Mario Filippeschi
IL CAMMINATORE
(THE WALKER)
Elison Publishing
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Elison Publishing Via Milano 44 73051 Novoli (LE) ISBN 9788869630316
Dedico questo libro ai miei due nipoti, Giulia e Luca.
Riferimenti a persone o fatti realmente accaduti sono da considerarsi puramente casuali e non voluti.
Trama e personaggi del romanzo sono fantasia dell’autore, i fatti storici corrispondono alla realtà documentata, come reali sono le tecnologie militari e i servizi d’intelligence descritti.
Consigli per il lettore
Per avere un quadro di riferimento preciso entro il quale si collocano gli avvenimenti descritti, si consiglia di leggere le brevi note introduttive d’inizio. Si raccomanda inoltre di leggere le note a piè di pagina che man mano s’incontrano lungo il racconto.
Desidero inoltre porre in rilievo, che alcuni paragrafi del capitolo V°, per la loro valenza tecnica, potranno apparire a tratti ostici (breve descrizione di alcune armi termonucleari russe). Pur sforzandomi di rendere tali concetti semplici, non mi è stato possibile ometterli completamente e il lettore comprenderà perché. Si consiglia quindi di superarli, in seguito, il racconto scorrerà rapidamente.
NOTE INTRODUTTIVE
Nel marzo del 1954, in Unione Sovietica, le organizzazioni per il controllo interno e la sicurezza dello Stato subirono l’ultimo cambiamento, fondendosi in un’unica grande organizzazione, il Komitet Gosudarstvennoj Bezopasnosti, (Comitato per la Sicurezza dello Stato), da cui la sigla KGB. Fin dall’inizio la struttura di questo apparato fu molto articolata, si calcola che al momento del suo scioglimento, vi lavorassero direttamente o indirettamente, inclusi gli illegali{1}, oltre mezzo milione di persone. Il KGB fu un’organizzazione unica; tutte le forme di attività che si svolgevano in Unione Sovietica e nei paesi del blocco comunista, erano da esso controllate: vita civile, apparati militari e industriali, commercio, diplomazia, legazioni estere, ambasciate eccetera. La sua struttura si divideva, per quanto non in maniera netta, in quattro direzioni centrali, comunemente dette direttorati, in nove direzioni generali e sei dipartimenti indipendenti che a loro volta, si suddividevano in direzioni sussidiarie, dipartimenti e sezioni dei servizi. Primo direttorato: si occupava delle operazioni all’estero, dividendosi in tre direzioni sussidiarie, due dipartimenti speciali e undici ordinari, dieci dei quali erano suddivisi secondo le aree geografiche per spionaggio, controspionaggio, sabotaggio, disinformazione, propaganda e falsificazioni. Il dipartimento identificato con la lettera “S”, era quello degli agenti illegali. All’interno del dipartimento Servizi denominato O.T, vi era un piccolo, segretissimo settore chiamato Taini Otdel oppure Otdel 9, il più delle volte indicato semplicemente con le lettere “V” o “F” e altrimenti detto, delle azioni esecutive. Esso era costituito da sicari, professionisti specializzati nell’eliminazione fisica e in grado di operare in ogni circostanza. Secondo direttorato: sicurezza interna dello Stato e controspionaggio; esso era composto di dodici dipartimenti. Quinto direttorato: dissenso politico, religioso, etnico. Ultimo direttorato: guardia di frontiera. Le nove direzioni generali erano: terza, Forze Armate; settima, Sorveglianza;
ottava, Comunicazioni; nona, Guardia del Corpo; le altre cinque senza numero, erano o Tecnico, Ricerca, Amministrazione, Personale e Servizi. I dipartimenti erano: Indagini Speciali, Collazione di Esperienze Operative, Comunicazioni di Stato, Sicurezza Fisica, Finanze e Registro Archivi. Nel marzo del 1978, il Politbjurò creò una nuova direzione del KGB, il Dipartimento Informazioni Internazionali, aggiunto al Dipartimento Disinformazione del primo direttorato.
La sede centrale del KGB, altrimenti detta “Centro”, era situata, in modo non adatto, in un palazzo color ocra stile rococò e a forma di torta nuziale, appartenuto prima della Rivoluzione alla compagnia delle Assicurazioni Generali russe. Lo stabile si trova a Mosca, al n.° 2 dell’allora Piazza Dzerzhinsky,{2} ribattezzata Piazza Lubjanka dal tristemente noto carcere, (un palazzone di nove piani attaccato al grande edificio). Vi erano inoltre innumerevoli altre sedi distaccate, dall’amministrazione ai servizi, ai direttorati, agli archivi, direzioni, dipartimenti eccetera. Le organizzazioni del KGB, erano i pilastri su cui si reggeva l’Unione Sovietica.
Verso la seconda metà degli anni ‘80, con l’inizio della Glasnost voluta da Mikhail Gorbaciov, l’immensa impalcatura del KGB iniziò a oscillare. Con l’avvento della Perestrojka e l’abbattimento del muro di Berlino, l’elefantiaca e ormai fatiscente organizzazione cominciò a sgretolarsi in modo irreversibile e con essa l’intera Unione Sovietica. La liquidazione istituzionale del KGB si manifestò nel 1991, durando come sepolcro imbiancato fino ai primi del 1993. Dalle sue ceneri sono nate varie organizzazioni di Stato che, nonostante siano molto preparate, ottimamente organizzate, attrezzate, temibili ed efficienti, sono una parodia di quello che era il loro leggendario genitore comune. Le principali di queste organizzazioni sono:
FSB: Servizi Federali per la Sicurezza Interna o, Servizi Sgreti Federali per la
Sicurezza. FSK: Servizi Segreti Federali per il Controspionaggio Interno, (FSB e FSK, nascono dal defunto secondo direttorato.) SVR. Servizi Segreti all’Estero e per l’Estero, (la SVR costituisce parte di ciò che era il primo direttorato.) FAPSI: È la fusione tra l’ottava direzione e l’ex Dipartimento Comunicazioni di Stato. FSO: Servizio di Protezione Federale o Polizia Federale. FPS: Servizio per la Sicurezza delle Frontiere, (ex ultimo direttorato.) Oltre queste, vi sono diverse altre organizzazioni nate dalle ceneri del KGB, meno significative e di interesse marginale.
Il GRU, (Glavnoye Razvedyvatelnoye Upravlenie o, Direzione dello Spionaggio dello Stato Maggiore delle Forze Armate), fu il fratello minore del KGB ma per questo non meno temibile. Il suo compito era e rimane quello di procurarsi i segreti militari dell’Occidente, la sua sede era a Mosca, in viale Znamenka (o Znamenka ulica), con diverse altre sedi periferiche, tra cui quelle operative presso il maggiore aeroporto della capitale. Inoltre, il GRU ha vari reparti molto efficienti facenti parte delle unità speciali chiamate spetsnaz (Spetsial’noye Naznacheniye); uomini superbamente addestrati nell’Isola di Wrangel che sono impiegati, qualora se ne presenti la necessità, come sicari, sabotatori e specialisti in imprese di alto rischio. Il GRU addestrava inoltre, terroristi stranieri per il sabotaggio, omicidi, sommosse e altro si rendesse necessario. Esso è sopravvissuto agli sconvolgimenti dei primi anni 90 e, sebbene leggermente ridimensionato come numero, ha mantenuto nel mondo occidentale la sua ramificazione capillare e ben mimetizzata, rimanendo sostanzialmente intatto e non meno temibile di prima. Dal 1992 riceve fondi dal Ministero della Difesa ed ha maggiori risorse della SVR. Il GRU aveva undici direttorati, più due speciali (ora sembra che alcuni siano incorporati in altri); essi spaziano in ogni branca dello spionaggio e controspionaggio, dal
nucleare al satellitare, alle telecomunicazioni e così via.
§§§
A distanza di anni dal trattato S.T.A.R.T stipulato tra gli Stati Uniti e l’allora Unione Sovietica, accordo che prevedeva la non proliferazione e la riduzione di una parte degli armamenti strategici e nucleari, di lavoro da fare ce n’era ancora tanto. Primo perché le difficoltà tecniche e logistiche si erano dimostrate superiori alle stime previste; secondo perché da ambo le parti, in certi ambienti, il trattato era stato accolto tiepidamente e nessuno si preoccupava più di tanto se i tempi programmati non erano rispettati e i lavori andavano a rilento. Nella Comunità degli Stati Indipendenti della Federazione Russa (buona parte dell’allora Unione Sovietica), la demolizione degli armamenti seguiva una precisa procedura. I singoli ordigni atomici e termonucleari, dopo essere stati disinnescati, erano inviati in luoghi detti fabbriche o centri di disassemblaggio, ove si provvedeva a smontarli e a distruggere i loro componenti attraverso cicli di macinazione. I materiali fissili quali uranio 235, plutonio 239 ed alcuni combustibili termonucleari, erano posti in speciali contenitori di piombo i quali sigillati e trattati con particolari procedimenti, prendevano infine la via dei cimiteri, vecchie miniere abbandonate per lo più site in Siberia. Qui giunti, si procedeva a seppellirli in appositi siti ricavati ad una certa profondità ai lati delle gallerie, aree che, una volta riempite erano infine chiuse e cementate. Per i missili, sia con ogiva a testata convenzionale, sia con ogiva a testata atomica o termonucleare, il percorso era diverso. Spediti in apposite grandi basi sotterranee chiamate basi di raccolta e transito, le testate subivano un processo di disinnesco e gli apparati di guida, controllo e comando missile erano disinseriti. In funzione della loro tipologia, i missili erano infine posti in appositi contenitori cilindrici e in attesa di essere spediti ai centri di demolizione (da non confondersi con quelli di disassemblaggio), sistemati in aree o camere di deposito site nelle basi stesse. Arrivati ai centri di demolizione, le testate nucleari venivano smontate dall’ogiva e inviate ai centri di disassemblaggio, dove seguivano la loro strada andando infine ai cimiteri, mentre i missili erano sottoposti alla
rottamazione. Tutto ciò che di questi vettori trovava uso e applicazione nel mercato industriale, – sistemi elettronici e telemetrici di guida inerziale, rivelatori, sensori, carburanti, speciali leghe metalliche eccetera – era venduto alle industrie civili, il resto macinato e ricollocato sul mercato come ferraglia. Nelle Repubbliche della Federazione Russa vi erano alcune grandi basi di raccolta e transito, altrettante fabbriche o centri di demolizione, di disassemblaggio ed innumerevoli cimiteri.
PRIMA PARTE
Capitolo I
Italia. Primi giorni di settembre dell’anno 2000.
Il colore dominante era una sequenza di sfumature verdi, rotte qua e là da chiazze d’ocra e spruzzi di giallo di ginestre ancora in fiore. L’aria fresca e pulita, era permeata dagli aromi del sottobosco che la profumavano di menta. Il cercatore di funghi era arrivato abbastanza in alto, ora i castagni si mischiavano con i faggi e il fogliame d’alto fusto formava uno sconfinato ombrello in quel bosco di montagna nel sud della Toscana. L’uomo bruno con qualche filo grigio indossava sbiaditi pantaloni di fustagno e un’azzurra camicia col colletto liso e sfilacciato. Quel dimesso abbigliamento sembrava in contrasto col suo aspetto: alto circa un metro e ottanta, di fisico asciutto ma robusto, i virili lineamenti s’intonavano magnificamente con l’ovale del volto, donandogli un’immagine di nobile signorilità. Dagli occhi castani sotto le arcuate sopracciglia, traspariva uno sguardo fermo e luminoso in cui si leggevano melanconica umanità e introspettiva intelligenza. L’uomo dimostrava un’età indefinita che poteva andare intorno ai cinquanta e a, alcune leggere rughe che, equidistanti, gli solcavano la fronte, indicavano segni di burrascosi trascorsi. Da circa due ore egli camminava con andatura incerta, scrutando il terreno ricoperto di fogliame, mentre con la punta di un bastone, di tanto in tanto, scoperchiava piccole protuberanze. Quella tarda estate dell’anno duemila sembrava non essere propizia per i funghi, l’uomo non aveva ancora trovato niente. “Forse è presto, le brevi piogge non saranno state sufficienti, ci sarà ancora d’attendere”, pensò. Continuando, il cercatore di funghi raggiunse un sentiero che conduceva verso il basso. Si fermò, poggiandosi a ridosso di un macigno sul ciglio del viottolo, spense la sigaretta fumata a metà, riponendo la restante nel taschino della camicia, sbirciò l’orologio e si pose di nuovo in cammino. Quello era un giorno importante per lui, doveva iniziare un corso di lingua inglese che avrebbe tenuto giù nel villaggio, dove da qualche tempo si era stabilito. La sua idea d’insegnare inglese facendo leva sul provincialismo dell’ambiente, sembrava aver avuto successo: la settimana precedente una quindicina di ragazzi si erano iscritti e altri, avevano chiesto quando fosse iniziato un successivo ciclo di lezioni. Al seguito di ciò, egli ne aveva programmato un secondo con inizio la settimana
successiva, saldando col denaro degli anticipi per le iscrizioni parte delle pendenze dovute alle iniziali spese sostenute. Ora l’uomo si era inoltrato in una pineta di bassi abeti, giunto al suo margine, in lontananza apparvero i due campanili delle chiese medioevali del villaggio che torreggiavano sui tetti. Una leggera inquietudine gli contrasse i muscoli dello stomaco, sensazione che spesso lo invadeva quando, dopo aver trascorso del tempo in solitudine, rientrava nell’arena del mondo. Era come se qualcosa d’indefinito, lasciato pendente nel ato, lo stesse ogni volta attendendo.
L’isola di Wrangel, in russo Ostrov Vrangelya, si trova a circa centotrenta chilometri a nord-est del Mar della Siberia Orientale, di là dal Circolo Polare Artico. Wrangel è lunga centoventi chilometri, larga settantadue, a volte la temperatura scende anche a meno settanta gradi e difficilmente sale sopra lo zero; in essa non sono mai stati ammessi estranei. A una sua estremità c’è un campo di addestramento delle unità speciali del GRU, le spetsnaz; il campo è l’unico agglomerato urbano esistente sull’isola che, di fatto, appartiene allo stesso GRU. Era il 6 di settembre dell’anno 2000, il clima insolitamente mite per quelle latitudini, rendeva il mare limpido e libero da formazioni di ghiaccio. Il blu sfumato dal bianco lattiginoso della pallida luce del giorno polare, si fondeva all’orizzonte in un tenue cobalto, donando all’affresco una sensazione di silenziosa, immacolata serenità. Un bianco cargo con qualche chiazza di ruggine sulle sue murate, dall’apparente stazza di circa cinquemila tonnellate, era ormeggiato nel piccolo porto all’estrema punta sud dell’isola. La nave, con la poppa rivolta verso il molo, aveva il grande portellone posteriore per il carico delle merci aperto. Due enormi automezzi militari coperti da teloni cerati, sostavano ai bordi della banchina. Di fianco, oltre ad un terzo automezzo di minori dimensioni, vi erano quattro grandi casse a forma di cubo con l’involucro esterno in legno. Cinque uomini in maglione nero gironzolavano intorno, alcuni parlavano tra loro facendo gesti, altri fumavano.
La BMW aveva lasciato la periferia di Mosca, ora scivolava in direzione sudovest, lungo la super strada a quattro corsie. In quel tardo pomeriggio di venerdì 8 settembre, non c’era molto traffico, si vedeva solo qualche automezzo pesante
che superando l’auto, la investiva con folate di fumo nero. Superato Arkhangelskoie, la vettura percorse un ponte, in fondo girò a destra prendendo la strada che costeggia la Moscova. In quel punto le acque del fiume sembravano poco inquinate e, in quella calda e umida sera, tra la nebbiolina che emergeva, si notava qualcuno che arrotolava ancora la lenza. Cinque minuti dopo, la berlina prese una strada secondaria che conduce all’esclusiva località di Pederelkino; il paesaggio era ameno, oltre il verde dei prati, tra frassini e betulle, qua e là si notavano le guglie di antiche chiese e monasteri. Percorso qualche chilometro, l’auto parve scomparire nel verde di una foresta di betulle e bassi abeti, poco dopo svoltò a sinistra, era quasi arrivata a Usovo (25 chilometri da Mosca), quando prese un sentiero ghiaioso accompagnato ai suoi margini da filari di frassini. Ora, in fondo, si notava l’ingresso di una dacia. La BMW parcheggiò di fianco ad altre vetture, poste a lato delle siepi che delimitavano il giardino. L’unico occupante dell’auto, un uomo smilzo dai capelli bianchi, occhiali con montatura di tartaruga e una voluminosa borsa di cuoi in mano, attraversò lo spiazzo ghiaioso dirigendosi verso la porta d’ingresso della signorile dimora. A circa 300 metri di distanza, dietro una finestra al secondo piano di una villa ricoperta d’edera, due uomini della FSB con una Nikon munita di teleobiettivo e attrezzata per la fotografia notturna, immortalavano il via vai da e per la dacia. Sulla porta d’ingresso, l’anziano uomo dal fiero portamento pigiò il pulsante del camlo, un inserviente cinese in livrea si presentò. «Buonasera, sono Markov», affermò semplicemente il visitatore. Nel fare un leggero inchino, con un gesto della mano l’alto invitò il visitatore a entrare. Dal fondo del salone spuntò un bell’uomo, alto e sulla sessantina, aveva capelli color cenere divisi da una perfetta scriminatura, indossava una camicia azzurra, pantaloni chiari e un foulard giallo. «Professor Markov, la stavamo attendendo per dare inizio alla mano di bridge» esclamò il padrone di casa, venendo incontro all’ospite con la mano tesa. Dopo la stretta, senza altri formalismi i due si diressero verso una scala dai gradini di guercia, scendendo al piano inferiore. La sala sotto il pianoterra era ben illuminata, insonorizzata, priva di finestre e bonificata dalla presenza di eventuali microspie. L’arredo era costituito da un biliardo e vari tavoli da gioco, al centro spiccava un carrello con bibite e pasticcini, quattro uomini seduti su delle poltrone dialogavano, una grande carta geografica ricopriva l’intera parete di fondo.
Capitolo II
Primo intermezzo: il nido di rondini{3} e le facce di Giano.
Il nido di rondini.
Il famoso “Salon Kitty” fu ideato nel 1938 dall’allora trentatreenne generale delle SS Reinhard Heydrich, “l’uomo dal cuore di ferro”, così ebbe a definirlo Hitler. Costui, giovane dissoluto, totalmente privo di scrupoli e capo del servizio sicurezza delle SS, il famigerato SD o Sicherheitdiest, espose al capo della Gestapo Heinrich Müller la spregiudicata ipotesi di creare a Berlino una centrale di spionaggio sotto le vesti di un’elegante casa di tolleranza. Müller rimase talmente entusiasta dell’idea che la fece subito sua. Dopo la realizzazione, sotto la regia dello stesso Müller, la casa di appuntamenti denominata “Salon Kitty”, divenne sia il più ricercato bordello dell’Europa occidentale, sia e soprattutto la più efficiente centrale di spionaggio allora esistente. I suoi clienti facevano tutti parte del variegato mondo diplomatico, economico, militare e politico che a quei tempi gravitava su Berlino. Tra i suoi celebri avventori, si ricordano tra gli altri Ciano, Ribbentrop, Henderson, Witzlitzleben e sembra anche l’allora capo dell’Abwehr (servizi di spionaggio e controspionaggio tedeschi), ammiraglio Wilhelm Canaris. Le ragazze tutte agenti della Gestapo, erano poliglotte superbamente addestrate con il compito di carpire informazioni ai frequentatori. In ogni camera dello stabile c’era una microspia accuratamente nascosta e collegata con i sotterranei della Prinzalbrechtstrasse, sede centrale della Gestapo, ove venivano ascoltati e registrati anche i più fievoli respiri in esse prodotti. Sia prima, sia dopo l’inizio della seconda guerra mondiale, per i segreti carpiti ai clienti tra una chiacchiera e l’altra nelle alcove, il “Salon Kitty” fu per la Germania nazista una fonte preziosissima d’informazioni.
Fu nel gennaio del 1953 che il colonnello generale Sudoplatov, fedelissimo di
Berja, espose a quest’ultimo l’idea di creare a Mosca un nido di rondini che fosse a immagine e somiglianza del Salon Kitty della Berlino d’anteguerra. Sebbene simili stravaganze mal si conciliassero con l’allora rigido regime permeato dall’ortodossia Marxista-Leninista, il geniale e crudele capo dei servizi per la sicurezza dello Stato sovietico, ne fu talmente affascinato che ordinò subito di studiarne il progetto. Stalin era morto il 5 marzo dello stesso anno e ora, tra i vari pretendenti al trono sovietico, le antiche ruggini formatesi nel tempo affioravano prepotentemente, facendo serpeggiare tra le mura del Kremlino la resa dei conti; conti che si sarebbero regolati alla maniera sovietica. In previsione di tal evento le due fazioni in campo, sia quella di Berja, sia quella di Bulganin e Krusčev, iniziarono segretamente a organizzarsi. Fu verso la fine di maggio che il grasso e molliccio Malenkov,- altrimenti detto Melania - e il glaciale e funereo Kaganovič - il liquidatore, - dopo aver attentamente valutato i contrapposti schieramenti, decisero di schierarsi a fianco di Krusčev. Da quel momento, l’inesorabile campana mortuaria sovietica iniziò a scandire i suoi colpi anche per il potentissimo Lavrentji Berja. Fu indetta per il 26 di giugno una riunione del Politbjuro, e quello, fu il giorno dei lunghi coltelli. Durante il concilio, con l’appoggio esterno di Žukov e Moskalenko, il gruppo composto da Bulganin, Mikojan, Molotov, Kaganovič, Malenkov e capitanato dal piccolo, mordace e vendicativo Krusčev, attuò il colpo. Il temibile capo della MVD-MGB fu da costoro immobilizzato, imbavagliato, sollevato letteralmente di peso e infine trascinato via. Verso le ore 13 furono viste are attraverso la porta Skaya del Kremlino delle auto con le tendine abbassate; dal quel momento Lavrentji Pavlovičh Berja sparì senza lasciare tracce, inghiottito dal limbo della storia, come prima di lui, e molti per opera sua, milioni di altre persone. Stessa sorte toccò alla maggior parte dei suoi fedelissimi e con loro svanì anche il progetto del Salon Kitty moscovita.
Khlorinda Haltmann era nata a Kiev nel 1953, da padre tedesco e madre greca. Quest’ultima, un’attrice della compagnia teatrale elvetica, si trovava in tournée a Colonia quando una sera del tardo 1951, dopo una rappresentazione teatrale, conobbe il marito, un chimico della Ig-Farben. Pochi mesi dopo, i due si sposarono a Patrasso, nel Peloponneso, città natale di lei. Dopo il matrimonio, abbandonato il teatro, la donna seguì il marito in Germania, ma di lì a poco il dottor Haltmann fu trasferito a Kiev per lavoro, portandosi dietro la moglie. Le commesse che a quei tempi le aziende chimiche tedesche ricevevano dall’URSS e suoi satelliti, per la creazione d’impianti di sintesi sui propri territori erano
molte, e per gli Haltmann di tornare in patria non se ne parlava. Inoltre, collegamenti e spostamenti non erano cosa facile, fu quindi giocoforza far nascere la loro figlia in Ucraina, dove al momento la coppia risiedeva. Fin dall’infanzia, la piccola Khlorinda dimostrò una notevole capacità di apprendimento, a quattro anni parlava già bene sia il greco moderno, sia il tedesco e a sei il suo russo non si distingueva da quello di una coetanea indigena. Inoltre, la bambina spiccava per grazia e bellezza. Aveva undici anni quando ad Odincovo, località presso Mosca, il padre entrò in coma diabetico, a quei tempi in Russia era cosa difficile ottenere rapidamente insulina e l’uomo dopo dodici ore morì. Di colpo madre e figlia si trovarono sole e lontane dagli affetti, Khlorinda era nata in Ucraina, il che rendeva molto difficile l’ottenimento del visto per il suo espatrio in Occidente, e di lì a non molto, le due si trovarono oltretutto prive di sostentamenti. Dopo esser state aiutate per un periodo dalla locale comunità tedesca della Ig-Farben, qualcuno suggerì di affidare la piccola a qualche organizzazione giovanile di partito, sarebbe cresciuta dignitosamente e forse avrebbe potuto anche studiare. Con estremo rammarico, la povera donna iscrisse la figlia ai giovani pionieri della locale sezione e di lì a non molto, la piccola Khlorinda si trovò a Mosca, presso un istituto patrocinato dal partito. Fin dall’inizio la giovane fu notata oltre che per la vivace intelligenza, anche per la gentilezza nei suoi modi e bellezza. Compiuti quindici anni, la ragazza si trovò direttamente inserita nella Komsomol (l’organizzazione della gioventù comunista), divenendo una fervente attivista. In seguito frequentò sempre a spese del partito, l’istituto di lingue e letteratura russa presso l’università moscovita di Stato Lomonosov, dove poco più che ventunenne si laureò. Ora parlava fluentemente e senza accento anche l’inglese e l’italiano, cavandosela sufficientemente bene con il se. Durante quel decennio, le sue note caratteristiche, unitamente ai progressi nell’indottrinamento ideologico, furono sempre e puntualmente inviate alla direzione del KGB, impropriamente chiamata nona (Direzione del Personale). In alcune di esse, si leggeva: “L’Haltmann, sembra essere un perfetto mix di razionale intelligenza paterna ed esotico fascino mediterraneo materno.” In tutti quegli anni alla giovane fu concesso di vedere la madre solo quattro volte, poi la sfortunata donna, tra stenti e qualche saltuaria recita nei gelidi capannoni alla periferia di Mosca, si ammalò di tubercolosi morendo poco dopo. Khlorinda aveva appena terminato l’università, quando si trovò inserita e arruolata col grado di sottotenente nella terza sezione del settimo dipartimento del secondo direttorato KGB (controllo e verifica dei turisti stranieri). Fino al
1977, lavorò sotto il tetto{4} di accompagnatrice turistica e pastore{5}, dal 77 all’84 fu introdotta al seguito di legazioni economiche, diplomatiche e scientifiche come infermiera{6}, visitando ripetutamente sia l’Europa, sia gli Stati Uniti d’America. Khlorinda Haltmann era alta un metro settantaquattro, aveva occhi e lunghi capelli castani, i lineamenti di una bellezza senza pari si armonizzavano splendidamente con la sensuale bocca dalla perfetta dentatura di madreperla. Di seno abbondante, aveva vita stretta e fianchi larghi da contadina mediterranea e le solide gambe perfettamente modellate, lasciavano intravedere cosce sode come marmoree colonne: era l’avvenenza femminile personificata. Nell’ottobre dell’84, il capitano Haltmann che conosceva il mondo, parlava sei lingue senza accento e correva per i trentadue, fu convocata dal maggior generale Dimitry Puskin, capo del primo dipartimento del secondo direttorato. Si trattava di un incarico segretissimo, importantissimo e delicatissimo.
Nel 1982, a seguito di una riorganizzazione interna del KGB, voluta dal suo presidente, Yury Andropov, in uno scaffale negli archivi dell’Indice Centrale{7} in Mohovaja ulica, tra la muffa delle carte ingiallite dal tempo emerse un bizzarro progetto. Dopo un primo, sommario esame, fu rispolverato e posto in evidenza, infine, a seguito della curiosità inizialmente suscitata venne studiato a fondo e di lì a poco, fu deciso di porlo in cantiere: si trattava del Salon Kitty moscovita.
Alla morte di Breznev, Yury Andropov fu innalzato al rango di Presidente del Soviet Supremo e Segretario Generale del PCUS, al suo posto fu nominato il colonnello generale Fedorchuk che di lì a breve assunse la carica di Ministro degli Interni; dopo di lui, fu infine nominato Presidente del KGB Chebrikov che alla fine dell’84 portò a termine il progetto. L’esclusivo ritrovo fu convenientemente locato nel cuore di Mosca, in un’anonima palazzina stile vittoriano risalente alla fine del secolo diciannovesimo. Lo stabile già dimora dei conti Dimitrov, nel 1918 fu requisito dallo Stato divenendo prima una sezione distaccata dell’amministrazione delle ferrovie, poi una sede del commissariato della milizia. Nel 1933, Stalin fece fucilare con l’accusa di Trockjsmo e deviazionismo di destra la maggior parte
dei vertici di quel corpo e da allora, la signorile dimora cadde in disuso. L’entrata si trovava sulla tranquilla Stolovyj pereulok e il retro dello stabile dava sul Merzijakovskij pereulok (via Merzijakovskij), luogo sito entro un quadrilatero ove si trovano importanti ambasciate, consolati, prestigiosi alberghi e molteplici edifici pubblici di primaria importanza. In ogni locale dell’edificio, ora adibito a discretissima casa di tolleranza, fu installato un impianto di musicassetta{8}, collegato con i sotterranei del non lontano palazzo dell’amministrazione KGB sulla prospettiva Kutuzovsky. Da laggiù, una centrale di musicisti{9} registrava audiovisivamente ogni fatto e conversazione che si svolgeva all’interno di quelle stanze. Le ragazze tutte giovani e bellissime, oltre il russo e l’inglese parlavano almeno una terza lingua. A cavallo tra l’84 e l’85, nelle Ambasciate e Consolati, tra le varie legazioni estere, nei principali alberghi ed in certi ambienti militari e burocratici moscoviti, iniziarono a circolare voci secondo cui, laggiù, dalle parti della fermata metropolitana di Arbatskaja, c’era il miglior casino di tutto l’Emisfero orientale, roba di prima scelta e per tutti i gusti. La chiacchiera si sparse alla velocità del vento e poco dopo, nella gelida Mosca l’esclusivo ritrovo iniziò a funzionare a pieno regime. Fin dall’inizio, per i titolati clienti, il bordello assunse la denominazione ipocritamente borghese della “casa di Madame Korin”. Korin, era il nome in arte della direttrice e tenutaria che, in realtà, si personificava nei panni di un maggiore del KGB corrispondente a una certa Khlorinda Haltmann, capo dell’ufficio B, seconda sezione, primo dipartimento del secondo direttorato.
Le facce di Giano.
Mosca. 1986. L’angusto ufficio sotto il pianoterra odorava di scartoffie e di chiuso. La poca luce che filtrava dalle grate a filo sul marciapiede rendeva l’ambiente semi buio, una lampada da tavolo sulla scrivania accanto ad una pila di vecchi giornali illuminava il dattilografo. L’intermediario{10} rilesse le quattro righe, infine concluse la breve missiva con le seguenti parole:
Moskow. Saturday, october 12 st 1986. Signed,
Romero.
Estratto il foglio dalla Olivetti, l’intermediario lo sostituì con una busta bianca e batté l’indirizzo del destinatario:
To Helen Leach. 97 Springfield Rd, London SE 91.
Inserito il foglio dentro la busta, dopo averla chiusa l’affrancò, spense la luce e uscì. A metà rampa delle scale, il corpulento uomo, un po’ affaticato, si fermò a caricare la pipa, strusciò un zolfanello sotto la suola di una scarpa, la accese e proseguì. Giunto in cima alla scalinata s’incamminò per il vuoto atrio, dirigendosi verso la gran vetrata oltre la quale, in lontananza, s’intravedevano le mura del Kremlino. Arrivato in fondo, rivolgendosi ai due uomini seduti dietro la scrivania, nel portarsi un lembo della busta alla fronte in segno di saluto, in
lingua inglese semplicemente affermò: «Da spedire.» «Oggi è sabato, ormai partirà lunedì, Mister Mallory» rispose uno dei due uomini del servizio di vigilanza, ponendo la busta nella vaschetta a lato della scrivania. Romero annuì. «Sì, certo» disse, nel voltarsi, dirigendosi verso l’uscita dell’Ambasciata.
Capitolo III
Base di Khariskjia. Siberia nord-occidentale, 27 settembre 2000.
Una sensazione di rozza efficienza e monotona tristezza permeava l’intero ambiente. Le pesanti porte blindate delle camere di deposito si susseguivano con meccanica simmetria ai lati dei rugginosi binari che correvano al centro del cupo, grande tunnel. Le pareti di calcestruzzo trasudavano umidità e gli enormi ventilatori a pala pendenti dalla volta, non riuscendo ad arieggiare gli ambienti in modo uniforme, rendevano l’aria intrisa di un malsano odore di muffa e di chiuso. Le fredde luci dei neon che correvano lungo il tunnel, riflettevano sul grigiastro metallo delle blindature, aggiungendo al cupo affresco una spettrale tinta d’oltretomba. Il maggior generale Aleksej Uljanovič Kenyev veniva da Mosca, dallo Stato Maggiore dell’arma del Genio. Egli sostituiva momentaneamente il generale Pavel Ordžone al comando della grande base di raccolta e transito di Khariskjia, nella Siberia nord occidentale. Il generale Ordžone, titolare del comando della base, un mese prima si era dovuto ricoverare all’ospedale militare di Vorkuta per un’antipatica operazione alla prostata e, da una decina di giorni in convalescenza, tra breve sarebbe rientrato. Da tempo ormai Kenyev attendeva un messaggio importantissimo che sarebbe dovuto arrivare intorno al 13 di settembre, così gli era stato assicurato a Mosca, ma erano ati diversi giorni e tutto taceva. Era mercoledì, sabato sarebbe rientrato Ordžne e quel giorno lui avrebbe dovuto argli le consegne, per poi rientrare a Mosca e riprendere possesso del suo ufficio allo stato maggiore. I tartari occhi verdi sotto le bionde sopracciglia dritte come cuciture, avevano uno sguardo pensieroso, per un istante il generale sembrò distrarsi al rumore del montacarichi, poi lo sguardo tornò cupo. Poco dopo, uscito dalla gabbia al terzo e ultimo piano della palazzina comando, sita all’aperto sopra il principale ingresso sotterraneo della base, Kenyev entrò nel suo ufficio. Lanciò un’occhiata al computer, lo schermo del monitor aveva ancora la maschera iniziale. Il generale fece un gesto di stizza e nell’accendere nervosamente una sigaretta, si avvicinò infine alla finestra dai
tripli vetri piombati. Fuori lo spettacolo era magnifico, la notte precedente era nevicato e i ghiaccioli cristallizzati che pendevano dai rami dei pini e sulle conifere della foresta, scintillavano sotto il pallido sole della tarda mattinata siberiana, formando un generale, vibrante luccichio. Quella vista sembrava non contribuisse a rialzargli il morale, Kenyev aveva lo sguardo fisso verso Oriente, come se sotto il gonfio e scialbo sole stesse focalizzando un immaginario punto oltre le cime dei pini, lassù a nord-est, dove terminava la catena degli Urali polari e inizia la grande penisola dello Jugor. All’istante i sensi gli si acuirono, il caratteristico ronzio annunciava che la stampante laser era entrata in funzione. Di colpo si precipitò alla scrivania; il display del monitor aveva cambiato schermata, mentre la stampante vomitava un foglio A4:
K 140. 213 KSY. Segretissimo. Da: Comando III° Reggimento V° Brigata Missilistica Strategica. A: Comando Base Raccolta e Transito di Khariskija (Usinsk). CC: Comando Stato Maggiore Artiglieria Missilistica (Mosca). 1) Immediata Nostra Disponibilità Invio Due (2) Vettori Classe SS-20 (SABER). IRBM–M1. Ogiva Singola Testata RV 0.65 MT. 2) Chiediamo conferma invio. Usogorsk 27-09-2000. LO01. 1554LK5.
«Finalmente!» esclamò il generale ad alta voce, dopo aver letto il messaggio.
A Khariskija, il maggiore d’artiglieria Miša Šovotin ricopriva una posizione
delicata, essendo egli il responsabile dell’accettazione e stoccaggio di quella base di raccolta e transito. Tale incarico, di fatto, lo rendeva responsabile in prima persona dell’immenso potenziale distruttivo delle testate missilistiche giacenti nei ventiquattro depositi di quel grande centro. In quel momento l’ufficiale era chino su delle carte, quando il telefono squillò. «Qui, Šovotin.» Il generale Kenyev non amava il linguaggio rozzo di certi ambienti dell’ex gerarchia militare sovietica, usava e pretendeva un corretto formalismo verbale. «Sono Kenyev, ho appena ricevuto un messaggio da Usogorsk, la quinta brigata missilistica può inviarci immediatamente due vettori SS-20 con ogiva a singola testata nucleare da 650 kilotoni.» «Sì, generale. Mi è arrivato in copia, è qui, sulla scrivania.» «Quando potrebbero giungerci questi missili, se inviamo subito messaggio conferma accettazione?» «Usogorsk dista poco più di quattrocento chilometri, se partono nelle prossime ore, dovremmo riceverli al massimo entro il pomeriggio di domani.» «Quindi, i vettori potrebbero essere disinnescati e posti nella relativa area di deposito nella mattinata di venerdì.» «Esattamente, generale.» «Invii subito messaggio d’accettazione, maggiore. Specifichi in chiaro che li attendiamo al più tardi entro la giornata di domani!» L’ufficio del comandante della base comprendeva due piccoli vani supplementari, uno adibito a servizio toilette, l’altro a stanza di riposo. Kenyev sedette sul bordo della branda militare, pensando alla sequenza delle azioni future, un solo errore sarebbe stato fatale, ma si sentiva sicuro. Durante quel breve periodo di permanenza, senza farsi notare, discretamente aveva cercato di assimilare ogni dettaglio delle complesse procedure che regolavano le varie attività del centro. Uscito dalla monastica stanza, si diresse verso l’ampia scrivania ed iniziò a lavorare sul computer. Pochi secondi dopo, sullo schermo del monitor apparve una maschera dove erano classificati tutti i quarantasei tipi di vettori in dotazione alle forze missilistiche strategiche di terra dell’attuale Federazione Russa. Accanto alla dicitura di ogni vettore, c’era la sigla del contenitore cilindrico in cui, come in una custodia protettiva, il missile era
abitualmente riposto quando non era sulle piattaforme dei siti di lancio o, sulle rampe di lancio mobili, pronto a partire. Il generale portò il cursore della tastiera sotto la sigla SS-20 e pigiò il tasto invio. Un istante dopo, lesse: SS-20 (SABER) 77 IRBM, SOLID, L1. Memorizzò quest’ultima sigla e iniziò a salire sulla maschera del database, controllando attentamente ogni file, dopo alcuni minuti il cursore era sotto una riga il cui file riportava: SS-1CM2 SCUD.B 65. MRBM UDMH/IRFNA, L1. La sigla L1, era quella di un contenitore cilindrico per classe di missili di varie lunghezze, variabili da un minimo di dodici metri ad un massimo di diciannove. Kenyev aveva trovato ciò che stava cercando: i vettori che, oltre agli SS-20, erano abitualmente posti nei contenitori classe L1. Eseguì la stampa di quel file, quindi sulla tastiera digitò il codice di accesso di un secondo e più completo database. Esso gestiva gli stoccaggi esistenti nelle varie aree di deposito con i relativi dati di ogni missile in esse contenute: categoria, matricola, tipo di testata, data di arrivo, di disinnesco e allocazione. Soltanto due persone, oltre al comandante della base, erano in possesso di quella : il maggiore Šovotin ed il tenente colonnello Ijumar Gregoriev, responsabile delle spedizioni verso i centri di demolizione. Entrato nel programma, il generale digitò la sigla SS-1CM2 SCUD-B. Il monitor mostrò una maschera con dieci lunghi file allineati (erano i dati relativi ai dieci missili classe SCUD-B, al momento giacenti nella base di Khariskija). La dicitura in neretto, in alto al centro dello schermo, riportava: contenuto dell’area deposito B12, aggiornato al 27-09-2000 ore12.40; data e ora corrispondevano a quelle del suo orologio. Eseguì la stampa della maschera, pose il foglio nel terzo cassetto della scrivania, uscì dal programma e si diresse verso la finestra. Orientò verso nord l’antenna di un piccolo ricetrasmettitore satellitare, infine digitò una serie di caratteri sul tastierino e pigiò il tasto send. Soddisfatto, Kenyev telefonò alla mensa ufficiali, ordinando che il pasto gli fosse portato in ufficio, poi si recò alla toilette e con l’accendino bruciò il foglio su cui era stampato il file con la sigla L1.
Il dottor Avel Ežov, già maggiore del GRU, era il direttore del centro demolizione di Ust-Kara, località nell’omonimo, gelido mare, situata sul Golfo di Bajadarata, nella penisola dello Jugorski, a nord del Circolo Polare Artico. In quel momento egli era solo, seduto a un tavolo della mensa di quel centro, al secondo piano del basso e squallido edificio dai grandi finestroni dai tripli vetri piombati. Era freddo, il cibo pessimo e lui non aveva appetito. Dopo aver mangiato un filetto di aringa e bevuto un bicchiere di vodka d’infima qualità, aveva rivolto gli occhi in basso, spaziando con lo sguardo di là dalla vetrata; al
suolo c’erano già oltre cinquanta centimetri di neve e stava gelando. Lo sguardo andò oltre, abbracciando l’intera insenatura, penetrando tra la fievole luce di quel grigio giorno artico. Il mare era una tavola che si estendeva a perdita d’occhio di nafta, oli minerali e sporcizia varia; liquami di scarico delle sentine d’innumerevoli navi che, non potendo a quelle temperature evaporare, tramite la marea avevano segnato le pareti rocciose del fiordo di una bordatura nera, divenuta parte integrale del paesaggio. Ežov abbassò lo sguardo sul bicchiere vuoto, scosse lentamente la testa, pensando: “Che posto di merda, dimenticato da Dio e dagli uomini, ma se le cose andranno per il loro verso, presto tornerò a San Pietroburgo.” Era assorto in questi pensieri quando un ronzio proveniente dalla tasca della pelliccia di colpo lo portò alla realtà. Poco dopo, nel suo ufficio, digitava sulla tastiera del computer la sequenza dei caratteri alfanumerici che il suo ricetrasmettitore satellitare aveva poco prima ricevuto e visualizzato sul piccolo display.
Erano le ore 22.30. L’unica luce ancora accesa nella palazzina comando della base di Khariskija, era quella nell’ufficio del comandante. Il generale aveva appena terminato di rileggersi gli orari e le procedure che regolavano i turni di guardia all’interno della base. Il totale degli uomini in forza a Khariskija ammontava a novecentododici unità, di cui quattrocentotrentacinque facevano parte del battaglione della guardia; quest’ultimo forniva il servizio di sicurezza 24 ore su 24 con tre turni giornalieri di otto ore: dalle cinque antimeridiane alle 13, alle 21 e così via. Per gli uomini in servizio di guardia durante il giorno, l’intervallo di mensa era dalle 12 alle 13 per chi prendeva servizio alle 13 e, dalle 13 alle 14 per chi alle 13 terminava il servizio. Per il resto del personale, vi era un unico intervallo diurno, dalle 13 alle 14. Ora Kenyev era assorto sullo stampato con i dieci file che nella tarda mattinata aveva riposto nel terzo cassetto. Gli interessavano le sequenze numeriche relative alle matricole dei vettori riportati in quei file. Tirò fuori un prontuario militare storico missilistico e cercò sull’indice la sigla SS-1c (scud-b). Strappò da un notes un foglio e vi scrisse due righe in chiare lettere, lo infilò in tasca, si recò nell’attigua toilette e bruciò lo stampato con i dieci file. Erano le 23, il generale ancora incollato al computer, era intento a leggere sullo schermo del monitor gli ordini del giorno relativi ai vari turni di guardia, computerizzati una settimana per l’altra. Voleva sapere chi, venerdì 29
settembre, avrebbe avuto la responsabilità del turno di guardia pomeridiano nell’area deposito A4. In quella camera di deposito, sarebbe stato comandato di servizio il sergente maggiore Rašha Protčkin. Qualche secondo dopo, digitalizzò il codice segreto d’accesso al data base che gestiva i dati del personale, componendo infine il nome del sergente maggiore. La schermata che seguì mostrò sul frontespizio del libretto militare la foto e firma dell’uomo. Keniev eseguì la stampa, mise il foglio nel terzo cassetto, prese un timbro a caso e, da un mazzo di chiavi che davano accesso a particolari uffici, estrasse quelle dell’ufficio Maggiorità e del Centro elaborazione dati. Di lì a poco, egli era al piano inferiore, all’interno dell’ufficio Maggiorità. La debole luce di servizio non illuminava a sufficienza l’ambiente e, non volendo dare nell’occhio accendendo le luci ordinarie, poiché l’edificio era sorvegliato dalla ronda perimetrale esterna e piantonato alla porta d’ingresso, usò una torcia a stilo. Si diresse alla scrivania del capitano Pavlov, aprì il primo cassetto, sul fondo c’erano vari mazzi di chiavi, lesse le etichette, scelse due chiavi. Alcuni secondi dopo, con una aprì un armadio metallico al cui interno erano ordinatamente allineate pile di moduli di carico. Erano i documenti attraverso i quali la base certificava la presa in consegna delle varie tipologie di vettori, missili che, dopo il loro disinnesco, erano destinati a finire nelle aree di deposito in attesa di essere forse un giorno inviati ai centri di demolizione. I moduli che a lui interessavano erano sulla seconda pila, ne prese due. I tre fogli che li componevano avevano colori diversi: azzurrino per l’archivio centrale della base, verde per l’archivio maggiorità e grigio da inviare a Mosca, allo Stato Maggiore. Con la torcia Kenyev sciabolava all’interno di un secondo armadio, contenente delle rastrelliere con i duplicati di ogni timbro utilizzato nella base; tirò fuori il quinto della prima rastrelliera, tolse la plastica protettiva e controllò la dicitura: era quello giusto. Lo impresse prima su un tampone, poi su un riquadro posto in fondo ad ognuno dei sei fogli costituenti i due moduli, infine riappiccicò la plastica e ripose il timbro al suo posto. In alto, sulla quinta fila della rastrelliera c’era una targhetta con su scritto area deposito A4, estrasse il terzo timbro dall’alto verso il basso, come nel precedente controllò attentamente la dicitura e lo sostituì con quello che si era portato dietro. Ora il generale era giù, al primo piano, nella sala elaborazione dati. Guidato dalla torcia, si diresse verso un computer Macintosh, collegato con un gran plotter Roland. Quest’ultimo aveva uno strano modulo continuo, costituito da una serie moduli staccabili lunghi tre metri per trenta centimetri di altezza, formati da un composto di alluminio e poliestere, materiale di colore grigio,
molto duttile e leggero; ogni modulo aveva ai suoi margini perimetrali sedici fori per l’inserimento viti. Erano ati quindici minuti, quando spento il sistema, Keniev staccò dal plotter i due moduli formato 300x30 cm. Ora nei due stampati erano incise, le sigle e le matricole di due vecchi missili, classe SS-1C (SCUD B) che in precedenza, nel suo ufficio, egli aveva scritto sul foglio del notes. Prestando infine estrema attenzione a non imprimere grinze sugli stampati, li arrotolò delicatamente infilandoli nelle capienti tasche del cappotto. Rientrato in maggiorità, si assicurò di riporre tutto in ordine ed uscì, richiudendo la porta a chiave. Giunto nel suo ufficio, nel terzo cassetto della scrivania depositò timbro, moduli di carico e stampati del plotter, alla toilette estrasse dalle tasche ogni appunto cartaceo e, come al solito, bruciò tutto facendone sparire le tracce. Subito dopo ingerì un tranquillante e si coricò nella brandina da campo.
La vegetazione del sottobosco iniziò a vibrare, il tremolio si fece più intenso, ora i rami delle betulle ondeggiavano come schiaffeggiati da raffiche di vento. Un gruppo di ghiandaie appollaiate, presero improvvisamente il volo per l’assordante frastuono che in un crescendo, era diventato un boato senza eco. Il mostruoso automezzo, trasportatore-elevatore-lanciatore TEL MAZ-543 SI III ultima serie, con i parabrezza sporchi di terra rossa, schizzi di fango e neve, tranciava e sradicava tutto ciò che incontrava sul suo cammino. Quel veicolo militare, invece di una singola rampa ne aveva due mobili allestite per la bisogna di quel particolare trasporto. Su ognuna delle due rampe, era ancorato un enorme cilindro contenitore missile, della lunghezza di oltre diciotto metri e del diametro superiore ai due. Entrambi sporgevano qualche metro oltre la cabina guida, con un angolo di elevazione di circa venti gradi. La scorta di quel trasporto era composta da venti paracadutisti armati di bombe a mano, lanciarazzi e fucili mitragliatori ak-47 dal calcio ribaltabile, sulla base del veicolo al centro del parapetto, due mitragliatrici leggere PKMS erano rispettivamente poste ai lati del TEL. In quel momento l’imponente autocarro stava lasciandosi alle spalle l’intricata foresta, a nord delle paludi Lyža, nella Siberia nord occidentale, un centinaio di chilometri a sud della grande ansa del fiume Pečora. Alcuni minuti dopo, all’interno della cabina guida il capitano batté una mano sulla spalla del primo autista, ordinando: «Ferma! Dobbiamo fare il punto.» L’ufficiale, aperto il tettuccio, si eresse sotto l’estremità del cilindro di destra, si
tolse gli occhialoni anti-polvere lasciandoli pendenti intorno al collo, trafficò un paio di minuti con carta militare e bussola, infine si portò il binocolo agli occhi e iniziò a scrutare. «Bene! Lassù, a nord-est, prima dell’ansa del fiume Usa. Tra cinque ore al massimo saremo arrivati», disse rivolto ai due manovratori. Calatosi di nuovo al suo posto, richiuse il tettuccio e con l’indice indicò ripetutamente la direzione da seguire.
In quel momento il generale Kenyev era intento nel radersi, quando gli parve di udire un ronzio proveniente dall’altra stanza; con la faccia rasata a metà, si diresse verso la sorgente del rumore, era la stampante laser appena entrata in funzione.
C447 138 USK Segretissimo DA: Direzione Centro Demolizione Ust-Kara A: Comando Base Raccolta e Transito di Khariskjia (Usinisk). CC: Comando Stato Maggiore Artiglieria missilistica (Mosca). 1) Giorno primo ottobre, disponibilità impianti per distruzione due (2) Vettori classe SS-1CM2 (SCUD-B). Urge conoscere vostro intendimento riguardo eventuale invio.
L411 418 SKK Ust-Kara 28-09-2000
Le labbra del generale si tirarono in un sottile sorriso. Pensò ai tempi. Le procedure in merito ai trasporti erano ferree: il carico doveva effettuarsi entro le
tre ore precedenti l’ora d’inizio trasporto e, per ovvi motivi di sicurezza, le matricole che identificavano i vettori da spedire le avrebbe fornite il computer secondo una precisa procedura solo sei ore prima l’inizio partenza. Poteva prendersela comoda, con una guancia ancora insaponata, il generale tornò tranquillamente alla toilette. «Qui, Gregoriev» rispose la voce dall’altro capo del telefono. «Sono Kenyev, ho ricevuto poc’anzi un messaggio proveniente dal centro demolizione di Ust-Kara. Domenica prossima hanno disponibili gli impianti per la macinazione di due SCUD-B.» «Sì generale, l’ho ricevuto in copia, ma… chi credono di essere costoro? Affinché il carico possa arrivare nella mattinata di domenica, dovrebbe partire da qui sabato all’alba, e…» Capendo al volo l’antifona, l’altro troncò bruscamente quelle lamentele: «Evidentemente, anche loro come tutti avranno dei tempi da rispettare. Inoltre, nella mattinata di sabato dovrò are le consegne al generale Ordžone e non voglio lasciare incombenze pendenti. Invii immediatamente messaggio conferma partenza! Chiaro colonnello?» il tono non lasciava alternative. «Sì generale. Certamente, subito…»
Il dottor Ežov seduto davanti al computer, con alla sua destra una tazza di tè abbondantemente allungato con vodka, stava scrivendo qualcosa su un notes, quando la stampante entrò in funzione. Con la sigaretta che gli pendeva dalle labbra, non alzò più di tanto lo sguardo dallo scritto, sapeva quel messaggio da dove proveniva e cosa trattava.
Sul Mar di Kara, a 73° 30’ Latitudine Nord, 74° Longitudine Est, si trova l’isola perennemente ghiacciata di Sokal’skogo. I tenui colori lattiginosi, sotto la pallida luce simile a un crepuscolo di quel giorno senza nubi, si fondevano in lontananza col turchese delle acque ancora libere dai ghiacci, dando allo scenario una sensazione di gracile, quieto candore. La jeep diretta a sud con le quattro ruote motrici in funzione, arrancava incerta
sulla dissestata pista ghiacciata. Il guidatore aveva una faccia comunemente anonima, calzava un berretto di lana color arancio e indossava una pesante giacca a vento sopra un maglione nero. Il eggero al suo fianco, con una lunga barba nera sufficientemente incolta, portava una benda sull’occhio destro, indossava una pelliccia e un peloso colbacco gli copriva il capo. Da quando erano partiti dal centro, sei miglia a nord, nessuno dei due aveva proferito parola. Fu il guidatore a parlare. «La vedo preoccupata, comandante.» Pensieroso, il guercio distolse lo sguardo da un gruppo di oche bianche in trasmigrazione verso il Polo Sud. Puntò l’indice contro lo sciame, dicendo: «Quegli uccelli, sono formidabili trasmigratori. Per raggiungere la loro meta percorreranno un itinerario d’insieme di oltre trentamila chilometri. La loro dipartita, sta a indicare che presto il Mar della Pečora inizierà a gelare. Ciò significa, che ogni giorno che a, il pericolo di rimanere bloccati per noi aumenterà in maniera esponenziale.» «Prima di venti, venticinque giorni, le previsioni meteorologiche non prevedono formazioni di ghiaccio, né sul Mar della Pečora, né su quello di Barents» rispose il guidatore. L’altro, annuendo, chiese: «Il problema carburante è stato risolto? Sarà una crociera molto lunga e dopo la prima breve sosta, senza scali.» «Ė stato tutto predisposto come da piano. La nave ha i serbatoi pieni, inoltre la scorsa notte sono stati stivati ventimila litri supplementari di nafta in bidoni da duecento.» Nel volgere sguardo verso lo sciame ormai lontano, il barbuto tacendo annuì di nuovo. Arrivata sullo spiazzo antistante il piccolo porto a sud dell’isola, la jeep curvò lentamente a sinistra portandosi parallela al molo d’attracco. In fondo, era visibile un bianco cargo dall’apparente stazza di circa cinquemila tonnellate, batteva bandiera della Federazione Russa e l’unico fumaiolo vomitava pennacchi neri. Ora, sotto il parapetto di poppa della nave, era leggibile la scritta in nero Mockba (Mosca), mentre lungo le sue murate, qua e là si notavano chiazze di vernice screpolata dalla ruggine. La jeep si bloccò davanti alla scaletta d’imbarco, il guidatore porse al guercio una borsa gonfia di documenti, infine, allungando la mano, disse: «Se tutto va bene, ci rivedremo tra qualche giorno. In
ogni caso, buona fortuna, comandante.» «Di fortuna ne avremo tutti il bisogno, colonnello» rispose l’altro, nel restituire la stretta. Sulla battagliola della nave, ad attendere il comandante c’era un uomo basso e largo con un pesante giaccone di cuoio nero. «Come andiamo, Oleg? Tutto a posto?» chiese il guercio, appena messo piede sul ponte di coperta. «Tutto a posto comandante, pronti a salpare» rispose Oleg, nello stringere la mano che gli era tesa. Quei due uomini, oltre ad una coppia di macchinisti, erano gli unici membri dell’equipaggio di quello strano mercantile.
