Freak 11i2f

Titolo | Freak Autore | Morgana Coniman Copertina a cura dell’autrice ISBN | 9788891124012 Prima edizione digitale 2013

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Ogni potere umano è composto

di tempo e di pazienza.

Honoré de Balzac, Eugènie Grandet

1

PIOGGIA

La sala era ampia e calda, le pareti erano ricoperte di quadri e di arazzi raffiguranti scene di caccia. Il porpora e il blu degli abiti dei cacciatori sembravano quasi in rilievo sullo sfondo di foglie gialle, arancio e marroni, come piccole gemme incastonate in una morbida cornice di alberi e arbusti. Le fiaccole poste sugli spazi regolari lasciati vuoti tra un dipinto e l’altro emanavano una piacevole luce ambrata e profumavano l’aria. Dal soffitto pendevano enormi lampadari ricamati con cristalli iridescenti che si specchiavano sul lucido pavimento di marmo rosa disegnando piccoli arabeschi sui muri.

Ed io ero lì, al centro della sala e volteggiavo leggera tra le sue braccia. Un lungo abito di seta nero mi fasciava il corpo, le spalline sottili allacciate dietro il collo lasciavano scoperta la schiena che la sua mano sfiorava delicatamente facendomi sussultare.

Non potevo crederci, nelle ultime settimane la mia vita era stata completamente stravolta, mi ero ritrovata sola, catapultata in un mondo ostile, circondata da nemici.

Avevo dovuto nascondermi e lottare per sopravvivere, avevo imparato a mentire e a non fidarmi di nessuno ma alla fine ce l'avevo fatta. Ero viva, ero lì, ero con lui.

Ci muovevamo all’unisono, i suoi occhi nei miei, le mie mani intrecciate alle sue.

Ad un tratto la musica cambiò. Il suono dolce del pianoforte fu sovrastato dal un ritmo più serrato e martellante.

“I gotta feeling” dei Black Eyed Peas irruppe nell'aria come una scarica elettrica. La stanza attorno a me cominciò a girare, non riuscivo più a distinguere i contorni degli oggetti, i visi delle persone, tutto stava svanendo.

Cercai invano di mantenere il controllo e di non farmi portare via, ma la musica mi chiamava. Conoscevo a memoria quella canzone, l'avevo scelta io, mi dava la carica.

Senza aprire gli occhi allungai la mano per spegnere la radiosveglia.

Attesi immobile cercando di fissare nella mia mente il suo viso, l'intensità del suo sguardo, i lineamenti perfetti che lentamente si dissolvevano, volevo assaporare più a lungo possibile quella meravigliosa sensazione.

Ero una gran sognatrice, fin da bambina ascoltavo avidamente le fiabe che ogni sera mia madre pazientemente mi leggeva e poi chiudevo gli occhi cercando di fare mie quelle avventure. Ero la fanciulla persa nel bosco, rinchiusa nella torre o in balia del drago in attesa del principe che ogni notte, senza farsi troppo pregare, arrivava a salvarmi. Ma la vita non è una fiaba ed i sogni purtroppo non si avverano quasi mai.

Sbattei le palpebre cercando di dosare la luce che vi si insinuava e lentamente volsi lo sguardo alla finestra. Il lieve ticchettio della pioggia sui vetri mi infastidì ma nulla avrebbe rovinato la mia giornata.

Da settimane programmavo quel sabato di shopping sfrenato e niente mi avrebbe fermata. Perciò mi alzai con decisione e mi diressi in bagno.

L’immagine riflessa nello specchio assomigliava più a quella di una leonessa che ad un essere umano. I folti capelli ramati formavano un intricato groviglio attorno alla mia testa e i grandi occhi nocciola risaltavano nell’ovale pallido del viso. Feci un profondo sospiro ed afferrai con decisione la spazzola pronta a domare la belva.

Terminata la tortura tornai in camera, mi sedetti sul bordo del letto e trascorsi i successivi dieci minuti a fissare l'interno del mio armadio. Mi mordicchiavo nervosamente le labbra saltando con lo sguardo da un ripiano all'altro.

Come ogni mattina ero indecisa su cosa indossare. In realtà ero sempre indecisa su tutto: gonna o pantaloni?

Gelato alla nocciola o pistacchio? Film d'amore o fantascienza? Trucco acqua e sapone da brava ragazza o rossetto "fuoco d'oriente" che urla baciami? Solo di una cosa ero assolutamente sicura: lui.

Ci misi un po’ per essere presentabile ma quando scesi al piano di sotto ero soddisfatta dell’opera.

La prima a corrermi in contro per darmi il buongiorno fu Cookie che agitando per aria la sua coda bianca e nera si infilò tra le mie gambe facendomi quasi inciampare.

“Ciao pulciosa” le dissi affondando le mani nel suo morbido pelo.

Ovviamente Cookie non aveva le pulci, era una beneducata cagnolina da salotto, ma mi piaceva chiamarla così per la buffa maniera, che hanno tutti i cani, di grattarsi dietro le orecchie usando le zampe posteriori.

Mia madre Helen mi aspettava in cucina, allegra come sempre, “Emily, ben svegliata tesoro” disse posando delicatamente le labbra sulla mia fronte come faceva ormai da 18 anni, dal giorno in cui ero nata. “Dormito bene?”

Mia madre era una persona luminosa come un soleggiato giorno d'estate. Del resto aveva tutte le ragioni per esserlo, mio padre la adorava ed anche dopo venticinque anni di matrimonio la ricopriva di attenzioni.

Erano come il vento e l'acqua. Frenetica ed imprevedibile lei, calmo e razionale lui. Lei era quella che mi regalava i cd delle band più scatenate mentre lui dal piano di sotto mi urlava di abbassare il volume. Apionata di fiori e viaggi lei, incollato al suo divano lui. Così quando sceglieva le mete delle nostre vacanze cercava sempre di combinare interminabili ore di visita a noiosi musei e tetre cattedrali a qualche giorno di totale immobilità su meravigliose spiagge assolate.

Ma quell’estate sarebbe stata mia, mia e di Nick. Sua zia ci aveva invitati a trascorrere un paio di settimane da lei, sulla minuscola, ma assolutamente

perfetta, isola greca in cui si era trasferita con il marito dopo la pensione.

Un piccolo paradiso dalle acque turchesi, le stradine di ciottoli ombreggiate da palpitanti buganvillee e le casupole bianche con i balconi blu. Un luogo incantato che sarebbe stato il nostro nido d'amore.

Ed io, cinque mesi prima della partenza, avevo già praticamente preparato i bagagli e non vedevo l'ora di mettermi in viaggio.

“Siete proprio sicure di non voler rimandare la vostra gita?” chiese mia madre preoccupata. “Hai visto come piove?” Lanciai un’occhiata fuori dalla finestra. I contorni delle case e degli alberi lungo il viale erano distorti dalle scie tremolanti delle gocce di pioggia che scorrevano lungo i vetri. Il cielo plumbeo si specchiava nell’asfalto bagnato ed ogni cosa sembrava triste e sbiadita. Per contrastare la desolazione del paesaggio sfoderai il più raggiante dei miei sorrisi.

“Direi che è una giornata perfetta per fare spese. Con un tempo così nessuno oserà mettere il naso fuori di casa.

E poi mi sentirò meno in colpa per averti lasciata sola al negozio. Non credo ci saranno tanti clienti oggi pomeriggio”.

Da un paio d’anni, ogni sabato pomeriggio, aiutavo mia madre nel suo negozio di fiori. All’inizio era stata la punizione per aver saltato la scuola. Nick aveva la varicella e per paura del contagio mi avevano impedito di vederlo, ma era il periodo in cui stavamo appiccicati come un ragno alla sua ragnatela, così saltare la scuola mi era sembrata un’ottima soluzione per stare insieme.

Ovviamente era stata una pessima idea. Anche quel giorno diluviava e mio padre era venuto a prendermi scoprendo che a scuola non c’ero proprio andata. La punizione era durata due mesi, otto sabati di duro lavoro al termine dei quali mi ero affezionata a quel luogo pieno di colori e profumi, dove la primavera non terminava mai.

Perciò avevo continuato ad aiutare mia madre diventando una vera esperta nel prendermi cura di quei piccoli, deliziosi esserini verdi.

Presi al volo una fetta di pane imburrato, era già tardi e Susan mi aspettava per dare il via alla nostra folle giornata.

La voce affettuosa di mia madre mi inseguì sul vialetto,

“Prendi l’ombrello che piove! E mi raccomando non spendere troppo!”. Sollevai il cappuccio e mi misi a correre verso la casa di Susan sul lato opposto della strada.

Io e Susan eravamo amiche da sempre, eravamo cresciute insieme, avevamo scorrazzato insieme per tutta l'infanzia e annaspato insieme durante l'adolescenza (in realtà io avevo annaspato, lei se l'era cavata benissimo).

Eravamo due sorelle, solo che vivevamo in case diverse.

Quando aprì la porta era euforica, lo shopping era la sua droga ed il primo giorno

dei saldi era sacro per lei. Sapevo che avrei ato metà della giornata seduta fuori da affollati camerini in attesa di vederla sfilare con tutto ciò che di più stravagante, sexy e costoso avesse trovato.

Alle nove eravamo già in auto e dopo dieci minuti conoscevo a memoria tutti i dettagli dalla sua ultima conquista, la sua voce squillante riempiva l’abitacolo della piccola mini e sovrastava il rumore della pioggia che scosciava sul tettuccio.

“Paul è davvero carino ma ho dovuto noleggiare ben dodici film prima che si accorgesse di me. Ogni volta trovavo una scusa per fermarmi a chiacchierare e dico la verità avevo quasi perso le speranze. Mi è costato un capitale”.

“Susan sei unica! Solo tu che odi guardare la televisione puoi noleggiare dodici film solo per far colpo su quello della videoteca!”.

“Beh. Però ha funzionato. Ti stavo dicendo che finalmente ieri mi ha invitata a cena, è veramente un tipo pazzesco”.

Susan era una ragazza splendida sotto tutti i punti di vista. Era la classica bellezza californiana: viso da modella su un fisico mozzafiato, ma fortunatamente aveva anche un cervello perfettamente funzionante, perciò quando si invaghiva di un ragazzo era attratta molto più dal contenuto che dal contenitore.

A metà pomeriggio avevamo già ato al setaccio ogni singolo scaffale di tutti i negozi del centro ed eravamo veramente soddisfatte del nostro bottino.

Caricammo tutti i nostri pacchi in auto ma prima di tornare a casa volevo fare un salto al negozio di dischi per cercare un paio di cd appena usciti.

“ Susan ci metterò un attimo, se non li trovo esco subito e partiamo”. Lo sguardo di Susan era tutt’altro che convinto “Certo come se non ti conoscessi. Io sono esausta, ti aspetto al caffè qui di fronte, ma ti avverto che se tra mezz’ora non ti vedo arrivare io parto senza di te!”

“Vedrai che farò in fretta”, ma neanche la mia voce era troppo convincente.

Il negozio era praticamente vuoto ad eccezione di una coppia di ragazze che sembravano più interessate al commesso che ai dischi. Magari cerco qualcosa anche per il compleanno di Kate, pensai e già sapevo che avrei fatto aspettare Susan. ai il primo quarto d’ora ad esaminare ogni cd del reparto blues senza trovare ciò che cercavo. Mi piacevano quasi tutti i generi musicali ma il blues era il mio scacciapensieri, mi rilassava, era il sottofondo ideale per qualsiasi attività. Mi spostai nel reparto pop e dopo una veloce panoramica delle ultime novità scelsi una compilation per Kate. La mezzora concessami da Susan stava per scadere perciò mi mossi veloce lungo il corridoio, tra gli scaffali pieni di spartiti e biografie di cantanti famosi, verso la cassa.

Proprio al centro del corridoio una specie di gorilla alto quasi due metri ostruiva il aggio occupando tutto lo spazio disponibile. Aveva un aspetto grottesco, la fronte, il mento e il labbro inferiore erano sproporzionati, esageratamente sporgenti rispetto al resto del viso e la giacca a doppio petto pareva esplodere nello sforzo di trattenere i muscoli. Aveva un’espressione concentrata e fissava con insistenza qualcosa o qualcuno in fondo al negozio. Mi spostai di lato, con le spalle parallele agli scaffali cercando di argli accanto senza sbatterci contro. C’ero quasi riuscita ma nel rimettermi in posizione frontale sfiorai con la spalla il suo gomito. La sua reazione mi sconvolse, si girò di scatto e mi squadrò con

uno sguardo rabbioso emettendo una specie di grugnito.

Evidentemente non aveva ancora sviluppato un linguaggio civile. Ero paralizzata, da vicino sembrava ancora di più grosso.

“ Garrett!”. Tuonò una voce da dietro il gigante, e questo, come un bravo cagnolino che ubbidisce agli ordini, si rilassò all’istante e si spostò di lato per lasciar are il suo padrone. Il proprietario di Garrett era un ragazzo slanciato, i capelli castano chiari sapientemente spettinati, profondi occhi scuri e labbra sottili che lentamente si distendevano in un sorriso compiaciuto.

“Scusa, il mio amico oggi è un po’ teso e scatta al minimo tocco. Ma certo non c’è nulla da temere da una così bella ragazza, vero Garrett?” Lanciò un'occhiata di rimprovero al gigante.

“Sono Roger Wilson e questa, come avrà capito, è la mia guardia del corpo Garrett”. La giacca di pelle chiara emise un piacevole fruscio mentre mi tendeva la mano aspettando che la stringessi. Era una situazione quasi normale, conosci uno in un negozio, scambi due parole, fai amicizia, succedeva tutti i giorni in tutte le parti del mondo. La sua voce era profonda e rassicurante ma c'era qualcosa che non andava, non mi sentivo a mio agio. Era come se l'aria attorno a noi si fosse fatta calda e pesante.

Respiravo in maniera affannosa mentre una sottile nebbia si insinuava tra i miei pensieri. Distolsi lo sguardo dal suo viso e cercando di respirare normalmente allungai la mano verso la sua.

“Emily Price”.

Il contatto con la sua pelle calda e la sua stretta forte e decisa mi fecero arrossire.

“Lieto di conoscerti Emily Price”.

I suoi occhi erano fissi nei miei, immobili e concentrati come due piccoli laser che tentavano di perforarmi il cervello per scoprire cosa conteneva.

Mi sentivo tremendamente a disagio. Non riuscivo a riordinare i pensieri, il corpo diventava sempre più pesante e avevo la sensazione che anche il cuore stesse arrancando. Radunai la poca volontà che mi era rimasta e biascicai qualcosa.

“Scusa ma devo andare, la mia amica mi aspetta”.

“Ah, la tua amica?”

Esaminò rapidamente l'interno del negozio poi fissò il parcheggio cercando di capire se mentivo.

“Mi farebbe piacere offrire qualcosa da bere a te e alla tua amica. Solo per scusarmi della maleducazione di Garrett”. Garrett grugnì di nuovo.

Il suo sguardo era incredibilmente intenso, cercavo con tutte le mie forze di

restare lucida.

Nonostante sapessi perfettamente come rifiutare le attenzioni indesiderate ero confusa. Era affascinante, attraente e sicuro di sé ma c'era qualcosa di sbagliato in lui. Ci misi qualche secondo ma riuscii a raccogliere tutta la mia determinazione e con notevole sforzo ripresi il controllo della mia mente ed assunsi un tono distaccato.

“No grazie. Devo andare, sono già in ritardo”. Mi voltai di scatto e mi diressi verso la cassa.

“Spero di rivederti presto Emily. Buona giornata”.

Sentii i loro i allontanarsi e quando fui sicura che fossero usciti mi voltai e li seguii con lo sguardo finché non furono in fondo alla strada dove li aspettava una Mercedes nera.

Osservai il cd che vibrava nella mia mano tremante. Che diavolo mi era preso? Non era da me farmi intimidire così.

Susan! Dovevo sbrigarmi prima di essere lasciata a piedi.

Quando la raggiunsi la sua pazienza si era già esaurita da un pezzo ed aveva un broncio da bambina.

“Perdonami Susan, hai ragione sono in ritardo ma ho incontrato un tipo nel negozio e ...” Non mi lasciò finire la frase. “Vuoi dire il tipo da urlo che è uscito prima di te?

Quello con l'armadio al seguito?”

“Sì”.

La curiosità azzerò di colpo ogni ostilità e salì in auto pronta ad ascoltare il mio racconto.

Nick avrebbe dovuto are a prendermi alle nove perciò, appena giunta a casa, mi lanciai sotto la doccia.

Appoggiai la schiena contro la parete di piastrelle fresche e lasciai che l'acqua bollente mi avvolgesse. Mi sentivo ancora addosso quella sensazione sgradevole.

Quando mi decisi ad uscire dalla doccia il telefonino nella borsa stava squillando. Lessi rapidamente il numero.

“Ciao Nick, sono quasi pronta”.

“Ciao Emily, scusa ma non sto affatto bene. Non me la sento di uscire questa sera”.

“Ah, mi dispiace. Allora vengo io da te”.

“No, no, non è il caso. Penso di avere un po' di influenza. Prendo un’aspirina e mi metto a letto”.

"Sono due settimane che non iamo una serata insieme. Da quando sono tornata dalla Florida è successo di tutto: prima la tua auto che non partiva, poi il compleanno di tua zia, poi tuo padre aveva bisogno di te, ora questo. Nick anche io ho bisogno di te".

“Lo so, anch’io ho voglia di vederti, ma non sarei di grande compagnia. Ti chiamo domani d’accordo?”

"No dai, almeno parliamo un po'. Cos'hai fatto oggi?"

"Scusa ma ho la testa che scoppia, non ho voglia di parlare".

Ero tentata di litigare, di urlargli che ero stufa di aspettare, che era un rammollito e che se avesse veramente avuto voglia di vedermi non si sarebbe fatto fermare da un semplice raffreddore. Ma non volevo litigare, non volevo dire cose di cui mi sarei pentita per tutta la notte, in fondo stava male, non andava a vedere una partita o a sarsela con gli amici, andava a dormire.

“Allora buonanotte Nick”.

“Notte”.

Tornai lentamente in bagno, non avevo più fretta.

2

CADUTE

Aveva piovuto tutto il fine settimana. Nick non si era fatto sentire e aveva risposto in maniera frettolosa alle mie chiamate. Susan era stata impegnata con il suo nuovo ragazzo, ed io avevo trascorso la giornata tra libri, TV e internet.

Non ero mai stata una grande apionata di giochi elettronici, ma alcune applicazioni collegate ai social network erano veramente divertenti. Avevo avatar di ogni tipo e durante il pomeriggio feci la ballerina in un night club, piantai cocomeri nella mia fattoria, lottai contro due draghi armata di balestra e portai a so i miei nove cani blu. Alla fine della giornata avevo gli occhi rossi e doloranti.

Il lunedì mattina il tempo ed il mio umore, erano pessimi.

Diluviava e come al solito avevo dimenticato l’ombrello chissà dove, perciò bastò la breve distanza che separava il parcheggio dall’edificio della scuola, per inzupparmi dalla testa ai piedi. Entrai in classe accompagnata dallo scricchiolio delle mie scarpe bagnate e dalle risate dei miei compagni. Per fortuna la prima lezione della giornata era dedicata alla mia materia preferita perciò occupai il solito posto in prima fila ed aprii il libro in attesa del professore.

Adoravo la matematica. Mi piaceva come ogni cosa avesse il suo posto, ogni elemento, ogni numero trovavano sempre una collocazione precisa. Non c’erano dubbi, non c’erano incertezze nella matematica, il risultato poteva essere uno

solo e quando lo trovavo, quando tutti i conti quadravano e ogni ragionamento giungeva alla sua unica e naturale conclusione era un trionfo.

La lezione terminò in un baleno, in compenso quella successiva fu infinita.

In letteratura ero un po’ zoppicante. La professoressa Bailey mi faceva impazzire, ogni saggio era una spina nel fianco.

“… ma sì, va abbastanza bene ma se tu avessi sviluppato meglio il concetto, se avessi espresso questo pensiero in maniera diversa …”.

Meglio come? Quello era il concetto e l’avevo scritto esattamente come intendevo esprimerlo. Cosa voleva dire in maniera diversa?

Forse era lei che non sapeva esprimersi, le sue lezioni erano più soporifere di un'anestesia totale.

La mattinata ò tra alti e bassi, ero impaziente di vedere Nick, perciò quando squillò la camla che annunciava l'inizio della pausa pranzo raccolsi alla svelta i miei libri e mi precipitai in sala mensa. Fui la prima ad occupare il nostro solito tavolo. Susan, Carlos, Kate ed Andy arrivarono poco dopo. Il posto di Nick rimase vuoto.

Eravamo tutti all’ultimo anno e da circa quattro mesi pranzavamo sempre assieme. Seguivamo corsi diversi e la pausa pranzo era l’unico momento in cui potevamo ritrovarci per organizzare le uscite serali e il fine settimana.

Da qualche giorno l'argomento centrale delle nostre conversazioni era la festa di San Valentino che Eleanor Stevens, la ragazza più snob della scuola, stava organizzando.

“E’ inutile continuare a parlarne. Non ci inviterà mai” sbuffò Kate.

“Dai Andy, che ti costa, tu sei l’unico che può farci entrare. Lo sanno tutti che sbava per te”. Carlos aveva assunto un tono a metà tra il supplichevole e il ruffiano.

“Piantala Carlos, lo sai che non la sopporto. Preferirei are la serata a giocare a carte con mia nonna di novant’anni piuttosto che andare alla sua festa”. Il tono di Andy non ammetteva repliche.

Con la coda dell’occhio guardai Kate. Era visibilmente sollevata. Era noto a tutti che Eleanor avesse una cotta per Andy, ma non tutti sapevano che anche Kate era pazza di lui. Io e Susan ce ne eravamo accorte immediatamente. Lo sguardo adorante che gli rivolgeva, il modo in cui pronunciava il suo nome, il rossore sulle guance quando lui le parlava: bisognava essere ciechi per non accorgersene. Ma ovviamente Andy era più che cieco, era su un altro pianeta. Il suo grande amore era il football e niente e nessuna reggeva il confronto. Ma Kate non mollava. Aveva sfruttato la sua amicizia con Carlos per riuscire a sedersi al nostro tavolo, aveva cominciato a are ad Andy gli appunti del corso di biologia che seguivano insieme, ed una settimana prima dell’ultimo test lo aveva convinto ad andare da lei a studiare.

Io e Susan eravamo sicure che tanta perseveranza sarebbe stata premiata e che prima della fine dell'anno scolastico si sarebbero messi insieme. Avevamo anche

scommesso con Carlos, il quale sosteneva che Andy non si sarebbe fatto accalappiare tanto facilmente. Ma Carlos non ne sapeva granché di ragazze, l'unica con cui era uscito aveva la femminilità di un orso bruno perciò eravamo sicure di vincere.

Lanciai un'occhiata verso il tavolo di Eleanor, era il più affollato di tutta la sala. Aveva sempre un seguito di leccapiedi pronti ad eseguire ogni suo ordine, dal fare la fila per prenderle il cibo a sparecchiarle il tavolo. La sua schiava preferita era Lucy, un genio nello studio ma totalmente negata per i rapporti umani. Era una di quelle persone che dicono sempre ciò che pensano, incuranti dei sentimenti e delle reazioni degli altri, soprattutto quando ciò che dicono è l'ultima cosa al mondo che uno si aspetterebbe di sentire. Perciò per i primi due anni era stata evitata come la peste. Ma Eleanor aveva trovato il modo di imbavagliarla e se la teneva ben stretta dal momento che Lucy eseguiva tutti i suoi compiti scritti e, in qualche maniera a noi ignota, le suggeriva le soluzioni durante i test in classe.

In quel momento si accorsero che le stavo osservando e le labbra di Eleanor si piegarono in un perfido ghigno. Con movimenti lenti aprì la borsetta firmata che portava a tracolla e ne estrasse una busta nera con un grosso cuore rosso stampato nel mezzo, poi si alzò ed ancheggiando si avvicinò al nostro tavolo. I suoi occhi rimasero fissi nei miei fino a che non fu a pochi centimetri da noi e a quel punto rivolse il suo sguardo verso Andy.

“Ciao Andy”. Il suo tono gentile era finto quanto la tinta dei suoi capelli.

“Ciao Eleanor” bofonchiò lui.

“Volevo invitarti alla mia favolosa festa”. Gli porse la busta nera e con un movimento teatrale la tenne a mezz'aria davanti agli occhi di Kate.

Evidentemente aveva scoperto di avere una rivale.

Gli occhi di Kate si strinsero fino a diventate due lame affilate e con un movimento secco girò la testa verso Andy aspettando la sua reazione.

“Grazie ma quella sera ho già un impegno. C'è la partita in televisione e non voglio perderla”.

Lo scoppio delle nostre risate zittì tutta la sala, Carlos alzò la mano e batté il cinque con Andy.

Eleanor, rossa di rabbia lo fulminò con lo sguardo e prima di andarsene ringhiò: “sei un'idiota!”

“Certo Andy che hai proprio classe nel rifiutare un invito. La cosa peggiore da dire ad una ragazza è che non vai alla sua festa per guardare la partita. E in TV per di più!” Lo dissi sperando sinceramente che se mai avesse dovuto rifiutare un invito di Kate avrebbe trovato una scusa meno ridicola.

L'argomento festa fu definitivamente archiviato.

La pausa pranzo era quasi terminata e Nick non si era presentato. Kate lo aveva visto alla lezione di storia dell’arte, quindi non era più ammalato. Presi dalla borsa il cellulare e cominciai a digitare il suo numero. Stavo per premere il tasto di chiamata quando varcò la soglia della mensa con o stanco ed aria rassegnata.

“Scusate ragazzi. Mi sono fermato a parlare con il prof.

di inglese per via del compito che ci ha assegnato per venerdì. Mi sa che erò la settimana sui libri per riuscire a fare un buon lavoro ed alzare il voto”. Fece finta di non vedere la mia espressione delusa. Sentii montare la rabbia. Se quella era un'altra scusa per non are la serata con me si sbagliava, questa volta non avrei mollato tanto facilmente.

“Perfetto, allora che dici, studiamo insieme questa sera?” Lo colsi in contropiede.

“Ehm, non so. Pensavo di cominciare cercando su internet un po’ di materiale”.

“Bene, allora ti aiuto. Tu detti, io scrivo”.

La campana che annunciava l’inizio delle lezioni ci interruppe, il sollievo sul suo viso era palese, mi salutò e corse via, borbottando un “ci sentiamo” poco convinto.

Dopo l’incontro con Nick il mio umore era ulteriormente peggiorato. Era chiaro che il grande amore della mia vita mi stava evitando e la cosa non mi piaceva proprio per niente.

L’ultima lezione della giornata fu la ciliegina sulla torta.

Io e Kate avevamo perso tempo a chiacchierare nello spogliatoio e quando arrivammo in palestra la professoressa Logan ci fece fare dieci giri di corsa più degli altri. La lezione fu un disastro, avremmo dovuto allenarci sugli schemi di gioco della pallavolo ma eravamo tutte talmente scoordinate da sembrare una manciata di palline lanciate a caso dentro un flipper. Quando finalmente la camla annunciò la fine di quello scempio c’erano palloni disseminati ovunque.

Avevo fretta di cambiarmi e tornare a casa, avevo parecchi compiti da svolgere quel pomeriggio e se volevo dedicare la serata a Nick dovevo terminarli prima di cena.

Perciò mi infilai due palloni sotto il braccio destro e feci due i in avanti per raccoglierne un terzo. Sentivo il laccio della scarpa sbatacchiare su e giù ma prima che l'informazione attenta a non inciampare si materializzasse nel mio cervello mi ritrovai a terra con il polso destro dolorante.

La professoressa Logan mi soccorse aiutandomi ad alzarmi.

“Tutto bene?” chiese.

“Penso di essermi slogata il polso” dissi sollevando il braccio.

“Ti accompagno in infermeria”.

Il mio pensiero corse alla cara, vecchia, infermiera Pole che per applicare un semplice cerotto impiegava non meno di quindici minuti. Era la salvezza di tutti quegli studenti che desideravano perdere qualche ora di lezione.

Per quanto assurdi e palesemente finti fossero i malesseri lamentati dalla maggior parte dei ragazzi, lei non risparmiava a nessuno le sue lunghe e premurose cure fornendo a tutti un rifugio sicuro. Per queste ragioni l'infermiera Pole era senza dubbio l'adulto più amato di tutta la scuola.

Ma quel giorno non avevo voglia di perdere tempo prezioso, perciò promisi alla professoressa Logan che mi sarei fatta visitare da un medico nel pomeriggio e andai a cambiarmi.

Quando arrivai a casa il polso si era gonfiato ed aveva assunto un colorazione bluastra.

Con un certo disappunto mia madre telefonò in negozio per avvisare che non sarebbe andata al lavoro, poi fissò un appuntamento con lo studio medico di Washington Avenue dove lavorava uno specialista che era un mago per questo genere di cose.

Lo studio medico si trovava al piano terra di un palazzo a tre piani piuttosto vecchio, l’intonaco della facciata era in parte caduto lasciando scoperta la pietra sottostante. La porta a vetri con il cartello “Entrata” era stata ridipinta da poco e odorava ancora di vernice. Ai lati, due piante di bosso, ordinatamente potate, cercavano di ingentilire l’aspetto decadente del resto del palazzo.

Al contrario la sala d’attesa era calda e luminosa, le pareti azzurro pallido

creavano un armonioso contrasto con il pavimento in legno color mogano. Un candido mazzo di rose e lilium profumava l’aria e un piccolo altoparlante dal soffitto diffondeva una musichetta allegra.

Ci avvicinammo all’infermiera che con una mano reggeva un telefono appoggiato all’orecchio mentre con l’altra prendeva appunti su una grossa agenda.

“Buongiorno” ci disse alzando lo sguardo e poggiando il telefono sulla scrivania. “Avete un appuntamento?”

“Sì, con il dottor …”. Mia madre ebbe un attimo di esitazione cercando di ricordare il nome del medico che mi aveva curata qualche mese prima.

“Il dottor Evans”, aggiunsi prontamente io.

L’infermiera mi guardò con un delizioso sorriso e mi fece l’occhiolino.

Ricordavo bene il dottor Samuel Evans, lo avevo conosciuto in occasione di un’altra sfortunata caduta. Era uno schianto e io e Susan, che mi aveva accompagnata, ci eravamo chieste come mai avesse scelto di fare il medico piuttosto che il modello o l’attore. Era molto giovane per essere già un medico, doveva aver terminato l’università e la specializzazione a tempo di record, non gli avrei dato più di ventisei anni.

Quando l’infermiera ci annunciò che era arrivato il nostro turno avevo appena

iniziato a sfogliare una rivista di moda; non era il genere di riviste che leggevo, ma ogni tanto un aggiornamento sulla tormentata vita delle star non mi dispiaceva. Un po’ delusa poggiai la rivista sul tavolo, magari avrei potuto dargli una sbirciatina più tardi mentre la mamma pagava.

Lo studio del dottor Evans era rivolto a sud e la luce che entrava dalle grandi vetrate si riversava nella stanza come una cascata d’oro. Le pareti sembravano aver assorbito il colore del sole e il pavimento color nocciola rendeva l’atmosfera calda e accogliente. Accanto alla porta erano appesi diversi diplomi e attestati di partecipazione a corsi di fisioterapia, chinesiologia e cose del genere. Nella parete opposta, su una piccola mensola, era sistemato uno stereo e, sulla mensola accanto, una lunga fila di cd.

Il resto dell’arredamento consisteva in un lettino per i massaggi e una semplice scrivania in legno chiaro.

In mezzo alla stanza, con le braccia incrociate sul petto, appoggiato al bordo della scrivania, c’era lui: il dottor Samuel Evans.

Sembrava un angelo appena sceso dal paradiso. La maglietta bianca era incollata ai pettorali scolpiti e le maniche corte lasciavano scoperti i muscoli delle braccia scuriti dal sole. Era bello da togliere il fiato.

Ci venne incontro sorridendo e strinse la mano a mia madre.

“Buongiorno signora Price, come sta?”

“Tutto bene dottore grazie e lei?”

“Bene grazie”. Si girò verso di me. “Emily, come andiamo? Cos’hai combinato questa volta?”

“Salve dottore. Be’ questa volta è toccato al polso. Sono inciampata e cadendo me lo sono slogato. Credo”.

“Fammi dare un’occhiata”.

Il cellulare di mia madre iniziò a vibrare rumorosamente e lei uscì dalla stanza per rispondere senza disturbarci.

Mi fece sedere sul lettino poi le sue mani calde iniziarono a tastare delicatamente il mio polso gonfio e livido. Tutte le cellule nervose del mio corpo erano concentrate per controllare il dolore, ma ad ogni pressione invece che aumentare, mi sembrava che le fitte ed il bruciore diminuissero. Ogni tanto prendeva da un vasetto una specie di crema inodore che spalmava sul gonfiore con movimenti circolari.

Sentivo il calore fluire nel polso e irradiarsi in tutto il corpo, ero completamente rilassata, il suo massaggio era come una ninna nanna. Chiusi gli occhi cercando di immaginare me stessa sdraiata al sole di una bianca spiaggia caraibica.

Se Nick mi avesse vista in quel momento sarebbe scoppiato di gelosia per il modo in cui mi beavo di quel contatto. Sorrisi pensando alla scena: lui paonazzo

e furente ed io perfettamente a mio agio tra le braccia del mio massaggiatore personale.

Quando mia madre irruppe nella stanza con il suo solito fare chiassoso, la telenovela che stava andando in onda nella mia testa si interruppe bruscamente e tornai alla realtà.

“Allora dottore, cosa dice della nostra Emily? Ci metterà molto a guarire?”

“Non si preoccupi, vedrà che in un paio di giorni tornerà come nuova”.

Mise un ultimo strato di crema sul mio polso e poi lo avvolse con sottili bende bianche “solo per non sporcare i vestiti”, disse. Poi altrettanto cordialmente ci congedò.

Nick mi chiamò mentre salivo in auto.

“Emily ho sentito che a scuola sei caduta. Come stai?” Era parecchio preoccupato e la cosa mi fece piacere.

Stavo per tranquillizzarlo dicendo che non era niente e che stavo già bene, quando una vocina nella mia testa mi disse che potevo sfruttare la situazione per farmi coccolare un po’ e riprendermi tutte le attenzioni che negli ultimi giorni mi aveva negato. Perciò mentii spudoratamente.

“Ho il polso molto gonfio e mi fa un male cane. Se nel giro di qualche giorno non migliora dovrò fare una radiografia. C’è la possibilità che sia rotto”.

Mia madre mi fissò con disapprovazione.

“Mi spiace molto. Ti avevo chiamato per dirti che Carlos ha la casa libera per tutta la sera, i suoi sono fuori a cena, così pensavamo di chiamare gli altri, ordinare delle pizze e guardarci un film. Ma se non te la senti non fa niente”.

“No, no, vengo. Mi farà bene distrarmi un po’. A che ora i a prendermi?”

Ci fu un attimo di silenzio, come se non fosse quella la risposta che si aspettava.

“Vengo alle otto. Okay?”

“Va bene, ci vediamo dopo”.

Arrivata a casa ai mezz’ora a rispondere ai messaggi preoccupati di Susan, Kate e degli altri che chiedevano informazioni sulla mia salute.

Era incredibile come il aparola tra gli studenti avesse trasformato una semplice slogatura in fratture varie e perdite di denti.

Mi stesi sul letto immaginando di presentarmi a scuola munita di stampelle e fasciature qua e là. Sicuramente i professori sarebbero stati molto comprensivi e magari avrei evitato qualche interrogazione. Mah, inutile sognare.

Mia madre non mi avrebbe mai permesso di fingere a quel modo. “Con la salute non si scherza”, diceva sempre.

Osservai la fasciatura sul mio polso destro. Con un po’

di fortuna avrei potuto conservarla una settimana ed evitare i test di storia e biologia e, visto che non potevo scrivere, avrei dimezzato anche i compiti per casa.

Dovevo solo evitare che mia madre mi riportasse dal dottor Evans, il resto sarebbe stata una eggiata.

Studiai di malavoglia fino alle sette, poi iniziai a prepararmi per la serata. Spalancai il guardaroba e osservai le pile di maglie e camicette ordinatamente piegate sui ripiani. Il mio armadio traboccava di ricordi.

Chissà se anche gli altri si affezionavano agli abiti come facevo io. Avevo la camicetta portafortuna per i compiti in classe, molto sobria e con ampi risvolti sulle maniche dove poter nascondere qualche appunto in caso di emergenza, c'era la maglietta che indossavo il giorno in cui ero inciampata all'uscita di scuola e mi ero ritrovata stesa dentro una pozzanghera (maglietta che ovviamente non sarebbe mai più uscita dal mio armadio), più in basso mal riposti c'erano i jeans da shopping comodi e pratici da togliere e rimettere...

Come al solito stavo perdendo tempo invece di decidere cosa indossare per la serata da Carlos. Volevo essere sportiva ma sexy così cominciai a gettare sul letto un capo dopo l’altro tentando vari abbinamenti. Alla fine optai per un paio di pantaloni molto attillati ed una camicetta con una scollatura quasi indecente. Mi ritoccai il trucco e scesi in salotto in attesa del mio cavaliere. Il cuore mi batteva come la sera che lo avevo conosciuto, come nei nostri primi, timidi appuntamenti.

3

NICK

Nick era il mio sole. Tutto il mio mondo ruotava attorno a lui. Ogni mio pensiero, ogni mio sguardo, ogni respiro, ogni battito del mio cuore erano per lui. Da tre anni ormai ero la sua ombra, adoravo tutto di lui: il suo modo di parlare, di camminare, di vestirsi, persino il suo modo di sbadigliare era attraente. I suoi amici erano diventati i miei ed uscivo quasi esclusivamente con loro, fatta eccezione per Susan che era il mio contatto con il resto del mondo.

Nick era il mio primo amore e la mia devozione per lui era assoluta, quanto assoluta era la mia certezza che avremmo trascorso insieme il resto della nostra vita.

Ci eravamo conosciuti il primo anno di liceo, alla festa per le matricole di Marissa Wright la mia compagna di banco. Partecipare alle sue feste era il sogno di ogni studente, aveva una casa favolosa, anche se definirla casa era alquanto riduttivo visto che con le sue trentadue stanze era più simile ad un castello con tanto di torri e grate alle finestre.

Il padre di Marissa era un grosso avvocato o qualcosa del genere e dedicava alla sua professione molto più tempo e attenzioni di quelle che riservava alla sua famiglia, perciò per mettere a tacere i suoi sensi di colpa, e soprattutto le malelingue, circondava i figli di oggetti tanto inutili quanto costosi.

Le leggende metropolitane dicevano che per il quindicesimo compleanno del

figlio Michael avesse fatto costruire, accanto alla casa, una favolosa sala da ballo che non aveva niente da invidiare alla più trendy discoteca di New York. In realtà Marissa ci aveva confidato che la sala da ballo era il risultato della necessaria ristrutturazione di quella che un tempo era stata la stalla e che inizialmente avrebbe dovuto essere un campo da squash coperto, ma poi a seguito di qualche misterioso accordo suo fratello era riuscito ad ottenere un radicale cambio d'uso. In realtà l'accordo tra Michael e suo padre era sconosciuto solo a lei poiché tutta la città sapeva della cronica infedeltà del signor Wright e lavorando al negozio avevo sentito varie versioni di come il figlio lo avesse scoperto mentre amoreggiava con la sua ultima segretaria. Tutte le clienti di mia madre, o meglio tutte quelle che non erano state a letto con lui, si chiedevano come sua moglie potesse essere tanto cieca, come fe a non accorgersi di quale razza di bastardo avesse sposato.

In realtà sua moglie lo sapeva benissimo ma era una persona troppo fragile ed indifesa per affrontare un divorzio ed amava troppo i suoi figli per togliere loro anche quella parvenza di calore domestico che le rare apparizioni del marito concedevano.

Non conoscevo bene Marissa, era molto timida e riservata, ma il fatto che da una settimana fossimo sedute una accanto all’altra mi aveva fatto guadagnare il privilegio di ricevere l’invito alla festa, invito che avevo prontamente esteso a Susan.

Avevamo entrambe trascorso il pomeriggio a provare abiti, trucchi e pettinature in preda ad una sorta di isteria euforica. Non avevamo ancora la patente perciò mio padre si era offerto di accompagnarci e durante il tragitto in auto aveva snocciolato tutte le raccomandazioni che conosceva, più quelle che sicuramente avevano ricevuto tutti i suoi avi.

Io e Susan, sedute sul sedile posteriore, ci scambiavamo occhiate divertite e risatine sommesse ma con tono serio e responsabile rispondevamo a intervalli

regolari “sì papà, certo papà, staremo attente”.

La festa era esattamente come ce la aspettavamo: fantastica! La sala era affollata di studenti del primo anno ma c’erano anche parecchi amici del fratello di Marissa, tutti del terzo anno e su questi, la metà delle ragazze aveva puntato gli occhi.

Naturalmente le più carine erano state le prime ad essere invitate a ballare. Susan, nonostante la mia insistenza, aveva rifiutato diversi cavalieri ed era rimasta seduta al tavolo a farmi compagnia.

Sapevo di non essere brutta, anzi alle medie avevo avuto un discreto numero di spasimanti, ma la tempesta ormonale che da qualche mese si era abbattuta su di me aveva riempito il mio viso di fastidiosi brufoli rossi che conferivano alla pelle l’aspetto di un suolo vulcanico.

Per tutta la serata avevo osservato i ragazzi confabulare tra loro e poi a turno avvicinarsi a Susan per chiederle di ballare venendo puntualmente rifiutati. Quelli che si avvicinavano a me erano tutti inguardabili, i tipici sfigati che ci provavano solo perché sapevano di non avere speranze con lei.

Mi convinsi che per me, fare da tappezzeria era già un onore.

Quando mancava un quarto d'ora a mezzanotte e cioè all'ora del coprifuoco stabilita da mio padre, era apparso lui.

Erano in due veramente, lui e il suo amico Colin, entrambi titubanti e impacciati.

“Ciao, io e il mio amico pensavamo, cioè ci chiedevamo se vi piace ballare? Cioè se avete voglia di ballare con noi?”

Il sorriso che si era allargato sul mio viso non aveva bisogno di commenti, ci eravamo mosse entrambe verso Nick ma io ero stata più veloce e così a Susan era toccato Colin la talpa. Non che fosse brutto ma le lenti dei suoi occhiali erano talmente spesse che dovevano, come minimo ,essere antiproiettile.

Mi piaceva molto ballare e quella sera, tra le braccia di Nick, il mondo mi sembrava un posto splendido.

Dopo la festa avevamo continuato a frequentarci e nel giro di due settimane facevamo coppia fissa.

Susan non aveva avuto altrettanta fortuna con Colin ma i pretendenti non le mancavano e lei non si sentiva ancora pronta per una storia seria, preferiva prima sondare il terreno come amava definire i suoi repentini cambi di partner.

La prima estate insieme a lui era stata la più bella della mia vita.

La sua famiglia non era particolarmente agiata, ma sua madre era stata una campionessa di nuoto e per farla felice suo padre aveva speso gran parte dei loro risparmi per costruire, sul retro della casa, una bellissima piscina con tanto di rocce finte e palme tropicali. Un posto favoloso dove ci ritrovavamo tutti a

oziare al sole, fare interminabili partite a pallavolo e gare di tuffi.

Trascorrevamo quasi tutto il nostro tempo assieme ma ciò nonostante, ogni volta che lo vedevo, il mio stomaco si riempiva di farfalle e mi sentivo avvampare. Accanto a lui stavo bene, avvolta da una soffice nuvola di pura felicità.

Il giorno del mio compleanno mi aveva proposto una cenetta romantica nel ristorante più elegante della città, ed io avevo trascorso metà del pomeriggio a prepararmi.

Il fondotinta mi aveva aiutata a coprire le eruzioni vulcaniche e Susan mi aveva lisciato i capelli con la piastra, cogliendo l’occasione per raccontarmi del suo ultimo fidanzato, un cervellone al primo anno del college.

Nick era sempre puntualissimo, era un’altra delle doti che apprezzavo in lui. Lo avevo aspettato seduta nella veranda di casa, cercando di respirare lentamente per calmare il cuore che correva all’impazzata. Quando l’avevo visto scendere dall’auto ero rimasta un po’ delusa, aveva un abbigliamento sportivo che mal si accompagnava al mio tubino nero e ai tacchi alti e poco in sintonia con la serata che avrebbe dovuto essere speciale sotto tutti i punti di vista.

Disse di aver fatto tardi a casa di Carlos e che, per non farmi aspettare, era ato a prendermi prima di andare a casa a cambiarsi. Quando arrivammo a casa sua mi accorsi subito che c’era qualcosa di insolito. Troppe macchine parcheggiate lungo il vialetto e dal retro della casa arrivava un gran vociare, ma per non deluderlo, finsi ugualmente stupore quando i nostri amici mi vennero incontro gridando “sorpresa!”

Il giardino attorno alla piscina era disseminato di sedie e tavolini dove poggiavano morbidi ciuffi di peonie, c’erano candele ovunque e sugli alberi luccicavano sottili file di lucine bianche. Un grosso impianto stereo era stato sistemato sul muretto vicino al tavolo del buffet ed una cinquantina di ragazzi si muovevano sulla pista da ballo improvvisata. L’aria era calda e profumata e l’erba cedeva soffice sotto i nostri piedi nudi.

Erano ati più di due anni da quella serata ma il ricordo era vivo nei miei pensieri come se tutto fosse accaduto solo il giorno prima. Sospirai, sorridendo, avevo una vita perfetta ma soprattutto avevo il ragazzo perfetto.

Il rumore dell’auto di Nick che si avvicinava mi fece tornare alla realtà. Salutai mia madre intenta a preparare la cena e corsi fuori. Da tanto tempo non avamo una serata insieme e l’emozione era quasi pari a quella del nostro primo appuntamento. Anche lui era imbarazzato, faceva tenerezza. Camminava con la schiena curva, le mani in tasca e lo sguardo basso.

“Facciamo due i?” chiese con un timido sorriso.

“Certo!” Avvolsi il mio braccio attorno al suo e ci incamminammo lungo il viale.

Aveva smesso di piovere da poco, l’erba bagnata risplendeva sotto la luce dei lampioni, l’aria era fredda e umida ma quando ero vicina a lui il sangue scorreva più veloce ed il mio cuore emanava un tale calore che mi sarei sentita a mio agio anche al polo nord.

“Come va il polso?” chiese volgendo lo sguardo verso la vistosa fasciatura.

Alzai il braccio facendolo ruotare lentamente.

“Mi fa ancora male. Speriamo non sia rotto”.

“Speriamo di no”.

Fu tutto quello che riuscì a dire. Rimase in silenzio qualche secondo poi si schiarì la voce come se dovesse fare un discorso importante.

In quel momento un’auto ò a gran velocità sollevando un’onda d’acqua che si riversò sul marciapiedi schizzandoci fino alle ginocchia.

Senza volerlo imprecai. Avevo indossato un paio di scarpe nuove ed ora erano tutte bagnate e macchiate di fango.

Stranamente Nick non disse niente, di solito, quando mi capitava qualcosa del genere, cercava di sdrammatizzare prendendomi in giro e finivamo per riderci sopra tutti e due. Ma quella sera niente. Aveva un atteggiamento distaccato, un’espressione assente, assorta, lontana.

“Cosa c’è Nick? Tutto bene?”

Cominciavo ad essere in ansia.

“Devo dirti una cosa e non so da dove cominciare”.

Ci fu un altro momento di silenzio che mi parve interminabile. Nella mia mente cominciarono a farsi largo varie ipotesi, prima una ad una poi i pensieri e le paure cominciarono ad affollarsi sovrapponendosi e impedendomi di ragionare con lucidità. Avevo la gola secca e le mani sudate, volevo parlare ma le parole non uscivano: si fermavano in gola e non avevo il coraggio di spingerle fuori. Il tormento che gli leggevo in faccia mi aggrovigliava lo stomaco.

“Tu sai che ti voglio bene. Questi tre anni sono stati meravigliosi ma …”.

“No!” urlai con tutta la forza che avevo.

La mia testa si svuotò di colpo, non volevo sapere, non volevo sentire, ma lui continuò.

“Emily, ti prego, non rendere tutto più difficile. Io ti voglio bene, ma ho bisogno di una pausa”. Abbassò lo sguardo e non disse altro.

“Cosa vuol dire una pausa? Nick, ti supplico. Se sono troppo stressante dimmelo. Cercherò di starti meno addosso”.

“Non è questo. Non sei tu. Sono io che non vado bene.

Mi dispiace”. Non c'erano incertezze nella sua voce. Nella hit parade delle stronzate che si dicono per mollare una ragazza questa era sicuramente al primo posto.

“Cosa vuol dire che non vai bene? Se vuoi più spazio per stare con i tuoi amici guarda che capisco benissimo. Non c'è niente in te che non va. Tutti hanno degli alti e bassi, a noi è andata fin troppo bene fino ad ora. Ma erà. Non puoi buttare via così tre anni”. Le lacrime cominciarono ad uscire senza controllo, come se appartenessero ad un altro corpo. Non volevo piangere, volevo parlare con Nick, trovare una soluzione, ero sicura che avremmo risolto tutto. Non c’era motivo di piangere.

“Emily non fare così. Ti giuro, ci ho pensato tanto, ho tentato ma non sono più sicuro di quello che provo per te”.

“E’ colpa mia? Ho fatto qualcosa di sbagliato?”

“No, non è colpa tua. Non hai fatto niente. E’ solo che è finita. Mi dispiace non ha funzionato”.

Non riuscivo a controllare le lacrime. Il mio corpo era scosso dai singhiozzi, avevo un dolore insopportabile al centro del petto. In quel momento capii che l’espressione

“cuore spezzato” non era solo un modo di dire, lo capivo perché il mio era esploso in mille schegge affilate che mi laceravano la carne.

Nick mi guardava senza reagire, era come pietrificato.

Peggio, era imbarazzato. Era ovvio che avrebbe voluto trovarsi in qualsiasi altro posto ma non lì, non con me.

Eravamo a pochi centimetri uno dall'altra ma tra noi c'era un baratro, un abisso insormontabile. Non lo riconoscevo più.

Una piccolissima parte del mio cervello era convinta che vedendomi così disperata avrebbe reagito, si sarebbe reso conto dell’errore che stava commettendo e si sarebbe pentito per quell’attimo di smarrimento.

Invece mi prese per un braccio, cercando di sostenermi mentre le gambe non mi reggevano più e con un tono di voce più vicino alla pietà che all’affetto mi diede il colpo di grazia. “Senti, è meglio che vada. Vuoi che ti accompagni a casa?”

Eravamo a duecento metri da casa mia. Per un momento la rabbia prese il posto del dolore e riuscii a reagire.

“Va via!” urlai.

“Non voglio più vederti. Mai più!”.

Non disse una parola. Lasciò andare il mio braccio e si diresse verso la sua auto.

Rimasi in piedi, a testa alta e lo seguii con lo sguardo fino a quando la sua auto non scomparve in fondo al viale.

Poi crollai. Il peso del cielo, dell’aria, del mondo, si riversò sulle mie spalle e caddi in ginocchio. Non so quanto tempo rimasi lì, seduta per terra a piangere. Sentii Susan chiamare il mio nome e poi il suo abbraccio morbido sollevarmi da terra.

“Cos’è successo Emily?” La sua voce era strozzata dall’ansia

“Mi ha mollata. Non mi ama più. Non mi vuole più”. I singhiozzi spezzavano a metà le parole, ma Susan capì e mi abbracciò più forte. Tenendomi stretta mi guidò fino a casa sua. Ci sedemmo sul divano, appoggiai la testa sulla sua spalla e piansi per tutto il resto della sera.

4

AMICHE

Il giorno dopo, alle sette e trenta, Susan bussò alla porta di casa mia. Facemmo colazione e poi mi accompagnò a scuola. Avevo bisogno del suo sostegno perché da sola non ce l'avrei fatta ad affrontare la scuola, sicuramente la notizia della rottura tra me e Nick stava già circolando e sarebbe stato il gossip della settimana. Ai ragazzi sarebbe bastato un giorno per archiviare l’argomento ma le ragazze sarebbero andate avanti per diversi giorni spettegolando su cosa avevo detto io, cosa aveva fatto lui, e congetture tanto inutili quanto sbagliate.

Nel momento esatto in cui scesi dall’auto, ciò che temevo prese forma. Per un brevissimo istante, una frazione di secondo, mi sentii dentro un fermoimmagine.

Tutti gli sguardi si posarono su di me e le voci tacquero in un silenzio irreale, poi la confusione del parcheggio riprese. La scena si ripeté nei corridoi e nelle aule, era come se avessi appeso al collo un enorme cartello con scritto “guardatemi”, impossibile da ignorare. Mi sforzavo di far finta di niente continuando a ripetere a me stessa che era tutto a posto. A metà mattina il mio muro di indifferenza cominciò a sgretolarsi. Avevo il terrore di mettermi a piangere da un momento all'altro e mi sembrava che tutti stessero parlando di me.

“Basta Emily, sei paranoica!” mi interruppe Susan mentre mi lamentavo per l’ennesima volta.

“Non sei la prima e non sarai l’ultima ad essere mollata.

Non stanno parlando tutti di te. Ignorali e loro faranno altrettanto”.

Entrammo in mensa. Mi tappai la bocca per non far arrabbiare Susan ma avevo la certezza di essere inseguita da decine di sguardi desiderosi di vedere la mia reazione di fronte al nostro tavolo vuoto.

Kate e Andy dovevano ancora arrivare, Nick non c’era e sicuramente anche Carlos non si sarebbe visto dal momento che era il suo migliore amico. Susan andò a prendere da mangiare mentre io mi lasciai cadere sulla sedia. Osservai il posto vuoto accanto al mio e la mia mente si riempì del suo ricordo. Non volevo piangere davanti a tutti, presi lo zaino e corsi fuori.

I giorni seguenti furono anche peggio. Mi costava uno sforzo enorme entrare nell’edificio della scuola, mi sembrava di vederlo in ogni aula, in ogni corridoio, in ogni angolo, ma in realtà faceva di tutto per non incrociarmi e la cosa gli riusciva molto bene.

Mi lasciavo trascinare dall’incoerente susseguirsi dei sentimenti che attraversavano il mio corpo come scariche elettriche. Delusione, sollievo, rabbia, dolore e poi ancora delusione. Delusione nel vedere il suo banco vuoto e sollievo per l’imbarazzo che mi aveva evitato, ma anche rabbia per la sua vigliaccheria e dolore per la sua assenza.

Ogni giorno si aggiungeva un nuovo tassello alla mia sofferenza, come un puzzle che non era ancora completo.

All’inizio del nuovo semestre scoprii che Nick aveva cambiato l’orario di tutti i suoi corsi in modo da non dover trascorrere con me neanche un’ora di lezione.

Cercavo di mantenere un comportamento dignitoso ma il vuoto nel mio cuore si allargava ogni giorno di più.

A scuola riuscivo faticosamente a sopravvivere, come un automa, senza farmi sommergere dall’angoscia. Susan era il mio salvagente, mi teneva a galla. Ma a casa mi ritrovavo sola. avo i pomeriggi ascoltando i cd che lui mi aveva regalato e mi torturavo guardando le nostre foto e annegando nei ricordi. In qualche modo il dolore mi faceva sentire viva e mi teneva legata a lui. Senza il dolore c’era solo il vuoto, un abisso che mi trascinava sempre più giù. La sofferenza era la conferma che l’amore che c’era stato era vero, non era solo frutto della mia immaginazione. Per qualche assurda e perversa ragione, la sofferenza mi faceva sperare che le cose potessero tornare a posto. Avevo bisogno della sofferenza. Ne aveva bisogno il mio corpo, era come se qualcosa dentro di me si nutrisse del mio dolore. Un essere alieno che mi spingeva a tormentarmi. Era come una droga. Senza dolore, senza sofferenza non mi rimaneva niente.

Sentii bussare energicamente alla porta della mia camera. Non avevo bisogno di chiedere chi era, sapevo già che era Susan. Da un mese ormai, ogni sabato mattina, veniva a svegliarmi, costringendomi ad alzarmi e ad affrontare la giornata. Durante la settimana c’erano la scuola ed i miei genitori ad obbligarmi a reagire. Ma il fine settimana non avevo nessuna ragione per interagire con il mondo, avevo smesso di andare al negozio e preferivo starmene a casa. E a questo Susan non si rassegnava.

Stava trascurando il suo ragazzo per farmi da balia ma per quanto la supplicassi di lasciarmi in pace non riuscivo a liberarmi di lei.

“Dai Emily, ho organizzato una giornata tra ragazze.

Facciamo un po’ di shopping, pranziamo da qualche parte e poi andiamo al cinema”.

“Ti prego Susan. Non ho voglia di andare in giro a negozi, né di vedere un film”.

“Oh, non fare storie saremo io, te, Kate e Rose. Vedrai che ci divertiremo”.

