Pubblicazione a cura di Gaia Colombo con i contributi di Stefano Alacqua, Milivoje Ametovic, Mihai Mircea Butcovan, Sliman Faress, Sara Gatteschi, Qaisera Gulnaz, Aleksander Hysa, Nicola Maranesi, Chiara Martina, Paolo Martinino, Rachele Venturin
© Regione Toscana
febbraio 2015
ISBN 978-88-6797-318-7
Copertina: Lorenzo Puliti
Sviluppo ePub: Elisa Baglioni
Presentazione
Raccontarsi è conoscersi. Storie, emozioni e didattica per una società multiculturale nasce come prodotto conclusivo del progetto Di.M.Mi – Diari Multimediali Migranti, finanziato dalla Regione Toscana, che ha portato alla costituzione di un fondo speciale di diari migranti presso l’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano.
Alla realizzazione delle attività progettuali, che hanno coinvolto i cittadini stranieri residenti in Toscana e le scuole del territorio, ha contribuito un ampio partenariato costituito da associazioni, ong ed enti locali attivi per l’inserimento sociale e culturale dei migranti.
Le pagine che seguono affrontano diversi aspetti del lavoro condotto con l’intento di offrire strumenti didattici e spunti di riflessione a quanti vogliano approfondire queste tematiche.
Introduzione
“Raccontarsi è conoscersi. Storie, emozioni e didattica per una società multiculturale” nasce come prodotto conclusivo del progetto Di.M.Mi – Diari Multimediali Migranti finanziato dalla Regione Toscana per il biennio 2013-2015 all’interno del Piano integrato delle attività internazionali, realizzato in ottemperanza alla legge regionale 26 del 2009.
La scelta di realizzare un ebook al posto di una pubblicazione classica nasce dalla volontà di offrire uno strumento interattivo che possa raggiungere più persone possibili ed adattarsi alle diverse esigenze dei fruitori. Sicuramente i testi e i materiali qui presentati non possono dirsi esaustivi del lavoro biennale condotto dalla rete dei partner che ha realizzato il progetto, ma si propongono di gettare uno sguardo d’insieme sulle attività svolte.
Le pagine che seguono sono suddivise in varie sezioni che affrontano aspetti diversi del lavoro di questi due anni. Dopo una prima parte dedicata all’inquadramento dell’origine, dello sviluppo del progetto e del contesto di riferimento, la sezione introduttiva contiene delle riflessioni sul tema della costruzione di memorie migranti e sul ruolo dell’autobiografia, ad opera di Mihai Mircea Butcovan, scrittore ed educatore, e di Nicola Maranesi della Fondazione Archivio diaristico nazionale.
Nella sezione didattica i contributi di Stefano Alacqua di Oxfam Italia Intercultura, Paolo Martinino dell’Unione dei Tre Colli – Cooperativa sociale
Betadue, Gaia Colombo di Fratelli dell’Uomo e di Rachele Venturin di Tessere Culture onlus relazionano sull’andamento delle attività laboratoriali realizzate con i cittadini migranti, gli insegnanti e gli studenti all’interno del progetto Di.M.Mi. L’intento perseguito è stato quello di presentare non tanto dei resoconti di quanto realizzato ma piuttosto delle piste di lavoro in grado di fornire stimoli, spunti e materiali didattici a quanti volessero cimentarsi in attività simili. A questo scopo, oltre a link multimediali, sono state proposte anche una bibliografia ed una filmografia ragionate, costruite sulla base del lavoro condotto sul campo.
La terza sezione è il fulcro intorno a cui ruota l’intero ebook. Contiene, infatti, i diari migranti risultati vincitori del concorso regionale per la raccolta e la diffusione di testimonianze autobiografiche dei cittadini stranieri, indetto all’interno del progetto Di.M.Mi. I diari vincitori sono suddivisi in base alle categorie di partecipazione: giovani fino ai 18 anni, donne e uomini. Val la pena citare gli autori ed i titoli dei testi, che impreziosiscono questa pubblicazione con il dono delle emozioni private e personali che hanno accompagnato le molteplici esperienze di migrazione presentate:
– Aleksander Hysa, “I miei 17 anni” (per la categoria giovani);
– Qaisera Gulnaz, “Io straniera… uno sguardo al ato” (per la categoria donne);
– Sliman Faress, “A me i problemi arrivano solo quando dormo” (per la categoria uomini – ex aequo);
– Milivoje Ametovic, “La valigia” (per la categoria uomini – ex aequo).
Nella parte conclusiva, infine, è presentato il video della premiazione del concorso per la raccolta dei diari migranti che si è svolta il 19 settembre 2014 a Pieve Santo Stefano (Arezzo) in occasione della trentesima edizione del Premio Pieve dedicato dalla Fondazione Archivio diaristico nazionale alla memoria del suo fondatore, Saverio Tutino. Il video permette di assaporare l’atmosfera di quella giornata, attraverso la voce diretta dei finalisti, degli attori che si sono occupati della mise en voix dei testi e dei gruppi di lettori che sui territori hanno lavorato alla selezione dei diari.
Il progetto
La nascita del progetto Di.M.Mi – Diari Multimediali Migranti risale all’estate del 2012. È in quei mesi che un ampio partenariato costituito da associazioni, ong ed enti locali, che operano a vario titolo nelle tre province toscane di Arezzo, Firenze, Pisa sulle tematiche dell’inclusione sociale e culturale degli stranieri, ha iniziato a lavorare in maniera coordinata per strutturare la proposta progettuale da presentare alla Regione Toscana relativa all’avviso pubblico per progetti strutturanti finalizzati a promuovere la partecipazione e la sensibilizzazione della società toscana sui temi della pace, della memoria e del dialogo tra le diverse culture.
Il progetto, che ha avuto il sostegno della Regione, nel corso di due anni di lavoro, si è proposto, a livello generale di aumentare il dialogo interculturale e la conoscenza reciproca tra cittadini di differenti provenienze e, a livello specifico, di creare un fondo speciale di raccolta di diari migranti.
La struttura progettuale è stata articolata in una serie di interventi di carattere informativo e formativo che hanno coinvolto da una parte giovani e docenti delle scuole secondarie inferiori e superiori e dall’altra hanno interessato la popolazione straniera sia come singoli cittadini che come associazioni. Oltre a laboratori nelle scuole sono, infatti, stati previsti corsi di formazione per adulti
sul tema dell’autobiografia, percorsi didattici teatrali e performance. Tutte le attività hanno avuto come cardine il racconto di sé come strumento di conoscenza reciproca e di costruzione della memoria collettiva.
Gli interventi proposti sono stati pensati da una parte secondo una logica d’integrazione e complementarità al fine di garantire unitarietà ed uniformità delle azioni e delle metodologie d’intervento sui tre territori coinvolti. Le attività implementate si sono poste inoltre l’obiettivo di rispondere anche ai bisogni specifici delle singole realtà territoriali in un’ottica di valorizzazione delle competenze e delle risorse locali.
L’idea di costituire un fondo di raccolta di diari migranti non è stata semplice da realizzare, è stata una scommessa in cui tutto il partenariato si è impegnato attivamente. Per far comprendere come le storie private, sofferte dei migranti che hanno scelto la Toscana come terra in cui risiedere e far crescere i propri figli, possano alimentare e diventare parte integrante della costruzione di una memoria collettiva che appartenga a tutti i cittadini, ci siamo serviti dell’esperienza dell’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano che da anni lavora per valorizzare le storie e gli scritti della gente comune, che normalmente non avrebbe voce, nella consapevolezza che in essi vi si rifletta la vita di tutti noi e la storia del nostro paese.
Lavorando sul campo, nel corso dei laboratori organizzati a scuola per alunni e docenti e dei percorsi autobiografici destinati ai migranti, oltre che nell’attività di diffusione delle attività del progetto, ci siamo resi conto di quanto sia complesso ed articolato il processo di rielaborazione dei vissuti personali. La scelta di rendere pubblico un proprio percorso interno, di condividere con gli altri i propri intimi ricordi è un regalo dal valore inestimabile, che si rivela tanto più prezioso nel caso di coloro che nell’affrontare il processo migratorio hanno dovuto rimettere in discussione la propria identità per ricominciare una vita nuova altrove.
I veri protagonisti del progetto sono dunque stati tutti i cittadini di origine straniera che vivono in Toscana ed hanno deciso di scrivere o raccontare attraverso video ed altri strumenti la propria storia, l’arrivo in Italia e l’interazione con il territorio, la popolazione, la cultura. Solo grazie alla loro disponibilità ed alle loro testimonianze, è stato possibile creare il fondo speciale di diari migranti presso l’Archivio diaristico nazionale, che resta a disposizione di chiunque voglia approfondire e conoscere più da vicino le gioie e i dolori del migrare lontano dal proprio paese d’origine. Considerando che in trent’anni di attività l’Archivio diaristico nazionale ha raccolto su tutto il territorio italiano all’incirca 7.000 diari, si comprende come i quasi quaranta diari raccolti tra la sola popolazione migrante della Toscana nel primo anno di apertura del concorso rappresentino uno dei risultati più significativi del progetto, da cui partire affinché l’inclusione e l’accoglienza non siano più percepite come un problema, ma come una pratica quotidiana di convivenza e condivisione.
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I numeri del progetto in sintesi
– 24 mesi di attività
– 3 province coinvolte: Arezzo, Firenze e Pisa
– 24 comuni coinvolti: Comuni di Arezzo, Londa, Pelago, Pontassieve, Reggello, Rignano sull’Arno, Rufina, San Godenzo, Comuni dell’Unione Valdera e Comuni dell’Unione dei Tre Colli
– 9 partner attivi: Unione dei Comuni dei Tre Colli, Unione dei Comuni Valdarno e Valdisieve, Unione dei Comuni della Valdera, Oxfam Italia Intercultura, Fratelli dell’Uomo Onlus, Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, Teatro di Rifredi, Centro Interculturale del Comune di Pontassieve, associazione Senegal Solidarietà
– 29 percorsi formativi nelle scuole sui temi della memoria, dell’autobiografia e dell’intercultura
– 3 laboratori di formazione per insegnanti
– 4 percorsi formativi autobiografici rivolti ai cittadini ed alle cittadine straniere
– 2 laboratori teatrali per le scuole
– 12 eventi pubblici di diffusione ed informazione sulle attività del progetto, realizzati sui territori coinvolti
– 15 video realizzati ed utilizzati come materiale di diffusione e di o didattico per le attività territoriali
– 1 rubrica on line pubblicata sul sito di informazione www.gonews.it
– 1 concorso per la ricerca di diari migranti promosso in tutta la regione
– 3 gruppi di lettori costituiti e formati per la selezione dei diari finalisti del concorso
– 37 diari migranti raccolti
– 3 luoghi individuati sui territori per la raccolta e la conservazione dei diari
– 1 fondo di raccolta di diari migranti costituito presso l’Archivio diaristico di Pieve Santo Stefano
– 1 premiazione conclusiva del concorso di raccolta di diari migranti con mise
en voix dei testi finalisti
Il contesto di riferimento
Le attività del progetto Di.M.Mi sono state strutturate sulla base della consapevolezza che in Toscana il fenomeno migratorio ormai da tempo ha assunto quei caratteri di stabilità che guidano il aggio da migrazione per lavoro a migrazione per popolamento.
I dati regionali presentati dall’ultimo rapporto statistico sulle migrazioni in Italia (Idos, 2014[1]) mostrano, infatti, come la crescita della popolazione straniera iscritta all’anagrafe, che nel corso del 2013 è aumentata del 12,2%, sia solo in parte connessa al bisogno di manodopera sul mercato del lavoro locale. L’immigrazione è sempre più una componente strutturale della popolazione toscana, come dimostrano i dati sull’aumento dei ricongiungimenti famigliari e dei nuovi nati di origine straniera. Vi è inoltre una sempre più diffusa presenza di studenti di cittadinanza non italiana negli istituti scolastici toscani, in cui si è svolta una parte importante delle attività progettuali.
Secondo i dati presentati dal Ministero dell’istruzione, nell’anno scolastico 2013/2014 la Toscana si colloca al sesto posto della classifica nazionale delle regioni per presenza di alunni stranieri. A livello regionale, superano infatti le 64mila unità, per un’incidenza del 12,7% sul totale.
I comuni di Firenze, Arezzo e Pisa, capoluoghi di Provincia dei territori su cui si sono concentrate le attività scolastiche del progetto Di.M.Mi, si attestano ai primi posti della classifica dei comuni toscani per maggiore presenza di alunni con cittadinanza non italiana sul totale della popolazione studentesca, dopo
Campi Bisenzio e Prato.
Le statistiche a livello nazionale mostrano come la scelta della scuola secondaria per gli studenti stranieri resta fortemente sbilanciata a favore degli istituti tecnici e professionali. Il dato toscano non si discosta dalla media, evidenziando come il 40,7% preferisca gli istituti professionali ed il 35% gli istituti tecnici. È solo il 24,3% degli alunni di cittadinanza non italiana ad optare per un’istruzione di tipo liceale, anche se dati ben superiori alla media si registrano nelle province di Prato (32%), Pisa (30,4%) ed Arezzo (28,8%).
Allargando lo sguardo all’intera popolazione straniera residente nella regione, per lo sviluppo della nostra progettualità è stato utile anche dare uno sguardo a quali sono le principali nazionalità presenti sul territorio. La classifica delle dieci nazioni da cui proviene la maggior parte dei cittadini stranieri che vivono in Toscana al primo gennaio 2013 si presentava così: al primo posto la Romania, seguita rispettivamente da Albania, Cina, Marocco, Filippine, Perù, Ucraina, Senegal, Polonia ed India. Secondo i dati dell’Istat, l’andamento ai vertici della classifica si mantiene sostanzialmente stabile da almeno cinque anni. Nell’arco di tempo considerato le prime cinque nazionalità sono rimaste salde ai primi posti, mentre tra le successive posizioni si è registrata qualche variazione. Tra le più evidenti vi è l’ingresso in graduatoria nel corso dell’ultimo anno dell’India, che ha superato per poche decine di unità la Macedonia, facendola uscire per la prima volta dalla classifica delle dieci principali nazionalità.
Nei due anni di attività di Di.M.Mi, un contributo significativo alla buona riuscita delle azioni previste è venuto dalle associazioni di migranti attive sui territori di riferimento, che si sono rivelate attori indispensabili, a seconda dei casi e delle situazioni, per la progettazione condivisa di interventi a scuola, per l’organizzazione di eventi di richiamo o per la diffusione presso le comunità straniere delle informazione relative al progetto ed al concorso per la raccolta dei diari migranti ad esso collegato.