Erano le 16.00, quando Kenyev entrò nell’ufficio di Šovotin. Da un pacchetto di sigarette, il generale ne fece scivolare fuori un paio offrendone una al maggiore. «Sono arrivati quei due SS-20?» chiese in modo banale. «Sì generale, mezz’ora fa. Ora sono nell’area di accettazione, gli uomini stanno ultimando le formalità per il aggio di consegna. – l’ufficiale sbirciò l’orologio – Tra qualche minuto dovrò scendere giù anch’io per legittimare con una moltitudine di firme, la loro presa in carico.» IL generale poggiando le mani sul bordo della scrivania, nell’espellere fumo dalle narici, distrattamente affermò: «Domani, le formalità concernenti all’avvenuto disinnesco e allocazione di quei vettori, vorrei compierle io. – sfoderò un sorriso – Per la mattinata di domani la esonererò dal suo incarico…» Per un momento gli occhi del maggiore si dilatarono. «Ma generale, le procedure non…» Kenyev non lo lasciò terminare, spiegando bonariamente al subordinato qual era il suo problema: «Vede maggiore, in questo mese di mia permanenza qui alla base, di lavoro ve n’è stato poco. Francamente, non ho avuto modo di apprendere molto su come siano articolate le varie fasi operative e, come giri il sistema all’interno del sito. Sabato sera tornerò a Mosca, laggiù dovrò stendere
una relazione e per far questo, dovrò pur conoscere qualche procedura operativa, no? L’esperienza di domani mi permetterà di tirare giù un rapporto accettabile. È chiaro che dovrò cavarmela da solo e senza alcun aiuto, diversamente, dopo un paio d’ore correrei il rischio di non ricordare niente.» «Certamente generale, è cosa normale» rispose Šovotin, convinto dalle argomentazioni esposte dal superiore. L’altro sbirciò l’orologio. «Non vorrei farle perdere dell’altro tempo, maggiore. Ha i relativi moduli di carico?» «Sì. Li ho ritirati stamani in maggiorità. – dal cassetto della scrivania estrasse una cartellina, la ò all’altro – All’apparenza sembrano ostici da riempire, ma con un minimo di attenzione e seguendo le diciture riportate sulle caselle, non dovrebbe incontrare difficoltà.» «Vedrò di non commettere errori. A proposito… a che ora inizia l’operazione disinnesco?» «Alle 9, generale.» I due moduli all’interno della cartellina, formato 45x32cm, erano pieni di caselle e i colori dei rispettivi tre fogli erano giallo, arancio e bianco. Nel proprio ufficio, ora Kenyev leggeva sul display del monitor la statistica dei tempi impiegati per il disinnesco dei vettori della classe SS-20 con testate nucleari M1. Escludendo il sopraggiungere di problemi tecnici, il tempo medio di disinnesco era dai trenta ai quaranta minuti. Con le dita Kenyev tamburellò nervosamente sulla scrivania, pensando: “Trenta, quaranta minuti. Più venti, venticinque per il reinserimento nelle custodie cilindriche L1. Tempi brevi, troppo brevi, come allungarli per arrivare alle tredici in punto?” Alcuni minuti dopo, alzata la cornetta, chiamava il tenente colonnello Mikojiev, capo del personale tecnico, chiedendo chi l’indomani avrebbe comandato la squadra dei disinnescatori. «Il maggiore Sergeij Vložinskij» fu la risposta. Subito Kenyev entrò nel programma gestione dati del personale, andando a leggersi il curriculum dell’ufficiale. Il maggiore Sergeij Illiovič Vložinshij, non ancora ventiquattrenne, aveva
conseguito il dottorato in ingegneria elettronica laureandosi con il massimo dei voti presso il severo politecnico di S. Pietroburgo. Subito dopo, arruolato nel servizio militare col grado di sottotenente, fu inviato alla scuola missilistica di Vnukovo, alle porte di Mosca, dove diciotto mesi più tardi né usci col grado di capitano e secondo in graduatoria del suo corso. Da lì, lo mandarono nella cittadina di Novosibirsk, dove per due anni partecipò a severi corsi sulle varie tecnologie concernenti alle testate atomiche e termonucleari. Uscito col grado di maggiore, fu assegnato alla seconda brigata missilistica strategica e ora, da otto mesi, era in forza in prestito presso la base di Khariskjia, quale responsabile del gruppo disinnesco missili a testate nucleari. Il maggiore Vložinshij aveva ventinove anni, tutte le carte in regola per una brillante carriera e le sue note caratteristiche riportavano che si trattava di una “testa”. Uscito dal programma e spento il computer, Kenyev si portò una mano alla fronte cadendo in riflessioni. Erano le ventuno, quando per l’ultima volta Kenyev si esercitò nel falsificare alcune firme. In ultimo, estrasse dal terzo cassetto della scrivania i due moduli di carico, sottratti la sera precedente all’ufficio maggiorità, e ora accuratamente riempiti; con mano ferma, accluse falsificando la firma del maggiore Mišha Šovotin in ognuno dei sei fogli costituenti i due moduli. Le firme vergate in basso a sinistra, erano sotto il timbro impresso la sera prima in maggiorità, la cui dicitura riportava, Base di Khariskjia. Ufficiale responsabile accettazione e stoccaggio.
Sotto la spettrale luce dei neon, i coni delle ogive brillavano di un maligno rosso fiammante. I due vettori nucleari erano stati tolti dai loro contenitori cilindrici di protezione, e ora, come pazienti in attesa di entrare in sala operatoria, erano adagiati sui pianali verticalmente mobili di due bassi vagoni, posti uno dietro l’altro. Questi ultimi poggiavano su un binario semicircolare che correva all’interno dell’area di parcheggio, sita all’inizio del lungo tunnel, al centro del quale correvano i binari delle linee da e per le camere di deposito. Quattro sentinelle piantonavano quelle tremende armi di distruzione di massa.
Capitolo IV
Secondo intermezzo: la leggenda. {11}
Kristihan Wallengern era nato a Stoccolma nel 1951, da padre svedese e la madre americana. Nel 1921, i nonni materni, ancora giovanissimi, lasciarono la Svezia per gli Stati Uniti, stabilendosi presso Boston, nel Massachusetts. Loro adoravano quell’unico nipote e, quando il ragazzo terminò il liceo, i suoi genitori decisero di mandarlo a studiare economia in America; là si sarebbe stabilito presso i nonni e avrebbe potuto frequentare l’importante Università di Harvard. A Kristihan l’America piacque subito, con quel loro modo di fare semplice e pratico che rendeva la vita così piacevole, distante dai rigidi formalismi europei. Il suo carattere espansivo, presto gli permise di allacciare numerose amicizie nel campus dell’università e, poco dopo, si sentiva più americano che svedese. Aveva la ragazza, negli studi andava forte, durante l’inverno qualche volta andava a sciare nel vicino Vermont o nel Maine e d’estate giocava a tennis o andava in canoa con gli amici. Sì, l’America proprio gli piaceva. Agli inizi degli anni 70, per contrastare l’espansionismo dello spionaggio sovietico, la CIA iniziò un programma per il potenziamento della propria organizzazione. Aveva bisogno di giovani brillanti e preparati da inserire in settori strategici dei vari scacchieri mondiali. A tal fine, lentamente, fece penetrare tra il corpo docente e amministrativo delle più importanti università americane dei cacciatori di talenti{12}. Uno di questi era tale Mattew Hampton, docente di tecniche bancarie al corso di laurea in economia, presso l’università di Harvard. Ora era il tardo 1975 e già da qualche tempo, il professore teneva d’occhio quel brillante e gioviale studente svedese di nome Wallengern. Fu poco prima che quest’ultimo conseguisse il master che un giorno del giugno del ’76, al campus, quel simpatico docente prese sotto braccio Kristhian per fare una chiacchierata informale. Tra una battuta e l’altra, chiese quali fossero i suoi progetti per il futuro e se eventualmente, fosse stato disponibile ad accettare un incarico delicato e di tutto rispetto da parte dell’amministrazione dello Stato. La risposta fu un sì di getto e il discorso momentaneamente finì lì. Conseguito il master, mentre il neodottore preparava armi e bagagli apprestandosi a lasciare il
campus, due uomini qualificatisi come funzionari del governo vennero a trovarlo. La piccola comitiva ò insieme l’intera giornata, i tre pranzarono a Boston e in serata lo svedese fu riaccompagnato al campus. Wallengern ò le successive due settimane a Worcester, presso i nonni e fu lì che i due governativi si fecero di nuovo vivi. Qualche giorno dopo, il dottore andò a New York, in un anonimo ufficio al sesto piano di un modesto grattacielo sulla quarantaduesima strada. A New York si trattenne per tre giorni, poi ritornò a Worcester e finalmente se ne andò a Stoccolma per godersi le meritate vacanze. Era la fine di settembre, quando Kristhian tornò di nuovo a New York, ma dopo qualche giorno era in Virginia, in una località non distante da Newport, in una delle tante fattorie{13} dove rimase undici mesi. Nella fattoria, oltre a studiare il russo in modo intensivo, apprese diversi mestieri, tra i quali artista apre e chiudi{14}, ciabattino{15}, musicista e altri. Tornato stabilmente a Stoccolma, si recò alla locale camera di commercio e iniziò a darsi daffare. Poco tempo dopo, in tribunale, espose al giudice fallimentare i propri intendimenti. «In un prossimo futuro, – disse – prevedo una forte espansione nei rapporti commerciali tra la Svezia e la Russia, sarei intenzionato a intraprendere una seria attività in questo settore, ma ho bisogno del know-how di un’azienda che, in ato, abbia già operato nel ramo import-export con l’Unione Sovietica. Rilevando una di esse, avrei da subito l’accesso ai propri elenchi clienti-fornitori e conti alla mano, è conveniente rilevare un’impresa in liquidazione già penetrata nello specifico mercato, piuttosto che crearne una nuova partendo da zero. – e aggiunse: – Ho i nomi di cinque aziende di cui vorrei visionare i documenti.» Il giudice fu favorevolmente impressionato dal quel giovane dalle idee chiare, che aveva conseguito il master in economia presso l’università di Harvard, inoltre, l’acquisto di un’azienda da rottamare gli avrebbe tolto un mucchio di castagne dal fuoco. La scelta di Wallengern cadde sulla Swedish Trade Company, società svedese per il commercio che fondata nel 1947, importava pellami pregiati dall’URSS e in essa esportava prodotti finiti occidentali. L’azienda, fiorente fino a qualche anno prima, alla morte del vecchio fondatore ò in mano ai figli debosciati che in poco tempo la mandarono a rotoli, mangiandosi il capitale indebitandosi. Il giudice stabilì per la sua rilevazione una somma pari a quarantanovemila
corone. Con solerzia, Wallengern si recò in un’anonima palazzina bianca a due piani, sita a metà di via Drottning, la targhetta di ottone sul portoncino verde riportava la dicitura, Istituto di credito ittico e rurale. A tempo di record, miracolosamente la piccola banca concesse a Kristhian un credito di duecentomila dollari a interessi simbolici. Il modesto istituto di credito era in realtà il tetto della CIA per i paesi scandinavi. Esso, per le contingenti necessità attingeva danaro da uno speciale fondo presso la Chase Manhattan Bank di New York, fondo alimentato da Langley. Ora, la Swedish Trade Company, ripulita da ogni pendenza, era pronta a tuffarsi di nuovo nel mondo degli affari. Lo svedese prese in affitto un appartamento in via Apelbergs, assunse una segretaria che parlava il russo e si mise diligentemente al lavoro. Iniziò a catalogare clienti e fornitori della vecchia gestione quindi, tramite una capillare operazione di mailing, a riannodare i vecchi rapporti commerciali con i sovietici. Importava acquistando contanti all’ordine ed esportava rivendendo con bonifico bancario dilazionato, i prezzi erano competitivi e i prodotti di buona qualità. I primi mesi furono duri, poi gli affari iniziarono a ingranare. Ai primi del ’79, la piccola ditta divenne importatrice esclusiva per i paesi scandinavi d’importanti marchi americani. Il buon lavoro e la lunga mano della CIA, iniziavano a dare i primi risultati. Ora la Swedish aveva dieci dipendenti e possedeva un deposito merci alla periferia est di Stoccolma. In Occidente le cose stavano rapidamente evolvendo. In quegli ultimi anni, ricerche e tecnologie militari avevano fatto i giganteschi e il conseguente riverbero tecnologico sul libero mercato dei consumi, con l’immissione di nuovi e sempre più artefatti prodotti, fu la normale conseguenza. I paesi del blocco comunista, non avendo un’economia di mercato e un’industria leggera sviluppata, non usufruivano dei vantaggi che queste ricadute avrebbero potuto offrire loro. Se pur sviluppata, la loro tecnologia era tesa all’industria pesante di Stato, autarchica e priva di sfoci mercantili e di ciò quei paesi ne soffrivano. Fu nel tardo settembre del ’79 che all’Hotel Mornington, nel centro di Östermalm, Wallengern ebbe un colloquio con Erick Khock, vice addetto commerciale dell’ambasciata di Svezia a Mosca; Wallengern voleva aprire in quella città una filiale della Swedish. Il funzionario trovò il giovane sveglio e simpatico e nel prendere atto delle sue richieste, affermò che sarebbe stata cosa difficile espandersi a Mosca; la Cortina di Ferro era impenetrabile, la diffidenza massima e i controlli molto rigorosi. Tuttavia, appena rientrato a Mosca, avrebbe visto ciò che poteva fare, si sarebbe sicuramente interessato. Fu alla fine di novembre che Kristhian ricevette un invito a recarsi presso l’Ambasciata dell’URSS per un colloquio con il vice addetto commerciale. Quest’ultimo, un certo Ergo
Nikicenko, vecchia volpe del KGB e legale{16} del terzo dipartimento del primo direttorato, fiutò al volo che sotto le pressioni del collega svedese si potesse nascondere qualche inghippo e lui, era intenzionato a smascherarlo. Ma la CIA vedeva lontano, Kristihan era stato scelto per azioni di lungo respiro, aveva investito molto su di lui e non voleva bruciarlo. Wallengern di colpo spiazzò il russo, dicendo: «Sono dolente, ma ormai è acqua ata. – e spiegò – Vede, allora la mia azienda aveva la necessità di aprire una filiale a Mosca, ma fatta in seguito un’attenta analisi dei costi, risultò che a causa delle cospicue spese che avremmo dovuto sostenere, l’operazione si sarebbe rivelata economicamente svantaggiosa. Nel ringraziarla per la cortesia e disponibilità usatemi, mi ripeto nell’affermare che il problema è divenuto obsoleto.» Con un gran sorriso, strinse la mano al trasalito diplomatico ponendo fine al colloquio. Dopo la doccia fredda, il funzionario russo agente del KGB, ci rifletté su; “non c’è alcun dubbio, è pulito” pensò, nell’accingersi a stendere il rapporto da inviare a Yazenevo. Il mondo stava rapidamente cambiando. L’Occidente era in pieno boom economico, mentre nell’URSS l’aria iniziava a stemperarsi e la necessità di uscire dall’isolamento economico a farsi sentire. Fu nel luglio dell’80 che, andando questa volta Nikicenko a trovare Wallengern, le parti si invertirono. Ora fu il russo a rispolverare il progetto dello svedese, affermando che quella sua idea di aprire una filiale a Mosca, probabilmente sarebbe stata vista con occhio benevolo dalle autorità sovietiche. A Wallengern era stato detto: «I tempi matureranno e le volpi verranno allo scoperto.» «Ora come allora, è un problema di costi», affermò lo svedese. «Potremmo parlarne», rispose in modo accomodante il russo. Alla fine dell’80, la Swedish Trade Company che da decenni intratteneva rapporti commerciali con l’URSS, ebbe la concessione dal Ministero del Commercio Estero sovietico per aprire una filiale sul proprio territorio, inoltre lo stesso ente si impegnò a pagare per i primi due anni le spese relative all’affitto dell’ufficio e dei tre piccoli, attigui capannoni siti alla periferia ovest di Mosca. Wallengern era ora titolare di un aporto con visto permanente per l’Unione Sovietica, rilasciato dal suddetto ministero e approvato dopo severi controlli dal quinto dipartimento del secondo direttorato KGB. Nel giro di un anno gli affari esplosero a tal punto che fu necessario creare un secondo ufficio a Mosca. Sia all’ambasciata di Svezia, sia in alcuni ministeri sovietici, Wallengern era ora di casa. La
generosità, il carattere gioviale e compagnone e l’aver imparato a essere un forte bevitore, gli avevano lentamente aperto molte porte, facendo man mano cadere le iniziali diffidenze russe; tra sorrisi, strette di mano, grandi cene in ristoranti famosi come il Bojarski-Zal e, soprattutto robuste mazzette, egli si muoveva in maniera appropriata ricevendo in cambio corposi ordini e preziose informazioni. Queste ultime erano carpite informalmente tra una battuta e l’altra, tra le righe delle chiacchiere durante qualche cena o, da funzionari ubriachi che straparlavano a ruota libera alla fine di una serata. Sapeva di essere costantemente controllato, poneva quindi in atto ogni accorgimento possibile: non usava il telefono, non prendeva mai appunti, agiva in autonomia e non stringeva durature amicizie. Ogni giovedì tornava a Stoccolma, là stendeva il suo rapporto in codice e lo inviava per il tramite di normale posta commerciale a un indirizzo di comodo. A volte, i rapporti erano inseriti tra le distinte di versamento bancarie che faceva poi recapitare in via Drottning. Pur tuttavia, le sue informazioni sebbene rilevanti, erano per lo più di natura economica e commerciale, non molto efficaci per fini politici e militari. In realtà, quegli anni, furono per lui un training, la CIA voleva amalgamarlo con la società sovietica per costruirne una vera leggenda, ed ora, il momento del gran salto era arrivato. Fu un gelido venerdì di dicembre dell’84 che il direttore di banca, gli trasmise verbalmente un preciso ordine: «È imperativo! Proviene direttamente da Langley. A Mosca, in piazza Lubjanka, al secondo piano dell’edificio che fa angolo tra la Nikol’skaja ulica e la prospettiva Teatral’nyj, si è liberato un appartamento di quattordici stanze, in cui vi erano gli uffici di alcuni geologi di una sezione distaccata dell’istituto minerario per la ricerca e lo sfruttamento del sottosuolo. Dobbiamo assolutamente venirne in possesso!» Una cosa era affermarlo, altra farlo.
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Fino alla metà degli anni ’70, la sotterranea lotta senza quartiere tra i servizi segreti occidentali e quelli del blocco comunista, vedeva questi ultimi in netto vantaggio. In quegli anni, il KGB aveva oltre duecentocinquantamila agenti segreti infiltrati nei paesi occidentali, non c’era fatto, decisione segreta o riservata di cui non fosse a conoscenza, esso era in grado di destabilizzare interi
paesi in via di sviluppo e creare tensioni tra gli stessi alleati del Patto Atlantico. Poi, verso la fine degli anni ’70, l’ago della bilancia iniziò a spostarsi a favore degli occidentali, raggiungendo un sostanziale equilibrio nei primi anni 80. A quei tempi, in ambo i campi si potevano vantare grandi vittorie e accusare amare sconfitte. Il mutato andamento, con l’andar del tempo divenne inarrestabile: i servizi segreti occidentali, ormai, erano in grado non solo di parare colpo su colpo gli attacchi sferrati dal KGB, dimostrando di essere in grado di smantellare le loro reti spionistiche, ma di controllare ed infine padroneggiare l’intero scacchiere della situazione mondiale. I motivi di questa lenta, radicale, mutata situazione erano molteplici e venivano da lontano. Oltre a possedere una tecnologia più sofisticata, sia il SIS britannico (Secret Intelligence Service), sia la CIA americana, erano organizzazioni snelle, che lasciavano la massima autonomia operativa alle loro reti estere e agli agenti impegnati in loco; al contrario, le organizzazioni dei servizi segreti sovietici succedutesi nel tempo, dalla ČEKA al KGB, furono sempre monolitiche, poco flessibili e burocraticamente centralizzate. Tutte le decisioni operative del KGB erano prese, approvate o respinte dal Centro{17} o a Yazenevo{18}, gli stessi rezident{19} che operavano all’estero avevano poco margine di manovra e, il più delle volte, ciò comportava ritardi e intralci particolarmente deleteri per gli agenti sul campo. Questa sostanziale differenza comportamentale, se per un lungo periodo fu favorevole all’URSS, alla lunga per gli occidentali si dimostrò vincente. Fu a Vladivostok che una mattina nell’inverno del 1980, il comandante in capo della flotta del Pacifico, entrando nel suo ufficio, notò un’intera parete chiazzata per l’umidità. Era successo che durante la notte, la tubatura di un bagno posto al piano superiore si era gelata schiantandosi. Durante i lavori di restauro, nel tirare giù un quadro dalla parete, qualcuno si accorse che intagliato nella sua cornice c’era uno strano aggeggio grande quanto un piccolo bottone, seguendo il cavetto incassato nel muro ad esso collegato, giunsero al tetto ove scoprirono che era connesso ad un piccolo trasmettitore satellitare opportunamente celato. Il fatto fece riflettere quando fu chiaro che sia a Langley{20}, sia a Norfolk,{21} gli americani ascoltavano via satellite le riunioni che si tenevano nell’ufficio del grand’ammiraglio. Sempre in quegli anni, fu scoperto che il radiotelefono dell’auto presidenziale di Leonid Breznev era tenuto sotto controllo. La CIA, dall’interno del decimo e ultimo piano di un palazzo facente parte di una sede dell’ambasciata USA a Mosca, per il tramite di un potente apparato ricevente, sincronizzato su quella frequenza, era riuscita a violare quel sofisticato dispositivo. Non che i russi fossero da meno; a seguito del bersagliamento da
microonde emesse dagli apparecchi di ascolto sovietici, alcuni funzionari dell’Ambasciata Americana si ammalarono di linfocarcinoma. Analoga sorte toccò all’ambasciatore Walter Stoessel che, rimbambito dalle radiazioni, accusò un’emorragia agli occhi e dovette abbandonare l’incarico. Lo scoppio di questi bubboni, fece prendere all’allora Presidente del KGB, Yury Andropov, alcune iniziative tese a introdurre nuovi e più restrittivi accorgimenti, incluso il nido di rondini. Al fine di limitare gli effetti degli efficientissimi sistemi di spionaggio elettronico americani, sia terrestri, sia aerei e ora anche satellitari, fu ideato un intelligente sistema chiamato arrocco. Esso, consisteva nell’allestire in ogni edifico governativo di una certa importanza, sito nel territorio dell’Unione Sovietica, delle camere di sicurezza, questo fu il loro nome. In queste stanze per lo più adibite a riunioni, furono schermate le loro pareti con alluminio anodizzato coperto da stagnola, insonorizzate e in ognuna fu installato un impianto di disturbo elettronico che generava una scansione di microonde variabili in frequenza e di tale spettro, da rendere vano qualsiasi tentativo esterno d’intercettazione. Le camere avevano inoltre un sensibilissimo impianto per la rivelazione di apparecchiature elettroniche improprie nelle vicinanze e, per finire, fu fissato un preciso e severo codice comportamentale, cui ognuno al loro interno doveva attenersi: era fatto divieto di pronunciare il proprio nome, grado militare o posizione in seno all’amministrazione dello Stato; i dialoghi dovevano essere sintetici ed era imposto di evitare precisi e dettagliati riferimenti, ove se ne potesse fare a meno. Una di queste camere, fu allestita al quarto piano del grande stabile che racchiudeva il Centro. La stanza aveva una finestra dai tripli vetri piombati che dava su piazza Lubjanka (ex piazza Dzerzhinsky). Guardando la facciata dell’edificio dall’esterno, la finestra era sita alla destra della statua di Feliks Dzerzhinsky, monumento voluto da Krusčev nel 1962.
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«Per me, avere degli uffici nel cuore di Mosca, significa in primo luogo dare lustro all’immagine della Patria» affermò Wallengern. Il primo Segretario d’ambasciata fu scettico circa il venirne a capo, ma promise d’interessarsi, e così fece. Il capo ufficio del Distretto di Mosca per gli Affari Demaniali, uomo basso e
grassoccio, con spesse lenti e calvizie avanzata, dopo aver ascoltato le argomentazioni di Wallengern, alzò gli occhi al cielo, dichiarando che la faccenda non era di facile soluzione. «Unitamente alla domanda di acquisto, – disse – alleghi tutti gli incartamenti. Dovranno essere attentamente vagliati dalle autorità di controllo.» Tempo dopo, con gli “incartamenti”, lo svedese consegnò una busta contenente duemila dollari che al volo l’ometto fece sparire, subito dopo il funzionario suggerì: «Per portare la questione all’attenzione del comitato, l’Ambasciata di Svezia dovrebbe esercitare pressioni in merito.» Nei successivi due mesi, sotto sollecitazioni di Wallengern, l’ambasciata inoltrò quattro note al Ministero del Demanio sovietico e finalmente, dopo oltre tre mesi arrivò la convocazione. «Il comitato per il demanio ha deliberato che, essendo l’immobile di proprietà dello Stato e quindi del popolo, non può esser posto in vendita; sarebbe contro lo spirito del partito e dei principi Marxisti-Leninisti. - affermò l’ometto, e continuò - Pur tuttavia, dati gli eccellenti rapporti che intercorrono tra la Svezia e l’Unione Sovietica, in via eccezionale, stiamo valutando la possibilità di cederglielo in locazione. Ciò, oltre al deposito di una somma da stabilire, richiederà anche l’avallo in garanzia dell’ambasciata.» Wallengern fece scivolare nelle mani dell’altro una seconda, pesante bustarella: «Sempre che, non sia locazione a breve termine…» «La più lunga possibile…» rispose l’astuto burocrate. Tempo dopo, Kristihan e una piccola legazione dell’ambasciata, furono convocati al ministero per prendere visione delle clausole del futuro rogito. La durata della locazione sarebbe stata ventennale con possibilità di rinnovo alla scadenza, il deposito cauzionale doveva ammontare a cinquantamila dollari statunitensi e l’affitto a undicimila mensili. L’ambasciata svedese doveva costituirsi parte garante, inoltre, tutti i lavori da compiersi nell’immobile, sia straordinari, sia ordinari, dovevano essere approvati e supervisionati dalle competenti autorità. Sistemati gli obblighi finanziari, dopo una ventina di giorni finalmente ci fu la firma del contratto. Il basso uomo, rivolgendosi a Wallengern, disse: «Tra un mese potrà prendere possesso dell’immobile.» «Come sarebbe a dire, tra un mese?»
«Vorrà concederci il tempo necessario per eseguire la registrazione del rogito presso il competente ufficio, no? Inoltre egregio signore, ricordi che mai in Unione Sovietica una pratica di Stato si è conclusa così celermente!» la questione morì lì. Dopo oltre un mese, iniziarono i lavori di restauro che, supervisionati dai tecnici del ministero, durarono venti giorni. Finalmente, i primi di ottobre, Wallengern entrò in possesso dell’immobile. Egli scelse il proprio ufficio nell’ultima stanza in fondo al corridoio, la cui finestra dava sulla trafficata piazza Lubjanka, a sinistra terminava la prospettiva Teatral’nyj e davanti, spostata sulla destra, torreggiava la statua di Dzerzhinsky, dietro la quale si estendeva la tetra facciata color ocra della direzione generale del KGB: il Centro. Non erano ancora arrivati gli arredi, quando da Stoccolma vennero a trovare l’amministratore delegato della società, sia il marketing manager, sia il direttore delle vendite dell’area finnica. I tre parlarono in svedese e tra una chiacchiera e l’altra, la visita fu lunga e minuziosa. «Rimanete anche domani?» chiese Wallengern. «No! Abbiamo il visto d’ingresso per affari valido solo per un giorno. Questa sera dobbiamo rientrare», fece il più basso dei due visitatori. Erano le tredici, quando Wallengern propose di andare a colazione. Fuori, sul marciapiede, in inglese domandò: «Ebbene?» Quello alto tirò fuori da una tasca del soprabito una scatoletta metallica. «L’appartamento è infestato! In ogni stanza, come minimo è celata una micro-telecamera con audio» disse, mostrando il rivelatore. Il dispositivo aveva un visualizzatore e una mini stampante termica incorporata, sotto c’era una serie di led rossi accesi. Lo spilungone si rivolse al collega: «Il tuo, Dick?» «Identico!» A Wallengern caddero le braccia. «Bastardi! - sussurrò - Ecco perché si sono presi un mese di tempo e hanno mandato il loro personale a eseguire i lavori, e noi, non possiamo modificare niente.» «Non sono mica stupidi», interloquì Dick. «Quindi, tutti questi sforzi e investimenti sono stati vani.»
«Forse, o forse no…» fece pensieroso lo spilungone. «Che intendi dire?» L’uomo della CIA, interpellò di nuovo il collega, Dick. «Il tuo?» «Stessa cosa - fece Dick, che rivolgendosi a Wallengern: - L’unico ambiente pulito sembra essere quel ripostiglio privo di finestre, giù in fondo al corridoio, di fianco alla tua stanza.» Erano le 13.25, i tre avevano percorso un tratto della prospettiva Lubjanskij, dopo aver girato a sinistra per Lučnikov pereulok, erano ora sul marciapiede di fianco al Museo Majakovskij. «Hai una pianta dell’appartamento?» chiese, l’uomo alto. «Sì, a casa, allegata al contratto.» «Andiamo a dargli un’occhiata, nel frattempo eseguiremo la stampa dei rivelatori.» I tracciati delle stampanti termiche, confrontati con le coordinate dell’appartamento ricavate dalla piantina, permisero ai due della CIA di comprendere il lavoro svolto dagli “artisti” del secondo direttorato. Come immaginato, le micro-telecamere audio-video erano quasi certamente intarsiate negli stucchi, agli angoli delle pareti sinistre, all’inizio della curva di volta di ogni vano e le loro ampiezze d’angolo, coprivano la visuale di ogni stanza. La trasmissione doveva avvenire via cavo, il quale andava presumibilmente a connettersi in una più generale rete nel sottosuolo di piazza Lubjanka e l’intero impianto non doveva superare un Watt di potenza. Erano le 17, quando fra tramezzini e bicchieri di birra vuoti, Dick domandò: «L’impianto elettrico dell’appartamento, è provvisto di un interruttore generale?» «Sì, certo!» «Allora, forse ci siamo.» Nella serata, Wallengern si disfece di tre dei quattro rivelatori che due giorni
prima aveva sballato da un pacco diplomatico proveniente dalla Svezia e, consegnatogli da un falso fattorino russo uscito dall’ambasciata USA. Il mattino successivo tornò in ufficio, abbassò l’interruttore generale e si trattenne un po’; uscito, controllò il rivelatore: nonostante lo switch rosso fosse in posizione on, i led erano tutti spenti. Ora era certo, le micro-telecamere erano alimentate attraverso la rete elettrica dell’appartamento, tolta l’alimentazione generale, erano cieche e sorde. “Ma è lapalissiano – pensò sorridendo, – un alloggio senza corrente elettrica è pressoché inservibile, a maggior ragione un ufficio.” Il venerdì sera escluse di nuovo l’interruttore generale e il mattino del sabato arrivò il furgoncino. Dal mezzo scesero tre uomini in tuta da lavoro, con le rispettive cassette e un rotolo di carta da parati. Il veicolo con targa moscovita risultava preso a nolo, gli operai parlavano in russo, la fattura certificava il rollo provenire da un magazzino di materiali da parati, ma stranamente, uomini e furgoncino erano usciti da un ingresso secondario di Novinskij Bulvar, sede dell’ambasciata USA a Mosca. Quella mattina nella stanza di Wallengern lavorarono con la finestra aperta. Dall’interno del rollo, tirarono fuori un tubo simile a una liscia canna di fucile e una punta da trapano molto lunga. Da una delle cassette per gli attrezzi, estrassero il centratore, strumento simile a una macchina fotografica con visualizzatore orizzontale. Calcolata la prospettiva d’angolo, con un trapano a batteria forarono il muro portante, infilandoci dentro la liscia canna fino a farla arrivare perfettamente a filo con l’esterno della facciata. Fu installato uno strano mini cavalletto che aveva una morsa con piccole ganasce di caucciù, variabili verticalmente e orizzontalmente per il tramite di due mandrini. Con solerzia meccanica, la parte terminale del tubo fu stretta tra le ganasce della morsa e il connettore di uscita fu inserito in quello di entrata del centratore. quest’ultimo, il visualizzatore s’illuminò, mostrando una croce il cui centro, come in un mirino telescopico, rappresentava il bersaglio della canna. L’ora successiva fu impiegata per la taratura, facendo collimare per il tramite dei due mandrini, il centro della croce sull’esatto punto da colpire. Ora, mentre negli spazi esterni tra la canna e le pareti del muro era iniettato silicone, man mano che il composto s’induriva, sempre per il tramite dei mandrini, veniva eseguita la delicata taratura fine. Tolto il battiscopa dalla parete destra, fecero una piccola traccia sul muro a filo col pavimento e, a quell’altezza, un foro sbucando nel ripostiglio. Al connettore di uscita della canna fu collegato un cavetto schermato che, ato nella traccia e infilato nel foro della parete, andò a finire dall’altra parte, ove fu celato sotto un cassettone. Con un impasto a presa rapida furono ripristinati buchi, tracce e screpolature; fu ricollocato e fissato il battiscopa e per ultimo, tagliata della carta dal rotolo fu incollata sotto il davanzale, al posto della precedente, facendone abilmente combaciare i disegni. Erano le 15 in punto e già
quasi buio, quando lo strano quartetto uscì dall’appartamento. Per qualsiasi osservatore assente, sarebbe stato impossibile notare che in quella stanza erano stati eseguiti dei lavori. Il lunedì successivo, Kristhian tornò in ufficio, tirò su l’interruttore generale e non lo toccò più. arono venti giorni, nel frattempo furono allacciate le linee telefoniche, arrivarono le fotocopiatrici, le macchine per scrivere e gli arredi per gli impiegati. Il ripostiglio diventato lo spogliatoio personale di Wallengern, ora aveva una pesante porta blindata di cui solo lui possedeva la chiave e su cui, una targhetta riportava scritto privato; un poster scorrevole ricopriva la porta. Fu un venerdì di fine novembre, che il furgoncino scaricò un pesante collo la cui fattura certificava, essere una macchina per scrivere IBM. Quella sera Wallengern uscì per ultimo dall’ufficio, ma prima tirò giù l’interruttore generale. Il giorno dopo, un sabato, il personale era assente e nella tarda mattinata lo svedese comparve in compagnia di uno sconosciuto che parlava inglese. Alla luce delle torce, i due arrivarono al ripostiglio iniziando a darsi daffare. Il collo arrivato la sera prima, invece della macchina per scrivere conteneva una strana apparecchiatura metallica, grossomodo alta 60 cm per 40 e 30 di profondità. C’erano dei led, un indicatore simile ad un amperometro, un piccolo display digitale, analogo a quello di un videoregistratore e in basso, uno sportellino per l’inserimento di un’audiocassetta per mangianastri. Alimentata l’apparecchiatura e connesso il cavetto, lo sconosciuto infilò una cassetta nel corretto vano. Il mobile di legno fu posto sopra a copertura e i cassetti dai pianali piegabili inseriti nelle loro sedi, al termine, l’uomo della CIA, affermò: «Per vedere se è avvenuta una registrazione, togli il secondo cassetto. Se la spia verde è accesa si è verificata, se è accesa quella rossa è in corso, se sono ambedue spente non è successo niente. – alzò il dito indice – Ricorda, anche i telefoni sono controllati e probabilmente il personale delle pulizie è del KGB. Tutto chiaro?» «Chiarissimo!»
Quell’apparato installato dalla CIA nel cuore di Mosca, proveniva dai laboratori californiani di Lawrence Livermore. Esso era il L.D.V (laser detector voice) o rivelatore vocale laser; l’ultimo ritrovato della tecnologia elettronica per l’intercettazione vocale a distanza. Il LDV sparava un raggio laser che, essendo per sua natura trasparente al bagno di radiazioni, non era intercettabile e quindi
non rilevabile da scansioni di frequenze elettromagnetiche. Al suo interno, il raggio aveva un’anima costituita da una frequenza portante sonora a bassissima frequenza, molto più bassa delle frequenze vocali e pressoché impossibile da rilevare. Nel momento in cui il laser s’infrangeva, liberava questa frequenza e i rumori circostanti provocavano in essa delle distorsioni, distorsioni fedelmente rilevate dall’apparato originario attraverso la portante di ritorno. Queste distorsioni o armoniche, opportunamente filtrate, corrette e amplificate, rigeneravano integralmente i rumori e le voci che le avevano prodotte.
Il cannoncino laser installato nell’ufficio di Wallengern, sparava l’invisibile raggio che, sfiorando il gomito sinistro dell’austera statua dell’ascetica figura di Feliks Dzerzhinsky, penetrava nella camera di sicurezza del Centro, la più importante del KGB e forse dell’intera Unione Sovietica. Da allora, la locale residenza CIA in Unione Sovietica sita nell’ambasciata USA, per mezzo di quella fonte ebbe sempre a disposizione e in tempo pressoché reale, informazioni segretissime e di capitale importanza. L’unico inconveniente che si manifestò fin dall’inizio, fu causato dalle dispersioni create dall’impatto del laser sui tripli vetri piombati della finestra che, eccetto rari casi, essendo chiusa, la dispersione causava bassa risolvenza del segnale ricevente. A causa di questo inconveniente, le voci su cassetta dall’apparato ricevente furono piatte, metalliche e prive di tonalità, era difficile perfino stabilire se fossero maschili o femminili. Ciò nondimeno, le parole furono sempre chiarissime e i dialoghi traducibili senza difficoltà. Da quel momento, il LDV di piazza Lubjanka divenne uno dei segreti meglio custoditi della CIA.
Capitolo V
Base di Khariskjia. Venerdì 29 settembre 2000. Ore 9.05
I due missili nucleari erano in fila, uno dietro l’altro, adagiati orizzontalmente ad altezza d’uomo sui pianali dei rispettivi vagoni. Nell’ampia camera di disinnesco, l’illuminazione era intensa, ogni neon era e lampade orientabili montate su una struttura mobile illuminavano con violenza l’intero missile di testa. Il giovane maggiore Vložinskij si avvicinò al primo vettore, si rivolse a uno della squadra e, con fare esperto, indicò un punto indistinto tra il terzo stadio e l’ogiva. Poco dopo, un pesante pannello rettangolare curvo, era posto su un carrello: ora la camera di governo missile era accessibile. Il maggiore allungò una lampada mobile, fissandola a un gancio, un fascio di luce investì l’interno della camera ponendo in rilievo ogni minimo dettaglio. Le pareti circolari interne del missile, ricoperte da materiale antivibrazione a basso coefficiente termico, erano percorse da canalature dirette sia verso l’ogiva, sia verso il terzo stadio. Allineate sulla parete divisoria destra, si notavano scatolette di varia grandezza, mentre ancorati al centro della parete sinistra c’erano due parallelepipedi delle dimensioni superiori a quelli di una batteria d’auto. Due protuberanze a forma d’imbuto, rispettivamente in basso e in alto rispetto alla proiezione orizzontale visiva, si protraevano verso l’esterno del vano. Al centro, in basso, spiccava un piccolo cubo dalle pareti di caucciù con il lato superiore di plexiglas, al suo interno si notavano dei dischi metallici e un contatore con una serie di digit numerici, simili a quelli di un misuratore di energia elettrica. Sei bassi parallelepipedi di materiale trasparente costellato di fori, alloggiavano orizzontalmente inseriti nelle apposite intelaiature antivibrazione ancorate alle pareti circolari del fusto; questi elementi, contenevano la complessa circuiteria elettronica e telemetrica del governo missile. Ai lati dei parallelepipedi, si notavano dei connettori in cui entravano e uscivano cablaggi perfettamente allineati come denti di un pettine. L’impianto di ventilazione a circuito chiuso era costituito da un iniettore e un aspiratore di gas, posti rispettivamente alle due estremità della camera. Il maggiore pigiò uno dei due pulsanti sotto l’intelaiatura principale, fuoriuscì un
piccolo cassetto di plastica, al cui interno c’era una busta di cellofan sigillata e un piccolo contenitore anch’esso in plastica. L’ufficiale sbirciò distrattamente la busta e, come in preda a urgenza, aprì il piccolo contenitore. Un brivido gli salì fino all’attaccatura dei capelli, il tappo metallico in esso contenuto del tutto simile a un comune tappo di bottiglia, era di colore verde: l’ordigno nucleare della testata, aveva l’innesco attivo. “Calma, conosco il mestiere, non è la prima volta che disinnesco questi gingilli” pensò l’ufficiale, nel riprendere il suo abituale controllo. Sistemò il tappo dentro una vaschetta, ponendola sul piano di un carrello, infine fece cenno ad alcuni uomini di disporsi intorno al rosso cono dell’ogiva. Pigiò il secondo pulsante sito sotto l’intelaiatura principale, fuoriuscì una piccola tastiera, pigiò un tasto a caso e tutti gli altri s’illuminarono. Estrasse il contenuto dalla busta sigillata, in cui c’erano documenti e codici del vettore, si concentrò su un foglio color paglierino e di lì a poco, iniziò a impostare una serie di caratteri alfanumerici. Premuto l’ultimo tasto, la camera di governo fu permeata da un fievole ronzio, mentre all’unisono, i dischi metallici all’interno del contenitore di caucciù iniziarono a girare a velocità diverse, avviandosi man mano a portare da destra verso sinistra, i ventiquattro digit a valore zero. Il maggiore infilò un paio di guanti da chirurgo, scansò un fascio di cavi e disinserì due grossi connettori. Procedendo delicatamente, continuò a sconnettere, infine, con la punta della matita iniziò a porre in off tutti gli switch delle scatolette. Quando anche l’ultimo fu chiuso, il ronzio terminò, mentre i dischi, continuando a girare, portavano i digit a valore decrescente. Ora l’intero apparato del governo missile era privo di alimentazione, ogni circuito disattivato e i giroscopi del sistema di guida inerziale, scaricandosi, avrebbero lentamente assunto lo stato di quiete. L’ufficiale raggiunse i suoi uomini in quel momento intenti a svitare il rosso cono dell’ogiva; il contatore Geiger Müller posto al loro fianco, segnava un’intensità radioattiva pari a 1.07 rad. Alcuni uomini posero delicatamente il pesante cono rosso su un carrello, un quarto, sotto la luce delle intense lampade, allungò le braccia all’interno dell’ogiva, verso la testata, poco dopo si udì un caratteristico suono metallico di sgancio, due specialisti tirarono, strattonando delle maniglie e una slitta con intelaiatura d’acciaio che correva su delle guide in teflon, fuoriuscì dolcemente dalle viscere dell’ogiva. La slitta della testata, aveva ancorato nella sua intelaiatura un cilindro marrone costituito da due elementi, uno lungo, l’altro corto, entrambi uniti da una corona di viti. All’estremità della sezione corta, era visibile una tastiera alfanumerica con un timer digitale. Ora il Geiger indicava una radioattività pari a 1.69 rad. Il maggiore fece un cenno, uno specialista si dispose intorno alla slitta con una chiave a tubo snodata, poco dopo, la copertura dell’elemento lungo era sopra un secondo carrello. All’interno di quello che ora era un semi-cilindro, faceva corpo un involucro metallico color
prugna, simile a una palla da rugby di dimensioni superiori al normale. Qualcuno tirò verso l’esterno l’involucro dell’elemento corto, facendolo fuoriuscire di una cinquantina di centimetri. Ora era visibilmente accessibile un box di plexiglas con dentro dei pannelli elettronici, dai cui lati, cablaggi schermati entravano e uscivano diramandosi sia verso la camera di governo, sia all’interno dell’elemento di testa, verso l’ordigno. Alcuni secondi dopo, il box di plexiglas era aperto; il maggiore pose in off alcuni switch e subito, due uomini muniti di guanti strattonarono, tirarono verso l’esterno gli incavi della pesantissima superficie del dispositivo color prugna. Come petali di una rosa, il lucido involucro si dischiuse, mostrando al suo interno un nuovo elemento a forma di palla da rugby, di colore avana chiaro e dalla cui punta esterna, fuoriusciva di pochi millimetri il corpo di un piccolo cilindro color argento con una ghiera su cui era avvitato un rosso tappo metallico, analogo al precedente verde. La radioattività era ora saltata a 3.1 rad. Per un momento Vložinskij rimase immobile, come affascinato in mistica contemplazione alla vista di quel terrificante ordigno di così apparente, innocua semplicità. Sbirciò l’orologio: le 9.25. Fu distratto da un’ombra alla sua destra, si girò, era il generale Kenyev. Stava per assumere la posizione di attenti, ma il superiore, con un gesto della mano fece segno di rimanere comodo. Kenyev tirò fuori il pacchetto delle sigarette, ne offrì una al maggiore, dicendo: «Domani rientrerà il generale Ordžone e io dovrò tornare a Mosca…» «Beato lei generale, anch’io sono qui in prestito, ma non so quando potrò andarmene…» «Già, capisco… – fece il generale, accennando un sorriso nell’estendere la fiamma dell’accendino all’ufficiale, e continuò – Essendo oggi il mio ultimo giorno di permanenza, stamani sostituisco il maggiore Šovotin e sono qui a seguire personalmente la procedura di carico di questi missili. Vede maggiore, io provengo dall’arma del genio, m’intendo di ponti, ferrovie, esplosivi e altro ma… – spaziò con un dito indicando l’intera lunghezza del missile – di questi infernali arnesi non ne ho la più pallida idea e confesso di subirne un po’ il complesso. In realtà, oggi ho profittato di quest’occasione anche per saperne qualcosa di più, e sarei grato se qualcuno mi illuminasse in merito…» Il maggiore fu più seccato che lusingato per quell’indiretta ma esplicita richiesta. Il momento non era opportuno, ma pazienza… «Prego, generale. – fece l’ufficiale, nell’indicare ai suoi di tenersi a dovuta
distanza, infine puntò l’indice verso il vettore aperto, dicendo – Questo è un missile SS-20 M-1, Saber terra-terra, classe IRBM.» «IRBM?» Il maggiore si espresse in inglese: «Intermedium range balistic missile. – poi in russo spiegò – Missile balistico a media, lunga gittata. Può coprire un percorso di cinquemila chilometri, la sua lunghezza è di sedici metri ed è composto da tre stadi. Il suo peso complessivo incluso il carburante, è di 25 tonnellate.» «Questi due missili, sono provvisti di carburante?» «Sì generale, hanno il carburante: propellente solido. Sono missili operativi, erano schierati sulle rampe di lancio mobili, pronti a partire in pochi minuti. » «Vada avanti, maggiore…» «Naturalmente, il missile è una parte del sistema SS-20, dei veicoli a ruote lo completano, trasportando l’unità di guida, controllo, di prova e i sistemi di comunicazione. Il vettore è installato su una rampa verticalmente mobile sita sulla parte posteriore del veicolo trasportatore-elevatore-lanciatore. Questo sistema ha oltre venti anni, e anche se è ormai da considerarsi tecnologicamente obsoleto, rimane ancora tra i migliori e più efficaci per il medio, lungo raggio. Questi hanno fatto tremare gli americani e i loro alleati europei, loro allora non possedevano missili così versatili, ne avevano molti efficienti, ma non mobili di questa potenza. Gli SS-20, si possono spostare in continuazione ed essere lanciati in qualsiasi momento e punto.» «Gli ordigni delle loro ogive, che potenza hanno?» «Ce ne sono tre tipi. Il primo tipo, quello che abbiamo davanti, ha un’ogiva a singola testata da seicentocinquanta chilotoni; circa cinquanta volte la potenza della bomba americana di Hiroshima. Il secondo modello, ha tre testate da centocinquanta chilotoni in ogiva MIRV. – il maggiore marcò ancora in inglese – Multiple independently re-entry vehicles. – poi ripeté in russo – Veicolo a testata multipla a rientro indipendente. Infine, abbiamo il terzo modello che ha un’ogiva a singola testata da cinquanta chilotoni, ma con un raggio d’azione di settemila chilometri!» «Qual è la loro precisione riferita a un bersaglio fisso?»
«Nel nostro caso, l’accuratezza delle coordinate di partenza assicura l’errore minimo. Poiché è piuttosto difficile stabilire l’esatta ubicazione al metro per una rampa di lancio mobile, noi diamo uno scarto di quattrocentotrentacinque metri su una gittata di cinquemila chilometri. Può sembrare molto, se riferito a missili con punto di lancio fisso, posti in siti corazzati e che hanno uno scarto massimo di 200 metri su una gittata di sedicimila chilometri, per non parlare dei vettori con sistema G.P.S, – global position system – che hanno uno scarto di qualche metro riferito ad un punto sull’equatore dove l’imprecisione è massima o, dei modernissimi sistemi mobili SS-25 anche loro con G.P.S. Ciò nondimeno, considerando l’età di questi SS-20, unitamente all’estrema loro mobilità e rapidità di lancio, se ne deduce che la precisione è notevole.» Erano le 9.46, il generale: «Perché è così importante la precisione delle coordinate del sito di lancio?» «È un problema di triangolazione. Abbiamo due vertici di coordinate fisse: il primo rappresentato dal punto di riferimento che assumiamo sia il centro del Polo Nord, l’altro dal bersaglio. C’è un terzo vertice di coordinate da calcolare e queste, sono variabili: il punto di lancio! In un triangolo, se si varia un vertice e quindi un angolo, consequenzialmente ne varierà minimo un secondo, unitamente alle distanze tra gli stessi. Ecco perché colpire con precisione il bersaglio, dipende dall’accuratezza delle coordinate del punto di partenza.» «Come avviene il controllo del missile?» «Tramite il sistema di guida inerziale.» Gli occhi di Keniev divennero vacui. «Guida inerziale?» L’altro, si avvicinò al vano governo missile, indicò la parete sinistra. «Lì dietro, c’è la camera dei giroscopi, strumenti questi che permettono la guida inerziale. Per comprendere il loro funzionamento, immagini dei cilindri facenti corpo al loro interno con una molla a lama estremamente sensibile, caricata a giri di trecentosessanta gradi e ancorata alla battuta finale per il tramite di sensibili servomeccanismi pilotati dai segnali telemetrici provenienti dal computer di guida a terra. È assunto, che tale posizione d’ancoraggio al trecentosessantesimo di grado sia riferita al 90° Latitudine Nord, il centro del Polo. La molla, per inerzia tenderà a scaricarsi, facendo ruotare i giroscopi, ma questo è impedito dai servomeccanismi. Se introduciamo nel computer di guida i valori delle
coordinate del punto di lancio, esso produrrà segnali di pilotaggio dei servomeccanismi d’intensità pari al differenziale tra i due punti facendo ruotare i giroscopi. Introducendo, infine, le coordinate concernenti al bersaglio, i segnali saranno d’intensità pari al differenziale tra le coordinate del Polo sia rispetto al punto di lancio, sia a quelle del bersaglio, facendo ruotare i giroscopi di un angolo pari all’esatta rotta che il missile dovrà seguire, rotta che avrà come obiettivo il bersaglio e punto di riferimento il centro del Polo Nord. Le microrotazioni dei giroscopi, pilotate dai servomeccanismi, sono trasmesse ai sensibili deflettori direzionali per il tramite di delicatissimi meccanismi di trasmissione quasi privi d’attrito con snodi in teflon. I deflettori o pinne direzionali in fondo ad ogni stadio, fuoriescono dal primo dopo il lancio e in seguito dagli altri, man mano che entrano in funzione. Le variazioni dei giroscopi inerziali, sono costantemente seguite dai computer della stazione di lancio a terra, qualsiasi differenza di rotta viene da questi corretta e rinviata qui, alla telemetria che governa l’assetto giroscopico.» Il maggiore indicò una serie di grossi chips con coperture di cristallo, simili a fondi di bottiglia, siti all’interno del primo parallelepipedo. «Come fa il vettore a sapere quando è sull’obiettivo?» «È la stazione terrestre che comanda l’impennaggio. Vede qui? – prima indicò le due protuberanze a imbuto sulle pareti della camera, poi le grosse scatole nere – Queste sono le antenne dei radar di velocità e altitudine e questi i radar, le cui rilevazioni, sono costantemente inviate ai computer di terra tramite le circuiterie telemetriche. A terra, i computer di guida e controllo che eseguono costanti calcoli tra la velocità del vettore, il tempo trascorso dal momento del lancio e la distanza riferita tra le coordinate di partenza e quelle del bersaglio. In ogni istante, i computer sanno esattamente dove si trova il missile; quando arriva in prossimità dell’obiettivo, inviano un segnale che fa imprimere al vettore la massima accelerazione, quando infine esso arriva sulla verticale del bersaglio, trasmettono alle camere di combustione il segnale di blocco del flusso carburante, unitamente all’impennaggio delle pinne stabilizzatrici, bloccando i giroscopi. Ripeto: sistema ormai obsoleto, ma efficace.» «La detonazione, viene anch’essa comandata da terra?» «Dipende, il codice di attivazione alla detonazione è abitualmente inserito prima del lancio o inviato subito dopo, poi è automatica.»
