bene.» Mio padre le si mise dietro, appoggiando le mani ormai libere dai guanti sulle spalle magre della donna. «Su Sibilla. Adriano è un uomo adulto, non avrà certo preso questa decisione a cuor leggero.» Gli occhi di lui non si staccarono mai da me. «Perché proprio ora Adriano?» Voleva sentirmi dire ciò che già sapeva. «Io e Nicole non andiamo d’accordo, la luna di miele è stata un disastro, per la maggior parte del tempo siamo stati separati.» Speravo che quella spiegazione sarebbe bastata. Il dolore prese a scorrere sul volto di Sibilla, sotto forma di pianto incontrollabile. «Adriano…il matrimonio non è facile, non arrenderti così presto, vedrai che andrà meglio.» Come potevo farle capire che non sarebbe stato così? Davide si schiarì la gola. L’occhiata che mi lanciò mi tenne inchiodato al mio posto. «Sibilla…c’è un’altra donna.» Mamma aprì e chiuse la bocca. Guardò me, poi lui, non riuscendo ad elaborare quelle ultime parole.
«Come un’altra donna? Quando? Siete stati lontani un mese, com’è possibile che in questo breve lasso di tempo tu ti sia invaghito di un’altra?» Tolse la mano dalla mia. Non tollerava più il mio contatto. «È da prima di sposarsi cara. Tuo figlio ha perso la testa per una ragazza che ora non è più impegnata. Non è vero Adriano?» Lo fissai irato. Cosa voleva? Un’ammissione di colpe? Sapeva la verità. Avevo immaginato che mi avrebbero ato, spiegando a Sibilla che stavo facendo quella scelta per ione. Ma come potevo pretenderlo? Nessuno dei due era a conoscenza delle minacce di Nicole. Da quello che poteva sembrare ad un osservatore superficiale, io ero soltanto uno stronzo fedifrago. Come dar loro torto se mi guardavano come se non mi riconoscessero? «Adriano, è vero? Ti sei sposato dopo aver tradito la tua fidanzata?» Su quel bel viso un’espressione di sconcerto. «È difficile da spiegare…» Si alzò di scatto, facendo cadere la sedia sulla quale pochi attimi prima si era accasciata in lacrime. «Difficile? Difficile? Ma cosa dici? Non ti abbiamo insegnato niente. Tu non sei il ragazzo che ho cresciuto. L’Adriano che conosco io non avrebbe mai stretto un legame del genere con una donna che non voleva. Quella povera ragazza ti ha seguito dall’Australia. Che ne sarà di lei adesso? Te lo sei domandato? Sei diventato talmente egoista da non curarti di ciò che le succederà? È sola. In un paese che non conosce, tu sei il suo unico punto di riferimento. Non ti vergogni?» Era pronta ad allungarmi uno schiaffo. Si fermò a metà del gesto. Distolse gli occhi dai miei, troppo delusa, troppo ferita. Se solo avessero saputo la verità, la mia spiegazione, la mia scelta, sarebbero risultate meno riprovevoli. «Chi è lei Adriano?» Dovevo dirglielo? Tanto lo avrebbe fatto mio padre, non appena mi fossi chiuso la porta alle spalle.
«È Greta.» Si portò una mano alle labbra, voltandosi in direzione del marito, lui annuì impercettibilmente. «Greta? Adriano, era la fidanzata di Claudio, il tuo migliore amico!» Messa in quel modo, sembrava che avessi fatto una cosa pessima. «Sibilla calmati.» Davide cercò di contenere la rabbia che le stava facendo tremare le dita. Era strano vedere mio padre tentare di placare mia madre, nella maggior parte dei casi succedeva il contrario. «Come posso stare tranquilla Davide? Come puoi chiedermi una cosa simile? Tuo figlio è una persona che non riconosco. Non pensavo di aver cresciuto un ragazzo simile. Nulla di ciò che ho appena sentito è concepibile. Greta. Lei è colpevole quanto te. Ha fatto sì che la tua amicizia con Claudio fosse messa in pericolo, ha distrutto un rapporto durato anni, per non parlare del fatto che ha permesso alla tua vita di andare a rotoli.» Mi alzai. Sovrastavo la sua piccola figura, fu costretta a sollevare la testa per fissarmi in viso. «Non parlare di lei in questo modo, mamma. Non sono venuto qua per sentirmi rivolgere delle accuse. Certe cose accadono e basta, di certo non lo avevamo programmato. Volevo soltanto comunicarvi che sto partendo. Ora me ne vado.» Mi girai, senza darle il tempo di replicare. «Adriano.» Mi bloccai sulla porta della cucina, la voce di Davide era perentoria. «Tua madre non voleva offendere nessuno. Sibilla datti una calmata. Stiamo parlando di nostro figlio, non è un ragazzo qualsiasi. Se ha fatto ciò che ha fatto, non è stato per cattiveria o divertimento.» Appoggiai una mano allo stipite, stanco di tutti quei discorsi.
«Adriano, non lasciamoci così. Siediti, per favore, ti preparo il caffè.» Mi voltai verso di loro. Sibilla stava in silenzio, l’aria affranta, piuttosto a disagio per la sfuriata che aveva appena avuto. Si mise nuovamente a sedere, evitando di posare l’attenzione su di me. Papà armeggiò con la macchinetta del caffè, la fiamma si accese con un clic. Tecnologia moderna. Appoggiò la schiena al mobile di legno e mi fissò per un lungo momento. Lo sentii prendere una lunga boccata d’aria, prima di continuare con ciò che aveva da dire. «Non approvo gran parte delle tue scelte, ma non ho il diritto di condannarti.» Lanciò una penetrante occhiata in direzione di lei. «Sei adulto, indipendente, sei libero di fare ciò che vuoi, con o senza il nostro consenso. L’unica cosa che mi domando è perché hai aspettato tanto per deciderti, avresti potuto evitare di mettere in piedi tutta quella buffonata di matrimonio.» Si voltò verso i fornelli, il caffè stava iniziando a bollire. «Ho parlato con Greta durante la festa, era in difficoltà, come te. Perché non avete deciso prima di lasciare i vostri rispettivi compagni e provare a costruire qualcosa insieme?» Era stata colpa mia. Sapevo che se a Firenze fossi rimasto con lei, forse avrebbe deciso di lasciare Claudio e forse, adesso, staremmo vivendo la nostra relazione. «È andata così, che cosa posso dire…» Aprii le braccia. «Mi dispiace.» L’espresso schizzò fuori dalla caffettiera, sporcando il piano di lavoro. Davide mise tre tazzine una vicino all’altra, le riempì e ce le servì. Sibilla sorseggiò piano, gli occhi bassi, intenti a studiare le venature del pavimento. «Quanto tempo ti tratterrai in Irlanda?»
Tutti, all’infuori di me, sapevano che Greta aveva lasciato l’Italia. «Non lo so, dipenderà da lei.» Mio padre parve soddisfatto della risposta. Prese in consegna i bicchieri ormai vuoti e li depose nel lavello di ceramica puntinata. «Cosa possiamo dirti Adriano? Buon viaggio? Buona permanenza? Spero che non tornerai tanto presto?» Il fatto che Davide avesse preso le mie parti, mi aiutò ad affrontare quella scelta. «Buon viaggio è sufficiente.» Lui si avvicinò. Ci stringemmo in un abbraccio goffo, non eravamo avvezzi alle smancerie tra uomini. Mi diede uno schiaffo leggero sul viso, i nostri occhi erano alla stessa altezza. «Buon viaggio, figlio. Buona fortuna. Ci occuperemo noi di Nicole, non preoccuparti.» Annuii grato. Mia mamma era dietro di lui, gli occhi ancora bassi, le lacrime che avevano lasciato striature leggere sul suo viso delicatamente truccato. «Buon viaggio, Adriano.» Non ero convinto che mi avrebbe perdonato per ciò che stavo facendo. Non gliene potevo fare una colpa. Era delusa, il suo distacco controllato ne era una chiara dimostrazione. La abbracciai, rimase rigida contro il mio petto ma, dopo un’incertezza iniziale, allungò le mani ad accarezzarmi. Mi accompagnarono alla porta, entrambi muti, persi nelle loro riflessioni; indugiarono ad osservarmi intanto che entravo nell’ascensore. Un ultimo saluto, l’ultimo arrivederci della giornata. Potevo andare.
XXIX
Lei, Greta;
Fuggire
Quella mattina il cielo era limpido. L’aria frizzante mi svegliò del tutto, una volta uscita dalla casa di legno arroccata sulla collina. Non mi ero ancora abituata all’atmosfera tranquilla che si respirava in quella zona. A Roma avevo sempre vissuto una vita frenetica. Correvo senza sapere realmente dove stavo andando. Questa cosa mi sconvolgeva e, contemporaneamente, ero affascinata dalla totale differenza di stili di vita. Galen abbaiò quando presi a camminare in direzione della scogliera. Avevo la pelle d’oca sui polpacci nudi, le scarpe da jogging che battevano il suolo a ritmo cadenzato. Lasciai che la mente si svuotasse da ogni pensiero. Rimasero soltanto il rumore del cane che mi seguiva, il mio respiro leggermente affannato, il terreno brullo di fronte a me. Corsi per una buona mezz’ora. Ormai, era quello il tempo che impiegavo per raggiungere lo strapiombo sul mare. Mi fermai, le mani sulla vita, cercando di calmare il battito cardiaco. Procedere su un terreno accidentato è molto più faticoso che allenarsi su una pista battuta. Iniziai a muovermi secondo gli esercizi di respirazione che conoscevo a memoria; alcuni per allungare i muscoli o irrobustire determinate parti del corpo, altri non sapevo a cosa servissero, ma li facevo ugualmente. Guardai il setter irlandese che annusava interessato un cespuglio poco lontano. Doveva aver fiutato una pista. Il vento, a quell’altura, era più forte. Il keyway mi sventolò addosso. Qualche ciocca di capelli cominciò a vorticarmi intorno al viso, strappata dalla stretta coda sulla nuca. L’Irlanda era un paese selvaggio, o almeno, era quella la sensazione che ne traevo. Spesso, quando ero da sola, non riuscivo a contenere i pensieri. Ero fuggita da Roma come una codarda. Avevo
cercato di vederla in un altro modo, ma, in fin dei conti, non avevo avuto il coraggio di affrontare le conseguenze delle mie scelte, e mi ero andata a nascondere in un posto dove credevo nessuno sarebbe venuto a cercarmi. Non avevo più avuto notizie di Claudio. Lui non mi aveva chiamata, io non mi ero interessata di sapere come stava. Mi pentivo della mia scelta? No. Se non ci fosse stato Adriano, saremmo durati un po’ più a lungo ma, alla fine, sapevo che avremmo comunque preso strade diverse. Claudio era un ragazzo meraviglioso, era stato un fidanzato esemplare, eccetto per il suo eccessivo legame con la famiglia ma, dopo aver provato l’effetto che Adriano aveva su di me, mi ero resa conto che non eravamo fatti per stare insieme. Saremmo potuti essere buoni amici, ma non ero certa che lui sarebbe stato d’accordo con questa idea. Mi mancava Cassandra. Andando via, non mi ero solo lasciata alle spalle situazioni difficili. Ero stata costretta a separarmi dagli affetti di una vita, sicura di non rivedere nessuno di loro tanto presto, dai miei genitori che, nonostante avessero i propri difetti, erano pur sempre mamma e papà. Attorcigliai i ciuffi ribelli intorno alle dita. La coda schioccava al suono del vento. Mi sentivo sperduta. Al paese erano tutti disponibili e gentili, era soltanto questione di tempo, prima di riconoscere quel posto come casa. Non dovevo avere fretta. Razionalmente, era tutto così semplice ma purtroppo, quando me ne stavo per conto mio senza essere impegnata in qualche attività che necessitava della mia totale attenzione, mi lasciavo travolgere dalla malinconia. E, una volta che quella sensazione mi possedeva, arrivava lui. Un treno in corsa che mi tramortiva con tutta la sua violenza. Avevo cercato di non pensarci, ma era come costringersi a non respirare. La mia coscienza lo cercava nei ricordi, senza che potessi fare nulla per impedirglielo. Da quanto tempo non lo vedevo? Da quanto tempo i suoi occhi di smeraldo non correvano su di me facendomi sentire nuda e indifesa? Quanto era ato dall’ultima volta che il suo profumo mi aveva inebriato i sensi? Serrai le palpebre, scacciando l’immagine di Adriano che mi toccava, risvegliando i miei più bassi istinti. Adriano che mi baciava. Adriano che mi sorrideva. Adriano che si incazzava. Adriano, Adriano, Adriano. Potevo vederlo senza che dovessi sforzarmi. Possibile che esistesse qualcuno capace di possedermi in quel modo? Non mi piaceva essere totalmente preda delle emozioni. Mi sembrava di essere come un eroina di un romanzo dell’Ottocento, che si struggevano d’amore per un uomo che non poteva avere. Conficcai le unghie nei palmi delle mani. Il dolore mi svegliò, scacciando il ricordo di lui.
«Galen! Andiamo.» Il cane alzò il muso quando udì l’ordine. La coda che scodinzolava mentre con la mano gli indicavo di seguirmi. Ricominciai a muovermi più veloce. Stavo scappando. Tentando di sfuggire alle ombre del ato.
XXX
La tempesta
Greta:
Mi svegliai da sola. Il giorno prima il nonno mi aveva avvisata che sarebbe uscito nuovamente in mare. Mi aveva chiesto se volessi seguirlo. Avevo accettato. In quel periodo il dio Poseidone era generoso, bisognava approfittare dei doni che ci concedeva. Erano ati appena quattro giorni dalla mia prima e, speravo, ultima pesca, ma, il fatto che Hulrik tenesse così tanto alla mia presenza, mi aveva convinta a dire di sì. Lui era già in piedi, arzillo e pimpante. Lo incrociai di fronte alla mia porta, stava per entrare a svegliarmi. Rimase sorpreso nel trovarmi già fuori dal letto, abbastanza lucida. «Buongiorno Greta. Vedo che ti stai abituando ai ritmi della vita da marinaio.» Dal giorno della nostra battaglia contro i pesce spada, avevamo iniziato a piacerci. Il fatto che chiedesse la mia opinione su problemi che non riusciva a risolvere da solo, il modo in cui si preoccupava se mi sentissi a mio agio in quel posto, o come aveva cominciato a rivolgersi a me, mi avevano fatto capire che la sua considerazione nei miei confronti era aumentata. Non ero soltanto la figlia di sua figlia, ma una donna capace di darsi da fare, degna della sua stima. avamo parecchio tempo insieme, la maggior parte seduti al tavolo del Pub di Colin. Era piacevole la sua compagnia, così come quella della maggior parte degli abitanti della zona. Stavano facendo di tutto per farmi sentire bene accetta, ed era una cosa che per me aveva un valore inestimabile. Lo seguii nella solita routine quotidiana. Indossati gli abiti da lavoro, mi diressi verso le stalle; io e i cavalli cominciavamo a tollerarci, avevano smesso di
cercare di mordermi ogni volta che mi avvicinavo. Raggiunto il porto, lasciai Galen a Colin e mi preparai a saltare sul ponte. Gli uomini del nonno erano entusiasti di avermi a bordo. «Andiamo Greta, oggi ci aspetta un’altra giornata faticosa.» Non ebbi bisogno di aiuto per salire in barca, ero sufficientemente atletica per farcela da sola. Feci un cenno con la mano verso l’uomo alto che ci avrebbe aspettati tenendo in serbo per noi un piatto di carne succulenta con contorno di patate. Avevo già l’acquolina in bocca. Quel mattino, fummo i primi a salpare. Ero convinta che saremmo tornati vittoriosi come la volta precedente.
Adriano:
Feci il biglietto senza batter ciglio. Il volo che partiva a quell’orario era di una compagnia economica. La cosa non mi disturbava, nonostante fossi stato abituato agli agi della prima classe. Non sarebbe durato più di tre ore, potevo sopportare una poltrona scomoda e un compagno di viaggio. Guardai l’orologio che se ne stava alto e immobile al centro della grande sala d’attesa. Il volo sarebbe partito di lì a mezz’ora; mi avviai nella zona interna. Montai sulle scale mobili, il viso rivolto indietro; nessuno che si sbracciasse per salutarmi, nessuno che mi augurasse buon viaggio. Trassi un lungo sospiro. Ne ero dispiaciuto? Non proprio, perché credevo che se qualcuno fosse venuto all’aeroporto non sarebbe stato per festeggiare la mia partenza, ma, piuttosto, per cercare di impedirmi di salire sull’aereo. Attraversai il corridoio lungo il quale si affacciavano luminose ed invitanti vetrine piene di abiti dalle firme prestigiose. Decisi di entrare in un negozio da donna e di comprare qualcosa. La commessa mi accolse sorridendo, evidentemente aveva capito che ero uno che poteva permettersi di spendere. Iniziò a gironzolarmi intorno, provando a capire cosa stessi cercando. «Non lo so nemmeno io, grazie. Se avrò bisogno la chiamerò.»
Lei annuì continuando ad avere quell’espressione amichevole, fece finta di allontanarsi e, quando vide che sfioravo una sciarpa da duecento euro, si materializzò al mio fianco, come per magia. «È bella non è vero? Questo è un articolo che abbiamo venduto tantissimo. La sua fidanzata ne andrà matta.» Sentivo gli occhi che bruciavano di rabbia, stanchezza, fastidio. La mia tensione si riversò su di lei che, in fin dei conti, stava solo facendo il suo lavoro. Le strappai la pashmina dalle mani rimettendola a posto. «Se non ti levi dai coglioni chiamo il titolare e gli dico di licenziarti.» Avrei dovuto essere meno aggressivo. Mi guardò sconcertata, quasi stesse per scoppiare in lacrime da un momento all’altro. Mi girai intorno, fortunatamente non c’era nessun altro nel negozio a testimoniare la mia mancanza di educazione. Si allontanò in fretta. Avrei dovuto fermarla e scusarmi. Non era con lei che dovevo prendermela, sicuramente il suo lavoro era a percentuale. Stava soltanto facendo quello che le serviva per guadagnare qualche soldo in più. Presi la sciarpa dalle tinte vibranti, i suoi colori si sarebbero sposati perfettamente con la carnagione di Greta. Mi diressi verso la zona dei cappelli, la nuova collezione faceva bella mostra su un’intera parete. Ce n’era uno bianco, di lana morbida, un pon pon verde che se ne stava peloso sulla sommità. Presi anche quello, non curandomi di leggere il prezzo del cartellino. Mi feci dare un paio di guanti abbinati. Sapevo che l’inverno sulle coste Irlandesi poteva essere particolarmente rigido. Vidi un maglione di lana cashmere, color oro, con un grande collo morbido a fantasia che sembrava dipinto a mano. Chiesi la taglia più piccola che avevano. Ne presi un altro, per sicurezza, non doveva aver portato tante cose con sé. I miei occhi si fermarono sullo scaffale dove erano piegati ordinatamente dei pantaloni. Jeans scoloriti, aderenti, leggermente elasticizzati: le sarebbero andati bene. Li ammucchiai sulla zona dove stavo poggiando i miei acquisti. Le scarpe… Una ragazza aveva bisogno di scarpe. Fui attratto da un paio di stivaletti imbottiti, color giallo Timberland, la pelliccetta sbucava fuori dalla scollatura alla caviglia. Un dubbio mi colse. Che diavolo di numero di scarpe portava? Cercai di rammentare la fisionomia di Greta. Era una ragazza nella media, un numero di mezzo le sarebbe andato bene, nel caso contrario, non li avrebbe indossati. Se fosse stato per me, avrei acquistato tutti gli articoli esposti, ma non sapevo nemmeno se a lei avrebbe fatto piacere
ricevere dei doni. Mi voltai verso la cassa, guardai il manichino poco distante, mi piaceva la linea del corto cappotto imbottito stampato a quadri. Mi feci dare anche quello. Sarebbe stato l’ultimo acquisto. L’avrebbe tenuta al caldo, l’interno era foderato di pelliccia sintetica e aveva un grande cappuccio dal quale spuntava una rifinitura simile alla coda di volpe, ovviamente finta. Ero un animalista fervente, non avrei mai acquistato qualcosa che provenisse dalla sofferenza di un animale. La commessa, che prima avevo quasi fatto mettere a piangere, mi riservò uno dei suoi migliori sorrisi, una volta che ebbe battuto il prezzo finale. Non feci una piega, porgendole la carta di credito. Una volta uscito dal punto vendita, ero più pesante di un paio di buste. Durante il volo schiacciai un pisolino. Ero a pezzi, me ne ero reso conto nel momento in cui avevo appoggiato la testa sulla poltrona e il carrello aveva cominciato a rollare. Il movimento ritmico, il rumore del motore in lontananza, le chiacchiere della signora che mi sedeva accanto, mi avevano trasportato in un sonno senza sogni, senza che avessi il tempo di accorgermene. Aprii gli occhi di soprassalto quando la voce della hostess ci comunicò che eravamo arrivati a destinazione. Non mi ero nemmeno slacciato la cintura da quando eravamo partiti. Mi massaggiai il collo contratto. Di certo, dormire su un volo di linea, non era un tocca sana per quanto riguardava la cura del corpo. Seguii il flusso di gente che si avviava all’uscita. Alla porta una hostess dai capelli rossi, simili a quelli di Greta, mi fissò attraverso uno sguardo verde e vibrante. «Dormito bene signore?» Le guance le si colorirono quando la guardai interrogativo. Se avessi voluto farla capitolare, ci avrei impiegato solo qualche minuto, era già mezza andata. «Sì grazie.» La superai, senza aggiungere altro. Vidi lo sconcerto alterarle i lineamenti, evidentemente, non era abituata ad essere trattata con tale distacco. La valigia mi venne consegnata senza che dovessi aspettare più di qualche minuto. A volte si perdeva più tempo ad attendere i bagagli che non in volo. Chiesi al punto informazioni dove avrei potuto noleggiare un auto. Ogni persona alla quale mi rivolgevo era pronta ad aiutarmi; un ragazzo, vedendomi in
difficoltà, mi diede dettagliate spiegazioni. Trovai il garage senza problemi. Presi in consegna una Range Rover di ultima generazione. L’uomo che me l’aveva affittata, me l’aveva consigliata non appena saputo dove ero diretto. «Ha dei parenti lì?» Feci segno di no. «È qui per lavoro?» Osservai la macchina prima di rispondere all’insistente interrogatorio. Stavo diventando antipatico, ogni forma di cortesia mi disturbava. Che mi stava succedendo? «No…sono qui per le attrattive del posto.» Sorrisi stanco verso l’uomo dalla barba folta. Assomigliava più a un pastore che al proprietario di un autonoleggio. Mi strizzò l’occhio, dandomi una sonora pacca sulla spalla. Per poco non mi fece fare un o in avanti. «Una donna eh!In effetti le ragazze irlandesi hanno il sangue caldo. Ha il fuoco nei capelli?» Rammentai le rosse tonalità della chioma di Greta. Sì, un fuoco scoppiettante, rassicurante, accecante, ipnotico. «Sì, ha i capelli rossi.» Dissi invece. A quell’affermazione, seguì un’altra botta sulla schiena. Se me ne avesse allungata un’altra, sarei stato costretto ad intervenire. «Sei fortunato ragazzo. Le donne dai capelli ramati sono le più apprezzate qui da noi.» Dopo qualche altro minuto di chiacchierata, caricai la valigia e le buste in macchina. Lo raggiunsi all’entrata del garage abbassando il finestrino. «Non è che sa dove potrei alloggiare? Non mi sono informato su quali alberghi o bed and breakfast ci siano.»
Non mi lasciò finire che già correva alla scrivania dietro la quale compilava i contratti di affitto, cercò in un cassetto, e ne venne fuori con un bigliettino da visita. «Questo è il miglior albergo del paese, un posto pulito, ben arredato. Il servizio è ottimo, è di proprietà della cugina di mia moglie. Digli che ti manda Richard, ti farà un po’ di sconto e ti tratterà con i guanti.» Ringraziai, leggendo il nome riportato sul cartoncino satinato. Le lettere erano rotonde e romaniche. Poseidon. Carino, chissà se l’arredamento ricordava in qualche modo il dio del mare, pensai fra me e me. «Buona fortuna ragazzo.» Diedi gas, la Jeep schizzò fuori del parcheggio custodito, il proprietario dell’attività di leasing scomparve nello specchietto.
Le pianure erbose si susseguivano a perdita d’occhio. La costiera che mi indicava il navigatore era piena di curve, ma ben asfaltata e, soprattutto, bella da percorrere. Non ero mai stato in Irlanda prima di allora. Compresi subito per quale motivo la chiamavano l’isola di Smeraldo. Le campagne erano uno spettacolo suggestivo, il mare, lontano, una netta striscia bluastra che si stagliava contro il cielo terso. Il sole stava calando, mancavano un paio d’ore al tramonto. Qualche gabbiano volava in alto, qualcuno era a terra. L’oceano, da quella distanza, appariva calmo. Evidentemente era un effetto ottico perché si dice che, quando gli uccelli marini decidono di sostare sulla terra ferma, si sta preparando una burrasca. Scorsi il piccolo agglomerato di case in lontananza. I colori con i quali erano stati dipinti i muri, si sposavano perfettamente tra loro: colori chiari, dall’azzurro al rosa pallido. La maggior parte delle abitazioni però, aveva pareti bianche. Guardando quel mucchio di costruzioni, una attaccata all’altra, sperai che ci fosse una zona dove parcheggiare; la macchina che avevo noleggiato era bella grossa, non potevo certo lasciarla in mezzo alla strada. Scesi piano per la piccola strada che si snodava attraverso le vie che conducevano alle varie abitazioni. Il vento, ora che mi stavo avvicinando alla
costa, era più forte. Una vecchia signora camminava piano, la mano stretta intorno al collo della giacca, i capelli bianchi schiacciati sulla fronte. Mi fermai accanto a lei. «Signora! Vuole un aggio?» Mi faceva tenerezza vedere quella vecchietta cercare di combattere contro le intemperie. I suoi occhi azzurri mi fissarono. Rughe profonde le scavavano il viso stanco. C’era qualche fessura tra un dente e l’altro intanto che sollevava le labbra segnate. Le sorrisi a mia volta. «Grazie…sto andando al pub di Colin, ti spiace portarmi giù al porto?» Smontai dall’auto per aiutarla a salire sul sedile anteriore. Era leggera, quasi fosse fatta di carta. Si strinse ancora di più nel pesante cappotto di lana. Si voltò verso di me. «Non ti conosco ragazzo. Sei amico di qualcuno?» Aveva la voce limpida e chiara. «Sì…dove devo andare? Deve indicarmi lei la strada. È la prima volta che vengo qua.» La vecchietta rise, le sue dita sottili mi batterono un paio di volte sulla mano. «Certo che è la prima volta che vieni! Me lo ricorderei un bel giovane come te.» Scossi la testa lusingato seguendo le sue indicazioni. Ci impiegammo cinque minuti per raggiungere la zona portuale. La maggior parte degli abitanti era riunita sulla banchina, sembrava un raduno. Doveva essere successo qualcosa. Parcheggiai dove trovai posto, non mi curai del fatto che avevo occupato metà della strada. Un uomo grosso come un orso stava in piedi al centro della folla. Barba rossa, capelli ricci e lunghi, il ventre prominente, l’ossatura robusta. Urlava ordini a destra e sinistra. Un setter irlandese gli saltellava accanto abbaiando di tanto in tanto. La vecchia signora mi prese per mano, facendo sì che anche io mi avvicinassi a tutta quella gente. Il vento era talmente violento da spingermi all’indietro nel frattempo che gli schizzi delle onde mi bagnavano il viso. La
vista della tempesta che infuriava a largo era terribile. Una ragazza con i capelli castani ed una lunga coda che le penzolava dietro mi diede un’occhiata interessata, prima di superarmi di corsa. Una volta che io e la mia accompagnatrice raggiungemmo il gruppo di più di trecento persone, parecchi sguardi si posarono su di noi. «Lea, tuo figlio ha detto qualcosa riguardo all’avvistamento del peschereccio?» La signora che mi stringeva la mano fece segno di no. «Ha detto che il mare è troppo agitato, il vento potrebbe rischiare di far precipitare gli elicotteri. Non possono uscire ora.» La conversazione riguardava una barca da pesca. Le facce preoccupate di quelli che mi stavano intorno facevano supporre il peggio. «Colin dobbiamo uscire a cercarli. Sono tornato appena in tempo per evitare il temporale. Non puoi immaginare l’inferno che si stava scatenando. Bisogna recuperarli al più presto o la barca di Hulrik non reggerà.» Quel nome mi era familiare. Dove lo avevo sentito? «Posso tentare di attraversare il golfo, il mio peschereccio è grosso, almeno cinque metri in più rispetto al loro, reggerà meglio il mare.» L’uomo che parlava aveva l’aspetto di un vichingo sceso dal Valalla, lunghi capelli biondi, barba corta che andava sul rossiccio. Una strana sensazione alla bocca dello stomaco. Cercai Greta. Non c’era. Il biondo fece per andare in direzione del molo. Un paio di grossi amici lo afferrarono per le braccia, si voltò come una furia, gli occhi che lanciavano saette. «C’è quella ragazzina con loro! Non potete lasciarli senza aiuto.» Un vago senso di orrore mi pervase le membra. Hulrik. Avevo visto quel nome da qualche parte. Mi ricordai del foglietto che mi aveva dato il padre di Greta. Suo nonno si chiamava così! Quanti Hulrik potevano esserci in quel posto? Speravo parecchi.
Mi feci avanti, fissando l’attenzione in quella del vichingo. Mi guardò un momento. Nei miei occhi curiosità, rabbia, preoccupazione. Chi era la ragazzina sulla barca? Non sapevo se la mia faccia esprimesse il panico che mi attanagliava le viscere. Credo di sì, perché non ebbe bisogno che aprissi la bocca per annuire. Oddio! Le forze mi abbandonarono, lo sguardo calamitato dallo spettacolo oceanico che mi si profilava di fronte. Le onde, anche a ridosso della costa, erano altissime. Non osavo immaginare la potenza che avevano a largo. «Greta è sulla barca?» Le parole uscirono strozzate. Avevo la gola chiusa, faticavo anche solo a concepire un simile pensiero. L’omone dalla folta criniera rossa, che evidentemente stava organizzando i soccorsi, mi fissò. Lo sentii avvicinarsi. Il vento mi sbatté contro un’altra raffica, gli schizzi d’acqua mi accecarono. «Sei un amico di Greta?» La voce di tuono mi scosse dallo stato di shock, mi voltai a guardare quella ferrea espressione, la mascella contratta. Eravamo della stessa altezza, ma al suo confronto mi sentivo esile come un poppante. Comandai la testa di annuire ma non ero certo che le membra rispondessero agli imput. Capì comunque, la sua grossa e callosa mano si chiuse intorno al trapezio. La schiena si curvò sotto la consapevolezza del pensiero che stava prendendo forma nella mia mente. «Vedrai che torneranno ragazzo. Hulrik non permetterà che le accada niente.» Mi mossi come se le mie gambe fossero state fatte di gelatina, raggiunsi la banchina in legno, gli occhi che scrutavano verso l’orizzonte, il suono del mare che rimbombava nelle orecchie. Greta era lì fuori.
