LA CIVILTA’ DEI MAYA
Autori Vari
S. Di Fraia Editore – Prima edizione digitale 2015 a cura di David De Angelis
LA SCOPERTA DI ALBERTO RUZ LHUILLIER
INDICE
LA SCOPERTA DEL MONDO MAYA
Primi contatti
IL MONDO MAYA: QUADRO GEOGRAFICO E STORICO
Nascita e fioritura delle culture mesoamericane
Il popolamento dell'America
Il mais
La civiltà olmeca
La “facies americana”, comune denominatore
Il pensiero religioso dell'Indio
Il territorio maya, il quadro geografico
Le terre del Sud
Il territorio centrale
La provincia settentrionale
Quadro storico: dal periodo della formazione al periodo classico
Il declino
LA VITA QUOTIDIANA E LE ATTIVITA' DEL POPOLO MAYA
Le lingue maya
Organizzazione sociale e politica
Il clero ed il popolo
Il matrimonio
Attività quotidiana
La morte di un cacicco
La città maya, una vera città-giardino
Il tribunale
La guerra
RELIGIONE E SCIENZA PRESSO I MAYA
Notizie generali sul pantheon
Le divinità terrestri
Le divinità sotterranee
Il clero
Le offerte
I sacrifici umani
Le esecuzioni alla “San Sebastiano”
Il pozzo per i sacrifici di Chichén Itza'
Si può parlare di crudeltà?
La scrittura
Le stele e il loro culto
I tre codici
Libri maya dell'epoca coloniale
Il “Popol-vuh”
Calendario e astronomia
Il gioco della pelota
L'architettura maya
Una scultura impregnata di misticismo
L'orrore del vuoto
LA SCOPERTA DI ALBERTO RUZ LHUILLIER
La cripta del grande halach uinic
Tre grandi luoghi dell'epoca classica
I luoghi archeologici del nord, nello Yucatan
Pitture rarissime
Lo straordinario insieme di Bonampak
La prima sala di Bonampak
La seconda sala
La terza sala
La fine dei Maya
LA SCOPERTA DEL MONDO MAYA
Nella notte dall'11 al 12 ottobre 1492, dopo settanta giorni di navigazione sul mare infinito, Cristoforo Colombo e i suoi uomini, ormai in preda allo scoraggiamento, scorgevano finalmente una terra; all'alba le tre caravelle della squadra gettavano l'ancora in una baia silenziosa e deserta. Per conto della casa reale di Castiglia, un notaio registrava la presa di possesso di quell'isolotto, probabilmente l'attuale isolotto di Watling, battezzato col nome di San Salvador dall'illustre navigatore.
Poco dopo veniva scoperta Haiti, chiamata Hispaniola, che a lungo ci si ostinò a confondere con l'estrema propaggine dell'Asia! Cuba e la Giamaica, raggiunte poco dopo, non potevano essere altro, per i loro scopritori, che il Cipango e il Catai, cioè il Giappone e la Cina! Approdando in Florida, Ponce de Leon toccava per primo, senza saperlo, il continente americano propriamente detto. Gli “Indiani” incontrati fino a quel momento nelle Grandi Antille non dimostravano di possedere un'altra cultura, e vennero subito trattati come selvaggi primitivi; il vicino Messico, molto più evoluto e a quei tempi soggetto al potere degli Aztechi, rimaneva sconosciuto e insospettato.
Quando Cristoforo Colombo tornò per la prima volta a Siviglia, la folla gli si accalcò intorno per vedere qualcuno di quei selvaggi di cui si diceva che fossero i discendenti di Adamo; seminudi, alcuni portavano pappagalli dai colori scintillanti sulle spalle abbronzate.
Nei dodici anni successivi a quello della scoperta, a tre riprese e con grandi mezzi - il secondo viaggio fu intrapreso da diciassette velieri - Colombo ripercorse la nuova rotta per le Indie Occidentali. La quarta spedizione (15021504) lo vide costeggiare l'Honduras e il Panama attuali alla ricerca ostinata dell'introvabile Cina.
Poco dopo, nel 1506, anno della morte di Colombo, Juan Diaz de Solis e Vicente Yanez Pinzon toccavano per primi le coste messicane sulla punta settentrionale dello Yucatan, un'immensa penisola a forma di tavola che si protende verso Cuba. Ma il mondo maya, di cui questa zona era stata il focolare, non venne scoperto e per molto tempo i marinai pensarono di avere a che fare con una nuova isola.
I Maya, che per l'eccezionale livello artistico raggiunto nelle loro opere sono spesso considerati i Greci del Nuovo Mondo, cominciarono ad essere noti in Europa solo nel XIX secolo. È ben vero che all'epoca della conquista di Cortés la civiltà maya era ormai scomparsa e che le sue ultime grandi realizzazioni, quelle di Chichén Itza e di Uxhal in particolare, risalivano già a tre secoli prima.
Primi contatti
La prima vera presa di contatti con i Maya, prima dell'arrivo di Cortés, è da far risalire al 4 marzo 1517, quando tre velieri dell'Avana (Cuba) andarono ad ormeggiare in vista delle coste settentrionali dello Yucatan. A dire il vero, la flottiglia era alla ricerca di schiavi destinati alle piantagioni delle Antille che richiedevano una mano d'opera sempre più numerosa; i coloni delle Indie Occidentali avevano preso l'abitudine di compiere razzie negli arcipelaghi vicini e lungo le coste dell'istmo di Panama. “Partiti alla ventura verso il tramonto del sole”, persero la rotta a causa di una tempesta e furono trascinati nei paraggi del capo Catoche; accolti dagli indigeni e accettato l'invito a visitare la loro città, furono colti da un'improvvisa imboscata.
Tornati alle navi ripresero poi il mare, dirigendosi prima verso ovest e poi verso sud, sempre costeggiando la riva sulla sinistra. Venne effettuata una sosta in un luogo che venne chiamato La Punta de las Mujeres, perché vi si trovavano costruzioni di pietra che contenevano certi idoli femminili che gli Indiani
chiamavano con nomi strani.
A Champoton, ancora più a sud, il gruppo subì un duro attacco; le perdite furono pesanti e fu necessario battere in ritirata. Comunque si tornava con un po' d'oro in tasca e qualche ciondolo a forma di anitra o di pesce; l'oro era di pessima qualità, ma era sufficiente per attirare gli avventurieri. Si parlò anche di costruzioni di cemento, sconosciute nelle Antille, e “tutto ciò fece grande scalpore”. Alcuni pensatori audaci e avveduti (!) dissero che gli idoli riportati dalla spedizione erano figurine ebraiche introdotte dagli esiliati cacciati da Tito e Vespasiano dopo la caduta di Gerusalemme! A Puerta de Tarenas (l'Avana) ed a Santiago de Cuba, dove con epiteti magniloquenti si distinguevano i combattimenti, i templi, gli indumenti, le piume, i gioielli, non si pensava ad altro che a ripartire.
Diego Velasques, conquistatore e governatore di Cuba, affidò a Juan de Grijalva la direzione della nuova spedizione che partì da Santiago de Cuba il 25 gennaio 1518. Dopo uno scalo all'Avana, la flotta arrivò nell'isola di Cozumel, che fiancheggiava la costa orientale dello Yucatan e proseguendo la navigazione verso sud, il 7 maggio gli spagnoli videro apparire, sbalorditi, i maestosi e severi edifici in muratura di Tulum.
Quella di Tulum però non è una delle città più notevoli dei Maya, poiché in essa si notano già i segni della decadenza, infatti Uxmal o Chichén Itzà nel loro splendore li avrebbero impressionati ancora di più.
La presenza dei conquistatori però infastidì gli abitanti della città, per questo in fretta e furia si reimbarcarono sulle navi, senza dimenticare però di redigere l'atto notarile che comprovava la presa di possesso del luogo.
Tornati dalle Grandi Antille, i compagni di Grijalva infiammarono
l'immaginazione della gente con i loro racconti avventurosi e le loro descrizioni colorite, tanto che Velasques organizzò una nuova e grandiosa spedizione il cui comando fu affidato al suo segretario Hernan Cortés.
A Cozumel, Cortés compie il primo gesto autoritario: fa spezzare e gettare sui giardini del tempio gli idoli aborriti e li sostituisce con una croce e un'immagine della Vergine. In seguito Cortés ripeterà molte volte quel gesto decisivo, convinto del ruolo evangelizzatore della sua missione.
Il 12 Marzo 1519, la squadra di Cortés si trovava all'altezza del Tabasco e nonostante gli indios della zona si mostrassero minacciosi e contrariati fu nuovamente sancita la presa di possesso del territorio del Tabasco. Infine dopo abili trattative e astuti stratagemmi Cortés riuscì a impressionare gli indios al punto che ottenne la loro sottomissione. Quegli indios maya del Tabasco furono, constata Bemal Diaz, “i primi vassalli, che nella Nuova Spagna, offrirono la loro obbedienza a Carlo V”.
Nel 1548 lo Yucatan venne unito al Messico dal punto di vista amministrativo, ma in realtà non ci fu mai unione poiché i maya continuarono a manifestare la loro opposizione.
Mentre gli abitanti delle Grandi Antille avevano colpito gli spagnoli per la loro arretratezza culturale, quelli del paese Maya suscitarono la loro ammirazione: erano un popolo organizzato in modo stupefacente, abituato a vestirsi correttamente, civile e capace di costruire imponenti opere in muratura. Da dove mai provenivano tutte quelle conoscenze e quell'abilità tecnica? I Maya erano forse discendenti dei Cartaginesi o degli Ebrei o degli Irlandesi? Inevitabilmente sorsero subito molte domande e soprattutto ora ci si chiede se aveva una giustificazione morale il voler ridurre a ogni costo quel popolo in schiavitù.
IL MONDO MAYA: QUADRO GEOGRAFICO E STORICO
Le scoperte archeologiche di questi ultimi decenni hanno distrutto la vecchia teoria secondo la quale la civiltà maya si sarebbe trovata isolata nel suo splendido sviluppo, per diventare poi in seguito l'ispiratrice delle altre culture vicine. Non c'è nulla di vero, e noi oggi sappiamo che cinque nuclei importanti si sono sviluppati parallelamente durante il periodo classico, e cioè all'incirca tra il 300 ed il 900; quattro civiltà si sono dunque trovate in contatto culturale più che materiale con il mondo maya: quella detta degli Olmechi, o dei La Venta, la più vicina ai Maya, in fondo al golfo del Messico, a sud del Veracruz; quella nel cuore del Veracruz, con la tribù dei Totonachi, che si sviluppò attorno a El Tajin, tra ilVII ed il XIV secolo; quella degli Zapotechi di Monte Alban nella regione di Oaxaca, che fiorì soprattutto tra il 500 ed il 1000; e in fine quella di Teotihuacan, la città delle grandi piramidi, la cui “età dell'oro” è da collocare tra il 400 ed il 700. Siccome tutte queste civiltà presentano dei tratti culturali comuni, subito si pone il problema delle origini e del popolamento.
Nascita e fioritura delle culture mesoamericane
In verità gli Spagnoli incontrarono un vero e proprio mosaico di popoli diversi in quelle distese immense i cui panorami si succedevano con una varietà infinita, andando dalle steppe desertiche, irte di cactus, alle tundre ghiacciate delle alte vette, macchiettate di muschi e licheni, alle torride Tierras Calientes, umide e ricche di vegetazione esuberante, alle zone temperate, la Tierras Templadas, coltivate e ricche di pini e di felci arboree, e infine alle fredde Tierras Frias, situate tra 2000 e i 3000 metri. La vita e le credenze religiose risentivano dell'ambiente ostile in cui cicloni, eruzioni, terremoti erano e sono assai frequenti.
Una diversità appariva pure dallo studio dei vari dialetti. Un etnologo se,
studiando l'universo precolombiano, ha individuato 123 famiglie di lingue diverse con legami di parentela assai blandi tra di loro. Lo strano polimorfismo constatato sia per quanto riguarda gli aspetti antropologici che linguistici lascia perplessi tutti i ricercatori: la diversità sconcertante delle caratteristiche fisiche (concernenti la statura, la morfologia, la pigmentazione, i gruppi sanguigni, ecc...) o i dialetti degli Amerindi - “Una vera Babele!” esclamano alcuni - non smette di sconcertare. La spiegazione di tale diversità va cercata nella natura e nella lunga storia della popolazione americana.
Il popolamento dell'America
Tra i quindici o ventimila anni (ma forse anche cinquantamila anni, secondo le ultime ricerche) e i novemila prima della nostra era, piccoli gruppi di cacciatori provenienti dall'Asia del nord-est si infiltrarono in diversi periodi attraverso lo stretto di Bering. È anche ammesso ai nostri giorni che, attraverso il rosario delle isole Aleutine, nell'Oceano Pacifico, gruppi di arditi navigatori possano essere giunti dalle isole dell'Oceania e dell'Indonesia. Arrivati nel continente americano, quegli Asiatici si diressero verso sud alla ricerca di selvaggina, di pesce e di baie selvagge; i cacciatori non esitavano ad assalire grossi mammiferi, tra i quali il mammut e una specie di bisonte oggi scomparso.
In seguito al mitigarsi della temperatura, circa 7000 o 8000 anni fa, quella fauna sarebbe sparita e i cacciatori-raccoglitori si adattarono alle nuove condizioni climatiche del luogo, nutrendosi di uccelli, di tartarughe, di conigli e di piante selvatiche, come l'amaranta e una specie di fagiolo. Senza dubbio quella popolazione errante doveva essere disseminata un po' dappertutto ed è così che in località molto distanti ebbero luogo i primi tentativi di coltura.
Intorno al 2500 prima della nostra era, la diffusione dell'agricoltura provocò la creazione e lo stabilirsi di piccoli gruppi in villaggi permanenti. Pur coltivando il mais, i pomodori, i peperoni, le zucche, i fagioli, gli abitanti di quei villaggi continuavano a cercare cibo con la pesca e la caccia ai pecari e ai cervi. Essi
tendevano trappole con fibre di yuca o di agave. Vasai assai più abili dei loro predecessori modellavano eleganti recipienti e soprattutto piccole figurine di argilla spesso steatopigie e certamente legate a riti di fecondità odi guarigione. Di fianco a questa dea della fertilità, aveva grande importanza, nel culto popolare, il dio del fuoco, rappresentato da un vecchio. I primi santuari importanti costruiti su piattaforme artificiali, annunciatrici delle future piramidi, apparvero verso il 600 a.C.
Il mais
La coltivazione del mais è da collocare alla base della civiltà dei Maya e dei loro vicini. Questa pianta, infatti, che richiedeva l'intervento del contadino per soli duecento giorni all'anno, lo lasciava molto libero; quindi il contadino aveva molto più tempo da dedicare alle attività intellettuali, artistiche o religiose, di fatto strettamente collegate. “Il mais era qualcosa di più della base economica della civiltà maya”, scrive Eric S. Thompson, “era il punto focale del culto, e tutti i Maya che lavoravano la terra gli avevano innalzato un altare nel loro cuore. Senza il mais essi non avrebbero avuto tempo libero né avrebbero goduto della prosperità necessaria per costruire le loro piramidi”.
In seguito, lo stabilirsi dei contadini in villaggi poco abitati si sviluppò soprattutto vicino ai centri cerimoniali dove abitavano i sacerdoti e questo periodo capitale della formazione viene chiamato “Periodo preclassico” o “Orizzonte arcaico” secondo H.J. Spinden o ancora “Civiltà media”. La cultura più importante di questo periodo di formazione è quella detta dei La Venta, o degli Olmechi; si riconosce unanimamente che essa servì da base alla civiltà dei Maya.
La civiltà olmeca
Il termine “olmeco”, improprio ma consacrato dall'uso, significa in nahuatl (la lingua degli Aztechi) “La gente (dal paese) del caucciù”. Di fatto questa designazione rimane arbitraria, perché noi ignoriamo l’origine e la lingua di quella “gente del caucciù” che fu straordinariamente abile nella scultura.
Recentemente gli archeologi della Carnegie Institution di Washington sono rimasti assai sorpresi nello scoprire, in un muro di Mayapan, una città dello Yucatan maya, fiorente soprattutto nel XIII e XIV secolo, una testa scolpita di stile olmeco, e dunque tenuta ancora in grande stima ben duemila anni più tardi. La presenza dei Tetrarchi nei muri di San Marco a Venezia testimoniano lo stesso fenomeno.
Per il suo carattere lineare e vigoroso, semplice, e proprio per questo lontano dalla sconvolgente complessità e dall'esoterismo confuso, se non inestricabile, delle arti future, di quelle dei Maya in particolare, il genio artistico degli Olmechi ci colpisce a prima vista. Inoltre la popolazione di La Venta sarà la prima a creare un sistema di scrittura e un calendario destinato a essere sviluppato dai Maya; essi incidevano sulla pietra annotazioni, cifre, date, glifi.
La “facies americana”, comune denominatore
Durante il periodo chiave del millennio antecedente la nostra era, cominciavano a delinearsi alcuni elementi di questa civiltà, tra i quali certe scelte agricole determinanti. Questi elementi costituiranno il sottofondo comune alle diverse culture che sorgeranno e si svilupperanno nei primi quindici secoli dell'era cristiana, fino agli Spagnoli, il cui arrivo provocherà uno sconvolgimento radicale.
Certo, avendo avuto vicende diverse, le varie culture testimonieranno una padronanza variabile ed ineguale nel campo artistico e tecnico, ma esse si
collocheranno sempre in un quadro fatto di elementi culturali comuni. Queste costanti si trovano tanto nel tipo di vita che nel modo di procurarsi i mezzi di sussistenza, negli usi, nei costumi, nelle arti e nella tecnica. Si impongono quindi sempre tratti permanenti, una “facies americana”, un comune denominatore.
Si constata, che a differenza della civiltà del Vecchio Mondo, in quella Maya non esistevano animali da traino (cavallo, mulo, bufalo, bue, asino...) il che comporta la mancanza di cani, carriole, e dunque, della ruota.
Non avendo animali da soma, non potevano avere neppure il concime per ingrassare i campi e questo ebbe notevole importanza poiché i campi che coltivavano si impoverivano nel giro di quattro anni quindi erano costretti a continui cambiamenti di terreno. Il ferro e l'acciaio erano sconosciuti e il rame venne usato assai tardi; per questo si può dire che l'America precolombiana rimase quasi sempre allo stadio neolitico, dato che i metalli servirono solo come oggetto di scambio o per fabbricare oggetti di lusso.
Il vetro, la moneta, i sistemi di misura, il grano, l'orzo, la segale... sono da aggiungere alla lista dei grandi assenti. Per quanto riguarda l'architettura, essi non scoprirono il principio della cupola e della volta a tutto sesto; la volta in oggetto dei Maya non permetteva di coprire vaste superfici, a causa della sua ridotta portata. Per quanto riguarda le attività intellettuali, essi non riuscirono ad approntare un sistema di scrittura alfabetica - visto il gran numero di glifi esistente - e inventarono sistemi di scrittura geroglifica assai complessi che permisero loro di scrivere libri rituali, annali di storia, specie di almanacchi astrali, e di tenere i conti. La carta non era loro del tutto sconosciuta, ma i loro codici erano redatti o sulla pelle di cerco o su una carta fatta con la scorza di diversi alberi: sia la pelle che la carta venivano poi ricoperte con uno strato di stucco. Essi non possederono mai le conoscenze matematiche del Vecchio Mondo, sebbene i loro metodi di calcolo di tipo vigesimale, con lo zero e quindi una numerazione posizionale, dimostrino un netto e consistente progresso.
Infine essi non giunsero a tutte le conoscenze astronomiche del mondo occidentale e tuttavia riuscirono a stabilire calendari di stupefacente precisione, tavole assai precise delle fasi e delle eclissi solari, nonché dei movimenti di Venere, arrivando in queste ultime ad un margine di errore di sole due ore per un periodo di ben cinque secoli!
È nel campo delle attività agricole che gli Amerindi hanno probabilmente dispiegato tutto il loro talento; le loro capacità immaginative furono e restano sbalorditive. Nei campi coltivavano non solo il mais, ma anche tuberi commestibili, manioca, patate, e poi salvia, amaranta, zucche fagioli e peperone; l'Europa deve al Nuovo Mondo soprattutto il pomodoro, il cacao (che serviva da moneta), il tabacco, la coca, il caucciù, la iucca e ... naturalmente il mais.
Inoltre gli Amerindi conoscevano il cotone, coltivato anche in Asia, e una grande quantità di erbe medicinali.
Il pensiero religioso dell'Indio
Per quanto riguarda la religione, il pensiero dell'Indio non arrivò mai al monoteismo, rimase sempre politeista. Ma la visione del mondo dell'Indio fu sempre profondamente religiosa, tragica, pessimistica e fatalista, la morte minacciava ogni cosa, persino gli astri! Siccome toccava agli uomini vegliare sul buon ordine generale, anche del cosmo, e siccome gli astri per non morire chiedevano energie vitali, era necessario fare per loro dei sacrifici umani. Tutta la religione si basava sul principio che si “produceva” la vita con la morte e che persino gli astri erano grandi divoratori di cuori umani. “Quattro volte”, dice la leggenda dei Maya, “gli dei crearono l'uomo, loro conservatore e loro nutrimento.”
Il territorio maya, il quadro geografico
Osserviamo ora rapidamente il aggio nel quale i Maya svilupparono la loro sbalorditiva civiltà. A dire il vero, delle centoventitrè famiglie etniche individuate, è innegabile che quella dei Maya ha dato origine alla cultura più brillante, più evoluta, più dotta, oltre che più diffusa e più compiuta dal punto di vista artistico. La straordinaria avventura maya si colloca grosso modo lungo i primi quindici secoli della nostra era; il suo periodo di maggior splendore si cova tra il III ed il XII secolo e la sua “morte” ufficiale, dal punto di vista militare, risale al 1697, a Tayasal (Petén). La grandezza raggiunta da quel piccolo popolo poco numeroso, ci sorprende ancor più in quanto lo spazio e lo scenario nel quale questa civiltà si sviluppò presenta un carattere particolarmente ingrato e ostile: o troppa acqua o troppo poca.
Forse, accettando il parere di J. Toynbee, è il caso di dire che proprio quella “sfida” alla natura e la necessità di vincere la terra e gli elementi hanno temprato e rinvigorito l'animo di quel piccolo popolo, sognatore ma deciso.
Situato nel cuore dell'America centrale, all'estremità sudorientale dell'altopiano centrale messicano, il territorio dei Maya occupava una superficie grande quanto l'Italia, estendendosi per circa 900 chilometri, dalle coste del Pacifico, a sud, fino all'estremità settentrionale dello Yucatan, una specie di sperone che si spinge verso nord, in direzione del Tropico del Cancro. Intorno all'universo maya, i popoli confinanti, parlano soprattutto nahuatl, la lingua dei Messicani dell'Altopiano centrale. Spesso si usa il termine “messicano” in contrapposizione a quello “maya” per designare in particolare la civiltà non maya del Messico. In quella zona maya, tra il Mar dei Caraibi e il Pacifico, si succedono tre zone diverse dal punto di vista naturale: ambiente, vegetazione, clima, tipo di vita cambiano man mano che ci si sposta da una costa all'altra e da sud verso nord.
Le terre del Sud
In primo luogo, a strapiombo sulla stretta fascia costiera del Pacifico, troviamo le alte terre montuose del Chiapas e del Guatemala, poco frequentate dai Maya, e quelle adiacenti del Salvador, fertili e caratterizzate da un clima sano, in cui abbondano la pietra e il legno. Il clima temperato, la fertilità del suolo, quasi tutto vulcanico, l'abbondanza della selvaggina rendono questa regione particolarmente accogliente e adatta ad una vita non troppo difficile. Stranamente però, questa zona ben popolata e favorita sotto molti punti di vista, non ebbe uno splendore culturale spettacolare o comunque paragonabile a quello delle altre zone situate più a nord.
