SALVATORE MEDICI
Fermento al Sud c’è fermento
Appunti sul Meridione.
© Salvatore Medici Fermento, al Sud c’è fermento, 2013
ISBN 9788891121530
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INDICE
Prefazione
I. Io, Noi, Voi Guardando il Sud 36 anni ma non sai di averli, poi, scopri il lavoro Sfoghi, opinioni, rabbia, fermento
II. Il nostro paese, noi italiani Tutto è in una grande pentola che gira e rigira Qui c’è una crisi che la gente si ammazza! Che rabbia il mio paese Di Berlusconi, degli italiani e di altre incertezze La furbizia, la paura e l’ammirazione 20
III. Istinti politici, comportamenti dis-umani Ma quando smetteranno di dire sempre sì? Si chiama acqua calda, ma è clientelismo
Un tribunale, un ospedale, una discarica e la storia non va avanti Cosa si fa per non morire…
IV. Scelte sbagliate o volute: al Sud e non solo Tengo la posizione Ridateci la Certosa, grazie, è nostra la Certosa Rinnovabili, certo, ma se le facciamo NOI Petrolio? Ma una idea ce l’avete? Perché altrimenti…
V. Un futuro in prospettiva “Meglio una soppressata come Cristo comanda!” Che poi la vita una è! Sradicarmi? La TERRA mi tiene Lo sfogo dei desideri, la morte del rancore
Epilogo – Il bello che ancora c’è!
PREFAZIONE
Hai sempre vissuto al Sud, con pochi intervalli all’estero. Hai sempre voluto e pensato che la tua vita dovesse essere a Sud per spirito di sacrificio, per paura di andare via, per amore dei tuoi luoghi.
Poi, ad un tratto c’è una persona da seguire, ci sono sacri-fici andati persi e situazioni senza svolta che si ripetono e non migliorano. E la curiosità di sperimentare le tue capacità. Coincidenze insomma. E allora si va all’estero, non per qual-che mese ma per restarci un po’. Si va e va bene, per fortuna, per volontà, non importa. E c’è il distacco. Vedi la tua vita da una prospettiva diversa, comprendi meglio quello che accade giù, gli sbagli fatti, le paure e le scelte corte, meccanismi e comportamenti che sembrano naturali ma non lo sono, difetti e pregi di una terra. Capisci quello che farai quando tornerai, perchè la voglia di tornare resta.
E intanto, in attesa di sperimentare a Sud la nuova pro-spettiva, dall’estero scrivo, scrivo per fissare, per analizzare, per comunicare. Così, con tale spirito nasce questo volume: una raccolta di opinioni e di appunti, organizzati in forma ragionata.
Con una prospettiva diversa, quella da un paese estero, scrivo della mia precedente esperienza, ma anche di episodi, notizie e comportamenti del presente. Questi scritti fanno riferimento ai luoghi da cui provengo, il paese, la provincia, il Sud e in parte la stessa Italia. Il territorio di cui parlo è il Vallo di Diano, una valle di 60.000 abitanti della provincia di Salerno a ridosso degli Appennini lucani e al confine con la Basilicata. Un’area interna, periferica ma anche una terra di mezzo, solo sfiorata ma non oppressa dalle tante con-
traddittorie dinamiche delle metropoli o dei grandi centri di aggregazione del Sud. La realtà raccontata è quella del paesi-no del Sud, con i suoi pregi e suoi difetti, a volte depresso e statico altre volte amichevole e sicuro, relazionale. Alcuni dei paesi raccontati sono Polla, Atena Lucana, Montesano sulla Marcellana, tutti Comuni del Vallo di Diano. Si tratta di realtà simili e diverse contemporaneamente, che vivono i mutamen-ti dell’era moderna, come pure i problemi caratterizzanti il Sud in generale (lavoro, servizi precari, emigrazione) ma in buona parte estranei ai percorsi della criminalità organizzata. Nonostante il racconto parta da queste realtà, dalla dimensio-ne specifica dei luoghi fisici, la trama di questi scritti va ben oltre, raccogliendo e ampliando sentimenti e percezioni che possono essere considerati propri di un Sud allargato.
Gli scritti sono stati redatti singolarmente tra il settembre 2011 e l’aprile del 2012, senza una precisa sequenza, ma in modo casuale a seconda degli spunti, delle notizie, dei vizi e delle virtù osservati o ricordati. Parte degli scritti sono stati già pubblicati online, alcuni su un portale, Unotvweb, altri sul blog La terra che vogliamo. Il periodo in cui nascono è già quello della crisi economica, ancora sottovalutata da molti ma ben presente. È Il periodo in cui, nonostante la crisi, alcune dinamiche di carattere politico (clientelismo, raccomandazio-ne, potere) persistono tanto nei paesi quanto nel Paese Italia. Quello in cui si accentuano nuovamente fenomeni storici della terra meridionale (emigrazione, ricerca forsennata del lavoro e lavori sottopagati) dove molti giovani, nonostante la professionalità e la volontà, non riescono ancora a sradi-carsi dalla dipendenza di chi ha un po’ di potere, accettando dinamiche dubbiose per sopravvivere fino al punto da farle proprie in qualche occasione. Ma è anche il periodo durante il quale si manifestano i primi fermenti positivi di chi ha voglia di rinnovare, provare a darsi forma, dimenticando la furbizia e il lamento.
Questi scritti non sono veri articoli che raccontano una notizia o descrivono un fatto realmente accaduto. Provano piuttosto ad essere metafore di fatti concreti o luoghi fisci, a dare forma ad atteggiamenti, dinamiche, sentimenti reali, spesso presenti nelle azioni di chi vive nel paese, in provincia, al Sud. Metafore di condizioni umane, di chi vorrebbe cam-biare ma non riesce, di chi vive in un mondo imperfetto e ne sogna uno diverso, di chi non ha lavoro o emigra per trovarlo o si accontenta o, ancora, usa la furbizia per averne vantaggi. Ed è per
questo che provo a raccontare gli atteggiamenti dei politici che da buoni diventano cattivi, così come i nuovi modi di fare di persone che con coraggio tentano di sperimentare una vita altra.
I fatti specifici non devono trarre in inganno il lettore: il luogo iniziale è il Vallo di Diano, descritto per esempio in Tutto è in una grande pentola che gira e rigira, ma le dinami-che che agiscono sono quelle presenti in tanti luoghi della nostra Italia. Il luogo è un pretesto anche quando si accen-na al decadimento della Certosa di Padula (la più grande Certosa d’Europa, ubicata in provincia di Salerno). In questo caso, l’articolo ha lo scopo di mettere in luce la cattedrale nel deserto rappresentata dai Beni culturali italiani, uffici dalla nomenclatura importante e niente più. E ancora: quando si parla di parchi eolici da installare nei paesi, si fa riferimento alla politica “travisata” delle energie rinnovabili di tante pic-cole sanguisughe e avvoltoi dell’affare, e lo stesso accade per il petrolio, per l’agricoltura, per la crisi che ammazza o per la vita nel paese.
In sintonia con la metafora del luogo, anche lo stile utiliz-zato non è quello della cronaca: riferimenti e cadenze gergali, con parole misurate ed ermetiche, da leggere lentamente. Una prosa che racconta a sprazzi e frasi spezzate comportamenti, sentimenti, emozioni, speranze.
Infine un appunto sui capitoli e la loro organizzazione. Come detto, gli articoli sono stati redatti in diversi mesi ma nel volume sono ordinati secondo uno schema: dalla condi-zione di chi scrive, del suo paese piccolo e grande, l’Italia, ando quindi per le dinamiche che regolano la vita quoti-diana, le scelte politiche e quelle degli stessi cittadini fino a giungere ai segnali di una nuova speranza di chi ha il corag-gio di seguire se stesso.
Nel I capitolo presento il fermento che anima la terra da cui provengo, nel II capitolo il tema è il paese, la valle dei 60.000 abitanti ma anche l’Italia del leader e della furbizia, della crisi e della paura. Nel III capitolo, gli scritti raccolti provano a dipanare dinamiche nascoste e ormai accettate del “fare politi-ca”, per
riconoscerle, starne lontano o ancora meglio stanarle. Queste dinamiche partoriscono scelte sbagliate per la vita sociale di una comunità, alcune descritte nel IV capitolo, scel-te che determinano il destino di territori senza che la gente abbia la possibilità di condividerle. Infine il V capitolo è un invito alla speranza, l’indicazione semplice di una prospettiva possibile, legata al senso di appartenenza a un luogo, alla sua ricchezza e alle capacità di chi vi abita. Poche storie di chi ci sta provando…
Insomma appunti da leggere uno alla volta, e ritornarci ogni tanto, uno alla volta, per confrontarli con la realtà.
I Io, Noi, Voi
Guardando il Sud
Guardare il Sud da lontano produce un effetto strano, soprat-tutto a pochi mesi di distanza dall’abbandono della terra in cui, per anni ideando e lavorando, ti sei chiesto se esisteva una strada giusta per la sua rinascita.
L’effetto è quello del riposo, mentale ovviamente. I grovigli, le strade e i cunicoli che si intrecciavano in testa nel tentativo di rispondere alla domanda Cosa fare per migliorare?, qui in questa terra lontana, prima svaniscono poi lentamente, dopo mesi, si trasformano in percorsi precisi, naturali, quelli che ti appartengono e che fanno parte del tuo istinto.
E allora sbarazzarsi di tutti i vincoli che ti confondevano, le mediazioni accettate per sopravvivere, i Sì pronunciati al posto dei No desiderati, il tempo contingente perso per una quoti-dianità che non ti apparteneva; insomma sbarazzarsi di tutto questo diventa facile.
