L’alba del maiale romanzo
Alessio Paša
Published by Giuseppe Meligrana Editore
Copyright Meligrana Editore, 2015 Copyright Alessio Paša, 2015
Tutti i diritti riservati ISBN: 9788868151614
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L’alba del maiale
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Alessio Paša
Alessio Paša, 60 anni, nato a Genova, ora vive a Domodossola. È formatore e consulente d’impresa e apionato corridore e nuotatore. Ha iniziato a scrivere quindici anni fa realizzando una serie di storie brevi in versi, tra le quali, nel 2009, “Appuntamento con il notaio” è stata pubblicata da Lorenzo Barbera Editore. Negli anni successivi ha iniziato a comporre la pentalogia di sco, il primo volume “Occhitelli mariarotta benvolendo sopraspina tornamore se” è stato pubblicato nel 2012, il secondo, “1978” nel 2013 e, dopo questo “L’alba del maiale”, il quarto è atteso per i primi mesi del 2016.
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I personaggi, i fatti e le località descritte in questo romanzo sono in buona parte frutto della fantasia dell’autore.
I
La notizia del rilascio di Laura è arrivata il 10 febbraio, mi ha avvisato Santo, il suo e il mio avvocato, lo stesso che nel 1978 mi era stato assegnato d’ufficio, un ragazzino smilzo, risucchiato dentro la toga fuori misura, un naufrago nel marasma del processo, delle gabbie affollate, le urla, le minacce, i giudici spaventati. Era riuscito a individuare una strategia difensiva, due o tre frasi sussurrate durante l’arringa finale, sommerse dai fischi degli imputati. Cercavo di ascoltare, spingendo, la testa tra le sbarre, non mi era possibile distinguere le parole, capire ciò che stava accadendo. È stato un altro detenuto a intuirlo, dall’espressione di uno dei giudici si è reso conto che Santo ci aveva azzeccato, sarei uscito, molto presto. Da allora è il mio legale di fiducia e da una decina d’anni mio socio, oggi abbiamo un ufficio in centro a Milano, prima, all’inizio, nell’82, avevamo in affitto un ex negozio a pianoterra a Vimodrone, dalla strada, attraverso le vetrine, ci vedevano. Santo, sco e Carla, nostra impiegata e nostra tutrice, adesso responsabile generale della segreteria. “C’è la conferma della cancelleria del tribunale e della direzione del carcere, esce lunedì prossimo, il 17, alle dieci del mattino” Santo ha una vocina da bambina, al telefono riesce appena a farsi udire “Al massimo alle undici.” “A Torino, alle Vallette?” “Sì, aspettala davanti al portone principale, escono da lì.” “Sei sicuro, Santo? Non vado per niente? Tre anni fa ho aspettato quasi dieci ore, e poi non è uscita.” “Allora era successo l’incredibile, lo sai. Una scarcerazione revocata la sera prima, e senza avvertire il legale, da non credere.” “Ho un’agenda che fa schifo, vedo gente a mezzanotte e alle sei del mattino, non posso permettermi di perdere un’ora.” “Ho la certezza, sco, esce il 17.”
“Anche tre anni fa avevi detto che eri sicuro.” È rimasto zitto, senza timore, in attesa, è il suo modo di difendersi quando è in difficoltà, quante volte l’ho visto impietrirsi in questo silenzio, in aula quando non ha più argomenti a disposizione, quando il suo testimone ha appena concluso una frase che non avrebbe dovuto pronunciare, quando, in studio, il praticante di turno ha elaborato una memoria difensiva scadente. “Allora per le dieci” ho ripetuto. “Alle dieci precise, una signora non si fa aspettare!” ha esitato un momento, ha cambiato il tono di voce “Porti anche Matteo?” “No, lo mando a prendere all’uscita da scuola e lo faccio portare in albergo, sua madre la incontra lì, in territorio neutro.” “Hai deciso così?” “Sì, credo sia la scelta migliore. Laura se ne sta un po’ in albergo, un paio di settimane, si riabitua, e Matteo resta a casa sua, si vedranno, quanto vorranno, poi stabiliremo come e dove.” “Lei vorrà stare con Matteo.” “Capirà che è prematuro.” “sco, non dimenticare che è un suo diritto, tra una settimana sarà una donna libera, e nulla le potrà impedire di stare con suo figlio.” “Si renderà conto, Santo, comprenderà, in quattordici anni le situazioni evolvono, e la realtà non è semplice.” “E Silvana?” “È informata, diciamo che è al corrente delle questioni principali.” “E Laura, che sa di Silvana?” Qui a Milano il cielo è terso, un vento teso, gelido, raro, in questa città. “Poco, Santo, pochissimo.”
“È al corrente che vivete insieme da dieci anni?” Non amo questo vento, mi rende fragile, mi avverto esposto, senza protezioni. “No, Santo, non lo sa.” “E la settimana prossima, quando esce? E Matteo? Questa, sco, è una dannata complicazione.” “Che risolveremo, Santo, iamo le giornate a fronteggiare pasticci, troveremo un modo per uscire anche da questo.”
* * *
Matteo è nato il 9 giugno del 1979, in quel periodo Laura era detenuta a Udine e il parto è avvenuto nell’ospedale cittadino dove, nonostante la presenza della Polizia nei corridoi, ha assaporato qualche giorno di libertà, gli unici, poiché per i quattordici anni di reclusione ogni opportunità di semilibertà o di permesso è stata ostacolata e respinta da Laura stessa. Santo si è dannato, ha esplorato con accanimento e con spregiudicatezza ogni possibilità, e quando riusciva a ottenere un beneficio, fosse anche solo il trasferimento in un penitenziario più vicino, Laura rifiutava di avvallare la richiesta, apparteneva al ristretto circolo degli irriducibili, non ha mai cessato di dichiararsi prigioniero politico, rifiutando pervicacemente ogni diritto anche quello alla difesa. Dopo l’arresto, l’8 maggio del ‘78, ci siamo rivisti per la prima volta a luglio, in tribunale a Milano, una seduta brevissima, in due gabbie separate, lei insieme ai duri, i fondatori, i capi. Il giorno dell’arresto, perquisendola, avevano trovato nella sua borsa un biglietto per il treno notturno per Roma, sarebbe arrivata alla Stazione Termini alle sette del mattino del 9 maggio. Sospettata di essere un elemento di o logistico al rapimento di Aldo Moro, avvenuto alle nove di quello stesso giorno, era stata coinvolta in molti dei procedimenti penali in qualche modo connessi con quell’evento. Parlarle era stato impossibile, l’aula una bolgia, noi distanti, lei nascosta da quelli che si sbracciavano per salutare altri compagni e per protestare e inveire contro i giudici e gli avvocati, era molto caldo e Laura, come insensibile alla temperatura, indossava un vestito a maniche
lunghe e calzava scarpe invernali di camoscio. Ho provato a richiamare la sua attenzione, dalla mia gabbia, quella cosiddetta dei fiancheggiatori, gridavo il suo nome, mi ha sentito, alla fine, ha alzato il viso nella mia direzione, sciupata, pallidissima, gli occhi enormi, a gesti le ho chiesto se mangiava, e lei ha risposto con un gesto evasivo, le ho fatto capire che era indispensabile si nutrisse, la volevo sana, ho mimato le forme di una donna polposa, ma non ha capito, ho finto di cullare un neonato, allora ha compreso e si è messa a ridere portandosi la mano sulla bocca. Matteo è stato concepito lo stesso anno, il 1978, a settembre, nella gabbia di un altro tribunale, stretti tra altri trenta brigatisti. Non era stato un atto premeditato, Laura, allora detenuta in un carcere distante, è entrata per ultima, non mi sono accorto del suo arrivo, e non ho riconosciuto la sua voce, mentre chiedeva per cortesia, in quanto è una signora, se le era possibile avere un posto seduta, ho sentito con chiarezza queste parole, ne ho sorriso, senza immaginare fossero di Laura, non l’aspettavo, chiedendo di lei mi era stato detto che non sarebbe stata presente, lei, in quel processo non era coinvolta. Si è seduta accanto a me, avevo gli occhi chiusi, ho sentito una mano femminile posarsi sulla mia, è stato allora che l’ho riconosciuta, la sua mano, cinque anni e mezzo dopo il giorno fissato per il nostro matrimonio, lo stesso della mia fuga dall’Italia con Sara. Assaporando la delicatezza della sua epidermide ho pensato all’ultima occasione nella quale ci eravamo baciati, l’11 gennaio del ‘74, il giorno prima delle nozze mancate, sotto l’ufficio della Render, con i capelli neri corvini a caschetto e la gonna corta color malva, un bacio insapore, nel calore stento di un abbraccio frettoloso, era tesa e smagrita, come quel giorno nella gabbia, con gli occhi color cenere e le labbra sbiancate, dopo le settimane consumate a progettare e a sorvegliare i lavori nella nostra nuova casa, ad acquistare e installare gli arredi, a predisporre i dettagli della cerimonia. “Mi sposerai, adesso?” ha sussurrato “Ora sarò più tranquilla, perché non potrai scappare.” Ha riso, mi sono voltato, gli occhi chiusi, le nostre bocche vicinissime. “No, sco, non così, ci vedranno.” Mi ha allontanato con delicatezza. “Aspetta, un momento, c’è una possibilità.” Ha parlottato a lungo con un paio di suoi compagni, mi hanno guardato, uno mi ha sorriso, ho aperto gli occhi e l’ho vista, decisa, attenta ai dettagli, chiedere a quello di spostarsi un poco più a destra e all’altro di non lasciare sguarnito l’angolo sopra la postazione dei secondini, avvertivo la sua volontà, la forza con la quale ha vissuto in questi cinque anni. Senza di me è diventata una donna paziente e sicura, capace di offrire calore senza perdere in determinazione, una donna meravigliosa, che mi
mormora che sì, adesso posso darle un bacio, e che, con un solo movimento, mi sale sulle ginocchia, chiedendo sottovoce agli altri la massima attenzione, ed anche un po’ di riservatezza, per cortesia, per qualche minuto, mentre riesce a prendermi, un miracolo, lì in un aula di tribunale, zeppa di detenuti, avvocati, giornalisti e giudici, uno schiaffo, una burla, e che meraviglia, averla, due minuti, fai presto, mi soffiava nell’orecchio, presto, caro, non abbiamo tempo, una vittoria, la sua, contro i suoi nemici, un successo il mio, eravamo di nuovo insieme. “Mi sposerai, sco?” mi ha chiesto mentre deponevo Matteo nel suo ventre. “Mi sposerai, amore mio?”
* * *
È uscita dal carcere alle undici e mezza, ero in fibrillazione, in autostrada sul mio cellulare appena acquistato ha chiamato il presidente dell’associazione temporanea di imprese che abbiamo sponsorizzato per i lavori della metropolitana, una persona anziana, il Cavalier Testoni, per civetteria non divulga con facilità la sua età, comunque molto prossima agli ottanta, un uomo che non ama parlare al telefono, lui convoca, nel suo ufficio in Piazza Cordusio, e discute, senza prendere appunti, chiama al telefono solo in casi estremi e lo fa direttamente, saltando la segretaria e l’assistente. Era furioso, l’amministratore di una delle tre aziende dell’associazione temporanea ha divulgato la notizia della probabile aggiudicazione dell’appalto all’associazione temporanea, ne è nato un pandemonio, è intervenuto l’assessore ai lavori pubblici, un’ora infernale, venti telefonate, e non è ancora risolta, alle quindici è indetta una conferenza stampa, alla quale, ha sottolineato Testoni, non mi è consentito mancare, anche perché il partito sarà presente, segretario regionale in testa. Oggi sono in viaggio con l’auto del consorzio delle bonifiche, è inutilizzata in quanto il consorzio non ha più dipendenti, ad esclusione dell’autista, il quale trascorre le giornate a eggiare avanti e indietro per il cortile, un uomo simpatico, sulla sessantina, protesta che dovrebbe essere in pensione, non parla d’altro, delle sue liti con l’INPS e con i suoi vecchi datori di lavoro, è andato a cercarli uno ad uno, anche quelli per i quali ha lavorato da ragazzo, negli anni ‘40, alla ricerca delle marchette che gli mancano per raggiungere il minimo necessario per accedere alla pensione.
“Chi aspettiamo, dottore?” ha chiesto con sussiego dopo un’ora di attesa. “Affari di partito?” Sospira, mi studia attraverso lo specchietto retrovisore. “La politica è scivolosa, basta un nulla.” Ho spiegato trattarsi di questione privata, di famiglia, e che contavo sulla sua discrezione. Mi ha risposto con tono complice, non l’ho ascoltato, ero al telefono, ancora il presidente dell’associazione temporanea, più cheto, adesso, lo aveva rassicurato il segretario regionale in persona, la fuga di notizie, sosteneva, era un mero incidente di percorso, una baggianata, il lavoro sarebbe stato aggiudicato all’associazione temporanea come da accordi, senza problemi. Con Santo lavoriamo a questo appalto da sei mesi, non credo di sbagliare se dico che ogni giorno, domeniche comprese, abbiamo effettuato una telefonata o organizzato una riunione allo scopo di permettere all’associazione temporanea di prendere quel lavoro, il segretario era stato chiaro, l’appalto è ricchissimo, e già questo è motivo sufficiente per giustificare i nostri sforzi e, ancora più determinante, è la sua valenza politica, la famiglia proprietaria di una delle tre società aderenti è un grande elettore ad alta capacità, potendo contare su una corte di dipendenti, fornitori, famigliari e amici che, in Lombardia e in Basilicata, muovono migliaia di voti.
* * *
Laura è mia moglie, dopo il nostro arresto ci siamo scritti spesso, nella seconda lettera mi sono informato a proposito del suo matrimonio con Broggro, la risposta ha tardato quasi un mese, ero in ansia, preda delle congetture più infauste, che ogni giorno di attesa supplementare rendeva più fosche, immaginavo Laura indispettita, furiosa persino, non mi sono presentato alle nostre nozze, sono scomparso per anni, senza un rigo di notizia, come non comprendere la sua ira, leggendo la mia lettera ha di certo pensato che sono presuntuoso e arrogante, ed anche maleducato, se si è sposata è affar suo, è per questo che non mi scrive, l’ho offesa, si sente usata, mi ha regalato la sua pubertà e la sua adolescenza, ha lavorato da schiava per accumulare i risparmi necessari per il nostro matrimonio, e io mi permetto, senza complimenti, di chiederle se si è maritata. Allo scadere del trentesimo giorno, un sabato mattina,
ormai convinto che non avrebbe più scritto, la sua lettera mi è stata consegnata, la busta aperta e, all’interno, il foglio stropicciato, ne ho decifrato il contenuto a fatica, all’inizio una garbata presa in giro delle sue compagne di cella, una di loro, spiegava, trentasette anni, era diventata nonna proprio quel giorno, poi una lunga digressione sul tempo atmosferico che lì, non poteva scrivermi dove, era una componente irrilevante, essendo la finestra della loro cella aperta sul cortile interno del carcere, infine un gioco di parole, come un rebus, giocato sulle modificazioni dell’aggettivo caro, perché per lei sono caro, anzi, no, carino poiché sono il suo piccolo, e dunque è indispensabile usare il diminutivo, e solo dopo la firma, sotto, un PS in carattere piccolissimo, cinque parole per comunicarmi la risposta: “Matrimonio buddista. Nessun valore giuridico.” Ci siamo sposati il 3 febbraio 1979, nel carcere di massima sicurezza di Cuneo, entrambi abbiamo richiesto le nozze con il rito religioso, l’unica forma di matrimonio tra detenuti che allora imponeva all’amministrazione carceraria di permettere una cerimonia, altrimenti, nel caso di rito civile, lo sposalizio si riduceva all’apposizione delle firme sull’atto, procedura che non prevedeva alcun momento di incontro tra i coniugi. Laura era stata esplicita, non era avvilente per un brigatista ateo inginocchiarsi davanti a un dio rifiutato, l’evento, piuttosto, costituiva uno schiaffo comunista al sistema carcerario, e ciò per lei rappresentava una vittoria. Il rito è stato celebrato al mattino presto, dinnanzi a un frate scano, toccandoci di nascosto le mani, per testimoni due guardie carcerarie, Laura in un abito blu, a manica lunga con i polsini rivoltati e la gonna plissettata, ha ripreso un po’ di peso, e di colore, una ragazza che ride, e che, alla fine, ha sostituito il sì con un sonoro certamente, il frate si è risentito, il sì è obbligatorio, le guardie hanno dato mostra di impazienza, e sussurrandole nell’orecchio per favore di smettere di giocare e di obbedire al frate le ho dato un bacio, troppo lungo a giudizio di una delle guardie, che mi ha posato, con delicatezza, una mano sulla spalla, è finita così, prima hanno portato via me, lei rimasta sola al centro della cappella, il bouquet e i confetti vietati, lì, le braccia lungo il corpo, il ventre di cinque mesi appena visibile, non l’ho incontrata per più di due anni, e quando l’ho rivista io ero libero, e Matteo aveva un anno e mezzo.
* * *
Laura, una figuretta lontana, si avvicina lenta, non ha valigia, neppure una borsetta, golfino rosso sopra l’abito grigio, riduce con estrema lentezza la distanza tra il portone del carcere che si richiude alle sue spalle e l’auto dove l’attendo, sono al telefono, è Santo, è necessario che arrivi un’ora prima, ha riservato una saletta nel medesimo albergo della conferenza stampa, il segretario regionale intende fare il punto, la situazione è complessa e c’è il rischio reale di una rottura dell’accordo, l’appalto all’associazione temporanea di imprese del Cavalier Testoni, il finanziamento al partito che il cavaliere ha garantito, il posto da amministratore nel consiglio della municipalizzata che è stato promesso, e la quota di comproprietà del resort in costruzione a Metaponto offerta dal socio lucano. Laura ha visto l’auto, sta arrivando, un’andatura da formica, a occhi chiusi, contro questo sole invernale diritto contro di lei, no, non è magra, pienotta, piuttosto, e il viso tondo, florido, vorrei dire. “Santo, è qui, ora chiudo, chiamo dopo.” “No, sco, è una questione importante, della quale devi essere a conoscenza.” “Adesso? Proprio ora?” “Sì, sco, subito. Silvana è stata da me, è andata via poco fa.” “Silvana? Da te?” Laura è davanti alla portiera, si china per guardarmi attraverso il vetro polarizzato. “Che è venuta a fare Silvana da te?” Ho appoggiato la mano destra aperta sul cristallo e Laura dall’esterno ha posato la sua sinistra badando a far corrispondere con esattezza le dita con le mie. “Mi ha avvertito che questa mattina il suo avvocato ha consegnato al tribunale dei minori una istanza di affido per Matteo. Ha spiegato che non trovava simpatico che io ricevessi questa informazione dal collega, è per questo che è venuta.” “Silvana ha un suo avvocato?” “Pare di sì, sco, e uno buono, sul diritto di famiglia qui a Milano è una autorità.”
Laura picchietta sul vetro con le nocche, tiene il viso piegato di lato, sta divertendosi, le piace, questo nostro gioco. “E chi lo paga, questo principe del foro? E per quale motivo non mi ha informato? È fuori di testa. Come può farmi questo? A mia insaputa, e proprio oggi, quando esce Laura!” Laura ha smesso il gioco delle nocche, si è abbassata, mi scruta attraverso il vetro scuro, a tentoni cerca i miei occhi, ha posato la mano sulla maniglia. “Ti sfugge un dettaglio, sco, Silvana potrebbe davvero ottenere in affido Matteo.” L’autista mi ha chiesto se deve sbloccare l’apertura della porta. Gli ho fatto cenno di no nello specchietto retrovisore. “Come sarebbe a dire? Silvana non è nessuno per Matteo. La madre di Matteo è Laura.” “Silvana lo accudisce, e bene, da dieci anni, la madre è una ex-terrorista, e forse neppure tanto ex, tu sei stato un fiancheggiatore e tu vivi con Silvana. Un giudice potrebbe stabilire che la coppia di fatto siete tu e Silvana e che lei dunque diviene la madre affidataria di tuo figlio, con pari diritti sulla sua educazione eccetera.” Laura è aggrappata alla maniglia con entrambe le mani, scuote l’intera auto, grida, la sento attraverso la porta blindata, che un bel gioco dura poco, che è stanca, l’intera notte sveglia, che ha freddo. “Dottore, questa fa dei danni, e al consorzio chi glielo dice? Ci penso io a questa pazza.” L’autista si è gettato all’esterno, è furibondo. Con la portiera aperta la voce di Laura giunge nitida, una rabbia pulita, la riconosco, oggi è il 17 febbraio 1992, quasi vent’anni fa, nel dicembre del ‘73, quando stigmatizzava il mio disinteresse per i preparativi della casa e del matrimonio, rimproverandomi che ogni incombenza gravava sulle sue spalle e perdeva il sonno per prendersi cura di ogni dettaglio, la sua stizza, identica, immutata. “sco, per evitare ogni potenziale pericolo dovresti lasciare Silvana e andare a stare con tua moglie, Laura, e tuo figlio, Matteo, una famiglia regolare, inattaccabile, è semplice, amico mio.” “Io amo Silvana, Santo.”
“E allora resta con lei, e con Matteo.” “E Laura?” “Laura è perduta, non ce la farà, sarà un ingombro, procurerà mille problemi, a tutti.”
* * *
Appena dentro l’auto mi ha abbracciato e mi ha chiesto di baciarla, sì, lì, subito, l’autista può vederci, e che ci guardi pure, è mia moglie, e ha il diritto di essere baciata. Ha le mani lunghe, la pelle segnata, le unghie tagliate cortissime, mi accarezza frenetica sul collo, infila una mano dentro la camicia, mi bacia sull’orecchio, trema, non solo per l’emozione, è vestita leggerissima, ed è senza calze. Ho chiesto all’autista di alzare la temperatura, mi cercano al telefono, rispondo divincolandomi dall’abbraccio di Laura, è il segretario in persona, Laura incollata al mio fianco, la testa schiacciata nell’incavo del collo, le labbra accanto alle mie. “È un telefono cellulare, lo usa anche il direttore del carcere” parlotta confusa accanto al microfono, al segretario è arrivata qualche parola, chiede preoccupato se noi si sia intercettati, è una sua fissazione, è certo che il mondo sia perennemente in ascolto delle sue conversazioni. Quando le ho fatto cenno di tacere Laura ha reagito, un balzo improvviso contro il tettuccio, le sue braccia e le sue gambe in disordine, mi ritorna addosso avvitandomi un pizzicotto violento sull’avambraccio, il segretario si informa preoccupato se qualcuno è con me, chi è, mentre Laura, a mezza voce, senza reticenze, né filtri, mi interroga nell’orecchio libero. “E questa macchina? Di chi è questa macchina, con l’autista, una bella macchina, grande, sei vestito bene, tu...” Fingendo una caduta della linea ho interrotto la comunicazione. “Hai un amico ricco, tu?” Ora discorre a voce alta, guardando davanti, con le mani aggrappate al poggiatesta del sedile anteriore. “Un amico che ti ha prestato la macchina, e l’autista, per fare bella figura con quella poveretta di tua moglie, sei un bravo marito...” L’ambiente è surriscaldato, Laura ha avvertito il cambiamento, si rilassa, un minuto soltanto, le braccia morte lungo il corpo. “Matteo, bambino mio” ha mormorato, prima di chiudere gli occhi e di addormentarsi profondamente.
Un incidente ci ha costretto a una sosta di quaranta minuti e siamo arrivati a Milano in grave ritardo. Laura ha dormito sodo per l’intero tragitto, lasciandomi l’agio di terminare le telefonate di preparazione per la conferenza stampa. Siamo usciti in viale Certosa alle due in punto, nel momento esatto nel quale il segretario stava entrando nella saletta riservata, certo di trovarmi ad accoglierlo, non c’era più tempo per accompagnare Laura alla pensione di Binasco che avevo scelto per porre qualche distanza tra lei e Silvana, ho annullato la prenotazione e le ho riservato una stanza nello stesso albergo della conferenza, in centro a Milano, cinque minuti a piedi dalla nostra abitazione, la mia, di Silvana e di Matteo. Per svegliarla sono stato costretto a scuoterla a lungo, erano le due e un quarto, non riesce ad aprire gli occhi, si è rannicchiata addosso a me, mormora grazie, grazie amore mio, mi abbraccia. “Ora andiamo a casa, è vero? Matteo ci sta aspettando, noi tre insieme, dopo tutti questi anni.” Le due e venti, il segretario non mi ha telefonato, so che è lì, rabbioso, a domandarsi come mi sia permesso un affronto di quella portata, in una giornata come quella, dove tutto sta per precipitare. “No, Laura, non andremo a casa, per Matteo sarebbe incomprensibile, lo hai visto due volte, non sa quasi chi sei.” Ammutolita, le braccia conserte sopra il maglioncino verdino, raccoglie le gambe, ha di nuovo freddo. “Non ho capito. Non vuoi che Matteo mi veda?” “Non a casa. Non subito.” I tratti del viso addolciti da un sorriso, scuote la testa, si a una mano lungo i capelli. “E allora io non ho un posto dove andare?” “Ti ho preso una stanza in questo albergo.” “Questo?” Si è avvicinata al finestrino, fissando l’ingresso fastoso dell’hotel. “Questo è un albergo?”
Non c’era più tempo, il segretario sta già iniziando a gridare e tra due minuti qualcuno mi telefonerà. L’ho spinta fuori dall’auto sorreggendola sino al banco della reception, badando non se accorgesse ho allungato cinquantamila lire all’impiegato, che la accompagnasse personalmente in camera, che le mostrasse il bagno, la vasca, la doccia, il funzionamento del televisore e delle tapparelle elettriche, via, le due e venticinque ate, è tardissimo.
* * *
“Sei un cretino!” Il segretario è in piedi al centro della saletta, con la mani appoggiate sulla spalliera di una sedia. “Sono le due e mezza, dico le due e mezza, mezz’ora dopo le due, se non mi sono spiegato bene. Mi sono raccomandato con Santo, la conferenza stampa è alle tre, ma tu hai idea del casino? Le immagini le domande che faranno, a me, a Testoni, all’assessore? Un massacro, se non siamo più che pronti domani i quotidiani ci regalano il titolo in prima pagina. E Santo mi ha assicurato, dico garantito, che tu saresti stato puntuale, alle due!” Il segretario regionale ha quarantadue anni, diploma di ragioneria, prima impiegato all’ACI, dunque una breve permanenza alla direzione provinciale delle imposte dirette e, a trentaquattro anni, il salto nella politica con un assessorato in comune e, da due anni, l’ascesa alla guida del partito. Un uomo sorridente, stringe mille mani al giorno, una loquela fitta, che nei comizi trasforma in un’oratoria potente, fondata su pochi concetti, che ripete e ribadisce con la voce tonante. “E allora? Dottor Aliberti, è qui con noi, adesso?” Ero lì, pronto, ho esposto la linea, ammettere che l’amministratore della Tisko ha effettivamente affermato che l’appalto verrà aggiudicato all’associazione temporanea di imprese della quale la Tisko stessa fa parte, e che è vero che questo accadrà, perché l’offerta dell’associazione temporanea è la più competitiva, le tre aziende che la compongono sono le più affermate del settore, hanno vinto tutti gli appalti più significativi degli ultimi cinque anni, con ribassi che nessun altro concorrente è mai riuscito ad avvicinare.
“Ci chiederanno delle varianti di questi progetti, lo sai anche tu che in qualche caso hanno superato l’importo base dell’appalto.” Si è seduto, mi ascolta, è felice, quando qualcuno gli prospetta soluzioni ragionevoli, concedendogli il ruolo del critico e del decisore. “Le varianti sono state richieste a fronte di lavori extra e di errori nella progettazione di base che hanno obbligato le aziende ad attività non previste, ogni atto è documentato. Non dobbiamo prestare il fianco a questo genere di critiche, saremo noi a condurre la danza, noi abbiamo le professionalità necessarie, gli ingegneri più quotati, i capocantieri più esperti, le maestranze più collaudate, ho convocato l’ingegner Bixio, illustrerà le idee che sono alla base del progetto, mostreremo l’intelligenza e l’innovazione delle nostre scelte tecniche, la novità dei sistemi elettrici ridondanti, le attenzioni alla sicurezza e all’ambiente, li obbligheremo a confrontarsi con noi sulle caratteristiche degli impianti antincendio, spostiamo lo scenario, segretario, gli sfiliamo il tappeto da sotto i piedi, li affascineremo, ho convocato anche il direttore amministrativo, che spiegherà come faremo a finanziare l’intero progetto con il denaro delle aziende che compongono il consorzio, senza alcun indebitamento bancario.” “Ma questo non è vero...” si è interrotto, la porta si è aperta, è entrata Laura, a testa bassa, quasi correndo. “sco, in quella stanza fa freddo, è troppo grande per me...” È avanzata sino al centro della stanza, scosta le sedie a colpetti, la mano a visiera sulla fronte, troppa luce, in questa stanza così piccola. Le ho preso la mano. “Lasciami non mi toccare. Cosa fai qui? E chi è questo?” Si è rivolta al segretario, il quale automaticamente ha allungato la mano per presentarsi. Laura, l’ha anticipato: “Laura Betti, prigioniero politico.” Il segretario non ha sentito, sulla porta è comparso un assistente, è tutto pronto, la sala è piena, manchiamo solo noi.
* * *
Al termine della conferenza il giornalista del Corriere della Sera è venuto a stringermi la mano. “Abilissimo, dottor Aliberti, peccato che lei giochi nella squadra avversaria.”
“Se al suo giornale interessa la mia collaborazione, deve sapere che il mio ingaggio è molto alto...” gli ho risposto ridendo, mentre raccolgo le carte dalla mia postazione al tavolo dei relatori. Conosco questo giornalista, un coetaneo, stessa età, stessi studi, strade diverse. “Sappiamo bene che il suo cachet è elevato, irraggiungibile per noi...” si è fatto più serio, la voce composta, d’istinto richiude il bottone centrale della giacca. “Al giornale nutriamo simpatia per lei, è in gamba, intelligente e, mi permetta, simpatico, è per questi motivi che vorrei che ascoltasse il mio suggerimento, lasci i suoi incarichi, cessi le sue frequentazioni politiche e si cerchi un altro lavoro, sta rischiando molto, i tempi stanno per cambiare, anzi, mi creda, sono già cambiati.” Dal fondo della sala il segretario, raggiante, grida il mio nome. Circondato dai collaboratori, abbracciato all’assessore, sta stringendo la mano a Testoni, il quale, una incredibile sciarpa azzurra sopra il paltò cammello, alto, statuario, si avvia solenne verso l’uscita della sala. “Vada ora,” mi ha sussurrato il giornalista “il suo padrone la sta chiamando.” Ha lasciato l’assessore e adesso abbraccia me, è incantato, un successo straordinario, non si capacita, si attendeva una frana, e invece è stato un campo di rose rosse, si compiace per la metafora, mi strizza con le manone da peso massimo, mi coprirà d’oro, e di diamanti, sono l’elemento più prezioso, il difensore centrale, l’artista del contrattacco. Santo è qui con me, indossa uno dei suoi abiti marroni prediletti, piccolotto, con il papillon del medesimo colore del vestito, i baffetti scuri, è felice, rimarca il concetto espresso dal segretario, una rimonta incredibile, un successo strabiliante, inaspettato. C’è anche Silvana, non l’avevo vista entrare, mi ha baciato, le scarpe basse, il tailleur grigio, con la gonna un po’ corta, la camicetta bianca e il foulard Regimental, sa che amo questa sua divisa, l’ho conosciuta vestita così, nell’82, alla convention dei giovani imprenditori lombardi, no, lei non era una imprenditrice, ventisette anni, appena sbarcata in Italia dopo un MBA in California, era lì per ascoltare, io ero uno degli operai addetti al montaggio delle attrezzature e, per una manovra avventata, le avevo attorcigliato il cavo di un microfono volante attorno alle gambe, facendola quasi cadere, è in questo modo che ci siamo conosciuti. Vorrei parlarle, ma il segretario non mi lascia, con la mano sinistra mi ha
agguantato il polso e mi trattiene. “Stai qui, dottore, qui, vicino a me, non ti muovere, stasera ti voglio bene.” Con la destra agguanta le mani di quelli che escono dalla sala, quelle di tutti, anche dei giornalisti delle testate nemiche ed anche quella di Lionetti, della corrente di partito avversaria, venuto apposta per godersi la caduta del suo antagonista. “Questa sera si fa festa, no, non puoi sottrarti, e viene anche la Silvana, e Santo, si fa una cosa a cinque, sì, certo, c’è la Marta, senza badare a spese, si va all’Arlecchino Scivolato, sì, cucina nostra, lombarda, ho già fatto prenotare, alle nove.” Silvana è terrea, non sopporta il segretario, e ancora meno Marta, la sua amante, prova disagio accanto a una coppia clandestina, e non ama i luoghi come lo Scivolato, specchi, stucchi, tavoli di legno rotondi, abat-jour e lampade a stelo con paralumi chiari, cameriere sui tacchi alti, piatti quadrati e lo chef gay, e non resiste a queste serate interminabili, arrivo alle nove, aperitivo interminabile, inizio della cena alle dieci ate, con il segretario ubriaco intento a declamare le qualità del sedere di Marta, argomento sul quale ritorna almeno una decina di volte prima della fine, alle due, a ristorante vuoto, i camerieri che puliscono le sale, il proprietario sulla porta con il sorriso di circostanza e gli occhi sbarrati dalla stanchezza che implora il capo brigata di interrompere il racconto della sua ultima trovata per far più grande il partito e di condurre fuori i suoi ospiti per consentirgli finalmente di abbassare la saracinesca. “A proposito, dottore, vuoi invitare anche quella tua amica, sì, quella che è entrata nella saletta durante il briefing, sì, prima della conferenza, quella vestita male, che diceva, non ho capito bene, di essere un consulente politico, o qualcosa del genere.” “Laura è qui?” Silvana mi ha fulminato con una occhiata gelida. “L’hai portata in questo albergo?” “Sì,” le ha risposto Santo in vece mia “così la teniamo sotto controllo, è meglio per tutti.” “Avevi detto che le prenotavi una pensione a Pavia.” “A Binasco...” ho precisato. “Ma non qui, a cinquecento metri da casa nostra. Non hai pensato a Matteo?”
* * *
Siamo usciti dallo Scivolato alle due e mezza, e non siamo stati gli ultimi, una decina di spagnoli, entrati alle undici e mezza, avevano appena terminato i secondi, il segretario, avvinghiato alla Marta, fasciata in un vestitino blu cortissimo, non più di cento grammi di peso totale, ha proposto di finire la serata in un locale sui Navigli. Silvana ha comunicato alla compagnia che a casa c’era una baby sitter, era costretta a tornare, non ha atteso risposte, né reazioni, un taxi, che aveva già provveduto a chiamare, si è materializzato all’improvviso accanto a noi, è salita, chiusa la portiera, via, senza salutare, neppure me. Durante la cena le avevo chiesto conto della sua azione legale per l’affido di Matteo. “Ti sembra il modo? Come fossimo nemici!” “Quante volte ti ho chiesto di separarti legalmente da Laura? Ora saresti divorziato, potremmo sposarci, e Matteo sarebbe con noi.” “Laura era in prigione, sarebbe stato un affronto, sofferenza su altra sofferenza, non intendevo procurarle altro dolore.” “Lo hai fatto a me, per questo.” “Non ti ho fatto mai mancare nulla.” “Che scemo che sei, non intendevo questo.” “Anche affettivamente, voglio dire.” “Anche. Bontà tua. Vuoi che ti ringrazi?” Discorriamo sottovoce, Santo ha intuito l’argomento del nostro dibattito e ci ignora, mentre il segretario è impegnato a strizzarsi la Marta, ama esibire in pubblico la loro relazione che lui stesso definisce sporcacciona. “Lo farò” le ho sussurrato sottovoce.
“Farai cosa, che cosa farai, se non hai mai fatto niente, sei diventato come quello.” Ha indicato con una occhiata il segretario. “Promesse, per conquistare il consenso per fare altre promesse.” “Stiamo insieme da dieci anni. Sono stati anni buoni, mi pare.” “Sono stati, sco. Forse non lo sono più, dipende da te. Facciamo così, questa notte non tornare a casa, dormi in albergo, sì, dove c’è tua moglie, parlale, o non parlarle, comportati come credi e come preferisci, purché tu chiarisca che innanzitutto Matteo resta con noi, devi convincerla che è per il suo bene, che sparisca, le daremo dei soldi, se è questo il problema, e a Matteo diremo che è morta, o scappata, tanto, scusa, non la vede da anni, non ne parla mai, che senso ha coinvolgerlo? Camminando a piedi verso il locale sui Navigli, Santo mi ha preso sottobraccio. “Ho sentito e, permettimi, credo che Silvana abbia ragione, Laura va annullata, è una estranea, si è autoesclusa dalla società civile, e non parlo del periodo Brigate Rosse, è stato dopo l’arresto, quando pervicacemente ha proseguito a rifiutare ogni forma di assistenza legale, ma non lo ricordi, sei anni fa? Avrei potuto farle ottenere la semilibertà, lavoro esterno e notte in carcere, nulla, non aveva voluto firmare la richiesta, lei era una prigioniera politica che non riconosceva lo stato padrone.” “È vero, ma è mia moglie, l’ho desiderata, l’ho cercata e l’ho scelta e da queste decisioni non si torna indietro.” “E Silvana? E la vostra intesa perfetta, la vostra armonia totale, il vostro equilibrio straordinario? Sono dieci anni che decanti questa unione, un miracolo, una coincidenza incredibile, l’essere tagliato a metà che ritrova l’altra sua metà, hai scomodato Platone per descrivere il tuo stato di grazia assoluta, continua, senza cedimenti.” Non ho risposto, non avevo argomenti, ho lasciato che Santo proseguisse la sua arringa da solo. Questa notte milanese gelida e deserta risuona del rumore dei nostri i e della risata allegra di Marta, basculante sui tacchi alti, la borsina nera a tracolla, incollata al segretario, lo tiene per mano, le dita enormi intrecciate alle sue, anche il segretario ride, non è più ubriaco, prodigiosamente il corpo da gigante ha smaltito cibo e vino, cammina eretto, veloce, trascinando la Marta, che riesce a stargli accanto solo aumentando la frequenza dei etti.
Santo è implacabile: “Sei stato sciocco, sco, non hai deciso molti anni fa, quando era possibile, sarebbe stato così semplice, allora, una separazione facile facile, e l’affido ufficiale di Matteo, ora è più complicato, Laura è una donna libera e tu sei obbligato a confrontarti alla pari con lei, e lei combatterà la sua battaglia per Matteo, un vero sciocco, sco, ti sei cacciato in un cul de sac, sei accerchiato.” Il segretario si è fermato improvvisamente, ha allontanato Marta, fruga nelle tasche della giacca e dei pantaloni, cerca affannosamente, esamina ogni possibile nascondiglio, non trova il telefono, bestemmia, chiede alla ragazza, chiede a Santo, è necessario tornare allo Scivolato, è rimasto là, sul tavolo della cena. Il proprietario, esausto, sta terminando di abbassare le saracinesche, sì, il telefono del segretario è nel ristorante, ha trillato, uno dei camerieri ha risposto, no, non per errore, era convinto che fosse il segretario che si chiamava per cercare il telefono, insomma, era un certo Fantini, sì, lo ricorda bene, ha implorato di venire richiamato, una questione della massima importanza. Fantini è il factotum della direzione regionale del partito: “Richiamalo, sco, subito.” “Sono le tre di notte.” “Non importa, sveglialo.” Pioviggina, fa molto freddo, siamo in piedi in cerchio sotto un lampione, gli sguardi degli altri fissi sulle mie mani che digitano il numero di Fantini, fatto, avvicino il telefono all’orecchio, Marta, ruotando il corpicciolo da volpe controlla l’integrità delle calze, quanto silenzio, in una notte milanese, e che tenerezza queste case abitate da cittadini operosi, che riposano dopo la settimana di lavoro, il segretario è pallido, in questi ultimi dieci anni ha dormito poco, non sembra stanco, piuttosto assalito da un rimpianto, un presentimento, un rancore, Santo dimostra serenità, appagamento, appare più giovane di quanto l’aspetto potrebbe indurre a credere, ho alzato una mano, ho la linea, parlo con Fantini, gli offro le scuse per l’ora tarda, Fantini mi interrompe, ho fatto benissimo a richiamarlo, è cosa urgente, il segretario, è chino sopra di me, Santo si è alzato sulla punta dei piedi per cogliere qualche parola che possa fargli intendere la natura della questione, Fantini impiega molto a spiegarsi, non ho bisogno di far domande, ciò che ascolto è molto chiaro, esaustivo.
“Hanno arrestato Mario.” “Mario chi?” chiede il segretario è sorpreso “Mario Chiesa,” in vece di sco ha risposto Santo. “Quello del Pio Trivulzio.” “Ah! Chiesa. L’ingegnere?” ha chiesto rivolgendosi a me. “Sì, esatto.” “E che ha fatto il Mario?” ha domandato il segretario. “Lo hanno beccato questa sera mentre riceveva nel suo ufficio un contributo di sette milioni da un imprenditore per l’appalto delle pulizie del Pio Albergo, le banconote erano segnate, e dopo l’imprenditore sono entrati i Carabinieri. “Che fesso! Nel suo ufficio! Ma dimmi te se si può essere così cretini!” Il segretario ridacchia, riprende la mano della Marta e si avvia caracollando verso il locale. “Ci saranno conseguenze...” Santo lo ha raggiunto e gli cammina accanto. “È un pesce piccolo, un caso isolato, domani convoco un direttivo, per ribadire le linee di condotta. Tu, sco, preparati, la stampa ne farà un caso mondiale, avvoltoi, non aspettano altro, tira fuori l’ingegno, dottore, non dobbiamo difenderci, ma attaccare, proprio come nella conferenza stampa di questo pomeriggio.” “Sarà più difficile di quello che credi,” ha ribattuto Santo “l’estro di sco non è sufficiente, ci vuole di più, credo che dovrai scomodare i tuoi capi romani, e non so se basterà, non lo so proprio.”
* * *
Notte bianca, quella del giorno dell’arresto di Mario Chiesa, ho accompagnato
Santo a casa e alle cinque mi sono presentato alla reception dell’albergo. L’impiegato non attende che gli rivolga la parola, mi aggredisce subito, contenendo a stento la rabbia e il fastidio, la mia amica, sì, la signora Betti ha creato dei problemi, e il personale dell’albergo, in virtù della relazione ormai decennale con il dottore e con il partito, hanno provveduto a contenere la situazione. “Quali problemi?” L’uomo, un giovane alto, si è avvicinato, abbassando la voce. “È scesa verso le diciannove e qui, davanti al bancone, ha detto, anzi quasi gridato, di aver fame, era nervosa, si guardava intorno, fissava sbalordita i facchini, le valige dei clienti, i clienti. Insomma, dottore, l’ho personalmente accompagnata al ristorante, ma lei ha detto che lì, in quel posto, non ci entrava neppure morta, così le ho offerto di cenare in camera, ha rifiutato, mi ha chiesto del denaro per andare a comprarsi un panino, le ho dato diecimila lire, è uscita, tenendo la banconota stretta tra il pollice e l’indice, un modo curioso, non crede, una donna strana, mi permetta, dottore, con questa temperatura indossava solo un maglioncino, senza calze, ai piedi degli zoccoli di legno, è tornata dopo mezz’ora, in compagnia di una persona anziana, non so dirle, dottore, un pensionato, ha detto che al ristorante, al posto suo, sarebbe andato quel signore, insomma, dottore, una cosa mai vista, a quel punto sono stato costretto a opporle un netto rifiuto, lei ha insistito, il suo pasto lo cedeva a quell’uomo, era giusto, normale, perché mi opponevo, ero uno stupido, ha iniziato a gridare, guardi, dottore, una situazione difficilissima, le ho chiesto di smetterla, altrimenti avrei chiamato la Polizia...” “Non l’avrà fatto, mi auguro.” “No, ma ero in procinto di farlo, sembrava non esserci altra soluzione, se non fosse accaduto che la donna, la signora, pardon, alla parola Polizia si è immediatamente acquetata, l’ho fatta accompagnare in camera, e da allora silenzio, nessun segno di vita. Se vuole salire...” Ho posato sul banco cinquantamila lire, mi ha fissato, e non ha preso il denaro, ho aggiunto altre cinquantamila lire, mi ha elargito un sorriso e ha intascato il denaro. “Se non le apre, o se non risponde torni giù, provvediamo noi.”