Il territorio centrale
La zone centrale, che segue immediatamente più bassa, dal terreno calcareo, ricoperta da una foresta immensa, nel Tabasco (Messico), nel Petén (Guatemala) e nell'Honduras, percorsa da fiumi lenti, ricca di lagune, satura di umidità, fu paradossalmente il teatro delle più alte realizzazioni culturali della Mesoamerica. Proprio in queste località, che hanno una piovosità pari a quattro metri d'acqua all'anno, si trovano le città più belle dell'epoca d'oro dei Maya, dell'epoca cosiddetta classica. In quella terra così ingrata, che richiedeva continui sforzi, lavoro, cure continue, sono sorte le più stupefacenti città del mondo maya: Palenque, Piedras Negras, Yaxchilan, Tikal, Uaxactun, Quirigua, Copan... per citare soltanto quelle più conosciute. Forse quelle città, che si suppone fossero relativamente indipendenti, contavano, nel periodo di maggior splendore parecchie decine di migliaia di abitanti: Cinque? Sei? Sette? Forse anche di più. Dopo uno splendido e multicentenario fulgore, quelle città-Stato, ad una ad una, cominciarono lentamente a decadere nel corso del IX secolo. La foresta senza fine ed impenetrabile s'infiltrò ovunque, affondò le sue radici, ricopri ogni cosa fino a richiudersi e a far cadere l'oblio su quei magici luoghi.
La provincia settentrionale
Man mano che si procede verso il nord, gli alberi giganteschi e l'esuberante
vegetazione del Petén lasciano il posto a boscaglie, a boschi cedui e a macchie di arbusti. Ci addentriamo nella terza zona, quella settentrionale, molto più secca e totalmente priva di fiumi, se si escludono tre piccoli corsi d'acqua costieri, e il cui rilievo è costituito solo da piccole colline. Sono gli stati del Messico del Campeche, del Quintana Roo e dello Yucatan. In quest'ultimo, il cui suolo è calcareo, gessoso e poroso, la vita è possibile soltanto intorno ai “cenotes”, grandi crateri di sfondamento, che vengono solitamente chiamati anche doline, foibe, buche o fosse...a seconda delle zone. Quei pozzi pare abbiano affascinato notevolmente i Maya e fu per questo che la regione, malgrado la relativa povertà delle terre, fu molto popolata e conobbe una fase di splendore durante il periodo classico. Prima dell'anno mille, subì l'apporto di un gruppo etnico proveniente dal Messico e da Tula; quest'unione provocò una seconda fioritura culturale, nel XI e XII secolo, una specie di rinascimento maya contemporaneo alla nostra arte romanica. Fu proprio in questo periodo che si diffuse, anche se lentamente l'impiego del rame.
Nel complesso si nota che quel popolo energico e tenace seppe elevare a sommi vertici la propria civiltà, pur vivendo in un contesto ecologico nettamente sfavorevole, se non ostile, in un ambiente privo di unità geografica e con mezzi tecnici veramente rudimentali. Ciò avvenne in due distinti periodi. È tuttavia il caso di rinunciare ai termini di “Antico e Nuovo Impero” usati tradizionalmente dagli studiosi, poiché queste etichette, pur essendo comode, si prestano a creare confusione. È necessario considerare il mondo maya più che strutturato in veri e propri imperi centralizzati, piuttosto come costituito da città-stato indipendenti, simili a quelle della Antichità mediterranea, perché la città e il clan furono sempre il fulcro di ogni attività politica…
Quadro storico: dal periodo della formazione al periodo classico
Abbiamo visto come, nel corso del millennio antecedente la nostra, si fossero sviluppate molte civiltà di natura agricola all'interno dell'area meso-americana, caratterizzate, per lo più, dalla costruzione di templi colossali su piattaforme e di forma all'incirca piramidale. La grandezza di questi lavori implica l’esistenza di
una società gerarchica, probabilmente governata dal clero. Questo periodo è stato particolarmente importante nel Golfo, presso i popoli di La Venta, detti Olmechi, e abbiamo già detto che la civiltà maya è considerata l'erede e la continuatrice di quella civiltà di pregevoli scultori. Il centro può essere considerato Uaxactum, in territorio maya, dove vennero erette, agli inizi della nostra era, le prime stele, questo stadio di formazione è detto preclassico e si colloca tra il 500 (o 800) prima dell'era cristiana ed il 300 della nostra era; alcuni fanno una distinzione tra un preclassico antico (dall'800 al 300 a.C.), uno recente (300 a.C. - 100 d.C.), e un protoclassico compreso tra il 100 ed il 300 d.C.
Il periodo classico seguente, durato circa sei secoli - all'incirca tra il 300 e il 900 - costituì l'età dell'oro e vide la massima fioritura della civiltà maya, caratterizzata da creazioni artistiche ineguagliabili.
Il declino
Intorno all'800 inizia il declino, che si prolungherà per più di un secolo; ad uno ad uno i grandi centri cerimoniali smettono di costruire edifici e di innalzare stele. Si è parlato di rivolte popolari, oppure si è ricordata la forte pressione, con reazioni a catena esercitata dai Cicimechi, le tribù dei cacciatori barbari che allora premevano sul nord del Messico, ma le cui ripercussioni sarebbero giunte fin nel Guatemala. È incontestabile che questo fenomeno di indebolimento e di rinuncia si osserva in tutta la Meso-america; ed è altrettanto vero che si constatano influenze nordiche nuove ai confini maya.
Per una cinquantina di anni, nel corso del X secolo, pare che la vita sociale e politica sia tornata a un livello da villaggio più che da città, intorno al centro cerimoniale che focalizzava e stimolava ogni attività intellettuale e artistica. Il paese era in una specie di letargo e c'era uno scarso interesse per i santuari del ato, dove venivano compiute fumigazioni e automortificazioni e dove ci si raccoglieva in occasione di lutti e calamità. Evidentemente, pur non essendo stata eliminata fisicamente; l'élite teocratica aveva perduto tutta la sua
importanza, la sua autorità e probabilmente il suo prestigio.
Dopo aver esaminato il quadro geografico e storico del mondo maya, cerchiamo di avvicinarci agli individui, osserviamo la loro organizzazione, la loro vita quotidiana, i loro usi e costumi, partendo dai documenti archeologici e dalle tradizioni rimaste.
LA VITA QUOTIDIANA E LE ATTIVITA' DEL POPOLO MAYA
I maya attuali - nonostante l'incrocio fra le razze e le numerose rappresentazioni scolpite o dipinte dei Maya di un tempo - permettono di schizzare un ritratto dell'aspetto fisico del Maya dell'epoca classica: piuttosto massiccio e tarchiato, piccolo di statura (1,54 metri in media per l'uomo e 1,42 per la donna), con le gambe storte per essere stato portato troppo a lungo sull'anca materna o delle sorelle; con la fronte sfuggente ed il cranio largo e corto, o magari, nelle più grandi famiglie a forma di ogiva e deformato da tavolette che l'hanno compresso fin dall'infanzia; con gli zigomi molto sporgenti ed un accentuato prognatismo; quasi sempre privo di barba e baffi; spesso completamente strabico a causa di un piccolo oggetto fissatogli sul naso, in mezzo agli occhi, fin dalla più tenera età; con i denti limati o incrostati di giada - materiale allora considerato preziosissimo! - con il naso e le orecchie forate e una piastra fissata al labbro inferiore; il corpo brunastro e abbronzato, spesso completamente dipinto e tatuato; i capelli lunghi, lisci e neri, intrecciati e con una tonsura sulla sommità del cranio, secondo i canoni dell'eleganza maya.
È facile rappresentare il maya con indosso il suo serape (o poncho) e un perizoma più o meno lungo, con i sandali di pelle di cervo ai piedi, davanti alla sua capanna, gentile, generoso, ospitale e sognatore poco propenso alla violenza e agli eccessi, salvo quelli del vino e del fumo.
Dal canto suo, vestita di un quechquemitl, una corta pianeta a due punte, indossata sopra l'elegante huipil, la donna maya doveva comportarsi castamente e abbassare lo sguardo ogni volta che incontrava o serviva un uomo. Del resto l'adulterio veniva punito infliggendo ai colpevoli il supplizio del palo o delle frecce! Alla donna conveniva occuparsi del suo metate, una mola di pietra, macinare il mais e preparare gallette. “Uomini di mais, nati dal mais!” così dicono le leggende; infatti tutta la vita dipendeva dal mais: forniva cibo e bevanda. Cotto o bollito, macinato e diluito nell'acqua insaporito col peperone e la farina di cacao, è all'origine del nostro “cioccolato”. Gli uomini preferivano
però il balche, un fortissimo idromele a base di miele.
Questo balche aveva anche un importante ruolo religioso e veniva bevuto nel corso di cerimonie e riti propiziatori; esso veniva prodotto col succo della canna da zucchero nel quale veniva messa a macerare la scorza del balche. Poi, di notte, gli uomini del clan si riunivano in un locale apposito, vietato alle donne; pregavano, salmodiavano intorno al fuoco sacro, ai brucia-profumi d'argilla, alle immagini degli dei.
Uomo dotato di profonda religiosità, il Maya, sempre molto socievole e servizievole, seppe impiegare con grande naturalezza il tempo libero, per partecipare all'opera collettiva e cioè alla costruzione di piramidi e templi. Placido, padrone di sé, disciplinato altruista, assuefatto al lavoro e alla fatica, doveva tirare pesi, caricarli e trasportarli senza il minimo aiuto degli animali. Dopo aver bruciato così tutte le sue energie, si può ben immaginare che i suoi istinti guerrieri fossero piuttosto affievoliti; e noi siamo convinti che i Maya dell'età classica fossero essenzialmente pacifici, moderati e calmi. Oltre a questo innegabile senso del sociale, e una solida coscienza di appartenere ad un gruppo, dovremmo riconoscere al Maya altre tre qualità: l'onestà, la pulizia e il pudore.
Durante la conquista spagnola e nel corso dei decenni successivi, i Maya, come gli altri Indios del Messico, vennero decimati in maniera catastrofica in seguito a massacri, epidemie e abusi connessi alla pratica dei lavori forzati. Poi la popolazione riprese ad aumentare gradatamente e si può ritenere che oggi il Messico conta tanti abitanti quanti ne aveva in epoca precolombiana.
Il gruppo etnico maya, ancora sul posto, deve contare più di due milioni di individui, suddivisi in parecchi gruppi che sono soprattutto, da nord a sud: gli Yucatechi (circa 350.000), i Chiol (25.000) nel bacino dell'Usumacinta, i Chontali (25.000) nel delta del Tabasco ed un po' anche nel Campeche; poi i Tzotzili (120.000), i Mam (300.000), i Tzentali (80.000), i Quiché (400.000), i Cakchiqueli (350,000) e gli Zutuhili (10.000) nelle alte terre del Guatemala e del
Chiapas. Come gli altri Indios dell'America centrale, i Maya sono cristianizzati; tuttavia il loro mondo religioso ha conservato numerosi elementi dell'antico pantheon e dei vecchi riti; si può addirittura parlare di un vero e proprio sincretismo.
Dopo la conquista, i Maya della Penisola mostrarono una netta ostilità nei confronti degli occupanti, soprattutto a causa dello sfruttamento eccessivo che dovettero subire da parte dei proprietari delle piantagioni. L'apparizione nella comunità maya, verso la metà del XIX secolo, del fenomeno del cacicchismo, un sistema di pressione amministrativa e politica nell'ambito della quale i cacicchi erano incaricati dai grandi proprietari di latifondi di spremere con le imposte i peones e i contadini, provocò più di una rivolta e condusse a una specie di guerra civile che devastò la penisola per parecchi decenni. Dopo il 1930, con la riforma agraria e la soppressione dei latifondi, tornò la calma e alcuni programmi di industrializzazione assorbirono una parte della popolazione rurale. Allora, la comunità maya si integrò rapidamente nella vita nazionale. Tuttavia, malgrado gli sforzi del potere centrale, alcune tribù irriducibili rifiutarono di abbandonare i loro usi e costumi ancestrali e rifiutarono ogni contributo nazionale al loro sviluppo. La più famosa di queste tribù è il minuscolo gruppo (tra i 180 e i 280 individui) dei Lacandoni.
Le lingue maya
Il popolo maya può essere diviso linguisticamente in cinque grandi gruppi con dialetti diversi. Il primo gruppo comprende il maya propriamente detto, una lingua uniforme, parlata anche da più di 300.000 persone negli Stati dello Yucatan e del Campeche; questa lingua venne trasportata più a sud, nel Petén, dagli Itzà dopo la loro cacciata da Chichén, nel XV secolo. Le due centinaia di Lacandoni attuali, che parlano un dialetto maya, sono considerate discendenti dal gruppo che aveva trovato rifugio nelle foreste, dopo la venuta degli Spagnoli.
Il secondo gruppo, quello del chol, comprende parecchi rami che presentano
molte affinità con il gruppo maya propriamente detto. I popoli di questo gruppo dovevano estendersi un tempo sul territorio compreso tra il Tabasco e l'Honduras, ma questa continuità geografica venne rotta nel corso degli ultimi secoli, in seguito all'estinzione di alcune tribù. Il chol era parlato da tribù tropicali che si opposero a lungo e con determinazione agli Spagnoli, cosa che costò loro molte sofferenze. I circa 25.000 Chol che vivono ad ovest di Palenque possono essere considerati come loro discendenti, così come altri nuclei del Chiapas. Il chontal di Tabasco, parlato da circa 20.000 persone alla foce dei fiumi Grijalva e Usumacinta, si ricollega a quel gruppo.
Il terzo gruppo, quello del Tzeltal, presenta delle affinità con il precedente, ma anche con il seguente, quello dei Mam. Esso comprende quattro dialetti principali: il tzeltal, parlato da circa 50.000 individui nel centro e nella zona sudest del Chiapas; il tzotzil o chamula, parlato da più di 60.000 persone nella zona occidentale del Chiapas; il chaniabal, parlato sempre nel Chiapas, intorno a Comitan, da circa 10.000 anime; infine il Chuxe, diffuso nella zona ovest del Guatemala e parlato dai 15.000 abitanti della regione di Huehuetenango.
Il quarto gruppo, quello del mam, riunisce alcuni dialetti, mal studiati, per lo più: il Kanxobal (40.000 persone); il motosintlek (4.000 individui); l'ixil (20.000 persone); l'agwakatek (8.000 persone) ed infine il mam, che, con i suoi 300.000 parlanti, costituisce un insieme importante ai confini messicano-guatemaltechi; ma i due terzi di quelle persone sono ispanizzate, soprattutto nel Chiapas, e non parlano più la loro lingua.
Il quinto gruppo, infine, quello del quiché, si suddivide a sua volta in numerosi dialetti che si ricollegano ai suoi due tronconi principali.
Nel complesso, tutti questi diversi gruppi etnici, che parlano una miriade di dialetti diversi in un territorio compatto unito di 330.000 chilometri quadrati, furono stranamente rimescolati nel ato e la loro dislocazione attuale non riflette esattamente quella del periodo preispanico; resta comunque il fatto che
esiste tra di loro una grande identità culturale e religiosa. Le loro strutture sociali e politiche furono identiche dal lago Atitlan al capo Catoche.
Organizzazione sociale e politica
Alla luce dei testi degli Spagnoli ai tempi della conquista ci possiamo rappresentare la società maya strutturata secondo un modello simile a quello della nostra società feudale, con un principe o capo tribù che governava una città-Stato, la nobiltà, il clero e la massa del popolo costituita essenzialmente da contadini. Si sono pure paragonate le città maya, dato che i legami che le univano erano soprattutto di natura culturale, religiosa e linguistica più che politica, alle antiche città greche del VI-II secolo a.C., Atene, Sparta, Corinto... o alle città italiane del XIII-XV secolo, Firenze, Venezia, Genova, o ancora ai porti della Lega anseatica, Amburgo, Brema, Lubecca....
Alla testa di ciascuna di quelle città-Stato dei Maya, si trovava una specie di resacerdote, di principe-vescovo, “l'uomo vero”, l'halach uinic, la cui carica era ereditata; se il figlio maggiore non aveva l'età per governare alla morte del padre, gli zii paterni si assumevano la reggenza. L'halach uinic governava assistito da un consiglio di capi del clan totemico, di preti e di “anziani”, oggi i mayores. L'emblema della sua autorità civile era una specie di scettro, il “manikin”, che aveva alle due estremità due teste assai fantastiche; la sbarra cerimoniale che teneva orizzontalmente e trasversalmente sul petto, come vediamo nella stele di Copan, è considerata un emblema religioso, o un simbolo dei 52 anni del “secolo” maya. Si potrebbero anche vedere i fasci di bastoni che simboleggiavano i clan della tribù; presso i Tzotzili (un nome che significa “pipistrelli”) di San Juan Chamula, nel Chiappas, ha luogo ogni anno il trasferimento dei poteri dagli anziani notabili a quelli nuovi; i mayores (anziani) legano dei fasci di bastoni, li dispongono in cerchio e li legano alla sommità. Le donne delle nuove autorità designate hanno l'incarico di vegliare, su quei fasci fino alla fine della cerimonia di trasferimento dei poteri.
Accanto a questo halach uinic, certamente un altro capo dedicava tutta la sua attività alle funzioni sacerdotali ed astronomiche. Pare che le riunioni si tenessero la notte, poiché l'oscurità conferiva un'aria più misteriosa e segreta alle decisioni e alle deliberazioni. Del resto, nel Popol-vuh è sempre di notte che agiscono gli dei e accadono tutte le cose importanti. Clero e nobiltà pare che fossero strettamente legati e non abbiamo alcun indizio che ci faccia supporre conflitti tra loro; forse formavano un'unica classe. Al momento della conquista, lo Yucatan contava una ventina di quei piccoli re o halach uinic. Tra le loro numerose funzioni, una, assai importante, veniva svolta soltanto ogni venti anni, all'inizio del nuovo Katun, quando essi dovevano sottopone a “esami” coloro che ambivano alla carica di cacicco o di capo villaggio; queste prove particolari richiedevano la conoscenza di una lingua esoterica, conosciuta da poche persone, il che ovviamente faceva sì che quella carica fosse riservata ama piccola casta ereditaria che poteva trasmettersi quelle conoscenze magiche.
Questa casta costituiva la nobiltà, detta almehenoob, letteralmente “coloro che hanno dei padri e delle madri”. Così designati, i governatori, i “bataboob” acquisivano inoltre il potere di esercitare la giustizia e di mantenere l'ordine; essi badavano soprattutto a che le prescrizioni religiose dei preti a proposito della data propizia alla mietitura e agli altri lavori fossero rigorosamente rispettati. Inoltre, aiutati da delegati, essi dovevano occuparsi della raccolta dei tributi e delle diverse donazioni destinate al capo supremo: balle di cotone, tacchini, ceramiche, resina di coppale e fave di cacao. In caso di guerra, o se veniva decisa un'incursione, quei governatori reclutavano le truppe, e tutti andavano a mettersi agli ordini del gran capo di guerra, il “nacom”. La carica di nacom era ereditaria, ma quella del suo generale in capo era della durata di soli tre anni! La carica comportava sacrifici, nonostante gli oneri: egli veniva portato in lettiga ed era continuamente avvolto dai fiumi dell'incenso, ma in compenso era tenuto ad osservare una totale astinenza, a praticare il digiuno e a rispettare alcuni tabù alimentari, in breve a mostrarsi esemplarmente morigerato.
Il clero ed il popolo
Il clero costituiva la classe dotta, quella degli intercessori presso gli sei, quella senza la quale gli dei si “sarebbero messi a scioperare”, quella che assicurava il corretto svolgimento di tutte le attività e di tutti i lavori. Il Signore Serpente, o grande padre, l'Ahaucan, onnisciente, comandava le comunità dei sacerdoti. Il suo prestigio era grande e alla sua casa affluivano senza sosta regali di ogni genere; egli era il primo consigliere del principe e tutti gli incarichi culturali toccavano a lui: l'astronomia, la divinazione, i calcoli cronologici, l'erezione dei templi e delle stele, la redazione dei codici, l'educazione dei novizi, le decisioni relative all'agricoltura, i sacrifici... In questi numerosi e importanti compiti, era assistito da molti sacerdoti, gli akhin. Un'altra classe di preti, i Chilam, specie di maghi-divinatori, molto rispettati dal popolo, avevano con quest'ultimo, tutto intriso di religiosità, un contatto più stretto degli akhin, che avevano invece un rapporto diretto con la divinità. Paradossalmente, la carica di gran sacerdote, che richiedeva il possesso di conoscenze molto vaste, era ereditaria!
Alla base infine si trovava la grande massa del popolo, costituito essenzialmente da contadini e che occasionalmente si trasformava in un esercito di soldati odi sterratori o di minatori. Nelle città, le corporazioni degli artisti e degli artigiani effettuavano i lavori più complessi e minuziosi sulla selce o sulla giada, oppure confezionavano mosaici di piume; gli scultori e i pittori non erano mai inattivi perché i Maya dei primi secoli furono animati da una vera e propria frenesia costruttiva. Attraverso i tributi, le offerte e le corvées, il popolo manteneva il clero e i capi, costruiva piramidi, templi, palazzi e strade, con un ritmo sempre più frenetico. È necessario dedurre che questo popolo avesse un'incredibile energia e una disciplina degna di ammirazione, in compenso non pare che le classi più elevate abbiano impiegato le loro conoscenze e il loro ingegno per cercare delle tecniche capaci di alleviare l'immenso sforzo richiesto al popolo; fino alla fine ogni cosa venne trasportata, tagliata, sollevata con la sola forza delle braccia e con utensili addirittura neolitici! La contropartita fu probabilmente, nel IX secolo, un “rilassamento”, un “abbandono per getto della spugna”, di quel popolo spossato a furia di lottare, estenuato, col fiato mozzo. All'improvviso si rifiutò di lottare e si ritirò nella sua capanna; private brutalmente delle loro risorse, le classi dirigenti furono costrette ad adeguarsi e a sobbarcarsi il lavoro dei contadini.
Al di sotto del popolo c'era una casta di schiavi, i pentacoob, che probabilmente veniva ingrossata grazie a spedizioni militari o coni prigionieri comuni. Si sanno veramente poche cose sul loro stato e sulle loro condizioni, e il problema stesso è molto discusso dagli specialisti.
Il matrimonio
Generalmente, a differenza dei Lacandoni attuali, i Maya erano monogami. Quando erano adolescenti, ragazzi e ragazze venivano raggruppati in capanne riservate, e i primi incontri, come in ogni paese del mondo, dovevano comportare molti sotterfugi e scambi di sguardi furtivi. Eric Thompson ci riferisce un'usanza osservata sulle rive del lago Atitlan: il giovanotto spezza la brocca della ragazza che desidera mentre questa si reca a prendere l'acqua; se la ragazza non protesta significa che non oppone resistenza al suo progetto; se invece protesta, essa manifesta il suo rifiuto e al giovane non resta che ripetere l'esperienza con un'altra. I matrimoni erano proceduti da lunghe trattative condotte da terzi, mediatori ufficiali, al termine delle quali si decideva solitamente che il giovane sposo doveva trasferirsi nella casa dei suoceri per assistere il padre della sposa nei suoi lavori nella milpa, nella caccia e nella pesca per un periodo che poteva durare dai tre ai sei anni. Per quanto riguarda la caccia, il giovane avrebbe scavato trabocchetti e teso trappole, in casa si sarebbe occupato della riserva di legname e avrebbe curato le api; queste erano di una specie particolare, senza pungiglione, e venivano allevate in alveari ottenuti con tronchi scavati all'interno e chiusi all'estremità con tappi d'argilla, nei quali venivano lasciati alcuni orifizi per il aggio. Inoltre il giovane avrebbe offerto alcuni doni, fave di cacao, perle ricavate da conchiglie - spondili soprattutto balle di cotone, zucche od oggetti di ceramica.
Poi il prete fissava la data del matrimonio in funzione del cielo astrale dei futuri sposi. Naturalmente questa festa era l'occasione per offrire un grande banchetto e per bere molto balche, l'inebriante idromele a base di miele. Le donne servivano da bere cercando di evitare accuratamente gli sguardi degli uomini e di allontanarsi quando bevevano. Per la sposa la sterilità assumeva un carattere
quasi infamante che poteva condurre al divorzio; se per caso le fosse capitato di notte di sognare un serpente, ciò significava che sarebbe diventata presto madre e se ne rallegrava. Una volta nato, il fanciullo veniva allevato spartanamente, e doveva rispettare moltissimo i genitori; e siccome il fanciullo a sua volta vedeva che essi mostravano a loro volta una grande deferenza nei confronti degli anziani, egli apprendeva in modo del tutto naturale a rispettare gli altri. Gli veniva insegnato ad aiutare gli altri e anche se la sua natura era piuttosto introversa, poco espansiva, egli avrebbe acquisito egualmente un vivo senso della collettività.