Un’indagine recente condotta dal Centro Studi e Ricerche Idos ha censito sull’intero territorio nazionale ben 2.114 associazioni di migranti. La loro distribuzione tra le regioni italiane riflette sostanzialmente quella della popolazione straniera nel suo complesso. Con 81 associazioni mappate, la Toscana si colloca in nona posizione, dopo Lombardia, Lazio, Emilia Romagna, Piemonte, Veneto, Trentino, Campania e Marche. La maggior parte delle associazioni migranti della Toscana (40,7%) ha sede nella provincia di Firenze, a cui seguono a distanza le province di Prato (18,5%), Arezzo (11,1%), Pisa (7,4%) e Livorno (7,4%). A livello di nazionalità, invece, quelle maggiormente rappresentate nel mondo dell’associazionismo migrante toscano sono quella cinese e quella senegalese, le cui associazioni si collocano rispettivamente al secondo ed al terzo posto della graduatoria dopo le associazioni plurinazionali che raggruppano persone provenienti da diversi paesi.
Tre sono i territori della Toscana su cui si è sviluppata in via prioritaria l’azione progettuale: l’Unione Valdera in provincia di Pisa, l’Unione dei Comuni Valdarno e Valdisieve in provincia di Firenze e la provincia di Arezzo. In ciascuno di essi diverse sono le dinamiche migratorie prevalenti su cui il progetto ha concentrato l’azione e che si proverà brevemente a delineare nelle righe che seguono.
Tra il 2008 e il 2013 nel panorama regionale la provincia di Pisa è quella che ha registrato il maggior aumento nelle presenze di cittadini stranieri, segnando un + 53%. Nell’Unione dei Comuni della Valdera, in particolare, dove si è svolta buona parte delle attività progettuali, a fine 2013 (dati Demo Istat) si sfiorano le 11.000 presenze, che rappresentano quasi il 10% del totale della popolazione residente. Di questi, circa il 30% è di origine africana. Si tratta di una percentuale molto alta se si pensa che sul totale della popolazione straniera regionale gli africani rappresentano solo il 15%. Nella zona dell’Unione dei Comuni della Valdera vive, infatti, una delle più numerose e storiche comunità senegalesi in Italia. Radicata sul territorio, attiva nel mondo del lavoro locale e impegnata nel sociale, la comunità senegalese della Valdera presenta esperienze e vissuti molteplici che hanno costituito per il progetto Di.M.Mi una base importante da cui partire per iniziare localmente il percorso di raccolta di testimonianze, storie e narrazioni che hanno cercato di dare voce all’esperienza
dei migranti in modo da farle diventare un bagaglio di memorie a disposizione dell’intera cittadinanza. Spesso impiegati come dipendenti nella zona delle concerie, i migranti presenti sul territorio stanno vivendo assieme agli italiani la crisi economica generale e la conseguente perdita di lavoro con il rischio di divenire vittime di scontri sociali su base etnica, se non si agisce prontamente con misure mirate alla conoscenza reciproca e all’accoglienza.
Come da dati dell’osservatorio Progetto Migranti gestito dal Centro Interculturale del Comune di Pontassieve, la zona dell’Unione di Comuni Valdarno e Valdisieve, con i comuni di Londa, Pelago, Pontassieve, Reggello, Rignano Sull’Arno, Rufina e San Godenzo, conta un numero di abitanti pari a 64.026 residenti, di cui 4562 con cittadinanza non italiana, con un’incidenza della popolazione straniera sul totale dei residenti del 7%. La maggioranza dei cittadini, circa il 30%, è di nazionalità albanese, seguono poi la popolazione rumena, al 20%, e quella marocchina, che rappresenta la terza nazionalità con un’incidenza sul totale della popolazione dell’8%. La zona, così come il territorio italiano, è poi caratterizzata dalla presenza di tantissime nazionalità diverse, oltre 100, che convivono e condividono lo stesso territorio e frequentano le stesse scuole costruendo quotidianamente l’appartenenza alla comunità e apportando il proprio contributo in termini di memoria, conoscenze, idee per la costruzione di una concreta cittadinanza globale. Sul territorio è attivo dal 1995 il Centro Interculturale, ufficio referente di zona per le progettualità finalizzate a facilitare l’accesso ai servizi e la riuscita scolastica dei cittadini stranieri che vivono nell’area e che ha coordinato localmente le attività di Di.M.Mi.
Secondo i dati Istat, al primo gennaio 2013 i cittadini stranieri residenti in provincia di Arezzo erano 35.772. Ai primi posti della graduatoria per nazionalità si attestano le comunità straniere provenienti da Romania, Albania e Marocco. Un elemento su cui il progetto Di.M.Mi ha dedicato particolare attenzione nella strutturazione delle attività sul territorio aretino, è quello della crescente femminilizzazione della popolazione migrante. La componente femminile, in crescita rispetto agli anni ati, rappresenta infatti ben il 53,8% del totale. Lo sbilanciamento tra i generi varia a seconda della nazionalità. Considerando le prime dieci collettività straniere presenti, si evidenzia che le principali nazionalità a prevalenza femminile sono quella polacca, in cui le
donne superano il 70%, e quella rumena, in cui sfiorano il 60%. Entrambe sono caratterizzate da alti tassi di impiego nel settore del lavoro domestico. Numerosi studi hanno, infatti, dimostrato come spesso sia proprio il crescente bisogno di manodopera nel lavoro di cura a stimolare il protagonismo femminile nelle migrazioni internazionali.
Nel Valdarno aretino il lavoro svolto all’interno del progetto Di.M.Mi è stato indirizzato in via prioritaria al coinvolgimento ed al rafforzamento delle associazioni di stranieri attive sul territorio, che raggruppano cittadini provenienti dall’Albania, dalla Romania, dalla Repubblica Dominicana, dal Senegal, dall’India, sikh e musulmani.
Con l’intento di raggiungere anche quei migranti non riuniti in associazione, nella provincia di Arezzo si è dedicato, inoltre, ampio spazio alla promozione di percorsi identitari e di conoscenza della lingua che facilitano i processi di integrazione delle comunità.
1 Centro Studi e Ricerche IDOS (2014). Immigrazione. Dossier Statistico 2013. Dalle discriminazioni ai diritti. UNAR – Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali.
Approfondimenti
Segretario delle proprie sensazioni. L’osservatore romeno
di Mihai Mircea Butcovan
“Sappi però che si soffre sempre quando si fruga nelle valigie di antichi viaggi.” Panait Istrati
“Parlare dell’altro è un po’ parlare di altro, se nel ruolo dell’altro ogni tanto non ci mettiamo anche noi.” Andrea Bajani
Le testimonianze sono sempre racconti di vita. Vite vissute e raccontate dagli stessi protagonisti. Hanno di solito una duplice valenza. Da una parte quella terapeutica, lenitiva, per coloro che le scrivono o per coloro che raccolgono queste storie. Potersi raccontare – di fronte a qualcuno disposto ad ascoltarti – è già un
momento curativo.
Le testimonianze hanno anche una funzione formativa, oltre che informativa, pure per il lettore. Ma soltanto per il lettore attento, disponibile ad ascoltare, a mettersi nei panni del narratore e dei protagonisti delle storie.
Sbirciando nelle vite altrui possiamo riconoscere quegli elementi che ci accomunano: nascita, infanzia, adolescenza, sogni e famiglia, comunità e rete sociale. Ma anche il desiderio di migliorare la propria vita e quella dei propri cari.
Per inseguire sogni e desideri, qualche volta si paga il prezzo della separazione, della lontananza, dell’assenza, della solitudine, della sofferenza creata da un viaggio che porta con sé distacco e poi incontro, talvolta scontro, con le diversità.
C’è una raccolta di testimonianze che mi ha particolarmente segnato in questa – ormai ultraventennale – esperienza migratoria.
In quel libro di migrazione e disagio leggevo storie di emarginati dalla società, ancor più dolorose quando la società che esclude è la stessa in cui si nasce ma che non riconosce pienamente i diritti.
Leggevo, in quel libro, frasi come queste:
«La timidezza dei poveri è un mistero più antico. […] Forse non è né viltà né
eroismo. È solo mancanza di prepotenza.»
«Noi eravamo di un altro popolo e lontani.»
«Credono che una donna possa vivere anche con un cervello di gallina. I maschi non le chiedono di essere intelligente. È razzismo anche questo.»
E ancora:
«Meglio ar da pazzi che essere strumento di razzismo.»
«Invece di rimuovere gli ostacoli, lavorano a aumentare le differenze.»
«Bella forza essere onesti su un codice scritto da voi e su misura vostra.»
«È tanto riposante leggere la storia in chiave di fatalità.»
E poi ancora:
«Anzi è fine essere “coi poveri”. Cioè non proprio “coi poveri” volevo dire “a capo dei poveri”.»
«Quelli di Black Power chiedono il potere perché sono stanchi di chiedere l’eguaglianza e non ottenerla.»
«Non si può amare creature segnate da leggi ingiuste e non volere leggi migliori.»
E via così, in un crescendo di lucide analisi e perspicaci riflessioni mescolate a tagliente sarcasmo, fino a questo paragrafo che vale la pena citare per intero:
«Sui monti non ci possiamo stare. Nei campi siamo troppi. Tutti gli economisti sono d’accordo su questo punto.
E se anche non fossero? Si metta nei panni dei miei genitori. Lei non permetterebbe che suo figlio restasse tagliato fuori. Dunque ci dovete accogliere. Ma non come cittadini di seconda buoni solo per manovale.
Ogni popolo ha la sua cultura e nessun popolo ce n’ha meno di un altro. La nostra è un dono che vi portiamo. Un po’ di vita nell’arido dei vostri libri, scritti da gente che ha letto solo libri.»
Non si illudano coloro che non hanno riconosciuto queste frasi. Non appartengono a testimonianze di immigrati irriverenti. Nell’incipit di quel libro scopriamo anche chi sono gli autori.
«A prima vista sembra scritto da un ragazzo solo. Invece gli autori siamo otto ragazzi della scuola di Barbiana.»
Quel libro, pubblicato nel 1967, è stato vissuto, pensato e scritto oltre quattro decenni fa in Toscana, nella provincia di Firenze.
È la “Lettera a una professoressa”, una storia di storie che non è stata ascoltata abbastanza e forse per questo molti ragazzi della scuola odierna sono costretti a riviverla nei suoi aspetti più drammatici.
Dovremmo leggere spesso diari e testimonianze. Perché rappresentano una grande occasione: per leggere d’altri, per leggere di uomini, donne, bambini e bambine, paesi e città, sapori e colori. E anche per ampliare i nostri orizzonti. Per guardare oltre i confini. Quelli più difficili da are, oggigiorno, sono quelli originati dai nostri pregiudizi.
Queste letture sono occasioni per tenere aperti i confini del nostro pensare.
Le persone “costruiscono” ininterrottamente la propria storia. Raccontandosi, attribuiscono sensi e significati alle esperienze di vita.
La “storia di una vita” raccontata a una certa persona è, in senso molto profondo, un prodotto congiunto del narratore e dell’ascoltatore. I testi delle autobiografie sono documenti, per così dire, storici e sociologici, oltre che documenti personali.
Scriveva Emil Cioran nel suo Squartamento:
“Nulla di tutto quello che ho affrontato, nulla di quello che ho detto in tutta la vita può essere separato da quello che ho vissuto. Non ho inventato nulla, sono stato soltanto il segretario delle mie sensazioni.”
Qualche anno fa, in tempi che oggi potremmo definire “non sospetti”, ho risposto, sul Corriere della Sera, alla domanda sui motivi che mi hanno sospinto a studiare la lingua italiana. Scrivevo allora:
«Arrivai in Italia poco più che ventenne. In italiano sapevo appena dire “ciao”.
È un saluto. Universale, d’accordo, ma è appena un saluto. Talvolta è accoglienza e riconoscimento, talaltra è benvenuto e commiato. Ci sei, ci sono, ti riconosco. Forse.
Ma per conoscerti ho bisogno di una lingua che mi avvicini a te, che mi faccia raccontare a te. Per dire chi sono. Per chiederti di riconoscermi almeno il diritto di esistere.
Mi domandavo allora: imparerò la tua lingua, per parlarci, riconoscerci, raccontarci e qualche volta dirci chi siamo?
Sin dal primo giorno trascorso nel Belpaese mi sono sentito in quella condizione che tecnicamente qui viene chiamata “ritardo scolastico”. Sensazione che mi porto addosso ancora, dopo diciannove anni di permanenza qui. Eppure dovrebbero bastare, quasi vent’anni, per prendere una “maturità” linguistica.
Ma poi l’ho imparata questa lingua? Diciamo che, un po’ Marcovaldo e un po’ Osservatore Romeno, ho fatto degli sforzi in questa direzione. Qualcuno mi chiama ancora migrante.
Infatti, “a noi prescrisse il fato illacrimata sepoltura”.
Mi chiedi perché mai ho provato ad imparare la tua lingua?
– Per leggere quello che anche tu, forse, hai letto.
– Per leggere scritti corsari, quelli di ieri e quelli di oggi.
– Per ascoltare un amico fragile.
– Per capire che anche qui qualcuno era comunista.
– Per scoprire che l’obbedienza non è più una virtù.
– Per intuire che cos’è una locomotiva lanciata a bomba contro l’ingiustizia.
– Per commuovermi con il congedo di un viaggiatore cerimonioso.
– Per scoprire che mio fratello è figlio unico.
– Per leggere quella lettera a una professoressa.
– Per comprendere il giorno della civetta, ato e presente.
– Per illuminarmi d’immenso.
– E per raccontare di tutto questo.»
Manca nell’elenco la scrittura come motivazione. Per quanto mi riguarda – soprattutto la scrittura in italiano – è stata una conseguenza di tutto ciò. E, come le altre cose elencate, mi ha fatto stare bene.
È ancora Emil Cioran, in Esercizi di ammirazione, a suggerire un buon motivo per scrivere di se stessi ed almeno a se stessi:
“Il Précis l’ho estratto dai bassifondi di me stesso per ingiuriare la vita e ingiuriarmi. Il risultato? Mi sono sopportato meglio, come ho sopportato meglio la vita. Ci si cura come si può.”