* * *
Più tardi, sulla strada di casa, erano quasi le nove del mattino, mi sono fermato per acquistare i quotidiani, il segretario aveva ragione, sull’arresto di Chiesa la stampa si è scatenata, l’imprenditore concusso che si è ribellato al sistema tangentizio, il segnale che le aziende vittime dell’arroganza dei politici stanno iniziando a ribellarsi. Il segretario mi ha telefonato, è in ufficio, le notti di baldoria lo caricano, è un tornado, ha parlato con esponenti della direzione romana, per le dieci ha convocato il direttivo e alle cinque ha indetto una conferenza stampa. “Non era il caso,” gli ho detto preoccupato, “era meglio lasciar raffreddare le ioni, hai letto i giornali, gli imputati siamo noi, e solo noi.” Ha visto i quotidiani, e proprio per quello che ha letto la sua linea non cambia di un millimetro, attaccare, con aggressività, difendersi è un errore, significherebbe riconoscere la responsabilità. “Non abbiamo colpe, sco, nessuna, noi siamo il motore del paese, noi creiamo la ricchezza e i posti di lavoro, questa la tesi, lavoraci, ci vediamo un’ora prima per il briefing, allineati con Santo, cercate di capire quali sono i capi di imputazione contro questo sciocco di Chiesa, quello che gli contestano, e se la procedura è stata regolare, qui si che dobbiamo difenderci, entrare nell’ufficio di un dirigente pubblico, così, come fosse un delinquente, le banconote firmate, lo hanno ammanettato, come uno stupratore di bambini, una vergogna, Chiesa è un uomo integro, incensurato, e quello, sì, l’imprenditore, forse intendeva fargli pagare qualche vecchio conto, chissà, una contestazione per la qualità del servizio, l’applicazione di una penale, indagate, sco per attaccare bastano le tue parole ma per difenderci ci vogliono i fatti.” Silvana è in casa, in bagno, per l’ultimo controllo al trucco e ai capelli, pone una speciale attenzione all’adeguatezza dell’abito e delle calzature, alla perfezione dell’acconciatura, alla scelta della foggia e del colore della sciarpa, dei guanti o del cappello, non mi ha sentito entrare e quando le tocco una spalla ha un sobbalzo. “Che spavento! Sei già qui?” “Non avevo molto da fare.”
“La tua mogliettina ti ha ricevuto?” Posa la spazzola, si avvicina allo specchio per una verifica attenta alle ciglia e alle sopracciglia, senza spostare lo sguardo allunga la mano, rovista nel cestino degli accessori e trova la pinzetta che le serve. “Sei acida, senza scopo, se posso sottolineare.” Il pelo delle sopracciglia fuori lunghezza è stato individuato, la presa con le pinzette è precisa, un colpo netto, ripone l’attrezzo e torna ad osservarsi con cura. “Silvana,” le ho posato le mani sui fianchi e mi chino per baciarla sul collo “sembra che ti stia confrontando con un cliente, sono io, sco, il tuo compagno di vita.” Si sposta, sottraendosi alla mia presa e privandomi del collo da baciare. “Chiarezza, sco, e lealtà. Ti stai comportando in modo opaco e sleale. Da qui il mio tono e il mio modo. Comunicazione, sco, ne discutiamo da anni insieme, ad ogni situazione corrisponde una diversa morfologia relazionale, guai a non riconfigurare la modalità quando il teatro conosce una alterazione, tu possiedi queste nozioni, conosci questi contenuti, dunque non ti confondere, tra di noi è il momento per questo modo di comunicare, e i sentimenti sono custoditi altrove, intatti, se vuoi saperlo.” “Lasciati baciare, Laura.” “Che scemo, che scemo, vai via, per favore.” Esce dal bagno, infila svelta il cappotto, ha la mano sulla maniglia della porta di casa. “Sei un cretino, un idiota.” Torna indietro, a fissarsi nello specchio, sta piangendo e le lacrime hanno fatto colare il trucco. “Tienitela, la tua Laura, il tuo prigioniero politico, l’hai sposata? La vuoi? È tua. Io mi tolgo di mezzo, prendetevi pure Matteo, riceverà una educazione raffinata, da una pazza e da un pavido, ne verrà brillantemente plasmato, lo attende un avvenire radioso, le sicurezze trasmesse dalla famiglia di origine gli regaleranno una montagna di autostima, crescerà bene, un vero principe...” Per uscire dal bagno mi ha spinto con violenza contro il muro. “Fatti da parte, stupido, non meriti neppure la mia rabbia.” È uscita, senza sbattere la porta, ho sentito lo scalpiccio dei tacchi bassi giù dalle scale, non prende l’ascensore, a Silvana piace correre.
* * *
Poche ore fa, alle cinque, Laura, in albergo, dietro la porta chiusa della sua stanza, ha gridato che avrebbe aperto solo se avessi giurato di portarle Matteo quella stessa mattina. “Giuralo!” La voce strappata, sta urlando. “Giuralo, sco.” “Non è necessario giurare, Laura e non è neppure utile alzare la voce, sveglierai l’intero albergo.” Ho sentito un rumore secco, come di una sedia gettata a terra, e di seguito, un colpo molto violento al centro della porta. “Cosa è stato? Laura? Tutto bene? Come stai?” “Giuralo. Adesso. Matteo è nostro figlio. Il figlio della speranza, non era così che lo chiamavi?” “Va bene, Laura, vado a prendere Matteo all’uscita da scuola, per l’una sono qui. Ma ora aprimi, per favore, ho bisogno di parlarti.” “Quando torni con Matteo.” “Devo parlarti ora, subito.” “Io, Chicco, è da quattordici anni che non ho più fretta, sei stato in carcere, e conosci il significato di questa affermazione. Si tratta di qualche ora, torna con Matteo, e quando saremo insieme parleremo, in pace, noi tre, la nostra famiglia riunita.” Ho registrato altro rumore, oggetti spostati, forse trascinati sulla moquette. “Laura, che stai facendo?” “Ho preso i cuscini e la coperta, sono seduta per terra, appoggiata alla porta, fallo anche tu, sistemati come me, qui, stiamo così, vicini.” “Io sono nel corridoio.” “Alle cinque del mattino non a nessuno, e se qualcuno ti vede, pazienza, non stai facendo nulla di male. Siediti, sco, così possiamo discorrere un po’.”
* * *
A casa, dopo l’uscita di Silvana, mi sono coricato sul divano, non ho dormito l’intera notte, mi avverto impastato, ossidato, pesante. Il locale sui Navigli, alle tre, era deserto, stavano chiudendo, ci hanno permesso di entrare solo perché il proprietario ha riconosciuto il segretario, che ha scelto un tavolo rotondo, molto piccolo, attorno al quale stavamo stretti, uno addosso all’altro, ha dichiarato, con il vocione da comizio, che desiderava parlare di se stesso, ama molto questo argomento, di quando era un atleta, avverte ancora, nitida, la pulsione delle ore precedenti la gara, l’ansia e la carica emotiva che gli cresceva dentro violenta, ha picchiato il pugno sul tavolo, ha rovesciato il suo Negroni e il cappuccino della Marta, lo ascoltiamo, promette sfracelli, che non ci provino, magistrati, giornalisti, sindacalisti, ruffiani e lacchè di ogni risma, li stende con un soffio, lui non ha paura, cascavo dal sonno, Marta, al mio fianco, tiepida e morbida, mi ero addormentato, scivolando con la testa sulla sua spalla. La mia abitazione è confortevole, gli arredi, di legno, trasmettono calore, le doppie finestre garantiscono un silenzio profondo, i rumori della strada arrivano impercettibili, il divano è largo, mi sono avvolto in un plaid morbido e ho preso subito sonno. Mi ha svegliato il citofono, ho guardato l’ora, le nove, non ho dormito che mezzora. E se fosse Silvana? Tornata per me, ha riconosciuto di aver avuto una reazione inconsulta, era invasa dalla rabbia ed è stata ingiusta, in ufficio non si è seduta alla scrivania, si è resa conto dell’errore, sa quanto lei sia importante per me, è tornata di corsa, non mi lascerà più, neanche per un minuto, sistemeremo la questione di Laura, insieme, senza procurarle altro dolore, rispettando i suoi sentimenti, e i miei, Silvana non si sente derubata, io sono suo, e rispetta l’esistenza del legame che c’è stato e che c’è con Laura, una grande persona, Silvana, la stimo molto. Invece è Santo, sul pianerottolo, nel medesimo completo marrone, adesso un po’ ciancicato, che indossava questa notte, il papillon allineato, le scarpe lucide, è appena spettinato, esita prima di entrare. “Vieni, che c’è?” “Sei solo?”
“Sì.”
* * *
In albergo, Laura, irremovibile, non ha aperto la porta, allora ho seguito le sue istruzioni, mi sono seduto sul pavimento del corridoio e, con l’orecchio incollato alla porta, dalle cinque alle sette, ho ascoltato e ho parlato. Non si è rivelata una situazione sgradevole, la moquette era soffice e ho trovato una posizione comoda, sono stato obbligato a parlare a voce alta ma dalle camere vicine, nonostante l’ora, non è pervenuta alcuna protesta. Laura ha perso l’inflessione dialettale che un tempo rendeva la sua parlata simpatica, anche nell’ira, anche quando mi rimproverava, gli anni del carcere e, forse più ancora, le interminabili riunioni politiche alle quali ha preso parte durante la militanza brigatista hanno reso la sua loquela più verbosa e pedante, utilizza sostantivi e aggettivi tratti dal politichese degli anni ‘70, reitera le sue affermazioni e sottolinea più volte i medesimi concetti, parla senza pause, e non si accorge che talora pronuncia frasi inutili, prive di valore, fiato sprecato, utile appena a riempire gli spazi vuoti, per non offrire all’interlocutore l’opportunità di interromperla. “Matteo è il fulcro della nostra azione. Ci ho pensato tanto, sco, noi, io e te, dico, siamo nulla, privi di lui, Matteo crea il significato alle nostre esistenze, traccia il percorso, affinché noi lo si segua.” “C’è altro, oltre a Matteo. Noi due, per esempio.” “Proprio noi, sco, siamo i destinatari privilegiati del suo messaggio. L’ottica, oggi, è quella della proposizione di una alternativa, e a Matteo è stato attribuito questo ruolo, dietro di lui troveremo la serenità.” “Matteo non è Cristo, è un bambino, un po’ petulante, anche.” “Bravo, sco, esatto, Cristo, lui, inconsapevole, il profeta, il capocordata, anche contro la sua stessa volontà, anche senza sapere quale sia la sua missione.”
“Non sottovalutare gli aspetti pratici, tu non conosci Matteo, hai vissuto poco con lui, solo per il suo primo anno di vita, non sai delle sue bizze, della sua antipatia, anche.” “L’ho avuto, mio figlio, nel ventre e nella mia cella, a Opera, una sistemazione meravigliosa, si poteva vedere un cielo grande, gli ho insegnato i nomi delle stelle.” “Aveva un anno.” “Ma dopo, per altri dodici anni, ha vissuto con te, una simbiosi assoluta tra padre e figlio, senza intermediari, senza intromissioni. Tu sei stato il tramite, tu che mi hai amato e che mi ami, hai garantito a Matteo la mia presenza.” Ho cambiato posizione, con la bocca mi sono accostato alla zona della porta dove ha appoggiato la testa, così posso parlare sottovoce. “Laura, tu stai bene?” “Sì. In questi quattordici anni ho lavorato molto su me stessa, sono diventata più autonoma, ho ucciso le mie paure, ho spazzato via ogni ostacolo, i genitori, il fratello, il ato, ora sono nuova, vergine, e attrezzata. Matteo, credo che ora ti sia chiaro, è il completamento di questo processo. Suppongo che tu abbia avuto delle donne in questi anni, è naturale, questo pensiero non mi ha mai inquietato, né avvilito, sei un maschio, un bell’uomo, mi auguro che queste signore ti abbiano reso felice, ma ora sono tornata, ricominciamo, noi due, anzi, noi tre.” È rimasta in silenzio per un minuto, forse due. “Laura, mi senti?” “Dormo qualche minuto,” ha sussurrato “non ho così tanto spazio per me da tanto tempo, il letto è enorme e troppo morbido, qui per terra è meglio, dormo un po’, Chicco, bussa forte, quando arrivi con Matteo.”
* * *
Sono stanchissimo, per non addormentarmi davanti a Santo resto in piedi, ieri sera allo Scivolato ho mangiato a dismisura, e nel locale sui Navigli ho rimangiato e ho bevuto di nuovo, ora mando via Santo e riposo un paio d’ore.
“Vengo dallo studio, non sono andato a casa, avevo bisogno di controllare delle vecchie carte.” Santo è adagiato nella poltrona, le gambe allungate e le braccia dietro la testa. “Questa notte la notizia dell’arresto di Chiesa aveva una piccola luce, ma non riuscivo a capire, né a ricordare, c’era una connessione con qualcosa che abbiamo fatto negli anni scorsi, un collegamento sottile, poi, all’improvviso, mentre bevevo il caffè, ho ricordato.” “Santo, non adesso, ti prego, devo dormire.” “Ricordi l’Amxa, 1986, maggio, per l’esattezza?” “Molto bene, il ‘pool del salvataggio’, tu in tribunale per evitare il fallimento, Murchio addosso alle banche per procacciare nuove linee di credito, io al marketing e comunicazione e quell’altro, l’ingegnere, come si chiamava, non me lo ricordo più, sì, quello che ha trovato quei due lavori in Argentina, una operazione perfetta, un lavoro eccellente, eravamo ancora a Vimodrone.” “Sì, ci siamo trasferiti in San Barnaba subito dopo.” “E allora, che c’entra adesso l’Amxa? Che peraltro è stata liquidata e non esiste più.” “L’ingegnere era Mario Chiesa.” “Giusto, Santo. Proprio lui, che coincidenza.” “Sai, sco, io qualche volta credo che tu abbia perso il senno. La tua istruzione, la tua esperienza, niente, come se avessi vissuto dentro una bombola vuota.” Con un gesto molto atletico è balzato in piedi, si sistema il papillon e le maniche della giacca. “Il nostro Mario Chiesa non è l’arrestato di oggi, è un altro, ingegnere anche lui, ma solo omonimo. Questa mattina, o questa notte, se preferisci, quando abbiamo ricevuto la notizia sentivo che noi avevamo già avuto a che fare con Mario Chiesa, è per quello che mi sono precipitato in studio.” “Santo, non capisco dove vuoi arrivare, ma presto, sto crollando.” Mi sono seduto sul divano, mi sforzo di restare sveglio, ho la bocca dello stomaco incendiata dall’acidità. “Il Mario Chiesa dell’Amxa che, ripetiamolo per non sbagliarci, non è quello del Pio Trivulzio, aveva una società, la Tradisom, fondata per svolgere attività di
intermediazione commerciale nell’ambito del programma di cooperazione con la Somalia, la quale riceveva finanziamenti pubblici, molti a fondo perduto, per la realizzazione di infrastrutture civili e industriali. Sono andato a rivedere i documenti, la Tradisom aveva ricevuto quattrocento milioni per lo studio di fattibilità per la costruzione di un resort sull’Oceano, duecento per la progettazione del circolo del tennis di Mogadiscio, e quasi settecento per la progettazione di una rete televisiva pubblica, tutte attività mai concluse. Secondo i miei calcoli, sco, la Tradisom, solo nel biennio ‘86-’87, ha assorbito, diciamo così, finanziamenti per quattro miliardi dei quali ne ha utilizzati poco più di trecento milioni, quasi interamente per l’affitto e la ristrutturazione di una palazzina nel centro di Mogadiscio, poco lontano dalla nostra ambasciata, che il Chiesa aveva chiamato Casa Nostra.” Non ho potuto ascoltare altro, mi sono addormentato, seduto, e quando, alle due ate, ho aperto gli occhi, sulla poltrona dove stava Santo ho trovato un biglietto. “La continuazione quando vuoi. Buon riposo.”
* * *
Ho cercato Silvana, al suo numero d’ufficio non ha risposto, poi ho chiamato Laura in albergo, senza successo. Alla reception mi hanno confermato di non averla vista uscire, Matteo oggi fa il pomeriggio a scuola, termina alle quattro, non ricordo se tocca a me andare a prenderlo, il martedì, mi pare, Silvana ha la riunione di coordinamento commerciale, sino a ieri la conferenza stampa non era stata fissata e io certamente, quando ne abbiamo parlato, non so quando, ho offerto la mia disponibilità per Matteo. Nel suo ufficio non hanno informazioni utili, Silvana non c’è, è uscita, forse è da un cliente, e nessuno sembra al corrente di un coordinamento commerciale per questo pomeriggio. Alle quattro mi attende il segretario, meglio alle tre e mezzo, ha scritto in un messaggio, nel suo ufficio alla direzione regionale, la conferenza stampa è di partito e si tiene nell’aula grande a pianoterra, alle cinque. Ho la barba lunga, ho bisogno di lavarmi, e lo stomaco brucia, vampate regolari, sino alla cavità orale. Raccolgo il plaid e lo piego, sistemo al meglio i cuscini del divano e svuoto il portacenere, Santo ha fumato, Silvana ha proibito il fumo in casa, anche se spalanco le finestre se ne accorgerà ugualmente. Alle tre sono pronto, dieci minuti per uscire
e raggiungere il parcheggio dei taxi, dal quale telefono alla scuola di Matteo, affinché comunichino al ragazzo che, se non ci sarà nessuno ad attenderlo, ritorni direttamente a casa e per comunicare che per ogni evenienza possono chiamarmi, ho dato il numero fisso della sede regionale, spiegherò alla centralinista la situazione, se vi fosse una emergenza verrà a cercarmi, ho provato ancora una volta con Silvana e due con Laura, senza esito. Sono arrivato puntuale alla direzione regionale all’ora stabilita, non ho nulla di preparato, né ho organizzato l’intervento di altri, non serve, qui la giochiamo alla manichea, noi i buoni e gli altri i cattivi, con un aggiunta, se sarà necessaria, di un pizzico di aggressività, a questo penserà il segretario.
* * *
Alle otto, dopo la conferenza stampa, il taxi mi ha lasciato davanti all’albergo di Laura, al telefono non risponde e dalla reception proseguono a confermarmi di non averla vista scendere, salito al suo piano busso forte alla porta della camera, in basso, dove questa mattina si era appoggiata per parlare con me, busso di nuovo, e di nuovo ancora, l’ultima volta sferrando un calcio violento al centro della porta. “Dormivo, amore mio. Matteo è lì con te?” “No, è giù, nella hall, prima volevo parlarti.” “Abbiamo parlato stamattina, che ore sono adesso? sco! È già buio!” Intuisco un movimento, sta spostando qualcosa, forse si sta rialzando, il tono della voce è diverso, più puntuale, scandisce le parole, separandole con cura. “Eravamo d’accordo che saresti venuto con Matteo dopo la scuola, mi avevi garantito per l’una, l’una e mezza.” “Usciva alle quattro, il martedì restano a scuola il pomeriggio.” “È vero, in seconda media talvolta si fermano dopopranzo.” “Matteo frequenta la terza.”
“La terza? Ma se non ha ancora tredici anni?” “È avanti di un anno.” “E perché io non lo sapevo? Perché non me lo hai mai detto?” È alterata, mi sembra di vederla, in piedi, i pugni sui fianchi, grida forte, è eccessiva, qualcuno protesterà. “Apri la porta, Laura, fammi entrare, così parliamo.” “Stiamo parlando, amico mio, e non mi hai risposto. Per quale motivo hai preso la decisione di mandarlo a scuola un anno prima, a cinque anni, che ragione c’era, a cinque anni!” “Essendo nato a giugno aveva poco più di cinque anni, ma era un bambino molto intelligente, più della media.” “Il fatto che fosse intelligente non giustifica l’anticipo a scuola. Sei anni sono l’età giusta, tutti siamo andati a scuola a sei anni compiuti. Abitudini da piccoli borghesi, il sogno del bottegaio, battere la concorrenza sul tempo, far iniziare la scuola ai figli in anticipo per essere i primi sul mercato del lavoro a occupare i posti migliori, farsi raccomandare per non andare soldato, così si comincia prima a guadagnare e si diventa ricchi prima. Matteo è mio figlio quanto tuo, non dovevi, sco, non ti era consentito prendere una decisione di questo genere senza consultarmi.” Che fa ora? Sento tambureggiare i piedi a terra, è scalza, batte forte, avverto le vibrazioni sul pavimento. “Conoscevi i miei sentimenti su questi argomenti, perché non mi hai consultata?” “Quando ci incontravamo e quando ci scrivevamo non mi domandavi mai nulla della vita materiale di Matteo, volevi sapere se mi voleva bene e se ti voleva bene e se faceva amicizia, mai nulla sull’asilo, le sue vacanze, la scelta dello sport, la selezione della scuola più adatta, come si vestiva, se dormiva, se mangiava, nulla, Laura. E la tua ostinazione a non incontrarlo, mai, mi dicevi, mai in un parlatorio, e mai una lettera per lui, avrei potuto leggerla io, quando era piccolo, e più avanti le avrebbe lette per suo conto, neppure questo sistema di comunicazioni di sembrava adatto. Ti vergognavi, mi dicevi, digli che la mamma sta male e che si cura in Australia, digli che la mamma lavora in Africa, quando aveva dieci anni mi hai ordinato di spiegargli che eri stata rapita da un commando di guerriglieri sudanesi. Sai cosa ho fatto io, Laura, quando aveva quattro anni ho disegnato una prigione e dentro una delle finestre ho incollato
una tua foto...” “Tu hai fatto questo? Senza dirmelo? Senza la mia approvazione?” Grida forte, con la bocca vicinissima alla porta, qualcuno di certo ha sentito, e tra poco arriverà la sicurezza dell’albergo. “Sì, Laura, e il disegno è rimasto appeso in cucina sino a quando ha iniziato le elementari, e da allora gli ho raccontato, ogni giorno, tutto. Laura, Matteo conosce ogni dettaglio, progressivamente, in funzione della sua età, sono entrato in ogni particolare, anche i più delicati, quelli più difficili da raccontare, a casa abbiamo la libreria zeppa di testi sugli anni di piombo e Matteo ha raccolto una montagna di articoli di giornali e di riviste di quel periodo...” “Hai commesso un crimine, sco, un delitto. Ma era utile? È servito farlo?” “Aprimi, Laura.” “E Matteo? Sta aspettando giù da solo.” “Matteo non c’è. Non l’ho portato, è a casa!”
* * *
La conferenza stampa si era trasformata in una corrida, a un certo punto Santo ha dovuto fisicamente impedire al segretario di avventarsi contro il giornalista del Corriere, lo stesso che mi aveva porto i suoi complimenti il giorno precedente. Prima della conferenza, con i dirigenti del partito, presenti Santo e due suoi assistenti, avevamo affinato l’organizzazione nei minimi dettagli, eravamo pronti a fronteggiare ogni questione, anche le più spinose, di natura politica, amministrativa e legale, Santo aveva predisposto un faldone intero di osservazioni e di commenti sulle modalità dell’arresto di Chiesa, sulla procedura di notifica, sugli aspetti tecnici della marchiatura, firma e fotocopiatura delle banconote che Mario avrebbe ricevuto dall’imprenditore. Il segretario, in uno sfavillante completo gessato, ha aperto il dibattito con una relazione nella quale esaltava il ruolo della politica nella crescita dell’economia e
nell’equa distribuzione del reddito prodotto, l’assessore ai lavori pubblici, un nostro uomo, aveva proseguito elencando i successi delle amministrazioni comunali nelle quali il partito era al governo. A rompere l’idillio è stato il giornalista del Corriere, questa sera molto ben vestito, in completo antracite, gilet di lana grigio e cravatta bordeaux. “Pare...” è rimasto seduto, parla fissandomi ed escludendo il segretario accanto a me, “che anche al Pio Trivulzio abbiate fatto un buon lavoro, alta qualità e prezzi bassi.” “Può dirlo!” il segretario mi ha rubato il tempo mentre stavo per rispondere. “I nostri uomini scelgono le aziende più affidabili...” “Forse sarebbe meglio dire le più sottomesse...” lo ha interrotto il giornalista. “Scelte, caro il mio dottore, noi selezioniamo le migliori imprese, l’amministrazione della cosa pubblica richiede qualità, e noi ci comportiamo di conseguenza, ponendo grande attenzione nella qualifica dei fornitori, soprattutto di prestazioni che, come lei mi insegna, sono l’anima del servizio pubblico al cittadino.” “Intendevo dire che voi scegliete le aziende in funzione della loro capacità contributiva, insomma, se pagano sono adeguate e congrue, altrimenti sono incapaci e inaffidabili.” “Lei offende, il nostro partito, i nostri dirigenti e il nostro lavoro.” Il giornalista è rimasto seduto, e ora indica con il braccio teso il segretario. “Mi dica, signor segretario, dunque l’impresa che proprio ieri sera a quest’ora versava una mazzetta di sette milioni di lire al vostro Chiesa era stata accuratamente selezionata per le sue competenze e la sua affidabilità.” “L’eccellenza del servizio di quell’azienda è fuori discussione!” Il segretario ha iniziato ad alzare la voce. “Bene signori,” l’amico giornalista adesso è in piedi e si rivolge alla piccola platea dando le spalle al segretario “quell’azienda ha lavorato bene, tanto bene che ha pensato di regalare sette milioni quale ringraziamento per aver ricevuto dal Pio Trivulzio la possibilità di esprimere le sue potenzialità.”
“Lei sta infamando...” il segretario per la prima volta ha fatto l’atto di alzarsi, e per fermarlo è bastato posargli una mano sul braccio. “Piano,” gli ho sussurrato. “Diplomazia, taci adesso, lascia fare a me.” “E i sette milioni, il vostro Chiesa li ha presi o non li ha presi?” ha continuato il giornalista. Santo ha estratto dal faldone un foglio, pronto a mostrarlo alla platea, mentre nel contempo io mi accingevo a spiegare le ragioni e le motivazioni nascoste dell’accaduto. Inutile, il segretario è balzato in piedi rovesciando rumorosamente la sedia. “I sette milioni? I sette luridi milioni? Che sono sette piccoli milioni per l’enormità del lavoro svolto, il nostro, il mio, quello del dottor Aliberti e dell’avvocato Tizzi e di una quantità di tecnici, professionisti, laureati, impiegati, segretarie, commessi, autisti, un’opera continua, estesa e capillare nello stesso tempo, rivolta a individuare l’azienda migliore, quella che può realmente erogare i servizi dei quali i cittadini hanno necessità.” È riuscito a chiudere la bocca al giornalista e a catturare l’attenzione della platea, sono in una cinquantina, sono presenti le televisioni nazionali, inviati di tutte le testate, e i rappresentanti dei partiti della maggioranza governativa nazionale e della giunta regionale lombarda. “Voi non vi rendete conto della complessità della gestione delle aziende e degli enti pubblici, degli ospedali, degli uffici comunali, provinciali e regionali, non potete immaginare l’intensità delle pressioni ai quali sono sottoposti gli uomini che ricoprono incarichi di responsabilità, gruppi organizzati di imprenditori, lobbisti, li chiamano adesso, associazioni di mestiere, le stesse confederazioni sindacali, si promuovono, si presentano, spingono, si affollano nelle anticamere, sollecitano i funzionari per orientare le scelte verso il loro personale progetto, la loro specifica soluzione di fornitura. Noi orientiamo questo flusso, noi separiamo il grano dalla pula, noi individuiamo gli attori migliori, e li proteggiamo, li coccoliamo, affinché, i cittadini, ricordiamolo, loro, i soli destinatari di questo complesso processo, ricevano, in un letto di ospedale o in un ufficio dell’anagrafe, il trattamento più eccellente, il migliore possibile.” La sala grande della sede della direzione regionale del partito è stata ristrutturata da poco, piastrelle color crema, pittura ocra alle pareti, seggioline rosse con il
ripiano di scrittura pieghevole, luci sfavillanti, l’acustica è pessima e le parole pronunciate dal banco dei relatori assumono un tono metallico. Il segretario è riuscito a zittirli, se ne sta lì, nel silenzio rarefatto, imponente, a braccia larghe, i capelli pettinati all’indietro, la cravatta allentata, sorridente, a fronte alta, trionfante, sino a quando ha ripreso la parola il giornalista del Corriere, precedendo di una frazione di secondo le mani alzate di altri dieci colleghi, fissa il segretario negli occhi, è in piedi davanti a lui, grida: “Siete dei luridi ladri, a libro paga di imprenditori corrotti.” Il segretario ha gonfiato il petto e ha iniziato a vomitare insulti contro il giornalista, il quale ha proseguito imperterrito la sua allocuzione. “Un sistema marcio, siete degli avidi, dei prevaricatori, questa Italia verrà divorata dalla vostra ingordigia, e voi ne verrete seppelliti.” Alla fine il segretario è uscito dal banco dei relatori, liberandosi di Santo, abbarbicato al suo braccio per cercare di fermarlo e irrompendo fragorosamente in platea, per avvicinarsi al giornalista e urlargli addosso, a mezzo palmo di distanza, il giornalista è arretrato in retromarcia, inciampando in una sedia e scivolando contro la telecamera e il microfono di una rete locale. Qualcuno ha chiamato i Carabinieri.
* * *
A casa, Matteo in camera, Silvana distesa sul divano davanti alla televisione accesa sul telegiornale. “Hanno dato la notizia anche sul nazionale” ha mormorato senza guardarmi. “Che notizia?” “Aggressione a un giornalista durante una conferenza stampa da parte di un esponente politico milanese di primo livello.” “Quando?” “Poco fa, c’era anche una foto, della telecamera e del microfono caduti sul
pavimento.” “Non sono caduti, li hanno gettati a terra dopo, una manovra, per screditarci.” “Prima o dopo...” Silvana è stanca, e annoiata. “Ciò che conta è che l’avete fatta grossa, difendere un corrotto, spacciando la corruzione per servizio ai cittadini, credo che il segretario sia fuori dalla realtà e tu e Santo, che lo spalleggiate, degli incoscienti.” “Anche tu vivi di questo, questa casa, due automobili, otto anni di scuola materna ed elementari di Matteo alla scuola privata, la domestica tutti i giorni...” È rimasta distesa, pigia sul telecomando e cambia in continuazione canale. “Non ricattarmi, a me non serve nulla, io e Matteo possiamo vivere di acqua e aria, e se dobbiamo rinunciare a tutto, dico tutto, sco, basta dirlo, possiamo cominciare da domani.” “Non ci credo.” Mi sono seduto in fondo al divano, le ho preso un piede tra le mani e lei lo ha immediatamente ritratto. “Credici, invece, perché è la verità. E tu lo sai.” È rannicchiata, si stringe nel plaid, continua a cambiare canale, i capelli sugli occhi, gli occhiali schiacciati sul naso. “E quella? L’hai vista?” “Non mi piace che tu ti riferisca a Laura in questo modo.” “E Laura? Come sta?” “Non prendermi in giro, come se ti importasse qualcosa di lei.” “E a te? A te importa di lei?” “Conosci quali sono stati i miei sentimenti per lei, sei al corrente di ciò che abbiamo vissuto.” “Fole, illusioni, forzature, una vita inventata. L’hai abbandonata per un’altra il giorno del matrimonio, ma che donna è quella che si lascia scappare un marito in quel modo? Non aveva condiviso con te l’adolescenza, non conosceva di te ogni dettaglio della tua intimità?” Ha spento la televisione e si è seduta dandomi le
spalle. “La vostra relazione è iniziata quando avevate quattordici anni, e a ventiquattro, dopo anni di confidenza quotidiana, lei, l’inconsapevole Lolita, non ha avvertito nessun cambiamento nel suo promesso sposo, tutto era in ordine, è andata a salutarlo sotto il suo ufficio il giorno prima delle nozze, lui le ha presentato la giovane collega con la quale stava eggiando per il centro città e lei, ignara, gli ha ricordato che il suo vestito da cerimonia era da ritirare in lavanderia. Una fine psicologa tua moglie, una donna attenta alle minime trasformazioni in atto nel suo fidanzato, una donna profondamente innamorata, alla quale non sfugge il più modesto cambiamento di umore del suo uomo.” “Sai che non è andata così, la realtà è più complessa, c’era la storia, intorno a noi, che ci ha stritolato.” “C’ero anch’io, nella medesima storia, e io non sono stata schiacciata.” “Siete diverse.” “Puoi ben dirlo!” “Io voglio bene a Laura.” “A proposito, perché sei qui? Non si era detto che te ne andavi in albergo, a risolvere le tue cose?” “Non si era detto, sei tu che lo hai detto.” “E allora vai, non voglio che tu i la notte qui.” “Vado a salutare Matteo.” “Non c’è, hanno la pizza di classe.”
* * *
Era molto tardi quando mi sono presentato a casa di Santo, l’ho cercato al telefono, ma non ha risposto. Il mio amico abita in una traversa di via Santa
Marta, nella mansarda di una casa di ringhiera ristrutturata di recente. Sono stato raramente qui, Santo tiene in modo particolare alla riservatezza della sua vita privata, della quale peraltro parla pochissimo, persino con me. Sono le undici ate, al citofono risponde subito, la voce è allegra, divertita. “Sali, sco, scala destra, ultimo piano.” Nell’androne e nel vano scale si avverte l’odore di vernice fresca, luci soffuse, porte scure, maniglie di ottone, silenzio. L’abitazione è piccola, e il soffitto, in prossimità delle finestre, è tanto basso che è necessario piegarsi, le pareti del locale di soggiorno sono dipinte con colori tenui, l’arredamento consiste di due poltrone basse, un divano piccolo e, al centro della stanza, di un tavolo di vetro colmo di riviste. Santo non è solo, mi presenta, sembra orgoglioso di introdurmi ai suoi amici, il primo è un uomo sulla cinquantina, capelli brizzolati, atletico, si alza e mi stringe la mano con energia, l’altro è molto giovane, non più di venticinque anni, efebico, studente all’ultimo anno di giurisprudenza, mi ha mormorato offrendomi una manina esangue. “È un praticante dello studio, ha iniziato da qualche giorno, non lo conosci ancora.” Santo è sorridente, rilassato, indossa una camicia a righe blu e verdi. “E lui” ha indicato l’altro “è architetto in Comune.” Una pausa, si guarda intorno aggiustandosi il colletto della camicia “Non so se mi spiego!” Ridono, anche quello giovane. “Sei arrivato al momento giusto, sco, stavano andando via.” Li ha fissati con simpatia “Proprio adesso.” Appare felice di avermi lì per la notte, una decisione saggia, lontano dalle due “mogli”, per riflettere meglio. Mi sono accomodato su una delle poltrone, in sottofondo musica jazz, Santo mi ha servito un mezzo bicchiere di scotch scozzese con ghiaccio, come piace a me, sto bene, adesso, al caldo, e Santo è un amico. “Hai da terminare di raccontarmi la storia del Mario Chiesa omonimo, quello della Tradisom e dell’Amxa, mi sono addormentato, non ho sentito il finale.” È diventato serio, ha avvicinato la poltrona e si è chinato sopra di me. “Riepilogo, Mario Chiesa, quello arrestato ieri, aveva un omonimo, anch’egli ingegnere, proprietario della quota di maggioranza della Tradisom, quella dei lavori finanziati in Somalia.” “Ed anche proprietario dell’Amxa.”
“Dimentica l’Amxa, l’ho citata solo per spiegarti come sono arrivato all’omonimo.” “Amxa cancellata dalla memoria, prosegui.” “Dunque Mario Chiesa, chiamiamolo il nostro, per capirci, adesso è in stato di arresto e la procura sta cercando precedenti e riscontri, per trovare, suppongo, la traccia di un disegno complessivo, una strategia di taglieggiamento verso le aziende fornitrici del pubblico, un sistema organizzato, io, fossi un pubblico ministero, farei così. Vuoi dunque che non aprano qualche faldone dov’è citato l’altro Mario Chiesa, l’attività della Tradisom è stata oggetto di indagini, ci sono state anche interrogazioni parlamentari.” “Sì, troveranno il Mario Chiesa falso, se ne accorgeranno e chiuderanno il faldone.” “Può darsi di sì, e può darsi di no. Eventuali malversazioni della Tradisom sono ancora perseguibili, perché non aprire una indagine anche lì, pare che il nome di Mario Chiesa sia di buon auspicio per gli investigatori, magari ci danno una nasata, forse approfondiscono, non possiamo escluderlo.” “No di certo, è possibile.” “È probabile, e se accade è pericoloso, la procura ha un progetto, e l’arresto al Pio Trivulzio è il primo atto di una sequenza di azioni prestabilite, hanno fame, ora, di fatti, e di colpevoli facili, devono affermare il loro ruolo di persecutori, conquistare l’appoggio popolare e di quelle forze politiche che hanno interesse a colpire il partito, ogni nuovo indagato è oro colato. E la Tradisom rappresenta il miglior esempio di corruzione e malversazione a scapito del pubblico interesse, una opportunità strepitosa servita su un piatto d’argento, c’è anche il politico coinvolto, una situazione esemplare, la procura vi si getterà a capofitto, una occasione da non perdere, anche se il Chiesa non è lo stesso Chiesa. Hai capito adesso, testina?” “Compreso, Santo, ma permettimi, ma a noi, a noi che ci importa se indagano sulla Tradisom, a noi, a noi come ci tange questa simpatica vicenda dei due ingegner Chiesa?” Si è alzato e mi ha riempito il bicchiere. Questa casa sembra disegnata attorno lui, il soffitto adatto alla sua altezza, le poltrone e il divano bassi, le luci
morbide, il parquet sul pavimento, qui Santo si sente difeso, protetto, al sicuro. “Usa il cervello, amico mio, e la memoria, Tradisom, 1986, Mario Chiesa, l’omonimo, detentore della maggioranza della società nonché amministratore delegato, di un consiglio di amministrazione composto da tale Robetti, il politico, sodale del Chiesa, ex-assessore ai lavori pubblici di un comune della cintura milanese e di un consigliere di amministrazione di una società di consulenza milanese, che era?” “Che era?” “Il dottor sco Aliberti, in rappresentanza dello studio Aliberti e Tizzi, noi due, se devo dirti anche questo.”
* * *
Santo mi ha ceduto il suo letto e lui si è arrangiato sul divano, ha respinto ogni mia obiezione adducendo il semplice argomento della sua scarsa statura, che gli permette di stare disteso per intero sul divano. Alle sei del mattino ha squillato il cellulare, dall’albergo mi informano dell’impossibilità di entrare nella stanza della signora Betti, non risponde al telefono, hanno bussato alla porta senza risultato e non riescono ad aprire con il epartout poiché forse la signora ha manomesso la serratura dall’interno. Ieri notte sono stato sveglio sin quasi alle tre, ho parlato con Santo, da anni non ci confrontavamo con tanta intensità, sono uscito senza svegliarlo, è ancora buio, la temperatura è scesa sotto zero, i cristalli delle auto in sosta sono ghiacciati, umido di terra, gelato, non sono coperto abbastanza, sopra la giacca ho solo un cappotto leggero, senza bottoni sul bavero e per trovare un taxi sono costretto a camminare sino in Duomo. Qualche ora fa Santo è stato molto chiaro: “Se aprono il capitolo della Tradisom ti vengono a cercare, in quanto consigliere di amministrazione hai delle responsabilità pesanti, non importa se, al di fuori delle nostre parcelle, non ci abbiamo guadagnato nulla, eri un componente del consiglio di amministrazione e sei perseguibile per le eventuali malversazioni della società, che non sono
affatto eventuali perché il Chiesa, l’omonimo, era uno straordinario maneggione, lui direttamente ha distratto fondi pubblici per cifre enormi, e l’altro, l’assessore, ha incamerato decine di milioni per il partito, proprio il genere di reato che la procura milanese sta utilizzando per scardinare il sistema tangentizio delle forniture pubbliche.” Sono entrato nella hall dell’albergo poco prima delle sette, l’impiegato alla reception, lo stesso al quale ieri ho ato le centomila lire, è gelido, la signora Betti crea una montagna di problemi, la direzione lo ha incaricato di invitarmi a individuare per lei una sistemazione alberghiera alternativa. La porta della stanza di Laura è chiusa, ho bussato e l’ho chiamata, piano, ho avvertito un movimento in prossimità della porta, è lì, stesa sulla moquette e non mangia da due giorni. “Sei tu, sco?” “Io. Mi hanno chiamato, dicono che non ti stai comportando bene.” “Lasciali perdere, sono degli stupidi.” “Devi lasciare libera la stanza entro le dieci.” “Altrimenti?” “Polizia.” Non ha risposto, e non ha più risposto a nessuna delle mie domande, muta, non sento più rumori, si è immobilizzata, non mi parlerà più. Anche Santo, questa notte, a un certo punto ha smesso di parlarmi: “E se ti cercano, sco, ti arrestano, sei un pregiudicato, condannato per terrorismo, verrai indiziato per truffa, perché la Tradisom intascava fondi statali con la frode, sette anni, non uno di meno, che farai senza sconti, e se va bene sarai fuori per il capodanno del 2000.” Ho provato ancora a bussare, a chiamare, nulla, Laura si è inabissata, tolta da qui, piange, forse, o trema, o ha freddo, non posso fare nulla, è finita, chiameranno la Polizia, scopriranno che il marito sono io, mi chiederanno di occuparmi di lei.
“Devi andartene, sco!” Santo è stato perentorio. “Via da qui, in un posto lontano, in Africa, in Australia, in Sudamerica, io qui tengo sotto controllo ogni cosa, e quando torni riprendiamo, ma ora devi sparire, subito, una settimana, il tempo necessario per il aporto, sì, te ne vai via da solo, Laura la lasci qui, troverà la sua strada.” Piangeva, e si vergognava di farlo. “Subito, sco, sei in pericolo, qui la frana è immensa, e tu devi salvarti.” Alla reception ho detto che la signora Betti riposava, e che entro sera avrebbe lasciato la camera. “Non più tardi di questa sera, dottor Aliberti, non un minuto di più.” Santo mi ha abbracciato, che lo stringessi forte, è mio amico, il mio unico, vero amico.
* * *
Il segretario mi ha telefonato mentre uscivo dall’albergo, intimandomi di trovarmi in direzione alle otto, almeno io, Santo sembra sparito, lo ha cercato al telefono, ma non risponde, né al fisso né al cellulare, lui è già lì dalle sei, che non tardassi. Non ha dormito, oppure ha dormito poco e male, si gratta dietro le orecchie e non smette di stropicciare gli occhi. “Ci hanno fatto blu, ieri in conferenza stampa.” Tono di voce incerto, tradisce preoccupazione, persino lui, lo schiacciasassi, la ruspa. “Era previsto, a mio giudizio abbiamo retto sin troppo bene. Certo che quel gesto alla fine con il giornalista!” “Vuoi dire?” Ha cessato di grattarsi, e ha posato con vigore le mani aperte sul tavolo. “Non si meritava altro, conosco quel tizio, è un pezzente, un servo, un ruffiano, per il suo nome in prima pagina venderebbe la mamma tagliata a fettine.”
