Stoneman. L’uomo Di Pietra. Lo Strano Caso Di Epis Epstein n2d27

© goWare settembre 2013, 1a edizione

ISBN 978-88-6797-108-4

Redazione: Alice Mazzoni

Copertina: Lorenzo Puliti

Sviluppo ePub: Elisa Baglioni

Illustrazioni: Michele Mariani

In copertina: Lea, di Michele Mariani

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Tessete, o Veggenti, l’opera inviolabile, inventate l’essere umano, create la razza divina, aguzzate le lance di luce per aprire il cammino verso ciò che è immortale… Rig-Veda; Canto X, 53

Presentazione

Mentre leggevo la storia di “Stoneman”, mi veniva da chiedermi: ma a che genere letterario si potrebbe assegnare questo strano scritto? A prima vista si potrebbe pensare al genere fantascientifico, e “Stoneman” è certamente, in un certo senso, un racconto di fantascienza.

In realtà è anche altro.

Via via che continuavo la lettura mi venivano in mente alcuni grandi nomi della letteratura cui l’autore, per alcuni versi, può certamente essere raffrontato: così ho riconosciuto il ritmo narrativo di Poe e ho ripensato allo Strano caso del dottor Jekyll e di mr. Hyde, finchè non è comparsa sulla scena della mia mente la figura del grande e visionario De Foe, flagellatore paradossale e immaginifico della società del suo tempo.

E in effetti il racconto di Bloom è soprattutto una straordinaria favola-metafora in cui trova espressione una critica impietosa e persino violenta contro alcuni aspetti della società contemporanea: contro il sistema medico-scientifico, prima di tutto, che vorrebbe sconfiggere la morte, ma che è divenuto mortifero oppressore della vita; contro la mercificazione del vivere e dei corpi, contro la pervasività del potere mediatico e così via.

In questo senso il racconto è simile a un pamphlet, veemente e spietato, espressione di un pessimismo radicale che sfiora la misantropia.

In realtà mi sono poi reso conto che il tentativo di conferire un’attribuzione del genere a questo scritto era un’operazione un po’erudita, diretta a contenere e controllare una certa ansia e inquietudine che la lettura provocava.

Uno scritto strano, dunque, e perturbante, così com’è anomalo e inquietante il suo autore che con l’eteronimo di Gordon Bloom ha collezionato fino a ora, nell’arco di tre decenni, per pochi intimi, opere anche più alte, ricche e complesse.

Uno scritto stilisticamente lussureggiante di immagini barocche, di aggettivazioni originali e incalzanti, di emozioni forti e intense. Uno scritto estremo e un po’folle, che credo si possa leggere anche in chiave esoterica. In questo senso è come un racconto di Apuleio, la metafora di un’iniziazione e di una trasmutazione alchemica.

L’iniziale, progressiva pietrificazione di Epis è immagine, sul piano individuale, della pietrificazione che sta schiacciando la società, e forse anche la specie.

Che cosa può salvarci dal degrado?

L’autore ci racconta cosa ha salvato Epis: la forza dell’Eros o, come direbbe Goethe, dell’Eterno Femminino, che rianima il bruto corpo materico del protagonista facendogli attraversare i vari stadi dei quattro elementi, dalla roccia (che ricorda, qui, la “nigra terra” degli alchimisti) al fuoco rigeneratore, all’acqua, all’aria; finchè Epis, liberato, diventa puro pensiero, panteisticamente immanente e partecipe del cosmo, emancipato dai gravami della individualità.

Sarà attraverso una simile apocalittica catarsi che la specie dovrà transitare?

Nel frattempo, per tornare a uno dei temi centrali del racconto, e cioè la dura critica all’istituzione medico-scientifica, ricordo le parole che un grande e visionario scrittore apocalittico contemporaneo, Guido Ceronetti, ha indirizzato ai medici e agli scienziati: “non toglieteci la morte!”.

Credo che anche lo scritto di Gordon emetta un grido analogo.

Un grido straziante, un anelito di libertà.

Secondo Giacobbi

Psicoanalista, docente presso la Scuola di Specializzazione in Psicologia Clinica dell’Università degli Studi di Milano

CAPITOLO I Meredith Hospital

Il mio nome era Epis Epstein, e la mia è una storia piuttosto strana da raccontare: cercherò tuttavia di essere fedele alla realtà dei fatti.

Molti anni fa frequentavo la St. Peter Medical School di Camcaine, nel Maine.

Stavo preparando la mia tesi presso l’Istituto di Anatomia Patologica dell’Università, sotto la guida del prof. Gilbert Morrison, autorità indiscussa nel campo dello studio dei meccanismi degenerativi delle cellule e dei tessuti necrotici.

L’Istituto era il fiore all’occhiello del Meredith Hospital: un imponente complesso esagonale che ospitava migliaia di pazienti e dava lavoro a centinaia di medici appartenenti alle varie specialità.

Come il Pentagono era la costruzione simbolo del potere militare della più grande superpotenza, così quell’esagono rappresentava il sigillo, l’incarnazione, il tempio della superpotenza globale chiamata Medicina.

Tra quelle mura si svolgeva uno spettacolo grandioso e molteplice: sale chirurgiche in cui i corpi venivano smembrati e ricomposti, violati, marchiati e perduti o sanati e ricostruiti sotto la lama luccicante del bisturi e di laser di nuova generazione.

Il Meredith era una grande città-stato dove la potenza crescente della Medicina faceva sentire impotenti e bisognosi di una via di salvezza, di fughe dalla morte sicuramente introvabili, scorciatoie ove la vita veniva prolungata alla sola condizione di segregarla in ambienti moribondi, asettici e devitalizzati.

All’inizio del mio apprendistato avevo imparato a vedere quella forma esagonale come un alveare composto da laboratori, biblioteche, sale congressi, ascensori che trasportavano malati, moribondi e cadaveri da un piano all’altro, da un reparto all’altro, da un medico all’altro, da corsia a corsia, da infermiere a infermiere.

Mense, obitori, uffici di prenotazione, sale di attesa, sportelli bancari, cappelle mortuarie, lavanderie, depositi di farmaci, scuole di medicina e di specializzazione, uffici tecnici per le riparazioni o sostituzioni di strumenti sempre più avanzati, sempre più complessi, sempre più prestigiosi per chi poteva servirsene allo scopo di identificare il nome della malattia, il marchio del parametro alterato, il codice del quadro clinico da censire, catalogare e intorno al quale mobilitare eserciti di specialisti, di microscopisti, di tecnici radiologi, di farmacologi, di cappellani, di esegeti della malattia, di officianti e novizi avvezzi a onorare il catechismo e i dogmi di quel culto immane.

Man mano che mi inserivo nell’organizzazione di quella grandiosa struttura, inquadrato in quel brulicare megalomane, arruolato volontario nell’esercito della medicina, mi pareva di venir fagocitato nel ventre di un mostro negromantico.

All’inizio ficcavo i miei occhi per ore negli obiettivi sublenticolari di quegli abominevoli strumenti che sono i microscopi elettronici e che non studiano la vita ma i suoi artefatti, quale essa appare dopo essere stata scientificamente distrutta e preparata per essere compresa da un intelletto che teme la morte e il tempo.

Mi ero adattato a vivere, senza accorgermene, in un universo catabolico, catasfrofico, in un mondo di disfacimento subcellulare, di necrosi infinitesimale nel quale – insieme alla mia anima – avevo perso il senso della vita.

A furia di immergermi nelle voragini di strutture e concrezioni sfatte, calici della morte, tessuti purulenti, non guardavo più il mondo in cui vivevo, l’ambiente vitale in cui mi trovavo: la casa, le vie, le piazze, il volto della gente, della mia ragazza Lea e il mio stesso viso.

Ecco, davanti ai miei occhi si manifestava un Leviatan onnivoro che non possedeva alcuna pietà o comione. Era un Moloch in cui ogni barelliere, ogni rombante pronto soccorso, ogni presidio notturno sempre allertato si sentiva l’avamposto di una Invincibile Armada onnipotente che si era raccolta intorno a quei sei bastioni invalicabili per fare guerra al Tempo.

Schiere di pazienti-vittime erano felici di darsi in pasto al tunnel vorace di una tac, pronte a farsi invadere da elettrodi e microtelecamere, sensori e by, rivelatori di radioisotopi e impianti di radiologia, a farsi spiare e raffreddare l’anima dall’imperscrutabile occhio terminale di una fibra ottica.

Potevano sfilare davanti alla mia memoria i visi di un’umanità bizzarra e varia, quelli delle persone che avevo solo intravisto, etichettato, catalogato nelle casistiche che ero stato addestrato a compilare. Visi che portavano stampata la maschera della malattia, ma che non avevo mai veramente guardato nel corso del mio apprendistato di studente.

Li potevo vedere nella rapida ma intensa successione con la quale si presentavano alla mia memoria, per riscuotere la merce più rara che esista e che

tutti chiediamo in prestito perché ce ne sia concessa almeno un’oncia: l’attenzione.

Ecco il viso del neonato e quello del politico, quello della giovane appena mestruata e della casalinga in menopausa, ecco il cantante rock – bianco come la cera prima di sottoporsi a un esame di routine – e il cardinale che ostenta sicurezza, l’operaio preoccupato dell’esito dell’operazione al quale è stato sottoposto – non per sé ma per la moglie che lo adora. Ecco il single al suo quinto intervento, che in reparto si sente come a casa sua.

Ma ecco che, in questa Città della Salvezza dove si poteva vivere un’intera vita – nascere, crescere, studiare, assistere, essere assistiti, agonizzare e morire – mi rigurgitavano nella mente i volti degli esperti in comunicazione, quello dei portavoce e dei portaborse dediti al reperimento dei fondi, a caccia delle donazioni, alla gestione finanziaria e amministrativa, alla creazione del consenso mediante i comunicati stampa, i bollettini quotidiani sullo stato di salute, le fughe di notizie relative alle scoperte scientifiche dell’ultimissima ora: vere grida urlate al mondo per informare le folle sugli esiti della guerra contro il Tempo, i trionfi del Drago contro la morte, il dolore e le malattie.

Mi resi conto, al termine di queste ossessive rivisitazioni, ri-vivisezioni del mio vissuto ospedaliero, che in questo megaesercito della medicina nel quale mi accingevo a servire e a dare i miei anni migliori, io stavo diventando un disertore. Forse, senza rendermene conto, per i sentimenti che cominciavo a nutrire e per i pensieri che mi istigavano… disertore lo ero da sempre.

I settori più militarizzati e dai quali avrei voluto fuggire, erano quelli dell’alta chirurgia, delle biotecnologie, dei trapianti di organi e tessuti.

Constatai che vi era una fusione completa tra le figure dei più eminenti

professori, operanti con la loro divisione specialistica di “forze scelte” e la militarizzazione elettronica, biochimica, tecnologica.

Altre divisioni o brigate, come quella degli analisti, dei detective delle malattie, dei patologi sezionatori di cadaveri alle quali avevo rischiato di appartenere – operanti nei meandri e nei recessi di inesplorati e profondissimi strati e piani sotterranei del Meredith Hospital – agivano come una polizia segreta per scoprire le apparizioni del Tempo nel tessuto cellulare degli organismi.

Eppure, non potendo vincere il Tempo, ma solo contrastarlo, la Medicina aggiungeva alla dominazione dell’ineluttabile dio Cronos, la propria condanna. Creava una seconda schiavitù che si plasmava alla mia percezione, di giorno in giorno, come più crudele, idolatra e minacciosa della prima.

La mia diserzione nasceva da un mio intimo, risoluto e silenzioso “no” – nato chissà dove, chissà quando, chissà perché – a muovere guerra al proclamato nemico, poiché divenni consapevole che io non odiavo il Tempo. Al contrario, invece di resistergli, di contrastarlo, lo riverivo come un potenziale alleato.

Percepii che un grande ospedale è il posto ideale per perdersi, per consumare un delitto, scambiare un neonato o falsificare i rilievi di un’autopsia.

Mi si affollavano alla memoria i casi irrisolti di sparizioni, di morti sospette che anche recentemente si erano verificate nelle silenziose corsie del Meredith, ma il cui numero i Responsabili dell’Immagine avevano prontamente dichiarato essere al di sotto della media delle casistiche ufficiali.

Realizzai che prima d’allora avevo sempre tralasciato di considerare un fatto

semplicissimo: i bambini ci offrono un messaggio che proviene dalla loro innata percezione.

Essi sono particolarmente timorosi di recarsi in ospedale. Proprio come la paura dei dottori è qualcosa che si può coltivare a loro stesso vantaggio, lo stesso vale per la paura degli ospedali. Naturalmente un bambino dovrebbe essere aiutato a esprimere le sue paure. Invece avviene sempre la stessa cosa: i suoi timori non sono presi seriamente e viene “rassicurato”, “normalizzato”. La sua coscienza viene abusata e sterilizzata per diventare un consumatore obbediente di servizi sanitari, dell’industria della “salute”.

Se ai bambini la paura è negata, gli adulti hanno invece imparato a essere timorosi di esprimerla, di ammetterla. I sacerdoti del tempio approfittano della ignoranza e della reticenza rassicurando, affermando che “non c’è nulla da temere”.

Invece, mentre stavo forse imparando a guardare per la prima volta il luogo in cui mi trovavo, mi accorsi che il dio che vi si venerava non era altro che la Morte.

L’unica via di scampo, temporanea, era forse quella di mimetizzarsi, di fingere rimanendo all’interno del grande esercito vittorioso che sconfigge la malattia e il dolore, continuando a idolatrare il Minotauro.

Altrimenti mi avrebbe sacrificato sull’altare-letto operatorio in nome del dio della salute istituzionale, della normalità condivisa e dei parametri considerati accettabili.

In un mondo di folli, per sopravvivere, conquistare e salvaguardare la propria integrità, era forse necessario riuscire a imitare perfettamente l’altrui follia dopo averla diagnosticata, rifiutata e vinta in se stessi, sviluppando la vera ratio, l’umile lume della ragione.

CAPITOLO II Iniezione a-mortale

ll mattino è il momento più rischioso della giornata, perché c’è il pericolo che nel corso della notte il mondo sia cambiato completamente.

Quando non è il mondo a cambiare, siamo noi, a volte, a mutare pelle e a ritrovarci con nuovi ospiti che hanno attraversato come relitti le turbolenze notturne del mare del caos.

Fino a quel momento avevo vissuto al riparo dalla vita, avendo cucito tutto intorno al mio essere uno straordinario tessuto artificiale, simile alla muta di un subacqueo che nuota nei fondali senza avvertire direttamente il contatto con l’acqua.

Nel sogno notturno che precedette un mattino fatidico, mi trovavo all’interno di un monumentale laboratorio. Ero riuscito a sintetizzare un estratto di tutte le malattie mortali, una summa biologica che rappresentava la quintessenza delle patologie più letali. Avevo creato una coltura di virus e batteri proliferanti in pustole necrotiche, in liquidi degenerati e putrefatti, in organi colloidali colliquati dentro corpi nei quali l’impulso vitale era stato cacciato e le trame della vita distrutte.

Sì, in sogno avevo fabbricato una sostanza che era l’informazione stessa della morte: un prodotto che rappresentava la materia cadaverica per eccellenza.

Ero riuscito a condensare l’essenza di tale materia nigra in una provetta e infine a estrarne poche gocce: la substantia stessa della umana vulnerabilità.