Gridare, urlare, prendere posizione, dire Sì e dire No ti sembra possibile. E a quella domanda, Cosa fare per migliora-re? , nonostante una risposta unica e risolutoria non esista, la tua risposta, la tua, è all’improvviso chiara. Cosa c’è all’origine di questa confusione? Cosa blocca la gente, cosa blocca quei giovani che avrebbero la responsabilità di guidare le terre gial-loarse del nostro Sud? Cosa fa dire “aspettiamo ancora e ancora e ancora?”. Certo il lavoro che non c’è e l’ansia di cercarlo, la paura di perdere quel poco che ognuno ha conquistato, il buon senso che consiglia di procedere a piccoli i e poi la sfiducia in se stessi, tu che la pensi diversamente e che non hai le forze per cambiare . Infine la permanenza di una devastante questione meridionale nella pancia.
Tutto comprensibile, tutto già visto e sentito, tutto lamentato in un lamento
infinito , chiuso in se stesso e nelle proprie case rifugio.
Non pensate che è ora di munirsi di libertà, di uno sguardo positivo sul BUONO, di un obiettivo da perseguire, di un per-corso forse lento da seguire, ma fatto di rinunce e tanti No a chi li merita e di tanti Sì a noi stessi e alla nostra cara Terra?
36 anni ma non sai di averli, poi, scopri il lavoro
Hai 36 anni e stai lavoricchiando, ti arrangi, fai di tutto, conosci persone, guadagni qualcosa, 700- 800 euro al mese, e inizi a sperare che prima o poi la certezza del lavoro arrivi, arrivi per farti una vita, per dire “ne è valsa la pena”, per stare qui final-mente e guardare negli occhi chiunque. A 36 anni ti senti anco-ra giovane come quasi ne avessi 20, perché tutto ancora deve accadere e inizia di nuovo, ma non ti rendi conto che il tempo è ato e a ancora e quel tutto non accade, un lavoro part-time, l’altro a progetto, quello a nero, spiccioli versati in mani nascoste e la vita va via, giorno per giorno, come va via la per-cezione del tempo e di te stesso, nessun progetto e tanta attesa.
In Italia, il 14,1% dei lavoratori è part-time, il 12,5% temporaneo,il 10,5 nero. Il 37% dei lavoratori italiani, nove milioni di lavoratori e spesso quelli più giovani, porta avanti il Paese a prezzi scontati, senza un futuro e senza crederci. I più colpiti sono proprio quelli che hanno creduto che una laurea potesse salvargli la vita. Ingegneri, architetti, fisici, matematici, umanisti laureati, creativi, medici, psicologi, e chi più ne ha più ne metta. Oppure ad essere colpiti sono quelli che invece non hanno una qualifica, perché l’apprendistato in Italia è parola di comodo.
Ma poi un giorno tutto cambia. Firmi un foglio che vale un contratto, poche righe, diritti, doveri, una cifra e accetti. Per te quello è un lavoro in terra straniera e lo accetti. Punto. Non credi neanche al salario, alle quattro settimane di vacanze, al rispetto degli orari, alle assicurazioni, ai giorni malattia. Firmi e inizi e ogni giorno che a, ti accorgi che è tutto vero: le tasse non dimezzano il salario, ogni ora in più è pagata, sabato e domenica a riposo. La tua laurea conta, ma non per sentirti più in alto di chi non ce l’ha. No. Chi non ha la laurea qui è uguale a te, ha la tua stessa dignità. La laurea conta perché ti ripaga del tempo studiato, perché lavori per quello per cui hai studiato. Dignità del lavoro e rispetto di sé, quello che stavi perdendo quando ripetevi a te stesso: “non sono bravo”. E alla fine scopri di avere 36 anni, pieni pieni. Non è l’Italia, non è il
Nord, non è il Sud. È la Svizzera, la Germania, altri luoghi in cui, come in tutto il mondo, il valore del lavoro sta declinando e i problemi occupazionali esistono eccome, ma quando lavori quando lavori i tuoi diritti sono veri.
Che fare? Partire o non partire? Scelte di vita, del caso e di coincidenze. Libera la scelta. Ma sono ancora tanti, troppi, quei giovani che attendono e sperano senza gridare. Vivono giorno per giorno costretti a essere disponibili per le persone mediocri, per impieghi camuffati da stage negli studi di avvo-cati e di commercialisti rinomati in paese, per tirocini venduti per specializzazioni, per aziende che pagano dopo mesi o che assumono a tempo, tre o sei mesi, per sindaci che assicurano pochi mesi di lavoro, e per qualche altro che spedisce una quin-dicenne in una ditta già precaria a rischiare la morte o a morire.
Sfoghi, opinioni, rabbia, fermento
Fermento, sì, nel Sud, c’èfermento. Un fermento positivo e a volte omertoso; perché la paura, quella di dire tutto c’è ancora. Un fermento prudente perché spesso, quello che si vuol dire oscilla tra il giusto e la vendet-ta: potrebbe nella sua generale complessità colpire famiglie, donne e uomini innocenti. Un fermento collerico e rischioso, tale da investire tutto e tutti, al limite della guerra civile. Un fermento presuntuoso, di chi sostituirebbe un individuo solo per prendere il suo posto. E c’è il fermento del lamento, quello che porta a deprimersi, che vorrebbe ma non può o che non vuole perché ancora non è colmo e perché non c’è il coraggio, ma tanta la delusione.
Ma la rabbia è troppa: perché il bisogno è troppo, perché le violazioni sono troppe e perché di confusione ce n’è troppa. È una rabbia spaesata, a volte pubblicizzata e televisiva, a volte reale e sana, che a Milano come a Napoli ogni tanto ragiona e ottiene.
Nel Sud c’è fermento. Confuso tanto confuso.
Giovani che possono tutto ma che non credono in se stessi e sperano ancora nel potente di turno, giovani tenuti in bilico dall’opinione del proprio datore di lavoro che no, non condivido ma non posso dire la mia; giovani che vorrebbero fare qualcosa ma si trovano soli, che vorrebbero salire su un palco e gridare, argomentare, ideare ma non lo fanno per la paura di essere presi per pazzi. Giovani intenti nei propri percorsi di studio, non ancora pronti per cambiare. Eppure ci sono. Forse ancora per poco, prima che vadano via o che vadano via le loro energie. Ci sono. Ma si sentono poco. Poche voci, poche opinioni, poco dibattito.
Si sentono invece quelli che già hanno e non vogliono perde-re. Ma i giovani, ancora pochi.
Eppure il fermento è nell’aria. Massima attenzione, preparazione scientifica, argomenti validi: quel che resta è solo uscire dal rifugio. Facile a dirsi, penserete. No, invece è il momento. Non fosse altro che per dare voce ai sacrifici di padri e madri, non fosse altro che per dare un senso, quello nuovo della svolta, a coloro che verranno.
INTERMEZZO UNO: Tutti insieme, pronti, partenza e… aspetta, aspetta!
Unico obiettivo, crescita e sviluppo, lavoro per tutti e servizi di qualità.
Obiettivo condiviso. Quindi si parte. Pronti, partenza e…
Tutti insieme per favore. Restate uniti, in fila o in gruppo ma insieme. Il nostro territorio è un grande territorio: natura, cultura, territorio da preservare, ma anche industriale, ma anche da costruire, ma anche da lasciare, dovete darci i SOLDI. Governo e Regione tutti quanti, dovete darci i SOLDI. Per il ter-ritorio, per il territorio, capito? È un grande territorio il nostro.
Ma ’sto territorio qual è? quant’è grande?Dicono dall’alto. È grande, è grande, siamo tutti uniti, insieme.
Arrivati, siamo arrivati finalmente. Silenzio. Ecco però scusi, i soldi sarebbe
meglio se li deste per favore alla parte che merita di più, a quel Comune che merita di più, a quella collina che merita di più, a quella gente che merita di più, a quell’associa-zione, a quella Proloco, a quell’azienda che meritano di più; ecco forse è meglio, perché noi sapete, noi siamo più naturali, più culturali dei nostri cari vicini e perché, per la verità, siamo arrivati prima.
Sì tutti insieme siamo partiti, uniti, pronti partenza e…, ma poi noi, noi del nostro Comune siamo arrivati prima degli altri e in questo paese, capite, è arrivato prima anche il presidente di quell’associazione, il presidente di quel comitato, il presidente di quel circolo, quello di quel condominio, di quella sezione, della parrocchia, del Consiglio di amministrazione, della squadra di calcio, della Proloco, no non quella Proloco, l’ altra , la prima non vale.
Scusate ma quanti presidenti siete? Chiedono dall’alto. E quanti circoli? E quanti e quanti. Ma dove vi avviate? Unità unità, profes-sate, ma quale unità? Fermatevi un attimo, azzerate tutto, senza paura di perdere nulla, guardatevi in faccia, occhi negli occhi, ditevi tutto e poi fate un bel sorriso, l’umiltà di essere e l’orgoglio di esserci, tirate un grande respiro tutt’insieme e…. viiiaaaa!
II Il nostro paese, noi italiani
Tutto è in una grande pentola che gira e rigira
Fare politica per fare politica per fare politica.
Bassa politica. Di abitanti oltre 60 mila, di operai non troppi, edili e forestali sì. Di giovani pochi, alcuni ci provano, altri costretti a non avere coraggio. Di milionari? Tanti quelli che fanno finta, abbastanza quelli che maneggiano in studi pro-fessionali di categoria protetta, diversi quelli che gestiscono videopocker e poi gli usurai.
Di librerie neanche una. Lettori pochi, cultura scarsa, ignoranza tanta, scetticismo, paura, chiusura, idee ristrette. Tanti bar, venditori improvvisati, impiegati per servizi necessari, sanità, pensioni, il Pubblico. Di impiegati privati ce ne sono ma sottopagati in supermercati, in catene di distribuzione, in uffici rinomati. Di servizi sociali? A rischio assistenzialismo in maniera permanente e tagli in vista, anzi visti.