“È del Corriere della Sera.” “Dobbiamo smetterla con questa menata del rispetto acritico per la stampa. Ma che è? Scrivono quello che vogliono, senza contradditorio, senza diritto di replica, e noi dovremmo stare in silenzio? Che vadano in malora, noi possiamo benissimo vivere senza i loro maledetti giornali.” È stanco, vestito male, con un completo azzurro chiaro su una camicia grigio scura a righine arancioni, si alza, apre e chiude la porta dell’ufficio, la riapre, esce un momento in corridoio, rientra, si ferma a scrutare una foto appesa alla parete, è la squadra regionale del partito, vincitrice in un torneo amatoriale, anno 1981, lui era lo stopper. “Non c’è mai nessuno in questo ufficio! Fanno gli orari che vogliono, questa direzione è lo specchio di questa Italia, ognuno per la sua strada, senza incrociarsi mai.” “Avevi bisogno di me?” gli ho domandato in fretta. “Scusa, dottore, certo, ti ho convocato per un motivo preciso. Il 5 e 6 aprile si vota, i candidati sono già in lista, accidenti, ora è tardi, le liste sono chiuse, un seggio alla Camera per te sarebbe stata una mossa grandiosa, sco Aliberti onorevole, un bel colpo, per il partito, e per te, ma ormai è tardi.” Mi scruta, osserva le mie reazioni, attende un ringraziamento, lo conosco bene, non fa nulla per nulla. “Grazie. Avrei accettato, sarebbe stato un onore.” “Ma non si può, troppo tardi, perdonami.” “Di niente.” “Ho pensato a una alternativa, migliore del seggio alla Camera.” È disteso, ora, naviga in mare amico, progettare il collocamento delle sue pedine, studiare le sinergie, come ama chiamarle. “Questo sindaco, sì, il Borghini, dura poco.” È tornato a grattarsi dietro le orecchie, con entrambe le mani. “Ascolta, non sappiamo ancora chi candideremo come sindaco, ma tu sei perfetto come consigliere, e perché no, come assessore, ai lavori pubblici, naturalmente, un giovane, che coniuga la cultura con lo spirito imprenditoriale e professionale, tu sei il nostro uomo nuovo, è da ieri sera che mi arrovello su questa idea, e non
vedo che vantaggi, per te, per noi, per la città, per tutti.” Gongola, adesso, felice di inventare il futuro altrui, e il suo. “Mi sono permesso, prima ancora di parlartene, di chiedere il conforto di una opinione al segretario nazionale. Mi ha chiamato ieri notte, è ansioso, si può capirlo, di conoscere gli sviluppi della vicenda del Chiesa, l’ho messa lì, come una battuta, insomma, si è zittito, ma ci pensi, lui che resta in silenzio, proprio lui.” Agita le mani, è infervorato, ride contento, questa è la sua vita, l’aria che gli serve per respirare, il suo brodo quotidiano. “Insomma, se ne è stato in silenzio mezzo minuto buono, e poi se ne è uscito con ‘ma questa è proprio una buona idea, molto, molto buona’. Insomma, sco, l’anno prossimo sarai assessore comunale a Milano.” Si è interrotto, mi fissa estasiato. “Prendi e porta a casa. Corri da Silvana a dirglielo, considerala cosa fatta.”
* * *
Silvana, al telefono è sbrigativa. Le ho chiesto di aspettarmi, ho bisogno di lei. “Bisogno. Pessimo sostantivo, viene usato come eufemismo di defecare.” “Aspettami, ho davvero bisogno di te.” “Sto uscendo, sono sulla porta, ho un appuntamento.” “Disdici, tarda una mezzora, devo vederti, subito.” “Dove sei?” ha addolcito il tono. “Sul taxi, dieci minuti e sono lì.” “Dove hai dormito questa notte?” “Da Santo.” “Non ci credo.” “Giuro, ero da lui. Mi ha ceduto il suo letto, lui ha dormito sul divano.”
Sento il suo fiato, è immobile, forse ancora in casa, forse con la mano sulla maniglia. “Silvana, ci sei?” “Ti aspetto, ma fai presto.”
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Quando Silvana è uscita, più o meno alle nove e mezza, sono crollato sul divano, in queste due notti ho dormito pochissimo. Le avevo detto che sarei andato a prendere Matteo a scuola, non lo vedo da giorni. “Come vuoi, è tuo diritto.” Si è rivestiva veloce, con cura, attenta a non smagliare le calze, decidendo di cambiare la gonna, che a suo dire le avrei stropicciato io, e di sostituire le scarpe, aveva un incontro con un uomo giovane, meglio un tacco più basso. “È tuo figlio.” Lamentava di averla spettinata, cinque minuti di tempo buttati, si spostava in bagno, lasciando la porta aperta. “Non mi piace che mi salti addosso così. Accidenti, come tornassi da anni ati su un’isola deserta. Ero già vestita, ci prendevamo un caffè, due parole, seduti in cucina, da cristiani.” “Vado con Matteo in Galleria, ci compriamo un libro e mangiamo al McDonald’s.” “È tuo figlio, fai quello che ti sembra più giusto. Anzi, senti me, portalo da quella, sì la madre, chiudiamola, questa storia. Che si parlino, Matteo non è uno scemo, che giudichi lui, che la veda, che la consideri.” “Non è Matteo quello che deve decidere. Matteo è poco più che un bambino.” “sco, hai quarantatré anni, ma sei rimasto più infantile di Matteo.” “Matteo non mi sembra affatto un cattivo risultato!” Ero disteso sul tappeto, supino, nudo, a braccia larghe.
“Forse perché per dieci anni ha avuto chi si è preso cura di lui.” “Sei presuntuosa.” “No, realista, è la verità. E questo avvalora la mia idea, che vada da sua madre, parleranno, si confronteranno, anzi, guarda, lasciaglielo qualche giorno, così si prendono le misure a vicenda, e poi vediamo. Io non ho paura.” “Non si fa così, sono gli adulti che hanno l’obbligo di assumere le decisioni per i figli.” Era sopra di me, con il cappotto, aveva scelto degli stivali neri, e una gonna beige un po’ corta. “Alzati, il tappeto è sporco, ci camminiamo con le scarpe.” Mi ero messo seduto, sentivo la stanchezza, ho freddo. “Io vado. Mi hai fatto fare tardi. Fammi sapere cosa hai deciso, nel pomeriggio sono in ufficio.”
* * *
Questa notte Santo non ha voluto sentire ragioni, Silvana, Matteo, Laura, il mio futuro professionale, stupidaggini, rispetto all’enormità del danno che soffrirei restando, il rischio è elevato, quella stessa notte in procura qualcuno stava impilando sulla scrivania di un sostituto procuratore tutti i faldoni nei quali in qualche modo compariva il nome di Mario Chiesa, e dunque anche quelli connessi con l’affare Tradisom. Non ha voluto in alcun modo tenere in considerazione la mia costernazione, partire ora, abbandonare la città, gli amici, gli affari, Laura appena scarcerata, Matteo, ancora solo un ragazzo, da indirizzare, da accompagnare, da aiutare a capire. Nessuna esitazione, Santo è stato chiaro, non ho alternativa, e non posso perdere tempo, che scelga il paese di esilio, mi ha dato due giorni di tempo, per venerdì 21 la meta deve essere individuata, in modo da essere pronti per la partenza entro il venerdì successivo, sì, pronti, mi accompagnerà lui, sia per aiutarmi nella sistemazione sia per controllare, al proposito è stato sincero, non si fida, ha colto le mie riserve e le mie resistenze, e intende accertarsi della mia partenza e del mio arrivo nel luogo concordato.
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Matteo, dopo otto anni di scuola materna ed elementare privata, frequenta la media pubblica, quest’ultimo anno è cresciuto molto, il collo lungo, una testata di riccioli neri, gli occhiali larghi, da vecchio, o da secchione, un ragazzo simpatico, amatissimo dai compagni, molto curioso, con me predilige il dibattito sull’attualità politica che adesso, a un o dalle scuole superiori, è divenuto il terreno di confronto che più lo intriga. “Pa’, hai sentito di quel Mario Chiesa?” Matteo è genericamente informato in merito alla mia professione, ma non conosce i dettagli del mio fare quotidiano. “Sì, è su tutti i giornali.” Ha iniziato a parlarmi appena uscito da scuola, sul marciapiede, nella ressa dell’uscita dei ragazzi. Hanno detto che hanno malmenato un giornalista durante una conferenza stampa? Che è l’inizio di una valanga e che li arresteranno tutti?” “Tutti chi, Matteo?” “I ladri e i politici corrotti.” Sono riuscito a portarlo via, camminiamo, verso il centro, l’ho preso sottobraccio. “Andiamo a piedi sino al Duomo, ci andiamo a mangiare due panzerotti.” “Due panzerotti valgono la strada a piedi.” È piacevole ascoltarlo, mio figlio, la voce sonora, la parlata piena, sincero, appare privo di retro pensieri, e di secondi fini. “Andiamo pa’, così facciamo un salto da Ricordi.” “E dopo iamo a salutare una persona.” Ha la falcata ampia, e fatico a stargli accanto. “Che sarebbe?” “Sorpresa, lo scoprirai da solo.”
Ha rallentato, si è fatto raggiungere, mi guarda e ride. “So di chi si tratta. Mia madre, uscita l’altro ieri dal carcere.” “È stata Silvana?” “Un po’ lei e un po’ lo zio Santo.” “Quando hai visto Santo?” “Ieri l’altro, lunedì, è venuto al mattino presto, stavo preparandomi per uscire.” “E allora? Ti va di venirla a trovare?” “Accidenti che sì. È mia madre!” “E Silvana?” “Lei è Silvana, e l’altra è mia madre, semplice, mi sembra.” Il freddo si è attenuato, nelle giornate serene d’inverno Milano è bella, luminosa, pulita, più ordinata, le rotaie del tram piantate nitide dentro l’asfalto, gli scappamenti fumanti delle auto, al sole luccicano le rade foglie secche delle piante dei controviali, Matteo cammina veloce, si allontana, conosce bene il luogo dei panzerotti, lo raggiungerò là.
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A Santo ieri notte l’ho ripetuto a lungo. “Non voglio partire, quasi vent’anni fa ho conosciuto l’esilio, negli Stati Uniti, e poi il carcere, no, Santo, sono riuscito a riemergere, vivo, e non voglio sotterrarmi di nuovo, io resto qui, mi difenderò, tu mi aiuterai, combatteremo in aula, e fuori dai tribunali, trasformeremo le accuse in persecuzione, siamo abituati alle battaglie, Santo, riusciremo a vincere o, al più, limiteremo i danni.” Santo alle due di notte è ancora con la giacca e il papillon, è seduto sul tappeto, la schiena appoggiata al divano, e mi osserva con attenzione gesticolare sotto il
soffitto basso della mansarda. “sco, non ce la faremo, politicamente saremo sconfitti, l’accusa troverà gli archivi aperti, gli avversari gli porteranno le prove a domicilio, ci distruggeranno in due udienze.” È sconsolato, aggrappato alle gambe piegate, la testa premuta sulle ginocchia. “Sarai condannato, con disonore, nessuno ti offrirà solidarietà, solo, rinchiuso, impoverito, abbandonato.” “Santo, in dieci anni mi sono ricostruito, da operaio a guru della comunicazione, da cinquecentomila lire di stipendio all’agiatezza, due abitazioni in proprietà, risparmi ben gestiti, lo studio avviato, il nome accreditato, no, Santo, non posso lasciare, non ora, dammi più tempo, ho bisogno di tempo, devo chiudere delle situazioni, vendere gli appartamenti, investire in qualche fondo, intestarli a Matteo, sistemare la quota che ho dello studio, potresti acquistarla tu, a un prezzo convenzionale, me la restituirai dopo, al mio ritorno.” “Allora partiresti?” mi ha chiesto sbalordito. “Se mi aiuti a porre ordine alle mie cose, e se mi garantisci che potrò tornare...”
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Il segretario mi ha convocato per cena, di nuovo dall’Arlecchino Scivolato, non mi ha detto chi troverò, ama fare il misterioso, lo diverte la sorpresa degli ospiti mentre scoprono all’ultimo minuto, quando non possono tirarsi indietro, l’identità degli altri commensali. Con questo suo metodo ha creato non pochi imbarazzi a molte persone, anche importanti, a suo modo è un vero democratico, non ha rispetto per la gerarchia, né verso il rango sociale ed economico, in privato è paladino del comunismo primitivo, tutti nudi e tutti eguali. Nel pomeriggio ho cercato Silvana in ufficio per parlarle dell’incontro tra Matteo e sua madre, al centralino mi hanno comunicato che era fuori e dopo una mezzora che era impegnata in una riunione, così ho deciso di andare di persona, l’ufficio è a Loreto, sono andato a piedi, non ho mai amato tanto camminare come in questi giorni.
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Poco fa, dopo i panzerotti, spostandoci, a piedi, da piazza Duomo all’albergo dove è alloggiata sua madre ho proseguito la discussione con Matteo, è curioso, desidera sapere, risolvere i dubbi, approfondire i temi che gli sono oscuri. “Insomma, pa’, buoni i panzerotti, ma, ora mi devi spiegare per bene questa storia della corruzione, insomma quel Chiesa ha preso dei soldi da una azienda che lui aveva scelto per fare un lavoro lì, all’istituto dei poveri, il Trivulzio, ma che male c’è? Chiesa gli ha trovato il lavoro e quello ha pagato, non si chiama anche provvigione?” “No, Matteo, la provvigione è quella che avresti preso tu se tu, Matteo Aliberti, fossi riuscito a far avere il lavoro a quell’azienda, quella che ha preso Chiesa non è una provvigione.” “E perché no? Che differenza c’è?” “Chiesa è un funzionario di una azienda pubblica, è pagato con soldi che provengono dall’imposizione fiscale, il suo compito è selezionare l’azienda che offra i servizi di maggiore qualità al miglior prezzo.” “E quest’azienda non era un buon fornitore, era più costosa, lavorava male?” “No, risultava ineccepibile, ottimo livello di qualità al miglior prezzo.” “Dunque bravo Mario Chiesa, ha scelto bene.” “Peccato che si sia fatto pagare.” “Pa’, non capisco, il fornitore gli ha dato soldi suoi, non pubblici.” “No, certo che no, ma Chiesa aveva l’obbligo di scegliere il miglior fornitore, non quello che gli aveva promesso dei soldi.” “Ma ascolta, se quello, il fornitore, non gli avesse dato dei soldi Chiesa ne
avrebbe scelto un altro?” “Questo non è dato saperlo.” “E se si dimostrasse che comunque quel fornitore era il migliore Chiesa risulterebbe innocente?” “Forse sì, ma non si può dimostrare.” “Basterebbe chiedere i prezzi agli altri fornitori, se quello è sempre il migliore Chiesa non dovrebbe essere indagato.” “Sì, hai ragione, ma il confronto tra i prezzi effettuato dopo non ha lo stesso valore di quello svolto prima.” “Questo non lo capisco.” Ha smesso di parlare, improvvisamente, e si è improvvisamente incupito. “Tutto bene, Matteo?” “No, cioè sì, ma quando non capisco divento matto.” “Matteo, ma questo Chiesa ti è così simpatico? Ti sembra una vittima? Parteggi per lui come per l’Inter.” “No, no, è che non capisco, e non mi piace non capire.”
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La reception dell’azienda di marketing della quale Silvana è partner sembra il set di un cinema, zeppa di foto di donne e uomini dello spettacolo e foto di paesaggi di ogni genere incollate e sovrapposte in un enorme collage che copre il soffitto, le pareti e il pavimento della stanza, l’impiegata, bionda, in dolcevita nero aderente, è seduta dietro un bancone di vetro trasparente, musica inglese e americana anni ‘60, luci forti che illuminano a giorno due statue di legno, un uomo e una donna altezza naturale, nudi.
“Silvana è uscita, forse torna, non sanno quando.” La ragazza bionda ha provato a chiamarla sul cellulare, e mi ha guardato sconsolata dicendomi che non era collegato. Le ho chiesto se c’è Serena, l’altra socia. Serena è in Olanda sino a venerdì. Neppure Chiara, la terza socia, è in azienda, l’intera giornata a un convegno a Roma. Ho chiesto se potevo attendere nell’ufficio di Silvana, non è possibile, è chiuso a chiave, se lo desidero posso aspettarla lì, mi ha indicato una panchina di plastica bianca, accanto alla statua maschile. Alle sette, sono rimasto seduto sulla panchina un’ora e mezza, mi sono alzato per andarmene. Salutandola, la ragazza mi ha detto che poco prima aveva ricevuto una telefonata da Silvana. “Perché non me l’ha ata?” “Le ho detto che era qui ad aspettarla, ma mi ha chiesto di non disturbarla, le comunica...” Si è interrotta per leggere un appunto su biglietto, è molto magra, questa ragazza, non ha seno, né spalle, e un giro vita inesistente. “Ecco, mi scusi, che l’aspetta domani mattina, alle nove, qui in azienda.” “Nient’altro?” “No, cioè sì.” “No o sì? Ha aggiunto altro?” “Mi scusi, signore, ma io non c’entro...” Ha abbassato gli occhi tornando a guardare le note sul foglietto. “Di non tornare a casa questa sera e di mandare Matteo dalla nonna. Mi scusi signore, mi scusi tanto, mi dispiace proprio.” Ha iniziato a piangere, silenziosamente, a capo chino, scrollando piano le spalle.
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Matteo non è andato dalla nonna, cioè dalla madre di Silvana, è da Laura, in albergo, si è fermato con lei, quando gliel’ho proposto si è mostrato subito
contento. In albergo Laura ha aperto senza frapporre difficoltà, la stanza è in ordine, il letto fatto, ha spalancato la finestra e si è vestita con cura, i capelli chiusi in una lunga coda, sorride, con naturalezza, non mostra imbarazzo, né insicurezza, si è fatta baciare sulle guance dal figlio e con gentilezza l’ha invitato a sedersi. La madre e il figlio hanno occupato le due poltrone nell’angolo salotto della stanza, sono rimasto per un po’ in piedi e poi mi sono seduto sul letto, parlavano fitto, lui le chiedeva una quantità di informazioni sulla vita in carcere, i dettagli, ogni quanti giorni ci si poteva fare la doccia, se i detenuti potevano cucinarsi i pasti da soli, se c’era una biblioteca, se lei leggeva, che cosa leggeva. Laura ridendo gli ha detto che anche lui era stato in prigione, due anni, con lei, a Opera, e che ricorda con piacere quel periodo, era un bimbo simpatico, il cocco del braccio femminile, le aveva conquistate tutte, le sue compagne stravedevano per lui. Matteo ha voluto sapere se si ricordava chi fossero, quanti anni avessero, per quali reati erano incarcerate, se a suo giudizio ancora qualcuna di loro fosse là, nello stesso carcere dove era stato lui. Sono stato ad ascoltarli per un po’, poi ho dichiarato che me ne sarei andato, mi hanno appena ascoltato, ho messo dei soldi sul letto, nel caso volessero uscire a mangiarsi una pizza, Matteo poteva restare qualche giorno, se voleva, sarei andato a casa a prendergli i libri e un ricambio, li avrei lasciati alla reception, il letto era grande, e se preferivano avrebbe potuto chiedere che li spostassero in una stanza con due letti, Matteo ha alzato una mano per invitarmi a tacere, mamma stava raccontando della sua compagna di cella alle Vallette, una donna d’onore, elemento di spicco di un clan camorrista. “Il letto matrimoniale è perfetto, Grazie per i soldi, ciao papà...” mi ha comunicato approfittando di una pausa nel racconto della madre. Sono sceso e ho discusso a lungo con il direttore per permettere a Laura di restare, ho toccato corde delicate, la madre e il figlio, il figlio e la madre, il direttore mi ha ascoltato infastidito e mi ha congedato bruscamente, senza stringermi la mano.
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All’Arlecchino Scivolato sono stati convocati quelli che il segretario definisce
gli stati generali, tre dirigenti della direzione regionale, ovvero la politica, il presidente della Regione e della Provincia e il presidente della Camera di commercio, dunque le istituzioni, e una scelta di tre o quattro di imprenditori in rappresentanza del mondo produttivo. Quando sono entrato nella sala Rubens del ristorante erano già lì, il segretario mi è venuto incontro, sembra in gran forma, e per questa sera si è vestito con un accostamento di colori decente. “Quest’uomo, signori...” ha dichiarato a voce alta mentre mi accompagna al mio posto capotavola “Quest’uomo sarà, anzi, è già il nuovo assessore ai lavori pubblici di Milano.” Mi ha preso per la mano destra e mi ha alzato il braccio sollevandomi di peso di dieci centimetri buoni. “È un intellettuale con il carisma del condottiero, ed è un diplomatico che non dimentica la sua missione e non tradisce gli amici, accontenterà gli snob della cultura, i rampanti della politica, i giureconsulti delle istituzioni e il mondo dell’industria, del commercio, della moda, dell’editoria, e chi più ne ha più ne metta.” Mi impedisce di sedermi e, stringendomi sottobraccio, mi obbliga a un giro di tavolo per offrire la mano ai commensali, scambiare una parola, un abbraccio, un bacio, anche, come ha desiderato l’anziano imprenditore, capostipite di una famiglia di alto lustro borghese. “Per ovvi motivi di delicatezza non ho invitato l’attuale sindaco e neppure il suo assessore ai lavori pubblici.” In molti hanno riso. “Ma ciò non costituisce un ostacolo, sono entrambi al corrente della proposta e concordano pienamente sulla scelta.” C’è Santo, non lo avevo notato subito, siede accanto al presidente della Regione, in completo e papillon marroni d’ordinanza, mi ha fatto un cenno con la mano, e non mi ha sorriso. Durante la cena, mi sono avvicinato e gli ho chiesto sottovoce se mi ospitava anche per quella notte. “Contaci, certo che puoi venire!” ha distolto lo sguardo e mi ha allungato qualcosa nel pungo chiuso “Ho ben visto che tu qui hai da fare, ci vediamo a casa, quando arrivi arrivi, queste sono le chiavi, la piccola per il portone esterno e l’altra per la porta. Ti preparo il divano in sala, questa volta dormo io in camera.” Poi si è fatto serio, ha abbassato la voce, sussurra. “sco, guarda che a questi qui devi dirgli che non puoi accettare, sei un pregiudicato per fatti di terrorismo, hai un figlio con una brigatista e sei vissuto nascosto per quattro anni all’estero, altro che consigliere e assessore, quando si saprà per te non sarà disponibile neppure un posto da usciere.”
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Santo non l’ho visto, sono arrivato tardissimo e al mattino la porta della sua camera era chiusa. Il segretario non ha voluto che nessuno lasciasse la saletta dove aveva fatto allestire la cena prima del suo discorso di chiusura, che ha terminato all’una e mezza, Santo è fuggito appena il segretario ha fatto capire che aveva terminato, imitato dal presidente della Regione e della Camera di commercio, anch’io ho provato a spostarmi lentamente verso l’uscita, la misura della mia tolleranza verso quel genere di eventi era colma, avevo bisogno di uscire, aria fredda, e dormire, otto ore di sonno filate. “Dove credi di andare, caro il mio assessore? Gli incarichi prestigiosi si pagano, e tu fra poco offrirai il primo giro al Nottambulo, sì, si cambia zona, basta con i soliti Navigli, ho già prenotato un tavolo.” Mi sono coricato sul divano di Santo alle quattro, gonfio di disagio, e di rabbia, questa sala è calda e confortevole, Santo sa vivere, qui c’è silenzio, e si respira pace, Santo trascorre le notti in serenità, forse è per questo che assorbe fatica e tensione senza affanno e che riesce ad essere lucido, e nello stesso tempo gentile, anche al termine di giornate di lavoro intense. Alle sette e mezza ero sveglio, durante il breve sonno tra lo stomaco e l’intestino è cresciuto un groviglio di nervi e di sangue, un senso di terra nera annidata nelle viscere, no, non è il cibo dello Scivolato, né il whisky del Nottambulo, è l’astio che ha preso il sopravvento, è la stanchezza che si è trasformata in delusione, sono balzato in piedi, non ho fatto la barba, e non ho messo la cravatta, Silvana, prima di ogni altra cosa Silvana.
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Nel 1982, al congresso dei giovani imprenditori lombardi, dopo averla quasi stesa con il cavo del microfono, le avevo chiesto se aveva piacere di bere un caffè. “Una bella faccia, tu. Prima cerchi di uccidermi e poi a sedurmi.” Era già molto
bella, e negli anni successivi lo sarebbe diventata ancora di più, ogni giorno la sua pelle diveniva più chiara e più levigata e il suo sorriso si allargava, una ragazza allegra, e non avrebbe mai cessato di esserlo, una presenza piena, che occupava per intero i luoghi nei quali si trovava, ogni persona presente ne avvertiva la consistenza, la forma, la qualità, l’odore e il sapore. “Mi chiamo sco Aliberti, ho trentatré anni, laureato in filosofia, installatore di stand fieristici.” Silvana aveva ordinato un chinotto, non freddo, aveva specificato. Indossava un vestito di maglia leggera, verde scuro, con una spessa riga blu sul giro vita, il collo chiuso da una sciarpa grigia. “Sono uscito di prigione da un anno, questioni di terrorismo, ma credimi, non ho sparato né ho aiutato qualcuno a farlo.” Aveva rialzato la testa dal bicchiere per osservarmi, non mi guardava negli occhi, fissava piuttosto il movimento delle mie labbra, i piedi appena divaricati, i capelli scuri, lunghi, mossi. “Sono sposato con una donna che resterà in carcere ancora molti anni, abbiamo un figlio che adesso ha tre anni, Matteo, vive con me, qui a Milano, al Lorenteggio.” Silvana aveva chiesto un altro chinotto e aveva una sigaretta. “Non ho l’auto, né la lavatrice, e neppure il frigorifero, in casa ci scaldiamo con una stufa elettrica, il bambino cresce bene, e parla, parla, in continuazione.” Aveva terminato il secondo chinotto e spento la sigaretta sotto la punta della scarpa. “Sono in buona salute.” Avevo soggiunto prima di lasciarla. “Amo le vacanze al mare, e mi piace mangiare, qualunque cosa, e bere, tutto, anche il chinotto.”
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Silvana, sto arrivando, sei sola, adesso, appena sveglia, forse ancora a letto, non hai mai apprezzato la corsa mattutina, essere in piedi per prima, stabilire un vantaggio temporale sul mondo, aver già preparato la lista del fare quotidiano quando soci, collaboratori e clienti ancora dormono, aver già affrontato e risolto, nella solitudine silenziosa della fine della notte, le questioni più gravi, campionessa dal sorriso fresco, che entra nell’ufficio deserto e, pulita e tonica, accetta con vigore le sfide della giornata. No, tu ami stiracchiarti tra le coperte oltre l’ultimo minuto, nessun timore del ritardo, con furbizia hai messo a inizio giornata gli impegni meno gravosi, quelli che possono attendere, per i quali il tuo ritardo è consentito. Quante volte ti ho telefonato alle nove e mezza per
sentirmi rispondere che eri appena uscita dalla doccia? E in quante occasioni hai stabilito che in quella mattina era necessario ti dedicassi un poco a te stessa, avresti lavorato al pomeriggio ed anche la sera, sino a tardi. Che male c’è? Mi chiedevi sorpresa. Forse che danneggio qualcuno? Forse che comprometto un progetto, una iniziativa, una attività? Aspettami, Silvana, dieci minuti, sono sul taxi, arrivo, ho bisogno di te, sul divano di Santo questa notte ho dormito poco, ma mi sento a posto, questa pausa, sai, mi è servita, ha interrotto la furia di queste giornate frenetiche, il lavoro, Laura, Matteo, le preoccupazioni di Santo per il mio futuro, la tua intransigenza, sì, anche la tua severità, persino la tua bislacca idea di andare da Santo per parlare dell’affidamento di Matteo, ho compreso la tua vera intenzione, hai voluto mandarmi un segnale chiaro, la tua famiglia è questa, Silvana, sco e Matteo, apprezzo il tuo rigore, la tua determinazione, la forza del tuo attaccamento a ciò che hai costruito, amo questa tua saggezza femminile, non si buttano alle ortiche le relazioni migliori, le si difende, con coraggio, sto arrivando, amore mio.
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È accaduto subito, sì, quel giorno al bar del convegno, l’evento è stato sorprendente, e inaspettato, guardarti e scoprire che eri il mio specchio, che paura, subito, e quanta ansia, subito dopo, e che pace un minuto più tardi, attraverso i tuoi occhi osservavo la tua intimità, scoprendo che era la mia, curioso, mi sono detto mentre sorseggiavi il primo chinotto, che effetto originale, una stregoneria, quasi, guardare un altro, un estraneo, e scoprire se stessi, incredibile, forse un’illusione, un giramento di testa, l’effetto di una mancanza di zuccheri, ero stato costretto a saltare il pranzo, sì, una questione glicemica, un incidente di natura chimica, destinato a risolversi con una cena calda e del buon vino rosso. Non ho cessato di guardarmi dentro attraverso di te per l’intero decennio della nostra vita in comune, è per questo che le nostre intimità sono saldate tra loro, costituendone una unica, la stessa, dove coabitiamo insieme, uno spazio largo, un luogo amico, dove ci siamo denudati, dove non abbiamo mai paura dei nostri segreti, né delle nostre paure, un posto caldo, con il pavimento in legno, pareti chiare e finestre larghe che si aprono sul bosco e sul lago, stiamo
lì da dieci anni, e non abbiamo mai manifestato l’intenzione di uscire, quante volte abbiamo detto all’altro che se lo desiderava era libero di andarsene, quasi ogni giorno, è la nostra sfida quotidiana, il rischio perenne che sappiamo di correre, il desiderio di stare insieme messo alla prova di continuo, ma non abbiamo timori, e questo coraggio ha cementato la nostra unione. In realtà quel giorno in quel bar al convegno mentre mi osservavo dentro di te non mi sono spaventato, perché mi sono accorto che anche tu stavi specchiandoti, senza preoccupazione, bene, mi sono detto, se dura è quello che ci vuole, questo gioco di specchi ci aiuterà a capirci senza spiegazioni, senza parole supplementari. Sto arrivando, Silvana, sono sceso dal taxi, sto entrando nel portone, ho già chiamato l’ascensore, due minuti, forse meno.
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Santo mi ha detto di tenere le chiavi dell’appartamento, per lui era semplice, piuttosto che ricevere gli amici sarebbe andato da loro, e come regola si stabiliva che dormiva nella stanza chi andava a letto per primo. In albergo Laura e Matteo non ci sono, né a mezzogiorno, né alle sei del pomeriggio, usciti, mi hanno detto alla reception. In direzione il segretario è molto occupato, sono stato ricevuto in piedi, nel corridoio, nella sua stanza ha gente e le sale riunioni sono impegnate, alla fine abbiamo concordato di vederci lunedì, il 24 febbraio, alle otto, per programmare le attività delle prossime settimane. A cena, in una trattoria vicino a Piazza Cadorna, sono andato a piedi, la temperatura è salita, ho tolto il giaccone pesante, mangiato l’ossobuco con il risotto allo zafferano, bevuti due bicchieri di un rosso friulano spesso e corposo. Dopo, a casa di Santo, seduto sulla moquette del salotto, la televisione accesa, mi è venuto sonno presto. Ho riposato nel letto di Santo, stretto, la testata in ferro battuto, le lenzuola bianchissime, il comodino di bambù, una poltroncina bassa, sistemata dove il soffitto della mansarda si china sulla finestrina e una radio sveglia che illumina di verde il buio silenzioso.
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Questa mattina, a casa, Silvana non ha risposto subito al citofono, ho atteso a lungo, indeciso se salire o meno, e solo quando avevo stabilito di andar via mi ha risposto. “Sei tu? Lo immaginavo, Sali.” Voce cupa, dizione lenta e poco precisa. Al piano la porta è aperta. “Sono in bagno, aspettami in sala!” Grida, tono scintillante. Aspetto, ai bordi del tappeto, in piedi tra il divano e la poltrona, i quotidiani di ieri aperti sul tavolo, due libri sulla poltrona, sono nuovi, non riesco a distinguere i titoli, la televisione accesa, senza volume, come piace a Silvana. Sbircio in direzione della stanza da letto, da qui posso vedere solo un angolo del letto, le lenzuola ammonticchiate, la coperta caduta sul pavimento, mi sposto per vedere meglio, dalla poltrona si inquadra quasi l’intero letto e si scorge una porzione di specchio che offre una visuale sull’armadio e la porta del nostro bagno. “Sono sola, scemo, e ho dormito sola.” È qui, accanto a me, in accappatoio, scalza. “Vai pure, controlla, se vuoi.” “Silvana, non ho mai pensato nulla del genere.” “Sino a qualche minuto fa, ma ora lo hai pensato. Ne sono certa, per dieci anni questo pensiero non ti ha mai sfiorato, la tua donna che si invaghisce di un altro, che bacia qualcuno diverso da te, che finisce in un letto avvinghiata a un maschio sconosciuto, ne ho la sicurezza, quanto sono certa che un minuto fa tu lo abbia immaginato, la tua donna ha trascorso la notte con un uomo, raccattato a tarda notte in un locale, uno di quelli che ci provano con quelle non accompagnate, oppure con un collega o, meglio ancora, un cliente, per festeggiare un contratto o, peggio, per dargli l’ultima spinta per convincerlo a firmare.” Ha i capelli bagnati, e gli occhi spalancati. “Con chi credi di avere vissuto? Con un animale? Con la femmina di una scimmia? Io ho un cervello, sco, e una sensibilità, e un codice di comportamento, conosco gli istinti primordiali, e li controllo, guarda, guardami bene.” Con un gesto solo ha aperto l’accappatoio e l’ha gettato a terra. “Questo corpo, amico mio, del quale ti sei
nutrito per anni, è sacro, è territorio religioso, non si calpesta per caso, non è un campo da gioco, ma lo capisci, questo? Riesci per un momento a uscire dalla tua nuvola? Ci riesci?” Si è avvicinata, a piedi nudi mi arriva a malapena al mento, è sotto di me, la pelle bianca, il seno da ragazza, la vita sottile, ho avuto il tempo per un colpo d’occhio ai piedi, le unghie smaltate di viola scuro, o blu, è stato solo un attimo, mi ha preso il viso con entrambe le mani. “Qui, guarda qui, negli occhi, solo qui. Sono stata io la scema, una donna innamorata non pone vincoli.” Mi fissa, avverto la sua nudità, i capelli gocciolanti, adesso ha i piedi divaricati, è così vicina a me che con i capezzoli sfiora il maglione di lana. “Mi hai ingannato, non mi amavi, e io invece, povera ragazza, avrei messo la mano sul fuoco, i tuoi sentimenti per me erano puliti, alti, immacolati. Per questo mi offrivo incondizionatamente. Un circuito perfetto, più mi concedevo più tu escogitavi nuove idee per convincermi del tuo amore, rose rosse al mattino presto, week end solo per noi strappati al lavoro, cene di gala pronte in casa quando tornavo tardi a casa, colazione a letto con caffelatte, succo d’arancia e le ciambelle alla cioccolata che, senza che io me ne accorgessi, eri sceso ad acquistare in pasticceria.” Ha staccato le mani dal mio viso, si è seduta sulla poltrona, a gambe accavallate. “Sai, eri tanto bravo in questa recita che sono convinta che a un certo punto tu abbia iniziato a credere che fosse la verità.” “Non è vero, Silvana. Ti ho amato, e ti amo, non ho mai avuto dubbi.” “Come con Sara. Anche di lei eri innamorato, per lei hai abbandonato una moglie il giorno del matrimonio.” “Ero molto giovane.” “Nel ‘74 avevi venticinque anni, e sei rimasto con lei sino ai ventinove, non eri proprio piccino.” “Forse ero confuso.” “Oppure, forse, ti eri semplicemente sbagliato.” “Nel senso che avevo sbagliato compagna?” “No. Avevi creduto di amarla, perdutamente, e non era vero. È stato sufficiente un piccolo screzio, l’occasione di un confronto, e tu sei fuggito, prima per quell’insensato giro intorno al lago Michigan e poi per tornare in Italia. Chi mi dice che tu non abbia commesso anche con me questo errore?”
“Nel senso che in realtà non ti amerei, che non ti avrei mai amata?” “Esattamente.” “Esageri, Silvana, sei fuori dalla realtà.” In poltrona, i riccioli neri bagnati sulle tempie e sulle guance, le gambe flessuose, i piedi piccoli, lievemente arcuati, nuda, con naturalezza, a suo agio, senza paura. “Ti sento, sai? Avverto la tua pulsione, intuisco i tuoi ragionamenti, farmi parlare, non contraddirmi, poi, progressivamente, assumere la guida del confronto, condurmi, senza che io me ne accorga, sul terreno della tua filosofia dell’approssimazione e dell’accondiscendenza, e qui blandirmi con l’ironia, per farmi sorridere, e poi ridere e dunque saltarmi addosso, per suggellare sulla moquette la ritrovata armonia. Non ci casco, mio caro, ora so, e mi difendo.” “Non è vero, Silvana, non è vero.” “Che cosa hai fatto ieri mattina? Dillo, avanti, che hai fatto appena sei entrato in casa, non sono trascorse che ventiquattro ore, che hai fatto? Te lo ricordo io, due parole, due di numero e mi sei salito sopra, ero vestita, stavo per uscire. Hai forse intuito un mio desiderio nascosto? Se è così ti prego di parlarmene, spiegami, cerca di farmi capire, che ieri non ho capito niente.” “È stato un modo per riavvicinarsi. Ci sono stati episodi, malintesi, dovevamo ricongiungerci, altrimenti non ci sarebbe stata possibilità di comunicare.” “Avevi bisogno, è quello che mi hai detto quando hai telefonato, ti servivo, nulla di più.” La pelle vizza dall’acqua e dal freddo, mi osserva, immobile, lo sguardo beffardo, avverto il suo vigore e, appena sotto, la sua fragilità e la sua debolezza, allungo una mano, per una carezza sulla spalla, sul braccio, sino alla mano abbandonata sul bracciolo della poltrona. “Vedi che non sbaglio, ora hai di nuovo bisogno, ti sento, non riesci a trattenerti, mi vorresti pronta a porgere le mie scuse per le mie accuse infondate, felice di essere presa, rammaricata di averti disturbato in un periodo così delicato per la tua carriera professionale.” “Pensi che sia una bestia? Privo di sentimenti, con un chiodo fisso in testa, solo
uno.” “Esattamente, sco, proprio così.”
* * *
Questo pomeriggio il segretario, fuori dalla porta del suo ufficio, in dolce vita bianco e giacca di velluto marrone scuro, è stato cordiale, affabile, un fratello, un amicone. “L’idea della tua candidatura qui è stata accolta con universale favore, anche gli uscieri ne sono entusiasti. A Roma fanno salti di gioia, il segretario nazionale ti ha affibbiato un soprannome che trovo azzeccato: ‘turbotimido’.” È felice, con una mano mi schiaccia la spalla mentre con l’altra batte forte al centro del petto. “Sì, in quelli che prevediamo saranno mesi difficili presentare un intellettuale, un po’ dimesso, intelligente, ma non presuntuoso, acuto, preciso, è una carta che può valere il cinque per cento dei voti in più. Per noi sarai ‘turbotimido’, per il grande pubblico ti confezioneremo una immagine di altissimo profilo, chiameremo professori di università, anche di quella dove ti sei laureato, ti lanceremo come professionista, come imprenditore di te stesso, nessun assessore ai lavori pubblici ha mai avuto il tuo curriculum, sei perfetto, sco, ti adoro.” Non c’è tempo, mi ha liberato dalla stretta delle sue mani, inizia ad allontanarsi, lo aspettano, con me ha terminato, basta, per adesso. “Senti, ci sono cose di me che non sai.” “E che potrebbero compromettere la tua candidatura?” “Sì, credo di sì.” “Perfetto, sco, oltre che un intellettuale e un professionista Aliberti è un uomo, debole come tutti, fragile, che ha sbagliato. Mi spiegherai bene lunedì, ne parliamo a fondo, e iniziamo a preparare il piano di comunicazione. Ascolta me, trasformeremo ogni difetto in un vantaggio, ogni piccola mancanza in un pregio,
tu sei un mago in questo, coinvolgeremo anche Silvana, sì, la sua agenzia ci sarà preziosa.” “Non sono state piccole mancanze.” Mi ha lasciato, è già dentro l’ufficio, mi allunga la mano “Meglio ancora, più grandi le colpe più severo il percorso seguito per ritornare a essere un elemento attivo di questa società. Sei un grande, Aliberti, ed è una fortuna averti con noi.”
* * *
Poco fa, in trattoria, mi ha chiamato Laura. Insieme alla sua voce mi raggiunge quella femminile che annuncia la partenza di un treno. “Che fai, parti? E Matteo?” “Siamo in Stazione centrale, Matteo è andato in una edicola sui binari dove hanno non so quale pubblicazione, pesca sportiva nei fiumi, mi pare.” “Sì, è un apionato, non pesca ma conosce ogni dettaglio degli attrezzi, dell’abbigliamento, delle tecniche e dei luoghi di pesca migliori. Come sei stata con lui?” Ha atteso un momento prima di rispondere. “È un ragazzo stupendo, è curioso, è simpatico, mi ha fatto ridere tanto. Grazie, sei stato un padre magnifico e grazie anche a Silvana, senza di lei non ce l’avresti fatta.” “Ti ha raccontato?” “Per filo e per segno...” ride di gusto “Credo che potrei orientarmi in casa vostra a occhi chiusi, mi ha anche disegnato la piantina!” “Non era possibile parlartene prima, di Silvana, voglio dire.” “Lo era, sco, era sufficiente dirlo.” Non ha smesso il tono di voce
scanzonato, credo si sia davvero molto divertita, oggi. “Ti saresti offesa.” Un intero minuto di silenzio, è lì, sento che respira, un fiato leggero, ad alta frequenza, ascolto due annunci, uno di un arrivo da Venezia e uno di un ritardo da Bologna. “Matteo torna da un momento all’altro, è una compagnia preziosa, una sensibilità da ragazza, e una onniscienza assoluta, sa tutto e ciò che non sa lo impara in un momento.” “Quando ti vedo? Dobbiamo parlare.” “Accompagno Matteo e poi parto, torno a casa.” “Quale casa?” “La mia, mio fratello è di nuovo in prigione, di nuovo rapina, l’appartamento è vuoto.” “Che farai, Laura? Non hai denaro, non hai un lavoro.” “Troverò chi mi aiuta, non ero sola prima e non lo sarò adesso.” “Stai lì, aspettami lì, arrivo.” “Matteo sta tornando, devo lasciarti. Ciao, sco.” Non mi ha lasciato ribattere, e prima che chiudesse la comunicazione ho sentito, distante, la voce di Matteo, sonora, profonda, allegra.
