Un Cittadino Al Di Sotto… Di Ogni Sospetto 30434m

Ai miei figli Antonello, sca, Gaia e ai loro “derivati” Caterina, Cecilia, Aurora e Ginevra

Indice

Prologo

Trent’anni e nessun problema

Metti una notte in auto

Il braccio violento della legge

La parola alla Corte

Come vola il tempo

Un lupo mannaro alla Cisl

So cosa hai fatto

Il braccio violento della legge 2

Non la trattengo

Il milite ignoto

E io ti perquisisco

La legge si ferma qui

Esimio colpevole, scusa il ritardo

Un destino chiamato Artemio

Con un filo di voce

Lei maltratta le sue corde

Prima dell’11 settembre

Bao bao micio micio

La speranza è l’ultima a morire ma gliela fa anche lei

Causa che pende causa che rende

Fatti, non parole

Un giorno in pretura senza telecamere

La legge è disuguale per tutti

Lotta dura senza paura

La svolta

Sliding Doors e se fosse andata...diversamente?

Metti una notte in auto 2

C’era un lupo mannaro

alla Cisl?

Una voce poco fa

Quando Artemio ti dà una mano

Eccolo il cittadino al di sotto… di ogni sospetto

Prologo

Tranquilli, non è un romanzo autobiografico. Non ho mai partecipato all’isola dei famosi né sono stato tra gli ospiti del GF. E non è neppure l’opera di un giovane scrittore, dato che la mia gioventù si perde nella notte dei tempi. Non mi picco nemmeno voglia essere la “fotografia della società del terzo millennio”. C’è già l’Istat per questo. E allora, caro lettore, perché dovresti perdere il tuo tempo nelle mie elucubrazioni, dato appunto che sono le mie? Farò come Marzullo, mi sono fatto la domanda e mi do la risposta, quando una vita - visti gli anni - sta per tramontare e una nuova vita… speriamo che esista. Diversamente sono fregato io e lo siete anche voi. Ma torniamo al punto. Se non è tutto questo, allora di cosa si tratta? Ho mentito qualche riga più su. E’ prettamente autobiografico ma non è un romanzo. E’ la lucida cronaca di una serie d’ingiustizie capitate a me ma che sarebbero potute o potrebbero capitare anche a voi. Fate pure gli scongiuri del caso, ma quando la sfiga abbatte la sua mannaia su qualcuno neppure il talismano più potente del Mago Oronzo (sul quale vi risparmio la rima) riesce a metterci una pezza. Perché, infine, raccontare alcune illuminanti vicende della mia vita potrebbe dare la stura a una serie di riflessioni serie proprio in un periodo in cui si parla di giustizia. Per fortuna non saranno riflessioni catastrofiche. Infatti sono qui a scriverle e non sono dietro le sbarre di un istituto di pena. E la mia fedina penale è immacolata, come dire…vergine. Esistono ancora le vergini? Mah, di questo non scriverò né ora né mai. Giuro

Trent’anni e nessun problema

Cazzarola, tanto è durata la mia vita senza imbattermi in un tribunale, senza conoscere un giudice se non attraverso i tg o le cronache locali. Guadavo con distacco quello che mi accadeva attorno, professionisti inquisiti per ricettazione, mariti cornuti che arrivavano al quasi omicidio, integerrimi vicini di casa beccati nei primi clubs per scambisti. E io lì, novello Nostradamus, a bearmi dello spettacolo dall’alto e a sentirmi Gastone fortunato perché niente di questo mi sfiorava. All’epoca collaboravo a un quotidiano locale e facevo gavetta con la cronaca giudiziaria. Tre casi curiosi su cui scrissi. Il primo vedeva protagonista due amanti, lei 32enne, una zoccola finita, lui il classico babbione che si era fatto sfruttare fino a ridursi sul lastrico. Poi l’anziano (ex carrozziere di 72 anni) non aveva accettato di sentirsi abbandonato e aveva brandito un coltello da cucina infliggendole una ferita, solo un graffio (come dicono nei film americani). Nell’aula del tribunale riecheggiavano le falsità della donna “Io la sua amante? Ma l’avete visto? Certo, sono stata con lui in hotel ma soltanto come segretaria, e che diamine!”. In realtà c’erano vagoni carichi di ricevute d’albergo in camera matrimoniale, tutti viaggi di lavoro s’intende, tant’è che sentii l’avvocato della donna biascicare tra sé e sé “almeno sta zitta”. Lui se la cavò con la condizionale e con una chilata di vergogna. Lei riuscì a strappare qualche briciola di quel poco che rimaneva all’amante per sostentarsi in vecchiaia. Già allora, tornando in redazione ridacchiavo e mi dicevo “la legge è legge, vero ma la giustizia è altra cosa”. Il secondo caso fu ancora più bizzarro. E vale la pena di ricordarlo Da scompisciarsi dalle risate per gli elementi che lo caratterizzarono. Un pregiudicato era stato beccato sul tetto della diocesi mentre cercava di introdursi nei locali e sottrarre, che so, magari dei paramenti o qualche spicciolo di offerte. Sul banco degli imputati il poveraccio non era neppure a disagio tanto non si rendeva conto del reato commesso. Ma il suo avvocato fu formidabile. Un’arringa da mille e una notte. Avrebbe potuto sostenere la tesi che il suo assistito fosse braccato dalla mafia che voleva ucciderlo ed era salito sul tetto per nascondersi. Avrebbe potuto argomentare che era sfuggito dalle grinfie di un marito geloso che era rientrato all’improvviso. No, il principe del foro,

aulicamente anche, sfoderò la sua migliore dialettica forense: “Vostro Onore, attirato da un rumore sospetto il mio cliente, l’imputato che è oggi di fronte a Voi, si è arrampicato perché non riusciva a scorgere di cosa trattavasi”. Testuale. Ora io dico che a tutto c’è un limite, finanche alle cazzate. Il “curioso”, peraltro già uso a birbate (come direbbe Lui) del genere, venne ovviamente condannato. La seconda condanna l’inflissi io all’avvocato titolando il pezzo “ava sul tetto ma solo per caso”. E quando il penalista mi telefonò accusandomi di cercare di rovinare la carriera a un professionista di valore non mi presi neppure la briga di controbattere e lo liquidai con un “avvocato, vada a cagare!”. Il terzo caso fu quello clamoroso di un gitano slavo, tale Mirko Goman che, avendo avuto la ventura di imbattersi in un dizionario della lingua italiana che definiva “zingaro, persona di colorito bruno proveniente dall’Oriente che spesso e volentieri si dedica alla rapina” intentò un’azione civile nei confronti della casa editrice riuscendo non solo a farsi risarcire lui per tutti gli errabondi d’Italia ma anche a far ritirare dal mercato i vocabolari in circolazione. La fine del mondo. Anche allora ribadii a me stesso che quella non era giustizia ma tutt’altra cosa. Chiedo venia, come avrebbe detto quel tal avvocato, per la digressione. Mi sono perso in cronache ormai datate per spiegare quanto fossi lontano dal vivere un evento giudiziario in prima persona. Ero, senza saperlo, un giovane baciato dalla Fortuna. Meglio, abbastanza coccolato. Neanche tantissimo in verità. Qualche sfighetta qua e là mi era accaduta. A quanti succede di cercare una toilette in un cinema sconosciuto e fare un volo di quattro metri al buio trovando il locale caldaie? A quanti paracadutisti sportivi succede di atterrare in autostrada anziché sul campo? Certo, piccole cose, ma se dovessi definirle piacevoli mentirei. E torniamo al mio primo impatto col pianeta giustizia

Facci caso, quando non hai problemi non pensi che esistano davvero

Metti una notte in auto

Manzoni avrebbe scritto: “Me ne tornavo bel bello per la mia strada…” beh, lasciamo i classici e veniamo a fatti. Io sì che me ne tornavo “bel bello” in auto a mezzanotte in punto di un 25 aprile. Ossia, me ne vagabondavo per la città. Ho sempre amato la notte, prodiga di sincerità, quando ciascuno di noi smette di recitare il proprio ruolo e tende a mostrare chi è davvero. Per stanchezza non per naturalezza. Dunque era appena scoccata l’ora dei vampiri quando, a bordo della mia vettura, mi portavo (così si lesse poi nel verbale delle forze dell’ordine, ndr.) a ridosso del centro storico per farvi ingresso. Era il giretto di prassi prima di tornare a casa a dormire. Gli animali notturni hanno spesso strani rituali. Quello era il mio. D’un tratto invece di vedermi sbarrare la strada dai Bravi, sempre di manzoniana memoria, a tagliarmi la strada è un “bravo automobilista” che strilla e si dimena dal suo abitacolo. Forse non ha capito che avrebbe dovuto fermarsi allo stop anziché agitarsi. Insomma un normale caso di mancata precedenza ma senza impatto. Arresto la vettura (sempre dal verbale) e ne discendo con in mano il permesso dell’isola pedonale. Non un coltello o un revolver ma un cartoncino. Sfodero da sotto i baffi uno dei miei sorrisi più accomodanti e faccio per mostrargli l’autorizzazione. Hai visto mai sia un vigile? No, non è un vigile. E’ un vigilato speciale, che è un po’ diverso. In una città di 97.300 abitanti, a mezzanotte del 25 aprile, l’avevo scelto nel mazzo: bingo! Fu una conoscenza, come dire, immediata. Mi sferrò, senza parlare, un gancio alla mandibola che mi fece vedere stelle e Via Lattea in frazioni di secondi. E non ricordo bene se ebbi un piccolo flash della Madonna di Częstochowa. Poi, strattonato dalla sua pupa (quelle dei delinquenti si chiamano ancora così?) salì in auto e si dileguò. Erano le 007 di un fottutissimo anniversario della Liberazione quando per me si aprì un nuovo capitolo della vita, fatto di giustizia ingiusta, meglio, di ingiustizia e basta. Retorica, direte voi. No, realtà palpitante. Da quel momento avrei conosciuto un mondo nuovo fatto di meandri giudiziari, carte bollate, udienze, rinvii. Insomma tutto il peggio di una democrazia partecipata.

Soccorso da alcuni anti, peraltro meridionali, che avevano assistito allibiti alla scena, fui accompagnato all’ospedale. Sottolineo il fatto che fossero calabrosiculi in trasferta. Probabilmente, al paese loro, si sarebbero ben guardati dall’intervenire ma in Continente è un’altra storia. Dunque al pronto soccorso mi diagnosticano una incrinatura dello zigomo. Grazie a Dio non scomposta. Ho pur detto di essere fortunato, nelle disgrazie si capisce. Per guarire - mi dicono - ci vorrà una mesata ma, al di là della mandibola, l’occhio nero, come da vignetta, durerà per diverso tempo.

La notte è magica, perché ciascuno è se stesso. Ma non sempre è migliore

Il braccio violento della legge

Così il giorno appresso mi munii di un paio di occhialoni anni Settanta e uscii di casa protetto da sguardi indiscreti come immagino abbia fatto la cameriera di Naomi Champbell dopo il trattamento subito dalla modella. Io non ero un Vip ma, all’epoca, ero un docente, un personaggio radiofonico molto in vista di un’emittente locale e un dirigente sindacale. In Questura, dove andai a presentare denuncia contro ignoti, mi dissero che erano risaliti dal numero di targa (appuntato diligentemente dai miei soccorritori) e che avevano individuato l’aggressore. Un ispettore aggiunse: “Sa, lei è fortunato ad ad essersela cavata con così poco visto il curriculum del soggetto”. Che culo! Pensa se ci fosse stata colluttazione. Il mio corpo sarebbe sarebbe stato ritrovato in una colonna di cemento chissà quando. Ma io sono un uomo fortunato, va ribadito ancora una volta senza meno. Poi mi dissero che avevano convocato la “belva” per la tarda mattinata. Avrei potuto conoscerlo. E così feci. Puntuale come il Big Ben, all’orario previsto mi presentai alla Squadra Mobile dove il mio uomo si muoveva come a casa sua. Conosceva ed era conosciuto da tutti, dispensava sorrisi e battute agli agenti, si accomodava dove meglio credeva. Insomma, uno di famiglia. Io, la vittima, ero invece sulle mie in tutto e per tutto. Dopodiché il commissario ci mise attorno al tavolo per fare…vogliamo chiamarla conoscenza? E lì appresi che il soggetto, un armadio a tre ante alto come una palazzina, era un collezionista. Di condanne che altro? Rapina a mano armata e a mano libera, tentata violenza, estorsione, resistenza a pubblico ufficiale, spaccio di sostanze stupefacenti tanto per citarne qualcuna. Cosa ci fe in giro un giglio simile, per di più nottetempo, rimaneva allora e rimane ancora oggi un mistero. Fatto sta che aveva incontrato me, mica uno della sua razza, ma un macho alto uno e sessantanove scarso. Bisognava rompere il ghiaccio, che il resto l’aveva già rotto la notte prima. E lo fece lui. “Fammi un po’ vedere la faccia…Beh, pensavo peggio!” questo mi disse pacatamente. E a me che lo guardavo come si guarda il mostro del Circeo mentre tiene una lezione di sessuologia, sembrava di vivere un sogno. Dai non è possibile che questo succeda in un paese civile. Ora delle due l’una: o questo non è un paese civile oppure mi sveglio dall’incubo. Macchè, sveglio ero

sveglio. E lui continuò nello sproloquio: “Ah, ti dico subito che io non ho una lira, quindi è inutile farmi causa”. Perfetto. Il quadro era completo anche di cornice. Cosa vuoi controbattere a un tipo così mentre il funzionario non aggiunge una parola perché non ci s’infervori? Provai a replicare: “Bella forza picchiare uno che non se l’aspetta!”. Non finii il concetto che lui aggiunse “se ti muovevi a ‘st’ora non eri vivo”. Capito, condizionali bistrattati a parte, il senso del discorso? Stavo per dire la mia quando il commissario decise di concludere il dibattito frettolosamente come fa Vespa quanto sente odore di polemica fuori luogo. Poi uscimmo dalla Questura nello stesso momento. Liberi. Tutti e due.

La parola alla Corte

E fin qui - penserete - nulla di che - se non una brutta avventura. Ma il bello sarebbe stato ancora da vivere. Qualora avessi voluto dimenticare l’accaduto non avrei potuto. Ci sono reati che, in un qualche modo, vanno giudicati indipendentemente dalla costituzione di parte civile. In altri termini Dio perdona, tu anche, ma la legge no. Fu così che la pratica ò automaticamente, d’ufficio, in magistratura e venne fissata la prima udienza nel febbraio successivo. Per supplemento di indagini? Macchè, il colpevole era lì, reoconfesso. I testimoni, qualora fossero serviti, erano ancora in città. La vittima era palesemente segnata. Perché allora andare ai supplementari? Ah saperlo! Forse il sovraccarico della procura, la mancanza di personale, le ferie del PM, davvero non saprei. Insomma quando si applica il rito per direttissima? Quando si accoltella la moglie, quando si commette una strage su una tratta ferroviaria? Neppure vero questo se Olindo e Rosa hanno visto anche loro scivolare i tempi. Allora quando il caso è mediatico? Oppure per rischio di inquinamento delle prove o reiterazione del delitto? Come dire che il mio aggressore avrebbe potuto gonfiarmi come una zampogna o, magari, darsi alla fuga o ripensare ai fatti e negare di essere stato lui. Mettila come ti pare ma nulla di tutto questo ò per la mente del giudice. Febbraio, punto e basta. Col fresco si ragiona meglio! Un annetto per rifletterci. Ma io non avevo nulla cui pensare se non affidarmi a un legale di mia fiducia che “disbrigasse la pratica”. Quanto al figuro che mi aveva pestato, gli fu assegnato un avvocato d’ufficio. Avvocato che, nella fattispecie, era un ometto sulla quarantina che si aggirava nei meandri del tribunale proprio in attesa di casi analoghi al mio. Perché - a quanto mi era dato sapere - non aveva clienti di suo. E neppure uno studio aveva di suo. E, credo, nemmeno una scrivania alla quale esercitare avesse di suo. Diciamo che chi l’avesse voluto rintracciare l’avrebbe trovato a casa dei genitori, ore pasti, o su una panchina della piazza attorno a mezzogiorno. In caso di pioggia sotto il loggiato del comune. Ma questo principe del foro si attivò immediatamente. Del resto non aveva impegni e io rappresentavo per lui un Vs/ (avverso, ndr.) come si scrive sui fascicoli. E neppure studiò a fondo il caso per

trovare un bug nelle mie dichiarazioni o delle attenuanti al suo assistito. L’avvocaticchio cercò la via più semplice che non implicasse la stesura di relazioni. Si dedicò a un’attività più immediata, quella di rompermi le palle. Ogni volta che facevo capolino nel corso principale o mi trovavo per caso a are dalle parti della civica residenza lui sbucava, come uno scherzo a sorpresa, da dietro una colonna e cominciava a tormentarmi con fare mellifluo. “Dai, Lei sa bene che si è trattato di uno scatto d’ira. In fondo non è persona cattiva. E’ un brav’uomo un po’ intemperante”. Alla faccia dell’intemperanza! Un curriculum da fare invidia, nel suo piccolo, a Lutring (il solista del mitra diventato personaggio televisivo), una caterva di reati che lo avevano accompagnato dalla sua adolescenza fino alla maturità e lui me lo definiva intemperante. Il fatto strano, ribadisco, era che un fior di delinquente come quello di trovasse a piede libero. Ma tant’è, evidentemente tra le pieghe della legge lì sì che c’erano e, temo, ci siano dei bugs. Per tornare a noi il “curioso avvocato” non demorse mai nel suo stalking (che oggi si chiama così, una volta era un fracassamento di maroni per dirla alla bolognese). Mi beccò finanche in una discoteca e mi si appiccicò come un biadesivo mentre ero su un divanetto con una ragazza. Un divanetto da due scomodi che divenne da tre in un lampo. La ragazza guardava me e lui e cercava di intrufolarsi curiosamente nel discorso per capire. C’era pochissimo da capire e, quel poco, non era affare suo. Feci cadere la scure dell’interruzione su ogni argomento che l’intruso intavolava e mi alzai infastidito dirigendomi al bancone per prendere da bere. Al mio ritorno, da non credere, la ragazza era lì con lui totalmente sprofondata nel racconto dell’avvocaticchio che, va detto, era brutto, piccolo, semicalvo e logorroico. Persi la pazienza, la serata e la ragazza. Ma prima o poi sarebbe dovuto arrivare il giorno del giudizio, febbraio. E lì aspettavo il mio aggressore che, nel frattempo, era finito in carcere per una delle sue inezie. Roba da niente, una condanna a un mesetto in “asilo” come si dice in gergo. E, incredibilmente, pare la stesse scontando in attesa di altri giudizi. L’estate era ata, per usare un’espressione scolastica, dans l’espace d’un matin. Quando si è giovani succede. Dunque febbraio, mi pare fosse il 4. E mi presentai in tribunale come a una serata di gala, in bleu e incravattato. Perché così si conviene - pensai - nel Tempio della Giustizia. Sarei potuto andare in jeans lacerati e maglia infeltrita. L’imputato non era in aula. Per forza, era in galera. Ma mi sarei aspettato che ci fosse arrivato trascinato in catene a bordo del cellulare per rispondere del suo reato. Macché.

Il mio legale fu avvicinato dall’avvocaticchio e parlottarono per un paio di minuti. Era stato chiesto e ottenuto un rinvio. Per malattia stando a quanto mi dissero. La prossima udienza? Fissata a…data da destinarsi. Beh certo, c’è un ruolino di marcia da rispettare. Se non è oggi sarà…sarà…dunque vediamo…a novembre. Così fissò il giudice per il quale mi resi conto di essere ghost. Non mi degnò neppure di un’occhiata. Perché funziona così, tu non sei nessuno, soprattutto se sei la parte lesa. Vabbè, il male di aspettare altri nove mesi, ma poi il parto ci sarebbe stato, eccome! Se è vero come è vero che febbraio è tradizionalmente dedicato al carnevale, novembre sarebbe stato foriero di morti. Non siamo melodrammatici, di cadaveri no ma di un verdetto di condanna auspicabilmente sì. E se ne arono un paio di stagioni durante le quali ebbi la fortuna di non imbattermi più di quel tanto in quel meticoloso e sfigatissimo avvocato. Mi bastò svicolare in un paio d’occasioni e la feci franca. Da lui, ma non dal suo assistito. C’é poco da stupirsi ma in Italia, dove la demagogia detta legge, i braccialetti ai detenuti non si devono mettere. Ne va della dignità, cribbio, come dice Qualcuno. Così se l’ospite di un istituto di rieducazione riesce a farsi commutare la pena in arresti domiciliari (il mio aggressore gliel’aveva fatta tramite un penalista serio e non lo sfigato d’ufficio) non farà altro che sgattaiolare di tanto in tanto per andare, che so, magari a giocare allo slot nel bar vicino, a comprare le sigarette o, forse, dal barbiere. Non il suo, il mio. Mi spiego meglio. Ero appena tornato dalle vacanze e stavo raccontando al barbiere le meraviglie del mio viaggio mentre lui era intento a radermi. D’un tratto, riflesso nello specchio, intravedo un’ombra all’ingresso del negozio che si staglia in controluce. Un’ombrona. Vedo bene? Cazzarola è proprio il “galeotto” che mi fa cenno di volermi parlare in privato. La situazione mi ricorda quella trita e ritrita della Chicago anni trenta quando era dal barbiere che si consumavano i delitti più efferati, mandante Alphonse Gabriel Capone, detto Al. Non dico che ebbi paura ma la faccia del mio interlocutore non prometteva nulla di buono, soprattutto perché aveva eluso la sorveglianza e mi era venuto a cercare. Quando le mogli sono disattente e dicono a tutti, proprio a tutti, dove ti trovi! “Ascolta” mi affrontò a brutto muso, che non avrebbe potuto sfoderarne un altro dato che la natura era stata ingenerosa con lui “ascolta bene, di che vai in cerca? Io non ho una lira. Ti conviene ritirare la denuncia!”. Niente di più niente di meno. E io lì in piedi come un imbecille con la tovaglia del barbiere ancora appesa al collo a farmi minacciare da chi avrebbe

dovuto implorare la mia comione, il mio perdono. A tutto c’è un limite. In maniera ferma, con la voce da speaker consumato mentre legge una notizia di nera l’apostrofo: “Hai trovato il tipo sbagliato. Primo, non mi fai paura. Secondo, sono io che non voglio una lira. La tua condanna mi basta. E se non vai via in fretta avviso anche la polizia. Mi conviene o no lo decido io”. Presumo che il Generale Dalla Chiesa abbia usato lo stesso tono, ma a Palermo. Non so come, ma quello girò i tacchi e tornò, immagino a casa. O forse andò a puttane fidando che nessuno l’avrebbe controllato magari in quella giornata. Non ebbi più sue notizie fino a novembre successivo. Tornai in Tribunale in una grigia mattina. Era un martedì. Lo ricordo perché il martedì, nella mia città c’è mercato. E, riflettei, quello del Palazzo di Giustizia non era poi granché diverso. Avvocati vocianti che si accalcano al banco (o alla bancarella?) del giudice sventolando citazioni, avvocate in tailleur che lanciano gridolini al bar, cancellieri esasperati da una fotocopiatrice che ha irrimediabilmente finito il toner e impiegati che girano con cartelle consunte in mano. Cosa dicevo? Un mercato. In mezzo a questo guazzabuglio mi aggiravo, in tenuta casual, senza sfigurare. Ed eccolo spuntare. No, non l’imputato ma il solito avvocaticchio che, dopo avermi regalato un sorriso di circostanza, mi si avvicina e se ne esce con l’epressione: “Mi sa che anche stavolta non saremo impegnati per molto”. Lì per lì non faccio domande né a lui né ad altri. Attendo gli eventi. Finalmente, dopo la ragionevole anticamera di una ventina di minuti, il giudice ci convoca. E’ il momento. La legge finalmente inizierà il suo corso. Il magistrato dà un’occhiata alle carte e fa una sorta d’appello. Siamo quasi tutti presenti. Quasi, perché manca l’imputato. Arriverà, mi dico. Questione di minuti. E invece non arriverà. E’ il giudice a notificarcelo. “Allora…mi pare… sì…sì” biascica “l’imputato è assente per…” esamina ancora le carte e aggiunge: “irreperibilità. Domicilio sconosciuto”. Ci sono momenti bella vita di un uomo in cui tu non sei più tu. Succede, ad esempio, quando qualcuno ti taglia la strada in auto e, invece di scusarsi, ti manda bellamente a fanculo. Succede quando paghi incautamente una cifra più alta per un bollo e, per riavere il tuo denaro sborsato dieci minuti prima, dovrai fare domanda alla Regione che ti risponderà (se ti risponderà) dopo sei anni. Succede quando parli con un call center e l’operatore decide volutamente di far cadere la linea sul più bello. Insomma, succede che un fatto possa scatenare il tuo istinto più remoto e più selvaggio. A me successe lì, durante quell’ennesimo tentativo di udienza naufragante. Forse rischiai la galera, anche senza forse mi

disse poi il mio avvocato. Ma, senza seguire alcuna via gerarchica, mi rivolsi direttamente al giudice: “Eccellenza, mi perdoni, ho facoltà come si dice in Parlamento?”. Annuì e io sparai lì: “Le chiedo scusa ma…mi state prendendo per il culo?!”. Sentii al braccio la stretta d’acciaio del mio legale che m’intimava di non continuare, mentre il magistrato spalancava gli occhi e si rivolgeva direttamente all’avvocato: “Dica al suo cliente di mantenere la calma altrimenti lo faccio scortare fuori dalla forza pubblica!”. Incurante dell’invito, meglio, di quell’ultimatum, prefigurandomi già dietro le sbarre, continuai: “Io parlo con Lei. Cortesemente Lei parli con me. Ripeto: mi state prendendo per il culo? L’imputato è agli arresti domiciliari e voi non sapete dove si trova? Voi che dovete vigilare su dove sia domiciliato su come si muova, mi venite a raccontare che non sapete neppure dov’è? Ma su quale pianeta siamo?”. Nessuna risposta. La mia voce riecheggiò nell’aria inutilmente mentre il mio avvocato, a forza, mi trascinava fuori: “Sei matto? Quello ti fa arrestare!”. Ma ormai la locomotiva ere in corsa e nessuno era in grado di arrestarla. Guadagnai rapidamente un telefono pubblico e telefonai a un amico sottotenente dei Carabinieri. “Mi fai sapere al volo dove si trova il signor Tal Dei Tali?”. “Dammi dieci minuti e poi richiamami”. Dopo seicento secondi ebbi la risposta. L’imputato era confinato in un appartamento a dieci chilometri dalla città. Sul retro di una busta che avevo in tasca scrissi l’indirizzo e mi divincolai dall’avvocato. Entrai nell’aula dove il giudice stava già esaminando il “prossimo caso”. Non ebbi remore e non chiesi neppure permesso. Mi diressi direttamente al banco del magistrato e gli spiaccicai sul piano il ritaglio. “E’ qui. L’imputato è qui. E se l’ho trovato io in dieci minuti avreste potuto trovarlo voi in dieci mesi!”. Non fui tratto in arresto ma credo ci andai vicinissimo. Presi un cazziatone dal mio legale. A suo dire avrei pressoché vilipeso il giudice. Non mi fece neppure replicare. Avevo ragione a carrettate ma si limitò a dirmi: “Io con ‘sta gente devo lavorarci tutti i giorni!”. Tradotto per i non udenti e soprattutto per quanti odono ma se ne fregano di udire sta per “se vuoi lavorare in procura sempre piedi giunti”. Un’assurdità che non mi riuscì di digerire allora. E neppure oggi.

