Indice
Copertina Frontespizio Colophon Epigrafe Romanzo Capitolo 1 Capitolo 2 Capitolo 3 Capitolo 4 Capitolo 5 Capitolo 6 Capitolo 7 Playlist del Truce Attanasio L'autore Lettera dell'editore
Piero Calò
La penultima città
i jackpot 26
seconda edizione: dicembre 2014
direttore editoriale: Andrea Malabaila
progetto grafico: Chiara Scavino
quarta e sinossi: Elena Di Mizio
correzione bozze: Marta Clementoni
ufficio stampa: Carlotta Borasio
ISBN eBook 978-88-95744-76-6 ISBN Cartaceo: 978-88-95744-27-8
www.lasvegasedizioni.com
Siamo anche su
Facebook / Twitter / Anobii
Non esiste nessun Complotto, è la Storia che complotta in prima persona
Capitolo 1 La regola di Torello
Dove chi non sa continua a fare e chi sa non sa che fare
1
Il calcinaccio era schizzato veloce di taglio sulla fronte di Flora e la pietra aveva fatto polvere e la carne aveva fatto scandalo, cioè sangue. Poi, il buio. Altro non si ricordava, Flora, salvo che perse i sensi molto lentamente, con la grazia di un ballerino che si piega a qualcosa di sconveniente eppure inevitabile. Svenne inginocchiato, Flora, e sembrava chiedere perdono. Tutto intorno prese a sciamare un terno secco di omini che un po’ se la ridevano e molto imprecavano verso la fascetta nera del Contenimento, riottosa a risalire sul braccio ma segno inequivocabile che a comandare erano loro, e la comanda era che i curiosi curiosassero pure ma lontani dal cornicione pericolante mentre loro dispiegavano il Soccorso Pronto. Flora rimase inginocchiato per una buona mezz’ora, poco disturbato dal protocollo di sicurezza che ristabiliva l’ordine sconvolto di Torello. Di fronte c’era un maxischermo che continuava imperterrito a trasmettere immagini mute in diretta da Berlino, dove una piccola folla si affrettava ad attraversare una via ingolfata dal traffico a piedi mentre un’incoerente bolla di palloncini rossi si stava alzando al cielo nel freddo di quella che una volta si chiamava Germania. A Torello il capannello intorno alle immagini si stava infittendo, incoraggiato dai tizi del Contenimento, e i bravi cittadini si godevano Berlino by night.
Flora continuava a restarsene incosciente, col collo piegato in avanti e il sangue che scorreva scandalosamente denso dalla fronte al selciato. Giona Paraponzi lo aveva avvolto in una coperta di fresco lana e gli aveva frugato professionale la tasca del cappottino a tre bottoni per estirparne il portafogli; poi si era concentrato sul danno maggiore, una vecchietta colpita al fianco da qualche scheggia che si lamentava con l’“ohi ohi ohi” basso e costante più di capriccio che di dolore. Roba semplice, da codice 1. La prima barella fu tutta sua e quella per ringraziare cacciò un urlo isterico che fece risvegliare Flora che d’istinto si strinse la coperta sulle spalle. Giona Paraponzi gli si avvicinò con il portafogli in mano che restituì con una certa enfasi, e Flora se lo riprese con un gesto molle ma veloce e annuì a Giona che lo invitava a guardarsi la bella Berlino sul maxischermo pure lui oppure a tornarsene a casa con la borsa di ghiaccio in fronte. Flora si guardò intorno, era ritornata la calma; stonava solo il palazzo di fronte, già transennato con la plastica rossa e bianca. Annuì una seconda volta e prese la direzione di casa bardato della coperta e della borsa del ghiaccio, tanto se le sarebbero andate a riprendere con calma. Il capannello dei curiosi si disfece con la stessa convinzione con cui si era composto e ognuno riprese la propria strada felice di quella perdita di tempo. Quelli del Contenimento, a un gesto di Giona Paraponzi che li comandava, si tolsero dal braccio la fascia nera che anche a scendere poneva difficoltà. L’operazione di soccorso era terminata. A Torello è scoppiata una bomba. Beh, a Torello scoppia una bomba ogni giorno. Ci sono abituati.
2
Giona Paraponzi si volta e si gira senza venirne a capo. Il sangue si sta asciugando nelle vene ma al posto di un’ovattata quiete sente montare un’euforia informe che gli elettrizza le gambette corte e muscolose. Si
ria mentalmente i fatti in una sorta di lista numerata, ma quando arriva al punto due si imbroglia e ricomincia: «Il sottoscritto, uno, tirava fuori dal taschino la fascia nera del Contenimento e di conseguenza, due, si udiva un boato poco distante… E no! Così sembra che se mi tenevo la fascia al posto suo, bella, piegata e stirata, la bomba non scoppiava. Invece, perciò che ho la fascia sono intervenuto. Ma dopo. Prima c’era stato un lampo e poi il boato… seee… era una notte buia e tempestosa… ’na bomba era, mica il fulmine! Non pioveva, pure che è inverno, ché se scendeva qualche marziano dalle montagne e gli facevi la domanda a trabocchetto quello è capace che ti rispondeva “è primavera svegliatevi bambine”, e comunque per recuperarmi la fascia io mi sono tutto sbottonato e d’inverno è meglio che te ne resti imbacuccato… glissiamo… sono intervenuto prontamente e ho preso in mano la situazione dato che i capelli ce li ho ancora tutti e al centro sono belli neri ma la spruzzatina di grigio c’è, e come no? Ai lati, tagliati corti corti però si vede, chi lo nega? Insomma, gli altri due erano dei giovincelli e di quello pelato non potevi indovinare se era nato biondo o bruno ma grigio neanche a parlarne e quindi io ero il più anziano di tutti e quindi toccava a me, di fare il capo. Perché era scoppiata la bomba, mica per niente! E la vecchietta era stata colpita ma di sangue per fortuna non se ne vedeva mentre all’altro gli era calata la sincope che lo aveva messo in ginocchio e gliene usciva poco (di sangue) dalla fronte e quindi, un po’ per educazione un po’ perché alla vecia le era salita l’isteria collettiva e disturbava il protocollo coi suoi lamenti, reputavo strategico assegnare il Soccorso Pronto prima a lei e solo dopo a quello che, svenuto che era, non opponeva obiezione alcuna. Ecco perciò. Nel mentre che procedevo con scaltrezza a recuperare la Tessera di quello, per cultura generale, sapere chi era e andarlo a pinzare quando meno se l’aspetta per recuperare: numero 1 coperta di fresco lana e numero 1 borsa di ghiaccio messe a disposizione dall’oasi felice di Torello. Soggetto in questione chiamasi Nino Flora, di cui via, civico, età e senso della vita… Anna!» ordina alla moglie che se ne restava nei paraggi in attesa di istruzioni «Carta e penna ché devo scrivere tutto, ora che ho capito! Uno: la bomba, a tradimento. Due: i due feriti. Tre: la barella per la vecia che già ce l’aveva fatte a fette coi suoi urletti. Quattro: estorsione a fin di bene del documento e soccorso generico a Nino Flora (Nino di nome e Flora di cognome, meglio specificare ché a guardarlo il dubbio resta, ricchione come sembra) che poi se ne è andato via senza tante cerimonie e infatti, cinque: indirizzo del suddetto per il recupero dei generi di soccorso… data, cordiali saluti e firma, alla c.a. di Michele. Ah: prego corrispondere numero 1 grammi d’oro per espletamento di atto di eroismo presso il conto deposito del Giona signor Paraponzi in previsione di gita in qualche oasi felice della Giolla Unita quando ne avrà accumulato abbastanza. Salva con nome e stampa.
Annaaaa!» urla Giona affamato.
3
Flora si era sparato dieci ore filate di sonno agitato e interrotto. Aveva lui stesso pregato Michela Gang Bang di scrollarlo ogni tanto, ché spesso succede che uno, dopo uno svenimento, a dal sonno alla morte senza sapere né leggere né scrivere. Michela era stata così diligente che si ò la notte in bianco. Si trovarono perciò davanti alla colazione un filino spossati. Michela, sorbito il caffellatte e dopo che si fu forbite le morbide labbra increspate, si strascinava negligente avanti e indietro la cucina e altrettanto negligente si conteneva in una vestaglia trasparente da cui si intravedeva, netto, un cordino di morbido pizzo nero dalla parte del lato B. Flora ostentava olimpica indifferenza ma di sbirciare pure il lato A, piatto e duro come il marmo, non ebbe cuore, non sia mai un altro svenimento e vai, ricomincia la giostra della vita e della morte. Finalmente, la ragazza prese decisa la porta del bagno, annunciando una lunga doccia, e che Flora si arrangiasse. Flora annuì sollevato e dispose sul tavolo abbriciolato dalla colazione certe carte da studiare che quando si posarono sulla tovaglia fecero un leggero e fastidioso “crok”. Prese a leggere spedito il primo dei fogli e giunto al fondo ricominciò da capo. Gli era impossibile concentrarsi, prima la botta in testa, poi la sfilata di Michela e infine la sicurezza che la ragazza sarebbe uscita dalla doccia con in programma qualche altro show. E poi comunque la borsa del ghiaccio e la coperta fresco lana erano ancora lì in casa e finché lì restavano lui non poteva muoversi. ata che fu un’ora, il foglio di Flora iniziò a mostrare i primi segni di cedimento. Essere stata letta cento volte, e arrivato al fondo si ricomincia, aveva rattrappito la povera pagina che, di primo mattino, si era invece mostrata tesa come una lama; poi uno schizzo di marmellata, subito asciugato, certo, ma tant’è; l’esposizione intensa sotto la lampada, alla ricerca del significato perduto; il grattino nervoso all’angolo destro, in alto… insomma tutto ciò che poteva are per affetto e attenzione l’avevano al contrario fatta ingiallire di vecchiaia
prematura. Mica come Michela che se ne stava ancora beata sotto la doccia, ad alternare acqua fredda e acqua calda finché non si sarebbe risentita elastica abbastanza. Infine suonò il camlo ed era quasi mezzogiorno.
4
Un omino sulla quarantina, semi capelluto, piegò la testa di tre quarti come a salutare con deferenza l’infortunato Flora; in mano stringeva diligente una borsa di tela targata Contenimento e, pur se era chiaro chi era e cosa voleva, faticava ad aprir bocca. Flora lo guardò per cinque secondi buoni con la faccia interrogativa ma non riusciva a instillare l’urgenza di qualificarsi in quell’omino che non era ancora ritornato sulla stazione eretta. Flora immaginò che, poveretto, magari era strabico e vedeva il mondo da una prospettiva tutta sua. E invece ci vedeva benissimo, il maiale! Di fronte gli era apparsa da qualche tempo Michela con lo chignon in testa e un leggero asciugamano che le cingeva la buona terza del seno. Nient’altro. Flora le stava di spalle e quando gli venne l’illuminazione si girò di scatto ma non troppo, ché il bel culo lo ebbe in campo meno di un secondo e poi sparì in un fruscio. Sparito quello, ritornarono insieme la favella e la gioia di vivere dell’omino che era lì a reclamare coperta fresco lana e borsa di ghiaccio, già belle pronte in un angolino, che furono sistemate meglio che poterono nella borsa di tela targata Contenimento; a quel punto l’omino chiese urbanamente a Flora se per caso si sentisse meglio. Flora annuì poco convinto e chiese se c’era dell’altro e quello annuì a sua volta e diede da firmare la relazione di Giona Paraponzi che si autoattestava tanto di eroismo e prontezza di soccorso. Flora la lesse poco interessato e, firmandola, aveva dato a Paraponzi il nulla osta al conferimento del grammo d’oro in conto deposito per i servizi resi. Solo quell’ultima riga finale catturò nel giovane un minimo d’interesse, una increspatura del labbro che esprimeva un’invidia. Comunque firmò e si apprestava a congedare l’omino che avendo ottenuto tutto quello che voleva non aveva più motivo di restarsene lì in attesa di chissà cos’altro. Flora lo osservò
per qualche secondo, poi si sentì in dovere di aggiungere: «Non darti pena per la mia amica. Per tre quarti è fatta di acqua proprio come me e te.» Solo allora l’omino si rianimò e ritrovò il suo cammino.
5
Di mangiare, Flora, aveva punto voglia e se aspettava Michela si sarebbe ritrovato a sgranocchiare dei grissini dolci di sale e un bicchiere medio di acqua piatta; così, pure impreparato, decise di vestirsi e affrontare il colloquio per il lavoro che promettevano alla Beni Vizi e Servizi, l’unico concetto che era riuscito a carpire da quell’incarto di cinquanta pagine di cui si era letto minimo cento volte la sola copertina. Almeno era chiaro che qualcosa cercavano, e cosa o chi si sarebbe capito poi. La Beni Vizi e Servizi non era troppo distante, stava nella piazzetta di una vecchia banca che aveva trattato addirittura le lire, poi gli euro, poi la fame nera e solo alla fine della dialettica rugginosa tra il denaro e l’interesse ivo degli utenti, fatta di segni meno segnati in grassetto, telefonate minatorie alle otto del mattino, ingiunzioni a colmare il debito, accenni a cugini mafiosi specialisti del settore, si era appianata nella sana quiescenza della Tessera in attivo perenne. Flora eggiava negligente e con la piccola fame messa lì sullo stomaco a mo’ di gatto morto. Ascoltava musiche dalle cuffiette, che provavano a incarognire il suo animo atono, e la voce di un cantautore dialettale dei tempi selvaggi che si lamentava di lavorare troppo, mangiare niente e una volta a casa sua moglie gli stava mettendo le corna con il vicino. Tutta allegria. Strada facendo Flora incrociò un paio di maxischermi che diffondevano le solite cartoline di vita quotidiana, uno puntato su Parigi e l’altro su La Spezia. Non c’era audio, come sempre. A Parigi c’era un certo fermento ma niente di paragonabile ai tempi andati, quando in Rue des Écoles, Flora l’aveva riconosciuta, ci aveva pure abitato, si fronteggiavano gli studenti di Biologia di Jessiu, i cinefili che assaltavano le varie sale d’essai dalle otto del mattino, i sorboniani che si spingevano fuori zona a mangiarsi la baguette, un centinaio di
turisti con la capa all’aria che cercavano, senza vederla, Notre Dame e Flora che andava e veniva dal Postamat della Rue du Cardinal Lemoine per verificare se mai qualcuno avesse versato dei franchi si sul suo conto. Ma questo era al tempo dei soldi, appunto, e adesso per fermento si intendeva giusto una decina di persone inquadrate dal poderoso grandangolo della telecamera e sparate su tutti i maxischermi della Giolla Unita, da Berlino a Mulholland Drive. A La Spezia invece non c’era anima viva, solo un gabbiano che andava avanti e indietro senza requie. Flora indugiò per qualche secondo su quel pennuto che aveva perso la bussola e con sempre minore forza e convinzione la cercava in sorvolo sul mare deserto e rugginoso di vecchie navi mangiate dalla salsedine e semiaffondate, facendosi largo tra una muta di palloncini rossi che navigavano perduti a bassa quota e che scoppiavano di tanto in tanto colpiti da quel becco puntuto. La piccola fame, intanto, si stava organizzando in qualcosa di più clamoroso, tipo uno di quei cali di zuccheri che ti fa appoggiare stremato al primo palo che incontri; al contempo il cantautore tradizionale si era subito consolato delle disgrazie della vita con un buon pintone di rosso a diciotto gradi e adesso cantava un twist e invitava la moglie a lucidare la grancassa, ché lo strumento lo metteva lui e insieme avrebbero suonato la zinnannà. Quando girò ancora l’angolo, Flora era arrivato alla Beni Vizi e Servizi.
6
Flora rimase qualche secondo davanti ai tre ingressi schierati. Il primo era il Patrimonio e corrispondeva alla sua vecchia banca di quando c’erano i soldi, una piccola filiale ai tempi ben frequentata dai rimasugli della medio-alta borghesia di Torello e di cui lui era la pecora nera che sempre ci vuole nelle buone famiglie. Non mancava di buongusto, quell’architettura bassa del primo Novecento, che per le esigenze di sicurezza si era dovuta blindare con l’acciaio e il cemento armato che andavano a massicciare i fregi e gli svolazzi
della gioia di vivere del civettuolo Liberty. Il terzo ingresso era un palazzo poderoso e senza fronzoli che, diceva la targhetta di ottone, aveva domiciliato per alcuni anni nientemeno che Antonio Gramsci, di cui avevano proditoriamente sfruttato il nome e adesso si chiamava Hotel Gramsci e ospitava il puttanizio legalizzato di Torello. Era così tanto piaciuto il nome, quell’accostamento della crapula a un personaggio severo e austero, che tutti i bordelli legalizzati della Giolla Unita avevano preso il nome di Hotel Gramsci. Il secondo ingresso era una porticina di bambole incastonata tra i due palazzi e se proprio ci volevi entrare dovevi piegare le terga in gesto di umiliata sottomissione; proprio quella era la Beni Vizi e Servizi propriamente detta, il centro di comando e controllo di Torello, aperto ventiquattr’ore su ventiquattro e che dava il perché a centocinquanta tra impiegati e badasse. Flora prese deciso la porticina centrale e la testa gli toccava le ginocchia tanto era bacchilinanni e strisciò la Tessera nella fessurina per averne l’“avanti entri pure”; restò qualche secondo verticale a occhi chiusi per recuperare la pressione sanguigna e abbassò di nuovo lo sguardo per inquadrare la gentile portinaia tutta rivestita di pelle e con un naso così lungo e sottile che ti faceva voglia di sbattertela là sul bancone, un gioiellino nano che dalla porticina ci entrava a testa alta e capezzoli dritti come chiodi. Quella non alzò neanche lo sguardo e chiese a Flora la Tessera e il motivo dell’escursione. Flora, un poco distratto, rispose che sì un motivo c’era, e le accennò l’inserzione di lavoro che aveva letto. La ragazza alzò lo sguardo e scrutò Flora con un certo interesse e anche Flora guardò con interesse i suoi occhietti viola, di cui il destro leggermente strabico la rendeva ancora più oscena e provocante. Quella annuì e annunciò deferente la visita a qualcuno nel retro. Quindi restituì la Tessera a Flora e lo indirizzò con un cenno del suo indice diafano negli uffici alle sue spalle. Flora balbettò un “grazie” e si instradò, poco sicuro di dove stesse andando. Dopo dieci i fu costretto a fermarsi: c’era una porta chiusa, senza nessuno spiraglio o cartello che ne incoraggiasse anche il semplice bussare. Flora vi si congelò davanti e attese. Dopo il primo minuto ato invano e che gli sembrò un’ora, accostò l’orecchio
ma non sentiva alcun segno di vita. Vi restò altri due minuti, altre due ore, trattenendo il respiro in attesa anche solo di un ultrasuono finché non gli arrivò il paventato calo di zuccheri e per non cascare come un dente marcio dovette appoggiarsi con entrambe le mani e le gambe divaricate contro il solido portone che, bontà sua, lo sorreggeva bene. Flora chiuse gli occhi in attesa che asse pure quella buriana e maledisse la sua pigrizia, poteva ben fermarsi da qualche take away a mangiarsi una salamella tutta grassi e salute! Le forze gli venivano meno e più la crisi accelerava più Flora spingeva sulla porta chiusa (e dentro il silenzio) finché qualcuno decise di aprirla e Flora si trovò abbracciato a Michele che gli aveva aperto, spazientito dalla lunga attesa. Quello lo rialzò sull’asse, galvanizzato dal contatto e chiese a Flora se era lì a giocare ai caldi abbracci; Flora si scusò sommariamente e si ricompose, lamentando la scarsa reattività della maniglia. Quello ammonì imperterrito che le porte prima di aprirle bisognerebbe bussarle e Flora scrollò la testa convinto, così si doveva fare! Allora Michele decise di sorvolare e riprese il suo posto dietro l’enorme scrivania, sulla poltrona ancora calda e invitò Flora ad accomodarsi pure lui, lì di fronte, se era in grado di inquadrare quella sedia vuota. Flora la additò ma non aspettò conferma, si sedette comodo e si trovò così al cospetto di Michele. Beh, in realtà erano tre ma tutti si chiamavano Michele: Gerbero, Sciarabbai e Anpichisi. Così c’era scritto sui cavalierini, da sinistra a destra in stampatello maiuscolo.
7
“Ecco un bel quadro!” pensava Flora guardando quella strana commissione. Michele Gerbero, quello che gli aveva aperto la porta, aveva ripreso il suo feeling con la poltrona abbandonata e si dondolava dolcemente come a chiederle scusa col culo; era il più giovane dei tre, quasi un adolescente, coi capelli a
paggetto e le manine lisce di gioventù che batteva ritmicamente polpastrello su polpastrello come un applauso senza entusiasmo. Sciarabbai, al suo fianco e centrale, aveva tutta l’aria del capo, elegantone in un gessato malavitoso a righine strette e coi capelli bianchi e impomatati che diffondevano un sottile odore di olio brillantinato. Le sue mani, grandi e nodose, sembravano un panino estirpato dal forno ancora crudo, tanto erano bianche e poco lievitate di falsa crosta. Anche lui le teneva palmo su palmo ma serrate, senza fretta né necessità di un qualche gesto di incoraggiamento per lo sbigottito Flora. Michele Anpichisi, ultimo da sinistra, le mani se le fregava invece isterico, come a distribuire equamente i germi su tutta la loro superficie e quelle erano arrossate dallo sforzo e dalla ciccia stressata e obbligata a un qualche movimento che non era nella loro natura, grasse e corte come erano. «Uhm…» fece Gerbero di malumore mentre gli altri due voltarono la testa all’unisono verso il muro, come a chiamarsi fuori da quel grugnito che sapeva tanto di rimprovero. «Posso avere la sua Tessera?» fece infine rivolto a Flora che gliela porse. «Nino Flora, nato, residente, età, eccetera eccetera» lesse Gerbero dal terminale che si era riempito di tutti i cazzi dell’imputato. «Vedo che non è un grande frequentatore dell’Hotel Gramsci. Posso chiederle perché?» fece di seguito, davvero interessato. Michele Sciarabbai e Anpichisi si distolsero dalla parete bianca per meglio guardare Flora in faccia, come una bestiola rara. «Non sono stato bene ultimamente…» balbettò Flora spiazzato dalla domanda. «Cioè gli ultimi dieci anni?» fece di rimando Gerbero vagamente ironico. «Adesso sto meglio… vedrà…» si giustificò Flora cui risposero i sospiri disillusi e malinconici di Sciarabbai e Anpichisi. «Posso chiederle perché è venuto? Spero non solo per giustificarsi… dopotutto non è obbligatorio frequentare l’Hotel Gramsci, pur se molto consigliato…» insistette Gerbero.
«È per l’annuncio di lavoro…» balbettò nuovamente Flora che tra sé e sé malediceva la gioventù sempre incapace di glissare. «Vedo…» rispose conciliante Gerbero «Laurea di antico stampo, vecchia guardia eh? Esperienze qua e là, ha scritto due libri che non ho mai sentito nominare ma gli alberi li hanno tagliati lo stesso, neh? Sì, va bene, pochi lei dirà… la Natura è generosa se la si lascia fare ma comunque adesso di libri non se ne stampano più, per fortuna… conoscenze informatiche, linguistiche, gestione, decisione, obiettivi, risultati, problem solving, gioco di squadra e tutte le menate di cazzo buone a colonizzar Plutone. Complimenti vivissimi!» concluse Gerbero con un sorrisino appena meno ironico del suo standard. Sciarabbai e Anpichisi scossero il capo in segno di approvazione. Anche Flora, che però si sentiva leggermente in trappola. «E mi dica…» riprese Gerbero rimettendo gli occhi distratti sul terminale «…mi dica signor Flora: pensa di poter apportare qualcosa di decisivo alla Beni Vizi e Servizi?» Flora si sentì incoraggiato a sciorinare una pappardella che gli veniva in bocca, sempre quella: «Credo… sono sicuro, di sì. Non è solo questione di titoli o di età matura per poter entrare in scioltezza in un meccanismo perfettamente oleato come la Beni Vizi e Servizi… entrare con l’umiltà dell’ultimo arrivato e trovare la propria collocazione, in linea con la mission, in concordia con il management, in armonia coi colleghi e poi crescere, crescere per diventare sempre più utili…» concluse Flora un’ottava sotto, come a chiedere protezione. Gerbero stava annuendo soddisfatto mentre Sciarabbai, visibilmente commosso, si richiamava dalla gola qualche residuo di catarro e Michele Anpichisi si asciugava senza ritegno delle lacrime immaginarie con l’angolo spesso di un fazzoletto di stoffa, immaginario pure quello. Michele Gerbero, in realtà, pur giovane che era, la pappardella l’aveva intesa tutta, in quel tono nenioso e carico di sottotesto che per completezza d’informazione suonava più o meno così: “E se diventerò qualcuno, ché a diventare qualcuno non ci vuole poi tanto in questo posto di lumaconi, la prima cosa che farò sarà di cacciarti dalla tua merda di scrivania a calci nel culo, a te e alle due scimmie che ti stanno accanto”. Era intelligente Michele Gerbero, di una intelligenza immatura ma già pigra, al risparmio, infastidita da quel finto umile che Flora era.
Fu Michele Sciarabbai, inaspettatamente, a prendere la parola: «E lei, signor Flora…» chiese calmo e veramente interessato «…si sente all’altezza del posto vacante?» Gerbero si sporse dalla poltrona di un paio di centimetri e sembrava pure lui interessato alla risposta di Flora, e nell’attesa si grattava il cuoio capelluto che riempì le unghie delle mani di una mota avana e vischiosa. La domanda, falsamente innocente di Sciarabbai, sconvolse decisamente l’assetto sonnambulo di Flora. Averla letta l’inserzione! E invece, prima la bomba, poi la notte agitata tra la vita e la morte, la stronza di Michela che lo faceva apposta a fargli mancare il respiro coi suoi show e infine pure l’omino coi papielli… insomma: che lavoro offriva la Beni Vizi e Servizi? Flora guardò intenso Gerbero, come a carpirgli direttamente dal cervelletto la risposta che di certo sapeva; quello, al contrario, lo incoraggiava con un cenno affermativo del capo come a dirgli “non ti preoccupare va tutto bene”. «Credo, sono sicuro, che sarei, sono. Sì!» disse d’un fiato. Gerbero si ridacchiò nella mano a coppa che gli copriva la bocca e aspettò che a rispondere fosse il vecchio Sciarabbai in persona: «Dunque. Part-time orizzontale, sei giorni a settimana, da mezzanotte alle sei del mattino. Due grammetti d’oro mensili in deposito sul suo conto, niente male, converrà, contratto a missione, rinnovabile e mi pare di non aver dimenticato nulla.» «Perfetto!» sintetizzò Flora decisamente rinfrancato. «Perfetto!» gli fece chiosa Sciarabbai «E… mi dica… lei reputa di poter fidelizzare una qualche clientela?» chiese ancora con una certa curiosità, mentre Gerbero si rideva nelle mani e Anpichisi lo distribuiva nell’aria a manciate, tutto il suo buonumore. «Ehm…» indugiò Flora che si rese conto che forse, da un bel po’, lo stavano prendendo per il culo. Sciarabbai aspettò per qualche secondo la risposta; poi, siccome era vecchio e un po’ di pietà l’aveva imparata dietro quella poltrona, decise di togliere Flora dagli impicci. Si sporse dalla poltrona e quasi in confidenza gli disse indulgente: «Signor Flora. Anzi: dottor Flora. Lei lo ha letto l’annuncio? Lasci stare, per carità, le rispondo io: no. Stiamo cercando badasse per il servizio notturno, quello dei clienti un po’ sul difficilotto, PeranaX, Zingarelle, fruste, freddi abbracci… cose così. Io non credo sia roba per lei.
Comunque non si scoraggi, la terremo presente per qualche posizione più nelle sue corde. Lei mi piace, leggo qui che abita insieme alla signorina Gang Bang, si faccia consigliare dalla bella Michela, lei la sa lunga, se posso dirlo…» e infatti lo disse, con un sorrisetto trasognato. E così congedò Flora che quasi avrebbe preferito prenderla nel culo sei giorni su sette, part-time, certo.
8
Flora guadagnò l’uscita schiantato dalla vergogna e dalla fame. Arrivato al cospetto della portinaia dovette fermarsi un attimo, ubriacato da un odore dolciastro di feromoni di cui non si era accorto prima e che la ragazza spargeva nell’aria a zaffate generose e che davano all’accueil un deciso odore di fregna e baccalau. La ragazza lo guardò comprensiva e fece per alzarsi a offrirgli un sostegno, ché quello pareva dovesse venir giù come una mela morta. Flora le mise le mani avanti, ci mancava solo che quella, avvicinandosi, lo investisse in piene narici del suo odore penetrante e muschiato e lui ne sarebbe di sicuro svenuto. Aiutandosi con il mobilio su cui sbatteva come un cecato, smozzicò un “arrivederci” e guadagnò a fatica l’aria fresca di Torello, dimenticandosi di abbassare la testa sull’uscio e ricavandone un colpo secco e rumoroso dritto sulla fronte. Fece pochi e zoppicanti i finché incrociò, che usciva dalla sua ex banca, l’amico macellaio Tiziano De Paola che aveva depositato lì, nel Patrimonio, l’incasso-punti della mattinata prima di riaprire la serranda pomeridiana e tornare al Patrimonio la sera; due volte al giorno, tutti i giorni. Flora avrebbe fatto a meno dell’incontro ma Tiziano lo aveva intravisto e, già allegro di suo per gli affari a gonfie vele, la sua macelleria era la migliore a Torello, gli scoppiò una risata in faccia vedendolo così male in arnese e pensando provenisse da qualche trenino estremo dell’Hotel Gramsci. «Flora!» tuonò amichevole «Ci hai dato dentro, eh? Guarda che faccia!» E gli diede una gomitata così puntuta che quasi lo piegò in due.
«No…» trovò la forza di dire Flora «…vengo dalla Beni Vizi e Servizi… ho solo un calo di zuccheri…» «Vedo!» fece Tiziano comprensivo ma neanche tanto convinto «Vieni con me. Ho una salsiccia che è meglio di tutta la figa che trovi qui dentro.» E presolo sottobraccio se lo portò via di peso.
9
Flora si era riempito la bocca con due stronzi di salsiccia crudi e succulenti. Tiziano lo guardava paterno e soddisfatto e fece riemergere da un cassetto una bottiglia di vino rosato e due bicchieri di cristallo impolverati su cui soffiò deciso e quelli fischiarono. «Bevi e mangia ché dobbiamo essere mangiati…» fece filosofo. E Flora non si fece pregare. Quando si fu ben bene rifocillato fece il gesto di prendere la Tessera per pagare ma Tizano, che stava aspettando quel momento da quando lo aveva intravisto, gliela fece rimettere in tasca. «Ci mancherebbe altro! Non andrò certo in malora per due stronzi di salsiccia. Oggi ho fatto il consuntivo mensile e se il prossimo va come sta promettendo, in capo a un anno avrò accumulato ben cinque grammi di oro. Cinque! Ci pensi? Cinque grammi sonanti, roba che tra meno di trent’anni posso andarmene una settimana intera in qualche oasi felice della Giolla Unita e lo scrivo pure sul cartello: sono in una qualche oasi felice della giolla unita – la macelleria riapre tra una settimana. E al ritorno puoi star sicuro che la clientela raddoppia e la valigia me la terrò sempre pronta nel bancone frigo ché appena rifaccio i punti riprendo il cartello e saluto: sono in una qualche oasi felice della giolla unita – la macelleria riapre tra una settimana. Tu, Flora, a oro come stai messo?» gli venne da chiedere in un falsetto ironico. Flora di oro non ne aveva, in effetti. Era roba per commercianti e per i rari impiegati, comprese le badasse, che lo accumulavano in conto deposito finché avessero raggiunto la quota di uno spostamento in qualche oasi felice della Giolla Unita. Anche gli eroi del Contenimento ne guadagnavano ma non era un lavoro vero e proprio. Nel Contenimento erano cooptati tutti i cittadini abili che si fossero trovati a gestire i soccorsi della bomba giornaliera che scoppiava in
tutta la Giolla Unita. Flora non aveva stoffa da eroe. E sì che lui l’oro lo bramava. La sua faccia fu sufficiente come risposta a Tiziano che prese in mano due coltellacci e li affilò con movimenti sicuri di spadaccino. Flora uscì dalla pedana del bancone e gli si mise di fronte, ad ammirarlo e scolarsi le ultime gocce del rosato; poi porse il bicchiere al macellaio e ringraziò urbanamente. Gli fece anche i complimenti per la salsiccia e salutò prima di essere investito dalla morra di clienti che già aspettavano fuori ansiosi. A vederlo al di là della vetrina, Tiziano De Paola dava un effetto commovente. Il macellaio era innamorato del suo lavoro, poco da discutere. Zompettava allegro sulle sue gambette magre da un cliente all’altro, facendo tremare l’accidiosa pedana di legno, e a tutti dispensava facezie e sorrisi di benevolenza, erano loro il suo successo, il suo lasciaare in una qualche oasi felice della Giolla Unita. Tiziano era macellaio, e che macellaio! Si districava con qualsiasi coltello meglio di D’Artagnan, che bravo lo era solo col fioretto, mentre lui spaccava ossa d’asino con la lama spessa due centimetri e ti tagliava a occhio delle fettine di bresaola che ci potevi vedere attraverso. Ma era allo stesso tempo anche un artigiano, che faceva tutto con una lentezza e un metodo che esprimevano la sua pazienza e ti facevano uscire dal locale che era quasi notte, preciso, concentrato, senza un filo d’ansia nonostante le file di clienti fino al marciapiede. Lui si definiva pure filosofo ma, senza esagerare, era comunque una brava persona, col suo grembiulino rosso che a fine giornata grondava sangue; coi suoi occhialini da miope a fascia, dai vetri opachi e con la spessa montatura di osso nera; con i suoi dentini aguzzi, irregolari ma bianchissimi come quelli di un pesce gatto e incastonati nella sua faccia ferina e vagamente pasoliniana. La carne, anzi “la qarne” come la pronunciava lui con quell’iniziale erotizzata con la bocca mezza aperta e le labbra incollate ai denti quasi avesse un orgasmo, era tutta la sua vita, un alito di broda, un sospiro di voluttà urgente; ditelo con la qarne… era la sua insegna scritta a caratteri cubitali sullo smalto bianco e quei puntini di sospensione volevano colmare tutta l’insoddisfazione del sesso disinnescato di Torello, che si praticava ventiquattr’ore su ventiquattro negli stucchi e le volte a stella dell’Hotel Gramsci. La salsiccia di solo filetto era una sua invenzione.
Prima della Giolla Unita aveva allevato una nuova forma animale che gli aveva dato anche una certa fama. Si trattava della caramolla, una mucca da macello fatta di solo filetto, la parte più nobile e costosa. Ogni animaletto destinato a caramolla era strappato alla madre appena nato e seguiva un regime alimentare a base di aminoacidi, proteine vegetali e carne di stessa mucca. Quando era pronta per l’olocausto, la caramolla pesava le sue due tonnellate e si muoveva con grande difficoltà poiché era sprovvista di grassi e muscoli e aveva invece un aspetto gelatinoso come una sacca di midollo. La caramolla era una bistecca ambulante con una testa davanti e una coda dietro che erano i suoi unici scarti. Tiziano stava studiando un sistema per far diventare filetto anche la coda ma l’avvento della Giolla Unita bloccò il progetto e si dovette rassegnare. Tiziano era un uomo felice e un cittadino modello, la massima aspirazione dei governanti di tutti i tempi.
10
Tanto lo aveva ammirato all’opera, Tiziano De Paola, che Flora si rimette in cammino saturo di vino, salsicce e buoni sentimenti. Solo, non gli va giù che la sua giornata possa dirsi finita, ci ha provato a cercarsi un lavoro ma, come per l’amore, anche lì bisogna essere in due. Michela Gang Bang lo sta di certo aspettando a casa, lei un lavoro ce l’ha, e sarebbe uscita solo dopo il dettagliato rapporto di un altro fallimento che Flora non ha voglia di raccontare. Allora allunga la strada, controlla il o, si sforza di ridurlo ma con grossa difficoltà. Abbassa la testa e si concentra sulla sua fantasticheria preferita, trovare un lingotto da mezzo chilo sul davanzale di una qualche finestra così da non dover fare neanche lo sforzo di piegarsi per raccoglierlo. Con mezzo chilo di oro potrebbe lasciare Torello per non farvi più ritorno, cosa che a Flora sembra la più importante di tutte. Flora prova ancora una volta a pianificare il suo vagheggiato vagabondaggio, ma arrivato alle porte di Torello non sa neanche se prendere la destra o la sinistra. Sono pochissime le suggestioni che evocano il mondo esterno, legate a reminiscenze sempre più flebili, se lo avevi visto quando
viaggiare si poteva, ma in ogni caso cancellato granello dopo granello già da dieci anni di arresti domiciliari; per non parlare dei maxischermi, quei virus espressivi che mostrano oasi tutte uguali e falsamente felici, vacanziere, impiegate allo shopping in punti vendita che hanno tutti gli stessi nomi, le stesse merci, le medesime architetture, i cui abitanti galleggiano spensierati da un punto all’altro, leggeri e sollevati come palloncini. Così rimuginando, Flora arriva davanti a uno dei maxischermi collegato in diretta con una Rotterdam già bella attiva di buon mattino. Le prime tre persone che intravede camminano veloci ma senza meta; poi incrociano un donnone mulatto e si tolgono il cappello mentre lei annuisce pensosa. Le serrande a Rotterdam sono già tutte alzate e la schiera dei negozi aperti somiglia tremendamente a una qualsiasi via del centro di Torello, tanto che Flora rilegge più volte le specifiche del filmato on air dubbioso che quella sia effettivamente Rotterdam. Flora, complice il rosato che è un vinello carogna e falsamente modesto, segue con attenzione. Ha l’impressione che si sia finalmente realizzato l’appiattimento della Giolla Unita, l’ultimo atto di una semplificazione necessaria alla salute mentale, alla rimozione dell’angoscia del futuro. Quindi, cosa può essere più rassicurante di un elegante Neckintosh, di un volgarotto Zarra Home, di un esclusivo Emporio Armadi, di una tronfia United Fruits, tutti uguali da Berlino a Mulholland Drive? Flora scaccia dalla testa quel pensiero molesto e apre la bocca per focalizzare un puntino che si perfeziona lentamente nel primo piano di una bruttona dalle braccia grasse e dal ventre piatto. Adesso è deluso, Flora. Tutta quell’attesa per una racchia! Tanto vale andare a farsi prendere per il culo da Michela Gang Bang, ché magari in quel momento si stava accomodando quel reggiseno che le tette gliele sollevava così in alto che Flora già da tempo se ne era rassegnato. Fa appena in tempo a dare le spalle allo schermo che l’asfalto su cui poggia i piedi inizia a tremare per un paio di secondi, fino alla fine di un botto di media potenza. Adesso sì che la giornata può dirsi conclusa. A Torello è scoppiata la bomba quotidiana. Ci sono abituati.
11
È l’alba e Giona Paraponzi si sta facendo bello per la mattinata: quel grammetto d’oro appena guadagnato va ben festeggiato! Si inzuppa i capelli con una pasta molliccia e se li massaggia per un quarto d’ora buono; quando se li risciacqua sembrano infoltiti di un buon 30% e adesso assomigliano alla criniera di un leone, bolso ma pur sempre felino. Il midollo, pure diluito dall’acqua, fa malloppa e stagna nel piatto doccia affaticando il vortice che ondeggia pigro e non sembra volerne sapere di instradarsi nelle fogne. Giona aspetta impaziente; poi, tutto tremando, urla alla moglie di portare nel bagno un qualche termosifone ché a lui gli sta salendo la carogna e pure il reumatismo. Anna Calacchi, donna servizievole e devota, trasporta un piccolo mausoleo sulle rotelline sghembe e glielo piazza all’altezza dell’uccello, già moscio di virtù sua e adesso pure chiatrato dall’acqua che gli si sta asciugando gelida addosso; intanto Giona sta lavorando sullo scarico per far rifluire la poltiglia che ha fatto tappo, con i gesti suoi precisi delle mani aperte come un massaggio cardiaco e la faccia severa come quando si tira su la fascia nera del Contenimento e ordina ai anti ancora vivi di togliersi dalle palle ché là è scoppiata la bomba! E lui ha bisogno di spazio und concentrazione per organizzare i soccorsi e destinare i morti al cimitero e i feriti al Soccorso Pronto ché a sbagliarsi ci si mette niente! Dài e dài, l’acqua rifluisce e Giona, col culo sudato di spalle al termo, riapre l’acqua calda per risciacquarsi tutto. Anna resta nei paraggi ché Giona di certo ne avrebbe avuta un’altra da lamentarsi ma a quello gli prende improvviso il pudore di essere nudo come un verme e invita la moglie a galleggiare fuori del bagno, lei e quella baracca del termo che aggiunge caldo su caldo, e quello non è più un bagno, è una sauna. La donna, che proprio quello stava pensando, se ne esce tutta sudata pure lei, in attesa che il suo uomo si tolga dalle palle e lei si possa scofanare qualche decina di gocce di Valium per cantarsi le ninne nanne direttamente nel cervelletto.
12
Giona, messo in tiro e profumato, guadagna agevole la via maestra per la prima stazione, la palestra Dattoni.
Il proprietario, un cinquantenne come lui ma dalla chioma folta, corvina e guappa, lunga dietro e corta davanti, si sta fumando tranquillo la sua sigaretta tutta salute sul marciapiede. Saluta Giona con un gesto virile del capo che gli fa schioccare il collo e gli sorride, come quando nella giungla si incontrano due leoni senza denti e per prima cosa si meravigliano di essere ancora vivi. Giona risponde allegro al saluto e si tira sui piedi la borsa del perfetto sportivo. Si accende una sigaretta anche lui e insieme se la fumano silenti, fissando il marciapiede con una certa nostalgia, quasi fosse quello la giungla. Tony Dattoni butta il mozzicone con una perfetta parabola di pollice e indice, poi guarda l’amico e sorride: «È da un po’ che non ti si vede…» gli fa, ando in rassegna il corpo tozzo e basso di culo di Giona Paraponzi. «Eh… sai… i pensieri… questa vita è bella e l’abbiamo sempre sognata, eppure… comunque oggi sono felice e domani è un altro giorno, si vedrà, no?» rilancia Giona. «Sto qua apposta…» concede pensieroso Tony. «Quando ero ragazzino e vedevo mio padre che si chinava fino a terra per ripulire le strade pensavo che io la vita sua non l’avrei voluta manco morto, e adesso sto qua a cinquant’anni a imbrattarli, i marciapiedi, con i mozziconi, e a fare la formichina come lui… due grammi d’oro al semestre… ma almeno la schiena non la piego… però…» conclude dubbioso. «Hai ragione e ti capisco…» interloquisce Giona. «…ma un po’, credimi, è l’età. I giovani se la godono, senti a me…» argomenta. «Quali giovani?» chiede perplesso Tony. «Hai sentito la bomba di ieri?» cambia improvvisamente discorso Giona, ché continuando su quel registro amaro rischiava di far cilecca all’Hotel Gramsci. «E tu hai sentito di quella di oggi? Devastante… ci sono due feriti gravissimi, maciullati… e un intero palazzo sventrato…» risponde fuori luogo Tony. Giona rimane zitto per qualche istante. La prima sensazione che avverte è una morsa gentile ma opprimente dal bassoventre fino ai genitali. Poi gli sale forte e chiara l’invidia: chi aveva gestito il soccorso di quella carneficina si sarebbe
trovato in conto deposito almeno cinque grammi d’oro con tutto quel sangue versato! Al confronto il suo grammetto era poca cosa. Di quel o la Giolla Unita l’avrebbe visitata nel soprabito di legno. Tony Dattoni, incoraggiato dal silenzio dell’amico, riprende. «Alle bombe siamo abituati ormai. Ma al sangue, quello no. È peggio della morte: è lo scandalo di essere ancora vivi, nonostante tutto!» conclude torvo. La piega del discorso aveva impedito a Giona di spiegare il perché e il percome, che lui è là per festeggiare la bomba del giorno prima con una bella sessione di pesi e una sauna prima di infilarsi in ogni buco libero e docile dell’Hotel Gramsci. Si riprende la sua borsa d’atleta e dopo essersi guardato distratto l’orologio fa cenno a Tony che lui entra dentro per scaricare la Tessera. Tony lo guarda sorridente e annuisce: «Va’, vecchio leone, va’.»
13
Nei sessanta minuti messi in preventivo, Giona ci dà dentro per davvero. Anche se è vicino ai cinquanta, si era lasciato fagocitare dalla moda della Giolla Unita e si sforzava di imprimere al suo corpo un disegno che non era stato il suo. La palestra e gli attrezzi, disposti negligenti ai quattro angoli di un enorme open space di duecento metri quadrati, cantano l’inno alla resistenza: sollevamento pesi, manubri da cinquanta chili, bilancieri a forma di gogna, cavigliere e polsiere di piombo… è tutto un tripudio di tattica difensiva. L’atleta si mette in gara con gli attrezzi che ne forgiano sì i muscoli ma lo piegano come un somaro. In questo modo Giona aveva già perduto almeno dieci centimetri d’altezza e altrettanti ne aveva guadagnati di corazza e adesso somigliava a qualsiasi uomo di Torello targato Giolla Unita: corto e tozzo, che a dargli uno spintone non cede un millimetro di terreno ma per sputarlo in faccia ti devi abbassare di venti centimetri buoni. Quelli alti a Torello erano rari e li trovavi tra chi la palestra non la frequentava,
tipo Flora per esempio o lo stesso Tony Dattoni che la gestiva ma non ci metteva mai piede, fissato invece su quel marciapiede a fumarsi una sigaretta dopo l’altra e a imbrattarlo per dare un senso retroattivo al lavoro del padre, quasi rassegnato ai suoi centottanta centimetri di altitudine e pure alla panza. E la lista si chiudeva là. Tutti gli altri sembravano delle palline d’acciaio. Giona si fece cinquecento piegamenti sulle gambe e nel mentre gli scapparono due lunghe scorregge d’aria che sembrava quello lo scopo. In realtà si modellava il quadricipite che coi pantaloni attillati e senza calzini pure d’inverno era sempre sul punto di strappare il tessuto tanto era in erezione. Così, arrossato dopo una breve sauna e una lunga doccia fredda, se ne uscì dalla palestra alle 8.40 come preventivato. Tony, che non si era mosso dal marciapiede, lo guardò sorpreso, come se il compare si fosse accorciato di altri due centimetri. Tornarono entrambi dentro e Giona porse la Tessera al compare che con la pistoletta la prosciugò di due punti. Tony gli chiese poi se si stesse per caso recando all’Hotel Gramsci per scaricare tutto quel testosterone accumulato e quello annuì sovrappensiero e si mise in strada; dopo dieci i non si vedeva già più. Si sentivano solo delle salve intermittenti di grassi starnuti.
14
Prima di svoltare nella piazzetta della Beni Vizi e Servizi, Giona si ferma davanti a un maxischermo per soffiarsi il naso e asciugarsi quel sudore freddo. Là ci sono immagini on air di Zurigo, almeno così c’è scritto. Si intravedono delle colonne ordinate di omini e donnine ferme davanti un semaforo rosso come palloncini zavorrati educatamente a terra; arrivato il verde ripartono senza fretta e fanno “ciao ciao” con la manina alla colonna opposta che aspetta placida. Assomiglia a una ninna nanna con annesso effetto calmante; oppure a un minuetto, orchestrato perfettamente grazie alla facilità delle sue figure, roba che anche Giona sarebbe stato in grado senza pestare i piedi a quello davanti. Verde, la camarilla in fila per due si muove a o di marcia; a mezza strada “ciao ciao” in sincrono a quelli fermi; approdo sul marciapiedi; rompete le righe e si
ricomincia dalla destra come l’orologio. Giona si batte il ritmo marziale sulla poderosa coscia, mentre continua a sudare e a starnutire. In un paio di giri ci mette sopra pure delle parole che fanno una canzoncina tutta nella sua testa. Quando l’orologio completa il suo giro e tocca ricominciare, però, la figura sembra perdersi. Un lampo diffuso e giallastro fa decollare il palo del semaforo che lampeggiando in tutti i suoi tre colori prende allegramente la via del cielo ormai terso di bella giornata. La telecamera non può esimersi dal seguire la balistica che lo fa atterrare un centinaio di metri più avanti, sulla scocca arrugginita di una Fiat 500 senza ruote che, con la sua forma bombata, invece di trattenerlo lo spara nuovamente in aria ma per un tratto più breve e sghimbescio, finché cade di traverso sulle strisce pedonali dove due omini abbandonati a loro stessi si sono ghiacciati con il piede destro messo avanti, indecisi se continuare la marcia o scappare via pure loro. L’urto del palo sull’asfalto li manda entrambi con le gambe all’aria e solo a quel punto l’immagine ferma del maxischermo si blocca in un fotogramma immobile e tutto nero. Giona continua a battersi frenetico sulla coscia. L’immagine torna in chiaro, un biondino si accomoda la fascia nera della Zurückhaltung, il Contenimento germanico, e, come avrebbe fatto Giona, inizia ad armeggiare col cellulare e dirigersi a o lungo verso i due caduti; poi ordina a due sbarbatelli rasati la rimozione del pesante palo. Le barelle arrivano in sincrono, un po’ in anticipo rispetto alle previsioni di Giona, e si portano via i feriti che non sembrano gravi. Tutto uguale, pensa Giona impressionato da quelle immagini algide e inoffensive. Il maxischermo a quel punto fa lo switch su un deserto carruggio di Genova, dove due bande di topi se le stanno dando di santa ragione per il possesso del territorio abbandonato, tralasciando l’uso dei loro denti dolci e penetranti e scalciando da dietro con le loro zampette filiformi. Solo a quel punto Giona si rende conto che la fronte gli scotta, e svolta pensieroso nella piazzetta della Beni Vizi e Servizi.
15
Il testosterone accumulato lo sta mandando in delirio o forse è stata la sauna di Tony o il casino dell’Anna col termo a rotelle oppure è lui che non c’ha più l’età e bon. Manca ancora un buon quarto d’ora all’inizio del turno mattutino, quello dei vecchietti con le cispe agli occhi e il catetere appena svuotato; così, se ne resta lì a godersi la vista di uomini in canizie e pigiamini appena estirpati dalle coperte che aspettano di entrare e i primi libertini che escono dal turno di notte e si stirano al pallido sole unghiandosi coi pollici i gilet grigio perla, lustrandosi i favoriti biondicci o saggiando la tenuta dell’asfalto coi loro bastoncini da eggio. Una servetta ripulisce col Sidol la targa commemorativa e il piccolo busto gonfio di capelli arruffati e giacchetta alla coreana dell’antico filosofo Gramsci; nella pulizia ancora sommaria, sembra cieco da un occhio e quella montatura leggera e tonda sembra posticcia, disegnata in bidimensione; comunque, orbo o meno, non sembra punto contento di trovarsi là. Il via vai intanto aumenta e ciò che accomuna tutti è la struttura a pallina d’acciaio di ognuno, giovani e vecchi. Giona, poco presente a se stesso, si gira di spalle per evitare qualsiasi comunella coi vecchietti e qualsiasi incrocio di sguardi coi libertini, che evita per un senso innato di inadeguatezza. Recepito il segnale della camla che fa avvicinare la brigata in pigiama con un movimento all’unisono, Giona vi si appressa a o di gambero, come per la distribuzione di un pasto caldo, e si confonde nell’ultimo flusso in uscita che sono le badasse smontanti, pallide e morte di sonno, che camminano con le gambe un po’ troppo larghe. Comunque sia, pur provate, facevano miglior figura degli uomini: erano più alte, meno muscolose, alcune più in carne altre meno ma tutte col ventre piatto e una mollezza incoerente che fruscia dalle gonne sopra il ginocchio. Buone ultime vengono fuori le Zingarelle, un gruppetto di esuli bulgare che quando si chio le frontiere avevano scelto di restare a Torello, che molto le apprezza con la loro falsa esilità e la loro straordinaria resistenza a ogni sforzo che non le fa mai dire di no, e impreziosiscono l’offerta del loro corpo con canti e balli da belle èpoque. Giona, in preda al delirio, è tentato di abbordarne una lì per lì, fuori orario e
fuori dal lavoro. Magari la capitana, Annina Tutta Tana, bella e lucida come una bambola di porcellana che ti guarda con quegli occhietti suoi tutto ciglia che sbattono come le spazzole di un antico autolavaggio. Ci sarebbe stata più soddisfazione! Lì sì che sarebbe stata ignorante carne su ossa. Ma non si poteva, pur se nessuna legge lo impediva. Cosa proporle? Amore? Di una pallina cinquantenne? Punti-tessera? Le Tessere sono uguali per tutti, belli e brutti; la Tessera aveva cancellato l’angoscia del lavoro e del sostentamento, non era un valore in sé ma una qualità uniforme della vita finalmente egualitaria della Giolla Unita. Oro? Magari! Era in conto deposito e non potevi spostarlo, solo usarlo a tempo e luogo. O lasciarlo in eredità. Inoltre, l’oro ce lo avevano anche le badasse, lo facevano per quello! E poi c’era un’altra questione, psicologica. Se abbordavi una badassa con una qualche proposta, minimo ti prendevi un ceffone sui denti. Non erano mica delle puttane. Svolgevano un lavoro a tempo e luogo con tanto di contratto controfirmato da Michele Sciarabbai in persona. Fuori dall’Hotel Gramsci erano brave ragazze come tutte le altre. Giona riflette e si asciuga il sudore. Poi intravede uno spiraglio e si tuffa finalmente nelle trippe dell’Hotel Gramsci.
16
Alle 17.30 fa già buio e nel Salone delle Feste il maestro di cerimonie col radiomicrofono delle animazioni ha chiamato l’ultimo trenino, il serpentone degli irriducibili che dopo quasi otto ore di sesso ne vogliono ancora e adesso si raccolgono insieme alle badasse intorno al bustino di Gramsci girandogli intorno in allegria, svuotati di seme, nudi e bassi di culo col pigiama abbassato fino ai ginocchi e le papaline brandite come un lazo di cowboy. Il trenino, poiché è tardi, si muove veloce e senza soste e quelli annaspano col cuore in gola e i corti braccini ben saldati ai culoni nudi delle badasse. Il salasso a Giona non ha fatto bene e continua a sentirsi poco presente, una sorta di sonnambulo che comunque conosce alla perfezione la strada. Urla senza soluzione di continuità “Brigitte Bardot–Bardot” e ha mantenuto la lucidità di
chiudere il trenino con la speranza che qualche pensionato non gli si metta dietro a strusciargli l’uccello sulle chiappe basse e d’alabastro. La febbre e il moto a spirale del trenino gli fanno girare la testa e lo tengono in stato di vertigine, un filo stemperata dal grido acuto e all’unisono “Ahi ahi caramba!” urlato da tutti a pieni polmoni e gioia di vivere, tranne lui che se ne resta guardingo con la sua “Brigitte Bardot-Bardot.” A un cenno dell’animatore, la badassa che fa da capotreno si ferma all’istante e dietro di lei prima si schianta poi si comincia a disegnare un cerchio perfetto che circonda d’affetto il filosofo Gramsci, cui tutti tributano un lungo applauso. O forse applaudono le tre badasse vestite solo di un farfallino nero che trasportano su un enorme vassoio d’ottone i croissant caldi, il caffè nero bollente e una decina di blister per le aspirine. Lì parte il coro esultante al “mio amico Charlie, il mio amico Charlie Brown Charlie Brown” la cui fonetica a gola aperta fa tutt’uno con un ruggito d’approvazione commovente, appena stonato dal lamento febbrile di “Brigitte Bardot-Bardot” berciato da Giona. La musica finalmente si ferma e il serpentone, dopo una lisciata di capelli al bustino del filosofo Gramsci, si tuffa sui croissant con una foga più mentale che fisica. Giona si impossessa di rapina dei blister di aspirine e nessuno ha a lamentarsene. Se ne mette tre sotto la lingua e poi inizia a leccarsi dal vassoio le piste bianche dello zucchero a velo rilasciate dai croissant che gli saltano come zecche sopra la testa. Impossessatosi infine di un croissant intero e di una tazzina ormai fredda, prende un altro grano di aspirina e se lo mescola in bocca col residuo amarognolo del caffè bruciato. Lo fa con una certa difficoltà ché la bocca gli trema e batte i denti come in un giorno della merla. È stata una bella cavalcata, dalle 9 alle 18, e il PeranaX lo ha tenuto in piedi fino all’ultimo e l’ultimo è adesso: la speranza di una overdose di aspirine che lo faccia almeno arrivare a casa.
17
Fuori dall’Hotel Gramsci, Giona tirò una bella boccata d’aria fredda con la speranza che facendo lega con l’aspirina lui guarisse all’istante ma l’escursione termica invece lo piegò in due. Iniziò a studiarsi la strada del ritorno e disperò che ci sarebbe arrivato coi suoi piedi. Di fronte stava quasi per travolgerlo col suo o costolone la bella Michela Gang Bang, in ritardo sul suo turno 18-24 ma tanto lei faceva come le pareva, di quel turno era la reginetta. Giona se la ritrovò di fronte accaldata e col petto che faceva su e giù in cerca di ossigeno, e che pareva sul punto di abbandonare le coppe contenitive e saltare al collo di Giona che le guardava scostumato. Ah, non fosse stato sposato con l’Anna Calacchi! Brava donna, per carità… e il termo e i pedalini e il brachessino pulito… però quella era tutt’altra roba. Appena la ebbe vista la prima volta se ne era innamorato da subito, così intensamente che il turno pomeridiano lui non lo frequentò mai più da quando c’era lei, per non doverla toccare a pagamento. Gli salivano le budella in gola quando la osservava, con quella faccia menefreghista e quegli zigomi così alti. Michela intanto gli si era parata davanti e vedendolo in difficoltà gli fece un discreto sorriso perché pensava che a essere gentili con la gente c’è sempre da guadagnarci. «Tutto bene?» s’informò lei. «’Na meraviglia!» rassicurò lui che riprese il controllo di sé e si allontanò di qualche metro mentre quella riprese a correre. Poi Giona si accasciò su una panchina più avanti e stette svenuto per un paio d’ore.
18
Per prima cosa si schiarisce la voce, una, due volte; poi sgancia il microfono dall’asta e accavalla le gambe; atteggia un sorriso circospetto e infine attacca, “Je veux dire…” tira tutto d’un fiato come se la storia fosse lunga. Fa invece appena in tempo a dirlo che si sveglia di soprassalto e quello che voleva dire, Flora, neanche questa volta riesce. Si siede sul letto e si guarda veloce a destra e sinistra; poi, siccome tutto torna, si tranquillizza e si infila le ciabatte. Si prepara una veloce colazione mentre dà una prima scorsa ai giornali che Michela Gang Bang gli compra ogni giorno, quando a mezzanotte smonta dall’Hotel Gramsci. Salta i gossip, i giochi, il meteo, le parole incrociate, le ricette di cucina, la pagina del fitness, le gallery delle oasi felici della Giolla Unita e la cronaca della bomba quotidiana che è scoppiata in via dei Mille, ha fatto due feriti gravissimi, i soccorsi sono stati coordinati da, foto dell’eroe. Arriva finalmente alla magra paginetta degli annunci di lavoro e vi si tuffa a testa bassa. Solo soletto, l’unico annuncio della giornata, stampato in corpo 88 per riempire la pagina. Un’agenzia investigativa richiede con urgenza un pedinatore senza esperienza. Selezioni in loco dalle tre alle quattro del pomeriggio. Flora rilegge l’annuncio una decina di volte facendo attenzione che in corpo 3 non ci sia una qualche postilla che poi uno arriva là e fa una figura di merda. Non trova nulla, l’inserzione è secca ma sincera; si appunta l’indirizzo e si mette in coda alla porta del bagno, dove Michela sta giocando al bravo idraulico, alternando acqua calda e acqua fredda con cui investe il suo corpicino elastico. Flora attende paziente e anche un po’ sognatore ma dopo venti minuti ritiene opportuno dare un segno di vita. «Michela?» confonde col bussare la sua voce, rotta ogni volta che pronuncia il suo nome
«Buongiorno Flora! Hai sognato?» fa lei con la solita allegria. «Il solito… sono sempre sul punto di dire qualcosa d’importante e così mi sveglio…» risponde lui, sempre deluso del sogno. «Non dartene pena…» lo consola di protocollo lei «…quando avrai qualcosa da dire le parole usciranno…» «Michela? Ho bisogno del bagno…» cambia discorso Flora. «Hai da fare la grossa? Sennò entra…» concede lei, per nulla impressionata. «Per il momento mi accontento di una pipì… allora entro eeeeh?» avverte lui con quell’“eh” prolungato a coprire la rottura della voce. Michela gli volta civilmente le spalle e per Flora è peggio di averla vista di fronte. Le fesse di Michela hanno un’espressione che si esprime meglio della pur bellissima faccia, sembrano un pane appena uscito dal forno, con la riga centrale appena accennata ma così morbida che si aprirebbe con un grissino. Che sia nuda o vestita cambia poco, esprime la medesima idea e non solo a Flora ma a chiunque sia provvisto di occhi, e Flora ne è molto geloso. La minzione è laboriosa, l’acqua che sventola allegra dalle spalle su per il ruscelletto tra le gambe della ragazza provoca la ritenzione dell’aggeggio del ragazzo, come una forma di pudore. Michela chiude i rubinetti e, di spalle, scavalca il piatto della doccia; la gamba sinistra mezza sollevata le mette in evidenza la chiappa, antica e sinuosa come fosse stata fatta apposta; la parabola dell’interno coscia si impenna in una tripla curva che a trovartela davanti non sai da dove cominciare, almeno Flora non l’avrebbe saputo, i clienti dell’Hotel Gramsci evidentemente avevano trovato la quadratura… Michela si appunta il solito asciugamanino sul petto e saggia con soddisfazione la resistenza del fiocco davanti quasi avesse il terrore che le tette, approfittando di un momento di distrazione, si potessero staccare dal petto e, rotolando, fuggirsene via. Si lascia gocciolare per qualche istante e l’acqua scende giù a cascate, aizzata dalle curve di quel corpo che prima la fa rimbalzare sul marmo
del ventre piatto e infine schiantare sulle piastrelle del bagno. Flora se ne resta invece immobile col suo coso barzotto che appena Michela esce accende il semaforo verde e fa colare un’urina bollente e densa come la meglio eiaculazione. «Michela… ho trovato un annuncio…» informa Flora uscito dal bagno con la patta ancora aperta. «È buono?» si informa sinceramente interessata la ragazza, che si sta asciugando le dita dei piedi una per una. «Vedremo…» risponde lui vago, distogliendo gli occhi da quel casco di dita golose. «Ieri sono stato alla Beni Vizi e Servizi e ci ho rimediato una figura di merda…» «Ah… Come sta Sciarabbai?» chiede lei con un mezzo sorriso. «Anche troppo bene. Ti saluta… bon, faccio un salto al supermercato…» taglia corto lui. «Non dimenticare le uova!» gli urla da dietro allegra e premurosa lei.
19
«Detersivo per i piatti» recita Flora, primo verso di una poesia neanche tanto lunga. «Uhm!» grugnisce schifato Chicco Micchi facendo attenzione a tenersi sulla fronte una pezzuola bagnata d’aceto. Sembra una foca che gioca col pallone, e Bacco Numucco guardava di traverso il socio titolare tanto tragicatore. «Uova» continua Flora imperterrito. «Uova ne teniamo?» chiede Chicco a Bacco, preso in contropiede. «Dipende…» risponde quello, carico di cazzimma.
«Dipende da che?» chiede Chicco battendo sul tempo Flora. «Sono scadute. Se le devi dipingere per are il tempo o fare qualche regalino speciale vanno benissimo» risponde paziente Bacco Numucco. «Sì, ne abbiamo. Quante?» sintetizza Chicco Micchi. «Una roba per lavare i pavimenti» sorvola Flora con una nuova richiesta. «Abbiamo dell’ottimo aceto bianco!» risponde con entusiasmo Chicco. «E funziona?» chiede Flora un po’ scoraggiato. Chicco Micchi gira lo sguardo verso il compare, curioso pure lui di saperlo. «Due tappini per litro d’acqua» risponde Bacco, professionale. «Allora lo prendo. Roba sott’olio ne avete?» continua Flora. «Sì, la uallera!» risponde Chicco con una risata e si gira la pezzuola bollente dall’altra parte, riequilibrandosela con gli occhi al cielo. «Insomma… rilassati, no? E che, ce l’hai con me che sembri il mio professore di aritmetica? Non vedi che non sto in condizioni? Tanto, che c’hai da fare? Abbiamo fatto bisboccia, io e compare Bacco… quando ci vuole ci vuole! Ci siamo molto divertiti con il trenino e tutto… ma tu, Flora, all’Hotel Gramsci non ci vieni mai! Lo sanno tutti! Bisogna invece, bisogna, senti a me! Alla fine della fiera ti danno pure il caffè e il cornetto, sul vassoio d’ottone! Insomma… cinque punti a testa, roba che c’avessi l’età e non c’avessi la preoccupazione del negozio starei lì giorno e notte e tu invece… non ti capisco. Hai paura di sciupartelo? Guarda che non te lo compra nessuno, pure che è nuovo, eh? A ciascuno il suo, così è… dài, vieni con noi, ci organizziamo per la prossima settimana ché quelle cose quando stai tra amici ti vengono pure meglio.» Bacco Numucco intanto aveva incartato silente l’aceto bianco. Faceva un centesimo di punto e presa in mano la Tessera di Flora la scaricò del dovuto. Sul terminale apparve il saldo, 4.764,29 punti e si era già al 15 del mese. A Chicco Micchi per la sorpresa cadde la pezzuola a terra che a contatto col pavimento iniziò a friggere come acido muriatico. La recuperò e se l’appoggiò sulla fronte dal lato pulito, più asciutto della sabbia del deserto. «Tu Flora» esordì «mi sembra che sei tirchio. Ma dimmi un po’, che te ne fai dei tuoi
cinquemila punti? Niente te ne fai, ecco cosa! Sei come l’avaro che se li portava nella tomba. E rilassati, dàì! Combiniamo per la settimana prossima?» concluse ammiccando. Flora si smarrì per un attimo, guardando alternativamente l’accalorato Chicco Micchi e il comato Bacco Numucco. “Forse hanno ragione loro” pensò, e afferrato l’aceto bianco li lasciò sul posto senza salutare.
20
Flora decise di portarsi l’aceto al colloquio ché non fosse servito a nettare i pavimenti (come aveva iniziato a sospettare e già si immaginava l’ironia di Michela e le carezze sui capelli come al bimbo stupido) almeno poteva servire da portafortuna. Si mosse deciso verso il luogo e si fermò solo qualche istante davanti al maxischermo che trasmetteva immagini on air di una Lille invasa dalla nebbia. Il messaggio era che non si vedeva niente ma i semafori continuavano ad alternare i colori in attesa di una schiarita. Al citofono si presentò come Nino Flora e tanto bastò per farsi aprire. «Nino Flora, residenza, età, studi eccetera eccetera… sei quello che ha citofonato?» domandò assertivo il tizio leggendo dal terminale. «Vabbè, vedo che sei abbastanza studiato ma qua la testa non conta. Le gambe ce l’hai? Pare di sì, cinque piani di scale a piedi le hai fatte e ci hai messo tre minuti netti. Veloce addirittura, forse pure troppo. Poi con quella bottiglia in mano sembri proprio un fesso però la Tessera dice diverso, laurea e tutto quanto. Sei capace di seguire una persona? Più alta di te?» chiese infine diretto, mentre Flora si palleggiava l’aceto da una mano all’altra. «Cre… sono sicuro di essere all’altezza, quella che ci vuole, pure che è più alto e anche se è più basso» rispose Flora con simpatia.
«D’altra parte…» rispose insoddisfatto il tizio «…queste domande sono inutili. Che cosa potevi rispondermi? Di no? Una volta sì che era diverso. Facevi la domanda secca e il pivello s’impappinava e alla fine se ne andava lui con le sue gambe prima ancora che mi alzassi io e gli usassi il culo per aprire la porta. Ma il progresso è il progresso e tu non mi convinci, sarò sincero. Se quello si accorge che lo stai seguendo che fai?» interrogò il tizio. «Finta di niente» rispose sicuro Flora. «E se quello insiste?» incalzò. «Insisto pure io» rispose logico Flora. «E se ti offre dei soldi?» tese il tranello quello. «Non esistono più i soldi» rispose tranquillo Flora. «Ah, ecco! Perché secondo te qui stiamo al quiz e vince chi dà le risposte giuste! A me serve una persona scaltra, sai? Tu invece vuoi colpirmi con la tua intelligenza che non mi serve a un cazzo… la capisci la differenza?» galoppò quello. «Perché dovrebbe offrirmi dei soldi se non esistono? Non potrebbe offrirmi dell’oro invece?» protestò quasi isterico Flora. «Che fai, corrompi? Sei proprio un bel tipo, eh?» lo offese quello. Flora rimase muto. Per ben due volte stava per aprire bocca e poi la richiuse. Al terzo tentativo capì che già da molto avrebbe dovuto alzarsi e andarsene coi propri piedi. «Peccato!» gli fece eco quello dalle spalle «L’idea della bottiglia non era male…»
21
Flora ritornò sui suoi i così mesto che Michela Gang Bang rinunciò a malincuore all’ironia sull’aceto per pulire i pavimenti. Prese la bottiglia, se la fece girare sulle mani dal palmo corto e le dita lunghissime e annuì soddisfatta ma sotto gli zigomi se la stava ridendo. Fischiettando per celare i rantoli la ripose insieme allo straccio per lavare. Al ritorno guardò Flora che studiava attento le briciole sulla tovaglia e gli chiese com’era andata. Flora non aspettava altro. «Male, come al solito!» esordì. «Ed è già il decimo in quattro mesi. Però adesso ho capito il problema e il problema sono io, me l’ha detto Chicco Micchi… la mia Tessera è quasi intatta, io non spendo nulla, anzi, io non sono mai andato all’Hotel Gramsci! C’è scritto su tutti i terminali di Torello e della Giolla Unita, pure su quello del salumiere, e questo è uno scandalo, peggio del sangue. Per loro voglio dire. E allora, si chiedono, che faccio? Come vivo? Non lavoro, non accumulo oro, non mi rimbambisco di palestra né di PeranaX… sono una specie di vegetale o magari qualcosa di peggio, un fuorilegge!» chiuse Flora. «Ma tu vuoi lavorare!» precisò Michela. «Sì, certo. Ma perché? Non lo capisce nessuno perché io voglio lavorare. E allora, nel dubbio, mi mettono alla porta.» «Sanno che tu non torneresti indietro?» interrogò lei un po’ sgomenta. «Michela, am… tesoro mio, lo sai bene che non si può; scappare è il suicidio. E io voglio ben vivere… lo sai come funziona: finito l’oro o torni a casa o sei morto, così sono i patti… la Tessera di Torello serve solo a Torello e nessuno può muovere un dito per te, è l’ultimo reato che ci è rimasto. A meno che tu non ne abbia tanto…» concluse Flora sognante. Michela si era appressata a Flora e la sua sola presenza frusciante, lì da dietro, gli faceva salire la voglia e la carogna, perché sapeva benissimo cosa stava andando a fare, la sua amica carissima e conturbante coinquilina. «Non è niente, erà. Ninna-ò, ninna-à» gli canticchiò nell’orecchio.
22
I fallimenti di Flora lo tennero giù tutto il pomeriggio. Quando iniziò a far buio, però, si sentì ben stufo di piangersi addosso e distolse finalmente lo sguardo dalle briciole sulla tovaglia. Compiangersi gli era odioso ma lo faceva anche per Michela, che alla disperazione di Flora rispondeva maternamente e ritrovava un istinto di protezione che la purificava dalle cattive frequentazioni dell’Hotel Gramsci. Piante tutte le lacrime, la frustrazione di Flora si stava rapidamente mutando in strategia: essere come gli altri, ecco la soluzione! L’idea gli pulsava dritta nel cervelletto insieme alla sicurezza che era più facile a dirsi che a farsi. Flora infatti si sentiva un filo superiore a chiunque e quel chiunque era soprattutto Torello, con la sua organizzazione, i suoi rituali, le sue bombette e quello stile di vita atono e pornografico da cui Flora premurava astenersi; mangiava poco, non curava l’aspetto, ostentava il collo lungo e venti centimetri di altezza soverchia, neanche fosse una donna. E in ultimo non si consolava né con le crapule né con la perfect drug che era il PeranaX. Aveva messo al bando il carnevale eterno della Giolla Unita. Quindi, era né più né meno di un sovversivo. Poteva biasimare che lo guardassero almeno con sospetto? Ora, se c’era una cosa da fare nella Giolla Unita, era fingere: per cominciare, comprarsi quattro bistecche dall’amico Tiziano De Paola e smuovere quella Tessera immobile che tanto dava scandalo. Così si andò a rinfrescare la faccia per lo shopping quotidiano.
23
Alla ditelo con la qarne… non c’era stranamente nessuno.
Tranne Tiziano, naturalmente, che approfittava della stanca per affilarsi i coltellacci, e l’aiutante nel retrobottega che sezionava le caramolle per il giorno dopo, che era sabato, perché certe abitudini del ato, come la spesa grossa del fine settimana erano rimaste intatte a Torello, a guisa di rituali. Flora guardava ammaliato: prima l’amico che produceva scintille dall’acciaio e le stille volavano placide come farfalline sugli occhiali a fascia nera; poi quell’enorme bancone tutto rosso cuore di bue, neanche un filo di grasso, un nervetto, un deserto rosso che a Flora faceva are non solo la voglia di mangiare ma pure di deglutire. Tiziano lo salutò con un cenno che poteva voler dire “aspetta ho quasi finito”. Poi si pulì gli occhiali dalla cenere ferrosa e solo allora si rese conto di avere di fronte l’amico Flora. «?» gli fece, completamente impreparato all’apparizione. «Ciao Tiziano… ti osservavo… sai che a vederti lavorare sembri un terrorista?» uscì spontaneo a Flora, che quello che aveva in testa gli rimbalzava subito fuori dalla lingua. Tiziano se ne spaventò, ché terrorista era proprio una brutta parola, da non commentare. «Voglio dire…» tentò di recuperare Flora «…che lavori con una ione rara che non si vede a nessuno qui a Torello, né sui maxischermi della Giolla Unita…» Tiziano preferì continuare la strategia del pesce in barile, contento per la prima volta in vita sua di avere il negozio vuoto. «Beh…» tagliò corto Flora. «La salsiccia che mi hai fatto assaggiare mi è molto piaciuta… ne prenderei cinque chili…» ordinò timidamente. «All’anima della salsiccia…» si rianimò Tiziano, rimesso in moto dal mestiere. «…devi dare una festa?» chiese. «No, no…» balbettò Flora che voleva solo scaricare un po’ di Tessera. «…siamo io e Michela, come sempre. Volevo solo fare un po’ di scorta…» si giustificò. «Contento tu…» annuì poco convinto Tiziano. «…ma, scusa, che impegni hai che ti metti a far scorta? Qui ognuno prende il giusto e il giorno dopo ritorna e al
sabato grande festa… d’altra parte, cosa vuoi… nessuno ha altro da fare… ma tu invece… hai un impiego?» volle informarsi Tiziano che si sentiva ancora 1-0 per la questione del terrorista. «Hai ragione!» squillò convinto Flora che aveva capito all’istante un altro delicato meccanismo della Giolla Unita «Dammene settecentocinquanta grammi e domani ritorno.» «Torni domani? In dieci anni ti ho visto cinque volte qui dentro, e sempre su mio invito, e adesso torni anche domani? Che ti succede Flora?» chiese l’amico preoccupato. Succedeva che Flora stava accumulando informazioni vitali in un’unica lezione, e meno male che a darla era un suo amico e non per esempio quel dottorino di Michele Gerbero. Perennemente in dormiveglia, quando si svegliava Flora faceva tremare i muri e la cosa non era buona in un mondo in cui a far tremare i muri erano solo le bombe. Ma stava imparando velocemente. «Chicco Micchi mi ha invitato all’Hotel Gramsci il prossimo fine settimana. Magari mi iscrivo pure in palestra e, bon, penso che mi vedrai spesso qui da te. E adesso… tagliami ’sti stronzi, va’…» chiuse disinvolto come un uomo di mondo. «Hai sentito Claudio?» urlò Tiziano all’aiutante che faceva il piccolo chirurgo in fondo «Abbiamo un cliente nuovo. Claudioooo…» «Eeeeeh?» fece quello dall’abisso. «Abbiamo un cliente nuovoooo!» ripeté Tiziano paziente, con le mani a imbuto. «E chi èèèèèèèè?» rispose quello. «Floraaaaaaa!» gridò Tiziano. «Aaaaaaaaaaaaaaaah!» fece appena in tempo a commentare Claudio ma quell’“ah” si era troppo allungato, all’anima della eco! E prima che Flora e Tiziano se ne straniassero si sentì un botto sordo, potente ma attutito dalla distanza, che proiettò dritto in faccia al macellaio una bistecca di caramolla che si fece burqa sul viso vagamente pasoliniano di Tiziano De Paola. Tiziano e Flora si guardarono attoniti ma in realtà solo di Flora si poteva dire che
guardava, ché dell’altro non ne vedevi la faccia ma solo la fetta di carne rossa e senza nervetti. Questa si era lanciata a mo’ di proiettile per venti metri buoni, dal retrobottega al bancone e, insomma, era scoppiata una bomba nel locale di un uomo felice e un cittadino modello, la massima aspirazione dei governanti di tutti i tempi.
24
Flora fu il più lesto a girare il bancone e correre dietro dove, dopo il botto, si sentiva solo l’“ah” di dolore di Claudio. Tiziano lo seguì a tentoni, aveva ancora la caramolla in faccia, e si buttò nella corsa d’istinto, in quel locale che conosceva a occhi chiusi ma, arrivato sul retro, non aveva potuto immaginare che il suo ordine maniacale fosse stato così sconvolto e inciampò sul possente quarto di caramolla che dilaniato dall’esplosione gli si mise a inciampo tra i piedi e cascò per lungo sulla gamba di Claudio che prolungò il suo “ah” ancora caldo. Tiziano iniziò a sudare freddo, la sua testa era affondata nella gamba dell’aiutante; stimò, cieco che era, che fosse attaccata al corpo per una manciata di nervetti che gli pulsavano dritti sulla fronte pasoliniana. D’istinto, si tastò la caramolla e se la accomodò meglio che poteva sugli occhiali, perché non voleva vedere. Flora lo spostò con un gesto brusco e gli gridò di starsene lì tranquillo con la benda sugli occhi. Poi si girò verso Claudio e gli vide la gamba appesa a un filo. Claudio voleva rialzarsi ma Flora lo ributtò giù con un “tippete”, gli aprì senza motivo la camicia e gli ordinò di starsene quieto pure lui. Chiamò dal suo cellulare la barella del Soccorso Pronto e si mise di guardia alla porta esterna per guidarli nel retrobottega e tenere fuori i curiosi attratti dal botto e bramosi di vedere. Si cercò in tasca la fascia del Contenimento ma non l’aveva, non l’aveva mai richiesta.
Allora, per far are il tempo, si mise in ascolto in tutto quel brusio e dopo molti secondi riuscì a percepire la corsa in scarpe di ginnastica dei volenterosi paramedici. Si alzò con dignità le spalle e assunse l’espressione più severa che poteva mentre li guidava all’interno. Nel frattempo pensava che si stava guadagnando i primi grammetti d’oro della sua vita.