Nel sogno pensai di servirmene come un vaccino assoluto contro la malattia, la senescenza e la degenerazione organica. Un vaccino che, contenendo la memoria presente e futura del destino mortale di tutti i viventi, avrebbe potuto destare nel mio organismo una risposta opposta e contraria, una reazione a-mortale.

Nel delirio della realtà onirica che stavo vivendo, pensavo lucidamente di aver creato qualcosa che avrebbe generato nelle mie cellule, nel bios della mio corpo, un secreto non-mortale: qualcosa capace di contrastare la morte, un distillato della natura immortale.

Ricordo con trepidazione l’atto magico che mi permise, nella vivida esperienza del sogno, di iniettarmi quel temibile pus, quel concentrato letale nei confronti del quale pensavo follemente di potermi immunizzare.

Dopo l’iniezione che mi praticai endovena con fredda determinazione, mi sentii sprofondare in uno stato di deliquio. Sognavo – dentro il sogno originale – di assistere, da parte delle forze vitali del mio organismo evocate con così spavalda o incosciente efferatezza, a un’imponente riscossa biologica, a una vittoriosa ribellione vitale in grado di fare del mio corpo un organismo mutante dotato di anticorpi antimorte.

Poi i pensieri e le impressioni del secondo sogno si dileguarono e fluirono nel primo. Mi ritrovai a contemplare le vetrate delle grandi volte del laboratorio nel quale l’esperimento aveva avuto luogo. Un tempio di cristallo in cui le forze anti-vitali erano state sfidate anticipando la morte e accettandola in sé, come in un rito.

La luce che filtrava dal tempio fu l’ultima cosa che vidi prima di riaprire gli occhi, quel mattino, nella mia stanza.

Non fu facile riaprirli.

Mi sentii sveglio, ma provavo l’indefinita sensazione di essere diventato pesante. Molto pesante. Mi sentivo un macigno. Avvertii diffusamente in tutte le mie membra un opprimente senso di pesantezza muscolare e ossea. Ero invaso da qualcosa che non apparteneva alla natura umana, ma a quella minerale, rocciosa, marmorea.

Prima di allora mi ero sempre svegliato diventando innanzitutto cosciente della posizione del mio corpo, della mia postura che in quella circostanza pareva immobilizzata nel tempo, quasi scolpita nella notte da una mano ignota. Mi sentivo pietrificato, cristallizzato.

C’è chi si sveglia con la luce, chi con i suoni che provengono dall’ambiente circostante.

La scienza non ha mai studiato a fondo i meccanismi con i quali la consapevolezza si eclissa nel sonno, come e attraverso quali processi essa riaffiori in superficie, dopo l’inconscio vagabondare notturno, restituita all’attività di veglia.

Tuttavia, per quanto mi riguardava, ritenevo di possedere una minima capacità di discernimento, sufficiente per poter affermare con certezza che il mio

meccanismo di risveglio non era determinato da stimoli esterni, ma da sensazioni fisiche interne, input sensoriali autogeni, microconsapevolezze motorie, posturali, neurali. Per questo posso ben dire che ero sveglio, anche se a occhi chiusi. Non riuscivo difatti a sollevare le palpebre. Le avvertivo pesantissime, refrattarie ai miei comandi, disobbedienti e inerti.

Le mie palpebre sembravano aver assunto la consistenza di pesanti botole di basalto calate sopra il fondo oscuro delle mie pupille allo scopo di impedirmi l’accesso alla luce.

Insistetti qualche minuto nello sforzo che all’inizio mi parve sovrumano, e alla fine riuscii a scorgere di nuovo la mia stanza.

Intanto avevo preso in modo forsennato a registrare i miei sintomi e a confrontarli con il quadro clinico di alcune patologie rare.

Preso dalle mie elucubrazioni cliniche, impiegai venti minuti a sollevarmi dal letto e a mettermi in movimento, sempre con un senso di oppressione, di indurimento che attribuii allo stress, ai postumi di una possibile intossicazione, di un sonno contratto anziché quieto e ristoratore.

Pensare in termini clinici, ipotizzare strane sintomatologie, mi infuse una certa sicurezza. Dopotutto era l’unico mondo che mi era familiare, nel quale mi muovevo a mio agio, come nel laboratorio di anatomopatologia dell’università ove stavo conducendo i miei studi.

Fino a quel mattino ero riuscito a pensare alle alterazioni e alle degenerazioni anatomiche e funzionali di cellule e tessuti, organi e corpi, in modo freddo,

distaccato.

Morte e malattia erano eventi che avvenivano in un pianeta lontano, non disegnato nelle mappe della mia geografia mentale, del mio vissuto personale.

Erano fenomeni da osservare, scrutare e analizzare con la composta attenzione con cui mi immaginavo che un astronomo studiasse le fredde stelle del creato.

Ma mentre l’astronomo può sentirsi un microbo in un universo inconcepibilmente grande, io mi sentivo immenso, consapevole di avere un organismo così vasto da poter accogliere in sé grandiose colonie batteriche e virali, incalcolabili popolazioni di cellule differenziate che di generazione in generazione risiedevano in me come in un humus vibrante, con tutte le loro progenie, le innumerevoli stirpi di microrganismi e intere linee di tessuti specializzati.

Con la mia consapevolezza di scienziato che sezionava la malattia e interrogava la morte, inseguendola con il microscopio ottico ed elettronico nelle sue volute cellulari, subcellulari, fino alle soglie ultime della materia in decomposizione, io navigavo in particole e sezioni di organismi devastati, in universi organici lacerati e disfatti, tumefatti.

Mi resi conto, quel giorno, che si può diventare quello che si studia e si conosce perché in realtà abitavo stabilmente nell’universo che contemplavo: voragini ove le forze distruttici dell’universo si erano precipitate vittoriose, lasciando i loro simboli e sigilli nelle estreme fibre della carne degli uomini.

Le malattie uniche e rare, le patologie sconosciute, un tempo mi affascinavano.

Studiavo i fenomeni di morte per autocombustione, le mummificazioni spontanee, le morti rapide che apparentemente non lasciano il segno nei respiri della materia, come se la morte volesse essere compresa solo da suoi fedeli seguaci, disposti a investigare su di essa, sui suoi i e sulle sue esili tracce e insospettabili impronte biologiche.

Mi accorsi con sgomento che io non amavo la vita, perché ne vedevo appena l’ombra.

Invece della vita che pulsa, fermavo la mia attenzione catatonica sull’attimo immobile, pietrificato nei fissatori chimici dei preparati anatomici. Cercavo, come il professor Morrison e la sua corte di colleghi e allievi, tecnologici negromanti, il segreto della vita attraverso il suo contrario. Alla stregua di un oscuro fotografo che solo dal negativo sa scrutare l’immagine della realtà, dopo averla negata, vilipesa e contraffatta ad arte.

Ma l’insieme dei negativi che avevo osservato nel corso di un’intera carriera di studente, non mi aveva mai restituito l’immagine reale, il senso e la bellezza dei moti vitali che creano l’ebbrezza, la discontinuità, le pulsioni e le ioni della vita.

Anzi, mi aveva trasmesso qualcosa di più pericoloso di qualsiasi virus mortale: anch’io ero stato contagiato da uno speciale e anticipatore rigor mortis.

Così sentivo che il mio corpo era in procinto di paralizzarsi, perché il mio intero essere si stava… mineralizzando.

Fugai istintivamente l’ipotesi di una possibile immobilità permanente. Il decorso

della mia malattia, sebbene inesorabile, si manifestò con una modalità lenta e strisciante, ma perfetta nel progressivo incedere che mi portò infine alla paralisi totale. Prima di sentirmi sigillato per sempre nei confini del mio corpo come una statua vivente, lottai contro l’esito del mio sogno fatale opponendo a esso una resistenza eroica quanto vana.

Per alcuni mesi riuscii ancora ad alzarmi, sebbene con sforzi che anche voi definireste al limite delle umane possibilità. Ogni ora che ava portava con sé un incremento costante e nello stesso tempo vertiginoso, in termini percettivi, dell’iniziale senso di pesantezza.

Il tatto fu uno dei primi sensi che cominciò a involvere, degenerare, mutare, virando verso un mondo di pietra e calce.

Le cose che riuscivo a toccare non mi rimandavano più alcuna sensazione di caldo e di freddo; non distinguevo più le superfici scabre da quelle lisce, le morbide dalle ruvide.

Ero diventato completamente insensibile, come del resto la mia lingua che non riconosceva più i sapori, il gusto dei cibi, il dolce e il salato, l’amaro e il piccante.

Stavo morendo dentro ai sensi, stavo morendo alla sensorialità, alla percezione.

Alzarmi diventava sempre più un’impresa impossibile: potevo impiegare un tempo interminabile per riuscire a ergermi sulle mie gambe o, più avanti, a mettermi seduto con il busto eretto. Le mie contrazioni muscolari volontarie si fecero, nel volgere di alcune settimane, molto lente e faticose. Fino a che si

rivelarono chiaramente sospette: apparivo sempre più simile a una sagoma compatta capace di abbozzare alcuni gesti approssimativi, rozzi, senza forma e armonia, privi di alcuna umana destrezza o eleganza.

La sera, quando riuscivo a portare a termine il minimo repertorio di comunicazioni posturali e gestuali, coricandomi mi pareva di addormentarmi avvolto in una pesante armatura, in uno scafandro…di pietra.

Sì, di pietra!

Poiché non si trattava esclusivamente di pesantezza, ma di una sensazione di durezza, di inerzia, di ineluttabile calcificazione e cristallizzazione.

Solo guardando al microscopio il campione di un’autobiopsia che ero riuscito a praticarmi trascinandomi, di notte, nel laboratorio a me ancora accessibile, mi resi conto in cosa mi stavo trasformando: le mie cellule stavano diventando simili a trabecole ossee folgorate all’istante da una morsa citologica cancrenosa. Le loro membrane stavano mutando in croste micromagmatiche subito rapprese, debolmente pulsatili e preda di un soffio vitale involutivo, catturate in un rete di immobilità sovrana per cui nel nucleo dominavano inedite morfologie gotiche, ignoti metabolismi paleobiologici, atolli molecolari fatiscenti e stormi di atomi privi di architettura.

Realizzai in quel momento che qualsiasi termine io avessi cercato di utilizzare per adombrare di significato la mia condizione, sarebbe stato assolutamente inadeguato, dato che il linguaggio della scienza e quello simbolico non avrebbero potuto affatto esprimere la particolarità della mia esperienza. Piuttosto, i codici e le regole del linguaggio avrebbero contribuito a divorarla e a rinchiuderla nella colta prigionia della descrizione concettuale, occultandola dietro una cortina di definizioni astratte.

Ricordo ancora con sgomento la sera in cui la mia ragazza mi sfiorò il volto con paura, quasi a cercare attraverso la mediazione dei suoi polpastrelli la conferma di un intuitivo senso di angoscia che aveva iniziato a nutrire nei miei confronti. A contatto con la mia guancia, l’urlo che emise rivelò tutto l’orrore che la mia pelle poteva comunicare: ruvida e resistente, quasi deformata in scaglie scomposte in alcuni tratti, mentre in altre minuscole porzioni si faceva allineata, dura e squamosa simile a quella di una antica iguana.

Dapprima rifiutai di sottopormi alle visite meticolose quanto estenuanti dello stesso professor Morrison, fino a quando anche la mia immagine esterna mutò e la mostruosità divenne eclatante.

Quando venni ricoverato in un letto del Dipartimento di Anatomia Patologica nel quale prima esercitavo il mio apprendistato di aspirante anatomopatologo, il mio organismo era ormai più simile a un mummia marmorea che a quello di un essere vivente. Dire che il mio sonno era più pesante della pietra, corrispondeva a una tragica e veritiera metafora.

Se la notte ero inghiottito da un’oscura e sonnolenta geologia organica, tenebrosa e crudele, i miei giorni divennero a poco a poco incompatibili con la vita, almeno con la vita che ordinariamente conoscevo.

Sentivo d’essere il frammento di un vulcano, un lapillo nato nel nucleo caldo della Terra, vissuto inconscio per innominabili ere nelle sue viscere di lava incandescente e poi lanciato nel cosmo, nel mondo dei viventi, solo per un attimo consapevole dinnanzi alla prospettiva della morte e, un istante dopo, subito freddo.

Dell’antica sostanza terrestre mi pareva di conservare la memoria nel mio sangue diventato viscoso come un magma ignoto, la cui composizione – quasi siderale – interessava di più i geologi, dopo aver sconcertato e fatto impazzire i primi “esperti” che si erano precipitati avidi di morbosa curiosità a studiare il mio “caso”.

Al posto del cuore, un piccolo soffione eruttava nelle mie arterie un magma che esalava gas non identificabili ma capaci di indurre la fermentazione – sulle pareti dei bronchi e degli alveoli polmonari – di sostanze sulle quali si innestarono e crebbero colonie di esseri microscopici ch’erano al limite tra il regno inorganico e l’organico, simili a licheni e a muschi voraci.

Questa microvegetazione che si differenziava a seconda della localizzazione organica e delle funzioni e mutazioni che si rincorrevano frettolosamente, occupò quasi tutto il mio corpo che chiamo di pietra solo per eccesso di semplificazione. In realtà i paleogeologi lo identificarono quale aggregato multiforme in cui coesistevano neoformazioni costituite da aree di basalto, letti di limo, plaghe d’arenaria e mucose d’argilla (là dove prima esistevano i tessuti molli), ma anche colloidi rivestiti d’alabastro, porosità di membranosa ardesia, pomice, lava, marmi e graniti che si erano insediati sostituendosi al derma e ai volumi muscolari, sottostanti frammenti di formazioni carsiche, piriti ghiandolari, mucose fluorescenti e silicee, granuli di quarzo, impalcature scheletriche di ossidiana, grumi di titanio, sferoidi linfatici di opale…

In questo compendio dell’organico che involveva verso l’inorganico, con radiografie speciali erano state dimostrate inclusioni metalliche di rame, magnetite, ferro, cromo, carbonio cristallizzato, argento, magnesio…

La mia pelle intanto era mutata rivestendosi di marmo bianco solcato da venature che imitavano con arborescenti solchi regolari la microcircolazione sottocutanea. I miei occhi rimandavano i riflessi di una crisalide d’ambra al cui centro brillava l’oscurità a tratti diafana della pietra onice che aveva invaso e

sostituito la pupilla. Un’umida linfa di stagno circolava tra gli anfratti, le organiche stalattiti e stalagmiti dei miei organi cavi. Il mio stomaco era divenuto un antro cavernoso sulla cui macilenta mucosa calcificata crescevano muffe multiformi che a loro volta deperivano depositandosi strato su strato e formando terreni di coltura adatti per la proliferazione di altre forme di vita che si installavano in ogni molecolare pertugio.

I miei polmoni, non più flessibili ed elastici, si erano progressivamente irrigiditi e sclerotizzati in uno spasmo sospeso tra l’espiro e l’inspiro. Pur vivendo attraverso una forma di misterioso metabolismo extrapneumatico che garantiva fino a quel momento la mia residua e miracolosa consapevolezza, vivevo come sospeso in una sorta di attimo eterno, non respirato, non consumato, eppure così lento nel suo meccanico e stregato automatismo da non essere a tratti percettibile.