Alcune volte i genitori stringevano il cranio del loro piccina tra due tavolette allo scopo di dargli una forma affusolata, a forma di ogiva, che noi osserviamo in numerosi bassorilievi; inoltre, uomini e donne si tagliavano gli incisivi o incrostavano nei denti piccole sfere di pirite ferrosa, di ossidiana o di giada, se potevano permetterselo. I guerrieri si praticavano spesso scarnificazioni sul viso, a volte molto elaborate. Fino al momento del matrimonio, i giovani si dipingevano interamente il corpo di nero; una volta sposati, era di rigore il rosso, salvo nei periodi di digiuno, in cui si tornava a usare il nero. Il nero era pure il colore dei guerrieri, mentre il colore dei preti era il blu. Per dipingersi usavano sigilli di ceramica incisa che venivano immersi nel colore. Le donne si dipingevano anche il busto, con l'esclusione del seno.
Attività quotidiana
Dopo alcuni anni di vita comune sotto il tetto dei genitori della sposa, la coppia, aiutata dagli amici, costruiva la propria capanna in una milpa vicina; questa casa poteva essere di pietra, nel nord dello Yucatan, di mattoni crudi, nell'altra estremità del mondo maya, nel sud del Guatemala, odi legno di palma nella foresta centrale. Generalmente l'aspetto di queste case non è mutato da due millenni; la forma rettangolare della base è molto più diffusa di quella rotonda o quadrata.
Naturalmente alcuni riti di purificazione precedevano l'installazione, al fine di scacciare gli spiriti malvagi che avrebbero potuto risiedervi. Le case privilegiate avevano una parete interna, che le attraversava nel senso della lunghezza: la stanza d'ingresso serviva da soggiorno e per ricevere, l'altra, dietro, aveva un carattere più privato. Alcune panche, tavolini bassi, stuoie, letti di legno coperti da stuoie costituivano tutto il mobilio; senza dubbio, le riserve di mais venivano riposte in cofani di legno o in anfore di ceramica.
Le donne si alzavano molto presto, intorno alle tre o alle quattro, e preparavano una colazione a base di gallette di mais, o di fagioli; molto più semplicemente, nelle famiglie più modeste si preparava l'atole, un brodino fatto di mais diluito nell'acqua calda cui veniva aggiunto un po' di miele. All'alba, l'uomo si dirigeva verso i campi, e si recava a caccia o si accingeva ad altri lavori. Poteva andare a pescare con la sua canoa in mare o negli innumerevoli corsi d'acqua, paludi e lagune del Chiappas o del Tabasco; gli abitanti del litorale avevano grandi piroghe sulle quali potevano salire quaranta uomini, e alcuni natanti a doppio scafo, simili ai catamarani, erano muniti di vela. Un dipinto del tempio dei Guerrieri di Chichén Itzà ci mostra una scena di vita di un villaggio costiero in cui tartarughe, pesci, molluschi, granchi, razze velenose guizzano intorno a tre imbarcazioni ciascuna delle quali porta un rematore a prua e due guerrieri armati a poppa, tutti in piedi. Sulla riva nelle capanne costruite in mezzo agli alberi, la popolazione si dedica piacevolmente alle proprie attività, mentre i portatori, piegati in due sotto i loro carichi, si allontanano.
Rimasta nella capanna, la donna preparava il mais per la giornata, lo sgranava, lo macinava sotto la macina leggermente concava con l'aiuto di un rullo di pietra, il Kab. Poi, su una lastra di argilla riscaldata sulle tre pietre rituali del focolare, ella faceva cuocere le sue tortilla, cioè gallette di zacan (una pasta di mais). Una volta cotte, venivano conservate al caldo il più a lungo possibile dentro alcune zucche.
La donna poteva anche preparare il pozol, che poteva essere portato via avvolto in foglie di banano: era una variante del zacan, ma probabilmente prima di
consumarlo era necessario immergerlo un poco nell'acqua. Per fare il cioccolato si faceva bollire un miscuglio di polvere di mais e di cacao, il tutto condito con il peperone.
Poco prima del tramonto aveva luogo il pasto principale, a base di fagioli, di ragù di tacchino, di daino, di cervo o di pecari qualche volta, di legumi e di cioccolato. Si faceva cuocere stufato lo tzome, che è una specie di cane senza pelo e che non abbaia allevato solamente per essere mangiato. Tutti attingevano dal piatto centrale, ben condito, servendosi della tortilla. Finito il pasto l'uomo si faceva il bagno caldo quotidiano immerso in una vasca ricavata nel tronco di un cedro. Verso le otto di sera tutta la famiglia si addormentava, ma prima si badava a lasciare il fuoco, per tutta la notte, tra le tre pietre del focolare. È probabile che l'acre odore del fumo dovesse impregnarli, e in particolare impregnare i loro abiti.
La morte di un cacicco
Nel suo libro, così affascinante, sulla storia dei Maya, Grandezza e Decadenza della Civiltà Maya, Eric Thompson ha immaginato un vero reportage sulla morte e sui funerali di un capo, basandosi sulle tradizioni e sulle osservazioni archeologiche. Infatti bisogna notare con rincrescimento che i Maya non ci hanno lasciato scene animate e colorate che ci documentino sulla loro vita quotidiana, come hanno invece fatto gli Egiziani dei tempi dei Faraoni nelle mastaba di Saqqarah o nelle necropoli di Luxor. Se si eccettua la piccola scena del villaggio costiero, a Chichén Itzà, descritta precedentemente, e la straordinaria cerimonia dipinta nelle tre piccole sale del tempio di Bonampak, non abbiamo la minima scena di vita quotidiana! Per altro, alcune piccole figurine d'argilla, provenienti dall'isola di Jaina e da altre località, ci offrono immagini svariate e vive di personaggi di alto rango sociale, molto spesso dignitari, gran dame, preti, ma anche guerrieri, giocatori di petola, nani e più raramente tessitrici. Generalmente le descrizioni aneddotiche non avevano molto spazio e soltanto eccezionalmente vediamo rappresentati elementi delle classi inferiori. Ma torniamo alla morte del cacicco.
Al momento del decesso, i parenti introducevano nella bocca del defunto una perla di giada, che riceveva il suo spirito e nella quale sarebbe risieduta l'anima del morto. Per i funerali, parenti, vicini e dignitari affluivano da ogni parte, alcuni trasportati su lettighe si facevano lentamente vento mentre i portatori, vestiti di un semplice perizoma, si imperlavano di sudore. Il morto veniva rivestito di tutti i suoi gioielli di madreperla e di giada. “Orecchini di giada verde-mela pendevano ai suoi lobi. I gambali. Con i camli di rame che avevano tintinnato ad ogni suo o quando era in vita, ornavano le sue gambe al di sotto del ginocchio. Calzava sandali con alti proteggi-talloni di cuoio lavorato. Un perizoma di cotone, dai ricami complicati, ne cingeva la vita, e le punte, ornate di piume, pendevano davanti e dietro. Sulle spalle aveva parecchi mantelli di cotone ricamato oppure di piume, “corredo” che le schiave gli avevano preparato con mesi di lavoro.
“Così ornato, egli era stato collocato, in posizione accoccolata, in una grande cassa di legno, che non si potrebbe chiamare bara, a rigore, perché di forma cubica. Quattro schiavi portavano la lettiga sulla quale era poggiata quella cassa.
Il corteo si fermò sulla sommità dell'altura e la cassa venne fatta sprofondare nel grande buco praticato in precedenza. A turno vennero avanti i servi del defunto per deporre i suoi beni: altre giade, specchi, vasellame, zucche, piume di quetzal, onice messicano, pappagalli, tacchini occhiuti, coltelli e punte di ossidiana, punte di lancia di selce, scudi, piatti di mais, carne, fagioli, salsa di peperone, pallottole di pozol e di cacao, stuoie e tessuti di cotone e infine i doni portati dai capi vicini.
“Per prima cosa venne ucciso il cane preferito dal defunto, perché la sua ombra potesse guidare quella del padrone durante il lungo viaggio. Poi il sacerdote uccise gli schiavi, quelli del defunto e quelli portati dagli altri capi. I loro corpi vennero deposti uno per uno nella fossa insieme ai loro utensili: pastelli, telai, fusi, aghi, scope, argilla per vasi, se si trattava di donne, asce di pietra, piantatoi, cerbottane, lance, coltelli e trappole se si trattava di uomini. La fossa risultò
quasi completamente colma. Venne gettata della terra per riempire gli interstizi e il tutto venne battuto. Poco dopo i muratori avrebbero costruito un altare, sul quale si sarebbe bruciato dell'incenso e si sarebbe deposto del cibo per gli spiriti dei defunti affinché nutrissero lo spirito del nuovo arrivato”.
In realtà i riti funerari potevano variare da una provincia all'altra e se nel Chiappas si usava seppellire dentro grandi giare, presso i Cocom di Mayapan, la testa del defunto veniva tagliata e fatta bollire; dopo di ciò essa veniva rimpiazzata con una maschera modellata con una materia bituminosa. Alcune di quelle teste di antenati venivano conservate sull'altare familiare e ricevevano offerte in occasione di numerose feste. La consuetudine consistente nel togliere le ossa e le carni dal viso di un cacicco per poi modellargli un nuovo volto con la gomma e con altri materiali fu praticata ad Uaxactun dal periodo della formazione, e cioè dagli inizi della nostra era fino all'arrivo degli Spagnoli. Si è anche constatato in qualche caso che i femori erano stati tolti e che il cranio, segato, era stato posto in mezzo alle ginocchia, come per rimpiazzare i femori mancanti. Ma l'abitudine di seppellire un cane guida con il defunto fu quasi generale e continua.
Ad Uaxactun, ancor oggi, si osserva un'altra usanza funebre propria dei Maya, relativa ai fanciulli, il cui corpo veniva deposto tra due piatti rovesciati; in alcuni casi vennero trovate le ossa di un dito di adulto. L'abitudine di seppellire anche una falange della madre vicino al corpo del bambino si è mantenuta fino a tempi molto recenti, in territorio maya.
La città maya, una vera città-giardino
Non bisogna immaginare la città maya, o indiana, uguale alle nostre, magari riferendoci a come erano nel Medio Evo. La struttura della città maya, molto diversa, era assai meno chiusa e serrata. Tutto gravitava intorno alla piazza del mercato e al centro cerimoniale. Intorno le abitazioni erano sparpagliate in mezzo alla natura, in mezzo agli alberi e ai campi coltivati. In realtà in realtà il
aggio dalla città alla campagna era appena percettibile. Del resto gli abitanti avevano a disposizione sul posto i loro campi e i loro prodotti; il ruolo del mercato era dunque molto ridotto: non era un mercato di approvvigionamento, quale sarebbe necessario in una città densa ed urbanizzata. Insomma, per riprendere la battuta di Alphonse Allais, erano città costruite in campagna! Nel centro delle città vivevano soltanto i nobili e il clero; gli artisti e gli artigiani avevano certamente giardini e orti e la classe operaia praticamente non esisteva o si identificava con quella dei contadini. Questi ultimi assicuravano con il loro lavoro la costruzione di opere pubbliche e la loro manutenzione e quando era necessario si trasformavano in soldati. Quanti abitanti avevano quelle città? È molto, difficile valutarlo. L'Institut Carnegie ritiene che Uaxactun, per esempio, avesse 50.000 anime; Morley, uno dei più grandi specialisti, riteneva che tutte le città più importanti, Tikal, Copan, Uxmal, Chichén Itzà avessero 200.000 abitanti. Queste cifre sono probabilmente eccessive perché non tengono conto dello sparpagliamento delle capanne che faceva scendere di molto la densità. Ci pare più ragionevole supporre che quelle città avessero da 20.000 a 50.000 abitanti.
La maggior parte della gente ava per la città, ma non vi risiedeva. I contadini venivano in città con i loro costumi colorati, tipici di ogni clan, il che permetteva di identificare subito coloro che si incontravano; assistevano a cerimonie, facevano offerte ai templi, si confidavano al prete chilam e ripartivano. Non c'era confusione: non c'erano carri, né cavalli, né muli, né bestiame. C'erano soltanto uomini silenziosi, piegati in due da enormi pesi caricati sulla schiena e tenuti stabili da una banda fissata sulla fronte. Di tanto in tanto ava qualche cacicco trasportato in lettiga o sulla sedia a portantina. Si vedevano uomini e donne, spesso con bambini appoggiati sull'anca, con costumi e perizomi variopinti. I gruppi di contadini talvolta arrivavano assai numerosi per mettersi agli ordini dei capomastri, incaricati continuamente dal clero di costruire o di rimettere a nuovo i templi e le piramidi che erano l'orgoglio della città. Cesta dopo cesta, pietra dopo pietra, era necessario trasportare tutto a piedi, caricando i pesi sulle spalle e lavorare i materiali con semplici utensili di pietra.
Vera città-giardino, la città maya era dunque agli antipodi della città orientale, anarchica, con i suoi dedali, i suoi affollamenti, i suoi accatastamenti e spesso
con il suo luridume. Qui le case erano isolate, pulite, in ordine, nascoste sotto gli alberi e separate dai campi. Le strade era concepite soprattutto in funzione delle fastose processioni. In un libro interessante sull'architettura maya, Henri Stierlin nota che “con il suo rifiuto della strada propriamente detta, l'urbanismo maya conferisce un aspetto quasi moderno alle sue città. In realtà le costruzioni non fiancheggiano quasi mai la strada ridotta a una specie di imbuto da muraglie...Inoltre, l'assenza di ogni veicolo e di animale rendeva inutile la strada”... “E' veramente un'isola pedonale con un paesaggio e uno spazio libero, dove si alternano radure, campi coltivati e palmizi...” Questa trama urbana esprime inoltre il pacifismo innato dei Maya, ed Henri Stierlin constata giustamente che “le differenze profonde tra i piani e i tracciati regolari della città avvalorano come la varietà degli stili - e Stierlin ha ricordato in precedenza come le facciate dei palazzi e dei templi erano vive di colori - la tesi di una relativa autonomia della civiltà maya nelle sue diverse province. Si ha veramente a che fare con un'organizzazione di tipo federativo fondata su similitudini culturali più che su una vera unità politica.”
Tra di esse, quelle città dovevano avere raramente rapporti tempestosi perché, come abbiamo detto, le opere militari - baluardi, fortificazioni, fossati - mancano completamente, soprattutto durante il periodo classico; si può al massimo supporre la presenza di una grande palizzata, come cinta, che non avrebbe resistito a secoli di umidità.
Il tribunale
Così la città maya aveva il suo centro nella piazza, circondata da templi, dalle sale per i consigli, dalle residenze dei cacicchi, attorno alle quali si dipanava la ragnatela delle case degli artisti e dei novizi... Ma, ripetiamolo, la popolazione restava essenzialmente rurale. Un racconto del 1695, dovuto a sco Antonio de Fuentes y Guzma, ci offre, insieme alla descrizione della città di Tean, nel Guatemala, un'immagine di quella che poteva essere una città maya dell'epoca classica. Il nostro testimone nota in primo luogo che tutto il suolo di quella vecchia città era lastricato di calce e cemento. Tra gli edifici, ne ricorda
uno, la cui facciata era lunga cento i! È “tutto di pietra e calce, con le pietre intagliate con grande abilità, levigate e sistemate con cura”; quella costruzione orna “una grande piazza quadrata di grande dignità e di grande bellezza”. Più lontano. Egli ammira un edificio “di magnificenza regale”. Lungo le strade, egli osserva “molte abitazioni ben disposte, che testimoniano l'alta civiltà degli antichi padroni”.
Su una piccola collina che domina la città, una costruzione circolare gli viene indicata come l'antico tribunale; i giudici a consiglio si sedevano su stuoie, con le spalle al muro, intorno a una specie di podio, e discutevano i loro affari. Di tanto in tanto alcuni incaricati venivano mandati in un piccolo tempio vicino ad apprendere gli oracoli di risposta, le decisioni sacre della divinità del luogo, materializzata in un blocco di ossidiana. Se la risposta era sfavorevole, l'imputato poteva essere immediatamente torturato o addirittura giustiziato sul podio centrale.
La giustizia era una prerogativa della classe signorile; era solamente orale e ignorava completamente l'aspetto burocratico, l'istruzione del caso... che ora sono momenti essenziali. Contratti, accordi, transazioni venivano compiuti esclusivamente a voce e, se si tiene conto dell'attuale proverbiale onestà dei Maya, si è indotti a credere che la parola impegnava come una firma; lo spergiuro veniva messo al bando dal clan.
I colpevoli rischiavano di essere messi alla gogna di legno, o in prigione odi essere esibiti legati a un palo d'infamia, in pubblico. I condannati a morte venivano rinchiusi in una gabbia di legno colorato; coloro che erano colpevoli di adulterio o di furto erano trafitti con frecce o impalati dopo essere stati esposti in pubblico, nudi e con i capelli rasati, legati a un palo. Un ladro veniva ridotto in schiavitù finché non aveva pagato il suo riscatto, oppure se si era completamente screditato si faceva tagliuzzare la fronte e le guance. L'assassinio comportava l'esecuzione dell'assassino; egli veniva legato, con le braccia in alto, tra due pali e copiosamente trafitto con frecce. Pare che costoro non venissero sacrificati sugli altari degli dei. In compenso alcuni condannati militari ritenevano
quell'esecuzione un vero onore; con quella morte salivano letteralmente alle stelle! In realtà si pensava che un sacrificato andasse ad abitare nelle costellazioni e si identificasse con qualche stella. Conosciamo queste sanzioni contro i delitti grazie alla testimonianza di un certo Xiu, discendente dei re di Mayapan, che visse nel XVI secolo.
Come abbiamo constatato il Maya, nonostante il suo carattere piuttosto pacifico, non ignorò la guerra e anzi il suo virus lo animò particolarmente dopo l'arrivo della gente di Tula, per parecchi secoli. A partire dall'XI e XII secolo si notano forti tendenze militaristiche e l'ascesa della casta guerriera che toglie la supremazia al clero. I Messicani apportarono dei “perfezionamenti” all'arte della guerra in territorio maya introducendo l'uso dei propulsori di dardi, utilizzabili da una distanza ragguardevole e dotati di potere di penetrazione molto superiore a quello delle lance. I nomadi delle steppe nordiche avevano introdotto l'uso dell'arco e delle frecce sull'altopiano e quell'uso si diffuse ben presto fin nello Yucatan.
La guerra
Durante uno scontro, dopo aver scagliato un nugolo di giavellotti, i guerrieri s'impegnavano in furibondi corpo a corpo, tenendo in una mano la grande spada ornata di punte di selce, la macana, e nell'altra uno scudo rotondo o quadrato, ornato solitamente da simboli solari; quegli scudi erano spesso ricoperti di pelli di giaguaro odi cervo ed alcuni, formati con canne intrecciate, erano molto flessibili agli urti ravvicinati. I membri delle squadre militari dei giaguari, dei puma, delle aquile... erano riconoscibili dalle insegne e dagli elmi impennacchiati di piume che spesso formavano caschi a forma di maschere animali. Un secondo scudo dorsale, fisso, proteggeva dalle sorprese; inoltre il soldato indossava una giubba di cotone imbottita, indurita col sale e simile al sagum dei Romani e dei Galli. Vista la sua efficacia, anche gli Spagnoli lo adottarono.
Alcuni guerrieri portavano come braccialetti le mascelle di nemici uccisi. Al richiamo dei capi essi si sforzavano di riunirsi intorno alla bandiera, e il tumulto delle grida era coperto dal martellare dei grandi tamburi, dal risuonare delle conchiglie marine e delle trombe. La mancanza di unitomi, le figure deformate dei giubbetti rigonfi, le piume, i disegni dipinti sugli soldi, i mille colori intrecciati conferivano un aspetto fantastico a quei combattimenti, come ben vediamo nel dipinto rappresentante una mischia su un muro di Bonampak.
Nonostante la diffusa opinione secondo la quale il primo millennio fu poco bellicoso, non si può fare a meno di osservare che gli affreschi di Bonampak, le stele di Piedras Negras e le numerose figurine di argilla rappresentanti terribili guerrieri, in atteggiamento di sfida, non si riferiscono di certo a una vita bucolica e pacifica. Abbiamo constatato la mancanza di opere militari alla periferia della città; ma al tempo dell'arrivo degli Spagnoli non era più così; Cortés trovò molte città fortificate, nel Petén, cinte da fossati artificiali pieni di acqua, da palizzate, da steccati interrotti da feritoie, e da torrette di controllo. È comunque vero che, prima dell'arrivo dei Messicani, la scarsità dell'armamento dei Maya dell'età classica testimonia che essi non avevano usato la loro intelligenza per costruire armi diaboliche e micidiali. Si ricorderanno, del resto, quelle specie di bombe di tetra contenenti alveari di calabroni in uso nell'alto paese dei Maya. Così Jacques Soustelle nota in Les Quatre Soleils: “c'è un abisso tra quelle guerre eggere tra le città-Stato maya degli inizi - e il militarismo sistematico che ha contrassegnato con la sua impronta cruenta il Messico del secondo millennio... Così, la tecnica militare, rimasta allo stadio embrionale per un migliaio di anni, si è perfezionata nella seconda fase della civiltà autoctone”. Creata per necessità religiose, la guerra era divenuta fine a se stessa, come una specie di sport indispensabile. Ma vediamo ora di che natura era la religione dei Maya.
RELIGIONE E SCIENZA PRESSO I MAYA
Abbiamo accennato alla religione dei Maya nel ritratto che di essi abbiamo cercato di abbozzare; abbiamo detto quanto grande fosse la loro religiosità e quanto fosse complesso il loro pantheon, che rivela un popolo dedito alle attività agricole; abbiamo segnalato il carattere ambivalente di quelle divinità che potevano presentare un aspetto protettivo, contraddetto tuttavia da un aspetto indubbiamente demoniaco. Si tratta del fatto che i rapporti degli dei con gli Uomini erano legati ora all'aspetto positivo, ora all'aspetto negativo di uno stesso principio - la pioggia può far crescere le piante ma, se è eccessiva, le può far marcire - e che questa dualità si identifica in una coppia divina, oppure la si poteva ritrovare nei profili contraddittori di una stessa divinità. D'altra parte abbiamo detto che sappiamo molto poco a proposito della religione dei tempi classici e che quel poco riguarda pure aspetti che ci sfuggono. Inoltre, malgrado la costanza dei tratti generali, è probabile che la religione dei Maya non abbia cessato di evolversi nel lungo corso millenario del progresso culturale. Se si tiene conto della quantità prodigiosa dei templi e di piramidi che questo popolo ha innalzato, è chiaro che una fede intensa e profonda non ha mai cessato di esistere.
Notizie generali sul pantheon
Nel complesso, lo studio del pantheon maya può permetterci di fare qualche osservazione generale; Eric Thompson ne elenca sei principali: 1) In primo luogo osserva che le divinità della Pioggia e della Terra - legate all'attività vitale dell'agricoltura - presentano generalmente caratteristiche di ofidi odi rettili, cioè possiedono tratti propri dei serpenti o degli alligatori, spesso mescolati a tratti umani, dal che deriva il loro aspetto eminentemente fantastico. Del resto, le divinità antropomorfe (come il giovane dio del Mais che ha l'apparenza di un adolescente) restano eccezionali nelle immagini religiose maya. 2) Thompson nota inoltre il carattere di “quadruplicità” che presentano numerosi dei, la cui personalità si scinde in quattro individui, ciascuno corrispondente a uno dei
quattro punti cardinali. Proprio come per la Trinità del Cristianesimo, abbiamo alcuni dei in quattro persone che possono misticamente fondersi. È questo schema che associava le divinità ad elementi, corrispondenti ai quattro punti cardinali, fu frequente. 3) Poi Thompson sottolinea la dualità, il carattere ambivalente degli dei, già notato poco sopra: una divinità può rivestire un aspetto benefico e malefico insieme, quando non la si vede cambiare età ando bruscamente dalla giovinezza alla vecchiaia - o di sesso, da un documento all'altro. 4) Inoltre Thompson constata che non c'è impermeabilità tra l'universo celeste, terrestre e sotterraneo, e che una divinità può trovarsi in questi mondi diversi. 5) T. fa poi notare la grande importanza che i Maya attribuivano allo scorrere del tempo, al suo computo e alla sua divisione, e che sono moltissimi gli dei ad esso legati. 6) Infine, fa notare che se determinate divinità presentano un doppio carattere insolito o funzioni un poco in contraddizione con la loro natura, si tratta probabilmente di dei popolari che sono stati adottati, “recuperati” dalle classi dirigenti, che li hanno assimilati ad altri dei; da qui deriva il loro aspetto sincretico.
