I CAMPI DI GRANO
Copyright © Chiara Scavazza
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Tutti i diritti riservati.
Titolo | I campi di grano
Autore | Chiara Scavazza
ISBN | 9788891138262
Prima edizione digitale: 2014
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INTRODUZIONE
L’eternità dell’uomo si afferma nell’incessante trasformazione degli elementi della natura. È così che i campi di grano, la terra arata, i cespugli di ortensie racchiudono e custodiscono le parole, i sentimenti, i silenzi, i pianti, i bisbigli e le risate di chi ha vissuto e ha toccato quegli elementi, entrando a farne parte. Rosa ed Ettore prima, con i loro figli Ester ed Eugenio e nonna Giulia, ma poi anche Ada, Salvatore, Josè e la piccola Angela: ciascuno di essi ha un ruolo all’interno della casa e dei campi che la circondano, ma non solo. La storia raccontata da Chiara Scavazza aiuta a decifrare quell’ordine naturale delle cose che trascende nel sovrannaturale, in cui agiscono non solo gli uomini, ma anche gli animali e gli elementi naturali in una direzione a volte incomprensibile e impenetrabile.
È per questa ragione che il romanzo lascia ampio spazio alla descrizione tanto degli alberi secolari quanto dei campi di grano, del vento che li sferza o dei raggi del sole che li nutrono, li scaldano e li bruciano, al pari degli animi umani. Nel profondo di ciascuno dei suoi protagonisti, l’autrice mira a indagare gli aspetti che ne dirigono la vita e si affiancano al rispetto delle convenzioni sociali, al ristagno delle emozioni e alla fiducia nell’ordine costituito di cui rappresentano parte integrante. Privo di dialoghi, sostituiti da riflessioni e pensieri interiori, lo stile narrativo predispone a lasciarsi trasportare nella storia “silenziosa” di Ettore. Sono infatti i silenzi di questo contadino vissuto da sempre nella casa della madre a parlare, se non a gridare a volte. La disperazione per la morte dell’amata moglie Rosa, l’incapacità di gestire i due figli e di dar loro affetto, l’incomprensione per i gesti dell’anziana Giulia, da tempo “nonna” a titolo onorifico, la struggente gabbia di freddezza costruita attorno ad Ada, giovane moglie accolta in casa per portare quell’amore perduto che mano a mano Ettore indurrà a spegnere. Ancora una volta è solo alla natura e nella natura che Ettore riesce a esprimere il suo dolore, tanto per il ato che per il presente, dinanzi alla morte del suo piccione, ucciso tragicamente da un falco appena fuori dalla casa delle ortensie. Un colpo di coda del fato che vede piccione e falco uniti nella realizzazione di
un piano di ben più ampie conseguenze con la portata a termine della gravidanza di Ada, frutto dell’amore consumato con Salvatore, e il tanto atteso ritrovo della famiglia, insieme alla piccola Angela, destinata a dare nuova vitalità alla stessa casa. Privo di giudizi morali è l’amore adultero di Ada e Salvatore, un amore che nasce istintivamente, dalla natura umana; la stessa che induce la giovane Ester ad accogliere nelle sue braccia la matrigna dinanzi alla perdita della figlia. Un istinto che induce anche Josè, lo straniero venditore di sete, a prendersi cura come un padre della piccola Angela. Delicatezza dei periodi ed espressioni di malinconica saggezza suggeriscono una immancabile vittoria dell’amore sugli sconfitti egoismi, ansie, sfortune e sensi di colpa. Una percezione mai banale, ma che trae suggello da quelle innegabili forze che la natura nutre e mette a disposizione dell’umanità.
1.
La casa è circondata da alberi secolari e dai miei campi di grano. Ho amato ogni raccolto di questa terra. Quelle spighe prima incerte, verdi poi dorate, scivolose al tatto, seta tra le dita che le stringono in segno di gratitudine. I campi di grano mi ricordano il mare. Il vento li accarezza creando onde su onde e li porta alla grande sorgente della vita. La terra filtra la luce del sole e rimane in penombra mentre file ordinate di spighe crescono senza sosta. I papaveri sono le alghe di questa distesa infinita, mentre gli uccelli e gli insetti si mescolano ai pesci che annaspano in cerca d’acqua. Mi rallegra il cuore vedere le interminabili distese di giallo che mi catturano l’anima prima della vista. Quel lento abbassarsi e innalzarsi degli steli mi leviga la spessa pelle che mi porto appresso. Li sento, gli steli, come mani che mi sfiorano e mi accarezzano. Si accasciano senza spossarsi. M’inebrio del loro profumo e mi accorgo che le spighe non stanno mai ferme; vitali s’inerpicano verso il cielo, piacevoli, colme di grazia, caute, abili, floride. Solleticano i miei riflessi indolenti e mi risveglio immersa in un’acqua cristallina dove i petali dei papaveri si sciolgono e si trasformano nel mio nettare. Nella mia stessa vita. Un’eco in lontananza sulle tonalità del rosso, del giallo e del verde mi avvicina alla mia vera storia.
2.
Sono ritornata unicamente per rivedere la casa. Ora non è più abitata, ma è sempre bella. Avvolta nel silenzio e nella sua primavera eterna fiorisce incurante delle stagioni, creando giochi briosi tra le erbacce. I rami degli alberi appesantiti per i troppi frutti l’avvolgono in un tenero e saldo abbraccio. E pensare che il porcellino che la costruì ci mise tanto impegno per farla resistente alle soffiate del lupo cattivo. Lavorò sodo quell’amorevole maialino a dispetto delle risate dei fratelli che preferirono oziare piuttosto che darsi da fare. Alla fine fu premiato perché la sua casetta rimase in piedi. Nonostante tutto. Nonostante le risate amare del povero lupo che invano cercò di entrare dalla porta, poi dal camino, infine dalle finestre spalancate. Ada, mia madre, mi raccontò che un mago aveva trasformato la bestia incredula in un salice piangente a fede della sua disfatta. Albero eternamente in conflitto con le proprie capacità, l’astuzia meritava di essere usata con più ingegno. Povero lupacchiotto! Nessuno gli prospettò l’idea di travestirsi da Cappuccetto Rosso ed entrare nel casolare per mangiarsi, che ne so?, Ettore perché nelle favole c’è sempre un cattivo da eliminare. Di solito, ci pensa il lupo, il cacciatore o la fatina dagli occhi turchini. Ma quell’animale la favola non la conosceva, mica tutti i lupi hanno una mamma dolce e disponibile a raccontare loro le storie della buonanotte! O semplicemente il destino degli abitanti della casa era già segnato da qualche parte e doveva divenire concreto senza che il lupo potesse intervenire, modificandolo. Dirò di più: esso non fece altro che rassegnarsi e portare la sua parte a compimento. Sin nei minimi particolari. A sua insaputa. Ora il salice piangente non è più a ridosso della casa, ma ci fu un tempo in cui rappresentò per me un compagno fidato. Mi regalò tanta frescura. Amai il salice per la sua anima da lupo, per la tenacia e il coraggio: pur sapendo
di non essere un albero, non lo sentii mai ululare. Pezzi di corteccia ricoperta di resina intrappolarono i suoi artigli ed io infierii su quel tronco per ricordargli il dolore provocato da un destino ingiusto. E quei rami così sporgenti altro non erano che le sue zampe sottili, lunghe e nervose che mi abbracciavano in cerca di un amore mai conosciuto. Vidi i suoi occhi gialli, luminosi nascosti tra le foglie che si dondolavano nella leggera brezza della sera. Quando accarezzavo le radici ne sentivo vibrare la potenza, la velocità, l’agilità. Il suo ato d’eterno cacciatore riaffiorava nei miei pensieri. L’ho sempre saputo che non sarebbe morto poiché il suo sangue correva nella linfa, si mescolava con la terra e si confondeva con l’humus che calpestavo. Il lupo appartiene alla terra. Io appartengo al lupo. Nacqui in un campo di grano a mezzogiorno, quando il sole era allo zenit, e come segno di benvenuto nonna Giulia prese della terra e me la sfregò sugli occhi. Fu così che i miei occhi assunsero tutte le sfumature del marrone, dal dorato ocra del grano maturo all’intenso colore della terra arata. In fondo all’anima sento di essere un lupo un po’ avanti negli anni ma scattante, vivace come se avessi venduto la mia grigia esistenza in cambio di una manciata di sempreverdi primavere. Il lupo corre dentro di me, si nutre dei miei pensieri, argina le mie ferite, come un dolce compagno mi stringe nel calore del suo manto. Non sono mai stata sola. Lo capisco solo ora che molti anni sono ati, ora che tante lacrime sono state versate come pioggia torrenziale negli acquitrini di una campagna disposta ad aprirmi le braccia, il ventre e chissà cosa altro ancora.
3.
La casa di Ettore era circondata da grandi cespugli di ortensie rosa che la rendevano unica, regalandole un fascino discreto anche se i muri che si nascondevano dietro a quei germogli non erano all’altezza di simile beltà. Il portico, che correva tutto intorno, prendeva sotto la sua protezione gli attrezzi da lavoro, un tavolo lungo e povere sedie di paglia un po’ traballanti, di altezze diverse, ma alquanto dolce era il riposo su di esse: il riposo di chiunque, persona o animale che fosse. E piacevole era quel gingillarsi, ondeggiando sulle gambe delle sedie, abbandonandosi alla frescura dell’ombra dopo una giornata di sudore lasciato cadere sui campi. La grande cucina dava sull’orto, perennemente riscaldata dal sole che prepotente entrava dalle finestre come un ladro e s’impossessava di quei semplici mobili e delle verdure appoggiate sul tavolo di legno consunto. Le vecchie pentole di rame se ne stavano attaccate ai chiodi sazie delle croste di polenta che neppure la cenere era riuscita a staccare. Quella era la scena che ogni mattina Ettore vedeva mentre beveva la sua tazza di caffè nero e mangiucchiava un pezzo di pane raffermo addolcito con un cucchiaino di miele. Pensava a sua madre che aveva tanto amato quella cucina, il tepore nascosto, e ne aveva respirato l’aroma fino all’ultimo istante, senza lasciarsi travolgere dalle fatiche quotidiane. Lì c’era la vita, c’era il suo essere moglie e madre. Allora a una donna si chiedeva solo una cosa: di avere pazienza. Un’arte tutta femminile che, di certo, non la trovava impreparata. Pazienza con i figli, con il marito, pazienza di vedere realizzati i propri sogni dopo che si erano esauditi quelli di tutti gli altri perché, si sa, i desideri delle donne vengono sempre dopo quelli del genere maschile. Ma a questa ingiustizia, tutta terrena, ponevano un freno gli angeli che ogni tanto trasformavano i suoi sogni in realtà e si assumevano la paternità di piccoli frammenti di chimera, incuranti delle preghiere, dando a destra e a manca, senza vagliare i meriti o i buoni propositi. Ettore viveva lì da quando era nato, circa una quarantina d’anni prima, e non aveva mai pensato di lasciarla. C’era affezionato, anche se la verità era che non avrebbe mai sopportato l’idea di dimenticare il profumo di Lucia, l’adorata madre. Un misto di aromi che aveva addosso tutti i giorni dell’anno e che lo
inebriava quanto l’essenza dei fiori, che lei coltivava con immensa ione. Si ricordava le mani della madre mentre rovistavano la terra, i semi che si nascondevano al sole per crescere rigogliosi e la gioia di vedere quegli esili steli affacciarsi alla luce con timore, e, nello stesso tempo, con caparbietà e coraggio. Quelle banali scene lo coinvolgevano ancora adesso che n’era ato di tempo dalla morte della madre e gli impedivano di staccarsi dall’imponente casa che aveva, in ogni modo, un pregio non da poco: era pervasa di magia. Era come se lì il tempo avesse un orologio che scandisse non i minuti o le ore, semplicemente fluisse con continuità in una successione di eventi inarrestabili. Dopotutto, lui non aveva mai avuto grandi grilli per la testa ed essendo l’unico figlio maschio sapeva di dover portare avanti il lavoro del padre, e prima ancora quello del nonno. Senza lamentarsi. Inoltre se avesse desiderato una vita diversa, certo, non l’avrebbe manifestato ad alta voce. Di possibilità non ce n’erano poi tante e non era male lavorare la terra e riempirsi dei suoi colori. Quanti ricordi racchiudevano quelle pareti che l’avevano accolto alla vita! Troppi per permettersi il lusso di perderli per strada; il suo sudore era lì appiccicato alle travi di legno, alla muffa dei mattoni, alla paglia della stalla. Gli alberi sussurravano la sua musica e l’acqua del pozzo rifletteva l’immagine di un uomo non felice, né triste, solo sconsolato, un pochino. Sì, una nota stonata c’era in quella casa e lui lo sapeva, ma quando mai la riconoscenza è stata di questo mondo? Era consapevole che, nonostante l’amore manifestato per il casolare, alla fine, quelle stesse mura avrebbero custodito pure un dolore, forse ingiusto, disumano, ma così sarebbe stato. Inevitabile. Rosa, sua moglie, era morta qualche anno prima, se la era presa la polmonite, una fredda notte d’inverno. Per l’occasione, la casa non l’aveva riscaldata e trattenuta a sufficienza, oltre ogni umana ragione. Semplicemente l’aveva lasciata fuggire via come si lascia scivolare il sapone tra le mani o come il corpo sul ghiaccio, senza resistenza alcuna. Quasi non la volesse più, come fosse un corpo estraneo da espellere. Era stato questo il suo dolore più grande: l’aver visto la casa lottare così poco per trattenerla. Considerata la fedeltà a quelle mura meritava qualcosa di più tangibile! Ciò nonostante non era accaduto il miracolo tanto atteso. Fu proprio quest’indifferenza a fargli crescere un groppo in gola, una specie di
tumefazione quasi ad indicare che proprio in quel punto qualcosa gli era andato per traverso, e non era certo una lisca di pesce o l’osso di una prugna, qualcosa di più grosso che era impossibile da digerire. E tutti potevano vederla quella protuberanza che era diventata indispensabile per il corpo e lo spirito quanto le sue stesse mani. La gente del posto se lo ricordava così, da sempre. Per Ettore fu un duro colpo. Aveva due figli da crescere, da affidare alle mani di una donna. Nella casa era rimasta solo Giulia, ma era tanto vecchia che da sola non sarebbe riuscita ad allevare due bambini di sette e nove anni. Per lui fu una scelta obbligata: il dolore poteva anche travolgerlo ma non era conveniente darlo a vedere. Era opportuno trattenere le lacrime dentro gli occhi e non permettere mai che sgorgassero liberatorie, a fiumi giù dalle guance. Se fosse stato per lui avrebbe pianto per giorni, fino ad irrigare i suoi campi per un anno intero. Ma a un uomo non si chiedeva un tale sacrificio, e poi c’era l’acqua del pozzo e, Dio mio, se bastava! Messo da parte il lutto il povero Ettore si vide costretto a recitare la parte dell’uomo forte, cui non si addicono tutti quegli atteggiamenti deboli con spiccate caratteristiche femminili. Il solito Ettore, taciturno e schivo, ricominciò la vita di sempre senza grandi pretese, quasi con la certezza che il destino si fosse accanito su un semplice contadino che non si era mai esposto alla vita e proprio per questo preso di mira dalla cattiva sorte. Ma la parabola dei talenti non gli aveva insegnato nulla?