Di notte, quando cessava il pernicioso vociare dei luminari che si alternavano discutendo intorno al mio capezzale, riuscivo a udire il debole soffio del sibilo generato dall’aria che saliva dai miei mantici alveolari, nelle ramificazioni dei miei bronchi ridotti a lugubri corridoi di corallo. Ben presto cominciai a sospettare che quel suono soffocato non fosse prodotto da una dinamica vitale respiratoria, anche se alterata, minimale, ma semplicemente dalle correnti calde e fredde che le cavità e le nuove strutture mineralizzate del mio corpo determinavano nei confronti dell’aria esterna. Quel rantolo era causato da un semplice vortice di gas rimescolati in virtù di pure leggi fisiche, quelle della dinamica dei gas che tendevano anch’essi a un iniziale caos, un fittizio turbinìo per risolversi infine in una risolutiva quiete, nella stasi.

La mia voce era diventata progressivamente fredda, glaciale e infine goffamente rauca, dura, priva di qualsiasi notazione emotiva. Ci fu un breve periodo intermedio in cui, a seguito dei miei sforzi, sembrò fissarsi in una specie di eco metallica, ma poi la sostanza metallifera del suo timbro ferroso, anzi rugginoso, degenerò nella sua primitiva miscela di toni metalliferi. Riuscire a emettere suoni, se così si potevano chiamare i miei tentativi di comunicare con la parola o

la voce, costituiva un azzardo, uno sforzo immane.

Attendevo la morte, il momento in cui il mio cuore-vulcano si sarebbe fermato, avrebbe cessato di emettere quello strano liquido magmatico che si ostinava tenacemente a circolarmi dentro e a generare sorprendenti fermenti, tenendomi “in vita”.

Non so se a causa della cristallizzazione di una o più valvole atriali, ventricolari o se questo accadde per via delle sue fibre muscolari non più contrattili, oppure per effetto della compressione esterna generata dai microfenomeni tettonici dei terreni-tessuti rocciosi circostanti…tuttavia, un giorno, quello che possedevo nella cavità ove una volta vi era il cuore, smise di fornire slancio vitale a tutto l’organismo.

Speravo nella morte, ma… non morii.

Tutto si era fermato, eppure la coscienza non era cessata.

La morte è un lusso in certe dimensioni esistenziali.

A tratti sentivo nei miei strati superficiali, un lieve contatto caldo: era quello di Lea.

Pensavo a quel che doveva essere riuscita a superare per affrontare il terrore che la mia sola presenza poteva evocare. La sua carezza era l’unico atto capace di sprigionare in me una qualche reazione manifesta, una debole contrazione o

sommovimento vibratorio.

Oppure la sua mano determinava l’aumento nei miei pori di marmo, di una secrezione caratteristica che gli specialisti avevano imparato a interpretare quale segnale vago-geo tonico di scarico tensionale. Era il risultato di una emozione consapevolmente percepita dal soggetto che andavano indagando, considerandolo tuttavia non più un essere umano, ma una assurda anomalia della natura.

Qualsiasi intervento di analisi, anche privo di pietà, poteva sembrare dunque giustificabile.

Intuivo di non poter contare a lungo sulla presenza di Lea, che in qualche modo era riuscita a diventare l’interfaccia dei miei “contatti” con l’esterno, diventando così il sostituto della mia vera pelle.

Pur continuando ad aspirare alla morte, qualcosa di immensamente profondo, in me, smise di disperare, di temere, di gemere.

Ero abitato da qualcosa che non conosceva la paura.

Questo nuovo Sè che affiorò silenzioso e ancestrale, sconosciuto e terribile, era talmente affascinato da questa discesa agli inferi da lasciarmi andare totalmente alla vertiginosa avventura a cui il mio sogno a-mortale aveva dato inizio.

CAPITOLO III Videochannel

Quando Lea decise di lasciarmi, il muro che aveva innalzato intorno a me per proteggermi o tenermi tutto per sé crollò. Improvvisamente scoprii di essere rimasto senza una membrana, privo di un filtro osmotico con il mondo esterno..

Le notizie del mio stato, del “ fenomeno” di cui ero vittima e protagonista, superò gli argini dello specialistico mondo clinico-accademico, molto geloso della “sua” scoperta, quasi fossi una proprietà del nuovo nucleo anatomopatologico che si stava formando intorno al mio “incredibile caso”, come lo definì lo stesso professor Morrison.

Intere equipe di suoi colleghi e ricercatori sempre più sconcertati arrivavano solerti e ammirati in pellegrinaggio, non più solamente da tutti gli States, ma da prestigiosi Istituti di tutto il mondo. Il reparto era diventato un santuario clinico e la mia camera una cappella ove morte e vita, necrosi e ignoti processi vitali si potevano adorare, riverire, osservare e studiare “dal vivo”.

Il primo a cavalcare la notizia fu il Camcaine Chronicle che mi dedicò un titolo in prima pagina. Il giornalista che riuscì a farmi diventare “l’evento dell’anno”, mi definì “L’uomo di Pietra” e da quel giorno pochi si ricordarono o seppero mai che il mio vero nome era Epis Epstein.

Ma il vero scoop si ebbe quando una giornalista d’assalto della testata concorrente, il Voice of Camcaine, esibendo documenti falsi e facendosi are per una mia consanguinea, riuscì a intrufolarsi nella camera dov’ero vegliato e

“custodito” come un pezzo d’antiquariato in un museo, scattando qualche fotogramma alla mia sagoma senza veli.

Le immagini di un uomo che appariva pietrificato, simile a una “statua vivente”, fecero presto il giro della città, oltre che la fortuna del Voice e dei suoi redattori.

Il risultato fu che il Comitato Responsabile delle Pubbliche Relazioni dell’Ospedale ottenne dal Sindaco della città una coppia di poliziotti da piazzare all’ingresso della mia stanza, con il compito di ammettere solo il personale medico autorizzato.

Il Comitato non era così dispiaciuto che un loro “paziente” destasse tanta attenzione presso l’opinione pubblica. Era invece piuttosto seccato dal “furto” che aveva subìto e dall’essere stato battuto sul tempo non avendo subito intuito la grande potenzialità che l’uomo di pietra poteva rappresentare, a livello mediatico, per l’intero ospedale.

In capo a una settimana, il vicepresidente dello staff direzionale delle PR, Daniel Gomez, stipulò un accordo di esclusiva con il Camcaine Chronicle e con il network al quale la testata faceva capo.

Nel corso della settimana seguente, una serie di fotografie davvero impressionanti fecero il giro del Maine. Le mie immagini vennero fagocitate da altre testate e infine rivendute e pubblicate ovunque.

Al network prescelto fu concessa la divulgazione dei bollettini medici che lo staff del professor Morrison centellinava e sfornava oculatamente dal suo Dipartimento.

Una testata a tiratura nazionale propose al professore di tenere una rubrica esclusiva dedicata agli sviluppi del caso “Stoneman”, soprattutto per rispondere alle domande – stupide quanto ripetitive e assillanti – della massa di perfetti sconosciuti che invece di pensare ai fatti loro s’interessavano apionatamente alle mie disgrazie.

Fu creato anche un sito internet, un blog, un club, una community e un negozio virtuale per la promozione e la vendita dei prodotti di merchandising creati dalla Stonemark, società licenziataria del marchio “Stoneman”: cappellini, posters, magliette, scarpe, articoli sportivi e ortopedici di ogni genere... a cui si aggiunsero bibite, attrezzature per palestre e il fitness, fino ad arrivare al lancio di una collezione di abiti ispirati al nuovo look “Live-Stone”.

Nei primi tre mesi di attività, la Stonemark versò royalties nelle casse del Meredith pari a venticinque milioni di dollari, ma successivamente, ogni mese, ne guadagnò tre volte tanto.

Con questi proventi, all’interno e all’esterno dell’Ospedale le quotazioni del professor Morrison decollarono vertiginosamente e finalmente, come sempre aveva desiderato, egli ebbe davanti a sé una platea mondiale.

L’iscrizione ai suoi corsi di Neuropatologia e Anatomia Patologica Comparata aumentarono in modo spropositato, così come le parcelle delle sue visite, delle sue lezioni, dei suoi articoli e dei suoi interventi. Mentre io stavo diventando sempre più simile a un’inerte massa statuaria, tutto quello che egli toccava diventava prezioso, metallo nobile, oro.

Il valore delle fotografie aumentò da 10.000 a 120.000 dollari nel corso di un

breve lasso di tempo: l’intervallo necessario affinché il caso Stoneman diventasse veramente globale.

Le emissioni di ogni nuovo fotogramma – attività riservata a un famoso studio fotografico di New York che lavorava, ironia della sorte, per lanciare le più belle modelle nello starsystem della moda – era un affare regolato da un contratto di ferro messo a punto dall’Agenzia Legale Loubowsky & Crowford di Boston, e veniva annunciata sui media con una frequenza bisettimanale, celebrata come la stampa di una nuova banconota.

Il Meredith pensò bene di cavalcare l’onda emettendo anche una serie di francobolli con la mia sagoma marmorea, a cui presto si affiancarono le effigi blasonate di tutti i componenti il Board del Dipartimento di Neuroanatomopatologia.

Poiché intervistarmi era cosa impossibile da molti punti di vista – non producendo ormai alcun suono umanamente comprensibile – i giornalisti intenzionati a sfruttare la vena d’oro che loro stessi in fondo avevano saputo creare, si misero a setacciare la mia vita interrogando tutti coloro che in qualche modo avevano avuto a che fare con me prima della manifestazione dell’imprevedibile e sconcertante morbo.

Scavarono nella mia vita ricostruendola e stravolgendola ad arte, ingigantendo a dismisura alcuni episodi e ignorandone altri ben più significativi. Divenni merce da offrire in vendita al famelico grande fratello massmediatico nelle cui spire la verità viene continuamente stritolata e assassinata ad arte.

Il panettiere da cui andavo a prendere il pane quando, ragazzo, abitavo in una sconosciuta cittadina di contea, ottenne 5500 dollari dalla troupe televisiva che per prima si era precipitata nel mio paese natale per registrare una serie di

trasmissioni dedicate al mio ato, alle “radici” della mia storia.

Quando andò in onda, testimoniò di ricordare un individuo molto timido e di avere notato nel mio atteggiamento di fanciullo e poi adolescente, delle strane rigidità le quali ovviamente avrebbero potuto – a un osservatore attento – far presagire un futuro destino di immobilità perenne.

Il fruttivendolo incassò 8200 dollari dilungandosi sul fatto che mia madre, prima di mettermi al mondo, quando veniva nel suo negozio gli raccontava sempre di un suo strano sogno: “un pane messo a lievitare e che poi veniva mangiato… tuttavia ne rimaneva sempre un parte che – di notte – continuava a lievitare e quindi praticamente non finiva mai, non si consumava mai perché… era eterno”.

In effetti, ricordavo che mia madre aveva sempre voluto fare il pane in casa con la levitazione naturale: lo voleva integrale, croccante e il profumo del pane appena sfornato era una delle memorie sensoriali più belle della mia vita, qualcosa che l’intervista al fruttivendolo mi fece rievocare e che avevo dimenticato…era qualcosa di impalpabile e di materialmente vitale.

Ma del sogno di un “pane immortale” sognato da mia madre, non avevo mai saputo nulla.

Gli psicoanalisti, sulla base di queste prime interviste e “rivelazioni”, riuscirono a imbastire una serie formidabile di congetture e di apionate analisi del mio profilo di personalità e il tutto portò a una trasmissione dedicata a dibattere e rendere pubblici, in un grande consesso di superspecialisti sempre in competizione tra loro, i significati reconditi delle mie vicende personali, le osservazioni gratuite di chi mi aveva semplicemente incontrato o credeva di conoscermi e i simbolismi occultati nello strano sogno di mia madre.

Lo share di ascolto di queste prime trasmissioni risultò al di sopra delle aspettative. Editori, pubblicitari e sponsor erano euforici.

L’editore di un rivista pornografica del Nevada propose di curarmi sottoponendomi alle attenzioni e ai massaggi delle sue più provocanti e abili pinup, in grado – secondo lui – di “ammorbidire la pietra”, “resuscitare un morto” e “riattivare l’energia vitale”.

Sosteneva che con le loro arti seduttive, le sue donne sarebbero riuscite a risvegliare nella mia area sessuale così tanta forza da rendere il freddo pene marmoreo ormai morto al desiderio, nuovamente ritto e rigido per l’eternità. Così sarei rimasto pietrificato nei secoli – secondo le sue parole – … in una posa attiva.

All’inizio di questa grande corsa mediatica, nel frattempo, forse fiutando l’affare o meglio gli affari che aveva perso abbandonandomi al mio destino, riapparve Lea.

Seppi che riuscì a catturare senza difficoltà l’attenzione dei media: dopotutto era sempre stata “la mia ex”. I giornali la tempestarono di offerte di collaborazione, di interviste. Riuscì anche a scrivere un libro sul nostro breve menage di inesperti conviventi e non disdegnò di rispondere con entusiasmo alle domande piccanti di giornaliste e giornalisti morbosamente attirati da presunti miei curiosi comportamenti sessuali. Ma soprattutto eliminò con un piglio davvero incomparabile, tutte le concorrenti che avevano tentato abusivamente di fare lo stesso gioco: dichiararsi mie ex amanti e offrire a editori senza scrupoli fantastiche rivelazioni sulla mia vita sessuale, sulla mia “storia segreta” e altre amenità miste a inverosimili dicerie, invenzioni e crudeltà.

Uno stuolo di donne assetate di facili successi, raccontarono di amori e di rapporti inesistenti, ricamando su fatti minimi, ridicole stramberie a beneficio di un pubblico assetato di racconti da bordello e fantasie da strapazzo.

Poi probabilmente, forte del consenso e dell’immagine che aveva saputo costruire, quasi in competizione con il professor Morrison e il Meredith, Lea stipulò un patto con questi ultimi per estrarre dalla miniera che ormai rappresentavo, tutte le occasioni che si potevano ancora scoprire e sfruttare prima dell’esaurimento del fantastico filone che per tutti loro senza dubbio costituivo.

Con il tempo Lea divenne la mia “segretaria”, la mia “voce ufficiale”, la persona più intima, la presenza a me più vicina. Riuscì a presentarsi all’opinione pubblica come l’unica persona capace di intuire ogni mio pensiero e desiderio, la mia compagna esclusiva, la nuova “membrana” tra me e il mondo, tra la mia immagine e gli interessi che intendeva gestire.

La potente lobby degli psicologi sostenne l’importanza di continuare a essere affettivamente stimolato da una “figura amica”. Come si usa fare per i pazienti che – precipitati in coma profondo – a volte si risvegliano imprevedibilmente dopo essere stati a lungo sottoposti a influenze in grado di destare il loro interesse emozionale, riattivando grazie alla neuroplasticità cerebrale il ripristino della funzionalità perduta e il ritorno alla normalità.

Per l’ottenimento da parte sua del mio “affidamento”, risultò determinante il fatto che – sebbene studente – avessi già intestato, a sua insaputa, una polizza vita a suo favore.

Anche se non potevo esprimermi e non mi illudevo certo sulle ragioni profondamente opportuniste ed esibizionistiche di Lea, questa soluzione non mi

dispiacque perché, a mio vantaggio, credendo di conoscerla, pensavo di poter contare almeno sul suo senso di colpa.

Con gli incassi accumulati dagli affari che la mia disgrazia le procuravano e grazie al compromesso legale stipulato con il Meredith, riuscì a comprare – forse ricordandosi di averle espresso più volte in ato, il mio desiderio – una splendida villa sull’oceano.

Tutte le pareti che guardavano la costa erano di vetro e Lea l’aveva arredata come fosse un museo: ero diventato un’abominevole meraviglia della natura, uno spettacolo redditizio, un’“opera d’arte” unica al mondo, un “mutante inverso” che invece di manifestare attributi e anticipi dell’evoluzione prossima ventura, era involuto improvvisamente a una inconcepibile età preistorica.