25
Flora iniziò a scrivere il verbale sul bancone della carne, direttamente sulla carta oleata con cui Tiziano incartava le salsicce. Scriveva di getto, correggeva, riscriveva interi periodi. Due volte aveva già cancellato tutto. I mugolii di Tiziano e Claudio, lì a qualche metro di distanza, gli facevano perdere la concentrazione e così il protocollo secco dei paramedici che cercavano il modo di portarsi fuori un uomo e la sua gamba. L’impresa non riuscì, a giudicare dalla processione che Flora si vide sfilare davanti: Claudio disteso in barella finalmente svenuto, Tiziano con la bistecca ben incollata sugli occhiali e le mani avanti a mo’ di sonnambulo, docile come una gallina, e a chiudere il portantino che si trascinava la gamba morta afferrata dal piede. Flora ne rimase impressionato e distolse lo sguardo che puntò sull’enorme bancone straripante di carne rossa sanguinolenta, e faceva più impressione della gamba morta che almeno era rivestita di un lembo di pantalone e da una scarpa scamosciata firmata Emporio Armadi. Flora ebbe un conato di vomito, subito rimandato alla fine della relazione, e si concentrò sul foglio oleato promettendosi di non guardare più le caramolle sventrate. Cancellò l’ultima riga e le riscrisse uguale, per riprendere la concentrazione. Fuori, il Soccorso Pronto trottava di gran carriera e il capannello dei curiosi si era disciolto come neve al sole, ormai soddisfatto.
Flora si ritrovò così solo nel regno di Tiziano e pensò di mettersi comodo, sedendosi direttamente sul bancone e dando le spalle a quell’orrida mercanzia; così, riprese da quell’unica riga ancora viva, Io sottoscritto Nino Flora. Avrebbe voluto iniziare con un bel preambolo che partisse dalla sua disperata ricerca di un qualsiasi lavoro, i rifiuti, i sospetti che si tirava addosso e la decisione di essere infine come gli altri. Insomma voleva scrivere una bella e onesta storia a lieto fine. La fantasia gli galoppava. Rinunciò alla sua idea e se ne venne fuori con cinque righe secche, senza ato e futuro, che dicevano giusto di quella bomba scoppiata all’improvviso come la manna che scende dal cielo e nessuno sapeva chi e perché la mandava.
26
Michele Sciarabbai camminava lento e quieto all’ombra della Piazza Giolla con tutti i suoi sampietrini e porticati; tutto solo, come forse altre dieci volte nella vita, metteva simmetrico un piede davanti l’altro, di giustezza, come a voler lasciare traccia non di sé ma di un altro, magari quel cavallo di bronzo che se ne stava lì con la zampa a mezz’aria e che solo lui, certo, sarebbe stato capace di tanta geometria con tutto che era lì immobile da trecento anni. Svoltato l’angolo della Piazza Giolla, Sciarabbai si fermò davanti un portone rosso fiammante e lì sostò davanti al batacchio splendente e decorato, indeciso se percuoterlo o fuggirsene via, tanto faceva paura non solo a lui ma a tutti i cittadini di Torello. Quello dovette sentire l’indecisione ché si aprì da solo, lo accolse, si richiuse e fu subito buio. Nell’aria nera galleggiava osceno un profumo pungente di cuoio e trementina e, come un fuoco fatuo, scintillava in quella pece un rettangolino lucente che gli ò sotto il naso come una presa per il culo. Sciarabbai riconobbe la pregevole fattura della Tessera Gold e si dispose al dialogo in cui, a causa della gerarchia così sbattuta sul muso, più che un dialogo si trattava al massimo di fare “sissì” con la testa. Tanto però era stato il terrore di quel buio e di quel segno dorato, e tanta pure montò l’eccitazione del sottoposto quando a cospetto del capo si infervora e ti vuole raccontare svelto di
quanto è stato buono e bravo e solerte e scrupoloso che, invece di disporsi all’ascolto secco, parlò. «Quale buon vento ha portato qui a Torello un pezzo grosso come lei? Comunque, devo parlarle!» disse tutto d’un fiato Sciarabbai, neanche fosse lui quello senza tempo da perdere. «La Gionta Unita è qui, a Torello» approfittò la voce che saltò così tutti i convenevoli. «E?» aggiunse Sciarabbai con la bocca che non gli si chiudeva. «Avrai l’onore di servirmi per trovarla, distruggerla e recuperare l’oro. È per questo che sono qui e t’ho convocato» informò la voce che si era data subito al tu. «Ma io non ne so nulla!» si difese quasi Sciarabbai. «Infatti sei vivo. E pure al mio cospetto» aggiunse di buon grado la voce. «E che posso fare io?» si allarmò Sciarabbai. «Niente. Mi stai a disposizione, ecco cosa. Io sto qua: trovala. Recupera l’oro. Distruggerla sarà il mio compito e finché non avremo finito io starò qua e quando mi gira io chiamo e tu corri. Aspetta…» gli fece secco mentre gli squillava il cellulare. «…alla buon’ora, cazzone. Sì, sto a Torello, ne parliamo poi, adesso ho da fare, arrivedorci coglione, arrivedorci» tranciò in malo modo la comunicazione. «Dicevo. Sì: non fare niente. Quando ho bisogno chiamo. Mi volevi dire qualcosa?» si ricordò a quel punto la voce. «Sì… sì…» balbettò Sciarabbai «…si tratta della Beni Vizi e Servizi, ne ho visto uno abbastanza giusto e pure giovane, può essere il futuro dopo di me…» Finì col concettualizzare a morsi. «Futuro? Quale futuro? Di futuro ce n’è poco per Torello e per tutte le oasi felici della Giolla Unita. Però hai ragione, il tuo futuro è anche meno. Quindi?» acconsentì la voce. «Si chiama Flora… mi sembra buono…» iniziò col dire Sciarabbai che batteva adesso i denti. «Flora! È un uomo almeno?» chiese dubbiosa la voce.
«Nino Flora, uomo, sì. Non lo conosco benissimo ma la sua cara amica Michela Gang Bang la conosco eccome…» aggiunse Sciarabbai. «Ah, vecchio porco! “La conosco eccome”, sei proprio un signore. Anche io, sai, “la conoscevo eccome”. Cosa fa Michela?» volle informarsi la voce con disinvoltura. «La badassa. È molto in gamba» rispose con un certo orgoglio Sciarabbai. «Me lo immagino. Bah. Fai così: prenditi lei al momento, portatela alla Beni Vizi e Servizi, dalle qualcosa da fare, tanto siete già in tre a non fare un cazzo. Semmai ne riparliamo, magari ’sta Flora, ’sto Flora, quello che è, può pure tornarci utile, cherchez la femme! Va’ adesso» lo congedò quella voce stronza.
27
Ci volle una buona settimana per la chiusura della pratica. Flora se ne rimase in casa tutto il tempo e attendeva paziente. Neanche la spontaneità di Michela Gang Bang, sempre generosa nei suoi nudi, pizzi, sete, intimi e brandelli di asciugamano appoggiati molli sulle tette riuscirono a smuoverlo dalla sua calma eccitazione. Aspettava. Quando giunse il papello, controfirmato da Claudio, beneficiario del suo eroismo, Flora si accorse che c’era anche la firma di Tiziano che aveva certificato in due righe secche il ruolo di Flora anche nel post-bomba, quando aveva spento tutte le luci del negozio e abbassato la serranda del ditelo con la qarne… che si era così salvato dall’assalto dei randagi. Questa presenza di spirito gli valse un altro mezzo grammo di oro, oltre i due per il contenimento di un ferito grave, Claudio insomma che, informò premuroso l’omino del papello, era vivo e zoppo ma già deambulante con una protesi al carbonio nuova di pacca. Flora annuì contento, firmò la notifica e prese la sua copia da portare alla Beni Vizi e Servizi per l’attribuzione dell’oro.
Cosa che fece subito.
28
Dopo una settimana di clausura, Torello gli appariva come un’oasi felice della Giolla Unita, ricca di possibilità, dove bastava additare un deserto e aspettare che un intero palazzo ne venisse fuori dal nulla con gli asciugamani del bidet croccanti di lavanderia. Oltreò quasi sdegnato, superiore, i maxischermi che trasmettevano le tranche de vie della Giolla Unita, spiagge assolate, mercati labirintici con gli omini che andavano avanti e indietro e guardavano curiosi le bancarelle che vendevano pezzi sbrecciati e disuguali di quello che millantavano come il vecchio Partenone. Atene on air, c’era scritto sulle specifiche del video. Il primo afflato emotivo Flora lo ebbe appena varcato il portone della Beni Vizi e Servizi, dove lo accolse la gentile portinaia rivestita della stessa pelle della volta scorsa e con lo stesso lungo e stretto naso che ti metteva voglia di sbattertela lì sul bancone. Ebbe un tuffo al cuore, Flora, ma per Michela che molto aveva trascurato in quella settimana mentre lei non trascurava mai nessuno, con il suo animo gentile. La portinaia lo guardò ironica, coi suoi occhietti piccoli e strabica nel destro, mezza topo e mezza dilettante del sesso estremo. Chiese a Flora la Tessera e il motivo della nuova visita, contando di farsi due risate a sbafo. Il fruscio del braccio che prendeva in mano la Tessera liberò un tale afrore che Flora, galvanizzato, se ne allontanò di qualche o a gambero e solo con un atletico stretching delle dita riuscì a mettergliela in mano. Quella la prese noncurante e continuava a sorridere ironica e a spruzzare nell’aria i suoi formidabili feromoni. Quando l’ascella tornò al suo assetto di quiete, Flora, già ubriaco, riferì il motivo della visita e si gonfiò un filino di tutto il suo eroismo, suffragato dal verbale che, appunto, andava a consegnare. La ragazza perse un po’ della sua ironia e spalancò gli occhi, almeno quanto le
permettevano quelle fessurine viola. Si alzò in piedi e non faceva molta differenza di quando era seduta e volle stringere la mano a quel nuovo eroe di Torello. L’alzata dalla sedia fu pure peggiore di quella dell’ascella ché il movimento repentino fece frusciare la gonna di pelle nera, aderente e ben sopra il ginocchio, e il contatto delle cosce con l’aria viziata della portineria aveva fatto da accendino all’esplosione dei feromoni più bastardi che si infilarono dritti nelle narici di Flora come un lombrico inciccito dalla fragranza dolciastra di fregna e baccalau. Flora ebbe un primo mancamento e si aggrappava alla mano della portinaia per non cadere a salame di spalle; poi si diede una leggera spinta e si accasciò sul lungo collo di quella nanerottola che non protestò né rimase interdetta. Flora era affondato dritto tra i pori più operosi della centrale dei feromoni e credette di morire. Pregò solo di poter risorgere per morire ancora una volta. Ci pensò la portinaia a rimetterlo in asse e farlo risorgere. Flora chiuse gli occhi e aspettò che il sangue gli rifluisse dalla testa finché non si convinse che di sangue in tutte le vene non gliene scorreva quasi più e lui adesso era in salvo. Si cercò una delle sue sigarettine senza nicotina e sottili e iniziò a succhiarla avidamente, spenta. Intanto era stato annunciato e lo si attendeva nel retro. Si fermò dopo dieci i e si trovò davanti la solita porta chiusa, ma adesso sapeva come fare e bussò, pure vigoroso. Dall’interno si levò un complesso “avanti!” di una voce baritonale accompagnata da un falsetto da film de paura. Flora entrò deciso e a quel punto scattò un applauso che sembrava un acquazzone d’agosto. Michele Gerbero, Sciarabbai e Anpichisi accoglievano così il nuovo eroe di Torello. I primi due tesero le mani all’unisono con la velocità di un pugno e prima che potessero incontrare il braccino di Flora cozzarono tra di loro e quella di Gerbero, galvanizzata, si ritrasse a fulmine come a negare che mai fosse stata là. Sciarabbai glissò e riprese il corto cammino che gli restava per afferrare la manina di Flora e stritolargliela con una stretta virile.
Michele Anpichisi, tutto solo, continuava il suo applauso che non accennava ad abbassarsi di tono, come se si trovasse a teatro alla fine del secondo atto. Se le spellava le sue manine cicciute e stressate, e quando se le sentiva di fuoco cambiava postura e se le adattava a coppa e quelle esplodevano con l’accendino dell’aria che stritolavano a ogni battito. Fu Sciarabbai a fargli un cenno benevolo che cessò la grancassa con un ultimo battito blando. Flora rimase un tot a bocca aperta e apprezzò di buon grado le nuove figure di quella strana trojka, sempre pronta a stupire con invenzioni e coreografie. L’ufficio era esattamente come lo aveva lasciato, con la sua larghissima scrivania, le poltrone, i terminali e tutto il resto. I tre Michele erano seduti sulle loro poltrone, ma Gerbero lo percepiva leggermente diverso da come lo aveva conosciuto. Sembrava in castigo, con la sua postazione allontanata di pochi centimetri da quella di Sciarabbai ma sufficiente a metterlo fuori, come una specie d’appestato. Forse pagava così la sufficienza con cui lo aveva trattato la volta prima, quando Flora non era nessuno. Di certo era anche immusonito e dopo le reverenze di rito si ritrovava in una cerimonia che era anche la sua punizione. Sciarabbai si teneva ben distante da quello che a ragione poteva essere il suo pupillo, almeno l’unico che potesse seguirlo dato che Michele Anpichisi viveva in un mondo tutto suo e pareva completamente ingestibile. Fu lo stesso Sciarabbai a riprendere la parola dopo che si fu un minimo ricomposto. «Mi dia la sua Tessera, eroe!» fece, civettuolo come una badassa. Flora gliela porse mentre Gerbero sembrava sprofondare nella peggiore vergogna della sua pur breve vita. «Nino Flora, età, residenza, titoli di studio… scrivente di valore, avercene avuti come lei!» interpretò squillante dai freddi dati anagrafici della Tessera, mentre Michele Anpichisi non aveva ancora abbassato le mani dal tempo degli applausi e adesso le roteava a ritmo come a fare “uè uè”. «Nino Flora, che se ne frega di mangiare, scopare le badasse e fottersi di PeranaX ma che quando c’è da essere uomini è il primo a buttarsi… mi dia il suo rapporto, la prego…» continuò Sciarabbai. E così Michele Anpichisi, con le sue mosse guappe. «Nino Flora che con sprezzo del pericolo ha prestato il primo soccorso ai sempre
validi signori Tiziano De Paola, un benemerito della Giolla Unita, e Claudio Mais, un onesto lavoratore, spina dorsale di Torello…» continuò Sciarabbai che si scostò di altri due centimetri buoni dal reietto Gerbero che iniziò a lacrimare copioso e in silenzio. «Nino Flora cui, per i poteri conferitimi dalla Giolla Unita, assegno e convalido nella Tessera grammi 2,5 di oro a ventiquattro carati, in conto deposito per la sua gita nelle oasi felici della suddetta Giolla Unita quando ne avrà raggranellati a sufficienza. Tenga, ne sia orgoglioso, glielo avevo detto: lei mi piace! Mi saluti Michela, non dimentichi eh! E adesso: beviamo! E poi una bella foto ricordo per il nostro internet!» concluse cerimonioso Sciarabbai cui fece eco lo “uè uè” muto di Michele Anpichisi e lo scatto svogliato di Michele Gerbero. Flora si sciolse dalla posa in cui si era raggelato e scrutò la Tessera che gli sembrava pesare un quintale adesso. Poi volse lo sguardo verso Michele Gerbero che, senza una parola e senza guardarlo negli occhi, gli stava porgendo la fascia nera del Contenimento. Avrebbe voluto ringraziarlo, Flora, ma quello tenne lo sguardo basso come non fosse degno di sostenerlo con un eroe di Torello e della Giolla Unita. Allora Flora ringraziò Sciarabbai e Michele Anpichisi, che sottolineò col suo “uè uè”. «Nino Flora!» tuonò questa volta Sciarabbai con una certa enfasi che iniziava a diventare stucco. «What after that?» chiese neanche fosse appena tornato dalla Luna. «Credo… sono sicuro…» si corresse subito Flora «…che continuerò a servire Torello e la Giolla Unita meglio che posso…» fece con la voce strozzata mentre si gonfiava il petto d’aria. «…Mi temprerò lo spirito con le caramolle e l’attività ginnica; disperderò i miei umori nei caldi ventri dell’Hotel Gramsci e mi concederò i mondi freddi e accoglienti delle sue droghe, cappuccini e croissant» concluse, già in debito d’ossigeno al solo dirlo. «E non dimentichi di accumulare l’oro! Non si faccia scrupoli!» ammonì paterno Sciarabbai. «E accumulerò l’oro! Senza scrupoli!» corresse Flora. «Lei mi piace, gliel’ho detto. Qui dentro troverà sempre degli amici e, chi lo sa, magari anche una poltrona… ma adesso basta così, se non ha altro da aggiungere
vada pure, avremmo un po’ da fare…» concluse frettoloso Sciarabbai. «No… anzi, sì! La vostra segretaria…» uscì detto timidamente a Flora. «Eh?» fece Sciarabbai a bocca aperta. «Sì, insomma, la portinaia, quella che apre le porte…» provò a spiegare Flora meglio che poteva pur avendo intuito una nota stonata nella sorpresa di Sciarabbai. D’altra parte, era troppo tardi per tirarsi indietro. Michele Anpichisi non cambiò posa né i sonagli dello “uè uè” di accompagnamento. Ma invece di tenerseli alti sulla testa adesso li volgeva minacciosi verso la faccia stupita di Flora e sembrava volesse dire: “Che cazzo vai cercando dalla portinaia? Uè! Uè!” Gerbero puntò dritti i suoi occhietti neri e i capelli a paggetto sollevati dalla tensione verso il nuovo eroe di Torello che si confuse ancora di più. Sciarabbai, d’istinto, gli si era riavvicinato di cinque centimetri buoni. Ma si riprese subito e chiese: «Ne devo dedurre che il suo olfatto è così sviluppato?» Flora lo guardò perplesso. «No, volevo solo sapere come si chiama, se è vero che qui ci verrò più spesso…» spiegò, da gran furbo. «Direi che signorina va bene, continui a chiamarla così e non si sbaglierà» rispose Sciarabbai con un consiglio che sembrava più una minaccia e si alzò in piedi, subito imitato da Michele Anpichisi che aveva ripreso il suo inoffensivo e autoreferenziale “uè uè” a braccia alte. Flora salutò tutti e se la svignò senza aggiungere altro. Riguadagnò deciso l’uscita, ignorando anche il languido saluto della ragazza-portinaia e si fermò a prendere fiato davanti al primo maxischermo.
29
A Mulholland Drive, Los Angeles, California, c’era vita e anche figa. Almeno così diceva il maxischermo. Una biondona con almeno cinque centimetri di ricrescita castana e il ventre
piatto usciva da Zarra con un castelletto di pacchetti via via più piccoli a formare una piramide sghemba e poco equilibrata fino alla cima degli occhi verdi o più probabilmente lenti colorate; di certo aveva dato fondo all’intero campionario primavera-estate e in cima si era fatta confezionare qualche stiloso stuzzicadenti o un generoso perizoma col filo pure davanti; fosse arrivata viva a casa si sarebbe di certo vestita ché fino a quel momento più in là di un bikini striminzito color pesca non indossava; e, invece, imperterrita, prese di petto, ampio, la vetrina affianco per rinfrescarsi con un qualche ghiacciolo servito senza stecco tra due fette di pane tondo e coi semini sopra; se lo mangiò dentro e Flora dovette aspettare i comodi suoi prima di vederla uscire fuori coi pacchetti di lato giusto in tempo per un “burp” digestivo che il maxischermo non trasmetteva ma l’apertura della bocca denunciava in tutta la sua azione rinfrescante. Flora la vide allontanarsi fino a diventare un puntino sghimbescio con il brachessino che le ondeggiava tra la coscia destra e la sinistra senza mai centrare e coprire l’unico buco che gli era stato dato da difendere. Era completamente implume, pronta all’autopsia prima dell’esposizione permanente in un qualche museo. Flora la guardava, comunque. Non con desiderio né curiosità, senza voglia né pulsione. Si chiedeva invece cosa dovesse fare mai una donna, o anche un uomo, per attivare una qualche attenzione; i sensi non pulsavano, né a Los Angeles né a Torello né in qualsiasi oasi felice della Giolla Unita. Dormivano tranquilli e si risvegliavano fiduciosi e rassicurati nella hall dei vari Hotel Gramsci. Non c’era desiderio, voglia e invidia. In più tutti ormai si rasavano per una questione igienica legata soprattutto al fitness, sia che fosse palestra sia che fosse sesso. Se nella Giolla Unita fosse sopravvissuta l’adrenalina, il sesso si sarebbe formalizzato nell’infilare una mano nella bocca a risvoltare il partner come un calzino, per fottersi direttamente gli intestini. Epperò la segretaria-portinaiasignorina lo aveva ben inebriato Flora coi suoi feromoni all’essenza di fregna e baccalau. E comunque Flora era innamorato di Michela. Trasognato e felice di due donne che non poteva comprare, Flora si accese la sua sigarettina magra e senza nicotina suggendola con gusto. Michela Gang Bang, in
gran tiro per l’inizio del suo turno all’Hotel Gramsci 18-24, lo abbracciò a tradimento da dietro e i suoi morbidi seni gli riscaldavano le ultime costole di destra e di sinistra mentre quella lo litaniava “mio eroe mio eroe”. Flora si lasciò ciancicare, galvanizzato e freddamente eccitato da quel contatto fisico. Chiuse leggermente gli occhi per goderselo tutto, si sentiva forte del suo eroismo e protetto dall’affetto sincero della ragazza che lo dondolava da destra a sinistra. Quando infine li riaprì, il botto fece tutt’uno con il maxischermo svèlto dai suoi poderosi pali d’acciaio ficcati duri nell’asfalto e che travolse Michela che travolse Flora che si appiattì al suolo, ripieno tra il duro selciato e il marmo del ventre piatto di Michela Gang Bang. A Torello è scoppiata la bomba quotidiana. Ci sono abituati.
Capitolo 2 La febbre dell’oro
Dove chi sa e chi non sa continuano a fare la stessa cosa
1
«Ciccolare, ciccolare, non c’è più niente da vedere, manco il maxischermo!» urlava e ridacchiava Giona Paraponzi che si stava rivestendo della fascia nera del Contenimento e per la seconda volta soccorreva Flora. Il maxischermo era stato intanto tagliato tutto intorno e adesso si vedeva chiaramente incorniciato Flora, svenuto con addosso Michela Gang Bang stretta al collo, svenuta pure lei e con la corta gonna leggermente sollevata da dietro che le metteva in evidenza la montagna russa del gluteo. Non era male lo spettacolo, una sorta di cinema rasoterra con gli attori avvinghiati, l’asfalto che faceva da schermo e i poderosi paletti d’acciaio da cornice. Questi, fortunatamente, non avevano colpito i due ragazzi, svenuti ed escoriati qua e là dalla velocità dell’impatto dello spesso ma leggerino telone al plasma. Giona provò delicatamente a separare quei due che a vederli così sembrava se la intendessero a meraviglia. La stretta di Michela, sempre svenuta, opponeva però una certa resistenza e la cosa fece salire un accesso di stizza al buon Giona che stimava la ragazza come roba sua, da tempo la teneva sottocchio come un’oca da ingrasso e adesso eccola qua con un altro, ché tutte le femmine sono puttane. Così pensando, Giona le diede un pizzicotto dietro la coscia sinistra, così cattivo che quella, nonostante il trauma cranico, ebbe un sussulto e si staccò da Flora come avesse preso la 220. Giona annuì soddisfatto e consigliò dolcemente la
ragazza di svenire di nuovo ma qualche centimetro più in là, ché i soccorsi erano già stati chiamati e lei si sarebbe potuta risvegliare come la principessa che era, in un comodo lettino del Soccorso Pronto. Di Flora se ne fregò e lo lasciò lì, abbracciato al selciato. Gli prese sgarbatamente la Tessera dal taschino e ne lesse nome, cognome e attributi ricordandosi all’istante di averlo già salvato una volta, e con questa erano due e quello per ringraziare si stava ingroppando la sua donna con la scusa della bomba. Quando arrivò la barella, Giona, coordinatore unico dei soccorsi, assegnò i codici, 2 per la ragazza e 1 per l’uomo, e quindi fu condotta prima Michela, pure che era sveglia e sembrava messa meno peggio: il capo delle operazioni era Giona Paraponzi e nessuno mosse obiezioni. Flora continuava a giacere immoto e fosse dipeso da Giona Paraponzi così sarebbe rimasto, tanta era la sua gelosia libera da ogni freno. Ritardò più che poté la chiamata della seconda barella mettendo a rischio il suo atto di eroismo, che per i due feriti leggeri faceva in totale un altro grammetto di oro. Ma Giona se ne fregava dei calcoli, aveva trovato il suo amore e l’aveva trovato inciuciato a un altro! Furono gli ormoni a ridare fiato al povero Flora. Non quelli suoi, quelli della portinaia-chiamatela signorina che uscendo dal suo turno di lavoro se lo vide lì, povera cosa spiaccicata e ignorata, e gli si inginocchiò di fronte liberando d’un colpo uno schizzo dei suoi formidabili feromoni. Flora rinvenne saltando pure lui come una molla e poi si riaccasciò cosciente al suolo per godere più che poteva di quella fragranza di fregna e baccalau, con gli occhi spalancati che si appiccicarono su quelli un po’ strabici e viola della signorina in un vortice che coinvolgeva tutti i sensi in una volta. Aveva deciso di arrendersi, non si sarebbe rialzato mai più da lì e avrebbe aspettato di morire felice finché non gli si avvicinò il guappo Giona col suo mantra «Ciccolare, ciccolare, non c’è più niente da vedere, manco il maxischermo!» urlava e ridacchiava mentre si decideva a chiamare la seconda barella. Flora riottenuto all’istante il senso della vita, lo guardò riconoscente: per la terza volta gli aveva salvato la vita!
2
Nella corsia del Soccorso Pronto li misero di fianco, Flora e Michela. Gli ultimi residui del pudore erano venuti meno nella Giolla Unita e maschi e femmine si rallegravano a vicenda delle ferite, con la stessa gioia di stare malati come tanti anni prima si andava a scuola nelle classi miste. A vedere Michela con quell’enorme borsa di ghiaccio in testa, non ti veniva sentimento di nessuna fantasia erotica. Flora, ormai veterano delle botte in testa, la sua borsa ghiacciata se l’era tolta e l’infermiera se ne era lavate le mani, cazzi suoi se gli restava la panacchia, di certo non rischiava di morire. Quella pensava solo al suo grammetto d’oro annuale che a conti fatti entro duecento anni toccava pure a lei la gita fuori porta in una qualche oasi felice della Giolla Unita. Si affacciò per qualche secondo un cerusico trasandato e con le scarpe slacciate e la forfora che gli nevicava sul lungo camice nero; chiese un generico “come vi sentite?” ai due ragazzi che soli occupavano l’intera corsia e prima di averne risposta, che non ebbe, si girò di centottanta gradi, scrollò un monticciolo di caniglia bianca e andò a prepararsi il suo meritato caffè. Buono pure lui, il cerusico! Di grammetti d’oro annuali ne incamerava ben cinque, era bello studiato lui: una laurea biennale sudata. Entro quarant’anni avrebbe esportato, tutti insieme, lui e la nebulosa di forfora in una qualche oasi felice della Giolla Unita, a bersi i caffè e chiedersi se fuori da Torello sono migliori o peggiori. Ma di caffè ne aveva ancora tanti da prendere in quel Soccorso Pronto prima di riunire in una qualche valigia impolverata lo spazzolino e i brachessini. Così Flora stava rimettendo in moto i suoi neuroni, con l’aritmetica lineare che gli diceva sempre più chiaro che nessuno mai si sarebbe spostato da dove si trovava e che l’oasi felice della Giolla Unita era il posto natìo in cui ciascuno era rimasto imprigionato dieci anni addietro. Forse i più fortunati ci sarebbero arrivati da vecchi quando di vedere la Giolla Unita gli sarebbe ata la fantasia: non era il lavoro la chiave della felicità. Che poi, lavoro era un parolone, si trattava di corvée, di servizi incancellabili. Nella Giolla Unita si gestivano le lentissime sinusoidi delle linee ADSL, si applicavano corrette borse
di ghiaccio in testa, non si produceva più nulla. Tutto arrivava, anche le caramolle, orgoglioso brevetto del genio artigianale di Tiziano De Paola che le sue placide mucche gelatinose e crude le aveva progettate e poi se le era ritrovate direttamente squartate sul tavolaccio, pronte alla vendita e alla brace. Flora stimò di rimettersi la borsa in testa e aprire gli occhi per dire presente a Michela che, coi suoi zigomi alti e gli occhioni nocciola spalancati e mobili, aspettava paziente che si manifestasse qualcosa in quella stanza gelida. Si era elevata sulla testiera del letto e, sollevate le ginocchia per stare più comoda, pur nell’asettico e inamidato lenzuolo bianco, faceva una geometria nuova e desiderabile, pronta a toglierti il fiato. «Ben svegliato Flora, hai sognato bene?» fece all’amico, allegra come sempre. «Come ti senti Michela?» rispose Flora, riprendendo la domanda inevasa del cerusico. «Mi annoio…» fece lei, annoiata. «Ce ne andremo presto, non ti preoccupare…» fece lui, con un gesto vago. «Sì! Presto. A fare qualcosa di meglio di guardare il soffitto…» convenne felice Michela. «E a fare la nostra bella vita di sempre…» aggiunse Flora, leggermente ironico. «Sai cosa penso?» continuò lei, ignorandolo. Flora restò a corto di racchetta con cui rinviare la cortese pallina del ping pong discorsivo. Michela pensava! E da quando? Dacché la conosceva, erano quasi dieci anni, sembrava piuttosto vivere la vita attimo per attimo con l’unica angoscia che gliene sfuggisse qualcuno. La vita di Torello la viveva come le lettere dell’alfabeto, una dietro l’altra, che recitate consecutivamente non significavano nulla. «Cosa?» riuscì comunque a chiedere. «Che vita facciamo, alla fine? Quando ci siamo spiaccicati a terra temevo di ucciderti con tutto il mio peso, però mi ricordo di averti stretto ancora più forte, volevo proteggerti, avrei dato la mia vita per te e per poco non ti ammazzo sul serio… poi non ricordo più nulla… sono svenuta anch’io…» riordinò Michela
dai ricordi convulsi. «Anch’io darei la mia vita per te…» rispose Flora dopo una rumorosa deglutizione e glissando su tutto il resto. «Non usciremo mai da Torello, non vedremo mai le oasi felici della Giolla Unita, solo sui maxischermi. Tu ti lamenti del lavoro ma io coi miei cinque grammi d’oro zecchino l’anno, e sono la meglio badassa del turno pomeridiano, sai quando mi toccherebbe?» interrogò lei. «Tra quarant’anni…» rispose facile Flora che già aveva fatto i conti in tasca al dottorino. «Eh! Il colpo in testa ti ha dato sale in zucca, vedo!» fece lei nuovamente allegra. «Io ci ho messo un po’ a fare la moltiplicazione! Ma infatti pure se sei un bimbo scemo mi sei di molta consolazione…» chiuse teneramente. «Vabbè, dormi adesso. Ninna-à ninna-ò…» fece lui con la voce strozzata. Ma non ne ebbe il tempo perché sentirono avvicinarsi dei pesanti i di stivali che gridavano allegri: “Ciccolare, ciccolare, non c’è più niente da vedere, manco il maxischermo!” e, minacciosi, si avvicinavano sempre più.
3
Giona Paraponzi per il suo enorme e basso culo non aveva trovato alloggio migliore della rotula destra di Flora, floscia nel lenzuolo inamidato e non tanto percepibile a occhio nudo che però, di proposito o meno, Giona aveva centrato in pieno sedendosi sopra a peso morto e fregandosene della smorfia di dolore del degente cui diede tranquillamente le spalle senza neanche un saluto. Giona si era portato dietro una decina di succulenti stronzi di caramolla che, diceva con aria di saperla lunga, erano il rimedio migliore allo choc della bomba. Michela declinò, cortese e con un sorriso largo ché a essere gentili con la gente non si sbaglia mai.
Flora non dovette nemmeno schermirsi, se lo tenesse tutto lo choc da bomba, aveva pensato Giona già allergico al ragazzo che insisteva a stare troppo vicino sia a lui sia, soprattutto, alla sua Michela. «Bella cosa il progresso…» fece Giona tanto per rompere il ghiaccio. «… mangiare e bere, tanto sollazzo e attività fisica e se ti capita la spurchia del Soccorso Pronto ti ritrovi in corsia pure una bella gnocca!» disse tutto d’un fiato e con una certa signorilità ma non riuscendo a dissimulare il disappunto per quella stanza promiscua. Michela scoppiò in una sincera e divertita risata, con gli zigomi alti che le erano arrivati fin sopra gli occhi spalancati e nocciola e la bocca semiaperta morbida e umida come una spirale di caramolla. Anche Giona sorrise, ma di conseguenza. «Tant’è…» continuò imperterrito «si sa: la salute prima di tutto e voi, Nino Flora, mi sembrate abbastanza guarito e magari, con comodo, vi potete anche togliere dalle palle ché l’aria è poca e siamo in troppi qui dentro.» E così dicendo spostò a peso morto il culo che scivolò dalla rotula di Flora cui scappò un leggero sospiro di sollievo. Flora approfittò del gentile invito per mettersi in piedi e annunciare che sarebbe andato a trovare un posticino per fumarsi una bella sigarettina senza nicotina e che, quanto a loro due, respirassero pure a pieni polmoni. Giona annuì e si rimise comodo sul letto svuotato, con le gambette che penzolavano nel vuoto e la faccia divertita di Michela che gli troneggiava dritta negli occhi. Il Soccorso Pronto era una stilosa palazzina barocca che a vederla da fuori sembrava un torrone mangiucchiato, con le volte a stella, altissime, e i mattoni a vista. Al pianterreno c’era l’accettazione e al piano nobile il corpo medico, paramedico e due, tre stanzoni che accoglievano i pochi feriti della bomba quotidiana, quando c’erano. Niente altro. Per malattia vi si entrava raramente, di malattie nella Giolla Unita non ce n’erano praticamente più, solo un lento decadimento che scivolava verso la morte egualitaria: uomini e donne avevano tutti la stessa speranza di vita che si era avvicinata ai cento anni cui si arrivava in buona forma. Flora si avvicinò a una finestra del pianterreno alta almeno tre metri e l’aprì leggermente per poter espellere il modesto fumo della sua sigarettina. Nella via di fronte, il solito maxischermo trasmetteva le placide immagini di un laghetto
deserto e assolato circondato da un’alta e selvaggia vegetazione su cui volteggiavano una schiera disordinata di palloncini rossi. Desenzano On Air, c’era scritto. Nella sala accettazione, una coppia di paramedici era impegnata a rileggersi sui terminali le quattro, cinque pagine di internet che, con estrema lentezza, si potevano ancora visionare: previsioni del tempo, oroscopi, ricette di cucina e le photogallery dalle oasi felici della Giolla Unita. Quell’andirivieni tra le stesse pagine era una compulsione paranoica, appena smorzata dai giochini online tra i quali andava fortissimo l’“unisci i punti e ottieni la figura o una scenetta divertente”, e quella si materializzava dopo un certosino lavoro, senza nessuna qualità o soffio vitale, un vile congiungimento di punti prestabiliti, linee dritte e angoli acuti tirati a piombo dal filo del mouse sullo schermo. Flora era stanco, ancora un po’ intronato dalla botta, insoddisfatto dalla sigaretta senza nicotina e pure angosciato dalla figura emaciata dell’antico filosofo Cagliostro che imperava dritta e acuta sul terminale del portantino, che si rimirava quell’opera d’arte in settanta linee e se ne vantava galletto coi suoi colleghi paramedici e pure coi cerusici dagli occhiali d’osso. Flora ritornò annoiato sui suoi i, convinto di tornarsene in stanza e mangiarsi tutti gli stronzi di caramolla portati in dono da Giona. Così, tanto per far qualcosa, ché magari quello, impietosito, lo avrebbe invitato a stare allegro con loro, a farsi contagiare da quella spacconeria che tanto divertiva Michela. Più si avvicinava deciso alla stanza e più percepiva un sottile profumo che lo mise di buon umore e diventava sempre più deciso, o dopo o. Dentro la stanza c’era la portinaia-chiamatela signorina seduta diligente sul letto sfatto e libero di Giona che si dondolava i piedini nel vuoto in sincrono a Giona Paraponzi che per comodità si era sistemato sul letto di Michela a mo’ di triclinio. «Alla buon’ora!» gli fece quello. «Hai visite bel tomo. Nientemeno che Serena!» fece, un po’ complice, un po’ geloso. E così quel comodo e formidabile dispenser di feromoni si chiamava Serena, disse tra sé e sé Flora, girando la testa sul suo lungo collo in quell’emiciclo
strambo e notando con un certo brivido che, ognuno a modo suo, tutti i quattro lì dentro erano delle schegge impazzite nel meccanismo perfetto della Giolla Unita.
4
«Ciccolare, ciccolare, non c’è più niente da vedere, manco il maxischermo!» urlettava giulivo Giona alla cricca di ritardatari del turno mattutino che si affrettavano a varcare l’ingresso dell’Hotel Gramsci di gran carriera e tenendosi su il pigiama a molla larga. Effettivamente il maxischermo giaceva ancora sverso a terra, pure orfano di quell’ultima inquadratura, di Flora stretto a Michela che lo abbracciava forte e che, il solo ripensarci, a Giona gli aveva fatto risalire la carogna. Anche quella muta di pervertiti e pensionati che si tenevano su i calzoni dal culo come se stessero per scoppiare in una gigantesca diarrea, e che di norma erano i suoi amichetti di merenda nei ventri in dormiveglia ma accoglienti del primo mattino, gli davano una sensazione amara e stomachevole. Ben altra roba erano quelli del terzo turno, quei libertini nottambuli e smidollati, eleganti e annoiati coi loro esperimenti di sesso estremizzato e potenti sniffate di PeranaX! Puliti, rasati o con le mosche color ebano o i favoriti biondissimi o le barbe come campi di grano! E poi vestiti su misura, coi gilet sparati sulle giacche e gli eleganti mantelli neri che svolazzavano placidi al venticello di Torello! La Tessera aveva portato eguaglianza, certo, ma lo stile, succedaneo alla personalità dei poveri di spirito, emergeva in occasioni come quelle, un retaggio incancellabile, antropologico, di una immobilità sociale che si premurava di esistere ancora. Giona stesso evitava il turno nottambulo per una forma di inadeguatezza, un pudore di inferiorità che percepiva nei suoi pantaloni che non tenevano mai il cavallo, nelle camicie di mediocre fattura, negli sguardi sulle cose, allegri, golosi ma anche sconvenienti agli occhi di quelli, che il mondo lo disprezzavano perché irrimediabilmente volgare. Questo pensiero stava facendo tremare di rabbia, verso di sé, il buon Giona che di buon mattino stava per entrare nella Beni Vizi e Servizi, per farsi accreditare il suo novello grammetto d’oro per il soccorso pronto a Michela e a Flora, il
maledetto! «Ohi Serena! Si scopa? Si scopa?» fece alla portinaia-chiamatela signorina dopo aver ripreso in un istante tutto il suo buonumore e accompagnando le parole con un elegante gesto del braccio che andava su e giù come una pompa idraulica. Quella sorrise e dalla pelle più fine del volto, quella rarefatta delle tempie, partirono due scariche ormonali che a Giona gli rimase la facezia sull’esofago come un rutto che invece di salire liberatorio fosse imploso giù negli intestini. «A che dobbiamo, signor…» fece Serena, stronzetta. «Sono venuto a ritirare la medaglia, caro il mio barattolino di sugna!» rispose lui, facendo oscillare il papello davanti l’occhio strabico di lei. «Uhm… vedo…vedo. Di questo o dovremo mettere il suo, di busto, all’Hotel al posto di quello di Gramsci…» fece, lievemente ironica pure lei. «Chi? Quello? Ma quello c’aveva i pidocchi in testa! E pure adesso, pure che è bello igienico e di bronzo, c’ha le mosche che gli fanno l’uovo tra una rafia e l’altra…» rispose lui gentile. «Tutta invidia signor Paraponzi…» commentò lei ridacchiando mentre gli strisciava la Tessera e annunciava il suo arrivo ai tre Michele. «…Gramsci è morto con tutti i capelli in testa, si sa, cosa in cui lei stenta pure da vivo, anche se a sentirne l’odore se li incolla disperato con qualche lutamma che un giorno le trapanerà pure il cervello…» concluse. «Eh! Come no!» convenne lui gentile «Midollo di bue si chiama, due puntitessera a barattolo da litro o da chilo, non ricordo bene, comunque il bue è sicuro ché ogni tanto mi faccio le proporzioni della minchia e più o meno siamo lì, io e il bue…» E allargò le mani a spanna per una cinquantina di centimetri buoni. «…Torno subito, eh! Si faccia trovare con le gambe aperte ché gli eroi, si sa, c’hanno i minuti contati…» E così dicendo sparì verso la porta dirigenziale senza attendere risposta.
5
«Giona Paraponzi, vita, morte e miracoli, “mezzo eroe” a Torello eccetera eccetera. Posso farle una foto per il nostro internet?» chiese tutto d’un tiro Michele Gerbero, bello pimpante all’estremo destro dell’enorme scrivania. Michele Anpichisi era fuori dal posto, in piedi e di spalle a Giona e con le mani intrecciate sul petto. Sciarabbai faceva tema di ignorarlo. «Si accomodi, mi sono pure fatto il bidet stamattina…» rispose Giona alla domanda di Gerbero e dandosi un paio di pacche sonore sul culo sprofondato sulla sedia di fronte. «Ecco fatto» fece quello dopo aver scattato una decina di ritratti in orizzontale e verticale. «La sua faccia sarà sul web della Giolla Unita insieme a quella di Nino Flora… beh, quella di Flora avrà un po’ più di risalto… mi capisce… e comunque tutti i navigatori della Giolla Unita le uniranno coi puntini a piombo e la didascalia sarà: “Un eroe e mezzo dei nostri giorni”… interessante no?» chiese civettuolo per conferma. «Uno e “mezzo”?» chiese Giona con le scintille negli occhi. «Eh, non esageriamo! Uno! Un grammetto d’oro a ventiquattro carati in conto deposito per il suo soccorso pronto…» corresse, forse equivocando forse coglionando, Michele Gerbero. «Voglio dire. Perché Flora “uno” e io “mezzo”?» riprese Giona già con la bava in bocca e il fiele in gola. «La vedo un po’ confuso, Giona. Non “mezzo” per lei, le ho già detto “uno”; Flora non “uno” ma ben “due e mezzo”, c’è il ferito grave…» rispose Gerbero un po’ coglionando Giona. «Discorsetti niente?» si limitò a ironizzare a sua volta Giona che aveva pensato bene di mollare lì l’analisi logica. «Ha mica fretta!» gli rispose Gerbero rivolto questa volta a Michele Anpichisi che faceva l’indifferente. «Deh, Michele! Partecipa anche tu alle laudi del mezzo
eroe…» lo pregò, e quello si voltò con una cera che non era molto attraente. Fu Gerbero a smorzare la tensione quando gli chiese all’improvviso: «What after that, Giona?» «?» rispose Giona, poco ferrato nelle lingue. «Voglio dire: un grammetto oggi, un grammetto ieri… di questo o tra duecento anni le toccherà proprio farsi il suo viaggetto nelle oasi felici della Giolla Unita…» spiegò Gerbero, vagamente sarcastico. «Quando c’è da fare non mi tiro mai indietro…» rispose gentile Giona. «…ho fatto qualcosa di sbagliato?» chiese, acidulo, ma in realtà nel pallone delle addizioni e sottrazioni di quei “duecento anni”. «Nonnò… tutto giusto, prontezza di riflessi, credito telefonico, distribuzione coperte… avercene di soldatini come lei!» lo rassicurò Gerbero, ma sempre spargendo sale sull’inferiorità innata di Giona. «E quindi…» chiese Giona in umile attesa. «E quindi festa!» urlò a squarciagola Gerbero che aveva colto il segnale di Sciarabbai che su quell’urlo belluino aveva rovesciato sulla testa di Giona una buona manciata di coriandoli a quadratino, e nel mentre si alzò in piedi invitando tutti ad applaudire il “mezzo eroe” di Torello che entro duecento anni si sarebbe fatta la sua gitarella fuori porta. Gerbero tirò fuori dal cassetto un allegro fischietto rosso e improvvisò un samba esibizionista e ancheggiante cui si unì in coppia il rigenerato Michele Anpichisi, che adesso batteva le mani e grondava di risate mute e baritonali. «Le avremmo offerto anche da bere…» gli fece giovialone Sciarabbai. «…ma ci siamo scolati l’ultima bottiglia con Nino Flora…» si giustificò con una salva di spilli che trapanarono Giona da parte a parte. Quando Gerbero si strozzò in gola l’ultimo “evviva”, ché era rimasto solo lui a fare gli inni, Giona ringraziò e salutò la combriccola. Se ne uscì quasi di corsa dalla Beni Vizi e Servizi e così concentrato sull’aritmetica che non ebbe neanche voglia di verificare se Serena lo avesse davvero aspettato a gambe aperte.
6
Il contatto con l’aria frescolina di Torello fece defluire un po’ di quel sangue contrariato di Giona Paraponzi che se ne restò qualche minuto immobile di fronte all’Hotel Gramsci, occupato dagli sciattoni amici suoi del turno mattutino. Si sentiva come una bilancia perfettamente tarata, ugualmente desideroso di varcare il portone, darci dentro e vaffanculo a tutti, oppure fuggire da quella volgarità a gambe in spalla e groppo in gola. Si scostò dall’idea dell’orgia che gli sembrava adesso come una malattia infettiva e prese con decisione la strada di casa, riservandosi semmai di fermarsi da Tony a scaricare il cane morto che gli bloccava il sentimento. Magari, facendosi seppellire da qualche tonnellata di pesi e bilancieri, avrebbe ritrovato almeno la corretta respirazione. Dopo dieci minuti di cammino buono, in realtà, la carogna prese a montargli ancora di più, amplificata da un livore irrefrenabile verso Flora, perché a Giona importava veramente di Michela e il nemico odiatissimo Flora sembrava dotato di tutti gli strumenti per averla. Incrociò una serie di maxischermi che ignorò volutamente finché uno riuscì a catturare la sua curiosità; c’era scritto Belgrado on air e c’era solo da crederci, ché Giona non l’aveva mai vista né sentita nominare, beh, quanto a vedere, in pochissimi avevano calpestato le oasi felici della Giolla Unita e ancor meno quelle del Resto del Mondo, e men che meno Giona che amava restarsene nel suo piccolo da sempre e che il divieto di fatto a muoversi lo aveva accolto indifferente, già di suo le gite fuori porta se le evitava con successo. Erano solo il meccanismo del “lavoro”, il pagamento per il risultato raggiunto, l’accumulo dell’oro, che lo sollecitavano a farsi calcoli sul conto deposito e sui grammi guadagnati, un premio tangibile alla sua fatica, mica il turismo aziendale! A stare occhio di lepre, pensava, coi suoi grammetti già incamerati, in venti, trent’anni si sarebbe guadagnato il suo diritto alla gita e poi, colpo di teatro, avrebbe trovato il modo di regalarli a Anna Calacchi, che comunque amava, e una bella eggiata se la sarebbe meritata, così lui se ne sarebbe rimasto tranquillo a casa a bere birra, ruttare in tutte le stanze di casa, anche nella camera da letto, così linda e profumata che Giona aveva remore pure a dormirci, e tenendosi le
stesse mutande per tutto il tempo. Si era sopravvalutato e la stima di Gerbero era carica di sarcasmo ma abbastanza reale, coi suoi “duecento anni”. A Belgrado il grandangolo inquadrava fisso e scimunito una bella slava coi zigomi alti e il ventre piatto che inforcava e toglieva insoddisfatta certi occhiali da sole nell’esclusivo Emporio Armadi, non trovandone di suo gradimento. Aveva occhi grandi e azzurri, notò Giona tra un cambio e l’altro, ed era un peccato doverseli ingabbiare con quelle fasce nere e nervose che sembravano impiccarglieli. Facevano il paio col cielo di Belgrado, di un azzurro così intenso e violento che il plasma di Torello, diffondendolo, sembrava dovesse scoppiare da un momento all’altro, saturo di tempesta placida e incontenibile. Giona se ne commosse, quella bella donna slava somigliava non poco a Michela Gang Bang, per via dei suoi zigomi alti e dei nervosi capelli neri e corti. Se la guardò per venti minuti buoni finché quella, stizzita, lasciò perdere baracca e burattini e se ne uscì a grandi falcate dall’Emporio Armadi, a volto scoperto così come era entrata, bella e spigolosa come una scheggia di selce, a riprendere la sua personale guerra tra il piccolo blu dei suoi occhi e il grande blu del cielo di Belgrado solcato dagli inopinati palloncini rossi. E questo era tutto, si ripeteva a nastro Giona nel suo piccolo cervelletto: illusione, ricordo, rimpianto e la vita finisce senza aver portato a termine neanche uno dei sogni che gli schermi infami suggerivano! Il giudizioso maxischermo allora optò repentino per un opportuno switch con la diretta di una cadente via di Bruxelles, nell’antico Belgio, di cui a Giona fregava meno di niente. Giona si asciugò una lacrimuccia furtiva che gli fracicò pesante come piombo il polsino destro della camicia, di pessimo taglio ma stirata mirabilmente dalla dolce Anna Calacchi. Adesso il dolore e il senso di colpa gliene facevano transitare un qualche miliardo nei dotti che si ingrossarono come carne di porco, liberati dai sogni di gloria, dalla esistenza di un solo fatto certo con la sua patetica immagine: Anna che spignattava, umile e fiduciosa, per niente. L’immagine lo aveva come paralizzato, non riusciva a dare circolazione a nessuna delle sue due gambette. Quando faticosamente riuscì a imprimere il primo o, e il cuoricino gli batteva in subbuglio generale, riuscì a intravedere la snella figura a serpentina
che era Michela Gang Bang, quella vera. Apparentemente senza scopo, andava da qualche parte come un’antilope che non si meraviglia più dei suoi duecento km orari a velocità di crociera. Seguirla sarebbe stato impossibile per Giona, anche nella pienezza dei sensi. E allora gridò il tutto per tutto: «Ciccolare, ciccolare. Non c’è più niente da vedere, manco il maxischermo!» e quella si fermò di botto come ne fosse stata colpevole. Poi, riconosciuto Giona, gli sorrise ché, a sorridere alla gente, non si sbaglia mai.
7
«Giona!» fece, ancora col sorriso in bocca. «Per servirti madamina! Ma chiamami pure Giono se ti sembra più maschio!» fece lui spavaldo al suo meglio, come se quella visione gli avesse lavato via tutti i dolorosi risultati del suo piccolo pensare. «Giona va bene. Giona e la balena…» ripescò lei da vecchi racconti fuorilegge della Gionta Unita. «Era un pesce-cane, me lo diceva sempre mia madre… perché nacqui cicciottino e assomigliavo a una pallina di biliardo che, mi diceva, le era uscita fuori come una scheggia… Paraponzi invece è il cognome di mio padre…» ricordò araldico e un po’ commosso. «È una bella storia, Giona Paraponzi. Ne sai di altre?» fece lei, accogliente. «Beh… sì e no…» fece lui un po’ scoraggiato. «…sai, uno come me è tutta una storia da raccontare… per are il tempo carogna, mica per altro… ma alla fine della fiera… di raccontare ti stanchi le mascelle e forse è meglio raccogliere qualche frutto caduto e qualche ferito smaciullato sull’asfalto, quando va bene…» precisò Giona, pensando a quanto sarebbe stato bello raccogliere Flora con un cucchiaino di stagno.
«Ti annoi, vero Giona?» sintetizzò con un fendente lei. «Non lo dire neanche per scherzo!» fece lui, ridendo isterico. «A Torello la noia non c’è e se ti sembra, e ti sottolineo “ti sembra”, che c’hai la malinconia, allora vai all’Hotel Gramsci e ti fai una bella scopata in compagnia degli amici!» concluse con un elegante gesto di su e giù con le mani. «Ci vai tanto all’Hotel Gramsci? Io non ti ho mai visto…» fece lei, civettuola. «Quella è un’altra faccenda…» rispose Giona arrossendo. «…là è perché ti amo…» disse tutto d’un fiato e guardando imperterrito altrove. «Non sei sposato?» continuò imperterrita pure lei. «Anna Calacchi? Sì, certo, ma è diverso… io con tutti i muscoli e il sangue e i pensieri che mi girano in testa posso averne per lei, per te e pure per le puttane delle mamme vostre!» declamò in crescendo battendosi il petto e oltreando la misura mentre il sangue, quei litri invisibili che circolavano nel suo corpo, gli era salito al cervello in meno di un secondo, tanto poca era la strada che dovevano fare. Michela non si scompose, a lei il sangue navigava veloce ma senza panico, e infatti era elastica come una puntina di giradischi. Socchiuse solo gli occhi per qualche istante come si fosse appena svegliata da un sogno trascurabile. Giona ne percepì il fastidio, lo stesso di quando si attacca un chewingum sotto la scarpa, e sibilò uno “scusami” indirizzato a se stesso più che a lei. Poi attese che quella curiosa ragazza che lo sopravanzava di venti centimetri buoni gli dicesse a sua volta qualcosa di cortese, certo, il suo stile era quello, ma anche di minimamente umano ché il momento lo esigeva. «Anche Flora si annoia…» riprese allora, calcolando bene e facendo finta che loro due fino a quel momento fossero stati un’immagine del maxischermo, con l’audio a zero. Al solo sentirne il nome, a Giona gli stava salendo in gola la parata di morti, mortacci e mortaccini fino alla quarta generazione, di quel frocetto e pure di quella bambola caricata a molla che se ne fregava dei sentimenti più alti, quelli suoi. Ma si trattenne e gli venne fuori solo un “embé” che pareva il vomito verde di un qualche antico film di paura.
«Embé, non siete tanto diversi voi due!» rispose quella, con gli zigomi che le andavano su e giù come uno jo-jo. Lì, per Giona, stava quasi per scattare l’offesa. «Uguali dici?» fece raccogliendosi in bocca il catarro di una vita. «Io e quello? E come no! Intanto io sono almeno venti centimetri più basso, non so se ne cogli la differenza. E poi lui c’ha il collo e io no…» aggiunse con un risolino soddisfatto, manco quello c’avesse un clitoride disegnato in fronte. «…e poi io sono tutto compatto, bello liscio come un cucchiaio di legno che pure una col mestiere come te (e lasciamo perdere l’Anna Calacchi perché sono un signore) non avrebbe scienza di prendermi ché l’unico appiglio ce l’ho giusto tra le gambe… scusami…» concluse mortificato per la seconda volta. «Dài!» fece Michela indifferente, con un bel gesto scanzonato, picchiandolo dolce dietro le spalle. «Falla corta… sai dove sto andando adesso?» aggiunse in tono un po’ patetico come si sentisse in diritto di incarognire il nuovo amico coi fatti suoi. «Macché…» le rispose Giona patetico pure lui, ingabbiato nel nuovo giochino. «…non so più niente di niente…» aggiunse, sperando che quella, per qualche oscuro motivo, lo baciasse apionata. «Alla Beni Vizi e Servizi…» rispose invece semplicemente lei, anche se un po’ interrogativa. «Fa’ un bel respiro prima di entrare…» raccomandò solo Giona. «…là c’è un’aria di fregna che manderebbe al tappeto pure una come te…» aggiunse, un po’ preoccupato. «Vuoi dire Sciarabbai?» chiese lei fuor di logica e sempre preoccupata. «Il vecchietto? Figurati… al massimo ti tira due coriandoli…» fece allegro Giona. «…sto parlando di Serena, la nuova amichetta del tuo amico frocetto…» aggiunse speranzoso che Michela a quel punto lo avrebbe abbracciato e baciato con amore eterno. «Serena?» si limitò a chiedere quella. «Ma va’! Non è una cattiva ragazza… almeno lei…» aggiunse vaga e meditabonda, col profondo scuorno di Giona che comprese di essere arrivato al capolinea di un corteggiamento fallito a tutto tondo.
«Ti accompagno…» aggiunse molle, come a defibrillare una candela fredda. «Tranquillo… conosco la strada…» si sottrasse infatti lei. «Ti credo, sei la meglio fregna dell’Hotel Gramsci… scusami…» concluse mortificato per la terza volta. «Ciao Giona e la balena. Ripensa a quello che ti ho detto!» lo congedò Michela che con due allegre falcate era già dall’altra parte del marciapiede. «E tu, tu, non ti scordare che ti amo!» le gridò lui che ad attraversare lo stesso marciapiede, dieci minuti prima, ci aveva impiegato almeno quaranta secondi. Michela fece un gesto con la testa di spalle che poteva significare qualsiasi cosa, tranne quello che importava a Giona.
8
Flora si era svegliato decisamente tardi perché di norma l’andirivieni della mattiniera Michela Gang Bang, col suo piedino nudo e leggero, emetteva un fruscio che lo faceva scattare seduto sul letto come un cane quando sente l’ultrasuono. Ma stavolta non aveva sentito nulla. Il bagno era vuoto e almeno Flora poté svuotarsi con gosto, tenendo la stazione semieretta e agevolando con un paterno sguardo la minzione laboriosa. Poi decise di sbirciare nella stanza della ragazza. Strano per davvero, tutto era in ordine. Michela aveva rifatto il letto, sprimacciato il cuscino e raccolto dal pavimento tutte le mutandine allegre e colorate che disseminava qua e là come la caccia al tesoro, quasi fosse andata via per sempre. Magari era gelosa di Serena! Eppure non era successo niente ma le donne, si sa, hanno l’occhio lungo quando si tratta di queste cose. Certo, la portinaia della Beni Vizi e Servizi si era ben incuneata tra gli interstizi anaffettivi di Flora con la sua inconfondibile fragranza di fregna e baccalau, e
Michela aveva captato il gheddu che quello scriccioletto esercitava sul suo cavalier cortese. Niente niente Michela Gang Bang aveva tagliato la corda, pazza di gelosia? E per dove? Quella era anche casa sua! Magari era giusto andata a rifarsi un po’ di guardaroba che comunque ne aveva sempre bisogno. Così si interrogava mesto Flora che si vestì digiuno e senza lavarsi la faccia per fare shopping pure lui. Si mise in strada triste e zuppo di sensi di colpa. Insomma un potenziale terrorista.
9
«Sette chili?» chiese ironico Tiziano De Paola che si era ripreso benissimo dalla bomba nel negozio e guardava Flora con la sua faccia pigliaculo e pasoliniana. «Ne prendo sette, di numero voglio dire, non sette chili…» rispose neutro Flora che guardava lievemente stomacato i rossi stronzi della salsiccia di caramolla. «E sette te ne peso…» concesse il macellaio concentrato sul suo mestiere. Il retro era stato isolato da una pesante cortina di plastica spessa ma, lo stesso, salivano di tanto in tanto delle zaffate micidiali di vermi bruciati e carne putrida, un qualche taglio che era volato chissà dove e si era ben nascosto alla pulizia certosina di Tiziano. L’incidente non aveva lasciato apparentemente altri strascichi, solo una certa confusione nel bancone che adesso ospitava tutti i tagli che prima transitavano nel retro e che adesso si affollavano in doppia e tripla fila in esposizione, colline di carne malamente addossate che sembravano la ricomposizione in corpore vili di quella che era stata la caramolla origine di tutto. Flora si sforzava di non guardare tutta quella carne incollata, ma più si sforzava più il suo occhio andava lì, in cerca di abiezione ed espiazione.
Digiuno, si sentiva i succhi gastrici che salivano su in solitaria, pronti a mostrarsi al mondo per i mostriciattoli informi, liquidi e puteolenti che erano. Nondimeno Flora confermò la comanda e attendeva in subbuglio i suoi sette stronzi di salsiccia. «Sei da solo, Tiziano? Non c’è Claudio a darti un mano?» chiese con studiata partecipazione, deglutendo un’acquolina vischiosa e putrida. «Claudio? Scherzi?» lo rimbrottò sorpreso Tiziano. «La gamba gliel’hanno rimessa, di carbonio… lui è a posto così…» si mandò assolto il macellaio. «Sempre così…» convenne empatico Flora «…lui è a posto mentre tu farai una faticaccia tutto da solo…» «Tremenda, tremenda…» convenne l’amico, sempre pronto a lustrarsi le medaglie. «…d’altra parte: che ci posso fare? Qui è meglio che non si fa vedere… fa male agli affari, immagina un po’ se pensassero che un uomo dilaniato dalla bomba non è altro che una placida caramolla all’ingrasso e quando si rende conto della sua fine è già troppo tardi, è già dentro i piatti della Giolla Unita… ti immagini?» chiese Tiziano, desideroso di farsi comprendere nel suo aspetto filosofico. Flora annuì. Era proprio quello che ci voleva per ricacciarsi in gola quel vomito acido che gli stava sciogliendo i denti. Prese l’incartata delle salsicce e strisciò lui stesso, per fare prima, la Tessera per pagare il conto. Poi salutò Tiziano con un gesto vago e si mise in strada cercando di allontanarsi più che poteva. Neanche troppo lontano, aprì la bocca a quel precipitato di miasmi che una volta a terra galvanizzarono pure l’asfalto. Dopo il secondo sbocco, Flora se ne rimase molti secondi piegato in due, aspettando paziente che la scia di fuoco, che era partita dalla pianta dei piedi e che gli aveva cauterizzato tutti gli organi molli che aveva incontrato nel cammino, si raffreddasse un poco. Quando si rimise verticale, notò un piccolo capannello di omini curiosi piegati in due pure loro, che se ne stavano fregando del grande cinema del maxischermo giusto di fronte. Non traspariva nessuna emozione dai loro volti, guardavano Flora come avrebbero guardato il Sole al telescopio, con un cenno di dolorosa comprensione dei misteri del cosmo, tutti però ineluttabili e fuori della loro portata. Dopotutto, gli stravizi della Giolla Unita, i suoi eccessi di crapula, orgia e sballo, avevano spesso di quegli effetti collaterali. Ci erano abituati. Flora
sarebbe dovuto morire soffocato dal suo vomito per farli andare via soddisfatti. E invece il capannello si disfece deluso. Flora riprese sollevato il cammino. Poteva andare da Serena ma non se ne sentiva né la forza né la voglia. Così si illuminò di una piccola decisione che lì per lì gli sembrava la grande svolta: scaricare in palestra un po’ del cervello in eccesso.
10
Tony Dattoni era piazzato al suo solito posto, sul marciapiede. La palestra, lì di fronte, sembrava vivere di vita propria; uno entrava, si spaccava la schiena sotto quintalate di bilancieri, si faceva la doccia piegato in due, scaricava la Tessera di qualche punto e se ne usciva trullo trullo in cerca dell’Hotel Gramsci per svuotarsi pure le palle. Tony li aspettava al varco con la sua sigaretta pendula e tutta salute, li studiava dall’alto in basso e li spronava a tornare più spesso ché magari ce l’avrebbero fatta ad arrivare al metro di altezza, la giusta misura per l’amore e per campare cento anni, li coglionava. E quelli, effettivamente, ritornavano. Flora gli arrivò di soppiatto da dietro e quando Tony lo ebbe di fronte quasi gli venne un colpo ché erano alti uguale e Tony non era abituato, anche se Flora di panza ne aveva giusto un cicinino e Tony invece per tutti e due. Flora salutò Tony urbanamente e quello scrollò la testa per dare volume ai lunghi capelli di dietro e farsi scrocchiare il collo, lungo pure quello, tanto per far capire a Flora che lui era comunque un leone e che se quello si era spinto fin lì con una qualche intenzione strana, lui si sarebbe difeso a unghiate. Flora non interpretò nessuno dei segnali, si schiarì invece la voce e si mise le mani in tasca iniziando a guardare a destra e sinistra da quella nuova prospettiva del marciapiede di Tony, come si fosse trovato là per caso e cercasse ispirazione per una qualche importante riflessione.
Tony lo guardava di sbieco. Non lo aveva mai visto un animale siffatto, lì, sul suo marciapiede. Dalle sue parti bazzicavano solo palline nervose e pronte a rimbalzare sulle pareti e prendere sempre più velocità come nell’antico gioco dello squash. Vedendo Tony fumare, Flora reputò corretto accendersene una pure lui, operazione che fu osservata con estrema attenzione da Tony che scrollò nuovamente testa e collo quando vide il pacchetto delle sigarettine smilze e senza nicotina che fumava Flora. Si stava tranquillizzando, Tony. Non era l’ignoto ad averlo messo sulla difensiva; al contrario, era stata l’osservazione da vicino del giovane, alto come lui e col lungo collo, a mettergli tensione; ma sulle sigarette non c’erano dubbi, quello fumava roba da femminucce mentre lui suggeva tabacco amaro e di prima qualità da quando era nato. Insomma, la tensione smontò e Tony si appressò a Flora per dargli del fuoco dal suo prezioso accendino di plastica più gialla che bianca. “Grazie”, gli rispose Flora ancora sulle sue, ma anche lui aveva compreso che una qualche scintilla era scoccata e non era quella dell’accendino lercio. «Bella giornata…» esordì Flora, a corto di argomenti. Quello annuì poco convinto. Stava scendendo la nebbia e non era propriamente una bella giornata. «Sta scendendo la nebbia, però…» aggiunse veloce Flora per riguadagnar terreno. Quello annuì sempre meno convinto ché prima della nebbia faceva già un freddo cane, e lo sapeva bene lui che fin dall’alba stava lì sul marciapiede! «Voglio dire che prima faceva freddo e adesso arriverà anche l’umido…» cercò di sintetizzare Flora. Tony annuì. Un po’ arzigogolato ma il discorso era corretto, anche se continuava a sfuggirgli il senso iniziale della “bella giornata”. «Brutta giornata…» si corresse allora Flora che sembrava leggergli nel pensiero una frase su due. «Bella giornata, brutta giornata… idee poche ma chiare neh?» sbottò infine Tony
un po’ spazientito. «Piacere. Nino Flora» approfittò il giovane che attendeva solo un suono di voce per sciogliersi. Quello rispose che si chiamava Tony Dattoni con un grugnito. Così se ne restarono due minuti buoni a riflettere ognuno sul nome dell’altro, come dovessero memorizzarlo in qualche anfratto del cervello e poi bruciarne la sinapsi.
11
L’operazione fu interrotta dall’arrivo di Giona Paraponzi, come pallina che rotolava lenta e nervosa dall’altro isolato e che ci mise il suo tempo per rendersi al cospetto dei due spilungoni. «Tony… Flora… amici…» salutò neutro mettendoli sullo stesso piano. «Vi conoscete?» fece Tony quasi sorpreso e additando Flora che si era rimesso le mani in tasca. «Gli ho salvato la vita due volte!» fece Giona rimirandosi le unghie mentre Flora rimase sulle sue, con le mani in tasca senza dire né sì né no. «Ho visto Michela poco fa…» continuò con nonchalance ma con la rabbia che iniziava a salirgli su come una cuccuma. «Ah!» fece Flora veramente interessato. «E dove?» chiese. Giona inghiottì un po’ d’aria prima di articolare un gesto vago che poteva significare in qualsiasi posto, compreso il suo sacro talamo a due piazze con la copertina amaranto, lei sotto e lui sopra come una pallina di fuoco. Flora non fece una piega, aspettando una mappa più precisa. Aveva intuito il carattere di Giona e la sua cazzimma. «Andava alla Beni Vizi e Servizi…» aggiunse infatti senza farsi pregare. «Non l’Hotel Gramsci?» chiese Flora.
«No. Alla Beni Vizi e Servizi, la porticina bassa, avresti dovuto vederla…» confermò Giona facendo credere chissà cosa avesse visto. “La porticina bassa…” si ripeteva tra sé e sé Flora cui venne in mente Serena e i suoi formidabili feromoni in pericolo. Tony si era allontanato di un o e guardava stranito i due che si parlavano quasi in codice. «Io vado dentro a sgranchirmi un po’» annunciò Giona con un falso sbadiglio prima a Flora e poi a Tony, cui aggiunse: «Ho da parlarti.» Flora non rispose al congedo e si stava concentrando sulla postura del suo collo che fissava l’asfalto in cerca di una ipotetica pagliuzza d’oro. Tony approfittò dell’ime per gettare a terra il mozzicone della sua sigaretta maschia ed entrare per un istante nella palestra, reputando inutile salutare Flora che non aveva risposto a Giona, pure che si conoscevano già. Flora rimase solo sul marciapiede nel più totale pallone. Solo lo scoppio lontano di una bomba lo fece riemergere dalla stretta meditazione. Doveva correre alla Beni Vizi e Servizi! Se Michela era andata là di buon mattino c’era solo un motivo: affrontare Serena. E meno male che nella Giolla Unita non c’è adrenalina! Sennò, povera, povera piccola!
12
Tony era rientrato nella sua palestra e non la riconobbe. Lui si limitava ad alzare la serranda, accendere le luci e la musica delle onde del mare che si infrangono su una battigia di flauti andini e che si diffondevano a tappeto su tutti i duecento metri quadrati di perimetro dell’enorme stanzone disseminato di macchine infernali, che non avrebbero sfigurato nell’Hotel Gramsci, aggeggi di trazione, bilancieri a gogna e dischi di acciaio da cinquanta chili in su.
Gli avventori entravano a piacimento e quando uscivano Tony li bloccava sul suo marciapiede e insieme ritornavano nell’ingresso a scaricare la Tessera del dovuto. Per il resto ognuno sapeva cosa fare, seppellirsi di peso, e per le pulizie c’era una signora di mezza età che ava l’aspirapolvere sulla moquette intrisa di sudore e scorregge, una volta la settimana per mezzo grammo d’oro al semestre, che gli veniva versato sul conto deposito attraverso una complessa operazione di storno dal conto deposito di Tony, curata dalla Beni Vizi e Servizi che, sempre semestralmente, convertiva in oro i punti, suoi e di tutti i commercianti, e inviava a tutti un saldo via email insieme ai cordiali saluti di Michele “che ci legge in copia”. Tony stava a disagio nella sua palestra ma quel “ti devo parlare” lo aveva molto incuriosito e stava cercando di inquadrare proprio Giona tra i clienti suoi fisicati coi bilancieri appesi al collo e aizzati dal suono di tamburi battenti. Tony si guardava attorno sempre più agitato ma di Giona nessuna traccia e la cosa iniziò a preoccuparlo. Poi, fissato un punto, aspettò con pazienza qualche secondo e infatti vide schizzare quel diavolo di amico suo con un bilanciere attaccato al collo e due pesi ai lati che lo flettevano in due come un giunco. L’evento sorprese Tony che non si aspettava certo di quelle prodezze nella sua palestra! Giona poi! Così piccolo e quasi anziano, con tutto quel peso e anche di corsetta! Era stato il nervoso a dargliela, la forza, ché dopo tutte le cattive riflessioni della mattinata si era pure ritrovato il grande uomo, l’eroe di Torello, lì davanti la palestra con le mani in tasca. Faceva pure l’indifferente! Tony fissò quella corsa forsennata finché quello non si fermò di moto rettilineo uniforme, bloccato da un attrito che era lo stesso Tony che si trovò improvvisamente sulla traiettoria e lo travolse con tutto il bilanciere e i dischi che si sganciarono allegri e continuarono a correre per i fatti loro. Andarono entrambi a gambe all’aria in un fragore che mosse a grasse risate i palestrati, felici dell’incidente. Giona, spalmato a terra, tirò una grassa scoreggia che fece salire una nuvola di polvere dalla moquette. Messosi seduto, si sfilò il bilanciere a gogna che pur svestito dei dischi si posò a terra con uno schianto. Tony ansimava e non diceva nulla.
«Ciccolare… ciccolare… non c’è più niente da vedere…» grugnì ansimando Giona ai suoi colleghi del fitness; poi diede una carezza a Tony in debito di ossigeno e quasi pure di vita. «Tutto bene?» gli fece. Quello annuì senza parole. «Tony…» esordì allora dopo una pausa studiata, aspettando che ciascuno riprendesse le penitenze. «…tu sei un vecchio leone come me… ce lo siamo detti tante volte… tu hai fatto pure il militare a Cugni…» gli ricordò Giona. Tony in risposta fece quello che sapeva fare meglio, annuì. «Tony… tu sai fabbricare un esplosivo?» chiese Giona, guardando altrove. “All’anima!” pensò tra sé e sé Tony, che rimpianse tutti quegli ammiccamenti cui annuiva più per cortesia che per convinzione e quello invece con le chiacchiere sue gli aveva adesso piazzato la classica domanda da un chilo d’oro zecchino e che pretendeva una risposta secca. «Sì…» fece con un sibilo, e fosse stato un gioco a premi di sicuro il conduttore gli avrebbe chiesto di ripeterlo più forte e chiaro, anche per rispetto ai gloriosi militari di Cugni, del tempo di quando c’erano le guerre e cose così. Ma a Giona quel sibilo era bastato. «Non ti voglio imbarcare in questa cosa…» rassicurò l’amico. «…insegnami solo a farmela da me e non ci pensare più…» concluse, fissandolo questa volta dritto negli occhi. «A che ti serve?» chiese Tony, guardandosi bene dal nominarla. «Non lo so…» fu la risposta sincera di Giona che difettava di pensiero deduttivo e si sentiva interamente coinvolto in una guerra personale. «…so solo che voglio distruggere i maxischermi… sempre meglio che ammazzare la gente… so che noi il mondo non lo vedremo mai, come potremmo muoverci? A piedi? E poi so che mi sono innamorato ma non può funzionare e quindi questo non c’entra niente ma c’entra eccome e infine sono sicuro che questo è un paese per caramolle non per uomini… ecco, questo è tutto ciò che so…» concluse Giona che non era bravo a mettere insieme le cose ma a dirle una per una nessuno avrebbe fatto meglio. «Ci sto…» riprese Tony dopo una lunga pausa di riflessione, metà terrore e metà calcolo «…ma a una condizione: sono anch’io della partita.» E guardò l’amico dall’alto in basso, facendogli intendere che un punto di vista più elevato sarebbe
tornato utile in quella nuova avventura.
13
Flora svoltò trafelato per l’isolato della Beni Vizi e Servizi e quasi inciampò nell’enorme maxischermo che stava per essere issato su nuovo di pacca, in sostituzione di quello andato. I lavori procedevano veloci, una lena che stonava col clima normalmente apatico di Torello. Tant’è, lo schermo diffondeva già immagini rasoterra in diretta da New York, dove Armadi faceva svendite pazze. Flora inquadrò la Beni Vizi e Servizi oscurata dalla nebbia che scendeva giù a banchi. Quando fu dentro fu preso da una certa angoscia, amplificata dal calore viziato che si sprigionava dalla prima accensione dei caloriferi e mal assortita al gelo che il ragazzo si portava dall’esterno. Serena stava a testa china sul terminale a compattare dati e a risolvere equivalenze di punti-tessera che diventavano oro in conti deposito. I suoi ormoni prillavano tranquilli come una polka nell’aria malata della stanza e a Flora gli venne duro all’istante. Così, in erezione, se ne restò un paio di minuti solo guardandola, sperando di riprendere il controllo di sé prima che quella si accorgesse della sua presenza, ma più Serena lo ignorava più lui si eccitava e si proiettava i filmini da quel tirare su leggero del naso, da quelle gambe che accavallava e scavallava ogni venti secondi, da quell’occhietto storto e così birichino. Flora accennò un colpo di tosse e solo allora Serena alzò lo sguardo e lo inquadrò in tutta la sua fantasticheria. «Ciao, Flora!» lo salutò squillante e incoraggiante e si rituffò sui suoi dati aggregati che forse si trovavano a un punto di svolta. Flora sorrise ed emise un piccolo gemito. Serena sembrava tranquilla e se
Michela era per davvero ata di là non c’era stata nessuna piazzata. Comunque ormai Flora era là e si chiese se era magari il caso di prendere un po’ di iniziativa ché alla ragazza faceva sicuramente piacere averlo lì davanti, mentre metteva in pratica i concetti basilari dell’aritmetica lineare. Così si avvicinò alla ragazza e le accarezzò dolcemente la mano, un po’ paventando di prendere la scossa. Quella increspò leggermente le labbra e liberò una scarica di feromoni che lo presero al collo. Lo sguardo inclinato di Serena però lo incoraggiò, ché quella non sembrava interrogarlo su cosa avrebbero fatto adesso ma pareva piuttosto concentrata alla ricerca di un qualche decimale lì sulla soglia della porta, che pareva scrutare col suo occhietto strabico. Flora allora buttò una mano sulla coppa del seno piccolo e puntuto e strinse il reggiseno e quello che c’era dentro, fresco, minuto e nervoso come le onde del mare quando fa tramontana. Lei poggiò entrambe le manine su quella mano che le arpionava il petto e dalle ascelle alzate partì una scarica formidabile di ormoni che mise entrambi in bolla. Flora stava avvicinando la seconda mano con un sorriso larghissimo, quasi avesse scoperto in quel momento di possederla, e indeciso se fare “amore caro amore bello” con le altre tre o spingersi birichino più in basso. Solo allora Serena si divincolò leggermente a bloccare il minuetto, prese entrambe le mani di Flora e se le chiuse sulla faccia che le bruciava. «Fermati… ti prego…» fece secca ma quasi supplicandolo di fregarsene. Flora invece annuì e si diedero appuntamento alle 19, quando tutti sarebbero andati via.
14
Giona Paraponzi, rotolando, era arrivato a casa sua dove Anna Calacchi, ancora rintronata dal valium, si stava studiando la ricetta degli spinaci surgelati e non veniva a capo del tempo di cottura che diceva cinque minuti scarsi sulla fiamma del gas, ma lei c’aveva il forno a microonde! E tale elettrodomestico non era stato contemplato in quel Resto del Mondo dove li avevano imbustati. ò il bustone a Giona e incrociò le braccia come a dirgli: “Vediamo tu, che sei un pozzo di scienza!” Giona, tra l’eccitazione dei bilancieri e la carriera di malandrino in concorso con l’amico Tony Dattoni, andava avanti a memoria a breve termine; le umiliazioni della mattinata erano già dimenticate e gli spinaci se li sarebbe mangiati così com’erano, a morsi cattivi, ma poi pensò che la cara Anna aveva pure lei diritto a sfamarsi e a condividere quei cubetti di ghiaccio verdastri che ad azzannarli così ci lasciavi nel piatto un paio di denti buoni. Allora si sforzò di leggere e più leggeva meno capiva che diavoleria fosse necessaria a trasformarli in una poltiglia scotta, una polpetta che assomigliava proprio a Giona, quando si rannicchiava in posizione fetale nel sacro talamo con la copertina amaranto. Lì scoccò la scintilla di un altro argomento contro Torello e la Giolla Unita: che cazzo se ne faceva di quel perfetto fisichino a pallina se poi quella troia di Michela Gang Bang non se lo filava manco di striscio e quindi… “fitness e benessere un cazzo!” gridò tra sé e sé e spalancando così tanto gli occhi che convinsero Anna Calacchi a sbrigarsela da sola, ché in qualche modo avrebbe rimediato e sennò pane e acqua che di ricetta non ne esigevano. Giona si sparapanzò sul divano e tenne le gambette sollevate per qualche istante, per far defluire il fiume impetuoso che gli scorreva adesso nelle vene. Per un attimo poggiò le gambe sulla fronte, e per davvero sembrava una polpetta, ma appena si accorse che Anna Calacchi lo stava guardando in un certo modo, le ributtò a terra con violenza e prese a fischiettare una qualche Macarena per distogliere l’attenzione. Anna Calacchi continuava a guardarlo perplessa, quasi dimentica del perché lo stesse osservando così attenta, poi ebbe come un’illuminazione e corse verso il freezer a svoltare pane e companatico. A tavola si divisero una generosa porzione di polpette al sugo fatte apposta per il microonde, e la brodaglia rossa del ragù mise entrambi di buonumore.