Guarda la faccia prima della toga. Ti chiederai se esistano gli alieni o se non lo sia tu

Come vola il tempo

Francamente non ricordo, tanto era il livore, se il giudice fissò e quando fissò la successiva udienza. Sostanzialmente avevo iniziato a disinteressarmi della vicenda. Senza vittimismo cominciai a concepire una nuova filosofia secondo la quale chi non ha nulla da perdere può permettersi di tutto. Qualunquismo? Basta guadare chi affolla gli istituti penitenziari e soprattutto per quanto tempo. Licenze, permessi brevi, semilibertà. Vi chiederete quanto possa saperne. Quanto basta. Ma per approfondire e dare un senso alla vita, perché no, accettai un incarico come docente in un carcere locale e in un minorile. Ma questa è storia mia personale su cui non vale la pena di soffermarsi se non per significare quanto, giorno per giorno, riuscissi a saperne di più. Di detenzione, certo. Torniamo a bomba. Comunque trascorse un altro annetto. Una mattina, poi, ricevetti la telefonata del mio avvocato che mi comunicò come l’amnistia avesse travolto tutti i miei diritti liberando il mio aggressore da qualunque debito nei confronti della giustizia e, ovviamente, miei. Il che significava, più o meno, che quel capitolo era definitivamente chiuso e archiviato. Nella mia mente innanzitutto. Tracciai un bilancio di quei tre anni compresi di detrazioni (leggesi incazzature) e provai anche, nelle mie notti insonni, a fare una sorta di training autogeno - di cui avevo letto su un giornale femminile - per dimenticare. Non funzionava, non dimenticavo e soprattutto più ci ripensavo e meno prendevo sonno. Le pecore non mi aiutarono. Così ai ai sonniferi. Quello che mi bruciava non era tanto la disavventura. C’è chi scivola su una cacca di cane, cade, batte l’osso sacro e finisce su una sedia a rotelle; c’è chi torna a casa e trova la moglie a letto con la vicina. Insomma c’è un mare di sfiga che dilaga nel mondo attorno a ciascuno di noi, basta esserne consci. Vabbè, filosofia spicciola, sintetizzabile in un “voltati indietro a guardare chi sta peggio di te” ma molti, me compreso, non lo fanno. Sicchè, dicevo, a me bruciava non l’ingiustizia ma…la giustizia fatta di umiliazioni e di arroganza, di regole incomprensibili, in una parola di giustizia ingiusta o di ingiustizia certa. Ci fu poi un epilogo che ricorda un po’ i codini dei films di 007, quando lo spettatore sta per alzarsi e c’è l’ultimo inatteso colpo di scena. Non mi fecero mancare neanche quello.

Erano i giorni che precedevano il Natale e, sbarbandomi, tenevo il volume della radio a manetta come dicono i giovani. Così non sentii il camlo di casa che squillava quasi rabbiosamente. Poco male. Fosse stato il postino avrebbe suonato una seconda volta, come vuole l’immagine iconoclasta. Non era il postino ma la Gazzella dei Carabinieri che mi aveva lasciato un messaggio nella cassetta delle lettere. Mi accorsi, mentre uscivo, che sporgeva un foglio. Lo lessi e rimasi di sasso. In breve: entro le ore 10,30 di quello stesso giorno avrei dovuto presentarmi in Tribunale dove si sarebbe celebrato il processo. Diversamente sarei stato “ivi condotto dalla forza pubblica”. Ora è vero che la mia laurea in lettere moderne ha poco a che vedere con la giurisprudenza ma, più leggevo e meno capivo. Chiesi lumi al mio avvocato. Ma come, la pratica non era stata chiusa? “Sì, ma siccome c’è un nuovo procuratore…l’udienza deve comunque tenersi. E fa di esserci. Chiedi un permesso e presentati sennò ti ci portano i Carabinieri”. Ai confini della realtà. Se non ci fosse stato da piangere ci sarebbe stato da ridere. Così, obtorto collo, mi presentai. E, incredibile, il mio aggressore c’era, gli avvocati pure, il giudice (un altro) anche e i testimoni lì, in prima fila, come gli abbonati Rai. La domanda del giudice fu semplice e immediata: “Lei conferma la deposizione resa in data…(tre anni prima)?”. Feci cenno di sì. Poi rivolse lo stesso quesito ai testi siculi che confermarono. E mi congedarono qualche minuto dopo. Dallo scranno dell’accusato (seppi più tardi che si trovava lì per rispondere di altri reati), il farabutto che aveva aperto quella strana controversia mi fece cenno di avvicinarmi. Pensai che volesse insultarmi o minacciarmi ancora. Invece no. Mi portava i saluti dei miei “alunni” rinchiusi nel famoso asilo. Dopodiché la saracinesca della giustizia calò definitivamente sull’episodio. E, debbo dire, mi tranciò i piedi. Di brutto

Un lupo mannaro alla Cisl

Avevo giurato che non avrei più messo piede in un’aula di tribunale neppure se qualcuno m’avesse sparato. Mi ero detto che in futuro mi sarei fatto giustizia da solo. Il babilonese e biblico dente per dente che, se non soffri di piorrea, tutto sommato è il rimedio migliore entro certi limiti. Ma è una mia valutazione su cui è pleonastico aprire un dibattito senza contraddittorio. Questo era quello che avevo giurato, a me stesso beninteso. Invece il destino, che mi aveva graziato per trent’anni, mi stava riservando una formidabile sorpresa a trentatré, quelli di Cristo. All’epoca ero uno stimato segretario di categoria del sindacato. Un dirigente idealista senza grandi pretese e con poche mire per il futuro. Tant’è che dedicavo parte della giornata a difendere i lavoratori, parte alla scuola, parte alla radio cui collaboravo con ione dotato, debbo dire, di una calda voce regalatami da mio padre. La cosa mi faceva inorgoglire perché ritenuta - così scrissero poi le cronache locali - la voce più amata della città. Ma della mia ex voce avrò tempo e spazio per parlare, anzi, per scriverne più avanti. La vita scorreva frenetica negli anni Ottanta. Inflazione a parte, era un boom moderno e diverso da quello degli anni Sessanta, fatto di scoperte, dal libero amore che aveva avuto un decennio di sperimentazione, alla moda firmata, dall’attuazione piena e generalizzata del divorzio, al consumismo esagerato. Gli anni della balena bianca, di quella Dc che sono in tanti a rimpiangere, delle radio libere (o private) ai topless esibiti ovunque senza pudore. Pochi pensavano ai conti in rosso dello Stato, il Caf (Craxi, Andreotti Forlani) era in pieno fulgore e, nell’etere, iniziava ad affacciarsi Canale 5. Ma Berlusconi non aveva ancora fatto capolino in politica. I comunisti si chiamavano ancora comunisti e il sindacato, che contava alla grande, metteva becco dappertutto, non solo nelle fabbriche. Il nero e il doppio mercato del lavoro sostentavano il Paese (ed era di dominio pubblico) cosicché anche l’operaio o l’ultimo dei mezzemaniche potesse permettersi una vacanza oltreoceano per mostrare, a ritorno, le foto agli amici. Era uno scenario virtuale, di plastica? Forse. Ma la gente era contenta così, con i suoi debiti e i suoi sogni, con i suoi obiettivi da realizzare e soprattutto con i

lustrini dell’esistenza da ostentare sul palcoscenico della vita. Se volessimo bestemmiare - politicamente parlando si capisce - potremmo dire che fosse in atto un socialismo reale di marca italiana ben diverso da quello dei paesi dell’est. Ok, questa la fotografia scattata dal mio personale obiettivo. Di certo altri hanno vissuto diversamente quel periodo della cosiddetta prima repubblica. E ciascuno si era ritagliato un ruolo in questa specie di circo dove la tecnologia stava appena cominciando a scoppiettare con i primi videoregistratori e gli stereo. Radio Capodistria aveva smesso lo strapotere che vedeva ciascuno di noi ascoltare un fiume di dediche in attesa di un guizzo musicale che, spesso, si materializzava in una canzone di Al Bano e Romina, quando non era “mamma” cantata da Claudio Villa. Ora, invece e finalmente, le ingozzate di musica erano all’ordine del minuto. Accendevi la radio e orde di dj ti propinavano di tutto e di più, inframmezzato da pubblicità locale e chiacchiere dei conduttori che massacravano i dischi parlando a sproposito pur di esibirsi. I juke box sparivano e le radio nascevano come i funghi ovunque, in città come nell’entroterra. Avete ragione, sto sfogliando l’album dei ricordi ma se c’è un lettore giovane, almeno uno che sia uno, è bene che immagini il contesto dell’epoca e non pensi che il cellulare sia la normalità piuttosto che un’invenzione destinata a renderci schiavi costantemente reperibili. Che i ragazzi sappiano quanto fosse romantico fare la fila davanti alla cabina telefonica quando qualcuno si scambiava effusioni alla faccia di chi aspettava. Che sappiano cosa fosse la privacy, quella vera, senza intercettazioni e senza telecamere. Il reality eravamo noi a tutte le ore del giorno. Accidenti, è vero, più si invecchia e più ci sia perde negli incisi. La prolissità diventa un modus vivendi, lo riconosco. Ma tant’é. Ne ho sentiti, io, di racconti di guerra! Uno su cento, se non avessi avuto null’altro da fare, sarebbe stato anche ricco di fascino. E’ tempo di tornare alla Cisl e a quanto successe. Era un giorno qualunque, uno di quelli in cui non c’erano vertenze particolari né assemblee urgenti. Stavo rimettendo a posto le mie carte quando mi arrivò, quasi di sfuggita, la notizia che era stata recapitata una lettera anonima. Non una comune lettera, di quelle che insultano il sindacalista tale o diffamano il tal’altro dandogli del corrotto, ma una missiva quasi delirante che preannunciava una ritorsione non si sapeva bene contro cosa e soprattutto contro chi. Firmata dal “lupo mannaro”. Non detti peso alla cosa, tanto più che ho sempre odiato l’anonimato. Chi si nasconde - questo è il mio pensiero - oltre ad essere un vigliacco è uno che ha lui molto da nascondere. E un’altra cosa ho sempre pensato: l’anonimo, al novanta per cento, è persona vicina che vuole toccare con mano gli effetti del suo gesto. Provate a

riflettere: che senso ha inviare una missiva in cui scrivete, che so, “tua moglie ti cornifica col postino” se poi non avete modo di vedere o sentire la reazione del marito? Diventa una cattiveria gratuita di cui non misurereste mai il turbamento. Salvo che non siate grafomani o psicopatici e non vi accontentiate di provocare una reazione che non saprete mai. Tutto può essere ma ritengo che l’anonimo non si accontenti facilmente. Ho letto, tempo fa, le confessioni di un piromane. La sua smania, quasi crapulosa, nel vedere le fiamme che s’innalzavano, il terrore negli occhi della gente, il lavoro frenetico dei pompieri. Sapere che tutto questo è opera tua, ecco cosa gratifica. Ma se accendi un fiammifero, dai fuoco a una radura e poi leggi sul giornale che l’incendio si è propagato per altri trenta ettari e che l’intervento dei vigili sì è protratto fino a tarda notte…dov’è la soddisfazione? Vabbè, divagavo. Torniamo alla lettera. A quanto mi dissero c’era scritto che presto sarebbe stata piazzata una bomba nei locali. Erano ati da tempo gli anni di piombo e, per di più, non c’erano vertenze calde all’orizzonte. Ergo nessuno si preoccupò più di un tot e credo neppure che il Segretario Generale avesse fatto sgombrare le stanze per una verifica. O almeno, se fu fatto, io non c’ero. Del resto, come ho detto, era un periodo convulso della mia vita che mi vedeva are da un’aula a una sala d’incisione a un consiglio di classe. Talmente preso dalle mie attività che qualunque cosa mi scivolava addosso. Eppoi la famiglia, i figli piccoli, i viaggi. Come dire…di tutto un po’. La successiva lettera anonima non tardò troppo. Era stata recapitata a mano e infilata sotto la porta centrale del sindacato. Questa volta “il documento” fu visionato da più mani e venne allertata la polizia con una denuncia presentata dal direttore del Patronato. Ma - in definitiva - quali minacce erano contenute nella lettera? Difficile a dirsi dandogli una scorsa veloce. Minacce generalizzate. Però saltavano agli occhi due elementi. Il primo: l’anonimo aveva scarsa confidenza con la lingua italiana a giudicare dagli strafalcioni (ma il Derrick del patronato sentenziò che sarebbe potuta essere stata una strategia per sviare i sospetti dai più acculturati); il secondo, l’autore era un giovane, di certo, pimpante e disinvolto, dal linguaggio esaltato ed esaltante. In verità io feci una diversa analisi ma non la esplicitai ufficialmente. Ero convinto che, chiunque fosse stato, non voleva destabilizzare politicamente il sindacato ma far nascere un caso e, magari, attirare l’attenzione su di sé. Tipico dei paranoici. Se è vero come è vero che Jack lo squartatore aveva scritto col sangue di una vittima su uno specchio “santo Dio prendetemi prima che commetta altri delitti” il mio sospetto aveva quantomeno un retroterra scientifico/narrativo.

Ma non ero io ad essere impegnato nelle indagini. Anzi. E se uso l’avverbio “anzi” ne ho, ne ebbi, tutte le ragioni. E qui urge mi spieghi. Gli inquirenti (ché allora i Ros non erano neppure nella mente di Dio) nell’analizzare i messaggi intravidero alcune assonanze fra le espressioni usate e un certo modo di esprimersi sentito quotidianamente in radio da un certo Roy, eclettico e popolare personaggio che riscuoteva successo e simpatia nell’emittente locale che faceva monopolio in città. Bene, ma chi era ‘sto Roy? Colpo di scena, come direbbe il compianto Mike! Chi altri se non io? Non lo seppi subito. Esattamente come i cornuti. Fui l’ultimo a saperlo. Così mi persi gli sguardi di qualche collega che mi scrutava intensamente negli occhi alla ricerca di eventuali verità nascoste. Io continuavo a fare tranquillo la mia vita, a dispensare le mie battutine dentro e fuori del sindacato, ad essere persona solare e allegra. Ignaro che ogni mio sorriso, ogni mia battuta sarebbero stata analizzati, soppesati per diventare oggetto di relazione, dibattito e segnalazione agli investigatori che agivano nell’ombra. Era il mese di luglio e io partii per le mie vacanze di rito, destinazione Istria. Partii leggero come una libellula ignaro del delitto che si stava consumando alle mie spalle. Delitto del piffero, se vogliamo, ma comunque dalle implicazioni penali. Partii senza neppure immaginare che lo psicopatico avrebbe continuato, con una costanza certosina, a cucirmi addosso un abito su misura fatto di frasi e parole che sono, da sempre, un mio modo di esprimermi. Partii senza proclami o comunicati stampa. Lo sapevano il Segretario Generale e gli amici della radio. Ma non lo sapeva l’anonimo che, per qualche giorno, non interruppe la sua folle attività recapitando (rigorosamente a mano) altre deliranti comunicazioni. E, mentre io sguazzavo nelle acque del campo nudisti di Porec (non per fede naturista ma solo per vicinanza al mio alloggio), alla Cisl le minacce erano all’ordine del giorno. Perché gli psicopatici non vanno mai in ferie.

Non sempre siamo chi sembriamo

So cosa hai fatto

Laddove c’è un complotto ci sono degli interessi. E, se parti da questo assunto, quanto mi stava capitando tutto era tranne che un complotto. Chi madonna volete che complotti contro uno straccio di docente delle medie? A chi a per la testa di farla pagare a un sindacalista di terza categoria? E, nel maremagnum dei conduttori radiofonici, giornalisti da dopolavoro, chi pensate possa generare invidia e odio tale da scatenare una mente contorta a rischiare lo sputtanamento per vederti inquisito? Perché nessun incensurato, tanto meno in Italia, finisce al gabbio per una puttanata del genere. Eppure quella che io definisco “puttanata” è un signor reato capace di mobilitare le risorse investigative e scomodare la magistratura sollecitata da una “denuncia contro ignoti”. Ignoti? Ma quali ignoti? Mancavano firma e foto a quelle missive che nessun altro avrebbe potuto scrivere se non il mitico Roy! Un vestito su misura dicevo? Di più, un taglio sartoriale confezionato smaccatamente su di me. Echeggiavano, da quello che ricordo, espressioni del tipo “Ah ah ah, non riuscirete mai a beccarmi!” oppure “presto avrete altre mie notizie”. E lo stile, debbo dire, c’era tutto. Il mio stile, quello scazzone con cui ho sempre - e tuttora lo faccio - salutato scherzosamente gli amici con un “addio” quasi a significare che il giorno appresso qualcuno di noi potrebbe non esserci. E’ sempre stato il mio modo di esorcizzare la morte, la mia filosofia di vita per la quale qualunque cosa debba succedere comunque succederà, che ciascuno di noi lo voglia o no. Non capisco quelli che si adombrano a questo modo di fare. Nel senso che il mondo è talmente pieno di lutti che un po’ di ottimismo non guasta. Basta che non si vadano a raccontare le barzellette all’accompagno di un funerale o non si faccia una battuta sul futuro a un malato terminale. Il resto ci sta tutto sempre e con tutti, tanto più con chi ha problemi. Cercare di estirpare un sorriso non è un reato. Non ancora almeno. Però, per tornare al racconto, la mia solarità dovette colpire e affondare il paranoico che mi stava tirando quel gancio. Immedesimarsi nel mio personaggio non era un grosso problema. Bastò esagerare i toni, come dicevo, ed enfatizzare il linguaggio. Nei fatti: essere il più radiofonico possibile e il gioco (che gioco!) era fatto.

Rientrai dalle vacanze ai primi giorni di agosto quando il mondo si riversa sulle autostrade e negli uffici non rimangono che quelli come me, tutto sommato dei controcorrente, chi non ama l’orda selvaggia che si contende una caletta al mare o, peggio, il lettino in una spiaggia brulicante di allegre famigliole. Al sindacato non c’era da fare. In agosto le fabbriche chiudono e le vertenze, salvo qualche singola bega, si rimandano al fresco settembrino. Eppure, nell’ombra, l’anonimo continuava a tessere la sua trama e le lettere arrivavano come se piovesse. Ma io non ne venni più informato. Non che ne sentissi l’esigenza ma la cosa era sintomatica di una situazione che si stava evolvendo contro di me. Anche questo imparai a mie spese tanto più tardi. Incidentalmente ogni tanto ne parlavo con un amico come si parla spesso delle futilità e ne feci cenno anche al mio avvocato, anche lui mio amico da lunga data. D'altronde si parla di auto, di donne, di coppie, di corna, di calcio e di…gossip dell’ambiente di lavoro. Bene, la storia del lupo mannaro rappresentava uno di questi argomenti di raccontare eggiando al lungomare o sorseggiando qualcosa al bar. Ma senza dargli il minimo peso del tipo “viviamo in un mondo pieno di matti” e, anche quelli che non lo sembrano, in fondo in fondo hanno le loro manie o fobie. Che sono innumerevoli. Il mese di agosto se ne stava andando portandosi dietro il turismo anziano che popolava la città e i lavoratori cominciavano già a piagnucolare per il rientro al lavoro. Tutti, me compreso. Ma forse è proprio la scontentezza a dare la stura alla serenità. Più sei insoddisfatto oggi e più sarai sereno domani. Eccomi ancora a filosofeggiare. Questo non è un libro di spessore, dunque andiamo avanti. Gli uffici tornavano a ripopolarsi e il sindacato riaprì i battenti con una vertenza che interessava la Standa, la cara vecchia Standa ricordate? Tutto sembrava normale, come sempre. Sembrava. Ma, sullo sfondo, lo spettro della Cisl aveva ripreso pieno vigore. E io lo ignoravo. Di più, mentre nel recente ato ci si era intrattenuti fra colleghi a parlare delle lettere anonime ora nessuno ne faceva più cenno quasi si fosse trattato di un episodio transitorio, una di quelle folate improvvise di Molteni sulla spiaggia greca in una giornata di sole pieno. Invece il vento sferzante continuava a soffiare e a furiosamente anche. Ma, come scriveva Seneca, non c’è vento per chi non sa dove andare. E io non lo sapevo. Ero davvero l’unico a non saperlo perché, incredibilmente, ero l’indiziato numero uno. Che dico? Non c’era un numero due. Ero il solo. In un primo pomeriggio ricevetti una telefonata dal mio amico avvocato: “Quando hai un attimo a da me in studio”. Gli chiesi se fosse per rinviare il giorno della nostra rituale cenetta quindicinale e lui mi disse che no, che avrebbe dovuto

dirmi una cosa ma non per telefono. Non era il caso. Ero incuriosito e nemmeno poco. Sarà la mia deformazione professionale, da cronista nato, ma non so resistere alla curiosità, come non ho mai saputo resistere al suono di un telefono che squilla insistentemente. E’ più forte di me. Se non risponde qualcuno lo faccio io. Così uscii di fretta dal sindacato e dopo dieci minuti ero già nel suo studio con il sorriso di sempre stampato sulla bocca. Mi venne ad aprire lui personalmente e mi fece accomodare nel suo “confessionale”, quasi fossi stato un cliente di quelli seri. Bene, io non so se la sigaretta si accese da sola e mi finì in bocca. Quello che ricordo è che mi ritrovai a fumare mentre lui, senza preamboli, mi disse: “Ti ricordi di quel fatto curioso che mi avevi accennato l’ultima volta a cena? Quello del lupo mannaro…ti ricordi? Beh, te lo dico schietto: in procura gira un fascicolo su di te”. Sentii qualcosa, non so bene cosa, inondarmi l’intestino retto. Come se il fumo che stavo aspirando fosse diventato improvvisamente liquido. “Dai cazzo” esordii “no, non è possibile. Avrai visto una pratica che riguarda, che ne so…una multa non pagata! Ti sei sbagliato”. Lui mi fece eco: “Minchia, allora non mi ascolti?! Ho letto la pratica e parla di quello. C’era sopra il tuo nome scritto con un pennarello nero e allora l’ho sfogliata. Sei indiziato di reato. Se te lo dico è perché non ti venga un colpo quando sarai chiamato a rispondere del fatto”. Ero in piena confusione mentale. Chiamato da chi? E perché? Rispondere a chi? E di cosa? Qual era il capo di imputazione? E se l’aveva letto lui quanti altri avevano accesso a quelle carte? La stampa, ad esempio, ne era stata informata? Una valanga di domande che gli rigirai e che trovarono risposte quasi evasive, come avesse avuto una sorta di ritegno nel parlarmene. Non è - mi chiesi e gli chiesi - che anche lui riteneva io fossi stato capace di una stronzata simile?! La risposta fu immediata: “Ma va! Però non è una stronzata se hanno aperto un procedimento per procurato allarme e…” mi enunciò una serie di reati che immagazzinai di colpo. Bisogna avere il pelo sullo stomaco perché una rivelazione simile ti lasci indifferente. Magari Totò Riina si sarebbe fatto una risata, Vallanzasca ci avrebbe scherzato su e magari il giorno dopo della Cisl non sarebbero rimasti che dei calcinacci. Io no. Io ero e sono un incensurato. Al massimo avrei potuto autosbeffeggiarmi chiamandomi Totò Royina. Ma fu una battuta che non mi venne. Avevo perso - almeno in quel momento - anche il senso dell’humor che mi aveva contraddistinto dalla nascita. Mia madre, diversi anni prima, mi aveva staccato il mio primo capello bianco e qualcuno mi aveva detto poi che non sarebbe stata una cosa da fare. “Te ne ricresceranno 100” mi

aveva predetto non ricordo chi. Beh, nello studio del mio avvocato sentii che me ne stavano ricrescendo diecimila da soli, una sorta di moltiplicazione cutanea. Stavo invecchiando al momento e cominciavo a percepire il peso degli anni. Naturalmente la rivelazione fu solo la prefazione di quanto sarebbe successo di lì a qualche giorno. La danza non era ancora iniziata. Peggio, i suonatori stavano ancora accordando gli strumenti. La musica sarebbe cominciata pochi giorni dopo. Ma a ballare, come si dice, c’ero solo io a pista vuota.

Chi si nasconde nell’ombra dell’anonimato soffre più della sua vittima

Il braccio violento della legge 2

Avete mai provato a chiedere un rimborso a un ente statale? Magari avete versato troppo per il rinnovo del aporto oppure per il bollo. Se ne ano mesi, addirittura anni, prima di avere una risposta, quale che sia. Non parliamo poi del denaro. Ne tornerete in possesso prima di spegnervi definitivamente. La macchina della giustizia è lenta, esasperante, vi logora a tal punto che ve ne fate una ragione e rimuovete il vostro credito dalla mente. Sapete, in gioventù feci un ricorso scolastico al Presidente della Repubblica. Correvano gli anni settanta. Una mattina il segretario del mio istituto bussò alla porta dell’aula, durante la lezione, e mi disse di andare a firmare in segreteria “quel ricorso che avevo vinto”. Avevo vinto? Io, proprio io, avevo vinto qualcosa? Io che alla tombola natalizia facevo in tempo a cuocere i fagioli nelle mani prima di utilizzarli per occupare una casella…avevo vinto? Ebbene sì. La fortuna mi aveva baciato. Ci aveva messo 16 anni ma mi aveva schioccato un bacio sulla bocca. Avevo vinto al Consiglio di Stato! Vabbè, questo non ha nulla a che spartire con il mio racconto. Era solo un modo, prolisso lo ammetto, per farvi capire quanto sia farraginosa la macchina della giustizia i cui ingranaggi sono intarocchiti dal tempo e dalla burocrazia. Ma con me, l’indiziato di “lupomannaranaggine”, fu più rapida di Flash Gordon. La mattina successiva una volante mi recapitò la convocazione presso la Squadra mobile, incontro fissato due giorni più avanti e, contemporaneamente, una lettera prestampata di un legale che era stato nominato d’ufficio ed era pronto ad occuparsi del caso appena mi fossi fatto vivo nel suo studio. Il che significava che, almeno in ambienti giudiziari, la notizia cominciava a filtrare. Ora il problema era semplice: o sbattere il mostro in prima pagina, come si dice, uscendo dall’ombra e pubblicizzando io stesso la vicenda oppure farsi travolgere dagli eventi. In entrambi i casi una tragicommedia. Anche perché a chi e come vai a raccontare una storiella surreale del genere? Non è che uno vada dal tabaccaio a chiedere un pacchetto di sigarette a misura di lupo mannaro. E neppure vai in onda alla radio raccontando agli ascoltatori, tra un disco e l’altro, che al microfono c’è “il vostro lupacchiotto mannaro”, così tanto per sdrammatizzare. Come dicono i più acculturati: la vicenda va contestualizzata

soprattutto nel tempo. Se oggi Berlusconi, un esempio del tutto casuale, decide di difendersi in televisione prima che in tribunale nessuno ci fa più caso. Primo perché Silvio ci ha abituato a sortite del genere, secondo perché - per dirla alla Sordi - io so’ io e voi nun siete ‘n cazzo. Infine perché le tv sono le sue, le frequenze pure, la faccia anche. Per me, invece, queste facilitazioni erano lontane anni luce e la realtà andava affrontata sul campo. Fu così che, un giovedì mattina alle 10 mi presentai alla squadra mobile pronto a chiarire quello che ci sarebbe stato da chiarire. Il commissario fece quella che si dice una stupenda perifrasi: “Ascolta, ti conviene dire subito quello che hai combinato perché tanto sappiamo già tutto!”. E qui urge fare il punto. Non tanto il mio che, ci crediate o no, ero più vergine di Santa Maria Goretti, quanto il punto in sé. Uno conduce una vita all’insegna del conformismo e della moderazione, non ruba, non delinque, non stupra, non commette atti impuri (se non qualche botta di vita, per dirla alla Tinto Brass), insomma cammina rigorosamente sui binari della rettitudine per quasi quel “mezzo del cammin di nostra vita” e su quei binari d’un tratto sopraggiunge un diretto camuffato da funzionario di polizia che ti travolge apostrofandoti come Salvatore Giuliano. Ma che dico? A Salvatore Giuliano dettero del “lei” raccontano le cronache. A me no. Il “tu” fu repentino come un montante di Rocky Balboa. Se voleva essere una strategia - pensai - non solo era datata anni Cinquanta ma era del tutto fuori luogo. Neppure il peggiore degli Ubaldo Lay (che i meno giovani ricorderanno nei panni del tenente Sheridan) se ne sarebbe uscito con una trovata geniale simile. Non solo. Il Commissario continuò spazientito “Dai che qui abbiamo cose importanti da fare, non ti conviene negare! Perdiamo tempo e basta!”. A me - lo confesso trent’anni dopo - veniva da piangere. Ma se lo avessi fatto di certo sarebbe stato preso per un crollo psicologico e, conseguentemente, per una confessione. Eppoi cosa avrei dovuto confessare? C’erano stati degli ammanchi di denaro? Avevano dato fuoco a qualche cartaccia? Insomma qual era il reato? Ah, il procurato allarme di cui mi aveva parlato l’avvocato. E mentre il precursore di Montalbano sfoderava una delle sue espressioni di circostanza, io me ne stavo in silenzio a pensare a quale risposta dare. In momenti del genere davvero non sai che pesci pigliare. Anche perché sei nuovo dell’ambiente e, come dicono gli anziani, una parole è poca e due sono troppe. Però che dovessi recuperare quelle che volgarmente si chiamano palle era impellente.