Rose. Era un pezzo che non la vedevo. Sentirla nominare mi provocò un’ondata di nostalgia. Dopo Susan era l’amica a cui volevo più bene.

Ci eravamo conosciute in un piovoso pomeriggio di ottobre. Lei e sua madre erano entrate nella nostra fioreria bagnate fradice, in cerca di qualcosa di “vistoso ma economico” (così aveva esordito sua madre) da portare ad una cena.

Nel giro di pochi minuti la madre di Rose ci aveva raccontato tutta la sua vita fino al recente trasloco da Washington, mentre Rose, rossa per l’imbarazzo, stava in un angolo fingendo interesse per un mazzo di garofani.

La sua timidezza era talmente in contrasto con l’invadenza di sua madre che l’avevo trovata subito simpatica.

Avevamo iniziato a parlare, era un tipo riservato e, in maniera molto telegrafica, mi aveva raccontato di lei.

Aveva un anno meno di me, si era appena trasferita, non frequentava la nostra scuola e non conosceva ancora nessuno.

Così il sabato successivo l’avevo invitata ad uscire con la nostra compagnia. Era piaciuta subito a tutti. Era molto carina, ed anche se non era una gran chiacchierona aveva uno squisito senso dell’umorismo e una risata deliziosa.

Dal momento che l’avevo introdotta io nel nostro gruppo fu scontato che ogni sabato fossimo io e Nick ad andare a prenderla e a riaccompagnarla a casa. Rose era così discreta e silenziosa che non la vedevo come un terzo incomodo ma piuttosto come una mascotte, un cucciolo in cerca d'affetto pronta ad aggrapparsi al braccio di chiunque le prestasse un po' di attenzione. Era una dispensatrice di abbracci e pacche sulla schiena, sempre pronta a vedere il lato positivo delle cose.

Il telefono di Susan squillò, neanche farlo apposta era Rose che si scusava ma non si sentiva bene e preferiva stare a casa. Dissi a Susan di salutarla da parte mia e che promettevo di chiamarla nei prossimi giorni. Dopo la rottura con Nick avevo ignorato tutte le chiamate in arrivo, comprese le sue e mi sentivo in colpa.

“Bene”, esclamò Susan. “Tre, il numero perfetto. Dai sbrigati a vestirti che Kate ci aspetta”.

Opporre resistenza mi sarebbe costata molta più fatica di quanta ne avrei fatta accontentandola, perciò controvoglia mi alzai e mi preparai per uscire.

Sebbene fosse una splendida giornata di sole, il centro commerciale era affollato. C’erano i nuovi arrivi per la primavera e la gente si accalcava nei negozi come se all’improvviso si fosse resa conto di non aver niente da indossare nella bella stagione. Susan acquistò un paio di magliette ed una minigonna rossa a dir poco scandalosa.

Io mi limitavo a seguirla, scuotendo il capo ogni volta che provava qualcosa di troppo azzardato ma la verità era che addosso a lei qualsiasi straccio sarebbe sembrato un capo d'alta moda.

Kate era particolarmente allegra, il suo rapporto con Andy non aveva fatto progressi ma lei si accontentava dei loro pomeriggi di studio. Parlava di lui con tenerezza, descrivendolo come il ragazzo più sensibile e intelligente che ci fosse sulla terra. Io e Susan la lasciavamo parlare scambiandoci ogni tanto occhiate divertite. Non c'erano dubbi sul fatto che Andy, come la maggior parte dei ragazzi avesse la sensibilità di un'elefante ma Kate lo vedeva attraverso spessi occhiali rosa.

Girovagammo un po’ per il centro commerciale, non avevo né l’interesse né l’entusiasmo delle mie amiche ma non volevo contagiarle con la mia malinconia perciò mi plasmai sul viso una finta espressione divertita e rimasi ai margini dei loro discorsi facendo una risatina di commento ogni tanto.

Ad un tratto Susan si bloccò davanti ad una vetrina, il suo viso si illuminò di colpo, guardò Kate e poi guardò me, infine esclamò: “Facciamolo!”

Non capii il senso di quell’esclamazione finché non osservai con più attenzione i poster appesi all’interno del negozio. C’erano foto di braccia, gambe, spalle,

seni, glutei completamente nudi e totalmente ricoperti da piercing e tatuaggi.

“Stai scherzando?” chiedemmo all’unisono io e Kate.

“Assolutamente no. La trovo un’idea favolosa!” Sembrava una bambina davanti ad un negozio di caramelle. Non ci lasciò il tempo di dire altro, spinse energicamente la porta a vetri ed entrò.

L’interno era meglio di quanto mi aspettassi. Un muretto di mattoni divideva lo spazio in due zone. La prima era una comune sala d’aspetto, con piccole poltroncine in similpelle ed un tavolino cosparso di riviste. Alle pareti erano appesi grandi pannelli decorati con disegni in bianco e nero: fiori stilizzati, animali ed altri segni apparentemente privi di significato. Al di là del muretto il locale era una via di mezzo tra un’officina ed uno studio dentistico. C’erano lunghi banconi di metallo rosso sui quali erano ordinatamente disposti attrezzi imbustati e vasi contenenti fialette di vari colori. Ai lati opposti c’erano due poltrone ribaltabili, con braccioli e poggiatesta interamente ricoperte da una pellicola trasparente come se fossero appena uscite dalla fabbrica. Da una porta blu in fondo al locale uscì una ragazza minuta. La prima cosa che notai fu la casacca bianca da infermiera che indossava, la seconda furono i piercing al sopracciglio, al labbro e al naso, la terza fu il braccio sinistro interamente decorato con tatuaggi colorati.

“Ciao ragazze, io sono Chris, posso aiutarvi?” Aveva una vocina gentile e rassicurante, decisamente in contrasto con l’aspetto.

“Ciao. Mi piacerebbe fare un tatuaggio ma sono molto indecisa. Hai un catalogo o qualcosa del genere?” Susan era al massimo dell’esaltazione.

“Certo. Abbiamo diversi cataloghi ma temo che per sfogliarli tutti ti ci vorrebbero delle ore. Puoi darmi un aiutino? Pensavi a qualcosa di grande o piccolo?”

“E’ il primo che faccio, quindi penso che comincerò con qualcosa di piccolo”.

“Bene. E sei orientata su qualcosa di etnico, simbolico, religioso, d’amore o floreale?”

“Mah? Potrei vedere quelli simbolici, etnici e floreali?”

“Certo, ti porto subito i cataloghi”.

La ragazza sparì per un attimo dietro la porta blu.

Susan si voltò verso di noi, l’eccitazione le si leggeva in faccia. “E voi non chiedete niente?”

Kate sgranò gli occhi. “Sei pazza? Mio padre mi ucciderebbe”.

Io non risposi. In segreto ero sempre stata attratta da questo genere di cose, ma non avevo mai avuto il coraggio di farne parola con i miei genitori. Ma ad essere sincera più dei miei genitori mi terrorizzavano gli aghi.

Tutti gli aghi. Avrei preferito ingoiare un container di pillole piuttosto che fare una sola iniezione. Per quanto lo desiderassi non avevo mai avuto il coraggio neanche di farmi fare i fori per gli orecchini.

Mi voltai e fissai il grande pannello alle mie spalle. Due disegni avevano attirato la mia attenzione, uno era una trama di sinuose onde, l’altro sembrava un fiore, composto da un intreccio di piccoli riccioli. Osservavo nervosamente i disegni mordendomi il labbro.

“Ci stai pensando, dì la verità?” Gli occhietti di Susan mi scrutavano smaniosi.

Quando la ragazza tornò con tre grossi volumi in mano, Susan si sedette su una delle poltroncine, impaziente di scegliere.

Kate le si accomodò accanto, curiosa.

Io osservavo i due disegni e nella mia mente li vedevo muoversi, ruotare e mutare di forma fino a diventare una cosa sola. Un solo magnifico segno, che si allunga come un’onda che si infrange sugli scogli e che poi in maniera perfettamente speculare torna su se stessa e si arriccia.

Presi dalla borsa l’agendina e la penna e disegnai ciò che avevo in mente. La mia mente si svuotò di colpo. “Adesso o mai più” sussurrai e mi diressi, senza esitazioni, verso la sala delle torture.

Nel vedere il mio disegno la ragazza sorrise. “Mi piacciono le persone che

creano i loro tatuaggi. Hanno un carattere deciso. Dove lo facciamo?”

Non avevo pensato al “dove”, mi ero concentrata sul

“cosa”. Dunque, sicuramente non volevo fosse troppo in vista, ma neanche nascosto. Volevo poterlo guardare ogni volta che ne avessi sentito il desiderio. Decisi per la parte interna della caviglia. Mi accomodai sulla sedia da dentista e distolsi lo sguardo dalla ragazza che si stava infilando un paio di guanti in lattice ed una mascherina.

“Sarà doloroso?” chiesi senza guardarla.

“No. Sentirai solo pizzicare un po’”.

Il rumore vibrante della macchinetta elettrica ad aghi mi tolse l’ultimo sprazzo di coraggio. Serrai i pugni e guardai le mie amiche che mi fissavano incredule. Era ora di dare una svolta alla mia vita.

Fu più breve e meno doloroso di quanto pensassi.

Guardai la caviglia nel punto in cui, circondato da un lieve rossore, c’era il mio disegno. Era lungo non più di tre centimetri, ma in quel momento era il centro del mio corpo.

Susan si fece tatuare una piccola farfalla sul polso, mentre Kate sospirava

divorata dall’invidia.

“Dobbiamo festeggiare”, esordì Susan appena fummo uscite.

“Come no! Festeggiamo la nostra pazzia” dissi ridendo.

“E visto che appena lo scoprirà, mia madre mi farà una scenata epocale, dobbiamo farlo subito” aggiunsi.

“Che ne dite di andare a mangiare nella pizzeria italiana che hanno appena aperto?” propose Kate.

“Aggiudicato” esclamò Susan.

“Idem per me”. Dopo tanto tempo mi sentivo di nuovo felice.

“Cosa si festeggia?” Riconobbi all'istante la sua voce intensa e suadente. Mi voltai di scatto e fissai Roger Wilson dritto negli occhi.

“Ciao Roger, che ci fai qui?”

“Ciao Emily. Anche a me fa piacere rivederti. Non mi presenti le tue amiche?”

Che sfacciato, ci conoscevamo a malapena e pretendeva che lo presentassi come se fosse un vecchio amico o peggio, qualcosa di più.

Fissai le mie amiche che, praticamente in trans, se lo mangiavano con gli occhi. Alzai lo sguardo, alle loro spalle, appoggiato ad una colonna un po' in disparte, c'era Garrett. Prima il negozio di dischi e adesso il centro commerciale, non aveva l'aria di uno che sta andando ad un incontro di lavoro e non era decisamente il tipo che fa acquisti ai grandi magazzini, era più il tipo da boutique superlusso. Cosa ci faceva lì?

Quando ripresi il controllo della situazione Susan stava già flirtando con lui e quando mi intromisi nella loro conversazione era già troppo tardi, Roger aveva appena proposto di pranzare insieme.

“Grazie Roger ma vogliamo trascorrere una giornata tra ragazze. Sai com'è, shopping, pettegolezzi e roba del genere”. Le altre mi guardarono allibite.

“Peccato, avrei offerto io, ma se avete altri programmi”.

“Ma forse ...” Susan non riuscì a finire la frase, la mia mano si strinse attorno al suo braccio come una tenaglia e la strattonai fino ad allontanarci di qualche metro.

“Susan sei pazza? È il tipo del negozio di dischi, quello che gira con la guardia del corpo”.

“E allora? Ma lo hai guardato bene? È bellissimo. Se a te non interessa non vuol dire che non interessi a noi.

Guarda Kate”. Kate aveva un sorriso imbambolato e lo sguardo annacquato come se fosse ubriaca, le mancava solo la bava alla bocca.

“Appunto. Guarda Kate. Guarda che effetto fa alla gente. Non mi piace per niente”, replicai.

“Tu sei fuori di testa”. Susan incredula scrollava il capo.

“Nick ti molla, ti capita questo ben di Dio e mi dici che non ti piace?”

“Senti, se volete uscire a pranzo con lui fate pure. Io torno a casa”. Feci per andarmene ma stavolta fu lei ad afferrarmi il braccio.

“Okay, okay, come vuoi. Però per me sei pazza”.

Ci riavvicinammo a Kate e Susan le diede una leggera gomitata sul fianco, poi si rivolse a Roger con aria affranta.

“Mi spiace ma avevamo già fatto dei progetti. Sarà per un'altra volta”.

Con lo sguardo fisso su Kate, Roger disse solo:

“Peccato”, poi le prese delicatamente una mano e le poggiò sul palmo un biglietto da visita. “Chiamami se cambi idea”.

Lei chiuse la mano attorno al piccolo cartoncino bianco e abbassando lo sguardo sussurrò “Grazie”.

Ci dedicò un ultimo seducente sorriso e poi si allontanò seguito dal suo cane da guardia.

“Cos'è questa storia del chiamami?”, chiesi seccata.

“Niente”. Per un attimo Kate rimase in silenzio, valutando se fosse o meno il caso di darci maggiori informazioni.

“Ha detto che sta cercando un'assistente e mi ha proposto di fare un colloquio con il suo direttore del personale”.

“Ma se non ti sei ancora diplomata?”

"Lo so, ma quando lo farò dovrò pur trovarmi un lavoro".

"E pensi che lui ti prenderà dopo una chiacchierata di due minuti? Sveglia! Per me vuole qualcos'altro!"

Kate si sentì offesa e senza aggiungere altro ci voltò le spalle.

Mangiammo senza parlare. Nessuna di noi nominò più Roger, ma la sua presenza nei nostri pensieri era tangibile. Quando uscimmo dal locale il cielo era di un azzurro abbagliante, nessuna di noi aveva voglia di chiudersi dentro un cinema perciò ci incamminammo verso il parco.

Cercammo una panchina libera e ci sedemmo con viso rivolto verso il sole, assaporandone il calore sulla pelle.

Qualche timida margherita faceva capolino tra la tenera erba primaverile. C’erano parecchie famiglie che eggiavano e coppie di innamorati sedute all’ombra di folti alberi.

Ovunque guardassi c'era amore: una giovane coppia giocava con il cane mentre un'altra lanciava la palla ad un bimbetto di tre anni che con le manine paffute cercava di afferrarla e in fondo al vialetto due anziani, seduti su una panchina, si tenevano teneramente per mano. Chissà se anch'io un giorno avrei trovato qualcuno...

No, non esisteva nessun altro per me, solo Nick. Era inconcepibile pensare ad un futuro senza di lui. Dovevo essere ottimista, avere pazienza ed ogni cosa si sarebbe risolta. Eravamo fatti per stare insieme e nel profondo del suo cuore

anche lui lo sapeva, dovevo solo dargli il tempo di rendersene conto.

Ad un tratto il volto di Susan cambiò colore ando da un rosa carico ad un bianco ceruleo, lo sguardo vitreo e fisso in un punto alle mie spalle. Istintivamente mi girai per osservare ciò che l’aveva spaventata a quel modo e nello stesso istante lei urlò afferrandomi per le spalle.

“No, Emily, non girarti. Andiamo via”.

Troppo tardi. Ciò che vidi bloccò ogni muscolo del mio corpo. Non riuscivo a respirare, non riuscivo a parlare né a deglutire. Volevo alzarmi e correre via ma il senso di nausea mi impediva qualsiasi movimento. Chiusi gli occhi per non vedere, per non vederli: Nick e Rose abbracciati stavano entrando nel parco. Lui la guardava, traboccante d'amore, mentre lei si beava della sua vicinanza.

Mi piegai su me stessa, le braccia strette sullo stomaco, nella testa un'esplosione di aghi e di lame.

Susan mi afferrò per un polso e mi guidò verso l’uscita del parco, lontana da loro.

Tenevo la labbra serrate, i denti stretti, cercando di respirare con il naso. Non volevo cedere al senso di nausea che mi assaliva come un’enorme onda scura.

Piano, respira piano, mi dissi. Avvicinai la mano alla bocca e sentii il profumo del sapone al gelsomino che avevo usato nel bagno della pizzeria.

Cercai di ordinare i pensieri, di metterli in fila uno alla volta per dare un senso a ciò che stava accadendo.

Mi guardai attorno, niente aveva più colore, profumo, sapore, niente senza di lui aveva più senso.

5

ABISSO

Aprii gli occhi e il dolore si fece più intenso.

Un vuoto enorme, profondo e spaventoso partì dalla bocca dello stomaco e pervase tutto il mio corpo.

Cercavo con tutte le forze una ragione per alzarmi, scendere dal letto e affrontare un’altra inutile, interminabile giornata. Ma il dolore era troppo forte, era come si mi avessero strappato via l’anima lasciando un corpo vuoto e debole.

Sapevo che quello era il momento più difficile, lasciare il rifugio che tutte le notti mi accoglieva con il suo calore, l’unico posto in cui potevo veramente lasciarmi andare, farmi travolgere dalla tempesta che ogni sera si abbatteva su di me, sempre uguale, sempre con la stessa violenza, essere trascinata dal dolore dei ricordi per poi piombare, esausta e svuotata, nel sonno.

Volsi lo sguardo alla finestra sperando che almeno il tempo fosse dalla mia parte ma i raggi dorati del sole che filtravano dalle fessura del balcone furono come lame taglienti dentro la mia testa e acuirono il dolore.

Era sabato, un altro maledetto fine settimana.

Mi girai su un fianco fissando la parete bianca, poi chiusi gli occhi sperando di riaddormentarmi, sperando che la nebbia del sonno tornasse ad anestetizzare la mia mente, cancellando i ricordi e il dolore.

Ma non accadde nulla, i miei pensieri erano ancora lì, gli stessi della sera prima, gli stessi del giorno prima, gli stessi di ogni singolo secondo della mia giornata: “Lui non mi vuole più”.

Da quando Nick mi aveva lasciata niente di ciò che facevo aveva più senso, niente aveva più uno scopo ma mi sforzavo di andare avanti perciò ogni mattina, come un bravo soldatino, riavo mentalmente gli impegni della giornata e mi imponevo di alzarmi cercando di fare un o per volta. Una piccola cosa alla volta, alzarmi, lavarmi, vestirmi, fare colazione … ogni volta sperando che tutto si esaurisse il più in fretta possibile per arrivare alla fine della giornata.

Riaprii gli occhi e sentii l’ondata di nausea arrivare lenta, lo stomaco si fece sempre più piccolo come se una mano invisibile lo stesse stringendo, il dolore salì fino a fermarsi in gola, fino a togliermi il respiro.

“Non devo piangere, non devo piangere”. Trovai la forza di sollevare il busto e mettermi a sedere sul letto, era uno sforzo enorme uscire dal tepore del piumino e affrontare il freddo che permeava la stanza e si insinuava sotto la mia pelle.

Come uno scalatore, che ha raggiunto la vetta di una montagna e si appresta e compiere l’ultimo o, raccolsi tutte le mie forze mi alzai in piedi. Feci un lungo respiro riempiendo i polmoni e come un automa mi diressi verso il bagno.

Chi era la ragazza nello specchio? Non riconoscevo quel viso stanco, quegli

occhi spenti. Distolsi lo sguardo per non piangere. Non avevo voglia di truccarmi, del resto a cosa sarebbe servito, lui aveva già smesso di guardarmi.

Aprii l’armadio e per un attimo finsi di esitare nel decidere cosa avrei indossato, sul ripiano all’altezza delle mie spalle c’era il mio maglioncino preferito, quello lilla, adoravo quel colore. Ricordavo perfettamente l’ultima volta che lo avevo indossato, quando durante il tragitto verso l’aeroporto Nick mi guardava ancora con occhi innamorati.

“Non partire, resta con la mia famiglia questo Natale” lo aveva chiesto quasi implorandomi, quasi temesse ciò che sarebbe successo in mia assenza. Non avevo capito. Non volevo capire. “Scherzi, vuoi che mi perda l’occasione di vedere la Florida. E poi mia madre prepara questo viaggio da mesi non posso mollarli qui! Dì la verità, hai paura che ritorni con qualche bagnino muscoloso e abbronzato”. Lo avevo deriso, compiacendomi di quanto gli fossi necessaria, di quanto fosse facile per me allontanarmi da lui e quanto in fondo la cosa mi pie.

Cercai di respingere quei ricordi con tutta la mia forza ma era come oppormi ad un invisibile, impenetrabile muro di oscurità che inesorabilmente mi stava schiacciando e più mi imponevo di allontanarlo più le emozioni, le parole, gli sguardi di quel giorno si facevano largo nella mia mente e le lacrime cominciavano a riaffiorare.

Allungai velocemente la mano verso la sedia accanto all’armadio ed afferrai il dolcevita nero che vi avevo buttato la sera prima, mi infilai un paio di jeans ed aprii la porta della camera pronta ad andare in scena.

In fondo alle scale Cookie mi aspettava scodinzolando.

Non aveva il permesso di salire al piano di sopra perciò la sua impazienza aumentava mano a mano che scendevo i gradini. Affondai il viso nel suo pelo morbido e lei ricambiò con un’umida leccata sulla guancia.

“Buongiorno tesoro!”, cinguettò mia madre.

“Anche oggi vestita di nero, eh? Con tutti i soldi che hai speso in vestiti il mese scorso!”.

Mi guardò con disapprovazione ma non disse altro, si vedeva lontano un miglio che non ero in vena di prediche.

Posò dolcemente le labbra sulla mia fronte e rimase immobile per qualche secondo. “Mi sembri un po’ calda. Ti senti bene tesoro?” La fulminai con lo sguardo. “No mamma non sto affatto bene ma non è influenza se è questo che pensi”. Non volevo rivolgermi a lei con quel tono acido e spezzante ma le parole uscirono prima che potessi fermarle e ormai il danno era fatto.

“Mi rendo perfettamente conto di cosa stai ando Emily ma questo non ti autorizza a trattarmi male ogni volta che ti rivolgo la parola”.

“Sì mamma hai ragione, è che …”. No, non avevo proprio la forza di iniziare una discussione, di controbattere dicendo che era lei a sbagliare, che avrebbe dovuto capirmi e sostenermi. Per diciotto anni ero stata una figlia modello: voti ineccepibili, nessuna ribellione, niente alcool, niente droga, niente sesso. Eh già, niente sesso, che idiota! Aspettavamo il momento giusto, il luogo perfetto, la

Grecia, la spiaggia, il rumore del mare. Che idiota!

Ero pronta a giurare che Rose con la sua aria da santarellina non avrebbe aspettato neanche una settimana prima di concedersi. Ma chi volevo prendere in giro probabilmente mentre ero in Florida se l’erano sata alla grande.

Anche mia madre lasciò perdere. “Hai qualche programma per oggi?”

“No. o da Susan e poi vediamo, non penso di tornare a pranzo, comunque ti chiamo. Ciao”.

Abbottonai la giacca e uscii di casa.

Camminavo con o lento, lo sguardo perso nel vuoto e il pensiero fisso sul volto di Nick, la sua voce che mi diceva cose che non avrei mai voluto sentire, scandivo nella mia mente le sue ultime parole una per una: mi dispiace ma non ha funzionato.

Una folata di aria fredda mi investì in pieno viso e un brivido mi percorse la schiena. Sentii un braccio avvolgermi le spalle.

“Freddo eh? Come stai riccioli d’oro?” Billy Stricker mi apparve accanto all’improvviso, non mi chiamava più così da quando avevo otto anni e mi sfotteva tornando da scuola.

“Piantala Billy, lasciami in pace!”. Mi scrollai il suo braccio di dosso e affrettai il o.

“Dove vai così di fretta? Tanto non ti aspetta più nessuno, no? Ho sentito dire che il tuo ragazzo ti ha mollata per la tua amica. Ma che storia triste! Perché non vieni con me, scommetto che saprei come consolarti”.

Mi afferrò un braccio e mi strattonò all’indietro.

“Sto parlando con te!”. Il suo alito puzzava di birra ed erano solo le nove del mattino.

“Lasciami Billy. Sei già ubriaco a quest’ora, complimenti!”.

“Non fare tanto la preziosa Milly Molla!”. Era un altro degli odiosi nomignoli che mi aveva affibbiato durante l’infanzia. Era il suo atempo preferito storpiare il mio nome e deridere la mia chioma rossa e riccia. Sentivo la rabbia salire come la lava all'interno di un vulcano, le guance mi ardevano e la testa mi scoppiava.

“Non arrossire carotina, lo so che ti piaccio. Dai vieni con me, so io come consolarti”.

Aspettava solo che esplodessi, sapevo che se lo avessi colpito avrebbe ricambiato con una forza pari a dieci volte la mia, era la sua ione picchiare le donne, sua madre lo sapeva bene.

Il quartiere brulicava di persone, sul marciapiede opposto una donna portava a so il cane, due ragazzi poco lontano chiacchieravano appoggiati ad un muretto, la nostra vicina la signora Adams stava potando le rose del suo giardino. Non avrebbe osato aggredirmi lì, in pieno giorno, davanti a tutti.

Se solo avessi potuto fulminarlo con lo sguardo lo avrei incenerito. Il vulcano stava per esplodere, lo guardai dritto negli occhi e con una voce che pareva emergere dalle tenebre gli urlai in faccia tutto il mio disprezzo. “Sei un bastardo Billy, ti odio, ti odiano tutti qui. Perché non scompari. Perché non ti butti sotto un treno così non dovremo mai più vedere la tua lurida faccia!”.

Istintivamente alzai il braccio verso il mio viso pronta a parare il colpo che sicuramente di lì a qualche istante sarebbe arrivato.

Lo guardai con il cuore in gola. Il ghigno sadico sul suo volto lasciò il posto ad un’espressione indecifrabile, confusa, assente.

Di colpo, senza rispondere, senza reagire, lasciò andare il mio braccio e si diresse verso casa.

Dal lato opposto della strada Susan mi stava chiamando, correva verso di me ma anziché avvicinarsi la sua voce era sempre più lontana.

La testa mi stava letteralmente esplodendo, lo stomaco era stretto in una morsa e avevo la sensazione che tutto il suo scarso contenuto sarebbe emerso da un momento all’altro.

“Emily stai bene? Sei paonazza. Cos’è successo con Billy? Ti ha fatto del male?”

Era di fronte a me, ma sentivo a malapena la sua voce e non riuscivo a distinguere il profilo del suo viso.

Sentivo il corpo gelato e non riuscivo a fermare il tremore che mi faceva sussultare, ma la testa era in fiamme, era come se avessi il corpo in un freezer e la testa in una fornace.

Cercavo di respirare, la gola era chiusa, le mascelle serrate e stringevo i denti nel tentativo di trattenere la nausea.

“Susan non mi sento bene. Portami a casa”.

Erano ati appena cinque minuti da quando ero uscita di casa, ma quando mia madre aprì la porta il fantasma che si trovò di fronte non era neanche l’ombra della tormentata creatura che era uscita quella mattina.

Mi sorressero entrambe fino in camera e mi aiutarono a spogliarmi e stendermi sul letto. Le sentivo sussurrare ma non distinguevo bene tutte le parole.

Mia madre interrogava Susan sull’accaduto senza trovare risposte soddisfacenti.

“Non so signora, stava parlando con Billy Stricker, poi lui se né andato e lei stava già così”. Altri bisbigli.

Poi la voce di Susan si fece più vicina.

“Ciao Emily, ti chiamo dopo”.

La porta si chiuse e rimasi sola, al buio, ma non c’era silenzio. Nella mia testa c’era un frastuono assordante.

Uno sciame di api aveva invaso la mia scatola crancia e ora ronzavano impazzite, spingendo sulle tempie e cercando di uscire.

Non so quanto tempo ò, sentii le mani calde di mia madre che, piano, piano, infilavano qualcosa di freddo sotto il mio braccio. Il termometro forse. Non capivo, non riuscivo a pensare.

Altro tempo ancora.

C’era qualcuno nella stanza, mia madre. E un’altra voce maschile, mi era familiare ma non era mio padre.

“Signora con quarantadue di febbre solitamente suggerisco il ricovero in ospedale, vediamo se con l’iniezione che le ho appena fatto si abbassa. Mi chiami tra due ore”.

“Grazie dottor Gordon”.

Iniezione? Non avevo sentito nessuna puntura. Sentivo il corpo pensante come se fosse sprofondato, inghiottito dal materasso. La testa assalita da mille martelli pneumatici.

Poi più niente.

Quando riaprì gli occhi la casa era silenziosa. Mi girai verso la radiosveglia sul comodino. Le due e mezza. Di notte probabilmente, visto che fuori era buio. A fatica feci il conto delle ore trascorse da quando ero uscita di casa.

Sedici ore. Avevo dormito per sedici ore.

Sentivo la testa calda e dolorante ma era sopportabile.

Lentamente mi alzai. Avevo bisogno di andare in bagno e di bere un po’ d’acqua.

Mi guardai allo specchio. Ero uno straccio, pallida e con due profonde occhiaie grigie. Avevo la gola arsa. Aprii il rubinetto lasciando scorrere l’acqua fino alla temperatura più fredda che potesse raggiungere, poi mi chinai e ne bevvi lunghe sorsate. Infine mi sciacquai il viso sperando di poter assumere un aspetto più umano possibile.

Quando uscii dal bagno mia madre era in piedi davanti alla porta, non l’avevo sentita alzarsi ed ebbi un sussulto.

“Come stai tesoro?”

“Insomma, la testa mi fa ancora male”.

“ Stavamo per portarti all’ospedale poi la febbre è calata. Il dottor Gordon dice che è stato lo stress, ultimamente non mangiavi quasi niente”.

“Sto meglio mamma, grazie”. Tornai a letto.

Mi rimboccò le coperte e mi diede un bacio in fronte.

“Sei ancora un po’ calda. Domani mattina magari sento se può are a darti un’altra occhiata. Buona notte Emily”.

“Notte mamma”.

La mattina seguente la situazione era stazionaria, api nella testa e nausea compresa. Decisi di provare a mangiare qualcosa per vedere se almeno la nausea ava.

Quando arrivai al piano di sotto Cookie si alzò dal suo cuscino per corrermi incontro ma qualcosa la fermò. Le sue orecchie pelose si piegarono all’indietro e mostrando i denti cominciò a emettere un ringhio basso e minaccioso.

“Cookie, sono io”. Mossi un o verso di lei allungando la mano. Abbaiò e ringhiò più forte. Ritrassi immediatamente la mano.

Mi madre spuntò dalla cucina con aria sorpresa. “Cosa le hai fatto? Non ha mai ringhiato a nessuno”.

“Non lo so proprio mamma, non vuole che mi avvicini”.

Ero sorpresa quanto lei. Cookie era sempre stata espansiva e docile anche con gli estranei. Avrebbe fatto festa persino ad Alien pur di ricevere una carezza.

Provai di nuovo ad avvicinarmi. Stessa reazione.

“Mah, forse ti vede strana. Vedrai che le a”.

Mia madre non ci diede peso e tornò in cucina.

A malincuore la seguii. Avevo bisogno del conforto della mia cagnolina, delle sue leccatine affettuose.

Mi lasciai cadere sulla sedia accanto alla finestra.

Era domenica mattina e il quartiere brulicava di vita. Il signor Adams stava falciando il prato con il suo vecchio e rumoroso tosaerba, mentre la madre di Susan spazzava il vialetto, c’erano diverse persone a so con il cane e altre che facevano jogging con le cuffie infilate nelle orecchie. Incrociai le braccia sopra il tavolo e poggiai la testa nell’incavo del gomito.

“Tesoro, hai voglia di dirmi cos’è successo ieri mattina?” Nella voce di mia madre c’era una lieve stonatura, sembrava nervosa, quasi in imbarazzo.

“Non so cosa dire mamma, la testa ha cominciato a farmi male tutto d’un tratto e poi mi è venuta una gran nausea”.

“Si, be’ per fortuna adesso stai meglio. Io veramente intendevo cos’è successo con Billy. Susan mi ha detto che vi siete parlati”.

Al pensiero di quel viscido di Billy il dolore alla testa cominciò a pulsare più forte.

“Mi ha detto le solite cattiverie che mi dice da quindici anni mamma, le sue solite battute sui miei capelli e così via. L’ho mandato all’inferno e lui se né andato. Punto.

Perché me lo chiedi?”

Mia madre si mordeva le labbra era visibilmente tormentata da qualcosa che non sapeva se dirmi oppure no.

“Non ti ha detto niente riguardo a lui? A qualcosa che voleva fare?”

“No. Cosa intendi dire mamma? Cos’è successo?” Cercava di trovare le parole giuste come qualcuno che cerca delle monetine in un portafoglio pieno di banconote.

“Be’, ieri pomeriggio c’è stato un incidente. O meglio, non si sa ancora se sia stato un incidente”.

Si fermò e fece una pausa. Le labbra strette e lo sguardo preoccupato. Io trattenevo il respiro.

“Vai avanti mamma, cos’è successo?” Mi accorsi che il mio tono rasentava l’isteria.

“Pare che sia caduto sotto ad un treno. Giù alla stazione. Le indagini sono ancora in corso, stanno cercando di capire se sia scivolato o …”. Non finì la frase.

Sapevo benissimo qual’era l’alternativa.

La testa mi stava esplodendo ricordavo perfettamente il mio incontro con Billy e soprattutto ricordavo parola per parola tutto quello che gli avevo detto.

Non si era buttato sotto al treno, ce lo avevo buttato io.

Lo avevo offeso tante volte e non riuscivo a capire perché le parole che avevo pronunciato il giorno prima lo avessero sconvolto a tal punto da togliersi la vita. Doveva essere successo qualcos’altro dopo.

Mi sentivo gelata eppure stavo sudando.

“Mamma ma sua madre cosa dice? Avrà pur detto o fatto qualcosa per farle capire”.

“No, niente. Ha detto che lo ha visto rientrare poco dopo le nove, era molto turbato. Ha preso le chiavi dell’auto e quando lei gli ha chiesto dove stesse andando lui ha risposto che doveva fare una cosa. E tre ore dopo le hanno dato la notizia”.

La nausea era insostenibile, corsi in bagno e vomitai quel poco succo d’arancia che ero riuscita a bere prima di quella maledetta conversazione.

Gli spasmi e il dolore alla testa erano insopportabili.

Crollai sul pavimento del bagno.

Qualcuno mi riportò a letto. Avevo di nuovo il cervello in fiamme e il corpo ghiacciato. Tutto il mio calore si era concentrato sulle tempie e vi premeva con una forza devastante.

Alternavo momenti di incoscienza a momenti di semi lucidità in cui riuscivo solo a pensare a Billy. Avevo ripetuto mentalmente la nostra discussione migliaia di volte e ogni volta si concludeva con le stesse parole: perché non ti butti sotto un treno...

E lui così aveva fatto. Esattamente come avevo chiesto.

Ero un mostro. Avevo desiderato la morte di un altro essere umano ed ero stata accontentata. Ero un’assassina.

ò così tutto il giorno, tra momenti di dolore fisico e mentale e momenti di quasi quiete.

Fino alle cinque della mattina.

Ero sveglia già da un paio d’ore, avevo analizzato con tutta la lucidità che potevo, la situazione e cercando di essere obiettiva ne avevo tratto le mie conclusioni.

La situazione di Billy doveva già essere precaria da parecchio tempo, certo io gli avevo dato il colpo di grazia ma probabilmente tutte le sue malefatte pesavano su di lui più di quanto tutti noi pensassimo.

Non era solo colpa mia, chissà come lo trattavano gli altri ragazzi del quartiere, chissà cosa gli diceva sua madre. Le colpe, se c’erano, andavano equamente distribuite. Era l’unico modo che la mia mente aveva trovato per sopportare quel peso.

C’era un bicchiere d’acqua sul comodino, lo bevvi avidamente poi, lentamente, mi alzai e andai in bagno.

Come sempre, automaticamente, mi guardai allo specchio aspettandomi il peggio.

Rimasi senza parole.

La persona di fronte a me era tutt'altro che orrenda ma non ero neanche io, non come mi ricordavo.

La mia chioma riccia, quasi crespa, si era rilassata ed ora scendeva docile formando morbide onde attorno al viso.

Anche il colore non era più lo stesso, lo sfacciato arancione che tanto avevo odiato da bambina si era attenuato, sfumando in un bel biondo ramato, il colore del grano maturo. Da diversi giorni non toccavo cibo e il mio viso un po’ paffuto era diventato un perfetto ovale di porcellana. Sulla mia pelle non c’erano brufoli o imperfezioni, come se il calore della febbre lo avesse asciugato, risucchiando, tutti i difetti.

Ero decisamente molto più carina di prima.

Che ironia, dentro mi sentivo veramente un mostro.

6

TEORIE

I due giorni successivi non uscii di casa.

La febbre era scesa quasi del tutto ma avevo ancora qualche attacco di mal di testa e lo sciame nel mio cervello non la smetteva di ronzare.

Me ne stavo accoccolata sul divano, a guardare la televisione.

Tutti erano molto premurosi con me, tutti tranne Cookie che ad ogni incontro ringhiava mostrando i denti. Mi mancava tremendamente la sua compagnia e ripensavo a qualche mese prima quando l’influenza mi aveva costretto a rimanere in casa una settimana.

Cookie non mi aveva mollato un secondo. Aspettava che mi accomodassi sul divano per poi venire a sistemarsi vicino a me, poggiava il muso sulle mie gambe e si godeva le immancabili grattatine dietro alle orecchie. Ce ne stavamo così per ore, lei sonnecchiando beata, io gustandomi tutti gli episodi delle mie fiction preferite.

Aveva sicuramente percepito che c’era qualcosa di strano in me ma non potevo immaginare come ciò rappresentasse un pericolo per lei.

Il mio aspetto era leggermente cambiato, certo, ma in meglio e comunque non così tanto da rendermi irriconoscibile. Cosa c’era in me che non andava? Il mio odore? Non riuscivo assolutamente a capirlo.

Mi girai ad osservarla. Era stesa sul suo cuscino beige. Il corpo era rilassato, sprofondato nel morbido tessuto, ma gli occhi erano spalancati e vigili, pronti a seguire ogni mio movimento.

“Cookie, vieni qui bella, dai!”.

“Dai Cookie, qui, in braccio a me!”. Battei le mani sulle ginocchia per incoraggiarla a saltarmi in braccio. Niente.

Mi arresi a malincuore.

Continuavo a cambiare canale cercando di distrarmi con la televisione. Una partita di basket, un film degli anni settanta, finalmente il mio talk show preferito. Accidenti era una replica, lo avevo già visto. Il programma di cucina che trasmettevano sul quarto canale mi fece venire in mente che i miei genitori sarebbero tornati dal lavoro entro mezz’ora, dovevo ancora mettere le lasagne in forno e apparecchiare la tavola.

Mi alzai di malavoglia. Avevo ancora addosso il pigiama, se mia madre mi avesse vista così avrebbe sicuramente ricominciato con la storia degli accertamenti medici.

Voleva farmi prescrivere dal dottor Gordon un check up completo – esami del sangue, elettroencefalogramma, visita neurologica, gastroscopia – tutto il pacchetto. Non avevo intenzione di darle nessun appiglio perciò, finito di preparare in cucina, salii in camera mia a cambiarmi.

Il primo ad arrivare fu mio padre. Aveva un’aria più stanca del solito, certamente la mia situazione non contribuiva alla sua tranquillità, ma mio padre era sempre stato il tipo che non dava a vedere le sue preoccupazioni e apprezzavo molto questo lato del suo carattere.

L’opposto di mia madre che ciarlava in continuazione su quanto era in pensiero per me e cosa dovevo fare.

Mia madre arrivò dopo dieci minuti, portando un raggio di sole nella mia giornata: Susan.

“Visto che il dottor Gordon non ritiene che tu sia contagiosa ho invitato Susan a cena così potrà aggiornarti sulle lezioni che hai perso”.

Eh già, altra preoccupazione per mia madre, la scuola.

Avevo già saltato tre giorni di lezione e con gli esami finali in vista non c’era tempo da perdere. Non serviva preoccuparsi in due, mia madre bastava e avanzava, trascinai Susan il salotto perché mi aggiornasse sugli ultimi pettegolezzi.

Susan mi squadrò con la bocca spalancata per la sorpresa.

“Che c'è?”

“Sei diversa. Cosa hai fatto ai capelli? Stai benissimo!”

“Boh? Non so cosa dirti, mi sono alzata l'altra mattina ed erano così”.

“Pazzesco”. Susan mi girò intorno sollevando ciocche di capelli qua e là.

“Ok, ok ma adesso dimmi che si dice a scuola”.

“Naturalmente tutti chiedono notizie su di te e sullo strano morbo che ti ha colpito”.

Alla parola tutti il mio pensiero si concentrò su di lui.

“Tutti? Anche Nick?”

“Be’ veramente Nick non l’ho visto in questi giorni ma sono sicura che è preoccupato quanto gli altri”. Per una frazione di secondo abbassò lo sguardo. Non era mai stata brava a mentire. Perlomeno non a me.

“Ok, fa niente. Vai avanti. Come stanno gli altri? Ho sentito che c'è del tenero tra Marissa e Colin”.

Avevo cambiato argomento ma neanche io ero brava a mentire a Susan e non le sfuggì la delusione sul mio viso.

“Marissa è una santa, starebbe bene con tutti”.

Fece una pausa, incerta se tramutare in parole ciò che stava pensando. Sospirò e poi fece un tentativo. “Dai Emily bisogna che te lo togli dalla testa. Non puoi andare avanti così, secondo me stai male anche per quello. La tua mente si rifiuta di accettare la verità e il tuo fisico la segue”.

“Da quando sei diventata una psicologa? E’ meglio se lasciamo perdere se no litighiamo”.

La parte razionale del mio cervello mi diceva che Susan aveva ragione, era un pensiero che avevo affrontato spesso negli ultimi giorni. Solo che non volevo ammetterlo ad alta voce.

Mia madre salvò la situazione. “Ragazze la cena è pronta!”.

A tavola Susan non poté sottrarsi dal parlare di scuola, così scoprii che avevo parecchio studio arretrato da recuperare e questo diede a mia madre l’occasione per lanciarmi un ultimatum. “Emily decidi tu, domani o vai a scuola o andiamo

insieme dal dottor Gordon”.

Quel buffo signore, con il naso grosso e lo stetoscopio al posto della cravatta, mi era sempre stato simpatico ma sentir pronunciare il suo nome, per la millesima volta, me lo fece odiare.

Sarebbe stata una settimana molto faticosa.

“Va bene mamma vado a scuola, basta che la finisci con questa storia del dottore”.

Susan mi fece l'occhiolino e portò la conversazione su altri argomenti.

Il ritorno a scuola fu meno imbarazzante del previsto.

Nessuno faceva più caso a me, i pettegolezzi sulle mie vicende personali si erano esauriti per lasciare il posto alle chiacchiere sulla storia tra Marissa e Colin.

Quando arrivai in mensa scoprii che i posti vuoti di Nick e Carlos erano stati occupati dai nuovi fidanzati e che tutto sommato il cambiamento aveva migliorato l'umore dei miei commensali. Erano teneri ed impacciati mentre fingevano indifferenza uno verso l'altra per non essere derisi.

Senza troppo entusiasmo Marissa ci raccontò della favolosa festa che suo padre stava organizzando per celebrare il suo diploma. Chissà cosa doveva farsi

perdonare questa volta.

Lo stravagante professionista di New York che aveva ingaggiato stava rivoluzionando l'arredamento dell'intera casa allo scopo di trasformare un banale ballo studentesco in un party hollywoodiano. Mentre chiunque di noi avrebbe fatto follie per essere al suo posto, Marissa desiderava solo un po' di normalità. Detestava essere al centro dell'attenzione, odiava tutti quegli opportunisti che si fingevano suoi amici solo per interesse, non sopportava gli abiti lunghi e i tacchi alti ma sopra ogni cosa provava ribrezzo per quell'estraneo presuntuoso che stava tramutando la sua calda e accogliente dimora in un delirio di opulenza e di cattivo gusto.

Ascoltavo distrattamente quando mi accorsi di Nick, seduto con Carlos dalla parte opposta della sala. Erano con altri due ragazzi che non conoscevo. Lo fissai per tutto il pranzo finché lui, forse avvertendo il peso del mio sguardo, si girò e mi salutò con un cenno della mano, senza entusiasmo. La testa ricominciò a ronzare ma non potevo tornare a casa e darla vinta a mia madre e a tutte le sue paranoie. L'infermiera Pole avrebbe saputo prendersi cura di me per il resto del pomeriggio.

Arrivai a casa alla solita ora. L'auto di mia madre era parcheggiata nel vialetto. Era insolito trovarla a casa così presto. Mi affrettai ad aprire la porta e appena entrata urlai il suo nome.

Sbucò dalla cucina con aria allarmata.

“Emily, tutto bene?” Mi scrutò da capo a piedi.

“Sì tutto bene e tu?”

“Allora perché urli in questo modo?” Il suo sguardo era ancora preoccupato.

“Non torni mai a casa così presto, avevo paura fosse successo qualcosa”.

L'espressione colma di affettuosa tenerezza che si dipinse sul suo viso mi costrinse a ricambiare il suo sorriso. Ciò che disse subito dopo però smorzò il mio slancio di affetto.

“Sai, oggi sono ata dal dottor Gordon”.

“Per fare cosa?” La mia voce non lasciava dubbi sul mio disappunto.

“Il mal di testa è ato ma potrebbe ripresentarsi perciò secondo me sarebbe meglio che tu fi comunque degli accertamenti”.

“Se mi tornerà il mal di testa farò gli esami, adesso sto benissimo e non faccio proprio niente!” Non ero mai stata tanto acida.

Spostò la calamita a forma di fiore che teneva appiccicato al frigo un foglietto scritto a macchina che tentò di porgermi, ma la mia reazione blocco il suo braccio a mezz'aria. Con un disprezzo che non mi apparteneva dissi la prima cosa che mi venne in mente.

“Senti mamma per quanto mi riguarda puoi anche prendere la tua inutile ricetta, farci un panino e mangiartela”.

Non dimenticherò mai ciò che accadde dopo perché da quel momento la mia vita cambiò per sempre.

Prese il piccolo foglietto bianco con entrambe le mani, con cura lo piegò due volte su se stesso poi lo posò sul tavolo. Con la stessa tranquillità afferrò due fette di pane bianco e ci infilò dentro la ricetta.

Infine con un’espressione assente portò quell’assurdo sandwich alla bocca e diede un morso. Masticava con difficoltà ma procedeva un boccone dopo l’altro.

“Mamma sei pazza? Mangi la carta? Io dicevo per dire, non serviva questa sceneggiata”.

“Mi sembra la cosa migliore da fare”, rispose serafica. E

poi aggiunse “come hai detto tu tesoro”.

Non avevo parole. La scena che stavo guardando era talmente surreale da farmi pensare ad un sogno o ad uno scherzo.

Ma purtroppo non era né l’uno, né l’altro.

Mia madre finì il suo spuntino e scrollandosi le briciole di dosso disse “E’ meglio che torni in negozio, c'era parecchio da fare. Ci vediamo questa sera tesoro”.

Indossò il cappotto ed uscì.

La seguii con gli occhi sgranati e la bocca spalancata.

La testa aveva ricominciato a pulsare, sempre più forte.

Avevo bisogno d'aria. Forse una eggiata avrebbe allentato la tensione e mi avrebbe aiutato a capire cosa stava succedendo.

Camminai per più di un'ora, senza meta, senza scopo.

Quando rientrai era ora di cena ma non c’erano padelle sul fuoco e la tavola non era ancora stata apparecchiata.

Mi affacciai alla porta del salotto per salutare, ma mi bloccai.

I miei genitori erano seduti sul divano, uno accanto all’altra. Mi davano le spalle

perciò non potevo vedere le loro espressioni e loro non si accorsero della mia presenza.

Mia madre aveva la testa tra le mani e piangeva. Mio padre le cingeva le spalle con un braccio cercando di consolarla. “Sei solo stanca, il comportamento di Emily ci sta esasperando tutti”.

“Steve ho mangiato della carta, ti rendi conto, una ricetta medica”. La voce era rotta dai singhiozzi. “Non è stanchezza è follia perché quel che è peggio è che sono ancora convinta che fosse la cosa migliore da fare”.

Non volli sentire altro. Salii in camera e mi gettai a faccia in giù sul letto.

Ero stata io, ne ero sicura. Prima Billy poi mia madre.

Non sapevo come ma le mie parole li avevano convinti a fare esattamente ciò che avevo chiesto.

Perché stava accadendo tutto questo? Che senso aveva?

La testa mi scoppiava, il cuore palpitava come se volesse prendere il volo e la gola mi bruciava mentre gli occhi si riempivano di lacrime. Non volevo piangere, volevo capire, dare un senso a questa follia. Cercai di mettere in ordine gli avvenimenti dell'ultimo mese. Tutto era cominciato quando Nick mi aveva lasciato. Poi si era messo con una delle mie migliori amiche, un classico pensai. L'immagine successiva mi gelò il sangue, il viso di Billy era impresso come un

marchio nei miei occhi, e dopo di lui erano arrivati la febbre e il mal di testa. Cookie non si voleva più avvicinare a me e mia madre pensava di essere pazza. Avevo dimenticato qualcosa? Non mi veniva in mente altro ma non ero sicura che le mie malefatte fossero tutte lì. Un liquido caldo e salato mi scendeva in gola e sulle guance. Pensai a Susan, l'unica a cui avrei potuto confessare una cosa simile, ma mi avrebbe creduto? E cosa poteva fare per aiutarmi? Mi avrebbe sicuramente consigliato di andare da uno strizzacervelli o da un esorcista. Un'idea insana, assurda, impossibile, improbabile eppure … Tutte le mie certezze erano crollate, il mio mondo si era capovolto, non potevo scartare nessuna possibilità. Mi sedetti alla scrivania ed accesi il computer. Quando con un bip mi annunciò di essere pronto all'uso cominciai a digitare nervosamente sui tasti.

Valutai diverse possibilità ando dalla possessione demoniaca al malocchio ma nessuno dei risultati mi soddisfò.

Mi appoggiai stanca allo schienale della sedia, la stanza era illuminata solamente dal bagliore che proveniva dallo schermo del computer e dalle cifre luminose della sveglia digitale sul comodino. Sbattei più volte le palpebre per leggere bene l'ora. Quasi mezzanotte. Il mio stomaco vuoto si contrasse in un crampo. Ma la sofferenza che sentii non era fisica, veniva da un posto più profondo, era la consapevolezza che in tutta la sera i miei genitori non si erano mai fatti vedere, non mi avevano né cercato, né chiamato per la cena e tanto meno salutato prima di andare a dormire. Era chiaro, mi ritenevano responsabile di ciò che era successo a mia madre. Ed avevano ragione.

Mi buttai sul letto. Avrei voluto cancellare gli ultimi giorni. Schiacciare il tasto rewind e ricominciare da capo senza far del male a nessuno. Dovevo trovare il modo di rimediare.

Le sei del mattino. Avevo dormito solo cinque ore ma il mio piano di redenzione non poteva attendere. Mi lavai e mi vestii alla svelta. Con riluttanza avevo

deciso di indossare colori vivaci, un manifesto che dicesse: “sto bene!”

Scesi in cucina e iniziai ad armeggiare sui fornelli per preparare la colazione. Plum cake, pane tostato, caffè forte e una rosa colta in giardino per ingentilire la tavola.

Mia madre non tardò ad arrivare. Le profonde occhiaie grigie che le cerchiavano i grandi occhi nocciola mi fecero capire che anche lei non aveva dormito molto.

Dovevo dare una svolta alla mia vita, perciò cominciai capovolgendo il rituale che si era ripetuto fino a quel giorno: mi avvicinai a lei, le diedi un bacio in fronte e le dissi “Buongiorno mamma, dormito bene!”

La sua bocca si spalancò ma non ne uscì nessun suono.

Il suo sguardo si posò sulla tavola apparecchiata e poi tornò su di me. “Sei stata tu?”

“Si. Mi sono resa conto di essere stata un mostro ultimamente e sto cercando di rimediare”.

Non disse niente ma nel momento in cui mi strinse a sè mi accorsi di quanto mi era mancato il suo abbraccio caldo e morbido.

Addentai con soddisfazione una fetta di pane. “Ho pensato di venire a darti una

mano al negozio dopo la scuola. Ho bisogno di tenere la mente impegnata e poi, tranne Susan, non mi sono rimasti molti amici da frequentare”.

In realtà, se avessi voluto, di amici con cui trascorrere il tempo ne avrei trovati a decine, ma la verità era che non mi sentivo ancora pronta ad affrontare il mondo. Preferivo starmene nel mio piccolo e tranquillo paradiso verde piuttosto che rischiare di uscire e di incontrare per caso Nick o Rose, o peggio tutti e due. Non ero ancora pronta a superare la cosa. Era già fin troppo penoso doverlo vedere a scuola.

“Va bene tesoro. Mi fa molto piacere”. Cercai di non fare caso al suo sorriso velato di tristezza.

“Bene, allora ci vediamo alle quattro”.

Presi lo zaino di scuola, la baciai di nuovo e uscii di casa.

Due baci nella stessa giornata. Wow, non era mai successo. Pensai che mi stavo veramente rammollendo, ma per il momento andava bene così.

Il resto della settimana trascorse senza scossoni. La routine scuola, lavoro, compiti fino a tardi, mi teneva sufficientemente impegnata ed il mio umore era abbastanza stazionario. Ma più il fine settimana si avvicinava più sentivo crescere l'ansia.

“Esci con noi domani sera?”

Ero preparata alla domanda di Susan ma il mio cuore accelerò comunque il battito.

“Grazie ma starò in negozio tutto il giorno perciò penso che domani sera sarò distrutta. Non credo proprio che avrò ancora energie per uscire”.

In realtà mi infastidiva dover fare il terzo incomodo.

Trovavo estremamente inopportuno che la mia migliore amica avesse deciso di fare sul serio con un ragazzo proprio quando io non avevo più il mio. Ma d'altra parte al cuore non si comanda e preferivo lasciarli liberi di scambiarsi tutte le smancerie che volevano piuttosto che costringerli a trattenersi a causa della mia presenza.

“E se uscissimo io e te questa sera? Che ne dici? Solo un paio d'ore per fare due chiacchiere”, propose Susan sfoderando uno splendido sorriso. Ero quasi sicura che non potesse leggere i miei pensieri ma ero altrettanto certa che sapesse indovinarli. Ci conoscevamo da troppo tempo per non essere un libro aperto l'una per l'altra.

“Affare fatto!” Risposi ricambiando il suo sorriso.

“Perfetto allora ti aspetto alle otto”. Ci salutammo con un abbraccio dopodiché corsi a prepararmi per andare al lavoro.

Quando rientrai a casa erano già le diciannove e trenta.

C'era stato parecchio da fare in negozio e mia madre si era fermata per finire alcuni conti.

In venti minuti feci la doccia ed indossai dei vestiti puliti, poi controllai il portafoglio. Come sospettavo era vuoto.

Scesi le scale di corsa sperando di chiedere un anticipo sulla paga a mia madre. La cucina era deserta e l'unico suono che si udiva era il brusio che proveniva dalla televisione accesa in salotto. Mio padre era un uomo meraviglioso e lo adoravo, ma quando si parlava di denaro, o meglio quando si trattava di spenderlo o prestarlo, le sue braccia si accorciavano di dieci centimetri ed il suo viso assumeva un'espressione di totale riluttanza. Pensai velocemente alla strategia da usare.

Puntai sull'ironia, sperando di evitare la lunga predica sul valore dei soldi e sull'importanza del risparmio che teneva in serbo per le rare occasioni in cui andavo a battere cassa da lui anziché da mia madre.

“Ciao papà, sto uscendo a cena con Susan ma sono al verde e purtroppo non sono brava a lavare i piatti, perciò mi daresti un po' di soldi? Quando mamma mi paga te li restituisco”. Come previsto il suo viso si arricciò e le mani cominciarono a scomparire all'interno del maglione.

“Non potete mangiare da Susan e uscire dopo cena?”

“E dai papà. Lo sai che sua mamma fa schifo come cuoca. Vuoi che mi venga un'intossicazione alimentare?

Così poi vedi quanto ti costo in medicine!” Mio padre prese il portafoglio e dopo aver contato e ricontato le banconote al suo interno, con infinita sofferenza me ne porse una da dieci dollari.

Sapevo che per arrivare a venti dollari avrei dovuto chiederne almeno cento perché altrimenti sarei arrivata al massimo a dodici.

“Papà non andiamo mica a mangiare un gelato.

Dobbiamo cenare”. Accompagnai il mio sguardo con un sorrisetto impertinente. “Dai paparino sii buono, dammi cento dollari e la facciamo finita”.

La sua espressione mi fece gelare il sangue.

Muovendosi come un automa prese una banconota da cento dollari e me la diede.

Non ero né felice, né stupita, ero terrorizzata.

“Ma papà dicevo per scherzare. Me ne bastano venti”.

Come se stessi recitando un mantra ripetevo a me stessa fa che stia scherzando, fa che stia scherzando, fa che stia...

“No tesoro. Come hai detto tu meglio fare cento”.

La stessa espressione smarrita di mia madre.

“Divertitevi”.

Alzò il volume della televisione e riprese a guardarla.