Giona divideva le palline in due direttamente con la forchetta, di taglio, e poi si portava alla bocca le due metà insieme; gli piaceva quel giochino di abilità che faceva contrasto con i gesti rallentati di Anna Calacchi che due volte su tre inquadrava il piatto vuoto invece delle polpette e dava colpi secchi sullo smalto che al quarto tentativo fallito prima si crepò e poi si spaccò in due. Anna gettò tutto nella spazzatura e si rimise mesta a tavola, digiuna e contenta solo per il suo Giona che scarpettava allegro e poi dal pacchetto delle sigarette si era recuperato uno stecchino nero con cui si stava spulciando la dentaglia dai residui di carne trita. Anna gli sorrise e quello continuò la sua nuova operazione di destrezza con la serietà inespressiva del bravo chirurgo dei tempi andati. Quando ebbe finalmente finito, Giona guardò intensamente Anna Calacchi e le chiese tutto d’un fiato: «Sei pronta alla partenza?» Quella non intese il senso della frase e prese a grattarsi nervosa il ventre piatto e anche digiuno. «Voglio dire… il giretto nelle oasi felici della Giolla Unita, quando avrò accumulato l’oro…» spiegò paziente. «Ah, sì… tempo ce n’è, no?» fece lei, soddisfatta ché c’era ancora tempo. «Iiiih, come no?» fece Giona sollevando la manina fin sopra la sua testolina. «Se mi impegno come adesso almeno cinquant’anni e poi ci siamo…» fece cupo. «Eh! Allora è tempo che mi informo sulla valigia…» fece lei un po’ preoccupata. «…ché di valigie non è che se ne trovano tante a Torello… domani inizio a spargere la voce… forse all’Esaurimento, da Chicco e Bacco…» si ripromise ad alta voce. «E certo! Mi raccomando, non ti dimenticare! Non sia mai che c’hai il biglietto e non c’hai la valigia!» fece Giona, un po’ ironico. «Ma dimmi piuttosto: hai già pensato dove vuoi andare?» e il tono gli diventò addirittura sarcastico. «Dove vuoi che vada? Sarò vecchia, se ci arrivo… andrò al cimitero dove stanno mamma e papà… e là mi fermerò pure io, finalmente insieme…» fece lei, commossa.
Giona deglutì con difficoltà e si ricacciò con la manina due grossi lacrimoni. Anna Calacchi veniva da Paisiello, città del vecchio Sud Italia poi oasi felice della Giolla Unita, e quando fu bloccata l’emigrazione i suoi genitori ebbero tutto il tempo di morire ed essere seppelliti senza mai più rivedere l’unica figlia. Giona era anche ammirato dalla lucidità di una moglie che fino a quel momento aveva sempre stimato poco. Era illusa sì, ma poco, cosciente che, bene le andasse, sarebbe giusto arrivata a destinazione per non fare più ritorno. Anche Anna Calacchi si era asciugata un paio di lacrimoni solitari, eppure la possibilità della gita la riempiva ancora di speranza e questo spiegava perfettamente il successo della Giolla Unita. Giona provò a fissarla negli occhi ma quella se ne restava con un sorriso mesto a capo chino e rifletteva a digiuno. Almeno stesse piangendo! E invece persisteva nel suo sorriso di speranza e di certo stava pensando alla sua tomba, lì, insieme a mamma e papà, e al fiore che si sarebbe portato da Torello perché nessuno lì a Paisiello ci avrebbe mai pensato e il suo amato Giona, senza più oro, ché tutto glielo aveva donato, mai più l’avrebbe rivista. Giona fu preso da una rabbia cieca che gli arrivò fin dietro il cervelletto, peggio di quando sentiva nominare Flora. Anna Calacchi aveva fatto i suoi calcoli, aveva quarantacinque anni e dopo cinquanta ne avrebbe avuti meno dei cento che normalmente si campava. Forse le sarebbe toccato pure di suicidarsi ché l’oro sarebbe finito presto a Paisiello, e lei là voleva essere seppellita. Ma Giona sapeva che nessuno mai si sarebbe spostato da dov’era, ne era convinto. La guardò meglio, sembrava ritornata allo splendore di venti anni prima, quando c’era la miseria ma non la Giolla Unita. Era bella, con quel suo ventre piatto. Non ebbe cuore ad aprirle gli occhi con le sue intuizioni. Ma, di quello che voleva fare, era adesso ancora più convinto.
15
A vederla così faceva più ridere che spavento, e Giona Paraponzi pensò che il compariello Tony avesse avuto voglia di scherzare. Un colapasta di stagno e con le gambe all’aria faceva da coperchio a una pentola di rame bruciacchiata, ed erano diventati marito e moglie con tre, quattro giri di rafia tirata ben stretta. Dentro c’era la bomba, tutta l’arte minatoria di Tony Dattoni e dei suoi gloriosi trascorsi militari a Cugni; da uno dei buchi stretti, bravi in origine a bloccare pure gli spaghettini spezzati, veniva fuori un filo di lana sempre più spesso e inamidato che avrebbe fatto da miccia. Tony diede tempo a Giona di familiarizzare col gioiellino, davanti e didietro manco fosse una badassa, e poi glielo tolse dalle mani e lo infilò in una vecchia sacca da palestra tutta blu. Solo allora chiese dove avevano da portarlo. Giona, ancora perplesso, ordinò al compare di seguirlo senza fare domande, ché l’inizio sarebbe stato col botto, e sperando che quel “coso” il botto lo fe per davvero. Si mossero dalla palestra in facile fila indiana, guardandosi a destra e sinistra guardinghi, semmai il primo omino che avessero incrociato per strada non avesse poi da fare due più due e mettere in giro la voce che le bombe di dieci anni a Torello altro non erano che l’opera di Giona Paraponzi davanti e Tony Dattoni dietro. Fortuna loro, il buio si era mescolato alla nebbia e già era tanto se Tony, sulla scia di Giona, non perdeva le tracce del compare che gli stava davanti col suo o riflessivo che, ci fosse stata un po’ di strada da fare, sarebbero arrivati sul posto l’indomani mattina col solleone e gli occhiali antiriflesso. Tony Dattoni tenne una condotta esemplare e non diceva né “a” né “ba”, si fidava completamente del compare che, a sua volta, si fidava un po’ meno, non di lui, vecchio leone della vecchia guardia, ma della caccavella esplosiva su cui continuava a nutrire i suoi dubbi, così forti che quasi gli venne fame.
16
Flora si era un po’ stancato di starsene all’addiaccio. A casa non era voluto ritornare, voleva evitare Michela, non voleva guardarla in faccia mentre si contava a ritroso i minuti prima di potersi sbattere Serena alla facciaccia sua. Era ancora prestino, però, e si era pure stancato di camminare in lungo e in largo. Fiducioso della nebbia, reputò corretto iniziare a muoversi verso la Beni Vizi e Servizi facendo attenzione a restarsene alla larga da quella da dove sarebbero usciti i tre Michele stanchi dopo il duro lavoro e dall’Hotel Gramsci dove Michela entro breve avrebbe fatto la sua fresca apparizione di reginetta del turno pomeridiano. Muoversi volpino tra quelle insidie gli parve l’unico rischio onorevole prima della ricompensa dell’amore. Fatti neanche cento i si trovò invece a tagliare la strada a Giona Paraponzi che rotolava circospetto e che affrettò uno “scusi” a testa bassa con l’intenzione di riprendere subito il cammino interrotto, prima dello “scusi lei” ché poi iniziava una gara di “le pare” di cortesia ché c’era da far notte. Tony Dattoni si era inchiodato dietro e faceva finta di essere in coda e di stare aspettando paziente la ripartenza. Flora li riconobbe entrambi e a Giona disse: «Scusa, Giona. Gli è che sono un po’ distratto stasera.» Giona alzò di scatto la faccia evitando di commentare “echissenefrega” e squadrò dall’alto in basso quello che era diventato il suo incubo personale. Decise di non essere lui e riprese sgarbato il cammino senza rispondere niente, più veloce che poteva mentre Tony, rimasto imbambolato per qualche secondo, quando realizzò che bisognava stare al o si trovava di molto indietro e dovette correre con il colapasta nella borsa che gli batteva sui ginocchi e gli faceva male. Era così in panico che si dimenticò di rispondere al “buonasera Tony” che il gentile Flora gli aveva indirizzato.
17
Sul maxischermo davanti la Beni Vizi e Servizi non si vedeva nulla. Si capiva solo che era ancora in garanzia col cellophane sulla struttura di acciaio luccicante e lo schermo scintillante seppur bianco. Era la nebbia che lo faceva così, che impediva la dolce visione on air di una spiaggia di Las Palmas dove un lotto di ragazze in brachessino giocava la “palla pallina”, rossa, in autunno inoltrato. Ci dovevi sbattere il naso sopra per carpirne corpi e movimenti e la cosa a Tony Dattoni non stava dispiacendo per niente e avrebbe volentieri continuato a guardare, almeno fino allo switch con qualche diretta più marziale e triste, se Giona non lo avesse malamente scrollato e riportato all’ordine. «Tony!» fece isterico ma sussurrando «Piazziamola e battiamocela!» «Sissì… un attimo…» fece quello che si stava seguendo una concitata fase di palleggio difensivo con i gonnellini e i reggiseno che si alzavano e abbassavano in bello stile. «Dài, dài!» lo scrollò nuovamente il compare. «Dopo semmai ti porto all’Hotel Gramsci e ti faccio scopare la donna che amo…» concesse disperato. «Va bene, va bene…» si affrettò a sorvolare Tony che pensava all’Anna Calacchi. «…ecco, la piazzo qua… l’accendino ce l’hai?» si riprese Tony, professionale. «Dopo, dopo!» urlettò Giona che aveva inteso l’accendino per fumare. «Dopo, un cazzo!» urlettò pure Tony. «Ci vuole il fuoco per fare il botto!» spiegò, tutto causa-effetto. «Perché non usi il tuo?» chiese Giona, un po’ restio a consumare il suo. «Perché sono inginocchiato e i pantaloni sono stretti e la mano non ci entra, ecco perché!» rispose un po’ spazientito Tony.
«Embè? Pure io sono inginocchiato…» provò a perorare Giona. «Ah sì? Non me ne ero accorto. Sembri alto uguale, cioè ci arrivi nelle tasche a prendere il tuo accendino…» gli disse, ormai esasperato. Giona pescò agilmente dalla tasca il suo accendino. Era di plastica, bianco ma splendente. Anche quello di Tony era bianco, se lo ricordava, ma se lo ricordava anche ingiallito dall’uso, come il tartaro di uno sporcaccione allergico all’acqua. Ci fosse stata una giustizia anche elementare in quell’oasi felice della Giolla Unita, sarebbe toccato a Tony mettere a rischio il suo lurido accendino e non a Giona che al suo ci teneva. E questa era una prova ulteriore che di giustizia nella Giolla Unita non ce n’era, che era tutta una truffa. Tony stava armeggiando con la matassa di lana che iniziò a svolgere lì sul posto. I due compari si alzarono e si allontanarono di duecento metri buoni seguiti da quell’allegro filo rosso. Solo a quella distanza Tony reputò giunto il momento dell’accendino e Giona non poté fare a meno di pensare che cazzo glielo aveva fatto prendere così di fretta se poi lo aveva da usare un’ora dopo ed era pure in piedi! Quindi la storia del pantalone stretto e del “sono troppo alto” era tutta una scusa! Ma Tony aveva già la miccia e la tensione si era spostata adesso sullo scoppio imminente. Che non ci fu, ché dopo neanche due metri di focherello, quella si spense vuoi perché troppo spessa vuoi perché la morchia nebbiosa l’aveva tutta fracicata. Così, accendi e spegni, ritornarono indietro dei duecento metri guadagnati e arrivarono centimetro dopo centimetro a neanche mezzo metro dal colapasta stressato dall’umido di Torello. Per non parlare dell’accendino, pensava rabbioso Giona, che si era già e spento più di mille volte! Povero, povero accendino! «Troppo rischioso» smozzicò professionale Tony guardando disilluso la miccia. «Non possiamo più rischiare, siamo troppo vicini. La lana è fradicia. Dobbiamo metterci sopra della benzina, alcol, gas…» concluse con la soluzione in tasca.
«Benzina? A Torello? Non ce n’è una gramma in tutta la Giolla Unita!» rispose Giona battendo sarcastico le mani. «Ridammi l’accendino» disse solo Tony così assertivo che sembrava un comando. Giona, in effetti, se lo era ripreso furtivo. Giona stava per controbattere qualcosa ma poi rinunciò e glielo diede con una certa dignità, pronto al peggio. Ma il peggio che si aspettava non aveva nessun rapporto col gesto di Tony che lo fracassò col piede proprio sopra la miccia, finalmente inumidita del liquido performante del gas residuo. Tony non diede tempo a Giona di saltargli al collo ché col suo accendino ingiallito aveva finalmente provocato una fiamma definitiva che schizzava allegra sulla lana rossa. Fece appena in tempo ad abbracciare l’amico e tuffarsi con lui di pancia a terra prima che il botto fe crollare il maxischermo nuovo di pacca. Tony e Giona si rialzarono, rintronati ma intatti e abbastanza cogenti da mettersi le gambe in culo e scappare veloci nella bruma di Torello. Durante la corsa, Giona provò a rimbrottare l’amico sulla questione degli accendini ma quello badava solo a correre e le sue gambe erano pure più lunghe. Flora aveva sentito il botto e svoltando per la Beni Vizi e Servizi vide ancora una volta lo stesso maxischermo che per poco non lo aveva ucciso, nuovamente a terra, che bruciava lento. Ebbe un moto di terrore: la bomba quotidiana era già scoppiata, lui l’aveva sentita. Questa era la seconda. E a Torello non ci erano abituati.
18
Michele Gerbero, Michele Sciarabbai e Michele Anpichisi uscirono sconcertati e in processione dalla porticina della Beni Vizi e Servizi. Il contatto con l’aria umida li straniò per qualche istante e presero a guardarsi
avanti e indietro, a destra e a sinistra. Qualcosa non quadrava. Sciarabbai, in testa, fu il primo a riprendere il sangue freddo e ruppe la fila indiana invitando i compari alla disposizione di crisi a ventaglio, con cui tolsero ogni via di fuga agli spettatori dell’inopportuno rogo. Michele Anpichisi scrollava le mani leste come a dire che lui non ci poteva credere. Michele Gerbero prese mentalmente nota di chi c’era e chi no sulla scena del crimine. Arrivato sotto lo schermo, Sciarabbai lo guardò con una certa malinconia e poi chiese ai presenti se vi fosse stato qualche ferito da soccorrere. Non c’era. Flora, che era rimasto indietro di qualche o, rimase indeciso se approfittare della confusione per intrufolarsi di soppiatto nella Beni Vizi e Servizi e fottersi finalmente la sua Serena o avvicinarsi alla camera ardente e dare qualche segno di partecipazione. Fu Sciarabbai a toglierlo dall’imbarazzo e a invitarlo senz’altro; Flora si morse le labbra e si avvicinò riluttante ando sotto lo sguardo inquisitorio di Gerbero che lo registrò mentalmente tra i sospetti. Nel frattempo, una squadretta del Contenimento spense coi piedi i poveri lapilli residui e rimosse per la seconda volta quello sfortunato maxischermo. Flora si accostò a Sciarabbai per dirgli qualcosa ma quello faceva finta di essere assorto in qualche profonda riflessione e non gli badò, lasciando che Michele Anpichisi stressasse il ragazzo col suo “non ci posso credere” da cinema muto. Allora Flora si spazientì e quello che voleva dire lo disse ad alta voce, ascoltassero pure tutti: «Questa è la seconda bomba della giornata. Qui c’è qualcosa che non va!» Michele Sciarabbai si volse verso Flora e gli chiese con un sorriso: «Perché, se scoppia solo una bomba al giorno è normale?» Flora si confuse un poco ed effettivamente non sapeva rispondere, epperò la seconda bomba era men che normale. Sciarabbai interpretò il ragionamento e lo rassicurò: «Stia tranquillo, Flora. La situazione è sempre sotto controllo. Siamo qui per questo. Lei comunque mi piace ancora, anche se è un tantino impulsivo.»
E così dicendo, lo lasciò ai lazzi di Michele Anpichisi che lo stava additando con gli indici puntati come fosse lo scemo del villaggio. Poi completò la processione dietro Sciarabbai e Gerbero che se ne stavano ritornando con grande dignità alla Beni Vizi e Servizi, ché le 18.30 erano ate da un pezzetto e gli straordinari non erano pagati a Torello. Flora se ne andò innervosito dalla parte opposta. Serena quella sera lo avrebbe aspettato invano.
19
Dopo un paio d’ore d’inquieto vagare, Flora prese la strada di casa per rilassarsi da tutte le emozioni della giornata, approfittando dell’assenza di Michela Gang Bang, di turno all’Hotel Gramsci. Tutto quel camminare non l’aveva sbollito per niente, gli era anzi venuta l’angoscia di una terza bomba che gli scoppiasse durante il cammino, e poi una quarta, una quinta e poi chissà, la fine della Giolla Unita o anche solo dell’oasi felice di Torello. L’arrivo a casa non lo tranquillizzò, poteva pure scoppiare dentro, perché no? E si chiuse la porta alle spalle con circospezione, pronto a volarsene via. La stanza di Michela era illuminata ma Flora ne fu addirittura contento; l’aveva dimenticata lei, era la sua natura, ma una luce accesa significava anche che l’eventuale ordigno non era collegato all’impianto elettrico ché nei vecchi film succedeva sempre così, suoni il citofono e scoppia la casa. Vi si appressò per spegnerla, ché di rischi di sicuro non ne correva, ma rimase un po’ interdetto sulla soglia: la stanza era in ordine e sembrava uno stanzone del Soccorso Pronto, aveva perduto la sbarazzina e innocente aria di puttanizio che si respirava da sempre. Flora si congelò al centro e chiuse la dentiera a morsa stretta per sensibilizzare al massimo le orecchie, in attesa della terza bomba che gli sembrava non solo ineluttabile ma addirittura desiderata. Invece sentì un rumore sommesso che veniva dal bagno e che sembrava un pianto soffocato.
La porta era chiusa ma la luce era accesa anche lì. Poco strano, Michela avrebbe potuto essersi scordata pure quella, ma per contro qualcuno si stava per certo facendo una bella doccia in casa loro. Era incerto se aprire di botto quella porta; magari era qualche sconosciuto, senza alcun diritto certo, ma sarebbe stato nudo come un verme e non era certamente Michela che, disinibita com’era, lasciava aperte tutte le porte e finestre di casa. In barba al pudore, Flora decise di entrare. La tendina della doccia era accostata e una figura costolona, alta e slanciata, si stava massaggiando le dita del piede con l’acqua gelida. Flora si armò di coraggio e la scostò veloce, pronto al peggio. A quella elegante silhouette venne un colpo che la mise dritta e, dopo aver lanciato d’istinto la cornetta ghiacciata in faccia a Flora, si andò a coprire con le mani petto e inguine, terrorizzata. Flora fu scosso dal violento colpo di frusta del getto gelato che non gli fece distogliere lo sguardo dalla zazzera nera e gli zigomi pulsanti di Michela Gang Bang che lo guardava piena di vergogna. Non sapeva più, Flora, se stranirsi di Michela che era a casa invece che al lavoro o di tutto quel pudore che l’aveva infettata dal profondo, con quel gesto addirittura istintivo con cui continuava a coprirsi con scarso successo le vergogne. Bofonchiò uno “scusami” e si rifugiò in cucina dove parcheggiò le sue macerie fradice sulla prima sedia che trovò davanti. Michela lo raggiunse dopo qualche minuto, intabarrata in un accappatoio appena sversato dal cellophane, rigido come l’amianto e da cui non riuscivi a distinguere il ginocchio dalla scapola se non per una mappa ben impressa nella mente di Flora e che la ragazza si teneva stretto come se potesse volarsene via con un’alitata. Flora guardò Michela con una certa tristezza, aspettando gli dicesse qualcosa, ma quella si teneva le belle labbra umide cucite a doppio filo. E così andarono avanti per molti minuti, solo guardandosi. «Oggi sono a casa» disse finalmente. Flora fece un segno qualunque, per dire che se ne era accorto. «Sai… la bomba e tutto il resto…» aggiunse lei a mo’ di spiegazione, poco convinta.
Flora stava per chiederle quale bomba, se la prima, la seconda o la terza che magari era scoppiata a sua insaputa; poi decise per un altro gesto vago e affermativo. «Non farò più il turno pomeridiano. Starò fuori di giorno, orario di ufficio…» aggiunse lei massaggiandosi il cuore. “Ecco”, pensò Flora “ci mancava solo il turno dei lumaconi e pensionati”. Comunque Flora annuì anche a questa novità, accettava tutto e abbozzò un sorriso di congratulazioni, come se quel cambio fosse una promozione al suo lavoro. Tanto, per lui faceva uguale. All’Hotel Gramsci non ci andava mai. «Vado a nanna adesso… è stata una giornata strana…» concluse Michela che senza aspettare risposta prese la strada della sua stanza col triste accappatoio che si trascinava accidioso, da cui non distinguevi adesso la schiena dal collo. E si chiuse dietro anche la porta della camera.
20
Giona Paraponzi e Tony Dattoni se ne stavano ritornando a testa alta nel quartiere, ringalluzziti. Sembravano più giovani di dieci anni, in ispecie Giona che prillava come una solida pallina. Si sentivano fieri come due monelli freschi freschi di bravata, fregandosene degli alibi e quasi pure dei moventi. Non avrebbero dovuto restare insieme e invece strada facendo si erano fatti il giro dei bar, brindando ognuno alla salute dell’altro e il secondo bicchiere era per Torello, il terzo per la Giolla Unita e il quarto per i maxischermi che erano di tanta compagnia e allietavano la vita di tutti, e giù pacche sulle spalle e risate ubriache e disperate. D’altra parte, a Torello di polizia non ce n’era. «Ottimo, vecchio leone!» ricominciò la solfa Tony Dattoni nel terzo locale, primo bicchiere. E giù una poderosa pacca sulle spalle di Giona che non arretrò
di un millimetro, potenza del suo assetto-pallina. «Ottimo, sì…» gli fece eco Giona. «…e brindo adesso al mio accendino che è morto da eroe, morto lui e mortacci i tuoi!» continuò. «E adesso fatti furbo e andiamo a comprarcene altri cento e pure colapasta, tegami e rafia professionale buona col sole e con la pioggia…» concluse, solo un po’ irritato. «Con la Tessera ci compriamo quello che vogliamo!» rispose affermativo Tony. «E anzi brindo a Torello e alla Storia» aggiunse alzando il secondo calice di vinaccia, che si tirarono giù d’un sol fiato mentre il barista li guardava perplesso. «E puttane, PeranaX, aspirine e dolce far niente!» tuonò di nuovo Giona che aveva fatto riempire i calici. «Alla Giolla Unita!» sintetizzò Tony che sbagliò buco e si versò la vinaccia nelle possenti froge del naso. Poi sputò tutto, tossiva e rideva mentre Giona col suo calice si fece la doccia e chiamava il quarto giro ché aveva già sete. Un secondo dopo era ridivenuto serio: «E questo è per l’oro che non c’è… anzi: sono pieni d’oro Torello e la Giolla Unita! Sono i maxischermi che cantano muti tutto il tempo “oro, oro, oro…” e noi lo accumuliamo e diventiamo un film pure noi!» Brindò e ingollò tutto d’un fiato, subito imitato dal compare. Quando diedero entrambi la Tessera al sempre più perplesso barista, quello le prese entrambe e si pagò due volte, avido dell’oro in più che così gli veniva in tasca. Arrivati in palestra ripresero per un istante la sobrietà e si diedero appuntamento per il giorno dopo, stesse modalità. Tony aveva già pronte altre casseruole. Tutto sarebbe andato bene, si dissero. E per altri sette giorni a Torello scoppiarono allegramente due bombe al giorno e il Contenimento non faceva altro che rimuovere maxischermi bruciati per innalzarne di nuovi.
21
Michele Sciarabbai si sentiva la pressione a 220 mentre per la seconda volta si avventurava solo soletto per le vie di Torello. Coi comparelli la scusa l’aveva trovata facile, un sopralluogo all’Hotel Gramsci, di cui era responsabile e aveva anche il privilegio della stanza privata per i suoi sollazzi, ma gli incontri con la Tessera Gold, quella voce seria e incazzusa e pure senza volto, lo stressavano non poco. In più, alla bomba quotidiana aveva fatto abitudine, lui prima ancora delle sue orecchie, ma a quella che scoppiava così, screanzata, inaspettata, non poteva che additare colpevole il quieto vivere stravolto da quell’individuo che gli aveva parlato con sufficienza e pure con disprezzo. «Le devo parlare!» attaccò enfatico Sciarabbai, mentre il portone non era ancora ben chiuso e l’odore di cuoio e trementina gli arrivò dritto in gola. «Novità ne hai?» fece la voce senza scomporsi, saltando i convenevoli e ricominciando dal tu. «Niente feriti. Solo un povero maxischermo a terra.» «Che? Ecchissenefrega!» fece la voce. «La bomba…» cincischiò Sciarabbai. «Ecchissenefrega della bomba!» confermò la voce. «Pensa un po’, credevo fosse roba vostra, per giustificare un po’ di quel pane che mangiate a ufo. Novità ne hai?» ripeté per la seconda volta la voce. «No… no, mi aveva ordinato di non fare niente…» balbettò Sciarabbai. «E infatti di novità non ne devi avere, risposta esatta. Michela è con voi, sì?» lo interrogò. «Sì, sta da noi» confermò. «Da fare ne ha?» volle informarsi la voce come un capo che si preoccupa dei suoi impiegati. «Non ancora… ci sto pensando…» rispose Sciarabbai preso in contropiede.
«Floro, Flora, ’sto coso qua. Che me ne dici?» arrivò infine al punto la voce. «Flora vuole oro: cerca lavori, si lamenta, piagnucola che non è in grado… è stoffa buona insomma, ma non sa dove sbattere la testa e Michela forse lo ama pure…» aggiunse, sotto di un’ottava. «È come dicevo io, ci può essere utile. Molto bene, avrò di che divertirmi, alla fine di tutto: prima il dovere però! Tu ’sta vecchiaccia la conosci?» fece la voce mostrando una foto illuminata dalla Tessera Gold. «Sì» fece Sciarabbai guardandosela in lungo e in largo. «Quella di oro ne ha, è certo. E non è roba sua, è roba nostra, lo sai» fece ecumenica la voce. «Mettiamolo alla prova, ’sto Flora. Vediamo se ce lo porta indietro. Poi si vedrà» concluse e si riprese la foto. Michele Sciarabbai si dispose al congedo, più confuso di quando era arrivato. «Michele!» fece di nuovo la voce, secca. «Sì» rispose rassegnato Sciarabbai. «Lo vedi che sei proprio un cazzone, pure che c’hai i capelli bianchi? Che t’avevo detto? Cherchez la femme. E infatti. Va’, caro, va’» fece magnanimo e così congedò il povero Sciarabbai che pensava di essere cazzone sì, ma quell’altro era proprio un vanitoso!
22
Flora era ripiombato nella sua depressione abituale e, in più, Michela Gang Bang non lo tirava più su. Spettacolini nisba, era diventata più pudica e riservata di una vecchietta con le ragnatele nelle mutande, e quando la mattina si incrociavano lei era già pronta con la nuova divisa da lavoro che non era un triste pigiama sformato per alimentare le fantasticherie di un’utenza amatoriale, ma faceva ancora più tristezza, costretta in un tailleur collegiale con la gonna sotto il ginocchio e la
camicia abbottonata fino al pomino d’adamo. Solo gli zigomi tradivano la sua irrequietezza sedata e se ne erano venuti giù. Tant’è, Michela non parlava e, anzi, Flora lo evitava proprio. Quello, quasi per ripicca, ogni giorno di quei sette si era recato alla Beni Vizi e Servizi per riprendere il discorso interrotto con la bella portinaia. Di Serena non c’era traccia. “È malata” rispondeva sgarbata ogni volta un’arpia che la sostituiva. Nell’aria viziata della portineria, si librava di tanto in tanto una scarichetta di ormoni sempre più blanda e Flora cercava di indugiare più che poteva per carpirne e rinfocolarne ricordo ed eccitazione. Poi la vecchia arpia lo cacciava sul serio e Flora riprendeva la strada di casa in lacrime calde, cercando di trattenersi più che poteva l’odore di fregna e baccalau nel naso. A casa prese la prima sedia che gli capitò a tiro e si mise le mani sull’intero volto finché una scarica di singhiozzi lo scosse in tutto il corpo che aspettava invano qualcuno che lo consolasse. Ma in casa non c’era nessuno, e solo quando ebbe finito tutte le lacrime da piangere si acchetò un poco. Dato che nessuno gli diceva niente, se lo disse da solo, che arrivati a quel punto tanto valeva continuare a cercarsi un lavoro. Accese il computer che con molto sforzo si stabilì sulla schermata online dedicata agli impieghi, tra quelle tre, quattro pagine che erano tutta la scatola grigia del vecchio web. Trovò questo e se lo lesse per bene più volte, perplesso ma meglio di niente.
DIALOGATORI – FACE TO FACE GOLD RAISING Numero attuale di lavoratori: 1 Sede centrale: ASCA Descrizione dell’azienda: Asca è una società con dieci anni di esperienza nei servizi di Direct Marketing, Data Base management e Gold raising per le organizzazioni no-profit. L’azienda rappresenta una delle più importanti realtà di
Torello e di tutte le oasi felici della Giolla Unita. Una squadra di professionisti con pluriennale esperienza e grande ione civile per i progetti di interesse collettivo fanno della ASCA una società d’avanguardia nei servizi per la raccolta dell’oro attraverso il Direct Marketing, Direct Mailing, Data Base Solution, Data Analysis, Telemarketing, Email & Web Gold raising e Face to face Gold raising. Luogo: Torello Categorie: agenti Livello: autonomo Posti vacanti: 100 L’attività dei DIALOGATORI – FACE TO FACE GOLD RAISING consiste nell’approcciare e sensibilizzare i privati cittadini nelle pubbliche vie e in luoghi di forte affluenza pubblica per presentare l’attività della mission e acquisire nuovi sostenitori. La figura ricercata di DIALOGATORI – FACE TO FACE GOLD RAISING ha la possibilità di lavorare con noi full time o part time. È un impiego a forte contenuto umanitario, ben retribuito e costituisce un’ottima esperienza nel settore della comunicazione e offre reali possibilità di crescita. Retribuzione in oro a provvigione sui risultati. Titolo di studio richiesto: nessuno Esperienza minima: nessuna Se vuoi iscriverti all’offerta clicca qui
Non sembrava nulla di eccezionale, anzi, non sembrava niente di niente, però un poco di oro si poteva raggranellare e soprattutto era un modo per are il tempo. Ci sarebbe andato il mattino dopo.
Intanto si erano fatte le 18.30 e Michela non avrebbe tardato, urgeva mettere in piedi la pantomima che da qualche giorno si recitavano. Flora si ritirò nelle sue stanze con qualche galletta da mangiare e una bottiglietta d’acqua. Spense tutte le luci e chiuse la porta per ingozzarsi velocemente e sbattersi dentro le coperte come fosse stata notte fonda. Michela Gang Bang arrivò poco dopo e trovò, al solito, la casa buia come ci fosse il morto dentro. Si fiondò in bagno, chiuse la porta e si spogliò tutta. Aprì i due rubinetti dell’acqua e si modulò una temperatura tiepida che le scivolò addosso come olio di semi; man mano chiudeva la manopola del caldo finché l’acqua non divenne gelida e lei turgida; il capezzolo di destra si indurì fino a farle male. Dalla parte del cuore invece la pelle quasi scottava; Michela si massaggiò con dei gesti circolari che le fecero scappare un lungo sospiro; si cercò il capezzolo ma vi trovò la solita cicatrice irregolare e indurita; se l’accarezzò con sempre maggiore decisione finché non le uscì dalla bocca un mugolio profondo e prolungato. Infine deglutì e chiuse gli occhi per qualche istante. In cucina, con ancora indosso l’accappatoio, mangiò qualche galletta e in meno di trenta minuti anche lei era sotto le coperte, pronta per la notte che iniziava a neanche le otto di sera. Flora attese qualche minuto e poi riaccese la sua lucina sul comò e faceva finta di essere vivo ancora per un’oretta, mentre Michela aspettava al buio con gli occhi spalancati. Poi si davano nuovamente il cambio e non prima delle quattro del mattino si addormentavano entrambi esausti, ognuno nella sua stanzetta. La casa un tempo allegra dei due giovani puzzava di trincea.
23
Il mattino dopo Flora fu risvegliato di botto dai i leggeri di Michela che si preparava a uscire. Fosse stata una bomba non l’avrebbe sentita, si era addormentato da poco e giaceva nel letto a denti stretti e pugni chiusi, ma il muoversi discreto, quasi
malintenzionato, della ragazza lo avrebbe riconosciuto tra mille e lo fece sobbalzare con un doloroso aprirsi delle mani violacee, per quanto se le era strette nel sonno. Raccolte le idee, si ributtò sul guanciale imprimacciato dal sonno tardivo e agitato, aspettando che la ragazza se ne uscisse per poter disporre al meglio della casa. Dopo una mezz’oretta pestava sulla tastiera del computer col caffè quasi freddo e la sigarettina senza nicotina che bruciava placida nel posacenere. Sul monitor l’annuncio c’era ancora. Fece tutto con calma, tempo ne aveva. Sulla strada fece un cenno amichevole e velocissimo a Tiziano, che nella macelleria si palleggiava gli stronzi di caramolla davanti una piccola folla compiaciuta, e uno pure a Chicco Micchi che, al suo solito, era concentrato a rompere le balle al compare Bacco Numucco e non lo vide nemmeno. «Nino Flora, nato a, laurea così, esperienze così e così… sa, signor Flora… dottor Flora… in cosa consiste il nostro lavoro?» chiese d’improvviso l’omino, alzando improvvisamente le spalle dal terminale. «DIALOGATORI – FACE TO FACE GOLD RAISING» rispose sicuro Flora mantenendo tutte le maiuscole dell’annuncio. In realtà non aveva capito molto di più ma di sicuro era qualcosa di inutile o meglio, qualcosa che sarebbe stato in grado di fare, e così disse, sostituendo solo l’“inutile” col “molto utile”. «Sa, dottor Flora… indubbiamente lei ha ragione, questa cosa che facciamo è molto utile, quasi utilissima. E forse ha anche ragione a credere che sarebbe in grado di svolgerla… però… come dire… non è detto sia roba per lei…» disse. Flora aveva più o meno capito il dubbio di quello. E annuì convinto. «Noi abbiamo bisogno innanzitutto di gente di sana e robusta costituzione perché il lavoro si svolge all’addiaccio e… lei come sta a salute?» chiese insinuante. «Bene!» rispose netto Flora sollevando lievemente il collo come un cicisbeo.
«Le dirò… lei a occhio non ha nessuno degli standard fisici della buona salute… è alto, ha il collo lungo, è magro, alla fine somiglia quasi a una donna… però magari come una donna potrebbe essere in grado di resistere allo stress meglio dei miei tracagnotti» rifletté ad alta voce l’omino. Flora abbassò leggermente la testa come un inchino ma quello subito riprese. «C’è una seconda questione che è strettamente legata al lavoro e che adesso andrò a illustrarle: è un progetto, diciamo così, “governativo”; il nostro compito sarà di incamerare l’otto per mille, voglio dire dell’oro in conto deposito, quindi ci vuole una certa dimestichezza con le equivalenze, milligrammi, decimilligrammi… insomma dobbiamo convincere i cittadini abbordati in mezzo alla strada a donare il loro otto per mille da devolvere ai disoccupati cronici, malati e pigri che di oro non ne hanno e così anche loro potranno coltivare il sogno di viaggiare un giorno verso qualche oasi felice della Giolla Unita. Prevedo un grande successo, l’otto per mille non è nulla ma provi solo a moltiplicarlo per le centinaia di migliaia di personcine che abitano a Torello… fatto? Ce n’è per lei, che sarà pagato in percentuale, per me che comando e forse anche per chi ne ha bisogno… che ne dice?» chiese d’urgenza il manager cui si era seccata la lingua. «E cosa ne avrebbero in cambio i cittadini di Torello?» scappò detto a Flora. «Questa è la nostra arma vincente, vedo che ha colto il punto…» si animò il manager. «…penne!» disse, con una certa enfasi. «Penne? Da scrivere?» chiese ironico Flora. «Da farne quello che vogliono: grattarsi le orecchie, mettersele in bella evidenza nel taschino, usarle come scalpelli per la detartrasi amatoriale e, certo, anche scrivere, why not…» rispose quello sicuro. «Penne…» ripetè meccanicamente Flora. «Di plasticona bianca e con una scritta lungo la cannuccia a caratteri cubitali: THANK TO YOU. Geniale no?» chiese a Flora da cui si attendeva un veloce sì e una firma sul contrattino. Là fuori, la folla premeva.
24
Flora riguadagnò l’uscita a nuoto. Una fiumana di personcine col miraggio dell’impiego e dell’oro si era intruppata fin sulle scale in attesa dell’avanzata e guardava con invidia Flora che invece le riscendeva tranquillo. Il contatto con l’aria fresca del buon mattino lo galvanizzò e se ne rimase molti secondi a instradarla su tutti i pori e la bocca aperti; poi, pensieroso e quasi pentito di non aver accettato al volo e anzi di essersene andato senza degnarsi di un saluto, prese il primo viale che gli si offrì davanti, deciso a percorrerlo per intero, fosse pure ai confini di Torello. Un po’ di strada la percorse ma non tanta però; il piano urbanistico di Torello aveva ridisegnato l’oasi felice che, a causa delle bombe, soprattutto in periferia, si arroccava e offriva quante più distrazioni poteva: commerci, viali, alberi e soprattutto maxischermi. Flora ne incrociò moltissimi e l’ultimo catturò la sua attenzione. Ai piedi era posata negligente, o era stata dimenticata, una borsa da palestra che sembrava assistere pure lei alla diretta dall’oasi felice di Vienna. Su un viale simile a quello che Flora stava percorrendo, un buon numero di viennesi eggiavano al trotto. Dominavano i colori chiari, il biondiccio dei capelli, il rosa delle carni, il verde smorto degli alberi, come se il peggiore fotografo della Giolla Unita avesse messo insieme gli elementi più sciatti per una messa in quadro. Flora si stancò presto di quella realtà ectoplasmica e stava per ritornare con lo sguardo alla placida borsa, immobile lì sotto, quando a Vienna un ingresso in campo simile al topo che ti attraversa la strada in cucina catturò nuovamente l’attenzione del ragazzo che seguiva l’incedere sghembo di un caschetto con frangetta color della cenere. Camminava con le gambe un po’ larghe e portava uno spesso paio d’occhiali neri messi di sghimbescio, che simulavano uno strabismo naturale. La telecamera non se la lasciò sfuggire e adesso Flora la vedeva inquadrata stretta e sempre più somigliante alla sua Serena. Flora non ci pensò due volte e si appressò più che poté al plasma dello schermo fino a poggiarci il naso per cercare di carpirne l’odore. Ma di odore non ne spandeva. Al colmo dell’eccitazione, girò intorno al maxischermo come a verificare casomai Serena in carne e ossa fosse lì dietro a prendersi gioco di lui
con le ombre cinesi. Dietro non c’era nulla, solo la borsa abbandonata che, almeno quella, si vedeva davanti e didietro e di cui aveva perso ogni curiosità. Flora, deluso, si mise in ginocchio per riaversi un po’ dallo scoramento. Un signore elegante e azzimato ne stava da un po’ seguendo i movimenti e, incuriosito dal balletto di Flora, lo stava studiando con la coda dell’occhio mentre si godeva frontale la gnocchetta viennese che, con la sua andatura sghemba e le gambe larghe, di quel o rischiava di cadere in qualche canale della vecchia Olanda. Quando Flora si era piegato in due, l’uomo elegante e azzimato lo ebbe in visuale in tutta la sua disperazione e si piegò anche lui per chiedergli se tutto andasse bene. Lì scoppiò l’ordigno a basso potenziale di Tony Dattoni che, liberandosi dalla borsa decollò in tutta la casseruola di cui era fatto e poi atterrò sulla testa dell’uomo azzimato con i piedi del colapasta di zinco che gli si conficcarono nelle tempie. Sembrava una sorta di marziano e Flora, rimessosi su con un colpo di reni, reputò che forse era meglio lasciarglielo lì, conficcato nella testa sanguinante e andato giù cinque centimetri buoni. Ma l’uomo azzimato non sembrava punto felice della casseruola in testa. Flora si ricordò del suo dovere e cioè intervenire in qualche modo. Ma aveva il terrore di toccare quella casseruola ché magari, ad armeggiarci, si sarebbe ritrovato con la testa dell’uomo azzimato in mano. Respirò profondo e riprese la calma, ordinando all’uomo azzimato di stendersi e starsene tranquillo e quello ubbidì, pure troppo ché cercò addirittura di sdraiarsi sull’asfalto e così batté con la casseruola a terra e i quattro piedini di zinco si mossero a coltello sulle tempie lacerandole e provocando un buttasangue scandaloso, per quanto era vivo. L’uomo azzimato, dopo il colpo svenne e Flora poté chiamare con tranquillità la barella. Poi si mise a braccia conserte in attesa dei soccorsi. Nell’ascensione della casseruola, il maxischermo si era solo un po’ affumicato ma la gnocchetta viennese non si vedeva più, solo una schiera ordinata di palloncini rossi svolazzava a mezz’aria.
25
Tony Dattoni e Giona Paraponzi avevano fatto scoppiare la bomba da una comoda postazione abbastanza lontana dal maxischermo. Il talento minatorio di Tony aveva convinto il compare alle detonazioni a timer, più sicure delle micce e anche più professionali. Tony aveva anche recuperato un vecchio cronometro che faceva il countdown, coi cristalli rossi che sembravano preannunciare la fine del cosmo e, arrivato il momento, avevano sì sentito il botto ma avevano pure visto la casseruola sparata in aria a non meno di trecento metri di altezza che sembrava rincorrere il cielo e quello che c’era dietro. La cosa li scosse un po’, ché le bombe si allargano in orizzontale e quella invece era sembrata una navicella spaziale. I due compari si guardarono interrogativi, non avendo idea di cosa fosse successo e se il maxischermo fosse ancora su. Così si mossero circospetti sulla scena del crimine. Quando si trovarono davanti Flora e un ferito che pareva anche messo male, con la casseruola in testa, i due si misero le gambe in culo e iniziarono a correre a ritroso e a perdifiato. Dopo molti minuti si fermarono perché ne erano rimasti senza. «Che cazzo è successo, Tony?» chiese Giona. «L’abbiamo scampata bella, ecco cosa…» rispose conciliante Tony. «Eh, certo!» lo canzonò Giona. «Ma resta il fatto che tu costruisci bombe e poi vengono fuori dei razzi… hai visto come è volato?» chiese Giona. «Forse ho esagerato con lo zucchero…» rispose pensieroso Tony. «Magari col lievito o la crema…» lo canzonò Giona. «Sfotti pure ma tu non sai un cazzo. Ti ripeto e non ti sto a spiegare i segreti dell’arte mia: forse ho esagerato con lo zucchero. Né lievito né crema» rispose inviperito Tony.
«Sì, va bene… il militare a Cugni e le belle balle… fatto sta che quello con la casseruola in testa non aveva una bella cera. E chi c’era a soccorrerlo? Flora! Scusami se sono un po’ nervoso, neh?» fece Giona, più conciliante. «È così. È stato lo zucchero» disse quasi tra sé e sé Tony che non stava più a sentire le ragioni di Giona. «Invece di deflagrare è volato via. Tutto si spiega» si convinse. «Bene, è stato lo zucchero. E ora?» chiese Giona, più conciliante di prima. «Ora che? Che facciamo, vuoi dire? Niente facciamo, come sempre. Ce ne torniamo a casa e… ecco, magari stasera evitiamo il giro dei bar…» propose Tony. «Sì, facciamo così. Ma stai attento con ’sto zucchero, eh?» convenne Giona, più conciliante che mai.
26
L’ometto che gli stava di fronte voleva notificargli con una certa urgenza il suo atto di eroismo che gli valeva ben cinque grammi d’oro, firmati dal cerusico del Soccorso Pronto. Flora lo guardò un po’ stranito finché, guardando l’orologio, non si accorse di aver dormito quasi ventiquattro ore. «Cinque grammi?» fece Flora all’ometto. «Così è scritto…» constatò quello, rileggendo il papello. «Perché così tanti? Così veloci? Firmati dal cerusico?» lo assalì Flora. «L’uomo che ha soccorso è morto. Non è colpa sua, ma è la prima persona che muore a Torello a causa di una bomba, sa, mi può credere, faccio questo mestiere da sempre… mutilati, scioccati, escoriati, rotti qua e là ma morti mai, è tornata la morte. E neanche due bombe al giorno si erano mai viste. E neanche cinque grammi d’oro… ma di questo buon pro le faccia…» spiegò lievemente eccitato l’ometto che non ci stava capendo niente neanche lui.
Flora annuì, firmò la notifica e prese la sua copia da portare alla Beni Vizi e Servizi per l’accredito dell’oro. Cosa che fece con urgenza, casomai fosse tornata Serena. Impiegò quasi due ore per raggiungere la Beni Vizi e Servizi ché si fermava a tutti i maxischermi in cerca di immagini da Vienna o da qualsiasi oasi felice della Giolla Unita in cui poteva essersi rintanato il suo amore, che non vide. Quando varcò la porticina lo scoramento fu completo. La vecchia arpia era ancora lì, in buona salute, lei, e di Serena che era più giovane e più bella non si sapeva neanche se fosse ancora viva. Quella lo guardò feroce come sempre e gli chiese sgarbata se era ancora là a rompere le balle. Flora esibì la sua certificazione d’eroismo senza dire una parola e quella cambiò subito registro e divenne gentile e accogliente come uno zerbino, annunciando l’arrivo del grand’uomo ai tre Michele che lo invitarono senz’altro a varcare la porta. Flora entrò nell’ufficio senza bussare e, come sempre, quella gabbietta di matti aveva il potere di lasciarlo perplesso. I tre c’erano tutti e la scrivania era la stessa; però, nonostante questa fosse molto ampia, Gerbero, Sciarabbai e Anpichisi stavano addossati uno all’altro fino a creare un grosso buco centrale per un posto e una sedia vuoti. Sembravano inamidati come dei baccalà, nessuno muoveva un muscolo per non dare una ditata negli occhi o un pestone alle caviglie dell’altro e Sciarabbai, comunque al centro dei tre, era quello che pativa di meno la postura stretta e anzi pareva un figurino, rigido e elegante col suo gessatino blu e lo sparato beige del suo spencer che gli metteva in evidenza una cintura di coccodrillo finemente intarsiata. Michele Anpichisi era quello messo peggio, ché col suo corredo gestuale aveva bisogno di spazio scenico e si era invece dovuto adattare alle sole smorfie della faccia, di cui comunque aveva un repertorio eccezionale e tutte impostate sulla lingua che simulava giochetti degni dell’Hotel Gramsci. Gerbero non stava né bene né male. Il rampollo dei tre faceva buon viso a qualsiasi gioco e per primo salutò enfatico l’eroe di Torello, parte seconda.
Flora annuì, annoiato da un cerimoniale affettato che conosceva già. D’altra parte, erano intervenuti fatti nuovi e anche quel buco in mezzo alla scrivania sembrava rimarcarlo. «…lei, Flora, ha tutta la nostra stima e gratitudine e ben per questo la paghiamo…» attaccò allora il giovane Gerbero esauriti i convenevoli. «…voglio dire: accumuli l’oro! Non si faccia scrupoli!» lo spronò «Ci siamo qui noi a pagare i debiti, anche quando non sono nostri…» «Ah no?» rispose quello. «No. Però l’amministrazione non sempre è ordinaria e a volte tocca prendere delle decisioni… non è difficile… una sedia e un pezzo di scrivania oggi e magari, domani, un altro pezzo di scrivania e un’altra sedia…» aggiunse Gerbero che guardava alternativamente Flora e Sciarabbai, immobile nel suo gessato. Michele Anpichisi aveva rivolto la lingua a pennello verso la sedia vuota, decisamente arrapato. «Così… oggi le saldiamo un debito che non è di Torello né della Giolla Unita…» riprese Gerbero. «…sa che è il primo morto per bomba?» chieserispose. «Sì, lo so…» rispose e basta Flora. «Sì, lo sa…» ripeté Gerbero «…lei è scioccato, magari vada a festeggiare all’Hotel Gramsci, è un buon momento per cominciare a frequentarlo. Sa, noi possiamo ben dirlo: abbiamo sconfitto la morte a Torello e nella Giolla Unita. La verità è che non si muore più, ci spegniamo, ecco tutto; con grande sollievo di chi va e di chi resta, è tutto qua ciò che chiamavamo “lutto”. E adesso la morte ha sconfitto noi, non si aspettava di morire quel poveraccio e non lo meritava, ecco lo scandalo che non possiamo sopportare… perciò… si prenda il suo oro, lo accumuli! Senza scrupoli! Si sfondi di PeranaX, faccia come meglio crede… noi, nel nostro piccolo, le abbiamo preparato una piccola sorpresa.» Flora si aspettava una bottiglia di millesimato e uno di quei battimani che sarebbe risuonato persino tragico. Invece gli occhi di Gerbero, l’indifferenza sfingesca di Sciarabbai e la lingua lappata di Michele Anpichisi si rivolsero a
quella sedia, vuota ma ancora per poco. I tre si alzarono in piedi, per rispetto o galanteria, e la stazione eretta di Michele Anpichisi gli permise di congiungere pollici e indici nel gesto inequivocabile della bella gnocca. Questa arrivò con aria severa e indaffarata da reginetta e divenne addirittura professionale quando mostrò a Flora certi moduli nuovi che spostavano sul conto deposito del ragazzo la ricompensa in oro. Glieli illustrò brevemente e Flora non osò interromperla. Solo gli occhi gli si illucidirono di due grossi lacrimoni. «Accumula l’oro, Flora! Non ti fare scrupoli! Presto, Gerbero, una foto al nostro eroe!» raccomandò alla fine dello spiegone Michela Gang Bang.
28
Come un foruncolo sulla fronte scoppia e annuncia una nuova cartografia del volto, così la trojka allargata a Michela Gang Bang testimoniava i nuovi confini di Torello e anche di Flora, che se ne ritornò lesto a casa sapendo esattamente cosa doveva fare: aspettare. E molto durò l’attesa finché, un quarto alle 19, Michela Gang Bang si richiuse dietro le spalle tornite la porta di casa, per niente sorpresa che Flora la stesse ad aspettare seduto in cucina come la notte del Gran Consiglio. Prese una sedia pure lei e si accomodò all’angolo opposto del tavolo con la faccia un po’ spossata dalla giornata di lavoro e gli zigomi che le erano calati fino alle guance e ti invogliavano a pizzicarli per ridargli vita. «Ciao Michela» esordì Flora secco, lasciando intendere che era lì solo per ascoltare. «Ciao Flora» rispose la ragazza. «Hai sognato bene?» aggiunse un po’ a sorpresa. «Mi schiarisco la voce…» esordì Flora diligente. «…Poi sgancio il microfono dall’asta e accavallo le gambe; faccio un sorrisetto complice e attacco: “Je veux dire…”; mi sveglio di soprassalto e quello che volevo dire neanche questa volta sono riuscito a dirlo. Come sempre» concluse Flora il suo sogno ricorrente.
«Non darti fretta…» lo consolò lei «…quando arriverà il momento le parole usciranno. Ci stai arrivando, bel bambino mio…» Flora annuì commosso; gli sembrava ato un secolo dall’ultima volta che Michela si era rivolta a lui con una certa tenerezza, che prima lo faceva uscire fuori dal ganghero. «Flora, tesoro mio, se vuoi è arrivato il momento di lecidere…» ingranò Michela a quel punto. «Lecidere…» fece eco Flora, troppo orgoglioso per chiederne il significato. «Lecidere. Sì. Decidere e recidere…» pescò da chissà dove Michela con uno sguardo compreso del suo nuovo ruolo, che non era la badassa del turno mattutino come aveva pensato Flora. Dopotutto, l’aveva sottostimata. «Mastichi linguaggi, vedo. Chi te li ha insegnati?» commentò Flora acidulo. «Flora, ascolta… se vuoi uscire da Torello ti devi lecidere…» tagliò corto la ragazza. «E come si esce da Torello?» interrogò Flora. «I tuoi nuovi amici sono stati generosi, certo. Ma il viaggio più breve fa duecento grammi e ti muovi non più di venti dei vecchi chilometri, nell’oasi felice di Cugni, capirai. Qua siamo e qua resteremo, Michela. Fidati. La corsa all’oro è tutta una truffa» espose brevemente Flora. «Stupido! Stupido! Stupido!» fece lei inaspettatamente stizzita. «Recidi Flora, recidi senza scrupoli! E poi decidi. Il tuo schema non è buono… io ti aiuterò, so tutto quello che ti serve…» promise Michela. «Qualche altra parola nuova?» chiese Flora che usava l’ironia come pigrizia dell’intelligenza. «Non prima che tu abbia capito la vecchia!» rispose sarcastica lei. «Dunque?» chiese in difesa Flora. «La vedova Gnutti Bella!» esplose con le labbra Michela. «Una vecchia signora maritata a un conte dei tempi del denaro. L’oro se lo tenne, i nobili erano così,
attaccati ai loro ricordi… non lo consegnò mai… voglio dire: un chilo tondo tondo in lingottini! Solo così puoi andare dove vuoi… mi senti Flora?» chiese Michela un po’ allarmata dallo sguardo sognante dell’amico. «La vedova Gnutti Bella…» si limitò a ripetere meccanico lui. «Un chilo d’oro, tesoro mio. Tutto per te. Adesso ascolta, ti spiego tutto.»
Capitolo 3 Cherchez la femme!
Dove a ciascuno il suo destino
1
La vedova Gnutti Bella aveva preso in forte simpatia Nino Flora che un paio di mesi prima era entrato nel suo castelletto diroccato per sostenere, insisteva lui, un colloquio di lavoro di cui aveva letto sul computer. La vecchia lo aveva guardato con interesse e aveva sibilato solo: «Chagrin? Pas ici!» Poi aveva aggiunto, benevola: «Tant’è, voi avete ragione, di chagrin non ce n’è più e se uno c’ha voglia c’è il cagibì… comment s’appelle… l’Hotel Gramsci, voilà… quand même, siete qua e restateci un po’, io ho Le Truc e Le Mec, bravi ragazzi, vous savez, ma… come posso dire? Sono pelle di salsiccia, degli asticò… tanto devoti, sono miei nipoti!, ma il cervello ce l’hanno nello zinzì e io sono vecchia, sapete? Ho quasi cento anni e mio marito era un conte ma io me ne sento solo otto. Je veux dire… sono capricciosa.» «Je veux dire…» aveva ripetuto meccanicamente Flora che aveva ritrovato la frase monca del suo sogno ricorrente. Si grattò la tasca interna della giacchetta e il contatto col cartone duro delle sigarette lo convinse a estrarre e accendersi una di quelle paglie sue, strette e senza nicotina. «Che è là? Clope… senza nicotina? È a dire una millefoglie senza pelo, n’est pas?» gli fece la vecchia con un sibilo che la diceva bene di quanto la sapesse lunga.
«Millefoglie?» fece incerto Flora. «Oui, c’est ça» rispose la vecchia con un gesto topografico in mezzo alla gonna che non lasciava dubbi di sorta. «Del fuoco, grazie. Io fumo percale, c’est mieux, si spegne toujours e così rompo le balle ogni minuto a Le Mec… e adesso a voi e… le percale, vous savez, fa male ai denti ma tanto io di denti non ne ho più, magari li avessi per farli diventare gialli! Regardez… è Le Truc che me la netta tutte le sere, uno chef d’œuvre, n’est pas?» fece a Flora, mostrando una dentiera effettivamente bianchissima, bella paciocca nel palmo della mano. E così, una a fumare tabacco e l’altro sigarettine senza nicotina, se ne stavano da due mesi di fronte nella semioscurità di un castelletto all’estrema periferia di Torello. Le Truc e Le Mec potevano avere diciasette, diciotto anni e si davano di gomito nell’angolo, contenti di questo nuovo amico che distraeva la terribile vecchiaccia dalle angherie che iniziavano appena apriva gli occhi, all’alba, e finivano con l’ultima reprimenda smozzicata, sbavata e senza dentiera, prima che si abbandonasse al sonno, appena fatto buio: “Racaille! Enculé! Fagnani…” e si addormentava senza mettere l’ultimo punto esclamativo ma quelli non se ne davano pena, si sentivano ben pagati lo stesso e si organizzavano per le nottate all’Hotel Gramsci: uno ci andava e l’altro restava di guardia, a turno, hai visto mai che la vecchiaccia andasse in coma e non trovasse nessuno ad assisterla, li avrebbe tormentati in eterno. Flora, di quei sessanta giorni, non ne aveva mancato neanche uno, attratto da tutto quell’odio e capriccio, affascinato da quel vischio di ragnatela che, partito dalla culotte della vedova Gnutti Bella, l’aveva colonizzata in tutta la sua secca e rugosa persona, bianca come un batterio appena nato, triviale come una nanà tubercolotica dei tempi del Direttorio e con la lunga veste bianca e unta di vita folle, come una regina condannata alla ghigliottina che attraversa le piazze di Parigi tutti i giorni e tutti i giorni le tirano addosso uova e arance e tutti i giorni arrivata al patibolo torna indietro per ricominciare. Flora era sempre stato lì, in quei due mesi, fiducioso dei suoi piani come di un bluff al poker, sostenuto solo dall’imibilità che possono darti i quattro quinti di scala in apertura. La vedova Gnutti Bella adorava Flora, lo vedeva intonato alla decadenza del suo
tugurio, pronto a diventarne il padrone e a modellarsi sulle labbra, un giorno, la sua stessa cicciuta dentiera. E Flora, privato delle sue donne, trovava in quel naturale degrado biologico una esponente dei cromosomi XY, vecchia e brutta, certo, ma pur sempre una femmina, con cui allenarsi anche solo a parlare quella sua stranissima lingua. E su tutto c’era di mezzo la storia dell’oro. Con Michela andava benino ma avevano perso quell’intimità spensierata di quando le cose ce le avevano solo in testa. Le sere, sul tardi, si ritrovavano a scambiare qualche parola ma in tutto il tempo del dialogo Flora tamburellava nervoso le dita sul tavolo della cucina mentre lei se ne stava comoda nel suo informe pigiama di flanella. Ogni volta Michela si congedava per prima, con uno sbadiglio fasullo e la stessa domanda: “Hai scoperto nulla dell’oro?” e si alzava molle dalla sedia, indugiando solo un attimo affinché il possente pigiama riprendesse una qualche aderenza sul suo corpo snello e nervoso, addomesticato nelle sue curve più a gomito. Flora guardava triste e non rispondeva neanche alla domanda. Serena era sparita e anche Michela Gang Bang sembrava saperne nulla.
2
Se quella stamberga custodiva per davvero un chilo d’oro, era la banca più sicura che si potesse immaginare. Sviluppata su due piani, altissima con le volte a stella su cui la facevano da padroni ragni grassi come quei leprotti che infestavano invece allegramente il giardinetto brullo e con le sterpaglie secche d’estate come d’inverno, insieme a un’edera sempreverde che con tutta calma marciava dritta verso il portone d’ingresso. Questo era stuccato in più punti e pesava almeno una tonnellata, a occhio e croce, sormontato da uno stemma araldico appartenuto al primo conte Gnutti Bella del XVII secolo, avo del marito morto della contessa. Raffigurava una donna stilizzata coi capelli lunghi e un pancione inverosimile, e proliferava in tutte le stanze del castelletto, in testa alle porte, alte non meno di tre metri. Il piano di sotto contava otto stanze di almeno venti metri quadrati ognuna, salvo la cucina che ne misurava il doppio, dominata da un caminetto tutto nero e spento almeno dal XIX secolo, con lo stemma in testa e gli alari arrugginiti in
bella vista. Là si svolgeva l’inutile vita della vecchia e dei suoi due nipoti che una funzione invece l’avevano: fottersi le badasse dell’Hotel Gramsci a giorni alterni e in fascia notturna, insieme a quei libertini amici loro, e ritornare a casa dalla vecchiaccia con l’unico scopo di rimettere insieme nella dura giornata di tirannia il testosterone necessario a fare bella figura il giorno dopo, carichi e riposati. Non erano dei cattivi soggetti e incassavano docili i complimenti della zia, che erano sempre gli stessi: “Racaille! Enculé! Fagnani!” e quelli a far “sissì” con la testa e scrutare l’enorme pendola che batteva le ore e le mezz’ore che li trattenevano dalle costolone dell’Hotel Gramsci, e a ogni rintocco sembrava che la casa dovesse venir giù tanto erano potenti e quelle quattro mura fatiscenti. Le Mec e Le Truc non assomigliavano a nessuna tipologia rilevata a Torello né nella Giolla Unita; non erano bassi e muscolosi né, come le donne, alti e snelli. Dovevano essere nati gemelli, di quelli che le differenze caratteriali avevano reso fisicamente dissimili, Le Truc vivace e artigiano e Le Mec calmo e riflessivo, e ogni singola cellula si era adattata alla loro attitudine. Le Mec coi capelli lisci come spaghetti mentre Le Truc si attorcigliava i ricci quando le sue mani non sapevano più che fare. Le Mec dispensava un certo fascino oscuro e indossava camicie che gli coprivano fino a metà le dita; Le Truc era invece oggettivamente bello, col volto sorridente, e la camicia se la piegava fino al gomito. Erano bassi e magri e se a Flora fosse venuto di dare loro una testata gli sarebbero prima scricchiolate le ginocchia. D’altra parte di rischi non ce n’erano, di adrenalina nella Giolla Unita non c’era più traccia. La vecchia li coglionava, invidiosa, che a furia di fottersi le nanà e le pétasse del cagibì pure loro sarebbero diventati delle palline corte e muscolose, non come il loro nuovo amico Flora che infatti il cagibì non lo frequentava! Lei comunque aspettava con ansia quel giorno, quando li avrebbe accartocciati come una giungomma e fatto il tirassegno a quei ragni mostruosi che svernavano sulle volte. Tutta invidia, certo. Flora si godeva quei siparietti che gli erano utili a snebbiarsi il cervello, messo a dura prova dal linguaggio della vecchiaccia, ancora troppo ostico per lui talché solo per cortesia, spesso, le faceva intendere che sì, aveva capito ed era anche
d’accordo. Al che la vecchia rideva sguaiata e per comodità si sganciava la dentiera bianchissima, per potersi pisciare tranquillamente nel pannolone. Faceva quasi buio e Le Mec aveva iniziato a trastullarsi l’inguine con studiate carezze; era il suo turno di uscita all’Hotel Gramsci, al cagibì come lo chiamava la vecchia, mentre Le Truc ciondolava svogliato su una poltroncina di damasco verde, schizzata di fluidi antichi e inclassificabili e aspettava solo che quella vecchia rompiballe si mettesse a letto e dargli la benedizione ché toccava a lui farle da guardia. Flora si alzò lentamente pronto al congedo. La sua poltrona, di damasco verde pure quella, liberata dal peso si rigonfiò del respiro che quello gli aveva mozzato, con un leggero schianto di molle e fruscio di paglia secca smossa dal suo culo magro. Flora intese anche uno squittio che sembrava un lamento quadrupede ma non aveva mai voluto aprirci un’inchiesta, già dalla prima volta, due mesi prima. Il buio aveva invaso lo stanzone, appena mitigato da una luce fiochissima, che sembrava provenire da qualche oasi felice nel Polo Nord, che filtrava dall’altro lato della stanza. «Partite, mon ami?» fece la vecchia con le labbra incollate sulle gengive. «Bisogna, è quasi mezzanotte…» rispose Flora come avesse un appuntamento di quelli improrogabili. «Tornate domani, vi prego…» fece la vecchia, amabile. «…fumeremo ancora insieme… je veux dire… voi le vostre clope, moi le percale, vous savez…» aggiunse. «Je veux dire…» ripeté tra sé e sé Flora, abbassando leggermente la testa come per un inchino e salutando a voce bassa Le Truc, mentre Le Mec approfittò di quella quiete malinconica per squagliarsela pure lui a ruota di Flora. La vecchia borbottò qualcosa ma lo lasciò andare e rimase sola con l’operoso Le Truc, che si girava tra le mani la splendente dentiera appena lustrata.
3
Se il castelletto sembrava un sepolcro, quando Flora e Le Mec uscirono si ritrovarono direttamente al cimitero ché Torello già non brillava di suo nelle vie principali, figurarsi in quell’estrema periferia mangiata dalle macerie. Ne vedevi per più di un chilometro solo buio e stamberghe pronte a crollarti sulle spalle, non tutte originariamente belle come il palazzo Gnutti Bella ma anche loro permeate di una storia spazzata dalle bombe quotidiane. L’illuminazione era garantita da rari maxischermi che proiettavano le tranche de vie delle oasi felici della Giolla Unita coi suoi omini indaffarati, i palloncini e i negozi tutti uguali. Flora camminava al o col giovane Le Mec, positivamente eccitato dal cagibì che si avvicinava, e si guardava intorno come un agente immobiliare in cerca di affaroni. Scorse tra due caseggiati sventrati un locale molto più alto in cui la dinamite era brillata sopra il tetto e lo aveva gravemente lesionato. Il portone d’ingresso, anche più ampio di quello del palazzo Gnutti Bella, era annerito, con metodo, quasi con scienza, e solo dal rilievo della patina potevi dedurne i fregi di una certa qualità, sicuramente superiore alla donna obesa del castelletto; erano personaggi con gambe nude e braccia rivolte in alto, con una sorta di pan di spagna che circondava le loro teste; altri erano piccoli e paffuti e sembravano galleggiare nel vuoto per mezzo di piccole ali posticce montate sulla schiena. Flora guardava perplesso e gli veniva in mente ossessiva la sua tiritera monca: “Je veux dire…” e niente che la ricollegasse a quei disegni. Rischiando il ridicolo, si rivolse infine a Le Mec, ché magari, tra un’orgia e l’altra, un’idea al riguardo se l’era fatta e chiese, sottovoce, se quel palazzo fosse appartenuto a qualche loro nobile conoscente, un duca magari. «Ci potete scommettere, mon ami!» rispose squillante Le Mec. «E ci abita ancora?» proseguì cauto Flora. «Nessuno che lo sa…» fece laconico il ragazzo. «Nessuno ha mai controllato?» indagò Flora, incuriosito.
«Gli è che è buio, è questo il problema!» aggiunse Le Mec. «Sì, certo…» convenne Flora comprensivo. «…non dico certo di andare a vedere adesso… ma domattina…» concluse. «Sarà buio anche domani mattina» rispose secco Le Mec. «Beh…» balbettò Flora. «…insomma: possibile che non abbiate non dico la voglia ma almeno la curiosità di sapere se è vivo o se è morto?» concluse in crescendo e indignato. «Non è consigliato» rispose evasivo Le Mec che iniziava a percepire l’odore del cagibì e si stava concentrando sulla sua braghetta. «La zia ve lo vieta?» fece comprensivo Flora. «La zia? Pas de tout. Quella se ne fotte dei consigli, vous savez…» rispose Le Mec quasi in automatico. «Ma insomma…» chiese Flora quasi inviperito. «…che è tutto ’sto mistero… chi abita in quella spelonca?» chiese diretto. «Flora, écoute…» fece Le Mec che mise il cagibì momentaneamente in stand-by «…quella è una gionta.» Flora si bloccò scioccato, come attraversato da un ictus che avesse fatto un primo sopralluogo entro tutto il suo corpo e poi ne fosse uscito per il momento insoddisfatto, graziandolo. Dieci anni di Giolla Unita e lui si era dimenticato di cosa fosse una gionta. «A domani!» cinguettò allegro Le Mec, ormai alle soglie del cagibì. Flora annuì per conferma. «Je veux dire…» balbettò tra sé e sé facendo poi “ciao ciao” con la manina mentre quello si cercava la Tessera per entrare all’Hotel Gramsci.
4
Flora aveva chiuso la sua infruttuosa giornata, gli restava solo da tornarsene lemme lemme a casa. Quella sera, però, Flora ne aveva meno voglia del solito e girò come una piroetta i trecentosessanta gradi della piazzetta nella speranza di qualcosa da vedere o fare. Poco più avanti, nel buio, Flora intese muoversi qualcosa. Due sagome in fila indiana ridacchiavano e si mandavano allegramente affanculo a stretto giro. Flora riconobbe Giona Paraponzi e Tony Dattoni che ansimava dietro con una borsa da palestra. Decise di raggiungerli ché, pensava, tutto sommato erano degli amici. Non dovette alzare il o più di tanto, Flora, ché quelli per quanto si dannassero, a percorrere i cento metri ti davano il tempo di berti il caffè e pure il seltz d’acqua. Presto se li trovò al fianco, in affanno e lenti come cani della prateria. «Giona… Tony…» fece un po’ incerto Flora. «Chi è?» fece isterico Giona, pronto al peggio. «Sono io, Flora…» fece Flora in tutta sincerità. «Ah… buonasera Flora… cos’è, hai fatto cilecca all’Hotel Gramsci e vai cercando conforto?» fece acidulo Giona e poi ridacchiò contagiando Tony che a ridere e portare il peso della borsa, tutto insieme, non ci stava dentro. «Ho accompagnato un amico e adesso… eccomi qua» fece Flora senza malizia ché in fin dei conti voleva solo stare un po’ con loro. «Eh! Io lo dico sempre, a te e anche all’amica tua: sei proprio un ricchione!» riflettè Giona con una grassa risata. Tony Dattoni o rideva pure lui o correva con la borsa in mano, e allora decise il sollazzo e si fermò stremato. Giona dovette fermarsi a sua volta, contrariato. «Come sta la tua bella?» gli fece, tanto per rimescolarsi un po’ il sangue. «Bene! È tanto che non la vedi?» volle informarsi Flora. «Tanto! Quanta è vera la sacra panza di Tony. Neh, Tony?» fece rivolto al compare che con le braccia all’aria riprendeva un po’ di fiato.
«Or ora mi hai detto che fanno esattamente sessanta giorni!» confermò frettolosamente Tony, agevolato dallo sguardo torvo di Giona. «Dove andate?» fece Flora tanto per cambiare discorso. «In palestra, no?» fece acidulo Giona. «Vieni anche tu?» lo invitò, sicuro del diniego. «No grazie, sto bene così…» fece infatti Flora, più per abitudine che per volontà e infatti si pentì, ché di tornare a casa non aveva punto voglia. «Beh, si è fatto tardi…» approfittò volando Giona prima che quello cambiasse idea «…noi andiamo.» «Buonanotte, amici! Giona… perdonami ancora una domanda… hai più visto Serena?» chiese quasi tremando. «Serena… Serena… ah! La portinaia del Trio Lescano! Quella Serena vuoi dire?» fece Giona canzonatorio, sicuro di dare un dispiacere al ragazzo. Giona approfittava del sangue placido di Flora, di Torello e di tutte le oasi felici della Giolla Unita. E Flora incassava ma si sentiva già in credito di almeno quattro testate sui denti di Giona, lui e le sue battutacce. Ma ancora una volta l’adrenalina non salì e gli fece rispondere solo di sì. «Malata, si dice. Ma non ti allarmare, non fa la badassa. Io mi chiedo però, amico mio…» e si rivolse a Flora con tono lirico «…che ci trovi in quella? Con quel pezzo di gnocca che ti ritrovi nel letto di casa poi…» E, dicendolo, quasi si strozzò. «…mah, cazzi tuoi. Ma se vuoi rispondere, non fare complimenti, eh?» «Sono i feromoni!» confessò Flora, galvanizzato già solo dalla parola. «Capito. Gli omoni» annuì Giona. «Io lo dico sempre: il pane a chi non può masticarlo… dillo pure all’amica tua e tante condoglianze a te che sei ricchione e ti piacciono gli omoni. Ti saluto, biondino!» lo canzonò, e si rimise in marcia senza attendere risposte, seguito dal ristorato compare Tony. A quel punto le testate erano diventate cinque ma ancora una volta l’adrenalina non era salita. C’era comunque qualcosa in Giona Paraponzi che lo attirava e, chissà, un giorno sarebbero pure potuti diventare amici.
Quasi arrivato a casa udì il fragore di una bomba ma decise di non farci caso. Tanto, l’adrenalina non saliva e a Torello si erano abituati pure alla doppia bomba.
5
Il mattino dopo Torello splendeva di un sole malato e falsamente caldo. Flora aveva atteso l’uscita di Michela per alzarsi dal letto che lo teneva imprigionato da almeno dodici ore. Si stirò le spalle che crocchiarono come un foglio di pluriball e poi il collo che ruttò invece un colpo secco. In brachessino, continuò a sgranchirsi perlustrando la casa in lungo e in largo. Fu la triste ricognizione del deserto, né indumenti né suppellettili appallottolati e sbattuti qua e là, neanche un perizoma minuscolo di quelli che Flora si trovava una volta sì e una no sulla sedia, pressato e stirato dal suo culo. Ancora peggio, in casa non avvertivi nessun odore, né buono né cattivo. Sembrava che su tutto fosse ato un compressore ad aria che aveva igienizzato cose e persone senza lasciare traccia di vita. Da quando Flora frequentava palazzo Gnutti Bella, aveva scoperto che si fa subito sera restandosene in casa e cambiando sedia quando si scalda troppo e inizia a bruciarti il culo. Così ava il tempo fino al primo pomeriggio: alzandosi, buttandosi sul letto, accendendo il computer a completare parole crociate semplificate o unire puntini per vedere se veniva fuori il volto irregolare di Serena. Poi, eccitato e frustrato, si vestiva e andava dalla vecchia. Quel giorno, però, si era svegliato insoddisfatto, così come si era messo a letto la notte prima, e alle nove era già per strada, abbagliato dalla luce violenta di Torello. Mosse incerto i primi i in una direzione a caso e fece il solito cenno di saluto a Chicco Micchi che provava senza successo a coinvolgere il compare Bacco Numucco in un qualche discorso, ma quello non lo guardava neanche, chiuso nella sua cazzimma, ed entrambi ignorarono il saluto urbano di Flora. Poco male, Flora continuava a camminare, tenendo sottocchio i vari maxischermi che
incrociava, casomai si materializzasse Serena. Arrivato a un crocicchio si bloccò, indeciso sulla direzione; ne prese una a caso e fece alcuni i prima di essere stoppato da una pallina di carne. L’impulso di Flora fu di accompagnarla sul marciapiede a calci ché quella invece di are inosservata si metteva pure a importunare la gente. «Ha qualcosa contro i disoccupati?» chiese, e attendeva pure una risposta. Flora rinunciò ad auscultare un qualche movimento di adrenalina nel suo corpo, che gli muovesse il piede a calcione o che almeno gli mettesse in bocca un sonoro vaffanculo; si accontentò di guardarlo negli occhi e, nell’abbassarsi a livello, il collo gli scrocchiò forte e chiaro in quella che poteva anche are per una sonora pernacchia. Ma la pallina si sentì invece incoraggiata dall’immobilismo del suo interlocutore, che si stava chiedendo se mai sarebbe riuscito a rimettersi il collo sulle spalle. «Guardi, signore. È un’opera buona e non le costerà nulla…» attaccò. «…guardi bene questa macchinetta… serve a scaricare l’oro in deposito. Ne ha di oro, signore?» chiese, quasi con un lamento. Flora manovrava il collo come un bullone troppo stretto da allentare e sembrava rispondere “sì, certo, come no?” Il che era poi vero, l’oro, in conto deposito, lo aveva. «È semplicissimo, signore. La macchina è tarata scientificamente, senza possibilità d’errore, brevetto Giancippoli, e le toglierà solo l’otto per mille, che io le scarico e andrà devoluto a chi di oro non ne ha affinché un giorno anche questi sfortunati possano godere della loro gita in qualche oasi felice della Giolla Unita. Le è chiaro, signore?» concluse, con l’ultimo “signore” che era quasi una supplica. «Sì, ma non pensi che dovresti darmi qualcosa in cambio?» rispose Flora col collo mezzo piegato, come in attesa del colpo di grazia. «Lei ha capito benissimo, signore! E… guardi… non può immaginare cosa le lascio in cambio…» rispose eccitato quello, mentre si frugava nelle tasche come a pescarne un accendino. «Una penna» lo deluse Flora ancor prima che quello riuscisse ad afferrarla dai suoi pantaloni multitasca. «Una penna…» confermò infatti, un po’ confuso. «Con la scritta THANK TO YOU…» completò Flora.
«THANK YOU…» corresse un po’ avvilito l’uomo-pallina. «THANK YOU…» ripeté Flora che aveva ritrovato il suo assetto diritto e lungo di collo. «Dunque sei un poverello come me!» intuì con malagrazia la pallina. Flora non rispose neanche, e neanche si chiese come ci era arrivato, quello, a inferire la sua miseria. Di adrenalina non ne era salita neanche questa volta e comunque il “poverello” non riusciva a percepirlo come insulto. Era invece contento di essersi rimesso il collo sulle spalle. Fece una piroetta di trecentosessanta gradi e lasciò sul posto la pallina offesa, per verificare se Torello offriva ancora delle possibilità a uno come lui che c’aveva tutta una serie di cazzi, da Serena a Michela alla vedova Gnutti Bella. C’erano tante altre strade e stradine in quel crocevia, bastava prenderne una a caso. Esaurita la piroetta, rifece il giro, angosciato. Da tutte le quattro arterie di quel crocicchio prima assolato e deserto restava sì il sole ma adesso si era infettato di un esercito di palline con le manine che brandivano tante penne di plasticona con la scritta THANK YOU. Sembrava convergessero tutte verso di lui, a farsi giustizia del suo sarcasmo, ma in realtà lo attraversarono come fosse stato trasparente e si aprirono a ventaglio per le vie di Torello, invadendola disciplinatamente. Quando si allontanò il ritmico calpestio dei piedi da pallina si udì il fragore di una bomba, neanche troppo lontana, che solo Flora sembrava aver sentito. Quasi a dispetto, rispose a eco una seconda bomba, ancora più vicina. Poi fu il silenzio, tra Flora incarognito dal terrore e le placide palline che marciavano ordinate e senza intoppi. Nessuno di quelli aveva fatto una piega, come se i muscoli del loro fitness estremo avessero indurito pure le orecchie.