E qui si impone un altro punto di riflessione. Un paio d’anni prima mi ero trovato, a Los Angeles, a vivere una di quelle situazioni che racconti soltanto se sopravvivi. Alle otto di sera me ne gironzolavo solitario per la 77esima fresco come una rosa. All’incrocio con la LA Street un tizio alto un paio di metri inizio a seguirmi. Non ci feci caso più di tanto e pensai a un altro come me che scopriva la city semivuota a ora di cena. Man mano che camminavo, però, la sua ombra si allungava verso di me. Girai l’angolo, il primo che trovai, e mi guardai alle spalle. Fu allora che gli vidi aprire un coltellaccio a falcetto, uno di quelli da venerdì 13. In momenti del genere il tuo cervello compie strane evoluzioni. Ti si propone davanti, in pochi secondi, il tuo vissuto. Tu da bambino mano nella mano con tuo padre, tu agli esami di terza media, il tuo matrimonio, i tuoi figli. Insomma in pochi decimi di secondo rivedi i tratti salienti della tua esistenza, a fotogrammi, quasi della diapositive che scorrono veloci tipo skip. E il tempo di reazione è commisurato appunto alla velocità del resto. Devi decidere. Subito. Non esiste un dopo, come dico a mia moglie quando mi si stacca un bottone e lei vorrebbe dilazionare nel tempo l’intervento. Subito significa subito. Allora ragionai prima di subito: fuggire…ma dove? Magari imboccando un vicolo cieco? Girarsi e consegnargli quanto avevo in tasca? Di certo mi avrebbe capovolto per verificare se avessi altro. O reagire? Facendo bum con le dita o in un altro modo meno risibile? Intuizione: nel giubbotto avevo un apribottiglie con annesso apriscatole che un amico ristoratore di aveva regalato la sera prima della mia partenza per gli Usa. Estrassi quello dalla tasca e gli puntai contro la lamellina con aria cattiva sibilando: “Come on!”. Ora non so bene cosa accadde. Se il mio angelo custode gli annebbiò la vista che gli impedì di vedere quale arma avessi in mano, se fosse un tossico con seri problemi oftalmici oppure i miei baffi gli avessero evocato un che di giamaicano. E i giamaicani, si sa, adoperano i coltelli come gli italiani usano la forchetta con gli spaghetti. Quello che so e che lui scappò via. Lui, capito? Non io. Lui, avete letto bene. Tralascio, anzi non tralascio, di ammettere che mezz’ora e due wiskey più tardi nella mia camera d’hotel la mie gambe cominciarono a tremare convulsamente per la paura postuma. E adesso vi spiego il perché della mia divagazione. Uno che è scampato illeso a un’avventura così può farsi mettere in buca da un commissario di provincia che gioca a fare il saputo investigatore? Non sia mai detto. Si parlava di palle? Gli servii le mie con una nonchalance degna di James Bond. “Si può fumare qui?” domandai gelido. A quell’epoca si poteva fumare anche in ospedale, figuriamoci. Dopodiché, come scriverebbe Spillane, aspirai una voluttuosa boccata e lo

guardai dritto in faccia come avevo fatto con il rapinatore della 77esima. “Dunque, mi pare di capire che questo sia un fermo di polizia”. Lo spiazzai. Ora era lui a ragionare. “No, dico, se è un fermo di polizia avrò pur diritto di farmi assistere da un legale di mia fiducia?!”. Lui continuava a fissarmi in questa strana partita di poker probabilmente chiedendosi se stessi bluffando. Mi rispose che no, non c’era nessun fermo, che la pratica era in mano al magistrato che mi avrebbe sentito quanto prima. “Allora posso tornare a lavorare o abbiano altro da dirci?”. Non mi rispose neppure e mi indicò l’uscita. Più tardi, in auto, versai qualche lacrima fa me e me. Più per rabbia che per timore. Misi in moto e grattai in prima. Ma, mi giustificai. L’Alfa Romeo non ha mai avuto un gran cambio.

Se prendi un toro per le corna il rischio è che lui finisca per rispettarti

Non la trattengo

Secondo voi quanto tempo dovrebbero durare le indagini per un delitto come quello che mi veniva attribuito? Tenuta presente la gravità intendo. Diciamo venti giorni? Oppure ci teniamo larghi ipotizzando un paio di mesi? Davigo - a quanto sento dalle interviste - proporrebbe per casi simili l’archiviazione immediata secondo il postulato “è più la spesa che l’impresa”. Ma Piercamillo, uno degli eroi di “mani pulite”, può permettersi anche di proporre Topolino come membro della Cassazione. Qui si sta parlando di magistrati di provincia che agiscono lontani dalle telecamere e svolgono il loro dovere a testa bassa. Qualcuno direbbe come le capre. Io non mi permetterei mai. Io ho un sacro rispetto per le Istituzioni. E proprio per questo sacro diritto mi presentai, novanta giorni dopo, a quella che in gergo si chiama “l’istruttoria”. Ci sono regole incomprensibili in un palazzo di giustizia. Come diceva il sommo poeta “sapere non lo può chi non lo prova”. Una di queste regole prevede che l’imputato parli, per dirla alla sicula, “quanno piscia a gaddina”, cioè praticamente mai. Ancora più praticamente in una fase che deciderà il magistrato. Più nel dettaglio quando e se il giudice deciderà che l’imputato debba farlo. In effetti non è possibile che si produca una situazione di accavallamento da talk show, del tipo Porta a Porta per capirci, quando i politici parlano contemporaneamente e il telespettatore zappa sull’Isola dei Famosi. In tribunale no. Ma stiamo parlando di un processo avviato. Nel mio caso la fase era quella istruttoria. Il magistrato - immagino - stesse raccogliendo dati e testimonianze per comporre i puzzle dell’intricata matassa procedurale. Io ero stato convocato intorno alle nove del mattino e non sapevo neppure perché. Un incidente probatorio? Un confronto all’americana? Oppure solo per essere umiliato nel vedere il defilè dei miei colleghi sindacalisti che entravano nell’ufficio del giudice per uscirne dopo pochi minuti. C’erano tutti, proprio tutti. Sospese le assemblee in fabbrica e forse anche ogni vertenza. Di fronte alla Legge, nella sua espressione più alta, anche i lavoratori sono costretti ad aspettare. Cosa succedesse all’interno dello studio dell’inquirente rimane, per me, ancora oggi un mistero. Del resto né qualcuno me lo riferiva né io stesso me la sentivo di mettere in imbarazzo gli amici con le domande che mi affollavano la mente. Io ero lì, a sedere su una panca nell’atrio del giudice, in attesa che mi

convocasse all’interno. Allora sì, pensavo, avrei spalancato le cateratte. Allora sì avrei chiesto - con garbo s’intende - se qualcuno si fosse bevuto il cervello nel mettere in scena quella Commedia della Stupidità. Allora sì avrei vomitato il pastone che mi friggeva dentro dal momento in cui aveva avuto inizio una storia kafkiana senza capo né coda. Insomma, la ridda di sensazioni che mi mulinavano in testa era un po’ quella che ciascuno di noi ha provato alla vigilia di un esame o, magari, alla selezione per un posto di lavoro quando ti aspetti le domande più particolari. E, avendo tempo illimitato per pensare, la mia coscienza faceva emergere addirittura degli episodi della mia fanciullezza quando la tv in bianco e nero trasmetteva i telefilm di Perry Mason. Grande quell’avvocato lì. Ogni volta riusciva a far piangere il colpevole, tronfio e arrogante fino a quel momento, sul banco degli imputati. Di fronte alla pressante dialettica di Mason e soprattutto ai suoi incalzanti sillogismi, anche i più duri ammettevano le loro colpe scoppiando in un pianto a dirotto. Ecco, tutto questo pensavo mentre la fila dei testi s’impoveriva. Stavamo rimanendo l’usciere e io. “Mi chiamerà” ripetevo a me stesso “basta avere pazienza…ora mi chiamerà”. Non ero mai stato tanto teso nella mia vita, neppure quando mi ero sposato, nemmeno al mio primo lancio col paracadute. Perché per sposarsi non ci vuol altro, al momento, che pronunciare un sì nell’incoscienza. Per paracadutarsi basta avere la stessa incoscienza e un po’ meno coraggio che sposarsi. E non bisogna neppure dire di sì. Si stava facendo tardi (ora di pranzo) e, nella stanza del giudice, era rimasta solo la centralinista della Cisl che avrebbe vuotato il sacco, come si dice nei film, in pochi minuti. Che a me sembrarono eterni. Ero rimasto completamente solo, abbandonato anche dal mio avvocato che era sceso al piano di sotto con un altro cliente a bere un caffè. Lungo presumo. Stava tardando e io mi sentivo come la corda dell’arco di Ulisse, quella che faceva andare via di melone i Proci che non riuscivano ad agganciarla all’ugello dell’arco. “E se il giudice esce proprio ora? E se mi fa entrare adesso che il mio avvocato non è presente?”. Quando le disgrazie te le chiami! In quel momento sgattaiola fuori l’ultima teste che mi saluta al volo quasi per non compromettersi. Ci siamo. Ma dove cazzo s’è ficcato il mio avvocato? In quel preciso momento la porta del magistrato si spalanca. Una porta preziosa, considero, intarsiata, magari del Seicento. Non è che i magistrati siano confinati in uno sgabuzzino qualsiasi come gli impiegati del catasto. Se il soffitto della stanza non è affrescato e i mobili non sono d’epoca

che razza di giudice è? Ma sto ancora divagando. Dunque la porta si apre e ne esce un ometto sulla cinquantina. E’ impettito anche perché è in doppiopetto, occhiali rettangolari con montatura dorata. Mi faccio incontro a lui come immagino abbiano fatto i parenti di Lazzaro per chiedere una raccomandazione a nostro Signore. E saluto con un sorriso appena accennato. Hai visto mai che sorridere troppo possa dare l’impressione di essere un malvivente abituale? Ma forse sono già morto e non me ne sono accorto prima. Forse sto guardando tutto questo senza essere presente. Altrimenti perché questo distinto signore, pagato fior di denaro dal contribuente, non mi vede? Eppure io esisto. Cogito ergo sum, diceva Cartesio. Allora o Descartes raccontava cazzate… eppure io ci sono anziché non esserci, per scomodare gli esistenzialisti. Tant’è che il giudice non mi a attraverso perché, evidentemente, percepisce della materia in me e mi evita accuratamente. Ma furono elucubrazioni che lasciarono il tempo che avevano trovato. L’usciere gli porse cappotto e cappello (che ritengo sia uno dei compiti istituzionali di un messo del Palazzo di Giustizia) accompagnandolo a un “Buona giornata Eccellenza, a domani”. Il giudice grugnì qualcosa che avrebbe potuto essere un grazie come un buonasera o anche un vaffanculo. Aveva aperto la bocca non più di un ventriloquo. Ritengo che per dischiuderla ulteriormente avrebbe preteso magari un’indennità accessoria. E s’infilo giù per la gradinata con la stessa leggerezza di Wanda Osiris. Io, che non avevo problemi d’immagine, lo inseguii domandandomi se fermarlo e se sarebbe stato più opportuno l’avesse fatto il mio avvocato che intravidi nel corridoio. Gli afferrai un braccio e lo pregai di farmi avere un colloquio di un minuto col giudice. Lui nicchiava e io lo supplicai. Era essenziale perché io riuscissi a dormine quella notte. Lo fece. Raggiunse il magistrato che s’era attardato a sistemarsi il bavero del cappotto sull’uscita. Di lontano vedevo il mio offensore chinarsi deferente e indicare me che aspettavo in un angolo, stile Cosetta de I Miserabili. Il giudice si voltò a darmi un’occhiata. Dunque c’ero. Ero vivo. Se lui riusciva a vedermi esistevo anch’io. Mi fece cenno di avvicinarmi. Sapete uno di quei gesti della mano alla Lorenzo Il Magnifico? Uguale. Pensavo sarebbe tornato indietro per ricevermi nel suo studio, ma l’occhiata, tutt’altro che furtiva, che diede al suo orologio significava “vedi di essere telegrafico”. Ok, io avrei voluto raccontargli un po’ la mia storia. No, non da quando i miei erano approdati in Italia profughi della Libia, ma qualcosa della mia specchiata gioventù per arrivare ai nostri giorni e alla vicenda che mi vedeva implicato in un fatto inenarrabile per quanto assurdo. Avrei voluto mettergli su un piatto d’argento un trascorso limpido, senza macchie, senza regolamenti di conti con la giustizia se non quello, da poco archiviato, che mi aveva visto

vittima. Avrei voluto esplicitargli la mia fede sia cristiana sia nella giustizia giusta e - come dicono tutti i politici - nell’operato della Magistratura. Avrei voluto dire di tutto un po’ perché lui potesse avere un quadro un minimo esaustivo della persona che gli stava di fronte per poterla giudicare con la giusta serenità. Ma il tempo - come ribadiscono i giornalisti più anziani - è tiranno. E in questo caso era ancora più tiranno di Saddam e Gheddafi messi assieme. Avrei dovuto sintetizzare in pochi secondi vita e fatti. E non ci sarei riuscito neppure con l’alfabeto morse. Allora giocai una carta che non mi era mai appartenuta, quella di suscitare comprensione e, volendolo, anche un minimo di pietà. “Eccellenza, io so che Lei è oberato di lavoro e ha certamente reati più pesanti e pressanti da dover giudicare…” lui annuiva compreso mentre il mio avvocato alle sue spalle mi faceva il segno delle forbici “dunque io non le chiedo né di valutare la mia situazione con particolare riguardo e neppure di avere benevolenza nei miei confronti” lui annuiva ancora più fitto e l’avvocato tagliava che era un piacere “io le chiedo solo di affrettare al massimo i tempi. Sono trascorsi tre mesi e io ho difficoltà a dormire e tremo a scorrere la stampa locale. Per di più ancora devo essere ascoltato…” il magistrato cominciava a sospirare e il mio avvocato si stava slogando indice e medio. Era tempo di concludere. Assolutamente. “…allora la pregherei di affrettare i tempi quanto più sia possibile perché…perché…io riesca a uscire da quest’incubo”. Avevo finito. Ci avevo messo una cinquantina buona di secondi ma avevo finito in un soffio e con gli occhi lucidi. Il giudice mi guardò in faccia. Cazzarola, aveva alzato lo sguardo verso di me, mica sulla mobilia, proprio su di me. Era me che stava guardando! Di certo aveva capito il dramma che mi pervadeva. Sicuramente aveva afferrato l’essenza delle mie parole e, grazie alla saggezza tesaurizzata nelle aule, stava rielaborando il messaggio disperato lanciato da un naufrago vittima di uno tsunami giudiziario che aveva travolto un povero giovane. Mi guardò ancora più intensamente: “Non la trattengo”. Ipse dixit e uscì. Io non avevo ancora mai desiderato la morte di nessuno. In quel momento pensai che se fosse ato un camion a rimorchio e l’avesse travolto maciullandolo, non solo non mi sarei scomposto più di un tot ma, con tutta probabilità, avrei citato in giudizio la vedova per chiederle il risarcimento della lavanderia qualora i miei vestiti fossero stato imbrattati da sangue del marito. Oggi - mi dicono questo fiore di giudice ha fatto carriera, ma semmai il Signore dovesse chiedermi un parere personale prima di chiamarlo a sé in un mondo migliore io saprei cosa rispondere. Non la trattengo!

Il milite ignoto

Non so se, da qualche parte in città, ci sia una lapide o un mezzobusto magari in vetroresina (roba di poca spesa) che mi raffiguri. Se non c’è debbo dire che si tratta di un’altra, un’ennesima ingiustizia sociale. Perché me la sarei meritata. E non così tanto per dire. Del resto chi era poi il milite ignoto? Senza scomodare il principe De Curtis, Totò per capirci, che aveva trattato l’argomento in una delle sue gag, si trattava di un soldato senza nome. Meglio, qualcuno che aveva “militato” ed era morto senza identità. Che io avessi militato in Cisl non c’erano dubbi, che fossi stato indagato era un fatto, che fui prosciolto in istruttoria fu un altro inconfutabile fatto. Ma ho cominciato dalla fine. Bisogna precipitosamente fare qualche flash back. Come disse il buon Tortora: dove eravamo rimasti? Ah sì, al momento in cui il giudice mi aveva cortesemente e delicatamente fatto intuire che la legge avrebbe fatto il suo corso senza farsi né deviare né condizionare da me. La strana indagine durò la bellezza di dieci mesi. Trecento giorni fatti di carta, di altre testimonianze rese da tutti i cani, porci e cristiani del sindacato. Dal canto mio ero ancora in trepida attesa di essere convocato. Non ci si può credere ma le maglie della legge sono ben strane, lavorate da un uncinetto storto se mi ate l’espressione irriguardosa nei riguardi del legislatore. Non fui convocato. Se poi - negli atti - qualcuno annotò che fossi stato sentito “trattasi di una menzogna”. Spudorata. Io che da mesi avevo aspettato “quel giorno” come l’avvento del Messia, che mi ero ribadito a memoria tutto quanto sarebbe stato a mia discolpa, che durante la notte ripetevo a me stesso “ora mi sveglio, che tutto questo non può essere vero”, insomma io non fui mai ascoltato dal giudice. In verità un motivo mi venne addotto, non ricordo neppure da chi. Il fatto era che la denunzia (con la zeta il termine è atavico ma più rispondente al linguaggio proceduralgiudiziario) era stata presentata contro ignoti. Contro di chi? Si domanderà esterrefatto il lettore. No, non vi siete persi un aggio. Me l’ero perso io all’epoca. Contro ignoti, ribadisco e confermo. In soldoni: un dirigente del patronato aveva sporto denuncia nei confronti di “ignoti” adducendo, tra l’altro, l’ammanco di alcuni cartellini senza valore che chissà dov’erano finiti. Avete presente quelle sorta di etichette che si allegano alle valigie perché non vadano smarrite in aeroporto, cosa che puntualmente succede? Appunto, due o tre di quelle. Roba senza il

minimo valore, che non avrebbe arrecato danno a nessuno ma costituivano, questo era il punto, una sorta di materiale probante, qualcosa di simile alla refurtiva di un colpo da un milione di dollari. Solo che non c’era stato colpo e nemmeno era venuto meno un milione di dollari. In sostanza sarebbe come se un ladro s’introducesse a casa vostra, senza effrazione, e voi (dopo un accurato inventario) denunciaste l’ammanco di due strofinacci da cucina e una forchetta col manico in bachelite (ma c’è ancora la bachelite?). E la macchina della giustizia, al di là delle missive, per individuare l’Arsenio Lupin della provincia, si era armata con i Cruise, di reganiana memoria, pronti ad abbattere l’obiettivo ignoto. Che, vale la pena di ricordarlo, non avrei potuto essere altri che io. Io l’esuberante, il mattacchione, il trasgressivo, il popolare ed eclettico conduttore radiofonico che riusciva a coniugare l’arte e la docenza, le canzoni e le vertenze. Ce ne sarebbe stato per almeno una decina di puntate di Porta a Porta con tanto di plastico del sindacato. Non a caso, anzi, porta-a-porta perché le “nefandezze” (gli spaventosi ammanchi!) erano avvenute ando attraverso una delle due porte d’ingresso della Cisl. Ma chi aveva quelle chiavi? Su questo si giocò buona parte delle indagini. Eh sì. Perché se il colpevole non possedeva le chiavi, quelle chiavi, che permettevano di entrare da quella parte… o non c’entrava nulla oppure aveva dei complici. E irrimediabilmente fioriva un altro scenario. Era uno, due, un’équipe o una vera e propria banda? E il colpevole - prendiamone uno a caso, io - aveva concertato tutto in combinata con altri destabilizzatori? Ma il movente? E il bottino? Adesso provate a immaginare la scena di un breve spettacolo teatrale come lo descriverebbe un commediografo. Atto primo scena prima: loschi figuri si danno convegno in un sotterraneo a malapena illuminato dalla luce fioca di una lampadina a basso consumo, una di quelle che…devi prendere una giornata di ferie per aspettare s’accenda. Sono lì che armeggiano. Uno di loro estrae dalla tasca minuscoli frammenti di cartone attaccati a una cordicella e comincia a leggere con voce stentorea mentre la luce comincia a fare il minimo sindacale della sua funzione: “Artemisio Ceccarelli, prot.n.00027…”. Un altro sbuca dall’oscurità e una lama di luce gli illumina parte del viso. La luce è diafana, ma non è un effetto voluto. Si tratta sempre di quella fottutissima lampadina a bassissimo, evidentemente, consumo. E dice: “Ho pensato di recapitare personalmente un’altra lettera. Poco prima del Consiglio Generale di domani pomeriggio. L’appoggerò lì sul termosifone dell’atrio senza neppure aprire la porta. Ahahahah ”, Il sipario si chiude sull’atto non “primo” ma unico, mentre ancora rimbomba in aria la macabra risata.

Ecco, c’è da giurare che la sceneggiatura avrebbe potuto essere quella. O un’altra. Tutto sarebbe dipeso dalla mente malata di chi era impegnato a ricostruire il…teatro del delitto. Nel frattempo, sempre per scongiurare il peggio, ero corso ai ripari telefonando al mio affittacamere istriano perché m’inviasse una testimonianza scritta del periodo che avevo trascorso presso di lui. Una mesata intera. L’autore delle missive, ignorando le mie ferie, aveva continuato imperterrito a tempestare di lettere il sindacato finché non aveva notato la mia assenza. Ma di fronte alla legge tanto il fax diligentemente inviato con tempestività quanto il fatto che, se non io personalmente ma un complice per me avrebbe potuto depositare i truci avvertimenti scritti, non avrebbe contribuito ad allontanare “il ragionevole dubbio”. D’altronde - e qui mi piace scivolare nel più bieco qualunquismo - la legislazione penale non prevede “il libero convincimento del giudice?”. Il che significa che certamente il magistrato deve suffragare con criteri di razionalità e coerenza…omissis…raccogliere le prove…ecc ma se lui è convinto che Gesù non sia morto in croce, che abbia contratto (strada facendo sotto il peso della croce, sudando e subendo poi un’escursione termica serale) una brutta polmonite che l’abbia condotto a stramazzare al suolo…tu non puoi farci nulla. La sentenza finale sarà “Cristo è morto dal freddo”. Dopodiché, con i tempi previsti dalla legge, depositerà le motivazioni della sentenza e tu rimarrai lì con i chiodi probanti in mano e con la fotocopia della sindone allegata al faldone. Niente. Di fronte al libero convincimento della Corte non rimane che l’appello. E ci vuole una pazienza…da Dio!

Il dubbio è sempre a favore del colpevole

E io ti perquisisco

Meno male che c’è la prescrizione. Breve va benissimo, ma sarebbe andata ugualmente bene più tardiva. Per due ragioni: sono trascorsi oltre sei lustri (e il fatto è dunque prescritto) e uno dei protagonisti è ato a miglior vita. Per cui chi ci crede ci creda, gli altri dovranno fidarsi. Fatto si è - annoterebbe Manzoni - che le indagini del magistrato andarono avanti. Non so davvero quale “trip mentale” si fosse fatto l’inquirente ma dovette essere convinto che il presunto colpevole avesse tenuto per sé, tipo trofeo, quei cartellini misteriosamente scomparsi e dispose, tenetevi forte, una perquisizione domiciliare a casa dell’Unabomber de noartri. A casa mia insomma. Fu incaricato dell’affare un ispettore di polizia che conoscevo benissimo da sempre. A lui spesso mi ero rivolto quando, occupandomi di cronaca, facevo costantemente il “giro della nera”. E c’era con lui un rapporto di simpatia anche perché - ci tenne lui stesso a confessarmelo - era uno dei miei fans più accaniti. Non si perdeva un programma uno di Roy e addirittura sua moglie non di rado partecipava ai quiz cari all’emittenza privata degli anni Settanta. Beh…a lui era stato affidata l’incombenza di violare la mia privacy. Sapete come funziona una perquisizione? Ti piomba a casa, generalmente all’alba, una squadra di agenti che confina te e la tua famiglia in un angolo dell’appartamento e rivolta l’arredamento come un calzino senza farsi scrupolo, il più delle volte, di provocare qualche piccolo danno. Magari una cornice d’argento viene scollata, una libreria perde un pianetto pericolante, qualche vecchio libro viene scompaginato. Ma quest’è, sennò che perquisizione sarebbe? Dai racconti dei miei alunni detenuti, che si erano più volte trovati a subire perquisizioni in cella (momentaneamente casa loro a tutti gli effetti) avevo intuito che la cosa peggiore non fosse tanto l’umiliazione della perquisizione quanto il vedere saltare all’aria tutte le cose che hai riposto con meticolosità, a volte con amore. Anche se sei disordinato, certo. E’ il tuo ordine mentale ad andare a puttane ed è il tuo amor proprio ad essere sbrindellato. Ho reso l’idea? Aspettatevi questo e altro se siete fra i tanti che prendono delle mazzette, se avete usato violenza nei confronti di vostra cognata, consenziente almeno all’inizio, oppure se avete avvelenato il cane del vicino, naturalmente semprechè il vicino sia un notabile. Che se è un morto di fame potete anche avvelenargli

moglie e canarino senza ripercussioni. Si fa per dire ovviamente. Ma non divaghiamo. Dunque, chiarito lo spirito della perquisizione, sia pur avulsa da un contesto, dirò subito che la mia perquisizione fece ridere i polli. L’amico ispettore che, come ho detto in premessa, non è più dei nostri, mi venne a trovare con grande discrezione fuori della Cisl. Mi avvicinò con un sorriso e, quasi imbarazzato, mi disse: “Senti mi hanno ato la tua pratica. Tu sai di cosa parlo vero?”. Risposi che lo sapevo intendendo a un supplemento di indagini ma mi stoppò: “No no…devo farti perquisire casa, ma stai tranquillo…è solo una formalità”. L’espressione l’abbiamo sentita tutti almeno un migliaio di volte. E’ tipica dei telefilm. Uno di quelle che porta, nel finale, alla svolta decisiva per la quale il sospettato finisce a prendere il sole a scacchi. Ma sbagliavo. Lo capii quando l’amico aggiunse subito “stai tranquillo, non ti agitare. A che ora ti fa comodo che facciamo un salto a casa tua? Dobbiamo essere in tre, ma tu non farci caso”, Gli dissi che a ora di cena sarebbe stato perfetto. “Ok, alle sette e mezza allora, così non ci perdiamo il tg. E stai sereno, è una cazzata”. Gli domandai se non fossi dovuto tornare a casa per evitare si potesse pensare volessi occultare qualcosa e lui ribadì. “Ma fa un po’ come cazzo di pare. Ti ripeto di stare tranquillo”. Paccata sulle spalle e Serpico (come lo chiamavo scherzosamente) si allontanò verso il centro. Mia moglie (la mia prima) era in cucina che sfaccendava quando suonò il camlo. Era stata preavvisata della strana visita e le avevo detto di starsene lì qualora i poliziotti non avessero avuto nulla a che ridire. Ed eccoli. L’ispettore mi presenta gli altri due colleghi e mi chiede dove possono sedersi mentre noi facciamo quello che “dobbiamo fare”. Li faccio accomodare in salotto con un bitter in mano mentre noi andiamo nel mio studio. Gli indico il mio regno come dire che è tutto a sua disposizione e lui, di rimando, mi schiaffa un’altra risata: “Ma sarà che dobbiamo perdere tempo nelle stronzate? Io dovrei, stando alla legge, tirarti giù tutta la libreria, scucirti il materasso del letto singolo, guardare tra le intercapedini del muro e dell’infisso” fa una pausa “e per cercare cosa? Non lo sanno nemmeno loro figurati io! Eppoi tu, uno come te si mette a scrivere lettere anonime e rubacchia roba inconsistente. Per me ‘sta storia non solo non sta in piedi ma è una colossale cazzata senza né capo né coda! Certo che ci vuole la faccia! Non solo a indagare te ma a interrogarti come ti hanno interrogato. Tu eri troppo preso ma io ho sentito tutto. Era da dagli un pugno in faccia al capo. Ma chi cazzo si crede, Colombo? Se l’avesse fatto a chi dico io gli avrebbero spezzato le gambe il giorno dopo. Approfittarsi della gente perbene! Basta fare un giro in città per sapere tutto di te. Ma dico io! Senti, facciamo una cosa. Per

ingannare il tempo fammi vedere un po’ di foto dei tuoi viaggi, delle tue donne. Insomma perdiamo una ventina di minuti qui”. Timidamente accennai: “E la perquisizione?”. Risposta gestuale e verbale, secche entrambe: “Un paio di palle! Lascia fare a me, lo butto giù io il verbale con quei ragazzi. Se qualcuno ti chiede…tu fai l’avvilito…no…l’incazzato come se ti avessimo ribaltato la casa. Allora mi fai vedere ‘ste foto o no?!”. Fine. La perquisizione era terminata senza neppure cominciare. Sulla sigla del TG1 l’ispettore raccolse i due piantoni, salutò cortesemente la mia signora scusandosi del disturbo e tolse le tende. Mentre scrivo mi dico che l’ispettore abusò dei suoi poteri, che non fece il suo mestiere, che non ottemperò ai suoi compiti. E m’interrogo su quanto sia stato giusto aver ricevuto quel trattamento di favore. Dopodiché mi rispondo che se un vigile vede gettare in terra una cartaccia mentre a pochi metri hanno investito un’anziana sa ben lui che scelta fare, a chi dedicare la sua professionalità. E aggiungo, semmai ce ne fosse bisogno, che io non avevo neppure gettato la cartaccia.