Fuori dai confini e dal tempo, dove arriva la scrittura di sé
Nicola Maranesi, Fondazione Archivio diaristico nazionale
Più di ogni studio comparato, più di ogni indagine statistica, le scritture autobiografiche di oggi, ma anche quelle di ieri o di un secolo fa, hanno la capacità di raccontare e spiegare il proprio tempo a chi lo vive ma fatica a interpretarlo. Chi frequenta l’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano, un luogo che conserva oltre 7000 esemplari tra diari, memorie ed epistolari scritti da italiane e italiani, ne ha spesso la prova. Riflettere se stessi sulle esperienze dei propri coetanei o dei propri antenati, aiuta a porsi domande che possono condurre talvolta anche a risposte contraddittorie, ma che in ogni caso stimolano la conoscenza di sé e della realtà in cui si vive.
Leggere le testimonianze dei ragazzi che nel 1915 partivano per andare a combattere la Prima guerra mondiale in trincea, ad esempio, è un modo straordinariamente efficace per inquadrare e quantificare i problemi delle più giovani generazioni di oggi. L’esperienza bellica, scoperta attraverso quei documenti prodotti nella nostra Europa di appena un secolo fa, ci appare come una pietra di paragone invalicabile, un limite entro il quale circoscrivere e misurare ogni difficoltà del vivere dei giorni nostri. Ma altre esperienze e altre
testimonianze possono mettere in discussione questo approdo, offrendo spunti di riflessione sul presente sorprendenti e necessari. Non c’è dubbio, ad esempio, che la scoperta dei racconti dei migranti italiani di metà Novecento permetta di compiere i da gigante nella comprensione dell’esperienza individuale e collettiva degli esseri umani che raggiungono oggi il nostro Paese in cerca di fortuna.
La guerra, da una parte, e l’emigrazione, dall’altra, rappresentano gli avvenimenti di massa maggiormente caratterizzanti del secolo ato, eventi che hanno coinvolto miliardi di individui e che in buona parte hanno anche favorito i processi di alfabetizzazione e di attivazione della pratica scrittoria. Ancora oggi nel 2015 può capitare che un percorso umano, divenuto racconto su carta, induca a riflettere sull’incidenza che queste due esperienze hanno avuto sulla vita di un’unica persona. E ci si sorprende a scoprire come nell’economia dell’esistenza di un uomo nato sul finire del secolo scorso nella ex Jugoslavia e di nome Ametovic Milivoje, che ha vissuto sulla propria pelle la guerra e il lutto, la fuga obbligata e la perdita degli affetti, abbia una maggiore influenza negativa il lungo ed estenuante calvario di lavoratore sfruttato patito nel nostro Paese da emigrato, prima clandestino e poi regolare. Le truffe, i raggiri e i sotterfugi subiti da un padrone senza coscienza in uno Stato in cui ogni sopruso è permesso, disumanizzano e consumano le energie vitali ancor più di un dramma enorme e conclamato qual è un sanguinoso conflitto etnico, che rappresenta sì un “nemico” più orribile da combattere ma perlomeno tangibile, dal quale prendere le distanze seppure a un prezzo altissimo come può essere quello dell’abbandono della propria casa.
“Sono nato nei tempi sballati – scrive Ametovic nel finale del suo racconto autobiografico in parte sgrammaticato – dove ce poco spazzio per deboli e indifesi,e dove il diritti umani tantissime volte sono scritti e approvati sula carta e dove diritti sono anche protetti con la Costituzione .Credo che posso chiudere la mia valigia perché in partenza era piena di speranza e voglia di essere acetato ?.Oggi vorrei solo un po’ di dolcezza per cancellare il sapore amaro di queste continue d’eluzioni. Non esiste quella bell’ Italia come di 20-ani fa,oggi esistono solo grandi slogan e le parole che non ano la responsabilità .Vorrei che il miei figli e il figli di mei figli e tutti altri figli a un domani si sentirebbe come
cittadini EUROPEI con lo stesi diritti e parità sociale.
E DOVE STRANJIERI NON ESISTONO E DOVE SI POTREBBE CHIAMARE CITTADINI DEL MONDO”.
Abbiamo cercato di riassumere in poche parole e citando questo breve stralcio autobiografico l’esperienza di Ametovic Milivoje, cittadino nato e scappato dalla Serbia quando ancora la Serbia non aveva questo nome, giunto in Italia per crearsi una nuova vita attraverso il sudore e la fatica. Un emigrante che è riuscito a emancipare se stesso e tutta la propria famiglia, fin quando non è rimasto vittima della forma più moderna e subdola di attentato all’integrità umana, lo sfruttamento del lavoro e peggio il lavoro non pagato, vera e propria “trincea” della nostra epoca. Lo sfogo che abbiamo letto, ci sembra significativo sottolinearlo, non è destinato contro la guerra e i poteri costituiti che l’hanno provocata, bensì contro le forme legalizzate di sfruttamento del lavoro. La selezione compiuta nello scegliere i temi della narrazione di sé, da parte di un uomo che ha sofferto sia il dramma dell’evento bellico che quello del disagio sociale e lavorativo, riflette un’immagine del nostro tempo che non possiamo ignorare, e che anzi dovremmo imparare a conoscere profondamente per capire l’epoca in cui viviamo.
Quella di Ametovic è solo una delle 37 testimonianze di migrazione, guerra, lavoro e non solo che sono giunte in pochi mesi all’Archivio grazie al progetto Di.M.Mi, acronimo di Diari Multimediali Migranti. Un progetto che rappresenta uno sbocco fisiologico nell’attività della fondazione di Pieve Santo Stefano, che ha scaffali pieni di documenti che ripercorrono gli eventi bellici e migratori che hanno segnato in maniera indelebile il corso del Novecento e che trova oggi, ancora nei temi della migrazione e del lavoro, le frontiere più transitate della scrittura di sé.
Di.M.Mi è uno sbocco fisiologico per ragioni “statutarie”, perché partecipare a un’iniziativa che bandisce un concorso per diari di migranti e crea un fondo
apposito per raccoglierli è un qualcosa che è rintracciabile nel codice genetico della Fondazione, per come è stata concepita dal padre biologico e morale Saverio Tutino.
Di.M.Mi è uno sbocco fisiologico per ragioni storiche, perché la riflessione sulle scritture migranti ha da sempre caratterizzato le iniziative dell’Archivio tracciando alcune delle tappe più significative nella sua crescita. Tra le più recenti e importanti, va annoverata una pubblicazione come Lontana terra, diari di toscani in viaggio a cura di Natalia Cangi, Bettina Piccinelli e Loretta Veri, edito da Terre di Mezzo nel 2005, che racconta i flussi migratori dei toscani attraverso cinquanta voci. Testimonianze diverse per stile, epoca storica e ambientazione del viaggio: dalla traversata dell’oceano dei migranti di inizio secolo alle avventure di marinai e commercianti dell’Ottocento, fino alle mete recenti del volontariato e della cooperazione internazionale.
Un’altra pubblicazione di notevole interesse è stata Il canto del Nord pubblicato da Cisu nel 2007, a cura di Pietro Clemente, Anna Iuso, Elena Bachiddu: libro dedicato al tema dell’emigrazione italiana rappresentata attraverso la scrittura degli stessi emigranti, così com’è documentata nei materiali dell’Archivio diaristico dai quali sono emersi tre luoghi di emigrazione più rappresentati, quali Milano, Torino e le miniere del Nord Europa. Ma sono anche, forse soprattutto le monografie ad aver scandito la presenza dei temi migratori nella pubblicistica che ha accompagnato l’attività della Fondazione: spiccano le vicende di Antonio Sbirziola racchiuse in Povero, onesto e gentiluomo. Un emigrante in Australia 1954 – 1961, Bologna, Il Mulino, 2012 collana Storie italiane nonché, per lo stesso autore, Un giorno è bello e il prossimo migliore con prefazione di Melania G. Mazzucco, Milano, Terre di mezzo, 2007. Ricordiamo anche Bellezze, sto arrivando. Uno scapolo romano alla conquista del Canada, Milano, Terre di mezzo, 2012. Andando a ritroso affiorano nei ricordi le vicende di Oreste Orlando Tonelli raccontate in Colibrì. Una strada per la Caienna, autobiografia 1881-1925, introduzione di Vivian Lamarque, Firenze, Giunti Gruppo Editoriale, 1994; infine Antonio De Piero L’isola della Quarantina, autobiografia 1875-1922, introduzione di Carlo Ginzburg, Firenze, Giunti Gruppo Editoriale, 1994.
Non potremmo concludere questa piccola rassegna senza ricordare che due numeri della rivista Primapersona, il semestrale edito dall’Archivio diaristico e dedicato alla scrittura autobiografica e al racconto dei contenuti del fondo inedito di Pieve Santo Stefano, hanno avuto proprio i temi della migrazione quali filo conduttore. Il primo è stato pubblicato nel 2001 con il titolo Mettere nuove radici e recitava in una presentazione molto lungimirante: “Nel ruolo sempre più interculturale che le crescenti migrazioni ci porteranno a interpretare in futuro, la cittadinanza della scrittura risulterà dalla fusione fra tante lingue diverse nel quadro di un movimento globale. L’uomo misurerà le proprie forze dalla capacità di accoglienza e di adozione che saprà dimostrare in questa materia”. L’altro, andato in stampa nel 2012 si intitola Oltre l’Africa ed è nato con lo scopo di “scoprire il continente africano come il cuore dell’incontro culturale. Un incontro che segue due direzioni: da un lato quella degli emigranti che sbarcano a Lampedusa […] dall’altro quella degli italiani che in Africa ci sono andati da colonizzatori e oggi ci tornano per progetti di cooperazione”.
In tutte queste pubblicazioni, e in tutte le iniziative che l’Archivio ha animato intorno ai temi della migrazione fino ad arrivare al progetto Di.M.Mi, emerge il richiamo a un ato recente e a un presente proiettato nel futuro. Questo confronto, questa contaminazione tra esperienze generazionali relativamente vicine o molto vicine nel tempo e nello spazio che la conservazione della scrittura autobiografica ha reso possibile, grossomodo nell’arco dell’ultimo secolo, induce a forme di riflessione e introspezione altrimenti inimmaginabili. L’alto tasso di intimità e di sincerità tipico della scrittura di sé, stimola l’immedesimazione e la comprensione in chi legge e si accinge a sua volta a lasciare una traccia scritta della propria storia. Un meccanismo virtuoso sia quando accomuna persone nate a distanze di anni o decine di anni, sia quando avvicina persone nate e vissute a chilometri o migliaia di chilometri di distanza, ma che si accingono a vivere momenti storici o aggi di vita del tutto analoghi.
Didattica
L’esperienza dei laboratori di racconto di sé rivolti alle cittadine ed ai cittadini migranti
Stefano Alacqua, Oxfam Italia Intercultura Paolo Martinino, Unione dei Comuni dei Tre Colli – Cooperativa Sociale Betadue
Riconciliarsi con la propria storia, con il proprio ato, con la propria esperienza: ecco una fondamentale comprensione alla quale siamo giunti trascorrendo numerosi anni a contatto con persone che provengono in Italia da Paesi di tutto il mondo, e che hanno dovuto fare i conti con un evento cruciale talmente radicale che cambia per sempre la propria vita, la percezione del mondo e la visione di se stessi. Per tale motivo abbiamo voluto portare avanti queste esperienze di incontro e racconto, sperimentando alcune tipologie di intervento laboratoriali rivolte alle donne straniere.
Nella progettazione degli incontri ci siamo posti innanzitutto una domanda: quali sono le principali esigenze di una donna migrante che arriva in Italia? Inserirsi nel tessuto sociale e culturale del Paese ospitante, ma anche il recupero e la ridefinizione della propria identità sociale, culturale, familiare di appartenenza. Come dire: ho bisogno di comprendere la mia identità attraverso l’identità altrui.
Tuttavia non sempre c’è chiara consapevolezza delle proprie esigenze, e la ridefinizione dell’immagine di se stessi è un processo particolarmente lungo e delicato, e come tale, spesso tende ad essere lasciato da parte, così come l’espressione di un mondo emotivo che non di rado è stato messo duramente alla prova. Si crea, a nostro avviso, una sorta di contrapposizione tra le esigenze di contatto, esternazione, elaborazione della propria emotività e la voglia di andare avanti nella propria vita, di costruirsi delle certezze, di lavorare in vista di una tranquillità, come se non fosse proponibile tenere contemporaneamente due prospettive, una che guarda al futuro, ed una che guarda al ato. E spesso infatti notiamo che il migrante cerca disperatamente di affrettarsi ad integrarsi, cerca di bruciare le tappe, e di appiattire le differenze, di assimilare la nuova lingua, sforzandosi di dimenticare chi è stato fino ad allora, oppure al contrario tira il freno a mano e si rinchiude in una nicchia nostalgica e conservatrice, bloccando l’osmosi culturale, e tenendosi stretto stretto alla propria identità socio-linguistico-culturale.
Ecco perché abbiamo deciso di invitare le donne migranti ad un ciclo di incontri in cui potessero imparare e rinforzare la lingua che è veicolo tra se stessi e la nuova società, raccontare la propria storia e quindi rimettere insieme, come si fa con i puzzle, la propria identità; confrontarsi con altre donne migranti, ascoltando altre storie che sono diverse (ed uguali) alla propria, con l’ausilio di un facilitatore linguistico e di gruppo. Per quanto riguarda le modalità di raccontare, partendo dall’idea che ognuno di noi sviluppa maggiormente alcune tipologie di intelligenza, abbiamo anche cercato di stimolare le partecipanti ad utilizzare le proprie modalità “visive”, partendo da un episodio, una fotografia, o il ricordo di un oggetto, nel tentativo di byare la difficoltà della costruzione del pensiero e della frase in lingua.
Il nostro primo laboratorio di racconto, diviso in 12 incontri di due ore e mezza l’uno, e rivolto a donne di età compresa tra i 20 e i 50 anni, e appartenenti a tutte le nazionalità, prevedeva la prima parte della lezione di rinforzo grammaticale, soprattutto rispetto ai tempi del verbo che ci permettono di esprimere i concetti temporali di ato, presente, futuro, e che sarebbero stati utilizzati nella seconda parte di ogni incontro (oralmente e per iscritto), a turno, in un ambiente che favoriva la conversazione, l’ascolto e l’esternazione della propria esperienza.
Il facilitatore aveva cura di proporre con gradualità argomenti come la presentazione di sé, ciò che piaceva di più o di meno dell’Italia e del Paese di origine (che ha permesso di riflettere sulle differenze culturali e sulla possibilità di adottare più punti di vista), gli oggetti importanti della nostra vita, l’esperienza della prima volta in Italia, la descrizione di una foto importante, le canzoni più significative (con l’ausilio di uno strumento come youTube, e con l’integrazione di una spiegazione di tutto quello che era stato legato emotivamente a quella canzone), i progetti per il futuro.