Produttori? Qualche azienda: avvolgibili, tubi, alluminio, mozzarelle. Di allevamenti un centinaio, ma in via di estinzione. Solo vergogna per l’allevamento e l’agricoltura, come se il latte, i formaggi, i salumi, la frutta, la verdura non ci fossero mai appartenuti. E il turismo? Operatori solo finanziati, country house e agriturismi in coca cola e tanti matrimoni.
E di beni culturali tante piazze, centri storici, chiese ristrutturate ma tutto chiuso, chiuso per completamento, chiuso per assenza di collegamenti, tra strade, tra persone, tra telefoni, tra Grotte e Certose.
Di acqua tanta, ma qualche tempo fa la si regalava con le bollette e fare voti, voti e ancora voti. Oggi niente bollette, oggi si paga. Non al Comune, ma alla Società Spa. Io sindaco non ho più responsabilità.
Di vento e sole tanti, ma quelli ai privati di Roma, Milano, UK.
E di Enti sempre più, per far posto a poltrone riciclate, per dare posti a figli di amministratori e conoscenti e da qualche mese direttamente ad amministratori: la crisi è forte e non risparmia nessuno.
E così, tutto è in una grande pentola che gira e rigira, è sempre la stessa minestra… quello che si dice, quello che si scrive, quello che si fa o si legge…
[Ispirato dall’ incipit di un articolo di Giorgio Bocca: “Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive non le ho viste. Di abitanti cinquantasettemila, di operai venticinquemila, di milionari a battaglioni affiancati, di librerie neanche una.”]
Qui c’è una crisi che la gente si ammazza!
Poi ad un tratto la bolla è scoppiata. Nessuno se ne rendeva conto all’inizio.
Neanche i politici, in tilt tra scontri sul ring e ragioni di parte. Furbi i politici che trasformano tutto in contrapposizione, ché gli italiani sono un popolo tifoso, tifano per tutto: per una squadra, per un politico, in un gioco a quiz… tutto. E molti non se ne rendevano conto perché la corruzione avanzava e la soluzione spuntava, il compromesso era la pratica, il senso di appartenenza diffuso e risolutore dopo domanda essenziale: A chi appartieni?
Si sopravviveva insomma, senza riscatto, senza futuro. Si sorrideva al furbo, si cercava di imitarlo, ci si rifugiava nel proprio muro. Non ci si sconcertava di nulla, né di lavoro camuffato in tirocini, né di prati verdi distrutti senza il colpevole, né di stipendi eccessivi, percepiti piuttosto come giusti.
Poi ad un tratto la bolla è scoppiata. Le rassicurazioni sono venute meno e la gente ha capito. “Qui c’è una crisi che la gente si ammazza!”– mi dice un amico. Cronache di morti annunciate! Quelle morti che potrebbero aumentare sempre più e di cui è difficile parlare perché si sa, dei suicidi è meglio che non se ne parli. Emulazione è il rischio. Di suicidi è anche difficile parlare, perché non si sanno quasi mai i motivi reali, neanche quelli supposti. Ma certo la crisi forse qualche ragione potrebbe pure averla, la crisi e gli strozzini. Affiancati dallo Stato che, quando deve avere, ti chiama subito, minacciandoti con la pistola di Equitalia. La pena è il fallimento di persone, sacrifici, aziende, anni di lavoro, le famiglie, la dignità.
“Qui è veramente triste!!! ce ne saranno altre…”, – mi dice un amico. Triste lo
era anche qualche anno fa, ma la sensazione è che le cose siano peggiorate. Ovunque. La crisi è diffusa. Anche perché qualche anno fa il debito illudeva tutti. Se i soldi non ci stavano, le banche, le società finanziarie, le società di investimento li prestavano a interessi ridicoli, almeno per i primi mesi. Poi certo se sgarravi, gli interessi raggiungevano il limite dell’usura.
E molti non hanno pagato. I titoli e i debiti emessi erano troppi, creati dal nulla, senza soldi, senza copertura, e all’improvviso sono diventati carta straccia; i mutui insolvibili, le case comprate hanno perso il valore, e le banche hanno rischiato di non avere soldi. Ma c’era lo Stato a salvarle e, una volta salvate, le banche hanno deciso di recuperare i soldi prestati, impossessandosi di case, aziende, vite umane. Ma le famiglie, gli imprenditori, i lavoratori, ormai poveri e inguaiati, quando le banche chiudono le porte cosa devono fare?
L’USURA, si sa, è sempre esistita, soprattutto al Sud. Gli strozzini della crisi se ne sono fregati, la crisi non li ha toccati, anzi.
“A un signore gli abbiamo venduto anni fa degli oggetti e oggi è venuto per rivenderli, perché il suo negozio è fallito”,
– mi dice un amico. Crisi, è la crisi. Non per tutti, sia chiaro. Le sale da gioco aumentano, le slot machine aumentano, le concessionarie aumentano, i compro oro aumentano e… le Ferrari pure, per pochi ma ci sono.
Qui è veramente triste! Qui c’è una crisi che la gente si ammazza!
Che rabbia il mio paese
Arriva la neve o la pioggia, fenomeni naturali, a volte straordinari ma prevedibili. Qualcosa però non funziona e c’è il caos. La gente resta bloccata. E allora i responsabili, per non dire “sì, abbiamo sbagliato, scusate”, iniziano ad accusare. Polemica e nulla più, per dire non è colpa mia. Il problema non si risolve e alla prossima occasione i disagi saranno lì, come prima. Polemiche, accuse, colpe da scaricare.
Media e TV. Purtroppo realtà. Ovunque in ogni cosa è polemica. I cittadini sono polemici, ovunque. Hai un problema? Prenditela con qualcuno, sfogati, grida, urla. E ognuno grida e urla contro l’altro, chi per assicurarsi i voti, chi per non perderli, chi per ottenere di più, chi perché non ce la fa più. Caos allo stato puro. Tutti, pochi esclusi, quelli che comandano e quelli che stanno male, tutti contro tutti.
E si va avanti a gridare. Nei vicoli dove una volta ci si affacciava per parlare con il vicino, oggi, ci si nasconde. Italia allo sbando. Cosa fare, lottare e protestare? Certo, ma per cambiare e non solo per gridare. Corrotto, individualista, egoista, furbo e viziato, disorganizzato, incapace, irrisolto, bugiardo, mai unito.
Che rabbia, vederlo da qui, così… Il mio Bel Paese.
Urla, polemiche e lamenti. Poi quando bisogna agire, nulla: le associazioni nei paesi non ci sono, i giovani nella politica non ci credono, i dirigenti hanno altro a cui pensare, i cittadini sono chiusi nelle case. Tutti urlano e nessuno gioca, come se l’Italia mica è degli italiani. E fermatevi un attimo e guardatevi in faccia. Per risolvere un Paese, stabilire un metodo, per organizzarsi e ritrovare la fiducia.
Per davvero. La fiducia.
Di Berlusconi, degli italiani e di altre incertezze
Ma la colpa è tutta degli altri? Oppure è nostra, noi cittadini italiani brava gente? La maggior parte degli italiani segue le mode, il pensiero di massa ed è disposta ad ammirare e seguire, a volte incondizionatamente, una persona dal carisma forte, un uomo che rappresenti le debolezze di se stessi, mettendo da parte le regole del vivere sociale e della correttezza. Ci si immedesima in quell’uomo, in quel simbolo, in quella squadra e si diventa tifosi, spesso senza partecipare alla battaglia. Si diventa individualisti di parte e, pur di vincere, si cancellano le leggi.
Succede ciclicamente a tutti i livelli, pubblici, sportivi, nei rapporti tra amici, in quelli tra famiglie. La famiglia prima di tutto è la regola, anche a costo di rompere le regole. Così il lavoro diventa precario o nero, il concorso è deviato, i meriti ignorati, le colpe cancellate, gli sbagli nascosti e il vicino un nemico.
Atteggiamenti del genere hanno prodotto un simbolo come Silvio Berlusconi che, a sua volta, ha ripetuto all’infinito quegli atteggiamenti, facendoli diventare normali, quasi fisiologici.
Mettiamo che Berlusconi vada via (non è cosi, non illudetevi). Cambierà qualcosa? Il cambiamento non può essere solo la dipartita dei leader di turno… Il potere cambia i nomi ma non gli uomini e soprattutto non cambia i comportamenti. I Gattopardi e i Viceré ci hanno insegnato che nei cambiamenti epocali, i dritti cambiano la casacca per restare al potere. Per loro il popolo non esiste, le promesse sono sempre le stesse (destra o sinistra che sia) e le buttano in pasto alla massa che puntualmente ci crede. Alla fine vincono sempre gli stessi, le medesime famiglie. Provate a fare una ricerca nel vostro paesino!
La colpa è nostra, è di tutti o poco meno. Sarebbe meglio mettersi in gioco e non far fare ai soliti, ma farlo per se stessi e per gli altri; per riprendere le regole, rispettarle e farle rispettare, incondizionatamente; per confrontare le nostre ragioni con quelle degli altri ed evitare la guerra tra poveri; per volere il bene di una intera Nazione; per agire ed evitare che i privilegi vadano ai già privilegiati, non certo per godere di quegli stessi privilegi.
Perché altrimenti è solo un ar di cera…per ricominciare allo stesso modo.