Il generale sembrava volerla tirare per le lunghe. «Non si può bloccare?» «Certamente. Attraverso l’invio del codice disattivazione o di auto-distruzione del missile.» «Il sistema di detonazione in uso?» «Ci sono tre, anzi quattro sistemi di detonazione, ma per ordigni di questa potenza di solito ne sono utilizzati solo due, l’altitudinale e il barometrico. Poi c’è il comando da terra e l’impatto, ma quest’ultimo è inibito.» Erano le 10.29. Vložinskji fece un cenno, qualcuno che a distanza seguiva il monologo, gli porse una pinza dai becchi ricurvi con tacche in teflon. Alcuni secondi dopo, lui e il generale erano davanti all’ogiva con, in bella mostra, la palla da rugby. «Radioattività», fece Keniev, indicando il Geiger che ronzava. «Siamo a poco più di tre rad, molto sotto i limiti di tolleranza. Da cinquanta a cento rad, una lunga esposizione può causare problemi alla salute, dai cento ai duecento danni consistenti e spesso irreversibili, oltre può essere letale.» Il maggiore si chinò, diresse il fascio di luce verso il tappo rosso che sporgeva dall’ordigno, lo strinse tra i becchi della pinza e delicatamente lo strattonò in senso antiorario. Il tappo ruotò di una quindicina di gradi, poi, continuando, lo girò di altri centottanta, iniziando delicatamente a svitarlo. Ne uscì un tappo facente corpo mobile con un argenteo spuntone, simile a un lucente chiodo privo di punta e forato al suo interno, lo strano dispositivo aveva un diametro esterno di circa sei millimetri per una cinquantina di lunghezza. «Ecco l’innesco!» esclamò Vložinskji, facendolo ballare sul palmo della mano. Indicò la superficie della corona circolare del piccolo cilindro ospitante l’innesco e spiegò: «Questa corona circolare è costituita da due elettromagneti azionati da un segnale elettrico chiamato innesco detonazione; il segnale si genera quando il vettore assume la massima accelerazione in prossimità del bersaglio. – mostrò il tappo – Gli elettromagneti, eccitandosi, attraggono la base mobile di questo dispositivo, la cui punta avanza di tre centimetri e mezzo, chiudendo otto contatti che permettono la continuità elettrica tra le facciate di otto micro-condensatori e i detonatori dell’ordigno; a quel punto la bomba è pronta a esplodere.» «Incredibile come il tutto sia così miniaturizzato», disse il generale, con voce
che tradiva meraviglia. Vložinskij si avvicinò al box di plexiglas, indicò un chip, dicendo: «Quando il missile in impennaggio è arrivato all’altitudine stabilita, il circuito che abilita la detonazione genera un segnale elettrico che carica le facciate di questi otto micro-condensatori. Questi, scaricandosi istantaneamente per mezzo della continuità elettrica generata dall’innesco, accendono gli otto detonatori del sistema implosivo a lenti dell’ordigno e, per chi si trova in un raggio di otto chilometri, è l’apocalisse. L’eventuale codice di disattivazione proveniente da terra, azzera istantaneamente il segnale d’innesco, inibendo il circuito detonante disinnescando il tutto. Sistema analogo ma complementare è usato per il comando di auto distruzione.» Vložinskij pose il tappo rosso nella vaschetta, prese quello verde privo d’innesco e lo avvitò al posto dell’altro, senza particolari precauzioni. «Ora, – disse, – tutto quest’armamentario potrebbe finire anche dentro la bocca di un vulcano attivo che non succederebbe niente.» A un suo gesto, qualcuno dopo aver riposto la vaschetta col tappo rosso nel vano governo, iniziò ad avvitare il pannello esterno tra l’ogiva e il terzo stadio. Erano le 10.55, il disinnesco del primo vettore era quasi ultimato, ma il generale non accennava a togliersi dai piedi. «Noi del genio, siamo dei manovali rispetto a voi. Non ho mai ben compreso la classificazione di questi ordigni nucleari.» «In effetti, c’è un po’ di confusione. Gli ordigni chiamati impropriamente nucleari, sono di due tipi, atomici e termonucleari; questi ultimi definiti anche bombe all’idrogeno o, H. I primi, gli ordigni atomici, sfruttano il principio della fissione atomica, gli ordigni termonucleari, sfruttano il principio della fusione nucleare e hanno come loro innesco delle bombe atomiche, che in gergo, sono chiamate, primari. Noi abbiamo davanti un classico termonucleare a fissionefusione da seicentocinquanta chilotoni, ordigno capace di danneggiare seriamente una città come Londra e di cancellarne una come Monaco.» «La pregherei di spiegarmi il suo funzionamento, maggiore.» A quella richiesta, il biondo Vložinskij si sentì quasi venire meno. “Che rompiscatole”, pensò. «Sintetizzare in poche parole il funzionamento di un termonucleare, non è cosa facile, generale. Prima andrebbe compreso l’ordigno atomico che gli fa da
innesco…» «Non sia sintetico… questa per me è un’occasione unica, sono interessato a comprendere ciò che abbiamo davanti.» “Questo è proprio una gran rottura di scatole…” pensò ancora l’altro, ma un maggior generale, era un maggior generale. Keniev offrì una seconda sigaretta a Vložinskij che, dopo il primo tiro, con stoicismo iniziò la seconda e più complessa spiegazione. Si erano fatte le 11.23, l’infaticabile ufficiale: «Nel nostro caso, il primario,{22} o, ordigno atomico, è una piccola sfera di plutonio grande come un’albicocca, la cui potenza è pari a sette chilotoni. L’asse verticale della sfera è forato e ricoperto di nickel, al centro dell’asse e quindi della sfera, è posto un emettitore di neutroni poco più grande della capocchia di uno spillo, comunemente chiamato iniziatore. Esso è costituito da pochi granuli di polonio ricoperti da una sottile schermatura d’oro, l’esterno del quale, è formato da poroso berillio o, in alcuni casi, da litio.» «Polonio, litio, berillio, schermatura d’oro, credo di non seguirla…» «Il polonio è un’emittente naturale di raggi alfa, nuclei di elio, e il berillio e il litio, hanno la proprietà di emettere neutroni quando sono colpiti dai raggi alfa; da qui il nome dell’iniziatore al polonio berillio o, polonio litio. Nel nostro caso, per problemi di miniaturizzazione è usato il berillio. I raggi alfa hanno una traiettoria di trentotto millimetri nell’aria che si riduce a qualche centesimo nei metalli solidi; questo è il motivo della schermatura d’oro tra i due elementi, rendere il berillio inerme. Al momento della detonazione, l’esplosivo convenzionale che copre il nocciolo di plutonio implode in modo assolutamente simmetrico, esercitando in ogni millimetro quadrato della sferetta una grande pressione uniforme, la sfera diminuisce di volume fino a divenire un globulo oculare liquido, minore di un millimetro di diametro, diventa massa critica e al contempo schiaccia e liquefà il polonio e il berillio miscelandoli; il berillio scatena una tempesta di neutroni i quali, investendo la massa critica, frantumeranno tre, dieci, venti atomi di plutonio che emettendo a loro volta altri neutroni, innescano la reazione di fissione incontrollata detta a catena, e il gioco è fatto.» Il generale indicò la palla da rugby. «Sette kilotoni… La potenza di questo primario è grossomodo analoga alla bomba americana di Nagasaki, se ne deduce quindi che il materiale fissile è circa lo stesso; come può essere ora così minuta
da entrare in un involucro di queste modeste dimensioni?» L’altro, sorridendo, fece: «Tecnologia degli esplosivi convenzionali. Questo è il suo mestiere, no?» Il generale pensò che quel giovane non avesse ancora perso la baldanza e quel pizzico di arroganza che caratterizza ogni brillante studente universitario. «Continui, maggiore…» «Nei primi ordigni atomici, le trentadue lenti implosive, atte ad annichilire il materiale fissile costituito da plutonio o uranio 235, erano formate da blocchi a forma di piramide tronca. Ogni blocco era grande come una batteria d’auto e consisteva in due tipi di esplosivo: uno a combustione lenta, l’altro veloce. Come accennato in precedenza, oggi gli stampini a lenti implosive sono otto e grandi così. – mostrò l’unghia del dito pollice – Inoltre, il design è diverso e ognuno degli otto elementi implosivi è innescato da un detonatore grande come uno spillo. Ecco perché bombe atomiche da 10, 20 chilotoni un tempo enormi, ora possono assumere le dimensioni di un pompelmo.» Erano le 11.32, il maggiore indicò la palla da rugby. «Entrambe, sia il primario a fissione, sia il secondario a fusione o, H, sono semplicemente racchiusi qui. Fu subito chiaro che la temperatura di alcuni milioni di gradi generata da un ordigno atomico, avrebbe potuto innescare una reazione di fusione del deuterio, dando origine all’elio, processo analogo a quello che avviene all’interno di una stella. I raggi X generati dalla reazione a catena del primario, possono riscaldare il secondario termonucleare direttamente, come le microonde riscaldano un forno a infrarossi, ma non lo comprimono fino alle densità che facilitano la fusione. Per ottenere una reazione termonucleare, si deve aumentare l’energia cinetica, quindi la velocità di atomi leggeri quali gli isotopi dell’idrogeno, il deuterio e il tritio; aumentarla quanto basta affinché riescano a superare la potentissima barriera elettronica del nucleo e quindi, fondersi producendo elio. Questo è un problema che richiede calore e pressione, ma non una massa critica. Una volta che la reazione di fusione è avviata, l’energia di legame liberata dalla reazione promuove altra combustione e così via. Ciò dà luogo a un processo energetico colossale, la cui potenza dipende solo dalla quantità del combustibile termonucleare. L’iniziale, enorme rompicapo che allora fece perdere anni, fu l’onda d’urto idrodinamica della fissione. Essa avrebbe spazzato via tutto prima che un qualsiasi principio di fusione si fosse innescato. Bisognava inserire qualche altro materiale capace d’innescare e, per un brevissimo intervallo
mantenere la fusione. Dopo interminabili e complicatissimi calcoli, il problema fu infine risolto, era l’uovo di Colombo. Risultò che la comune plastica andava benissimo. La bomba atomica produce quantità immense di raggi x, se si dirigeva un intenso flusso di questi raggi su uno strato di plastica espansa, avvolta intorno ad un involucro di materiali termonucleari, questa si sarebbe riscaldata e trasformata in plasma, gas ionizzante. Irradiando la plastica alla velocità della luce, i raggi X avrebbero creato il plasma pressoché istantaneamente; l’altissima temperatura di questo plasma si sarebbe sommata a quella della fissione e, nell’intervallo di mezzo microsecondo, si sarebbero avute, all’interno dell’involucro, pressioni e temperature enormi, comprimendo e accelerando all’estremo gli atomi del materiale termonucleare accendendo il processo di fusione nucleare, il tutto prima che si generasse l’onda d’urto idrodinamica della fissione.» Il maggiore sfiorò con un dito l’involucro color avana della palla da rugby. «Eccola generale, materiale plastico espanso ad alta densità. I primi ordigni, sia a causa dei primari, sia del combustibile termonucleare, che allora erano deuterio e tritio liquidi, erano grandi e ingombranti. Ora, come combustibile termonucleare, usiamo il deuterato di litio, una polvere chimicamente stabile con il litio nella forma del suo isotopo litio-sei. I neutroni emessi dal primario producono quasi istantaneamente il tritio dal litio-sei, dopodiché il tritio si fonde con il deuterio sviluppando una combustione termonucleare come, e molto più potente di quella a combustibile liquido. Questi ordigni sono enormemente più piccoli, duttili e leggeri dei primi.» Erano le 11.43, nel pensare che ormai il turno di mensa sarebbe saltato, l’esausto maggiore accese un’altra sigaretta. «Una delle cose più complesse è la geometria. Ogni classe di ordigno ne ha una assestante, basta che essa vari anche di pochissimo perché la reazione di fusione non s’inneschi o sia parziale. All’interno, l’involucro di materiale plastico deve combaciare micrometricamente con le superfici metalliche, densità e spessore sono calcolati in funzione della quantità del combustibile nucleare e quindi, della potenza dell’ordigno. Nel nostro caso, abbiamo un unico primario a fissione, grande come un pompelmo, la cui superficie esterna è coperta e fasciata da strati di uranio 238 arricchito con uranio 235; al loro interno gli strati sono percorsi da canalature tubolari, riempite da deuterato di litio in polvere. L’involucro di plastica chiude ermeticamente il tutto, questo a sua volta è chiuso da una copertura di 238 arricchito, – indicò i due semi involucri color prugna aperti – chiuso infine da una copertura sempre di uranio238 che…»
«…In precedenza, ha parlato di un vulcano attivo. La temperatura all’interno di un vulcano sarebbe in grado di accendere i micro-detonatori, dando luogo alla reazione termonucleare, no?» Il maggiore lanciò un’occhiata all’altro, pensando che aveva capito poco o niente, scosse lentamente la testa: «No, generale, non potrebbe accadere. Per dar luogo a una pressione idrodinamica assolutamente uniforme in ogni punto della sfera di plutonio, i detonatori devono accendersi tutti nello stesso istante; anche un’accensione con un intervallo di mezzo microsecondo tra uno di essi, non permetterebbe la perfetta omogeneità dell’implosione e quindi, la creazione della massa critica, non innescando la reazione nucleare a catena. È statisticamente impossibile che eventi naturali esterni, possano accendere tutti i detonatori nello stesso istante. Ammettendo anche che il calore possa far reagire i microdetonatori e non è così, avremmo un’esplosione convenzionale di bassa potenza, dovuta a uno o due stampini che deflagrando per primi con le loro onde d’urto che spazzerebbero ogni cosa. Anche se esplodessero tutti e otto, sarebbero detonazioni dilazionate da micro-intervalli temporali, non combinando nulla.» Erano le 11.58, il generale batté una mano sulla spalla del maggiore, dicendo: «L’argomento è di tale interesse che il tempo è volato, non mi ero accorto che si è fatto tardi. Non desidero profittare oltre della sua cortesia. Inoltre, nel pomeriggio sarò impegnato nel preparare le consegne per Ordžone e non potrei seguire le operazioni di carico. La ringrazio maggiore, averla ascoltata è stata un’esperienza interessantissima. Continui pure il suo importante lavoro…» Ora alcuni uomini stavano avvitando il cono rosso, mentre altri svitavano quello del secondo vettore. L’intera operazione disinnesco del primo missile nucleare, escluse le due ore e mezzo perse dietro al generale, aveva impiegato esattamente, ventisette minuti. Erano le 12.26, quando anche il secondo SS-20 fu completato e Vložinskji andò a firmare un fascio di carte, attestanti l’avvenuto disinnesco e lo scarico di responsabilità. Kenyev controfirmò inserendo parte dei documenti nella sua capiente borsa. Con due speciali argani, la squadra iniziò l’operazione inserimento missili nelle rispettive custodie L1, complete dei relativi moduli identificatori del vettore. Erano le 12.56 quando in fila uno dietro l’altro, i due contenitori cilindrici, posti sui bassi vagoni trainati da un motrice elettrica, uscivano dalla sala di disinnesco. Alle 12.58, erano momentaneamente parcheggiati all’interno del tunnel, sul binario che portava a nord, verso le aree di deposito. Alle 12.59 il generale era presso i cilindri, mentre la porta blindata della camera di disinnesco si chiudeva alle sue spalle. Data l’ora e la confusione
che iniziava ad animarsi, nessuno poté notare quella che sarebbe stata una grave negligenza dell’ufficiale responsabile dello stoccaggio e allocazione, carica che quel mattino ricopriva Kenyev: Nella mattinata, non era stata predisposta la scorta armata per il trasporto dalla camera di disinnesco all’area di deposito; scorta rigorosamente prevista dal regolamento per i vettori con testata nucleare. Alle 13,00 la sirena annunciò il cambio generale della guardia e l’inizio del turno di mensa, provocando l’esplodere del rituale, gran trambusto: soldati che chiassosamente smontavano dal servizio, altri che lo prendevano e chi si affrettava per andare alla mensa. Nelle specifiche circostanze, ciò avrebbe significato che per quattro, cinque minuti, i due vettori sarebbero rimasti incustoditi, evento unico, probabilmente mai verificatosi prima. Keniev, a ridosso dell’umida parete destra e reso ora invisibile dai fusti dei cilindri, aveva davanti il modulo con su stampato l’identificatore e la matricola del missile contenuto nel primo dei due L1. Vi si leggeva: IRBM SS-20. M1. RV0.65.MT, seguiva una serie di otto caratteri alfanumerici. La forchetta temporale era strettissima, l’azione richiedeva concentrazione massima, un minimo errore e ogni sforzo sarebbe stato vano. “Calma! – si disse Keniev – È la fase più delicata dell’intera operazione. Qualsiasi intralcio e le conseguenze saranno incalcolabili.”
Fulmineamente tirò la zip del primo comparto della borsa, estraendo un piccolo trapano a batteria, iniziando con solerzia a svitare le viti che fissavano il modulo dell’identificatore al fusto, staccandolo infine dalla propria sede d’inserimento. Subito dopo, da un secondo comparto tirò fuori uno dei due moduli stampati dal plotter due sere prima, che per colore, forma e dimensioni, era identico a quello appena tolto; senza termini di continuità, iniziò ad avvitarlo al posto dell’altro. Erano ati tre minuti e il trambusto appena iniziato. Raggiunto l’altro contenitore L1, iniziò a ripetere la stessa operazione, ma il tempo correva inesorabile, non ci sarebbe riuscito nei tempi previsti. Non poteva farsi notare trafficando nel sostituire un identificatore, sarebbe stata la fine; decise di applicare la soluzione di riserva. Continuando a svitare, tolse il secondo identificatore e iniziò ad avvitare parzialmente il sostituto. Sbirciò ancora una volta il quadrante: le 13,08, era fuori tempo massimo, non poteva rischiare oltre. Arrotolò strettamente i due identificatori appena tolti infilandoli alla rinfusa nelle tasche del cappotto, infine, uscito dalla penombra rendendosi visibile, fece cenno a un caporale appena montato in servizio nell’area ricevimento e accettazione.
Indicò i fusti. «Qualche cretino nell’area di disinnesco, temendo di far tardi per la mensa ha lasciato questo identificatore con le viti non ben strette, evidentemente, durante il breve trasporto si sono ulteriormente allentate. – indicò la striscia con le viti pendule – Notato qualche minuto fa, sono salito in ufficio a prendere quest’affare», porse il trapano al graduato, ordinandogli di rimediare a quella negligenza. Il caporale, gratificato per quell’ordine impartitogli così informalmente nientemeno che dal comandante della base, con sollecitudine completò il lavoro. Poco dopo, Kenyev ò un minuto a controllare la propria opera: perfetta! Ora nei due moduli identificatori si leggeva: SS-1C M2. 67 LT. Seguiva un numero di sette cifre di cui solo le ultime due differivano da un identificatore all’altro. I due SS-20 con una gittata di cinquemila chilometri e testata nucleare della potenza equivalente a seicentocinquantamila tonnellate di tritolo, erano ora virtualmente diventati due SCUD classe B, missili con gittata di quattrocento chilometri e testata convenzionale della potenza di una tonnellata di tritolo. Erano le ore 13.12 e il chiasso andava estinguendosi, Keniev tolse da un comparto della sua onnipresente borsa adatta per ogni bisogna, i due moduli dalla prima pagina azzurrina, sottratti sere prima in maggiorità e ora accuratamente compilati, indicando vagoni e motrice, li porse al caporale ordinando di trasportare immediatamente i due vettori nell’area deposito B-12. Mentre osservava il convoglio allontanarsi, nel detergersi la fronte dal sudore e sentire il proprio battito decelerare, il generale pensò che forse fosse andata. Calcolò il tempo: il deposito distava circa milleduecento metri, trenta, quaranta minuti, – si disse – poteva tornarsene momentaneamente in ufficio e rilassarsi un po’. Il sottufficiale di turno, da poco entrato in servizio, controllò attentamente i documenti di carico; i sei fogli che costituivano i due moduli erano riempiti correttamente. In basso a sinistra, erano ben visibili le diciture del timbro, base di Khariskjia. Ufficiale responsabile accettazione e stoccaggio, sotto spiccava la nota firma del maggior Mišha Šovotin. «Manca la tua firma, caporale», fece il sergente, porgendo i documenti al graduato. Questi firmò nella casella in fondo al centro, sotto la dicitura il trasportatore. Nel giro di quindici minuti, i contenitori L1 verticalmente allineati, furono posti accanto ad altre simili custodie; tutte avevano le matricole in bella mostra. Il sottufficiale impresse un timbro sull’unica casella rimasta ancora in bianco nei
fogli dei due moduli e, sotto il timbro, firmò accludendo l’ora. La dicitura riportava: Sottufficiale di turno responsabile movimenti area deposito B-12. Erano le 13.50, quando il caporale consegnò a Keniev i documenti attestanti l’avvenuta allocazione. Il generale ordinò al graduato di condurre immediatamente i vagoni al deposito e di riprendere servizio. Poi, dopo aver fatto alcuni i verso la gabbia del montacarichi, improvvisamente si voltò, chiedendo: «Il tuo nome, caporale?» «Šasha Lebedin!» esclamò il giovane, impalato sugli attenti. L’altro gli si avvicinò, e chiudendo il pugno della mano destra lo batté amichevolmente su una spalla del graduato. Erano le 14.00, ora il generale era entrato nel data base che gestiva gli stoccaggi delle aree di deposito. Il programma chiese: operazione da eseguire, digitò, carico. La seconda domanda fu: area di deposito, il generale digitò, B-12. Di colpo il monitor cambiò schermata, mostrando la maschera con i dieci file che egli conosceva bene, avendone eseguito la stampa due sere prima. Con i moduli sottomano, Kenyev iniziò ad inserire la matricola del primo dei due SS-1c, cinque minuti dopo, entrambe gli scud erano caricati per via telematica sul database. Ora i file erano dodici e il computer aveva posto in alto quelli poc’anzi inseriti. Tra tutti, questi ultimi avevano le matricole più vecchie, ciò significava che sarebbero stati i primi che il computer avrebbe scelto per essere inviati ai centri di demolizione e la scelta sarebbe avvenuta l’indomani mattina, tre ore prima dell’ora fissata per la partenza. Ora Keniev aveva sotto gli occhi sia i due moduli per il carico degli SS-20, sia quelli degli Scud. Valutò la firma di Lebedin, era facile. Con mano ferma, accluse le firme del graduato sui sei fogli dei moduli SS-20, nel riquadro che portava la dicitura il trasportatore. Dal terzo cassetto estrasse il timbro sottratto due sere prima in maggiorità e su ognuno dei sei fogli, impresse una dicitura dentro la casella dall’intestazione, area deposito. La stampa del timbro riportava: sottufficiale di turno responsabile movimenti area deposito A4. Ora aveva davanti agli occhi sia la stampa delle note caratteristiche del sergente maggiore Rasha Protčkin, sia il foglio di carta in cui si era esercitato nel falsificare la sua firma e quella del maggiore Šovotin. Come per Lebedin, senza esitazioni, sotto la dicitura testé posta, accluse falsificando la firma di Rasha Protčkin – in quel momento di servizio nella suddetta area A4 -, infine, scrisse l’ora: 13.35. Un paio di minuti dopo, era alla toilette, con dello smacchiatore spray infiammabile
irrorò i moduli degli Scud e il restante materiale cartaceo, aprì la finestra e bruciò il tutto. Nell’osservare il materiale nebulizzarsi nel water, pensò se caricare i due SS-20, decise per il no, “meglio non forzare troppo la mano”, si disse. Erano le 14.40 quando entrò nell’ufficio di Šovotin. «È andato tutto bene, generale?» «Tutto bene, maggiore. La compilazione è stata un po’ complessa, ma con un minimo di attenzione non ho incontrato difficoltà.» Unitamente ai moduli di carico pronti per l’archiviazione, ò all’altro delle carte riempite da Vložinskji. «I vettori devono ancora essere caricati per via telematica; sa, io non ho molta dimestichezza con i computer. Ho avuto un’interessante conversazione con Vložinskji, gli ho fatto perdere del tempo ma credo ne sia valso la pena…» Šovotin sorrise. «Ora potrà tornare a Mosca con tranquillità.» «Sì, maggiore. Sono più tranquillo…» Tornato in ufficio, finalmente Kenyev poté ordinare il pasto per telefono. Šovotin ò il quarto d’ora successivo a controllare i due moduli; all’apparenza le compilazioni erano perfette. Entrò nel database, stava iniziando a digitare i primi dati sulla maschera dell’area deposito A4, quando si bloccò. L’istinto del burocrate lo avvertì che qualcosa non quadrava ed egli sapeva che il suo fiuto difficilmente sbagliava. Con pignoleria, iniziò a girare e rigirare tra le dita il fascio delle carte, ricontrollando minuziosamente ogni casella. Niente, non c’erano anomalie. Ad un tratto le pupille gli si dilatarono, anche questa volta il suo fiuto aveva avuto ragione, il buco c’era, era lì davanti, grosso come una casa. In ogni foglio, nella casella sotto la dicitura Base di Khariskjia ufficiale responsabile accettazione e stoccaggio doveva esserci la propria autorizzazione, invece c’erano il timbro e la firma del comandante della base. Le procedure erano chiare: sua era la responsabilità giuridica del preso in carico e stoccaggio, lui doveva legittimare l’allocazione e nessun altro. In ognuno dei sei fogli, accanto al timbro del comandante della base, impresse il proprio timbro, poi, dando il tocco finale a quella bizzarra serie di eventi, man mano siglò. Terminato, controllò di nuovo il tutto, infine, con compiacimento, pensò: “Ora sì
che siamo a posto…” Di lì a poco, i due SS-20 allocati per via telematica, erano virtualmente in carico nell’area deposito A4.
Il colonnello dei paracadutisti, Ia Prečkovsky era il comandante del battaglione della guardia. Aveva cinquantotto anni, lo stomaco prominente e contava i giorni per andarsene in pensione e tornare finalmente a Domidov, suo villaggio Natale. Lo squillo lo colse mentre comodamente seduto dietro la scrivania, sonnecchiava al tepore di una stufetta elettrica. «Sono io!» rispose bruscamente. «Qui Kenyev.» «Che c’è generale?» chiese con malcelata irritazione, il grezzo colonnello. «Domattina partirà un carico per Ust-Kara, composto di due scud B; è già pronta la lista degli uomini di scorta?» «Se ne occupa il capitano Pulkin; ma non credo, non ancora…» «Quante unità, sono previste per due vettori di quel tipo?» «Dieci, inclusi un ufficiale e un sottufficiale.» «Poco fa, ho fatto un giro all’interno della base, in un paio di uomini ho notato stanchezza e morale basso. A costoro qualche giorno all’aperto farebbe bene, li tonificherebbe rialzandogli il morale. Le spiace inserirli nella scorta?» «I loro nomi?» «Sergente maggiore Rasha Protčkin e caporale Šasha Lebedin.» L’altro, scribacchiò: «Vedrò di farli inserire nella lista.» Erano le 22.30, quando nell’ufficio maggiorità, Keniev toglieva dalla rastrelliera il timbro fasullo e ci rimetteva quello giusto. Poco dopo era al piano terra, dalla borsa di cuoio estrasse due buste di plastica, gettandole in un contenitore di
rifiuti il cui contenuto era destinato di lì a poco ad andare all’inceneritore della base. Le buste contenevano gli identificatori da lui sostituiti, trasformati con pesanti cesoie nel suo ufficio, prima in sottili lamine, poi in trucioli.
§§§
I due turbo-alberi Isotov Tv3-117 da 2200 cavalli erano al minimo dei giri. Il Mi 24 volava lentamente a nord di Vorkuta, sopra le cime innevate dei pini, lungo i margini del fiume Korotajha. Il potente faro inquadrò uno spiazzo bianco, poco dopo i rami degli alberi iniziarono a oscillare, mentre vortici di neve trafitti dall’intensa luce si alzavano verso l’alto come getti di una fontana luminescente. Le slitte si posarono dolcemente al suolo della piccola radura e, uno per volta, cinque uomini in tuta mimetica bianca saltarono giù dall’elicottero, allontanandosi curvi sotto le pale che roteavano al minimo dei giri. L’ultimo della squadra scaricò gli zaini e un lungo cilindro. Controllato l’equipaggiamento, un uomo alto con copricapo color arancio e maglione nero che gli spuntava da sotto la tuta, fece un cenno al pilota, subito il Mi 24 si alzò tra un turbinio bianco, scomparendo nel buio. Al caporale Lebedin parve di udire in lontananza un leggero, indistinto rumore, non ci fece caso, doveva dormire, erano le venti, a mezzanotte avrebbe dovuto montare la guardia; si rannicchiò stringendosi all’interno del sacco a pelo. Ora i cinque uomini, zaino in spalla, calzavano gli sci. Senza proferire parola, ordinatamente e in fila indiana, iniziarono a dare di fondo, scivolando silenziosamente attraverso le conifere della foresta in direzione sud-est. Venti minuti dopo la squadra spetsnaz era ai margini del bosco, lo spilungone in testa alla pattuglia si portò agli occhi le lenti del binocolo ad espansione d’immagine notturna, osservò a lungo, infine, col dito indice indicò ripetutamente in direzione sud. Il caporale Lebedin fu svegliato da un leggero fruscio, nel dormiveglia, si girò. “È una volpe siberiana che…” il pensiero non fu mai finito: una pallottola 7.65 gli penetrò in fronte, spappolandogli la materia celebrale uscendo dal cervelletto. Il massacro fu totale, rapido e silenzioso, in meno di un minuto i dieci uomini della scorta furono trucidati.
Ora, tre dei cinque uomini della pattuglia stavano togliendo i silenziatori dalle pistole, mentre gli altri ponevano nelle loro custodie i fucili Avtomat con silenziatore e sistema di puntamento a infrarossi Vinp 009. «Seppellite i cadaveri e sistematevi per la notte, abbiamo tempo, dobbiamo essere a Ust-Kara non prima di domani alle diciotto» affermò l’uomo alto, rivolto ai quattro. «Il terreno è ghiacciato e sta nevicando, colonnello. Domattina saranno sepolti naturalmente», obiettò qualcuno. Nello scuotere lentamente la testa, il tenente colonnello degli spetsnaz col dito indice indicò ripetutamente il suolo.
Il rumore scassava i timpani e il freddo faceva ballare i denti. I due turbo eliche Ivčenko al-20k da 4000 cavalli dell’Antonov An8 Camp, erano al massimo dei giri. Il vecchio velivolo si trovava sulla verticale di Uhta, volando a un’altitudine di quattromila metri con rotta, sud, sud-ovest. Kenyev era seduto al centro della carlinga, accanto all’ala sinistra nell’unico sedile approntato per la bisogna. Il generale si alzò il bavero del cappotto fissando lo sguardo oltre l’oblò, come se volesse focalizzare un immaginario punto nel buio della tenebra siberiana. I suoi pensieri erano rivolti a Mosca dove, tra poco più di due ore, sarebbe atterrato. Era indeciso se comunicare subito la positiva conclusione dell’incarico assegnatogli o attendere fino a domani notte. La responsabilità di quella parte dell’operazione Gengis Khan era sua, e lui, aveva eseguito il compito brillantemente, ma il carico non aveva ancora lasciato Ust-Kara. Mentre con meccanica intermittenza, attraverso il plexiglas il volto gli era grottescamente illuminato dai lampi violacei delle pulsanti luci di posizione di punta d’ala, pensò che comunicare ora il positivo esito al generale d’armata e Presidente del GRU Maksim Petrov, poteva rivelarsi un’imprudenza. Fornendogli anzitempo comunicazioni non complete, avrebbe potuto far nascere nel generale il sospetto che lui volesse forzare la mano per ingraziarsi i suoi favori. Il generale Presidente era un personaggio potente, importante e di spessore troppo elevato per rischiare d’incrinare la fiducia che egli aveva riposto in lui. Decise infine per il no, avrebbe atteso l’indomani notte. Per un attimo Kenyev fu percorso da un brivido, ma pressoché all’istante si rilassò al pensiero che Petrov non aveva mai sbagliato una valutazione. “Ha sempre previsto con largo anticipo e massima esattezza gli avvenimenti futuri; nell’ottica degli sconvolgimenti che la Russia ha subito in questi anni, egli non solo non è precipitato come tutti, ma al
contrario, da ex capo del secondo direttorato KGB è salito al rango di generale d’armata e Presidente del GRU; sotto la sua protezione si può arrivare in capo al mondo” concluse infine il generale.
Capitolo VI L’ingombrante automezzo, affaticato dal pesante carico, arrancava lentamente frantumando lastre di ghiaccio e quant’altro trovava lungo il suo aggio. I potenti fari illuminavano la pista delimitata da abeti e pini siberiani, i cui rami incurvati dal carico di neve erano inesorabilmente tranciati. In quel momento l’SI III seconda serie si trovava tre chilometri a nord della cittadina artica di UstKara, non lontano dall’omonimo, gelido mare. Dopo una curva, apparvero in lontananza una serie di puntini azzurrognoli, disseminati qua e là in un’area fattasi improvvisamente piatta e priva di vegetazione. Fasci di luci biancastre sciabolavano nell’oscurità del crepuscolo polare, spazzolando violentemente strisce di terreno innevato. Poco dopo, tra la sfumata tenebra resa meno buia dalle sorgenti luminose ora più intense, s’intravedeva un triplo sbarramento di filo spinato. Lo sbarramento si estendeva in un’area dai contorni indistinti, lungo la cui linea perimetrale si ergevano qua e là, rozze torrette di ferro con su sentinelle che pilotavano i fari. Erano da poco ate le diciotto di domenica primo ottobre, quando facendo vibrare la garitta del posto di guardia, il mezzo si bloccò davanti al cancello principale del centro demolizione di Ust-Kara. Ora, una mitragliatrice leggera era puntata sul parabrezza dell’SI III, illuminato a giorno dalla luce di un faro, mentre un sottufficiale e due soldati d’artiglieria armati di fucili mitragliatori, venivano avanti. L’uomo alto col copricapo arancio saltò giù dalla cabina guida, affondando sulla neve fin quasi alle ginocchia. «Sono il tenente Mil’štein, io e i miei uomini veniamo da Khariskajia per consegnare due Scud-B» disse. Il sergente maggiore fece cenno ai suoi di abbassare i Kalašnikov: «Siete in ritardo. Dal registro degli arrivi risulta che dovevate esser qui nella mattinata, ora non potete entrare. Una squadra di demolitori era stata costituita per questo carico, ha atteso fino a tre ore fa, poi il direttore pensando che ormai non sareste arrivati l’ha sciolta, mandando tutti a casa.» «Ci siamo imbattuti in una tempesta di neve, perdendo l’orientamento…» «Mi spiace, tenente; è il regolamento. Domattina riprenderà la normale attività e potrete chiedere di conferire col direttore.» In quel momento una jeep proveniente dall’interno frenò slittando sul ghiaccio, scivolando si fermò a ridosso del cancello. Un uomo robusto con una faccia
granitica da contadino baltico saltò giù dal mezzo, dirigendosi verso il gruppo. Ora, il tale sbucato dalla tenebra era illuminato dalla vivida luce dei fari della Jeep riverberati dalla neve, sulle sue guance risaltavano macchie rossastre, l’uomo aveva evidenti problemi di fegato. «Che succede?» chiese in tono brusco. «Il carico di Khariskajia, direttore» rispose il capoposto. «Stavo spiegando al sergente maggiore che, a causa di una tormenta, abbiamo incontrato difficoltà lungo il percorso» replicò l’uomo alto, qualificatosi per il tenente Mil’štein. Il dottor Avel Ezov annuì lentamente e nel riflettere, accese una sigaretta. «Da queste parti può capitare, non è la prima volta che succede. – disse Ezov, infine si rivolse al sottufficiale – Da domani e per dieci giorni gli impianti saranno impegnati, oggi era il loro turno. Al centro questa sera sono solo, - si girò verso l’uomo alto - quanti siete?» Il presunto Mil’štein indicò i grossi cilindri inclinati e coperti dall’incerata. «Nove, dieci con me, alcuni sono all’interno dei loro sacchi a pelo, sotto il telone per non congelarsi.» Il direttore sbirciò l’orologio, si rivolse di nuovo al sottufficiale. «Con il loro aiuto me la sbrigherò in meno di quattro ore, dopodiché ripartiranno quando vorranno. - fece un cenno all’uomo alto - Potete entrare!» «Ma direttore, il regolamento…» «In questa parte di buco di culo di mondo il regolamento sono io, chiaro? Domani quella roba non potrà più andare al crashing, che vuoi fare? Rimandarli indietro ora?» urlò Ežov, ponendo definitivamente a tacere lo zelante sergente maggiore. I dieci minuti successivi, furono impiegati a firmare i registri d’ingresso, poi furono esaminate le carte. «I suoi documenti, tenente» chiese il sottufficiale. «Non farci perdere dell’altro tempo, capoposto. Firmi qui, tenente!» esclamò bruscamente il grezzo direttore, indicando un riquadro nel registro. All’interno del vasto centro di demolizione si respirava un’aria di umana, tetra
sofferenza. Qua e là spettrali luci azzurrastre illuminavano fievolmente rozzi capannoni e bassi edifici fatiscenti. Al suolo, rugginosi binari sotto sgangherate tettoie di eternit si snodavano per ogni dove. L’uomo alto, seduto ora sulla jeep accanto a Ežov, volse lo sguardo a destra. Tra le mura di un rudere, bianchi caratteri cirillici su sfondo nero ormai consunto erano ancora leggibili. La scritta era il motto dei campi d’internamento sovietici: Il lavoro è una questione di onore. Ežov sembrò leggere nel pensiero dell’uomo alto. «Era un lagpunkt colonnello, un campo base, risale al 1925 e faceva parte del Gulag{23}. Qui erano affidati alle tenere cure della NKVD prima, e del KGB poi, gli intellettuali stravaganti, i presuntuosi, boriosi, revisionisti, deviazionisti di destra e tutto il resto della feccia. Questo campo ha svolto egregiamente il proprio dovere fino alla metà degli anni 60, poi fu trasformato in una fabbrica per la lavorazione del pesce e, dopo il trattato S.T.A.R.T, è diventato un centro di demolizione.» «Avevo intuito che era un lager, maggiore» rispose l’altro, sorridendo a quel cinico umorismo. La jeep seguita dall’autocarro, si fermò davanti all’ingresso di un grosso capannone, il direttore scese, spalancò la porta e accese i neon. Al centro del fatiscente edificio, era visibile una struttura metallica a forma di parallelepipedo con pareti in metallo che si estendevano in lunghezza per oltre trenta metri. Un binario arrivava fin dentro la struttura, al cui interno erano visibili due grandi eliche, distanti circa un paio di metri una dall’altra. Lungo i lati, all’interno della struttura, dei cuscinetti a sfera su una pesante guida metallica trasmettevano il loro moto a un’intelaiatura mobile che, lentamente, portava i vettori da macinare sotto le pale delle eliche. L’imponente mezzo manovrò con cura, ponendosi davanti al centro del binario; ora, i due missili nucleari dovevano fare l’esatto percorso di qualche giorno prima, nella base di raccolta e transito per essere disattivati: essere estratti dalle loro custodie. A un cenno del tenente colonnello, i quattro spetsnaz saltarono giù e subito si dettero un gran daffare. Qualcuno montò su una motrice elettrica che trasportava due bassi vagoni scoperti dai pianali mobili; fu azionata la retromarcia allineando gli stessi in fila, dietro la parte posteriore destra del grosso autocarro elevatore-trasportatore. Dalla cabina guida del SI III, fu sollevata la rampa mobile di una trentina di gradi, quindi furono allentati gli agganci automatici a molle che tenevano ancorati i due vettori all’interno dei cilindri, mentre dalla motrice, qualcuno attivava i rotismi delle slitte per l’avanzamento dei pianali mobili dei vagoni. Analoga manovra fu eseguita nella parte sinistra dell’SI III e, una ventina di minuti dopo, i due missili fuoriusciti dai rispettivi contenitori cilindrici, si trovavano con i loro jet fasciati
adagiati in linea uno dietro l’altro, sui pianali dei due vagoni. Il direttore con un cenno fece allontanare tutti, si avvicinò a un pannello di comando presso la struttura metallica e pigiò alcuni pulsanti. Istantaneamente le pale delle eliche iniziarono a vorticare e i cuscinetti delle guide a ruotare, mandando lentamente avanti, ma a vuoto, l’intelaiatura trasportatrice all’interno della struttura. «Che cosa sta facendo?» chiese il capo degli spetsnaz. Ežov estrasse dalla tasca della pelliccia una fiaschetta metallica, bevve un lungo sorso. «Procedure! – esclamò nel pulirsi le labbra; indicò un plotter a tamburo il cui pennino tracciava una riga su carta millimetrata – Vede lì? È indicato il tracciato del crashing, che per uno scud-b, è di trentuno minuti. Dobbiamo attendere un’ora, prima che la virtuale macinazione dei due vettori sia conclusa. I tracciati saranno allegati ai moduli di demolizione che riempirò personalmente domani. Qui sotto, – col tacco batté sul pavimento – ci sono svariate tonnellate di lamine di ferraglia prodotte da quelle eliche.» «Le testate? Il combustibile?» chiese l’altro. «Sono le 19, risulterà che la prima testata è stata smontata alle 18.30 e la seconda subito dopo. Sempre domani, certificherò l’avvenuto loro carico in magazzino. Sono del tipo comune, ce ne sono oltre un centinaio stoccate e non credo che qualcuno si prenderà la briga di contarle, a prescindere che occorrerebbe la mia autorizzazione. – aspirò una boccata di fumo – Riguardo al carburante, la classe scud fa parte di vecchi missili derivati dalle lontane V2 tedesche, hanno combustibile liquido e di solito ne sono privi, poiché immesso solo prima del lancio.» «Per i missili nucleari, come vi regolate?» «Lì, la musica è diversa. Le procedure sono molto più complesse e rigorose. Per ogni caso, il sottoscritto direttore è affiancato da una commissione costituita da cinque membri facenti parte della giurisdizione dello Stato Maggiore dell’Artiglieria, più due ispettori appartenenti alla commissione S.T.A.R.T che, o dopo o, seguono l’intera operazione di smontaggio. Dai vettori sono tolte le testate, recuperati gli apparati elettronici, telemetrici, il carburante solido e tutte le componentistiche di valore, il resto fa questa fine. – indicò le eliche – Gli ordigni nucleari delle testate sono poi scortati ai centri disassemblaggio, dove i materiali fissili e i combustibili termonucleari prendono la loro strada.»
Erano 20.15, quando terminata la virtuale macinazione dei presunti scud, il trenino uscì dal capannone. Ežov attivò uno scambio ferroviario, ponendosi alla guida della motrice. Lo strano convoglio lentamente si diresse a est, correndo sotto le sgangherate tettoie, mentre la restante, singolare comitiva lo seguiva a piedi, prestando attenzione a non scivolare sul ghiaccio. Di lì a poco i capannoni scomparvero, lontano apparve un indistinto puntino luminoso; il punto divenne più nitido, ora si distingueva una luce, era la lanterna sull’albero di carico di una nave ancorata al molo del piccolo porto. Improvvisamente un bagliore squarciò la tenebra, all’unisono, si erano accese le luci all’interno della stiva del mercantile. La nave aveva il portellone di poppa aperto e, come un ponte levatoio, l’estremità poggiava sulla banchisa ghiacciata. Due enormi autocarri trasportatori lanciatori TEL MAZ 543 con le loro rampe di lancio coperte da teloni cerati, erano visibili ai lati della grande stiva. Al centro, due lunghi e bassi vagoni scoperti erano saldamente imbullonati al paio di binari che correvano in parallelo sul basamento della nave. In fondo era parcheggiato un terzo automezzo militare di dimensioni minori, quattro grandi casse rivestite di legno erano di fianco a quest’ultimo mezzo. Come per incanto, un uomo barbuto e con un occhio solo sbucò dalle viscere della nave. «Siete in orario», affermò il pittoresco individuo, appena pose piede sulla banchisa. «La puntualità fa parte del nostro mestiere» rispose il comandante degli spetsnz. Un’ora dopo, i due SS-20 con i coni rossi rivolti verso poppa, erano saldamente ancorati sul piano dei vagoni per il tramite di robusti canapi d’acciaio; tra questi e la lamiera dei vettori, erano stati posti spessi tappeti di gommapiuma. Erano le 21.25 ore locali, quando il comandante del mercantile, dopo aver stretto la mano al direttore del centro, rivolgendosi all’uomo alto, affermò: «Rammenti, colonnello. Un segnale ogni trenta minuti dalle sedici ore locali. Attenderemo fino alla mezzanotte di domani e non oltre!» «Ci saremo», rispose l’altro. Il guercio annuì e subito s’inoltrò scomparendo oltre la stiva, seguito da due uomini della squadra spetsnaz. Qualcuno dall’interno del cargo, attivò il sistema idraulico e il portellone lentamente si richiuse. La tenue luce della lanterna sull’albero di carico, rendeva ora appena leggibile sotto il parapetto poppiero, il nome della nave: Mockba. Erano le 22.15, quando jeep e autocarro trasportatore raggiunsero l’entrata principale del centro. Poco dopo, sbrigate le formalità al posto di guardia, il
mezzo con i due cilindri vuoti coperti da teloni cerati si avviò lentamente in direzione sud. In piedi, illuminato dai fari della jeep, Ežov tirò fuori la fiaschetta metallica e ne scolò il contenuto fino all’ultima goccia. «Quelli sono matti, direttore, a partire a quest’ora e con questo tempo», affermò il nuovo capoposto, succedutosi al precedente. «Siamo tutti matti, questo mondo è una follia» rispose filosoficamente Ežov, nel pulirsi le labbra con la mano guantata, fissando l’autocarro che tra un turbinio di neve si allontanava.
A Mosca era stata una giornata tiepida. In maniche di camicia, il generale Kenyev era seduto dietro la scrivania del suo studio, intento nello scrivere qualcosa, ma non riusciva a concentrarsi. Il battito cardiaco iniziava a galoppare, nervosamente sbirciò ancora una volta l’orologio: le 20.30 ore locali, stava alzandosi dalla sedia, quando il trillo proveniente dal piccolo ricetrasmettitore satellitare lo bloccò, di colpo l’afferrò pigiando il tasto yes. Al centro del visualizzatore, apparvero due soli caratteri: OK. Mentre i battiti calavano rapidamente, Kenyev compose sul telefono cellulare un numero di dodici cifre, al terzo squillo una voce calma, dal timbro baritonale, rispose: «Daa?» «Sono Kenyev. Perdoni l’ora insolita, generale Petrov. Da poco giunto a Mosca, prima di riprendere servizio allo Stato Maggiore ho ritenuto doveroso avvertirla del mio rientro.» «Hai fatto bene a chiamarmi, Aleksej Uljanovič. Come va la tua pressione sclerosa?» «Ottimamente…è tutto sotto controllo.» «Sono lieto di sentirtelo dire… Vogliamo vederci?» «Quando desidera, generale.» «Domani nella mattinata andrebbe bene. Un momento… - arono alcuni secondi - domani non sarò alla Znamenka ulica{24}, ho una riunione con inizio alle undici alla Lubjanka. Vediamo… sì, possiamo incontrarci là alle 10.30. Tu, però, Ulianovičh, non sei autorizzato a entrare all’interno dell’edificio, dovrai
attendere nell’atrio. - arono altri secondi - Facciamo nell’atrio principale, dove un tempo c’era la statua di Karl Marx.» «Sarò senz’altro lì ad attenderla alle 10.30, generale.»
Capitolo VII
Grace Sympson era nata nel 1957 a Washington, da padre assicuratore e madre bibliotecaria presso la George Washington University. A sedici anni Grace era una bella ragazza, sana, ben messa e cresciuta secondo il formalismo un po’ bigotto della piccola borghesia americana d’epoca. Fu durante quel periodo che capì di avere inclinazioni bisessuali; certo, i maschi la attraevano molto, ma a volte lo stesso desiderio lo provava anche per qualche coetanea. Finito il liceo, Grace andò a studiare lingue alla Georgetown università, fu durante il primo anno di corso che la sua verginità s’infranse per opera del boyfriend di turno. In seguito, a un party, ebbe il primo approccio con una collega sfociato poi in un rapporto lesbico. Dopo la laurea, vinse un concorso al Ministero degli Esteri e, nell’85, le proposero di trasferirsi ad Ottawa, quale seconda assistente del terzo segretario d’ambasciata. Grace accettò e dopo un anno si sposò con un funzionario americano del locale consolato. Il matrimonio durò poco, lei trovò l’uomo insignificante e sessualmente insipido, Grace era una calda donna del sud, fantasiosa ed esigente, mentre il marito, un igienista convenzionalmente monotono, non la capiva e non la soddisfaceva. Dopo otto mesi i due divorziarono. Oltre che intelligente, Grace era ambiziosa con voglia di far carriera e nei cinque anni trascorsi in Canada, il suo lavoro fu giudicato positivamente e tenuto in debita considerazione. Fu nel ’90 che gli proposero l’incarico di vice addetto alle relazioni esterne presso l’Ambasciata Statunitense di Roma, posizione che da qualche tempo sognava e che accettò con gioia. Grace, nella città eterna si trovò subito bene; Roma era incantevole, la sua millenaria cultura affascinante, il clima meraviglioso, la cucina tra le migliori del mondo e gli italiani simpatici, aperti e d’indole gentile. Da subito s’inserì senza difficoltà nella vita mondana della vasta comunità americana che gravitava intorno alla locale Ambasciata. Era il 1996 quando le proposero una posizione di prestigio presso la Legazione Diplomatica Statunitense di Mosca. Si trattava di coprire l’incarico quale assistente del primo segretario d’ambasciata. Era un grosso salto, di colpo lo stipendio si sarebbe quadruplicato, le spese personali sarebbero state a carico dell’ambasciata, avrebbe avuto diritto sia a un alloggio a spese del governo, sia a una macchina con autista e infine, il proprio ruolo l’avrebbe legittimata all’accesso d’informazioni classificate top secret. Ovviamente tutto ciò avrebbe
significato sia la rinuncia all’Italia, sia alla dolce vita romana. L’idea proprio non le piacque, lasciare Roma per finire a Mosca, figurarsi. Chiese di pensarci su, però un diniego gli avrebbe probabilmente bloccato la carriera e alla fine, vedendosi costretta ad accettare, fu per lei gioco forza partire senza entusiasmo. L’impatto con la metropoli orientale europea fu disastroso; trovò Mosca tetra, con larghe strade e grandi palazzi uniformemente privi di stile architettonico, la vita che vi si svolgeva sembrava cinica e schizofrenica, l’inverno era lungo e molto freddo, l’estate calda, polverosa con l’aria a volte carica di smog, sui marciapiedi di molte strade si notavano accattoni e l’indigenza affiorava in tutto il suo squallore. Anche se, in genere, i russi sono simpatici e carichi di autoironia, a Grace non piacquero, li trovò rozzi e dediti al bere. Inoltre, sebbene l’Unione Sovietica non esistesse più e i rapporti con gli Stati Uniti erano ora buoni, per natura i russi sono sospettosi, e il loro spionaggio molto efficiente. Al personale dell’ambasciata era stato sconsigliato di stringere rapporti e amicizie locali, corvi{25}, rondini{26} e tranquilli{27} dei loro servizi segreti, potevano essere sempre in agguato. Per un anno e mezzo soffrì di astinenza e solitudine, lì non c’era una comunità allegra con voglia di vivere come a Roma. Di fare all’amore non se ne parlava e se mensilmente non avesse dovuto fare una scappata a Washington per motivi di ufficio, sicuramente sarebbe caduta in uno stato depressivo. Fu nel giugno del ’98 che le cose cominciarono a cambiare, quando a un ricevimento all’ambasciata britannica sul lungofiume Sofiskaja, conobbe William Mc. Cartney. Il trentanovenne William, primo vice-attaché di quell’ambasciata, era un attraente gentleman, virile, sensibile, premuroso e soprattutto affidabile quanto la sua posizione richiedeva, inoltre era celibe, il che non guastava. Il feeling tra i due fu immediato e la sera dopo essersi conosciuti finirono a letto. Fu sempre in quel periodo che a una cena all’ambasciata di Spagna, Grace conobbe Manola, moglie di un locale funzionario spagnolo. Manola andava per i cinquanta ma aveva la carnagione fresca e due seni grossi e sodi come palle da football, era ben piantata e i neri occhi parlavano di lussuria. Le due si capirono al volo e, tra una chiacchiera e l’altra, poco dopo l’americana porse sottobanco all’altra un biglietto col numero del suo cellulare. Una notte, dopo aver fatto all’amore con William, Grace iniziò cautamente a sondare l’uomo, prendendola alla larga, parlandogli di Manola. L’altro capì al volo l’antifona e, poco dopo, i tre iniziarono un triangolo i cui vertici cambiavano di volta in volta. Ora correva l’anno 2000 e l’avvenente quarantatreenne Grace Sympson, sembrava finalmente aver trovato la serenità. Dopotutto, Mosca non era poi così
male.
William Mc Cartney era nato nel 1959 a Haverhill, una quieta, piccola cittadina nel sud del Suffolk, ai confini con l’Essex. Il padre, un colto arabista, era stato funzionario di alto livello del Foreign Office, vice console in Tunisia prima, e in Kenya dopo. La madre, era una provinciale benestante che nella propria vita non aveva mai fatto niente. Finito il liceo, il giovane andò a studiare arte e letteratura a Cambridge, dove nell’83 conseguì il dottorato. Egli voleva fare il professore di liceo, ma il padre premette cercando di convincerlo ad intraprendere la carriera diplomatica. A lui l’idea non piacque, ma poi, sotto pressioni familiari, alla fine si convinse. Per il tramite di conoscenze paterne, fu assunto al Foreign and Commonwealth Office{28}, andando a lavorare a Londra, in King Charles street, sistemandosi nell’appartamento londinese di famiglia in Curzon street, nel quartiere Myfair. Nel 1989 chiese un incarico all’estero, andando a finire al consolato Britannico di Monaco dove ò sei begli anni. Fu nel tardo 95 che, rientrato per un breve periodo a Londra, gli proposero di trasferirsi a Mosca per assumere presso la locale sede diplomatica l’incarico di vice capo ufficio stampa d’ambasciata. Stipendio e gratifiche erano buone, inoltre avrebbe avuto diritto a un appartamento nel residence dell’ambasciata che occupa l’area lungo la Moscova, non distante dal Kremlino. In un primo momento chiese tempo per pensarci, anche se in cuor suo era deciso a rifiutare. Di Mosca ne aveva sentite di cotte e di crude, inoltre a Monaco si trovava piuttosto bene. Con il tedesco se la cavava ormai discretamente, conduceva vita brillante, aveva avuto un sacco di donne e ultimamente stava con una niente male, inoltre, ogni tre settimane faceva una scappata a Londra; meglio di così. Poi il padre gli consigliò di accettare, facendogli notare che un incarico presso un’ambasciata di prestigio, era l’anticamera per accedere a posizioni importanti. A seguito di questi suggerimenti, non senza remore, William a malincuore accettò. Dall’inizio di ottobre alla fine dell’anno, a Whitehall partecipò a dei training riguardanti usi e costumi delle etnie dei popoli russi. Fu durante uno di questi seminari che, come compagno di corso, ebbe un tale simpatico e dalla parlantina facile, lentigginoso con i capelli rossi e ricci. Costui indossava giacche di tweed e camicie a quadri, probabilmente acquistate nelle Scotch Houses lungo Regent street. Fu alla fine del seminario, che l’uomo si qualificò quale vice controllore della divisione Europa Orientale del Secret Intelligence Service, dando al contempo a Mc. Cartney un biglietto di comodo con la preghiera di contattarlo al
più presto.
§§§
Il Secret Intelligence Service o SIS, meglio noto con l’impropria sigla di MI-6, (da distinguersi dall’MI-5 o Security Service, controspionaggio interno nel Regno Unito) è un’organizzazione molto british e come tale schiva, nebbiosa e per certi aspetti misteriosa. Essa raramente appare sulle cronache e non desidera essere oggetto di scoop mediatici, essendo gelosa custode di se stessa, dei suoi segreti e del proprio anonimato. Gli stessi appartenenti non compaiono in alcun ordinamento, indice, annuario, albo o quant’altro, essendo essi dipendenti dei vari ministeri, in particolare del Foreign Office. Sebbene l’MI-6 sia meno famoso e chiacchierato della CIA, infinitamente più piccolo e con mezzi non comparabili neanche per approssimazione, la ditta, – così è chiamato il SIS dagli addetti ai lavori – nel corso dei decenni si è conquistata una ben meritata e solida reputazione di abilità, professionalità ed efficienza, accompagnata da quell’alone di avventuroso romanticismo che caratterizzò molte sue azioni sia a cavallo della seconda Guerra Mondiale, sia durante la Guerra fredda. Il suo prodotto in termini di quantità e qualità è sempre stato di livelli eccellenti. L’uomo che dirige il SIS o MI-6, è abitualmente chiamato “C”. L’iniziale non sta per capo, ma deriva dal nome dell’allora ammiraglio sir Mansfield Cummings, il primo responsabile dei servizi segreti britannici. Alle dipendenze di “C”ci sono due vice capi, dai quali dipendono cinque assistenti che dirigono i rispettivi dipartimenti. Primo: operazioni; azioni clandestine, spionaggio e controspionaggio. Secondo: intelligence; analizza le informazioni, le razionalizza cercando di trarne un quadro logico e concreto. Terzo: tecnico; ascolto, scritti segreti, decrittazioni e decodifiche, documenti falsi, mini telecamere, telecomunicazioni ultra compatte e satellitari, informatica, computer, laser e tutto ciò che serve per cavarsela in ambienti e situazioni difficili.