Sicuro di non aver mai nulla da nascondere?

La legge si ferma qui

Quasi undici mesi era durata l’istruttoria. Il tempo di soppesare i pro e i contro di rimanere in quell’ambiente dove qualcuno me l’aveva giurata. Un paranoico di sicuro, ma non era quello a farmi riflettere. Va detto che, innanzitutto, ero in conflitto con me stesso per una questione…politica. Già, all’epoca ero un andreottiano di ferro e questo non si sposava affatto con mio ruolo di dirigente sindacale. Non solo, il sindacalismo non mi aveva mai apionato abbastanza anche se mi spendevo anima e corpo nell’attivismo puro e duro. Onesto, rigoroso e intransigente tanto da apparire spesso, a una controparte che non mi conoscesse, come quello della Cgil. I “padroni” dell’epoca mi etichettavano come “quello tosto” ovvero…comunista! Affatto, la tostaggine era un fatto tipicamente caratteriale. Un’altra ragione era di tipo economico. Non intascavo denaro, né gettoni di presenza e neppure mazzette. Chissà, forse avrei dovuto, mi suggerisce la saggezza dell’età. Ho visto sindacalisti scalare le vette della politica grazie ai loro compromessi sulla pelle dei lavoratori. Ne ho visti altri arricchirsi regalando benevolenze sulle pensioni d’invalidità. E altri ancora sistemare il proprio nucleo familiare, allargato se vuoi, grazie ad intrallazzi politico sindacali. Niente di trascendentale si capisce ma allora - mi chiedevo - io primeggiavo in stronzaggine o in eccesso di onestà? Quando avevo cacciato in malomodo dalla mia stanza il direttore della Standa solo perché mi aveva fatto intravedere una mia possibile sistemazione nei quadri dirigenziali della Montedison avevo sbagliato? E quando avevo rinviato al mittente, nel periodo natalizio, una cassetta di vini mentre era in corso una vertenza con il Consorzio non avevo capito niente? E quando un lavoratore mi mise in mano cinquantamila lire perché gli avevo risolto la vita e io gliele restituii accartocciate in mano, ancora non avevo capito una mazza? Probabile. Ma, nell’epoca in cui ancora mi piacevo, avevo la presunzione di farmi il nodo alla cravatta guardandomi allo specchio. Oggi mi dico che i farabutti più farabutti della prima e della seconda Repubblica si fanno il nodo, la barba e quant’altro riflettendo la loro immagine fraudolenta in uno specchio intarsiato d’oro senza arrossire e senza nessuno scrupolo. Punti di vista. O di svista, come diceva quello. In ogni modo - e mi sono nuovamente incartato nei pensieri - stavo valutando

vantaggi e svantaggi del mio impegno sociale soprattutto alla luce di quello che stavo vivendo. Una storia che si trascinò per quasi undici mesi. Che, detto così, non sono poi granché. Ma vallo a dire a raccontare è stato in carcere innocente sia pure per undici giorni. Dovremmo, a questo punto, fare mente locale su tante violazioni che finiscono per diventare turbe esistenziali, ma non ho intenzione di parlarne qui e ora attorcigliandomi per l’ennesima volta nelle mie elucubrazioni. Dicevo, e giuro di andare avanti nella narrazione almeno questa volta senza tentennamenti, che in quel lasso di tempo mi ritrovai con me stesso a valutare se rimanere o no nel sindacato. Ideali a parte il gioco valeva la candela. Dico di più, lo vale almeno oggi? Bene, come finì? Una mattina d’inverno fui svegliato dalla telefonata del mio avvocato. Stava piovendo a dirotto. Come scriverebbe Spillane (riemerge sempre la mia base rigorosamente letteraria) la pioggia graffiava rabbiosamente il vetro della finestra. Alzai la cornetta e mi sentii dire: “E’ una bella giornata oggi che ne dici?”. Dissi che - a guardare fuori - si sarebbe pensato che avesse sbagliato pusher. “Ma no! Il giudice ha archiviato la tua posizione. Sei prosciolto”. Come nei cartoni animati: alla “o” di prosciolto ero già nel suo studio a travolgerlo di domande. Quando, come e soprattutto su quali basi? Cosa era stato determinante? Sarebbe rimasta traccia dell’indagine nel mio casellario? Insomma tutti quegli interrogativi che sono liberatori e rappresentano la fine di un incubo. Ebbi tutte le risposte che mi spettavano anche se non esaustive. Nel senso che non seppi mai se fu risolutiva la testimonianza di una lodevole segretaria del sindacato che giurò come io non avessi mai posseduto le chiavi della porta centrale dove erano stati rintracciate alcune missive; oppure se qualcuno considerò attendibile la dichiarazione del mio affittacamere slavo (senza rogatoria cazzarola!); oppure ancora se niente di tutto questo o tutto quanto assieme. Ma il sipario si era abbassato sulla tragicommedia che mi aveva visto involontario interprete per la bellezza di un annetto. Dicono i vecchi saggi che i capelli bianchi si incrementino di pari o con i dispiaceri e con le emozioni. Beh, se Los Angeles aveva iniziato il processo di incanutimento, la vicenda sindacale mi aveva fatto compiere lunghi i verso un biancore nevoso. O semplicemente sto giocando d’immaginazione e si trattò di un codice genetico familiare e basta lì. Ma in quel periodo aumentò considerevolmente la schiera degli imbecilli che mi approcciavano con la stupidità delle frasi fatte del tipo “stai imbiancando il soffitto di casa?” o “tua moglie ti ha versato la farina in testa?”. Non pretendo dalla gente la creatività,

questo no, ma un minimo di fantasia! Infatti non ho mai amato le barzellette (salvo quelle di Berlusconi che frantumano l’etichetta) perché ritengo che chi le racconta debba ricorrere all’humor altrui mancando del proprio. Ci sono persone che vivono di barzellette e non la scampi quanto le incontri. Pretendono di raccontarti l’ultima mentre tu devi esibire la tua migliore espressione da ebete nell’attesa del finale per esplodere in una grassa quanto finta risata. E i se si tratta di una freddura (che hai sentito la prima volta negli anni sessanta), ma quando la storia è articolata, lunga, brodosa e descrittiva, diventa un dramma. Che faccia fare prima del rush finale e liberatorio? Sorridere dall’inizio o attendere pazientemente la fine per sbottare? Mah, dovrei parlarne con uno psicologo. Ci risiamo. Ancora una volta ho lasciato da qualche parte il filo della narrazione. Sto proprio invecchiando, capelli bianchi a parte. Dunque la storia era finita lì, mi disse l’avvocato. Ma non per me. Ora avrei avuto - mi disse - l’accesso alle carte se avessi voluto. Sarebbe bastato richiedere copia del fascicolo. E lo feci, Dio se lo feci. Avevo deciso di leggere ciascuna deposizione e di prendere appunti per…per…emulare il conte di Montecristo? Non lo sapevo neppure io. Ma era vitale che leggessi ogni singola parola, che la soppesassi e mi fi una ragione di quanto era successo sulla mia pelle e soprattutto del perché. Riverberi politico sindacali non ce ne furono. Al contrario, ciascuno dei miei colleghi evitò accuratamente di parlare della vicenda quasi non fosse mai accaduta. Io non so se si chiami opportunismo politico, diplomazia o in altro modo. Ma nessuno, neppure il mio compagno di stanza, fece più riferimento alla storia. Sì ma…il pericolo? Che fine aveva fatto il pericolo che aveva messo in moto la farraginosa macchina della giustizia? Se non ero io colpevole chi altri era? E, quello che più contava, eravamo tutti al sicuro dal paranoico che aveva provocato ogni cosa? Decisi che avrei chiesto un incontro con uno dei giudici più emergenti dell’epoca, uno di quelli che guadagnava spesso gli onori della cronaca, all’epoca si sarebbe detto un “magistrato d’assalto”. A lui avrei chiesto lumi e soprattutto di riaprire l’indagine. Ovviamente non mi sfiorò neppure l’idea di parlare con il magistrato che aveva seguito l’istruttoria quello, per capirci, che “non mi avrebbe trattenuto”. Puntai diritto al principe della procura, quello che spiccava i mandati d’arresto, l’incorruttibile persecutore dei colpevoli sempre e comunque. Ma non era facile farsi ricevere. Il personaggio era inavvicinabile, non tanto per questioni di sicurezza quanto di prestigio. Non era il procuratore capo, no, ma un indaffaratissimo giudice che - negli spazi liberi - frequentava i salotti buoni della

città, le Round Tables. Era socio onorario di un circolo tennistico cittadino dove, mi dissero, aveva il campo prenotato ogni giorno. Gratis si capisce. Come dire che Valentino Rossi, che ha ricevuto dall’ateneo feltresco la laurea honoris causa in comunicazione, pretendesse una docenza per esercitare quotidianamente. Ma non divaghiamo per l’ennesima volta. Dunque salii i gradini della procura e chiesi l’incontro con il magistrato. La sua segretaria si appuntò che il signor Pinco Pallo avrebbe voluto parlare con Sua Eminenza e mi disse che mi avrebbe fatto sapere. Del resto il mio legale mi aveva “scongiurato” di evitargli quest’ultimo intervento che, di norma, la gente comune non richiede. Embè non avrei potuto dargli torto. La gente si accontenta del verdetto finale e prima esce meglio è dalle aule del palazzo di Giustizia. Ma Roy non era e non è un tipo comune. Così mi feci avanti con decisione e attesi di essere convocato. Ed eccomi lì, di notte, a spulciare ogni testimonianza resa al giudice istruttore dai miei colleghi sindacalisti. Non ci si può credere! Pensavo che avrei impiegato una mesata a leggere, tra le pieghe delle deposizioni, per capire qualcosa e risalire alle origini. Invece in meno di un’ora avevo già davanti la faccia di chi aveva montato l’incredibile castello. Praticamente era scritto nelle carte. L’unica persona che mi muoveva accuse era quella che aveva messo in piedi l’ignobile sceneggiata. Sarebbe bastata una perizia calligrafica (alcune delle missive erano scritte in stampatello altre con la macchina per scrivere del patronato). Non ci sarebbe stato neppure bisogno d’investigare granché. Chiunque abbia visto qualche telefilm sa che ogni macchina da scrivere ha la sua peculiarità che sta nelle vocali dove l’inchiostro si annida in un certo modo pur cambiando il nastro. Come se si calcificasse. Io che avevo imparato a scrivere su un’antica Olivetti, di tanto in tanto la ripulivo con la gomma pane. Ma lui, il colpevole, non si era preso neppure la briga di fare questa semplice operazione. Per di più ogni deposizione resa (erano state due o tre non ricordo) era stata un atto d’accusa in piena regola. Un bambino di dieci anni sarebbe arrivato a conclusione in meno di un’ora. Ma gli organismi preposti non l’avevano fatto. La considerazione più triste che feci tra me e me fu soltanto una: perché? A distanza di trenta e a anni sono ancora a chiedermi: perché? Io non avevo alcun rapporto di lavoro con questo signore, non gli avevo trombato la moglie e neppure rigato la macchina. Non faceva nemmeno parte degli organismi sindacali. Lo vedevo per una frazione di secondo quando entravo alla Cisl, un ciao fugace e niente più. Perché mai aveva covato tanto odio nei miei confronti? Me lo domandai allora e me lo chiedo ancora adesso. Ma ritornerò più tardi

sull’argomento. Ora mi preme raccontare del mio incontro con il magistrato. Fu disponibile a una ventina di giorni dalla mia accorata richiesta. Prima di incontrarlo mi sbarbai e mi stirai i capelli con phon, indossai il mio vestituzzo blu delle grandi occasioni e mi presentai a lui a mezzogiorno spaccato di un giorno feriale, in un ritaglio dei suoi impegni socio-sportivo-giudiziari. La segretaria mi accompagnò al cospetto di Sua Santità che era stravaccato sulla poltrona come fosse procuratore il distrettuale di New York, con l’aria di “colui che tutta sa e tutto può”. Non credo neppure se si fosse fatto un’idea di chi fossi. Certamente uno dei tanti che non aveva mai incontrato in una seduta massonica o sul campo di tennis, uno di quelli della moltitudo silente della provincia. Insomma - come direbbe il cantante - di quelli che “più ce n’è meglio è”. Infatti che senso ha essere Qualcuno se lo sono anche gli altri? E’ un po’ come essere ricchi a Dubai. Non c’è gusto. Accantoniamo di nuovo i miei pensieri in libertà e iamo oltre. Ricordo di essere stato squadrato dalla testa ai piedi. Uno di quegli sguardi (con pausa incorporata) alla Celentano o alla Bettino Craxi se preferite, così, tanto per mettermi in imbarazzo. Come dire? Una lastra. Dal canto mio focalizzai la mia attenzione sulle sue mani che parlavano di lui. Gli occhi e le mani sono lo specchio dell’anima con una lieve differenza: gli occhi possono mentire al momento, le mani no. Quelle che sono sono. E non parlo solo della gestualità, ma di curia o incuria. C’è tutta una scienza dietro di questo, ma non è il caso di soffermarcisi. Vi prego di accettarlo come dogma. Poi l’uomo parlò. “Non è che abbia gran tempo…signor….signor…?”. “Cominciammo bbuono”, pensai in terrone (secondo le mie origini) mentre lui continuava “mi esponga il problema ma le dico subito che ho un’udienza fra venti minuti”. Mi fermo, prometto, solo per esprimere un concetto che è poi sintomatico di uno stato d’animo. Sapete cos’è il complesso di Angelotto? Dovreste saperlo se avete superato i trentacinque, magari anche no Non vi racconto, risalendo al Medioevo, chi fosse Angelotto ma quello che avrebbe dovuto fare. Lui, bello e possibile, colto sul fatto a rubare e condannato a morte, avrebbe dovuto soddisfare sessualmente la principessa che sarebbe stata in grado di salvargli la vita. Neanche brutta la principessa, stando al racconto. Ma Angelotto avrebbe avuto solo la chance di farlo in un tempo stabilito, praticamente in una notte. Hai voglia tu! In una notte si mette in pratica quasi intero il Kamasutra. Di fatto non andò esattamente così e l’angoscia della “scadenza” portò Angelotto ad essere giustiziato il mattino dopo. Io, l’Angelotto situation, non mi sarei dovuto ingroppare il giudice, certo che no, ma avrei dovuto sintetizzare in meno di dieci minuti fatti e controfatti, frustrazioni e aspettative, ingiustizie e sete di giustizia.

E sì che, volendolo, non mi è mai mancato il dono della sintesi ma l’impresa fu ciclopica e i risultati - lo capivo da solo - deludenti. Il magistrato non conosceva il carteggio ormai archiviato (né si era fatto premura di conoscerlo) e quindi ascoltava (fingendosi opportunamente compreso) il mio racconto, scarsamente aggettivato e scandito dallo scivolare della sabbia all’interno della clessidra virtuale ben presente a latere del mio discorso. Stetti nei tempi soprattutto perché mi premeva arrivare alla seconda parte dell’incontro, cioè alla richiesta. Quindi mi aspettai la domanda che arrivò puntuale come la cagata di un piccione sulle scarpe appena lustrate: “Quindi?” chiese il magistrato. “Dottore io ho ato un anno d’inferno, non so se sono riuscito ad essere esaustivo” replicai. E lui: “Quindi?”. All’epoca Bonolis (che forse conduceva Bim Bum Bam agli albori della carriera) non aveva ancora inventato lo show con la spalla Laurenti, ma il magistrato ne fu l’antesignano: “Quindi?” ripetè per la terza volta “cosa si aspetta di preciso da me?”. Finalmente la domanda era completa e io avrei potuto formulare la mia richiesta esattamente come l’avevo sognata. “Quindi, dottore, io mi aspetterei che la giustizia fe il suo corso, niente di più niente di meno. E mi spiego. Una volta accertato che non è stato il sottoscritto a compiere atti e minacce…mi sono rivolto a lei, non a un suo collega a caso, ma proprio a lei di cui ho la massima stima, per chiederle di riprendere in mano la pratica e accertare le responsabilità individuando l’autore vero di tutto lo scompiglio provocato. In questo, se crede, penso di poterle essere di massimo aiuto, sempreché lei intenda accettare la mia collaborazione tesa al conseguimento della…verità”. L’Uomo gonfiò i polmoni e diede una sbirciata all’orologio. Eravamo attorno al rintocco del diciottesimo minuto. Chissà se mi avrebbe concesso i supplementari? Dal tenore della risposta capii subito di no. “Caro signor…signor…” anche se gliel’avessi urlato in faccia non avrebbe mai ricordato il mio cognome “purtroppo sono costretto a disilluderla. Se chi di competenza ha svolto gli accertamenti del caso e lei è stato scagionato anche dal minimo sospetto, cos’altro va cercando? Non è stato lei. Benone, benissimo. Dovrebbe essere più che soddisfatto di aver riacquisito la sua onorabilità. Diciamo che è come se i fatti non fossero mai accaduti…non so se riesco a spiegarmi”. Come no? Lui si spiegava al pelo, come si dice. Piuttosto ero io che non ero in grado di capire. “Ma i fatti, dottore, si sono verificati. Non è che me li stia inventando qui, ora. E se si sono verificati qualcuno li avrà pure commessi. E se qualcuno li ha commessi mi permetta di dire che dovrebbe essere compito della legge scoprire la verità vera”. Bersani/Crozza, a questo punto, avrebbe esordito con un’espressione del tipo “Ma ragazzi scherziamo? Non siamo mica qui a raffreddare il nocciolo della centrale nucleare di Fukushima pisciandoci sopra?!”. Invece rispose come il mitico film “La legge sono io!”. Gentilissimo

ma gelido aggiunse: “Quello che deve o non deve fare la legge non sta sicuramente a lei stabilirlo. Una volta archiviato il fascicolo…rimane archiviato, ci mancherebbe!”. Come dire - atemi il paragone dissacratorio - che qualcuno sia andato a cagare sull’altare del Duomo e viene inquisito il cappellano. Poi, una volta dimostrato, che il cappellano, al momento del fatto increscioso, era intento a suonare le campane…quella cagata non è mai esistita! Puff! La nuvoletta in cui era racchiuso il segreto del lupo mannaro alla Cisl era evaporata da sola. Incanto o sortilegio?

Cercare il pelo nell’uovo spesso ti obbliga a rinunciare alla frittata

Esimio colpevole, scusa il ritardo

Non sono un cattolico praticante ma un cristianaccio sì. Allora, dato che il libro è il mio, mi consento una libertà, almeno una, quella di scrivere una lettera aperta alla persona che ha popolato i miei incubi, che si è fatto beffe della giustizia (giustizia…?) e che l’ha fatta franca. Arrivo in ritardo di una trentina d’anni ma arrivo, sperando che almeno il Signore si ritagli un attimo. Farà poi Lui quello che vuole, se vuole, quando vuole, proprio come il magistrato che si sentiva un Dio. Ma Dio è un altro. Soprattutto è altro. Egregio colpevole, (ma egregio, come scriveva un politico locale, certo Valerio Volpini, al suo attentatore, significa fuori del gregge mentre tu sei nel gregge peggiore quello dei vigliacchi) comunque…mi scai se arrivo a te con tre decenni di ritardo ma quest’é. E’ da tanto che cerco di immaginarti mentre la tua mente malata concepiva quell’amara vicenda. Io mi domando quale molla possa essere scattata al tuo interno. Ma più provo a mettermi nei tuoi panni e meno ci riesco. Ho evidenti limiti, di normalità s’intende. Gelosia? Rabbia? Noia? Esaurimento nervoso? Davvero non ho mai capito. Se è vero come è vero che c’è una risposta a tutto, per quanto m’interroghi e mi sia interrogato in ato, io non l’ho trovata. Capisco il piromane, affascinato dalle fiamme. Capisco il maniaco sessuale cui saltano gli ormoni impazziti. Capisco, dopo aver letto alcuni saggi di Freud, anche la lucida follia dell’omicida che non trova altra soluzione che sopprimere un essere umano per sentirsi appagato e magari sereno. Non capisco te, soprattutto perché ti conosco e tu sai bene che io so. Dopodiché mille volte, serenamente, alla guida dell’auto o seduto sul water (questa seconda postura mi ha sempre conciliato la meditazione) ho cercato una ragione alla tua non ragione. Non eravamo colleghi, né amici e neppure nemici. Cosa mai può essere successo perché una persona della tua età (quarantacinque anni tondi all’epoca dei fatti) abbia svalvolato a quel punto? E perché una scelta così arrovellata? Ci sarebbero stati mille modi per farmi del male. Che so, una lettera anonima alla mia ex moglie o al marito di una mia occasionale amante. Oppure dare fuoco alla mia macchina nuova. O acquistare una balestra a San Marino e trafiggermi

alle spalle protetto dalla notte. Insomma avresti avuto un ventaglio di cattiverie da scegliere. Perché percorrere una via così impervia e impegnativa? Perché rischiare di essere beccato e sputtanato buttandoti a corpo morto in un’avventura che, con un po’ più di accortezza, qualsiasi straccio di investigatore, solo che avesse voluto, avrebbe portato alla luce? E’ questo che mi ha sempre tormentato, oltre al movente si capisce. Ma forse era proprio quello che volevi, farmi tormentare nel mio intimo perché arrivassi a capire. Ma cosa avrei dovuto capire? L’astrusità di un cervello malato? In questo caso mi sopravvalutasti, ti assicuro. Ho provato a scandagliare la mia psiche in lungo e in largo, ho interrogato la mia coscienza di libertino, ho provato anche a lanciare un messaggio al mio alter ego (posizionato esattamente dove ce l’ha Rocco Siffredi) ma non ho avuto risposta. Eppure un motivo scatenante da qualche parte esiste! Sicuramente nei meandri del tuo cervello, non c’è dubbio, ma avrà pur preso origine da qualcosa! Allora, per quello che può valere, ti rivolgo una supplica del tutto simile a quella che i napoletani rivolgono a San Gennaro. No, non di fluidificare chissacchè ma di farmi avere un segno perché io possa comprendere. Una missiva cattiva, una telefonata con voce artefatta, un piccione volenteroso che si presenti a me con un messaggio legato alla zampetta. Oppure una mail da un anonimo moldavo. Credo di meritarlo se non altro perché in un anfratto della mia mente ho conservato inalterato il mio sentimento per te. Odio o pena ti chiederai. Né l’uno né l’altra. Ti parrà strano ma ho covato per tutto questo tempo solo una morbosa curiosità. E allora… basta poco che ce vo’?

Un destino chiamato Artemio

Dedicato all’indimenticabile amico Claudio

Ho celebrato proprio nei giorni scorsi un dodecennale. Quello della mia voce. Mi spiego? Certo che lo faccio, se non altro per dare corpo alla terza e ultima parte del mio libercolo. Che tale è, non occupandosi di tematiche esistenziali, di Camorra o Gomorra, non affrontando lo sviluppo sostenibile. Ci avete fatto caso che questo aggettivo è di grandissima attualità? Ricordo alcuni libri che si rifacevano ad avverbi o modi di dire che hanno segnato epoche storiche. Ad esempio: mi faccia causa, cioè, Lei non sa chi sono io e via dicendo. Questa è l’epoca del “sostenibile” accompagnato quasi sempre dall’espressione “detto questo”. Ora che “ciò detto” stia in bocca a saggisti come Paglioncelli e Mannheimer o, che so io, a politici simpatici o antipatici come Lupi e D’Alema (citazioni in perfetta par condicio) i. Ma che ne faccia abuso il buon Di Pietro…mio Dio o, come diceva quella, “cielo!”, proprio non ci sta. Anche se va detto che la lingua italiana sta diventando giorno per giorno un oggetto misterioso. Tempo fa mi ero messo in testa di fondare l’associazione per la salvaguardia di congiuntivo e condizionale. Una sigla del tipo SDCC che avrebbe avuto la pretesa di tesaurizzare l’italiano. Ma - mi ero detto poi - cui prodest? A chi gioverebbe? In una società in cui impera il tvb e il cmq (ti voglio bene, comunque ndr) che senso avrebbe un ritorno all’antico? Vero è che siamo uno strano Paese in cui si associano mignotte, utenti multati, trans e ferrovieri pugliesi. Ma avrebbe, la mia associazione, uno sviluppo, appunto, sostenibile? Chissà se tra le pieghe di un qualche bilancio potrebbero mungersi dei contributi. Sono mie riflessioni che - come al solito - mi prendono la mano e mi fanno spesso arrovellare. Una sorta di ripiegamento sull’anima, come diceva un filosofo. E magari se ne potrebbe parlare. Parlare? Una parola grossa, quasi una bestemmia per chi da dodici anni vive la condizione di handicappato vocale. E qui mi riaggancio al volo con l’inizio di questo capitolo. Dunque ho celebrato il 2 giugno, oltre alla Festa della Repubblica, le esequie delle mie corde vocali, assassinate a tradimento nel 2001. Ne sono successe di

cose nel 2001! Dal trionfo di Silvio all’abbattimento delle Twin Towers, dalla psicosi della mucca pazza ala vittoria della Ferrari. Beh, in questa sorta di Almanacco mondiale occupa un posto esistenziale nella mia vita il cordicidio (non premeditato va detto) delle mie preziose corde vocali. Evidentemente era scritto. Per uno come me che non ama piangersi addosso l’evento ha comunque rappresentato una metamorfosi della vita. Ma voglio parlarne col il massimo della leggerezza conscio che ciascuno ha le proprie disgrazie e la mia - tutto sommato - è davvero poca cosa rispetto a chi lotta per sopravvivere un giorno in più. accontentandosi di farlo magari tra atroci dolori. Voglio parlarne per iscritto, come si diceva a scuola, perché non sono più in grado di farlo davanti a una platea o, peggio ancora, con un residuo di voce amplificata da un microfono. Dopo questa dichiarazione di buoni propositi (che mi auguro di rispettare) mi addentro nell’ultima delle mie sfighe partendo dal giorno in cui fui fulminato dall’idea di are un week end a Berlino. Adoro quella città. Ci sono stato una quantità industriale di volte quando era ancora in piedi il muro e successivamente alla sua caduta. Trovo, in Berlino, un fascino tutto particolare. Eppoi una città che ha saputo riscattarsi dalla stupidità umana merita tutto il rispetto e la simpatia possibili. Dunque allerto un amico: “Che ne dici di un week end nella capitale della Germania? Una toccata e fuga si capisce. Del resto il lavoro non ci consente molto di più in primavera. Facciamo così, venerdì io mi faccio sostituire a scuola alla terza ora e tu i a prendermi alle 10,20. Partiamo direttamente da lì”. Il destino stava costruendo il primo tassello del puzzle. Con questo appuntamento stavo fissando quello che sarebbe stato l’inizio del mio dramma. Certe volte mi dico che il destino è davvero bizzarro. Pensare di morire in uno scontro frontale che non si sarebbe mai verificato se fossi ato dieci secondi dopo in quella strada o se ne avessi percorso un’altra. Salire su un aereo che, proprio quello, viene centrato da un missile. Prendere un mezzo sicuro come un treno e trovarti alla stazione di Bologna quando esplode un ordigno. Accettare un invito a cena in un posto che non ti piace e conoscere lì la donna con la quale metterai al mondo dei figli. E’ scritto, non può essere altrimenti. Se il mio amico, infine, avesse avuto un’influenza o io non avessi trovato una collega compiacente che mi avesse sostituito…quello che sto raccontando non sarebbe mai successo. Sto decisamente contravvenendo a una regola giornalistica che è l’abc di qualunque cronista. Dove, come e quando. Ok, rimedio con un flash. Maggio 1999, in auto, rotta Berlino. Il viaggio è piacevole, la compagnia è simpatica come entusiasmante è staccare la spina dal lavoro lasciandosi alle spalle la

quotidianità, la famiglia, il lavoro. Sia pure per una settantina d’ore. Ho sempre sostenuto che la vacanza inizi nello stesso momento in cui accendi il motore. Nove ore ininterrotte di viaggio, una gradevole sfacchinata. Il cielo comincia a scurirsi e il mio amico ad avvertire i morsi della fame. I panini confezionati a casa sono stati bruciati dai chilometri. Così decidiamo di fare sosta a Lipsia (l’antica Leipzig della DDR comunista) e cercare un hotel. Poi, al mattino successivo, in un’oretta avremmo raggiunto la meta, Berlino. Tutto va come previsto, l’albergo è decoroso, risparmioso e anche abbastanza centrale. Una “rinfrescata”, come dicono i vecchi, e via alla scoperta delle bellezze architettoniche della città. E qui il destino che chiamerò…Artemio…tanto per dargli un nome, mi tende una seconda trappola nella quale casco a piedi pari. Lascio il giubbotto in albergo; fuori siamo sui ventisei gradi. E andiamo a esplorare le bellezze di Lipsia, il curioso mercatino, la piazzetta dell’orologio. Senonchè Artemio si fa vivo vigliaccamente, com’è spesso nel suo stile. Trascorre un’ora e la tiepida aria si trasforma in un freddo della madonna. Un’escursione simile a quella di alcune zone del Sahara. Un freddo boia, tipico o forse atipico di un paese continentale, ci aggredisce. Che si fa in casi del genere? Si torna in albergo a indossare qualcosa di più consono. Il mio amico mi invita a resistere; no, non conviene tornare in hotel e poi uscire di nuovo; ormai siamo in centro. Il mio amico, certo, o quello stronzo di Artemio che gli aveva soffiato il suggerimento? Per cui la decisione è quella di sopportare il freddo e continuare a fare i turisti per caso, un po’ qui un po’ là. Un modo per ammortizzare al massimo la breve vacanza e avere qualche particolare in più da annotare nel diario di bordo da riferire al ritorno. Tra una cattedrale e un mercatino scocca la mezzanotte, quando decidiamo di tornare alla base. Facile a dirsi. Meno facile a farsi. Oggi la tecnologia ti viene incontro con il navigatore sul telefono. Ma nel ’99 bisogna fare appello alla memoria e al senso dell’orientamento per ritrovare la strada dell’hotel senza neppure una mappa. Il mio compagno di viaggio, al di là del dialetto, spiccica un italiano imperfetto mentre io mastico un tedesco d’assalto, strumento primordiale della caccia rivierasca alla straniera. Quanto al senso d’orientamento…stendiamo un velo pietoso su entrambi con l’aggravante, per me, di non aver mai identificato neppure la costellazione del carro mentendo spudoratamente a quanti me l’hanno sempre indicata. “Quella, là, vicino alla via lattea, la vedi?” e io, pur di compiacere i miei interlocutori, ho sempre annuito pur non avendola mai vista. Comunque non fu certamente la stella polare a indicarci la via del rientro quando la pervicace richiesta di informazioni ai anti. E a quell’ora non è che Leipzig brulicasse. Attorno all’una di notte ci appare l’albergo in lontananza proprio mentre le punte della dita cominciano a intirizzirsi. Il naso, anche lui, assume la connotazione invernale e inizia a

diventare umido come quello dei cani. S’impone il rientro. E’ tempo di andare a nanna, non prima di avere avvertito il bureau (chiamalo bureau per carità di patria) dell’esigenza di svegliarci non più tardi delle 6,30. “Alles gut” mi sento rispondere dal portiere “morgen um 6 und 30!”.