Con le mani tremanti e umide di sudore misi i soldi nel portafoglio e uscii di casa.

Avevo chiesto ed aveva obbedito. Anche lui. Cosa stava succedendo? Eppure non tutto ciò che pensavo, non tutto quello che desideravo si avverava. Perché alcune cose sì ed altre no? Camminavo verso casa di Susan in preda al panico, un miliardo di pensieri spaventosi si sovrapponevano nel mio cervello. Calma. Continuavo a ripetermi di stare calma ma la mia mente era una meteora impazzita che formulava ipotesi alla velocità della luce.

Quando Susan aprì la porta la guardai senza vederla, ero in uno stato di confusione totale.

“Cominciamo bene”. Commentò.

Lo smarrimento mi si leggeva in faccia.

“Cosa succede?”

“Mio padre mi ha dato cento dollari”. Preferii omettere tutto il resto della storia.

“Caspita! Pazzesco! Ti credo che hai quella faccia”.

“Non riesco a capire. Glieli ho chiesti quasi per scherzo perché sai com’è fatto per avere uno devi chiedere cento e lui me li ha dati. Non lo trovi strano?”

“Altroché! Ma buon per noi. Stasera ci trattiamo bene!”

“Mi spiace ma questi soldi mi servono. Ora che non c’è più Nick a scarrozzarmi in giro sono fermamente decisa a comprarmi un’auto”.

“Ma che ragazza matura e responsabile!”

“Sfottimi pure ma non ho tante altre alternative. Non credi?”

“Peccato stavo per invitarti ad un concerto. Hai presente la band che ti piace

tanto, con il cantante strafigo …

Saranno al Verizon Center di Washington tra due settimane. Paul sta cercando tre biglietti però se devi risparmiare gli dirò che ne bastano due”.

“Stai scherzando? Non me li perderei per niente al mondo!” Improvvisai i i del balletto che faceva da coreografia al loro ultimo video e Susan mi imitò canticchiando.

Solo lei riusciva a farmi tornare la persona allegra e spensierata di un tempo. Riusciva a leggere i miei sguardi, a trovare risposte alle mie silenziose domande ed a mostrarmi il lato bello della vita anche in mezzo a un uragano. Era un pezzetto di cielo azzurro e limpido che si faceva largo tra una distesa di nubi scure e minacciose pronte a riversarti addosso ettolitri di pioggia gelida e pungente. Eppure non riuscivo ad aprirmi completamente con lei, temevo che se avesse saputo la verità su cosa avevo fatto e cosa potevo fare, mi avrebbe guardata in modo differente.

Perché non avevo dubbi, in qualche oscura ed ignota maniera ero stata io, ciò che era accaduto era colpa mia.

Per quanto mentissi a me stessa ripetendo che erano solo fortuite coincidenze, nei miei pensieri si era insinuata fin dall'inizio la consapevolezza che la mia volontà avesse in qualche modo preso vita e vigore fino a cambiare gli eventi. E quest'idea aveva affondato le sue radici facendosi largo tra la razionalità e la logica fino a convincermi dell'impossibile. Senza rendermene conto avevo preso coscienza di cosa potevo fare, dovevo solo dimostrare come.

Quella notte avvolta dall'oscurità della mia stanza cercai di elaborare un piano, dovevo mettere alla prova la mia teoria ma era essenziale evitare il coinvolgimento di chiunque fosse affettivamente legato a me. Dovevo avere pazienza ed essere misurata, doveva essere una cosa innocua rivolta ad un qualunque sconosciuto.

L’occasione si presentò due giorni dopo, durante un tranquillo pomeriggio al negozio. Ero china dietro al bancone, intenta a raccogliere i gambi recisi di un bouquet di rose che avevo appena terminato, mia madre era sul retro, la sentivo canticchiare un motivetto degli anni ottanta. Il piccolo camlino appeso alla porta tintinnò annunciando una visita. Mi sollevai appena e sbirciai oltre il bancone. Era una donnina bassa e paffuta, non l'avevo mai vista prima e qualcosa mi diceva che non l'avrei più incontrata. Era perfetta con quell'orribile tailleur “giallo canarino” ed il cappellino con ridicoli fiori posticci. La cavia ideale per il mio esperimento.

“Che profumo meraviglioso c’è in questo negozio”.

Ma che originale! Cos'altro si può dire in una fioreria!

Aveva un accento del sud e la sua voce roca e gracchiante era ancora più fastidiosa del suo aspetto.

“Buongiorno signora, in cosa posso esserle utile?”

“Buongiorno cara, sono stata invitata a prendere il tè dalla mia amica la signora Peters e vorrei portarle qualcosina di carino, tipo un mazzetto di ranuncoli so che sono i suoi fiori preferiti”.

Perfetto, sapeva esattamente cosa voleva. Nonostante la voce sgradevole aveva un tono educato, quasi dimesso e questo attenuava i miei timori e mi incoraggiava a tentare. Provai con gentilezza a farle cambiare idea “Mi spiace, non abbiamo ranuncoli in questa stagione ma ci sono appena arrivati degli splendidi gigli”.

“Ti ringrazio cara ma cercavo proprio dei ranuncoli magari mi fermerò a comperare dei cioccolatini”. Stava per salutare ed andarsene, dovevo agire in fretta, il cuore cominciò a pulsare più veloce, non dovevo farmi prendere dal panico. Trassi un profondo respiro, abbassai lo sguardo cercando di mantenere la concentrazione e parlai con voce ferma e risoluta.

“Deve comprare i gigli!”.

“Come hai detto?” La guardai in faccia per un istante solo ma mi bastò per vedere i suoi occhi sgranati. Però non mollai. “Ho detto che voglio che lei compri i gigli”.

Sollevai il viso e capii il guaio in cui mi ero cacciata. I suoi occhietti divennero due dardi infuocati e la sua espressione sbigottita si tramutò in una smorfia di sdegno.

Come un bisonte infuriato si preparava a caricare.

“Tesoro, io non devo fare proprio niente! Decido io quali fiori comprare e non lascerò certo che una ragazzina maleducata mi dia degli ordini!”. La sua voce

strideva esattamente come il colore del suo abito.

Mia madre spuntò dal retro del negozio preoccupata

“Emily cosa sta succedendo?”

“Glielo dico io cara signora cosa sta succedendo: questa sfacciata, si è permessa di dirmi, anzi di ordinarmi quali fiori devo comperare!”.

Stava letteralmente urlando in faccia a mia madre che la guardava con la bocca leggermente aperta e gli occhi sgranati senza capire cosa stesse succedendo.

Lo tsunami che avevo provocato non accennava a perdere di intensità, anzi avanzava pericolosamente verso il bancone con un impeto tale da poterlo travolgere.

Fortunatamente mia madre si riprese in fretta e con molta gentilezza e tutta la calma che anni e anni di pratica le avevano insegnato si rivolse al bisonte .

“La prego infinitamente di perdonare mia figlia, non so cosa le sia preso, sa ultimamente ha perso un caro amico e da allora ha dei comportamenti incomprensibili”, si affrettò a togliere dall’acqua un mazzo di lisiantus bianchi e glieli porse come se dovesse omaggiare una regina.

“Sono molto imbarazzata per quanto accaduto perciò la prego di accettare un

omaggio in segno di scuse”.

Alla parola "omaggio" il bisonte si calmò, prese i fiori e farfugliando qualcosa tipo: “Per questa volta lascerò perdere ma sarà meglio che spieghi a sua figlia cos'è l'educazione”, imboccò l’uscita e sparì.

Mia madre si girò verso di me con le mani sui fianchi.

“Cosa cavolo hai combinato?”

“Non ne ho idea mamma. Le ho proposto di comprare dei gigli, al posto dei ranuncoli che cercava, ed ha fatto tutta questa pantomima”.

“Ma qualcosa devi averle detto per farla infuriare in quel modo”.

“Forse sono stata un po' impulsiva ma non certo maleducata. Ma hai visto com'era vestita?”

Il mio tentativo di allentare la tensione funzionò. Mia madre lasciò perdere l'interrogatorio e scoppiò a ridere.

“Era proprio orribile”.

“E hai visto i fiori finti sul cappello?”

Adesso ridevamo tutt'e due come matte.

ata l'euforia riprendemmo le nostre occupazioni.

Avevo fallito. Eppure avevo espresso chiaramente la mia volontà. Avevo detto deve e avevo detto voglio, ma la reazione che avevo suscitato non era certo quella che mi aspettavo. Mi sentii leggera, mi ero sbagliata e ne ero felice. Immensamente felice. Provai profonda gratitudine per quella irritante donnetta che senza saperlo mi aveva liberato di un peso enorme. Che stupida ero stata.

Credere di poter manipolare la volontà altrui, più ci pensavo e più le mie ipotesi apparivano ridicole e assurde.

Quando il signor Wright, il padre di Melissa, entrò nel negozio trovò la commessa più sorridente che avesse mai visto.

“Ciao Emily come stai?” Disse distratto senza ascoltare la mi risposta.

“Benissimo signor Wright. E lei?” Avrebbe anche potuto trattarmi come una pezza da piedi, niente avrebbe scalfito il mio buonumore.

“Bene, bene, grazie. Senti cerco qualcosa per mia moglie”. Non occorreva dicesse altro. Mia madre mi aveva chiarito ampiamente cosa significasse quella

frase. Chi lo conosceva bene poteva leggergli in faccia il senso di colpa per l'ennesima scappatella che lo aveva portato a trascurare la famiglia oltre ogni ragionevole limite, ed ora aveva bisogno di addolcire in qualche modo il ritorno a casa.

Mantenni la mia facciata gentile ma ribollivo di disprezzo per tutta la sofferenza che consapevolmente causava alle tre persone che lo amavano più di chiunque altro al mondo avrebbe mai fatto. Oltretutto non spendeva mai più di trenta dollari per i fiori che avrebbero dovuto comprare il perdono di sua moglie. Che miserabile. Lo guardai sforzandomi di mantenere la calma mentre pensavo che per una volta nella sua vita avrebbe potuto provare veramente a ricambiare l'immeritato affetto di sua moglie. Una volta tanto avrebbe potuto comprarle un vero mazzo di rose rosse o magari anche due mazzi e perché no, avrebbe potuto stupirla coprendola di fiori. Uno come lui avrebbe potuto comprare tutti i fiori che c'erano in negozio ed il suo portafoglio non se ne sarebbe neanche accorto.

Mi guardò perplesso. Poi quasi riluttante disse: “Compro tutti i fiori che avete in negozio. Potete consegnarli voi vero?”

Mi sentii mancare. Senza che potessi oppormi i muscoli persero la capacità di sostenere il corpo e subito dopo udii in lontananza il tonfo della mia testa che sbatteva sul pavimento.

7

RIVELAZIONI

Sollevai lentamente le palpebre e una lama mi si conficcò nel cervello. L'odore di medicine e di disinfettante mi riempì di colpo le narici. La tempia destra pulsava e sembrava dovesse esplodere da un momento all'altro. Ci misi qualche secondo a ricordare cos'era successo ma quando riuscii a ricomporre i frammenti di memoria sparsi nella mia mente smisi di respirare.

Era accaduto di nuovo. Lo avevo fatto ancora e questa volta sapevo esattamente come.

In quel momento entrò un'infermiera. Senza esitare la guardai negli occhi e pensai “portami un bicchiere d'acqua”. Non aveva ancora raggiunto il mio letto ma si voltò di scatto e in silenzio uscì dalla stanza. Quando riapparve, dopo un paio di minuti, teneva tra le dita un piccolo contenitore di vetro, colmo di un liquido trasparente: acqua.

All'improvviso ogni cosa era chiara.

Avevo trovato gli ingredienti che servivano: lo sguardo ed il pensiero.

Chiusi gli occhi in preda al panico.

Non era possibile, non stava succedendo a me.

Avevo visto troppi film di fantascienza, perché queste cose accadono solo nei film: la protagonista prende una botta in testa e quando si sveglia puf...! Ha sviluppato poteri paranormali, affronta i cattivi, salva il mondo e sposa il bel dottore che la cura. Nella vita vera al massimo si sviluppa un bel bernoccolo e un gran mal di testa e quelli c'erano entrambi. Tutto il resto non aveva alcun senso era assolutamente illogico, irrazionale, assurdo.

Per il resto della giornata parlai lo stretto necessario ripetendo che mi sentivo bene e che volevo solo tornare a casa. Mi fecero una tac ed un paio di altri esami. L'esito fu un lieve trauma cranico che non preoccupò i medici tanto da trattenermi.

“Mi hai fatto prendere un bello spavento, Emily”, disse mia madre appena salite auto. “Certo che anche a me è venuto un colpo quando il signor Wright mi ha detto che ti aveva appena chiesto di consegnare a casa sua tutti i fiori del negozio. Pensavo scherzasse ma invece era serio.

Altroché se lo era. Deve averla combinata grossa questa volta”. Attese invano il mio commento. “Però svenire è stata una reazione un po' eccessiva. Sei sicura di sentirti bene?”

Non risposi. Guardavo fuori dal finestrino pregando di arrivare presto a casa.

“Per fortuna che questa volta ti hanno fatto un po' di controlli e grazie al cielo è tutto a posto”.

"Certo tutto a posto. Come no. Peccato che se mi giro e ti chiedo di sfracellarti sul muro tu lo fai. Che casino". Lo pensai ma non dissi una parola.

Dovevo liberare la mente. Mi sforzavo inutilmente di non pensare a niente. Impossibile. Non ci avevo mai ragionato prima ma più ci provavo più mi rendevo conto che era impossibile non pensare a niente. Era più facile pensare a un milione di cose contemporaneamente che non pensare a nulla. Ma prima di controllare i pensieri dovevo imparare a controllare lo sguardo perciò appena arrivata salii in camera senza badare troppo a mio padre che mi stava aspettando in preda all'ansia.

“Emily! Non mi saluti neanche?” Mi rimproverò più preoccupato che arrabbiato.

“Ciao papà. Scusa ma ho bisogno di stendermi”.

Con tre balzi ero già in cima alle scale.

Cosa dovevo fare? A chi potevo rivolgermi? Certo non a Susan, era la mia migliore amica, era una ragazza intelligente con tante buone qualità ma tenere i segreti non era tra queste. Era troppo loquace e prima o poi il suo istinto di crocerossina avrebbe prevalso ed avrebbe parlato del mio problema con qualcuno che sicuramente l'avrebbe detto a qualcun altro e così via finché non mi sarei ritrovata con una camicia di forza o, peggio ancora, sezionata per qualche esperimento scientifico in nome del progresso. No, non era proprio il caso di parlarne a Susan o a mia madre o a chiunque altro. E poi non era detto che fosse una cosa definitiva, magari tra qualche giorno sarebbe ato, dovevo solo stare lontana dalla persone e cercare di stare tranquilla. L'unico problema era la scuola, non potevo fare altre assenze, tra poco ci sarebbero stati gli esami e

dovevo assolutamente concentrarmi su quelli.

Decisi che la cosa più sensata da fare sarebbe stata evitare di guardare le persone negli occhi. Il resto dei problemi li avrei gestiti uno alla volta senza farmi prendere dal panico. Era mercoledì, dovevo reggere ancora due giorni e poi avrei avuto l'intero fine settimana per ragionare con calma.

Quando arrivai a scuola ero estremamente concentrata sul mio proposito: non incrociare altri sguardi. Fu più difficile di quanto pensassi, sarebbe stato scortese non guardare in faccia chi si fermava a salutare e a chiedere notizie sulla mia salute. Decisi di fissarmi su alcuni particolari dei loro volti. Il neo vicino alla bocca, la gobba sul naso, le orecchie a sventola. Certo poteva sembrare indelicato da parte mia soffermarmi sui loro difetti fisici ma era sempre meglio che tenere la testa bassa o guardare altrove.

La situazione rimase sotto controllo fino alla fine della terza ora. Stavo prendendo alcuni libri dall'armadietto quando la risata arrogante di Eleanor risuonò nel corridoio.

“Oh mio Dio. Ma guardate quella poveraccia di Kate com'è vestita oggi! Cos'è successo? I vestiti di seconda mano di tua sorella non ti andavano più bene e così hai rovistato nell'immondizia?” Lei e le sue leccapiedi risero di nuovo.

Kate avvampò di vergogna. La osservai cercando di capire cosa avesse suscitato l'ilarità di quelle vipere ma al di là del suo maglioncino un po' sbiadito non trovai niente che non andasse in lei. Sapevamo tutti che la famiglia di Kate non nuotava nell'oro e che la sorella le ava i suoi vestiti, ma erano sempre capi carini anche se non proprio all'ultima moda.

Fui sul punto di scattare. L'istinto di rispondere alla sua provocazione per conto di Kate, che non l'avrebbe mai fatto, stava per avere il sopravvento quando mi bloccai di colpo. Potevo fare di meglio per mettere a tacere quella serpe. Molto meglio.

Mi avviai verso l'aula di chimica e andole accanto la fissai dritto negli occhi ed ebbi un unico diabolico pensiero: “domani ti vestirai di verde come quella serpe che sei”.

Ci fu un impercettibile clic nel mio cervello.

Un inebriante senso di onnipotenza mi fece sussultare e capii che se solo lo avessi voluto avrei avuto il mondo ai miei piedi. Un piacevole brivido si diffuse in tutto il corpo, risvegliandolo con un leggero solletichío. Tutto d'un tratto vedevo ciò che mi circondava da una prospettiva diversa.

Non avrei più subìto gli eventi, li avrei, come dire, guidati, avviati verso la giusta direzione. Come un profumo che diventa sempre più intenso ed inebriante, la consapevolezza che avrei potuto avere tutto ciò che volevo si impadronì di me.

E tutto ciò che volevo in realtà era una cosa sola: Nick.

Entrai nell'aula di chimica come un automa, rapita dall'immagine di me e di Nick di nuovo insieme. Mi sedetti al solito posto ed indirizzai lo sguardo lontano, fuori dalla finestra. Non mi ero accorta che il ciliegio nel giardino della scuola avesse iniziato a fiorire. Piccoli grappoli di petali bianchi si muovevano come delicate ali palpitanti sui rami contorti. Mancava poco perché l'albero raggiungesse l'apice della sua bellezza, l'etereo e soffice profilo di una candida

nuvola.

Sorrisi pensando che anche il mio amore, presto, sarebbe fiorito di nuovo.

Quando il signor Larson pronunciò il mio nome mi resi conto che la lezione era già cominciata.

“Signorina Price. Sarebbe così gentile da venire alla lavagna e riscrivere le formule che abbiamo visto la scorsa settimana?”

Ebbi un attimo di panico, non ne ricordavo nemmeno una.

Una minuscola lampadina si accese nella mia testa. Non era la soluzione che chiedeva lui ma per me era senza dubbio la migliore. Lo guardai e senza muovere le labbra gli parlai.

“Mi lasci perdere e faccia lei un bel rio per tutti”.

Si girò e mentre tornava verso la lavagna cominciò ad elencare gli elementi della prima formula.

Ecco lo avevo fatto di nuovo, ogni volta ero stupita del fatto che funzionasse davvero.

ai in rassegna i miei compagni mentre un'irrefrenabile frenesia si stava impossessando di me.

Tim, in terza fila, come al solito tirava su con il naso.

Non avevo mai sopportato quel tic.

Si accorse che lo stavo osservando e corrugò la fronte scuotendo la testa. "Che vuoi?" sussurrò. Mi aveva proprio scocciato, era ora di dare un taglio alle brutte abitudini.

Gli ordinai mentalmente di smetterla. Attesi in silenzio, quasi trattenendo il respiro, quattro, cinque, sei minuti, nessun suono fastidioso: voilà, guarito!

Tornai con lo sguardo verso la lavagna.

Cominciavo ad avere difficoltà a concentrarmi sulla lezione. Mi sentivo come se volessi togliermi dalla mente un motivetto musicale che mi tormentava. Ma più cercavo di pensare ad altro, di fissare la mia attenzione sulle parole del professore, più la mia testa si riempiva solo di quella canzone. E il ritornello diceva fallo ancora, fallo ancora. Scacciai quel pensiero e seguii lo sguardo del professor Larson che ad intervalli regolari si posava sulla generosa scollatura della ragazza dietro di me. Mi voltai e le lancia un'occhiataccia che diceva “abbottonati la camicetta”. Quando lei eseguì, diverse proteste si levarono dai banchi dei maschi.

La mia mente cominciava ad essere incontrollabile. Mi guardavano attorno pensando a cos'altro avrei potuto far fare ai miei compagni. Mi stavo facendo prendere la mano.

Dovevo resistere. Aprii il libro sul capitolo che stavamo studiando. Il testo riportava esattamente ciò che il professore stava spiegando alla lavagna, ma pensai che riscriverlo sul quaderno sarebbe stato un buon modo per non distrarmi.

Quando la lezione terminò avevo riempito quattro pagine con il nome di Nick decorato con riccioli, arabeschi e scarabocchi vari ma non c'era traccia di formule chimiche. Mi ero persa un'altra volta. Magari durante la pausa pranzo sarei riuscita a riordinare le idee ed a ritrovare la concentrazione.

Il mio solito tavolo era già al completo. La prima cosa che notai fu l'espressione avvilita di Kate ed il fatto che non indossasse più il maglioncino sbiadito. Era l'unica di tutta la sala in maniche corte. Aveva le braccia incrociate, la pelle nuda e pallida tremava. Nonostante fossimo ancora in primavera e a dispetto del buco dell'ozono che si faceva sempre più grande l'aria condizionata in sala mensa era già regolata al massimo. Kate mi faceva una gran pena, così minuta e fragile.

Osservandola mi accorsi che con movimenti impercettibili stava lentamente spostando la sedia per avvicinarsi ad Andy. Quando le loro spalle si toccarono si appoggiò a lui. Era un ragazzone muscoloso di un metro e ottanta, emanava calore solo a guardarlo, indossava una felpa blu con il logo della squadra di football che tutto sommato non gli serviva.

“Andy hai finito il saggio di letteratura?”, chiesi richiamando la sua attenzione. Mi guardò allibito, parlare di letteratura con lui equivaleva a conversare di pornografia con una suora, ma non ebbe il tempo di dire niente, i miei pensieri

erano già nella sua testa.

“Dì a Kate che così prende freddo e dalle la tua felpa”.

Rimase immobile per un istante, poi sbatté le palpebre e guardò Kate come se la vedesse per la prima volta.

"Senti, così prendi freddo" le disse in tono brusco, poi si tolse la felpa e gliela porse.

Il viso le si illuminò come se fosse apparso l'Arcangelo Gabriele che le annunciava la lieta novella.

“Grazie. Sei gentile”, disse abbassando lo sguardo. La sua voce tremava per l'emozione .

Indossò la felpa e, incurante dei nostri sguardi, avvicinò la manica alle narici inspirando profondamente più volte.

Io e Susan ci scambiammo un'occhiata maliziosa.

Sapevamo esattamente cosa asse nella mente di Kate. Chissà se gli avrebbe mai restituito la felpa? Di certo per un po' di tempo il pigiama non le sarebbe servito.

Cominciai a chiedermi cos'altro potevo fare per lei. In quale modo avrei potuto usare le mie nuove capacità per dare una svolta al loro rapporto. Non era mia intenzione costringere Andy a manifestare sentimenti che non provava ma volevo capire se era veramente interessato a lei o se si dimostrava gentile solo per l'aiuto che gli dava in biologia.

Il suo principale argomento di conversazione era lo sport, praticamente non parlava d'altro, almeno non con noi, dovevo trovare qualcuno che indagasse per me.

Carlos sarebbe stata la persona più adatta ma purtroppo non avevo molte occasioni di avvicinarlo e soprattutto i nostri discorsi ormai si limitavano ad un banale scambio di saluti.

Rivolsi la mia attenzione verso Colin. Era magro e piuttosto scoordinato, amava la lettura e detestava qualsiasi forma di competizione. Decisamente lui ed Andy avevano ben poco in comune. Non sapevo come Andy avrebbe reagito all'intromissione di Colin nella sua vita privata ma dovevo almeno tentare.

Domandai a Colin che libro stesse leggendo. Fu felice della mia domanda e, anche se mi sentivo in colpa, mentre lui mi descriveva con entusiasmo la trama entrai nella sua testa e gli dissi di avvicinare Andy alla fine delle lezioni e di chiedergli se pensava di invitare Kate al ballo del diploma.

Le successive tre ore furono interminabili. Per quanto mi sforzassi di tenere a bada i miei impulsi non riuscii ad impedirmi di usare il mio potere. La prima volta costrinsi un ragazzo del terzo anno ad aiutare una timida biondina alle prese con un armadietto che non riusciva ad aprire.

La seconda “suggerii” all'insegnante di storia di non assegnarci compiti per il fine settimana. Purtroppo la gioia della classe azzerò i miei già scarsi sensi di colpa perciò ripetei il gioco di prestigio anche con l'insegnante di spagnolo. Alla fine della giornata avevo reso molti studenti felici e lasciato qualche insegnante confuso.

Attesi Colin vicino all'uscita, in cima alle scale. Quando lo scorsi tra la folla mi accorsi subito di quanto fosse turbato.

“Ciao Colin, tutto bene?” Gli chiesi d'un fiato.

“Sì, grazie”. Aspettavo che dicesse qualcosa per poter condurre il discorso fino ad Andy, ma non aggiunse altro.

Avrei potuto chiacchierare del più e del meno fino a portarlo dove volevo, ma la curiosità mi stava divorando perciò commisi un'imprudenza.

“Hai visto come è stato gentile oggi Andy con Kate?” Il suo sguardo si fissò nel mio e mi fece capire che stava intuendo dove volevo arrivare.

“Secondo te la porterà al ballo?” Mentre lo chiedevo ad alta voce lo obbligai mentalmente a dirmi la verità.

“Ho provato anch'io a chiederglielo – e sinceramente non so perché l'ho fatto – ma mi ha risposto che non ha nessuna intenzione di andare al ballo. È una cosa

che non gli interessa”.

“Peccato, secondo me starebbero bene insieme".

Sospirai.

"Be' adesso ti saluto. Ci vediamo domani”.

Aspettai che mi superasse, poi lo seguii lenta verso il parcheggio.

Non avevo risolto nulla. Dovevo sbrigarmela da sola.

La mattina seguente mi presentai a casa di Susan con venti minuti di anticipo. Non mi sarei persa la sfilata di Eleanor per niente al mondo.

Quando arrivammo a scuola il parcheggio era ancora vuoto. Ci sedemmo sul muretto in cemento ai piedi della scalinata che portava all'ingresso. Da lì potevo vedere quasi tutto il piazzale e chiunque entrasse a scuola, era un posto di osservazione perfetto.

A Susan non era sfuggita la mia insolita euforia.

“Com'è che sei così allegra oggi?”

“Boh, non so cosa dirti. Sarà la primavera, l'amore ...”

“L'amore?” Mi lanciò un'occhiata sorpresa. Capii al volo.

“Non sto parlando di me! Parlo di Kate e Andy. Hai visto com'è stato carino con lei ieri?”

“Sì, l'ho notato. Strano non è da Andy essere così premuroso”.

“Tu che dici, gli piace Kate?” Forse Susan mi avrebbe suggerito un modo per trovare la risposta.

“Non so cosa dirti. Di solito non la degna di uno sguardo. Ma ieri ...”

“Secondo te c'è qualcuno con cui si confida?”

“Ne dubito. Ma se dovesse parlare con qualcuno scommetto che si rivolgerebbe a Carlos”.

“Sì. Lo penso anch'io”.

Rimasi in silenzio pensando al modo migliore per coinvolgere Carlos senza destare sospetti.

A tre minuti dal suono della camla non c'era traccia di Eleanor. Con un certo sollievo cominciavo a dubitare dei miei poteri.

Ripensai a cosa le avevo chiesto. Ricordavo perfettamente la sequenza di pensieri che mi avevano portata a decidere di farla vestire di verde. Ero stata tentata di chiederle di vestirsi come una barbona o di venire a scuola indossando solo la biancheria intima, ma sarebbe stato troppo anche per lei. Troppo estremo e assurdo, avrei rischiato che gli altri studenti l'aiutassero o la compatissero piuttosto che deriderla. No. Doveva essere “occhio per occhio”. Il verde era un colore perfetto.

Avrebbe potuto are inosservata indossando una felpa firmata, magari verde scuro, o un paio di pantaloni mimetici, certo un solo indumento può essere perdonato ma messi insieme avrebbero gridato allo scandalo. Vestirsi completamente di verde sarebbe stato assolutamente, indiscutibilmente out.

E fu esattamente quello che pensarono tutti gli studenti della scuola quando, ad un minuto dall'inizio delle lezioni, Eleanor Stevens scese dalla sua cabriolet rossa indossando un maglioncino verde mela, un paio di jeans verde bosco e delle deliziose ballerine verde pisello.

Sembrava un enorme ghiacciolo alla menta e pistacchio.

Il fragore delle risate che accompagnò il suo ingresso a scuola fu un'ineguagliabile inno al mio trionfo. E a giudicare dall'espressione di Kate e

della maggior parte delle ragazze nell'atrio, non fui l'unica a godere di quel momento.

8

CHIACCHIERATE

Presa dalla gestione delle mie nuove “abilità” non avevo ancora studiato un piano per riconquistare Nick. Un vortice tumultuoso di idee si agitava nella mia testa ed ero intenzionata ad esaminarle tutte con cura. Tutte tranne una. Non avrei mai obbligato Nick a tornare con me. Di questo ero assolutamente certa. Ma ero altrettanto sicura che se mi avesse visto sotto una luce diversa sarebbe tornato da solo. Dovevo solo posizionare i riflettori nella maniera giusta.

Avevo bisogno di un complice e più ci pensavo più mi convincevo che solo una persona avrebbe potuto fare la spia tra le linee nemiche e are inosservata: Carlos.

I fiori si muovevano docili sotto le mie dita. Fresie, bacche di iperico e tulipani. Mi piaceva: allego e colorato al punto giusto, non troppo formale. Adoravo il rosso, il giallo e l'arancione, in tutte le gradazioni. Ero affascinata dall'incredibile numero di tonalità di colore esistenti ed ero altrettanto sconcertata da quanto poco la gente le conoscesse. Amaranto, Borgogna, Carminio, Granata, Magenta, Vermiglione, per i comuni mortali erano solo rosso chiari e rosso scuri. Per me era come dipingere.

Tutte le emozioni erano amplificate dai profumi che accarezzavano la pelle e salivano fino a riempire le narici ed il palato.

Ed ora il nastro. Morbido raso o ruvida corda?

Decisamente raso, magari di un bel verde bottiglia per non distogliere l'attenzione dai fiori. Poggiai il mazzo sul tavolo per fare il fiocco. Come in una partita di ping pong i miei pensieri rimbalzavano da Carlos ai fiori, meditando su come avvicinare l'uno e confezionare gli altri.

Me lo ritrovai davanti all'improvviso.

“Ciao Emily”.

“Ciao Roger".

"Ti trovo in forma, sei ancora più bella di quando ti ho conosciuta".

Prese una rosa ne respirò il profumo e poi la fece scivolare delicatamente sulla mia guancia. Mi scostai di scatto.

Aveva fascino da vendere, era sicuro di sé e sapeva come far girare la testa a una ragazza. Per quanto detestassi ammetterlo non ero certo immune alle sue avance. Mi piaceva in una maniera contorta, mi atterriva e mi allettava allo stesso tempo. Ma non intendevo cedere.

“Vuoi acquistare dei fiori?"

Sorrise. "No, voglio tè".

Ero sbalordita dalla sua sfacciataggine.

“In che senso?”

Il suo sguardo si fece più intenso e mi fissò con un sorriso malizioso.

“In tutti i sensi”.

Per fortuna mia madre non c'era. Se avesse origliato la nostra conversazione, come faceva quanto stava nel piccolo ufficio sul retro, sarebbe andata fuori di testa.

“Ma se non mi conosci neanche”. Rimasi sorpresa dal mio tono sicuro e deciso nonostante avessi lo stomaco aggrovigliato e un fruscio di farfalle in testa.

“Questo lo pensi tu. Ti conosco più di quanto credi. So che sei figlia unica, sei all'ultimo anno di liceo, che lavori qui tutti i pomeriggi e che ultimamente non sei stata molto bene. Ma soprattutto, so la cosa più importante ...” Il suo viso era a pochi centimetri dal mio, i suoi occhi immersi nei miei, affondati fino a raggiungere lo stomaco che si contorceva dall'ansia. La cosa più importante? Non poteva sapere. Nessuno sapeva. Non aveva prove e comunque avrei negato tutto. Stavo trattenendo il respiro.

Colse la paura nel mio sguardo e ò una mano sulla mia guancia rovente. Si avvicinò ancora e completò la frase sussurrando, “... so che sei una ragazza molto, molto speciale”.

La tensione raggiunse il limite, non ero in grado di reggere oltre. Il panico mi stava allagando il cervello, ancora qualche secondo e avrei ceduto. Dovevo reagire in fretta. Con gli occhi inchiodati ai suoi pensai “non dire altro e vattene”.

Quando la porta si chiuse alle sue spalle mi lasciai cadere sulla sedia di vimini accanto al bancone. Mi tremavano le mani ed il cuore correva come un treno sulle montagne russe. Con tutti i problemi che avevo ci mancava solo questo a complicarmi la vita. Eppure, nonostante il fastidio che provavo per la sua arroganza e la paura per ciò che poteva aver scoperto ero quasi pentita di averlo cacciato via così in fretta.

Nessuno mi aveva mai guardata con tanta smania negli occhi. Ed a pensarci bene, nessuno mi aveva mai detto che mi voleva, neanche Nick. Certo era implicito, era logico che mi desiderasse quando stavamo assieme, ma sentirselo dire era tutta un'altra cosa.

Improvvisamente mi ritrovai a pensare a me e a Roger insieme, a come sarebbe stato. Era determinato e ionale, due doti apprezzabili sotto certi punti di vista.

Censurai le immagini che si scatenavano nella mia mente.

No. Non era il mio genere. Io preferivo quelli dolci e protettivi. Io preferivo

Nick. O forse era solo perché non avevo conosciuto altro? Le mie certezze cominciavano a vacillare.

Attesi Carlos appoggiata al muro, accanto all'aula di matematica. Fu sorpreso di vedermi ma finse indifferenza.

“Ciao Emily. Come va?”

“Benissimo e tu?”

“Bene grazie. Aspetti qualcuno?”

“Sì. Veramente aspettavo te”.

“Ah, ti serve qualcosa?”

Infilò le mani nelle tasche posteriori dei jeans, scuotendo nervoso le spalle.

“Volevo chiederti un favore”.

“Dimmi”.

“Si tratta di un ragazzo”.

Arretrò impercettibilmente. Il viso contratto in una smorfia di stizza.

“Non è Nick, se è questo che ti preoccupa”.

Preso alla sprovvista si rilassò. “Ah, e chi?”

“Andy. E logicamente non è per me”.

“Kate?”

Non aveva dimenticato la nostra scommessa.

“Esatto. Senti, sta veramente perdendo la testa per lui ma prima che raggiunga il punto di non ritorno volevamo capire se anche lei gli piace”.

“E io cosa centro?”

“Dovresti parlargli e cercare di scoprirlo. Pensi di farcela?”

“Posso provare. Ma perché io?”

“Perché sei uno dei suoi migliori amici”. Mi fermai, indecisa se scoprire o no tutte le mie carte. “E perché Colin ci ha già provato ma è stato un completo fallimento.

Cosa vuoi, non ha il tuo savoir-faire”.

Sorrise compiaciuto. “Va bene. Posso provare. Altro?” Gli offrii uno dei miei sorrisi innocenti e con altrettanta innocenza pensai: già che ci sei dì a Nick quanto mi trovi fantastica e che è stato un cretino a mollarmi! Dopodiché lo salutai con un rapido cenno della mano e me ne andai soddisfatta. Avevo fatto il primo o ed ora non mi rimaneva che aspettare.

Ero seduta al solito tavolo e da dietro il menù li osservavo.

Il dottor Evans, la sua segretaria e un ragazzino dalla pelle scura discutevano animatamente dall'altra parte del locale. Ad un tratto smisero di parlare e si alzarono. Il ragazzino rimase seduto, lo sguardo puntato su di me, mentre loro si avvicinavano.

“Ciao Emily, possiamo sederci?”

Ero allibita. Erano venuti a parlare proprio con me.

“Certo dottor Evans sedetevi pure”.

“Preferirei mi chiamassi Sam e lei è Claire, ti va di fare due chiacchiere?”

Ero più che allibita, ero sbigottita.

“Certo, … volentieri”.

“Come sta il polso, ato il dolore?”

“Sì, grazie. Lei è veramente un mago”.

“Non esagerare, non era poi così grave, immaginavo sarebbe guarito nel giro di pochi giorni. Ti vedo stanca, sicura di stare bene?”

“Certo. Perché me lo chiede?” Prevedevo grane in arrivo. Sicuramente c'era lo zampino di mia madre.

“Mi hanno detto che ti comporti in modo, diciamo bizzarro, da un po’ di tempo”.

Fui pervasa da un moto di irritazione, cosa c’entrava lui con quello che mi stava succedendo? Perché nessuno si faceva gli affari suoi? Questa volta mia madre aveva superato il limite.

“Sto benissimo dottore, cioè Sam, grazie.”

“Senti Emily è inutile che ci giriamo attorno, sappiamo cosa ti sta succedendo, ti abbiamo tenuto d’occhio”. Fece una pausa cercando di valutare la mia reazione. “Ci siamo ati anche noi, sappiamo come ci si sente e siamo molto preoccupati per te, per come potrebbero mettersi le cose”.

“Cosa significa ci siete ati anche voi?” Le mani cominciarono ad inumidirsi ed il cuore accelerò il ritmo.

“Diciamo che anche noi abbiamo sviluppato dei tratti per così dire, speciali, e sappiamo che all'inizio ci si sente strani e disorientati, vogliamo solo aiutarti”.

Non ero sola. Non ero l'unico fenomeno da baraccone esistente sulla terra. Mi sentii immensamente sollevata.

Tutto cominciava ad avere un senso. Osservai Sam con attenzione. Avevo sempre saputo che in lui c'era qualcosa di diverso. Aveva le mani sempre caldissime e guarivo sempre troppo in fretta. E poi la gente, tutte quelle persone che andavano da lui perché in qualche modo sapevano che era un guaritore eccezionale. Ma per quanto tutto ciò avesse un senso e per quanto Sam mi sembrasse sincero non ero sicura di potermi veramente fidare di lui.

“Cosa vi fa pensare che io abbia bisogno di aiuto?”

“Ti seguiamo da circa due mesi Emily, ti abbiamo osservata bene. Pensiamo di aver capito cosa sei capace di fare”.

Mi guardava negli occhi il meno possibile spostando repentinamente lo sguardo sul resto del mio viso e sul tavolo alle mie spalle mentre Claire non mi guardava affatto ed era concentrata su di lui.

“Inoltre tua madre ha chiamato per avere un appuntamento con lo psicologo del nostro studio e questo ci ha dato qualche altro indizio, oltre che complicare le cose”.

“Ma perché mi seguivate? Cosa pensate di aver capito?” Mi fermai. Fino a dove potevo arrivare a fare domande senza rivelare niente in cambio.

Sam riprese a parlare.

“E’ stata Claire, ha visto la tua aura e allora ti abbiamo tenuta sotto controllo”. Aveva un tono di voce assolutamente naturale, come stesse dicendo delle cose banali, scontate, tipo che mi avevano vista bere un caffè e avevano capito. Ma ero io che non capivo. Claire? Aura?

Cos'era un piatto Thai? Aggrottai le sopracciglia. “Aura?

Non ho la più pallida idea di cosa sia”.

Sam e Claire si scambiarono un’occhiata per decidere chi dei due mi avrebbe raccontato tutta la storia. Anche da parte loro c’era una certa resistenza, non volevano scoprirsi del tutto.

Fu ancora Sam a parlare.

“L’aura è un alone di energia che si irradia da tutti gli esseri viventi, è come un fascio di luce colorata che circonda il nostro corpo ma che è parte inscindibile di esso. E’ il riflesso di ciò che veramente siamo, della nostra natura più intima”.

Fece una pausa e scrutò la mia espressione per capire se lo stavo seguendo. Feci un cenno di assenso e lui riprese a parlare.

“E’ invisibile ad occhio nudo ma alcune persone, come Claire, la visualizzano nitidamente in maniera spontanea, senza bisogno di artifici. Vedi, l’aura degli esseri umani assume colorazioni diverse in base alla loro essenza più profonda e alla loro indole, Claire ne percepisce le sfumature, vede l’aura come una nube di vapore colorato che le circonda. Ma nelle persone come noi, in chi ha un dono, un potere speciale, l’aura ha un colore molto più intenso e più abbagliante e Claire in te ha visto un magnifico azzurro elettrico”.

Rimasi qualche secondo in silenzio, cercavo di analizzare le sue parole con razionalità ma non c’era niente di razionale in quello che mi stava dicendo e tanto meno in quello che mi stava accadendo.

“E quanti sono quelli come noi?”

“Non molti, ma ci sono, ci sono sempre stati. Qualcuno ci chiama “freak”, anomalie”.

Era una cosa difficile da digerire ma a forza di mandar giù l'impossibile stava diventando il mio pane quotidiano.

“Tu hai il potere di guarire le persone, vero?”

“Sì”.

“E questa cosa dell'aura ce l'hai anche tu?”

“Certo, Claire dice che sono di un bel verde brillante!”.

Scoppiarono a ridere come se fosse una storiella divertente. Io ero impietrita. Non c'era niente di soso in quei discorsi.

Sam si rese conto della mia reazione, tornò serio e riprese a parlare.

“In realtà ti tenevamo d’occhio da più di un anno, dalla prima volta che sei venuta allo studio, ma non ci siamo mai fatti avanti perché non sempre questi poteri si manifestano, può accadere che una persone con un’aura estremamente luminosa non dimostri mai nessuna capacità straordinaria, che l’energia di cui dispone rimanga rinchiusa, assopita dentro di lei per tutta la vita”.

Non resistetti più. Non potevo continuare a negare, non con un milione di domande che ora avrebbero potuto trovare risposta.

“Ma perché a me è successo, perché il mio potere si è svegliato?”

Questa volta fu Claire a rispondermi.

“Sinceramente non sappiamo bene come funzioni, non abbiamo ancora capito il meccanismo ma pensiamo che debba succedere qualcosa, un grosso sconvolgimento emotivo o uno shock che permetta a queste capacità di sbloccarsi e sprigionare il loro potenziale. Correggimi se sbaglio ma è stato così anche per te, vero?” Annuii con il capo. Non me la sentivo di aggiungere altro, non volevo ricordare, rievocare la nube nera che galleggiava nascosta in qualche angolo dei miei pensieri.

Ma non avevo ascoltato ancora tutto, erano lì per un motivo preciso e non per raccontarmi cosa mi era successo e tanti saluti. La voce di Sam era calma e guidava la mia mente verso un piccolo punto luminoso che appariva in fondo al tunnel di angoscia e disperazione che mi aveva imprigionato per settimane.

“Ci vogliono alcuni mesi prima che la mente prenda coscienza e sviluppi appieno il suo potere, ed in questi mesi è come se fosse una barca in mezzo all’oceano, in balia delle correnti e delle tempeste. Le possibilità che hai sono due, riuscire ad afferrare il timone e dirigerti cautamente verso un porto sicuro o farti travolgere dalla follia e dal delirio di onnipotenza perdendoti tra le onde".

Fece una pausa e sospirò, i suoi occhi si erano riempiti di tristezza. Stava per riprendere quando una voce alle nostre spalle lo interruppe. Una voce calda e intensa che ormai conoscevo bene.

“Noi non siamo anomalie. Siamo “outsider”, fuoriclasse.

Abbiamo qualcosa in più degli altri, non in meno e c’è una terza possibilità che Sam si guarda bene dal farti presente. Certo è una strada che lui non ha avuto il coraggio di percorrere ma ciò non significa che questa possibilità debba essere tolta anche a te”.

Mi voltai di scatto. A meno di un metro da noi, Roger aveva ascoltato la nostra conversazione ed ora si intrometteva senza invito. Ma avevo bisogno di sapere, di conoscere tutte le possibilità e lui lo sapeva perciò parlò prima che Sam potesse aprir bocca.

“La tua piccola barca indifesa potrebbe diventare un maestoso veliero che naviga sicuro tra le acque del destino alla conquista di nuovi mondi e nuovi tesori”.

“Certo, un vascello pieno di ladri, di assassini e gente senza scrupoli! E’ così che diventa chi segue la tua strada Roger!”. Sam era in piedi, le braccia rigide lungo i fianchi, i pugni serrati. Gli occhi semichiusi erano fissi verso Roger che invece rimaneva rilassato e perfettamente a suo agio.

“Solo perché non ho voluto unirmi ai tuoi paladini della giustizia non significa che io sia un cattivo ragazzo. Sono solo una persona più concreta. Il mondo non è il posto meraviglioso che tutti tentano di farci credere e se abbiamo questi doni c'è un motivo ed uno scopo”.

Sam era furioso.

“Mi ero accorto che le ronzavi intorno Roger, scommetto che non l'hai mollata un attimo da quando hai percepito le sue vibrazioni”.

Mi voltai di scatto verso Claire. “Anche lui ha il tuo stesso potere?”

“In un certo senso”. Rispose. “Solo che lui non vede l’aura, lui percepisce le vibrazioni che le persone emettono e tu, anzi noi, vibriamo in maniera diversa dagli altri”.

Ero ancor più sbalordita. Mi sembrava tutto talmente assurdo, se non fosse stato per il fatto che avevo sperimentato a mie spese il risultato di quelle vibrazioni avrei pensato di trovarmi in un film di fantascienza.

In quel momento Susan entrò nel locale e dopo avermi individuata ed aver spostato lo sguardo da Roger a Sam si incamminò titubante verso il nostro tavolo.

Roger si rivolse a me un’ultima volta. “Spero che ci sia l’occasione di riprendere questa conversazione Emily, ho parecchie cose interessanti da dirti. Io e te potremmo fare scintille insieme”. Si chinò verso di me e mi mise tra le dita il suo biglietto da visita. Sollevò la mia mano, la sfiorò con le labbra e dopo avermi fatto l'occhiolino se ne andò.

Sam allungò la mano verso la mia per prendere il biglietto ma non gliene diedi il tempo e lo infilai nella tasca dei pantaloni.

“Emily, ti prego, stagli lontana, è una persona pericolosa. Ti aspetto allo studio domani dobbiamo parlare seriamente di come gestire questa cosa”.

Susan lo guardò incredula.

Senza attendere la mia risposta Sam e Claire ci salutarono e uscirono dal locale. Mi sentii avvampare, la rabbia stava prendendo il posto dello sconcerto. Cosa significava come gestire, la cosa riguardava solamente me, non avevano nessun diritto di intromettersi e io non glielo avrei certo permesso.

“Cosa c'è Emily? Sei arrabbiata perché ho fatto tardi?”

“No è colpa tua. Sam mi ha fatto saltare i nervi”.

“Sam chi?”

La fissai con fastidio. Quando faceva la finta tonta era veramente irritante.

“Mi prendi in giro? Sam. Samuel Evans. Il dottor Samuel Evans”.

“Il dottor Evans? Perché sei tornata da lui? Ti sei fatta male di nuovo?”

L'unico grammo di pazienza che mi era rimasta si volatilizzò all'istante.

“Sei scema! Era qui due minuti fa!”

Susan cambiò espressione. Minacciose nubi temporalesche si stavano addensando sul suo viso. Si era offesa.

“Datti una calmata Emily. Se non te ne sei accorta sono appena arrivata. Se non l'ho visto non è colpa mia”.

“Ma Susan come fai a non averlo visto? Era qui accanto a me, lo hai persino salutato”.

Ora era Susan a non capire. La sua voce cominciò a tremare. “Non è divertente Emily. Ma se pensi veramente di aver visto il dottor Evans e che io lo abbia persino salutato allora è proprio il caso che tu ti faccia vedere da uno specialista perché sei completamente andata”.

Rimasi in silenzio. Fu allora che notai che il ragazzo che prima era seduto con Sam e Claire ci stava osservando. Mi sorrise soddisfatto, poi posò sul tavolo dieci dollari ed uscì dal locale.

Un incubo. All'improvviso ero stata scaraventata in un film horror popolato di

mostri. Mostri come me.

Io e Susan non ne parlammo più. Come se non fosse mai successo niente, ma si era formata una crepa nella nostra amicizia, ci stavamo allontanando e speravo che il concerto di sabato mi avrebbe dato l'occasione di aggiustare le cose.

In compenso il lavoro al negozio andava alla grande.

Riuscivo sempre a vendere qualcosa, a chiunque entrasse, anche solo per chiedere informazioni. Piccoli bouquet, a volte solo una rosa, ma mi servivano per tenermi in allenamento e fare esperimenti. Mia madre era incredula ed entusiasta allo stesso tempo.

Carlos mi aveva detto che Andy non aveva voluto sbilanciarsi. Aveva definito Kate “carina”, che significava tutto e niente. Perlomeno la conversazione con lui mi aveva dato l'occasione di “suggerirgli” un altro paio di apprezzamenti sul mio conto da fare in presenza di Nick.

Decisi di non intromettermi più nella storia tra Andy e Kate e lasciare che il destino fe il suo corso.

9

JASON

Il concerto era stato fantastico.

Niente, come la musica, mi faceva sentire viva e pulsante.

Eravamo tutti e tre su di giri, ridevamo canticchiando pezzi dei brani che avevamo appena ascoltato e che ancora ci rimbombavano nella testa.

Paul guardò l’orologio. “Cavolo ragazze se non ci muoviamo ci toccherà prendere un taxi per tornare al parcheggio”. La stazione della metro di Judiciary Square non era lontana perciò cominciammo a correre.

Ci infilammo dentro la stazione urlando come pazzi e ci precipitammo giù per le scale rischiando di travolgere una decina di persone scese dal treno appena arrivato.

Le porte del vagone mi si chio praticamente in faccia. Battei forte le mani sul vetro della porta. Gli occupanti sobbalzarono. Erano tutti ragazzi appena usciti dal concerto, mi insultarono facendo gestacci.

All’improvviso qualcosa di potentissimo e travolgente amplificò tutti i miei

sensi. Il treno mi attirava a sé come un enorme magnete. Il rumore delle ruote che stridevano sui binari rimbombava nella mia testa, l’odore del metallo mi bruciava le narici, sentivo il mio corpo risucchiato dallo spostamento d’aria, un’energia calda e invitante mi avvolgeva. Fissavo il convoglio con le pupille dilatate senza sbattere le palpebre. L’aumento della velocità rendeva i visi sempre più sfocati, la forza che mi attirava a sé era sempre più forte, più potente, la fonte era lì dentro sempre più vicina.

E poi li vidi, due occhi grigio cenere inchiodati ai miei come due calamite, nonostante la velocità del treno li distinguevo con una chiarezza impressionante e sentivo il loro calore farsi largo dentro di me. Per una frazione di secondo furono esattamente di fronte ai miei, poi vennero trascinati via dalla corsa del treno e un tremendo scoppio mi inondò la testa, come se qualcuno mi avesse strappato un pezzo di cervello.

“Ahi, brucia, oddio che male, che male”. Proferivo improperi cercando di riprendere il controllo dei miei pensieri sparpagliati da quella furia. Qualcosa si fece largo tra le ossa del mio cranio e ai miei insulti verso il mondo ne fecero eco altri, più duri, più volgari, più maschili. Non erano i miei pensieri. Non era la mia voce. C'era qualcuno dentro la mia testa. Mi voltai a guardare Paul che appoggiato al muro chiacchierava sottovoce con Susan, avvinghiata a lui. Non c’era nessun altro vicino a me, la voce era nella mia testa. Cercai di non pensare, di rimanere in silenzio, in ascolto, forse mi ero sbagliata, magari era stato uno scherzo della mia immaginazione, forse era stato solo il dolore ad aver preso voce. Invece no, era ancora lì, arrabbiata, furiosa usava parole che non avrei mai osato ripetere.

“Basta! Smettila!”, urlai nella mia testa. E la voce tacque.

Per qualche secondo pensai che fosse tutto finito, poi un ringhio quasi animale mi perforò le tempie, “Chi sei?”

“Chi sei tu? Sei tu ad essere dentro la mia testa. Cosa vuoi da me?”

“Sei tu tesoro ad essere dentro la mia”, rispose la voce, e quel tesoro non suonava affatto come un complimento.

Per quanto fosse assurdo, pazzesco, spaventoso, decisi di provare a ragionare con calma. Negli ultimi sei mesi tutto ciò che era razionale era diventato folle, e tutto ciò che era impossibile si era realizzato, pensavo che non mi sarei più sorpresa di niente ma come si dice... Mai dire mai.

“Senti, evidentemente siamo uno nella testa dell’altra e viceversa, ora ragioniamo con calma e troviamo una soluzione a questa cosa”.

Per qualche secondo ci fu silenzio assoluto. Poi la voce parlò con tono più calmo. “Sei tu quella con gli occhi marroni alla stazione della metro?”

“Sì, e tu sei quello con gli occhi grigi sul treno?”

“Sì”.

“Hai sentito una fitta anche tu quando ci siamo allontanati?”

“Secondo te? Di solito non uso quel linguaggio. Non tutto il repertorio”.

Mentre pensavo muovevo le labbra, mi sembrava assurdo parlare con qualcuno senza farlo. Mi voltai e mi accorsi che Paul e Susan avevano smesso di scambiarsi effusioni e mi stavano osservando.

“Cosa fai Emily? Parli da sola?”, chiese Susan. Non potevo certo raccontarle la verità, sembrava talmente impossibile persino a me.

“No, sto canticchiando le canzoni del concerto”.

Si rilassarono entrambi e ripresero a parlare tra di loro.

“Ci sei?”, sussurrò la voce. Dal tono traspariva tutta la speranza di chi non desidera avere risposta.

Ma io c’ero e lo sentivo, purtroppo.

“Si, ti sento”.

“Sei stata tu? Hai fatto qualcosa di strano? Qualche sortilegio, qualche magia?” L’orrore di quelle parole rimbombò nella mia testa. Ero stata io? Potevo fare anche questo? Strappare via pezzi alla mente delle persone?

Non volevo neanche prendere in considerazione una simile possibilità, non

potevo essere stata io ma in fondo non potevo neanche essere certa del contrario. In ogni caso avrei negato fino alla morte, "nessuno doveva sapere" stava diventando il mio motto.

“Sei fuori di testa? Perché dovrei essere stata io? E se invece fossi stato tu? Chi sei?” Le nostre menti erano incatenate da dieci minuti e non sapevo niente di lui.

“Mi chiamo Jason, ma è tutto ciò che saprai di me e io non voglio sapere niente di te. Meno sappiamo più possibilità ci sono che questa storia finisca presto”.

Ero d’accordo ma volevo sapesse almeno il mio nome.

“Io mi chiamo Emily”.

“Puoi sentire tutti i miei pensieri o solo quelli rivolti a te?”, chiese.

“No, sento solo se mi chiami e mi parli. E tu?”

“Si, anch’io. Meglio così”.

Certo, già era sconvolgente avere qualcuno dentro la testa, il fatto che non potesse frugare dove voleva era una magra consolazione.

“Dove sei? Intendo quanto lontano sei? Voglio capire se questa cosa funziona indipendentemente dalla distanza tra noi”, chiesi.

“Sono alla stazione di Cleveland Park”.

“Caspita sei a quasi otto chilometri da qui”.

“Già. Senti io non parlo a te e tu non parli a me vediamo se riusciamo ad interrompere questa assurdità”.

“Ok, ciao”. Mi sembrava educato salutare.

“Si, ciao”.

Mi era venuto un gran mal di testa, e nausea.

Altro giro altra corsa: ogni volta che mi faceva male la testa succedeva qualcosa di orribile. Ma perché proprio a me? Perché io? Cominciavo a dubitare di tutto, persino della mia identità. E se fossi stata il frutto di qualche esperimento? Forse i miei mi avevano adottata ignari della mia vera natura e per tutti questi anni qualcuno mi aveva seguita e studiata in attesa della trasformazione. Pensai a Sam "Ti abbiamo osservata" aveva detto e anche Roger mi stava seguendo. Chi erano in realtà? Stavo diventando pazza, una pazza paranoica.

"Ora mi calmo e tutto si risolverà. Non c'è nessuno nella mia testa. Non devo

chiamarlo perché lui non esiste". Lo dicevo a me stessa cercando di crederci con tutte le mie forze.

Era più difficile di quanto pensassi. I minuti avano al rallentatore ed era tremendamente difficile frenare l’impulso di pronunciare il suo nome.

Evidentemente per lui era lo stesso perché dopo quindici minuti una voce parlò, nella mia testa. “Ci sei?”

“Sì. Purtroppo, sì”. Mi veniva da piangere.

L’improperio che arrivò da parte sua mi fece capire che anche lui non gradiva la faccenda.