Le divinità maya si possono raggruppare in grandi famiglie celesti, terrestri, sotterranee, del tempo e delle cifre. I Maya contavano, pare, tredici divinità maggiori per il cielo, sette per la terra e nove per il mondo sotterraneo. Stranamente, il loro dio supremo, Hunab Ku, grande dio creatore del mondo e padre di tutte le divinità, occupò solo un posto di media importanza nel loro pantheon; lo si riconosce nelle sue rappresentazioni pittoriche, dai due ruscelletti che cadono dalle sue orbite, che si allontanano dalla sua figura e si animano progressivamente di pesci, fiori e di animali di ogni specie, e infine di esseri umani.
Tra le divinità celesti, va da sé che il Sole (Kinich Ahau, dio solare) e la Luna (Ixchel, dea lunare) detenevano un posto preponderante, e tutto un ciclo di leggende si ricollegava a loro. Così, prima di essere trasferiti nei cieli, i due astri vivevano come due coniugi sulla terra, ma la signora Luna non si era comportata affatto come una sposa fedele in seguito a un litigio, il suo sposo Sole la accecò, il che spiega perché il suo splendore è minore. D'altra parte i loro litigi sono ancora evidenti, come vediamo, quando i due astri s'incontrano nei giorni dell'eclisse.
L'arte della musica, della ceramica e della caccia si ponevano sotto la protezione del Sole, mentre la gravidanza, il parto, i raccolti e la tessitura dipendevano dalla Luna. Paradossalmente sulle illustrazioni dei codici noi vediamo quest'ultima rappresentata più spesso nelle sue manifestazioni ostili, negative e distruttici: essa era tra l'altro la dea delle inondazioni e appariva come una vegliarda in collera, circondata da simboli funebri, un serpente accoccolato sul suo cranio, ossa sparpagliate e attaccate alla sua sottana e artigli di rapace al posto delle unghie. La nascita, la morte... due tratti ambivalenti certo, ma molto cari al pensiero indiano.
Kinich Ahau, “Viso di Sole”, suo sposo, si trovava associato e talvolta persino confuso con Itzamna, il Cielo propriamente detto, colui che “che sfavilla”, perché forse esso non era altro che la manifestazione diurna di Itzamna, in opposizione alla sua immagine notturna; a giudicare dalla frequenza delle sue rappresentazioni, quest'ultimo fu una divinità prevalente e benefica. Itzmna appariva spesso come un mostro bicefalo, una specie di strano alligatore o di lucertola, con una testa per ciascuna estremità, a simboleggiare la volta celeste. D'altra parte, in yucateco “Itzam” significa lucertola; una delle due teste di questo dragone celeste è viva, e rappresenta senza dubbio il levante, là dove nascono gli astri, mentre la seconda testa ha le sembianze della morte e suggerisce probabilmente l'ovest, dove scompaiono le stelle e il Sole. Era anche rappresentato con i tratti di un vegliardo dalle guance infossate e rugose, talvolta barbuto, con una specie di dente di pesce cane, unico, che spuntava dalla mascella superiore, e un bordino oftalmico, come se si trattasse di occhiali, avvolto tutto attorno agli occhi in spire. Spesso la sua testa sbuca singolarmente dalla gola del dragone celeste. Questo caimano ossessionava i Maya, perché è accertato che essi immaginavano la terra come un disco circolare posto su di un alligatore - oppure quattro: uno per ciascun punto cardinale - che galleggiava sulle acque sotterranee; inoltre quel disco consisteva di nove mondi sotterranei diversi, uno sopra l'altro, ciascuno dominato da un temibile e spaventoso signore della Notte. D'altra parte quattro geni protettori, i Bacab, sostenevano il cielo; il genio protettore che stava a est era rosso, quello che stava a nord era bianco, nero quello che stava a ovest (la notte), giallo quello che stava a sud. Erano incaricati della missione di tagliare il vento con lame di ossidiana. I Maya cristianizzati li assimileranno alla Maddalena e ai santi Domenico, Giacomo e
Gabriele!
Ma ritorniamo a Itzamna: come moltissimi altri dei, egli si “quadruplicava” in quattro personalità diverse, una per ciascun punto cardinale, con il colore appropriato come attributo. Nell'iconografia maya questi mostri ritornano con una regolarità costante. Si può assimilarli ai Chaci, dei della pioggia e della vegetazione, ben riconoscibili con il loro naso a forma di proboscide simile a quella del formichiere, gli occhi a mandorla e le loro zanne.
I Chaci, sui codici, sono riconoscibili per i loro tratti nettamente ofidici infatti spesso sono associati al serpente; li vediamo far piovere, rovesciando e facendo cadere al suolo delle zucche piene d'acqua. Questi Chaci sono dunque dei della pioggia, del vento e pertanto della vegetazione, della fertilità e dell'agricoltura.
Fra i tredici dei celesti, contiamo pure quello del pianeta Venere, la cui importanza fu di poco inferiore nello spirito dei Maya; inoltre ricordiamo Xaman Ek, il dio della Stella Polare, dal viso scimmiesco e rincagnato, macchiato di nero. Era il patrono protettore dei mercanti che gli facevano regolarmente delle offerte e delle fumigazioni di coppale nei piccoli luoghi di preghiera sparsi ai bordi delle strade, secondo il suo volere.
Le divinità terrestri
Gli astri si sono riuniti in cielo e fanno piovere sulla terra; i raccolti crescono, il mais matura. Prima di dissodare la sua milpa provvisoria, di faticare a mano con la zappa, di seminare di raccogliere... il contadino maya digiunava, praticava la continenza - ad esempio, per tredici giorni per la semina - e non mancava di portare offerte e di bruciare coppale ai piedi delle divinità della terra. Il fatto di personificare il mais come un essere vivente e deificarlo può sorprendere uno spirito occidentale; ciò fu fondamentale nel pensiero maya e, allo stesso modo,
per cui noi ci riteniamo nati dal fango, i Maya si ritenevano nati dal mais. Anche il dio del mais occupava un posto preponderante nel culto e nel cuore dei contadini in maniera particolare. Del resto si tratta del solo dio che abbia forme umane, giovanili e amabili oltre ogni dire: veniva rappresentato sotto la sembianza di un giovane uomo - la sua testa serviva, tra l'altro, come simbolo del numero otto con i capelli lunghi, senza dubbio per richiamare le barbe della pannocchia, e da essi scaturivano precisamente delle spighe di quel venerato mais.
In epoche terminali, venne chiamato Yum Kax, il “Signore delle foreste”, e gli vennero attribuiti tutti i caratteri di una divinità agraria. Dio della prosperità e dell'abbondanza, il dio del mais appariva spesso associato a simboli di morte, perché non si può creare la vita senza la morte: affinché il seme dia germoglio, bisogna sotterrarlo e lasciarlo “lavorare” come un cadavere. In questi casi il dio viene raffigurato sotto forma di decapitato, o con una testa mozzata a tracolla sul petto, per ricordare che il seme muore affinché possa nascere la giovane pianta. I fagioli ebbero ugualmente i loro dei ma molto meno valutati di quello del mais. Si possono ricollegare agli dei tellurici, coloro che risiedevano sulle sommità delle montagne - in relazione con le nuvole e la pioggia - alla confluenza dei fiumi, alle sorgenti, oppure nelle grotte. Il dio Giaguaro partecipava a due universi: sotto il suo aspetto visibile ed esteriore, incarnava le forze della terra; sotto il suo aspetto nascosto, sotterrato nella sua tana, incarnava le forze del sottosuolo.
Le divinità sotterranee
Nove Signori della notte, chiamati Nove Dei (Bolontku) presiedevano ai diversi mondi sotterranei sovrapposti: sono stati riconosciuti i loro glifi che, sfortunatamente, non si è in grado di leggere. È questo il dominio della morte e dell'aldilà, e noi sappiamo quanto il popolo messicano ne sia ossessionato. I simboli di morte come i crani scarnificati e le ossa incrociate, ritornano sovente nell'iconografia maya. Sotto forma di uno scheletro adornato di sonagli, Ah Puch è il dio della morte. Alcuni animali, di cattivo augurio lo accompagnano: la
civetta, il cane-guida dei traati e che veniva seppellito insieme al defunto il “demone delle nuvole”, l'uccello moan, che è una specie di sparviero. Ed è probabile che Ek Chuah, il dio della guerra e dei sacrifici, abbondantemente raffigurato sui codici, non sia che una forma secondaria della Morte. Lo si deduce dalla sua figura nera, dalle sue labbra spesse e cadenti, e qualche volta dalla sua coda di scorpione. Non diversamente dalle altre, anche la sua personalità è idealizzata e ambivalente: ora lo si vede portare un involto sul dorso, e infatti è un dio tenuto in considerazione dai viaggiatori e dai venditori ambulanti, i quali frequentemente vengono considerati come spioni - e in questo caso egli è protettore del cacao - ora appare, brandendo una lancia, come il dio delle battaglie e dei sacrifici di sangue.
Nel numero degli dei della Morte e dei mondi infernali, bisogna includere Ixtab, la dea del suicidio, raffigurata sul codice mentre è sospesa nel cielo per mezzo di una corda annodata al collo. Suicidi, sacrificati, soldati uccisi in combattimento, donne morte di parto...
Tutti quanti avevano diritto ad andare direttamente nel paradiso maya, un luogo idilliaco, un eden dove sono piantati i ceiba, gli alberi sacri: quegli immensi alberi (ceiba pentadra) contenenti nei loro semi a capsula la lanugine delle kapok - da cui parimenti viene il nome di albero del capo - dagli usi molteplici. Le leggende maya ci informano che un ceiba gigantesco attraversava tutto l'universo, dai mondi sotterranei ai mondi celesti.
I malvagi alla loro morte si recavano nelle Mitnal, il mondo inferiore dove faceva un freddo insopportabile. Aggiungiamo che nel pensiero maya la morte, le malattie, le tare non avevano affatto un carattere accidentale o naturale, ma erano il giusto castigo delle colpe ate ed erano mandate dagli dei arrabbiati. Le divinità del tempo e dei numeri ricoprivano un ruolo non indifferente, perché i maya furono stranamente ossessionati dallo scorrere del tempo, dal suo ritmo ciclico, dal suo carattere ripetitivo e capriccioso. Apionati dalla conoscenza dell'eternità, i loro sacerdoti-astronomi fecero calcoli che arrivavano a migliaia di anni, anzi a milioni di anni.
Tutti i periodi del tempo - i giorni, i mesi di venti giorni, gli anni, i “secoli” di cinquantadue anni - erano deificati e veniva reso il culto alle stele che si erigevano in date regolari, e contemporaneamente alle cifre che permettevano di realizzare questi calcoli stupefacenti.
In questa nebulosa divinità, bisogna aggiungere quelle che erano connesse a numerose professioni, come per esempio tutti i colpi d'artigianato, compresi i tatuatori e gli allevatori d'api. - E persino le lame di ossidiana e di selce avevano un dio patrono!
Infine, durante la rinascenza dei secoli XI e XII, bisogna notare che è preponderante il culto del Serpente piumato, Quetezalcoatl, tradotto in Kukulkan dai Maya. Egli fu un personaggio storico, capo religioso e guerriero. Chichèn Itzà fu naturalmente il centro dove il culto del Serpente piumato incontrò il più grande favore. A giocato un ruolo capitale come simbolo di concezioni nuove, e noi lo vediamo raffigurato su di un disco d'oro lavorato a sbalzo, ritrovato nella famosa cenote dei sacrifici come un favoloso serpente, che si erge sopra una vittima allungata sul dorso, mentre il sacerdote sacrificatore si appresta a strapparle il cuore. Ma se Kukulkan fu il dio preponderante per tutto il tempo che gli Itzà furono al potere, il giorno in cui essi furono cacciati, vide la sua disgrazia immediata e l'uso della sua immagine scomparve in brevissimo tempo, e gli antichi dei Maya ritornarono in forza.
Il clero
I carattere teocratico del governo in territorio maya conferiva al clero, per definizione, il posto d'onore. E dato che l'elemento sacro era onnipresente, non esisteva un potere civile come noi lo intendiamo. L'autorità religiosa e quella tribale o cittadina si trovavano strettamente legate insieme. Inoltre la conoscenza e le scienze erano di dominio religioso, ed erano i sacerdoti a dover trasmettere
le nozioni: la scrittura, il calendario, l'astrologia, la genealogia, la storia, la mitologia, la medicina, la divinazione e tutto il rituale connesso, le cerimonie obbligatorie da compiere per non inimicarsi il dio. Il clero aveva prima di tutto il compito di rendere agli dei il culto al quale essi avevano diritto e in primo luogo di nutrirli.
Sembra che il clero provenisse da una classe privilegiata ereditaria, anche se era necessario superare degli esami abilitanti per aver diritto di sedere nei diversi consigli. Certamente il Grande-capo veniva prima del Grande-sacerdote, ma nulla prova che essi non fossero provenienti dalla stessa classe. Ci viene data la prova di quest'assenza di separazione tra le attività sacerdotali e quelle civili nella traduzione che i Maya diedero della frase “halac uinic”, definizione del loro grande capo: governatore-vescovo! Il capo supremo era dunque allo stesso tempo un capo religioso. Forse possiamo supporre come presso i cakchiqueli del Guatemala, la presenza di un gran sacerdote incaricato specialmente del rituale e delle cerimonie - sacrifici inclusi! - al fianco di un secondo sacerdote, meno impegnato nelle questioni quotidiane, staccato dagli affari diretti della comunità, che si dedicava esclusivamente alle speculazioni astrologiche, erudite e culturali, come la redazione dei codici, il calcolo per il calendario e per almanacchi, il programma delle stele, oppure i progetti dei templi da costruire. Quest'autorità erudita, responsabile dell'insegnamento, cioè della conservazione e della trasmissione di tutte le conoscenze, veniva dopo quella dell'halac uinic, che deteneva tutto il potere secolare oltre probabilmente al potere religioso.
Gli Ah Kin, “Quelli del sole”, erano i sacerdoti incaricati di speculazioni più intellettuali che pratiche, per quanto essi fossero ancora tra gli officianti dei sacrifici; facevano profezie basandosi sui loro almanacchi e sui loro diversi libri geroglifici. Veri e proprio visionari i Chilami, o indovini, profetizzavano anch'essi, interrogando i loro calendari divinatori oppure entrando in stato di incoscienza a forza di danze e di percussioni lancinanti, di rapimenti estatici forse aiutati dall'uso di droghe inebrianti a base di alcaloidi, come la mescalina. Tuttavia, il peyote e la datura, in uso costante sulla Pianura centrale messicana, non si incontrano in zona maya.
Prima di consultare i suoi scritti riportati su libretti piegati a fisarmonica, il sacerdote li aspergeva con acqua chiamata zuhuy, considerata pura, e proveniente da fonti o da pozzi che alle donne era proibito avvicinare ed usare:
Un'altra categoria di sacerdoti, quella dei Nacomi, aveva particolari legami con la morte ed era particolarmente ridotta; era a questi sacerdoti che toccava il compito di strappare il cuore delle vittime immolate sulla pietra dell'altare. Appena estratto dal petto, il cuore veniva consegnato ad Ah Kin, di cui i Nacomi erano gli assistenti. Inoltre, quattro Chaci - molto spesso si trattava di vecchi, che portavano lo stesso nome del dio pioggia, - prestavano assistenza agli officianti, tenendo le mani e i piedi delle vittime. Erano anche preposti al compito di accendere il fuoco nel corso di determinati riti.
Nelle preoccupazioni metafisiche, la divinazione del futuro, il ritmo del tempo e il suo ruolo negli avvenimenti (gli dei che governavano e “proteggevano” i giorni 4, 7, 9,13 erano favorevoli, mentre quelli responsabili dei giorni 2, 3, 5 e 10 erano sfavorevoli) giocavano un ruolo considerevole. La spiegazione di ogni cosa: un cattivo raccolto, una malattia, un morso doloroso, la perdita di un oggetto, lo sfavore di un vicino o di un capo, era necessariamente scritta nei libri che ne davano la chiave. La condotta da tenersi, le decisioni da prendere dipendevano da mille segni che bisognava saper decifrare: si osservava il modo in cui moriva un tacchino sacrificato, come si contraeva un polpaccio, o la disposizione dei grani di mais e di fagiolo. Ancora oggi, molti villaggi hanno conservato il loro sciamano, o sacerdote del calendario, che interpreta i presagi e i segni.
Come si immaginava che la malattia fosse la conseguenza diretta, il giusto prezzo da pagare per una colpa ata, cosi si supponeva egualmente che la confessione purificasse da quella colpa. In mancanza di un sacerdote si poteva scaricare la propria coscienza con un vicino.
Anche la confessione riveste un importante ruolo nella condotta dei Maya. Ma la
prima delle attività dei sacerdoti era quella di partecipare alle cerimonie, alle danze, ai sacrifici e di piegarsi quindi ad un rituale meticoloso.
Le offerte
Non c'era caccia collettiva, dissodamento di milpa, semina, raccolto, costruzione di templi o di case, cerimonia, rito di aggio o matrimonio... senza consultazione preliminare dei sacerdoti che decidevano i giorni favorevoli, e senza una purificazione con digiuno e continenza. Non si prende il sentiero di guerra se dopo che le divinità hanno fissato la data propizia. Usualmente i periodi di continenza duravano una settimana maya, cioè tredici giorni. In mille e una occasione, il fedele faceva offerte e sacrifici agli dei affinché essi esaudissero la sua preghiera, sempre ragionevole. Cosa offriva agli dei? Molto frequentemente alimenti, cibi preparati, gallette, pozole - una specie di polenta grani di mais, zucca o fagioli, un pesce una tartaruga, un tacchino o, più raramente, un cervo; spesso offriva del balche e anche dei fiori, sicuramente del coppale. Per magia imitativa, poiché il fumo evoca le nuvole, si pensava che le fumigazioni provocassero la venuta della pioggia.
I Maya praticavano un altro tipo di offerta assai singolare, quella del loro proprio sangue, che ottenevano ferendosi in diverse maniere, per mezzo di spine, di schegge di selce, di un aculeo difensivo di razza pastenula, che si infiggevano nella lingua, nei lobi delle orecchie, nel setto nasale, nelle guance, nelle membra e persino nel pene.
Talvolta si avano un'intera cordicella tutta guarnita di moltissime spine d'alce attraverso la lingua, come possiamo vedere in certi rilievi, in particolar modo a Yaxchilan. Inoltre, numerosi aculei di razza pastenula sono stati trovati nelle tombe. Una volta fatta la trafittura, si lasciava colare il sangue su fogli o strisce di carta di corteccia, disposte in un cestello che in seguito veniva offerto agli dei.
Allo stesso tempo, era una legge fondata sulla consuetudine quella di imbrattare di quel sangue gli idoli dei templi.
I più fortunati offrivano piume di quetzal, pezzetti di giada, o “eccentrici”, lame di ossidiana o di selce tagliate in forme originali e complesse, con un virtuosismo impressionante. Senza dubbio il sacrificio di sangue rappresentava l'offerta suprema. Qui ci si conformava al dogma che affermava che non si poteva assicurare e trattenere la vita, se non donando la vita... cioè uccidendo. Gli dei reclamavano sangue per acquisire la forza necessaria al conseguimento del loro compito, e il compito di procurarglielo incombeva naturalmente sugli uomini che erano stati creati a questo fine, come ci insegna il Popol-vuh.
Alla quarta Creazione, gli dei giudicarono gli uomini capaci di rendere loro il culto, nutrendoli. Questo sacrificio di sangue poteva essere quello di un animale - un uccello, un tacchino, un daino... - ma contemporaneamente poteva anche essere quello di un essere umano di un bambino come di un adulto, e dei due sessi indifferentemente.
I sacrifici umani
Se i sacrifici umani furono relativamente diffusi e frequenti a partire dal periodo messicano-tolteco, abbiamo detto che molto probabilmente furono eccezionali durante il periodo classico. Allora senza dubbio non vi si faceva ricorso che per casi critici, in occasione di grandi calamità o cataclismi, come un'aridità prolungata, un'epidemia mortale, oppure un uragano devastatore. Sembra che si sacrificassero ugualmente alcune vite in occasione di grandi inaugurazioni, di tempi piramidi per esempio; si sono ritrovati dietro a dei muri e sotto al suolo di certi templi, in particolare a Tikal, ossa e crani contenuti in vasi di terracotta. Si decapitavano dunque le vittime di queste oblazioni di sangue, ma forse quei resti macabri sono molto semplicemente quelli dei sacerdoti o dei nobili la cui
condizione li autorizzava a beneficare dell'onore di essere seppelliti nella struttura del tempio, come fu il caso della nostra cattedrale all'epoca feudale. Di fatto niente prova che quelle fossero vittime sacrificali, essendo esistita presso i Maya l'usanza di scarnificare e di smembrare i morti, tra molte altre usanze non meno sorprendenti.
Come si svolgeva un simile sacrificio? Noi ne abbiamo una descrizione attraverso la testimonianza che raccolse de Landa tra i notabili del NordYucatan. Alle future vittime, spesso rassegnate perché si faceva credere loro che fosse un insigne onore essere sacrificati e di conseguenza essere inviati con certezza nel paradiso celeste, si faceva bere innanzitutto una quantità sufficiente di balche che li lasciava completamente storditi. Molto spesso si trattava di schiavi - e la comunità si era quotata per comperarli - oppure di prigionieri di guerra, oppure ancora di bambini e di giovani, perché si era sensibili alla qualità di purezza che valorizzava l'oblazione. “Alcuni per devozione offrivano i loro bambini piccoli”, ha notato de Landa. Tutte le disgrazie fisiche o le malformazioni vi avrebbero squalificato... cioè salvato!
Gli officianti e la loro offerta viva si arrampicavano sulla sommità della piramide attraverso gradini incredibilmente stretti, oppure si recavano nel cortile di un tempio basso, e i quattro Chaci distendevano la vittima sul dorso, posta ad arco e con il torace bombato sulla pietra convessa del sacrificio. La si era poco prima denudata e dipinta di blu, il colore sacrificale, e la si era pettinata in modo particolare. I quattro Chaci la tenevano fortemente per le estremità delle membra tese; loro stessi, come il suppliziato e la pietra sacrificale, erano stati tinteggiati di blu. Nuvole di fumo uscivano dagli incensori avviluppando la scena, mentre un sacerdote, armato di un aspersorio fatto di spire di serpenti a sonagli, aspergeva di balche, l'idromele degli dei, il luogo e la vittima in particolare.
Con un pugnale sacrificale di selce oppure di ossidiana, detto la “mano di dio”, il sacerdote nacom vibrava un colpo alla base sinistra della gabbia toracica, strappava immediatamente il cuore e lo presentava al sacerdote che, a sua volta, lo tendeva al di sopra della sua testa in direzione dell'occidente, là dove l'astro
del sole muore ogni sera. Il corpo del sacrificato veniva precipitato giù dai gradini, dove alcuni sacerdoti lo scorticavano e lo decapitavano. Due stele di Piedras Negras rappresentavano una pianta di mais che cresce dal torso spaccato dei sacrificati, il che mostra che una tale oblazione era legata ad un culto agrario della fertilità.
Poi veniva il turno delle altre vittime, se ce n'erano, mentre continuavano a battere i grandi tamburi verticali, coprendo il frastuono delle conche, delle trombe, delle voci stridule, e dei carapaci delle tartarughe battute con i rami delle corna dei cervi. Ai piedi della piramide, immedesimati nel loro ruolo, i danzatori nascosti sotto le loro grandi maschere si identificavano con gli, dei, gli animali patroni dei loro clan, oppure con i mostri celesti. I sacerdoti che incarnavano Venere si avvicinavano allora all'idolo, ciascuno con i recipiente contenente un cuore umano. Nel mezzo di una spessa nuvola di coppale, il grande sacerdote prendeva ad una ad una quelle viscere sanguinolente e le ava sulla superficie della stele o della statua da onorare, macchiandola di sangue. Prima di ritirarsi, si deponevano intorno all'idolo le offerte, il nutrimento, i monili e le piume di quetzal.