4.
Accadde tutto senza preavviso, una domenica mattina durante la messa, nell’istante in cui si accorse di Ada, una bella ragazza con i capelli colore del grano. La conosceva da quando era piccola ma non si era mai interessato a lei per la sua giovane età e, principalmente, perché aveva amato Rosa con titanica determinazione. Ma quel giorno, durante l’omelia, mentre il prete alzò le mani per indicare l’inferno eterno, qualcosa in lui cambiò. C’era don Luigi che parlava della perdizione e c’era il corpo di Ada, così maledettamente a portata di mano, che non aveva nulla di sacro se non una purezza intrinseca e un’armonia che lui non riusciva più a trovare nella parola di Dio. Aveva perso la fede che per alcuni è un dono, invece per lui era stata il frutto di un lungo cammino. Aveva voluto credere non perché così gli era stato insegnato ma per un desiderio tutto personale, per sentire nascere dentro il cuore la Quiete, quella vera, una sincera dedizione alle cose dello spirito. E comprendere che dietro all’immensità c’era per forza una mente che sovrastava ogni disegno, che si impossessava di una ragione che non aveva confine, che amava a dispetto di ogni singola libertà di arbitrio. L’amore di Dio, quell’abbandono incredulo dove ogni atto razionale si traduce in una fiducia illimitata, l’aveva appena sfiorato quando quel Padre gli aveva tolto la sua Rosa. Era sul punto di aver iniziato a comprendere la capacità di Dio di essere Padre e Madre insieme: contrariamente ad ogni attesa quella madre gli aveva mostrato, da subito, il lato più oscuro, quello che priva i figli di tutte le premure di cui necessitano. La realtà brusca gli era piombata addosso. Sarebbe bastato spiegargli il motivo, dirgli perché tutto questo doveva accadere e invece un lungo silenzio si era impadronito di tutte le parole che aveva sperato di sentire pronunciare da un messo, angelo o usignolo che fosse, comunque da un inviato speciale. Perché l’ingiustizia sta proprio in quest’atroce calo del sipario mentre gli applausi tacciono, gli attori se ne vanno e al pubblico chi lo dice che la tragedia rappresentata non è più finzione, che le lacrime versate sono vere,
salate, calde e che fanno tanto male dentro a quel pugno di cuore che continua a battere? Allora dovrebbe uscire qualcuno e dire: “Dammi il tuo cuore, qui c’è un gatto disposto a leccarti le ferite con quella sua lingua ruvida capace di lisciare e poi smussare quelle piccole imperfezioni che sembrano crateri sul dorso della luna.” Ma nessuno ha inventato il dopo come un copione da recitare. Esiste solo il prima, il durante mentre il dopo ognuno se lo deve immaginare come più gli aggrada, e sempre con la fatica e la speranza di diventare un uomo e una donna migliori. Questa è la convinzione: che il dolore lavi via lasciando dei corpi più leggeri e, in ragione di ciò, più liberi. Così, dopo la morte di Rosa, qualcosa si era spezzato, il lungo cordone ombelicale che lo teneva legato al cielo era stato inghiottito in un solo attimo. Tutto quello in cui aveva riposto la sua fiducia si era dissolto, una folata di vento e: bum bum! smaterializzato, mai esistito. Si era ritrovato a quarant’anni solo nel corpo e nello spirito. Abbandonato dalla moglie e da quel Dio che per molti anni lo aveva cullato e lo aveva fatto sentire orgoglioso di essere nato uomo. Per la prima volta si era sentito stupido e fragile. Ma c’erano quei figli da crescere, da amare, da coccolare e su cui infondere sicurezza e valori forti. Si era reso conto prontamente che gli era impossibile inculcare in loro ciò che non c’era più in lui: l’amore è un sentimento troppo forte per essere mescolato con la menzogna. Ettore sentiva i figli più come peso che gli impedivano di raggiungere la moglie che come dono. Lo tenevano legato alla terra e lo costringevano a badare ai loro bisogni più concreti che mai. Eppure egli non voleva quei pensieri, voleva sentirsi libero di andarsene, di spegnersi senza dignità con la certezza di avere già toccato quell’esile linea di demarcazione tra il desiderio di vivere e quello di morire. Ecco, questo era il suo stato d’animo quel mattino e il destarsi del suo corpo per la giovane donna lo imbarazzò, lo fece sentire in balia d’emozioni che non sapeva più governare. E che non voleva provare! Cosa avrebbe pensato l’adorata Rosa? Ada era la figlia di un amico. Indubbiamente molto cresciuta negli ultimi anni e,
al contrario di lui, da sempre innamorata. Lo spiava da lungo tempo, e non solo da quando si era sposato perché la giovinezza, si sa, è molto sfrontata e adora scherzare con il fuoco. Ada l’aveva amato di nascosto nelle notti d’estate, pure in quelle d’inverno, ad oltranza, raffigurandoselo tra le braccia come un amante impazzito. Certo, più e più volte aveva voluto averlo solo per sé, ma questo suo pensiero, n’era convinta, non poteva aver reso concreta la dipartita della moglie. Da piccola, Ada bazzicava per la casa di Rosa e potevano persino ritenersi amiche. Ada l’aveva aiutata a preparare le ceste di vimini che dovevano servire per i più svariati usi domestici, affiancata nelle sue faccende di donna quando aveva dato alla luce i due pargoli. Allora era ancora una bambina, non appariscente, non con il sorriso malizioso sulle labbra. In pratica una di famiglia. Con il tempo, però, le visite alla casa si erano diradate, senza un motivo preciso, forse perché Rosa aveva intravisto la bellezza della ragazza crescere in modo armonico sotto le ampie sottane, il seno offrirsi a piene mani e le dita affusolarsi sempre più. Una donna sa quando un fiore sta per sbocciare e, con intuito tutto femminile, Rosa sapeva che Ada non sarebbe stato il semplice fiore di campo che sorge al mattino e alla sera è già avvizzito: quel fiore avrebbe profumato per lungo tempo. Per questo Rosa cominciò ad avere sempre meno bisogno del suo aiuto. Ma tutto accadde in un modo così delicato e squisito che Ada non se ne diede a male e tanto meno i suoi genitori. Una semplice conseguenza della vita. Niente più. Da allora erano ati parecchi anni. Ettore non aveva più incrociato gli occhi di Ada, non ce n’era stata l’occasione. Ma lì tra i banchi della chiesa, dopo averla vista, Ettore non riuscì a trattenere la sua virilità. Dopotutto, pensò, era naturale cercare ancora un po’ di amore visto il suo irreprensibile comportamento di marito e di vedovo. Terminata la messa Ada gli ò accanto con fare malizioso percependo all’istante nel suo sguardo una nuova scintilla. Capì di averlo in pugno. Finalmente l’avrebbe stretto a sé, avrebbe cinto i suoi fianchi tra le gambe, si sarebbe immolata al suo talamo. Questo pensò Ada e tornò a casa di corsa per raccontarlo alla madre, per
romanzarlo al padre e, infine, per sfinirsi tra le fusa del suo gatto che avrebbe conservato il primo o di quella strana storia d’amore tra il suo ronf-ronf senza farne miagolio con la gatta di Ettore. Certe cose non ammettono superficialità e pettegolezzi: era un gatto tutto di un pezzo e sapeva che per stare al mondo ci volevano tatto, accortezza e seducente affabilità, insomma quel tocco di signorilità che faceva di lui un bravo gatto.
5.
Quel mattino bastò uno sguardo per far sentire Ettore strano, euforico, forse innamorato! No, di certo quella parola l’aveva usata solo per Rosa e nessun’altra meritava il suo amore dal profondo. Ma ci sono sguardi e sguardi. Quello che Ettore rivolse a Ada era carico di seduzione. Non una sbirciata e via. I suoi occhi avevano un’intensità che stregava. Ada era la sua preda, non certo innocente e debole, ma sempre preda. Catturarla era stato facile perché quando egli aveva volto lo sguardo verso la ragazza, lei era già lì, pronta per essere intrappolata in un sentimento. Non c’era ambiguità nelle loro intenzioni, anzi c’era molto di più. In quell’espressione c’era l’emozione di due corpi, imbarazzati, mentre si sfiorano e si avvicinano, perché incapaci di restare lontani. C’era ione violenta nella loro distanza, nei loro pensieri, nelle parole che nessuno dei due non aveva mai pronunciato ad alta voce. Nel silenzio si possono scrivere fiumi di amori e si possono dare baci che non hanno nulla da invidiare a quelli reali. ionali, arditi, pieni di fascinazione, viscerali, istintivi. Allo stato puro, senza inibizioni. Trascinatori spumeggianti verso lidi impervi, al di sopra della grettezza umana. Chi è giudice per stabilire che l’amore per essere vero debba esprimersi? Lì, in quel luogo e in quel preciso istante, le rispettive posizioni furono prese, la resa ineluttabile. Come due amanti che si abbandonano l’una nelle braccia dell’altro, così loro si riscoprirono, madidi di sudore, senza che nessuno si accorgesse di alcunché. Per Ettore non era semplice assegnare un nome a quelle emozioni in fieri; poteva ricondurle a un desiderio dei sensi e catalogarle come un volgare trasporto sessuale verso quel corpo. Niente di diverso da quello che si poteva provare per una bella donna. D’altra parte quell’avvinghio era colpevole di allontanarlo dal pensiero casto e fragile di Rosa. Dal canto suo, Ada non si fece remore e si concesse il lusso di fantasticare per tutta la giornata, per quella avvenire, e infine ancora per un altro giorno, tanto,
male non avrebbe potuto farle. A onor del vero l’attesa fu logorante perché giorno dopo giorno Ada aspettò con trepidazione un segno, un chiarimento o, perlomeno, un pettegolezzo che in qualche modo l’avvicinasse alle braccia di quel contadino ormai non più giovane. Alla fine accadde ciò che era inevitabile. Una sera, roso dalla ione non consumata, Ettore bussò alla casa di Ada. Bussò come può bussare uno qualunque, senza impeto, senza ione ma con determinazione. Sua madre aprì e capì cosa sarebbe successo. Pure la ragazza al piano di sopra udì quelle parole sussurrate così piano da considerarle dannate mentre gli fuoriuscivano dalla bocca. Nessuno, allora, ci fece caso e, invece, qualcuno avrebbe dovuto ben guardarsi da quella richiesta intimorita, appena abbozzata, senza enfasi, senza un naturale trasporto. Solo il gatto si accorse che lui nel filarsi la gatta di quello stupido di uomo ci metteva più pathos. Ettore si ritrovò in piedi accanto alla porta con un mazzetto di rose rosse, rigirate talmente tante volte da non ferirlo più. Sembrava un bambino impaurito, indifeso mentre la madre di Ada lo fissava ascoltando quello che non diceva, quello che non avrebbe voluto sentire. Senza tema di smentita, Ada non riuscì a cogliere la sottigliezza dei dettagli. Aveva voglia il gatto di miagolare con l’unico risultato che lei lo avrebbe portato con sé; caspita che pacchia avere la micia di Ettore tutta per sé, difenderla dentro il suo stesso territorio allontanando tutti i pretendenti, gattacci di campagna avvezzi ai più sordidi vizi, e poter dire una parola nell’aia. Bastò questo per far dimenticare pure al gatto il guaio in cui si stava cacciando Ada. Ma si sa, il mondo ruota attorno allo stesso perno, da secoli!
6.
I particolari del matrimonio furono trattati a tavolino fra Ettore e il padre di Ada, che non riusciva a fare i salti di gioia per la figlia. Una ragazza così bella in paese non si vedeva da molto tempo e, con certezza, avrebbe potuto aspirare a qualcosa di più che a un vedovo con prole a carico. Sarebbe diventata la matrigna di quei figli che il suo ventre non aveva partorito, neppure con il pensiero. Così giovane e bella andarsene a mano di un uomo che aveva, sì e no, la sua età, pensò il padre di Ada. Non proprio vecchio, ma neppure giovane. Sì, era geloso di darla via così, avrebbe voluto trattenerla per sempre tra le sue braccia, la sua bambina, ma sapeva che alla fine lei avrebbe considerato soffocanti le sue premure di padre. Pertanto, decise di dare il suo benestare solo perché era consapevole che qualora non lo avesse fatto si sarebbe attirato l’odio della figlia per tutta la vita. Con questi preamboli furono celebrate le nozze. Pochi gli invitati; una cerimonia intima che non poteva essere sbattuta in faccia alla gente per la condizione di vedovo di Ettore e per quei due bambini che nessuno aveva interpellato per capire se erano pronti ad aprire le braccia a una nuova donna. In men che non si dica molti ragazzotti del paese si ritrovarono ad immaginare il corpo di Ada abbracciato a quello di un vecchio. Loro che di soldi ne avevano pochi, ma di forza tanta, avrebbero fatto a gara per portarle la luna, e, perché no?, tutte le stelle del firmamento ma invano, perché l’amore segue sempre vie traverse, distorte e infine pericolose per scrivere la propria storia. E Ada con sfacciataggine attraversò la piazza a mano di suo marito, fiera di quell’amore nato senza tanti preamboli da parte di lui, ma in ogni caso tanto forte da essere venuto allo scoperto. Lei, con il vestito bianco di pizzo della nonna, orgogliosa del fisico perfetto, di portarlo proprio in quel casolare famoso per i cespugli di ortensie rose, stimato da tutti perché avvolto in un silenzio fatto di piccole cose, proprio di piccole cose. Il gatto seguì il corteo in prima fila. Non era uno cui bisognava ripeterle due volte le cose, un bel gatto dal pelo arruffato, rossiccio, con ferite da valoroso
guerriero sparse un po’ ovunque su quel piccolo corpo; lui prode cavaliere che osannava le sue dame da non poter essere paragonato a Ettore, scialbo contadino incapace di masticare anche la più banale delle frasi d’amore. Piccolo gatto, ancora non sapeva che la sua missione sarebbe stata ben più grande di quella che si era prospettato, ossia di “amare” la gatta di Ettore: avrebbe accudito la sua padrona come nessun uomo sarebbe stato in grado di fare, con dedizione assoluta.
7.