Finalmente arrivò il nostro treno, era praticamente deserto a parte due ragazzi visibilmente ubriachi che sedevano in fondo al vagone. Avevano i pantaloni strappati in parecchi punti e sulle magliette vecchie macchie scure si sovrapponevano ad altre più recenti. Ci accomodammo nei posti più vicini all’uscita e Susan e Paul mi resero partecipe della loro conversazione che verteva sui programmi per il giorno seguente. I due ubriachi ci osservavano e ridacchiavano, poi uno fece un cenno con la testa e barcollando si diressero verso di noi. Susan impallidì di colpo. Paul in un gesto istintivo la strinse a se.

“Non preoccupatevi ragazze, ci penso io. Se le cose si mettono male però tu Emily stai pronta a tirare il freno d’emergenza”. Paul era tesissimo, aveva gli occhi sbarrati e le mascelle contratte. Era un bravo ragazzo, non era abituato a fare a pugni. Io ero assolutamente a mio agio, avevo la mia arma segreta, dovevo solo decidere come usarla.

Fu il più robusto dei due a parlare per primo.

“Ehi moccioso, non mi sembra giusto che un moscerino come te abbia due ragazze per le mani e noi neanche una!” Si girò verso il suo compare e ridacchiarono.

Quando si voltò di nuovo verso di noi ero pronta, avrei potuto insultarlo e dirgli di mettersi a ballare o ordinargli di inginocchiarsi e piangere, ma non volevo rovinare la magia che c’era tra Susan e Paul, doveva essere lui l’eroe.

Allungai una gamba e con il piede toccai la sua scarpa lurida, ovviamente mi guardò negli occhi con aria di sfida.

Grosso errore. Concentrai il mio pensiero su di lui. Adesso tu aspetti che lui parli, poi chiedi scusa e tu e il tuo amico tornate a sedervi e non vi muovete fino a che il treno non arriva al deposito.

Lui si girò verso Paul attendendo che parlasse. Paul era totalmente in preda al panico, ma fortunatamente si fece coraggio, si alzò in piedi e fingendo di non essere terrorizzato disse, “non vogliamo guai, le ragazze sono con me, lasciate perdere, è meglio per tutti”. Era tesissimo, per fortuna dava le spalle a Susan che non vedeva il suo sguardo atterrito e il viso pallido come un cadavere. Mi veniva da ridere.

Come previsto il gradasso divenne mansueto come un agnellino, si scusò per aver disturbato e trascinò il suo amico riluttante verso il fondo del treno.

Paul era impietrito, non credeva alle sue orecchie, per fortuna Susan lo assalì con un gridolino di gioia, lo coprì di baci e lui riprese un po’ di colore.

“Per fortuna c’eri tu Paul, non so cosa avremmo fatto io e Susan da sole”, dissi per dargli coraggio. In quel momento ne aveva veramente bisogno.

“Già, pensavo sarebbe andata peggio”. Non aveva tutti i torti, sorrisi compiaciuta. Avevo dimenticato la voce, l’ultima volta mi aveva chiamato lui, ora toccava a me.

“Sei lì?”, azzardai con fare incerto.

“Si”. Non disse altro

“Dove sei?” Volevo sapere qualcosa di più di lui.

“Non sono affari tuoi”.

“Senti, neanche a me piace questa cosa ma se dobbiamo conviverci sarà meglio andare d’accordo”.

“Chi ha detto che dobbiamo conviverci? Tu non parli a me e io non parlo a te. Punto”.

“Non credo sarà così facile”. Non per me, almeno.

“Provaci”. Era proprio in collera, decisi di lasciar perdere almeno fino all’indomani. Lungo il tragitto fino a casa riuscii a distrarmi chiacchierando con Susan. Paul era concentrato sulla guida e partecipava alla nostra conversazione con qualche monosillabo ogni tanto.

Arrivata a casa l’impazienza cominciò ad impossessarsi della mia mente, il silenzio era quasi assordante. Stavo sdraiata a letto, gli occhi spalancati, fissi sul soffitto. Non mi ero mai accorta di quante piccole crepe ci fossero lungo gli angoli.

"Chissà dov'è lui? Devo resistere, devo resistere". Erano ate due ore dall’ultima volta che avevo sentito la voce, e se mi ero sbagliata? Se avevo immaginato tutto?

Non sarebbe stato poi così strano, in ato i miei sogni erano talmente dettagliati da sembrare ricordi. Non ce la facevo più.

“Jason”. Lo dissi sottovoce, ma mi sentì forte e chiaro.

“Merda! Mi hai fatto prendere un colpo, stavo dormendo”.

“Scusa, io non riesco a dormire, pensavo di essermi immaginata tutto”.

“Se lo fai un’altra volta giuro che vengo a cercarti e ti faccio are la voglia di darmi fastidio”.

“Scusa, notte”.

Nessuna risposta, ma non era il caso di insistere, avrei dovuto mettere a dura prova la mia pressoché inesistente forza di volontà e cercare di non chiamarlo. Almeno per quella notte.

Alle sette ero già sveglia e con un pensiero fisso, ma se volevo guadagnarmi la sua fiducia ed avere un briciolo di speranza di gestire in maniera amichevole questa cosa dovevo aspettare che fosse lui a iniziare.

L’attesa era snervante. Non parlare è facile, uno tiene la bocca chiusa e non parla, ma come si fa a non pensare. E

poi quando sai che non devi pensare a qualcosa o qualcuno, non so come quel qualcuno diventa il centro dell'universo e non esiste altro. Mi concentravo sui compiti di scuola ed il suo nome compariva scritto a bordo pagina, per fortuna riuscivo a pensarlo senza chiamarlo, ed era già una gran cosa. O era lui che non mi rispondeva?

Basta, basta, stavo impazzendo. I miei erano fuori città tutto il giorno avevo la casa a disposizione e dovevo trovare un diversivo. La casa era troppo silenziosa e i miei pensieri parevano rimbalzare in ogni angolo e tornare da me come boomerang. Scesi in salotto e accesi la TV.

Susan mi telefonò un’ora dopo.

“Ciao, dormito bene? Io mi sono appena alzata”.

“Ciao. Sì anch’io ho fatto una gran dormita”. Non dovevo farle capire che non stavo bene. In una vita precedente doveva essere stata un membro onorario dell'Esercito della Salvezza. Era la mia migliore amica ma quando ci si metteva era un vero e proprio tormento.

“Senti io e Paul volevamo andare al cinema oggi pomeriggio e ci chiedevamo se avevi voglia di venire con noi?” Avevo bisogno di distrarmi, ma erano stati fin troppo pazienti con me in quelle settimane, dovevo concedergli un po’ di tregua.

“No grazie, andate pure io ho parecchio da studiare”.

La risposta di Susan mi sorprese.

“Veramente ci faresti un favore se venissi. Gli zii di Paul sono venuti a trovarli e lui deve portarsi appresso suo cugino, perciò se ci fossi anche tu sarebbe meno imbarazzante”.

Ero in debito con la mia amica e il suo ragazzo per almeno cento anni quindi non me la sentii di rifiutare.

“Certo Susan, per voi questo ed altro e non voglio neanche sapere se è carino. Va bene tutto”.

“Sei un tesoro Emily, iamo noi alle tre. A dopo”.

“Ciao”.

Ripensandoci sarebbe stato meglio chiedere se era carino perché non volevo rischiare di mettermi in tiro per un rospo o di vestirmi in modo scialbo per uno che magari era uno schianto.

Ragionai con calma e giunsi alla conclusione che se fosse stato carino Susan me lo avrebbe detto, perciò dei jeans e un’anonima maglietta azzurra andavano benissimo.

Quando salii in auto e lo vidi pensai che una tuta da meccanico sarebbe stata anche troppo elegante per lui.

Il film era un colossal fanta-horror che sarebbe sicuramente piaciuto a Nick. Pensavo a lui, seduta al buio della sala, mentre un alieno mutante stava per attaccare l’eroina.

“Emily, ci sei?”, chiese la voce nella mia testa.

“Sì”, punto. Ora toccava a me fare la preziosa.

“Senti, ieri sera mi hai fatto venire un colpo. Argomento chiuso, va bene. Che fai?”

A modo suo si stava scusando.

“Sono al cinema con due amici che mi hanno rimediato un appuntamento”. Non lo conoscevo, non lo vedevo e probabilmente non lo avrei mai visto e lui non avrebbe mai saputo chi ero. Era pazzesco ma per la mia mente contorta era fantastico. Avrei potuto raccontargli qualsiasi cosa, verità, bugie, cazzate, avrei potuto confidarmi o chiedere consigli, in qualsiasi momento. Bastava solo che avesse voglia di parlare con me.

“Che film guardate?” Era decisamente un ragazzo. Non che avessi qualche dubbio, ma se fosse stata una femmina mi avrebbe chiesto dell’appuntamento, ma ai maschi queste cose non interessano, sono più concreti.

“Non mi ricordo il titolo. E’ di fantascienza. Ci sono i nostri che devono conquistare un pianeta pieno di alieni mutanti”.

“Ah, si l’ho visto. Non è male”.

“E tu cosa fai?”

“Sto eggiando nel parco”.

Il tono non era esattamente amichevole ma neanche scontroso come la sera prima.

“Senti, non voglio tormentarti o farmi gli affari tuoi è che questa storia mi sta facendo impazzire”. Volevo ricominciare con il piede giusto.

“Si, beh, non importa, anch’io faccio fatica a non pensarci”.

Alleluia, non ero l’unica fissata. Era difficile anche per lui.

“Senti, io ci ho pensato parecchio e forse se ci incontrassimo e ci guardassimo di nuovo negli occhi le cose tornerebbero al loro posto”. Era una teoria a cui avevo pensato parecchio durante la giornata inoltre ero curiosa di vedere la faccia del coinquilino del mio cervello.

“Non so, ci ho pensato anch’io, ma se poi fosse peggio?

Per il momento preferisco aspettare qualche giorno e vedere come evolve”, aveva un tono che non ammetteva repliche. Peccato.

“Ok, come vuoi”.

“Ti lascio guardare il film in pace. Ci sentiamo”.

Lo disse quasi ridendo. Effettivamente ci sentiamo era il termine perfetto per quello che ci stava accadendo.

“Non mi piace granché questo genere di film, sono venuta solo per fare un favore alla mia amica”. Speravo che continuasse la conversazione.

“Scusa non avevi detto che l’appuntamento era per te?”

“Si ma non erano intenzionati a trovarmi un fidanzato, devo solo fare compagnia al cugino del ragazzo della mia amica”. Detto così sembrava complicato.

“Non mi sembri tanto soddisfatta. Com'è? Il tipo tutto muscoli senza cervello o un cervellone senza fisico?”, chiese divertito.

“Esattamente il peggio di entrambi, assomiglia a una lucertola con il cervello di un protozoo”. Mi sembrò di sentire una risata, ma poiché stavo ridendo anch’io era difficile distinguere i miei pensieri dai suoi. Susan si girò verso di me infastidita. I mostri avevano appena divorato il grande amore della protagonista e io ridevo.

“Scusa Susan stavo pensando ad altro”. Tornò a guardare lo schermo un po’ seccata.

Ripresi la mia conversazione silenziosa.

“E tu, sei da solo?”, mi azzardai a chiedere.

“Sì”. Non aggiunse altro. Non era il caso di insistere, avrei indagato sulla sua vita sentimentale più avanti.

“Dove vivi?”, volevo conoscere qualcosa di più sul suo conto.

“Non ricordi? Io non voglio sapere niente su di te e tu non chiedi niente a me. Credimi è meglio così”.

“Ok, ma dimmi almeno quanti anni hai, non vorrei condividere certi pensieri con un minorenne”.

ò qualche secondo prima che rispondesse, probabilmente stava valutando le implicazioni di quell’informazione.

“Ho diciannove anni”.

“Bene, io diciotto, si può fare!”, esclamai.

“Studi?” Non era lecito chiederlo ma tentai.

Altro silenzio.

“No, lavoro. E non aggiungerò altro”.

“Ok, io studio invece. Tra tre settimane ci saranno gli esami per il diploma”.

“Senti, ho incontrato un amico, ci sentiamo un’altra volta. Ciao”. Probabilmente la conversazione aveva preso una piega che non gli piaceva perciò aveva trovato una scusa gentile per chiudere.

“Ciao”.

All’uscita del cinema c’era parecchia confusione. Susan e Paul si erano fermati a salutare alcuni amici e io e Steve stavamo cercando di mettere assieme una conversazione parlando delle solite banalità. Dopo circa tre minuti avevamo esaurito tutti i commenti sul film, gli attori, la trama e gli effetti speciali. Mi voltai, cercavo con lo sguardo Susan per implorarla di muoversi. ai in rassegna i visi dei ragazzi che si trovavano dove qualche istante prima l’avevo lasciata. All'improvviso lo vidi e per un istante il mio cuore si fermò. Era accanto alla cassa, in coda per acquistare il biglietto. Era proprio Nick e mi fissava.

Sentii lo stomaco contorcersi, la gola secca, le mani sudate. Erano ati quattro mesi ma per me era come se non ci fossimo mai lasciati. Non era cambiato niente, la sua presenza aveva ancora un effetto devastante su di me. Cercai di rimanere calma. Alzai una mano in cenno di saluto. Non rispose. In quel momento mi resi conto che non guardava solo me, il suo sguardo si spostava da me al mio accompagnatore e viceversa. Quando si accorse della mia mano alzata ricambiò il saluto con un sorriso sforzato e l'aria corrucciata ma non distolse lo

sguardo, continuò a squadrarci preoccupato. Al suo fianco, Rose, notò il suo interesse e posò una mano sulla sua guancia per distrarlo, era palesemente scocciata. Lui le cinse le spalle con il braccio e cominciarono a parlare.

Non so cosa si dissero e cosa pensasse lui, di una cosa però ero certa: vedermi con un altro lo aveva infastidito.

Per lui contavo ancora qualcosa. Era geloso!

Il mio lavoro su Carlos cominciava a dare i suoi frutti.

A quel punto capii cosa dovevo fare, quale sarebbe stato il o successivo, ora avevo la soluzione per riconquistare Nick e ci sarei riuscita a qualunque costo.

Quando Susan e Paul ci raggiunsero avevo un sorriso ebete stampato sulle labbra e dal momento che non si accorsero di Nick, entrambi pensarono che Steve avesse fatto colpo su di me, perciò decisero di prolungare l’agonia andando a mangiare qualcosa al fast food in fondo alla strada.

Non fui di grande compagnia, la mia mente si era scollegata dal resto del corpo ed i miei piccoli chip-neuroni avevano già iniziato ad elaborare un piano d'azione. Mi limitai a fingere di seguire i loro discorsi facendo cenni di assenso con il capo e sorridendo di tanto in tanto. Susan capì il messaggio e dopo un paio d’ore mi riportarono a casa.

I miei genitori avrebbero fatto tardi, perciò presi un bicchiere di latte, una mela e

mi sedetti al tavolo della cucina.

Avevo abbozzato una strategia ma mi serviva qualche consiglio per metterla in pratica nella maniera più efficace e sapevo esattamente a chi rivolgermi.

10

STRATEGIE

“Jason, ci sei?”

La risposta fu immediata.

“Tecnicamente sono a casa mia, ma purtroppo sì, ci sono, cosa vuoi?”, era di nuovo antipatico.

“Scusa avevo bisogno di un consiglio, ma fa niente, chiamami quando puoi parlare”. Non riuscii a nascondere la delusione.

“Sto guardando il baseball in TV ma penso di poter fare due cose contemporaneamente, che consiglio ti serve?”

“E’ una cosa lunga, hai tempo?”

“Tutta la sera baby”. Fortunatamente non vide che stavo arrossendo.

Senza fare nomi e senza dilungarmi troppo nei dettagli, gli raccontai la mia

travagliata storia con Nick fino all'incontro all’uscita dal cinema. Volevo che avesse un quadro preciso e imparziale della situazione perciò diedi tutta la colpa a quella sgualdrina di Rose che aveva traviato e confuso il mio povero ragazzo.

Ogni tanto Jason interveniva mugugnando sillabe incomprensibili o buttando qua e la qualche distratto

“allora?” e quando conclusi il racconto mi sembro di sentire un sospiro di sollievo.

“Se si è ingelosito nel vedermi chiacchierare con un altro vuol dire che prova ancora qualcosa per me”.

“Se lo dici tu” commentò annoiato.

Finsi di non accorgermi della sua indolenza.

“Ti assicuro che non mi staccava gli occhi di dosso”.

“Senti ragazzina ti stai rivolgendo alla persona sbagliata, io non so niente di queste cose, siete voi che vi fate un sacco di pare mentali e di ogni parola ne fate una telenovela. Se uno vi saluta è perché gli piacete, se non vi saluta è perché gli piacete ma non vuole farvelo capire rigirate sempre la frittata come vi fa comodo. Per come la penso io il tuo amico era solo curioso”.

Non mi piaceva come risposta. I maschi non capiscono niente quando si tratta di sentimenti. L'amore è sempre l'ultima delle opzioni. Non sanno riconoscere una ragazza innamorata neanche se ce l'ha scritto in faccia a lettere cubitali.

“Ma scusa, se tu vedessi la tua ex con un altro non la fisseresti con insistenza se non fossi ancora interessato a lei, giusto?”

“Non so cosa dirti. Io di ex ne ho a decine, non ho mai resistito più di due mesi con una ragazza, mi tolgono l’aria”.

“Ah, carino! Forse non hai ancora trovato quella giusta”.

“O forse sto bene così, se puoi mangiare ogni sera in un ristorante diverso perché accontentarsi della solita tavola calda?”

Trovai quel paragone estremamente volgare ma avevo bisogno di un consiglio perciò decisi di ignorare il suo deprimente maschilismo e di esporgli il mio piano.

“Mi riservo di commentare in futuro la tua visione delle donne, adesso ho bisogno di aiuto. Supponiamo per un attimo che lo sguardo di questa sera fosse di gelosia, se mi vedesse assieme al ragazzo più carino della scuola, secondo te farebbe marcia indietro? Intendo dire, tornerebbe da me?”

“Se, come dici tu, vederti con l’uomo ramarro lo ha turbato, beh, penso che se ti vedesse con il tipo giusto andrebbe fuori di testa. Sai come si dice, uno non

apprezza ciò che ha finché non lo perde”.

Era ciò che volevo sentirmi dire.

“Però c’è un problema”, disse, cogliendomi di sorpresa.

“Come farai a farti vedere in giro con un tipo così?

Voglio dire, o sei una dea, e in questo caso incontriamoci subito, o dovrai fare finta e convincerlo in qualche modo a stare al gioco”.

“Buona la seconda”, risposi.

“Anche se, per tua informazione, non sono tanto male”.

“Scusa, scusa, che permalosa sei!”.

“Mi manda in bestia che voi maschi pensiate che valga la pena di uscire con una ragazza solo se è carina”.

“Anche l’occhio vuole la sua parte”.

“Cosa sei? Il mago dei proverbi?”

“Senti, sei tu che mi hai chiesto un consiglio, sto solo cercando di essere sincero. Non è questo che volevi?

D’altra parte non mi sembra tu abbia concesso molte chance al cugino del tuo amico, o sbaglio?” Aveva ragione, ma non lo avrei mai ammesso.

“Solo perché il mio cuore è ancora di Nick. Ho un sacco di amici simpatici che non sono proprio degli adoni, sai?

Comunque, tornando al mio piano, un modo per convincerlo ad aiutarmi lo trovo”, eccome se lo trovavo,

“ma devo prima cercare la persona giusta”.

Avevo deciso cosa fare ma avrei avuto bisogno di Susan per individuare il soggetto perfetto per il mio esperimento.

Le rivelazioni di Jason avevano stuzzicato la mia curiosità, volevo conoscere meglio il suo stile di caccia.

“E tu hai una ragazza?”, chiesi fingendo un certo distacco.

“Non in questo momento”.

“E qual è il tuo tipo ideale?”

“Innanzitutto quelle che parlano solo se hanno qualcosa di interessante da dire e non ti assillano con mille domande”.

Aveva ato il segno. Non mi conosceva, non mi aveva mai vista e si permetteva anche di offendere. Per quanto mi riguardava la conversazione finiva lì.

Presi un blocco e una penna cercando di fare un elenco delle caratteristiche che doveva avere il mio futuro finto fidanzato.

arono almeno cinque minuti prima che si fe risentire.

“Emily? Dai non ti sarai mica offesa? Dire che sei permalosa è riduttivo. Sei intoccabile, in tutti i sensi!”.

Non intendevo rispondere.

“Senti Emily se vuoi continuare a parlare con me ti ci dovrai abituare. Io sono così, ragiono così e se non ti sta bene tanti saluti”. Era parecchio seccato.

“Non credo di essere assillante”, dissi per rompere la tensione che si era creata.

“Ti ho fatto solo una, del milione di domande che vorrei farti. Allora come sono le ragazze con cui esci? Tutte carine ovviamente, ma brune, bionde o rosse?” La terza opzione di solito non viene mai prevista, perciò speravo non intuisse di che colore erano i miei capelli.

“Mah, di solito preferisco le bionde ma se la cena è invitante sono uno che non fa troppi complimenti!”.

“Quindi esci anche con quelle brutte se sono, come dire, disponibili al dopocena?”

“Brutte no. Diciamo che sono uscito con qualche ragazza poco appariscente e posso assicurarti che nel dopo-cena sono le migliori”, il tono era decisamente presuntuoso. La conversazione cominciava ad imbarazzarmi perciò mi affrettai a chiudere.

“Non voglio sapere altro. Contento? Adesso ti saluto devo studiare per il compito di storia di domani. Ciao”.

“Che peccato proprio adesso che la conversazione si faceva piccante. Avevo anch’io qualche domanda da farti”.

Lasciò il discorso in sospeso. Sapevo dove voleva arrivare e visto che in quel campo la mia esperienza era inesistente non volevo dargli la soddisfazione di

prendermi in giro.

“Tienile per la prossima volta, adesso devo andare”.

“Eh già, chissà tu e il tuo Nick quante ne avete combinate. D’altra parte se ha resistito tre anni con te devi avere qualche arma segreta!”. Un presuntuoso, arrogante e sfacciato, ecco con chi avevo a che fare ma non volevo cadere nella sua trappola perciò usai un tono più distaccato possibile.

“Potrebbe anche essere così, ma non ho intezione di svelarti le mie armi segrete! E con questo o e chiudo.

A domani”.

Si rassegnò e mi salutò.

Proprio in quel momento la porta di ingresso si spalancò e Cookie scodinzolante entrò seguita dai miei genitori.

Non si era più fatta accarezzare dopo la mia “malattia” ma almeno aveva smesso di ringhiare e tollerava la mia presenza.

“Ciao tesoro, com’è andata la giornata?”, chiese mia madre sporgendosi verso la mia fronte per baciarla. C’era stato un tempo in cui mi infastidivano i suoi baci e lei aveva accettato il distacco con un po’ di rimpianto, ma da quando ero stata

male avvicinava le sue labbra più per controllare la mia temperatura che per dimostrarmi il suo affetto e la cosa un po’ mi dispiaceva.

“Bene mamma, sono stata al cinema con Susan, Paul e suo cugino”. Mi pentii immediatamente di aver menzionato il mio accompagnatore perché l’espressione di mia madre si riempì di interesse e mi rivolse uno sguardo curioso.

“Il cugino di Paul? Lo conosco?”

“No, non vive qui è solo in visita“.

“Ah, e com'è?”

"Orribile. In tutti i sensi. Brutto e incapace di mettere in fila tre parole di senso compiuto”. Lo dissi con un tale disgusto che mia madre recepì il messaggio e non fece altre domande.

Da quando la mia vita sentimentale si era polverizzata avevo cominciato ad apprezzare la silenziosa discrezione di mio padre che si limitava a volermi bene fingendo indifferenza verso tutto ciò che mi accadeva.

“Quasi mi dimenticavo, ha chiamato il dott. Evans, ha detto che ti aspetta dopodomani alle sedici allo studio per un controllo. Vuoi che ti accompagni?”

“No, grazie mamma, chiederò a Susan”.

Ero seccata, estremamente seccata, come si permetteva, ma chi credeva di essere? La “gestione” dei miei poteri era solo affare mio”.

Sbadigliai in maniera esagerata e bofonchiai un “buona notte a tutti”.

Erano quasi le undici ed ero sufficientemente stanca per sperare di riuscire ad addormentarmi in fretta.

La mattina seguente ero davanti a casa di Susan con dieci minuti di anticipo, ansiosa di esporle il mio piano.

Lungo il tragitto verso la scuola parlai quasi sempre io, Susan guidava ed ascoltava pensierosa i miei progetti.

Fui abbastanza seccata quando mi fece le stesse obiezioni di Jason a cui ovviamente risposi con le stesse argomentazioni che avevo usato con lui. Giunte nel parcheggio spense il motore e mi guardò perplessa.

Sul suo viso potevo leggere distintamente i sentimenti che in quel momento provava per me: comione, affetto e delusione. Non c’era traccia dell’entusiasmo con cui mi aspettavo che accogliesse il mio piano.

"Emily sei sicura che sia una buona idea? In fondo è stato lui a lasciarti, se avesse cambiato idea te lo direbbe".

"Magari non ha ancora le idee chiare. È confuso Susan, sono sicura, glielo leggevo in faccia".

Possibile che nessuno si rendesse conto dell’evidenza: lui voleva stare con me solo che non lo aveva ancora capito, non consciamente almeno. Non mi sarei lasciata abbattere.

“Ho bisogno del tuo aiuto per fare un elenco dei possibili candidati. Penso che dovremmo darci delle regole per la ricerca, ti dico quelle che ho pensato io: primo, deve essere bellissimo e brillante. Nick deve rimanere a bocca aperta vedendoci assieme. Secondo deve frequentare questa scuola, è il posto dove Nick può vederci insieme più spesso. Terzo, deve essere dell’ultimo anno. Non voglio rendermi ridicola con dei ragazzini più giovani di me. Quarto, deve essere libero, non intendo portare via il ragazzo a qualcuna come Rose ha fatto con me”.

Sorridevo soddisfatta immaginandomi la scena.

“Nient'altro? Hai tralasciato ricco e famoso”.

“Dai Susan, non è così impossibile, dammi un po' di fiducia”.

Sospirò. “Ma anche se trovassimo il tipo ideale, mi dici come farai a farti corteggiare? Cosa farai lo pagherai per fingere?”, disse con voce rassegnata.

“Si, se sarà necessario”.

“Bene, così diventerai lo zimbello della scuola, sai che i ragazzi non sono capaci di tenere la bocca chiusa su queste cose”.

“A questo ci penserò dopo, intanto dobbiamo trovarlo.

Mi aiuti o no?”

“Va bene, ti aiuto”. Era tutt'altro che entusiasta, ma Susan era una vera amica.

“Allora faremo entrambe un elenco e poi lo confronteremo. Ci vediamo a pranzo”.

Feci per scendere dall’auto ma Susan mi bloccò.

“Dammi un po’ di tempo, devo guardarmi intorno, non conosco tutti i ragazzi dell’ultimo anno e ti ricordo che fra poco ci saranno gli esami perciò sarà meglio che ti concentri sullo studio”.

“Ok, hai ragione allora ti do tempo fino a domani”.

Scesi veloce e mentre chiudevo la portiera sentii Susan dire tra sé: “intendevo

dire qualche giorno, non ventiquattro ore”.

Trascorsi la giornata osservando tutti i ragazzi che mi avano accanto. Ogni tanto partivo all'inseguimento come un segugio che ha fiutato la sua preda, chiedendo informazioni a chiunque mi capitasse a tiro. Feci una breve perlustrazione anche in palestra e al campo da football per dare un’occhiata agli atleti. Trovai un paio di candidati interessanti in biblioteca, uno al corso di chimica, uno nei corridoi e altri due durante la pausa pranzo. In tutto erano sei, un buon numero. Ero ansiosa di conoscere i risultati della ricerca di Susan.

Il giorno dopo a pranzo Susan arrivò con dieci minuti di ritardo e un foglietto in mano. Non stavo nella pelle. La sua lista comprendeva cinque nomi, tre di questi erano uguali ai miei, due non li avevo mai sentiti. Ricopiai i due nomi in fondo al mio elenco e le chiesi informazioni su come riconoscerli. Susan tentò invano di dissuadermi e ribadì la sua contrarietà, non intendeva andare oltre perciò decisi che da lì in poi mi sarei arrangiata.

Dovevo scegliere con cura il soggetto giusto, avrei dovuto are parecchio tempo con lui e soprattutto assicurarmi che Nick ci vedesse molto "intimi".

Rimanevano meno di tre settimane di scuola, dovevo sbrigarmi. Salutai Susan e mi misi alla ricerca del primo candidato.

Si chiamava Richard Tobin, lo avevo visto in biblioteca, ed è lì che lo trovai.

Era chino su un libro piuttosto voluminoso ed accanto a questo c’era un blocco per gli appunti. Bene, un tipo studioso. Mi sedetti poco lontano, lo avevo visto solo di sfuggita ma i suoi lineamenti mi avevano colpito subito.

Aveva un viso molto bello, la pelle chiara, pulita, senza imperfezioni e gli occhi azzurri. Dopo qualche minuto si accorse che lo stavo fissando. Si girò con un'espressione interrogativa.

“Scusa ti serve qualcosa?” La sua voce era calda e gentile ma il suo alito era rivoltante. Cosa aveva mangiato a pranzo, topi in decomposizione?

“Scusa, ti avevo confuso con un mio amico”, mi alzai rumorosamente e mi allontanai prima che potesse riaprire bocca.

Mi fermai in fondo al lungo tavolo di legno vicino all’ingresso, tirai fuori dalla tasca la mia preziosa lista, presi una penna dalla borsa e tracciai una bella linea nera sopra al suo nome.

Fuori uno, pensai e ripiegai con cura il mio foglietto.

Alzai lo sguardo per cercare il secondo candidato ma non lo vidi da nessuna parte, avevo ancora mezz’ora prima dell’inizio delle lezioni, potevo provare con il numero tre, il giocatore di basket.

James O’Brien era molto alto, il corpo muscoloso e l’andatura sicura di chi è abituato a vincere e ad essere ammirato. Lo fermai un attimo prima che entrasse negli spogliatoi.

“Ciao, sei tu James?”, chiesi cercando di rendere la mia voce il più sensuale

possibile.

“Sì, sono io. Ti serve qualcosa?” L’alito profumava di menta, aveva la barba un po’ trascurata ma mi piaceva, i capelli corti, castano scuro incorniciavano una fronte ampia e abbronzata e qualche centimetro più in basso, due profondi occhi marroni aspettavano la mia risposta.

Decisamente attraente.

“Mi hanno detto che vendi gli appunti del corso di biologia, mi servirebbero quelli dell’ultimo semestre”.

Naturalmente non era vero ma fu la prima scusa che mi venne in mente.

“Mi spiace ma ti hanno informata male. In biologia ho appena la sufficienza e ti assicuro che i miei appunti sono indecifrabili”. Non era un genio ma la sufficienza poteva bastare.

“Scusa, forse ho capito male. Ciao”.

“Ciao”. Non chiese altro ed entrò nello spogliatoio.

Presi la mia lista, la penna e feci un cerchio attorno al suo nome. Nel pomeriggio avevo chimica assieme al numero cinque, Carl Reyes, perciò affrettai il o verso l’aula.

Era seduto alla mia destra, a due banchi di distanza.

Visto da vicino non era niente di speciale, nella media, capelli chiari, occhi marroni, un viso tondo, l’aria pacifica.

Decisi di tenerlo come riserva e feci un punto di domanda accanto al suo nome.

Nelle pause tra una lezione e l’altra sfrecciai nei corridoi e riuscii a dare un’occhiata anche ai numeri quattro e sette. Il primo, Steven J. Barlow, sembrava un lord inglese: pantaloni e camicia firmati, orologio costoso, mocassini classici. Aveva un fisico asciutto, labbra dritte, ben disegnate, i capelli biondi scendevano sul viso in un ciuffo morbido che copriva in parte lo sguardo. Ma l’espressione del viso era arrogante, l’aspetto troppo sicuro, di chi pensa di essere migliore degli altri solo perché ha il portafoglio pieno di soldi e carte di credito.

Bocciato.

Il numero sette, Tom Connolly nel complesso non era male, capelli corti, occhi azzurri, fisico atletico, un classico. Stavo per fare un cerchio attorno al suo nome quando la ragazza con cui parlava fece una battuta e lui con una risata piuttosto sguaiata scoprì i denti. Anche dalla distanza di qualche metro potevo vedere la dimensione degli incisivi, troppo lunghi e sporgenti, sembrava un coniglio. Non sarei mai riuscita a baciarlo.

Che razza di selezione aveva fatto Susan? Scartato anche questo.

Mancavano ancora tre soggetti da esaminare e le lezioni stavano per terminare. Al suono della camla schizzai fuori dall’aula, dovevo trovare un buon posto di osservazione vicino all’uscita principale della scuola per intercettare rapidamente le mie vittime.

Il primo che avvistai fu Bill Emerald, l'altro dei due ragazzi che mi aveva suggerito Susan. Lo riconobbi dallo zaino nero con il logo di una band musicale molto nota, l’aveva sicuramente acquistato a qualche concerto perché nessun altro a scuola ne possedeva uno uguale. Non era molto alto ma si faceva notare. La pelle era color miele, gli occhi con un leggero taglio a mandorla doveva avere origini asiatiche.

Lo seguii in silenzio. Stava parlando con un ragazzo grassoccio alla sua destra e commentavano i risultati di non so quale partita sportiva. Aveva una voce calma e morbida e un bel sorriso. Non avevo bisogno di sapere altro, era senza dubbio adatto. Tracciai un doppio cerchio attorno al nome e mi avviai verso il parcheggio dove Susan mi stava sicuramente aspettando.

Salimmo in auto e senza attendere le sue domande, cominciai a raccontarle i progressi della mia ricerca rimproverandola per avermi fatto perdere tempo con il Bianconiglio di Alice e complimentandomi per la scelta dell’ultimo candidato. Susan fece un sorriso malinconico, nonostante la mia determinazione non aveva cambiato idea sul piano che aveva definito assurdo e autolesionista.

Per quanto folle potesse sembrare la mia idea agli occhi della gente comune come Jason, Susan o Paul io sapevo che avrebbe funzionato perché io ero tutt’altro che comune. Ero una persona speciale, un'outsider, come aveva detto Roger. Sorrisi pensando a lui, sarebbe stato il candidato ideale se solo avesse frequentato la nostra scuola, se fosse stato meno arrogante e se non fosse stato un probabile delinquente. Troppi se. Peccato, visto il suo interesse verso di me

non avrei faticato a convincerlo ad aiutarmi. Il pensiero di Roger mi evocò Sam ed il nostro appuntamento, o meglio l'incontro che lui aveva deciso che dovevamo avere.

“Susan, devo andare dal dott. Evans per un controllo, mi accompagni?”

Sfoderò un sorriso malizioso. “Certo!”

L'appuntamento era alle sedici ma arrivai volutamente con trenta minuti di ritardo. Non decideva tutto lui.

Claire mi fece accomodare in un ambulatorio vuoto e Susan dovette a malincuore rimanere in sala d'attesa.

Quando Sam arrivò ero furiosa.

“Che bisogno c'era di mettere in mezzo mia madre?”

“Se non l'avessi fatto non saresti mai venuta”.

“Perché non ho niente da dirti”.

“Ma io ho qualcosa da dire a te perciò te ne stai lì buona buona e mi ascolti”.

“E poi mi lascerete in pace?”

“Sì, se non ci creerai problemi”.

“Va bene, sentiamo”.

“Quelli come noi sono sempre esistiti. All'inizio era una convivenza pacifica: alcuni popoli ci sceglievano come guida, altri addirittura ci veneravano. Poi hanno iniziato a temerci ed a perseguitarci, fino a metterci al rogo. Con il are degli anni hanno deciso di studiarci per sfruttare le nostre capacità e così sono cominciate le sparizioni, gli esperimenti e gli omicidi. Ovviamente sembravano banali incidenti ma noi sapevamo. Mi segui?”

“Feci un cenno con la testa”

“Dobbiamo stare molto, molto attenti, volare basso, non farci notare. Se ti esponi troppo, se ti metti in mostra qualcuno capirà e verranno a prenderti ed a quel punto nemmeno io e Claire saremmo più al sicuro”.

“Non succederà, starò più attenta”

“Purtroppo sta già accadendo. Cosa credi che voglia da te Roger Wilson? Ha intuito quali sono i tuoi poteri e non ti mollerà fino a quando non avrà raggiunto il suo scopo”.

“So tenerlo a bada”.

“Può darsi ma verrà il momento in cui avrai bisogno di noi e noi ci saremo, ti proteggeremo ma te lo devi guadagnare Emily, devi dimostrarci che puoi controllarti e che possiamo fidarci di te”.

“Altrimenti mi cancellerete la memoria come avete fatto con Susan?”

“Purtroppo non funziona con i freak. Ma faremo ciò che sarà necessario. Alcuni di noi hanno poteri davvero spaventosi”.

Mi vennero i brividi.

“Allora non siete migliori di quelli che temete” e sbattendo la porta lasciai lo studio.

La casa era silenziosa quando rientrai. Cookie non si mosse dal suo cuscino quando mi vide e io non intendevo darle la soddisfazione di ignorare i miei richiami, perciò salii in camera senza rivolgerle uno sguardo.

Mancavano due settimane agli esami, in classe potevo fare bella figura spingendo i professori a chiedermi solo ciò che sapevo ma con i test scritti sarebbe stata dura, dovevo assolutamente mettermi a studiare seriamente.

Per un paio d’ore riuscii a concentrarmi sul libro di biologia, poi cedetti alla stanchezza. Mi alzai attirata dalle voci dei bambini che giungevano dalla strada, feci qualche o verso la finestra e ando accanto all’armadio mi accorsi che era quasi vuoto mentre la poltrona ai piedi del letto era completamente sommersa di indumenti usati e accatastati alla rinfusa. Diedi un’occhiata al resto della stanza, il disordine regnava ovunque, erano almeno due settimane che non cambiavo le lenzuola e non avo l’aspirapolvere.

Stavo facendo due pile di vestiti, una ordinata da riporre nell’armadio e una da portare giù in lavanderia quando una voce si fece largo tra i miei pensieri.

“Ehilà Emily”.

“Jason! Caspita mi ero quasi dimenticata di te, sono due giorni che non ci sentiamo”.

“Eh già, ti confesso che ci spero ogni volta che ti chiamo".

"Speri cosa?"

"Che tu non mi risponda. Che questa cosa si interrompa. Tu no?"

"Sì, anch'io".

In realtà non ero più sicura di ciò che speravo. Quando non faceva lo stronzo mi

piaceva parlare con lui.

"Che fai di bello?”

“Riordino la mia stanza”.

“Wow, sono quasi tentato di darti il mio indirizzo così vieni a dare una pulita anche qui!”.

“Mi spiace ma in questo periodo ho altri progetti”.

“Ah già, come procede il tuo piano?”

“Sono a buon punto, ho già trovato due candidati niente male”.

Con un certo orgoglio gli raccontai dei ragazzi che avevo visto, i criteri di selezione, gli appostamenti, le gaffe e tutto il resto. Parlai per quasi dieci minuti senza fermarmi”.

Mi ascoltò in silenzio, non potevo vedere la sua espressione e ciò mi impediva di capire cosa pensasse di tutta la faccenda ma, quando finii il racconto, la sua risata echeggiò nella mia testa.

“Sei incredibile!”, disse con un pizzico di ammirazione.

“Sei veramente convinta di riuscire a sedurli in un paio di giorni? Ragazza forse dovrei proprio conoscerti!” Ma non lo diceva seriamente, mi stava prendendo in giro.

“Ridi, ridi, vedrai cosa combino”.

“Sinceramente Emily, pensa a ciò che fai, mi sembra che di delusioni tu ne abbia già avute abbastanza, non vorrei essere la spalla – o meglio la testa – dentro cui verrai a piangere se le cose non andranno come speri”. La sua voce si era fatta dolce, c’era qualcosa di tenero nel modo in cui aveva pronunciato quelle parole, come se gli stessi veramente a cuore.

“Perché non vieni tu a farmi da finto fidanzato? Ah, no aspetta, prendiamo esempio dal maestro: meglio se prima mi mandi una foto”. Mi fermai, e se Jason non fosse stato un bel ragazzo? Se tutti i discorsi fatti fin’ora lo avessero in realtà ferito? Non me lo sarei mai perdonata, in fondo anch’io non mi sentivo una gran bellezza. Certo, dopo la malattia, il mio aspetto era decisamente migliorato e ricevevo parecchi sguardi di ammirazione, ma ero ben lungi dall'essere una top model.

“Scusa Jason, l’altro giorno ti ho fatto la predica sul fatto che non bisogna giudicare le persone dal loro aspetto e adesso ragiono allo stesso modo. Prometto che se un giorno ci incontreremo ti darò un bacio in fronte anche se sei un ranocchio”.

“Grazie”, non disse altro, sentivo che era imbarazzato.

“Beh, e tu cos’hai fatto in questi due giorni?”, chiesi per cambiare discorso.

“Io lavoro, cara. Mi guadagno onestamente da vivere”.

“Ah già, e che lavoro fai?”

“Lavoro in una compagnia di assicurazioni”. Mi stupii della sua risposta, non del contenuto ma del fatto che avesse risposto a una domanda così personale, stava abbassando la guardia.

“Oddio che lavoro noioso!” Il pensiero non era rivolto a lui ma in qualche modo gli arrivò.

“Per me un lavoro vale l’altro. Devo sopravvivere in qualche maniera e con questo lavoro guadagno bene”.

“Scusa, non volevo offendere, mi è scappato. Ma i tuoi genitori cosa dicono? Non volevano che tu continuassi gli studi?”

“Sì, volevano, ma sono morti in un incidente d’auto tre anni fa e quindi, beh, mi sono dovuto arrangiare”.

La sua voce era calma, non traspariva alcun sentimento, chissà quante volte

aveva dovuto raccontare quella storia.

Mi si era formato un nodo in gola ma non volevo mostrare comione o peggio pietà, perciò cercai di assumere anch’io un tono indifferente. “Ah, mi dispiace molto. Però se nessuno ti trattiene potresti veramente venire qui a darmi una mano”.

“Non provarci”, disse ridendo. “Ti ho già raccontato più di quanto avrei dovuto. Adesso vado, esco a cena con una bionda da sballo!”

“Allora non ti trattengo. Buon divertimento”.

“Grazie, a una bella serata anche tu”.

Chiacchierando con Jason avevo riordinato la camera, caricato la lavatrice e cambiato le lenzuola. Mi guardai attorno soddisfatta, avevo messo le lenzuola bianche con i fiori azzurri che si intonavano al blu della moquette. Così pulita mi sembrava quasi che la stanza profumasse di viole.

Il mio stomaco protestò perciò scesi in cucina a preparare la cena. Presi tre bistecche dal freezer e le misi nel microonde a scongelare, lavai un po’ di insalata e affettai due pomodori.

Quando mia madre arrivò stavo apparecchiando la tavola. Il suo sorriso meravigliato e la gioia negli occhi mi ricordarono quando bene mi voleva e quanto io ne volevo a lei. Forse la tempesta era veramente ata.

Quella sera per la prima volta da quando Nick mi aveva lasciata ebbi la sensazione che tutto sarebbe andato per il meglio e quando finalmente il sonno mi prese tra le sue braccia, sognai.

Ero al ballo di fine anno e avevo intorno a me tre ragazzi bellissimi, ad un tratto qualcuno si faceva largo e li spingeva via, non riuscivo a mettere a fuoco il suo viso ma ballai con lui tutta la notte.

La mattina seguente ero piena di energie, come una leonessa pronta per la caccia. Dovevo solo trovare gli ultimi due ragazzi della mia lista e poi avrei preso la mia decisione.

Vidi Kevin Turner, il numero due, all’ora di pranzo. Era seduto ad un tavolo in fondo alla sala con altri due studenti dell’ultimo anno, li conoscevo perché erano amici di Marissa. Erano abbastanza simpatici perciò pensai che anche lui doveva essere una persona gradevole. Mi sedetti ad un tavolo libero, a una decina di metri dal suo, afferrai la fetta di pizza che avevo sul vassoio e cominciai a mangiarla osservandolo di sottecchi. Aveva un bel profilo, il naso dritto, le labbra non troppo sottili, i capelli erano castano chiaro un po’ arruffati. Parlava gesticolando vistosamente, era un po’ buffo. Il suo amico si era accorto che lo stavo osservando e gli bisbigliò qualcosa all’orecchio, lui si girò di scatto verso di me e prima di distogliere lo sguardo feci in tempo a vedere che stava arrossendo.

Bevvi un sorso d’acqua direttamente dalla bottiglia e con la coda dell’occhio guardai dalla sua parte. Il ragazzo che prima gli aveva sussurrato qualcosa ora lo stava vistosamente invitando ad alzarsi indicando la mia direzione, voleva che venisse a parlarmi. Bene, mi avrebbe reso tutto più facile. Stavo decidendo come comportarmi quando lui si alzò e nel farlo appoggiò inavvertitamente una mano sul tavolo facendo cadere la bibita accanto al vassoio. Il liquido si rovesciò tutto

intorno colando sui suoi pantaloni. Cercò di allontanarsi ma spostandosi indietro fece cadere la sedia che piombando a terra produsse un boato assordante. Per qualche secondo tutte le voci si spensero e gli sguardi si posarono su di lui che, per l’imbarazzo, perse l’equilibrio e cadde sopra la sedia rovesciata. La risata generale che ne seguì lo sommerse come una cascata. Mi faceva tenerezza e mi sentivo in colpa visto che in fondo ero la causa della sua distrazione, ma non potevo farmi vedere in giro con colui che sarebbe sicuramente diventato lo zimbello della scuola. Con un profondo sospiro feci una linea sopra il suo nome e me ne andai.

Rimaneva solo un nome nella mia lista Trevor Stewart, lo avevo visto in biblioteca perciò è lì che speravo di trovarlo. C’erano parecchi studenti a quell’ora, mancava poco all’inizio delle lezioni e tutti si affaccendavano a cercare volumi o a riare gli appunti. Esaminai i tavoli centrali, uno per uno, niente. Cominciai a gironzolare tra gli scaffali , setacciai tutta l’ala riservata alla narrativa, ma senza trovarlo, storia neanche, ai alla corsia delle scienze e poi a quella di geografia ma di lui non c’era traccia. Lo avevo adocchiato due giorni prima, mi ricordavo vagamente il suo aspetto ma non ero più tanto sicura che lo avrei riconosciuto. Con tutto quel correre su e giù per la scuola forse avevo visto male, forse c’era ma non era poi quel granché e io non lo avevo considerato. Le lezioni stavano per cominciare, dovevo tornare in classe.

C’era una lunga fila davanti al banco dei prestiti, la bibliotecaria aveva l’aria molto nervosa, stava discutendo animatamente con un ragazzo che diceva di aver perso la tessera o qualcosa del genere. Con un gesto di stizza il ragazzo lanciò il libro che aveva in mano verso il tavolo accanto al bancone, ed a testa alta si avviò verso l’uscita, alla mia destra.

Era lui. Morbide ciocche castano chiaro incorniciavano un viso magro, dai lineamenti marcati, gli zigomi leggermente sporgenti, le labbra strette e la mascella contratta dalla rabbia. Ruotò la testa guardando nella mia direzione e in quel momento rimasi folgorata. Aveva gli occhi più belli che avessi mai visto, blu intenso, quasi viola, lo sguardo pieno di ira li rendeva ancora più profondi e

ammalianti.

Era il tipo di ragazzo capace di portarti in paradiso e un secondo dopo gettarti senza rimorso all’inferno. Bello e dannato. Un brivido scese lungo la mia spina dorsale, vertebra per vertebra, facendomi venire la pelle d’oca. Era lui, lo avevo trovato, era il ragazzo perfetto. Non dovevo farmi sfuggire quell’occasione perciò mi avvicinai a con fare deciso.

“Scusa posso aiutarti?”, chiesi.

Mi guardò con aria perplessa, per un momento la sorpresa ammorbidì la sua espressione. Ma solo per un momento.

“Cosa vuoi?”, rispose acido.

Lo guardai negli occhi e gli ordinai sii gentile, poi dissi

“posso aiutarti con quel libro, posso prestarti la mia tessera”.

La sua espressione rimase dura ma la voce si addolcì.

“Grazie, ma perché lo faresti?”

“Beh, prestare la mia tessera mi pare una cosa carina da fare per uno carino come te”. Non potevo credere di averlo detto. Che frase stupida. Non ero mai stata così sfacciata in vita mia.

Le sue labbra si distesero in un sorriso sarcastico e la sua espressione divenne più rilassata.

“Ah, se la metti così come posso rifiutare? Ma mi chiedo, cosa vuoi in cambio?”

“E’ una storia un po’ lunga ma se dopo la scuola hai un po’ di tempo te la racconto”.

“Non se ne parla proprio, fino agli esami non ho neanche il tempo di respirare, devo recuperare due materie e non oso neanche pensare cosa mi farebbe mio padre se venissi bocciato”.

Mi ero illusa che, forse, sarei riuscita a farmi aiutare senza bisogno di sotterfugi o di usare il mio dono ma se volevo che mi desse una mano non avevo scelta.

“Senti intanto prendi il libro, poi vediamo”.

“E come fai ad essere sicura che te lo restituirò? Non sai neanche come mi chiamo”

“Tu credi? Ti chiami Trevor Stewart e sei all’ultimo anno come me”.

Il suo tono si fece arrogante di quelli che sono abituati ad avere la fila di ragazze pronte a fargli da zerbino.

“Senti, se sei in cerca di compagnia mi dispiace ma fino agli esami non c'è storia, dopo, se vuoi, possiamo divertirci un po’ insieme ma adesso ho altro per la testa”.

Aveva parlato ad alta voce e i ragazzi attorno a noi stavano ridacchiando, mi stava umiliando.

Il mio sguardo era ancora fisso nel suo, dovevo agire prima che la situazione peggiorasse, perciò pensai adesso mi chiedi scusa perché ti piaccio e domani vuoi pranzare con me. Poi ad alta voce dissi “veramente il mio interesse era puramente scolastico”. Guardai l’orologio, “si sta facendo tardi, ti saluto”.

Potevo leggere i suoi pensieri attraverso le espressioni sul suo volto, confusione, dubbio e poi indecisione.

“Scusa non volevo essere villano. Ti andrebbe di pranzare con me domani?”, le parole uscirono a salti, quasi balbettasse, il tono era poco convinto ma per me era sufficiente.

“Non so, tu tienimi un posto, poi vedrò”, risposi. “La vuoi o no la tessera?” chiesi porgendogli la mia tessera.

“Sì, mi farebbe comodo”.

“Me la restituisci domani. Ciao”.

“Ciao …”, guardò la tessera che gli avevo appena consegnato e lesse il mio nome “Emily”.

Che figura, non mi ero nemmeno presentata! Il mio cuore rimbalzava impazzito, mi sentii avvampare e affrettai il o verso l’uscita.

L’aria fresca mi riportò in uno stato mentale quasi normale, un turbinio di pensieri si agitava nella mia testa, per fortuna il battito era rallentato fino ad un livello accettabile.

Le cose non erano andate esattamente come mi aspettavo, avevo veramente sperato di poter piacere a qualcuno senza usare trucchi. “Dopo gli esami” aveva detto. Forse lo pensava veramente, forse avrebbe veramente voluto frequentarmi una volta ottenuto il diploma. Mi convinsi che era così e che in fondo avevo solo anticipato ciò che comunque sarebbe successo se avessi avuto la pazienza di aspettare qualche settimana.

Perciò non stavo realmente barando.

La parte difficile però arrivava adesso, dovevo guidarlo senza esagerare. ai le successive tre ore di lezione a studiare nei dettagli i suggerimenti da dargli e quando raggiunsi Susan nella sua auto dovevo avere un’aria molto preoccupata

perché senza neanche salutare mi chiese

“stai pensando al tuo piano? Ti stai rendendo conto di quanto sia assurdo?”

La sua voce era decisa e sicura, era assolutamente convinta che non avrei mai trovato nessuno che assecondasse i miei progetti. La sua totale mancanza di fiducia mi aveva esasperata al tal punto che risposi urlandole in faccia, “non è affatto assurdo, domani a pranzo ho appuntamento con Trevor Stewart”.

Rimase senza parole. Conosceva Trevor, era nel suo corso di storia, il suo nome era anche sulla lista che aveva fatto lei.

“Trevor Stewart? Sei sicura che sia lui? Nel mio corso gli sbavano tutte addosso ma mi sembra uno che frequenta più le ragazze che vedi sulle riviste di moda che le liceali.

Sei veramente sicura che sia lui?”

“Sì Susan, ci ho parlato e ti assicuro che non ho sbagliato persona”. Ero sempre più scocciata.

“E come hai fatto a convincerlo a pranzare con te?” Stava superando il limite. Anche lei come Jason mi riteneva davvero così insignificante da non riuscire a trovare qualcuno che volesse pranzare con me?

“Ti sembrerà impossibile ma evidentemente non mi ritiene così sfigata da non poter neanche scambiare due parole con me”. In più di un’occasione ero stata in dubbio se confidare a Susan il mio segreto, ma in quel momento capii che se avessi voluto mantenere un briciolo di dignità ai suoi occhi non avrei mai potuto dirle la verità.

“Scusami, è che mi sembra così impossibile, consideravo Trevor al di sopra delle possibilità di noi comuni mortali”.

Fece una pausa. La vidi riflettere mordendosi il labbro.

“Sai, non te l’ho detto prima perché non pensavo saresti andata avanti con questa faccenda, ma anch’io avevo cercato di uscire con lui all’inizio dell’anno”. Pensavo di conoscere tutte le conquiste riuscite o fallite di Susan, ma questa mi mancava.

“Ah, e com’è andata?” le chiesi addolcendo il tono.

“E’ stato molto umiliante. Gli avevo chiesto se voleva unirsi al nostro gruppo per una ricerca che il prof di storia ci aveva assegnato. Ricordo benissimo la sua aria di superiorità, mi aveva guardato dall’alto in basso e con un sorrisetto compiaciuto mi aveva risposto che aveva modi migliori di are il tempo”.

“Hai ragione, è stato un cretino, ma magari è cambiato.

Mi ha detto che deve recuperare due materie prima degli esami, pensavo di

proporgli uno scambio: io lo aiuto con la scuola e lui in cambio mi dà una mano con Nick”.

“Potrebbe funzionare”, disse e per la prima volta sembrava convinta. Poi aggiunse qualcosa di spiacevole che rovinò tutto: “ammesso che Nick sia ancora innamorato di te”.

“Provare non mi costa niente. Cos’ho da perdere? Tutto ciò che desidero è lui e mi pare che al punto in cui sono ora l’ho già perso, no?”

“Lo so, scusami Emily ma ti ho già visto soffrire abbastanza per lui e adesso che stai meglio non vorrei vederti sprofondare un’altra volta. Ti voglio troppo bene per permetterlo”.

Le rivolsi un sorriso malinconico, per la prima volta le sue parole avevano prodotto una crepa nel mio muro di certezze, ma dovevo provare, cos’altro potevo fare? Era come camminare su una fune sospesa nel vuoto, alla fine della fune c’era Nick, tutt’intorno niente, il vuoto, il buio.

Se non avevo lui, non avevo niente.

Rimasi in silenzio per tutto il resto del viaggio. Avevo bisogno di parlare con Jason ma non volevo farlo con Susan seduta accanto a me, dovevo essere sola.

La mia camera mi accolse con la sua quiete. Profumava ancora di pulito, ogni cosa era al suo posto e la luce che si insinuava tra le tende completava la

sensazione di pace e sicurezza che quel luogo mi dava.

Mi stesi sul letto e chiusi gli occhi. Stavo veramente facendo la cosa giusta o mi sarei resa ridicola davanti a tutta la scuola? Potevo controllare quasi tutte le reazioni di Trevor nei miei confronti, se mi avesse ferita pubblicamente, come era successo in biblioteca, lo avrei fatto inginocchiare a chiedere perdono e la mia dignità sarebbe stata salva. Alla luce delle informazioni che mi aveva dato Susan avevo riconsiderato la mia opinione su Trevor, non provavo più alcun senso di colpa per ciò che stavo facendo, chissà quante ragazze innamorate aveva usato e poi gettato via. Per una volta sarebbe stato lui lo zerbino. Ma sì, stavo vendicando tutti i cuori che aveva spezzato e dopo la mia “cura” sarebbe diventato una persona migliore, meno cinica e più umana. Tenevo gli occhi chiusi. C’era ancora un pensiero che serpeggiava ostile nella mia mente, avevo cercato di confinarlo in un angolo lontano, di sommergerlo con strati di ricordi felici di me e Nick. Volevo sostituirlo con l’immagine di noi due di nuovo insieme, ma era come un serpente, strisciava attorno ai miei sogni, aggirava tutti gli ostacoli che gli mettevo davanti e riappariva più forte di prima: e se Nick non tornasse più con me, se veramente non mi voleva più?

Aprii gli occhi. Dovevo ricacciarlo al buio, schiacciarlo, distruggerlo, dovevo pensare a qualcosa di bello. Jason.