Anche se il destino fosse affascinante alla lunga ci litigheresti esattamente come con tua moglie

Con un filo di voce

Debbo necessariamente essere triviale. Alles gut un cazzo! Se non sono io a svegliarmi alle 7,30 è probabile noi si sia ancora là nel terzo sonno. Guardo l’orologio e mi alzo di soprassalto afferrando il telefono della camera pronto a cazziare il personale di servizio. Compongo il numero del bureau (parola grossa bureau, in sostanza un banco di scuola elementare degli anni cinquanta con dietro un sospetto beone che funge da concierge) e mi accingo a fare la voce grossa e imperiosa. Né l’una nell’altra. Dalla gola mi esce una sorta di mugolio flebile e incomprensibile, come se qualcuno di attanagliasse la carotide o i gioielli di famiglia. Ed è in questo preciso momento che comincia la mia disavventura vocale. E’ quando provo a incazzarmi in un improbabile tedesco che la mia voce mi lascia letteralmente a piedi. Una cilecca clamorosa di quelle che, in parallelo sessuale, non si raccontano neppure agli amici più stretti. Allora scendo di sotto ed esprimo il mio disappunto in napoletano stretto, cioè a suon di gesti coloriti da conte quale mi riscopro in occasioni del genere. Ma cosa mi era successo? Che ne era della mia timbrica baritonale? Faccio mente locale. Ma certo, l’escursione termica della sera prima, che altro? Mezz’ora dopo circa (con la velocità che lo contraddistingueva) il mio compagno di viaggio scende nell’atrio e mi chiede spiegazioni. Penso di non riuscire a comunicargliele causa l’improvvisa afonia. Apro la bocca e…magicamente mi esce l’imprecazione trattenuta. Di più, vengono fuori tutti i miei bassi che appesantiscono l’irripetibile parolaccia. Ed è qui, sostanzialmente, che nasce il dramma. Ma non voglio anticipare nulla. Pensai solo che, a ritorno, avrei riferito a un otorino questo strano episodio. Nulla di che, avrebbe pensato chiunque altro. Molto di che, al contrario, per chi ha curato la propria voce per mezzo secolo facendone un personale segno distintivo, un biglietto da visita patinato di cui andare fieri. Comunque fu l’unica nota stonata di una brevissima vacanza divertentissima. Attraversare l’ex checkpoint abbattuto dieci anni esatti prima, are a Berlino est a piedi quando fino all’estate dell’89 ti saresti beccato una fucilata dai VoPos. Questo fu, debbo dire, acculturante. Decisamente, fu più di qualche momento di spessore in un viaggio scanzonato dove le ordinazioni in ristorante diventavano, ogni volta, la commedia degli equivoci. Provate, avendo alle spalle un tedesco maccheronico,

ad ordinare una buillon, ossia un consommè con un uovo immerso. Ci servirono un panino con un uovo sodo. E certo. Se pane si dice “brut” e brodo “bruhe” capirete facilmente che una pronuncia pressappochista ci seguì o o non risparmiandoci quelle figurine di merda che sarebbero state da appiccicare nell’album del turista fai da te. Ciononostante il viaggio fu godibile tanto più perché immortalato dalla nostra telecamera e da una colonna sonora, quella della mia voce, che sarebbe stata l’ultima della mia vita. Sì perché, dietro l’angolo, Artemio mi aveva puntato. Col mirino laser. Secondo me lui ci si diverte e magari cinicamente sogghigna quando riesce a centrare degli obiettivi specifici. Un esempio: Alex Zanardi. Vuoi menomarlo, che so, ne dico una a caso, alle corde vocali? Macché, troppo semplice e poco efficace. Artemio ci pensa un po’ su e propende per gli arti. Ecco allora un elicottero che precipita e il pilota ci rimette quanto ha di più prezioso. Lui, Artemio, è fatto così. Non gliene puoi fare una colpa. Ciascuno si diverte a suo modo. C’è chi fa sesso con una ragazza vestita da poliziotta, sempre restando negli esempi a caso, e c’è chi fa delle disgrazie altrui il suo giochino preferito. E tu non puoi farci nulla. Dico che non puoi interagire con chi fa sesso con le finte crocerossine o chi stoppa le pale di un elicottero quando decide di farlo. Come dire…il potere è il potere. Ma non apriamo capitoli allusivi in una sede impropria. E’ su Artemio che voglio focalizzare l’attenzione. Questo simpatico bastardo, la cui immaginazione trascende l’inimmaginabile, in fondo non è tanto più criticabile di chi ti riga la portiera della macchina nuova e se ne sta in disparte a vedere gli effetti provocati. Customs, come dicono gli americani.

Viaggiare è come drogarsi. Non smetteresti mai, a qualunque costo

Lei maltratta le sue corde

Sicché il viaggio mi aveva attapirato, sia pure per una trentina di minuti, e aveva gettato un’ombra nella mia mente. Ombra che sarebbe stato il caso di illuminare. Si era trattato di un singolo episodio o, a quello, ne sarebbero seguiti altri? Riformulo la domanda: voi avreste catalogato il raffreddamento tra gli eventi comuni tra cui il raffreddore o il mal di testa, oppure vi sareste preoccupati di ricorrere a una visita specialistica? Non potete rispondermi al volo. Lo farò io per voi. Ritenni che fosse il caso di dare un’occhiata al mio “strumento più delicato”. Un po’, nel mio piccolo, quasi fossi stato Valentino Rossi che avrebbe di certo messo a punto la moto da cui dipende, di fatto, parte della sua vita. E scelsi un otorino a caso. O lo scelse Artemio per me. In un grigio pomeriggio di novembre entrai nello studio privato del medico. Persona gentilissima debbo dire. Un po’ esoso ma garbato. Esaminò con la strumentazione la mia gola ed emise la sentenza: “Caro signore, Lei tratta male le sue corde vocali”. Ora, ti capita di trattare male un collega, di prendere magari a calci in culo tua moglie (trattasi di esempio, ndr. per le femministe) ma nessuno di noi saprebbe come trattare male le proprie corde vocali. E il medico aggiunse: “Lei parla molto, no?”. Risposi che sì, che generalmente non mi esprimevo a gesti come l’homo habilis; che, anzi, parlavo a scuola, blateravo in radio, tenevo assemblee sindacali e, fuori degli impegni, parlavo anche in luoghi ameni come il ristorante e finanche in strada. Problema? “Eh sì, il problema è appunto questo. Lei parla troppo, fuma, sta all’aperto e maltratta la sua voce. Tant’è che le sue corde vocali risultano edematose”. Traduco per i profani come me: gonfie. A questo punto mi piacerebbe che ciascuno di voi, attraverso quello strumento fantastico che è internet, desse un’occhiata alla voce “corde vocali” Giochiamo a chi vuol essere milionario: a)somigliano a due alberi di una foresta canadese b) danno l’impressione che abbiate in gola le…grandi labbra c) sembra abbiate inghiottito due grossi stuzzicadenti d) paiono due capelli al microscopio. Non accenderò una delle vostre risposte. Vi lascio alla ricerca perché non è essenziale nel contesto della storia. E’ invece determinante sapere quale fu il referto: Edema di Reinke con leucoplachia. Che, detto così, parrebbe avessi rimediato una malattia venerea rara in un bordello tailandese. Nulla di tutto ciò. Nella sostanza le mie corde

vocali apparivano infiammate e…vogliamo dire sporche? Sporchine. Del resto non è che la sera, prima di coricarsi, uno si lavi i piedi, i denti, i il filo interdentale e s’infili in gola un puliscicorde. Non esiste come strumento di prevenzione. Ed è facile, soprattutto per i fumatori, che la voce s’irrobustisca nella migliore delle ipotesi o diventi rauca nella peggiore. Quanto a Reinke il discorso da farsi sarebbe tecnico, lungo e palloso. Ne faccio a meno ma, perché non ve ne preoccupiate qualora dovessero diagnosticarvi la stessa cosa, sappiate che dello stesso disturbo soffrono Ligabue e la Nannini che sono perennemente in concerto. Insomma - e davvero me la pianto con l’aspetto medico - non si tratta di una maledizione di Dio. Succede. Semplicemente succede a chi non tace, a chi spipacchia, a chi non ha più vent’anni. A tanti. Era successo a me. Avrebbero potuto scoprirmi le emorroidi, un sarcoma benigno o no, il morbo del pistacchio oppure un Edema di Reinke. Era l’ultimo. E va bene, meglio quello che il morso di un cane rabbioso. “Eh no caro signore, non la prenda sottogamba. Non ci sarà nulla, per carità, ma la leucoplachia…insomma quella sorta di sporcizia accumulatasi potrebbe degenerare fino a…” così disse il medico mentre Artemio lo spintonava perché mi fe preoccupare al punto da rendermi le notti insonni. Non so cosa dica ISTAT a proposito dei comportamenti del paziente in casi simili ma, a lume di naso, si chiede un consiglio sul da farsi. Beh, è quello che feci ignorando che la risposta mi avrebbe fatto entrare in un tunnel senza via di fuga. “Senta, per il momento io le prescrivo degli antinfiammatori” rispose il dottore “ma sarebbe il caso che lei si sottoponesse a un intervento di routine. Quando avrà una mattina libera venga in day hospital con il foglio che le rilascio adesso. Si tratta di una pulizia delle corde vocali, nulla di straordinario, ne facciamo a decine senza alcun problema”. Mi sorrise garbatamente e gli lasciai due piotte (duecentomila delle vecchie, amate e amabili lire). Era il novembre del 1999, una vita fa. Inclusa la mia…qualche vita fa. Mi ripromisi di pensarci dato che non c’era fretta e uscii dal suo studio più leggero. Non nell’animo certo. Nel portafoglio. Ma sì quando c’è la salute, come si dice….

La salute ricorda un po’ le donne. Più le osservi più ne scopri i difetti

Prima dell’11 settembre

Il 2 giugno del 2001, lo ricordo ancora, era una giornata assolata ed io ero sereno come un bambino dopo la poppata. Negli ultimi due anni non avevo avuto altri episodi di tipo berlinese. Giusto sotto le festività natalizie del 2000 avevo avuto un lieve abbassamento di voce, ma era stata una stagione piuttosto rigida e l’imputai a questo. Poi, essere riuscito ad afferrare la pensione d’anzianità aveva rappresentato per me una liberazione non da poco. Erano gli anni in cui lo sport preferito dai TG era quello di mettere in sommario, tutte le sere, i provvedimenti sulle pensioni. Proprio come ora. Solo che il tam tam dell’epoca era preoccupante e gli statali vedevano il loro futuro ricurvo sulle carte. All’epoca avevo maturato trent’anni di anzianità e mi ero detto - come le femministe del terzo millennio - se non ora quando? Per cui avevo incassato il privilegio di assicurarmi una pensione di cacca che, nelle previsioni, a breve sarebbe diventata di merda. Con il sospetto che l’euro l’avrebbe trasformata in un trattamento pensionistico…diarroico. Così come è stato nei fatti. Ma avevo abbastanza fiducia in me, nella mia inventiva, nella mia ecletticità per non pormi tante domande e, prima che qualcuno potesse chiudere la stalla, ero fuggito dal pianeta scuola intravedendone un disfacimento a medio termine. Sbagliavo. E’ stato a breve. Mi sono perso ancora una volta? E’ il vizio degli anziani quello di diventare logorroici. Rimedio immediatamente. Dunque il 2 giugno del 2011 do seguito alla chiacchierata di due anni prima con il chirurgo. Ed eccomi lì, per mia scelta, in sala operatoria con la vestaglia “modello Giuditta” del Piccolo diavolo di Benigni, “parato al sacrifizio” (reminiscenze scolastiche sic). Qualche minuto prima di entrare in sala operatoria un addetto mi porge dei fogli da firmare. In gergo si definiscono consenso informato. In parole schiette sono un elenco di quello che potrebbe succedere durante l’operazione. Un po’ come il bugiardino delle medicine. C’è annotato tutto quanto potrebbe accaderti sotto i ferri dal foruncolo sulla chiappa, al raffreddore dovuto alla climatizzazione polare della sala operatoria, alla…morte. Ora sto banalizzando, è chiaro, ma se vi attardate a leggere le istruzioni di qualunque medicina di certo rischiate di non assumerla. La stessa cosa vale per il

consenso informato. Papale papale…acconsentite a farvi mettere le mani addosso scaricando chi vi opera da qualsiasi responsabilità. Ma se uno arriva in mutande e camicione pronto a salire in lettiga e farsi operare, difficilmente mette una zeppa a un periodale del documento che non ha capito bene. E neppure quell’uno arriva a leggere attentamente le annotazioni. Il consenso informato ve lo dico per esperienza - come il bugiardino i più lo leggono dopo perché qualcosa non ha funzionato a dovere. O lo leggerà l’avvocato degli eredi per trovare un appiglio possibile a intentare un’azione legale. Io firmai in scioltezza mentre espletavo il rituale denudamento. Tanto - mi dicevo - cosa vuoi che mi succeda? Al massimo un po’ di fastidio per l’anestesia totale. Che altro? Il medico mi aveva parlato di un’operazione di routine. Vuoi che proprio a me capiti chissacchè? Mi chiamarono: era il mio turno. Rivolgendomi a mia moglie dissi scherzosamente: “Casomai ci rivediamo nei Campi Elisi”. Una battuta pronunciata con voce grave, carica di bassi, la mia insomma. Già, quella fu l’ultima volta che sentii il suono caldo della mia timbrica. Dopodiché l’inferno, il mio personale 11 settembre. Dopo cinquanta giorni un paio di boeing avrebbero abbattuto le torri gemelle. Quella mattina qualcuno abbattè entrambe le mie corde vocali, gemelle anche loro. E nessuno avrebbe mai ipotizzato, in futuro, che si sarebbe trattato di un complotto. Tutto avvenne in pochi minuti. Il bisturi si calò come una mannaia all’interno della mia gola, mentre il sonno mi teneva imprigionato al lettino, e fece scempio di quello che la natura mi aveva generosamente regalato mezzo secolo prima. Sarei diventato come l’attore principale di un vecchissimo film di Sordi intitolato “Bravissimo” dove il protagonista era un prodigioso bambino con una stupefacente voce baritonale cui vengono tolte le tonsille e lui torna ad essere un dodicenne con la voce da adolescente mettendo sul lastrico quanti lo stavano strumentalizzando, a fini economici, nel mondo dello spettacolo. A me andò peggio, alla grande. Al risveglio dall’anestesia percepii immediatamente un incredibile mal di denti. Di denti, vi chiederete? Esatto, come se fossi uscito non da un intervento di otorinolaringoiatria ma da un gabinetto dentistico dove avevano proceduto all’estrazione di tutta l’arcata dentaria. Strana sensazione. Quasi che a un sodomizzato fero male le orecchie. La spiegazione mi arrivò puntualmente subito dopo dal chirurgo. “Carissimo” mi disse “è andato tutto bene ma l’anestesista ha trovato problemi con il tubo perché…perché…l’apertura orale risultava troppo stretta”. Cribbio, avrebbe esclamato Silvio, di tutto mi ero sentito dire nella mia vita, che avevo il naso troppo pronunciato, che non sono un pivot di statura, magari che il mio attrezzo personale non è eccezionale, ma nessuno aveva mai avuto nulla da ridire

sulla mia bocca! Anche perché - evito la battutaccia - nel mio pertugio orale oltre al cibo non è mai entrato altro. E comunque, aggiunse il dottore, l’anestesista aveva dovuto forzare divaricandomi appunto i denti inferiori. Ma il resto, tutto il resto aggiunse, era andato ok. Ora si trattava di stare una decina di giorni in silenzio, dopodiché mi sarei dovuto affidare alla logopedista. Logochè?!

Bao bao micio micio

Sono certo che mi attirerò tutta l’antipatia del mondo trattando di questo argomento, ma quanto sto per scrivere non punta ad avere un valore scientifico e neppure ho la pretesa che costituisca letteratura, come si dice nei salotti scelti del tipo Pomeriggio Cinque. Dunque, premesso che nessuno mi aveva preavvertito che mi sarei dovuto sobbarcare delle sedute di logopedia, voglio appunto soffermarmi su questa sorta di scienza. E voglio farlo con il dente avvelenato. Già, la logopedia è un ramo sanitario che si occupa della prevenzione, dell'educazione e della rieducazione della voce, del linguaggio scritto e orale e della comunicazione in età evolutiva, adulta e geriatrica. Questa è la definizione che ne dà Wikipedia. Permettete che dica la mia? Trattasi di una scienza (che della scienza non è neppure un rametto, ndr) che ha la presunzione di insegnare la postura, le tecniche di respirazione, la dizione e finanche l’emissione del fiato al fine di consentire al paziente, di qualunque età, di parlare in maniera corretta. Uno sciame di persone sarà pronta a giurarvi di aver risolto un problema esistenziale grazie alla logopedia. Ma anche una marea di persone sarà disposta a giurare che, pellegrinando a Lourdes o a Medjugorje, non solo si è sentita più vicina alla Madonna ma ha raggiunto l’obiettivo della serenità. Ora rischierò davvero di sfiorare la blasfemia. Ma di che minchia stiamo parlando? Dell’effetto placebo piuttosto che dell’autosuggestione? Però voglio uscire da questo cunicolo della miscredenza (tanto più che mi riconosco cristiano, sia pure poco cattolico) sperando abbiate afferrato il concetto. Dopo una deviazione ritorno al punto: i prodigi della logopedia. Bene, se il vostro hardware vocale è irrimediabilmente compromesso con la logopedia e l’impegno raggiungerete lo stesso traguardo di farvi ricrescere un arto amputato mentre si sta liquefacendo il sangue di San Gennaro. Vale a dire nessuno. Non escludo che qualcuno che abbia subito un incidente non possa trovare giovamento se, poniamo, le labbra sono rimaste storte…ma se il blocco non è prettamente psicologico perdete tempo e rischiate di illudervi eseguendo esercizi su esercizi che, in alcuni frangenti, rischiano la ridicolaggine come quello di pronunciare un “bo” con le guance gonfie d’aria mentre sedete su una grossa palla e zompettate come un canguro impazzito. Ma c’è di peggio. Ve lo assicura chi, come me, ha investito tempo e denaro in interminabili cicli a base

di “ba-bu-bi” o “ghe-ga-gho”. E quella che io ho impropriamente definito la tecnica del bao bao micio micio. Ho perfino seguito corsi intensivi. Al mattino s’inizia con un frizzante “trrrrrrrr-trrrrrrrr” per riscaldare le corde vocali; eppoi il resto viene da sé. Le migliori nuove tecniche ci sono regalate da oltreoceano. Sono gli Usa che ci hanno fatto apionare alla Coca Cola negli anni cinquanta/sessanta per poi condurci, mano nella mano, a ricorrere all’analista (da metà circa gli anni Settanta). Ed è ancora l’America del terzo millennio a farci il lavaggio del cervello sul fitness, la lotta al colesterolo, la demonizzazione del fumo e quant’altro. Certo il fitness ci dà il benessere (e ingrassa le palestre, un business senza pari) mentre il fumo ci uccide mentre i gas di scarico ci tonificano! E che dire del colesterolo? Meglio morire di denutrizione che di obesità, non c’è dubbio. Come al solito l’ho presa alla lontana ma il lettore più accorto avrà capito la mia leggera, impalpabile diffidenza nei confronti della logopedia. Che non nasce dal nulla ma dalla consapevolezza di aver speso giornate intere a lasciarsi cadere, perdendo volutamente l’equilibrio, mentre a squarciagola si emette un “bbbbaaaa” di diaframma mentre il logopedista ti afferra per la collottola evitando tu non vada a frantumarti il muso in terra aggiungendo alla demenza anche la beffa. Non sono che considerazioni, le mie si capisce, ma sono pronto a un qualunque “uno contro tutti” teso a dimostrare che il fumo non diventerà mai materia. Beh, quella sarebbe l’energia, ma di certo ancora una volta avrete compreso il senso. E torniamo rapidamente al racconto. Quindi la logopedia mi convinse che avrei potuto comodamente fare a meno di lei e dedicarmi a sfogliare la margherita della speranza: voce…non voce e così via. Ma, a proposito di voce, l’avrei mai riacquistata? Bella domanda alla quale il chirurgo stesso che mi aveva operato, ai primi controlli quindicinali, aveva dato risposta categorica. “Ma certo, si tratta di avere pazienza, continuare le sedute di logopedia e…non c’è dubbio, la voce tornerà più pulita e squillante di prima!”. Era, ripeto, il fottutissimo luglio del 2001 quando, non avendone coscienza, stavo diventando un handicappato vocale. Una stagione afosa caratterizzata da un sole malaticcio, un cielo mai terso e una brezza che somigliava al Ghibli. Era tempo di staccare la spina; era tempo di vacanze. Chissà se la Sardegna mi avrebbe rilassato? Mi prefigurai in una caletta appartata ad ululare in solitudine tutti gli esercizi assegnatimi (tanto chi avrebbe fatto attenzione a un povero imbecille che gorgheggiava in riva al mare?) e andai in agenzia a prenotare il traghetto. Senza problemi di voce. Quando estrai la carta di credito ti capiscono subito anche se sei cambogiano.

La speranza è l’ultima a morire ma gliela fa anche lei

Voglio saltare un po’ di aggi perché, diversamente, questo libercolo occuperebbe in libreria lo spessore di uno scritto di Tolstoj. Tanto non è importante capire il mio stato d’animo, lo dico da pragmatico. Quando ci si compenetra nei guai degli altri non si potranno mai comprendere. Faccio un esempio. Tra i miei amici ce n’era uno (pace all’anima sua) completamente cieco. Una persona formidabile debbo dire, soprattutto perché aveva perduto la vista attorno ai quarant’anni e, giorno per giorno, prima di arrivare alla cecità aveva memorizzato ogni angolo della città con l’obiettivo di continuare a vivere da sano. Detta così sembrerebbe una balla, ma se vi giuro che questo incredibile cieco correva a prendere l’autobus ci credereste? Eppure lo faceva alla faccia di chi si piange addosso. Non aveva accompagnatore, non aveva un cane e neppure gli occhiali scuri. Anche perché esibiva due splendidi occhi di un azzurro intenso che avevano fatto offendere più di una persona che pensava le fosse stato tolto il saluto chissà perché. E, puntualmente, arrivava la spiegazione del mio amico: “Perché non ti saluto? Cazz, an te vegh!” concludeva sempre in dialetto e ogni volta con un sorriso accattivante. Senza un filo di vittimismo, senza neppure il minimo rimpianto. Almeno questo era quello che dava a “vedere” agli altri. E’ chiaro che dentro di lui non potesse non albergare la disperazione. Soprattutto quella di non vedere più e non di essere un non vedente dalla nascita, condizione ben diversa. Taglio corto: in più di un’occasione ho provato a compenetrarmi nel suo dramma nelle maniere più disparate. L’ho fatto a casa e fuori, ho chiuso gli occhi ascoltando delle voci e cercando di crearmi un’immagine corrispondente; del resto è quello che si fa sentendo la radio. Bene, qualunque cosa tentassi arrivavo alla stessa conclusione. Sopravvivere si può sopravvivere, ci mancherebbe, ma il tuo mondo non è più lo stesso. Dopodiché ciascuno si corazza come può, ma irrimediabilmente la sua vita cambia e nessuno è in grado di capire come e in che misura.