[“In giro giran tutti allegramente | con la camicia nuova strafirmata | nessuno che ti sente | parli inutilmente | pensan tutti alla prossima rata | Soldi pesanti d’oro colato | questo paese s’è indebitato | soldi di piombo | soldi d’argento | sono rimasti sul pavimento | e la poesia cosa leggera | persa nel vento s’è fatta preghiera | SI SPRECA LA LUCE, SI A LA CERA SOPRA IL SILENZIO DI QUESTA GALERA” –Alessandro Mannarino, Svegliatevi italiani ]
La furbizia, la paura e l’ammirazione
Montagne e valle, vicoli stretti in salita, di pietra e di terra, animali e terra, contadini chiusi, poveri, insicuri, sempre sottomessi a qualcuno o a qualcosa, contadini tanto tempo fa, poi emigranti, poi mezzoarricchiti, con la paura di perdere tutto. Una paura che ci difende ma ci attanaglia, sempre. Che spesso, non sempre, crea sospetto. In altre occasioni genera disillusione.
E il sospetto è così forte che si dilata nei pori della pelle, sempre pronto a ravvivarsi. Pronto a trasformarsi in furbizia, come accade oggi, adesso che quelle strade strette, quei vicoli in salita si sono allargati a valle, nel piano. Oggi che accanto alle terre ci sono le industrie, i capannoni. Un po’ di ricchezza in più e di nuovo la paura di perderla, ma anche l’arguzia e l’ambizione di acciuffarla. Meglio con poca fatica, si pensa. Così il sospetto si trasforma in furbizia. E non è per forza quella grande, quella punibile, quella che fa male. La furbizia ha invaso le viscere e la mente, pure per le inezie, per pagare un caffè di mattina presto o per chiedere un aggio al lavoro, per pagare una bolletta due minuti prima o per fare una festa.
Scetticismo, individualismo, protagonismo… furbizia… E poi c’è la furbizia di chi aspira a tanto. Quella fatta di strategie segrete, di parole non dette, di ammiccamenti. Quattro chiacchiere in un bar o in un ufficio, un capisci a me, e poi vediamo, occhi mezzi chiusi, guancia destra all’insù, fafà ammè. E si lascia fare. A volte va bene, a volte va male. Qualcuno ottiene qualcosa, ma solo per sé… e per nessun’altro. Certo non per il BENE COMUNE, per quello c’è bisogno di fiducia e di meno paura.
Ma la paura e il sospetto in altre occasioni generano disillusione. Non solo furbizia ma, a volte, astio, sfiducia in se stessi. E così da un lato ci sono i furbi, dall’altro i buoni che hanno paura di essere grandi, scoraggiati da chi li circonda,
o vittima delle proprie aspirazioni, mancate. E alla fine si rifugiano, sconfitti o timorosi o si lamentano astiosi e stanchi. E l’ammirazione langue. L’ammirazione e l‘azione.
È ora di finirla con questa furbizia che distrugge l’anima, con questa stanchezza che toglie la vita. Ogni gesto quotidiano è l‘occasione per bruciarla e ribaltarla. Per ambire alle nostre ioni, e fare ancora quello che abbiamo desiderato, ad immaginarlo già compiuto e insistere fino alla morte, con lo sguardo ammirato e sopreso di chi non si ferma.
[“Non dobbiamo importare sempre nuove esperienze, ma sforzarci di capire perché falliscono le nostre, perché il bene che proviamo a fare non dura… Dobbiamo andare avanti con le persone che ci sono care, producendo ammirazione e riguardo, più che rancore e lamenti… Il futuro forse non arriverà da fuori, ma sbucherà dalle nostre vene” –Franco Arminio, Terracarne ]
INTERMEZZO DUE – Un cartello stradale per proteggere le vetrine e… si salvi chi può.
Buca in strada, anzi no, piccola rientranza del manto stradale dovuta alle continue piogge e ad un asfalto da rattoppo. Tutto qui. Quanto basta, però, per favorire la formazione di un laghetto artificiale che regolarmente si svuota al aggio di un auto con pneumatico in corsa o a velocità sostenuta. E l’acqua nel pozzo, schiacciata dall’auto, salta su una vetrina di un negozio, l’unica forma di promozione utilizzata dal gestore e fonte preziosa. Vetrina sporca, puntualmente, minuti contati. Cosa fare? Il proprietario del locale pensa di munirsi di cartello stradale da lavori in corso. Lo pone a ridosso del dosso che dosso non è ma avvallamento. Così in pieno centro di un paesino del Sud, le auto schivano la pozza e la vetrina traspare i prodotti, ma la corsia si accorcia e il traffico diventa lungo.
Accade e accade e accade per giorni, fin quando piove. Qualcuno chiama i vigili del Comune che, pronti e in coppia, si recano dal negoziante e chiedono spiegazioni. Poche spiegazioni dal gestore del negozio: la strada è rotta… e il Comune quando l’aggiusta?… la pioggia, le auto che ano sporcano la vetrina e allora meglio fare da sé. “Ma no, non è possibile – dicono i vigili –, il cartello stradale è segnale pubblico e non può metterlo così”. Parlano, chiacchierano, nulla, vanno via, multa. Chissá! La storia si ripete, il problema resta e i lavori sono in corso, finiscono e riprendono a seconda del tempo e a cadenza alternata. Gli automobilisti, quelli del paese in particolare, hanno capito: i lavori non ci sono, è il negoziante che li ha inventati. Eppure vanno avanti con le loro auto, a corsia unica, con code e clacson spumeggianti e qualche sorriso.
Qualcuno pensa a una soluzione. In paese si apre il dibattito, silenzioso ma corrente. Chi ha ragione, chi? Il Comune dicono, ma no, scusa, il Comune non ha ragione dice qualcuno, la strada è bucata e il Comune non l’aggiusta e l’acqua imbratta le vetrine. Ha ragione il negoziante insomma e tutti d’accordo. Poi un altro obietta: no scusate il cartello stradale non è mica possibile usarlo così, così crei il caos e l’ordine pubblico e ché uno si sveglia la mattina e mette il cartello sulla strada? Già è vero, la civiltà, la civiltà. Tutti concordano anche con l’altro. E i vigili? I vigili hanno il compito di far rispettare la legge, checché ne dica il Comune o il negoziante, sono autorità autonome. “ Seeeeee autorità autonome, aspetta e spera”, – si sente urlare da laggiù. Ma qui si conoscono tutti, lo sapete come si faaaaa”. Macché vigili e vigili. E poi la domanda: ma scusa e i cittadini? Gli automobilisti? Le code lente, i disagi, i clacson e per cosa, tutto questo per un cartello finto e i cittadini cosa fanno? Ma che devono fare i cittadini, un altro risponde e poi sentenzia: qui, si salvi chi può, chi fa per sé fa per tre, tempo di crisi, io penso alla mia azienda e alla mia auto, il vigile al suo lavoro, il sindaco ai suoi voti e il negoziante al suo negozio… E così vissero, alla buona, per se stessi. Ma sempre più giù andarono, tra risate e risate. Ma poi di che ridiamo?
(Da una notizia vera)
III Istinti politici, comportamenti disumani
Ma quando smetteranno di dire sempre sì?
Il meccanismo della politica e del consenso è perverso, rischioso per tutti, anche per quelli che hanno tanta buona volontà e buoni propositi. Nessuna giustificazione per carità, ma il meccanismo è perverso. E fin quando proprio i politici non avranno il coraggio di rifiutare le richieste, di non dire sempre sì a tutti, sarà difficile cambiare il futuro. Certo ci sono quelli che poi il futuro non lo vogliono cambiare e stanno bene in questo presente, si sono abituati a fare promesse e non pensano ad altro che al consenso per scalare posizioni su posizioni o mantenersi a galla. Ma c’è chi, giovane e non, di speranza ne ha tanta, ma non ha la forza. E piano piano diventa come i primi.
Ci sono quelli che nella politica ci stanno per altre cose e il futuro non va oltre la loro vita e quelli che proprio non ce la fanno a pensare oltre, per comprensibili capacità di ingegno. Ma ci sono anche quelli che l’ingegno ce l’hanno e man mano però si trasformano. Purtroppo.
I meccanismi sono perversi ma consueti. Alla fine quasi tutti li accettano, perdendo il senso del fare politica. Anche quelli che ne avevano davvero voglia.
Un sindaco, per esempio, mi diceva più o meno così: “Succede che sei un giovane di buona volontà e hai scelto la politica perché la politica può fare qualcosa, decidere, cambiare. E allora ci provi. Ti proponi alla politica, proponi le tue idee, la tua conoscenza, progetti nuovi. Hai avuto il tempo di pensarci, sei certo che funzioneranno. E qualcuno ti vota, conosci quelli che ti votano, sono parecchi, tanto quanto basta per salire alla politica. Eletto, sei eletto. E inizi a darti da fare. Poi, qualcuno di quelli che ti hanno votato, un giorno, bussa alla porta e… scusi io l’ho votata, io ti ho votato, noi l’abbiamo votata. Lo so, ti dicono, lei non ha fatto promesse particolari ma io ho un piccolo problema… un piccolo problema, solo mio mica della comunità: un posto di lavoro mancante, una promozione, un trasferimento, un evento da organizzare, un disagio con il
vicino, un terreno da comprare, una strada da fare, una casa da costruire, un’azienda da mettere nel posto giusto, un progetto da finanziare in Provincia, in Regione, al Parlamento. Accontenta e accontenta. Pensi che sono i tuoi elettori, accontenta e accontenta, le idee cominciano a svanire, la socialità comincia a svanire, i progetti si rimpiccioliscono. Solo mio, solo mio, dicono quelli che ti hanno votato… e tu sindaco o amministratore li ascolti perché, per te, il problema ora è cambiato, non è più quello di fare il bene della comunità ma è la prossima elezione, è il partito che incalza e chiede. Alla prossima elezione ci devi arrivare vincente, senza che nessuno sia scontento e, anzi, se ci sono altri da accontentare che vengano pure. Cominci a dire sempre sì, anzi ti informi sulle associazioni e i gruppi che possono esserti utili. E intanto tutto questo accontentare ti lega le mani, non hai il tempo per pensare ai progetti per un futuro migliore, quelli validi per cui bisognerebbe imporre cose poco gradite alla gente. Ti butti piuttosto sui finanziamenti facili, anche se non hanno nulla a che fare con il tuo territorio. Ma almeno con qualche soldo, puoi dire di aver fatto qualcosa. Soprattutto in campagna elettorale. Succede che pensi solo al consenso, a mantenere la tua posizione o a elevarla in altri posti, facendo la cosiddetta carriera politica. E pensi che tutto sia dovuto al tuo piccolo paese, anche a discapito di altre comunità e di un pensiero allargato di territorio e di Nazione”.