Dovevo chiamare Jason. Guardai l’ora. Le sei, chissà se era ancora al lavoro. Cercai di immaginarlo, seduto ad una scrivania intento a compilare pratiche, la camicia bianca, la cravatta, chissà se portava gli occhiali? No li avrei visti, l’unica cosa che avevo visto di lui erano gli occhi e non mi sembrava proprio che avesse gli occhiali. Nell’immagine che stavo costruendo il suo viso era un ovale sfocato, non riuscivo a dare una forma alla bocca, al naso, ai capelli, vedevo solo i suoi occhi. Due cerchi grigi come un cielo in tempesta, attraversato da lampi d'argento.

“Jason, puoi parlare?”, domandai esitante.

“Ciao Emily. Sì, sono in auto, sto tornando a casa. Come va?”

“Alla grande, ho trovato quello che cercavo”.

“Fantastico, com’è?”

“Da mozzare il fiato naturalmente, ed ha anche la fama di bello e impossibile, il che lo rende perfetto per il mio piano”.

“Complimenti. Ci hai già parlato?”

“Gli ho dato una mano a risolvere un problema in biblioteca, ci vediamo domani a pranzo ma sono sicura che mi aiuterà”.

“Sbaglio o hai detto che non ha una buona fama, di solito quelli come lui non fanno niente per niente”.

“Lo so, vedrai che troveremo un accordo”.

“A questo punto sono curioso, cosa pensi di offrirgli in cambio?”

“Non so, dipende da cosa mi chiederà. Tu cosa chiederesti?”

“Ahi! Beh, sai come sono fatto io, chiederei una notte di sesso sfrenato, ovvio!” La sua risata mi riempì la testa e non potei fare a meno di ridere assieme a lui.

“Ma se io non fossi un granché, se non fossi poi così attraente e, soprattutto, se non fossi disponibile, cos’altro chiederesti?”

“Mah, non so, se fossi una mia amica potrei farlo anche gratis ma mi sembra di capire che non ti aveva mai vista, giusto?”

“Giusto”.

“Forse ti chiederei di fare qualcosa al posto mio, che ne so, preparare le tesine per gli esami di fine anno, o magari lavarmi la macchina o pulirmi la camera, ammesso che non abbia già qualcuno che lo fa al posto suo”.

Restammo entrambi in silenzio a pensare alle alternative poi di colpo la sua voce irruppe nella mia mente facendomi sobbalzare.

“Ho trovato! Ti chiederei di darmi una mano ad agganciare qualche ragazza”, esclamò entusiasta.

“Cioè? Non capisco. Lui è bellissimo, può avere tutte le ragazze che vuole”. Il modo di ragionare di Jason riusciva sempre a stupirmi.

“Certo ma ci vuole tempo, devi studiarle, vedere che posti frequentano, trovare il momento giusto per avvicinarle, la battuta giusta per rompere il ghiaccio ecc.

Tutte perdite di tempo molto noiose. Tu potresti portarle dove serve a lui, prepararle e poi presentargliele al momento giusto”.

Ero allibita. Avevo sempre considerato il corteggiamento la parte più romantica dell’amore, i primi sguardi, l’incertezza di essere corrisposti, le farfalle nello stomaco e tutto il resto erano pura poesia per me. Era l’attesa che dava significato alla conquista. Più difficile era la cattura della preda più questa acquistava valore e significato.

Invece per lui l'unica cosa importante era concludere. Io avrei dovuto servirgliele su un piatto d’argento, già cotte a puntino e lui se le sarebbe mangiate. Orribile.

Semplicemente disgustoso.

"Riesci sempre a sorprendermi. Ogni volta che penso che forse anche tu hai un cuore e provi dei sentimenti bum, arriva la mazzata in testa. Allora è vero che la maggior parte di voi ha in mente solo quello. L’amore, i sentimenti, non contano niente. Portarla a letto è l’unica cosa che conta?” Non riuscii a dire altro.

Colse il disgusto nelle mie parole, sarebbe stato impossibile non farlo.

“No, dai, non è proprio così, è che noi di solito siamo meno coinvolti o

perlomeno io, sono più coinvolto a livello fisico che emotivo”.

“Ma non ti sei mai innamorato?” sussurrai.

“No. Ci sono state storie più lunghe, più importanti di altre ma nessuna da lasciare un solco profondo come …, come quello che ha lasciato Nick”.

Che tristezza, si era perso il meglio della vita, la parte più pura, più preziosa, l’unica per cui valesse veramente la pena di soffrire come stavo soffrendo io.

“Perciò per te la parola ti amo è una parola come un’altra, senza significato?”

“Non sono uno che parla molto dei propri sentimenti, ma no, non ho mai sentito il desiderio di dirlo a nessuna, se è questo che intendi”.

11

TREVOR

Trevor si guardava attorno nervosamente. Quando mi vide arrivare mosse appena il capo in cenno di saluto. Era praticamente steso sulla sedia con le mani in tasca. Feci un gran sospiro. Avevo parecchio lavoro da fare se volevo renderlo utile ai miei scopi. Agganciai il suo sguardo.

Alzati e baciami sulla guancia.

“Ciao Trevor”.

“Ciao Emily”. Sebbene fosse opera mia, il suo bacio mi fece arrossire.

“Prendiamo qualcosa da mangiare?”, chiesi usando la voce mentre con il pensiero ordinavo acqua naturale ed insalata. Era alquanto confuso, ma obbedì.

Mi sedetti scandagliando la sala in cerca di Nick. Diverse paia di occhi mi squadravano increduli. Eccolo, era lontano ma poteva vedermi.

“Che fai qui tutta sola? Non mangi con noi?” La voce di Susan mi fece sobbalzare.

“Non sono sola. Pranzo con Trevor. Te l'avevo detto”.

“Okay, okay, non scaldarti tanto”.

Non era convinta che dicessi la verità ma non aggiunse altro e si allontanò.

Trevor tornò con il vassoio in bilico su una mano e due bottigliette d'acqua nell'altra.

“Allora, sei riuscito a prendere quel libro che ti interessava?”

“Ah, sì. Grazie”. Dalla tasca posteriore dei jeans estrasse la mia tessera della biblioteca e la lanciò bruscamente sul tavolo. Capii che non potevo lasciare niente al caso. Avrei dovuto guidarlo o per o se non volevo rischiare che rovinasse tutto con i suoi modi da scaricatore di porto.

Mi aspettavo un minimo di conversazione ed invece si tuffò a capofitto sul pranzo pensando ai fatti suoi.

“Trevor”, lo chiamai.

“Che c'è?” Rispose senza neanche alzare la testa. Era veramente insopportabile.

“Guardami”, fui costretta a dire.

Palesemente scocciato alzò la testa. Se i miei occhi avessero potuto lanciare fiamme sarebbe sicuramente morto carbonizzato.

Ti piaccio. Prendimi la mano e dimmi qualcosa di carino.

Allungò una mano e la mise sopra la mia. Mentre lo fissavo lo stomaco mi si chiuse di colpo: i suoi occhi erano sbarrati e attraverso la pupilla dilatata potevo vederlo annegare nel panico. Mi sentii un mostro per quello che gli stavo facendo. Ritrassi la mano e cercai di usare un tono calmo e rassicurante.

“Sei stato molto carino a chiedermi di pranzare assieme.

Non ti vedo mai in mensa, dove pranzi di solito?” Era più impacciato di un bambino delle elementari alla prima cotta, evidentemente non era abituato a conversare con una ragazza. Più tempo avo con lui e più mi rendevo conto che era molto diverso da ciò che voleva far credere. Chiacchierammo di sport, di musica e di scuola finché non resistetti e imbrogliai di nuovo.

“Quante ragazze hai avuto?” Voce e pensiero uscirono simultaneamente. La risposta mi lasciò stupefatta.

“Non l'ho mai detto a nessuno e non so perché ora sento il bisogno di dirlo a te… Ne ho avuta solo una”.

Sgranai gli occhi. “Solo una? E quanto è durata?”

“Avevo quattordici anni, è durata quasi un anno”.

“Perché è finita?”

“Non lo so. Mi ha mollato lei”.

Solo in quel momento mi resi conto che aveva risposto alle ultime due domande senza costrizioni. Aveva risposto di sua spontanea volontà, solo per parlare con me.

Avvicinai il mio viso al suo.

“Ma lo sai che potresti avere tutte le ragazze che vuoi, vero?”

“Sì, lo so. Lo vedo come mi guardano e proprio per questo non mi interessano. Le trovo estremamente fastidiose, così aggressive, sicure di loro sembrano iene pronte a sbranarmi”.

“Perciò ti limiti a fare l'arrogante e a trattarle a pesci in faccia come hai fatto con me?”

Ricambiò il mio sorriso.

“Esatto, diciamo che cerco di scoraggiarle. Per la verità quando ci siamo conosciuti, in biblioteca, ti ho trovata veramente irritante e se devo essere sincero non so perché ti ho invitata a pranzo. Forse perché sei diversa”.

Sapevo benissimo perché mi aveva invitata ma continuai il mio interrogatorio.

“In che senso sono diversa?”

“Sei … sei strana!”

Mi misi a ridere. A quel punto non potevo fare altro.

Mangiammo in silenzio per qualche minuto. Trevor non era la persona che mi aspettavo e non ero più sicura di ciò che volevo fare.

Con la coda dell'occhio esaminavo i volti degli studenti cercando quello di Nick e mi resi conto che metà di loro ci stava guardando. Lo sguardo delle ragazze era carico di invidia, compresa Eleanor che si mordicchiava nervosamente un'unghia. Anche Nick mi guardava. Non riuscivo a decifrare la sua espressione, ma la cosa importante era che in qualche modo si stava interessando a me.

Trevor alzò gli occhi e mi sorrise. Un sorriso sincero e rilassato. Dovevo tentare, provare ad essere sincera ed a comportarmi onestamente.

“Senti Trevor, non ci conosciamo tanto bene ma vorrei chiederti un favore”.

“Se posso”, rispose con un tono piacevolmente divertito.

“Ti ho avvicinato in biblioteca perché volevo far ingelosire un ragazzo”.

Non disse niente ma posò entrambi gli avambracci sul tavolo e si protese in avanti con aria interessata.

Gli raccontai il minimo indispensabile ma ci misi comunque un bel po'. Mi ascoltava sorridendo e ridacchiando di tanto in tanto, ma non disse niente finché non terminai il mio racconto.

“Perciò dovrei fingere di essere innamorato di te e che stiamo insieme, giusto?”

“Sì, ma solo qui a scuola. E non dovrai mai dirlo a nessuno”.

“E in cosa consisterebbe la sceneggiata? Cioè, fino a dove posso arrivare? Abbracci, baci, toccatine?”

“Toccatine assolutamente no! Sarebbe carino se mi mettessi un braccio attorno alle spalle quando giriamo assieme e per quanto riguarda i baci non so...” Arrossii di colpo e abbassai lo sguardo. “Sarebbe solo per una decina di giorni, fino agli esami, sarebbe sufficiente per vedere se funziona”.

“E in cambio cosa otterrei?”

Eravamo arrivati al punto. Lo sapevo, era tutta una questione di dare e avere. Incrociai le dita sperando che non mi chiedesse ciò che mi avrebbe chiesto Jason.

“Tu cosa vorresti?”

“Adesso come adesso l'unica cosa che mi interessa è are gli esami, perciò se puoi darmi una mano con lo studio per me va bene”.

Stavo per esultare dalla gioia quando mi venne in mente che probabilmente anche lui aveva una vita sociale e degli amici che non conoscevo. “Ma ai tuoi amici cosa racconterai? Non puoi dirgli la verità”.

“Non preoccuparti. I miei amici stanno cominciando a pensare che io sia gay, perciò questa cosa fa comodo anche a me”. Ridemmo entrambi.

“Fantastico. Allora affare fatto?”

“Affare fatto!” disse e senza darmi il tempo di reagire si avvicinò a me e mi diede un rapido bacio sulle labbra per suggellare il nostro accordo. Cominciamo bene, pensai.

Mi assalì il timore che nei prossimi dieci giorni avrei dovuto tenerlo a bada, altro che guidarlo.

“Però non aspettarti troppe smancerie o frasi sdolcinate.

Non sono il mio genere”, aggiunse quasi rispondendo ai miei pensieri e con un morso ingoiò mezzo hamburger.

Non potevo crederci, Trevor era meglio di ciò che pensavo, aveva accettato di aiutarmi. Ero al settimo cielo, avevo ottenuto ciò che volevo senza usare i miei poteri, o quasi, e cosa più importante non avrei dovuto mentire a Susan.

“Posso presentarti i miei amici?” azzardai.

“Magari domani. Che lezione hai adesso?”

“Matematica”.

“Allora ti accompagno in aula. Andiamo”.

Si alzò di scatto, prese il vassoio con i resti del nostro pranzo e lo lasciò nel carrello assieme a tutti gli altri.

Quando tornò al tavolo ero stranamente nervosa. Avevo architettato io tutta la messinscena eppure quando mi mise un braccio attorno alle spalle mi emozionai. Uscimmo dalla sala seguiti da decine di sguardi increduli compreso quello di Nick. Era un trionfo.

Trevor stava facendo la sua parte alla grande. Anche senza starmi troppo appiccicato riusciva sempre a far sì che tutti ci notassero. Ogni tanto mi coglieva di sorpresa afferrandomi alle spalle con un abbraccio e cominciando a baciarmi il collo o mi sfiorava le braccia con il dorso della mano facendomi venire i brividi. In quei momenti la mia sicurezza vacillava pericolosamente e dovevo ricordare a me stessa lo scopo di tutta quella messinscena per non lasciarmi travolgere dall'istinto di saltargli addosso.

Ma sapevo di dover tenere fede alla mia promessa perciò, dopo le lezioni, mano nella mano, andavamo in biblioteca e lì si trasformava in uno schiavista senza scrupoli. Gli fotocopiai tutti i miei appunti e feci una decina di riassunti sugli argomenti che con più probabilità sarebbero stati oggetto d'esame. Fortunatamente eravamo bravi in materie diverse perciò ci interrogavamo a vicenda cercando di colmare le rispettive lacune.

Il momento più bello della giornata era il tragitto verso casa mia. Finivamo di studiare sempre molto tardi e visto che Susan se ne andava al termine delle lezioni, era lui a riaccompagnarmi la sera. Eravamo diventati amici. Era strano, fino ad allora non avevo mai preso in considerazione la possibilità di avere amicizie maschili, a parte Nick ovviamente, ma lui era il mio ragazzo e non contava come amico. Più ci pensavo più mi rendevo conto di quanto fosse stato sbilanciato il nostro rapporto: mi ero totalmente affidata a lui, pendevo dalle sue labbra e accettavo tutte le sue decisioni anche quando non ero d'accordo. Con Trevor era diverso: dicevo sempre ciò che pensavo e riuscivo a vedere tutto in

maniera più distaccata e obiettiva. Potevo difendere le mie opinioni senza paura di perderlo o di sembrare testarda o immatura.

E poi c'era Jason, il mio “amico immaginario”. Facevo ancora fatica ad accettare l'idea di conversare con uno che non avevo mai visto e che in realtà non sapevo neanche se esistesse davvero. Eppure, proprio perché liberi dall'imbarazzo dei nostri sguardi, riuscivamo a confidarci i segreti più intimi ed a parlare degli argomenti più disparati con la massima naturalezza.

Il giorno prima degli esami la sala mensa sembrava una centrale elettrica, la tensione sprizzava dai corpi e impregnava l'aria. Ne sentivo persino l'odore. Quando entrammo diverse facce si girarono a guardarci e Trevor strinse la presa sui miei fianchi. La sua mano calda premeva contro la striscia di pelle nuda tra i jeans e la maglietta e mi provocava una piacevole sensazione di benessere. Piccole perle di sudore cominciarono ad affiorare sulla nuca e a solleticarmi la schiena.

Ci sedemmo con Susan e gli altri. Osservai il viso dei miei amici con attenzione, uno ad uno, come se mi fossi risvegliata da un lungo sonno e ad un tratto mi rendessi conto dei segni che il trascorrere del tempo vi aveva fatto affiorare. Il volto di Colin aveva perso le sue rotondità infantili e i lineamenti della mascella erano decisi e affilati.

Marissa lo scrutava di sottecchi, le lunghe ciglia nere incorniciavano il suo sguardo felino accentuato dall'eye liner. Nelle loro espressioni c'era eccitazione e sollievo.

Chissà se si rendevano conto di quanto fosse prezioso e terribile quel momento. Era l'ultima volta che pranzavamo tutti assieme, al nostro tavolo, nella nostra scuola. Dopo il diploma avremmo preso strade diverse e nonostante tutte le

promesse e i propositi di rimanere in contatto ci saremmo inevitabilmente allontanati. Cosa avrei fatto senza di loro, sarei stata persa. La gola cominciò a bruciare, ed un leggero senso di stordimento mi avvolse per un secondo. Con il palmo della mano accarezzai la superficie bianca e lucida del tavolo. Era fredda e liscia insensibile al mio tormento.

Mi voltai verso Trevor cercando il suo sorriso rassicurante. Stava chiacchierando con Colin, sapeva essere veramente simpatico quando ci provava. Sembrava perfettamente a suo agio, come tra vecchi amici, anche se in realtà li conosceva solo da una settimana. Aveva un fascino irresistibile, romantico e impertinente allo stesso tempo, garbato con le ragazze e schietto con i maschi.

Gli avevo raccontato le storie di tutti ed era rimasto stranamente divertito dai goffi tentativi di Kate di sedurre Andy. Le riservava sempre un'attenzione particolare, le strizzava l'occhio o le faceva qualche complimento galante. Puntualmente lei arrossiva lusingata, gongolante per quelle attenzioni inaspettate e questo provocava una reazione opposta in Andy che non sopportava il mio nuovo

“ragazzo” e non perdeva occasione di dimostrarsi infastidito dalla sua presenza. Questa “concorrenza” imprevista aveva risvegliato in Andy un nuovo interesse verso Kate, era più gentile e protettivo e finalmente si era deciso ad invitarla alla festa di Marissa. Speravo che almeno per lei ci fosse un lieto fine visto che il mio sembrava molto lontano.

Spinsi il mio sguardo oltre la siepe di teste che affollava la sala, fino al tavolo dove Nick chiacchierava allegramente con Carlos. Non potevo negare l'evidenza: dopo qualche occhiata incredula, aveva perso ogni curiosità nei miei confronti e appariva totalmente indifferente al mio nuovo amore. Susan non aveva mai aperto bocca ma le leggevo in faccia che moriva dalla voglia di dirmi “te l'avevo detto”.

Anche quel pomeriggio lo ammo in biblioteca a studiare e quando finalmente chiudemmo i libri eravamo soddisfatti della nostra preparazione. Gli esami non mi sembravano più così terribili, non provavo né ansia né paura pensando ai test che per tre giorni sarebbero stati il centro delle nostre vite. Ma nel profondo del mio cuore sentivo crescere un sentimento molto più lacerante e angoscioso che mi serrava lo stomaco e premeva come un macigno sul torace rendendo affannoso il respiro. Una parte del mio mondo si era già sgretolata, ora stavo per perdere anche il resto.

Avevo costruito una fragile campana di cristallo attorno alla mia vita, dentro c'erano la mia famiglia, i miei amici e Trevor che, seppur in maniera diversa, aveva sostituito Nick nei miei pensieri ed era diventato un elemento indispensabile per la mia sopravvivenza. Osservai il suo viso mentre guidava verso casa mia. Era teso, la fronte leggermente corrugata, concentrato su chissà quali pensieri, lo sguardo malinconico. Anche se non lo avrebbe mai ammesso sapevo che era dispiaciuto quanto me per quel distacco imminente: la scuola era finita e subito dopo gli esami sarebbe partito per il Canada dove viveva suo padre. Il mio piano non aveva funzionato e il nostro accordo era terminato; l'inquietudine mi tormentava, chissà se saremmo rimasti amici, se ci saremmo rivisti anche dopo l'estate.

“Mi spiace che tu ti perda la festa di Marissa” dissi sottovoce.

“A dir la verità ho sempre odiato le feste, non è che io sia un gran ballerino. Ma mi dispiace che tu non abbia un cavaliere. Se avessi capito prima che Nick era così idiota da lasciati scappare, avrei chiesto a mio padre di posticipare la partenza e ti ci avrei portata io”. Dalla sua voce traspariva un sincero rammarico, mi sporsi verso di lui e gli schioccai un sonoro bacio sulla guancia.

“Adesso che è tutto finito cominci con i baci. Non vale!”

“È il mio modo per dirti grazie. È molto carino quello che mi hai appena detto”.

“È la verità e spero di rivederti quando torno. Mi sono divertito con te”.

“Anch'io mi sono divertita”.

Fermò l'auto in fondo al mio vialetto e mi fissò serio.

“In bocca al lupo per domani”.

“Anche a te”. Scendendo dall'auto gli rivolsi un ultimo sorriso che ricambiò malinconico.

Rimasi immobile a guardare la sua auto che si allontanava.

Non volevo rimanere sola quella sera, avevo bisogno di parlare con qualcuno. Mi incamminai verso la casa di Susan ma a metà strada cambiai idea, probabilmente Susan era tesa per gli esami e quando era tesa era alquanto intrattabile, avevo bisogno di qualcuno più spensierato. Avevo bisogno di Jason.

Aspettai pazientemente la fine della cena e con la scusa di un ultimo rio di matematica salii in camera mia e mi affacciai alla finestra aperta. La luce metallica della luna piena rischiarava il cielo, le ombre degli alberi sul viale

sembravano ancor più scure contornate dall'alone luminoso del suo riflesso. L'aria calda di giugno entrava morbida nella stanza accarezzandomi piacevolmente la pelle. Mi sedetti sul letto e mi lasciai cadere all'indietro.

Chiusi gli occhi.

“Jason” sussurrai nella mia mente.

“Ciao, Emily era ora che ti fi viva”. Era contento di sentirmi e mi riempì di gioia.

“Scusa ma ho studiato come una matta questa settimana”.

“Ah già, domani è il gran giorno”.

“Sì. Ma sto bene. Non sono agitata come pensavo”.

“Buon segno. E tutto il resto?” Nonostante cercasse di aggirare il discorso sentivo l'impazienza nella sua voce.

“Dì la verità, muori dalla voglia di sapere come va con il mio piano”.

“Cominci a conoscermi ragazzina” disse con una mezza risata.

“Vorrei vedere. Nuoti dentro la mia testa tutti i giorni”.

Cercavo di prendere tempo, un po' per stuzzicarlo e un po'

perché mi risultava difficile affrontare la sconfitta.

“Allora? Si può' sapere com'è andata?”

“È stato un disastro totale”.

“Perché? Il tuo amico non ha recitato bene la sua parte o il traditore non ha cambiato idea?”

Come Susan, anche Jason non si capacitava del fatto che non riuscissi a lasciarmi alle spalle ciò che era successo con Nick e a guardare avanti. La disapprovazione per tutte le mie macchinazioni traspariva da ogni suo discorso al riguardo.

“No, Trevor è stato grande, devo dire che ci sa fare con le ragazze. Forse è arrivato il momento di ammettere che sul serio Nick non è più innamorato di me e che mi sto illudendo”.

“Alleluia! Ce l'hai fatta a voltare pagina. Era ora! Adesso però voglio tutti i

particolari piccanti della tua sordida relazione con …, come si chiama?”

“Si chiama Trevor e non c'è stata nessuna sordida relazione e poi appena finiti gli esami partirà per il Canada e non ci rivedremo per tutta l'estate”.

“Certo che sei proprio sfortunata, appena ti ci affezioni se ne vanno. O sei tu che li fai scappare?”

“Sei proprio un idiota. Non so perché mi ostino a raccontarti tutto sapendo che poi non farai altro che prendermi in giro”.

“Dai non fare la bambina. Cercavo di sdrammatizzare.

Cambiamo argomento, questa volta ho bisogno io di un consiglio”.

Il broncio che non poteva vedere sparì in un lampo, era raro che si sbilanciasse a chiedermi consigli, ero tutta orecchie.

“Ho conosciuto una tipa che mi sta facendo impazzire.

Fa la hostess e a per Washington solo una volta alla settimana, finalmente domani la porto fuori a cena e voglio fare colpo perciò pensavo di portarle dei fiori. Tu cosa mi consigli?”

“Tutto qui? Vuoi un consiglio sui fiori? Niente tattiche di corteggiamento o roba del genere?”

Scoppiò a ridere e gli ci vollero un paio di minuti per tornare serio. “Stai scherzando? Pensi che chiederei a te come corteggiare una ragazza. Emily, tesoro, la tua vita sentimentale è una catastrofe, non credo tu sia nella posizione migliore per dare consigli a qualcuno”.

“Senti cretino, solo per il fatto che sono stata mollata non vuol dire che non sappia cosa piace a una ragazza”.

“Okay, okay, non volevo offendere ma dei fiori che mi dici?”

“Le rose rosse sono un classico ma sono banali e al primo appuntamento le trovo un po' troppo compromettenti, io starei su qualcosa di tropicale, di esotico. È molto più d'effetto”. Soprattutto se sai quanto costano i fiori tropicali, pensai sottovoce. Speravo che un bello scossone al suo portafoglio mi avrebbe ripagata delle sottili umiliazioni che ogni volta mi infliggeva. “E poi mi sembra che ti rappresenti meglio, per quel che ti conosco direi che sei un tipo tutt’altro che scontato, no?”

“Questo è poco ma sicuro” commentò, ma non aggiunse altro.

“E dimmi un po' cosa prevede la tua serata romantica?”

“Pensavo di cominciare con un aperitivo in un nuovo locale che hanno aperto in

centro e poi la classica cena al lume di candela nel solito ristorante”.

“Il solito ristorante? Vuol dire che le porti tutte nello stesso posto? Ma che senso ha?”

“Beh, alle ragazze non lo dico ma il ristorante è mio e perciò puoi ben capire che mi riservano un trattamento molto speciale. Saletta riservata, piatti raffinati, musica e tutto il resto”.

“Caspita! Ma scusa non hai detto che fai l'assicuratore?” Per un attimo dubitai della sua sincerità. E se tutto quello che mi aveva raccontato, che mi stava raccontando fossero solo enormi bugie? Magari era un povero sfigato che si faceva are per dongiovanni. No, non poteva essere. Scacciai con fermezza ogni dubbio. Mi rifiutavo anche solo di considerare l'idea che il coinquilino del mio cervello non fosse ciò che diceva di essere.

“Sì, ma ho utilizzato l'eredità dei miei genitori per acquistare il ristorante e devo dire che sta rendendo piuttosto bene”. Lo preferivo decisamente così, ricco e intrigante.

“E poi per il dopocena dove le porti? Da te o in albergo?”

“Scherzi? Al primo appuntamento non c'è mai un dopocena. Non per me almeno. Preferisco farle cuocere a fuoco lento. Lasciarle nel dubbio di non essermi piaciute”.

“E al secondo appuntamento che fai?”

“Ti assicuro che al secondo appuntamento sono pronte a saltarmi addosso pur di risollevare la loro autostima.

Sempre che io decida che vale la pena perdere tempo in un secondo appuntamento”.

“Sei veramente str..... Ma per questa volta farò finta di niente. Senti, non è che ti trovi da queste parti sabato sera?”

Rise ancora.

“Ti piacerebbe eh?” Fece una pausa ed emise un verso strano, quasi volesse schiarirsi la voce.

“Prima di tutto ti ripeto che non so e non voglio sapere dove abiti, e poi cosa c'è di così importante sabato sera?” Sapevo che stavo per dargli un'altra occasione per deridermi ma anche a me serviva un consiglio e non avrei saputo a chi altri chiederlo.

“Sabato c'è la mega festa di quella mia amica, ricordi? A questo punto devo rassegnarmi a non avere un cavaliere, che faccio, ci vado lo stesso o resto a casa?”

“Ci devi assolutamente andare e fare finta di divertirti come una pazza anche se non sarà così. Credimi, ti farà bene. Mostra a tutti che Nick è acqua ata e che sei più forte di prima. E poi non è detto che tu non ti diverta sul serio”.

Un lampo mi attraversò la mente. C'era un modo per non sentirmi del tutto sola alla festa.

“Me lo faresti un favore?”

“Dipende. Se è qualcosa di fisico no”.

“Mi terresti compagnia finché sono alla festa.

Telepaticamente intendo”.

Rimase in silenzio pochi secondi: chissà se era in dubbio sulla risposta da darmi o se più semplicemente lo avevo stupito.

“Certo Emily, lo faccio volentieri”. Liberai il respiro che avevo trattenuto nei polmoni. Il suo tono morbido e caldo avvolse i miei pensieri, nonostante tutto sapevo che avrei potuto contare su di lui, non ero sola.

12

FESTA

La musica impregnava l'aria, rimbalzando da una parete all'altra e scontrandosi con i corpi accaldati che si muovevano nell'immensa pista da ballo. Sottili raggi di luce si irradiavano dalle centinaia di cristalli che scendevano a grappoli dal soffitto e dalle piccole gocce di vetro che ornavano i candelabri sui tavoli e sul buffet.

Sembravano i fili di tante piccole ragnatele che venivano incessantemente interrotte e ricomposte ogni volta in maniera diversa. Il profumo del giardino si mescolava ad un odore più intenso, quasi tangibile, l'odore della libertà, della vittoria. Ci eravamo diplomati.

Gli esami erano stati una eggiata ed il mio diploma faceva già bella mostra di sé appeso alla parete del nostro salotto. Rimaneva da compiere l'ultimo rito, il più atteso: la festa di Marissa.

Io, Susan e Paul eravamo arrivati presto, prima degli altri per poter dare una mano a Marissa negli ultimi preparativi anche se il suo staff di catering aveva già sistemato ogni cosa alla perfezione. Le cameriere correvano avanti e indietro con vassoi carichi di oggetti che sembravano piccole opere d'arte piuttosto che roba da mangiare. Indossavano tutte una camicetta bianca che lasciava scoperte le spalle e dei pantaloncini in pelle nera sembravano uscite da un film di pirati. A Jason sarebbero piaciute.

Durante il tragitto in auto avevamo iniziato una fitta conversazione e mi aveva aggiornato sui suoi progressi con la hostess. Il loro primo appuntamento era andato alla grande ma lei non lo aveva ancora chiamato per dirgli la data del suo prossimo aggio a Washington e questo lo faceva impazzire.

“È strano, di solito decido io dove e quando. Mi rende nervoso non avere tutto sotto controllo”. Gongolai al pensiero di saperlo sulle spine. Lui sempre così spavaldo e arrogante.

“Dai che ti fa bene un po' di suspense. Finalmente puoi capire come ci si sente ad aspettare qualcuno senza sapere se ti richiamerà mai o se ti ha raccontato solo un mucchio di balle”.

“E il cretino è già arrivato?” chiese con un tono morbido che mi accarezzò la pelle facendomi trasalire. Sorrisi, pensando che avrei potuto affrontare qualsiasi cosa se Jason fosse rimasto dentro la mia testa a fare da scudo contro i brutti pensieri.

“No, non ancora. Ma il peggio è ato. Per fortuna nessuno ha fatto battutacce sul fatto che non ho un cavaliere e ti assicuro che conoscendo i miei amici è già tanto”.

“Raccontami un po' com'è la festa e non tralasciare niente. I dettagli sono la mia parte preferita, fanno la differenza tra una banale festa di diploma ed un party da sballo”.

Me lo figurai steso su un comodo divano di velluto, con gli occhi chiusi pronto ad assaporare ogni singolo particolare.

Cercai di essere più precisa possibile, gli descrissi la casa, la disposizione e il colore dell'arredamento, gli addobbi e il faraonico buffet su cui aveva voluto che mi soffermassi facendomi domande di ogni tipo. Mi ci volle quasi mezz'ora solo per assaggiare quei piccoli capolavori e per descriverne a Jason gusto e aspetto. Ce n'erano decine e decine, piccole torri colorate che si ergevano su immensi vassoi d'argento, raffinate barchette ripiene adagiate su morbide onde di lattuga e fragranti sfogliatine traboccanti di soffice crema. Ogni forma creata da madre natura era riprodotta in maniera assolutamente perfetta e sopratutto commestibile. Tralasciai un paio di vassoi carichi di piccole palline gommose che fuoriuscivano da bianchi gusci a spirale e molluschi gelatinosi afflosciati su conchiglie raggrinzite. Mi stavo divertendo moltissimo, mi sembrava di essere un gran gourmet ad una prestigiosa degustazione. Di tanto in tanto qualcuno mi fermava per salutarmi e scambiare qualche parola ma non mi trattenevo mai più di qualche minuto e con molta gentilezza li liquidavo scusandomi e dicendo che qualcuno mi aspettava. Ed era vero, Jason mi aspettava, era lì con me. Non poteva farmi ballare o tenermi la mano ma lui c'era, era parte di me. Quando non fui più in grado di inghiottire nemmeno una briciola ai a parlare degli abiti ed infine dei ballerini, alcuni dei quali sembravano robot in corto circuito.

Kate ed Andy furono tra gli ultimi ad arrivare e quando vidi le loro mani intrecciate non potei trattenermi dall'avvolgere Kate con un affettuoso abbraccio.

Allontanandomi per guardarla meglio notai che una ciocca di capelli era fuggita dall'elaborata pettinatura ed ora pendeva morbida vicino al suo orecchio destro e il rossetto era leggermente sbavato. Le feci l'occhiolino e cercai di rimettere a posto la ciocca ribelle. Ogni cellula del suo corpo emanava gioia, aveva un sorriso ebete stampato sul viso e dall'espressione assente nei suoi occhi non so dire se fosse in grado di intendere e di volere ma era felice, oltre ogni ragionevole dubbio. Andy aveva lo stesso sguardo sognante ma reagiva più velocemente di lei, ci salutò e senza lasciare la presa su Kate afferrò una tartina con la mano libera. Erano così carini assieme. Susan mi afferrò per un braccio e mi guidò a qualche metro di distanza.

“Vedi anche tu quello che vedo io?”

“Certo! Non sono carini insieme?”

“Sì, direi che sono perfetti uno per l'altra. E tu? Tutto bene?”

“Sì, è una festa magnifica e me la sto proprio godendo”.

“Nessun rimpianto?”

“No. Si vede che non era destino”.

Rispose al mio sorriso con un abbraccio.

Chiacchierammo finché Paul non la trascinò a ballare.

Li guardai allontanarsi, anche loro stavano bene insieme.

“Ciao Emily. Sei uno schianto questa sera!” Sussultai per la sorpresa e un brivido di paura mi attraversò la spina dorsale. Conoscevo bene quella voce e non mi piaceva per niente. L'aria mi parve di colpo irrespirabile. Mi voltai di

scatto.

“Ciao Roger. Cosa ci fai qui?” Il cuore cominciò a correre all'impazzata.

“Mi ha dato una mano Kate. Ha detto a Marissa che sono pazzo di te e così lei mi ha invitato per farti una sorpresa. Fantastico no?” Finse di sistemarmi i capelli dietro l'orecchio, era evidente che non voleva guardarmi negli occhi.

Scostai bruscamente la sua mano.

“Sei pazzo di me? Tu vuoi solo usarmi, sei attirato da quello che potrei fare per te non certo da me”.

“Non prenderla così Emily, potremmo fare grandi cose insieme io e te”.

Lo sapevo, dentro di me lo sapevo che erano solo i miei poteri quello che voleva, ma la delusione bruciava ugualmente.

“Dimmi cosa vuoi e vattene. Mi stai rovinando la serata”.

Capì che non stavo mentendo ma non si scompose e il sorriso compiaciuto che si disegnò sulla sua faccia mi fece diventare furiosa.

“Se mi concedi un ballo ti spiegherò tutto e poi deciderai tu stessa se cacciarmi o seguirmi”.

“Qualsiasi cosa tu possa dirmi sei pazzo se pensi che ti seguirei”.

“Fammi almeno tentare. Cosa ti costa? Più insisti a fare la difficile più tempo rimarrò alla festa e ti assicuro che ti starò appiccicato come una ventosa. Decidi tu”.

Ogni volta che lo incontravo pensavo che nessuno avrebbe potuto essere così insopportabile ma mi sbagliavo perché riusciva sempre a superare sé stesso. Per qualche istante cercai di catturare il suo sguardo ma era scaltro.

Mi guardai attorno cercando una via di fuga, un gruppo di ragazze sedute vicino alla porta se lo stava mangiando con gli occhi. Indossava lo smoking come se ci fosse nato dentro, aveva un fisico asciutto e pur controvoglia ammisi che era molto affascinante.

“Giuralo. Un ballo solo e poi te ne vai”.

“Lo giuro” disse soddisfatto. Avrei voluto dargli un bel pugno in faccia, invece lo afferrai per un braccio e lo guidai verso la pista da ballo. La musica pompava al ritmo di rock, cominciai a ballare saltando come facevano i ragazzi attorno a noi. Fortunatamente il volume era talmente alto da impedire qualsiasi conversazione. Non sarei stata costretta a sentire le sue storie e finita la musica lo avrei accompagnato io stessa verso l'uscita.

Erano ati appena dieci secondi di assordante rock quando il dj cambio pezzo e, a dispetto delle centinai di proteste che si levavano dalla pista da ballo, mise un lento. Roger rise compiaciuto.

“Potenza del denaro, mia cara”. Mi prese le braccia e se le avvolse attorno al collo. Cercai di ribellarmi ma mi afferrò per i fianchi e mi attirò verso di lui, posando la sua guancia sulla mia.

“Così è molto più facile parlare non trovi?”

“Trovo che tu sia un pallone gonfiato, attento che prima o poi scoppi”. Ignorò totalmente le mie parole.

“Perché non mi hai chiamato? Sei più sciocca di quanto pensavo. Potresti avere tutto dalla vita e non vuoi neanche sapere come”.

“Non c'è bisogno che tu mi dica come usare le mie capacità. So benissimo cosa sono in grado di fare il punto è che non voglio farlo. Non mi interessa diventare ricca se per farlo devo manipolare le persone”.

“Allora sei veramente stupida”. Cercai di staccarmi da lui per dargli uno schiaffo ma fu più veloce e mi bloccò il polso.

“Mi piacciono le donne aggressive. Saremmo una coppia fantastica noi due”.

“Sei un bastardo. Lasciami andare”.

“Vieni a Washington con me, parli con un paio di persone e ti assicuro che la tua vita cambierà. Potresti comprarti quello che vuoi, andartene da questo buco di città e fare un mucchio di regali a tutti quanti. Non dirmi che non ti piacerebbe perché non ci credo”.

Era vero. Mi sarebbe piaciuto, ma non così.

“Non mi interessa diventare uno dei tuoi scagnozzi. Sto bene come sono”.

Rise così forte da costringermi ad allontanare la testa di quanto potevo.

“Ma che idea ti sei fatta di me? Io sono un uomo d'affari molto stimato, discendo da un'onesta stirpe di armatori.

La mia famiglia è da secoli una delle più ricche dello Stato”.

Finalmente si spiegava la presenza della guardia del corpo.

“Se sei tanto ricco perché hai bisogno del mio aiuto?”

“Vedi, a dispetto di ciò che si dice, i soldi non possono comprare proprio tutto”.

“Sarebbe?”

“Vuoi sapere troppo. Tu accetta di venire con me e ti spiegherò ogni cosa”.

D'un tratto cominciai a perdere lucidità. Una sottile foschia stava occupando la mia mente, dovevo reagire prima che la nebbia si addensasse troppo. Mi guardai rapidamente intorno, Garrett non doveva essere lontano, era ovvio che fosse opera sua. Lo individuai con facilità, era più alto di quasi tutti gli invitati. Mi stava fissando.

Vattene e portati via il tuo padrone. Ordinai.

Quando Roger lo vide avvicinarsi capì subito cosa avevo fatto.

Paonazzo, con gli occhi fiammeggianti e le vene del collo che pulsavano come radici di un albero gridò: “In un modo o nell'altro mi aiuterai Emily. Te lo assicuro”. Questa volta fui più veloce io ed il mio schiaffo lo colpì in piena faccia un attimo prima che Garrett lo afferrasse per un braccio.

“Capo penso sia meglio andare via” biascicò con tono di scusa. “Lasciami idiota. Decido io quando è ora di andare”.

Sapeva benissimo che era inutile tentare di opporsi alla forza del suo gorilla. “Non finisce qui Emily!” urlò prima di scomparire oltre la porta.

Decine di teste che avevano seguito la sua uscita di scena si girarono di scatto verso di me. La musica aveva ricominciato a pompare freneticamente ma nella sala regnava un'immobilità irreale.

Mi feci largo a spallate, avevo bisogno d'aria.

Fuori c'era odore di pioggia, un vento freddo soffiava insinuandosi con le sue dita di ghiaccio sotto al leggero abitino di seta nera, le cime degli alberi ondeggiavano producendo un rumore simile allo sciabordio delle onde.

Sollevai lo sguardo. Il cielo era una massa nera, densa e minacciosa, pronta a scaricare la sua rabbia su di noi. Mi sentii gelare, dentro e fuori.

“Tutto okay?” Conoscevo bene anche quella voce.

Troppo bene per credere che fosse vera, che si stesse rivolgendo a me. Quello che era successo nel salone mi aveva scossa più di quanto credevo. Rimasi immobile, ero sicura che se mi fossi voltata non avrei trovato nessuno alle mie spalle.

“Emily stai bene?” insistette la voce.

“Sì”, risposi voltandomi lentamente.

Abbassai lo sguardo nel momento esatto in cui incontrai il suo. I suoi occhi verdi erano concentrati su di me, carichi di ansia e preoccupazione.

“Ciao Nick, come stai?” Sollevai la testa fino a fissare le punte del colletto della sua camicia.

“Io sto bene, ma tu piuttosto, chi era quel tizio?

Sembrava che volesse farti a pezzi”.

“Non preoccuparti è uno che ho conosciuto da poco, ma so tenerlo a bada”.

Mi afferrò per le spalle e mi scosse, come per assicurarsi che fossi sveglia.

“Emily, guardami negli occhi. Non è che ti sei messa a frequentare...” si fermò cercando le parole giuste, “ cattive compagnie, vero?”

Senza che me ne rendessi conto gli occhi mi si riempirono di lacrime. Non volevo piangere. Non ne avevo motivo, prima che arrivasse Roger andava tutto a meraviglia, stavo benone, avevo quasi smesso di pensare a Nick. Ed ora eccolo lì, a preoccuparsi per me. Le sue mani calde sulla mia pelle gelata erano come una scossa elettrica.

“Nick sei qui fuori?” Ecco un'altra voce che conoscevo bene e che detestavo.

“Adesso arrivo Rose. Aspettami dentro”. Nick non staccava gli occhi da me.

“Emily rispondimi”. Non riuscii a trattenermi e lasciai che i miei occhi si immergessero nei suoi.

“Ti assicuro che va tutto bene. Non devi preoccuparti”.

Gli sorrisi e lui ricambiò con una dolcezza che mi fermò il respiro.

La mano di Rose si avvolse attorno al suo braccio. Mi guardò con aria di sfida.

“Vieni Nick?”, disse cercando di attirarlo verso di sé.

Possibile che dopo tutto quello che avevo fatto per lei non mi lasciasse niente. Neanche le briciole di quello che era stato il mio grande amore. Erano ati appena due minuti da quando lui era venuto a parlarmi e lei lo reclamava già. Probabilmente le cose sarebbero andate diversamente se non fosse stata così avida. Magari avremmo potuto continuare a vederci, essere amici.

Mi aspettavo che lui mi salutasse e se ne andasse invece rimase con lo sguardo fisso su di me, come se non si fosse neanche accorto di lei.

“Emily, tu lo sai che per qualsiasi problema puoi contare su di me? Sai che c'è un

sacco di gente che ti vuole bene, pronta ad aiutarti. Lo sai vero?”

“Sì Nick, lo so. Ma ti assicuro, non c'è niente di cui preoccuparsi. Va tutto bene”. Era vero, andava tutto benissimo, i suoi occhi nei miei e le sue mani su di me mi facevano sentire bene, a casa.

“Allora andiamo?” Rose stava superando il limite, se ci fossimo trovate faccia a faccia solo io e lei non le avrei risparmiato un bel pugno. Ma lui non mollava, le sue iridi si muovevano veloci dentro le mie. Stava cercando di leggermi dentro, di capire se mentivo.

Rose sbuffò scocciata e qualcosa fece clic nella mia testa. Non volevo farlo, stavo solo facendo delle considerazioni nella mia mente, analizzavo la situazione.

Sei ancora innamorato di me. Mi ami ancora.

Capii ciò che avevo fatto nell'istante in cui il suo sguardo cambiò e divenne confuso, annacquato. Il mio pensiero si stava annidando nella sua mente, stava affondando le sue radici come un invisibile parassita. Non aveva scelta doveva cedere.

“Nick!” urlò Rose. “Io me ne vado, con o senza di te”.

Lui mi fece un mezzo sorriso, poi si voltò e si allontanarono insieme. Cosa sarebbe successo? Che effetto avrebbe avuto la mia silenziosa riflessione. Cosa

sarebbe cambiato? Ero torturata dai dubbi ma soprattutto dal fatto che forse avevo cambiato il destino. Cosa sarebbe successo tra noi senza il mio intervento? Mi amava ancora o era un'illusione? Forse non lo avrei mai saputo.

Rientrai e la musica mi piombò addosso come un tir lanciato sull'autostrada, mi pompava nel petto alterando il battito del mio cuore. Le luci di Wood creavano mostruosi effetti di fluorescenza sugli occhi e sui denti, mi sentivo circondata da mostri. Marissa si avvicinò con due bicchieri in mano. Sollevammo i calici alla nostra salute e ne tracannai il liquido rosso tutto d'un fiato.

“Caspita che sete?” commentò con un largo sorriso.

“Eh già. Una festa da sballo”. Non mentivo. La testa mi girava, i suoni giungevano attutiti come se fossi avvolta dall'ovatta. Doveva esserci parecchio alcool nel cocktail che avevo bevuto.

“Cosa c'era nel bicchiere?” chiesi.

“Il nostro brindisi del diploma, ma non dirlo in giro, ho promesso a mio padre che non ci sarebbero stati alcolici.

Questo l'ho fatto fare apposta per noi due”. Mi strizzò l'occhio e si allontanò.

Guardai l'orologio: le undici. La voglia di divertirmi mi era ata, sgattaiolai fuori senza farmi vedere. Diverse coppiette stavano lasciando la festa per andare ad appartarsi altrove, una di loro accettò di darmi un aggio fino a casa. Dissi

a Jason che ero stanca e che ci saremmo sentiti domani. Non potevo coinvolgerlo in quella assurda storia, avrei dovuto dare troppe spiegazioni. Sam era stato chiaro, dovevo volare basso, non farmi notare. Beh, se qualcosa mi era riuscita bene quella sera certo non era quella di are inosservata.

13

DESTINO

Mi rigirai nel letto per tutta la notte. Susan mi aveva chiamata sul cellulare verso l'una infuriata perché me n'ero andata senza avvisarla.

Avevo atteso la festa di Marissa per settimane, l'avevo sognata, immaginata in ogni dettaglio, vi avevo riposto tutte le mie speranze di riconciliazione con Nick. Era stato un disastro, un totale, completo, assoluto disastro.

Dovevo guardarmi le spalle da Roger, fare pace con Susan e stare ad aspettare la mossa di Nick. Mi alzai dal letto con un gusto amaro in bocca.

Era domenica mattina, le sette, presto, troppo presto per i miei standard, la casa era piacevolmente silenziosa.

Scesi in cucina e presi del succo d'arancia dal frigo.

Cookie, stesa sul suo cuscino si stiracchiò e cambiò posizione. Guardai la villetta di Susan, oltre il viale, le tende oscuravano ancora le finestre, non avrei potuto presentarmi da lei prima di mezzogiorno. Era la regola che avevamo stabilito insieme: dopo una festa niente contatti per dieci ore dopo la buonanotte. Ero tesa come quando a nove anni avevo rotto il preziosissimo vaso della mamma e non sapevo come dirglielo. Dovevo fare qualcosa per scaricare la tensione. Decisi di fare una cosa che non avevo mai fatto, una cosa che andava oltre i miei principi

e le mie convinzioni. Decisi di fare jogging. Mi cambiai rapidamente, afferrai l'ipod ed uscii di casa.

Aveva piovuto parecchio durante la notte. L'asfalto era lucido e scivoloso ma la temperatura era piacevole. Con il pollice feci una leggera pressione e la musica fluì nelle mie orecchie. Il ritmo incalzante mi aiutò ad accelerare il o e in un attimo mi ritrovai a correre lungo il viale deserto.

Quando svoltai l'angolo mi resi conto di non essere sola.

Come palline di gomma che rimbalzano, tanti altri podisti ansimavano affannati. Un uomo tarchiato con un'enorme ciambella di grasso attorno alla vita, mi ò davanti annaspando. I capelli unti e intrisi di sudore gli cadevano pesantemente sugli occhi e la canotta bagnata aderiva al corpo evidenziandone ogni piega. Rabbrividii inorridita e moderai la mia andatura. Non avevo nessuna intenzione di ridurmi in quello stato.

Corsi per venti minuti, rallentando un paio di volte per riprendere fiato, ma ero soddisfatta della mia resistenza.

Ad una ventina di metri da casa cominciai a camminare inspirando ed espirando profondamente. Il cuore aveva quasi ripreso a battere normalmente quando, di colpo, impazzì.

Seduto sulle scale di casa mia, con la testa fra le mani, c'era Nick. Non si accorse di me fino a quando non gli fui davanti, allora alzò la testa e mi sorrise.

“Ciao” balbettai.

“Ciao. Aspettavo che ti alzassi, non pensavo fossi diventata una sportiva”, disse.

Mi sedetti accanto a lui. “Le cose cambiano. Cosa ci fai qui? Alle otto del mattino perdipiù”.

“Avevo voglia di vederti. Ho pensato a te tutta la notte”.

Solo un giorno prima quelle parole mi avrebbero fatta urlare di gioia. Ora ad urlare erano solo i miei pensieri che mi ripetevano “Stupida! Stupida! Hai rovinato tutto”. Cosa dovevo fare? Ordinargli di andarsene? Di tornare da Rose?

E se veramente gli ero mancata? Se veramente voleva stare con me gli avrei ordinato di fare qualcosa contrario alla sua volontà, mi sarei rovinata con le mie mani. Che casino!

“Mi fa piacere sentirtelo dire, ma Rose?”

“Non so, è strano, quando sono con lei non penso ad altro ma quando lei non c'è penso a te”.

Forse c'era ancora speranza per la nostra storia.

“Okay, e adesso che mi hai vista che si fa?”

“Hai già fatto colazione?” chiese, ed al pensiero del cibo gli luccicarono gli occhi. Non era cambiato.

“No. Però prima ho bisogno di una doccia. Ce la fai ad aspettare dieci minuti”.

“Certo. Però resto qui, preferisco non entrare”.

“Forse è meglio. Cerco di fare in fretta”. Mi chiusi la porta alle spalle e volai su per le scale. L'acqua era gelata ma non avevo tempo di aspettare che si scaldasse. Mi truccai appena, scrissi un biglietto per i miei genitori e con i capelli ancora bagnati raggiunsi Nick.

Dopo un caffè e due ciambelle glassate il mio stomaco si placò e smise di farmi male, anche se sapevo che non era stata la fame ad aggrovigliarlo.

“Allora, ci siamo diplomati alla fine”, dissi leccandomi le dita.

“Eh già, quando ho visto il test di trigonometria non ero sicuro che ce l'avrei fatta. Ma è andata”.

“Io ero tranquilla. Avevo studiato parecchio. I miei hanno già incorniciato il diploma”.

“Non avevo dubbi!” Per un attimo rise, poi il caffè gli andò di traverso e cominciò a tossire. Quando smise si fece serio.

“Ma dimmi un po' e quel tizio con cui ti trovavi in biblioteca che fine ha fatto? Sembravate molto … intimi”.

Allora il mio piano aveva funzionato. Ci aveva visto anche in biblioteca, non me ne ero mai accorta.

Faceva l'indifferente aspettando una risposta ma dal modo in cui continuava a spostare la tazza da una mano all'altra si vedeva che era nervoso.

“Trevor? È in Canada con suo padre. I suoi sono divorziati, d'inverno vive qui, con la madre e l'estate la a dal padre”.

“Quindi non vi vedrete per tutta l'estate?” Teneva lo sguardo basso, quasi si vergognasse di ciò che mi stava chiedendo.

“Mi ha promesso che avrebbe cercato di tornare prima possibile”.

Alzò la testa di scatto e sputò fuori la domanda che lo tormentava.

“Ma state insieme?”

Nella mia mente si allargò un enorme sorriso ma mantenni un'espressione imibile. Volevo cucinarlo a fuoco lento.

“In un certo senso. Abbiamo trascorso parecchio tempo assieme. Abbiamo un sacco di cose in comune”.

I suoi occhi divennero due fessure. “Per esempio?” La conversazione stava prendendo una piega che non mi piaceva.

“Per esempio siamo tutti e due bellissimi!” dissi sollevando la testa e scuotendo i capelli come ad una sfilata di moda.

“Hai ragione”, rispose ridendo. “Almeno per quanto riguarda te. Cosa hai fatto ai capelli? Li hai tinti?”

“No, una mattina mi sono svegliata ed ero così, semplicemente favolosa”. Mi feci seria. “Non sono stata molto bene dopo che … Beh, dopo che mi hai mollato sono cambiate alcune cose”.

“Sì, me l'hanno detto. Mi dispiace”. Abbassò di nuovo lo sguardo ed iniziò a giocherellare con il cucchiaino.

“Acqua ata. Come vedi, ora, sono in forma splendida”.

“Vedo” disse e mi fece l'occhiolino.

Arrossii di colpo, non ero più abituata ai suoi complimenti.

Mentre parlavamo analizzavo ogni suo movimento ed ogni cambiamento di espressione per cercare di capire se ci fosse qualcosa di forzato nel suo atteggiamento ma più lo osservavo più mi sembrava sincero, quasi sollevato.

Forse non avevo fatto altro che rafforzare ciò che, senza ammetterlo, sapeva già.

Quando mi riaccompagnò a casa era quasi mezzogiorno.

Ci salutammo con un sorriso e un cenno della mano, non era prudente andare oltre. Mi sentivo leggera, ero contenta di come si stavano mettendo le cose, ma c'era qualcosa di stonato, qualcosa che mi sfuggiva. Ero contenta. Ma niente di più. Ero felice? No. Felice era un'emozione troppo forte per descrivere ciò che provavo, troppo intensa rispetto a ciò che realmente sentivo. Ora che stavo per ottenere ciò che avevo bramato per mesi non ero più certa di volerlo davvero. Mi imposi di pensare ad altro. Non era il momento per le paranoie.

Mi chiusi la porta alle spalle cercando di non fare rumore.

“Ciao tesoro”, cinguettò mia madre dalla cucina. La raggiunsi ostentando una disinvoltura che non sentivo.

“Ciao mamma”. Non aggiunsi altro ed aspettai che fosse lei a dare il via all'interrogatorio che, senza alcun dubbio, sarebbe seguito. Non avevo via di scampo, l'avevo vista sbirciare dalla finestra mentre scendevo dall'auto. Lo avevo scongiurato di parcheggiare davanti alla chiesa, lasciandomi percorrere a piedi gli ultimi trecento metri ma non aveva voluto sentire ragioni. Aveva continuato a guidare fingendo di non comprendere il mio disagio nel farmi vedere con lui, soprattutto dai miei genitori. E non gli era bastato parcheggiare di fronte a casa mia, aveva voluto scendere ed accompagnarmi fino alla porta.

“Sbaglio o era Nick il ragazzo che ti ha accompagnata?”, chiese mia madre con gli occhietti che brillavano di curiosità.

“Sì, era lui. Ci siamo incontrati alla caffetteria e poi mi ha riaccompagnata a casa. E questo e tutto”. Pronunciai con enfasi le ultime quattro parole augurandomi che fosse sufficiente a dissuaderla dal pormi altre domande.

“E come è andata ieri sera alla festa?” Accidenti, avevo già rimosso la catastrofica festa di Marissa e non avevo pensato a confezionare una versione dei fatti ad hoc per mia madre.

“Bene. La casa e la musica erano uno sballo ma ero molto stanca e sono rientrata presto”.

Il ronzio basso del camlo mi salvò dal milione di domande che sicuramente mia madre si era preparata.

Susan aveva gli occhi sbarrati e scuoteva la testa con le labbra socchiuse ma dalla sua bocca non usciva alcun suono. Sembrava che avesse visto un fantasma.

Indossava le sue vecchissime infradito bianche con i fiori rossi e la porta di casa sua era spalancata. Un sottile brivido di paura mi scivolò lungo la schiena.

“Che c'è? Cos'è successo?” La mia voce suonava lievemente isterica.

“Dimmi tu cos'è successo. Non era Nick quello che ti ha accompagnata a casa?”

I nervi del mio corpo si rilassarono e per un riflesso involontario i muscoli della mia bocca si piegarono in un sorriso.

“Allora ho visto giusto” esclamò Susan ricambiando il mio sorriso.

“Mamma io esco” urlai verso la cucina.