* * *
“Eri un poveretto!” Stamani Silvana non mi ha risparmiato nulla. “Quasi un indigente, da mensa del comune, insomma, un miserabile, vuoto, non coltivavi più ioni, né interessi, il cervello avvizzito, ricordo bene l’appartamento dove
abitavi, come ci fossi uscita ora, una stanza al quarto piano di una casa di ringhiera fatiscente alla Bovisa, una stanza senza bagno e con il cesso all’esterno sul pianerottolo, era lì, che allevavi tuo figlio, una branda grande per te e una piccola per lui, un tavolino e una sola sedia, hai idea di come sarebbe cresciuto Matteo in quel luogo? Malaticcio, come minimo, come i bambini di cent’anni fa, e quali esempi gli avresti trasmesso? La misantropia e la sconfitta senza rimedio, certo, sarebbe andato a scuola e, tornando a casa, prima o poi si sarebbe chiesto perché la sua famiglia fosse ridotta a quell’unico elemento, un padre, derelitto e depresso.” “Era una vita dignitosa, povera, certo, ma di più, con lo stipendio da manovale non potevo permettermi.” “In quella casa non c’era un libro, niente, neppure da bambini.” “Li avremmo acquistati, quando lui avrebbe iniziato la scuola.” “Niente televisione, niente radio, niente giradischi, le serate invernali in silenzio, stretti attorno alla stufetta elettrica.” “Noi ci volevamo bene, e Matteo era felice così. Quando la sera lo avo a prendere dall’anziana del primo piano che me lo teneva mi abbracciava forte, era così contento di vedermi!” “C’erano gli asili, con il tuo reddito non avresti pagato nulla, se non te lo ricordi anche nel 1982 c’era lo stato sociale. In verità eri intellettualmente intorpidito, un anoressico mentale, non avevi pensieri, un morto che camminava.” Si è alzata all’improvviso e si è infilata l’accappatoio. “Così non ti vengono strane idee, conosco a menadito i percorsi delle tue pulsioni, ma io le frego e mi copro, e sto ben distante da te, così inganno la tua libido, che ora si sta chiedendo perché mai questa che era nuda e sottomessa piuttosto che soggiacere si riveste e si allontana.” “Non capisco dove vuoi arrivare. Mi sei piaciuta subito, e non hai mai smesso di intrigarmi per dieci anni, anche adesso sei pura bellezza, magnifica, una donna e una persona fuori dal comune.” “Ascoltami, per una volta, cerca di capire ciò che ti sto dicendo. Eri un cadavere, e io ti ho salvato, ti ho dato l’opportunità di migliorare, e ti ho assistito nel
percorso della tua ricostruzione, da mentecatto a consulente prestigioso, con un figlio che da candidato all’autismo è diventato un ragazzo gentile, gradevole e apionato.” “Ti sono sempre stato riconoscente per questo.” Seduta sul pouf viola nell’angolo opposto, una zona buia, non riesco a vedere i suoi occhi. “Spero che tu ti senta parlare. Riconoscenza! Sentimento provato dal figlio verso la madre che l’ha allevato contro ogni possibile difficoltà materiale, o dall’amico verso l’amico che gli ha prestato denaro senza richiederlo indietro, o dal salvato verso il suo salvatore, non dall’uomo verso la sua donna, la quale non si attende riconoscenza, ma stima, affetto, attaccamento.” “Cerchi il pelo nell’uovo, io ti amo, Silvana.” “Sei un cretino sentimentale, sco, non sai distinguere un abbraccio da un ananas, sei il rinoceronte che ha incornato il suo migliore amico e non se ne è accorto.” “Silvana...” “Taci, almeno abbi il pudore di stare in silenzio!” Adesso è in bagno, tiene la porta aperta, si sta pettinando. “E stai lì, fermo dove sei, devi solo ascoltare. La tua esistenza ha avuto un andamento che credo di poter definire perlomeno curioso, dipendente di un’azienda di copertura della finanza palestinese, promesso sposo si innamora di una ragazza caduta per caso dalla Luna con la quale fugge in America, lì trascorre quattro anni da semiclandestino, e poi un giorno mi racconterai quale era la tua missione e che cosa i tuoi amici dell’OLP si aspettassero da te, vive con la ragazza caduta dal cielo, una intimità sconosciuta, appiccicati giorno e notte, tanto innamorato che un giorno all’improvviso fugge da lei, torna in patria, ricerca la promessa sposa abbandonata, la trova e per amore suo si associa alla lotta armata, viene arrestato, esce dopo due anni senza essersi tolto la vanità di inseminare la ragazza in un aula di tribunale, così che, libero, si trova marito, poiché ha sposato la sua bella terrorista, e padre privo di risorse, senza nulla, la casa di famiglia venduta all’asta dal tribunale, i conti correnti sequestrati, conti colmi di moltissimo denaro, e anche su questo attendo da dieci anni spiegazioni serie, e dunque ricomincia da zero, manovale nei cantieri, poi manovale standista, sino all’incontro con la fata buona, che lo lancia nel firmamento della comunicazione,
dove si muove con abilità e diventa un ricco professionista, nonché attaché di alto livello al soldo di un importante partito politico.” “Non è esattamente così, io amavo Laura.” “E anche Sara.” “Anche, ma con lei, lo sai, è stato diverso.” “Hai amato anche Silvana, credo, ma anche con lei è stato diverso. Ma dimmi, diverso da Laura e uguale a Sara oppure diverso da Sara ma eguale a Laura oppure diverso sia da Laura sia da Sara? Sarebbe utile saperlo, mio alfiere, per orientarsi per il futuro, in attesa di una Marisa qualunque, della quale ti innamorerai perdutamente, in modo diverso, però.” Si sposta dal bagno alla camera, si pettina, si veste, si trucca, cerca le scarpe, si ritrucca, sceglie il cappotto. “Sei il campione mondiale della superficialità. Ti ho offerto l’occasione di utilizzare il tuo talento, che purtroppo possiedi, e tu che fai? Ti leghi in stretto sodalizio con quell’avvocatuccio frocio, ti sporchi le mani qua e là, consulenze a personaggi dubbi, flussi di denaro consistenti, scorciatoie, e qui non voglio sapere quello che combini, e finisci per diventare l’anima intelligente di quel cafone del segretario, e sai benissimo che da lì non puoi tornare indietro, sei segnato e vincolato, al più precipiterai con lui.” “Santo, il frocio, ti ha tirato fuori da un guaio importante, forse lo hai dimenticato.” “Un bravo professionista frocio, ce n’erano altri, mi sono rivolta a lui perché è il tuo socio, mi era parso naturale.” “Tanto bravo che lo hai scelto anche per ottenere l’affidamento di Matteo, una porcata, per sintetizzare.” “Un obbligo verso Matteo, non intendo permettere che si perda dopo tutti gli sforzi che ho fatto.” “Che abbiamo fatto, direi.” Ora è qui, vestita, il cappotto rosso sottobraccio. “Fine, per adesso, anzi, fine per un bel po’, devo andare, mi aspettano.”
“E io?” “Io, io e io.” È sulla porta, non si volta. “Parlate un po’, tu, tu e tu, è necessario che un giorno o l’altro lo facciate.” Chiusa la porta, scende le scale a piedi, correndo, le è sempre piaciuto.
* * *
Santo è arrivato alle due, ero sveglio e mi sono alzato per salutarlo, è sereno, il mio amico, e non mostra segni di stanchezza, né di noia, mi saluta con un breve abbraccio, mi chiede di accomodarmi su una poltrona, lui siederà sull’altra, si attarda per versare il whisky e per mettere la quantità giusta di ghiaccio, per me un solo pezzo e per lui sino all’orlo, racconta della sua serata, a cena in un ristorante indiano, descrive le portate con cura, entra nei particolari, la carne scintillava, tanto era speziata, e il vino, denso e dolciastro, e, dopo cena, al cinema, ha visto “Il silenzio degli innocenti”, un film senza qualità, una ragazzina che recita come un maschio e un criminale troppo intelligente per esserlo, si è alzato per accendere lo stereo, Santo è un apionato di lirica, e per parlarmi ha scelto la Butterfly, una antica versione diretta da Toscanini. “Indiscrezioni del tardo pomeriggio da Palazzo di giustizia, i faldoni della Tradisom sono arrivati sul tavolo del sostituto che indaga su Mario Chiesa.” Non sorride più, trasmettermi queste informazioni lo addolora. “Stop, Santo, stop un momento. Ma se allora, dico all’epoca dell’inchiesta sulla Tradisom non mi hanno neppure convocato come testimone, come è ragionevole credere che adesso mi accusino di un qualunque reato?” “Nell’85 la pratica Tradisom era stata aperta perché, considerate le restrizioni all’esportazione di valuta che allora erano in vigore, era stato contestato all’amministratore, il Chiesa, il reato di frode valutaria, accusa che in seguito era caduta poiché il tribunale aveva accolta la tesi della difesa secondo la quale le transazioni in lire della Tradisom verso la Somalia erano di fatto autorizzate dall’esistenza di una serie di contratti di edificazione e di consulenza. Dunque il faldone era stato chiuso e archiviato ed ora viene riaperto, ma gli occhi che scrutano sono più attenti, il clima politico è un altro e adesso non indagano per
frodi valutarie ma per interesse privato in atti pubblici, per truffa ai danni dello Stato, per finanziamento illecito ai partiti.” “Impiegheranno mesi per leggere tutti quegli atti.” “Una settimana, non di più, in procura è stato costituito un pool di magistrati dedicato, in pochi giorni daranno una scremata, per selezionare ciò che è di loro interesse e, puoi giurarci, la Tradisom è appetibile.” “Mi eleggeranno consigliere comunale, l’anno prossimo, e sarò protetto.” “Uno, per i consiglieri municipali non è prevista alcuna immunità. Due, l’eventuale protezione politica te la puoi scordare, il partito del tuo segretario andrà in malora. Tre, non ti faranno mai né consigliere, né tantomeno assessore, perché non ti candideranno.” “I quattro anni negli Stati Uniti li faremo are come un periodo di formazione, un po’ beat, alla Kerouac, insomma. E per la detenzione diremo la verità, un errore giudiziario, io non ho fatto nulla, proprio nulla.” “Sei stato condannato.” “Non ho commesso alcun reato.” “Questo, lo sai, in politica non ha alcuna importanza.” “E allora?” “Scegli un luogo del pianeta che ti piace, dove non sei mai stato e che ameresti visitare. Pronuncia quel nome e in una settimana avrai i visti, i soldi, l’abitazione, tutto ciò che ti serve.” È stravaccato nella poltrona, le gambe tese e le braccia abbandonate sui braccioli, parlando osserva il soffitto, non ha sonno, ma tra un momento mi chiederà di ritirarmi nella sua camera, così potrà coricarsi sul divano. “Va bene, dammi una settimana.” “Quattro giorni, il 24 febbraio, lunedì, non più tardi.”
II
Sono arrivato a Sarajevo nella seconda metà del gennaio ‘94 con una troupe di giornalisti e di tecnici della televisione di stato serba, da Belgrado ho attraversato la Bosnia Erzegovina e sono entrato in città da nord. Da quasi due anni sono un autista della TV serba, un incarico procuratomi da Dix che si era ricordato dell’auto-carro nero acquistato dalla Render per conto dell’OLP nel dicembre del ‘73, mezzo successivamente condotto sino al confine libanese da un autista palestinese, una sostituzione dell’ultima ora, era stabilito il guidatore fossi io, avevo sognato quel viaggio attraverso l’Europa e il Medio Oriente, con Sara, io e lei. Dix ha ritenuto il lavoro di autista la miglior copertura, sia per me, in fuga dalla giustizia italiana, sia per lui stesso, poiché in questo modo acquisiva un prezioso e fedele collaboratore viaggiante. Era un sabato, credo il 22, nei pressi della sinagoga, infatti, ho riconosciuto dal copricapo un gruppo di ebrei in uscita dalla funzione religiosa. Il mio compito è di essere qui, per aggiornare e informare, a Sarajevo sono previste una serie di azioni militari, e la mia presenza con tanto largo anticipo è rivolta all’assunzione delle informazioni indispensabili per difendere la rete del contrabbando, al proposito Dix è stato molto preciso. “Familiarizzati, respira l’aria, la sera eggia sino a tardi, frequenta i bar, i ristoranti, i locali, compra alle bancarelle, parla con la gente, impara a memoria i luoghi, guarda dove nasce e dove tramonta il sole, vai a teatro, dicono che ve ne siano alcuni aperti, compra i giornali, due, riescono a stamparne persino due, cerca di capire dove sono e che fanno i caschi blu, percorri il famoso tunnel sotto l’aeroporto, in quanto autista delle televisione serba avrai accesso ai soldati americani e ai volontari ONU, parla anche con loro, e soprattutto immergiti nella soluzione ampollosa di questi ottomani di ritorno, identificati con loro, entra nelle moschee, parla con i fedeli, provati ad afferrare l’intimità di questa gente, le loro speranze e le loro paure, cerca di comprendere perché, assediati e bombardati giorno e notte, si ostinano a restare in città, che obbiettivi perseguono, perché non fuggono, per noi è strategico saperlo, Sarajevo è un ganglio vitale, quasi un terzo delle nostre attività transita attraverso quella città, e noi abbiamo bisogno di tranquillità, o almeno di conoscere in anticipo ciò che accade.”
Dix è in gran forma, questi anni di guerra l’hanno rivitalizzato, è arrivato subito, nell’agosto del ‘91 era a Vukovar, con i croati e, a novembre, sopravvissuto alla conquista della città da parte dell’esercito jugoslavo è ato con i serbi, ora abita a Belgrado, dove ha preso in affitto una villa, nella quale vive con Iris e Giulio, sì, ci sono anche loro, e i soldi non mancano.
* * *
Ho lasciato Milano il 23 febbraio del ‘92, due anni fa, una domenica, il giorno prima della scadenza che Santo mi aveva fissato per la scelta del paese di esilio. La sera del sabato ero uscito con lui, in un ristorante del centro mi aveva introdotto alla sua cerchia di amici, persone estremamente gradevoli, calde e intelligenti, che mi hanno accolto con rispetto, con sussiego, quasi, erano state molto gentili con me, chi versandomi il vino, chi chiedendomi ripetutamente se il locale, il servizio e il cibo fossero di mio gradimento, chi vantandosi di conoscere Santo sin dalla scuola media. Ero stato bene, li avevo lasciati al termine della cena, non avevo bisogno di essere accompagnato né che mi venisse chiamato un taxi, desideravo eggiare sino a casa, da solo. Sono ato da casa di Santo e da un armadio ho preso una sua valigia, piccola, non avevo bisogno di molto spazio, vi ho stipato la poca biancheria che avevo con me e due libri. Uscendo ho chiuso la porta della camera, così che Santo, rientrando, avrebbe pensato fossi a dormire. Quando ho chiesto una stanza in un albergo in piazza della Repubblica era mezzanotte e alle sei del mattino prendevo la colazione in Stazione centrale in attesa del treno per Trieste. Ho ricordato la partenza per New York con Sara nel gennaio del ‘74, allora, avido di spazio, avevo scelto l’America, il luogo adatto per trovarne in quantità smisurata, avevo bisogno di tempo, per vivere con Sara, e la giovane età mi permetteva di averne quanto necessario e infine desideravo esperienze, vita, avvenimenti, che il lavoro con la Render, il viaggio in Libano, il contatto con la resistenza palestinese, avevano reso indispensabili, la mia fuga dagli Stati Uniti quattro anni dopo, il ritorno in Italia a sorpresa, inaspettato, improvviso. Le ginocchia molli, formicolio nello stomaco, andare via, lasciare qui a Milano
la scia di quel che sono stato, una striscia di odore e di colore uscita da un carcere, transitata per un monolocale di una casa di ringhiera, fermata davanti a Silvana, tornata indietro verso Laura, battuta e ribattuta intorno a Matteo, ritornata a Silvana, la nostra abitazione in centro città, tiepida, morbida, accogliente, il nostro letto, il nostro bagno, la nostra cucina, non sbaglio, è terminato un ciclo, non sono più un professionista della comunicazione, forse non lo sono mai stato, non diventerò assessore, al partito si chiederanno se fossi sano di mente, e il segretario sosterrà di averlo intuito, quei miei discorsi strani, quel modo anomalo di affrontare le criticità, sì, se lo aspettava, peggio per me, ad abbandonarlo non ho che da perderci, e se mai manifestassi l’intenzione di tornare troverei porta di legno, ai traditori non si lascia una seconda occasione. E Santo? Dorme, adesso, un uomo sereno, e contento, perché al risveglio avrà l’opportunità di far due parole in cucina con il suo amico sco.
* * *
I serbi descrivono Sarajevo come un luogo nel quale i cittadini trascorrono la loro esistenza asserragliati nelle loro abitazioni, senza luce, riscaldamento e acqua, una esistenza al limite della sopravvivenza, se non si muore sparati si morirà di inedia, i resoconti parlano di una città sezionata in aree dai confini invalicabili, ciascuna etnia dentro il proprio recinto, dove, si sostiene a Belgrado, i serbi rimasti, derubati delle loro proprietà, vivrebbero ridotti in semi schiavitù e impediti nella fuga verso la madre patria. Non è vero, in pochi giorni ho compreso come questa idea di Sarajevo sia quasi completamente falsa. In accordo alle istruzioni di Dix ho trovato una sistemazione diversa da quella della troupe, così da avere una maggiore libertà di movimento quando non sono impegnato con i mezzi della televisione. Ho trovato posto in un piccolo hotel poco distante dalla città vecchia, un albergo normale, se si può utilizzare questa parola in questa città così diversa. In un inglese perfetto l’impiegato alla reception mi spiega come i giovani siano al fronte e come lui, già in pensione, sia stato richiamato in servizio. Vuole vedere il aporto e sembra confortato quando scopre che sono serbo e gongola quando gli porgo anche il mio accredito giornalistico che ci spetta quali autisti della televisione. I documenti sono intestati a Frančesko Nikolin, il cognome significa “figlio di Nicola”, il nome di
mio padre, una vera e inaspettata coincidenza. “Molto bene, signore, ho alcune indicazioni per lei” È un uomo invecchiato precocemente, il viso gonfio, le labbra tremano, la voce è delicata, quasi femminile. “Oggi c’è l’energia elettrica ma non l’acqua corrente, nella stanza troverà delle bottiglie di acqua minerale, usi quelle. La mattina serviamo una colazione di tipo continentale, ma non si attenda molto di più dello stretto necessario.” Si è interrotto, si piega, a fatica, rovista sotto il bancone, ne estrae una pianta della città, che mi consegna insieme alle chiavi della stanza. “Non posso accompagnarla, e non perché lascerei sguarnita la reception, ma per il motivo che la sua valigia, per quanto piccola, è troppo pesante per me.” Mi ero già allontanato di un o quando mi ha rivolto ancora la parola. “Tre ulteriori informazioni. L’ascensore è fermo. In camera, se c’è l’elettricità, accenda la luce solo dopo aver chiuso bene le persiane e le tende. E non si preoccupi per i bombardamenti, qui sino ad oggi non abbiamo avuto inconvenienti, e sarebbe sorprendente che accadesse qualcosa proprio questa notte.” Sono uscito più tardi, nel rimbombo delle cannonate, nella poca luce dei rari lampioni, per strada c’è gente, pochi i giovani, e molte le donne, sembrano allegre, le ho sentite ridere, e ridevano più forte nel piccolo ristorante nel quale ho cenato. Al tavolo accanto saranno una dozzina, alcune con il velo, altre senza, ridono, un’ilarità sorprendente, ascolto interessato, parlano di ragazzi, di quelli che frequentavano prima dello scoppio della guerra, e di quelli che incontreranno quando finirà. Tra loro c’è una ragazza serba, presa garbatamente in giro per la complessità dei riti del matrimonio della sua gente, le augurano di sopravvivere alla cerimonia nuziale, e lei con gentilezza risponde che sì, lei ce la farà, se il suo promesso sposo tornerà vivo giura di riuscire a fronteggiare l’onere delle nozze ortodosse. Dopo cena, curiosando per la città vecchia, nel buio di una piazzetta ho notato una quantità di persone in fila, la coda per i biglietti di un film, una commedia inglese, in lingua originale con sottotitoli in serbo-croato, ho acquistato il biglietto, il cinema era affollato e ho dovuto vedere la pellicola seduto sui gradini laterali della platea.
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La sera nella quale Santo mi aveva comunicato la data ultima oltre la quale, se non fossi espatriato, non avrebbe garantito la mia intangibilità, ho telefonato al fratello di Dix, vive in Germania, non l’ho mai conosciuto, ma una volta, moltissimi anni orsono, Dix mi aveva fornito il suo numero di telefono, che lo scrivessi in un luogo dove con certezza l’avrei ritrovato, erano gli anni del brigatismo e dello spaccio e desiderava essere certo che se gli fosse accaduto qualcosa di grave suo fratello ne fosse avvertito. Il numero l’avevo riportato sulla pagina di frontespizio del primo volume del Placido Don di Šolochov, dove l’ho ritrovato mentre prendevo le mie cose. Il fratello non ha voluto parlarmi, per lui Efisio è come morto, ma aveva un numero di telefono, che ho composto senza riconoscere il prefisso internazionale, ha risposto allegro, la voce sonora, giovanile. “Ciao Franci...” In sottofondo ho riconosciuto la tromba di Miles Davis. “Piacere di sentirti, amico mio.” Viveva a Belgrado, mi avrebbe ospitato, con lui, inseparabile da anni, c’era Giulio, ascoltavo la sua voce profonda, sarcastica, venata di supponenza e di prepotenza, non era cambiato, istrione, sbruffone e manipolatore, e mio sincero amico. Le istruzioni erano semplici, che mi trasferissi a Trieste, al Jolly Hotel, qualcuno mi avrebbe cercato per condurmi da lui. Ho pensato che Belgrado fosse un ottimo luogo per far perdere le tracce, la guerra imperversava e sarebbe certamente stato molto difficile rintracciarmi. A Trieste, in quella fine di febbraio del ‘92, il tempo proponeva giornate magnifiche, temperatura ancora fresca, vento leggero e cielo sereno. Ho acquistato un paio di pedule leggere e una giacca a vento, e dal 25 febbraio, lunedì, il giorno successivo al mio arrivo, ho avviato, a piedi, l’esplorazione della città e dei suoi dintorni. Ogni giorno un progetto, il 25 Miramare e ritorno, il 26 Servola, il 27 Muggia, più di venti chilometri tra l’andata e il ritorno, il 28, c’era un po’ di foschia, ho raggiunto il confine sloveno, e il 29 sono arrivato a Capodistria, al ritorno mi sono fermato a Muggia, dove per rientrare a Trieste ho utilizzato la corriera. La Slovenia è indipendente dal giugno del ’91 ma solo dal 15 gennaio di quest’anno il nuovo Stato è riconosciuto dalla Comunità Europea, al confine, quando sono ato in direzione Capodistria, mi hanno salutato con grande cordialità e al ritorno un doganiere mi ha riconosciuto e ha voluto offrirmi un bicchiere di grappa. Il primo marzo, il tempo si mantiene costantemente al bello, ho deciso per un giorno di riposo, una sosta al mercato di Ponterosso, il pranzo da Marascutti in via Battisti, dove ho trascritto su una agendina i numeri di telefono più importanti, e dove, uscendo gonfio di maiale lesso e di cren, ho gettato senza esitazioni il telefono portatile in un cassonetto
della spazzatura. Da una cabina ho chiamato Silvana, non ha risposto, mentre Santo lo ha fatto dopo dieci squilli, voce bassissima, parole concitate. “Sei matto? Chiamarmi su questo numero? Chiama a questo, dopo le 21!” Era un numero con il prefisso di Como, lo avrei chiamato dopo le 21, come richiesto. Era presto, la giornata bella e sono partito per uno dei tragitti programmati per uno dei giorni successivi, Opicina e poi Fernetti, al ritorno scendeva la sera e a Opicina sono tornato in città con il tram, cena ancora da Marascutti, e all’ora stabilita ho telefonato a Santo. “Dove sei?” Era felice di sentirmi, avvertivo la sua gioia premere negli interstizi delle pause tra una parola e l’altra. “Non mi hai detto nulla, hai abbastanza denaro con te? “Rispondo con ordine, contento, molto, di ascoltare la tua voce, ma non ti dico dove sono. Da domani non chiamerò più. Troverò un altro modo di farti avere mie notizie. Denaro ne ho a sufficienza, a casa avevo del contante di riserva, per dove ho intenzione di andare mi basterà per mesi.” Santo ha cercato di interrompermi, conosco il sistema, tossicchia, per confondere l’interlocutore e approfittarne per inserirsi. “Tu vigila su Silvana e Matteo e provvedi a inviare del denaro a Laura, un mensile, poca roba, lei è abituata a vivere di niente, fai mezzo milione al mese, anche meno, è tornata a casa sua, l’indirizzo è via del Plebiscito 31, cercala nel bar di fronte, il proprietario si chiama Elmo, se non c’è lui trovi il figlio, loro ti aiuteranno a rintracciarla.” “sco, qui in procura è una baraonda, su questa cosa hanno messo gli uomini migliori, Di Pietro, D’Ambrosio, Colombo, Spataro, Davigo e la Bocassini, alla testa ci sono Caponnetto e Borrelli, un plotone di ferro, stanno preparandosi per le grandi manovre.” “Ma che è questa cosa? Per Mario Chiesa? Un vero esercito per un delinquentello?” “No, sco, qui progettano in grande, ‘Mani pulite’, è il nome che hanno attribuito all’operazione, mani pulite, capisci ora?” “Non mi interessa più, io vado, Santo. Grazie di tutto. Ti voglio bene.”
* * *
Ho incontrato Dix a Belgrado dopo qualche settimana, davanti all’ingresso del Ministero degli interni dove mi aveva dato appuntamento, indossava una tuta mimetica, discorreva con una guardia sulla soglia, lo avevo alle spalle e non l’ho riconosciuto. Lo ha fatto lui: “Finalmente, fratello!” La sua voce, quella, l’avevo dentro il sangue, l’ho immaginata sussurrare scempiaggini e volgarità per tutti i giorni del lungo viaggio attraverso la Jugoslavia in guerra, aspettavo di ascoltarla, viva, vera, invadente. Mi ha abbracciato da dietro, le sue braccia possenti strette dentro la divisa dei regolari dell’esercito jugoslavo. “Amico mio, amico mio...” Il mento ispido di barba appoggiato sul mio collo, mi parla dentro l’orecchio. “Quanto, quanto, quanto mi sei mancato...” Singhiozzava, avvertivo il suo tremito, la sua emozione. “Quanto ho avuto bisogno di te in questi anni, quanto mi avresti aiutato, mio grande amico...” Mi sono voltato, piange, mi trattiene la testa sul petto, mi accarezza sui capelli, i soldati di guardia ci stanno osservando, forse lo conoscono bene. “Mio unico grande amico, lo sapevo che sarebbe successo, ma qui, accidenti, qui, è questo l’evento straordinario.”
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A Sarajevo, in albergo, il mattino del 24 gennaio del ‘94. Dalla reception hanno avvisato che è stato consegnato un messaggio per me, il vecchio, lo stesso di ieri sera, mi ha porto la busta, aperta, squadrandomi con uno sguardo interrogativo. Si trattava della convocazione, per quella stessa mattina, per comunicazioni importanti, così recitava la lettera, firmata da un tale Danko. Ho aperto la mappa sul bancone e ho chiesto al portiere se conosceva l’indirizzo che mi era stato indicato. “È a Grbavica.” “Lontano da qui?” “Due chilometri, due e mezzo.”
“Posso andarci a piedi?” “Sì, ma stia attento, dovrà percorrere un tratto scoperto sul viale dei cecchini, cammini ad andatura normale, non corra, sparano a quelli che corrono, e non proceda troppo lentamente, sparano anche a questi, perché si sentono dileggiati, come se indugiando in una camminata più lenta si volesse irridere di loro.” “Loro?” “Sì, i cecchini serbi, sparano dalle colline, ma anche dai tetti di Grbavica. Ma se lei va lì” ha abbassato sia gli occhi sia il tono della voce “significa che lei è al corrente della situazione.”
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Ho eseguito con attenzione le istruzioni, i muri delle case sono crivellati di colpi, la quasi totalità delle finestre è senza vetri, sostituiti da tendaggi e pellicole di plastica tenuti insieme con il nastro adesivo, i cannoni sono attivi, ho sentito un’esplosione, vicinissima, e ho visto gruppi di persone fuggire, senza panico, senza grida. Sul viale dei cecchini, che sono stato costretto a percorrere per un paio di centinaia di metri, i rari anti procedono, come da regola, ad andatura normale, senza voltarsi e senza guardarsi intorno. Dix è riuscito a infiltrarmi come autista nella televisione di Stato serba per permettermi di viaggiare nelle zone di guerra, una possibilità di grande valore per i suoi traffici, mi usa per trasmettere comunicazioni ai suoi sodali sparsi per il paese e per trasportare ogni tanto qualche pacchetto che si raccomanda di custodire con estrema attenzione, droga, di solito, oppure denaro contante o, più raramente, armi leggere. Dalla mia presenza a Sarajevo Dix si aspettava molto: “È chiaro, sco? Conta esclusivamente su di te, ti è stato fornito un numero di telefono per le emergenze, ma puoi usarlo solo un attimo prima di essere ammazzato, non prima!” Ho imboccato la strada indicata sul messaggio, una via deserta, polverosa, ingombra di calcinacci e senza più asfalto, come fosse stato raschiato via da una benna gigante. In prossimità del civico dell’appuntamento sono stato affiancato
da un giovane in borghese, basso di statura, berretto di lana calcato in testa, giaccone di piumino nuovo, azzurro, intonso, certamente un prelievo da un convoglio di aiuti umanitari, in un inglese approssimato mi ha comunicato che mi avrebbe condotto lui. “Danko?” Ha riso. “Danko, sì.” Al quarto piano di un edificio semidistrutto, in un appartamento buio e privo di riscaldamento, in una stanza con una branda, una sedia, un tavolo e un fornello appoggiato in un angolo del pavimento, in piedi, con le spalle rivolte alla porta c’è una ragazza, molto giovane, sembra. “Cerco Danko.” Si è voltata, ha trent’anni, i capelli biondi, lunghi, sciolti sulle spalle. “Sono io, Danka, ho scritto il messaggio di fretta, e non ho una buona calligrafia.” Ride, scrollando le spalle e la testa. “La nostra comune amica Sara Schneider mi ha pregato di sorvegliarti, accudirti e proteggerti” Ha lo sguardo chiaro, luminoso, uno spazio di luce in questa stanza vuota “Esattamente in quest’ordine, sorveglianza, accudimento e protezione.”
* * *
Sara, Sara Habib, ora Sara Schneider, il cognome tedesco di sua madre, ora ha quarant’anni, qualche sottile filo di rughe appoggiato sulla pelle ambrata del viso, i capelli neri, adesso cortissimi, e quegli occhi, conosco bene i suoi occhi, quante volte, nelle nostre notti americane, mi sono provato a penetrarli, per insinuarmi dentro i suoi pensieri sigillati, vanamente, luccicavano di bellezza, restando impermeabili, non sono mai riuscito a intuire che pensasse veramente, dell’America, del mondo, della vita, del destino e di me. Dix mi aveva condotto da Sara subito dopo il nostro incontro davanti al Ministero. “Ho una sorpresa per te, in verità ne ho molte altre, ma questa è incredibile, vieni, seguimi.” Quarantasei anni, molti capelli smarriti, la
giacchetta aperta, insensibile al freddo, procede veloce con la consueta falcata da gigante, difficile reggere il suo o, e ancora più chiedergli di rallentare. Aspetta agli angoli e agli incroci per farmi cenno di sbrigarmi. “Presto, sco, altrimenti rischiamo di arrivare tardi.” Tardi perché? Sono forse atteso? Era forse un piano combinato? Per quale motivo aveva scelto l’ingresso del Ministero degli interni per il nostro incontro? Era accaduto qualcosa di simile al nostro primo appuntamento nel 1973, e da Dix potevo aspettarmi qualunque imbroglio. Sara è seduta al tavolo di un bar nei pressi della stazione delle corriere, ha una valigia tra le gambe e, nonostante il locale sia surriscaldato, tiene il cappotto completamente abbottonato. Sta fumando e, nell’esatto momento nel quale l’ho riconosciuta, ha piegato lo sguardo verso l’orologio al polso. “Bene...” si è rivolta a Dix in serbo-croato “E questo?” Ha alzato lo sguardo verso di me, il viso indurito, le labbra tese. “Che ci fa qui?” ha chiesto a Dix, senza smettere di fissarmi. “È già dannatamente difficile così, avevamo forse bisogno di una complicazione in più.” In quel momento è squillato il suo telefono, ha ascoltato a lungo, ha risposto, in serbo-croato, sì, aveva inteso perfettamente, poi ha gettato il telefono sul tavolino. “Ancora un rinvio, da cinque giorni ho la valigia fatta e ogni mattina vengo qui per partire. Io sono pronta, e se quelli non lo sono non è colpa mia!” È furiosa, riprende il telefono, una comunicazione breve, in tedesco, nella quale più o meno ha spiegato che si sarebbero visti il giorno successivo. “Certo che al coordinamento ci vado, sono due anni che non manco un incontro.” Allora, si è addolcita improvvisamente. “Ciao, sco.” Ha allungato la sua mano sopra la mia, parla italiano adesso, si è ata le dita tra i capelli. “E se sei qui, significa, credo, tu sia dei nostri.” “Te lo lascio. Lo vengo a riprendere dopo, fatemi sapere quando e dove. Trattalo bene, è mio amico.” “E tu sei sempre mia amica?” le ho chiesto sedendomi accanto a lei. “Per una coincidenza lo scorso maggio sono ata sotto gli uffici della Render. Quanti anni sono ati?” “Era la fine del ‘73. Che hai fatto da allora?” “Quattro anni negli Stati Uniti con un italiano, un bel tipo, simpatico, carino.” Ha riso spensierata, si è tolta il cappotto, indossa un abito rosso, corto sopra
calze nere, pesanti, e stivali scamosciati grigi. “Dopo ho giracchiato un po’, Iran, Africa Centrale, Centro America, Cuba, e poi Medio Oriente, tanto Libano, Siria, Giordania, e Yemen, per anni.” Allegra, disinvolta, si è accesa una sigaretta, e subito dopo un’altra, che mi a facendo compiere alla sigaretta un semiarco davanti a noi, lo stesso gesto, ripetuto infinite volte, nelle nostre serate americane. “Dopo l’America sono stata nei luoghi più derelitti del mondo, sporcizia, fame, stenti, guerra, malattie, non mi sono risparmiata nulla, ma proprio niente, te lo posso garantire.” Si è fatta seria, mi fissa, con gli occhi colmi di nero e di luce. “Ho fatto del mio meglio, sco, ogni giorno e ogni notte, senza riposo, senza vacanze, cotta dal sole del deserto, nelle paludi, sulle montagne, in mezzo al mare, tra la neve, flagellata dai monsoni, sotto le tende, dentro le grotte, in cima agli alberi, persino.” “Ti trovo bene.” “Sono stata impegnata, e ho ancora da fare, qui è difficile orientarsi, ogni giorno lo scenario è diverso, le alleanze cambiano, è un rompicapo, e seguire la via diritta è talora impossibile.” Parla un ottimo italiano, con quella pronuncia insieme piena e vaga, un atto di seduzione, venti anni fa ne ero stato ammaliato, era iniziato così, fuor di ogni dubbio era stato proprio l’avvio del meccanismo che mi aveva portato lì, a Belgrado, nel pieno delle guerre jugoslave. “Sara, è necessario che ti ponga una domanda.” “No, sco.” Non abbassa gli occhi, non molla, è forte, Sara, una pietra. “Quella domanda non farla. Non ti risponderei.” “Lo farai?” “Non ora.” Ha rimesso il cappotto, abbottonandolo sino al collo, presa la borsa, lasciato del denaro sul tavolo, occhi bassi, adesso. “Ho un impegno, quella riunione di coordinamento” Si è fermata, silenzio, le mani curate, le unghie rosso vivo. “Questa sera termino alle otto” ha infilato un berretto di lana grigio come gli stivali, una quarantenne stupenda, in quel momento apprendevo, che colpo, così d’improvviso, la ragione del mio innamoramento di un tempo. “Vediamoci qui, alle otto e mezzo.” Una donna infinita, fascino e bellezza come pioggia tropicale, ho conosciuto la sua intimità, la sua tenacia, il suo attaccamento alla causa, e adesso? Quale misterioso incarico svolge? Per chi lavora? Per Dix? E la
Palestina? E la sua esistenza? Ha avuto mariti, figli, famiglie? Chi è Sara? Quali sentimenti e quali pensieri riempiono le sue giornate? E a me? Ha mai pensato a me in tutti questi anni? “Ceniamo insieme, e dopo, se ti fa piacere, vieni da me, abito qui vicino.” Si china a riprendere la valigia, parla sottovoce, un sussurro appena. Si è allontanata di qualche o, è stupenda, gli uomini seduti ai tavoli la osservano, riconosco l’elasticità delle gambe, la frequenza dei etti da uccellino, il modo maschile di aprire le spalle, le mani piccole. È sulla porta, mi saluta alzando l’indice e il medio della mano, un gesto abituale negli anni americani. “A stasera Chicco.”
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A Trieste, marzo 1992, basta eggiate inutili, il due, era un lunedì, ho iniziato a preoccuparmi, sono ospite al Jolly da dieci giorni e non ho ancora ricevuto alcuna comunicazione, ho chiamato numerose volte il numero di Dix a Belgrado, ad ogni ora, per giorni, senza mai ricevere risposta, ho provato con il fratello, che scortesemente mi ha pregato di esimermi dal richiamarlo ancora. Ho del denaro, molto, ma non ho tempo, nell’ultima telefonata Santo è stato esplicito, la procura milanese corre veloce, se fossi stato incriminato mi avrebbero trovato senza difficoltà, in albergo sono regolarmente registrato, individuarmi sarebbe uno scherzo. Giornate vuote, buttate via, la noia, e il dispiacere della solitudine, sentimenti sconosciuti, dimenticati, tolti da decenni. Quando ero manovale nei cantieri avevo Matteo piccolo, una compagnia rumorosa, allegra e persistente, la sera, quando si addormentava, crollavo dalla stanchezza, non avevo il tempo per la sofferenza, una esistenza trattenuta, l’anestesia del tempo immobile. Anche qui a Trieste le ore sono ferme, la testa immersa nel cemento, ma ora vedo, e sento, avverto il dolore del disagio, la delusione per l’inconsistenza del presente, solo due settimane fa smistavo il traffico all’incrocio degli affari e della politica milanese, mi coricavo accanto a Silvana, non mi bastavano le ventiquattro ore, dormivo pochissimo, qui mi consumo di disidratazione fissando il mare, la secchezza dell’assenza di avvenimenti, la testa di pietra saldata al cuscino piatto del lettone della stanza del Jolly. Ho esaminato alcune possibilità di sopravvivenza, chiudermi in camera a
studiare testi di storia medievale, scrivere un pamphlet sugli anni ‘80, o un manuale di sopravvivenza per gli italiani dei prossimi decenni, oppure le mie memorie, ho visto molto, e da molto vicino. In alternativa dedicarmi a questa città, imparare a comprendere i triestini, strana razza di italiani, prima asburgici e dopo ultimo avamposto dell’occidente, sergenti di guardia alla Cortina di ferro, e marinai, e letterati, con questo dialetto sugoso, ironico, che fa sembrare tutti simpatici. Ho telefonato a Santo, era stupito fossi ancora in Italia, “Presto, sco, dileguati, in procura lavorano di notte, si sussurra che alla firma vi siano centinaia di mandati di cattura, Carabinieri e Polizia hanno trasferito qui interi reparti dal Sud e dal Nord-est, ferie e permessi sospesi, si prepara una grande retata, anche il nostro segretario ha ammesso che potrebbe succedere qualcosa di grave, e se lo dice lui, l’uomo di cemento, significa che siamo davvero alla catastrofe.” Ho cercato ancora Silvana, a casa, in ufficio e sul cellulare, invano, numeri morti, o che suonano a vuoto, anche Matteo risulta irraggiungibile, un’apocalisse, come se Milano fosse sotto assedio, le comunicazioni interrotte, il coprifuoco, i suoi abitanti imprigionati. Smesse le eggiate, scartate le opzioni culturali e antropologiche, ho scelto la via della droga gastronomica, colazione alle nove del mattino al ricco buffet dell’albergo con uova, bacon, fette di torta, yogurt e cappuccino, a pranzo pesce, in un ristorantino dalle parti dell’Acquedotto, menù completo, antipasto di cicale, spaghetti allo scoglio, pesce in umido, vino bianco friulano, a merenda verso le cinque crostini con paté di fegato al Bar degli Specchi, a cena, tardi, verso le nove, piatto unico di carne, wurstel, maiale lesso, con senape, rafano e crauti e prima di andare a dormire, all’una, nel bar del Jolly, un toast per buttare giù un paio di bicchieri di cognac. Sono stato disciplinato, dal 2 marzo la nuova dieta giornaliera è stata osservata con rigore, non pensavo di avere uno stomaco e un intestino in grado di reggere l’impatto con una tale quantità di cibo, le viscere lavorano di continuo, avverto importanti movimenti interni, pezzi di cibo che galleggiano nello stomaco sopra i vini e i brandy in attesa che il serbatoio dei succhi gastrici venga rimesso in funzione, l’attività è frenetica, ogni organo e ogni ghiandola sono chiamati a offrire il meglio, si generano rumori, che credo si avvertano anche nelle mie vicinanze, e flatulenze irrefrenabili, in ogni situazione, per non parlare del persistente aroma di gas nella cavità orale, una schifezza, che mi provo a mitigare mangiandoci e bevendoci sopra.
Il quattro marzo alla reception mi hanno cortesemente richiesto di saldare il conto parziale del mio soggiorno, il totale ammonta a poco meno di tre milioni di lire, pagati in contanti, impilando sul bancone trenta banconote da centomila nuove di zecca. Il sei marzo ho vomitato la colazione mentre eggiavo per raggiungere l’abituale ristorante del pranzo a base di pesce, il sette mi sono fatto portare sia la colazione sia il pranzo in camera, l’intero giorno con la televisione accesa. Quella sera sono uscito con lo scopo preciso di trovare compagnia femminile, avrei girato per i locali, avrei cercato una sala da ballo, è sabato, sono vestito con cura, sbarbato, ho il portafogli gonfio, non avrei avuto difficoltà. Fuori dalle porte dell’albergo, sul primo gradino delle scale che discendono al marciapiede un uomo anziano, il soprabito chiaro aperto, il cappello calcato in testa, mi chiede se sono in grado di esprimere un giudizio sulla qualità dell’albergo. “È un Jolly Hotel, quattro stelle, che vuole sapere di più?” Ha gli occhi chiari, si indovina che da giovane è stato biondo, profilo slavo, dalmata, direi, in questi dieci giorni mi sono familiarizzato con questo tipo umano. “Questo hotel è caro, vorrei essere sicuro.” Si è voltato e ha iniziato a scendere la scalinata, un invito ad avvicinarmi e scendere al suo fianco. “È un ottimo albergo, accogliente, le stanze grandi, ben riscaldate, la colazione è abbondante e il bar è aperto sino a molto tardi.” “Costa molto?” Abbiamo raggiunto il marciapiede e mi parla con lo sguardo fisso verso l’ingresso dell’albergo. “Vale i soldi che chiedono?” Ha distolto lo sguardo, si è voltato, è un uomo alto e robusto e ha iniziato a camminare in direzione della stazione ferroviaria. Non ho un itinerario preciso e lo seguo. “Dipende da quanti giorni intende pernottarvi.” Si è fermato, gli occhi chiarissimi, davanti ai miei “Non è per me, è per una persona.” Procede a i lunghi, i piedi larghi che si appoggiano con cautela sul terreno, è difficile definire la sua età, settant’anni, forse sessantacinque, e quegli occhi, senza età. Alla piazza degli autobus ha imboccato la direzione della stazione.
“Io vado di qua...” gli ho comunicato iniziando a deviare verso corso Italia. È distante una ventina di metri, di trequarti nella penombra, le mani nelle tasche del soprabito, la voce più giovane, adesso, decisa, perentoria. “Non di là, dottor Aliberti, la strada per Belgrado è un’altra”. Ha ripreso a camminare. “Si prepari, partiamo subito” Ha una sigaretta che già teneva spenta tra le labbra. “Avrà tempo, dopo, per pormi tutte le domande che desidera.”