Dunque, detti per scontato che il mio stato d’animo aveva iniziato ad essere il mio e di nessun altro. Come peraltro è giusto che sia. Ma, giurai a me stesso, che in un modo o nell’altro non avrei demorso. A qualunque costo. E, quando parlo di costo non lo faccio a caso. La mia voce - mi dissi - non aveva prezzo. Sarei stato disposto a vendere casa, auto, moto, orologi…insomma ogni valore materiale pur di riguadagnare le mie corde vocali che mi avevano accompagnato per mezzo secolo. E iniziai quello che un luogo comune definisce “il calvario” degli specialisti. Un incessante viaggio della speranza senza frontiere e senza limiti. Dirò delle banalità, ma tra affetti da una malattia funziona una sorta di tam tam della solidarietà per cui ciascuno tende a dirti e a darti delle soluzioni illuminanti per cui la speranza ti si accende dentro e tu, armi e bagagli, prendi e parti in quarta convinto che la dritta sia quella determinante, che faccia al caso tuo. E allora l’autostrada mi vide sfrecciare per le mete più improbabili: Cesena, Padova, Senigallia, Bologna, Ravenna. Non avevo mai conosciuto, nella mia vita, tanti specialisti in così poco tempo. E ogni volta mi ritrovavo a ripetere, come un disco rotto, la medesima storia. E, ogni volta, il luminare del caso prendeva atto ed esprimeva la sua valutazione con annesso un possibile quanto improbabile rimedio. Ma tutti, indistintamente tutti, mi rivolsero la stessa domanda: “Scusi, ma lei perché ha deciso di operarsi?”. E la risposta - all’affabilità dell’interlocutore - era sempre la stessa: “Perché sono un imbecille!”. Che è la cosa che ho sempre onestamente pensato di me stesso per tutto il tempo di questa vicenda. Solo un imbecille, infatti, o un autolesionista, volontariamente accetta di sottoporsi a un intervento chirurgico se non se ne avverte la necessità, se non è in predicato la sua salute. Ma così è la vita, meglio, sic vult Artemio (per fare sfoggio di un ormai desueto latinismo), insomma, quando non si ha granchè da fare o da pensare, ci si caccia nei guai. E io mi ero infilato in un labirinto dal quale non sarei più uscito; questa è oggi una certezza. Ma allora non sembrava esserlo. Tanto che presi due decisioni inamovibili: avrei continuato a lottare e avrei fatto causa al chirurgo. Due imprese ciclopiche, due delle fatiche da aggiungere a quelle di Ercole (accidenti quante e quali erano le altre?), due obiettivi per dare sale alla vita, quasi la mia fosse stata insipida fino a quel momento. E fu così che mi riaffacciai allo studio del legale/amico pronto a intraprendere un altro cammino lastricato di carboni ardenti. Perché sì, affrontare giuridicamente quella che oggi va di moda chiamare casta ma che altri hanno denominato “mafia bianca” non è cosa da poco. Lei ha in mano il bisturi e tu le palle, quando va bene, oltre alla rabbia che

non si cheta. Ma questo non basta per far salire un medico sul banco degli imputati. Il mio avvocato fu chiarissimo a riguardo: “Portare a casa un risultato è un’impresa, credimi. Ci sono casi in cui un chirurgo ha dimenticato un paio di forbici nell’intestino dell’operato…e se l’è cavata, magari addossando la colpa a un infermiere disattento nonostante la responsabilità faccia capo comunque al medico. Ma è già qualcosa. In altri il paziente è morto, ma vai a dimostrare che non sarebbe morto comunque! Noi cos’abbiamo in fondo?”. Nella penombra del suo studio riecheggiò la mia bestemmia, roca ma potente. L’avevo capata dal calendario con tempestiva immediatezza e creatività. Non un’imprecazione qualunque ma un raffinato bestemmione che a uno scaricatore di porto degli anni trenta non sarebbe neppure venuto in mente! “Come…cosa abbiamo?” replicai. “Un handicappato vocale abbiamo! Un ex speaker con la voce di un eunuco abbiamo!” Che altro sarebbe servito? Che altro a disposizione di un giudice non sordomuto disposto ad ascoltare? Sbagliavo. Evidentemente sbagliavo, perché la giurisprudenza fa a cazzotti con la logica. Le ragioni, come diceva Pirandello, possono essere una, nessuna e centomila! Si sarebbe trattato di dimostrare, prove alla mano, innanzitutto che la mia voce prima dell’intervento era armonica e gradevole e, successivamente, che era stato proprio l’intervento a ridurla a un fioco rantolio. “Però” mi disse ancora l’avvocato “tentare si può sempre tentare”. Magari si sarebbe trattato di scontrarsi con un’assicurazione. No, non aveva capito. Gli era sfuggito il mio idealismo cronico che era cresciuto con me dagli anni della Balena Bianca. Non era a caccia di soldi che andavo ma di un colpevole. E qui fu scontro al calor bianco con il mio amico. Avevo intenzione di trascinarlo in un’azione penale? Il che significava - in parole spicce - riuscire a dimostrare che il dottore in questione aveva operato con incapacità o, peggio, per dolo. L’impresa sarebbe stata lievemente più ardua di quella degli Argonauti. Obiettai che, alla fine, il Vello d’oro erano riusciti a trovarlo; l’avvocato si ricordò il resto della vicenda mitologica, ma non riuscì a farmi demordere neppure per un secondo. Il tempo c’era, la situazione era ormai compromessa… mese più anno meno…cosa ci avremmo rimesso a buttarci nella mischia? Al contempo i miei viaggi alla ricerca della voce perduta si facevano sempre più frequenti. Mi avevano assicurato che a Lione forse avrei trovato un’èquipe di esperti (gli stessi che avevano operato il Pippo nazionale) che forse avrebbero fatto al caso mio. Si trattava di sborsare del denaro, ma le possibilità non erano irrilevanti. Et…voilà, eccomi pronto ad attraversare il Frejuss! In Francia era tutta un’altra vita nel 2002. Quando chiedevo di poter fumare in un locale il personale mi ridacchiava in faccia. Certo, non siamo mica in Italia,

mi dicevano. E andavano di posacenere. Di più, in qualche bar campeggiava il divieto e, sotto la targhetta, c’era chi spipacchiava allegramente. Ora non è più così. Ora anche i cugini si si sono uniformati alla demonizzazione del fumo, esattamente come gli americani che organizzano parties privati a suon di marijuana, si fanno dei cannoni esagerati, non disdegnano neppure spesso qualche pera ma no, accidenti no, nei locali si guardano bene dall’accendere una sigaretta. E la stessa cosa succede anche negli stadi. Voi penserete che abbia divagato. In parte sì in parte no. Quello del fumo è un argomento legato al mio racconto. Pareva che soprattutto il fumo, infatti, fosse stata una di quelle concause che vi aveva portato malauguratamente al tavolo operatorio. Eh sì, nuoce gravemente alla salute. Lo scrivono a chiare e macabre lettere su ogni pacchetto di sigarette, dimenticandosi di aggiungere, come è ovvio, che non nuoce affatto alle casse dello stato. Ma non apriamo questo delicato e stradibattuto capitolo. Non è né il caso né la sede. Dunque Lyon fu tra le prime mete della speranza anche perché - così m’avevano assicurato - se non fossero riusciti lì a riportarmi alla normalità…sarebbe rimasto un altro luogo poco distante, Lourdes. Intervento costoso, ribadisco, ma si sa che per la salute nessuno bada a spese. E qui apro un altro inciso. Pochi giorni prima avevo fatto capolino all’Asl della mia città dove avevo inoltrato domanda di rimborso per l’operazione. In fondo era stata una struttura pubblica ad avermi provocato il danno. Sarebbe stato illogico sperare, se non pretendere, che la Regione potesse provvedere a contribuire a una spesa riparatoria? Mi dissero che, entro 48 ore, avrei avuto risposta. In caso contrario sarebbe valsa la regola del “silenzio assenso”. Ok, mi dissi che ero a cavallo. Quando mai una Regione, quale che sia, è così solerte nel rispondere alle istanze in tempi ragionevoli? Per dirne una: sono dodici anni che attendo, appunto dalla Regione, il rimborso per un bollo che non avrei dovuto pagare, figuriamoci! E invece la mia previsione di inefficienza fu smentita dai fatti: la mattina successiva pervenne via fax il diniego. Mi dissi che ero stato decisamente sfigato. O la pratica era finita sul tavolo di un topo d’ufficio oppure il bar vicino agli uffici regionali era chiuso per turno e l’addetto, non avendo come far are il tempo, aveva esaminato la pratica. Succede, come si dice, anche nei peggior uffici. Ma torniamo alla clinica se. Venni accolto con il rispetto che si tributa a un vip. Del resto sul mio fascicolo c’era scritto “acteur” e, pensai, tutto sommato si vedeva che ne avevo le phisique du role. Insomma le premesse c’erano tutte per alimentare le speranze. Così il raffinato e costoso bisturi di monsieur le professor

accarezzò la mie corde vocali. Quarantotto ore più tardi, mutangolo, con il divieto di produrre suoni per quindici giorni, salii in auto per riattraversare la frontiera. Ero solo ad affrontare il viaggio di ritorno e, subito dopo la dogana, m’incartai a causa della neve. Avevo la necessità di comunicare con qualcuno. Così su un block notes scrissi: Italie. Non ci credereste, un camionista che era fermo sulla corsia opposta lesse il mio my-day e, scavalcando il guard rail, mi venne incontro per indicarmi la strada. Mai visto un camionista essere tanto cortese. Né in Italia né all’estero. Un caso? Non proprio. Un’oretta più tardi mi fermai a un’area di servizio per un caffè. Mi avvicinai al banco e scrissi, sempre sul blocco, “caffè ristretto”. Il solito furbo tentò di armi avanti. Non l’avesse mai fatto. La barista lo squadrò di traverso e gli sibilò: “Ma che cazzo fa? Non vede che c’è il signore prima di lei?”. Non propriamente una contessa, vero, ma apprezzai quel gesto di solidarietà significativo del fatto che, anche nel nostro Belpaese, c’è del rispetto almeno per gli handicappati. Tant’è che, stradafacendo, riflettei su come e quando avrei potuto sfruttare la mia nuova condizione. Poi, riflettendo ancora, mi dissi che sì, indubbio, sono un irriducibile italiano! Trascorsero le due settimane di silenzio che mi avevano imposto, durante le quali avevo guadagnato un Oscar familiare per le mie insospettabili qualità di mimo. Dopo i primi due giorni di smarrimento, infatti, tanto mia moglie quanto gli amici avevano imparato a interpretare i miei gesti e il mio labiale. Che, di per sé, sembrerebbe una cosa facile per la cosiddetta ordinaria amministrazione (fame, sonno, bagno e simili), ma quando si trattava di comunicare qualcosa di leggermente più complicato come un cognome si arrivava alla tragedia greca. Senza maschere si capisce. Dopo la parentesi silente venne il giorno del primo…vagito che tutti stavamo aspettando con ansia. Era il pomeriggio di un sabato quando esordii chiamando la gatta. “Arianna” esclamai e ne venne fuori un suono flebile ma robusto, poco più che soffiato ma sonoro. Il miracolo si era compiuto? La mia voce era finalmente tornata all’ovile della mia gola? Per una decina di giorni mi era venuto in mente di svegliarmi pronunciando l’espressione “vive la ” ma mi sembrò un po’ troppo. Avevo appena raggiunto lo zenit della felicità, scartocciando il mio personale microfono e iniziando a fare delle prove. Non solo. Avevo ripreso diligentemente gli esercizi logopedici che, finalmente, davano i loro frutti irrobustendo la timbrica che tornava ad assomigliare non a una qualunque voce ma proprio alla mia, carica dei suoi adorabili bassi. Quelli che, in sostanza, l’avevano resa radiofonica. Poi, una mattina, il sogno fece flop. Quasi inspiegabilmente sentivo una delle due corde vocali, la destra, non vibrare

come prima, come appena il giorno prima. Mi dissi che era un’impressione, che non avrei dovuto farci caso, magari che avevo preso un improvviso raffreddamento. Tutto questo mi dissi e me lo ripetei anche i giorni successivi quando la mia voce tornò, lentamente, ad essere roca, bassa, quasi inavvertibile, come se il tempo si fosse fermato all’andata del mio viaggio a Lyon. Inutile. Mi dissero poi che spessissimo “cicatrice crea cicatrice” e il mio caso si presentava esattamente come quelli che si descrivono in…come si dice? Ah, letteratura. Ora, parrà strano, ma neanche questa Caporetto era riuscita a fermarmi. Già una settimana più tardi ero “on the road” pronto ad affrontare un altro tentativo e poi un altro ancora. Bene, anzi male, malissimo. Complessivamente mi sono sottoposto a nove interventi, dal più semplice (iniezione di grasso autologo) allo scollamento della mucosa cordale, al miracoloso acido. ialuronico così tanto di moda in tema di lifting nel terzo millennio. Artemio aveva vinto ancora una volta. E anche la speranza, quella che è l’ultima a morire, se n’era definitivamente andata anche lei.

Causa che pende causa che rende

Non conoscevo questo proverbio. Almeno ne ignoravo l’esistenza finché non ci avrei sbattuto il muso contro, mio malgrado. E lo feci. Un o indietro. Come vi dicevo avevo poi deciso di intentare causa. Penale, tanto per cominciare, mosso soprattutto dalla smania di vendetta (o di giustizia vedete voi) nei confronti di quel chirurgo che comunemente definivo “il macellaio” senza, per questo, voler far torto a chi si occupa onestamente di vitellone o salsiccia. Un altro approccio con il mondo della giustizia che avrebbe alimentato, casomai ce ne fosse stato bisogno, la mia smania di fare quello che sto facendo. Allora cominciamo a ragionare senza blocchi mentali. Tanto non si tratta del famigerato articolo 18 e, quindi, teoricamente se ne può parlare in piena libertà. Fino a prova contraria, s’intende. Dunque immaginate di avere un foruncolo a un ginocchio e intendiate rimuoverlo. Chi può farlo se non un dermatologo o un chirurgo? E continuate a giocare di fantasia. Il professionista in questione inciampa in un’infermiera (se sia moldava o no poco importa, ndr.) e gli sfugge il bisturi di mano. Così succede, in maniera del tutto involontaria manco a pensarla diversamente, che vi tranci di netto una gamba. E’ pacifico che non la prendiate bene, salvo non troviate pratico avere una gamba in meno perché, magari, vi togliereste il fastidio di accavallarla. Capito il concetto? E mettiate il caso vogliate essere risarciti. Che fare? Ricorrere alla magistratura. Brutta l’espressione “ricorrere” trattandosi di un amputato, diciamo farvi portare, suona meglio. Dopodiché riterrete palese che un magistrato non abbia altro da fare che prendere atto del fatto che le vostre gambe da due si siano ridotte a una. E questo è un dato imprescindibile non un’impressione. E’ una semplice sottrazione aritmetica non una complessa formula algebrica per cui ci si debba servire di un consulente di parte. Voi presenterete una vostra foto più recente, magari un paio di testimoni pronti a giurare di aver eggiato assieme a voi fino al giorno dell’intervento e il

processo è praticamente iniziato e finito. Semplice no? Semplice se non vi trovate nel Paese dei Papalla (per chi ha una buona memoria di Carosello). Semplice se, attorno a vicende del genere, non ruoti un giro d’affari inimmaginabile che parte dagli avvocati, attraversa la pretura, si allarga alla sfera dei consulenti, investe i medici legali e altri ammennicoli rappresentati da marche da bollo, carte uso bollo e memorie di ogni genere. Ed è proprio qui che inizia la ruota di quell’inesauribile luna park che gira e girerà a sfinimento. E’ qui che il Circo giudiziario comincia a prodursi nei suoi numeri che vi faranno diventare qualunquisti esasperati ed entrare nella schiera di chi pensa sia meglio “abbandonare la tenzone” piuttosto che parteciparvi. Siorre e scorri, benvenuti in tribunale dove la certezza è tutta da provare, dove la colpevolezza è un’opinione, dove il delitto è opinabile, dove il giudice è Dio e tu sei una merda, sia pur lesa, che ciascuno sta bene attento a non calpestare. Benvenuti in questo strano mondo parallelo in cui i servitori dello Stato guadagnano come i parlamentari, lavorano, quando possibile, la metà di loro e pretendono rispetto e potere senza rinunciare né all’uno né all’altro. Infine, benvenuti su questo pianeta che vive staccato dal mondo comune come gli anelli di Saturno e dove si respira soltanto se ti dicono che è il vostro turno di respirare. Questa premessa, mi perdonerete, non è uno sfogo ma la sintesi di un palazzo di giustizia colta da occhi discreti di chi mai e poi mai avrebbe pensato di vedere quello che voi umani non potreste neppure immaginare. Ebbene, se avrete avuto la pazienza di seguirmi e afferrare il paragone, solo allora potrete comprendere il mio stato d’animo quando mi dissero che avrei dovuto dimostrare a) che in effetti la mia voce originaria era…quella che era b) non ero affetto da tumore o da grave patologia tanto da giustificare l’operazione c)che i successivi otto interventi cui mi ero sottoposto non avevano pregiudicato il risultato del primo. Incredibile! Fossi stato un lama avrei cominciato a sputacchiare fin da subito tutto e a tutti. Procediamo con ordine: la mia voce era conosciuta da una città intera e, in ogni caso, il mio avvocato aveva presentato i files audio comprovanti. Che non avessi un tumore né in potenza né in atto stava scritto nella cartella clinica, sempre in possesso del giudice. Infine: cosa mi avrebbe indotto a sottopormi ad otto interventi, sborsando di mio, se non la volontà di ritrovare la normalità? Salvo che il giudice non pensasse che volessi partecipare allo show dei record! Questo il quadro iniziale del processo che sarebbe durato 8 (dicasi otto) anni. E, se non ci fosse stato di piangere, certamente ci sarebbe stato da ridere.

Voi non avete idea né potete averla di quanto contorte siano le maglie della giustizia. Altroché quelle preziose di Missoni! Le maglie della legge sono fitte e infeltrite come i pullover che mi lavava mia suocera. Capi stupendi che, in mano all’incauta casalinga, finivano per diventare maglioncini che sembravano acquistati allo 0-12 per un bimbo poco pretenzioso. Le maglie della giustizia (sapere non lo può chi non lo prova, diceva il Poeta) ti abbracciano prima per stritolarti poi. Tu entri nel Tempio dei Giusti con lo stesso spirito di Briseide, pronto a servire il Deus quale che sia, il Magistrato con la Emme maiuscola, ed inizia l’avventura di fronte alla quale Verne si sarebbe trovato disorientato nonostante avesse immaginato un percorso al centro della terra. Si tratta di qualunquistiche enunciazioni? Magari. Non sarei qui a perdere e farvi perdere tempo. Per sommissimi capi voglio raccontarvi alcuni aggi delle udienze che si sono dilatate per i 2.920 giorni a intervalli irregolari. Da cosa dipende? Dalla giustizia ingolfata, penserete. Dalla penuria di personale, azzarderete. Macché, da tutto e da niente. Il giudice apre il brogliaccio e firma la data dell’udienza. A quando? Dipende. Le variabili sono centomila. Il cancelliere in permesso, un avvocato indisponibile, una segretaria che, proprio per quella data, aveva prenotato un’impellente visita dal pedicure…insomma da una serie di eventi coincidenti o no. Quindi la data potrebbe essere fissata…diciamo…a sei/sette mesi per slittare, successivamente all’anno successivo. Del resto non vorrai mica affogare di lavoro un magistrato?! Quando ha lavorato le sue buone tre ore (compresa la pausa per il caffè) non pretenderai di appesantirlo di uno straordinario notturno, laddove per notturno intendesi oltre le ore 15 del pomeriggio quando, d’inverno, il cielo inizia a scurirsi?! Eppoi per cosa? Per quegli infami sei, settemila euro mensili? Una miseria, uno stipendio da fame che Marchionne ebbe malapena per acquistare uno dei suoi lupetti trendy da indossare nei giorni infrasettimanali. No, non si può pretendere che un giudice rimanga incollato alla poltrona Luigi XIV per tutto quel tempo! E allora gli si dia la libertà, almeno, di fissare una data agevole. Tanto, anno più anno meno, non siamo mica delle mozzarelle a scadenza. Uno può pur attendere un paio d’anni per iniziare il dibattimento. Peraltro gli esperti dicono sempre che la vita s’è allungata. Per cui se percepire la pensione a settantacinque anni è ragionevole… una causa può tranquillamente protrarsi per un quarto di secolo. Come direbbe un siculo “che ci fa?”. Eppoi c’è il famoso postulato che valeva all’epoca dei miei calzoni corti e che ha superato il millennio, quello che recita “causa che pende causa che rende”. Vale a dire che tanto più dura un’azione giudiziaria tanto più si ingrassa la schiera dei periti di parte, degli avvocati di accusa e

difesa. Ma vi immaginate una controversia in un paese civile? Roba che in meno di un anno c’è il rischio che si emetta un verdetto! Con quel che ne consegue. Forse, anche senza forse, ho premesso troppo. Dunque la causa più importante della mia vita ebbe inizio con un rinvio. Ad essere sincero non ricordo neppure perché. Quello che ricordo è di essere stato il più puntale di tutti. Ero lì dieci minuti prima dell’orario pur sapendo che sarebbe slittato come vuole la norma del proverbiale ritardo accademico. Già, il ritardo accademico. Dieci minuti? Si vede che non v’intendete di fuoricorso. Anni, si parla di anni. I minuti non entrano neppure nel computo negli antri giudiziari. Ero lì con una borsa ricca di incartamenti, casomai l’avvocato se ne fosse dimenticato qualcuno. Sai com’è, quando si hanno per la testa mille situazioni di altrettante persone diverse. Ero carico. Dentro di me ero carichissimo. Mi spostavo da una parte all’altra impugnando quella che, da lontano, sarebbe potuta sembrare la tipica “borsa da tangente”. Invece era la valigia dei sogni, nel senso che sarebbe stato giusto un sogno quello di poter estrarre di lì qualcosa. Infatti non servì. Né la borsa, nè la puntualità, né la parte lesa. Non ci fu neppure bisogno che qualcuno mi dicesse che la data sarebbe stata un’altra. L’avevo già capito da solo. Nessun teste, nessun perito, nessun avvocato salvo il mio che non fece mancare la sua presenza unita alla sua comione. Gli vidi disegnata sul viso quell’espressione che anni di professionalità ti regalano e che è sempre uguale a se stessa. Somiglia un po’ a quella del medico quando finge di compenetrarsi nel dolore dei parenti per annunciare un decesso. Così, un paragone, perché si capisca. Ok, quella mattina non si celebrò un piffero e quando dico un piffero sono volutamente garbato. Dell’udienza si sarebbe parlato un po’ più avanti, quattro mesi più tardi. In fin dei conti cosa significano 120 giorni di fronte al maremagnum della giustizia? Vero, in 120 giorni oggi ci si sposa e ci si divorzia, la benzina alla pompa rincara del dodici per cento, Monti ti applica quindici nuove aliquote. Ma, nel contesto dell’esistenza, che accidenti rappresentano quattro mesi di attesa? Del resto, ribadisco, questo fa bene all’economia in periodi di stagnazione. Quanto mai vero: causa che pende causa che rende!

Il tempo è galantuomo ma, come tutti i gentlemen, si fa aspettare

Fatti, non parole

Era stato Carosello a introdurre questo slogan nello spot (che non si chiamava spot all’epoca) della Rex se non sbaglio. E non si trattava di un nonsense ma di una genialata in cui la sintesi era tutto. Se ciascuno di noi ripetesse questo slogan a un politico fumoso, a un burocrate fannullone che si giustifica, finanche a una moglie che s’inventa balle dopo aver trascorso un pomeriggio di sesso con l’amante…insomma se riusciste a non farvi prendere la mano dalla virulenza caratteriale e pronunciaste con fermezza questo slogan riscuotereste più stima e, arrivo a dire, anche qualche risultato in più. Di certo collezionereste anche qualche nemico di troppo ma avreste la certezza di essere stati chiari. Bene, la legge è chiarissima. Come diceva il cantante le parole non servono. Sono i fatti a farla da padroni! Ma cosa sono i fatti? A volersi dilettare di filosofia spicciola non basterebbe lo spazio a me o la pazienza a voi per parlarne in maniera leggermente approfondita. Se, al contrario, la mettiamo giù in soldoni con la saggezza di un agricoltore degli anni cinquanta…ebbè non si sfugge. I fatti sono i fatti. Se cammini per strada e un camion ti travolge riducendoti a una piadina puoi sempre affermare che le ruote anteriori ti abbiano travolto parzialmente l’anca destra e abbiano appiattito l’osso occipitale anziché il parietale. Puoi sostenere (meglio, potrà farlo un medico legale per te) che la cassa toracica sia stata schiacciata lateralmente. Insomma tutto quello che si vuole. Ma un fatto, il fatto, è che sarete ridotti all’impasto di una pizza Margherita e sarà il coroner (fa tanto fico dirla all’americana) ad esaminare i vostri resti all’obitorio. L’ho descritta in maniera, forse, cruenta ma è il risultato che conta: capito cos’è un fatto? Dopodiché possiamo ipotizzare che i Mille siano partiti da Quarto per fare un week end a Marsala o che novecentottantatrè di quei mille abbiano approfittato di un viaggio low cost organizzato da Garibaldi per visitare la Sicilia. Ma il fatto è e rimane che le camicie rosse si ritrovarono nella celebre località della Trinacria. Sicuramente per gli organizzatori saranno stati 7.471 e per la Questura dell’epoca 916, ma quello sfavillio di camicie rosse tuttavia ci fu. E non si trattò - almeno così raccontano le cronache - di un’improvvisata manifestazione della Cgil. Ripeto: capito cosa si intende per fatto? Qualcosa di innegabile, un’evidenza che nemmeno Ghedini potrebbe confutare; un quid che prescinde

dall’interpretazione e che aggredisce, tu lo voglia o no, la tua percezione. Ho detto percezione? Per carità, certezza. Ché percezione si presta a dubbi interpretativi. Ebbene, al processo, avrei dovuto dimostrare - dico dimostrare che la mia voce in realtà era effettivamente cambiata. Cribbiolina, direbbe un pudico commentatore, ci sarà pure stata una differenza stratosferica tra la più bella voce della città e quella sorta di rantolo (sgradevole e udibile solo a tratti) più simile alla timbrica di un evirato?! Lapalissiano ma tutt’altro che realistico. C’è davvero da non crederci ma sentii mettere in dubbio che, in realtà, la mia voce non era poi stata così bella come risultava dalle carte o dalle registrazioni. Come dire che Monica Bellucci, prima di una certa data, assomigliasse a Livia Turco, senza per questo voler offendere la piacevolezza d’aspetto della parlamentare Pd. Il processo iniziò a celebrarsi dopo quei fatidici quattro mesi e spicci. Bello “celebrare”, sa di messa. E il parroco (leggi giudice, ndr.) stabilì una perizia. Traduco? Fu incaricato un perito del tribunale che accertasse i fatti. Vuoi scegliere un perito in zona? Macché, se un magistrato si fida di un perito di Canicattì non vorrai avere l’impudenza di contestare la sua inoppugnabile decisione?! Grazie a Dio non ci fu bisogno di percorrere un migliaio di chilometri e attraversare lo stretto. Sarebbero bastate un paio d’ore d’auto per recarsi a Bologna. Tutti. Una sorta di pulmino che non venne messo a disposizione dal tribunale. Ciascuno con il proprio mezzo avrebbe dovuto raggiungere Bologna. Ed ecco, sull’A14, il mio avvocato con il mio perito di parte; l’avvocato del medico pesarese con la sua equipe composta da medico legale, esperto otorino più medico legale dell’assicurazione e avvocato della stessa. Insomma una falange macedone. Poi, tutti insieme apionatamente, entrammo in una stanza dove avrebbe dovuto svolgersi quello che si chiama in gergo “l’incidente probatorio”. Cioè di fronte a un pubblico quanto mai attento avrei dovuto rispondere alle domande del perito che, a sua volta, era ato da un otorino al di sopra delle parti. E ci fu da ridere. Anche nei momenti drammatici si ride, credete. Il perito mi sottopose a una serie di domande sulla sfilza delle operazioni cui mi ero sottoposto fra le quali ce ne fu una particolare: “…in quel periodo lei ha mai avuto disfonia?”. Entrai nel pallone perché disfonia significa mille cose e il termine ha duemila sfumature. Gli chiesi di formularmi meglio il quesito e lui lo fece. Dopodiché risposi in tutta calma mentre, alle mie spalle, sentivo un sommesso vociare di qualcuno che dissentiva non sapevo su cosa. Lo scoprii dopo che mi ebbero fatto accomodare fuori come parte in causa; lo scoprii in auto a fine seduta, quando il mio medico legale mi confidò che qualcuno della controparte aveva sostenuto mentissi o fi il pesce in barile. Come fa un laureato in lettere a non capire cosa significa “disfonia”? Cazzarola, aveva ragione il miscredente! Fossi stato a “The money

drop” il mio milione di euro sarebbe stato inghiottito dalla botola. In effetti, come fa uno che ha studiato e insegnato latino, storia, letteratura e geografia, a non conoscere appieno il significato del termine “disfonia”? Avrebbero dovuto indagare meglio sul mio trascorso universitario. No, ribadisco, come si fa a non sapere una cosa simile? Facile che qualcuno ignori come esistano docenti di lettere che, parlando, allentano un “andevamo” piuttosto che scivolare su un’espressione del tipo “se la gente non lo immaginano”! Imperdonabile comunque la mia defaiance, roba da arresti domiciliari per falsa dichiarazione a pubblico ufficiale. Ma furono clementi, comionevoli e mi lasciarono libero. L’episodio rimase in ogni caso confinato alla maldicenza della giornata. Come rimase lettera morta anche il mio happening nel corso della conversazione col perito quando esibii, coram populo, la registrazione della mia voce, reperto che conservo ancora nella memoria del cellulare. Non era servito a nulla se non ad appagare la curiosità degli astanti e non servì dopo. Per usare un sismo: “fregò un cazzo a nessuno!”.