Quarto: controspionaggio; la sua funzione è di evitare che talpe, servizi segreti stranieri, informazioni mendaci o fasulle, doppiogiochisti e quant’altro, giungano o s’infiltrino nel servizio. Quinto: amministrazione; tutto quello che riguarda il personale. Dal dipartimento operazioni dipendono i controllori, i quali si occupano delle varie divisioni nell’ambito delle cinque aree mondiali. In realtà, l’organigramma è un po’ più labirintico e meno cristallino, poiché al suo interno ci sono dei dipartimenti sconosciuti anche agli stessi addetti ai lavori.
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Una gelida mattina degli ultimi di dicembre, William Mc Cartney e l’uomo dell’MI-6 si incontrarono al centro comunicazioni del SIS, in un complesso di costruzioni ben sorvegliato alla periferia della quieta e sonnolenta cittadina di Cheltenham, nel Gloucestershire, meno di quaranta miglia ad ovest di Oxford. In un salottino con moquette verde, poltrone di pelle rossa e un basso tavolo di cristallo con diversi portacenere, mentre l’ebollitore del caffè scoppiettava, l’uomo dei servizi segreti iniziò a parlare, ponendo l’accento sulla riservatezza del colloquio. «Lei, dottor Cartney, si appresta ad assumere una posizione di un certo interesse presso la nostra ambasciata di Mosca. La situazione politica venutasi a creare laggiù, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, è fluida, confusa e priva di strategia. La loro fragile economia è a pezzi e le condizioni sociali vanno ulteriormente degradandosi, mentre le organizzazioni mafiose sviluppatesi in questi anni, stanno assumendo un considerevole potere economico e d’intermediazione. Tutto ciò, in un paese il cui arsenale nucleare non è secondo a nessuno, che è stato nostro acerrimo nemico e che a tutt’oggi non ci vede di buon occhio, non ci fa dormire sonni tranquilli. – il tale fece un’efficace pausa, e continuò – Noi, abbiamo il principale dovere di vigilare per salvaguardare la nostra patria e un secondo, reciproco dovere con alcuni nostri partner europei della CEE.» Per la prima volta Mc Cartney lo interruppe. «Doveri verso alcuni nostri partner CEE? Non capisco.»
L’altro, pose una tazza di caffè sul tavolo e spingendola verso l’ospite, trasse un sospiro, infine, a voce bassa continuò: «Vede… Nel 1984, Inghilterra, Francia, Germania occidentale e Italia fondarono un agenzia chiamata Interscambio. Essa ufficialmente non compare, i propri bilanci non sono pubblicati ed è conosciuta solo da pochi addetti ai lavori. Giuridicamente è una società specializzata in consulenze e valutazioni di natura economiche e commerciali, ha come clienti le quattro nazioni sue fondatrici che, sulla carta, se ne servono per scambi e trattative sia con i paesi che facevano parte dell’ex Unione Sovietica, sia con quelli aderenti all’OSCE{29}. In realtà, questa nebbiosa organizzazione era e rimane un’agenzia per i servizi segreti, finalizzata allo spionaggio e controspionaggio rivolto verso i paesi dell’allora blocco comunista. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, le cose si sono un po’ modificate; ora ci interessano solo quei paesi dell’ex blocco comunista che, hanno il possesso di arsenali nucleari e quelli che al loro interno, hanno movimenti e organizzazioni clandestine, alcune di matrice terroristica. Sebbene l’agenzia Interscambio abbia una propria autonomia e sia finanziata dalle quattro nazioni sue fondatrici, operativamente è sempre stata sotto la supervisione dell’MI-6. Ripeto: tutto ciò al fine della sicurezza e salvaguardia dell’intera CEE. Ecco perché in termini di sicurezza abbiamo dei reciproci doveri con alcuni nostri partner. – fece una breve pausa – A Mosca, come vice capo ufficio stampa, verrà alla conoscenza di molte informazioni. A tal proposito, sarebbe per noi cosa importante e le saremmo grati, se ci fe pervenire tramite ambasciata dei rapporti confidenziali inerenti a ciò di cui verrà in possesso, specialmente informazioni ottenute… sì, diciamo attraverso canali secondari, oltre naturalmente a suoi personali punti di vista, valutazioni e quant’altro che ritenesse opportuno farci pervenire - e puntualizzò: - Ovviamente, il tutto in modo assolutamente informale e senza specifico impegno.» L’altro, squarciando il velo di quel nebuloso discorso, andò direttamente al punto, dicendo: «Rapporti confidenziali… in altri termini, lei mi chiede di fare dello spionaggio.» L’uomo dell’MI-6 inarcò le sopracciglia. «Io vedrei la faccenda sotto un diverso profilo, la chiamerei più collaborazione. Vede… lavoriamo tutti per la Regina e siamo sulla stessa barca. Anche noi, in un certo modo, siamo dipendenti del Foreign Office,{30} e… come dire, una mano lava l’altra. Diciamo che le proponiamo semplicemente uno scambio di favori tra colleghi. Non le promettiamo ufficialmente niente, però può esser certo che questa sua eventuale collaborazione avrà in seguito il giusto ritorno.»
Cartney alzò le spalle. «Stando così le cose, perché no?»
I primi tempi a Mosca non furono facili. Possibilità di condurre vita brillante ve ne erano poche e, con la delinquenza che circolava, l’idea di frequentare locali notturni non gli piaceva. Cene e ricevimenti che quasi costantemente si tenevano nelle varie ambasciate, erano per lo più frequentate da formali parrucconi e attempate dame cariche di cipria e seni cadenti. In quel monotono periodo, Cartney si concentrò principalmente sul proprio lavoro, inviando settimanalmente alla Century House{31} rapporti riguardanti fatti e conoscenze di cui veniva in possesso, unitamente a proprie valutazioni personali. Gli unici rari momenti di relax, erano quelli che ava nella discretissima ed esclusiva casa di Madame Korin, ove a volte, fugacemente, intravedeva panciuti personaggi incrociati in qualche festa o ricevimento diplomatico. Non capì se i suoi rapidi avanzamenti di carriera, susseguitesi in quel breve periodo, furono dovuti a fattori burocratici interni o, piuttosto, gratifiche pilotate dall’MI-6 per il lavoro che stava per loro svolgendo, sta di fatto che ai primi del ’98, aveva assunto l’incarico di primo vice-attaché d’ambasciata. Fu durante quel periodo che a un ricevimento conobbe una bella americana dalle curve mozzafiato, un funzionario di medio-alto livello della locale Ambasciata USA. Da allora William iniziò a vedere Mosca sotto un profilo diverso e, sebbene quella grigia metropoli non l’avesse ancora digerita, iniziò a pensare che, dopotutto, non era poi così diversa da tante altre.
Capitolo VIII
Erano le 10.20 di lunedì due ottobre quando Kenyev varcava la soglia del civico 2 di piazza Lubjanka, l’ingresso principale dell’allora centro (un tempo riservato solo a pochissimi pezzi grossi, gli altri dovevano are dalle entrate laterali). Il marmoreo pavimento tirato a lucido rifletteva le colonne corinzie laterali, dove un tempo c’era la statua di Karl Marx, ora c’erano bandiere incrociate della Federazione russa. Le effigie del KGB con scudo, falce e martello, spada e stella rossa erano state divelte ma l’ambiente non aveva completamente perso il suo smalto; quell’antica aria di rancido e arbitrario potere, intimoriva ancora. Kenyev presentò i propri documenti a un capitano della FSB, spiegando il motivo della sua presenza, questi indicò un punto del salone dove poteva attendere. Erano le 10.33, quando una Mercedes con insegne militari, scortata da quattro motociclisti, si fermò sulla piazza nel punto in cui un tempo sorgeva la statua di Dzerzhinsky. Dalla portiera posteriore dell’auto uscì un uomo alto in uniforme militare, aveva capelli color cenere e le grosse stelle d’oro sulle spalline del cappotto, anch’esse dorate, lo qualificavano generale d’armata. Quando quest’ultimo giunse nell’atrio, Keniev gli andò incontro, stava per porsi in posizione di attenti, ma l’altro fece cenno di rimanere comodo, affermando: «Andiamo! Non ho molto tempo.» I due si diressero in fondo e presero un corridoio sulla destra, verso gli ascensori, nessuno osò chiedere il a quel maggior generale al seguito del Presidente del GRU. Giunti al quarto piano, percorsero un lungo, stretto corridoio con i solai a volta e il pavimento coperto da moquette color pastello. Giunti quasi in fondo, si fermarono davanti a una porta blindata rivestita di legno di quercia, era la porta della camera di sicurezza della Lubjanka. La spia luminosa in alto era verde: l’accesso al sito disponibile. Il generale Petrov infilò la sua carta plastificata nella feritoia, compose sulla tastiera metallica incassata nel muro una sequenza di sette caratteri alfanumerici, il suo codice di accesso valido per ogni camera di sicurezza. La stanza spaziosa odorava di antico e di chiuso. La luce proveniente dall’unico finestrone dai tripli vetri piombati, sembrava non illuminare a sufficienza l’ambiente, dal soffitto pendeva un lampadario di cristallo con lampade accese a forma fiamma di candela. L’arredo era spartano, un lungo tavolo di noce del tutto spoglio e poltrone di vilpelle sistemate intorno, costituivano l’intero mobilio, in fondo si notava una lavagna. Le pareti ricoperte da pannelli di
frassino, celavano in maniera perfetta le schermature dell’ambiente e le complesse apparecchiature di disturbo. I due sedettero uno di fronte l’altro, il dialogo fu sintetico e si svolse secondo il rigido formalismo comportamentale che il luogo richiedeva. Petrov: «Ebbene?» Kenyev: «I due missili SS-20 completi dei loro sistemi di lancio, guida e controllo, sono partiti questa notte dal luogo stabilito.» Petrov: «Sono del tipo previsto?» Kenyev: «Certamente! Modello M-uno, con ogiva a singola testata nucleare da seicentocinquanta chilotoni.» Petrov: «Le loro condizioni?» Kenyev: «Perfette! Attualmente disinnescati, possono essere riattivati e pronti al lancio in poco più di mezz’ora.» Petrov: «Bene! – corrugò per un attimo la fronte – Quanto tempo erà prima che si accorgano della loro sparizione?» Kenyev: «Potrebbe are anche un anno, comunque, nella peggiore delle ipotesi, ritengo non prima di tre mesi.» Il generale Petrov si alzò dalla poltrona, si diresse verso il finestrone, socchiuse gli occhi e, osservando oltre i vetri come concentrato su un immaginario punto sulla piazza della Lubjanka, affermò: «Il viaggio durerà dai venti ai ventiquattro giorni. Fra tre mesi l’operazione Gengis Khan sarà stata conclusa e per allora, il mondo avrà avuto un brusco risveglio.» Mancava qualche minuto alle undici quando Kenyev varcava la soglia in uscita del numero due di piazza Lubjanka, allontanandosi dall’ex centro.
La Jaguard diretta in piazza Lubjanka, era ferma al semaforo rosso, a circa metà della congestionata Čerkasskij pereulok. Al verde, tra lo smog dell’intenso traffico, scivolò lentamente in avanti, giunta in fondo all’angolo con la Kol’skaja
girò a destra. L’uomo elegantemente vestito alla guida dell’auto, era la “leggenda”. Kristihan Wallengern era invecchiato, sebbene solo quarantanovenne, dimostrava almeno quindici anni di più. Nonostante l’agiatezza derivatagli dalla considerevole fortuna che si era costruito in quegli anni, l’apprensione e lo stress accumulati a seguito di quel sottile, pericoloso gioco condotto sul filo del rasoio, avevano profondamente inciso sul suo aspetto. Pesava venti chili di troppo, rughe e doppio mento gli stavano lentamente alterando i lineamenti e la calvizie era in uno stato avanzato; solo gli azzurri occhi erano gli stessi di un tempo, lo sguardo volpino nascondeva ancora una mente vivace e pronta. La settimana precedente, Wallengern l’aveva trascorsa tra Stoccolma e Tokyo; rientrato a Mosca la sera prima, aveva deciso di prendersi un giorno di riposo, ma scombussolato per la differenza del fuso orario, cosa che proprio mal sopportava, la notte precedente aveva dormito poco e male e quel mattino si era messo a gironzolare per casa, decidendo infine di andarsene in ufficio. Ancora un po’ rimbambito, appena giunto salutò giovialmente i dipendenti intrattenendosi qualche minuto, infine si diresse verso il proprio, privato ripostiglio. Chiusa alle sue spalle la porta blindata, accese la luce e ritualmente, come d’abitudine, infilò la chiave nel mobile estraendo il secondo cassetto: Il led verde era . “Strano, sono mesi che non avviene una registrazione” pensò. Tolse anche il quarto cassetto e lesse il messaggio sul display; la scritta indicava data, ora d’inizio e fine registrazione: era iniziata alle 10.43 e terminata alle 10.48 di quella mattina. L’uomo sorrise, pensando: “Fresca, fresca.” Dieci minuti dopo era fuori, sul marciapiede, intento nel trafficare col cellulare. «Sì?» Rispose una voce maschile dall’altro capo. «Sono Kristihan, a quanto ammonta quella tratta in scadenza?» ci fu qualche secondo di silenzio. «Tredici… tredicimila dollari.» «Bene!» Il colloquio si era svolto in russo, il contatto era per le ore tredici.
Nell’estrema punta nord della penisola dello Jugor, circa trecento chilometri
sopra il Circolo Polare Artico, il tremendo Chanovej o vento dei venti, era diminuito d’intensità, affievolendo la tormenta. Non lontano dalla foce del fiume Bolšaja Oju, tra la pallida luce simile a un crepuscolo s’intravedeva la sagoma del gigantesco SI III seconda serie. All’interno della cabina guida, il capo della piccola squadra, dopo aver consultato attentamente una carta militare, indicò all’autista un punto alla loro sinistra. «Ci siamo, laggiù, a circa quattrocento metri» confermò. A o d’uomo e con i fari accesi, l’autocarro si portò al centro del canyon di ghiaccio, infine si accostò alla parete destra. Con le racchette ai piedi, due dei tre uomini scesero dalla cabina guida, da uno zaino tirarono fuori due trapani a batteria, iniziando a fare buchi sulla parete ghiacciata. Il terzo, rimasto all’interno, si mise a confezionare cariche esplosive al plastico a forma di sigaro con detonatore comandato a distanza. arono alcuni minuti, poi anche il terzo saltò giù, scaricò zaini, sci e raggiunse gli altri. Inserite le cariche nei fori, l’uomo alto sbirciò l’orologio. «Sono le 13.30, tra breve il vento aumenterà e con esso la tormenta, dobbiamo affrettarci!» disse. Ora i tre spetsnaz erano a duecento metri dalla parete, il tenente colonnello tirò fuori una scatoletta e pigiò il suo unico pulsante. Il suolo sussultò, mentre migliaia di tonnellate di neve e ghiaccio, riversandosi sul letto del canyon seppellivano tutto ciò che si trovava lungo il suo percorso. Per alcuni momenti i tre rimasero invisibili, immersi nella nuvola di particelle di neve nebulizzate dall’esplosione, poi, come il diradarsi della nebbia, le figure lentamente ricomparvero. «Funzionerà, colonnello?» chiese uno, nel battersi con le mani guantate la bianca tuta mimetica per scuotersi la neve di dosso. L’uomo alto annuì. «Sì capitano, funzionerà. Domani o dopodomani al massimo, sarà aperta un’inchiesta che sarà affidata alla direzione dello spionaggio dello Stato Maggiore (GRU). La commissione stabilirà che durante il ritorno il mezzo ha perso l’orientamento, andando a finire su una slavina, precipitando in un crepaccio provocando una valanga che ha sepolto tutti.» Di lì a poco, tra radi fiocchi di neve, i tre si erano tolti le racchette e calzavano ora gli sci. Il tenente colonnello indicando la direzione ovest, nord-ovest, verso lo Stretto di Jugorski, fece: «Coraggio! Questa sera ceneremo al caldo.»
Il giovanile cinquantaduenne Mike Preston era il locale responsabile - rezident per i russi - della CIA nella Comunità degli Stati indipendenti della Federazione Russa. Preston parlava il russo come l’inglese e la sua copertura era di vice addetto culturale presso l’ambasciata americana a Mosca. Costui, nell’ultima mezz’ora sembrava invecchiato di dieci anni: i vispi occhi grigi erano divenuti vacui e acquosi come quelli di un ubriaco, le rughe gli si erano evidenziate e le ginocchia tremavano. Erano le 14.55, aveva personalmente duplicato e ascoltato il contenuto della cassetta pervenutagli meno di un’ora prima e ora, trafelato e sudaticcio, a gran falcate saliva le scale due alla volta, recandosi dal primo segretario d’ambasciata. Venti minuti dopo, davanti al funzionario, aveva tradotto simultaneamente a voce alta e per due volte il contenuto del nastro, mentre con l’auricolare lo riascoltava. Distrutto, con la cravatta allentata e le mani tra i bianchi capelli, il primo segretario, sospirando, sussurrò: «Cosa intendi fare, Mike?» «Mandare subito qualcuno a Langley, signore» rispose Preston, indicando il mangianastri. «Non puoi inviare un messaggio satellitare o via Internet tramite i normali canali di sicurezza? Sarebbe assolutamente sicuro e nel giro di qualche secondo, nelle giuste mani.» «No! La conversazione registrata su questo nastro è di tale importanza che per valutarne appieno il quadro d’insieme, i nostri analisti devono ascoltare le voci dal vivo. Questa, come altri casi verificatosi nel ato, dev’essere recapitata di persona subito a Langley!» «Certo Mike… certamente», annuì mormorando l’altro. A Washington erano le 7.20 del mattino. Il vice direttore per l’Europa Orientale Peter Lange era nel suo appartamento sulla trentesima strada, non lontano dalla riva destra del fiume Potomac. In quel momento stava bevendo un succo d’arancia, poi come di consueto avrebbe accompagnato la figlia a scuola e, poco dopo le nove, traffico permettendo, sarebbe arrivato in ufficio a Langley. Stava posando sul tavolo il bicchiere ormai vuoto, quando il telefonino satellitare a linea protetta squillò. Sbirciò l’orologio; “grane”, pensò. «Qui Lange!» arono circa due secondi. «Ciao Peter, qui Mike!» rispose una voce seguita
da un eco di sottofondo. Lange si turò l’orecchio sinistro. «Piacere di sentirti Mike, che succede?» «Ho tra le mani una torta al gelato per te, Peter, confezionata in carta assorbente e se tarda ad essere posta in frigo, rischia di andare a male…» Il messaggio affermava che si trattava d’informazioni classificate tripla S, ovvero secret, secret, secret destinate a lui e di estrema urgenza. Lange prese tempo. Da molto conosceva Preston, erano amici, lo stimava e sapeva che sul campo era uno dei migliori. Se non fosse stata faccenda strana e maledettamente seria, sarebbe sicuramente ato attraverso i normali canali di sicurezza via Langley. «Attenderò la torta Mike… sono a tua disposizione.» «Un momento, Peter…» Ora era l’altro che prendeva tempo. Il volo di linea giornaliero MoscaWashington, partiva alle tredici e quindici da Šerementevo due, faceva scalo a New York e durava in tutto tredici ore e mezzo. Sarebbe stato opportuno che lui non si fosse mosso quindi, la consegna doveva essere fatta da altri. «Mercoledì potrebbe andarti bene con l’arrivo del volo delta da Mosca nel tardo pomeriggio ora di Washington?» chiese infine Preston. «Ok per mercoledì, Mike. Terrò il frigo aperto per te.» «Ti manderò un messaggio con istruzioni, ciao Peter.» «Stammi bene, Mike.» Preston ripose la cornetta sul telefono blu, accanto a quello bianco e fissando il primo segretario, commentò: «Da questo momento signore, è tutto nelle mani di Washington.» Sprofondato nella poltrona, il primo segretario leggeva ora una serie di nomi sullo schermo del computer. Il corriere da inviare avrebbe dovuto viaggiare con bagaglio diplomatico e possedere la legittimazione giuridica all’accesso di documenti e informazioni classificati top secret. Non molti funzionari possedevano quest’ultimo requisito.
In quel momento, sulla punta estrema a lato sud dello Stretto di Jugorski, la temperatura era di dieci gradi sotto lo zero. Il tenente colonnello degli spetsnaz, con il binocolo agli infrarossi per l’espansione d’immagine notturna agli occhi, da alcuni minuti scrutava tra la tenue tenebra artica. Sbirciò l’orologio dal quadrante fluorescente, si rivolse agli altri: «Il punto è questo, dovrebbero farsi vivi.» Non aveva finito la frase, che un razzo alzatosi dal mare illuminò la bianca banchisa di una spettrale luce verde. «Ci siamo!» disse qualcuno. Subito fu lanciato un razzo per risposta e di rimando, la nave ne lanciò un secondo. Dagli zaini i tre tolsero un involucro simile a un paracadute piegato, un piccolo motore Mercury e una minuta tanica di plastica con venti litri di carburante. Da un’estremità dell’involucro fu tirata una cordicella ed esso iniziò a gonfiarsi, espandendosi. Dopo che il motore fu inserito nel corretto alloggiamento, nel serbatoio del piccolo battello fu immesso il carburante e sulla prua furono piazzati due fari. Poco dopo, nel gelido Stretto che separa il Mar di Kara da quello della Pečora, il canotto prendeva lentamente il largo. «Attenzione a non urtare blocchi di ghiaccio o per noi sarà la fine» ammonì il tenente colonnello. Di lì a venti minuti, i tre erano a bordo del bianco mercantile con un unico fumaiolo.
A Mosca erano le 15.45. Nello spiazzo ghiaioso davanti all’ingresso della dacia nei pressi di Usovo, erano parcheggiate cinque auto. Dal vialetto ne spuntò una sesta, una Fiat Croma. Al secondo piano della villetta ricoperta d’edera, come il solito, due agenti di turno della FSB muniti di macchina fotografica attrezzata per la bisogna, scattavano foto. «Ecco di nuovo i giocatori di bridge, Sergo» disse uno. «Che pacchia, per questi papaveri», rispose l’altro.
Grace Sympson stava attraversando un bel periodo della propria vita. All’ambasciata non aveva molto da fare, quel poco di lavoro era piacevole e, tra un ricevimento e l’altro, conduceva vita spensierata e un po’ viziata ma
soprattutto i suoi rapporti con William erano eccellenti. Entrambe ormai si conoscevano bene, sapevano manovrare a meraviglia le corde dei rispettivi violini, inoltre anche con Manola filava tutto liscio. Erano le ore 16.20 di lunedì due ottobre, in quel momento Grace seduta dietro la scrivania del proprio ufficio, erta intenta nello sfogliare l’agenda degli impegni settimanali: quella sera alle 20.30 sarebbe venuto William, avrebbero prima cenato e poi ato la notte insieme… A quel pensiero i seni gli si gonfiarono e un lieve rossore le comparve sulle guance. Martedì sera era impegnata a un ricevimento all’Ambasciata indonesiana, mercoledì sera a casa di William ci sarebbe stato un incontro a tre: loro due, più Manola. Ora i capezzoli erano diventati turgidi come ciliegie. Pensò alle lingerie da indossare, Manola andava pazza per il bianco, però lo stesso abbigliamento non poteva ripetersi per due volte davanti a William, del resto a lui piaceva tanto anche il rosso. Sì, quella sera avrebbe indossato reggiseno e tanga rossi, calze nere con reggicalze a vita e, come soprabito, la vestaglia trasparente di seta nera. Mercoledì, invece, soltanto il reggiseno bianco a balconcino, calze di seta anch’esse bianche con la rigatura posteriore e vestaglia trasparente color lillà; Manola, non resistendo a quella vista, si sarebbe inginocchiata e William al massimo dell’eccitazione… Immersa in questi pensieri, Grace stava per bagnarsi quando come un tuono, il silenzio fu squarciato dallo squillo del telefono. Seccata da quell’improvviso, sgradevole rumore che sembrava voler violentare la propria privacy, con stizza alzò la cornetta. «Sii?» «Sono Bob. – disse una voce gutturale – Per favore, Grace, puoi are dal mio ufficio?» Era Bob Harbor, il primo segretario d’ambasciata, il suo capo. «Sì, certamente Bob, vengo subito…» Entrata nell’ufficio del capo, capì all’istante che era successo qualcosa d’insolito, l’uomo sembrava stravolto. «In cosa posso esserti utile, Bob?» fece, dopo essersi seduta. «Dovresti partire per Washington mercoledì, col volo Delta delle 13.15 che fa scalo a New York e arriva a Washington, alle18.45 ore locali.» Un lampo di stizza ò negli occhi della donna. “Proprio mercoledì” pensò. «Ma… io, a Washington devo andarci sabato prossimo in missione ordinaria,
non si può abbinare le due cose insieme?» L’altro scosse la testa. «No Grace, è cosa molto importante e urgente. Giovedì farai ritorno a Mosca. Riguardo alla missione di sabato, cercherò di abbinarla con quella del mese venturo. Come al solito, all’aeroporto ci sarà qualcuno ad attenderti, ma questa volta invece del ministero sarai condotta a Langley, dove recapiterai un plico che porterai col tuo bagaglio diplomatico a mano. La persona cui dovrai consegnare il pacchetto sarà laggiù ad attenderti, domani riceverai gli estremi.» Era uno strano e inusuale incarico, ora nella donna, tra contrarietà e confusione la curiosità stava facendosi prepotentemente largo. Si spinse leggermente verso la scrivania, accavallò le magnifiche gambe velate da calze nere e da consumata conoscitrice delle debolezze maschili, con calcolata noncuranza, pose in bella mostra ginocchia e buona parte della coscia destra. Nella sua diplomatica compostezza il primo segretario deglutì, fatto che non sfuggì a Grace la quale, con aria d’intima complicità, sussurrò: «Posso sapere di cosa si tratta, Bob?» Il primo segretario rimase per un attimo interdetto, ma la domanda era lecita. Grace era una dei suoi assistenti, la posizione che ricopriva la legittimava sia sotto il profilo procedurale, sia sotto quello giuridico, alla conoscenza di affari classificati anche come tripla S, qualora verificatesi sotto la giurisdizione dell’ambasciata. «Bè… si tratta di… sì, insomma, è successo che…» Erano le 17.15 quando pallida come un lenzuolo, la Sympson usciva dall’ufficio del primo segretario.
I poliziotti russi fermarono l’argentea Porsche alla barriera d’ingresso, Mc. Cartney esibì un documento e poco dopo l’auto entrava nel quartiere residenziale assegnato all’ambasciata americana, tra Novinskij Bulvar e Konjuškovskaja ulica. Lungo il cortile, l’auto fiancheggiò il giardino con piante e aiuole parcheggiando in fondo, ai piedi di una palazzina. Grace viveva all’interno di quello stabile, in un appartamento non grande ma arredato con gusto. Sia il personale delle pulizie che la domestica a part-time, facevano capo all’ambasciata, quindi l’alloggio poteva considerarsi sicuro, inoltre l’intero stabile era periodicamente ato al setaccio a caccia di eventuali microspie.
Sebbene anche quella sera abbigliamento e trucco della donna fossero appropriati alla circostanza, l’uomo capì all’istante che in lei qualcosa non andava; gli parve distratta e tiepidamente lontana. Conosceva Grace, sapeva che quell’umore non dipendeva da fattori fisiologici, ma lui era un gentleman e fece finta di niente, lasciando che fosse lei a condurre il gioco. Quella sera la cena alla russa; Grace aveva fatto preparare kotleta po-kievski, patate novelle, gelatina di frutti di bosco e l’immancabile gelato. I due avevano quasi finito di cenare, ma quell’insolito comportamento continuava, negli occhi della donna non c’era il consueto ardore, non si era sbottonata e William non ci aveva capito ancora niente. Alla fine, con tatto, l’uomo chiese: «Cos’è che non va, Grace?» «Mercoledì sarò a Washington, non potremo incontrarci…» «A Washington? Ma non dovevi partire sabato?» «C’è stato un cambiamento di programma. Partirò mercoledì col volo delta delle tredici e un quarto e ripartirò da Washington giovedì, per essere di nuovo qui venerdì.» «Quindi, mercoledì salta. Possiamo combinare per sabato o domenica… – l’uomo inarcò le sopracciglia – però, considerando i fusi orari, farai toccata e fuga, un bello stress. Quando ti è stato comunicato?» «Nel pomeriggio.» «Per questo sei di umore nero? Dai… anche se comprendo la tua contrarietà, sei abituata a fare avanti e indietro. Riguardo a Manola, come accennavo, si potrebbe combinare per un’altra sera.» «Non è questo, William…» sussurrò lei, allungando la mano intrecciando le dita con quelle di lui. «Che cosa intendi dire?» «Non so… sta accadendo qualcosa di strano qui in Russia…» Un camlo d’allarme squillò nell’uomo, era insolito per Grace fare di quei discorsi. Ora un’apprensiva curiosità stava prendendo il sopravvento sull’iniziale eccitazione; William fece un’alzata di spalle, dicendo: «Questo è un paese crudo e complesso e noi non possiamo farci niente. Giacché ci stiamo, dobbiamo solo
pensare a rendere la nostra permanenza meno sgradevole possibile. Del resto, di che dobbiamo preoccuparci? Non abbiamo mica famiglia.» Subito dopo, nel argli lentamente il dito indice sopra la vistosa protuberanza del monte di venere, con voce bassa e roca, aggiunse: «Di che si tratta?» Le parole dell’uomo fecero calare la tensione nella donna e il contatto la eccitò. Grace fece vibrare oscenamente la punta della lingua, scosse la testa e, andogli infine l’unghia dell’indice sul naso mormorò: «Top secret, my dear.» William si svestì, Grace s’inginocchiò, cercando d’attrarlo, ma lui con una mano la respinse bisbigliando: «Dai, Grace… siamo tra noi, non abbiamo segreti di che si tratta?» Gli occhi della donna balenarono, di colpo si eresse, sedette sulla poltrona, accavallò sdegnosamente le gambe e accese una sigaretta. William si avvicinò, le tolse la sigaretta dalle labbra, con forza l’attrasse a se facendola scivolare sul tappeto e quasi con violenza, la penetrò. Erano ancora stesi, quando lui dolcemente sussurrò: «Ti devi confidare Grace, un pesante segreto a lungo potrebbe tracimarti.» «Sembra sia cosa importante, molto importante…» «Vale a dire?» «Sono stati trafugati due sistemi missilistici nucleari, classe SS-20.» Ancora languidamente stordito, William sembrava avere le idee annebbiate, ò qualche secondo poi di colpo alzò la testa dai giunonici seni: «Che cosa? Fammi capire, come sarebbe a dire trafugati due SS-20?» A quell’esclamazione d’incredulità, lei sembrò quasi divertita. «Esatto! Due SS20 con testata nucleare. Trafugati, spariti, rubati o come vuoi tu!» Lui si eresse sul tappeto, volse lo sguardo al soffitto ed esplose in una fragorosa risata, infine si alzò e si diresse al mobile bar. «Questa è la balla più grande che abbia mai inteso – si versò mezzo bicchiere di Whisky, accese due sigarette e ne porse una a Grace – Ti rendi conto cosa stai dicendo? Non basterebbero tre vagoni ferroviari per trasportare due sistemi del
genere, senza contare le rampe di lancio mobili. Chi ha messo in giro simili scemenze?» «È tutto su una cassetta audio per mangianastri. Per questo vado a Washington, o meglio a Langley, per consegnarla alla CIA.» «Cassetta per mangianastri?» domandò sempre più incredulo l’uomo. «Si! C’è un colloquio registrato che sembra, riveli questo trafugamento e altro…» «Colloquio? Lo hai ascoltato? Da dove proviene questa cassetta?» «No! Non ho ascoltato proprio niente. Per ascoltarlo avrei dovuto inoltrare formale richiesta, ma, poiché immotivata, avrebbe potuto dare adito a sospetti. Inoltre, mi sono guardata bene dall’andare a fondo circa la sua provenienza, non sono mica scema.» «Chi te ne ha parlato? Perché mandano proprio te?» «È stato Bob Harbor. Ha scelto me perché il plico dovrà viaggiare con bagaglio diplomatico. Le procedure richiedono che materiali o documenti classificati top secret, siano affidati a persone che ne abbiano legittimazione per il possesso e trasporto.» «E quando prenderesti in consegna questo plico?» «Domani!» esclamò la donna, mentre vestita di sole calze e reggicalze, sdraiata sul tappeto, carezzava il petto dell’uomo. Nonostante l’eccitante situazione e l’intrigante erotismo di lei, William era ancora in possesso dell’autocontrollo e scettico circa quella strana faccenda. «È un abbaglio Grace, la paranoia è una brutta malattia, da molto ormai la Guerra fredda è finita, ma la CIA vede ancora ombre ovunque.» «Dici?» «Sicuro, riflettici un attimo su. Gli SS-20 sono missili nucleari strategici mobili, se c’è una cosa in cui i russi sono sempre stati bravi, sono i controlli. Far sparire due affari del genere con le loro intere rampe sarebbe un’impresa pressoché impossibile. Pur tuttavia, per amore di ragionamento, ammettiamolo pure, ma un
colloquio registrato su una cassetta per mangianastri non si sa dove e da chi. Registrato su cassetta per mangianastri, capisci Grace? Che senso ha? A parte il fatto che è un sistema di comunicazione antidiluviano, inoltre mandano un funzionario a recapitare dall’altra parte del mondo questo nastro, quando, in qualche secondo possono inviare tutti i messaggi protetti che vogliono. No Grace, lì da te la paranoia vi sta facendo diventare tutti matti. Sicuramente questo è uno scherzo di qualche burlone della SVR che al momento si starà sganasciando dal ridere.» Quelle parole furono tonificanti. Ora Grace si era completamente ripresa e volgendo volutamente le grosse natiche verso lo specchio, indicando la stanza da letto, sussurrò: «Forse hai ragione, caro. Andiamo?»
Erano le 11.30 ore locali di martedì 3 ottobre. A 69° 30’ Latitudine Nord, 58° Longitudine Est, iniziavano a formarsi lastre di ghiaccio che, nel giro di non molto avrebbero completamente coperto quella parte del Mar della Pečora. In quel momento il mercantile dalle bianche murate chiazzate dalla ruggine navigava a velocità sostenuta verso ovest, in direzione del Mar di Barents. Ora batteva bandiera liberiana e sopra il portellone di poppa la scritta Mockba era diventata Freedom – libertà.
A Mosca erano le 9.40. La Porsche scivolava sulla Povarskaja ulica, in piazza Arbatskaia svoltò a destra per la Gogolevskij bul’var percorrendo la grande via fino in fondo. All’ultimo semaforo prima del lungofiume Kremlëvskaja, girò a sinistra, infilandosi nel cavalcavia prima del ponte sulla Moscova. Superato il ponte che porta alla Bol’saja, l’auto girò a sinistra e, poco dopo, era sul lungofiume Sofiskaja, entrando infine nel quartiere riservato all’ambasciata del Regno Unito. Quel mattino Mc. Cartney era stranamente agitato, aveva dormito poco e male e ciò non era dipeso solo dallo stress dell’alcova. Grace l’aveva svegliato alle nove, prima di andare in ufficio, alle dieci sarebbe arrivata la domestica e lui aveva pensato bene di togliere gli ormeggi squagliandosela. Aveva il volto non rasato, non si era fatta la doccia e in alcune parti del corpo, gli umori di entrambe della ata notte d’amore gli rendevano la pelle sgradevolmente appiccicosa. Prima di andare in ufficio voleva radersi e lavarsi. William posteggiò l’auto e s’incamminò verso l’edificio dov’era il suo
appartamento. Improvvisamente cambiò idea decidendo di fare una eggiata, aveva le idee confuse e quattro i all’aria aperta l’avrebbero aiutato a schiarirle. Stava pensando ai discorsi della sera precedente, allo strano viaggio di Grace, si sforzò di valutare razionalmente le variabili di quel bizzarro problema. Di una cosa era certo, Grace non aveva mentito. “No! – pensò infine – La CIA sta prendendo un abbaglio e non sarebbe la prima volta. I russi hanno controlli rigorosi e sottrarre due SS-20 è impossibile. Inoltre, quella ridicola faccenda del colloquio registrato su cassetta, con le attuali tecnologie, figurarsi, sa tanto di maldestro tentativo della SVR per creare confusione e sconcerto tra i servizi segreti americani.” Decise di non pensarci più. Ora stava camminando sul lungofiume Raušskaja, a pochi metri c’era una fila di derelitti che chiedevano l’elemosina, alcuni erano stesi a terra su dei cartoni, allineati al bene e meglio sul marciapiede a ridosso del muretto. “Figli del sol dell’avvenire” pensò in tono amaro, William. Quella era una mattinata plumbea e ventosa, il contrasto delle gialle guglie del Kremlino con il grigiore del cielo e delle acque della Moscova, rendeva l’affresco una bizzarra cacofonia cromatica all’interno di una cornice di languida tristezza. Una folata che sapeva di dolciastro fritto e umana sporcizia lo investì, alzò il bavero dell’impermeabile. Aveva superato diversi mendicanti, quando il suo sguardo incrociò quello supplichevole di un emaciato straccione privo di una gamba; l’uomo sembrava non essere persona anziana. Mc Cartney tirò fuori una banconota da cento nuovi rubli – poco più di tre dollari americani – e, chinandosi, la pose all’interno del lurido colbacco. L’accattone sgranò prima gli occhi, poi con un gran sorriso di ringraziamento mostrò gli unici denti che aveva, vociferando: «Spasìba, spasìba{32}» I denti erano due incisivi piombati con rivestimento di acciaio. Fu in quel momento che l’inglese notò sul petto dell’uomo ricoperto di stracci una medaglia al valor militare. Era una stella a cinque punte con un cerchio al suo interno e la figura di un carro armato al centro; intorno alla bordatura spiccava la scritta, Cecenia. “Questo poveraccio ha perso la gamba in Cecenia” pensò. Aveva fatto pochi i, quando l’emotiva agitazione che lo aveva accompagnato in quelle ultime ore riemerse, ma gli sfuggiva il razionale del perché. Per un istante si voltò a osservare di nuovo il mendicante, dicendosi: “Un eroe che ha perso una gamba in guerra e il suo paese, lo ricompensa facendolo morire di stenti sul marciapiede. - poi l’idea gli si ribaltò - Ma no, è un millantatore, uno che per far colpo si è appuntato quella patacca; per qualche rublo cianfrusaglie del genere se ne possono acquistare a chili.” Ora camminava lungo la Sadovni Českaja, col pensiero volò agli anni dell’università, sovente quando era depresso ritrovava serenità ed equilibrio andando con la mente ai suoi classici; Shakespeare, Tennyson e fra tutti il suo preferito, Dante. A pochi metri intravide una bancarella che vendeva ciambelle
fritte al momento, giunto lì accanto, chiese distrattamente una ciambella. «Sono diciotto nuovi rubli» fece l’ambulante, sfoderando un cordiale sorriso. Pagato, William stava per addentarla quando, di colpo, girandosi domandò: «Ex militare?» «Certamente! Per tredici anni sergente dei fucilieri» rispose in modo fiero l’ambulante, sorridendo, mostrando di nuovo la serie dei denti piombati con rivestimento d’acciaio. In William l’agitazione riaffiorò prepotente: quello era il sistema di cure dentarie usato nell’esercito russo. “Allora lo straccione di prima non è un cialtrone, è un eroe vero”, concluse. All’istante la mente volò a Dante e senza rendersene conto, recitò di getto un o della Divina Commedia. “Nave senza nocchiero in gran tempesta…” il pensiero fu dirompente; di colpo si bloccò come folgorato, pensando: “La Russia è tuttora a pezzi, ci vorranno anni, forse decenni prima che risorga dalle macerie. Essa è una nave senza nocchiero in gran tempesta, un’enorme cloaca in svendita all’interno della quale tutto può succedere, come quell’eroe lasciato marcire sul marciapiede tra stenti e indigenza e così per mille e mille cose. Sicuro che in questo paese possono sparire due SS-20, che idiota a dubitarne anche per un momento!”
Ora tutto quadrava e aveva senso, la razionalità combaciava con quelle sensazioni viscerali che nelle ultime ore lo avevano così tormentato. Con la mente limpida, idee chiare e andatura sostenuta, ora camminava a ritroso verso il lungofiume. Sapeva con nettezza ciò che doveva fare: ottenere assolutamente un duplicato di quella cassetta! Ma era più semplice pensarlo che farlo, Grace era donna intelligente e accorta, una mossa falsa e avrebbe capito tutto, lui non voleva rischiare di perderla, tantomeno farle del male creandogli problemi con l’ufficio. Iniziò a pensarci su. Erano le 12.30, quando sotto la doccia sbirciò l’orologio, «ancora qualche minuto» pensò. «Ciao Grace, puoi parlare?» «Oh William, ciao. Si certo, ero giù in economato, sono appena tornata.» “È già in possesso del plico”, arguì l’altro. La voce bassa e roca dell’uomo,
assunse un tono di calda intimità. «Sai, stavo pensando a questa sera…» «Questa sera?» «Domani non sarà possibile…» «Lo sai, questa sera sono impegnata in un ricevimento…» «È così importante questo ricevimento? Muoio dal desiderio di farlo… sì, come lo facciamo abitualmente quando c’è Manola…» Dall’altra parte ci fu silenzio rotto dal respiro diventato improvvisamente pesante. «Ma sì… telefonerò per disdire la mia presenza adducendo che domani dovrò partire e non posso far tardi. Giù da te? » «Poiché devi partire, forse sarebbe meglio lì da te. Per la cena non preoccuparti, porterò tutto io.» «Alla solita ora?» «Alla solita.» Con indosso l’accappatoio, William sedette sul bordo del letto, rifletté un momento. Un paio di anni prima, a Londra aveva partecipato a un breve corso tenuto dall’MI-6 per artisti apri e chiudi e, sebbene non si fosse mai cimentato in quell’arte, non la riteneva cosa difficile. Pensò al materiale occorrente, qualcosa doveva avere, il resto l’avrebbe acquistato nella serata. Decise che quel giorno non sarebbe andato in ufficio, ingerì un leggero sedativo e andò a dormire. Erano le 22.30, da oltre mezzora i due avevano finito di cenare e ora stavano ascoltando musica. Alzandosi dal divano, lui prese la mano della donna e la condusse nell’altra stanza. Era ata quasi un’ora e ancora abbracciati, per un istante barcollarono poi, all’unisono, scivolarono sul bordo del letto mentre gli umori colavano copiosamente tra le loro gambe. William, scuotendola, sussurrò: «Andiamo a fare una doccia o la domestica domani troverà piumone e tappeti chiazzati.» ati alcuni minuti, uscito dal getto, nell’infilarsi l’accappatoio, William disse: «Vado nel soggiorno a prendere lo spumante.» Poco dopo dal taschino della camicia tirò fuori un leggero sedativo ad azione lenta che egli usava
abitualmente, Grace aveva il sonno profondo e mezza pasticca sarebbe bastata ad addormentarla per almeno tre ore. Spezzò la pillola, ne triturò metà e mise la polvere in un calice che riempì per tre quarti di Ferrari Brut, quindi ne riempì un secondo fin quasi all’orlo. Quando lei entrò nella stanza da letto, lui le tolse l’accappatoio. «Come al solito?» domandò, porgendo il calice riempito per tre quarti. «Come al solito», rispose lei. A braccia incrociate, in un unico sorso i due amanti scolarono il contenuto dei rispettivi calici. Ora languidamente distesi, improvvisamente Grace sussurrò: «Sono spossata… mio Dio, che sonno…» ati un paio di minuti, William tossì ripetutamente, lei non si mosse ed egli lentamente si scostò alzandosi dal letto. Da una tasca dell’impermeabile tirò fuori un pacchetto, all’interno c’era un piccolo duplicatore per audio cassette, mezza stecca di ceralacca, un mozzicone di candela, un tubetto di colla stick e un piccolo taglierino dalla lama allungabile. Il duplicatore aveva nel primo dei due vani un nastro vergine da novanta minuti. In cucina accese il gas, ci mise sopra un bricco d’acqua e andò nel soggiorno. Sopra il divano c’era la borsa da viaggio di Grace, frugò all’interno senza trovare ciò che cercava; tirò la zip aprendo uno scomparto laterale, dentro c’era una cartella piena di documenti e una busta avana del comune formato A4. Ai lati del bordo incollato della busta c’erano due sigilli di ceralacca, il bordo era attraversato da due diciture verticali di colore blu, impresse da un timbro riportante in grande la scritta Top secret. Di nuovo in cucina, ricordò quello che gli era stato detto a Londra. “Non è difficile se fatto con attenzione” rifletté un istante. L’acqua bolliva e il getto del vapore fuoriusciva rumoreggiando dal beccuccio. Iniziò lentamente a are sopra al getto la bordatura incollata del plico, controllando che l’inchiostro del timbro non sbiadisse o si dilatasse. “Cinque centimetri dall’uscita del getto, cinque centimetri” ricordava. Dopo alcuni minuti, pose la busta sul tavolo e infilò delicatamente la sottile lama del taglierino sotto la bordatura. Costatato che la presa della colla era pressoché svanita, fece lentamente scivolare la lama fino al sigillo di sinistra e con cautela iniziò a tagliarlo. Stessa operazione fece col sigillo di destra. All’interno del plico c’era una seconda busta di dimensioni minori, chiusa da una normale clip. Sulla sua facciata una dicitura dattiloscritta sotto il timbro dell’ambasciata, riportava: For official use only. William l’aprì, all’interno c’era una banale cassetta per mangianastri della durata di 120 minuti e un foglio di carta con una sola riga di stampa:
00 Monday, 10-02-00. 10.43÷10.48 am. “FRINGUELLO”.
Cinque minuti di registrazione, arguì. Prese carta, penna e copiò il rigo stampato, inserì la cassetta nel vano libero del duplicatore e pigiò i tasti play di sinistra e record di destra. Dieci minuti dopo aveva riposto ordinatamente il tutto dentro la busta gialla. Aprì il tubetto stick e ò la punta della colla sulla parte interna dell’ala scollata in precedenza dal vapore e, prestando attenzione ai margini delle lettere, delicatamente la richiuse andoci sopra ripetutamente il palmo della mano per non lasciare grinze. Accese il mozzicone di candela, fece colare due gocce di ceralacca nell’esatto punto dov’erano posti i precedenti sigilli e con la punta del taglierino li espanse. Lasciò asciugare il tutto e valutò l’opera. “Niente male, poteva andare peggio”, pensò. Certo, ad un’attenta analisi non sarebbe sfuggita la manomissione; sulla bordatura l’unione delle lettere era leggermente sfalsata ed il colore dell’inchiostro, visto sotto i raggi di una lampada sarebbe apparso non uniforme. Ci pensò un istante su, ma era solo virtuosismo. Sapeva come andavano quelle cose, il destinatario l’avrebbe subito aperta senza andare tanto per il sottile, in ogni caso, per accertare che il plico fosse stato manomesso, avrebbe dovuto are per un laboratorio. Concluse pensando che nessuno si sarebbe accorto della violazione e che Grace non avrebbe incontrato problemi. Era mezzanotte, rimesso tutto ordinatamente a posto e fatto sparire ogni traccia, tornò a sdraiarsi accanto alla donna ancora sprofondata tra le braccia di Morfeo.
Il Boeing 747 decollava da Šerementevo due. Da un oblò della top class Grace Sympson osservava la pista scivolare, pensò fosse sabato, poi ricordò che era mercoledì.
In quel momento all’Ambasciata britannica Mc. Cartney era in compagnia dell’addetto militare. I due, seduti uno di fronte l’altro nell’ufficio di quest’ultimo, come inebetiti si fissavano vicendevolmente a bocca aperta. Sulla scrivania c’erano un mangianastri, un’auricolare ed un foglio di carta con la
traduzione del nastro che il commodoro di prima classe aveva tradotto e vergato di suo pugno.
Quella sera alle 21.30 ore di Greenwich, il Saint Jame’s pub traboccava di avventori. In quel momento il pianista di colore suonava Rosamunda, mentre l’indescrivibile calca con i calici di birra in mano, seguiva, cantando le note del piano. Un uomo riccio e lentigginoso, con indosso un impermeabile sopra una giacca di tweed, lentamente si fece largo tra la folla, arrivato finalmente al bancone, chiese una locale birra rossa. Deglutito il primo sorso, si rivolse a Mc. Cartney che l’era quasi appiccicato addosso, commentando: «Brutto tempo oggi qui a Londra…» «Proprio così…» rispose l’uomo arrivato qualche ora prima dalla Russia, nel are un pacchetto che il lentigginoso fece prontamente scivolare in una tasca dell’impermeabile.