* * *
Qui a Sarajevo trascorro giornate intense, in virtù del della libertà di movimento che il mio incarico mi consente sono riuscito a completare i compiti che Dix mi ha affidato. Ho consegnato un pacchetto, molto leggero, denaro probabilmente, a una donna bosniaca, e un grosso plico presso la sede di uno dei due giornali locali che, in barba a enormi difficoltà logistiche e di approvvigionamento, riescono ad uscire con un certa regolarità. Il 25 gennaio sono stato impegnato l’intera giornata per una serie di riprese nel quartiere serbo di Sarajevo, i giornalisti hanno intervistato una quantità di anziani mentre i cameraman riprendevano le abitazioni sventrate e i cumuli delle macerie, bene attenti, come gridava nel megafono il caposervizio, a non inquinare le immagini con persone indaffarate, negozi aperti e bar affollati, le immagini dovevano trasmettere l’idea di una città semidisabitata, con i pochi abitanti rintanati nelle cantine e nei sottoscala per sfuggire ai bombardamenti. Dopo cena ho eggiato a lungo per il centro, avevo una busta da consegnare, le istruzioni di Dix erano state chiare, qualcuno mi avrebbe chiamato con il cognome giusto e un nome sbagliato, e così è stato, un giovane sui trent’anni, in piedi davanti alle vetrine opache di un ristorante ha mormorato un paio di volte Andrea Aliberti, la busta è ata di mano, droga, dalla consistenza, e quando, verso le undici, sono rientrato in albergo, l’anziano alla reception ha sussurrato, indicando con un movimento della testa la zona ristorante, che avevo una visita. Da quella distanza non riuscivo a riconoscere la persona in piedi davanti a una delle finestre. Danka? A quest’ora per lei è pericoloso venire qui. Avvicinandomi ho individuato il profilo di un uomo sconosciuto, statura media, corporatura massiccia, sul viso barba nera, tenuta corta, c’è poca luce e non posso guardarlo
negli occhi, mi porge la mano, parla un inglese stentato, che infarcisce di termini serbo-croati e, occasionalmente, tedeschi. “Sono Veselin Vlahović, sco.” “Lei mi conosce?” “Diciamo che so chi sei e che sono al corrente del tuo compito non ufficiale qui in città.” “E, dunque, a che debbo l’onore?” Ha infilato le mani in tasca e si è spostato verso l’uscita. “Vieni, fuori fa freddo ma si può parlare con maggiore libertà.” Davanti all’albergo un’auto con il motore , Vlahović mi fa cenno di accomodarmi sul sedile posteriore, dietro l’autista. “Non preoccuparti, sco...” Si siede accanto a me, vicinissimo, è un uomo largo, ingombrante. “Siamo dalla stessa parte, lavoriamo per gli stessi ideali.” “Sono qui in incognito, signor Vlahović.” “Lo sappiamo, Dix al proposito è stato preciso, non lo hai notato, ma questo è un taxi, e dunque è giusto noi si stia seduti qui dietro e poi, guardami, osservami bene...” Ha la luce interna rivolgendo il viso verso l’alto. “Il mio viso ti è noto? Guarda, osserva con attenzione, mi hai mai visto da qualche parte?” “Sono a Sarajevo da solo tre giorni, come potrei.” “In città nessuno mi conosce, e neppure a Belgrado. Sono arrivato da più di tre mesi ma vivo nascosto, e lavoro la notte.” Ha spento la luce, si è spostato verso la portiera, guarda all’esterno, si gratta la barba. Viaggiamo spediti a fanali spenti verso ovest, riconosco un tratto della strada che ho percorso ieri a piedi per andare a Grbavica, l’auto si infila in stradette strette, gira in velocità una serie successiva di incroci deserti e blocca davanti a un edificio del tutto simile a quello dove ho incontrato Danka, pochi vetri intatti, fori di ogni dimensione sulla facciata, nessuna luce accesa. “Qui, per tua informazione, siamo nel quartiere di Kovačići, scendi, è necessario che tu veda una cosa.” “Necessario?”
“Assolutamente sì.” Mi ha indicato un portone, verso il quale si è avviato a i lunghi, lo seguo, l’autista è rimasto nel taxi, con il motore . Scendiamo una rampa di scale, il pianerottolo è sporco, semibuio, ci sono due uomini che, vedendoci arrivare, hanno bussato con forza a una porta che si è immediatamente aperta. Vlahović mi ha atteso e, con una leggera spinta dietro le spalle, mi ha introdotto nella stanza, un locale molto grande, appena illuminato da una lampadina da tavolo posata sul pavimento, ho sentito chiudere la porta e ho intuito che Vlahović si era spostato verso una delle pareti. “Non vedo niente” ho lamentato con voce tirata. “Paura? È comprensibile. Non cercare di vedere, sco, ascolta, piuttosto.” Ho trattenuto il fiato, in attesa che il silenzio ritornasse intatto. Sì, avverto un rumore, davanti a me, vicinissimo, un mugolio, anzi, più mugolii diversi, vedo qualcosa, una massa, un grumo di tende, o di corde, pulsa, si gonfia, è da lì che provengono i sospiri, ho mosso un o in avanti. “Fermo lì, sco, lì dove sei, non un o in più.” Vlahović è perentorio, duro, autorevole. Interrompo la respirazione, apnea, per sentire meglio, ora gli occhi si sono abituati all’oscurità, tra le funi e le tende emerge un braccio, una mano, che si chiude a pugno, ancora quei lamenti soffocati. “Che state facendo qui dentro?” ho alzato la voce, senza paura, deciso. “Silenzio, qui sei un ospite, ascolta e non gridare, bocca chiusa, lo capisci, bocca cucita, ora e sempre.” È irato, parla veloce, mescolando la sua lingua con il pessimo inglese, è difficile comprendere le parole, ha preso la lampada, avvicinandola all’uomo, o donna, legata che ha alzato la mano. “Silenzio, impara a fare silenzio, quando serve.” Ora vedo, tre corpi, vivi, imbavagliati, legati l’uno sopra e addosso all’altro, l’epidermide sudata, una trappola, chi si muove sposta le corde e i fasci di tende e serra i cappi che sono ati intorno al proprio collo e a quello degli altri due. “Basta così, sco, per questa sera è sufficiente, questo è il destino dei
musulmani e dei croati di Sarajevo e di tutti i traditori, anche serbi, sì, anche loro, se si macchiano di infamia...” Ha riportato la lampada nella posizione originaria e mi parla da lontano, nascosto nel buio. “Anche i profittatori, gentaglia inutile, sono feccia, dillo al tuo compare di Belgrado, che qui maciniamo anche i ladri e i contrabbandieri, non abbiamo paura di nessuno.” Ha aperto la porta, mi ha preso per le spalle e mi ha scagliato fuori. “Vi farò are di qui, uno ad uno, impiegherò anni, ma vi prenderò, uno ad uno, ve lo posso promettere. Via ora, via da qui, siete una banda di dannati, contro la grande madre Serbia, una macchia da cancellare.”
* * *
Vlahović pensava di impressionarmi, non poteva sapere che ero già a conoscenza, ero informato, avevo già visto di peggio, con questi miei occhi. Nel ‘92, con Marco, questo il nome del misterioso emissario di Dix venuto a prelevarmi a Trieste, ero stato a Zagabria, dove, mi aveva spiegato frettolosamente, aveva alcune questioni da sistemare per conto di Dix. Un uomo svelto, Marco, furtivo e silenzioso, gli occhi azzurri da cane, in testa un vecchio panama grigio che talora sostituiva con un basco di tela scozzese, e le mani nodose, grandi, che parlando manteneva immobili, quasi non fossero le sue. Marco, di cognome Petrovič, aveva un aporto austriaco e per muoversi in libertà esibiva un tesserino, falso, di ispettore della Croce Rossa, lo stesso che aveva fornito a me, già con foto, recente, e firma, un’opera della lunga mano di Dix. A Zagabria siamo stati ospiti di quello che Marco aveva spacciato come il suo miglior amico, un sessantenne devastato dal Parkinson che consuma il suo tempo in camera, seduto davanti allo specchio. La mia stanza si affacciava sul vuoto del palazzo, Zagabria per me è stata questa, un muro, la finestra dell’inquilino di fronte chiusa e un pezzetto di cielo, un bagno piccolo privo di finestra, umido e sporco, mi lavavo a pezzi, il meno possibile. Marco dormiva in sala, sul divano, sino a mezzogiorno, poiché la notte rientrava tardissimo, anche Marco era di poche parole, capace di restare muto davanti alle mie domande, quando arriveremo a Belgrado, quando lasceremo Zagabria, quale sarà il nostro percorso, eremo dal confine nord, oppure torneremo sulla costa e saliremo
attraverso la Bosnia? Uscire per me era molto pericoloso, non sarei sfuggito a un controllo, la mia conoscenza della lingua è molto scarsa, sarebbe stato facile accertare la mia nazionalità, un italiano con il falso accredito della Croce Rossa, in un paese in guerra, sarei stato arrestato e gettato nei fondi di una prigione, le mie tracce perse, nessuna possibilità di ritrovarmi, per anni e anni. Quando Marco lasciava libero il divano, lo occupavo sino al suo ritorno, incollato per ore davanti al televisore, anche qualche canale internazionale, anche italiano, Durante la reclusione nella casa di Zagabria, nutrito dei pasticci di carne e della verdura bollita che il Parkinson cucinava di suo pugno nella cucina lurida, cibi che assumevo in piedi, ingurgitando in fretta, poiché, avevo spiegato, era l’unico mezzo contro una gastrite che saltuariamente mi tormentava da anni. Marco, un pezzo alla volta, è riuscito a spiegarmi che Dix è uno dei maggiori capi del contrabbando jugoslavo, ha centinaia di emissari ovunque, anche in Montenegro e in Bulgaria, e in Italia, ovviamente, lui è uno dei suoi luogotenenti, dedicato alle operazioni di natura politica. È inquietante, quest’uomo, un trattore, che spiana senza esitazione persone, sentimenti ed emozioni, ha combattuto nella Seconda Guerra Mondiale, partigiano jugoslavo e serbo cetnico, è del ‘23, ha settant’anni, un vigore da giovanotto e una determinazione spaventosa, nei mesi trascorsi insieme non mi ha mai concesso alcun dettaglio sulla sua vita privata, se aveva una moglie, o se l’aveva avuta, e se aveva dei figli, o dei fratelli, muto, una capacità straordinaria di tacere, la cattiveria di questa attitudine, tramortirti tacendo, meno sai meno sono vulnerabile, il silenzio come trincea finale, dove il nemico annaspa e si intrappola da solo. Una di quelle notti Marco è rientrato prima dell’ora di cena tenendo sottobraccio un pacco di cartone, che ha posato sul tappeto e ha aperto con circospezione, all’interno due telefoni satellitari, due luci frontali, batterie di ricambio di vario taglio, una serie di mappe, alcuni aporti, una mazzetta di denaro, marchi tedeschi e dollari. Poco prima dell’alba, ci siamo allontanati in silenzio, l’amico malato si è accomiatato abbracciando Marco a lungo, piangendo, e abbracciando me, mormorandomi auguri e raccomandazioni in serbo-croato, in inglese, in italiano ed anche in tedesco, un lascito della lunga prigionia in Germania durante la guerra. Prima su una corriera di linea lungo la costa adriatica e dopo con
aggi di fortuna, a piedi e su mezzi militari croati abbiamo raggiunto Mostar, la porta scorrevole attraverso la quale sono entrato nel cuore di questa guerra. Non era la strada più breve per Belgrado, e neppure la più sicura, avevo provato a chiederne ragione a Marco, il quale, anche nelle situazioni nelle quali è impossibile rispondere, applica con pervicace costanza la capacità di ignorare le domande altrui, tacendo, immobile, a occhi spalancati, e se lo incalzi si curva nelle spalle e china la testa, come si preparasse a ricevere un colpo sulla nuca, in silenzio, la risposta è implicita, con il suo mutismo difensivo mi comunica l’inopportunità delle mie domande, se seguiamo un itinerario tortuoso, se puntiamo su Mostar transitando attraverso la Dalmazia il motivo è semplice, lui agisce nella sfera della relazione politica e diplomatica, e Dix lo ha investito di responsabilità speciali, ha degli incarichi precisi, tra i quali alcuni sono da svolgersi a Mostar, dopo, quando porterà a termine i suoi compiti, dopo saremmo risaliti verso Belgrado. Avvicinandoci a Mostar a piedi abbiamo sentito i colpi delle granate e, quando siamo stati abbastanza vicini, abbiamo visto le colonne di fumo e di fuoco. Siamo entrati in città nella zona occupata dai serbi, ai militari che ci hanno fermato Marco ha presentato due aporti serbi, che l’ufficiale responsabile ha esaminato con cura, stropicciando a lungo le pagine tra i polpastrelli e verificando con attenzione i nostri nomi e i visti, fasulli, che campeggiano sulle prime pagine del documento. Marco ha spiegato con dovizia di particolari la sua missione in Croazia e Slovenia, ha estratto una carta, che ho compreso subito essere un documento militare, perché l’ufficiale ha intimato di ripiegarla, subito, senza esitazione, l’avrebbe visionata nel suo ufficio. Dove ci ha trattenuto l’intero pomeriggio, durante il quale ha ricevuto numerose telefonate e dato udienza a subordinati impolverati, giovani, molti biondi, molti con gli occhi azzurri da cane di Marco, lamentano la mancanza di munizioni, di armi, di cibo, di mezzi di trasporto, una contumelia continua, che l’ufficiale ha amministrato senza quasi guardarli in viso, seduto al tavolo, chino sulle carte di Marco, suggerendo le soluzioni che i sottoposti stessi proponevano oppure spostando le incombenze alla sera o al giorno dopo. I documenti di Marco lo intrigano, chiede spiegazioni, soprattutto su ciò che accade lontano dalla sua zona, è giovane, l’ufficiale, tiene i piedi intrecciati sotto il tavolo, si alza di continuo, per andare in bagno, per uscire all’esterno a gridare ordini e raccomandazioni, per prendere da un armadietto una bottiglia di liquore con la quale tiene costantemente pieni i nostri bicchieri e che dopo ogni mescita torna a riporre nell’armadietto.
Alla fine, era sera, siamo stati sistemati in una casa disabitata sufficientemente distante dalla linea del fronte, una zona sicura, ci ha garantito il sergente che ci ha accompagnato. Marco dimostra di essere un uomo di grande solidità, una persona pacata e attenta, capace di discutere per un intero pomeriggio con un doganiere croato senza perdere la calma e di conquistare, senza mettere mano al portafoglio, non solo la sua accondiscendenza ma persino la sua fiducia, ora che siamo in area serba ha allentato la tensione, è più cordiale, talora persino un simpaticone, è riuscito a farmi ridere anche durante la notte che abbiamo trascorso all’aperto, quando, lasciata la costa adriatica, ci siamo addentrati nell’interno, eravamo senza alcun riparo, senza cibo, né acqua e senza la possibilità di accendere un fuoco, un vero compagno. A Spalato, a una fermata di autobus, abbiamo incontrato uno straniero che cercava un mezzo per dirigersi nell’interno, Marco ha stabilito che poteva essere utile essere in tre e l’ha cooptato nella compagnia, è un maestro elementare portoghese, un giovane di una trentina di anni, Luis, Luis e basta, ci aveva pregato di non chiedergli altro, né il cognome, né la residenza, né nulla in merito alla sua famiglia, un uomo magro e basso di statura, nero di capelli, freddo e silenzioso, ci ha seguito senza porre domande né lamentarsi, né protestare, né spaventarsi, il ‘cagnolino lusitano’, lo aveva ribattezzato Marco. A Mostar abbiamo visto i soldati serbi e i miliziani dei gruppi paramilitari svegliarsi presto al mattino, far la fila per la colazione e poi partire per le loro escursioni, c’erano ancora una quantità di villaggi e di case isolate da visitare, e uomini e ragazzi in età di leva nascosti ovunque, e ragazze da prelevare, fare, non si può restare l’intero giorno inattivi, anche se si è vittoriosi, fare, gli ufficiali superiori lo sanno bene, fare, così, giorno dopo giorno, cresce la corazza, e i soldati migliorano, più cattivi, più aggressivi, più motivati. Dall’Italia arrivavano notizie curiose, il 1° maggio sono stati inviati avvisi di garanzia ai parlamentari socialisti Carlo Tognoli e Paolo Pillitteri, conoscevo bene queste persone, ho pensato al mio segretario, che forse era in lacrime, o in fuga, il 23 maggio poco prima delle 18 a Capaci, sull’autostrada, è stato assassinato il giudice Giovanni Falcone e il 25, al sedicesimo scrutinio Oscar Luigi Scalfaro, diventa il nono presidente della Repubblica. Marco ha l’intera storia di una popolazione da raccontare, e la sera, dopo cena, si dispone alla narrazione, seduto in poltrona, un bicchiere di brandy tra le grandi
mani, gli occhi celesti ingranditi dalle lenti rettangolari degli occhiali sovietici, scandisce le parole, le attinge da un vocabolario smisurato, costruito nei decenni nella frequentazione di ogni etnia slava, svolgendo i mestieri più diversi, vivendo nelle grandi città e nei paeselli dell’interno montuoso, a contatto con l’intellighenzia e con i pastori dalla lingua rudimentale, desidera che io impari ogni sfumatura linguistica, ogni toponimo geografico, persino i termini dialettali, parla e mi chiede di ripetere, sono avanti, mi dice contento, padroneggio già la lingua, ma lui desidera di più, intende costruirmi una identità serba, una nascita, dei ricordi precisi, ha escogitato una vicenda perfetta, l’emigrazione della mia famiglia in Italia, la morte precoce dei genitori, l’orfano allevato da una vicina di casa caritatevole, il ritorno in patria, la lingua imperfetta, ma viva, come nascosta per troppo tempo, che finalmente, pur zoppicante, torna, piena. La notte, addormentandomi, ricordo, l’intreccio delle vicende che mi ha spinto qui a Mostar, la Tradisom, i due Mario Chiesa, Silvana e Matteo, la mia famiglia, l’unica che ho avuto, Santo, il segretario regionale del partito, è sorprendente pensare a se stessi in una lingua diversa dalla propria originaria, un fenomeno di sdoppiamento, un altro, straniero, che conoscendomi molto bene descrive ciò che ho già vissuto in una realtà diversa. Desidero quanto prima rivedere Dix, il mio amico Dix. A Mostar siamo stati ospiti a cena nell’abitazione di un commerciante di pellami. Un anziano serbo, untuoso, formale e appiccicoso, un uomo di bassa statura, le mani candide, i capelli lunghi, riportati con maestria sopra la nuca calva. Ci ha domandato da dove venissimo e quale fosse il motivo della nostra presenza a Mostar. Marco, insolitamente gioviale, si era dilungato in una particolareggiata spiegazione sulla sua missione. Il padrone di casa l’ha ascoltato svogliatamente, sino a quando l’ha interrotto bruscamente per chiedere notizia sulla prevista offensiva croato-mussulmana. Marco non gli ha risposto, proseguendo nella descrizione del un suo fantomatico incarico di intelligence, mormorando che i suoi ordini provenivano direttamente dallo staff di Milošević. Al commerciante non interessava conoscere i dettagli del lavoro di Marco, il suo unico interesse, e forse questo era la ragione per la quale eravamo stati invitati, era di avere informazioni di prima mano sulla situazione militare, alzando la voce ha protestato che lui possiede una attività, ha dieci lavoranti e cinque commessi, un’azienda fiorente, che esporta in ogni angolo d’Europa, il governo serbo ha l’obbligo di tutelarlo, è un patriota, e un imprenditore, è suo diritto chiedere di non essere abbandonato, il suo commercio è prezioso per l’economia
del paese, le sue pelli sono pagate in valuta pregiata, marchi tedeschi, fiorini olandesi, scellini austriaci, una fonte di inestimabile valore per la bilancia commerciale, Marco non molla, prosegue senza deflettere il racconto della complessità e della pericolosità del lavoro dell’intelligence, ai più sembra un gioco facile, lingua comune, fattezze simili, conoscenza dei costumi e delle abitudini, niente di più falso, la guerra ha acuito in ogni jugoslavo la sensibilità etnica e religiosa, annusano il nemico da distante e hanno imparato a stanarlo con precisione e tempestività, il commerciante non si dà per vinto, non cessa di interromperlo, senza riguardi, a voce alta, con rancore, quasi. Il giorno successivo Marco è uscito presto, a tarda sera non era rientrato, quella notte i croati e i musulmani hanno bombardato senza interruzione, le granate sono cadute molto vicine, ho sentito case crollare, grida, spari. Al mattino Marco non era tornato, i bombardamenti si sono infittiti e poi sono cessati, sono uscito di casa in tempo per vedere i serbi organizzare la ritirata, migliaia di civili accalcati intorno ai militari, valige, bauli, pacchi tenuti con lo spago, ho intravisto il commerciante che era stato il nostro ospite, imibile, chiuso in un cappotto blu di taglio molto elegante. Grande tramestio, ordinato, senza eccessi, senza disperazione, pochi urlano e nessuno si affretta, come questa gente avesse connaturata una famigliarità ancestrale con l’esodo. Ho pensato ai croati e ai musulmani che erano tenuti nascosti da famiglie serbe, adesso avrebbero ricambiato il favore nascondendoli a loro volta? Quella solidarietà orizzontale mi sorprendeva, come se sopra gli eserciti si massacrassero e sotto i comuni mortali si alleassero, ma questo era vero solo parzialmente, poiché erano molti i serbi che avevano denunciato musulmani e croati nascosti e non pochi quelli che avevano provveduto ad eliminarli personalmente. Cosa sarebbe accaduto con l’invasione di Mostar da parte dei croati e dei bosniaci musulmani? Che genere di tormenti avrebbero riservato alla popolazione serba che sarebbe rimasta in città? Ho visto Luis seduto su una Jeep scoperta pronta a partire, non si pone domande, resta aggregato al reparto dell’officina, non ha valutato alcuna altra opzione, segue la corrente, che accadesse ciò che doveva. La Jeep è partita, Luis è così piccolo che la testa spunta appena dalla linea delle portiere, mi saluta sventolando una mano, che ha tenuto alta sino a quando è stato in vista.
Ho cercato Marco, non può nascondersi, è riconoscibile anche da lontano e chiunque l’abbia visto lo ricorderebbe, ho setacciato le osterie, le mense e i magazzini militari, c’è grande agitazione, si preparano le valige, no, Marco non lo hanno visto, ho esplorato l’intero quartiere orientale, sino al confine con la terra di nessuno, ho chiesto, ho insistito, ho mostrato una fotografia, un ritaglio di giornale nel quale Marco è immortalato alla tribuna di un congresso della gioventù comunista, nulla, nessuno ha saputo aiutarmi, il mio fratello maggiore è sparito, senza di lui come avrei trovato Dix? Non sapevo dove abitava, e in primo luogo era necessario raggiungere Belgrado, come avrei fatto senza di lui? A sera Mostar era nelle mani dei reparti croato-musulmani, festeggiavano sparando in aria, mi sono ritirato in casa, in attesa. La mattina successiva, albeggiava appena, sono stato svegliato da un vociare fitto, vicinissimo, c’erano delle persone nel corridoio di casa. Le ho raggiunte, nella scarsa luce che filtra dalle finestre non sono in grado di riconoscerne il profilo, né a distinguere gli uomini dalle donne, ho estratto il falso accredito della Croce Rossa e tra i molti ho scelto il mio aporto italiano. “Mi chiamo sco Aliberti, sono un volontario italiano.” Una grossa mano maschile mi ha agguantato per i capelli. “Perché si trova nella nostra casa?” Parla in inglese, piuttosto bene. “Ci avevano alloggiato qui le forze militari serbe.” “Questa è la nostra abitazione. Dove ha dormito?” Con gli occhi ho indicato la stanza da letto matrimoniale dove avevo ato le ultime notti. “Lo sa che quella è la nostra camera, mia e di mia moglie? Come ha potuto? E che volontario è lei? Chi aiuta? I serbi, forse?” Mi ha gettato a terra, tra i molti piedi di uomini che non mi è possibile vedere in viso. “Risponda, o desidera che chiami i soldati? Il suo corpo puzzolente nel nostro letto matrimoniale, ma lo sa che dormiamo in quel letto da quando ci siamo sposati? Come si è permesso? Ha ragionato sul danno, sul fastidio, e sul disagio, accidenti a lei.” Ha allungato un calcio, un colpo blando, una modesta pedata che mi ha raggiunto al fianco. “Via, via di qui, lei è un porco.” Procedendo carponi mi sono spostato verso la porta di ingresso, sotto il diluvio delle mie maglie, calze, scarpe e borse vuote, del mio orologio, dei miei guanti
da lavoro, del mio berretto con la visiera, rovistano dappertutto, e ciò che non è di famiglia, mi viene lanciato addosso, aperta la porta ho raggiunto il pianerottolo, le mie cose raccolte in una bracciata, sono seminudo, scendo rivestendomi, veloce, prima che quelli lassù si accorgano della mia fuga. Per quella notte ho trovato accoglienza sotto il tendone della mensa, i soldati mi hanno fornito di un sacco a pelo per distendermi tra le casse delle bottiglie d’acqua, questi croati e questi musulmani non sembrano diversi dai serbi ai quali si sono sostituiti, un assortimento di giovani e meno giovani, forse meno organizzati e meno disciplinati, le divise più consunte e gli armamenti personali ridotti e antiquati. Dopo aver esaminato il mio aporto italiano e le mie false credenziali di ispettore della Croce Rossa per le notti successive il comando militare mi ha sistemato nella baracca dei medici e degli infermieri dell’ospedale da campo. Intanto, dalle alture, le truppe serbe e montenegrine e l’Esercito Popolare Jugoslavo bombardano con regolarità, sono stati cacciati dalla città ma hanno mantenuto le posizioni sulle montagne e da lì scagliano obici e granate sull’abitato, ci sono continuamente nuovi feriti, che vengono trasportati al nostro ospedale, militari e civili, molti mutilati, alcuni privi di coscienza, altri che rantolano, un grande silenzio, nell’astanteria dove vengono deposti da frettolosi compagni o da amici, vicini di casa o semplici anti, molti muoiono lì, in un silenzio rarefatto, dove nessuno protesta, né grida, né si lamenta, né inveisce contro il destino. Non richiesto e privo di alcun incarico specifico, trascorro le giornate nell’astanteria ad aiutare nell’accoglienza e nello smistamento dei nuovi arrivi, seguo le disposizioni di un vecchio infermiere, ormai inabile all’attività sanitaria, un uomo di oltre ottant’anni, piccolo, secco, con tutti capelli ancora nerissimi, parla in continuazione, della sua casa sulla costa Dalmata, di sua moglie, sua figlia, suo genero, i suoi nipotini, anche in italiano, che ha imparato durante il Fascismo. In quelle settimane ho afferrato la natura profonda di quel conflitto, il quale non era, come pareva, quello per l’affermazione di nazionalismi inconciliabili, era piuttosto un contenitore che ospitava una quantità di altri, diversi, conflitti, quelli tra gli abitanti delle città e quelli delle contrade interne montuose, grandi centri contro piccoli centri, poveri contro ricchi, nuovi arrivati contro la nobiltà dei lungo residenti, nonché rivalità e ripicche personali, per il confine di un campo o l’utilizzo di un bosco da legna e, infine, la battaglia per l’accaparramento degli aiuti umanitari, la lotta tra bande per il contrabbando di benzina, di armi e di
mezzi militari, la lotta tra le cosche locali per il predominio sul mercato nero, la tratta delle ragazze di etnia diversa da quella dei vincitori per rifornire i bordelli delle zone militari, una guerra che permette il ludibrio e la perversità individuale, di un comandante, di un ufficiale o di un semplice soldato, i quali sono di fatto autorizzati a commettere ogni genere di violenza e atrocità. In ospedale veniva consegnato il prodotto finito di questo tritacarne, nei corridoi calpesto il sangue di giovani, adulti, anziani, bambini, maschi, femmine, soldati amici e soldati nemici, contrabbandieri montenegrini, disertori, spie che dopo l’intervento chirurgico saranno fucilate, osservatori dell’ONU, esponenti politici locali, una pastella umana e sociale inestricabile, resa cattiva e furiosa dall’imbarbarimento della guerra, una spirale immonda, guerra che genera altra guerra, anche laddove solo un giorno prima era impensabile immaginarla. Avevo dimenticato Silvana e Matteo, e chi era mai Laura, mia moglie, e Santo, il mio socio e amico? Cancellato dalla memoria il procedimento giudiziario a mio carico e la mia candidatura ad assessore ai lavori pubblici, che sciocchezza, in quel lavacro di pezzi di carne e di fiati acidi i dettagli della mia esistenza precedente si annebbiano, perdono i contorni e svaniscono. Avrei dovuto cercare di telefonare a Santo, essere messo al corrente dell’iniziativa dei magistrati milanesi sulla questione della Tradisom, in quanto, se mai fosse stata predisposta una archiviazione o se i faldoni del Chiesa omonimo fossero stati riportati al casellario, avrei potuto tornare subito, filtrare verso la costa adriatica, Spalato, Zara, Fiume, Trieste, poche centinaia di chilometri, salvo, e vivo. Telefonare a Santo è possibile, in ospedale è disponibile una linea telefonica, molti la utilizzano, anche per l’estero, non è necessario chiedere alcun permesso, è sufficiente aspettare che il telefono sia libero, magari durante un turno notturno, non credo che Santo si adombrerebbe se lo svegliassi di notte.
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“Abbiamo un messaggio per te” ha esordito una mattina all’ospedale un’infermiera. “Dal tuo capo, quello di Belgrado.”
“Io sono un volontario della Croce Rossa, dipendo direttamente dalla sede centrale italiana.” “Occhitelli mariarotta benvolendo sopraspina tornamore se” snocciola disinvolta la filastrocca, l’ha imparata a memoria e le piace recitarla con enfasi, a voce alta. “Occhitelli mariarotta benvolendo sopraspina tornamore se.” Vorrei tornare al Parco Reale, su quel balcone, un raggio di sole a proporre un momento di pausa al gelo invernale, con Sara, come era giovane, e come cantava mentre ripeteva senza interruzione la frase del reclutamento. Solo Dix, e Sara, sanno di questa filastrocca “Dix vuole che tu ritrovi Marco” l’infermiera non conosce né l’uno né l’altro, è solo un messaggero. “Il prima possibile, sco, qualche giorno, a Belgrado hanno bisogno di lui.” “Io non ho alcuna idea di dove cercarlo, potrebbe essere nascosto nelle cantine di questa casa o essere in Canada.” “Dix ha sottolineato come il ritorno di Marco a Belgrado sia di assoluta importanza.” Ho cercato Marco, o meglio, ho immaginato come ritrovarlo, è una impresa impossibile, in città solo soldati croati e musulmani, ai quali non potrei in alcun modo chiedere informazioni su un serbo, il suo satellitare risulta staccato, non possiedo alcun altro riferimento su cui lavorare, un indirizzo, un amico, una donna, un figlio, un’abitudine, nulla, una strada vuota, sotto un sole cocente, non avevo idee, né spunti, né possibilità. L’infermiera, forse anche lei a libro paga di Dix, era tornata alla carica, non sono consentiti ritardi, Marco Petrovič ha da essere individuato e rimandato a rapporto a Belgrado, un vero ultimatum, l’infermiera al proposito era stata esplicita, se non fossi riuscito a trovare Marco a Belgrado Dix non mi avrebbe accolto, era già inquieto, e se Marco non fosse ricomparso si sarebbe trasformato in un ossesso, nell’ambiente, si capiva, le sfuriate e Dix erano celebri. Quella sera ho preparato il mio bagaglio, non è rimasto molto, qualcosa perso nei cambi di domicilio, alcuni indumenti rovinati dall’uso, così poche cose che non ho riempito neppure una borsa, un solo paio di scarpe, due camice, due maglioni, un paio di pantaloni di ricambio, in compenso ho molto denaro, marchi tedeschi, che avevo cambiato a Trieste poco prima di partire per
Zagabria, molti, sufficienti a vivere bene qui per anni, li ho nascosti in più luoghi, dentro le scarpe, in una tasca interna della borsa, in una busta di tela che tengo dentro le mutande, sono pronto per partire, verso sud, mi è permesso sono libero, qualche ora, al più qualche giorno, e poi il mare, la costa, tornare dove c’è vita, telefonare a Santo, l’Italia, Milano, la mansarda, chi rientra per primo dorme nella camera da letto. È una scelta obbligata, di Marco, infatti, nessuna traccia. Ho perlustrato l’intera città, parlato con soldati e civili, dichiarando che stavo cercando un collega, un volontario, un uomo già anziano, alto, possente, con gli occhi azzurri da cane, mostravo, senza speranza, la foto stropicciata del giornale della gioventù comunista, il ciuffo dei capelli che erano stati biondi sulla fronte spaziosa, gli occhi chiari, grandi, luminosi. Senza Marco non mi è consentito presentarmi a Belgrado. Ho deciso, non ho alternativa, tornerò a Milano, Santo mi aiuterà, cercherò Silvana, ho bisogno di Matteo, le nostre eggiate in centro città, il suo eloquio da adulto, le nostre conversazioni sulla politica e sulla storia, non mi dispiace tornare, non mi dispiace affatto, affronterò le mie pendenze giudiziarie, fronteggerò le accuse, Santo mi difenderà, siamo una coppia affiatata, avvocato e cliente uniti, convinceremo la giuria, sarò assolto, tornerò a occuparmi di comunicazione, troverò una collocazione nel nuovo panorama politico cittadino, persone e idee diverse, dopo questa pausa sono affamato di innovazione, con Santo ci ritaglieremo il nostro nuovo spazio, chissà, anche un nuovo partito, perché no, l’espressione della borghesia lombarda delusa dai metodi della vecchia politica, affare fatto, qui ho visto a sufficienza, ho capito, basta così. Lasciando il parapetto sulla Neretva, ho scorto, dall’altra parte della strada un autocarro telonato dal quale venivano scaricate delle casse di legno, dall’interno qualcuno porge la cassa al primo uomo di una breve catena umana che termina in un magazzino, o forse un negozio abbandonato, dove la merce viene stivata, civili, nessuna divisa, uomini al lavoro freneticamente, una applicazione eccessiva. Mi sono avvicinato, hanno smesso lo scarico, il primo della catena ha gridato a quello dentro l’autocarro, il quale è saltato a terra, un uomo giovane, capelli neri e baffi curati, due i lunghi ed è davanti a me. “Serve qualcosa?” A torso nudo, sta sudando, non ha paura di guardarmi negli occhi.
“Cerco Marco Petrovič.” “Il serbo?” L’uomo è molto giovane, poco più che un ragazzo. “Proprio lui.” “E tu chi sei?” “Il suo amico austriaco.” “È dentro, lo trovi lì.” Si è allontanato di un o, ha assunto un tono rispettoso. “Sta controllando lo scarico.” Sono tornato in ospedale a prendere le mie cose, con Marco infatti abbiamo stabilito di fermarci nel negozio abbandonato ingombro di casse, armi, certamente, uno dei traffici di Dix, aspetteremo lì il momento favorevole per allontanarci da Mostar. Marco non risponde alle mie domande, dove era stato, con chi, perché non mi aveva lasciato un recapito, un riferimento, è stanco, e affamato, e preoccupato, qualcuno potrebbe averlo visto, a una perquisizione non sarebbe sfuggito, la sua foto è appesa in tutti i comandi militari croati e bosniaco-musulmani, ci avrebbero arrestati, mangia con lentezza, assaporando la minestra di riso e l’insalata che siamo riusciti a procurarci. Rinchiusi nel negozio per l’intero giorno, Marco si sposta in continuazione tra le casse, si sporge per un attimo dalla porta semichiusa e scruta l’esterno, alza le braccia sopra la testa e apre e chiude i pugni, la sua ginnastica iniziatica, sostiene che questo esercizio lo aiuti a decifrare i problemi complessi, nel cucinotto del retrobottega beve un sorso d’acqua direttamente dal rubinetto, un corpo agile, asciutto, nei decenni ha immagazzinato sensazioni ed emozioni, in numero maggiore rispetto alle esperienze, le quali pure sono moltissime, un tesoro di dubbi, paure, tentennamenti, decisioni, ripensamenti, scelte definitive, anch’esse rinnegate, quando è necessario, senza badare alle conseguenze, alle vittime innocenti, agli amici, ai parenti, ai figli, persino, se ne ha, nascosti da un falso cognome da qualche parte nel mondo. E io? Sarò un altro agnello sacrificale gettato via con un gesto di fastidio, quando non sarò più utile, quando avrò terminato il mio compito di aiutarlo a tornare dal suo padrone di Belgrado? Non tornerò a Milano, la mia strada è quella di questo serbo senza famiglia, Marco è qui con me, presidia la mia intimità, un uomo che sa trattenere tra le mani di cemento una farfalla per le ali, archetipo del fuggiasco senza terra e
senza religione, la disperazione della sua solitudine ora pulsa dentro la mia sensibilità, ha fascino, questo dalmata dagli occhi azzurri, è stato amato dalle donne e, ora ne sono certo, anche dagli uomini, mi è mancato, affronteremo insieme i rischi della fuga e dell’attraversamento della Bosnia musulmana, Marco è un gigante, e sono fiero di essere il suo compagno. Dix ci aspetta a Belgrado, ho bisogno di abbracciarlo, di sentire il suo odore, la sua voce prepotente, la sua forza inumana. Verso sera sono uscito, da solo, mentre Marco, nel negozio, preparava il bagaglio della fuga, una perlustrazione, con un occhio attento alle postazioni militari, ai luoghi di ritrovo dei soldati e alle strade più affollate.
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Adesso, qui a Sarajevo, la sala torture che Veselin Vlahović mi aveva orgogliosamente mostrato non aveva aggiunto nulla alla mia consapevolezza, né alla mia sensibilità, a Belgrado avevo studiato i meccanismi di questo delirio patriottico, ma ciononostante sono ancora avido, mi manca ancora un pezzo di conoscenza, non riesco a comprendere per intero il processo dell’aggressività serba, dalla sua ideazione alla sua esecuzione, alligna fumo, persiste la nebbia, c’è un’area, vasta e profonda, nella quale smarrisco l’orientamento e perdo la capacità di analisi e di comprensione, perché, perché, ancora sono al buio, ed è mio obbligo capire. Sono un evaso che ha scelto l’esilio in uno dei luoghi più tormentati della Terra e che, settimana dopo settimana, da fuggitivo è diventato parte di questa terra e di questa gente, la guerra, prima solo un nascondiglio, adesso è penetrata dentro di me.
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Privatamente Dix mi aveva eletto suo assistente speciale e, pubblicamente, autista a disposizione della televisione serba, dimoravo nella villa di Dix e Giulio, dove mi era stata sgombrata e riarredata la mansarda, una stanza
luminosa, il parquet sul pavimento e gli arredi in legno chiaro, un letto ampio, una grande televisione, un riproduttore video, Dix sapeva ciò che mi serviva, aveva provveduto ad installare anche un frigo, sempre colmo di birra e vino bianco, vi potevo entrare sia attraverso l’entrata principale sia per una scala indipendente. Erano evidenti i segni di una grande opulenza economica, nel cortile tre auto di gran pregio, se ne avessi avuto bisogno potevo utilizzare quella che preferivo, e se mi era più congeniale c’era un autista a disposizione, una delle numerose persone di servizio, tra le quali un cuoco libanese, due domestiche bulgare, e due guardie del corpo montenegrine. Giulio ha trentacinque anni, il ragazzone florido di un tempo si è asciugato, in viso soprattutto, dove scintillano occhi lucidi e colmi di curiosità, la donna libanese che lo aveva raggiunto in Italia l’aveva lasciato dopo qualche anno ed era tornata in patria con i suoi figli, questo evento aveva coinciso con l’uscita dal carcere di Dix, così che si era ricostituito l’antico sodalizio, traffici, traffici e traffici. Iris è rimasta la candida e morbida ragazza che avevo conosciuto nel ‘78, ora padrona di casa impeccabile, dirige il personale con rigore e severità e provvede in prima persona ad ogni genere di incombenza domestica, all’organizzazione dei convivi nel grande salone a pianoterra come alla riparazione di una grondaia distaccata, alla spesa al mercato al pari della scelta dei regali per i compleanni e gli onomastici della infinita quantità di personaggi che Dix e Giulio sono obbligati a omaggiare, una lavoratrice instancabile, senza orario, l’ultima a ritirarsi per spegnere le luci, aprire al cane, chiudere il gas e serrare la porta blindata. Sara non aveva voluto venire ad abitare lì, Dix l’aveva persino implorata, no, lei voleva vivere nell’appartamentino in centro città che gli era stato destinato, desiderava autonomia e indipendenza, nell’ultimo decennio ha vissuto in accampamenti affollati e promiscui e non intende rinunciare alla libertà della solitudine. Marco non c’era, ho domandato molte volte di lui, era lontano, in missione, questioni delicate, mi ha spiegato Dix, i rapporti con i gruppi di contrabbando montenegrini e kosovari sono complessi, equilibri difficili da raggiungere e da mantenere, gente aggressiva e permalosa, e Marco è l’unico in grado di dirimere i contrasti, l’unico che viene ascoltato e rispettato.
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A Sarajevo, il 26 gennaio, in una busta nascosta sotto il piatto di un ristorante cinese, ho lasciato un messaggio per Dix. “Qui piove acqua pesante e i lupi sono pronti. Vorrei Sara” La troupe televisiva è stata fermata, ordini superiori, che resti a disposizione, pronta ad intervenire. Questa inattività mi consente una grande libertà d’azione, quel pomeriggio ho perlustrato con attenzione le vie del centro, che è nelle mani dei governativi, sono rimasto sorpreso, l’area è piccola, l’esercito bosniaco armato malissimo e ciononostante i nostri non riescono a prenderla, limitandosi a bombardare da lontano, procurando vittime tra i civili, che mostrano una resistenza fuori dall’ordinario. Da una edicola alla quale manca il tetto e la parete posteriore ho acquistato il giornale Oslobodenje, liberazione, lo stampano, esce, è molto diffuso, lo leggo per strada, appoggiato al muro di cinta di una moschea. “Pericoloso, farsi sorprendere con quel foglio tra le mani.” La voce è femminile, vicinissima, è una giovane donna appoggiata al muro a non più di mezzo metro di distanza. “Danka, più pericoloso è che tu sia qui.” “Perché sono serba? Perché sono donna? Siamo a Sarajevo, amico mio, qui il melting pot lo abbiamo in vigore da secoli.” È abbigliata all’occidentale, blue jeans, una giacca a vento leggera, scarpe da jogging colorate. “So che ieri quell’anima bella di Vlahović ti ha condotto nella sua tana. Una modo spregevole di condurre questa battaglia, ma, ahimè, purtroppo necessario.” Ci siamo avviati in direzione del mio albergo. “So che hai richiesto la presenza di Sara, oh, non ti stupire, ogni tua comunicazione viene letta da me prima di essere inoltrata, non vorremmo mai che, inesperto come sei, ti scape qualcosa di riservato, che so, il nome di una strada, di una persona, di un morto.” Ha i jeans attillati, una provocazione qui nella zona musulmana e gli occhiali scuri infilati tra i capelli sono marcatamente occidentali, ci noteranno, altro che riservatezza sui nomi. “Sara non verrà, ho cancellato la parte di messaggio che la riguardava, Sara non lavora per la televisione, né per Dix!” Non ha timori, questa ragazza, mi sta rimproverando senza alcuna diplomazia. “Sara è nello staff dei servizi segreti di Mladić, che è il Capo di stato maggiore dell’esercito serbo-bosniaco.” Ha chinato il capo, i capelli biondi divisi da una riga perfetta. “E tu non hai alcun diritto di distoglierla dai suoi doveri.”