Ciò che è disgrazia e dramma per uno, è benedizione e occasione per l’altro. Sfruttando appieno la morbosità delle folle che vedevano in me un inquietante umanoide, Lea diventò sempre più ricca.

Il pubblico accorreva numeroso allo “Stoneman Museum” e rimaneva affascinato e turbato dall’insorgere nel suo intimo di due sentimenti contrastanti: l’orrore per la mia trasformazione e la pietà per il mio destino.

Lea investì enormi cifre nel Museo: costruì nuove ali con sale spaziose, grandi terrazze arabescate con pietre rare e pavimenti in marmi pregiati. A bordo della intelaiatura metallica nella quale ero stato assicurato e fissato in un freddo sudario armato, venivo lanciato da un potente braccio meccanico affinché, avvertendo la frizione dell’aria marina sulla mia pelle granitica, potessi avere l’illusione di “correre”, quasi a filo della sabbia della spiaggia.

Nonostante queste costosissime diavolerie e “attenzioni”, percepii che anche Lea mi concepiva ormai come un “monumento” piuttosto che un essere umano. Pensai che – sebbene l’unica rassicurazione certa del professor Morisson fosse che la mia malattia non era affatto trasmissibile – Lea temesse in qualche modo di essere contagiata, se non dal mio male, dal mio fato incombente.

Sebbene riuscissi ancora – tuttavia sempre più debolmente, impercettibilmente – a muovere le palpebre, non piegavo più in alcun modo le labbra, non sollevavo una sola falange e… soprattutto non riuscivo nemmeno a piangere. Non si formavano più lacrime nel fondo dei miei occhi, sebbene le mie emozioni fossero ogni giorno rese più acute dalla consapevolezza del mio tragico stato. Il mio corpo era diventato la tomba, il sepolcro di se stesso.

Poco a poco Lea smise di toccarmi e il pubblico che veniva fatto sfilare davanti a me nei giorni di visita feriale, fu obbligato a osservarmi a più notevole e discreta distanza. Dal metro iniziale si ò a 3-4 metri.

L’assenza assoluta di contatto mi provocò un acuto senso di sofferenza e rappresentò la fine di una pur incerta speranza. Mi illudevo ancora che “qualcuno” o “qualcosa”, una entità esterna potesse riaccendere le rimanenti forze vitali fermando il processo di consunzione biologica che mi avrebbe portato alla pietrificazione definitiva e totale.

Lea mi bandì con eleganza ma senza preavviso dal piano in cui riceveva in uno splendido salotto, su morbidi divani, i suoi amici facoltosi e “curiosi” provenienti da tutto il mondo: patologi, fotografi, politici, scrittori ma anche … critici d’arte.

Uno di questi ultimi ebbe la stravagante idea di proporre d’arricchire lo Stoneman Museum con copie in grandezza originale dei più famosi capolavori

dell’arte classica, neoclassica e rinascimentale.

In verità non si poteva immaginare un ambiente architettonicamente più gradevole, ardito e tecnologicamente avanzato per questo scopo. Ebbene, egli propose di accentuare ulteriormente il concetto di Museo allestendo al suo interno anche una grande gipsoteca con le riproduzioni delle più significative sculture di tutti i tempi.

Avrei potuto ammirare, dalla mia posizione mobile, regolabile, riproduzioni perfette, in scala naturale, delle più grandi opere conosciute.

A tempo di record fu progettato e allestito un piano terra ove era consentito farmi visita dalle 9.00 alle 13.00 nei giorni feriali, un primo piano nel quale venivo recluso “nelle mie stanze” e un secondo piano riservato esclusivamente alla pubbliche relazioni e all’attività amministrativa del Museo oltre che alla nuova vita privata di Lea, ormai indissolubilmente legata ai destini finanziari e mediatici della “sua” creazione.

Una sala speciale del primo piano fu destinata a occupare una centrale fantascientifica che con rilevatori ipersensibili, computer sofisticati e tecnologie “infrared” coordinava e trasmetteva al Meredith e a un Istituto di Geologia Sperimentale, i dati – in tempo reale – relativi ai segnali e alle variazioni della mia attività geobiofisica, geo organica.

Un montacarichi costruito appositamente dalla Schindler & Schindler era in grado di trasportare le mie circa 3 tonnellate di pietra dal piano terra al primo piano, comandato e controllato da un paio di tecnici. Di fatto, anche se ero totalmente dipendente da costoro, potevo ritenermi un privilegiato poiché mi erano state messe a disposizione attrezzature avanzatissime per assicurarmi almeno l’illusione della mobilità.

Quando riuscivo a contrarre millimetricamente il sopraciglio sinistro, la base circolare sulla quale ero sormontato girava di un quarto di grado a sinistra, in senso antiorario. Mobilizzando in modo infinitesimale il sopraciglio opposto, potevo ruotare a destra.

Con una sequenza di nanotensioni della fronte potevo muovermi sul mio asse a 360 °. Questi “miracoli” erano resi possibili da un comando laser di alta precisione adattato alle mie esigenze dalla Sethis Engineering di Chicago, una delle più quotate e avveniristiche imprese del settore.

Con queste attrezzature, fuse in leghe speciali di titanio e acciaio satinato, derivate dalle applicazioni della tecnologia spaziale, potevo spostarmi nella mia “casa” con una certa “libertà”. Alla sera, o di notte, potevo far scattare un comando per inclinare l’asse della mia “sedia a rotelle” in modo da dirigere gli occhi verso l’alto e guardare le stelle.

Questi poderosi impianti non costarono a Lea nemmeno un dollaro, perché seppe negoziare con le aziende fornitrici in modo da garantire ai loro brand un’assai profittevole visibilità.

Filmati che spiavano istanti della mia esistenza apparvero in spot televisivi nei quali, per esempio, mi si vedeva azionare con un microcenno delle palpebre il montacarichi che era stato costruito all’esterno della villa: un enorme ascensore che saliva e dava soluzione di continuità al mio sguardo sull’oceano. Anche questi frammenti della mia vita privata furono venduti senza riguardo per alimentare e stimolare l’insaziabile morbosità delle folle.

Nelle pause in cui Lea era assente, si alternavano al mio cospetto due

maggiordomi. Il primo mi assisteva senza pronunciare una parola, ed era il mio preferito. Il secondo non riusciva a stare zitto: certo del mio silenzio e convinto che non potessi udirlo, mi scaricava addosso tutto quel che la sua cattiveria gli suggeriva di raccontarmi, mettendomi al corrente del caotico “gossip” che fioriva intorno a me e alle persone che mi circondavano. Mi erudiva intorno alle vicende della mia “corte dei miracoli” ove l’unico prodigio – anche se negativo – ero io e tutti, in fondo, vivevano per così dire sulle mie statuarie spalle di pietra.

Fu lui a rivelarmi che Lea s’era nel frattempo ufficialmente fidanzata con il magnate di un grande Network intercontinentale: Brent Wallace, un giovane manager rampante che aveva ereditato dal padre, tycoon delle telecomunicazioni, gran parte del suo impero globale.

Addirittura provò a mostrarmi le foto che documentavano la sua rivelazione, in modo che nel caso non intendessi con l’udito capissi almeno con quel che rimaneva del mio sguardo.

Liris, questo il nome del maggiordomo, si beava nel farmi assistere alle trasmissioni che ormai non avevano più Stoneman come protagonista, ma le persone che, da comparse assurte a prime donne, dissertavano – partendo dal mio caso – sui massimi sistemi.

Ispirandosi a queste prime trasmissioni, Lea propose al suo potente partner un nuovo format, il cui concept era il seguente: mettere in scena una sorta di “gara” o concorso al quale tutti potevano partecipare liberamente, con l’obiettivo di mettermi con maggior enfasi al centro delle attenzioni e delle ossessioni del vasto pubblico. Una specie di favola diabolicamente congegnata nella quale, sotto gli occhi di milioni di telespettatori, “il principe” o “il mostro” avrebbe dovuto essere ridestato dal suo “sonno di pietra”, risvegliato alla vita da una tecnica, una strategia, un espediente, un miracolo…

Chi sarebbe riuscito a far “smuovere” Stoneman, a restiture l’uso normale degli arti, di una mano, di un dito, degli occhi, del collo, avrebbe vinto l’enorme somma che era stata posta in palio.

Lea aveva trasformato la mia malattia in una scommessa mediatica il cui senso poteva essere espresso dalla sfida seguente: “Chi riuscirà a far ridere il mostro e a trasformarlo in principe? Chi trasformerà il rospo in un principe azzurro, chi invertirà il processo di pietrificazione, dalla roccia alla vita, dalla immobilità al movimento, chi troverà un antidoto…vincerà 10 milioni di dollari!”

Le iscrizioni arrivarono velocemente da ogni parte del mondo. Tra le migliaia di candidati settimanali che si proponevano, ne furono scelti di volta in volta solo 6: quelli che maggiormente – secondo il responsabile marketing della trasmittente intercontinentale Videochannel – potevano innalzare l’audience e aumentare la resa delle inserzioni pubblicitarie da parte degli sponsor.

La trasmissione titolata “Chi sveglierà Stoneman?”, andò in onda regolarmente per tre mesi con un successo travolgente, ogni Lunedì in seconda serata.

Nella prima edizione si esibirono davanti a me, alla presenza di un Notaio e di un pubblico selezionato – disposto a pagare 6000 dollari a poltrona – diversi “talenti”: una odalisca che ancheggiando voluttuosamente e scuotendo il ventre si aspettava di restituirmi alla vita facendo fluire verso il basso i miei presunti fluidi vitali residui; un cantante che pretendeva di intenerire i miei basalti con una languida e tormentosa canzone strappalacrime; un cuoco che cercò di “prendermi per il naso” facendomi odorare i suoi capolavori gastronomici; un lanciatore di coltelli che pur scheggiandomi all’orecchio destro nel corso della sua performance mi lasciò, anziché risvegliato, ancor più impietrito dalla suggestione offerta dalla sua perfidia abilità circense.

Infine, lo spettacolo esibì anche un guru che cercava, come gli altri, soprattutto pubblicità: quella per i suoi nuovi incensi al rhum e i suoi corsi di transmeditazione che avrebbero dovuto schiudermi l’alba di una nuova era.

Il più simpatico risultò essere uno scienziato pazzo che, con una sfera di alluminio anodizzato grande come una mela e rivestita di pietra focaia, voleva frizionare la mia testa per accendere chissà quale barlume di ipercoscienza.

Le edizioni successive dello spettacolo ospitarono personaggi ancora più inverosimili: un incantatore di serpenti che mise sulle mie pliche rocciose una moltitudine di serpi con il proposito di risvegliare in me una qualche atavica paura istintiva.

Ottenne un sentimento di disgusto ma suscitò anche grande solidarietà per i suoi schiavi-serpenti che mi parvero assai intontiti dai movimenti del flauto che dimenava con noiosa ripetitività.

Una nenia aggravata da note tediose, più indicate a favorire il sonno piuttosto che riuscire a destare chissà quale brivido.

Così fallì miseramente anche il tentativo di un famoso esorcista che invece di esorcizzare la televisione e i responsabili editoriali del programma, come un ossesso scagliò anatemi contro di me scambiandomi per un demonio.

CAPITOLO IV Un Prigione

In alcune opere di Michelangelo Buonarroti, e precisamente I Prigioni, la forma umana, incompiuta, cerca di liberarsi dalle pastoie della pietra incosciente per assumere una fisionomia definitiva, libera e plastica.

In questa incompiuta metamorfosi viene suggerita l’idea di una forza titanica che emerge dalla roccia stagliandosi lentamente ma inesorabilmente dalla massa informe originale che la conteneva in potenza.

Così scrivevano i critici, a proposito delle opere del grande scultore rinascimentale.

Tallia, una ragazza attraente che Lea mi aveva messo “generosamente” a disposizione per alleviare i suoi sensi di colpa, aveva preso a mostrarmi e a leggermi grandi libri d’arte, specie le monografie dedicate ai grandi scultori classici, forse grazie al suggerimento del critico che aveva proposto di arricchire lo Stoneman Museum con una monumentale gipsoteca.

Dal fondo del mio incubo materico, avevo intimamente di che rallegrarmi. Tallia aveva una voce suadente e viva, a volte profonda e crepitante, capace di suscitare lo spirito dalle parole, al punto da rendermi il testo palpabile, tangibile, sensuale.

Un grande catalogo che illustrava magnificamente – con fotografie d’eccezione – i capolavori di Michelangelo, produsse in me ruvidi accenti interiori che esteriormente, sebbene in tempi lentissimi, si manifestarono con una microtrasudazione alla superficie del mio petto marmoreo. Sul rivestimento marmorizzato dell’area cardiaca, si condensava un freddo velo di rugiada che Tallia imparò a riconoscere ando e riando i suoi polpastrelli inumiditi.

Sebbene riuscissi solo a sbirciarle, percepivo un’irrimediabile attrazione per le forme che un tempo ignoravo o che al massimo avrei osservato con ammirato distacco, in qualche raccolta archeologica o in qualche piazza d’Italia.

Tallia si era accorta degli impercettibili sussulti generati dalle immagini illustrate dal volume Michelangelo: la vita e le opere, e delle minime increspature delle ciglia o delle labbra, dei minispostamenti delle pupille, delle dita, che a tratti riuscivo a compiere in modo più evidente per segnalare al mondo l’intensità e le fasi alterne della lotta che la mia coscienza aveva ingaggiato per sopravvivere intatta nella materia bruta.

Si trattava di indizi infinitesimali che richiedevano da parte dei miei osservatori un grande allenamento percettivo e una grande attenzione per essere colti, ma che i monitor delle apparecchiature alle quali ero stato interconnesso come un cyborg pleistocenico rivelavano vistosamente con balzi di saettanti istogrammi, picchi di reattività gascromatografica e variazioni istantanee di bande spettrali.

D’altra parte tali microsussulti continuavano a rappresentare per me il dispendio di grandi risorse di energia e il coronamento di sforzi imponenti.

Per espandere appena appena la cassa toracica con un respiro dal ritmo immemorabile, impiegavo alcune ore e spesso la corrente emotiva che sosteneva l’enorme dinamismo dello sforzo si esauriva prima che potesse compiersi il

movimento che avevo progettato.

A volte cercavo di differenziare le mie imprese fissandomi su una vibrazione del piede, tentando un accenno di sorriso, il leggero corrugamento della fronte, un’oscillazione della mano.

Tutto si svolgeva con una lentezza inesorabile e mi pareva di poter cogliere in questo tempo rallentato all’infinito e diluito in una dimensione ritardata allo spasimo, la più cruenta e terribile delle esasperazioni.

Ascoltavo la lettura dei commenti critici, che dissertavano di “intelaiatura architettonica della pietra…”. Riflettevo sui loro sofismi: “… il corpo umano come mezzo di scandaglio non tanto della eroicità, quanto della forma psichica, della energia spirituale intesa cristianamente come ultima e sola vera ossatura del mondo”.

Tuttavia, nonostante le loro dotte proposizioni e intelligentissime considerazioni, questi signori che disquisivano di arte, questi scribi sonnacchiosi della plastica michelangiolesca, mi parevano affatto estranei a quel mondo di pietra viva che il genio, al quale con falsa modestia gironzolavano intorno, aveva saputo evocare.

I Prigioni mi parevano uomini dormienti, e la loro prigione era il sonno.