Alla cerimonia non erano presenti i figli di Ettore. Brutto segno. “Sono piccini” dicevano le comari del paese, “Robe da grandi” borbottavano altre, ma la verità era una sola: Eugenio ed Ester non vedevano di buon occhio Ada, la matrigna. Come può un figlio accettare nel suo cuore che la madre sia rimpiazzata in quattro e quattr’otto e immaginare il padre mentre bacia un altro corpo, lo accarezza. No, per loro era certamente troppo, anche perché non avevano così tanti anni da comprendere le trame dell’amore. Nel letto di Ettore la madre Rosa li aveva partoriti e c’era pure morta: cambiavano le lenzuola che profumavano, però, lo stesso di lavanda, ma sempre intrise di sudore e sangue erano. Quelli non si possono cancellare. Tanto più che Ettore portava quel sangue nella sua protuberanza sul collo, visibile ad occhio nudo, una specie di lettera scarlatta impressa a fuoco per non dimenticare, per somatizzare un dolore che di primo acchito gli era sembrato insuperabile. Così era stato pure per i due bambini che da spensierati avevano assunto l’aria triste delle corte giornate invernali. La madre era stata tutta la loro vita. Quante volte Ettore era ato inosservato! E non solo perché lavorava tutto il giorno sui campi. La sera quando ritornava a casa si sedeva a capotavola con gli occhi bassi mangiando quello che c’era nel piatto, senza mai alzare lo sguardo. Ettore non parlava e come dimenticare il silenzio di quei ritrovi, il rumore sfacciato delle posate che si avvicendavano sui piatti in cerca di qualcosa che fosse commestibile. Era quasi tutta scena: sui piatti era più il tempo in cui le posate si annoiavano che quello reale in cui si davano da fare. Ma quel “non rumore” pesava sui loro poveri corpi. Ogni tanto un po’ di chiasso proveniva dal cortile per attestare che la vita procedeva. Poi tutto ritornava avvolto dalle ombre della sera che via via si facevano più scure. Era impensabile che Ester non avesse costruito con la madre un legame profondo, fatto di carezze, di sorrisi, di parole e nenie appena sussurrate. La cercava sempre per sentirne il contatto, la presenza fisica, senza di lei percepiva la sua incapacità di restare sola. E così si era sentita quando la madre si era addormentata per sempre.
“Lasciami, piccola mia, ora vattene in cortile a giocare, ho bisogno di dormire. Ti voglio bene, sei la mia vita” così la madre l’aveva congedata e così lei era scoppiata a piangere. L’avevano trascinata a forza fuori della stanza. Ester di lacrime ne aveva versate, e tante, e siccome era inverno si erano ghiacciate nel catino in cui le aveva raccolte: le aveva custodite tutte dentro una bottiglietta di vetro che teneva accanto al letto. Dio sa quanto Rosa avrebbe voluto portarli con sé quei due teneri cuccioli che tanta gioia le avevano regalato, ma gli angeli l’avevano ammonita “Loro devono vivere”. E così la povera Rosa non si era dilungata a spiegare ai piccoli le teorie e gli imperativi degli angeli, a certe cose bisogna obbedire. D’altronde, una volta divenuta angelo si sarebbe presa cura di loro in un nuovo modo, ma non li avrebbe di certo più abbandonati. Vallo a spiegare, però, a due creature che l’invisibile è palpabile e che i morti risuscitano! Si fa tanta fatica a credere persino a Lazzaro risorto, figuriamoci a Gesù! Pretendere di imparare a vedere gli angeli non è una cosa da tutti. Eppure capita di sentirli, di percepirli, di amarli. Ester ed Eugenio erano ancora lontani da queste sensazioni, con il tempo avrebbero affinato il loro potere ma per il momento erano solamente due bambini disperati e il tempo, medicina miracolosa, non era ancora trascorso abbastanza. E già Ada aveva messo piede in casa loro. Ettore avrebbe dovuto prendere un po’ di tempo per spiegare loro quel che di lì a poco sarebbe accaduto. Ma Ettore non si lasciò affliggere da queste preoccupazioni, pensieri che oltretutto riteneva banali. Fu così che Ada, la sera stessa del matrimonio, provò rabbia mista ad una profonda delusione nell’istante in cui sentì Ester affondare le lacrime sul cuscino. Avrebbe voluto avvicinarsi a quella bambina dagli occhi dolci, ma ogni tentativo sarebbe stato scontato e inutile. Il mutismo della bimba fu impenetrabile. Non era colpa di Ada quanto del suo essere donna e non madre. Spiegarlo non ha senso. Era la sua matrigna, con tono dispregiativo la chiamò così appena la vide entrare in casa per far sentire bene la distanza che correva tra l’amore e l’odio, tra l’incapacità di amarla e il desiderio di perdonarla. Pensare che Ada era ancora una ragazza che avrebbe voluto piangere insieme con lei, stringendola tra le braccia, accarezzandola, cullandola e cantandole le ninna nanne che sua madre un tempo aveva inventato per lei.
Ma c’è un punto di non ritorno, una linea oltreata la quale si erge un muro insuperabile. Allora loro erano già divise da quel muro ed Ettore non aveva mediato, facendosi interprete dei buoni sentimenti di ciascuna delle parti. Semplicemente aveva preferito non esserci. E l’amore dov’era finito? Se lo era domandato moltissime volte Ada che di notte aveva aspettato invano il corpo del marito per riscaldarsi. Dopo un primo approccio la sera del matrimonio in cui la ione prese il sopravvento, Ettore aveva deciso che, per il futuro, non avrebbe più “amato” la moglie perché i guai del casolare erano sorti proprio a causa dell’irresistibile desiderio di possederla, senza pensare alle conseguenze, ai suoi figli, al fatto che, in ogni modo, Ada era troppo giovane per un vecchio come lui. Aveva agito istintivamente approfittando dell’amore di lei, ne aveva per entrambi, ma che non poteva bastare. Una decisione presa da solo senza farne parola con la moglie che, sconsolata, dovette subirne le conseguenze. Quel giovane corpo, così generosamente distribuito, pronto a donarsi, incapace di resistere senza il contatto tanto ambito, si vide privare della sua stessa essenza. A nulla erano valsi i tentativi di Ada di dimenarsi sul letto tutte le notti senza ostinarsi ad accettare i rimorsi di un uomo di mezza età, intimorito per il ricordo della moglie e l’incapacità di parlare con i figli. La sua esile figura era diventata il peccato su cui sfogare ogni colpa. Ma che razza di trasgressione poteva mai avere il suo desiderio? Frustrata nei sensi, nella voglia di aprirsi a quell’uomo che nel suo immaginario era il culmine dell’amore, non desiderata. Incapace di intuire la struggente morsa in cui si agitava, Ada prese atto della solitudine che inesorabilmente avvinghiava gli abitanti del casolare, sempre più sperduti nella propria tristezza e chiusi nell’abbraccio di un amore negato. A tutti. L’unico che si divertiva a più non posso era il gatto che non viveva di ripensamenti o sensi di colpa. Quello che doveva fare lo faceva ed era felice.
8.
Fu dopo qualche mese che Ada pensò di ritornare a casa dai suoi ma la madre, che tanto le era stata vicina ai tempi del matrimonio, in quella occasione fu categorica “L’hai voluto e ora te lo tieni, non puoi rovinare il nome della tua famiglia”. Come darle torto quando una giovane donna sembrava ribellarsi al volere di un marito dal comportamento irreprensibile agli occhi del paese? Non era facile per lei portare alla luce quella triste verità. Meglio nasconderla dentro le mura di una casa e finirla lì perché ognuno ha la sua croce da portare. A chi sarebbe importato se quella di Ada fosse stata più pesante del solito? Sinceramente a nessuno perché ciascuno era talmente preso dai propri guai che nel giro di pochi attimi si era già scordato delle pene altrui, senza tralasciare che pochi avevano il coraggio di ammettere quanto i castighi altrui erano più insopportabili e severi dei propri. Per assurdo, se l’avesse chiesto al padre lui l’avrebbe accolta a braccia aperte e subito le avrebbe richiuse per non farla scappare. Ma a quel tempo di certe cose si poteva parlare solo con la madre e, anche, con una certa dose di imbarazzo. Non era facile per Ada affermare che l’uomo dei suoi sogni non voleva sfiorarla e perdersi nel piacere del suo corpo. Ciò pesava come una sentenza a morte, tanto più perché non c’era la possibilità di una grazia in extremis. Allora Ada si guardava allo specchio e si sentiva morire, osservava le sue forme e le trovava orrende perché non in grado di trattenere il suo uomo. Così giovane e bella, così attraente e nello stesso tempo già vecchia con appiccicato addosso l’odore della carne avvizzita. Povero corpo che si vedeva come la mente lo immaginava: sgraziato, malfatto, spoglio. A parte il fatto che il problema non era Ada quanto semmai Ettore, la cosa più importante era che in quel disagio gli unici che, in qualche modo, giovavano della bizzarra situazione erano Eugenio ed Ester che, sentendo la crisi palpabile nell’aria, potevano fare sonni tranquilli, ben sapendo che le lenzuola della madre non avrebbero ospitato teneri abbracci. E non solo quelli!
9.
arono due anni, tanto durò il lutto di Ada e non del gatto. Ada ormai aveva accettato, suo malgrado, quel marito tanto ingrato che aveva rubato la giovinezza dei suoi anni. Le aveva restituito un corpo che non assomigliava neppure lontanamente a quello che gli aveva offerto la notte delle nozze. Quel corpo fustigato, perennemente coperto da abiti larghi per non dargli la possibilità di sentirsi vivo, aveva finito con l’assumere connotati innaturali. E lei non si guardava più allo specchio. Ma era arrivato il tempo della raccolta, perché la vita prima o poi riscuote. Fu allora che il clima ci mise del suo e arrivarono le piogge: una serie di nuvole decise che era meglio sfogarsi sopra i campi di Ettore piuttosto che sugli altri e il grano cominciò a crescere rigoglioso più che mai. Un raccolto così non si vedeva dai tempi in cui Rosa era rimasta incinta di Ester: una benedizione di Dio. Nell’aria si percepiva il clima euforico del casolare e fu così che Ettore decise di cercare braccianti che lo aiutassero per il raccolto che si annunciava prospero.
10.
Salvatore veniva da un paesino sperduto del sud e di strada ne aveva fatta proprio tanta. Era capitato per caso da quelle parti dove interminabili campi si succedevano senza sosta. Aveva bussato al casolare perché aveva sentito dire che il padrone cercava manodopera e lui aveva bisogno di lavorare. Era stata Ada ad aprirgli il cancello e se l’era trovato davanti con gli occhi scuri e la pelle olivastra. Per alcuni attimi si guardarono in modo molto intenso, non certo come possono guardarsi due estranei. Quasi sconveniente tanto da costringere Ada ad abbassare gli occhi e a chiamare Ettore. Salvatore si accomodò sotto il grande portico per trovare un po’ di refrigerio alla calura estiva. Seduto su una delle tante sedie di paglia sembrava un bravo ragazzo. O meglio, Ada lo vide per quello che realmente era: un bel ragazzo. Poteva avere sì e no una trentina d’anni, alto, magro e nello stesso tempo vigoroso, con un sorriso schietto. Incrociò i suoi occhi che la cercavano nell’attesa, che continuavano a fissarla incurante della presenza di nonna Giulia. Ada era imbarazzata, non tanto perché la guardava, quanto per il vestito brutto e largo che portava, per i capelli raccolti male. Pensava di essere brutta. Ma se quel ragazzo non distoglieva lo sguardo dal suo forse qualcosa di bello si poteva ancora trovare in lei o, probabilmente, si poteva leggere nei suoi occhi di ragazza mai cresciuta, il desiderio non consumato. Sentendo i i del marito rientrò in casa tenendo gli occhi bassi, nel timore che lui potesse leggervi qualcosa di nuovo. Perché qualcosa di nuovo era accaduto e se ne rese conto quando provò il desiderio irrefrenabile di cambiarsi di abito e metterne uno più carino, un po’ più stretto, giusto per segnare i suoi bei fianchi e avvolgere il seno che, per fortuna, c’era ancora. Si sistemò i capelli e, per la prima volta dopo tanti anni, si sentì ancora una bella ragazza. In cuore suo sapeva che Ettore avrebbe ingaggiato quel giovanotto dall’aria semplice.
Infatti, Salvatore iniziò a lavorare lì. Ada e nonna Giulia avevano il compito di preparare la cena per tutti sotto il grande portico sistemando le sedie sotto il vigneto tra i cespugli di ortensie e gli oleandri, accompagnati dal profumo dei gelsomini in fiore. All’imbrunire, quando lo vide con la camicia pulita accanto agli altri contadini, provò un lieve turbamento proprio dentro allo stomaco, una specie di colpo al cuore che le impediva di respirare. Chissà cosa pensava quel giovane e se qualcosa provava per lei, borbottò Ada tra sé ma una cosa era ovvia: la fissava con ostinazione senza preoccuparsi di Ettore. Nessuno si era accorto che Ada aveva cambiato abito e si era risvegliata la sua femminilità, eccetto nonna Giulia che si era tenuta dal dirlo a Ettore. Tanto più che Ettore non era stato un granché come marito, con un motivo palesemente assurdo l’aveva allontanata da sé, per debolezza. Ma non si poteva trattare in quel modo una bella moglie, per di più innamorata. Allora tanto meglio se gli angeli avevano mandato qualcuno che potesse desiderare il corpo di Ada ed amarla come suo marito non era stato in grado di fare. Da parte sua, Ada si scoprì a pensare a quell’uomo misterioso e a spiarlo tra i bicchieri alzati dei commensali che continuavano a brindare al raccolto, alla stagione mite, al buon Dio, alla salute e alle famiglie lontane.
11.
Ettore era un buon padrone a dispetto di quello che si potrebbe pensare e pagava bene i suoi uomini, nessuno se ne andava deluso. Li trattava con molto rispetto, si univa a loro per il lavoro quotidiano ridendo e cantando a squarciagola. Non si era mai visto in uno stato di grazia così: sembrava felice, sereno, comunque tranquillo. Ecco perché Ada, per pavida che fosse, riprovò a infilarsi nel suo letto, avvicinandolo dolcemente. Ma lui fu categorico: non la desiderava, non voleva altri figli per casa, … poi il letto, la stanza stessa profumava ancora di Rosa. Non le avrebbe mai mancato di rispetto! Fu allora, quando tutte le sue speranze andarono in frantumi, che Ada si ritrovò a piangere in giardino, dietro i cespugli delle ortensie con il gatto che si strusciava tra le gambe per farle capire che lui era lì pronto a darle affetto. Magra consolazione! Mentre piangeva sapeva che nessuno avrebbe mai osato pensare allo sciocco castigo di Ettore. “Questa povera ragazza non è ancora incinta!” sussurravano in paese. “E se magari è Rosa dal cielo a non approvare?” suggerivano le ben informate. Al parroco la madre di Ada affidò il compito di dire novene affinché il cielo fe accadere il tanto atteso miracolo in modo da far tacere le malelingue senza, però, mai metterlo al corrente della verità dei fatti, lungi dal ripetere ad alta voce la banale verità di cui l’aveva resa complice Ada. Ma c’è sempre qualcuno che la verità la scopre per caso. Qualcuno che quella notte non riusciva a prendere sonno, che si era infilato la camicia, si era arrotolato una sigaretta e, in tutta tranquillità, se la stava fumando vicino ai campi. Beh, quel qualcuno iniziava a comprendere che un problema c’era in quel casolare se una bella moglie sfogava piangendo la propria collera, nascosta tra i cespugli dei fiori. La osservò per un bel po’ prima di avvicinarsi. Terminò la sigaretta. Prese una rosa e le si accostò. Ada non si stupì della presenza di quell’uomo semplicemente perché lo voleva.