Meccanismo perverso. I progetti sono andati, la comunità è andata, la guerra è guerra e la guerra è la prossima elezione, nulla di più. E così il paese va a rotoli, il futuro va a rotoli. Chi è stato accontentato tornerà domani, ormai abituato e chi accontenta non è più libero di fare quello che dovrebbe. Ma c’è di peggio dice quel sindaco: “Il problema è che ti sei così abituato all’andamento delle cose, che la tua sfida non è il futuro, ma i tuoi colleghi, gli altri sindaci, gli altri amministratori, odio su odio per incalzare posizioni su posizioni, spesso anche inutili. Solo quando cominceremo a dire no, qualcosa cambierà”.
Ma allora quando smetteranno di dire sempre sì?
Si chiama acqua calda, ma è clientelismo
Primo o: un Comune, l’Asl, un Consorzio, insomma un Ente pubblico qualsiasi ha bisogno di uffici per avviare una serie di servizi pubblici rivolti ai cittadini. I locali a disposizione dell’ente non sono disponibili, per cui si decide di prendere in affitto i locali di un privato cittadino, gestore di alcune società e proprietario di immobili. Il contratto prevede che i vani ospiteranno i servizi pubblici per diversi anni, in attesa che nuovi locali pubblici potranno essere realizzati.
Una bella fortuna per il proprietario. L’ente ha scelto proprio lui, una bella fortuna insomma.
Secondo o: un giorno si presentano al Comune, all’Asl, al Consorzio, insomma all’ente pubblico qualsiasi i rappresentanti di alcune associazioni, una, due, tre associazioni, quante ce ne sono, per organizzare la sagra del paese o una iniziativa culturale. Non importa. Gente che ha voglia di fare qualcosa, vivere un’esperienza insieme, far parlare la cultura. Si va dall’ente per chiedere il patrocinio. L’ente non ha soldi per cui il suo rappresentante, il sindaco, il presidente o altro ancora invita l’associazione a recarsi presso il proprietario di immobili, con una frase mitica, da leggenda: “Mi manda Picone”. Il proprietario alla richiesta dell’associazione risponde miracolosamente “Sì, faccio lo sponsor” – e il logo di una delle società qualsiasi di sua proprietà appare in tutte le manifestazioni.
Chi ringraziare, il rappresentante dell’ente o il proprietario di immobili? Un po’ tutti, meglio.
Terzo o: la sera della manifestazione è pronto il palco per il sindaco, il presidente o altro che ringrazia, presenzia, strette di mani e campagna elettorale…
Banalità? Sì, banalità ma meglio chiamarlo clientelismo, politica distorta e tanto altro ancora. Nel bene e nell’ingenuità molti ci sono ati, ignorando.
Quarto o: i membri delle associazioni, soprattutto giovani, non capiscono all’inizio il meccanismo. Loro, nell’ingenuità della ione, vogliono una sola cosa, fare la manifestazione, bella e di richiamo. Poi qualcuno capisce e allora ci si interroga, che fare? Alcuni si fermano e non accettano, altri vanno avanti.
“Hai scoperto l’acqua calda”, si potrebbe dire. Infatti l’acqua è calda e avvolge, condiziona ed attrae. E così c’è chi si arricchisce, chi fa voti e chi fa le manifestazioni, che invece dovrebbero fare gli enti pubblici alla voce “spettacoli e cultura”.
Un tribunale, un ospedale, una discarica e la storia non va avanti
Sembra quasi uno scherzo, ma non del destino.
Con un gesto improbabile, quattro righe e nessuna spiegazione o precisione, accade che il commissario straordinario di turno, per i rifiuti, per la sanità, per la vita in generale, faccia il suo decreto e così dalla sera al mattino ti indica un luogo per la discarica, per chiudere gli ospedali o i tribunali. Quattro righe senza prima dire qualcosa ai cittadini, così all’improvviso, quasi per testare quelli che dicono Forse e quelli che dicono No.
Solo confusione in un paese sempre più confuso.
Un paese che da anni aspetta un piano rifiuti, un piano sanità, un piano sviluppo per crescere, un piano per gestire, un piano per rilanciare il meglio che ha. E le energie si sprecano per difendere. Perché i paesi non sono mai sicuri, sentono il fiato sul collo di minacce all’improvviso, di paure che arrivano ciclicamente, ripetutamente, come se i problemi non si risolvessero mai. E poi ad affrontare quei problemi sono sempre le stesse persone, sotto forma di cariche e ruoli: sindaci, politici vari, dirigenti, tecnici, professori, studiosi, presidenti, lobby. Da anni si riciclano, cambiano posti, a destra e a sinistra, ritornano e sono i primi a difendere, ad alzare la voce, a dare soluzioni. Poi ogni anno si parla della discarica, del tribunale, dell’ospedale da proteggere. Chiamano a raccolta operai e impiegati, commercianti e studenti. Sempre a difendere e difendere. Ma le soluzioni? Zero. Le proposte? Zero. Sforzi inutili. Sembra quasi che lo facciano apposta, così per dare modo a se stessi di mettersi in mostra, per fare una bella figura e tanta alta carriera. In ogni territorio un nuovo problema arriva per mobilitare gente e tavoli di concertazione, per difendere i propri giardini, l’uno contro l’altro ovviamente.
Chi sarà l’eroe che bloccherà tutto, questa volta?
L’eroe che lascerà una falsa speranza, quella secondo cui ogni cosa è stata risolta, senza poi svelare che prima o poi ce ne sarà un’altra di rivolta. E la storia non va avanti, ruota nel vortice in assenza di nuovi sentimenti popolari.
Cosa si fa per non morire…
Ai tanti politici che stanno sulla scena da oltre venti anni bisognerebbe domandare: cosa si prova a fare da anni un lavoro (meglio un servizio al pubblico) che richiede una grossa dose di inventiva e di stimoli? In che modo è possibile sopportare dinamiche che si ripetono, dichiarazioni, riunioni, speranze e progetti o ancora battaglie che si assomigliano e che spesso non trasformano nulla in nuovo, ma sono litania per non morire?
Si sa, chi aspira a far carriera politica in ogni fase affronta nuovi compiti, nuovi poteri, nuovi stimoli che si amplificano insieme con le responsabilità e con le idee delle persone che si incontrano. Ma questi esempi sono davvero rari. La maggior parte degli uomini politici fa il sindaco, (come lavoro), poi il presidente o l’amministratore di una società, di un consorzio pubblico, fino a riciclarsi in qualche altra carica nota a pochi, così per non sparire o per una indennità. Chissà se per questi rappresentanti che restano in auge venti, trenta anni non sia insoddisfacente (almeno a livello personale) decidere ancora su delibere che hanno perso il significato iniziale, in quanto prive del futuro agognato e, oggi, inevitabilmente accorciatosi?
Non sarebbe più bello, dopo aver dato il meglio di sé, lasciare? E dedicarsi ad altre importanti ioni sociali? Ovviamente, il rischio è cedere lo scettro ad amministratori giovani che sembrano ancora più vecchi o che si perdono nelle stesse dinamiche, negli stessi meccanismi dei vecchi. E sono tanti… ma nessuno è indispensabile, si sa.
Tra l’altro, seppure l’esperienza dei politici storici sia importante, il rischio, a lungo andare, diventa la perdizione. Quando si è bambini e poi adolescenti, i propositi sono innocenti ma pian piano si diventa realisti, a volte cattivi, a volte furbi e spregiudicati, oltre che ripetitivi. E in politica, che è dedizione al bene
comune, i cattivi propositi non fanno bene, soprattutto al Sud.
Fare il sindaco per dieci o quindici anni, poi lasciare per legge e quindi ritornare a fare il sindaco, non è una sconfitta più che una rivalsa? Una sconfitta per il sindaco, per la comunità, per i giovani, per il futuro? Perché restare? Per potere o sopravvivenza?
INTERMEZZO TRE – I NON comandamenti, ovvero quando è meglio dire NO
– NON ammirare un ladro o un furbo, non considerarli persone da imitare e quasi da rispettare solo perché sono arrivati al potere, quasi a credere che la rispettabilità sia concessa dal potere.
– NON ascoltare la musica napoletana a tutto volume in macchine spaziose, bombate e ridipinte. Pagarle tanto per sfrecciare il sabato e la domenica nelle strade del paese e credersi Uomini non è da uomini.
– NON dubitare di un amico assunto in una azienda o presso un Ente. Non dubitare che quella assunzione sia dipesa dal suo merito. Non chiedersi e chiedere: “Ma chi conosce?” o “ A chi lo ha chiesto?”
– NON avviare un progetto insieme ad altre persone e lentamente abbandonarlo, solo perché è lontano il modo per guadagnarci qualcosa.
– NON considerare buona e seria una azienda che paga regolarmente chi assume
con contratti a tre/sei mesi e che poi li licenzia per assumere nuove persone a tre/sei mesi.
– NON lamentarsi che tutto vada male, che è colpa dei politici che governano, degli amministratori che non sono intellettualmente capaci di fare valide proposte e, poi, giunto il giorno delle elezioni, votare quegli stessi politici, quegli stessi amministratori di 30 anni fa, semplicemente perché “me lo hanno chiesto” oppure perché “non ce ne sono altri”.