Lavorare in gruppo è sempre una grande risorsa perché permette di condividere moltissimo, e ci aiuta a capire che ci sono molte altre persone che hanno affrontato delle situazioni simili alle nostre, ma può anche essere causa di attriti, sia per questioni di “anzianità”, che per questioni di diversa appartenenza culturale. Inoltre, raccontare la propria storia è un atto di intimità, e ci vuole un po’ di tempo perché le persone inizino a conoscersi e ad interagire ad un livello più profondo di quello iniziale, nel corso del quale esse non si conoscono a sufficienza e molte di loro sentono di non volersi esporre troppo. È quindi importante lavorare su un clima di fiducia reciproca, evitando scivolamenti di contesto: non siamo infatti nello studio di uno psicoterapeuta (ed è giusto evitare di tirare fuori argomenti particolarmente dolorosi, o di scavare eccessivamente con domande inopportune), ma nemmeno al bar, dove si può parlare di qualunque cosa ci i per la testa (e che è un aspetto da tenere in considerazione quando si usano delle modalità comunicative non formali).
Il secondo laboratorio è stato arricchito, rispetto al primo, con dei testi scelti ad hoc tra le testimonianze di persone e donne migranti (tratti dalla collana I mappamondi, ed. Sinnos), e nel quale sono stati toccati temi quali: mia madre, gli amici, la mia religione, cosa terrei e cosa cambierei, una storia o una favola del mio Paese che mi ha colpito, detti e proverbi del mio Paese, due momenti belli della mia vita a confronto, i miei valori, e quale sarebbe il titolo della mia vita se fosse in libro.
In alcune occasioni ci sentiamo di dire che il facilitatore ha avuto un ruolo
fondamentale, specialmente nel mediare su alcuni argomenti che vengono sentiti in modo particolarmente forte dalle donne che partecipavano, come ad esempio la religione, o l’ambito educativo, o quello valoriale. La linea che veniva seguita nella conduzione degli incontri era duplice: da un lato si voleva dare l’opportunità di riflettere sulla propria vita, sul proprio ato, sulla propria famiglia e sulle condizioni di partenza, mentre dall’altro si voleva fare uscire le proprie aspirazioni, i propri desideri e le proprie esigenze per aiutare le donne ad averne una consapevolezza più chiara. Ciò avveniva grazie a domande semplici ma non banali, ed anche attraverso il confronto ed alla conversazione guidata che metteva in luce i diversi modi di affrontare le situazioni, di porsi rispetto ad una problematica. Oltre ciò, e non ultimo, gli incontri davano la possibilità ad ognuna di “pescare dal cesto” qualcosa che le potesse essere utile: un momento di aggregazione al di fuori della situazione familiare, un approfondimento linguistico, la condivisione delle proprie esperienze, la conoscenza di altre persone, un contatto con la cultura italiana, una riflessione sui propri valori culturali.
Al terzo laboratorio siamo giunti con la consapevolezza che avremmo potuto utilizzare anche le storie di migranti che hanno partecipato al Concorso Di.M.Mi – Cercasi diari migranti (interviste video, presentazioni in Power Point con fotografie, diari e testimonianze autobiografiche sotto forma di testo) per offrire un esempio di coraggio nell’esporsi, ma anche nuovi spunti narrativi per agevolare il racconto della propria esperienza. Abbiamo pensato di porre questa esperienza in un’ottica diversa rispetto alle due precedenti, partendo con la condivisione della lettura di uno stralcio di diario scritto o anche video, per poi commentarlo, rinforzare l’aspetto linguistico qualora fosse richiesto, per poi ampliare il discorso davanti ad un tè (che dava infatti il titolo al ciclo di incontri: Un tè per raccontarsi) e poi continuare la condivisione ed il racconto davanti ad una macchina da cucire, grazie alla presenza di una mediatrice linguistico culturale che guidava la seconda parte dell’incontro. Se è vero che recuperare la memoria di sé significa aggregazione, e da sempre il raccontarsi avviene attorno a situazioni in cui il calore fa la sua parte, bersi un tè insieme aumenta la complicità per poterlo fare. E il ritmo della macchina da cucire, cosi come le creazioni originali di stoffa (che parlano della donna che le ha create), sono parte integrante del processo autobiografico, in quanto completano il lavoro svolto dal facilitatore, e l’attivazione dell’emisfero destro completa quello dell’emisfero sinistro.
* * *
Il lavoro sulla narrazione avviato in Valdarno con il progetto Di.M.Mi nasce dalla convinzione che una società plurale, fatta di mille volti, identità e appartenenze, si costruisca attraverso un lento, coraggioso e faticoso lavoro di ascolto, di relazione tra gli esseri umani, di conoscenza reciproca. L’immigrazione porta con sé storie diverse perché è fatta da persone con storie diverse e ci invita all’incontro con altre narrazioni che possono arricchire le nostre.
Affrontare i problemi dell’immigrazione partendo dall’ascolto delle storie vuol dire ampliare l’idea univoca di identità. L’incontro interculturale, la consapevolezza della dimensione di elaborazione simbolica dell’essere umano, la possibilità di attraversare mondi culturali diversi dipendono dalla capacità di riconoscersi come soggetti pluridentitari, confrontando con gli altri, sul piano narrativo, pezzi concreti del proprio vissuto: emozioni, dettagli, colori, sapori, particolari, desideri e sogni…
In Valdarno abbiamo attivato degli spazi di narrazione con metodi e strumenti diversi, cercando di facilitare la rielaborazione del proprio vissuto nella pluralità delle condizioni di vita dei cittadini stranieri che abitano nel nostro territorio. Dopo alcuni incontri di presentazione del progetto alle associazioni di stranieri attive (Associazione Albanese “Riljndia”, Associazione Rumena “Sì, sempre insieme”, Associazione Senegalese del Valdarno, Centro culturale islamico, Associazione Dominicana “Salome Urena del Valdarno”, Sikh Italian Welfare Association) sono state individuate alcune persone disponibili a partecipare all’esperienza di scrittura autobiografica.
In seguito, con queste persone sono stati realizzati degli incontri individuali e di
gruppo presso il Centro d’ascolto per cittadini stranieri del Valdarno per illustrare nei dettagli le finalità del progetto e discutere insieme alcune possibili modalità di narrazione da sperimentare.
Durante gli incontri ci siamo confrontati sulla memoria dell’emigrazione, sulle varie forme di narrazione, in particolare la scrittura diaristica, e l’utilizzo di strumenti multimediali.
Alcune persone, soprattutto donne, provenienti da Albania, India e Marocco hanno accettato di partecipare al progetto e nei mesi successivi hanno avviato il lavoro di scrittura raccontando il proprio percorso migratorio. Altri partecipanti (provenienti da Albania, Repubblica Dominicana, India, Marocco e Senegal) hanno dato la propria disponibilità a raccontarsi in modi diversi, utilizzando la video-intervista, le e-mail e il sistema di messaggistica di Facebook. Dopo le prime sperimentazioni, sono stati organizzati degli incontri di condivisione e discussione del materiale prodotto con tutte le persone che hanno aderito al progetto e con altri cittadini stranieri interessati per inserirli all’interno del gruppo di narrazione. Col are dei mesi si è andato definendo il gruppo stabile che ha prodotto testi e video da inviare al concorso e che tuttora continua ad avere contatti periodici per proseguire il lavoro di sperimentazione e diffusione della cultura della narrazione in Valdarno.
Dall’altro a me, da me agli altri. Formazione per insegnanti
Gaia Colombo, Fratelli dell’Uomo Onlus
Le migrazioni contemporanee rendono quello attuale un momento cruciale in cui le memorie dei migranti che arrivano nei nostri territori si intrecciano con la quotidianità delle persone. Crediamo che le scuole siano un luogo che amplifica questo fenomeno attraverso il loro essere teatro di mescolamento e meticciato. Per queste ragioni, nella fase di progettazione di Di.M.Mi, si è ritenuto importante dedicare dei momenti di formazione anche agli insegnanti per garantirne un maggior coinvolgimento e ampliamento nel percorso destinato agli studenti.
In preparazione ai laboratori in classe, tra novembre e dicembre 2013 le insegnanti della scuola secondaria inferiore di Ponsacco hanno dunque fatto esperienza attiva di ciò che successivamente è stato proposto agli allievi. Sono stati forniti strumenti ed occasioni di riflessione sul processo e sulle finalità del laboratorio biografico in modo da aiutarle a proseguire nel lavoro con gli studenti anche dopo l’intervento in classe delle formatrici di Fratelli dell’Uomo, rafforzando così la sostenibilità nel tempo delle attività proposte.
L’attenzione si è concentrata in particolar modo su alcuni temi prioritari:
– la costruzione dell’identità e della memoria attiva nei ragazzi, attraverso il lavoro sui ricordi legati a situazioni significative, la creazione di ricordi comuni ed il confronto tra i ricordi legati a culture diverse;
– il diario come strumento per conoscere se stessi e gli altri e per facilitare il dialogo interculturale in classe;
– la creazione di una memoria collettiva a partire dalle storie individuali;
– stereotipi, razzismo e mass media.
All’inizio del laboratorio è stato stipulato con le insegnanti il contratto formativo, alla base di ogni lavoro di animazione interculturale che per potersi mostrare efficace deve partire necessariamente dalla sospensione del giudizio, dal rispetto e dall’ascolto attivo delle esperienze altrui e dalla valorizzazione delle diversità individuali.
Successivamente sono stati utilizzati contributi video, letture e giochi interattivi utili per sperimentare e mettere alla prova quanto appreso, a partire da ciò che è avvenuto nel corso del lavoro di gruppo.
Si è esplorata la dimensione del racconto di sé, non servendosi di narrazioni dirette ma di oggetti significativi, utili per raccontare qualcosa di sé in maniera indiretta, per rompere il ghiaccio ed avviare il lavoro sulla conoscenza di sé e di
riconoscimento di sé nell’altro. Nello specifico sono state fatte presentazioni di sé attraverso un oggetto significativo in forma orale e presentazioni del proprio lavoro di insegnante attraverso un oggetto significativo in forma scritta. A partire dai risultati emersi e dai ricordi individuali di ciascuno, si è lavorato insieme alla costruzione della mappa della memoria collettiva del gruppo insegnanti, per mostrare come attraverso il confronto e lo scambio delle esperienze personali sia possibile trovare dei punti in comune che rappresentano il filo rosso attorno a cui creare e ricreare una cultura condivisa.
Specifico spazio è stato poi dedicato alla discussione in gruppo delle esperienze con studenti migranti in classe, sulle diverse forme di espressione e reazione e sulle distinte strategie di costruzione identitaria messe in atto dai ragazzi di origine straniera nel percorso di inserimento sociale e scolastico.
Con un gioco di ruolo e dei contributi video, si sono approfondite inoltre le dinamiche di costruzione e diffusione degli atteggiamenti razzisti attraverso i mass media, per esserne maggiormente consapevoli ed avviare in classe un attento lavoro di decostruzione degli stereotipi con il contributo attivo degli studenti.
* * *
Materiali utilizzati nel laboratorio per insegnanti
Video
Andrea Smorti – Il pensiero usa le storie. Raccontare a se stessi e agli altri
Federico Batini – L’orientamento narrativo. Costruire la propria identità con le narrazioni
Giuseppe Mantovani – La formazione di un nuovo “noi”. Narrazioni e intercultura
Centro Interculturale Mondinsieme – Attento a come parli!
Lookout.tv – Migranti e social media: quando l’intolleranza corre sul web
Fratelli dell’Uomo – Liberi tutti
Testi
Komla Ebri Kossì – Kuaku: equilibrista in patrie a noleggio
Estratti tratti da Amin Maalouf, L’identità. Bompiani, Milano, 2005
Caliceti, G. – Cammina, cammina. In Favole interculturali
Cinema ed educazione alla diversità: la conoscenza dell’altro secondo la settima arte
Gaia Colombo, Fratelli dell’Uomo Onlus
“Il mondo salvato dai bambini” così si intitola il laboratorio per insegnanti, educatori ed operatori scolastici condotto da Danilo Soscia nel novembre 2014 presso il circolo Arci L’Ortaccio di Vicopisano (Pisa) sull’uso del cinema come veicolo per trattare i temi dell’intercultura in classe.
Il cinema è uno strumento utile e versatile per affrontare coi ragazzi molteplici argomenti, da quelli direttamente inseriti nei programmi scolastici a quelli che spaziano su questioni che esulano dalla didattica per abbracciare l’etica o la politica in senso lato.
Come è emerso nel corso del laboratorio, il cinema si rivela particolarmente indicato per parlare di immigrazione in modo diretto ma evocativo al tempo stesso. “Soprattutto nella sua componente finzionale, immaginativa, è uno strumento privilegiato di ‘lettura’ dell’altro, oltre che vero e proprio granaio di informazioni utili intorno alle sue abitudini, ai gesti quotidiani, alle piccole e grandi vicende ‘domestiche’ che ne scandiscono il tempo della vita” (D. Soscia). Presenta microstorie personali che spesso si intrecciano con la macrostoria e che giocano con gli stereotipi e i luoghi comuni, a cui si può attingere per discutere insieme ai ragazzi, per insegnare loro il dubbio, mostrando come spesso le cose
siano più complicate di come appaiono ad un primo sguardo. Esplorare quali sono i significati dell’essere diversi consente di comprendere come la nostra stessa quotidianità sia permeata dalla diversità.
Il laboratorio, come ha ben spiegato il formatore nel testo di presentazione del lavoro agli insegnanti, attraverso la visione di alcuni spezzoni di film particolarmente significativi nella direzione di una positiva scoperta della diversità, ha offerto l’opportunità a chi in ambito scolastico è chiamato a educare alla diversità di ricalibrare con maggiore consapevolezza l’esperienza accumulata in merito negli anni, confrontando indirettamente e direttamente la propria conoscenza con quella ‘narrata’ attraverso il mezzo cinematografico. Allo stesso tempo, si è venuta a delineare in questo modo una concisa filmografia dalla quale è possibile attingere per riproporre un percorso assai simile ai propri studenti, con tutti i vantaggi del caso.