Lo voleva al posto di Ettore, perché era giovane e bello, perché non le avrebbe negato l’amore. Si sorrisero. Era il momento giusto per cambiare la sua vita. Così si abbracciarono e baciarono. Ada rispose con inusitata licenziosità, senza la paura di essere vista perché la notte era così buia che nessuno avrebbe scorto quelle due sagome perse a corteggiarsi in mezzo all’erba. Per Ada fu una rivelazione sentire il corpo rinascere dopo tanto tempo, mentre quei baci si immortalavano sulla sua pelle, inumidendola e portandosi via chili di polvere del ato. Si prese quello che la dolce aria notturna aveva deciso di regalarle: innumerevoli baci, pacati e sensuali, eccitanti e selvaggi, che fino a quel momento le erano stati vietati. Non furono neppure tanti da riempire due anni di assenze, ma si accontentò. Complici la luna e le stelle che ad anni luce di distanza si intromisero nei cuori dei due giovani influenzandoli, un po’ come con le maree. Portandoseli su lidi sconosciuti, abbandonandoli tra le larghe braccia dell’universo che, come una brava madre, li custodì al riparo da occhi curiosi. Non ci fu una notte più scura a memoria d’uomo: le stelle chiamate a raccolta dalla stella madre arrossirono alla proposta di eclissarsi per un po’ ma alla fine ubbidirono a quella richiesta che voleva essere un comando e non una scelta. In quel buio i due amanti si accorsero che sarebbero potuti ardere di ione propria, senza conoscersi, buttandosi oltre il limite della ragione perché i loro corpi fremevano. Decisero, invece, di fermarsi a quel primo approccio evitando un coinvolgimento eccessivo. Non avevano la frenesia di vivere tutto subito. Che fretta c’era? Le ortensie li avevano protetti, la notte non avrebbe mai tradito i suoi figli, il gatto aveva vigilato sul loro amore e nonna Giulia continuava a pregare affinché il periodo del buon raccolto non finisse così presto. Anzi che ad un buon raccolto ne seguisse uno migliore. Perché allora dover bruciare le tappe? Forse più avanti, forse quando il delirio li avrebbe resi pazzi, allora, e solo allora avrebbero inseguito l’uno l’eco dell’altra. Per poi cedere e finirsi nel ristretto campo in cui i loro corpi in un nodo di abbracci si sarebbero calmati.
12.
Per il falco era affascinante volare sopra i campi gialli e verdi. Non si era mai spinto così in pianura; di solito rimaneva sulle sue vette ricche d’aria frizzante, talvolta pungente, profumata ogni giorno dell’anno. Nonostante la curiosità per il paesaggio sentiva già nostalgia del suo nido. Erano trascorse poche ore da quando il vento aveva cambiato direzione e l’aveva sospinto in questo mare di grano, eppure gli era cresciuta dentro la malinconia dei voli acrobatici che lo facevano virare sulle prede con maestria e sottile precisione. L’apertura alare gli permetteva abilità e, nello stesso tempo, gli garantiva una velocità scattante. La natura lo aveva fornito d’artigli in grado di catturare una qualsiasi preda all’istante e gli dispiaceva tanto per quella povera lepre ma anche lui aveva bisogno di nutrirsi. In fin dei conti, cibarsi era una necessità, non un capriccio. Ora, com’era finito lì, in pianura, di preciso non lo sapeva neppure lui. La bufera lo aveva colto all’improvviso. Era come se si fosse ritrovato a volare in un vortice assolutamente vuoto, dove nessuna legge della fisica finora conosciuta sembrava trovare applicazione. Una forza misteriosa gli aveva fatto oltreare una porta senza spiegargli il suo destino o quale sarebbe stata la sua parte. Come sempre, quando scommetteva con gli altri falchi sulla riuscita delle sue imprese la posta in gioco era alta, magari si riservava la facoltà di dividere la preda con Sheila, una falchetta niente male che riempiva i suoi sogni di giovane falco, libero e solitario. Spesso vinceva e si concedeva il lusso di trascorrere qualche ora in buona compagnia. Ma c’era Nek, un vecchio falco, che aveva un debole per Sheila e si rodeva il fegato nel vederli ala nell’ala. Forse dietro a quello strano sortilegio, pensò afflitto il giovane falco, c’era Nek e la sua incapacità di perdonare la sua giovinezza. L’ingenuo falco non aveva fatto i conti con un sentimento quale l’odio che il vecchio covava a sua insaputa. I monti ormai erano un ricordo lontano e, di tanto in tanto, vecchie querce gli facevano venire un groppo in gola. Anche il profumo era cambiato: non più odore muschiato di sottobosco, ma di aromi sconosciuti. Dal momento che di qualunque maledizione si trattava aveva già sortito l’effetto
sperato, il falco saggiamente decise di procurarsi qualcosa da mettere sotto i denti al più presto per non svenire dalla stanchezza poiché era in volo da più di cinque ore.
13.
Ci sono giorni che si possono definire eletti. Atipici. Sorgono così con il sole tiepido dell’alba e tramontano con la sensazione di essere stati i custodi di travagliati avvenimenti. Uno di quei giorni era sorto. Già dal mattino l’afa aveva reso l’aria irrespirabile. Ettore aveva stabilito che per quel giorno nessuno lavorasse sui campi per il caldo eccessivo. Così tutti decisero che sarebbe stato meglio rimanere sdraiati sulle proprie brande e combattere l’umidità dormendo. Non c’era anima viva in giro e solo le cicale imperterrite cantavano la loro serenata per infastidire il riposo dei viaggiatori erranti. Salvatore aveva visto Ada bagnarsi al pozzo e decise che quello sarebbe stato un buon momento per parlarle. Sì, la voleva, non riusciva più ad accontentarsi dei ricordi dei loro baci inghiottiti dalla rugiada della notte, voleva stringerla, amarla e sentirla sua. Quel caldo poi non lo aiutava e l’attesa stava diventando insopportabile. E lei era così vicina e così maledettamente irraggiungibile. Era bella con i capelli sciolti, lunghi, e desiderabile stretta nei suoi abiti fasciati e portati alzati per la calura. Ora o mai più, tanto nessuno si sarebbe mosso con quell’afa e loro il fresco l’avrebbero trovato solo nella sensualità dell’amore. Ada aveva timore di quella proposta, timore di essere scoperta, in fin dei conti Ettore era dentro la casa, i figli di lui, nonna Giulia, gli altri braccianti… però una pazzia si poteva fare. Per Salvatore avrebbe fatto qualsiasi cosa, e perché non questa che era la più ovvia? Allora Ada s’incamminò tra i campi con la scusa di raccogliere un po’ di piante per calmare un’ustione che si era procurata il giorno primo. Nessuno ebbe nulla da ridire. Si perse tra l’erba alta dei cespugli in fondo ai campi e neanche uno notò l’ombra che la seguiva a distanza. Che matto avrebbe mai potuto corteggiare la padrona, proprio nella sua proprietà! Ma un pazzo c’è sempre.
Ada arrivò alla casetta di legno in cui Ettore teneva i suoi piccioni viaggiatori. Era una piccola stamberga piena di gabbie di piccioni che sapevano portare messaggi molto lontano: erano i suoi pupilli e gli erano molto affezionati, riconoscendolo dai calpestii sull’erba secca, dal suo schiarirsi la voce con un colpo di tosse rauca. Ora non si capacitavano proprio dell’aprirsi della porta a quell’ora del mattino, e poi nel vedere Ada entrare seguita da uno sconosciuto, sentirli mentre si baciavano con una disinvoltura da lasciarli a becco spalancato. Che sfacciataggine, pensò il più vecchio dei piccioni, moglie ingrata e provocatrice. Più li sentiva accaldati e più saliva in lui il desiderio di beccarli o, perché no?, di portare il messaggio di quell’amore rubato al suo dolcissimo padrone. Quante volte aveva portato a destinazione invisibili pezzetti di carta su cui Ettore aveva segnato minuscoli simboli con l’inchiostro! Da bravo piccione qual era aveva sempre consegnato la posta in orario, perfetto postino con la discrezione, da non sottovalutare, di non aver mai letto la posta recapitata. Questa era la fedeltà al suo padrone, l’attaccamento per tutte le volte che Ettore l’aveva nutrito, pulito o simpaticamente gli aveva lisciato le piume con il palmo della mano. Doveva andare da lui e richiamare in qualche modo la sua attenzione fin dentro al capanno della vergogna, affinché lui stesso vedesse di che pasta era la moglie, che mai e poi mai si era degnata di portare loro da mangiare. Infatti, quando Ettore era dovuto partire per due giorni per un certo affare i piccioni del capanno erano rimasti senza cibo perché quell’incapace di Ada si era scordata della loro esistenza. Tanto meglio, era giunta l’ora di ricambiare l’affetto mai ricevuto. Nel frattempo Salvatore aveva gettato Ada per terra e non si era accorto che nella foga aveva urtato il chiavistello della porta d’ingresso piena di tarli. Adesso era appena socchiusa e il piccione, in grado di uscire da solo dalla gabbia, con un semplice gesto si catapultò verso la riscossa con un incalzante battere d’ali. Ada aveva sentito un po’ di trambusto ma in cuor suo non ci aveva fatto più di tanto caso perché dentro il tugurio c’erano molte ceste di vimini, quelle che un tempo lei stessa aveva confezionato per Rosa, e sarebbe bastato un lieve sussulto per farle cadere. Lì c’erano ben più dei sussulti e per un solo attimo le balenò l’idea, ma che stupida idea!, che il capo dei piccioni potesse in qualche modo andare da Ettore, ma caspita stava parlando di un piccione e che cervello poteva
mai avere! No, no era proprio una stupida idea. Appena fuori della portata dei due amanti il vecchio uccello cominciò la sua rivincita. Si alzò in aria maestoso, certo della sua missione, attonito per l’importanza del gesto che stava per compiere. Come lo avrebbe ricompensato il suo padrone perché qui non si trattava di ricevere un pasto speciale, qui ne andava del suo onore di postino veterano, tutto il ato era messo in discussione. Era stato suo zio ad insegnargli la lealtà. “Prima di tutto sii leale e sincero con il tuo padrone. Infine sii fiero e orgoglioso del tuo lavoro. C’è chi nasce per fare grandi cose e chi per viverne piccole alla grande, non c’è differenza alla resa dei conti: mantieni alto il nome della tua famiglia. Anche se ciò volesse dire la morte certa”. Non aveva dimenticato quelle parole e ora poteva dirsi fiero della sua esistenza, di quello che era stato e di ciò che era divenuto. Eppure quel giorno si annunciava strano: l’aria era soffocante e gli pizzicava la zampa. Brutto segno. In giro non c’era anima viva, pensò tra sé il volatile. Un’altra volta aveva avuto lo stesso presentimento e si era preso una pallottola di striscio sulla coda. Ma era accaduto durante la guerra, poi Ettore l’aveva medicato con amore e adesso era nel pieno delle forze.
14.
Il falco si era riposato sul castagno vicino al capanno e a dirla tutta era esausto. Erano ore che volava senza capire dove il vento lo stesse portando. Fu l’istinto a fargli intuire di essere finalmente arrivato alla meta. Da lontano il falco scorse un esile pennuto che si stava avvicinando al casolare. Se mi affretto, pensò, lo posso prendere. E senza farselo ripetere si alzò in volo, uno splendido spostamento nell'aria, senza esitazione. Il puntino divenne sempre più visibile, era un piccione, un bel piccione. Fu un attimo: il falco si lasciò cadere sopra il corpicino del volatile con precisione mentre una piccola goccia di sangue macchiò il manto candido. Poi la goccia si trasformò in un torrente e più il sangue usciva più il piccione capì che la sua vita era arrivata al capolinea. Molte volte si era chiesto come sarebbe stato questo momento e fu felice nel sentirsi leggero come quando la madre gli aveva insegnato a volare. Non sentiva il becco del falco affondargli in gola, non fiutava la puzza del suo alito mentre si cibava della sua stessa carne. Ma la cosa più bella era che non provava odio per quell’uccello che lo aveva privato della vita. Era morto da guerriero, mentre compiva la missione per la quale era nato. Di questo era sicuro. Ettore non venne mai a sapere il motivo del sacrificio consumato a due i dalla finestra della sua stanza da letto proprio nel momento in cui stava sognando Rosa: in quell’istante la morte colpiva ancora il suo debole cuore. La morte e la vita si avvicendavano, rincorrendosi, sui campi di grano. Però, almeno il grano quell’anno era stato abbondante.
15.
Dopo quel pasto, come per miracolo, una corrente gelida avvolse il falco e cullandolo lo portò a casa, tra le sue amate montagne. Accadde tutto senza che lui potesse capire chi e che cosa lo avesse sospinto fin lì. C’era un disegno preordinato, ma ciò non lo poteva sapere: era stato arbitro di una vicenda delle quale non conosceva neppure la trama. Eppure era capitato! Mentre tornava al suo nido aveva intuito che qualcosa d’importante si era verificato in quel lembo di terra. Senza avere mai conosciuto il profumo della pelle di Ada, o avere comparato la sua forza con quella di Salvatore. Neppure il piccione conosceva, ma da quando in qua il predatore ascolta il racconto della vita narrato dalla sua preda? Nonostante il pasto succulento si sentiva spossato, stanco e non solo fisicamente, come se qualcosa o qualcuno gli stesse assorbendo energia vitale. Energia primordiale e selvaggia che affondava le radici nella notte dei tempi e che inspiegabilmente lo rendeva esperto conoscitore delle rotte dei suoi avi. Imputò la colpa, senza voler svelare arcani segreti, al faticoso viaggio.
16.