Capitolo IX
Terzo e ultimo intermezzo: il Camminatore{33}
Oscar Baldi era nato nel 1951 a Roma, da padre artista povero e madre casalinga. Il padre, uomo dai molteplici talenti, di grande sensibilità e cultura, per gentilezza e bontà d’animo, fu sempre un grande romantico, un personaggio al di fuori del secolo. Nonostante le precarie condizioni economiche in cui navigava la famiglia, il giovane Oscar crebbe sano e con solidi principi. Dal padre apprese tra l’altro la forza morale e il dignitoso comportamento di chi, non possedendo niente e senza alcun aiuto, china la testa e affronta la vita con le proprie uniche forze. Fin dall’infanzia, il ragazzo dimostrò una notevole capacità di apprendimento, qualità che lo portò a primeggiare durante tutta la propria vita da studente. A scuola era forte in tutto, con particolare talento per la matematica e le lingue straniere. Fu alla fine delle secondarie inferiori che gli insegnanti raccomandarono di far continuare gli studi al ragazzo, predicendo che sarebbe diventato un ottimo fisico o un ingegnere di talento. Durante gli anni del liceo, nel tempo libero Oscar faceva il garzone e le vacanze estive le utilizzava lavorando come cameriere all’estero; ciò gli permetteva di non pesare sulla famiglia, guadagnare qualcosa e migliorare le proprie lingue. A diciannove anni parlava l’inglese come un suo coetaneo di Oxford e lo stesso valeva per il se. Fu durante il periodo dell’università che iniziò a studiare anche il tedesco; questo inizialmente gli sembrò un po’ tosto, ma era divertente. Aveva appena ventitré anni quando conseguì summa con laude il dottorato in ingegneria elettrotecnica presso il Politecnico di Roma. Conseguita la laurea, andò a lavorare presso una multinazionale americana su tecnologie d’avanguardia, trasferendosi a Palo Alto, in California. Mesi dopo fu trasferito in Italia, nella sede europea della compagnia, con l’incarico di responsabile dei servizi tecnici per l’intera area mitteleuropea. Fu agli inizi del 1978 che, durante una sua permanenza a Beaconsfield, esclusiva cittadina inglese tra le contee del Bedfordshire e Buckinghamshire, conobbe Harlene Bhrit, una bella ventisettenne chimica tedesca. Costei, inviata dall’Università di Stoccarda presso i laboratori della sede inglese della
compagnia in cui egli lavorava, aveva il compito di sottoporre alla risonanza magnetica nucleare delle catene di polimeri; prove finalizzate all’acquisto della complessa apparecchiatura da parte della suddetta università. Fu il classico colpo di fulmine, i due si piacquero all’istante e dopo un anno si sposarono a Tuttlingen, nel Baden-Württemberg, città natale di lei. In quegli anni, con l’aiuto di Harlene, egli non solo acquistò la padronanza della lingua tedesca, ma la affinò al punto che ora il suo tedesco non si distingueva da quello di un natio del Württemberg. Fu negli ultimi giorni del 1980 che la vita di Baldi cambiò in modo traumatico. La coppia, andata a are il Natale presso i parenti di lei a Tuttlingen, il 27 dicembre era ripartita alla volta di Roma. Harlene era incinta di sette mesi, durante il viaggio aveva sempre guidato Oscar, nonostante che lei avesse ripetutamente insistito per prendere un po’ la guida dell’auto e, giunti a Firenze, alla fine egli cedette. Fu all’altezza di Fabro, quando nella corsia di soro, mentre la BMW superava un autotreno, questo sbandò, colpendo il parafango anteriore destro dell’auto. L’impatto fece perdere alla donna il controllo della vettura che andò a colpire il guardrail; lui ne uscì illeso, lei fu portata al più vicino ospedale, dove, durante la notte, morì a causa del trauma cranico riportato. Con la morte di Harlene se ne andò anche il nascituro e parte della vita di Oscar Baldi. Egli mai si perdonò di aver ceduto la guida dell’auto alla moglie in quelle condizioni e gli anni successivi, furono disorientanti, duri e travagliati, anni che modificarono profondamente l’uomo. Fu nel tardo ’82 che durante un viaggio da S. Francisco a Milano, la sua esistenza ebbe una seconda, radicale svolta. Allo scalo Kennedy di New York, vicino a lui, nella business class del 747, sedette un distinto signore sui sessantacinque, espansivo e ciarliero che parlava inglese con accento se. Poco dopo il decollo, costui iniziò ad attaccare bottone e la conversazione durò per tutte le sette ore e mezzo del volo. Parlarono un po’ di tutto, storia, economia, politica, sfiorando filosofia e letteratura. Le lunghe chiacchierate tenute in più lingue, furono brillanti e interessanti; Baldi saltava dall’inglese al se, dal tedesco allo spagnolo, all’italiano e, sebbene il vicino lo stimolasse di continuo, sembrava che a volte fe fatica a seguire i labirinti linguistici di quel giovane ingegnere poliglotta. Giunti a Malpensa, ad attendere l’anziano gentiluomo c’era un’auto con autista, il se si offrì di accompagnare Baldi a Milano, egli cortesemente rifiutò ma l’altro insistette. Arrivati in via Giovanni Pascoli, i due si scambiarono i rispettivi biglietti, quello del se qualificava il personaggio tale Monsieur Pierre Voicin, primo chief della divisione per l’Europa Orientale della C.S.C.E. (Comunity of Security Co-operation in Europe. Attuale O.S.C.E) Il gentiluomo pregò l’ingegnere di richiamarlo al più
presto, ma il giorno dopo l’ingegnere si era già dimenticato del gentiluomo. Quest’ultimo invece, non si era dimenticato, la settimana successiva, prendendo contatto telefonico, invitò calorosamente Baldi ad incontrarsi a Roma per un colloquio di lavoro. Il sabato successivo, il meeting si tenne in una villetta nei pressi della chiesa di S. Saba, nell’esclusivo quartiere romano sul colle dell’Aventino, non distante dall’enorme edificio della FAO. Quel pomeriggio, unitamente a Monsieur Voicin, erano presenti altre tre persone. Il colloquio si svolse in lingua inglese, il dirigente della C.S.C.E espose all’italiano di cosa si trattava e la relativa offerta. «La nostra divisione, – affermò – ha bisogno di un consulente tecnico-scientifico da inviare a Mosca. Il candidato ideale dovrà essere un fisico o un ingegnere laureato con i massimi voti, poliglotta, libero e senza legami sentimentali.» Il contratto sarebbe stato di consulenza professionale, la durata di due anni con possibilità di rinnovo, di volta in volta. Il trattamento economico, oltre alla somma prevista dal contratto pagabile anche in ratei mensili, prevedeva anche l’alloggio a Mosca a spese dell’organizzazione, il completo rimborso spese senza tetto limite, più duemila dollari mensili extra, come bonus fisso. Baldi fece mentalmente i conti della serva: l’offerta era eccellente. «Non conosco il russo» affermò. Il se sorrise. «Per una persona come lei, questo sarà l’ultimo dei problemi; non avrà certo difficoltà a imparare anche il russo. Se accetterà, oltre ad un lavoro gratificante e intellettualmente interessante, a Mosca sarà inserito in un ambiente internazionale, vivace e carico di stimoli.» L’italiano prese tempo, promettendo di fornire risposta nel giro di pochi giorni. In un primo momento decise per il no, ma dopo la disgrazia, i pilastri di riferimento che tenevano in equilibrio il proprio mondo si erano infranti e il suo forte elemento romantico avventuroso vinse sul solido pragmatismo, inducendolo infine a decidere per il sì. Nei successivi colloqui gli fu specificato che là doveva stare all’erta perché, probabilmente sorvegliato dai loro servizi segreti. Avrebbe dovuto parlare poco del suo lavoro ed agire nella massima circospezione. I rapporti di valutazione, avrebbe dovuto inviarli solo attraverso i normali canali diplomatici C.S.C.E. «In Unione Sovietica, verrà a conoscenza di molti loro processi tecnologici e
manifatturieri, ciò le consentirà di acquisire una visuale abbastanza ampia del tessuto economico, del loro potenziale industriale e di ricerca. Lei ha lavorato in compagnie americane all’avanguardia, conosce sistemi e tecnologie dei paesi occidentali, nei suoi rapporti dovrà stendere un’obiettiva comparazione evidenziandone i rispettivi pregi e difetti.» Al giovane ingegnere alcune note di quel discorso suonarono stonate, ma ormai aveva accettato. “Un uomo vale quanto la sua parola”, recitava una massima del padre, che fin da ragazzo egli fece sua. A quei tempi, entrare in Unione Sovietica non era cosa facile e Monsieur Voicin si dette subito un gran daffare. Per il tramite dei buoni uffici C.S.C.E., Oscar Baldi fu iscritto prima all’Albo dei giornalisti e subito dopo all’Associazione della Stampa Internazionale. Con queste credenziali, egli fu accreditato presso l’ambasciata di Francia a Mosca, come giornalista e consulente O.C.S.E.{34} per lo sviluppo industriale dei paesi dell’est europeo aderenti allo stesso organismo internazionale. Ciò gli permise di ottenere un visto diplomatico per L’URSS e un piccolo ufficio nello stupendo palazzo Igumnov – fatto costruire nel 1893 dall’omonimo nobile e ora sede dell’ambasciata di Francia a Mosca. L’impatto con la grande città orientale fu ambivalente: la trovò buia, sporca, fatiscente, calma e sonnolenta, ma sotto lo squallore della massificazione di regime, scoprì una metropoli interessantissima. L’insieme della sua arte e cultura era quanto di meglio l’ingegno europeo aveva prodotto negli ultimi mille anni. I suoi musei erano ricchi ed esclusivi, le strutture d’epoca avevano caratteri che andavano dal bizantino al tardo gotico, dal rinascimento italiano al barocco se al rococò franco tedesco di fine Settecento per arrivare al neoclassico. Il ritmo di vita rispetto al Mondo occidentale sembrava svolgersi come al rallentatore, pur tuttavia, la gente appariva affardellata da problemi esistenziali, nello sguardo spento si leggeva fatalismo, rassegnazione, paziente sopportazione, auto ironia e un velato senso di paura. La cosa che maggiormente colpì l’uomo fu il diffuso alcolismo, bevevano tutti, molto e in ogni luogo. Appena arrivato, si tuffò subito nella lingua russa; il primo approccio fu duro, solo l’alfabeto cirillico, l’era usuale ricordandogli il greco studiato al liceo, ma era una bella lingua e a lui piaceva. Dopo tre mesi lo masticava, dopo sei lo parlava sufficientemente, dopo un anno il suo russo non si distingueva da quello di un indigeno di media cultura e dopo due lo parlava fluentemente e senza accento, inclusa fraseologia e modi di dire. Non solo, ma ora poteva esprimersi con quell’accento moscovita ricco di acuti e scivoli che lo rendevano non
distinguibile da un moscovita vero. Da subito iniziò bene anche con il lavoro; il magnifico aspetto, la conoscenza delle lingue, la vasta cultura unitamente a quel suo naturale, intenso e non aggressivo fascino, gli aprirono le porte sia del mondo della stampa, sia di quello diplomatico. Fu un anno dopo, quando gli fu chiesto dei rapporti su alcuni processi di raffreddamento usati dai sovietici in particolari tipi di reattori nucleari che ebbe la certezza dei suoi iniziali sospetti. Il lavoro che svolgeva era in realtà una copertura: loro, lo utilizzavano indirettamente anche e soprattutto come un illegale agente dello spionaggio; quei reattori erano usati nei primi prototipi di sommergibili nucleari russi classe Sierra. Ci rifletté su, ma era solo un frullio d’idee, la decisione l’aveva presa un anno prima a Roma, in realtà fin da subito aveva intuito di cosa si trattava. La molla che gli aveva fatto accettare quell’incarico che lo poneva in un’arena in cui era costantemente in gioco la propria esistenza, era stata quell’amaro, melanconico sentimento di non senso della vita; la crisi esistenziale del mondo e delle cose che negli ultimi anni era andata così prepotentemente montando in lui. Più volte durante quel periodo, pensò che fin dalla prima conversazione su quell’aereo, il distinto, gentilissimo Monsieur Voicin gli aveva fatto la radiografia. Sì, all’istante quell’uomo aveva capito tutto di lui, ma proprio tutto. Fu nei primi dell’85 che, rientrato a Roma per un breve periodo, gli fu comunicato di recarsi a Londra. Là, in un’anonima villa vittoriana nei pressi di Regent Park, ebbe tre giorni d’intensi colloqui con persone di nazionalità diverse. Rientrato a Roma, poco dopo volò a Mosca con visto permanente da poco rinnovato. Sebbene sulla carta figurasse ancora un consulente O.C.S.E, con essa non aveva più vincoli contrattuali, ora veniva pagato dalla Interscambio tramite l’accredito su un conto segreto cifrato, presso una banca Svizzera. Da quel momento, a tutti gli effetti divenne consapevolmente un illegale, un agente dello spionaggio al soldo di quattro paesi europei e operativamente dipendente dall’MI-6 britannico. Posizione a quei tempi molto pericolosa in Unione Sovietica, se fosse stato scoperto, nessuno avrebbe potuto prestargli aiuto. Oltre alle precedenti credenziali rinnovate, fu accreditato presso l’Ambasciata della Repubblica Federale Tedesca come libero giornalista facente parte dell’Associazione della Stampa Internazionale. In quegli anni, oltre a mantenere i suoi vecchi rapporti, allacciò diversi contatti con alcuni importanti canali della burocrazia moscovita e da 1985 al 1990, la mole di lavoro sotto forma
d’informazioni inviate in Occidente, fu notevole. Eccellente fu la stima e l’ammirazione che si conquistò, sia negli ambienti moscoviti, sia in quelli della stampa internazionale gravitante in quella città, tanto, da conquistarsi l’appellativo di Aquila. Egli sapeva di essere sotto controllo e fin dall’inizio adottò tre regole semplici ma efficaci: lavorava solo, senza reti, canali o organizzazioni alle spalle e, anche se questa impostazione costituiva uno sforzo notevole, diminuiva drasticamente il rischio di essere scoperto. Secondo, il KGB aveva i migliori servizi d’intercettazione del mondo ed egli non usava mai mezzi di comunicazione convenzionali, satellite, radio, telefono e altro. Terzo, eccetto gli ordinari articoli, non esistevano appunti scritti, la sua straordinaria memoria era carta e penna. Spesso di domenica, in un piccolo ufficio dell’ambasciata, scriveva i messaggi in brevi frasi a tripla codifica computerizzata e da egli stesso, ideata; messaggi infilati in un’anonima busta con indirizzo di comodo, recapitati all’estero per il tramite dei normali canali di posta diplomatica d’ambasciata.
Verso la metà dell’89, come l’onda di un terremoto, la perestrojka di Gorbaciov faceva sentire i suoi effetti. A Mosca si respirava un’aria strana, carica di schizofrenico, confuso avvenirismo e nel loro granitico tessuto burocratico, anche certi monolitici apparati di regime, primo fra tutti il KGB, sembrava esserne scosso dalle fondamenta. Fu in quel periodo che in una conferenza sugli effetti dovuti alla catastrofe di Chernobyl, tenutasi presso una sala del palazzo Igumnov, conobbe un’affascinante e per certi versi, enigmatica se. Costei, certa Charlotte Lavarell, sociologa laureata alla Sorbona, della sua stessa età e da qualche tempo divorziata, si trovava in Unione Sovietica mandata dal Ministero degli Esteri se per una missione umanitaria a favore dei bambini bielorussi colpiti dalle radiazioni. Il suo lavoro consisteva nello scegliere i nomi e preparare le liste degli sfortunati da inviare in Europa occidentale, presso famiglie disposte a sostenerli e farli curare. I due iniziarono a frequentarsi e presto divennero amanti. Il loro rapporto fu strano, a volte dubbioso. Lui, a seguito della tensione accumulata in quegli anni, era alla ricerca di valori ed equilibrio. Lei persona sufficientemente snob, in un primo momento sembrò distaccata, come se desiderasse quella relazione per riempire la propria temporanea permanenza moscovita, poi, in un crescendo, parve subire sempre più il fascino dell’uomo. Negli ultimi tempi i due vivevano in un piccolo appartamento sulla prospettiva Pyževskij, non distante dalla bellissima chiesa a due piani e cinque guglie di San Clemente Papa. Una sera, rientrando a casa,
Oscar non trovò Charlotte, trovò invece un cassetto del comodino lasciato volutamente aperto all’interno del quale, mancavano dei fogli dattiloscritti di suoi comuni articoli. Il fascicolo era su un tavolo con la punta di ogni foglio spiegazzata. Baldi rimase paralizzato. All’istante capì che non avrebbe più rivisto Charlotte e che lei, in realtà, era una rondine del KGB fattagli svolazzare intorno al fine di carpirgli informazioni tese a smascherarlo; i fogli sgualciti erano un tipico messaggio dal doppio significato di un femminile e, forse, tormentato addio. Evidentemente, con quel gesto, lei aveva voluto comunicargli che era a conoscenza della sua vera attività, ponendolo al contempo in guardia che anche i servizi segreti sovietici lo erano. Ora la sua posizione era diventata critica. Poteva alzare armi, bagagli e tornarsene in Italia, azzerare il conto segreto in Svizzera e vivere tranquillamente. Certo, sarebbe stata la soluzione più logica, ma in quel momento in Unione Sovietica c’era un gran fermento, il muro di Berlino era caduto e all’orizzonte si apriva uno scenario dalle tinte chiare-scure. Inoltre quel paese era ancora la seconda potenza nucleare del mondo e il suo lavoro era lungi dall’essere terminato. Per quanto abile Charlotte fosse stata, non poteva aver scoperto più di tanto. Lui non si era mai sognato di accennarle qualcosa riguardo alla natura del suo vero lavoro ed era certo di non aver lasciato tracce. Inoltre solo lui conosceva le procedure quindi, al massimo, lei poteva aver confusamente tratto qualche deduzione. Ci pensò su e decise di rimanere. Fu durante quel periodo che, in uno dei salotti di quell’ambiente internazionale dall’aria godereccia d’altri tempi che era la casa di Madame Korin, un uomo smilzo, di media statura e con la sigaretta pendente dalle labbra gli si avvicinò, chiedendo del fuoco. I due iniziarono a dialogare in russo infine, il tale, si qualificò quale certo colonnello Fjedor Gumayev. Costui era il potentissimo e temibilissimo capo del dipartimento segreto del primo direttorato KGB denominato Taini Otdel o dipartimento V, altrimenti detto delle azioni esecutive: il colonnello Gumayev, era il capo di un dipartimento di killer. Tutte le esecuzioni clandestine suggerite da altri dipartimenti e/o direttorati per reati di spionaggio, defezione o tradimento, sia all’interno, sia all’estero, erano eseguite dai suoi uomini dopo esser ate sotto il proprio vaglio e arbitrio. Nell’ambiente egli era comunemente chiamato il Papa e correva voce che avesse il possesso di archivi con una tale quantità d’informazioni, anche di carattere personale, da porlo in grado di ricattare chiunque, tale era la sua potenza. L’aspetto non smentiva l’uomo: sotto una liscia capigliatura color paglia, una faccia spigolosa con naso e mento appuntiti poneva in risalto dei glaciali grandi occhi grigi. La bocca quasi priva di labbra sembrava una cucitura, facendo
somigliare il suo raro sorriso a quello di una iena. Stranamente, fin dall’inizio, sembrò che l’italiano entrasse nelle simpatie del colonnello; Baldi era uomo brillante, un poliglotta che parlava un russo quasi migliore del suo e da subito Gumayev sembrò subirne il fascino. I due iniziarono cautamente a frequentarsi, divenendo in seguito quasi amici. Fu alla fine del ’90 che una sera, il pericoloso colonnello invitò Baldi a cena nell’esclusivo ristorante Samovar in Mjasnickaja ulica. La cucina russa alla bliny pel’mey era squisita e tra una portata e l’altra, il capo del dipartimento azioni esecutive, sussurrando, trasmise all’ospite uno strano, sibillino avvertimento: «Non pensare di uscire dall’Unione Sovietica, commetteresti un errore fatale. – e aggiunse – Penso, che presto avrai bisogno dell’aiuto di un amico.» Calò il silenzio, il resto della cena fu consumato in un’aria carica di funesti presagi. Fu un pomeriggio di fine giugno del ’91, che in una vuota sala del Museo Storico, Gumayev gettò infine la maschera. Poggiato a una finestra oltre i cui vetri s’intravedeva l’incantevole scenario della cattedrale di S. Basilio e sulla destra la celebre torre Skaya, – capolavoro di P. A. Solari – con un filo di voce, il colonnello affermò: «A Yazenevo, - sede del primo direttorato KGB - da tempo il terzo dipartimento vuole la tua testa. Finora sono riuscito a padroneggiare la situazione bloccando il cappio, ma da ora, non mi sarà più possibile; è arrivato il momento di agire.» Baldi, emise un sottile, amaro sorriso. «Già, - rispose - mi hai tenuto il nodo scorsoio intorno al collo in attesa dell’evolversi della situazione, pronto allo strappo qualora la barca fosse tornata in assetto; ora che inizia ad affondare i topi scappano e tu Fjedor Igorovičh, hai bisogno di qualcuno che t’infili nel buco di uscita, vero?» L’altro, con lo sguardo sembrò fulminarlo, ma l’italiano per nulla intimorito, in modo duro, terminò chiedendo: «La richiesta?» «Dieci milioni di dollari americani, un vitalizio pari a cinquecentomila l’anno, una nuova identità e la scelta del paese che dovrà ospitarmi.» Lo sguardo dell’italiano andò oltre il mausoleo di Lenin, focalizzando le dorate guglie del Kremlino che riverberavano gli ultimi raggi di sole di quel giorno ormai morente. Dopo un lungo momento, rispose: «Quelli laggiù non sono di manica larga, specialmente gli inglesi… l’offerta?»
L’altro fece un cenno, indicando l’esterno. «Buona parte di ciò che racchiudono gli archivi di Mohovaja ulica.» Baldi sgranò gli occhi. «L’indice centrale? Vuoi scherzare?» «Dovresti ormai sapere che non amo scherzare. – i grandi occhi grigi divennero due fessure, la voce, un sussurro – Per oltre vent’anni, mi sono premunito di accumulare ogni informazione che mi è ata sotto mano. In un luogo sicuro dell’allora D.D.R,{35} sono nascoste oltre dieci tonnellate di fotocopie di documenti ultra segreti e di vitale importanza per la difesa della Russia; più di cento memorie magnetiche e altrettanti hard disk pieni d’informazioni, dossier di personaggi, spie e intrighi internazionali di assoluta importanza. Questo materiale sarà a vostra disposizione nel momento in cui saranno rispettate le clausole della richiesta. – fece un’efficace pausa – Ah, dimenticavo, naturalmente nell’offerta è inclusa anche la tua vita… Ti suggerisco di partire quanto prima per Londra.» «Potrebbe essere un viaggio di sola andata…» L’altro, sfoderando il bieco sorriso da iena, fissò il gelido sguardo sull’italiano. «Lo hai affermato prima… dovrai essere tu a infilarmi nel buco facendomi da guida nell’attraversare il ponte dei sospiri,{36} questa è una delle clausole vincolanti dell’accordo. Tornerai Aquila, tornerai…» Di lì a poco Baldi partì per Londra. Era ancora là quando nell’agosto, in Unione Sovietica, il Ministro della Difesa Jažov e il Presidente del KGB Kriuchkov, al fine di spazzare le proteste di piazza tese a far cadere il regime, tentarono un colpo di Stato in precedenza organizzato. Il colpo fallì, costando a entrambi la vita, facendo cadere Gorbaciov portando alla ribalta Eltsin. La crisi aprì uno scenario dall’incerto futuro; se da un lato vi erano molte solide resistenze da parte degli apparati burocratici e di potere, dall’altro, l’impeto dell’onda che saliva da larghe fasce della popolazione sembrava voler travolgere ogni cosa. Nel caos che si stava profilando, fu l’esercito che mantenendo un imparziale, ferreo equilibrio, salvò la situazione impedendo conseguenze incalcolabili. In questo trambusto, il già potente GRU consolidò ulteriormente la propria posizione, mentre il KGB iniziò il suo irreversibile declino. Pur tuttavia, riguardo alla sicurezza interna dello Stato, la seconda direzione centrale KGB avrebbe imperato ancora per oltre un anno.
Baldi aveva ottenuto l’O.K. da Londra; appena giunto a Mosca i due avrebbero dovuto guadagnare Odessa infilandosi nel Consolato tedesco, dopodiché un elicottero li avrebbe condotti al largo dove sarebbero stati trasbordati su un’imbarcazione britannica. Baldi non pensava al GRU e soprattutto non immaginava che da anni anch’esso era sulle sue tracce. Sbarcato all’aeroporto moscovita di Šerementevo due, degli agenti del GRU in borghese lo arrestarono conducendolo al carcere militare moscovita di Lefortovo. Tra le carceri di Mosca, Lefortovo è la peggiore. È la prigione dove il regime mandava i duri o, quelli dai quali si pretendeva una rapida confessione. Costruita antecedentemente la prima guerra mondiale, di forma stellare con le ali che s’irradiano verso l’esterno, essa ha il vantaggio di avere i gabinetti all’interno delle celle, ma ha anche le celle peggiori, il peggiore vitto e luoghi con attrezzature di tortura uniche. Torture, percosse e, infine, fucilazioni furono sempre le caratteristiche di Lefortovo, anche se per le ultime il primato spetta alla Lubjanka. Baldi fu condotto all’accettazione, dove in mezz’ora furono espletate le formalità. Gli fu dato il regolamentare vestiario disinfettato e, invece di andare a finire in una delle orribili celle da centosessanta persone dove si doveva dormire in piedi, gli fu assegnata una piccola cella singola, stranamente pulita che odorava di acido fenico e disinfettante. Gli fu concesso mezz’ora giornaliera di esercizio fisico nelle ristrettissime piazzette all’interno del carcere, – contro i dieci minuti regolamentari – e dopo dieci giorni, in conformità al regolamento, fu condotto alle docce dove gli dettero sapone a sufficienza. Il vitto consisteva in trecentocinquanta grammi di pane nero giornaliero, venti di zucchero, una rada zuppa di cavoli due volte al dì e una cucchiaiata di fiocchi d’avena. L’acqua calda gli era concessa tre volte il giorno per qualche minuto. In quel periodo la sua maggior tortura fu la mancanza di sigarette. Gli interrogatori erano stati preparati da tre ufficiali e condotti dal loro capo, un bell’uomo, alto, bruno, che vestiva in borghese e si esprimeva in un linguaggio calmo e formale che a Baldi dette l’idea di voler forzatamente emulare la flemma britannica. Costui, era il colonnello Boris Umarov, un mastino inquisitore del GRU, specialista d’interrogatori e giudice collegiale del tribunale speciale. Umarov aveva davanti Oscar Baldi, una spia che aveva operato autonomamente, certa di non aver lasciato tracce, consapevole di avere una testa formidabile che gli avrebbe permesso di non cadere in contraddizioni ma, soprattutto, uomo che non dava eccessivo peso alla propria vita. Tra i due ebbe inizio una complessa partita a scacchi. Di lato, sulla scrivania del colonnello, si notava un voluminoso dossier con la scritta in caratteri cirillici: Il Camminatore. Umarov parlava un buon inglese e per mettere l’inquisito in condizioni di svantaggio psicologico, volle
marcare la propria professionalità iniziando gli interrogatori in quella lingua. Fu un errore perché in inglese, il livello comunicativo del prigioniero era superiore a quello dell’inquisitore. A ogni domanda, Baldi rispondeva in perfetto stile britannico, con frasi idiomatiche e phrasal verbs, cosa che il più delle volte l’altro disorientato non capiva. A ogni replica dell’inquisitore, l’inquisito traduceva lentamente, rimarcando le frasi con verbi inglesi ora di origine latina e molte volte traducendole poi in russo, con visibile imbarazzo del colonnello. La storia durò oltre una settimana, infine l’inquisitore spazientitosi perse la flemmatica tempra, ando definitivamente al russo. La baldanza era sistemata. Gli interrogatori iniziati i primi giorni di settembre, furono cupi, intensi e stressanti. Mediamente duravano cinque ore ogni giorno ma per quanto severi, furono sempre condotti entro i binari della formale correttezza e l’inquisito non fu mai oggetto d’ingiurie o violenze. A partire dal 1983, Baldi dovette ripetere fino all’infinito il proprio percorso in Russia; giorno dopo giorno, appuntamenti, conferenze, incontri, relazioni, contatti professionali, amicizie eccetera. Spulciarono ogni suo articolo e a tutte le domande che non seguivano la logica che lui si era imposto, egli negava sempre, con calma e risolutezza. In quel periodo batterono molto su un nome in codice di cui, secondo loro, egli doveva ben conoscere l’identità essendone il contatto. Baldi dichiarava che all’origine del tutto doveva esserci un errore dovuto alle errate informazioni in loro possesso, forse ricevute da Yazenevo e che non sapeva cosa fosse l’Interscambio e l’MI-6 lo conosceva solo in virtù della lettura di qualche romanzo di spionaggio. Tutto era puntualmente verbalizzato e inserito in un computer. Questo ritmo durò oltre due mesi, poi gli interrogatori divennero più stringenti. Ricominciarono da capo, ora erano sei, sette ore al giorno, con domande a getto continuo le cui risposte, attraverso il riscontro delle precedenti verbalizzazioni, erano comparate alla ricerca di contraddizioni; pur tuttavia, non riuscirono ad incastrarlo, mai una volta il prigioniero si contraddì. Fu in una gelida mattina verso la metà di dicembre che, portato come di consueto nella stanza degli interrogatori, per la prima volta si trovò solo al cospetto di Umarov. In piedi, uno di fronte l’altro, prima l’ufficiale offrì una sigaretta al prigioniero, infine, con una punta di solennità, in tono grave affermò: «Abbiamo la massima ammirazione per lei, dottor Baldi. Nondimeno, riguardo ai delitti contestategli commessi ai danni dell’Unione Sovietica rimaniamo convinti della sua colpevolezza e, pertanto, sarà ata per le armi. In attesa che il tribunale speciale ratifichi la condanna, oggi stesso sarà trasferito
nel carcere della Butyrka. – il colonnello abbassò voce e sguardo – Lei si è dimostrata la spia più abile in cui ci siamo imbattuti in questi ultimi decenni… Alla Butyrka ci pensi bene su, ricordi che fino all’ultimo la sua vita dipenderà solo da lei…» Per le spie illegali, in Unione Sovietica le condanne erano generalmente anonime e le loro ratifiche, un mero atto amministrativo. La Butyrka, iniziata nel secolo XVIII per rinchiuderci i ribelli dell’insurrezione capitanata da Pugačev, è notevolmente la prigione più vasta di Mosca; durante le grandi purghe Staliniane, essa conteneva oltre trentamila detenuti. Il luogo di pena consiste di moltissime costruzioni simili a baracche, concentrate intorno alla parte antica, la torre di Pugačev, nella quale fu rinchiuso il grande ribelle prima della sua esecuzione. Baldi fu messo in una singola cella di una fatiscente costruzione al centro del carcere, non lontano dalla torre. Il cibo era leggermente migliore rispetto a Lefortovo. Gli davano trecento grammi di pane nero al giorno, un piatto di lenticchie, caffè d’orzo e, alternativamente, zuppa di cavoli con pesce e spesso, la sera anche fiocchi d’avena. La cella non era riscaldata e con la neve già alta il freddo era tremendo. Giorno dopo giorno, in attesa del plotone d’esecuzione e con esso la fine dei suoi giorni, immerso in uno spoglio, monotono languore, il prigioniero osservava tristemente la torre innevata di Pugačev, riflettendo amaramente sulla propria avventurosa vita. Fu un primo mattino del tardo gennaio del ’92 che, nel dormiveglia, udì lo sferragliare del catenaccio; era un’ora insolita, “ci siamo” pensò. Mentre si alzava dal lurido giaciglio di assi di pino, una guardia entrò con due capienti ciotole e, posandole, nel voltarsi sembrò strizzargli l’occhio. Sorpreso, il detenuto alzò i coperchi: in una c’erano due uova strapazzate con lardo, nell’altra una tazza di caffè di malto ancora bollente, un pacchetto di sigarette, un accendino e alcune fette di pane nero. Le sigarette erano Philips Morris, le sue preferite. Per alcuni istanti il prigioniero cadde in uno stato confusionale, poi in un baleno divorò la colazione e nella mezz’ora successiva fumò cinque sigarette. Un paio d’ore dopo una guardia lo condusse alle docce, poi lo portarono in una piccola toilette, dove gli dettero sapone da barba spray e rasoio. Sbarbato e ripulito, fu infine condotto in un ufficio di fianco ad una delle numerose portinerie, lì un sottufficiale gli porse una lista. «Qui c’è la sua roba, controlli!» Ancora in stato di disorientamento, Baldi esaminò gli articoli, c’era tutto: dalla valigia agli abiti, dalle scarpe alle carte di credito, dai documenti al denaro in varie valute, perfino l’accendino e tre pacchetti di Philips Morris sequestrategli
al momento dell’arresto. “Incredibile”, pensò. Rivestitosi nell’attiguo spogliatoio, fu accompagnato in un secondo e più ampio ufficio, dove si trovò di nuovo al cospetto del colonnello Umarov in compagnia di un tale impellicciato. Non lo fecero sedere. «Da questo momento lei è libero con decreto di espulsione immediato. Deve lasciare questo paese entro la mezzanotte di oggi!» affermò gelidamente il colonnello, porgendogli un fascio di carte da firmare. L’ex prigioniero firmò in piedi, curvo davanti alla scrivania. Infine chiese: «Posso sapere qual è stato il motivo del vostro mutato giudizio?» I due si lanciarono un’occhiata, rispose il tale con la pelliccia. «Non abbiamo mutato giudizio. A interferire in suo favore è stata la Lubjanka.» «Lubjanka?» I due non sapevano se rispondere o tacere, la frustrazione era palpabile. Continuò lo stesso uomo. «KGB, seconda direzione centrale. Loro affermano che lei è estraneo ai reati contestategli. Sembra che un loro importante agente, a noi ignoto, dal nome in codice Olga, abbia testimoniato alla Lubjanka in suo favore firmando dichiarazioni che la scagionano; attestazioni controfirmate dal capo del primo dipartimento.» La nebbia era fitta. “Olga: mai inteso questo nome”, si disse l’italiano. Nell’uscire dalla stanza, si rivolse ai due, dicendo: «Desidero ringraziarvi per aver ricevuto intatte le mie cose.» «Noi siamo GRU, non KGB.» rispose freddamente Umarov. Fuori dal portone, nell’allontanarsi incespicando nel ghiaccio, Baldi notò tre uomini con pesanti pastrani uscire da una Fiat ferma sotto una betulla dai rami ricurvi per il carico di neve. Lo stomaco gli si contrasse. Il più giovane dei tre, sicuramente il capo, avvicinatosi accennò un breve saluto militare. «Dòbryj djén – buon giorno – Oscar Baldi?» «Voi chi siete?»
«Abbiamo l’ordine di scortarla, portandola in salvo a Vienna.» «Ordine di chi?» «Colonnello, Fjedor Gumayev!» Come una scarica elettrica, un brivido scosse l’italiano. Ripresosi all’istante, balbettò: «Indosso abiti estivi, sto gelando, iamo dai magazzini Gum prima di partire.» Ai magazzini acquistò indumenti caldi e leggeri, atti a permettergli un buon movimento degli arti. Giunti alla stazione Belorusskij, mentì dicendo: «Da due giorni non mangio, non mi reggo in piedi.» Nella vasta e sporca tavola calda del grande nodo ferroviario moscovita, mangiò a sazietà; quel cibo pessimo ma proteico l’avrebbe rimesso in forze. Finito, si fece preparare due robuste mezze pagnotte imbottite di lardo e cipolla, due thermos pieni di caffè forte e mise il tutto dentro uno scomparto laterale della sua valigia di tela. Il viaggio lungo, lento e monotono, aveva reso l’aria all’interno dello scomparto pesante dal chiuso e alla scarsa igiene, mentre il costante candore del paesaggio nevato che scivolava lungo i finestrini, col are delle ore aveva smorzato vigilanza e concentrazione. Durante quelle ore, l’ex condannato a morte pensò più volte alla sua liberazione; il mistero era impenetrabile, Olga era e rimaneva una mera entità virtuale. Erano le 6 del mattino, superata Bratislava, avevano da poco ato la Frontiera Slovacca, Vienna distava ormai solo qualche decina di chilometri. In quel momento nello scomparto c’era l’uomo grosso con i baffi alla tartara, rimasto in uno stato di dormiveglia per l’intera notte; gli altri erano fuori, uno fumava lungo il corridoio, l’altro forse era al gabinetto. «Tra poco saremo a Vienna, appena scesi dal treno ognuno andrà per la propria strada», disse Baldi, al compagno di viaggio. «Certamente… ognuno per la sua strada» rispose il sicario del KGB, nel arsi l’indice destro sotto le narici. Quel gesto dette all’italiano la definitiva certezza di ciò che aveva capito nell’istante in cui aveva visto i tre: nel momento in cui il GRU lo aveva arrestato, per Gumayev il colpo era andato in fumo ed
egli non voleva testimoni scomodi in vita. Se lui fosse stato ucciso in Unione Sovietica, essendo stato espulso da quel paese, ma non essendone uscito, si sarebbero potute aprire antipatiche inchieste ma ora la situazione era cambiata. Come da regolamento, alla frontiera la guardia di confine gli aveva ritirato il foglio di espulsione e ora, ufficialmente in Occidente, senza chiasso sarebbe stato eliminato. “Operazione netta, perfettamente conforme al profilo di Gumayev”, pensò Baldi. In una curva il treno rallentò e il killer si alzò dal sedile stiracchiandosi; nell’accendere una sigaretta, si alzò anche l’italiano. Una lotta a corpo a corpo non avrebbe avuto storia, l’ex prigioniero era deperito dalla lunga detenzione e, sebbene più alto, l’altro appariva forte e robusto. Avendo però all’istante egli compreso il reale intendimento dei tre, si era creato dei vantaggi: indossava abiti caldi e sciolti che gli consentivano agilità, aveva mangiato a sufficienza e bevuto il caffè mantenendosi lucido, mentre l’altro inzaccherato e sonnecchiante, aveva i riflessi intorpiditi; inoltre dalla sua c’erano sorpresa e scelta del momento e quest’ultimo era giunto. Il treno continuava nel rallentare e lo stridio delle ruote sui binari aumentava il frastuono; in modo noncurante, fumando, Baldi si pose dietro al killer e fulmineamente, come un dardo gli ficcò la punta della sigaretta accesa nell’occhio destro. Il russo cacciò un urlo acutissimo, portandosi istintivamente le mani alla faccia, fu un tutt’uno: con tutta la forza che aveva, l’italiano spinse violentemente il malcapitato contro il finestrino dello scomparto. L’impatto fu violentissimo, il naso del russo si spiaccicò contro lo spesso vetro provocandogli lo svenimento e il conseguente crollo a terra. All’istante Baldi gli saltò sopra affondando i tacchi sullo stomaco, l’altro ebbe dei coniati di vomito, ma senza tregua, con due potenti calci uno nel basso ventre, l’altro alla milza, immobilizzò definitivamente il sicario. Al volo, afferrò la valigia e spalancò la porta dello scomparto precipitandosi verso la piattaforma di sinistra. Il più giovane dei Killer, il loro capo, era nel corridoio e, insospettito dal rumore, stava evidentemente correndo in aiuto. Baldi sentì urlare qualcosa, le urla si ripeterono e una pallottola gli ò fischiando vicino l’orecchio sinistro, ma era già sulla piattaforma; spalancò la porta del vagone e, senza pensare a nulla, si lanciò nel buio. La neve era fresca, alta quasi mezzo metro e fu come piombare su un materasso di crine. Udì delle sconnesse frasi in tedesco, mentre con la valigia a tracolla, impacciato e trafelato, arrancava nella neve che gli arrivava fin quasi alle ginocchia. L’abetaia era in leggero pendio, egli continuò ad arrancare e correre con quanto fiato aveva in gola, giunto ai margini del bosco, il pendio divenne ripido, Baldi si gettò sul crinale, rotolandosi giù come una palla di neve, fermandosi in fondo, al centro della strada ghiacciata. Di lì a poco ò un pesante camion diretto a Graz, chiese un aggio, là giunto si precipitò al locale aeroporto, prese il primo aereo, era
diretto a Monaco; alcune ore dopo sbarcava all’aeroporto romano di Leonardo da Vinci, era finalmente in salvo. Nel frattempo, in alcuni paesi dell’Europa occidentale il crollo del Comunismo in Unione Sovietica non fu cosa completamente indolore. In Inghilterra in tono minore, ma in Francia e soprattutto in Italia, dove c’era una forte sinistra, parte della quale ancora in linea con la vecchia ortodossia marxista-Leninista, la caduta di Gorbaciov provocò un grande disorientamento, travaglio che si acuì dopo il Natale del ’91, quando al Kremlino fu definitivamente ammainata la bandiera rossa con la falce e martello. Dopo l’uscita di scena di Gorbaciov, queste forze prima in silenzio, poi in un crescendo, iniziarono a orchestrare campagne contro i poteri occulti del capitalismo borghese, prendendo a pretesto, tra gli altri, i servizi segreti occidentali e i loro fondi neri. Fu in questa confusa campagna propagandistica che alcuni servizi segreti italiani quali il SISDE e in minor misura il SISMI, finirono sotto inchiesta. In seguito, nell’ottobre del ’93, furono spulciati i loro conti, sequestrati i fondi e alcuni dei responsabili finirono in prigione e il SISDE fu anche momentaneamente sciolto. Tra il ’91 e il ’92, in misura minore, in altri paesi successe qualcosa di analogo, il che provocò un’immediata ricaduta negativa sui servizi segreti dei paesi dell’Europa occidentale. In questa generale situazione venutasi a creare, pervasa da pulsioni emotive, nel tardo ’91 furono bloccati i finanziamenti all’Interscambio che, per proteggersi, si vide costretto ad asciugare azzerandoli, i conti cifrati illegali finanziati in nero facendone sparire le tracce. Fu così che la considerevole somma sul conto segreto di Oscar Baldi, giacente presso una banca di Ginevra, nel tardo 91 sparì e al suo rientro egli trovò semplicemente il nulla! A Roma, discretamente, interpellò un suo amico ex compagno di liceo ora affermato civilista; costui, dopo aver ascoltato l’incredibile storia, dichiarò che era stato un furto. «Una grande mascalzonata» disse, e aggiunse che sì, era vero che il denaro apparteneva a lui, ma era altresì vero che il capitale era su un conto segreto cifrato, privo quindi di un preciso riferimento fisico o giuridico. «Probabilmente, – spiegò – attraverso una clausola segreta stipulata con l’istituto di credito, l’ente erogante si era riservato la possibilità di estinguere il conto e cancellarne i riferimenti, qualora si fossero verificate situazioni straordinarie. Il problema non
è tanto l’ente erogante, quanto l’inesistente giurisdizione internazionale in materia di conti segreti cifrati. - e aggiunse - Un’azione legale è impensabile, sarebbe come competere alle Olimpiadi del ridicolo.» Baldi avrebbe dovuto man mano prelevare il denaro e trasferirlo su altro conto, oppure, ai primi sentori asciugarlo estinguendo la partita, ma chi avrebbe mai immaginato un simile seguito? Inoltre, in quel periodo lui era a Mosca, in attesa di finire al muro. A quarantuno anni, di colpo si trovò schiantato, solo, senza lavoro, senza affetti e nessuna prospettiva. Era ancora giovane e in perfetta salute, ma era invecchiato dentro. Provò più volte a inserirsi, cercando di mettere a frutto le sue capacità e le considerevoli esperienze maturate, ma non ci riuscì, aveva bisogno di pace, solo pace. Il superlavoro, la tensione nervosa e l’apprensione lo avevano stancato; gli anni ati in equilibrio sul filo del rasoio del doppio gioco, le regole che pretendevano in ogni istante che fosse messa in palio la propria vita e la prigione, lo avevano logorato. Nulla più poteva sorprenderlo né spaventarlo, aveva dato tutto ciò che possedeva, fino all’ultima goccia e bruciato fino all’ultima caloria spirituale. Era un morto in vacanza. Dal ’92 al ’98 visse con quello che le era rimasto, poi verso la fine di quell’anno decise di trasferirsi nella quiete della provincia, nel villaggio da cui provenivano le proprie radici.
Capitolo X
Quel venerdì sei ottobre, a Washington era una giornata tiepida. Tra i filari dei platani, la berlina Cadillac scivolava con autorità lungo la Pennsylvania avenue, creando al suo aggio un turbinio di foglie che tappezzavano l’asfalto di colori gialli e rossi. All’interno dell’auto, oltre all’autista e l’uomo di scorta, sedevano il texano giudice costituzionale George Maxwell e il dottor Alan Elston, rispettivamente capo e vice capo della CIA. Arrivata in fondo, la Cadillac girò a destra imboccando l’Executive drive che, più che una strada, è un parcheggio riservato agli alti funzionari, ai corrispondenti attivi della Casa Bianca e ai membri dell’ufficio esecutivo, comunemente detto old state. Fermata l’auto in un riquadro libero per i vip, dopo che l’agente di sicurezza armato di mitra uzi, ebbe scrutato lo spiazzo circostante, l’autista aprì le portiere; il primo a scendere fu il giudice, seguito dal suo vice. «Si tiene nella sala gabinetto?» chiese Elston. «Sala situazione, giù da basso» rispose il giudice. I due uomini entrarono in una porta verde, mostrando il loro tesserino a un marines di guardia, girarono a destra e presero una scala che conduceva ai piani sottostanti. Scese tre rampe, arrivarono a una porta che dava su un corridoio, girarono a sinistra e si diressero verso un’altra porta, dove c’era un agente di guardia del servizio segreto. «Buon giorno signori, il Segretario di Stato e il Consigliere del Presidente sono in attesa» disse l’uomo, invitandoli a entrare. «Grazie, agente» risposero i due all’unisono. La sala situazione non era niente di particolare, grande circa quanto l’ufficio ovale, aveva un lussuoso rivestimento di legno su pareti di cemento con al centro un lungo tavolo rettangolare, in una parete c’era uno schermo per diapositive. L’illuminazione era fornita da una serie di gialli neon incassati alle pareti, un biglietto sul tavolo indicava il posto che i partecipanti alla riunione dovevano assumere. Il Segretario di Stato Simon Sherling sedeva in fondo a capotavola, alla sua sinistra c’era il Consigliere del Presidente per la Sicurezza dello Stato. I quattro si strinsero reciprocamente la mano, poi il giudice Maxwell e il suo vice sedettero sulle poltrone poste alla destra di Sherling. Quest’ultimo sbirciò l’orologio. «Fra una decina di minuti arriveranno gli altri» disse.
«Il presidente come ha reagito?» chiese il capo della CIA. «Male! – rispose il Consigliere per la Sicurezza – Nonostante la cosa sia confusa e tutta da chiarire, è in apprensione e desidera essere costantemente informato sugli sviluppi.» «In ogni modo, ci ha concesso carta bianca. – aggiunse Sherling che subito dopo, fissando il giudice, chiese: – Ne siamo certi, George?» «Assolutamente, Simon» rispose in modo serafico, Maxwell. Intervenne il dottor Elston. «È una sorgente unica, col bel tempo sembrava volersi inaridire, poi improvvisamente si è messa di nuovo a sgorgare.» «Evidentemente, dopo un periodo di secca è piovuto molto» disse il Segretario di Stato. «Evidentemente…» fece eco l’altro. Uno per volta, arrivarono tutti. Per primo entrò il generale Fabian Grass, Presidente del Comitato dei Capi di Stato Maggiore, poi il dottor Henry Goodmans del Tesoro, dopo il vice ammiraglio Roul Wilde vice capo del controspionaggio della marina di stanza a Norfolk e infine, il brigadier generale Arthur Gray, ufficiale di collegamento tra lo Stato Maggiore dell’aeronautica e i servizi segreti. Ora il comitato ALFA era al completo. Prese la parola, il capo della CIA. «Ognuno di voi, – disse in tono calmo – ha letto la trascrizione tradotta di un colloquio registrato su memoria magnetica che, nel tardo pomeriggio di mercoledì, ci è pervenuto direttamente da Mosca. Per la portata del contenuto, qualcuno potrebbe avanzare dei dubbi circa la veridicità del fatto. La fonte di questo messaggio è di tutto rispetto e la certezza dell’accaduto non è in discussione.» Con queste parole, il giudice Maxwell intese spazzare ogni dubbio, ponendo il comitato davanti alle proprie responsabilità. Fu il generale Grass che, rivolto a Maxwell, chiese: «Gli autori di questo furto chi sono? Perché il colloquio non riporta nomi o finalità? A cosa diavolo si riferisce quest’operazione Gengis Khan?» A nessuno sfuggì la sottigliezza di quelle domande che, con una punta polemica,
ponevano in risalto la nebulosa vacuità dell’esposizione fatta dal capo della CIA. Fu il vice capo Alan Elston a rispondere. «Questo è il problema! Non lo sappiamo, generale. Vede, quel colloquio svoltosi a Mosca si è consumato in un luogo protetto all’interno di un edificio dello Stato, posto frequentato da funzionari di un certo livello, sia militari, sia civili. Costoro, hanno applicato il codice deontologico imposto in quei luoghi per motivi di sicurezza, pertanto non si sono rivelati nomi, titoli, cariche, finalità o quant’altro.» Nel volgere lo sguardo verso il Segretario di Stato, concluse dicendo: «Del resto, non è questo il primo caso.» «Le voci? Dalle voci è possibile risalire agli autori del colloquio; abbiamo i migliori computer identificatori vocali del mondo» replicò ancora, il pignolo Grass. Elston scosse la testa. «Ella non ha avuto la possibilità di ascoltare la registrazione. L’intercettazione è avvenuta via laser a notevole distanza, inoltre il colloquio si è svolto all’interno di una stanza dai tripli vetri piombati; il dialogo è vocalmente piatto e distorto. Da quei toni non è possibile risalire alla personalizzazione delle voci tramite l’analisi vocale.» «Grossomodo, quante persone hanno accesso in quel luogo? Che cariche ricoprono?» chiese il Consigliere del Presidente. Era difficile dare una risposta. Elston esitò un momento. «Considerando i cambiamenti avvenuti in questi ultimi anni, azzarderei nell’affermare una settantina di persone, di cui venti, venticinque civili e gli altri militari. Sono per lo più alti funzionari dei servizi segreti e ufficiali generali con particolari incarichi che prestano servizio nell’edificio, ma bisogna considerare anche i pezzi grossi di aggio. Lì è un via vai.» «Quindi…» «Quindi, quei missili possono essere stati sottratti da tutti e da nessuno, inclusi esponenti della locale mafia in combutta con organi deviati dello Stato.» Fece con cipiglio, il Presidente del Comitato dei Capi di Stato Maggiore, interrompendo il Consigliere Freiseler. «Precisamente…» affermò annuendo, il giudice Maxwell. Prese impropriamente la parola, l’uomo del tesoro. «A questo punto,
bisognerebbe avvertire il Governo russo.» «Potrebbe non essere una brillante idea, dottor Goodman» rispose il Consigliere del Presidente. «Esatto! – esclamò caricando, il capo della CIA – La situazione politica nella Federazione Russa è fluida e delicata. Come poc’anzi affermato dal generale Grass, questa potrebbe essere sia opera di organizzazioni malavitose colluse con apparati del potere, sia di potenti e occulti organi deviati dello Stato. La conclusione di quel colloquio non promette niente di buono. Esso non è avvenuto in un qualsiasi bagno turco moscovita, ma all’interno di un importante edificio dello Stato in cui solo persone con incarichi delicati ne hanno l’accesso e ciò, aggiunge inquietudine alla già delicata faccenda. Non sappiamo chi sono gli autori di questo crimine, se rivelassimo ora il fatto alle autorità russe, la situazione potrebbe sfuggire loro di mano, ritorcendosi contro il loro stesso governo con sviluppi di portata imprevedibili.» Intervenne il Segretario di Stato. «Riguardo all’informare il governo russo, sia il Presidente, sia io, sia il Consigliere Freiseler, siamo all’unisono d’accordo nel mantenere il più rigoroso riserbo fin quando la situazione non sarà chiarita. È ovvio che avvertiremo il Kremlino, ma questo accadrà al momento opportuno. Come ha affermato il giudice Maxwell, avvisarli ora potrebbe rivelarsi una grave imprudenza. Riguardo al da farsi, agiremo per nostro conto, in assoluta discrezione, secondo i principi della costituzione e nell’ambito della legalità internazionale, in nome della sicurezza e degli interessi sia nostri, sia dell’intera comunità. Si rivolse a Gray. «Ha qualcosa da dirci, generale?» L’ufficiale di collegamento delle forze aeree strategiche fece un cenno affermativo. «Sì signore, certo.» Da una cartella tirò fuori il messaggio pervenutogli il giorno precedente via fax tramite una speciale linea protetta. Si alzò e avvicinatosi al proiettore lo accese, v’inserì una diapositiva e inforcò gli occhiali. Sullo schermo apparve un autocarro russo del tipo SI III TEL MAZ 543 con un missile SS-20 sopra la rampa di lancio verticalmente eretta. «Desidererei porre la vostra attenzione su una frase della traduzione del colloquio pervenutoci. – tutti cercarono tra le loro carte il documento – I due missili SS-20 completi dei loro sistemi di lancio, guida e controllo, sono partiti questa notte dal luogo stabilito. – puntò l’indicatore sullo schermo – Significa che due di questi affari, sono spariti con le loro stazioni di computer di guida e controllo, senza le quali i vettori sarebbero ferraglia. – bevve mezzo bicchiere d’acqua e, mostrando
le ultime righe del messaggio fax, continuò rimarcando la frase – Questa notte sono partiti. Ciò significa che ora sono in viaggio, un viaggio che da lunedì due ottobre, secondo quanto riporta la traduzione durerà dai venti ai ventiquattro giorni. Analizziamo ora i sistemi di trasporto: gomma, ferrovia, aria e acqua. La durata del viaggio è molto lunga, la via per gomma e quindi da scartare perché i due TEL MAZ 543 con rampe e missili dovrebbero attraversare villaggi, strade, posti di polizia e forse frontiere, essendo il carico segretissimo e clandestino, va da sé che non è fattibile; inoltre qualsiasi sia il luogo di destinazione, ventiquattro giorni è un tempo spropositato. Stessa cosa vale per la via ferroviaria, è inconcepibile che un simile convoglio i attraverso scambi e forse soste in stazioni ferroviarie civili e, che impieghi una ventina di giorni. A maggior ragione la via aerea, inoltre nessun aereo, neanche un Galaxi sarebbe probabilmente in grado di trasportare due sistemi completi del genere. Rimane la via marittima. – cambiò diapositiva, ora sullo schermo apparve l’immensa parte settentrionale della Russia – Tutto il pomeriggio di ieri e fino a tarda notte, mi sono posto il problema della loro sparizione, infine, credo di aver trovato la chiave dell’enigma attraverso le seguenti frasi. Quanto tempo erà prima che si accorgano della loro sparizione? Potrebbe are anche un anno, in ogni caso, nella peggiore delle ipotesi, non prima di tre mesi. Questa informazione ci assicura che i due sistemi missilistici non possono essere stati trafugati né da una base operativa, né da un punto di lancio mobile, al massimo dopo mezz’ora se ne sarebbero accorti. Ciò può solo significare che i vettori sono spariti da un qualche deposito sito in una delle loro basi così dette di raccolta e transito, in cui i missili posti in sicurezza, sono stoccati in parcheggio prima di essere demoliti, basi che sappiamo trovarsi all’interno di quest’area. – con l’indicatore spaziò attraverso una grande zona siberiana a cavallo degli Urali – Poi imbarcati su una nave alla fonda in uno degli innumerevoli piccoli porti incontrollati, disseminati quassù.» Tracciò una linea immaginaria che partendo da Murmask, attraverso il Mar di Barents arrivava al Mar della Pečora andando oltre il Mar di Kara. «Nessuna indicazione utile dai nostri satelliti? Dall’alto controlliamo buona parte della Russia», fece ancora Grass. Il vice capo della CIA, scuotendo leggermente la testa, rispose: «Nessuna! Gli spazi sono smisurati e se i satelliti non hanno le coordinate G.P.S di riferimento su cui puntare, solo casualmente possono rilevare locali spostamenti. Inoltre, in questo periodo il tempo è pessimo in quelle zone.» Sherling, si rivolse si nuovo a Gray: «Quale successione logica l’ha condotta a
queste conclusioni? Dove crede siano diretti questi missili?» L’ufficiale di collegamento trasse un profondo respiro. «Vede signore, a cavallo degli anni 90, circa 380 missili SS-20 di vario tipo erano schierati, ma sia a seguito della loro parziale sostituzione con i più moderni sistemi classe SS-25, sia e soprattutto per il programma di demolizione imposto dai protocolli START, riteniamo che ora siano molto meno della metà, di cui molti non operativi. Le loro rampe mobili sono raggruppate in brigate, ciascuna delle quali è composta da nove complessi veicolari che, per motivi tecnico-logistici, sono principalmente situate non lontano da basi centrali di controllo e manutenzione. Il programma di smantellamento degli SS-20, ha coinvolto quasi tutte queste unità mobili schierate allora nella Russia europea, Bielorussia e Ucraina, penalizzando meno le brigate schierate nello scacchiere secondario, quelle a cavallo degli Urali. Come affermato in precedenza, sappiamo che in quelle aree ci sono basi di controllo e manutenzione per SS-20, oltre naturalmente a quelle di raccolta e transito di cui abbiamo le loro esatte ubicazioni. È ragionevole, quindi, pensare, che l’azione fraudolenta sia stata consumata in quelle zone. – con l’indicatore pose in risalto un largo arco a nord della Siberia europea e continuò – Stiamo parlando di missili nucleari spariti; mi ripeto nell’affermare che non possono aver percorso molta strada rischiando di mostrarsi in giro e gli unici mari nelle vicinanze sono quelli artici, il resto è semplice. – Gray si tolse gli occhiali e, allargando le braccia terminò, dicendo – Riguardo alla destinazione, non ne ho la più pallida idea. Possiamo solo affermare che data la quantità di tempo che il viaggio richiede, il luogo di arrivo dovrà necessariamente trovarsi molto distante da quello di partenza.» Prese la parola, il vicedirettore della CIA. «Anche noi siamo inclini nel condividere le tesi del generale Gray. Ieri sera, in una riunione a Langley, siamo arrivati grossomodo alle stesse conclusioni. Riguardo alla destinazione, gli analisti ci stanno lavorando su, anche se scettici il venirne a capo. Ammettendo che la nave sia un normale mercantile, possiamo escludere solo parte dell’emisfero australe, le coste occidentali del Pacifico e del Continente sud americano, per il resto quasi ogni posto potrebbe essere buono. Dipenderà dalle velocità di crociera che assumerà questa ipotetica nave.» Intervenne di nuovo Maxwell: «Le prime ipotesi, tirate giù in fretta e furia, suggeriscono che potrebbero riguardare sia alcune aree calde del Mediterraneo, sia quelle del Mar Nero orientale per arrivare alla Cecenia, sia infine alcuni Stati
canaglia sul Mar Rosso, Golfo Persico e Mare Arabico; Stati che, come è noto, appoggiano e finanziano le ali più radicali del terrorismo islamico. Sappiamo per certo che da anni ormai, lo sceicco Osama Bin Laden nemico giurato del Mondo occidentale è a caccia di armamenti strategici e nucleari.» «Grazie, George. – fece il Segretario di Stato che per un lungo momento sembrò riflettere, infine si rivolse di nuovo al generale Gray – Secondo il suo parere, quante possibilità ci sono che quei sistemi missilistici siano effettivamente in mare?» Era una domanda pericolosa. Dopo l’esposizione del vicedirettore della CIA, bisognava assumere una decisione e il Segretario voleva esser certo che fosse quella giusta. Ora il generale sapeva che le future evoluzioni operative sarebbero dipese in buona parte dalla sua risposta. Se egli avesse indirizzato in modo errato un’operazione così importante, sicuramente ciò avrebbe avuto un riverbero negativo sul proprio curriculum. Sherling voleva un numero e lui decise di esprimersi in termini matematici. Alzò il foglio con la traduzione. «Il problema è caratterizzato sia da una costante, l’accaduto, sia da numerose variabili sconosciute. In base alle nostre conoscenze del loro modo di pensare, sistemi di trasporto, dislocamenti e strutture logistiche, affermerei che la percentuale di certezza di quanto esposto è del novanta per cento, introducendo lo scarto dovuto alle variabili ignote, riterrei che le probabilità scendano intorno al sessantacinque, settanta per cento.» Il Segretario di Stato si rivolse ora al vice ammiraglio Wilde. «Sarebbe possibile, ammiraglio, individuare l’ipotetico vascello su cui sono imbarcati quei missili?» Il vice capo del controspionaggio della marina annuì, affermando: «Sì! Localizzando le sorgenti.» «Sorgenti?» «Sì, signore. Questa ipotetica nave avrebbe due sorgenti energetiche, caratterizzate dalla debole radioattività emessa dalle testate nucleari degli SS-20; sono queste emissioni che dovremmo individuare.» Simon Sherling lanciò un’occhiata al Consigliere del Presidente che parve annuire, infine si rivolse al Presidente del Comitato dei Capi di Stato maggiore. «Il suo parere, generale Grass?»
«Non vedo cos’altro si possa fare.» «Problemi dottor Goodman?» «Nessun problema, signore. I fondi annuali stanziati dal bilancio per le operazioni speciali, sono quasi tutti lì e disponibili.» Il Segretario di Stato si alzò dalla poltrona, poggiò le mani sul bordo del tavolo e pose temporaneamente termine alla riunione, dicendo: «Da ora e per tutta la durata di questa operazione, il presente comitato s’intende riunito in assemblea permanente. Ognuno di noi sa cosa fare! La riunione, signori, è sospesa fino all’acquisizione di ulteriori e più dettagliate informazioni.»