Nel corso del laboratorio sono state visionate sequenze tratte da:
– Il tempo dei gitani (1989) di Emir Kusturica;
– Un tocco di zenzero (2003) di Tassos Boulmetis;
– Quando sei nato non puoi più nasconderti (2005) di Marco Tullio Giordana;
– Saimir (2004) di sco Munzi;
– Miracolo a Le Havre (2011) di Aki Kaurismaki.
Si tratta di pellicole italiane e straniere che con chiavi diverse hanno posto al centro dell’attenzione le vicende dell’infanzia e dell’adolescenza migrante e
mostrato situazioni di conflitto sociale che, seppure apparentemente lontane, parlano di noi, della nostra crisi di valori.
All’insegnante che deciderà di utilizzare questi materiali per riproporre in classe un percorso di approfondimento sul tema, spetterà la scelta di quali di queste pellicole siano adatte al gruppo classe, sia in base all’età degli alunni sia in base allo specifico tema trattato. Va considerato ad ogni modo che per stimolare una visione critica nei ragazzi, due sono le opzioni che si offrono agli insegnanti: mostrare l’intera pellicola a pezzi o selezionare degli spezzoni particolarmente significativi per la discussione che si vuole stimolare. In entrambi i casi, durante il laboratorio è emerso come l’interruzione della proiezione nei momenti topici garantisca un maggior coinvolgimento e una più ampia partecipazione negli alunni, chiamati a commentare in itinere e a prendere posizione su quanto visto. Smontare i film, seguendo un ordine non tanto sintagmatico quanto paradigmatico, consente di far emergere immediatamente le domande e le contraddizioni nelle impressioni dei ragazzi, le loro diverse opinioni da cui partire per avviare una riflessione condivisa a partire dagli spunti offerti dalla visione. In questa stessa direzione, un altro metodo che si può seguire è quello della predisposizione di schede da far compilare agli alunni durante la proiezione, per mantenere alta l’attenzione e non perdere il focus della discussione.
Percorsi autobiografici a scuola: memorie personali in dialogo
Sara Gatteschi, Centro Interculturale Comune di Pontassieve Rachele Venturin, Associazione Tessere Culture Onlus
Nella zona dell’Unione di Comuni Valdarno e Valdisieve il progetto biennale “Di.M.Mi – Diari Multimediali Migranti”, è stato portato avanti, fin dalla progettazione, valorizzando la narrazione autobiografica quale motore di dialogo interculturale e conoscenza reciproca tra cittadini di differenti origini, integrandolo nelle attività della Rete per la Scuola Interculturale, attiva fin dal 2007 e che vede la partecipazione degli Istituti Scolastici e dei Comuni della zona e il coordinamento del Centro Interculturale del Comune di Pontassieve.
In particolare, i laboratori scolastici sul tema dell’autobiografia, affidati all’associazione TESSERE CULTURE, sono stati programmati prevedendone l’articolazione biennale nelle scuole secondarie di primo grado dei Comuni coinvolti (Londa, Pelago, Pontassieve, Reggello, Rufina, Rignano sull’Arno e San Godenzo).
Durante la prima annualità, l’Associazione TESSERE CULTURE in collaborazione con l’Associazione VIDEO ERGO SUM ha realizzato 13 laboratori autobiografici nelle scuole coinvolte, finalizzati a far incontrare ai ragazzi la propria e altrui biografia, sia con interventi sulla didattica da parte dei docenti sia tramite l’incontro con cittadini di origine non italiana che avessero vissuto l’esperienza della migrazione.
Strutturati in 6 incontri di 2 ore ciascuno, i laboratori erano dedicati nello specifico allo sviluppo della capacità di decentramento, ascolto e condivisione in plenaria e hanno permesso ai partecipanti di riflettere su temi quali la memoria, le origini, il viaggio, le scelte di vita, i cambiamenti e la migrazione. Dopo aver sperimentato su se stessi l’importanza e le difficoltà dell’approccio autobiografico, i ragazzi hanno poi redatto una lista di domande che hanno usato come canovaccio nelle video interviste fatte a persone adulte con un ato di migrazione coinvolte direttamente dai ragazzi tra i loro conoscenti e/o parenti prossimi. Ciò ha permesso di ascoltare e video registrare testimonianze dei più variegati percorsi migratori, dando ai ragazzi la possibilità di ampliare i propri orizzonti di conoscenza. Il lavoro conclusivo delle classi è stato presentato alla cittadinanza attraverso la proiezione dei filmati e un dibattito durante la Settimana della Pace, evento che si tiene ogni anno nel mese di maggio e vede coinvolte le scuole e la cittadinanza in incontri ed eventi su tematiche a carattere interculturale.
Il percorso, che aveva come obiettivo la promozione della scrittura autobiografica quale strumento di dialogo e conoscenza, ha coinvolto:
– insegnanti, protagonisti della programmazione finalizzata a declinare in chiave interculturale la propria didattica e ad integrare con contenuti didattici il laboratorio proposto dagli operatori;
– alunni, protagonisti oltre che dell’incontro con la propria biografia, del percorso che ha permesso loro di conoscere strumenti quali l’ascolto attivo e
l’empatia. Sono stati inoltre i ragazzi che hanno coinvolto direttamente i cittadini stranieri nel racconto della propria storia;
– cittadini stranieri coinvolti dagli alunni, che sono intervenuti in classe portando la propria storia.
La seconda annualità di progetto, che ha preso avvio con un breve percorso di formazione sul tema della narrazione autobiografica dedicato a operatori e insegnanti, ha visto nuovamente protagonisti gli Istituti Scolastici e i sette Comuni dell’Unione Valdarno e Valdisieve con la realizzazione di 13 laboratori autobiografici.
Strutturati in 6 incontri di 2 ore ciascuno, i laboratori proposti hanno approfondito tematiche quali la percezione di sé e il proprio bagaglio esperienziale, l’importanza del ricordo, le relazioni con gli altri, la proiezione del futuro, la memoria personale e collettiva e sono sfociati nella realizzazione di diari personali.
I laboratori sono stati programmati in stretta collaborazione con il corpo docente coinvolto, stendendo programmazioni partecipate e tenendo sempre conto delle specificità di ogni gruppo classe, come pure dell’inclusione dei ragazzi con maggiori difficoltà.
Per garantire un’alta qualità di intervento, i laboratori sono stati svolti sempre in compresenza dalle operatrici di TESSERE CULTURE, utilizzando metodologie che oltre a favorire l’introspezione e fortificare l’autostima del singolo attraverso la valorizzazione del bagaglio linguistico-culturale di ognuno, hanno anche garantito l’espressione e la gestione positiva di emozioni in gruppo. Tale approccio laboratoriale, che esclude sempre la valutazione e il giudizio della produzione scritta, è stato un ottimo strumento di lavoro, che ha permesso ai ragazzi di decidere autonomamente le regole del proprio patto autobiografico, per poter scrivere e restituire in libertà e senza giudizio i propri scritti. Le metodologie impiegate, innovative rispetto a quelle solitamente impiegate nella didattica scolastica, erano però saldamente ancorate al curriculum scolastico di riferimento. Ciò ha permesso agli insegnanti di continuare a lavorare sull’autobiografia e il racconto di sé anche dopo la fine del laboratorio, adottando alcune tecniche di lavoro di gruppo (cerchio narrativo, disposizione fisica dei banchi nello spazio ecc.) e ideando approfondimenti tematici
interessanti relativi alla memoria di sé, anche attraverso la condivisione con la classe di scritti prodotti da adolescenti di origine non italiana che potessero stimolare la riflessione sul sé. La stretta collaborazione con il corpo docente coinvolto ha permesso anche di organizzare un momento di valutazione e condivisione dei risultati raggiunti a fine progetto e condividere proposte laboratoriali per le prossime annualità, radicando ulteriormente il percorso agli effettivi bisogni delle classi.
Nella stessa annualità di progetto è stato inoltre realizzato un laboratorio autobiografico per donne adulte con la collaborazione dell’A del Comune di San Godenzo. Le tematiche scelte per questo particolare percorso toccavano momenti salienti e trasversali nella vita delle donne, di cui molte anziane, con attenzione a stimolare il ricordo e la narrazione di sé con vari strumenti e non solo con la scrittura: un luogo caro, l’amore, la maternità, la perdita, le ioni e la percezione di sé.
Anche in questo laboratorio sono stati realizzati diari personali e i ricordi sono sempre stati evocati tramite oggetti-ricordo nel corso di svariate attività artistiche.
Il lavoro delle classi, così come quello del gruppo di adulti, è stato presentato alla cittadinanza durante l’VIII edizione della Settimana della Pace.
Per ulteriori approfondimenti:
http://www.tessereculture.org
http://www.comune.pontassieve.fi.it/cint
Filmografia su adolescenza, identità e migrazione A cura dell’Associazione Tessere Culture Onlus
Bianca come il latte e rossa come il sangue (2013), di G. Campiotti: malattia, elaborazione del lutto, cambiamento.
Caterina va in città (2003), di P. Virzì: cambiamenti adolescenziali, ricerca della propria identità.
Come dio comanda (2008), di G. Salvatores: paternità, disagio.
Da quando Otar è partito (2003), di J. Bertuccelli: emigrazione, elaborazione del lutto.
Detachment (2011), di T. Kaye: distacco, elaborazione del lutto.
Fourteen (2002), di B. Blagden: adolescenza, ribellione.
Freedom writers (2007), di R. LaGravenese: scrittura, disagio.
Hereafter (2010), di C. Eastwood: lutti.
Il figlio (2002), di J.P. e L. Dardenne: riabilitazione, educazione.
Il labirinto del fauno (2006), di G. Del Toro: guerra civile, ricerca della propria identità.
Il ragazzo con la bicicletta (2011), di J.P. e L. Dardenne: genitorialità responsabile, cambiamento.
Il ritorno (2003), di A. Zvjagincev: paternità.
Inkheart (2011), di I. Softley: storie, parole, realtà.
In un mondo migliore (2010), di S. Bier: violenza, conflitti sociali.
La classe (2008), di L. Cantet: la vita di una classe durante un anno scolastico.
La pivellina (2009), di T. Covi e R. Frimmel: genitorialità inattesa.
La vita segreta delle api (2008), di G. Prince-Bythewood: ricerca di se stessi, integrazione.
Les choristes (2004), di C. Barratier: dinamiche di gruppo, cambiamento, maestri.
L’onda (2008), di D. Gansel: gruppi, conflitti.
Monsieur Batignole (2002), di. G. Jugnole: coraggio, opposizione al nazismo.
Monsieur Lazhar (2011), di P. Falardeau: migrazione, elaborazione del dolore, incontro con l’altro.
Noi siamo infinito (2012), di S. Chbosky: equilibrio, futuro, amore.
Neverland (2004), di M. Forster: film di formazione, incontro con il mondo esterno.
Quando i miei genitori andarono in vacanza (2006), di C. Hamburger: film di formazione, dittatura politica.
Racconti da Stoccolma (2006), di A. Nilsson: differenze di genere, conflitti, tradizioni, aggressività.
Scialla! (2011), di F. Bruni: cambiamento, leadership.
Sister (2012), di U. Meier: genitorialità, solitudine, disagio.
Stella (2008), di S. Verheyde: autobiografia.
Thirteen (2003), di C. Hardwicke: disagi adolescenziali.
Tomboy (2011), di C. Sciamma: differenze di genere.
Un’estate da giganti (2011), di B. Lanners: adolescenza.
Un ponte per Terabithia (2007), di G. Csupó: amicizia, lutto.
Un sogno per domani (2000), di M. Leder: creatività, umanità.
Vita di Pi (2012), di A. Lee: transizione all’età adulta.
Welcome (2009), di P. Lioret: sofferenze della migrazione, amicizia, razzismo.
17 ragazze (2011), di D. e M. Coulin: disagio adolescenziale, gravidanze precoci.
Bibliografia tematica
Letteratura per ragazzi
Alexie, S. (2008), Diario assolutamente sincero di un indiano part-time. Rizzoli, Milano.
Almond, D. (2011), La storia di Mina. Salani, Milano.
Benni, S. (testi di), Cuniberti, P. (disegni di), (1984), I meravigliosi animali di Stranalandia. Feltrinelli, Milano.
Capatti, B. (2013), Noi nella corrente: tre amici, un amore, un’estate. L’estate in cui tutto cambia. Rizzoli, Milano.
Capriolo, P. (2011), Io come te. Edizioni EL, San Dorligo della Valle.
Chambers, A. (2012), Muoio dalla voglia di conoscerti. Rizzoli, Milano.
D’Avenia, A. (2011), Cose che nessuno sa. Mondadori. Milano.
Ferrara, A. (2011), Batti il muro: quando i libri salvano la vita. Rizzoli, Milano.
Hughes, G. (2011), Sganciando la luna dal cielo. Feltrinelli, Milano.
Le Guin, U.K. (1991), Agata e la pietra nera. Salani, Firenze.
Masini, B. (2010), Bambini nel bosco. Fanucci, Roma.
Murail, M.A. (2010), Cécile. Il futuro è per tutti. Giunti, Firenze.
Pitzorno, B. (1990), La casa sull’albero. Mondadori, Milano.
Schiani, M. (2009), La banda delle quattro strade. Salani, Milano.
Sonnenblick, J. (2006), Una chitarra per due. Mondadori, Milano.
Letteratura sui conflitti
Novara, D., Regoliosi, L. (2007), I bulli non sanno litigare. Carocci, Roma.
Whitehouse, E., Pudney, W. (1999), Ho un vulcano nella pancia. Come aiutare i bambini ad affrontare la rabbia. EGA, Torino.
Bibliografia sull’adolescenza
Dolto, F. (1988), Adolescenza, Mondadori, Milano.
Ferrara A., Mittino F. (2013), Scappati di mano. Sei racconti per narrare l’adolescenza e i consigli per non perdere la strada. Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo.
Marcoli, A. (1993), Il bambino nascosto. Favole per capire la psicologia nostra e dei nostri figli. Mondadori, Milano.
Pietropolli Charmet, G. (2013), Cosa farò da grande? Il futuro come lo vedono i nostri figli. Laterza, Roma-Bari.
Recanatini, L. (2001), Adolescemenze. Informazioni e umorismo sull’adolescenza. Edizioni scientifiche Magi, Roma.
Ronchetti, F. (2013), Non lasciarmi solo: l’adolescente di fronte al lutto. Edizioni Paoline, Milano.
Savater, F. (1991), Etica per un figlio. Laterza, Roma-Bari.
Visentin, M. (2013), Ce la farò! Prime esplorazioni dell’adolescenza. Edizioni Messaggero, Padova.