6
«E così voi avete pensato che si agitava un casse-pipe, mon ami!» disse la vecchia Gnutti Bella mentre si caricava la cartina di percale. «Casse… pipe?» chiese Flora, incerto. «Je veux dire… pericolo, caro il mio fegato bianco… vas-y, allumate la clope: lapino che scappa, buono un’altra volta!» spiegò paziente la vecchia. «Je veux dire…» ripeté tra sé e sé Flora. «…forse avete ragione voi, madame…» rispose Flora pensando che quanto a testate sulla dentiera, quella vecchiaccia sardonica se la giocava con Giona Paraponzi. E buon per lei che di adrenalina non ne circolava più nella Giolla Unita. «Quello che non comprendo…» riprese quella effettivamente pensierosa «…è che tipo di sangue vi scorre nelle vene; a voi, bien sûr. Je veux dire: Le Mec e Le Truc sono bene dei fagnani, degli enculé ma… fegato bianco, no. Loro sono anche coraggiosi, vedete, temerari, se posso dirlo. Lo so, lo so… è la millefoglie, je sais… le nanà e le pétasse del cagibì, voilà. Ma voi, mon ami, alla millefoglie non ci pensate mai?» concluse la vecchiaccia con uno sguardo eloquente. Lì Flora fu preso dal magone e immaginando per un secondo che quella vecchia stronza poteva anche essere la sua bisnonna, le raccontò di Michela e di Serena, le sue donne entrambe sparite, una diventando un’altra persona e l’altra forse costretta nel letto, malata, a inondare di feromoni pigiama e lenzuola. La vecchia annuiva per niente scandalizzata e sputava pezzetti di tabacco che le lordavano soprattutto la dentiera. Flora, con le sue sigarettine senza nicotina ed eccitato dal racconto e dai ricordi, si accendeva la clope nuova con la brace della vecchia e ben presto i due si trovarono avvolti in una nuvola di fumo. «Je vois, mon ami. Ho compreso. Voi volete ritornare di dove siete uscito, n’est pas? ons… Vous savez, noi donne siamo strane e quando dico donne io le voglio dire tutte, le nanà e le pétasse, le nennè e le febosse, le vecchiazze e le mammouth… tutte quante, même moi. In tutti i casi faut pas fare un patatrò! Voi siete giovane e, per comprendere, il tempo non vi mancherà…» chiuse quella, benevola.
Flora annuì poco convinto e si concentrò sull’ultimo raggio di luce che tratteneva l’oscurità dalla cucina. Le Mec sembrava adagiato sulla poltrona di damasco verde ma si vedeva lontano un miglio che stava friggendo e studiava l’andatura strascinata di Le Truc che si era alzato rassegnato per la pulizia rituale della dentiera. Flora, dal canto suo, non aveva nessuna voglia di congedarsi ed evitava lo sguardo fisso di Le Mec che lo avrebbe, come d’abitudine, utilizzato come lasciaare, uscendo insieme a lui. Fu la vecchia a rompere l’imbarazzo dando il liberi tutti. Lei sarebbe rimasta sveglia ancora un po’ a chiacchierare con Flora e per quella sera era sicura che non avrebbe avuto bisogno di un becchino e quindi se ne andassero affanculo entrambi. Le Truc, pazzo di gioia, annunciò a Le Mec che andava velocissimo a farsi un bidet e che lo aspettasse! Quello, un po’ contrariato della botta di culo del fratello, un po’ perché non ci stava più dentro dalla voglia di cagibì, si mise a frignare lamentando che ad aspettarlo che si scrostasse le pettole dallo zinzì si faceva notte e piagnucolava rivolto alla vecchia che perse il boccino e gli cantò la ramona: «Racaille! Enculé! Fagnano! Sei dovuto venire fino a Torello per scoprire cosa è un bidet e anche hai il coraggio di protestare, toi, le citammuert!» E così Le Mec si zittì.
7
Flora si abbandonò sulla sua poltrona di damasco verde e non diede caso al solito squittio di dolore appena sotto il suo culo. La vecchia rise e svelò che quella era la poltrona di Gaspard e quando Flora volle informarsi su chi fosse questo signore, quella rispose che signore non lo era per niente e squittiva perché era ancora vivo ed era un topo, un gaspard appunto. Flora non volle approfondire ché Torello oramai gli sembrava una stramberia unificata. «Le gaspard… vous savez… è intelligente ma anche un po’ attore…» riprese lei quando i due nipoti le diedero il bacio della buonanotte «…non è tutto intelligente come un verme, o comme vous, bien sûr. Il verme ha imparato a tacere, même vous! Au contraire, Gaspard ogni tanto ci tiene a dare un segnale
di vita, tanto nella Giolla Unita non ci sono più né gatti né adrenalina…» Flora annuì convinto. «Da quanto è qui a Torello, madame?» chiese invece. «Sono ormai venti anni. Non volevo morire qua, pas envie… non dico che venti anni fa ero giovane, ero vecchia quasi come adesso, ma alla morte non ci pensavo. Poi, come tutto il mondo, sono rimasta bloccata qua. Io e i miei nipoti, vous savez» rispose quella, masticando prima e sputando poi un ciuffo di tabacco nero. «Non avete la possibilità di tornare in Francia?» chiese insinuante Flora che pensava al chilo d’oro che le sarebbe stato sufficiente a fare il tour di Napoleone, dalle oasi felici delle Alpi alle Piramidi e dal Manzanarre al Reno, lei e i suoi nipoti smidollati. «La ? Ah, mon ami… il n’y a plus de … il n’y a plus de monde, vous savez… se tornavo in Francia sarei stata tutta sola… Le Mec e Le Truc erano troppo giovani per viaggiare, non si poteva… oui, bien sûr, vous avez raison… certo, è racaille! Enculé! Fagnani! Ma… io li amo molto e li avrei persi per sempre e così… siamo qua, tutti insieme, per quel poco che ho da vivere…» rispose la vecchia, evitando di nominare l’oro. «Comprendo» fece Flora che aveva capito le intenzioni della vecchiaccia, un lasciaare ai due smidollati appena fosse morta. «Vostro marito invece?» chiese, per sviare il discorso. «Lui era di Torello. Questa è la sua casa» rispose la vecchia. «È tanto che è morto?» volle informarsi Flora. «Quindici anni. Lui la Giolla Unita non l’ha conosciuta. Pas de tout…» ricordò la vecchia con un certo sollievo. Flora annuì e rimase silente a fumarsi la sua sigarettina senza nicotina, con calma; anche la vecchia se ne stava tranquilla a trafficare col suo percale. Il buio della cucina, unito alle emozioni della giornata, lo mise in uno stato di trance che gli occhi della vecchia che lo guardavano fissi e benevoli
trasformarono in un sonno duro e incosciente, cullato da un soliloquio irresistibile: «Et le sommeil arrive, jour après jour et il est toujours sembable à la mort. E così io ci arrivo preparata e non ho più paura, pas peur… e vous dites che ce n’existe pas? Mais, quoi donc! È proprio da ces petits particolari secondari, volgari, si je peut m’oser à le dire, même psicologiques, que je le peut dire fort bien: que Ce c’est, c’est certain! Même si dans la Giolla Unita personne s’en souvient, quoi!» Infine Flora fu risvegliato da un secondo e più forte squittio di Gaspard che lo fece trasalire. Per molti secondi si chiese cosa ci fe lì. Quando intravide la vecchia che nella sua poltrona di damasco verde si era imbacuccata di coperte color pece e sibilava nel sonno, tutto gli tornò in mente e si congratulò con se stesso della sua audacia: era a casa della vedova Gnutti Bella, finalmente solo, e poteva mettersi a caccia del chilo d’oro. L’audacia del sonno impastato però andava via via scemando col are dei secondi e si ritrovò ben presto terrorizzato a camminare in punta di piedi in quella cucina nera come un buco nero, tra gli urli di Gaspard e i sibili della vecchiaccia che masticava adesso il suo mantra preferito: «Racaille! Enculé! Fagnani! Quanto vi amo però!»
8
La cornetta della doccia faticava a recuperare la pressione e obbligava un getto violentissimo e bollente. Il calcare si scrostava come una piaga secca e veniva giù veloce e placido come un batterio sulla corona bucherellata, intasata quasi per tre quarti. Lo spruzzo colpì il marmo duro della pancia e, dove non rimbalzò con violenza, un piccolo vortice si mise a ruotare nel perfetto ombelico incavato. Dopo essersi tutta rinfrescata, ò a massaggiarsi il petto con l’acqua gelata, che le faceva tenere i denti serrati, finché le carezze su quella piaga del seno non si risolsero nell’atteso mugolio soffocato di godimento e con le mani strette al petto rimase immobile per qualche minuto, con gli occhi chiusi e il cuore che le batteva forte.
Fuori, Torello replicava la giornata calda col sole malato fuori stagione. Di o spedito, evitando i venditori di penne e le sbirciatine ai maxischermi, in meno di dieci minuti varcava la Beni Vizi e Servizi. Dentro, Michele Gerbero, Sciarabbai e Anpichisi si muovevano con la stessa disinvoltura di chi non si era mai spostato da lì negli ultimi dieci anni. Sciarabbai era seduto composto, come un diligente alunno il primo giorno di scuola. «Buongiorno Michela!» disse per primo. «Buongiorno a voi!» rispose quella mentre si spogliava dello spolverino. «Sono in ritardo?» chiese educata. «Non è mai troppo tardi…» rispose seduttore Sciarabbai. «…né mai troppo presto. Dovevo studiare delle carte e così anche gli altri sono voluti venire un po’ prima…» spiegò. Effettivamente i tre erano sempre insieme, talché era impossibile fare l’identikit di uno senza coinvolgere anche gli altri. Ogni volta ne veniva fuori una foto di gruppo, ti dovevi concentrare ore per fissare in mente che Gerbero era il più giovane, Sciarabbai era il capo lungo e magro, sale e pepe, e Anpichisi era alto, muto e un po’ strano. Finiti i salamelecchi, i quattro si disposero a schiera dietro la scrivania e aspettarono quieti. Dopo una buona mezz’ora in cui nessuno mosse un muscolo né disse un parola, suonò l’interfono e la voce racchia della portinaia annunciò la visita di “una tizia” che si voleva proporre come badassa all’Hotel Gramsci, come da annuncio. Sciarabbai, che era il capo, si animò non poco e si preparò al colloquio, coinvolgendo nell’entusiasmo anche il solito Michele Anpichisi che facendo pugnetto con le mani andava su e giù sotto i fianchi fregandosene della presenza e del pudore ancora in garanzia di Michela Gang Bang. Così, entrò una ragazza molto giovane, così giovane che sembrava incisa nel marmo tanto era rigida di adolescenza, soda di badassa e col ventre piatto. Mezza timida e mezza provocante, iniziò a spiegare il perché e il percome a tutta la camarilla: l’età matura, il desiderio di punti-oro, un mestiere che le potesse
permettere una gita nelle oasi felici della Giolla Unita, le solite cose insomma. Sciarabbai si ò le labbra sui baffi bicolore e iniziò ad annuire leggendo ad alta voce dal terminale: Sofia Godolini, età e titolo di studio, non dimenticando di aggiungere che per un lavoro come quello il curriculum non valeva granché, che ben altri erano i parametri. «Sei molto giovane, Sofia Godolini» concluse alzando d’improvviso la testa dal terminale. «Ho diciotto anni…» si difese quella come avesse commesso un reato. A quella cifra intesa, Gerbero iniziò a tossire come gli fosse andato di traverso l’intero intestino e Michele Anpichisi lo guardava quasi lo vedesse, quel lungo tubo interno squadernato. Sciarabbai scorse con soddisfazione l’uditorio e poi riprese. «Tua madre era pazza» disse senza pathos. «Sì, si è buttata dal quinto piano dell’ospedale… del Soccorso Pronto voglio dire…» rispose la ragazza come a giustificarsi. «Era l’ospedale, la Giolla Unita non c’era ancora, ricordavi bene» la corresse Sciarabbai. «Io non ricordo niente…» precisò la ragazza. «…ero appena nata…» spiegò. «Non c’è niente da ricordare. Lei era pazza e ne è morta e tu sei viva e sei qua, questo conta» la incoraggiò Sciarabbai. La ragazza annuì incerta e cercò con lo sguardo un qualche cenno di rassicurazione di Michela, unica donna lì dentro, che però teneva gli occhi sbarrati e assenti. Sciarabbai, mosso ad appetito da quel disagio birichino, chiese alla ragazza di togliersi il cappottino e aprire un po’ il davanzale ché lì dentro faceva caldo, e per convincerla iniziò a sventolarsi la bocca con le mani, come stesse per avere un infarto. Quella così fece, il cappottino e tutto, e l’iniziale timidezza si tramutò istante dopo istante in stizza ché nessuno le ammirava il corpicino ben fatto tranne quel porco di Sciarabbai. Persino Michele Anpichisi sembrava pensare ad altro.
Sciarabbai, rosso in volto e accaldato, si alzò allora di scatto e annunciò che il colloquio era finito e il lavoro era suo, tot oro al mese, turni così e cosà, pulizia, puntualità, proattività, problem solving, gioco di squadra, obiettivi, carriera e massima disponibilità. Annunciò poi che l’avrebbe accompagnata lui stesso all’Hotel Gramsci per le presentazioni di rito e la presa di servizio. Allora anche Michele Anpichisi si rianimò e tutto seduto prese a muovere freneticamente le braccia strette a pugno lungo i fianchi incurvati dalla postura. Michela Gang Bang e Michele Gerbero proseguirono nel loro choc. Sciarabbai invece era il capo e di choc non ne pativa. In più, fottersi le badasse novelle faceva parte dei suoi oneri e onori. Un’ora dopo, l’azzimato vecchietto tornò alla base che ritrovò esattamente come l’aveva lasciata, compreso Michele Anpichisi che non si era mai più fermato nella sua copula immaginaria e continuava instancabile ad andare su e giù coi pugnetti, come fosse animato dal PeranaX. Sciarabbai riprese il suo posto dopo aver teatralmente rimesso su la zip dei pantaloni e diede una carezza alla sua poltrona che aveva abbandonato. Solo allora Michele Anpichisi fermò il movimento delle sue braccia. Intorno a mezzogiorno suonò per la seconda volta l’interfono e la solita voce racchia della portinaia annunciò l’arrivo di una coppia che reclamava oro per servizi resi a Torello, oasi felice della Giolla Unita. La camarilla si disegnò in testa un bel punto interrogativo che durò molti secondi, mentre la racchia ansimava nel microfono in attesa di una qualche disposizione. Sciarabbai rivolse il suo punto interrogativo verso Gerbero che aveva la delega alla gestione dell’oro di Torello ma quello indicava lo spazio vuoto davanti la sua scrivania, nessuna minuta che dicesse qualcosa riguardo soccorsi prestati e/o atti d’eroismo. Gerbero guardò di sfuggita Michela Gang Bang, perplessa anche lei e priva di minute che riguardassero gli scoppi delle bombe ai maxischermi, la sua delega. Allora Sciarabbai ruppe gli indugi e diede alla racchia il via libera, stanco di quell’ansimare nella cornetta, dopo che per ben un’ora aveva sentito solo una vocina timida e argentina che diceva no e poi diceva sì e ancora sì e alla fine pure grazie. Così fecero il loro ingresso Chicco Micchi e Bacco Numucco.
Michele Sciarabbai giunse le mani e li guardò fissi negli occhi attirando la loro attenzione distratta dalla presenza di Michela Gang Bang. «Ebbene?» chiese. «Ieri a Torello è scoppiata una bomba» iniziò filologico Chicco. «Due per la precisione» corresse Sciarabbai. «Boh! Noi ne abbiamo sentita una» precisò Chicco Micchi. «Cosa volete? Un apparecchio acustico?» chiese Sciarabbai. «Fa non più di cinquanta punti-tessera, nei negozi specializzati» concluse. «Cinquanta? Ladri! Con cinquanta punti-tessera ti porti via l’Esaurimento» si scandalizzò Chicco. «L’Esaurimento» confermò tramite terminale Sciarabbai. «Il nostro minimarket» confermò Chicco. «Tutto quello che non ti serve noi ce l’abbiamo di sicuro» recitò a memoria. «La bomba» ritornò sull’argomento Sciarabbai. «Ha fatto boom!» rincarò Chicco Micchi. «Ha fatto boom?» chiese conferma Sciarabbai a Bacco Numucco che seguiva la discussione ma non aveva ancora aperto bocca. Bacco Numucco confermò con un cenno sfuggente della testa. «Dunque ha fatto boom!» riprese irritato Sciarabbai. «Morti? Feriti? Voi state bene, sì?» cercò di stringere. «Nessuno. Noi stiamo benissimo, grazie» rispose Chicco Micchi. «È solo andato giù il maxischermo» precisò. «Glielo rimetteranno su in giornata» lo confortò Sciarabbai. «Lo sappiamo. Abbiamo segnalato noi lo scoppio» incalzò Chicco Micchi. «Lei?» fece Sciarabbai ancora rivolto a Bacco Numucco, curioso di sapere se in rare occasioni questo riuscisse addirittura ad aprir bocca ma Bacco fece segno
con l’indice che era stato Chicco Micchi in persona. «Ebbene?» riprese dall’inizio Sciarabbai. «Ebbene!» confermò Chicco Micchi. «Oro per noi non ce n’è? Ai tempi della serietà, alle spie come noi erano concessi onori e vettovaglie!» lamentò Chicco Micchi. «I tempi della serietà sono belli e finiti. Noi viviamo il tempo della felicità!» spiegò filologico Sciarabbai. «E ci sta bene, ci sta! Ma… neanche una scopatina?» insinuò Chicco Micchi. «Eh?» fece Sciarabbai, per davvero sorpreso e rivolgendo lo sguardo a Bacco Numucco che rimise in funzione l’indice che si posò sugli occhi bassi di Michela Gang Bang. «Noi la conosciamo bene, Michela. Ha fatto la gioia nostra e di tanti altri…» rincarò Bacco Numucco che fece sentire la sua voce per la prima volta. «La signorina non esercita più. Se volete svuotarvi le vesciche avete solo da farvi dieci metri a sinistra» rispose Sciarabbai, stizzito ma controllato, certo di aver chiuso la questione. «Vuol mettere?» fece Chicco Micchi. «Le badasse, va bene. Ma Michela Gang Bang in tailleur! Non le faremo male, glielo giuriamo, sappiamo come prenderla!» promise. «Fuori!» ordinò Sciarabbai scandalizzato, col primo urlo che quelle mura avevano sentito in dieci anni. A Michela Gang Bang luccicavano gli occhi, che continuava a tenere bassi mentre i poveri Chicco Micchi e Bacco Numucco se la filavano con la coda tra le gambe, sinceramente spaventati. L’ultima telefonata della giornata arrivò precisa come il carro da morto e alle 18.30 la solita voce racchia annunciò il liberi tutti all’interfono, subito confermato da Sciarabbai che liberò pure lei, la portinaia racchia che poteva così infestare le strade di Torello e terrorizzare gli onesti abitanti con la sua falcata che l’avrebbe riportata a casa dopo una dura giornata di lavoro.
Michela Gang Bang si alzò dalla poltrona molto lentamente, vi indugiava a causa di alcuni pensieri che giravano in testa e diede modo a Sciarabbai, ancora seduto, di trovarsi quell’inguine sinuoso, castigato dal tailleur, che gli palpitava dritto in faccia. La smorfia dell’uomo fu abbastanza eloquente, gli era scattato come scintilla il meccanismo del desiderio e anche del ricordo, di quando Michela Gang Bang era ancora una teenager appena maggiorenne, come quella pupetta della mattinata, e, come quella, cercava un qualche lavoro che non era la badassa, che ancora non esisteva. E il sempre valido Sciarabbai, di un niente più giovane, le aveva fatto il colloquio, pelo e contropelo.
9
I due piani della riflessione, amara e pronta al peggio quella di Michela, infartuata e giunta al dunque quella di Sciarabbai, intrecciarono le loro curve all’uscita e lasciarono da subito fuori dialettica Gerbero, troppo fuori da queste cose, e Michele Anpichisi, troppo fuori da questo mondo. Nondimeno, guardavano ammirati il sempre valido Sciarabbai che il lavoro se lo voleva portare a casa, per fotterselo di nuovo. «Hai presente la mia stanzetta privata all’Hotel Gramsci?» fece senza perdere tempo il vecchio, partendo da quello che aveva di più barzotto, i ricordi. «Vagamente» fece Michela tenendosi vaga. «Ti ha aspettata tutto questo tempo, è sempre uguale…» provò di ariete. «Tu invece sei invecchiato…» rispose pronta Michela. «…perché non ti concentri su un’altra gioventù? Hai la badassa diciottenne, non ne avrai più di così giovani… Hai Gerbero, ti venera e sarà il tuo sostituto. Istruisci lui ché ne ha voglia e bisogno…» provò a deviare Michela. «Chi, quello?» rispose pensieroso Sciarabbai. «Hai ragione, è tanto devoto ma la devozione non basta per reggere un’oasi felice della Giolla Unita. È un utile idiota e servirà molto quando non ci sarò più ma…» avversò Sciarabbai tentando di bloccare con una mano il seno intabarrato di Michela.
«Michele, non erano questi i patti» gli ricordò a muso duro, spostandogli nervosamente la mano. «Ma non si tratta di patti!» mugolò il vecchio. «Io parlo di sentimenti, amore mio!» provò un po’ sul patetico. «Michele… non così, ti prego…» provò a supplicare Michela. «Eri giovane e ingenua…» provò allora ad adularla «…ma il tempo ti ha fatto anche più bella…» «…e leale» aggiunse lei. «Ti ricordo che abbiamo un patto e tu non lo stai rispettando» si appellò alla parola data Michela. «Al contrario! Io ho grandi progetti per il tuo amichetto. Ti ho chiamata io, non lo dimenticare. Sarà lui il mio sostituto» promise Sciarabbai come ad alzare la posta. «Neanche questi erano i patti…» ricordò Michela che un po’ iniziava a farsi le addizioni. «Michela. Proprio tu che sai guardare in faccia la realtà, meglio di chiunque. Non fosse il tuo ato saresti tu la mia sostituta ma l’oasi felice di Torello è piccola e la gente mormora… non c’è futuro fuori di qua, non basterebbe tutto l’oro del mondo e tu lo sai…» confessò Sciarabbai che riprovò l’affondo sulle tette intabarrate. «Ma tu…» provò a ricordargli Michela. «Neanche io posso. È fuori della mia competenza. Ti dico la verità col cuore in mano… toccalo questo vecchio cuore, ti stima e vuole il tuo bene…» attaccò di nuovo Sciarabbai, che la mano di Michela che lo scacciava per la seconda volta provò a portarsela sul pacco. Michela si liberò con uno strattone e si mise le mani dietro la schiena, offrendosi tutta ma in realtà facendo capire al vecchio tutto il suo disprezzo. Quello provò a calmarla con una carezza ma Michela spostò la zazzera nera quasi schifata e rimanendosene di tre quarti, fuori dallo sguardo allupato. Sciarabbai aveva di fronte a sé un corpo freddo che poteva addomesticare non più di una bistecca di caramolla. Se la studiò da tutti i lati ma da ovunque la guardasse non trovava un
chiodo, un rampino, una treccia su cui arrampicarsi. L’eccitazione si tramutò tutta intera in rabbia senza adrenalina, un mal di stomaco che ruttò: «Puttana! Puttana! Puttana sei nata e pure velenosa e come una cagna vivrai il resto dei tuoi giorni. Non puoi tornare indietro…» E così ne ebbe un po’ di sollievo. Michela stava perdendo il controllo dei dotti lacrimali e l’umiliazione diede la stura a un uragano di singhiozzi indiscreti e rabbiosi che schizzavano fuori con la velocità di un antico obice di precisione e avrebbero annegato chiunque si fosse trovato nel raggio di venti metri. Sciarabbai si scostò impaurito solo di un paio di etti e quando si pensò perduto, ché non riusciva a correre via, notò con sollievo che era Michela ad allontanarsi, presa da un braccio e trascinata via dall’arrivo imprevisto di Flora. Sciarabbai respirò profondo e si spazzolò incurante la giacca stazzonata. Diede un’occhiata nei dintorni e fece un cenno a Gerbero e Michele Anpichisi che si erano spostati di cento metri buoni. Sciarabbai seguì con lo sguardo la coppia che andava via a grandi i. «Accumuli l’oro, Flora! Senza scrupoli!» urlò a gran voce mentre i due giovani avevano già svoltato l’angolo della piazzetta.
10
La corsa libera aveva trasformato in crampi allo stomaco il malmostoso lago d’iniquità pronto a rompere nuovamente il petto di Michela Gang Bang. Quando i due giovani si fermarono per riprendere fiato, però, a Michela venne su un’ischemia di sentimenti e frustrazioni e confusa svenne nelle braccia di Flora come un sacco svuotato. Flora aveva grosse difficoltà a tenerla da quello spolverino di tessuto liscio e scivoloso come un albero della cuccagna e pensò che dire di una donna che ha la pelle liscia era un insulto bello e buono perché laddove non c’è attrito non c’è sentimento, essendo il sentimento null’altro che una piaga.
Gli zigomi di Michela erano scesi giù fino ai tagli delle labbra tumide, adesso molli come lumache; Flora cercava disperato di rianimarli, con una mano, mentre l’altra cercava di tenere dritta la sagoma svenuta della ragazza e non era niente facile, ché diritta era una parolona per quella donna tutta curve che al massimo si poteva acciambellare come un serpentello. Flora si concentrò molto su quegli zigomi, quasi fossero il cuore da farci un massaggio cardiaco ma quella non rispondeva e se ne scivolava sempre più giù fin quasi a toccare l’asfalto. Allora se la mise in spalla ché piegata ad angolo acuto sembrava più facile da manovrare. Fosse stata magra almeno! E invece era costolona salvo quel dannato e piatto ventre di marmo mentre le tette, pure intabarrate che erano, la tenevano quasi sospesa nel vuoto e non si adagiavano docili sulle scapole di Flora. Allora Flora, quasi vinto, la posò delicatamente per terra, giurandole che lui ce la stava mettendo tutta e così si spogliò del suo cappottino leggero a tre bottoni e ne fece un tappeto di fortuna su cui quelle membra afflosciate potessero evitare il freddo contatto con l’asfalto. Poi le sollevò delicatamente le spalle e riprese a massaggiarle gli zigomi che pian pianino cominciarono a risalire come la lineetta del termometro quando ti assicura che hai solo un po’ di febbre e domani è già un altro giorno. Rinfrancato, Flora se la riprese sulle spalle.
11
Quando gli zigomi ripresero il loro posto sotto le ciglia nerissime, Michela riaprì finalmente gli occhi. «Grazie…» riuscì a dire, appesa come un salame e con il sangue che le andava alla testa; poi richiuse di nuovo gli occhi ma solo per riprendere le forze. Flora la sentì gonfiarsi di vita sotto le sue spalle e con molta cautela la rimise giù per vedere se rimaneva in piedi. Quella barcollò per qualche istante ispirando l’aria fredda della sera di Torello come fosse flogisto. Si guardò con circospezione tutto intorno e poi chiese e ottenne il braccio di Flora, ché le
fe da bastone. Così iniziarono a camminare molto lentamente ma dopo un centinaio di metri era Michela che trascinava Flora in una marcia serrata che le serviva a sbollire i rimasugli della rabbia repressa, dell’umiliazione e in ultimo anche della commozione, di essere stata salvata senza che avesse invocato aiuto, così, a gratis. «Grazie» ripeté dopo un lungo tratto e davvero sembrava non ci fosse altro da aggiungere, se non un “non c’è di che” timido e detto a mezza voce da Flora. La eggiata si era trasformata in un vagare senza forma né scopo che non fosse quello di mettere i piedi uno davanti all’altro il più velocemente che potevano, in direzione di casa. Nessuno dei due ne aveva in verità voglia e Flora si illuminò di un’idea e la strattonò verso la periferia di Torello, senza aggiungere complimenti di sorta. Michela si lasciò fare volentieri, alla sola muta condizione che se ne restassero zitti e mantenessero l’andatura frizzante che avevano messo in moto. Giunsero infine davanti quell’altissimo porticato coi fregi anneriti e il tetto lesionato, devastato dalle bombe e dall’incendio. Michela comprese che erano arrivati e si fermò anche lei. «Sai cos’è questa?» chiese, non poco enfatico Flora. «Una gionta» rispose neutra Michela. «Ne hai memoria?» chiese Flora, un poco sgomento. «Tu no?» chiese Michela a sua volta. «Non è ato neanche tanto tempo… o forse sì, hai ragione, ne è ato pure troppo di tempo…» concesse Michela. «Ebbene!» commentò Flora che non sapeva più come andare avanti. «Flora… ascolta… lascia stare… non tu, non ora, non qui… Hai trovato l’oro piuttosto?» chiese Michela, fuor di logica apparente. «Sì» rispose secco Flora. «Tanto?» volle informarsi Michela.
«Credo di sì… non avevo una bilancia ma più di un chilo…» ricordò Flora. «Ebbene?» cercò di sintetizzare Michela. «Non so. Della gionta non ricordo nulla ma questo, al tempo del denaro, si chiamava di sicuro furto…» recitò memore Flora. «Non esiste più il furto…» corresse Michela. «…invece esiste la superstizione e se insisti con la tua gionta sarai un uomo morto…» rincarò. «E l’oro dove mi porterà? Voglio dire: di diverso da dove sono già…» chiese infine Flora. «Non lo so, Flora…» confessò stancamente Michela. «…sei tu che volevi fuggire» aggiunse. «Solo se vieni con me!» confessò Flora. Michela scoppiò in una risata isterica. Schegge impazzite, ecco cos’erano. «Il mio posto è qui. Non mi sono mai fatta illusioni. Non ho sogni e non li realizzerò di conseguenza» gli disse con dolcezza ma scandendo tutte le sillabe.
12
«Vas-y, vas-y citammuert Le Truc, in culo à toi e il cagibì! Civastramuert… Le Mec, Le Truc, le mieux murt catinit’… c’est un patatrò, mon dieu… c’est pas vrai! C’est pas vrai!» La vedova Gnutti Bella stava cantando la ramona a baritono in 4/4 ai suoi nipotini che si erano dimenticati, in due, di comprarle il percale e quella ansimava, gridava e tremava con la cartina in mano ma vuota, senza un filoccio di tabacco da rollarsi e sfumacchiarsi. Le Truc cercava la rebecca, una qualche risposta che lo discole e scaricasse le colpe su Le Mec, doveva pensarci lui all’approvvigionamento!
Ma quella si incarognì ancora di più ché parlare a loro, sibilò, era come pisciare dentro un violino, e si preoccupavano solo di giocare allo scaricabarile dopo aver corso la cavallina al cagibì. Le Mec, apparentemente graziato dalla ramona, si guardò bene dall’assumersi le sue responsabilità e taceva a testa bassa contento di esserne fuori e aspettando solo che la vecchiaccia la fe finita. Ma questa volta non era un semplice capriccio, si trattava di una crisi d’astinenza che la vecchiaccia scopriva solo in quel momento, a quasi cento anni suonati dopo averne ati ottanta a leccarsi le cartine all’oscuro di tutto. Insomma, non si placava e non trovando più argomenti alla sua disperazione ripeteva a nastro “Racaille! Enculé! Fagnani!” stridendo un’ottava sopra a ogni anello talché entro dieci minuti la casa ne sarebbe esplosa. Le Mec e Le Truc si guardarono un po’ preoccupati ma a nessuno dei due venne in mente di incollarsi le gambe al culo e andarlo a comprare, il percale! Flora, indeciso fino all’ultimo se disturbare la tragedia in atto o darsela a gambe ché già di problemi suoi ne aveva, aveva optato coraggioso per la prima opzione e si era reso, mite agnello, al cospetto della vecchiaccia i cui capelli liberati dal fazzoletto sibilavano come vipere. La vista dell’amico aumentò in un sol colpo di 3/8 lo stridio della voce che dava corpo a tutta la sua disperazione e il ragguaglio a Flora, appena arrivato, di quanto si era certamente perso. È un fatto che il capriccio investe gli estremi di una vita, all’inizio e alla fine, rifletteva Flora, e l’oggetto di consolazione che spazza tutto il male è sempre cosa banale. Solo che Flora di quei sibili che aveva inteso non aveva percepito neanche una parola e il pacchettino sigillato di percale che aveva comprato per strada, un petit cadeau, glielo porse affinché un poco la vecchia si distraesse senza pensare che era proprio quello l’oggetto in questione. La vecchia glielo strappò di mano con un gesto quasi villano e solo dopo che tremando si era arrotolata una cartina che sembrava un tronco di cono e se l’accese ringraziò il giovane, ammirata da tanta perspicacia. «Allumate una clope anche voi, mon ami… la vita è bella… fumiamo!» invitò la vecchiaccia che si stringeva il pacchettino di Flora come a volerne trarre la forza di vivere al solo averlo lì. Flora strizzò l’occhio a Le Mec e Le Truc e si sedette sulla sua poltrona di
damasco verde con estrema delicatezza che non impedì però lo squittio di dolore di Gaspard. I due fratelli, in piedi, si scossero dal babà in cui erano immersi e iniziarono a girare a destra e sinistra senza sapere esattamente cosa fare. Appena videro che la vecchia, per rilassarsi, si era slacciata la dentiera, si precipitarono alla poltrona e per poco non la ribaltarono. Ormai tranquillizzata, la vecchiaccia articolò una risata nuda che non incontrando l’attrito dei denti venne fuori come un gorgoglio d’acqua del cesso. Poi commentò a uso di Flora: «Io li amo molto i miei nipoti… sono sprovveduti, bien sûr, e… è ora che pensi al loro futuro, n’est pas?» concluse guardando dritto negli occhi Flora per cercarne una saggia approvazione. Flora sbiancò violentemente. Lui era ben lì per rubarglielo, il futuro!
13
Tony e Giona se la suonavano e cantavano da quei guasconi che erano, sotto casa Paraponzi, seduti a gambe larghe come monelli sul marciapiede gelato. Giona aveva l’agio di stendersele, le gambette, mentre Tony aveva un po’ di difficoltà con la panza che gli saliva in bocca e gli toglieva il respiro; ognuno tirava la serenata all’altro di quanto erano in gamba a fargliela sotto il naso, a Torello e alla Giolla Unita, e pure se i maxischermi così come cadevano li rimettevano su, che ci fa? È il pensiero che conta. Anna Calacchi mal sopportava lo spettacolino giornaliero e affacciata al balcone li minacciò che se non l’avessero fatta finita gli avrebbe tirato addosso una bella secchiata di acqua gelata e gli stornelli se li sarebbero cantati con la papalina calata in testa e la polmonite sull’ON. Non era tanto il cameratismo tra i due a infastidirla, il suo rapporto con Giona era di ferrea amicizia e complicità, quanto la percezione che l’uomo fino a un certo punto è conservatore, quasi un vigliacco, e poi, quando trova uno spiraglio qualunque, diventa direttamente incosciente e alla fine tocca pure piangerlo.
Giona, capita l’antifona, congedò l’amico dando il solito appuntamento per l’indomani a fare fuochi d’artificio. Rimasto solo, risalì le scale un poco oppresso ché Anna Calacchi di sicuro si era tenuta il meglio per quando sarebbero stati soli. Infatti, la donna faceva finta di spignattare ma lo aspettava col mestolo in mano e prese proprio spunto da quello, ultimo sopravvissuto di una batteria di stoviglie invidiabili e adesso scomparse, tutte martiri delle esplosioni artigianali di Tony Dattoni. «Vado a prendere un pollo già fritto…» fece sottovoce Giona. «È da una settimana che mangiamo pollo fritto» corresse l’Anna. «Che facciamo allora?» chiese Giona che si arrese subito. «Giona? Che state combinando tu e quel fallito di amico tuo?» cambiò prospettiva la moglie, come si fosse già saziata di una cena immaginaria e col mestolo scacciasse le mosche dagli avanzi. «Non è un fallito… è mio amico…» provò a difenderlo Giona. «Va bene… è tuo amico ma state rischiando il culo, tu e lui» rispose con una certa delicatezza la donna. «Non preoccuparti delle pentole… le ricompro domani stesso… era solo così, per gioco…» si scusò Giona. «Stupido! Stupido! Stupido! Lascia perdere le pentole ché è capace che ti mandano a morte, tu e la tua fissa di mangiare… non è quello, stupido! Si stancheranno un giorno, si stancheranno presto e… a me non ci pensi? Tu vuoi fare l’eroe ma il guaio è di chi resta, una volta che non ci sarai più. Lo capisci questo?» disse l’Anna indicando il mestolo. «Anna… io… lo faccio anche per te…» rispose Giona intimidito ma senza nessuna intenzione di giustificarsi. «Sta’ zitto, Giona. Non dire niente. Vuoi fare qualcosa per me? Allora non fare niente!» rispose chiarissima Anna Calacchi che tirò sul marito una mestolata di acqua e sale che lo zittì, confuso. Giona non volle tirare delle conclusioni e
pensò solo che tra lui e la moglie correva una sola differenza: lui al peggio era pronto. E di saltare la cena non gliene fregava niente.
14
Anche Tony ha i suoi problemi e sulla strada di casa si ria mentalmente i protocolli dello scapolone che è, e dunque apre la porta, tira un rutto che nessuno gli rimprovera, si sfonda sul divano in attesa di qualcuno che lo incoraggi ad apparecchiare, mangiare, al limite anche cucinare o solo lavarsi le mani, e la casa invece lo ignora, con la solita aria gelida, indifferente alla sua stanchezza, alla sua fame, alla sua voglia di essere mandato affanculo anche per sbaglio. L’escalation da commerciante del fitness a bombarolo sopraffino non gli ha giovato e quelle quattro mura dispettose continuano a ignorarlo come sempre. Così, si scrolla dal divano dove molto tardi si sarebbe addormentato vestito e corre fuori di casa con la segreta speranza che nel gesto estremo si muovano a pietà gli stipiti o l’intonaco o gli infissi o anche il più modesto dei soprammobili, per esempio quel gattino di porcellana “ricordo della Granda” che gli manca solo la parola, come gli aveva rassicurato il commesso di cianfrusaglie quando Tony faceva il militare a Cugni. Ma pure quello se ne sta zitto e solo allora Tony capisce che non parlerà mai più e se lo avesse ripescato, il commesso, gli avrebbe messo una casseruola esplosiva sotto il culo. Ma quando lo avrebbe ritrovato? Nell’oasi felice di Cugni si accede solo con l’oro, troppo per le tasche di Tony. E di tutti. E poi: quanto poteva essere “felice” l’oasi di Cugni? In strada, a contatto con l’aria fredda, si sente un po’ meglio. Si mette a eggiare con la schiena diritta, la panza fuori e le mani allacciate dietro come il più disciplinato dei pensionati. Gli viene in mente una canzoncina dei tempi del militare e inizia a fischiettarla bassa, una specie di nenia triste e monocorde. La smette subito. Non sapendo cosa fare, inizia a prestare attenzione alle strade e alle case che una
sì e una no presentano ferite più o meno gravi da esplosioni. I maxischermi, al contrario, luccicano di metallo e plasma bianco, molti ancora col cellophane e la garanzia. Hanno ancora tanto da imparare lui e compare Giona talché due mesi di esplosioni li avevano resi anche più belli. Per ben tre volte fa il giro dell’isolato, finché si ferma davanti a un maxischermo che inquadra il porto abbandonato di Le Havre, oasi felice della Giolla Unita. Sul molo vede dei ratti abbeverarsi dall’acqua rugginosa dell’Oceano Atlantico, con gli occhietti guardinghi di brace. Così Tony si accende una sigaretta e fischietta, usando la cicca come una bacchetta che armonizza il placido ristoro di quelle bestie immonde. La partitura è stonata da un o irregolare che con una certa fretta sta attraversando lo schermo, da dietro. «Chi è là? Amici o nemici?» grida così secco che l’altro si congela sul posto. «Sei un topo?» chiede ancora Tony, reputando logico che doveva ben succedere che gli ectoplasmi dei maxischermi avrebbero presto invaso le oasi felici della Giolla Unita. «No…» risponde un po’ esitante quello. «Quindi sei uno schiavo pure tu! Di moglie ne hai?» rimbrotta Tony, quasi disinteressato. «No!» risponde secca la sagoma, più convinta. «Hai mangiato stasera?» continua Tony, adesso con cautela. «No!» risponde la sagoma, un po’ spazientita da quell’interrogatorio senza capo né coda. «Allora sei Tony Dattoni!» conclude euforico Tony Dattoni. «No!» risponde la sagoma che poi ha il lampo di genio e chiede a sua volta: «Ma tu chi sei?» «Tony Dattoni!» risponde Tony Dattoni, confermandolo battendosi il petto.
«Ah, però!» fa la sagoma. «Ciao, Tony. Sono Flora» risponde Flora. «La femminuccia?» vuole assicurarsi Tony. «Sì…» risponde Flora evitando le polemiche e scrivendo mentalmente il nome di Tony Dattoni sulla lista nera delle testate sul naso che un bel giorno si sarebbe tolto lo sfizio di restituire, quando l’adrenalina si sarebbe finalmente comprata nei negozi. «Ciao Flora!» si rilassa Tony. «Vieni a fumare con me. Non è serata da starsene in casa, questa…» aggiunge amabile. Così fa Flora, rigirandosi nelle tasche i lingottini d’oro da cento grammi che si era preso dal palazzo Gnutti Bella.
15
La postura elegante di Flora fa mettere Tony di o impettito come un granatiere. Tony cammina e sta zitto ché già mettere un piede davanti l’altro gli occupa il 98% delle facoltà intellettive e coi decimali tiene d’occhio Flora che gli si muove affianco, muto pure lui. Lo guarda e pensa che si fosse trovato lì compare Giona sarebbero state ironie anglosassoni per entrambi, alti e rigidi come soldatini di piombo. Anche Flora ha gli zuccheri in calo e la lancetta sul rosso: a girellarsi i due lingottini in tasca gli viene male solo a pensarci. Due ne aveva presi e un centinaio li aveva lasciati lì, nella tana di Gaspard, in quella poltrona verde damasco dove il suo culo traditore si era seduto per mesi ignaro di tutto. Erano di un giallo così lucente che sembravano appena usciti dalla striglia di Le Truc, compatti come stecche di cioccolato, di quelle che si vendono anche all’Esaurimento con il marchio della US Army, cimeli di un tempo ato. Un centinaio di lingotti da cento grammi l’uno. La dritta di Michela Gang Bang era giusta e anche di parecchio sottostimata!
Flora si a in rassegna i pensieri più disparati, ma l’infamia morale di quello che una volta si chiamava furto lo opprime più di tutti. Quando a sul piano emotivo poi, rivede la povera, stronzissima vecchiaccia che gli aveva offerto ospitalità e amicizia, derubata di… cosa? Del suo futuro? Non ne aveva di futuro. Quello dei due nipoti? Ma cosa sarebbe cambiato a fottersi badasse a Torello o a Parigi? I ricordi di un tempo ato? Non era la tipa da sentimentalismi, a lei importava solo del percale e della dentiera nettata. Però Flora sarebbe sparito una volta completato il travaso dell’oro, il furto insomma, e lei ne avrebbe di certo sofferto anche se aveva ben vissuto quasi cento anni senza di lui e presto se ne sarebbe fatta una ragione. Eppure c’è ancora qualcosa che gli brucia il petto e non riesce a individuare, come se l’oro fosse una graziosa insalata messa davanti all’affamato, un palliativo a una fame da lupo. Flora è ossessionato da quel Je veux dire… che se ne resta così, tronco e senza risposta, senza idee, senza che il cervelletto conceda una benché minima borsa di studio, e gli pare ben strano che quello che vuol dire si risolva con una chilata d’oro da riempirsi le tasche fino a sfondarle. Tony Dattoni si accorge dell’affanno di Flora e se ne tranquillizza. “Ognuno ha i problemi suoi”, pensa. Flora si accorge di stare ritornando esattamente da dove proveniva e, agitato, si ferma di botto poco prima il castelletto Gnutti Bella, presso quel portone annerito che non diceva più niente a nessuno, nemmeno a lui. Tony fa lo stesso, segretamente ringraziandolo. Ha solo un attimo di esitazione nello studio della postura da tenere, adesso che sono lì congelati; guarda di sottecchi Flora per ispirarsi, l’elegantone di certo ne ha una da copiare, ma quello si è calato le mani nelle tasche che affondano, col cavallo dei pantaloni che quasi gli mette in vista il culo nudo. Così fa anche Tony che, complice la montagna russa della panza, fa arrivare la cintola ben sotto l’inguine e aspetta. Flora si guarda a destra e sinistra, glissa sull’amico seminudo e, avvicinatosi al portone affumicato, gli chiede cosa ne pensa. Tony, così come si trova, fa due goffi i in avanti che quasi incespica; poi fa un po’ di luce con l’accendino giallastro; compiuta una breve ispezione se lo rimette in tasca. Dopo un istante di riflessione, si a un colpetto di spugna immaginaria, prima sulla fronte, poi sulla trippa e poi sull’inguine, accompagnati al “Sacro Nome di Questo, Codesto e Tale e della Gionta Unita che li rappresenta tutti.” Poi abbassa di nuovo gli
occhi e riprende una concentrazione attiva, mormorando qualcosa e tenendosi le mani intrecciate sulla panza, neanche si fosse allacciato da solo la camicia di forza. Tutto ciò pare ancora più assurdo del placido understatement di Le Truc e anche dei moniti di Michela che avevano riconosciuto la gionta ma in definitiva fregandosene o ignorandola, timorosi della terra bruciata che la Giolla Unita le ha fatto intorno. Flora allora, cauto, chiede a Tony cosa significano quei gesti e quello, a voce bassa e rispettosa, risponde anche lui, come tutti, che quella è, era, una gionta. «Ebbene?» cerca di provocarlo Flora. «Ebbene!» risponde canzonatorio Tony. «Che cosa vuoi sapere di più?» chiede a sua volta. «Perché, per esempio, parli così a bassa voce, tanto per cominciare…» inizia a elencare Flora. «Rispetto. Nel Sacro Nome di Questo, Codesto e Tale e della Gionta Unita che li rappresenta in terra» risponde secco Tony. «E che è la Gionta Unita?» chiede smarrito Flora. «Roba loro. Dunque devi portare rispetto» lo ammonisce Tony. «Ma rispetto di che?» si inviperisce Flora che pure tiene la voce bassa. «Loro non ci sono più! Io neanche me li ricordo, pensa un po’…» aggiunge, pure sotto di un’ottava. «Flora. Io ti rispetto. Però… ascoltami bene: ci sono due cose che non puoi cacciare via come un cane rognoso, le piattole dell’Hotel Gramsci e Questo. E che Questo mi perdoni. È roba tosta, le piattole, certo! Ma anche Questo. Più lo cacci via più lui se ne resta dov’è» spiega Tony a Flora. «È dispettoso…» cerca di smorzare Flora con una risatina isterica. «Esiste. E questo è tutto» lo zittisce Tony.
«Gli vuoi bene…» cerca di riguadagnar terreno Flora. «A tua madre le vuoi bene. A Questo lo puoi solo adorare» lo corregge Tony. Adorare. Eccone un’altra, di parola strana. Andava molto di moda all’Hotel Gramsci, dove si “adorava” la Annina Tutta Tana, o le Zingarelle in blocco; anche Michela era adorata. Persino Flora si era scoperto ad “adorare” Serena che glielo faceva venir duro coi suoi ormoni. E ora l’aveva perduta. E là, in quell’edificio semidistrutto c’è un’altra adorazione, perché Questo allora è ancora lì!, assente e presente, come Serena, e non si vedevano, né l’uno né l’altra. C’era solo da prendere la rincorsa e sfondarsi il cranio sul pesante portone. E poi ricominciare tutto da capo. Tony guarda Flora con una certa preoccupazione ché tende il collo come volesse svitarsi la testa. Gli chiede se, per caso, adesso ricorda qualcosa. Flora, commosso fino alle lacrime, gli parla allora di Serena, di quanto l’amava e di come fosse scomparsa. Tony ascolta e annuisce: «Qualcosa del genere, Flora. È profumo Questo, sì, di altra fattura, certo, ma è profumo. Come quello di fregna e baccalau della tua portinaia.» Anche Flora annuisce vergognoso. Nessuno dei due dice più parola sulla strada del ritorno, fino al congedo. Non hanno altro da aggiungere, tanto poco se ne sapeva di Questo.
16
Tony Dattoni aveva salutato Flora sulla soglia di casa con ancora quei cinquecento, seicento metri da sgambettarsi prima della sua, di casa. La ritrova così come l’aveva lasciata, con la luce dell’ingresso accesa che illumina poco e scalda niente, ché la casa dà l’impressione del gelo anche peggio della moglie in bigodini e matterello che ti aspetta a braccia aperte. Spegne la luce e ridiscende le scale due a due, usando la panza come timone per non
sbattere muso a terra, e senza fiato riguadagna l’aria fresca di Torello. Senza indugio svolta il primo angolo e si pesca un secondo mazzo di chiavi, quelle della palestra, dove non mette mai piede. Alza la serranda, che si apre con un rumore molesto, e si trova davanti i duecento metri quadrati di stanzone illuminati a giorno come un campo da tennis. Aveva dimenticato di spegnere le luci, pensa. Manubri, macchine da trazione, panche inclinate, spalliere svedesi, pertiche, cyclette, tapis roulant, bilancieri e dischi d’acciaio giacciono placidi e ordinati ai loro posti. Tony si stupisce di quell’armamentario che mai ha catturato la sua curiosità. Inizia a girare intorno il perimetro studiando con attenzione ogni singolo pezzo e mimando col corpo l’uso che le palline di Torello ne fanno tutti i giorni. Poi ne ha noia e prende a cercarsi un punto speciale, abbastanza lontano da quei macchinari, e lo trova nel centro esatto di quello stanzone che raggiunge in pochi e studiati i. Lì si mette in ginocchio e quelle gli scricchiolano come una verdura senza olio e troppo sale. Si rifà il gesto del cancelletto sulla fronte, la panza e l’inguine, assegnando a ciascuno i Nomi Benedetti di Questo, Codesto e Tale, e inizia una litania sempre uguale che dice solo: “Questo, ti voglio bene”. A intervalli regolari, Tony Dattoni la interrompe e ripete i gesti del cancelletto. E poi ricomincia. Così si fa l’alba che chiazza di bluastro le due vetrate che ha di fronte e solo allora, con un possente colpo di reni, si rialza con una naturalezza sospetta per uno che era stato più di cinque ore inginocchiato. Tony inizia a muoversi a spirale, guadagnando giro dopo giro la porta d’ingresso dove è già pronta la borsa con tanto di bomba preparata con casseruola, scolapasta e, dopo i dubbi di Giona sugli inneschi a timer, la vecchia miccia lunga e rossa. Spegne la luce e si avvia.
17
Giona Paraponzi aveva lasciato all’alba Anna Calacchi che ronfava con la bocca aperta e trenta gocce di valium per guanciale. Non c’era da preoccuparsi che si svegliasse, era una creatura del giorno che la notte ritornava la bambina che non era mai cresciuta, confortata da un marito solido e dai sonniferi. Giona si era vestito con calma e si era fatto pure un bel caffè, così denso che avrebbe risvegliato un morto ma non Anna Calacchi, con la bocca aperta e seccata dall’aria viziata della stanza da letto e dal valium. Ora è in strada e si palleggia da marciapiede a marciapiede, un po’ per gioco un po’ per scaldarsi dalla mattinata fredda. Svolta l’ultimo angolo e scorge Tony che fuma tranquillo la sua eterna sigaretta. Rimbalzando, Giona gli si appressa senza dire una parola. Prendono la figura della fila indiana e si muovono verso il maxischermo convenuto. «Stanotte ho visto Flora» esordisce d’un tratto Tony senza essere interrogato. «La femminuccia?» capisce al volo Giona. «Lui. Non è un cattivo ragazzo» smorza Tony. «E chi lo nega?» si discolpa Giona. «Sei solo geloso. Ecco il tuo problema» rincara Tony. «Ci puoi scommettere la sacra panza, ci puoi…» fa Giona già impermalito. «… io a quella la amo per davvero e invece se ne sta col signorino Stocazzo, vedi un po’ te se non devo essere geloso…» conclude. «Anche lui ama e non è amato. Non è colpa di nessuno» informa Tony, a capo della fila. «Ah, no? Beh, cazzi suoi… e io che devo dire? Torno a casa e l’Anna mi scassa la minchia… almeno lui ci trova quella sventola… mal che va ce n’è sempre da tirarsi una sega, no?» chiede ammiccante Giona. «Non lo so, ma non credo. Anche tu poi, parli parli ma alla fine non sei un cattivo soggetto» risponde serafico Tony.
«Mi debbo preoccupare? Scusami eh… ma fino a ieri eri un bravo ragazzo pure tu ma anche un poco coglione… oggi invece… è successo qualcosa?» vuole informarsi Giona, per davvero un po’ inquieto. «Questo, Codesto e Tale» fa a bassa voce Tony e si dà i colpi di cancelletto. «Cosa?» prova a farsi spiegare Giona. «Niente. Stanchezza. Finito tutto me ne torno a letto» spiega tranquillo Tony. «Ci siamo allora. Aspetta qua, dato che sei stanco. Faccio una ricognizione anche se a quest’ora tutti dormono, ma non per tanto…» dice Giona con una risatina di gola «…sentirai che botto, cadranno tutti dal letto.» Giona si rimbalza nello spazio circostante, le mani unite dietro la schiena per darsi forma e aerodinamica e i piedini che muovono tanti piccoli i così veloci che sembrano non toccare terra. Soddisfatto, ritorna ai piedi del maxischermo che trasmette un’alba salentina con le donnine in spiaggia a giocare alla palla rossa, coi gonnellini così corti che basta un soffio da Torello per vedervi la trama e l’ordito. Tony si prepara ad accendere la miccia e invita Giona a incamminarsi, lui sarebbe rimasto qualche secondo a sorvegliarla. Giona annuisce e rimbalza di sguincio verso il marciapiede opposto. Lì si ferma in attesa che lo raggiunga il compare che con il suo accendino giallastro produce scintille ma non fuoco. Giona decide di fregarsene, lui con gli accendini ha già dato, si arrangi compare Tony! Tony si ferma saggiamente qualche secondo per dare requie al suo accendino che scotta e al suo pollice grattugiato dalla rotella. Poi inspira forte e dà un colpo netto e doloroso che innesca scintilla e fiamma. Questa, invece di sonnecchiare accidiosa e muoversi di moto rettilineo uniforme, corre velocissima a zigo zago stracciando in un paio di secondi il record mondiale della corsa del fuoco e, tra fiamma e boom, Tony non ha neanche il tempo di mettersi in piedi. L’esplosione ha bruciacchiato un paio di quelle gonnelle salentine che continuano incuranti il gioco della palla. Tony Dattoni è invece scaraventato di una ventina di metri e, sempre
inginocchiato, atterra a centro strada. Giona per tre volte si appresta a lanciarsi verso l’amico ma la vista di tutto quel sangue lo ripugna così tanto che obbedisce all’impulso opposto: correre via come una palla magica impazzita. Poi ritorna sui suoi i, in colpa. Quindi inspira forte l’aria di Torello e chiama col cellulare la barella con la voce più atona che può. ettino alla volta, trova anche il coraggio di avvicinarsi a quel corpo che sussulta. Da lontano Giona può sentire la corsa sfrenata dei barellieri che svoltato l’angolo rilasciano due centimetri buoni di suola sull’asfalto. Tony ha una sorta di spasmo violento, sembra voglia rialzarsi per non dare troppo incomodo ai portantini. Quelli lo guardano intristiti e aspettano pazienti che Tony ricada a terra, finalmente morto. Giona allora scoppia in un pianto ululante. Si accosta al cadavere dell’amico per chiudergli gli occhi che vede sereni e belli. Così glieli lascia aperti. Poi ritrova da chissà dove una formula antica che lo strabilia nel mentre se la ripete sottovoce: «Riposa in pace.»
18
Giona Paraponzi si precipita meglio che può a casa prima del risveglio di Anna Calacchi, e a tuffarsi nel letto come mai vi si fosse estirpato. Grande è lo sconforto quando Anna Calacchi, in piedi e un po’ sversa, è il primo oggetto che vede aprendo la porta. Giona la richiude con un gesto studiato e per un attimo escogita d’inventarsi che è lì da un pezzo per calibrarne i battenti che la fanno effettivamente cigolare. Recede dall’intenzione quando il calore viziato della casa lo investe, lui intirizzito della bruma di Torello. Anna lo guarda interrogativa ma, un po’ per il sonno un po’ per il valium, non si è ancora fatto un quadro più preciso. Giona approfitta dell’indecisione per dirigersi in cucina e acclimatarsi; chissà, magari potrebbe giurare che anche lui si è appena alzato dal letto.
Anna lo segue meccanicamente e mette mano all’unica caffettiera rimasta, quella da party che mai è stata usata, mentre tutte le taglie più piccole del corredo sono sparite insieme al resto delle stoviglie. Giona valuta positivamente l’azione ed entra nella parte del risveglio lento, in attesa del caffè; prova pure a stirarsi e dà un paio di sbadigli sforzati che gli fanno uscire dalla bocca nuvole di bruma. Anna continua serafica le sue microazioni: alzare la fiamma, abbassarla, spegnerla, far tintinnare i cucchiaini, dosare lo zucchero, tagliare una generosa porzione di ciambellone, mettergliela davanti il muso, da perfetta regina del giorno solo un po’ rintronata dal valium. Giona osserva tristemente il ciambellone secco e, addentatolo, lotta con una salva di singhiozzi strozzati che gli salgono spontanei dal petto e che non smuovono di un ette lo sguardo semi di Anna. Allora Giona rompe il ritegno e adesso piange disperato fino all’ultima lacrima e solo quando le finisce si dispone a raccontare tutto. Anna ascolta con sospetta pazienza e solo ogni tanto le si chiudono gli occhi che riapre prontamente. Ritira le tazzine svuotate e poi dice solo, serafica: «Ti è andata bene. Adesso mangia il ciambellone prima che diventi pietra.» Nulla più. Poi, il buio.
19
Giona si ridesta di scatto. Si trova nel letto, su cui si era posato non si ricorda quando e come; angosciato, caccia un urlo disperato che fa eco nella camera da letto sigillata e buia come un sarcofago. Dalla cucina, Anna sente solo un timido gorgoglio e corre a liberare il marito dai sigilli. Apre la porta, poi gli scuri e la finestra e alla fine lo invita a bersi un’altra damigiana di caffè. «Si può bere solo così, a damigiane, le caffettiere intermedie sono sparite» aggiunge senza un’ombra di rimprovero.
Giona si ricompone e si dirige a testa bassa in cucina, sforzandosi di non pensare all’amico morto che sua moglie ha cancellato dall’hard disk. Si sente più tranquillo adesso e beve il suo caffè col ciambellone che scofana come l’ultima occasione per riempirsi lo stomaco. Queste manifestazioni feroci di vita tranquillizzano la donna che annuncia una breve uscita a far spese ché, dato il carico di emozioni accumulate, ci vuole proprio una bella collana di stronzi di caramolla per riequilibrare i sentimenti. Giona annuisce, ingozzato di ciambellone che unito alla saliva gli è diventato in bocca un topo di polvere. Anna è già uscita e dopo due tazze di caffè Giona riesce a deglutire soddisfatto. Si alza in piedi e si sgranchisce l’ossatura con quell’esercizio che gli piace tanto, imbracarsi alla poltrona e portarsi le braccia sul petto fino a diventare pallina. Dopo che lo ha fatto per cinque volte consecutive, si rimette in piedi e si accosta allo specchio. Si fissa molto a lungo ripetendosi che davvero è stato molto fortunato e che, quanto a Tony Dattoni, che sfiga! Gli dispiace tanto, ma non ha nulla da rimproverarsi. L’autoassoluzione sta procedendo bene ma è presto interrotta dal suono del citofono cui va a rispondere pimpante, certo che sia l’Anna già di ritorno. Non è Anna, è l’ometto delle notifiche che gliene consegna una con su scritto solo “urgente” e un luogo, la Beni Vizi e Servizi, e un’ora, le 18.00 di quel giorno. Giona è preso dal panico ma è abbastanza attore da nascondere ansia e notifica all’Anna, che ritorna pochi minuti dopo con le collane di caramolla che mangiano al sangue senza una parola di commento. All’ennesima damigiana di caffè, Giona declina e si schiaffeggia gli addominali, annunciando che preferisce farsi una eggiata. Lascia un certo biglietto modello “perdonami” e la Tessera personale coi pochi e gloriosi punti del “mezzo eroe” di Torello sotto il guanciale della moglie e finalmente esce di casa. Giona non rimbalza, incespica da un marciapiede all’altro. Fa una sosta in tabaccheria dove compra accendini per due punti-tessera che non può pagare, la Tessera è sotto il guanciale dell’Anna, ma non si preoccupi Giona, avrebbe pagato poi, glissa elegantemente l’omino. “Poi, certo, ma quando?” si chiede intontito Giona, ma li prende lo stesso e occupa il tempo del cammino a testarli uno per uno casomai non funzionino. Se li mette infine nella tasca destra del
giubbotto di pelle mentre nella sinistra soffre in silenzio la cuccuma più piccola, da una misera tazza, imbottita d’esplosivo e legata attraverso uno squarcio della fodera a quella da due tazze che è legata a sua volta a quella da tre, quattro e cinque e sei, unite come tanti elefanti per la coda. È l’ultimo capolavoro della buonanima di Tony Dattoni che, diceva, in un luogo al chiuso avrebbe fatto un boom serio e affermativo.
20
Michele Gerbero si sta facendo bello coi sodali dell’ottima riuscita dell’operazione “otto per mille”. Dal suo terminale sfreccia una serie lunghissima di nomi e cognomi che l’avevano sottoscritta, circa 230.000 sul totale dei 700.000 abitanti maggiorenni di Torello: un bel successo. Michele Anpichisi apre e chiude gli occhi per esprimere la meraviglia usando la mano a mo’ di sipario. Michele Sciarabbai si complimenta con l’allievo e reputa felicemente conclusa l’operazione che Gerbero ha orchestrato con maestria. Michela Gang Bang partecipa all’euforia meglio che può e si unisce a un lungo applauso corale. Sciarabbai recupera un millesimato da un cestello col ghiaccio fresco e riempie i quattro calici fino all’orlo, augurando un futuro radioso e soprattutto foriero di pace. Quando suona l’interfono, si sta giusto forbendo i baffetti sale e pepe e con grazia chiede alla portinaia racchia i soliti due minuti prima di far entrare Giona Paraponzi. Giona deve dunque attendere in compagnia della racchia, brutta come non mai. Per ingannare il tempo, si a in rassegna gli accendini una seconda volta e quelli, nuovamente, rispondono tutti di sì. L’arpia lo rimbrotta, lì dentro non si può fumare, strilla. Giona la tranquillizza, è troppo racchia per morire con lui, “mezzo eroe” di Torello, ma quella non capisce né chiede ripetizioni. Intanto, arriva il via libera nella stanza del comando.
Giona inspira forte l’aria racchia e viziata della portineria e va a bussare delicatamente alla porta, tenendosi la mano destra in tasca pronta con accendino e miccia bagnata di gas. Infine l’apre. Il millesimato, agitato per benino, lo investe in faccia come una doccia gelata e Michele Gerbero glielo a su tutto il corpo, ridendo. Gli altri scoccano un applauso convinto, tranne Michela Gang Bang che, vergognosa, si è un po’ defilata dal nuovo teatrino. «“Eroe”!» esordisce Sciarabbai, subito echeggiato dai compari. Gerbero gli porge un flûte che Giona non sa da dove afferrare, dal gambo o dalla base o dalla coppa e si risolve a usare entrambe le mani, come fossero pinzette, ringraziando un po’ confuso. Liberatane una, si tasta miccia e accendini che gli sembrano asciutti così come gli è sembrato che l’abbiano accolto con l’appellativo di “eroe”, senza decimali. «Come ci si sente da eroi?» ribadisce infervorato Sciarabbai che cancella ogni dubbio. «Eroe di che?» chiede in tutta onestà Giona, paventando una coglionatura. «Hai sventato un attentato lo sai? Tony Dattoni era il bombarolo dei maxischermi! E adesso è morto. Sei un eroe, sì!» lo ragguaglia Sciarabbai. «Io non ho fatto niente!» si difende Giona, il che è quasi vero. «Torello ti deve molto, invece; e anche la Giolla Unita e la Pace! Una foto per il nostro internet, presto!» elenca Sciarabbai in escalation. «Io…» sta per controbattere Giona quando, mezzo accecato dal flash di Gerbero, si accorge di Michela Gang Bang che gli sorride francamente. «Ciao Giona…» fa con un sorriso timido ma professionale. «…sono cinque grammi di oro. Senza di te quel terrorista sarebbe ancora vivo e all’opera e… mi fa piacere vederti, sai? Era da un po’…» aggiunge, un po’ meno professionale. «Tu…» riesce solo a dire Giona prima che l’emozione lo metta seduto, e sedia non ce n’è e così cade malamente a terra.
«Soccorriamo il nostro eroe!» reagisce con spirito Sciarabbai che svolta dalla scrivania a prestare soccorso pronto, ma quello si è già rialzato e si tasta accendini e cuccume, intatte e pronte all’uso ma non sapendo più cosa fare. «È questa la Giolla Unita, Giona!» scoppia con un pay off nuovo di zecca Sciarabbai. «Amicizia! Soccorso Pronto! Galanteria! Champagne! Oro! Le oasi felici e un’amica ritrovata! Cosa vuoi di più?» gli fa paterno e un po’ ammonitore, accarezzandogli la collottola e cantandogli nell’orecchio: «Heaven, Heaven is a place, a place where nothing, nothing ever happens!» Michela Gang Bang guarda Giona benigna e vuoi quello, vuoi l’emozione di rivederla, vuoi la sicurezza che non è stato convocato per fargli la festa ma festeggiarlo per davvero, Giona scoppia in un pianto commosso e pronto a una nuova vita, e non la finisce più di dire grazie, grazie, grazie… Sciarabbai continua a lisciarselo paterno e Gerbero gli riempie il flûte vuoto, crepato dalla caduta. Giona ha imparato ad afferrarlo e a millesimare il liquido in gola comme il faut. Torello gli ritorna di colpo un’oasi dalle mille possibilità e degna di essere vissuta e vaffanculo a tutti. Si scusa di essere sprovvisto della Tessera, dimenticata a casa, e nel dirlo si ricorda che a quel punto dei suoi piani lui doveva già essere morto mentre l’Anna si stava leggendo il suo bigliettino d’addio grattandosi la testa. Quelli lo rassicurano, tornasse quando voleva! Quella ormai è casa sua e, anzi, è ora che vadano via tutti, la giornata è finita, confermano anche alla portinaia racchia che ha chiamato precisa come un carro da morto. Giona è portato all’aria aperta, alticcio ed emozionato. Michela si trattiene qualche minuto dentro per astenersi da quel teatrino improvvisato e patetico. Da soli in strada, Sciarabbai e Gerbero si scolano le ultime gocce del millesimato mentre osservano Giona che corre veloce verso casa. Gerbero guarda Sciarabbai dritto negli occhi. «Questa è fatta, ragazzo. Ma era semplice. Ora tocca a Nino Flora. Cosa fa di bello?» s’informa Sciarabbai. «Niente. Flora va così, non ricorda niente, non compie mai azioni irreversibili, se ne sta lì senza decidere» sintetizza Gerbero. «Non lecide nulla» rincara.
«Basta trovargli lo stimolo giusto. Cherchez la femme, mon ami, ma quella giusta!» comanda Sciarabbai. «Sarà facile, maestro» annuisce Gerbero. E si attacca al telefono.
Capitolo 4 Sà sà Serenella
Dove si fa l’amore
1
«Che vergogna, sono morto…» Non ci aveva pensato due volte e quando la strada gli si era parata davanti con un tappeto rosso che copriva l’asfalto aveva preso per bene le misure e ci aveva camminato sopra come una erella; a metà del breve percorso il piede davanti se ne era sceso giù e quello dietro lo aveva seguito di malavoglia, di tallone, che ne fu tutto scorticato. Flora adesso per guardare la strada doveva alzare la testa e, cosa che lo fece vergognare molto, dovette chiedere aiuto ché i piedi gli dolevano e sanguinavano. Pur sotto di parecchie ottave, in capo a due minuti si era già formato un discreto capannello che molto se la rideva di quel ragazzo caduto in un vecchio tombino asciutto come il deserto. Così, quattro omaccioni con la benda nera del Contenimento rinvennero Nino Flora e lo travasarono, tutto sommato in buona salute, a companatico tra l’asfalto e la folla dei curiosoni che guardavano avidi e un po’ delusi le modeste feritine qua e là sui pantaloni stracciati. Quando arrivò la barella, quasi svogliata, gli fu dato un modestissimo codice 1, così che Flora avesse pure a pagarsi le spese con la sua Tessera. Flora l’attese in piedi mentre suggeva insoddisfatto la sua sigarettina senza nicotina che dovette buttare a metà perché sulla barella non si poteva fumare. Era già ata una settimana dalla morte di Tony Dattoni.
2
La velocità da crociera dei barellieri permise a Flora di riconoscere e ammirare la zona Liberty di Torello dove vivacchiava il Soccorso Pronto di cui era già stato ospite insieme a Michela Gang Bang. Ciò lo mise tranquillo e si sollevò sulle spalle per meglio ammirare quell’architettura sinusoide e scostumata, esageratamente bella, inutile quasi, come una tigre o come il corpo della sua Michela, cullato dall’andamento lento dei portantini. Si ritrovò così in una stanza nuova che poteva essere stata la biblioteca privata dell’antico pater familias, alta almeno sei metri e con le finestre ad arco così ampie che ci sarebbe entrato anche un elefante volando. Flora aveva rifiutato con un educato ticchettio dell’indice l’aiuto del portantino e si era diretto coi suoi piedi verso l’accettazione, dove un paio di paramedici stavano unendo i puntini sul monitor del PC e già si intravedeva la faccia molle di Tony Dattoni, ancora per poco Talk of the Town. Flora aveva indugiato dietro il vetro e non aveva osato aprir bocca prima che i puntini fossero stati tutti relazionati tra loro, come quando si compone una salma. Solo allora aveva ritenuto di poterli distrarre coi casi suoi da codice 1. Avevano scalato tutti insieme gli enormi gradini di marmo rossastro fino a quel secondo piano dove Flora aveva ritrovato infine la stanza e un pigiamino leggero da infilarsi. Adesso era solo, col letto che crocchiava di pulito e la porticina del bagnetto aperta che lo invitava a una doccia ristoratrice che non rifiutò. L’acqua era calda e il getto potente e bilanciato; dopo qualche secondo Flora si scoprì a cantare a squarciagola il vibrato di una vecchia cantante che aveva fatto addirittura la televisione.
Ma no che la vita non è qui è più in alto di così
ah, cosa dici, sì ma no, di ato non ne hai di futuro non ne vuoi ma di che mondo sei?
Lì, in quella palazzina Liberty che evocava la morte, che era come dire che di futuro effettivamente non ce n’era. Nella Giolla Unita, inoltre, non c’era neanche il ato e Flora ci ricamava con la melodia. Lavato e rinfrescato, si mise a piegare i suoi stracci stazzonati e non senza sconcerto tastò nelle tasche dei pantaloni i due lingottini che aveva sottratto alla povera contessa Gnutti Bella. Palleggiandoseli in mano, pensò che se fosse stato un lupo di pietra se li sarebbe ingoiati con gusto; ma era di carne, purtroppo, quella stessa carne che dopo il momentaneo refrigerio della doccia tornava a dolere e in alcuni punti a sanguinare dolcemente. Così, si rinchiuse nell’accappatoio di spessa spugna e si buttò sul letto poggiandosi l’oro sotto il culo e attendendo gli eventi. Dopo dieci minuti buoni non si era visto nessuno né era successo niente. La luce delle finestre ad arco era così forte ché il sole, entrandovi con uno o due dei suoi raggi più intraprendenti, lo aveva asciuttato, lui, le ferite e pure l’accappatoio. Flora si svestì e si infilò svelto mutande e pigiamino, parcheggiando entro le molle delle prime i due lingottini apolidi. arono altri dieci minuti e non un o, un respiro, un sospiro. Flora fu preso dall’ansia. Poi la tensione si sciolse e si addormentò di sasso tenendosi ben strette le mani sulle palle. Non si ricordava quanto avesse dormito, di certo pochi minuti ché il raggio di sole che gli insisteva sul ginocchio non si era spostato di un millimetro e adesso
un po’ gli bruciava; ma non era stato quello a svegliarlo. Bensì un odore, qualcosa di familiare ma ancora più intimo, un canto di sirene che aveva preso decisamente la strada delle sue froge. Flora si alzò, si mise ai piedi le pattine bianche e basse, immacolate di spugna e, circospetto più di quanto avesse voluto a causa delle scarpine silenziate, uscì dalla stanza guidato dal suo naso. Così ritrovò Serena.
3
La stanza dove alloggiava Serena era perfettamente uguale a quella di Flora, con le volte a stella e tutto il resto. Solo, era meglio attrezzata, sembrava quasi casa sua con un paio di armadi a cappello di gendarme e un vezzoso comodino nano rosa cocò che, al solo pensarne il contenuto, Flora se ne veniva meno. Serena sembrava in gran forma e aveva riempito quella stanza del suo languore e dei suoi formidabili feromoni al gusto di fregna e baccalau che solo Flora sembrava in grado di percepire, ché altrimenti dietro la porta ci sarebbe stata la fila. Era in forma come Flora l’aveva conosciuta, ligia ai protocolli, iva, discretamente pigliaculo col suo leggero strabismo e il suo nasino lungo e diritto, comoda e salvaspazio con il suo fisichino di rondinella pin-up. Era in forma ma lì ci era arrivata d’urgenza e con codice 4, svenuta e con i barellieri che si fecero tutta quella strada ai duecento l’ora e che per la fretta si erano portati via il pesante cancello di ferro del Soccorso Pronto, per fortuna semiaperto. Li aveva chiamati d’urgenza Michele Sciarabbai, che era stato capace di urlare al telefono che lui era Michele Sciarabbai, mica un piciu qualsiasi! Ma di cosa volesse, Michele Sciarabbai non era stato abbastanza chiaro e solo dopo tanta pazienza della centralinista che con una mano teneva la cornetta e con l’altra ricalcava i puntini di qualche attore bonazzo dei tempi del cinema, riuscì a spiegare che una ragazza, “onesta lavoratrice”, si affrettò a chiarire Sciarabbai, e lui sapeva di cosa stava parlando perché era il capo della
Beni Vizi e Servizi e quindi anche di Torello e quindi anche suo, della centralinista voleva dire! era schiantata al suolo senza dire né “a” né “ba” con un flûte (“che?” “bicchiere!” “Ah!”) di millesimato (“Cosa?” “Sciampagna, cazzo!” “Eh!”) che si era stretta eroicamente al petto, tutta svenuta che era, per non macchiare il pavimento, proprio il giorno del suo compleanno. Ma tanto eroismo non era servito alla moquette che si era intrisa di una spessa macchia di sangue, lo scandalo di quel liquido rosso che né Torello né l’intera Giolla Unita avrebbero mai imparato a sopportare. L’aveva convocata attraverso l’interfono, Sciarabbai, e aperta la porta era stato un muro contro muro tra i suoi formidabili feromoni e il botto della sciampagna che le era gorgogliato fin in petto. In un niente si era ritrovata Sciarabbai, Gerbero e Anpichisi con il loro corredo di teatrino, coriandoli, applausi e cento di questi giorni. Non ne aveva bevuta neanche una goccia di quel millesimato, ed era l’ultima cosa che Serena si ricordava. «Mi hanno sostituito in portineria?» volle informarsi, con le gambe stese sul letto mentre Flora occupava a culo stretto l’angolino più lontano. «Ti ho molto cercata…» uscì detto a lui, tagliando tutti i dettagli. «Tu non rispondi mai, Flora. Ma la tua timidezza è impressa nella storia del mio cuore» rispose lei che, libera dal lavoro, si era fatta una discreta cultura laterale.
4
Serena e Flora se ne stettero dieci minuti buoni in silenzio, trovando nulla da aggiungere e rinunciando al momento a lenire le lacerazioni delle mezze mele prima separate e adesso ritrovate e che avrebbero fatto sidro invece di scintille: il Soccorso Pronto era un luogo bello sì, ma pubblico e per quelle cose, nella Giolla Unita, c’era l’Hotel Gramsci; il cerusico, poi, era una minaccia costante e sarebbe entrato da sgherro, spalancando la porta e cogliendoli sul fatto. Rimasero così, Serena a gambe stese e sguardo all’aria e Flora nel suo angolino a misurarsi mentalmente le dimensioni della finestra e convertendo i metri quadrati in cubiti, pollici e bit. Tale oziosa operazione non risultò del tutto vana
ché, guardandola meglio, Flora si accorse essere non una finestra ma una porta che dava su un balcone di pietra massiccia, ampio e soleggiato. Flora vi si appressò senza scollarvi gli occhi, semmai gli fosse scomparso in un “pouf” come un’allucinazione, lo aprì con qualche sforzo e ne occupò il centro mettendosi le mani sui fianchi e girando la testa a destra e a sinistra come a commiserare una folla ai suoi piedi. «Je veux dire…» borbottava tra sé e sé, ma nulla gli veniva fuori. Poi finalmente entrò il cerusico che, comunque, aveva prima bussato discretamente alla porta. Si trattava di un uomo timido e occhialuto, cerusico figlio di un antico medico, come le regole della Giolla Unita avevano disposto fin dalla sua fondazione per i lavori-corvée. Era stato avviato alla professione dopo un biennio formativo, nel quale aveva acquisito le competenze di un vecchio infermiere professionale, buono a pungerti il culo, spararti due punti, rimettere in asse un osso, prenderti la temperatura e firmarti un certificato di decesso quando era l’ora e l’ora, salvo gli incidenti da bomba, scoccava ormai intorno ai cento anni. Tutto ciò per cinque grammi d’oro l’anno, una miseria certo, ma di lavoro non ci si ammazzava, nella Giolla Unita. Il cerusico scorse Flora fuori del balcone e lo salutò timidamente ché tra i due correvano a occhio venti centimetri di altezza e il taglio a V del pigiamino aveva messo in evidenza il collo di Flora, così lungo da sembrare il piedistallo al suo cervello mentre il dottorino era alla moda, corto e senza collo, e infatti con tutta la scienza millantata del biennio formativo non sapeva che pesci pigliare. Osservò di sbieco Serena che non gli procurava nessuna reazione; le tastò distrattamente il polso e pose due dita sulla giugulare per avere conferma che fosse ancora scientificamente viva. Poi la guardò di sfuggita negli occhi viola e lo strabismo parve ipnotizzarlo ché vi indugiò un secondo di troppo e poi mosse pure il polpastrello dell’indice verso quello storto, il destro, e ne esaminò la trippa e il grasso dotto lacrimale. Poi iniziò a annuire tra sé e sé ando in rassegna quel corpo minuto che non pareva coinvolgerlo più di un brufolo. «Boh!» sintetizzò il cerusico alla fine dell’ispezione. «Per quanto ne so, lei sta bene e può finalmente tornarsene a casa…» concluse con franchezza. «Cosa ho?» chiese quasi con curiosità la ragazza.