“Visto che il suo capo sta qui prima o poi dovrà are da Sarajevo.” Ho indicato le montagne a est e a ovest della città, i luoghi dove è installata l’artiglieria pesante serbo-bosniaca e dove sono appostati i cecchini. “Se avesse letto il mio messaggio Sara si sarebbe precipitata.” “È proprio per questo che l’ho cancellato!” Ride di gusto Danka, e non si spaventa per un uno-due di obice che demolisce il muro di un giardino a qualche decina di metri da noi. “Sara sta dove si trova e tu continua nel tuo lavoro, ti do una indicazione importante, questo pomeriggio una ragazza serba che vive qui nella zona governativa sposa un soldato attualmente al fronte che ha avuto una breve licenza per il matrimonio.” “Non capisco, Danka.” “Lavori o non lavori per Dix?” Ha gli occhi furbi, questa ragazza, verdi, chiarissimi. “Dunque prendi al volo l’occasione, il soldato domani mattina torna al reparto, a nord, verso il confine tra la Bosnia e la Serbia, presidia le enclavi musulmane, una occasione d’oro per far avere messaggi e o documenti o che altro serve a Dix ai suoi contatti lassù.” “Dovrei sentire Dix.” “Ho disponibile un telefono satellitare, lo chiamiamo e nel pomeriggio ti accompagno al matrimonio, la sposa è una mia conoscente, parleremo con il marito, non ci saranno difficoltà.”
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Dopo il matrimonio Danka mi ha chiesto se le permettevo di salire in camera con me. “In camera mia?” Sono stupito, Danka è alta, è bella e ha vent’anni meno di me. “Sì, sco” la voce incrinata, è emozionata, è vicinissima, le sue labbra accanto alle mie. “In camera tua. Sara mi ha raccontato di voi, e mi ha chiesto di sorvegliarti e di accudirti.”
“Non credo ti abbia suggerito di salire in camera mia.” “Siamo compagne, due combattenti.” “Io sono il suo uomo.” “Potresti morire domani, o ricevere adesso la notizia della morte di Sara.” “Sono vivo, Danka.” “Mi piaci molto, italiano. Sei un uomo stupendo.” Danka ride mentre bacia ed anche mentre fa l’amore. È una bella donna, simpatica e si considera una cittadina a pieno titolo sia della comunità multiculturale sarajevese sia di quella serbo-bosniaca, ha scelto la seconda anima e lavora disciplinatamente per Milošević e Karadžić, ha due fratelli al fronte e un padre rimasto prigioniero in Croazia, ma non smette di credere che quando gli animi saranno sbolliti lei continuerà a vivere nell’ambiente tollerante e pacifico della Sarajevo prebellica. Le ho detto che avevo bisogno di un favore. Si è staccata dalla mia spalla e si è messa seduta sul letto a gambe incrociate. “Prova a dire.” Voce seria, è molto attenta, si copre il seno con un braccio. “Riguarda Sara.” “Che c’entra Sara adesso?” Si copre con il lenzuolo, tono risentito. “Mi serve sapere perché, lei musulmana, resistente palestinese, paladina araba, ha scelto di stare con Milošević.” “Domandalo a lei.” “L’ho fatto, e non mi ha risposto.” “E come vuoi che io possa saperlo?” “Sara è tua amica, per molti mesi, a Belgrado, vi siete frequentate, sei stata sua ospite, avete parlato, tu sai.” Si è alzata, avvolta nel lenzuolo, acchiappa i suoi abiti e si dirige verso il bagno.
“È un argomento del quale non abbiamo mai discusso.” “Non ci credo, come è possibile non chiederlo? Sara è un’addetta dell’intelligence di Mladić, il peggior nemico delle genti di religione islamica, la stessa Sara che ha combattuto per la liberazione del popolo palestinese contro il sionismo, gli americani e gli occidentali in genere. C’è una contraddizione insanabile.” Mi parla dal bagno, a voce alta, in inglese, adesso. “Ti ripeto che non ne so nulla.” “Forse puoi immaginare il motivo, non è credibile che Sara non si sia mai confidata con te.” È qui, ora, vestita, sta indossando la giacca a vento, mentre infila i guanti e calza il berretto. “Non so risponderti. Domandalo a lei.” Chiude la cerniera della giacca e stringe la sciarpa, è pronta per uscire. “Se vuoi Sara te la faccio arrivare” grida, in inglese, per non farsi capire da eventuali orecchie indiscrete. “Anche domani.” “Mi basta conoscere le ragioni della sua scelta, io ne ho immaginate molte, ma sono certo che nessuna di esse sia quella giusta.” “Io devo andare, ne discuterai con lei, se mai vorrà venire.” Uscita, ascolto i i svelti degli scarponcini appena attutiti dalla atoia consunta del pianerottolo e lo scalpiccio giù dalle scale, corre veloce Danka, torna a Grbavica, nell’appartamento gelido, disciplinata, in attesa di nuovi ordini.
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Il 28, venerdì, Danka mi ha fatto pervenire un messaggio alla reception. “Richiesta presenza Schneider. Stop. Attendo risposta. Stop.” Schneider, non sono ancora abituato a riconoscere il nuovo cognome di Sara.
Sono uscito molto presto, direzione aeroporto, il tunnel sotto la pista, Dix mi aveva chiesto di effettuare una perlustrazione. Per entrarvi sono stato in fila l’intera mattina e sono stato costretto a pagare un pedaggio a un miliziano. Nella galleria ho camminato alle spalle di un uomo che trasportava uno zaino alto e largo quasi esattamente quanto il tunnel stesso, un contrabbandiere, credo, abituale frequentatore della galleria, una parte cospicua dei rifornimenti alimentari della città infatti dipende ormai da questo canale di comunicazione. Dalla parte opposta, al riparo dalle postazioni serbe, ho giracchiato una decina di minuti, mi sono rimesso in coda e sono rientrato. Il 29 ho ricevuto un messaggio da Dix: “Saremo lì domani” e uno da Sara “Non vengo.” Quella sera dalla reception hanno chiamato per informarmi che una signorina mi attende, è Danka, stretta in un abito blu scuro, lungo sino alle caviglie e chiuso da una doppia fila di piccoli bottoni bianchi, stivali bassi scamosciati, neri e i capelli a crocchia. Sa che Sara non verrà. “Sei magnifico, italiano, io ti adoro” e ha ricevuto la notizia dell’arrivo di Dix. “Come hai conosciuto Dix?” “In Italia, nel 1973.” “Lo sai che Dix è uno dei boss del contrabbando jugoslavo, io credo che su tutte le merci che in qualche modo ano di mano in questa zona del mondo, si tratti di benzina, o prosciutto, o vernice, o donne, o armi, o roba, lui abbia una percentuale.” “Lo so, lavoro per lui.” Ha terminato di abbottonarsi e si piega per infilarsi gli stivaletti. “Forse non conosci i numeri, Dix dà direttamente lavoro ad almeno cinquecento persone, sparse tra la Croazia, la Serbia, la Bosnia, l’Italia e il Montenegro. Ti rendi conto che Milošević stesso lo chiama per le sue esigenze personali e famigliari?” “Domani lo conoscerai, trovati qui alle tredici, andiamo a pranzo insieme, decidi tu dove.” Ha chiuso al collo con una fibbia dorata la spessa mantella nera di lana che indossa sopra l’abito blu, mi ha baciato con trasporto dentro la bocca. “Ti amo, italiano. Sei magnifico.”
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Appena arrivato a Belgrado Dix mi aveva spiegato ogni dettaglio della sua attività, dopo gli anni montenegrini, dedicati soprattutto, ma non solo, al contrabbando di sigarette si era spostato in Croazia prima e poi, nel ‘91, in Serbia, le opportunità che la guerra incipiente offrivano erano straordinarie, gongolava, quando ne parlava, era felice, amava quella vita, il rischio, il denaro, il lusso, le donne, con Giulio il sodalizio era solido e collaudato, un perfetto secondo che rendeva operativi i suoi progetti e le sue decisioni. Giulio si occupava dei lavori sporchi, regolamenti di conti con altre bande, operazioni di pressione sui fornitori, sui militari, sui caschi blu, sui doganieri, sui politici, aveva a disposizione una forza di alcune centinaia di energumeni, feccia, spiegava Dix, ex galeotti, delinquenti comuni, ex terroristi di ogni nazionalità, che provvedevano materialmente all’esecuzione degli ordini di Giulio. Queste erano notizie che io non avevo realmente ascoltato, che cancellassi l’informazione, che mi godessi la villa, l’agiatezza e la compagnia degli amici, che svolgessi bene i miei due mestieri, quello ufficiale e quello clandestino, e nulla sarebbe mai venuto a turbare le mie giornate. E così è stato, residenza nella splendida mansarda della villa di Dix, partecipazione agli incontri organizzativi del lunedì e del sabato mattina, facce pulite, veri manager, addetti stampa, e qualche politico, quando era utile. Il mio incarico era di natura operativa, approfittando delle trasferte delle troupe televisive oltre alle consegne di denaro, droga e armi e alla diffusione dei messaggi di istruzione agli emissari sul territorio riferivo a Dix informazioni in merito alla situazione sociale e militare delle zone visitate, alle condizioni delle strade e delle infrastrutture e, in particolare, a proposito dei suoi uomini, se apparivano soddisfatti, se si lamentavano o protestavano, se apparivano leali, se mi sembravo attenti e reattivi. I miei due lavori, discontinui e occasionali, mi concedevano molto tempo libero, giornate intere nelle quali potevo eggiare, andare al cinema, fermarmi nei locali, incontrare persone, parlare. Avevo imparato la lingua, riuscivo a sostenere conversazioni complesse senza tradire la mia origine straniera, e quando qualcuno riconosceva le mie esitazioni verbali il romanzo della famiglia emigrata in Italia era sempre pronto per essere
aperto. La sera cenavo a casa, con Dix, Giulio e Iris, un gruppo affiatato, serate gradevoli, simpatiche, ascoltavamo musica rock degli anni ‘70 e spesso Iris suonava la chitarra e cantava, in un ottimo inglese. Un paio di volte a settimana dormivo con Sara, ma poco prima dell’alba rientravo, Sara me lo aveva espressamente richiesto, al mattino desiderava svegliarsi da sola.
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Quando, al nostro primo incontro, mi aveva invitato a trascorrere la notte con lei, non avevo avuto dubbi, Sara, la donna più bella, conoscevo il suo odore, quello che avevo respirato nei quattro anni americani, forte, selvatico, la consistenza ambrata e compatta dell’epidermide, i capelli nerissimi, folti. Avevo progressivamente cessato di chiedermi per quali motivi si trovasse lì, tanto lontana dal suo habitat, e perché avesse scelto di stare al servizio di Mladić, il più efferato assassino dei suoi correligionari, avevo smesso di indagare su quale effettivamente fosse la sua attività, che sapevo essere connessa con i servizi di intelligence. Dopo qualche settimana avevo perso interesse a conoscere le risposte, mi bastava essere accolto tra le sue gambe, nel calore della sua femminilità, restare incollato al suo corpo, per ore, nella veglia e nel sonno, in uno stato continuo di abbandono e di intimità. Sara, centro del mondo, Laura, Silvana, Matteo, Santo, il segretario, visioni fugaci, mondi perduti, dimenticati, o smarriti, in quel momento lei era lì, con me. Frequentava altri uomini, era stata lei stessa a confessarlo, con lucidità e serenità, in pace, che comprendessi, che fossi lungimirante, e paziente, la ritrovavo dopo un percorso difficile, lungo e pericoloso, al limite tra la vita e la morte, annegata dentro a miserie e sofferenze inimmaginabili, dinnanzi a questo, alla valanga della sua vita, quale era la rilevanza che assumeva un maschio nel suo letto, quale significato di fronte alla povertà e al sangue che aveva calpestato per vent’anni. Ero felice di averla e non provavo alcun senso di fastidio nel sapere che altri rendessero omaggio alla sua bellezza, lei era mia, per quelle ore, in quel piccolo appartamento al primo piano di un condominio popolare, le persiane da riverniciare, le porte cigolanti, la vecchia stufa che non riscaldava, il letto piccolo e inclinato di lato, se avesse accettato l’ospitalità di Dix avrebbe vissuto da aristocratica, al caldo e nel pulito, no, lei amava la solitudine nella bruttezza
di quel bilocale umido, con la tazza del cesso venata che colava untume e il lavandino vetusto, rovinato dalle crepe. Dopo aver fatto l’amore, Sara si rannicchiava nuda sotto le coperte e abbracciava il cuscino, insensibile allo squallore e alla sciatteria di quel luogo. Avvertivo la pace di quel momento, e la continuità con altre, antiche, contingenze, fasi della mia esistenza che si saldavano con questo, recentissimo, momento belgradese, la sua vicinanza, come nei quattro anni americani, mi regalava la pienezza, un liquido bollente, da sorseggiare piano. Anche Sara era appagata, tastavo ingordo la sua intimità profonda, percepivo la sua serenità, prevedevo il suo sorriso e godevo della sua sazietà, senza interruzioni. Non mi sono mai chiesto se anche con altri, la notte prima o quella dopo, raggiungesse questo stato di beatitudine, ero così felice che non ho mai avuto interesse nel domandarmelo.
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Il 30 gennaio del ‘94, alle otto del mattino, i colpi alla porta della camera del mio albergo di Sarajevo sono violenti, è legno vecchio, non resisterà, un attimo prima che venisse sfondata ho gridato che era aperta, un secondo, forse due, Dix e Giulio sono schierati davanti al letto. Ridono, si danno vicendevolmente pacche sulle spalle. “Di nuovo insieme, sco, che meraviglia.” È Giulio che parla, Dix si è tuffato sul letto, mi sale addosso, mi picchia sulla schiena. “Amico mio, amico mio, se tu sapessi, parlo delle donne, le mie e di Giulio, una fila che arriverebbe sino sul monte Igman, di tutti i colori, alte, basse, cattoliche, ortodosse, musulmane, buddiste, madri, figlie, madri con le figlie, sorelle con le sorelle, una processione, non hai idea.” Con i pugni preme sulle scapole, fa male, non riesco a parlare. “Siamo di aggio, esigenze di servizio.” Indossano l’uniforme degli ufficiali dell’esercito serbo-bosniaco, Dix colonnello e Giulio maggiore. “Sì, osserva con attenzione le nostre divise, e poi dimenticale, sono false!” Parlano a voce alta, hanno certamente tirato coca, riconosco gli occhi rotondi di Dix quando è fatto. “Saremo impegnati per l’intera giornata, se rientriamo in tempo si cena insieme!” Ha fatto un cenno a Giulio che è andato a chiudere la porta. “Abbiamo bisogno del tuo aiuto!” È il Dix di vent’anni fa, attivo, deciso, prepotente.
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Tra il 31 gennaio e il 2 febbraio, seguendo le istruzioni di Dix, che mi ha fatto ottenere dalla direzione della televisione il permesso di assentarmi qualche giorno, ho effettuato una lunga visita alle postazioni serbo-bosniache sulle colline intorno alla città, dormendo due notti nei ricoveri militari annessi alle piattaforme dell’artiglieria pesante, parlando con i soldati, incontrando i loro ufficiali ed anche, per qualche minuto, Mladić, il loro comandante in capo, il principale di Sara. Quando mi è venuto incontro in una radura nascosta tra i boschi, uscendo dal container dove è sistemato il comando di zona, ho avuto l’esatta percezione della potenza del mio amico Dix, far scomodare il tenente generale Mladić per salutare un autista, un uomo abituato a snobbare senza paura i potenti europei e americani che lascia il suo posto di comando per andare incontro a un qualunque Nikolin, autista. È basso di statura, corpulento e dai movimenti pachidermici, tradisce puzza di famiglia contadina, uomini e donne che hanno trascorso l’esistenza chini a zappare questa terra avara. Mi ha raggiunto caracollando lungo il pratino in discesa e mi ha stretto la mano, trattenendola a lungo nella sua. “Belgrado, che nostalgia. So che lei vive lì.” Che sapesse? Che Sara gli avesse detto di me? “Vengo spesso a Belgrado, ho un alloggio in centro, perché non si sente con la mia assistente? Potremo cenare insieme, una sera.” Mi ha lasciato la mano, non prima di ritirare il bigliettino che gli avevo fatto scivolare tra le dita, e si è allontanato bruscamente, è impegnato, grida a un soldato di spostare la Jeep più indietro, per sicurezza e grida al suo aiutante maggiore di ricordargli che quella sera ha una cena a Pale alla quale non può mancare. Sara, perché non sei qui? Ho bisogno di te, della tua forza e della tua protezione. È difficile restare integri dentro questo ingorgo di genti e di fatti, questa confusione tra religione, nazionalità, malaffare e sangue, tu hai il potere di offrirmi equilibrio, il tuo calore mi rasserena e mi aiuta a non pormi le domande alle quali è impossibile rispondere, che faccio qui, e che obbiettivi perseguo, quest’anno compirò quarantacinque anni, sono italiano, potrei tornare quando lo volessi, là mi considerano scomparso, o morto, Santo avrà attivato le ricerche, lui mi vuole bene, ha mosso e sta muovendo mari e monti, ma non può trovarmi,
io non esisto più, non ho cittadinanza, né residenza, il mio nome non compare pubblicamente, le mie tracce sono impossibili da seguire. Sara, nella maturità e nell’esperienza dei quarant’anni di una donna che ha navigato molto, quando mi stringe tra le sue gambe, avverto nitida la sua solidarietà, la sua disperazione e il suo coraggio, sono come te, Chicco, uguale, una naufraga, tieniti stretto ai miei fianchi, non correrai il rischio di smarrirti. Perché non è qui con me, travestita da soldato, nei bivacchi sotto le canne degli obici puntati su Sarajevo, a farsi mangiare con gli occhi da questi ragazzi soldati che trascorrono le giornate storditi dall’alcool e dal fumo, il cui unico diversivo è sparare qualche colpo di cannone e cimentarsi nello sport del cecchino infallibile, se lei fosse stata qui avrebbe aggiunto un elemento di sapienza alla mia disperazione di fronte a questo conflitto che più trascorre il tempo più assomiglia a quella che sarà la guerra finale che distruggerà il genere umano, sì, Sara, se tu fossi qui non sbaglierei strada, resterei diritto, ad ascoltare, a valutare, ad esaminare a capire. Invece mi sono immedesimato, ho mangiato lo stesso cibo della truppa, ho bevuto la stessa grappa e ho provato anch’io a tirare un colpo su un uomo che camminava sul viale dei cecchini, mancandolo di una decina di metri, circostanza che ha scatenato nel plotone una ilarità irresistibile, poi mi sono ubriacato, e sono stato male, i soldati hanno chiamato il medico, il quale, ridendo, mi ha obbligato a ingurgitare un beverone che mi ha procurato un vomito inarrestabile. La notte del 2, su una barella trasportata a braccia mi hanno riportato alla periferia di Sarajevo, una ambulanza mi attendeva per condurmi al mio albergo, dove a fatica sono riuscito a salire le scale da solo per crollare vestito sul letto.
* * *
Danka, già informata, è arrivata al mattino presto rimanendo ad assistermi per l’intera giornata, la sera ha fatto salire la cena in camera, sono riuscito a inghiottire solo qualche pezzetto di pane e formaggio, avevo dolori dappertutto, Danka ha trascorso la notte accarezzandomi sulla testa e sulle spalle. Il 4, era un venerdì, mi sono svegliato all’alba, guarito e pieno di energie, Danka coricata vicino a me, l’ho baciata.
“Bene, campione...” mormora sottovoce “Benissimo, oggi è indispensabile uscire, ci attende un compito importante...” Senza staccarsi dalle mie labbra si è spogliata. “Abbiamo tempo, quello che ci serve, mi sei mancato, molto.” Più tardi, verso le nove, siamo usciti, destinazione il mercato di Markale. Camminiamo, tra le stradette della città vecchia, c’è molta gente, il bombardamento è continuo, ma solo quando i colpi cadono molto vicini le persone sembrano impensierirsi, si respira un’aria di strana normalità. “Perché il mercato di Markale?” ho chiesto a Danka, oggi in divisa da suffragetta, gonna scura sotto il ginocchio, tacco basso e cardigan grigio. “Sopralluogo, è uno dei possibili obbiettivi.” “Non capisco.” “Sei stato mandato qui per qualche motivo, spero tu non te ne sia scordato. E Markale è una delle aree rosse, quelle dove potrebbe succedere qualcosa.” “Che cosa? E quando?” Non mi ha risposto, mi ha preso mano e mi ha fatto cenno di tacere. Procedendo in silenzio siamo arrivati alla piazza del mercato di Markale, uno spazio modesto, incuneato tra le case. “Ti ricordi, il 27 maggio del 1992, un evento che ha avuto rilevanza mondiale, nella via Vaso Miskin, quando i musulmani hanno sacrificato la propria gente, beh via Miskin è a 150 metri da qui.” “Non è certo, Danka, non è un fatto sicuro è solo un’ipotesi.” “Non è una ipotesi, sco, è la verità!” Si è fermata, mi fissa negli occhi. “Sono stati loro, a uccidere i loro stessi correligionari, per provocare la riprovazione degli occidentali verso noi serbi .” “Danka, c’è una differenza tra la realtà e il modo nella quale viene descritta.” “In quel caso non c’è stata alcuna differenza, nessuna.” Abbiamo ripreso a camminare, lei davanti, rasenti ai muri, in silenzio.
“C’è il timore di un nuovo attentato?” le ho chiesto sottovoce. “Sì, la nostra intelligence, una parolona per il modestissimo apparato che possediamo qui, ha captato dei segnali, ed essi dicono che qui nella città vecchia potrebbe accadere qualcosa. Ma oggi, rispetto alla bomba di via Miskin nel ‘92 l’effetto sarebbe disastroso, la NATO sarebbe autorizzata ad attaccare, oppure l’ONU potrebbe imporre sanzioni o chissà che altro contro di noi.” Sostiamo nella piazza, qualche bancarella, poche persone, è domani, sabato, il giorno di massimo affollamento. “Sei certa che sia per domani?” “No, ma la possibilità è concreta.” “Strano, domani, 5 febbraio, non è una ricorrenza religiosa, e neppure l’anniversario di qualche evento di questa guerra.” Siamo rimasti nella piazza per un quarto d’ora, poi abbiamo giracchiato per le stradine accanto, ho acquistato un telo colorato in un negozietto microscopico tenuto da un anziano musulmano, sopra di noi transitano a bassa quota gli aerei NATO, sono rumorosi, insistenti e minacciosi. “Certo che se domani succede qualcosa di grosso questi...” Ho detto a Danka alzando gli occhi al cielo. “Questi in venti minuti polverizzano le nostre posizioni in montagna.” Mi ha baciato, sulla bocca, senza vergogna, senza paura. “Andiamo a mangiare, mio splendido italiano, vieni, qui vicino, c’è un arabo che cucina delle meraviglie. E dopo ti accompagno in albergo, devi riposare, mio grande uomo.” Mi ha baciato ancora, senza badare agli sguardi sbalorditi delle donne, e soprattutto degli uomini che affollano la piazza, e io mi sono lasciato baciare, Danka è stupenda, e io mi sento perduto, abbandonato, solo. Se solo ci fosse Sara!
* * *
È arrivata quella notte, alle tre e mezza, in tuta mimetica, fradicia, sporca di
fango, tremava, Danka le ha aperto senza rivestirsi, sono state a lungo abbracciate, gocciola acqua e terra a sguazzo, è scossa, pallida, riesce appena a parlare, Danka l’aiuta a spogliarsi, la stufetta elettrica è inutilizzabile perché questa notte non c’è corrente, in bagno l’acqua è fredda, Danka la spoglia, la lava e la asciuga con cura, la stringe dentro gli asciugamani, l’avvolge dentro le coperte, la friziona con energia sulle spalle e sulle gambe, l’aiuta a sedersi sul letto, mi fa intendere che devo togliermi di mezzo, la distende e si allunga accanto a lei, per scaldarla con il suo corpo. Con due maglioni, il berretto di lana, i guanti e il giaccone io stesso sono gelato, non ci sono più coperte, attendere l’alba seduto in poltrona in questo stato sarà molto duro. Danka ha infilato Sara sotto le lenzuola, ora è qui, davanti a me, in piedi. “Sciocco, perché ti sei rivestito?” “Avevo freddo.” Ha indicato il letto e Sara, già addormentata, coricata sul fianco. “Ha bisogno di calore!” Tiene la mano sulla maniglia “Ha bisogno di te.” “E tu?” “Vado da una amica.” È già sul pianerottolo. “Ci vediamo alle nove.” Ho accennato alla stanza. “No, sotto, nella sala della colazione.”
* * *
Ho dormito con Sara, mi sono svegliato con lei, è felice di avermi lì, mi bacia sul naso e mi scompiglia i capelli, non ha più freddo, adesso. “sco, è stato un viaggio tremendo, no, non abbiamo subito imboscate, il tempo, il freddo, soprattutto alla fine, per scendere qui in città, a piedi nel bosco, senza luci per non correre il rischio di essere individuati.” Alle sei del mattino, dopo appena un paio d’ore di sonno, è fresca, attiva, carica, si è lavata sotto la doccia insensibile all’acqua gelida e, dopo, per una buona mezzora, si è asciugata e pettinata i capelli, dunque ha perlustrato la camera
aprendo gli armadi e rovistando nei cassetti, è curiosa di sapere per quale motivo non ci sono scarponi pesanti, guanti di lana, maglioni e giacche imbottite, indispensabili per una fuga sulle montagne, eventualità da non scartare, soprattutto in giornate come quelle. “Che sai di queste giornate?” le ho domandato. È in accappatoio, i piedi con le unghie della dita curatissime dentro le mie ciabatte di gomma, apre un momento la finestra, la richiude. “Nulla di speciale, succederà qualcosa, oggi o domani.” “La tua presenza a Sarajevo ha un significato, altrimenti non ti avrebbero mandato qui.” “Sai Chicco, a me non ‘mi mandano’, sono io che mi mando da sola.” Si è allungata sul letto, è una donna magnifica, l’età l’ha resa ancora più attraente, carica dell’odore dell’esperienza di uomini, di notti bianche, di tende affollate, di promiscuità, di marce nel fango, di cibo cattivo. “Anche tu hai un capo.” “Sì, è vero, ma dipendo direttamente da lui, e Mladić non c’è quasi mai.” “Ci sono i telefoni, i fax, i telegrammi.” “Mladić è impegnato, non ha tempo da dedicarmi, così abbiamo concordato delle linee di azione e in assenza di comandi precisi, e all’interno di determinati limiti, sono autonoma.” “Mladić. Tu sai chi è il tuo comandante.” “Tenente generale Ratko Mladić, Capo di stato maggiore delle forze serbobosniache.” “Il peggior assassino di musulmani attualmente in circolazione, sai di certo anche questo.” Si è voltata su un fianco, porgendomi la schiena. È rimasta a lungo in silenzio. “Te lo posso dire, adesso, ho visto cose, negli ultimi dieci anni, che non immaginavo, e sono rimasta delusa, anzi, mortificata, ho combattuto una intera
vita per degli ideali, ma la realtà, quella dura e vera, è diversa.” “Stai parlando...” Si è voltata, è qui con la bocca vicinissima alla mia “Ho già parlato troppo, e tu hai capito, non farmi domande, servirebbero solo a far diventare più acuto il mio dolore.” Mi accarezza sui capelli, abbiamo tempo, l’appuntamento con Danka è alle nove.
* * *
La mattina del 5 febbraio, a Sarajevo il cielo è coperto, mentre prendiamo la colazione nella sala fredda e priva di luce elettrica dell’albergo, Danka, in pantaloni e maglione girocollo, ascolta le esplosioni e ci aggiorna sul tipo di proiettile e sulla distanza di caduta. “Mortaio da 120, sud est, un chilometro.” Non è allegra, anche se ostenta un sorriso largo, non è inquieta, né preoccupata, determinata, piuttosto, consapevole che questa può essere una giornata speciale. “Dormito bene?” ha chiesto a Sara, anche lei in borghese, jeans, scarpe da ginnastica, camicia marrone e golf grigio. L’ha accarezzata e baciata, Sara la ricambia, è dolcissima, con lei. “Bene, e grazie per ieri sera, ero congelata, grazie ancora.” Comunicano direttamente tra loro, io sono escluso, hanno moine da farsi, complimenti, tenerezze, le ascolto, non solo soldati schierati dalla medesima parte, amiche, anche, e sorelle, preoccupate per l’incolumità e la serenità dell’altra. Alle nove e trenta Danka ha suggerito di muoversi, a quell’ora era previsto un movimento alla sinagoga, perché, oltre ai serbi, i croati e i musulmani questa città ospita anche cittadini ebrei. Si tratta della fuoriuscita dall’assedio di vecchi, malati e di qualche donna con bambini, un esodo contrattato con gli assedianti: tanti ebrei, tanti serbi, tanti musulmani. Ci siamo sistemati nei pressi del tempio, le famiglie arrivano a piedi e lì si
separano, chi parte entra per il controllo dei documenti, mentre i parenti rimangono all’esterno, dal lato opposto della strada. La milizia cittadina mantiene l’ordine, evitando che chi non è autorizzato si confonda con chi è destinato a lasciare la città. Poi sono arrivate delle corriere, scassate e cigolanti, un ufficiale ha chiamato l’appello, scacciando quelli che non sono in elenco e mandando via i famigliari che cercano un ultimo abbraccio, dunque gli autobus si sono mossi, salutati dallo sventolio delle mani dei parenti e degli amici. “Povera gente!” ha detto Sara. “Mica tanto poveri, per quello...” ha riso Danka. “Qui gli ebrei hanno fatto fortuna, la metà della ricchezza è nelle loro mani.” “Ne sei sicura?” Gli ha chiesto Sara prendendola delicatamente per mano. “A me questo spettacolo ricorda i film che ho visto sulla Seconda Guerra Mondiale” Danka non le ha risposto, è si è fatta guidare dall’amica in direzione del centro città. “Dove si va adesso?” “Alle undici c’è la prima di un film, un regista giovane, nuovo, un talento, dicono” ha spiegato Danka. “Siamo sicuri?” ho ribattuto. “In una giornata come questa? Chiuderci dentro un cinema?” Sara non ha avuto esitazioni e ha subito seguito l’amica, quando è così innamorata, quando mi cammina accanto chiedendomi di abbracciarla, quando si incolla al mio fianco e mi trasmette il suo calore, la sua forza, l’emozione della sua intimità, io obbedisco, la seguo, senza protestare. La sala è affollata, abbiamo trovato solo un po’ di posto per stare in piedi, e riusciamo a inquadrare una metà scarsa dello schermo, la trama del film è sconclusionata, o forse non avevo la pazienza per seguirla, sono uscito, rientrato e poi uscito di nuovo, all’esterno ascoltavo le esplosioni, qualcuno mi aveva detto che nei due anni di assedio la media delle bombe cadute sulla città è stata di circa 350 al giorno, quindici ogni ora, una ogni quattro minuti e così cercavo di capire se erano frequenti e forti come al solito o se quella fosse una giornata straordinaria. Gli aerei NATO proseguono nelle loro scorribande sulle nostre
teste, un altro suono che è diventato famigliare e che non incute più preoccupazione. A mezzogiorno ho convinto Sara e Danka a lasciare il cinema. “Perché, era così interessante...” ha protestato Sara. “È vero era coinvolgente, e molto istruttivo” si è lamentata Danka. “Guardate, lì, sì, all’incrocio, è una troupe televisiva, americana, direi, in questa ultima mezzora ne ho viste altre due, una tedesca e una se, filmano il centro, le persone, i negozi, non vi insospettisce questo affollamento mediatico? È strano che la mia troupe non mi abbia chiamato, il mio permesso scade domani ma per le emergenze i permessi saltano, l’unica spiegazione plausibile è che abbiano trovato un altro autista.” “Forse davvero è oggi il giorno!” Sara fissa con attenzione il cameraman della televisione americana, nota che nella carrellata che sta effettuando verremo coinvolti anche noi ed è svelta a nascondersi dietro di me, volgendo il viso dalla parte opposta. “Nessuna traccia, io non sono qui, il mio capo mi taglia una mano se mi vede in televisione.” “È possibile, i dettagli corrispondono, gli aerei NATO, le televisioni straniere, il giorno, uno qualsiasi, non connesso ad alcuna ricorrenza. Stiamo attenti, camminiamo lungo i muri delle case, è meno pericoloso” Danka mostra apprensione, è agitata, si muove a scatti, cerca di infilare le mani dentro le tasche posteriori dei pantaloni.” Proseguiamo in fila indiana, leggermente curvi, incollati alle pareti delle case e alle vetrine dei negozi. Danka si è fermata, è stata raggiunta da una coppia, non li vedo in viso, tengono le teste chine e gli occhi bassi, parlottano, poche decine di secondi, poi i due si allontanano frettolosamente. “Chi erano?” le ha domandato Sara. “Sono delle squadre di o, anche loro dicono che i segnali sono molto espliciti.” Si ferma, mi fissa, è tesa, preoccupata. “Da due anni, vi confesso, ogni giorno si rilevano indizi inequivocabili di eventi straordinari, e quando i segnali vengono classificati come assolutamente certi minore è la possibilità che accada qualcosa. Non è filosofia, è statistica.”
“Allora tra un po’ andiamo a pranzo” ha detto Sara. “Non faccio un pasto decente da tre giorni. Che ora è adesso?” “Quasi mezzogiorno e mezza. Procediamo in questo modo, si va sino alla moschea, poi si ritorna qui e si va a pranzo, c’è un posto che non conoscete, un arabo vero, un siriano, cucina d’alto livello.” Danka sembra allegra, avanza spedita davanti a noi, per tenerle dietro abbiamo dovuto accelerare. “Concordo, ragazze, e offro io.” “No, non se ne parla” Sarà è felice, mi tiene per mano. “Tocca a me, ho le spese pagate.” “Allora...” ha iniziato a rispondere Danka
* * *
Allora, al termine del vicoletto che dalla Vase Miskina porta verso piazza Markale, quella del mercato, abbiamo sentito qualcosa che era diverso, un fischio, un sibilo, che forse le persone che affollano il mercato non hanno potuto distinguere nella cacofonia delle contrattazioni e nel rumore di fondo delle esplosioni lontane. È l’avviso della caduta di un proiettile di grosso calibro, piombato nella ressa, tra banchi e i carretti, noi a pochi metri dall’angolo della via Tito, è stato l’angolo a salvarci, un colpo di enorme potenza, l’onda d’urto ci ha scaraventato a terra, Danka addosso a Sara ed entrambe addosso a me. Rialzati di furia, di corsa verso la piazza colpita, il proiettile ha provocato una carneficina, sono in molti ad avvicinarsi ai feriti, alcuni guardinghi, attenti a non sporcarsi, altri frenetici, che agguantano i corpi di quelli ancora vivi e li trascinano ai bordi della piazza, là dove stanno per arrivare le ambulanze, qualcuno ha la propria auto e grida per farsi aiutare a caricarvi il maggior numero possibile di feriti. Accorrono affannati, commessi dei negozi, inservienti dei ristoranti, operai della manutenzione stradale, sentiamo i clacson e le sirene, tra pochissimo qui sarà pieno di soldati, infermieri, medici, volontari. Non sento, orecchie tappate,
immagini folgoranti, uomini e donne che si muovono, si alzano, si spostano, gridano, in un silenzio impressionante. I soldati si presentano dopo una decina di minuti, sono cortesi, ci chiedono se siamo feriti, ci spingono fuori dalla zona del macello, altri militari stanno creando un cordone per trattenere i curiosi, non riesco ancora a sentire i suoni, c’è silenzio, anche se vedo gente gridare, auto arrivare e partire, ufficiali che impartiscono ordini. Sara mi ha accarezzato sul collo. “sco, amore mio.” Ora sento, un rumore spaventoso, sono centinaia di persone che parlano e urlano, tutti insieme. “Ascoltami con attenzione, quando esplode un obice le schegge vengono scagliate in tutte le direzioni, di lato e verso l’alto, hai presente quando getti un grosso sasso in un lago, ecco, gli spruzzi si disperdono dappertutto. Guardami, Chicco, stai concentrato, per favore. Hai visto quei morti, solo ferite nella parte bassa del corpo, se fosse stato un colpo di mortaio questo non sarebbe accaduto perché anche l’addome e la testa sarebbero stati colpiti, le ferite che hanno riportato questi poveretti sono causati dall’esplosione di ordigni esplosi in basso, un metro da terra, anche meno, là per esempio.” Su uno dei lati della piazza ha indicato dei tavolacci ribaltati e in parte distrutti, che si intuisce come prima dell’esplosione fossero allineati. “Là, sotto quei tavoli, una bomba a tempo, o forse più bombe. Non è stato un colpo di mortaio, la sequenza la conosci, sibilo, lampo, esplosione, e qui così non è stato.” “Io il sibilo l’ho sentito.” “Io no, sco, te lo garantisco, ascolto esplosioni da vent’anni, e non mi sbaglio, credimi. E poi guarda ancora, si, laggiù, la vedi, è una chiesa ortodossa.” “E allora?” “Non sono stati i nostri, i nostri non corrono il rischio di distruggere le chiese, ci stanno attenti, il mio capo ha diramato istruzioni molto precise al proposito.” “E se non sono stati i nostri?” “E se non sono stati i nostri sono stati loro, i musulmani.” Ho indicato la piazza, il fermento degli offesi e dei loro soccorritori, le urla, le sirene delle ambulanze. “Avrebbero ucciso così la loro gente?” “Lo hanno già fatto, e poi...” mi ha indicato gli aerei che proseguono a sorvolare
a bassa quota la città. “Quelli non aspettano altro per bombardare le nostre postazioni sulle montagne. Capisci il gioco? Comprendi il meccanismo?” È furiosa, mi strattona per allontanarmi dal centro della piazza. “Ora corri ad avvertire Dix, è essenziale che sia informato su ciò che è successo veramente, Dix sa come comportarsi in questi casi, il dubbio che possa essere stato un autoattentato per lui è rilevante, sa come diffondere la notizia e sa come usarla per proteggere il suo lavoro.” Ha gli scarponcini sporchi di sangue, mi spinge verso una via laterale. “Ora va, Chicco, corri, io devo restare, ti amo, Chicco, ti amo.”
III
Rientro in Italia oggi, è il 22 luglio del 1995, un anno e mezzo dopo la strage del mercato di Markale, ho trascorso in questa zona del mondo più di tre anni, Zagabria, Mostar, Belgrado, Sarajevo, ne torno invecchiato, e spaventato, sì, invaso dalla paura, negli ultimi mesi ho provato sentimenti pessimistici, scarsa fiducia nel futuro, timore delle malattie, della fame, dei bombardamenti e da quando dieci giorni fa ho lasciato Belgrado ho scoperto che dentro di me si era sviluppata una forma avanzata di pessimismo, la vanità di ogni speranza, una raffinata forma di negazione di ogni possibilità di prosecuzione dell’esistenza. È stato un viaggio lungo e complicato, aggregato a Belgrado all’ultimo momento a un convoglio dell’ONU, attraverso l’Ungheria e l’Austria, ho ato il confine italiano a Tarvisio dieci giorni dopo, avevo i documenti in regola e sono stato lasciato davanti alla stazione ferroviaria di Udine, dunque un treno sino a Mestre, dove ho cambiato per Milano, avrei potuto avvisare Santo, a Budapest siamo stati fermi due giorni in un punto di smistamento della Croce Rossa, i telefoni c’erano, avevo i soldi, ma non ho chiamato nessuno. Alle otto di sera sono sbarcato in Stazione Centrale, e adesso sono qui, davanti al portone di casa di Santo, sera estiva, è molto caldo, sono vestito pesante, ora premo il pulsante del citofono accanto al nome inciso nell’ottone, Avv. Santo Tizzi, il mio amico Santo. Non ha aspettato che mi annunciassi, ha la voce allegra: “Sali!” In salotto la musica è alta e il vociare è fitto e rumoroso, è sabato sera, c’è una festa a casa di Santo. La temperatura è alta, in stazione il termometro segnava trentadue gradi, con la camicia di cotone pesante sudo anche restando fermo, non mi lavo da due giorni, ho sentito il clic del portone metallico, ho aperto e ho subito richiuso, non salirò alla festa di Santo. Sono tornato in stazione, ho denaro sufficiente, una ampia rimanenza di quanto avevo preso qui in Italia alla partenza, negli ultimi due anni a Belgrado non ho speso nulla di mio, ai miei bisogni, con generosità, ha provveduto Dix.
* * *
Cena in un ristorante in corso di Porta Romana, una delle mete preferite di Silvana, un luogo anonimo, tavoli e sedie di plastica, rossi i tavoli e blu le sedie, Silvana amava questo locale economico e ordinario, i camerieri che gridano le ordinazioni alla cucina, i piatti sporchi impilati sul bancone, la figlia del proprietario, addetta al bar, con il grembiule rosa e le ciabatte, e troppo rumore, nessuna intimità, tutti che sentono tutti, forse era per questo che lei insisteva per andarci. Ho ignorato più di tre anni di vita politica e sociale italiana, intercettando solo casualmente informazioni e notizie, la nomina di un nuovo Ministro degli esteri, piuttosto che un sondaggio sulle opinioni degli italiani in merito a quanto stava accadendo in Bosnia Erzegovina, sì, ricevevo notizie sparse e casuali, il vincitore del derby di Milano e del campionato di calcio, l’arresto di Totò Riina, il suicidio di Raul Gardini, i risultati delle elezioni del ‘94, l’alluvione ad Asti e Alessandria, pezzi di informazione scollegati l’uno dall’altro, frammenti, in realtà non provavo alcuna curiosità verso ciò che proveniva dall’Italia, non mi ero dimenticato, né cercavo di annullare il mio ato, piuttosto non mi avvertivo coinvolto, era una realtà che non mi apparteneva. Nel ristorante seguo il telegiornale allibito, gli anni belgradesi di assuefazione alla disinformazione del regime di Milošević hanno cambiato il mio modo di ascoltare le notizie e di registrare la realtà e la verità. Percepisco nomi di persone, descrizioni di eventi, date, città, atti del governo, votazioni del parlamento, emanazioni di decreti legge, attentati mafiosi, sentenze della magistratura, la reazione istintiva è quella di individuare il motivo per il quale quella notizia veniva rilasciata, chi l’abbia confezionata, chi ne tragga vantaggio, chi ne è il bersaglio e quali conseguenze può avere sulla popolazione, sulla società, sulla politica. Sono rimasto al tavolo a sorseggiare l’ultimo bicchiere di vino sino all’ora di chiusura, sono uscito in strada, la borsa di tela, malvestito, sudato, sono tornato, ma da chi? Rientrato nel ristorante chinandomi sotto la saracinesca abbassata a metà, ho chiesto di chiamare un taxi, in stazione, subito, forse sono ancora in tempo per l’ultimo treno per casa, sì, avrei ricominciato dalla mia città per annullare il disagio di questo ritorno. La Stazione Centrale, nessuna modifica, unta e ostile come era quando mi sono
trasferito a Milano, ormai quindici anni fa, è l’una e un quarto, troppo tardi, la stazione chiude per la notte, fuori i barboni, i bevitori, i tossici, i viaggiatori in ritardo, vietato trattenersi, si riapre alle cinque e un quarto, per il primo locale per Novara. Il parcheggio dei taxi è deserto, potrei chiamarne uno, o attendere con pazienza che arrivi, o prendere una stanza in uno degli alberghi davanti alla stazione, preferisco piuttosto eggiare lungo i corsi deserti, riprendere confidenza con la città, Alle sei mi sono infilato in un bar del centro, lo specchio del bagno rimanda una immagine devastata, barba lunga, occhi cisposi, spettinato, indosso i medesimi abiti da due settimane. Dopo ho camminato ancora, per i parchi e lungo il naviglio. Ho ripreso la strada per la stazione, che ho trovato chiusa, ho eggiato ancora, avanti e indietro per via Vittor Pisani, ho gettato via la borsa di tela, ora non ho davvero più nulla, neanche un paio di mutande di ricambio, neppure il rasoio e lo spazzolino da denti. Poco fa, mi sono impigliato in un gancio di ferro che fuoriusciva da un muro e ho strappato i pantaloni all’altezza del ginocchio, si vede la pelle.