Si giungeva al punto in cui gli officianti ed i fedeli si lasciavano andare a sacrifici su se stessi, come abbiamo già accennato, con spine, punte di ossidiana, ossa spuntate o aculei di razza. Essi imbevevano fogli di scorza, ma anche bacchette, del sangue delle loro piaghe e li offrivano alle divinità del tempio; in tutte le religioni il sangue ha un significato mistico. Avveniva che un chilam, dopo essersi svestito, si rivestisse della pelle della vittima; per eseguire una danza particolare. Il corpo del suppliziato, se era stato un uomo di merito e valoroso nella sua vita, poteVa essere diviso e mangiato, così che ci si potesse appropriare delle sue qualità, ma anche di quelle della divinità nella quale si era incarnato al momento della morte. Il corpo veniva dato per primo ai capi, la testa, le mani ed i piedi andavano ai sacerdoti e ai loro assistenti, mentre il guerriero che eventualmente l'aveva fatTo prigioniero, riceveva qualche osso, per esempio le mandibole, che egli si ava sulle braccia come bracciali, e che mostrava con fierezza. Andava da sé che una simile festa terminasse con un banchetto e con spaventose bevute. Ma riteniamo che questi sacrificati venissero considerati ormai come santi e che il loro ricordo venisse circondato del più grande rispetto.
Le esecuzioni alla “San Sebastiano”
Sempre nella sua “Relazione sulle cose dello Yucatan”, Diego de Landa racconta un altro tipo di sacrificio umano, con le frecce questa volta. La vittima veniva legata nuda, dipinta di blu, tra due pali, le braccia in croce, un'acconciatura conica sulla testa. Poco prima aveva dovuto partecipare ad una danza sacra, in mezzo a uomini mascherati e armati di lance e di archi. Poi il sacerdote rivestito di abiti impressionanti da cerimonia, si avvicinava alla vittima, tra i ceppi e la colpiva con un lancio di freccia al sesso, sia che si trattasse di uomo che di donna; raccoglieva il sangue della ferita, con cui andava subito a ungere l'idolo festeggiato in quella circostanza. In seguito i danzatori facevano un circolo intorno alla vittima e ciascuno scoccava verso di essa una freccia nella regione del cuore che era stata precedentemente segnata con un marchio bianco sul petto. “In questo modo”, scrive de Landa, “trasformavano il suo petto in qualcosa di simile ad un riccio di frecce”.
Lo stesso de Landa riferisce un terzo tipo di sacrificio, “disgustoso e penoso”, che aveva luogo nei templi: “Messi in fila, i fedeli si facevano diversi fori nel membro virile, e vi avano attraverso tutta la quantità di filo che potevano, restando così tutti attaccati ed infilati. Essi ungevano il demone con il sangue di tutte quelle parti e colui che lo faceva in modo maggiore veniva considerato il più valente”.
Il pozzo per i sacrifici di Chichén Itzà
I Maya praticarono anche un altro tipo di sacrificio umano, quello dell'annegamento; il pozzo sacro di Chichén Itzà ne fu il teatro principale ed attirò a sé, nel corso dei secoli, folle di pellegrini venuti a gettarvi le loro offerte. Là, in quel grande pozzo “dalle pareti scoscese, a picco, largo circa 60 metri, e profondo circa una quarantina di metri, pieno per metà di acqua, i pellegrini accorsi da tutte le parti gettavano nell'acqua stranamente calma e scura ogni tipo di offerta, pallottole di coppale, gioielli di giada e anche esseri umani, in onore di Chac, il dio della Pioggia. Si sperava che lui mettesse fine a qualche penosa siccità, a qualche carestia spossante o ad altre gravi calamità.
Per ottenere il suo oracolo, e dunque per fini divinatori, e dopo che gli officianti avevano osservato una continenza rigorosissime (di 60 giorni), alcune donne, preferibilmente di elevata condizione sociale, sul far dell'alba venivano gettate nel pozzo. Esse dovevano implorare dal dio un'annata favorevole e benefica per il loro sposo o il loro padrone. Se a mezzogiorno galleggiavano ancora, veniva gettata loro una corda; e venivano tratte in superficie, spossate, scosse; poi lasciavano che riprendessero le forze vicino al fuoco, in mezzo a nuvole di coppale. Allora esse cominciavano a raccontare che “laggiù c'erano molte persone della loro gente che le avevano accolte bene. Quando cercavano di alzare la testa o quando la tuffavano nell'acqua per guardarle, ricevevano forti colpi in testa e quando guardavano verso il fondo, vedevano gli abissi e gli abitanti di quegli abissi rispondevano alle loro domande relative all'annata buona o cattiva riservata ai loro padroni”. In seguito le donne che sopravvivevano
venivano venerate come creature prescelte dagli dei.
Dobbiamo il racconto di questa usanza a Diego Sarmiento de Figuerosa, alcade (sindaco) di Madrid, che visitò lo Yucatan nel XVI secolo, e che ci conferma le testimonianze raccolte da de Landa. Ma soprattutto gli uomini e i bambini venivano gettati nel pozzo, sempre nello stesso modo, da un piccolo tempio le cui rovine sono ancora visibili all'imboccatura del pozzo. L'oracolo divino, ottenuto per mezzo dei sopravvissuti, si riferiva alle precipitazioni dell'anno successivo, e diceva se avrebbero avuto un'intensità sufficiente o insufficiente. Uno di quei sopravvissuti, favorito dagli dei, diventerà capo di Mayapan: si tratta del famoso Ceel-Cauich. È certo che la sua avventura nel pozzo sacro dovette favorire la sua ascesa politica.
Agli inizi del nostro secolo, Edward Herbert Thompson, console degli Stati Uniti nello Yucatan, si apionò moltissimo alla località di Chichén Itzà e acquistò la tenuta nella quale si trovavano le rovine; un cinquantina di anni prima, John L. Steohen aveva fatto la stessa cosa a Copan e aveva ottenuto dall'Indio Don José Maria, per la somma sbalorditiva di cinquanta dollari, i 2.400 ettari di giungla umida che nascondevano le rovine della città dalle 38 stele di notevole valore.
Thompson sarebbe vissuto trent'anni nella sua tenuta di Chichén Itzà senza che il suo entusiasmo diminuisse minimamente: tuttavia, gli intrighi, l'incendio dei suoi beni e alcune lotte per il potere lo costrinsero ad andarsene. Ma il suo interesse per il pozzo non venne mai meno, anche perché la tradizione affermava che un favoloso tesoro si trovava in fondo alle acque. Tra il 1905 e il 1908 fece effettuare dei dragaggi e assunse persino due pescatori di spugne greci per esplorare il fondo dopo aver tolto quasi tre metri di melma. Dopo due giorni di totale insuccesso, mentre avvenivano i dragaggi, vennero finalmente riportate alla luce due palline gialle di resina di coppale (pom) seguite, come racconta Thompson - l'americano Edward - da non confondere con l'omonimo inglese, Eric - da “una grande quantità di figurine simboliche incise sulla giada o sbalzate su dischi d'oro e di rame, blocchi di coppale e noduli di incenso di resina... un certo numero di hul ches, o propulsori di dardi, “e numerose armi da lancio con
punte abilmente lavorate di selce, di calcite o di ossidiana...”.
Egli ritrovò anche decine di camle di rame che ricordano i sonagli attaccati ai vestiti del dio della Morte Ah Puch, figurine, pendenti, braccialetti, alcune collane, perle di smeraldo o di giadeite incise, orecchini, asce, dischi di rame o di oro con incise o sbalzate delle scene, alcuni coltelli cerimoniali con manici di legno finemente lavorati, conchiglie finemente incise, coppe intagliate nello stesso legno dei propulsori, idoli e infine alcune suole di sandalo di rame.
Furono anche estratte dal fondo di quel pozzo con circa quindici metri di acqua moltissime ossa umane che confermavano la tradizione corrente; dallo studio di quelle ossa si poté dedurre la presenza di almeno 21 bambini, trai 18 mesi e i 12 anni, di 8 donne e di 13 uomini, ossia di una quarantina di individui; è probabile che però i lattanti le cui ossa troppo tenere non hanno resistito, fossero molto più numerosi se non addirittura la maggior parte.
Inoltre si osserva che la quasi totalità degli oggetti gettati nel pozzo erano stati in precedenza ed intenzionalmente rotti, “uccisi”, come del resto si usa in molti paesi, in modo che con quel “rituale di morte”, lo spirito dell'oggetto offerto risultasse definitivamente neutralizzato.
Nel corso degli anni Venti e Trenta, alcuni sconvolgimenti politici agitarono lo Yucatan e in seguito a diversi avvenimenti, la fattoria (biblioteca e depositi compresi) venne incendiata, sicché lavoro e tesori vennero annientati. Per fortuna numerosi pezzi di valore, valore archeologico, si intende, erano stati inviati, negli Stati Uniti, a Cambridge (Massachusetts), al Peabody Museum of Archeology and Ethnology dell'Università di Harvard, che aveva partecipato finanziariamente alle operazioni. In virtù di ciò il governo messicano pretese 500.000 dollari da Thompson, rimasto letteralmente pietrificato; la sua proprietà venne confiscata e il suo soggiorno nel Messico ebbe fine.
L'esame degli oggetti rivelò che alcuni provenivano da molto lontano: da Oaxaca, dal Messico, dall'Honduras, dal Guatemala e addirittura dalla Columbia e dal Panama! Inoltre alcuni oggetti di giada erano datati; risale al 690 una perla probabilmente proveniente da Palenque, in base allo stile, ed al 706 una piccola (8,5 cm) testa maschile di giadeite, proveniente da Piedras Negras e che era stata rotta intenzionalmente. Quei due oggetti preziosi erano stati gettati nel pozzo al momento della fabbricazione? Oppure erano stati conservati per secoli, come gioielli preziosi da privati? Non si sa, numerosi oggetti in verità si riferiscono all'epoca tolteco-Itzà dell'XI e XII secolo, ma nulla impedisce di pensare che quel luogo di pellegrinaggio venisse frequentato fin dai primi secoli.
Nel 1960-1961, uno gruppo di studio americano-messicano ha ripreso i lavori con uomini rana e materiale assai moderno, e in particolare con un apparecchio aspirante a pressione d'aria, che portò al recupero di offerte, frammenti di tessuto e anche di bambole moderne vestite di seta artificiale. Ciò sta a dimostrale che il pozzo non ha perduto la sua attrattiva e le sue virtù o comunque il suo potere di affascinare gli spiriti semplici.
Si può parlare di crudeltà?
Con la venuta delle popolazioni dell'Altopiano centrale e della costa del Golfo, i sacrifici si moltiplicarono e provocarono una ripresa di attività guerriere necessarie a permettere il ricambio continuo dei prigionieri: La guerra sacra tra città ormai era diventata un'istituzione. A Chichén Itzà le teste dei sacrificati erano esposte non lontano dal pozzo sacro, sopra un lungo podio (m 60 x 12) isolato sulla grande piazza cerimoniale, il che lascia facilmente capire che i sacrifici dovevano compiersi proprio su di esso. Il Tzompantli, un'opera muraria o altare sul quale si ammucchiavano i crani, era fino a quel momento sconosciuto in territorio maya. È ornato da un fregio su quattro registri di crani macabri, visti di profilo e infilzati su pioli. Ad alcuni i, nel tempio detto delle Aquile, non vediamo quel rapace, simbolo solare certamente, ma anche simbolo di una casta militare, ripetuto spesso in basso rilievo, e alternato con giaguari, simboli stellari e anche protettori di un ordine guerriero, tutti intenti a
divorare cuori umani. Il kukulkan, divenuto una divinità astrale, Venere precisamente e anche il culto solare e quello delle forze notturne e diurne.
Questa cruenta usanza di sacrificare esseri umani, poco consona in un primo momento al temperamento maya, durò per altro dopo la Conquista, ma, a quanto pare, in modo episodico. Abbiamo visto che all'epoca dell'arrivo degli Spagnoli quei sacrifici avvennero ancora; una delle prime misure degli invasori fu quella di vietarli, ma è impossibile sradicare un'usanza millenaria in un batter d'occhio e si conoscono molti esempi di sacrifici clandestini, di cui abbiamo testimonianza negli atti dei processi del XVI secolo. Nel 1562, per esempio, sono ricordati due casi, quello di un ragazzo giovane che venne crocifisso - è il caso di notare l'impiego di nuovi mezzi più consoni al nuovo credo! - in un cimitero e al quale venne strappato il cuore allo scopo di offrirlo ai demoni e agli dei, e un altro caso, che venne raccontato da un giovane maestro maya, convertito ma che continuava nonostante ciò ad adorare una sessantina di idoli che aveva ricevuto in eredità da suo padre e che teneva nascosti in una grotta. Convocato una sera da cacicco di Yaxcaba (il suo villaggio), lo trovò in compagnia di un giovane ragazzo di Tekax, una località in provincia di Mani, che aveva le mani legate dietro la schiena; il ragazzetto era venuto a far visita ad alcuni parenti. Volente o nolente, il maestro fu costretto a partecipare al crudele sacrificio. Alcuni uomini del villaggio disseppellirono in un campo di mais una dozzina di idoli nascosti e li allinearono nella chiesa sopra alcune foglie di copo, una specie di fico sacro; davanti, sopra una stuoia, essi deposero un coltello di selce con il manico nascosto da un telo bianco.
Ma lasciamo che sia Eric Thompson a narrarci il seguito del racconto: “essi presero il ragazzo e lo gettarono sulla stuoia. I preti deposero i ceri che tenevano in mano e quattro di essi, afferrato il ragazzo per le gambe e per le braccia lo tennero sdraiato. Pedro Euan, il capo di Yaxcaba, prese il coltello di selce, praticò un taglio a sinistra del cuore, lo prese in mano e tagliò le arterie col suo coltello. Consegnò il cuore al prete Gaspar Chim, il quale praticò un taglio a forma di croce alla sua estremità e poi lo alzò sopra la propria testa. Poi, ne staccò una parte e la mise in bocca del più grande degli idoli, quello di Itzamna. Poi, presero il corpo del ragazzo, il suo cuore, il suo sangue, che avevano raccolto in una grande zucca, gli idoli e tornarono nella casa del cacicco”. Si sarà
notata la fusione, la confusione fra i due culti, l'antico e il cristiano, con la scelta della chiesa come luogo del sacrificio e ilo taglio a forma di croce sul Cuore...
Abbiamo visto che proprio nell'anno che precedette la caduta di Tayasal, nel 1696, due Domenicani, Cristobal de Prada e Jacinto de Vargas subirono una cardiectomia, cioè fu loro strappato il cuore. Due secoli più tardi, nel 1868, alcuni abitanti di un villaggio chamula del Chiapas si misero in testa di possedere un loro proprio Cristo a immagine di quello dei ladinos (Spagnoli) che “avevano scelto nell'antichità uno di loro per inchiodarlo alla croce e chiamarlo loro signore”(!) A loro volta, essi crocifissero un ragazzo di una decina di anni in mezzo a dense nuvole di incenso e in mezzo all'estrema esultanza degli abitanti del villaggio e dei numerosi visitatori accorsi per vedere quella brutale cerimonia.
Quelle cardiectomie, quei sacrifici cruenti ci fanno venire la nausea, certo, ma non si può negare che essi venivano compiuti per motivi superiori, dai quali era escluso ogni sadismo, cioè il desiderio di fare soffrire. Al contrario, noi osserviamo che la vittima era circondata da grande rispetto e che dopo la morte era addirittura considerata santa; c'era quella barbarie, senza dubbio, ma mai odio! Jacques Soustelle ha già fatto notare la mancanza di torture e di sadismi, ed anzi quella strana complicità che si creava tra la vittima e il sacrificatore, nonché l'accettazione stoica da parte del primo di una sorte giudicata gloriosa. “Non mancano racconti storici nei quali si vedono tali prigionieri rifiutare la proposta di avere salva la vita e andare a piazzarsi da soli sotto il coltello. Una strana relazione si stabiliva tra il prigioniero e colui che, avendolo catturato, doveva condurlo alla morte. Il primo si rivolgeva al secondo, chiamandolo padre venerato. E poi, per fargli accettare meglio la fine, non veniva forse drogato con sostanze stupefacenti capaci di attenuare le sofferenze?”
Nota ancora Jacques Soustelle: “La nozione stessa di crudeltà è estremamente variabile a seconda dei luoghi e delle epoche, e il corso della storia è pieno di massacri, di supplizi, di città rase al suolo, di popolazioni ate al fil di spada, di eretici bruciati, di prigionieri torturati in centinaia di maniere...”
È probabile che se i Maya avessero assistito in Francia, mille anni più tardi, al Grande Terrore del giugno-luglio 1794, sarebbero rimasti profondamente colpiti dalle esecuzioni, dai carretti e dalle migliaia di decapitazioni che talvolta terminavano con canti di vendetta: qual era la necessità divina di quelle ecatombi? Quei morti non servivano di certo a respingere l'assalto del nulla né a nutrire gli astri. Mentre a Parigi, Fouquier-Tinville, nota, da funzionario meticoloso, sommerso da documenti, che le teste cadevano “come tegole durante il temporale”, in Vandea, la guerra civile e le sue atrocità causavano parecchie centinaia di morti. E forse, i Maya hanno commesso meno assassinii e meno esecuzioni in un millennio che la Rivoluzione nel solo 1794! Gli Aztechi furono profondamente sconcertati dalla guerra totale che i conquistadores muovevano contro di loro; certamente non facevano la stessa guerra!
La scrittura
Oltre all'organizzazione ed allo svolgimento delle cerimonie, il clero aveva il compito di occuparsi di tutte le attività intellettuali, spirituali, culturali, sempre rivolte a una finalità religiosa: non scontentare gli dei e cercare di capire le loro intenzioni. Il divenire del mondo dipendeva dal loro buon volere e dal tipo di rapporto che avevano con gli uomini incaricati da loro stessi di rendere il culto e di nutrirli. I Maya vivevano nell'angoscia perpetua, in attesa del quinto cataclisma che sarebbe sopravvenuto con certezza e che sarebbe stato il preludio di una nuova creazione, più capace di soddisfare gli dei; forse delusi dagli uomini attuali. Insomma, gli Indios avevano un complesso nel cuore, quello di essere dei cattivi fedeli, incapaci di procurare la felicità agli dei. Poiché erano convinti che la storia universale dipendesse dall'alternarsi di periodi diversi, interrotti da cataclismi, i Maya vivevano sempre nel terrore e nell'attesa di una nuova fine, il che spiega perché fossero così affascinati dallo scorrere del tempo, un tempo diviso in periodi. Ogni periodo aveva un colore sacro ed era venerato come tale: gli anni, i mesi, le settimane e persino i giorni erano considerati delle divinità!
Ma per prima cosa, era importante fare il conto di quel tempo che a e trarne le conseguenze per il futuro, perché i Maya non avevano mancato di osservare l'aspetto ciclico e ripetitivo relativo al fenomeno del giorno e della notte, alle stagioni, alla corsa degli astri... Era dunque necessario fissare tutte quelle osservazioni, ricche di significati e suscettibili si essere utilizzate per la divinazione: era dunque necessario saper scrivere e contare. Ora “delle 123 famiglie etniche che popolavano le due Americhe, prima della conquista spagnola”, ha notato Fernando Anton, studioso dei Maya, “soltanto questi ultimi furono in grado di sviluppare una vera scrittura”.
Abbiamo visto che essi erano stati superati dalle popolazioni di La Venta, di cui non fecero altro che sviluppare l'eredità: quegli enigmatici Olmechi avevano creato una scrittura complessa ed embrionale che i Maya trasformarono in una scrittura, non alfabetica apparentemente, dato che è composta da 400 o 500 segni diversi, detti glifi. Sembrano piuttosto caratteri ideografici, perché invece di dare delle vere e proprie rappresentazioni grafiche degli oggetti, come avviene per la scrittura pittografica, quei glifi sono a volte dei simboli, a volte dei determinativi ed a volte dei suoni, stando agli ultimi studi in materia. Se alcuni glifi avevano il valore di suoni, allora i Maya erano sulla strada della grafia alfabetica e fonetica. Comunque, attualmente, noi comprendiamo soltanto un terzo di quei segni, e cioè meno 200.
Fino ad oggi è stato scoperto più di un migliaio di testi sui quali può esercitarsi la sagacia degli studiosi: essenzialmente si tratta di stele, di lastre di pietra o di legno - pensiamo al meraviglioso rilievo del museo di Basilea, proveniente da Tikal - di alzate di scalini, di pezzi di giada, di vasi policromi e soltanto di tre codici, tre libretti piegati a fisarmonica. Di questi testi, solo le parti che riguardano la cronologia, i calcoli, l'astrologia ed il pantheon, sono state prese in considerazione dagli studiosi. Un serio progresso nella lettura ha potuto essere realizzato grazie alla relazione del vescovo di Merida, il famoso Diego de Landa, arrivato nello Yucatan nel 1549.
Nel suo libro, scritto dopo il 1566, egli si occupò della scrittura e trascrisse, con
l'aiuto di alcuni letterati indios, i nomi dei venti giorni del mese, e quello dei diciotto mesi dell'anno maya. Questo ci consola un po' del suo assurdo autodafè di Mani che ridusse in cenere circa 5000 idoli, 20 stele, 13 altari, 27 superbi manoscritti e 187 documenti, minori e di ogni formato, come afferma il Gesuita Domingo Rodriguez. “Questa gente”, scriveva de Landa, “usa certi segni o certe lettere con le quali scrive nei propri libri la storia antica e le sue dottrine. Grazie a queste lettere, oltre che a disegni e a figure, essi comprendono la storia, la rendono comprensibile agli altri e la insegnano. Noi trovammo una gran quantità di questi libri e siccome contenevano cose in rapporto con la superstizione e con menzogne diaboliche, li bruciammo tutti, cosa di cui essi si rammaricarono molto con violenza sorprendente e con disperazione”.
Le stele e il loro culto
Durante la grande epoca classica, e soprattutto verso la fine, i Maya avevano preso l'abitudine di innalzare ad ogni katun - 20 anni - per ogni dieci anni, e infine ogni cinque anni, sulla grande piazza cerimoniale delle loro città, una stele scolpita commemorativa, la cui erezione probabilmente avveniva con grande concorso di folla, ed era l'occasione per cerimonie e feste. In più di cento città sono state ritrovate circa mille stele, 86 nella sola Tikal e, per la celebrazione dell'anno 790, per esempio, sono state trovate delle stele in non meno di diciannove città.
Di pianta quadrata, esse superano raramente i tre metri; a Quiriga, una di esse, risalente al 771, è eccezionalmente lunga (undici metri) e pesa 65 tonnellate. Spesso un altare basso, pure monolitico, veniva loro associato; la sua forma era spesso quella di un semplice tamburo, ma spesso rappresentava animali assai complessi, o favolosi animali mitologici. Questo accoppiamento, stele-altare, pare originario della città di Tikal. Quasi tutte le stele sono scolpite su tutte e quattro le facciate e rappresentano generalmente, in altorilievo, un personaggio in piedi, con ricchi ornamenti, che tiene le braccia piegate e la barra cerimoniale appesa al petto.
Si tratta senza dubbio di un sacerdote astronomo, con indosso un costume lussuoso, carico di gioielli estremamente complessi; nel campo rimasto libero si allineano colonne di glifi non decifrati. Ignorando il significato di questi testi, non si sa come spiegare il motivo profondo che spinse a costruire a scadenze regolari quei monoliti che continuano a rimanere per noi inspiegabili. Un tempo decorate con colori vivaci, queste stele sono ricoperte ora da una patina monocroma.
Durante sei secoli - 292 e 909 sono le due date estreme reperite - esse vennero erette nel cuore delle città; e le più belle, le ultime, risalgono all'800 per Copan, una città che ne conta ben 38 scolpite nell'andesite, aaall’810 per Quiriga, all'869 per Tikal, all'889 per Uaxactun, e infine al 909 per la Muneca; stranamente, nel grande centro di Palenque ne abbiamo ritrovata soltanto una.