– NON rinunciare, da sindacati, amministratori, funzionari, forze dell’ordine a denunciare situazioni di lavoro nero, di paghe al ribasso, di ore di lavoro infinite senza alcun diritto, solo perché quel lavoro precario “è meglio di niente”.
– NON perdere la fiducia, il coraggio, la speranza di creare una associazione, un gruppo, un movimento politico. Non giudicare chi invece lo fa: “Ecco, quelli vogliono rubare”.
– NON sospettare di chi contesta, denuncia, si fa sentire, chiede risposte a fatti incerti. E dire “Eccolo là, vuole ottenere qualcosa”.
– NON considerare normale che l’acqua venga data ad una società, il vento ed il sole siano gestiti in maniera privata, la terra sia concessa a poco prezzo, i boschi e le aree protette siano sventrate, il petrolio sia più utile che inquinante.
– NON ricevere un curriculum da un ragazzo e mandarlo dall’assessore.
– NON vergognarsi del dialetto, della terra, dell’agricoltura, dei terroni, del Sud.
– NON considerare ridicoli le regole, il rispetto, la correttezza, le persone perdenti.
– NON dire “questo è il primo esempio nel mondo, è la prima idea, è il primo progetto “. Ma è così importante che sia il primo?
– NON ripiegarsi su se stessi per sfiducia e delusione e dimenticare il proprio paese o avere paura di partire per migliorarsi e poi perché no, ritornare.
– NON giudicare ovvio che un diritto venga negato, un monumento venga violato, una tangente venga pagata, una visita medica venga concessa dopo mesi, un ufficio non funzioni, un treno non arrivi da anni eccetera, eccetera, eccetera…
IV Scelte sbagliate o volute: al Sud e non solo
Tengo la posizione
Gli stati di emergenza e di paura, che si innescano intorno alla ciclica notizia della chiusura di importanti presidi fisici e funzionali all’interno di un territorio, sono seguiti puntualmente dalle barricate innalzate dai politici, con dichiarazioni infiammanti sul Governo o sul solito commissario di turno chiamato a “fare cassa”. È storia italiana, è storia del Sud. Il ridimensionamento di un ospedale, la chiusura di un carcere o di un tribunale o delle comunità montane, il fallimento della gestione dei Beni Culturali. Tutto questo genera paure che fanno delle aree interne o depresse territori da difendere in maniera permanente. Gli sforzi dei politici si concentrano sulle azioni di difesa e di comunicazione populista, le energie si sprecano e così la strategia costruttiva, quella propositiva diventano deboli e infruttuose.
Deboli prima di tutto per quei luoghi che vengono difesi.
Se la qualità gestionale di quegli ospedali, tribunali, Beni Culturali fosse di elevato livello, difficilmente verrebbe presa di mira. Nessuno potrebbe farlo agli occhi dell’opinione pubblica. Ma le risorse umane impiegate, i servizi forniti spesso scarseggiano in qualità, in quanto abitualmente legate a logiche di consenso, con conseguente sperpero di danaro sproporzionato e imparagonabile alla gestione di altre strutture.
La politica propositiva dei territori di periferia o interni è debole nei progetti di sviluppo. Tutti imitano tutti e ogni Comune crea una sua inutile area industriale o commerciale, centri ambientali vuoti, protocolli inconcludenti, parchi eolici sulle colline, isole ecologiche poco capienti. E le idee strategiche vincenti sono spesso quelle del ato che vengono ogni tanto rispolverate. Così agricoltura, artigianato, creatività, centri storici, ambiente, le menti e gli intelletti capaci si disperdono e, con loro, la forza del Sud. Mancano i soldi si dice. Basterebbe forse prendere il buono che c’è, spingerlo con le poche risorse disponibili e
puntare a piccoli e sensati progetti. Fare in modo che il giovane che decide miracolosamente di restare, dopo aver studiato o acquisito conoscenze di ogni tipo, non sia sottoposto al tran tran dei favori e del sostentamento temporaneo per grazia ricevuta; ma possa semplicemente prendere una posizione e portarla avanti con la responsabilità che gli è dovuta, senza troppa assistenza ma con fiducia e rispetto.
Ridateci la Certosa, grazie, è nostra la Certosa
Sassi bianchi accecati dal sole o illuminati dalla pioggia.
Celle dai segreti ambigui, spezie miste a medicina e libri proibiti da una scala elicoidale.
La Certosa al centro dell’Universo, forza trainante dello sviluppo di un territorio, almeno nell’intento di un tempo.
Tanti gli sforzi, tanto il danaro profuso, tanti i progetti per avvicinarla alle comunità circostanti, affinché potessero percepirla come una parte di sé.
Tentativi dal basso falliti, questa Certosa qui, questo Castello qua, questo Museo là, restano corpo smembrato nei nostri territori, parte di quel Bello di cui non saper che fare. Tentativi falliti perché sbattuti contro un muro, quello della Soprintendenza spesso, di una gestione in molti luoghi malata, vecchia, che conserva. Conserva un bello che lentamente decade, un’idea di storia che nessuno più intende, le viscere di impiegati sindacalizzati, una stasi affamata che si nutre di soldi spesi male, provenienti dall’alto, milioni di euro di eventi improbabili.
La Certosa, un Bene Culturale qualsiasi, il Bello, la Storia di cui l’Italia è ricca si allontanano dalla gente, dalle comunità circostanti, i bambini li guardano e non capiscono, poi qualcuno prova ad attivare idee, dal basso, idee libere in comunità libere ma i conservatori non capiscono, barricati dietro un portone, in sale inaccessibili ed inutilizzate. E gli spazi da visitare sono sempre meno, le guide
turistiche mai ufficiali, i servizi interni inesistenti, la promozione all’esterno non pervenuta e le strategie di marketing ruotano su se stesse. I biglietti d’ingresso diminuiscono oppure sono svenduti e la cultura non vale un panino.
E così i Beni Culturali continuano ad essere astronavi atterrate per caso in un luogo. Senza storia né progresso. Il popolo sa e le ignora. Eppure quel Bene è della gente, un bene pubblico da conservare ma da vivere e proporre. Ridateci la Certosa, grazie, è nostra la Certosa. E se non ce la ridate, sarà il caso di riprendercela!
Rinnovabili, certo, ma se le facciamo NOI
[“ Alla fine ho capito cosa vuole un sindaco. Non vuole un pensiero complesso, e non ama l’ambizione oltre un certo limite. In alcuni il limite è al livello delle loro scarpe, perché sono inetti ” –Parla l’ex sindaco di Falerna in Calabria, Daniele Minniti, intervistato da Antonello Caporale in Controvento ].
Prendiamo l’esempio delle energie rinnovabili.
Ci sono società piccole, SRL nate appositamente per proporre la realizzazione di pale eoliche, di centrali a biomasse, di centrali fotovoltaiche. Guadagni sicuri per i sindaci che prelevano una percentuale minima sulla energia che questi impianti produrranno. Accade in molti paesi del Sud. Una società SRL propone l’installazione di 20 pale da 2 MW l’uno per 40 MW complessivi. Per produrre energia dal vento o dal sole o dalle biomasse, lo Stato concede ai produttori un contributo dalla bolletta Enel, i cosiddetti certificati verdi. Circa 90 euro per MWh che si aggiungono al prezzo di vendita dell’energia prodotta, altri 90 euro per MWh. Complessivamente fanno 180 euro per MWh. Un solo MW di potenza installata, se producesse 2000 ore annue, garantirebbe 2000 MWh di energia pari a 360 mila euro di fatturato annuo.
Per l’impianto di una SRL qualsiasi, pari a 40MW, ragionando a cifre tonde e per difetto, il fatturato annuo complessivo sarebbe di 14 milioni di euro. Per questi impianti i primi 5 anni sono necessari a pareggiare le spese, per gli altri 15 anni (la vita delle pale si aggira sui 20) si guadagna. E a guadagnare sono le società. I Comuni accettano di ricevere in cambio non più del 2% del fatturato, non oltre 200 o 300 mila euro all’anno. Senza contare i danni al paesaggio.
Ma tutto questo conviene? E se fossero i Comuni a ideare il progetto, a riunirsi in un Consorzio di Comuni e gestire l’impianto insieme a una società specializzata, incamerando così nelle proprie casse almeno il 50%? Qualche esempio esiste, ma è ancora poco.
Il Sud è stata e resta terra di colonizzazione: per la grande distribuzione, per il commercio, per i beni necessari. Il Sud, di beni, ne ha tanti eppure, chissà perché, i prodotti consumati arrivano da altre terre, lontane, dal Nord, dall’Europa. E oggi è terra di colonizzazione per quel che c’è di nuovo, per le energie rinnovabili, le fonti naturali di cui gode, per il vento, il mare, il sole. Svenduti a poco prezzo, per un giorno di vita e altri mille di morte.
Petrolio? Ma una idea ce l’avete? Perché altrimenti…
Prendete un territorio in cui gran parte dell’economia si fonda sul settore pubblico, sull’edilizia, sui servizi e sul commercio, su poche aziende produttrici e sull’impoverimento dell’agricoltura e dell’artigianato (considerate da sempre attività di serie B).
Prendete un territorio in cui, quando si stava meglio, i piani abbozzati per lo sviluppo fallivano a causa di politiche assistenzialiste, leggerezza, tanti vabbuò e dopodopo, a causa di pensieri corti (insomma). Amministratori e cittadini, nessuno escluso, tutti hanno creduto nel miraggio industriale prima, in quello dell’edilizia poi, in quello pubblico e sanitario dopo e, per ultimo, in quello del turismo, abbandonato a se stesso non appena i soldi europei sono svaniti.