Ada era ancora avvolta dal respiro umido del suo amante quando si rese conto che il piccione era scappato. Non si preoccupò più del dovuto, sempre perché era solo un uccello mentre lì c’era il suo tesoro nei cui occhi leggeva il piacere appena provato. Lo osservò mentre si sistemava i pantaloni e si pettinava con le mani i capelli arruffati. La foga dell’amore le aveva fatto dimenticare che c’era il pranzo da preparare e che lei era ancora seduta con le gonne alzate e piene di ragnatele. Guardò Salvatore negli occhi e si commosse per quell’amore non sapendo che aveva già fatto una piccola vittima. Si mise in ordine in silenzio per non rovinare l’incantata atmosfera che regnava nel capanno: una profonda sintonia si era impossessata delle loro anime. Un legame che non si sarebbe più spezzato e che li avrebbe accompagnati ovunque. Una musica dolce che li avrebbe uniti anche se fisicamente distanti; una specie di campo energetico che li avrebbe attirati sempre l’una nelle braccia dell’altro perché oltre le immagini visibili c’è ancora un mondo da scoprire e da conoscere senza porre limiti alle capacità innate dell’uomo. Che piano piano si sono affievolite. Ma addormentate, non vuol dire smarrite! Si incamminò verso il casolare con qualche fiore sotto il braccio a riprova del fatto che il tempo l’aveva impiegato in qualcosa di veramente utile. Dio mio, se Ettore l’avesse guardata per un solo istante, quando si presentò in cucina, avrebbe capito tutto, ma, come sempre, il marito preferì tenere lo sguardo fisso sul pavimento senza incrociare volutamente il suo. Eugenio e Ester? Ma come potevano capire i suoi sentimenti se non erano ancora riusciti a provare affetto per quella ragazza che si mimetizzava con il silenzio della casa. Nonna Giulia sì, aveva capito appena Ada aveva aperto l’uscio e aveva ancora la faccia accaldata. Odorava di sudore, una puzza acre, pungente, non era il
profumo di una eggiata alla ricerca di fiori. Muovendosi si trascinava dietro la muffa del capanno e l’olezzo degli escrementi dei piccioni. Ma solo il suo olfatto percepì la verità. Poi la dimenticò. Pure il gatto aveva sentito i loro sospiri, ma ronf-ronf chissenefrega. Salvatore si lavò con l’acqua del pozzo ancora stordito per ciò che aveva vissuto. Il cuore batteva in modo concitato, come volesse rivivere all’infinito l’atto in sé, la sensualità provata. Era esausto. I suoi compagni di lavoro pensarono che era un tantino stanco, forse troppo solitario. Del suo ato non si sapeva nulla, si poteva immaginare che ci fosse una fidanzata da far entrare nei sogni, ma di certo chi avrebbe pensato che nei sogni di quel ragazzo giovane e forte c’era una sola donna, Ada? Senza far parola con alcuno si sdraiò sulla branda e si abbandonò a un sonno profondissimo. Ada, invece, preparò il pranzo con la stessa attenzione dei giorni precedenti. Non aprì bocca anche se ogni tanto lanciava il pensiero verso il capanno e sentiva una spina nel cuore. Temeva che, in qualche modo, apparisse sul corpo un segno di quell’atto d’amore non sapendo che il segno più tangibile erano le penne bianche, ciò che restava del fedele piccione, sporche di sangue accanto alla finestra di Ettore.
17.
Un urlo squarciò l’aria e il risveglio di Ada, che si era addormentata sul letto nel primo pomeriggio, fu gelido: perché Ettore urlava in cortile sbraitando parole incomprensibili? Fu presa dal panico, forse stava litigando con Salvatore, chi aveva potuto fare la spia, chi aveva visto, chi? Si vestì in fretta e corse giù dalle scale con la testa vuota perché niente rientrava nei suoi pensieri. E allora capì cosa era accaduto e provò odio per quel maledetto piccione che si era fatto ammazzare proprio accanto alla casa. Ma come era potuto accadere, chi aveva aperto il capanno e perché proprio il suo piccione preferito? pensava distrutto Ettore. Oh, Maria Santissima, se forse stava zitta senza guardarlo negli occhi tutto sarebbe andato a meraviglia, balbettò incredula Ada tra sé. Era impossibile pensare a lei come all’artefice o al mandante di quello scempio, ma quello era stato il suo ruolo, comunque fossero andate a finire le cose. Constatato il contegno audace dei due amanti, se non fossero entrati nello stambugio maleodorante… Tante volte Ada aveva desiderato rendergli la pariglia ma non così. Ettore era lì, accasciato a terra, con il volto rigato dalle lacrime: faceva un’incredibile tenerezza mentre stringeva quel che rimaneva del suo caro amico tra le mani. Piangeva. Piangeva per Rosa, per Ada che non era riuscito ad amare come avrebbe meritato, per i suoi figli, estranei al suo stesso corpo. Piangeva per quell’anima ferita che era la sua, che non era riuscita a metabolizzare il dolore per la scomparsa di Rosa. Piangeva mentre il sole si oscurò. Incuranti del suo noto caratteraccio, gli angeli protettori del casolare, gli stessi che, un tempo, si erano scomodati per rendere concreti i desideri della madre Lucia, vollero fargli un regalo. Il sole rimase alto in cielo, ma una pioggia prima timida, quasi impaurita dal riflesso della luce, poi sempre più scrosciante iniziò a cadere con gocce grosse e trasparenti, lavandolo, purificandolo, sanandolo e facendogli
dimenticare la brama di conoscere la verità. Così facendo, l’acqua gli creò un bozzolo che lo avvolse congedandolo dal suo dolore umano. Ada lo guardò e, poiché non riusciva a trattenere il suo dispiacere, presa una piuma insanguinata del piccione se la nascose in mezzo al seno per nutrirla, come se il miele caldo che le scorreva nelle vene potesse, per incanto, restituire al volatile il soffio vitale.
18.
ò quel giorno. Ne arono altri finché Ada si accorse che il suo ventre si stava gonfiando. All’inizio non ci pensò. Nonna Giulia capì invece che quel raccolto era stato ancora più fecondo del dovuto. Lo manifestò a Ada che, al pensiero, si fece prendere dall’angoscia. Eppure una via d’uscita c’era. Se Ada avesse indossato i suoi soliti abiti larghi e avesse fasciato bene la pancia… Non c’era motivo di perdere la testa tanto Ettore non l’avrebbe toccata per i prossimi mesi, come non l’aveva toccata nei precedenti. Salvatore non riuscì a trattenere la paura per quella cosa più grande di loro che si ritrovarono tra le mani. Pensare che da che mondo è mondo non c’è una spiegazione più logica, è come dire due più due fa quattro. Comunque sia, quella cosa era capitata loro veramente e non c’era la possibilità di fermare il tempo. Allora lasciamola crescere questa pancia! Ada sentiva il suo grembo dilatarsi, ma nessuno notava delle differenze. Nonostante i timori, Salvatore le era sempre vicino, amandola di un amore speciale, tenero e protettivo. Era sua, adesso più di prima, era solo sua. Di sera, quando la luna era alta in cielo si incontravano dietro i cespugli di ortensie e fantasticavano sul futuro, su cosa sarebbe accaduto se si fossero conosciuti prima del suo matrimonio e su tante altre cose che erano ben lontane dalla realtà. Vivevano in una specie di mondo parallelo dove si concedevano la fortuna di essere se stessi. Poi, durante il giorno, recitavano parti completamente diverse, che mal si confacevano alla vita che stava crescendo dentro Ada. Quella vita esigeva la verità, ma nessuno dei due ebbe il coraggio di urlarla ai quattro venti. Considerato l'eco che la notizia avrebbe suscitato preferirono prendersi ancora un po’ di tempo.
E senza essere taccagni se ne presero parecchio, tutto quello che ci voleva affinché un feto di pochi millimetri si trasformasse in un bambino di cinquanta centimetri. Per fortuna nonna Giulia pregava molto per loro e aveva una corsia preferenziale per arrivare al cuore degli angeli. Così, durante tutta la gravidanza, Ada non accusò malesseri, la pancia nel crescere fu discreta. Ettore non si accorse di nulla, figuriamoci Eugenio e Ester che erano convinti che i figli nascessero sotto i cavoli! C’era anche un particolare da non sottovalutare: nel loro orto non c’erano piante di cavolo e chi ha mai visto dei cuccioli nascere sotto le patate? La vita trascorse tranquilla per tutto l’inverno. Salvatore fu uno dei pochi braccianti che rimase al servizio di Ettore anche quando finì il periodo del raccolto. Due braccia in più facevano comodo, tanto più che quel ragazzo aveva uno spiccato senso del dovere, era puntuale, leale, questo pensava Ettore e lo avrebbe pure giurato sulla testa dei suoi figli. Non poteva vedere in Salvatore l’amante di sua moglie perché era convinto che Ada avesse accettato la sua decisione e perché, dopo così tanta astinenza, non riusciva più a eccitarsi per il corpo di lei. Ada fu felicissima della scelta di Ettore e l’aveva manifestato con un calore che avrebbe potuto insospettire chiunque, ma il marito non ci fece caso. Una cosa strana c’era però e questa l’aveva notata pure Ettore, nonna Giulia si comportava in modo eccentrico, standosene tutto il giorno a cucire, ricamare, rammendare, mettere insieme. Va bene che non ci vedeva più tanto ma voler fare entrare Eugenio o Ester in quegli abitini da neonato sarebbe stato impossibile! “I vecchi talvolta rivivono la loro giovinezza, forse Giulia pensa d’essere incinta… Se ci pensa Ettore quanti anni avrebbe adesso la sua bambina se non fosse morta a causa della bomba… brutta faccenda quella. L’inchiesta, le interrogazioni… e sulla terra quel corpicino che non si trovava più. Ora la lasci sognare, ancora un po’. Non la svegli, potrebbe essere un modo per riavvicinarsi alla sua creatura. I disegni di Dio sono imprevedibili” così il parroco aveva cercato di dipanare ogni dubbio a Ettore e, visto che la spiegazione calzava a pennello, l’uomo l’accettò. Anzi, divenne più disponibile verso Giulia che aveva fatto da mamma a tutti fuorché alla sua unica figlia. Dopo la tragedia della sua bambina, Benedetta, Giulia di figli non ne volle più
anche perché non c’era un marito con cui condividere il dolore. Era rimasta incinta per sbaglio: l’uomo presso il quale prestava servizio l’aveva voluta e, con estrema facilità, dimenticata. Rimase presso di lui anche quando la pancia divenne grossa da impedirle di portare a termine le solite faccende. Quando nacque Benedetta era sola con la levatrice. Di riconoscerla egli non ci pensò proprio. Le permise, però, di rimanere presso la sua casa senza mai affezionarsi a quella bambina che se anche non portava il suo nome, di certo portava il suo sangue. Per questo motivo quando la piccola morì Giulia si chiuse in un mutismo rassegnato e cominciò ad affinare il suo sesto senso. Qualcuno la considerava pazza, ma qualcun altro andava a chiederle notizie sul tal morto. E lei puntualmente ci azzeccava. Una volta perfino indovinò dove era nascosto un bambino che il paese intero aveva cercato inutilmente per due giorni: quel bambino era Ettore. Ecco perché donna Lucia le aprì la porta di casa e la volle sempre accanto a sé. Fu soprannominata nonna Giulia e non si allontanò più dal casolare delle ortensie. Ora, quella gravidanza, così disgraziata, l’aveva svegliata dal suo torpore, era una femmina, ne era certa: era la sua bambina che rinasceva alla vita in tutta la sua bellezza e la sua magia. Questo pensiero la teneva sveglia notte e giorno, pervasa dalla paura di mancare all’appuntamento. Era convinta che la vita le avrebbe ripresentato una seconda opportunità. È necessario sapere interpretare i messaggi con pazienza e volontà, senza tirarsi indietro all’imprevisto. Il coraggio di ardire non ha mai deluso gli audaci permettendo al cerchio della loro vita di chiudersi. Nonna Giulia sentiva che anche per lei, nonostante l’età, era giunta l’ora di scrollarsi di dosso i tanti interrogativi che l’avevano aiutata a costruirsi una corazza attorno al suo fragile corpo. Domande che la vita le aveva servito su un calice tanto prezioso quanto traboccante di lacrime: quel senso tragico di inutilità che accompagna molte esistenza, compresa la sua, stava per abbandonarla. Nuove emozioni avrebbero risvegliato l’incanto del suo amore mai domato, che al di là di ogni ragione urlava a squarciagola il suo diritto di esistere. E di vivere con dignità fino in fondo. Perché quella figlia le era stata strappata via con cattiveria, senza poterla accarezzare, senza poterla ritrovare! La bomba l’aveva dilaniata. Benedetta non c’era più. Aveva sentito lo scoppio, la terra tremare, le
finestre sbattere, le urla, il vento che aveva travolto le spighe generose che si affacciavano al sole. Solo lei aveva capito che quel rumore le stava strappando la sua stessa carne. Benedetta era piccola e, quasi sicuramente, quell’aggeggio l'aveva attratta. In mezzo ai campi, avvolte dalla terra, le manine affondarono nella morte e il grano, a sua volta, avvolse la bimba dentro le pannocchie come fosse un’ape laboriosa. Il rosso dei papaveri assorbì il colore del sangue della piccola senza lasciarne traccia in giro. La natura ripulì ogni cosa prima che nonna Giulia arrivasse, evitandole la scena struggente in cui i suoi occhi sarebbero divenuti vitrei. Lo fece solo per amore. Ma ciò non bastò a rendere ragionevole Giulia, a non farla urlare contro il cielo, a non volersi aprire il ventre e maledirlo per la capacità di generare la vita. Le lacrime non bastarono per delimitare un dolore, per dargli dei contorni definiti: un inizio e una fine. Da allora l’eternità si impadronì di lei donandole un talento che col tempo avrebbe affinato sempre più, rendendola speciale agli occhi della gente che non riusciva a trovare la strada che unisce il cielo alla terra, i morti ai vivi o viceversa. Giulia non si riteneva un’eletta quanto una semplice donna cui non era stato concesso di fare la cosa che più avrebbe voluto: la mamma. Ma c’è qualcuno che decide, che tira le somme del destino e così, un po’ alla volta, aveva accettato il volere altrui ed era diventata la voce degli angeli. Lì, nel casolare delle ortensie, aveva espresso se stessa nel momento in cui veli di gemme si erano schiusi nell’apoteosi dei deboli bagliori della luce. Sapeva che l’attesa paziente e l’imibile posatezza le avrebbero permesso di apprendere i rudimenti di quell’arte senza farla impazzire in una delirante frenesia.
19.