«E chi lo sa? Io adesso me lo scrivo, il suo incidente e tutto quanto… più che osservarla per sessanta giorni non posso… dovessi mai scoprire qualcosa la farò chiamare» rispose quello professionale, segnandosi effettivamente un appunto. «Non mi era mai successo prima…» aggiunse Serena per rimpinguare il dossier. «E in questi due mesi è successo due volte, sempre con la stessa frequenza, tre giorni e poi basta, eppure siete viva!» si lanciò sull’onda del brain storming il dottorino. «E questo è un bene, sono fiducioso! Mangi tante caramolle, sostituiranno il sangue perso!» consigliò. «Ma il sangue non dovrebbe starsene dentro la pelle?» cercò di tirare per le lunghe Serena, un po’ delusa. «Le risponderei di sì… Mi spiace, quello che era possibile l’abbiamo fatto, l’osservazione è finita. Il Soccorso Pronto è per le malattie che conosciamo, le bombe insomma. Quelle che non conosciamo non sono neanche malattie, a rigore. Le tocca…» confermò lui. «E io?» s’intromise Flora, rientrando dal balcone. «Lei… chi l’ammazza a lei?» rispose con inaspettata ironia il cerusico. «Ne fa di incidenti, vedo dalla sua scheda… ma tutti poca roba, alla fine lei è un fortunello… faccia un po’ vedere…» gli ordinò avvicinandosi alla luce del balcone e ando in rassegna i modesti taglietti sulle gambe, già rimarginati. «Non ho visto la buca… c’era un tappeto sopra!» protestò Flora. «Mi spiace…» concluse serafico quello. «…questo è il Soccorso Pronto, è per i malati non per i distratti!» si giustificò coprendosi la bocca per non ridergli in faccia.
5
Il contatto di Serena con l’aria fresca di Torello le diede una vertigine così profonda che la ragazza saltò al collo di Flora a peso morto e aprì la lingua che
entrò nella bocca del ragazzo come una colata tiepida di crema pasticcera. Durò pochi secondi, poi Flora dovette trovare una specie di equilibrio per non cascare abbracciati e a gambe all’aria. Ma pochi secondi dopo Flora aveva già nostalgia di quel bacio e si fermò di nuovo. Lì, da soli in mezzo a un viale alberato e larghissimo, contornato da bagolari che si perdevano, carichi di rami e di foglie, fin verso la collina e ossequiati dalle facciate a ghirigori Liberty, linde, mai intaccate dalle schegge delle bombe, se ne restarono incollati per un lungo periodo. Serena si prese un po’ di energia vitale da Flora che la perse del tutto e badò solo a tenersi piantato sull’asfalto. La vita non sembrava poi così malvagia. Quando ripresero a camminare, furono invasi da una certa tristezza, ognuno pensando che li aveva salutati per sempre un momento di grazia, uno di quei pochi che una vita intera decide di regalarti. Flora camminava un o indietro e si sentiva allo stesso tempo protetto e protettore. L’alberatura iniziava a rarefarsi e dopo un paio di chilometri si aprì la voragine di un crocicchio coi suoi bei maxischermi allineati. Nonostante l’altissima definizione del plasma, erano completamente solarizzati e invece di sparare immagini dalle oasi felici della Giolla Unita sembravano suggerle da quell’orrendo scorcio di Torello di cui erano diventate specchio. Superato che ebbero l’incrocio, Flora e Serena si ritrovarono a marciare affiancati e serrati in un ambiente che diventava sempre più ostile. La temperatura iniziò di botto a crollare e un gelo immobile fece accapponare la pelle della ragazza fin sulla curva che le disegnava il gluteo, dove poi iniziava la gonnella plissettata non più consistente di una cartavelina; laddove la brezzolina aveva solleticato le membra dei giovani, insinuandosi tra le gambette nude di Serena o entrando birichina negli strappi dei pantaloni di Flora, adesso la marziale aria fredda faceva rimpiangere al ragazzo di non essere un malato grave per poter svernare indisturbato nel Soccorso Pronto. L’architettura di Torello si era intristita pure lei e tra i nuovi palazzoni di granella rossa e bianca si intravedevano le prime crepe, buchi, cumuli di macerie e lo sporco rassegnato che le bombe giornaliere avevano fissato nei dieci anni della Giolla Unita. Serena si strinse le braccia sul collo, dopo essersi retoricamente abbottonata la
leggera magliettina che lasciava comunque intravedere l’agile disegno dei suoi piccoli seni sodi. I capezzoli le erano diventati così turgidi che le sembrava sarebbero partiti come missili da un momento all’altro e il contatto con gli avambracci, che un po’ glieli riparavano, le diede il dolore di un orgasmo troppo a lungo rimandato. Flora le mise sulle spalle il suo cappottino leggero a tre bottoni che coprì la ragazza fin sotto le caviglie, mentre lui con la camicia bianca che sembrava ocra si mise un o avanti per dare ritmo alla marcia. Si rassicurò alquanto quando, dopo qualche minuto, riusciva a distinguere in quell’atmosfera perfidamente atona un leggero e vivace diffondersi di feromoni che gli si piazzarono dritti sull’inguine, e lui di cappottino per celare non ne aveva più e allora si tirò giù la camicia lurida che un po’ andò a coprire. Serena decise di chiudersi il cappotto in tutti i tre bottoni; alzò il etto delle sue gambette morbide e si affiancò decisamente a Flora prendendolo sottobraccio. Flora si sciolse come una caramolla e la cinse dalla testa attirandola a sé per dimostrarle che poteva ben proteggerla nella buona e nella cattiva sorte. Le membra rilassate della ragazza lo incitarono a porsela sotto l’ala protettiva, come l’ostrica protegge la perla e così, virile e convincente, se la cullò fino al ditelo con la qarne… la macelleria del fido Tiziano De Paola, fortemente consigliata dal cerusico per lo svenimento di Serena.
6
«Flora! Amico! Ogni tanto ci si vede, eh?» fece Tiziano a Flora che non vedeva da molto tempo. «Ciao, Tiziano…» si scusò quasi Flora. «Chi è questa creatura?» fece rivolto a Serena che con il cappotto chiuso sembrava quasi un bassotto in piedi. «Serena, piacere!» fece direttamente lei, sbottonandosi il paltò e mettendo in
mostra le sue gambe nude e tutto quanto. «Piacere mio!» rispose con un sforzo Tiziano che si tolse gli occhiali a fascia neri e se li mondò dai granuli di carne e ossa che gli vi si erano posati negli ultimi due mesi. «Piacere per davvero!» confermò, dopo la visione più netta. «Siamo qui per la tua “qarne”…» fece Flora per venirgli in soccorso. «Ne ho piacere!» rispose imbambolato Tiziano che stava quasi per chiedere a Serena se gentilmente si alzava il gonnellino di un solo centimetro per vedere come di fatto la coscia si attaccava all’inguine. «Piacere tutto nostro!» rincarò allora Flora, un po’ scocciato. Flora allora si mise di lato e abbracciò Serena che si lasciò prendere senza resistenza, e le parve così languida che per un attimo ebbe paura che lei stessa si sarebbe offerta sul tavolaccio come una placida caramolla. La produzione di feromoni, a quel contatto, era salita alle stelle e Flora dovette trattenere il respiro per non svenire e poi diventare ossa da bollito lui e tenera salsiccia lei, entrambi “qarne” da porco per i coltelli di Tiziano che chiuse la bocca pasoliniana satura di fregna e baccalau e lo schianto delle mascelle serrate gli diede uno choc che un secchio d’acqua gelata non sarebbe riuscito a provocare; così rimase per un paio di secondi, indeciso se piangersi il dolore o fregarsene e continuare ad assecondare le sue fantasticherie. Serena stava spargendo nel ditelo con la qarne… tanto desiderio quanto nessun umano della Giolla Unita sarebbe stato in grado di sopportare, e Flora la stringeva forte essenzialmente per non essere spazzato via dall’uragano ma provava anche a farle del male, stringendola stretta, cercando di provocarle una reazione fisica che la fe recedere da quella fine del mondo. «Serena…» riuscì solo ad implorare Flora, senza verbo né complemento. «Sì…» rispose lei assente, senza oggetto né volontà.
7
La seconda tappa dei ragazzi era l’Esaurimento, il minimarket di Chicco Micchi e Bacco Numucco dove si vendevano tante di quelle corbellerie che, aveva pronosticato Tiziano, avrebbero senz’altro trovato il barbecue su cui arrostire le caramolle ché la fiamma libera era la morte loro. Flora entrò per primo e lo stanzone solitario di cento metri quadrati lo osservava serio e pieno di buchi in tutti gli scaffali che i suoi padroni si guardavano bene dal riassortire. Si schiarì la voce, Flora, mentre Serena si guardava attorno circospetta, quasi fosse appena scoppiata una bomba intelligente che avesse polverizzato le cose a macchia di leopardo e anche tutte le persone ché in quello spazio vuoto e enorme non c’era segno di vita. «Chicco? Bacco?» provò a dare voce Flora, senza ricevere risposta. «Pippo? Cacco?» storpiò Serena civettuola come fosse l’incipit di uno scioglilingua, ma neanche a lei andò meglio. Flora si mise istintivamente le mani in tasca per suggerire l’idea che si trovasse là per caso e iniziò a squadrare diligente lo scaffale più vicino che lo incuriosì non poco. C’erano dei bastoni da eggio di cui uno con un testone di capra in cima che chiudeva da tappo una riserva di liquore da eggio; una confezione da cento penne nere col cappuccio a punta, da rosicchiare o are a mo’ di scovolino tra i denti; una chitarra classica senza corde; un paio di bamboline con gli occhietti semichiusi e le mutande da casolare sotto i gonnellini scozzesi; una spessa borsa di plastica bianca ripiegata in quattro; e poi Flora vide Serena col cappottino sbottonato e immobile che sembrava merce rara pure lei, col suo dispenser di feromoni a intermittenza. Stava giochicchiando con una paffuta confezione di plastica impolverata, roba pre-Giolla Unita, di sicuro, una delle tante cineserie che Chicco e Bacco conservavano come reliquie; Serena si stava divertendo a suonarla come una fisarmonica ché dentro c’era qualcosa di morbido e rettangolare ripieno d’aria che frusciava allegra come una marcetta e apriva e chiudeva l’intestazione sulla plastica che diceva: “Per grandi flussi”. Il camlo della porta denunciò l’arrivo di qualcuno che frenò le fantasticherie di Flora e forse anche quelle di Serena, che comunque posò la confezione. Per primo apparve Chicco Micchi con la sua andatura da lucertola incinta che non sai mai quale direzione prenderà, e dietro il possente e silente Bacco Numucco che richiuse la porta con la stessa convinzione di Polifemo nella caverna.
«Flora!» fece Chicco cerimonioso, avvicinandosi al giovane a zigo zago. «Chicco… ciao Bacco…» rispose Flora indietreggiando di un o. «Hai firmato l’otto per mille?» chiese senza coerenza Chicco. «Non ancora…» rispose pronto Flora. «Devi sbrigarti! La campagna è quasi finita… o forse è già finita… neh, Bacco?» chiese al compare che fece un gesto vago. «Non che abbia tutto quest’oro…» commentò Flora, che si ricordò dei due lingottini in tasca. «Ognuno quel che può e a ciascuno ciò di cui ha bisogno!» sentenziò Chicco Micchi, e si rivolse nuovamente a Bacco Numucco che inghiottì l’aria insoddisfatto. «È una buona cosa, allora…» s’intromise Serena che della storia dell’otto per mille non sapeva niente. «Signorina…» fece interrogativo Chicco che si era appena convinto che quella non era merce del suo negozio. «Serena. Piacere» fece quella allungando un braccio e svelando le sue gambette nude. «Molto piacere…» inghiottì questa volta Chicco mentre Bacco si palleggiava lo sguardo da una gamba all’altra e avrebbe offerto un rene per vedere chiaramente cosa le congiungeva. «È una cosa buona, sì,… tanto piacere!» riprese Chicco rispondendo alla domanda di prima. «Non costa nulla… beh, l’otto per mille del nostro oro… certo… ma è poca cosa e così diamo anche un senso alla nostra fatica e poi ci fa ricordare che comunque noi… in gita ci andremo presto… e così ci impegniamo di più… tantissimo piacere!» concluse, nel pallone. Serena prese la palla al balzo e chiese il barbecue da comprare. Chicco Micchi stette un paio di minuti a pensarci e solo dopo tanta riflessione chiese a Bacco Numucco se mai lo avevano e soprattutto cosa fosse. Bacco Numucco si fece
uscire un po’ d’aria dalle froge e rispose che sì, l’avevano ma non c’era modo di portarselo via ché pesava sessanta chili ed era alto più di un metro. Con un piccolo sovrapprezzo, però, glielo avrebbe portato lui stesso, in persona coi suoi muscoli e i capelli alla mascagna mentre, aggiunse, il suo socio Chicco di muscoli non ne aveva e quasi manco di capelli. «Molte grazie. Può farlo subito?» concluse Serena professionale. «Io sono sempre pronto» rispose quello, tirando su con il naso e lisciandosi l’inguine guardando alternativamente Serena, Chicco e pure Flora. «Molto benissimo!» s’intromise Chicco «È andata!» «Quanto fa?» cercò di chiudere Serena, pescandosi la Tessera dallo stivaletto e mandando al tappeto i due commercianti che scorsero l’effetto del “vedo non vedo” della mutandina da dietro. «Eh!» rispose Chicco emozionato. «“Eh” che?» interrogò Serena. «Farebbe cinquanta punti… sa… è un pezzo più unico che raro e poi pure il trasporto… ma se vuole glielo diamo gratis… noi con le donne ci sappiamo fare… non le faremo male…» chiuse spavaldo ma con gli occhi bassi. «Guardi che l’Hotel Gramsci è aperto ventiquattr’ore su ventiquattro…» rispose Serena stando al gioco. «Vuol mettere?» rispose Chicco con una mano sul cuore. «Io parlo di sentimenti…» aggiunse. «E allora si contabilizzi i suoi cinquanta punti» fece quella. «E se ci aggiungiamo qualche grammo d’oro?» rilanciò Chicco, speranzoso. «Lo dia ai poverelli» rispose quella «è una cosa buona, no?» E l’enorme stanzone si saturò all’istante di bastardissimi feromoni che zittirono tutti.
8
L’appartamento di Serena era piccolo e molto testimoniava della sua padrona. Era situato di fronte il fiume Pon e dal balcone del secondo piano (senza ascensore, Bacco Numucco ci era arrivato con la lingua penzoloni e se ne era uscito senza neanche un bicchiere d’acqua) vedevi dritta e oscena una cataratta che movimentava le acque falsamente placide. Nelle due stanze, cucinino e bagno che lo componevano, c’erano più spazi aperti che illuminavano gli ambienti che strisce di muro dove appendere un calendario: sembrava un acquario, insomma. Flora entrando si era accasciato ubriaco sul divano in vinile nero ché, chiuso da due mesi, l’appartamento sollecitato dalla porta che si apriva aveva galvanizzato i pulviscoli di feromoni residui sparsi qua e là e li aveva messi in giostra con una fragranza più di baccalau che di fregna come neanche all’Hotel Gramsci nelle peggio orge. Serena si smise subito magliettina e gonnellina plissettata che sfrigolarono sul pavimento come acido muriatico e iniziò a andare e venire coi suoi pizzi neri e nudi da una stanza all’altra in cerca di qualcosa con cui rivestirsi. Stava saltando tutta una serie di aggi e di imbarazzi e si muoveva disinvolta come la moglie che di fronte al marito non ha più pudori ma neanche voglie, salvo il piccolo particolare di Flora a corto di respiro e di sentimento che come diversivo provò a studiarsi i polpastrelli meravigliandosi della perfezione delle loro spirali. Serena trovò con molta difficoltà qualcosa da indossare; Sciarabbai le aveva fatto recapitare al Soccorso Pronto i suoi due armadi in blocco e tutto l’intimo nel basso comodino rosa cocò. Così riesumò da un cesto dei legging neri così aderenti che per un attimo Flora rivide in quella figura smilza le sinusoidi di Michela ed entrò definitivamente nel pallone. Solo allora, quando fu certo che sarebbe svenuto entro un paio di secondi, Flora si alzò e l’abbracciò da dietro e quella tanto si mostrava riottosetta a calare le brache che si erano attaccate alla pelle tanto si aprì quando rimase nuda, una calamita che attira un chiodo di sana e robusta costituzione, forse un po’ impaziente ma gentile. Anche la cataratta di fronte, per un attimo, trattenne il respiro e l’acqua si fermò. Un pesce marrone, lordo di fango, si fermò pure lui a
guardarli benevolo per molti secondi e poi, soffiando dalle branchie, se ne nuotò via.
9
Serena si ripulì sommariamente la faccia e buttò negligente a terra la pezzuola grondante e appiccicaticcia. Poi si posò delicatamente sul letto al fianco di Flora che ultimava di battersi sull’unghia una delle sue sigarettine senza nicotina. Con le mani dietro la testa si incantarono su quella specie di maxischermo che incorniciava Torello, uno scorcio che dal fiume Pon risaliva le colline verdi e poi ancora più su fino ai colli inaccessibili e brulli sui quali aveva vegetato una civiltà estinta chissà da quanto e di cui erano rimaste solo macerie. Rispetto al maxischermo, era molto più bello anche se l’igienico plasma non era paragonabile ai vetri sporchi e adesso anche gocciolanti di tutto l’amore che c’era tra i due giovani. Serena aveva trentadue anni e fino a dieci anni prima faceva la spola tra Torello e un paesino dei paraggi. Non le dispiaceva la doppia vita. Poi, come tutti, dovette scegliere e scelse Torello, salutò mamma e papà con grossi lacrimoni e la promessa che col lavoro retribuito e il primo oro sarebbe andata presto a trovarli, dopotutto quaranta chilometri cosa vuoi che siano. Dopo dieci anni lei non si era mai spostata e i vecchi neanche, talché ognuno non sapeva dell’altro se erano ancora vivi. Serena, raccontando, non denunciava rabbia né malinconia, riportava solo i fatti così come si stavano svolgendo, con lo stesso distacco oggettivo con cui si analizza un tubo che gocciola: così è la vita. Dopotutto, Serena era una cittadina modello della Giolla Unita. Flora si ricordò dei due lingottini che sarebbero quasi stati sufficienti per la gita ma si chiese seriamente se a Serena interessava ancora di farla. E Flora? Serena non sapeva niente di Flora ma neanche Flora sapeva molto di
Flora. Viveva da sempre a Torello in un appartamento più grande ma più modesto di quello di Serena e lo condivideva con Michela Gang Bang, enunciò lui con la precisione di una lista puntata; le sue scuole erano alte, aveva scritto delle cose senza importanza e non riusciva a impiegarsi in nessuna delle corvée cittadine; non possedeva altri affetti all’infuori di Michela. Una vita come tante, senza ato né futuro. Serena lo aveva ascoltato tenendo gli occhi bassi come a concentrarsi su un distillato di sapienza che si rivelò invece una modesta lista della spesa; ma non glielo fece pesare e quando Flora si zittì a corto di argomenti gli si strofinò inguine sull’inguine e fu subito sera.
10
Serena si ripulì meccanicamente la faccia con la pezzuola e questa volta prese la direzione del bagno, non prima di aver appallottolato i legging buttati in faccia a Flora che sembrava un po’ assente, lì sul letto. Quello ebbe una scossa e sorrise; poi si pescò la sigarettina senza nicotina e l’accese. Si sentiva percorso da un’elettricità statica che depositava fibrille dritte sul petto, che gli scottava, e che ogni secondo aumentava il carico che Flora faceva sempre più fatica a sostenere. Istintivamente spense la sigaretta e si ò una mano sul collo, premendo a intermittenza la giugulare che pulsava come un cuoricino; servire servì ma, notò Flora, si stava alzando una sottile puzza di bruciato e si alzò in piedi di scatto scacciando la sigarettina falsamente spenta che si stava fumando il lenzuolo; corse ad aprire la finestra sul Pon e lo sversò della cenere e delle stille incandescenti. Sollevato, lo ò in rassegna ma si accorse che sul bianco cotone erano impresse due belle macchie di sangue che di certo non era il suo. Serena uscì dalla doccia con un asciugamanino da bidet a mo’ di gonnellina; i capelli, bagnati e lisci, le si erano ammassati davanti e gocciolavano sul pavimento usando i capezzoli inturgiditi dall’escursione termica come trampolino di lanci parabolici.
Flora, rimesso in sesto e nudo, si eccitò all’istante ma cincischiava su qualcosa di complesso se è vero che, prima di muovere un solo muscolo, Serena gli era di nuovo addosso che gli mordeva i piedi ancora un po’ ammaccati dall’incidente e poi ci soffiava sopra con l’alito che sapeva di feromoni inebrianti. Flora non aveva da lamentarsi e mentalmente si contava e ricontava le piccole dita dei piedini di Serena. Da lontano, si sentì il rutto soffocato della bomba quotidiana di Torello.
11
La notte ò così, nudi sulle lenzuola di cotone bianco e Torello fuori che s’imbrunì, ingrigì, annerì e all’alba risorse arancione come una vitamina C. Il sole si stava avviando lento verso il centro strada mentre i maxischermi che avevano dominato fino a quel momento si mimetizzarono da camaleonti tra il discreto brulichio delle personcine che camminavano svelte da tutti i lati; più di tutti si facevano sentire i tacchetti nervosi delle donne coi loro i brevi e veloci in un crescendo di cavalleria rusticana che spesso si concludeva con il “ronrò” delle serrande dei Zarra, degli Emporio Armadi, dei Neckintosh che si alzavano lente e monocordi. Serena e Flora se ne stavano nudi e un po’ intirizziti nel letto ma con gli occhi sigillati a godersi quei suoni rarefatti; ogni tot li aprivano e spiavano di traverso l’altro che faceva appena in tempo a richiuderli ma era chiaro ad entrambi che erano svegli da un po’. Serena pescò dai piedi del letto la leggera copertina che, fresca e riposata dalla notte inattiva, doveva adesso assecondare non la necessità di un sonno duro ma la voluttà di un ozio prolungato, attivo e pronto a manifestarsi. E quello si attivò, carico degli ormoni che ormai spadroneggiavano nell’appartamento-acquario che ne era così saturo che qualsiasi forma vivente vi avesse messo piede per sbaglio ne sarebbe rimasta stecchita all’istante.
12
Flora se la guardò per molti istanti, indifesa e innocente che sifflava leggera dal nasino una melodia di risacca dolce, come l’acqua sul bagnasciuga; era incatenato da una pressione così leggera delle mani di Serena sul petto che, se dittatura era, c’era da mettersi in coda e segnarsi schiavo tutta la vita. Era un po’ inquieto, Flora. Serena fischiettava senza nulla reclamare e più il suo sonno diventava pesante più la pressione delle manine si alleggeriva e così Flora chiuse finalmente gli occhi pure lui e presto sognò. Si trovava sul solito palco davanti una piccola folla che attendeva paziente una qualche frase col verbo intransitivo, senza oggetto ma con uno scopo. Flora guardava la folla tutta orecchi e poi iniziò timidamente: “Je veux dire…” e si bloccò con una pausa che voleva evidenziare qualcosa di grosso o forse che in realtà non aveva più altro da dire. Adesso c’era lui, c’era Serena, stavano facendo l’amore in un posto che Flora non riconosceva ma sapeva essere l’Hotel Gramsci, completamente vuoto, disadorno, inospitale eppure era lì, coi suoi muri alti che grondavano dieci anni di orge ininterrotte, fracico di una umidità sterile, buona solo a creare dal nulla muffe nere e verdastre e ragnatele sghembe di animaletti filiformi che pativano la fame più nera e che forse non esistevano neanche. Ma Flora era lì e anche Serena, e se ne fregavano, andavano avanti sempre più decisi, il dentro-fuori era il loro respiro e si fossero fermati sarebbero morti pure loro; poi rallentarono e andarono avanti così per un tempo che sembrò lunghissimo, quasi avessero trovato la tecnica di pompare l’ossigeno direttamente nei polmoni, senza attrito, per magia. Quando Flora venne, aprì gli occhi e si trovava sul letto dell’appartamentoacquario di Serena che teneva gli occhi chiusi e si ò meccanicamente la mano sulla faccia, come per pulirla, ma questa volta era asciutta. Flora si era trasferito armi e bagagli nel suo ventre. Serena lo aveva accolto falsamente innocente, come le donne che credono nella forza del destino e non vi si oppongono.
13
Quando Serena riaprì nuovamente gli occhi viola, l’appartamento-acquario era saturo del pungente odore delle caramolle che sfrigolavano nel barbecue sul balcone e che Flora vigilava urbano. La brezzolina di Torello spandeva l’odore dentro e fuori casa e alcune personcine guardavano da sotto a bocca aperta il lavoro del fuoco che tutto sottomette. Il punto di cottura fu un odore così invitante che Serena dovette alzarsi e cercarsi due straccetti da indossare e una forchetta per assaggiare. Flora le pescò un pezzo dal centro griglia, già pronto per l’uso e quello, madido di caramolla, si lasciò fare e raggiunse placido pure lui il ventre della ragazza. Con una panzetta rotondetta come una malinconia e satolla, Serena propose poi a Flora, pure lui satollo, di fare due i giusto sotto casa, sul cornicione del Pon a guardarsi il panorama terso. Flora si cercò immediatamente la camicia bianca e gettò a Serena il suo legging un po’ imprimacciato che indossato ritornò rigido e sinuoso come una scimitarra. Sul lenzuolo bianco scorse due macchioline di sangue fresco, quasi nello stesso punto delle due ormai seccate e marroni. Flora, angosciato, se le contò e ricontò come a mettere in dubbio la sua capacità di fare due più due. Poi strinse la ragazza dal collo e se la trascinò fuori della porta.
14
Il panorama, pur bello, li stancò presto. Percepivano come conclusa una qualche missione e si sentivano pronti per ben altro che una placida e spensierata eggiata. Fu Serena a rompere il ghiaccio. «Io non ho più paura, Flora. Bisogna tornare nel mondo!» fece, sicura di sé.
«Bisogna…» rispose senza pensarci Flora, che tra sé e sé aggiunse che per prima cosa c’era da portare il lenzuolo in lavanderia. Dal lungofiume alla Beni Vizi e Servizi correvano meno di trecento metri che i due ragazzi percorsero al riparo dei portici risalendo la corrente di un branco di personcine uscite da casa come tanti funghetti dopo l’acquazzone. L’aria si era decisamente rinfrescata e Serena si stringeva le mani sul cappottino a tre bottoni di Flora che le arrivava ben sotto le caviglie. Lui, con le mani affondate in tasca, si girellava i due lingottini e pensava a cosa farsene, fortemente combattuto. Svoltato l’angolo, Serena stava per congedarsi da Flora che alla Beni Vizi e Servizi non aveva nulla da fare ma quello le ò l’ultima novità, che Michela adesso vi lavorava e che sarebbe entrato pure lui a portare un saluto alla ragazza che non vedeva da qualche giorno. Serena scosse la testa affermativa, la rivedeva con piacere anche lei, e un minuto dopo erano in compagnia della portinaia racchia, in attesa di entrare. Sciarabbai li attendeva sulla porta e abbracciò con trasporto genuino Serena, stringendo di sfuggita la mano anche a Flora ma con energia, ché gliela stritolò. Dietro la scrivania Michela Gang Bang non sembrava né preoccupata né sollevata né ingelosita di quella nuova coppia. «Ciao Serena» la salutò. «Ciao Michela» le rispose quella. Michele Anpichisi come al solito non aprì bocca ma si espresse con chiarezza, respirando a pieni polmoni quell’aria viziata, arricchita delle nuove fragranze di fregna e baccalau che, vuoi l’emozione vuoi la tensione, Serena stava spandendo senza ritegno né controllo. Il giovane Gerbero, buon ultimo, sembrava invece assorto in qualche calcolo a incognite multiple e dava l’idea che, pur con sommo dispiacere, non poteva unirsi ai festeggiamenti finché non gli fosse venuto fuori almeno il valore di Z ché a X e Y ci avrebbe pensato poi. Sciarabbai si teneva stretta Serena veramente emozionato e Flora, antropologico, non poté fare a meno di notare che ati venti anni lui sarebbe stato simile a Sciarabbai mentre Serena sarebbe rimasta uguale, insomma pensò con gelosia
che quei due erano una coppia perfetta già da adesso. «Quanto ci sei mancata! Che paura che ci hai messo! Come stai bene!» diceva tutto in una volta il vecchietto alla ragazza che, emozionata, non rispondeva nulla. «Ma adesso sei tornata!» aggiunse soddisfatto, come a mettere una riga sul ato. «È vero, Flora?» chiese a Flora per non tagliarlo fuori dal discorso. Flora annuì con un sorriso poco impegnativo. «Sta accumulando l’oro, Flora?» chiese allora Sciarabbai con una domanda più diretta e mollando la stretta presa a Serena. «Meglio che posso…» gli rispose quello, girellandosi nervoso i due lingottini in tasca. «Prenda tutto Flora! La vita è breve, non si faccia scrupoli!» sembrò aizzarlo Sciarabbai come lo avesse sbirciato con i raggi X. «Meglio che posso…» ripeté un po’ inebetito il ragazzo per non farsi prendere in castagna. «Serena…» ritornò a bomba «…questa è casa tua e il posto alla portineria è sempre il tuo…» Rassicurò la ragazza che annuì pensierosa. «…ma adesso si riposi per bene: Flora si prenderà cura di lei, meglio che può, ha sentito… le faremo recapitare i suoi armadi oggi stesso ma adesso si goda la vita. Si prenda due settimane tonde e faccia quello che vuole, si tolga gli sfizi, la vita è breve!» concluse Sciarabbai con gli occhi dolci dei migliori auguri. «E la signora all’ingresso?» chiese lei, solo di quello preoccupata. «Signora? Ma quella è uno scorfano!» rispose sgarbato Sciarabbai, cercando e ottenendo la risatina complice del distratto Gerbero e la smorfia da scorfano che riuscì a modellare compiaciuto Anpichisi. «Ritornerà nello stagno da dove l’abbiamo pescata, non si preoccupi di lei…» rassicurò solenne. Intanto Flora, di soppiatto, si era avvicinato a Michela che guardava distratta l’intero teatrino. Nessuna sensazione pareva catturarla, era completamente indifferente a tutto,
quasi Flora fosse un qualsiasi cittadino di Torello che si trovava lì per qualche rogna da grattare. «Ciao Michela…» le fece, con un tono decisamente scoraggiato. «Ciao Flora. Che bello rivederti» rispose lei mezza fredda mezza calda. «Non si direbbe…» accusò lui che aveva percepito solo il bicchiere mezzo vuoto. «Fidati» lo rassicurò Michela guardandolo dritto negli occhi mentre gli zigomi impazziti le facevano su e giù come un singulto di terrore e commozione. «Flora!» lo riprese allora Sciarabbai che lo stava cercando da qualche secondo con lo sguardo e lo aveva ritrovato fuori posto. «Siamo molto contentoni di rivederla perché in lei c’è la Torello di domani: accumuli l’oro! Prenda tutto! Non si faccia scrupoli! Lei è artefice della sua vita e la sua vita è tutta qui, la sua Serena in portineria, la sua Michela qui seduta, ricordi: Heaven, Heaven is a place, a place where nothing, nothing ever happens» canticchiò. «…cosa vuole di più? Una sedia anche lei?» sembrò promettergli.
15
Flora e Serena si ritrovarono fuori dalla Beni Vizi e Servizi accompagnati dallo “snort” stridulo della portinaia racchia che così rispose al loro saluto cortese. C’era da capirla, era moderatamente sicura che Serena sarebbe uscita dalla sciccosa palazzina Liberty del Soccorso Pronto così come vi era entrata, orizzontale, ché di malattie nessuno più guariva nella Giolla Unita, e lei ne avrebbe ereditato il prestigioso posto di lavoro. E invece, eccola riesumata, la nana bastarda! All’aria aperta e già calda, Serena si girò intorno con varie piroette che le gonfiarono il cappottino a tre bottoni fino al gonnellino che girava forte pure lui; sembrava indecisa sulla direzione da prendere e Flora non le era d’aiuto e preferiva mostrarsi interessato alle unghie delle sue mani, che alla prima
occasione avrebbe dovuto accorciare di due centimetri buoni. Il maxischermo, caduto e rimesso e poi ancora caduto e ancora pazientemente rimesso su, diffondeva l’immagine soave di un vitigno di Bordeaux di un verde intenso con tanti grappolini viola sopravvissuti; o forse alla vendemmia aveva provveduto una squadra di cecati che ne avevano tagliato uno sì e uno no. Flora istintivamente posò lo sguardo sulla silhouette di Serena, con le sue gambette nude, i seni puntuti e la leggera pancetta di cui pareva accorgersi solo in quel momento. Un paio di personcine si studiava con senno i filari paralleli delle viti, verificando con certezza che le distanze restassero sempre costanti e le file fossero realmente parallele, poco fregandosene di quei grappoli perfettamente maturi e destinati a marcire nello spazio di uno switch. In realtà, le personcine erano semplicemente attirate dalle cosce nude di Serena e nonostante avessero l’Hotel Gramsci proprio lì di fronte, preferivano indugiare su una carne fuori commercio, proprio perché Serena non era in vendita. Così, iniziarono a girare in tondo in una Torello deserta e in piena controra. Flora abbracciò da dietro Serena imprimendole con qualche difficoltà la direzione da prendere di cui in realtà non aveva alcuna idea, ma quella si fece fare e un po’ camminavano, un po’ ridevano. Flora le pescò dalla tasca del cappottino il pacchetto delle sue sigarettine senza nicotina e nell’armeggiare sfiorò delicatamente i seni di Serena che gli parvero per la prima volta gonfi e altruisti. Camminando a zigo zago, spaccarono in due l’antica Piazza Giolla, dedicata alla Tessera che campeggiava come un monumento al centro dell’area, tenuta su come una lastra di compensato da un uomo antico e marziale e coi baffoni, a cavallo di una bestia più grande di lui ma più minuta di quel rettangolo in cima; questo era stato sicuramente aggiunto in un secondo momento poiché luccicava in similoro lustrato e splendente; anche le braccia sollevate dell’uomo antico tradivano un intervento posteriore, intanto perché erano sproporzionate, lunghe da sole quanto l’intero corpo a cavallo e poi perché maldestramente armonizzate talché non c’era bisogno del carbonio 14 per verificare che fossero nuove di pacca, mentre il cavaliere dimostrava tutti i suoi duecento e fischia anni. E poi la plastica a quel tempo non esisteva neanche. Ne risultava insomma una composizione grottesca, lo stato dell’arte della Giolla Unita che di arte non ne dispensava più. Flora e Serena però plaudivano al genio con grasse risate di approvazione e quando il povero cavaliere, di cui si diceva che avesse unito l’Italia e forse aveva
in realtà iniziato una semplificazione che era poi diventata la Giolla Unita, se lo misero alle spalle, ridevano ancora con schioppette brevi e fragorose. Flora continuava a trainare la docile Serena che impose a sua volta uno stop davanti un portone chiuso e rosso fiammante. Questa volta non trovarono granché da riderci ché quella struttura severa e finemente lavorata nel legno e nel bronzo incuteva semmai un certo timore. «Guarda il pirulo!» sussurrò Serena per non farsi udire da una qualche forza oscura. «Il batacchio?» corresse Flora. «Già… si danno da fare con le pulizie…» confermò Flora, che stava notando il contrasto tra quella forma dorata e luccicante e l’opaco bronzo dei rilievi, e avvicinò la mano con l’intenzione di toccarlo. «Non farlo!» scappò detto a Serena con tono imperioso. «Perché no?» chiese Flora, sorpreso da tanta decisione. «Non so, non mi piace…» spiegò lei vagamente irrazionale. «È solo un batacchio, deve essere antico, certo, di prima dei videocitofoni…» provò a scherzare Flora. «Non mi piace per niente» confermò Serena che un po’ si era avvicinata per guardarlo meglio e se ne era subito ritratta tenendosi la mano sul pancino come a schermarlo. «Ma… cosa… chi è?» chiese poi. «Sembra un uomo cattivo o un caprone che si morde il guinzaglio…» provò a interpretare Flora seguendo il disegno. «Non è un guinzaglio, sono due serpenti incrociati…» corresse Serena. «…ma qui sotto, tutti questi animaletti di bronzo non assomigliano a un bel niente di vero…» osservò, spostando lo sguardo. «Non tutti…» corresse Flora. «…guarda lassù, in alto, quei bambini cicciuti… che fanno?» chiese Flora. «Friggono» rispose sicura Serena che li aveva visti e anche riconosciuti come
bambini ma aveva voluto fare finta di niente. «Tutto sta crollando in questo solido portone… sembra il risucchio del lavandino, un istante prima che tutto sparisca in qualche abisso e… loro ci stanno provando a tenersi su… ma il vortice è più forte e ha strappato tutti i vestiti, guarda là, i bambini sono nudi e pure gonfi, forse già annegati e scoppieranno per poter essere comodamente risucchiati… guarda… è tutto senza ossa, i fiori sono scampanati come ferite sanguinanti, la vegetazione è tutta aperta come un’immensa vagina… guarda là! a destra, in mezzo… c’è un vecchio coi bigodini ma i capelli continuano a essere gonfi, senza forma, senza nervi, senza ossa… c’è pure il topo! Schiantato a terra, lo vedi?» chiese Serena indicando col ditino ancora a mezz’aria. «Dove?» chiese Flora allarmato quasi più dal topo che da tutto quel giardino zen. «Lì, guarda! È nascosto, appiattito nella vegetazione…» additò più chiaramente Serena. «Gaspard!» fece Flora, angosciato. «Lo conosci?» scherzò nervosamente Serena. «Cosa fa?» rispose Flora. «Si nasconde o fa la posta?» mormorò tra sé e sé. «Poco importa… ma tu… lo conosci per davvero?» richiese a Flora. «Non di persona» rispose il giovane con una risata nervosa. «Stanne alla larga!» ammonì lei sfiorandosi il pancino. «Ci puoi giurare…» promise solennemente Flora alzando la mano destra. «Adesso so esattamente cosa fare… ti va di conoscere una persona?» chiese e quella accettò con sollievo, sentendosi per la prima volta ufficialmente legata a Nino Flora da quella promessa. Fecero appena in tempo a girare le spalle che udirono un vigoroso applauso venire dall’alto ma appena si voltarono riuscirono solo a percepire la finestra sopra il portone che si era richiusa con una certa malagrazia. «Il caprone… senti questo odore nauseante… sembra cuoio e pure quella cosa dei quadri antichi, quella specie di olio…» provò a scherzare Flora la cui schiena fu percorsa da un brivido.
16
«Vous savez, la fille. Les hommes… pelle di salsiccia. Ils ont le zinzì dans toutes le trous, n’est pas? Je veux dire… sempre una cosa pensano! Toujours la cavallina! C’est comme un brohua qui frappe fort bien… vous savez, sì?» chiese a conferma la vedova Gnutti Bella a Serena. La vecchiaccia la guardava benevola e si fumava tranquilla il percale con cui Flora l’aveva omaggiata. Si era commossa, al caval donato, e, su quella pelle di cuoio che non vedeva acqua di nessuna fattura da almeno venti anni, le erano scese un paio di lacrime nel rivedere il vecchio amico che aveva trovato la migliore giustificazione alla sua prolungata assenza. «Cherchez la femme!» aveva commentato euforica e il ghiaccio si era presto sciolto. In lacrime appunto. Le era piaciuta da subito, Serena. Forse perché non aveva nulla delle costolone che succhiavano i cervelletti dei suoi amati nipoti al cagibì, all’Hotel Gramsci, sentina di nanà e nennè, febosse e petasse, con la carne che pendeva da ovunque e quei due legumi di Le Truc e Le Mec a darsi da fare come una pentola di fagioli con l’olio crudo. «Degoulasse, n’est pas?» aveva chiesto a conferma. Serena aveva annuito, afferrando il senso della ramona indiretta che la vecchia stava cantando alla nipotaglia che guardava a occhi fissi il corpicino intagliato di Serena, in difficoltà alla ricerca di una postura la meno compromettente, senza riuscire. Avrebbero potuto ribattere rebecca alla vecchia zia non fosse altro ché parlavano benino la lingua di Serena, a differenza della vecchiaccia, ma ogni volta che iniziavano una qualche protesta si fissavano su quella sagoma che ispirava solo e soltanto una foia disperata. Flora si era estraniato facilmente dal teatrino, concentrato su tutt’altra operazione. Si era seduto sulla sua poltrona preferita con tutta la delicatezza che poté e quella, come lo avesse riconosciuto, emise un gemito così prolungato che tutti si girarono verso di lui come avesse scoreggiato. Il ragazzo mise fuori precipitosamente le mani dalle tasche dove stringeva forte i lingottini e le alzò in segno di innocenza e quelli ritornarono soddisfatti ai loro argomenti e alle proibite visioni.
Flora faceva tema di interessarsi alle discussioni e anche agli sguardi allupati ed emetteva dei brusii di approvazione per tutti, al solo scopo di coprire il flebile “cìu cìu” di Gaspard che protestava un mucchio di cose, dal sonno interrotto al peso del culo di Flora, fino allo chopin dei due lingottini. «Flora, amico mio! Tu n’a rien à dire, mon chou?» fece la vecchia rivolgendogli infine la parola. «Je veux dire…» rispose meccanicamente Flora preso in castagna con le mani dentro le trippe della poltrona di damasco verde. «Quoi, mon ami? Vas-y, le rital, vas-y, citammuert!» lo incoraggiò a modo suo la vecchiaccia. «Rien, madame…» concluse Flora la frase che teneva tronca da sempre. «Je vois…» annuì tristemente la vecchia. «…quand même, rien c’est deja quelque chose, n’est pas? Il y a la fille et… elle est jolie, n’est pas? Et bientôt il y aura un enfant et tout ça… tout ça vous l’appellez rien, c’est ça?» rincarò sarcastica la vecchiaccia che con una panna spessa due centimetri su entrambi gli occhi aveva percepito il missile che ballava nel pancino di Serena. «Désolé, madame… vous parlez très vite, j’ai pas compris…» rispose Flora che non era riuscito a staccare una singola parola da quel sibilo continuo, reso ancora più argentino dalla dentiera sporca della vecchiaccia. «C’est pas grave…» rispose quella scandendo al meglio. «Je veux dire… la vie c’est ça…» aggiunse. «Désolé, madame…» rispose ischemico Flora. «…si è spento il percale e forse è ora che Le Truc le pulisca la dentiera…» concluse, un po’ sarcastico anche lui. «Je vois…» annuì dolcemente la vecchia. «…quand même, il est tard, c’est vrai… tornerete?» chiuse la vecchia con un congedo benevolo. «Je pas…» rispose Flora alzandosi dalla poltrona di damasco verde con quella specie di “aforserivederci”. Serena si alzò anche lei offrendo, nello slancio delle reni per mettersi dritta, uno scorcio generoso di millefoglie. Le Truc e Le Mec fissarono la scena e se la
impressero nella memoria a lungo termine, tanto se ne restarono babà, rigidi come stoccafissi e pure ubriachi di baccalau.
17
Flora e Serena uscirono decisamente sollevati dal castelletto della vedova. Serena, che non ci era mai stata prima, era rimasta un po’ scioccata dall’odore di vecchio di quell’enorme cucina e da quello stemma che proliferava in tutte le stanze e che un po’ le somigliava: la dama col pancione. Di primo acchito aveva avuto la certezza che avrebbe vomitato entro i primi dieci secondi ma la faccia severa di Flora sembrava consigliarle la resistenza, e poi la vecchia era partita con le sue frasi sibilanti che, al tentativo di afferrarne un qualche senso, Serena si era dimenticata del disgusto. Flora si era liberato dei lingottini e se ne sentiva sollevato e anche soddisfatto di aver attaccato se ed essersi liberato spagnolo come gli avrebbe insegnato volentieri la Storia, ma Flora non ricordava nulla di nulla e si beava solo che tra il fare e il non fare quest’ultimo ha più sfaccettature e, soprattutto, tante belle scopate ancora da fare. Da dietro, sentirono squittire le voci allegre di Le Mec e Le Truc mandati affanculo dalla vecchiaccia a tappare i buchi di questo mondo e quelli marciavano, come a esaudirle il desiderio, verso l’Hotel Gramsci. Flora ebbe per un secondo l’angoscia di trovarseli addosso e, dopo averlo magari immobilizzato, violare il corpicino di Serena a turno o magari tutti e due in una volta. Ma quelli non ci pensavano nemmeno e oltrearono la coppia salutandola con uno squittio allegro e comionevole ché loro stavano andando al divertimento mentre quei due, con quella faccia, non andavano da nessuna parte. Il buio era già pesto e la scarsa illuminazione della periferia invitava piuttosto ad alzare il o. Flora invece si fermò poco più avanti, di fronte quell’edificio diroccato che sembrava si chiamasse gionta. Stette zitto come a dare a Serena il tempo di studiarselo in lungo e in largo.
«Cosa?» chiese infine Serena. «Quello!» gli rispose un po’ seccato Flora muovendo leggermente il collo. «Ebbene? È un palazzo malridotto» concesse lei. «E pure bruciato…» aggiunse Flora. «E pure bruciato» concesse senza difficoltà Serena. «Guarda i rilievi…» propose lui. «Uhm…» fece lei seguendo col dito gli antichi disegni offuscati. «Già…» fece lui, soddisfatto. «Quel portone maledetto…» fece Serena. «Però… non so… certo, gli elementi sono più o meno quelli ma là, nel portone c’è l’angoscia, qui… non so, è buio va bene, è tutto bruciato ma… c’è come una calma superiore…» corresse. «Questo, Codesto e Tale!» aggiunse Flora a mezza voce. «Cos’è, un indovinello?» chiese Serena con un sorriso a bocca spianata. «Una specie… un indovinello per me che non ricordo nulla ma pure tu, amore mio!» rispose lui come un leggero rimprovero. «Io mi ricorderò sempre di noi» fece lei civettuola e si avvicinò a Flora per baciarlo. «Noi staremo sempre insieme… je veux dire…» rimase senza parole Flora, pur con due lingue in bocca, e alzando lo sguardo sui rilievi notò che i bambini lì sopra assomigliavano sempre più a quel pancino che cresceva minuto dopo minuto. E ne ebbe un brivido.
18
Serena si stava cercando a tentoni la pezzuola per pulirsi la faccia ma quando se la fu ata le grattò gli zigomi e le guance completamente asciutte. Flora sorrise del teatrino e si convinse che Serena faceva l’amore non solo a occhi chiusi ma nella più totale incoscienza. D’altra parte il ragazzo era inquieto e con la mano sinistra si batteva sull’unghia la sigarettina senza nicotina e con la destra tamburellava la scapola della ragazza, rapita da quel doppio ritmo senza armonia. Serena si mise seduta e offrì a Flora tutta la sua schiena come fosse una pianola su cui inserire qualche linea di racconto su quel basso continuo e antecedente l’intelligenza. Flora invece se ne restò fermo, a guardarle quelle spalle falsamente esili, diritte e impreziosite da una carne che non era né troppa né poca e faceva strani incroci e disegni enigmatici sull’impalcatura ossea. Lì Flora si convinse pienamente del mistero della donna che sta tutta nelle pieghe e nei vortici che ogni piccola increspatura pare velare e preservare, e ripensò alla vecchiaccia che chiamava quel culmine “millefoglie”, a mille strati e mille pieghe che chi l’aveva progettata era stato certo un genio, a piazzarla là, scomoda e irrazionale e raggiungibile solo da un altro genio che ci doveva mettere la testa ma anche il cuore. E nella Giolla Unita invece non si costruiva più nulla, neanche più bambini. Flora si era perso nella sua meditazione ma in realtà aspettava che Serena si estire dal letto per fare la doccia, ad esempio. Non che volesse restare solo, che Serena iniziasse a darle noia: era proprio il letto a preoccuparlo, quel letto già spoglio del lenzuolo che Flora aveva già appallottolato e nascosto, con quelle sei macchioline di sangue, fuori sul balcone. Quando finalmente la ragazza si alzò, Flora si mise seduto, pronto allo scatto in piedi non appena avesse sentito il primo scroscio dell’acqua. Sul materasso nudo e crudo si stagliavano in bella evidenza due belle macchioline di rosso vivo che poi tanto macchioline non erano, sembravano due balle di alano spiaccicate al suolo e in un paio di punti friggevano ancora in attesa di spandersi sul tessuto. Flora recuperò la pezzuola asciutta e la ò sopra a tampone e quella si imbibò tutta. Flora se ne procurò una seconda e una terza e solo alla quinta la respirazione gli tornò costante ché sembrava che quelle suggessero il sangue direttamente dal materasso. Selezionò una pezzuola più grossa per farne un canovaccio e, messe
tutte insieme, chiuse il fardello per potersene liberare sul balcone, mentre Serena aveva riaperto la doccia per risciacquarsi e non ci avrebbe messo tanto, piccola com’era! Che fare? Il materasso lo aveva già girato! Ora si trattava di prendere una decisione: meglio l’alone di sei macchioline seccate o due belle gnocche fresche fresche? In un modo o nell’altro saltavano agli occhi entrambe, non c’era una risposta scientifica alla questione. Quelle vecchie erano tante ma anche secche, il ato è ato, ma quelle nuove erano poche ma più grosse e alla fine tutto dipendeva da come Serena sarebbe uscita dal bagno, soddisfatta e rilassata oppure incavolata ché nel risciacquo la temperatura dell’acqua era magari crollata di dieci gradi centigradi. Così trastullandosi, Flora teneva il materasso di taglio, indeciso da dove farlo cadere e quella sarebbe stata la rovina ché Serena avrebbe visto tutto in una volta, due macchie da un lato e sei dall’altro. Così decise di accomodarlo da un lato qualsiasi e corse sul balcone a recuperare il lenzuolo bianco che fissò ai quattro angoli a coprire le due macchie fresche con le sei più smorte, ma meno di quelle sul materasso! però intanto il letto era ricomposto e che la fortuna lo assistesse. «Hai rimesso il lenzuolo?» fece Serena allegra. «Hai fatto bene, il materasso nudo gratta la schiena» aggiunse soddisfatta e diede a Flora un bacio con lo schiocco. Flora, già a corto di ossigeno, lo prese disinvolto e poi scappò in brachessino sul balcone a riempirsi i polmoni di aria fresca.
19
«Brutta faccenda…» grugnì Sciarabbai esasperato. Non era ancora rientrato dalla consueta convocazione della voce con la Tessera Gold che, ancora col paltò addosso, se ne era dovuto uscire di nuovo a rotta di collo perché la bomba aveva picchiato duro ed era crollata la cataratta sul fiume Pon. Era decisamente il caso di dare subito un’occhiata. Non c’aveva più l’età Sciarabbai per questi cardiopalmi, già al colloquio era arrivato di corsa come una furia e se ne era tornato pieno di interrogativi. Il portone si era aperto da solo dopo un timido colpetto al batacchio e poi, sempre da solo, si era richiuso sinistro; il puzzo di
cuoio e trementina lo convinsero che non aveva sbagliato appuntamento ma nondimeno la voce non c’era. Dov’era quello stronzo? Finché se ne restava dentro il portone era in gabbia, una belva ma in gabbia. E adesso? Libero in un’oasi felice sì, ma imbelle e disabituata ai suoi modi da villano? «Brutta faccenda…» ripeté. «Questo è» rispose una personcina con la fascia nera del Contenimento e la qualifica di geometra a due grammi d’oro l’anno incisa sulla Tessera. Michele Anpichisi volteggiava nella brezza con le braccia spiegate come ali, quasi fosse un gabbiano. «Non si può accomodare?» chiese senza speranza Sciarabbai. «Ci possiamo mettere una bella pietra sopra, questo è sicuro, e sarà fatto… d’altra parte, quando il fiume s’ingrosserà di pioggia, sarà spazzata via e sarà anche peggio…» rispose professionale il geometra. «Fissarla, la pietra, invece di poggiarla, no eh?» chiese senza speranza Sciarabbai. Il geometra non rispose nemmeno. Come si fissa qualsivoglia nell’acqua? Ci volevano i maghi di qualche decennio prima, ma adesso di maghi non ce n’erano più in tutta la Giolla Unita. «Brutta faccenda…» ripeté Sciarabbai. «Questo è» ripeté pure il geometra, che le sapeva tutte, le risposte. «E quindi che facciamo?» chiese angosciato Gerbero. «Niente!» rispose Sciarabbai tenendosi le mani in tasca e congedando il geometra. «Ci recuperiamo Anpichisi che almeno lui si sta divertendo e torniamo in ufficio dove Michela Gang Bang si sta di certo spaccando la schiena, tutta sola a fare il lavoro di quattro. Ecco cosa facciamo» spiegò Sciarabbai. «Flora ha restituito l’oro» sibilò Gerbero a Sciarabbai sulla strada del ritorno mentre Anpichisi continuava a fare il gabbiano sulla pubblica via. «Cosa stavi aspettando a dirmelo?» replicò stizzito Sciarabbai. «Tutto si
spiega…» si disse a mezza voce. «Non mi sembrava la cosa più importante…» provò a giustificarsi Gerbero. «Che giornata di merda!» commentò stizzito Sciarabbai e provò ad alzare il o ma Gerbero gli si era messo di traverso. «Michele, perdonami…» gli fece. «…ma noi cosa ci stiamo a fare qui?» chiese quasi supplicando. «Amministriamo. Cos’altro?» rispose secco Sciarabbai. «Ricostruire i danni, curare i malati, fare irruzione nel castello della vecchiaccia e riprenderci il suo oro illegale, è roba illegale, no? Ecco cosa…» elencò Gerbero. Sciarabbai scoppiò in una risata estetica e sincera. Poi, quando si fu un poco calmato, invece di rispondere ai tre quesiti fece a Gerbero una domanda che lo lasciò di stucco «Quanti anni hai, Michele?» chiese con serietà. «Quasi ventisei. Ma che c’entra?» rispose incerto. «Sai che sei tra i più giovani a Torello e in tutta la Giolla Unita? Non lo sai? Ipocrita! Non c’era bisogno che qualcuno te lo dicesse, è lì! Da quanto non vedi un bambino a Torello? E un neonato? Sai cos’è un neo-nato? Lo hai mai visto? Sei cecato pure tu? Noi amministriamo una società in liquidazione…» gli aprì gli occhi guardandoglieli fissi. «E…» rispose quello e non si capiva se era un “e” di invito a proseguire o un “e” di improvvisa comprensione. Sciarabbai senza porsi il problema aggiunse: «Tu non sai un cazzo della Giolla Unita, zuccone che sei. Ascolta, ti racconto una storia, ne avrai bisogno…» E presolo paternamente per una spalla lo invitò a sedere sulla prima panchina assolata, mentre Anpichisi non si vedeva più all’orizzonte, folle e libero con le sue ali immaginarie e spiegate. Da lontano si sentì un fragore sordo. A Torello è scoppiata una bomba. Beh, a Torello scoppia una bomba al giorno. Ci sono abituati.
Capitolo 5 Michela o delle vecchie crudeltà
Come siamo arrivati qui
1
Michela Gang Bang si era svegliata di scatto a causa di un pensiero stupido che le parlava nel sonno: quale sarebbe stato il compenso per il suo nuovo lavoro alla Beni Vizi e Servizi? Gli stessi cinque grammi d’oro che incamerava da badassa? Di più? Di meno? Nessuno glielo aveva specificato. Aveva accettato e basta, lo aveva fatto per Flora. Nel modesto appartamento filtrava da poco la luce del sole, non ancora caldo ma con le idee chiare. Le forze dinamiche di Torello, al contrario, erano già in movimento e la sarabanda di i, tacchetti e serrande aperte non stimolavano la curiosità della ragazza che continuava a bivaccare nel letto a due piazze e occupava tutta sola un misero e remoto angolino, con le braccia intrecciate sul petto e le ginocchia rannicchiate che le arrivavano in bocca. Come un uovo, Michela rinasceva ogni giorno da un travaglio lungo e difficile ed era l’unica forma vivente della Giolla Unita a farlo, esercizio di un’arte dimenticata. Flora, che di regola si allargava sul materasso come il quattro di mazzi, non era nel suo letto e neanche in casa; era ato per un momento un paio di giorni prima a piegarsi due stracci puliti da traslocare nell’appartamento-acquario di Serena e aveva avuto la delicatezza di tornare un’altra volta, lui normalmente così pigro, per condividere con la vecchia amica una bibita. Fu un caffè breve e bevuto a scotto di labbra, che a Michela arrivò dritto nell’intestino ché dovette precipitarsi in bagno a rimetterlo in circolo, popò, scarico, fogna e magicamente
acqua da bere in un futuro prossimo e meno straziante. Flora aveva approfittato della cacarella per organizzare un discorso che voleva esprimere il concetto che lui si trasferiva, “solo per un po’”. Così, quando Michela uscì dal bagno che aveva chiuso con tre giri di chiave, Flora si tenne gli occhi incollati sulle briciole della tovaglia e aveva detto d’un fiato: «Vado via. Solo per un po’…» E aveva alzato lo sguardo pronto a impattare un possibile ceffone. «No, Flora. Tu non vai da nessuna parte…» aveva commentato la ragazza con tristezza. «Cosa…» aveva balbettato Flora che per un attimo l’aveva interpretato come un ordine. «L’oro?» l’aveva allora interrogato Michela. «Non ce l’ho fatta… mi spiace…» si era scusato lui, già sollevato. «Ne hai ragione…» confermò quella «…a scusarti dico. Tu sei un’anima candida…» Aveva confermato Michela che gli diede pure una cara sulla mandibola. «Non è la mia natura, mi spiace…» sentì il bisogno di ribadire Flora, a corto di respiro. «La natura…» aveva ripetuto con la cantilena Michela. «…tu, Flora, non sai proprio niente della natura umana… proprio niente. La lezione te la sei risparmiata e spero non te ne pentirai…» aveva concluso, con gli zigomi fissi e atterriti che battevano come due cuoricini a pile. «Solo qualche giorno…» aveva balbettato incoerente Flora. «Qualche giorno…» aveva rinforzato lei, assertiva come un coltello senza denti, tutto trapano e zero voglia di scherzare. Poi gli aveva dato le spalle e Flora era scivolato oltre la porta come un verme.
2
Così, padrona dell’appartamento, Michela ciabattava svogliata nel suo pigiamino leggero col tema degli orsacchiotti sorridenti. Quando infine si sentì il sangue che le scorreva di nuovo nelle vene, riprese decisa la porta del bagno e solo lì, all’oscuro dei bacherozzi che di certo stavano assaltando le briciole della cucina, si spogliò e si tuffò tutta intera sotto l’innaffiatoio ad alta pressione della doccia. Si immerse completamente sotto l’acqua ghiacciata, con la cornetta che le faceva addormentare la mano per il freddo di quell’acciaio moltiplicato i dieci gradi scarsi di quell’acqua limpida e assassina. Il contatto con la zazzera gliela alzò di due centimetri buoni ma Michela proseguiva imperterrita, con lo shampoo e anche il balsamo e il risciacquo, tutta tremando salvo laddove le batteva il cuore e le pulsava lo sfregio, bollente, mentre tutto il corpo sembrava pelle di pollo. Provò a carezzarsi la cicatrice, a sfiorarsi coi polpastrelli il capezzolo che non c’era, ma si sentiva la mano pesante, maldisposta; fece un secondo tentativo cercando di concentrarsi ma la vista di quella ferita ricucita sommariamente, gibbosa e violastra, le diede per la prima volta un moto di repulsione che le fece stringere con rabbia quella mammella cieca fino a sentire dolore e mollare definitivamente la presa. Uscì dal bagno rivestita degli stessi orsacchiotti sorridenti. Non voleva rivedere lo scandalo di quello sbrego e si mise il reggiseno direttamente dall’interno della maglietta; poi, degli indumenti smessi fece una malloppa informe che buttò nel cesto delle robe da lavare. Bardata come Mazinga Z, era adesso pronta a uscire, prima dal bagno e poi dalla casa. Si sentiva pronta, solo la cicatrice continuava a pulsare. Torello respirava abilmente come la persona cui vuoi bene, quel poco da tastarne il polso di tanto in tanto per rassicurarti sia viva. Il tragitto, senza curiosità né aspettative, fu breve e senza orpelli e quando dovette esibire le terga per entrare dalla porticina della Beni Vizi e Servizi, quella fu la prima azione sconveniente della giornata. Era arrivata puntuale come al solito, di quella precisione che è caratteristica delle persone tristi. La portinaia racchia non c’era ancora.
Faceva più specie invece il silenzio che si percepiva dall’esterno dell’ufficio poiché, se Michela era puntuale, Sciarabbai, Gerbero e Michele Anpichisi erano sempre in anticipo talché aveva immaginato che alla fine della giornata quelli uscissero per farsi giusto il giro dell’isolato e poi tornavano in ufficio e si conservavano in un qualche cassetto.
3
Invece non c’era proprio nessuno e la cosa suonava strana, oltre che inedita. Michela si tolse il lungo soprabito e l’attaccò al pomellone sul quale ricadde come un corpo morto. Nella larga stanza riecheggiavano i suoi etti nervosi e la circolazione di un’aria leggermente viziata, una fragranza dolciastra di cuoio e trementina. «Ciao Michela!» si sentì salutare, alle spalle. Michela si girò lentamente e dovette abbassare non poco lo sguardo per inquadrare quel nanerottolo secco e con gli occhiali da sole neri e dalle stanghette non più spesse del filo di un perizoma, che gli mettevano in rilievo le oscene labbra leporine e umide. Il nanerottolo sorrideva dal labbro inferiore, così pendulo da sembrare la tazza del cesso e luccicante di una salivazione spessa come un’eterna acquolina in bocca. Da quella sottile fascia nera, Michela non poteva scorgerne gli occhi che si ricordò essere penduli pure loro, umidi di congiuntivite e chiari di ghiaccio secco, che la guardavano come sempre senza alcun timore nonostante i venti centimetri buoni che correvano tra le loro altezze. La magrezza unita alla bassa statura non muoveva comione né tenerezza e neanche simpatia; la camicia bianca era tenuta aperta nei primi due bottoni e la cravatta rossa e allentata denunciava una sciatteria calcolata, come di una moda che avesse voluto lanciare con malcelata prepotenza. Le mani erano piccole, cicciute ma nervose, e giocherellavano tra di loro a forma di tanti piccoli tasti di una fisarmonica, polpastrello su polpastrello.
Insomma, Attanasio sembrava aver trovato il negozio dove si vendeva l’adrenalina e Michela si strinse istintivamente le gambe per provare a stoppare un fiotto involontario di calda pipì. Così, irrigidita, riuscì solo a percepire il sibilo di quelle mani cicciute che le si infransero sul collo potenti e precise come un colpo di cembalo. A Michela mancò il respiro per molti secondi e nello choc gli zigomi presero la supplenza del cuore e iniziarono meschini a pompare il sangue più veloce che potevano, mentre gli occhi atterriti si concentrarono su un fiotto di saliva acquosa che si era staccato dal labbro di quello e cadde giù pesante come una eiaculazione urgente e che ancora ne voleva. L’uomo fece una buffa piroetta su se stesso e con la leggerezza di quel o di danza riuscì a concentrare nel palmo aperto della mano l’intero suo peso e colpì la guancia e lo zigomo sinistro della ragazza che non ebbe il tempo di barcollare dal lato opposto ché subito fu rimessa in asse da un altro schiaffo, ma di taglio, dritto sulla tempia, che le fece fischiare le orecchie come il peggiore degli acufeni. Michela stava per accasciarsi finalmente vinta ma l’uomo la tirò su come una forchettata di spaghetti e le strinse con gusto la giugulare, ché la ragazza ne divenne cianotica nello spazio di un “ba”. Gli occhi le si riempirono di lacrime che scivolarono su quelle manine cicciute ma niente affatto simpatiche e quello, indispettito, se ne asciugò il dorso percuotendo a frusta i fianchi gentili della ragazza che, così priva di i, cadde dritta a terra e batté la testa col rumore secco di un’anguria fatta precipitare dal quinto piano. Il nanerottolo, allora, le diede nuovamente le spalle e dalla soddisfazione iniziò a fischiettare monocorde un vecchio e allegro motivetto di un giovane sino neo ye-ye che se la stava sando un sacco, diceva, e non dava certo l’impressione dei titoli di coda. Michela prese a piangere più piano che poteva, cercando solo di non attirare troppo l’attenzione su di sé; ma quello sembrava concentrato sul motivetto che voleva alzare di un semitono senza riuscirci. Poi ci rinunciò del tutto e prese a osservare la ragazza con una certa curiosità che lo rimise subito in piedi a verificare una qualche sua teoria. Le sollevò delicatamente di un palmo la gonna sotto il ginocchio, denudandolo, e
ne colpì la rotula con un pugnetto a tre dita che provocò una reazione inaspettata, uno starnuto, come se Michela si fosse estirpata con le pinzette un pelo dal naso. Allora il nano cambiò strategia e con un colpo secco le strappò tutti i bottoni della camicia e attanagliò quell’unico capezzolo di Michela inturgidito dallo spavento e strinse, strinse forte mentre la ragazza con gli occhi spalancati buttava giù tante di quelle lacrime che entro un paio di minuti ne sarebbe morta disidratata. «E questa è la lettera di licenziamento» uscì finalmente detto al nano. Michela non disse nulla, si preoccupava solo di piangere in silenzio, di non contrariare quell’uomo portatore sano di cazzimma. «Ma tu hai ragione, assolutamente ragione, as-so-lu-ta-men-te e anzichenò. Io sono il solito e imperdonabile cafone che neanche ti ha salutato per bene. Ciao, Michela Gang Bang, come stai? Non benissimo, vedo. Sì, a me va benone, io ero Attanasio, ma adesso chiamami pure Truce Attanasio, non te lo credevi, eh? Guarda un po’! L’hai mai vista una Tessera così? È una gold, cara la mia sgualdrinella, significa che sono uno mooolto importante. Sorpresa, eh? Pensavate che ero solo un buono a nulla, tu e quella sgualdrina secca della mamma tua che, a proposito, è morta.»
4
Michela si era incollata al muro e da lì non si spostava. Le spalle, forti e morbide, aderivano perfettamente all’intonaco e ne sfidavano il perfetto filo a piombo e così il collo, lungo e bianco, e la zazzera, corta e nerissima come una velocità astratta. Le gambe le erano rimaste piegate con le ginocchia alte e la gonna si era incollata sulle cosce. Michela fissava immobile un punto immaginario davanti a sé, con la bocca semiaperta e le lacrime che si erano asciugate di sale sulle guance. Il Truce Attanasio si era ripescato il motivetto ye-ye che si arrischiò adesso a
canticchiare con tutti i suoi limiti d’intonazione
Yam! Bam! mon chat Splash Git sur mon lit a bouffé sa langue en buvant tout mon whisky
Il motivo sembrava adesso volgere all’happy end, una attestazione di autostima per un lavoro duro e sporco ma che stava portando a compimento con determinazione e che avrebbe regalato grandi soddisfazioni a tutti quanti. Attanasio era il suo patrigno, che quanto a età poteva anche essere suo padre dato che al tempo i figli si facevano ancora; un bell’uomo, uno di quei vigliacchetti che conservano i lineamenti gentili fino alla vecchiaia e che, a differenza della sua drammatica madre, sorrideva spesso ed era contagioso, in ispecie quando la vecchia gli rimproverava qualcosa e lui faceva spallucce, si stappava una lattina di birra e ruttava con una certa grazia, cosa che faceva sorridere divertita anche l’ancora giovanissima Michela. Diciassette anni e già formata, pensava di aver trovato in un colpo solo il padre, l’amico, il confidente; lui, più del doppio, pensava invece a tutt’altro e lei ci sarebbe cascata subito con tutte le scarpe se, aprendo di botto gli occhi, non se lo fosse trovato addosso con in faccia stampata la gioiosa libidine di un gioco nuovo, da prendere, sbattere, sfogarci addosso la foia e poi vantarsene con gli amici al bar. Michela se lo era scrollato via con delusione, e quello, capriccioso e vinto nell’amor proprio, se n’era andato sbattendo la porta della sua stanzetta e bestemmiando che a perder tempo coi bambini poi ti ritrovi tutto bagnato di piscia. Attanasio però aveva una costanza tutta sua, infantile e amorale, iva e magnetica. Tempo ne aveva, lui non faceva nulla e a mantenere la baracca in piedi ci pensava la vecchia che andava via la mattina e ritornava il tardo pomeriggio. Lui no, lui a lavorare era sprecato e si ciondolava pensoso tra una lattina di birra e
una botta alla vecchia, ma da quando c’era stata Michela si era concentrato sulla birra e aveva iniziato a trascurare, quasi come rappresaglia, la vecchia che, privata di quell’omino ben fatto che la faceva addormentare col sorriso, si era intristita più di quanto lo era normalmente e non trovando di meglio da recriminare faceva le facce accusatorie alla figlia e quello, vigliacco e pure carogna, annuiva tristemente come Don Abbondio e scuoteva la testa di empatia per quella povera donna che si trovava in casa la figlia zoccola e tentatrice. A Michela ci volle ancora molto prima di decidere di fare fagotto e ricominciare da zero a Torello. Quando fu proclamata la Giolla Unita, Michela credeva le sarebbe scoppiato il cuore per la felicità. Non li avrebbe rivisti mai più!
5
Il Truce Attanasio si era girato con un balzetto delle sue gambicciole corte e nervose e con le mani sembrava stesse tifando smodatamente per la squadra del cuore. In una teneva a tenaglia tra le falangi una sigaretta cicciuta e senza filtro, di marca se e che non era più in commercio nella Giolla Unita, troppa nicotina; nell’altra, una siringa da insulina, come neanche quelle si vedevano più. Era caricata a metà e lo stantuffo se ne restava rigido a mezz’aria pronto a bucare. Michela guardava terrorizzata Attanasio che si avvicinava con etti studiati e leggeri, brandendo i due oggetti e lanciando l’indovinello su cosa fosse il bastone e cosa la carota. Michela restò muta all’interrogazione ma agghiacciata, e teneva incollati gli occhi sulla siringa. Truce Attanasio percepì l’angoscia della ragazza e si fermò a cinque metri buoni da lei ancora più incollata al muro con le manine in alto e il labbro inferiore quasi tramortito dal peso della saliva liquida che lo premeva ancora più giù. «Una buona amica è tornata a trovarti, Michela…» le fece, dissipandole tutti i dubbi e riprendendo il cammino interrotto, quasi in punta di piedi. Michela lo guardava atterrita, paralizzata al muro, quasi rassegnata a un ato che non
solo non era morto ma non era neanche ato. Il Truce Attanasio le pose la sigaretta spenta tra le labbra tumide e semiaperte e lì Michela sembrò ravvivarsi ché la sputò lontana con un botto di aria e saliva che colpirono di striscio la camiciola immacolata del Truce che non ebbe nessuna reazione scomposta. Si inginocchiò, invece, e non diventò molto più basso di quanto lo fosse in stazione eretta e con la mano libera sollevò senza enfasi il lembo della gonna e, sull’ematoma diffuso sul ginocchio, diede ancora due schiaffetti ma leggeri, a tracciare una vena che vedeva, professionale, solo lui. Poi infilzò, con la siringa a angolo piatto, e la vena risucchiò il liquido marrone finché lo stantuffo non arrivò al suo confine. Michela resistette pochi secondi, poi la testa si scollò dal muro e le cadde molle sulle ginocchia.
6
Di eroina, nella Giolla Unita, non ne circolava più. L’unica droga che circolava era il PeranaX, frutto del genio di Giancippoli che aveva sintetizzato e poi perfezionato una polverina costituita da una camarilla di principi attivi che sciogliendosi a turno salivano su, ognuno coi propri effetti; prima la vecchia cocaina, poi i rinforzi di anfetamine e viagra e steroidi, in mezzo delle micropunte leggere di LSD e infine un mix di ansiolitici e metadone, ultimi a entrare in circolo per accompagnare in dolcezza i postumi del down. In un primo momento, ne venne diffusa una versione beta che fu testata da un vecchietto vivace che non vedeva donna da trent’anni e si trovò tra le cosce di una ventenne che al tempo dei soldi le sarebbe costata un anno di pensione e invece era lì, calda e accogliente, tutta per lui e gratis. Morì dopo ore di sfrenato su e giù che gli fermò il cuore, al vecchietto, ma si dice fosse morto appena quella aprì le gambe e che l’attrezzo aveva deciso di fregarsene e andava avanti e indietro di moto proprio e volontà sua, ché se proprio aveva da raggiungere il vecchio nella fossa, almeno un poco si sarebbe sfogato. Comunque Giancippoli ricalibrò il PeranaX, aggiungendovi l’aspirina per il cuore e i betabloccanti. Michela riaprì con incertezza gli occhi; gli zigomi si erano appisolati a mezz’aria e il cuore stesso si era rilassato su un minimo vitale. Solo lo sguardo sembrava
inquieto, alla ricerca di qualcosa che il Truce Attanasio sapeva bene cosa fosse e che andò a recuperare sul pavimento sporco, ancora insalivata e cicciuta come un grosso verme che non ha più la forza di strisciare; il Truce gliela mise dolcemente in bocca, gliel’accese e Michela aspirò le prime note come fossero flogisto. Il Truce Attanasio la guardò con una certa ammirazione: gonfia di botte e rilassata di droga riconobbe la sua arrapante figlioccia. Michela non mosse un muscolo, in quel momento tutto le faceva uguale, le bastava suggere la sigaretta cicciuta e senza filtro, di quelle che poi ti scotti le labbra quando stanno per finire. Truce Attanasio aprì una comoda bottiglietta che teneva in tasca e diede una profonda golata al suo distillato di cuoio e trementina. «Al principio era Questo; e insieme a Questo c’era Tale. Poi, una serie di episodi trascurabili, tra cui l’avvento di Codesto, mezzo di carne e mezzo cinema, e arriviamo infine ai nostri giorni, e a Flora, e là ci fermiamo» iniziò il Truce Attanasio che sembrava avesse voglia di scherzare. Michela nel frattempo aveva sputato sul pavimento un mozzicone minuscolo braciato e reclamò un’altra sigaretta che il Truce le accese con una certa grazia. «Flora, dicevo. Iiih! Hai solo da perderci il tempo con la gente come lui, quelli che per non nuocere ti mandano a puttane l’universo intero. Ma tu con gli uomini non hai mai avuto fortuna, dico bene, no? Vabbè, sei drogata, non vale» concesse. «Ci sono delle cose che non sai, d’accordo, e non te le direi se fossi lucida figurati adesso che non stai capendo un cazzo. D’altra parte, parliamo la stessa lingua e tanto mi basta ma, come ti accennavo poco fa, tu di ruoli non ne hai più, non sono roba per te, meglio che fai la mela rossa attaccata all’albero ché Flora ce lo ritroveremo direttamente in mano. Sei d’accordo? Bene. Dunque: tu ritorni all’Hotel Gramsci, non c’è più motivo che te ne stai a fare la santarella col tailleur e tutto quanto. Ti è andata male… beh, non è colpa tua, il tuo lo hai fatto, te ne do atto e infatti, ammaccata, ma sei ancora viva. Flora ci ha fatto salire l’angoscia con l’oro della vecchia e alla fine lo ha restituito; non era suo, certo, ma non era manco della vecchiaccia e questa, secondo lui, è l’onestà. Ma tu, tu che ci stai a fare ancora alla Beni Vizi e Servizi? Lavoro già ce n’è poco e se lo diamo a chi non lo merita è l’anarchia… le bombe assassine, quelle di Tony Dattoni voglio dire, non scoppiano più ma non era difficile mentre qui è diverso, ci sono in ballo i meccanismi più delicati e in tutta la Giolla Unita siamo in non più di dieci persone a poter alzare anche un solo dito sulla gente, te compresa, te
ne sei accorta immagino, e sei pure fortunata che una di queste dieci sia io, che ti conosco, so come prenderti e parlo pure la tua lingua ché ti poteva capitare chessò, uno dei vecchi tedeschi, spagnoli, inglesi e stavate ancora a uottsiorneiiiiim? E tu che non capivi un cazzo e ti prendevi il triplo delle busse che ti ho dato. Perché tempo ce n’è poco e già la prima mezza giornata è partita solo per ricordare i vecchi tempi. Dunque, tu torni all’Hotel Gramsci a farti stuprare da cani e porci ma non da me, ti ho già avuta e poi i drogati mi fanno schifo. Non ti darò muscolo e sangue ma eroina purissima, tanta per quanto pesi, costolona che sei, e dopo cazzi tuoi, datti fuoco, fa’ come cazzo ti pare, non me ne frega niente. Io e te non ci vedremo più, è certo. Qualcosa da aggiungere?» concesse magnanimo il Truce Attanasio. «Flora non metterà mai piede nell’Hotel Gramsci» rispose solo Michela, guardandolo negli occhi meglio che poteva. «Ah, parli allora! Non che tu sia mai stata una ciarlona, comunque bene, bene. Ne vengono fuori discorsi più interessanti quando c’è contraddittorio. L’Hotel Gramsci dici… uhm, sì. Sono informato della cosa, avessi tempo il tuo Flora mi interesserebbe come caso clinico, è certo, ma il mio tempo è poco e… d’altra parte… neanche io ci entravo nella tua stanza, no? Sei tu che ci sei venuta…» fece insinuante e disponendosi a una qualche reazione. Michela ebbe un fremito dalla spina dorsale e si aggrappò al muro con le unghie per provare a rialzarsi ma quelle si conficcarono nell’intonaco e scivolarono giù impolverate e sanguinanti. Il Truce Attanasio sorrise stronzo e la braccò come un animaletto selvatico incapace di liberarsi da una tagliola a trentadue denti. «Guarda! Ne ho dell’altra…» le fece con l’unico argomento che non fosse qualche ceffone di anestetico e andole sotto gli occhi una seconda siringa già pronta. Michela scivolò lungo il pavimento completamente incosciente, e in quel dormiveglia ovattato si ripeteva senza timore il nome di Attanasio, che aveva cercato di dimenticare per sempre.
7
«Io vado. Tu esci?» fa speranzosa la donna, stanca ancor prima di cominciare la giornata. «Sì, più tardi…» risponde quello dopo essersi guardato l’orologio che segna le otto del mattino. «…mi vedo con gli altri e vedremo cosa ne tiriamo fuori» aggiunge. «Magari una birrozza…» fa lei con l’umorismo della disillusione. «Magari due…» risponde quello senza un velo d’ironia mentre la donna gli aveva già dato le spalle. «Michela? Esci con me?» fa, un po’ più speranzosa. «No, ma’… entro alla seconda ora, quello di greco è malato. Mi rilasso un po’ e poi vado…» risponde Michela in mutandine e reggiseno, sdraiata sul letto che guarda il soffitto. «A stasera allora. Attanasio è in casa…» le risponde la donna come una sorta di avvertimento. «E chi lo muove quello?» risponde Michela allegra. «Non è cattivo e fa tanta compagnia…» ammonisce la donna e dà le spalle pure a Michela senza attendere la risposta. «A stasera ma’!» risponde quella glissando. Per dieci minuti buoni la casa versa nel silenzio più assoluto e solo il “ronrò” del frigo dà segni di vita. Attanasio ha richiuso gli occhi in un meritato riposino ora che la rampognatrice è finalmente uscita. Michela continua a guardare il soffitto e non lo trova per niente bello. Le piacerebbe spaccare il mondo ma di stimoli e di piccoli drammi non ne ha, solo quelli troppo grossi di una bambina. Il letto ben presto inizia a sudarle sulla schiena ben formata e Michela si alza con uno scatto veloce come volesse andar ad assediar Granada ma di Granada non c’era più traccia.