Un giorno in pretura senza telecamere

Dai, che siete curiosi. Quelli di voi che non hanno provato l’ebbrezza di entrare in un’aula di tribunale per un processo penale certamente hanno in testa i telefilm di Parry Mason che i giovani non sanno neppure chi sia e lo accostano a Marilyn Manson pensando a un nostro pessimo inglese. Bene. Cancellate i ricordi televisivi e cercate di mentalizzarvi sulla quanto mai opaca rappresentazione realistica odierna. Come ho scritto in precedenza, quello del tribunale è un mondo a parte dove la vostra personalità viene schiacciata da carte e procedure. Ora non voglio assolutamente impallosirvi entrando nei dettagli dell’udienza penale ma significarvi che é una sorta di sogno/incubo. E preciso: quante volte avete sognato di essere sulla scena di un fatto qualunque e avreste voluto intervenire per dire la vostra o magari per fare qualcosa? Chi ve l’ha impedito? La dimensione in cui eravate, il sogno appunto. Avreste voluto parlare, urlare magari, bestemmiare…ma niente! Dalla vostra bocca non un suono e il vostro corpo lì immobile come quello di Allan Poe in Danza Macabra mentre osserva un omicidio e non può nulla perché si svolge nel ato. Sono stato abbastanza descrittivo? Sennò scrivetemi una mail di protesta. Se sì vado avanti. Dunque entrate nell’aula e, generalmente, pur essendo parte in causa non siete posizionati in prima fila come gli ospiti del Festival della Canzone. Siete in quarta, terza quando va bene. Non chiedetemi perché. Funziona così. Accanto a voi il legale di fiducia e, di fronte, sull’alto scranno della Giustizia, il giudice con a fianco altri magistrati. Più sotto il cancelliere e così via. Inizia lo spettacolo perché, tutto sommato, di fiction si tratta. Ciascuno recita il proprio ruolo come nella vita s’intende, niente di che. Dopodiché si presentano le carte e la Corte sfoglia il fascicolo biascicando frasi che, ai neofiti, risultano spesso incomprensibili. Così non rimane che guardare il “film” aspettandosi magari i sottotitoli in italiano. Non arriveranno mai, mettetevi l’anima in pace. Vostro, meglio, Suo Onore apre le danze. Parlano gli avvocati, neppure a ruota libera debbo dire. Il minimo indispensabile perché c’è fretta. Appresso seguiranno altri disgraziati di turno. Quindi “avvocato stringa” è

un’espressione ricorrente. Quando l’avvocato della controparte dice la sua, infila - per te che sei parte lesa - una sfilza di cazzate giuridiche e non che ti fanno sobbalzare sulla sedia. Allora fai per intervenire, non direttamente si capisce, ma il tuo legale ti smorza sul nascere. “Non ora. E’ l’udienza preliminare”. Successivamente è il turno degli esperti, quelli che sono stati nominati dal giudice, quelli che presenteranno un onorario da far impallidire persino la Minetti. Nicole si capisce. Ma così é. Vuoi il professionista? Lo paghi, tanto Pantalone è nato in Italia, anche se non proprio nei Palazzi di Giustizia. Sicché gli esperti sciorinano il loro verbo dopo averti visitato in qualche caso, come il mio, sommariamente. E qui, come altrove, gioca un ruolo decisivo la suggestione. Se l’esperto è giovane, non sommerso da impegni ed ha avuto tempo di sottoporti a una visita accurata hai una qualche possibilità che il suo giudizio ti possa essere favorevole. Se ha superato i cinquanta e soprattutto ha un’agenda fitta di consulenze, ti dribbla alla sua assistente che, per lo stipendio da fame che notoriamente spesso riceve dal titolare, fa quello che può e arriva ovviamente dove può arrivare. Insomma una co.co.pro. che ce la mette tutta se… ne ha voglia. Che c’entra la suggestione? Non è cosa automatica e non ha nulla a che vedere con l’etica professionale, ma se sei alto, bello e giovane l’attenzione è inappuntabile. Diversamente se ti stai avviando al viale del tramonto e i tuoi capelli bianchi tradiscono inequivocabilmente la tua età, l’attenzione dell’assistente “esperta” schizza via come Titti da Gatto Silvestro. E’ umano. Del resto se ti taglia la strada in auto una babbiona non transigi. Se a farlo è una stragnocca…parti con un insulto che ti abortisce sulle labbra e tenta di trasformarsi in un sorriso che finisce per essere un’espressione simile a quella di Gasparri quando pensa di aver trovato il suo avversario in contraddizione. Rientrai nel primo caso. Il bello è che, alla fine, consuetudine vuole che il professionista titolare si appropri della visita eseguita dalla precaria e ci metta la faccia. E’ lui che incassa, è lui che parla. E, quando questo succede, le tue budella si attorcigliano e tu chiedi al tuo avvocato d’intervenire in prima persona. Non è previsto. Tu devi ascoltare e obbedir tacendo, come diceva l’Innominabile. E’ un complicato processo di autocontrollo che non sempre e non a tutti riesce. A me non riuscì e, rinverdendo i tempi del liceo, alzai la mano (come i volontari di scolastica memoria) rivolto al giudice e aggiunsi con voce roca e sommessa: “Mi scusi, ho facoltà?”.Suo Onore mi squadrò per quei tre, quattro secondi e, quasi rabbiosamente, scosse il capo direi infastidito. E rispose: “No!” guardando il mio avvocato. Che io ero un fantasma lì, quel giorno.

La legge è disuguale per tutti

Il fatto che non avessi potuto esprimere in quella sede neppure un’opinione non fu irrilevante. Bastò attendere circa sei mesi e arrivò implacabile la sentenza del magistrato. Istruttore? Non so se fosse stato istruttore o meno. Quello che so è che, visionati gli atti, letta la relazione del consulente, sentiti gli avvocati, presa visione delle contestazioni e…quant’altro (soprattutto quant’altro) il giudice ritenne di non doversi procedere nei confronti né del chirurgo né della struttura sanitaria. Per la legge non vi erano estremi per procedere. Il medico, che fino ad allora non s’era mai presentato, aveva agito secondo “scienza e coscienza” e quindi risultava del tutto incolpevole. Di più, soprattutto neppure l’imperizia era messa in predicato. Questo fu quanto. Trafalgar, se vogliamo dare un significato storico alla vicenda. Si chiudeva in questo modo, vergognosamente, il capitolo penale. Nessun colpevole nessuna vittima. Un sillogismo ignobile tanto più che, in un’Italia contrassegnata da continue incertezze politiche, economiche, morali e filosofiche, campeggiava la mia certezza di essere handicappato al di là di ogni ragionevole dubbio. Il fatto è, mi sussurrò confidenzialmente un assicuratore di parte avversa, che “non si fa causa a un medico, lo sanno anche i bambini”. Vacca miseria, e io che nella mia adolescenza m’ero impegnato nell’hula hoop o, nei momenti di applicazione più intensa, nelle costruzioni del meccano. Una fanciullezza sprecata! Tutti i bambini sanno - o se non lo sanno è bene che imparino dalla materna - che il medico è sacro come Padre Pio, che il suo sangue è più blu dell’ombretto della Parietti! Che, insomma, mettere in dubbio l’operato di un chirurgo è un po’ come copulare in chiesa con una minorenne. Un tempo (l’ho già scritto ma giova ripeterlo) si parlava di mafia bianca, oggi si parla di casta, ma il risultato non cambiava allora e non cambia oggi. Gli intoccabili erano e rimangono tali. Ma io gradivo e gradisco prenderla in quel posto, in maniera positiva magari, con la più truce delle battute “chissà che a lungo andare non mi piaccia”. Imparai la lezione e ne feci tesoro. Da allora cerco di evitare accuratamente l’ospedale della mia città pur rendendomi conto che la malasanità e l’incapacità non hanno frontiere. Come non ne hanno, in linea di massima, la buona sanità e la capacità. Le cosiddette eccellenze. Beato chi le trova. Ne ho

sentito parlare da Formigoni (da qualche tempo al centro della bufera giudiziaria, ndr.) e da Errani, ma ho anche conosciuto gente che è fuggita pressoché scalza dall’ospedale in cui si trovava ricoverata in Lombardia o in Emilia Romagna. E’ vero che in medicina non ci sono certezze ma io sono sempre stato un estimatore del mitico Totò che riprendeva la domestica (oggi collaboratrice familiare) quando rispondeva al telefono senza poi rammentare chi fosse o cosa avesse detto. E Totò furibondo, con la cornetta in mano, le urlava: “Il telefono è cacca! Lui suuuuuona e tu lascialo suuuuuonare. Cacca, hai capito?!”. Ecco, questo è il mio contributo teso a rendere migliore la sanità. Caro dottore, se per te il corpo umano è un oggetto misterioso, se non sai che il “retto” oltrechè un angolo è anche il fondo estremo dell’intestino…non toccare. Cacca. Se non sai che le corde vocali non vanno pulite con l’amuchina…sta lontano dal bisturi. Cacca! E la mia disavventura mi fu propedeutica anche per i successivi comportamenti da adottare all’interno delle strutture ospedaliere. Uno di questi, che considero una sorta di linea guida, recita: meglio stronzo che vittima. Vado a esprimere il concetto. Quando doveste trovarvi al cospetto di un Barone (grazie a Dio ne rimangono sempre meno, ndr.) che a in visita in reparto quasi fe una cortesia; se alle sue spalle si snoda il codazzo che vi ricorda il Dottor Tersilli in una delle migliori interpretazioni di Sordi, non siate accondiscendenti. Essere educati non significa genuflettersi. E’ vero, c’è un comune pensiero che il Barone in questione abbia la nostra vita nelle sue mani. Non fa una piega. Ma se non vi ascolta ostentando sicumera, se la sua prosopopea è fuori luogo, nessun timore. Fatevi ascoltare da chi è profumatamente pagato per farlo. Diversamente digrignate i denti e fatevi valere. E dovesse scapparci il litigio fa nulla. Il paziente non dev’essere paziente a oltranza. Cosa potrebbe succedervi? Che, prendendovi sottogamba, il chirurgo potrebbe vendicarsi in sala operatoria? Con ragionevole certezza ribatto che, all’occorrenza, un sano vaffanculo, diverrebbe la vostra assicurazione sulla vita. Mai e poi mai, infatti, il più cinico dei Baroni vorrebbe gli fosse addebitato un errore proprio sul paziente con il quale ha avuto uno screzio. E ribadisco: meglio stronzo che vittima.

La légge è légge. Per chi la “lègge”

Lotta dura senza paura

Da questo sottotitolo si evince un sano spirito sessantottino. Meglio sessantottardo. Lo spirito di chi non s’arrende fino alle estreme conseguenze, il mio di fatto. Ora, come dicevo all’inizio, non sarebbe stata mia intenzione scrivere una biografia ma sarebbe assurdo non raccontarvi l’epilogo di questa brutta, strana e lunga storia che potrebbe capitare a chiunque e ovunque. Alzate le mani e non toccatevi dove meglio riterreste. E’ un’espressione proverbiale si capisce. Però un minimo di messaggio vuole esserci, sia pure nella mia superficiale semplicità: non mollate la presa. Siate dei dobermann sempre e comunque. Azzannate la mano del medico che vi ha segnato la vita e, finché i canini non si toccano tra loro, non pensate neppure a mollare la presa! Non intendo certo inventarmi missionario, ma so di essere nel giusto quando sostengo che non lotterete solo per voi, lo farete per tutti quelli che avranno la sfiga di seguirvi. Ma sì, prendetela come una sorta di considerazione patriottica in un periodo di latitanza dei valori. Lottate a qualunque costo per ottenere il risultato. Rifatevi agli eroi del Risorgimento o ai nostrani vitelloni degli anni Sessanta. Va detto che i primi davano il sangue per la Patria, i secondi facevano un altro tipo di trasfusione dopo aver speso loro stessi. Ma in comune avevano una cosa, l’obiettivo. Bene, il mio obiettivo fu la causa civile. Cazzarola, qualcuno avrebbe dovuto risarcire i miei danni morali e quelli materiali. Dice...ma come se il processo penale aveva riconosciuto non esserci imperizia o negligenza? E qui si entra ancora una volta nei cunicoli della legislazione, di quella famosa giustizia ingiusta che mi ha spinto a scrivere questo libercolo. Sintetizzo banalmente: se dal punto di vista penale il dolo non è stato riconosciuto questo non significa che non abbiate subito il danno. E quindi potrete ricorrere alla procedura civile perché, almeno quello, sia accertato e riparato in soldoni. Meglio, in soldini. E’ bene sappiate che diventerete ostaggi delle tabelle. Translation. Hai quarant’anni? Vali 8. Ne hai cinquanta o più? Vali 5. E così via andare finché, uso un inglesismo figurato, non vali più una sega. Questo, in linea di massima, il concetto. Dopodiché ci sono accessori e indicatori da poco o da tanto. Sei Pippo Baudo o Bonolis? Vai fuori tabella e le cifre s’impennano come lo spread sotto il governo Berlusconi. Sei uno stronzo

qualunque? La griglia diventa più rigida del redditometro. Si tratta di scaglioni che ti comprendono o ti escludono. Eppoi c’e’ il danno morale. Negli Stati Uniti c’è. Da noi esiste quello biologico che devi dimostrare a suon di certificati. Sei depresso? Quanto lo sei? Sei incazzato? Non rientri nei parametri. Sei diventato schizoide a seguito del trauma fisico subito? Dimostralo. Aggredisci quattro vigili urbani, stupri una casalinga di centotrenta chili e, forse, sono disposti a credere tu sia in buona fede. Ed è solo un aspetto del civile. Poi c’è il rischio. E’ la classica roulette russa. Il rischio che trovi un giudice che abbia fretta di concludere e si agganci al verdetto del processo penale. Cosa che non dovrebbe accadere ma accade e allora hai perso in partenza. Ma nel guazzabuglio, se hai un briciolo di fortuna, può anche capitarti di trovare un magistrato volenteroso che abbia la pazienza di guardare le carte e di istruire un processo distinto dall’altro. Esistono i giudici così Li riconosci perché camminano normalmente, vestono dimessamente ma, nella penombra, ti appaiono con attorno al corpo un’aura papale alla Giovanni XXIII. Esistono, parola. In ogni caso devi avere quelle che si chiamano le spalle pesanti e i soldi in bocca per l’avvocato, il perito di parte, il medico legale. Insomma non un investimento in Bot ma in azioni di un Paese a rischio default. Puoi puntare sull’Italia ma anche sull’Argentina per capirci. E non è raro ti ritrovi cornuto e mazziato con la tua sete di giustizia che ti arde la gola (diciamo...la gola) più di prima e hai fatto fuori quanto ti era rimasto per i momenti imprevedibili della vecchiaia o della salute. Metti poi che un Monti qualunque ti tassi anche i peti e sei alla bancarotta completa. Semprechè tu sia una persona comune s’intende. Perché se sei ricco funziona come al casinò, dove il banco vince sempre e ricchi se la cavano mentre gli assatanati comuni si giocano anche il bilocale intestato alla moglie. Ma vado un po’ troppo in là con le similitudini, me ne rendo conto. Dunque l’imperativo é lottare per vincere. Il bottino non sarà granché e non si avvicinerà neppure di lontano ai risarcimenti miliardari di chi ha citato in giudizio una multinazionale del tabacco, ma la soddisfazione, in caso di esito positivo, vi ripagherà almeno di qualche magone e di parte delle spese. Ahimè, sono un inguaribile prolisso. Mi ero ripromesso di favi conoscere l’esito della vicenda e ho elucubrato ancora una volta. Eccomi allora. Come diceva il compianto Troisi: ricomincio da tre. E formo la mia squadra. L’avvocato diventa femmina. No, non un trans...semplicemente la causa che a di mano dal mio amico alla di lui signora esperta in civile. Medico legale: riottoso dopo il penale (a nessuno piace perdere, ndr.) ma ancora lui per non dare

l’impressione ai magistrati di essere stato abbandonato come Taormina con la Franzoni. Ma ci vuole un perito all’altezza. E qui ti trovi di fronte a un muro di gomma. E’ una rogna che i professionisti non hanno voglia di grattarsi. Confutare un collega? Se abiti nella stessa città preferisci evitarlo, magari frequenti lo stesso ristorante o il medesimo Rotary. Allora lo cerchi nel circondario regionale e scopri che anche la regione è troppo angusta. Ci si conosce, magari per interposta persona. Non rimane che lo Stivale. E ti attacchi al telefono per sentirti rifilare una sfilza di no…ho un impegno precedente…non me la sento, sarebbe da studiare…la sede del dibattimento è troppo distante… faccia un salto da me (a Gela) e ne parliamo meglio. Nel ventaglio delle risposte ce n’é una che ti fa imbufalire: mi ci faccia pensare...mi chiami in settimana prossima. Ma a che cazzo devi pensare imbecille? Se ti trovi davanti Sharon Stone disposta a dartela che le dici, ci faccio un pensierino? Non esiste. Ma Artemio (ricordate Artemio vero?) non demorde e qualche volta si distrae facendoti magari involontariamente un regalo. Così, in un attimo, disperato dopo centinaia di chiamate ti rivolgi a un figlio che sembra non tuo ma quello del postino: una vita, la sua, sponsorizzata da un culo fuor di misura. Lui di telefonate ne fa una. Buona la prima! Incontro fissato la mattina dopo a soli venti minuti di macchina dalla mia città. Era un giovedì di fine agosto. Quando i cassintegrati vanno a Sharm. A patire il caldo.

La svolta

Quante belle persone vi è capitato di conoscere nella vita? Non belle fisicamente intendo. Belle dentro. Bene, nel pacchetto del culo di mio figlio, era compresa evidentemente anche la qualità del professionista. Bravo, intelligente, preparato, serio, onesto e anche simpatico. Come quasi tutti i centauri. C’incontriamo rombanti al semaforo e, chissà perché, scatta il feeling. Ma questo sarebbe stato il meno. In venti minuti entra nella problematica, si compenetra nel mio dramma e rimboccandosi le maniche, in senso tutt’altro che figurato, mi dice che gli servono alcuni documenti. Dopodiché partiremo per l’avventura. E alla mia domanda: “Senza remore?” mi replica “A parte il fatto che, se non avessi accettato io, avrebbe potuto farlo un altro...eppoi le remore sono tutte di chi l’ha ridotta cosi. Io, lo dico in tutta franchezza, se dovessi sbagliare contatterei l’assicurazione per appianare il danno almeno economicamente. L’errore ci sta. E’ la spudorataggine e l’arroganza che non ci stanno. Per cui, capitasse a me non mi sputtanerei incattivendo il paziente. Sbagliare...chi non sbaglia?”. Fantastico. Avrà avuto centomila altri difetti che non conosco e non voglio conoscere, ma fu ed é un uomo fantastico. Di più. In una società che vive di smania di far quattrini e di venalità, dove trovi un affermato professionista che ti dice “Facciamo così, se perdiamo mi dà un tot, se vinciamo cambia la cifra. Lasci perdere gli acconti. Prepariamo le carte ora”. Mazziniano come piace a me, pensiero e azione. Tornai a casa in moto e, a metà strada, fui sorpreso da un acquazzone. Mi fermai e guardai il cielo. Giuro su Dio non c’era una nuvola e splendeva un sole pulito in un cielo terso. Lo presi come un insolito auspicio. La nuvola di Fantozzi o, mettiamola così, una pisciata di Artemio se vogliamo. Ora si trattava solo di mentalizzarsi e preparare un piano d’azione. Cominciai a raccogliere dalla sera stessa tutti i documenti in possesso mio e del mio legale. Avevo ripreso tanta di quella energia che avrei accettato il combattimento all’arma bianca da subito con la famosa falange macedone di esperti e avvocati della controparte. La voglia di lottare, quella che cerco di trasmettere tra una battuta e l’altra, é essenziale per gli ammalati, i depressi, i perdenti in genere. E se va buca fa niente, almeno non si vivrà di rimpianti e non si avrà nulla da recriminarsi. Ma le sorprese di quel fine agosto non finirono lì. Avevo trasmesso tutto il materiale cartaceo a questa speciale persona quando, dopo pochi giorni,

nel cuore della notte ricevetti una sua mail. Alle tre del mattino scaricai il messaggio. Diceva testualmente: “Ho trovato il bandolo della matassa. Con questi elementi al novanta per cento li inchiodiamo. Le dico di più...avrebbe vinto a mani basse anche il penale!” Quasi una postilla in calce alla preziosa mail “comunque a un chirurgo una causa penale non la si fa mai”. Ma che strano Paese, mi dissi. Viviamo quasi di stereotipi. Chi è mai un chirurgo se non un laureato come altri che fa una professione come altre? E perché mai un chirurgo non dovrebbe pagare per i suoi errori? Non esiste solo la corruzione che é ormai diventata una prassi in Italia, C’è una ridda di reati che il codice Rocco annovera in un linguaggio spesso incomprensibile ai più. La domanda che vi giro é esistenziale: é più imputabile un primario che prende la mazzetta (dolore economico per chi la versa) oppure lo stesso che rende handicappato un paziente (dolore fisico e psicologico)? Obietterete che l’uno è un reato l’altro un errore. Sì vabbè ma, alla resa dei conti, tirate una linea e chiedetevi se soffra di più un imprenditore che, obtorto collo, debba versare del denaro non dovuto o chi finisce in carrozzella per un colpo di bisturi di traverso. Nello specifico io avrei versato una mazzetta o più d’una piuttosto che versare lacrime di rabbia a vita. Mentre sto scrivendo sotto la mia finestra sento un vociare da bar e tendo un orecchio. Parlano di Corona, già Fabrizio Corona. Recepisco un altro dubbio amletico: cinque/sette anni a Corona per l’estorsione a un calciatore miliardario e i domiciliari a Fiorito o ad altri Fior...di disonesti come lui? C’e’ da pensarci. Guardate tra le pieghe della legge. Ne scoprirete la piaghe. Ma voglio terminare questa specie di giallo che mi concerne (chissà se si dice mi ha concernuto...?) raccontandovi in poche battute dell’evolversi della situazione. Si girarono, come si dice di questi tempi, tutti gli indicatori e le mie azioni cominciarono a salire di giorno in giorno. Quella che sembrava una giornata uggiosa fece trapelare i primi raggi di sole. Senza panegirici descrittivi: la controparte cominciava a farsela addosso. Anche se era una ragguardevole formazione quella, non c’era che dire. Dal luminare che aveva irradiato del suo sapere maree di otorini, giovani e non, attraverso convegni e pubblicazioni ad avvocati di grido come si definivano negli anni ruggenti i veri principi del foro. Eppoi consulenti attenti e preparati e impavidi assicuratori pronti a vendere cara la pelle della loro Compagnia svergognando nelle sedi opportune menzogne speculative. Ma io avevo la fionda di Davide, il mio Valentino Rossi del Circuito, il mio Maradona situation, insomma il fuoriclasse pervicace, motivato

e, mi piace ribadirlo, estremamente positivo e simpatico. Così, al primo gong del “ fuori i secondi”, sul quadrato della capitale emiliana fu spiattellata una relazione che, papale papale, diceva che quanto aveva scritto e detto il luminare era stato esattamente l’opposto di quanto aveva fatto il suo assistito “macellaio”. Imparai che significa, in gergo, letteratura. Non quella dell’Alighieri e neppure gli scritti dei monaci del Sancte Benedicti. Era la famosa carta che canta mentre il solito villano dorme. Era partito così il primo gancio sferrato sul ring di Bologna. Il secondo uppercup la controparte se lo diede da sola. I periti, al di sopra delle parti, incaricati dal tribunale, mi chiesero di ascoltare (per mera curiosità) quale fosse la mia voce prima del fattaccio e io, inguaribile romantico, che (come ho già detto) tengo ancora nel cellulare un file cimelio del 1999 lo feci brillare. La mia voce deflagrò imperiosa e potente nella stanza. Silenzio di tomba. Commenti zero. Solo un incauto assicuratore esordì infelicemente che non era poi granché. E aggiunse di avermi conosciuto in precedenza per un sinistro automobilistico. Neppure allora – disse - era granché. Quando si dà fiato alla bocca a sproposito! Vero, mi aveva conosciuto nel 2001 proprio a ridosso del devastante intervento, ancor prima degli altri otto. Un autogol di quelli che sul campo gli altri giocatori ti fanno pagare con calci in culo appena rientri nello spogliatoio. E così non arono più di venti giorni che i periti espressero il loro giudizio. Una breve postilla: largo ai giovani che, a inizio carriera, sono ancora vergini e onesti. Sentenziarono i periti e dissero che senza dubbio il danno c’era stato eccome. In un estremo tentativo il luminare stilò un’ulteriore relazione non richiesta. E qui la toppa fu peggio del buco. Perché la cosa indispettì i periti, sì quelli giovani e onesti. E la controrelazione dei ragazzi fu il colpo di grazia. Insomma, come avrebbe detto Mario Monti, una luce fioca in fondo al tunnel iniziava a farsi scorgere. E non tardò nemmeno troppo. In maniera scorretta fui contattato direttamente dal legale avverso, scavalcata la mia avvocata, per cercare un accordo di poche pretese. Ora, pur considerandomi una vivente Treccani dei difetti, non ne annovero uno: la disonestà morale. Risposi che no, che avevo un legale (fino ad allora praticamente ignorato) e avrebbero dovuto parlare con lui, che poi era lei. Non voglio perdermi nelle cifre ridicole che spettano a un ultracinquantenne secondo le tabelle di cui ho già parlato ma una transazione ci sarebbe stata, dopo la bellezza di cinque anni dall’inizio del civile. E non me ne volli occupare. Di più.

Decisi di togliermi dalle...scatole e organizzai un viaggio in Tajlandia e Cambogia dove, qualora ci fossero stati sviluppi, avrebbero potuto cercarmi. E fu proprio così. Ero a Phnom Penh quando mi raggiunse la mail dell’avvocata. Offrivano tot. Le risposi che non se ne parlava neppure. Miserabile sì, accattone mai. Le dissi di andare avanti. Ne avremmo parlato qualora non fossi stato trattenuto da eventuali risorti seguaci di Pol Pot. Improbabile, però hai visto mai? Ma andò diversamente. Né ribelli né rivoluzionari ostacolarono il mio rientro in Patria. Mi piace farla corta, meglio, rapida. Quindici giorni dopo si chiudeva l’avventura che ci aveva visto combattere per un intero lustro. Si trovò l’accordo che mi permise quantomeno di rifarmi delle spese e di qualche magone. Ma non sentirò più la mia voce. E per non essere triste né patetico voglio aggiungere la battuta autoironica rubata a un amico riminese: “Bene, iscé t’la piant de di’ e cazzedi”. La traduzione è pleonastica, vero?

Sliding Doors e se fosse andata...diversamente?

Fin qui la cronaca, nuda e cruda, affatto romanzata. Ma mi piace giocare di fantasia e provare a immaginare come sarebbe potuta andare ciascuna delle tre storie. Anche perché ognuno di noi coltiva i propri sogni. E io sogno un Paese diverso, specie in tempo di elezioni. Un Paese in cui i professori facciano i professori all’università piuttosto che in parlamento, in cui i comici non s’improvvisino personaggi di Quinto Potere perché tutti gli italiani sarebbero (e io spero saranno) in grado di dire autonomamente “Sono incazzato nero e tutto questo non lo tollero più!”. Un paese in cui i miliardari andranno a puttane senza coinvolgere i metalmeccanici e i pensionati. E, ancora, un Paese in cui gli imprenditori imprendano piuttosto che creare movimenti. Infine un Paese che abbia voglia di rinnovare se stesso per davvero senza ignobili sceneggiate di facciata. Troppo serio e impegnato il mio discorso? Allora fate finta che questo paragrafo non esista, che non l’abbia mai scritto. Del resto la serietà non è una dote che mi contraddistingue. Però alla fantasia, come al cuore, non si comanda. E voglio togliermi il lusso, abbastanza risparmioso debbo dire, di immaginare una diversa conclusione per ciascuna delle tre vicende. Magari quella che avrebbe dovuto essere in una Nazione più evoluta. Diciamo in Bolivia o in Uganda? Perché sì - e qui mi rifaccio serio a dispetto di me stesso - non è più pensabile vivere in un Paese dove la lite condominiale abbisogna di un Giudice di Pace quando è in atto la guerra di scala. C’è un ricordo che mi perseguita dall’epoca in cui insegnavo nelle patrie galere. L’immagine di un settantenne emigrato semianalfabeta che, dopo una vita di sacrificio in Svizzera, era tornato al suo paesello per godere una vecchiaia serena. Una specie di Cincinnato scapolo che aveva sgobbato una vita intera per acquistare una casetta colonica e un podere dove far scorazzare i propri animali. Ma questo paesino era da tempo ostaggio di un pregiudicato che aveva proprio lì

il suo domicilio coatto. Un distinto camorrista che, magari per diletto, aveva incastonato nelle colonne di qualche palazzo uno sgarrista di banda avversa. Bene, questo signore tutto d’un pezzo (un pezzo di delinquente) aveva preso di punta il povero agricoltore chiedendogli una sorta di pizzo mensile. L’anziano forse anche mal abituato dalla fermezza elvetica - aveva sempre rifiutato di versare l’obolo nonostante le minacce subite. Dopodiché si era rivolto alla giustizia in più di un’occasione. E si era sentito sbeffeggiare a più riprese da continui spostamenti di data delle udienze. Allora, in tribunale, aveva perso le staffe e, di fronte a un rinvio di sei mesi, aveva articolato come poteva un’obiezione: “Sì sì, lei armanda armanda…ma me so’ malè tutti i giorne!” (rimanda rimanda, ma io sono lì tutti i giorni). Poco mancò che venisse espulso dall’aula per mancanza di riguardo nei confronti della Corte. Cosa accadde poi? Traduco dal dialetto il racconto che me ne fece l’agricoltore: “Una sera sento abbaiare il mio cane e mi accorgo che quel mascalzone mi aveva ammazzato due galline. Non solo. Veniva minacciosamente verso di me con un coltello e un martello in mano. Io ero vicino alla cucina dove avevo appeso il mio fucile da caccia. Avevo paura. Afferrai il fucile e feci fuoco ammazzandolo”. E qui s’impone la conclusione in dialetto arricchita dal mimo perché renda al massimo l’efficacia: “professor gli ho fatt un bug acsè!”. Quando raccontava quei suoi tragici momenti aveva gli occhi lucidi ed era incurante degli altri detenuti che ridacchiavano non tanto della storia quanto del curioso personaggio. Bene, anzi male, gli comminarono nove anni per eccesso di difesa. E lui si dichiarava “prigioniero politico” senza neppure sapere cosa significasse. Ecco allora che la mia immaginazione vola con pieno diritto di cittadinanza nel mondo dei sogni del proverbiale uomo qualunque. So che me lo perdonerete. Sarà un po’ come perdonare voi stessi. Amen.