Erano forze vive della natura che si stavano destando dentro l’uomo, eppure era così evidente la prigionia entro la loro forma, la sottomissione al dettato del sonno, al potere della materia indifferenziata, non scolpita, non cesellata, non umanamente delineata e ornata in solide e armoniose membra!

Io conoscevo l’opera di Michelangelo meglio di qualunque altro, poiché ero divenuto io stesso “un prigione vivente”.

Se è vero che la percezione e l’oggetto osservato mutano in funzione della qualità dell’osservatore, il mio era un punto di osservazione privilegiato dal quale riuscivo a scorgere frammenti di idee che potevano sembrare verità, sempre in competizione tra loro.

La mia visione mi suggeriva che un’opera d’arte non va “letta”: meglio non saperne niente.

La cultura e la storia rendono intelleggibile l’opera alla mente, ma la sottraggono a sensi più sottili, animici, negando la focalizzazione della propria attenzione sull’essenza della forma.

L’interpretazione intellettuale è la crosta che interponiamo tra noi e la creazione artistica per poterci difendere dall’intrusione di forze vive.

Più sappiamo di una cosa, meno la percepiamo. Per questo l’eccesso di cultura può uccidere l’anima.

Bisogna svuotare la propria mente da tutto quello che si sa, per poter vedere. Così cercai di non ascoltare più le pur interessantissime letture di Tallia: mi limitavo a guardare le immagini che mi poneva di volta in volta davanti agli occhi, sopra un grande lèggio in legno arabescato posizionato come un trono, in linea retta con la direzione immobile del mio sguardo.

Da quella prospettiva mi pareva che la scultura dovesse essere posseduta come idea in fieri, in potenza. Se fossi stato un artista dello scalpello, avrei voluto conoscere a memoria le forme corporee per non copiare i modelli.

Dapprima avrei plasmato piccole opere, perché solo un oggetto minuto, insignificante, può conquistare, farsi spazio ed espandersi nel Tutto.

Mantenendo costantemente davanti agli occhi le motivazioni del mio punto di partenza, avrei lavorato la pietra per riuscire a trasfondere il mio ideale nella materia.

Il marmo avrebbe costituto la base emozionale della mia ricerca e il confine della costruzione estetica.

La massa cubica e compatta sulla quale avrei iniziato a lavorare e che dissimulava la vita nascosta della pietra, sarebbe stata liberata dalla potenza della mia mano e del mio braccio.

Non mi avrebbe condizionato la formulazione più o meno straziante che ne avrebbero dato i critici, né tanto meno mi sarei interessato a un soggetto particolarmente intrigante.

L’effetto più intenso delle meditazioni generate dalle immagini dei Prigioni, era dettato dal torace che cercava di emergere e sollevarsi dalla massa in cui ancora giaceva informe come in un ventre muliebre.

Capii che la parte mediana del corpo, ove sono situati gli organi del sistema cardio-respiratorio, offre l’opportunità di concentrare tutta l’energia nel torso che di fatto è la più grande massa chiusa in se stessa della forma umana.

Nel torso dei Prigioni intravedevo il fascino della imperfezione, come negli schizzi diretti e vivaci che tradiscono la voglia di incompiutezza in un mondo che ormai non è più sano.

Un vero osservatore reagisce e sente tutto in funzione del proprio corpo, della propria struttura o scultura animata, così si crea una sorta di rapporto parentelare nei confronti dell’altro.

Ci si incontra nello stesso spazio grazie al desiderio di conferire maggior forza espressiva alla forma, sia per garantire un vigore adeguato alle proprie emozioni, sia per potenziare l’aspetto di una idea-base al punto da renderla una possente creatura araldica, simbolica.

Guardando non statue, ma le loro immagini, intesi che gli artisti hanno sempre perseguito il loro desiderio di immortalità attraverso le loro opere. Quel desiderio di perfezione l’hanno riversato fuori di sé, come una magica secrezione organica che poi sedimenta addensandosi, simile alla corazza protettiva di un’ostrica.

La ricerca della realizzazione esteriore nell’opera, nella materia informe, viene così utilizzata quale momento e occasione di cambiamento interno. Oppure come alibi per la propria incapacità a mutare profondamente dentro.

Il vero artista che mi sarebbe piaciuto incarnare, non era quello che produceva un modello esterno di bellezza: nella pietra, nel marmo, sulla tela, sulla carta, in un tessuto, mediante le tinte, le note, una foggia, un romanzo, un poema, uno spartito, un’architettura.

L’arte non era quello che si vedeva, ma quello che si diventava.

Per cui a ogni colpo sulla pietra o velo di pennello, progetto o scrittura, doveva corrispondere una vibrazione, una risposta, un’eco nella sostanza organica dell’autore.

A cosa serviva un’opera se questa si dimostrava incapace di mutare la psiche e la biologia del suo creatore?

Certamente la vera creazione artistica comporta di per sé, se è vera, profonda e totale, un’ascesi interiore, una catarsi e purificazione. Forse anche una redenzione che può tradursi in un’esaltazione delle proprie doti estetiche e nella produzione di nuovi impulsi, nell’amplificazione sensoriale, nell’esplorazione di nuovi sentieri percettivi.

Tuttavia se tale autoiniziazione si limitata alla scoperta e all’evoluzione delle tecniche di lucidatura dei marmi, di elaborazione linguistica, di creazione del colore, lascerebbe sicuramente inalterata la sostanza animica e biologica dell’artista.

A me interessava non il guscio esterno dell’ostrica, ma la perla che si può nascondere e fabbricare all’interno.

Mi interessava il metabolismo prodigioso che, in virtù della spontanea alchimia della natura, era in grado di portare alla produzione di una rara, sorprendente e preziosa sostanza vitale.

Preso da questi deliri ideativi e percettivi, a tratti mi ritornava all’orecchio la voce di Tallia e, tornando consapevole del mio status orribilis, riflettevo sul fatto che in realtà, io testimoniavo un processo inverso a quello rappresentato dall’esperienza artistica.

Il mio caso non era quello di una forma umana che si liberava da una massa grezza e inerte, ma il suo contrario: la mia prospettiva era quella di un’involuzione continua, non un’evoluzione possibile.

Sì, anch’io ero un “prigione”, ma un prigione che tornava indietro, che involveva, attirato dalla pietra, dall’inanimato, dall’inorganico.

I Prigioni michelangioleschi sognavano di liberarsi dai tentacoli della pesantezza marmorea, mentre io ci ritornavo. Realizzavo nelle mie cellule e nelle mie membra, nella mia intera sostanza, la dimensione primordiale di un principio statico e incompiuto.

Eppure grazie a questo ritorno al Caos primordiale che non era nemmeno vegetale, vegetativo, ma profondamente marmoreo e minerale, io mi innamorai.

Notai che l’immobilità forzata produceva in me una accelerazione e dinamizzazione della vita mentale e dell’esperienza emotiva, affettiva.

Come se le energie dell’anima, tacitate e negate al dispiegarsi del dinamismo corporeo, potessero riorientarsi e scaricarsi in altre vie di manifestazione.

Un segreto flusso lavico cercava nuovi sbocchi solcando il letto di antichi fiumi sotterranei, ribollendo e schiumando a ogni ostacolo, tracimando in nuovi rivoli capaci di ridisegnare il paesaggio della propria esistenza.

Nutrii la certezza di esistere perché mi innamorai, oppure accadde che riuscii disperatamente a innamorarmi proprio per convincermi d’essere ancora vivo.

M’innamorai di una scultura che viveva della sua propria vita e che percepii come entità a se stante, forma finita e infinita nella sua armonica e prodigiosa compiutezza.

Quando Tallia mi mostrò la riproduzione fotografica di una delle opere collocate presso le Cappelle Medicee e precisamente nella Sacrestia Nuova di San Lorenzo, a Firenze, io provai un brivido, l’anticipazione di un’estasi.

Al cospetto dell’immagine de L’Aurora, io riuscii a scuotermi dall’insondabile torpore marmoreo che mi opprimeva.

L’Aurora, questa forma supremamente bella, di altissima funzione plastica e drammatica, era una delle due sculture adagiate, nel loro non finito michelangiolesco, sopra la Tomba di Lorenzo, Duca di Urbino.

L’altra scultura sopra il sarcofago, dalle lucentezze lunari agghiaccianti, era il Crepuscolo. Ma né quest’ultima, né le due adagiate ai lati del sarcofago di sinistra sulla Tomba di Giuliano, Duca di Nemours, figlio di Lorenzo il Magnifico, ovvero Il Giorno che ancora avvolto nella materia lotta incompiuto per liberarsene e La Notte, figura muliebre contratta nell’immobilità dell’aldilà, evocavano in me le imponenti suggestioni di profondo lirismo dell’Aurora.

Mi innamorai di quella donna, di quella dea, dell’entità e presenza che la scultura suggeriva e adombrava. Desideravo giacere con lei, marmo contro marmo, tanto il contatto con le sue fredde e inalterabili forme mi attirava più delle membra vive, della carne.

La sua figura mi colpì come uno schiaffo della bellezza, mentre Tallia cercava di esaltare l’inaspettato turbamento che aveva intuito, con le parole dei critici: “… il suo nudo è un simbolo eterno di nobiltà e purezza, un nudo senza voluttà ma plastico e vivo, solenne, eppure privo di qualsiasi forzatura e compiacimento antropomorfo…”.

Trovavo gran parte di queste affermazioni totalmente prive di senso, poiché solo un occhio incapace di immedesimazione poetica poteva trovare quella scultura priva di voluttà.

Altre considerazioni mi sembravano invece più vicine alla verità: “Secondo De Tolnay le opere di Michelangelo si collegano alle dottrine neoplatoniche circa l’ascesa dell’uomo che via via, attraverso vari strati, si libera dalla prigione del corpo per conseguire l’assoluta libertà dello spirito in dio, mentre lo Hartt mette le sculture in relazione a motivi profetici e anagogici della devozione pagana dell’Albero della Vita, evidenti in particolare negli affreschi della Sistina…”.

Tuttavia non riuscivo più a pensare in termini esclusivamente intellettuali:

vivevo la scultura e vedevo l’opera d’arte dal di dentro.

Se le opere michelangiolesche erano intrise di spiritualità e rappresentavano l’ascesa, io non potevo esimermi dal farmi soggiogare dalla sinuosa materialità delle forme.

Probabilmente perché, se esisteva nell’opera d’arte la tentazione luciferica di una lotta ascensionale, io rappresentavo invece la discesa, la materializzazione, la pietrificazione dell’essere. La mia metamorfosi involutiva non aveva scampo: non potevo aspirare ai cieli, ma al contrario realizzavo pienamente la possibilità di un’irreversibile caduta agli inferi.

Tutte le forme sono parlanti, lettere di un alfabeto di segni a noi sconosciuti e indecifrabili alla comprensione puramente mentale. In una statua, ancor più che nella pittura o nelle opere grafiche, l’artista imprime qualcosa di sé. Attaccata alla sua opera rimane un’impronta invisibile, un fine pulviscolo plasmatico, l’emanazione di una sostanza sottile, fluida e sfuggente, distillata dalla sua anima e dalla sua mano.

Durante la mia intensa contemplazione dell’immagine grazie alla quale mi figuravo di poterla accarezzare, desiderai ardentemente trovarmi di fronte all’originale de L’Aurora. Avvertivo l’oscura sensazione – una sorta di preveggenza sensoriale – che l’originale di una tela, di una scultura, di una fotografia artistica, potesse rimandare all’osservatore non solo segnali di riconoscimento estetico, ma anche impressioni capaci di andare ben al di là dell’esame puramente fisico e analitico, simbolico, dell’oggetto.

Mi pareva di intuire l’esistenza di un’impregnazione fluidica, la possibilità da parte del manufatto artistico di contagiare il fruitore, l’osservatore, il contemplante.

Nella creazione (dal nulla?) e condivisione di questa energia sottile stava il vero motivo del godimento artistico, del reale possesso fisico di un’opera poiché questo imprinting impresso dall’artista mediante il suo sudore, il suo “alito”, le sue emanazioni psico-organiche, non era astratto o “spirituale” ma qualcosa di estremamente materiale generato dalla biochimica dei suoi polpastrelli, dagli effluvi ormonali e metabolici della sua pelle, dalle vibrazioni percettive e dalla fine meccanica ondulatoria della materia-energia luminosa, dalle interiori onde portanti delle visioni dalle quali egli si faceva guidare nella realizzazione del suo capolavoro evocativo e magico.

Ebbi la certezza che, se mi fosse stato possibile, avrei potuto percepire distintamente le pregnanze atmosferiche di quel soffio artistico, di quel plastico sigillo inscritto nel cuore della creazione e sulla superficie scolpita, riuscendo a interagire con la respirazione e il metabolismo minerale del marmo nobilitato a rifugio e imago di una presenza che tramite l’artista aveva saputo prendere forma e rendersi visibile all’occhio umano. L’arte non copiava nè imitava la realtà ma la creava, la rendeva tangibile.

Avrei dato qualsiasi cosa per poter ammirare dal vivo, riuscire a sfiorare l’Aurora...

Un quadro può essere goduto nelle sue forme e l’occhio si placa sopra un’unica superficie, assorbendone tutti i cromatismi, i disegni, le minute sfumature del linguaggio dei colori e della espressività di paesaggi e figure, visi e volti umani o creazioni astratte.

Nella musica è l’orecchio a essere appagato dalla risonanza delle note.

Ma nella scultura l’orecchio è impotente davanti alle immobilità silenziose delle mute forme scolpite, mentre l’occhio non è totalmente satollo in quanto la vista non può stagliarsi sulle dimensioni di una statua come un tutt’uno, in un abbraccio tridimensionale istantaneo.

Forse l’anima umana, attraverso la contemplazione può sviluppare questo occhio capace di vedere un oggetto da tutti i lati, contemporaneamente, sopra e sotto, dietro e davanti.

La vista comune, come la mente, scompone, separa, divide.

Per ovviare a questa incapacità strutturale a cogliere il vero, il reale, una scultura può essere percepita anche con un altro senso, niente affatto sussidiario: il tatto.

Il contatto con una forma, un volume, la percezione sensoriale che se ne ricava, può dare emozioni differenti rispetto a quelle suggerite dal semplice sguardo. Il tatto è più prossimo allo spazio fisico, alla corporeità.

La mano unisce e il toccamento di un’opera può forse mettere in sintonia con il tocco dell’artista che la plasmò.

Pensavo che tramite questo ponte sensoriale, questa mediazione corporea, tattile, sarebbe stato possibile entrare nello spazio ispirativo dell’idea-forza che, invasando lo spirito e le braccia dello scultore, si manifestava nel suo lavoro.

Cominciai a immaginare di trovarmi a giacere accanto all’Aurora. La sognai

ripetutamente e sentivo, a ogni avventura onirica per me più consapevole della vita reale, che il soffio trascendentale di cui era espressione mi stava restituendo, notte dopo notte, qualcosa della mia primitiva vitalità la quale, pur non traducendosi ancora in chiari moti esterni, si esprimeva in alcune aree del mio corpo mediante l’apparizione di “fochi” puntiformi ove si concentrava uno strano brusio e calore.

Una notte, quando tali microzone ad alta densità termica – almeno così le avvertivo soggettivamente – riuscirono a interconnettersi tra loro creando un vera e propria rete intrasomatica, mi sentii intimamente lambito dal flusso di una piccola fiamma palpitante che a tratti pareva rischiarare e risanare tutto il mio essere.