A Londra quel giorno era stato piovoso, poi verso sera si era alzata la nebbiolina e la pioggia era diminuita d’intensità. A Westminster, le lancette dei quattro orologi della torre del Big Ben, ciascuno del diametro di sette metri e mezzo, indicavano le venti e trenta. A qualche centinaio di metri dalla torre, una grigia Mercedes scivolava lentamente sull’asfalto bagnato che rifletteva le luci del traffico e delle insegne sfumate dalla nebbia. All’interno dell’auto, oltre all’autista, c’erano altri due uomini, quello seduto dietro sulla sessantina e distintamente vestito, sembrava assorto in riflessioni. Dopo Victoria street, la Mercedes attraversò Bridge street imboccando poi il Westminster bridge. L’auto era a metà del lungo ponte, quando l’acuto fischio della sirena di un rimorchiatore che ava sotto sembrò destare il distinto, pensieroso eggero che, sbirciato l’orologio, rivolgendosi all’autista, fece: «Avrei un po’ di fretta, Aymon.» La berlina ebbe un guizzo, attraversato il ponte, si portò sul lato est del Tamigi, girò a destra e prese la Lambeth Palace road, percorrendola fino in fondo. Superato il Lambeth bridge, imboccò infine l’Albert Enbankment costeggiando il grande fiume illuminato dalle mille luci dei barconi e dei vaporetti in transito; pochi minuti dopo, arrivò in Vauxhall cross. L’auto si fermò nel parcheggio di una moderna, brutta costruzione a forma piramidale in cemento armato e vetri. Era la Century House, la nuova sede del SIS lungo il Tamigi che, a differenza della vecchia sede in mattoni rossi tra l’Old Kent road e l’Elephant and Castle, sembrava essere all’altezza del suo compito. Il guidatore rimase in macchina, gli altri due entrarono nella sede del Secret Intelligence Service da un ingresso secondario. L’uomo di scorta si fermò con gli agenti del servizio di sicurezza, mentre “C” prese l’ascensore di servizio che lo portò due
piani sotto il livello del suolo. Percorso un dedalo di corridoi dalle cui pareti, a tratti, spuntavano tubature del riscaldamento e dell’aria condizionata, giunse in fondo a un largo corridoio, girò a destra, aprì la prima porta ed entrò in un’ampia stanza. Il locale ben illuminato da calde luci soffuse, aveva l’arredo costituito da mobili semplici ma di classe. Di fronte, spiccava un ritratto della regina, sulle pareti laterali si notavano oli rappresentanti per lo più marinerie ottocentesche. Un uomo con barba e capelli bianchi, che vestiva un elegante spezzato autunnale, era seduto in fondo al lungo tavolo di noce e concentrato su un foglio di carta formato A3, aveva una matita tra le dita e sembrava intento a disegnare. Sir David Collins, capo dell’MI-6, si avvicinò sedendogli davanti, dalla sua borsa di cuoio estrasse un fascicolo con la copertina di plastica blu e lo pose sul tavolo; tirò fuori un pacchetto di sottili sigari, ne estrasse uno e, nell’accenderlo, attraverso la fiamma dell’accendino fissò lo sguardo sullo strano personaggio ancora intento a disegnare, infine, disse: «Ti ringrazio Charles, per aver convocato in mia assenza il management.» L’altro, parve non scomporsi, con lo sguardo concentrato sulla punta della matita, fece: «Ebbene, David?» “C” aprì il fascicolo, batté il dito indice su alcuni fogli. «Oggi ero su, nel Warwickshire, questa relazione mi è stata recapitata a casa nel pomeriggio, l’ho letta durante il ritorno. Ieri sera si sono riuniti quelli del dipartimento tecnico, delle operazioni e dell’intelligence. Da quanto riportato, sembra che il tecnico tende a classificarla come sciocchezza e quelli delle operazioni la prendano tiepidamente, l’unico a non essersi ancora sbilanciato è l’intelligence.» Il disegnatore interruppe il suo lavoro, alzò gli acquosi occhi azzurri dal foglio di carta e, fissando l’interlocutore immerso in una nuvola di fumo, rispose: «Tu che ne pensi, David?» Nello sbattere ripetutamente le palpebre, “C” spense il sigaro nel posacenere, dicendo: «Il problema è fringuello. In certi ambienti della CIA, corre voce che questa loro fantomatica leggenda non abbia mai sbagliato un colpo.» Lo strano artista annuì lentamente, dicendo: «Già… e quasi certamente, anche questa volta ha fatto centro.» Erano le ventuno, poco dopo entrarono i due vice capi accompagnati dagli
assistenti capi responsabili dei dipartimenti operazioni, intelligence e tecnico, un minuto più tardi entrò il controllore per l’Europa orientale. Prese la parola “C” che rivolto al responsabile del dipartimento tecnico, chiese: «I tuoi cosa pensano, Serge?» L’uomo tirò fuori da una cartellina un paio di fogli, gli dette una sbirciata. «Il problema è la pessima qualità della registrazione, la tonalità assolutamente piatta e gli acuti degli accenti inesistenti. In un primo momento, gli specialisti hanno pensato che l’apparecchiatura con cui è stata eseguita la duplicazione fosse difettosa, poi, sia ieri, sia nella mattinata, la memoria magnetica è stata analizzata dal computer ed è risultato che anche il nastro originale doveva essere nelle stesse condizioni; questo può accadere solo in due casi: quando l’originale è derivato da numerosissime altre registrazioni o, in una registrazione rilevata a distanza da un’apparecchiatura mal funzionante. – batté il dito sui fogli – Queste signore, sono analisi tecniche difficilmente contestabili.» «Conclusioni?» chiese C. «Siamo inclini nel ritenere che si tratti di un falso maldestramente concepito, sì insomma… che ci abbiano rifilato una patacca.» Il canuto artista che disegnava un carro trainato da un bue, concentrato al massimo nello sfumare il corno destro del bovino, sembrava completamente assente dalla discussione nondimeno, come fu pronunciato il termine patacca, di colpo alzò lo sguardo dal foglio lanciando un’occhiata al relatore, subito dopo tornò al proprio lavoro. “C” si rivolse al responsabile del dipartimento operazioni. «Qual è il tuo parere in merito, Arrold?» Questi, un bell’uomo appesantito nello stomaco e nei fianchi dal troppo uso della scrivania, rispose laconicamente, dicendo: «A titolo personale, sono scettico circa la possibilità di poter sottrarre in modo fraudolento e senza rumori due interi sistemi SS-20, ma preferisco sia il controllore per l’Europa dell’Est a scendere in più specifici dettagli», rivolse lo sguardo verso il suo vice, Patrick Bradley. «Ebbene Patrick?» chiese di nuovo, C. «Vede signore, noi conosciamo sia i loro sistemi di controllo, sia le loro procedure e, un’operazione di questa portata la riteniamo al limite della
fattibilità. Ciò nondimeno, ammesso che possa essere stata condotta a termine, è impossibile che non abbia lasciato qualche traccia e non abbia avuto l’appoggio sia interno, sia esterno, di una o più influenti organizzazioni. Noi siamo in grado di monitorare quasi costantemente l’evolversi della loro situazione politica, sociale, economica e dei loro servizi segreti e di sicurezza. In questi ultimi tempi, dopo le azioni condotte in Cecenia, sembra essere tutto linearmente monotono laggiù. I recenti avvenimenti dello scorso agosto, non pare abbiano creato particolari allarmismi e le potenti organizzazioni malavitose che gestiscono buona parte dell’economia di quel paese, sembrano pensare esclusivamente ai loro traffici. Non dimentichiamo inoltre, che i servizi segreti russi sono ancora, se non i migliori, senz’altro tra i primi al mondo. Se all’interno del loro territorio fossero avvenuti movimenti strani li avrebbero senz’altro notati. – fece un’efficace pausa – Ma a noi, ancora non è giunto alcun sentore…» Mentre ognuno abbassava pensieroso la testa, nella sala calò uno strano silenzio; l’unico rumore era caratterizzato dallo stridio dell’infaticabile matita del disegnatore la cui punta a grana grossa raspava sulla carta. Il capo dell’MI-6 si rivolse al responsabile dell’intelligence. «A quale conclusione siete giunti voi, Edward?» Costui, uomo alto e allampanato, aprì anch’egli una cartellina, tirò fuori dei fogli e iniziò la sua esposizione. «Il fatto è, che quel colloquio appare formalmente e sostanzialmente viziato…» «Spiegati meglio, Edward.» «La conversazione è generica, non sono menzionati nomi, cariche o gradi militari e il linguaggio è molto formale, cosa insolita per i russi. Dal punto di vista sostanziale poi, non vi è nessun riferimento a fatti specifici intesi come luoghi e finalità. Poiché dovrebbe trattarsi di cosa importante, questa laconicità ci lascia perplessi. In altri termini, riteniamo che quel colloquio sia troppo rigido e stringato per essere reale, sembrerebbe come svoltosi sotto i vincoli del formalismo imposto nelle loro camere di sicurezza. Noi sappiamo tutto di quelle stanze, quante sono, le loro ubicazioni e sistemi protettivi. Al loro interno non è possibile registrare niente, addirittura sembra che si siano verificati casi in cui l’allarme sia scattato a causa di banali orologi al quarzo al polso di qualcuno. L’interpretazione logica escluderebbe quindi che il colloquio si sia consumato in uno di quei luoghi e se a ciò aggiungiamo quanto esposto poc’anzi dai colleghi,
ne esce un quadro ridicolo. – alzò il tono – Pur tuttavia, qui leggo: 00 MONDAY 10-02-00. 10.43÷10.48 Am “FRINGUELLO.” I primi caratteri di questo messaggio sono gli identificatori usati dalla CIA. Lo 0 significa camera di sicurezza e i numeri che seguono indicano l’ubicazione della stessa. Abbiamo le loro classificazioni e sappiamo che 0 significa Lubjanka; quindi 00 è camera di sicurezza della Lubjanka. – tra gli uditori si alzò un certo brusio – Poi il nome in codice fringuello dice il resto. Esso risponde a uno dei più brillanti agenti piazzati dalla CIA molti anni fa a Mosca. Una leggenda gelosamente custodita la cui identità è ignota, ma che nell’arco degli anni sappiamo che ha sempre fornito agli americani, informazioni della massima esattezza e primaria importanza.» «Conclusioni, Edward?» «Sono due signore, ed entrambe di vasta portata. Primo, la CIA è riuscita a violare quella camera per il tramite di fringuello, il che spiegherebbe molte cose successe nel ato, unitamente a risolvere il problema della pessima qualità della registrazione, assicurando al contempo che il fatto sarebbe effettivamente accaduto. La seconda, che si tratti di una mistificazione magistralmente orchestrata dalla S.V.R per scopi non chiari, in ogni caso tendenti a destabilizzare gli attuali equilibri e…» Una voce dal tono tagliente si alzò sopra le righe, interrompendo il relatore. «Non c’è nessun tentativo destabilizzante da parte della S.V.R!» esclamò l’eccentrico gentiluomo, posando la matita scansando il foglio con su il disegno appena terminato (l’opera rivelava un certo talento artistico). Lo strano soggetto continuò, affermando: «La soluzione del problema l’ha fornita lei girandoci intorno, Mister Parks. Se questo messaggio fosse una mistificazione, frutto di una qualche strategia dei russi, lo scopo sarebbe stato quello di farlo giungere, ma per coniarlo i loro servizi di controspionaggio avrebbero dovuto sapere che la CIA era in grado di violare quella camera di sicurezza, no? Questo è un loop che si morde la coda al cui centro c’è un’unica certezza: evidentemente, la CIA è in grado di violare quel luogo!» Aveva parlato l’ammiraglio sir Charles Bright, capo dei servizi segreti della marina Britannica con temporanea delega governativa quale sovrintendente ai servizi segreti del Regno Unito. Incarico che, di fatto, lo rendeva
momentaneamente la massima autorità nazionale in quel delicato settore. Ora tutti gli occhi erano puntati su quella bizzarra personalità. Fu uno dei vice capi a parlare. «Bradley, ha poc’anzi spiegato che…» ma lo spigoloso ammiraglio lo pose subito a tacere: «Fino a pochi anni or sono, molte cose succedutesi laggiù pareva impossibile che potessero accadere. – si rivolse al volo al controllore dell’Europa Orientale – Novità dell’ultima ora?» «Come affermato in precedenza, sembra ci sia calma piatta, signore. Gli ultimi movimenti risalgono a qualche mese fa, prima dei noti fatti accaduti il dodici agosto al sommergibile nucleare Kursk e all’attentato nello stesso mese alla stazione metropolitana Puškinskaja di Mosca. Movimenti che tutti conosciamo.» «Ci rinfreschi la memoria, Mister Bradley» chiese ancora Bright. L’uomo tirò fuori dalla borsa una voluminosa cartella, cercò un documento, lesse: «Il tenente generale Ivan Artmenko, capo del primo direttorato del GRU, ha assunto la carica di direttore della FAPSI, la guida di quel direttorato è stata assunta dal vice di Artmenko, maggior generale Igor Aliyev. Il tenente generale Vladimir Uglanov, capo della seconda direzione centrale del GRU, ha assunto la carica di capo della FSO, al suo posto è stato nominato uno dei suoi vice, certo colonnello Umar Slabovichji. – sbirciò un secondo foglio – Ah… una nota di secondaria importanza arrivataci l’altro ieri. È stata aperta un’inchiesta riguardo alla scomparsa a nord di Vorkuta, di una squadra composta da dieci paracadutisti, reparto impegnato in una non meglio precisata missione. Tale scomparsa, parrebbe attribuirsi alle cattive condizioni meteorologiche che al momento imperversavano in quella zona.» «Chi ha preso in mano l’inchiesta?» chiese di nuovo Bright. «L’ente deputato, signore. Il GRU.» Fu “C” a prendere la parola: «Alla luce di quanto esposto dal dottor Parks, sta prendendo seriamente corpo la possibilità che quei missili nucleari siano stati effettivamente trafugati. Come tutti sappiamo, quella classe di vettori, possono colpire un qualsiasi punto all’interno di una circonferenza del diametro di diecimila chilometri, essi rappresentano una seria minaccia sia per noi, sia per l’intera Europa e, poiché al momento sembrano essere in viaggio, non si sa per dove, la potenziale minaccia si estende all’intera comunità. Noi inizieremo subito un’operazione clandestina tesa a conoscere dove sono dirette quelle armi,
gli autori di quest’impresa, le loro finalità ed eventualmente sabotare i folli intendimenti che costoro si prefiggono.» L‘ammiraglio Bright fece ripetuti cenni d’assenso e, appena “C” ebbe terminato, prese di nuovo la parola affermando: «Nel caso di un potenziale pericolo terroristico che minacci la Comunità CEE, in ragione del trattato segreto risalente al protocollo di Parigi del 1984, con tre dei nostri partner europei siamo impegnati per lo scambio d’informazioni e la mutua, reciproca assistenza. Come successo altre volte in ato, in virtù di questo protocollo, sarà nostro intendimento fare uso dell’Interscambio. Poiché l’operazione dovrà essere clandestina e, come tale, non priva di rischi anche di natura diplomatica, invieremo laggiù per il tramite dell’agenzia un “illegale” in grado di fare luce sui punti posti in rilievo da sir David Collins. – infine, con gran cinismo, l’ammiraglio concluse dicendo – L’Interscambio, unitamente al permetterci di rispettare le clausole protocollari con i nostri partner, offrirà due ulteriori vantaggi. Primo, poiché ufficialmente non compariremo, qualsiasi cosa dovesse accadere anche a livello diplomatico, noi ne saremo fuori. Secondo, le spese concernenti all’intera operazione saranno divise per quattro.» Fu un vice capo a parlare. «Secondo il principio della mutua e reciproca assistenza, il problema dovrebbe estendersi all’intera NATO.» «La NATO non centra nulla. – rispose “C” – Nessuna nazione aderente al patto Atlantico è stata oggetto di minacce o ritorsioni, tantomeno è stata attaccata. Quella che ci apprestiamo a porre in cantiere è una classica operazione d’intelligence promossa, a fronte di delicate informazioni pervenuteci.» Gli fece eco sir Charles Bright che ora aveva tra le mani un foglio estratto poco prima dalla sua borsa. «Sette ore or sono, a Washington, si è riunito il comitato Alfa. Tutti sappiamo che quei signori non amano riunirsi per semplici conviviali, pur tuttavia, noi non siamo stati invitati…» L’ultima frase dal forte sapore ironico la scandì in chiaro, lentamente. C si rivolse al controllore dell’Europa orientale. «Tu Patrick, durante questo week-end dovrai fare qualche straordinario. Poniti in contatto attraverso lo speciale sito internet con rue André Pascal a Parigi; indichi in quella sede una riunione dei capi settori. – sbirciò l’orologio – Facciamo per domani nella mattinata, direi alle undici.»
Il batacchio della campana del Big Ben scandiva mezzanotte, la riunione era da poco terminata e il capo del SIS e l’ammiraglio Bright erano ora soli, uno di fronte l’altro. «Pensi sia il caso d’informare Amleto?» chiese a bassa voce il canuto ammiraglio. A quella domanda, “C” chinò la testa cadendo in riflessione, sembrava come se non volesse rispondere, infine, dopo un tempo che sembrò lunghissimo, alzò lo sguardo e fissando il suo interlocutore, lentamente mormorò: «No Charles. Amleto lo lascerei all’oscuro, almeno per il momento…» L’ammiraglio annuì senza proferire parola. Dalla sua borsa tirò fori una cartella con la copertina rossa, la pose sul tavolo, l’etichetta riportava la scritta: The Walker – Il Camminatore. «Oggi ho dato un’occhiata in archivio via computer, che ne pensi David?» chiese, spingendo il dossier verso il capo dell’MI-6. C aprì la cartella, all’interno c’era un copioso fascicolo sulla cui prima pagina erano incollate alcune foto di un uomo. Dette una breve sbirciata. «Abbiamo pensato alla stessa persona, Charles. Non sarà cosa facile rintracciarlo, tantomeno convincerlo, inoltre i tempi sono stretti, nondimeno, credo sia il caso di tentare.»
Capitolo XI
Erano le ore 6.00 antimeridiane tempo di Greenwich di sabato sette ottobre. Il modulo principale, entrato in orbita dieci minuti prima, si trovava ora sulla verticale di capo Farvel, a un’altitudine di centoquaranta chilometri. Giunto sulla verticale di 60° Latitudine Nord, 45° Longitudine Ovest, come petali di un giglio i tre pannelli del muso si aprirono a stella, con una reciproca angolazione di centoventi gradi. Poco dopo, con un’accelerazione relativa pari a duemila chilometri, fu espulso dal suo interno il primo satellite (un cilindro lungo tre metri e sessanta per un diametro di due e mezzo). Il satellite in orbita polare nord-sud, viaggiava ora a una velocità assoluta di ventinovemila chilometri orari, riferiti ad un punto fisso sulla Terra e di duemila rispetto al modulo principale. Il satellite sarebbe ato sopra l’Atlantico settentrionale, scendendo sfiorato le coste del Brasile fin giù sopra la penisola Antartica, lì la traiettoria si sarebbe allungata, per poi rientrare sulla verticale della Terra di Wilkes. Un’intera orbita sarebbe durata ottantanove minuti e il satellite per ognuna di esse si sarebbe spostato verso est di ventitré gradi e trenta primi; spostamento che avrebbe compensato la rotazione terrestre di quindici gradi ogni sessanta minuti. Ciò avrebbe significato che nel successivo giro e così per tutti gli altri, si sarebbe trovato spostato verso est rispetto alla proiezione vettoriale dell’orbita precedente, riferita alla verticale di un punto fisso sull’Equatore, di circa un grado, grossomodo centotredici chilometri. Causa questo programmato shift orbitale, a distanza di circa undici giorni sarebbe riato specularmente in senso inverso sopra lo stesso punto. Tre minuti dopo l’espulsione, come ali, dall’interno del cilindro fuoriuscirono due pannelli W.r.r.d (Wide Range Radioactivity Detector o, rivelatori di radioattività ad ampio spettro), lunghi rispettivamente novantacinque centimetri, larghi cinquanta per dodici di spessore. Le sensibili celle dei due pannelli si sarebbero eccitate entro una specifica soglia di rilevamento gamma, scartando sia l’emissione di fondo della radioattività naturale emessa dalla crosta terrestre, sia emissioni superiori ad un certo valore. Le emissioni radioattive captate, avrebbero eccitato le celle dei pannelli e i complessi apparati elettronici del satellite avrebbero trasformato queste perturbazioni in treni d’impulsi, trasmettendoli istantaneamente a un satellite in orbita geosincrona, posto più in alto e facente parte di una rete. Il satellite ricevente che, in pratica, era come se
fosse fisso rispetto a un punto sulla terra, a sua volta avrebbe ritrasmesso i dati in America e, qualora la curvatura terrestre non lo avesse permesso, come in un ponte radio esso avrebbe inviato i dati a un altro satellite della rete, in grado di trasmetterli direttamente alle parabole riceventi a terra. Un pannello avrebbe rilevato emissioni entro una fascia di centodiciassette chilometri, conseguentemente, a ogni aggio il satellite ne avrebbe controllata una larga duecentotrentaquattro. Ora il modulo principale si trovava sopra il centro dell’Atlantico, quando fu sulla verticale di 25° Latitudine Nord, 40° Longitudine Ovest, ruotò di novanta gradi verso est, espellendo il secondo satellite. Quest’ultimo, gemello del primo, seguiva un’orbita equatoriale, guadagnando in ognuna un grado verso nord, nell’Emisfero boreale e complementarmente, uno verso sud in quello australe, dall’altra parte del globo. Causa il leggero schiacciamento dei poli, questo secondo satellite sarebbe ato sopra lo stesso punto in un tempo leggermente superiore, rispetto agli undici giorni impiegati dal suo gemello in orbita polare.
Erano le ore 3.00 tempo di Greenwich di lunedì nove ottobre. Il mercantile battente bandiera liberiana, da poco si era lasciato alle spalle la linea del limite dei ghiacci alla deriva. Dopo il Mar della Pečora, aveva attraversato quello di Barents e doppiato Capo Nord, e ora tra il Mar di Groenlandia e quello di Norvegia, scendeva con rotta, sud, sud-ovest. In quel momento la nave si trovava al centro del bacino delle Lofoten, con il mare a forza sette e la prua che arrancava affaticata tra i marosi. Sul ponte di comando il guercio alla barra del timone era calmo, a differenza dell’uomo alto al suo fianco che, in preda all’agitazione, sembrava soffrire il mal di mare. Improvvisamente una nera muraglia d’acqua investì la murata destra, spazzando il ponte, inclinando la nave di una quarantina gradi rispetto all’asse di galleggiamento. Per un attimo il mercantile rimase in bilico in quella posizione, poi con un gran tonfo tornò in assetto, sprofondando, sparendo sotto le onde. Una decina di secondi dopo, come un sommergibile in emersione, riaffiorò tra un oceano di spruzzi. Il capo della squadra spetsnaz perse l’equilibrio, ruzzolando, andando a sbattere contro la parete metallica di fondo. «Mai vista una cosa del genere», balbettò con occhi sbarrati e in preda al vomito. L’occhio del guercio parve illuminarsi di un maligno lampo di piacere. «Effettivamente stanotte il mare è un po’ increspato…» fece con una punta di sarcasmo.
«Un po’ increspato?» rispose l’altro, con le pupille che sembravano cipolle. «Evidentemente colonnello, lei non ha mai doppiato capo Horn.» «No! Mai…»
In quel momento a Norfolk erano le 22.02 di domenica otto ottobre. Nella sala operativa del centro controllo e telecomunicazioni della marina, era appena montato di servizio il guardiamarina Adrian Stack. La nottata sarebbe stata lunga ed egli si apprestava a sistemarsi comodamente. Stava inclinando la spalliera della poltroncina, quando improvvisamente la stampante laser alla sua destra entrò in funzione. Ancora in piedi, il giovane ufficiale lesse attentamente le due righe di stampa sul foglio appena uscito, subito digitò sulla tastiera del computer una serie di caratteri; istantaneamente lo schermo a led del monitor di centro cambiò videata, mostrando attraverso il sistema G.P.S l’intera Costa nord della Norvegia. Sistematosi, il guardiamarina pigiò il pulsante del mouse prima in una casella in basso a sinistra dello schermo, poi al centro dello stesso. Il display diventò turchese, la videata s’ingrandì di cinquanta volte e, in alto a destra, apparve un microscopico puntino bianco. Stack portò la freccia del mouse in prossimità dello stesso e ingrandì di ulteriori dieci volte; ora era ben visibile una piccola chiazza bianca costellata da microscopici pixels. Lesse la scritta sulla striscia color arancio in fondo allo schermo, poi di nuovo le due righe del foglio stampato dalla laser in precedenza. Cambiò posizione, batté alcuni caratteri su una diversa tastiera e sul monitor di sinistra apparve una colonna di numeri; trovò quello che cercava, gli andò sotto con la freccia del mouse e pigiò il pulsante. Ora il numero era in bella mostra al centro dello schermo. Subito alzò la cornetta del telefono e chiamò il capo servizio. «Il punto?» chiese il capitano di corvetta Derick Comino, nell’osservare il monitor di centro. Con la punta della matita il giovane ufficiale indicò il microscopico puntino bianco. «Qui signore. A circa trecentocinquanta miglia a ovest di Vesteralen. 68° Latitudine Nord, 8° Longitudine Est.» «L’emissione?» «Corrisponde grossomodo alla tabella indicativa. – mostrò al caposervizio i
caratteri sullo schermo di sinistra, poi le due righe sul foglio stampato dalla laser – Questo è il valore teorico, questo del rilevamento satellitare.» «A quando il prossimo aggio?» L’altro batté alcuni tasti. «Tra settantanove minuti, signore.» «Quando scomparirà?» chiese ancora Comino. «Ne avremo ancora per tre orbite.» «Bene Signor Stack, ci stia dentro! Due, tre orbite basteranno per dirci tutto.» Ottantasei minuti dopo, intorno alla postazione oltre Comino c’era anche il responsabile del centro, il capitano di vascello Fred Roode. Invece di una ora lo schermo mostrava due piccolissime chiazze bianche, quasi attaccate un l’altra. «L’intensità dell’emissione è la stessa di prima?» chiese il capitano di vascello. «Ognuno dei due dot ha lo stesso valore del rilevamento gamma precedente, signore.» rispose il guardiamarina, porgendo sia lo stampato ultimo, sia il precedente. «Strano…» commentò Comino. Ma il guardiamarina Stack era un ragazzo sveglio e all’istante trovò la soluzione del problema. Iniziò a battere alcuni tasti infilando nel computer sia le coordinate precedenti, sia le attuali e dopo un momento, fece: «Rotta sud signore, velocità tre nodi orari.» Gli altri due si lanciarono un’occhiata, non avevano capito . «Tre nodi sono una velocità bassa, – affermò il giovane ufficiale – ciò significa che con ogni probabilità, in quella zona sta infuriando una tempesta. Forse, nell’istante del primo rilevamento, il vascello era inclinato sovrapponendo e occultando la seconda sorgente radioattiva.» Comino e Roode si lanciarono un nuovo sguardo. «Ciò, possiamo verificarlo subito», fece Roode.
Erano le 8.00 ora di Greenwich di lunedì nove ottobre (le 3 nella costa orientale degli Stati Uniti). Il satellite fotografico KH-13 della National Reconnaisance Office – un affare della lunghezza di quasi venti metri e del peso di tredici tonnellate e mezzo -, si trovava sulla verticale del deserto irakeno sopra la no fly-zone. Improvvisamente cambiò orbita, spostando il muso verso ovest di quaranta gradi. Sette minuti dopo ricevette le coordinate di riferimento G.P.S e diciannove minuti più tardi iniziava il telerilevamento a scansione fotografica continua. Il grosso satellite convertì istantaneamente le immagini in lunghi treni d’impulsi, inviandoli, man mano che li elaborava, ad un satellite in orbita geosincrona, fisso sopra il centro dell’Atlantico settentrionale. Quest’ultimo ritrasmise i dati in America, al Centro Elaborazione e Analisi del National Reconnaisance Office. – un organismo appartenente sia alla CIA, sia alle forze aeree USA – Meno di un’ora dopo, a Washington molti analisti di quell’organizzazione in fretta e furia dovettero saltare giù dal letto precipitandosi in ufficio.
La luce delle ore mattutine tingeva di rosa le lontane colline della Prince Georges County, dove il fiume Patuxent scende per gettarsi nel Chesapeake. In un ufficio al terzo piano della grande costruzione rettangolare, parte della sede centrale della CIA, meglio nota come Langley, l’analista di colore Andrew Obryan sbirciò l’orologio: erano le 7.15 di lunedì nove ottobre, tempo della costa orientale degli Stati Uniti. Quella era stata una nottata convulsa per Andrew, la sera precedente era rincasato tardi con la famiglia e, circa un paio d’ore e mezzo prima, il suo capo gli aveva telefonato, svegliandolo, facendolo saltare giù dal letto. Da oltre un’ora l’analista lavorava al computer, navigando attraverso internet, aveva il volto irsuto per la barba non rasata, i denti sporchi e la bocca impastata dal fumo delle sigarette. Da qualche minuto aveva il sentore di aver intrapreso la strada giusta, accese un’altra sigaretta e si concentrò sul display del monitor. Entrato in un sito, stava battendo sulla tastiera la parola Lloyd quando da dietro le colline un raggio di sole, spuntato all’improvviso, gli ferì gli occhi. Si alzò, tirò giù le tapparelle e ritornò al suo posto, si accorse di aver commesso un errore, nella parola Lloyd mancava una l, corresse e continuò. Aprì la finestra Welcome e digitò Freedom ship. Subito col mouse andò sull’icona di stampa e premé il pulsante. Poco dopo dalla laser uscirono due fogli stampati per intero. Si mise comodo e lesse attentamente, finito, andò avanti di ulteriori due schermate; quindi digitò Liberian merchant ship. Procedette di un’altra schermata e infine inserì: Bringing up to date. Inviò la richiesta, andò sull’icona
di stampa e pigiò il pulsante del mouse per l’ultima volta. Stava alzandosi dalla sedia quando la stampante espulse il foglio con l’aggiornamento. Obryan lesse il nuovo stampato, alla fine, soddisfatto, sbirciò di nuovo l’orologio; era presto, al telefono il suo capo aveva affermato che lo avrebbe raggiunto intorno alle otto. Si alzò, si diresse nel corridoio, inserì venticinque cents nella macchina per il caffè e poco dopo, col bicchiere fumante, tornò al suo posto concedendosi la quarta sigaretta di quel giorno appena nato.
A Londra erano le 12.30, in quel momento il responsabile del dipartimento operazioni dell’MI-6 Arrold Barlow, era nel proprio ufficio davanti al computer. Dopo essersi connesso alla rete, entrò nella pagina iniziale, andò sul sito trade.com, pigiò il pulsante del mouse su guest service e aprì la finestra welcome; subito dopo digitò la shoulder, andò avanti di due schermate e digitò la seconda , Thunderbolt. Rimase per qualche secondo a osservare lo schermo, infine con lo sguardo smarrito spaziò oltre i vetri fumé della finestra. In quel momento, sotto Vauxhall bridge un vaporetto carico di turisti fendeva le acque del Tamigi diretto a nord, verso Westminster. Con lo sguardo concentrato sulla prua del battello, Barlow si grattò ripetutamente la testa.
In quel momento a Mosca erano le 15.30. In via della Milizia Popolare, al secondo piano del grande stabile adibito a scuola addestramento per ufficiali del GRU, seduto dietro la scrivania nell’ufficio a disposizione del presidente, c’era il generale Maksim Petrov. Assorto nel leggere un documento, il Presidente fu distratto dallo squillo del telefono verde. Alcuni minuti dopo era nell’ampio cortile interno dello stabile, dove ad attenderlo c’era un tale di media statura, aveva i capelli brizzolati tagliati a spazzola e indossava uno spezzato italiano, sotto un impermeabile avana. L’uomo che doveva aggirarsi intorno alla sessantina, era il tenente generale del GRU Ivan Artmenko, direttore pro tempora della FAPSI. Senza proferire parola, i due s’incamminarono al centro del cortile. «Una nota da Washington, ci informa, che venerdì scorso il capo della CIA e il suo vice sono saliti alla Casa Bianca. Il fatto che si siano presentati entrambi, lascia intendere che si sia svolta una qualche importante riunione.»
«Sei venuto a dirmi questo, Ivan Ivanovičh?» chiese il Presidente del GRU, ponendo ironicamente in rilievo la banalità del fatto. Con un certo imbarazzo, Artmenko continuò: «Una successiva nota, questa proveniente da Londra, ci informa che sempre venerdì il capo del SIS ha interrotto le vacanze per rientrare in sede. Inoltre, sabato di primo mattino, al largo della Florida una nostra nave di osservazione ha seguito un lancio da Cape Kennedy; ufficialmente trattasi di due satelliti classe landstat per il telerilevamento della crosta terrestre, ma l’altitudine orbitale rilevata dagli strumenti, risulta di centoquaranta chilometri, contro i settecentocinque che i landstat richiedono.» «Sono satelliti spia, – rispose Petrov – sensori di radioattività come quelli che quotidianamente ci ano sopra la testa. Data la bassa altitudine delle loro orbite, questi satelliti non hanno vita molto lunga. Negli ultimi cinque mesi sembra che gli americani ne abbiano persi tre, per la loro venuta a contatto con gli strati superiori dell’atmosfera. Sicuramente staranno rimpiazzandone qualcuno. Riguardo al resto, sono semplici coincidenze. Siamo noi che, in vista della conclusione, tendiamo oltremodo a caricarci d’ingiustificate apprensioni. – Petrov si bloccò – I dettagli dell’operazione Gengis Khan sono conosciti solo da pochi, tutti uomini di assoluta fiducia, non possono essersi verificate fughe di notizie: impossibile! Piuttosto, l’inchiesta?» «Ha preso l’indirizzo che il piano prevedeva. Nella commissione, sta prendendo corpo l’ipotesi che a causa delle proibitive condizioni del tempo, l’automezzo abbia perso l’orientamento precipitando in un canyon provocando una valanga che ha sepolto tutti.» Stava facendosi rapidamente buio, i due avevano guadagnato il centro del cortile e il pignolo generale dello spionaggio militare Ivan Artmenko, volle tornare sull’argomento principe. «In ogni modo, anche se singolarmente di poco rilievo, il concatenarsi di questi strani avvenimenti non mi piace! Dopo anni, improvvisamente sono pervaso da una sgradevole sensazione; è come se stesse riemergendo un morto. Non mi sentirò tranquillo fin quando l’intera operazione non sarà conclusa.» «Sono stati tre anni di duro lavoro per tutti. Ognuno di noi è stanco e teso, siamo vicini alla conclusione e questi sono i giorni più delicati. Se solo uno perdesse ora il proprio equilibrio anche per un momento, potrebbe compromettere l’intera operazione e con essa la vita di tutti noi. Questo Ivan Ivanovičh è il vero
pericolo, ricordalo!» Le ultime parole di Maksim Petrov suonarono pesanti come macigni. Con malcelato disagio, il capo della FAPSI rispose per chiarire il senso delle proprie parole. «Forse mi sono espresso male e me ne dolgo, da tanto mi conosci Maksim Sergejovič, sai di che pasta sono fatto. Nell’affermare di non sentirmi tranquillo, mi riferivo a un vecchio caso mai risolto e che, dato l’attuale delicato momento, potrebbe rappresentare un pericolo per noi.» «A cosa ti riferisci esattamente?» «Al caso Amleto.» Ora lungo il perimetro interno del cortile, i neon si erano accesi e le ombre dei due personaggi proiettate in avanti, sembravano caratterizzare la fusione tra il presente e il loro ato. Il Presidente del GRU per un attimo si bloccò, dicendo: «Doveva essere nell’89 o nel ’90. Allora ero a capo del secondo direttorato KGB (seconda direzione centrale) e se ben ricordo, qualcuno del primo dipartimento aprì un’inchiesta riguardo a quel caso. Poco dopo però, il generale Puskin l’archiviò qualificandolo come un tentativo dell’MI-6 per creare torbido tra le nostre fila. Dimitry Puskin conosceva il suo mestiere, aveva la mia fiducia e io non entrai certo nel merito delle sue decisioni.» «Permettimi per una volta di dissentire, Maksim Sergejovič. Tu provieni dagli altri gradi del KGB, io sono cresciuto nel GRU e fin dal suo inizio questo caso riguardò direttamente il GRU.» «Continua, Ivan.» «Verso la fine dell’86, gli americani accelerarono le loro ricerche per la realizzazione dello scudo spaziale. A seguito di ciò, venimmo a sapere che tale accelerazione fu essenzialmente impressa per parare la minaccia dei nostri missili SS-18. Loro erano venuti a sapere nei minimi particolari, sia i nostri piani di sviluppo, sia dell’intera tecnologia di quel nostro sistema a dieci testate nucleari multiple indipendenti. Ne rimasero affascinati e terrorizzati al punto di affibbiargli il nomignolo di Satan. Loro non avevano ancora sviluppato la tecnologia MIRV e noi li avevamo messi in brache di tela. Furono i servizi segreti cecoslovacchi a informare il KGB che la fuga dei nostri segreti militari
era ben più ampia. In quegli anni, sembra che gli americani fossero a conoscenza delle frequenze e dei cifrari telemetrici di molti nostri sistemi missilistici. Nei primi anni 80, riuscimmo a piazzare una talpa nell’ufficio cifra dell’MI-6. Sotto nostra sollecitazione, verso la fine dell’87 Fedora, questo era il nome in codice della talpa, ci informò che a are agli americani piani e progetti degli SS-18, le ubicazioni dei loro siti di lancio ed altro, era stato l’MI-6 britannico. Fu sempre Fedora a informarci che la fuga dei segreti era stata probabilmente opera di una talpa piazzata qui a Mosca dallo stesso MI-6 e il cui nome in codice andava sotto Amleto. Cercammo di scoprire l’identità di costui, ma non ci riuscimmo. Fedora non poté dirci oltre perché Amleto sembrava fosse un segreto ermeticamente custodito; segreto mai svelato e la cui ombra potrebbe esser tornata di nuovo alla ribalta.» «Frena la tua fantasia, Ivan Ivanovičh! L’indagine sulla fuga dei piani degli SS18 fu aperta dal mio direttorato e brillantemente condotta a termine dal primo dipartimento. A Novosibirsk, furono individuati quattro fisici e due agenti di sicurezza del KGB, responsabili della sparizione di documenti segretissimi, tutti costoro furono giustiziati. Fu Puskin a farli arrestare e fucilare.» «Sì, Maksim Sergejovič, ma per noi del GRU rimase in sospeso il mistero della talpa, del contatto e della rete. L’inchiesta a tutto campo allora aperta dal colonnello Umarov, con il conseguente arresto di decine di sospetti, alcuni dei quali finirono al muro, non risolse mai in modo trasparente il mistero di cui sopra.» «Mi riesce difficile seguirti…» «Verso la metà dell’88, fu sempre Fedora ad informarci che il contatto (intermediario) di Amleto qui a Mosca, era un agente MI-6 che andava sotto il nome in codice di Romero. Iniziammo subito la caccia e tempo dopo, in una riunione a Yazenevo quelli del terzo dipartimento KGB affermarono che a seguito delle loro indagini, da tempo avevano individuato uno straniero che poteva essere il soggetto che noi, come loro, stavamo cercando.» «Questo Romero?» «Esatto. Facendo però costui parte della stampa estera, prima di porlo agli arresti dovevano avere in mano prove certe, inoltre volevano mettere le mani sull’intera rete. Erano tempi in cui tutto iniziava a scricchiolare ed anche il KGB
aveva assunto un tono cauto con l’arresto degli stranieri. Al primo direttorato erano certi della pericolosità di questo presunto Romero e anche attraverso di noi cercavano una pezza d’appoggio, volevano eliminarlo, erano determinati. – Artmenko fece una pausa, accese una sigaretta e continuò – Alla Lubjanka, il secondo direttorato, di cui tu eri a capo e che in materia di sicurezza dello Stato imponeva legge, al contrario, erano convinti dell’estraneità di costui. Fu ancora Fedora a informarci che il personaggio individuato, corrispondeva ad un illegale infiltrato dall’Interscambio dal nome in codice il Camminatore, assicurando altresì che non aveva nulla a che vedere con Romero; in seno all’MI-6 i due avevano dossier distinti con note caratteriali completamente diverse. Noi davamo la caccia alla famigerata talpa e al suo contatto e tra le diatribe del KGB, verso la metà del ’91 arrestammo questo Camminatore mettendo le cose a posto tra la prima e la seconda direzione centrale. Per mesi fu posto sotto torchio, ma negò sempre tutto. Era un tipo fascinoso, brillante conversatore, di nazionalità italiana e parlava cinque o sei lingue senza accento; nel suo ambiente lo chiamavano con lo pseudonimo di Aquila.» «Italiano?» «Sì, italiano.» «Vai avanti, Ivan Ivanovičh.» «Anche se gli interrogatori condotti a seguito dell’arresto furono un mezzo fiasco, Umarov arrivò alla conclusione che costui doveva essere un abilissimo agente dell’MI-6, operante attraverso la loro agenzia di facciata Interscambio, la cui attività doveva averci arrecato danni incalcolabili. Sebbene non avessimo prove, eravamo certi della sua colpevolezza, così fu deciso di farlo sparire senza troppo rumore attraverso un’anonima condanna. Poi, dal secondo direttorato, ci furono forti pressioni in senso riduttivo, affermarono che stavamo prendendo un abbaglio e in seguito qualcuno testimoniò in suo favore. Alla fine, la seconda direzione centrale decise autonomamente di farlo liberare con decreto di espulsione.» «Chi intervenne in suo favore?» «Puskin! Sembra a seguito della testimonianza di un non meglio precisato agente del primo dipartimento il cui nome in codice andava sotto lo pseudonimo di Olga. Pareva che costui godesse di alta considerazione, a noi permisero solo di
leggerne i rapporti.» «Hai conosciuto di persona questo italiano? Che fine fece?» «Lo conobbi brevemente il giorno del suo rilascio. Riguardo alla fine, di certo non si è mai saputo nulla. In seguito corsero voci secondo cui morì a Vienna a causa di un incidente. Probabilmente fu eliminato dal primo direttorato, da quelli delle azioni esecutive che forse vollero regolare i conti in sospeso.» «Il caso Amleto, come andò a finire?» «Ai primi del ’93, tra i binari della stazione metropolitana londinese di Marylebone, fu trovato un uomo tranciato dal treno; il suo nome corrispondeva a un certo Hugo Brhet, dipendente del Foreign Office. In realtà egli lavorava all’ufficio codici dell’MI-6. Con la morte di Fedora cadde una pietra tombale, sia su Amleto, sia su Romero.» Era freddo. Un gelido vento di Burano proveniente da est pelava i rami dei tigli intorno al cortile, facendo vorticare le ultime foglie. Ora i due avevano i baveri dei soprabiti alzati. «In questa interessante storia c’è un controsenso sostanziale, Ivan Ivanovich» fece Petrov. «Controsenso?» Con le mani sprofondate nelle tasche del cappotto militare, il capo del GRU si bloccò di nuovo. «Ammesso che allora Dimitry Puskin fosse stato in torto e che questo Amleto sia effettivamente esistito, costui avrebbe vinto la sua guerra, l’Unione Sovietica non esiste più, che senso avrebbe continuare a fare la talpa? Contro chi?» L’altro abbassò la testa, sembrò pensarci su, finalmente alzò lo sguardo e incrociando quello di Petrov, disse: «Francamente Maksim Sergejovič, non avevo mai pensato a questo sillogismo tra ato e presente.» «Già, Ivan Ivanovičh, abbiamo divagato per due ore parlando d’aria fritta. Tornando a noi, purtroppo in questo frangente dobbiamo agire con circospezione, imprimere un o troppo spedito ai nostri canali d’informazione potrebbe generare qualche sospetto. È trapelato qualcosa da Yazenevo{37} o dalla Lubjanka{38} riguardo eventuali, strani movimenti?»
«Niente! SVR, FSB e FSK tacciono.» «Come pensavo, cose di nessuna importanza. Siamo noi a essere oltremodo eccitati, ma è comprensibile. Non credo che l’operazione Gengis Khan corra pericoli, in ogni modo ha dei buoni anticorpi. Ciò non toglie che dobbiamo tenere gli occhi aperti e le orecchie tese, non dimentichiamo che siamo costantemente sorvegliati dalla FSB.»
In quel momento in Italia erano le 15.30. Nell’autostrada del sole, sulla corsia centrale all’altezza dello svincolo per Modena, la Rover con targa berlinese scivolava ad andatura sostenuta in direzione sud. I due occupanti dell’auto sembravano entrambi sulla cinquantina, parlavano in lingua tedesca, vestivano in maniera sobria indossando abiti classici e di buona fattura. Il guidatore con una faccia quadra e mascella volitiva, portava occhiali da vista con montatura classica, il grigio slavato dei capelli suggeriva che un tempo gli stessi dovevano essere stati biondi. L’altro, quello seduto accanto, con la carta stradale in mano, sembrava di corporatura snella, aveva folti capelli rossi e ricci e una faccia simpatica piena di lentiggini. A colpo d’occhio, i due si potevano scambiare per manager o funzionari governativi. L’auto aveva appena superato un camion, quando rivolto al guidatore, il riccio chiese: «Per quanto ne avremo ancora? Speriamo che il luogo sia quello giusto e costui reperibile…» La voce dell’autista tradì un leggero accento della Bavaria. «Ne avremo ancora per tre ore, forse più, dipenderà dal traffico che incontreremo sulla Bologna-Firenze. Riguardo al luogo, nella mattinata di ieri, mentre eravamo in riunione a Berlino, ci sono pervenute da Londra e da Roma frammentarie informazioni. Entrambe davano come indicazione quel villaggio, sembra che in questi ultimi tempi risiedesse lassù.» Il riccio piegò la carta stradale e si mise comodo. «Sabato, a Parigi, ho letto il suo dossier. Ammesso di riuscire a pescarlo, tu che lo hai conosciuto personalmente, Manfred, dopo tutto quello che ha ato, pensi che possa accettare?» «No! Stiamo facendo un lungo viaggio a vuoto» rispose Manfred nello sbirciare lo specchietto retrovisore. Il lentigginoso, socchiuse gli occhi e alzando l’indice della mano destra, lentamente commentò: «Però, se Londra è nel vero abbiamo
una buona carta da giocare.»
A Washington erano da poco ate le 9.30. Ogni membro del comitato ALFA appena riunitosi aveva trovato davanti al proprio posto una cartellina di plastica con all’interno dei documenti, stampe di fax ed alcune foto satellitari 30x20cm in bianco e nero. In fondo ad ogni istantanea, una scritta computerizzata in piccoli caratteri bianco latte riportava sia le coordinate del punto, sia il tempo di Greenwich, entrambi riferiti al momento della ripresa. Fu il Segretario di Stato che, aprendo la riunione, dette la parola al vice ammiraglio Wilde. Questi tirò fuori dalla cartellina un foglio, andando direttamente al punto. «Alle ventidue di ieri, ora di Washington, è stato localizzato il vascello con i due vettori nucleari classe SS-20; l’intensità delle sorgenti radioattive rilevata rientra nei parametri delle nostre tabelle identificatrici per quel tipo di testate.» Il Segretario di Stato interruppe il relatore: «Siamo assolutamente certi, ammiraglio?» Wilde, tipo coriaceo che si era guadagnata la reputazione di uomo che non chiacchierava mai a vanvera, alzò lo sguardo dal foglio. «Vede, se lei chiede certezza assoluta, la risposta è no! Quella nave potrebbe trasportare leghe al cobalto, pasta dentifricia, orologi al quarzo e chissà quant’altra cianfrusaglia che per uno scherzo del fato, emani due fonti radioattive ognuna pari all’intensità emessa dalla testata nucleare di un vettore SS-20 classe M-uno. Per avere un margine di sicurezza assoluto, bisognerebbe ispezionarne la stiva di quel mercantile.» A nessuno sfuggì la frecciata ironica diretta al pedante segretario, che parò il colpo rivolgendosi con un forzato sorriso di circostanza al generale Gray, chiedendo: «Ha qualcosa da dire, generale?» «Non molto più di quanto già esposto dall’ammiraglio Wilde, desidero solo porre l’accento sul punto del rilevamento.» Inforcati gli occhiali, Gray si diresse verso il proiettore e v’infilò una diapositiva. Sul piccolo schermo apparve una grande area, indicò il centro delle Lofoten a ridosso della dorsale di Mohon. «In questo punto e in quel momento, il mercantile faceva rotta verso sud. Chiaramente non poteva venire da ovest, non avrebbe senso. A nord c’è l’isola degli Orsi e non ci sono porti, l’unica
provenienza possibile è da est di Capo Nord, dal Mar di Barents. Sappiamo che la nave è in mare da una settimana, considerando la media che può fare un mercantile in quei mari, possiamo dedurre con un buon margine di certezza che è salpato da un porto di questa vasta zona.» Con la punta dell’indicatore percorse un tratto che partendo da ovest del Mar della Pečora, arrivava oltre il Mar di Kara fino alla penisola dello Jamal. «Credo signori, che non ci siano molti dubbi! I sistemi SS-20 quasi certamente sono su quel mercantile; voler sostenere il contrario assumerebbe il sentore di una speculazione riduttiva.» Il Segretario di Stato lanciò un’occhiata al vice capo della CIA che subito prese la parola. «Nelle prime ore di stamani, gli analisti del National Reconnaissance Office unitamente agli specialisti del National Photographic Interpretation Centre, hanno messo insieme un quadro preciso circa le rilevazioni fotografiche eseguite la scorsa notte in quel punto da un nostro satellite fotografico. I risultati sono nella relazione avuta poco prima dell’inizio di questa riunione. – dalla cartella tirò fuori la foto classificata numero uno, sullo sfondo completamente nero, era visibile la forma grigia di una nave con un unico fumaiolo ripresa dall’alto – La stazza attribuita a questo mercantile è di circa cinquemila tonnellate. – prese una seconda foto che sembrava scattata dalla parte sinistra della prua – Batte bandiera liberiana. – ne tirò infine fuori una terza che pareva un fondo di bicchiere diviso a metà, su sfondo completamente nero – E il suo nome è FREEDOM. Stamani di buonora, sono stati sviscerati via internet alcuni registri della Lloyd di Londra. Al mondo ci sono quarantadue mercantili con quel nome, ma solo uno batte bandiera liberiana. Esso è un cargo greco di cinquemila tonnellate che in questo momento i registri Lloyd riportano ancorato nel porto di Kaohsiung, nell’isola di Taiwan. La sua partenza con un carico di computer, destinazione Marsiglia, è prevista per venerdì tredici ottobre, è chiaro che la stessa nave non può essere contemporaneamente agli antipodi.» Il Segretario di Stato si rivolse ancora al vice ammiraglio Wilde. «Ammettiamo, per amore di ragionamento, che decidessimo di intraprendere un’azione tesa a neutralizzare quel carico, sì… insomma, affondare la nave. Quali probabilità incontreremmo di far esplodere gli ordigni in essa contenuti?» Come d’abitudine il vice capo del controspionaggio della marina fu chiaro e sintetico. «Secondo quanto riportato, le due testate sono disinnescate. I russi usano sistemi di disinnesco sicuri ed efficienti. Nessuna probabilità!» «Quale sarebbe l’impatto ambientale in termini di radioattività? Potrebbero
inoltre quegli ordigni essere recuperati in un secondo tempo da qualche mano illegittima?» «Sono sorgenti radioattive deboli, tra qualche decennio si verrebbe a creare un’area sottomarina con un insignificante tasso di radioattività, in ogni caso innocuo per l’ambiente biologico circostante. Tutt’altro discorso è il recupero, per esser certi che nessuno in seguito si prenda la briga di trarre in superficie le testate, bisognerebbe affondare la nave in un punto ignoto, profondo almeno quattromilacinquecento metri.» Simon Sherling sbirciò l’orologio, fece un cenno al capo della CIA, quest’ultimo annuì e l’altro si alzò dalla poltrona, dicendo: «Bene signori, la riunione è sospesa fino alle ore quindici.» Poco dopo, su per le scale, il Segretario di Stato si rivolse al capo della CIA. «Che ne pensi George?» «La faccenda è confusa, Simon. A Mosca non soffia un alito di vento, il problema è capire quando uscire allo scoperto.» «Le elezioni sono alle porte, un incidente internazionale è l’ultima cosa cui augurarsi. Sentiamo che dice Scott», replicò Sherling. Erano le 11.30 quando a Langley tre uomini entrarono nell’ufficio del giudice Maxwell, al sesto e ultimo piano del grande edificio rettangolare. Al seguito del capo della CIA e del Segretario di Stato, c’era il professor Abram Scott. Costui, docente di diritto internazionale marittimo presso la Columbia University di New York, era titolare di due grandi e noti studi, uno a New York, l’altro a Baltimora. Scott inoltre da anni era consulente della Casa Bianca per questioni attinenti alla complicata giurisprudenza che regola la marineria internazionale. «Il caffè come lo gradisce professore? Bianco o nero?» chiese il giudice, rivolto al docente. «Bianco, grazie, con una zolletta di zucchero.» Dieci minuti dopo, il professore domandò: «Posso conoscere la natura del carico?» Il capo della CIA scosse lentamente la testa.
«Capisco… è un bel pasticcio.» «Che intende dire?» chiese il Segretario di Stato. Il professore si alzò dalla poltrona e lentamente si diresse verso la finestra. I vivaci occhi chiari focalizzarono lo sguardo sui filari di betulle oltre la collina, le cui foglie gialle e rossicce, scintillanti ai raggi del sole di mezzogiorno, coprivano la vista del fiume Patomac. Con le spalle rivolte ai due, egli sentenziò: «Se il vostro indirizzo è quello di agire secondo la rigorosa attuazione della giurisprudenza che regola il diritto internazionale di extra territorialità, il problema non è risolvibile.» «Ma quella nave ha assunto un nome falso, batte bandiera di comodo e trasporta un carico clandestino veramente pericoloso per l’intera collettività» replicò il capo della CIA. Il professore si voltò. «Oh certo… lo immagino… ma il fatto è, che si trova in acque internazionali. La convenzione in materia fu rivista e modificata con il trattato di Bruxelles del 1910, riguardante il salvataggio in alto mare; trattato cui aderirono gli Stati Uniti nel 1912. Noi non siamo in stato di guerra con la Liberia e l’unità non si è resa colpevole di atti delittuosi verso terzi. Bloccarla in alto mare equivarrebbe a un premeditato atto di violazione del diritto di extraterritorialità, sequestrargli infine il carico configurerebbe il reato di pirateria. Basta considerare i traffici clandestini, tutti sospettano cosa trasportino le stive di certe navi, ma nessuno le può bloccare al largo se battono una bandiera; salvo che non sia la nave stessa a chiedere aiuto, nel qual caso prestare soccorso diviene un obbligo, ma questo non è certo il nostro caso…» Gli altri due si fissarono. Simon Sherling chiese: «E come dovremmo comportarci?» «Nel caso in oggetto, il problema riguarda la Liberia, solo lei ha la facoltà d’intimare l’alt, salire a bordo o delegare altri in sua vece.» «Quindi, di fatto, siamo impotenti» affermò il giudice. «Ripeto, se intendete applicare il codice alla virgola, fin quando il mercantile non entrerà in acque territoriali, sì! » «Si spieghi meglio professore», chiese il Segretario di Stato.