Bibliografia sulla formazione dei gruppi
Montanari, F., Montanari, S. (2008), Dal branco al gruppo: manuale di giochi per la formazione di gruppi. La Meridiana, Molfetta.
Uso dello strumento autobiografico a scuola
Bocchi, G., Ceruti, M. (2004), Educazione e globalizzazione. Cortina, Milano.
Cambi, F. (2007), L’autobiografia come metodo formativo. Laterza, Roma-Bari.
Demetrio, D. (1996), Raccontarsi: l’autobiografia come cura di sé. Cortina, Milano.
Demetrio, D. (1998a), Elogio dell’immaturità. Poetica dell’età irraggiungibile. Raffaello Cortina, Milano.
Demetrio, D. (1998b), Pedagogia della memoria. Per se stessi, con gli altri. Meltemi, Roma.
Demetrio, D. (1999), Il gioco della vita. Kit autobiografico. Trenta proposte per il piacere di raccontarsi. Guerini e Associati, Milano.
Demetrio, D. (2000), Di che giardino sei? Conoscersi attraverso un simbolo. Meltemi, Roma.
Demetrio, D. (2002), Album di famiglia. Scrivere i ricordi di casa. Meltemi, Roma.
Demetrio, D. (2003a), Ricordare a scuola: fare memoria e didattica autobiografica. Laterza, Roma-Bari.
Demetrio, D. (2003b), Autoanalisi per non pazienti. Inquietudine e scrittura di sé. Raffaello Cortina, Milano.
Demetrio, D. (a cura di) (2004), Tecniche narrative. In Adultità, n.19. Edizioni Guerini e associati, Milano.
Demetrio, D. (2008), La scrittura clinica. Consulenza autobiografica e fragilità esistenziali. Raffaello Cortina, Milano.
Demetrio, D., Favaro, G. (2004), Didattica interculturale. Nuovi sguardi, competenze, percorsi. Franco Angeli, Milano.
Formenti, L. (1998), La formazione autobiografica. Edizioni Guerini e associati, Milano.
Formenti, L. (2000), Pedagogia della famiglia. Edizioni Guerini e associati, Milano.
Formenti, L. (a cura di) (2001), Immagini di famiglie. Adultità, n.14. Edizioni Guerini e associati, Milano.
Formenti, L. (2009), Attraversare la cura : relazioni, contesti e pratiche della scrittura di sé. Edizioni Erickson, Gardolo (Trento),
Formenti, L., Gamelli, I. (1998), Quella volta che ho imparato. La conoscenza di sé nei luoghi dell’educazione. Raffaello Cortina, Milano.
Gamelli, I. (a cura di) (2003), Il prisma autobiografico. Riflessioni interdisciplinari del racconto di sé. Unicopli, Milano.
Mortari, L. (2003), Apprendere dall’esperienza. Il pensare riflessivo nella formazione. Carocci, Roma.
Moroni, I. (2006), Bambini e adulti si raccontano. Formazione e ricerca autobiografica a scuola, Franco Angeli, Milano.
Oliverio, A. (1997), L’arte di pensare. Rizzoli, Milano.
Sacks, O. (2001), L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello. Adelphi, Milano.
Schettini, B. (a cura di) (2004), Le memorie dell’uomo. Il lavoro narrativo della mente fra retrospettiva, prospetticità e autobiografia. Edizioni Guerini e associati, Milano.
Spunti filosofici
Castiglioni, M. (2006), L’autobiografia come pratica d’introspezione fenomenologicamente orientata. QDS. Quaderni di Didattica della Scrittura, 6, 35-43.
Cavarero, A. (2001), Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione. Feltrinelli, Milano.
Ricerche nella scuola attraverso il metodo autobiografico
AA.VV. (2002), Dentro la democrazia scolastica: ascoltare la quotidianità. Quaderni Associazione Mario Del Monte, Coptip, Modena.
Demetrio, D., Bella, S. (2000), Una nuova identità docente. Come eravamo, come siamo. Mursia, Milano.
Lazzarini, C. (2000), Dare nomi alle nuvole. Un modello di ricerca autobiografica sull’adolescenza. Guerini e Associati, Milano.
Niccolai, G., Pedretti, M. (2007), Apprendimento e democrazia: un percorso di esplorazione. Una ricerca sulle pratiche democratiche nella scuola. Comune di Modena, Provincia di Modena e Regione Emilia-Romagna. Modena.
Sull’ascolto
Novara, D. (2002), L’ascolto s’impara: domande legittime per una pedagogia dell’ascolto. Ega,Torino.
Sclavi, M. (2003), Arte di ascoltare e mondi possibili. Come si esce dalle cornici di cui siamo parte. Mondadori, Milano.
Sclavi, M. (2005), A una spanna da terra. Una giornata di scuola negli Stati Uniti e in Italia e i fondamenti di una metodologia umoristica. Feltrinelli, Milano.
Letteratura sul lutto
Fitzgerald, H. (2002), Mi manchi tanto! Come aiutare i bambini ad affrontare il
lutto. Edizioni La Meridiana, Molfetta (Bari),
Pellai, A., Tamborini, B. (2011), Perché non ci sei più? Accompagnare i bambini nell’esperienza del lutto. Centro Studi Erickson, Trento.
Sunderland, M. (2006), Aiutare i bambini... a superare lutti e perdite. Attività psicoeducative con il o di una favola. Centro Studi Erickson, Trento.
Varano, M. (2012), Come parlare ai bambini della morte e del lutto. Claudiana, Firenze.
Diari migranti
Bekkar, A. (2005), I muri di Casablanca. Sinnos, Roma.
Habineza, J. P. (2007), La canzone delle mille colline. Sinnos, Roma.
Lourdes Jesus, M de. (2002), Racordai: vengo da un’isola di Capo Verde. Sinnos, Roma.
Mircea, R. (2010), Din Romania... a Roma: una nuova vita. Sinnos, Roma.
Oliveira, N. (2004), Il colore della brace. Sinnos, Roma.
Ongini, V. (2000), Io sono filippino. Sinnos, Roma.
Scego, I. (2003), La nomade che amava Alfred Hitchcock. Sinnos, Roma.
Sibhatu, R. (2004), Aulo. Canto-poesia dall’Eritrea. Sinnos, Roma.
Slynek, A. (2001), Terra di confine. Sinnos, Roma.
Tomescu, D. (2003), Intorno al fuoco. Sinnos, Roma.
Di.M.Mi: I diari e la premiazione
Vincitore della categoria giovani
* * *
I miei 17 anni
di Aleksander Hysa
Era il giorno 24/01/2014, era il giorno venerdì, mi sono svegliato dal casa di mio zio alle 7:00 di mattina.
Mi sono vestito, esco fuori dalla casa, vado in centro per prendere in taxi, e per andare in l’aeroporto di Tirana, sono in l’aeroporto alle 13:00, perché alle 14:00 io ho tagliatto biglietto per venire in Italia, e così lorologgio indica 13:30 ho fatto tutto i controlli e poi la carta d’imbarco di un aerio. Fra 40 minuti io si trovo in l’aeroporto di pisa o più precisamente in Italia da solo. In l’aerio mi sentivo strano perché era da solo e non sapevo cosa fare quando erro sceso dal’aerio. Il tempo sembrava essersi fermato. Perché era prima volta che facevo da solo una cosa importante per me, perché ho lasciato tutto quello che volevo nella mia vita. Ho deciso di venire in Italia da molto tempo fa, perché i miei rapporti con mio padre non ero padre e figli ci siano tutti e non erano buone. Ho parlato con la mia famiglia e ho detto che andro in Italia e basta. perché con mio padre non funzionano le cose tra noi, lui ha iniziato da bere, e era violento con me e con tutti, mi tratava male e con me è stato sempre lontano non abbiamo avuto un buon rapporto padre e figlio. Per ora non parlo con mio padre però non
lo so dopo come si andrano le cose tra me e mio padre.
Nessuno dei miei amici non è partito per l’Italia come me. Non ho seguito nessuno l’esempio di qualcuno perché questa cosa io ho scelto da solo.
Non era la mia famiglia che mi ha spinto di venire qui era solo mio padre che io ho preso questa decisione per venire qui, e io lo ho preso questo decisione per costruire la mia vita con le mia forze e lontano da mia famiglia e da mio padre.
Non lo so dire che lo ano fatto o no questa cose che lo ho fatto io, perché queste cose dipendono da relazioni famigliari o come ogni persone che pensa in maniera diversa la sua vita e il bene della sua vita.
Ho pensato di trovare qui in Italia un lavoro sicuro e poi per fare i documenti, e vero che si dice così in Albania che qui in Italia che più lavoro però e vero che si dice che anche in altri paesi hanno più lavoro, non digliono solo per l’italia. In realita in Italia ho trovato una casa in qui vivo e non lo so come finisce questa cosa. E in realita non ho trovato questa che ho detto un lavoro sicuro come io pensavo. Qui in Italia mi piacerebbe lavorare come electricista perché lo ho in Albania e mi piace come lavoro.
Le differenze tra Albania e Italia sono numerose poso parlare per l’autostrada che in Albania non ci sono in buone condicione, poi non è un paese molto pulito, è un paese dove leggi non funzionano per bene, la mentalita è molto diversa da Italia, e poi non ci sono giochi per bambini picoli.
Non lo so che cosa vuolevo veramente combiare per mio paese, però più importante in Albania è quello di aprire più posti di lavori, dove le persone
posono lavorare e non venire in altri paesi a lavorare, poi è la mentalità, e anche più importante e la politica perché in Albania ce molti di corruzione, dove i deputati pensano solo regolare la loro vita e la loro famiglia e basta.
Per me lasciare l’albania e per tornare in l’italia non era per migliorare il mio futuro, perché molto bene io poteva migliorare il mio futuro in mio paese, dove poteva studiare e poi per trovare lavoro poteva fare anche questa cosa, però per me questa cosa che ho fatto era una scelta obbligativa per mia vita.
Io li ho sperimentato le cose brutte nell mio paese per molto anni perché ho vissuto nel mio paese per molti anni, e lo so come si funziona le regoli, mentalità della gente, e tutte le altre cose.
Mi piace abbastaza vivere in Italia mi piaceno gli italiani come le persone infatti la mentalità è molto diversa tra l’albania. Mi ho sembrato strano quando in comunita erano litigi, furti... perché io queste cose non lio fatto mai nella mia vita soprattutto furti.
Le persone che mi mancano di più sono la mia famiglia, la mia mamma, i mio fratello, i miei nonni che li voglio tanttissimo bene, mi manca tantto la mia ragazza, e anche i mie amici di scuola e tantti altri amici.
La cosa che mi manca di più è la mia casa.
Mio fratello la persona più importante e speciale nella mia vita, per mio fratello sono in grado di dare la mia vita perché lo voglio tantto bene. con mio fratello ho condivido tutto il mio infancia, tutto le cose che abbiamo condiviso insieme.
Mi ricordo sempre che mio fratello era sempre accanto a me quando ho bisogno di più, quando pianggevo, quando era triste, felicita... in tutto. Ha risieduto in tutti i momenti accanto a me. Mio fratello è unico non ci sono come lui.
La mia casa è fatta due piani è una casa semplice, la cosa che mi manca da mia casa è la mia recamera dove ero più tempo ad rimanere con mio fratello, dove io sempre ascoltavo la musica, guardavo la TV fino a tardi, quando faccevo i compiti e molte cose altre, ho molti ricordi nel mio recamera mi manca.
Vincitrice della categoria donne
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Io straniera... uno sguardo al ato
di Qaisera Gulnaz
INTRODUZIONE
Caro Diario,
sei il mio compagno ormai da alcuni mesi, sai tutto del mio presente e dei miei progetti futuri ma non sai niente del mio ato, oggi vorrei parlarti della mia infanzia, della mia adolescenza e di quali erano i miei sogni nel cassetto e i desideri nel animo.
Vorrei che tu sapessi come ho fatto a diventare la persona che sono oggi, grazie a chi ho questo forte carattere.
A dirti il vero non so perché oggi ho tanta nostalgia del mio ato, dei miei cari, di quella vita spensierata, di quella terra lontana, di quei amici dispersi, di quella voce dell’imam all’ora della preghiera, di quei campi fioriti, di quel fiume d’acqua pura, di quel cinguettio degli uccelli, di quelle chiacchiere dei contadini, di quei rumori familiari, di quel sole splendente, di quella luna confidente, di quella terra fertile, di quei colori dell’arcobaleno, di quei sorrisi sinceri, di quegli sguardi pieni d’affetto, di quelle preghiere profonde, di quegli abbracci amichevoli, di quel volo dei corvi, di quel profumo dell’ henné, di quella gente semplice, di quella lingua dolce, di quella pace interiore, di quella solitudine amica, di quella melodiosa ninna nanna, di quelle allegre risate, di quella fresca pioggia, di quel terreno che profuma di sudore, onestà, dignità ed onore, di quelle lunghe notti, di quell’amore fedele, di quei colori, di quei sapori, di quelle feste piene di canti e balli, di quegli innocenti giochi, di quelle belle illusioni e brutte delusioni. Adesso niente è come prima laggiù, tutto è cambiato, sembra diverso, strano ai miei occhi.
UN’INFANZIA DA PRINCIPESSA
Io, Qaisera Gulnaz, sono nata in un piccolo paese del Pakistan.
Il mio paese era piccolo ma vi era presente ogni tipo di servizio (le scuole dalla materna alle medie, clinica medica, negozi alimentari, negozi di vestiti e scarpe, il servizio di trasporto), insomma c’era tutto quello di cui potevano avere bisogno gli abitanti.
Vivevo con la mia famiglia, che era composta dai miei nonni paterni, dal fratello di mio nonno Ciragh Baba, da mio zio e sua moglie, mia madre ed io, che ero la principessina di tutti non solo dei miei parenti ma anche di tutti gli abitanti del paese.
I miei nonni mi mandavano in una scuola pubblica ma, poiché ero una bambina molto viziata, scappavo da lì. La mattina ero l’unica ad essere in ritardo nonostante la scuola si trovasse dietro l’atrio di casa mia ed ero l’unica alunna che non veniva mai sgridata o picchiata; dopo mia madre decise di mandarmi in una scuola privata (dove insegnava una mia vicina di casa), ma non servì a niente: spendeva e basta, era impossibile con una peste come me.
Quando mia madre mi brontolava perché non andavo a scuola, mia nonna la sgridava, per me litigava anche con mio nonno che voleva io venissi educata secondo la mia posizione sociale.