In questo stato, non sapevo più se ero io stesso l’Aurora, l’oggetto della mia devozione e desiderio o il suo amante. Non sapevo se ero pietra, vita ormai riflessa, sognante, oppure la sostanza di ciò che mi appariva come l’unica cosa reale: una vivida, segreta e ardente fiamma, compressa dal peso della sagoma esterna ma a tratti danzante nel cuore stesso del mio essere “prigione” non ancora nato, non ancora liberato.

CAPITOLO V Le notti di Afrodite

L’Eden è un luogo ove non siamo mai stati, ma di cui ci portiamo dentro il ricordo. Poiché anche la pietra sogna, nei miei Sogni rivisitavo il mio eden personale: immense gallerie ove il marmo e la pietra erano Signori.

Nei miei deliri onirici contemplavo le opere di immense gipsoteche.

In esse tutta la storia umana era stata scolpita in grandiosi bassorilievi e in una serie interminabile di ciclopiche sculture i cui calchi rappresentavano l’apoteosi di una nuova e luminosa, trionfale età della pietra.

Nel corso delle mie notti mi sorprendevo a sognare una o l’altra di queste plastiche – quasi animate – sculture.

Al mio risveglio, l’attività di contemplazione di una particolare forma, dell’idea segreta espressa da un insieme di proporzioni incantevoli, si prolungava per ore ando impercettibilmente dal sogno alla veglia. Inseguivo il filo rosso della consapevolezza che attraversava imperturbabile le notti e i giorni, i sogni e i momenti di realtà, le visioni e le esperienze, il virtuale e il materiale.

Oltre questo transitare ed esistere in più mondi, l’espressione de L’Aurora rimaneva il mio simbolo-guida, forgiante il mio nuovo essere. La scultura scolpiva me.

L’opera mutava profondamente l’essenza dell’osservatore in essa identificato, perso, immedesimato. La mia ione si plasmava, s’addensava e si concentrava per infiltrarsi nelle mie intime concrezioni minerali.

A volte questi impulsi accendevano un’aspirazione muta che si sprigionava da una interiore pietra focaia capace di generare una scintilla fatua, una intrepida favilla intermittente che non era ancora fiamma solenne ma primitiva lingua di fuoco. Un chiarore che lambiva le fredde e mute membrane sepolcrali del mio essere inorganico fino a surriscaldarle in un estremo tentativo di risveglio.

Il risultato era un’illusione di residua organicità, una flebile percezione della mia ata sensibilità, dell’ormai perduto mondo dei sensi, del mio trascorso vissuto nel giardino incosciente della umana sensibilità.

Dapprima, in un centro lontano del corpo avvertii una dolorosa ustione generalizzata, poi la sensazione divenne più intensa e ubiquitaria, per cui i fochi parevano moltiplicarsi ovunque nelle sontuose scenografie dei miei sogni. Fochi che, non più confinati negli istanti della notte, riflettevano i loro bagliori e le loro influenze anche nel corso delle inesplicabili consapevolezze e guerriglie diurne.

La pietra che ero, divenne un prolungamento periferico della immensa caverna entro le cui viscere ardevano queste molteplici fiamme che crepitavano riverberando sottili lucori ospitati entro l’antro di una iridescente fornace.

Il mio corpo inerte, con la lentezza esasperante che già conoscevo e che aveva accompagnato la mia discesa nel muto mondo minerale, prese ad animarsi invisibilmente: ardeva, bruciava seguendo le tracce di un disegno che si tesseva tra focolaio e focolaio nelle tenebre della notte.

La Gorgona della mitologia, che ha serpenti al posto dei capelli, è una maga nera e pietrifica chi la guarda. Crios, il più astuto dei Titani, ha uno specchio come scudo per rifletterne l’immagine. Ponendo lo specchio inaspettatamente davanti a lei, la vinse facendola divenire essa stessa pietra.

Io non sapevo quale potenza occulta mi avesse trasformato in moribonda mummia immobile, ma contemplando l’Aurora seppi che il solo antidoto alla mia perdizione era riposto nelle stille della bellezza e nella ione che Essa poteva far scaturire da un cuore insensibile, crocefisso e sepolto davanti allo spettacolo del mondo.

Per non soffrire, le mie membra si erano trasformate in un monumento di ghiaccio ossidato.

Dell’eternità la mia anima aveva imitato il rigore devitalizzante della sua ieratica inamovibilità, della sua assenza perenne e indifferente, del suo glorioso Nulla e del suo splendido Silenzio senza voce e senza palpito.

Ricordai di aver visitato, molti anni prima, nel corso di un viaggio in Italia, una piccola cittadina dislocata lungo la costiera amalfitana.

In quella occasione, spinto da una sete improvvisa di avventura, mi ero arrampicato imprudentemente su una scogliera, a picco sul mare, per ubriacarmi di vento, d’acqua e di sole.

Quando mi trovai alla sommità, ridiscesi all’interno per una grande scalinata,

ando sotto archi sormontati dalle antiche case in pietra dei pescatori appena imbiancate a primavera. Tutto era vivo e palpitante intorno a me: gli alberi, le onde, l’aria, le vie e le pietre delle case stesse.

Da una finestra mi raggiunse la voce di una donna: cantava in modo struggente, accompagnata da suoni vivaci prodotti da uno strumento musicale usato nelle feste popolari.

Non riuscii a resistere: invece di godere la magia di quell’istante e vivere intensamente quel momento, ubbidii al mio impulso di fissare per sempre l’esperienza, la sensazione.

Con l’obiettivo della mia macchina fotografica centrai la volta della finestra dalla quale si diffondevano le note della canzone, come se si potesse imprigionare una voce, una melodia, nella sequenza di un film.

Con un altro scatto colsi al volo la scena della ragazza che cantava mentre al davanzale annusava un fiore.

Con un’altra immagine ancora portai via come un ladro l’orizzonte del mare, illudendomi di catturare per sempre l’insieme degli elementi che mi avevano fatto sentire vivo.

Mi sedetti su una panca a contemplare non so che cosa, per udire ancora quella voce che sembrava chiamarmi da lontano e che, pur incomprensibile nella sua matrice dialettale, mi pareva di riconoscere e comprendere.

Ora so che era un delitto fermare l’estasi e prolungarla consapevolmente, perché doveva essere accettata come un dono, alla pari di tutto il resto.

Quelle immagini, poi meticolosamente sviluppate e riprodotte, sovrapponendosi all’esperienza reale, anziché evocarla ne avevano alterato la memoria autentica, l’esperienza originale.

Più tardi avrei imparato, sterilizzato in un anonimo camice bianco, a fare lo stesso: fissare le cellule vive per poterle sezionare, una volta morte e separate dall’organismo madre, al microtomo congelatore.

Così non avevo resistito alla tentazione di prolungare l’estasi istantanea, fissandola artificialmente su una pellicola. Ricordai che al mio ritorno incasellai le fotografie di quel viaggio in un album ove collezionavo atomi di vita, esattamente con lo stesso spirito con il quale avrei classificato le sezioni di tessuto organico sul tavolo di dissezione e analisi di un qualsiasi obitorio.

Non avevo capito che sezionando la vita avrei ottenuto la morte, la pietrificazione, la fissità dell’esistenza che è invece fluida, impalpabile e instabile. Infine anche questa memoria bruciò e si dissolse nell’athanor della mia segreta, misteriosa combustione.

Poco a poco le notti divennero un eterno Purgatorio nel quale il mio essere eruttava memorie e scorie mortali.

Un purgatorio animato dalle fiamme che salivano dalla mia nobile ione per l’Aurora, inconfessabile amante.

Dalle profondità della mia natura salivano masse incenerite e mefitiche di emozioni putride, rassegnate e violente, tanto più cristallizzate e abominevoli quanto più il fuoco e la linfa lavica di questo insondabile abisso attraversavano, scavavano e liberavano miasmi ignoti da absidi assisi sulle vette di organi profondi.

Ero costretto a tuffarmi nelle lacerazioni purulente di cavità antiche ove era fatale scivolare in nefasti crinali arteriolari, luoghi ove si erano stratificati fallimenti, desideri insani e propositi di vendetta, risentimenti covati con sordida dedizione e colpe temibili. Colpe nutrite e urlate, coltivate e perpetrate sotto la superficie di una vita apparentemente ordinata e quietamente disperata, falsamente pacata e serena, indorata dalle fatue credenze di polverose, mortuarie e questuanti religioni fantasma o intontita da futili e mercificanti abitudini consumistiche.

Più grande tra tutte, la colpa di aver assassinato l’amore, rimanendo ostile alla sua musica, ai suoi innumerevoli richiami e urgenti appelli.

Dopo aver assassinato l’amore, ne avevo nascosto il corpo in una discarica dei desideri, dove il mio cuore s’era prostituito e s’era adattato a vivere cercando tra i rifiuti di brame e barbare emozioni ingovernabili. Invece di ascoltare, interpretare e cantare la voce della fiamma.

Il mio sangue aveva preso a scorrere tra scarti esistenziali di infima lega, prima di rapprendersi e coagularsi per inerzia rinunciando alle pulsazioni che ancora lo univano alla vita, fino al momento di ritirarsi nel suo mondo chiuso, ostile e arcaico.

Ed era questo l’Inferno: un mare di pietra e di ghiaccio, ove il cuore non vibra, ma si conserva inerme nei secoli solo per se stesso, avendo ripudiato il moto perpetuo, l’instabilità vitale, il ritmo pulsatile dell’esistente.

L’inferno non è di fuoco, come fanno credere i cultori di talune Scritture, ma l’unico regno che invece ne è privo.

La salvezza esiste, ma inizia solo alle porte del purgatorio che arde e soffre ma illumina le roventi vene aurifere e scava con i suoi fuochi impensabili gallerie per riconquistare la possibile visione dell’alta luce, della verità.

L’inferno è freddo, siderale e buio, mentre il Purgatorio è un ardore contagioso che brucia di aspirazione e devozione fin dentro il proprio corpo incosciente, carne o pietra che sia e ardendo crepita fondendo i suoi suoni con quelli custoditi nel grembo dell’universo.

La notte, questi ardori sommessi creavano dentro la mia struttura molecolare, l’effetto di una Grande Febbre. La temperatura della materia strappata alla sua fatale inerzia saliva paurosamente e il fuoco che mi divorava, bruciava con il suo calore effervescente le inclusioni, i corpi estranei, i virus latenti e i batteri bestiali che avevo ingozzato per generazioni e che si erano impiantati nei miei solchi terrestri e nei precipizi taglienti delle mie gole luttuose, avvolte da invisibili voragini.

Sentivo bruciare dentro il mio petto i serpenti e i mostri che per anni si erano nutriti voracemente di queste energie velenose, di questi alimenti paralizzanti, infarciti di emozioni distruttive e micidiali: cataboliti che solo esseri infernali potevano metabolizzare e concupire senza esserne dissolti.

Li sentivo torcersi in modo atroce quando le fiamme della mia dilagante ione iniziò a braccarli senza pietà, a inseguirli e a snidarli dentro i loro insospettati covi di pietra, nel fitto delle loro livide dimore, lambendo le loro code irte di dramma, i loro ventri ingordi e rapaci, le loro bocche vampiresche, i loro occhi famelici e tristi, crudeli e gelidi come la saliva corrosiva e nefasta di una entità maledetta.

Percepii tuttavia che la sofferenza generata da quel calore non era propriamente mia, ma apparteneva a questi corpi estranei dentro il mio corpo, a queste presenze aliene che, morendo dilaniate tra le fiamme inesorabili, cercavano – alleandosi tra loro – di distruggermi.

Il dolore apparteneva a queste scorie e creature maligne trasformate in tizzoni ardenti dalla brama purificatrice della mia non sopita e indomita ione per la bellezza, per le forme dell’Aurora.

La pietra che mi costituiva divenne una grande arena tra le cui ombre ogni notte si rinnovava una lotta tra forze opposte: le schiere portatrici di una nuova sensibilità e le truppe poste a difesa di un’ostinata e solitaria durezza.

Assistevo alle prodezze degli Alfieri della fiamma quando si lanciavano combattendo con vigore all’attacco dei Draghi della morte, spingendosi spavaldi dentro le cripte e le anse della mia oscura sostanza ribelle.

Le notti dei mutanti sono abitate da battaglie che non si possono raccontare e dalle quali i comuni mortali sono esclusi, emarginati nel loro effimero sonno, nel loro timido e incredulo campo in cui la coscienza non ha mai osato sfidare nessuno.

Questi scontri all’ultimo sangue, all’ultimo fuoco, erano senza esclusione di colpi e gli esiti alterni. Ogni entità lottava per conquistare il suo territorio vitale, cellula dopo cellula, fibra per fibra.

La conquista da parte degli alfieri della fiamma di un pur esiguo avamposto cellulare non era mai definitiva, eppure il peso delle forze avverse pareva diminuire quando a volte, sconfitte, si ritiravano nei loro dominii inorganici non ancora redenti e nei quali cercavano di riorganizzarsi per sferrare altre offensive nel corso della notte seguente.

Man mano che procedeva, in alcuni momenti l’incedere della fiamma pareva invincibile, incenerendo tutti gli ostacoli, travolgendo le resistenze formidabili che la sua luce e il suo terribile calore annunciavano.

A tratti, la sua avanzata sotto il vessillo sul quale sventolavano le insegne dell’Aurora, liberava nelle angustie spiraliformi delle mie rocce più recondite una vaga essenza afrodisiaca, una leggerissima nuvola di piacere, un raro sentore di freschezza, la rischiarante brezza di una promessa d’estasi soffiata da chissà quale presenza, da chissà quale dea.

Poi, una notte, la forma dell’Aurora non si presentò più al consueto appuntamento con i miei esercizi di contemplazione e di immedesimazione in cui cercavo disperatamente di forgiarmi o inventarmi un altro corpo.

Essa sparì e temetti di aver perso per sempre la mia stella cometa. Le notti si fecero eternamente buie fino a che io stesso non divenni tenebra.

Gli archetipi divini non servono per interpretare l’essere umano, ma per mutarlo

e farlo salire o tra-salire alle loro nobili sfere dalle quali altre forze possono consapevolmente discendere per riplasmare la forma umana.

La situazione cambiò quando non più l’Aurora, ma altre dee vennero a lenire la mia ineguagliabile e aspra agonia.

Si affacciarono visioni di innumerevoli Veneri dai cui corpi cercavo di misurare il centro geometrico, alla ricerca del segreto delle proporzioni auree che potevano determinare le canoniche formule classiche della bellezza.

Notai che a ogni mio rapimento nella contemplazione dell’ombelico, della posa delle braccia, delle linee dei volti e delle mani, in me si ravvivava la memoria di una parvenza di inspiro: la granitica pietra tombale che un tempo corrispondeva al muscolo diaframma sembrava accennare a un primitivo istinto di mobilità.

Perduto intorno alle proporzioni perfette dell’armonia statuaria, nuove muffe e muschi vitali mi apparvero alla fronte.

Altre ancora proliferarono nella barbara oscurità delle mucose del mio stomaco, nelle cavità che un tempo costituivano le mie ascelle.

Tali colonie vegetanti indicavano sì una vitalità residua, nascosta, ma rabbrividii realizzando che avrebbero potuto anche distruggere il mio corpo, nutrendosene e sfaldandolo attraverso un progressivo e inesorabile processo di consunzione.

Che ne sarebbe stato della mia costituzione minerale, se la mia intera massa

fosse stata utilizzata come terreno di coltura da quelle fameliche forme di vita simbiotiche, parassite?