Comunque, sebbene al momento dell'arrivo degli Spagnoli gli abitanti avessero completamente dimenticato il loro significato e il loro molo preciso, esse testimoniano tuttavia l'importanza costante e dominante del cosmo e dello scorrere del tempo nella vita dei loro antenati. Si suppone che i codici abbiano assunto le funzioni delle stele, nell'epoca della rinascita, perché, ricordiamolo, proprio intorno all'850-900 ebbe luogo lo strano collasso che scosse il mondo maya.
I tre codici
Tre codici soltanto sono sopravvissuti, per puro caso, al periodo coloniale, e si trovano oggi a Dresda, a Madrid e a Parigi; un quarto, è stato ritrovato da poco. In totale, coni Codici dell'Altopiano messicano, ci sono pervenuti meno di due dozzine di codici (precisamente 17), mentre migliaia di quei preziosi manoscritti sarebbero state distrutte dai conquistatori iberici. Si presentano come lunghi filatteri, piegati a fisarmonica, formati da molti foglietti scritti e dipinti su due facce; la maggior parte sono costituiti da una specie di carta spessa, detta huun, ottenuta martellando le fibre vegetali di una scorza di “ficus cotinifoglia”, un
fico selvatico, cosparsa prima di resina (una gomma naturale vegetale) e poi da un sottile strato di calce spenta, spalmata di amido; insomma, una preparazione simile a quella dell'affresco. Una volta piegati e sovrapposti, i foglietti assumevano esattamente l'aspetto di un libro. Alcuni vennero realizzati con sottili pelli di daino.
Dipinte sulle due facciate, con tinte chiare e delicate, queste pagine sono piene di testi, disegni e vignette animate da personaggi spesso mistici. Questi libri ci parlano di divinità, di astronomia, di oroscopi, di rituali religiosi, per quel che è dato sapere, perché dei 372 glifi che vi sono stati rinvenuti, 200 restano totalmente incomprensibili.
Il codice di Dresda (detto codex Dresdensis), il più bello e il più complesso dei tre - 3,50 X 0,20 X 0,09 - risale probabilmente all'XI o XII secolo e ricopia quasi sicuramente un originale del periodo classico; parla delle eclissi, della rivoluzione sinodica di Venere, di riti religiosi e di pratiche divinatorie, per ben 70 pagine. Proprio partendo da quel codice della biblioteca di Dresda, Ernst Forstermann, impiegato di quella biblioteca, riuscì a decifrare una parte del calendario maya, e a compiere il lungo conto che permette di stabilire una data in rapporto al punto di partenza cronologico maya, grazie a una serie di glifi. Forstermann, in realtà, si era messo in testa di trovare il contenuto di quello strano libro di magia, e fu il primo, nel 1887, a capire che si trattava di tavole del pianeta Venere.
John Teeple, un ingegnere chimico, costretto dal suo lavoro a frequenti viaggi in treno, usò il suo tempo libero per studiare il complesso sistema di correzione di quelle tavole; una di esse, per esempio, dà 69 date di eclissi solari possibili per la durata dei 33 anni successivi… alla redazione del codice, ovviamente. Questo codice venne scoperto a Vienna nel 1739, e in seguito venne acquistato dalla biblioteca di Sassonia, a Dresda.
Il codice Tro-Cortesianus di Madrid, che è lungo più di sette metri (m 7,15 X
0,24 X 0,13) e comprende 112 pagine, può risalire al secolo XV.
Tratta della divinazione e si presenta come un'opera di consultazione per i preti indovini e tratta anche delle cerimonie in rapporto con i problemi artigianali e dei riti legati alla festa dell'Anno Nuovo.
Deve essere stato diviso in due in data che non si è riusciti a stabilire; infatti due biblioteche di Madrid ne possedevano un tempo una parte ciascuna, una con il nome di codex Troano e l'altra con quello di codex Cortesianus. Poi, dimostrato che esse formavano un tutto, i due tronconi sono stati riuniti al Museo di archeologia e di storia di Madrid.
Il codex Peresianus della biblioteca Nazionale di Parigi è parimenti abbastanza tardo (XV secolo) e, essendo in cattivo stato, pare incompleto; è lungo circa m 1,45 e presenta soltanto 22 pagine; è anche questo un'opera di consultazione per i preti indovini e può darsi che le profezie di questo manoscritto abbiano un carattere storico poiché gli avvenimenti futuri erano, nella concezione maya, delle proiezioni del ato, cioè delle ripetizioni inevitabili.
Nella seconda facciata parla della divinità di katun (7200 giorni, pari a due decenni) e del tun (anno), oltre che delle cerimonie legate alla successione di alcuni di quei katun. Malgrado l'epoca recente, dal punto di vista dello stile si ricollega ai rilievi di Quiriga e di Piedras Negras.
Venne scoperto nel 1860 in un mucchio di vecchi documenti abbandonati in un deposito della Biblioteca Nazionale di Parigi; e siccome la carta che lo avvolgeva portava il nome di Perez, venne chiamato codex Peresianus.
Libri maya dell'epoca coloniale
E' molto improbabile che ci sia stata una letteratura come la intendiamo noi, se si eccettuano i racconti mitologici e cosmologici. Per fortuna, dopo la conquista alcuni letterati indios ebbero la buona idea di trascrivere, nella loro lingua, servendosi però per la trascrizione fonetica dei caratteri latini, le tradizioni orali dei vecchi racconti del ato, di incalcolabile valore.
I più noti e anche i più preziosi tra questi libri sono gli Annali dei Cakchiqueli (detti anche Memoriale di Tean Atitlan) conservati alla Biblioteca dell'Università di Filadelfia, e che trattano del ato di quel popolo; il Popol vuh, scritto nel 1550 a Chichicastenango, vera Bibbia dei Maya-Quiché del Guatemala, il cui manoscritto originale venne ritrovato nel 1928 da Walter Library di Chicago, dopo essere stato tradotto agli inizi del XVIII secolo dal padre Francisco Jiménez, che ci ha permesso di ricostruire il mito indiano più completo della Creazione; infine l'opera suddivisa in una dozzina di parti del Chilam Balam, di cui si precisa spesso l'origine del manoscritto: Mani, Chumayel, tizimin, nabula, Ixil, Telchac, tusik, ed è conservato sempre presso la Biblioteca dell'Università di Filadelfia.
Il più importante di questi ultimi, quello di Chumayel, sebbene sia stato redatto nel 1782 dall'Indio José Hoil, tratta del periodo precortesiano; quello di Nabula, scritto nel 1673, parla di una terribile epidemia che decimò il distretto; quello di Telchac raggruppa informazioni storiche, omelie, testi religiosi, cattolici, ecc...
Morley tradusse Chilam Balam con Libro divinatore, o di cose segrete e occulte, poiché chilam significa letteralmente divinatore e balam giaguaro, ma anche cose misteriose e occulte. Infatti, questo libro, basandosi essenzialmente sul calendario sacro, comprende numerose profezie ed enigmi, insieme a una cronaca dello Yucatan che tratta delle invasioni messicane in territorio maya, la prima diretta da Kukulka, poco prima dell'anno mille, e la seconda degli Xicallanca-Nahua che aiutarono il sovrano maya Hunac Ceel - il famoso
sopravvissuto del pozzo sacro di Chichén Itzà - a respingere gli Itzà di Chichén. Al contrario del Popol-vuh, opera che riguarda i Maya del Sud, i libri del Chilam Balam si riferiscono ai Maya del Nord-Yucatan. Nel complesso essi restano dei libri storico-religiosi, pieni di profezie, di precetti rituali, di incantesimi, di magia, di frammenti di cronaca, il tutto tramandato dalla notte dei tempi oppure da tempi: più recenti, come ad esempio la narrazione di alcune migrazioni di tribù con l'enumerazione di tutte le tappe e le soste successive.
Il tono incantatorio e ripetitivo dello stile lascia intravedere ad Eric Thompson che “quel carattere da antifona dei versi maya si deve molto probabilmente ritrovare anche nei testi geroglifici. I glifi che sembrano continuamente ripetersi devono avere questa caratteristica tipica dei responsi. Le preghiere dei Maya odierni hanno alte qualità letterarie e tendono ad assumere questa forma di controcanto”.
Il “Popol-vuh”
Il Popol-vuh, che tratta in uno stesso tempo i miti, le leggende, la cosmologia e la storia dei Maya-Quiché del Guatemala, è in primo luogo la storia della Creazione, una creazione che si suddivide in quattro atti, quattro Creazioni successive; questa concezione fu condivisa da tutti gli abitanti dell'America centrale.
Anche se il testo del Popol-vuh che ci è pervenuto è stato scritti, intorno al 1550, in dialetto quiché trascritto in caratteri latini da un nobile cronista decaduto dalla sua funzione, nondimeno esso contiene tutte le conoscenze che erano state trasmesse fino a quel momento.
Vera e propria Genesi dei Maya-Quiché, scritta in un sol fiato senza divisioni in capitoli, il Popol-vuh rimane il testo essenziale per comprendere l'anima
profonda dei Maya. Esso ci riferisce il mito della Creazione così come lo concepivano i Maya, e descrive l'evoluzione dell'umanità con le sue diverse creazioni e i suoi successivi cataclismi. Agli inizi dal caos primitivo emergevano soltanto il cielo e l'acqua, “c'erano soltanto l'immobilità e il silenzio nelle tenebre della notte”. Ma, con la potenza del Verbo, gridando semplicemente “La Terra!”, gli dei creatori, Gukumatz e Hurakan (dal quale deriva la parola uragano), la fecero comparire. Essi la rivestirono subito di foreste, di praterie, di fiumi e la popolarono di una moltitudine di animali, ciascuno con proprie caratteristiche, abitudini e funzioni particolari. Ma poiché questi ultimi erano incapaci di rendere omaggio agli dei, essi furono destinati a servire soltanto da nutrimento e dunque ad essere uccisi e divorati.
Gli dei creatori modellarono poi delle creature di argilla che si rivelarono prive di intelligenza e di sentimenti, senza consistenza né forma e quindi incapaci di parlare e di onorarli. Delusi, gli dei si affrettarono a distruggerli sciogliendoli nell'acqua. Dopo essersi consigliati con alcuni cacciatori mitici e con alcuni incantatori, gli dei scolpirono allora degli esseri di legno, che parlavano, mangiavano e procreavano, ma il cui viso, essendo di legno, non aveva né vita né espressione; essi avevano le mani e i piedi privi di dita, e le loro carni erano gialle, prive di sangue. La loro intelligenza era mediocre e, essendo privi di sentimenti, essi ignorano i loro creatori. Questi ultimi, delusi di nuovo, li fecero annegare sotto diluvi d'acqua che oscurarono la crosta terrestre come una resina spessa. Dal cane del giaguaro, tutti gli animali si rivoltarono contro quei tristi fantocci, contro quei Pinocchi senza anima, e tutti gli esseri del creato si ribellarono contro di loro, gli uccelli per primi, compresi i tacchini e persino gli utensili domestici, marmitte e zucche comprese, con setacci e i paioli, si misero contro di loro e li ridussero in polvere oli costrinsero a fuggire sugli alberi più alti che si misero a fremere per cercare di farli cadere. Ecco perché le scimmie, che sono loro discendenti, vivono sugli alberi.
Allora gli dei presero una nuova iniziativa: impastarono la farina di mais, di una specie gialla e bianca che avevano scovato, per caso, con l'aiuto della volpe, del coyote, del corvo e del pappagallo, nel seno di una montagna che nascondeva i chicchi nel suo ventre. Modellarono i primi quattro uomini, ma li dotarono di sensi troppo perfetti che permettevano loro di vedere fino all'infinito e di un
pensiero che riusciva a cogliere e ad abbracciare tutto.
Preoccupati per avere creato dei geni, troppo simili a sé, gli dei soffiarono loro sul viso e subito il loro sguardo si velò, la loro vista si ridusse. “Essi videro soltanto ciò che era loro vicino e soltanto quello che apparve chiaro ai loro occhi!”. Gli dei diedero loro delle spose che si trovarono “con gioia al loro risveglio!” Ormai l'alba imporporava il cielo a levante e la stella del Mattino annunciava il sole.
Quegli esseri umani, conoscendo il cerimoniale religioso, resero omaggio agli dei che approvarono e ricevettero i loro tributi. Contemplando la stella del Mattino, questi antenati dei Maya storici formularono questa preghiera: “Salve, o Creatore, o Formatore; tu che ci vedi e ci senti, non abbandonarci, non lasciarci mai! O Dio, tu che sei in cielo e in terra, dona a noi e alla nostra discendenza la prosperità finché il sole e l'aurora cammineranno nel cielo e le piante spunteranno sotto la luce. Permettici di camminare sempre per verdi cammini e verdi sentieri e fa' che noi siamo tranquilli e in pace con i nostri, che viviamo una vita felice; dacci perciò una vita, un'esistenza al riparo da ogni rimprovero, o Hurakan...Gukumatz, o tu che generi e dai l'essere, fa' che la germinazione abbia luogo e che ci sia la luce!”
E' il caso di notare che, nel pensiero maya, non è l'apparizione dell'uomo il punto culminante della creazione, ma quello dell'alba! È una bella lezione di modestia che fa dell'uomo un essere subalterno e accidentale. Inoltre ogni atto creatore, sia del mondo che dell'uomo, dei vegetali che degli animali, si compie regolarmente di notte e deve terminare prima dell'alba. Questo principio è rimasto in vigore tra i Quiché e i Chorti presso i quali, secondo Girard, “l'atto generatore si realizza soltanto di notte, come le cerimonie del culto agrario, perché entrambi sono la ripetizione dell'atto grandioso della creazione cosmica. Il coito, come la nutrizione, non sono semplici atti fisiologici, ma un rito attraverso il quale l'uomo si inserisce nel sacro...
I sacerdoti chorti dicono che gli dei lavorano soltanto di notte: è in quell'occasione che fanno crescere la vegetazione; per questo motivo i preti devono agire nello stesso modo in cui agisce il gruppo teogonico che rappresentano. Un'abitudine così strana impone al ricercatore che ha il raro privilegio di assistere a quelle cerimonie, lunghe veglie di notte, in un ambiente profondamente mistico, in cui sente palpitare le vibrazioni intime dell'animo indigeno”.
Parallelamente a quella Creazione in più riprese si narrano altri miti, quali quelli dei due Gemelli, Hunahpu e Ixbalamqué: Hunahpu, il più importante dei due, “assolve a due funzioni”, scrive Girard; “è il dio del Mais durante il periodo dei lavori dei campi, e il dio del Sole durante l'estate. Le cerimonie del culto solare sono celebrate di giorno, in pubblico, poiché esse devono glorificare il Sole; al contrario quelle del dio agrario si svolgono di notte, perché è in quel momento che gli dei agrari “lavorano”, e sono segrete”.
I due Gemelli trasformano in scimmie i loro fratellastri che li perseguitavano, poi, per mezzo di sortilegi e grazie alla fortuna, si impossessano dell'attrezzatura paterna del Gioco della Pelota: guanti, scudi di cuoio, palle di caucciù... Il loro messaggero, il pidocchio, viene inghiottita da un rospo divorato da un serpente a sua volta morso da uno sparviero; la zanzara fa la spia e il loro complice, il moscerino, buca la secchia della loro nonna per farla ritardare.
Questo è l'universo delle favole con il suo aspetto meraviglioso e il suo carattere incantato; con estrema rapidità gli alberi crescono a dismisura e le cerbottane si trasformano magicamente in canoe.
Come gli eroi della mitologia greca, i nostri Gemelli affrontano cicli di prove dalle quali escono con esiti diversi, grazie al decisivo aiuto delle formiche, delle tartarughe e anche dei conigli. Essi sono anche eroi civilizzatori e l'epopea termina con l'enumerazione delle varie conquiste culturali di cui sono stati promotori: l'organizzazione sociale, l'architettura; i riti religiosi e anche ahimè, la
guerra.
Il Popol-vuh comincia dal caos primitivo e finisce quando viene raggiunto un livello superiore di civilizzazione. Nel decalogo e nei meandri del racconto, fruttando ogni minimo particolare, Raphael Girard si è sforzato di comprendere il significato esoterico, di cogliere il valore e la portata storiografica del libro “perfettamente intelligibile per i Maya-Quiché”. “La mitologia ha lasciato il terreno letterario per quello scientifico”, constata Girard, “tanto più che vivere e agire in accordo con le norme mitologiche fu la costante ossessione del mondo Maya-Quiché, la cui cultura resta essenzialmente mitologica, dato che la scienza e la storia non si erano ancora separate dalla religione”. E Girard constata che l'Indio vive ancora in età mitologica; e questa è un'affermazione capitale per chi cerca di comprenderlo; questo però non vuole assolutamente dire che sia rimasto all'età del pensiero prelogico.
Calendario e astronomia
I preti erano depositari di tutte le conoscenze intellettuali e la religione, ancora una volta, si trovava intimamente fusa con l'astronomia, come con tutte le altre attività culturali, con le speculazioni aritmetiche, col computo del tempo e col calendario, di cui si è scritto che esercitò una vera e propria dittatura sulla vita dei Maya. Profondamente originale, unico nel suo genere, questo calendario rivela una precisione veramente sbalorditiva, tanto più se si tiene conto che i preti astronomi consideravano la terra piatta come un disco e non pensarono mai che girasse intorno al sole.
Il sistema vigesimale - con una progressione di 20 in 20 e non di 10 in 10 come avviene con il nostro sistema decimale - della loro aritmetica permetteva calcoli complessi per quanto riguardava lo studio dei fenomeni celesti, poiché toccava all'astronomia regolare e dirige tutte le azioni della Vita. Per i calcoli, essi usavano dei simboli semplici, ad esempio il punto per le unità, ed una sbarretta per la cifra 5; inoltre, dato che i Maya furono uno dei rari popoli che abbiano
usato lo zero - simboleggiato da una conchiglia - con un millennio di anticipo rispetto all'Europa, essi poterono, proprio perché erano riusciti a dare una connotazione all'inesistente, a dare un valore posizionale alle cifre e in tal modo a fare calcoli assai complessi. Seppero, inoltre, prevedere con esattezza le eclissi, e scrissero su delle tavole tutti gli spostamenti di Venere con una precisione che lascia ancora sbalorditi gli studiosi moderni. Il codice di Dresda, per esempio, dà un totale di 11.960 giorni per 405 lunazioni considerate; orbene, gli astronomi attuali stimano tale durata pari a 11.959,89 giorni, il che corrisponde a un errore (!), o meglio a una differenza di un giorno per 380 anni! Inoltre gli astronomi maya ritenevano che l'anno di Venere fosse pari a 584 giorni, e noi oggi sappiamo che esso equivale esattamente a 583,92 giorni, il che comporta un errore inferiore ad un'ora all'anno!
Questi risultati sono tanto più stupefacenti in quanto i Maya non disponevano di strumenti ottici, né di un'unità di tempo pari all'ora e al minuto. In seguito alle ripetizioni dei calcoli, ad un po' di “statistica” e alla trasmissione regolare dei risultati, essi correggevano man mano i dati empirici ricavati da una geometria dello spazio e da un'astronomia piuttosto sommarie. Tuttavia, secondo E. Thompson, il calendario maya era più preciso di quello gregoriano.
Una grande vittoria degli archeologi e degli storici moderni è consistita nel ritrovare il metodo di trascrizione delle cifre e delle date, il che ci ha permesso anche di poter finalmente collocare nel tempo il mondo maya. Precisiamo questo sistema: abbiamo già detto che si basa su una numerazione vigesimale (di 20 in 20) e posizionale, il che significa che invece di riportare una cifra a sinistra dopo dieci unità, lo faceva dopo venti; i numeri acquistavano quindi una cifra in più al 20, poi al 400, poi all'8.000, al 160.000, al 3.200.000, ecc... La numerazione posizionale era resa possibile solo dall'uso dello zero (una conchiglia). Una data maya è formata da cinque cifre sovrapposte, e non disposte orizzontalmente come nei nostri numeri, il che non toglie che sia egualmente una numerazione posizionale: la prima cifra corrisponde ai baktun, ognuno dei quali rappresenta 144.000 giorni trascorsi; la seconda cifra numera invece i katun - un katun corrisponde a 7.200 giorni; la terza cifra dà il numero dei tun (360 giorni formano un tun); la quarta cifra indica l'uinal, cioè un mese di 20 giorni; la quinta cifra infine dà i kini, che sono i giorni.
Una data quindi era fornita in giorni: la stele D di Copan, per fare un esempio, porta una data corrispondente ad un totale di 1 405 800 giorni trascorsi dalla data iniziale del calendario maya, che in genere viene collocata nel 3113 (o nel 3373, secondo il sistema di Spinden) prima della nostra era. Inoltre una data veniva fornita indicando la sua posizione nell'anno religioso e la sua posizione nell'anno solare.
D'altra parte queste date somigliavano molto, a prima vista, a piccole scene animate: a volte vi sono rappresentati dei personaggi, dei facchini, seduti per terra; in questi glifi complessi, solamente le teste devono essere prese in considerazione per il calcolo, ed il valore che rappresentano è riconoscibile, ad un'analisi dettagliata, da particolari come dei punti oppure una mano appoggiata al mento, una mascella inferiore ossuta e scarnificata, una pettinatura stilizzata... Il resto del glifo - il corpo del facchino - che non aveva valore di calcolo - era completamente lasciato alla fantasia dell'artista. Secondo le concezioni maya, in effetti, il tempo era continuamente trasportato nel futuro da alcuni dei che si davano il cambio e si alternavano di volta in volta per governare il mondo: il dio del giorno succedeva al dio della notte, e si caricava sulle spalle il fardello del tempo fissato con una cinghia frontale. I giorni erano esseri viventi, e ognuno di essi era sotto la protezione di un dio, diventava un dio lui stesso, con una duplice natura, una corrispondente al nome di una divinità, l'altra ad un numero. E le cifre, invariabili, avevano molta più importanza dei nomi, che potevano variare.
Come per tutte le civiltà di tipo agricolo, la determinazione del ritmo delle stagioni era indispensabile per assicurare il successo dei raccolti. Era infatti necessario lavorare i campi, seminare, effettuare il raccolto, nei momenti propizi e favorevoli; e il calendario aveva il compito specifico di determinare questi momenti. I Maya possedevano due calendari principali: il più semplice, il calendario sacro - il Tzolkin - era riservato alla divinazione e comprendeva duecentosessanta giorni suddivisi in tredici mesi di venti giorni ciascuno. Il programma delle feste religiose e di tutte le altre attività cerimoniali o private veniva stabilito sulla base di questo calendario.
Il secondo calendario - l'Haab - solare ed agricolo, era invece composto da 365 giorni suddivisi in diciotto mesi di venti giorni ciascuno, ai quali si aggiungeva poi, alla fine del ciclo, per far tornare i conti, un periodo malefico di cinque giorni, nefasti, vuoti, senza nome, detti di “ristabilimento”, o uayeb, giorni critici durante i quali non si lavorava, ma si effettuavano digiuni e si osservava la continenza. Questi due calendari coincidevano soltanto a intervalli di 18.980 giorni, cioè ogni 52 anni, periodo di tempo assimilato al nostro “secolo”, sebbene più breve. Ognuno dei tredici dei principali del pantheon maya regnava per un mese.
Esisteva poi un terzo metodo di conteggio, in cui interveniva l'anno venusiano, più lungo, poiché Venere compie solo cinque rivoluzioni nello spazio di otto anni solari. Per designare la durata, i Maya avevano poi concepito tutta una serie di periodi che progredivano con i multipli di 20, con l'eccezione del tun, il loro anno di 360 giorni, che corrispondeva a 18 uimal di 20 giorni.
Abbiamo già detto che il loro computo a base di cifre del tempo aveva inizio da una data zero di origine, fissa, che la cronologia stabilita da Thompson, Goodman e Hernandez fa risalire all'anno 3.113 prima della nostra era. Questa data mitica, a proposito della quale ci si perde in congetture, potrebbe riferirsi a un evento astronomico dimenticato, o potrebbe forse indicare l'ultima delle loro quattro Creazioni del Mondo. Da parte sua Spinden ha stabilito una cronologia che fa slittare tutte le date di 260 anni indietro nel tempo (3.373 a.C.), una cronologia che sarebbe confermata da analisi effettuate con il metodo del carbonio 14, ma che crea una discontinuità incomprensibile nel succedersi degli eventi tra i periodi più antichi ed il periodo storico. Per questo motivo gli specialisti continuano ad attenersi alla cronologia di Thompson.