Il tavolo era sporco di farina, c’erano le uova e c’era un profumo delizioso per tutta la casa. Ada era accanto al forno a legna curiosa di guardare il pane mentre cresceva proprio come il suo bambino. Solo che il pane era decisamente più svelto nella lievitatura. Ma lei aveva pazienza e nessuna fretta di far uscire il pargoletto. Quel mattino, però, i dolori si fecero più incalzanti, insopportabili. Nonna Giulia la prese per mano, la portò lontano sui campi di grano e l’aiutò a partorire. Dunque, in mezzo ai campi di grano nacqui. Una femmina, sporca di terra e placenta, ma sana. Mi chiamarono Angela e dopo avermi pulito gli occhi con la terra mi coprirono con un lenzuolo. Mia madre si rialzò mentre la testa le girava, aveva, infatti, perso molto sangue ma non c’era tempo per riposarsi, per spiegare o per capire. Di nascosto mi portarono in soffitta, un nascondiglio provvisorio perché il pianto di un bambino non è facile da mimetizzare. Mia madre preparò il pranzo sfinita con le gonne sporche di sangue e i capillari sotto gli occhi rotti per lo sforzo. Eppure nessuno se ne accorse! Salvatore si intrufolò in solaio seguendo nonna Giulia e appena mi prese in braccio si rese conto che stavano facendo una pazzia. Come avrebbero fatto a crescermi? La mamma quando mi raccontava di quella giornata diceva che era stata quella che valeva una vita. La gioia per quello che era accaduto era talmente grande che non riusciva a trovare le parole per descrivermela: finalmente una figlia da amare e da cui ricevere amore. Finalmente madre. Ogni volta che mi attaccava al seno sperimentava la potenza dell’amore. Di quell’amore viscerale che nasce nel profondo e che non vuole essere spiegato, ma solo vissuto. In quel momento capì solo quanto amore non aveva avuto, quindi ciò che si era persa.
Cullandomi affondava le braccia nell’albero secolare della vita cui tutti, prima o poi, attingono. Chi con saggezza e chi con inesperienza, magari in modo impacciato. Esso però è sempre a disposizione di tutti e i suoi frutti sono carichi di consigli preziosi. Dal profumo invitante. Ormai Ada aveva creato un legame con la terra che aveva assorbito il suo sangue, con il cielo che aveva attutito le sue grida, con il proprio corpo che aveva conosciuto fino in fondo solo nel dolore fisico di una vita che nasce. Aveva suggellato un vincolo eterno, un’alleanza audace che celava nella sua spirale forze misteriose.
20.
Alcuni mesi dopo la mia nascita un uomo dalla pelle scura bussò alla porta del casolare. Eugenio andò ad aprire e si trovò davanti un signore con il volto pieno di rughe ed efelidi, gli occhi blu del colore del mare e uno spiccato accento straniero. Non comprese le sue parole ma si accorse che teneva tra le mani magnifiche stoffe di seta colorata. Lo sconosciuto gli fece cenno di non spaventarsi e con estrema cura adagiò i tessuti sul tavolo sotto il portico: scivolavano sulla pelle sfuggendo al tatto, con delicatezza, racchiudendo tutti i colori del mondo tracciati con pennellate armoniose. Una pioggerellina brumosa scendeva sui campi mentre tutti le osservavano estasiati dall’intima eleganza. Profumavano di spezie e di salsedine. Anche Ada e nonna Giulia scesero per apprezzarle giacché solleticavano la curiosità dei grandi e dei piccini. Solo Ettore guardando quell’uomo dalla pelle consunta si domandò se non potesse mai servirgli la carriola che un tempo suo padre aveva usato per trasportare gli ortaggi. Avrebbe potuto adagiarvi le stoffe senza doverle tenere sulle spalle e ciò avrebbe reso il suo peregrinare un po’ più spedito. La carriola era in solaio. Salì le scale ignaro di quello che vi avrebbe trovato. Ettore raccontò dopo a mia madre che ero tranquilla sopra le lenzuola ricamate da nonna Giulia e muovevo le manine in cerca di qualcosa da fare. Quando lo vidi alzai gli occhi ma non piansi. No, non ebbi paura. Sorrisi. Ettore, invece, ebbe un moto incontrollato di rabbia. Ma chi era quella bambina? E di chi era? Non ci mise tanto a capire che cosa era accaduto sotto i suoi occhi. Che sfrontatezza! Intollerabile. E lì fece la scelta: avrebbe potuto perdonare, ma il suo orgoglio glielo impedì. Mi prese insieme al mio letto alquanto singolare e mi portò giù in cantina. Andò dall’uomo dalla pelle sciupata, che nel frattempo si era seduto sulle sedie di
paglia ed era rimasto solo, gli consegnò delle banconote, tante, troppe per non accettarle e senza spiegazioni chiese se bastassero per portarsi via un carico speciale. L’uomo rispose di sì. Ettore mi consegnò a lui ricoprendomi con la seta ed io uscii dal cancello di quel casolare sorridendo perché, per la prima volta, ero scesa in mezzo alla vita e tutto mi incuriosiva e, al tempo stesso, divertiva. Non ancora stanco corse nella stalla da Salvatore, mio padre, e lo liquidò con poche lire, intimandogli di andarsene quanto prima. Salvatore cercò di spiegare, di mediare ma fu impossibile; prese le sue umili cose e si allontanò senza poter dire a Ada e alla piccola quanto le amava e, specialmente, quanto le avrebbe amate. Ettore nel minacciarlo fu persuasivo, se non se ne fosse andato via avrebbe fatto del male a mia madre. Così Salvatore si allontanò dal casolare senza voltarsi, con la morte nel cuore. Poi Ettore si sentì sollevato, anche se il peggio doveva ancora accadere. Infatti, Ada lo travolse con la sua furia: l’uragano era alle porte. Ettore cercava di guardarla negli occhi senza, purtroppo, riconoscervi la ragazza di un tempo: come era cresciuta! si era donata alla vita, all’amore di un uomo che l’aveva posseduta e non rinnegata. Il suo ventre aveva ospitato un angelo e lei da donna si era trasformata in madre. Aveva perso tutto. Questo e solo questo lo aveva reso indifferente e cinico: non aveva esitato a portarle via i suoi affetti, quelli di cui aveva bisogno per vivere come un fiore che in mezzo alle rocce cerca il sole per crescere e con fatica si fa strada spaccando la pietra che lo vuole prigioniero. Con pazienza e coraggio quel fiore sceglie di vivere, ossia la libertà di affacciarsi al mondo e nessuno capirà lo sforzo della sua vita, nessuno lo osannerà per il suo ardire. Così Ada, con tutta la forza di cui disponeva, si era conquistata la serenità, anche se per farlo aveva tradito un marito, lo aveva ferito e ingannato. Ma chi prima di lei si era preso gioco dei suoi sentimenti? Chi aveva deciso del suo amore e del suo corpo che chiedeva incessantemente di essere sfiorato, abbracciato, vezzeggiato perché senza amore mancava del nutrimento indispensabile per ammirare il sorgere del sole?
In quel momento Ada era in balia di Ettore, del suo potere di uomo e di marito offeso, ma ciò non giustificava il terribile gesto. Se non era riuscito ad amarla era inutile prendersela con chi, invece, il cuore l’aveva sempre tenuto aperto. Ada provava una pena infinita per quell’uomo che un tempo aveva amato, per il quale ora non sentiva nulla… forse odio… o peggio, peggio ancora… E poi le suscitava una grande pietà sapere che lei doveva accettare quel torto e il dolore sarebbe stato in ogni modo smisurato, ma Ettore doveva pagare un prezzo ben più caro essendone stato l’artefice, il che voleva dire morire con gli occhi aperti. Per sempre.
21.
Ester udì i lamenti e vide le lacrime di Ada. Per la prima volta provò affetto per questa donna che aveva dovuto subire la decisione irrazionale del padre, un uomo sconsolato e senza pace. ando vicino alla camera della sua matrigna scostò la porta e, vedendola con le spalle ricurve, decise di entrare senza chiedere permesso. È vero, lei e il fratello avevano sofferto, ma la freddezza in quel casolare doveva sciogliersi, prima o poi, nel calore di un abbraccio. Si presentava l’occasione di perdonarla: in fin dei conti non aveva mai preso il posto di Rosa sia nel cuore di Ettore sia nel suo. Continuare a mantenere vivo il rancore per ciò che era ato non aiutava nessuno, tanto meno la povera Ada che, disperata, aveva invocato in tutti i modi possibili la più semplice considerazione. Ora la tristezza era finita. Ester era cresciuta, aveva quasi dodici anni e nel suo intimo si sentiva già donna. Decise che voleva stare con Ada, la sua matrigna e da quel momento non la considerò più tale. Voleva diventare sua figlia perché era grave non essersi accorta del male che quella casa aveva elargito a piene mani a tutti. Come aveva potuto non percepire il sentimento che univa Ada a Salvatore, la gravidanza di Ada? e Angela? Quanto era rimasta chiusa nella sua ostilità, Dio mio quanto! E pensare che tra tutte le scelte possibili c’era anche quella, mai presa in considerazione, di perdonarla. Il loro abbraccio durò molte ore. Ada aveva bisogno di risvegliarsi bambina nel calore di una madre ed Ester accettò quel ruolo perché entrambe ne avevano bisogno. Nonna Giulia, invece, ritornò in soffitta per raccogliere le mie poche cose e si riscoprì a piangere come aveva pianto tanti anni prima per Benedetta. Per la seconda volta, aveva perso la sua piccina nonostante avesse vegliato su di lei. Il destino non si può cambiare, l’accettazione fa la differenza. E mentre il ato riaffiorava alla sua mente una luce accecante apparve in fondo alla
stanza. “Ciao mamma sono io, Benedetta! non aver paura. Il tempo non può cancellare l’amore e neppure il dolore. Angela non è morta e vivrà fino a quando Ada continuerà a mantenere intensa la speranza di rivederla. Dille che gli angeli la proteggeranno e che non le accadrà nulla di male. Però, come per te, il destino per un po’ le impedirà di vederla crescere. Non preoccupatevi… ritornerà. Mamma ti amo tanto.” Questa volta nonna Giulia pianse lacrime liberatorie, minuscole gocce di rugiada che le inumidirono la pelle del volto ricoperta di rughe, di solchi profondi che celavano i pensieri della sua anima. Per la prima volta, si sentì veramente felice di esistere.
22.
Lo straniero contò i soldi che Ettore gli aveva dato per sbarazzarsi di quella bimba, e pensò che, probabilmente, ne valeva molti di più. A fissare quegli occhietti l’uomo non poté fare a meno di pensare che sarebbe stato bello volerle bene. Nel suo peregrinare era sempre solo e un po’ di compagnia, senza ombra di dubbio, gli avrebbe giovato. Io ridevo con quel sorriso pulito e franco che sanno fare solo i bambini, lo fissavo e sapevo che mi era simpatico. Forse i miei genitori e nonna Giulia mi sarebbero mancati ma ora c’era qualcuno che mi avrebbe accudito accarezzandomi, parlandomi, amandomi. Non avevo grandi pretese e l’uomo ritenne che poteva assecondarmi senza problemi. Stavamo bene insieme. Non mi chiedeva nulla più della compagnia. La mia presenza lo rendeva di buon umore. Continuava a portare in giro le stoffe di seta e gli affari andavano bene perché quando si fermava presso i casolari subito l’attrazione più grande era la bellezza di questa bimba che offuscava quella della seta e le donne facevano a gara per aiutare quell’uomo che mi aveva amato senza che fossi figlia sua, questo era evidente. Avevo i capelli colore del grano come mamma Ada e i lineamenti non assomigliavano ai suoi. Il mio viso era rotondo, lineare, dolce, con le guance rosate e la carnagione chiara, mentre in lui prevalevano i tratti rigidi e severi. A parte l’accento spagnolo che lo rendeva particolarmente taciturno, a conoscerlo era squisito. Intonava le canzoni della sua terra abbandonandosi ai ricordi di quando era stato bambino. Mi diceva che gli bastava chiudere gli occhi per respirare il profumo del mare e dell’aria della sua piccola isola, per confondersi nel colore bianco delle case e l’azzurro dei tetti. Per risvegliarsi tra le tinte dei fiori con le mani piene di frutti. Frutti grossi come le zolle di terra mescolate ai sassi bianchi che di tante vite erano stati i testimoni. Provava nostalgia per la sua isola, perché l’aveva abbandonata in fretta, senza voltarsi a guardarla una seconda volta per paura di non riuscire a lasciarla. La amava come avrebbe amato una donna, con vivida ione. Senza provare indifferenza per il calore che gli dava, per quell’incapacità di scaraventarlo in alto mare. L’aveva trattenuto a sé volendolo contadino e non marinaio. Lo riempiva dei suoi
prodotti, rendendolo complice di raccolti abbondanti. Poi arrivò la siccità, quella piaga maledetta che riuscì ad aprire profonde ferite nei campi. L’isola pianse tutta la sua disperazione, mentre le piante si seccarono una dopo l’altra inchinandosi al volere della natura. Ma quella terra, caparbia, resistette trattenendo tutta l’acqua che nascondeva nel profondo delle viscere. Fino a mostrare il fuoco, fino ad ardere della sua stessa ione, fino a chiedere all’aria di portarsi via in un’unica folata tutto il verde, lasciandola senza colore. Desolata. Fu così che José divenne lo straniero. Non aveva più senso amarla in bianco e nero quando l’aveva posseduta nelle varie tonalità dell’arcobaleno. La sentiva estranea, spaventosamente ribelle, indomita, selvaggia. Il fuoco l’aveva snaturata della sua anima, l’aveva smembrata rivoltando la terra buona e sprofondandola in un pozzo senza fine. Per questo era scappato. Per questo l'aveva odiata, per averlo illuso di un'intesa perfetta ma che perfetta non era. Eppure andandosene aveva creato in quel lembo di terra una ferita inguaribile: quel contadino dalle mani grandi che odorava del profumo del mare, che non apparteneva più a se stesso, l’aveva lasciata senza un bacio o una carezza. L’isola aveva urlato la sua ira ai venti; la rabbia sconsolata nel vederlo partire e non poterlo trattenere l’aveva resa vulnerabile. Avrebbe potuto aprirsi e prenderlo dentro di sé, ma che senso avrebbe avuto possederlo in quel modo? Meglio la disperazione. Meglio aspettare che la giovinezza e bellezza ricomparissero a adornare il suo corpo e le lucciole s’infilassero di nuovo tra i fili d’erba, come fermagli preziosi. Sarebbe ritornato, un giorno, perché l’aveva amata troppo per riuscire a dimenticarla. Andandosene José aveva portato con sé le stoffe che gli rammentavano i colori delle sue origini. Ma quelle stoffe sarebbero state in grado di pulsare, e sussurrare, e amare, e di accoglierlo come un figlio? Non era nato per fare il mercante della seta. Era nato per vivere in quell’isola, ovunque sarebbe stato straniero. L’isola l’aveva generato e l’isola l’avrebbe ospitato nel suo lungo dormire. Senza di lei si sentiva solo. Era innamorato dei suoi tramonti, della luce tremula che si accomiatava sul velo delle onde, del fragore dell’acqua sulla battigia, della salsedine appiccicata alla pelle, del suo vigneto, di quegli acini di cui il sole e la luna erano gli unici padroni, della musica che lo accompagnava dappertutto. E delle risate che si faceva con gli amici, quelli veri, che gli volevano bene senza pretendere di giudicarlo. Questo gli mancava terribilmente, tutto ciò che serve da cornice a una vita qualsiasi per stimolare i sensi. José era un uomo semplice. Da piccolo nessuno gli aveva insegnato a leggere e a
scrivere se non il cielo e il mare. La natura gli si era offerta in tutta la sua interezza mostrandogli ciò che non c’era scritto in alcun libro. L’aveva formato diligentemente prendendolo per mano, ritornando sui i complicati più volte, facendogli sperimentare il sapore delle cose genuine e umili. Gli aveva insegnato la bellezza di vedere sempre un mondo in movimento: la trasformazione insita in ogni frammento di vita. Al dolore di una perdita sostituiva la gioia di una rinascita. Vista così la vita sapeva offrirgli innumerevoli sfaccettature. José trattava l’isola con rispetto, senza mai maledirla, anzi ricolmandola d’affetto. Era cresciuto con la convinzione che tutto l’universo era quello che gli appariva davanti agli occhi. Ma quando arrivò la siccità lo trovò impreparato, non aveva mai visto l’isola morire, ma solo trasformarsi. Quel lento spegnersi lo impressionò a tal punto da farlo scappare. Da allora tutto era cambiato: l’orizzonte, i confini del suo mondo. Aveva viaggiato, conosciuto nuove terre, culture diverse, mari più profondi, ma niente lo appagava realmente. Adesso che c’ero io le cose erano un po’ migliorate. Si sentiva meno solo nel suo peregrinare. A chi gli chiedeva come mi avesse incontrato rispondeva con una strana storia. Una sera si addormentò, solo e triste, piangendo per la sua vita, e tutt’ad un tratto sentì un tonfo vicino al suo giaciglio. Aprì gli occhi e vide una cicogna disperata che aveva perso il suo fagotto. Cercò inutilmente di aiutarla a recuperare il prezioso carico e quando alla fine, l’esile volatile, esausto, si rialzò in volo fece promettere all’uomo di prendersi cura dell’involto una volta ritrovato. Lo rintracciò e s’imbatté in una splendida bambina. Raccontava che andava di casa in casa con la scusa di vendere la seta per cercare la vera destinataria che, da troppo tempo, stava aspettando la cicogna, ma finora la ricerca era stata vana. La verità era che lui mi amava veramente. Era un uomo felice e io ero una bambina felice.