Greta:
Faceva caldo, non si muoveva un filo d’aria, il cielo chiaro, nemmeno una nuvola. Avevamo già pescato una quindicina di tonni. Tutti i presenti
continuavano ad asserire che la mia presenza sulla barca portasse fortuna. Per me era solo un caso. Avevamo trovato una buona zona, cominciando a navigare sopra un grosso e nutrito banco di pesci. Il nonno e gli altri canticchiavano contenti ogni volta che una delle canne si piegava verso il basso. Ognuno di loro, a turno, dopo aver tirato la preda a bordo, mi ava vicino e mi dava qualche pacca sulla schiena. Dissi loro più volte che non era merito mio se eravamo capitati in un punto dove avano i tonni, ma non c’era verso di fargli cambiare idea, erano convinti che, senza di me, sarebbero tornati a casa a mani vuote. Alzai le spalle in segno di resa. Se era così che volevano vedermi, fero pure, non era male essere considerata un porta fortuna. La ricetrasmittente stridette. Non c’era nessuno in cabina di pilotaggio. Hulrik mi fece cenno di andare a sentire. «Se è Samuel digli che anche stasera dovrà pagare. Ha perso di nuovo la scommessa.» Sorrisi mentre i piedi, infilati negli stivali di gomma, tamburellavano sul fasciame. Samuel aveva scommesso con il nonno duecento euro che la nostra fortuna non sarebbe durata a lungo e che, quella volta, sarebbe stato lui a tornare a casa con il pescato più consistente. Mentre riflettevo sul battibecco che avevano avuto quella mattina, William tirò su un grosso esemplare che pareva pesare abbastanza. Scossi il capo. Mi dispiaceva per Samuel. Afferrai il walkie talkie, la voce gracchiava, non si sentiva bene. Spinsi il pulsante che mi avrebbe permesso di comunicare. «Samuel?» La frase mi giunse alterata, non riuscivo a capire un accidenti di ciò che stesse dicendo. Fui in grado di afferrare un’unica, singola parola. «Tempesta.» Abbandonai il microfono e corsi fuori. «Nonno, vieni subito. Non riesco a capire cosa voglia. Sembra preoccupato.» Hulrik lasciò la propria postazione a William, che aveva finito di riempire il tonno con il ghiaccio. Ero sovrastata dalla sua imponente mole. Afferrò il ricevitore, le orecchie attente, l’espressione che si trasformava. Annuì
osservando il mare in lontananza. Non ero stata capace di afferrare il senso della conversazione. Il nonno spinse la mano sulla leva dell’acceleratore, il motore che ruggiva, io che venivo sbalzata all’indietro. Strinse il timone con entrambe le mani, una virata stretta, la barca iniziò a muoversi nel senso contrario. Stavamo tornando verso casa. «Che succede?» Il suo viso era tutt’altro che rassicurante. Provò a sorridere, ma era palese che non fosse la solita smorfia allegra che eravamo soliti scambiarci. Il cuore prese a battere forte. Uscii all’aperto, scrutai lontano, il cielo era limpido, l’aria mi sferzava le guance a causa della velocità elevata. William mi si avvicinò. Guardai le canne, ormai libere da qualsiasi peso: sventolavano in aria. Le lenze dovevano essersi spezzate. «Che succede?» Anche lui era sorpreso. Tutto l’equipaggio era riunito intorno a me, l’attenzione rivolta al nonno. Non avevano bisogno di parlare, i volti tetri. Che cazzo stava succedendo? William mi ò un braccio intorno alle spalle, mi parve di vedere lontano un puntino scuro che si avvicinava. «Che cos’è?» Alzai gli occhi verso quelli di lui. «Una tempesta.» ai in rassegna le espressioni funeree. Hulrik aveva accelerato la velocità. Saremmo riusciti a rientrare in tempo?
Adriano:
Mi ero rintanato nel pub di Colin, insieme al resto delle persone che fino a poco prima stavano fuori a discutere su quale fosse la cosa migliore da fare. Dopo
un’ora, non si era ancora risolto niente, eccetto per il fatto che la pioggia aveva cominciato a cadere e noi eravamo stati costretti a ripararci dentro il locale. Samuel continuava ad inveire contro tutti e nessuno. Gli avevano impedito di prendere il largo. Era stata una fortuna, dato che il mare si era ingrossato ancora. Avevo il cuore congelato, non sentivo niente, non vedevo niente, i pensieri che si affollavano. Cosa avrei fatto se lei non fosse tornata? Non volevo nemmeno pensarci. Mi presi la testa tra le mani, avrei voluto sbattere i pugni sul tavolo, rompere qualcosa, fare a pugni con chiunque, invece me ne stavo lì, in silenzio, a combattere contro il senso di perdita che già mi stava facendo delirare. Colin, il proprietario del pub, mi si avvicinò con una zuppa di piselli fumante. Persino l’odore mi dava il voltastomaco. Feci cenno di no con la mano, lo sguardo incatenato fuori dalla finestra. Non vedevo bene, sarebbe stato meglio uscire. Mi alzai, infilandomi l’impermeabile che qualcuno mi aveva dato, non ricordavo chi. Non mi piaceva come mi guardavano tutti, con un misto di comione e pietà. La davano già per morta. Non potevo continuare a stare là dentro. Il grosso setter irlandese grattava con la zampa sul legno dell’uscio, abbaiava di continuo. Aprii l’entrata, lui si gettò fuori, incurante della sferzata di vento che per poco non mi sbatté la porta addosso. Lo seguii, senza sentire quello che dicevano gli altri. Cominciò a saltare sulla banchina, gli occhi attenti scrutavano il mare. Ringhiò alle onde, mi ci misi a fianco qualche secondo più tardi. Strinsi il cappuccio intorno al viso. Scrutavo lontano, le enormi cascate d’acqua si infrangevano sulle barche dondolanti che pareva dovessero affondare da un momento all’altro. Non mi era mai capitato di assistere ad una simile furia degli elementi. In quel momento, la forza dei miei pensieri era concentrata su un’unica preghiera. Che Greta tornasse a casa sana e salva. Non compresi se insieme agli spruzzi dell’oceano, sul mio viso, si mescolarono le lacrime. Comunque, non mi importava. Quei grossi uomini del nord potevano vedermi mentre mi scioglievo in un pianto disperato, non me ne fregava un cazzo di ciò che avrebbero pensato. L’unica cosa che desideravo, era scorgere lo scafo sul quale si trovava Greta e saperla al sicuro.
Greta:
La barca correva come non mai. Le nuvole nere ci avevano quasi raggiunto. Era una lotta tra noi e il vento. Ero convinta che avrebbe vinto lui, ma non lo dissi a
voce alta, non pensavo sarebbe servito a migliorare l’umore di tutti. Hulrik ci aveva chiesto di occupare la cabina. Le onde erano troppo alte, rischiavano di ribaltarci. Non dissi nemmeno questo. Chiusi gli occhi, appoggiandomi alla possente muscolatura del nonno, lui non lasciava mai il timone, fissava immobile di fronte a sé, cercando di cavalcare i flutti in modo tale che rimanessimo a galla. Sentivo il peschereccio che si abbassava ed alzava sotto di noi; nessuno parlava, c’era un silenzio tombale lì dentro, i nostri corpi ammassati che riscaldavano l’abitacolo. Superammo un’onda grande come un palazzo, il cuore mi balzò in gola e provai la stessa sensazione di quando, da adolescente, feci un giro sulle montagne russe. Avevo lo stomaco sotto sopra. «Non ce la faremo a tornare al porto.» Le sue parole caddero come massi gettati in una caverna. «Non possiamo restare in mare aperto Hulrik. Il peschereccio non resisterà.» Continuai a tenere le palpebre incollate e a stringere la giacca a vento di lui. «No. Ho intenzione di raggiungere il promontorio. Dobbiamo entrare in una zona protetta.» Il capitano in seconda guardò attraverso il vetro sporco. «Se raggiungiamo la costa credo che il mare ci sbatterà contro gli scogli. Non penso sia una buona idea. Dobbiamo provare a tornare a casa.» Il bip bip del radar montato sulla cassetta di pilotaggio segnava che ci trovavamo sempre nello stesso punto, il vento ci era contrario, la barca non riusciva ad andare avanti. «George, è l’unico modo. Tenteremo di raggiungere la costa.» Una lieve tensione del braccio stava bloccando il timone in modo che andassimo dove voleva. Speravo davvero di essere fortunata, così che saremmo riusciti a superare la tempesta incolumi.
Adriano:
La notte mi premeva addosso come una coperta pesante. Non si vedeva nulla attraverso il cielo scuro. Il vento si era calmato e aveva smesso di piovere. Io e il cane eravamo fuori da non so quanto tempo. Seduti vicini, io sulla panchina, lui zuppo, sdraiato a contatto con le mie gambe intirizzite. Nessuna luce in lontananza. ai il palmo sulla pelliccia umida del setter. Non abbaiava più. Uggiolò, sollevando il muso da segugio. Doveva appartenere al nonno di Greta, il cane di un’altra persona non si sarebbe comportato in quel modo. Mi fissai in quegli occhi sinceri, del colore delle foglie cadute. Avvicinai il naso al suo, la lingua umida mi bagnò la guancia. «Vedrai che torneranno, amico.» Guaì una seconda volta, appoggiandosi sulle zampe. Lo sguardo rivolto lontano, in direzione del mare aperto. Dovevo credere che sarebbe tornata. Se avessi cominciato a pensare il contrario, sarei stato perduto. La voce di Colin, alta e perentoria, mi raggiunse chiara non appena aprirono la porta. «Ho intenzione di uscire. La tempesta si è calmata, non rischio molto sulla mia barca. Devo sapere se sono ancora lì fuori!» Samuel mi ò accanto come una furia. Saltò con un balzo sull’imbarcazione più grossa ancorata al molo. Accese la luce che stava sopra la piccola cabina. La zona deserta eccetto per me e il cane, venne illuminata a giorno. Fui costretto a portarmi le mani a proteggermi la vista, evitando di rimanere accecato. «Samuel falla finita. Il mare potrebbe gonfiarsi di nuovo.» Avvertii il suono della chiave che girava nel motore. Il grosso mezzo non partiva, continuava a singhiozzare mentre l’interruttore veniva abbassato ed alzato ripetutamente. Doveva aver piovuto talmente tanto da rendere il motorino d’avviamento inutilizzabile. Lo sentii bestemmiare attraverso il vetro dietro cui armeggiava, i pugni che sbattevano contro il quadro di comando; il suo nervosismo non faceva altro che alimentare il mio. Tutti avremmo voluto fare qualcosa, ma se continuava a comportarsi come un pazzo esaltato, non sarebbe stato di aiuto a nessuno. Saltò oltre lo scafo raggiungendo la terra ferma, il o di marcia, la mascella che si chiudeva a scatti. Intanto che mi ava vicino i
nostri occhi si incrociarono un istante. Non so perché mi si avventò contro, forse aveva bisogno di scaricarsi. Il fatto di non aver potuto rendersi utile lo aveva messo di pessimo umore. Be’, il mio non era molto migliore del suo. Mi saltò sopra con il pugno teso, mi raggiunse in pieno viso; sentii la mia testa piegarsi all’indietro. Lo afferrai per i bordi della giacca. Cademmo avvinghiati a terra, il grosso cane che abbaiava contro il mio assalitore. Rotolammo uno sull’altro. Mi atterrò, era più pesante di me, venni sbattuto con la schiena sull’asfalto; mi colpì un paio di volte sulla faccia, sentivo il sangue riempirmi la bocca. Feci leva sulla parte sinistra del corpo, riuscendo a ribaltare la situazione. Lo picchiai a mia volta. Mi accorsi vagamente del vociare della gente che ci stava raggiungendo. Il setter irlandese abbaiava forsennatamente. Samuel mi sbalzò da sé. Lo guardai mentre si puliva il liquido vermiglio che gli colava da un angolo della bocca. Sputò un grumo di saliva. Mi avventai contro di lui con un ringhio sulle labbra. Fu pronto a schivare, poi mi colpì in mezzo alle scapole. Caddi sull’asfalto, dolorante, stremato, senza speranza. Piegai i gomiti voltandomi a pancia in su. La lingua del cane mi leccò il sangue dalla faccia. L’attenzione concentrata sul cielo. In lontananza, una stella fece capolino attraverso le nubi.
Greta:
La barca andò a sbattere contro la costa rocciosa. Hulrik bestemmiò in tutte le lingue che conosceva. Aveva paura che a causa di quel colpo avremmo cominciato ad imbarcare acqua e non saremmo rimasti a galla a lungo. George lo fermò, prima che uscisse a controllare il danno. Lo scafo colpiva ripetutamente il costone. «Vado io. Cerca di portare Miss Glenda in una zona sicura.» Glenda era il nome del peschereccio, mia nonna si chiamava così. Lui l’aveva rinominata in suo onore quando era venuta a mancare. La pioggia investì il corpo dell’uomo non appena aprì la piccola porta che dava all’esterno; poi scomparve, la cabina nuovamente isolata dalla tempesta che continuava ad infuriare. Il motore ruggì quando il nonno lo mise al massimo per
fare in modo che lo scafo si muovesse in retromarcia. Hulrik ci aveva portato in un’insenatura protetta, ma le correnti ci avevano fatto arrivare sotto la parete a strapiombo. Gli scogli affioravano a distanza ravvicinata, la barca aveva cozzato contro di loro parecchie volte. Se fossimo rimasti in quel punto, c’era il rischio che la potenza del mare ci riducesse in mille pezzi. Attraverso i vetri appannati non si vedeva niente, Hulrik navigava affidandosi solamente ai sensori del radar. Mi strinse a sé, avvolgendomi con un braccio. Nascosi la faccia sul suo petto. «Non preoccuparti Gretel, siamo quasi arrivati.» George entrò di corsa. Per pochi minuti che era rimasto fuori, era ritornato zuppo come un pulcino appena nato. Si tolse di dosso l’impermeabile. «Siamo sotto il promontorio Nord. Se riesci a portarci cinquecento metri dentro, saremo al riparo.» Lo sentii annuire, mi scansò da sé, aveva bisogno di tutta la concentrazione possibile per riuscire a fare la manovra.
Adriano:
Non avevo colto il suggerimento di Colin di entrare nel pub e darmi una sistemata. Non me ne fregava un cazzo che la mia faccia si sarebbe gonfiata come un pomodoro nell’arco di un’ora. Avrei anche potuto rimanere sfigurato per sempre, la cosa non era rilevante. Samuel si era seduto con i piedi che ciondolavano fuori dal molo, le braccia strette intorno al corpo. Anche lui si era rifiutato di entrare. Il segugio si alzò di scatto. Il mio cuore mancò un colpo quando si sollevò sulle zampe anteriori, le orecchie che captavano i suoni a noi nascosti, il naso che odorava l’aria. Partì, senza che riuscissi a capacitarmi di cosa stesse succedendo. Rimasi a fissare il punto dove era stato accucciato poco prima, il manto fulvo che stava per scomparire oltre la curva. Non persi tempo e cominciai a correre. Non sapevo perché lo stessi facendo, forse era l’unica cosa che avesse avuto senso in quella giornata. Seguire il cane. Non mi sentivo più stanco. Il setter aveva percepito qualcosa, ne ero certo. Mi mossi più veloce di quanto avessi mai fatto. A volte lo perdevo di vista, ma lo ritrovavo poco più tardi. La sua sagoma sfrecciava inseguendo l’usta.
Sapevo che qualcuno si stava muovendo. Sentii dei i dietro di me, il motore di una macchina che si avviava seguita da altre, i pneumatici che stridevano sulla strada bagnata. La costiera saliva, scendeva, saliva ancora. Avevo il fiato corto, il sudore che mi bagnava la maglietta, gli occhi umidi a causa del vento che mi soffiava in faccia. Un unico nome, un unico pensiero. Greta. L’uggiolio del segugio si fece insistente. Proveniva da sotto. Una stradina stretta portava alla riva. La costa scendeva a strapiombo, soltanto quell’impervio aggio permetteva di raggiungere il mare. Scivolai, mi rialzai, le mani ferite, i pantaloni pieni di fango, le scarpe ormai zuppe di pioggia, di terra. Continuavo a correre, il fiato corto, il cuore che mi martellava nel petto. Finalmente la vidi. Una barca da pesca che oscillava al ritmo delle onde, protetta in quel bacino naturale. Accelerai, dietro di me qualcuno strillò, dal mare nessuna risposta. Il peschereccio sembrava essere in buone condizioni. Intatto, un po’ ammaccato, l’unico elemento che spiccava chiaro su quello sfondo di tenebra. «Greta!» la mia voce urlava disperata. Il latrare del cane sovrastava qualsiasi altro suono. La gente sopraggiunta continuava ad urlare i nomi di quelli che dovevano essere i marinai a bordo. Sentivo in risposta soltanto il setter che continuava ad abbaiare. Cazzo! «Greta!» Perché non rispondeva? Perché non percepivo la sua voce da ragazzina sollevarsi al di sopra di tutto? Il cane continuò ad abbaiare, non sapevo se fossero versi di giubilo o di disperazione. Scivolai ancora, rotolai a terra, mangiai una boccata di fango, sputai quello che potevo, mi rialzai, continuai a scendere. Il tragitto era infinito. Potevo distinguere bene i contorni dell’imbarcazione, un nome di donna dipinto sulla poppa. Qualcosa si muoveva nell’acqua. Il setter si tuffò, la sua pelliccia rossa sembrava una ferita sulla superficie scura. Alla fine i piedi toccarono il bagnasciuga. Mi tolsi le scarpe e seguii l’esempio dell’animale; la temperatura era ghiacciata, mi mancò il fiato non appena entrai a contatto con la consistenza liquida. Rimasi immobile, un istante. C’era qualcuno che nuotava nella mia direzione. Erano salvi! Iniziai a compiere grosse bracciate che sferzavano l’oceano, nulla avrebbe potuto impedirmi di raggiungere i naufraghi. Il cane si fermò accanto alle figure in
ombra. Qualcuno rise di cuore mentre l’animale gli leccava la faccia girandogli intorno entusiasta. La voce di un uomo, dura, roca, autoritaria. «Galen! Bravo bello!» Quello prese ad uggiolare contento, poi lo vidi dirigersi verso un’altra figura poco distante. «Greta! Salutalo o non te lo leverai di torno.» Il mio corpo ebbe un fremito. Galen stava compiendo delle piroette intorno a qualcun’altro. «Buono Galen, fammi arrivare a riva, poi ti darò tutte le carezze che meriti.» Volevo piangere di gioia e di sollievo. Era Greta. «Greta!» Gli occhi delle persone in acqua si voltarono verso di me che continuavo ad andare avanti come se avessi avuto un motore a darmi la carica. Si era fermata a fissare gli spruzzi provocati dalle mie braccia. La raggiunsi, il grosso cane le era rimasto accanto. Aveva il volto pallido, i denti che battevano incontrollati. Volevo abbracciarla, baciarla, dirle quanto fossi felice di vederla, ma non mi venne in mente nulla, nulla che potesse esprimere ciò che provavo in quel momento. Le labbra le tremarono più forte quando, guardandomi, mi riconobbe. Non capii se piangesse di gioia o di sollievo. Era viva, ed era l’unica cosa che importava.
XXXI
Lei, Greta;
Il calore di Adriano
Adriano mi stringeva forte mentre l’auto sobbalzava sulla stradina di campagna. Avevo freddo, ero bagnata da capo a piedi. Cercavo di trarre un po’ di calore da quel corpo forte, ma lui era zuppo quanto me. Tremavamo entrambi. Mi aveva afferrata nell’acqua, trascinandomi a riva, e da quel momento non si era mai allontanato. Mi guardava, mi baciava, mi sorrideva, si corrucciava. Non ero riuscita a contare quante e quali emozioni si fossero alternate sul suo viso. Ero confusa dalla sua presenza, avevo cercato di formulare pensieri che avessero senso, ma dalla bocca non era uscito nessun suono al di fuori di quello dei miei denti che continuavano a battere forte. Chiusi gli occhi. Sapeva di mare, di freddo, di verde terra irlandese, non erano gli odori che gli appartenevano ma gli stavano bene. Mi abbracciò un po’ di più, la macchina ebbe un sussultò ed entrambi fummo sbattuti contro la portiera. Arrivammo alla cittadina dopo poco. Il tempo pareva volare via una volta scesi da quella maledetta barca. Non sapevo per quale motivo ancora non avessi dato di stomaco. Avevo la pancia in subbuglio e temevo che da un momento all’altro mi sarei piegata e avrei rovinato la tappezzeria dell’auto. «Non preoccuparti Greta, siamo arrivati. Ti porto in albergo, così potrai farti una doccia calda.» Adriano aveva capito che ero a disagio. Mi diede un delicato bacio sulla fronte. Io annuii e mi preparai a scendere nel momento in cui il furgonato si arrestò di fronte al pub di Colin. La gente era assiepata fuori, sulla strada di fronte al porto. Una volta che fummo
scesi dalle vetture, gli applausi si confo nella notte. Da lontano sentii mio nonno che scoppiava in una risata di gioia. Sorrisi a mia volta, trasportata dal suo entusiasmo. Qualcuno mi si avvicinò per chiedermi informazioni riguardo al nostro miracoloso sbarco, ma io avevo freddo, avevo bisogno di togliermi quegli abiti bagnati di dosso. Mentre Adriano mi prendeva per mano obbligandomi a camminare verso il centro del paesino dei pescatori, mio nonno ci urlò dietro. «Ehi! Ragazzo! Dove credi di portare mia nipote?» Arrivò subito dopo, gran parte dei cittadini erano dietro di lui. Adriano mi nascose dietro di sé. Cercai di allontanarlo in modo da poter guardare Hulrik in faccia, ma lui non si mosse. «La porto in albergo, sta congelando qui fuori.» Hulrik mi si avvicinò, non sembrava risentire del bagno serale che aveva seguito la navigata nella tempesta. Beata vecchiaia! «Vuoi andare con lui Greta? Ti porto a casa immediatamente se preferisci.» Il nonno non aveva idea di chi fosse Adriano. Se non lo avessi rassicurato, non mi avrebbe permesso di andare. «È tutto ok. Adriano è un mio amico.» Lo osservò attentamente. Dal modo in cui si comportava Adriano, lo si sarebbe potuto definire molto più di un semplice amico. «Stai attento ragazzo. Se vengo a sapere che hai fatto qualcosa a mia nipote, ti farò pentire di aver messo piede sul suolo irlandese. Chiaro?» Si guardarono per un secondo, avevano la stessa altezza. Adriano annuì impercettibilmente, poi si voltò continuando a camminare verso la struttura che recava affissa sulla porta l’insegna Poseidon. La stanza era calda, i termosifoni accesi, le coperte invernali a coprire il materasso alto. Avrei voluto infilarmi sotto di esse e sprofondare nel sonno. Ma lui mi portò in bagno e accese un termoconvettore che, dopo un’incertezza iniziale, emise un getto continuo di aria calda. Diedi una rapida occhiata al mio riflesso: i capelli appiattiti intorno alla testa, gli occhi grandi, ancora spalancati
dalla paura che avevo provato, la carnagione pallida arricchita da una sfumatura grigiastra, le lentiggini che spiccavano nitide all’altezza delle guance. Lanciai uno sguardo al ragazzo che mi fissava a pochi centimetri. Era sempre bello, nonostante avesse appena nuotato nelle gelide acque dell’oceano, nonostante fosse sporco di terra, e avesse la barba lunga. Guardarlo faceva male agli occhi, come poteva un uomo essere così attraente? E poi, perché si trovava in Irlanda? Avevo cercato di dimenticarlo. Mi ero buttata anima e corpo in ogni tipo di attività che mi avrebbe permesso di non lasciar vagare la fantasia, e invece, eccolo lì, che mi fissava con quella meravigliosa espressione di smeraldo. Tutte le emozioni che avevo cercato di reprimere, tornarono prepotentemente a galla. «Perché…perché…sei…qui?» Balbettavo, i denti continuavano a battere senza che riuscissi a controllarli. Mi strinse e io mi lasciai abbracciare. Non riuscivo a muovermi un granché, la mia risposta al suo slancio risultò piuttosto fiacca, ero ancora mezza congelata. «Domani, domani parleremo di tutto ciò che vorrai, adesso lascia che io mi prenda cura di te.» Continuai a fissarlo mentre mi liberava dai vestiti fradici. I panni erano appiccicati alla pelle. Me li fece scivolare di dosso con cura. Rabbrividii quando mi ritrovai nuda, di fronte a lui. Cercai di coprirmi come meglio potevo, improvvisamente pudica, completamente esposta alla luce artificiale della lampada. Sorrise, nel frattempo che si spogliava anche lui. Il mio cuore cominciò a battere forte. Nonostante fossi ancora scossa a causa degli eventi appena trascorsi, non riuscivo a non provare una vibrante eccitazione. Accese l’acqua della doccia, lasciandola scorrere. Sarebbe stata bollente quando ci saremmo infilati nella cabina. Si avvicinò tanto che i nostri corpi aderirono l’uno con l’altro. Percepii la sua erezione puntarmi contro il ventre. «Non preoccuparti Greta, non ho intenzione di approfittare della situazione. Non oggi.» Il tono era ironico e lo sguardo malizioso. Mi prese per mano facendomi entrare per prima. Il getto caldo mi aggredì obbligandomi a scostarmi. Ci volle qualche istante perché il corpo si abituasse alla temperatura elevata, traendone giovamento. Mi lasciai lavare. Mi insaponò tutta, persino i capelli; massaggiò la schiena curva per la stanchezza, le gambe, i piedi. Mi voltò verso di lui in modo che potesse guardarmi mentre frizionava la
pelle che si stava arrossando a causa del calore eccessivo. Non ebbi la forza di fare niente, mi riusciva difficile persino alzare un braccio ed accarezzargli il viso, grata per le attenzioni che mi stava riservando. La tensione mi abbandonò lentamente, il tocco esperto cancellò la paura, la sensazione delle onde che si alzavano ed abbassavano, la consapevolezza del pericolo, la preghiera silenziosa delle persone che erano accanto a me e che avevano ormai perso la speranza di tornare a casa. Le lacrime si confo con le gocce tiepide. Non mi resi conto di stare piangendo fino a che non mi accorsi che il petto era squassato dai singhiozzi. Adriano mi venne vicino, raccolse parte del mio pianto con le labbra, mi sorresse permettendomi di scaricare quell’ansia che non riuscivo più a contenere. Piansi a lungo. Non mi lasciò fino a che gli occhi restarono asciutti e io fui in grado di parlare di nuovo. Mi accarezzò i capelli asciugandoli con il phon, mi mise addosso uno dei pigiami che aveva arrotolato nella valigia che si era portato dietro. Era enorme. Mi strinse ancora e ancora, fino a che non fui calda e smisi di tremare. Sollevò un angolo del lenzuolo invitandomi a sdraiarmi sotto. Io lo osservavo girare intorno al letto, controllare che la porta della camera fosse chiusa, assicurarsi di aver staccato tutte le prese, fissarmi ancora con un’espressione che non ero in grado di definire. Spense la luce. La stanza cadde nel buio, i suoi movimenti erano silenziosi, appena percettibili. Le palpebre si abbassarono in un riflesso incondizionato. Ero stanca, la doccia mi aveva privata delle ultime forze rimaste. Si distese accanto a me. Strusciai sul materasso per andargli vicino, il suo corpo caldo mi attirava come una calamita. Gli accarezzai l’addome. Sotto il tessuto della maglietta i muscoli erano tesi. Labbra gentili mi sfiorarono la fronte. Fui accolta da un abbraccio all’interno del quale mi sentivo protetta, rimasi senza fiato quando impose più forza di quanta non ne fosse necessaria, quasi avesse paura che gli sfuggissi. «Dormi Greta. Devi riposare.» Mi accoccolai un po’ di più, incuneata nel suo fianco. L’ultimo pensiero prima di addormentarmi fu di gratitudine per un Dio che in quel momento, ero certa esistesse; per mio nonno, che ci aveva portati sani e salvi fuori da quell’inferno e, infine, per Adriano che era apparso dal nulla come un’allucinazione. Chiusi gli occhi, certa di essere finalmente al sicuro.
Mi svegliai di soprassalto. Feci fatica ad adattare la vista alla penombra. Dalla finestra che si affacciava sul balcone proveniva un leggero spiffero d’aria; le ante erano socchiuse. Mi voltai dall’altro lato: il posto al mio fianco era vuoto. Allungai la mano, le coperte erano ancora calde, non doveva essersi alzato da molto. Scesi dal letto. Il pavimento era freddo, mi sollevai sulla punta dei piedi mentre mi avvicinavano alla valigia semiaperta. Tirai fuori un paio di calzini da uomo, erano di lana, di almeno sette numeri più grandi. Sarebbero andati benissimo. Trovai un paio di scarpe da ginnastica immacolate, presi anche quelle. Ci ballavo dentro. La felpa di Adriano era appoggiata allo schienale dell’unica sedia presente. Me la poggiai sulle spalle, il suo profumo mi inebriò facendomi sentire la testa leggera. Avevo dimenticato quanto fosse buono il suo odore. Spostai la maniglia della finestra. L’ombra si stagliava netta contro il cielo che stava via via diventando più chiaro. Dovevano essere appena le cinque. Avevo dormito poco. Si girò verso di me non appena si accorse che lo stavo osservando. Non avevo le sigarette appresso, avrei voluto assaporare il tabacco e sentirlo riempirmi la bocca; il fumo aveva la capacità di distendermi i nervi, ancora contratti a causa della giornata appena trascorsa. «Hai una sigaretta in quella valigia piena di roba?» Gli sorrisi, cercando di apparire simpatica. Lui aveva quell’espressione tormentata di chi è sul punto di crollare. Annuì. Io stavo scherzando. Non credevo che avrebbe risposto affermativamente. Mi voltai, rientrando in camera. Perché mi aveva guardato in quel modo? Presi il pacchetto che trovai in una tasca interna del bagaglio. Perfetto, era la mia marca preferita! Tornai da lui. Mi dava la schiena, i gomiti appoggiati sulla balaustra di ferro, lo sguardo che vagava lontano. Non sapevo se avrei potuto toccarlo. Alzai la mano, mi fermai a metà, non potevo permettermi di farmi coinvolgere si nuovo. Era un uomo sposato. Dovevo ricordarlo. Gli ai vicino, mettendomi poco distante, evitando che ci sfiorassimo. Con la coda dell’occhio mi accorsi che mi scrutava. Accesi la cicca infilandomi l’accendino nella tasca dei pantaloni che mi stavano enormi.
«Mi sono svegliata e non c’eri. Credevo te ne fossi andato.» Sospirai, senza prestargli attenzione. Il sole stava cominciando a schiarire la cima delle montagne in lontananza. «Credevo fossi ripartito così come sei venuto. Non una spiegazione, né una telefonata. Sei comparso dal nulla, come sempre del resto. Tu ami queste improvvisate ad effetto, non è vero?» Mi permisi di osservarlo in viso. Aveva la mascella serrata, gli occhi cerchiati di scuro. Da quant’è che non dormiva? «Perché sei qui Adriano?» Cambiò posizione, solo un braccio appoggiato sul balconcino. «Per quale motivo posso essere venuto qua secondo te, Greta?» Mi morsi le labbra. Era ovvio che la spiegazione era semplice. «Perché non sei con tua moglie a cui hai giurato fedeltà soltanto pochi giorni fa? Preferisci che la domanda ti venga posta in questa maniera?» Non avevo alcuna intenzione di accoglierlo come una brava e compiacente amante che aspettava paziente il momento in cui si sarebbe stufato di essere sposato. «Io e Nicole ci siamo separati. Ho chiesto i documenti per il divorzio prima di prendere l’aereo e venire da te. Volevo fare le cose per bene.» Essere guardata da Adriano era come sentirsi privata di qualsiasi difesa. Avevo l’impressione che riuscisse a vedere oltre la carne, oltre le ossa, fin dentro l’anima. Aveva lasciato Nicole? Per me? «Quando?» Non potevo credere alle mie orecchie. Perché l’aveva sposata allora? Soltanto per illuderla più di quanto non avesse già fatto? «Già da prima del matrimonio le cose non andavano bene, di ritorno dalla luna
di miele non abbiamo retto. Non ce la facevo a continuare così.» Sapevo che Adriano le era stato infedele prima di pronunciare i voti matrimoniali, ma aveva ugualmente deciso di portarla all’altare. Perché quella farsa? «Perché l’hai sposata se le cose non andavano?» Mi allontanai da lui. Non volevo che mi stesse troppo addosso, aveva un effetto pericoloso. «Greta…» Si staccò dalla balaustra, il suo corpo copriva ogni cosa. La mia completa visuale era lui. Mi prese la mano, se la portò al viso, mi baciò il polso, le sue labbra scesero piano verso la piegatura del gomito. Fui traata da un brivido. Quando Adriano mi toccava non riuscivo a pensare razionalmente. Tirai indietro il braccio e mi liberai dalla sua stretta. «Ieri notte, quando ti ho chiesto perché eri venuto qua, mi hai risposto che ne avremmo parlato domani. Oggi è domani. Devi spiegarmi tutto, se vuoi che io rimanga in questa stanza.» Afferrai il ferro consumato del ballatoio in una morsa disperata. Avevo bisogno di tenere impegnate le mani se non volevo mettergliele addosso, dappertutto. «Io e Nicole ci siamo sposati perché lei non mi ha dato altra scelta, ma non è questo il momento di parlartene. Non posso, non ancora. Ti basti sapere che da quando siamo stati insieme a Firenze non sono più riuscito a toglierti dai miei pensieri. Sono qui per te Greta, solo per te.» Quelle ultime parole mi fecero sussultare. Era lì per me? Lui? Chiusi gli occhi pensando a tutta la sofferenza che la mia ione per quell’uomo aveva provocato. Se fossi stata capace di resistere alle mie pulsioni, né Claudio né Nicole starebbero piangendo i rispettivi compagni perduti. Ma io, a dirla tutta, non riuscivo a sentirmi in colpa per nessuno dei due. Ero totalmente e consapevolmente sua. Nonostante la mia mente mi dicesse di stare attenta, di tenerlo lontano perché lui, Adriano Altieri, avrebbe potuto farmi del male, non ero in grado di resistergli, giusto o sbagliato che fosse.