Prendete lo stesso territorio e immergetelo nella crisi globale che da cinque anni sta impoverendo masse di genti, sta decimando il valore del lavoro e mettendo in fuga le speranze dei giovani. Fate la somma e ottenete la disperazione di un territorio arido in cui, a questo punto, ogni idea, la prima che arrivi dall’esterno e che prometta soldi, potrà essere considerata la migliore, quella risolutrice.
E oggi quell’idea potrebbe essere il petrolio.
In molti territori la promessa della risorsa che tutto risolve sembra diffondersi come un ideale. Gli amministratori si convincono che, con le royalty giuste, il petrolio porterà ricchezza e un po’ di pausa a questa crisi sfiancante. La paura di non poter dare più risposte ai cittadini rischia di causare danni peggiori.
In tempi di crisi la paura fa brutti scherzi, soprattutto quando un’idea di sviluppo non c’è. La confusione è generale. Negli amministratori e nella maggior parte dei cittadini, la confusione del sogno istantaneo e del desiderio appagato può generare mostri. Anche in chi, di ione e bontà, ne mette tanta.
Eppure è semplice. La nostra storia non è il petrolio, perché semplicemente non appartiene alla nostra terra. Fra trent’anni il petrolio finirà e quando accadrà, cosa sarà?
Quindi cari amministratori e tanti cari cittadini, al petrolio non pensateci, alle illusioni e ai dubbi non date retta. Piuttosto qual è la forma di sviluppo e crescita che immaginate, una per favore, compatta, chiara, forse complicata, difficile da raggiungere in poco tempo, ma una ditela. Ce l’avete in testa? L’avete mai generata, tutti insieme, in questi anni? Perché se non lo avete fatto, i furbi che stanno arrivando, zolla dopo zolla, questa terra la prendono e se la vendono. Perché se questa idea di sviluppo non c’è nella vostra testa, è giusto che la lasciate costruire a chi la sta già immaginando.
INTERMEZZO QUARTO: Polla, un paese, ogni paese.
Polla, terra di mezzo e di alberghi, si dice, si è sempre detto, senza una comunità, mai orgogliosa della comunità. Polla, terra di gruppi separati, di cricche legittimate dall’invidia e dalla critica felice.
Polla, terra di giovani che prima o poi vanno e chissà quando tornano, Polla, terra dell’ospedale acclamato, criticato, una volta salvezza dei disoccupati, oggi baluardo di infruttuose lotte elettorali, Polla, terra di commercianti e di professionisti sul gradino, di carcare e laboratori svaniti, di sguardi sospettosi e struscio narcisista.
Polla, senza stimoli, direttori che si ripetono, politici che si ripetono, giovani che non si uniscono, altri napoletanizzati da musica spazzatura e guappi con auto di lusso per il weekend. Polla invasa dalla rabbia, da entusiasmi bloccati, trattenuti, decaduti. Polla, musei sconosciuti, Polla, i bar di sinistra, quelli borghesi e i popolari, Polla, professionisti che hanno detto sì, pochi che hanno detto no.
Polla, terra che trema. Polla, la mia terra. Polla, la famiglia, gli amici, le chiacchiere. E le battaglie culturali. Gli sbagli fatti. Polla, le associazioni sulla carta, le associazioni di pochi, Polla, l’Eternauta, le associazioni ormai inesistenti. Polla, il ponte e le eggiate, i ragazzi sulle panchine, le coppie d’angolo, la rimembranza. Polla, il cinema, il teatro.
Polla, di scale, di archi e fiumi, Polla, un centro storico da scoprire, una piazza da rivivere, ancora bella, ancora pregnante. Polla, un santo e una processione, un Santo e il Convento. Polla, i panini benedetti, i ragazzi del gruppo, il folklore, oggi di nuovo i bimbi che imparano a ballare.
Polla, i campi e le fontane da raggiungere in bici, sotto il sole di un’estate mai rovente. Polla in autunno, castagne e mosto, salami, migliaccio e uva da stipare. E terre da cibare e cibarsi ancora oggi, ancora. Polla di anziani in piazza, Polla, lì guardi ancora le stelle, Polla di aziende che ci credono o ci provano, altre che ci provano e ci fanno, Polla di artigiani che servirebbero, terra di aggio, di incroci e scambi da intercettare, Polla ce la può fare. Polla chissà se ce la fa.
Polla commissariata, con gente che urla e poi di nuovo sparisce, di discariche e rifiuti che adesso basta. Polla di tumori che sono troppi, di attese lunghe o di lavori chiesti in coda, di lamenti inutili e rabbia e lamenti ancora sfiduciati. Polla senza fiducia, Polla gira e rigira.
Polla, paese, ogni paese, Polla di giovani che vogliono ma non sanno, di giovani che adesso devono perché è il momento, ché da fare ce n’è tanto, Polla e dai, ognuno per la sua parte, ognuno per quello che sa fare.
Nessun escluso, per escludere i già noti.
È tempo per non pensarci, è tempo di coraggio, al costo di restare soli, è tempo di esserci, non di vincere per forza ma di guardare oltre e per tutti, per noi, è tempo di scuotere dritto e dritto e dritto.
V Un futuro in prospettiva
“Meglio una soppressata come Cristo comanda!”
“Finita l’Università (anzi ancora prima), ho capito subito che lavorare in attesa del weekend non faceva per me. O, per dirla con un rapper, ‘strisciare badge, vestito beige, non fa per me’. Io ora penso costantemente alle cose che devo fare, in qualsiasi momento della giornata e in qualsiasi giorno della settimana e anche se a volte mi pesa, non mi stanca mai”.
A parlare con le parole da rapper, muovendosi tra il milanese siciliano Marracash che rifiuta la vita da impiegato e l’ottimista Jovanotti che non si stanca mai perché pensa positivo, è Antonio Bianculli di Montesano sulla Marcellana, Salerno.
La sua storia? Una come tante, sempre più. Un ragazzo che dopo gli studi al Nord decide di tornare in paese al Sud e collaborare con l’azienda del padre, insieme al fratello, per allevare maiali e, udite udite, fare salumi.
Poteva consolidare il suo essere bocconiano, tanto di moda oggi, ma alle carte della finanza milanese ha preferito qualcosa di più vivo, un progetto. “Oltre alla ione c’è la possibilità di mettere le mie esperienze e le mie competenze a disposizione di un progetto. Che è mio e non di qualche anonimo datore di lavoro. Questo è per me come benzina…”.
E la benzina scorre come musica a ritmi diversi da quelli dei giorni nostri, frenetici, meccanici. Una musica piena ma cadenzata. “L’aspetto affettivo legato alla mia famiglia e alla mia idea pesa tanto quanto quello economico. Ma sinceramente cerco di andarci piano, perché l’affetto può darti tante motivazioni ma anche indurti in grandi errori”.
E il ritmo nasce per caso o meglio a tappe. “Io e mio fratello adesso gestiamo l’azienda agricola e l’allevamento, creati da mio padre e mio nonno circa 30 anni fa, ma per farlo ci siamo quasi incrociati per caso nelle attuali attività. Io non farei mai l’allevatore oggi, per una questione di sostenibilità economica. In questo momento allevare non rende più come dieci o quindici anni fa. Per cui abbiamo ripreso una vecchia idea di mio padre e deciso di ‘chiudere la filiera’ con i prodotti della tradizione. Che è quello che apiona me!”.
Tutto sta ancora accadendo. Giù al Sud come Cristo comanda. “A me piacciono i salami. E a casa nostra abbiamo fatto sempre i salami più buoni! Muoio dalla voglia di far provare ad altre persone il piacere di mangiare una soppressata fatta come Cristo comanda!”.
Che poi la vita una è!
Il rischio è quello di perdere l’occasione di scegliere la propria vita, di fare la propria vita e, si sa, la vita una è.
Certo non sempre va bene, la scelta può risultare sbagliata ma se hai perso l’occasione di iniziare e di provare, alla fine perdi la vita.
Da piccoli e ancora oggi ci insegnano che conta la laurea per fare carriera, poi scopri che non è così. Da piccoli e ancora oggi ci insegnano che se lavori bene e tanto, se fai sacrifici e li accetti tutti, anche quello di mettere da parte la dignità, sarai premiato.
Tutto il sacrificio ti servirà da esperienza, curriculum, ossatura, ma poi scopri che così non è. E il tempo a e l’occasione di fare la storia, di fare la tua vita svanisce.
Chissà cosa accadrebbe se cominciassimo a fare scelte per prenderci la vita, senza aspettare le tappe obbligate? A non rispettare nessuno che non rispetta, a cacciare via chi fa la guerra agli altri, a dare a quelle mani che lavorano il giusto ringraziamento, a tirare dritto davanti alla mediocrità e a prendere i posti che ci spettano?
Paolo, questa scelta, l’ha fatta qui a Sud. “L’azienda è di mio padre, quaranta ettari coltivati a legumi, ortaggi, piante aromatiche, cereali e foraggi. L’azienda vende al dettaglio, ai grossisti, ai mercati generali, alle industrie in modo tale da avere un’ampia possibilità di scelta. Non è possibile che in altre zone si vive con
le attività agricole e noi con le stesse potenzialità stiamo a lamentarci. Ho continuato a studiare agraria per essere preparato nel mio lavoro, non certo per avere una laurea come attestato. Non è sempre bello, non sono sempre rose e fiori. Questa attività è come il gioco delle carte, bisogna impegnarsi, avere fortuna e mettere in conto che si può perdere. Ma la vita una è!”.
Sradicarmi? La TERRA mi tiene
“Camminare con l’asino fuori e dentro di noi. Un asino dai i uguali compagno del tuo ritorno, scandisce la distanza verso il morire del giorno”. A cantare è Fabrizio De André da La buona novella. A ricordarlo è Ivan Di Palma di Atena Lucana (Salerno) che degli asini ne ha fatto una ragione di vita. Non solo maiali come quelli di Antonio, ma asini e tanta terra, quella terra che tiene e richiama.