23.
Ada aveva ricominciato a mangiare e a dormire con uno sforzo terribile, affiancata da Ester e nonna Giulia. Lei, però, non era contenta, anzi non si ricordava più cosa volesse dire esserlo. Con Ettore non parlava più, ma continuavano a vivere sotto lo stesso tetto perché era sua moglie, nonostante tutto. Anche se fosse scappata sarebbe forse diminuito il suo grande dolore? Dov’era ora la sua bambina? All’inizio tutto era maledettamente nero, poi, un po’ alla volta, ricominciò ad accarezzare il suo gattone, ronf-ronf, che dolce nenia, che bello abbandonarsi tra il calore di quel pelo. C’erano le sue erbe, le piante da potare, le ortensie, il calore dei raggi del sole, la rugiada della notte, il profumo del basilico, l’odore pungente della terra, la dolce sensazione dell’acqua fresca, le essenze sparse nell’aria che il vento andava a depositare sulla sua pelle, il ricordo degli occhi della sua bambina e l’amore per Salvatore. Tutto questo la teneva in vita, non sapeva neppure lei come, ma straordinariamente le dava la forza necessaria per aprire gli occhi ogni giorno e cercarvi qualcosa di buono. Ester la accudiva come avrebbe fatto una madre, con dolcezza squisita, senza chiedere nulla ma dando, senza sosta, certezze e rassicurandola. Sfiorandola perché la solitudine, intesa come mancanza di contatto con il mondo, impedisce di guarire. Di sera Ada si appoggiava sulle gambe di Ester e si lasciava cullare mentre sognava una vita diversa. Ne aveva tutto il diritto. Senza che se ne rendesse conto il suo ventre si era spaventosamente ingrossato pur essendo vuoto dentro. Come Ettore aveva la sua protuberanza lungo il collo, lei aveva somatizzato il dolore nel grembo riempiendolo di lacrime, per ricordare a Ettore, ogni istante, la cosa che l’aveva resa più felice: generare un figlio di Salvatore, di un uomo che non era lui. E per quanto lui l’avesse allontanato lei era rimasta a testimoniare che l’amore è palpabile, a dispetto di tutto. Molti in paese si chiedevano quando avrebbe partorito Ada perché sembrava al termine con quel pancione, ma poi non accadeva nulla e rimanevano sgomenti nel vedere una gravidanza protrarsi oltre il tempo stabilito. A Ada non interessavano le supposizioni della gente perché nessuno conosceva
la sua bambina: per il paese io non ero mai nata! Ecco perché quando l’uomo dalla pelle scura girava per i casolari a nessuno era balenata l’idea di mandarlo nel casolare di Ettore, perché lì nessun bambino, preghiamo Iddio, era ancora nato. Su questo controsenso ruotava il dolore di una donna che agli occhi degli altri non aveva un solo motivo per essere triste. Come poteva dare scandalo del suo dolore se la vicenda che la vedeva protagonista aveva i contorni della casa delle ortensie e non andava oltre il portone che si affacciava sulla strada? Tutto si era consumato nel silenzio dei campi di grano, nessuno si era permesso di far trapelare qualcosa al di fuori delle mura del casolare. Il lupo, trasformato in salice, avrebbe voluto ululare quello strazio per renderlo noto a tutti, ma si limitava ad alzare i rami verso il cielo in segno d’intesa. Quando Ada usciva dalla casa la accarezzava per ricordarle che se il mago non l’avesse tramutato in albero magari Ettore se lo sarebbe mangiato. Ma, oramai, niente e nessuno avrebbe mutato il destino. Ciò era accaduto ed era accaduto realmente. Nelle notti d’estate Salvatore le mancava moltissimo. Quante volte ritornava con la mente al capanno dei piccioni e, per sua fortuna, aveva stampato nella mente ogni piccolo sussulto. Anche il vento le bisbigliava le parole che Salvatore, dovunque fosse, le dedicava.
24.
Salvatore era ritornato al suo paese dopo aver camminato per molti giorni. Sfinito, stanco. Solo il o lento e faticoso gli aveva spazzato via dalla mente i brutti pensieri, lasciandolo indebolito e triste. E lo sfinimento gli assicurava almeno il riposo del corpo. Quando la madre lo vide entrare in casa così malconcio, pensò, per un attimo, che stesse per morire. L’uomo iniziò a raccontare la sua storia, liberando i sentimenti, innalzandoli verso le nuvole e sciogliendosi le membra intorpidite. Poi una notte capì che avrebbe voluto vivere ancora, di nuovo, più di prima. Ogni sera, finito il lavoro, si sedeva vicino al mare e affidava ad un pezzo di carta poche parole, sempre le stesse: “Vi amo e vi amerò sempre. Un bacio alle mie due donne. Salvatore”. Piegava con cura il foglio e lo metteva dentro una piccola busta; come destinatario scriveva il nome di nonna Giulia con la speranza che Ettore non la leggesse. Ma, dopo un anno circa, non avendo ancora ricevuto risposta si rese conto che Ettore apriva e buttava via tutte le sue parole d’amore. In ogni modo era sicuro che almeno il vento avrebbe appoggiato sul cuscino di Ada quelle sillabe in cerca di un cuore in cui rifugiarsi. Viveva con quella certezza effimera, le si aggrappava con le unghie. Anche la speranza può diventare gioia di vivere. La sua vita scorreva lenta: di giorno usciva in barca a pescare con tre o quattro marinai, di sera si concedeva un tuffo nel mare proprio nel momento in cui le onde si calmavano, abbandonando lentamente la furia del giorno, per morire infrante sugli scogli. I gabbiani volavano vicino alla sua testa, immergendosi nelle acque terse per poi uscirne con la preda tra il becco. Il riposo, tanto atteso, alla fine della giornata arrivava, come una conseguenza naturale della vita. Cose semplici, prive di fretta, capaci di farsi gustare, belle nella loro banalità mai scontata lo circondavano e gli infondevano serenità. Al mare affidava il dolore del cuore e dopo una nuotata si sentiva sempre più
leggero come se l’acqua assorbisse un po’ della sua tristezza.
25.
La vita procedeva tranquilla per tutti, se così si può dire. Ognuno aveva cercato un modo per tirare avanti con dignità e coraggio, perché i veri valori erano tutto ciò che possedevano. Nessuno pensava di ottenere tutto e subito, la pazienza era la virtù che li avrebbe salvati, solo il tempo avrebbe sanato i loro corpi. Magari con la paura di riscoprirsi diversi, perché dopo la sofferenza non è facile accettarsi come persone nuove, in meglio o in peggio. Ma loro avevano la certezza di essere rinati a una vita nuova, nell'attesa di tempi migliori che li avrebbero riavvicinati. I vecchi avevano insegnato che a un cattivo raccolto ne segue uno buono. C’era ancora tempo per vedere sorgere il sole. Per sognare alla luce tenue delle stelle. Per innamorarsi della vita, di Dio e per vedere nuovo grano ammassarsi nella stanza grande, vicino al portico.
26.
Lo straniero aveva fatto proprio un buon lavoro con me: ero diventata una brava ragazzina di dieci anni. Mi aveva spiegato che non era il mio vero padre e che mia madre, presumibilmente, aveva interrogato tutti, vivi e morti, per avere mie notizie. Non mi diceva di Ettore perché sapeva che non poteva essere mio padre, su questo preferiva tacere. In cuor mio non avevo bisogno di spiegazioni perché quell’uomo mi aveva dato tutto l’affetto possibile e non avevo avuto il tempo di sentirmi abbandonata, o non amata. Questo, però, Ada non poteva saperlo. Gli angeli avevano vegliato sulla creatura, come avevano promesso. Di frequente intrattenevo le famiglie in cui andavamo a vendere la seta, perché ancora quel lavoro faceva José, con favole dell’Oriente che lui mi aveva insegnato per aprire la fantasia verso mondi lontani. Tutti mi ascoltavano mentre parlavo di donne dagli occhi a mandorla e della seta che scivolava di corpo in corpo in perfetto sincronismo. Parlando offrivo agli ascoltatori il profumo degli oceani, gli odori che inevitabilmente le stoffe si portavano appresso. La seta si vendeva da sola, nascondendo colori vivaci che si appiattivano contro un mondo in bianco e nero dove la sensualità si celava tra le mura spesse delle case, all’ombra da occhi indiscreti. Cose di casa. E le donne, finalmente, potevano risvegliare i corpi attratte dalle tinte intriganti pennellate sui tessuti. Come fossero sogni. Da amare, sentendosi per una volta speciali, perché quelle leggende davano una carica fuori dell’ordinario per coloro che le udivano. Mi divertivo ad emozionare con i miei racconti e le donne acquistavano la seta più per simpatia che per necessità, per la loro bellezza, per la freschezza nascosta oltre la luce che rifletteva. In ogni caso era bello vedere la genuinità di quella gente, umile nei desideri, che si accontentava di abbellire la vita con l’immaginazione. Io stessa non pretendevo di più di quello che avevo, andava bene così.
27.
L’idea venne a nonna Giulia una sera mentre riponeva le lenzuola nell’armadio. Perché non ci aveva pensato prima! Corse giù da Ada e da Ester. “Ho pensato di tessere una coperta riunendo tutti i nostri ricordi come fossero pezzi di stoffa per farli vivere di un amore eterno: ciascuna potrà esprimere il proprio animo come meglio crede. Volete aiutarmi?”. Una proposta strana quella di nonna Giulia, ma sarebbe diventato anche un modo per ritrovarsi, per parlare e per cucire. Per inventare un posto in cui lasciare cadere le difese e intrappolare il dolore, le piccole vicende quotidiane senza portarsi appresso un bagaglio troppo ingombrante. Si poteva fare. Anzi, iniziarono a lavorarci, senza disegni, così a caso, inserendo i tasselli della propria vita in vicende che riguardavano l’esistenza di qualcun altro. Per fondersi, per confondersi, per condividere. C’erano ritagli di stoffa che conservavano il pianto di Ester per la morte della madre, il profumo della lavanda assorbito dalle lenzuola pulite, i ricami di nonna Giulia, la piuma sporca di sangue del piccione simbolo del legame di Ada con Salvatore, l’erba bagnata dalla rugiada nelle notti trascorse accanto alle ortensie, i petali dei fiori, i vestiti di Angela e anche una lettera di Salvatore che Ester era riuscita a salvare dalla disperazione del padre. Fu per caso che la donna incontrò nella piazza del paese il postino. “Posso darle la solita lettera per nonna Giulia, mi eviterebbe un giro?” urlò l’uomo dalla bicicletta a Ester. La solita? Quale? Allora corse fino al casolare e la appoggiò sul tavolo della cucina in mezzo alle carote sporche di terra, ai peperoni e alle patate da pelare. Mentre si asciugavano le mani unte sulle gonne, Ada, Ester e nonna Giulia s’interrogarono sul contenuto della lettera. Fu Ada, alla fine, ad aprirla e il cuore le si spaccò: “Vi amo e vi amerò sempre. Un bacio alle mie due donne. Salvatore”. Così era scritto. Dopo dieci anni non si era dimenticato di lei e della piccola. La data era di un mese prima. Dio mio, era vivo, e le amava più di
prima. Oltre il tempo. Che gioia dentro la stanza! Alcuni segni del destino li manda il cielo perché la fantasia non riesce a crearsi un mondo perfetto, ma la realtà, talvolta, può sbalordire per l’impeccabile originalità. I particolari non sono mai da sottovalutare. Così inserirono anche quel foglio dove la scrittura sicura si metteva in bella mostra e il desiderio fuoriusciva dal calore della coperta. Non tralasciarono nulla. Ogni ricordo, anche il più insignificante, lo immortalarono lì, visibile ad occhio nudo: ormai diventato una certezza. A poco a poco la pancia di Ada iniziò a sgonfiarsi, il suo ventre dopo anni di frustrazione acquistò una dimensione naturale, abbandonando la ferita che aveva ingannato non solo il corpo, ma anche la mente. Si sentì svuotata, in senso positivo. Una sensazione piacevolissima le accarezzò il corpo. Percepiva che l’amore non era svanito ma cresciuto a dispetto di Ettore e degli eventi e questo le procurò una forza immensa. Dopo tanti anni si sentì rifiorire. La coperta lentamente stava assorbendo quel groviglio di emozioni che aveva accompagnato le tre donne, ognuna con la propria storia da raccontare, sotto il portico del casolare, dove gli unici testimoni erano stati i mattoni, i fili d’erba, gli alberi e il cielo. Ma loro avevano già dimenticato. Detto tra noi, a chi poteva interessare la storia di quelle povere donne se il cielo era pieno di richieste di aiuto e i mattoni avevano imparato a non assorbire come spugne le vicende familiari perché il loro compito era di rimanere impermeabili per garantire il caldo d’inverno e il fresco d’estate?