«Io non ho intenzione di tornare Adriano. Se sei venuto per riportarmi indietro, sappi che è stata fatica sprecata.» Mi aveva raggiunta. Non riuscii ad alzare lo sguardo, avrebbe letto in fondo ai miei occhi l’incertezza. Se me lo avesse chiesto, sarei riuscita a dirgli di no? Non ne ero sicura. «Non sono venuto per riportarti indietro. Sono venuto per restare. Se lo vorrai.» La pressione sanguigna mi martellava nel petto, nelle orecchie, nelle tempie. Mi sembrava di sentire il suo sangue scorrere alla stessa velocità. Alzai il viso. Era così vicino... Il suo respiro sulla mia pelle. Stavo precipitando in un limbo senza fine. «Non puoi lasciare la tua vita a Roma così come ho fatto io. Hai delle responsabilità, non puoi buttare all’aria il lavoro di una vita. Non è giusto.» Mi prese il mento trattenendolo tra le lunghe e grosse dita. «Non spetta a te dirmi cosa posso o non posso fare. Ho deciso di seguirti. Adesso è ciò che voglio, nient’altro ha importanza.» Mi obbligò a guardarlo in quelle profonde caverne di smeraldo. Il sole cominciava a spuntare alla nostra sinistra, il suo volto illuminato da una tenue luce mattutina. Il fiato mi si strozzò in gola. «Tu non puoi nemmeno immaginare cosa ho provato quando ho saputo, una volta arrivato qui, che tu e la barca, eravate dispersi in mare. Non credo di essermi mai sentito così in tutta la mia vita. Ero terrorizzato. Non so che diavolo di magia hai lanciato su di me, Greta, so soltanto che non riesco a starti lontano, che le giornate si susseguono tutte uguali quando non ci sei, che il tempo non esiste e non ha importanza nient’altro. Credo...» Chiuse le palpebre, io espirai a fondo. «Credo di amarti.» Trattenni il fiato. L’ultima cosa che mi sarei aspettata, era una dichiarazione d’amore. Adriano. Così uomo, così forte, così potente. Avrebbe potuto avere chiunque, e invece, aveva scelto me. Come potevo trattenermi di fronte alla sua
ammissione? Tutte le incertezze, tutte le paure, tutto venne improvvisamente spazzato via. Non esisteva Nicole, Claudio, nessun altro. Solo quell’uomo e l’amore che diceva di provare per me. Mi mossi, incapace di controllarmi. Gli avvolsi le braccia intorno al collo cercando la curva di quelle labbra che conoscevo a memoria. Mi sollevò, schiacciandomi contro quel corpo sodo che ricordava la fisionomia di un bronzo di Riace. La bocca piegata all’insù. I palmi chiusi intorno al sedere per evitare che cadessi. Mi strappò un grido di piacere quando mi fece aderire alla parte solida tra le gambe. Appoggiai la testa nell’incavo della spalla, le labbra che cercavano la pelle morbida sotto l’orecchio. «Perché sei venuto? Sarebbe stato più facile dimenticare che fossi mai esistito.» Gli mordicchiai il lobo. Mi riportò in camera. «Non potevo Greta. Non potevo e basta.» Sì, lui era quello che desideravo. Non riuscivo a ricordare nient’altro che avessi voluto così come quell’uomo. Avevo bisogno che riempisse i miei giorni, le mie notti. Volevo essere piena di lui, volevo che lui fosse pieno di me. Ricordavo una lezione, ascoltata tanto tempo prima. Parlava delle anime gemelle. Chiusi gli occhi, rammentando le parole che erano impresse a fuoco nella mia mente. Si diceva che al principio le anime fossero unite a due a due, a formarne una soltanto. Conseguentemente ad una cattiva azione, furono separate e gettate alla rinfusa sulla terra. Da quel momento, ogni anima cerca di riunirsi alla sua metà perduta. Soltanto in poche riescono a ricongiungersi e tornare ad essere una soltanto. Quando questo avviene, le persone che contengono la coscienza immortale, non sono in grado di resistere all’attrazione che provano l’una nei confronti dell’altro. In qualsiasi momento, in qualsiasi tempo, se le due anime complementari si ritrovano, non si separeranno mai più. Sospirai contro Adriano, cominciavo a pensare al fatto che lui fosse l’anima che avrebbe completato la mia. Mi depose sul letto, le lenzuola ormai fredde contro la mia schiena coperta appena dal pigiama che si era arrotolato a scoprirmi l’addome. Mi osservava dall’alto, inginocchiato tra le mie cosce. Le guance mi si colorirono. Avevo la sensazione che volesse fare di me un solo boccone. Sentivo già il corpo che rispondeva al richiamo del suo, il sangue che pulsava rabbioso attraverso le arterie. L’aria fredda entrava dalla finestra ancora aperta. Con un balzo scese dal
materasso. Assomigliava più a un animale che a un essere umano, i movimenti felini di quel corpo aggraziato e forte. Si spogliò lentamente, in piedi, lontano da me. Avevo le mani che anelavano il suo contatto, desideravo baciare la perfezione di quei muscoli. Gettò lontano la casacca della tuta, seguirono i pantaloni. Rimase in mutande, il corpo rischiarato appena dalla luce soffusa che entrava dal vetro dietro di lui. Feci per seguire il suo esempio e scoprirmi, l’occhiata che mi lanciò mi obbligò a fermarmi. «No Greta, lascia che ci pensi io.» Le movenze di un cacciatore, l’attenzione fissa sulla preda. Avevo le membra accaldate, la stoffa era fastidiosa a contatto con la pelle che bruciava; non lo ascoltai, iniziando a sollevare la maglia. Mi afferrò le braccia, avevo la faccia coperta dal tessuto, non potevo vederlo, le sue mani a bloccare le mie. «Devi ascoltarmi Greta, ti ho detto che ci penso io.» Non mi piaceva essere comandata, soprattutto se avevo bisogno di fare, di toccare. Provai a divincolarmi, ma lui non si mosse continuando a tenermi ancorata al letto. Mi sentivo ridicola, la maglietta a coprirmi la faccia, le braccia bloccate. Si spostò in modo tale da potermi prendere entrambi i polsi utilizzando le dita di una mano soltanto; con l’altra, mi liberò dal pezzo di sopra del pigiama. Il suo viso a pochi centimetri dal mio, il verde delle iridi era scomparso, le pupille enormi celavano tutto il resto; mi sembrò di stare annegando in un universo di tenebra. «Adriano lasciami, ho bisogno di partecipare.» Inarcò le sopracciglia. Sulle labbra l’ombra di un sorriso. Non accennò ad allentare la presa. La mano libera mi scivolò sul ventre, solleticando la pancia piatta, le costole sporgenti. Inarcai la schiena mostrandogli il seno piccolo e rotondo. Lo vidi fissarmi, arsi la lingua sulla bocca, senza fare nulla per stimolarmi piacere. Scese calmo sulla parte bassa del corpo. Afferrò l’elastico dei pantaloni tirandoli giù con un gesto secco. Non dovetti sforzarmi per aiutarlo a liberare le gambe. Ero nuda, sdraiata sotto di lui, tutta la pressione concentrata nella zona genitale, sapevo di essere bagnata e già pronta. Cercai di sciogliermi dalla sua stretta, ancora e ancora, ma lui non voleva saperne. Allora tentai un altro modo. Gli chiusi le gambe intorno al busto. Parve sorpreso dal mio movimento. Per afferrarmi le natiche, fu costretto a lasciarmi libera, così che
potei accarezzarlo. Rotolammo tra le coperte. Lui che mi allontanava schiacciandomi con il proprio peso. Io di nuovo prigioniera. «Non ti piace ricevere ordini Greta?» La sua voce era bassa, gutturale. Toccò corde invisibili dentro di me. Mi mossi ancora, contorcendomi sotto di lui che assisteva divertito al mio vano tentativo di oppormi al comando. Avevo intuito che fosse il tipo a cui piaceva tenere in mano le redini del gioco. Ma io non ero una ragazzina adorante che se ne sarebbe stata zitta facendosi fare ciò che voleva. «Mi piace partecipare, Adriano.» Zittì le mie proteste invadendomi la bocca con la lingua. Era forte, come tutto di lui. Chiedeva, pretendeva, prendeva. Fui sommersa. Mi strusciai, tentando di liberarlo dall’ultimo indumento che impediva alle nostre parti più intime di essere a contatto l’una con l’altra. Ci baciammo disperatamente, divorandoci in un impeto di lussuria. Le dita scesero sul mio fianco, mi afferrò il sedere. Strinse, spingendomi contro il ventre la sua erezione che, ancora contenuta nelle mutande, sembrava fatta di ferro. Sospirai e gemetti forte. Si alzò di scatto, mi dominava dall’alto, lo sguardo che non si allontanava mai da me. Era mio. L’unico pensiero razionale che fui in grado di formulare. Si tolse gli slip, il membro duro, eretto, tanto grande da farmi dubitare che potesse entrarmi dentro. Mi prese per i fianchi, tirandomi giù, sotto di lui. Mi allargò le gambe. Non sarebbe mai entrato se non mi avesse aperta con le dita. «Non preoccuparti Greta, non ti farò male.» Spalancai gli occhi quando sfiorò con il glande l’apertura della vagina. Volevo dirgli di non farlo, ero troppo stretta. Dalla mia bocca però, non uscirono parole, solo un timido uggiolio di piacere. Strofinò il pene sulle grandi labbra. Quel singolo, minuscolo contatto, mi fece vibrare da capo a piedi. Possibile che fossi già tanto eccitata? Mi sollevò così che potesse entrare con facilità, inginocchiato sopra di me. Un unico, potente affondo. Le muscolose pareti interne opposero resistenza alla sua grossa verga. Non provai dolore, non proprio. Spinse ancora. Mi allargò con impeto e io lo accolsi, aprendomi a lui. Lui gemette, io singhiozzai. Iniziò a muoversi, prima lentamente, poi con più convinzione. Il suo sguardo imponeva che i miei occhi non si allontanassero dai suoi nel frattempo che entrava e usciva a ritmo frenetico. Ero sempre più bagnata. Ogni singolo
centro nervoso stimolato mentre entrava e usciva violento. Gemetti ancora. Sentivo crescere l’eccitazione, il piacere accumularsi nel ventre. Era troppo presto, non ero mai venuta così in fretta. «Adriano…» Il nome uscì strozzato. Lui mi allontanò da sé, sfilandosi con un suono fradicio. Io rimasi immobile, incapace di pensare, non riuscendo a comprendere perché avesse interrotto l’amplesso. «Non ancora Greta.» Si piegò, sdraiandosi all’altezza dell’inguine. L’espressione da belva che mi incatenava, i gesti lenti, misurati. Mi accarezzò la pancia piatta, con un dito tracciò i contorni del tatuaggio che mi riempiva il fianco. Sospirai, inarcandomi nella sua direzione, chiedendo di più, perché smettesse quella dolce tortura. Avevo l’impressione che la pelle si sarebbe staccata per avvolgersi intorno al suo corpo. Trattenni il respiro quando la bocca prese il posto che poco prima era stato occupato dal membro. La lingua leccò decisa gli umori di femmina. Avevo il battito accelerato, non riuscivo a pensare, totalmente in balia del suo volere. Si infilò nella fessura ormai aperta. Spinse, mimando l’atto sessuale. Mi contorsi sconvolta, le mani che afferravano il lenzuolo arrotolato intorno ai nostri corpi nudi. Non ero in grado di tenere le palpebre sollevate, le sensazioni di piacere che mi attraversavano così feroci. Urlai il suo nome. Le dita che annaspavano alla ricerca di qualcosa che mi trattenesse a terra. Lui dirigeva il gioco, io ero solo una pedina. La pressione crebbe fino a soffocarmi, stavo per venire, di nuovo. Si accorse che ero sul punto di arrivare all’orgasmo dal modo in cui il mio respirò accelerò. Si fermò. Rimasi muta, la sensazione di piacere che pian piano mi abbandonava. Avrei voluto urlare, ma mi sentivo morire. I miei occhi si fissarono nei suoi. Il bastardo sorrideva. Aveva la faccia di un uomo che sapeva di aver interrotto qualcosa di vitale ma che non se ne curava affatto. Non capivo cosa volesse. Le dita entrarono senza preavviso nella cavità calda, bagnata, sobbalzai quando premette sulla parte più sensibile. Una, due, tre volte, persi il conto. «Guardami, Greta.» Le sue pupille di tenebra mi risucchiarono nelle loro profondità. I movimenti abili che mi trascinavano ancora una volta sull’orlo del baratro, per poi
interrompersi. Non ce la facevo più, strappata all’orgasmo non una, ma ben tre volte. Mi stava tormentando, e la cosa non mi piaceva affatto. Avevo bisogno di appagamento, di languire in quel piacere più volte negatomi. «Perché mi fai questo?» Avevo il fiato corto, come se avessi appena terminato una gara. Rise ancora. Mi leccò le labbra. Aprii la bocca ad accogliere la sua. «Non chiedere Greta, lascia che ti porti dove non sei mai stata.» Suonava più come una minaccia che come una promessa. Gli afferrai le natiche sode con entrambe le mani spingendo la mia femminilità sul suo membro eretto e pulsante. Mi impedì di avere ciò che volevo. Stava giocando con me, e, nonostante desiderassi che la smettesse, sentivo l’eccitazione crescere sempre di più. Si sollevò sulle braccia, i muscoli che si gonfiavano intorno al mio busto. Mi voltò come se non pesassi neppure un grammo. Mi accarezzò il sedere, afferrò i fianchi, spinse contro l’inguine. Le pareti della vagina che lo accoglievano pronte, lui che si ritirava, io che mi piegavo affinchè mi riempisse di nuovo. Infilò la punta. Entrava ed usciva senza penetrare per intero. Ero stufa di essere torturata. Si irrigidì quando non gli permisi di ritrarsi schiacciandomi con decisione. Mi invase con la grossa pienezza del pene. «Non puoi decidere tu Greta. Non oggi.» Si mosse forte. L’estremità che premeva sul collo dell’utero. La sensazione non era spiacevole, nonostante i suoi affondi fossero sempre più intensi. Mi afferrò i capelli costringendomi ad inarcare la schiena per assecondarne i movimenti. Morse la carne della spalla sinistra. «Sei mia Greta. Tutta mia. Lo sarai sempre.» Mi portò sul punto di venire ancora. Si fermò. Gridai, disperata. Avevo il fiato corto mentre si staccava, allontanandomi. Non me ne sarei stata buona intanto che si divertiva a brutalizzarmi in quel modo. Mi girai, sdraiandomi sulla schiena. Osservai la sua pelle imperlata di sudore, il petto muscoloso che si abbassava ed alzava al ritmo incalzante del suo respiro; colsi estasiata lo sguardo di giubilo che si dipingeva sul suo volto. Aprii le gambe, in modo che potesse vedere bene. Cominciai a massaggiarmi le parti
intime. Lui assunse un’espressione interrogativa. Non si aspettava quello che stavo per fare. Mi infilai due dita dentro; conoscevo il mio corpo, sarei venuta in fretta e senza problemi. Mi toccai con gesti sapienti. Non era la prima volta che mi provocavo il piacere da sola. Rimase a guardarmi mentre mi masturbavo, immobile, rapito da ciò che stavo facendo. La bocca leggermente aperta, gli occhi fissi sulle mie mani. Sapevo che lo spettacolo era di suo gradimento, gli sorrisi, mentre continuava a partecipare da spettatore. La sensazione familiare cominciò dalla punta dei piedi; il petto sussultava seguendo gli ansimi rochi. Ero pronta a godere di quell’orgasmo che avevo atteso a lungo. Mi prese il polso, bloccandomi. Provai ad allontanarlo, ma lui era forte, molto più di me. Le dita smisero di stimolare il clitoride, la vibrante sensazione mi abbandonò. Di nuovo. Mi mossi come una serpe nel frattempo che si sdraiava su di me, tirandomi le braccia sopra la testa, in modo tale che non potessi oppormi. Lo avrei preso a pugni, se solo ne avessi avuto modo. «Non puoi aspettare Greta?» Tentai di morderlo. Lui mi baciò. Di nuovo la sua lingua nella mia bocca, di nuovo l’impressione di essere completamente sua, accondiscendente ad ogni suo desiderio. Mi prese ancora. Ero aperta, pronta, ansimante. Scivolò dentro di me con un unico, solo movimento. Sospirò nella mia bocca. La sua lingua che continuava ad intrecciarsi alla mia. Era premuto contro il mio corpo, le pelli che si confondevano, i respiri diventati uno soltanto. Le gambe avvinte intorno al suo busto. Gemetti ancora, più forte. La pesantezza all’inguine sopraggiunse di nuovo, se mi avesse fermata ancora, non sapevo come avrei reagito. Continuò ad affondare, il piacere crebbe, sempre più forte. Volevo urlare, gridargli di non andare via, ma non ce ne fu bisogno. Aumentò il ritmo, mi penetrò sempre più velocemente, le dita dei piedi si intorpidirono, le gambe furono attraversate da un brivido potente. L’orgasmo si concentrò dentro di me ed esplose, più forte di quanto non avesse mai fatto. Chiusi gli occhi, accecata da quella sensazione indescrivibile. Mi sciolsi avvinghiata a lui, dentro di lui, intorno a lui. Gridai più volte il suo nome, mentre venivo attraversata da onde potenti. Ero impreparata a tutto quello che stavo percependo. Per un momento ebbi la convinzione di stare per morire. Non sapevo potessero esistere emozioni tanto sconvolgenti. Ero ancora inondata dai brividi quando mi accorsi che mi fissava, un espressione soddisfatta nello sguardo. Un altro paio di spinte e lo sentii che mi riempiva con
il suo seme. Il gemito che fece eco al mio fu di liberazione. Il liquido caldo che mi scivolava nel ventre, i nostri respiri che si confondevano. Mi rimase addosso, il suo peso sul mio corpo. Non era una sensazione sgradevole. Mi piaceva sentirlo su di me; ero sua, era giusto che mi possedesse anche in quel modo. Rimanemmo così per un po’, ancora storditi dalla tempesta di piacere che ci aveva sommersi. Non riuscivo a parlare, una lacrima mi scivolò sulla guancia. Lo sfiorai con un bacio leggero, i suoi occhi a pochi centimetri dai miei. Raccolse la goccia sulla punta delle dita bevendola, mi baciò ancora.
XXXII
Lui, Adriano;
La mia Greta
Mi svegliai. Lei si mosse. Parlava nel sonno. Cercai di capire cosa dicesse. Frasi sconnesse. Era agitata. Mi avvicinai a quel meraviglioso corpo caldo. Dopo aver fatto l’amore, ci eravamo addormentati come due bambini, senza accorgercene. Era già mattina inoltrata. La luce inondava la stanza; quel giorno il tempo sarebbe stato clemente, permettendoci di godere del calore del sole. Guardai la giovane donna che dormiva girata sul fianco. Il lenzuolo arrotolato intorno alle gambe, il busto scoperto, il braccio ad abbracciare il cuscino. Era irrequieta persino sprofondata nel sonno. Più che un angelo, mi ricordava un diavolo, capace di tentarti con una semplice occhiata. I capelli scomposti sparsi sul letto, un meraviglioso manto rosso. Le sfiorai il viso. Il piccolo naso, le labbra morbide, vagamente imbronciate. La fissai per un po’. Sorrisi al ricordo delle ore appena trascorse. Greta era emersa dalle acque, quasi fosse stata una sirena. Avrei voluto possederla nel momento in cui le mie mani l’avevano stretta nell’oceano ghiacciato, tanto le mie membra bramavano le sue. Le avevo detto di essere innamorato di lei; avevo raggiunto quella consapevolezza quando ero stato quasi convinto che non sarebbe mai tornata indietro. Lei non aveva risposto, ma il suo slancio nei miei confronti era stata una prova sufficiente dei sentimenti che provava per me. La vidi sollevare le palpebre. L’azzurro cielo delle iridi ad osservarmi. La baciai. Non riuscivo a resistere al suo richiamo. Era come cercare di opporsi a se stessi. Impossibile. Le accarezzai le labbra aperte con la lingua. Rimase immobile, aspettando che fossi io a decidere quando e come sfiorarla. La sua bocca era calda, rispondeva al tocco lento della mia. Il turgore si impossessò ancora una
volta del mio membro. La tirai a cavalcarmi, lei rise piano mentre montava con le cosce aperte. Le presi i seni tra le mani. Erano piccoli, sodi, entravano perfettamente nei miei palmi. Li strizzai, titillai i capezzoli, lei sospirò. Un’amazzone sul suo stallone. Le afferrai la lunga chioma rossa, piegandola all’indietro. Mi mostrò la gola, i denti saettarono fuori in un sorriso complice. Si divincolò, guardandomi con quel fare da femmina che poco accettava il dominio. Avvertii il desiderio di comandarla come qualcosa di insostenibile. Il suo continuo opporsi al mio volere mi eccitava a livelli mai raggiunti. Non avrei mai creduto possibile desiderare una donna poco avvezza alla sottomissione. Ma lei era Greta, lei era mia, poteva fare di me ciò che voleva. Si divincolò come un’anguilla, il busto che si inarcava, le nostre bocche di nuovo unite in un bacio vorace. Le afferrai la nuca, le spinsi la lingua dentro, la riempii, la morsi. Si staccò da me, le pupille grandi, il fiato accelerato. «Greta…» Si portò una lunga ciocca dietro l’orecchio. Si mosse piano, a ritroso. Il sedere alto, avrei voluto ferire quella carne morbida, affondarci dentro, scoparla fino a farla urlare di piacere. Cercai di mettermela sotto. Lei mi sfuggì. Fece cenno di no con le dita. Lo sguardo da volpe. «No Adriano, stavolta tu stai fermo e fai quello che dico io.» Avrei voluto protestare, impormi come maschio dominante, ma quando la vidi aprire la bocca e prenderlo tra le labbra, mi misi comodo. Le mani incrociate dietro la nuca, gli occhi su di lei. Cominciò dalla punta. La lingua che compiva lenti giri intorno al glande, si soffermava sulla fessura sensibile, ritornava a leccare la lunga asta dura. Sospirai nel sentirla succhiare. Afferrò la base del pene con la mano piccola, non riusciva a contenerlo tutto. Massaggiò piano, stimolando le zone nervose che permeavano l’organo. Leccò, succhiò. Mi fissava attraverso la cortina di capelli che la nascondevano quasi completamente. Era un’immagine così eccitante che faticai a mantenere il controllo. Cominciò a muoversi su e giù, la bocca che emetteva suoni bagnati. Strinse i denti, provocandomi un leggero brivido di dolore. Mi tesi, credendo che volesse addentare più forte. Continuò a salire e scendere aiutandosi con il palmo chiuso. Stavo per venire. Avrei voluto cedere a quelle sensazioni che incalzavano contraendomi il ventre, ma il desiderio di farla
godere ancora fu più grande. La fermai, impedendole di portarmi al limite. «Ora basta Greta.» Provò a scansarmi. La rivoltai con una sola spinta. Era di nuovo sotto di me, ansimante, le labbra umide, l’espressione allegra. Le dita si allungarono a sfiorarmi il viso. Scesi sul suo seno. I capezzoli duri, ritti. Li morsi, lei tremò. Leccai e lei gemette. Trovai l’interno delle sue cosce. Bagnato, pronto. Scivolai piano dentro di lei. Era così calda, così morbida. «Greta…» La mia bocca le sussurrava all’orecchio. Mi afferrò le spalle, le unghie si conficcarono nella carne. La mia vorace leonessa… Rimase aggrappata a me nel frattempo che la stimolavo, riempiendola. il membro a massaggiarle le zone erogene. Greta era molto sensibile. Dovevo andarci piano se non volevo farla godere troppo in fretta. Era un piacere sentirla gemere sotto i miei colpi, avrei prolungato quell’estasi all’infinito. Mi fermai, un istante prima che venisse. Cercò di muoversi per assecondare l’orgasmo ma le impedii di farlo. Le ghermii il labbro inferiore con i denti, lei ringhiò. Non le piaceva essere interrotta. «Adriano…ti prego…» Le sue suppliche, il bisogno del corpo che cercava l’appagamento conseguente all’estasi del piacere, le mani che mi imploravano di non lasciarla insoddisfatta ancora una volta... Era davvero una ragazzina indisciplinata! La trascinai con me giù dal letto. Le ginocchia piegate in modo che le gambe fossero ancorate al mio busto, le dita premute tra i muscoli della schiena. Lo sguardo interrogativo, stupito del fatto che mi fossi allontanato dalla nostra comoda alcova. La feci accomodare su un mobile, di fronte allo specchio. Le entrai dentro con un unico affondo, troppo violento. La colsi alla sprovvista. Si irrigidì, l’avevo riempita tutta troppo in fretta, avevo percepito il glande sbattere contro la parete dell’utero. Le mordicchiai la base del collo, le mani intorno a quel culo perfetto, le dita affondate nella morbida carne. La costrinsi a scivolare sul legno lucido, contro di me, era incollata. Dentro e fuori, uniti in un unico corpo, le anime fuse in un
impeto di ione. La sollevai di peso, fermandomi, lei mi batté i pugni sul petto, io risi. Mi divertiva vederla così arrabbiata perché non le davo modo di soddisfare i propri desideri. «Vieni Greta. Vieni come piace a te.» La riportai tra le coltri, mi stesi senza mai abbandonare l’abbraccio delle sue intime carni. Si piegò su di me, le mani intorno al cuscino, i capelli che mi accarezzavano il petto. Era come essere sfiorati dalla seta. Tremai. Si mosse per strusciarmi contro, mi piaceva quello che vedevo. I seni che si alzavano ed abbassavano, il viso concentrato sulle forti sensazioni che la attraversavano, gli occhi socchiusi. Premette, più forte, lì dove sapeva le sarebbe piaciuto di più. Singhiozzò su di me quando il piacere fu sul punto di possederla. Le afferrai i fianchi, aiutandola ad avere ciò che bramava. Fremette. La costrinsi a muoversi più velocemente. Volevo godere anche io, volevo godere con lei. La vidi aprire la bocca, emettere un suono strozzato. Quel gemito mi portò dritto all’estasi. Le schizzai dentro il mio seme mentre si contorceva ancora, vinta da quell’appagamento incantato. Subito dopo si abbandonò su di me. ò qualche minuto prima che riuscissimo a muovere un muscolo. Afferrai le coperte che erano diventate una massa disordinata ai nostri piedi. Si rannicchiò sotto di esse, avvicinandosi. La scostai, avevo bisogno di leggere in quell’anima che non ero in grado di comprendere. Piangeva. «Perché piangi, Greta?» Si nascose tra le pieghe di cotone. Sembrava imbarazzata. Non riusciva a guardarmi per più di pochi secondi. «Rispondimi Greta. Così mi fai preoccupare.» Avevo paura di averle fatto male. «È che…» Abbassò di nuovo lo sguardo. Le presi il mento tra le dita. Non l’avrei lasciata se non mi avesse detto la verità. «Greta che cosa è successo? Perché stai piangendo?»
Esigevo una risposta. Se non me l’avesse data, mi sarei incazzato, soprattutto con me stesso. I suoi occhi grandi e celesti mi fissarono. Aveva le guance leggermente arrossate; il sesso le donava, la rendeva ancora più bella. «È che…il piacere con te…è diverso.» Sbatté le ciglia lunghe. «Non capisco. Spiegati meglio se non vuoi che cominci a dare di matto.» Non parve cogliere la velata minaccia. I denti che tormentavano il labbro inferiore. «È diverso e basta Adriano.Non fare altre domande.» Mi alzai di scatto, il lenzuolo intorno all’inguine. La costrinsi a sedersi. Non aveva alcuna intenzione di abbandonare il cuscino saldamente assicurato al busto nudo. «Che significa diverso?» Sapevo che la mia faccia non aveva un’espressione cordiale. Lei assunse quell’aria di sfida che aveva avuto tante altre volte in mia presenza. La mascella stretta e la bocca atteggiata in un broncio serissimo. «Perché devo dirti più di quanto tu non sappia già?» Ma che cazzo di conversazione era? Non riuscivo a capire cosa stesse dicendo. Temere di averle fatto del male o, di aver esagerato, mi fece diventare ancora più aggressivo. «Greta…cazzo…dimmi perché piangi!» Serrai i denti che stridettero nella bocca chiusa. Lei sospirò. «Che cosa vuoi che ti dica? Che quello che ho provato oggi non mi era mai nemmeno ato per la testa che potesse esistere? Il modo in cui sono… venuta…è stato nuovo per me. Se faccio il confronto con prima, è come se non
avessi mai raggiunto l’orgasmo. Ti va bene adesso? Sono stata abbastanza esaustiva?» Si gettò sul letto, coprendosi fino a scomparire del tutto. Greta aveva pianto perché il piacere era stato troppo forte? Perché era impreparata ad un orgasmo di quella portata? La tensione mi abbandonò immediatamente. Mi chinai su di lei, nascondendomi sotto le coperte anche io. La guardai, attraverso la luce che filtrava tra le lenzuola. Lei aveva quell’aria che era un misto tra l’imbarazzato e l’offeso. Le accarezzai la guancia morbida. Mi tenne il muso per qualche altro secondo, poi l’espressione tornò ad essere serena. Scoprii le nostre teste. I riverberi di sole la accarezzavano come se l’adorassero. Era bellissima. «Non credevo ti fosse piaciuto così tanto.» La presi in giro e lei finse di colpirmi. Giocammo un po’, uniti da quella nuova consapevolezza, grati per quel tempo che potevamo finalmente trascorrere insieme. «Sei stanca?» Lo sguardo perso nei ricordi, era assente rammentando l’esperienza vissuta la notte precedente. «Sto bene adesso.» Non osavo immaginare ciò che avesse provato al pensiero del peschereccio che rischiava di affondare. «Metterai ancora piede sul ponte di una barca?» Ero sinceramente preoccupato che lei volesse continuare l’attività di marinaio. Ma che cazzo le era saltato in mente? Studiò il soffitto, poi fissò di nuovo l’attenzione su di me. «Credo di sì.» Il cuore mi mancò un colpo.