Si guarda allo specchio che l’inquadra fino all’inguine e si trova meno bella di quanto le ciancino alle spalle i suoi amichetti mocciosi e la gente. Anche Attanasio, in verità, ma a quello piace scherzare, non vale. Indietreggia di qualche o e arriva a rimirarsi le chiappe, importanti e ben elevate sulle gambe lunghe ma anche lì trova argomento di sminuirsi, dando tutto il merito alle mutandine sgambatissime. È alta però! Come una giraffa, si schermisce lei, tutta collo. Esce insoddisfatta dalla camera e si mette in ascolto dei rumori della casa, che sono il “ronrò” del frigo e il leggero ronfare alcolico di Attanasio. «Attanasio?» gli fa, quasi sottovoce. «Non più, sono il Truce Attanasio» rispose il Truce Attanasio e le mise in bocca una sigaretta già accesa. «Non abbiamo finito» promise. E diede un’altra golata al liquore, tanto per farle compagnia.
8
«Sai cosa ti frega, bella mia?» si rivolse a Michela, forbendosi le labbra «Essere nata. Io ti conosco come le mie tasche, adesso stai pensando che merda che è Sciarabbai e cose così. Non hai torto. Fosse per quel vecchio rincoglionito stavamo ancora a fare balletti, ma lui per fortuna non conta un cazzo. Se tu fossi stata femmina sapresti cucinare e invece ti sei voluta donna e il mondo non lo capisci più. Sciarabbai il mondo l’ha capito ma deve cucinare con quello che c’è in dispensa, potere non ne ha e neanche forza; si deve fidare di voi ma siccome siete nati tutti per farlo soffrire poi succede che devo rimettere ordine io. Come piagnucolava le lodi di quello lì, il tuo amichetto: “È la persona giusta, io sono vecchio, Gerbero è in gamba ma pure tanto ottuso e Anpichisi lo sai com’è fatto”. Vabbè, gli ho risposto io, ma fallo entrare con merito, il merito prima di tutto! Sennò è l’anarchia! Anche io, sono mica qui per te! Mi ci hanno mandato e casualmente tu sei qui ma tu mi interessi manco un cazzo se non come strumento dei piani miei, non te lo scordare: tu mi interessi manco un cazzo, non abbiamo più niente da dirci, io e te. Gli ho detto: c’è l’oro della vecchia e il tuo amichetto è ben sensibile all’oro e pure a te, no? Ti ama quello, lo sappiamo bene, quindi, cosa meglio della gnocca come te che innesca un bamboccio come quello:
abilità, destrezza, lealtà e vecchi fantasmi del ato, il cosiddetto “amore”, gli faccio io e quello mi fa “sissì”, so come fare, e come no? Il tuo amichetto, come temevo, ha mostrato limiti evidenti, non decide nulla, si chiama fuori dai doveri, ti fa pure le corna, rinuncia a tutto per non sbagliare e tutto manda in mona, guardati allo specchio, bella mia! Altro che amore! Tu lo devi odiare Flora! Comunque. È andata come è andata e ormai siamo qua. E la posta si alza! Adesso gli diamo uno scopo al tuo amichetto, uno di quelli che ci arriva pure lui, di quelli terra-terra: lui ti ama, no? Ti vuole indietro intera, no? Se lo dovrà guadagnare! Con la gente come lui è così che ci si comporta. Tu torni all’Hotel Gramsci, forse te l’ho già detto. La vecchiaccia se lo tenesse il suo oro. Chissenefrega? Adesso siamo a Questo, Codesto e Tale, l’oro della Gionta Unita. Quello sì che ci interessa, è ben per Questo che sono qui! Uhmmm… non ti trovo convinta… mi sa che tu di queste cose sai veramente poco… vabbè, ormai la mattinata è andata e mi piace fare il sapientino di tanto in tanto. Dopotutto può essere una cosa simpatica, come quando ci si rivede e ci si racconta cosa abbiamo fatto nella vita e tu mi sa che hai fatto pochino. Tieni, fuma e apri bene le orecchie ché ti racconto una storiella. Io bevo.»
9
«Più o meno andò così» attaccò il Truce Attanasio dopo una profonda golata che diffuse nell’aria quel forte aroma di cuoio e trementina. «C’era grossa crisi e tutti avevano paura che presto sarebbe arrivata la fine del mondo. Di figli non se ne facevano già più, per egoismo e per la paura di un futuro che non si vedeva. Era la crisi di una civiltà, non del mondo intero, ma si tendeva a non spaccare il capello in quattro. Così, i giorni avano, la crisi peggiorava ma la fine del mondo non si vedeva. Allora tutti, un po’ delusi ma anche contenti di essere ancora vivi, iniziammo, anche io eh, tra una birra e l’altra, a studiare la situazione. Tutti arrivammo alla stessa soluzione: l’oro. Il bene rifugio per eccellenza era l’oro: il lavoro, il denaro, il mattone, le obbligazioni, azioni, titoli di stato, petrolio… era tutto sacrificabile, ma l’oro no! Quando nulla avrebbe più avuto valore, l’oro sarebbe diventato la moneta e, nota bene, non eravamo poi così pessimisti, altrimenti avremmo detto un pezzo di terra per coltivarci il cibo e scambiarlo. Tornava l’età dell’oro, la febbre dell’oro, l’oro colato, l’oro in bocca… insomma tante suggestioni che fecero breccia nella nostra apatia
terrorizzata e, d’altra parte, è sempre stato questo il valore aggiunto dell’oro, oggettivo, certo, ce n’è poco, ma soprattutto psicologico e morale: è bello l’oro, luccica come i bei ricordi, è docile alle lavorazioni ed è il suggello delle alleanze maggiori, quelle degli uomini con le donne, parlo di femmine eh, non troiette come te. Comunque avevamo scoperto l’acqua calda ché l’oro era misura del valore delle cose anche ai tempi della crisi, ma per la verità nessuno sapeva dov’era andato a finire. E questo è l’antefatto.» Si fermò per un attimo Truce Attanasio che riprese il fiato e si concesse un’altra golata di sgnappa mentre Michela guardava preoccupata quel nanerottolo tanto assertivo che gli sembrò per la prima volta un pazzo scatenato. «La conversione dei beni in oro fu non solo reputata corretta da tutti i più fini economisti, “è una vita che lo diciamo”, si difesero, ma anche portata a termine nel giro di pochi mesi, attraverso le banche. L’oro perse la sua consuetudine effimera di ornamento e status e si trasformò in tristolini lingotti di vario calibro, dai dieci ai cinquecento grammi come i tagli delle monete che presto sarebbero diventati. Entro i primi sei mesi chio tutte le gioiellerie e l’oro divenne un affare di singoli cittadini, accaparrato e rinchiuso nelle trippe dei materassi: eravamo diventati stati-nazione, ognuno con la sua riserva aurea. Il 14 di luglio dell’anno dopo, era facile da ricordare, furono inaugurati i maxischermi in tutte le città, da lì ribattezzate “oasi felici”, di quella che prese il nome di Giolla Unita, con la scusa di globalizzare il sano divertimento dei si che quel giorno festeggiavano la presa della Bastiglia e si abbandonavano ai peggio balli, crapule e orge, ’mbriachi di beaujolais e con le donne con le poppe al vento e senza mutande. Tra un collegamento e l’altro fu diffuso un breve comunicato nel quale un asettico mezzobusto lesse senza alcuna intonazione un’agenzia lapidaria che lì per lì, inebriati da tutta quella crapula, nessuno capì appieno. Lo United Network, di cui da quando aveva cambiato nome si erano perse le tracce, dava conto di una ricerca finanziata in un qualche staterello dell’Africa Centrale dove era stato rinvenuto nelle viscere più profonde un giacimento d’oro favoloso, che da solo equivaleva, nella stima, a cinquanta volte la riserva aurea mondiale e che sarebbe stato estratto e diviso proporzionalmente tra le nazioni civili, prometteva l’agenzia. Poi i si ripresero il loro sabba, tutto documentato dai maxischermi. Il giorno dopo era sabato e le banche erano chiuse fino al lunedì, giorno in cui vennero a formarsi dei discreti capannelli di gente comune e meno comune, tutti con le valigette colme d’oro al seguito. Nello stesso momento, pronti? Via! aprivano le Borse che ne registrarono il crollo e la vendita fu sospesa e fu avviata pure un’inchiesta, e che cazzo dovevano inchiestare? Le banche non aprirono neanche e furono sprangate fino a
nuovo ordine. Ci furono tafferugli, qualche ferito, degli arresti. In tarda mattinata fu convocata un’assemblea straordinaria dell’UN che doveva rispondere a tre domande secche messe nero su bianco da tutti i rappresentanti delle nazioni africane: 1. Perché era stata finanziata una simile operazione, non potevano continuare a dormire come negli ultimi venti anni? 2. Perché avevano comunicato urbi et orbi che volevano estrarlo tutto, quell’oro, quasi non avessero previsto, di fatto, il crollo del suo mercato? 3. Con quale diritto se lo accaparravano le cosiddette “nazioni civili”? Rispose il Social Master in persona, un orgoglioso e corpulento samoano che parlava otto lingue e indossava una tunica verde col fiocco verde davanti. Disse che quel territorio, non ne specificò il nome, scottava parecchio e anzi stava diventando il fulcro stesso della Paura Mondiale, una sorta di baubau che metteva insieme l’Apocalissi Naturale e il Terrorismo Culturale, e lasciare un pozzo senza fondo nelle grinfie degli uomini cattivi significava dotarli della peggiore delle armi e pure alla mercé della cazzimma della Natura. Così l’oro sarebbe stato estratto e depositato al sicuro nei caveau delle “nazioni civili” che più di tutte si erano distinte per le loro battaglie di civiltà e che avrebbero investito l’oro per sostenere le politiche sociali, poiché nello sforzo di portare la civiltà nel mondo si erano incidentalmente impoverite e adesso erano via dal culo. Questa chiusa diede luogo a un fatto curioso: i rappresentanti delle nazioni meno civili si alzarono all’unisono e se ne andarono via senza dire parola. Sono quelli che oggi chiamiamo “Resto del Mondo”. Rimasero seduti solo i rappresentanti degli stati africani, che se ne restarono sbigottiti con i loro interrogativi e le domande cui non ebbero mai più risposta e noi, quelli che, ancora oggi, ci chiamiamo Giolla Unita che lì fu quindi battezzata ufficialmente, e se la parola battesimo non ti dice niente non è colpa della droga, è colpa tua che a quei tempi ti piaceva solo di giocare coi bamboli, cioè io.» Si arrestò nuovamente il Truce Attanasio in cerca di una pausa alcolica. Michela stava cercando di seguire quel filo impazzito nonostante l’eroina le fe chiudere gli occhi.
10
«Come previsto…» riprese il Truce dopo una golata e fregandosene dello stato d’incoscienza di Michela «…il prezzo dell’oro precipitò e i maxischermi presero la forma di una Giolla-Visione, ventiquattr’ore su ventiquattro, e tutta puntata in quel paesino del Centro Africa dove si vedevano senza soluzione di continuità sonde, trivelle, caschi blu e gialli sulla testa di tante personcine, aerei, elicotteri, armi ed eserciti schierati, fili d’alta tensione, container, blindati… si vedeva anche l’oro ma di sfuggita, che saliva su dei nastri cingolati a placide cascate e assomigliava a tanti lingotti tutti uguali tra loro, giusto un po’ sbrecciati. A inizi settembre l’oro valeva meno dell’ottone. Che ne era stato degli altri metalli? Anche i “domestici” argento, platino, diamanti… noi, cittadini comuni, non ne avevamo più, tutte le forchette, i solitari di eterno amore erano stati barattati e convertiti in oro e alla fine erano arrivati alle Banche Centrali che, boh? Al momento non lo sapevamo e poco anche ce ne importava, non ne avevamo e stop. Le banche chio e non riaprirono mai più, la tensione era salita alle stelle. Poco cambia allo zoppo se gli tagliano la gamba intera, e così eravamo messi noi, in bilico per quel pessimo affare ma ancora con il lavoro e la carta straccia della moneta, sempre più debole. Metà della Giolla Unita mangiava a giorni alterni ma anche quella è una quotidianità, ci si abitua, e ci rendemmo conto che la fine del mondo non sarebbe mai arrivata, ci saremmo adattati a tutto. E siamo arrivati ai nostri giorni.» Prese pausa il Truce Attanasio, che dopo la golata si concesse anche un paio di fischiettate di quello che sembrava un antico Requiem. Michela, cercava di vincere il sonno ovattato e mettere ordine ai suoi ricordi, di fatti non più vecchi di una decina d’anni e che non ricordava né così epici né così disastrosi. D’altra parte a quei tempi aveva ben altri drammi per la testa! Ma il frigo era pieno e faceva “ronrò” proprio perché straboccava di roba. Di questo era sicura. Forse.
11
«Era scomparso il futuro, insomma. E noi, come tanti sonnambuli, eravamo diventati delle formichine di talento, di quelle che da cicale coglionavano i padri
che si erano spaccati la schiena per fare figli, costruire tetti, rincorrere la mobilità sociale con gli studi, che continuavano a leggere libri che non capivano, ’mbriachi di ignoranza e di stanchezza ma i loro figli no, sarebbe stato diverso e infatti fu diverso, anche noi ci trasformammo in formichine, come loro, ma per mettere insieme il pranzo con la cena. La moneta svalutava giorno per giorno e presto si iniziò a mangiare un giorno su tre, io e tua madre anche uno su quattro, tu eri già scappata per fortuna, sennò eri un’altra bocca da sfamare e saremmo morti di sicuro. Si comprava solo cibo e acqua; tutto quello che si rompeva si accomodava e poi si buttava via, un incisivo, la televisione, una tazzina da caffè… i maxischermi sostituirono i viaggi, con la diffusione ventiquattr’ore su ventiquattro della tranche de vie dalla Giolla Unita, l’unico turismo possibile non solo perché nessuno si poteva permettere di viaggiare ma anche perché le singole municipalità avevano introdotto dei balzelli di soggiorno per sgomberare dalle loro città le forze lavoratrici di trasferta, in un patetico tentativo di assicurare il lavoro almeno ai propri cittadini, almeno per il tempo che mancava alla fine dell’estrazione del giacimento straordinario, quando ogni singolo Stato Civile, come ci era stato promesso, sarebbe diventato totalmente assistenziale. Aspettavamo, quindi. Sesso e droga vennero liberalizzati e dati in gestione dai governi cittadini; si vendevano a prezzi stracciati, in tuguri nascosti e puzzolenti che presero a essere frequentati non da quei pochi che almeno mangiavano tutti i giorni ma dalle derive peggiori dell’umanità, gente senza un tetto che rovistava nella spazzatura, sporchi, laceri e senza denti che là dentro sniffavano le peggio colle e si fottevano bagasce sessantenni che avrebbero fatto scappare un morto a gambe levate. Ne presi uno in gestione e a chi non moriva di volontà sua gli davo una mano e ne diventavo l’erede: spiccioli, un ciocco di pane, la casa dove abitavano, il mobilio… non era difficile, la polizia non operava più, e neanche i tribunali, le galere… Da lì è iniziata la mia carriera, bella mia» concesse sorridendo il Truce Attanasio, tirando un buffetto sul naso a Michela che ascoltava a bocca aperta. «Le tecnologie domestiche, quando ancora funzionanti, si erano comunque imbolsite. La televisione trasmetteva per otto ore al giorno, da mezzanotte alle otto del mattino, e il 50% della programmazione consisteva in vecchi film western di quasi un secolo prima, coi colori così sciupati che non riuscivi a distinguere John Wayne da Penna Rossa. Internet viaggiava lentissima e si impiegavano nottate intere al terminale, quando un po’ si velocizzava, per prendere nota di quelle quattro, cinque pagine che si aggiornavano con una certa frequenza: il meteo, le cartoline dalla Giolla Unita, una morra di giochini d’abilità e destrezza, i cruciverba e il gioco della dama contro il tuo stesso PC, il
cui processore si era così scimunito che perdeva tre volte su quattro. Ogni tanto, discretamente, si poteva leggere sullo schermo un qualche pensoso intervento degli antichi intellettuali che sembravano spariti, risucchiati dalla fame, e che una tantum scrivevano pezzi brillanti e positivi su di un nuovo tempo che stava per arrivare, il “tempo del rimbalzo” lo chiamavano loro e, quindi, era il caso di attrezzare il cervello con operazioni intelligenti come riscrivere l’Iliade senza gli dèi, l’Inferno senza Virgilio, e il povero Ulisse prima senza Penelope e poi senza Molly, tutti elementi di disturbo nell’innocua crociera dei fattarelli come il pubblico li desiderava! Era una cosa curiosa e a tratti entusiasmante, e ci consolava della nostra stessa incertezza che adesso potevamo condividere con Omero, Dante e James Joyce. Poi, già ridotti a compendio, i libri sparirono del tutto, con le loro storie, avventure, ricerche, sfide, ricordi… sostituiti dalle pagine illustrate con qualche commento in una specie di reportage dei viaggi che non erano più esperienze vissute ma autopsie desunte dai fotogrammi sciolti delle oasi felici della Giolla Unita, che poi divennero didascalie e infine puntini da congiungere per ottenere una scenetta elementare o una qualche faccia nota. Tutto si semplificava, dopo il ventre piatto delle donne anche il corpo degli uomini mutava con il virus delle atrofie, fomentate dalla filosofia del “chilometro zero”, che bollava il movimento come svantaggioso, quando non pericoloso, e si tessevano le lodi dell’uomo nuovo e stanziale, come Apollo, il più perfetto di tutti gli dèi. Ma tu non sai neanche chi sono Questo, Codesto e Tale e quindi che te lo dico a fare…» si rivolse per la seconda volta magnanimo a Michela che sembrava quasi avesse ritrovato quel vecchio amico che le raccontava tutte quelle belle storielle che l’avevano quasi fatta innamorare.
12
«Poi, un bel giorno, la Giolla Unita dichiarò la guerra alla fame nel mondo e tutti ne rimanemmo perplessi ché non c’era da andare molto nel mondo per trovare la fame che già spadroneggiava in casa. I maxischermi fecero da cassa di risonanza, con delle immagini giganti di bambini di tutto il mondo, ma soprattutto africani, col ragù alla bolognese che scendeva sulle guance e annegava le mosche che continuavano a girellare impavide sulle facce ossute e ulcerate di quei piccoli. La guerra fu vinta facilmente e ci riempì tutti di sano orgoglio, quasi fosse opera del genio nostro risolvere un problema che ai tempi
delle vacche grasse non eravamo stati in grado neanche di scalfire. Il cibo, quello che per inciso mancava a noi, raggiunse il più infimo dei più nascosti villaggi di fango dove gli operatori si avventurarono e che poi sparavano nei maxischermi in reportage muti e dettagliati nei quali si vedeva sempre gente che mangiava. In realtà si vedeva anche altro, di sfondo, più muto dei maxischermi. Erano strade asfaltate, mezzi pesanti, ciminiere, ruspe e un mucchio di persone in tutte le divise del settore agricolo, industriale e terziario, affaccendate in qualche faccenda sotto l’occhio benevolo di uomini bianchi che spiegavano delle cose con pazienza; erano quelle stesse ciminiere e unità di produzioni che alla chetichella erano sparite dal paesaggio urbano delle nostre città che si stavano trasformando in oasi felici. “Grandi manovre” aveva concluso lo speaker alla fine del reportage, la Giolla Unita si stava liberando del lavoro, lo Stato Assistenziale era quasi al traguardo, e si sarebbe chiamato Beni Vizi e Servizi. E tutti noi facevamo il tifo per quegli uomini neri. Ti piacciono gli uomini neri, eh, porcellona? Per questo sei scappata…» prese pausa il Truce Attanasio e chiese ammiccante a Michela tutta orecchi, che di uomini neri non ne aveva mai visto uno dal vero.
13
«E il grande giorno infine arrivò. Fu diffuso sui maxischermi della Giolla Unita il seguente messaggio: le Banche Centrali (e le loro filiali autorizzate) avrebbero finalmente ritirato il denaro contante e tutta l’inutile riserva d’oro che i cittadini avevano accumulato e che non valeva più niente. In cambio, a tutti sarebbe stata consegnata una Tessera da cinquemila punti, vitalizia e nominale. La Tessera toccava a tutti, belli e brutti, lavoratori e no, maschi e femmine, esclusi solo i minori di sedici anni che restavano a carico, e comunque il cambio punti-denaro delle merci continuava a essere assurdo ma nel verso opposto, e se prima lavoravi e magari neanche mangiavi, adesso continuavi a non avere un cazzo da fare e permetterti un tenore di vita straordinario, come un pensionato sfondato dei vecchi soldi. La Giolla Unita ringraziava i suoi quasi 1.500 milioni di abitanti della pazienza ma adesso erano arrivate le vacche grassissime: no al lavoro, no all’inquinamento e a quei pessimi tuguri che spacciavano le colle tossiche e bagasce inguardabili, adesso sarebbero fioriti gli Hotel Gramsci in ogni oasi felice dove una diciottenne di carne fresca corredata di croissant,
fruste, dilatatori, vinello e PeranaX sarebbe costata appena due punti-tessera, tanto per fare le proporzioni. Mensilmente, la Tessera si azzerava e ripartiva da cinquemila. Tutto pagato. Gli antichi governi presero il nome di Beni Vizi e Servizi, uno per ogni oasi felice. Insomma, il futuro continuava a non esistere, niente accumuli né investimenti, né stratificazioni sociali… ci avevano pensionato, ma da gran signori. «L’oro divenne illegale ma chi se ne fregava! Liberarsene era stata una fortuna inaspettata come quando ti svuotano gratis la cantina dalle cianfrusaglie accumulate in una vita. Eravamo pazzi di entusiasmo come quei vecchi barboni che si appostavano davanti ai ristoranti e aspettavano che buttassero gli avanzi, folli di felicità. Così ci godemmo i pasti caldi e il sesso a buon mercato senza chiederci nulla, sperando solo in cuor nostro che mai arrivasse l’oste con il conto perché così è, cara mia, l’animo umano, mica si chiede come possa una bella costolona come te giacere più di venti secondi con un vecchio come Sciarabbai, tanto per fare un esempio. L’ignoranza è sempre un bell’argomento da impugnare, è sempre stato così… infatti… ò appena una settimana e sonnecchianti di crapule e di orge, alterati di PeranaX, sentimmo, e fu l’ultima volta che i maxischermi diffo l’audio, che il famoso, ricordi?, giacimento d’oro era stato vittima di un violento acquazzone di pioggia acida. Forse mano della Natura, forse dei terroristi, forse di entrambi, non si sapeva ma quel che era certo è che tutto l’oro era andato in fumo, sia quello estratto, e di cui non si era spostato un solo grammo dal primo giorno, sia quello da estrarre ché la pioggia finissima aveva bucato il terreno e aveva fatto risalire una densa cortina dorata, una sorta di immenso fumogeno, che i poveri abitanti di quel piccolo paesino del Centro Africa lo avrebbero respirato come polvere sottile per i successivi cento anni, poveretti loro. Tutti commentammo in coro: “Sono stati i terroristi, i conti tornano. Ma noi abbiamo la Tessera e anche l’Africa non morirà più di fame”. Il che era anche esatto. L’oro, tornato alle sue modeste quantità, ritrovò il suo antico valore, anche maggiore dato che a possederlo, nominalmente, erano solo le Banche Centrali. In realtà l’oro ò al Resto del Mondo che un giorno patirà esattamente tutto quello che abbiamo patito noi ma nessuno li pensionerà perché non ci sarà più nessuno a poterlo fare, poveri coglioni, ma non divaghiamo. Adesso hai capito? Non credo. Allora, la Giolla Unita si era spogliata delle sue formidabili produzioni in tutti i settori, quelle inquinanti e di modesta tecnologia erano andate in Africa, che ne guadagnava un piatto di lenticchie tutti i giorni, le altre al Resto del Mondo che in pratica prendeva il comando di tutto. Tutte le riserve di preziosi erano state stoccate e ate brevi manu insieme alle tecnologie, al know how e a centomila tra le migliori menti della Giolla Unita,
tra cui il nostro glorioso Giancippoli, al Resto del Mondo che ci a tutto quello di cui abbiamo bisogno, il cibo e il lusso insomma, ché le badasse come te le coltiviamo in loco con i brodi di giuggiole e il PeranaX lo sintetizziamo da noi; manca un piccolo particolare e qua ci arrivi pure tu, grazie al tuo mestiere: anche da Ospizio la Giolla Unita ha bisogno delle sue corvée, alcune delle quali anche onerose, tipo una come te che si deve covare tra le gambe uno come Sciarabbai. Perché farlo, se il lavoro non aggiunge né toglie nulla al tenore di vita quotidiana? Ed ecco che l’oro torna a soccorso, guarda caso. E anche il lavoro. Questo ritrova il suo senso, il pagamento insomma: il lavoro è pagato indipendentemente dalla Tessera, in grammi-oro che sono accreditati ad personam, insomma sai bene come funziona, tu sei un puttanone di un certo calibro e hai i tuoi cinque grammi, nominali, non li hai mai visti, annui e che vanno in conto deposito per l’unica merce che non puoi comprare con la Tessera, le gite nelle oasi felici della Giolla Unita. È quello l’unico futuro di ogni abitante della Giolla Unita: accumulare punti-oro per viaggiare, e ce ne vogliono tanti, così tanti che è praticamente impossibile metterli insieme talché puoi star certa che nessuno di voi si sposterà mai di un millimetro. Io invece vado dove cazzo mi pare con la mia Tessera Gold, nessun luogo mi è precluso.»
14
Truce Attanasio adesso ansimava, da un lato stanco, dall’altro completamente ubriaco. Michela, un po’ timorosa, gli aveva chiesto un’altra sigaretta e quello ci aveva messo un po’ a trovarla e fargliela accendere. Michela diede una lunghissima prima spirata e ripensava a quella storia che le sembrava inventata di sana pianta. Delle incoerenze del racconto aveva saggiamente deciso di non chiedere perché la sua intelligenza istintiva le aveva scattato da subito la fotografia di quello che era diventato Truce Attanasio: non stava raccontando una storia tanto per are il tempo, stava giudicando delle cose di cui lui non era responsabile, quasi a chiamarsene fuori, a costruirsi un alibi serio qualora le cose avessero preso una piega inaspettata; di tutto quello che aveva raccontato non gli si poteva imputare nulla, l’aveva subito come tutti. Ma di quello di cui era più o meno coinvolto aveva taciuto, e aveva taciuto delle bombe quotidiane, della caccia all’oro, che comunque circolava ancora, e di quella Gionta Unita e la triade di Questo, Codesto e Tale che erano i suoi principali avversari. A tutto ciò
il Truce aveva solo accennato, anche con un certo timore che è lo stesso che si ha davanti la preda ancora viva che può diventare lei predatrice. Poi Michela amava per davvero le storie e le storie hanno in comune un insegnamento nascosto, sempre, e l’insegnamento della storiella del Truce era che il complotto non esiste, è la Storia che complotta in prima persona. La Gionta Unita, certo, ma anche l’incoscienza di Flora, la sua apatia e la sua angoscia che nascondevano un’eversione, un non starci che faceva anche più danno. Su tutto ciò il Truce Attanasio aveva bellamente glissato, con la scusa che era ubriaco. Quello aveva percepito un certo “mumble mumble” nell’aria e con un grosso sforzo cercò di romperlo, schiarendosi la voce e ricordando a Michela un dettaglio che forse le era sfuggito: «Tu adesso torni all’Hotel Gramsci, ti ci porto io con queste gambette.» E con la spinta della sua ubriachezza schizzarono fino alla porticina della Beni Vizi e Servizi dove Michela ebbe la presenza di spirito di abbassarsi e la ò, ma il Truce non si era ben fatto l’occhio e valutò, male, che l’avrebbe ata pure lui ma a busto eretto e fu colpito da una tranvata che gli scoppiò sulla fronte come un petardo inatteso. Lo choc lo fece traballare ma quando si accorse che là fuori Michele Sciarabbai lo stava guardando perplesso si rimise dritto e riprese la faccia del Truce che era. I tre Michele stavano aspettando pazienti di riprendere il loro posto in ufficio, solo prestato al Truce per il suo briefing con Michela; alla portinaia racchia era stato dato un intero giorno di riposo e lei, paventando il licenziamento, se ne stava a casa a mordersi il cuscino e piangere disperata. Michele Anpichisi, anima bella, guardò quella strana coppia per alcuni secondi e cogliendo l’aspetto comico di quel trenino sverso, scoppiò a ridere senza parole proprio in faccia al Truce, e lo additava, si teneva la pancia, faceva le smorfie più canzonatrici e il Truce lo guardava quasi esterrefatto da tanta audacia; poi, audacia o meno, gli si avvicinò col labbro pendulo e la cravatta rossa slacciata e gli rifilò un cartone impreciso che fece la barba alla guancia destra del mutino, con le unghie che gli affondarono nella pelle, lunghe e sporche che c’era da prendersi il tetano solo a guardarle. Il giovane Gerbero, completamente nuovo alla violenza, si mosse istintivo per fare qualcosa che non sapeva neanche lui, sconvolto e dal gesto e dal pianto con lacrime ma senza lamento che Michele Anpichisi faceva cadere senza vergogna; fu Sciarabbai a fermare il giovane con un gesto netto della mano che gli sbarrò il o. Michela, un poco più presente, prese sottobraccio Truce Attanasio e se lo
portò via, all’Hotel Gramsci, il cui portone era almeno grande e grosso e lo avrebbero ato senza difficoltà.
15
Il filosofo li stava aspettando paziente e ottimista. In quell’ingresso, su quel piedistallo, se ne stava come sempre dritto e con gli occhialini tondi e sottili, la cui montatura era stata dipinta di rosso da un tocco di vernice, giusto per dare una vivacità a quella faccia severa e punto contenta di trovarsi lì, in quel puttanizio che portava pure il suo nome (e in più, lui di hotel aveva conosciuto giusto le carceri e ci era pure morto, a dirla tutta). Dopotutto, non gli somigliava per niente. Era quasi mezzogiorno, culmine del turno casalingo, e nell’aria il pungente tanfo dei disinfettanti si mescolava micidiale all’aria viziata della crapula senile e a quello delle mele cotte gentilmente offerte dalle direzione. Due vecchietti in pigiama e paltò erano già pronti con le scodelle e il cucchiaio a rifocillarsene, prima del soddisfatto ritorno a casa dalle loro vecchie. Una badassa in tuta rosa con l’elastico allentato ò loro davanti offrendo le chiappe da baciare e quelli furono lampo e già le mani si stavano incuneando nei meandri della natura e quella, paziente, le rimetteva a posto. «Su, su, signor Gribaudo, signor Granero, pure lei…» E svelta li scavalcò mentre quelli erano rimasti attaccati all’elastico che si tese per quasi un metro e poi ritornò con uno schiocco secco al proprio posto, su quel culone nudo. Il Truce Attanasio si muoveva nell’Hotel Gramsci come a casa sua. Percorse al fianco di Michela l’ingresso, così lungo che arrivati e voltatisi indietro per un attimo, il busto di Gramsci sembrava una pedina sola e sconsolata di una scacchiera abbandonata. Il pavimento, liscio e monocromo di splendente marmo bianco, invitava al pattinaggio più estremo, tenuto lucido da due portantine a un grammo d’oro l’anno che lo nettavano da schizzi e sbrodolamenti puteolenti. Le pareti erano bianche di calce quasi viva e davano un riverbero fastidioso che solo al Truce Attanasio non dava noia, coi suoi occhialini neri; Michela lo seguiva a occhi
chiusi, lei lì ci poteva giocare la mosca cieca. arono la portineria, dove il Truce esibì la Tessera Gold, tutta dorata e splendente come mai l’omino ne aveva viste ma solo sentito parlare e, con sussiego, fece are e provò anche a salutare Michela che non rispose. Finita questa prima fase, la coppia andò a sedersi su certe poltrone di damasco verde per riprendere fiato e sensi prima di buttarsi dentro. La seduta morbida fece risalire al Truce l’intera bottiglia di sgnappa che si era bevuto e che dopo uno spruzzo formidabile si sversò sul marmo in pendenza e scivolava via lontano dai suoi piedini che quasi non toccavano terra; un solo sguardo severo del portinaio dirottò le due portantine sul posto e, con abile gioco di straccio e secchio, l’ebbero vinta su quel lago dolce e nauseante di cuoio, trementina e succhi gastrici. Michela non muoveva un muscolo, il suo sguardo era tutto preso da quell’ultima porta da attraversare, adesso chiusa. Non molto alta ma di pregiato mogano infuocato, a circa mezzo metro d’altezza era stato ricavato un buco che prima sicuramente non c’era, Michela non se lo ricordava, e lì si stava sversando furiosa la Samba del vecchietto, la galoppata con gli amici di sempre, Charlie Brown e Brigitte Bardot, le trombette e il trenino, che si impossessavano dei basso ventre di quei vecchietti malfermi e claudicanti che si davano forza e coraggio con dei fuori testo, qualche frase ischemica e ululante che pareva essere sempre yes, we can, e ci credevano proprio, che ce l’avrebbero fatta! Lo spiffero che filtrava dal buco della porta riempì d’aria la panza di Truce Attanasio che dopo un minuto tirò giù una potente scoreggia di aria pura e musica che gli diede un sollievo immediato. Così ritemprato, si alzò in piedi per agevolarne un’altra più breve ma più rumorosa. Poi prese malamente Michela, ancora seduta, per un braccio e con l’altro le diede due ceffoni inattesi che le ricordarono chi erano e cosa ci facevano lì. Michela non disse né “a” né “ba” e il Truce, messosi di fronte, iniziò a strapparle la gonna lunga e le mutandone, con tanta difficoltà che Michela stessa andò per aiutarlo e si buscò altri due ceffoni. Non si doveva muovere! Poi dovette cambiare idea ché, così denudata, la fece alzare e la spinse verso il portone chiuso e servendosi dei ceffoni la fece mettere prima di spalle e poi la fece aderire dalle chiappe su quel buco, piegata in due. A quel punto, il Truce ritrovò
la parola e si capiva bene perché se l’era risparmiata fino a quel momento ché cacciò un urlo che sovrastò anche quella galoppata festante e spensierata: «COCCIIIII!!!!» gridò con tutta la voce che aveva e la musica ci mise cinque secondi a silenziarsi e poi a zittirsi del tutto. Michela sembrò riprendere vita cosciente con lo stesso sguardo atterrito della prima volta che aveva visto Truce Attanasio; non capiva cosa e come ma di certo era nulla di buono. Certissimo. Il Truce ritornò ai ceffoni, per far flettere quel corpo riottoso che adesso aderiva con le labbra sulle ginocchia, mentre dall’altro lato delle mani professionali la stavano scrutando nell’intimo, la lubrificavano e cercavano di risolvere alcuni dettagli di balistica. Poi qualcosa entrò in funzione, una specie di motorino a pile e Michela non ebbe il tempo di chiedersi cosa potesse essere che quello le era entrato dentro, freddo come la morte ma duro come l’acciaio. Le scappò un grido così acuto che a Truce si rizzarono i capelli in testa ed era uno spettacolo vedere quella mappazza imbrillantinata che si era alzata sulla testa come un nido di rondine. Come era entrato così se ne stava uscendo ma con ancora più dolore ché quel coso, qualsiasi cosa fosse, sembrava oltre che lungo e grosso anche dotato come le fiocine che quando entrano dentro si aprono e nell’uscire lacerano le carni. Michela piangeva a calde lacrime e un principio di soffocamento la colorò tutta di viola. Molte volte entrò e altrettante ne uscì quel coso, finché Michela decise di trattenere il respiro e finalmente svenne mentre Truce la teneva stretta davanti con le forti mani sulle guance. Quando la pompa si arrestò, Truce Attanasio sfondò il portone con un preciso calcio dei suoi piedini. Questo si spalancò e aprì la vista su un gregge compatto di personcine seminude, chi in mutande, chi in vestaglia, chi con la papalina e le calze da notte, chi in tuta o con solo un maglioncino slabbrato, tutti in pattine e tutti che guardavano a bocca aperta il signor Truce Attanasio che tastava soddisfatto la svenuta Michela da terra. La Samba del vecchietto riprese all’istante ancora più ossessiva e festante, mentre due piccole schiere di pensionati portavano in trionfo Michela e il poderoso e cazzuto Orgasmatron, una macchinetta a moto semplice che faceva
andare avanti e indietro ma anche sopra e sotto una sorta di manico da zappa cavo, dipinto di rosso e giallo. Da lì sopra quella pompa bicolore sversava sulla folla un liquido vischioso e lattiginoso che sembrava l’allegria della sciampagna e di cui tutti vollero bagnarsi le labbra. Truce Attanasio si pescò una seconda bottiglietta vergine di sgnappa e iniziò a sorseggiarla, inebriandosi di cuoio e trementina.
16
Michele Sciarabbai stava prendendo gusto al suo nuovo ruolo di vigile urbano e dopo aver fermato Gerbero che voleva lanciarsi sul Truce, adesso col medesimo gesto della mano sbarrava il o ai due colleghi che volevano rientrare in ufficio. Si avventurò lui da solo, a ispezionare il teatro di qualcosa certamente poco simpatico. Entrò circospetto guardando attentamente a destra e sinistra, con veloci e improvvisi movimenti della testa, come volesse sorprendere una qualche blatta intenta a spadroneggiare sulla moquette. Sciarabbai attraversò la portineria orfana della racchia e si fermò davanti la porta del loro ufficio rimasta negligentemente spalancata. Mise dentro prima una mezza faccia e subito la ricacciò fuori per l’odore acre di urina, cuoio e trementina che stagnavano. Tornò indietro verso la portineria e aprì un piccolo sgabuzzino, così nascosto che sembrava essere noto solo a lui, e da lì prese stracci e detersivi. Vi indugiò qualche secondo per accertarsi che non vi fosse nascosto un qualche mostro e si tranquillizzò quando si accertò della sola presenza della raggiera colorata delle scope, con le setole all’aria e la linea degli stracci ancora umidi. Riempì una vaschetta rossa con delle bottigliette sigillate di acqua minerale e poi si perse un po’ nei calcoli dei giusti tappini di detersivo per tanti litri di acqua. Vi appoggiò lo straccio dentro e tutto fradicio lo pose su quel rigagnolo giallastro che era stato il pudore e il terrore di Michela.
Molte volte strizzò nel secchio lo straccio da quella macchia che sembrava volersene stare lì per sempre, intrisa nella moquette, e solo quando si arrese, anche lei, come Michela, come lui stesso, si ritenne soddisfatto. Poi con uno straccio pulito, rinfrescò i mobili e le suppellettili intrise di quei cattivi odori. Tanta era la foga e la soddisfazione del lavoro ben fatto che si scoprì a canticchiare con la sua voce da baritono la Samba del vecchietto, quella colonna sonora che allietava quelli come lui, con un piede nella fossa, che invece di prepararsi alla morte dignitosa si strusciavano alle badasse del turno mattutino carichi di mele cotte e PeranaX, pieni di vita posticcia, immortali quasi, e solo perché il loro tempo era poco e quello di Torello e della Giolla Unita era poco lo stesso; si sarebbero spenti, uno dopo l’altro, senza drammi, e l’ultimo centenario della Giolla Unita si sarebbe fottuto l’ultima badassa centenaria dell’Hotel Gramsci, come si chiamava? Sì, Sofia Godolini! Niente male, una finta timida, una che avrebbe dato soddisfazioni! Sarebbe stata lei a chiudere la porta, un bel nome per chiudere tremila anni di Storia, Sofia Godolini e lui… ah, loro, i gemelli italo-si, Le Mec e Le Truc, beh, beati loro! In tre si sarebbero divertiti un pochetto e, se fossero stati fortunati, sarebbero morti insieme, in un orgasmo unico che della Giolla Unita non avrebbe lasciato più traccia, solo istinto scialacquato, soddisfatto fino all’ultimo secondo, nessuna traccia nel ventre della badassa, sterile, e nei lombi dei due gemelli, prosciugati di tutto il seme.Sciarabbai cantava e strizzava nel secchio e, man mano che la canzone avanzava, le sue lacrime diventavano sempre più disperate
Peppè Peppepepè Peppè Peppepepè Sasuera Sasuera Sasuera A-E-I-O-U Ypsilon Fio Maravelia non sgonsamo de uossé Te tté tté te te te te te Brigitte Bardot Bardot Brigitte pejò pejò
Ahi Ahi Caramba Ahi Ahi Caramba E Meu Amigo Charlie E Meu Amigo Charlie Brown, Charlie Brown
17
Sciarabbai, Gerbero e Anpichisi avevano ripreso la loro postazione in quella stanza che era ridiventata asettica e produttiva. La portinaia racchia era stata cortesemente invitata a ritornare al lavoro e quella si era precipitata, pazza di gioia riguardo quel posto di lavoro che cercava di difendere con i denti. Così, con trasporto, fece lungamente trillare l’interfono, tanto a lungo che a quei tre per poco non venne l’infarto. «È solo una prova!» si giustificò lei garrula, colma di un entusiasmo che voleva assolutamente condividere. Michele Anpichisi se ne stava buono a darsi le care sulla guancia ferita dall’unghiata del Truce Attanasio e così si consolava. Gerbero non trovava requie e si girava a destra e sinistra, chiedendosi soprattutto che cosa ci stessero a fare seduti tranquilli mentre la storia si era spostata decisamente altrove. Quando lo sguardo inquieto incrociava quello di Sciarabbai, il giovane vi indugiava con occhiatacce dure ma anche supplichevoli cui il vecchio opponeva un silenzio ostinato, si cantava in testa la Samba del vecchietto e, purtroppo per Gerbero, quella canzone era una sorta di loop che finiva per poi ricominciare, come un Bolero, ma più sguaiato, sostenuto e disperato. Gerbero smise di vagare con la testa e si fissò dritto su Sciarabbai, quasi sfidandolo, fino a quando non gli avesse detto qualcosa, anche un vaffanculo. Poi Sciarabbai dovette stufarsene perché prese d’impeto l’interfono e ordinò alla racchia di cercargli Flora urgentemente. «Cosa vuoi fare?» chiese il giovane Gerbero cui brillavano gli occhi.
«Darci un taglio» fece quello. «Prima si chiude questa storia meglio è per tutti, ma non credere, ragazzo, non arriverà la cavalleria… si tratta solo di fare presto, il tempo è poco…» rispose Sciarabbai. Il telefono di Flora era staccato. La racchia ebbe l’ordine perentorio di provare ogni cinque minuti, finché non lo avesse trovato. Quella obbedì un po’ in apprensione per il suo dannatissimo posto di lavoro che le avrebbe tolto la salute, pensò stizzita. ò tutta la mattinata fino all’ora di pranzo. Poi finalmente Flora rispose e, come gli fu urlato dalla voce perentoria di Sciarabbai, si precipitò alla Beni Vizi e Servizi.
18
«C’è Flora…» fece infine la portinaia racchia. «Lo faccia are, svelta!» rispose Sciarabbai impaziente. Flora entrò nell’ufficio senza bussare, sudato e trafelato e con due enormi bustoni di plastica in mano che sembrava voler vendere al migliore offerente tra quei tre personaggi là dentro che lo guardavano in tralice. Non faceva una bella impressione; la sua faccia denunciava preoccupazioni di vario genere e il tono al telefono di Sciarabbai ne aveva aggiunta un’altra, e sì che ce n’era già di basta. «Flora…» fece atono Sciarabbai come fosse sul letto di morte. «Buongiorno. Sono venuto subito…» si scusò lui mettendo avanti i bustoni a mo’ di giustificazione. «Cosa sono?» chiese Sciarabbai, vinto dalla curiosità. «Lenzuola. È una lunga storia. Cos’ha Michele Anpichisi?» chiese a sua volta incuriosito il ragazzo. «Piange. È stato picchiato» sintetizzò Gerbero.
«Picchiato? A Torello? Nella Giolla? Cos’è questa novità?» si allarmò Flora. «Di novità ce ne sono anche di peggiori, se è per questo…» prese la palla al balzo Sciarabbai. «…Michela è nei guai…» aggiunse a mezza voce. «Che genere di guai?» si allarmò Flora, che solo da quando stava coprendo le perdite di sangue di Serena si stava rendendo conto di cosa fosse un guaio nella Giolla Unita. Per la tensione gli caddero i due pesanti bustoni sulla moquette. «Lunghi e larghi, credo…» fece Sciarabbai con un risolino isterico. «…ascolta. I suoi guai non sono affar tuo… voglio dire: lei è nei guai per colpa tua… partiamo dall’inizio: l’oro della vecchia? Non rispondere: non lo hai preso. Non ti giustificare, non c’è tempo. Avevo grandi progetti su di te ma neanche per questo c’è tempo. Michela, voilà il problema. Se la rivuoi indietro, se la rivogliamo indietro…» e Sciarabbai ebbe un attimo di groppo in gola «…c’è un solo modo. E adesso, ti prego, di’ qualcosa.» Chiuse momentaneamente il vecchio. Flora lo guardava attonito e non sapeva da dove cominciare. All’inizio aveva pensato che la convocazione avesse a che fare con Serena, e magari sarebbe stata l’occasione per chiedere dei ragguagli su quel primo malore che l’aveva colta proprio lì dove stavano adesso. Serena non stava bene, questo era certo, e lei non se ne accorgeva neanche ma lui sì! La vedeva ogni giorno più felice ma anche più debole, come se qualcuno le stesse succhiando la vita e si sarebbe fermato solo quando non ne avrebbe trovata più. E adesso Michela era nei guai. Grossi. Michela, che proprio lei gli aveva ato la dritta dell’oro della vecchia… «Michela è innocente, se è quello a lasciarti a bocca aperta…» lo aiutò Sciarabbai. «…lei non ne sapeva nulla, aveva altri progetti per te… lo ha fatto solo per te… la colpa è mia…» si batté il petto il vecchietto «…ma non potevo fare altrimenti, non sono io che comando! Doveva andare tutto liscio e così stava andando finché non ti sei sentito in dovere di tornare dalla vecchia e svuotarti le tasche, omiciattolo che sei pure tu!» Si accalorò. «Non è così che doveva andare! Non è così che doveva andare!» batté forte sul tavolo col pugno chiuso «E adesso un’innocente è nei guai perché tu sei un grand’uomo, ecco cosa!» «Cosa devo fare?» chiese secco Flora che non aveva capito granché. «Hai mai sentito parlare della Gionta Unita? Questo, Codesto e Tale?» fece secco a sua volta Sciarabbai.
«Anche troppo ultimamente, ma è tutto vago e non ne so niente…» rispose facile Flora. «Beh, è normale. Non ti spaventare, è gente di carne come me e te, solo molto riservati… infatti non sappiamo chi sono e dove stanno ma tu…» aggiunse Sciarabbai «…cercali, trovali, denunciameli o portamene qua uno, anche se è piccoletto va bene… poi avrai indietro Michela, parola d’onore.» Elencò guardando il ragazzo fisso negli occhi, finché quello girò la faccia e se ne andò con i due bustoni al seguito.
19
Flora superò la portineria senza salutare la racchia che ne trasse foschi auspici per il suo posto di lavoro. Andava così di fretta che quando dovette abbassare il capo per varcare la porticina non rallentò e colpì con una poderosa testata il Truce Attanasio che vi stava entrando con molta attenzione. La fronte di Flora si proiettò a una tale velocità che il naso del Truce si aprì a una bella cascatella di sangue vivo. Flora non se ne accorse neanche e con la sua potente falcata gli era già lontano di cinquecento metri quando il Truce lo stava cercando con lo sguardo per dargli pariglia e interessi. Incavolato nero, il Truce entrò nell’ufficio saltando l’annuncio e tenendosi sul naso un fazzoletto di batista che subito era diventato rosso. Spalancò la porta mentre Sciarabbai metteva giù il telefono che lo avvisava della visita improvvisa. Gerbero lo guardò stupito e, scosso dalla risa che gli saliva dalla pancia, fece finta di cercare una qualche penna caduta a terra per farsi una bella sghignazzata al riparo. Michele Anpichisi invece si era concentrato sulla bua con delle discrete care sulla sua guancia. Sciarabbai guardò il Truce dritto in faccia e, ironico, lo invitava a esprimersi. «Signori, buongiorno. Michela è sistemata, è stata una bella rimpatriata. Ora mi
vorrei divertire un po’ con Flora se me lo convoca per piacere grazie» disse tutto d’un fiato con le scintille che sprizzavano da ogni molecola. «Non ce n’è bisogno…» rispose calmo Sciarabbai. «…è già al lavoro. Forse avrà già potuto notare con quanto zelo si è precipitato fuori di qui per darsi da fare…» aggiunse, con l’ironia che colava come grasso. Truce Attanasio stette zitto e assorbì il colpo. Era andato alla Beni Vizi e Servizi per dare un altro saggio delle sue arti di picchiatore e ne aveva ricavato una mattonata sul naso. «Sta bene!» disse solo. «Io di pazienza ne ho, poca ma ne ho. Verrà il mio turno, questo è certo» promise, e fece scendere il gelo su tutto l’ufficio. Da lontano si sentì il fragore della bomba quotidiana di Torello.
20
«Sangue.» «Che?» aveva belato colpevole Flora lasciando cadere i due pesanti bustoni a terra che fecero il rumore di un pallone sgonfio. «San-gu-e» ripeté Serena scandendo tranquilla le sillabe. Flora la guardò intensamente. Forse l’unica soluzione era di mettersi in ginocchio tra i bustoni e chiedere perdono. Certo, sangue. Macchioline sempre più consistenti che lui si ingegnava a coprire, girando materassi e scambiando lenzuola e adesso se ne era portato dietro due bustoni interi, belle, bianche, nuove di pacca e che sarebbero durate finché Serena non fosse morta senza accorgersene. E poi c’era Michela nei guai. E poi lui, un sonnambulo in perenne sospensione che raccoglieva macerie dovunque si muovesse. Serena gli mise una mano sulla fronte e Flora iniziò sommessamente a piangere per tirare su il fiato e spiattellare tutto.
«Sangue» confermò Serena spazzolandogli la fronte. «Ma non è tuo, sembri intatto… dove hai sbattuto?» chiese con una voce dolce e bassa. Flora si asciugò le lacrime col primo lenzuolo che fuoriusciva dal bustone e alzò la testa ancora confuso. Sangue? Ah, quel povero omino che aveva quasi steso sulla porticina della Beni Vizi e Servizi! «Ero di fretta, non mi sono accorto di niente e mi sa che ha avuto la peggio…» si giustificò, triste. «Cioè! Hai fatto carne su carne con un’altra persona che non ero io?» chiese meravigliata la ragazza. «Non l’ho fatta apposta… poveraccio… spero non si sia fatto troppo male…» ansimò lui che iniziava a rendersi conto della gravità dell’accaduto. «Flora! Tu hai picchiato una persona!» sintetizzò Serena un’ottava sopra ma senza severità. Sembrava anzi divertita. «Come ti ho detto, è stato un incidente. Ero di fretta, non l’ho manco sentita, la botta…» si scusò lui un po’ angosciato. «Fretta, eh? E di che?» chiese civettuola la ragazza. «Di… di…» e si fermò, e la baciò. Serena fu immersa nel buio dalla figura avvolgente e più alta di Flora. Flora invece aveva gli occhi spalancati e ci vedeva benissimo, sopra la testa della ragazza e anche nei dintorni, sul letto assassino, su quella assurda gonnina bianca ancora immacolata. Non c’erano tracce di sangue. Forse c’era ancora una possibilità.
21
Truce Attanasio aveva inzuppato tutto il fazzoletto di batista e l’emorragia si era infine acquietata.
Flora aveva colpito per primo, d’accordo, ma in modo inconsapevole, niente di paragonabile alla sua scienza che si riava mentalmente con crudele soddisfazione. Quand’anche tutto fosse andato per il meglio, l’oro, la Gionta Unita, una padellata di cartoni gliel’avrebbe omaggiata lo stesso. Riprese la portineria dell’Hotel Gramsci e con la Tessera Gold le porte si spalancarono con la consueta magia. Nel Salone delle Feste era ritornata una certa calma e i vecchietti del turno casalingo erano tornati al loro sesso sceneggiato, fatto di cameriere che si sporgono col piumino impolverato e le tette bene in vista; infermiere col camice aperto, completamente implumi e con la parrucca bionda e il clistere in mano; fattorine che consegnavano dei pacchetti ormai consunti e che scoprivano clienti che si stavano masturbando nel salotto, li cazziavano ma poi benevolmente davano loro una mano; improbabili operaie con le tute da idraulico, muratore, disinfestatore… che brandivano strumenti di plastica e ostentavano il loro ventre piatto e la storiella era sempre che andavano per una cosa e poi ne facevano un’altra, sempre quella. L’odore dolce e nauseante delle mele cotte aveva raggiunto il suo apice e la condensa si stava posando sull’immoto Orgasmatron che di certo la soffriva. Il Truce Attanasio lo consolò con una carezza e lo lasciò lì, il suo ormai lo aveva fatto e che adesso cree pure. Poi cercò di orientarsi tra le tante porticine, cercando di individuare quella del gentile Sciarabbai, il suo appartamentino privato dove testava le badasse novelle e che adesso usava lui. Quando infine la riconobbe, girò la chiave e vi entrò dentro. Vi si aggirò come una caccia al tesoro, andando avanti e indietro tra la stanza e il bagnetto e solo quando si stancò del giochino fece finta di aver infine ritrovato Michela, imbavagliata e legata a capretto con delle finissime strisce di pelle nera, lì, al centro della stanza. «Ah, sei qua!» ironizzò il Truce Attanasio battendole le mani per la tanta abilità di nasconderello. «Pazienza, Michela, pazienza! Tra un po’ arriveranno quelli del secondo turno e non preoccuparti, saranno tutti tuoi, dopotutto eri la loro reginetta, no?» concesse. «Diamo solo il tempo di una pulita… c’è già gente fuori… sai, quello di Torello è l’Hotel Gramsci più chic di tutta la Giolla Unita, e ne ho visti eh!» continuò, ostentando la Tessera Gold «Guarda… ti sono amico e te lo dimostro… hai presente Chicco Micchi e Bacco Numucco? Certo che sì! Sono qui fuori che
aspettano pazienti, degni cittadini della Giolla Unita… eh, quelli sì che hanno capito tutto, hanno il commercio, com’è che si chiama, ah, l’Esaurimento! Ma se ne fottono e quando gli gira chiudono baracca e si sollazzano, l’oro è tutta una truffa, nessuno mai uscirà vivo da qui… bah, dicevo, faccio uno strappo, lo faccio per te, tanto io faccio come cazzo mi pare. Li faccio entrare e ti rimetto subito al lavoro, ti vedo un po’ sbiadita…» E così promettendo, la lasciò.
22
«Oh cara, cara, cara…» le ripeteva a disco rotto Chicco Micchi carezzandole la piaga violacea e bollente sulla mammella e guardandosi bene dall’allentarle il bavaglio «…ma come è successo, come è potuto succedere… una così bella bambina come te, neh Bacco? Non me lo so spiegare cara, cara, cara…» E le mani di Chicco Micchi le affondavano nel volto e rimisero in funzione gli zigomi che presero a pulsare come due cuoricini. «…aspetta, ti metto comoda… no, no… slegarti non posso… il signor Truce Attanasio è stato molto chiaro… guarda qua…» e fece intravedere in controluce i cinque ditini che gli avevano lasciato lo stampo sulla sua guanciotta «…effettivamente, avrei io bisogno di tante carezze, ma fa niente… fa lo stesso… eh, Bacco è il solito discolaccio ma non ti preoccupare ci sono qua io, non guardare, lui sa come fare, lascia fare, non ti farà del male, guarda me… cara, cara, cara…» Michela guardava sì Chicco, ma terrorizzata, e avrebbe di certo implorato qualcosa solo avesse avuto la bocca libera; Bacco, coi suoi modi villani, l’aveva stesa sul fianco e si faceva strada meglio che poteva con gesti sempre più nervosi finché non gli riuscì di abbracciarla dalle spalle e darci dentro come un trenino già in ritardo. A ogni colpo, gli occhi di Michela sembravano voler uscire fuori dalle orbite per mettersi in salvo, almeno loro, mentre a ben poco serviva l’anestesia della voce falsettata con cui Chicco Micchi cercava di ninnarla: “Cara, cara, cara…” Bacco Numucco non ne ebbe per molto e trovato il suo ritornello, diede una sorta di grido acuto e poi si rialzò annoiato, come dovesse correre ad aprir bottega. Si sistemò dritto, lungo al fianco della porta chiusa e così subliminale guardava torvo il compare Chicco Micchi che faceva del suo meglio ma che
almeno si sbrigasse. Sempre a far commedie, compare Chicco Micchi! Quello si alzò in piedi cercando di non staccare la mano dalla piaga di Michela e proseguendo il suo “cara, cara, cara” mentre con l’altra si abbassava con difficoltà mutande e pantaloni. Bacco intanto si stava incuriosendo sulle difficoltà del compare che, corto e tozzo com’era, mal si adattava al corpo slanciato ma incaprettato di Michela. Chicco sembrava essersi definitivamente innamorato di quell’escrescenza scalena che una volta era stata una mammella florida e puntuta e non si fermava dall’accarezzarla col massimo della tenerezza, mentre con le reni cercava di darsi lo slancio necessario. Nel bel mezzo, Truce Attanasio aveva fatto irruzione nell’appartamento e spalancando la porta aveva preso in pieno compare Bacco Numucco che con le mani in tasca non ebbe neanche l’istinto di salvarsi il naso dalla tranvata che lo investì. Il Truce ebbe una risata così sincera, di gola, che anche Chicco Micchi trascurò un attimo Michela per poter ridere. Bacco si asciugò il naso zampillante con un profumato fazzoletto di batista che il Truce gli aveva ato; poi lo guardò serio in faccia, come a chiedergli se la storia finiva lì o, magari, ci sarebbe stato un seguito, tanto per farsi due altre risate, ma Bacco abbassò gli occhi. Soddisfatto, il Truce si mosse verso Chicco e lo prese dalla collottola; poi, sbattendolo ai piedi del compare Bacco, invitò entrambi a togliersi dalle balle ché stava per iniziare il secondo turno e dietro la porta c’era già la fila.
23
Flora si stese dritto sul letto suggerendo l’idea che da lì non si sarebbe spostato per le prossime due ore. Serena se lo coccolò per un paio di minuti, poi si alzò e prese la strada della doccia. Flora la seguì con lo sguardo, come niente fosse, e rimase immobile sul letto. Quando sentì chiaramente lo scroscio, balzò in piedi ed esaminò il lenzuolo. Due
belle gnocche di sangue vivo anche stavolta, sempre più larghe e inzuppate. Flora non stette neanche a pensarci e svelse gli elastici dei lati facendo un fagotto unico di federa e lenzuolo e appoggiandolo a terra. Poi rimise federa e lenzuolo nuovo e vi si strofinò sopra per sgualcirlo e imprimere un po’ del suo muschio su quel panno ancora sterile. I feromoni di Serena che stazionavano nell’aria gli diedero una mano e Flora li invitava nel tessuto aiutandosi con le mani che agitava come ad alimentare un fuocherello. Così, il lenzuolo adesso sembrava vissuto di tre giorni e Flora, soddisfatto e un poco in affanno, stette immobile a guardarsi quel cinema che sperava avrebbe funzionato ancora una volta e con studiata pigrizia fece stridere le molle del materasso. Così si accese una sigarettina senza nicotina e l’aspirò, avidamente, per finirla prima. A metà uscì Serena in accappatoio aperto, ancora umida e coi capelli a caschetto asciutti, che puntava dritto su di lui per una qualche coccola senza fretta; Flora approfittava di ogni secondo che ava per mettersi dritto sul letto e poi alzarsi e infine vestirsi. Doveva andare, si scusò con un bacio appena più convinto, Michela gli aveva chiesto una cortesia, “se l’aiutava a vivere”, si disse tra sé e sé, “se l’aiutava a stringere un tubo che perdeva”, disse invece ad alta voce. Serena gli sorrise e si risparmiò la battuta su Flora che da un tubo gocciolante avrebbe forse saputo immaginare un flauto ma che stringerlo per bene non era certo affar suo. Gli diede invece un ultimo bacio insieme di incoraggiamento e già di consolazione per lo scacco a venire e lo fece andar via prendendone il posto sul letto e guardando perplessa il lenzuolo che non assomigliava punto a quello di prima. Flora schizzò fuori veloce. “La Gionta, la Gionta, dov’è la Gionta Unita? Perché non mi ricordo niente? Perché?” si ripeteva senza risposta. Poi ebbe un’idea, che era la sua unica traccia.
24
Della Gionta Unita, si era riato mentalmente Flora, tutti sapevano tranne lui e Serena. Michela qualcosa sapeva, ma era indisponibile. Quello che sembrava il più informato era Tony Dattoni, e sembrava pure saperne abbastanza, lui e le sue
litanie ché, probabilmente, della Gionta Unita ne aveva fatto parte e forse ne era addirittura morto. Tornando indietro nei ricordi a breve termine si era poi ricordato dei nipoti della vecchiaccia, Le Mec e Le Truc che proprio per primi gliene avevano parlato. E là, al castelletto della vecchiaccia si stava recando a grandi falcate. Scendeva il buio su Torello e l’oasi felice, schiaffeggiata dall’andatura veloce di Flora, s’incupiva, si diradava, mostrava le trippe, ferita dalle esplosioni e dagli incendi e i maxischermi si diradavano, con le loro immagini di bella vita, spiagge, muscoli e bikini che Flora non degnava di un’occhiata. Già al trotto, Flora si muoveva adesso al galoppo e la strada dissestata alzava potenti nuvole di polvere nera che lo avvolgevano come un eroe dei romanzi del XIX secolo. D’improvviso si bloccò, puntando i piedi e inarcando la schiena e il collo che sbatterono avanti come un colpo di frusta e ritornarono doloranti in asse col corpo adesso immobile. L’edificio, quello strano e bruciato! La gionta! E gli abitanti della gionta la chiamavano Gionta Unita ma la casa apparteneva a Questo, Codesto e Tale. Era così che funzionava!
25
Flora si massaggiò il collo dolcemente e aspettò che la spessa coltre di polvere nera si diradasse per meglio ispezionare l’ambiente, che era punto invitante. Si avvicinò al colonnato e riprese a studiare quei fregi anneriti e abbandonati che a lui non dicevano nulla. A malincuore, non gli restò che entrare dentro. Diede una carezza al pesante portone convinto fosse ben inchiavardato e impossibile da varcare ma quello si aprì e pure senza cigolio, come agevolato da una oliatura amorevole e costante. Dentro, il buio era pesto e l’ambiente unico, largo e lungo, moltiplicato da colonne, mobili di strana foggia e vetrate policrome tirate giù meticolosamente
dalle solite bombe. Flora si faceva strada fra tronconi di legno divelti e cocci multicolori, che sembravano un’antica stanza dei ninnoli visitata da un uragano. Sui lati, attaccati ai muri neri, erano sopravvissuti dei curiosi recipienti per un qualche liquido prezioso; Flora vi buttò una mano dentro e si studiò sulle dita un muschio vischioso e puteolente. Arrivato al fondo, notò infine una brevissima scalinata, due gradini di antico marmo, che metteva in sopraelevata una seconda area più densa e raccolta, protetta da quattro colonne dritte e robuste, tutte annerite in tutti i quasi venti metri di altezza. Flora salì i due gradini che conducevano dritti verso una sorta di scrivania, semplice ma poderosa, un piano lungo, largo e carnoso tenuto su da due piedi di marmo liscio e annerito che aveva resistito al botto e aveva tenuto tutta la baracca in piedi. Alle sue spalle, dei monticelli di materiali assortiti, forse ottone, sicuramente marmi leggeri e cocci multicolori, legnetti, avori, tessuti preziosi, che andando giù, avevano reso quell’ambiente asettico e liscio come una faccia morta dopo la barba pelo e contropelo. A mezza altezza, una minuscola porticina ad arco, di ottone annerito ma ancora in piedi, una sorta di tana del topino, sembrava avesse custodito qualcosa di importante. Dentro però non c’era niente. Flora richiuse la porticina con la chiavetta dorata e nera pure lei e si dispose a lasciare la gionta, sconfitto. Non appena prese la direzione, sentì una voce così profonda che un fiotto d’urina gli si liberò dal prepuzio. «Quo vadis?» ululò cavernosa. «Eh?» fece Flora con le mani bene in alto. «Flora!» rituonò quella che si avvicinò da destra con un paio di etti, ma restandosene nell’oscurità. «Eh! Non ti vedo!» lamentò Flora. «Hai bisogno di vedere per credere?» interrogò quella. «Eh?» ripropose Flora. «Dov’è tuo figlio? Perché non sei con lui? Perché il padre non segue il figlio suo?» chiese, ma piuttosto ammonì, la voce. «Non ne ho di figli! Nessuno ne ha!» rispose veloce Flora, che pure questa
pensava di saperla. «Zuccone! Eri morto e adesso sei pure cieco! Serena…» ripropose la voce. «Io la amo!» gridò a quel punto Flora. «L’Amore. L’Amore è la forma che dà il valore a tutte le cose, così come Codesto conteneva Questo pur essendo di molto più piccolo! E così il pancino di Serena ripieno di qualcosa più grande di lei e che solo l’amore può rendere sostenibile. Lo sai “questo”?» chiese la voce. «“Questo” Questo o “questo” ciò?» s’ingarbugliò Flora. «Eh?» andò in confusione anche la voce. «Io l’amo davvero!» cambiò precipitosamente discorso il ragazzo, a scanso d’equivoci. «E chi ti ha detto niente? Sei proprio un romanticone, il peggiore nemico di te stesso… così va il mondo: chi ama mangia, chi è amato mangia e beve!» commentò sconsolata la voce. «Michela…» provò a introdurre Flora, che stava iniziando una certa familiarità con quella voce burbera ma buona. «Bravo! Hai centrato! Michela non mangia, non beve e se la stanno pure inculando» disse la voce impietosita ma senza giri di parole. «Sono qui apposta…» provò a sintetizzare Flora. «Iiiih! Come corri! Tu sei qui per un bacio e trenta denari. Diciamola tutta!» accusò quella. «Eh?» fece Flora che ogni tanto si sentiva come a casa della vecchiaccia col suo argot. «Serena» rispose quello incoerente. «Eh!» ripropose Flora sconsolato. «Devi portarla qua. Subito. Dov’è, non è al sicuro. E sbrigati, il tempo è poco. E
acqua in bocca. E guarda dove metti i piedi!» tagliò corto la voce e si allontanò a etti rapidi. «E Michela?» urlò Flora. La voce si fermò con uno scatto di reni. Stette zitta due secondi e poi, con molta calma scandì: «Non abbiamo idea dei nostri mezzi ma di certo sono molto potenti, abbi fede, meglio: abbi fiducia. D’altra parte di martiri la nostra storia è piena e quindi uno più o uno meno poco ci cambia. Sia questa la tua consolazione.» E così dicendo sparì, senza attendere la replica.
26
Quando suonò la camla finale, gli avventori del secondo turno non la sentirono. Un anello di musica ossessiva e coi bassi a prosciutto sulle orecchie era suonata ininterrotta per tutta la durata del turno
Illum látum, í faðmi grátum Þegar að við hittumst Þegar að við kyssumst Lusty leer, I need some beer, a kinky howdy, what the howdy, licking out and, far make out and, rubby licked’em, runaway kisses
E, come un ordine a bassa frequenza, diceva a ciascuno cosa fare e tutti erano troppo occupati, a brancicare e farsi largo sul corpo di Michela offerto in pasto e
che non opponeva resistenza; si reputava fortunato chi avesse avuto a sua completa disposizione quella precisa porzione di tessuto, quella mammella che in dieci anni di scopate mai le avevano visto e finalmente avevano capito perché Michela era disponibile a tutto ma il seno non glielo potevi neanche guardare e adesso invece glielo suggevano, mordevano, accarezzavano, schiaffeggiavano, sputavano, se lo sfregavano sui testicoli, sulla verga, lo insultavano, ne inorridivano e lo deridevano in una sessualità nuova e sfrenata, in quella sorta di nemesi aizzata da una brama carnivora e da un’eccitazione vascolare. In quella sarabanda anche il Truce aveva trovato il suo divertimento, ché quegli animali indisciplinati e fuori controllo li randellava senza pietà come bruchi sulla mela, senza gambe, senza braccia, solo una scossa che li faceva fremere e prillare di foia bestiale. Quando Truce Attanasio, a suon di cartoni, decretò la fine del divertimento si sarebbero mangiato vivo pure lui, tanto ancora ne volevano, ma purtroppo per loro nulla potevano contro quell’ometto che, solo lui a Torello, aveva il dono dell’adrenalina e il privilegio della forza. Erano più di cento e tutti insieme non poterono far altro che abbandonare quella follia collettiva che nei loro desideri sarebbe finita solo con la morte di Michela Gang Bang. Truce Attanasio, finalmente solo, si recuperò le macerie della ragazza, tutta un livido e in alcuni punti sanguinante, e se la riportò nell’appartamentino. Messa al sicuro, la sollevò a mezzo soffitto attraverso un paio di moschettoni assicurati a due corde che, piantate al suolo, la portarono su imbavagliata e incaprettata a farsi pure lei la sua pausa. Tempo mezz’ora e sarebbe cominciato il terzo e ultimo turno della giornata, quello più sfizioso, e il Truce non aveva certo intenzione di sfigurare. Era mezzanotte e sull’Hotel Gramsci scese la notte tutta d’un fiato. Truce Attanasio si alzò dalla poltrona per un’ultima ispezione. Si muoveva da padrone e lo era, apriva tutte le porte, annuiva e le richiudeva senza dire buonasera. Nella prima, le Zingarelle, le sette bulgare, diafane e dal volto bellissimo, provavano i etti di un certo spettacolino tenuto in bolla dallo sguardo accigliato di Annina Tutta Tana che lo dirigeva; più avanti le badasse erano concentrate allo specchio a sbavarsi i trucchi, a rinforzare le labbra con certi rossetti di un rosso perlato, a bistrarsi gli occhi con una cenere nerastra su cui avano la saliva, a tirarsi dei pugnetti ritmici e sempre più veloci e forti sui loro ventri piatti.
Il terzo turno, infatti, era quello più scintillante, drammatico addirittura. Trionfo dell’ornamento che è figlio della noia, era alla continua ricerca di un limite da superare ma si trattava di un limite di natura coreografica, solo per scherzare. Questo riflettendo, il Truce, si era scervellato per giorni su cosa potesse portare di abbastanza épatant e poi aveva trovato: il bestio. Già lui stesso come bestio non scherzava ma nell’Hotel Gramsci le botte potevano servire da complemento, il fulcro restava comunque il sesso e lì ci voleva qualcosa di mozzafiato. Così se ne fece imballare uno che rispondeva ai requisiti richiesti. Adesso il Truce era arrivato all’ultima porticina e questa volta con molto tatto annunciò gridando che era lui e che stava entrando. La stanza era quasi completamente buia, si vedeva solo una testa che si stava specchiando per gli ultimi dettagli. Quello la alzò di un movimento impercettibile ma non disse niente e il Truce si convinse sollevato che la sua presenza non gli faceva né caldo né freddo; quindi se ne rimase immobile a modulare il respiro su una frequenza bassa per non disturbare il trucco e parrucco. Quel volto era molto bello, con lunghi capelli biondi che cadevano giù per almeno mezzo metro; i denti, tutti uguali, sembravano scolpiti nel ghiaccio millenario di quei monti del Resto del Mondo, con le righe, che li divideva gli uni dagli altri, così precise che sembravano tirate a piombo e nettate con lo scovolino di crine di diamante. La bocca, larga e tumida si teneva sulle sue e avesse deciso di sorridere avrebbe fatto scoppiare tutti i cuori all’unisono; le orecchie piccole e delicate scendevano nei lobi, carnosi come una caramolla di Tiziano De Paola. Il volto era glabro, liscio e levigato, con la fronte alta e la mascella fortissima talché tutta quella pantomima davanti lo specchio non gli serviva a niente, era perfetto così. Il Truce lo guardava con un misto di invidia e ammirazione, era il bestio perfetto per quei tiramerda del terzo turno di quella Torello che già tiramerda lo era stata di suo ai tempi delle città. Da fuori si sentì il suono di una prima camla a uso interno che avvisava
figuranti, attori e badasse che entro cinque minuti si era tutti in scena. Il bestio si ò la lingua sulle labbra e con una smorfia gentile le umettò di fresca saliva. Il Truce lo guardava un po’ spaventato. Il bestio si diede un colpo che poteva essere di reni e davanti agli occhi si teneva su a fatica una sorta di tubo floscio che montava una sorta di rubinetto che ricordava le fattezze di un glande ancora moscio; il bestio se lo mise in bocca e vi pompò delle poderose riserve d’aria e ogni soffio metteva in chiaro l’anatomia anulare di quel corpo di cui testa e rubinetto ne erano le estremità, un serpente con la testa umana insomma. L’anello si ingrossava sempre di più, come un salvagente, e levitando a mezz’aria si avvicinò al Truce con la sua faccia bellissima e continuava a ingrossare fino alle dimensioni di un enorme ciambellone. Quando fu del tutto teso, quella faccia bellissima riposava sul grembo del Truce che tratteneva il respiro un po’ preoccupato ma quello, raggiunta la pienezza del corpo suo, staccò la bocca da quell’enorme glande e rimbalzò a terra con un “pouf” di pelle tesa, muscolosa e allenata; poi s’inarcò ad aprire la porta col mento e prese a strisciare per vari secondi come fosse la più grande anaconda del regno umano. Il Truce richiuse la porta e lo seguì senz’altro.
27
Giona Paraponzi, in calze, canotta e brachessino, girava in tondo l’isolato di casa e sotto il portone calpestava le cicche con le sue gambette piccole e muscolose. Ben consigliato dall’Anna Calacchi, moglie devota e di cervello fino, evitava le mondanità e se ne stava nel suo, ché a qualcuno gli poteva venire l’inferenza che bombarolo lo era stato pure lui. Andava, veniva e fumava, tutto dedito al suo vizietto. Anna Calacchi ogni tanto si affacciava dal balcone e lui immancabilmente era lì sotto, a schiacciare la cicca e poi ripartire col giro dell’isolato e lei ritornava tranquilla alle faccende di casa. E così andavano avanti fino alle due del mattino. E alle otto si ricominciava.
Fu proprio sotto casa che Giona intercettò un gruppetto di viveur che ancora mugugnavano la cacciata a pedate dall’Hotel Gramsci; Giona li seguì a distanza con la sigaretta in mano, tenendosi in disparte ma drizzando le orecchie, avendo sentito di sfuggita ma chiaro il nome di Michela Gang Bang, che lui amava; pareva fosse ritornata a fare la badassa e fin qui niente di strano; quando invece iniziò il lamento di quelli che erano stati cacciati a metà del divertimento, ché anche quelli del terzo turno avevano i loro diritti, Giona s’insospettì; e peggio ancora fu quando, finite le lamentele, ognuno di quel gruppetto si consolava col ricordo di quella visione inaspettata e sconvolgente, di quella piaga scandalosa su cui nessuno escluso si era buttato addosso. Ognuno annuiva all’altro ma la scintilla riaccesa di quello scandalo si saldò al maxischermo che diceva Miami Beach on air e là, sulla Lincoln Road, se la stavano sando donne giovani verniciate di azzurro che ballavano la macarena coi gonnellini al vento e le poppe in libertà e vecchi sdentati che azzannavano e facevano scoppiare innocui palloncini rossi, tutti intorno a una vecchia Lamborghini scassata, arancione e senza ruote, dentro cui un vecchietto alla guida girava lo sterzo a destra e sinistra ma la Lamborghini naturalmente non si spostava di un millimetro. Se la stavano sando, i maiali! E nel mondo invece c’era tanta sofferenza e a Michela mancava pure un capezzolo! Mentre loro se ne stavano tornando a casa colmi di frustrazione e gonfi di botte e di foia! Così si misero timidamente a canticchiarsi quell’anello di musica che nell’Hotel Gramsci tanto sembrava promettere e si era rivelato per quello che era, un’illusione
Illum látum, í faðmi grátum Þegar að við hittumst Þegar að við kyssumst Lusty leer, I need some beer, a kinky howdy, what the howdy, licking out and, far make out and, rubby licked’em, runaway kisses
E finita la strofa la ricominciavano, sempre uguale ma più convinti di prima, una, venti, cento volte finché trovarono l’accordo finale che fece diventare anello pure loro, trovarono il coraggio di guardarsi in faccia e in pochi secondi smembrarono in cento pezzi quel maxischermo che sembrava messo lì apposta a coglionarli. Giona fu preso dal terrore, intanto perché quel maxischermo era troppo vicino a casa sua e non ci voleva niente a collegare lui a quella distruzione feroce che poi da lì alle bombe ci si metteva ancora meno. Ma soprattutto fu colpito dalla violenza di quegli ometti, e lui un poco ne sapeva di violenza, sia per come parlava, ma mai però ne erano seguite azioni reali, sia per la questione delle bombe, che però erano una cosa diversa, esteriore, alla fine è lei che scoppia mentre te ne stai fuggendo a gambe levate, e insomma era lo scoppio d’ira a mani nude che gli aveva fatto restringere gli intestini nel brachessino e fatto pensare che, di sicuro, qualcosa all’Hotel Gramsci stava andando storto e Michela era lì. E l’amava, sì, dannazione, l’amava! Così come si trovava, in brache di tela e Tessera nel calzino, fece il bidone alla moglie che si affacciò fiduciosa e non lo vide. Giona, con tutto il comodo delle gambette sue, arrivò all’Hotel Gramsci che erano quasi le due, l’ora in cui normalmente si metteva a letto e iniziava a ronfare, spossato dai suoi giri a vuoto. Infatti sbadigliò, tanta era la forza dell’abitudine, ma s’impose il coraggio e incurante dell’abbigliamento da pupo bello da un quintale secco, entrò deciso con la Tessera in mano. Quasi non lo riconobbe, l’Hotel Gramsci, vuoi perché era da un po’ che non ci andava, vuoi perché il turno dei libertini lo aveva sempre evitato per la timidezza sua. Quella musica stridula e scomposta, quell’oscurità studiata, quei décor di cartapesta che facevano da coreografia lo mettevano in soggezione e solo lì si accorse di com’era vestito, un po’ vergognandosene. Aprì il portone del Salone delle Feste e vi trovò le prime facce, meno franche e affermative della sua, mustacchi, mosche, barbe curate e favoriti falsamente incolti su abiti tetri e carnascialeschi, che svolazzavano sulle piste di PeranaX, sui vassoi d’ottone, che gli arzigogolava la mente mentre se ne restavano dritti come manichini e annoiati della loro quiete senza attrito di vitalità. Vari cocktail
colorati volavano sopra le teste, un’unica onda che s’infrangeva contro le boccucce strette, aperte di uno spiraglio, entro cui sparivano come bicchieri d’acqua piatta; in girotondo, le Zingarelle cantavano tenendosi per mano
Noi siamo zingarelle Venute da lontano; D’ognuno sulla mano Leggiamo l’avvenir. Se consultiam le stelle Null’avvi a noi d’oscuro, E i casi del futuro Possiamo altrui predir.
E poi, dopo un applauso finale e un abbraccio delle piccole nane che erano, Annina attaccò con la sua vocina
Annie aime les sucettes Les sucettes à l’anis Les sucettes à l’anis D’Annie Donnent à ses baisers Un goût ani
Il suo canto era armonioso e osceno, reso ancor più desiderabile da quell’infantilismo provocante che, sull’onda della smart drug che era il PeranaX, c’era da metterne giù nuove religioni magari meno innocue della Gionta Unita. Giona stazionava tra i gruppetti, tendeva l’orecchio e si allontanava subito per non destare sospetti. Qualcosa stava certo per succedere.