“Il legame con la mia terra – dice Ivan – è stato sempre fortissimo ma in quel periodo a renderlo pressante furono una serie di circostanze e una vita dignitosa da realizzare. D’altronde cos’è la dignità se non l’equilibrio tra il dentro e il fuori?”.
Il periodo risale a quando Ivan, dopo una laurea di 600 pagine Congiuntura antropologica del 1928, dopo il peregrinare di azienda in azienda, di casa editrice in casa editrice alla scoperta del miglior colloquio, piuttosto che del miglior lavoro, dopo due anni tra organizzazione di convegni, presentazioni di libri, attività di ogni sorta per un suo ex professore in attesa di un assegno di ricerca, (sempre troppo lontano), decide di tornare in territorio, ad Atena Lucana per “riradicarmi nella mia terra d’origine”.
Il percorso non è semplice ma continua con altre piccole e significative esperienze. Come quella di magazziniere con contratti a tre o a sei mesi pagati regolarmente e la mancata firma del successivo contratto indeterminato. Una casualità questa che potrebbe considerarsi anche fortunata.
“Inizio così a riprendere in mano le terre dei miei nonni contadini: in una le
olive, in un’altra l’orto, utilizzo le vecchie semenze, i vunculi, i ceci neri cosiddetti lucani, le cicerchie. Nell’altra ancora il grano cappella e nel giro di pochi mesi divento un apprendista contadino. Per diletto prendo il primo cavallo e poi di seguito un asino, poi l’altro e poi l’altro ancora e poi capre, galline, anatre… animale dopo animale ed esperienza di raccolto dopo esperienza di raccolto, ecco che nasce la fattoria Asineria EquinOtium”.
Solo il primo tassello di un progetto ben più vasto, di un’azienda agricola multifunzionale che prevede una struttura ricettiva e un allevamento in corso di avviamento di asine da latte. “Però, strizzando un occhio ad Antonio – spiega Ivan – mi verrebbe da dire che gli animali non fanno bene solo al corpo (!) ma fanno bene anche all’anima”.
[“Sradicarmi? la terra mi tiene e la tempesta se viene mi trova pronto. Indietro ch’è tardi ritorno a quelle strade rotte in trivi oscuri” –Rocco Scotellaro, 1942].
Lo sfogo dei desideri, la morte del rancore
Il segreto è il territorio, produrre in territorio, comprare nel territorio, desiderare nel territorio con le peculiarità e le caratteristiche del territorio. Il segreto è cambiare il senso dei desideri. La casa Ikea è in città, i prodotti discount sono in città, le vetrine, i centri commerciali restano in città. I paesi sono altro e come tali vanno presi e rispettati.
A chi non va bene, libera la scelta. Basta non pretendere in paese, quello che è nella città. Non ci sta, non c’è. È come desiderare di avere l’acqua in un deserto e l’infelicità sarà per sempre. Il rancore, insopportabile.
Il segreto è il territorio, il segreto sono i paesi, i luoghi dove poter sperimentare desideri diversi, economie diverse, decrescite felici e cambiamenti in prospettiva. Attesa e prospettiva, perché ci vogliono tempo, pazienza e fiducia. Le esigenze del lavoro, gli spasmi della sopravvivenza costringono i giovani e i non giovani a fare i conti con il presente, ad abbandonare il futuro, la prospettiva e soprattutto la fiducia. Il rancore è ovunque. Eppure il segreto è lasciare il rancore.
Pianificare, costruire, sperimentare sulle proprie forze, sulle proprie idee. Magari insieme a uno, due, ad un gruppo, ad amici, finalmente fiduciosi. I capitali sono fuori, possiamo attrarli oppure possiamo incontrarli, ma accanto, possiamo sviluppare una vita diversa che non ha bisogno di capitali e di rendite.
Il segreto è il territorio in cui supermercati a chilometri zero offriranno cibi mangiati quando nascono, ora e non sempre, prodotti portati dalle terre e da paesi vicini, non barattati in Borse alimentari o contrattati da megaziende, da
mafia, da Nazioni. Filiera corta, cooperative di produttori e trasporti per gruppi di famiglie. L’esperimento riesce ed è già provato. Costa di più? Certo. Ma i soldi restano qui, in paese, non vanno via.
Centri storici da rivivere e riabitare e, attenzione, non a fini turistici. Piuttosto per riassaporare la pietra da cui veniamo. Per apprezzare il bello e liberarci dell’astio che ci ha preso e che seminiamo ovunque. Centri storici da popolare per non fare più case inutili di cemento, destinate a restare vuote, illusione di progresso e lavoro, e mangiaterra, quella terra che resta ancora l’unica via di salvezza in una crisi di ideali. Centri storici da offrire ai giovani a 100 euro al mese. Oppure da ristrutturare grazie agli emigranti, quelli che i capitali li hanno ancora fuori e sarebbero orgogliosi di riportali nella loro terra.
E prodotti artigianali, non solo tipici o antichi, ma di qualità e di vita quotidiana, innovativi e sani. Da vendere in loco. Prodotti realizzati da giovani formati in scuole di formazione permanenti, con insegnantiartigiani in pensione, da riconoscere in un Albo Unico di Maestri Artigiani. Il tutto, se possibile, prima che scompaiano.
Il segreto è il diverso, un desiderio diverso, una cultura diversa, un segno che cambi da rancore a fiducia e i esperimenti, piccoli esperimenti, concreti. La pianificazione, la programmazione per ora non hanno vinto, troppo labili le menti che dovrebbero gestirle, confusa, a volte colma di ignoranza, la politica che le accompagna.
EPILOGO
Il bello che ancora c’è!
Vivere in un luogo dove tutto funziona, dove il lavoro è quasi sempre dato e trovato, pagato e ringraziato, dove il sabato e la domenica sono due spazi da riempire da single o in coppia, per sperimentare la libertà. Vivere in un luogo dove i servizi pubblici e sociali servono le esigenze, nei tempi previsti, nei modi gentili, formali ma sinceri. Vivere in un luogo dove esistono piscine ogni dieci mila abitanti, cinema, parchi giochi, dove oltre ai multisala da consumo esistono altri tipi di cinema, numerosi teatri sperimentali, spazi di espressione.
Vivere in un luogo dove esistono università e la ricerca è al primo posto, dove tempi e spazi esistono per confrontarsi, aziende e istituzioni accolgono le forze e il cervello dei giovani. Vivere e pensare luoghi così è sempre un atto di invidia al Sud, una speranza già vana prima del desiderio, un ammirare che strozza ogni anelito di miglioramento. Chissà perché il luogo perfetto il più delle volte non è, non può essere a Sud. Quesito da questione meridionale. Familismo amorale, qui è la terra in cui a un giovane si chiede a chi appartieni, mica cosa sai fare. Le ragioni sono tante. Meridionalisti, e non, ne hanno elencato parecchie, da 150 anni e più siamo a rincorrere la nostra dignità, nello sforzo di perdere la vergogna subìta e portata ma anche l’orgoglio ed il sospetto indotti.
Eppure i comportamenti si ripetono, non s’intravede la via d’uscita. L’esigenza attanaglia e gli sbagli continuano. I giovani non hanno lavoro e non possono occuparsi della coerenza, né del cambiamento. Le code nelle segreterie dei politici perdurano, l’appartenenza ancora la fa da padrona per arrivare prima degli altri, per sperare in una facile certezza di vita o in un progetto a scadenza, le scorciatoie sono ancora preferite per ottenere qualcosa che non darà molto, di
certo non darà quel luogo dove tutto funziona, che sta altrove ma non qui.
E i pochi che provano a svoltare sono circondati dall’abitudine di questo modo di fare e rischiano di essere esclusi dalla vita quotidiana, di indebolirsi fino ad arrendersi per non morire o a scappar via per non accettare.
Ma il Sud ha una responsabilità, quella di riscoprirsi, di non sentirsi inferiore e ritrovare la fiducia, la propria Storia, il proprio orgoglio positivo, la dignità. Ricominciare dal Sud e dai terroni è il compito del Sud e dei terroni, con lealtà, onestà e rispetto. Quel rispetto, quella correttezza che abbiamo perso quando il sospetto si è impadronito della nostra anima.
La responsabilità è di far bene il proprio lavoro, di puntare alla qualità, di girarsi e dare le spalle alla mediocrità. Di curare il saper fare, di rivedersi. Un cambiamento dal basso. Ma anche dall’alto. Negli anni siamo stati abituati a credere che la politica potesse risolvere solo questioni personali ma mai generali, smentendo la vocazione per cui essa è nata. Eppure non è così, la politica ha la responsabilità del bene comune e come tale è parte determinante del nostro vivere.
Ognuno faccia la sua parte. Ognuno impieghi nel proprio agire tutta la qualità che ha, abbandonando l’idea che quella sua qualità non sarà riconosciuta o premiata o, ancor peggio, non servirà a sé, né agli altri. Al Sud per essere di nuovo felici c’è bisogno di arricchirsi gli occhi, di fare entrare il bello che c’è. Che ancora c’è! E rigenerarlo con la dignità e i sacrifici. E credere, infine, in un futuro migliore, in un futuro che noi forse vedremo ancora in obliquo per molto tempo, ma che, come un quadro storto, spinto da un vento silenzioso, invisibile ma intenso, lentamente si raddrizza, così, quel futuro, apparirà meravigliosamente dritto agli occhi di chi arriverà.
[“Del resto, se non puoi cambiare il tuo paese, non è più il tuo paese” –Giulio Rubino, emigrante, tornato].
Appunti sul Meridione