«Non credi sia stato sufficiente? Perché rischiare ancora? Non voglio che ti trovi di nuovo in pericolo, non se posso impedirtelo.» Le tirai una ciocca, lei piagnucolò. «Non sarebbe un bene per me non tentare ancora una volta, non posso permettere alla paura di vincermi. Non sono fatta in questo modo.» No, di certo non era una ragazza prudente, con tutte quelle strane e mascoline idee che le saltavano in mente… «Vorrà dire che se metterai piede su una qualsiasi imbarcazione, allora, mi costringerai a seguirti. Non mi è piaciuto starmene sulla riva, a guardare il mare in tempesta, nella speranza di vederti riapparire.» Era vero. Non le avrei permesso di correre alcun rischio ma, se non potevo fare altrimenti, almeno le sarei stato vicino. Lei sorrise, baciandomi dolcemente. «Bisogna vedere se Hulrik sarà d’accordo.» Già. Il nonno di Greta mi era apparso più pazzo di quanto non avessi immaginato, e dannatamente pericoloso. Studiai il profilo della donna accanto a me, era chiaro da chi avesse preso il carattere. «Cosa vuoi fare oggi Greta?» Lei sospirò, stiracchiandosi pigramente. «Una doccia, per cominciare.» Si alzò dal letto prima che potessi afferrarla. Ero lento, lo stato di intorpidimento che seguiva l’orgasmo non mi aveva ancora abbandonato. Mi fece la linguaccia e corse verso il bagno, il sedere rotondo che sobbalzava. Si chiuse la porta alle spalle. Mi sollevai lentamente. Quella ragazza era piena di vita. Io mi sentivo così stanco da avere l’impressione che mi fosse ato sopra un camion. Dovevo ancora recuperare la stanchezza arretrata, ma non avevo intenzione di separarmi da lei. Presi le buste che avevo riposto all’interno della valigia. Aprii piano l’entrata. L’acqua scorreva, stava aspettando che si riscaldasse. Mi fermai oltre l’uscio, la
spalla appoggiata allo stipite, i regali che mi dondolavano davanti. «Credi di avere qualcosa di asciutto da metterti?» Improvvisamente consapevole di non avere nulla con cui vestirsi, cominciò a raccogliere i panni ancora umidi che erano stati abbandonati nel lavandino la sera precedente. Li annusò, scansandoli immediatamente. Sapevano di mare, di pesce, di sudore. «Di certo non posso mettere questi.» Me li mostrò, poi li ripose di nuovo nel lavello. «Hai qualcosa che mi possa stare?» Me la immaginai vestita con i miei abiti. Sarebbe stata carina infilata in pantalone e maglietta troppo grandi. Pescai nella busta, tirando fuori uno dei maglioncini di cashmere che le avevo comprato all’aeroporto. Lo sguardo si accese di un interesse bramoso. Le dita che si chiudevano sulla lana morbida, i polpastrelli a saggiarne la consistenza. Se lo portò al petto, l’espressione commossa. «È per me?» Mi guardai, dall’alto in basso. «Di certo non è per me!» Mi si avvicinò avvolgendomi in un abbraccio sincero. Le accarezzai la schiena ancora nuda. «Grazie, è bellissimo.» La trattenni, prima che si infilasse sotto la doccia. L’acqua doveva essere calda, una nube di vapore stava annebbiando lo specchio. «Vedi se ti piace anche il resto.» Afferrò incerta i manici dei pacchetti. Li poggiò sulla tavoletta del water ed iniziò a frugarvi dentro. Gli occhi le si illuminarono di gioia quando ebbe portato
alla luce l’intero contenuto. «Sono tutti per me?» Sorrisi. Mi piaceva quello che vedevo, mi era capitato di rado di assistere alla manifestazione di un’allegria tanto spontanea. Le avrei regalato qualsiasi cosa, pur di rivedere quell’espressione sul suo viso. «Credo tu possa vestirti ora. Non sono sicuro che le scarpe ti andranno bene. Non sapevo quale numero portassi.» Le tirò fuori, voltando la suola verso l’alto e annuendo con convinzione. «È il mio numero. Come facevi a saperlo? Sono perfette!» Mi corse incontro un’altra volta. Resistetti al suo assalto eccitato. Era entusiasta come una bambina la mattina di Natale. «Grazie. È tutto meraviglioso. Tu sei meraviglioso.» Mi baciò languidamente. Mi scostai, non sapevo se il mio corpo avrebbe avuto la forza di risponderle ancora. «Greta…non so se riesco…» Mi prese il viso tra le mani. «Sono felice Adriano. Davvero. Averti qui mi rende felice. Non importa come, nemmeno quanto. Io ti sono grata per essere qui. Mi sei mancato.» La dolce Greta fece capolino dietro l’atteggiamento duro, scostante, scherzoso, padrone. Portò in superficie la donna che spesso si nascondeva sotto il guscio che si era costruita intorno. La strinsi forte. L’amavo. Non c’erano dubbi. «Non sopportavo di starti lontano. Avrei dovuto prendere questa decisione prima. Mi pento soltanto di questo.» Mi sorrise. Poggiò gli abiti nuovi in un mucchio ordinato prima di infilarsi sotto il getto bollente. Fummo pronti per uscire un’ora dopo. Greta, infilata in quei vestiti, mi saltellava
vicino testando le nuove calzature. Scendemmo giù per le scale. Il sole illuminava la saletta interna. Era mezzogiorno, ce l’eravamo presa comoda, ma la cosa importava a noi soltanto. Una signora di una cinquantina di anni ci venne incontro, una risata allegra stampata in viso, occhi verdi che ci guardavano curiosi. Strinsi le dita intorno alle sue. Lei si appoggiò a me. «Buongiorno ragazzi. Dormito bene?» Annuimmo entrambi. Dalla cucina, dietro la porta della piccola sala ristorante, proveniva odore di ciambelle. Avevo fame. Me ne accorsi quando il mio stomaco cominciò a protestare. La signora parve capire e ci fece accomodare ad un tavolo della sala. Il caminetto era , un fuoco scoppiettante riscaldava l’ambiente assolato. Era un posto carino, dovevo ammetterlo; l’aria familiare, l’arredamento provenzale, la cordialità della padrona di casa. Mi piaceva. Facemmo colazione. Restammo in silenzio divorando famelici il primo pasto della giornata. La proprietaria dell’albergo ci raggiunse qualche minuto dopo. «Ragazzi, serviremo la cena alle sette. Se volete essere dei nostri, a noi farebbe enormemente piacere. A proposito Greta…» Gli occhi della donna si fissarono in quelli della mia compagna. «Hulrik è venuto a cercarti questa mattina.» Lei annuì, aspettando che continuasse. Già immaginavo quel gigantesco uomo che entrava furioso all’interno della struttura alberghiera. «Ha detto che avrebbe ato la mattina alla barca, dovevano risistemarla per poterla riportare al porto. Se vuoi raggiungerlo, lui ti aspetta.» Greta annuì terminando l’ultimo boccone. «Andremo subito. Grazie.»
Fuori la temperatura era fresca, ma non fredda come era stata la notte
precedente. Il paese era tranquillo. Ogni tanto, mentre camminavamo mano nella mano, ci fermavamo per salutare qualcuno del posto. Sembrava che, in quel breve lasso di tempo, avesse fatto amicizia con tutti, e che quelli l’amassero già. Mi sorpresi nel constatare come Greta entrasse nel cuore della gente con tanta naturalezza. Ogni volta mi presentava contenta, mi indicava i luoghi dove abitavano le varie persone che conosceva, i posti dove aveva mangiato. Ero felice del fatto che mi illustrasse ogni caratteristica del posto dove aveva deciso di vivere e, soprattutto, dove erano radicate le sue origini. Ad ogni parola la sentivo più vicina. La abbracciai nel frattempo che raccontava di un episodio che l’aveva vista protagonista. Rise e la mia gioia fece eco alla sua. Gli eventi del ato mi tormentavano da anni e io non ero mai stato capace di godermi appieno la vita così come mi si presentava. Invece, in quel momento, nulla mi preoccupava. La baciai in mezzo alla strada. Un tizio ci ò accanto. Vidi di sfuggita l’espressione incuriosita che ci lanciò. Greta sapeva di biscotti, di latte e zucchero. Ottima da mangiare. Appoggiò la testa sul mio petto quando ci separammo. Il cappuccio del giubbotto alzato, la pelliccia sintetica che mi solleticava il mento. «Ti amo Greta.» Mi strinse un po’ di più, tra quelle braccia sottili. Gli occhi sollevati ad osservarmi, le guance rosse battute dal vento. Aprì la bocca, stava per dire qualcosa, la richiuse. Abbassò lo sguardo, mi abbracciò ancora. «Non c’è bisogno che tu risponda.» Avrei voluto sentirle pronunciare quelle semplici parole, ma lei non era ancora pronta. Avrei aspettato. Ciò che provavo io, sarebbe bastato per tutti e due. Mi fissò ancora. Le sfiorai le labbra incapace di staccarmi. «C’è bisogno invece. È solo che…» Girò la testa in direzione del mare. Da quel punto si vedeva chiaramente la linea azzurra che si stagliava contro l’orizzonte. «Non lo so. Trovo che quell’unico termine sia riduttivo per spiegare ciò che sento.»
I capelli le scivolarono sul viso, catturati da un improvviso mulinello d’aria. «Non è solo amore quello che provo nei tuoi confronti, Adriano. Non sono in grado di definirlo.» Si morse le labbra. Lo faceva sempre quando era nervosa, confusa, o non riusciva a spiegarsi. Intrecciai le dita grandi a quelle più piccole, costringendola a proseguire. Non mi andava si sentisse a disagio. Non volevo metterle fretta, avevamo tutto il tempo che volevamo. ammo di fronte al pub di Colin. Già dalla strada c’era odore di carne alla brace. Il mio stomaco brontolò. Avevo pensato di essermi saziato in seguito all’abbondante colazione che avevamo consumato poco prima. Mi sbagliavo, dovevo recuperare le forze e il mio corpo ne era consapevole. L’oceano era calmo, le barche oscillavano piano ancorate al molo, non c’era nessuno fuori, soltanto un piccolo cane pezzato che stava di guardia all’entrata del locale. Stavamo per oltreare la piazzola portuale, quando sentimmo la porta del pub che sbatteva e una voce tonante che richiamava la nostra attenzione. «Ehi! Ragazzina! Dove credi di andare?» Il gigante rosso ci raggiunse. Era una montagna d’uomo. Un sorriso cordiale ad addolcirgli il volto barbuto. Greta gli buttò le braccia al collo e lui la sollevò quasi fosse fatta di niente. Una stretta mi serrò lo stomaco, osservando quello slancio affettuoso. Digrignai i denti. Non mi piaceva che un altro uomo la toccasse, chiunque fosse stato. Una volta riposata a terra, la osservò, distanziandola un poco. «Mi sembri a posto ragazzina! Sei proprio una McDougal. È come se ieri non fosse accaduto nulla.» La afferrò di nuovo. Io rimasi in disparte, a qualche metro di distanza, lasciando che si intrattenessero in convenevoli. Greta si girò verso di me, richiamandomi con la mano. «Vieni Adriano. Ti presento Colin.» La schiena dritta intanto che camminavo verso di loro sotto l’attento esame di
quell’altro. Nonostante fossi alto un metro e novanta, forse qualcosa di più, di fronte al rosso mi sentivo gracile come un ragazzino nella fase della pubertà. Era gigantesco. Gli strinsi la mano, lui fece altrettanto. Una mossa decisa da ambo le parti. Quando fu soddisfatto, mi affibbiò una sonora pacca sulla schiena avvolgendo anche me in un abbraccio che mi lasciò senza fiato. Mi sorprese tanto slancio verso uno sconosciuto. «Già lo conosco il tuo ragazzo. Ieri sera aveva l’aspetto di un fantasma. Non puoi immaginare la sua faccia quando gli hanno detto che eravate dispersi in mare. Avrei giurato che si sarebbe gettato tra le onde se non fossi tornata.» Lei mi guardò spaventata, io feci finta di non aver capito a cosa alludesse. «Un così bel giovanotto non si dimentica. Quando è arrivato in città tutte le donne di zona facevano avanti e indietro per osservarlo meglio.» Greta si irrigidì, fissandomi di sottecchi. Io sorrisi. Non mi ero affatto reso conto di aver suscitato dell’interesse. «Ha anche fatto a botte con Samuel. Quella testa matta. Non sapeva che fare e si è scagliato contro il primo che gli è capitato davanti.» La ragazza aprì la bocca. Gli occhi che saettavano dall’uno all’altro cercando conferma di ciò che aveva appena sentito. Sollevai le spalle in un gesto di stizza. Mi ero dimenticato dello scontro di pugilato, ero talmente sconvolto, che mi era ato di mente. Ci accomiatammo da Colin che ci strappò la promessa di ritrovarci quella sera a cena da lui. Era simpatico. Dovevo ammetterlo. Avanzammo in silenzio, mentre ci addentravamo nella brughiera che circondava il paese. Greta si muoveva rigida, l’attenzione sulla strada accidentata. Non si girò mai, un paio di metri avanti. Ricordavo a malapena il percorso che avevo compiuto la notte precedente, inseguendo il grosso setter irlandese. Chissà dov’era finito? «Perché non mi hai detto che hai fatto a botte con Samuel?» Continuammo a camminare. «Perché non era importante. Tu eri importante. Tutto il resto l’ho dimenticato. Se mi chiedessi che cosa ho fatto dal momento in cui ho scoperto che eri dispersa in
mare a quando ti ho ripescata, non saprei dirlo con certezza.» Il senso di terrore che mi aveva posseduto in quelle ore, tornò prepotente. Mi fermai. Allungando il braccio ad afferrarle il polso. La attirai contro di me. Assaporai la sensazione di lei tra le mie braccia. Il suo profumo, il calore della sua pelle. La baciai come se non ci fosse un domani. «Non voglio più sentirmi così Greta. Mai più.» Annuì, premendomi il viso sulla spalla. «Okay.» Proseguimmo. Se ci fossimo fermati ogni venti i per abbracciarci, non saremmo mai arrivati. Mi costrinsi a non distrarmi più.
Da lontano vidi una ventina di uomini che stavano fermi sulla riva intanto che una piccola barca ne trasportava pochi altri avanti e indietro verso il peschereccio ancorato in mezzo alla baia protetta. Si sentiva gridare, sbraitare, bestemmiare. L’abbaio di un cane ci raggiunse da sotto. La grossa bestia fulva ci corse incontro. Quando ci raggiunse aveva la lingua penzoloni e la coda che sferzava in orizzontale, felice che fossimo arrivati. Mise le zampe anteriori sulle spalle della donna, le leccò il viso, uggiolando piano. Poi venne verso di me. Mi annusò, riconoscendomi e ripetendo lo stesso rituale di accoglienza. «Hai conosciuto Galen. Gli sei simpatico.» Il cane lappò la pelle coperta dalla barba corta. Gli accarezzai la grossa testa pelosa. «Ci siamo tenuti compagnia ieri sera.» Galen saltò giù compiendo giravolte intorno a noi. Una voce di tuono rombò da lontano, urlava il nome di Greta. Lei, in risposta, alzò la mano. «Vieni. È il momento che ti presenti Hulrik. Mio nonno.» Rise, mentre mi prendeva la mano e mi obbligava a seguirla.
C’era qualche faccia che avevo già visto, ma non conoscevo. Mi salutarono, chi con un cenno, chi con una stretta di mano, chi con una pacca amichevole. Quanto calore per uno con cui non avevano mai parlato! Quella gente sapeva come far sentire a proprio agio gli stranieri. Un ragazzo allampanato, di poco più di vent’anni, ci corse incontro trafelato. I suoi occhi brillarono quando vide Greta. Sospirai. Non si era limitata a farseli amici. Si capiva lontano un miglio che quello aveva una cotta per l’italiana. Non mi mossi nel frattempo che si salutavano. Non mi sentivo minacciato, perciò non dissi nulla quando le braccia toste e magre si chio intorno alla vita sottile di lei. «Adriano lui è Fil. Fa parte dell’equipaggio di Hulrik, mi ha aiutato a pescare il mio primo pesce.» Mi porse la mano. La strinsi, forse un po’ più forte del dovuto. Non fece una piega, ricambiando la presa. «Un pesce bello grosso. Greta è molto fortunata.» Lo sguardo adorante la cercò ancora. Fissai l’attenzione sul cielo limpido, sbuffai. Ci fece cenno di seguirlo. Tra i presenti riconobbi l’uomo con cui avevo fatto a botte la notte precedente. Si avvicinò, nulla che fe intendere che fosse pentito di essermi saltato addosso. «Ciao ragazzina.» Greta lo guardò storto. Le massaggiai i muscoli alla base del collo provando a tenerla buona. Sapevo che era arrabbiata. «Ciao Samuel.» Gli occhi gelidi, la voce atona. Ne fui contento. Non ero certo del perché ma, la presenza del vichingo non mi tranquillizzava affatto. «Sono contento che siate tornati incolumi. Ho saputo che avete fatto una buona pesca. Una volta o l’altra, dovrò portarti sulla mia Giselle.» Sorrise a lei. Lanciò una lunga occhiata a me. «Mi è stato detto che tu e Adriano vi siete già conosciuti.»
Decisi di assumere una posa rilassata, le gambe aperte a mantenermi in equilibrio. Se avesse voluto attaccare briga, non mi avrebbe trovato impreparato. «Sì. Il ragazzo sa incassare bene. Avrei giurato di averlo colpito forte, invece non gli è rimasto nemmeno un segno, devo aver perso il tocco.» Ci scrutava con attenzione. Non mi piaceva la tensione che si era creata. Non riuscivo a capire che tipo di rapporto lo legasse a Greta. «Cerca di tenere a freno il tuo istinto da animale la prossima volta. Ma che cazzo ti è saltato in mente?» Greta era infuriata. Ma non era necessario che prendesse le mie difese. Sapevo cavarmela da solo. Il biondo rise. Mi mossi verso di lui, tendendo il braccio, il palmo aperto. «Sono Adriano, nel caso non lo avessi capito. Piacere.» Smise di sorridere. «Se ti va un altro incontro…io mi sono divertito.» Ci stringemmo la mano. «Anche io.» Annuì. Ci separammo. «Il suo ragazzo immagino.» La testa che si abbassava ed alzava senza che aprissi bocca. Ci scrutò a fondo entrambi. Non mi piacque il modo in cui indugiò su di lei. Non aggiunse altro e tornò a fare ciò a cui si stava dedicando prima che comparissimo. «Da quanto lo conosci?» Si girò verso di me, un’espressione interrogativa. «Da quando sono qui. Perché?» Il petto fu trafitto da una risata amara.
«Non posso lasciarti sola nemmeno pochi giorni, che già mi scombussoli un’intera città.» Non sembrò afferrare la natura della mia allusione. Le misi un braccio a circondarle le spalle. Che tutti vedessero che Greta non era disponibile! Infine raggiungemmo il bagnasciuga. Ci mettemmo un po’ dato che ogni persona su quella dannata spiaggia aveva qualcosa da dirle. Ero tentato di girare i tacchi e andarmene, ma sarebbe stato scortese e io non volevo risultare tale. I contorni della figura di Hulrik erano inconfondibili. Stava sulla piccola imbarcazione a remi, la testa che troneggiava sulle altre, i capelli grigi che svolazzavano intorno al capo rotondo. Prima che mettesse piede a terra, notai gli occhi verdi che avevo già ammirato nel volto di Meredith. L’occhiata che mi lanciò, non era affatto rassicurante. Mi preparai ad un ulteriore scontro verbale. Tutti, in quella cazzo di isola, erano eccessivamente protettivi verso di lei. Saltò giù con un balzo. Nonostante fosse un uomo avanti con gli anni, manteneva il vigore e la prestanza della giovinezza. Aveva muscoli allenati e il suo corpo non era per niente appesantito dagli anni che gli gravavano addosso. Venne verso di noi a o di marcia, spalle grandi, petto robusto, una maglietta a maniche corte sporca di sudore e salsedine. Abbracciò la nipote senza darle tempo di fiatare. La strinse forte, prolungando il contatto. Non avrei mai pensato, data la mole, che fosse tanto affettuoso. Dovetti ricredermi quando la scansò per guardarla in viso, controllare che fosse tutta intera ed, infine, girarsi verso di me. «Sembra che non debba farti nulla ragazzo. Greta è in ottima forma.» Vidi le guance di lei che si colorivano fino ad assumere la sfumatura del rosso magenta. Sapeva a cosa alludesse il vecchio. Hulrik mi chiuse la mano nella sua. Era callosa, dura. «Mi domando perché tu non sia venuto prima a prendertela.» Lo sguardo indagatore. Non gli avrei certo spiattellato le ragioni della mia presenza tardiva. «Non sono venuto a prendermela.» Alzò le sopracciglia cespugliose. Si concentrò su di me con più attenzione.
«Greta vuole restare qui, non ha intenzione di tornare indietro.» La maggior parte degli individui lì intorno, si era avvicinata per sentire cosa avessimo da dirci. «Ah no nipote? Non è venuto per portarti via?» Lei scosse il capo. L’occhiata che Hulrik mi rivolse dopo, fu meno aggressiva. «Bene ragazzo. Allora, immagino che andremo d’accordo. Mi sarebbe dispiaciuto vederla partire così presto.» Gli sorrisi, lui digrignò i denti in quella che pensai fosse una smorfia benigna. «Adriano si fermerà qui.» L’espressione interrogativa. «Da noi?» Percepii una nota incerta nella voce. Greta si voltò a studiarmi. «Affitterò una casa o una stanza. Più tardi chiederò a qualcuno del posto.» La tensione che lo aveva irrigidito lo abbandonò. Pensava che gli avrei occupato casa per convivere con lei sotto il suo stesso tetto? Non ne avevo alcuna intenzione. Capivo la sua ritrosia iniziale. Un uomo chiamò Hulrik da lontano. Mi accorsi che stavano scaricando dei pesci giganteschi dalla piccola imbarcazione. «Ci vediamo da Colin, Greta? Ora ho da fare. Dobbiamo consegnare i tonni prima che si rovinino.» Lei guardò il mare. «Hai bisogno di aiuto?» La strinse a sé un’altra volta. «No piccola. Ci vediamo più tardi. Mostra al tuo ragazzo le bellezze della zona.
Per oggi non mi serve altro aiuto.» Non aggiunse altro e si allontanò. Rimanemmo ad osservare i pescatori che collaboravano affinchè il lavoro terminasse in fretta. Presi Greta per mano e insieme ci avviammo lungo la via del ritorno.
XXXIII
Lei, Greta;
Insieme
eggiammo tra le pianure irlandesi. Il vento che ci accarezzava piano, le nostre dita intrecciate, la serenità di due persone che finalmente potevano essere liberi di volersi bene. Non riuscivo ancora a capacitarmi di quanto, in così poco tempo, la mia vita fosse cambiata. Adriano mi faceva sentire protetta, al sicuro, serena. L’irrequietezza che mi aveva dominato tanto a lungo era scomparsa, come per magia. Lo guardai di sottecchi. Il volto stanco ma disteso, la barba che gli metteva in ombra la mascella decisa, gli occhi attenti nell’afferrare ogni particolare di quel paesaggio nuovo. Mi fermai, lui si girò a guardarmi. Avrei voluto piangere di gioia, ancora incapace di credere che fosse lì, accanto a me. Nascosi il viso sul suo petto, inebriandomi del suo profumo. Non avrei mai voluto dimenticarlo. Nessun senso di colpa a rovinare il momento. Esistevamo soltanto io e lui, non c’era spazio per altro. «Che succede Greta?» Mi sollevò il viso con due dita. Affogai nel verde smeraldo di quello sguardo, persa nella sua profondità, incapace di respirare, incapace di parlare, incapace di ammettere quanto avessi desiderato di poterlo avere in quel modo. Chiusi le palpebre, strusciando la pelle sulla lana morbida del maglione che gli aderiva al corpo. Il petto solido, le onde decise degli addominali. «Niente.»
Non gli piaceva che non gli rispondessi ad una domanda diretta. Se chiedeva, pretendeva che fossi sincera. Avrei dovuto imparare a parlare di ciò che mi ava per la mente. Mi voltai verso il mare. Ci eravamo allontanati parecchio dalla cittadina. Non c’era nessuno intorno a noi, solo qualche gabbiano che ogni tanto ci svolazzava sopra. «Sono felice che tu sia qui.» I suoi occhi risero, la sua bocca si piegò all’insù. Riuscivamo soltanto ad avere espressioni ebeti, come due stupidi. «Anche io lo sono.» Avevo paura che qualcosa o qualcuno potesse portarmelo via. Lui non era sciolto da vincoli come si ostinava ad affermare. Ogni tanto il pensiero di Nicole, abbandonata a se stessa, mi faceva tremare. E se avesse cambiato idea? Se avesse deciso di tornare da dove era venuto, lasciandomi sola, con un buco nel petto, non più in grado di sorridere? «Non voglio che tu te ne vada.» Mi accarezzò i capelli, cercando di combattere contro il vento che li spettinava continuamente. «Non vado da nessuna parte.» Era vero? Sarebbe stato così sempre? Distolsi l’attenzione dai suoi lineamenti decisi. Non volevo rovinare quel momento manifestando i miei dubbi e le mie paure. Con lui dovevo godere dell’attimo, non pensare al futuro, non ancora, non potevo. «Greta…che cosa c’è? Un istante fa non c’era questa ruga qui.» Mi accarezzò la linea di espressione che mi solcava la fronte. «Ho timore che te ne andrai. Ho paura di legarmi troppo a te e che poi mi lascerai. Non riesco a darti me stessa perché temo che mi tratterai come hai fatto con Nicole.» Ecco. Lo avevo detto. Ero stata sincera, come mi aveva chiesto.
Adriano mi lasciò, lo sguardo ferito, la mano che si massaggiava la guancia scavata. Mi apparve come un uomo distrutto, intrappolato in una dimensione in cui non potevo raggiungerlo. Rimasi ferma, accanto a lui, aspettando che mi rispondesse. «Credevo di essere innamorato di Nicole quando le ho chiesto di sposarmi. Siamo stati tanto tempo insieme in Australia, abbiamo attraversato momenti difficili, lei mi è stata sempre vicina. Ero convinto che fosse la compagna giusta, non l’ho costretta a seguirmi perché desideravo approfittare del suo buon cuore.» Continuò a guardare l’oceano che si perdeva in lontananza. Fui attraversata da una sensazione spiacevole. Nonostante avessi tirato in ballo l’argomento, non mi piaceva sentir parlare del suo ato con un'altra donna. «Quando siamo venuti a Roma, cominciando una nuova vita, ero felice. Ero contento di tornare a casa. Mi mancava la mia famiglia, mi mancava la mia città.» Pensai che si fosse nuovamente allontanato dai suoi affetti a causa mia. In un certo senso, mi sentii colpevole. «Quel giorno che ci siamo scontrati…» Sorrise, la voce bassa, la mente persa nel ricordo. «Ho avuto una sensazione strana alla bocca dello stomaco.» Io avevo avuto la medesima reazione. «Ho pensato che fossi una stupida, arrogante e presuntuosa ragazza. Ma, per il resto della giornata non sono riuscito a dimenticare lo spicchio di cielo intrappolato nelle tue iridi.» Mi ò le dita sulle ciglia lunghe. Sospirai. «Quando ti ho vista quella sera a cena, al fianco di Claudio, ero stordito. Tu eri la ragazza del mio migliore amico! La ragazzina con il coniglio bianco che mi ha preso a pugni. Non sono riuscito a distogliere l’attenzione da te per tutta la sera, nonostante sapessi che era sbagliato.»
Ricordavo la cena. Ricordavo ogni singolo momento trascorso dal giorno in cui ci eravamo incontrati. «Ho cercato di starti lontano, Greta. Non sai quanto tempo ho combattuto con me stesso per evitare di avvicinarti. Sono convinto di essere stato uno stronzo. Come potevo anche solo pensare di girare intorno alla ragazza di un amico? Mi faceva schifo l’idea di ciò che avrei potuto combinare.» I suoi occhi improvvisamente tristi, credo rammentasse la delusione sul volto di Claudio quando era venuto a sapere di noi due. «Nicole conosceva bene che razza di mascalzone fossi. Non sono stato un bravo ragazzo in ato. Non so se capisci cosa intendo.» Lo immaginavo, ma decisi di starmene zitta. «Se la nostra si fosse limitata ad essere una storia da una botta e via, non gliene sarebbe importato.» Avevo intuito che non fosse stato il fidanzato perfetto. Il fatto di tradire la sua donna, non lo aveva sconvolto più di tanto. «Ma non ce l’ho fatta, Greta. Quando ho saputo che eri andata a Firenze ad incontrare Andrea, non ho potuto impedirmi di raggiungerti. Mi sono infilato in macchina senza pensare.» Mi accarezzò piano. Era a disagio nel rammentare quanto fosse stato impulsivo. «È stata una delle più belle notti della mia vita. Prima dell’altra sera era in vetta alla classifica.» Sorrise. Io arrossii. «Avrei voluto non doverti lasciare. Credimi. Avrei voluto mollare tutto e scappare via con te.» Gli credevo. Come potevo non farlo? Allora perché aveva scelto di tornare indietro? Feci per parlare, mi poggiò un dito sulle labbra. «Ci sono cose di me che non conosci. Vorrei potertene parlare liberamente ma…
non mi sento ancora pronto. Te lo dirò. Lo prometto. Ma non chiedermelo adesso. Non posso. Non ci riesco.» Che cosa mi nascondeva? Avrei voluto insistere, tirargli fuori la verità. Combattei contro l’impulso di forzarlo. Non me la sentivo di costringerlo a fare qualcosa che lo avrebbe messo in difficoltà. «Il giorno del matrimonio è stato uno strazio. Ero tentato di girare i tacchi e andarmene. Ma ormai era troppo tardi, non potevo farlo, sarebbe stata un’umiliazione troppo grande per Nicole. Mi ero già comportato come una merda, non potevo distruggerla Greta.» Annuii. Capivo come si era potuto sentire. Ma sposarsi quando non se ne era convinti? «Il viaggio di nozze è stato peggio di quanto avessi immaginato. Non mi sono comportato come un marito esemplare.» Non riuscì a guardarmi negli occhi. Non chiesi spiegazioni. Nella mia mente avevano preso forma pensieri che non desideravo sapere reali. «Quando siamo tornati, ho saputo che te ne eri andata. Non dormivo da un sacco di tempo, ero distrutto. Sei stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Ho parlato con Claudio, l’ho ferito, deluso, non credo di essermi sentito tanto in difficoltà come in quel momento. Sarebbe stato meglio se non ci fossimo mai incontrati, non è vero?» No. Non era così. Abbassò le lunghe ciglia nere, premendomi il palmo contro il suo viso. «Sono andato dai tuoi genitori per farmi dare l’indirizzo dove avrei potuto trovarti.» Immaginavo cosa avessero pensato allora. «Tua madre mi avrebbe colpito con un mattarello se fosse stata sola. Sono piombato a casa dei tuoi nel bel mezzo della notte. Ma Sergio è stato comprensivo. Non ho dovuto supplicarlo per avere ciò per cui ero venuto.» Pensai a mio padre, lui mi aveva sempre capita, mi aveva sempre accettata.
«Il giorno dopo sono partito. Arrivo e…» La mano ò nervosa a massaggiare la tempia. Gli occhi che mi fissavano inquieti, riflettevano il terrore che aveva provato. «Non sai cosa ho ato in quelle ore in cui temevo che fossi morta. Non puoi nemmeno immaginare come mi sia sentito. Non voglio mai più stare così. Mai più. La vita aveva perso ogni colore. Ha detto bene Colin. Se non fossi tornata, non so cosa avrei fatto.» Lo abbracciai, lui mi schiacciò come se volesse che i nostri corpi si fondessero. «Non potrei mai lasciarti Greta. Non ora che ti ho trovata. Lo so che ci conosciamo da poco. Lo so che soltanto oggi stiamo vivendo davvero, ma di una cosa sono certo, come non lo sono mai stato di nient’altro. Ora che sei mia, non ti lascerò andare mai più.» Le lacrime mi bagnarono il viso. Sapevo che credeva in ciò che aveva appena detto. Mi baciò gli occhi, asciugandomi le gocce salate con la lingua. Bevve la mia gioia, la mia paura, il mio amore. Lo strinsi ancora, credendo che nulla avrebbe mai potuto rovinare ciò che provavamo l’una per l’altro.