“Torni per pranzo?”

“Sì”. Non le diedi il tempo di dire altro e mi chiusi la porta alle spalle.

Feci un resoconto dettagliato delle ultime dodici ore, dall'aggressione di Roger alla festa fino al momento in cui lei si era presentata alla mia porta. Mi ascoltò fissandomi senza quasi sbattere le palpebre.

“Non ci posso credere”. Fu l'unica cosa che riuscì a dire.

“Hai visto che alla fine il mio piano ha funzionato”.

Quante volte avevo sognato di dirlo e finalmente potevo gridarlo a tutto il mondo. E ancora una volta quella fastidiosa sensazione di insinuò nella mia testa. Ero contenta ma mancava qualcosa, mi sentivo a disagio.

“Ti assicuro Emily che non ci avrei scommesso un dollaro”.

“Lo so”.

“E adesso?” era più confusa di me.

“Adesso aspetto la prossima mossa. Non si è ancora sbilanciato e non voglio illudermi che lo farà. Prenderò quel che viene e starò a vedere”.

Rimanemmo in silenzio, ognuna immaginando come sarebbe continuata la soap opera. Osservai la sua espressione compiaciuta e mi augurai che il suo finale fosse felice quanto il mio.

“Vieni da Marissa oggi pomeriggio? Prendiamo il sole e ci facciamo un paio di tuffi in piscina”.

“Certo. Mi dovete aggiornare su tutto quello che è successo ieri sera”.

“Ti aspetto alle due”. Mi fece l'occhiolino e poi ciabattando entrò in casa.

La casa di Marissa era immacolata. I vialetti di ghiaia perfettamente rastrellata, le aiuole ingentilite da fiori appena piantati, la sala da ballo luccicava e profumava di detergente al limone. Il personale doveva aver lavorato tutta la notte per cancellare le tracce del aggio dei duecento barbari che avevano popolato la festa.

Marissa e Colin erano stesi uno accanto all'altra sotto uno dei grandi ombrelloni color avorio che circondavano la piscina. Lui le teneva teneramente la mano mentre lei sorseggiava una bibita.

“Ciao piccioncini”, urlò Susan.

Entrambi si misero a sedere salutandoci con il braccio alzato.

“Ciao ragazzi”, dissi con un po' di imbarazzo. Non volevo disturbare la loro intimità.

“Siamo solo noi?” sussurrai a Susan.

“No. Dovrebbero arrivare anche Carlos e un suo amico.

Andy e Kate non vengono?” chiese lanciando un urlo verso Marissa.

“Hanno detto di voler stare un po' da soli. Sai com'è …

tipo luna di miele” esclamò lei con una risata divertita.

Per quasi un'ora sonnecchiai stesa sui soffici cuscini del lettino in teak. Il sole mi avvolgeva con le sue braccia calde e i suoi raggi, come piccole dita, mi pizzicavano la pelle. Il sudore mi solleticava il collo e la schiena. Mi alzai in piedi e saggiai l'acqua con la punta del dito di un piede.

Era gelata. Un brivido mi attraversò il corpo ma non feci in tempo a trarne alcun sollievo perché una scarica rovente mi colpì come una frusta. Era arrivato Carlos. Con il suo amico. Cinque paia di occhi si fissarono su di me e poi in sincrono si voltarono verso di lui.

“Che c'è? Avete detto voi che potevo portare un amico”, disse Carlos con un'aria di finta innocenza.

Nick ci salutò con un sorriso soddisfatto. L'effetto sorpresa era riuscito in pieno.

“E Rose?” Si affrettò a chiedere Susan con tono provocatorio. Quando ci si metteva sapeva essere veramente sgarbata e totalmente priva di tatto.

“Non stiamo più insieme”, rispose Nick senza riuscire a nascondere l'imbarazzo.

“E lei come l'ha presa?” incalzò Susan incurante del disagio che provocava a tutti noi.

“Male”. Sbottò seccato. Nessuno osò aggiungere altro.

Fu un pomeriggio strano. Rimanemmo insieme ma senza mai avvicinarci troppo uno all'altra e senza mai parlare di noi. Aveva un'aria pensierosa e non faticavo a capire cosa lo turbasse ma mentre stavo salendo nell'auto di Susan si rianimò improvvisamente e mi chiamò in disparte.

“Ci vediamo domani?” chiese con tono speranzoso.

“Non so. Starò in negozio tutto il giorno, c'è parecchio lavoro da fare”.

“Domani sera?”

“Va bene. Ma ti chiamo io, non venire in negozio, mia madre fa già troppe domande”.

Sorrise e mi sfiorò la guancia con la mano.

Mi affrettai a salire in auto. Ero pervasa da un sentimento indefinibile. Ero felice, ma allo stesso tempo delusa. Mi sentivo soddisfatta ma colpevole. Niente fuochi d'artificio, niente farfalle nello stomaco o brividi lungo la schiena. Era una gioia sbiadita.

Avevo trascorso una bella giornata, senza ombre o punti bui, eppure faticati ad addormentarmi e, a dispetto di ciò che mi aspettavo, nessun sogno dorato animò il mio sonno. La mia mente produsse solo immagini confuse e lampi di luce. Mi svegliai stanca e nervosa.

Al negozio vendetti meno del solito. Non ero concentrata e non avevo voglia di usare i poteri per convincere gli indecisi. Un pensiero mi girava nella testa, rimbalzando avanti e indietro senza trovare pace. Cosa mi aspettavo dalla serata con Nick? Cosa avrei risposto se mi avesse chiesto di perdonarlo, di ricominciare? Perché proprio adesso che ero ad un o dalla meta tutte le mie certezze vacillavano?

“Ciao dolcezza”. La voce di Jason mi fece sobbalzare.

“Ciao”.

“Che fai di bello? Avevi promesso di farti sentire ieri.

Cos'è questa cosa fantastica che è successa?” Dopo la festa ero troppo scossa per parlare con lui, per ragionare con calma su tutto quello che era successo.

Lo aggiornai velocemente sugli ultimi sviluppi e sui miei sentimenti confusi ed irrazionali.

“Mi auguro che lo farai soffrire un po' prima di ributtarti tra le sue braccia. Mi sembra che se lo meriti, no?”

“Direi di sì. Non devo decidere subito, vero?”

“Certo che no. Prenditi tutto il tempo che ti serve”.

“E se lui non fosse disposto ad aspettare? Se lo perdessi di nuovo?” Che tradotto nella mia mente significava: e se lui mi cerca solo perché glielo ho ordinato io?

“Allora è proprio un'idiota e, come si suol dire, meglio perderlo che trovarlo”.

Già, facile dirlo per lui. Lui che poteva avere tutte le donne che voleva con un semplice schiocco delle dita. Ma io avevo paura. Paura di dire di sì a ciò che sentivo come una falsità, un inganno. E paura di dire di no a ciò che avevo disperatamente sognato e voluto con tutte le mie forze. Una seconda occasione non capita a tutti, non volevo sprecarla.

Chiacchierare con Jason dei suoi progetti con la hostess mi distrasse e quando chiusi il negozio ero stranamente rilassata. Avevo detto a Nick di aspettarmi davanti al negozio di articoli sportivi, a due isolati da casa mia.

Avevo un'ora per prepararmi. Guidai con calma, i finestrini abbassati, assaporando il profumo della sera.

Non avevo fretta di incontrarlo. Il cuore non mi batteva all'impazzata, non mi sudavano le mani. Feci una lunga doccia calda, la stanchezza cominciava a farsi sentire. Ero stata in piedi quasi tutto il giorno e avrei tanto voluto sdraiarmi, ascoltare un po' di musica e farmi una bella dormita. Mi infilai le prime cose che trovai sulla sedia accanto all'armadio: un paio di pantaloncini e una maglietta un po' sgualcita. Mentii a mia madre dicendole che mi sarei incontrata con Kate ed uscii. Il primo appuntamento con il mio ex ragazzo. Mi venne da ridere.

Nick era appoggiato alla portiera dell'auto e si mordicchiava nervosamente un'unghia. Nel vedermi si raddrizzò di scatto ed accennò un timido sorriso.

“Ciao” dissi senza togliere le mani dalle tasche.

“Ciao”. Si trattenne pensieroso. “Ti sei messa la mia maglietta preferita”. Il suo sorriso si allargò guardando il grosso lupo nero che ululava dalla mia t-shirt. Accidenti me ne ero completamente dimenticata. Non volevo pensasse che mi ero vestita così per lui. Era lui che doveva piacere a me. Era lui che doveva farsi perdonare, non io. Osservai il suo abbigliamento. Bermuda a quadri ed una polo blu scuro, niente che gli avessi regalato io o che mi pie particolarmente.

“Andiamo?” dissi senza nascondere il fastidio per la sua affermazione.

“Okay. Sali”.

Mi portò nella mia pizzeria preferita. Almeno quella se la ricordava. Parlammo a lungo del mio lavoro, dei progetti per le vacanze e infine si decise a chiedermi di Trevor e di Roger. Con un'aria di finta innocenza descrissi Trevor con entusiasmo soffermandomi su quanto fosse bello, spiritoso, brillante e straordinariamente dolce e liquidai Roger come un focoso spasimante che mi perseguitava.

Ascoltò pensieroso, senza commentare.

“Sei geloso?” gli chiesi infine.

Non rispose e cominciò a parlare di un reality show che aveva visto qualche sera prima.

Lo fissai negli occhi e ripetei silenziosamente la mia domanda. Dimmi se sei geloso?

Si ammutolì di colpo. Divenne serio e pallido e dopo un attimo di esitazione mi rispose.

“Sì, sono geloso. Non mi piace vederti con altri ragazzi o sentirti parlare di loro”. Evviva. Avevo ottenuto ciò che volevo ma questa dichiarazione improvvisa gli diede il coraggio di proseguire.

“Senti Emily, ho pensato molto a te ultimamente”.

Accidenti, non era ciò che volevo. Ancora una volta avevo pigiato troppo sull'acceleratore e adesso non sapevo più come fermare l'auto e scendere prima di schiantarmi. Non volevo scegliere, non volevo decidere, non ancora.

“Anch'io ho pensato a te Nick ma non credo ti farebbe piacere conoscere i miei pensieri. Ti dico solo che il mio repertorio di insulti si è arricchito notevolmente da quando mi hai mollata”.

Abbassò lo sguardo e socchiuse le labbra per dire qualcosa ma non gliene diedi il tempo.

“Sono proprio stanca. Che dici, andiamo a casa?”

“Va bene”. Si alzò con aria rassegnata e lanciò sul tavolo una banconota da venti dollari. Caspita, doveva proprio essere avvilito, non aveva mai lasciato mance così ricche.

Questa volta cedette alle mie suppliche e mi lasciò all'inizio della via. Non aveva detto una parola da quando eravamo usciti dal locale e mi sentivo un po' in colpa. Lo salutai e prima di incamminarmi mi avvicinai per baciargli la guancia. Fu un lampo. La sua mano scivolò sul mio fianco fino alla schiena e con uno strattone mi avvicinò a sé. Avvolse l'altra mano sul mio collo, attorno alla nuca, bloccandomi la testa mentre le sue labbra si gettavano sulle mie. Fu un bacio irruento e aggressivo ma lo avevo desiderato talmente tanto che le mie labbra assecondarono i movimenti delle sue. Lo baciai con rabbia, quasi mordendolo. Mi lasciò sfogare e poi a poco a poco i nostri movimenti si fecero più lenti e le nostre bocche si sfiorarono con dolcezza e con ione.

Quando allentò la presa sul mio collo mi staccai da lui e feci un o indietro. “Devo andare”.

“Ti chiamo domani”.

“Va bene”. Mi voltai e mi incamminai velocemente verso casa. Erano solo le dieci ma tutto ciò che desideravo era stendermi e mettere a tacere le api che erano tornate a ronzare dentro la mia testa.

Ci misi parecchio tempo ad addormentarmi ed il sonno tanto atteso fu popolato di ombre e brusii. La mattina seguente ero veramente uno straccio.

Mia madre mi raggiunse al negozio verso mezzogiorno.

La sua espressione allegra e leggera si capovolse di colpo quando si avvicinò per salutarmi.

“Emily hai una faccia orribile. Ti senti bene?”

“Sto bene mamma, sono solo stanca. Faccio fatica a dormire ultimamente”.

“Ti è tornato il mal di testa?” Nella sua voce sentivo il terrore farsi strada.

“No mamma, non preoccuparti, sono solo stanca. Ti spiace se non vengo oggi pomeriggio?”

“No tesoro, come vedi è un periodo tranquillo, non c'è molto lavoro, posso cavarmela da sola”.

Da quando avevo cominciato a darle una mano in negozio, mia madre aveva rinunciato all'aiuto della signorina Hobbs ed ora la chiamava solo in caso di emergenza. La signorina Hobbs aveva un pessimo carattere ed essere stata retrocessa ad aiutante in seconda non aveva certo aiutato. Perciò, se potevo, cercavo di evitare a mia madre l'umiliazione di dover supplicare la cara signorina perché venisse a svolgere un lavoro ben retribuito e che nessun altro le avrebbe offerto.

Ma ero distrutta e non avrei retto un minuto di più.

“Allora io vado. Ci vediamo stasera”.

“Ciao tesoro. Mi raccomando cerca di dormire un po'”.

Il tragitto verso casa mi parve più lungo del solito.

Sembrava che tutti si muovessero al rallentatore, che ogni semaforo attendesse il mio arrivo per diventare rosso e che i pedoni si fossero messi d'accordo per attraversare la strada nel momento esatto in cui transitavo io.

Ignorai il brontolio del mio stomaco e non entrai nemmeno in cucina. Supplicai le mie gambe di sopportare l'ultimo sforzo di salire le scale e mi gettai sul letto.

Quando il fastidioso gracchiare del camlo mi svegliò mi sembravano trascorsi solo pochi minuti ma la radiosveglia sul comodino diceva che avevo dormito più di tre ore. Tre ore inutili, ero stanca come quando avevo chiuso gli occhi. La luce che filtrava dalle tende era grigia, priva di calore e vitalità. Un ticchettio attutito mi annunciò che stava piovendo. La giornata perfetta per rimanere a letto. Provai a riaddormentarmi ma due scamlate impazienti mi costrinsero ad alzarmi.

Susan aveva un'aria preoccupata.

“Sono ata in negozio e tua madre mia ha detto che non stavi bene ed eri a casa”.

“Entra”.

Si sedette in cucina mentre rovistavo nel frigo in cerca di qualche avanzo commestibile.

“Aspettavo che mi chiamassi per raccontarmi di ieri sera”.

Le rivolsi uno sguardo interrogativo.

“La tua serata con Nick. Sveglia!”

“Ah, sì. Niente di che. Siamo andati a mangiare una pizza e poi mi ha riaccompagnato a casa”.

“Tutto qui? Niente dichiarazioni? Niente baci?” Non risposi fingendomi distratta dal contenuto della dispensa. Susan capì immediatamente che avevo parecchio da raccontare e la sua curiosità schizzò alle stelle. Mi afferrò per le spalle e mi fece sedere di fronte a lei.

“Lascia perdere il cibo e raccontami tutto”.

“Non c'è granché da raccontare. Mezze frasi. Niente di fatto”. Non volevo incrociare il suo sguardo, avrebbe capito e avrebbe frainteso. In fin dei conti non sapevo nemmeno io cos'era successo e meno ancora sapevo cosa volevo. Nick non mi aveva ancora chiamata e questo mi creava una certa ansia.

“Perciò non ti ha chiesto di rimetterti con lui?”

“No, mi ha solo detto che ha pensato molto a me”.

“E tu cos'hai detto?”

“Niente. Gli ho chiesto di riaccompagnarmi a casa. Non so cosa dirti, sono confusa, non so neanche io quello che voglio”.

“Ma sei scema? Sono mesi che mi tormenti con Nick di qua e Nick di là e adesso che non so come sei riuscita a farlo tornare da te, lo ignori. Io penso ...” Si bloccò di colpo. Si mordicchiava nervosamente il labbro inferiore, indecisa se proseguire nella sua arringa. Nel suo viso balenavano espressioni confuse che non riuscivo ad afferrare. Ero stanca. Ed ero stufa di sentire sempre la solita predica su come sarebbe stato meglio lasciar perdere, dimenticare, guardare avanti e bla, bla, bla.

“Tu pensi cosa Susan?” L'asprezza nella mia voce la bloccò del tutto.

“Niente. Lascia perdere”. Come al solito non aveva il coraggio di andare fino in fondo. Arrivava al confine e poi non aveva il fegato di fare il salto, di essere completamente sincera. La fissai con rabbia e delusione così parole e pensieri si formarono all'unisono.

“Dimmi cosa pensi”.

Atterrita ma senza via di fuga, Susan cominciò a parlare.

Dapprima sommessamente e poi con un vigore crescente che mi travolse con la forza di un fiume che rompe gli argini e dilaga tutt'intorno senza controllo.

“Penso che sei una stupida e un'egoista. Non hai mai voluto accettare la realtà e hai reso la vita impossibile a tutti quanti. E adesso che, non so come, hai ottenuto ciò che volevi, fai la preziosa. Ma cresci un po' e decidi cosa vuoi fare della tua vita senza stare sempre a piangerti addosso. Sono stufa Emily. Sono stufa di te e

di tutta questa storia”.

Si zittì di colpo, basita, poi nascose il viso tra le mani ed iniziò a piangere. Non sapevo cosa dire. Mi aveva appena dato un pugno in faccia. Peggio. Mi aveva appena massacrata ed aveva anche il coraggio di mettersi a piangere. Una marea nera di ira e risentimento dilagavano dentro di me. Poco importava che fossi stata io provocarla ed a costringerla. Sapevo che non mi avrebbe mai, volontariamente, parlato così ma d'altronde era ciò che pensava ed io avevo il diritto di saperlo.

Guardavo la mia migliore amica contorcersi nel rimorso ma non riuscivo a provare pietà o comione. Che amica era se aveva sempre mascherato i suoi sentimenti. Non aveva capito niente.

“Se sei stufa vattene. Nessuno ti trattiene” le dissi con disprezzo.

“No Emily, mi dispiace. Non volevo essere così dura. Non so perché l'ho detto. Non è quello che penso”. Cercò di abbracciarmi ma la spinsi via.

“Invece è esattamente quello che pensi. Vattene”.

“Per piacere Emily, non fare così, lasciami spiegare”.

Mi diressi verso la porta e senza esitazione l'aprii e attesi che Susan la oltreasse. I vetri tremarono quando la richiusi sbattendola con rabbia. La testa mi scoppiava.

Avevo bisogno di aria e di qualcosa per calmare il dolore.

Tutti i muscoli del mio viso erano contratti e le mascelle mi facevano male a forza di stringere i denti. La collera stava scemando quando arrivai in farmacia e con orrore cominciavo a rendermi conto di cosa avevo fatto.

14

BUGIE

Misi in bocca due pastiglie cercando di inghiottirle con la saliva e tornai verso il parcheggio. Al di là della vetrata i clienti della gelateria gustavano grosse coppe coperte di panna. Stavo per distogliere lo sguardo quando li vidi.

Nick e Rose seduti uno di fronte all’altra.

Le loro mani erano intrecciate sopra il tavolo, gli occhi negli occhi, lei piangeva. Lo sguardo di Nick era tormentato, sembrava arso vivo, ma anche in quella sofferenza i suoi gesti erano pieni di tenerezza per lei.

Scuoteva il capo per negare ciò che Rose tentava di fargli capire. Sapevo benissimo cosa gli stava dicendo: che era ancora innamorato di lei, per quanto lui si ostinasse a negarlo. Le stesse cose che una settimana prima gli avevo detto io. Ma lui non mi aveva guardato in quel modo, mai, neanche nei periodi più felici del nostro amore il suo sguardo era stato tanto adorante, tanto carico di devozione. Lo era stato solo il mio. Ero io che lo adoravo, che non potevo stare senza di lui, che ne avevo bisogno come l’aria. Possibile che fossi così sbagliata per lui, l’unica a non accettarlo, a non rendersene conto.

Sul suo viso sofferente si leggevano i segni della silenziosa battaglia che infuriava dentro di lui. Lo guardavo tenere le mani di Rose e negare con la ragione ciò che il cuore tentava disperatamente di dirgli.

E ciò che era rimasto del mio cuore, ciò che avevo rimesso insieme con fatica e sofferenza si frantumò completamente.

Non avevo mai pianto in quella settimana e ora le lacrime straripavano tutte assieme.

Correvo verso l’auto senza badare alla pioggia che cominciava a farsi più fitta. Volevo solo andare via, dimenticare ciò che avevo appena visto, dimenticare tutto.

L’auto sfrecciava veloce, avevo superato di parecchio i limiti di velocità, ma non mi importava di niente. Una leggera curva e per un attimo le gomme persero aderenza sull’asfalto bagnato e l'auto sbandò a destra. Il cuore mi balzò in gola, le api ronzavano sempre più forte. Le immagini nella mia testa si susseguivano veloci: le loro mani intrecciate, lo sguardo di Billy, mia madre e mio padre ….

“Jason, Jason …”. Piangevo e urlavo il suo nome, ad alta voce, avevo un disperato bisogno di lui.

“Emily, cosa succede?” Il tono della voce era calmo e gentile ma ormai lo conoscevo troppo bene per non percepire il disappunto.

“Jason ho bisogno di te”. Non riuscii a dire altro, i singhiozzi si susseguivano sempre più rapidi.

“Emily, non è un buon momento, non sono solo”. Era imbarazzato.

Stavo rovinando la sua serata, del resto era quello che sapevo fare meglio: rovinare sempre tutto. Avevo ricevuto un grande dono e lo avevo usato nel modo peggiore, avevo volontariamente fatto del male a tutti quelli che mi stavano a cuore. Ero una persona orribile.

Accelerai.

“Jason, scusami”. Basta, il dolore non era più sopportabile. “Buona fortuna Jason. Buona fortuna per tutto”.

Capì all’istante. “Emily cosa sta succedendo? Emily non fare idiozie. Emily?” Urlava nella mia mente ma il dolore alle tempie e il ronzio coprivano qualsiasi suono. Non ce la facevo più. Pace. Desideravo solo un po’ di pace, e silenzio.

Le lacrime scendevano calde sulle mie guance, il loro sapore salato mi bagnava le labbra.

L’asfalto era viscido ma non mi faceva paura. La notte mi chiamava, il suo abbraccio si strinse attorno a me.

Successe tutto in un attimo.

Sentii l’auto leggera, sembrava di volare, mi sentii sollevata. Non avevo più

peso, anche i miei pensieri, i miei incubi perdevano consistenza, sfumavano nell'aria fresca.

La notte con la sua quiete mi accoglieva, l'oscurità mi attirava a sé e mi abbracciava come un'amica che ti attende da lungo tempo. Sentivo i rami graffiare il metallo nel tentativo di rallentare la mia corsa e poi qualcosa, alto e duro come la roccia, decise che non potevo andare oltre.

Il fragore delle lamiere che si contorcevano coprì per un attimo il dolore. Infine calò il silenzio. Il dolore si diffuse come un boato, alla testa, alla spalla, alla gamba e poi in tutto il corpo, qualcosa di denso e caldo mi scendeva lungo il viso. E poi lentamente anche il dolore cessò e non sentii niente, più niente.

Quando il dolore tornò fu un'esplosione devastante, più forte, più intenso di prima, come se dovesse finire il suo lavoro, come se mancasse il colpo di grazia.

A fatica aprii gli occhi.

Sul soffitto due grossi neon illuminavano la stanza, le pareti bianche, anonime, il letto con le sponde alzate, accanto al letto un comodino con un bicchiere d’acqua, un tubicino usciva dal mio braccio ma non riuscivo a vedere dove arrivava.

Alzai il lenzuolo per fare una stima dei danni. Due braccia, due gambe, anche le dita dei piedi sembravano esserci tutte. La mano sinistra era immobilizzata da una grossa fasciatura simile ad un bozzolo ma riuscivo a muovere le dita: uno, due, tre, quattro, cinque. La mano destra era libera. Mi toccai la fronte. La fasciatura intorno alla testa non doveva essere spessa ma pareva essere fatta di

piombo perché mi sembrava di essere incastrata in un grosso e rumoroso casco asciugacapelli.

Sentivo un brusio, lentamente, cercando di non far rimbombare il dolore, girai la testa per guardare verso il fondo della stanza.

Mia madre e Sam erano in piedi sulla porta della camera e stavano parlando, mia madre aveva in mano un foglio e Sam cercava di convincerla a fare qualcosa.

Quando si accorsero di me interruppero la conversazione e si avvicinarono.

Mia madre mi prese la mano.

“Come stai tesoro? Hai avuto un incidente tremendo, la macchina è distrutta. E’ un miracolo che tu non abbia niente di rotto solo qualche contusione e qualche ferita superficiale”.

Eh già, ne avevo combinata un’altra. Un altro fallimento, avevo distrutto la macchina e io ero ancora lì. Mi avevano sicuramente dato del sedativo perché non riuscivo a distinguere bene le mie emozioni, non sapevo se sentirmi sollevata per non essere riuscita nel mio proposito e non aver dato ai miei genitori un immenso dolore o se disperarmi perché in fondo nulla era cambiato e avrei dovuto portare il peso di ciò che ero per sempre.

Abbassai lo sguardo, non riuscivo a sostenere il suo dolore e la sua preoccupazione, non volevo dire né pensare niente.

Guardai la sua mano paffuta appoggiata al bordo del letto e vidi cosa stingeva.

Era un volantino rosa pallido un po’ sgualcito, in copertina un’immagine dai colori vivaci raffigurava un gruppo di ragazzi in maglietta e pantaloncini corti che giocavano a pallavolo su una specie di spiaggia. Riuscivo a leggere solo la prima riga, scritta a caratteri blu: “Camp Kendall” .

Perfetto, pensai, mi mandano al campeggio dei pazzi.

Mi vide rivolgere lo sguardo a Sam.

“Il dottor Evans è stato così gentile da are a vedere come stai”. Disse mia madre con un falso tono allegro.

“Anzi, se non ti spiace tesoro ti lascio sola un minuto con lui e vado a telefonare a papà per dirgli che ti sei svegliata”. Non era mai stata brava a fingere, era evidente che voleva che lui mi parlasse, perciò senza attendere la mia risposta uscì dalla stanza.

Sam si avvicinò al letto, aveva un sorriso dolce, rassicurante e se non fossimo stati quasi degli estranei avrei giurato che il suo sguardo era pieno d’affetto.

Mi prese la mano e la strinse fra le sue. Erano così calde, così morbide e accoglienti. Le guance mi si colorarono di rosso.

Abbassò lo sguardo e fissando la mia mano cominciò a parlare con voce pacata.

“Mi fa piacere vedere che stai bene, ero molto preoccupato per te. Mi perdonerai se non ti guardo negli occhi ma ho bisogno di essere lucido per dirti ciò che devo e beh, sai che i tuoi occhi sono una distrazione molto forte”.

Sorrise e alzò lo sguardo l’istante che bastò per farmi l’occhiolino, poi riprese.

“Speravo che mi chiamassi prima di arrivare a questo.

Avrei potuto aiutarti”. La sua voce era carica di rimprovero. “Devi venire con noi Emily, non c’è altra soluzione, se rimani qui, senza controllo, sarai un pericolo per te stessa e per gli altri. Capisco meglio di quanto tu creda ciò che ti sta succedendo, ho conosciuto tanti ragazzi come te e credimi so come aiutarti. Permettimi di farlo”.

“Come? Portandomi in un campo di concentramento dove mi farete il lavaggio del cervello?” Sussurrai con voce roca.

“Non essere sciocca Emily, Camp Kendall è un posto splendido in mezzo alla natura dove potrai pensare al dono che hai, imparare ad usarlo nel modo migliore e trovare un equilibrio. Non sarai torturata e nessuno ti obbligherà a fare niente se è questo che ti preoccupa”.

Disse le ultime parole ridendo, sembrava sincero.

“Pensa a tutto ciò che è successo Emily, non si è ancora fatto male nessuno per fortuna ma non puoi negare che la situazione ti stia sfuggendo di mano”.

L'immagine di Billy squarciò i miei pensieri, il senso di colpa non mi avrebbe mai abbandonato, dovevo imparare a conviverci ma non ero disposta a cedere, a lasciarmi manipolare.

“Ma non potremmo stare qui? Possiamo fissare delle sedute e prometto che non mancherò, mi potete tenere d’occhio lo stesso. L’altra volta non avevi parlato di andare via”.

“Ed è così ma devi renderti conto che questa è la prima volta che abbiamo a che fare con un potere così …”.

Si rendeva conto di quanto fragile fosse il mio umore e così anche il mio equilibrio e cercava il modo migliore per dire cose spiacevoli senza ferirmi o peggio irritarmi. Mi aspettavo termini come devastante o orribile. Fece un lungo sospiro ma disse solamente una parola

“complicato”. Poi il suo discorso riprese vigore.

“Inoltre tua madre vuole portarti da uno psicologo e questo complica le cose”. Non capivo dove volesse arrivare. Cercava di mantenere un tono calmo ma deciso, misurava le parole ma con lo sguardo basso osservava il letto con nervosismo come se ciò che voleva dire si trovasse nascosto tra le pieghe del lenzuolo. “Vedi, è parecchio tempo che facciamo questo lavoro, intendo dire:

cercare le persone come te, provare ad aiutarle e consigliarle, noi lo facciamo sapendo la verità ma come credi reagirebbe un estraneo, come pensi interpreterebbe il tuo comportamento? E tu cosa faresti? Gli diresti la verità o lo manipoleresti come gli altri?”

Quella parola fu come un pugno nello stomaco, manipolare, era questo che facevo agli altri, era così che lui mi vedeva: una che prende le persone e le manipola a suo uso e consumo. Non potevo sopportarlo, dovevo dimostrargli di essere diversa, dovevo dimostrarlo soprattutto a me stessa. In fin dei conti non avevo più programmi per quell’estate, non avevo niente da perdere.

“Per quanto tempo?” Chiesi.

Alzò lo sguardo, un sorriso illuminò il suo splendido viso.

“Pensavo un mese. Speriamo che sia sufficiente a farti mettere la testa a posto!”. E con la mano mi scompigliò i capelli.

Non mi era piaciuto quel gesto. Lo si fa ai bambini e io non ero più una bambina perciò chiesi ciò che più mi interessava: “tu verrai con me?”

“Sì, l’ho promesso a tua madre e comunque ci devo andare per sistemare alcune cose. Vedrai è un posto favoloso e sono sicuro ti farai un sacco di amici”.

L’idea di stare in mezzo ad altra gente stramba che poteva fare o farmi chissà quali cose non mi allettava per niente, ma il fatto che ci fosse anche lui mi dette

quel po'

di coraggio che bastava per farmi decidere.

“Va bene, quando partiamo?” Dissi senza alcun entusiasmo.

“Se domani ti dimettono dall’ospedale direi che lunedì possiamo partire. Adesso ti saluto, a questo punto devo organizzare alcune cose e avvisare lo studio che sarò assente per un po’. Chiamerò tua madre per concordare i dettagli del viaggio. Coraggio Emily, hai fatto la scelta giusta, vedrai che le cose andranno meglio”.

Uscì vittorioso dalla stanza, quasi correndo. Pensai a lunedì, che giorno era oggi? Martedì forse? Mancavano solo sei giorni.

Ricomparve tutto un tratto sulla porta della camera.

Aveva l’aria più seria di quando mi aveva lasciato qualche istante prima.

“Emily ho bisogno che tu mi prometta una cosa. E’

molto importante Emily e ti farà bene”.

“Cosa?”, sussurrai.

“Devi promettermi che non ai il tuo potere con nessuno in questi giorni, tieni la testa bassa, gli occhi chiusi se necessario, ma devi riuscire a farlo. Me lo prometti?”

Mi guardava negli occhi, sapeva cosa poteva succedere eppure mi guardava negli occhi.

“Sì, va bene”.

“Mi fido di te Emily”. E se ne andò.

“Emily”. La voce di Jason era un lamento lontano, in un angolo del mio cervello.

“Jason”.

“Emily ci sei, sei viva! Stai bene? Cos’è successo? E’

tutta la notte che ti chiamo”.

“Scusa Jason, c’è stato un incidente, ho perso conoscenza”.

“Sei in ospedale? Come stai adesso?”

“Si, sono in ospedale, tutto sommato me la sono cavata solo con qualche graffio ma ho fatto un casino, la macchina è distrutta”.

“Un incidente Emily? Non sono un fesso, ho capito cosa volevi fare. Dove sei? Devo vederti”.

L’affetto e la preoccupazione nella sua voce mi riempirono di vergogna, quante persone avrei ferito se fossi riuscita nei miei propositi.

“Ti ringrazio, ma non è il caso che tu venga, devo andare via per un po’”.

“Via dove? Non andrai in prigione?”

“No, ho sfasciato l’auto di mia madre ma non ha intenzione di mandarmi in prigione per questo. Diciamo che ho dei problemi e mi portano in una specie di campeggio. Non posso dirti altro”.

Jason rimase in silenzio, i minuti avano, attendevo una domanda che non arrivava. Non voleva più sapere niente. Avevo detto troppo, mi credeva pazza, si era reso conto di essere entrato nella testa di una squilibrata.

“Mi spiace Jason, non sono la persona che credevi, non sono per così dire normale. Perdonami”. Mi aspettavo un commento sulla mia non normalità ma ciò che disse mi sconvolse.

“In campeggio hai detto? Che campeggio? Camp Kendall? Emily vai a Camp Kendall?”, c’era ansia, e sgomento, e terrore nelle sue parole. E la sua ansia e il suo sgomento si impossessarono dei miei pensieri.

“Come fai a saperlo? Pensavo fosse un posto poco conosciuto, riservato …”, terminò lui la frase, “riservato alle persone come noi, Emily”. Non potevo crederci, aveva usato il plurale quindi anche lui in qualche modo era come me, aveva qualcosa di speciale, o di tremendo, a seconda dei punti di vista.

“Come fai a conoscerlo? Tu ci sei stato?”

“Sì, ci sono stato quattro anni fa. Emily adesso si spiega tutto. Ti prego, devi dirmi qual è il tuo dono”.

“Non so se posso, ho promesso”.

“Emily è importante, potrebbe essere la chiave di tutto.

Ti prego”.

Non lo avevo mai detto a nessuno. Sam e Claire lo avevano capito da soli, ma io

non avevo mai svelato il mio segreto a nessuno. Avevo promesso e in fin dei conti non sapevo quasi nulla di Jason, era stato lui a decidere che non dovevamo rivelare chi eravamo. Dovevo fidarmi di Sam.

“Non posso Jason, non ora, ti prego non chiedermelo più”.

“Va bene, non insisto, ma voglio vederti, voglio conoscerti, c'è un significato per tutto questo e voglio trovarlo”.

“Emily devi dirmi come ti chiami, dove abiti, devo vederti, devo conoscerti”.

Per quando fossi sollevata di poter dare un senso a tutto quello che era successo ero molto confusa, non ero sicura di volerlo conoscere, non in quel momento.

“Jason io non so, non sono sicura sia una buona idea, non in questo momento. Ti prego, aspetta che torni, starò via solo un mese. Ho bisogno di fare ordine nella mia testa e tu … cioè non so se conoscerti adesso mi aiuterebbe o peggiorerebbe le cose”.

“Okay, aspetterò, forse hai ragione tu però dobbiamo parlare, voglio sapere tutto di te”.

“Va bene ma non adesso. Sono molto stanca, ho bisogno di riposare, ci sentiamo più tardi?”

“Va bene, ti lascio riposare. Oh Emily non sai quanto sia felice di sapere che sei come me! Un outsider. A dopo”.

Quelle parole mi fecero gelare il sangue. Un outsider, solo un'altra persona aveva usato quella definizione e con lo stesso tono arrogante: Roger Wilson. Potevo fidarmi di Jason? Chi era veramente? E se il suo potere fosse stato proprio quello di entrare nella mente di quelli come noi per trovarli, per usarli? No, non poteva essere così, era stato lui a voler mantenere le distanze. Chissà qual era il suo potere, e chissà come lo aveva usato. Magari il suo era veramente un dono, un privilegio, qualcosa che aveva usato per aiutare la gente, per fare del bene. Ma non il mio, il mio era un incubo, una disgrazia, una condanna, mi sentivo un elemento difettoso, un'anomalia, una freak.

Tuttavia non era un caso se ci eravamo “conosciuti”, non poteva essere una coincidenza, ormai non credevo più nelle coincidenze. La testa mi stava esplodendo.

Un'infermiera entrò nella stanza. Odiavo le siringhe ma annuii senza esitazione quando mi chiese se volevo qualcosa per riposare un po’.

Lentamente, un muscolo alla volta, il mio corpo si rilassò e caddi in un sonno profondo e senza sogni.

15

STORIE

Nei giorni seguenti cercai di raccontare a Jason solo il minimo indispensabile mentendo sul nome della città in cui vivevo, ma fui assolutamente sincera nel parlare di ciò che mi piaceva e di quello che non sopportavo. Stesa nel mio letto d'ospedale gli parlavo di musica, di libri e di viaggi e lo tartassavo di domande a cui rispondeva senza esitazione. Abitava a Washington che, ironia della sorte, era a sole due ore di auto da casa mia. Due ore di distanza. Pensai a tutte le volte che avevo immaginato di averlo vicino per poter sentire le parole uscire dalle sue labbra, per leggere le espressioni sul suo viso, per piangere sulla sua spalla o ridere assieme a lui. Quante occasioni sprecate. Mi descrisse la sua casa, i suoi amici e persino la sua auto. Aveva una ione per le moto e i film di fantascienza e, come me, odiava i cibi gelatinosi e non sopportava le persone sempre in ritardo.

L'unico argomento di cui non volle parlare fu il suo potere.

“Ne parleremo quando ci incontreremo” aveva sentenziato e visto che anch'io non volevo espormi per il momento andava bene così.

Era cambiato, sembrava sinceramente sollevato, la sua voce era carica di premura e cercava sempre di tenermi allegra anche se ogni tanto mi tediava insistendo sull'importanza di curarmi e di non abbattermi.

La sera prima della partenza lo sentii teso, era sulle spine, mi parlava senza

troppa convinzione di cose futili e banali. Mi raccontò cosa aveva mangiato per cena, cosa aveva guardato in televisione e dove avrebbe trascorso il fine settimana. Ad un certo punto fece una pausa talmente lunga che pensai si fosse addormentato. Quando riprese si era fatto serio.

Cominciò un lungo discorso sul valore dell'amicizia e della famiglia, su quanto fosse vitale avere qualcuno con cui confidarsi, a cui raccontare le proprie paure. Si scusò per essere stato così superficiale e non aver capito quanto stavo soffrendo e infine, con fatica, arrivò alla domanda che da giorni lo tormentava: “Dimmi perché. Perché Emily hai cercato di fare una cosa tanto stupida?” Temevo quella domanda, sapevo che prima e poi sarebbe arrivata. Ovviamente a mia madre e ai dottori avevo detto che era stato un incidente, l'asfalto bagnato e la velocità mi avevano fatto perdere il controllo, un'imprudenza che non si sarebbe ripetuta. Ma Jason sapeva, aveva sentito la mia disperazione, non potevo mentirgli ma ci provai ugualmente.

“Non volevo veramente farla finita ero solo stanca e non ho fatto attenzione”.

“Non dire cazzate. Non a me. Ti ho sentita quella sera, stavi piangendo eri disperata”.

“Ero scoraggiata, mi sentivo sola avevo appena visto Nick assieme a Rose”.

“Giura che non lo farai mai più. Giuramelo Emily”.

“Te lo giuro”.

“E lascia perdere quell'idiota. Non è la persona giusta per te, ha fatto solo danni”.

Avevo capito la ramanzina, non avevo voglia di sentire altro.

"Okay, a domani".

"Buona notte Emily".

"Notte".

Eh già Nick, cosa dovevo fare con lui?

Il giorno dopo l'incidente era venuto a trovarmi in ospedale ma aveva l'aria afflitta da cane bastonato e mi faceva stare ancora peggio, perciò non avevo più voluto vederlo.

Dovevo liberarlo e lasciare che seguisse il suo cuore ma avevo promesso a Sam che non avrei usato il mio potere fino alla partenza. Ero combattuta. Se avessi "parlato" a Nick avrei infranto la promessa ma sarebbe stato a fin di bene, solo per rimettere le cose a posto. Se non gli avessi parlato sarebbe stato come imbrogliarlo andare contro la sua volontà ed ero sicura che neanche questo a Sam sarebbe piaciuto.

Mi tormentai nel dubbio di ciò che era giusto tutta la sera. Non potevo decidere

da sola, avevo bisogno di un segno, così feci una cosa che non facevo da quando avevo dieci anni: mi affidai al caso.

Presi due bigliettini, in uno scrissi "devi lasciarlo libero", nell'altro scrissi "devi mantenere la promessa". Li piegai, li misi nel posacenere vuoto e ad occhi chiusi ne scelsi uno.

Era tardi ma Nick non andava mai a dormire prima di mezzanotte, quando rispose al telefono sembrò felice di sentirmi. Esitai un momento ma non volevo illudermi ancora. Basta fare la bambina dovevo aprire gli occhi.

Promise che sarebbe venuto in aeroporto a salutarmi.

L'aeroporto era frenetico come un alveare. Le vacanze erano appena iniziate e sembravano tutti così ansiosi di partire. Pensai a come avrebbe potuto essere il mio viaggio in Grecia, la mia prima vacanza con lui...

"Emily".

Il sole, il mare...

"Emily ci sei?"

Adoravo mangiare il pesce, chissà com'era buono il pesce in Grecia...

"Base terra chiama Emily".

"Finiscila Jason ci sono, dove vuoi che sia? Posso scappare da tutto ma da te no".

"Come siamo nervosi. Paura di volare?"

"No, è che sto aspettando Nick per chiudere definitivamente e sono un po' nervosa".

"Alleluia! Finalmente ti sei decisa".

"Sei contento?"

"Altroché, sono contento e orgoglioso di te. Un bel calcio al ato e si ricomincia".

Eh, già. Si ricomincia. Faceva presto a parlare lui.

Quando lo vidi, sorridente e baldanzoso tutte le mie certezze vacillarono ma Jason nella mia testa mi dette una scossa.

“Ciao Nick”.

“Ciao Emily, non sai quanto sono felice che tu mi abbia chiamato, avevo veramente voglia di vederti”.

Maledizione ma perché doveva rendere tutto più difficile.

“Senti Nick, ci ho pensato parecchio e forse avevi ragione tu”. Mi guardò con un'espressione interrogativa.

Poveretto, lo avevo confuso abbastanza, era ora di affrontare la realtà e di lasciarlo andare per sempre.

“Avevi ragione tu, forse non siamo fatti l’uno per l’altra”.

Lo guardai negli occhi e con un nodo alla gola feci ciò che andava fatto.

“Nick ascolta il tuo cuore e vai dalla ragazza che ami veramente. Ti voglio bene Nick ma devi fare ciò che senti”.

I miei occhi si stavano riempiendo di lacrime, non ero in grado di dire altro, gli diedi un bacio sulla guancia e mi diressi verso Sam.

“Jason, l’ho fatto, l’ho lasciato andare”. Cercavo di ricacciare indietro la tristezza, di arginare il dolore, di confinarlo in fondo al cuore. Per fortuna Jason venne in mio aiuto.

“Brava Emily, adesso puoi ricominciare tutto da capo.

Adesso sei libera anche tu e vedrai che un po’ alla volta il dolore erà. Non sei curiosa di sentire la mia storia?

Sono sicuro che dopo averla sentita la tua vita non ti sembrerà più così disastrosa”.

“Dici sul serio? Vuoi veramente raccontarmi cosa ti è successo?”

“Sì, mi sembra il momento giusto”.

“Allora aspetta a cominciare, voglio dedicarti tutta la mia attenzione. Quando saremo in volo ti chiamo, va bene?”

“Okay, ci sentiamo tra un’oretta allora”.

Sam mi guardava sorridendo. Salutammo i miei genitori e ammo oltre i metal detector. Ammirai il cielo oltre le grandi vetrate che delimitavano il corridoio, era azzurro chiaro con sottili nuvole bianche come gli sbuffi di un treno. Era una bella giornata per volare.

Quando appoggiai la testa sul sedile tutti i muscoli del mio corpo si rilassarono, diedi un'ultima occhiata fuori dal finestrino, poi chiusi gli occhi e con il pensiero sussurrai il suo nome.

“Eccomi qua, sono pronta”.

“Perfetto, allora cominciamo”. Mi sentivo come una bambina che ascolta una fiaba, la sua voce era calda e serena.

“Sono figlio unico e fin da piccolo sono stato coccolato e viziato. I miei genitori mi adoravano e mi accontentavano in tutto, la mia felicità veniva prima di ogni cosa. Ho avuto un'infanzia meravigliosa, di quelle che tutti sognano, con i pagliacci e i maghi alle feste di compleanno e tutto il resto. Ma più crescevo più le mie esigenze diventavano costose. In quel periodo frequentavo una compagnia di ragazzi più grandi e molto più ricchi di me, figli di papà che avevano il meglio di ogni cosa, volevo essere alla loro altezza così chiesi ai miei genitori qualcosa che andava oltre le loro possibilità economiche: una moto da ventimila dollari. Non avevo né l’età, né la patente per guidarla ma non m'importava volevo quella moto a qualsiasi costo.

Ovviamente mio padre mi fece una scenata e mi proibì di guidare qualsiasi mezzo a motore prima di aver compiuto sedici anni. Discutemmo animatamente per quasi venti minuti finché, guardandolo negli occhi gli dissi che lui doveva accontentarmi altrimenti avrei lasciato la scuola e sarei andato a lavorare per trovare i soldi per la moto. E

lui capitolò, si arrese con una velocità disarmante. Pensai che fosse stata la minaccia di lasciare la scuola. Se ci ripenso, mi rendo conto che avevo capito

che qualcosa non andava, ma ero giovane e stupido e non volevo ammetterlo”.

Un turbinio di pensieri si agitava nella mia mente, aveva il mio stesso potere, eravamo uguali, tutti i pezzi del puzzle stavano andando a posto. Per un attimo fui tentata di interromperlo e di dirgli tutto. Era giusto che anche lui sapesse, che anche lui capisse. Ma lui non sapeva e il suo racconto proseguiva perciò non dissi niente ed ascoltai il resto della storia.

“Mio padre fece un’ipoteca sulla casa per comprarmi la moto. Ti rendi conto mi comprò una moto costosissima.

Un anno prima che potessi usarla. Fu l'inizio dell'inferno. I primi a pagarne le conseguenze furono i miei genitori.

Erano sempre stati una coppia magnifica, sempre uniti e ancora innamorati ma da quando mio padre aveva assecondato il mio desiderio il loro legame si era spezzato e avevano cominciato a litigare anche per le piccole cose.

Ovviamente mia madre non capiva come poteva aver ceduto su una cosa tanto sbagliata e anch’io cominciai a farmi delle domande e a fare esperimenti. Così mi resi conto di ciò di che potevo fare.”

Mi raccontò dei suoi eccessi, delle notti ate fuori casa, di come aveva manipolato gli amici, sfruttato i compagni e condizionato i giudizi degli insegnanti. Più procedeva nel racconto più cresceva la mia ansia, non sapevo dove sarebbe arrivato e non ero sicura di volerlo scoprire.

La sua voce, che fino a quel momento era stata calma e priva di emozione all’improvviso si ruppe e il racconto continuò in tono più incerto.

“Una sera i miei genitori mi comunicarono che stavamo per perdere la casa, inoltre mia madre non aveva più fiducia in mio padre perciò avevano deciso di separarsi. Mi crollò il mondo addosso, avevo rovinato tutto ciò che avevo di bello. Mi chiusi in camera e per due giorni pensai a come risolvere la situazione, alla fine andai da loro e raccontai tutto. Ci misero parecchio ad accettare la realtà e ancora di più a perdonarmi. Piano piano le cose tornarono a posto. La mattina andavo a scuola e il pomeriggio aiutavo mio padre sul lavoro per riuscire a estinguere l’ipoteca sulla casa. Faceva l’assicuratore e con il mio aiuto, come puoi immaginare, le cose cominciarono ad andare bene; ogni visita ad un potenziale cliente si concludeva con un nuovo contratto. Dopo un anno rilevò la compagnia di assicurazioni per cui lavorava e ci trasferimmo in una casa più grande”.

Per la prima volta lo interruppi.

“Ma non vi sentivate in colpa ad imbrogliare tanta gente?”

“Mio padre era una brava persona, sceglieva solo clienti facoltosi che potevano permettersi di investire senza problemi e comunque visto che la nostra compagnia andava bene anche i nostri clienti ne traevano beneficio”.

“Quindi siete diventati ricchi e poi?”

“ Non siamo mai diventati veramente ricchi, i miei facevano parecchia beneficenza, inoltre non ritenevano giusto approfittare di me quindi chiedevano

il mio aiuto solo in casi particolari. Una sera organizzarono una delle loro cene per raccogliere fondi a favore di una delle associazione che sostenevano, pioveva a dirotto, mio padre aveva appena cambiato auto e non si era ancora abituato a quella nuova così, tornando a casa, uscirono di strada. Lui morì sul colpo, lei appena arrivata in ospedale”.

“Jason mi dispiace tantissimo, deve essere stata dura per te”.

“Parecchio, ma sapevo cosa avrebbero voluto così ho continuato a studiare fino al diploma e poi ho preso in mano l’attività di mio padre”.

“Ma scusa eri ancora minorenne, chi si è preso cura di te?”

“Mia zia Elisabeth, la sorella di mia madre, è venuta a stare con me per due anni, ma non andavamo tanto d’accordo così quando ho compiuto diciotto anni lei è tornata in Arizona e io ho venduto la casa e mi sono trovato un appartamento”.

“E Camp Kendall? Quando ci sei andato?”

“Dopo aver sistemato le cose con i miei genitori ricominciai ad andare a scuola regolarmente, tutti gli insegnanti si dimostrarono molto comprensivi rispetto alla mia sbandata adolescenziale e mi aiutarono a recuperare il tempo perduto. Il prof. di scienze prese particolarmente a cuore la mia situazione. All’inizio era solo gentile, poi cominciò a farmi domande, mi stava sempre appiccicato e mi fissava in maniera strana. Mi spaventai e pensai fosse un pervertito così usai il mio potere per allontanarlo ma non funzionò e fu allora che mi disse di aver capito cosa mi stava succedendo, di avere anche lui un talento speciale e di volermi aiutare”.

Il suo racconto evocò l’immagine di Sam e Claire che mi osservavano e parlottavano seduti al tavolo del fast food.

“Anche Sam ha fatto così con me”.

“Lo immaginavo”, disse, poi riprese. “ Così venne a casa mia e ci parlò di Camp Kendall. Ci vollero parecchie settimane perché riuscisse a convincere i miei genitori ma alla fine ci andai. E’ stata una delle ultime esperienze felici prima della disgrazia”.

Mi sembrò di sentire un lungo doloroso sospiro. Poi riprese con il solito tono beffardo.

“Ho anche trovato una ragazza, l’unica che abbia contato veramente qualcosa per me. Magari, chissà, anche tu troverai il grande amore che ti farà dimenticare Nick”.

“Ti assicuro che trovare un altro fidanzato è l’ultimo dei miei pensieri. Sai come si dice meglio soli che male accompagnati! Ma dimmi, sono curiosa, che fine ha fatto poi la tua ragazza?”

“Per qualche mese ci siamo tenuti in contatto, poi la distanza e tutto il resto, sai com’è, le mie priorità sono cambiate”.

“Eh già. E come si chiamava?”

“Si chiamava Sophie, ma non so se faccio bene a dirtelo”.

“Magari al campo ci sarà anche lei e …”.

Non riuscii a finire la frase che sbottò scocciato.

“Emily, non ti azzardare, non ci provare neanche, la mia vita e già abbastanza complicata così com’è. Non immischiarti”

“Okay, okay, tranquillo. Non occorre che ti scaldi tanto”.

I suoi pensieri tornarono tranquilli e con un tono di finto rimprovero mi mise in guardia.

“Ti conosco abbastanza bene da immaginare perfettamente cosa sta ando in quella testolina perversa e ti ripeto, guai a te se ci provi”.

Aveva ragione, la mia testolina aveva già cominciato ad elaborare un piano d'azione. Il fatto che io non avessi avuto un lieto fine non significava che non potesse averlo lui.

“Emily, guarda che ho capito a cosa stai pensando”.

Mi venne da ridere, certo che mi conosceva proprio bene. Tutti quei mesi trascorsi a parlare, il nostro rapporto era qualcosa di speciale, come noi. Erano i suoi pensieri nella mia mente ed i miei pensieri nella sua. In quel momento mi resi conto di quanta magia ci fosse in tutto ciò e capii che forse dare un volto alla sua anima non era quello che volevo. In fondo che importanza aveva il suo nome o il suo aspetto, troppo spesso giudichiamo gli altri dai loro titoli o da ciò che ostentano. Io sapevo chi era Jason e non avevo bisogno di chiedere altro. Per la prima volta il futuro non mi appariva così vuoto, qualsiasi cosa fosse successo lui sarebbe stato lì, pronto a darmi una mano. Un senso di pace mi avvolse.

In quel momento l’aereo ebbe un sussulto ed io trasalii spalancando gli occhi. Sam accanto a me mi sorrise dolcemente e mi prese la mano. Il contatto con la sua mano calda mi fece arrossire e mi riportò alla mente tutte le volte che con Susan avevamo commentato l’avvenenza di Sam, fantasticando su possibili storie romantiche.

Chissà cosa avrebbe detto se avesse saputo che ero partita con lui e che avremmo trascorso insieme un mese intero. Povera Susan, mi aveva inviato un centinaio di sms di scuse ma si sentiva talmente in colpa che non aveva avuto il coraggio di venirmi a trovare in ospedale. Mi mancava, eravamo entrambe arrivate al limite, sapevo di aver tirato troppo la corda ma al mio ritorno avremmo sistemato tutto.

Jason riprese il suo racconto, “c’è un’altra cosa che voglio dirti …”. Ma anche Sam cominciò a parlare e fui costretta ad interrompere Jason.

“Sono contento che ti sia svegliata così parliamo un po’.

Ci sono alcune cose che devi sapere su Camp Kendall”.

Annuii in silenzio.

“Come ti ho già detto è un posto molto speciale, per ragazzi molto speciali, gli ospiti di Camp Kendall vengono da tutti gli Stati Uniti. Ognuno di voi è accompagnato da un tutor che ha il compito di seguirvi e aiutarvi.

Ovviamente io sono il tuo perciò se hai qualche dubbio, problema o semplicemente per parlare vieni da me, tutto quello che mi dirai rimarrà confidenziale, nessun altro lo verrà a sapere”.

Mi scrutò aggrottando le sopracciglia, era ovvio che si aspettasse la mia collaborazione altrimenti il viaggio non avrebbe avuto senso. Ma per quanto Sam fosse amichevole non sapevo se me la sarei sentita di raccontargli i miei pensieri e le mie pene. Volevo solo dimenticare e andare avanti, le ferite che avevo dentro bruciavano solo a pensarci, parlarne sarebbe stato uno sforzo al di là delle mie capacità.

Sam aspettava una risposta perciò cercai di essere più convincente possibile.

“Certo Sam, ho accettato di partire perciò ho tutte le intenzioni di collaborare”.

“Brava ragazza! Sono sicuro che ti farà bene e anche che ti divertirai. C’è un’altra cosa però che devo chiederti, vorrei che non parlassi delle tue capacità con nessuno. Lo chiediamo a tutti i ragazzi ma nel tuo caso la raccomandazione vale doppio: primo, perché potrebbero avere paura di te ed emarginarti, io invece vorrei che ti fi degli amici e che partecii a tutte le attività, secondo,

perché non sappiamo cosa facciano o chi incontrino i ragazzi durante il resto dell’anno perciò se qualcuno parlasse di te con le persone sbagliate correresti un grosso pericolo. Abbiamo già parlato di quanti potrebbero sfruttare il tuo potere per il loro tornaconto, lecito o illecito che sia, vero?”

Mi fu facile annuire, io per prima ne avevo fatto un pessimo uso.

“Bene. Il campo ha poche e semplici regole, innanzitutto è vietato l’uso dei telefoni cellulari perciò devo chiederti di consegnarmi il tuo. I tuoi genitori hanno il mio numero e tu potrai chiamarli due volte alla settimana, per qualsiasi altra telefonata vieni da me e ne discuteremo”.

Sgranai gli occhi. “Cosa? Stai scherzando?”

“Mi spiace Emily ma per una questione di sicurezza tua e nostra è necessario limitare al minimo le influenze e i contatti con l'esterno. Vedrai che non sarà così terribile, dopo un paio di giorni ti dimenticherai di tivù, cellulari e computer!”.

"Dimmi che non è vero. Non c'è la televisione? E

neanche un computer? Cos'è un corso di sopravvivenza?

Persino i carcerati hanno la televisione!"

Rise scoprendo un bellissimo sorriso che non bastò però a farmi are

l'arrabbiatura.