28.
Era ata all’incirca una decina d’anni da quando il falco aveva mangiato il piccione di Ettore e quell’evento lo aveva cambiato, radicalmente. Già durante il famoso viaggio di ritorno verso le vette innevate si era sentito stanco e debole. In realtà, dentro di lui qualcosa stava trasformandosi. E se ne rese conto quando non trovò più alcun interesse per le solite sfide o per Sheila. Come se il piccione gli avesse donato la sua missione. Iniziò a interessarsi degli incarichi che esigevano il suo contributo di uccello leale e ostinato. Volava dove c’era bisogno di avvisare qualcuno e tutte le altre strade sembravano impraticabili; partiva al bisogno senza che nessuno lo avvisasse, se lo sentiva dentro. Era proprio fiero di quello che faceva perché un falco così non si era mai visto dall’inizio dei secoli. E lui lo sapeva, stava aprendo una strada non battuta e per questo impervia, ma sempre ricca di soddisfazioni. Aveva deciso di osare quando la noia aveva preso il sopravvento sulla gioia di vivere. In quel preciso istante accettò il “piccione” dentro di sé. All’inizio non ammetteva che lui da predatore potesse essersi trasformato in preda e che quel buon piccione, perché caspita se lo era stato (sic!), avesse portato a termine lo scopo della sua vita proprio nel suo stomaco. E se il compito del piccione non fosse stato quello di avvisare Ettore ma di creare una nuova razza di falchi postini? Valla a capire la vita con tutte le sue sfumature. Adesso era un vero esperto nell’arte sottile di recapitare i messaggi del cuore e gli piaceva vedere gli uomini felici, anche se non c’era un vero legame con le persone cui riferiva le ambasciate. Una sera, dopo una giornata di duro lavoro, prima di addormentarsi ebbe una visione: sarebbe ritornato al casolare di Ettore, giù in pianura, per finire ciò che aveva iniziato tempo addietro. Partì con l’aria fresca delle prime ore del giorno; il sole stava dolcemente tornando a riscaldare le vallate coperte dai pascoli mentre si librava regale e paziente fra le nubi. Non gli pesava la strada che doveva percorrere perché un fine lo aveva, sapeva che qualcuno da qualche parte lo stava aspettando. Infatti, come giunse al casolare vide tre donne che coprivano il corpo di un uomo
sdraiato sul letto con una strana coperta variopinta, fatta di tanti pezzi diversi per forma, misura e colore. C’erano triangoli di lana, quadrati di lino, rettangoli di bianco cotone, e petali di fiori, ortensie seccate al sole, lacrime racchiuse in gocce cucite con ago e filo, e certo, come non riconoscerla, la piuma bianca del piccione. Bastava guardarla in tutta la sua bellezza per comprendere quali abili mani si fossero avvicendate su quell’unica trama per darle un senso compiuto. L’uomo aveva gli occhi chiusi e sembrava stesse riposando, ma un odore pungente fece capire al falco che la morte era arrivata prima del sonno e se l’era preso con sé. Le donne accanto al letto pregavano, Ave Maria, Pater e via di seguito. Le osservò più da vicino e si accorse che lo avevano avvolto nella coperta per seppellire insieme con lui il loro ato che, in qualche modo, era rimasto legato al volere di quell’uomo. Quell’uomo che se ne andava insieme al dolore, con la protuberanza sul collo e il rimorso per non essere riuscito ad accettare che la morte di Rosa diventasse un limite da superare e non un baratro in cui cadere. Loro lo avevano perdonato, regalandogli la loro vita che non era stata come l’avrebbero voluta. Però, così era accaduto. Quante volte ciascuna di loro aveva desiderato inventare una legge naturale secondo cui quando uno è stanco della propria esistenza rientra nell’utero materno e ci rimane fino a tempo imprecisato. Avrebbero voluto essere come i bambini non ancora nati che sono nell’aria e preferiscono oziare piuttosto che preparare un corpo in cui crescere. Stare in quella dimensione che non appartiene al reale, ma che si consuma nell’ardire di una mente anelante al porto in cui trovare la pace. Poi, la quiete si impossessò dei loro cuori, del loro sangue e la vendetta non trovò più un piatto su cui essere servita. Davanti al dolore elaborato non c’era più posto per il male. In tutti questi anni il gatto aveva protetto Ada e, quando Salvatore era stato costretto a lasciare il casolare, le aveva giurato amore eterno. I ronf-ronf erano solo per lei, perché anche se era un gatto aveva un cuore che batteva sotto il pelo e ne andava fiero. La gatta di Ettore l’aveva deluso più e più volte, sempre capace di civettare con i gatti di campagna, vagabondi e girovaghi. Insomma un po’ di pudore! va bene i finti corteggiamenti per richiamare quel po’ di gelosia necessaria per mantenere vivo un rapporto, ma flirtare senza timidezza poteva
significare che di sentimento non ce n’era, per nulla. Girò la coda senza ascoltare i suoi miagolii pietosi, orgoglioso di essere sempre stato un gatto tutto di un pezzo. Nel frattempo aveva legato con Ulisse, il cane di Eugenio che, come il suo padrone, se ne restava estraneo alle questioni femminili per quieto vivere e, poiché soffriva di cuore, per non immolarsi sull’altare della vanagloria. Ada era rimasta l’unica presenza femminile a cui riservava le sue fusa. Splendido gatto! Quel giorno nella stanza del morto c’era anche quell’ammasso di pelo rosso che tossiva a più non posso per una grave forma di rinotracheite che si era impossessata dei suoi bronchi. E stava vicino al morto con la speranza che tra tutte quelle preghiere, non si sa mai!, qualcuna potesse esaudire una sua precisa richiesta: quella di regalare, senza cattiveria, la sua tosse a quel gattone di cui si era perdutamente innamorata la gatta di Ettore. E nel chiedere non c’era malvagità, solo una buona dose di sano egoismo. Non c’era desiderio di vendetta, ma il volersi liberare di quel fastidioso bruciore allo stomaco che gli rodeva dentro. Il falco non capiva ancora perché Ettore l’avesse chiamato, ma più le donne pregavano, più la matassa si dipanava davanti ai suoi occhi. Finalmente Ettore gli parlò: “Ti affido un compito importante. Mi è venuto a trovare il mio colombo e mi ha parlato di te, del coraggio della tua scelta. Ora che sono morto vorrei riuscire a fare ciò che da vivo, per orgoglio e vigliaccheria, ho sempre rimandato. In un paesino vicino al mare abita Salvatore, un uomo sulla quarantina, lo riconoscerai perché vive senza il cuore: il suo l’ha lasciato qui nel casolare tanti anni fa. È giunta l’ora che ritorni e che consegni di persona la lettera a Ada. Poi va in cerca dello straniero: gira con una ragazzina di nome Angela che dovrebbe avere sui dieci anni e una carriola. Li riconoscerai per i colori della seta: saranno le tinte delle stoffe ad accecarti e a condurti da loro. Portali al casolare. Non ha più senso che rimangano divisi”. Il falco partì subito e il vento lo accompagnò.
29.
Salvatore stava mangiando dei pomodori conditi con basilico rozzamente tagliato in grandi pezzi, un filo di olio di oliva e una fetta di pane ancora caldo. Seduto accanto a lui c’era la madre. Non parlavano perché la giornata era calda e non volevano sprecare energia in inutili discorsi. Anche il silenzio vale la pena di essere vissuto. Il falco arrivò e si posò sulla sedia di fronte a Salvatore. Non aprì becco ma si limitò a lasciare cadere dalla lingua un petalo di ortensia rosa. Salvatore capì che Ada lo stava aspettando. Anche il mare intuì che era arrivato il momento di partire tanto che un’onda si congedò da lui con un inchino. Ad uno ad uno, i gabbiani gli portarono i propri saluti, come si fa con un vecchio amico, con un abbraccio sincero, ad ali aperte. Prese con sé pochi indumenti e partì verso nord.
30.
La carriola era piena di stoffe meravigliose, Ettore aveva avuto ragione nel affermare che era impossibile non notarle. Furono i colori caldi e fascinosi ad attirare il falco verso di me. Precipitò dentro la carriola e quando lo presi in braccio una voce mi indicò cosa fare. Sentivo che dovevo ascoltarla, anche se non c’era una spiegazione razionale in ciò che mi diceva. José insistette per accompagnarmi, voleva portare a termine il suo compito di “padre”. Prendemmo la carriola e ci avviammo verso il casolare, quel casolare che un giorno di tanti anni prima un porcellino aveva costruito con molto impegno per difendersi dal lupo cattivo. Dopo alcuni giorni di cammino Salvatore, io e lo straniero arrivammo al casolare. Tutti insieme. Bussammo. Ada aprì la porta senza aspettarsi di trovare lì suo marito - perché, agli occhi di Dio, Salvatore lo era - e sua figlia. Piangemmo tutti e tre, poi pianse Ester, nonna Giulia, José, il gatto, il cane Ulisse, i cespugli di ortensie, il salice. Anche la casa, che per Rosa non si era, invece, lasciata andare. Il falco ci aveva seguiti da lontano e quando vide che il suo compito era terminato riprese la rotta delle montagne. Con la pace nel cuore.
31.
Il grano era maturo, pronto per essere raccolto. I papaveri si confondevano tra le spighe dorate e attiravano gli insetti. Tutti, tranne me, stavano lavorando in mezzo ai campi, cantando e facendo festa. Con la seta che mi aveva regalato il mio amico prediletto sotto il braccio mi incamminai verso il cimitero. La lapide era semplice: una piccola croce di legno scolpita sopra un manto di fiori di campo. Ettore riposava lì. Avevo bisogno di aggiungere il mio perdono a quello di Ada, di Salvatore, di nonna Giulia e di Ester perché dopo aver scoperto la verità avevo provato una gran rabbia per quell’uomo che aveva scelto di non amarmi. A pensarci dovevo ritenermi fortunata giacché l’uomo a cui ero stata venduta mi aveva voluto molto bene. Il cielo era terso, un venticello leggero si insinuava tra i capelli: era la giornata ideale per imparare a volare. Presi la seta tra le mani e la appoggiai sulla croce: ora Ettore aveva di che librarsi nel cielo blu. Con la seta avevo, infatti, cucito due bellissime ali, gliele portai affinché non si adagiasse troppo sotto il calore della coperta in cui le tre donne lo avevano avvolto. Anche per lui era giunto il momento di andare altrove, magari da Rosa. Con l’aiuto della seta.
32.
Quando la barca attraccò al porto Josè provò una gioia indescrivibile. La sua isola era ritornata l’amata di un tempo. Bella, piena di colori, affascinante, colma di piante più verdi che mai, di frutti maturi, di fiori spontanei. Abbondante di lastre di pietra circondate di fichi d’India, e di costruzioni lineari, interamente imbiancate, con piccole finestre. Poi vide la sua casa con il cielo per soffitto e il vento, sfiorandolo, gli sussurrò quanto gli fosse mancato. L’amata ebbe uno sfuggente sussulto che solo lui riuscì a percepire. Finalmente era ritornato. Quanto aveva atteso quell’incontro! Le lacrime e la rabbia dimenticate… L’isola non gli chiese spiegazioni. Lo afferrò per mano e gli mostrò il suo adorato mare. Quel mare che lo avrebbe aspettato, se necessario, per l’eternità.
33.
Ester convolò a nozze con un bravo ragazzo del paese e fu la prima a lasciare il casolare delle ortensie. Subito dopo Eugenio se ne andò in giro per il mondo, fermandosi da José nella sua isola. Nonna Giulia si addormentò una sera senza risvegliarsi il mattino successivo. Anche Salvatore se ne andò di notte imprigionato nei sogni e nell’abbraccio di Ada. Quando al mattino la mamma lo svegliò con un bacio sentì la pelle gelida tra le labbra e non bastarono le sue lacrime per riscaldarlo. Si convinse che presto sarebbe venuto a prenderla ma, per mia fortuna, io, mamma e il gatto restammo insieme ancora molto a lungo. Le ortensie continuarono a crescere più rigogliose che mai. Sempre dietro la casa. Anni dopo un mattino mi affacciai alla finestra e non vidi più il salice. Al suo posto c’era uno splendido esemplare di lupo. Il mio lupo. Compresi al volo che il compito del salice era terminato: non c’era più nessuno da proteggere in quel casolare. Per un attimo pensai a me, ma mi resi subito conto che io appartenevo al lupo e non alla casa delle ortensie. Tutto era ato attraverso di me, ma io mi era distaccata da tutto. Chiamai la mamma ad alta voce e non ottenni risposta. La vidi in mezzo al campo di grano ricurva su se stessa. Sembrava stesse pregando con le mani giunte, con il vestito sollevato dalla leggera brezza mattutina e gli occhi aperti in segno di gratitudine verso la vita che l’aveva preservata così a lungo. Nascosto tra le braccia stringeva il gatto dal pelo rossiccio che l’accompagnò anche in quel misterioso viaggio. Premuroso, discreto, diligente e insostituibile gatto! Non sentii odore di morte, solo di semi che stavano per germogliare. Il lupo era accanto a me. Non lo temevo. E come avrei potuto? Quando era albero lo avevo accarezzato e abbracciato troppo a lungo per essergli estranea. Eravamo un solo universo, nel corpo e nel pensiero. La casa era appartenuta a Ettore, ai suoi figli, a nonna Giulia, a mamma Ada, a Salvatore, al gatto. Ma non a me. La mia sorgente inesauribile era ed è il mio amico lupo. Josè mi aveva insegnato ad amare la vita nelle manifestazioni della natura: la sua isola era la prova vivente di un amore così singolare.
Non fu per disperazione ma per gioia che mi scaturì dal ventre la forza di emettere l’unica vibrazione della mia esistenza, quella che mi permise di compiere la trasformazione. Dopo non gridai più. Mi staccai dalla vita e dalla morte.
34.
Sono ritornata solo per vedere se il tempo ha vinto sul casolare, ma noto con piacere che è sempre uguale, indescrivibilmente bello. Sono grata alla casa e a questa campagna che mi hanno insegnato a respirare da sola, attivando le mie facoltà naturali. È merito loro se vivo con tutte le potenzialità. L’infinito è dentro di me. Sui campi, quando mi volto, vedo le impronte delle mie zampe accanto a quelle del mio amico lupo. Siamo inseparabili. Sono libera e non ho più confini.
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