Camminammo per il resto della giornata. La luce crebbe e poi discese. Delle grosse nuvole piene di pioggia cominciavano a venirci incontro. Il tempo in Irlanda era particolarmente capriccioso. Potevi avere una giornata di sole cocente e la notte c’era la concreta possibilità che si scatenasse un acquazzone. Avremmo dovuto abituarci al clima se intendevamo restare. La pioggia ci colse che eravamo quasi arrivati al pub. Era buio. Le scarpe piene di fango, i nostri cuori che battevano all’unisono. Spalancammo l’entrata. Odore di cibo, di birra, di gente. Voci decise, scherzose, rissose. Ero a casa e Adriano era con me. Risi, raggiungendo il tavolo dove mio nonno stava battibeccando con uno dei suoi amici. Eravamo bagnati dalla testa ai piedi, ma il calore di quel posto ci riscaldò all’istante. «Colin! Porta un paio di sedie ai ragazzi.» La voce tonante di Hulrik risuonò per tutta la sala. Lo ringraziai quando ci venne
incontro con in braccio un paio di sgabelli pesanti. Ci sedemmo. Avevamo fame. Ci venne servita una bistecca grondante grasso con contorno di patate dolci e un bel bicchiere di birra per mandare tutto giù. Mangiammo famelici sotto lo sguardo sorpreso degli altri. Kris, la ragazza che fungeva da cameriera, ci girò intorno incuriosita. I suoi grandi occhi castani andavano da me ad Adriano, per poi posarsi con insistente attenzione su di lui. Mi spostai sul bordo della seduta, in modo tale che le nostre braccia fossero a contatto. Le sorrisi, quando la ragazza ci chiese se volevamo altro. «No grazie. Siamo a posto così.» Non era intenzionata ad andarsene perché guardò con troppa ostinazione in direzione di Adriano. Lui ridacchiò nell’accorgersi della mia irritazione nei confronti della situazione. Si rivolse a lei, troppo gentile. «Grazie. Siamo a posto così. Se mi serve dell’altro ti farò sapere. Subito.» Ebbi l’impressione che la ragazza si sciogliesse come burro. Gli tirai una gomitata sull’ addome. Fu svelto a pararsi. Aveva previsto che avrei reagito male. Mi baciò sulla guancia, io non riuscii a rilassarmi. Non mi andava di mettermi a discutere perché era stato educato con lei. Non ero mica un’adolescente alla prima cotta! Restammo seduti ad ascoltare il resoconto della giornata. Erano riusciti a caricare tutti i pesci che avevamo pescato. Il nonno era al settimo cielo, già prevedeva la prossima uscita fortunata. «Ad Adriano piacerebbe esserci.» Tutti i presenti si voltarono a fissarlo. Lui rimase immobile, lanciandomi un’occhiataccia. Feci spallucce, ignorandolo. Era stato lui ad insistere che mi avrebbe seguita in mare! «Ah si? Sei mai andato a pesca?» Hulrik lo osservò dubbioso. Certo, non aveva l’aria di chi era solito andare per mare, ma due braccia in più, come aveva detto lui, facevano sempre comodo. «Sì. In Australia ho lavorato su un peschereccio per una stagione.» Restai a bocca aperta nel sentirgli rivelare qualcosa di sé che non avevo minimamente immaginato. Alzai le sopracciglia incuriosita. Non me ne aveva
parlato. Quante cose non sapevo di lui! «Bene ragazzo. Non sembri avere l’aria di uno che fatica per vivere, ma, se dici che sai qualcosa di barche, perché no?» Hulrik alzò il boccale. Adriano fece lo stesso. Bevvero finché ebbero fiato. Ovviamente, mio nonno la ebbe vinta. Adriano rise, offrendo un altro giro per tutti. Trascorremmo una serata piacevole. La compagnia era ottima. Ad un certo punto qualcuno tirò fuori degli strumenti musicali e l’intero pub cominciò a cantare. Io, i sensi annebbiati dall’alcol, imparai il ritornello e seguii il gruppo tirando fuori la voce quando fu il mio turno. Adriano mi guardò sorpreso mentre intonavo le strofe, mio nonno sorrise, Fil arrossì, era una canzoncina piuttosto spinta e io mi divertii nel sentirmi pronunciare ad alta voce le frasi oscene. «Non sapevo sapessi cantare così bene.» Lo baciai con trasporto. Un applauso entusiasta seguì la mia dimostrazione di affetto. «Ci sono parecchie cose che non sai di me, Adriano Altieri.» Ammiccai, i suoi occhi mi trascinarono in un luogo lontano. Sentivo il battito cardiaco accelerato, la testa leggera, il sangue che ribolliva nelle vene. Lo volevo, e lui lesse il mio bisogno attraverso l’espressione del viso. Ci alzammo dopo poco. Le mani intrecciate. Un saluto generale. Pioveva ancora. Una volta che la porta si chiuse alle nostre spalle, mi afferrò per la vita trascinandomi in un angolo buio. Il muretto basso di mattoni era duro contro le cosce infilate nei jeans. L’acqua ci bagnava. Adriano mi spinse contro la pietra. Le mani che cercavano la mia pelle, la sua bocca sulla mia. L’eccitazione si stava impadronendo di me. Non potevamo farlo lì fuori. Qualcuno ci avrebbe potuto vedere. Cercai di fermarlo, nonostante non volessi che smettesse di alzarmi la maglietta. Il suo respiro caldo contro il mio viso. Le nostre labbra unite a cercarsi. «Fermami Greta. Fermami ti prego.»
La voce strozzata, a stento riusciva a controllarsi. Gli afferrai il viso con le mani, mi persi attraverso di lui. Raggiunse il mio seno libero dal reggiseno. Strinse forte. Gemetti. Il suo membro era duro, premuto tra le gambe. Si abbassò sul mio petto. I denti che graffiavano, la mano che accarezzava violenta. Desideravo che mi entrasse dentro. Lo aiutai a slacciarmi i bottoni dei jeans. Ci mise un secondo. Me li abbassò, togliendoli, le scarpe abbandonate da una parte. Il sedere scoperto, le gambe nude. L’aria era fredda contro la carne, mi fece accapponare la pelle. Le dita trovarono l’apertura pulsante. Mi mossi in direzione di quel tocco capace. Cominciò a stimolarmi nel modo che preferivo. Mi aggrappai alla sua schiena. Le dita correvano frenetiche ai pantaloni ancora allacciati. Faceva male sentire la pressione che aumentava dentro di me. Glielo tirai fuori. Lo presi forte. Mi afferrò i glutei spingendomi contro la sua erezione. La punta mi penetrò. «Greta, fermami.» I suoi occhi di tenebra chiedevano qualcosa che non potevo dargli. Inarcai la schiena in modo che potesse riempirmi. Grugnì contro il mio collo, fermandosi non appena la mia femminilità lo avvolse. Tutti i muscoli protesi ad accoglierlo. «Adriano…» La voce strozzata. Lui perse il controllo e cominciò ad affondare. Avanti e indietro. Sotto la pioggia, contro un muro di mattoni. La sua energia che mi riempiva, le dita che premevano sempre più forte. Mi portò vicina all’orgasmo, ma non mi permise di raggiungerlo. Ormai sapevo che non mi avrebbe permesso di venire così in fretta. La giugulare scoperta, mi baciò, morse, leccò. Ci baciammo. Sale, pioggia, noi, tutto. Tornò a muoversi, lento prima, violento dopo. Mi contorsi intorno a lui, le mani che cercavano qualunque cosa per aggrapparsi. Chiusi le dita intorno al giubbotto pesante, alzai la testa. Le gocce di pioggia mi accecavano. Coprì i miei gemiti con la sua bocca, mentre un brivido mi attraversava tutta. Venni respirandolo, sconvolta da quel piacere intenso. Incapace di parlare, di pensare. Continuò a muoversi fino a godere. Restò incollato a me per qualche secondo, mi solleticò le palpebre chiuse con le labbra e si affrettò a rivestirmi.
XXXIV
La fiera medioevale
Adriano: Mi detersi il sudore dalla fronte. Il sole picchiava. Erano le undici del mattino ed era una giornata calda. Sentivo Greta che chiacchierava con gli animali per evitare che le disubbidissero. I due grossi cavalli le giravano intorno. Quello grande e nero le stava dando piccoli colpi con il muso. Cercava le carote che aveva nascosto nella tasca del giubbotto. Lei rideva ogni volta che l’animale le mordeva il tessuto per raggiungere l’ambito premio. Gettai il letame nella piccola carriola che avevo a fianco; le stalle andavano pulite e io mi ero offerto volontario. Hulrik andava avanti e indietro portando mangime, fieno fresco, biada. Mi sentivo piacevolmente stanco, la fatica fisica aveva il potere di distendermi e quello era un atempo piacevole. Avevo scoperto che lei aveva un animo gentile nei confronti degli animali, di qualunque genere fossero. Quelle due settimane ate insieme erano volate via senza che ce ne accorgessimo. Il tempo d’Irlanda cambiava velocemente, il nonno di Greta aveva detto che quello sarebbe stato l’ultimo periodo buono prima che venisse il freddo. Avrei voluto portarla da qualche parte, prima che il tempo ci impedisse di muoverci. Presi il grosso tubo innaffiando il pavimento di legno. Accudire delle bestie così grandi non era una eggiata. Non mi ero mai confrontato con quel tipo di lavoro, non mi dispiaceva; ma i cavalli, all’inizio, non mi avevano convinto del tutto. Due giganteschi animali. Duma, lo stallone, aveva un carattere rissoso e prepotente, non andavamo molto d’accordo. La giumenta Valla invece, era una bestia più docile e mi piaceva grattarle il collo quando ci salutavamo la mattina presto. La risata di Greta mi fece voltare di nuovo per godermi lo spettacolo. Stava
correndo, cercando di nascondersi dai due. Loro alzavano le orecchie, la osservavano dirigersi verso l’angolo nascosto della stalla, la inseguivano ed infine la trovavano. La vidi abbracciare il collo robusto dell’equino dal manto nero; si fece toccare, baciare. Greta mi sorprendeva ogni giorno con qualcosa di diverso. Non mi sarei mai stancato di osservarla. Dalla stradina che conduceva al villaggio emerse la figura esile di Fil, Il ragazzo che lavorava sul peschereccio di Hulrik. Avevo notato che ava spesso, sapevo che aveva una cotta non indifferente per la mia Greta, ma la cosa non mi infastidiva più di tanto. La sua era una ione innocua; non potevo dargli torto, se fossi stato nei suoi panni, avrei fatto la stessa cosa. Mi salutò con un cenno della mano, prima di seguire con lo sguardo gli spostamenti della mia donna. Sospirai, un lieve fremito di gelosia si impadronì di me. Lo ricacciai indietro, non era il caso di fare una scenata soltanto perché cercava la sua compagnia. «Ciao, Fil.» Greta gli andò incontro, lo accolse abbracciandolo. Un’altra morsa mi serrò le viscere. Ero proprio uno stupido. Gettai la vanga a terra, mi pulii le mani sui jeans consumati e mi diressi verso di loro. Lei aveva il viso sereno, l’espressione distesa, i capelli che tentavano di sciogliersi dalla lunga treccia che aveva appoggiata sulla spalla. «Ciao Adriano.» Gli sorrisi, avvicinandomi. Un lieve bacio sulla guancia, la mia mano che correva al suo fianco per portarla più vicina. Vidi che il ragazzo distoglieva lo sguardo arrossendo. Lo fissai. I miei occhi dicevano ”È roba mia. Non esagerare.” «Come mai da queste parti?» Il tono cordialmente noncurante. Greta odorava di fieno ed erba. Annusai il profumo che emanava, era così bello poterla toccare liberamente! Tra i capelli un filo d’erba. Glielo tolsi mostrandoglielo. Sollevò le labbra in un ghigno furbo, gli occhi celesti che brillavano in quel volto delicato. Tirò via lo sterpo dalle mie mani.
«Deve essere stato Duma. Ha cercato di mangiarmi i capelli mentre ero distratta.» I cavalli pascolavano poco distante. Al sentire il suo nome, lo stallone frisone drizzò le orecchie alzando la testa. Occhi neri in un muso di tenebra. Da bambino, avrei pagato oro per avere la possibilità di possedere una bestia del genere. «Io e i ragazzi andiamo alla fiera medioevale che si trova a poche miglia da qui. È un posto bello da visitare, volevo avvertire Greta che si teneva questo week end. Le avevo promesso di dirglielo.» Lei mi strinse forte la mano. L’espressione accesa di entusiasmo. «Si Adriano! Andiamo. Non sono mai riuscita a parteciparvi da piccola, non venivamo mai nel periodo giusto. Tutto in stile medioevale e atmosfera fiabesca. Venderanno anche le fate. Ne ho una collezione a casa lo sai?» Era proprio una bambina. Come potevo rifiutarle quella insignificante richiesta? «Perché no? Mi piacerebbe visitare una località diversa. Ci stavo pensando prima.» Avrei voluto andare da qualche parte da solo con lei, non ero proprio elettrizzato del fatto che tutti gli abitanti della cittadina si sarebbero spostati in massa nella stessa direzione. Chiedemmo informazioni su come ci si arrivasse. Ci sarebbero volute quattro ore di macchina, la giornata era ormai persa. Sarebbe stato meglio se fossimo partiti l’indomani, ma Greta non voleva saperne. Era già corsa da Hulrik a dirgli che partivamo.
Un paio d’ore dopo eravamo in comodamente seduti in auto. Il grosso Range Rover macinava chilometri senza difficoltà. Il motore silenzioso, la radio che trasmetteva solo brani in inglese. Avevamo infilato poche cose in un’unica valigia; la mia intenzione era quella di fermarci fuori per un paio di notti e visitare altro, oltre la tradizionale fiera del posto.
Greta canticchiava accanto a me, il gomito poggiato sullo sportello, il mento incuneato nel palmo; gli occhi che si soffermavano su ogni particolare di ciò che ci sfrecciava intorno. «Sei contenta?» Si voltò a guardarmi. Un sorriso sincero. La sua mano corse alla mia che era poggiata sul cambio manuale. «Lo sarei stata anche se fossimo rimasti dove eravamo.» Risi. Sapeva tanto di bugia. «Se non ti ci avessi portato di corsa, avresti trovato un altro modo per andare. Non dire fesserie, mi avresti costretto a seguirti con la forza.» Le sue risa seguirono le mie. Gioia pura! «Non mi conosci molto bene. Dovrai imparare a farlo. Non ti avrei mai obbligato a fare qualcosa contro la tua volontà ma…» Si sporse oltre il proprio sedile facendo tendere la cintura di sicurezza, il suo volto a pochi centimetri dal mio. Le lanciai uno sguardo veloce prima di tornare a concentrarmi sulla strada. «…Sarei andata lo stesso.» Alzai un sopracciglio, l’attenzione di nuovo su di lei. Mi guardava con quell’aria da civetta che, come avevo imparato, significava tante cose. Presi il volante e lo girai svelto. Le ruote sobbalzarono sul terreno accidentato che circondava la strada asfaltata. Misi a folle, slacciai la cinghia di sicurezza e le fui addosso. Il suo respiro veloce. Era stata colta di sorpresa, mi piaceva lasciarla senza fiato. «Saresti andata senza di me? Da sola?» Le labbra socchiuse, il petto ansimante. «Si…» La baciai. Lei rispose con slancio. Le impedii di avvolgermi le dita dietro al
collo e tirarmi a sé. La lingua che affondava con prepotenza nella sua bocca. Non ero affatto contento della risposta che mi aveva appena dato, avrei voluto farle rimangiare quelle parole in maniera più decisa. Mi staccai, lasciandola tremante contro lo schienale di pelle. Se avessi continuato a starle vicino, non saremmo riusciti a ripartire tanto in fretta. «Non fare la sciocca, sarei venuto con te in ogni caso.» Inserii la prima marcia e riportai la macchina sulla corsia di percorrenza veloce. Le iridi di ghiaccio erano fisse su di me. «Lo so.» Allungai un braccio a scompigliarle i capelli. Lei rise ancora. Non riuscivamo a fare altro da quando ci eravamo ritrovati.
Era pomeriggio tardi quando arrivammo alla cittadina dove si sarebbe tenuto l’evento. Grossi tendoni di ogni colore circondavano il paese. Parcheggiai in una zona strapiena di macchine; dovetti fare il giro un paio di volte prima di riuscire ad infilarmi tra due mezzi pesanti. Greta saltellava eccitata al proprio posto. Mi lasciai trascinare dalla sua esultanza. Era così felice! Non mi sarei aspettato che fosse tanto emozionata solo perché stavamo per visitare un posto nuovo. Evidentemente ci teneva parecchio. La presi per mano e, insieme, ci incamminammo nella zona pedonale all’interno del paese. Gente vestita in abiti d’epoca ci eggiava intorno come se fossimo noi quelli abbigliati nella maniera sbagliata. Ogni volta che incontravamo qualcuno, eravamo costretti a fermarci e salutare, secondo le usanze della festività. Mi sentivo ridicolo a parlare in quel modo, ma, se evitavamo di rivolgerci con le dovute frasi di circostanza, non ottenevamo risposta. Per mia fortuna, Greta trovava divertente quel gioco, era lei a chiedere indicazioni. Io restavo al suo fianco ad osservare, cercando di non scoppiare a ridere. Ci indicarono un albergo che si trovava al centro della cittadella. Uno stendardo rosso con sopra dipinta un’aquila reale sventolava fuori della porta. Entrammo, un camlo acuto avvisò il proprietario che erano arrivati dei clienti. Un uomo sulla sessantina con un grosso cappello colorato che terminava con una
lunga piuma si esibì in un profondo inchino dietro il bancone delle prenotazioni. Avrei voluto piegarmi in due a causa della risata che stava per esplodere. Pareva davvero convinto di appartenere ad un periodo lontano. Lei improvvisò una riverenza in risposta, io ero bloccato in un contegno immobile. Prendemmo una stanza. Era l’ultima, ovviamente la più costosa, ma non era un problema per noi. Ci accompagnò un valletto vestito di scuro. Non ero sicuro che il suo abito fosse proprio del periodo giusto, ma non dissi nulla, seguendo silenzioso quelle grosse braghe che mi dondolavano di fronte. Una volta che la porta si chiuse alle sue spalle, potei finalmente rilassarmi e cedere al fragoroso scoppio di ilarità che avevo trattenuto da quando eravamo arrivati in quel covo di matti. Greta mi guardava. Nemmeno lei riusciva a mantenere un atteggiamento indifferente. «Smettila.» Mi lanciò un cuscino e io lo presi al volo. Grosse lacrime di gioia mi inumidivano gli occhi. Feci un inchino, sbeffeggiando i modi degli abitanti della città, lei si portò la mano alle labbra per evitare che vedessi che stava sorridendo. «Sei uno stupido, non capisci niente.» Le corsi incontro, afferrandola per i fianchi e trascinandola con me sulle coperte rosse. Provò a divincolarsi, ma erano tentativi deboli. Lo faceva giusto per il gusto di opporsi a me. Combattemmo un po’, il letto sfatto in pochi secondi. Greta rideva, io avevo il fiato corto. Le fermavo i polsi per evitare che mi sfuggisse di nuovo. Serenità, amore, confusione, tenerezza, si rincorrevano nella mia anima. Non riuscivo a credere che una sola persona fosse capace di farmi provare tante cose tutte insieme. Le labbra unite, lei si mosse per permettermi di stare più comodo. Le deposi piccoli e teneri baci sul profilo della mascella, sul naso sottile, sulla bocca piena, sulle palpebre chiuse. Le nostre lingue intrecciate, le dita scivolarono sulla maglietta che le proteggeva il busto. Potevo sentire le costole sporgere oltre il tessuto, il reggiseno di pizzo che graffiava la stoffa. Avevo voglia di lei, come sempre. Trovai la cerniera dei pantaloni. Mugolò di desiderio una volta che accarezzai la pelle tesa sotto le mutandine coordinate al reggiseno. Le denudai le gambe. Lei mi osservava con quell’aria sfatta e dannatamente sexy. Le sfilai le scarpe, i calzini. Scoperta dalla vita in giù. Mi liberai dagli abiti. La stanza era bollente, i riscaldamenti dovevano essere stati
accesi già dalla mattina. La feci alzare, le braccia verso l’alto, le mie mani che le sollevavano la t-shirt. Era bellissima vestita soltanto del completino di pizzo nero, l’immagine di una dea in biancheria di seta scura. Cominciai a muovere il pollice sul bordo che conteneva a malapena i capezzoli. Appena le dita sfiorarono la parte sensibile, le punte rosate si fecero dure. Abbassai la testa sul seno alto, la bocca sopra il tessuto, i denti che mordevano la carne tenera. Si inarcò. Fece per togliersi l’intimo, la fermai, mi andava di prenderla così com’era. Sentivo l’eccitazione sempre più pressante, desideravo affondare in lei, avvertire la sua consistenza calda e umida intorno al membro. La mano di Greta corse al mio inguine, le sue dita accarezzavano lente la peluria che partiva dall’ombelico. Lasciai che mi toccasse. Sospirai quando chiuse il pugno intorno all’asta solida ed iniziò a muovere su e giù. Le tirai i capelli raccolti nella treccia lunga. Ero stanco di aspettare, la feci voltare di spalle. La mutandina a brasiliana evidenziava la rotondità perfetta del sedere sporgente. Tenni le dita intorno ai capelli, faceva un po’ di resistenza. Scansai i bordi di pizzo che nascondevano la zona intima. Era già pronta, infilai i polpastrelli in quella caverna accogliente. Greta tentò di muoversi, ma non glielo permisi. Se avesse provato a liberarsi, si sarebbe fatta male. «Ferma amore.» Fece come le avevo detto, accompagnando le carezze della mano con delle spinte all’indietro. Mi sfilai umido dei suoi umori, i palmi contro i fianchi morbidi mentre la guidavo contro il mio ventre, la punta strusciò sul tessuto, scostai l’elastico raggiungendo la calda tana che mi aspettava. Entrai di colpo. Si irrigidì, cercando di adattarsi alla pienezza dell’ingombrante organo che la riempiva. Uscii e poi entrai, senza troppa gentilezza. A Greta non piaceva essere presa con dolcezza: nonostante cercasse di dominare, sapevo che amava essere posseduta. Con la mano libera la mossi ad incontrarmi; i miei movimenti potenti la facevano gemere. Il piacere di entrare in lei, di trattenermi, di sentirla godere intanto che affondavo e mi allontanavo, era qualcosa di inebriante, quasi fosse stata una droga. Avrei sempre avuto bisogno della mia dose. Mi mossi più svelto, Greta mi accompagnava inarcando la schiena. Le liberai i capelli permettendole di abbassare la testa; il cuore che batteva forte, il sangue che pulsava veloce. Ci separammo con un suono fradicio di carni bagnate. Mi morse piano il labbro inferiore, le mani strette sui miei glutei. Mi fece girare a pancia in su, montandomi sopra. La lasciai fare, ogni tanto mi piaceva che fosse lei a terminare l’amplesso. Da quella posizione la sentivo di più e lei esultava di
quella sensazione di pienezza. Le presi le cosce, spostandola come preferivo. Ondeggiò lenta, strusciandosi languidamente. La guardai dominarmi, le palpebre socchiuse, il viso rivolto in alto, i seni che si muovevano mentre le mie mani li stringevano forte. Percepii il suo respiro che accelerava, la tensione della zona interna, piccoli spasmi intorno al pene. Chiuse gli occhi, si morse le labbra, cercò di urlare, ma non ci riuscì; la gola muta, le mani che si aggrappavano alle mie braccia, le unghie conficcate nella pelle. Amavo osservarla perdere il controllo in quel modo. La accompagnai affinché il suo piacere fosse più intenso. Me la tirai sopra, alzandomi a sedere sulle coperte. Le presi il mento tra le dita, lei ancora persa tra i residui del piacere che l’aveva appena posseduta. «Voglio che mi guardi, Greta.» Le ciglia che si sollevavano leggere, gli occhi color del cielo che si fissavano nei miei. La feci scivolare contro di me, troppo esausta per prendere l’iniziativa. Continuò a fissarmi mentre mi scioglievo nel suo ventre, riempiendolo.
Greta:
Dopo aver fatto una doccia veloce, fummo pronti per partire alla scoperta della fiera. Ero davvero felice di essere lì. Mi ricordavo di quando, da bambina, pregavo i miei genitori di portarmi a quella manifestazione. Le loro ferie non coincidevano mai con il week end della festa e io, disperata, non potevo fare altro che abbandonarmi alla delusione. Guardai Adriano che chiudeva la porta della stanza d’albergo, si voltava verso di me, mi sorrideva con quelle labbra meravigliose. Il solo guardarlo mi faceva accelerare i battiti cardiaci. Ero completamente e totalmente pazza di lui. Non ero ancora riuscita ad ammetterlo ad alta voce, ma la consapevolezza stava cominciando a farsi strada dentro di me. Quell’uomo mi possedeva. Allungò la mano a prendere la mia, le nostre dita strette tra loro. «Allora? Dove siamo diretti come prima tappa?» Mostrai i denti in un’espressione allegra.
«Prima perlustriamo la zona, e poi decidiamo dove mangiare o dove acquistare qualcosa. Per te va bene?» Rise con tutta la faccia, il suo braccio che mi stringeva, il profumo forte che ad inebriarmi i sensi. «Agli ordini, capo.» Salutammo il titolare dell’albergo che si stava riposando a ridosso del caminetto in quella che sembrava una sala da tè. Si inchinò, togliendosi il cappello. Mi piegai anche io, era così simpatico interpretare quel ruolo! Diedi di gomito ad Adriano che stava per buttarsi a terra in preda ad un attacco di risa. Mi appoggiò la fronte sulla schiena evitando che l’uomo vedesse quanto la pantomima lo fe divertire. Uscimmo, l’aria si era rinfrescata, il sole stava tramontando. Le lanterne erano accese lungo tutto il percorso che conduceva alla fiera. Era meraviglioso. Centinaia di tremolanti fiammelle che indicavano la via; uno scenario emozionante e suggestivo. C’era una grande quantità di persone; alcuni in abiti d’epoca, altri, evidentemente turisti come noi, si aggiravano meravigliati in abbigliamento casual. Le note di una musica celtica accompagnava il cammino; giocolieri che vestivano panni dalle tinte brillanti ci giravano intorno ridendo allegri. Trascinai Adriano in un o di danza, lui parve sorpreso nell’osservarmi volteggiare tra le sue braccia. Mi strinse forte, mi baciò. Avevo ancora addosso la sensazione di lui che si muoveva con me mentre facevamo l’amore. «Greta, fermati o cadremo a terra.» Continuai a saltellare, travolta da quell’atmosfera unica. Lui che mi rincorreva prendendomi di nuovo. Era caldo, accogliente, il mio rifugio sicuro. Ero raggiante. Raggiungemmo la zona delle bancarelle, invasa da un odore di brace e vino dolce. Mi fissai intorno incuriosita. In vendita, oggetti di vario genere: ninnoli artigianali, pietre brillanti incastonate in metallo trattato, delle vere e proprie opere d’arte! Adriano se ne stava sereno al mio fianco scrutandomi attento intanto che chiedevo ai proprietari del banco quanto costava questo o quell’oggetto o se fosse disponibile anche in altri colori. La mia attenzione fu attirata da una bancarella circondata da veli trasparenti che si gonfiavano alla carezza della brezza leggera. I tessuti si avvolgevano, si allontanavano, mi
pareva danzassero al ritmo di quella musica rimbombante. Un bambino mi ò davanti inseguito dalla madre che gli urlava dietro. Mi scansai, cercando di non essere travolta dalla sua fuga. «Vado un momento lì.» Lui annuì ma non mi lasciò, seguendomi. Il tavolo era stracolmo di pietre chiare. Alcune erano inserite dentro delle sculture raffiguranti alberi in fiore, altre, invece, in tronchi contorti e spogli. L’autrice delle sculture aveva utilizzato il legno come unico vincolo per le gemme. Erano belle. Sarebbero state degli splendidi soprammobili. La signora ci sorrise da dietro il banco di lavoro. Stava trasformando un pezzo di legno in quella che sarebbe stata un’altra dimora per la pietra prescelta. «Ha davvero del talento, complimenti.» Smise di incidere il materiale duro, poi posò gli attrezzi su uno sgabello dietro di sé e mi guardò incuriosita. «La ringrazio. Il legno è un ottimo materiale da trasformare. Se trattato con cura, si piega al volere di chi lo maneggia.» Feci cenno di sì con la testa. Se avessi tentato di fare ciò che stava facendo lei, avrei solo creato un gran casino. Adriano si voltò verso qualcosa che lo aveva incuriosito. Mi girai verso il punto sul quale vagava con lo sguardo, ma non riuscii a capire a cosa fosse interessato. Si sciolse dall’intreccio delle nostre dita. Prima di allontanarsi, mi appoggiò le labbra sulla fronte. «Torno subito. Resta qui.» Annuii, guardandolo scomparire in mezzo alla folla che era aumentata. Mi rivolsi nuovamente alla donna che mi osservava con grandi occhi di giada. Doveva avere più o meno quarant’anni, ma non ne ero sicura. Aveva lunghissimi capelli rossi intrecciati in una coda che le ballonzolava dietro la schiena, qualche filo grigio ad interrompere il colore vivo. Era abbigliata secondo i canoni della festa. Un lungo abito verde chiaro, le maniche a coprirle le braccia, una cinta decorata a stringerle la vita. Niente di eccentrico né di troppo vistoso. Più che
una dama medioevale, mi riportò alla mente l’immagine di una sacerdotessa celtica. «Vuoi che ti mostri qualcosa?» Annuii, chiedendole varie informazioni su alcuni pezzi che mi avevano affascinata. I prezzi non erano alti. Credevo costassero di più, dato il lavoro certosino che richiedevano. Mi allungai a prendere il tronco lavorato che mi porgeva; le nostre mani si toccarono solo un momento, una scossa di fredda elettricità mi attraversò le membra. Ritirai il braccio, come se mi fossi appena bruciata. Il modo in cui mi stava studiando mi mise a disagio. Mi voltai, cercando Adriano, che non vidi. «Lo sai che su persone che possedevano il tuo stesso colore di capelli sono stati intonati canti fin dall’inizio dei tempi?» Aveva la voce bassa e roca. Un altro brivido mi attraversò. Non riuscivo a capire perché, improvvisamente, desiderassi scappare lontano. «Ti avrebbero definita baciata dal fuoco. Nessuno te l’ha mai detto?» Negai ancora. Non sapevo perché mi stesse dicendo quelle cose. «Le persone toccate dalle fiamme sono molto fortunate. Tu sei fortunata?» Feci un bilancio veloce della mia vita. «Credo di sì.» Lei annuì. Non le serviva che le dessi la conferma di ciò di cui sembrava certa. «L’aria e il fuoco sono due elementi complementari. Il vento aizza le fiamme, il fuoco ne trae godimento. È ciò che provi quando stai con lui?» Non c’era bisogno che le chiedessi a chi si stesse riferendo. Adriano non si vedeva ancora, e io non aspettavo altro che tornasse a prendermi per portarmi via. Feci per girarmi e andarmene. Lo avrei cercato senza stare ferma ad aspettarlo con quella strana donna e i suoi inquietanti commenti. «Aspetta!»
Mi voltai, si era fatta così vicina che potei distinguere la ruga verticale in mezzo alle sopracciglia. In mano teneva una luminosa pietra puntinata incastonata in un bozzolo legnoso dalla forma spaccata; da una parte un albero dalle fronde importanti, dall’altra, lunghi rami spogli che assomigliavano a delle dita. Me la porse. Un lungo sospiro le attraversò il petto. «La fortuna, a volte, ha un prezzo. Un essere solo non può detenerne tanta.» Il pezzo di legno era caldo. «Sei nata sotto una buona stella. Non a tutti capita di trovare ciò che tu hai avuto così facilmente.» Sgranai gli occhi. Che cazzo stava dicendo quella? Provai a liberarmi della stretta delle dita intorno alle mie, ma erano chiuse come morse di ferro. «L’amuleto ti aiuterà a sopportare. Tienilo vicino quando crederai di non farcela. Il legno rappresenta il vento, la scultura serve ad imprigionarlo, la pietra appartiene al fuoco, unite insieme come fossero uno Yin e uno Yang.» Sopportare cosa? Nella mia espressione una domanda taciuta. Scosse il capo. «Non posso dirti cosa ti aspetta. Posso solo augurarti di superare gli ostacoli che incontrerai sul tuo cammino. Ricorda che ogni cosa avviene per un motivo. Tutto è già scritto. Due persone legate in questo modo, lo resteranno per sempre.» Riuscii a divincolarmi. Avevo ancora nella mano sinistra l’oggetto artigianale. Glielo allungai. Scosse la testa, non lo avrebbe ripreso. «Tienilo. È un regalo. Ti aiuterà.» Una folata di vento mi fece rabbrividire, le parole di avvertimento caddero intorno a noi profetiche. Perché una sconosciuta si divertiva a spaventarmi? «L’aria volerà via, il fuoco non sarà in grado di trattenerla ma tu, tu sei forte, resisterai.» Mi accorsi che Adriano mi stava venendo incontro. Evidentemente si era reso conto del mio turbamento. Il o accelerato, mi raggiunse che aveva il fiatone. Nascosi il viso sul suo petto, il cuore che batteva forte contro il mio orecchio.
Aveva un’aria pericolosa mentre si voltava in direzione della donna che ci fissava entrambi. «Che è successo Greta?» Mi sollevò il mento e ritrovai la serenità non appena mi persi in quella sconfinata distesa color smeraldo. Mi allontanò da lei, frapponendosi tra noi come uno scudo. «Andiamo amore. Andiamo via.» Diedi un’ultima occhiata a quella che sembrava una sacerdotessa druida. Lei mi sorrise mesta, ma non aggiunse altro, tornando al suo lavoro; la scultura ancora a contatto con il mio palmo.