Avevo molte amiche e tutte venivano a giocare a casa mia, soprattutto perché era
grandissima e poi perché mio nonno non voleva che io uscissi a giocare fuori.
La mia casa, oltre alle lussuose stanze da letto arredate con gusto ed amore per l’arte, era composta da un corridoio, due cucine, due salotti e un grandissimo atrio, dove d’estate ci si dormiva, in fondo al quale c’erano i servizi igienici. La porta d’ingresso si apriva in una sorta di fattoria, dove mio nonno allevava i suoi animali: mucche, pecore, bufali e le galline di mia nonna, inoltre c’era un grande giardino con degli alberi sui quali mi arrampicavo come una scimmietta.
Tutte le mie amiche dopo la scuola e nei giorni festivi andavano con i loro genitori, che lavorano nei campi di mio nonno, mentre io mi annoiavo a casa allora convincevo mia nonna a portarmi con loro, dopo tanto litigio lei riusciva a convincere il mio nonno a portarmi ma lui aveva sempre paura che la sua peste potesse annegare nel fiume, dove io ho imparato a nuotare, che scorreva li vicino e che serviva a far bere gli animali.
Mio nonno coltivava il tabacco, il cotone, la canna da zucchero, il mais, il grano, tutti tipi di verdura e inoltre essendo un amante del mango, era il migliore coltivatore di quel frutto.
I miei nonni materni vivevano in un paese li vicino distante dal mio solo un paio di chilometri e quasi tutti giorni qualcuno dei miei due zii o mio nonno veniva a farci visita e a portarmi i regali, che di solito erano giocattoli di terracotta fatti e dipinti a mano dagli artigiani.
La mia vita era differente da tutte le altre bambine e in tutti gli aspetti migliore: possedevo tutto ciò che gli altri potevano solo desiderare o sognare e per questo, oltre a Dio, devo ringraziare la mia famiglia, che ha voluto sempre accontentarmi in tutto.
CAMMINO VERSO L’ITALIA
Caro amico,
forse non ti ho mai parlato di come e perché mi sono trasferita in Italia ed oggi colgo l’occasione in quanto in questo momento anche la mia anima ha bisogno di rinfrescare la sua memoria con quei momenti a volte belli e molte altre pieni di dolore e sofferenza.
Avevo nove mesi quando mio padre venne in Europa, che aveva già visitato con i suoi amici prima di sposarsi: era stato in Belgio, in Germania, in Francia ed infine nel 1990 aveva deciso di stabilirsi in Italia. Mio padre ritornò in Pakistan dopo cinque lunghi anni, che oltre alla sua vita avevano segnato anche la mia: pur essendo una bimba spensierata anche le mie giornate presentavano dei momenti oscuri, soprattutto quando tutti i miei amici se ne andavano ed io rimanevo sola, assalita dai pensieri che mi riportavano a mio padre, che sempre mi scriveva e mi mandava le sue foto e mia madre lo aggiornava su ogni aspetto della mia vita attraverso le lunghe lettere che in solitudine lei scriveva, mandandogli anche le mie foto.
Per molti anni ho incolpato mio padre di non essere stato presente durante la mia infanzia, ma oggi mi dispiace di averlo pensato perché so che lui ha fatto tutto questo per la sua famiglia e la sua indipendenza. Una volta ritornato in Pakistan, mio padre si era impegnato a sbrigare tutte le pratiche per portare me e mia madre con sé in Italia, dove abito dal 1994 con la mia famiglia, cioè i miei genitori, mia sorella che è undici anni più piccola di me ed i miei due “gemellini” (mio fratello e mio cugino più piccoli di me di quindici anni).
Sinceramente non volevo trasferirmi in Italia perché ero molto legata alla mia nonna paterna, che ricopriva il ruolo di tutti i due i miei genitori ma secondo mio nonno era meglio per il mio futuro che io venissi qui.
Man mano che il giorno della mia partenza si avvicinava i preparativi ebbero inizio (shopping, festa di addio, in cui, oltre ai miei parenti, salutai anche la maggior parte dei miei compaesani, che erano molto tristi per la partenza della loro piccola principessa che amavano come una figlia), ma io dentro di me ero certa che mia nonna non mi avrebbe mai allontanato da sé per nessun motivo, tanto meno per il mio futuro, che potevo costruirmelo anche stando lì: di certo non mi mancava niente, potevo avere e fare tutto. Pensavo che lei avrebbe escogitato un piano per tenermi con lei, infatti anche nel momento in cui tutti mi salutavano con abbracci, baci e lacrime io ero piena di speranza che non sarei partita, aspettavo un miracolo da parte del mio angelo custode, ma non successe niente di tutto ciò che avevo pensato e con il cuore a pezzi mia nonna mi salutò (per la prima volta la vidi piangere e questo fatto mi addolorò ancora di più).
Convinta da tutti che dovevo partire con i miei genitori fui costretta a lasciare tutto ciò che amavo di più al mondo ma nessuno sa che oltre a quello ho lasciato lì anche una parte di me stessa cioè il mio cuore.
Il primo momento più brutto della mia infanzia, quindi, fu la mia partenza: non ricordo di aver mai pianto così tanto, quanto quel giorno quando dovetti partire, avrei sacrificato tutto allora pur di non potermi allontanare dalla mia vita, dai miei familiari, dalla mia casa, dalla mia terra, dalle mie amiche. Allora tutti pensavano che essendo piccola e forte di carattere avrei sopportato anche questo grande cambiamento nella mia sfera abituale, ma nessuno si rendeva conto che loro stavano strappando un albero dal suo habitat per piantarlo in un altro, secondo loro migliore, senza rendersi conto del fatto che quella piccola pianta poteva anche apirvi. La mia partenza segnò la fine di una fanciullezza piena di amore, divertimento, amicizia e affetto perché non ho mai potuto più assaporare a pieno nessuna di quelle meraviglie e fu così che per la prima volta nella vita conobbi la solitudine, la cattiveria, l’indifferenza e il razzismo, mentre
nel mio paese ero sempre circondata da amiche che mi volevano molto bene e facevano a gara pur di are un po’ di tempo con me.
I COMPAGNI D’INFANZIA
I giorni ano e la mia nostalgia aumenta sempre di più, per questo ieri ho chiamato in Pakistan un’amica e sono riuscita ad avere qualche notizia riguardante i miei amici.
Caro diario,
oggi ti faccio partecipe nella mia cerchia di amici d’infanzia con i quali non ho avuto la fortuna di crescere, ma cui voglio molto bene come in ato. L’amica che ho sentito per telefono mi ha detto che Gudia si è sposata un suo cugino da un paio d’anni ma non ha figli, Mithu vive e lavora a Dubai ma presto ritornerà a casa per sposarsi, Gazala è rimasta orfana di entrambi i genitori e si occupa dei suoi due fratelli più piccoli, Sajida è sposata ed ha due figli, Khalida è infermiera a Karachi ed è fidanzata, Mehnaz, chiamata Guddho (che era cristiana e con la quale festeggiavo il Natale andando in chiesa e mangiando con la sua famiglia) che è un’insegnante ed è sposata, Nasrin, per gli amici Shinni, che lavorava a casa mia ed era mia migliore amica pur avendo il triplo dei miei anni, oggi è sposata e vive in un paesino vicino a Faisalabad ed è mamma di un bimbo di sei anni.
I giorni della mia infanzia avano velocemente tra un gioco e l’altro ed io, ignara del mio futuro, avo la vita a divertirmi lontana dai problemi e dalle sofferenze cui erano soggetti molti miei amici e conoscenti.
La vita mi aveva donato ogni cosa che per la maggior parte dei miei coetanei era solo un bel sogno e per questo non ho mai ringraziato abbastanza il Creatore, i miei nonni e i miei genitori e per questo colgo oggi l’occasione per farlo, anche
se forse non sarà mai abbastanza.
Tutte le volte che mi sento giù di corda cerco rifugio nei miei ricordi, che sono sempre pronti ad aiutarmi alleviando il mio dolore.
Io, essendo una bambina vivace e solare, giunta in Italia, mi aspettavo di fare nuove amicizie, ma fu molto difficile perché inizialmente non sapevo parlare italiano e poi gli altri non riuscivano ad accettarmi: facevo di tutto per essere notata, divenni un giorno anche il giocattolo per gli altri obbedivo ad ogni ordine come un burattino, i cui fili sono nelle mani di altri che li muovono quando e come vogliono, anche questo non era abbastanza perché c’era sempre qualcosa che non andava in me; poi un giorno ho capito che la colpa non era la mia, ma degli altri che mi consideravano una minaccia.
Niente e nessuno riusciva ad alleggerire il mio dolore, né i caldi abbracci di mia madre né le dolci parole di papà. Mi sembrava che la vita fosse crudele con me, in quanto aveva allontanato la mia felicità regalandomi solo amare lacrime che versavo ormai giorno e notte.
Prima di iscrivermi alla scuola elementare il Comune mi aveva assegnato un’ insegnante, Maura, una ragazza meravigliosa, piena di pazienza ed affetto, che meglio degli altri riuscì a capirmi e ad aiutarmi: questo prima esperienza è stata il primo gradino di una lunga scala, che mi aiutò ad imparare la lingua.
Ho iniziato la scuola elementare dalla classe terza e poi ho fatto la quarta e la quinta in un anno solo.
Superato l’esame, ho frequentato la scuola media con un buon esito e le superiori
con il miglior esito, pur avendo avuto moltissimi problemi con le mie compagne di classe.
L’odio e l’ignoranza della gente ci ammazzano pian piano, facendoci soffrire a piccole dosi.
Io ero una ragazza semplice che non ha dovuto combattere mai per niente, invece in Italia ho dovuto imparare anche questo. Tutte le mattine, per cinque anni, era una lotta continua nel pullman del paese per ottenere un posto, perché gli altri studenti nei posti liberi preferivano tenerci i loro zaini piuttosto che farmi sedere accanto a loro: era come se avessi potuto attaccare loro la peste.
Caro diario, a volte penso chissà quanta altra gente al mondo come me avrà sofferto o soffrirà ancora solo per essere accettata come essere umano. A volte le persone vengono odiate per il tipo di colore, di capelli, di occhi, altre volte per l’abbigliamento e molte altre volte per le loro usanze, ma spero che un domani sorga un nuovo giorno pieno di amore e gioia per tutti e il razzismo e l’odio tramontino per sempre.
* * *
LETTERA AD UN NEMICO
Caro diario,
oggi ti leggerò la prima lettera che ho scritto in italiano dopo aver imparato a scrivere.
“Caro Razzismo, vorrei che tu fossi un abito, un paio di scarpe, un gioiello qualunque di cui possa sbarazzarmi, ti giuro non perderei tempo a liberarmi della tua presenza, ti rinchiuderei nell’oscuro tunnel che hai creato in me, proprio lì, dal quale tu non possa mai uscire. Tu venissi inghiottito dal tuo stesso dolore! Maledetto Razzismo, sei l’unica cosa o persona, non so neanche come considerarti, che avrei preferito non conoscere mai in vita mia, ma sei qui, accanto a me o forse dentro di me, hai sempre cercato di uccidermi ma io ti deluderò, vincendoti se non oggi, domani: te lo giuro su tutte le lacrime che hanno versato i miei occhi.
Sto imparando a conoscerti, “caro” razzismo, e come tu non abbandoni me, io non abbandonerò te, voglio conoscerti bene per combatterti meglio. Ti penso sempre con odio, e ti auguro tutto il male di questo mondo, perché tu devi essere sconfitto, distrutto, annientato, non devi più esistere sotto nessuna forma e in nessun essere vivente.
Ogni giorno che a ti diffondi sempre di più, colpendo come un’epidemia l’intera umanità, schiava dei tuoi finti valori. Come sarebbe stato migliore il mondo senza la tua presenza!
Nessuno giudicherebbe l’altro dall’aspetto, dal colore della pelle, ma regnerebbe solo la fratellanza e tutti vincerebbero la tua paura: saresti un nemico sconfitto, inesistente.
Tutte le volte che ti sento, provo un gran freddo, mi si gonfiano le vene per il dolore e mi si congela il sangue, ma non pensare di aver vinto perché presto sarai solo un brutto ricordo in una bella giornata di sole.”
* * *
Caro diario,
grazie ai pregiudizi della gente ho imparato a dare libero corso al mio grande amore per la vita, da una semplice “negra” che ero agli occhi degli altri, oggi vivo con dignità, quella dignità che nessuno mi concesse, ma mi sono guadagnata con fatica e impegno.
La vita è davvero strana, non avrei pensato di trovarmi a ringraziare le persone che mi avevano condannato all’identità di “talebana”, “brutta negra” e molto altro, ma mi sento in dovere di farlo, in quanto è solo grazie a quella scintilla di dolore che sono riuscita a dare uno scopo alla mia esistenza: aiutare gli stranieri che abbandonano tutto, con speranze di una vita migliore, ma vengono incoronati da mille delusioni.
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UN FRUTTO... UN RICORDO
Uscendo dall’ospedale, oggi ho visto un albero di more e mi sono fermata sotto la sua ombra a rinfrescare i ricordi di quando da piccola andavo con i miei amici a rubare le more dall’orto del cugino di mio nonno, quel albero era più grande e robusto di questo. Con le lacrime agli occhi ho assaggiato una mora che, tuttavia, non era dolce come quelle: un ricordo che, allora, nella mia mente ha preso vita
è di quando stavamo per rubare le shtut (more) e, venendo sempre sorpresi dal padrone, scappavamo come dei dannati. Tutti i miei amici venivano puniti a causa della spia fatta dal padrone mentre io mi guadagnavo un cestino pieno di more.
Con gli amici si ride, si litiga, si fa pace e poi un giorno si cresce. Le strade iniziano a dividersi e gli amici diventano come le stelle: non li vedi sempre, ma sai che esistono, pronti ad ascoltarti.
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INCONTRO CON I PRIMI OSTACOLI
L’ambiente scolastico mi ha causato molti problemi: i miei compagni mi hanno attaccato la gomma da masticare ai vestiti nuovi, mi hanno dato fuoco ai capelli, mi hanno offesa con parole tipo “brutta negra, vattene via, ritorna da dove sei venuta”; ma il culmine è stato quando, dopo l’11 settembre, sono rientrata a scuola e durante l’appello un professore mi ha chiamata “talebana”. Tutti si misero a ridere ed io non capii come reagire, da quel giorno in poi quel termine divenne il mio soprannome.