Quale futuro si poteva prospettare a un golem che aveva rinunciato alla esistenza umana per accogliere in sé, contemporaneamente – come un microcosmo planetario – le energie vitali del regno minerale, vegetale e animale? Rocce, licheni e batteri erano forme preumane che coesistevano in me per generare che cosa?

Quale anima, quale psichismo e identità?

Mentre mi sorprendevo a immaginare, insieme alle formule della bellezza, l’esito di quei soprassalti di vita, di desiderio, di sublimazione, i calchi da cui estraevo eccitanti fantasie, numeri magici e noumeniche corrispondenze, si animarono.

Le naiadi e le ninfe, rivitalizzate dalle mie attenzioni ideative, presero nella mia fantasia luminescente a chinarsi su di me, a occuparsi della mia anima.

Percepivo le loro mani accarezzare la mia sagoma e poi avvolgerla per modellare e titillare regioni inaccessibili della mia imponente e inamovibile struttura cadaverica. Le sentivo affaccendarsi intorno alla mia pelle come le assistenti di un maestro imbalsamatore, per ungerla con strani oli e prodigiose essenze rivitalizzanti.

Avvertivo, entro la mia greve massa informe, l’andirivieni di minuti impulsi capaci di solleticare una sensibilità primitiva.

Sensazioni conturbanti che confluivano in minuti rigagnoli energetici e che a tratti si trasformavano in torrenti sensitivi dalle rapide vorticose e imprevedibili.

Mi pareva di possedere, allo stato embrionale, una nuova circolazione che scaturiva dalle mie crepe rocciose più ascose, rinascente dalle microscopiche vertigini dei miei fiordi alveolari, emergente dalle pareti delle mie granitiche cavità nelle quali sospettai tuttavia che si formassero floridi microclimi temperati in grado di dare adito a infinitesimali condensazioni di aria calda/fredda, a minimi segnali di epifenomeni pluviali e a conseguenti foreste di biolicheni autoproliferativi, complici nella creazione di organici anfiteatri di microstalattiti e microstalagmiti.

Talvolta le dee venivano a coppie ad abitare le mie notti: mai una entità s’avventurava da sola nelle fredde matrici delle mie membra impotenti e del mio sudario marmorescente, come se nulla potesse riscaldarle, come se il fiato di una sola dea – nemmeno quello della stessa Afrodite – potesse alcunché sulla possente inerzia e la maschia rigidità della mia indicibile corazza.

Arrivavano a coppie, poi non le contavo più.

Percepivo il soffio creativo di dieci, cento, mille bocche alitare sopra e dentro di me. Quando le loro correnti sensoriali mi attraversavano interamente e mi sentivo completamente alla loro mercè, mi pareva di alzarmi in volo insieme a uno stormo di grandi gabbiani, mentre dentro i miei limiti e le mie rive rocciose sentivo frangersi la risacca di un mare vasto e insondabile.

Onde si mescolavano a onde, nel tentativo di rimodellare le asperità delle mie masse sporgenti con la sola forza d’urto dell’elemento acquatico, liquido, lieve

ma anche capace di scavare il letto di un fiume e, con il consenso del tempo, di annullare spigoli, ammorbidire superfici scabre, ridisegnare confini di continenti immemorabili.

Quando le loro presenze si precipitavano a riempire i miei organi cavi, mi pareva di partecipare a una festa degli dèi: era tutto un tripudio di energie, un traboccare di inebrianti liquori spumeggianti dalla mia anfora corporea, una fiera di sensazioni che mai avevo avuto la possibilità di avvertire in un corpo di carne, ossa e sangue.

La mia sensibilità, in quelle occasioni, si dilatava a dismisura e mi sembrava di possedere finalmente più di un corpo.

Sotto il tocco delle loro mani sapienti mi sentivo alla fine espanso, radioso, umettato dal succo dei frutti del Giardino delle Esperidi, tanto ero cosparso, internamente ed esternamente, da mille rigeneranti effluvi femminili.

La massa petrosa che mi costituiva sembrava anelare a divenire terra, mota, limo del Nilo in cui forze creatrici della Natura affondavano le loro mani virginali per plasmare un nuovo simulacro, una nuova maschera sotto la quale dimorare e giocare.

Avvertivo lavorare intorno e dentro di me, forze apprendiste pronte a usarmi come loro cavia, ma anche mani più mature ed esperte che senza titubanze mi rivoltavano nel profondo, permettendomi di sperimentare l’influenza di una vasta gamma di personalità appartenenti alla variegata natura femminile. Le mani che appartenevano alla fanciulla timida e a quella generosa si alternavano a quelle temerarie, rudi e decise dell’amazzone, che a loro volta lasciavano spazio all’azione tenera e dolce della madre, subito in ritirata appena si annunciavano le manovre insistenti ed eccitanti delle amanti.

Il mio corpo si scioglieva sotto l’azione di un vasaio dai mille tocchi femminili, come se la dea Kalì si applicasse a far lievitare dalla pietra l’impossibile. Al mattino – prima dell’aurora – ripiombavo in un sonno opprimente e dell’esperienza notturna rimaneva una traccia filiforme, l’ombra di un’ombra, l’impronta sfumata, il calco subito dissolto del aggio di una dea multiforme e avvincente.

CAPITOLO VI Metamorphosi

A tratti il dio Vulcano si gettava in questo gioco di vapori e acque, per forgiare con il suo spietato maglio di fuoco la mia anima metallica incandescente, colata viva dentro il bollente corpo/incudine di pietra.

Un giorno, mentre avvertivo la mia sagoma infuocarsi, fui posto da uno dei miei maggiordomi davanti a uno specchio. Vidi la mano di Tallia sfiorarmi la fronte senza riuscire a toccarla a causa dell’insostenibile temperatura.

Versò alla sommità del mio capo il contenuto di una tazza d’acqua marina e rabbrividii nel sentire vaporizzare il suo contenuto in un istante, liberando il sale che bruciò come un incenso in un punto brunito del mio cranio.

Eppure l’essenza di questa nuova fase e metamorfosi sfuggiva ai fisiogeologi che ormai mi vivevano dappresso, notte e giorno, senza sospettare la grandezza del braciere e l’estensione dell’ara che era stata innalzata in me. Eran concentrati a elaborare i dati superficiali trasmessi dalle loro sempre più sofisticate apparecchiature, dai loro microscopici elettrodi e dalle loro invasive sonde dai mille filamenti che mi attorcigliavano d’intorno come una tecnologica crisalide.

Sopravvivevo in un limbo di perenne e dolorosa gestazione, sospeso in questa specie di bozzolo elettrificato, computerizzato, diodizzato.

Anche il aggio dalla fase “vulcanica” a quella “fluida” non avvenne senza pericoli perché nel corso dell’alacre lavoro delle dee, la mia struttura aveva cominciato a incamerare acqua, a gonfiarsi, aumentare di peso e volume, espandersi, rubare spazio al vuoto circostante fino a ingigantirsi oltremisura.

La fase intermedia tra i due momenti, quello del fuoco e quello dell’acqua, fu caratterizzato da spaccature, erosioni, crepe che si estesero da una linea all’altra del mio massiccio perimetro statuario.

I tecnici furono costretti a costruirmi tutto intorno una più poderosa impalcatura di metallo, stringendomi in una ferrea camicia di forza per tenere insieme le varie parti che, secondo l’opinione dei più autorevoli studiosi, avrebbero potuto franare e staccarsi pezzo per pezzo, a causa di questa nuova lebbra della pietra che prorompeva incalzante.

Ma il processo involutivo che si stava preparando sarebbe sfociato invece in un altro esito: nei solchi si diffo più potenti generazioni di muffe dai colori sgargianti che traevano i loro cromatismi e la loro forza dai miei suoli e strati più profondi.

Presto si estesero riempiendo ogni angolatura, succhiando l’anima del terreno sul quale crebbero formando ampi florilegi superficiali che adornarono le membra residue ancora riconoscibili e sulle quali si indovinavano mutevoli paesaggi di microflore spontanee simili a tatuaggi viventi che colonizzarono un deserto di increspature e dune di incipiente pietrisco.

La consistenza della pietra divenne sempre più secca, calcarea, silicea, come se il aggio del fuoco avesse lasciato solo cenere morbida, poi lavata dall’azione di cure femminili e asciugata dal sole, setacciando sul fondo una sabbia grigia, argentea, sterile, senza più il suo veleno, senza più fuoco dentro.

Stavo mutando verso una struttura più impalpabile: la pietra si sarebbe sbriciolata fino a perdere la sua coesione originale. Sarei presto diventato argilla, terra, infine sabbia aerea, deserto cangiante.

Intanto ero diventato davvero un gigante ingombrante. La pietra incenerita dal aggio del fuoco mi aveva spogliato degli attributi della durezza e pesantezza, ma d’altra parte la venuta delle dee mi aveva fecondato e ingravidato, generando all’interno della mia massa rocciosa un impasto, un nucleo vivente che continuava a levitare. Più ingigantivo, maggiormente il processo di polverizzazione si accelerava e precipitava.

La mia sagoma era enorme e nello stesso tempo sabbiosa: ero un gigante d’argilla che si stava disseccando e trasformando in un ammasso di pulviscolo tenuto ancora insieme miracolosamente da chissà quale forza centripeta, da chissà quale entità coesiva che fino a quel momento nessuna azione centrifuga era però riuscita a vincere.

Poco a poco le crepe s’aprirono, i solchi si squarciarono, mentre le microfranature si dissolvevano liberando – sotto il primitivo e resistente guscio – un enorme, eutrofico agglomerato sabbioso scompaginato dall’aria che entrava generosamente nelle mie ferite, nelle mie fangose e argillose suture.

Capii che sarebbe stata lei, l’aria, a vincere la sfida tra i quattro elementi.

Intanto il mio volto non era più in alcun modo riconoscibile e l’impalcatura ormai inutile nella quale continuavo a essere rinchiuso come una belva pericolosa per l’umano consorzio, cessò di rappresentare l’icona fortunata che aveva attirato tanta gente, tanti clienti, tanti soldi per l’impresa che Lea aveva

saputo costruire intorno al mio strano caso.

Non so cosa ò nella sua mente e nel suo cuore, mentre l’ultimo stadio della mia fatale trasformazione si stava compiendo. Riconosco tuttavia che fu capace di un ultimo atto di pietà. Un giorno vidi arrivare una enorme gru con la quale fu scoperchiato minuziosamente il tetto della casa di vetro nella quale non potevo essere più contenuto a causa delle mie dimensioni sempre più esplosive.

La gru mi sollevò traendomi fuori da quelle pareti ancora frequentate da esseri umani e mi depositò poco lontano, sulla spiaggia aperta di fronte all’oceano, come un obelisco informe che presto i venti, la salsedine e i marosi avrebbero dissolto.

Fu levata qualsiasi impalcatura e qualsiasi apparecchiatura dalla quale del resto non si riusciva più a estrarre un qualsiasi segnale regolare di vita.

Fui liberato dal mio bozzolo tecnologico, da tutti gli elettrodi, le sonde, i fili, i microchip.

Intorno a me mi fu eretta una barriera per impedire che alcuni superstiti fanatici visitatori potessero avvicinarsi per demolire anzitempo quello che restava di me, accelerando il collasso delle forme dei miei arti, del mio capo, delle membra che ora parevano modellate da un gigante bambino che aveva giocato, un tempo, vicino a quelle rive, traendo quella scultura di sabbia dalla spiaggia.

Ero un faraonico colosso di Mennone, un monolite umanoide che si stava sgretolando, risucchiato dall’aria senza lasciare traccia.

Le brezze entravano nelle mie fenditure e le attraversavano da parte a parte, producendo voci, sibili acuti, rauchi suoni leggendari… anche se continuavo ad avvertire la forza coesiva del mio nucleo solare e l’incedere vittorioso di un più sottile, interno fuoco.

Intanto, granello per granello, i venti rubavano ed erodevano la mia massa mentre l’impasto di lava e cenere, di creta e acqua che s’era generato al centro del mio essere, continuava a vomitare nuova terra, nuova mota, nuova sabbia che andava a rigenerare le parti perdute e a incrementare all’infinito il mio volume, la mia sommità che a volte le mongolfiere non autorizzate di curiosi organizzati o fotografi professionisti che ascendevano sopra la zona riuscivano a sfiorare, cercando di accaparrarsi un’ultima immagine del loro idolo di pietra. Questo via vai aereo, così come la spinta propulsiva alla generazione spontanea di nuova sabbia endogena, durò alcuni mesi, fino a che si arrestò.

I turbini che spiravano dal mare disseccarono gli ultimi aggregati di terra, soffiarono sulla sabbia e la portarono via.

Anche il tuorlo del mio uovo terreno si seccò, si spaccò in infinite rughe irregolari, aride e struggenti come il volto di un vecchio abbandonato dai suoi anni. Ormai non ero che una gloriosa carcassa.

Intensi zefiri annunciati dalle onde, rimescolarono quel che restava dei miei segni distintivi, cancellando i contorni di qualsiasi apparenza, umana identità e consistenza, esaltandosi nel capolavoro di una finissima polverizzazione atomica.

Poco a poco l’aria che mi entrava dentro e mi dissolveva divenne il mio stesso

respiro: non ero più un organismo assoggettato ai ritmi forzati dell’inspiro e dell’espiro, ma smaterializzandomi senza più confini, imbracature, impalcature, diventavo uno con il fiato del creato.

Ora finalmente, come il vento cosmico posso espandermi e penetrare tutto, agire su tutto, partecipare al destino vitale di ogni creatura, esercitare il mio dominio sulla pietra e sull’albero, sull’acqua e sulle nuvole che ho imparato a muovere con i miei nuovi, invisibili organi prensili, nervi della coscienza e muscoli della volontà.

Talvolta sono assalito dalla nostalgia della mia trascorsa esistenza umana. Non dei suoi limiti o delle sue debolezze, delle sue ignavie sociali e domestiche, ma delle sue irrealizzate e non ancora sognate potenzialità.

Ho nostalgia di quello che, come essere incarnato, avrei potuto diventare.

Ricordo un cuore che batte e sa vibrare al tocco di un largo sorriso, il calore del sangue che scorre in frementi vasi pulsanti ed è versato nelle ferite e nelle guerre, il colore dell’occhio incantato che sa esplorare la luce e l’orecchio che ode.

Ricordo la lingua che assaggia i mille sapori e il naso che riconosce la moltitudine di profumi e di spezie. Rammemoro la parola, il sapore del pane, il sesso, l’urlo di dolore e la corsa.

Tuttavia non ho rimpianti, anche se la bellezza della forma di una mano mi sorprende e ancora mi fa trasalire. Come la memoria della pietra che sogna e anela alla carne.

Così so che la storia dell’uomo erà come un alito di vento.

Su questo pianeta stuprato dalla ignoranza e dalla violenza di creature crudeli, finalmente la Natura ritornerà alla sua pura e arcaica durezza e levità.

L’Età della Pietra tornerà a splendere cancellando le tracce del convulso aggio dell’animale umano.

Gli alberi e le acque vedranno l’essere orgoglioso che li aveva soggiogati, rivolto all’impotenza dalla rivolta della Terra. L’evoluzione si coarterà nella sua negazione e tornerà alle Ere della sua primitiva e silente esistenza.

I miliardi di batteri umani cresciuti sul pianeta come una muffa, spariranno dopo aver esaurito o tradito la loro funzione e il loro senso.

L’esperimento umano sarà riassorbito come una cicatrice – segno di una ferita profonda – dalla matrice geologica di questo corpo celeste partorito dal Sole e dalla lungimirante quanto augusta potestà degli Dèi.