“Per gli stessi motivi ti chiedo di non allontanarti dal campo senza avermi avvisato. Il paese più vicino è a quindici chilometri e a piedi è una bella camminata, se hai bisogno si spese o se vuoi farti un giro basta chiedere c'è sempre qualcuno che ci va e che può darti un aggio”.

“Quindi andarci da sola è fuori discussione?”, chiesi.

“Anche se hai diciotto anni finché sei al campo sei sotto la mia custodia, ho promesso ai tuoi genitori che ti avrei tenuta d’occhio e intendo farlo. D’altra parte Emily sii sincera, non ci sei finita per sbaglio all’ospedale, abbiamo capito tutti come sono andate le cose”.

“Non avete capito niente”.

“Allora spiegami”.

Mi girai e guardai fuori dal finestrino. Mia madre non mi aveva mai chiesto niente dell’incidente ma quando ero tornata a casa non mi aveva persa di vista un attimo.

Avrei dovuto rassicurarla prima di partire, dirle che ero stata un’idiota e che sarebbe andato tutto bene, invece avevo fatto la faccia da cane bastonato e le avevo fatto pesare la decisione di avermi mandato via. Per l’ennesima volta avevo fatto la cosa sbagliata, promisi a me stessa che nessuno avrebbe più

sofferto a causa mia. Prima di consegnare il telefono a Sam dovevo assolutamente chiamarla.

Stavamo per atterrare e in un lampo mi ricordai di Jason.

“Jason, scusa ma Sam doveva elencarmi le regole del campo di detenzione!”.

Nella mia testa risuonò una risata.

“Vedrai che non sarà così male. Io mi sono divertito e ci sarei tornato se avessi potuto. E poi hai sempre me, basta una parola e io correrò a salvarti!”.

“Grazie Jason, non so cosa farei se non ci fossi tu a tirarmi su il morale. Ci sentiamo quando arrivo al campeggio così ti aggiorno sulla situazione, okay?”

“Okay, a dopo”.

Provai comione per Jason, aveva sofferto molto più di quanto meritasse. La morte dei genitori aveva cancellato i suoi sogni e si era trovato solo ad affrontare se stesso e il mondo, che non è sempre il posto meraviglioso che ti aspetti quando sei bambino.

Dopo due ore di viaggio in auto Sam mi annunciò che eravamo quasi arrivati. Peter, il responsabile del campo che ci era venuto a prendere, era seduto alla guida e ogni tanto si sporgeva verso lo specchietto retrovisore per lanciarmi

un’occhiata di incoraggiamento. Avevano chiacchierato tutto il viaggio parlando di persone che non conoscevo e degli aspetti organizzativi della vita del campo. Io avevo sonnecchiato, sprofondata nel sedile posteriore. Mi stiracchiai e volsi lo sguardo fuori dal finestrino, ansiosa di vedere il luogo del mio esilio.

Il paesaggio era di una bellezza disarmante, la prateria cambiava ad ogni curva, macchie di vegetazione in tutte le tonalità del verde si alternavano a chiazze di margherite bianche, c'erano morbidi ciuffi color miele disseminati di stelle porpora, e piccoli arbusti posati dolcemente sull’erba che ondeggiavano accarezzati da una brezza leggera.

Le montagne profilavano l’orizzonte come la spina dorsale di un drago addormentato e davanti a noi, in lontananza si vedeva il lago. Sembrava la tavolozza di un pittore dove un limpido turchese si mescolava ad un argento scintillante, per poi immergersi in un profondo blu, mentre un quieto verde lambiva le coste ombreggiate da alti pini.

Abbassai il finestrino e lasciai che l’aria mi scompigliasse i capelli e mi sferzasse il viso. Inspirai profondamente cercando di distinguere il profumo dei fiori, del lago, della linfa che scorreva in quella natura e che sentivo lentamente entrare nelle mie vene ridando vigore e emozioni al mio corpo da troppo tempo assopito. Avrei voluto scendere dall’auto e mettermi a correre, accarezzando con il palmo delle mani ogni fiore e cespuglio.

Mano a mano che ci avvicinavamo cominciavo a distinguere le costruzioni del campo. Non lo avrei mai ammesso con Sam ma quel posto mi piaceva già.

16

CAMP KENDALL

Sam mi accompagnò al mio bungalow per posare la valigia prima di fare il giro del campo. Era una costruzione in legno, bassa ma piuttosto larga, con una graziosa veranda davanti. Al centro c’erano due porte di ingresso, una accanto all’altra e alle estremità due finestre coperte da zanzariere. Mano a mano che ci avvicinavamo notavo i particolari, le assi delle pareti erano state verniciate da poco e sui davanzali c’erano vasi di fiori gialli. I tre scalini in legno scuro che portavano alla veranda scricchiolarono sotto i nostri piedi. Sam aprì la porta di sinistra e mi introdusse in una piccola ma confortevole camera a due letti. Posò la valigia vicino all’armadio in pino e mi indicò la porta del bagno. Il letto più vicino alla finestra era preparato con cura, lenzuola bianche e un delicato copriletto color lilla. Sul comodino erano posati un lettore mp3, un paio di libri e una lampada bianca un po’ troppo ricercata per l’ambiente semplice in cui si trovava, la sua gemella si trovava sul comodino accanto a quello che sarebbe stato il mio letto.

“Chi è la mia compagna di stanza?” domandai, un po’

intimorita dall’ordine con cui ogni cosa era disposta.

“Si chiama Violet, ha la tua età ed è molto simpatica.

Vedrai andrete d’accordo. Adesso è a fare attività con gli altri ma prima di pranzo dovrebbe tornare”.

Sam mi consegnò le chiavi della camera e uscimmo per il giro del campo.

Il nostro bungalow si trovava all’estremità nord del campo, assieme ad altri quattro uguali. Era riparato da un boschetto di abeti che si infittiva dietro le costruzioni.

Scendemmo verso uno spiazzo in terra battuta dove si trovava la costruzione principale.

Come i bungalow era interamente costruita in legno, ma l’architettura era più’ moderna, con lunghe vetrate su tutti i lati. La mensa era il locale più grande e aveva una magnifica vista sul lago, la vetrata che copriva quasi l’intera parete poteva scorrere lateralmente ed alcuni tavoli erano posti all’esterno, sulla terrazza. ammo poi diverse altre stanze, in alcune c’erano tavoli da lavoro ingombri di materiali di ogni tipo e, nell’ultima, un pianoforte a coda faceva bella mostra di sé al centro dell'ampio salone.

C’erano parecchie attrezzature sportive disseminate lungo i vialetti: un campo da basket, uno erboso da football, sulla spiaggia c’erano una rete per il beach volley e, riparate da una tettoia, un gruppo di piccole imbarcazioni a vela.

Tutti i ragazzi che incontravamo erano allegri e sorridenti. Qualcuno salutava Sam con entusiasmo chiedendo notizie del suo lavoro e di persone che non conoscevo, qualcuno mi stringeva la mano presentandosi con gentilezza ma tutti, proprio tutti, mi scrutavano con occhi indagatori e si facevano la stessa domanda che mi ponevo io: chissà che potere ha?

Finito il nostro giro Sam mi accompagnò in segreteria per compilare un po’ di scartoffie. Mi aveva pregato di frequentare più corsi possibile durante la prima settimana, in modo da poter scegliere quali proseguire nel resto della mia “vacanza”. Quando mi consegnò il foglio con gli orari rimasi sbalordita dalla quantità di attività che il campo offriva. C’erano laboratori di ceramica, pittura, intaglio del legno, canto, danza, cucina, escursioni e un’infinità di sport.

Era quasi ora di pranzo, consegnai velocemente tutti i moduli e mi avviai verso il bungalow sperando di incontrare la mia nuova compagna di stanza.

Violet era seduta in veranda e sorseggiava una bibita.

Quando mi vide arrivare si alzò di scatto e mi venne incontro. Era un po’ più alta di me, con lunghi capelli neri trattenuti da un cerchietto bianco e una folta frangia sulla fronte, anche gli occhi erano scuri con ciglia lunghe e folte. Le sue labbra sottili si allargarono in un’accogliente sorriso. “Benvenuta al campo. Io sono Violet”.

Ricambiai timidamente con un cenno della mano.

“Ciao, io mi chiamo Emily”.

“Non vedevo l’ora che arrivassi, sono qui solo da tre giorni ma non mi piace dormire da sola c'è troppo silenzio, a casa ho due sorelle molto rumorose”.

“Io sono figlia unica perciò mi fa piacere avere un po’ di compagnia. Spero solo

di non essere troppo disordinata”.

“Ah, non preoccuparti, ho messo in ordine solo per farti una buona impressione. Sono sicura che andremo d’accordo. Vieni ti faccio vedere dove sistemare le tue cose”.

Riposi nell'armadio i pochi vestiti che avevo portato, quelli che non mi evocavano ricordi tristi, indossai un paio di pantaloncini corti con un'anonima maglietta bianca e ci affrettammo verso la sala da pranzo.

Violet si diresse subito verso un tavolo occupato da tre ragazze.

“Queste sono Lizzy, Megan e Jaqueline - Jaky per gli amici- e lei è la nuova arrivata, Emily”.

Mi salutarono tutte con grande slancio e dopo un breve scambio di dati anagrafici e commenti sul campo cominciarono a parlare del torneo di beach volley che avrebbe avuto luogo nel pomeriggio, elaborando schemi e strategie di gioco. Non avevo intenzione di partecipare alle partite perciò mi estraniai dalla conversazione concentrandomi su un gruppo di ragazzi seduti ad un lungo tavolo. Erano tutti molto allegri e chiacchieravano animatamente. Tutti tranne uno. Aveva il tipico aspetto del secchione, viso paffuto, occhialini tondi e capelli corti, dritti sulla testa come fosse un puntaspilli, teneva lo sguardo basso, rivolto al piatto di verdure che aveva davanti. Con una mano impugnava la forchetta, mentre nell’altra stringeva una grossa pesca matura. Aveva una postura innaturale, la schiena rigida e utilizzava solo la mano destra, quella della forchetta che posava sul piatto ogni volta che doveva bere o afferrare del pane o il sale.

L’altra mano rimaneva immobile, avvolta attorno al frutto come se questo fosse un animale pronto a scappare via. Il ragazzo che gli sedeva di fronte prese un tovagliolo di carta, lo appallottolò e con un gesto rapido lo lancio nella sua direzione. Il ragazzo con gli occhiali non ebbe il tempo di identificare ciò che gli stava volando addosso perciò liberò entrambe le mani e le portò sulla testa per proteggersi. Sotto il mio sguardo incredulo la pesca cominciò a muoversi rotolando lungo il tavolo. Ogni tanto si fermava ma quando il suo proprietario avvicinava la mano questa riprendeva la sua corsa e lui la inseguiva goffo, rovesciando ciò che incrociava. Gli altri ragazzi ridevano sguaiati beffeggiandolo: “Dai Howard corri che la prendi!”. “Forza Howi che la frutta fa dimagrire!”. Tutta la sala rideva e assisteva all’inseguimento.

La pesca raggiunse l’estremità opposta del tavolo e si fermò proprio sul bordo. “No!” Con un’esclamazione disperata Howard si tuffo verso la fuggiasca ma quando fu sul punto di afferrarla questa si tuffò dal tavolo spiaccicandosi sul pavimento.

Lui si voltò verso i suoi commensali, paonazzo di rabbia,

“Lawrence!” urlò, “questa me la paghi!” e serrò i pugni pronto alla lotta.

“Lawrence ha fatto il suo show anche oggi. Come vedi usa il pensiero per far muovere piccoli oggetti”, esclamò Violet catturando la mia attenzione.

“Alcuni di noi non riescono proprio a are inosservati, devono, a tutti i costi, far vedere quanto sono bravi”. Sbuffò Lizzy.

“Benvenuta al circo!” aggiunse Jaky e tutte scoppiammo a ridere.

“Pensavo fosse proibito mostrare i propri poteri o parlarne” dissi confusa.

“No, non è proibito, è solo consigliato” precisò Lizzy.

“Ma d’altra parte se non possiamo essere noi stessi qui, a cosa servirebbe questa reclusione?” intervenne Megan.

“Beh, se uno ha dei poteri innocui suppongo che non ci sia niente di male nel divertirsi un po’ ma se ciò che puoi fare è potenzialmente pericoloso, è un altro discorso”. Mi pentii all’istante di ciò che avevo detto. Quattro paia di occhi che mi fissavano terrorizzati confermarono il mio errore.

“Non parlavo di me, dicevo in generale …” le mie deboli scuse non convinsero le ragazze che si lanciarono un’occhiata di intesa. Prima o poi avrebbero ceduto alla curiosità di conoscere il mio segreto perciò decisi che quel pomeriggio mi sarei dedicata ad elaborare una versione soft della mia storia da poter spacciare in caso di bisogno.

Il resto del pranzo proseguì senza altre esibizioni.

Il cibo era molto buono, c’era una gran varietà di verdura e di frutta e feci il bis di una deliziosa torta alle mele.

Il torneo di beach volley non sarebbe iniziato prima di un paio d’ore perciò decidemmo di andare alla spiaggia a prendere il sole.

Mi piaceva Violet, nonostante le migliaia di domande che avrebbe potuto farmi non mi importunò, anzi mi aggiornò sui pettegolezzi del campo e sui suoi stravaganti frequentatori. Anch’io dovevo esserle piaciuta perché mi confidò la sua cotta per un certo Davis, un patito dello sport che sicuramente avrebbe partecipato al torneo del pomeriggio, perciò si era iscritta anche lei sperando di farsi notare. Aveva un bel fisico con gambe lunghe e sottili, pensai che aveva ottime possibilità, chiunque fosse Davis.

La spiaggia era affollata di ragazzi, alcuni ascoltavano musica, altri si esercitavano per la partita, altri sonnecchiavano al sole.

Trovammo un posto libero, sufficientemente grande per tutte cinque, al margine di un boschetto.

Violet prese un libro dal suo zainetto, si stese a pancia in giù e cominciò a leggere.

Jaky che aveva la pelle bianchissima, perlacea, cominciò a ungersi di crema solare.

Megan e Lizzy ridacchiavano osservando un gruppo di ragazzi che si affannavano attorno ad una piccola barca a vela non più lunga di due metri che non voleva saperne di prendere il largo.

Ai margini della spiaggia, accomodati su cinque sedie a sdraio in tela, c’era un gruppo di ragazzi più grandi, tra cui riconobbi Sam.

“Chi sono?” chiesi, senza rivolgere la domanda a qualcuno in particolare.

Violet alzò la testa dal libro e lanciò un’occhiata nella loro direzione.

“Sono tutor, quello biondo si chiama Steve, alla sua sinistra c’è Bob, Sam lo conosci, la ragazza un po’ robusta si chiama Stephanie e la bionda carina è Sophie”.

Una camla tintinnò nella mia testa. Poteva essere la Sophie di cui parlava Jason? Aveva detto che lei era una delle ospiti non dei tutor, però non sembrava tanto più grande di noi.

“Quanti anni ha?” chiesi guardando Violet.

“Chi?”

“L’ultima che hai nominato. Non sembra molto più vecchia di noi”.

“Sophie dici? In effetti ha solo diciannove anni, è la prima volta che viene qui come tutor, fino all’anno scorso era una di noi, ma immagino che dopo quattro anni di campo quello che c’è da imparare ormai ti esca dalle orecchie perciò probabilmente è stata promossa”.

Non aggiunse altro e si immerse nuovamente nella lettura.

Da quella distanza non distinguevo i suoi lineamenti, era magra con lunghi capelli biondi raccolti da un fermaglio sulla nuca. Non resistetti alla tentazione di chiamare Jason.

“Ciao. Tutto bene lì?” Mi accorsi troppo tardi di essere un po’ troppo su di giri.

“Benissimo. E tu? Dal tono di voce mi pare che ti stia divertendo. Dì la verità non è così male come pensavi?”

“In effetti il posto è meraviglioso e anche la compagnia è piacevole. Lo sai che c’è anche la tua Sophie”.

Ci fu un attimo di silenzio, poi sbottò con tono scocciato: “Emily mi auguro che non andrai in giro a parlare di me. Soprattutto con Sophie. Ti ripeto che non sono affari tuoi perciò non azzardarti!”.

Era veramente seccato.

“Calma, calma, l’ho solo vista. Mi hanno detto che si chiama Sophie, ha diciannove anni e viene qui da quattro perciò immagino che sia lei. Non ho detto niente a nessuno”.

“E guai a te se lo fai. Primo io e Sophie abbiamo chiuso e non è il caso che tu ti

metta a fare cupido. Secondo, io e Michael, il mio tutor, abbiamo avuto delle divergenze di opinioni l’ultima volta che ci siamo visti perciò è più prudente per te se non fai il mio nome in giro. Ci siamo capiti?”

“Certo, scusa non volevo intromettermi. Adesso vado, mi stanno chiamando. Ci sentiamo dopo”.

“Ciao”. Nessuno mi aveva chiamata, ma la conversazione non era andata come mi aspettavo e non ero intenzionata a proseguirla.

L’invito di Jason a farmi gli affari miei sortì l’effetto contrario e mi ritrovai a pensare cosa poteva essere successo tra lui e il suo tutor, e tra lui e Sophie, per scatenare tanto turbamento al solo nominarla. Scoprirlo sarebbe stato il mio obiettivo per i prossimi giorni, d'altronde dovevo pur trovare qualcosa da fare in quel posto isolato dal mondo.

Il resto del pomeriggio fu scandito dal susseguirsi delle partite di beach volley. Violet giocava molto bene e, come aveva sperato, Davis le si era avvicinato per farle i complimenti e offrirle una bibita fresca. Una volta rotto il ghiaccio avevano trascorso il resto del pomeriggio seduti sulla sabbia, uno accanto all’altra a fare il tifo per questa o quella squadra. Erano una bella coppia.

Solo a metà delle competizioni mi accorsi che il segnapunti era Howard, il ragazzo della mensa. Era un segnapunti anomalo però, perché in mano non aveva né penne, né fogli. Era molto concentrato sul gioco e ogni tanto, uno dei tre ragazzi che facevano da giudici, fermava il gioco per chiedergli qualcosa. Mi rivolsi a Megan, seduta alla mia destra, “tu sai qual è il potere di Howard?”, chiesi.

“Certo, tutti lo sanno. Ha una memoria eccezionale. Gli basta leggere un libro una sola volta per impararlo a memoria. Vedi che i giudici vanno spesso a parlare con lui?” Feci un cenno con il capo. “Lui sta praticamente registrando la partita nella sua testa. Ricorda esattamente la sequenza di tutti i aggi e tutte le battute di ogni singola partita. E’ come una moviola umana!”.

Ridemmo tutte e due.

“Ma non hanno paura che imbrogli?”

“Howard non potrebbe mai, è incapace di mentire o di fare qualcosa di disonesto. Ogni tanto lo prendono in giro, ma gli vogliono tutti bene. E’ l’unico che trascorre qui tutta l’estate, è la nostra mascotte”. Megan gli rivolse uno sguardo colmo d’affetto.

Al termine delle partite vincitori e vinti si scambiarono complimenti e pacche sulle spalle. Qualcuno aveva alzato al massimo il volume di una radio portatile e la festa cominciò in maniera spontanea. Dalla cucina arrivarono vassoi di panini, patatine, pizze e parecchie altre cibarie. I ragazzi cominciarono a arsi piatti in plastica, tovaglioli e bibite.

Mi spostai in disparte ad osservare quell’allegra confusione. Mi accorsi di Sam solo quando mi fu accanto.

“Allora, che ne dici di questo posto?”

Poteva leggere la risposta sul mio viso estasiato ma non volevo dargli troppa soddisfazione.

“Non è male” dissi. “Per il momento. Mi riservo di darti una risposta definitiva tra qualche giorno”. Ma il mio sorriso tradiva i miei veri sentimenti.

“Domani mattina ti aspetto alle nove per una chiacchierata, mettiti abiti comodi e scarpe da trekking”.

Lo guardai stupita. “Cosa significa?”

“Qui intorno ci sono magnifiche eggiate e posti splendidi per parlare e meditare senza distrazioni”.

Non aggiunse altro perché la bionda Sophie, muovendosi con grazia, si unì a noi. Aveva sciolto la coda ed ora morbide ciocche illuminate dal sole le contornavano il viso. Aveva gli occhi verdi, grandi e con le estremità leggermente rivolte verso il basso che le davano un’espressione da cucciolo indifeso. Era una ragazza molto avvenente.

Sam fece le presentazioni e dopo avermi raccomandato puntualità per il giorno seguente si allontanò assieme a lei.

Avevo faticato ad addormentarmi, non ero abituata ai rumori del bosco. Un po’ mi mancava il silenzio della mia camera e le ombre familiari che i lampioni, dalla strada, proiettavano sul muro. Qui il buio era veramente buio e il cielo era

uno spettacolo straordinario.

Nonostante le poche ore di sonno, alle nove meno cinque ero seduta sulla panchina di fronte alla segreteria, in attesa di Sam. Non si fece attendere. Indossava bermuda marroni ed una polo gialla che faceva risaltare la sua carnagione scurita dal sole. Sulle spalle aveva un piccolo zaino che alimentò la mia preoccupazione sulla durata della nostra gita. Mi fece l’occhiolino e con un cenno del capo mi invitò a seguirlo.

Camminammo senza parlare per quasi un'ora, io assorta nei miei pensieri e lui nei suoi. Il sentiero era facile, costeggiava il lago avvicinandosi al bordo dell’acqua tanto da poter vedere il timido affiorare di piccoli pesci ed alghe.

La superficie era increspata da centinaia di piccoli insetti, zanzare, moscerini e ragni dalle lunghe zampe sottili.

L’acqua era calma e vicino alla sponda opposta, a qualche centinaia di metri da noi, distinguevo le sagome di Kajak e barche a remi che scivolavano su quello specchio d’argento.

Ad un certo punto svoltammo su un sentiero a sinistra, più ripido e faticoso.

Il profumo del sottobosco si insinuava nelle narici e scendeva lungo la gola, accompagnato da una sensazione di freschezza. Il calore del sole stava prendendo vigore ed i raggi dorati sfioravano la mia pelle come tiepide carezze.

Ovunque scorgevo piccoli fiori colorati, bacche e tracce lasciate dagli animali che popolavano la foresta.

La vegetazione di quel luogo era straordinariamente viva, molto più selvaggia e in qualche modo più vera di tutti i fiori dalle forme e dai colori perfetti che avevo imparato a conoscere nel negozio di mia madre.

Superammo una piccola radura, ma nonostante le mie proteste proseguimmo lungo la salita.

Sentivo i polpacci tendersi sotto lo sforzo ed il respiro si faceva sempre più affannato.

Trascorsero altri dieci minuti prima che Sam si fermasse per farmi prendere fiato. Fece scivolare lo zaino lungo il braccio e ne estrasse una bottiglia d’acqua. Bevvi avidamente lunghe sorsate.

“Se avessi saputo che avremmo camminato così tanto mi sarei portata anch’io qualcosa da bere e da mangiare”.

“Esagerata!” Sbottò Sam.

“Siamo quasi arrivati e saremo di ritorno per pranzo”.

Si rimise in spalla lo zaino e ripartì senza darmi il tempo di aggiungere altre

lamentele.

Camminammo per altri venti minuti. Sam cercava di distrarmi con domande sul campeggio e sui miei nuovi amici e dandomi consigli sui laboratori che secondo lui erano più adatti a me. Mi stupii di quanto conoscesse i miei gusti e le mie preferenze. Doveva aver parlato a lungo con mia madre prima della partenza, senza che me ne accorgessi.

Ad un certo punto girò a destra, lasciò il sentiero e attraverso una barriera di alti arbusti si inoltrò nel bosco sparendo dalla mia vista. Lo seguii cercando di abbassare con i piedi i rami più bassi e trattenendo con le mani quelli all’altezza del viso e riuscii a are senza graffiarmi troppo. Lo spettacolo che mi aspettava dall’altra parte era da mozzare il fiato. Il piccolo spiazzo sul fianco della montagna regalava una veduta fantastica del lago e dei monti che gli facevano da corona. Il tappeto erboso cedeva soffice sotto i nostri i e una fresca brezza risaliva dalla valle.

“Che ne dici?” Mi chiese Sam compiaciuto.

Non c’erano parole per descrivere la bellezza del paesaggio.

“Meraviglioso”, dissi. Ma era veramente troppo poco per descrivere ciò che avevo davanti agli occhi.

Sam rimase in silenzio, lasciandomi assorta a contemplare il panorama. Quando decise che era sufficiente richiamò la mia attenzione, invitandomi a sedere sull’erba accanto a lui.

“E’ questo ciò che vorrei tu vedessi quando guardi le altre persone: la bellezza. La bellezza che c’è in tutte le cose e in tutti gli esseri viventi, per quanto a volte sia difficile scorgerla”. Fece una pausa fissandomi negli occhi.

“Devi essere sincera, soprattutto con te stessa. So come funziona la mente umana e so che, quando scopri il modo di ottenere tutto ciò che vuoi, sia difficile distogliere i pensieri dai tuoi desideri per concentrarti su ciò che invece vorrebbero gli altri. E’ come un tarlo che scava senza sosta, guardi gli altri e la tua mente si fissa su cosa potrebbero fare per te. Dì la verità Emily, non è così?” Aveva reso l’idea in maniera abbastanza verosimile, ma non del tutto esatta.

“In un certo senso sì, ma non ho usato il potere solo per i miei scopi, ho cercato anche di far felici i miei amici e dopo ciò che è successo con Billy ho cercato di non fare del male a nessuno”.

“Certo, ma ti sei mai soffermata a pensare a quanta violenza ci sia nell’entrare nella mente di un’altra persona e costringerla a fare ciò che altrimenti non avrebbe mai fatto? Obbligarla a comportarsi in maniera diversa da come avrebbe voluto?”

La sua espressione era seria e concentrata. Mi guardava dritto negli occhi, senza timore.

“La domanda fondamentale che devi porti Emily è: ciò che io ordino di fare è giusto? Ti faccio un esempio. Se tu scorgessi un ladro intento a rubare e gli imponessi di rimettere a posto la refurtiva sarebbe giusto?” Risposi senza esitare, “Sì”.

“E quando tu pretendi dagli insegnanti un voto più alto di ciò che meriti è giusto?” Fui più esitante. “No, ma non faccio del male a nessuno”.

“Tu lo credi veramente? Non pensi di suscitare rabbia e frustrazione nei tuoi compagni che ritengono quel voto immeritato? E non pensi di fare del male a te stessa togliendoti lo stimolo a impegnarti di più, a migliorare? Sii sincera, non ti manca la soddisfazione che provavi quando con lo studio e la fatica lo guadagnavi il bel voto? O

quando riuscivi a vendere un mazzo di fiori perché chi lo acquistava pensava realmente che fosse bello?” Ebbi un sussulto e avvampai di vergogna. Sapeva anche questo.

“Usare il tuo dono per ottenere ciò che vuoi non è una vittoria, è una sconfitta Emily. E ogni sconfitta lascia dentro di te una cicatrice. Deturpa la tua anima, la deforma”.

Avevo un nodo in gola. Sentii gli occhi gonfiarsi di lacrime che non provai neanche a trattenere. Era successo ciò che temevo, chi mi conosceva veramente mi vedeva come un mostro. Senza aggiungere una parola Sam mi tirò dolcemente verso di sé. Con la sua mano calda guidò la mia testa verso il suo petto e quando la mia fronte si posò sulla sua spalla cominciò ad accarezzarmi dolcemente i capelli. Non so per quanto tempo piansi ma quando le lacrime cessarono di sgorgare mi sentivo vuota.

Sam si allontanò per guardarmi negli occhi e con un sorriso esclamò “Bene! Ti prometto che d’ora in poi non parleremo più di ciò che è stato. Da qui in poi si ricomincia!”

Con un braccio mi cinse le spalle facendomi girare verso il lago.

“Respira profondamente e guarda questo posto. Quando sarai triste voglio che tu ripensi a quest’immagine e che ricordi la sensazione dell’aria fresca che riempie i polmoni”.

Chiusi gli occhi ed inspirai profondamente.

“Succederà ancora Emily. Tutti facciamo errori e tanti.

Non ti sto chiedendo di non usare il potere, cerca solo di limitare i danni. Tu sai qual è il confine tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato e se avrai bisogno di me, io ci sarò, sempre”.

Il ritorno fu più veloce, e più facile, avevo un peso in meno.

17

STREGHE

Ero tremendamente in ritardo.

Violet era già partita per la lezione di yoga da circa dieci minuti, e io, come al solito non ero ancora pronta.

Mi misi la felpa sulle spalle e presi le chiavi della camera.

Stavo per aprire la porta quando qualcosa sul pavimento attirò la mia attenzione. Era una piccola busta bianca. A meno che non l’avesse persa Violet uscendo, qualcuno l’aveva fatta scivolare sotto la porta. La carta sembrava molto pregiata, su un lato c’era scritto in bella calligrafia il mio nome mentre il retro era sigillato con della ceralacca scarlatta. Mi soffermai ad osservare il disegno impresso in rilievo sulla cera, era la testa della dea Medusa.

Ero combattuta tra la curiosità di aprire immediatamente la busta e la necessità di correre a lezione prima che la signorina Cho, la nostra insegnante, si spazientisse troppo.

Avevo promesso di impegnarmi seriamente perciò posai la busta sulla scrivania e corsi fuori.

La lezione di yoga fu interminabile, mi sembrava di muovermi al rallentatore, non riuscivo a concentrarmi e la signorina Cho mi richiamò severamente un paio di volte.

Alle parole: “abbiamo finito, potete andare”, schizzai fuori dalla stanza senza quasi salutare.

Attraversai il prato di corsa e raggiunsi il nostro bungalow senza mai fermarmi, avevo solo dieci minuti prima dell’inizio dell’attività successiva e volevo avere il tempo di leggere la misteriosa lettera con calma.

Per un istante riguardai il sigillo, era così bello che mi dispiaceva romperlo perciò aprii la busta strappandone il lato superiore.

Gentilissima signorina Price è invitata alla riunione che si svolgerà a mezzanotte sotto il grande cedro vicino alla spiaggia.

Le chiediamo di non farne parola con nessuno, le conseguenze potrebbero essere molto spiacevoli.

Il club delle Streghe

Rilessi il biglietto un paio volte. Perfetto, nel campo di detenzione in cui ero costretta a are l’estate c’era pure un club delle giovani marmotte. E’ proprio vero: non c’è mai fine al peggio!

Decisi che non mi sarei lasciata coinvolgere da giochetti da scuola media perciò accartocciai il biglietto e lo gettai nel cestino.

Ero già parecchio in ritardo per la partita di calcetto a cui, non so come, avevo acconsentito a partecipare, perciò mi avviai veloce verso la spiaggia.

La giornata trascorse più lentamente del solito. Avevo già preso la mia decisione rispetto al bizzarro invito ma non ero riuscita a rimuoverlo completamente dal mio cervello e così, ogni tanto, eccolo fare capolino in qualche angolo dei miei pensieri. Lo trovavo stupido e infantile ma non potevo smettere di pensarci. I ragazzi che avevo conosciuto al campo in quei pochi giorni mi sembravano tutti molto maturi e questo stonava con l’idea di un club da sfigati.

A mensa mi sedetti accanto a Violet sperando che il suo buon umore riuscisse a distrarmi.

“Che c’è Emily? Hai una faccia da zombie! Ti hanno torturata questa notte?!”

Scherzavamo sempre sul fatto che fossimo un po’ come delle carcerate, anche se molti dei ragazzi venivano volontariamente al campeggio da diversi anni, per alcuni di noi, me compresa, il campeggio era stata l’unica alternativa al manicomio!

“Dì la verità che sei preoccupata per la lezione di canto di oggi pomeriggio? Vedrai alla fine dei lavori forzati metteremo su un musical e gireremo il mondo!”.

Tutti i nostri commensali scoppiarono a ridere e io mi unii a loro. Violet avrebbe saputo far sorridere persino un sasso se ci si fosse messa d’impegno.

Con lei accanto il pomeriggio trascorse un po’ più veloce della mattinata ma con l’avvicinarsi della sera cominciavo a sentire un senso di disagio e di inquietudine. Durante la giornata avevo osservato i miei compagni di sventura cercando di capire chi, tra di loro, avesse potuto inviarmi il biglietto. Cercavo sguardi indagatori e sorrisi ammiccanti ma nessuno mi diede retta più del solito.

La lezione di canto era stata più piacevole di quanto mi aspettassi. Ricordavo perfettamente cosa mi aveva detto Sam introducendomi alla classe la prima volta: “ Far parte di un coro aiuta a sentirsi parte di qualcosa di più grande, ognuno deve trovare il proprio stile adattandolo al gruppo affinché l’insieme risulti armonioso e intonato. Come nella vita”.

Dopo una settimana di incontri cominciavo a trovare Sam un po’ retorico, ma suppongo fe parte del suo ruolo.

I brani suonati dall'insegnante erano molto attuali ed anche senza spartito la maggior parte di noi ne conosceva le parole. L’atmosfera era allegra, tutti sembravano divertirsi molto e visto che non ero proprio stonatissima decisi che avrei continuato a frequentare le lezioni anche nelle settimane successive.

Non c’erano altre attività programmate per il resto del pomeriggio. Decidemmo di prendere un pedalò e fare un giro del lago.

Era piacevole stare con Violet, non era curiosa né invadente. Amava moltissimo la lettura e quando trovava un romanzo avvincente non staccava gli occhi dal

libro per ore.

Dopo cena mi fermai con Lizzy a sparecchiare i tavoli della sala mensa. Era un'altra delle sorprese del campo, i turni di pulizie. Per fortuna i bagni erano esclusi dal pacchetto.

Mi chiesi quanto avessero pagato i miei genitori per mandarmi lì.

Una volta alla settimana il campo da basket veniva trasformato in un cinema all’aperto, avevamo solo quaranta minuti prima che iniziasse il film. Lizzy non voleva perderselo perciò spazzammo e lavammo il pavimento a tempo di record. Proiettavano una commedia romantica. In quei pochi giorni avevo raggiunto un certo equilibrio emotivo e al momento l'amore non era nella top ten dei miei sentimenti preferiti così decisi che avrei fatto il bucato e sarei andata a letto presto.

Alle dieci ero già sotto le coperte mentre Violet, che preferiva i libri ai film, stava ancora leggendo.

Per le successive due ore mi girai e rigirai nel letto tentando di prendere sonno, ma più cercavo di rilassarmi e di non pensare a quello stupido biglietto più la curiosità mi divorava.

Trovavo estremamente puerile l’idea di un club ma la parola

streghe

mi affascinava tremendamente.

Nell’immaginario collettivo le streghe erano sempre state considerate esseri malvagi, creature subdole che usavano la loro magia per manipolare gli altri e questo mi faceva sentire molto più vicina a loro di quanto avrei voluto.

Decisi che dovevo sapere.

Se non avessi risposto all’invito forse non ci sarebbe stata una seconda occasione e poi, comunque, io avevo un’arma segreta. Non avrebbero potuto costringermi a fare niente di ridicolo o infantile, avrei visto, ascoltato e basta.

Mi misi a sedere sul letto cercando di abituare gli occhi all’oscurità, non volevo svegliare Violet.

Come se non aspettasse altro, lei si alzò e accese la luce.

“Era ora Emily, pensavo avessi deciso di non venire. Ti saresti persa una gran cosa! Sbrigati a vestirti che facciamo tardi!”.

Violet era già completamente vestita, era andata a letto vestita, e ora mi guardava con impazienza. Intravedevo sul suo viso un sorrisetto soddisfatto trattenuto a fatica.

L’improvviso bagliore di luce mi aveva accecato.

Continuavo a sbattere le palpebre e a spalancare gli occhi come se avessi visto un marziano.

“Ci sei dentro anche tu in questa storia del club?”, domandai. Domanda stupida dal momento che mi aveva appena detto di sbrigarmi ma avevo bisogno di una conferma.

“Sì. Vedrai che ti piacerà un sacco. Ma non posso dirti niente. Muoviti che dobbiamo andare”.

Non chiesi altro. Infilai una tuta da ginnastica e la seguii fuori dal bungalow. Appena fummo all’aperto Violet si tirò il cappuccio della felpa sopra la testa, non faceva freddo perciò immaginai che fosse per non farsi riconoscere così la imitai.

Camminavamo con o veloce verso la spiaggia, ad un tratto intravidi tre sagome scure che si muovevano sotto un grande albero. Se fossi stata sola probabilmente mi sarei fermata meditando sul rischio che correvo andando incontro a tre sconosciuti nel pieno della notte, ma Violet procedeva con o sicuro.

Le tre sagome scure si rivelarono Megan, Jaky e Lizzy.

Mi sorrisero senza parlare.

"Siete voi tre? Il club delle streghe siete voi? Ma scusate è una settimana che stiamo praticamente sempre assieme non potevate parlarmi a pranzo o finché eravamo comodamente stese al sole? Dovevate trascinarmi qui nel cuore della notte?"

"Zitta e andiamo" dissero in coro.

"Hai tutto?” chiese Violet rivolta a Megan. Lei sollevò qualcosa che aveva in mano.

“Sei bibite, spero che bastino”.

“Perfetto! Allora andiamo!” disse Lizzy impaziente.

Ci avviammo in silenzio verso la tettoia sulla spiaggia.

Le bibite mi avevano fatto ricordare il pigiama party che Susan aveva organizzato in occasione del suo compleanno qualche mese prima. Solo ragazze, buona musica e tanti pettegolezzi, ci eravamo divertite un sacco.

Mi mancava Susan e mi sentivo tremendamente in colpa con lei per tutto quello che era successo. Trovarmi ora nella stessa situazione con delle semi-sconosciute mi sembrava alto tradimento.

La tettoia era abbastanza ampia, era aperta su tre lati e l’unica parete di legno che sorreggeva il tetto ci impediva di vedere il resto del campo alle nostre spalle ma, allo stesso modo, nascondeva la nostra presenza a chiunque avesse deciso di fare una eggiata notturna.

Jaky aveva con sé un piccolo zaino. Ne estrasse una coperta, cinque candele e una lampada con olio profumato, sembrava la borsa di Mary Poppins.

Osservai il pavimento, l’umidità della notte ne aveva reso più scuro il colore, le travi sembravano impregnate di pece. Jaky vi stese sopra la coperta, mise al centro le candele e la lampada e le accese una ad una. Si sedettero tutte in cerchio con le gambe incrociate come se fossero lì per una lezione di yoga e mi fecero cenno di prendere posto nello spazio vuoto tra Violet e Lizzy.

Megan fu la prima a parlare.

“Benvenute sorelle e benvenuta Emily. Ti abbiamo osservata e valutata questa settimana e poiché il voto di tutte è stato favorevole abbiamo deciso di invitarti ad unirti a noi”.

Fece una pausa.

Stavo per mettermi a ridere, tutta quella sceneggiata era ridicola. Inoltre la parola “sorelle” mi ricordava qualcosa di simile a una setta o ad una congrega religiosa e nessuna delle due cose mi attirava.

Senza darmi il tempo di aprire bocca, Megan riprese a parlare.

“Il club delle Streghe è nato quattro anni fa. All’inizio eravamo solo io, Jaky, e Sophie, l’anno successivo Lizzy si è unita a noi, lo scorso anno è arrivata Violet e quest’anno Sophie è ata al nemico!”

Violet mi guardò sfoderando un sorriso pieno di orgoglio. “Sappiamo di essere persone molto speciali, e siamo venute in questo campo per conoscere meglio noi stesse e fare amicizia con altri ragazzi come noi. Così abbiamo deciso di cogliere appieno lo spirito di Camp Kendall e di aiutarci e sostenerci come sorelle.

Conosciamo i segreti una dell’altra, ci teniamo costantemente in contatto e anche se viviamo a migliaia di chilometri di distanza abbiamo giurato di essere pronte a correre in aiuto di chiunque di noi ne abbia bisogno, in qualsiasi momento”. Tacque dandomi il tempo di pensare.

“Abbiamo tutte una mente straordinaria, fuori dal comune, un talento unico ed eccezionale e se il mondo sapesse di noi ci perseguiterebbe perché noi siamo a tutti gli effetti delle streghe e a dispetto del resto del mondo ne andiamo fiere”.

Concluse il suo pomposo discorso tra le risatine di approvazione delle altre ragazze che ovviamente la consideravano il loro leader.

Soppesai i pro e i contro della situazione. Nessuno a parte Sam e Claire conosceva il mio segreto, nemmeno i miei genitori o la mia migliore amica, non trovavo giusto parlarne ora con delle estranee. Tuttavia morivo dalla voglia di sapere quali erano le loro capacità e per farlo avrei dovuto espormi. Per quanto

riguardava poi la storia del reciproco aiuto mi veniva da ridere, ero in grado di badare a me stessa, non avrei mai chiesto aiuto a tre ragazzine. Però il fatto che Sophie avesse fatto parte di quel piccolo circolo mi incuriosiva, mi sembrava una tipa tosta. Forse avevo sottovalutato le mie compagne, la cosa poteva essere più divertente di quanto pensassi e poi avrei avuto l'occasione di fare qualche domanda in più su di lei senza destare sospetti. Cercai di trovare una scappatoia che mi permettesse di prendere tempo.

“Ho promesso a Sam che non avrei detto a nessuno cosa sono in grado di fare”.

“Come tutte noi. Ma tu fai sempre quello che ti dicono o ragioni con la tua testa ogni tanto?” Sbottò Megan. Non era la risposta che si aspettava.

Ero tentata di risponderle a tono ma mi trattenni e osservai le quattro ragazze che mi fissavano con occhi pieni di attesa.

“La mia situazione è un po' complicata”, cercavo le parole giuste per non offendere nessuno ma Megan mi interruppe di nuovo.

“Nessuno meglio di noi può capire cosa stai provando Emily. Ci siamo ate tutte. Non ti stiamo chiedendo di far parte di chissà quale setta satanica, siamo semplicemente amiche e in questo mondo così strano abbiamo bisogno di sapere che non siamo sole e che possiamo contare una sull’altra. Guarda che anche gli adulti hanno le loro lobby. Chi credi che finanzi e che protegga Camp Kendall da interferenze esterne? Lo stesso fondatore, Neil Kendall ha creato questo campo quindici anni fa perché suo figlio Marc potesse stare con persone come lui. E diciamola tutta, se Marc Kendall oggi è uno degli uomini più ricchi del paese non è certo un caso”.

Megan era stata molto convincente.

“Allora Emily che ne dici, ti unisci a noi?” La voce calma di Violet e il suo sguardo fiducioso mi convinsero a lasciarmi andare, non volevo deluderla.

“Va bene”.

Esplosero in un applauso e subito dopo mi aggredirono per un abbraccio collettivo.

“Shss piano o sveglieremo qualcuno”, sussurrò Jaky guardandosi intorno.

Megan riprese la parola.

“Bene. Visto che sei l’ultima arrivata tocca a te raccontare per prima la tua storia. Sono le regole del gioco!”

Violet si stese su un fianco tenendo la testa sollevata con il braccio, lo sguardo avido.

Ci ero cascata. Non volevo mentire ma non era necessario che raccontassi proprio tutto, a cominciare dalla potenza del mio dono. Mi dilungai nel descrivere il mio complicato rapporto con Nick e il tormento che seguì la nostra separazione e infine confessai che riuscivo a far compiere alle persone piccole cose che non richiedessero troppo contrasto con la loro reale volontà.

Mi ascoltavano tutte in religioso silenzio, immobili, ipnotizzate dalle mie parole.

Al termine del mio racconto feci un lungo sospiro e le osservai soddisfatta.

“Wow, che storia!”, disse in un sussurro Jaky.

“Già!”, aggiunse Lizzy.

E non era che una parte della storia, la meno interessante. Megan non parlava ma mi guardava dritto negli occhi.

“C’è stato un altro ragazzo con un potere simile al tuo qui al campo. Lo sappiamo perché era il fidanzato di Sophie”.

“Megan, abbiamo promesso a Sophie che non avremmo parlato a nessuno delle sue capacità”, la rimproverò Jaky.

“Lo so, e non sto infrangendo il patto, non parlavo di Sophie”.

Megan mi guardò con aria di sfida. “Prova a farmi fare qualcosa”, disse.

“Non se ne parla proprio” risposi e feci per alzarmi ma Jaky mi trattenne. “Devi scusarla, ogni tanto è veramente insopportabile”.

“Adesso tocca a me!”. La voce di Violet era come una cascata di acqua fresca, era impaziente di raccontare.

Volevo ascoltare il racconto di Violet ma non potevo lasciarmi sfuggire l’occasione di sapere qualcosa in più su Jason e così chiesi tutto d’un fiato “com’era Jason?” Grosso errore. Avevo avuto troppa fretta e mi ero tradita.

Mi fissarono tutte con sguardi sospettosi e torvi. Megan scattò. “Come fai a sapere che il ragazzo di Sophie si chiamava Jason?”

Fui presa dal panico ma mentii e riuscì ad essere abbastanza convincente. “Me ne ha parlato Sam”.

“Ah”. Fu l’unica cosa che le uscì dalle labbra. Tutte si rilassarono ma lei continuò a scrutarmi con uno sguardo impenetrabile.

“Era un tipo solitario”, disse Jaky ridacchiando. “Erano in parecchie a fargli il filo qui al campo ma lui ha puntato dritto sulla più carina”.

La paura di essere scoperta mi faceva ancora tremare le mani. Non osai chiedere altro.

“Allora? Posso cominciare?” chiese Violet. E senza attendere la risposta si mise a sedere con le gambe incrociate, si schiarì la voce ed assunse un tono solenne.

“Be’, anche per me è cominciato tutto nel periodo più brutto della mia vita. Avevo quindici anni e stavo morendo. Avevo contratto una malattia molto rara che mi stava distruggendo il fegato, ma non so dire se fosse più dolorosa la malattia o le cure per contrastarla. Soffrivo tantissimo e l’unica cosa che desideravo era di allontanarmi dal mio corpo per non sentire più il dolore.

La prima volta è stato come un soffio di vento che mi ha spostato, mi sentivo leggera e per un attimo ho visto me stessa distesa nel letto, con tutti quei macchinari e fili ma la mia mente era libera e non sentivo più niente. Piano, piano, allenandomi, aumentando la concentrazione, sono riuscita a volare sempre di più, sempre più lontano. La cosa strana è stata che più la mente si allontanava dal corpo più questo reagiva e combatteva e alla fine abbiamo vinto”.

“Cioè tu riesci a staccarti dal tuo corpo e a muoverti nello spazio con il pensiero?”, chiesi sbalordita.

“Sì, forte vero! Fino ad ora sono arrivata ad un massimo di mezzora e a circa cinquanta metri di distanza, ma penso sia questione di allenamento, ed ho intenzione di allenarmi parecchio”.

“Violet hai saltato tutta la parte più divertente, racconta a Emily dei tuoi vicini di casa”. Lizzy la guardava con un sorriso malizioso.

“Be’, diciamo che durante i miei test mi è capitato di assistere a scene alquanto imbarazzanti in casa dei miei vicini, sono piuttosto bizzarri, ma magari te le

racconto poi in camera”. Era arrossita di colpo perciò non volli infierire.

Lizzy la salvò dall'imbarazzo.

“Dai Jaky, racconta perché ti chiamiamo così”.

Jaky non si fece pregare. Il sul suo viso si velò di tristezza. Abbassò lo sguardo verso le candele e con la sua deliziosa timida vocina iniziò a raccontare la sua storia.

“Io non ricordo quando è cominciato, ero molto piccola.

Ricordo che i miei genitori litigavano parecchio. Dalla mia camera li sentivo urlare e così nascondevo la testa sotto al cuscino per non ascoltare. Mia madre piangeva sempre e io cercavo di consolarla, la abbracciavo, le davo la mano ma cosa può fare una bambina di cinque anni. Però quando le stavo vicino stava meglio, si rasserenava e riusciva a sorridere e anche il mio papà era meno arrabbiato. In compenso quando stavo a contatto con loro mi sentivo triste e astiosa io. Mi ci sono voluti anni per rendermi conto di come funzionasse: riuscivo ad assorbire le emozioni negative degli altri e a renderli più felici”.

“Ma diventa veramente intrattabile! E’ per questo che la chiamiamo Jaky, come il dottor Jakyll e Mr Hyde!”. Disse Lizzy piegandosi su un fianco fino a darle una leggera spallata.

“Sì però per fortuna non dura molto, riesco a smaltire in fretta la negatività”,

replicò in tono di scusa.

“Certo ma finché non ti a sei insopportabile!”.

Precisò Megan.

“E i tuoi genitori cosa dicono?”, chiesi.

“Loro non credono che io abbia poteri particolari.

Pensano solo che io sia molto lunatica! E ovviamente pensano che questo sia un normalissimo campeggio, per fortuna lo strizzacervelli da cui mi hanno mandata è uno di noi”.

Jaky si strinse nelle spalle. Avevo l’impressione che tutto sommato preferisse così, che la credessero una comunissima adolescente con sbalzi di umore e ormoni impazziti. Sinceramente non potevo darle torto.

Avevo ancora tante domande.

“Come funziona? Ti basta stare vicino a qualcuno o devi concentrarti?”

“Ho bisogno del contatto fisico e devo desiderare la felicità di chi sto toccando”.

“Ma è faticoso? Intendo dire, fisicamente poi, come ti senti?” Ripensai ai primi periodi della mia trasformazione, al mal di testa, alla nausea e tutto il resto.

“No, non è faticoso. Non avverto la stanchezza ma mi accorgo che più le emozioni che assorbo sono negative più mi sento depressa e impotente. Lo yoga mi sta aiutando molto, riesco a tornare di buon umore più velocemente”.

L’aria della notte si era fatta fresca, guardavo le fiamme delle candele che danzavano. Avevo una gran sete, la soda non era tra le mie bibite preferite ma non volevo guastare l’atmosfera facendo la schizzinosa. Ne presi una e iniziai a sorseggiarla lentamente.

Megan e Lizzy stavano ancora prendendo in giro Jaky, ricordandole quanto fosse stata irascibile qualche tempo prima; a quanto pare aveva evitato una rissa tra due ragazzi del campo ma poi aveva maltrattato talmente tanto le amiche da rischiare di essere presa a pugni.

Continuavano ad incalzarla con le battute, non avevano ancora raccontato la loro storia e forse cercavano solo di prendere tempo. Doveva essere difficile per tutte loro riaprire certe ferite.

Violet le richiamò all’ordine.

“Lizzy, mia cara, è arrivato il tuo turno”.

Avevo l’impressione che ci fosse il tacito accordo che l’ultima a parlare dovesse essere Megan.

Lizzy con un gesto veloce della mano spostò i suoi lunghi capelli dietro la schiena, mosse lievemente il capo e sbatté le palpebre. Aveva carnose labbra color ciliegia e grandi occhi grigio-verdi. Era molto bella e sapeva come usare il suo fascino, se fossimo stati dei maschi quel movimento apparentemente innocente avrebbe molti animi.

Aveva tutta la nostra attenzione perciò iniziò a parlare.

“Anch’io, come te Emily, ho bisogno di guardare le persone negli occhi ma non per spingerle a fare qualcosa, lo faccio per capire come sono, realmente intendo, nel profondo dell’anima. E’ come un sesto senso, riesco a percepire la loro vera natura, se nonostante le apparenze sono persone malvagie o se sono di animo buono”. Mi guardò di sottecchi. “Rimarresti sconvolta se sapessi quanti sono i lupi travestiti da agnelli e quanti ragazzi dall’animo gentile si nascondono dietro maschere altere o sprezzanti”.

Era una sensazione che avevo provato molte volte ma saperlo con certezza doveva essere un’altra cosa. Ebbi un sussulto. Sicuramente prima di invitarmi a far parte del loro gruppo avevano chiesto il parere di Lizzy, perciò il fatto che fossi lì con loro, dava parecchi punti alle mie possibilità di redenzione. La tentazione di averne la conferma era troppo grande, non sapevo se era lecito chiederlo. Provare non costava nulla. Mi feci coraggio e quasi sottovoce feci la mia domanda.

“E in me cosa hai visto?”

Lizzy sfoderò un sorriso compiaciuto.

“Me lo hanno chiesto anche loro”. Fece un movimento semicircolare con l’indice destro rivolto alle altre.

“Be’ diciamo che non sei proprio un angioletto, ma in questo sei assolutamente normale!”. Rise guardando le amiche. Evidentemente neanche loro erano esempi di purezza. “Comunque diciamo che in una scala da uno a dieci darei un sette alla bontà e un tre alla tua parte diabolica. Contenta?”

“Sì, penso di sì. E’ come mi sento adesso”. E poi visto che avevo appena mentito non potevo chiedere di più.

Avevo ancora una domanda, anzi due.

“Ma le persone possono cambiare o rimangono le stesse tutta la vita?”

“E’ difficile cambiare la natura di ciò che siamo, possono esserci eventi imprevedibili talmente devastanti che ci sconvolgono la vita e ci cambiano profondamente, ma succede molto di rado. Per fortuna la maggior parte della gente è più portata al bene che al male anche se le eccezioni non mancano. Neanche in questo campeggio”.

Sapevo che non avrebbe aggiunto altro, non le era permesso e forse non era giusto. Eravamo dotate di libero arbitrio e dovevamo giudicare il mondo con i nostri occhi e non con i suoi.

“Posso farti un'ultima domanda?”

“Se è lecita”, rispose, quasi mi avesse letto nel pensiero.

“Come è cominciato tutto? C’è stato qualcosa che ha dato il via al …”, non sapevo come definirlo, poi ricordai le parole di Sam, “al tuo dono?”

“No. L’ho sempre avuto, fin da piccola, tanto che pensavo fosse una cosa normale e non capivo come mai i miei genitori a volte frequentavano persone che ritenevo orribili. Poi con il tempo mi sono resa conto che solo io le vedevo così, i loro giudizi erano spesso molto diversi dai miei”.

“E non hai paura di sbagliare? Di vedere una cosa per un’altra?”

“Non so come spiegarlo ma ciò che vedo è molto nitido, trasparente, gli occhi delle persone sono buoni o cattivi, in misura diversa certo, ma senza possibilità di errore”.

Rimasi in silenzio, avevo esaurito le domande. Per ora.

Sicuramente le mie sorelle ne avevano poste altre quando era stato il loro turno, essere l’ultima arrivata mi metteva in una situazione di svantaggio. Avevo avuto solo un assaggio dei loro segreti e della loro storia ma ero sicura che sarebbero state disposte a riprendere la conversazione in un altro momento.

Mancava solo il racconto di Megan. Per quanto fossi curiosa non volevo metterle fretta. Rimasi in silenzio ad osservare il paesaggio. La luna aveva oltreato il centro del cielo, non era piena ma il suo chiarore era sorprendente. Le vette innevate che incorniciavano l’orizzonte sembravano ricoperte da una colata d’argento e ogni più piccola increspatura del lago luccicava mossa dalla fresca brezza notturna.

“E’ bello vero?”, disse Megan. Annuii volgendo lentamente lo sguardo verso di lei.

Aveva i capelli crespi, castani e lunghi fino alle spalle: una massa di riccioli che l’umidità della notte aveva reso incontrollabile. Severi occhi azzurri mi fissavano attraverso un paio di occhiali con la montatura blu e una fila di brillantini sulle stanghette. I lineamenti affilati ed il naso sottile la rendevano molto particolare, non era una di quelle persone che ispirano subito simpatia, d'altra parte anche lei non è che si impegnasse granché per piacere agli altri. Rimase seduta con le gambe incrociate e posò le mani sulle ginocchia, con i palmi rivolti verso l’alto.

Una fresca brezza proveniva dal lago. All’improvviso una folata più forte mi scompigliò i capelli e subito dopo un’altra ancora più forte mi costrinse a chiudere gli occhi.

L’aria turbinava veloce attorno a me, sollevai leggermente le palpebre fino a sbirciare verso le altre.

Erano immobili, si erano leggermente scostate da me e mi guardavano con aria divertita. I loro abiti non sventolavano ed i capelli non si muovevano di un

millimetro.

“Wow!”, esclamai. “Questo sì che è forte!”.

Tutto d’un tratto il vento cessò e Megan mi fissò soddisfatta.

"Piaciuto il gran finale?”

“Pazzesco! E quanto forte puoi farlo soffiare?”

“Fino a far spostare un uomo, per ora. Ci sto lavorando”.

Erano quasi le due di notte, avrei voluto sapere mille altre cose ma convenni con loro che avremmo avuto tutto il tempo per parlare nelle successive tre settimane. Ci salutammo con un abbraccio e tornammo nei nostri bungalow.

18

DUBBI

Erano ati tre giorni e la bomba non era ancora esplosa. Quando avevo nominato Jason, i loro sguardi e le loro espressioni erano cambiate, era come aver tolto la sicura ad una granata ma non sapevo quando e quanto devastante sarebbe stata la sua deflagrazione.

Tre giorni e ancora niente.

Avevo sperato che nessuna di loro avrebbe approfondito la questione ma in un angolo della mia mente sapevo che era troppo bello per essere vero.