Tutti i giorni rientravo a casa, nel silenzio della mia stanza guardavo le foto ricordo e piangevo, la notte mi ritrovavo a sobbalzare nel sonno, era come stare in una grossa gabbia, intrappolata in giochi di specchi, in un incastro di scatole, mi sentivo soffocare dalle mie stesse lacrime.
La mia agonia era diventata evidente ormai e anche mia madre aveva iniziato a
porsi domande sul mio comportamento, tanto da are tutto il suo tempo con me, facendomi molte domande ma io non riuscivo ad esprimere il mio dolore.
La situazione a scuola, tuttavia, non cambiava, ero sempre vista come un’incivile, diversa dagli altri e mi trovavo completamente sola ad affrontare il mio primo grande nemico: il razzismo, se così si definisce quel velo che nasconde la bellezza di una persona con il nero degli sguardi di coloro che non sanno vedere e riconoscere gli altri colori.
Quando mi guardavo intorno, mi sentivo un’estranea, il mondo mi crollava addosso, stava distruggendo spietatamente una disgraziata ragazza che aveva perso tanto.
Mi sentivo svuotata, delusa, i comportamenti dei miei compagni non mi facevano sperare in un futuro migliore: per colpa loro ero diventata una persona fragile e a volte anche cattiva, vivevo una vita dai contorni confusi e a volte contraddittori.
Il mio stato d’animo era un insieme di sentimenti confusi: avo dallo sconforto alla sfida, dalla gioia alla depressione, dalla voglia di andarmene alla chiusura in me stessa.
Il dolore causato dall’umiliazione uccide una parte di te che nessuna felicità può riportare in vita, ti cambia radicalmente, in modo irriconoscibile.
Dopo tante sofferenze infertemi inutilmente, oggi posso dire di essermi fatta delle amiche che mi apprezzano per quello che sono, senza pensare alla mia religione, al colore della mia pelle o al mio modo di vestire.
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IL FIORE DELL’AMICIZIA
Caro diario,
è vero che l’ambiente scolastico è stato la causa di tanta sofferenza per me, ma è vero anche che proprio dietro ai banchi di scuola ho trovato un’amica meravigliosa che ha illuminato le mie giornate con il suo sorriso: Laura. Io e Laura siamo diventate amiche per la pelle dai primi giorni delle superiori, nel settembre del 1999.
Ricordo ancora il primo giorno di scuola: io ed altre due mie compagne di classe siamo arrivate in ritardo in classe, infatti a causa di un errore di sezione ci eravamo perse ed eravamo andate in un’altra classe e, dopo l’appello, non avendo trovato i nostri nominativi nel registro, l’insegnante ci ha accompagnate dalla bidella, che finalmente ci ha accompagnate nella classe giusta dove l’insegnante di italiano aveva appena finito l’appello. Dopo che la bidella ha spiegato il motivo del nostro ritardo sia l’insegnante che le alunne si sono messe a ridere ed è allora che ho notato una ragazza bionda con gli occhiali che sorrideva timidamente: in lei c’era qualcosa che mi ispirava fiducia e tanta tenerezza, ho visto un posto libero in prima fila accanto a lei e mi sono seduta, ci siamo solamente salutate, presentandoci all’intervallo. Da quel momento ad oggi siamo amiche.
Io e Laura anche nei silenzi riusciamo a sentire e comprendere il nostro timido pianto, senza parole riusciamo a captare la confessione delle gioie e dei dolori.
Siamo sempre pronte ad ascoltarci quando ne abbiamo bisogno e lei è la prima persona cui penso quando sono in crisi o felice oppure quando ho bisogno di un consiglio sincero. E’ bello condividere le gioie e le sofferenze con qualcuno che ti conosce bene ed è sempre pronto a dividere il peso di un segreto con te.
Sono seduta a parlare con te caro amico e ovunque i miei pensieri vagano, trovano quelli di Laura per guardare insieme al domani, sono vividi ancora i ricordi di quando l’amicizia ci attraversò il cuore, seminando in noi un’emozione forte che ci lega e scopriamo giorno per giorno di volerci sempre più bene e se perdessi lei perderei anche me stessa, perché so che con lei posso condividere tutto e potrei affidarle anche la mia anima, perché so che la custodirebbe caramente.
Penso all’amicizia come ad un qualcosa di eterno, che non nasce e non muore, ma vive all’infinito dentro a di noi.
Io e lei riusciamo a trasformare il tempo che iamo insieme in qualcosa di magico, fantastico e divertente. Ogni momento trascorso con lei resterà per sempre nel cuore, non lo dimenticherò mai.
Mia nonna mi diceva che conoscevo la magia per fare l’amicizia con gli altri e non c’era nessun essere umano che non pensasse mai a me o si dimenticasse di me una volta che mi avesse conosciuto.
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IO, CITTADINA DEL MONDO
In tutti questi anni che sono stata in Italia non c’è momento che non avessi pensato alla mia famiglia, alla mia casa e al mio Paese, al quale ho dedicato la seguente poesia presente nel mio libro di poesie “Nel mio cuore un po’ di sogno un po’ d’amore”:
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PAKISTAN
Pakistan caro,
il vento scompone i capelli dei tuoi alberi
e implorando da lontano
mi chiama la tua voce
come il cinguettio di un uccello,
che
nei miei sogni sparge luce e nostalgia.
Quasi tutti gli anni tornavo nel mio Paese, ma da quando sono morti i miei nonni paterni, a causa della sofferenza e del dolore ci ritorno raramente: non ho abbastanza forza di vedere la mia casa senza la loro presenza, mi sembra di morire.
La sofferenza più grande della mia vita è stata la perdita di mia nonna che era la persona più importante della mia esistenza, mi aveva insegnato a non arrendermi mai, ad essere sensibile di fronte ai problemi degli altri, a vivere onestamente senza pregiudizi, ad aiutare tutti quelli che ne avevano bisogno, ma soprattutto mi aveva insegnato ad amare.
Io penso di essere cittadina del mondo e la mia casa sono i miei due Paesi: uno, quello in cui ho aperto gli occhi per la prima volta e nella cui aria ha echeggiato il mio primo pianto e l’altro, quello che mi ha visto crescere, sorridere, piangere, rialzarmi dopo una caduta e continuare il mio cammino.
I vincitori ex aequo della categoria uomini
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A me i problemi arrivano solo quando dormo di Sliman Faress
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La valigia
di Milivoje Ametovic
Non so quanto pesa cosa ce dentro, ma credo che ce un paio di pantaloni 2-o tre calcini,maglietta ,? A si,cera anche la paura ,voglia,mondo sconosciuto, religione e tanta – tanta SPERANZA .
Credo che le persone non si debbano distinguere sulla razza, colore di pelle o appartenenza di religione. Credo che gli esseri umani bisogna dividerli solo come fortunati o sfortunati…, alla fine, la fortuna tante volte dipende da altre persone, che in qualche maniera, sono in grado di condizionare la vita o la fortuna delle famiglie che erano fortunate, avendo quel poco che avevano,
Sono uno dei tanti sfortunati!!! Mi chiamo Ametovic Milivoje nato in exJugoslavia oggi chiamata Serbia. Da una famiglia contadina povera economicamente ma ricca di onesta e di valori umani. Dopo che ho studiato e cresciuto mi sono sposato nel 1986 e ora ho 3 figli, credevo che il mondo fosse mio e che tutti fossimo uguali. Ma ho scoperto, nell’anno 1990, che le persone odiano altre persone solo perché appartenenti a una religione diversa dalla loro.
La guerra è scoppiata, si sentono le bombe dalla mia montagna vedo come bruciano le case in Bosnia. Mi sono chiesto: “oh dio perché? Ferma tutto!!!”. ata la notte, arrivano per portarmi per combattere per le idee sbagliate. Scappo mi nascondo, non voglio usare le armi contro l’umanità. Anno 1993,
mentre dormivo, sognavo di scappare in Italia, paese di libertà, democrazie e uguaglianza. Anno 1994 scappo in Italia come clandestino, lascio la famiglia per cercare la salvezza. Con l’aiuto delle persone arrivo con il pullman in Slovenia. Attraverso la frontiera a piedi facendo l’autostop, arrivo a Mestre, prendo il treno per Bologna, dormo in stazione, poi in un camion abbandonato e 9 mesi in una macchina di un mio amico Ecc.… Finalmente ho conosciuto un signore che mi ha dato un lavoro e che si chiama Lo Conte Di Giuseppe, firma tutte le garanzie per me, così riesco a ottenere il primo permesso di soggiorno di 18 mesi, lavoravo come un matto- il mondo è mio?
Anno 1997 ho conosciuto un toscano M. P.- mi trova lavoro e mi sposta in toscana. V. così si chiamava la ditta del sig. S. C.. Ho firmato il contratto a tempo indeterminato. Ho pensato ora si, il mondo è mio. Dopo qualche mese mi arriva la telefonata da casa, “ mi devi portare via gli americani bombardano l’intero paese”. Era vero. Per 72 giorni i missili tomahouk fischiavano sopra il mio paese. Vado a casa, studio come salvare la mia famiglia, non ce l’ho fatta. Torno in Italia dopo un po’ torno in Serbia e avevo capito che illegalmente non potevo portare la famiglia, cerco un modo come fare. Tempo a, finisce la guerra dopo 10 anni inizia la guerra economica, inflazione e problemi sociali, stato che crolla, cambiano presidenti e governi, gente abbandonata! E IL CITADINO PERDE VALORE ;; Cominciano disordini e leggi,,FAI DA TE,
Anno 2000 inizio le pratiche per portare la famiglia. Anno 2001 ottengo dalla questura il nulla osta. Settembre 2001-LA MIA FAMIGLIA È CON ME, IN PIAZZA ALBIZI 5/C LOCALITA’ SIECI-PONTASSIEVE. Da quel momento fino al 18 ottobre 2012 lavoravo giorno e notte, sabati e feste volevo creare la giusta esistenza a me e alla mia famiglia. Com’è previsto dalla costituzione italiana art.36 di rapporti economici. Tutto è normale la vita va avanti, ragazzi studiano, moglie fa tanti progressi e grandi amicizie con Maria-Nella-DeboraAnna – Renzo Dini-Ada-Bruna-Elda e Rolando e tante altre persone. Ho pensato basta poco per essere felice, parlavo con me stesso ora si, faccio la domanda per la cittadinanza italiana, voglio diventare un cittadino italiano mi sono INTEGRATO PERFETTAMENTE. Finalmente arriva il momento del giuramento sulla costituzione italiana pronunciavo le parole “ giuro di essere fedele alla repubblica e alla costituzione italiana”, CHE ONORE CHE
FELICITA’. Lavoravo, lavoravo, lavoravo dalla mattina al buio e la sera tornavo alle 7, 8, 9 24:00 non guardavo l’orologio. avano giorni mesi pagavo i miei oneri e debiti.
Anno 2009 all’improvviso la mia ditta si trova in difficoltà, e non si sa la verità, investimenti sbagliati spese inutili-ritardano i pagamenti-lo stipendio non si riceve. Parlavo con il mio amministratore S. C. “capo che si fa?” la risposta “ non ti preoccupare siamo tutti una famiglia bisogna tirare avanti”. Pensavo dentro di me “ si dai tiriamo avanti”. Anno 2010 la situazione peggiora parlo con il responsabile “capo che si fa” risposta “Michi-cosi mi chiamavano “ vinciamo noi”! Pensai dentro di me “dai Michi ti ha dato lavoro ti ha accolto lo devi aiutare si tira avanti”. Avevo un dubbio dopo 4 mesi che non percepivo lo stipendio, però con la fiducia guardavo avanti. Pensavo all’affitto di 700 euro al mese:” come faccio a pagarlo?”. Anno 2011 il mio mondo e il mio sogno crollano, però continuo a lavorare in pieno e con la massima responsabilità, anche se non ricevevo lo stipendio. Aprile 2012 dopo tanti manoscritti e tanti appelli io e i miei colleghi abbiamo scoperto che il nostro datore di lavoro è stato furbo e che la sua furbizia è emersa come la sua personalità falsa. Appoggiandosi su di noi sfrutta leggi per organizzarsi con la nuova società s.p.s, elimina alcuni operai e tra di loro mi ritrovo anch’io. Ultimo tentativo “ capo come si fa?” chiedendogli 700 euro solo per l’affitto, la risposta è “ fai i tuoi i che io faccio i miei”, la felicità è svanita buio totale. Mi rivolgo al sindacato cgl chiedo i diritti. Maggio 2012 abbiamo fatto la vertenza di pagamento non riesco più a pagare l’affitto, il mio incubo diventa realtà, non dormo, chiedo aiuto al neuro psichiatra dottoressa Duma presso il comune di Pontassieve. Mi ascolta-mi consiglia-mi da la forza morale, mi prescrive la cura che mi tranquillizza. Mi sono rivolto a tutte le autorità dello stato, presso la caserma dei carabinieri di Pontassieve e presso l’ASL regione Toscana di Osmannoro, presso l’ispettorato di lavoro però tutt’oggi la risposta non c’è. Mi sono rivolto alla guardia di finanza di Pontassieve che mi hanno indirizzato verso Firenze “parlo, racconto, spiego, chiedo, cerco di fargli capire tutte le truffe che ha fatto contro le persone e la ditta. Dopo qualche chiacchera mi rispondono “se il datore di lavoro non ti paga non è un reato”. In quel momento mi sono chiesto” cos’è un reato”? 18 ottobre 2012 mi hanno cacciato via come un cane bastonato, dolore immenso, con 55.000 euro da avere e con il cud falso del 2011, perché il mio datore di lavoro ha creato, a casa sua, un impero abusivo e perché lui ha fatto investimenti sbagliati. La mia storia e il racconto potrebbe
essere molto più lungo,ma non importa, come o detto sono nato nei tempi sballati, dove ce poco spazzio per deboli e indifesi,e dove il diritti umani tantissime volte sono scritti e approvati sula carta e dove diritti sono anche protetti con la Costituzione .Credo che posso chiudere la mia valigia perché in partenza era piena di speranza e voglia di essere acetato ?.Oggi vorrei solo un po’ di dolcezza per cancellare il sapore amaro di queste continue d’eluzioni. Non esiste quella bell’ Italia come di 20-ani fa,oggi esistono solo grandi slogan e le parole che non ano la responsabilità .Vorrei che il miei figli e il figli di mei figli e tutti altri figli a un domani si sentirebbe come cittadini EUROPEI con lo stesi diritti e parità sociale.
E DOVE STRANJIERI NON ESISTONO E DOVE SI POTREBBE CHIAMARE CITTADINI DEL MONDO
Video della premiazione del concorso di Chiara Martina
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