28
Truce Attanasio si era incollato al muro e si godeva la scena. Aveva preteso che Michela fe prima la conoscenza del bestio affinché lo spettacolino in pubblico fosse certo più asettico ma almeno senza troppi drammi, ché a quei tiramerda sarebbe parso di cattivo gusto. Il bestio non fece obiezioni e pretese solo che Michela se ne restasse là, legata a mezz’aria e incaprettata, al resto ci avrebbe pensato lui. Il Truce non ebbe obiezioni e si mise buono a guardare. In un altro contesto, per esempio un vecchio documentario del National Geographic, avrebbe ammirato la forza muscolare di quel serpentone che saliva a mezz’aria come su di una rampa immaginaria di comodi scalini e in pochi secondi era faccia a faccia con la preda: la bellissima Michela. Ebbe l’accortezza di sistemarsi sopra ma senza appoggiarsi, tenendosi sospeso con la potenza di quella muscolatura formidabile, che se si fosse afflosciata sarebbero entrambi rovinati sul pavimento di marmo. Il bestio tranciò con uno scatto dei suoi denti perfetti il bavaglio che Michela teneva ininterrotto da almeno diciotto ore e, infine liberata, cacciò un urlo così agghiacciante che pure le Zingarelle per un attimo si fermarono atterrite, mentre i libertini si scambiavano cenni d’approvazione. Giona riconobbe terrorizzato la voce di Michela ma non ne intuiva la provenienza.
Il bestio si acciambellò e sorvolava l’inguine di Michela come un radar che doveva indirizzare quella coda enorme in una tana da topina. La faccia se ne restava incollata a quella della ragazza terrorizzata e la baciava con una ione calda, schizofrenica, che la invitava a rilassarsi per il suo bene. La coda sembrava muoversi in perfetta autonomia e si faceva largo con dolcezza, testava e ritornava indietro, sembrava guadagnarsi la fiducia dell’inguine di Michela come anche quello fosse dotato di coscienza propria. Alla fine entrò con un colpo secco che provocò a Michela un urlo ancora più spaventoso, tutto di gola e con una tale pressione di aria e saliva che la ragazza sputò dei pezzetti di tartaro persistente che neanche un trapano avrebbe svelto da quei denti bellissimi. Truce Attanasio si stava decisamente eccitando, era una tipologia di sesso che a lui faceva buon sangue e con sempre minor riservatezza si strusciava il pacco; la coda era entrata ma si muoveva a fatica, un millimetro al secondo, ma il bestio non se ne adontava e il Truce proseguiva nel suo sollazzo sempre più veloce con lo sguardo vitreo incollato sulla scena, distolto per un lungo dolorosissimo secondo dalla tranvata della porta che lo investì in pieno, finalmente localizzata e sfondata senza complimenti da Giona Paraponzi in calze, canotta e brachessino. Truce Attanasio se ne venne giù più dritto di una frittata. Provò a risollevare la testa che gli cadde svenuta e crollò sverso di lato, come addormentato. Giona non fece in tempo a chiedersi chi o cosa fosse quel rubinetto semovente, ché la vista di Michela incaprettata a mezz’aria gli fece salire in testa l’agonismo sopito. Il bestio lo guardava con una certa indifferenza e, notò terrorizzato Giona, nel mentre quello gli ostentava la calma olimpica, il corpo intanto gli stava scomparendo attraverso la natura riottosa ma impotente di Michela, lì a quattro metri di altezza che per un piccoletto come Giona sembrava quasi il picco del Monte Bianco. Michela teneva la bocca spalancata ma nessun suono veniva più fuori da quei tentativi che le ingrossavano solo il collo ma senza risultato. Giona escluse l’arrampicata, la sua palestra era sempre stata di muscolatura e non di agilità, e si tuffò sulle corde che tenevano su la ragazza come un’antica mongolfiera; lì, la scuola Dattoni, la palestra del compianto Tony, servì eccome ché in pochi istanti le corde furono strappate e il suo corpicino muscoloso e fermo attutì la caduta
rovinosa della morbida ma costolona Michela e pure del serpente coi suoi muscoli tutti spianati. Solo allora Giona si rese conto di quella piaga che Michela cercava di celare alla vista ma senza successo; il ribrezzo che non gli aveva provocato né il bestio né il suo sondino animale arrivò tutto in una volta alla vista di quella ferita, così tanto che Giona si lasciò sfuggire dalle mani la ragazza come fosse stato folgorato dalla 220. Michela, dal canto suo, rantolava cianotica ché il serpente non stava tralasciando il dovere suo che era di entrarle tutto dentro; il cuore di Michela batteva forte ma non era solo il cuore, si terrorizzò Giona, ma quella sonda muscolosa che viaggiava imperterrita e che le sarebbe arrivata presto nel collo, soffocandola. Giona studiò per un attimo quella fisionomia inedita e non si risolse subito ad affrontarla, indeciso tra capo e coda; poi optò per la testa, anche per un moto di irrazionale gelosia per quel viso bellissimo, e con tutta la forza che poté gli strinse le mani al collo che non era propriamente un collo ma un segno di confine tra il regno umano e quello animale, non come Flora che il collo lo aveva e pure bello lungo e infatti dormiva quasi nello stesso letto di Michela mentre lui se lo divideva con la scassaminchia dell’Anna Calacchi! E il terrore unito alla rabbia fece quella stretta così serrata e poderosa che le mani gli iniziarono ad affondare nella carne viva e bollente. Il bestio iniziò a perdere il suo turgore a causa di quel sangue che iniziava a spargersi a spruzzi violenti sul bell’appartamentino di Sciarabbai, solo prestato al Truce Attanasio che continuava a dormirsela svenuto. Quando il serpente acquisì una dimensione più accettabile, Michela iniziò a intercettare qualche interstizio d’aria e poté respirare un poco, a fatica ma avidamente. Giona stringeva e si preoccupava solo di quello, come animato da una furia che sorprendeva lui per primo. Sempre meno lentamente le mani affondavano in quella pelle viscida mentre il bellissimo volto continuava nella sua smorfia indifferente, estranea a quello che stava succedendo. Quando le dita di Giona si incontrarono in una morsa violentissima che quasi esplose tra i palmi, si rese conto che quella testa era scivolata a terra, bellissima e persistente nella sua indifferenza decollata.
Giona si sforzò di restare nella sua trance e si alzò di scatto, prima per dare un calcione a quella testa che rotolò con la difficoltà di un pallone sgonfio, poi per staccare quel sondino che continuava a svernare nel ventre di Michela come un parassita e che se ne venne fuori senza alcuna difficoltà. Adesso non aveva davvero altro da fare e si trovò solo con se stesso, davanti alla donna che diceva di amare e che gli stava di fronte, nuda e con quella cicatrice che le pulsava nel pieno del petto e che a Giona continuava a risultare insostenibile alla vista, talché distolse prontamente lo sguardo. Michela cacciò un urlo di difficile interpretazione che Giona si guardò bene di commentare, rassicurare, consolare; balbettava solo che tutto era finito ma non era chiaro a chi si stesse rivolgendo, ché la sua voce era bassa e lo sguardo appuntato altrove. Michela prese a piangere sommessamente. Allora Giona prese coraggio e l’abbracciò ma tenendosi pronto a qualunque cosa, compreso fuggire se quella le si fosse abbandonata tra le braccia. Poco più avanti il placidissimo Truce Attanasio se la dormiva della grossa come un pupo innocente. Giona approfittò subito dell’occasione per rompere l’abbraccio di Michela e ispezionare quel corpo svenuto. Michela parve allora ravvivarsi e si avvicinò al Truce Attanasio, lo tastò con circospezione e gli tirò fuori dall’interno della giacca tutto ciò che riuscì a trovare: la busta di eroina, la Tessera Gold e il suo strano telefono cellulare. Adesso si trattava solo di lasciare l’Hotel Gramsci. La logica avrebbe voluto che la coppia si muovesse con la massima discrezione possibile ché tutti lì dentro erano concordi con quel sacrificio rituale che da quasi ventiquattro ore aveva messo in ginocchio Michela; Giona però dovette pensarla diversamente e spalancò invece la porta, premurandosi di tenersi Michela alle spalle, fuori dallo sguardo. La folla dei libertini mostrò, per cominciare, uno sguardo di indifferenza mista a disprezzo per quell’uomo in calzini e brachessino, inzaccherato pure dei pessimi fluidi del bestio; poi cambiò decisamente registro quando quelli si resero conto che “quello” voleva certamente portarsi via Michela. Lì si inferocì, a denti stretti e irrigidita nella sua eleganza frusciante, coi cravattini di seta appena allentati, coi mustacchi, mosche, barbe curate e favoriti fluenti che fremevano in dei tic nervosi che li rendevano simili a uno zoo in miniatura. Quei tiramerda non si rivolsero nemmeno per sbaglio all’uomo in calzini, canotta e brachessino; erano indignati, piuttosto e anzichenò, e guardavano alternativamente Annina e
Michela, pedine di un giochino che, era evidente, “quel coso” era lì a interrompere e non questi erano i patti col Truce Attanasio, anzi, dov’era? Avrebbe sistemato tutto lui. Giona, pronto alla pugna, non si aspettava però quella sdegnosa indifferenza e a tutta prima s’intimidì; poi, a quello più vicino, rifilò una testata così vigorosa che cadendo se ne portò via altri tre, e poi approfittò del marasma per farsi largo a colpi di gambette, somministrando ceffoni a mano aperta e tracciandosi così una via di fuga a ghirigoro. Finalmente fuori, Giona e Michela respirarono l’aria pura della notte di Torello. Ma non sapevano proprio dove andare a nascondersi.
Capitolo 6 Nella Gionta
Dove si mangia tonno e grissini
1
«Ihu!» Michela Gang Bang aveva rotto il silenzio che si trascinava da più di tre mesi, e un verso sgangherato alla fine le era uscito dalla bella boccuccia. Tanta fu la sorpresa di Giona che, bello distante che stava, si mise le gambette in spalla e le si avvicinò con un sorriso da orecchio a orecchio per informarsi di quale bella novità avesse dissigillato quel mastice insistente. Michela si guardava il ditino insanguinato e con fatica tratteneva due lacrime di rabbia che pesavano come due piombini appesi sulle ciglia e quasi la cappottavano faccia a terra: era bastato un taglietto a farle aprire la bocca. Giona riprese fiato e pressione arteriosa, poi si confuse ché Michela aveva sì latrato ma adesso schiumava d’ira e sanguinava pure, talché ancora una volta le cose belle si mescolavano a quelle brutte e fanno la difficoltà del mugnaio che deve separare il grano dal loglio. Michela girò la faccia e se ne partì a grandi falcate, ancora claudicante dopo i fatti dell’Hotel Gramsci, pure che erano ati più di tre mesi. Giona se ne mortificò ma la sua indole di uomo pratico fu catturata da quello che Michela stava provando a costruire e, con molta attenzione, studiò di prenderlo in mano.
Di forma non ne aveva, sembrava una tempesta, invitante come uno di quei gechi tutti arancione che solo a guardarli ti fanno il ripieno di veleno e muori. Giona andava avanti e indietro con le manine e non si decideva ad attaccare secco da qualche lato quell’accozzaglia di vetri sparigliati che Michela stava componendo con lo scotch, e grazie al cazzo che si era tagliata: da qualsiasi parte emergeva uno spuntone, una scheggia, un angolo così acuto da sembrare il fuso della Bella Addormentata, e quel mosaico Michela se lo stava costruendo a sua immagine e somiglianza, con tutto l’odio e il terrore di quella notte all’Hotel Gramsci. D’altra parte, notò Giona, era proprio quello il significato ultimo di quello specchio, messo su coi cocci più lucenti di una antica e splendente vetrata policroma buttata giù da una qualche bomba. Giona intravide con un po’ di immaginazione uno scorcio della sua faccia, in chiaroscuro tra i cocci eterocliti azzurrino tenue, verde limone e un buio magenta che gli celava per intero la bocca. Giona si appressò al monticello di macerie che era il deposito dei cocci e gli diede un calcio deciso per spalmarlo al suolo come una sfoglia fresca e poter selezionare meglio i singoli pezzi, tra i più chiari e senza tutti quegli spigoli, al contrario di Michela che se lo stava costruendo tutto delitto e castigo. Tornò sul mosaico alcuni minuti dopo con in mano un coccio così lucido che sembrava luce, a forma di triangolo di Pitagora e buono quindi come pietra angolare.
2
«Ahia!» Serena stava osservando il puzzle e vi si muoveva intorno con rapidi ettini per meglio centrare il suo faccino irregolare, il naso lungo e snello e l’occhietto destro leggermente strabico e viola.
«Daje…» smozzicò tra sé e sé Giona rassegnato e anche leggermente incurante di un altro silenzio rotto, quello di Serena. Il richiamo di quello squittio fu invece irresistibile per Flora che col o strascinato di una falcata ansiosa si era appressato a quella bottega d’artigiano improvvisata, e la vista del sangue per poco non lo metteva al tappeto. Giona, sconsolato, diede al giovane un buffetto nervoso sul lungo collo che riammise Flora tra gli abili e arruolati perché Serena, anche lei, si era tagliata il ditino e nulla di più. Flora la guardò con occhio sollevato e glielo succhiò per molti secondi, felice perché questa volta il sangue di Serena poteva diventare di dominio pubblico, non come quelle dannate perdite che lui nascondeva sul materasso dell’amore con gran dispendio di federe e lenzuola nuove di pacca. Serena gli sorrise con gli occhietti suoi toujours innamorati; d’altra parte di perdite non ce n’erano state più da quando avevano spostato il domicilio. Ma neanche facevano più l’amore da allora. Giona, sbuffando, si mise al lavoro partendo da quella nuova pietra angolare mentre Nino Flora si improvvisò garzone di bottega e inginocchiato lo guardava con rispetto aspettando solo che gli desse un qualche ordine. Serena, con l’indice in bocca, raggiunse in un angolino Michela, con l’indice in bocca pure lei. Da fuori un boato sordo e breve diede la stura a una serie di raffiche e alcuni “ohi ohi” trasportati dal vento e affievoliti dalla lunga distanza.
3
«Ahia!» «E figurati!» commentò Giona con un sorrisetto stronzo. «Mi sono tagliato!» rispose acido Nino Flora.
«E che, non lo vedo?» rincarò Giona «Tu sei proprio un incapace e in un mondo perfetto dovresti starmi in ginocchio sì, ma a sventolarmi i palmizi mentre io mi ristoro coi bibitoni!» «Che faccio adesso?» si lamentò Nino Flora. «Se vuoi ti succhio il ditino…» propose sarcastico Giona. «Grazie tante, faccio da me» rispose Flora. «Ma perché lo stai allargando così tanto?» interrogò di nuovo. «Flora…» indicò esasperato Giona «… io, forse sono un po’ rozzo, chi lo sa? Però… quando mi sforzo di pensare cerco di pensarla tutta, come quando vai a cagare, no? Tu che fai, te ne conservi un richiamino per dopo? Insomma… la lunghezza va bene, sono quasi due metri e la “mia” Michela si può specchiare fino all’alluce. E così stretta lei certo ci sta dentro, serpentona mia… vabbè… ma Serena? Vedi quanto è larga? Mo’ scoppia! Ecco cosa. Tra l’altro, ti dico la verità: ancora non mi capacito che proprio tu, mezzo frocio che sei… ma va bene, tu c’hai il tuo, io c’ho il mio. Comunque, se non gli dai larghezza col cazzo che lo specchio sta in piedi. Ahia!» s’interruppe Giona. Si era tagliato pure lui. Nino Flora lo guardò benevolo per qualche secondo. C’era sempre tra di loro la questione di una bella testata sui denti per poi diventare amici e, per fortuna di Giona, non c’era adrenalina a scuotere Flora. Ma conveniva stare in campana ché da Torello ne arrivavano le eco che la metà bastava.
4
Michela si era scelto un posticino appartato e aveva disteso le lunghe e belle gambe appoggiandosi a una colonna nera di fumo che faceva quel buio ancora più pesto. Si stava ingegnando in un’operazione che sembrava di vitale importanza per l’Umanità, tipo intagliare i legnetti col temperino, ma non erano legnetti, era la capace carta argentata delle sigarette che la ragazza divideva in tanti rettangolini uguali che riponeva nella borsetta sempre al suo fianco.
Finita l’operazione, si pescò l’ultima sigaretta dal pacchetto sventrato e se l’accese incollando la nuca alla colonna fuligginosa e alzando gli occhi al cielo. Serena le si avvicinò senza una parola e prese ugualmente posto lì di fronte, stendendo anche lei le gambette e respirando a piccoli sorsi che le facevano sembrare il pancino una grancassa ben tesa sollecitata dalle spazzole. Michela stava fumando diligente e sversava sulla camicetta bianca interi topini di cenere che cadevano di loro iniziativa dal tubino. Lei non se ne curava e ogni tanto, semplicemente, se li smanacciava di dosso con un gesto lento e annoiato. A volte, gli sguardi delle due ragazze si incrociavano ma non potevano dirsi granché: lo strabismo di Serena lo faceva sembrare distratto, sfuggente; le profonde occhiaie e le pupille a spillo di Michela davano invece l’impressione di un film emozionante che però solo lei vedeva. Serena allora si alzò con uno scatto di reni e prese una porticina bassa con su scritto a caratteri cubitali sagrestia. Era curiosa quell’intestazione, fatta di lettere grandi e maiuscole in bronzo e pure verniciate di nero fresco e pulito, come a sottolineare quel posto di cui nessuno, lì dentro, capiva cosa fosse stato e a cosa fosse servito. Per i quattro ragazzi quella era semplicemente la dispensa, in cui fin dal primo giorno vi avevano trovato vitto e alloggio, acqua, cibo, coperte, materassi e anche le sigarette. Serena ne prese un pacchetto e ritornò indietro. Michela, approfittando dell’assenza di Serena, si era impegnata in una certa operazione di alta precisione e velocità. Aperta la borsetta ne tirò fuori un vecchio manuale d’istruzioni su Come sintonizzare il maxischermo. Diede una scopettata sulla copertina come a liberarla di una polvere immaginaria e se lo poggiò in grembo. Poi aprì un cicciolo, una stagnola ripiena da cui sversò una montagnetta di polvere marroncina. Michela la guardò con soddisfazione e pescò dalla borsetta la Tessera Gold che era appartenuta a Truce Attanasio e con quella la ripianò e ne fece una striscia lunga e neanche tanto sottile. Infine usò una vecchia banconota arrotolata per aspirarla tutto d’un colpo e poi rimise gli strumenti nella borsetta e appoggiò nuovamente la testa sulla colonna fuligginosa. Pochi secondi dopo, Serena, ritornata nel suo angolino, le porse il pacchetto di
sigarette che Michela aprì, ne salvò la prima stagnola e finalmente se ne accese una, pronta a riprendere il suo film immaginario che si proiettava incessantemente tutti i giorni da quei tre mesi che già erano ati.
5
Neanche Giona Paraponzi e Nino Flora si annoiavano. Erano svegli già dall’alba ed esploravano in lungo e in largo l’intero perimetro della gionta, con le mani allacciate dietro la schiena e gli occhi spalancati, soprattutto quelli di Flora. E di curiosità c’era a morirne in quell’edificio abbandonato, semidistrutto e che non rispondeva a nessun canone di abitabilità, comfort, logica. Vi erano entrati dal pesante portone ad arco, così ampio che due dinosauri ci sarebbero agevolmente ati mano nella mano, e tutto quel legno massiccio, deturpato da una qualche bomba e fuligginoso, dava l’idea di un carbon fossile da una tonnellata. Ma già ato il portone lo spazio si restringeva in una sorta di vestibolo con doppio ingresso dal quale non il singolo dinosauro ma già Flora o Michela dovevano abbassare il capo per non prenderlo in pieno, come fosse una trappola studiata. Poi lo spazio si allargava, si allungava, si alzava nei soffitti altissimi con le volte a stella, crepate e impolverate da una spessa pellicola di fumo che aveva rivestito i rilievi e i disegni di uomini con la barba pendula, tutti a mezz’aria per mezzo delle alucce, con le mani che indicavano il cielo e tutti portavano un cerchio alla testa così ampio che non si capiva come fero a restarsene diritti come dei fusi. Al centro, i mucchietti e alcuni scheletri di legno facevano intuire che quel posto era disseminato di molte panchine quasi fosse stato un giardinetto pubblico; non c’era invece traccia dei maxischermi, nessuna scheggia che riconducesse al telone in plasma, alle strutture metalliche di o, al cablaggio dei fili. Sui lati della lunghezza si poteva intuire l’antica presenza di tanti loculi coi cancelletti divelti e un mobilio scarso ma prezioso ridotto in cocci, gesso, marmo, cera squagliata, che avrebbero posto interessanti interrogativi su chi e
come aveva potuto viverci dentro. Nel culmine della eggiata si accedeva col tramite dei tre scalini a quello spazio più raccolto e più prezioso, quello in cui Flora aveva dialogato con la voce, con quella poderosa scrivania di marmo e i cocci multicolore delle vetrate finalmente infrante e che garantivano quel poco di luce e aria che li teneva tutti in vita, e, nel cuore di quel cuore, troneggiava infine la piccola cassaforte di ottone, preziosa e splendente seppur vuota. Insomma, riflettevano tra sé e sé i due uomini, si entrava da animali preistorici, nella gionta, e o dopo o si acquistava forma umana e poi extraterrestre, a mezz’aria, e infine, senza più forma né ingombro, si finiva dritti in quella cassaforte vuota ma presente, straordinariamente vitale. Al culmine di questa vertigine, ritornavi però coi piedi per terra solo gettando uno sguardo di lato: la sagrestia, che veniva usata come dispensa, sembrava né più né meno un modesto appartamentino della Giolla Unita, senza disegni né fregi, né scultura né pittura, col soffitto bianco, basso e squadrato e i muri martoriati dalla solita bomba che l’aveva messa a soqquadro pur lasciandola in qualche modo in piedi. Quello spazio di una umanità quasi becera spalancava soprattutto gli occhi di Giona, uomo solido e pratico. Flora, al termine della ricognizione giornaliera, tirava le somme e da tre mesi la sua conclusione era sempre la stessa: la gionta, pur colpita dalle bombe e dal fuoco, continuava a farsi intuire come un posto scandalosamente eversivo, dove si respirava un’aria proibita di cosmopolitismo, di un’accoglienza benevola, auspicata e generalizzata che era la negazione stessa del concetto di Giolla Unita. E si trattava di un solo e semplice edificio! Figurarsi cosa poteva evocare la Gionta Unita! «Proviamo a poggiarlo su una colonna…» propose Giona a Nino Flora, perso nelle sue fantasticherie. «Lo mettiamo in piedi?» interrogò Nino Flora, ancora in trance. «Ma no, che? “Alzati e cammina”, no?» lo coglionò Giona. «Che roba è? Gioco di prestigio?» re-interrogò Flora.
«Boh? È un modo come un altro per dire che sei un coglione…» rispose serio Giona. «…su…» lo incoraggiò «…al mio tre… uno, due…» CRACK Lo specchio era collassato nel centro e i due uomini erano rimasti con le estremità in mano. Flora poggiò a terra delicatamente la sua. «’Sto sistema non è buono…» considerò Giona grattandosi il cuoio capelluto. «Ricuciamolo e proviamo di taglio!» propose Nino Flora. «Potrebbe funzionare…» concesse a denti stretti Giona. «Solleviamo adesso» aveva ordinato concitato Flora dopo essersi variamente tagliuzzato nell’operazione di rattoppo. «Piano frocetto!» ammonì Giona ma abbastanza ottimista. «Così!» urlò felice. Adesso sembrava tenere. Come prima azione, Giona s’inquadrò la testolina e si scrollò il cuoio capelluto per ravvivare e dare movimento alla sua fronte bassa e prevedibile. Da dietro riusciva a vedere Flora in tutta la sua altezza e col collo diritto. Non poteva fare a meno di invidiarlo. Da lontano un colpo secco di rame annunciava il pranzo. Serena aveva battuto forte con le sue manine il mestolo sul culo della padella. «Magari quando si guarderanno allo specchio ne verrà fuori qualche parola…» commentò speranzoso Giona. «Magari sì…» convenne Nino Flora che ci credeva pochissimo.
6
Il pranzo si svolse, come sempre, sui tre scalini apparecchiati a picnic e durò finché il sole non si spostò di moto proprio dalla vetrata rotta, che a mezzogiorno lo proiettava perpendicolare e lucente sulla testa di Giona.
E mezzogiorno era l’unico concetto di tempo a loro conoscenza, ché di orologi non ne avevano e i cellulari, privi dei caricabatteria, erano collassati uno dopo l’altro nell’arco dei primi quattro giorni. Serena porse a ciascuno le scatolette di tonno, già aperte dalla linguetta e sommariamente sgocciolate in uno di quei grossi recipienti di marmo che a qualcosa adesso servivano. Poi ò alla truppa una confezione a testa di esili grissini e una forchettina di plastica per combinare al meglio pane e companatico. Nessuna parola volò su tutta l’operazione. Michela prese distrattamente la sua scatoletta che poggiò subito di lato, intatta e con la forchettina che dondolava sopra. Scartò invece i grissini e ne mise distrattamente uno in bocca, suggendolo schifata come un lecca-lecca al gusto di fogna. C’era da mollarle un ceffone sul bel musetto a vederla così, assente. Neanche Serena, in verità, parlava ma sembrava aver perso semplicemente la lingua; per il resto, il corredo dei suoi sguardi, delle sue smorfie, dei suoi gesti era rimasto intatto, amorevole con Flora, amichevole con Giona Paraponzi, rispettoso con Michela e poi era l’unica che apriva le scatolette e dava il via a mangiarle col suo allegro “gong” di rame. Era molto cambiata Serena in quei tre mesi. La sua fisicità era diventata inaccessibile, tonda e liscia come una pallina, non scatenava più i peggio istinti e, il penetrante odore della gionta, come di un cadavere ripieno di balsamo per capelli, l’aveva avuta vinta addirittura sui suoi potentissimi feromoni al gusto di fregna e baccalau che sembravano essere stati scacciati dopo una battaglia campale. Era diventata un’emanazione, una sorta di maxischermo trasfigurato che vegliava su tutti e tutti trattava con benevolenza, senza giudicarne i tanti vizi, le rare virtù e facendosi bastare la loro buona volontà. Flora svuotava la sua scatoletta con la testa leggermente abbassata, evitando qualsiasi sguardo che gli sarebbe stato penoso sostenere. Michela con le sue occhiaie profondissime e la pupilla ridotta a spillo continuava imperterrita a ignorare la presenza di ben altre tre persone nei suoi paraggi, tutta concentrata sul suo film preferito. Giona viveva quei momenti di comunità col peggior disagio. Forte della sua intuizione secca e ignorante, si era presto reso conto che lui, lì
dentro, nella gionta, c’entrava come i cavoli a merenda e che ognuno stava giocando il proprio ruolo ma per quanto lo riguardava lui di ruoli non ne aveva, in imbarazzo anche solo a portare la forchetta di plastica alla bocca maleducata, in mezzo a quelle tre sagome che sembravano centellinarsi il cibo per evitare poi la sconvenienza di digerirlo, figurarsi cagarlo! Era sempre il primo a finire il pasto e quello diventava il suo momento peggiore perché a quel punto non sapeva più che fare e Flora era ancora lì, con la testa piegata che sembrava concentrato sul tonno come fosse una onorevole equazione di quinto grado. Poi cercava un’altra immagine che lo sollevasse e si trovava di fronte Michela Gang Bang, che amava, ma era ancora peggio ché quella non si smuoveva, completamente persa, e allora distoglieva nuovamente lo sguardo fino a incontrare la sua scatoletta intatta che gli sollecitava i morsi della fame, magari ancestrale ma anche legittima, ché andavano avanti a tonno e grissini da più di tre mesi. A quel punto Serena, come sempre, gliela ava con un gesto semplice, disinvolto, privo di giudizio. Giona soffocava un “grazie, faccio uno sforzo” ma a Serena non importava, non voleva né spiegazioni né umiliazione ed era già in piedi, più larga che lunga, a raccogliere i resti che divideva tra rifiuti e stoviglie, da lavare in uno di quei recipienti prensili di marmo. Allora Giona si affrettava a ingoiare la scatoletta bis e subito si alzava e la seguiva con la forchettina di plastica in mano affinché anche quella potesse essere pulita. Solo allora si disponeva allo spleen, quando dava le spalle a tutti, ruttava silenzioso e si accendeva la sigaretta della soddisfazione, quella in cui il suo stomaco si adagiava sull’inguine, più o meno satollo. Presto sarebbe arrivato Flora con la sua sigarettina senza nicotina e insieme avrebbero studiato un nuovo gioco, una nuova esplorazione, per portare a termine una giornata che non ava mai.
7
«Per me, mi odia. È dal primo giorno che ci penso e adesso sono tre mesi e il risultato di tutta la scienza è: per me, mi odia» attaccò Giona con la sigaretta in bocca che tremava di rabbia. «Bah…» rispose secco Nino Flora. «No?» lo interrogò Giona «Fatti i calcoli. L’ultima voce sua che ho sentito è
stata l’urlo crepato quando quell’essere immondo le era praticamente arrivato in gola. Poi, nulla…» «È difficile, sai?» conciliò Flora «Riprendersi da quello choc, voglio dire…» «Non te lo puoi immaginare! Ogni volta che ci penso mi viene l’intestino in bocca… non ho mai visto niente di simile…» confermò Giona. «Vuoi dire il bestio o la piaga di Michela?» chiese Flora. «Io… non lo so più. So solo che mi odia, ha schifo di tutto, a cominciare da me, non mi guarda nemmeno in faccia, non guarda nessuno in faccia, manco te, meno male eh! Ma… tu… come l’hai conosciuta?» cambiò repentino il discorso Giona. «Neanche tu la guardi in faccia però…» rispose Nino Flora. «E vorrei vedere! Io ho l’idea giusta di chi sono… sono vecchio, brutto, rozzo e mi sono pure preso il lusso di avere pena di lei… boh… ti viene altro in mente? Senza complimenti, neh?» incoraggiò Giona. «Non l’hai sfruttata, non l’hai scopata a pagamento. In ultimo l’hai pure salvata…» continuò volentieri Flora. «…io l’ho conosciuta come la vedi… bella da mozzare il fiato, cuore gentile e principessa delle badasse dell’Hotel Gramsci dell’oasi felice di Torello… era già lei quando l’ho conosciuta, indecifrabile, come adesso…» rispose Nino Flora alla domanda di prima. «Neanche tu l’hai scopata a pagamento, però!» ricordò bene Giona. «Ma è perché sono un mezzo frocio, no?» gli sorrise Flora. «Va’ là, la sai lunga tu. Hai pure il pupo in cantiere, roba del mondo antico, di quando i figli erano di moda. Come ti è successo?» s’incuriosì Giona, più rilassato. «Io credo sia stato l’amore…» rispose senza incertezze Nino Flora. «L’amore è strano…» convenne Giona. «…per questo non ce n’è più nella Giolla Unita» rifletté pensoso.
«L’hai detto fratello! E tu, il tuo amore, non riesci neanche a guardarlo in faccia, ecco qua tutto il mistero…» rincarò Flora. «…a proposito, regaliamo lo specchio alle nostre signore?» chiese allegro. «Facciamo domani, va’. Oggi tricche e branca la giornata sta per finire… almeno domani avremo qualcosa da fare. Magari ne esce fuori qualche parola, pure per un grazie o un vaffanculo…» propose pensoso Giona. «Perché no?» confermò allegro Nino Flora.
8
Michela, al riparo dagli scocciatori, si era distese le gambe e premeva la schiena alla colonna fuligginosa mentre si scrollava i piedini da qualche fungo immaginario e si teneva la borsetta stretta in grembo. Fumava tranquilla senza bisogno di mani, alternando sapienti boccate di fumo e di ossigeno come una piantina che fa la fotosintesi. I topini del tabacco le cadevano innocui, senza stille di fuoco, sulla borsa tenuta stretta e atterrando si sfracellavano in una polvere grezza, bianca e grigia che se ne restava lì, quieta. Arrivata al filtro che iniziò a bruciare di un fumo denso, il cervello le diede l’input dell’azione, sputare la cicca più lontano che poteva con la forza delle sue labbra tumide e quasi sempre le cadeva sui piedi e lì si spegneva spontaneamente. Michela riaprì la borsetta per pescarsi un’altra sigaretta e ne approfittò per un inventario alla veloce. Il manuale Come sintonizzare il maxischermo se ne stava lì, con la copertina sgualcita e le sue istruzioni multilingua, cosmopolite, che quanto a eversione faceva il paio con la Gionta Unita e anche con quel biglietto da diecimila lire che aveva preso la forma di una cannuccia. La borsa di Michela era l’ultimo fortino di una natura riottosa. La ragazza aprì un nuovo pacchetto di sigarette e tenne da parte la prima stagnola che divise in due perfetti rettangolini che andavano a raggiungere una popolosa colonia di pari loro, divisi in due gruppi sociali: i ciccioli, chiusi a
pacco regalo con l’eroina dentro, e quelli stesi e vuoti in attesa del pieno. Più in fondo di tutti, in accordo con la legge di gravità, era sprofondato il pesante cellulare e l’antica busta di Truce Attanasio che, in origine piena fino all’orlo, adesso conteneva non più di un triste fondo, limaccioso come le briciole di un’enorme pagnotta sbranata. Michela decise di farla finita con quel vaso di Pandora e aiutandosi con la Tessera Gold iniziò a riempire ogni stagnola vuota con la polvere residua, con la precisione di un bilancino. Ne chiuse una ventina e poi leccò la busta avidamente. Così, come il latte scaduto diventa veleno, quell’ultimo residuo di polvere prese forma di angoscia. Michela si rese conto di essere agli sgoccioli. Guardò molto intensamente dal profondo delle occhiaie quel sacchetto vuoto, con la speranza che rigenerasse la polvere andata e, non succedendo nulla, lo gettò lontano da sé, come la migliore amica che mette le carte in tavola e tradisce. Michela si sversò in grembo l’intera borsetta e andò alla conta dei ciccioli che arrivati a trenta si bloccarono per sempre. Centinaia di pazienti rettangoli di stagnola sarebbero rimasti vuoti per sempre. Michela ne fece una pallottola unica e scaraventò via pure quella. Tradotto nel linguaggio della sua scimmia, Michela aveva poco più di ventiquattro ore e poi sarebbero cominciati i dolori. Michela decise di festeggiare il pessimo report con una doppia razione di ciccioli che versò sulla copertina sgualcita del manuale e aspirò con la banconota arrotolata, con una tale furia che la polvere byò la circolazione sanguigna e si irradiò nelle dita dei piedi e con un molle colpo di frusta percorse tutto il corpo della ragazza, in tutte le sue curve paraboliche e le fece cadere la testa sul collo come un erotto in una notte di tempesta. Dalla bocca di Michela prese a scendere una glaciale saliva, limpida come il corso di un ruscello. E così perse i sensi fino al mattino dopo, quando si svegliò zuppa di sudore e in preda ai brividi freddi nonostante Serena l’avesse spogliata e messa orizzontale sul suo futon con tanto di lenzuolo e copertina.
9
Michela si era risvegliata di botto, con uno scatto di reni così potente che, se per caso sotto il culo si fosse trovata una molla, sarebbe volata fin sopra l’alto soffitto a stella e là si sarebbe schiacciata, in mancanza di una via di fuga verso il cielo prima lilla e poi pesca dell’aurora di Torello. Gli altri dormivano della grossa, c’era stata battaglia nell’oasi felice fin dal tardo pomeriggio e si era protratta fino a notte fonda, giusto un paio d’ore prima. Bombe a grappoli, raffiche, spari, grida, fino a un’esplosione finale così potente che erano caduti dei calcinacci colorati dalla gionta e aveva zittito tutti, dentro e fuori. Michela si era risvegliata da un sonno agitato che l’aveva spossata e si mise faticosamente in piedi. La schiena le doleva come per una sessione di frustate, lo stomaco le borbottava rumoroso in un subbuglio che neanche la peggio orgia dell’Hotel Gramsci avrebbe potuto rappresentare. Gli occhi le lacrimavano e si soffocò in gola un acre pizzico che avrebbe svegliato tutti, fosse esploso. Teneva la tumida bocca semiaperta, che annaspava e ansimava poiché il naso le impediva la respirazione, colmo di un moccio bollente, liquido e torrenziale che le colava anche sul petto, scuro come una bile. La borsetta! Dov’era? Si chiese con uno scatto prepotente di tutte le membra, quasi si fossero scoperte all’improvviso nude. Stava per lanciarsi colma d’ira su quel pezzo di faccino che emergeva dal sonno di Serena, quando si bloccò colpita dalla consistenza del suo cuscino. La borsa era dentro, ben alloggiata nella federa, con cura, neanche avesse contenuto l’oro della Gionta Unita. Serena vedeva e sapeva, conosceva, capiva, stava muta e agiva ma a Michela tutto ciò non importava, neanche stavolta, aveva ben altro di cui occuparsi, innanzitutto verificare che nella borsetta ci fossero ancora i ciccioli, in caso contrario l’opzione di saltare addosso a quello scricciolo restava ancora valida. C’erano. Con lo sforzo di un meccanismo eroso dalla ruggine ma ancora reattivo, si spostò nella sua zona d’ombra, già illuminata, ma poco, dai primi bagliori di alba. Si soffiò il naso direttamente sulla camicia bianca. Le mani le tremavano e
dalla fronte le cadevano gocce pesanti di sudore acido che si infransero sulla copertina di Come sintonizzare il maxischermo, e quasi friggevano. Sversò due ciccioli in un unico monticello, evitando di spianarlo con la Tessera Gold ché avrebbe richiesto una lucidità e mano ferma che sentiva di non avere. Anche il monticello, in realtà, non era venuto bene, era sgommato su quasi tutta la superficie del manuale e in alcuni punti il sudore acido, cadendo, aveva impattato la polvere, che si era subita ammalloppata. La banconota adattata a cannuccia fu impugnata con molte difficoltà dalla ragazza che ne sciupò la forma cilindrica e la struttura cava che la faceva così perfettamente aspirante. Quando la pose sul naso si era sghembata e sussultava pure lei nelle dita tremanti di Michela che cercava nervosamente di inquadrare la pista cicciuta di polvere, sempre mancandola. Michela si fermò per un attimo, il muco le aveva di nuovo invaso le froge, il sudore le scendeva sul manuale a gocce pesanti. Allora si svestì della camicia bianca e rimase nuda, incurante di quella piaga che non si era più guardata da quando erano entrati nella gionta e si ò quel cencio fradicio sulla testa e sui capelli bollenti pure quelli, diede un colpo possente con le froge che la liberò del nuovo muco e si rimise in posizione con la cannuccia ormai molle, dando un profondo respiro e buttandosi sul manuale aspirando con tutta la forza che poté. Il cammino fu molto difficoltoso, tra la cannuccia molle e spiegazzata e il muco che le si stava riformando, le pietruzze che non erano state ripianate facevano malloppa e non andavano né avanti né indietro ma pian piano Michela procedeva, trattenendo il respiro che avrebbe ricacciato tutto fuori e ne era quasi cianotica. Quando il manuale fu quasi svuotato, Michela riprese fiato con la bocca ansimante e il naso in subbuglio tra ingressi e uscite, muco e eroina, gonfio come un pallone finché salì il colpo di frusta dello sballo e solo allora si appoggiò sulla colonna fuligginosa, mezza nuda, e distese la gambe mentre avano i titoli di testa del suo film emozionale.
10
Michela non si rese conto di quanto tempo fosse ato. La luce filtrava più decisa ma ancora pallida, l’aria era ancora fresca. Fu il
“gong” di Serena a farle chiudere di scatto le mandibole e aprire gli occhi. Si era assonnata con la bocca aperta, lo sentiva dalle fauci secche e amare. Michela si mise in piedi e si stirò le membra. Si sentiva completamente lucida, anche troppo. Il doppio cicciolo le aveva rimesso ordine nel tran tran degli organi interni ma il cervello le risuonava insoddisfatto e incatenato a un corpo da cui voleva solo evadere. Si preparò un terzo cicciolo e, con una certa euforia, se l’aspirò. Poi diede una scrollata al manuale e rimise tutto nella borsetta, pronta per la colazione. Neanche Flora, Giona e Serena avevano la faccia granché riposata ma, rassegnati, sedevano in emiciclo ognuno col suo pane quotidiano. Giona suggeva un caffelatte evidentemente troppo caldo e se lo portava alle labbra con molta circospezione, scrutando guardingo a destra e sinistra casomai gli altri stessero complottando per fregarglielo oppure per coglionargli quel dito mignolo steso come un baccalà che faceva figura con l’impugnatura del pesante tazzone di smalto. Flora beveva il suo caffè con la testa piegata, come fosse un affare tutto suo, da non condividere con nessuno; ogni tanto sbocconcellava svogliato dei biscottini mosci e unti d’olio. Serena inzuppava un tè con gli stessi biscottini e di ogni morso valutava saggiamente grandezza e consistenza ché, piccola com’era, faceva molta attenzione a non ingoiare bocconi più grandi di lei. Michela notò quel quadretto idilliaco e, in forza del suo cervello ancora sgombro, le partì un sorriso involontario che tenne ben celato. D’altra parte, anche i tre guardavano Michela di sottecchi, solo che c’era ben poco di cui sorridere. La sua nottata era stata peggiore della loro, era evidente; le sue occhiaie erano ancora più profonde; la sua silhouette dritta e sinuosa, sembrava poco stabile sui suoi deliziosi piedini; la camicia, lercia di suo, aveva seccato e impresso a fuoco qualche litro di sudore acido e si incollava in vari punti del suo petto con aloni giallastri e tutta spiegazzata; in un paio di punti si erano formati dei crateri di una materia nerastra e secca, una fuliggine caduta dal suo bel nasino. Michela si sedette tra loro e si versò una tazza di caffè ancora bollente,
ignorando i biscottini. Nessuno disse una parola. Una svogliata raffica di mitra avvisò che Torello si era svegliata pure lei.
11
Giona, come sempre, finì per primo e si allontanò dall’emiciclo decisamente sollevato mentre si accendeva la prima sigaretta del mattino. Dopo qualche minuto arrivò Flora. «Che giornata…» commentò a freddo il ragazzo, senza specificare se si riferiva a quella appena ata o a quella che stava iniziando. «C’era la guerra ieri… peggio dei giorni scorsi…» decise d’interpretare Giona. «Qui almeno siamo al sicuro…» rincarò Flora che pure lui non aveva voglia di affrontare l’enigma di Michela. «Dipende da quanto dura! Per me andare avanti a scatolette fa uguale, rispetto alla cucina di Anna Calacchi è pure un o avanti… però anche le scatolette nel loro piccolo finiscono…» puntualizzò Giona. «Già… Anna… non sei preoccupato per lei?» cambiò discorso Flora. «L’Anna? Non ho spazio nel mio cervelletto pure per lei, più di una cosa alla volta non capisco e qua ce n’è già di basta… spero si sia tappata in casa con tutte le sue provviste…» rispose cupo Giona. «Michela?» provò a forzare Flora. «…» non rispose Giona. «Mi ha fatto una pessima impressione…» rincarò Flora. «Non eri tu a dire “quello che ha ato, ci vuole tempo” e cose così?» ironizzò Giona.
«Sì… però…» annuì Flora poco convinto. «Boh…» chiuse Giona. «…iamo al talequale» suggerì. «Che?» fece Flora. «Quello. Lo specchio per le nostre signore» indicò Giona. «“Talequale”?» interrogò Flora. «Lo specchio ci assomiglia, dicevano gli antichi: talequale» spiegò paziente Giona. «Proprio quello che ci vuole… speriamo bene…» borbottò tra sé e sé Nino Flora.
12
Serena si guardava soddisfatta facendo avanti e indietro con la sua figura piccolina, ampliata solo in quell’enorme pancione. La visione la soddisfece, il naso lungo e sottile, le zanne impettite come tanti soldatini d’avorio, il leggero strabismo che la rendeva allo stesso tempo buffa e desiderabile. Serena testimoniò la sua gratitudine con un bacio sulla fronte di Giona e uno più umido sulle labbra di Flora. Michela se ne restava guardinga in disparte come se quell’accozzaglia di vetri fosse il peggior nemico di tutti. Solo per evitare parole e sguardi d’invito si avvicinò anche lei con falsa disinvoltura, cercando di studiarsi i lineamenti con calma per dare la giusta soddisfazione all’alto artigianato dei due amici. Era decisamente dimagrita, il fatto era reso evidente da quei vestiti che certo celavano gran parte della carne ma le cascavano addosso come un informe e lurido blusone laddove prima si incollavano alla lunga teoria di curve, dossi, cunette, sentieri e increspature che erano stati il suo splendido corpo. Neanche gli austeri tailleur della Beni Vizi e Servizi l’avevano mortificato fino a quel
punto. La faccia, al contrario, denunciava un degrado indiscutibile. I capelli erano come morti, certo malcurati in quei tre mesi di vita quasi brada ma anche stanchi, incollati al cranio. Gli zigomi prima alti e pulsanti come quelli di una statua, adesso bivaccavano molli e sbracati quasi all’altezza delle labbra, ampie e ancora belle nel disegno ma screpolate e quasi esangui. Il naso era gonfio con le narici semichiuse e le occhiaie che prima le incorniciavano civettuole gli occhi nocciola si erano incavate. Michela faceva ricorso a tutto il potere del quarto cicciolo, aspirato poco prima, per non dare forma a quello che lei stessa e i suoi amici stavano pensando di quell’immagine riflessa; gli uomini si grattavano il mento con imbarazzo mentre Serena si fece piccola piccola e avrebbe preferito sparire ché anche un sol sguardo, tra donne, davanti quell’evidenza, poteva portare uno psicodramma che aveva voluto evitare dal primo momento tagliandosi la lingua. Michela, al contrario, sembrava quasi allegra e si allontanò dal talequale come si fosse ormai stufata di vedersi così bella. I tre rimasero pensierosi lì davanti, non trovando più il coraggio di una veloce sbirciatina. Solo più tardi, al “gong” del pranzo, si accorsero che al posto di Michela nel suo angolino preferito c’era fitto fitto un bigliettino strappato delle pagine del manuale che affrontava in lingua fiamminga la delicata operazione di sintonizzare il maxischermo, almeno così si poteva evincere dai disegnini. Nei rari spazi bianchi del foglio, Michela aveva scritto in stampatello maiuscolo: “Torno subito”. Nient’altro. Fuori, continuavano a risuonare le raffiche di mitra.
13
Coi piedi nudi e le scarpe in mano, Michela zompettò birichina per qualche metro.
Poi si fermò per un improvvisato e felice bagno di luce e aria che le entrarono nei pori, rigeneranti e ottimisti. Si stirò le membra e rimase qualche secondo a capo all’aria per godersi un flash che neanche tutti i ciccioli messi insieme le avevano regalato in quei tre mesi. Dopo una buona scorta di ossigeno riprese la respirazione che era ata dall’aria viziata e greve della gionta a quella pura di una giornata col venticello, con la stessa prudenza con cui le antiche macchine a quattro ruote avano dall’alimentazione a benzina a quella a gas. Michela piroettò su se stessa con un gesto delicato e col panopticon abbracciò quel pezzo di Torello periferico, vuoto e completamente distrutto, così dilaniato che non le era chiaro dove si trovasse e se la via per il centro dell’oasi felice fosse a destra o sinistra. Optò per la destra e s’incamminò gambe in spalla e borsetta a tracolla. Dopo qualche minuto si fermò per fare il punto della situazione che era poi un unico punto: non sapeva dove fosse. Si sentiva come Pollicino che per ingordigia si era mangiato i bocconcelli del pane e adesso non sapeva più come mettersi in salvo. Poco più avanti notò un palazzo semidiroccato e invitante come una lucertola annegata in un bicchier d’acqua. Vi si appressò tenendo la testa di sbieco e cercando d’intuire se là dentro vi fosse vita. Aveva conosciuto tempi migliori, questo era certo, ma emanava un certo fascino e una buffa intestazione con quello stemma nobiliare che raffigurava una donnona coi capelli lunghi e il pancione. Strizzò gli occhi per meglio focalizzare una sagoma che in effetti era un giovane sui gradini che spazzolava qualcosa con un certo vigore. Michela strizzava gli occhi per capire cosa fosse, sembravano delle nacchere, un sonaglio, qualcosa che comunque ticchettava stringendosi a morso. Con una mossa di disgusto si rese infine conto che era una dentiera costituita da un ponte rosso esangue e due file di denti tutti uguali e splendenti di falso smalto. Michela prese coraggio ma restandosene a distanza di sicurezza cercò di aprire la bocca dopo più di tre mesi. Le venne in bocca una pallottola di catarro che esplose a terra facendo quasi rumore. La seconda cadde giù più liquida. La terza finalmente si articolò. «Dove sono? Chi sono?» le uscì detto fuor di logica. «Torello, oasi una volta felice della Giolla Unita. Io mi chiamo Le Truc. Quanto
à vous… fate uno sforzo, vas-y…» rispose quello con la voce sussurrante ma che nel silenzio assoluto di Torello e nelle orecchie rifoderate di Michela scoppiò come una pallonata sulla tempia. Michela non riconobbe il giovane che invece conosceva Michela, di fama. Lei smontava di turno dall’Hotel Gramsci e con le gambe a papera se ne tornava spossata a casa mentre lui il turno lo iniziava, con gli amici suoi libertini, e mai era riuscito a liberarsi in orario utile per godere di quella ragazza bellissima e semplice. Ma in quel momento Michela era solo un animaletto sperduto e neanche tanto invitante. «Io sono Michela Gang Bang e devo raggiungere il centro» rispose la ragazza con un falsetto che ne tradiva l’ansia. «C’est trompé. Devi tornare indietro» rispose secco Le Truc, continuando la striglia alla dentiera. «Mi ero persa» ringraziò lei con una qualche segreta speranza. «Justement, t’es une fille perdue…» disse a voce ancor più bassa Le Truc che poi aggiunse, quasi a correggere: «…tutti si sono perduti a Torello, il n’y a plus à manger… et de l’eau non plus… si stanno ammazzando tutti tra di loro. E di scopare non c’è più voglia non plus.» Aggiunse inopinato. «Io non ne ho mai avuta!» concesse in confidenza Michela tanto per tenere viva la discussione. «Justement… è perché scopavi tanto…» rispose lui oggettivo. «Devo andare in centro» tornò sull’argomento lei. «Et donc?» chiese Le Truc. «Mi accompagneresti?» fece Michela con gli occhi dolci. «Faut attendre. Devi aspettare. Posso accompagnarti un pezzo ma devo dare cento colpi di spazzola alla dentiera e sono solo a venticinque» concesse il giovane Le Truc. Michela annuì, per non fargli perdere la concentrazione ché magari quello
perdeva il conto e gli toccava ricominciare da zero. Venticinque! Erano i ciccioli che ancora l’avrebbero tenuta in piedi. Approfittò dell’attesa e della testa china del giovane per arrivare a ventiquattro, mentre Le Truc arrivò allegramente a ventisei e poi anche a cento. Quindi sparì dalla porta e ritornò un minuto dopo, zaino in spalla, avvicinandosi finalmente a Michela. Il ragazzo fece un cenno distratto alla ragazza e prese decisamente la testa del corteo, lui davanti e lei dietro perché era quello il modo più sicuro di mettersi in marcia. Raccomandò Michela di copiare pari pari il suo comportamento, camminare quando lui camminava, fermarsi quando si fermava, guardarsi intorno quando lui lo faceva e, soprattutto, non sporgersi mai sul centro strada ma tenersi sempre ai margini, pronti anche a mimetizzarsi. Poi gli sfuggì un commento salace sull’abbigliamento di Michela, tutta bianca dalla testa ai piedi con fuseaux, camicia lunga e scarpette, ginnica sì ma anche tanto appariscente. Michela annuì, il ragazzo le sembrava un po’ strambo e tanto giovane ma a lei importava solo di mangiarsi quei pochi, desolati e muti chilometri per arrivare nel brulichio del centro dell’oasi felice.
14
Michela non aveva un piano, solo un imperativo. Ritrovare Truce Attanasio e farsi dare un nuovo sacchetto pieno d’eroina, sperando solo non chiedesse quello vuoto in cambio. Al resto avrebbe pensato lei: dividerlo in ciccioli, spianarlo con la Tessera Gold, aspirarlo e rimetterlo in borsetta insieme al manuale Come sintonizzare il maxischermo. Magari avrebbe approfittato per trafugare un altro libro, pur non sapendo dove né quale, e se Truce avesse rivoluto indietro la sua Tessera Gold, beh, tanto peggio! Gliel’avrebbe ridata, certo, lei si sarebbe arrangiata in qualche modo. Così pensava Michela. Che faccia avrebbe fatto Truce Attanasio? Questo non lo sapeva, Michela Gang Bang. L’ultima volta che si erano visti lui se la stava godendo incaprettata al soffitto
mentre il bestio le entrava fin nell’anima. Da come erano andate le cose, forse non si sarebbe commosso fino alle lacrime nel rivederla. Ci avrebbe pensato poi. Truce Attanasio era la sua unica chance e quindi diventava per decreto il suo miglior amico che probabilmente non si era spostato dall’Hotel Gramsci e la stava aspettando da più di tre mesi con una chilata di eroina purissima in tasca. Intanto, Le Truc imponeva alla marcia dei ritmi tutti suoi: a volte un etto ogni dieci secondi, altre correndo come una furia, quando si trovavano davanti lo spazio scoperto che divideva i vari quartieri con un incrocio pericoloso, muto e desolato e ormai sotto il sole a picco di mezzogiorno. Così, impiegarono molto tempo a coprire quel paio di chilometri, finché Michela ebbe un tuffo al cuore e riconobbe finalmente le file ordinate di bagolari ancora in piedi e che annunciavano l’uscita dalla banlieue. Le Truc si fermò teso e prese a scrutare in tutte le direzioni; ancora una corsetta e sarebbero entrati nell’oasi felice, pensava Michela, e invece il ragazzo si accovacciò un o indietro quell’ultimo incrocio, aspettandosi che la ragazza fe altrettanto, secondo la regola del listen and repeat. Michela lo fece. Di controvoglia, ma lo fece. Ancor più di controvoglia prese dalle mani di Le Truc la sua scatoletta di tonno sgocciolata sull’asfalto caldo, una bustina di grissini e una bottiglietta d’acqua. «Faut manger…» si giustificò il ragazzo. «…adesso arriva il bello, dobbiamo essere in forze» ordinò. Michela stuzzicava la scatoletta con uno dei grissini e, dopo averne sfaldato alla meglio le tenere carni, la ripose intera di lato. Bevve un goccio d’acqua e si mangiò uno di quegli snelli grissini come fosse la punizione alla bimba indisciplinata. Le Truc restò zitto per tutta la durata della parca mensa, poi si accese una sigaretta e ne offrì una anche a Michela, che la prese senza una parola. L’automatismo le portò alla mente che era l’ora di un nuovo cicciolo e con la scusa di una pipì improvvisa si fece consigliare un posticino appartato dove farla tutta. Le Truc la guardò dritta negli occhi col suo sguardo dolce e scafato, e le indicò un portone semiaperto e abbandonato, lì di lato. Michela, borsa a tracolla, lo raggiunse col o del giaguaro, come aveva imparato dal ragazzo.
Si prese anche più tempo del necessario e il rumore sordo dell’ennesima bomba le giunse ovattato e familiare. Anche le raffiche di mitra non le crearono sorpresa: il suo cervello, pur annebbiato durante la permanenza nella gionta, le aveva catalogate come rumori di fondo, ricorrenti, innocue, e sì che a Torello erano un fatto decisamente nuovo. Michela si prese il tempo di una preparazione certosina e volle fermarsi in quell’androne sporco, puzzolente, desolato ma così intimo, anche per il tempo di una sigaretta da fumarsi in santa pace, lontana dallo sguardo sarcastico di Le Truc. Ancora a metà, un rumore sempre più vicino le fece tremare il filtro che liberò un topino di cenere che persisteva sul tubo e le cadde inerte sulla camicetta bianca, e che Michela smanacciò a babbo morto con un gesto lento e svogliato. Pochi secondi dopo, l’ingresso si spalancò e poi si richiuse, e Le Truc, zaino in spalla, riprendeva il fiato cercando con lo sguardo la posizione di Michela. Quando la vide, le fece solo segno di zittirsi, facile, era cotta, e indicò in alto col dito a voler significare qualcosa. Il rumore si avvicinava pur restandosene sempre alto e adesso lo percepivano proprio sopra le teste, affaticato ma potente, che volteggiava come una zanzara sicura di sé. Per molti secondi, il rumore divenne assordante e aveva trapanato per bene anche la spessa corazza di Michela che aveva sgranato gli occhioni e abbracciato tremante Le Truc. Quello rimase freddo e zitto e con un delicato gesto delle mani chiuse la tumida bocca di Michela che continuava a restarsene spalancata e pronta al peggio. Molti secondi dopo, così come era piombato quel rumore si allontanò con fatica. Le Truc prese Michela per mano e con molta prudenza si affacciò a spiare. Riuscirono a vedere solo per pochi istanti un oggetto che volava, bianco e blu, e che si dirigeva adesso verso il centro dell’oasi felice. Nella parte bianca della scocca era sparata in giallo una sigla a caratteri cubitali, gu, Giolla Unita. Quell’oggetto volante si teneva in alto attraverso una raggiera di pale che mulinavano furiose e qualcuno lo manovrava da dentro attraverso un volante gigantesco che girava a destra e sinistra senza fermarsi mai. Tutto intorno fuoriuscivano delle bocche di varia grandezza, impugnate da altrettanti uomini che si guardavano intorno pronti a sparare. Michela guardava l’oggetto allontanarsi, con sgomento. Le Truc la guardò col suo sarcasmo congenito e prima che quella chiedesse spiegazioni, disse di sua spontanea volontà: «Li chiamavano elicotteri, e quelle intorno sono
mitragliatrici. Tu t’en souvient pas? Sparano a vista su tutto ciò che si muove. La Giolla Unita a déclaré la guerre a Torello. Vas-y! Faut aller!» Concluse con fare serio. Michela qualcosa si ricordava ma il cervello annebbiato non le era certo d’aiuto.
15
Michela stava rassettando la borsetta con un certo imbarazzo. I suoi gioielli erano tutti in scena: ciccioli, Tessera Gold, cannuccia e Come sintonizzare il maxischermo. Le Truc li stava osservando con una certa curiosità mista al suo sarcasmo ereditario; poi guardò fisso negli occhi Michela e le consigliò che era meglio fare ancora un po’ di pipì in quel momento, al sicuro in quell’androne, perché entrando nell’oasi felice cambiavano le regole d’ingaggio e fermarsi non era consigliato. Michela comprese e reclamò con lo sguardo un ultimo momento d’intimità per farla, la pipì, e magari anche la popò, giacché c’era. Le Truc girò la faccia e si diresse verso il portone, scrutando a destra e sinistra come le fe da palo. Michela scartò due ciccioli e con lentezza fotografica se li aspirò sul manuale Come sintonizzare il maxischermo; poi accese una sigaretta e chiuse la borsetta, non prima di aver lasciato in quell’angolino dieci ciccioli, di buon augurio e di cassaforte per il suo ritorno. Tutto fatto, i due ragazzi uscirono fuori a rimirare il cielo terso del primo pomeriggio. Le Truc imponeva adesso una marcia a zigo zago tra i bagolari che in fila ordinata portavano al primo incrocio cittadino. Lì, Le Truc additò la destra ma Michela sapeva benissimo dove si trovavano e di Le Truc ormai poteva anche fare a meno. La situazione era tranquilla, non fosse stato per quell’aria greve che si continuava a respirare, come se la banlieue avesse iniziato la conquista dell’oasi felice col suo silenzio oppressivo, teso, desolato e povero di punti di riferimento, come il deserto quando si mangia il verde. Non un rumore né una singola personcina o anche solo una serranda mezza alzata che testimoniasse una qualche forma di vita. Tutto intorno, dei cicciuti
sacchetti di sabbia proteggevano più nulla da assalti furiosi all’arma bianca ormai esauriti e degli snelli sippunti di legno cercavano di contenere il crollo imminente di palazzine sventrate da esplosioni rabbiose e recenti, che si mescolavano a quelle antiche e controllate; uno scorcio brevissimo del fiume Pon, in lontananza, rivelava un’acqua che scorreva placida, limacciosa e rossa. Mimetizzati dalla terra di Siena del quartiere Liberty, Le Truc e Michela strisciavano con le schiene al muro. Quando Le Truc svoltò il primo angolo, fece segno a Michela di attenderlo un poco, ché lui andava a dare un’occhiata. ati pochi secondi, Michela si sentì prendere la mano e dandosi il giro, incontrò lo sguardo serio di Le Truc che le impediva la vista. «Adesso calma e bocca fermé. D’accord?» le chiese e siccome quella non rispondeva, ripeté più forte: «D’accord?» Michela finalmente annuì e per tenere fede alla sua promessa dovette tapparsela da sé, la bocca, e poi anche turarsi il naso. Per circa cento metri, quanti ne permetteva la visuale, c’era la tanto sospirata vita che lei si attendeva nella sua amata Torello: decine e decine di corpi dilaniati, sparsi malamente a terra, certamente morti e in avanzato stato di decomposizione. Michela teneva gli occhi sbarrati dal terrore ma era proprio Le Truc che si stringeva forte a lei, fino a farle male. «Che ti succede?» gli fece Michela che per la prima volta si sentiva toccare dietro le spalle senza intenzioni sessuali. «C’est rien, c’est rien, c’est deja é, vas-y…» si giustificò quello, rintanato tra il collo e la scapola di Michela come un uccellino implume. «Aspetta! Stenditi un poco, così…» fece quella allarmata e mettendoselo steso sulle ginocchia. «Meglio, oui?» gli chiese. «Sì, meglio! Ma solo un istante, faut partir! Vite!» si allarmò Le Truc. «Solo un momento, sì… tu, tu sei solo un ragazzo… quanti anni hai, ragazzo?» chiese Michela come se lo avesse visto adesso per la prima volta. «Diciassette, signora. Diciassette anni…» fece quello, come punto sul vivo.
«Diciassette anni! Non ci credo. Nessuno ha diciassette anni nella Giolla Unita!» lo rimproverò Michela. «Diciassette anni, c’est vrai. Anche mio fratello ha diciassette anni, justement c’est mon jumeau…» confessò Le Truc. «E quando siete nati?» chiese fuori contesto Michela. «Il y a diciassette anni, non?» rispose quello un po’ esasperato. «Diciassette anni!» non si capacitava Michela che invece si capacitava di ben altre cose. «Siamo i più giovani di tutta la Giolla Unita…» puntellò quello con un certo orgoglio. «E vostra… maman? Oui, madre?» s’incuriosì Michela. «Oui, maman, c’est ça. Elle est in , enfin, J’espere…» si fece forza di credere il ragazzo. Le Truc infine si alzò e si incollò al collo di Michela per respirane un po’ di vita, dopata sì ma pur sempre vita, il cui dramma, la droga, il Truce Attanasio, in confronto a quella carneficina diventava banalità. Michela si cancellò la meraviglia di rivelazioni strane, curiose, di due ragazzi che avevano diciassette anni e che erano usciti da una madre, e se per giunta! Era troppo e la distoglieva da questioni più urgenti e presenti; aveva dovuto vincere il primo impatto di orrore di tutta quella carne morta, ma la stella polare della sua missione, la ricerca del Truce e della droga, gliela avrebbe fatto superare a piedi nudi. E per il resto si sarebbe visto poi. Così la ragazza iniziò a marciare spedita, ad affondare i piedi nella carne frolla. Le Truc continuava a incollarsi su quel bel collo per non vedere e il contatto con quella carne tenera rimise in giostra lo spirito libertino del ragazzo che si sentiva adesso esplodere il pacco che Michela Gang Bang percepiva all’altezza del ginocchio. Entrambi pensarono che in quel momento stava ballando la meglio scopata della loro vita. Ma non ebbero abbastanza pelo sullo stomaco.
16
Così, mano al naso, Le Truc e Michela facevano adesso zigo zago tra quei corpi morti che guardavano appena con la coda dell’occhio, giusto per non inciamparci sopra e di cui era impossibile stabilirne sesso, età, vizi e virtù. Anche perché mancavano dei pezzi, braccia e gambe principalmente, tagliate di netto con una certa precisione. Sul lato opposto, una piccola muta di cani spelacchiati stava litigando, e qualcuno ringhiava, un altro uggiolava, tutti si abbaiavano a vicenda in una lingua nota solo a loro e che diede ai due ragazzi il consiglio di alzare il o in fila indiana e superarla prima che potevano. Michela adesso singhiozzava e le lacrime si asciugavano direttamente al sole di Torello ché non c’era tempo né spazio per farlo da sé. Le Truc, al contrario, sembrava ritornato il capo della spedizione e procedeva da guida, cauto ma sicuro. Michela teneva il o con un certo affanno finché dovette strattonarlo da dietro per farlo fermare. Era pallida e boccheggiava ma dalla gola qualcosa le si muoveva ed ebbe appena il tempo di dare le spalle al ragazzo ché sarebbe stato investito da una bile gialla e nera, che sboccò in un fiotto formidabile e che aggiunse una fragranza nuova di pacca a quel marciume ormai placido. Tenendosi la pancia per i crampi, Michela, sempre di spalle, abbassò la testa verso una cosa che a tutta prima le sembrò curiosa. Quello che era stato sicuramente un uomo, giaceva mangiato dai vermi e con le braccia amputate a meno di due metri di distanza; era ancora visibile lo squarcio netto sul collo che gli aveva fatto volare la testa poco più avanti, svuotata di tutto il sangue e forse per questo salva dalla decomposizione e intatta. Manteneva uno sguardo sereno, come se la morte fosse stata, in quel suo ultimo momento, il minore dei mali, quasi una fortuna. L’assenza delle mani rendeva ancora più grottesca la presenza, in quel cerchio dove era morto, della sua Tessera che probabilmente era stata offerta al carnefice come inutile tentativo di avere salva la vita. Le Truc reputò fosse il caso di procedere e svoltò un secondo angolo trascinandosi Michela per la mano. La scena non si presentava né meglio né peggio di quella precedente, anzi, ne era una replica così fedele da sfiorare la noia e comunque Le Truc ebbe buon gioco a
smorzare la tensione dichiarando che a preoccuparlo non erano quei morti, che belli non erano ma male non ne facevano, ma i vivi, che non si vedevano ancora.
17
Così, seguendo le vie dei morti, Le Truc e Michela si trovarono davanti la Beni Vizi e Servizi che era quasi buio. La nausea aveva chiuso tutte le esigenze di Michela, tranne un minimo di respirazione e una scarica intermittente di brividi freddi e caldi che le risaliva lungo la schiena. Si stava risvegliando la scimmia che reclamava coi pugnetti suoi pelosi e sordi. Le Truc tirò un grosso sospiro, in parte di sollievo, in parte di ossigeno ché la piazzetta della Beni Vizi e Servizi era immersa nel solito silenzio desolato ma cadaveri in giro non ce n’erano. Reputò corretto allestire un picnic di fortuna e approfittò del maxischermo, divelto per la terza volta, per farsene un’improvvisata tovaglia dove stendere le scatolette di tonno, i grissini e l’acqua. Per festeggiare ci mise sopra pure una barretta di cioccolato fondente al 75%. Michela prese la sua razione svogliata e ricominciò a picchettare il tonno col grissino fino a quando, stufa, non lo mollò intatto di lato. La ragazza era soprattutto presa dal guardarsi intorno in cerca di qualcosa, o qualcuno, magari proprio Truce Attanasio che usciva dall’Hotel Gramsci e che le correva incontro a braccia spalancate e in ralenti, con la busta di eroina che gli ballava allegramente appesa al collo. In realtà, tutto continuava a tacere. Le Truc consigliò a Michela una pipì da fare in quel momento, senza complimenti, lui le avrebbe dato le spalle. Michela approfittò al volo e si vuotò quattro ciccioli in un sol colpo sul manuale Come sintonizzare il maxischermo. Poi si accese una sigaretta, decisa a godersi per intero quel momento magico quando la scimmia se ne va, giù per il buco del culo da cui era salita. Le Truc si accese una sigaretta anche lui e se la fumò senza tanti drammi.
Poi si mise in piedi, pescò una bottiglietta d’acqua dal capiente zaino e lo richiuse, offrendolo a Michela. «Faut partir…» disse secco. «Je m’en vais… abbi cura di te» aggiunse. «Ma tu hai davvero diciassette anni?» gli domandò Michela. «Oui, diciassette. Noi chiuderemo la Giolla Unita» confermò il ragazzo. «Allora moriremo tutti… è così…» rifletté ad alta voce la ragazza. «Non oggi, comunque oui, è così, c’est ça…» rispose quello. «Merci…» gli rispose teneramente Michela «…ti devo la vita…» «Forse c’est mieux se te la riprendi… la vita, je veux dire. Potrebbe esserti utile, on ne sait jamais…» concluse lui senza intonazione di rimprovero. E senza attendere risposta, se ne ritornò indietro sui suoi i, coi suoi ricci allegri che svolazzavano da dietro.
18
Michela guardò il ragazzo uscire dalla piazzetta con la sua andatura schizofrenica di corsa forsennata e etti timidi. Presto non lo vide più e dallo stomaco le salì un calore strano fatto di ansia, paura, malinconia, sollievo, tutto in una volta. Rimase sul posto accovacciata per qualche minuto, forzando la respirazione che le faceva battere forte il cuoricino, lì, di fronte al complesso della Beni Vizi e Servizi con le sue architetture strambe e i tanti doni che in dieci anni aveva così amorevolmente dispensato e che anche adesso, in quel silenzio desolato, sembrava continuare a promettere, almeno a lei! Michela studiò di lasciarsi il boccone del re, l’Hotel Gramsci, per ultimo e messasi con qualche difficoltà in piedi si diresse circospetta, come aveva
imparato da Le Truc, verso il primo edificio, il Patrimonio, quello delle macchinette che caricavano i fantomatici punti-oro dei lavoratori. L’ingresso non prometteva niente, né di buono né di cattivo. Nulla si muoveva. Michela varcò il portoncino spalancato con un balzo improvviso che, ci fosse stato, avrebbe fatto scappare un verme a torso in su. Nulla. Il buio di quella stanza lunga e stretta era a malapena rischiarato da tutti i display che pulsavano a intermittenza l’ordine “ritirare la tessera!!!” e che facevano sembrare quel posto un’antica e sguelfa discoteca. Michela, indecisa sul da farsi, prese a leggere ognuno degli schermi con la speranza vi fosse un qualche altro messaggio, un’informazione utile, una spiegazione a quel posto asettico che si era trasformato in un deposito di cianfrusaglie rumorose che continuava a pestare con i piedi. Improvvisamente, motu proprio, si accese un fioco neon che illuminò alla bell’e meglio l’ambiente. Michela, alquanto rassicurata dalla prima azione di routine che si manifestava a Torello, abbassò gli occhi per vedere cosa stesse calpestando di così sordo e insistente e non lanciò un urlo solo perché ebbe la prudenza di tapparsi da sé la bocca: quattro distinti scheletri umani le facevano compagnia, completamente spolpati e intatti, salvo le gambe che avevano l’osso spezzato all’altezza delle anche. Michela contò fino a dieci, poi riprese la sua respirazione e si calmò, convinta anche lei che dei morti non bisognava aver paura, e quelli non puzzavano neanche. Si abbassò invece per studiarli meglio, sembravano uomini, poiché di statura bassa, di struttura tarchiata e con solo un paio di anelli ossei che congiungevano il collo alla testa. Ma erano fin troppo bassi e il palmo delle manine sembrava al contrario enorme, sproporzionato. Uno dei quattro scheletri teneva stretto un cellulare spento. Per il resto, la loro nudità, qualora i vestiti non si fossero squagliati come la carne, faceva pensare a una fuga a rotta di collo dall’Hotel Gramsci, e siccome i libertini si erano appena slacciato il soprabito quando era scoppiata la bagarre, non poteva essere altro che il gruppetto delle Zingarelle. Michela prese il telefono e provò ad accenderlo ma anche quello era morto. Comunque se lo mise in borsetta e decise di abbandonare il posto che neanche in vita aveva avuto poi tanto da offrire.
E non era certo là che avrebbe potuto trovare Truce Attanasio. Si prese giusto il tempo di una profonda boccata d’aria e poi coi polmoni pieni si tuffò decisamente nell’apnea della porticina della Beni Vizi e Servizi. Un neon fioco aveva attecchito anche lì, notò Michela abbassando la testa e offrendo le terga a quel portoncino sempre troppo piccolo. Quando lo varcò fu presa alla gola da un tanfo greve di puzza di cadavere, ma ormai Michela non si lamentava di quello che era lo status quo. Immobile sul terminale, riconobbe senza sforzi la portinaia racchia con le molli braccia che affondavano sulla tastiera e con la mano destra che impugnava il telefono interno. La morte non le aveva fatto torto, anzi le donava quasi. Pur mezza mangiata dai vermi, sembrava più bella di quando era viva ma racchia. Anche a lei mancavano le gambe, tranciate di netto. Il terminale insisteva su una schermata vuota con un breve avviso testuale di “pagina introvabile” e preghiera di contattare l’amministratore del sistema. Michela provò un refresh che non sortì alcun effetto, poi digitò un indirizzo a caso, quello del meteo, ma era introvabile pure quello. Infine provò un reboot che mise in moto per alcuni minuti il processore che appena ebbe finito di rimuginare spense tutto e non si accese più. Michela allora si rassegnò e ò oltre, non prima di aver messo in borsetta la Tessera della racchia che sporgeva da sotto la tastiera. La stanza dei bottoni era spalancata e quel dettaglio fuori posto fece salire un brivido caldo alla ragazza che entrò con un balzo. Seduti diligenti dietro l’enorme scrivania, Michele Gerbero e Michele Sciarabbai luccicavano come sacchi vuoti in attesa di un qualche evento. Sembravano anche in forma, e vagamente sereni nei loro impeccabili completini gessati con la cravatta nera e la camicia, bianca quella di Sciarabbai, rossa quella di Gerbero. Il rosso era in realtà una chiazza di sangue, frastagliata e secca, di un colpo così preciso che sembrava se lo fosse dato da sé. Sciarabbai aveva mirato dritto e senza tentennamenti al cuoricino dell’ancor tenero Gerbero che era morto quasi con grazia. Poi si era puntato la pistola alla tempia e pareva aver trovato anche il tempo di riporre il braccio armato sul tavolo in una posa più austera ma pure quella aggraziata. I colpi, di piccolo calibro, li avevano dissanguati ma non
devastati, le loro membra erano state risparmiate dai vermi e anche dalle amputazioni sicché sembravano due pensose statuine di cera. Michela si sforzava di non piangere ma più si concentrava sulla faccia di Sciarabbai, che odiava intimamente, più le lacrime le salivano agli occhi, amarissime. Ancora in lacrime, requisì le Tessere dei due ex colleghi, e davanti alla solita “pagina introvabile” dei loro schermi, decise di non perdere altro tempo e uscì di corsa all’esterno. Rientrò un solo istante nel Patrimonio per vedere la reazione delle macchinette davanti alle Tessere. Quelle le mangiarono tutte, persistendo pure nel loro invito a ritirarle. Ladri, insomma, si nasce, pensò Michela.
19
Infine era giunto il momento. Michela Gang Bang lo comprese con un misto di sgomento e amarezza. La barbarie che aveva investito Torello fino a coinvolgere i suoi stessi amici, la toccava, ma poco. Era l’eroina a guidare i suoi i, e Truce Attanasio che la possedeva; proprio lì, nell’Hotel Gramsci dell’oasi felice di Torello, di cui era stata badassa superstar, avrebbe ritrovato entrambi, era giusto così. Quindi vi si diresse, incoraggiata dal portone spalancato che faceva trapelare una luce discreta di un neon azzurrino, al momento l’unico meccanismo funzionante dell’intera oasi felice. Michela avanzò sicura nell’ampio androne fregandosene degli stucchi, degli affreschi e del portinaio mezzo mangiato dai vermi che persisteva nella sua reception satura di putrefazione. Avanzò sicura di porta in porta evitando cadaveri e tappandosi naso e bocca con la mano aperta, pensando che nei momenti migliori l’aria del bordello non è che fosse di tanto migliore. Quando infine giunse nell’ampia camerata che precedeva il Salone delle Feste, si
bloccò e si guardò intorno per meglio scrutare il nulla che c’era. Si sedette sulla poltrona di damasco verde che aveva occupato il Truce Attanasio, mentre lei di fronte si pisciava addosso dal terrore, e appoggiò i gomiti sui braccioli con aria soddisfatta: se lui la stava vedendo era il momento buono per uscire allo scoperto, lei lo stava sfidando! Niente si muoveva. Michela perse la postura dritta e altera e iniziò a sporgersi per carpire qualche segno di vita e l’attenzione le salì in fibrilla quando intese qualcosa, un rumore, un suono basso e ottuso che continuava a girare insensato come una giostra per bambini alle tre di notte. L’Orgasmatron, quel dildo meccanico che per primo l’aveva stuprata, trapanava l’aria viziata e come un modesto ventilatore la spostava con flebili zaffate putrescenti. Piccolo capolavoro di meccanica elementare, andava avanti e indietro a bassa intensità e ruotava come un trapano di punta trenta e spessore cinque, con l’allegria del suo corpo giallo e la capocchia rossa sicché sembrava un fiammifero gigante. Michela lo guardò incuriosita, poi si toccò involontariamente i glutei ed ebbe un brivido freddo almeno quanto l’acciaio ipocritamente dipinto di giallo e di rosso, che l’aveva penetrata come un buco nella parete. Si avvicinò con un o gravido di rincorsa e diede all’attrezzo un calcio di punta così preciso che il maglio rosso e giallo cadde a terra con un tonfo sordo mentre la sua anima meccanica continuava a berciare, minacciosa quanto un killer col coltellaccio in tasca ma senza le mani. Michela riprese la sua posizione regale sulla poltrona di damasco verde e si fece defluire il sangue caldo che le aveva imporporato la bella testolina. Per la prima volta si sentì stanca. Chiuse gli occhi ma le immagini squarciavano il velo del buio con facce lussuriose, sbavate, che la ghermivano ovunque, che con la sinistra le accarezzavano la testa nera, tutti sentivano il bisogno di accarezzarle la testa, forse per i capelli corti e neri, e con la destra si facevano strada tra la gonna, mentre altri la baciavano sulle guance ma con la lingua umida e che cercava di appressarsi alla bocca, strisciando come tanti vermi, e i volti erano quelli di Attanasio, non ancora Truce, e di Sciarabbai, che tanto la desideravano e quasi non osavano, ma poi facevano quadrato su loro stessi, col loro potere, col ricatto,
con la menzogna, con la loro seduzione e Michela ci cascava sempre e poi ne arrivavano altri, peggiori pure di Attanasio e Sciarabbai, che avrebbero voluto strapparle la camicetta e mettere a nudo la piaga per riderle in faccia e allontanarsi disgustati e così avrebbe voluto pure Michela, per punirsi, e invece non ne aveva avuto il coraggio e aveva preferito farsi adorare e riempire di oro di cui non sapeva che farsene, regina delle badasse. Michela riaprì d’improvviso gli occhi e le immagini sparirono e lasciarono il posto a quel nulla che dominava dalla sua poltrona di damasco. Da fuori l’elicottero aveva ripreso a volteggiare con un frastuono che le giungeva ovattato e infiorettato da pigre scariche di mitraglia che dialogavano tra loro.