«Nello specifico, da potenziale l’atto delittuoso diviene reale nel momento in cui quella nave varca i confini ed entra in acque territoriali straniere, in quel momento il delitto inizia a essere consumato.» «Allora, a quel punto potremmo intervenire» replicò Maxwell. «Un momento! – esclamò il professore, tornando verso i due sedendosi di nuovo. – Dovrebbe intervenire il paese oggetto della violazione dei propri confini. Oltreare le altrui acque territoriali rappresenta sempre un illecito. Però…se quella nave è effettivamente clandestina, se ha un carico così pericoloso e le acque territoriali che varcasse non fossero quelle liberiane, la faccenda cambierebbe. In questo caso, qualora intervenissimo ai limiti delle acque con un’azione di blocco, verifica ed eventuale sequestro, verrebbe meno il reato di violazione dell’extra territorialità in alto mare. Va da sé che il tutto potrebbe rientrare nell’ambito più generale della tutela e salvaguardia della pace e degli interessi dell’intera collettività, venendo ovviamente meno anche il reato di pirateria. Tutto ciò, anche se non espressamente previsto dai codici di diritto marittimo, sarebbe senz’altro ammesso e tollerato da qualsiasi organismo internazionale. – Scott strinse gli astuti occhi. – Io, interverrei bloccandola sequestrandogli il carico ai limiti delle acque territoriali. Ripeto, sempre che, quel carico rappresenti effettivamente una minaccia per la collettività.» «Quali sono questi limiti?» chiese il giudice Maxwell. «Questo è un altro discorso. Negli ultimi anni, ogni nazione rivierasca ha preteso di estendere le proprie acque territoriali. L’Islanda, per salvaguardare la propria fauna, stabilì di portarle fino duecento miglia al largo; chiaramente cosa ridicola e non accettata da nessuno. Essendo questo un problema oggetto di diatribe, intrigato e ancora non regolato da una precisa giurisdizione internazionale, ritengo che sotto il profilo del diritto di marineria, in generale possano valere le vecchie regole che confusamente stabilivano dalle tre alle sei miglia dalla costa, limiti che dipendono un po’ dall’arbitrio della singola nazione. Affermerei che cinque, sette miglia ci porrebbero in grado d’impugnare qualsiasi contestazione.» Il Segretario di Stato si alzò dalla poltrona e sfoderando un gran sorriso, domandò: «Gradisce un’altra tazza di caffè, professore?» «Volentieri, grazie» rispose il docente.
In Italia erano da poco ate le ore18. La Rover uscita al casello di Firenze Certosa, aveva preso la super strada per Siena. Giunta alle sue porte, aveva girato a destra per la circonvallazione, infilandosi nella vecchia via Cassia direzione Roma, lasciandosi alle spalle l’incantevole città medioevale. Ora l’auto aveva da poco superato Bagno Vignoni, sulla destra era visibile l’antica rocca di Castiglion d’Orcia che, a tratti, alle sue spalle lasciava intravedere la maestosità del monte Amiata. A sinistra spiccava il colle su cui si erge il villaggio di Pienza e in lontananza sempre a sinistra, s’intravedeva l’antica rocca di Radicofani. In quel tardo pomeriggio d’inizio autunno, l’aria era tiepida e l’aroma di vendemmia emanava un sapore di gaiezza d’aia campagnola d’altri tempi. Il sole morente illuminava la campagna appena arata, con sfumature di un rosso di Siena caratteristico solo di quelle parti. «Dopo il bivio di Chianciano Terme la seconda a destra» disse il lentigginoso nel consultare la carta stradale. «Anni fa, durante una vacanza, ai da queste parti ma non ricordavo se era la prima o la seconda» rispose l’altro. Girato a destra, la Rover ora percorreva una strada in salita e tutte curve. Il paesaggio era cambiato, ai lati pini e cipressi crescevano in un folto bosco di macchia mediterranea; un intenso, acre odore irritò le narici dei due. «Zolfo» fece il rosso. «Nei pressi dovrebbe esserci una piccola stazione termale di acque solforose» rispose il guidatore. «Posti romantici per porsi a riposo.» «Conformi alla personalità dell’uomo…»
Le luci dei lampioni incastonati sulle pietre illuminavano di un intimo color giallo l’acciottolato della silenziosa piazzetta, ponendo in risalto il sentore di antico, traslando l’ambiente in una dimensione di almeno settecento anni prima. Il piccolo locale di fianco alla gotica torre campanaria dell’antico monastero aveva all’interno le luci ancora accese. Le rosse decalcomanie che coprivano metà dell’unica vetrata costituente anche la porta d’ingresso, recavano la scritta English language school. Per quel giorno le lezioni erano terminate, al momento
il cercatore di funghi era intento a cancellare le scritte dei pennarelli a spirito sulla lavagna magnetica. L’arredo era povero, dietro di lui, oltre il piccolo tavolo che fungeva da scrivania, c’erano tre file di sedie in plastica allineate alla bene e meglio. Quel giorno il cercatore di funghi aveva introdotto le preposizioni e, mentre cancellava, rifletteva sul fatto che sarebbe dovuto tornarci ancora su e più volte. “Per noi italiani, le preposizioni della lingua inglese non sono uno scherzo” pensò. Inseriti i pennarelli nei rispettivi cappuccetti, sistemò alcune carte, si apprestava a uscire quando ricordò i funghi trovati nella mattinata su in montagna; si girò e raccolse il canestro di vimini al cui interno c’erano cinque bei porcini rossi e schietti. Spenta la luce, uscì dal locale; gli parve di udire lievi rumori, non ci fece caso. Tirata giù la saracinesca, ora chino, stava girando la chiave quando alle sue spalle una voce maschile dal tono gutturale rimbombò tra le antiche pietre: «Guten abend, Adler – Buonasera, Aquila.» Come il violento impatto di una lastra di cristallo sulla roccia, così la faccia del cercatore di funghi parve frantumarsi in mille pezzi; ma egli era uomo dal gran sangue freddo e pressoché all’istante si riprese. Nell’ergersi da quella ridicola posizione, con calma si voltò, infilandosi tra le labbra una mezza sigaretta. Attraverso la fiamma dell’accendino, lanciò un’occhiata dal basso verso l’alto all’uomo che gli era di fronte e fissò per un attimo lo sconosciuto che l’era accanto, infine, rivolgendosi all’occhialuto, lentamente e nella stessa lingua, rispose: «Gürtner! Manfred Ludwig Gürtner. Il mondo è veramente piccolo. Che cosa fai tu qui, sei forse in vacanza?» L’uomo, visibilmente imbarazzato, abbassò lo sguardo. «Io e il mio collega veniamo da Berlino, abbiamo intrapreso questo lungo viaggio per incontrarti e parlare.» Il tempo sembrò cristallizzarsi, trasformando il presente in un inconsistente sogno al rallentatore, il cercatore di funghi fissò a lungo i due, poi sempre in tedesco, rispose: «State cercando un fantasma. Aquila non esiste più, è morta. Mentirei se affermassi che mi ha fatto piacere rivederti. Addio Gürtner!» L’italiano si era girato, aveva raccolto il paniere e ora stava incamminandosi verso il centro della piazzetta, quando intervenne quello con la camicia a quadri e la giacca di tweed. «Siamo in viaggio da stamani dottor Baldi, non abbiamo consumato la colazione e non conosciamo questi luoghi. Saremmo obbligati se volesse indicarci un posto dove cenare e, indipendentemente dalla natura di
questa visita, ci farebbe cosa gradita averla nostro ospite.» L’uomo col paniere si bloccò, lasciando cadere il mozzicone della sigaretta. Tono e forma erano perfetti e le motivazioni per nulla eccessive. I due non erano del luogo, non parlavano l’italiano, venivano da Berlino, avrebbero perso tempo e probabilmente mangiato male e poi, da tanto non cenava più al ristorante… Si girò di nuovo verso i due. «Se si tratta di un invito a cena, potrei anche accettare, ma rimane bene inteso che al di là non esiste assolutamente niente!» «Certamente…» affermò Gürtner. «Naturale…» fece eco il lentigginoso. «Il gatto e la volpe», pensò l’italiano. Ora i tre erano seduti intorno a un tavolo immerso tra gli ippocastani nel giardino del ristorante. La sera era magnifica, l’aria carica di aromi autunnali, il suolo tappezzato di foglie e lappe di castagno e le gialle luci dei lampioni donavano all’ambiente tinte da palcoscenico. La giovane donna dai larghi fianchi e prosperosi seni, aveva servito maccheroni col ragù alla Toscana, tortelli al sugo con ricotta e spinaci e ora stava portando funghi al forno, filetto di manzo e patate arrosto. Sulla tavola c’erano due robuste bottiglie di un brunello di Montalcino di cui una quasi vuota. Quando la donna si chinò a servire l’italiano, questi notò che un bottone della scollatura prima chiuso si era ora aperto. La conversazione verteva sul dolce clima dell’Italia quando Gürtner, dopo aver sbirciato per l’ennesima volta i consumati polsini della camicia dell’ospite, rivolto a quest’ultimo affermò, chiedendo: «Ti trovo in ottima forma, Oscar, di cosa ti occupi ora?» «In questi anni non ho avuto modo di mettere su pancia, al momento mi guadagno da vivere, insegnando privatamente inglese.» Il rozzo Gürtner scosse lentamente la testa. «Un uomo come te, ridursi a fare il Cincinnato, insegnando inglese…» All’istante gli occhi dell’italiano si rimpicciolirono, stava per rispondere, ma il lentigginoso che seguiva attentamente il dialogo prontamente lo prevenne, dicendo: «Avremmo un’interessante offerta da proporle dottor Baldi, se solo fosse disponibile ad ascoltarci… Un considerevole compenso per un lavoretto di una decina di giorni…»
Il cercatore di funghi alzò il calice mezzo pieno ponendolo controluce, lentamente iniziò a farlo roteare, poi seguendo il movimento del vino le cui sfumature cromatiche andavano dalla porpora, al rubino, all’amaranto, lentamente e a voce bassa rispose. «Conosco bene i vostri lavoretti, egregi signori. Credevo di essere stato chiaro, ma evidentemente…» Il lentigginoso non lo lasciò finire: «Si tratta di un breve lavoro per un compenso equivalente a un milione di euro.»{39} Di colpo il polso dell’italiano si bloccò. Ora la luce che filtrava dal calice era di un unico, intenso color rubino. “Un milione di euro, la mia vita non è mai valsa tanto” pensò. Disorientato, lentamente pose il bicchiere sul tavolo. Conosceva Gürtner da almeno tredici anni, allora era un capo sezione dell’Interscambio, ma non conosceva l’altro. Questi parlava il tedesco in modo eccellente ma a tratti l’accento ondivago ne tradiva la madrelingua d’origine. Stimolato da un senso di curiosità, volle saperne di più su quel personaggio, rivolgendogli la parola in lingua inglese, affermò chiedendo: «Long now my time is over, I’m out of gambling, why are you looking right at me? – Da molto ormai il mio tempo è finito, sono fuori dal gioco rischioso, perché state cercando proprio me? » Il lentigginoso rispose nella stessa lingua. «Because you have gained a unique experience in that country; familiar with it, you know particular channels, important people and is able to play each piano key in an appropriate manner. – Perché lei ha maturato un’esperienza unica in quel paese; lo conosce a fondo, conosce particolari canali, persone importanti ed è in grado di suonare ogni tasto del piano in modo appropriato» “Russia, l’inferno”, pensò il cercatore di funghi. L’uomo parlava un inglese colto e privo di phrasal verbs, usava verbi con declinazione latina alla maniera internazionale, rivelando al contempo un leggero timbro londinese. “Ex funzionario degli esteri ato all’MI-6” dedusse l’italiano, ma era venuto fin laggiù, non doveva quindi essere di livello elevatissimo. “Un upper intermediate con responsabilità operative” concluse infine. Cambiò di nuovo lingua, rispondendo al lentigginoso in tedesco: «Vede Signor vice controllore per l’Europa orientale, conoscenze e canali di cui parla sono come detonatori sensibilizzati inseriti nell’esplosivo al plastico, basta strusciarli per saltare fino alle stelle. Laggiù mi stanno ancora correndo dietro, da quel paese fui espulso, riportai a casa la pelle non so neanch’io come e per finire, ho quasi cinquant’anni.»
Il lentigginoso rispose di getto: «Un uomo della sua esperienza non potrebbe essere più giovane. Riguardo ai rapporti, da tempo si sono normalizzati, ora la Russia per alcuni versi è nostra amica e collaboratrice. Circa le specificità cui accennava, le cose laggiù sono cambiate.» «Davvero? Se fossero così cambiate, non credo che al momento sareste a rompervi le scatole qui, in mia compagnia!» «È tutto più facile», caricò Gürtner, cercando di arginare la falla. «In Russia signori, le cose non sono mai facili, sono sempre state e sempre saranno difficili» rispose l’ospite con un malcelato sarcasmo. L’eccellente cena era al caffè e un pesante silenzio permeava i tre commensali. Nelle facce dei due uomini dei servizi segreti, frustrazione e delusione erano palpabili. Fu il lentigginoso che dopo alcuni minuti, con un filo di voce e aria grave ruppe l’imbarazzante tensione sussurrando: «È questione importante dottor Baldi, terribilmente importante! Abbiamo assoluto bisogno del suo aiuto…» L’italiano con lo sguardo fisso sulla tazza del caffè parve non udire quelle parole che, tuttavia, cogliendo esattamente nel segno, fecero breccia. Dopo un lunghissimo intervallo di tagliente silenzio, schiacciò il mozzicone della sigaretta all’interno della tazza, trasse un profondo sospiro e, alzando lo sguardo, con voce incolore chiese. «Eh…il pagamento?» «Anticipato, contanti!» rispose prontamente Gürtner, tirando fuori una busta che con calma pose sul tavolo. «Modalità?» «Le solite, quelle degli illegali. Conto segreto cifrato in una banca di tua fiducia.» «Di cosa si tratterebbe?» Manfred scosse lentamente la testa. «Dopodomani alle ore 14 a Berlino; all’interno di questa busta c’è il recapito dove accadrà la riunione.» «Stai scherzando? Ho un mucchio di cose da sbrigare, per quella data mi sarebbe impossibile.»
Senza giri di parole, il tedesco andò dritto al punto: «In questa operazione il tempo gioca un ruolo decisivo e noi di tempo non ne abbiamo!» L’italiano tirò fuori il contenuto della busta. Oltre un foglio con un indirizzo c’erano sei milioni di lire in biglietti da cinquecentomila. Intervenne prontamente il lentigginoso. «Sono per sistemare momentaneamente le sue cose durante la breve assenza, dottor Baldi. Desideriamo porre in rilievo che l’ingente somma di un milione di Euro, include anche… sì, diciamo un parziale risarcimento per le spiacevoli vicissitudini a suo tempo capitategli…» “Ipocriti – pensò il cercatore di funghi – bastardi ipocriti.” Sollevò la busta, e lentamente, la fece oscillare su e giù, a mo’ di ventaglio, davanti agli occhi di Gürtner, dicendo: «Sia ben chiaro, Manfred, deciderò se accettare o no solo quando avrò conosciuto l’esatta natura dell’operazione. Questi, – batté il dito sulle banconote – sono sia per le spese di viaggio, sia per sistemare i consequenziali casini che si verranno a creare a seguito di questa vostra visita.» «Naturale!» esclamò uno. «Certamente…» fece eco l’altro. Pagato il conto, ora i tre erano presso il cancelletto verde. L’italiano si rivolse al tedesco, dicendo: «Qualora dovessi accettare l’incarico, l’intera somma dovrà già essere a mia disposizione in una banca di Berlino, inoltre, prima di partire per questa ignota missione dovrò trattenermi lassù un giorno.» Gli altri due si lanciarono un’occhiata, ma l’italiano la mozzò: «È imperativo Manfred! Diversamente neanche se ne parla.» «Siamo d’accordo Aquila» rispose il tedesco, annuendo. «Pernottate qui?» «No! A Firenze. Nel tardo pomeriggio di domani dobbiamo di nuovo essere lassù», rispose l’inglese. Ora i due dei servizi segreti stavano uscendo dal parcheggio, alla guida dell’auto
c’era l’inglese mentre il tedesco si apprestava a trafficare col cellulare. Poco dopo, solo nello chalet, seduto sotto un ippocastano, l’italiano sembrava piombato in meditazione. Ora che iniziava a riprendersi e dimenticare, di colpo quei due l’avevano trasportato dieci anni indietro! Era come un incubo momentaneamente impallidito e che ora, riemergeva in tutta la sua allucinante essenza. Per un momento accarezzò l’idea di non andare a quell’appuntamento berlinese, tenendo il denaro congelato fino al momento di un’improbabile, eventuale restituzione. “Che vadano tutti all’inferno, tanto il mondo è un vaso di Pandora. – pensò – Però… deve trattarsi di faccenda estremamente seria…” Quest’ultimo pensiero lo fece tornare alla realtà, realtà dettata dal suo elemento romantico e avventuroso, dal proprio io, dal suo ato. Lo sapeva, l’aveva sempre saputo che alla fine sarebbe di nuovo dovuto calare sul palcoscenico per concludere quella perfida, sadica commedia iniziata molti anni prima la cui morale era il tradimento e la morte. La recita continuava perché il mondo non era sprofondato, l’arena delle umane lotte era ancora lì e lui non era morto. Ripensò ai suoi migliori anni bruciati in Russia, alla propria vita gettata al vento, gli tornò in mente l’affabile Monsieur Voicin: “Una persona come lei non avrà certo difficoltà ad imparare anche il russo.” Rivide il sorriso dell’affascinante, ionale Charlotte quando nell’intimità amava rimarcare una di lui frase, che poi era una massima di suo padre: “Un uomo vale quanto la sua parola.” Ricordò il ghigno da iena di Gumayev: “Tornerai Aquila, tornerai…” n’era certa la volpe, aveva letto le sue note caratteriali nei rapporti della cara, dolce Charlotte e sapeva che poteva contare su di lui. “Che imbecille, – si disse – che grande imbecille…” «Signore, è tardi, stiamo chiudendo…» Affermò in maniera cortigiana la formosa giovane donna, interrompendo le riflessioni dell’uomo sulle macerie della propria vita. «Oh… certamente, mi scusi.» Rispose un po’ frastornato l’altro, sbirciando meccanicamente l’orologio. Nell’alzarsi dalla sedia, il cercatore di funghi notò che un altro bottone della scollatura si era aperto e che ora l’abbondante seno faceva bella mostra in tutto il suo rigoglio. Davanti al cancelletto, l’uomo si girò e, indicando il paniere, disse: «Domani dovrò partire, la prego di accettare quei funghi, sono porcini trovati nella mattinata su in montagna.» Nel fare un circostanziato cenno di ringraziamento, una malcelata delusione apparve nei luccicanti occhi della donna.
In quel momento nelle isole Orcadi, alla fonda della grande base navale britannica di Scapa Flow (famosa per un audace raid che il 14 ottobre del ‘39, il tenente di vascello della marina tedesca Günter Prien, al comando dell’U-BOOT 47 effettuò al suo interno, affondando la corazzata britannica Oak Royal causando la perdita di 786 uomini), si trovava il sommergibile nucleare d’attacco della marina degli Stati Uniti, Baton Rouge; unità della classe SSN Los Angeles. Il sottomarino, come tutti i suoi gemelli, era lungo 109.7 metri, largo 10.1, dislocava seimila tonnellate in superficie e seimilanovecento in immersione. L’apparato propulsore, costituito da un reattore nucleare ad acqua pressurizzata General Electric S6G, con due turbine a vapore su un unico asse, gli consentiva una velocità di 18 nodi in superficie e 31 in immersione. L’armamento consisteva in quattro tubi lanciasiluri da 533 m/m a mezza nave con siluri MK 117, missili sub Harpoon antivave, missili Subroc antisommergibile sempre da 533m/m e 15 missili da crociera Tomahawk. Il sistema di guida era inerziale computerizzato ad alta precisione. I complessi apparati elettronici erano costituiti da un radar di scoperta in superficie BPS-15, un sistema sonar ecogoniometrico BQQ5 con sonar rimorchiato BQR-15, una centrale di puntamento e lancio, un sistema di comunicazioni via satellite WSC-3, un sistema di comunicazioni radio ELF a bassissima frequenza, costituito da una lunga antenna a filo trainata e regolata su una centrale ricetrasmittente sita nel centro degli Stati Uniti, di un potentissimo elaboratore BC-10 con sistema per analisi ed elaborazione segnali sonar, di un sistema d’intercettazione elettronica ed un telefono subacqueo; inoltre era munito di due antenne RD per la rilevazione di sorgenti radioattive esterne, una a mezza nave, l’altra estraibile con il periscopio. L’equipaggio ammontava a 127 uomini. Il Baton Rouge, reduce da un’esercitazione al largo delle Shetland, da due giorni alla fonda, tra cinque sarebbe salpato per una crociera dall’Atlantico settentrionale all’oceano Indiano. Il suo comandante, il quarantacinquenne capitano di vascello Felix Flitcher, che in quel momento era nel proprio alloggio, dopo aver chiuso il secondo volume di Storia dell’Impero Romano di Mommsen si apprestava a coricarsi, quando il citofono sul comodino metallico gracchiò. «Sono Martinez, comandante. Messaggio via satellite, prefisso Z, precedenza flash.» «Provenienza?»
«Norfolk!» «È ancora in codice?» «Sì signore, in cifra specifica{40}.» «Lo faccia decifrare, sarò lì tra un minuto.» “Problemi in arrivo” si disse Flitcer, nel rivestirsi in fretta e furia. Nella camera di manovra, l’illuminazione fornita dalle luci bianche di servizio era debole e il silenzio infranto solo dal piacevole ronzio delle complesse apparecchiature elettroniche in funzione. Dopo aver letto per due volte il messaggio, il comandante lo ò al secondo, dicendo: «Cambiamento di programma, Signor Martinez.» Il capitano di corvetta Alvaro Martinez lesse in silenzio lo stampato. Z509455ZOLK SEGRETISSIMO BOA DA: COMSUBLANT{41} A: USS. BATON ROUGE INFO: CINCLANK FLT.
1.) ATTUALE MISSIONE ANNULLATA. 2.) IMMEDIATO RIENTRO IN MARE. INIZIO NUOVA MISSIONE. 3.) ASSOLUTO DEFILATO RILEVAMENTO NAVE MERCANTILE. RIPETO: ASSOLUTO DEFILATO RILEVAMENTO NAVE MERCANTILE. 4.) NOME: FREEDOM. BANDIERA: LIBERIA. APPARENTE STAZZA: 5000 TN.
CARATTERISTICHE: DUE SORGENTI R.D RILEVABILI. 5.) ULTIMA POSIZIONE ORA GREENWICH 6.05Am.10-09-00. 67°.40’ LAT. NORD. – 7°.55’ LONG. EST. VELOCITÀ: 3.5 NODI STIMATA ULTIMO. ROTTA: SUD 6.) SUCCESSIVI ORDINI MESSAGGIO CONFERMA RILEVAMENTO. 7.) IMMEDIATO INVIO MESSAGGIO CONFERMA. FINE FINE FINE # H0000#
Martinez alzò lo sguardo. «Sembra faccenda importante» fece, nel restituire il messaggio. «Così pare. Faccia inserire le coordinate sul computer.» Poco dopo i due e l’ufficiale di rotta osservavano il tavolo di carteggio; un affare governato dal BC-10 che segue il movimento del sommergibile e ha uno schermo di vetro di un metro di lato su cui sono proiettate le immagini, il che rende le carte nautiche obsolete. Lo schermo mostrava al centro un puntino – dot – color arancio, il punto delle coordinate inserite in precedenza. Indicando il dot con la matita, l’ufficiale di rotta affermò: «Sono ate circa diciotto ore dall’ultimo rilevamento, in quella zona imperversava una tempesta, assumendo una media di quattro nodi orari, quella nave ora dovrebbe trovarsi grossomodo qui: a 66° Latitudine Nord e 6°, 30’ Longitudine Est.» Il comandante scosse lentamente la testa. «No… Sebbene il mare sia ancora agitato, il vento è diminuito molto. Probabilmente avrà aumentato la velocità. Assumiamo uno scarto maggiore, diamogli una media di sei nodi orari. Faccia inserire questo dato sul computer, tenente Snow.» ati alcuni secondi, chino su una carta, l’ufficiale di rotta espose: «Secondo questi nuovi parametri, dovrebbe trovarsi a 65° 10’ Latitudine Nord, 6° 15’ Longitudine Est, qui, al largo del banco di Halten.»
«Facciamo rotta per 64° Latitudine Nord, 6° Longitudine Est. Dovremmo rilevarla lì. – Flitcher si rivolse al secondo – Equipaggio?» «Al completo, comandante.» «Se vogliamo intercettarla in quel punto, tra due ore al massimo dobbiamo essere al largo. Faccia inviare due messaggi, Signor Martinez, uno al comando della base, informando che salpiamo immediatamente, l’altro a Norfolk per conferma inizio operazione.» Subito dopo sull’interfono il secondo ordinò: «Personale di servizio ai posti di manovra! Comunicazioni sui canali doppio zero, reattore a regime, accendere luci rosse.»
Capitolo XII
Nella mattinata di martedì dieci ottobre, il cercatore di funghi era nella locale agenzia servizi del villaggio. Depositati tre mesi d’affitto anticipato e lasciata una somma forfettaria a fronte di future bollette e tasse comunali, si era poi diretto alla caserma dei Carabinieri. Al comandante della stazione omise di dire che forse non si sarebbero più rivisti, considerate le serie possibilità che di lì a non molto sarebbe morto; gli porse invece una busta con dentro del denaro e una lista di nomi. Mentì, affermando che, causa, l’insorgere d’improvvisi problemi, dovendo partire urgentemente per Roma, come penale per la momentanea interruzione dei corsi era suo intendimento restituire gli anticipi ricevuti. «Nella lista, ci sono i nomi degli allievi e le somme da loro versate. La prego di pensare lei a quest’incombenza. Al mio rientro non dovranno sentirsi obbligati a versare di nuovo gli anticipi, inoltre il successivo intero mese di corso sarà gratis. È scritto qui.» Mostrò lo scritto. Il maresciallo, stringendogli la mano, formulò i migliori auguri, esprimendo la speranza di rivederlo presto.
Il Baton Rouge salpato alle 0.50, ora di Greenwich, aveva navigato a centocinquanta piedi di profondità col reattore all’ottantadue per cento della potenza, assumendo una media di ventisei nodi orari. Nelle undici ore di navigazione aveva percorso 303 miglia (circa 530 chilometri) ed ora si trovava a 63° 10’ Latitudine Nord, 2°.50’ Longitudine Est, circa centoquaranta chilometri al largo di Alesund, nel Mar di Norvegia. Durante la corsa l’ecogoniometrista aveva intercettato quattordici navi, ma i segnali ecosonar del BQQ5, analizzati dal BC-10 attraverso l’analisi del sistema SAPS (sistema di elaborazione algoritmica dei segnali), erano tutti fuori range rispetto alle circa cinquemila tonnellate riportate nel messaggio. Il comandante si rivolse all’ufficiale di rotta. «Quanto manca, tenente Snow?» «Circa ottantacinque miglia. Saremo sul punto fra tre ore e mezzo, comandante. Auguriamoci che abbia mantenuto la presunta rotta e velocità, diversamente rischieremo di essere tagliati fuori.» «Non credo. Col mare forza cinque o sei, i sei nodi stimati sono medie limiti per
un mercantile. Riguardo alla rotta, a questa latitudine è difficile ipotizzane una diversa. – si rivolse all’ufficiale di manovra – Sopra, il mare com’è, tenente Harvey?» «Mosso, con onde che vanno oltre un metro.» Flitcher si chinò sul tavolo di carteggio. «Arrivati sul punto, inizieremo a girargli intorno in cerchio lungo una circonferenza con raggio di venti miglia. Imposti i dati, Signor Snow.»
Per sir Charles Bright gli ultimi tre giorni erano stati faticosi, avendoli interamente ati alla Century House. Quel martedì aveva deciso di trascorrerlo nella quiete della casa di campagna, giù nel Surrey, poco a sud-ovest di Londra. In quel momento l’ammiraglio era intento a rastrellare il prato oltre il giardino, poi avrebbe ato una mano di rasatrice in modo da mantenerlo integro e verde per l’intero inverno. Aveva già alzato diversi mucchietti di fogliame, ne stava rizzando un altro quando udì il trillo proveniente dal giaccone verde attaccato a un ramo lì accanto. Era il suo cellulare a linea protetta, il cui numero era sconosciuto anche all’ente gestore della telefonia mobile. Contrariato, l’ammiraglio s’incamminò verso il giaccone, alzando gli occhi al cielo pensando che da alcuni giorni non aveva avuto un attimo di pace. Dall’altra parte c‘era David Collins. «Questa notte, il locale comando della base di Scapa Flow ha informato l’ammiragliato che è salpato il Baton Rouge, un sommergibile nucleare d’attacco americano della classe Los Angeles. Alla fonda da due giorni, avrebbe dovuto prendere il largo sabato prossimo. È strano per un battello di quel tipo un così repentino cambiamento di programma, normalmente per unità di quella classe le operazioni in mare sono pianificate mesi prima.» Nell’incamminarsi verso la vicina panca, l’ammiraglio rifletté, infine fece: «Salpato da Scapa Flow, hai detto?» «Sì. Da lassù, e sembra con una fretta del diavolo.» «Sta cercando la gallina dalle uova d’oro, David. Tutti avevamo capito che la merce era in mare, e per chi proviene da quelle parti la via del Mar del Nord è obbligata.»
«Sono d’accordo, anche l’intelligence è di questo parere. Pensi che quel sottomarino riuscirà a scovare il trasportatore?» «Penso che se i cugini americani hanno localizzato la merce tramite un satellite, come sono incline nel credere, al massimo entro questa sera il trasporto sarà a sua insaputa scortato da un angelo custode.» «Esattamente… Alla luce di questi sviluppi, mi stavo chiedendo se fosse il caso di rivedere parte del nostro progetto.» «Direi proprio di no! Dal nostro punto di vista non cambia nulla. Il messaggio contenuto nella cassetta di Fringuello parlava chiaro: il viaggio durerà minimo venti giorni. Ne sono ati solo nove, se come credo durante questo periodo il trasportatore si manterrà in acque internazionali, quel sottomarino ne dovrà perdere di tempo per stargli dietro. Gli americani potranno forse stroncare gli effetti, eliminando il contingente pericolo, ma non intaccheranno, tantomeno elimineranno le cause.» «Sicuro; il problema non è in alto mare, è a Mosca.» «Io David non modificherei nulla, lasciando andare le cose per il loro verso.» «Condivido il tuo pensiero, Charles. Lasciamo che gli americani vadano per la loro strada, alla fine vedremo chi metterà per primo le mani nel pollaio.» «A proposito… Il Camminatore?» «Sembra che domani sarà a Berlino.» «Molto bene. Mosca?» «Una tomba, ma noi non muoveremo paglia.» «Assolutamente d’accordo! Ci vediamo domani a Londra, David.» «a una buona giornata, Charles.»
«Eco sonar sette miglia a dritta», esclamò il vice ecogoniometrista Tompson.
«Velocità?» chiese il secondo. «Un momento signore! – Tompson girò alcune manopole, diminuendo l’ampiezza dei guizzanti segnali sullo schermo circolare color arancio – Dodici nodi.» «Sarebbe in anticipo.» Nella sala operativa si affacciò il comandante; il secondo riferì i parametri del rilevamento. Flitcher commentò: «Il vento è calato e il mare è poco mosso, può aver aumentato le macchine per recuperare tempo. Mi dia la stazza Tompson!» «L’eco sonar del BQQ5 è distorto signore, l’abbiamo a dritta, il computer potrebbe fornire valori impropri.» «Profondità trecento piedi, luci rosse, alla via così» ordinò il comandante. Il vice pilota sottufficiale Broome, spinse lentamente in avanti la cloche di pilotaggio.
In Italia erano le 15. In quel momento il cercatore di funghi era in attesa della corriera che l’avrebbe condotto a Roma. Al suo seguito aveva una piccola borsa da viaggio con all’interno alcuni capi di biancheria intima; indossava spiegazzati pantaloni di fustagno, una camicia azzurra ed un leggero giubbetto di fibre sintetiche. Tirò fuori il pacchetto delle sigarette, ne accese una e voltò lo sguardo verso la montagna. Aveva ancora gli occhi fissi sulla vetta quando l’improvviso arrivo della rossa corriera gli coprì la visuale.
«L’abbiamo sulla verticale, tra qualche secondo il BC-10 ci darà la stazza. Ci siamo! Cinquemilacentottanta tonnellate» urlò Tompson. «Margine di errore?» chiese il comandante. «Aumenta al diminuire del tonnellaggio, nel nostro caso siamo intorno al cinque, sei per cento, signore.» Flitcher si rivolse all’ufficiale sonar, un giovane di colore laureatosi brillantemente in idrodinamica a Yale.
«Qual è la distanza limite di poppa, per non essere individuati in immersione, tenente Howen?» «Dipende dalle loro apparecchiature. Col solo radar di scoperta sono ciechi. Essendo sulla loro scia, con un normale apparato sonar difficilmente possono individuarci, se hanno un sistema sofisticato, il limite di sicurezza si aggira intorno al miglio e mezzo.» «Salire a centocinquanta piedi, conversione di centottanta gradi; a due miglia esatte dalla poppa portiamoci a quota periscopio» ordinò infine il comandante, rivolto al tenente Harvey. «Quota periscopio!» Esclamò qualche minuto dopo l’ufficiale di manovra. «Fuori il periscopio, in azione antenna RD.» Il cilindro metallico ben lubrificato, sotto l’azione della pressione idraulica salì frusciando verso l’alto. Alcuni istanti dopo nel mettere a fuoco le lenti girando le manopole, il comandante ordinò: «Datemi cento ingrandimenti. – arono trenta secondi -Altri cinquanta. – ò un altro minuto – «Ci siamo! Scattiamo quattro foto! detector RD sullo zero collimatore.» Nella sala operativa davanti ad una parete traboccante d’indicatori e spie luminose, il sottufficiale strumentista White digitò una serie di caratteri su una tastiera. All’istante, tra i flutti delle onde, la piccola antenna in quel momento sopra il pelo dell’acqua iniziò lentamente a ruotare in senso orario. «Detector centrato!» «Rilevamento!» «Due sorgenti radioattive molto vicine, ciascuna d’intensità pari a settantacinque millirad.» «Abbassare antenna e periscopio! Luci bianche, profondità centocinquanta piedi, porsi a quattro miglia di distanza.» Poco dopo un sottufficiale entrò nella camera di manovra. «Le foto, comandante.»
Nelle quattro istantanee in bianco e nero 30x40, la visuale della poppa occupava quasi per intero il perimetro della carta; in due, alcune lettere del nome non erano leggibili, causa gli schizzi delle onde, nelle altre, sopra al grande portellone di carico poppiero spiccava nitidissima la scritta in nero FREEDOM. Sul bordo inferiore di ogni foto, in piccoli caratteri lattiginosi si leggeva: 1x150, two miles distance. Dietro ad ognuna, con un pennarello il comandante scrisse: Two radioactives sources, 0.075 rad. Si rivolse al secondo: «Faccia inviare un messaggio via satellite a Norfolk, dettagliando i risultati della ricerca e le coordinate del rilevamento, specificando che stiamo trasmettendo una foto tramite sistema ELF. Allontaniamoci e a quattro miglia portiamoci di nuovo a quota periscopio.» In sala comunicazioni un hard disk del computer che aveva caricato la sequenza delle foto digitalizzate, iniziò a scaricare sull’antenna a filo rimorchiata il contenuto della seconda immagine. L’invio avveniva serialmente alla media di un carattere al secondo, mentre in un centro comunicazioni della marina, nel cuore degli Stati Uniti, i segnali erano ricevuti via cavo e ritrasmessi a Norfolk. I terminali dei cavi riceventi pescavano negli oceani e, data la frequenza ultra bassa della trasmissione, la comunicazione non era intercettabile e il sottomarino non localizzabile. ata una mezz’ora, scuro in volto, Flitcher ò a Martinez il messaggio di risposta pervenuto qualche minuto prima via satellite da Norfolk:
Z5094742ZOLK SEGRETISSIMO BOA. DA: COMSUBLANT. A: USS. BATON ROUGE. INFO: CINCLANK FLT. RIF: Z509455ZOLK. 1.) UNITÀ CLANDESTINA. NOME E BANDIERA DI COMODO.
2.) CARICO: N° 2 (due) SISTEMI CLASSE SS-20 COMPLETI DI VETTORI NUCLEARI CON OGIVA SINGOLA TESTATA 650 KTN (no operative). 3.) ASSOLUTO DEFILATO INSEGUIMENTO. RIPETO: ASSOLUTO DEFILATO INSEGUIMENTO. 4.) BLOCCO, PRESA POSSESSO UNITÀ, ARRESTO EQUIPAGGIO: MOMENTO, RIPETO MOMENTO ABBANDONO ACQUE INTERNAZIONALI. LIMITE ACQUE TERRITORIALI (no LIBERIA) STABILITO CINQUE MIGLIA COSTA. DOCUMENTARE OGNI FASE OPERAZIONE. 5.) DISTRUZIONE UNITÀ E CARICO: 1.) NON RISPETTO ALT IPOTESI TENTATIVO TRASBORDO ALTO MARE. 2.) DOPO TRE ALT IMPOSTI SUPERAMENTO ACQUE TERRITORIALI.
3.) TENTATIVO SCORTA O PROTEZIONE DI UNITÀ TERZE. FINE #0000#
«SS-20… Faccenda molto seria», mormorò pensieroso il secondo, dopo aver letto un paio di volte il messaggio.
«Sì, Martinez, ci hanno infilato in un bel casino, e sembra che abbiano affidato a noi l’incarico di risolverlo» rispose Flitcher, nell’alzare la cornetta dell’interfono. Subito ordinò: «Signor Howen, sincronizzare il BBQ-5 con l’eco della poppa di quella nave. Signor Harvey, guida automatica pilotata dal BC-10 sul segnale ecosonar del BBQ-5. – si rivolse di nuovo al secondo – Da ora in avanti saranno quei pirati a guidarci.»
Alle otto di mercoledì undici ottobre, il cercatore di funghi era sulla navetta partita da Roma Termini alla volta dell’aeroporto Leonardo da Vinci, da dove si sarebbe imbarcato in un aereo Lufthansa low-cost diretto a Berlino Tegel. Dopo aver sistemato le sue cose e pagato il biglietto aereo, contò il denaro rimastogli, aveva in tasca meno di cinquecentomila lire; qualora avesse rinunciato all’incarico sarebbe dovuto rientrare in Italia via treno, con un biglietto di seconda classe. “Gürtner ha fatto i conti con teutonica precisione”, pensò l’uomo, con amara ironia. Puntuale, alle 14 l’italiano varcava la soglia d’ingresso del portone di un palazzo in vetro e cemento sulla Dieckmannstrassen, nel cuore di Berlino. Fu condotto in un salottino dove gli furono scattate tre serie di cinque foto del comune formato tessera, in ogni serie di foto gli fu fatto indossare un diverso abbigliamento. Alle 15 lo introdussero in una piccola sala dove iniziò la riunione, partecipavano in nove. Dopo circa tre ore, Aquila ò un biglietto a Gürtner. «Datemi tutto ciò che avete riguardo questo nome e quest’indirizzo» chiese. Il convegno si protrasse fin oltre le ore 21, al termine Gürtner aprì una cartellina, gli dette una sbirciata e con sguardo curioso, fissò Aquila, affermando: «Le informazioni richieste! L’indirizzo sembra corrispondere a un esclusivo bordello di Mosca, gestito, pare, da un’affascinante signora. Riguardo a questo ex colonnello del KGB, scomparve dalla scena nel ’93, da fonti incerte sembra sia ora a capo di alcune potenti organizzazioni mafiose.» «A quando risalgono queste informazioni?» L’altro sbirciò ancora. «Pare, siano attuali…» Al Forum hotel in Alexanderplatz, dove gli era stata riservata una camera, l’uomo consumò una leggera cena ed iniziò a lavorare. Su un foglio di carta A3 tracciò un diagramma che iniziava con un rettangolo, al cui interno scrisse who?
– chi? e sotto di esso si snodavano tre diramazioni, ai vertici delle quali c’erano altrettanti rettangoli, ognuno collegato sotto con un rombo. All’interno del rettangolo di sinistra scrisse movimenti irredentisti e/o autonomisti; in quello di centro, organizzazioni criminali mafiose e/o terroristiche e in quello di destra, organi deviati dello Stato. Nei vertici laterali dei rombi, a sinistra scrisse yes e a destra no. Era stanco, sbirciò l’orologio, decise di andare a dormire. Il mattino seguente svegliatosi di buonora, pensò di fare una camminata, gli avrebbe reso le idee chiare, inoltre dopo anni voleva rivedere un po’ di Berlino. Attraversò l’Alexanderplatz (un tempo Berlino Est), imboccò la lunga Liebknechtstrasse e prese l’Unter den Linden ando davanti al civico 77, al famoso Hotel Adlon, miracolosamente scampato, insieme alla porta di Brandemburgo alle bombe alleate durante la Seconda Guerra Mondiale. Poco dopo prese per la Friedrichstrassen, girò a destra arrivando finalmente alla Dieckmannstrassen. Erano le 9.50, la riunione iniziava alle 10.
A Mosca, cumuli di nubi in rotta verso Occidente rendevano il cielo a tratti limpido. La Opel berlina percorreva la Znamenka ulica, quando un raggio di sole riflesso da una guglia del Kremlino, colpì il suo parabrezza. L’uomo alla guida abbassò il cruscotto parasole, l’auto superò cinque rosse cabine telefoniche, svoltò a destra entrando nella porta carraia di un edificio d’epoca. Il generale Artmenko mostrò ai due del GRU i propri documenti, costoro, dopo aver salutato militarmente, alzarono la barra. Parcheggiata l’auto in uno dei posti riservati, il generale si diresse a i sostenuti verso la portineria e di lì a dieci minuti, era in compagnia del generale Petrov, al centro del ghiaioso cortile. «Perdona quest’intrusione, Maksim Sergejovič. Purtroppo, non sono latore di buone nuove.» «Ebbene?» «Ieri l’altro, una nota ci ha informato che lunedì scorso a Washington, il capo della CIA e il suo vice sono nuovamente saliti alla Casa Bianca, sembra che lo stesso Segretario di Stato abbia poi fatto visita a Langley.» «Tutto qui? » «Durante l’ultimo fine settimana, è stato riscontrato un insolito via vai nelle sedi
dei servizi segreti di Londra, Parigi e Berlino. Ieri, dal terzo piano di questa sede è arrivata una nota ufficiosa e non confermata secondo cui, a Norfolk, il Comsublant avrebbe apportato delle urgenti variazioni al programma di alcune loro unità della flotta Atlantica subacquea. Infine, un’ora fa, tra le informative inviatemi da Igor Aliyev, sulla mia scrivania c’era la consueta nota giornaliera proveniente da Yazenevo diretta per conoscenza al GRU. Essa informa, che nel normale rapporto giornaliero inviato via internet dal Rezident della SVR di Berlino, è precisato che ieri laggiù si sono riuniti i vertici operativi dell’Interscambio. Comportamento strano, il loro, abituati a ricevere ordini dall’MI-6. Questi fatti, singolarmente insignificanti, messi insieme danno un affresco a tinte fosche; non voglio creare inutili allarmismi, ma il fiuto mi assicura che qualcosa bolle in pentola.» Petrov, immobile, aveva gli occhi che erano due fessure. «Sono stati quei satelliti. – affermò scuro in volto – Casualmente avranno localizzato le sorgenti radioattive delle testate di quei due vettori, gli americani conoscono i valori delle loro emissioni e, trattandosi di ordigni imbarcati, avranno pensato d’informare anche gli inglesi e da qui il resto. Hanno intuito qualcosa!» «Ma Maxwell ed Elston sono saliti alla Casa Bianca anche venerdì, data precedente il lancio dei due satelliti.» «Ne abbiamo già sufficientemente parlato, sai che non amo ripetermi! Ciò presupporrebbe una falla al nostro interno, cosa che escludo nella maniera più categorica. – scosse la testa – No! I loro indizi, ammesso che il tutto non sia un nostro mero virtuosismo, derivano dalla localizzazione satellitare di quel cargo, quindi devono essere molto frammentari. Stanno annaspando nella nebbia e lo dimostra il fatto, che il governo non ha ricevuto informativa o nota ufficiosa da parte loro, inoltre alla SVR, FSB e FSK le acque sono stagnanti.» Ma il pignolo Artmenko non era completamente convinto. «Sì, ma stando così le cose…» «Non ripeterti, Ivan Ivanovičh! Il loro Comsublant ha apportato delle variazioni, no? Stando così le cose, con ogni probabilità la nave è o sarà seguita da qualche loro unità subacquea in missione ordinaria in quelle acque. Questa è una delle possibilità, che con lungimiranza, Markov aveva previsto nel suo piano, per questo ha ideato la variante di mare.»
«In ogni modo, con il tuo permesso Maksim Sergejovič, ritengo opportuno fare il punto della situazione, riunendo il comitato.» «Sono contrario a queste frequenti riunioni, alla lunga potrebbero insospettire la FSB. Pur tuttavia, alla luce di questi nuovi avvenimenti, penso sia il caso. – Petrov sbirciò l’orologio. – Oggi è ormai tardi per iniziare la partita di bridge, inoltre qualcuno è a San Pietroburgo e rientrerà nella nottata; facciamo domani alle 18.»
A Berlino la riunione operativa era da poco terminata, ora stavano affrontando i dettagli. «Qui ha il certificato sanitario rilasciato da un medico berlinese. Questo è il aporto tedesco con il quale entrerà in Russia e queste sono le relative credenziali. Quest’altro è il aporto inglese di scorta, anch’esso corredato da credenziali. Infine, abbiamo carta d’identità e libretto di lavoro entrambe russi, rilasciati dal distretto di Mosca.» Affermò l’uomo entrato per ultimo, mostrando i documenti. Aquila li esaminò accuratamente, erano perfetti, perfino un po’ sgualciti dal troppo uso. Il aporto tedesco era intestato a tale Otto Ticktmann, nato a Francoforte sul Meno nel 1954; il permesso d’ingresso rilasciato dal Consolato Russo di Berlino tre giorni prima, stampigliato sul documento, era valido per due mesi e le credenziali certificavano egli essere giornalista del settimanale Die Zeit e del quotidiano Frankfurter Allgemeine. Nel aporto di scorta era ancora un giornalista, ma occhialuto, il cui nome corrispondeva a tale Bill Murphy, nato a Bristol nel 1954 le cui credenziali certificavano essere corrispondente estero dell’Observer. Addirittura in quel documento c’era il visto d’ingresso della polizia di frontiera rilasciato all’aeroporto moscovita di Šerementevo due, il cui timbro portava la data risalente a dieci giorni prima; inoltre, vi erano i permessi d’ingresso per alcune Repubbliche baltiche, per l’Ucraina, la Bielorussia, la Georgia, l’Armenia e il Kazakistan; permessi rilasciati dai rispettivi consolati in date differite e risalenti ad alcune settimane prima. La carta d’identità, corredata dal libretto di lavoro, – nella cui foto appariva col berretto – era intestata a un tale Anatoly Basilyov, nato a Mosca nel 1959 e di mestiere ingegnere ferroviario. “Le scarpe{42} sono perfette, i ciabattini devono aver sgobbato molto in queste ultime ventiquattrore” pensò Aquila.
«Alloggerà all’hotel Savoy, nei pressi di piazza Lubjanka. Questa è la prenotazione che, unitamente al certificato medico, dovrà mostrare al controllo visti in ingresso», disse lo stesso uomo, porgendogli il foglio del fax, inviato dall’albergo moscovita a conferma della prenotazione. «Savoy? Non lo conosco.» «È l’ex hotel Berlin, ai suoi tempi in disuso. Recentemente ristrutturato, ha preso il nome Savoy che, con il Metropol, è il migliore di Mosca; comodo, centrale e lussuoso.» Gli fu data una ventiquattrore con doppia combinazione, una per la normale apertura, l’altra liberava un doppio fondo. Era un capolavoro, neanche la più accurata verifica avrebbe potuto scoprire lo scomparto segreto del doppiofondo tenuta documenti, tanto era perfetto l’incavo della bordatura perimetrale interna ed esterna. L’uomo accese un normale computer note-book, entrò nel programma word, digitò un codice di cinque lettere e col puntatore portò la freccetta su salva. Dopo aver premuto il tasto enter, la base inferiore del computer fuoriuscì come un cassetto, all’interno, oltre una piccola matassa di filo schermato, c’erano tre strane lamine di alluminio ricurve. «Apparentemente questo computer lo à per scrivere articoli; in realtà lo utilizzerà come mezzo di comunicazione satellitare.» «Non potrò pormi in contatto via telefono?» «Assolutamente, no! Con questo potrà inviare e ricevere messaggi da qualsiasi posto e in qualsiasi momento. – l’uomo indicò le lamine – Orienti la piccola parabola verso nord, il computer usa un sistema ad impulsi, ognuno equivalente a circa venti caratteri. Le trasmissioni sono indecifrabili, hanno una chiave algoritmica randomica che il programma invia ogni volta col carattere chiusura impulso. Cerchi d’inviare messaggi brevi, ricordi che i servizi segreti russi sono i migliori localizzatori e decodificatori del mondo, la FAPSI ha i migliori matematici. Anche se non potranno decifrare i messaggi, trasmettendo a lungo dallo stesso punto, localizzarla sì! Abbiamo scelto questo sistema perché oltre che pratico, è tra i più sicuri.» «Potrei utilizzarlo anche per comunicazioni via internet.» «Può inviare messaggi anche via e-mail tramite internet, ha la , ma la
loro rete telefonica non è molto efficiente, potrebbe perdere tempo, inoltre non potrà ricevere. Usi internet nel caso di eventuali lunghi messaggi senza risposta, ma solo qualora abbia un’appropriata linea fissa a disposizione e abilitata per tali connessioni. In questo caso, però, ricordi d’inserire cinque asterischi inizio messaggio e tre asterischi e due chiocciole a chiusura, permetteranno l’autodistruzione per eventuali tentativi d’interferenza. Non usi internet con la telefonia mobile, è insicura e le protezioni non hanno effetto.» Erano rimasti in tre, Gürtner gli ò una busta grigia sigillata, una bustina di plastica con dentro una carta bancomat color oro, una cintura portavalori da sostituirsi alla normale per pantaloni, un finto paio d’occhiali da vista e un biglietto aereo. «Qui c’è quanto convenuto. – disse, indicando la busta grigia, poi tirò fuori la carta color oro. – Con questa speciale carta bancomat, potrai ritirare in qualsiasi sportello bancario l’equivalente giornaliero in valuta pari a trentamila dollari per un tetto massimo di duecentomila. Riguardo alle necessità straordinarie, l’ammontare massimo è di dieci milioni di dollari. Per accedere a questo speciale fondo, dovrai farne richiesta tramite quello» indicò il computer ora posto all’interno della ventiquattrore. Intervenne il lentigginoso. «Ricordi dottor Baldi; come discusso in precedenza, qualsiasi cosa accada, per nessun motivo potrà fare riferimento ai contatti operativi avuti a Mosca nel ato. Ripeto: contatti operativi. Laggiù sarà un illegale solo e sconosciuto a tutti, nessuno potrà prestarle aiuto. Solo nel caso in cui debba assumere una diversa identità, attraverso un improprio sistema di riconoscimento, potrà rivolgersi presso l’Istituto Nazionale Numismatico. – gli porse un foglietto – L’indirizzo e le esatte procedure da seguire.» Aquila infilò il foglietto all’interno del doppio fondo, con agli altri documenti. Un’ora dopo Gürtner e il vice controllore dell’MI-6 erano soli. Il tedesco scosse lentamente la testa. «È un’impresa impossibile» mormorò. «Sì, impossibile… ma grazie a Dio, noi abbiamo fatto solo i aparola» rispose mestamente l’inglese. Quella sera in albergo, Aquila scrisse due lunghe lettere, una in lingua tedesca, l’altra in italiano. Sbirciò il diagramma iniziato la sera prima, dopo i tre rombi, il seguito richiedeva di prendere una strada irreversibile, la yes o la no, ulteriori indicazioni per andare avanti le avrebbe potute trovare solo a Mosca. Era stanco,
decise di andare a dormire. Alle 9.30 del mattino successivo era al numero 12 della Otto Suhr Allee strasse, sede della Deutsche Bank. All’impiegata chiese di poter parlare con il direttore, affermando che doveva aprire un conto per una cifra dall’importo pari a un milione di Euro. La donna sgranò gli occhi e cinque minuti dopo Herr Baldi era nell’ufficio del funzionario. «Desidero estinguere questo conto cifrato e aprirne uno di corrente» il direttore aprì la busta, lesse il codice. «Dobbiamo accertarci dei fondi. Solo un minuto, Herr Baldi.» Riapparve nel salottino d’attesa. «Tutto a posto.» Nel breve volgere di mezz’ora, le formalità furono esplicate e l’italiano era ora titolare di un normale conto corrente in marchi tedeschi, ammontante all’equivalente di un milione di Euro. Si rivolse di nuovo al funzionario. «Devo parlare con il vostro notaio.» «Non so se oggi potrà riceverla…» «Nel pomeriggio devo partire per il sud America…» Cinque minuti dopo, gli fu comunicato che il notaio l’avrebbe ricevuto nel giro di venti minuti. Subito Baldi prelevò in valuta l’ammontare massimo giornaliero che la carta consentiva, cambiò la somma in dollari, venti in biglietti da mille e il resto in tagli minori; in bagno infilò ventisei mila dollari all’interno della cintura e il resto li tenne disponibili. Poco dopo, davanti al notaio, tirò fuori la lettera scritta in tedesco la sera prima. «Sono un imprenditore e il lavoro mi porta frequentemente in viaggio. Poiché diabetico e già due volte caduto in coma, una volta o l’altra potrei rimanerci.» «Speriamo di no» affermò il corpulento notaio. «Speriamo, ma nelle mie condizioni è meglio essere pragmatici. Devo assentarmi per un periodo e, qualora mi capitasse qualcosa, onde evitare pasticci ereditari desidero sistemare alcune faccende che ho qui in Germania.»