Non riuscii a scacciare quel senso di smarrimento che mi aveva colta in seguito all’incontro avvenuto poco prima. Le parole della donna mi rimbombavano nel cervello. L’aria volerà via. I miei occhi si sollevarono verso di lui. Sapeva che qualcosa mi aveva fatto cambiare atteggiamento; mi aveva chiesto cosa fosse successo, ma non avevo voluto dirglielo. Mangiammo del pollo arrosto seduti su una panca di legno accanto a quello che era un ristorante all’aperto. Era gustoso e croccante. Mi leccai le dita dopo aver infilato in bocca l’ultimo pezzo di pelle grassa. Adriano mi osservava, cercando di leggere in fondo alla mia anima. Gli presi la mano. La musica confondeva i suoni, le chiacchiere della gente facevano da contorno. Mi accarezzò il dorso con il pollice. «Cosa è successo prima?» Mi voltai verso il punto dove si trovava la bancarella in questione. «Nulla.» Socchiuse le palpebre continuando a masticare il boccone. «Perché non vuoi dirmelo?» Alzai le spalle.
«Non è niente di importante.» Strinse le dita forte. «Non è così. Sei diversa da quando siamo venuti via da quel posto.» Aveva ragione. Cosa mi costava dirglielo? «La proprietaria del banco mi ha detto una cosa che mi ha infastidito.» Lui alzò le sopracciglia, in attesa che continuassi. «Ha detto che io e te siamo legati come fuoco e aria. Due elementi complementari che si alimentano a vicenda.» Annuì, concorde su ciò che aveva appena sentito. «Non mi sembra così terribile. Io cosa sarei?» Mi massaggiò il dorso, le nocche tese come piccole montagne gemelle. Si allungò sul tavolo per schioccarmi un bacio leggero all’interno del polso. Strusciò la fronte sulla pelle diafana dove due vene azzurre formavano una ipsilon. «Tu sei l’aria, io sono il fuoco.» Mi degnò della sua completa attenzione nel frattempo che rifletteva. «Ah si? Io sono l’aria?» Mi tirò la treccia arrotolata di fronte a me. Se la portò alle labbra facendo finta che la punta fossero i suoi baffi. «Chi l’avrebbe mai detto?» Non riusciva a farmi ridere, come invece avrebbe voluto. «Che altro c’è Greta? Non credo sia stato questo a turbarti così profondamente.» Avvicinai la sua mano al volto, premendo la guancia nella coppa formata dal palmo.
«Ha detto che l’aria andrà via e che quando mi sembrerà di non sopportare più dovrò tenere vicino quella cazzo di scultura che mi ha obbligato a prendere.» Chiusi gli occhi, non volevo scorgere la sua espressione. E se nel suo sguardo avessi letto l’incertezza a confermarmi ciò che mi era stato appena detto? Le dita chiuse in maniera spasmodica mi costrinsero a guardarlo. « Greta!» Dapprima non ubbidii. Il rossore mi stava imporporando gli zigomi, poi, a causa della pressante insistenza, sollevai le palpebre. «Perché credi ad una donna che non conosci? Ha parlato di fuoco e aria! Le sue parole non dovrebbero avere tanto potere su di te.» Detta così, apparivo una sciocca. «Non lo so. Forse non credo realmente che tu possa rimanere con me sempre.» Mi morsi le labbra. «Io non ti lascerò, Greta. Voglio te, ogni momento, ogni giorno, per tutto il resto della mia vita. Non lo dico perché desidero convincerti, ma soltanto perché ci credo fermamente.» Le vene del collo gonfie mentre si sforzava di non gridare. «Ho paura Adriano, ho paura che questa felicità sia troppa e che non possa durare, ho paura che qualcuno ti porti via, ho paura che non riuscirei a sopportarlo.» Si alzò, trascinandomi insieme a lui. Cominciò a camminare sullo stradone che ava in mezzo ai tendoni. Non sapevo dove mi stesse portando, e nemmeno mi importava. Giungemmo in un posto isolato, un sentiero che si perdeva fra le colline che circondavano il paese. I rumori della festa si attenuarono alle nostre spalle, le stelle rischiaravano il percorso, la falce di luna brillava attraverso la notte. Adriano andava avanti senza mai voltarsi. Avevo rischiato di cadere un paio di volte, inciampando nelle buche accidentate del terreno poco battuto. Lui mi sosteneva, si assicurava che stessi bene e poi ritornava a seguire la stradina bianca.
Raggiungemmo uno spiazzo piano che sovrastava il panorama. La cittadina alla nostra destra, la fiera sotto di noi, soltanto le note lontane della musica a ricordarci che non eravamo soli. Mi osservai intorno. Una grossa zona rotonda era delimitata da giganteschi monoliti di pietra. Mi venne subito in mente Stonehenge, ma quel luogo di culto si trovava in Inghilterra, non potevano averlo trasferito in Irlanda. Feci qualche o all’interno del circolo con al centro un altare. Forse era perché quella sera mi sentivo particolarmente incline a credere all’inverosimile che ebbi l’impressione di respirare un’aria che sapeva di magia antica. L’atmosfera mistica, il vento che mi accarezzava lento. Alzai la testa accorgendomi che la luna era dritta sopra di me. Adriano mi raggiunse all’interno del cerchio. Si piegò, gli occhi che brillavano anche se la notte era fitta. Il suo profilo meraviglioso illuminato a zone, ombre e luci si rincorrevano su di lui. Mi prese le mani, se le portò al viso, inspirò tra i palmi aperti ad accarezzarlo. Alzai le punte dei piedi, sfiorai le labbra pronte a ricevermi. Tutta la paura, il sospetto, l’incertezza, svanirono. Quando eravamo insieme, non poteva accadere nulla di brutto. «Un uomo dal quale ho comprato una cosa mi ha parlato di questo posto. Ha detto che molto tempo fa qui si compivano rituali celtici, è un luogo sacro per chi crede alla magia dei tempi antichi.» Le parole si persero tra i sospiri della natura. «Perché siamo venuti qua? Avremmo potuto visitare questo posto domani mattina.» Mi guardò, come se non capissi niente. «No, la persona alla quale mi sono rivolto ha aggiunto che certi riti vanno compiuti di notte, è più…spirituale.» La bocca si sollevò, l’espressione del volto a riflettere il legame di appartenenza che condividevamo. Infilò la mano nella tasca del giubbotto e ne tirò fuori una scatoletta di velluto. Il mio cuore si fermò di colpo. Le sue lunghe dita aprirono il coperchio a mostrarne il contenuto. Era un anello liscio, assomigliava ad una fede. Non distinsi di cosa fosse fatto e, sinceramente, anche se fosse stato spago, non me ne sarebbe fregato nulla. Sarei comunque rimasta senza fiato.
I suoi occhi che mi scrutavano in cerca di una reazione. Ero paralizzata, non sapevo cosa dire. Lo vidi afferrare l’oggettino prezioso, tirarlo fuori dalla scatola, accarezzarmi l’anulare ed infilarlo. Restai imbambolata un paio di secondi, il braccio alzato a mostrare l’anello che brillava riflettendo la luce delle stelle. Piccoli simboli erano tracciati lungo tutta la superficie. Riconobbi in essi rune celtiche. L’antica tradizione irlandese mi affascinava da sempre e, nel tempo libero, mi ero dedicata a studiarne le caratteristiche. Era per questo che non avevo dubbi riguardo all’incisione. «L’uomo che me lo ha venduto ha detto che si tratta di un anello votivo. I simboli tracciati rappresentano una promessa.» Continuai a fissare davanti, incapace di guardare nient’altro al di fuori del gioiello. Una promessa? Che genere di promessa? Tante emozioni contrastanti mi attraversavano, rischiando di soffocarmi. «È una promessa Greta. La promessa di stare insieme sempre. Io e te, tutta la vita.» Le lacrime mi pungevano gli occhi, straripando. «Non ti lascerò, Greta. Mai. Un giorno ti sposerò e ti renderò una donna onesta.» Risi. Le nostre bocche unite in un bacio. Mi stavo trasformando in un’entità fatta unicamente dei sentimenti che sentivo per lui. Lo strinsi, avrei voluto fondere le nostre membra in modo da diventare uno soltanto. «Ti amo Adriano. Ti amo tanto. Non sai quanto tu mi renda felice.» Ci baciammo ancora, il giuramento delle nostre anime legate in quel cerchio di potere, le parole che si tramutavano in catene invisibili, la magia celtica che ci sposava per sempre.
XXXV
Davide
Non è possibile
eggiavo con Sibilla al centro di Roma. Era una bellissima giornata di fine Agosto, i residenti si erano trasferiti nelle case vacanze fuori città. Si respirava una tale pace e tranquillità, da farci credere che il luogo appartenesse soltanto a noi e a pochi altri. Mia moglie si guardava intorno incuriosita dalle vetrine allestite con le offerte di fine stagione. I saldi erano quasi finiti e lei cercava un ultimo affare da concludere prima dell’inizio dell’autunno. ammo di fronte all’edificio dove Adriano lavorava. Erano trascorse poco più di due settimane da quando era partito per raggiungere Greta in Irlanda. Ci sentivamo di rado, Sibilla non gli aveva ancora perdonato di essersene andato lasciando la moglie. Osservai la donna che mi camminava al fianco: il trascorrere degli anni era stato clemente con lei. Mi era capitato di rado di incontrare signore della sua età che mantenessero il proprio fascino intatto. Le strinsi la mano un po’ più forte. Piccole rughe le si disegnarono intorno agli occhi quando mi sorrise distogliendo l’attenzione dal palazzo di design pubblicitario. «Hai sentito Nicole oggi?» Fece segno di no. Sapevo che la chiamava ogni giorno per accertarsi che stesse bene. A volte la ava a trovare e trascorrevano un po’ di tempo insieme. La ragazza, a detta sua, era depressa, mangiava pochissimo e restava chiusa in casa tutto il giorno. Sibilla aveva preso a cuore le sorti della nuora, colpevolizzandosi per il comportamento del figlio. Avevo provato a farle capire che lei non aveva alcuna responsabilità da attribuirsi, ma non voleva sentire ragioni. Ero io a
metterla al corrente di ciò che Adriano faceva in Irlanda, lei non voleva parlargli, ostinatamente convinta che quello fosse il modo giusto di affrontare le cose. Scossi la testa, lei mi studiò interrogativa. «Perché fai così Davide?» Feci spallucce, continuando a camminare. «Nulla. Credo soltanto che sia il caso che tu e tuo figlio vi intratteniate in una civile conversazione telefonica.» Strinse le labbra, vidi la mascella cominciare a muoversi a scatti. Distolse lo sguardo e si concentrò su una vetrina. «Sai come la penso. Non avrebbe dovuto partire in quel modo, non avrebbe dovuto lasciare quella povera ragazza.» La obbligai a voltarsi per poterla fissare in faccia. Una ciocca di capelli era sfuggita alla pettinatura raccolta. Appoggiò la guancia sulla mia mano, chiuse gli occhi, sospirò. «Sibilla tuo figlio è grande. È in grado di prendere le proprie decisioni senza aver bisogno che tu intervenga. Devi accettarlo, a meno che tu non voglia vederlo più.» Avevo toccato il punto scoperto. Si irrigidì, sollevò le palpebre stordita, si guardava intorno, le mani che cercavano frenetiche nella borsa. Dopo aver afferrato il pacchetto di sigarette, ne sfilò una e se la portò alla bocca. Aveva ripreso da quando Adriano aveva annunciato che sarebbe andato via. Sapevo che non avrebbe voluto ricominciare, ma la tensione era stata troppa da sostenere, così, si era riavvicinata al fumo come un tossico in crisi di astinenza. Continuammo a girare in silenzio, la nuvoletta bianca ci seguiva, gli occhi stanchi circondati dalle folte ciglia brune, non osservavano più nulla con interesse. «Ti dispiace se iamo da Nicole? Non mi ha risposto prima, forse si è sentita poco bene e ha bisogno di una mano.» Annuii. Avrei fatto una piccola deviazione una volta imboccata la strada del
ritorno.
Il palazzetto signorile era illuminato a metà dalla luce del tramonto. Il giardino interno che permetteva di accedere all’androne principale era deserto fatta eccezione per un vecchio signore che si apprestava a portare fuori il cane per la eggiata serale. Lo salutammo, lui ci rispose cortese, ando oltre. Tirò fuori il mazzo di chiavi da quella borsa che sembrava essere un pozzo senza fondo. Una volta scattata la serratura del portone, spinse forte per permetterci di are. Odore di cucinato permeava le pareti del corridoio. Era quasi ora di cena e cominciavo a sentire i morsi della fame. Avremmo mangiato fuori, dovevo soltanto decidere dove. L’ascensore si fermò una volta che il display rimase fisso sul numero cinque. Le saracinesche in acciaio si aprirono. Qualche o, e fummo di fronte all’appartamento che avevamo donato ad Adriano come regalo di nozze. Mi dispiaceva che non fosse diventato la casa che avevo sperato condividessero. Era un’abitazione meravigliosa. Mi sarebbe piaciuto vederla vissuta. Sibilla pigiò il camlo che trillò dall’altra parte del muro. Aspettammo qualche secondo. Nessuna risposta. Suonò di nuovo. Attendemmo ancora. Niente. La vidi impallidire mentre infilava la chiave piatta e seghettata nella toppa. Le mani che tremavano, lei che non riusciva a centrare il buco. La fermai prendendone il posto. Sentivo la sua tensione crescere. «Perché non risponde, Davide?» Non lo sapevo. «Forse sta facendo la doccia.» Non potevo pensare altrimenti. Sibilla si precipitò dentro. Odore di chiuso, le persiane completamente abbassate conferivano alla casa un’aria tetra. Nessun rumore. Forse era uscita. Uno strillo acuto. Un brivido di terrore mi percorse. Corsi verso la camera dove l’avevo vista entrare. La luce mi accecò un momento prima che riuscissi a mettere a fuoco. Il letto grande, disfatto, troneggiava al centro della stanza. La prima cosa
che focalizzai furono le pillole bianche che erano gettate sul pavimento di legno. Assomigliavano a delle biglie. Mia moglie era inginocchiata a terra. Gli occhi fuori dalle orbite, lo sguardo che mi cercava implorandomi di fare qualcosa, singhiozzava piano, una mano di fronte alla bocca, calde lacrime le scivolavano sul viso lasciando chiari segni sulla pelle. Nicole era riversa al suolo, apparentemente addormentata. Il corpo rilassato, le palpebre chiuse, la carnagione dalla tonalità grigiastra. Nella mano sinistra stringeva un flacone medicinale. Agli angoli della bocca un sottile rivolo di bava bianca. Il petto era immobile, nessun segno che stesse respirando. Il panico si impadronì anche di me. Era morta? «Davide chiama l’ambulanza. Subito. Il battito è appena percettibile.» Feci come mi aveva chiesto anche se avevo l’impressione di essere stato sbalzato in una realtà parallela. Parlai con il centralino per le emergenze. Seguimmo la procedura che ci venne spiegata attraverso la cornetta, poi, entrambi terrorizzati, ci preparammo ad aspettare.
Eravamo in ospedale, seduti in una sala d’aspetto. Le sedie verdi, di plastica, l’odore di detersivo disinfettante. Gente con i camici, bianchi, verdi, azzurri, che ci ava di fronte senza mai voltarsi nella nostra direzione. L’unica cosa che eravamo riusciti a capire era che Nicole era viva e avevano dovuto farle la lavanda gastrica perché aveva ingerito una quantità spropositata di sonniferi. Il dottore aveva aggiunto che se fossimo arrivati un’ora più tardi, non ci sarebbe stato nulla da fare. Avevo il cuore pesante, la mente annebbiata. Sibilla aveva smesso di piangere e stringeva le mie dita come se fossero state l’ultima cosa reale a questo mondo. Le baciai la fronte, chiusi gli occhi facendomi cullare dai suoni metallici intorno a noi. Un paio d’ore dopo, finalmente, il dottore comparve, oltreando le porte scorrevoli del reparto d’emergenza. Mi strinse la mano, una bella presa decisa, una pacca sulla spalla. Mia moglie lo guardava come se da lui fosse dipesa la sua stessa esistenza. «Il pericolo è ato. La ragazza sta bene. Dorme, ma solo perché l’abbiamo sedata a causa dell’intervento. È denutrita. Nessuno vive con lei?»
Facemmo entrambi cenno di no. «Il suo è stato un tentativo di suicidio. Non si ingeriscono tanti sonniferi soltanto perché si ha difficoltà nel dormire. Le è successo qualcosa negli ultimi tempi che avrebbe potuto condizionarla in questo modo. Un trauma? Una perdita?» Mi portai le mani alla testa. Non potevo credere a cosa stava accadendo. «Lei è mia nuora. Mio figlio l’ha lasciata pochi giorni fa.» La voce di Sibilla era dura come il ferro. Il dottore si osservò intorno, poi la sua attenzione fu di nuovo per noi. «Ho richiesto un consulto psichiatrico. Non possiamo dimetterla prima di sapere quali siano le sue condizioni psicologiche. Potrebbe tentare nuovamente di togliersi la vita.» La donna fece un o avanti. «Non si preoccupi dottore, ci prenderemo cura noi di Nicole, fino a che non starà bene.» Il medico le sorrise, poi si dedicò a me. «La signorina non ha nessun’altro, oltre voi e vostro figlio?» Entrambi rispondemmo di no, accennando alla situazione. «Sarebbe meglio se il marito tornasse. Credo che potrebbe aiutarla ad uscire dallo stato depressivo in cui versa.» Sibilla annuì, ma io non ero tanto convinto che Adriano si sarebbe fatto ricattare in questo modo. Sì, forse sarebbe tornato, ma non sarebbe rimasto a lungo. «Lo avviseremo oggi stesso.» Sospirò. «C’è un’altra cosa…» Diede un’occhiata alla cartellina bianca che teneva tra le mani. Sfogliò un paio
di volte, poi la richiuse tornando a fissarci da dietro gli occhiali dalla montatura pesante. «La ragazza è incinta di tre mesi. Il bambino sta bene. La somministrazione dei medicinali non dovrebbe aver causato danni al feto, ma non possiamo esserne certi» Vidi mia moglie vacillare, la faccia bianca, la bocca aperta, lo sguardo spalancato. La sostenni, accompagnandola a sedere. Il medico ci fu subito dietro, controllandole il polso e il battito. Chiamò un’infermiera, affinchè portasse acqua e zucchero. «Signora, sta bene?» Sibilla mi afferrò con forza, costringendomi ad avvicinarmi. «Davide un nipote. È impossibile. Chiama subito Adriano. Deve tornare.» Mi staccai da quella presa disperata, le lacrime le inondarono di nuovo il viso. Il medico le si mise accanto, provando a calmarla. Un nipote? Figlio di mio figlio? Io e mia moglie eravamo ormai rassegnati al fatto che non avremmo mai visto il nostro sangue riprodursi. Adriano era sterile per più del novanta per cento. Era possibile una cosa del genere? Tirai il telefono fuori della tasca, composi il numero e aspettai che lui rispondesse.
XXXVI
Lui, Adriano;
Scelte
Greta si era allontanata per guardare le onde che si infrangevano sugli scogli. Dopo cena, avevamo eggiato a lungo, dirigendoci verso la scogliera, in cerca di qualche scorcio particolare. Era innamorata dell’acqua, in qualsiasi forma e sotto ogni aspetto. L’oceano aveva un’ascendente particolare su di lei. Rimase immobile persa ad osservare l’orizzonte, il vento a scompigliare la criniera rossiccia. Mi avvicinai a grandi i. La cittadina era alle nostre spalle, le luci elettriche la illuminavano come tante stelle cadute. Era il giorno dopo la fiera e avevamo deciso di avventurarci per la campagna verdeggiante. Alla fine della giornata avevamo visitato tre cittadine diverse e avevamo percorso almeno una decina di chilometri. Mi fermai a pochi centimetri. Sapeva di mare. Il sale le si era appiccicato addosso impregnandole i vestiti e i capelli. La abbracciai da dietro, si appoggiò contro di me. Le raffiche ci soffiavano in faccia il sapore dell’acqua, amplificando il rumore delle correnti. Le strofinai il viso contro la guancia. Avevo la barba sempre più lunga. A lei piacevo così, le ricordavo una di quelle star del rock trasandate dallo sguardo dannato. Mi faceva ridere quando cercava di fare dei complimenti. Non ne era molto capace. Mi venne in mente la telefonata che dovevo fare al mio avvocato. I documenti per il divorzio non erano ancora arrivati. Leonardo, uno dei legali più in gamba della capitale, si stava interessando della pratica di annullamento; mi aveva detto che non avremmo avuto problemi e che entro brevissimo tempo mi avrebbe fatto recapitare le carte che avrei dovuto firmare. Stavo prendendo in seria
considerazione l’idea di stabilirmi definitivamente in Irlanda. Avrei trovato un nuovo lavoro, avremmo vissuto insieme, avremmo iniziato una nuova vita e poi, quando fosse stata pronta, l’avrei sposata, attenendomi fedelmente alla formula “finché morte non ci separi”. Sorrisi al pensiero; la vita insieme a lei non sarebbe stata noiosa. Greta teneva tutti i miei sensi all’erta e, soprattutto, avevo continuamente voglia di stare insieme. Era da poco tempo che ci frequentavamo, ma, avendo avuto delle esperienze precedenti, sapevo che quello che provavo nei suoi confronti era qualcosa di più unico che raro. L’attenzione fu calamitata dal mio anulare. La fede che avevo indossato per poco più di un mese mi aveva pesato addosso come un macigno. Ora mi sentivo rinato, felice. Quella donna era la mia cura, con lei tutto sarebbe stato possibile. Le baciai la pelle liscia sotto lo zigomo. Chiusi gli occhi, assaporando quella sensazione di beatitudine. Volevo vivere così per sempre: io e lei, nessun altro. Il suono di un telefono cellulare interruppe il nostro idillio. La liberai dall’ abbraccio, non disse nulla. Ogni volta che mi suonava il cellulare la vedevo irrigidirsi. Si allontanava silenziosa, non si voltava mai, non ascoltava mai. Isolata, dall’istante in cui il mio orecchio si appoggiava al ricevitore. Ritornava a prestarmi attenzione solo quando chiudevo la conversazione. Avevo cercato di rassicurarla dicendole che non importava chi mi chiamasse o supplicasse che tornassi, io non l’avrei lasciata. Lei mi guardava perplessa, poi allungava la mano e si nascondeva tra le mie braccia. Guardai il display che si illuminava ad intermittenza. Papà. Che voleva mio padre a quell’ora? Erano le undici di sera! Accettai la chiamata sperando di non dover assistere a nulla che potesse rovinare quella giornata perfetta. «Ciao.» Un momento di pausa, sentivo il suo respiro lento. «Ciao, Adriano. Come va?» Era strano, la voce non sembrava la sua: stanca, preoccupata.
«È successo qualcosa alla mamma?» Un altra lunga pausa; in sottofondo il rumore di un carrello metallico, le ruote che stridevano avanti e indietro. «No, la mamma sta bene.» Non mi piaceva quel tono. Qualcosa non andava, ne ero certo. Greta si era girata a guardarmi, le ciocche ondulate le svolazzavano intorno alla testa. Anche attraverso l’oscurità, potevo vedere i suoi occhi azzurri scrutarmi con apprensione. «Che c’è allora?» La voce di mia madre poco distante: “Diglielo Davide, deve tornare.” Cominciai ad agitarmi. Sentivo la rabbia crescere. Doveva essere successo qualcosa a Nicole e avevano intenzione di utilizzare la sua fragilità contro di me. Dedicai la mia attenzione alla ragazza dai capelli rossi. Era il mio presente e il mio futuro. Non mi avrebbero convinto a lasciarla. «Siamo in ospedale, Nicole sta poco bene.» Le parole di Davide vennero fuori incerte. Non mi piaceva l’ansia palpabile che percepivo. Avrei voluto gridare di smetterla. Non volevo saperne. «Cosa è successo? Lo sai che Nicole non è più una persona di cui io mi debba preoccupare.» Continuavo a fissare Greta, la sua espressione triste. Tornò a rivolgersi allo spettacolo burrascoso che si stagliava sotto di noi, la schiena incurvata. Iniziò a camminare, lasciandomi solo. Mio padre aveva detto qualcosa, ma non avevo capito un cazzo. «Scusa papà, non ho sentito, aspetta un momento.» Seguii Greta col telefono stretto in una mano. Quando la raggiunsi, avevo il fiato corto.
«Dove vai?» Scosse il capo. «Hai bisogno di stare solo. Vado a farmi una eggiata. Finisci la chiacchierata con tuo padre.» Cercai di trattenerla, ma lei si divincolò, sfuggendomi. Avrei dovuto rincorrerla, afferrarla, stringerla e rassicurarla ancora, ma mio padre era all’altro capo della linea e aspettava che gli prestassi attenzione. Riportai la cornetta al viso. «Che è successo?» Si schiarì la voce. Sicuramente si era voltato ad osservare Sibilla che gli stava accanto come un ombra. «Nicole ha assunto dei farmaci in dose massiccia. L’abbiamo trovata priva di conoscenza nell’appartamento. Il medico ha detto che se fossimo arrivati un’ora più tardi forse adesso sarebbe morta.» Merda. Non credevo sarebbe mai arrivata a fare una cosa del genere! Il senso di colpa provò ad impadronirsi di me. Lo ricacciai indietro. «Sta bene adesso?» Sospirò. «Sì. È fuori pericolo ma…ci sono delle complicazioni.» Greta era scomparsa in lontananza. La notte era scura. Non riuscivo più a scorgerla da nessuna parte. «Adriano, devi tornare in Italia. Devi prenderti cura di tua moglie. È tuo compito.» No. Non era mio dovere. Io l’avevo lasciata. Lei non era più una mia responsabilità. «Non posso tornare papà. Non senza Greta.» Sibilla, dietro di lui, gli domandava cosa stessi dicendo.
«Adriano preferirei non dovertelo dire ora, in queste circostanze, ma…Nicole aspetta un bambino.» Il tempo si congelò in quell’istante. Le parole di mio padre si ripetevano nella mia mente, come un disco rotto. Un bambino? Come era possibile? «Quando?» Mia madre continuava a chiedere come stessi reagendo, Davide le rispondeva a tono, tentando di zittirla. «È di tre mesi Adriano. È tuo.» Un figlio? Mio? Perché? Mi sentivo impazzire. Greta non si vedeva ancora. Cominciavo a preoccuparmi. Avanzai come un sonnambulo lungo il ciglio della scogliera, seguendo il percorso che le avevo visto prendere. «Se non ritorni Adriano c’è il rischio che provi nuovamente a farsi del male. A quel punto sarebbe in grado di nuocere a vostro figlio…nostro nipote. È questo quello che vuoi? Buttare via l’unica possibilità di essere padre? Devi essere presente, per il bene di entrambi.» La testa era affollata di domande, pensieri, e ancora domande. Ero euforico alla notizia che probabilmente sarei diventato padre. Da tempo, mi ero ormai rassegnato all’idea di non poter avere eredi; la sorpresa di scoprire che mi era stata data la possibilità di sperimentare le gioie di avere un figlio, mi faceva sentire leggero, come se saltellassi su uno strato di nuvole. Gli occhi la cercavano convulsi. Avevo bisogno di lei. Come avrebbe reagito Greta? «Adriano, ci sei ancora?» Mio padre mi scosse dallo stato confusionale in cui ero caduto. Annuii, pur sapendo che non poteva vedermi. «Sì. Sono qui. Sto…sto cercando Greta.»
Un momento di silenzio. «Non è con te?» Una figura apparve all’orizzonte. Eccola finalmente! «Si è allontanata. Non voleva sentire cosa avessi da dirmi. Aveva ragione, dopo tutto.» Le gambe faticarono a muoversi intanto che mi avvicinavo. «Adriano, mi dispiace, non c’è altra soluzione. A meno che tu non voglia portare Nicole in Irlanda con te.» Scoppiai a ridere. Era davvero un’idea ridicola. «Spero tu stia scherzando.» La sua fu una risata forzata. «Sì. Credo di sì. Allora tornerai a Roma?» Greta se ne stava accucciata, seduta sull’erba fredda, le gambe incrociate sotto di lei, i gomiti appoggiati sulle cosce. Mi si strinse il cuore quando, il volto rivolto in alto, si concentrò su di me. Mi piegai affinchè le nostre labbra si sfiorarono. Era gelata. La accostai al corpo, il telefono sempre attaccato all’orecchio. «Sì papà. Fammi organizzare. Domani al massimo.» Al suono di quelle parole mi respinse, facendomi cadere a terra. Si alzò come se avesse avuto una molla ad azionarla. «Ti chiamo dopo.» Non attesi che mi rispondesse. Non ce ne era bisogno. Mi sollevai anche io, ripulendomi dal terriccio che mi aveva sporcato il retro dei jeans. «Greta…»
Allungai la mano. Lei non la prese. Aveva le braccia incrociate sotto il petto, il viso pallido, le labbra strette. «Greta, Nicole ha tentato il suicidio.» Vidi la sua espressione trasformarsi da ostile a disperata. Un tremolio a smuoverle la bocca, lo sguardo colmo di lacrime. «Greta…ti prego…non fare così…non cambierà niente fra di noi.» Si portò le mani al viso soffocando il singhiozzo che le squassò il petto. Un o, un altro. Lei era lì, di fronte a me. Mi mossi per riscaldarla con il mio calore ma si allontanò ancora. Scosse la testa più volte. «Non mentirmi Adriano. Non farlo ora, dopo aver deciso di andartene.» Feci un altro tentativo di afferrarla. Mi sfuggì ancora. Ci inseguimmo per qualche minuto. Alla fine mi arresi, lei era lontana di qualche metro. «Non voglio lasciarti Greta. Non è un’idea che intendo considerare.» Sbuffò. Poi venne nella mia direzione. Marciava, più che camminare. I pugni chiusi che battevano violenti sul mio petto. «Cazzate, Adriano Altieri. Solo cazzate. Sei un bugiardo. Non voglio sentirti. Anzi. Non voglio più vederti. Corri da tua moglie. Sapevo che sarebbe finita così.» Nel frattempo che mi inveiva contro, le lacrime presero a scivolarle sulle guance. Le catturai il volto tra i palmi, costringendola a restare ferma. Soffocai le sue proteste con la bocca. I piccoli pugni continuavano a colpire ovunque trovasse spazio. Cercò di mordermi. La strinsi ancora, vincendo la rabbia cieca che la possedeva. Si accasciò spossata, senza fiato, il corpo scosso dagli ansiti, le braccia abbandonate lungo i fianchi. «Greta, non voglio perderti. Ti prego. Ho bisogno di te. Nicole è incinta, potrebbe tentare di fare nuovamente del male a se stessa e al bambino. Non posso restare, devo tornare a Roma… se non altro per vedere mettere al mondo mio figlio, per diventare padre.»
I singhiozzi avevano cessato di scuoterla. Feci forza affinché concentrasse la sua attenzione su di me. Guardai in fondo a quegli occhi gonfi, grandi, vitrei. «È incinta?» Nemmeno lei poteva crederci. Greta sapeva quali problemi avessi; la notizia di una gravidanza l’aveva sconvolta almeno quanto me. La baciai. Lei restò immobile, la bocca chiusa. «Greta, ti prego.» I nostri progetti sarebbero stati soltanto rimandati. «Lasciami Adriano. Voglio che tu mi lasci.» La abbracciai ancora. Provando a trasmetterle tutte le emozioni che mi attraversavano. Piegò i gomiti per fare leva e allontanarmi da sé. «Vattene!», mi urlò disperata. I capelli le vorticavano intorno quasi fosse stata una creatura mitologica dalla testa infuocata. Il vento ci schiaffeggiò entrambi, per poi trascinare via le sue grida. «Greta, cazzo. Non hai sentito quello che ho detto? Nicole aspetta un bambino, ha tentato di togliersi la vita. Cosa vuoi che faccia? Che resti qui, con te, facendo finta che la cosa non mi riguardi?» Grosse lacrime continuavano a rigarle la pelle. «Vattene, Adriano. Vattene via.» Non mi permise di toccarla una seconda volta, scostandosi. «Greta possiamo farcela insieme. Basta volerlo.» Negò, muovendo il capo. «No. Non possiamo. Io non posso.»