D’altra parte anche Jason si era infuriato quando gli avevo raccontato della serata e della mia gaffe. Sapeva quasi tutto sulle mie amiche e sui loro poteri, quando stavano insieme Sophie gli raccontava ogni cosa. Pensai che dovevano essere molto legati ed anche se non ce n’era motivo la cosa mi infastidiva.

Erano due giorni che non ci parlavamo, io e Jason, e sentivo la sua mancanza. Non ero riuscita a capire il motivo di tanta rabbia ma avevo giurato a me stessa che non gli avrei più chiesto niente.

La detonazione avvenne a mezzogiorno, in sala da pranzo. “Emily!”

La voce di Sam fu come un tuono che spacca il silenzio.

Non era da lui alzare la voce in quel modo. Mi voltai e lo vidi avanzare con i pugni serrati.

“Emily, ho bisogno di parlarti immediatamente, per favore vieni fuori”.

Senza dire una parola lo seguii a testa bassa.

Quando fummo all’aria aperta si calmò e l’espressione contratta del viso si distese lievemente.

“Emily devo assolutamente sapere dove hai conosciuto Jason”.

Prima di interrompere i contatti con Jason avevamo concordato che era meglio non raccontare in giro la nostra particolarissima maniera di comunicare ed avevamo messo insieme una versione della storia che potesse avvicinarsi il più possibile alla verità.

“Ci siamo conosciuti in una chat, quando cercavo di capire cosa mi stava succedendo. Non ci siamo mai incontrati”.

Sam stava soppesando le mie parole.

“E vi siete tenuti in contatto?”

La severità del suo sguardo mi metteva a disagio.

“Sì”.

“Per quanto tempo?”

“Finché non sono partita per venire qui”.

“Quindi lui sa dove ti trovi ora”.

Non era una domanda ma risposi ugualmente.

“Si. Ma non capisco, perché sei così arrabbiato?” Invece che rispondere mi fece un’altra domanda.

“E’ stato lui a dirti di non nominarlo? E a chiederti di non dirmi che vi conoscete?”

“Si. Ma è una cosa che riguarda Sophie. Una volta stavano insieme e io ho fatto qualche battuta sul fatto che avrei potuto parlarle di lui e lui si è arrabbiato moltissimo”.

Rimase in silenzio.

“Sam, non capisco. Cosa c’è che non va?”

Altre domande.

“Ti ha mai parlato di cosa fa adesso? Dei suoi rapporti con Roger Wilson?”

“Roger Wilson? Lui conosce Roger Wilson?” Non potevo credere che il mio migliore amico fosse in qualche modo implicato con quel verme.

“Altroché se lo conosce, Jason lavora per Wilson”.

“No, Sam ti sbagli, non può essere il Jason che conosco io”.

Non poteva essere vero. L’idea che mi ero fatta di Jason in tutti quei mesi era lontana mille chilometri da quella di un tirapiedi di Wilson. Certo a volte era arrogante e presuntuoso ma non poteva essere malvagio, non dopo tutto quello che gli era successo. Non era da lui, non avrebbe mai usato il suo potere per compiacere qualcun altro e men che meno uno come Wilson.

“Mi spiace Emily, ma ti assicuro che è vero. Ci siamo tenuti in contatto fino ad un anno e mezzo fa, poi, quando Wilson si è fatto avanti lo abbiamo messo in

guardia, ma lui non ha voluto darci retta e dopo poco abbiamo saputo che si era trasferito a Washington e che lavorava per quel verme”.

“Ma Jason mi ha detto che gestisce la compagnia di assicurazioni di suo padre” dissi cercando disperatamente di credere a quello che dicevo.

“Ha tenuto l’attività come copertura. Gli affari di Wilson sono tutt’altro che onesti. Te lo assicuro”.

Ripensai al comportamento di Jason negli ultimi giorni, tanto eravamo stati vicini prima che partissi, tanto era lontano ora. Si faceva sentire a sere alterne per chiedermi come proseguiva la mia vacanza ma era sempre molto sbrigativo e non aveva mai il tempo di fare due chiacchiere con calma. Avevo l’impressione che sapermi qui lo fe sentire nervoso, irrequieto, come se volesse nascondermi qualcosa. Sam sembrava convinto di quello che diceva. Cercavo di oppormi con tutte le mie forze a quell’idea ma più ci pensavo più tutto combaciava. Anche il fatto che Jason non voleva che parlassi di lui al campo ora aveva un senso ma sapevo per esperienza personale che più le cose avevano un senso e più erano improbabili.

“Ma se Jason fosse effettivamente al suo servizio che bisogno avrebbe di me? Che senso avrebbe perseguitarmi?”

“Mi spiace Emily. Capisco che per te è una grossa delusione, ma ti prego, ti scongiuro non parlare più con lui e se tenta di mettersi in contatto vieni da me, troveremo il modo di tenerlo alla larga. Non oso neanche pensare cosa riuscirebbe a fare Wilson con te e Jason al suo fianco”.

Mi sollevò il mento con la mano e mi guardò negli occhi.

“Credimi, è per il tuo bene”. Un sorriso fiducioso si allargò sul suo viso ma gli occhi rimanevano concentrati sui miei.

“Okay” dissi abbassando lo sguardo.

Sam si allontanò. Solo allora mi accorsi che Sophie lo aspettava seduta su una panchina al di là del prato. Li guardai allontanarsi. Cosa c'entrava lei in tutta questa storia? Chissà se Sam mi aveva detto tutto o se c’era ancora qualcosa che non sapevo.

Mi era ato l’appetito. Al posto dello stomaco avevo un macigno di trenta chili, non riuscivo nemmeno a deglutire.

Decisi di fare una eggiata lungo il lago per schiarirmi le idee. Dovevo fare una scelta, a chi dovevo credere?

Sam non mi aveva mai mentito. Voleva sinceramente aiutarmi ed anche se mi seccava ammetterlo avevo bisogno di lui.

Mi aveva chiesto di non avere più contatti con Jason ma non sapeva che lui era dentro la mia testa. Se non gli avessi più risposto avrebbe capito che qualcosa non andava e mi avrebbe tormentato fino a sapere perché. E

poi volevo fidarmi di Jason, dovevo dargli almeno la possibilità di spiegare prima di prendere una decisione.

“Jason ho bisogno di parlarti”. Fissavo il lago cercando di assorbire la pace che emanava.

“Cosa c’è?” La sua voce era dura e fredda come la pietra.

Cercai di mantenere la calma e di non scattare come facevo sempre quando diventava scortese.

“Senti Jason, Sam è venuto da me e mi ha imposto di starti alla larga. Mi ha detto che lavori con Roger Wilson e che non sei la persona che penso”.

“Perché tu cosa pensi?” Il suo tono non era cambiato.

“Penso che sia giusto darti la possibilità di spiegare e di dirmi la verità”.

Il silenzio durò parecchi secondi. Poi assunse un atteggiamento più conciliante e riprese a parlare.

“Grazie Emily, non ci speravo proprio. Ero sicuro che avresti creduto a Sam e che non avresti più voluto avere niente a che fare con me”.

“Sarebbe un po’ difficile visto che sei dentro la mia testa”.

“E’ solo per questo che mi dai una possibilità? Perché non puoi fare altrimenti? Se fossi uno che puoi allontanare mi lasceresti lo stesso spiegare?” Il tono era di nuovo astioso.

“Sono quattro mesi che mi confido con te. Sei il mio migliore amico. Ho bisogno di sapere la verità”. La mia voce tremava, i miei pensieri tremavano e anche il mio corpo cominciò a tremare come se dentro di me fosse calato il più gelido degli inverni.

"Va bene".

Jason cominciò a raccontare.

“Poco dopo essermi trasferito a Washington conobbi Wilson. Sam e Michael, il mio tutor, mi avevano messo in guardia su di lui, ma io volevo dare una svolta alla mia vita ed ero sicuro di poterlo controllare. Frequentava bella gente, belle feste e io non avevo nessuno. Nessun legame, nessun parente che significasse qualcosa per me.

Così ho cominciato a fargli da assistente. L’ho aiutato ad avere qualche appuntamento con pezzi grossi della politica ma quando mi ha chiesto di forzare loro la mano, di spingerli a finanziarlo ed appoggiarlo oltre quanto fosse lecito, me ne sono andato ed ho fatto in modo che non mi desse più fastidio. Te lo giuro Emily. Non ho fatto nulla di cui pentirmi”.

Volevo disperatamente credergli.

“Ma perché non hai richiamato Sam o Michael?”

“Per dirgli cosa? Ho solo diciannove anni ma ti assicuro che sono in grado di decidere del mio futuro e di prendermi tutta la responsabilità delle mie azioni. Sam e Michael sono brave persone ma tendono sempre a dirti cosa fare, cosa è bene e cosa è male. Io non prendo ordini da nessuno”.

“Ma se non hai paura di loro, perché ti sei arrabbiato così tanto quando ho fatto il tuo nome?”

“Perché loro sono lì con te, e io sono lontano. Loro sono i paladini della giustizia, mentre io non sono certo un esempio di onestà. Non ti ho mai vista Emily, ma nella mia mente sei una creatura fragile ed indifesa e loro sono in grado di influenzarti più di quanto possa fare io. Avevo paura che ti avrebbero allontanata da me. Non voglio perderti Emily, anche tu sei la mia migliore amica”.

“Grazie”, sussurrai.

Il nodo in gola si stava sciogliendo ed il calore tornava ad avvolgere il mio corpo. Avevo deciso di fidarmi di lui perciò dovevo andare fino in fondo.

“Devo dirti una cosa molto importante”, sussurrai.

“Oddio Emily non dirmi che hai fatto casino anche con Sophie”.

“No, tranquillo, è una cosa seria”.

“Ti ascolto”.

“Io sono come te, ho il tuo stesso potere, sono una manipolatrice”.

Le parole uscirono in fila, una dopo l’altra, come se fossero lì pronte da tempo, come se aspettassero solo che qualcuno le liberasse.

Per sessanta interminabili secondi non disse nulla. Il cuore mi martellava nel petto come se volesse saltar fuori.

“Emily ma è fantastico, non capisci, ora tutto ha un senso”.

“Lo so, l'ho pensato anch'io. Cosa facciamo adesso?” chiesi, sicura che lui avrebbe sistemato tutto.

“Niente. Aspetterò che tu torni a casa e poi avremo tutto il tempo di conoscerci senza interferenze”.

Non era la risposta che mi aspettavo. Avevo sperato che Jason sarebbe corso al

campo per riappacificarsi con Sam e chiarire tutto. Ma niente di tutto questo sarebbe successo. Avrei mentito a Sam dicendo che non sentivo più Jason e una volta a casa probabilmente ci saremmo incontrati di nascosto. Ancora bugie. Non avrei sopportato di perderlo perciò dovevo prendere quello che veniva.

“La smetterai di essere arrogante e di trattarmi male?” Almeno questo me lo doveva.

“Te lo prometto Emily”. Questa volta la sua voce era dolce e densa come il miele.

“Tutto bene?” La voce di Violet mi fece sobbalzare. Non l’avevo sentita arrivare, mi girai di scatto perdendo l’equilibrio per un attimo.

“Sì, grazie. Avevo bisogno di pensare”, risposi rivolgendole un debole sorriso.

“Sam mi ha mandato a vedere come stai. Ci ha raccontato cos’è successo. Lizzy non sa darsi pace per aver fatto la spia”.

“E’ meglio così. Sono stata io a mentire”. La presi sottobraccio e ci avviammo verso la mensa. Salutai mentalmente Jason e cercai di assumere un’espressione più serena possibile.

Lizzy stava seduta a testa bassa e con la forchetta spostava svogliatamente il cibo da una parte all'altra del piatto.

Mi avvicinai da dietro, con le braccia le cinsi le spalle e le sussurrai all’orecchio “è tutto a posto, mi hai tolto un peso”.

Si girò con gli occhi pieni di gratitudine e si gettò tra le mie braccia.

“Mi spiace. Il mio tutor diceva che non poteva parlare dei poteri degli altri ragazzi e allora io gli ho detto che non era vero, che Sam ti aveva parlato di Jason. Non volevo metterti nei guai”. Stava per mettersi a piangere.

“Non è successo niente Lizzy. E’ meglio così".

Jaky si alzò e posò una mano sulla mia spalla e una su quella di Lizzy. Una sensazione di pace e di benessere ci avvolse. Lizzy smise di piagnucolare, sollevò lo sguardo e mi sorrise.

Jaky abbassò le mani e sbottò “ok, può bastare”.

La guardammo e le nostre labbra si mossero all’unisono per pronunciare “grazie”.

“Certo che i tuoi poteri sono meglio di qualsiasi antidepressivo”, esclamai quasi euforica rivolgendomi a Jaky.

“Già”, disse lei. Ma si vedeva che aveva bisogno di qualche minuto per smaltire la nostra tristezza.

"Perché non ci hai detto che conosci Jason?" mi chiese Megan con aria di sfida.

"Come ho detto a Sam ci siamo conosciuti in una chat.

Non ci siamo mai incontrati per questo volevo sapere com'è".

"Potevi dirlo".

"Hai ragione ma il mio rapporto con Jason è un po'

complicato. Non vuole che parli di lui".

Megan stava per farmi un'altra domanda ma Violet la interruppe scattando in piedi.

“Ma cos'è questa puzza?”

Era come se un camion di letame si fosse ribaltato in sala mensa. Peggio, era come se fossimo immersi nel letame. L'aria era irrespirabile. Un fuggi fuggi generale mise sottosopra la stanza. C'era un gran baccano di sedie che si ribaltavano e piatti che cozzavano. Ci riversammo tutti sulla grande terrazza e appena i nostri polmoni si furono depurati osservammo, oltre le vetrate, il disastro in cui versava la sala mensa.

Comodamente seduto accanto all'unico tavolo ancora in ordine c'era un ragazzino minuto che ci guardava con aria divertita.

Un biondino stizzito si fece largo tra la folla incredula e si affacciò alla porta urlando: “Questa volta hai esagerato Malcom, è il tuo fetore quello che sentiamo?” Il ragazzo seduto si fece una risata e poi alzò le braccia in segno di resa. Un istante dopo un profumo di torta alla cannella si diffuse nell'aria.

19

FUGA

Mancavano pochi minuti alle undici, avevo fatto una doccia veloce, indossato il pigiama a tempo di record, mi ero lavata i denti ed ora, nel tepore del mio letto, aspettavo con ansia di sentire Jason.

Il calore della sua voce accarezzò i miei pensieri e mi fece sussultare.

“Ciao dolcezza, come stai questa sera?”

Stava mantenendo la sua promessa, era dolce e premuroso. Fin troppo forse, era un seduttore nato.

“Benissimo. E tu?”

“Io sono seduto in un posto un po’ scomodo. A diecimila metri di altezza. Ma sono molto, molto felice”.

“Sei in aereo? Dove vai di bello?”

“Non lo immagini?”

Non potevo crederci. Non osavo crederci. Era troppo bello per essere vero. Ma tentai comunque.

“Stai venendo qui?” chiesi quasi urlando dalla gioia.

“Sì. Non ce la facevo più ad aspettare”. Anche la sua voce era emozionata.

“Jason ti prego, dimmi che non è uno scherzo”.

“Te lo giuro Emily. Sto venendo da te”.

“E quando arrivi?”

“Il volo atterra tra un’ora. Ho prenotato un albergo vicino all'aeroporto. Domani mattina prendo un’auto e in un paio d’ore sono da te, ma ho bisogno di vederti da sola prima di venire al campo. Pensi di riuscire a farti accompagnare a Lakeside?”

“Penso di sì. C’è un gruppo che parte da qui alle nove per andare a fare spese, posso unirmi a loro”.

“Bene. Allora ci vediamo davanti al supermercato in Stoner Creek Road alle dieci”.

“Ok ci sarò. Non vedo l’ora”.

“Notte Emily”.

“Notte Jason. Fa buon viaggio”.

Non potevo crederci, avrei visto Jason. Cercai di organizzare mentalmente la giornata. Prima di tutto dovevo comunicare in segreteria che mi sarei unita al gruppo che andava in paese. Poi, a colazione , avrei avvisato le mie amiche che non avrei partecipato al laboratorio di pittura. Infine, cosa più importante, dovevo decidere cosa indossare. Volevo essere più carina possibile per lui.

Non dormii granché. A mezzanotte mi assicurai che fosse atterrato. All’una gli chiesi di descrivermi il motel.

Alle due ate finalmente presi sonno ma alle sei ero già sveglia.

Avevo optato per una minigonna in jeans, scarpe basse e una maglietta bianca un po’ attillata, con un grande fiore stampato sulla schiena.

Parcheggiammo vicino alla biblioteca. Due dei ragazzi cercavano qualcosa da leggere nel tempo libero, altri tre si diressero verso il piccolo bazar in fondo alla

strada.

Feci un profondo respiro e mi avviai verso Stoner Creek Road. Il supermercato distava cinque minuti a piedi, ero impaziente di vedere Jason. Se mi fossi messa a correre sarei arrivata rossa e sudata e non era così che immaginavo il nostro primo incontro. Aumentai il o.

Camminavo da due minuti quando cominciai a percepire la stessa strana energia che mi aveva attirato verso Jason la prima sera nella metropolitana. I nostri corpi si attraevano come due poli, positivo e negativo. Non avevo bisogno di guardare i nomi delle strade lui era la mia bussola. Lo sentivo sempre più vicino. Più la distanza diminuiva, più aumentavano i battiti del mio cuore.

La strada era quasi deserta, pochi anti e poche auto in transito. Allungai lo sguardo cercando di distinguere le persone in fondo alla strada.

All'improvviso una sagoma scura mi sbucò davanti. Mi bloccai di colpo. Una scarica di adrenalina mi fulminò come una scossa elettrica. Ero totalmente paralizzata dalla paura. Mi guardai intorno in cerca di aiuto.

“Buongiorno signorina Price”.

Il sangue che fino ad un attimo primo scorreva bollente nelle mie vene si era congelato. Roger Wilson stava in piedi davanti a me e mi fissava con un ghigno di soddisfazione. Feci un o all’indietro e mi girai di scatto pronta a scappare. Tremavo come una foglia ma ero decisa a non farmi prendere. Feci un solo o poi andai a sbattere contro una massa compatta di muscoli: Garrett.

Volevo urlare ma una densa nebbia mi imbottì la testa e mi tolse ogni energia. Non riuscii ad aprire bocca ma prima di perdere i sensi sussurrai: “Perché, Jason?

Perché?”

Mi svegliai con la voce di Jason che urlava il mio nome dentro la mia testa. Ero accasciata sul sedile posteriore di un’auto dai finestrini oscurati. Un dolore alle tempie pulsava come fosse qualcosa di vivo ed un senso di nausea mi chiudeva lo stomaco. Jason continuava a chiamarmi.

Al pensiero di quello che mi aveva fatto la nausea aumentò. La testa mi faceva già abbastanza male senza che lui ci urlasse dentro. Dovevo farlo smettere.

“Jason sei un bastardo. Mi hai venduta a Wilson, cosa vuoi ancora?”

“Emily ti prego, non sapevo che Wilson fosse lì. Non ti farei mai del male”.

“Ci sono troppe coincidenze Jason. Non ti credo più.

Cos'è, Wilson non era sicuro di quale fosse il mio potere ed ha incaricato te di scoprirlo? Bravo, hai fatto un ottimo lavoro”.

“Emily io non c’entro. Ho visto Garrett che ti caricava in auto ma ero troppo lontano per fermarli. Ti prego, guarda fuori e dimmi in che direzione state andando”.

Non volevo più rispondere. Non volevo più avere niente a che fare con lui.

“Emily ragiona. Se lavorassi ancora con Wilson non avremmo bisogno di te”.

“Magari vuoi solo eliminare la concorrenza”. In quel preciso istante mi resi conto che potevo aver ragione.

La paura prese il posto della rabbia.

“Non dire stupidaggini Emily, non sapevo neanche che avessi un dono finché non me lo hai detto tu”.

“Tu non lo sapevi ma Wilson sì”.

“Non ti farei mai del male, te lo giuro”.

“Allora come faceva a sapere dove mi trovavo?”

“Lui sa dell’esistenza del campeggio. Ma ti assicuro che non ho idea di come

sapesse che eri lì”.

Ci fu un attimo di silenzio.

“Sam dice che probabilmente ti teneva d'occhio e quando vi ha visto partire insieme ha capito”.

“Sam? Quando hai parlato con Sam?”

“È qui con me, l'ho chiamato quando ti hanno portato via. Adesso per favore guarda fuori e dimmi dove ti trovi”.

Aveva chiamato Sam, allora era sincero, non lavorava per Wilson.

E poi se così fosse saprebbe dove mi trovo non avrebbe bisogno di chiedermelo.

“Avete avvisato la polizia?”

“No, è meglio tenerla fuori da questa storia e soprattutto lontana dal campo. Bastiamo noi tre. Fidati”.

“Voi tre? Chi altro c'è?” Immaginai una Violet preoccupata librarsi nell'aria e inseguire l'auto dei miei rapitori. No, era troppo giovane, Sam non avrebbe mai

messo a repentaglio l'incolumità di uno dei ragazzi, doveva essere un tutor, sicuramente Michael con la sua capacità di influenzare la tensione elettrica avrebbe potuto far fermare la nostra macchina.

“C'è anche Sophie”.

La sua risposta mi investì come una doccia fredda.

E chi altri poteva esserci con loro? Era tutto chiaro, ecco perché Jason stava venendo al campo, per lei. Io ero solo una scusa e adesso voleva fare l'eroe e venire a salvare la piccola sprovveduta Emily per fare colpo su di lei.

"Com'è stato rivedere Sophie? È come te la ricordavi?"

chiesi senza nascondere la delusione.

"Emily smettila di fare la bambina e dimmi dove sei, Sam comincia a dubitare del fatto che possa veramente parlare con te".

"Cosa c'è? Stai facendo brutta figura?"

Il suo urlo di rabbia mi terrorizzò.

"Finiscila! Non hai idea di cosa sia capace di fare Roger, se non ti troviamo in fretta potremmo non riuscirci più. Se non vuoi farlo per me, fallo per Sam, fallo per tua madre, fallo per chi ti pare ma dimmi dove sei".

Mi sollevai lentamente e mi misi a sedere. Il paesaggio era alterato dal colore dei vetri ma riconoscevo la forma degli arbusti e il profilo dei monti.

“Stiamo andando verso l’aeroporto”, dissi.

“Bene, siamo nella direzione giusta. Vi stiamo seguendo ma avete più di un’ora di vantaggio”.

In quel momento Roger Wilson, che era seduto sul sedile del eggero si girò verso di me.

“Ben svegliata mia cara. Perdona i nostri modi ma abbiamo una certa fretta ed abbiamo bisogno della tua collaborazione”.

Senza mai guardarmi negli occhi mi porse un paio di occhiali da sole e mi ordinò di indossarli.

Avevano lenti a specchio molto scure e mi nascondevano completamente gli occhi.

“Se li togli, anche solo per un secondo, ti rimettiamo a nanna”.

Fantastico, l'unica arma che avevo era fuori uso.

“Dove stiamo andando?” chiesi ad alta voce.

“Ti porto a conoscere alcuni amici. Ho bisogno che tu li convinca a fare una cosa per me”, rispose senza voltarsi.

“E sarebbe?”, domandai cercando di assumere un atteggiamento sfrontato.

“Ogni cosa a suo tempo, ragazzina”. L’intenzione di farmi pesare la sua superiorità era evidente.

“Devo trovare il modo di scappare”.

Credevo di averlo solo pensato invece Jason mi sentì.

“Non fare niente. Aspetta che arriviamo. Se ti succedesse qualcosa non me lo perdonerei mai”. La sua voce mi supplicava, era teso quanto me.

"Sam vuole sapere come stai e se sei legata?"

"Sto bene, non sono legata, tanto come provo a muovermi il bestione mi annebbia la mente. Non so dove siamo diretti, Roger dice che devo convincere alcune persone a fare una cosa per lui".

"Washington. Ti sta portando a Washington. Vuole che tu finisca quello che io ho cominciato". Esclamò Jason.

"Ma allora potete fermarlo all'aeroporto. La polizia lo può arrestare, questo è un rapimento. A gestire la polizia poi ci penso io". Un lume di speranza si accese nella mia mente. “Non credo che rischierà di portarti in mezzo a tanta gente. Se lo conosco bene, ci andrete in automobile”.

“In auto? Ma ci vorranno almeno due giorni di viaggio”.

“Lo so ma ti prometto che lo fermeremo prima”.

Rimase in silenzio.

Ad intervalli di tempo regolari Garrett mi lanciava occhiate dallo specchietto retrovisore. Avevano sintonizzato la radio su una stazione che trasmetteva successi degli anni settanta ed ottanta, una noia mortale.

Poco dopo mezzogiorno avevamo già percorso quasi trecento chilometri e viaggiavamo sull’autostrada ben oltre i limiti di velocità. Pregavo perché la polizia ci fermasse.

Jason mi teneva compagnia cercando di distrarmi e raccontandomi cosa aveva combinato quando aveva frequentato camp Kendall.

“Ho fame”, dissi a voce alta. “Possiamo fermarci a mangiare qualcosa?”

“No. Non ci fermeremo finché non saremo arrivati”. La sua voce dura non ammetteva repliche.

“Ho bisogno di andare in bagno”. Cercai di rendere il mio tono più supplichevole possibile.

“Ci andrai quando ci fermeremo per fare benzina”.

Alzò il volume della radio. La conversazione era finita.

“Jason, dove siete? Ho paura”.

“Non preoccuparti Emily. Prima di sera sarai sana e salva. Te lo prometto”.

Volevo credergli con tutte le mie forze ma la distanza tra noi e loro continuava ad aumentare.

All’ennesima occhiata di Garrett notai un riflesso di luce blu sullo specchietto

retrovisore. Mi voltai di scatto e il mio cuore ebbe un sussulto.

Un’auto della polizia con i lampeggianti accesi si stava avvicinando velocemente.

Nello stesso istante anche Garrett se ne accorse e rallentò immediatamente la velocità.

Wilson si girò verso di me. I suoi occhi erano due lame taglienti, il disprezzo nella sua voce mi mise i brividi.

“Ora tu farai esattamente come ti dico. Quando ci fermeremo abbasserai il finestrino e chiamerai l’agente, lo guarderai negli occhi e gli dirai che è tutto a posto e che deve lasciarci andare. Hai capito bene?” Scandì le ultime parole una per una.

“E se non volessi farlo?” Osai chiedere.

“Non fare la furba. Sono sicuro che ti dispiacerebbe se succedesse qualcosa alla tua bella mamma o alla tua cara amica Susan”.

No, questo no. Non potevano farlo. Ma che razza di persone erano. Ero impietrita. Cosa sarebbero stati disposti a fare pur di raggiungere i loro scopi? Non avevo più alcuna possibilità di fuga. Non avrei mai permesso che succedesse qualcosa alle persone che amavo, a costo della mia stessa vita.

Ero sola, nessuno poteva aiutarmi.

L’auto si fermò ed un poliziotto ci intimò di scendere.

Tremavo come una foglia ma sapevo benissimo cosa fare.

Mi tolsi gli occhiali da sole che scivolarono via dalle mie mani tremanti e caddero sull’asfalto. Il poliziotto si avvicinò lentamente tenendo una mano sulla fondina, pronto ad afferrare l’arma. Il suo compagno ci teneva sotto controllo rimanendo dietro la portiera aperta della loro auto. Non sentivo più il sangue scorrere nelle vene eppure le mani mi sudavano. Non riuscivo nemmeno a sbattere le palpebre. Il poliziotto mi guardò con disprezzo e in quel momento incrociai il suo sguardo e pronunciai ad alta voce i miei ordini: “Va tutto bene. Non abbiamo fatto niente, dovete lasciarci andare”.

Ascoltavo la mia voce senza riconoscerla.

Il poliziotto lanciò un’occhiata ai miei due compagni di viaggio. Poi si girò, lasciò cadere le braccia lungo i fianchi e tornò dal suo collega. Si scambiarono poche parole, infine risalirono in auto e partirono.

“Brava, vedrai che andremo d’accordo”.

Wilson mi rivolse un sorriso trionfante. Io non riuscivo a muovere un o.

Garrett mi spinse bruscamente dentro l’auto e ripartimmo.

La voce di Jason mi chiamava ma non riuscivo a rispondere. Non riuscivo a pensare, non vedevo nessuna possibilità, nessun futuro davanti a me. L’unica cosa che potevo fare era obbedire e sperare che un giorno mi avrebbero lasciata andare.

“Emily rispondi!”. L’urlo di Jason mi scosse e riacquistai un po’ di lucidità.

“Jason tornate indietro. Non potete fare niente”.

“Cosa stai dicendo? Cos’è successo?”

“Faranno del male alla mia famiglia. Se scappo o se li tradisco faranno del male alla mia famiglia o a Susan.

Jason non posso fare niente. Non potete fare niente.

Tornate indietro”.

“Emily non dire così. C’è sempre un modo. emo il nostro potere, insieme”.

ò un’altra ora prima che ci fermassimo a fare benzina.

Il bagno era lurido e coperto di scritte di ogni tipo.

Garrett mi seguì e prima di farmi entrare controllò che all’interno non ci fosse nessuno con cui potessi parlare.

Mi lavai le mani e mi sciacqui il viso cercando di riportare un po’ di colore sulle mie guance pallide. Avevo cercato di essere forte ma dopo sei ore trascorse in macchina la stanchezza e la tensione ebbero il sopravvento e cominciai a piangere.

Il mio guardiano bussò rumorosamente alla porta.

"Muoviti!"

Asciugai rapidamente le lacrime, non volevo dare loro la soddisfazione di vedermi piangere. Guardai l’orologio.

Avevo guadagnato dieci minuti. Jason era un po’ più vicino.

Riprendemmo il nostro viaggio senza dire una parola.

Mentre ero in bagno Wilson aveva preso qualche sandwich ed alcuni snack ed ora se li stavano dividendo. Me ne offrirono uno ma il nodo che avevo in gola mi

impediva di deglutire, figuriamoci inghiottire qualcosa.

Il telefono di Roger squillò, aveva scelto come suoneria

"La cavalcata delle Valchirie" di Wagner. Patetico.

"Rose, tesoro. Tutto è andato alla perfezione. Sì, è qui con noi. Certo che puoi mollarlo ora, non vedo l'ora di rivederti piccola".

Chiuse la conversazione e si girò guardandomi con un sorrisetto odioso. "Rose ti saluta".

Sbarrai gli occhi sconcertata.

"Povera piccola Emily, non hai la minima idea di quello che ho fatto per averti".

"Di cosa stai parlando", balbettai.

"Parlo del fatto che per un po' ho dovuto rinunciare alla mia preziosa Rose, sapevo che il dolore avrebbe tirato fuori il meglio di te. Funziona sempre".

"Non può essere, non puoi aver rovinato la mia vita solo per questo". Mi rifiutavo di credere a tanta malvagità.

"Io ottengo sempre quello che voglio, il mezzo non mi interessa".

"Jason devo sapere una cosa. Roger ha un'amica che si chiama Rose?"

"Oh certo. Ma Rose è molto di più di un'amica, è la sua ragazza ed anche lei è molto speciale".

"Quanto speciale? Cosa sa fare?"

"Ha un potere simile al nostro ma molto più debole e meno duraturo, però mentre noi abbiamo bisogno del contatto visivo lei ha bisogno del contatto fisico".

Ci fu un piccolo clic nel mio cervello ed ogni cosa fu straordinariamente chiara. Rividi Rose che con la mano sulla spalla di Nick, ogni volta che cercavo di avvicinarlo lei lo toccava e quel giorno, quel maledetto giorno nella caffetteria lei gli stava tenendo la mano. Lui non mi avrebbe mai lasciata se non fosse stata lei a costringerlo.

Pensare che ero stata io a farli conoscere e ad insistere perché uscisse con noi. Che stupida, che idiota.

"Ma a cosa gli servo io se ha già lei?" chiesi a Jason.

"Lei non lo può aiutare. Gli uomini che Roger vuole avvicinare sono potenti, sempre circondati da guardie del corpo. Oltretutto il suo potere è troppo debole non funziona bene con chi ha una personalità forte".

Nick era sempre stato un tipo facilmente influenzabile, cambiava idea in continuazione. Quanto tempo avevo perso a disperarmi e quante energie sprecate nel tentativo di riconquistarlo, non ci sarei mai riuscita se non avessi usato i miei poteri. L'unica consolazione che mi restava era che il mio potere era più forte del suo e che se un giorno fossi riuscita a tornare a casa forse Nick sarebbe stato lì ad aspettarmi.

E d'un tratto mi accorsi che il pensiero di lui che mi amava ancora e che attendeva il mio ritorno non suscitava in me nessuna emozione, nessuna reazione di gioia, indifferenza totale. La mia vita era cambiata e così le mie prospettive. Le mie aspirazioni e i miei desideri erano diversi ed al momento il mio desiderio più grande era di riuscire a scappare lontano da Roger e di ricominciare tutto.

Dopo altre sei ore di viaggio decisero di aver messo sufficiente distanza tra noi e i miei amici al campo.

Avevamo appena superato la cittadina di Dickinson, Wilson ordinò a Garrett di uscire dall’autostrada e gli indicò l’insegna luminosa di una tavola calda.

Lessi il nome del locali e diedi a Jason tutte le informazioni che mi fu possibile leggere sui pochi cartelli stradali che incrociammo.

Appena scesi dall’auto, Wilson mi si parò davanti e digrignando i denti mi minacciò: “Tieni gli occhiali da sole e non fare scherzi. Intesi?”

Feci cenno di sì con il capo.

Erano le dieci di sera, gli unici clienti del locale erano due anziani, un uomo e una donna che non ci rivolsero nemmeno uno sguardo.

Ci sedemmo ad un tavolo d’angolo, lontano dal bancone e dalla coppia che cenava silenziosamente.

Un cameriere alto e magro, dall’aria stanca ci portò il menù. Era visibilmente seccato dalla nostra presenza che probabilmente prolungava il suo orario di lavoro oltre quello abituale.

Dopo una manciata di secondi, i miei compagni di viaggio ordinarono due bistecche con contorno e una bottiglia di acqua minerale. Io cercavo di prendere tempo, scorrendo con lo sguardo la lista avanti e indietro.

“Se non decidi entro cinque secondi, non mangi”, sibilò secco Wilson.

“Un’insalata con pomodori”, dissi timidamente al cameriere. Il mio sguardo che implorava aiuto era segregato dietro gli occhiali da sole. Il cameriere se ne andò con lo stesso o fiacco con cui era arrivato.

Mangiammo in silenzio, cercavo di dominare l’impulso che ogni tre secondi mi spingeva a girare la testa verso l’ingresso nella speranza di veder arrivare i miei salvatori.

Se fossi stata troppo impaziente avrebbero capito e saremmo partiti senza più fermarci.

Garrett divorò la sua cena in un lampo poi, con la stessa velocità, si allontanò dal tavolo e sparì dietro la porta della toilette. Avevo un piano e non dovevo sprecare quell’occasione perché sapevo che non ce ne sarebbero state altre.

Il cuore, ormai fuori controllo, mi pulsava in gola e nelle tempie.

Allungai la mano sul tavolo e sfiorai dolcemente quella di Roger.

La sua reazione fu istintiva, immediata, umana. Alzò la testa e mi guardò. Con la mano libera avevo sollevato gli occhiali e i miei occhi si inchiodarono ai suoi. Rafforzai la presa: “Guardami negli occhi”.

Cominciai a parlare lentamente, pensieri e parole uscivano all’unisono.

“Ora tu mi lascerai andare e non mi cercherai mai più”.

Sapevo perfettamente cosa dire, cosa pensare, ci avevo riflettuto tutto il giorno, cercando di combinare le parole nel modo più deciso ed efficace possibile. Non avrei avuto un’altra occasione.

“Non mi cercherai mai più, non mi hai mai vista, non sai chi sono e non crederai a nessuno che ti parli della mia esistenza. Io non ti interesso. Non farai mai del male né a me né alla mia famiglia, né a nessun altro”. Avevo cercato di prevedere tutte le possibilità future che qualcuno lo rimettesse sulle mie tracce, chi sa se c’ero veramente riuscita? Diedi il comando finale. “Quando Garret si avvicinerà gli dirai di lasciarmi andare, che è tutto a posto”.

Ritrassi la mano che per tutto il tempo era rimasta adagiata sulla sua. Mi alzai lentamente, presi la borsa e mi diressi verso l’uscita.

Si era svolto tutto molto velocemente. Mentre uscivo vidi la porta del bagno aprirsi e immaginai Garret che si dirigeva al tavolo di Wilson.

L’aria fuori era calda, profumava di estate e di libertà.

Inspirai a fondo, tremavo come una foglia. Dovevo fare in fretta. Avrei dovuto correre per un chilometro fino all’autostrada e lì aspettare l’arrivo dei miei amici.

Avevo quasi superato il parcheggio quando un dolore improvviso al braccio destro mi bloccò di colpo. Una morsa sempre più stretta lo stava stritolando. Mi voltai terrorizzata verso Garret.

“Dove credi di andare ragazzina? Pensavi veramente che Roger non avesse previsto tutto? Le sue istruzioni sono state precise fin da subito: qualsiasi cosa lui avesse detto non avrei dovuto lasciarti scappare. Ora torni là dentro e disfi ciò che hai appena fatto o ti spezzo un braccio, poi una gamba e poi tutto il resto. Sono stato chiaro?”

La sua mano era una tenaglia d’acciaio sul mio esile braccio, sentivo il sangue pulsarvi intorno come ad un laccio emostatico. Mi guardai attorno per cercare aiuto ma il parcheggio era deserto. La paura mi chiudeva la gola, non riuscivo a pensare con lucidità.

“Va bene ti seguo ma lasciami andare”, dissi con un filo di voce.

“Ti lascerò andare quando avrai fatto ciò che ti ho detto”.

Mi afferrò per il polso cercando di non dare nell’occhio e mi trascinò di nuovo dentro al locale. Appena entrati lanciai un’occhiata verso Roger, era tranquillamente seduto al tavolo e stava finendo di mangiare la sua bistecca. Ero in preda al panico. Mi guardai attorno alla ricerca di un appiglio.

Il cameriere si accorse della mia espressione sconvolta e mi fisso perplesso. Aveva in mano un vassoio con due tazze di caffè. Ricambiai lo sguardo e nella mia mente urlai “aiutami, fermalo, gettagli addosso il vassoio”. E così fece. La tazza fece una parabola e il liquido bollente che conteneva si riversò sul viso di Garrett.

Mi voltai, e con uno strattone riuscii a liberarmi. Un attimo dopo ero di nuovo all’aperto e correvo senza guardare indietro.

Il colpo alla schiena fu violentissimo e mi fece cadere.

Allungai istintivamente le braccia in avanti ma non fu sufficiente ad attutire la caduta. Sentii i palmi delle mani lacerarsi e poi il mio viso sbatté sull’asfalto. Il colpo mi fece vibrare la mascella, attraversò il cranio e si smorzò, con un sibilo, nell’orecchio opposto. Tutto si fece rosso e poi nero, poi di nuovo rosso. Il secondo colpo arrivò su un fianco costringendomi a ruotare su un lato. Il calcio successivo colpì lo stomaco facendo schizzare fuori dai polmoni la poca aria rimasta. Tossii, rannicchiandomi in posizione fetale. Il mio assalitore non si placò e con una mano mi afferrò per i capelli strattonandoli per farmi alzare.

“Ti faccio vedere io chi comanda. Vedrai che ti a la voglia di scappare”.

Quando mi fui rimessa in piedi, uno schiaffo mi colpì sulla guancia destra, persi l’equilibrio e mi ritrovai di nuovo a terra. Sentivo le labbra bruciare e sulla lingua il sapore metallico del sangue. Vidi la sua gamba sollevarsi e compiere l’oscillazione indietro che precede il calcio. Mi rannicchiai di nuovo, le braccia strette sopra lo stomaco.

Chiusi gli occhi sperando che tutto finisse il più presto possibile.

Ma non accadde nulla.

Riaprii gli occhi e vidi Garrett immobile, il corpo era proteso in avanti mentre la gamba era flessa all’indietro.

Era una posizione innaturale, era impossibile che riuscisse a rimanere in equilibrio, tuttavia non muoveva un muscolo, sembrava una statua. Sentivo delle urla, i che si avvicinavano, qualcuno chiamava il mio nome. Era Sam, ma c’era anche la voce di Jason. Ci volle qualche secondo per elaborare ciò che non

riuscivo a mettere a fuoco: la voce di Jason era vera, la sentivo con le orecchie, non dentro la mia testa.

“Sophie tienilo fermo così”, gridò Sam. Poi vidi qualcuno colpire il corpo di Garrett. Tentai di alzarmi ma il dolore alle costole mi tolse il respiro e mi accasciai priva di sensi.

Quando riaprii gli occhi ero stesa sul sedile posteriore di un’auto, ma non era quella in cui avevo trascorso le ultime dodici ore. C’era profumo di deodorante al pino, i sedili erano in stoffa e non in pelle e l’abitacolo era leggermente più piccolo.

Mi resi conto di avere la testa appoggiata sulle gambe di qualcuno. Una mano mi accarezzava il viso, soffermandosi sulla guancia schiaffeggiata. Emanava calore e ad ogni tocco sentivo il dolore diminuire. Alzai lo sguardo ed incrociai gli occhi di Sam.

“Va un po’ meglio?”, mi chiese.

“Sì. Cos’è successo? Mi stava picchiando e poi non mi ricordo più niente”.

“E’ arrivata la cavalleria!”. La voce di Jason proveniva dal guidatore. Era leggermente diversa da come la sentivo nella mia testa: più calda, più limpida.

“Jason sei tu?”, dissi nella mia mente.

“Sì Emily. Sono qui”. Fu la sua silenziosa risposta.

Non avevamo perso il nostro contatto.

Mano a mano che Sam mi massaggiava il fianco, il dolore ava e la strana forza che mi legava a Jason si faceva più intensa. Come se una mano invisibile mi afferrasse per le viscere e mi tirasse verso di lui.

“Cos’è successo?”, ripetei.

“Sophie ha bloccato Garrett. Sam si è occupato di lui mentre io ho sistemato Roger Wilson”, disse Jason.

“A Wilson ci avevo già pensato io”. Volevo fosse riconosciuta la mia parte di lavoro.

“Me ne sono accorto, ma anch’io avevo un paio di cose da dirgli. E poi ho fatto una bella chiacchierata con Garrett. Vedrai, non ti daranno più fastidio. Te lo assicuro”.

“Grazie. A tutti e tre. Mi avrebbe massacrata se non foste arrivati voi”.

Sophie, che sedeva davanti, si girò e mi rivolse un sorriso di incoraggiamento, poi guardò Jason e gli appoggiò una mano sulla spalla. Quel gesto mi ferì più di tutti i colpi che mi aveva inferto Garrett. Stavano di nuovo insieme. Chiusi gli

occhi e finsi di dormire.

Ad un tratto l’auto svoltò verso destra e poi a sinistra, infine rallentò ed il motore si spense.

“Dove siamo?”, chiesi.

“In un motel. Siamo tutti troppo stanchi per guidare ancora. Questa notte ci fermiamo qui e domani mattina presto riprendiamo il viaggio”. Mentre parlava Sam mi aveva aiutata a scendere dall’auto. Vidi le sagome di Jason e Sophie allontanarsi nel buio verso l’unica porta illuminata in tutto l’edificio. Poco dopo Sophie fece ritorno e consegnò a Sam una chiave a cui era appesa una grossa sfera di legno.

Per fortuna la camera era al piano terra. Camminando lentamente il dolore alle costole era a mala pena sopportabile, non sarei riuscita a fare le scale. Sophie mi precedette nella stanza, appoggiò il suo zaino su un letto e poi uscì nuovamente. Io mi sedetti sul bordo del secondo letto aspettando che Jason venisse almeno a vedere come stavo. Non avevo ancora potuto vedere il suo viso e l’attesa mi stava logorando.

Prima di lui mi giunse il suono della sua voce. Stava discutendo animatamente con Sam. Dapprima le parole erano confuse, poi il volume aumentò e riuscì a capire il motivo della lite.

“Sam, siamo entrambi maggiorenni non puoi dirci cosa dobbiamo fare. Voglio stare con lei questa notte, non puoi impedirmelo”. Jason stava praticamente urlando. Sam era più calmo e riuscii ad udire solo l’ultima parte della sua

risposta: “chiediamolo a lei”.

Attendevo immobile cercando di cogliere ogni singolo movimento, ogni più piccolo gesto. La porta si aprì lentamente emettendo un impercettibile gigolio. Trattenni il respiro e per un attimo chiusi gli occhi. Quando li riaprii lui era davanti a me e tutto il resto del mondo non esisteva più.

Morbidi riccioli neri scendevano fino quasi a coprire i magnetici occhi grigi e si muovevano sulle tempie, contornando il viso fino alla nuca. Le labbra morbide erano piegate in un sorriso appena accennato.

La pelle abbronzata, il viso perfetto. Era bellissimo.

“Ciao”. Nessuno udì il suo saluto che, nella mia mente ebbe lo stesso effetto di una bomba atomica. Il suo sorriso si allargò e i suoi occhi si illuminarono.

“Ciao”, risposi. Le mie labbra si mossero solo per rispondere al suo sorriso.

La voce di Sam interruppe la magia del nostro incontro.

“Jason vorrebbe …” fece una pausa cercando le parole adatte, “stare con te, stare qui questa notte. Mi ha promesso che non approfitterà della situazione e non farà niente di stupido e compromettente. Io non sono d'accordo ma la decisione spetta a te”. Entrambi mi fissavano. Io spostavo lo sguardo da Jason a Sam e viceversa. Non capivo. Voleva stare con me? Pensavo litigasse per dormire con Sophie, non con me.

“Per me va bene” dissi, e nello stesso istante arrossii di vergogna.

Sam rivolse un’occhiataccia a Jason ed uscì.

Non potevo crederci, dovevo sentire la sua voce per assicurarmi che fosse tutto vero.

“Non capisco. Perché vuoi stare con me e non con Sophie?”

Sgranò gli occhi.

“Ancora con questa storia di Sophie? Emily io voglio te, sono qui per te!”

“Ma allora perché è venuta?”

“Perché ci serviva il suo potere. E’ stata lei, con il pensiero, ad immobilizzare Garrett e ad impedirgli di continuare a colpirti. E poi lei e Sam stanno insieme”.

"Stanno insieme? Non me ne sono mai accorta".

"Beh, cercano di non dare nell'occhio, stanno insieme da un anno".

Mi alzai in piedi e lui si mosse lentamente verso di me.

“Io sono attratto da te, tutto il mio essere è letteralmente attratto da te. Noi siamo due metà della stessa anima”.

I suoi occhi erano a pochi centimetri dai miei. Con una mano, dolcemente, mi scostò i capelli dal viso.

Delicatamente, con la punta delle dita, mi sfiorò la guancia seguendone il profilo fino al mento. Socchiuse gli occhi e mi baciò. Tutti i miei sensi erano amplificati al massimo. Il mio cuore fremeva, sussultava e martellava pronto a esplodere. Sentivo il calore del suo corpo, il profumo della sua pelle. Le sue labbra si muovevano morbide sulle mie.

Affondai le mani tra i suoi capelli. Ne stringevo morbide ciocche tra le dita e lo avvicinavo sempre di più a me.

Tutto il mio corpo era in fiamme, non ero mai stata sopraffatta dalla ione in quel modo, mai. Lui ricambiava il mio abbraccio, le sue mani premevano sulla mia schiena con forza, entrambi volevamo annullare ogni singolo spazio vuoto tra i nostri due corpi.

Restammo abbracciati finché le nostre labbra non si calmarono poi furono i nostri sguardi a parlare. I suoi occhi splendevano, brillavano di pura gioia facendo da specchio ai miei. L’energia che ci aveva attirati uno verso l’altra, ora ci avvolgeva e si irradiava attorno a noi. Mi sentivo bene, felice, completa.

20

NUOVO INIZIO

I dieci giorni che seguirono furono i più felici della mia vita.

Dopo aver parlato a lungo con Sam e gli altri tutor, Jason rimase con me al campo. Trascorrevamo insieme ogni momento libero.

Quando ero partita per quell’esilio volontario non avevo nessuna aspettativa, nessuna illusione. Non avrei mai pensato di trovare tanta pace, tanta felicità, di poter stare così bene con me stessa e con gli altri. Di trovare la mia anima gemella.

Non erano persone qualsiasi condividevano la mia sorte e il mio segreto e lo avrebbero custodito con cura ed affetto.

L’ultima sera i ragazzi avevano organizzato il Karaoke.

Violet stava massacrando una famosa canzone rap, era totalmente fuori tempo e farfugliava così tante parole a vanvera che scoppiai a ridere. Lei mi vide e si unì a me senza imbarazzo. Era una serata perfetta.

Al di là del palco improvvisato, dietro Violet, Jason mi fissava.

Non rideva come tutti gli altri, era concentrato su di me, assorto. Sembrava volesse dirmi qualcosa ma senza essere convinto che fosse una buona idea. Lo guardavo perplessa, corrucciai la fronte e scossi leggermente il capo.

“Cosa c’è? Cosa devi dirmi?” chiesi nel nostro modo speciale.

Allargò le labbra in un meraviglioso sorriso, si alzò, andò verso la consolle del Karaoke e scelse un brano.

Violet si stava sbracciando in inchini degni dei più prestigiosi teatri d’opera. Quando lo vide arrivare, incredula, gli cedette il microfono.

Megan, seduta accanto a me, mi diede una gomitata.

Jason era sempre super controllato, non si lasciava mai andare, non era da lui esporsi così.

Avevo il cuore in gola e mi tremavano le mani.

Le note di un pianoforte si sparsero nell'aria.

"Everything" di Michael Bublè, era uno dei miei brani preferiti e Jason lo sapeva. Ormai sapeva tutto di me.

Con un’intonazione perfetta cominciò a cantare.

You're a falling star, you're the get away car.

You're the line in the sand when I go too far.

You're the swimming pool on an August day.

And you're the perfect thing to say.

...

Tutti erano senza parole, c’era solo la musica, la sua voce e il suo sguardo fisso su di me.

Se non fosse stato per Megan, che continuava a torturarmi il fianco con il suo gomito, avrei pensato di trovarmi in uno dei miei sogni più romantici. Ma era tutto vero. Il sogno era diventato realtà.

Quando la musica tacque ci fu uno scroscio di applausi.

Jason mi fece l’occhiolino e venne a sedersi accanto a me.

Abbracciati ascoltammo la serenata di Sam per Sophie e dopo di lui fu il turno di Davis che cantò per Violet.

Accanto a Jason il mio cuore era un tamburo impazzito, mi mancava il respiro, avevo bisogno di aria, la mia mano, stretta nella sua tremava.

Jason si alzò e mi sussurrò nella mente “vieni”.

L’aria della sera, fresca e profumata di muschio ci avvolse accarezzandoci dolcemente.

Con un braccio mi cinse le spalle, io mi strinsi a lui e così abbracciati cominciammo a camminare verso il lago.

Il cielo era sereno, un enorme mantello blu disseminato di minuscoli punti di luce, uno spettacolo solo per noi.

Si fermò e mi attirò verso di sé, illuminati dalla luce della luna i suoi occhi erano argento vivo.

Pensai alla nostra imminente partenza.

“Come farò domani a separarmi da te?” chiesi con un filo di voce.

“Ti amo”. Fu la sua unica risposta.

Un miliardo di fuochi d'artificio esplosero dentro di me.

Ero a casa da due settimane. Due settimane senza vederlo, senza toccarlo, senza baciarlo. Ci sentivamo ogni giorno, ogni ora, tranne quando dormivamo. Le nostre menti erano ancora più legate e questo ci aiutava a sopportare la lontananza.

Quando il camlo suonò ero pronta da quasi un’ora.

Mi precipitai giù per le scale e mi tuffai verso la porta prima che mia madre potesse muovere un o.

Quando la spalancai il ragazzo sulla soglia non era quello che aspettavo.

“Ciao Emily”. Mi salutò con aria impacciata.

“Ciao Nick, cosa ci fai qui?” gli chiesi senza tanti convenevoli.

“Be’, mi chiedevo se avessi cambiato idea, mi dispiace per tutto quello che è

successo, io non so proprio cosa mi sia preso. So che sono cambiate tante cose ma vorrei avere una seconda possibilità, mi manchi Emily".

Era a disagio ed impacciato, faceva tenerezza.

“Ne abbiamo già parlato, saremo sempre amici ma non era destino". Era terribilmente imbarazzante. Avevo già parlato con Nick e speravo che avesse capito. Non volevo farlo soffrire.

"Ti prego non insistere".

Si fece più aggressivo.

"Non puoi buttare via tre anni. Devi darmi un'altra chance".

"Non volevo ferirti Nick ma non mi lasci scelta. C'è una cosa che non ti ho detto".

Feci un lungo sospiro. Non era facile affrontarlo.

"Io ho già un ragazzo. E sta arrivando in questo momento”.

Una BMW serie 3, nera, stava parcheggiando sul vialetto di casa mia.

Il ragazzo che scese era ancora più bello di come lo ricordavo.

Povero Nick, se avesse potuto scavare una buca e nascondercisi dentro lo avrebbe fatto. Fece una smorfia che forse doveva essere un sorriso e si allontanò senza voltarsi.

Tutta la mia attenzione si concentrò sul mio favoloso ragazzo che con molta delicatezza stava estraendo qualcosa dall'auto: un’enorme mazzo di rose rosse.

“Vedi, non ho dimenticato i tuoi consigli”, disse porgendomi i fiori.

“Mmm, lo sai che le rose rosse sono molto compromettenti” dissi aggrottando le sopracciglia.

Con il braccio mi circondò la vita e lentamente mi attirò a sé. Avvicinò la sua guancia alla mia e mi sussurrò all’orecchio “Ti amo e non ti lascerò mai più”.

Mi baciò il collo, il mento ed infine, con dolcezza, le sue labbra si posarono sulle mie.

Il suo bacio mi fece dimenticare tutto, persino mia madre che ci osservava appoggiata all’uscio di casa.

Quando la ione del nostro incontro cominciò a metterla in imbarazzo si schiarì la voce e salutò Jason.

“Buonasera signora. Mi fa piacere rivederla”. Sfoderò un sorriso irresistibile e mia madre ridacchiando ci raccomandò di essere prudenti. Le chiesi di mettere i fiori in un vaso e la salutai con un bacio.

Appena saliti in auto Jason accese la radio e la sintonizzò sul radiogiornale. “Questa devi proprio sentirla”, disse. Alzò il volume quasi al massimo. Ci furono un paio di comunicati politici e poi la voce del giornalista diede una notizia che mi lasciò senza parole.

“Il famoso finanziere Roger Wilson ha devoluto tutti i suoi beni a numerose fondazioni che operano in campo umanitario e si è ritirato a vita privata in una non precisata località dell’Alaska”.

Guardai Jason esterrefatta.

Aveva un sorriso trionfante. “Che te ne pare? Ho fatto un buon lavoro?”

“Sei stato tu?” Sgranai gli occhi. Non potevo crederci.

“Sì, sono andato a dirgli due paroline mentre Sam si occupava del suo gorilla. Tu non te lo ricordi perché eri priva di sensi”.

“Oh Jason, sei grande!” Mi gettai verso di lui con tanta foga che per un attimo perse il controllo e l’auto sbandò leggermente verso il ciglio della strada. Gli schioccai un bacio sulla guancia e appoggiai la testa sulla sua spalla. A quel punto la serata era proprio perfetta.

Quando arrivammo al Verizon Center di Washington mancava ancora un’ora all’inizio del concerto.

Jason aveva deciso di festeggiare il nostro primo mese insieme tornando nel posto dove tutto era cominciato. I biglietti per il concerto erano introvabili ma avevamo deciso di tentare ugualmente.

Mi avvicinai alla cassiera mentre lui andò verso il distributore di bibite.

“Mi spiace signorina ma non ci sono posti disponibili.

Sono esauriti da mesi, rimangono solo quelli riservati alle autorità”.

Aveva provato un enorme piacere nel dirlo. Non avevo bisogno di sentire altro, sfoderai uno dei miei sorrisi più convincenti e la guardai dritta negli occhi.

Jason mi aspettava a qualche o di distanza.

“Posti in prima fila!” esclamai entusiasta.

“Cos’hai combinato?” chiese, mentre entravamo.

Dall’ingresso si alzavano le proteste del figlio del sindaco e della sua ragazza verso un nerboruto buttafuori che goffamente tentava di giustificarsi: “Mi spiace signori, non so cosa dire ma i posti sono esauriti e non è consentito assistere allo spettacolo in piedi”.

Jason mi rivolse un'occhiata di rimprovero.

“Non posso crederci! L’hai fatto un’altra volta!”. Mi alzai in punta di piedi arrivando con le labbra a sfiorare il suo orecchio. “Perdonami, ma sai che adoro questo cantante.

Prometto che domani farò la brava!”.

Lo sguardo di disapprovazione svanì, mi sorrise e chinandosi mi sussurrò "Sei incorreggibile, ma ti amo Emily Price".

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