* * *
Milano, 25 luglio, posso essere scambiato per un barbone e corro il serio rischio di venire intercettato dalla Polizia. Nei paesi della ex-Jugoslavia ho incontrato molti squilibrati, depressi e malinconici attribuire la responsabilità del loro stato alla guerra, potrei sostenerlo anch’io, ne ho assorbito gli effetti per più di tre anni, ho vissuto nell’occhio profondo del ciclone, e ho sofferto, come tanti altri la devastazione dell’intimità, della sensibilità e della ragione, ma non è questo il motivo per il quale oggi, qui, nella città del mio riscatto professionale, quella dove ho costruito una famiglia, dove ho conosciuto la donna che ho amato per un decennio, non è a causa della guerra che oggi, in questa calura violenta, mi ritrovo ad annaspare, topo che nuota nella botte e non riesce a risalirne i bordi bagnati. Sono io stesso che avevo dentro questa paralisi, questo desiderio di annullamento e di distruzione, lo possedevo prima di partire, e prima ancora che si profilasse l’idea che partissi, quando lo studio con Santo era prospero, le
prospettive professionali rosee, Silvana innamorata, Matteo bello e forte, già allora covavo questo uovo infetto, lo stesso che mi aveva portato via da Laura il giorno del matrimonio e da Sara dopo quattro anni di America, lo stesso che mi aveva fatto rincorrere Laura e, per lei, finire incarcerato per reato di favoreggiamento di terroristi. Dalla stazione mi sono spostato verso il centro, scelgo le strade secondarie, dove minore è la probabilità di imbattermi in una pattuglia della Polizia o, per qualche coincidenza astrale, di incontrare qualcuno che mi conosce, è possibile, sono stato un personaggio pubblico, conferenze stampa, apparizioni televisive, foto sui giornali. Ho deviato per avvicinarmi a casa mia, quella dove abitavo con Silvana e Matteo, eccola, hanno ridipinto la facciata, era più bello l’arancione pallido di allora piuttosto che questo turchese opaco che assomiglia al colore di un mare finto, sul citofono non c’è più il mio cognome, né quello di Silvana, una inquilina cortese mi spiega che la signora e suo figlio hanno traslocato un anno fa, sì, esattamente un anno prima, era piena estate, no, le dispiace, non sa dirmi dove siano andati, non hanno lasciato indicazioni al proposito. Non ho più il telefono cellulare italiano, l’ho gettato via nel ‘92 poco prima della mia partenza, e ieri ho gettato la borsa dove conservavo l’agenda con i numeri di telefono di Silvana e di Matteo. In piazza Duomo siedo sui gradini della cattedrale, lontano dall’ingresso principale, altrimenti i anti potrebbero pensare che stia chiedendo l’elemosina, mi resta Santo, lui c’è, e lui mi aiuterà. Il sole arroventa l’aria e il selciato, pochissimi turisti, che si affrettano verso l’ingresso per godere della frescura che offrono le navate. Ero a Belgrado, sino a due settimane fa.
* * *
A Belgrado vi ero tornato tre giorni dopo la strage al mercato di Markale, erano le sei e mezza del mattino, sapevo che Sara nella parte finale della notte ama restare sola ma sono andato lo stesso a trovarla. Il portone aperto, l’atrio di ingresso rischiarato da una debolissima lampadina appesa al soffitto per il suo filo, le scale di cemento grezzo e le pareti prive di intonaco, la porta dell’appartamento di legno inconsistente, sverniciata, corrosa dall’umidità, ho
bussato, la porta ha tremato sui cardini, nessuna risposta. Ho dormito poco, in questi ultimi tre giorni, un viaggio difficile, di notte, a fari spenti, per strade sterrate e carrarecce tra i monti, i soldati che scortavano la troupe televisiva tesi a cogliere i più piccoli segnali di pericolo, un rumore, una luce, il rombo di un aereo, una cannonata lontana, ho la barba lunga, sono sporco. Non ha risposto quando ho bussato la seconda volta, e dopo la terza ho rinunciato, era ancora buio, la villa di Dix distante quasi quattro chilometri, la metà in salita, pioviggina, le scarpe e le calze bagnate, e ho freddo. Ero in strada quando ho sentito la sua voce proveniente dalla camera da letto, i vetri sono tanto sottili e gli infissi così malandati che riesco a sentirla con le finestre chiuse. “Sali, Chicco, ora la porta è aperta.” Mi ha accolto abbracciandomi come forse si stringe il fratello miracolosamente sopravvissuto al terremoto, non si stacca, non mi lascia il tempo di togliermi gli abiti infangati e le scarpe fradice, mi vuole subito, così come sono, che forza, nei muscoli di questa piccola donna, braccia atletiche che tra i sussulti e i singhiozzi mi serrano al suo petto. “Sono spaventata, Chicco, è da Markale che ho paura, mi tremano le mani, non riesco a mangiare, non riesco a dormire.” Inchiodata addosso a me, una conchiglia chiusa attorno al mio corpo, le gambe intrecciate alle mie. “Ho sognato di averti qui, con tanta potenza che sentivo pulsare le tue vene nelle mie tempie, immaginando il percorso che avresti seguito per tornare contavo i chilometri e le ore, ho pregato perché tu decidessi di farti accompagnare qui, ti aspettavo, e adesso non ti permetterò di andare via da me.” Poco più tardi aveva ribadito il suo desiderio di avermi lì, con lei. Eravamo a letto, la sua testa appoggiata sul mio petto, le gambe intrecciate, fronte contro fronte, fuori una giornata livida, e all’interno, a causa di un blocco al riscaldamento, un freddo intenso, sul nostro letto gli spifferi di aria gelata che filtrano attraverso le fessure degli infissi. “Ne sei sicura? Mi vuoi veramente qui con te, giorno e notte?” “Sì, adesso sì.” “È per via di Markale.” “Anche!” Si era leggermente alzata sui gomiti. “E soprattutto perché ho bisogno di te, sco, la tensione è spaventosa e questa guerra non finisce mai.” È bella, i capelli corti che le lasciano il viso scoperto, le braccia tornite, gli occhi
scuri che mi cercano nella penombra della stanza gelida. “E i tuoi uomini? Saranno delusi di questa tua scelta.” Non mi aveva risposto, abbassando gli occhi e muovendo appena le spalle. “E non mi hai ancora spiegato i veri motivi che ti hanno portato a collaborare con i peggiori nemici del tuo popolo.” “Non è più il mio popolo, da molto tempo ormai.” “Allora è stato il tuo popolo a deluderti.” “La questione è complessa.” Ora risponde, ma evita di guardarmi “Ti hanno fatto del male?” “No, non esattamente.” Si è voltata, mi offre la schiena, parla in direzione del muro, molto piano, fatico a distinguere le parole. “Pressioni psicologiche? Ricatti? Ludibrio pubblico?” “In un certo senso.” “In che senso, Sara? Esattamente che cosa intendi dire? Che ti hanno fatto? Perché adesso li odi, i tuoi fratelli, palestinesi e arabi, i combattenti della tua stessa causa, i vessati dei campi profughi, le donne nelle tende polverose? Che è successo, Sara? Cosa può averti fatto cambiare idea, e bandiera? Sei stata a Sarajevo, hai visto come muore la tua gente, e tu stai con quelli che li uccidono.” “Anche tu, sco, stai da questa parte.” “Io sono un italiano, un fuggitivo, un osservatore, un turista, non mi chiamo Sara Habib, la differenza è enorme.” Non risponde, il viso schiacciato contro le lenzuola, il suo corpo scosso sotto la coltre delle coperte, piange, con pudore, senza eccessi, piano, con delicatezza. L’avevo abbracciata forte cingendola da dietro, pioveva, i vetri tanto sottili da permettere all’umidità della pioggia di penetrare per osmosi nella camera, volevo bene a quella donna, in quel momento e in quel luogo.
“Resterò, Sara, con te.”
* * *
Il giorno successivo ho trasferito i libri e gli indumenti dalla mansarda della villa di Dix all’appartamento di Sara, Dix era fuori da qualche giorno e ho avvisato della decisione Giulio, che ho incontrato al mattino nella veranda dove veniva servita la colazione, scuro in viso, duro, insaccato dentro una giacca a vento nera, ai piedi scarponi infangati e sul tavolo guanti e berretto di lana pesante. “L’appartamento di Sara fa schifo, perché non viene qui lei?” Conserva l’accento rotondo e un po’ infantile di quando era ragazzo, anche se, sottotraccia, vibra una venatura di rabbia trattenuta, di disagio mal sopportato. “Non vuole, in nessun modo.” “Qui non ha nemici, le vogliamo bene, qui. Una donna strana, Sara, forse Dix non te l’ha raccontato, ma anni fa siamo stati a lungo insieme, in Africa, in una regione nel Sahara meridionale, in mezzo a beduini e scorpioni, c’era una guerra, e Sara, era lì, membro di una organizzazione rivoluzionaria locale, in difesa dei diritti dei più poveri, tribù di derelitti che non ti dico, mangiare radici e riso freddo, ogni giorno.” “E tu, che ci facevi lì?” “Concessioni minerarie, per conto di una azienda olandese. Abbiamo guadagnato molto, con i proventi abbiamo acquistato un appartamento e un ristorante ad Amsterdam, li abbiamo ancora, ogni tanto Dix ci va.” “E Sara?” “Sara cosa?” “Come stava quegli anni? Come viveva? Era sola? Gli è accaduto qualcosa?” Scrolla le spalle, le grosse scapole a proposito delle quali suo padre Marchetto
diceva di non capire da chi le avesse ereditate, poiché lui era segaligno e sua moglie smilza e mingherlina. “A Sara è accaduto il peggio che può capitare a una donna. Io c’ero, altre sarebbero morte dopo due ore, lei ha resistito, una roccia, una montagna di ferro, non aveva paura dei rischi, notti nella foresta, appoggiata a un albero, immobile, e giorni interi senz’acqua nel deserto, è stata catturata, noi quel giorno eravamo lontani, calci tra le gambe, bastonate, le hanno spezzato le braccia, l’hanno appesa a testa in giù, e lei zitta, neppure una lacrima, abbandonata dentro una grotta, senza cibo, è sopravvissuta leccando l’acqua che colava sulla roccia, una donna, Sara, anzi, sco, la donna.” “Ma perché, Giulio, perché Sara è arrivata qui, e perché lavora per Mladić, Sara è mezza araba, è stata una esponente di primo livello della resistenza palestinese, che ci fa qui con questo stragista di musulmani?” Ho alzato la voce, Giulio mi ha fatto cenno di stare attento, non siamo soli, in questa città questi sono discorsi pericolosi. “Non capisco, Giulio.” Seguendo la sua raccomandazione ho ridotto il volume della voce, e Giulio mi ha ricambiato con un bel sorriso, di quelli che da ragazzo, alla Render, avevano incantato tutti, il suo entusiasmo, la sua devozione, la sua cura nel completare gli incarichi affidatigli. “Questo pezzo di informazione è importante, ho immaginato molte risposte, ma credo siano tutte sbagliate.” “Prova, parla, sco, e io ti dirò se ci stai azzeccando.” “È rimasta delusa dalla dirigenza palestinese, ha scoperto che sono un manipolo di corrotti e di accaparratori, Arafat compreso, senza alcun vero interesse verso la causa palestinese?” Giulio è rimasto silenzioso, osserva qualcosa fuori dalla finestra, la grande tazza del tè tra le mani. “Non ha più fiducia nelle proposte della sinistra mondiale, è stata in tutti i luoghi del pianeta dove imperversa la guerriglia rivoluzionaria, e ha osservato che i rivoluzionari creano situazioni sociali peggiori di quelle che combattono?” Non si è voltato, immobile, è il vero alter ego di Dix, il suo opposto, la sua calma contro la furia dell’altro. “È stata tradita da una compagna, o un compagno, una persona che amava?” Ora mi guarda, è incuriosito, sorpreso, no, neppure questa è la spiegazione corretta. “Ha pensato che la Grande Serbia vagheggiata da Milošević potrà essere il modello di stato sociale e di convivenza tra le etnie da esportare nel mondo?” “No, sco, no sull’intera linea, no a tutte le opzioni che hai elencato.”
“E allora?” “Lo saprai da lei, quando lei giudicherà che sarà il momento di metterti al corrente.” La voce profonda, arrochita dal fumo, seriosa, Giulio è un uomo, devo cancellare l’immagine di ragazzo che conservo di lui. Siamo rimasti in silenzio qualche minuto, sorseggia tè nerissimo dove inzuppa grossi pezzi di pane imburrati. “Buoni affari, qui?” gli ho chiesto guardando attraverso la finestra il giardiniere che potava la siepe. “Buoni, ma è pericoloso, solo ieri abbiamo perso due uomini. Ogni giorno subiamo degli assalti, qui il piatto è ricco e sono in molti a volerlo spartire, ma è questione di qualche mese, un anno al massimo, poi chiudiamo e ci trasferiamo in Montenegro, sul mare, abbiamo acquistato un quartierino sulla costa, è un posto meraviglioso.” Mi sono alzato, avevo bevuto un caffè, senza mangiare nulla. “Allora vado, avverti Dix.” “Salutami Sara, baciala sul naso da parte mia.”
* * *
Un’esistenza regolare, nel 1994, a Belgrado. C’erano le giornate delle chiamate da parte della televisione, non di rado per un lavoro di poche ore, un servizio nelle campagne, per dimostrare alla popolazione e al mondo intero come i contadini e i pastori della Serbia interna costituissero un blocco di consenso compatto e univoco, oppure per le riprese di una manifestazione di regime, un corteo, un comizio in un teatro, impegni leggeri, prevalentemente occupati da lunghe attese, trascorse fumando e bevendo birra nella cabina dell’autocarro dell’attrezzeria. E c’erano le trasferte nelle zone di guerra, in Serbia e nella Bosnia serba, due o tre giorni, qualche volta una intera settimana, le notti snocciolate a stento nella cabina del camion circondato dai soldati della nostra guardia, vigilanza e sicurezza, questi gli ordini sino all’alba, attenzione e
coraggio, le apparecchiature custodite nel vano di carico erano preziose poiché difficilmente sostituibili, un furto avrebbe provocato danni smisurati, Milošević non avrebbe perdonato l’interruzione della disinformazione del suo popolo. E le giornate, nelle quali non avevo impegni televisivi, consumate uscendo alle otto del mattino, quaranta minuti a piedi sino alla villa di Dix, a ricevere le istruzioni, una consegna in campagna, un breve viaggio sino al confine ungherese, una puntata vicino a quello bosniaco, chilometri, stradine nei boschi, radure abbagliate dal sole, e acqua, acqua della pioggia copiosa di queste primavere e di questi autunni umidi e interminabili. Travet della criminalità di guerra, assistente personale dell’imperatore del contrabbando jugoslavo, amavo quei brevi spostamenti, il ronzio solitario del motore, la sigaretta accesa, avevo ripreso a fumare, non ricordo esattamente quando, né per quale motivo, forse dopo Markale. Qualunque fosse il mio incarico rientravo nel nostro fatiscente appartamento, in attesa di Sara, il monumento alla donna che mi aveva scelto come compagno di vita, una donna assente, giorni e giorni, coinvolta in missioni complesse e forse pericolose, al di là delle linee nemiche, o all’estero, in una capitale europea o degli Stati Uniti, Sara non desiderava in alcun modo parlare del suo lavoro, ciò che contava è che rientrasse, incolume, per intenerirsi, tornare l’antica ragazza palestinese, coraggiosa, piccola e spaurita. Sopraffatta dalla fatica e dalla tensione mi permetteva di levarle gli anfibi e la tuta mimetica, di accompagnarla sotto la doccia, strofinarle la schiena e aiutarla a infilare l’accappatoio arancione. Per mitigare la violenza dell’umidità e consentire alla temperatura interna di salire di qualche grado avevo installato nell’appartamento una serie di stufette elettriche dislocate davanti alle finestre, nell’intento di intercettare i flussi di aria fredda provenienti dall’esterno. Sara godeva di quel comfort, eggiando seminuda e scalza per le stanze, ignorando la mestizia delle macchie fradice sui soffitti, la vernice delle pareti squamosa e le mattonelle spezzate dei pavimenti, obbiettivo era infine coricarsi a letto, luogo nel quale trascorreva il suo tempo libero dal lavoro, mangiandoci, dormendoci e amandomi, di continuo, in ogni occasione nella quale era possibile, senza mostrare mai stanchezza, né apatia, né appannamento del desiderio. Quando eravamo liberi, quando, soprattutto, Sara non era impegnata fuori città, in genere il sabato a cena o la domenica a pranzo, eravamo regolari ospiti di Dix, arrivavamo a piedi, una lunga eggiata sottobraccio, Sara in cappotto lungo, scarpe basse e i capelli chiusi dentro un berretto a visiera, per me sceglieva pantaloni di fustagno, camicia e maglione girocollo, amavamo camminare, un
piacere che in America ci era mancato, perché le città erano smisurate, le strade enormi e non c’era nessuno che si spostava a piedi. Anche d’inverno Dix ci accoglieva in maglietta, ai piedi sandali aperti, la sigaretta accesa, all’interno la temperatura era mantenuta elevata, desiderava i suoi ospiti liberi di restare in maniche corte, anche in canottiera, e anche scalzi, se lo gradivano. Per Dix e Giulio l’arrivo di Sara era festa vera, l’abbracciavano insieme, quattro braccia di muscolo e di pietra addosso a quel corpicino da allodola, i suoi fratelli, ritrovati nel buco nero della Belgrado, una circostanza straordinaria, dopo l’avventura africana si erano divisi, e mai più Sara avrebbe pensato di incrociare le loro strade. In quei mesi Dix era in grande forma, forte, robusto, muscoloso ed eccitato, mostrava occhi spalancati e si grattava, sotto le ascelle e sul petto, infilando le mani dentro la maglia, senza remore, a tavola, mentre parlava, mentre mangiava, Dix si droga, come ha fatto, senza pause, per l’intera esistenza, non so che prenda, cocaina, probabilmente, al pari di Giulio, che invece metabolizza la roba nella malinconia e nell’ombrosità, nelle tavolate si prova a nascondere, scomparire, sordo, cieco, a capo chino, nell’attesa della fine del pranzo o della cena, il prima possibile. Nessun dibattito in merito alla guerra, né di politica internazionale, si scherzava, piuttosto, a proposito dell’uno o dell’altro, Iris in questo gioco era la più abile, la più simpatica, perché di ciascuno ricorda episodi, frasi e situazioni che i protagonisti hanno dimenticato. Molte informazioni sono di prima mano, in quanto lei stessa era presente, altre le ha ricevute da Dix o da Giulio, conosce ogni dettaglio dell’avventura del camion nero dall’Italia al Libano meridionale, dei travestimenti di Berengani, del mio ritorno in Italia dall’avventura americana, di Marchetto e del traffico dei sacchi di farina vuoti. Racconta, con dovizia di particolari, un momento obbligato di ogni serata, Iris, la perfetta padrona di casa, che dai camicioni candidi che esibiva in casa di Dix alla Trota è ata ai completini di lanetta neri, ai lupetti e alle gonnette corte, che fasciano un corpo di venti chili più magro di quello che ostentava con noncuranza alla fine degli anni ‘70. Rientravamo molto tardi, Sara era ciarliera, mostrandosi una osservatrice informata e aggiornata, e un commentatore intelligente e acuto. Amavo discorrere con lei, della guerra, della sua fine, delle prospettive del paese dopo la fine della guerra, dell’Italia, dell’America, del nostro futuro anche, in merito al
quale non azzardavamo previsioni, era una zona di confronto difficile, dove entrambi tenevamo nascoste le nostre vere intenzioni. Io avrei desiderato portare Sara via da lì, in un paese dell’Europa occidentale, la Spagna, per esempio, in pieno slancio sociale ed economico, rivivere l’emozione di ricominciare, di azzardare, di costruire, Barcellona, Valencia, mi sarebbe piaciuto avere il mare, ma anche Granada, o Madrid. Sara non scopriva le sue carte, né io riuscivo a stanarla, taceva, e mi mormorava nell’orecchio che avremmo dovuto affrettarci, perché aveva bisogno di coricarsi con me il prima possibile. Proseguivamo a discutere nella notte, a letto, a luci spente, cercando gli occhi dell’altro nel debole chiarore riflesso dall’illuminazione stradale, preferibilmente dopo aver fatto l’amore, di nuovo la guerra, la politica, gli scenari, le prospettive, le ipotesi, e di nuovo le nostre scelte, tenute nascoste, nel reciproco timore che l’altro non le condividesse. La nostra era una ben strana esistenza, non slavi, né tantomeno serbi, avevamo scelto la causa di Milošević, e nei fatti eravamo organici ai suoi progetti di espansione territoriale. E questo sotto le parvenze di una quotidianità normale, il maschio autista di camion e furgoni nonché assistente contrabbandiere e la femmina anonima e misteriosa, costruttrice di trame nascoste, tessitrice di legami torbidi e sviluppatrice di progetti di intelligence. La coppia si riuniva la sera, cenava a letto e spegneva la luce presto, per essere pronta il giorno successivo a riprendere le proprie attività. Ero felice di vivere con Sara, una situazione gradevole, dolce, delicata, una condizione sconosciuta, dopo i sussulti e i vuoti delle mie esistenze precedenti. Con una operazione indolore, avvenuta a mia insaputa, ho scoperto all’improvviso di aver soppresso il ato, un taglio netto, completo, ero rinato la sera nella quale Marco mi aveva rilevato a Trieste per condurmi, attraverso la guerra, dentro uno degli epicentri del male contemporaneo, la Belgrado di Milošević, mi percepivo evirato della mia storia personale, la parte amputata gettata nella discarica comunale, sepolta da tonnellate di immondizia cittadina, introvabile, persa, definitivamente. Di Sara non avrei saputo che dire, che pensava, che motivazioni la animavamo, che sentimenti provava, esprimeva pensieri, giudizi e opinioni senza sfiorare l’argomento tabù che mi aveva pregato di non affrontare e che comunque tornava a tormentarmi, senza che in alcun modo io potessi immaginare quale fosse la vera risposta. Mi era sempre più incomprensibile come potesse proseguire a coadiuvare il torturatore dei suoi correligionari, e mi chiedevo in quale luogo della sua coscienza sistemava la condivisione di fatto dei progetti di
pulizia etnica di Mladić. In una notte invernale, le strade ghiacciate, gelo in casa, il mio corredo di stufette elettriche inutile, durante uno dei nostri interminabili dibattiti, infagottati dentro trapunte e coperte, le ho chiesto se e quando la guerra fosse terminata avrebbe risposto a questa mia domanda. “Sì,” mi ha detto sfiorandomi un bacio sul collo “sì, Chicco, lo prometto, dopo la fine della guerra, se la vedrò, la fine” aveva soggiunto. “La vedremo, da vivi, ne sono certo.” “Tu si, Chicco, tu resterai vivo, anche Dix e Giulio, loro sono immortali, ma io, io non lo so, io sono stanca, combatto dall’età di vent’anni, ora ne ho quarantadue, sono fragile, adesso, l’esperienza mi ha consumato, ho timore di commettere un errore, e di morire prima che finisca.” Era vero, Sara si era esposta molto, e questo l’aveva indebolita, mentre la paura era scomparsa dal novero dei sentimenti che conosceva e provava, la sensibilità era cresciuta, e con essa la fallibilità, ora poteva sbagliare, e sapeva che le conseguenze sarebbero state nefaste.
* * *
Tra il marzo e il maggio del ’95 il decorso del conflitto sembrava segnato in modo irrimediabile, in Bosnia i croati e i musulmani avevano fermato le reciproche ostilità per unirsi contro i serbo-bosniaci e, mentre la comunità internazionale iniziava a dare mostra di insofferenza e di vero fastidio per l’insensato prolungamento del conflitto, l’avventura di Milošević giungeva al suo termine, la Grande Serbia non sarebbe mai stata costituita, i serbo-bosniaci stavano per finire nell’angolo e dunque la guerra si avviava alla sua naturale conclusione. È stato allora che Sara mi aveva detto di prepararmi. “Basta scampagnate televisive, Chicco, e basta far da portaordini a un contrabbandiere, ce ne andiamo, tempo scaduto, via da qui.”
“Via dove?” Quando progetta un’azione, esaminando i vantaggi e gli svantaggi e misurando le possibilità di riuscita Sara è splendida, è il suo mestiere, andare, fare, esserci, agire, le luccicano gli occhi, la voce tesa, perentoria, muove piano le mani, per sottolineare gli aspetti cruciali della situazione. “Fuori dalla guerra, non è più roba nostra”. Mi fissa con intensità, palpita, è la mia donna, l’unica. “Ma non subito, ho bisogno di un po’ di tempo, ora non mi è consentito lasciare, non adesso, Chicco, ma la decisione è presa, noi andiamo via, appena possibile.” “No, Sara, non un giorno di più, sganciamoci adesso, pensiamo a noi, per una volta, progettiamo il nostro futuro, dove andare, come vivere, con quali risorse.” Era giugno, l’innalzamento della temperatura aveva reso la nostra abitazione più confortevole, Sara era serena, e la sua bellezza di donna matura brillava nelle nostre notti insonni. “Non è finita, Chicco.” Mi aveva risposto con dolcezza, una voce morbida, priva di acrimonia. “Milošević non molla, e sino a quando alla guida avremo lui i serbi non getteranno la spugna, e noi saremo al loro fianco.” “Forse Milošević resterà, ma il suo progetto è naufragato, lo è nei fatti, da mesi ha cessato di attaccare, gioca di rimessa, attento solo a difendersi.” “Non posso abbandonare adesso, troppe iniziative avviate, per chiudere mi serve qualche settimana.” Sara mi abbraccia, mentre parla, e mi bacia sulla fronte. “Ho bisogno di te, Chicco, del tuo aiuto, del tuo sostegno.” Dormiamo a pezzi, soffocando nel sonno mentre ascoltiamo l’altro, o persino parlando, abbiamo una necessità estrema di confrontarci, per la prima volta, a intimità scoperta, a difese abbassate, senza paura. “Mi serve un mese, amore mio, non più di un mese” Era rimasta a lungo in silenzio, voltata su un fianco mi accarezzava i capelli fissando un punto nella stanza sopra la mia testa. “Subito, Sara, perché aspettare? Chiediamo una licenza, una settimana, fingeremo che tu abbia una sorella malata in Germania, via, ce ne andiamo, io sono sazio, Sara, sono arrivato in Jugoslavia per sfuggire alla giustizia italiana, e sono rimasto per te, non ho informazioni da tre anni ma ragionevolmente le mie vicende giudiziarie sono state chiuse, mi è permesso tornare.” È distratta, non mi ascolta. “Sara, ora basta davvero, in questo ultimo mese chiudi le partite aperte, raccogli i risultati e via, basta, e basta.” È distesa supina, le braccia e le mani in movimento per sottolineare il significato
delle sue argomentazioni, la pelle levigata, le gambe robuste, i fianchi stretti, il seno da ragazza, è magnifica, la mia Sara, accanto a lei acquisisco consapevolezza dei dettagli di me stesso, dell’amore, della vita e della morte. È rimasta in silenzio, con le unghie rintraccia, al buio, i punti neri sul mio mento, ha abbassato lo sguardo e mi fissa, quegli occhi, che conosco a memoria, quella strada verso la sua sensibilità, percorsa a perdifiato migliaia di volte. “Un mese e mezzo, sino a metà agosto, potrebbe bastarmi.” Parla piano, fatico a comprendere il significato delle sue parole. “Potrei rientrare il 12 agosto, è un sabato, e il 14, lunedì, partiamo.” Si era illuminata, era di questo che aveva bisogno, di completare i suoi progetti e di andarsene, e per farlo le serviva un programma, una scadenza temporale, ora la macchina si mette in moto, sino al 12 agosto ha il tempo, per individuare gli obbiettivi parziali, azionare un meccanismo divorante, un pacchetto di azioni per ogni segmento di tempo, le manca la parola fine, e io l’ho aiutata a trovarla. “Va bene, Chicco, è magnifico!” Si è alzata e ha indossato la camicia da notte rossa, lunga sino alle caviglie, che usa per stare in casa “È perfetto, benissimo, via da qui, il 14 agosto, lunedì, potremo farci portare da una macchina di Dix, se glielo chiediamo ci porta dove vogliamo, a Francoforte, a Berlino, ad Amburgo.”
* * *
Il 17 giugno, un sabato, mi aveva trasmesso un messaggio tramite un uomo di Dix. “Torno domani, mio alfiere, una sosta breve, lunedì riparto. Poi ti spiego.” È arrivata alle cinque del pomeriggio, trafelata, e sudata, e ancora ha corso per le scale per bussare forte alla porta, ripetutamente. “Presto, Chicco, subito.” Aperta la porta si è precipitata in camera, via i vestiti, subito, via le scarpe, via tutto. “Chiudi le finestre, e della musica, del ritmo, forte, ho avuto freddo, notti difficili, amore mio.” Dalla borsa estrae una bottiglia di vino bianco. “Questa nel congelatore, e ora vieni qui, sì, sul letto, presto, no, con le scarpe, subito, stringimi forte, balla con me, amore mio, questo ricevimento è solo per noi.” Tiene la testa appoggiata nell’incavo del mio collo, non è facile muoversi in piedi su un materasso scalcinato, barcollo, Sara mi
sorregge, è forte. “Sono felice, Chicco, era dai giorni americani che non ero così appagata, lunedì ultima partenza, guerra finita, almeno per noi.” È saltata sul pavimento, scalza, mi tira verso di lei. “E dopo via, con te, giuro, si va dove termina la nostra corsa, decideremo insieme in quale luogo, insieme, Chicco.”
* * * Sara era ripartita da un paio di giorni quando è arrivata, inattesa, una chiamata urgente dalla televisione, impossibile dire di no, una richiesta del direttore di rete, destinazione imprecisa, non ci sono dubbi, il fronte, è da tempo che a Belgrado si discute del destino delle enclavi musulmane nel nord della Bosnia, qualcosa di grosso, servizio importante, si muoveva la troupe televisiva al completo. Ho pensato a Sara, era di sicuro diretta lì, non lo aveva mai detto, ma dove mai poteva essere destinata se non là, dove la ferita della grande Serbia marciva al sole di questa quinta estate di guerra? Alla guida del furgone attrezzato ho seguito per ore l’auto del caporedattore lungo stradine, poco più che mulattiere, attraverso crinali, coste erbose, i montani e discese mortali verso fondivalle sassosi percorsi da fiumi prosciugati dalla siccità estiva. Quando l’auto capocolonna si è fermata era pomeriggio inoltrato, nel tratto terminale abbiamo percorso, molto lentamente, una stradetta ripidissima che si arrampicava tra le montagne, il mio secondo, un anziano montenegrino nato e vissuto sulla scogliera adriatica, fissava stordito i massi, gli alberi, i ruscelli e i pezzi di prato e di cielo che si succedono in sequenza nel lunotto posteriore. Ci siamo arrestati in uno spiazzo pietroso, alto sopra una valle strettissima, dove si ergeva, contro un roccione, una costruzione in cemento, tetto spiovente di legno, una sola finestra, molto piccola. Il sole non era ancora tramontato e la temperatura restava elevata, sul piazzale erano parcheggiati in disordine camion e Jeep militari, alcuni soldati, occhiali scuri e berretto in testa, scaricano dai mezzi ceste di plastica di cibo e bevande, ho notato il collo fasciato di stagnola rossa di numerose bottiglie di vino, intorno i rumori della montagna nell’aria tesa del bosco, dell’acqua e della pietra.
* * *
La sera, al tavolo del rifugio, dieci persone, noi della troupe siamo gli unici civili, una zuppa bollente con patate e agnello, cucinata da un soldato senza un occhio e senza un orecchio, le conseguenze di uno scontro a fuoco, nel ‘92, a Mostar, prima della guerra era cuoco in una mensa ferroviaria, un tipo gioviale, con l’unico occhio scintillante nell’antro buio nel quale è ricavata la cucina. I soldati mangiano, molti con le sigarette lasciate accese sul tavolo o sul bordo dei piatti, bevono forte, birra, ne hanno cassette piene impilate all’esterno, seguo a fatica i loro discorsi, la maggioranza è sotto leva dall’inizio delle ostilità, si raccontano a vicenda pezzi di storie che probabilmente quelli che ascoltano hanno sentito molte volte, non citano i nemici con il loro nome, non sono croati, né bosgnacchi, piuttosto sono descritti a epiteti e parolacce, che provocano lo sghignazzo del gruppo. Nella confusione sono riuscito ad afferrare il nome di un comandante delle forze musulmane, alcuni tra i soldati avevano partecipato ai sopralluoghi dopo le azioni che Orić aveva compiuto ai danni dei villaggi serbi fuori dai confini dell’enclave di Srebrenica, uno di loro era a Kravica, la mattina dell’8 gennaio del ‘94, dopo la peggiore delle stragi di Orić, il soldato ne parla con noncuranza, i pezzi dei corpi dei civili uccisi, i cadaveri trovati carbonizzati, i mutilati per le torture subite che si lamentavano semiassiderati nelle aie delle fattorie, piuttosto lo infastidiva il fatto che l’attacco fosse avvenuto la notte del 7 gennaio, il Natale Ortodosso, una offesa inqualificabile, un insulto gratuito che gridava vendetta. Sono uscito all’aperto, dal cielo blu ricade una luce debole, appena sufficiente per distinguere le sagome dei mezzi militari, intorno il silenzio rotto dal muggito di alcune mucche al pascolo, un luogo ameno, dove sarebbe gradevole trascorrere un periodo di vacanza.
* * *
Dieci giorni senza Sara, nel rifugio sui monti bosniaci, in compagnia dei quattro colleghi della televisione, stanchi e avviliti per la permanenza forzata nel rifugio, e insieme al plotone di soldati, schierato al mattino presto, in ordine perfetto per il saluto alla bandiera, attento alle parole dell’ufficiale dal quale riceveva le istruzioni per la giornata, perlustrazione e pattugliamento, valli, boschi e pareti rocciose, con l’obbiettivo di individuare soggetti nemici in penetrazione del territorio della repubblica serbo-bosniaca. I soldati indossano divise consunte, calzano scarponi diversi tra loro, alcuni portano il berretto, altri no, non si radono con regolarità e hanno i capelli più lunghi del consentito, ciononostante offrono uno spettacolo di disciplina esemplare, sono svegli alle ore comandate e, anche se torpidi e privi di entusiasmo, ubbidiscono agli ordini senza discutere. Dopo le comunicazioni dell’ufficiale si muovono, lenti e distratti, per controllare il contenuto degli zaini, per verificare le armi, con una gran fracasso di caricatori inseriti e disinseriti, e per disporsi a gruppetti nelle camionette e nei camion, parlottano fitto, si scambiano pacchetti di sigarette, buste di cibo e borracce d’acqua. La guerra è routine, lavoro, rispetto degli orari, tirare a sera, per ingolfarsi di zuppa e di vino, per stordirsi a sufficienza per are un’altra notte nel rifugio puzzolente. Durante il giorno il cuoco privo di un occhio restava di guardia alla base, a lavorare quarti di suino, a rimestare minestre e legumi, a travasare vino dalla grossa botte metallica installata all’esterno nelle fiaschette di vetro che la sera avrebbe portato in tavola, poche parole, nessun commento e nessuna domanda, fischietta, a torso nudo, con l’oscena ferita in volto priva della benda nera che indossa solo in presenza dei compagni e dell’ufficiale. A mezzogiorno ci chiama per il pranzo, apparecchiando un piccolo scranno all’aperto, all’ombra di un abete gigantesco, carne, salsicce e patate arrostite su un braciere di pietre, i bicchieri di vetro al posto delle tazze metalliche previste per la truppa, e un vino rosso forte e profumato. Mi ha scelto come confidente, ignorando il caporedattore, un belgradese pacioso, un intellettuale pacifico e timoroso, escludendo il giornalista, un vecchio semi obeso lento, sonnacchioso e un poco maleodorante e degnando appena di considerazione, e solo in virtù della sua posizione subordinata, il secondo autista. “Sai, amico della luna, a Kravica in una bacinella di ferro, davanti all’ingresso di una casa, c’erano tre mani, tutte sinistre, ci avevo messo un po’ a capire, era
strano, non credi? Tre mani, di uomo, grosse, callose, amputate di fresco, avevano un colore sano e sanguinavano ancora. Sinistre, ti rendi conto?” Non esprimeva orrore, né disgusto, solo stupore, e si tormentava in un grande dubbio. “Non capisco perché le sinistre, forse gli avevano voluto lasciare le destre, per permettere loro di proseguire a lavorare, o forse erano mancini, ma come erano riusciti a capire che fossero mancini, uno non ce l’ha mica scritto in faccia che è mancino.”
* * *
La sera del 30 giugno il caporedattore ha ricevuto dall’ufficiale un messaggio, poche parole, è felice, mentre le rilegge davanti a noi, è l’ordine di servizio che ci impone di lasciare il rifugio montano, per primo il furgone delle attrezzature, insieme a me il giornalista grasso, manderanno una macchina di scorta, è un viaggio lungo, complesso, pericoloso, il caporedattore e il secondo autista ci raggiungeranno domani, una scelta precauzionale. La Jeep di o è nuovissima, una macchina americana, pulita, spaziosa, comoda, che si arrampica agile e veloce sugli sterrati e le pietraie, un motore potente e silenzioso, un bottino di guerra, sottratta a un convoglio umanitario o all’esercito nemico, che a sua volta l’aveva rubata a un convoglio umanitario. Con il furgone fatico a tenere il o, nei tornanti il volante corre veloce tra le dita, e con la marcia bassa ogni colpo d’acceleratore è uno scossone violento, il giornalista mi fissa implorante, e freme, grida persino, quando in discesa, per non perdere il contatto con la Jeep percorro una traiettoria di curva tanto ardita che per un momento con la cabina ci troviamo come appesi nel baratro fuori dal bordo della carrareccia. Il messaggio letto dal caporedattore spiegava nei particolari il nostro incarico, la destinazione era Srebrenica. “Raggiungerete il quartier generale del contingente dei caschi blu posto a difesa della città, sono olandesi, circa 600. Vi assegneranno un alloggio, lì sarete al sicuro, troverete altri colleghi, anche stranieri.” Ha sorriso, è un uomo sui quarant’anni, il viso molle, i capelli radi, che tiene cortissimi. “Occhi aperti, saranno giorni decisivi, e per voi della stampa sarà un privilegio essere in prima
fila.” Abbiamo viaggiato l’intero giorno, per evitare le zone più pericolose l’autista della Jeep ha scelto un percorso lungo e tortuoso, non ci siamo fermati né per mangiare, né per bere. Alle nove di sera, nella penombra del tramonto, la Jeep si è fermata davanti a un cancello presidiato da alcuni caschi blu.
* * *
Srebrenica, 2 luglio 1995, una città senza città, senza cittadini, un serbatoio a secco, popolato da fuggitivi trattenuti con la forza. I rifornimenti di cibo pervengono con difficoltà, le forze serbo-bosniache saccheggiano sistematicamente i convogli ONU e solo una quota irrisoria di ciò che è destinato alla popolazione viene effettivamente consegnato, per questo motivo moltissimi degli abitanti sono vittime delle conseguenze di una alimentazione ai limiti della sussistenza. Una moltitudine sudata e piagnucolosa, la ressa infinita dei claudicanti, dei feriti, dei denutriti e dei febbricitanti, facce giallognole e le labbra sbiancate dei sofferenti che, in fila ordinata, chiedono cure e assistenza in un luogo nel quale è impossibile riceverle. Ci hanno concesso due brande in un camerone sotterraneo della caserma, il giornalista ha protestato, la sua stazza non gli permette di adagiarsi su un giaciglio di quella fattura, non reggerà al suo peso e, in ogni caso, gli impedirà ogni movimento. Lamentele inutili, non c’è alternativa, i posti letto sono contati, e che ringraziasse di poter dormire al coperto, e al sicuro. Abbiamo fatto tardi alla mensa, i soldati olandesi hanno cantato, e il giornalista ha cantato con loro, birra a secchi, mi sono alzato a fatica, sono sveglio dall’alba, e ho attraversato mezzo paese guidando il furgone. Sono entrato in camera attento a non far rumore, qui siamo alloggiati in una ventina, i piedi divaricati fuori dalle coperte, concerto di sospiri e di lamenti, c’è chi russa, e chi parlotta nel sonno, maschi, di ogni età, il mio vicino è un uomo anziano, completamente calvo e, di fronte, un giovane magro, dorme prono, con entrambe le braccia penzoloni fuori dalla branda, odore di truppa, calze sudate pigiate dentro scarpe da jogging, portacenere gonfi appoggiati sul pavimento, uomini, illuminati dalla debole lucetta blu notturna, uomini, solo uomini.
All’alba, alla ricerca di un bagno, trovato al termine di un percorso complesso, un lungo corridoio, che diventa un tunnel di vetro attraverso un ampio giardino, erba umida, cespugli verde scuro, un luogo curato, accogliente. Una persona siede su una panchina priva della spalliera, una donna, la gonna sino alle caviglie, una maglia accollata con le maniche lunghe, nera la gonna e grigia la maglia, alle spalle della donna un muraglione, una struttura di contenimento, un muro, di cemento chiaro, la donna rivolge la sua attenzione verso un punto centrale del muro, è curiosa, osserva puntigliosa, si alza in piedi, qualche o verso il muro, il collo piegato per vedere meglio, si ferma, è bassa di statura, magra, si volta per tornare indietro. Sara, mio grande amore, Sara, lì, chissà da quando, per me, mi ha cercato, forse l’intera notte, picchio con violenza la mano sulla vetrata, Sara, Sara, ha sentito, mi ha visto, Sara, amore mio. È tesa, stanca, da quando è a Srebrenica riposa pochissimo, mangia in piedi, si sposta di continuo, indica le colline alle nostre spalle, su e giù per sentieri, quando ci sono, di notte. Non ha voluto entrare nell’edificio, preferisce restare in quel giardinetto interno. “È più sicuro, Chicco.” Ha l’aspetto di una contadina, una delle tante scese in città per sfuggire alle razzie che i serbo-bosniaci effettuano nei villaggi circostanti. “Orić ha combinato disastri, la gente di qui paga il prezzo delle violenze che i suoi hanno perpetrato il gennaio scorso, mi hanno raccontato episodi truci, di brutalità senza limiti, Orić voleva cacciare la popolazione serba, una pulizia etnica casalinga, allargare qui lo spazio a disposizione dei musulmani, una idiozia che ha condannato questa città.” Sono sorpreso, non è quello il modo nel quale è consentito parlare del nemico, Orić è un comandante avversario e i musulmani di Srebrenica gli appartenenti a una etnia nemica, e se il comportamento di Orić aveva reso l’enclave di Srebrenica meno sicura, in quanto schierati con i serbi dovevamo gioirne. Gliel’ho detto, e lei ha fatto spallucce. “Questi sono i ragionamenti dei politici.” “Se Mladić ti sentisse parlare in questo modo ti licenzierebbe in tronco, se ti va bene, altrimenti di accebbe di alto tradimento.” “Ratko si fida di me, con lui nessuna discussione. E poi, sco, tu forse sei serbo?”