La disperazione si tramutò in rabbia. Il mio sguardo fu illuminato dallo sdegno. Perché quella donna non voleva capire? Perché voleva buttare tutto all’aria? «Perché non puoi Greta? Tornerai con me a Roma, continueremo a vederci tutti i giorni, io ci sarò sempre per te. Dovrò solo pensare a Nicole fino a che non si sarà ripresa. Che c’è di impossibile in ciò che ho appena descritto? Si tratta di un incidente di percorso. Basta questo a farti decidere di rinunciare a noi?» I suoi occhi lanciavano saette. «E quale sarebbe il mio ruolo? Dovrei interpretare l’amante? Quella che se ne sta triste, in attesa che l’uomo che non le appartiene le dia qualche briciola del suo tempo? Mi sentirei una mendicante ad elemosinare da te. Non merito questo, Adriano.» No. Non sarebbe andata così. «Non accadrà nulla di tutto ciò che hai appena detto, Greta. Una volta che la situazione si sarà stabilizzata noi staremo insieme, come una famiglia. Ho intenzione di sposarti. Non adesso, non posso, ma quando sarò libero lo farò.» Per un momento vidi l’incertezza cancellare tutto il resto poi, la consapevolezza che me ne sarei andato, la fece ripiombare in uno stato di sofferenza, tornando a dividerci. «Non voglio. Non ho mai voluto quello che mi stai offrendo. Non posso fare ciò che mi chiedi e non posso chiederti di comportarti diversamente da come hai scelto di fare.» Si ò una mano a domare quella scomposta criniera. «È finita, Adriano. Sapevamo entrambi che non sarebbe durata per sempre.» Si spostò, per andare via. Le corsi dietro e la afferrai per le spalle. Non aveva più forza per respingermi, forse non lo voleva nemmeno lei. Le aprii la bocca a forza, la mia lingua catturò la sua. Tentò di opporsi, ma io ero deciso a non permetterlo e lei. Lei era Greta, e non voleva rinunciare a me.
Le slacciai la giacca facendo saltare un paio di bottoni. Rabbrividì. Si tese. La sbattei contro una parete di pietra, la baciai, perché non potevo farne a meno e perché in quel modo non era in grado di dare voce ai pensieri. La morsi con ione, cercando di imporle la mia volontà. Lei era mia, mi sarebbe appartenuta sempre. Le aprii i jeans tirando giù la cerniera. Le scoprii Il sedere sporgente. «Smettila Adriano.» La sua lingua rispondeva alla mia, nonostante mi implorasse di fermarmi. Mi prese il volto tra le mani, le fronti a contatto, i nostri corpi schiacciati l’uno sull’altro. Infilai le dita nella tana calda che aveva in mezzo alle cosce. Era asciutta. La toccai come le piaceva. Sentivo il calore scaldarle le viscere, l’umore di femmina bagnarmi i polpastrelli. «Greta io ti amo. Non posso lasciarti.» Chiuse gli occhi, lasciandosi accarezzare, rispondendo alla mia carezza con ansiti rochi. Non fece nulla per liberare la mia virilità dai pantaloni, la sua non era la solita partecipazione. Sfilai il membro con un gesto secco: era dritto, faceva male per il bisogno che avevo di quella donna, per la necessità di sentirla mia. La baciai ancora, le presi la mano portandola intorno all’asta che mi usciva dai boxer. Le dita sottili si strinsero deboli. «Greta…» Quegli occhi azzurro cielo si sollevarono infelici a fissare i miei. La baciai ancora, volevo che quell’espressione scomparisse. Non desideravo prenderla da dietro. Volevo guardarla negli occhi mentre facevamo l’amore. Volevo che sapesse che per me lei era l’unica. «Greta, togliti i pantaloni.» Fece per togliere la mano dal membro. Gliela trattenni. Non doveva allontanarsi. «Greta fai come ti ho detto, per favore.» L’avrei costretta, se non avesse risposto affermativamente. Dopo un momento in
cui nessuno dei due si mosse, finalmente, lei si abbassò i jeans per sfilarseli. Rimase soltanto con i calzini, il resto dell’abbigliamento appoggiato poco distante. Accarezzandole il fianco nudo, mi accorsi che aveva la pelle d’oca. «Hai freddo?» Non rispose. Serrò le palpebre, ricacciando indietro il pianto che rischiava di accecarla ancora una volta. Baciai il suo viso meraviglioso, assaporai il gusto delle sue lacrime. La sua lingua morbida rispondeva lenta ai miei assalti. La feci stendere a terra. L’erba era umida. Il sedere di Greta si raffreddò non appena venne a contatto con la superficie erbosa. La tirai contro di me. Le dita di nuovo in lei. Era secca come un deserto. Ripresi a stimolarla. Teneva lo sguardo rivolto a sinistra, le gambe rigidamente piegate, evitando di lanciarmi la solita occhiata complice. Perché si nascondeva? Perché già la sentivo lontana mille miglia? Mi infilai tra le pieghe morbide con un po’ di difficoltà. Iniziai a muovermi piano, la sua attenzione rivolta da un’altra parte. «Greta!» Le afferrai il mento; l’occhiata vacua, come se non mi vedesse. Mi mossi più forte penetrando per tutta la lunghezza. La guardavo scivolare, su e giù, accompagnando il ritmo degli affondi; la pelle dei rispettivi addomi che sbatteva una contro l’altra, il suono umido del membro che entrava e usciva. Nient’altro a fare eco al nostro amore, soltanto il vento che amplificava i nostri respiri. Me la tirai in braccio, fu costretta a stringermi le spalle, i nostri volti a pochi centimetri. Greta non era con me, lo percepivo attraverso le membra rigidamente ancorate alle mie. La baciai ancora, il pene infilato come una spada attraverso le carni della sua intimità. Avrebbe dovuto ansimare forte, avrebbe dovuto scaldarsi, avrebbe dovuto essere stata sul punto di venire. La lenta carezza della lingua. Piangeva ancora. Scivolai fuori da lei, l’eccitazione mi aveva abbandonato. Eravamo soli, i cuori in frantumi uniti in quell’abbraccio. Restammo così, non so per quanto tempo. Non esisteva il freddo, il caldo, il vento. Non c’era nulla. Solo i suoi singhiozzi a rompere il silenzio.
Anche quando ci rivestimmo, Greta restò muta. Non aveva pronunciato una
sillaba da quando le lacrime si erano esaurite, ed era rimasta rannicchiata tra le mie braccia. Feci per prenderle la mano. Si fermò. «Voglio dormire in un’altra stanza stanotte, e voglio che domani mattina tu te ne vada.» Lo sguardo che mi lanciò mi trafisse da parte a parte. «Perché fai così? Dobbiamo parlarne. Non puoi prendere una decisione simile in questo stato. Sei sconvolta.» Abbassò la testa, guardandosi la punta delle scarpe. «Dico sul serio, Adriano. Non voglio più vederti.» Non potevo credere che dicesse davvero. Non volevo perderla. «Smettila. Domani mattina la situazione sembrerà meno tragica di quanto non appaia adesso.» Si incamminò andomi accanto, senza prestarmi ulteriore attenzione. Procedemmo separati, io che la osservavo da dietro, lei che non fece altro che andare avanti. Una arrivati all’albergo, non attese che la raggiungessi. La trovai a chiacchierare con il portiere che, quando mi vide, mi lanciò un’occhiata interrogativa e vagamente imbarazzata. Mi avvicinai quasi di corsa al bancone della reception, la afferrai per un braccio, costringendola ad allontanarsi per avere un minimo di intimità. «Che cazzo stai facendo? Smettila di comportarti in questo modo.» Strattonò il braccio. Assunse quell’espressione seccata e fastidiosa che mi aveva riservato all’inizio, quando ancora non ci conoscevamo. La Greta fredda riemerse, senza che riuscissi ad impedirlo. «Ti ho detto che avrei dormito in un’altra stanza. Non ho cambiato idea.» Come poteva continuare a trattarmi in quel modo? Pensava che per me tornare a
casa fosse meno difficile di quanto non lo fosse per lei? «Greta, ti prego.» Aveva le palpebre serrate, tirava su con il naso, le lacrime imprigionate tra le ciglia. «Dobbiamo solo avere pazienza. Io ti amo. Ti amo. Quante volte devo ripetertelo? Non ti permetterò di lasciarmi. Dovessi venire in Irlanda un week end sì e uno no.» Si morse le labbra, continuando a tenere gli occhi chiusi. Alla fine potei specchiarmi nelle profonde pozze di cielo che aveva in mezzo alla faccia, mi scrutò come il giorno del mio matrimonio, quando ci eravamo detti addio. La mano era aperta, tesa ad accarezzarmi. «No, Adriano. È giusto che tu vada e ti prenda cura di tuo figlio e di sua madre. Non avrei mai pensato che il fatto che tu avessi scelto di seguirmi avrebbe comportato tante e tali complicazioni. Evidentemente, non era destino. Forse nella prossima vita.» La voce tremolante e rotta dal pianto. Faticava a tenere le dita ferme. La lasciai allontanarsi, senza riuscire a muovere un o. Era successo tutto troppo in fretta. La mia vita era cambiata nell’arco di mezz’ora. Avrei perso la donna che amavo per ritrovare una famiglia. Era davvero questo ciò che volevo? Dal giorno in cui mi avevano comunicato che non avrei potuto avere figli, avevo desiderato con tutte le mie forze di diventare padre. Era una colpa rinunciare a tutto per la gioia di essere genitore? No, forse non lo era. Non sarei mai mancato nella vita di un figlio mio, anche se questo avesse significato non avere nient’altro. Fissai lo sguardo tra le fiamme scoppiettanti che ardevano nel camino di pietra. Il ritmo del fuoco, ipnotico, mi danzava nella mente. Percepii vagamente Greta che ringraziava l’uomo della reception. Mi voltai, mentre si allontanava. Il o svelto, il sedere che ondeggiava stretto nei jeans. Mossi un o, poi un altro.
Il calpestio delle suole risuonava nel corridoio. La seguii. Greta era ferma di fronte alla porta numero quarantatre. Cercava di infilare la carta magnetica con scarsissimi risultati. Diede un calcio allo stipite, inveendo contro l’apparecchio elettronico e prendendo a pugni la parete accanto. Mi avvicinai, la avvolsi in un abbraccio. «Ti amerò sempre Greta, e ti aspetterò anche se impiegherai cinquant’anni per tornare da me.» Respirò forte, il petto che si alzava ed abbassava sotto le mie braccia. «Ti amo anche io Adriano. Buona fortuna.» Il clic della chiave che apriva la serratura mi fece fremere di paura. Lei scivolò dentro. Non la trattenni. Rimasi per qualche secondo a fissare la superficie dietro cui era scomparsa. Una lacrima mi bruciò gli occhi. La sentii scorrere sulla guancia scavata e poi fermarsi tra i peli ispidi della barba corta.
XXXVII
Lei, Greta;
La beffa del destino
Erano ati poco più di due mesi da quando ci eravamo separati. Persino pronunciare il suo nome mi faceva male. Subito dopo aver scoperto che la mattina successiva a quella incredibile notizia era andato via lasciando i miei bagagli alla reception, ero diventata una furia cercando di convincermi ad odiarlo con tutta me stessa. Cominciai a pensare che tutto ciò che mi aveva detto, l’amore che mi aveva dichiarato, la devozione che aveva dimostrato nei miei confronti, erano state solo menzogne. Adriano era un bugiardo che, stanco della vita di coppia, aveva rincorso una donna che gli sarebbe servita da distrazione, divertendolo per qualche tempo. Una volta che il diversivo non era stato più necessario, era tornato indietro dalla debole e triste moglie, per condividere insieme la gioia di creare una famiglia. Avevo eretto una fortezza d’ira a proteggermi. Non avevo voluto incontrare nessuno per cinque giorni. Invece che tornare a casa, avevo vagato in solitudine, spostandomi con una macchina presa a noleggio, senza sapere dove stessi andando. L’idea di lui, bugiardo e fedifrago, era stata accantonata quasi subito. Lo capivo e, anche se avrei preferito disapprovare la sua scelta, sapevo perché l’aveva fatta. Ero stata io a decidere di non seguirlo, lui mi voleva. La colpa della nostra separazione, era da attribuire soltanto a me stessa. Sola, soffocata dalle emozioni, la sofferenza era salita in superficie. Mi sentivo uno stelo d’erba alla mercé del vento, schiaffeggiato fino ad essere strappato e trascinato via dalla corrente. Non ero in grado di definire ciò che provavo. La parola disperazione non era sufficiente. Ero lacerata, come se qualcuno mi stesse pugnalando ripetutamente con un coltello poco affilato.
Ero dimagrita quattro chili in pochi giorni. Quando mi ero ripresentata a casa, a mio nonno per poco non gli prendeva un colpo. Ero sicura che se non lo avessi pregato di fermarsi sarebbe corso a prendere il primo aereo per Roma. Non mi era mai capitato di sentire tante parolacce in un’unica frase, di alcune non conoscevo nemmeno il significato. Mi costringeva a mangiare, standomi sempre vicino per paura che commettessi una sciocchezza. Successivamente il sentimento di rabbia era stato sostituito da un profondo senso di vuoto e perdita. In due episodi differenti ero stata colta da attacchi di panico. Il nonno stava trascurando il lavoro a causa mia. Non era uscito per mare da quando ero tornata da quel breve week end disastroso. Avevo cercato di rassicurarlo, ma non ero così brava a mentire. Ero grata della sua vicinanza e, anche se non volevo ammetterlo, il fatto che si preoccue per me, era un motivo in più per non autodistruggermi. L’unica compagnia che tolleravo, oltre quella di Hulrik, era quella degli animali. Erano spettatori silenziosi, non chiedevano mai, non giudicavano mai, se ne stavano lì, in ascolto, a raccogliere ogni briciola del mio dolore. Nonno mi diceva sempre che la vicinanza dei due frisoni mi avrebbe aiutata a rimarginare le ferite. Io non ne ero molto convinta ma, da quando Duma aveva iniziato a coccolarmi come poteva, mi ero ricreduta. Quella volta in cui ero tornata a casa dopo aver girovagato senza meta, distrutta dall’improvvisa perdita che avevo subito, lo stallone nero mi era corso incontro, le narici allargate ad annusarmi il petto, il muso che batteva delicato all’altezza del cuore. Avevo pianto come una bimba, aggrappandomi a quel collo robusto. La sensazione di vuoto, mista ad angoscia cieca, era poi stata rimpiazzata da una frenetica iperattività. Dovevo fare qualunque cosa, di qualsiasi genere fosse, bastava che non mi fe pensare e, soprattutto, che mi stancasse fisicamente. La notte cadevo sfinita. La mente, una tabula rasa. I miei sogni erano bui, oscuri, mi svegliavo sempre con una sensazione spiacevole. Non riuscivo a prendere peso. Su di me, quattro chili, incidevano parecchio. Mi guardavo allo specchio e non mi riconoscevo. Guance scavate, occhi infossati, capelli privi di vita, persino il loro colore era spento. Il corpo era un’insieme di ossa con sopra attaccata la pelle. Ogni forma di rotondità era scomparsa. La carnagione grigia, le labbra esangui. Ero orribile, ma non mi importava. Non volevo che nessuno mi guardasse, non volevo che nessuno si avvicinasse al mio cuore infranto. Una sera, mentre sbocconcellavo una fetta di pane accompagnandolo a della
carne, avevo notato la presenza ormai dimenticata della pietra incastonata nella scultura a forma di tronco. Ero stata tentata di lanciarla fuori dalla finestra, ma quell’oggetto era indissolubilmente legato a lui, alla fiera, all’anello. Ripensai alle parole di quella donna. Aveva preannunciato ciò che sarebbe successo. Le dita si erano strette intorno alla superficie nodosa del legno, avevo piegato il braccio avvicinandolo al petto. Non avevo percepito alcun beneficio, ma avevo comunque deciso di metterla sul comodino vicino al letto, sperando che potesse guarirmi. In un momento in cui ero stata sopraffatta dal bisogno di averlo con me, sdraiata sul materasso morbido, con il cuscino a soffocare il pianto e le lacrime che bagnavano la federa, avevo afferrato il telefono e cercato il suo numero. Gli occhi avevano fissato a lungo il nome che appariva sul display azzurro. Il dito, alzato a metà sul tasto di chiamata. Il grido mi si era strozzato in gola intanto che tiravo su con il naso e gettavo via l’apparecchio. Il telefonino si era rotto in mille pezzi. Meglio così. Non sarei stata più tentata di commettere errori. A volte, riflettevo sul fatto di aver preso o meno la decisione giusta. Sarebbe stato così terribile se lo avessi seguito e fossi rimasta accanto a lui? Perché non ero stata capace di accettare il suo amore, in qualsiasi forma mi fosse stato donato? Non lo sapevo. L’unica cosa di cui ero certa, era che quella scelta mi stava costando la sanità mentale. La Greta di un tempo non esisteva più. Ero diventata un involucro di carne e sangue fatta di rabbia, odio, paura e tanta, tanta sofferenza. Non volevo essere così. A farmi reagire fu la telefonata di Andrea. Mi avvisava che il lancio pubblicitario del mio libro si sarebbe tenuto a breve. Intorno al mio lavoro c’era già tanta curiosità ed aspettativa. Mi aveva detto che un critico letterario aveva voluto leggere in anteprima il manoscritto e che l’aveva chiamata di notte per congratularsi con lei e confidarle che non vedeva l’ora di sfogliare la mia prossima opera. Ne ero rimasta sorpresa e piacevolmente colpita. Mi aveva poi chiesto se avevo iniziato a scrivere altro. Io mi ero guardata intorno, il computer abbandonato sulla scrivania a ridosso della finestra. “Ci sto lavorando.” Avevo detto. Ma persino lei aveva capito che stavo fingendo. Non aveva accennato a lui, forse non sapeva nulla, o forse non voleva impicciarsi. Meglio così. Una volta terminata la conversazione, avevo scorto la mia immagine che mi osservava attraverso lo specchio. Non potevo continuare ad andare avanti in quel modo, se non altro, per dare un’impressione migliore
alla presentazione del romanzo. Mi era rimasto solo il lavoro, la mia grande ione. Avrei riversato tutta me stessa in quello che amavo fare di più, scrivere. Avevo ripreso a mangiare come un comune essere umano, Hulrik sorrideva più spesso e io, ogni tanto, facevo una smorfia che avrebbe potuto essere scambiata per un’espressione allegra. Ci era voluto un po’ ma, alla fine, ero riuscita a rimettermi in sesto. Avevo la certezza di avere un buco nero al posto del cuore, ma nessuno poteva vederlo, e la maggior parte della gente non si preoccupava di ciò che c’era oltre la superficie. Fil veniva spesso a trovarmi. Era da parecchio tempo che non facevo visita al pub di Colin. Non volevo che qualcuno mi vedesse ridotta in quello stato e avevo optato per un’esistenza di clausura. Non mi era piaciuto il fatto che il ragazzo si intromettesse nel mio lutto. La sua presenza mi disturbava. Era così attento ai miei bisogni, mi trattava come fossi stata fatta di vetro, e non lo sopportavo. Il più delle volte lo cacciavo via in malo modo. Lui non parlava, uscendo dalla porta con la coda tra le gambe. Avevo sperato che, in quella maniera, desistesse dal tornare ancora ma, il giorno successivo, puntuale, si ripresentava. Era quasi diventata un’abitudine. Io lo salutavo a denti stretti, lui mi guardava con quella faccia da adolescente innamorato. Io lo trattavo male, e lui mi portava dei dolci. Stavo riprendendo la padronanza delle mie azioni, avevo voglia di vedere volti, persone, desideravo comunicare, godere di una giornata in compagnia. Non ero più l’ombra di me stessa. Certo, non ero la Greta di prima, ma era un miglioramento. I miei occhi erano sempre vuoti, tristi e malinconici. Si dice che lo sguardo sia lo specchio di ciò che abbiamo dentro. Quella per me era una verità assoluta. Se la bocca sorrideva, l’espressione non ne veniva raggiunta, restando distante.
Stavo camminando nel corridoio del supermercato. Dovevo fare la spesa e cucinare qualcosa di buono per il nonno e Fil che si era autoinvitato a cena. Per l’intero periodo in cui non ero stata proprio al meglio, Hulrik si era preso cura di me sotto tutti i punti di vista. Avevo scoperto che era un ottimo cuoco in grado di preparare manicaretti da leccarsi i baffi. Era giunto il momento che lo ripagassi
per quelle attenzioni così amorevoli. Pasta, pomodoro, acciughe, origano, aglio. Volevo preparare un piatto di spaghetti alla marinara con contorno di verdure grigliate da accompagnare con bocconcini di pollo alla farina e salvia. Sapevo che non era un piatto ricercatissimo, ma io ne andavo matta e avevo bisogno di sentire il profumo di casa mia, dove si proponeva spesso quel tipo di menu. Sorrisi, mentre indugiavo tra gli scaffali con gli alcolici in bella mostra. Il piccolo negozietto a conduzione familiare non era nulla al confronto dei giganteschi supermercati ai quali ero stata abituata. La scelta dei prodotti era limitata, soprattutto per quanto riguardava il vino. In Irlanda erano amanti della birra. Presi un rosso secco, sperando che sarebbe piaciuto ai miei ospiti. Mi tirai dietro il carrello e continuai a gironzolare tra i banchi, provando a ricordare se ci fosse dell’altro che mi serviva. Rammentai di aver terminato lo shampoo e ai al reparto saponi che confinava con le mensole ricolme di cibi in scatola. Afferrai il tubetto di sapone per capelli, il balsamo e una crema ricostituente per dare un po’ di vita a quella massa folta e disordinata. Fissai lo sguardo sulla fila di assorbenti che se ne stavano ammiccanti sulla sinistra. Il cuore mi si fermò. Portai la mano all’altezza degli occhi. Quanto era trascorso dal mio ultimo ciclo? L’aria non raggiungeva i polmoni. Oddio! Stavo per svenire. Le gambe cedettero, le ginocchia si piegarono, senza che potessi impedirlo. Tentai di aggrapparmi a qualcosa, ma l’unico risultato che ottenni fu di rovesciare a terra gran parte della merce esposta. Persi i sensi. La voce preoccupata di Fil mi richiamò dall’oscurità in cui ero piombata. Era così spaventato! Sollevai le palpebre. La luce elettrica mi ferì gli occhi. «Come stai, Greta? Ti fa male da qualche parte? Christabel, la proprietaria, mi ha detto che sei svenuta. Hai fame? Tieni. Bevi un po’ d’acqua e zucchero.» Mi avvicinò un bicchiere di plastica, con un braccio mi sollevava la nuca e con l’altro mi spingeva la bevanda sotto il naso. Il liquido mi scivolò giù nell’esofago. Era dolce, ma ero ancora molto debole. «Sto bene Fil. Aiutami ad alzarmi.» Mi ò le mani sotto le ascelle tirandomi in piedi, restò vicino di modo che lo usassi come appoggio e non rischiassi di cadere di nuovo. «Che è successo Greta?»
Che razza di domanda era? Che ne sapevo io perché avevo perso conoscenza! Non mi era mai capitato prima. Fui tentata di rispondergli male ma lo sguardo triste che aveva mi fece rinunciare. «Non lo so. Forse un calo di pressione.» L’attenzione si soffermò sui pacchi di assorbenti sparsi sul pavimento. Nessuno aveva avuto il tempo di riordinare. Avvertii di nuovo quella sensazione di mancamento. Strinsi forte il braccio di Fil, che mi avvicinò di più a sé. «Hai una faccia bianca, bianca. Ti va se ti porto a bere una cioccolata calda?» Risposi affermativamente, senza proferire verbo. Fil mi condusse nella caffetteria all’angolo, a pochi i dall’ufficio postale. Nell’aria c’era odore di zucchero e cioccolato. Amavo fermarmi in quel posto. Si aveva l’impressione di trovarsi in un’altra realtà. I tavolini laccati rossi, le tovagliette a quadri, il bancone lucido dietro cui lavorava un grosso signore dalla faccia rubizza e la barba candida. L’atmosfera era in stile anni cinquanta. Mancavano soltanto le cameriere con i pattini e l’abito rosa Big Babol. Ci sedemmo accanto alla finestra coperta da tendine gialle e bianche. Ci servirono subito. Uno dei vantaggi di vivere in un piccolo posto, era che in un bar non dovevi mai aspettare troppo tempo per avere ciò che chiedevi. Presi a sorseggiare la bevanda bollente. Avevo più freddo del solito. Mi strinsi tra le braccia, lasciando che il liquido denso mi sciogliesse i muscoli indolenziti. Fil non mi staccava gli occhi di dosso, preoccupato. Finii il mio cioccolato. Mi leccai le labbra e gli sorrisi. «Grazie. Ci voleva proprio.» Non sembrava convinto. «E di che! Come ti senti? Un po’ meglio?» Annuii, richiamando l’attenzione del proprietario. «Mi potrebbe portare dei biscotti al cacao?»
Lo stomaco rotondo come un cocomero tirava sopra la cintura. «Subito.» Mi saziai dopo aver divorato una decina di pezzi. Fil si rilassò quando mi vide mangiare con tale appetito. Avevo lasciato la spesa al negozio. Feci per alzarmi, dovevo andare a riprenderla prima che chiudesse. Mi prese per il polso, imponendomi di restare dov’ero. «Non preoccuparti. L’ho fatta mettere da parte. La prendiamo dopo, prima di tornare a casa.» Guardai l’orologio a muro. Erano le cinque ate. Era tempo di cucinare, se avevo intenzione di non farli morire di fame. «Possiamo andare, Fil. Sto bene adesso. Grazie per la premura, ma non sono più una bambina. Non ho bisogno della balia.» Alzò gli occhi al cielo e scosse la testa. «Sicura di sentirti bene?» Soppesai le parole. «Sì. Credo di essere incinta.» Risi di gusto quando vidi la sua faccia diventare gialla, mentre si strozzava con l’ultimo sorso contenuto nella tazzina a fiori. Alla fine fui costretta a tirare fuori un fazzoletto dalla borsa per asciugare le lacrime causate dall’allegria. Era da tanto che non esprimevo gioia, non ricordavo nemmeno più che suono avesse la mia risata. «Come incinta? E di chi?» Non avevo dubbi. Se la gravidanza fosse stata accertata il padre era Adriano. Tuttavia, non scartai l’ipotesi che quel ritardo potesse essere conseguenza dello stress che avevo patito nell’ultimo periodo. «Se fosse…perché non è detto…saprei a chi attribuire la paternità.»
Fil serrò le labbra, guardando in basso. «Se fosse così, lo terresti?» Non lo sapevo. Per prendere delle decisioni bisognava esserne certi. Non era il caso di fasciarsi la testa prima di romperla. Glielo dissi. Parve meno ansioso. Non riuscivo a capire per quale motivo la cosa lo preoccupava tanto. Io non sentivo né ansia né angoscia. Forse era perché ero un involucro vuoto capace solo di provare niente. L’unica cosa di cui ero convinta, era che dovevo fare un test di gravidanza e, nel caso, prendere appuntamento con un ginecologo.
La sala d’aspetto era bianca. Pareti bianche, divani bianchi, persino le cornici dei quadri erano bianche. La segretaria indossava un camice bianco. L’unica nota di colore in quell’ambiente candido erano gli abiti dei pazienti in attesa. Presi un giornale dalla pila ordinata che se ne stava sopra il tavolino di legno, ovviamente laccato bianco, preparandomi ad aspettare. Dopo aver sfogliato per due volte la stessa rivista, senza riuscire a capire nulla di ciò che stavo leggendo, la chiusi. Alzai gli occhi, la donna dietro la piccola scrivania mi fissava. Sollevò le labbra dal colorito naturale in un sorriso dolce e comprensivo. Mi diede subito fastidio. Non avevo certo scritto in fronte che fossi sola e incinta. Non ero sicura che si potesse distinguere dal mio aspetto o dalla mia espressione. Mi guardai intorno. Oltre me, c’era un’altra mamma in attesa. Si vedeva che era avanti con la gravidanza, il ventre prominente sporgeva sotto il maglione largo. Fil si era offerto di accompagnarmi. Mi aveva chiesto di salire, ma non glielo avevo permesso. Lui non c’entrava niente. Mi immaginai mentre arrancavo camminando col pancione. Mi vennero i brividi. Un bambino era l’ultimo dei miei desideri ma, quando il test aveva dato esito positivo, non avevo potuto nascondere la realtà dei fatti. Ne avevo fatti due, per sicurezza, ed entrambi avevano dato lo stesso risultato. Avevo preso il telefono, composto il numero di una ginecologa trovata su internet, preso appuntamento e atteso impaziente il giorno della visita. Sapevo che se desideravo interrompere la gestazione dovevo darmi una mossa. Erano poco più di due mesi che non avevo le mestruazioni. Dovevo decidere in fretta.
Una ragazza magra, col viso felice, uscì dallo studio che affacciava sulla sala d’aspetto. La segretaria diede un’occhiata veloce ad un taccuino che teneva in mano. «Miss Mantovani?» Scrutò dritta verso di me, aveva grandi occhi verde mare. Possibile che in quel paese la percentuale di persone con le iridi verdi fosse così elevata? Mi riportarono alla mente lo sguardo di lui. Chiusi gli occhi, scacciai il ricordo e mi alzai. «Sì. Sono io.» Mi fece cenno di accomodarmi. La seguii senza oppormi. Tentò di mettermi a mio agio ma non ebbe molta fortuna. Mi sentivo strana a stare in quella stanza con una donna sconosciuta che mi parlava di tutto ciò che comportava essere genitore. La dottoressa mi fece sdraiare sul lettino con le gambe appoggiate su due pedali di ferro ghiacciato. Distolsi lo sguardo intanto che lavorava sui miei genitali. Fu fastidioso quando infilò quella specie di manico di plastica che sarebbe servito per l’ecografia interna. Me lo girò dentro. Spostai l’attenzione su di lei che mi stava piegata in mezzo alle cosce. Con l’altra mano accese il monitor alla nostra sinistra. Uno schermo azzurro comparì ad intermittenza. Una ronzio sinistro mi rese sorda per un paio di secondi. «Ecco qui!» Il suo inglese era morbido, come quello di tutti coloro che vivevano in Irlanda. Mi piaceva il suono della sua voce. Mi voltai verso il punto che indicava. Io non vedevo niente. Poi accese l’audio. Un battito cardiaco più veloce di quello di un erotto attraversò la stanza. Schiacciò un polpastrello su un minuscolo puntino che pareva una macchia dello schermo. «Quello è suo figlio. E, ad occhio e croce, è di otto settimane.» Avevo la mente vuota. Ero soltanto in grado di guardare quel minuscolo segno sul monitor. Non si muoveva, non aveva forma, eppure esisteva. Mi portai una mano a coprire gli occhi. Le lacrime mi avevano annebbiato la vista. Potevo sentire l’intensa occhiata della dottoressa che mi studiava. Nel frattempo che mi scioglievo in un pianto silenzioso, mi tolse quell’ arnese da dentro. Spense l’apparecchio, di nuovo il silenzio. Riuscii a calmarmi. Una volta asciugate le
striature che mi sporcavano la pelle, liberai i piedi scendendo a terra. Le gambe nude, il liquido lubrificante che colava all’interno delle gambe. La donna mi porse dei fazzolettini. Mi asciugai, mi infilai le mutandine, i pantaloni. Mi sedetti di fronte a lei che aveva uno sguardo calmo e un atteggiamento comprensivo. «Se dovessi decidere di porre fine alla gravidanza, quanto tempo ho per farlo?» Incrociò le mani sotto il mento. Gli occhi smeraldo così simili a quelli di lui mi trafissero da parte a parte. «Poco meno di un mese.» Era pochissimo. Prendere una decisione così importante in un così breve lasso di tempo, mi rendeva nervosa. «Nel caso, voi operate privatamente?» Mi disse che la cosa si poteva fare e che non c’era bisogno di seguire un iter burocratico ospedaliero. Andavi, pagavi, e dopo qualche ora, ritornavi alla tua solita vita. Mi alzai, la salutai. «Non vuole la prima foto del bambino?» Stringeva in mano quella che poteva essere scambiata per una polaroid. Allungai il braccio per prenderla. Lo abbassai, lasciando che quel ricordo rimanesse a lei. «No. La tenga pure.» Mi voltai. «La conserverò, nel caso cambi idea. Comunque, se vuole procedere con l’aborto, le conviene prendere appuntamento per la prossima settimana.» Arrestai il gesto a mezz’aria prima di spingere la maniglia di ottone, fermandomi a pensare alle parole che mi aveva appena detto. Una settimana. Non più un mese. Annuii senza parlare. Non ero certa che mi avesse vista. Poi uscii.