* * *

Ora i miei pensieri son levrieri di luce lanciati nella corsa perenne tra le insondabili galassie. Le mie emozioni sono lampi di gioia esplodenti come

nucleari cellule-pulsar, immortalizzate ed eternizzate in questo nulla totale che è un libero tutto.

Nel mio nuovo spazio posso udire le silenti architetture delle idee e vedere le configurazioni cromatiche della Mente quando concepisce le forze che dona agli uomini, spaziando sopra questo e altri pianeti e li plasma, li imbeve, li feconda, li genera, li impollina di nuove concezioni, li distrugge e li ricrea, li muove verso un ultimo, recondito, ardito fine.

Ora la mia forma è quella di una indistruttibile fiamma ardente, il mio corpo è il respiro stesso del vento.

Essere vuol dire un fuoco che arde fin da prima del tempo degli uomini, da prima di ogni età. Il primo grido sulle montagne della terra è un fuoco.

Essere non è essere qualcosa, ma l’essenza di tutto; non è “essere qualcuno”, ma “essere nessuno”, senza identità.

Rido se penso alle consolanti autoillusioni umane, agli sforzi ossessivi che autentiche nullità mettono in campo per “essere”, imprimere uno stemma, il marchio del loro ego, di un vacuo nome ovunque: su card plastificate che ne misurano il valore in base al potere di spesa o di intrattenimento, su orologi di cui il tempo si fa beffe perché non si spacca in secondi, né si misura ma lo si vive.

Nomi e loghi che appaiono a santificare macchine virtuali, abiti, accessori e mercanzie che rendono le nullità riconoscibili, rintracciabili, vulnerabili con assoluta certezza da un’identità comprata e posticcia.

Alla stregua di un Grande Criminale, io perseguo invece la libertà che vige nel regno dell’anonimato, ove ogni sentiero è perso, ogni traccia fugace e la tenebra si fa manto che protegge l’audace dalle timide indagini di menti superficiali e distratte. Per questo non mi prenderete mai.

Mai.

Il privilegio è di essere senza apparire: è “non essere” per il mondo, per questo mondo. È essere l’ospite incognito, senza identikit perché nessuno lo è e tutti lo sono, senza impronte digitali perché sono eternamente rinnovate e mutanti, come le sue facce sempre cangianti dentro la forma perfetta di un diamante intagliato per sconfinare nella luce.

Annullando la propria identità storica da cui i mortali tanto dipendono, oppure creandone a iosa di fittizie per moltiplicarsi all’infinito dentro la fitta, insospettabile rete che adombra il pensiero, il respiro e il corpo delle moltitudini, ci si può mimetizzare alla perfezione ricalcando la forma della follia umana perché solo il suo vaccino consente di viverci dentro e nello stesso tempo, andare oltre.

Così ardo perché il fuoco, invisibile, celato, uno e molteplice, è rito.

E ancora rido, partecipe di un indomito gioco.

Rido e il mio riso diventa turbine e tuono quando attraverso gli occhi di uno o di milioni, leggo che per mutare basterebbe cambiare o manipolare la sequenza del

DNA, mentre il cammino è invece molto più arduo poiché non vi è redenzione senza fiamma che brucia, senza distruzione del vacuo e dell’orrido che alberga in ogni cuore umano infangato, incapace di adorazione.

Io so che la nuova creazione va di pari o con la rottura di una timida, rassicurante e rigida integrità.

Se la mazza non spacca la pietra non nasce una nuova forma, la quale non può essere vista o misurata dai timidi strumenti e dai parziali osannati sensi.

L’essenziale non risiede nel visibile.

Nello spazio vuoto – ove la vita non è – si trova il significato della vita.

Il visibile permette dapprima di percepire l’invisibile e così lo spazio vuoto, il nulla, viene riconosciuto.

Dove vi è il nulla, si può disgregare qualcosa?

Lo spazio vuoto, il nulla, è riconosciuto con la coscienza.

La coscienza è materia?

Dove non c’è materia non a la luce.

La vita è sostanza e forma.

Fine

POSTFAZIONE Il prigione vivente di Michele Mariani

Lo straordinario talento nel rendere viva e dinamica la materia ben valse a Michelangelo il titolo di “artista divino”. Questa capacità di conferire la vita al marmo sembrerebbe essere invero l’esatto opposto di quanto accade a Epis Epstein, colui che da creatura vivente muta in statua perenne. Ma questo racconto abbonda talmente di importanti riferimenti all’artista cinquecentesco che, in qualità di aspirante illustratore, mi sento di dover fornire alcune linee guida ai lettori. Questo non di certo per tenere una lezione, ma per chiarire il rapporto triangolare che credo esista tra l’opera di Michelangelo, il romanzo e le mie illustrazioni.

Il primo concetto fondamentale è il naturale parallelo tra la paralisi del protagonista e la figura dei “Prigioni”. Si tratta di un gruppo di sei statue non finite, realizzate tra il 1513 e il 1530, raffiguranti personaggi incatenati, per le quali il Buonarroti aveva grandi progetti: dovevano infatti essere collocate nel registro inferiore della monumentale tomba di Papa Giulio II. Il pontefice desiderava infatti che lo scultore modellasse oltre quaranta sculture che adornassero un mausoleo, praticamente una vera e propria piramide di marmo. Pur essendo conscio della folle megalomania del suo committente, Michelangelo colse l’incarico come la migliore occasione della sua vita per dimostrare il suo talento e per evolvere nell’arte scultorea, da lui di gran lunga preferita alla pittura. Ma, come era prevedibile, il costo esorbitante della realizzazione e la morte di Giulio II vanificarono ogni speranza di concretizzare quel capolavoro. Così quelle sculture non finite, tra le quali figurano i “Prigioni”, rimasero tali, eterno simbolo per il furioso artista del fallimento e della finitezza umana.

Queste figure, solo parzialmente emerse dal marmo grezzo, vorrebbero essere vive e libere come la “Pietà”, l’“Aurora” o il “David”, ma un impedimento, un imprevisto più spirituale che materiale (l’artista avrebbe potuto benissimo finirle per conto proprio, ma si rifiutò di continuare) impedisce loro di evadere. Ed ecco che possiamo osservare un significativo parallelo con il racconto di Gordon Bloom. Il giovane Epstein, proprio come il giovane Michelangelo, aveva in serbo grandi progetti per il suo futuro, voleva entrare a far parte di un potentato, quello medico-farmaceutico, che in seguito lo avrebbe schiacciato; proprio come Michelangelo, il personaggio, dopo aver iniziato la sua ricerca, è incappato in un incidente, un impedimento troppo grande per poter essere evitato o superato; le sue forme corporee sono rimaste imprigionate nella pietra come un monumento posto a ricordare la sua sorte, proprio come i “Prigioni” di Michelangelo.

Lungi da me il voler descrivere Epis Epstein come un “secondo Michelangelo” (l’amico Gordon non se ne abbia a male!): tuttavia il confronto e il contrasto concettuale tra le due figure è stato determinante per il mio lavoro. Infatti ho ripreso le forme del prigione chiamato “Lo schiavo che si desta”, per identificare la figura del protagonista nell’illustrazione n° 11. In fondo, l’estasi cui l’aspirante medico si abbandona durante il sogno dell’iniezione, così come la contemplazione dell’Aurora, hanno molto più a che fare con la condizione dell’artista che con quella dello scienziato. Queste due propensioni, apparentemente opposte, sono in realtà i poli necessari alla costruzione del personaggio, lo yin e lo yang, il bianco e il nero che mi sono serviti per immaginare i caratteri fondamentali delle mie illustrazioni. Ho cercato infatti di creare nelle tavole una contrapposizione/complementarietà tra il disegno delle parti anatomiche di carne viva e le immagini ispirate alla statuaria classica, cercando di suggerire una visione il più possibile introspettiva e allucinata. Nello scorrere delle immagini, il lettore non troverà la cronaca disegnata dei “fatti” che coinvolgono “Stoneman”, bensì la successione delle sue personali visioni e sensazioni, nonché del suo cambiamento spirituale.

Ed ecco che ritorna il parallelo Michelangiolesco. Il genio rinascimentale ha sempre cercato una perfezione scultorea che andasse oltre la materia: da giovane, con meno esperienza e con grande ambizione, mirava alla forma, ma col are degli anni sentì sempre più l’esigenza della trascendenza, dell’estasi e di una

spiritualità mistica inafferrabile con i cinque sensi. Non è forse la stessa cosa che accade nell’intimo dello sfortunato Epis? Resosi conto di non poter più trovare nel mondo materiale alcuna felicità e completezza, inizia a mutare la sua mente, ad affinare la sua sensibilità a ciò che è il “bello” in sé piuttosto che alle cose belle; per dirla con Freud, egli riesce a sublimare la propria energia in qualcosa di altro-dalla-materia. Si tratta appunto della medesima sublimazione di cui necessita ogni persona che abbia una attitudine artistica. Unica differenza, per sua fortuna o sfortuna a seconda dei punti di vista, è che per il personaggio questa condizione si compie anche sul piano fisico: egli riesce materialmente a sublimare se stesso, a trascendere. Il fuoco ionale che l’Aurora ridesta in lui diventa effettivamente un vero fuoco, una miccia che fa scattare l’ultima fase della sua trasformazione. Dalla pietra alla terra, dalla terra alla sabbia e dalla sabbia al vento. Paradossalmente, colui che sembrava destinato ad una funerea paralisi, sarà infine l’essere vivente che più di ogni altro potrà espandersi e muoversi.

Le forme femminili che hanno scaturito questa scintilla e dato il via alla “reazione” sono quelle dell’Aurora, una scultura di Michelangelo eseguita in marmo attorno al 1525 come particolare della decorazione affidata all’artista della Sagrestia Nuova in San Lorenzo a Firenze. Fa parte delle quattro allegorie delle Parti della Giornata (Giorno, Crepuscolo, Aurora, Notte) che adornano le tombe Medicee, ed è posta sul lato destro del coperchio del sarcofago di Lorenzo il Magnifico. L’incarico gli venne conferito da Leone X de Medici, pontefice ben più pratico e meno megalomane del suo predecessore. Il Buonarroti lavorò al progetto fino al 1534, senza mai concluderlo. L’Aurora è la personificazione allegorica dell’Alba, figura nuda e semidistesa, con il capo velato ed un’espressione assonnata e quasi fiacca, tipica di quando ci si alza maledettamente presto la mattina! È l’amara ansia di dover affrontare un nuovo giorno pieno zeppo di impegni, lavoro, fatica e delle urla del proprio capo, sia esso Dio o un dirigente d’azienda. Ebbene, proprio queste forme provocano il risveglio energetico del protagonista, salvandolo da ciò che sembrava essere una notte eterna. È la sua “aurora”, la sua nuova alba. Questa marmorea meraviglia diviene l’unica entità con cui è in grado di comunicare, di unirsi e sentirsi vivo. Essa è il marmo che diventa idealmente persona in movimento, mentre egli è la persona in movimento che diventa fisicamente marmo: non potevano che incontrarsi a metà strada, dal momento che il ato dell’una e il futuro dell’altro coincidono.

Sebbene l’imponente figura di Michelangelo la faccia da padrone, non nego di essermi ispirato per le illustrazioni anche a fonti scultoree di tutt’altra natura, nel tentativo di rendere graficamente la materia pietrificata. I piccoli e numerosi tocchi di pennello che compongono la “texture” dell’uomo di pietra nelle illustrazioni conferiscono all’immagine un effetto antico e “tribale” più che rimandare alla statuaria classica. Confesso anzi che, la prima volta che Gordon Bloom mi parlò del romanzo, non pensai al perfetto modellato delle figure classiche, bensì a quello grezzo, essenziale e brutalmente bello delle popolazioni primitive. L’involuzione dallo stato umano a quello di materia terrestre mi ha subito evocato il mito della Madre Terra, la natura che vive attraverso le rocce, un ritorno alle proprie origini. Parlando di iconografia, molte immagini famose possono essere ricondotte a questo tema. Prima fra tutte quella dei colossali Moai dell’isola di Pasqua, che tutti noi conosciamo attraverso i documentari e i film come Rapa Nui; non molti sanno però che gli esemplari più maestosi sono in realtà quelli non finiti, alcuni dei quali non sono nemmeno stati estratti dal tufo vulcanico in cui sono stati scavati: come dei giganti che dormono, queste figure lunghe anche 20 metri rimangono lì in eterno come simbolo del misterioso decadimento di una civiltà.

Parrà sicuramente evidente al lettore la sconcertante somiglianza che esiste tra la sorte di “Stoneman”, quella dei prigioni e quella dei colossi del Pacifico. Ma ancora, molte altre immagini si aggiungono su questa scia: i titanici buddha scolpiti nella pietra a Bamiyan in Afghanistan, distrutti nel 2001 dai Talebani iconoclasti; le grandi teste scultoree degli Olmechi in Centro e Sud America; le figure della facciata del tempio di Abu Simbel; i sarcofagi degli Etruschi e dei popoli preromani… e ci sarebbe ancora un numero ragguardevole di esempi.

Il superamento dei limiti della materia attraverso la mente è uno dei temi fondamentali nell’opera dell’enigmatico Gordon Bloom: spero di essere riuscito, almeno in minima parte, a trasmettere un barlume dell’essenza di queste straordinarie indagini.

Michelangelo Buonarroti, Prigioni

Michelangelo Buonarroti, Le parti della giornata

L’uomo di pietra figurato Illustrazioni di di Michele Mariani

1 — Iniezione proibita

2 – Allarmante risveglio

03 – Pietrificazione biologica

4 – Stoneman

5 – Il labirintico Maredith Hospital

6 – Tra la carne e la pietra

7 – Il merchandising di Stoneman

8 – Nella Gypsoteca

9 – Lea

10 – Tallia

11 – Lo schiavo che si desta

12 – Un fuoco sacro cova sotto l’involuzione cosmica

13 — Dissoluzione infinitesimale

14 — Dissoluzione infinitesimale

15 — Ritorno all’infinito

L’autore

L’autore di questo romanzo breve, dichiara: “... dove e quando sono nato, non ha alcuna importanza. Il mio lavoro? Ancora meno. Meno mi conoscete, meglio è”.

Più essenziale sapere che Gordon Bloom si ispira, nella sua scrittura, ad una forma di espressione artistica che si nutre di simbolismo e immagini potenti, archetipiche, rielaborandole in chiave contemporanea.

Alcune opere, come questa, si prestano anche a rappresentazioni teatrali e mostre di disegno, pittura e scultura.

Nel 2012 ha pubblicato De Nimbo, un romanzo storico di grande respiro ambientato nella Venezia dei Dogi del ’500.

Sta scrivendo altri romanzi brevi, alcuni dei quali illustrati.

Quarta di copertina

Il racconto di una singolare avventura che vede il protagonista, Epis Epstein – disertore dell’esercito che lotta contro il Tempo – attraversare le fasi involutive che riportano il suo organismo e la sua psiche a una primordiale, ancestrale materialità, a una individuale “età della pietra”.

Una “discesa agli inferi” che tuttavia gli permette di esaltare una nuova sensibilità artistica e una sorprendente intuizione metafisica, fino a scoprire una nuova identità rivelata dall’imprevedibile esito finale della storia.

Un romanzo breve – magnificamente illustrato da Michele Mariani – che impegna in una lettura di circa un’ora, e dona al lettore la visione di scenari esistenziali inusuali, inesplorati e lontani dal senso comune.

Buona lettura e anche buona visione!

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