Si è spostata verso il fondo del giardino, appoggiandosi con la schiena sul muro di contenimento. “Ancora pochi giorni, Chicco, poi ce ne torniamo a casa.” “A Belgrado?” “Ho pensato che non eremo neppure da casa, non abbiamo nulla da prendere, né da sistemare, ho già annunciato che avrò bisogno di una licenza per motivi famigliari, tu non devi chiedere niente a nessuno, tu qui sei un abusivo, un autista a contratto, della tua scomparsa non se ne accorgerà nessuno, una decina di giorni basteranno, non credo che sarà necessario più tempo.” L’ho interrotta. “Più tempo per fare che cosa? Sara, che cosa sta per succedere.” “Non più di dieci giorni, te lo prometto, poi si parte, ho studiato una pista sicura, in tre giorni saremo a Francoforte, ci ospiterà mia sorella, poi cercheremo un appartamento.” Mi fissa, suda, anche se al mattino la temperatura non è elevata, scura, gli occhi spaventati, mi ha preso la mano, la stringe forte. “Chicco, è vero che tu starai con me? Verrai con me in Germania? Io e te, Chicco, liberi.” Siamo rimasti in silenzio, si volta, il muraglione cattura la sua attenzione, si è allontana di qualche o, la raggiungo, le prendo la mano. “Come facevi a sapere che ero qui?” Risponde senza cessare l’esame del muraglione, la sua mano stretta nella mia. “Ho le mie fonti, so per quale motivo sei qui. Avevo bisogno di vederti.” Che bella voce, la mia compagna, la mia amica, la mia amante. “Sono venuta a Potocari per te, ti ho cercato e ti ho trovato, tutto qui.” Mi ha ripreso la mano, e si è avvicinata, ci siamo baciati a lungo, lei piange, piano, un sussulto lieve, è stanca, fragilissima, certo, Sara, andremo in Germania, acquisteremo una villetta fuori città, vicino a un fiume, o a un lago, il tempo trascorrerà leggero, senza pioggia e senza vento. Mi avrebbe comunicato dove e quando incontrarsi, una decina di giorni, non di più, sino ad allora non avrebbe potuto vedermi, né parlarmi.
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L’ordine è pervenuto al mattino successivo, una telefonata del caporedattore, in viaggio tra il rifugio montano e Srebrenica, conta di essere qui in caserma nel tardo pomeriggio e per questa sera ha fissato il briefing. Il giornalista per colazione beve succo d’arancia e mastica a lungo le fette di bacon che si alza a prendere, due alla volta, dall’ampio bacile di alluminio dove sono tenute al caldo, niente pane nella sua dieta, e niente caffè. Mentre mi chiedevo se riuscisse a mantenere questa abitudine nordica anche a Belgrado ha spiegato, interrompendosi per prelevare le fette di bacon, e scusandosi di queste interruzioni, dovevo comprendere, era l’unico modo per avere il bacon sempre alla temperatura giusta, per quella sera avrebbe chiesto la disponibilità di una saletta, Mladić aveva richiesto una copertura completa, e nello stesso tempo discreta, inoltre desiderava una intervista immediata, per il mattino successivo, mezz’ora, da trasmettere il giorno stesso.
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Il quartiere generale di Mladić è attestato in un villaggio abitato sino a poche settimane prima da bosniaci musulmani, gli stessi che probabilmente stanno bivaccando nelle strade di Srebrenica. I giardini, le aie delle cascine e i prati incolti sono stati trasformati in parcheggi. Jeep, camion, autoblindo, carri armati, soldati ovunque, in maglietta e berretto a visiera, occhiali scuri, capelli cortissimi, fumano seduti nei mezzi o accovacciati tra l’erba, armi ovunque, fucili, mitragliatrici, mortai, bazooka, pistole, a mucchi, accanto a pile di casse di munizioni, una abbondanza straordinaria, una valanga di quattrini trasformata nell’acciaio delle armi e nella carne e nel sangue dei soldati, tutti veterani, ormai con alle spalle tre o quattro anni di guerra, di questa guerra. Siamo arrivati alle otto con il furgone promiscuo, sul sedile anteriore siedono il caporedattore e il giornalista e dietro, tra le attrezzature, il tecnico. Non è stato difficile individuare il comando, alla nostra richiesta di indicazioni un soldato ha detto che non potevano sbagliare, Mladić si era installato nell’edificio comunale, il più grande e alto del paese. Il caporedattore ha chiesto, contrariamente alle abitudini, che venissi anch’io, avrei dato una mano per il trasporto e l’installazione dell’attrezzature.
Avevo già incontrato Mladić l’anno prima durante la mia permanenza a Sarajevo, l’ho riconosciuto subito, è l’uomo tarchiato che, in piedi davanti a una carta geografica, segue le spiegazioni di un subalterno, un colonnello gli ha parlato nell’orecchio e lui si è voltato verso di noi, assiepati sulla porta con la telecamera, i cavi, i microfoni e la centralina in spalla. Il viso largo, capelli grigi, occhi piccoli, fronte senza carattere, zigomi bassi, guance molli, un profilo anonimo, senza storia. Si è avvicinato, e, ignorando i colleghi, mi ha stretto la mano. “I miei omaggi, signor Nikolin, Frančesko, se posso chiamarla per nome, forse lei non lo sa, ma qui da noi lei è famoso.” Mi parla nella sua lingua, scandendo con attenzione le parole, supponendo sia utile alla mia comprensione. “Qui lei è celebre per essere il prescelto di Sara Schmidt, nessuno, mi creda, avrebbe immaginato che si sarebbe fidanzata, incredibile!” Ride di gusto, scatenando l’ilarità di tutti. “Devo essere sincero, Frančesko, qui siamo tutti un po’ invidiosi.” Ha riso più forte, battendomi con vigore una mano sulla spalla. “Gran dama, Sara, e grande soldato, ne avessi, come lei, ne avessi!” Il caporedattore mi ha lanciato una lunga occhiata interrogativa, non ha capito, “Chi è Sara Schmidt?” ha mormorato al tecnico e al giornalista, e perché Frančesko conosce una donna che pare sia tenuta in grande considerazione dal tenente generale. Non ho avuto tempo per rispondere, a un cenno di Mladić un gruppo di ufficiali e di soldati si è avvicinato per impartire le disposizioni per l’installazione dell’attrezzatura e la strutturazione dell’intervista, il colonnello, evidentemente l’addetto alle relazione con i media, approfondisce la natura delle regole alle quali dovremo sottostare, nessun primo piano, luce di tre quarti, possibilmente naturale, domande brevi, per lasciare al tenente generale spazio per le sue argomentazioni, e nessuna domanda sulle decisioni tattiche di questi giorni, in particolare la parola Srebrenica non può mai essere pronunciata. Non mi interessa, mi sono allontanato, su istruzioni del tecnico sto cercando una presa adatta per collegare le attrezzature, che non sia distante più di cinque metri, altrimenti si renderà necessaria una prolunga, che nella fretta il tecnico ha dimenticato a Potocari.
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Dopo l’intervista il colonnello ci ha suggerito di fermarci presso il comando, avremmo seguito i movimenti della divisione per rendicontare dall’interno gli
eventi, sulle regole e le procedure sarebbe stato più preciso più tardi nella giornata, in ogni caso ogni secondo di ripresa e ogni singola parola registrata, non poteva essere trasmessa senza la sua specifica e personale autorizzazione. Il 6 luglio, alle quattro del mattino, l’accampamento è in piena agitazione, i motori dei mezzi accesi, le fotoelettriche sfavillanti di luce bianca, i soldati in lento movimento per prati e piazzali, un panino tra i denti, la tazza del caffè in mano, casse da caricare sui pianali dei rimorchi, zaini ati di mano in mano e gettati dentro le Jeep e le autoblindo, ordini secchi gridati da ufficiali in tuta da combattimento, fare presto, partenza prima del sorgere del sole, i mezzi dell’avanguardia pronti nella piazza del municipio, soldati, senza emozioni, né timori, masticano e fumano, Mladić è stato esplicito, hanno un lavoro da terminare, loro sono pronti, le armi controllate e ricontrollate, le munizioni contate e ricontate, i Ray-ban scuri nel taschino, le sigarette nell’altro, pronti, avanti, ha gridato qualcuno, avanti, avanti. Alla guida del promiscuo, e in accordo agli ordini impartiti dal colonnello, seguo la retroguardia della divisione, il tecnico e il giornalista sono più avanti, hanno avuto in dotazione una motocicletta e filmano l’avanzata spostandosi tra i reparti di testa, il caporedattore è ospite di un mezzo del comando, per coordinarci ci sentiremo via telefono satellitare. Seguo un pullman, vecchio, senza paraurti, il lunotto posteriore percorso trasversalmente da una crepa profonda, per l’intera mattinata avrò davanti il retro del mezzo, la mia prima esperienza di un’avanzata militare è quella dello scappamento fumoso di un torpedone scalcinato. L’andatura è modestissima, nelle prime due ore abbiamo percorso tre chilometri, alle undici una sosta prolungata, il pullman ha spento il motore, intorno molti scendono dai loro mezzi, si assembrano, discutono sotto il sole, fumano. Sono salito sul pullman, è pieno di persone, di mezza età, alcuni sono anziani, cuochi e infermieri e ausiliarie di cucina, donne di età imprecisata, infagottate in abiti lunghi e scuri, contadine senza più famiglia, madri dell’esercito, il capo coperto, parlano fitto fitto, solo tra loro. A metà pomeriggio il pullman ha faticosamente invertito la marcia, e tutti i mezzi davanti a noi hanno effettuato la medesima manovra, era arrivato l’ordine di rientrare al luogo di partenza, decisione personale e diretta del tenente generale Mladić. Nel controesodo siamo diventati l’avanguardia, di un esercito sconosciuto, lungo chilometri, con i soldati accaldati, assetati e affamati.
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Al rientro ho osservato lo svolgimento al contrario delle attività del mattino, scaricare i camion e i rimorchi, riportare le casse e le attrezzature dentro il municipio, corre voce che una decina di chilometri più avanti siano stati stabiliti alcuni avamposti, le donne della cucina sono affannate, indispensabile preparare subito la cena per gli uomini rimasti al fronte, trasportarla sino là, portare il vino, e il liquore, e le sigarette, le osservo manovrare in gruppo, precipitarsi verso la cucina da campo, quegli uomini devono essere rifocillati, senza esitazioni. Seduto nel bagagliaio di una Jeep, le gambe penzoloni, sono spettatore a titolo gratuito di un pezzo di storia del ventesimo secolo, conosco l’obbiettivo strategico del lavorio di quegli uomini e quelle donne, e ho informazioni precise in merito al costo di questo immane spreco di risorse e di denaro, la Repubblica Serba è finanziariamente allo stremo, la zecca stampa carta moneta ai ritmi di quella di Weimar, le pensioni sono sotto il livello di sussistenza e i suoi soldati imbracciano mitragliatori che sul mercato non ufficiale delle armi hanno il valore del reddito medio annuale pro capite di un abitante di uno dei paesi dell’ex Jugoslavia. Sono coscienti, questi fanti e questi carristi, che ogni caricatore di pallottole, magari sparato per atempo nei lungi momenti di pausa tra un combattimento e l’altro, vale l’equivalente dei pasti giornalieri di una intera famiglia? Credo di no, attorno a me il banchetto della guerra è bene imbandito, non manca nulla e nessuno si pone dilemmi, avanti, domani un altro pezzo di terra, di nostra terra. Sara, mio grande amore, dove sei ora? Abbiamo un progetto, che trasforma in fatti i nostri sentimenti e i nostri desideri, non dimentichiamo il nostro primo tentativo, quando eravamo molto giovani, in America, abbiamo riprovato in questi ultimi anni, a Belgrado, in entrambe queste esperienze abbiamo vissuto insieme segregati dal mondo esterno, solo noi, ignari dei destini dei nostri famigliari e di quanto accadeva nelle nostre patrie di origine, un abbandono vicendevole, continuo e profondo, solo noi, abitanti di un luogo virtuale, dove non dimora nessun’altro essere umano. La sera, nella tenda mensa, il tecnico, un ex-abitante di Vukovar, mi ha
presentato Ana Jugomir, anchorwoman di grande successo, è l’inviata di punta del magazine della nostra televisione, bassa statura, cicciottella, spalmata di fondotinta e rossetto, guida il team di quelli che il nostro caporedattore ha battezzato gli approfonditori, i giornalisti dei commenti e delle notazioni post evento, quelli che raccolgono le impressioni successive ai fatti, gentaglia da seconda serata, priva dell’assillo dei tempi di chiusura del telegiornale.
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Siamo rimasti nel villaggio le intere giornate del 7 e dell’8 luglio, ascoltando colpi di cannone piuttosto vicini e osservando l’andirivieni nel cielo degli aerei NATO, sorvoli a bassa quota, un deterrente inutile, le notizie che riceviamo sono esplicite, Mladić ignora gli avvertimenti e le minacce dell’ONU, degli USA e dell’Europa, prendere Srebrenica è vitale, anche nel caso di guerra persa quella porzione di territorio sarà comunque serba. Il 9 luglio, domenica, siamo stati svegliati molto presto, un cannoneggiamento impetuoso, molto vicino, un segnale, tutti sono balzati in piedi e, senza ordini specifici, hanno iniziato a preparare le loro cose, in mensa la colazione è stata servita fredda, perché la cucina da campo è già stata imballata e caricata, il tendone arrotolato e le provviste stipate in sacchi e contenitori. Sopra il pianale vuoto di un camion la gru sta issando una vasca di metallo che oscilla paurosamente, ho intuito come all’interno vi siano degli animali che si dibattono emettendo grida quasi umane, si è radunata una piccola folla, che urla al manovratore della gru di porre attenzione, la vasca è stata sul punto di rovesciarsi, era ancora alta, e gli animali sarebbero precipitati a terra. “Che genere di bestie ci sono là dentro?” Ho chiesto a un soldato. “Tacchini, credo.” “No!” Si era intromesso un altro. “Non sono i versi del tacchino.” “Ti dico che sono tacchini, carne fresca, è il modo migliore per conservarla, ce ne saranno dentro almeno venti, da quindici chili l’uno...” ha ribattuto il primo
soldato. Il manovratore ha interrotto l’operazione per stabilizzare il carico, la vasca è rimasta a lungo sospesa a una decina di metri da terra, poco alla volta il movimento oscillatorio si è attenuato, permettendo al gruista di completare la manovra, è molto cauto, cala la vasca pianissimo, si ferma non appena avverte una qualunque vibrazione e riprende, con circospezione. “Con venti tacchini quante persone ci mangiano?” ha domandato il secondo soldato. “Sono trecento chili di carne, due etti a testa fanno millecinquecento persone.” “Trecento chili con le ossa, la pelle e le piume, di carne saranno duecento al massimo.” Il secondo soldato si è una sigaretta e ha tossicchiato sputando a terra. “Allora sono mille porzioni.” “Sai quanti siamo qui, fra tutti?” Il secondo soldato ha ato la sigaretta accesa al primo e se ne è accesa un’altra a sua volta. “Cinquemila?” “Forse di più, dunque tutti quei tacchini danno da mangiare a un quinto di noi per un solo pasto, e ti sembra il caso di mettere in piedi questa situazione, la gru, la vasca, il camion, per due fette di tacchino per un soldato ogni cinque?” Stava sorgendo il sole, una giornata splendida, avrebbe fatto molto caldo. La vasca è a un paio di metri dal pianale, scende pianissimo, senza scossoni. “Hai ragione” ha mormorato il primo soldato. “Troppa scena per venti tacchini, non capisco.” La vasca è atterrata sul camion, i due soldati sono saliti per togliere le cinghie di tenuta, uno dei due ha riso forte, e l’altro ha ricambiato con uno sghignazzo più violento ancora. “Fossero stati venti tacchini! Tanta fatica per un maiale, un maiale solo!” Lo ha gridato alla piccola folla che aveva assistito alla manovra. “Un camion con
autista per un maiale, roba da matti.” I primi raggi di sole sono arrivati a lambire il tetto della cabina dell’autocarro, mi sono issato sul pianale, il maiale è di taglia media, centocinquanta, forse duecento chili, è tranquillo, ha mangiato e grugnisce appena, un bell’esemplare, ben tenuto. In quel momento è salito anche l’autista, per controllare che il carico fosse fissato correttamente. “Dove va questo?” gli ho domandato senza alzare lo sguardo dalla vasca. “Avanti, in prima linea, è una richiesta diretta e personale del tenente generale.” Ci siamo mossi verso le sette del mattino, lentamente, alle spalle di un gruppo di carri armati. La formazione è la stessa di ieri, a me spetta la guida del promiscuo, il tecnico e il giornalista in motocicletta e il capo-redattore oggi ospite sull’auto di un quotidiano sportivo specializzato in calcio e basket, un mistero il motivo per il quale si trovi qui in prima linea. Quest’oggi il torpedone scalcinato dei cuochi e delle inservienti di mensa è alle mie spalle, vi salirò a metà mattinata, durante una lunga sosta, quasi due ore. Il sole alto nel cielo terso, nel pullman l’aria è surriscaldata, i finestrini abbassati alla ricerca dei rari refoli di vento, in cinque ore non abbiamo percorso che quattro o cinque chilometri, uno strazio, all’interno gli uomini sono radunati sul fondo del mezzo, a bere, fumare e cantare, la temperatura è così elevata che quasi tutti si sono tolti le maglie restando a torso nudo, le donne, una decina, resistono infagottate nei loro abiti lunghi, gli occhi appannati, i piedi gonfi dentro i pesanti stivali di cuoio, si sono asserragliate nelle file di testa, dietro all’autista, un uomo grasso che tiene la divisa abbottonata sino al colletto bagnando di grandi macchie di sudore le ascelle e la schiena. “Caldo” mi ha detto l’autista, un uomo di mezza età, i capelli grigi, gli occhiali scuri a specchio. Ha alzato il polso per guardare l’orologio. “Le quattro e un quarto, cinque chilometri da Srebrenica, la testa delle truppe è poco più avanti. Questa sera si attesteranno davanti alla città e domani entrano.” “Non possono entrare, i caschi blu lo impediranno.” “Mladić se ne fotte dei caschi blu.”
Si è voltato, dal finestrino osserva i prati calcinati e le pietre scintillanti del greto secco di un torrente. “Scoppierà un caso internazionale, i caschi blu sono olandesi, i paesi occidentali non staranno certo a guardare.” “E che hanno fatto in questi anni se non fare gli spettatori?” Mostra il profilo del viso, ha il naso piccolo e gli occhi infossati, mi chiedevo quale storia avesse alle spalle un uomo della sua età, che aveva pensato durante gli anni della Jugoslavia di Tito, quali discorsi ai figli al tavolo della cena, quali ragionamenti quando Milošević si era proposto ai serbi come salvatore della patria. “Se invade l’enclave Mladić si getta in un vero pasticcio.” “Lo farà, nessuno lo ostacolerà, tutti vogliono che Srebrenica torni serbobosniaca.”
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Il 10 ho trascorso l’intera giornata in tenda, uscendone solo per mangiare alla mensa, dove ho incontrato Ana Jugomir, in tuta verde smeraldo. “Nikolin! La troupe del telegiornale non ha bisogno del suo autista?” È scalza, i piedi nudi appoggiati sul pavimento di terra battuta, si è accorta che le sto guardando i piedi. “Mi piace stare senza scarpe.” Ha alzato un braccio, mostrando l’ascella accuratamente depilata. “Almeno qui, lontano dalla città!” Sto bevendo una tazza di caffelatte dove ho annegato i pezzi di due panini. “Complimenti, Nikolin, un pasto da belva” si è spostata di qualche centimetro, la coscia molto vicina alla mia. “Uomo da assalto, Nikolin, dovresti stare avanti, con i ragazzi, non qui, con le vecchie cadenti.” Tiene la lampo della giacca della tuta aperta sulla pelle nuda del petto, seni flosci, la star televisiva ha cinquant’anni, le manotte grasse, le sopracciglia rasate, è bassa di statura, in televisione non la inquadrano mai a figura intera. Ho bisogno di Sara, se davvero domani occuperanno la città il suo compito sarebbe terminato, Sara è scaltra e addestrata, non ho paura per lei, nella notte
eremo il confine ungherese e la mattina del 12, dopodomani, due giorni appena, saremo a Francoforte. Dalla mia tenda ascolto i colpi del cannone, pochi, e molto vicini, non sono in grado di comprendere esattamente quale sia lo sviluppo delle attività belliche, ho chiesto informazioni, ci sono molti soldati, degli anziani richiamati, e un solo ufficiale, nessuno possiede notizie attendibili, di certo c’è che le truppe sono in movimento già da ieri e che Srebrenica è quasi definitivamente accerchiata. “E i caschi blu? E la NATO?” L’ufficiale ha allargato le braccia trattenendo nella mano destra il mezzo sigaro che sta fumando. “Non abbiamo idea delle loro intenzioni, ma siamo sicuri che scapperanno, sono dei vigliacchi, che altro potrebbero fare?” Ho incrociato Ana, è elettrizzata, non riesce a stare ferma, cammina avanti e indietro davanti al furgone della sua troupe, raccontando a pezzi gli avvenimenti della giornata, è andata in onda tre volte, l’ultima un’ora fa, per una intervista a un alto ufficiale dello stato maggiore. “È stato categorico, nessun dubbio, Srebrenica è terra nostra e dunque torna terra nostra. Che uomo, Frančesko, lo sai che ha settantadue anni? Ha combattuto con Tito, era già tenente allora, che uomo. Insomma, domani la città sarà nostra, Mladić lo ha promesso, i morti di Kravica saranno vendicati, noi tutti speriamo che Orić sia in città, il comandante ha detto di prenderlo vivo, lo vuole portare in catene a Belgrado e sbatterlo in una gabbia nello zoo, con le giraffe, o le zebre, per farlo diventare una attrazione.” “Come è il programma di domani?” “Saremo in prima fila, il tuo caporedattore ha detto che ci muoviamo insieme.” Ridacchia, questo modo maschile di proporsi, le maniche della camicetta arrotolate sino al gomito, le dita a pugno per controllare lo stato delle unghie. “Coordinamento generale, così ci è stato richiesto dalla direzione, collaborazione, per documentare e informare.” È seduta su una cassa di legno, le gambe divaricate, e le mani sopra le rotule delle ginocchia. “Ci è stato garantito che potremo essere là quando entrano, possiamo filmare quello che vogliamo, poi si deciderà che mandare in onda, questione delicata, come sai, sulla quale gli alti gradi desiderano intervenire.” Gli occhi accesi, questa situazione di guerra vera la eccita, rovista nel taschino della gonna, ne estrae una sigaretta piegata, la
riarrotola con cura tra i palmi delle mani. “Mezza per uno, Nikolin?” Ha e tira con cautela, tenendo la sigaretta tra il pollice e l’indice. “Roba buona, Nikolin...” si gratta con vigore al centro del cranio “Tabacco yankee, il migliore.”
* * *
Il giorno dopo il comandante della divisione non ha permesso alle due troupe di muoversi sino a tarda mattinata, poi è pervenuto il via libera, ma un ufficiale ha comunicato che le telecamere sarebbero state trattenute dai militari e restituite in zona operazioni, ma solo per il tempo necessario per le riprese. Ana si era lamentata, ma l’ufficiale aveva fatto capire che non c’era possibilità diversa. Il viaggio è stato breve, il caporedattore ha chiesto di usare il furgone chiuso, molto più sicuro del promiscuo, troppi vetri, ha spiegato. Seguendo il furgone di Ana ho riconosciuto la direzione e ho capito che ci stavano portando al comando ONU di Potocari. Fuori dal cancello principale abbiamo atteso a lungo, un ufficiale ci ha chiusi a chiave dentro il furgone, motivi di sicurezza, ha spiegato, anche la troupe di Ana è stata rinchiusa, l’abbiamo sentita gridare e battere a lungo i pugni sulla lamiera. Dopo un’ora il nostro tecnico è svenuto, il caporedattore allora ci ha chiesto, a me e al giornalista, di prendere il cavalletto della telecamera e di usarlo come ariete contro la porta. Sudando affannati e respirando a fatica siamo quasi riusciti nell’intento, i colpi erano forti, il furgone sobbalzava e la porta iniziava a scardinarsi. Quando da fuori hanno improvvisamente spalancato la porta eravamo in procinto di sferrare un nuovo colpo, e per inerzia siamo stati sbalzati all’esterno, rovinando addosso al soldato che aveva aperto, abbiamo sentito le grida di un ufficiale che intimava di rientrare, ma era distante e nessuno ha ubbidito. Così ho visto, il parcheggio del comando ONU zeppo di uomini, donne, vecchi, bambini e di pullman, camion, e di soldati, armi in pugno, che spingono i maschi sui pullman, cinquanta per mezzo, con cinque soldati di guardia. Dove sono i 600 caschi blu olandesi posti a difesa della popolazione dell’enclave? Non riesco a capire, mi sono spostato, lasciando la troupe vicino al furgone, non visto ho varcato i cancelli della caserma, in quella confusione nessuno farà caso alla
presenza di un civile di mezza età. E dov’è Sara? Poco dopo ho visto un gruppo di Jeep scoperte che ad alta velocità è entrata nel piazzale, si sono fermate esattamente sotto le finestre del comando dei caschi blu, tutti hanno alzato gli occhi, li ho imitati, e ho visto, i soldati olandesi assiepati dietro le finestre chiuse, chini ad osservare ciò che avveniva nella loro caserma. Sono molto vicino e ho visto, il generale Mladić scendere agilmente da una delle Jeep, seguito da un codazzo di luogotenenti, piazzarsi sotto le finestre del comando ONU, e alzare un braccio, per chiamare a sé qualcuno o qualcosa. Il camion con la gru che trasportava la vasca con il maiale si è fermato davanti al generale e l’animale è stato afferrato da un nugolo di soldati e immobilizzato a testa in giù sopra un rastrelliera metallica. Mladić si è avvicinato al maiale, che trema e grida come un uomo, eggia avanti e indietro nello spazio vuoto tra la rastrelliera e il muro della caserma, qualche minuto, con le mani in tasca e il basco della divisa da combattimento in testa, intanto, qualche decina di metri più in là i pullman proseguono a caricare merce umana per ripartire sgommando verso destinazioni ignote. Il generale si è fermato davanti all’animale, le mani sui fianchi, e ha alzato il mento, guardandosi intorno. L’ho riconosciuta, il ettino leggero, piccola, una ventina di metri, non di più, se si fosse girata appena mi avrebbe visto. Sara ha mosso un o in direzione di Mladić, si è fermata, guardandolo, in attesa, quello le ha fatto un cenno, e un sorriso, e Sara si è avvicinata, estraendo da una foderina fissata alla cintura uno stiletto, l’ho visto brillare al sole, uno strumento da specialisti, da norcini. Ha allungato il coltello al generale che a sua volta l’ha ato a un soldato, il quale, mostrando esperienza e mestiere, l’ha conficcato nel punto giusto al centro del collo dell’animale. Il sangue ha iniziato a colare a singhiozzo, spruzzando il selciato del cortile, il maiale si contorce urlando, mentre il generale Karremans e i suoi ufficiali stanno con il naso incollato alle finestre chiuse. Dopo il sacrificio del maiale i soldati olandesi sono scesi in cortile e li ho visti collaborare alla suddivisione degli abitanti di Srebrenica presi prigionieri, i maschi, anche i ragazzi, separati dalle donne, dai bambini e dagli anziani, vengono avviati ai pullman vuoti che li attendono con le porte spalancate, qualcuno ha provato a scappare, ed è stato in quel momento che ho iniziato a
sentire i primi colpi di fucile, diretti alla schiena dei fuggitivi, che cadono feriti a terra per venire finiti con un colpo alla testa. Ho guardato Sara, immobile, una statua, accanto a Mladić, calmo, sorridente, che distribuisce ordini e raccomandazioni, mi sono sentito toccare il braccio, è Ana, sussurra di essere certa che nulla di quanto stavamo osservando avrebbe avuto l’autorizzazione alla diffusione in televisione. “Dove li portano, Ana?” Le ho indicato i pullman che escono dal cortile carichi di musulmani maschi. “Credo in un campo!” Ha indicato lontano. “A nord, dicono, verso il confine.” “Sei sicura, Ana? Ne sei sicura? Ci sono dei ragazzini, li ho visti, poco più che bambini.” Non mi ha risposto, si allontana svelta, il etto corto e il sedere basso. Ho sentito un ufficiale lamentarsi dell’enorme quantità di prigionieri e del numero irrisorio dei pullman disponibili, con quel sistema avrebbero impiegato giorni, i colleghi hanno annuito, si sono riuniti, in piedi, parlottando a bassa voce, sono distanti una decina di metri, non riesco a decifrare ciò che si dicono. Dopo qualche minuto hanno sciolto il cerchio, sembrano soddisfatti, hanno chiamato un gruppo di soldati e ho sentito nitidamente gli ordini, era necessario organizzare dei gruppetti, non più di venti o trenta prigionieri, da scortare al di là della collina, gli ufficiali hanno indicato un modesto rilievo boscoso a mezzo chilometro dalla caserma, dove è stato predisposto un altro parcheggio di pullman e di camion. Due soldati hanno inquadrato un gruppo di una ventina di prigionieri, ordinandoli in fila indiana e, a un cenno di uno degli ufficiali, li hanno sospinti verso la collina, li ho osservati camminare uno dietro l’altro, c’è anche un ragazzino, non ha più di quindici anni, un giovane ha tentato di allontanarsi e i due soldati hanno sparato centrandolo sulla nuca, gli altri, senza voltarsi verso il compagno caduto, si sono ricompattati, proseguendo a camminare a capo chino. Li hanno seguiti altri gruppi, da venti, trenta, anche quaranta uomini, prelevati dalla folla, in fila ordinata, verso la collina, forse qualcuno tentava la fuga, riconoscevo i colpi del mitra indirizzati alla schiena dei fuggitivi. E ascoltavo gli ufficiali arringare la folla nel cortile. Avevano sentito quei colpi? Erano destinati a chi si provava a scappare, se ciascuno avesse disciplinatamente obbedito agli
ordini sarebbe salito sui pullman dall’altra parte della collina per venire condotto, sano e salvo, al campo di destinazione. Più tardi, mentre i pullman proseguono a caricare uomini sul piazzale della caserma, sono già state avviate alla collina centinaia di persone, la rassegnazione dei prigionieri è impressionante, si allineano in fila indiana in silenzio, non pongono domande, sono esausti, barcollano, non hanno la forza di reagire, né di immaginare ciò che li aspetta. Ho visto Sara avvicinarsi a Mladić, le sue labbra davanti a quelle del tenente generale, gli ha sussurrato qualcosa che solo quello ha potuto sentire. Lui ha alzato la mano in segno di assenso e Sara, con una grossa arma in mano, si è accodata a un gruppo appena partito verso la collina, è tornata dopo una mezzora, sola, senza il soldato che insieme a lei sorvegliava il gruppo, ha gridato qualcosa all’indirizzo degli ufficiali, sono riuscito a captare la sua voce. “È rimasto nel bosco, sta inseguendo dei fuggiaschi, maledetti turchi!” Senza attendere reazioni ha preso in consegna un altro gruppo, questa volta da sola, con il mitra puntato li costringe a mettersi in fila e li avvia verso la collina. Senza essere notato mi sono nascosto dietro un capanno di paglia, uscendo allo scoperto quando il gruppo di Sara è arrivato vicino. “Sono qui, amore mio.” È tesa, concentrata, mi fissa sbalordita. “Non puoi, Chicco, non puoi venire con me.” Mi sono affiancato. “Certo che posso, lo sto facendo.” Ha alzato il mitra e lo ha puntato contro un prigioniero che ha rallentato l’andatura, grida forte. “Avanti, vigliacchi, ricordate Orić? Queste sono le conseguenze. E ringraziate che siamo magnanimi, vi attende un campo, niente male, mi hanno detto, c’è un laghetto, e un bosco di abeti!” Ha subito abbassato la voce e si è rivolta a me. “Ti scongiuro, Chicco, aspettami qui, torno, torno presto, e ce ne andiamo.” Non può fermarsi, la fila dei musulmani è in cammino, troppo rischioso arrestarne il movimento, è sola, in un momento di distrazione possono assalirla, immobilizzarla, o ucciderla, già la osservano con attenzione, ci ascoltano, parliamo in italiano, e qualcuno forse lo comprende, o lo intuisce, una debolezza da parte nostra può rappresentare per loro una possibilità di fuga, per questo ho rallentato l’andatura, rimanendo indietro, quanto basta per scomparire
alla loro vista senza cessare di seguirli. Entrati nel bosco abbiamo superato una radura dove due soldati stavano ricaricando le loro armi, Sara ha proseguito, l’ho sentita, con la sua voce dura, quella da combattente, spiegare ai colleghi di non aver bisogno di aiuto, erano solo venti, nessun problema. Sempre attento a non farmi scorgere ho seguito il gruppo nel bosco, ho ascoltato Sara mentre descriveva il viaggio che avrebbero effettuato in pullman sino al campo di transito, si è guardata intorno e ha ordinato l’alt. Dai prigionieri è salito un urlo unanime, dove era la stazione dei pullman, perché si erano fermati lì? Sara ha gridato che tero, che la smettessero, ha alzato l’arma, il gruppo dei prigionieri si è compattato, si stringono, si abbracciano, si salutano, hanno capito, non ci sono pullman, non c’è campo con il lago e gli abeti, hanno compreso il motivo della lunga eggiata, da qui il rumore dei colpi del mitra non arriva alla caserma di Potocari, così quelli in attesa non possono nutrire sospetti. Protestano, questi uomini magri e disperati, gridano, parlottano tra loro, fuggire, è il momento di fuggire, ora, subito, è questo il momento, Sara, a una decina di metri di distanza, li tiene sotto tiro, ha un arma potente, un mitra di ultima generazione, un uomo si è voltato verso di lei, un movimento del corpo che prelude a un assalto, è l’ultima possibilità che ha, ora, Sara, spara adesso, subito, se non spari ora ti saranno addosso, sono molti, ti disarmeranno, sei una donna, ti uccideranno a pugni e a calci, spara, Sara, spara. Ho chiuso gli occhi, nessuno sparo, niente grida, la sua voce, calma, dolce, Sara sta parlando, in serbo-croato, in inglese e in arabo. “Via, subito, adesso!” Da una tasca dei pantaloni ha estratto un pacchettino, che consegna a uno dei prigionieri. “Dentro ci sono una bussola e una mappa. Prendete a Sud Ovest, due giorni e siete in territorio bosniaco, via, subito.” Alza la canna del mitragliatore, sventagliando proiettili innocui in cielo, mentre i prigionieri si dileguano nel bosco. “Sara!” “Sono una combattente palestinese, da quattro anni sono una spia dei musulmani. Che credevi? Che mi fossi venduta a questi maledetti? Stai lì nascosto, se torni verrai interrogato, resta lì, alla fine ce ne andremo.” Sono rimasto nel bosco più di sei ore. Un transito ininterrotto di prigionieri, uccisi dai loro accompagnatori con raffiche di mitraglia alla schiena, Sara era accorta, per non intersecarsi con altri gruppi sceglieva con cura i tempi, e intimava l’alt al suo gruppo prima del luogo dove gli altri soldati uccidevano i
loro prigionieri. Quella mattina e quel pomeriggio dell’11 luglio Sara ha condotto nel bosco dietro la collina cinque gruppi, più di centocinquanta uomini e ragazzi, l’ho vista, cinque volte, spietata assassina e virago diabolica, che incute terrore ai condannati e amica e compagna quando svela il suo gioco, un rischio enorme, un assalto disperato da parte dei condannati, un dubbio dei soldati che incrociava, una donna sola con trenta prigionieri, una sospettosa stranezza, l’avrebbero seguita, per controllare, o anche solo per aiutarla nel suo incarico. Sara è riuscita a non tradirsi, né con i prigionieri musulmani né con i soldati, lasciava fuggire i prigionieri, riceveva i baci e gli abbracci di riconoscenza e non dimenticava, ritornando indietro, il mitra in spalla, contenta, sorridente, di fare un cenno rapido nella mia direzione, un segno, per esortarmi a restare nascosto. È ricomparsa con il sesto gruppo nel tardo pomeriggio, quasi quaranta persone, stessa la scena, l’ordine secco di interrompere la marcia e, un attimo dopo, la comunicazione multilingua. Non era sola, Sara, alle spalle aveva cinque soldati e un tenente, incaricati della caccia ai fuggiaschi, erano vicinissimi, hanno visto e hanno sentito, il tenente le ha intimato di alzare le mani mentre i soldati sparavano contro quelli che scappano, ne hanno colpiti una ventina, che hanno lasciato, molti agonizzanti, stesi nel sottobosco, si avventano su Sara, sei contro uno, disarmata e perquisita, mani sul suo corpo, dentro la giubba e dentro i pantaloni, Sara immobile, non risponde alle domande dell’ufficiale, tiene il capo chino, pronta. “No, a lei penserà il comandante!” Ha detto l’ufficiale. “Portiamola giù, viva.” L’hanno spinta con le bocche dei fucili lungo la discesa, le urlano in coro che è una puttana musulmana, e che le puttane musulmane hanno un solo destino, quello del pollo.
* * *
A Milano, sui gradini del Duomo, il 25 luglio 1995, appena quindici giorni dopo la cattura di Sara, mio grande amore. Ci aspettava Francoforte, poche ore, aveva voluto strafare, salvare quella gente, che i serbo-bosniaci, i caschi blu olandesi, la NATO e l’Europa avevano condannato, Srebrenica era diventata serba, pulizia
fatta, più di 8.000 uccisi, così la Bosnia era pronta per essere ritagliata e distribuita ai contendenti. Quanto grande era stato il contributo di Sara alla riscossa musulmana negli ultimi due anni di guerra? Enorme, la sua vicinanza a Mladić le aveva permesso di ottenere informazioni di inestimabile valore. Qui sui gradini fa molto caldo, entro, mi siedo in una delle navate laterali, c’è molta gente, turisti, fedeli, nessuno farà caso a un uomo un po’ male in arnese, la penombra mi protegge. Sono sistemato al centro di una fila di sedie, qui c’è fresco, respiro, finalmente, ora mi riprendo, dunque esco, da qui a casa di Santo sono poche centinaia di metri, è il mio amico, mi aiuterà, e se non c’è lo attenderò, tornerà, questa sera, questa notte, lo chiamerò mentre si avvicina al portone, Santo, non ci crederai, sono io. Mi devo essere addormentato, sono scivolato sul pavimento, mi rialzo, nessuno mi ha visto, bene, devo attendere ancora un po’, sono molto debole e all’esterno la temperatura è molto elevata. Mi sono nuovamente addormentato ho sentito una mano sulla spalla. “Signore, tutto a posto?” È uno straniero, dall’accento direi un americano. Ho ringraziato, non è nulla, è a causa del caldo. Non credo di essermi addormentato, piuttosto uno svenimento, sono in viaggio da quindici giorni. Devo uscire, ho dei soldi, molti, anche, comprarmi da mangiare, bere, e poi andare da Santo, con un taxi, da qui al parcheggio non sono che cento metri, chiederò di essere portato sino a un bar, entro, mi rifocillo, il taxi lo faccio aspettare, poi vado da Santo. Sono svenuto ancora, mi hanno sollevato da terra a braccia, c’è anche un frate, mi aiutano a stare in piedi e mi sorreggono sino al portone. “Riesce a farcela da solo?” ha chiesto il frate. “Certo, vado a prendere un taxi.” Mi ha guardato con sospetto. “Ha il denaro per pagare il taxi?” Nel momento nel quale ho infilato la mano nella tasca interna della giacchetta per estrarre il portafoglio e dimostrare che effettivamente avevo il denaro ho iniziato a vedere nero e blu e subito prima di svenire di nuovo ho realizzato che il portafogli non era più al suo posto, che non avevo più denaro, né documenti,
né carte di credito. Mi sono svegliato steso dentro una ambulanza. “Dove mi portate.” “Al Niguarda, è l’unico che ha posto” mi ha risposto una voce giovanile che non sono riuscito ad associare a un volto, sono immobilizzato dentro una barella, e non riesco neppure a voltare il viso. È stato allora che per la prima volta da Srebrenica ho pensato a Sara, avevo cancellato, rimosso, forse.
* * *
Sono rimasto nascosto nel bosco una mezzora, e dopo, percorrendo un lungo giro per evitare di incontrare le file dei condannati in cammino sono tornato verso il piazzale della caserma, dove le operazioni sono ancora in piena attività, centinaia di soldati, schiere di uomini caricati a spintoni sui pullman e sugli autocarri militari, altri inviati verso la collina, le grida delle donne dentro la caserma, le grida degli uomini dentro i pullman. Ho incrociato Ana. “Ci hanno restituito la telecamera e possiamo riprendere, ma non dentro la caserma e non dentro il piazzale.” Ha una camicetta verde smeraldo e scarpini con i tacchi alti. Di Sara nessun segno, dove l’hanno portata? I plotoni dei soldati rientrano nel piazzale dalle missioni in città, è in atto un rastrellamento a tappeto, arrivano con le loro prede, uomini, donne e famiglie intere, chi tenta la fuga viene ucciso con una raffica breve, si sentono i colpi di fucile lontani, molti vengono eliminati direttamente in strada o dentro le case.
* * *
Ana ama sentirsi sudata, i capelli umidi incollati sulla fronte, la camicetta chiazzata, l’odore più forte delle grida delle donne, gli occhi più caldi di questo sole di luglio, giornalismo d’assalto, spiegherebbe ai suoi accoliti, nessuna paura e distacco assoluto dagli eventi, lei è testimone, racconta, non partecipa. È banale la sua frenesia su questo piazzale insanguinato, trotterella sculettando tra il gruppo degli ufficiali e quello delle madri in lacrime, porge il microfono senza esitazioni, novella Cronkite in azione sul fronte di Da Nang. Il giorno dopo torniamo a Belgrado, un viaggio interminabile, senza soste, ventiquattro ore piene, senza sapere che fine ha fatto Sara. Abbiamo lasciato il furgone a Potocari, dopo aver distrutto il portellone posteriore era inutilizzabile, rientriamo con il promiscuo, carico all’inverosimile di attrezzature, non possiamo lasciare nulla, il caporedattore ne risponde personalmente, è merce preziosissima, da preservare in ogni modo. E senza Sara è il nostro appartamento, Sara non c’è, nella notte ho sognato un miracolo, Sara fuggita, o Sara graziata, Sara che mi attende a casa. Non c’è, ho guardato sotto il letto e dentro l’armadio, non c’è, ho telefonato a Dix, a Giulio, a Iris, telefoni staccati, nessun segnale, forse sono riusciti a farla evadere, forse Dix ha convinto Mladić, ha barattato la sua libertà per una montagna di denaro, è possibile, stanno tornando, con Sara viva, libera, l’aspetterò, è questione di poche ore. Mi ha svegliato nella notte il borbottio di un animale sul pianerottolo, non è un animale, bussano alla porta, piano, con cautela. Sara? Sono entrati in silenzio, con attenzione, nessun rumore, Dix, Giulio e Iris. “Andiamo via, sco, subito.” “E Sara?” “Abbiamo saputo!” Mi ha risposto Dix abbracciandomi forte. “Non possiamo fare nulla, ora, dobbiamo fuggire. Potremmo essere associati a lei, sarebbe un disastro.” Si è seduto sul letto, mi tiene la mano tra le sue, enormi, asciutte. “Abbiamo un piano, Iris e Giulio ano in Montenegro e rientrano in Italia via mare, io vado solo, come niente fosse, salgo in macchina e raggiungo l’Austria, non c’è pericolo, ho le conoscenze che servono. Tu rientrerai con un convoglio ONU, abbiamo preso accordi, ti lasciamo a un loro punto di accoglienza, tornerai in Italia con loro, hai un aporto italiano, non ci saranno problemi.”
“Senza Sara non lascio la città” ho dichiarato con la voce tremante. “Sciocco, ma hai visto? Via, subito, via da questo paese, poi mi muoverò, ho contatti, molto in alto, dicono che sia prigioniera personale di Mladić.” “E questo cosa significa?” “Che è una spia, una turca e una donna. E questo è il peggio del peggio.” “Tu sapevi?” gli ho domandato. “Sì, certo.” “Da quando?” “Da sempre, sco. Come potevi esserti ingannato? Io ero sicuro che lei si fosse confidata con te.” “Non lo ha fatto.” “Voleva proteggerti.” “Cosa le faranno?” Si è alzato, raggiungendo Iris e Giulio davanti alla porta di casa. “Andiamo, sco. Sarà vivrà, te lo prometto.”
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