Quali metodi possono aver utilizzato i Maya, che non avevano altri utensili che quelli di pietra, per giungere a conoscenze astrologiche di una precisione così strabiliante? Sembra in effetti accertato che non abbiano usato né orologi a sabbia né clessidre, né altro strumento di precisione. I loro calcoli furono dunque
basati esclusivamente su osservazioni oculari, calcoli di triangolazione e misure delle ombre, poiché essi erano sorpresi dall'osservazione che gli astri, e il sole in particolare, si presentavano sotto angoli che cambiavano a seconda dei diversi periodi dell'anno. Allo stesso modo osservarono che la permanenza del sole nel cielo aveva durata variabile a seconda di quelle posizioni e si sforzarono quindi di determinare le fate dei solstizi, cioè delle posizioni estreme, poiché si traducevano nel giorno più corto e nel giorno più lungo dell'anno. Per queste osservazioni utilizzarono senza dubbio lo gnomone, una specie di mirino costituito da una semplice pertica posta verticalmente; l'ombra proiettata sul terreno, a mezzogiorno del 21 giugno (solstizio d'estate) dà la proiezione più corta, mentre quella che si proietta a mezzogiorno del 21 dicembre (solstizio d'inverno) è la più lunga. Se si effettuano osservazioni al sorgere del sole, i diversi angoli di visuale descriveranno un angolo diverso nel corso dell'intero anno, poiché il sole sorge in inverno più a sud e in estate più a nord, sulla linea dell'orizzonte, a levante.
Queste osservazione hanno potuto essere effettuate, a Chichén-Itzà, attraverso le feritoie praticate nei muri della torre-osservatorio ben nota, detta Caracol (la lumaca), a causa della sua scala elicoidale. Ricketon e Morley hanno a loro volta dimostrato che un osservatore posto sulla cima della piramide detta E-VIII, a Uaxactun, vedeva il sole apparire nell'angolo sud-est della piattaforma con i tre templi, di fronte a sé, all'alba del solstizio d'inverno, e nell'angolo opposto, a nordovest dello stesso podio, il mattino del solstizio d'estate. Nei giorni d'equinozio, il sole sorge lungo l'asse mediano, proprio dietro al tempio centrale. Va da sé che la disposizione di quei templi è stata subordinata e calcolata in funzione di queste osservazioni, e che questa combinazione è tutt'altro che accidentale, ma doveva avere la sua importanza. Inoltre, essa presuppone una lunga tradizione di osservazione.
Oltre all'osservazione diurna del cielo, anche quella notturna doveva essere non meno importante.
L'osservazione delle varie fasi e delle traiettorie della luna fu riportata nel codice
di Dresda, che si riferisce a 405 lunazioni, come abbiamo già detto, cioè a ben 33 anni di osservazione. Il manoscritto riporta una tavola contenente 69 date durante le quali si possono avere eclissi solari. Venere, la stella del Pastore, la prima a risplendere, l'ultima a scomparire, con il suo corso irregolare attirò in egual misura l'attenzione, e i Maya si sforzarono di misurarne l'altezza sull'orizzonte, variabile al momento del sorgere o del tramontare del sole.
Come venivano calcolati gli angoli? Alcune illustrazioni dei codici ci mostrano, appollaiati sulle piramidi, dei personaggi ridotti al solo volto o addirittura ad un occhio, posti sotto un baldacchino che li protegge, vicini a due bastoni incrociati posti davanti a loro.
D'altra parte, sono stati ritrovati anche dei tubi scavati nella giada, lunghi all'incirca venti centimetri, che ricordano stranamente gli occhiali astronomici cinesi, sprovvisti come questi di vetri ottici. Resta il fatto che tutte queste preoccupazioni, che andavano molto al di là dello stretto necessario per la costruzione di un calendario agricolo, mettono in luce un'ossessione dell'infinito, spaziale o temporale, e un'angoscia profonda di fronte allo scorrere del tempo.
Il gioco della pelota
Il gioco della pelota, che occupava un posto di grande rilievo nell'attività divinatoria e nelle altre occupazioni dei Maya, può essere messo direttamente in correlazione con le attività astronomiche. In effetti, si sono messi in evidenza i caratteri religiosi di questo gioco, che si confondeva con un rito di divinazione: alcuni sacerdoti nella loro qualità di intermediari delle potenze divine, avevano il compito di interpretare il futuro sulla base dell'andamento della partita. Si può considerare la pratica di questo gioco con la palla come uno dei tratti più caratteristici della civiltà mesoamericana. Sebbene abbiano subito delle variazioni nel tempo come nello spazio, le regole generali di questo gioco ci sono state tramandate dai primi cronisti spagnoli che ebbero il privilegio di assistere a quelle “rappresentazioni”, o partite. D'altra parte, il Popol-vuh è
l'unica fonte americana che ricordi l'antichissima origine ed il simbolismo salare del gioco della pelota. Alcuni codici messicani (Vindobonensis, Magliabecchi, ...) ci hanno conservato parimenti alcune rappresentazioni illustrate di quel gioco sacro.
Il recinto del terreno di gioco aveva la forma di una H allungata, ed era sovrastato da gradini o da muri dalla pendenza molto accentuata. Spesso orientata da nord a sud, l'area del gioco rappresentava il cosmo, mentre la palla del caucciù pieno, dura e pesante, simboleggiava il sole. In alcuni casi, il gioco consisteva nel far are la palla attraverso alcuni anelli di pietra, a forma di serpente (potenze telluriche) o di testa di uccello (potenze celesti), fissati nei muri laterali, più o meno a cinque metri di altezza, oppure più in basso, su dei pendii inclinati in muratura. Insomma, una specie di pallacanestro! Quegli anelli potevano rappresentare il sorgere e il tramontare dell'astro solare. Una squadra rappresentava l'ombra, l'altra la luce; e ogni giocatore si identificava con una divinità distinta, di cui aveva rivestito per l'occasione gli attributi simbolici.
Ogni squadra difendeva una zona ed i giocatori potevano toccare la palla soltanto coni fianchi, la gamba (il ginocchio) ed il gomito destro; il Popol-vuh, al contrario, proibisce l'uso della testa, dei piedi e delle braccia! Le cadute, piuttosto frequenti, potevano anche essere mortali, tale era la violenza del gioco. D'altra parte, il giocatore che fosse riuscito a far are la pala attraverso l'anello poteva disporre dei vestiti degli spettatori che riusciva a colpire.
Alcune fonti affermano che il capitano dalle squadra vincitrice veniva decapitato al termine della partita, poiché la sua bravura gli dava il privilegio di accedere al mondo cosmico; altre fonti, al contrario, raccontavano che veniva decapitato sul campo il capitano della squadra sconfitta. Secondo Jacques Soustelle, i capitani non venivano uccisi, ma semplicemente spogliati, e che tutt'al più gli spettatori se la prendevano con i loro simulacri simbolici. Resta il fatto che questo gioco violento aveva un significato metafisico. Tuttavia si sa anche che, soprattutto nel periodo finale, questo gioco divenne occasione per giochi d'azzardo e scommesse del tutto profane tra gli spettatori; e si giocava forte! C'era che
giocava i propri gioielli, i propri beni, la propria casa... esattamente come nel nostro Vecchio Mondo, da sacro e religioso quale era alle origini, il teatro divenne progressivamente un divertimento laico e profano.
Nel territorio maya il gioco della pelota fu piuttosto raro nel corso del periodo classico, e sembra che abbia avuto un notevole recupero di interesse soltanto con l'arrivo delle genti di Tula. Si sono contati una cinquantina di campi da gioco nelle città del nord Yucatan, tutti compresi nei recinti dei templi, il che dimostra il carattere sacro ricoperto da quel gioco.
Se ne contano una mezza dozzina solamente nella città di Chichén Itzà! L'antico gioco della pelota di Copan, con le sue sei statue di ara erette sui gradini laterali, ci conferma una volta di più il carattere solare di quel gioco: infatti, secondo le concezioni maya, l'ara rappresentava il dio sole travestito.
Senza dubbio quel gioco si basava, alle sue origini, su concezioni cosmiche che rappresentavano simbolicamente la lotta tra Luce e l'Oscurità - la palla personificava il Sole - tra l'Inverno e l'Estate, tra la Vita e la Morte; poi, poco a poco, si affermò la tendenza a fargli assumere un carattere meno sacro, ma più “sportivo” e più militare. Un lungo fregio a bassorilievo, ritrovato a Chichén Itzà, sembrerebbe dimostrare che, nel periodo degli Itzà, le sanguinose pratiche sacrificali avevano luogo al termine delle partite; in questo fregio vediamo in effetti uno dei giocatori, tutto ricoperto di piume, che tiene in una mano la testa tagliata del suo sfortunato avversario e nell'altra un pugnale di ossidiana. Di fronte a lui, sei serpenti dalla lingua bifida - simboli di fecondità - e un gigantesco loto scaturiscono dal collo del rivale decapitato, scolpito ancora inginocchiato.
Vi era poi altro gioco che rispondeva, in modo assai simile a quello della pelota, a preoccupazioni cosmiche, e per questi motivi rivestita un carattere parimenti religioso: è il gioco famoso del “Volador”, che si è conservato intatto fino ai giorni nostri nelle regioni di Puebla, di Papantla, e presso i Maya- Quiché di
Chichicastenango, ed anche in alcune zone dell'Honduras.
Sulla sommità di un pennone alto anche una trentina di metri, eretto nel mezzo di una grande piazza, cinque uomini, tra cui un suonatore di flauto o di tamburo, si tengono stretti su di una minuscola piattaforma terminale, assai poco stabile. Poi, mentre il suonatore rimane in piedi i suona senza interruzione il suo strumento, i quattro uomini uccello (i Voladores) si lanciano nel vuoto, attaccati alla sommità grazie ad una corda legata intorno ad una caviglia e che lentamente si srotola; a testa bassa, a poco a poco, i quattro uomini si avvicinano al terreno.
Ognuno di essi esegue tredici rivoluzioni, per un totale quindi di cinquantadue tra tutti e quattro. Questo numero corrisponde esattamente al numero di anni che formano un “secolo” messicano. Si pensava che questa cerimonia rappresentasse la discesa sulla terra dei guerrieri morti in combattimento e per questo motivo trasformati in stelle.
L'architettura maya
Gli architetti maya possono essere annoverati tra i più grandi decoratori e tra i costruttori più creativi del nostro pianeta. Essi costruirono migliaia di palazzi che colpiscono per l'armonia delle forme, la semplicità del disegno, la purezza del volume, talvolta per l'ampiezza e l'ambizione del progetto e, perché non ammetterlo, per l'incontestabile bellezza.
Una costante dei principi architettonici precolombiani consiste nel fatto che i loro edifici poggiano sempre su basi, piattaforme o terrazze, di maggior o minor sviluppo, ma che spesso sono diventate la parte più importante dell'edificio, come dimostrano le piramidi. A Tikal ve ne sono alcune che possono raggiungere i 70 metri.
L'architettura era più decorativa e scenica che funzionale e, malgrado l'estensione delle fondamenta, non offriva grandi superfici abitabili o coperte, e questo perché i Maya non conoscevano l'arco, la volta a tutto sesto, la cupola, la colonna, salvo che nel periodo tolteco-maya, e sono questi elementi che permettono di costruire coperture di grande ampiezza.
La volta detta maya, in oggetto, che si spiega solo con l'uso del calcestruzzo, della malta e del pietrame, impediva lunghe gettate e quindi la costruzione di grandi sale che poterono essere costruite solo dopo l'introduzione della colonna da parte degli Itzà.
Quasi dovunque, lo spazio interno fu ridotto ad un semplice sviluppo della pianta della sobria capanna maya, cioè a piccole cellule rettangolari giustapposte. Ma se una grande monotonia regna nella distribuzione interna dei disegni, i Maya rivolsero tutta la loro immaginazione alla decorazione esterna degli edifici; insomma piuttosto che funzionale, l'architettura maya è tutta d'effetto e teatrale, arrivando fino alle illusioni ottiche come nello Yucatan.
“Un'urbanistica colta e grandiosa che si dedica agli spazi esterni”, scrive Henri Stierlin, “patio, piazze, spianate e acropoli si combinano con aree di diverse proporzioni, le cui vaste prospettive fiancheggiate da gradini e da edifici creano vedute di una bellezza spettacolare”. Il quadrilatero di Nonnes, ad Uxmal, ne è uno degli esempi tra i più riusciti.
La “finta volta” definisce e caratterizza, per Sylvanus Morley, tutta la civiltà maya; composta da due alti piani inclinati che si univano, essa copiava in pietra il tetto di paglia delle capanne locali. La cresteria, o cresta, caratterizza anch'essa lo stile dell'epoca classica. I templi infatti erano spesso circondati da una specie di mitra traforata, del tutto decorativa, formata da uno o due muri inclinati a dorso d'asino, che si stendevano in larghezza a metà del tetto. Non era raro che
questa cresta si innalzasse superando in altezza l'edificio sottostante.
Più tardi, nello Yucatan, un secondo piano fittizio verrà usato per raddoppiare, talvolta artificialmente, l'altezza della facciata. Del resto quest'ultima svolge un ruolo molto primitivo, dovendo soprattutto impressionare i fedeli, glorificare le divinità. Anche la ripidezza vertiginosa delle scalinate delle piramidi fa parte dell'aspetto teatrale dell'architettura e accentua il carattere inquietante e sacro del culto. Questa aspirazione dei Maya dell'epoca classica alla verticalità, alle linee ascendenti, è stata sottolineata da Paul Westheim che ricorda come la concezione orizzontale dominasse invece a Teotihaucan, e si sarebbe dunque ritrovata sul territorio maya nell'XI-XII secolo, con le influenze dell'apporto tolteco. La facciata del palazzo dei Governatori, a Uxmal, oltreerà i 100 metri di lunghezza, e la decorazione in mosaico richiederà non meno di 20.000 tessere di pietra, finemente composte e tagliate a catena. Infatti fu un'altra caratteristica dell'architettura maya il gusto alla decorazione abbondante e talvolta barocca, con la sua esuberanza ornamentale, impregnata di simbolismo. La scultura, allora, era parte integrante del progetto architettonico.
Una scultura impregnata di misticismo
La scultura maya si presenta sotto due aspetti principali: in primo luogo, essa seguì uno sviluppo indipendente dall'architettura, bastando a se stessa, e questo sia nella forma più ridotta delle piccole figurine coroplastiche dell'isola di Jaina, che nella forma monumentale delle grandi stele di Quiriga o di Copan; in secondo luogo essa fu complementare dell'architettura e contribuì all'ornamentazione, spesso abbondante, delle facciate, congiungendosi intimamente e organicamente con gli edifici. L'argilla, il legno, ma anche la giada e l'ossidiana erano adatte alle statuette di piccolo formato, mentre la pietra, spesso calcarea, era preferita per le grandi realizzazioni. Bisogna rendere omaggio agli artisti maya anonimi che, con scalpelli di basalto o diorite, lavorarono e cesellarono opere di una finezza ammirevole: i pannelli e gli architravi di Yaxchilan, Palenque e di Piedras Negras portano al più alto livello l'arte dei bassorilievi.
L'arte non era un abbellimento come oggi la concepiamo, o un'attività indipendente e del tutto gratuita; la nozione dell'“arte per l'arte” è molto recente. A lungo essa fu dipendente e al servizio della religione, anzi essa era parte integrante della religione.
Abbiamo visto come scolpire potesse anche essere considerata come un'impresa pericolosa, poiché è la mano degli dei che tiene la vostra, e come fosse necessario prepararsi, essere in stato di purezza rituale prima di modellare la terra, di affondare lo scalpello nel legno o nella pietra. Senza questa precauzione, e soprattutto senza la pratica della continenza e dell'astinenza, l'opera era già considerata impura e ben presto distrutta. Così sono rare le rappresentazioni e i soggetti che possono apparirci profani e che non lo sono quasi mai, ma è anche vero che in una società dove tutto è religioso e sacro, niente finisce più per esserlo, poiché non vi è più una differenziazione tra il sacro e il profano. Insomma i temi della scultura maya si riferiscono essenzialmente ai miti e ai riti, e si può considerare la scultura come il mezzo d'espressione privilegiato del pensiero religioso dei Maya; non si può negare, infatti, che la loro statuaria è profondamente impregnata di misticismo e della fede radicata che li possedeva.
È il caso, per esempio, delle sculture di Yaxchilan, in cui vediamo scene eminentemente legate al culto, alle automortificazioni, alla penitenza. Su un famoso rilievo è rappresentato un nobile fedele, inginocchiato davanti a un sacerdote che brandisce uno stendardo di piume, che fa are attraverso la sua lingua lacerata una corda munita di spine. Su un architrave della stessa città, una città ancora trascurata dai ricercatori, è scolpito un dio che sorge dalla gola di un serpente e che minaccia con la sua lancia il supplicante accasciato sotto di lui.
L'orrore del vuoto
L'epoca d'oro della scultura maya, che senza alcun dubbio raggiunse la
perfezione estetica e possiede più di un capolavoro di valore universale, può venire collocata all'incirca tra il 600 e l'800. Tutte le grandi città dell'epoca classica conobbero successivamente il loro momento di splendore: per Palenque fu a metà del VII secolo; a Yaxchilan all'inizio del secolo seguente; a Piedras Negras e a Copan fu nei decenni che seguirono. A dispetto delle qualità innegabili di equilibrio, di espressività, di armonia nelle composizioni spesso di alto livello, alcuni rilievi possono sembrare confusi e sovraccarichi di dettagli. Non dimentichiamo, tuttavia, che il colore che certamente dovette renderli più immediati, leggibili e più semplici, oggi è scomparso lasciando quell'aspetto monocromo che rende tutto uniforme.
Per di più sembra che i Maya avessero orrore del vuoto e che perciò riempissero fino alla nausea tutti gli spazi e tutte le superfici. In mezzo alla decorazione, fatta con i geroglifici su ogni spazio libero, facevano spuntare da tutte le parti pennacchi di piume, e caricavano le figure di complicate maschere, di attributi diversi come scettri da cerimonia, bastoni ecc., o gioielli: ciondoli, pettorali, orecchini, anelli, guanti... che venivano ad arricchire gli abiti dai tessuti elaborati e finemente ricamati.
Ma essi non furono artisti eccellenti solo nei rilievi; come stuccatori non furono da meno: quelli di Palenque e Comalco dimostrano un talento incomparabile, e le teste raccolte sul pavimento della cripta del tempio delle Iscrizioni della prima Città sopracitata sono annoverati tra i capolavori dell'arte universale.
La strepitosa scoperta di questa cripta merita di essere narrata; infatti essa costituisce una delle scoperte archeologiche più importanti di questi ultimi decenni.
A circa 160 chilometri ad est di Villahermosa, Palenque si nasconde in una lussureggiante vegetazione di cedri, di acagiù e di sapotiglie; una serie di edifici, piccoli templi sormontati da una cresta traforata e un palazzo ornato di rilievi e dominato da una torre di osservazione si drizzano proprio al limite tra una
pianura di stagni e paludi e le prime colline di una regione più accidentata. Occupata dopo il IV secolo, la città fu abbandonata a se stessa per tutto il IX secolo così da essere completamente invasa dalla giungla e dal bosco assai fitto. Vicino al Palazzo, in cima ad una piramide di 21 metri, si innalza il tempio detto delle Iscrizioni, perché su magnifici pannelli ben illustrati si stringono ben 620 glifi enigmatici.
LA SCOPERTA DI ALBERTO RUZ LHUILLIER
Nel 1949, l'archeologo messicano Alberto Ruz Lhuillier fu incuriosito, come lo era stato vent'anni prima l'archeologo danese Frans Blom, dal pavimento insolito dell'interno del piccolo tempio, con i suoi strani “tappi” circolari di pietra, incastrati in modo ammirevole tra le lastre quadrangolari. Egli tolse i “tappi”, sollevò la lastra che ne era bloccata e vide apparire sotto le macerie il primo gradino di una scala che, dopo tre anni di lavoro, o meglio dopo tre campagne di scavi, venne resa accessibile. Questa scala di 68 gradini, divisa in due rampe, scendeva ventitré metri più in basso, che era stata completamente coperta nel ato. Era il primo esempio maya di un edificio di questo tipo: una piramide con scala interna.
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La tomba detta del Gran Sacerdote, a Chichén-Itzà, portata alla luce da Edward Thompson era formata da due pozzi verticali, ugualmente coperti, che davano su una piccola cavità naturale, e non su una grande cripta, come invece sarà a Palenque. A Chichén-Itzà, le ossa, gli oggetti di cuoio e i gioielli di giada ritrovati ci fanno risalire al periodo tolteco-maya (XI-XII sec.). Anche gli scavi di Tikal, effettuati tra il 1956 e il 1967 da un équipe di archeologi del museo dell'Università della Pennsylvania, diretta da Willam R. Coe, portarono alla luce sepolture di tipo analogo, ma di ampiezza più modesta. Sotto la grande piramide centrale (5 D, n.33) del gruppo Nord dell'Acropoli, un complesso dove sono stati contati, affondati nella muratura, un centinaio di edifici più o meno sovrapposti perché più volte rimaneggiati durante i secoli, fu ritrovata, intagliata nella massa rocciosa alla base della piramide, una piccola tomba (n.48) a forma di budello a volta; con geroglifici dipinti sui muri risalenti all'anno 457. Furono raccolti accanto al defunto principale i resti di due giovani che erano stati immolati per accompagnare il loro padrone (o era un parente?) nell'aldilà. Durante i funerali, si era avuta molta cura di dispone accanto a questo importante personaggio una suppellettile funeraria di qualità, soprattutto vasellame, dipinto o in alabastro. La
cosa più sorprendente fu constatare che questo grande personaggio era stato sotterrato senza testa né mani! E siccome la cosa si ripeteva anche in altri luoghi, gli archeologi si chiesero se queste parti privilegiate non fossero state separate dal corpo, al momento del decesso, per ricevere un culto differente in una cappella accessibile. Sempre a Tikal, sotto l'alta piramide del tempio 1, detto del Giaguaro, che con il carbonio 14 è stato fatto risalire al 700, nella tomba di un importante personaggio (tomba n.116) steso su pelli di giaguaro, furono raccolte superbe stoviglie e un blocco di 90 ossa, di cui 37 incise con iscrizioni o, più raramente, con scene animate; ricorderemo quella in cui, in una lunga canoa, si allineavano strane divinità dalle forme fantastiche che richiamano un'iguana, una scimmia-ragno, un ara... Tra parentesi segnaliamo il fatto che questo tempio 1 non raggiunge i 14 metri quadrati di superficie, mentre la piramide che lo sovrasta è di 140.000 metri cubi! Ma torniamo alla tomba di Palenque.
Nella lunga scala che scendeva fino alla base della piramide, serpeggiava sui gradini una specie di cordone di stucco che collegava le due estremità, come un filo d'Arianna. Alla fine della scala, un piccolo corridoio urtava contro un muroschermo che fu abbattuto; nel aggio così aperto, furono recuperate le ossa di sei adolescenti, forse servitori o parenti del nobile personaggio che doveva, di lì a poco, essere scoperto nella cripta che seguiva; lunga 9 metri, larga 4, alta 6,60 nel punto più alto della volta, essa apparve tutta irta di stalattiti a Ruz Lhuillier, pietrificato dallo stupore, il 15 giugno 1952. “Mi trovai in una cripta spaziosa”, scrisse, “che sembrava ricavata nel ghiaccio poiché i muri erano ricoperti da uno strato brillante di calcare. Come un drappeggio, innumerevoli stalattiti pendevano dalla volta, mentre grosse stalagmiti si drizzavano come enormi ceri”.
La cripta del grande halach uinic
Nel centro della cripta, un'enorme lastra di cinque tonnellate, ornata da un delicato e meraviglioso rilievo, poggiava su un sarcofago appoggiato su cubi anch'essi istoriati con rilievi. Il tema che era tratto nelle incisioni della lastra era di un simbolismo trasparente: un giovane uomo, visto di profilo, giace riverso o
come seduto sulla testa enorme; presentata di fronte, del mostro terrestre; dal corpo dell'adolescente sboccia verticalmente un albero di vita, sulla cui cima sta un uccello quetzal, dalle ali spiegate.
Questo significa che, attraverso la morte, si ritorna alla terra per risorgere un giorno, proprio come il seme del mais che è sotterrato in attesa che dia una pianta e nuovi frutti. Insomma un cammino pieno di speranza!