Una giusta cecità, a volte, é meglio di una blanda attenzione

Metti una notte in auto 2

Quel 25 aprile non lo dimenticherò davvero più. Nel fiore dei miei trent’anni, dopo una serata sicuramente non spesa a rileggere un classico di Calvino, avevo deciso di fare un salto in centro storico. Come sempre, come tutte le notti. Avevo scelto, come si dice nel migliori film d’azione, la sera sbagliata per un incontro sbagliato. Ed eccolo lì il pluripregiudicato che mi viene incontro minaccioso mentre io sorridente gli mostro il permesso dell’isola pedonale. Stringe i pugni e digrigna i denti, una delizia per un’eventuale carie incipiente. A questo punto ho due soluzioni: o affronto la belva confidando nella mia forza decisamente scarsa o mi do alla fuga. Ci sono momenti nella vita in cui bisogna decidere in fretta. E io imboccai la strada più percorribile. Quella del bambino, “seguimi seguimi che ti porto da papà” Taglio il centro storico come si trancia una ricotta fresca, lasciandomi dietro la nuvoletta di Bill Coyote e lui dietro, infrangendo codici e codicilli della strada. L’inseguimento è breve ma intenso. Vedo i fari, sento il clacson che strilla, furioso anche quello. Ma arrivo a destinazione e m’infilo nel parcheggio dei carabinieri. Il piantone mi vede e, non sapendo né leggere né scrivere, secondo le più rodate barzellette, esce dalla guardiola pronto a far rispettare le consegne. Perfetto. Il farabutto mi é a ruota e scende anche lui pronto ad aggredirmi. La forza pubblica interviene a sostegno della...debolezza privata. L’omaccione viene immobilizzato da tre militi, che uno da solo avrebbe certamente preso un mare di botte, e portato all’interno della caserma dove sarà identificato tra una bestemmia e l’altra. Io sono ascoltato e rendo la mia versione dei fatti. E’ credibile, eccome se lo é. Sono una personcina perbene, incensurato, un lavoratore, un docente, un dirigente sindacale e un conduttore radiofonico. Che altro vuoi, l’analisi delle urine? Lui, l’inseguitore, é un farabutto di provata esperienza in fatto di violenza privata e a pubblico ufficiale. Ha reati ati in giudicato, come Berlusconi, ma la sfiga vuole non sia il Berlusca. Di più. Ha un curriculum degno degli ospiti dell’Asinara e, se scavi a fondo, magari ci trovi anche un grado di parentela. Con Mubarak? No, con Riina.

E che accidenti ci fa un tipo simile a piede libero, libero appunto di nuocere e di delinquere? “Perdirindindina!” mormora fra sé l’inappuntabile appuntato “Quest’uomo va fermato. Subito”. E parte la denuncia d’ufficio. La quale denuncia comporterà che, entro il ragionevole periodo di quarantotto ore, un magistrato lo giudicherà e lo condannerà per quello che ha tentato di fare e soprattutto per quello che ha fatto nel recente e lontano trascorso. Ma nel frattempo, per evitare che al “figuro” (così letterariamente si chiamavano gentlemen del genere) prenda lo sghiribizzo di tentare una fuga all’estero, magari a San Marino, viene immediatamente tratto in arresto per flagranza di reato, come si dice in gergo, e tradotto nel carcere più vicino. Il tribunale? Se ne occuperà dedicandogli il tempo che merita, diciamo non più di venti minuti trascrizioni e adempimenti burocratici inclusi. Del resto c’è altro da fare anche per il più disimpegnato dei cancellieri che non dedicare energie a chi abitualmente infrange la legge in base al proprio codice deontologico che suona più o meno così: non ho nulla da perdere, che possono farmi? Quanto a me, mi trattengo al posto di guardia dei carabinieri scherzando amabilmente sullo scampato pericolo. Il cittadino è salvo e può continuare a girovagare nottetempo godendo di quei piccoli particolari che, nelle frenesia del giorno, sfuggono alla vista. Uno per tutti, quante volte avete osservato i cornicioni delle case nel centro storico? Fatelo, é affascinante come la notte che ti permette ogni volta di scoprire qualcosa di diverso e ti consente anche di incontrare i tipi più strani. Certo non è che ti debba aspettare di incontrare Sharon Stone che ti chiede indicazioni stradali. L’importante è non incontrare stupratori, ladri o assassini che, oltre a farti bau, ti mordono anche, forti dell’ingiustizia della legge.

C’era un lupo mannaro alla Cisl?

Dove si nascondono i lupi mannari? Io qualche sospetto ce l’avrei. Un mio vicino di casa, negli anni settanta, aveva tutta l’aria di essere uno di quelli che, nel corso delle notti di luna piena, fanno una capatina in cima a una strada panoramica lontana dalle luci della città. E qui cominciano a ululare come le donnine di Rocco Siffredi nei momenti topici. Ma forse la mia era un’analisi di parte, dettata dall’antipatia di chi non ti saluta mai o, peggio, grugnisce quando t’incontra per le scale del palazzo. Magari quello, che aveva i peli anche sui lobi delle orecchie, non era altro che un onesto impiegato delle imposte dirette abbrutito dalle ore di straordinario malretribuite. O forse no. Forse era davvero un licantropo che - come mille altri - si nascondeva nella moltitudine variopinta di una società in cui diventa sempre più difficile distinguere un lupo da un agnello abbronzato o una brava persona da un cialtrone. Faccio un esempio emblematico: Gianfranco Fini. E chi mi vuole capire mi capisce. Oddio…ho perso il filo (come diceva sempre mia suocera quando si trattava di attaccare un bottone). Stavo dicendo? Ah ecco, i lupi mannari. Chi sono e, soprattutto, dove si rintanano durante la giornata quando la gelida luce della luna è ancora di là da venire? Ovunque. La risposta è ovunque. Nei ricordi di gioventù di mio padre emergeva il ricordo di un ometto sulla quarantina che ululava tutto solo nei vicoli di Foggia. Forse oggi, al secondo ululato, gli avrebbero chiesto il pizzo sul disturbo della quiete pubblica oppure lo avrebbero affiancato a Vendola per sottolineare lo stupore di fronte a un diniego bersaniano. Chissà. Però, e ritorno al punto, i lupi mannari sono tra noi esattamente come gli alieni di X Files. Solo che non te ne accorgi perché hanno i modini gentili, quasi melliflui e non ti azzannano. Ma sono vigliacchi perché la loro metamorfosi non si verifica quasi mai quando la luna è piena ma sempre quando la testa è vuota. Ed è quello che successe alla Cisl dove un aspirante lupo mannaro s’improvvisò tale cercando di addossare a me la sua anomalia psicologica, meglio, patologica. Ma, già dalla prima lettera anonima recapitata sotto la porta, si cominciarono

subito a delineare i tratti somatici dell’essere immondo. Gli inquirenti iniziarono fin da subito ad analizzare le missive e la grafia. Si evidenziava immediatamente uno squilibrio mentale derivante da diversi fattori: invidia, frustrazione, incipiente vecchiaia. I grafologi ne erano certi. L’autore di quelle parole non avrei potuto essere io ma qualcuno che cominciava ad affacciarsi alla cinquantina, l’età di gran lunga peggiore per chi non vuole invecchiare. Sei lì davanti allo specchio che non mente come tua moglie o la tua amante, che è veritiero e impietoso e ti dice che la tua stagione sta avviandosi ben oltre il mezzo del cammin della tua vita (ché si è elevata nella media, di qui la riforma Fornero sulle pensioni, ndr). Sei lì e cominci a dirti che non puoi più fare atletica come una volta se non tra gli over anta, un modo patetico e risibile per sentirti un ragazzo fra i babbioni. Sei lì ad accorgerti che i pantaloni dello scorso anno fanno debordare il punto vita e che è meglio non stringere la cintura più di tanto. Sei lì che conti uno ad uno i capelli che disegnano strani cespugli sul tuo cranio e ti perdi nei ricordi del periodo in cui emulavi i Beatles almeno nella chioma. Tutto questo e altro ancora può far scattare strani meccanismi soprattutto quando vedi un ragazzo capelluto e baffuto che ti a davanti sorridente perché è il suo momento di correre e di arraffare senza problemi e senza trucchi le mille occasioni della gioventù. Quali meccanismi vi chiederete. I più assurdi. Io non riesco a spiegarmi cosa fosse scattato nella mente ottenebrata di un sindaco del nord che lo indusse a rigare le portiere delle auto dei suoi concittadini. Per parlare di uno dei casi più eclatanti della cronaca nero/rosa degli ultimi vent’anni. E mi chiedo semmai Unabomber sia stato un geometra cui si era spuntata la matita nel corso di un progetto, hai visto mai? Come diceva il buon Sordi: “La mente umana, dottò…so’ cazzi eh?”. I solerti investigatori non ci misero troppo a identificare l’autore della sceneggiata epistolare, anche perché i suoi precedenti psichiatrici la dicevano lunga. Ricoverato anni prima un paio di volte, per crisi depressive, il poveretto, alla prima domanda (che non era poi un interrogatorio ma una domanda pura e semplice, quasi una curiosità) scoppiò in lacrime senza neppure avere la forza di argomentare sulle ragioni che l’avevano portato a quel punto. Biascicò qualcosa confusamente come solo Ingroia sa fare nelle migliori imitazioni di Crozza. Disse che sì, che era da tempo che covava una sorta di risentimento nei miei confronti e che aveva pensato di farmela pagare in un qualche modo. E quello gli era sembrato il più…naturale. Ok, così va il mondo dicono gli anziani. E gli

anziani, che hanno tesaurizzato esperienza oltre che manie, ci beccano sempre. O quasi. Uscii dalla strana storia così come ci ero entrato, per ventura, anzi, per disavventura. Uscii dicendomi che la bellezza, come la bravura, bisogna farsela perdonare. E da quel momento dispensai meno sorrisi gratuiti. Perché il sorriso è un’arma a doppio taglio quando la gelosia è in agguato. Un paranoico può sentirsi de-riso. E tu rischi che lui ti cucia un vestito addosso, magari da lupo mannaro. Ma fuori stagione e senza coriandoli diventa un problema.

Una voce poco fa

Proverbio di merda, scusate il latinismo! Una voce fa tantissimo. Se è sgraziata ti rende antipatico, se è flebile ti rende inudibile, se è roca addirittura diventa tipica del maniaco sessuale, di quelli che ti telefonano nel cuore della notte e ansimano nella cornetta. La voce, al contrario, è il tuo biglietto da visita, quasi lo specchio della tua anima come gli occhi e le mani (come dico in altra parte del libro). C’è poi tutto un corollario di accessori della voce: tonalità, inflessione, armonia, accento e tanto altro. Insomma è la colonna sonora della persona. Provate a pensare a Rambo doppiato da Pupo. Diventa una sitcom. Per cui mi viene da consigliare, a chiunque faccia un uso smodato del parlare per professione o per piacere, di rispettare quella magica emissione di fiato senza la quale vi sentireste nudi. Un po’ come Belen priva di tatuaggi. Nella mia vita ho conosciuto un’infinità di persone la cui voce sembrava appartenere ad altri. Il magico Pino Locchi, voce storica di Sean Connery e di James Bond in primis, era basso e magrolino, quasi denutrito, ma se chiudevi gli occhi ti beavi di quella timbrica così perfetta che sembrava di plastica. Gli americani, un mare di anni fa, pubblicarono uno studio secondo il quale conoscere un conduttore radiofonico comportava, nel novanta per cento dei casi, una delusione. Non perché chi ha una bella voce sia necessariamente uno scorfano di cristiano ma perché chi ascolta si costruisce l’immagine del personaggio a suo uso e consumo. E allora puoi essere anche il fratello gemello di Brad Pitt ma non sei quello che ci si aspetta. E ribadisco che dovete trattare la vostra voce meglio della vostra amante ai primi incontri. Perché un’amante c’è da mettere in preventivo ti tradisca e puoi comunque schiacciare quel chiodo con un altro chiodo più giovane e tettuto, mentre la voce sei tu e nessun altro. E dunque imparate a parlare di diaframma, risparmierete fiato e non affaticherete le corde vocali. Ma, come ho sostenuto con forza in precedenza, parlare di diaframma è un po’ come trombare con due preservativi che, a sua volta, sarebbe come mangiare una tavoletta di cioccolata avvolta nella stagnola. No, non voglio dire che sia impossibile esercitare autologopedia, ma soltanto che si tratta di una pratica innaturale simile a quella aspettarsi il salto triplo da mia suocera, 87 chili suonati. Per carità, tutto è possibile. Ma provate a mandare istintivamente a fanculo un ciclista che vi

attraversa sulle strisce pedonali piuttosto che il solito furbetto che vi soffia il parcheggio. Qualcuno è in grado di sostenere, con convinzione, che sarebbe in grado di modulare il respiro in maniera tale da emettere un fiato corretto e controllato? Oppure darebbe il meglio di se stesso per lanciare uno strillo che farebbe arrossire Tarzan e il suo richiamo nella giungla?! No ragazzi, non ci siamo. I consigli sono sempre preziosi ma la realtà è altra cosa. Premesso, dopo una disquisizione durata fin troppo, che la voce rappresenta uno dei doni della natura che va ringraziato ogni giorno in cui aprite gli occhi, vi dirò quello che successe a me una dozzina d’anni fa quando, nel corso di un week end a Berlino, fui vittima di un’improvvisa escursione termica che mi rese afono per qualche ora. Tornai dal viaggio dopo dieci ore di guida con, a fianco, un amico che si era ripromesso testualmente: “guideremo un po’ per ciascuno, magari ci alterniamo ogni cento…centocinquanta chilometri, eh?”. Ne ebbi comione quando, già dai sobborghi di Halle lo vidi appisolarsi. All’altezza di Monaco di Baviera mi sembrava di viaggiare in trattore per il suo respiro leggero. Così decisi che avrei guidato io che sono solitamente insonne. E, macinando chilometri, ebbi tutto il tempo di pensare al mio abbassamento di voce. Mi dissi che sarei andato da un otorino a chiedere il perché dell’inceppamento di un apparato vocale praticamente perfetto fino ad allora. Ed eccomi, dopo appena un paio di giorni, nello studio del medico. Lui ha un’aria garbata, meglio, gentile. Mi fa accomodare sullo sgabello e inizia la sua laringoscopia. Lo dico per i profani della materia: un tubo collegato al una microtelecamera che esplora i recessi della tua glottide e arriva fino alle tue corde vocali. Il tuo compito è quello di essere rilassato. Se non lo fai rischi di intorzarti o, anche, di vomitare come se sentissi per la centosettantasettesima volta Toto Cotugno che ti ripropone “un italiano vero”. Ma io superai la prova senza problema, anche perché ero ansioso di sentire il responso, che arrivò puntuale. “Caro signore” mi disse lui “lei maltratta le sue corde vocali, quasi le esaspera”. Ascoltavo in religioso silenzio. “Lei ha quello che in medicina si chiama Edema di Reinke. Cioè un ispessimento delle corde vocali che sono, come dire, sporche. Bisognerebbe pulirle, niente di più perché il rischio è che la leucoplachia, vale a dire la sporcizia, potrebbe generale…mi capisce no?”. In verità capivo poco ma mi fidavo in pieno. “Ora io le proporrei un day hospital, totalmente gratuito, da eseguirsi nel corso di una mattina. Nessuna preoccupazione, si tratta di un’operazione di routine. Anzi, sa cosa faccio? Le do

questo foglio già compilato. Quando lei riterrà di avere tempo, non avrà che da completarlo con le sue generalità, sottoscrivere per accettazione e presentarsi in ospedale. Senza fretta. Non è che da un giorno all’altro possa insorgere un tumore, ma la prudenza in questi casi non è mai abbastanza”. Dixit il gentile mediconzolo. Avrei imparato solo più tardi quanta considerazione si avesse di lui in città. E subito dopo aver scucito un paio di carte da centomila, rigorosamente in nero per risparmiare un buon venti per cento (posso permettermi di dirlo ora, a reato…prescritto), uscii dallo studio dicendomi che, con calma, avrei seguito il consiglio dell’esperto. La mia voce, raga, mica niente!

Senza saperlo abbiano in noi una forma di…pornografia

Quando Artemio ti dà una mano

Ricordate vero chi è Artemio? E’ quello che determina la tua felicità o il suo contrario. E quello che ti aspetta all’incrocio dove non a quasi mai nessuno, per farti scontrare con un’Ape cabrio guidata da un irresponsabile che ha fretta di finire il turno delle sue consegne per tornare a casa e… non rispetta lo stop. E Artemio decide l’appuntamento con una precisione teutonica. Ma sì, è il destino di ciascuno di noi. Colpa sua se avete incontrato la donna sbagliata che si è introdotta nella vostra vita martoriandola. Colpa sua, di nessun altro. A conoscerlo di persona magari non è neppure così stronzo; è solo umorale. E se una mattina si sveglia allegro è anche capace di farti vincere il Superenalotto! Ma purtroppo è un tipo schivo e non è dato di frequentarlo. E’ lui, al contrario, che decide le proprie frequentazioni. Unilateralmente e senza farlo sapere a nessuno neppure all’interessato. Voi penserete che vaneggi. Assolutamente. A differenza di chi pensa che sia tutto già scritto, io ritengo che la casualità dipenda dal destino che può cambiare di giorno in giorno. E a chi dice che ciascuno è artefice del proprio, di destino, replico che nessuno sceglie di salire su un aereo che viene dirottato dai terroristi (per parlare di eventi drammatici) così come nessuno va a caparsi, nel mazzo, una donna che lo tradirà con il primo giovane portalettere di aggio. Ebbene, quella volta Artemio mi tese la mano. Dopo la visita tornai a casa e accesi il televisore. C’era uno di quei programmi banditi dalla cultura, soprattutto da quella di sinistra. Una di quelle trasmissioni che nessuno guarda, per carità, ma che Mr.Auditel cataloga tra le più seguite. Non è un quiz e vi rivelerò che si trattava di Verissimo. Gossip, ospiti superficiali, star e starlettes del mondo dello spettacolo oltre a varia umanità. Quel pomeriggio sulla poltrona degli ospiti c’era una cantante rock. Ascoltavo distrattamente, spataccando qualcosa al computer, quando un nome mi rimbalzò in pieno timpano. Qualcuno stava parlando di Reinke e dell’edema che porta il suo nome. Aguzzai le orecchie e scoprii che quella cantante, dalla voce vagamente roca, si faceva un vanto di quel tot di raucedine che la rendeva così interessante, quasi sensuale. Cominciavo inconsciamente a farmi una cultura. E pensare che, fino a quel momento, avevo identificato Reinke come un ex calciatore tedesco (DDR) degli anni ’80, tale Andreas Reinke. Benedetta ignoranza! Fu la sola volta in cui

guardai la puntata di Verissimo fino alla fine. Assieme a qualche centinaio di migliaia di casalinghe di Voghera e di altre zone di questo Paese. Non per questo mi sentii obbligato, né allora né mai, a seguire pedissequamente i consigli della Clerici. A tutto c’è un limite. Non solo in camera da letto ma anche in cucina! Ma la benevolenza di Artemio non si fermò lì. Qualche giorno dopo fu Mirabella a parlare di corde vocali. Sì quel Michele Mirabella di Elisir, quello dai capelli rosso Milva bei tempi. Mi piazzai davanti al televisore come Fantozzi: pigiama felpato, pantofole, cioccolato e sigarette. Esattamente come davanti a una partita della Nazionale nei quarti. E cosa vidi? Una diapo (…sitiva) che rappresentava nientemeno che l’edema di Reinke. Ora, lo dico per i più curiosi, avete mai visto una foto delle corde vocali? No? Fate la ricerca su Google, ne vale la pena. Scaricate la foto e fatela vedere alla vostra lei, così, a tradimento. Nel rimedierete un “sei sempre il solito maiale”. Perché, signori, è esattamente l’immagine della patonza. E quella edematosa di una patonza più…sfruttata della media. A parte questa digressione (per alleggerire la lettura pseudo scientifica) dirò che anche in quel caso rimasi incollato al piccolo schermo per sapere, per capire e, eziandio (come diceva il mio babbo) per decidere il da farsi. Più gli esperti parlavano e più mi rendevo conto del fatto che Reinke aveva fatto visita a qualche decina di migliaia di fumatori in Italia, alcuni inconsapevoli altri meno, altri ricordati oggi da una lapide con una frase retorica del tipo “amarti è stato facile dimenticarti impossibile”. Capii allora, in un flash, che avrei dovuto monitorare il bene più prezioso della mia glottide e nient’altro. Operazione? Ma quale operazione? E’ vero, il gentile otorino mi aveva dato un consiglio preziosissimo ma io decisi di declinare il suo invito. E feci bene. Qualche tempo dopo appresi dalla cronaca locale del giornale che uno speaker, finito sotto i suoi ferri, aveva perduto la voce a vita e aveva fatto causa al medico e alla struttura ospedaliera. Cose che succedono a chi opera. “Poveretto quel conduttore radiofonico” mi dissi “Santo Artemio, meno male che ci sei!”. E ogni riferimento a Silvio è estremamente, puramente, del tutto casuale. Avete la mia parola, per quello che vale.

L’uomo notizia è come la mozzarella. Il tempo la fa scadere

Eccolo il cittadino al di sotto… di ogni sospetto

Dedicato a Claudia

La vita è un film, ne convenite? Con tanto di trama, interpreti, comparse, scenografie e anche musiche di sottofondo. E ogni pellicola che si rispetti va catalogata in un filone. In Francia in una…baghette. A parte questa battutaccia degna di Martufello, voglio dire che la vita di ognuno è un’avventura che qualche volta vale la pena di raccontare non solo per estrinsecarsi ma anche per lanciare un messaggio serio, serioso o semplicemente comune. Io sto finendo di farlo e, debbo dire, anche con una certa fatica nell’aver cercato di ricostruire alcuni aneddoti emblematici della vita di un “uomo qualunque” perché mi piacerebbe capire dove vivo, quando vivo e soprattutto come vivo. Ma non amo essere criptico. Vengo e mi spiego. Ci sono persone che nascono fortunate, ereditano la professione dal papà e si sistemano in uno studio notarile o in un gabinetto dentistico. Poi ci sono gli altri, quelli che devono lottare tutti i giorni per trovare un posto di lavoro e scontrarsi con i raccomandati, inetti ma privilegiati. E la vita di questi ultimi diventa un tantinello più complessa perché a attraverso molteplici esperienze che, da lavorative, diventano umane. Dapprima s’ingegnano, poi vanno a caccia di padrini, magari s’arruffianano per sopravvivere oppure cercano fortuna oltre frontiera, come si diceva un tempo. E ne avrebbero di storie da raccontare! Ma sono talmente stanchi, credo, che prendono l’esistenza un po’ come quella donna delle pulizie nella pubblicità, quella che “arriva tardi, se ne va presto e spesso non pulisce il water”. Insomma vivono tanto per vivere, non facendo nemmeno troppa attenzione a chi o a casa si muova attorno a loro. E’ un modo come altri di giocare a vegeto senza stancarsi troppo. Tra le categorie variopinte di persone, ci sono poi gli inquieti. Quelli che sono sempre in fermento alla ricerca non solo di posti di lavoro eccellenti ma

soprattutto di emozioni ed esperienze. In genere sono quelli che io chiamo gli scalatori della società. Non si accontentano mai; indossano il Rolex con finta naturalezza (lo lucidano ogni sera con le lenzuola prima di coricarsi) quasi ne possedessero 200 come Briatore. Intenti ad apparire perdono l’essere per strada. Vestiti firmati, certo, ma con mutande lise e calzini bucati. I professionisti della superficialità insomma. E questi ne avrebbero di episodi della loro esistenza, magari inenarrabili, da mettere nero su bianco. Eh sì, perché gli inquieti sono quelli che collezionano album pieni di figurine di merda e di umiliazioni ai confini della realtà. Ma, pur di arrivare, questo e altro. Sarebbero gli arrivisti dunque?! No, quella è una sottocategoria dei leccaculo. Gli inquieti non hanno pace, sono inquieti e basta. Qualche rigo in più lo meritano invece i diversi. Cazzarola, bisogna stare attenti a giocare con le parole. Una sillaba in più e ti piomba una querela per diffamazione, chessò, dall’Arcigay di Segrate piuttosto che dalla comunità islamica del Cadore. E allora faccio chiarezza! I diversi sono un po’ quelli come me, atei della prim’ora e cattolici al punto tale da preparare la tesi sulla secolarizzazione della Chiesa. E sono diversi in tutto, dal modo di concepire l’amore a quello di disistimare le Autorità competenti quando si rivelano incompetenti. I diversi sono animali indomabili che fingono di farsi domare, si accucciano e poi si rivoltano quando meno te lo aspetti. Puoi paragonarli ai gatti che, a differenza dei cani, sono fedeli non per contratto e neppure per convenienza. Lo sono, come dicono i britannici, quando non hanno tiramenti di culo. I diversi non hanno pace come gli inquieti ma sanno accontentarsi, vanno morbosamente a caccia di emozioni disposti anche a sbattere il muso spesso e volentieri. I diversi pagano il conto della vita ogni volta che si muovono ma non se ne lamentano perché sanno che funziona così. E, ai diversi, capita non tutto ma di tutto. Sono la contraddizione vivente e respirante della nostra società. Cari lettori, io mi ritengo un diverso. Ma come? Ti ho visto girare in Bmw per vent’anni, più conformista di te! Mi sento questo commento mentre scrivo. Ebbene sì, ho percorso i chilometri della mia vita in Lambretta - quando i giovani amavano la Vespa - in Alfa quando era finita la moda degli alfisti e in Bmw quando lo status symbol imponeva la Mercedes. Allora diverso significa anticonformista? Macché, non mi è mai ata per l’anticamera del cervello la voglia di tatuarmi quando a tatuarsi erano solo marinai e detenuti. Certo è difficile spiegare cosa significhi essere diverso. Ci sono: uno abituato a usare sempre condizionali e congiuntivi a fronte di una

popolazione che, perlopiù, adopera espressioni del tipo “se me lo dicevi venivo anch’io”. Roba da far accapponare la pelle ogni volta. Basta fare un giretto tra i post su Facebook o twittare qualche volta per accorgersi di quanto si siano allargate le frontiere dell’ignoranza. E che non sia colpa della Gelmini o di Berlusconi sono pronto a sottoscriverlo.

Se ti senti diverso o lo sei davvero, non darlo mai a vedere. Hai solo da perderci

Diverso, dicevo, come può essere diverso un democristiano laico o un cattocomunista. Ma essere diverso significa anche avere sempre gli occhi puntati sul mondo senza, per questo, essere ficcanaso. Percepire i cambiamenti rimanendo giovane dentro, non rimpiangere Edoardo Vianello o Piero Focaccia perché rappresentano la tua infanzia ma canticchiare, sia pure malamente, l’ultimo Album di Madonna. E potrei ancora continuare con un oceano di esempi senza riuscire comunque a esprimervi compiutamente il concetto. Ma, tutto sommato, questo conta poco. Conta tanto, invece, capire che se sei un cittadino comune che, al ritorno dal lavoro, non si rifugia periodicamente tra le quattro mura di casa con la ione filatelica, che si ciba di tv e va in vacanza a Ossana o a Misano Adriatico con moglie, figli e magari nipotini, che la domenica lustra la macchina e si mette la cravatta, sei un soggetto a rischio. Di cosa? Di tutto. Di finire tra le maglie della giustizia ed essere stritolato tra i suoi ingranaggi come in un film dell’orrore. Di ricevere un pugno da un malavitoso e un altro più forte e umiliante da un magistrato. Se la tua trasgressione non significa are da un programma condotto da Augias a Le Iene quando i bambini sono a dormire…sei a forte rischio magari di essere descritto come un camaleonte, meglio, un licantropo ed essere giudicato da un giudice che ha fretta di concludere la pratica per occuparsi di un caso più clamoroso e sensibile alle telecamere. Insomma se non sei dei nostri ma, attento, anche se lo sei, rischi di diventare automaticamente, irrimediabilmente, irrecuperabilmente un cittadino al di sotto di ogni sospetto. Potrai soltanto urlare a squarciagola la tua innocenza. Semprechè ti abbiano lasciato almeno la voce per farlo.

Titolo | Un cittadino al di sotto…di ogni sospetto Autore | Dario Delle Noci Immagine di copertina a cura dell’Autore ISBN | 9788891124203 Prima edizione digitale 2013

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Dario Delle Noci (alias Roy) vive a Pesaro. Ha un’età venerabile ma nessuno lo venera mai e lui se ne dispiace non poco. E’ giornalista pubblicista da 29 anni. E’ anche stranonno ma non ama praticarne il ruolo.