XXXVIII
Lui, Adriano;
Gabriel
Stavo dormendo nel nostro letto. C’era Greta con me. Avvertivo il suo respiro regolare nel sonno, la schiena girata dalla mia parte, il profilo sinuoso della vita, quei capelli di brace abbandonati a solleticarmi il viso. Allungai un braccio stringendomi al suo corpo caldo. Lei si mosse. Mugolò. Avrei voluto svegliarla, fare l’amore, addormentarmi poi sfinito, con lei appoggiata addosso. Si rannicchiò contro il mio petto non appena si accorse che mi ero avvicinato. Persino nell’incoscienza del sonno non poteva fare a meno di cercarmi. La mia metà, la parte che mi completava. Le tastai un seno. Era grande, non lo ricordavo così pieno e morbido. Cominciai a mordicchiarle la spalla nuda. Non si svegliò. Greta. Greta, che mi rendeva incapace di fare qualsiasi cosa eccetto viverla. La mano scivolò sul ventre. Mi bloccai, non appena percepii la rotondità sospetta che si allargava sotto i seni. Mi sollevai facendo leva su un gomito. Dormiva, il cuscino abbracciato, il viso sempre bello ma, diverso. Alzai la coperta che ci nascondeva entrambi. Ammirai il petto, così prosperoso e gonfio, la pancia rotonda, appoggiata al materasso, protetta dalla soffice consistenza delle piume trattenute dalla federa. Allungai le dita, sfiorai la pelle liscia e tesa. Appoggiai il palmo all’altezza dell’ombelico, ormai sporgente. Un calcio sollevò la superficie elastica. La forma di un piedino che si delineava. Avevo gli occhi umidi per la gioia. Un bambino. Un figlio mio...Mi piegai su di lei, le labbra premute sul grembo. Mi avvicinai di modo che potessimo unirci a formare un cucchiaio. Mi riaddormentai sui suoi capelli che odoravano di vaniglia. Mi svegliai di botto. Sentivo Nicole che si agitava. Accesi la luce. Era seduta sul letto, il coprimaterasso zuppo d’acqua, le gambe aperte, lo sguardo terrorizzato.
«Adriano, credo si siano rotte le acque.» Credo? Si erano rotte sì cazzo! Saltai giù dal letto come se avessi avuto le molle ai piedi. Lei cercò di sollevarsi. I movimenti goffi, resi ancor più lenti dai quindici chili assunti nel periodo da gestante. Una volta tornato a Roma, quando aveva scoperto che sarei rimasto con lei per crescere nostro figlio, si era magicamente ripresa. Mangiava regolarmente, era sempre di buon umore, usciva, si truccava, aveva ripreso a fare shopping. Era tornata la Nicole che avevo portato con me dall’Australia. Ero felice per lei, in fondo, la causa di tutti i suoi mali ero stato io. Ma io non potevo condividere la medesima gioia, nonostante quel figlio in arrivo. I miei genitori mi avevano accolto a braccia aperte quando avevano saputo che non sarei più partito. Mio padre aveva chiesto cosa fosse successo, perché Greta non mi aveva seguito. Non avevo voluto rispondere a nessuna delle sue domande. Non potevo parlare di lei. Pensarla mi faceva tornare la voglia di scappare e abbandonare tutto. Il bisogno di vedere il suo sorriso un’ultima volta mi squarciava il cuore a metà. Tra me e mia madre si era formata una profonda spaccatura. Non parlavamo più come un tempo, non c’era più la reciproca comprensione. Non aveva approvato la mia scelta e, nonostante fossi tornato, non riusciva a perdonarmi il fatto di aver fatto soffrire Nicole a tal punto da spingerla a tentare il suicidio. La mia vita aveva ricominciato a scorrere normale. Lavoro. Casa. Casa. Lavoro. L’unica novità, erano gli appuntamenti mensili dal ginecologo, che ci tenevano informati sulla crescita del bambino. Al quinto mese, avevamo scoperto che era un maschio. A me sarebbe andato bene in ogni caso, l’importante era che fosse stato sano. Nicole aveva avuto una gravidanza perfetta; nessuna nausea, nessuna avvisaglia di aborto, nessun rischio di partorire prematuramente. Il sogno di tutte le donne! Il fatto che sarei presto diventato padre mi dava un’emozione unica. Ogni tanto, di notte, quando Nicole dormiva, mi alzavo per andare ad osservare le immagini ritratte nelle varie ecografie. Chissà come sarebbe stato vederlo in carne e ossa! Chissà che aspetto avrebbe avuto…Poi, ad offuscare il mio entusiasmo, ritornava prepotente il pensiero di Greta. Non sapevo come stesse, non sapevo se si fosse consolata nelle braccia di un altro uomo, non sapevo dove fosse, cosa fe, se stesse bene o soffrisse almeno quanto soffrivo io.
Greta. La sua immagine era stampata indelebilmente nella mia memoria. Ogni singolo particolare era vivido nei ricordi. Greta. Avrei voluto che fosse tornata con me, avrei voluto poterla amare, anche se tutti pensavano che non fosse giusto. Greta. La mia dea dai capelli di fuoco che piangeva dicendomi addio…
La mano sulla maniglia della porta blindata. Avevo già avvertito mio padre e mia madre di venire presso la clinica dove Nicole avrebbe partorito. Ero ancora un po’ stordito per essermi svegliato così di soprassalto. Sentivo ancora sotto le dita la consistenza del corpo di Greta. Quel sogno era stato così vivido che per un momento, quando Nicole era sbucata dal corridoio, mi era sembrato di vedere lei che arrancava faticosamente trascinandosi dietro il trolley che conteneva i cambi che le sarebbero serviti per i giorni di ricovero. Ma era solo frutto della mia immaginazione, Greta era scomparsa. C’era solo mia moglie, con i capelli ormai lunghi sotto le spalle, il colorito delle guance, gli occhi verdi che brillavano. Non sapevo dire se di paura o di contentezza. «Sono pronta. Andiamo a far nascere questo bambino!» Mi prese la mano. Io gliela strinsi debolmente. Ero convinto che non sarei mai tornato se non avesse aspettato nostro figlio. Io non l’amavo. Le posai un bacio sulla fronte. Quello che lesse nel mio sguardo non le piacque, la sua espressione rabbuiata per un istante, immediatamente sostituita da una smorfia di dolore. «Andiamo, Adriano o ci sarà il rischio che io partorisca per strada.» Aprii il portone e la condussi fuori.
Nicole venne portata di corsa nella sala travaglio. Quando ci eravamo presentati nella hall della clinica, si erano affrettati a farla accomodare su una sedia a rotelle per condurla ad una visita urgente. I miei genitori erano già lì ad aspettarci. Mia madre mi aveva sostituito al suo capezzale con tale partecipazione da far credere che fosse lei la figlia naturale. Pazienza. Mi stavo già abituando a quella condizione. Mia moglie aveva chiesto insistentemente che la seguissi. Il dottore aveva detto che non permettevano al padre di assistere al parto. Per me non era un problema. Mi sarei risparmiato volentieri ore di attesa, durante le quali sarei soltanto servito a stringerle la mano.
Guardai la macchinetta del distributore automatico. Erano le tre e mezza. L’ospedale era silenzioso. Non c’erano molte mamme in procinto di mettere al mondo dei bambini. Le sigarette che fumava Greta erano ben visibili da dietro il vetro trasparente. Tirai fuori dalla tasca gli spicci che avevo. Il pacchetto venne avanti mentre la rotella metallica girava su stessa. Un tonfo sordo. Mi abbassai per tirarlo fuori. Lo scartai, mio padre fu subito al mio fianco. Gliene offrii una, lui la prese facendomi segno di seguirlo all’aria aperta. La temperatura era fresca. Eravamo a metà del mese di Aprile, l’estate sarebbe arrivata a breve. I meteorologi prevedevano una stagione molto calda. Fumammo in silenzio, godendoci il cameratismo che si era istaurato tra noi. Non mi sentivo agitato, soltanto impaziente. Non vedevo l’ora di scoprire che volto avesse il mio bambino. Restammo fuori per qualche tempo. Parlammo del più e del meno. Lui mi chiedeva come stessi e io rispondevo bene. Il cielo era chiaro. Le stelle brillavano violente nella volta celeste. Mi venne in mente un’altra immagine, un’altra reminiscenza di una vita che non mi apparteneva più. Il cielo d’Irlanda era completamente diverso, o almeno, quello che avevo visto io. Avrei potuto contare gli astri tanto spiccavano luminosi. Io e Greta, una volta, ci eravamo imbarcati nell’impresa. Dopo un po’ ci eravamo stancati di contare ed eravamo rotolati abbracciati nell’erba. Non sentivamo il freddo, né l’umidità, né nient’altro mentre facevamo l’amore felici, sporchi di quella terra meravigliosa. Chiusi gli occhi. Scacciai la sensazione che mi aveva attanagliato lo stomaco. Persino l’eccitamento dovuto all’imminente nascita era evaporato mentre riflettevo. Dovevo dimenticarla. O almeno provarci.
Avevo tentato di contattarla, ma il telefono era irraggiungibile, l’operatore mi avvisava che la sim era stata disattivata. Cazzo. Avevo provato a chiamare a casa di Hulrik. Lui aveva risposto, io avevo pronunciato una sola sillaba e mi ero ritrovato a parlare al vento. Mi aveva riattaccato subito in faccia. Volevo soltanto sentire la sua voce, sapere se stava bene. Una volta avevo persino pensato di andare a casa dei suoi genitori, a Roma. Ero arrivato di fronte al cancelletto. Le luci erano ancora accese. Avevo aspettato per una decina di minuti, indeciso se fare o meno la mossa successiva. Alla fine ero tornato indietro. A cosa sarebbe servito? Se Greta avesse voluto dirmi qualcosa, sapeva dove trovarmi.
Sibilla trafelata uscì dal retro dell’ospedale. Ci stava cercando. Aveva il fiatone e un’espressione di gioia assoluta stampata in viso. Possibile che il bambino fosse già nato? «Adriano è bellissimo. Sta bene, ma lo stanno portando in incubatrice per il primo controllo. Devi sbrigarti se vuoi vederlo.» Non accennò al fatto che io e papà stessimo fumando. Girò i tacchi e corse indietro. La seguimmo. Dentro di me si alternavano agitazione mista ad aspettativa e a curiosità. Arrivammo di fronte alla parete a vetro attraverso cui si vedevano i bimbi appena nati rinchiusi in quelle minuscole culle. Cominciai ad osservare. Mi sembravano tutti uguali. C’erano tre piccoli. Tutti e tre con i capelli neri, la pelle rossiccia, i lineamenti tesi a causa dello sforzo appena fatto. Sibilla aveva le mani appoggiate contro il vetro, il viso schiacciato ad osservare un'infermiera che stava poggiando un infante con un pannolino più grosso di lui. «È Gabriel. Guardalo Adriano. Tuo figlio.» Mi misi accanto a lei, le nostre spalle si sfioravano appena. Aveva grandi occhi scuri. Un po’ gonfi, credetti che mi stesse guardando, anche se sapevo che non era possibile. Mi sembrò un miracolo. Non sapevo dire se fosse bello o brutto, non importava, per me era perfetto. Cinque dita alla mano sinistra, cinque dita alla mano destra, i piedi piccini, le gambe che scalciavano, la bocca da uccellino che si apriva, uno strillo acuto che risvegliava i pazienti. «Ha una bella voce.» Osservai mio padre che stava fermo accanto a me. Mi strinse con la sua grossa mano. Asciugai una lacrima che mi era scivolata oltre le ciglia. «Benvenuto, Gabriel. Benvenuto figlio mio.»
XXXIX
Lei, Greta;
Frammento di noi
Mi svegliai presto quella mattina, erano i primi giorni di Giugno. Hulrik aveva annunciato che quella sarebbe stata un’estate calda; le giornate si susseguivano soleggiate e la temperatura era alta per essere in Irlanda. Ero felice. Mi alzai a fatica. La grossa pancia mi appesantiva rendendo i miei movimenti lenti e goffi. Andai in bagno, mi guardai nello specchio. Il ventre prominente faceva tendere la maglietta doppia x che ero stata costretta a comprare. Non mi entrava più nulla degli abiti che avevo portato con me. Mi accarezzai la pancia. Mio figlio scalciò violentemente. Aveva fame, e anche io! Mi sciacquai il viso. La maternità non aveva stravolto la mia fisionomia come succedeva ad alcune mamme in attesa. Ero sempre la stessa, soltanto più rotonda e meno incosciente. Sorrisi al mio riflesso pensando a quando, finalmente, avrei conosciuto Flavio. Era così che avevo deciso di chiamarlo. Amavo i nomi romani. Flavio era un nome importante, quello di un imperatore, suo padre aveva il nome di un re di Roma. Chiusi gli occhi, scacciando dalla mente il ricordo di Adriano. Non faceva più male come prima, il mio bambino aveva catturato la mia completa attenzione, ma c’erano momenti in cui avrei desiderato vederlo. Mi sarei accontentata anche soltanto di sentire il suono della sua voce e rivivere i momenti felici che avevamo trascorso insieme, anche per breve tempo. Respirai a fondo, mi concentrai su qualcosa di presente, la mano premuta contro il piedino che modificava la rotondità perfetta dell’addome. Ed ecco, la malinconia si attenuava, il battito ritornava al ritmo regolare, lo stomaco si distendeva, la pelle riprendeva il suo solito colorito. Mia madre stava lavorando in cucina. Avevo ancora impresso quando, per telefono, le avevo annunciato che sarebbe diventata nonna. Per poco non era
svenuta. Avevo preso la cornetta, con la paura nel cuore. Il nonno era accanto a me, mi fissava, lo sguardo comprensivo, pronto ad intervenire nel caso la situazione fosse divenuta insostenibile. Composi il numero che conoscevo a memoria, pochi squilli e lei rispose. «Pronto?» Sospirai. «Pronto mamma? Sono Greta.» Riconobbe subito che c’era qualcosa che non andava, il suo tono di voce si fece ansioso. «Amore che è successo? Stai bene?» Mia madre aveva saputo da poco che Adriano era tornato a Roma. Ero certa che glielo avesse detto mio padre che, a sua volta, lo era venuto a sapere da Davide. Non l’aveva presa molto bene. Avrebbe voluto presentarsi alla sua porta e dirgliene quattro ma, fortunatamente, Sergio l’aveva trattenuta dissuadendola da tali propositi. «Sì mamma, sto bene.» Pausa. Avevo avuto l’impressione di poter sentire le pulsazioni del sangue, anche se sapevo che era soltanto frutto della mia fantasia. «Greta non farmi preoccupare perché mi hai chiamata?» Chiusi gli occhi, mi toccai la pancia ancora piatta. Erano trascorsi poco più di tre mesi dall’inizio della gravidanza e non si vedeva nulla sotto il maglione pesante che indossavo. «Mamma, sei seduta? Devo dirti una cosa importante.» Mi sembrò che afferrasse il bordo di una sedia e ci si appoggiasse sopra con pesantezza. Mio padre era a casa, il sabato era giorno di riposo, esclamò qualcosa nell’avvicinarsi a Meredith.
«Sono seduta, Greta. Parla pure.» Guardai Hulrik, stava sorseggiando un bel bicchiere pieno di birra. Non rammentavo che avesse mai bevuto altro. L’atteggiamento convinto. «Mamma, sono incinta.» Ecco lanciata la bomba. Nessuna risposta dall’altra parte, soltanto un silenzio che mi parve lunghissimo. Mio padre esclamò qualcosa, lei non rispose. «Mamma. Mamma, rispondi.» Il tono preoccupato di chi ha il presentimento di aver assassinato qualcuno. Hulrik se ne accorse e prese il comando della situazione strappandomi il telefono cellulare dalle dita. «Meredith!» La sua voce imperiosa fece tremare anche me. Nonostante tra di noi si fosse instaurato un rapporto meraviglioso, quando assumeva quell’atteggiamento mi faceva paura. Mia madre doveva aver cominciato a parlare perché mio nonno restò in ascolto per qualche minuto; rispondeva ogni tanto, un paio di volte la sgridò pure. Mi strinsi tra le braccia. Fuori nevicava. Era appena entrato il mese di Novembre, a breve sarebbe stato Natale, il primo lontano da casa. «Falla finita, Meredith. Non fare la bambina. Greta è adulta, ha preso la sua decisione, puoi accettarla o no, ma resti sempre sua madre e lei, adesso, ha bisogno di te.» Sorrisi a quelle parole. Mio nonno non aveva fatto una piega quando glielo avevo detto. Aveva bevuto un lungo sorso della sua bevanda preferita, mi aveva guardata negli occhi e aveva annunciato “È parecchio che non sento piangere un ragazzino, dovrò riabituarmi alla cosa.” Mi ero sciolta in lacrime e lui mi aveva abbracciata, un po’ impacciato. Mi allungò l’apparecchio, lo avvicinai all’orecchio, mia madre inspirava forte, mio padre, in sottofondo, continuava a chiedere che cosa fosse successo. «Greta…lo terrai non è così?»
«Sì mamma, volevo soltanto avvertirti, per il resto il nonno si è reso disponibile ad aiutarmi.» Iniziò a piangere, non ero proprio dell’umore giusto per consolarla, mi aspettavo che fosse lei a consolare me. «Come farò Greta? Sei così lontana. Perché non torni a casa?» L’idea non mi aveva nemmeno lontanamente sfiorata. Mio figlio o mia figlia, sarebbe nato in Irlanda, dove avevo deciso di stabilirmi fino a data da destinarsi. «No mamma, resterò qui, anche perché la ginecologa ha detto che non sarebbe saggio affrontare un viaggio in aereo. La prima fase della gravidanza è la più delicata. Starò bene, non preoccuparti. Il nonno si occuperà di me.» Pianse ancora. Mio padre le strappò il telefono dalle mani. «Greta che succede? Tua madre sembra sconvolta.» Gli spiegai la situazione. Mugugnava senza esprimersi, mi lasciò finire, dopodiché rimase in silenzio anche lui. «Meredith, smettila. La soluzione si trova.» Mia madre tirò su con il naso. Immaginavo i suoi chiari occhi verdi alzarsi verso di lui aspettando che risolvesse la situazione. «Tua madre partirà per starti vicina, se è questo che desideri. Io vi raggiungerò quando potrò. Non preoccuparti tesoro, andrà tutto bene.» Una calda lacrima mi scivolò sulla guancia. «Grazie, papà. Soltanto una cosa.» Sentivo il sangue defluire dal viso. «Non voglio che tu dica niente a nessuno. Non voglio che si sappia che sono incinta. Per favore.» Non rispose subito.
«Come vuoi. La scelta spetta a te.» Avevamo continuato a chiacchierare per un altro po’. Sapevo che entrambi avevano bisogno di metabolizzare la cosa, perciò non mi trattenni troppo a lungo. Avevano bisogno di parlare da soli e anche io avevo necessità di stare un po’ per conto mio. Ero più leggera una volta terminata la conversazione. Aver detto ai miei genitori che sarei presto diventata mamma rendeva la cosa ancora più reale. Mi guardai la pancia ancora piatta, ebbra di gioia per il mio futuro.
Meredith mi fissò non appena entrai nel piccolo salotto della casa sulla collina. La finestra era aperta, una leggera brezza di mare rinfrescava l’ambiente portando con sé l’odore di salsedine. Sorrise come una bambina mentre era intenta a prepararmi la colazione. «Tuo padre è sceso con il nonno giù in paese. La barca è tornata. Devono aver pescato parecchio. Non lo vedevo così entusiasta da non sai quanto.» Annuii. Hulrik aveva lasciato il comando dell’imbarcazione da pesca ad uno dei suoi marinai: era l’ultimo periodo della gravidanza e non voleva essere in mare quando sarebbe nato il pronipote. Mi sedetti al tavolino apparecchiato per due, evidentemente Meredith mi aveva aspettata per fare il primo pasto della giornata. «Come ti senti tesoro?» Cercai di concentrarmi sulla domanda. Stavo bene. Avevo soltanto una fame da lupi. «Io e Flavio siamo affamati.» Guardò la pancia prominente, i suoi occhi erano pieni di amore. Sarebbe stata un’ottima nonna, ne ero certa. Mi mise davanti una brioche alta cinque centimetri: era ben cotta, come piaceva a me,; mi servì una tazza di latte freddo. Divorai tutto. «Cosa vuoi fare oggi, Greta?»
Voltai la testa in direzione dell’esterno. Da quell’angolazione non riuscivo a vedere il mare. Mi sarebbe piaciuto fare una bella eggiata sulla costa. «Credo che andrò a fare un giro giù al molo.» Meredith si sbrigò a sparecchiare. Sciacquò le stoviglie nel lavandino, le asciugò prima di riporle nel mobile. Mi sollevai sempre lentamente; la cosa che più mi disturbava del fatto di essere in attesa era il non essere più in grado di muovermi agilmente come prima. Ero lenta, pesante, ma questo era nulla paragonato al bel periodo che avevo trascorso mentre osservavo il mio corpo trasformarsi per accogliere il mio bambino. Non avevo avuto problemi. Una gestazione, come era solito dire, liscia come l’olio. Avevo continuato a condurre, almeno in parte, la mia solita vita. Di questo non potevo lamentarmi. «Aspettami Greta, vengo con te.» Sollevai gli occhi al cielo. Da quando si era stabilita in maniera definitiva a casa del nonno, non succedeva mai che potessi muovermi da sola. Mio padre la rimproverava spesso per questo, ma lei non gli dava ascolto. La sua compagnia non mi disturbava, in maniera particolare in quegli ultimi giorni. Eravamo vicini alla data del parto, se fosse successo qualcosa, preferivo avere qualcuno pronto a soccorrermi. Non riuscivo ad ammetterlo ad alta voce, ma la paura cresceva. Avevo il terrore che accadesse qualcosa al bambino, che il parto fosse difficoltoso, che il cordone gli si arrotolasse intorno al collo, impedendo che l’aria gli arrivasse al cervello. A volte mi svegliavo in piena notte terrorizzata, con la sensazione che Flavio non si muovesse più. Cominciavo a chiamarlo dolcemente, fissandomi la pancia immobile. Poi, finalmente, lui ricominciava ad agitarsi! Io tornavo a respirare e mi addormentavo. Aspettai che mia madre fosse pronta per uscire. Dovevano esserci venticinque gradi fuori, c’era umidità nell’aria e il caldo si percepiva in maniera opprimente. eggiammo in silenzio verso la stradina che ci avrebbe condotte al paese. L’attenzione di Meredith era tutta per me, misurava i miei i, scattava se credeva che avessi messo un piede in fallo. Mi voltai verso di lei infastidita da quell’eccesso di zelo parentale. «Mamma, falla finita, così mi innervosisci.» Si morse le labbra, un gesto che spesso facevo anche io quando ero nervosa.
«Scusami Greta, mi preoccupo troppo.» Strinsi i denti e le diedi le spalle, tornando a stare attenta a dove mettevo i piedi. Erano ati una decina di minuti, la cittadina era ancora lontana, dovevo ammettere di essermi trasformata in una vecchia tartaruga. C’era un grosso masso per la strada, la schiena iniziava a farmi male, possibile che fossi diventata così delicata? Mi appoggiai alla pietra che era quasi alta come me. Una fitta lancinante mi fece irrigidire tutta. Che diavolo stava succedendo? Mia madre mi corse accanto; come al solito, quando mi succedeva qualcosa, lo capiva. «Greta?» Aveva gli occhi che sembravano più grandi di tutta la faccia. Le sorrisi, respirando piano. Il dolore era ato, forse era solo una contrattura muscolare causata dallo sforzo di trascinarsi dietro quel fardello. «È tutto a posto, solo mal di schiena.» Non mi parve convinta. Feci per sollevarmi e per poco non mi piegai trafitta da un altro crampo al basso ventre. Un grido di sofferenza mi si strozzò in gola. Era stato così forte! Non ero preparata. «Mamma…c’è qualcosa che non va.» Era sbiancata. Si piegò ad osservarmi tra le gambe per controllare che le acque non si fossero rotte. «Cosa senti Greta?» Il dolore si stava attenuando pian piano. Fui di nuovo in grado di sollevarmi in posizione eretta. Rimasi immobile, cercando di sentire se un’altra contrazione fosse in arrivo. Niente. Scossi la testa reggendomi la pancia. «Non lo so…era come un crampo, ma più forte…non saprei definirlo.» Lo sguardo correva da una parte all’altra della strada in cerca di qualcuno che sbucasse da dietro la curva. «Andiamo. Ora è ato.»
Sbarrò gli occhi quando vide che continuavo a proseguire per il cammino accidentato. «Greta…dove credi di andare? Torniamo a casa, potrebbe essere arrivato il momento, non credo sia il caso che continuiamo a scendere.» Sventolai la mano in alto mentre la sentivo raggiungermi, non ci voleva poi molto. Mi si mise davanti tentando di impedirmi di proseguire. «Smettila, mamma. Non mi fa più male, è tutto a posto.» Appena ebbi pronunciato l’ultima sillaba, una fitta ancora più forte mi fece tremare. Il braccio proteso in cerca di qualcosa a cui aggrapparmi, lei fu subito pronta a sorreggermi. Avevo la vista appannata a causa delle lacrime di dolore che galleggiavano sopra le palpebre. Tirò fuori il cellulare dalla tasca. Le stringevo forte la mano, sperando che il dolore svanisse, come era successo poco prima. «Sergio, corri , il bambino sta per nascere. Dobbiamo portare Greta all’ospedale.» Chiuse svelta la telefonata per concentrarsi totalmente su di me. «Greta! Lo so, ti sembrerà superfluo, ma respira, respira forte.» Non avevo voglia di risponderle male, così feci come aveva detto. Ispirai ed espirai aria dai polmoni; la tensione all’inguine si attenuò, ma avevo paura a rimettermi in piedi. Non volevo che quella sensazione terribile mi attraversasse un’altra volta. «Mamma…» Ero tornata ad essere la bambina spaventata che guardava la madre con occhi supplichevoli e cercava in lei la salvezza. Si abbassò per farmi are il braccio intorno alle sue spalle. Mi sostenne nel frattempo che mi appoggiavo con tutto il peso alla sua esile figura. Un’altra contrazione, dopo pochi minuti. Erano troppo vicine, non avrebbero dovuto essere tanto ravvicinate. Sentivo il bambino muoversi irrequieto, il peso che si spostava in basso, la vescica compressa, l’impressione di dover fare la pipì.
Arrancammo insieme verso casa, il ritorno fu molto più lento rispetto all’andata; io mi fermavo ogni due minuti perché l’agonia non mi permetteva di procedere spedita. La macchina del nonno sgommò in lontananza, sollevando un polverone; i pneumatici fecero schizzare i piccoli sassolini tutt’intorno. Mio padre balzò giù dal sedile eggero, corse da me, mi prese tra le braccia portandomi alla macchina. «Mamma la valigia con il necessario per l’ospedale. Non dimenticarla.» Dopo aver annuito, lei corse verso casa. Il nonno aiutò papà a farmi salire nel retro del furgone. Galen mi leccò la faccia accucciandosi protettivo accanto a me: doveva aver capito che stava succedendo qualcosa. Quando Meredith cercò di farlo scendere dall’auto, per poco non la morse rabbioso. «Mamma, va bene così, lascialo venire.» Non obbiettò, mettendosi dall’altra parte, un po’ distante dal cane che teneva il muso poggiato sul mio grembo.
Ebbi l’impressione che fossero ate ore prima di vedere la grande struttura ospedaliera innalzarsi alla fine della strada. Le contrazioni erano sempre più frequenti, il setter irlandese uggiolava ogni qual volta sentiva uscire dalla mia bocca un lamento sofferente. Il dolore era costante, non mi abbandonava mai, a volte era meno violento, ma era pur sempre dolore. Hulrik parcheggiò di fronte al pronto soccorso, un’infermiera vestita di verde ci venne incontro, davanti a lei una sedia a rotelle. Mi fecero accomodare e schizzammo all’interno della struttura. «Ogni quanto ha le contrazioni?» Mia madre mi venne vicino, i suoi i accompagnavano lo stridio cigolante delle ruote. «Amore, ogni quanto hai le fitte?» Spalancai gli occhi. Il mio volto era una maschera stravolta dalla sofferenza.
«Che ne so mamma! Che domanda è? Mi sembra che non smettano mai.» L’infermiera ci portò di corsa nel reparto di ostetricia. Un dottore in camicie bianco, con una rada barbetta altrettanto chiara, mi aiutò ad alzarmi dal mezzo di trasporto. Mi aggrappai a lui quando un altro spasmo mi fece urlare. Stavolta era stato peggiore degli altri. Un liquido viscido e caldo mi ruscellò sulle cosce, bagnando i pantaloni di lino che aderirono immediatamente alle gambe. «Si sono rotte le acque. Camille, avverti la sala parto, la signora sta per far nascere suo figlio in corridoio.» La mano stretta in quella di Meredith, i suoi occhi verde mare che mi guardavano commossi, preoccupati, attenti. Altri occhi come i suoi, un altro volto, un altro sguardo. Chiusi le palpebre, le lacrime cominciarono a scendere sul viso. Volevo lui, avevo bisogno di lui. «Greta, non preoccuparti. Andrà tutto bene.» Pareti bianche, luci bianche, lenzuola bianche. Venni fatta accomodare su un lettino da ginecologo, le gambe aperte. Il dito del dottore entrò dentro di me. Abbassò il capo, come a sbirciare qualcosa di molto interessante. «Vedo la testa. Siete arrivati appena in tempo.» Mia madre mi accarezzava la fronte, mi posava piccoli baci morbidi sulle tempie. «Come si chiama?» Fissai il medico, l’atteggiamento rassicurante e professionale. «Greta…mi chiamo Greta.» Annuì. Rimasi con la bocca spalancata in un strillo muto quando fui attraversata dalla contrazione successiva. Avevo la sensazione che mi stessero strappando le viscere dall’interno. Faceva male, non pensavo avrebbe fatto così tanto male… «Spinga Greta facciamo nascere questo bambino.» L’infermiera che mi aveva accompagnato in sala parto aveva indossato i guanti. Anche lei mi sorrideva. Che cazzo avevano tutti da sorridere? Io mi sentivo di stare per morire!
Spinsi. Qualcosa si mosse dentro di me. Il dottore era sempre piegato, nascosto alla vista dalla pancia gonfia. Meredith mi afferrava le spalle, infilando le dita in profondità ad ogni mio movimento. Respirai a fondo quando non fui più in grado di spingere. «Prendi fiato, Greta. Alla prossima contrazione voglio che tu tiri fuori tutto quello che hai.» Mi voltai verso la donna che, anni prima, aveva vissuto la mia stessa esperienza. Lei era li, non se ne sarebbe andata. «Forza tesoro, un piccolo sforzo e poi potrai abbracciare Flavio.» Serrai le palpebre concentrandomi sulla sensazione pressante. Mi irrigidii quando la fitta mi fece urlare di nuovo. Misi tutta la mia forza, tutto il mio dolore, tutta la mia speranza in quell’unico, singolo sforzo. Ero spaccata. Faceva male, un male terribile. Qualcosa scivolò fuori. Un suono fradicio, bagnato. Il ventre si svuotò subito. Il vagito di un neonato, mia madre che piangeva. Riuscii a malapena a vedere la donna che prendeva in consegna quell’affarino rosso, ricoperto di sangue, che non faceva altro che urlare disperato. «Un’altra spinta, Greta.» Presi una lunga boccata di ossigeno prima di fare come aveva detto. Spinsi ancora. Qualcos’altro venne via. L’addome ritornato quasi normale. Il dottore mi ripulì velocemente. Non avevo la forza di sollevarmi, ma desideravo vedere mio figlio. «Come sta?» Si avvicinò all’infermiera per poi voltarsi con un piccolo essere umano tra le braccia. Mia madre singhiozzava incontrollata. «È perfetto, Greta. Un bambino bellissimo. Sei stata brava.» Si piegò verso di me. Flavio aveva lo sguardo vispo. Era meraviglioso. La testolina rotonda, radi capelli chiari che gli coprivano la sommità del capo, occhi grandi, in quel momento erano grigi ma sapevo che il colore non sarebbe stato
definitivo fino a cinque mesi di vita. Il naso piccolo e a patatina, la bocca a cuore, perfetta. Gli infilai l’indice tra quelle dita minuscole. Erano cinque ad ogni mano e cinque ad ogni piede. Mio figlio. Lo strinsi a me e lui si rannicchiò in cerca del mio calore. Avevo dimenticato il dolore, la sofferenza, la paura. C’era solo ed esclusivamente la gioia di quel momento. Lo guardai ancora. Avrei tanto desiderato che potesse conoscerlo anche lui… Flavio, nostro figlio, un frammento di noi.
FINE
Created with Writer2ePub by Luca Calcinai