Sui pannelli applicati sui muri della cripta, scolpiti ad altorilievo, i Nove Signori delle tenebre e della morte, riccamente vestiti e impiumati, con in mano grotteschi scettri “manikin”, fanno la ronda intorno al sarcofago. Ai piedi di quest'ultimo furono raccolte due teste di giovane, in stucco, dai tratti delicati, il cranio affusolato e ornato da un pennacchio di piume e fiori, due capolavori di un'eleganza e una raffinatezza perfette. Solo le civiltà più brillanti, dotate di un ideale di Bellezza e organizzate sotto leggi reali o “di corte” ci hanno lasciato opere di livello paragonabile; non vi è niente di grossolano, di provinciale o di primitivo in queste opere! Tracce di pittura ci ricordano che la statuaria maya fu in tutti i tempi policroma, anche quando si trattava di grandi statue collocate all'aperto, come le stele di Copan.
I glifi del sarcofago ci fanno risalire ad una data che corrisponde al nostro anno 633, senza dubbio quella dell'inumazione del re-sacerdote o del grande pontefice che vi riposa nella stretta vasca dalle forme curvilinee, chiusa da un secondo coperchio intermedio mirabilmente adattato e privo di decorazione. All'interno giaceva un principe(?) deificato, di circa quarant'anni di età, dal cranio deformato secondo il rituale. Per la sua salvezza nell'aldilà gli era stata fatta scivolare una perla di giada nella bocca ed era stato seppellito con il diadema, fatto di 41 dischi di giada, con il medaglione placcato, dello stesso materiale e a forma di pipistrello; portava anche una gorgieretta formata di nove fili di perle (in totale 118 grani di giada), e una maschera fissata sul viso da un sottile strato di stucco, fatta di un mosaico di 200 placchette, sempre di giada, ad esclusione degli occhi tagliati nella conchiglia e nell'ossidiana. Ogni braccio portava un braccialetto composto di 200 grani e ogni dito un anello finemente cesellato. I
piedi poggiavano su un idolo di giada che rappresentava il Sole. Infine Ruz Lhuillier trovò, sempre nel sarcofago, altre due teste in mosaico di giada, sicuramente un tempo applicate su anime di legno, una più complessa, fatta di più di 200 elementi, l'altra più semplice non avendone che una decina di formato più grande.
Il serpente di stucco, ricordato più sopra, che correva lungo la scala, partiva dal sarcofago, vero e proprio tubo-modanatura, che come un legame magico, assicurava il collegamento tra i vivi e il loro principe deificato.
Attraverso questo filo, essi intrattenevano con lui una comunicazione soprannaturale; un costume che è stato riscontrato nell'Oaxaca e a Cholula.
Tre grandi luoghi dell'epoca classica
E’ fuori da qualsiasi dubbio che la cripta sia stata costruita prima della piramide, basta riflettere sulla dimensione del sarcofago che non avrebbe potuto in alcun modo essere fatto scendere lungo la scala. Inoltre questa cripta soffocante provoca ammirazione per la qualità della sua costruzione e la riuscita della
volta fatta di lastre levigate e consolidata dalle grosse architravi di rinforzo.
Palenque che si estende su una quindicina di chilometri quadrati è tra i principali centri culturali dell'età classica e raggiunse il più alto livello di magnificenza tra il 633 e il 692: in questo arco di tempo furono costruiti infatti i templi detti del Sole, della Croce, della Croce fronzuta, delle Iscrizioni, e anche una parte del Palazzo, un vero e proprio complesso di edifici diversi, ornati di numerosi rilievi in stucco un tempo dipinti.
Tikal, che si trova ad est, nel Petén (Guatemala), fu oggetto di scavi archeologici, come abbiamo detto, tre il 1956 e il 1967 ad opera di ricercatori dell'Università della Pennsylvania che ottennero risultati notevoli: più di 100.000 oggetti (utensili, gioielli, vasellame...) vi furono raccolti, e più di 3.000 edifici e 200 monumenti di pietra (stele, altari...) furono registrati su una superficie edificabile di quasi 16 chilometri quadrati. Ora, solo una piccola parte del luogo è stata esplorata, quella attorno alla piazza cerimoniale circondata dalle piramidi alte 70,47 e 43 metri, ai piedi delle quali sono allineate delle stele datate tra il 386 e l'869. Decine di anni saranno necessari per portare a termine l'intera ricognizione archeologica del luogo. Dal Tempio IV di Tikal proviene l'eccezionale pannello (n.3) che si trova al Museo di Basilea, trasportato nel 1877 dallo svizzero Gustav Bernouilli. Questo pannello, scolpito come un merletto, ci fa rimpiangere la scomparsa quasi totale delle opere in legno, dal momento che si suppone che questo fragile materiale servisse da o per le esercitazioni artistiche nel periodo formativo pre-maya. Sotto il groviglio dei dettagli, la composizione conserva un grande equilibrio e molta monumentalità.
Copan, un altro importante luogo del periodo classico, più a sud, nell'Honduras, ci ha conservato tra le altre sculture 38 stele del VII-VIII secolo, in andesite, fortemente suggestive. Thompson chiama la città l'Atene dei Maya, mentre Morley la paragona ad Alessandria; in realtà non fu proprio la metropoli della cultura e della religione dei primi Maya, e anche la città degli astronomi.
Del resto, un altare scolpito dell'Acropoli ci mostra, in stile vivace e animato, un gruppo di sacerdoti-astronomi, disinvoltamente seduti e intenti a conversare tra loro. Sempre da Copan proviene la famosa statua del British Museum a Londra del giovane elegante dio del Mais, perduto nel suo profondo sguardo interiore, nell'atteggiamento di una danzatrice indù e con un pesante pettorale fatto di una maschera grottesca. Sulla piramide di Copan si sale con una scala di 63 larghi scalini fatti di pietre scolpite con glifi, che sono circa 2.500!
I luoghi archeologici del nord, nello Yucatan
Non è da molto tempo che possiamo affermare con sicurezza che i luoghi famosi del Nord Yucatan, Uxmal, Sayil, Edzna, Kabah, Labna, Chichén-Viejo, Dzibilchaltun (quest'ultimo si stende su 50 chilometri quadrati!) svilupparono anch'essi uno stile originale durante il periodo classico; prima si aveva la tendenza a raggrupparli sotto l'etichetta impropria di “Nuovo Impero”. Del resto questi luoghi hanno lasciato poche stele, pochi rilievi istoriati e monumenti datati; di qui le difficoltà e le esitazioni nel collocarli cronologicamente. Il nome “Puuc”, che è quello delle colline della regione, viene dato allo stile ricco ed elegante di queste opere, caratterizzato dalla decorazione abbondante - realizzata con la composizione a mosaico di piccole pietre squadrate - delle sue facciate, circondate da una larga modanatura, che fa da fascia a mezza altezza. I Messicani la chiamavano “moldura de atadura”, o modanatura-legame, poiché è un ricordo della corda che gli antichi Maya mettevano attorno alle loro capanne di paglia. La maschera di Chac, il drago celeste, il dio della Pioggia, con la proboscide alzata, le orecchie a disco, gli occhi dilatati, costituisce il motivo più ricorrente e fa irresistibilmente pensare al famoso t'aot'ie cinese. Altri motivi ornamentali preferiti sono le greche, le traverse, le colonnette giustapposte, i serpenti solari, la rappresentazione di capanne.
Il palazzo del Codz-Poop di Kabah, porta sulla facciata lunga 45 metri 250 maschere di Chac, ciascuna fatta di 30 elementi, per un totale di 7 500 pietre finemente prefabbricate. Il palazzo del Governatore a Uxmal, lungo circa 100 metri, è ornato da un mosaico di 700 metri quadrati composto da 20 000 pietre tagliate preliminarmente.
“E' sorprendente scoprire”, scrive Henri Stierlin, “presso un popolo che ha appena oltreato lo stadio neolitico, soluzioni che annunciano già le tecniche industriali moderne: la prefabbricazione, la serie e la razionalizzazione del lavoro ne sono gli aspetti più notevoli. Da queste osservazioni impariamo di più sulla struttura della società maya che dai trattati di sociologia.”
Gli stili Rio Bec e Cheni, a sud e a est del precedente, ed evidentemente
contemporanei, forse da situare tra il VII e il IX secolo, hanno praticato la prospettiva, innalzando i pseudo-templi su pseudo-piramidi; anch'esse sono caratterizzati da enormi mascheroni.
Nel campo della statuario di piccole proporzioni, indipendente dall'architettura, bisogna ricordare per la parte settentrionale le piccole statuette d'argilla, che sono state ritrovate soprattutto nell'isolotto di Jaina, prima collegato alla costa del Campeche, e che la mancanza di acqua potabile destinò al ruolo di immensa necropoli, senza dubbio nell'VIII-IX secolo.
Seppelliti nella posizione accosciata, con una perla di giada in bocca, i defunti tenevano spesso nella mano piccole offerte funerarie di una ventina di centimetri, o meno, che si presume li rappresentassero sotto tratti somiglianti, in un gesto e con gli ornamenti che a loro erano famigliari. Fortunatamente queste figurine non forano spezzate, “uccise” secondo un rito diffuso. Spesso dipinte a vivaci colori, queste funerarie, che sono anche degli zufoli, eleganti come i “tanagra”, sono state recuperate in gran numero e ci restituiscono un'apionante galleria di ritratti, tutta una società vivente e affascinante: notabili, sacerdoti, guerrieri, giocatori di palla, vecchi, uomini eleganti vestiti del sempre attuale huipil, matrone, tessitrici... Tutte ci colpiscono per la naturale spontaneità e la varietà della pose, dei gesti, delle espressioni individualizzate, e ci parlano soprattutto di una società molto civilizzata, grave e scherzosa ad un tempo. Esse costituiscono insieme al ciclo di pitture di Bonampak il documento più straordinario che i Maya ci hanno lasciato della loro società.
Pitture rarissime
L'arte della pittura, che un tempo doveva essere prospera e ben rappresentata, non ci è nota oggi che attraverso rari esempi, che sono per altro di una qualità che ci fa rimpiangere la scomparsa della quasi totalità delle opere pittoriche.
Per lungo tempo non abbiamo conosciuto altro che gli affreschi aneddotici del Castillo di Tulum (di cui uno, a causa del fondo scuro, sembra un negativo fotografico), affreschi che ci fanno rivivere l'assalto confuso e brulicante e il saccheggio di una borgata; inoltre quelli del tempio dei Guerrieri, a ChichénItzà, cui abbiamo accennato più sopra, e che mostrano le attività pacifiche e domestiche di un villaggio costiero, o ancora l'assalto ad una città da parte di un gruppo di guerrieri che brandiscono mazze e altre armi. Queste “istantanee” risalgono all'XI-XII secolo, cioè risalgono alla seconda grande epoca.
La pittura della grande epoca classica, ci è ancora più sconosciuta, mal rappresentata com'è dai pochi elementi ritrovati a Uaxactum (dell'VLII sec.), nel 1933. Rappresentano probabilmente cerimonie rituali alla presenza, tra gli altri, di donne dalle lunghe vesti. Una trentina di personaggi, ornati riccamente, si agitano, chiacchierano, suonano il tamburo in mezzo a fumigazioni di incenso. I. brandelli dipinti di Palenque e di Yaxchilan erano ugualmente troppo insufficienti per darci un'idea dell'arte pittorica maya dell'epoca classica.
Alcune superbe pitture, nettamente influenzate dall'arte messicana, furono ritrovate, non molto tempo fa, a Santa Rita, a nord dell'Honduras britannico, ma furono ben presto distrutte dagli indigeni del luogo, prima che fossero stati effettuati dei rilevamenti completi. I contadini locali temevano che li spiriti dei personaggi raffigurati negli affreschi, risvegliatisi dopo la scoperta, sarebbero venuti a tormentarli e gettare loro il malocchio.
Ma nel 1949 una straordinaria scoperta venne ad arricchire questo esiguo museo della pittura maya, quando da un disertore e da un cineasta americano venne trovato l'insieme dei dipinti di Bonampak, con i suoi 140 metri quadrati di affreschi, in cui si muovono più di 150 personaggi, senza contare quelli, incalcolabili, gettati in una inestricabile mischia guerriera.
Lo straordinario insieme di Bonampak
Guidato da alcuni Indios Lacandoni il cineasta Gilles Healy scoprì gli affreschi dopo Carlos Frey, un disertore americano, obbiettore di coscienza, che viveva con una donna lacandone da due anni nella foresta del Chiapas e che aveva invano tentato di attirare l'attenzione dell'opinione pubblica sulla sua scoperta. Quasi contemporaneamente, Healy si fece condurre in questo tempio appartato dove i Lacandoni avevano l'abitudine, nel più grande segreto, di recarsi qualche volta per onorare alcune divinità. Non fu senza stupore che Gilles Healy scoprì sotto i muri di un modesto tempio, circondato dalla foresta, sotto uno strato di calcare translucido, delle pitture che coprivano tutti i muri e le volte delle tre cellule allineate di questo piccolo tempio, nascosto nel cuore della giungla, nella vallata dell'Usumacinta. Il luogo fu battezzato “Bonampak'”, la Muraglia dipinta, in lingua maya, da S.G. Morley. Questa borgata poco importante doveva dipendere in qualche modo dalla vicina città di Yaxchilan.
Datato attorno all'anno 800 dagli specialisti, questo insieme costituisce un ciclo narrativo completo; racconta una compagna militare vittoriosa e la sua commemorazione, con i preparativi, la mischia furiosa, l'interrogatorio e la tortura dei prigionieri, e l'inevitabile festa che segue, con la sfilata colorata dei partecipanti, le danze, le offerte e la gioia.
La maggior parte delle scene si svolgono sotto l'occhio autoritario dell'onnipotente e vittorioso halach uinic, spesso circondato dai suoi dignitari. Dopo aver resistito per dodici secoli, grazie alla fine crosta calcarea protettrice che si era depositata sui pigmenti, questi affreschi hanno molto sofferto dopo la loro scoperta, una volta eliminato questo schermo protettore. Erano stati dipinti su uno strato di calce spessa da tre a cinque centimetri. Al suo ritorno, Healy annunciò la sua scoperta e mostrò molte fotografie: gli specialisti rimasero sbalorditi e ben presto molte spedizioni si precipitarono su Bonampak. Nel corso di una di queste, Carlos Frey morì annegato.
Il luogo fu studiato più da vicino: si possono distinguere, molto vicino al tempio, sette altri piccoli edifici costruiti su monticeli-piattaforme, intorno ad una piazza
circondata da alcune stele; una di esse, decorata con uno stile vicino a quello delle pitture, risale al 785.
Il tempio si stende per circa 16,50 metri di larghezza, ha uno spessore di 4,10 metri e si innalza su una collinetta sistemata come una piattaforma. A nord, tre porte distinte aprono l'accesso a tre camerette.
La prima sala di Bonampak
Nella prima sala, nelle parte inclinata della volta, assistiamo ad un abboccamento dell'halach uinic, vestito con un mantello in pelle di giaguaro, seduto su un trono-sgabello, tra due donne, (forse le mogli?) mentre riceve una quindicina di sacerdoti, grassi e in piedi, con lunghe cappe bianche, la testa prolungata con pennacchi di piume e turbanti, che discorrono fra loro, mentre un uomo con un semplice perizoma, in piedi su un podio, mostra, tenendolo all'altezza del petto, un bambino con la testa stretta ritualmente da piccole fasce o forse dall'apparecchio per deformarla; senza dubbio bisogna riconoscere nel bambino il figlio dell'halach uinic presentato dal suo precettore.
Alcuni grandi sacerdoti carichi di gioielli, di lunghi piumaggi e di foglie di nenufar si fanno vestire da servitori che porgono loro pettorali di giada ed esuberanti acconciature. Un nobile si accinge a truccare o comunque a dipingere il colpo del re-sacerdote, l'halach uinic.
Al piano inferiore, anche sulle quattro pareti si svolge il tema di una cerimonia religiosa propiziatoria per ottenere la vittoria, con la partecipazione numerosa di musicisti in perizoma, che battono su un tamburo verticale huehuetl, agitano le maracas, pestano sui carapaci di tartaruga con le corna di cervo, soffiano in trombe e fischietti, mentre si avvicinano i portatori di parasole. Facciamo notare che gli indios, prima della venuta di Cortés, non conoscevano l'uso degli
strumenti a corda.
Danzatori con le braccia che terminano con guanti a forma di gigantesche pinze di crostacei, sicuramente di granchio, accompagnano i musicisti; incarnano probabilmente divinità o esseri mitologici e favolosi. Quello che “interpreta” Mam, il vecchio dio della Terra e del numero Cinque, si nasconde il viso sotto un enorme nenufar, e porta sotto il braccio il suo emblema-simbolo, il glifo “tun”; il dio del Mais chiude la processione di questi attori-divinità.
La seconda sala
Il tema del secondo locale, quello di centro, è la guerra, e ci fa rivivere un'incredibile mischia guerresca, anche qui su due livelli, o sui diversi gradini di una piramide che occupa tutta l'altezza del lo. Il re-sacerdote, adorno di gioielli di giada, con in mano una lancia piumata da cerimonia, circondato da una decina di ufficiali, di cui i più importanti portano come il loro superiore una pelle maculata di giaguaro, lance e altre armi fornite di guaine ricavate dalla pelle di giaguaro. La maggior parte hanno sulla testa maschere a forma di animali fantastici.
Sui gradini inferiori della piramide, seduti all'indiana, vestiti con un semplice perizoma, una decina di prigionieri, dai capelli lunghi e liberi, mostrano le dita sanguinolenti e doloranti; probabilmente sono appena stati torturati. Uno sembra morto, e una testa tagliata è poggiata sul fogliame.
Ai piedi della piramide, i soldati vincitori e in armi sono allineati e mimano le loro gesta, i loro atti eroici; alcuni hanno delle maschere: Jacques Soustelle considera questa scena come la rappresentazione più patetica di tutta l'arte precolombiana, e Paul Riva come il capolavoro della pittura indiana, e paragona questo insieme, per la sua importanza e la sua qualità, alla tappezzeria di
Bayeux.
Quanto alla furiosa mischia, che bisogna collocare all'inizio dello svolgimento delle varie scene, gli artisti ci restituiscono, con un mestiere e una padronanza sorprendente, l'ardore e l'estrema confusione dell'impatto tra i due gruppi, probabilmente entrambi maya, viste le loro caratteristiche etniche. Una sbalorditiva tavolozza di colori fa come agitare i corpi dipinti dei guerrieri, le pettinature, le piume, gli scudi, le armi, le maschere, i parasole...
I prigionieri vengono trascinati per i capelli fuori dal fracasso e dalla mischia, mentre proseguono i violenti corpo a corpo.
Contro le lance e le macanas, che sono spade di legno duro irte di schegge di ossidiana, i nemici si proteggono con l'aiuti di scudi rettangolari, mentre un uomo butta l'anima in una tromba.
La terza sala
Eccoci nella terza sala: è tornata la calma, il dinamismo si è esaurito; assistiamo alla celebrazione della rallegrante vittoria, che dovette contare molto nella vita di Bonampak, una città piccola in confronto a molte altre nella giungla.
Ancora una volta, la composizione occupa le quattro pareti della cella, e l'essenziale della composizione è centrata su una struttura ad otto gradini, probabilmente una piramide, occupata da dieci danzatori dai costumi meravigliosi, con i copricapi di dimensioni fantastiche, da dove partono piume di quetzal e due grandi ali triangolari, fissate orizzontalmente al livello della cintura. Certamente esse erano fatte con un mosaico di piccole piume che
riproducevano motivi umani, animaleschi o geometrici. Questi sorprendenti danzatori agitano quasi tutti dei ventagli; tra essi sono scivolati alcuni officianti vestiti con un semplice perizoma; due di essi sembrano lanciare verso l'alto il corpo nudo (o il cadavere?) di un prigioniero dalle membra legate; sotto, nella parte inferiore dei gradini, alcuni portatori di parasole.
Su una piccola parte della stanza, nella zona superiore, una decina di uomini, molto stretti gli uni agli altri, portano uno dei loro, senza dubbio il Batab, su un trono.
Di fronte, sull'altro piccolo lo, un'altra scena strabiliante: alcune donne o giovanette in huipil bianco, sedute su un trono o una specie di tavola verde, ornata da grandi dischi rossi, chiacchierano con due altre donne (?) di cui una in piedi, dietro al trono, l'altra seduta ai piedi di esso e con in braccio un bambino. A destra, inginocchiato e deferente, un uomo grasso serve questa nobile adunanza dai crani deformati, e forse lo stesso halach uinic, sul trono, in bianco, intento a trafiggersi le labbra con delle spine che un servitore inginocchiato gli tende.
Davanti al re-sacerdote, alcuni rotoli di carta disposti in un cestino sono stati preparati per assorbire il sangue di questi auto-sacrifici, senza dubbio, obbligatori nelle cerimonie propiziatorie.
Infine, sulla facciata opposta all'entrata, su tre livelli, una trentina di uomini, sacerdoti in grandi cappe bianche, musicisti, indovini, parlano tra loro. Si noterà che molti di essi fanno uno strano gesto che deve avere un significato: poggiano una mano sul gomito, sul bicipite o sulla spalla opposta.
La fine dei Maya
Gli affreschi di Bonampak costituiscono, insieme alle sorprendenti figurine di Jaina o di altri luoghi, gli unici e i più apionanti documenti sulla società maya. Grazie a loro si può immaginarli, vederli, sentirli vivere, poco prima della misteriosa estinzione della loro civiltà. Che cosa avvenne? E' stata avanzata l'ipotesi di un'invasione di barbari dal nord, odi fattori economici come il progressivo esaurimento della terra, l'assalto continuo ed estenuante della giungla. Oggi, seguendo le teorie di Eric Thompson si è propensi a credere che vi fu una rivoluzione interna, anche se lenta, graduale e per niente violenta. Nei rapporti tra le caste religiosa e aristocratica e le masse contadine “venne meno l'incanto”, scrive Jacques Soustelle, che prosegue, “forse perché le speculazioni matematiche e astronomiche del clero si allontanarono sempre più dalle preoccupazioni quotidiane delle masse rurali. Allora i legami sociali si allentarono e i contadini o si rivoltarono con rabbia contro i padroni o, come appare più probabile, si sottrassero al loro potere, tornando al pezzetto di terra famigliare, alla loro capanna, agli dei del loro paese, cui rendevano un culto semplice e senza fasto al contrario dei Lacandoni”.
Così l'aristocrazia sacerdotale si trovò sola e dovette “riconvertirsi”! D'altra parte sappiamo bene che il destino di tutte le civiltà è quello di tramontare inevitabilmente! E così, osserva Soustelle alla fine del suo libro Les Quatre Soleils:
“Di quando in quando, in un oceano di miseria, di conflitti e di crudeltà, si sono avute delle isole, imperfette, poiché solo l'utopia è perfetta, ma dove l'arte, l'organizzazione sociale e politica hanno per un certo periodo innalzato la vita umana ad un alto livello di splendore e di dolcezza: per esempio Atene tra le guerre persiane e la guerra contro Sparta, l'Impero romano da Traiano a Marco Aurelio, le città maya della grande epoca classica, la Spagna musulmana a Cordova e a Granada. Non vi sono età dell'oro, né dietro né davanti a noi, tuttavia, per la durata di un lampo tra due interminabili notti, l'umanità giunge talvolta a scoprire un precario equilibrio, eccezione radiosa nel corso di una storia tenebrosa”.
Ma per non concludere con un'osservazione troppo amara, diamo l'ultima parola a un poeta, Miguel Angel Asturias, che era fiero del suo sangue maya: “Nessuno è mai tornato dal mondo verde dove, tra i daini e pavoni blu, si innalzano città da cerimonia, città cosmiche e gelate, sfida di popoli fondatori, di uomini che appartengono ad altri orizzonti, uomini che vivono come se i secoli non fossero ati; razza che contava i suoi giorni come diamanti e che aveva fede nei suoi dei, nei suoi riti di fumo e di sogni, nella saggezza delle parole, in tutto quello che cinque secoli di devastazione, di sfruttamento e di oblio non sono riusciti a distruggere completamente. Che resta della loro cultura, del loro modo di calcolare il tempo, delle divinità, della musica, delle canzoni, delle loro danze, del loro modo di lavorare la terra?”