20
«Ah! Un topo!» Giona era scattato a molla e saltato a pie’ pari su una panca sbilenca, che a contatto con tutto quel peso incarognito dalla paura si era fracassata e se lo era tirato giù sul pavimento lurido. Flora lo stava guardando con una certa curiosità. Giona si era rialzato a fatica, inzaccherato di lutamma e variamente graffiato, e con lo sguardo febbrile si cercava una qualche nuova altitudine che lo ascendesse dalla pancia a terra di quel roditore cicciuto e con le grandi orecchie che lo guardava pure lui con curiosità. Serena si era avvicinata leggermente intimorita e con i etti suoi agli ultrasuoni si era messa lesta alle spalle di Flora che vedendola si chiese se per caso Giona alludesse a lei, riguardo il topo. Ma quello additava un punto distante, alle spalle dei due giovani, che intercettarono l’animaletto che prese a guardare teso anche loro, con la schiena inarcata come un felino, pronto al balzo. Giona indietreggiò cauto alla ricerca di un qualche bastone, poi tornò indietro verso la panca che lo aveva cappottato e si armò di una scheggia di legno simile
a un manganello. «No! Fermo!» gridò allora Flora, così acuto che Serena ebbe un sussulto. «No che? Dobbiamo ucciderlo!» protestò Giona. «Lascialo stare… lo conosco…» spiegò Flora. «Te la fai coi topi adesso?» scherzò isterico Giona. «Lascialo stare…» insisté Flora. «…quello è Gaspard. È amico nostro» evitò di polemizzare. «Amico, amico, amico un cazzo. Io lo sfracello» si convinse Giona. Ma Gaspard con una formidabile corsa a ritroso si era guadagnato agevole l’uscita, continuando a guardare dritto negli occhi i suoi nemici e facendo loro capire che, nel caso, si sarebbe difeso con i denti suoi dolci da roditore. Presto sparì alla vista. «Michela non torna ed è notte fonda…» disse allora Giona più sollevato e, liberatosi della scheggia di legno, si era avvicinato ai due ragazzi. Nondimeno, teneva gli occhi fissi sul portone d’ingresso, dove il topone chissà dov’era infrattato. Flora annuì meccanicamente. L’ingresso di Gaspard gli aveva rimesso in circolo certe rotelle del cervello che rimuginavano. Dopotutto, quella era la prima apparizione dopo più di tre mesi. «Dobbiamo uscire a cercarla. Io devo, tu resti qui con Serena…» continuò Giona, il cui unico problema a varcare quella soglia verso la barbarie gli era diventato quel topone grasso e campagnolo. «No. Restiamo. Ritornerà» disse a mezza voce Flora come risultato dei suoi rimuginii. «Ha telefonato?» chiese ironico Giona. «Il mio telefono è morto, pure quello di Serena, pure quello tuo. Lei non ne aveva, di telefono… è arrivata qui vestita di niente… piuttosto: come siete
arrivati qui?» chiese all’improvviso Flora, come se un dettaglio da niente gli fosse venuto in mente proprio in quell’istante. «Perché, voi?» chiese a sua volta Giona, interrogativo. «Serena l’ho portata io. Me l’ha ordinato una voce» rispose secco Flora. «Cioè? Una voce ti ha parlato? Che voce era?» ironizzò Giona. «Era buio, non so… cercavo la Gionta Unita, per Michela… è una lunga storia, lascia perdere. Comunque se siamo vivi è tutto merito suo, chiunque sia… tu invece?» ironizzò a sua volta Flora. «Ero tutto accaldato, stavo ancora digerendo le pietre dell’Anna e mi trovavo là, all’Hotel Gramsci a lottare contro un serpente con la faccia di uomo e Michela stava legata bene in alto…» iniziò piccato Giona. «…quando siamo usciti fuori non sapevo che fare, dove andare. A casa mia? Sì, come no! Ché l’Anna avrebbe portato a termine l’omicidio, prima Michela e poi me medesimo che me ne risalivo a casa in ritardo con una pupa da schianto e pure tutta ignuda… insomma, c’era uno, chi l’ha visto? C’aveva pure il cappuccio in testa! e mi ha detto “seguimi” e io piuttosto che andare a farmi ammazzare dall’Anna l’ho seguito, che mi poteva capitare di peggio? Che dovevo fare? Chiedere nome e cognome? In più correva, mortacci sua, e io ero stanco della lotta, e in più c’avevo pure Michela in allegato che proprio una piuma non è, non era, e pesava come un cane morto! Sì, vabbè, fossero tutti così i pesi della vita… insomma, ero stanco, se cadevo sulla Morte ci facevo scopa… quello ci ha mollati qui ed è sparito. Il resto lo sai, voi eravate qua a darci dentro con tonno e grissini manco fosse il party del compleanno e lì ho pensato che al peggio non c’è mai fine…» concluse esausto Giona. «Aspettiamo» impose Nino Flora.
21
Le scariche ovattate di mitra e mitraglia e il suono fesso delle pale dell’elicottero agirono su Michela come una dolce ninna nanna, un ritornello calmo e
consolante, ipnotico e ripetitivo che le fecero l’effetto di una camomilla. Si addormentò con la bocca semiaperta tenendosi stretta ai braccioli della poltrona presidenziale di damasco verde e con la testa schiantata al muro. L’anima le era fuggita dal corpo e si rivedeva a Torello, sola, soda e con una manciata di soldi, appena diciotto anni e tutta una vita già alle spalle. Michele Sciarabbai le sta chiedendo studi, non terminati, esperienze lavorative, nessuna, conoscenze linguistiche, sì, beh, una in verità, e informatiche, uhm, il lettore liquido lo sapeva accendere e spegnere e se beccava una canzone che le piaceva era capace di rimettersela in ascolto fino a venti volte di seguito, azionando un certo tastino che sapeva lei. Michele Sciarabbai attende paziente una qualche risposta e se ne resta concentrato a guardarle le dita dei piedi che si muovono nervose. Michela sta per andarsene via, conscia dei limiti suoi ma Sciarabbai la blocca con una mano che le sfiora il ventre, la percepisce umida e bollente ma non ci pensa, ascolta piuttosto la sua voce flautata che sta assumendo “in prova” nella sua agenzia di organizzazione “Grandi Eventi”, quell’ultimo carnevale che si sta mangiando gli ultimi spiccioli dei bilanci statali con spettacoli di musica, teatro, cinema e letteratura gratuiti e con tanta roba da mangiare tra uno show e l’altro che, se resistevano fino alla fine, fino alle pallosissime letture di pagine plasticose di finto entusiasmo, buoni sentimenti e lezioni morali, avevano addirittura il dolce e il caffè. Insomma, lavoro ce n’era, anche per una pivella come Michela Gang Bang. Adesso Michela è al telefono. Incasella date e orari, ha imparato l’Excel e pure il Powerpoint, con cui impressiona Sciarabbai. Michela giochicchia col mouse ma si muove sicura anche fuori della poltrona, tra le location in cui dispone sedie, palchi, coreografie, assaggia personalmente i finger food e scuote spesso la testa. Adesso è di nuovo nell’ufficio di Sciarabbai e ascolta a testa bassa: la baracca sta per chiudere, i soldi sono finiti, anzi, rincara Sciarabbai, di soldi non ce ne saranno più. Dopotutto le agenzie stampa hanno già spiegato tutto, ma il personale, quello più qualificato, sarà assorbito da una nuova agenzia di cui ancora lui, Michele Sciarabbai, sarà il capo, con compiti nuovi e più eccitanti. Lei è della partita, non s’intristisse, non bisognava. “Cioè?” chiede Michela speranzosa. Le avrebbe spiegato a suo tempo, la rassicura Sciarabbai e le rimette la manina sul ventre piatto e adesso Michela la sente calda e umida, e Michela si ricorda dell’altra volta, che era distratta e non ci aveva fatto caso, troppo felice
per il lavoro, e a quella mano non tanto diversa, di Attanasio, cui si era affidata ciecamente e dieci minuti dopo aveva conosciuto il massimo del piacere e il massimo del dolore tutto insieme, indistinto, amorale e adesso era lì a liberarsene ma il ato non muore e non a nemmeno. Adesso è all’Hotel Gramsci, che non è ancora l’Hotel Gramsci, che puzza ancora di tinture e di mobilio incellophanato e Sciarabbai le sta dicendo che deve rifarle il colloquio d’assunzione ché per questo lavoro servono competenze nuove e una certa flessibilità che di certo lei possiede, ne è sicuro, e le mette nuovamente la mano calda e umida sul ventre piatto. Michela Gang Bang capisce che il colloquio è appena iniziato e controlla quella mano da serpente che le risale sul seno e cerca di incunearsi dentro, ma Michela ha un gesto brusco e la sposta sul ventre; Sciarabbai rimane un istante interdetto e poi si concentra sulla gonna, gliela apre, si fa largo e scivola tra le mutandine che sposta di lato e poi ha un fremito che lo blocca per qualche istante. Michela gira la testa dall’altra parte e quello si lamenta con la voce sua flautata che il tempo è poco e deve fare in fretta, poi non lo sente più parlare, la sua bocca è impegnata, ne sente la lingua pesante tutta intorno all’inguine e meno male che il tempo era poco ché a Michela sembra ata un’eternità in cui ha dovuto combattere contro una fastidiosa sensazione di solletico che l’aveva snervata. Finalmente l’uomo ha un sussulto e lì Michela ha un pensiero stupido, che se quello fosse morto lei il lavoro avrebbe dovuto guadagnarselo con un altro. Ma quello rinviene e si mette verticale e le annuncia che va benissimo così, che per quanto in suo potere lei è “assunta in prova”. Adesso tocca fare la prova. Entra in una stanzona grande e grossa, coi lampadari a goccia già attaccati e la tintura fresca ma il parquet è ricoperto ancora da una pellicola trasparente lurida di colori, polveri, stampe delle scarpe degli operai in fase di rifinitura. Sciarabbai invita tutti a uscire e restano soli nel Salone delle Feste che Michela Gang Bang terrà a battesimo ed entra un vecchietto sdentato e curvo ma percorso di una energia folle e illogica, che sbatte ovunque come fosse cieco, mezzo nudo e con una erezione che sembra posticcia, di plastica dura, tanto è lunga e pulsante. Viene condotto verso Michela che lo guarda spaventata e Sciarabbai e un paio di aiutanti aiutano il vecchio e lei a giacere su quella pellicola lercia, e il vecchio le cade pesante addosso e sente il cuore cedere non appena la guarda negli occhi, terrorizzato da tutta quella bellezza e dalla zazzera nera e si irrigidisce; le pesa peggio di un cane morto addosso. Sta per gridare Michela ma poi si ferma sconvolta. Quell’attrezzo che le sembrava posticcio pare provvisto di un cuore tutto suo e la possiede e inizia a muoversi veloce, e lei
è troppo sconvolta da quel cadavere che si stringe al petto per farlo cascare e da quella pompa che va per i fatti suoi, e di sicuro a un’ora ché scende il buio che copre il Salone delle Feste e si accendono i lampadari a goccia e ci sono quattro, cinque persone insieme a Sciarabbai ma non sono dei semplici lavoratori, sembra personale qualificato che guarda il su e giù e commenta “sbalorditivo!” e intanto quello non si ferma e il cadavere sta quasi iniziando a puzzare. Poi il su e giù si ferma pure lui, per sempre. Adesso è una badassa, principessa del secondo turno, quello pomeridiano, e guadagna punti-oro per potersene fuggire un’altra volta ma di fuggire non ha più voglia. Prende casa con un bravo giovane, Nino Flora, che la guarda neanche fosse di porcellana. Stanno bene insieme. Sì, stanno bene insieme. Michela si sveglia, chiude la bocca con uno scatto secco delle mandibole e sbarra gli occhi terrorizzata. Un leggero brivido di freddo e di caldo le fa scendere meccanicamente la mano verso la borsetta, che è lì. Fuori il silenzio continua assoluto, il cielo albeggia veloce. Tira fuori il manuale Come sintonizzare il maxischermo e si sversa tutto il restante, i sei ultimi ciccioli tutti in una volta. Prenderà Truce Attanasio, adesso, nel sonno, non è certo tipo da svegliarsi all’alba, quello! Il naso le brucia, la bocca è un fiele, guarda intontita lo zaino che le ha lasciato Le Truc e si ricorda della cioccolata, che trova, in fondo, fondente al 75%, e si impasta in bocca, amara ma meno della sua bocca, e un po’ le basta per placare il crampo alla stomaco, e così si accende la prima sigaretta della giornata, poi una seconda e una terza, ognuna con la brace dell’altra. Intanto gira in tondo come uno squalo che ha deciso tutto ma non vede la vittima. Punta finalmente il pesante portone del Salone delle Feste, il suo antico regno, e vi entra dentro decisa e barcollante di droga, pronta allo scontro finale. Il Salone sembra vuoto, nessuno di vivo o di morto. Michela non si perde d’animo e varca col cuore in gola la stanza della tortura dov’era stata appesa a mezz’aria. Le funi che la tenevano su giacciono ancora negligenti a terra in un groviglio moscio e informe. E poi finalmente lo vede e si mette meccanicamente la mano sul seno piagato, in cerca di quel capezzolo che non c’è più, non ritornerà mai più, è scomparso per sempre. Si sente leggera per la prima volta nella sua vita. Sviene. Truce Attanasio invece è morto.
22
Avesse potuto esprimere un desiderio, Michela avrebbe scelto di are dal sonno alla morte senza transitare da un problematico risveglio. Invece perse i sensi soltanto per un giorno intero. La gionta l’aveva molto stancata in quei tre mesi di coma farmacologico. L’eroina però se ne fregava dei sentimenti e iniziò ad affilare i primi pungiglioni quando il sole non era ancora alto e l’aria pur illuminata era ancora fresca, potevano essere non più delle nove. Michela iniziò a sentirsi il sudore addosso, prima caldo e poi freddo, la schiena non trovava pace e mal si adattava a qualsiasi posizione su quel lurido pavimento riuscendo a starsene ferma solo per pochi secondi, e poi Michela doveva cercarsi una nuova posizione. Le reni sembravano affaccendate a distillare il peggior veleno e se le sentiva di granito; dal naso le scendeva a cascatelle il solito muco liquido e caldo che la faceva boccheggiare. Quando si capacitò che starsene accovacciata era anche peggio di rimettersi in piedi, lo fece, e le ginocchia, le spalle e il collo le scricchiolarono sinistri e barcollando salutò l’arrivo della scimmia. Le Mec la guardava incuriosito e l’animo riflessivo del ragazzo stava valutando se quella febbre maligna poteva avere su di lui un qualche effetto eccitante. Aveva dato il cambio al fratello, Le Truc, e come lui era provvisto dello stesso zaino di sopravvivenza nella ostile Torello, pieno di cose, tutte buone a nulla per le esigenze di Michela. La ragazza non sembrava né preoccupata né sconvolta dalla presenza di quel ragazzo che non riconobbe come fratello di quell’altro, anche perché si assomigliavano ben poco. Girellando in tondo con le mani che si tenevano le reni, Michela ebbe l’impressione di stare un poco meglio, come se qualche residuo di stupefacente si fosse rimesso in circolo, anestetizzandola positivamente.
Ma durò poco, il tempo di dar fuoco a una prima sigaretta che le andò di traverso e le accese una crisi di tosse che durò vari minuti e sfociò in un vomito di bile gialla e nera, sotto l’occhio incuriosito di Le Mec. Quando si fu calmata, Michela era fradicia di sudore e le gambe faticavano a reggerla e si erano inginocchiate. La ragazza si addossò di malagrazia contro il muro e vi spinse con forza i polpacci come volesse liberarsi di un qualche verme che la stava paralizzando. L’organismo di Michela, tornato alla sensibilità della vita cosciente, reclamava la droga, ma la droga era finita. In quello stato angoscioso di nudità, come un corpo scorticato di ogni pigmento di pelle ed esposto alle infezioni di ogni singolo granello di polvere, Michela iniziò a piangere disperata e le lacrime, il muco, il sudore acido, le cadevano sulla faccia come olio bollente. Le Mec non sapeva esattamente cosa fare e le si appressò con le mani allacciate dietro la schiena. Michela si accorse ben presto che, oltre a essere inutili, tutte quelle lacrime le avrebbero presto sciolto la faccia come quella del bestio e lentamente iniziò a rallentare, concentrandosi su qualcosa che potesse impegnarle il cervelletto. Lì si ricordò infine di aver lasciato una scorta di ben dieci ciccioli in quell’androne fatiscente in periferia. Al cervello bastò, non solo a interrompere le lacrime ma anche a farla scattare in piedi con un gesto febbrile ma veloce. Le Mec la prese dolcemente per la vita e si adattò a bastone del lungo viaggio del ritorno ma quella si liberò della stretta come da un pungiglione e iniziò a guardarsi intorno in cerca dell’uscita. Le Mec le si mise davanti, zaino in spalla, a mo’ di guida e senza dire una parola le fece varcare quella prima stanza e poi il deserto Salone delle Feste quando Michela sembrò rientrare in possesso delle sue facoltà e, avviato il tom tom, prese la testa del corteo e impose un ritmo più convulso ma anche più veloce alla marcia. Le Mec, meravigliato, si accontentò di seguirla. Fretta non ne aveva e pure che non scopava da un bel po’, e ne stava male, non riusciva però a leggere la forma d’astinenza di Michela di cui non sapeva nulla, bravo giovane che era. Il corteo in un “ba” fu fuori dall’Hotel Gramsci e si mise agevolmente alle spalle la piazzetta della Beni Vizi e Servizi. Torello versava nel suo solito silenzio lugubre e costernato e Le Mec continuava ad assecondare la marcia cieca della
ragazza che voleva approfittare di quella calma forse momentanea. arono davanti cadaveri ancor più marci del giorno prima, contesi dalla muta dei cagnastri che si ringhiavano addosso e che presto sarebbero ati al cannibalismo. La puzza della morte non impressionava più Michela che vedeva la sua nuova stella polare, la tana dei dieci ciccioli e solo a quelli pensava mentre scavalcava i cadaveri marci e amputati di gambe e braccia. Attraverso il sistema dello zigo zago arrivarono in meno di un’ora alla fila ordinata dei bagolari che li portò su quell’ultimo incrocio che divideva Torello dalla sua banlieue. Qui Michela si fermò, sforzandosi di raccogliere un po’ di self-control e, nella ricerca di un argomento banale per attaccare un discorso che aveva evitato fin dall’inizio, le venne l’intuizione che quello lì davanti fosse il fratello di quell’altro, quello dell’andata, anche se non si somigliavano per niente. «Tu, gioia, hai un fratellino, sì?» gli fece melliflua, al meglio che le permetteva la malloppa di catarro in gola. «Sì, Le Truc. Io sono Le Mec e siamo gemellì, sì» rispose quello, lucido e conseguente. «Non è che vi somigliate molto, a dire il vero…» dubitò con delicatezza Michela. «Lui è quello bello, sì» sintetizzò senza astio il ragazzo. «Tu parli molto meglio, però» volle fargli un complimento la ragazza. «Io parlo molto meglio, sì» sintetizzò senza orgoglio il ragazzo. «E hai, avete…» lasciò sospeso Michela. «Diciassette anni, sì. Siamo i più giovani della Giolla Unita, venuti al mondo tra sangue e lacrime, prima della Giolla Unita…» elaborò con prontezza il ragazzo. «Diciassette anni…» ripeté a voce alta Michela toccandosi il grembo, piatto e pigro che piuttosto che dilatarsi e far uscire un testone come quello aveva preferito diventare muto, bellissimo ma sterile.
«Non si dia pena, signora. Lei è bella lo stesso e non ne ha colpa.» Sembrò leggerle nel pensiero il ragazzo. «Fermiamoci qui…» fece con disinvoltura Michela che era ritornata alle sue contingenze. «…ti vedo stanco ed è il caso di riposarci un po’ e mangiare qualche cosa. Io vado a far pipì» concluse secca e additando quel vecchio portone spalancato che custodiva i ciccioli. Le Mec annuì non trovando argomenti contrari. Michela si impose un’andatura tranquilla come se quella pipì non fosse un’impellenza ma una giusta accortezza contro la ritenzione idrica. Si mosse leggera fino al portone, si toccò la borsetta provvista di tutto salvo il necessario e tirò un gran sospiro prima di entrare, come fosse il primo appuntamento amoroso della sua vita. Le gambe le tremavano molto. Ci sarebbe entrata da sola, senza dubbio. Ma una mano pesante, dall’interno, aveva deciso di accelerare l’ingresso. Istintivamente, Michela puntò i piedi sul portone e oppose tutta la resistenza che poté a quell’invito villano. Le Mec non capì al volo cosa stesse succedendo e non riusciva a distinguere quella mano villana nell’ombra, ma quell’altro che attraversava la strada in boxer e canotta luridi lo vide eccome, ché iniziò a tirare Michela ma dalla parte opposta, come a contendergliela e quella nell’occhio del ciclone non si muoveva di un o. L’ime provocò la discesa in campo di tutta la banda che svernava nell’androne; erano in cinque, luridi, stracciati, armati di schegge di legno e tubi di zinco e uno, forse il capo, teneva la barba ispida e bianca e un vecchio mitragliatore a tracolla che si puntava dritto sui coglioni; allora dal lato scoperto vennero fuori i compari di quello in boxer e canotta, non meno luridi e stracciati di quello e si attaccarono al braccio del compare e iniziarono a tirare forte dal loro lato mentre quelli tiravano dal proprio in un tiro alla fune con in palio un bel porco da squartare. Le Mec ne studiava con angoscia i volti e alcune facce, rese ferine dalla situazione, gli risuonarono famigliari, nelle torride nottate all’Hotel Gramsci in cui lui e Le Truc erano quasi le mascotte di quei tiramerda impomatati, elegantoni, con le mosche, i baffetti, i favoriti e le barbe curate che adesso erano
lì in mutande sgommate di merda a lottare per la sopravvivenza. Non che fosse chiaro cosa volessero, almeno finché il capo cordata di destra appioppò un morso disperato sulla mano di Michela che lanciò un urlo spettacolare. Quello forse agì da richiamo perché all’improvviso un rumore molle di pale di elicottero raggiunse la scena in pochi secondi, mentre Le Mec si avvicinò circospetto per cercare di capire come e quando intervenire. I due gruppi continuarono la tiritera per qualche secondo; poi, vinti, mollarono all’unisono la bella Michela che sballottolata con violenza dal colpo di frusta prima barcollò veloce e poi cadde violentemente sul fianco. L’orda si rifugiò nell’androne, unita di fronte al pericolo comune. Le Mec corse verso Michela e come un pacchetto infiocchettato male la prese in braccio e si buttò con un balzo all’angolo opposto, tenendosi stretto alla ragazza e più schiacciato a terra che poteva. L’elicottero, a mezz’aria, stava decisamente puntando il portone chiuso. Partì una lunga scarica dalle mitragliatrici di tutti i calibri che fecero scoppiare il portone e anche i timpani dei due giovani. Non contento, rinculò di qualche metro e come una rincorsa immaginaria liberò due missili che entrarono dentro l’androne senza incontrare resistenza ed esplosero con un boato che si tirò giù tutti i cinque piani che si teneva sulle spalle. Soddisfatto, risalì sghembo verso il cielo e si allontanò col frastuono delle pale. I ciccioli erano perduti per sempre e Michela Gang Bang si sentì morire nuovamente.
Capitolo 7 La Gionta Unita
Dove, con te, partirò
1
I pesanti colpi al portone avevano convinto gli uomini che c’era da alzar barricate contro quello che sembrava l’attacco finale alla sfortunata Torello. Serena guardò alternativamente Giona e Flora, come a sincerarsi che il tonno in scatola non li avesse rimbambiti del tutto, poi scosse la testa e prese decisa la via dell’ingresso con la panza puntuta e i ettini suoi così rapidi che Flora faticava a starle dietro mentre Giona li perse di vista da subito e iniziò a bestemmiare sottovoce. Dietro il portone c’era qualcosa che poteva somigliare a Michela. Serena le si avvicinò e prese a tastarla a partire dalla giugulare che pulsava, viva. Le mani erano ghiacciate e il corpo fremeva di un moto quasi impercettibile che la teneva un paio di millimetri sospesa da terra, come sotto l’effetto di una potente iniezione di ghiaccio secco. Giona la prese in braccio senza difficoltà e l’atterrò sul materasso-futon ch’era il suo giaciglio e l’aspettava fresco e invitante come il lieto fine di un incubo. Michela invece a quel contatto morbido scattò galvanizzata quasi l’avessero posta su un braciere ardente, e scalpitava; apriva e chiudeva la bocca come nel più acuto degli urli ma nessun suono ne usciva fuori e guardava disperata Giona e Flora come non li riconoscesse ma poco comunque le importasse. Giona si sentiva particolarmente in dovere di fare qualcosa ma oltre a soffiarle
un alito tiepido sul bel volto non riusciva; nondimeno, se non proprio si poteva dire che lo gradisse, almeno Michela non dava segno di disprezzarlo e quello continuava con impegno, quasi fosse l’operazione più importante di tutte. Flora non faceva niente, la guardava fisso negli occhi come a cercare un difficoltoso contatto telepatico e Giona presto si stufò di quei due che facevano gli innamorati sotto il suo naso e lui lì a sprecare il suo fiato! Fu con un certo astio che smozzicò stizzito: «Tu, tu, tu che sei tanto studiato! Che facciamo?» «Je veux dire… Je veux dire…» balbettò Flora senza staccare gli occhi da Michela. «Ma a scuola niente ti hanno insegnato?» ribatté disperato Giona, tra una soffiata e l’altra. «No!» rispose secco Flora. Intanto Serena era sparita. Fu Giona ad accorgersene dato che Flora aveva occhi solo per Michela. La localizzò poco più avanti, orizzontale nel suo letto con la panza all’aria che boccheggiava senza un rumore. «Continua tu!» fece prontamente a Flora mentre si alzò di scatto. «A far che?» chiese quello, sgomento. «A sospirare, idiota!» gli rispose Giona già lontano. Serena non stava niente bene. Il volto era tutto arrossato ma soprattutto erano preoccupanti quegli spasmi al ventre che la gonfiavano a dismisura come se il pupo dentro si stesse divertendo ad aprire e chiudere a intervalli precisi un ombrellone. «Ne capisci di bambini?» fece sconsolato Giona. «Tutti siamo stati bambini, questo me lo ricordo, ma gli è che di bambini nella Giolla Unita non se ne fanno più» rispose rassegnato Flora che non aveva colto il senso della domanda. «Idiota!» disse a mezza voce Giona che scattò in piedi tanto per fare qualcosa. Si trovava a un bivio, come il pesce infarinato che può solo sperare di are dalla padella alla brace. «Serena sta male» disse solo, con un certo aplomb.
Flora corse da Serena mentre Michela continuava la sua tarantella con gli occhi che guardavano alto il cielo, che non c’era. Poi si aprì di botto la porta della sagrestia, cioè la dispensa. Giona non ebbe il tempo di attirare l’attenzione di Flora che già stava guardando a bocca aperta. Davanti a tutti primeggiava Michele Anpichisi, rivestito fino ai piedi di una tunica bianca di cotone grezzo e guidava un corteo che iniziava a prendere forma come un verme pigro che esce satollo da una mela. Dietro di lui, vestite di un nero serico e aderente, c’erano due personcine di cui una era certamente il cerusico che aveva assistito al Soccorso Pronto Flora, Michela e pure Serena. L’altra non la riconobbero ma entrambe colpivano per la serietà con cui tenevano il o lento e cadenzato, brave a non pestare i piedi di Michele Anpichisi che con quella tunica addosso poteva cadere e farsi male e, soprattutto, a non farsi schiacciare da quella cosa che li seguiva, un carroccio pesantissimo a ruote di legno che si muoveva con estrema lentezza, ritmata da una litania di bestemmie a mezza voce, quella flautata di Chicco Micchi, che tirava sul davanti come un mulo, e quella sibilante e carica di cazzimma di Bacco Numucco, da dietro, che spingeva a testa bassa con la t-shirt nera e fradicia di sudore incollata sulla panza. Come una capace insalatiera, dentro la pancia del carroccio ci stava un po’ di tutto: bicchieri, orologi, lingottini incrociati tra loro come il segno dell’addizione, con un omino seminudo che si spingeva davanti, come una casalinga disperata che vuole buttarsi dal balcone, ma tenuto su dai chiodi che lo trattenevano alle travi e impedivano quel gesto estremo. E poi piatti e sottopiatti, calici, penne e pennini e poi fermacravatte, gemelli, serpentine, anelli, saliere, pepiere, corone, lingotti di vario peso, orecchini… tutti d’oro. Ce n’era per almeno dieci quintali e si trattava certo del mitico oro della Gionta Unita. Tiziano De Paola, scostato di mezzo metro, seguiva il corteo con un sorrisino ironico e con due pesanti coltellacci infilati nella sua divisa rossa. Lui ai gioielli ci era abituato, alle sue caramolle da due tonnellate di puro filetto. L’impressione fu così sconvolgente che Flora e Giona se ne restarono a bocca
aperta mentre Serena e Michela, entrambe, tenevano gli occhi fissi al cielo, che non c’era, e sembravano non accorgersi di nulla. Il corteo somigliava a una sorta di vecchio carnevale, come ogni tanto se ne rappresentavano in qualche crapula dell’Hotel Gramsci. Ma qui si verificava qualcosa che rivelava una diversa fattura, a cominciare dalla vedova Gnutti Bella che di certo non faceva pensare al sesso con la sua mise di pizzi neri che la coprivano fino alla bocca da cui usciva uno sferzante “vas-y, vas-y, citammuert…” con cui apostrofava alternativamente prima Chicco e poi Bacco; nella pellicola che le faceva da scialle si era ben imboscati due, tre tubi di percale cicciuto, ognuno incoronato da un bocchino d’oro. Dietro di lei, Le Mec e Le Truc seguivano vestiti a festa, coi pantaloni appena sotto le ginocchia e che si davano di gomito l’un l’altro, unici a percepire il grottesco della scena. Chiudeva il corteo, in affanno, l’andatura strascinata del simpatico Gaspard, pancia a terra e con le grandi orecchie così tese che pareva un grammofono ambulante. Alla vista del topo, Giona sembrò recuperare il senso della realtà tutto in una volta e si stava preparando la rincorsa per un urlo di terrore che Flora intuì e disinnescò all’istante, con una gomitata puntuta così poderosa che Giona si piegò in due a corto di fiato. Flora gli biascicò una specie di “scusami” così flebile che Giona ci si interrogò per tutto il giorno. Serena e Michela continuavano a non accorgersi di nulla. Semmai il loro dolore sembrava, se non diminuito, almeno rassegnato.
2
Il corteo intanto si era fermato di fronte alla zona notte dei quattro amici. Ognuno ne approfittò per riprendere fiato e rilassarsi con le mani incollate tra loro a pettine, dito dopo dito.
Fu solo allora che Michele Anpichisi parlò: «Al principio era Questo. E nulla più. E Questo faceva avanti andrè nella scatola buia che era l’Universo e tra sé e sé rimuginava. E così Questo inventò il Mondo, e Tale era la sua Qualità che poi si sostanziò con la nascita di Codesto, ma con calma, prima ci furono i dinosauri e le Olimpiadi in Grecia, non precipitiamo gli eventi. E così, tra Alpha e Omega, Questo riempì con lo spirito di Tale le forme, come la crema nei bomboloni, e tante ne arrivarono, di tanti colori e bellezza e proprio di lei, della Bellezza, vi voglio parlare, che è qui con noi e regna, Signora con la esse maiuscola e anche se adesso sta un po’ inguaiata, rimettetela in sesto nei vostri ricordi, di quando l’avete ammirata davanti e didietro ed ecco la Bellezza di cui sopra, Michela Gang Bang. E adesso cantiamo…»
Ha un nome molto bello Che se me lo ricordo Lo chiamo quel bel nome. E lei starà Non in qualche foresta Ma in qualche bestiola Che colta sul fatto si volterà di scatto Mostrando i suoi tre quarti Stupefatti…
«Michele… tu parli!» uscì detto a Flora quando le voci in falsetto della Gionta Unita finalmente si zittirono. «Ecce Homo!» rispose ironico Michele Anpichisi.
«Ecce?» s’interrogò a voce alta Flora. «Salute!» rispose irritato Giona, come a ripararsi da uno starnuto. «Grazie!» riprese Michele Anpichisi. «Tu…» riprese, rivolto proprio a Giona «…eri morto e adesso sei solo cieco. Eppure nel ventre della balena non è che c’erano i fari della discoteca! Epperò così è la vita. Sei uscito dal buio per entrare nelle tenebre e tanta di confusione te l’hanno data i tuoi compagni, Pinocchio, Ismaele e poi chi lo sa? Tu da una balena sei pure nato, scommetto io, tua madre non l’ho mai conosciuta ma se tanto mi dà tanto allora “tale figlio tale mamma” e insomma, così è la vita. Comunque resta pure qua, ormai ci sei e fai che rimanere» concesse Michele. «Serena sta male…» uscì detto a Flora tanto per cambiare discorso e salvare Michele da una meritata testata di Giona Paraponzi. «Ebbene? Si può mica stare sempre bene!» rispose logico Michele. «Michela anche. E in più non mangia, neanche i grissini!» continuò Flora. «Neanche i grissini? Mangi delle brioche allora!» ordinò Michele. «Perché siamo qui? Era tua la voce che mi ha parlato, no? Sei tu che hai guidato Giona e Michela…» cercò d’incalzare Flora. «Basta così. Il tempo non è ancora compiuto: mancano ancora tre giorni. Voi siete ancora impuri ma tra settantadue ore ne riparliamo. Intanto, abbiate cura di voi e non vi inquietate perché noi siamo tutti qui» rispose sibillino Michele Anpichisi. «Perché siamo qui?» ripeté Flora, insoddisfatto. «Si è fatto tardi. Il tonno vi aspetta, e la parca mensa. Voi vegliate sulle vostre donne. Entro ora di cena Chicco e Bacco verranno entrambi, ché guai all’uomo dividere ciò che Questo ha unito, e vi porteranno le brioche che vi ho promesso. Io tornerò domani. Addio…» «A chi?» chiese Nino Flora a Giona che gli era di fianco. «Affanculo!» rispose quello che ancora stava rimuginando sulle parole di
Michele Anpichisi che tanto lo avevano offeso.
3
Così ripiombò un silenzio che a Giona e Flora apparve ancor più cupo, raddoppiato dallo show che, così come si era presentato così aveva tagliato lesto la corda, lasciandoli soli con due moribonde e un fracco di parole, dette da uno che era muto fino a un minuto prima, di cui ne avevano compresa una su dieci. D’altra parte, Michela e Serena male stavano e male continuavano a stare, però silenti, in una quiete che aveva un po’ rilassato i due uomini, non più nell’emergenza di dover fare qualcosa. Cosa poi? Serena sembrava germogliare nel letto, muta come una pianta grassa che sapeva il fatto suo, capace benissimo di gestire gli eventi e trarre energia dalla sola aria che continuava a respirare. Ma lì dentro, nella gionta, che aria c’era? Viziata, lugubre, decadente in tutto quello sfascio, poteva trarne vita? Nondimeno teneva gli occhi al cielo, che non c’era, e la panza le cresceva di un millimetro l’ora. Michela, al contrario, dal letto sembrava esserne risucchiata, sprofondava giù nel materasso anche lei un millimetro l’ora ma lì una specie di spiegazione Flora se l’era data: Michela stava rilasciando una specie di possessione sotto forma di fluidi puzzosi e affermativi che bagnavano materasso, lenzuola, i suoi stessi vestiti fradici e mottosi, come una palude con le sabbie mobili. Fecero pranzo da soli, Giona e Flora, e solo nel tardo pomeriggio si fecero vedere Chicco Micchi e Bacco Numucco con delle brioche sommariamente confezionate e altri generi di conforto tra cui una ventina di stronzi belli sugosi di caramolla. I due compari se la squagliarono senza un saluto. Forse così era stato loro ordinato, eppure, prima guardarono Serena e Michela immote nel letto e solo quando si resero conto che non c’era trippa per gatti, ché quelle stavano male sul serio, girarono la faccia e si allontanarono, delusi. Giona provò subito a imboccare Michela con dei ciocchi stopposi di brioche alla marmellata e quella, docile come una gallina, li ingoiò uno per uno continuando a fissare il cielo che non c’era. Poi le travasò direttamente in bocca una bottiglietta d’acqua centellinando il flusso per non farla affogare. Michela
beveva iva ma sulle braccia nude le si aprirono i pori come tanti funghi dopo un bell’acquazzone e da lì l’acqua così come era entrata ne uscì, mal aromatizzata dalla cloaca che aveva raccolto nel corpo della giovane strada facendo. Serena si spinse invece a infornare un pezzo di caramolla che le si sciolse in bocca, e altri pareva reclamarne col suo occhietto strabico che non si capiva mai cosa stesse guardando; dopo quattro, cinque pezzi, l’ultimo le si sciolse sulle labbra e iniziò a colarle sul collo ché evidentemente ne aveva di basta. Giona e Flora allora si disposero alla loro cena, felici in cuor loro di rinunciare alle scatolette e pronti alla spanzata di caramolle. Quando misero il primo stronzo, tutto intero, in bocca, lo sputarono disgustati. Si guardarono in faccia con ancora quel sapore dolce in bocca e si attaccarono alla bottiglia per una lunga serie di gargarismi senza darsi alcuna spiegazione. Poi tornarono al tonno e grissini, con una concordia che non aveva voglia di indagare, neanche nella forzata pausa di riflessione della loro fumata del dopocena che li portò velocemente nel letto a are la nottata. Si sentivano stanchi, più nella testa che nel corpo, la giornata era finita con più dubbi di quando era cominciata e si stesero vestiti, col terrore di doversi risvegliare per un qualche evento inaspettato, il botto della pancia di Serena che così lievitando sarebbe presto esplosa, o il gorgoglio finale di Michela infine risucchiata dal materasso che valla a ripescare, mezzi rincoglioniti dal sonno! Infatti non chio occhio e seduti sul letto fecero l’alba, fianco a fianco, muti.
4
Il mattino dopo ritornò Michele Anpichisi, in pantalone scuro e maglioncino blu a dolcevita regimental, accompagnato dal solo Gaspard. Non si avvicinò nemmeno alle ragazze il cui stato di veglia si distingueva dal sonno per il semplice meccanismo degli occhi chiusi/occhi aperti che guardavano il cielo, che non c’era.
Si fermò invece a mezza strada e si sedette comodo su un cumulo di legni marci che facevano una catasta umida. Giona fu il più lesto e con la velocità che gli permetteva il suo o corto fu subito al fianco di Michele Anpichisi che prese a guardarlo ironico. A Giona brillavano gli occhi ma non per la notte in bianco o la salute di Michela o per la vita di stenti che da più di tre mesi lì viveva. Quello che proprio l’aveva fatto andare in bestia erano state le parole di sufficienza con cui Michele Anpichisi aveva commentato la sua presenza lì. «Ce l’hai con me?» chiese ironico Anpichisi. «Io? Figurati!» rispose pronto Giona alzando teatralmente le mani in alto. «Ti racconto una storia. Ti va?» fece Anpichisi. «Come no?» rispose stridulo Giona. «Al principio era Questo, Alpha e Omega, principio e fine. Ma questo ormai lo sapete a memoria. E solo dopo venne il mondo. Il perché non lo abbiamo mai saputo, i testi sono andati perduti, la memoria è quella che è e ci stiamo provando, a ricostruire i pezzi dell’Unica Storia Degna di Essere Raccontata, da frammenti, similitudini e deduzioni logiche, facendo finta che Questo ragionasse con tali strumenti. Insomma, non ti dico di guardarla ché a guardarla adesso mi prenderesti per matto, ma almeno ricordatela… e sì che te la ricordi bene! La sua schiena è diritta e le finisce tra le fesse come un vortice e una spalla è leggermente più alta dell’altra e crea tante dinamiche che sono le vie di fuga che non ce n’è mai di basta e la impettisce con quel seno lungo e turgido. Infine, scorri il disegno, i confini tra sé e il mondo, e ti accorgi che manca un pezzo, che la superficie che ti metteva soggezione ha una piaga orrenda che ti muove al ribrezzo e questo ti fa impazzire perché quella donna, Giona mio, genera ossessione. E specialmente, non mi odiare, ai boccaloni come te, sempre pronti a riservare a un povero corpo la venerazione più intensa che spesso diventa l’odio più implacabile. Ma torniamo alle cose serie, a Michela. «Io so tutto di lei. Quando non era ancora a Torello se ne stava ore e ore su quel letto, come adesso, distesa a guardare il cielo che non c’era, come adesso, e l’unica sua preoccupazione sembrava fosse quella di assecondare la crescita, in silenzio, seminuda, tremando. Era naturale la crescita, qualcosa di mostruoso di cui aveva rispetto e insieme terrore, ingestibile, troppo per lei. La crescita è una
malattia e la sua crescita era una malattia mortale, lo sentiva. Lo sentiva ma l’accettava, e in quel suo silenzio l’orecchio percepiva le sorgenti più profonde che alimentano da sempre il succedersi cronologico del movimento e ciò elevava quell’azione al livello di un rito di cui il suo corpo era il santuario. «Guardala bene, quella non è cosa umana, è una Forma e una Forma è, non ha evoluzione, non viene da nulla e al nulla ritornerà, è stata creata da Alpha e Omega con Alpha e Omega, e lì ritornerà, come una moneta fuori corso, al di là del valore, potente della sola forma creatrice: essa non possiede alcuna qualità ma è l’unico futuro. «Guardala bene, guardale quella cicatrice, e guarda quell’assenza che ti fa distogliere lo sguardo come uno scandalo insostenibile: l’ami ancora? O ne hai orrore? Gliel’ha fatta Attanasio, sì, quello lì, tanto tempo fa, con un coltello affilato che le ha tranciato netto il capezzolo inturgidito dal piacere, come una punizione per lei che si era fidata, si era abbandonata ai sensi; e in quel taglio crudele si è portato via pure un bel pezzo di ciccia di cui resta a noi tutti memoria per mezzo di quella piaga che dà scandalo; eppure anche quel delitto testimonia la bellezza della forma, lì, mutilazione, piaga, assenza, vuoto. Gliel’ha fatta Attanasio, ma prima ha bucato la sua pelle con l’eroina e nel mentre le ha deflorato il grembo, tutto insieme ché sembrava c’avesse più attrezzi lui che tentacoli il polpo; e poi lei non sapeva più dove iniziava il dolore e quando cominciava il piacere perché entrambi le furono somministrati a stretto giro e si mescolarono sicché c’era dolore nel piacere e piacere nel dolore. Te l’ho già detto, attento a te Giona ché a are dall’adorazione all’odio il o è breve! E ti sei fatto un’idea di che mostri possa generare questa ossessione, l’hai visto anche tu Attanasio come è diventato il Truce Attanasio, pace a lui» concluse Anpichisi mentre una mano scendeva con una carezza lungo tutto il letto ma rimase a mezz’aria, descrivendo percorsi vorticosi e frustati dalla droga, dall’astinenza, dalle ferite, dai torti subiti e in ultimo anche dal digiuno di Michela Gang Bang. Michele Anpichisi allora si alzò con la scusa che si era fatto nuovamente tardi. Giona rimase impietrito sul letto e quasi si rivide sul banco di scuola, il terzo giorno di lezione di aritmetica che, dopo i primi due ati a disegnare i più e i meno, i per e i diviso, improvvisamente le cose avevano iniziato a mescolarsi e lui non ci capì mai più niente. Anche Gaspard insisteva nel letto finché Michele Anpichisi gli fischiò e quello si
mise dritto sulle gambette pelose e con un balzò si tuffò dal materasso mettendosi al o e squittendo. Flora li accompagnò fino al portone che poi chiuse. Poi andò a preparare il pranzo per sé e gli altri, e nel ricordarsi la caramolla ebbe un moto di disgusto. Nondimeno Serena pareva gradirla.
5
Michela e Serena se ne stavano lì nel letto e soddisfazione non ne davano, non stando né bene né malissimo. Michele Anpichisi aveva raccomandato ai due uomini di non fare nulla, lasciarle lì a cuocere nel loro brodo ché non c’era altro da fare. D’altra parte, aveva aggiunto, c’erano quasi, l’indomani sarebbe stata una giornataccia e tutti, uomini, donne, topi e l’occhio benevolo di Questo su tutto, avrebbero avuto da buttare il sangue e, perciò, si riposassero piuttosto. Giona mangiava di malavoglia il tonno in scatola coi grissini ma gli avanzi del pranzo di Serena gli sembrarono così invitanti, succulenti, odorosi di carne cotta nel suo stesso grasso che ne prese un pezzo con accortezza, tra pollice e indice a tenaglia e se lo portò lentamente alla bocca, congelandolo in una posa di attesa; Flora aveva pensato la stessa cosa e con il suo stile discreto aveva aperto tutto il palmo della mano che gli nascondeva la carne, la bocca e pure i denti. Entrambi però lo sputarono senza tanti complimenti e ritornarono alle loro tristi scatolette. L’avventura sciolse un po’ la lingua di Giona che chiese, quasi senza motivo: «Ma secondo te quanti anni ha quel topo?» «Gaspard?» interrogò Flora forbendosi il muso dall’olio. «Chi lo sa? Immortale, probabilmente… secondo me non è neanche umano…» concluse pensieroso. «E grazie al cazzo!» causò facile Giona «È un topo infatti!» «Sì, certo, un topo… non so, mi sembra un topo ma che però torna sempre e che c’è sempre stato, io l’ho visto nei posti più assurdi e non era certo lì per caso…»
aggiunse, sempre pensoso. «Tipo l’Hotel Gramsci?» coglionò Giona. «Non lo so. Forse. Lì, sono io che non ci sono mai stato… ma c’è un certo portone, l’hai visto sicuramente, quello dietro il monumento della Piazza Giolla, quello tutto luccicante e col batacchio splendente…» precisò Flora. «Batacchio?» chiese Giona. «Pirulo…» spiegò Flora. «…insomma, c’è anche lì e quel portone ha almeno trecento anni» precisò. «Ed era come adesso?» chiese Giona un po’ impressionato dal ricordo di quel portone sul quale a Torello giravano stranissime leggende di uomini cattivi, primordiali, di quando circolava ancora l’adrenalina. «Forse no… di persona… dal vivo… è un po’ più grigio» rispose Flora. «Poco ma invecchia pure lui!» esultò Giona come avesse trovato il suo punto debole. «Poco, sì…» rispose pensoso Nino Flora che si accese la sua sigarettina senza nicotina, subito imitato da Giona che non stava aspettando altro. E sigaretta dopo sigaretta, anche quella giornata ò.
6
Alle nove del mattino dopo, Michele Anpichisi entrò tutto trafelato dalla sagrestia. Sembrava inseguito ma per la verità da due giorni a Torello non si sentiva più una mosca volare. Infatti era solo di corsa e non si perse molto in preamboli. Messa una mano al collo dei due uomini, come per salutarli, chiese subito della borsetta di Michela e Flora si appressò subito al letto della giovane per prendergliela dal bordo.
Michele Anpichisi la sversò senza tanti complimenti e fece cadere il manuale Come sintonizzare il maxischermo e poi la Tessera Gold e il cellulare di Truce Attanasio. Michele rimise tutto dentro e tenne solo il cellulare, cercando di spippolarci con la sua manina cicciuta. Era spento e ogni tentativo di riaccenderlo non sortì effetto, la batteria era collassata. Michele non si perse d’animo e l’intascò, riconsegnando la borsetta alla vigilanza di Flora. Poi risalutò i due uomini e sparì trafelato dalla sagrestia da cui era entrato. Giona e Flora si guardarono dubbiosi ma con una certa euforia ché quel telefono, pure muto, sembrava evocare finalmente il mondo esterno. Tornarono lesti alla colazione interrotta e si accesero la prima sigaretta di una giornata che, come aveva promesso Anpichisi, sarebbe stata lunga e dura.
7
Fino al primo pomeriggio non era successo niente che non fosse stato mangiare, bere, fumare e vegliare di sottecchi le due ragazze con gli occhi aperti che guardavano il cielo che non c’era. Nel tardo pomeriggio si aprì di botto la sagrestia, la dispensa, e né Giona né Flora ebbero la prontezza di far di meglio che restarsene a bocca aperta. Davanti a tutti il solito Michele Anpichisi; poi la coppia col cerusico e lo sconosciuto e poi il carroccio con tutto l’oro, trainato davanti da Chicco Micchi e dietro da Bacco Numucco che bestemmiava come sempre con la maglietta grondante di sudore; e poi Tiziano De Paola con la sua aria distratta e compiaciuta che strizzò l’occhiolino ai due uomini come a raccogliere i complimenti della sua caramolla; seguiva la vedova Gnutti Bella, rivestita di una tuta rosso fuoco e Le Mec e Le Truc con dei bermudini addosso. Buon ultimo, Gaspard. Il serpentone questa volta andava molto più spedito, come era reso evidente dal
tono delle bestemmie di Bacco che avevano consigliato la vedova Gnutti Bella di starsene zitta e non rimbrottarlo, e puntava dritto verso la zona notte della gionta, dove le due ragazze erano lì con la testa all’aria a fissare il cielo che non c’era. Quando il serpentone infine si fermò, circondando i due letti e togliendo aria e luce, Michela e Serena ebbero un tremito che le scosse in tutte le membra. Michele Anpichisi impose il silenzio e poi cominciò. «Al principio era Questo e nulla più. E tra le tante cose che fece Questo c’è la Gionta Unita e anche la sagrestia che voi chiamate “dispensa” e non capisco perché, c’è pure bello scritto a caratteri cubitali “sagrestia”, ed è una delle poche cose che sappiamo per certo…» attaccò, un po’ adirato «…giusto per chiarire le cose ma non pensate che tutto sia facile e spiegato, eh! Perché le cose che sappiamo le sappiamo e le diciamo pure, ma le cose che non sappiamo dobbiamo cercare non dico di saperle ma almeno di farcene un’idea! Sennò, siamo punto da capo. Noi abbiamo solo un oscuro riferimento all’odor di santità e quanto è vero Questo, la pagina era strappata e in tutta la Giolla Unita non c’è una versione integra, ma la troveremo, oh se la troveremo, quella e tutte le altre, ma comunque una cosa è certa: se c’è odore di santità, a Torello, esso appartiene a Serena e io lo so per certo da quando l’ho vista la prima volta che faceva ancora la cassiera alla banca. Per il resto staremo a vedere, manca davvero poco, i tre giorni sono quasi ati, tutto succede in tre giorni, chiedetelo alle vostre mogli, se ne avete, quando fanno il bucato: lavare, asciugare e piegare nel cassetto, uno, due e tre; e se è vero che gli ultimi nati di Torello, i signori qui presenti e gemelli Le Truc e Le Mec Gnutti Bella sono nati dopo duecentosettanta giorni di panza e quindi i conti non tornano ché Serena va per i cento giorni, tanto peggio per i conti! Anche ciò sta scritto, perciò io lo do per buono e segno punto, e quanto al resto siamo nelle mani di Questo, sarà quel che sarà. Bene, io vi ho detto quello che vi ho potuto dire. Adesso qua stiamo e qua rimaniamo.» E così dicendo ordinò al corteo di rompere le righe e disporsi alla costruzione dell’accampamento per are la nottata, mentre la vedova Gnutti Bella si accese il suo percale col bocchino d’oro e iniziò a dare direttive a tutti, ciascuno apostrofando: «Vas-y, vas-y, citammuert!» Sotto lo scudiscio delle parole sibilanti della vecchiaccia, incarognite dalla dentiera, ciascuno zompettava a destra e sinistra in varie faccende affaccendato.
Lei si teneva davanti i letti ingombri delle due ragazze mentre Chicco Micchi e Bacco Numucco preparavano la zona notte per loro tutti, Tiziano allineava tagli di carne fresca nella cosiddetta “sagrestia” e Le Mec e Le Truc, insieme al cerusico e allo sconosciuto avevano occupato l’ala più lontana della gionta insieme al carroccio d’oro e a vari strumenti di falegnameria. L’idea che davano era di tipo schizofrenico, da un lato sembrava si stessero installando per sempre, dall’altro che stessero sbaraccando. In mezzo, Giona Paraponzi e Nino Flora stavano immobili come statue. Michele Anpichisi prese allora da parte Flora con la scusa del tonno e arrivati nella sagrestia attesero che il buon Tiziano avesse finito di esporre tutta la sua mercanzia. Quando furono soli, Michele porse a Flora il cellulare di Truce Attanasio. Flora lo prese in mano. Non era piccolo e semplice come quelli che circolavano nella Giolla Unita ma, come la prima volta, era spento. Flora guardò interrogativo Michele Anpichisi. «Il primo miracolo si è compiuto, Flora» gli disse. «Eh?» fece Flora. «È carico, Flora. Toccherà a te accenderlo quando sarà il momento. Adesso lo teniamo spento, va bene?» spiegò paziente Michele, aiutandosi anche coi gesti. Flora annuì, non molto convinto. «Flora… sei triste?» chiese a bruciapelo Michele. Flora lo guardò stranito, diede un’altra occhiata al cellulare spento, poi disse tutto d’un fiato: «Je veux dire… Je veux dire…» Iniziò a balbettare. «Non ora, Flora. Non ora… pazienta ancora un po’…» lo calmò Michele. «No, non sono triste. Solo pensieroso, è diverso. Io ho avuto, diciamo, fortuna. Questa storia ha fatto morti, feriti, umiliati, lutti, lacrime… a tutti, tranne me.
Tranne me. Tranne me, tranne me, tranne me. Ho attraversato i fatti come un sonnambulo, sul filo di una rete e sono arrivato sano e salvo dall’altra parte e non so neanche io come, non ne ho avuto nessun merito. E adesso che tutto è pronto, che tutto sta per cambiare, tu mi dici: tocca a te. Tocca a me dare un senso a quello che gli altri hanno pagato anche con la vita e non l’avrebbero fatto, avessero saputo o potuto…» disse tutto d’un fiato Flora. «Se ti riferisci a Tony Dattoni sei fuori strada…» lo interruppe Anpichisi. «…lui aveva solo una memoria più sviluppata di tutti voi, ma non c’entrava nulla con la Gionta Unita» lo rassicurò. «Tocca a me e devo solo accendere un cellulare, ecco cosa!» riprese Flora ignorando il dettaglio. «Risparmiami questa umiliazione, siamo alla fine, no? Ormai possiamo dircelo, questa è la vostra storia, non la mia. Risparmiamela, se puoi!» fece Flora con le lacrime agli occhi. «Tu eri un romantico, Nino Flora, ma adesso non più. Succede così, nessuno lo sceglie, accade. Non ti nascondere, a molti è stato chiesto tanto, troppo, a volte la vita. Anche a te però si chiede molto, è arrivato il momento di lecidere, non c’è più spazio per i compromessi… umiliazione, dici? Bene, umiliati ma per essere umiliato devi essere vivo, devi essere cosciente nella tua testa grande e in quel tuo cuore piccolo. Lo vedrai, c’è ancora tanto da combattere. Andremo nel mondo, Flora, e crescerai tuo figlio finché lui non avrà più bisogno di te ma sarà il Mondo ad avere bisogno di lui. Lo accenderai? Solo tu puoi farlo» chiese Michele a bassa voce, non troppo sicuro di averlo convinto. Flora annuì con un brivido. Capì all’improvviso che l’elenco di morti, feriti, umiliati e offesi non era ancora finito.
8
Flora uscì dalla sagrestia qualche istante dopo Michele Anpichisi. Prima si guardò intorno, in quello che era lo sgabuzzino del culto di Questo, Codesto e Tale e invece somigliava decisamente al retrobottega di Tiziano De Paola, quello che era esploso, qualche secolo addietro. La riflessione semplice
gliene mise in testa una seconda, più complessa. Tiziano nel suo piccolo trasformava a sua immagine ogni spazio che toccava; povera, vanagloriosa, marginale ma quella era una personalità compiuta. Lui il telefono non poteva certo accenderlo, non c’era creta da modellare in quella faccia ferina. Allora cercò di concentrarsi sulla gionta, carezzando per un attimo l’idea che lui poteva essere un secondo figlio di Questo, come si chiamava il primo? Codesto… ma anche sforzandosi, quello spazio di culto non gli ricordava niente. Quello era un dramma. Eppure erano ati pochi anni, dieci, mica secoli. Ma pure questi! Disse stizzito tra sé e sé riferendosi al corteo della Gionta Unita: vivevano nel culto di Questo, Codesto e Tale, ne avevano conservato e custodito l’oro ma non è che la sapessero tanto più lunga! L’unico miracolo certo era che Michele Anpichisi parlava, per il resto tutte chiacchiere. Flora entrò nella gionta e con sorpresa notò un cubo di spessa bava da cui pendevano delle lenzuola bianche che celavano alla vista i letti di Michela e Serena, come in quarantena. Da dentro si sentiva sibilare l’inferocita vecchiaccia che scacciava gli sguardi morbosi di Le Mec e Le Truc che, proprio come i bambini che erano, adesso che sembrava proibito sbirciare volevano assolutamente vedere le inferme per darsi di gomito. Erano le ultime creazioni della Giolla Unita, Le Mec e Le Truc, e non c’era da meravigliarsi che le cose andassero come stavano andando, pensò Flora tra sé e sé. Nella zona falegnameria, il cerusico e lo sconosciuto stavano smussando e adattando le chiusure di certi parallelepipedi abbastanza capienti, che ci poteva stare una persona in orizzontale. Altre decine di scatole più piccole erano invece già state sigillate, sicuramente con l’oro dentro ché il carroccio non c’era più. Flora fece per avvicinarsi ai due artigiani ma restò bloccato sul gesto quando, ginocchioni, quasi inciampò sulle costole di Giona, concentrato in un borbottio tutto suo. Flora lasciò perdere i lavoratori e si fermò presso l’amico che non si diede la pena né di guardarlo né di fare qualsivoglia che non fosse la continuazione a nastro di: “Questo ti voglio bene… Questo ti voglio bene… Questo ti voglio bene…” Flora stette in ascolto per oltre dieci minuti ma la stringa era sempre la stessa, eppure era ammaliato dalla potenza espressiva di quelle parole sempre uguali, come le forme che non crescono ma evolvono di cui bofonchiava Michele Anpichisi nell’ultimo delirio suo, qualcosa di ipnotico che ti svuotava di
ogni volontà, tutta forza. Michele Anpichisi toccò dolcemente le spalle di Flora e gli chiese di lasciar dire a Giona quella cosa che prima della Giolla Unita era conosciuta con il nome di preghiera. Flora annuì e ripensava al Je veux dire che forse era anche quella una forma di preghiera ma di diversa e meno pregiata fattura, qualcosa di troppo umano, carnale, finale e pure tronco. Giona era partito da uno stato d’angoscia e man mano prendeva fiducia, si rilassava, stava trovando il ritornello calmo e rassicurante, cercava la Grazia; Flora invece, col suo Je veux dire, ogni volta si svegliava di sobbalzo e proprio a quel punto cominciava l’angoscia. Era quella tutta la differenza, adesso Flora lo capiva e la cosa lo consolava. Arrivata l’ora di cena, si riunirono tutti intorno alle caramolle e Flora entrò in crisi, perché non era stata apparecchiata nessuna scatoletta di tonno con cui nutrirsi con disinvoltura schivando quella carne dolciastra e lo sguardo del macellaio che gli era pure di fianco. Si illuse per un attimo quando alla mensa si fece vivo anche Giona che, pensava Flora, non avrebbe mai più rivisto in piedi. Giona invece c’era e sembrava reduce da una giornata in piscina, pimpante e affamato, allegro e compagnone e per ultimo si mise la forchetta in bocca e si fece fuori tutte le caramolle che teneva nel piatto, ed erano tante! La vecchiaccia si era slacciata la dentiera per gustarsele meglio, e di gran gusto se le mangiavano Tiziano e Michele Anpichisi, mentre tutti gli altri le sbocconcellavano sì, ma con calma, quasi rassegnati eppure affamati, tutti tranne Flora che non sapeva più come uscirsene. Fu Michele Anpichisi a sostituire velocemente il suo piatto vuoto con quello di Flora e al gesto di riconoscenza del ragazzo, gli rispose sottovoce: «Non lo faccio per te, lo faccio per Tiziano che è permaloso…» Arrivato il momento di chiudere la parca mensa, Flora, sempre più estraniato dal contesto e pure digiuno, fece per alzarsi con la sigaretta in bocca. Michele Anpichisi lo bloccò con un braccio e gli suggerì di dare una sbirciatina alle due ragazze. Flora gli sorrise ironico e chiese se volesse intendere “una sbirciatina” alla maniera di Le Truc e Le Mec; Michele Anpichisi si slinguettò il labbro e insistette, aggiungendo che poteva ben correre il rischio di apparire ridicolo, per una volta. Flora si appressò alle lenzuola, sbirciò una prima volta, poi entrò con tutto il corpo dentro appoggiandosi a quelle tende improvvisate che quasi crollarono per l’impeto.
Michela muoveva gli occhi! Stava sempre immobile, lercia, quasi putrida e secca come una stoppia d’estate epperò i suoi occhi si muovevano, erano sgranati e stavano ridando vita anche agli zigomi che, come incrostati dalla ruggine, iniziarono a fare su e giù con un moto cigolante e sofferto. Michela non fissava più il cielo, che non c’era. Flora sentì la felicità che gli disegnava il cuore sopra il petto. Chiuse gli occhi perché pensava che ne sarebbe morto, tanto quella visione gli era insostenibile; la sua respirazione divenne convulsa e tutta di naso, iniziava a confondersi tra ossigeno e anidride carbonica e nel giro di un “ba” lo avrebbe portato al coma. Fu la visione, quasi casuale, di Serena che lo riportò in vita; sudava e il suo sguardo si era fatto vitreo, distolto anche lui dalla visione del cielo che non c’era e adesso concentrato su una oscurità che pareva incantarla, che le toglieva ogni paura. La paura, la rabbia e il senso di colpa riportarono Flora alla realtà delle cose. Forse poteva finalmente rendersi utile pure lui. Michele Anpichisi gli stava di fianco e sembrava incoraggiarlo. Fu la vecchiaccia a cacciarli coi modi suoi da vecchia contessa. «Allez-y, allez-hop, civammuert» sibilò incattivita. E quelli ubbidirono.
9
«Une clope, mon ami?» fece la vecchiaccia a Flora. «Oui» rispose secco Flora attingendo a tutto il suo se. «Tu vois…» fece la vecchiaccia mentre lo faceva accendere. «Faut pas, mon ami, pas encore, Ninò… tu ami la tua amica, n’est pas?» chiese la vecchia. «Oui» rispose secco Flora ma non avendo il cuore di chiedere di quale amica stesse parlando. «Je veux dire… tu l’aime bien Michela, n’est pas?» corresse la vecchiaccia.
«Aime bien? C’est à dire che “le voglio bene”, n’est pas?» dovette mettersi in gioco Flora. «Oui, c’est ça. Par contre, c’est bien Serena qui tu aimes, n’est pas?» «Oui» rispose sicuro Flora con un calo di voce. «Ne t’inquiéte pas, Ninò… mais… vous savez… c’est inconnu…» cercò di introdurre la vecchiaccia. «Je sais, lo so. Lei perde sangue, da tanto tempo e io ho sempre nascosto tutto. Voilà…» confessò Flora con le lacrime agli occhi. «Du sang, vous dites? Ahlàlàlàlà, du sang, ça c’est drôle…» ridacchiò la vecchiaccia con la dentiera nettata di fresco. «Quoi? C’est pas rigolo!» protestò Flora che pensava di aver appena confessato il peggior crimine della sua vita. «Lei perde il sangue perché lei è fertile, voilà tout, mon ami… mais, tu non sai niente delle donne, n’est pas? Anzi, tu non sai niente di niente, rien de rien…» lo canzonò la vecchia che però gli stava forse dando una bella notizia. «Non, Je pas. Fertile? C’est à dire che fa i figli, come una volta, n’est pas?» cercò di sincerarsi Flora con cautela. «È così!» gridò quasi Michele Anpichisi che si era affacciato dalle lenzuola. «Sta scritto e ce l’abbiamo: Sara era vecchia e non poteva avere bambini ma a novant’anni generò Isacco, grazie a Questo» spiegò con le mani attaccate alla bava che si fletteva pericolosamente. «Ça n’a rien à foutre!» le rispose stizzita la vecchiaccia. «Non c’entra un beneamato cazzo, comme vous dites, les ritals… vas-y, enculé, fous le camp!» gli ordinò sibilando e quello sparì in un lampo. «Dicevo che?» riprese più calma rivolta a Flora «Oui, fertile, Voilà. Les regles, vous savez. Quand même, c’est bizarre. Écoute bien: le donne, prima della Giolla Unita, perdevano il sangue qualche giorno al mese, tutti i mesi e significava che potevano fare i figli… Serena, Je pas… perde il sangue ma c’è anche il figlio, je dirai che c’est plutot una emorragia, je pas. En plus, una volta
per fare un figlio ci volevano nove mesi e adesso solo più cento giorni, il est la, le batard, vuole uscire, c’est certain. Ça m’inquite, je suis pas tranquille, vous comprenez?» spiegò meglio che poteva la vecchiaccia. «Serena è stata male, è stata al Soccorso Pronto…» aggiunse Flora. «Je sais, il cerusico me l’ha detto. Ma quello non sa un cazzo, rien de rien. Quelle erano “le regole”, c’est certain. Io sono vecchia abbastanza, io so com’era il mondo prima della Giolla Unita ma adesso… non so plus, vous comprenez?» disse amaramente la vecchiaccia che fece drizzare i capelli in testa a Flora. Non ebbe il tempo di rispondere né di aggiungere altro, Flora. Un urlo lancinante troncò la conversazione e andò a colpire una zona precisa del cervelletto della vecchiaccia che come una molla era già al capezzale di Serena, mentre Flora ancora si stava chiedendo se quella voce era proprio la sua. Flora raggiunse l’accampamento e si tenne poco distante dal letto di Serena. Quello che faceva impressione non era però tanto Serena, che aveva sì urlato, ma sempre immobile come una sardina in scatola se ne restava, ma Michela, muta, magra come un chiodo, con la faccia scavata e seduta sul suo letto, come si fosse appena risvegliata da un sonno troppo lungo che l’aveva completamente rincoglionita, più assente dell’ultimo della classe. «Tous en scène!» urlò la vecchiaccia che per comodità si era slacciata la dentiera. «Le Mec, Le Truc, Chiccò, Baccò, la dentiera, le percale, vas-y, vas-y, li murt ci tinit, racaille, enculé, fagnani… fuori!!!» urlò verso Flora paralizzato. «Vas-y, le rital, fous le camp, on reste che la nanà e la nennè ici, fuori, fegato bianco, fuori!!!» urlò una seconda volta e Flora finalmente capì che doveva andarsene. Le Truc si sporse solo per darle il percale col bocchino d’oro già e poi si tirò da parte prima che la vecchia contessa gli cantasse la ramona. Da fuori si sentiva la vecchiaccia che ripeteva un po’ più calma, dolce quasi, “Pas encore, la fille! Pas encore” rivolta a Serena. Michela si era probabilmente riassopita seduta sul letto. Giona tornò subito nel suo angolo e cadde ginocchioni iniziando a recitare piano: «Questo ti voglio bene… Questo ti voglio bene… Questo ti voglio bene…»
Tutti gli altri rimasero a debita distanza in un silenzio carico di tensione. Michele Anpichisi buttò dentro la faccia per qualche secondo, approfittando di una certa calma che sembrava ristabilita. La vecchiaccia stava ninnando Serena con una canzoncina di cui non comprese nessuna sillaba. Michela, sempre immobile, era adesso in piedi. Era mezzanotte ata.
10
arono altre tre ore, quando un secondo urlo, ancor più lancinante, svegliò tutti da un torpore che la ninna nanna ininterrotta della vecchiaccia aveva fatto calare, a loro ma non a Serena. Flora, appoggiato alla colonna, sbatté forte la testa e si mise in piedi più lucido di un mocassino. Michele Anpichisi spiò dentro. Il volto di Serena non si riconosceva più, completamente trasfigurato dal sudore. Il suo naso bello, sottile e lungo sembrava un trampolino da dove i monelli si potevano tuffare a stile libero direttamente nell’oceano. La Gnutti Bella, coi capelli bianchi e grigi completamente dritti per lo spavento e forse anche per la fatica, le ripeteva a mantra “Ça roule, ma poule! Ça roule, ma poule…” e le accarezzava il caschetto gonfio di quei formidabili feromoni, che cominciarono a invadere lo spazio dopo più di tre mesi che se ne erano rimasti lì buoni. Michela era seduta sul letto di Serena e con un gesto meccanico l’accarezzava sul fianco, incosciente di tutto, come una macchinetta senza scopo. Michele Anpichisi chiamò a rapporto il cerusico e lo sconosciuto e anche Le Mec e Le Truc. Dopo un breve conciliabolo i quattro si trasferirono nel reparto falegnameria e presero a tirare botte da orbi, tanto non erano mica in un condominio! Flora provò a protestare ma Michele Anpichisi non gli badò
nemmeno e lo invitò invece a farsi qualche gargarismo ché il suo momento non era poi così lontano. Due ore dopo Serena urlò per la terza volta ma tutti erano così svegli ed eccitati che quasi ne furono sollevati. Michele Anpichisi si affacciò dal lenzuolo e Michela si tirò giù il reggiseno e gli diede in vista la piaga della mammella. Quello si ritrasse fulmineo, spaventato. Michela sorrise soddisfatta. Fuori cominciava ad albeggiare e Tiziano ebbe la sua occasione di rendersi utile, se ne andò in sagrestia a preparare un po’ di ristoro. Flora pensò con un brivido che sarebbe tornato con qualche braccio ancora da spolpare, ma erano dei caffè fumanti quelli che distribuiva e Flora ne prese avidamente una tazza, sorridendogli con gratitudine. Giona rifiutò la sua bevanda, concentrato nella sua preghiera: «Questo ti voglio bene… Questo ti voglio bene… Questo ti voglio bene…» Flora innescò le sue sigarettine senza nicotina, che si accendeva una dietro l’altra attraverso le braci, e girava in lungo e in largo, stizzito che tutti avessero trovato il loro daffare tranne lui. Gaspard lo guardava da dentro un cumulo di macerie ma non uscì allo scoperto, non era roba per lui. Il quarto urlo di Serena fu acuto ma debole, quasi rassegnato. Il volto le si era illuminato, brillava quasi, splendente e con quel leggero strabismo che significava qui e altrove. Michela beveva il suo caffè mentre armeggiava pezzuole e carezzava le membra di Serena e scuoteva quelle della contessa Gnutti Bella, stremata. Flora ripeteva tra sé e sé “Je veux dire… Je veux dire”, ormai sicuro di non essere lui il secondo figlio di Questo ma forse Questo in persona. Il quinto urlo non fu chiaro chi lo innescò. Di certo la Gnutti Bella lanciò altissimo il suo “ça roule ma poule! ” ma così alto che la dentiera le schizzò dalla bocca e come una palla infuocata trapanò il lenzuolo e fu trovata quasi ai piedi della dispensa, o sagrestia. Flora vedendola sfrecciare pensò che in un momento della notte la vecchiaccia avesse ceduto alla vanità e se la fosse riallacciata.
Serena forse aveva urlato, o forse più semplicemente aveva dato un sospiro di sollievo, perché un gridolino secco e prolungato persisteva su tutto, di tutto incurante. Michele Anpichisi si avvicinò a Flora e con accortezza gli pose due dita sulla giugulare per prevenirlo da una ischemia che sembrava la benvenuta. I denti gli battevano forte in una versione all’ultimo respiro di quel “Je veux dire… Je veux dire”. Fu la contessa Gnutti Bella a uscire per prima, con in mano un fagottino protestante e vispo mentre lei era ridotta peggio di uno straccio, povera vecchia. Flora guardò quella cosa che gli sembrò informe e non ci rivedeva né l’appartamento-acquario, né le pezzuole ripiene dell’amore, suo e di Serena. «Je veux dire, Je veux dire, Je veux dire…» balbettava, e non aggiungeva niente. Poi uscì Michela Gang Bang, da sola, rivestita di bianco lindo e pulito. Flora la guardò terrorizzato e cambiò intonazione ma non parole. «Je veux dire… Je veux dire…» ansimava. «Serena è morta» disse Michela e scoppiò in un pianto a dirotto. «…sia fatta la tua volontà» urlò Nino Flora. Dopo molto tempo era riuscito a dire quel che aveva da dire. E svenne.
11
Due ore dopo il sole splendeva forte e forte entrò nella gionta, dal suo portone spalancato. Tutto intorno fervevano gli ultimi preparativi. Giona fu convinto da Michele Anpichisi a lasciar perdere per un attimo le sue preghiere e accomodarsi invece nella cassa più corta e panciuta, per vedere se ci entrava.
Michela Gang Bang aveva ricomposto l’esile cadavere di Serena in una cassetta piccolina che la conteneva tutta, orizzontale, buona a farla riposare per sempre. Flora, rinvenuto e ammutolito, guardava con odio la contessa Gnutti Bella che dava il latte al neonato con una sorta di strano contenitore trasparente che Flora ricordava di aver visto una volta all’Esaurimento, il minimarket di Chicco Micchi e Bacco Numucco, che infatti se lo guardavano con orgoglio neanche l’avessero inventato loro. Anche quelli avevano una personalità, di merda ma ce l’avevano, pensava Nino Flora. Non stava neanche a loro parlare a quel telefono. Michele Anpichisi si avvicinò a Nino Flora in silenzio, con in mano la borsetta di Michela. Stettero qualche secondo in silenzio e Flora aspettava solo che aprisse bocca. «Tutto è compiuto. È figlio tuo, Flora…» esordì Michele Anpichisi, un po’ ieratico. «Serena…» mormorò rassegnato Flora. «Michela, Flora, Michela. È sempre stata lei e tu lo sai. Mi spiace molto per Serena. Ma dobbiamo andar via, dobbiamo andare nel Mondo» continuò secco Michele Anpichisi, accomodandosi la lunga tunica bianca. «Serena…» mormorò ancora Flora. «Michela. Tu l’hai scelta. Il bambino lo crescerete insieme, tu e lei. Non fartene una colpa, così è la vita. Adesso accendi il telefono, Flora. È il tuo momento. Richiama l’ultimo numero» lo pregò Michele Anpichisi. «Serena…» continuò in trance Flora, ma sempre più flebile. «Serena è morta, Flora. È tutto finito. Dobbiamo andare nel Mondo. Dobbiamo svezzare il pupo e non ti preoccupare, saremo tutti con te, uomini, donne, neonati, animali, vivi e morti, oro e Questo… c’è una cassa per ciascuno. Saremo il tuo bagaglio così come tu sei il bagaglio del dolore del mondo, che è tornato e non ci lascerà più. Ecco, tieni… volevi sapere il tuo ruolo ed ecco il tuo ruolo, sei l’unico a poterlo fare, tu, che non sei nessuno, che non hai deciso niente, che sei stato risparmiato, che ti sei risparmiato, ecco tieni, è tua…» disse, consegnandogli la Tessera Gold di Truce Attanasio «…adesso sai cosa devi
fare.» Nino Flora accese il telefono e schiacciò l’ultima chiamata. Si sentiva un trillo, flebile e lontanissimo. Due squilli, tre, quattro squilli… Flora pensò con un sorriso amaro che al quarto squillo il telefono di Serena faceva scattare una segreteria gentile che prometteva avrebbe lei stessa richiamato. Forse la cosa avrebbe divertito anche Questo, adesso che l’aveva tutta per sé. Quinto squillo. Una voce. Qualcuno finalmente aveva aperto la comunicazione, col fiatone, era riuscito solo a farfugliare un “mi scusi signore” che fece storcere la bocca di Flora che prese un istante fiato e con sua grande sorpresa così parlò: «Sì, sono Truce Attanasio, il tuo signore. Alla buon’ora, cazzone. Sì, sì, ne parliamo poi. Vi aspetto. Ho delle casse con me. Sì, cazzi miei, dei souvenir. Sì, tante. Venite attrezzati che voglio andarmene in fretta da questo cimitero. Muovete il culo. Arrivedorci, coglione, arrivedorci.»
Playlist del Truce Attanasio
In questo viaggio nella Giolla Unita abbiamo cantato e ballato così
1. Mina – Rose su rose 2. Talking Heads – Heaven 3. Plastic Bertrand - Ça plane pour moi 4. Crystal Castles – Year of Silence 5. Giuseppe Verdi – La Traviata - Noi siamo zingarelle 6. Gall – Les sucettes 7. Lucio Battisti – Per nome 8. Two Man Sound - Disco Samba 9. Fabri Fibra – Tranne te 10. Truce Baldazzi – Vendetta vera
L’autore
Piero Calò è nato a Taranto nel 1969 e vive a Torino dal 1992. Nel 1999 ha pubblicato il saggio “Gola profonda – la pornografia prima e dopo Linda Lovelace” (Lindau), un’analisi del cinema underground e della rivoluzione sessuale in Italia. Nel 2010 è uscito il suo romanzo d’esordio “L’occhio di porco” (Instar Libri), nel 2011 ha partecipato alla raccolta di racconti “Sangu – racconti noir di Puglia” (Manni). Gestisce una cartolibreria molto colorata, Emoticom.
Lettera dell’editore
Caro lettore, intanto grazie per essere giunto fin qui. Spero davvero che tu abbia apprezzato questo libro e che ti abbia lasciato qualcosa, se l’hai già letto, o che lo apprezzerai. Sappi che il nostro lavoro è proprio questo: cercare belle storie, raccontate da persone dotate di una voce riconoscibile, che sappiano regalarti un momento di svago, generino qualche pensiero nuovo, suscitino un’emozione. Se poi riusciamo con le nostre storie a fare tutte e tre le cose insieme allora abbiamo vinto il jackpot. Però, sai, si sceglie una storia come si scelgono gli amici: dipende tutto dal carattere e dai gusti, quindi vorremmo raccontarti qualcosa di noi. Las Vegas edizioni è un nome strano per una casa editrice, vero? Andrea Malabaila, il fondatore, ha voluto chiamarla così perché Las Vegas evoca peccato, gioco d’azzardo e luci al neon, tutte cose che c’entrano poco con i libri. Ma è anche il posto in cui tutto è possibile e i sogni possono diventare realtà. Crediamo che uno dei compiti di un editore sia quello di avvicinare la gente ai libri, non di allontanarla facendole credere di non essere all’altezza. Tolleriamo tutto, ma non le torri d’avorio.
Las Vegas edizioni nasce nel 2007 e nel 2008 escono i primi tre titoli: Viva Las Vegas un’antologia a cura di Andrea Malabaila, Saxophone Street Blues di Hector Luis Belial e Il diario dei sogni di Marco Candida. Nel nostro catalogo ci sono 30 titoli e tre collane: I Jackpot, dedicata alla narrativa non di genere. Las Cerezitas, dedicata ai ragazzi dai 13 ai 19 anni.
I Jolly, dedicata a testi a metà tra narrativa e varia.
Ora sai qualcosa di più su di noi. Però ora tocca a te dirci cosa pensi di questo libro. E allora clicca sulla pagina Facebook, su Twitter, su Anobii e sul sito, e dicci la tua e vieni a conoscere lo staff, gli autori e i lettori della nostra casa editrice. Ti aspettiamo.