Il notaio inforcò gli occhiali, lesse il manoscritto. «Certo… certamente, si può senz’altro fare.» «Allora facciamolo!» «Per una somma così ingente, vediamo…notula più spese bancarie… – trafficò con la calcolatrice, – sono quindicimila duecento marchi.» Aquila firmò l’assegno, ne compilò altri due non trasferibili equivalenti in marchi pari a quasi mezzo milione di euro ciascuno. Erano datati 20 dicembre 2000 e intestati rispettivamente ai suoi due unici nipoti. «Quindi, qualora per il 20 dicembre non mi sia fatto vivo, la somma sarà automaticamente devoluta alle persone intestatarie degli assegni i cui estremi sono nella lettera.» «Esattamente, Herr Baldi» confermò il notaio. Aquila si fece rilasciare notula e relative ricevute, fotocopiò assegni e documenti, prese a nolo dalla banca una cassetta di sicurezza e, eccetto le fotocopie, ci pose il resto. Il notaio la chiuse e rilasciò regolare ricevuta di presa consegna chiave. «Rimangono ancora quattromila marchi, Herr Baldi.» Aquila sorrise. «Mi dà già per morto. Lasciamoli sul conto, c’è qualche possibilità che sopravviva, no? A quel punto, ritirando gli assegni, è come se non fosse successo nulla.» «Oh… certo, certamente, mi scusi Herr Baldi…» Uscito dalla banca, Aquila si diresse al vicino ufficio postale, in una busta inserì le fotocopie dell’intera documentazione, la lettera in lingua italiana e spedì il plico per raccomandata a uno studio legale di Roma che egli conosceva. Subito dopo prese un taxi e si diresse verso Moabit, doveva fare degli acquisti.
Erano le 15.00 ore di Greenwich. All’interno del Baton Rouge le luci erano rosse
e il silenzio intervallato solo dal lontano eco delle macchine. «Dove siamo?» chiese il comandante all’ufficiale di rotta. «A 49° Latitudine Nord, 5° Longitudine Ovest, al largo dell’estrema punta sud della Cornovaglia, signore.» «A sud delle Scilly, Freedom sta andando in maniera sostenuta.» «Evidentemente, cerca di recuperare il tempo perduto.» «L’attuale rotta?» «Sud, sud-ovest.» «Potrebbe portarci ovunque.» «Sì, ma se non fa una virata di almeno venticinque gradi verso ovest entro due ore, le rotte ipotizzabili saranno solo due.» Il comandante raggiunse la postazione sonar. «Ebbene Tompson, come andiamo?» «Mi annoio comandante. Quella nave a dritta che ci sta portando non si sa dove, è monotona.» Flitcher, sorridendo, batté leggermente la mano sulla spalla del giovane sottufficiale vice ecogoniometrista.
Dall’altra parte dell’Oceano, il Segretario di Stato era in linea con il giudice Maxwell. «Novità da Mosca, George?» «Nessuna. Buio pesto.» «Non ti suona strano questo silenzio?» «È questo che oltremodo ci preoccupa, Simon. Ciò significa che abbiamo a che fare con un’operazione magistralmente concepita e condotta. Stiamo camminando in un campo minato, se grattassimo ulteriormente la superficie, potremmo rischiare di venire allo scoperto, vanificando i nostri sforzi.» «Anche il presidente è d’accordo a non calcare la mano. La faccenda sta
assumendo contorni sempre più delicati e, poiché non manca moltissimo al termine del viaggio, lasciamo che il botto avvenga, prove alla mano, quando in acque territoriali avremo bloccato Freedom e sequestratogli il carico.»
Fu Artmenko che prendendo la parola, espose cronologicamente gli avvenimenti verificatesi o presunti tali iniziati quel venerdì sei ottobre. La reazione dei membri del comitato fu di sorpresa, scivolando poi in un crescendo esagitato. Il serafico generale Vladimir Nicolayevičh Uglanov, ex capo della seconda direzione del GRU e attuale responsabile della FSO, uomo dalla consumata esperienza di spionaggio e controspionaggio militare, vuotò il fornello della pipa all’interno del posacenere, quindi intervenne ponendo il problema sotto un diverso profilo, grossomodo in linea con quello del generale Petrov. «Sono d’accordo con il generale presidente, quando afferma che il pericolo è più virtuale che reale. La relazione di Ivan potrebbe indurci a pensare che ci sia stata una qualche falla nel nostro sistema, ma ponendo le cose nella giusta prospettiva, salta fuori tutt’altro. Mockba è salpata nella notte tra il primo e il due ottobre, i vertici della CIA sono stati visti salire alla casa bianca venerdì sei. Nel nostro mestiere cinque giorni sono un tempo astronomico, l’inerzia degli americani ha intervalli brevissimi e le loro risposte in termini operativi sono pressoché immediate. Se qualcuno avesse volutamente fatto filtrare delle informazioni, ciò sarebbe avvenuto prima che Mockba fosse in alto mare, diversamente che senso avrebbe? Sarebbe come chiudere il recinto quando i buoi sono scappati. Non si capirebbe né il perché di questa loro lentezza, né perché gli SS-20 non fossero stati bloccati prima dell’imbarco, informando l’Ispettorato Generale dell’Esercito facendo compiere una verifica nei depositi di Khariskjia. Secondo, come affermato in precedenza dal Presidente Petrov, nessuno ha un monitoraggio della Russia migliore del nostro e in questo momento c’è una calma assoluta. È chiaro che, se i sospetti di alcuni fossero fondati, assisteremmo a un velato, discreto trambusto, unitamente all’essere stati i primi a esserne informati. La logica conclusione di ciò che presumibilmente sta accadendo, è che tra mercoledì e giovedì della scorsa settimana un loro satellite abbia incidentalmente centrato Freedom segnalandone la rotta. Sappiamo che ultimamente gli americani hanno perso alcuni satelliti spia da molto in orbita, sappiamo inoltre che conoscono l’intensità delle emissioni radioattive di ogni nostra singola testata nucleare; possiamo quindi dedurre che il lancio di quei due loro satelliti era stato probabilmente già da tempo programmato per rimpiazzare quelle perdite. A seguito del rilevamento radioattivo emanato dal carico di
Freedom, forse e non lo sappiamo, possono aver colto l’occasione per inserire i due ultimi in una fascia orbitale in grado di rivelare e forse seguire il cargo; tutto ciò, spiegherebbe anche i movimenti dell’MI-6. Poiché quelle sorgenti potrebbero rappresentare un pericolo e, con ogni probabilità, sono state captate sopra il Mare di Barents o quello del Nord, quest’ultimo considerato dagli inglesi mare nostrum, gli americani avranno avvertito i loro cugini britannici. – infine Uglanov concluse il lungo monologo, dicendo – Ammesso che il tutto non sia frutto della nostra emotiva immaginazione, sono incline nel ritenere che stiano brancolando nel buio, cercando di comprendere il perché di quelle emissioni.» Quelle parole riportarono equilibrio stemperando l’aria. Intervenne il rude tenente generale Aleksey Borosovičh, Capo di Stato Maggiore della seconda armata corazzata. «Mettetevi d’accordo! Artmenko nella sua relazione ha affermato che esistono motivi di ritenere che Freedom possa esser seguita da qualche loro unità subacquea.» Rispose l’uomo chiamato in causa. «La logica conduce a questa conclusione, Aleksey. Possibilità del resto ampiamente prevista nel piano, per questo il professor Markov ha introdotto la variante di mare; capitolo cinque, paragrafo quattro…» Artmenko fu interrotto dal non meno grezzo colonnello generale Jiry Nikolaenko, comandante del primo corpo d’armata di stanza presso Mosca. «Non perdiamoci in chiacchiere! Ognuno di noi conosce il piano. Vieni al punto! Se non funzionasse? Bisogna porre anche questo nel conto.» L’altro, stava per rispondere, ma Petrov lo prevenne. «Sai bene, Jiry, che anche il piano migliore ha sempre una qualche percentuale di rischio. Personalmente, credo che stiamo speculando su possibilità teoriche, in ogni circostanza il piano funzionerà, in quelle navi ci sono uomini in grado di padroneggiare qualsiasi situazione.» Fece un cenno allo smilzo professor Arcady Markov il quale, alzatosi dalla poltrona andò alla gran carta geografica posta sulla parete in fondo. «Sappiamo, – disse Markov – che la variante di mare è stata ideata nell’eventualità che Freedom fosse localizzata e seguita. Desidero ricordare che il piano prevede due possibili punti in cui attuarla, entrambe su rotte intensamente trafficate. – con l’indicatore andò al centro della carta geografica –
I punti rispettivamente si trovano: il primo a 35° 30’ Latitudine Nord, 22° 45’ Longitudine Est; il secondo quassù, a 40° 48’ Latitudine Nord, 28° 53’ Longitudine Est. Girasole è ora ancorata in alto mare a circa metà percorso tra le due coordinate; qui, a trenta miglia a nord-est di quest’isola. In questa sede dobbiamo decidere se e dove attuare la variante. Alla luce dei fatti esposti, il mio parere è affermativo con preferenza per il primo punto.» «Dov’è ora Freedom?» chiese Petrov. «Alcune ore fa doppiava la punta sud della Cornovaglia» rispose Artmenko. Il Presidente del GRU rifletté un istante, infine prese la decisione per tutti. «La variante sarà effettuata nel primo punto. È opportuno liberarci di quest’ipotetico inseguitore prima possibile. Quando arriverà laggiù? E da lì alla destinazione finale?» Rispose Uglanov che con la calcolatrice tascabile aveva già eseguito il computo. «Assumendo che mantenga l’attuale media, grossomodo dovrebbe arrivare al primo punto tra una settimana, entro venerdì 20; da lì alla destinazione finale, con andatura elevata dovrebbe impiegare tre giorni, qualora incontrasse condizioni meteorologiche avverse, anche quattro o più.» «Siamo ampiamente nei tempi previsti. Facciamo compiere la variante nella nottata tra venerdì 20 e sabato 21. Entro quanto le due unità devono esser poste in allerta?» «Minimo quarantotto ore prima» rispose Artmenko. «Bene! Al momento opportuno siano trasmessi gli ordini. – il generale Petrov si alzò dalla poltrona e mise fine alla riunione, dicendo: – Per ovvie ragioni di sicurezza, questo comitato non si riunirà fino all’inizio della terza fase dell’operazione. Per eventuali, urgenti comunicazioni, ognuno sa come porsi in contatto con l’altro.» Mentre i partecipanti uscivano dalla sotterranea sala, il capo del GRU fece segno a Uglanov e Artmenko di rimanere. Usciti gli altri, rivolto ai due modificò il proprio precedente ordine, comunicando: «La variante di mare anticipiamola di ventiquattrore; che sia eseguita nelle prime ore della notte tra giovedì 19 e venerdì 20. Come sapete, martedì dovrò partire assentandomi da Mosca per alcuni giorni, in mia assenza, massima all’erta alle dogane, tutti i eggeri dei
voli provenienti dall’Europa occidentale e dagli Stati Uniti devono discretamente are al setaccio; porre inoltre sotto controllo le comunicazioni, in particolare quelle satellitari e telefoniche, sia normali, sia mobili. – tacque un momento, infine terminò dicendo: – Nell’estrema ipotesi in cui dovesse profilarsi con certezza la cattura del carico, impartire l’ordine per attivare l’opzione zero.»
A Berlino erano le 18. In quel momento Aquila diretto all’hotel Forum, camminava di fianco alla gran torre televisiva che, con le sue mille luci, illuminava l’Alexanderplatz. Aveva al seguito un’elegante valigia da viaggio al cui interno c’erano abiti acquistati nel pomeriggio e pagati duemila dollari. L’andatura era eretta e lo sguardo fermo, come di chi ha le idee chiare; l’uomo appariva calmo e sereno, pronto per la grande avventura.
SECONDA PARTE
Capitolo XIII
Mosca. Sabato 14 ottobre.
Il basso e tozzo maggiore della FSB Josif Galynskij, era il capo ufficio A del primo dipartimento sicurezza del distretto di Mosca; ufficio che coordinava e dirigeva gli agenti addetti alla sorveglianza e controllo delle persone fisiche. Costui, uomo calvo, pignolo e zelante, ava quasi tutto il tempo in ufficio a spulciare, leggere e controllare le pile di documenti concernenti ai giornalieri rapporti dipartimentali che ogni mattina, puntualmente, gli venivano ordinatamente fatti trovare sul piano della scrivania. Quel sabato non faceva eccezione, nel suo ufficio al terzo piano del palazzo sulla prospettiva Kutuzovskij, Galynskij era stoicamente assorto sui rapporti compilati dai suoi uomini il giorno precedente. Ora aveva tra le mani una serie di foto accompagnate dal relativo modulo azzurrino di servizio che, oltre alla relazione, riportava luoghi e dati delle persone sorvegliate. Dopo aver attentamente osservato le foto e letto il rapporto, pensò: “Ecco di nuovo i giocatori di bridge, quei fannulloni lautamente mantenuti dallo Stato” siglò le carte e, con un gesto di disgusto, pose il tutto sulla vaschetta documenti da archiviare. Subito dopo, la lucente testa calva scomparve lentamente dietro la pila delle carte.
Il tenente colonnello della FPS{43} era nel suo ufficio all’interno della palazzina servizi dell’aeroporto intercontinentale moscovita di Šerementevo due. Dopo aver dato disposizioni per l’inasprimento dei controlli sui voli provenienti da alcune località, alzò nuovamente la cornetta e chiamò il responsabile del centro elaborazione dati del settore arrivi. «Anche loro vogliono l’accesso diretto ai nostri archivi?» rispose chiedendo, l’ingegnere responsabile. «Viene dal comando della FSO. Hanno chiesto a tutti i posti di frontiera d’inasprire i controlli sui eggeri provenienti dagli Stati Uniti e dall’Europa occidentale. Evidentemente avranno i loro buoni motivi. In ogni caso, si può
fare?» «Sicuro. Entro questa sera potranno avere le linee per accedere al registro OVIR. Riguardo ai duplicati video delle telecamere a partire da giovedì, quelli non potranno essere pronti prima di domani sera.» «Va benissimo» asserì il tenente colonnello.
In Zitnaja ulica, al secondo piano nell’ala est del grande edificio degli interni, il generale Uglanov presiedeva una riunione con i due responsabili dei centri elaborazione dati della FSO. «Di fatto questo sistema già esiste. – affermò il più anziano dei due funzionari – La differenza è che ora dobbiamo prima interrogare la FPS, poi i nostri consolati esteri. Queste nuove esigenze, impongono che bisognerà modificare il software per il controllo incrociato diretto tra i dati dei eggeri arrivati e computerizzati nel registro OVIR{44} della FPS, e i dati computerizzati nei nostri consolati esteri relativi ai visti d’ingresso da loro rilasciati.» «È urgente» affermò il generale. «Oggi è sabato, per allestire una squadra software occorrerà una mezza giornata. Nella migliore delle ipotesi, il sistema non potrà essere operativo prima della serata di martedì» disse il funzionario più giovane. «Prima entrerà in funzione, meglio sarà» rispose Uglanov.
Il taxi aveva lasciato il grande raccordo anulare. ato da poco davanti a una centrale elettrica, aveva attraversato uno scalo ferroviario e ora si trovava sull’Akademika Korolëva ulica, all’altezza dell’altissima torre Televisiva moscovita. Davanti al Museo dei Cosmonauti il taxi svoltò a destra, prendendo la prospettiva Mira, la grande arteria che taglia la parte nord di Mosca letteralmente in due. Il eggero seduto dietro, in un elegante completo grigio di taglia italiana sotto un impermeabile avana, sembrava non prestare attenzione allo sballottare dell’auto causato dagli ammortizzatori scarichi e dal cattivo fondo stradale, era taciturno e pensieroso. Al controllo aporti di
Šerementevo due, era stato trattenuto per due ore dalla polizia aeroportuale per accertamenti e dopo il ritiro del bagaglio, il controllo doganale era stato severo e minuzioso. Ciò oltre a fornire prova che i ciabattini berlinesi conoscevano il loro mestiere, dimostrava che le autorità aeroportuali e di frontiera erano state poste in stato di allerta. Uscito dalla dogana, aveva prima cambiato cinquemila dollari in nuovi rubli, poi chiamato un numero telefonico di Mosca corrispondente a un nome fatto cercare la sera precedente presso il servizio Telecom di Berlino. Era stato fortunato; quel sabato pomeriggio il suo vecchio amico, professor Aleksandr Vassilyevičh Evašutin, conosciuto nella casa dei letterati nel lontano ’87 e allora docente di sociologia e storia contemporanea presso l’università Statale di Mosca, era in casa. Le labbra del eggero si tirarono in un mesto sorriso al pensiero che era dal maggio del ’91 che non lo vedeva, né sentiva. Tre quarti d’ora dopo, sotto una leggera pioggia, il taxi si fermò in fondo alla centralissima Rozdestvenka ulica, poco prima dell’incrocio con la prospettiva Teatral’nyj, alle spalle della famigerata Lubjanka. Tra le soffuse note dell’ouverture dello schiaccianoci di Tschaikowsky, si avvertiva un gran movimento. Le mille luci dei pregiati lampadari di cristallo, facevano risaltare sia gli ori fasulli delle bellissime prostitute a caccia di clienti, sia lo scintillio di gioielli e cappe di lamé indosso alle sofisticate signore, dando luogo a balugini di luci colorate che si componevano in forme caleidoscopiche. Ambigui personaggi pacchianamente vestiti all’occidentale, con i loro codini e chiome impomatate gravitavano nell’ampia hall, molti erano stravaccati nei lussuosi divani, altri in andirivieni da o per il salone del locale casinò alberghiero. L’uomo accompagnato da un valletto col bagaglio, s’incamminò verso la reception. «Sì, abbiamo il fax, ha una camera prenotata per dieci giorni, la 2.27» disse in un tedesco incerto, il giovane uomo dietro la reception dell’esclusivo Hotel Savoy. Il cliente per non porre in imbarazzo l’impiegato, rispose in russo. «Sono qui per lavoro, appena concluso dovrò tornare in Germania. Dieci giorni sono il tempo massimo. Potrei trattenermi meno, molto meno.» L’altro alzò gli occhi dal aporto. «Nessun problema Herr Ticktmann… complimenti per il suo russo, ha un perfetto accento moscovita, non si direbbe che…»
«Grazie, vorrei salire in camera» tagliò corto Aquila.
In quel momento un cargo con un unico fumaiolo, si trovava saldamente ancorato a 39° Latitudine Nord, 25° longitudine Est. Sulla sua bianca poppa spiccava la scritta in caratteri neri Girasole; batteva bandiera panamense e sembrava l’esatta copia di Freedom, stessa stazza e dimensioni, identici colori e forme, solo il carico oltre al nome e alla bandiera differiva dalla nave gemella. Un uomo biondo e robusto entrò nel ponte di comando con uno stampato, lo porse a un tale intento ad osservare la TV via satellite. «Variante sul punto A, Vassily, è per giovedì notte» disse in tono preoccupato. L’uomo abbronzato e con pochi capelli spense il televisore, tolse il foglio dalle mani dell’altro e lesse attentamente il contenuto senza proferire parola.
Sul Golfo di Biscaglia, duecento miglia al largo della Gironda, in silenzio, il tenente colonnello degli spetsnaz porse al comandante della Freedom un messaggio appena arrivato via satellite. Dopo averlo letto, il guercio fece un gesto di stizza, esclamando: «Maledizione! Questo non ci voleva.» ata una dozzina di minuti, parlò sull’interfono. «Oleg, macchine avanti tutta. Mantenere il massimo del regime fino a nuovo ordine, da ora in avanti silenzio radio e satellitare, lasciare attivi solo i canali in ricezione.» Mezz’ora dopo, un capitano spetsnaz entrò nel ponte di comando, anch’egli con un foglio in mano. «È arrivato in questo momento colonnello, è in doppia cifra» disse nel porgerlo al superiore. Scese le scalette del ponte, nella sua cabina, il tenente colonnello iniziò a criptare il messaggio, scrivendo la decodifica su un taccuino. Terminato, prese da un cassetto un aggeggio analogo a un telefono cellulare, lo accese e digitò una sequenza di cinque numeri inserendoli nella memoria. Spento il dispositivo, lo ripose al suo posto e chiuse di nuovo il cassetto a chiave.
Sistemato il bagaglio, Aquila si era fatta una doccia, aveva bevuto un cappuccino e mangiato due biscotti. Alzata la cornetta, aveva fatto prenotare un tavolo per
due in un noto ristorante, infine si era concentrato sul diagramma iniziato a Berlino. Erano le 19 ore locali quando sbirciò l’orologio, era giunto il momento! Alla reception stava per chiedere un taxi, ma cambiò idea, decidendo di prendere la metropolitana. Sul marciapiede girò a destra e, di lì a poco era in piazza della Lubjanka. Lanciò un’occhiata all’ex Centro, la facciata con le finestre ancora illuminate risplendeva di un intenso turchese, il riverbero sul suolo bagnato dalla pioggia ne evidenziava l’austera imponenza. Contenne un brivido, tirò dritto attraversando la piazza, superò la fermata dei filobus e varcò infine l’ingresso della metropolitana. Lungo il sottoaggio dalle marmoree pareti intensamente illuminate dai grandi lampadari di cristallo, acuì i sensi, osservando i particolari: l’ambiente interno era in netto contrasto con la magnificenza della struttura, ubriachi e mendicanti tappezzavano il percorso, si notavano ovunque rifiuti e il cattivo odore trafiggeva le narici. Quindici minuti dopo scendeva alla fermata Arbartskaja. Erano le venti, quando l’uomo con le spesse lenti scese dal taxi davanti all’ingresso del ristorante Arbart, al 29 di Vozdvizenka ulica, ad attenderlo c’era Aquila. I due per un breve momento si fissarono, poi amichevolmente si abbracciarono. «Che sorpresa, che piacere rivederti dopo tutto questo tempo. Sei scomparso non ricordo quando e improvvisamente riappari.» «Fu nel ’91, Aleksandr, ma andiamo, ne parleremo a tavola.» Mentre al seguito di un cameriere attraversavano la gran sala, sbirciando tra un tavolo e l’altro, Aquila pensò: “L’Arbart, un tempo frequentato da artisti e letterati, ora sembra pieno di mafiosi e puttane al loro seguito; nondimeno non ha ancora completamente perso il suo smalto.” Il colore dominante era il rosso, le gialle luci diffuse ponevano in risalto i velluti, dando una sensazione di calda intimità che metteva i clienti a loro agio. I due furono fatti accomodare a un tavolo in fondo sulla destra, vicino a una vetrata. «Ti trovo bene Aleksandr Vassilyevičh, insegni ancora all’università? Lubjan e Sofija come stanno?» chiese Aquila, all’amico. «Oh, Lubjan bene, frequenta il terzo anno di chimica all’università tecnica qui a Mosca. Sofija ha problemi con le artriti che di questi tempi iniziano a farsi seriamente sentire. Riguardo a me, abbastanza bene, da oltre un anno in pensione, scrivo saggi di storia e qualche articolo per richiesta dell’associazione letteraria.»
«In pensione? Ma sei ancora un ragazzo.» Il professore sorrise, Aquila notò la perdita di alcuni denti e la carie che stava devastando gli altri. «Ho cinquantanove anni e qui in Russia pesano, altro che ragazzo; ma tu piuttosto, sei per nulla cambiato, parlami di te, ti sei risposato? Quanto ti trattieni? Sparisti senza lasciare tracce. - abbassò lo sguardo - Sai… io e Sofija abbiamo visto sparire più di un nostro amico nell’arco degli anni, pensavamo al peggio…» L’altro stava per rispondere, quando sopraggiunse il cameriere. Ordinarono una cena tipicamente russa: caviale Beluga e salmone del baltico, riso al caviale, žarennaja utka (anatra arrosto con patate novelle e cipolla), boeuff Strogonoff (spezzatino in panna acida e senape) e per finire il gelato. Aquila si rivolse all’amico. «Vediamo se rammento: Sassicaia?» L’altro, sorrise di nuovo «Hai una memoria di ferro.» L’italiano sorrise a sua volta, ordinando Sassicaia d’annata e vodka Moskovoskaja. «Questa cena ti costerà un occhio della testa» fece Evašutin. «Sono a rimborso spese… No Aleksandr, non ho ripreso moglie. Sono arrivato nel primo pomeriggio da Berlino, mi tratterrò solo qualche giorno… appena terminato, ripartirò.» Poi, tra una sequela di calibrate menzogne e qualche sfumata verità, l’italino iniziò a raccontare la propria storia. «Fu nel Maggio del ’91 quando, posto improvvisamente in contatto col Frankfurter Allgemeine, fui costretto a partire urgentemente. Ricordo che provai a telefonarti più volte, ma non trovai nessuno. Allora le due Germanie si erano da poco riunificate e l’impatto fu devastante. Al fine di costruire una cerniera culturale per accelerare l’integrazione, attraverso articoli su quotidiani e settimanali a grande tiratura, laggiù cercavano giornalisti occidentali che conoscessero il mondo comunista. Ebbi un contratto per diciotto mesi come collaboratore esterno, periodo che ai quasi interamente nell’ex D.D.R. Al termine me ne tornai in Italia, acquistai una piccola proprietà in Toscana e da allora non mi sono quasi più mosso. Durante questi anni, ho scritto qualche articolo per alcuni giornali italiani, ma poca roba, poi, recentemente, sono stato nuovamente contattato dal Frankfurter…» In quel momento arrivarono i primi piatti, lentamente Aquila fece scivolare una busta sul tavolo.
«Ah, dimenticavo…ricordo che prima di partire feci un presente a Lubjan, ma non potei farglielo avere - indicò la busta - è il presente di allora in versione aggiornata.» «Vuoi scherzare, Oscar?» «Ti prego, da tanto me lo ero ripromesso…» «Ma…» L’italiano non lo lasciò finire. «Sono solo mille dollari. Li spenderà con la ragazza.» «Mille dollari… quasi tre mesi di pensione.» «Di cosa stavamo parlando Aleksandr…?» «Che recentemente, sei stato nuovamente avvicinato dal…» «Ah, sì… – l’italiano abbassò lo sguardo e cambiando lingua, continuò in tedesco – sono di nuovo qui sempre incaricato dal Frankfurter per cercare del materiale al fine di stendere degli articoli riguardanti l’eventuale, deprecabile, possibilità che nuclei di qualche Repubblica con tendenze separatiste, oppure terroristi facenti capo alle varie fazioni della Jihad Islamica, possano, a scopo di ricatto politico o ritorsione terroristica, sottrarre armi o missili nucleari da qualche vostro arsenale.» L’altro sgranò gli occhi, bevve un sorso di vino e lentamente, rispose nella stessa lingua: «Sottrarre armi nucleari alla Russia da parte di gruppi indipendentisti finalizzati a creare una Repubblica autonoma o, terroristi facenti capo al variegato mondo della Jihad Islamica?» «Sì, Aleksandr. Allo stato attuale, la Russia è un colabrodo ma è ancora un’immensa potenza nucleare e questo non fa dormire sonni tranquilli all’Occidente. Loro hanno una paura tremenda che qualche vostra arma possa finire in mani sbagliate.» Dietro le spesse lenti, i grigi occhi del professore si velarono. Per un lungo momento masticò in silenzio, infine scosse lentamente la testa, dicendo: «No Oscar, non credo sia questo il punto.»
Aquila intuì che le proprie idee collimavano con quelle dell’amico. «Vuoi affermare che il pericolo non esiste?» «Tutt’altro! La Russia si stava polverizzando, Putin sta dandosi daffare cercando di raccogliere i cocci e ora, essa è solo e semplicemente a pezzi. Il problema si pone, ma voi lo vedete sotto un profilo distorto, l’ipotetico pericolo non viene da quella direzione.» «Vorrei conoscere il tuo pensiero in merito, Aleksandr…» «Eccetto la Cecenia, non esistono, allo stato attuale, regioni separatiste con movimenti autonomisti. Paradossalmente, questi potevano sorgere ai tempi dell’Unione Sovietica in qualche Repubblica culturalmente e industrialmente evoluta, con una specifica etnia e confinante con l’estero; ma questo è già accaduto a cavallo del crollo del Comunismo. Le Repubbliche Baltiche e centro Asiatiche, la Bielorussia, l’Ucraina e la stessa Georgia, sono ora indipendenti, i separatisti siberiani sono da sempre bande disorganizzate di analfabeti senza capo né coda, sorvegliate e che non fanno paura neanche al gatto.» «Mi riferivo soprattutto alla Cecenia, in particolare ai suoi nuclei islamicoseparatisti, all’interno dei quali potrebbero essersi infiltrati gruppi facenti capo a una o più variegate fazioni del terrorismo islamico.» Ora il professore aveva sotto gli occhi, il piatto col riso. «Sono due problemi distinti e separati. Il separatismo ceceno è cosa diversa dal terrorismo islamico. Fin dal tempo dell’Ottomano, la Cecenia da sempre è stata una terra cuscinetto dei grandi imperi e il suo popolo ha una storia particolare. I ceceni sono mussulmani, hanno una loro forte etnia e ne sono fieri. Il susseguirsi dei ciclici gioghi della storia ha forgiato nel loro carattere quello spirito indipendentista, ribelle e combattivo, ma è un piccolo, poverissimo popolo, profondamente radicato alla propria terra e tradizioni. La loro società è patriarcale, costituita da montanari e contadini, bravi combattenti, con valori di onestà, coraggio, fede e amicizia. Anche se tra le loro fila si sono infiltrati nuclei di terroristi islamici, credo siano lontani dall’idea di utilizzare armi nucleari a scopo di ricatto politico o ritorsione terroristica, qualche bomba nella metropolitana o un’auto imbottita di esplosivo, ma per il resto non saprebbero far altro. L’uso di armi nucleari è fuori del loro DNA e portata mentale. Ripeto, non è da lì Oscar che può venire questo tipo di pericolo. Altro discorso è il terrorismo esteso ormai a livello planetario, dalla GIA, al MIA, all’AIS Islamica, che collegano al Fatah di Abul
Nidal, gli Hezbollah di George Hamas e la fazione più integralista e pericolosa: Al-Qaeda dello sceicco Osama bin Laden, il principe del terrore, ospitato e protetto in Afghanistan dal regime integralista dei talebani. Questi movimenti però non hanno un loro giuridico e definito territorio, essi sono ospitati, foraggiati e benevolmente protetti da Stati con una forte componente integralista quali Algeria, Iraq, Iran, Siria, Libano, Yemen, Sudan, Somalia e Afghanistan i quali, proprio perché danno asilo a certi movimenti, sono isolati dal resto del mondo, incluso buona parte di quello arabo, e questo per loro è fonte di notevoli problemi. Pur nelle loro contraddizioni e nel cieco odio verso l’Occidente, credo che riguardo allo specifico, essi sono molto accorti. Sono incline nel ritenere che mai questi Stati permetterebbero alle suddette fanatiche fazioni di far diventare i loro territori basi per ritorsioni o attacchi terroristici mediante l’uso di armi atomiche o nucleari. Il rischio sarebbe troppo grande. Per fare uso di queste armi, Oscar, sai che ci vogliono basi logistiche organizzate; cosa di cui queste bande di esaltati, senza un proprio territorio non sono e non saranno mai all’altezza di organizzare. Mi ripeto nell’affermare, che una cosa è riempire un’auto di esplosivo o dirottare degli aerei, tutt’altra cosa è fare uso di ordigni nucleari. – il professore scosse la testa – No! Non credo che il pericolo venga da lì. Scrivilo tranquillamente nei tuoi articoli, senza il timore di essere un giorno smentito. » «Gli Stati del Mondo Arabo altrimenti detti canaglia? Mi riferisco ad alcuni di quelli poc’anzi menzionati.» «Questo porta direttamente ai tuoi interrogativi. Impianti e arsenali nucleari dell’allora Unione Sovietica erano disseminati in una grandissima aerea. Dopo la frammentazione, non è da escludere che in qualche Repubblica Asiatica, in particolare nel Kazakistan o nell’Uzbekistan, siano stati sottratti da un qualche deposito alcuni ordigni nucleari di modeste dimensioni e facilmente trasportabili. Ordigni che, per il tramite di alcune organizzazioni mafiose, siano stati commercializzati e acquistati da qualcuno dei citati paesi i cui poteri, ospitano e a volte convivono con gruppi terroristici tipo Al-Qaeda. Questa terribile ipotesi, non la escluderei in maniera categorica; sebbene lontana, potrebbe essere accaduta.» «Per il tramite di organizzazioni mafiose, Alexandr?» «Sì, sempre per il tramite della mafia! In Russia e nelle ex Repubbliche Sovietiche, ogni canale per commerci illeciti e traffico d’armi, è soltanto lei che
lo detiene. Nessun altro!» «Movimenti dell’estrema destra nazionalista collegati a Zhirinovskij? In Occidente c’è molta apprensione.» Il professore sorrise. «La destra in Russia è il niente. Essa ha saputo raccogliere solo le briciole del gran turbamento verificatosi in questi anni; di là da alcuni simpatizzanti di strada, non ha altro seguito. Ora in Russia una buona fetta di potere lo detiene ancora la burocrazia che, sulla scia dello Stato Sovietico centralizzato, è ancora lungi dall’essere ridotta o marginalizzata. Una seconda di non secondaria importanza è della mafia e la terza dell’esercito e più in generale, delle forze armate.» Aquila spostò l’argomento sotto un diverso punto di vista. «Sembra che la Perestrojka prima e l’occidentalizzazione poi, non abbiano dato grandi risultati. Oggi a Šerementevo due ho notato che le ali dell’aeroporto sono state ampliate e i servizi interni modernizzati all’occidentale, ma le strade sono ancora pessime. Mosca è piena di straccioni, il Savoy di mafiosi e prostitute, qui sembra lo stesso, la vita mi è apparsa carissima e nel breve volgere di pochi anni le abitudini sembrano stravolte anche nel comune linguaggio. A parte il termine compagno che, dopo il crollo del regime era ovvio che scomparisse, ma non esiste quasi più neanche il tu e il voi, ora vi date del lei alla maniera mitteleuropea. Mi è sembrato di capire che siete ancora senza capo né coda, alla ricerca di voi stessi e che in giro ci sia schizofrenia. Che è successo alla Russia in questi anni, Aleksandr?» Il professore scolò mezzo bicchiere di vodka, si deterse le labbra col tovagliolo e, come in una conferenza accademica, continuo: «La Perestrojka iniziò presto e male. Essa avrebbe avuto bisogno di un lungo tempo di ammortamento durante il quale bisognava prima riformare lentamente l’asfissiante burocrazia dello Stato, poi, attraverso mirate campagne, introdurre il concetto d’imprenditorialità e di libero mercato, infine iniziare il programma. Ciò non si è verificato perché Gorbaciov era ambizioso e aveva fretta. Al fine di accelerare il processo di modernizzazione, egli iniziò sistematicamente a smantellare l’imponente industria pesante per convertirla in leggera e questo fu un errore fatale. Noi non avevamo il Know-how, tantomeno l’imprenditorialità necessaria per una simile, enorme metamorfosi, per non parlare del mastodontico apparato statale teso a strangolare sul nascere qualsiasi iniziativa. Del resto, mio caro amico, queste cose le conosci bene, ricordi? Verso la fine degli anni 80 ne parlammo
diffusamente.» «Certo, ma continua Aleksandr Vassilyevičh…» «Ormai il cammino era tracciato e, dopo il crollo del comunismo, la via obbligata. Sotto Eltsin il processo è proseguito degradandosi, con il risultato che oggi in Russia non esiste più un’industria di un certo rilievo, nel senso ampio del termine, le uniche sono quelle a capitale straniero. – alzò gli occhi dal piatto della žarennaja – Non abbiamo più neanche una fabbrica di trattori. Tutto ciò ha portato conseguenze incalcolabili; oltre alle tecnologie, trasporti, collegamenti e altro che sono venuti a mancare, si sono creati decine di milioni di sbandati. Le masse, abituate a essere inquadrate collettivamente dallo Stato, dove si lavorava poco e male ma che in qualche modo permetteva loro la sopravvivenza, allora, come ora, non concepirono scelte diverse, perché a ciò non erano state educate; per scelte diverse intendo economia di mercato e piccola, media imprenditorialità. Conseguentemente, le masse sono scivolate in un piano inclinato, divenendo sempre più abuliche e fataliste, perdendo definitivamente la già poca voglia di fare che avevano prima. Contestualmente a questo lento, inesorabile cataclisma, il crollo dell’Unione Sovietica e il collasso dei potenti apparati di partito e dell’ordine costituito, hanno portato un ciclone di sfrenata libertà nella morale e nel costume. Brodo che è stata la coltura socio economica che, prima, timidamente, poi in maniera dirompente, ha permesso il fiorire e in seguito l’esplodere di due grandi fenomeni. Da un lato, l’avvento di un’oligarchia cinica e senza scrupoli, costituita essenzialmente da ex funzionari e burocrati pubblici che, durante e subito dopo il collasso, si sono trovati a dirigere, senza quasi più vincoli, i beni dello Stato, dalle banche alle immense fonti energetiche, dagli immobili ai trasporti alle comunicazioni e così via. Beni che, privatizzati col beneplacito dell’amministrazione Eltsin, sono stati presi d’assalto, saccheggiati, acquistati a prezzi simbolici prendendone le concessioni a volte gratis, accumulando nel breve volgere di pochissimi anni ricchezze immense. Tutto questo, e siamo al secondo grande fenomeno, è successo parallelamente al nascere e all’affermarsi di potenti organizzazioni mafiose, la maggior parte colluse con organi dello Stato e che nel tempo hanno assunto un potere non secondo a nessuno. – fissò per un momento l’amico – Mosca e San Pietroburgo sono diventate i crocevia di ogni traffico. Calderoni ove quasi tutte le attività sono controllate e gestite dalla mafia, dove tutto è in svendita, dal plutonio alle alte tecnologie, dalle armi ai beni dello Stato alle foto di famiglia, alla propria persona e così via! Questo è l’attuale pericolo, Oscar, le grandi organizzazioni malavitose in grado di gestire ogni cosa, forse anche armi
nucleari, non la Cecenia o gruppuscoli di movimenti separatisti vari. È questo che devi scrivere nei tuoi articoli. – il professore fece una pausa, scolò mezzo bicchiere di vino e continuò – L’attuale giovane presidente sembra in gamba, è serio, intenzionato a combattere malavita e malcostume, imprimendo una radicale accelerazione all’economia, stringendosi all’Occidente e alla Comunità Europea. Ha idee chiare, ha dalla sua le forze armate ed è ben visto dalla popolazione e come accennavo prima, qualcosa ha fatto; ci sono dei timidi cenni di ripresa, ma francamente non so se riuscirà a padroneggiare la situazione. Sarà un’impresa titanica.» Aquila spense la sigaretta e, cambiando di nuovo lingua riprendendo il russo, affermò. «Già, Aleksandr Vassilyevičh. Dopo il crollo del Comunismo, gli antichi mali mai risolti sono venuti a galla in versione moderna, ma la Russia fondamentalmente è rimasta la stessa. All’inizio, le masse non possedevano nulla e il paese era in mano alla nobiltà. Poi le masse continuarono a non possedere nulla e il paese divenne proprietà del partito. Ora le masse sono ancora a mani vuote d il paese, come il solito, è nelle mani dei senza scrupoli e di chi ha i pugni più duri.»
Era mezzanotte, nell’asciugarsi la faccia Aquila incidentalmente si guardò allo specchio; gli si contrasse lo stomaco. Evašutin, oltre ad essere un’intellettuale di notevole spessore, era soprattutto un amico e lui l’aveva ancora una volta ingannato. Era piombato di colpo nel ato. Di nuovo in quella perfida arena, impegnato ora, in una mortale corsa scandita dai tempi strettissimi di quella diabolica missione, missione molto più importante della loro amicizia, più importante di qualsiasi altra cosa. Uscì dal bagno, si diresse verso il piccolo tavolo, sopra c’era la ventiquattrore col sottofondo aperto e, di lato, il foglio con il diagramma che aveva poc’anzi aggiornato. Gli dette una sbirciata, sulla destra del rombo nel ramo sinistro aveva scritto no e tracciato una linea verso l’alto che si congiungeva con l’orizzontale d’inizio diagramma. Ora i rami erano rimasti due: nel flow di centro organizzazioni criminali e/o terroristiche, nell’altro, organi deviati dello Stato. Si sentì stanchissimo, ma aveva ancora qualcosa da fare. Incastrò le tre lamine d’alluminio formando l’antenna satellitare; la pose sul davanzale della finestra puntandola verso nord e, tramite il cavetto, collegò la base al pin-jack di uscita del notebook. il piccolo computer entrò in word, andò su inserisci e poi su file, sulla casella nome del file digitò un codice che richiamava il programma nascosto di trasmissione, altrimenti impossibile da
attivare, infine digitò: NO MOVIMENTI AUTONOMISTI E/O SEPARATISTI. Contò le parole, “un impulso”. Manovrando il puntatore andò con la freccia in alto a destra, sotto la scritta transmit e pigiò il tasto invio. Quarantacinque secondi dopo, al centro dello schermo comparve la scritta received.
Le grandi antenne paraboliche dell’istituto moscovita di radiotecnica ed elettrocomunicazioni, un organismo controllato dalla FAPSI per metà civile e per metà militare, captarono una brevissima, intensa perturbazione. Nel sotterraneo dell’istituto il pennino del plotter che tracciava il fondo dell’intensità elettromagnetica del traffico satellitare ebbe un’istantanea, anomala impennata. L’operatore di servizio notò il breve guizzo sull’oscilloscopio, subito dopo osservò il plotter, era uno spike di ampiezza non comune. Lesse nuovamente il memo arrivato nella mattinata precedente.
Il nome sembrava un’ironia, era la Šosse Entuziastov (la strada degli entusiasti), la zona più decrepita e malfamata di Mosca. Superato il ponte della ferrovia, il taxi voltò a destra, lasciando la Entuziastov imboccando Rabočil pereulok. «Ferma qui e lascia il tassametro in funzione» disse il cliente in blue jeans e giacca a vento, dando mille nuovi rubli al tassista mostrandogliene altrettanti. Luridi casermoni, scialbi e screpolati, spiccavano contro nere nuvolaglie in rotta e cariche di pioggia; non lontano, diroccati fumaioli di fatiscenti stabilimenti in via di erosione, ora in balia di se stessi, facevano da corollario a quel misero scenario. La notte precedente era piovuto e le piccole strade tutte buche erano ora letti di fanghiglia. Aquila entrò e sparì all’interno di un desolato, ampio cortile, dove tra il fango e la sporcizia giocavano ragazzini mal vestiti e peggio nutriti. Dieci minuti dopo ricomparve. Aveva in tasca un telefono cellulare con scheda prepagata per il massimo importo, una pistola Beretta 92F con caricatore a quindici colpi e silenziatore Knight, un mini registratore Sony a batteria con una micro cassetta vergine da cento ottanta minuti e una piccola bomboletta spray. Quest’ultimo era stato un acquisto istintivo, privo di logica. Sbirciò l’orologio, le 10.15.
Mancava qualche minuto alle dodici, quando Aquila uscì di nuovo dal Savoy. Il luogo dov’era diretto non era distante, poteva raggiungerlo a piedi, ma aveva un po’ di fretta, tra il taxi e il metro decise per quest’ultimo. Alla Lubjanka prese il treno della linea uno, la rossa, la fermata successiva era Ohotnyi Rjad, scese lì. Imboccò la Tverskaia ulica e di lì a poco voltò a sinistra per Brjusov pereulok. A metà della stretta via, spiccava sulla destra la torre campanaria stile gotico della piccola chiesa anglicana di S. Andrea, costruita nel 1882 per la comunità inglese. Giù, in fondo alla strada, s’intravedeva l’edificio del conservatorio moscovita in Nikitskaja ulica. Al leggero fruscio della porta, le fiammelle delle candele poste in fondo alla navata tremolarono, la figura avanzò lentamente, fermandosi dietro l’ultima panca della fila destra. Lo stile era il classico anglicano: mura alte, navata stretta e tetto spiovente. Una grand’effigie di S. Andrea spiccava dietro l’altare, ai lati, sotto le alte e strette finestre, erano raffigurati S. Giorgio e S. Paolo da una parte, S. Susanna e S. Bartolomeo dall’altra. L’illuminazione era debole e l’aria intrisa di un sentore d’antico, incenso e muffa. Il rito domenicale delle dodici da poco iniziato aveva riempito le panche di fedeli, erano per lo più angloamericani dei locali consolati e ambasciate. “Non è cambiato un granché” pensò Aquila nel concentrare lo sguardo sul religioso alto e allampanato che, volgendo le spalle ai credenti, conduceva la funzione ai piedi dell’altare. La figura gli sembrò familiare. Ora il cantico della Gloria Sanctus Agnus Dei era agli acuti ed il rito al suo culmine. Dopo aver preso l’ostia sacra, il prete anglicano lentamente si girò, tra le mani aveva il crocefisso e lo stava alzando verso l’alto. Aquila fissò la faccia da gufo ricoperta da una lunga barba diventata ormai quasi interamente bianca, era lui, era padre Bladov, non vi era alcun dubbio. Di lì a dieci minuti, il chierico iniziò a are con l’elemosiniere. Lo straniero in fondo, vicino alla fila di candele, tirò fuori una banconota da duemila nuovi rubli, scrisse una x sopra l’ultimo carattere della matrice destra e quando l’ometto fu a portata, gli mostrò il denaro, dicendo: «Dia questa banconota a padre Bladov, lo informi che un vecchio conoscente desidera parlargli.» Il brav’uomo sgranò gli occhi, poi tornando ammutolito verso l’altare, si girò confusamente a sbirciare quello strano, sconosciuto personaggio. Poco dopo, mentre con lentezza la chiesa si svuotava, il prete, ritto davanti all’altare,
sembrava fissare quel fedele laggiù in fondo alla navata, ora seduto sull’ultima panca. Con circospezione il religioso si avvicinò e quando fu ad alcuni metri dall’uomo, quest’ultimo lo salutò, domandando: «Buon giorno! Rammenta di me, padre Bladov?» L’altro, dopo qualche momento d’incertezza sgranò gli occhi, infine, balbettando, rispose. «Tu… ma tu sei, sei…» «Baldi! Oscar Baldi. Altrimenti detto Aquila.» All’istante il prete si fece il segno della croce. «Tu… tu qui, avevo inteso dire che eri morto…» «Spesso la gente parla a sproposito…» rispose l’italiano che ora sulla mano sinistra aveva bene in vista quattro banconote da cento dollari. Un lampo ò nei neri occhi del prete, mentre la faccia da gufo per un istante s’illuminò; gli sedette vicino e, assumendo un’espressione quaresimale, sfoderando l’umiltà di un santo, amabilmente disse: «Sono felice di rivederti sano e salvo… dopo tutti questi anni… ma dimmi, in cosa posso esserti utile?» «Devo vedere il Papa.» Padre Bladov parve non comprendere. «Vedere il Papa?» «Esattamente… il Papa. L’ex capo dell’Otdel 9 o se preferisce, del dipartimento V; l’allora colonnello del KGB Fjedor Igorovičh Gumayev.» «Oh Dio! Dio onnipotente e santissimo!» esclamò il religioso, facendosi all’istante il Segno della Croce. «Cos’è che la spaventa tanto padre? Lei era uno dei suoi più fidati informatori, oltre ad essere un ex del KGB.» Il prete ebbe un gesto di stizza; avrebbe voluto mandare all’inferno quell’insolente di un italiano riemerso dal nulla rivangandogli il ato, ma i bigliettoni erano lì, in bella mostra. Abbassò lentamente la testa e in un sussurro, affermò: «Il fatto è… sì, insomma, sembra che ora sia a capo di una delle più potenti organizzazioni mafiose che operano qui in Russia.» «L’ho inteso dire e la cosa non mi ha sorpreso più di tanto; immaginavo un
simile seguito. Continui padre…» «Grazie a Dio, da anni ormai non ho più rapporti con lui, però…» L’altro tirò fuori un’altra banconota da cento. «Però?» «Conosco qualcuno che forse potrebbe indicarti la strada da seguire per rintracciarlo, ma… ti costerà caro.» «Dove e quando posso incontrare costui?» «Te lo saprò dire domani, dopo la funzione di mezzogiorno.» «Domani sarà tardi; è faccenda urgente!» Come un fulmine il prete sfilò i cinquecento dollari dalla mano dell’italiano e, nel ficcarseli nella capiente tasca della tonaca, sussurrò: «Durante il corso della giornata proverò a combinarti un incontro, ma… quest’urgenza ti costerà altri trecento dollari.» Il religioso si alzò e a gran falcate si diresse verso l’altare, inginocchiandosi brevemente davanti all’effigie di S. Giorgio. Aquila rimase solo nella piccola, mistica chiesa per una decina di minuti; infine udì un cigolio proveniente da una porticina dietro all’altare, subito dopo comparve la faccia da gufo dell’ineffabile padre Bladov.
Erano quasi le 17, Aquila aveva profittato dell’occasione per rivedere parte del museo che egli considerava il più interessante del mondo, il museo Puškin. La galleria chiudeva alle 18 e lui era entrato alle 15.30. Aveva prima visitato le sale quattro, cinque e sei, ammirando nuovamente e dopo tanto tempo i capolavori del rinascimento italiano e gli impressionisti si, soffermandosi nella sala cinque, davanti alla madonna col bambino del Perugino. Entrato nella dieci, aveva rivisto le opere del seicento olandese e nella sette di nuovo il tesoro di Troia (sottratto ai nazisti durante l’ultima guerra). Ora si trovava nella sala numero uno, davanti ai sarcofagi di pietra. In fondo a sinistra, s’intravedeva la collezione delle antiche barche funerarie e maschere d’epoca mesopotamica, sulla destra sarcofagi di legno e mummie di tutti i tipi. Sbirciò l’orologio: le 17.00. A quell’ora la sala uno era pressoché deserta e il silenzio del luogo, unito
alla sepolcrale, gialla illuminazione, donava un senso di mistico, tetro smarrimento. «Non si volti! Ha il denaro?» chiese, sussurrando una voce maschile dal forte accento baltico. Aquila tirò fuori dalla tasca dell’impermeabile un fascio di banconote, erano millecinquecento dollari. Allungò il braccio. «Mi parli di Fjedor Gumayev.» L’altro gli sfilò il denaro dalla mano. arono alcuni secondi. «È una figura di rilievo delle attuali organizzazioni mafiose russe, oltre che l’indiscusso capo della più potente organizzazione moscovita.» «Che genere di affari, tratta?» «Tutto! Droga, prostituzione, gioco d’azzardo, opere d’arte, illecite intermediazioni e ultimamente, sembra anche traffico d’immigrati clandestini.» «Armi? Tecnologie? Plutonio?» «Armi e tecnologie sì; plutonio non saprei.» «Ricatti?» «Anche.» «Per mezzo di cosa?» «Corre voce che abbia il possesso di un archivio enorme; dossier su ogni persona che occupi posti o svolga attività di un certo rilievo.» «Al momento è a Mosca?» «Sì. Difficilmente si muove.» «Devo entrare in contatto con lui.» «Direttamente è impossibile.» «Allora indirettamente, attraverso strade alternative.»
«Potrebbe presentarsi pericoloso, molto pericoloso…» «Devo…» «Sul Zubovskij bulvar, ci sono due nightclub. Uno è il Mokambo che si trova all’angolo con piazza Zubovskaja, l’altro più avanti è il Calypso, entrambe fanno parte di una sua catena. Inizi da lì. » «Quali dei due suggerisce?» «Uno vale l’altro, sono entrambe gestiti dai suoi uomini… – ci fu un breve silenzio – Prima di voltarsi attenda un minuto! Buona fortuna…»
Erano le 22.30; una gelida pioggia cadeva sulla parte ovest di Mosca. In quel momento Aquila era all’angolo tra piazza Zubovskaya e Zubovskij bulvar, di fronte c’era il Mokambo, alle sue spalle le vetrine di una caffetteria. Osservò oltre le vetrine, decise per il Mokambo. Il locale ampio e affollato, aveva le mura tappezzate di gigantografie spinte, in una parete laterale era posto in risalto un grande poster di Elvis Presley con la chitarra in mano, luci psichedeliche i cui fasci si susseguivano a un ritmo vertiginoso, rendevano i colori confusi, dando la sensazione di una totale immersione in un’orgia di “sballo”. Il frastuono del ritmo rock superheavy di Mike Jagger, era infernale e l’acre odore di coca e crack che permeava l’aria carica di fumo, rendeva l’ambiente una nera nuvola trafitta e sciabolata dai violenti raggi in forme caledoscopiche che colpivano la pedana, dove una coppia si esibiva in un contorto amplesso. Giovani donne completamente nude gironzolavano tra i tavoli, altre, in pose oscene e anch’esse nude, ponevano in bella mostra le loro mercanzie davanti all’affollato bancone a ferro di cavallo. Dopo essersi fatto largo tra calca, infernale baccano e fitta nebbia, finalmente Aquila arrivò al buffet. «Voglio parlare con il responsabile» chiese in tono alto cercando di sovrastare il ritmo, mostrando duemila nuovi rubli a un bizzarro barman con i capelli viola alla punk e barbetta color oro. Il singolare individuo per un momento fissò il cliente, gli sfilò il denaro dalle dita e, dimenandosi, si dileguò ondeggiando dietro una porticina. Alcuni minuti dopo dalla stessa uscirono due tozzi buttafuori, si avvicinarono ad Aquila fino a sfiorarlo. «Che vuoi?» chiese bruscamente uno dei due energumeni.
«L’ho già detto! Parlare con il vostro capo.» «Chi sei?» «Non ha importanza…» Il gigante biondo con le mani sprofondate nelle tasche del dozzinale soprabito, abbassò lo sguardo, lanciò un’occhiata al collega. Questi, in dialetto zemli appena comprensibile, vociferò: «Hai una pistola puntata allo stomaco; vai avanti!» Nel corridoio fu perquisito e ora i tre erano in una piccola stanza pacchianamente arredata che emanava un nauseabondo odore di chiuso e umana sporcizia. Dietro l’unica scrivania sedeva un omaccione quasi calvo, indossava una giacca nera sopra una sgargiante camicia hawayana, alla sua destra era ben visibile una Makarov e il luccichio di alcuni anelli sulle enormi dita dalle unghie nere, donavano il tocco finale all’allegorico affresco di quel grossolano individuo. «Chi sei? Chi cerchi?» chiese in un russo andante. “Manovali, - pensò Aquila - ultimi gradini della gerarchia.” «Ripeto! Cerco il capo.» «Qui il capo sono io!» urlò il mafioso, allungando pericolosamente la mano verso il calcio della pistola. «Cerco il manager dei locali. Deve fissarmi un appuntamento con Fjedor Gumayev.» A quel nome gli occhi da polipo si dilatarono; l’uomo fece un cenno agli altri indicando i piani superiori, alzando la cornetta del telefono. Salite due rampe di scale, Aquila fu introdotto in un’ampia stanza e subito gli energumeni suoi accompagnatori sparirono. All’istante i sensi dell’italiano si acuirono all’estremo; in piedi sul lato sinistro, due ceffi biondi con i capelli raccolti a coda di cavallo avevano le pistole bene in vista infilate nelle cinture. Davanti, seduto su una poltrona di broccato dietro un’ampia scrivania, c’era un grasso mediorientale dal collo taurino e perfidi occhi da basilisco che non lasciavano scampo; indossava un dishdasha di seta verde con strisce dorate, in testa aveva un pagri bianco anch’esso con strisce lavorate in oro; Aquila dedusse che era uzbeco. Una donna piuttosto in carne con bei lineamenti greco-turchi era seduta al suo fianco, aveva i neri capelli nascosti da un fazzoletto di seta azzurra
annodato sotto il mento. L’arredo era stile ottomano, uno spesso tappeto copriva il pavimento, agli angoli c’erano due sofà con cuscini riccamente decorati, presso la scrivania fuoriusciva il vapore da un pentolino di rame posto sopra la fiamma di un piccolo fornello a gas. Con voce ferma e tono alto, rivolgendosi a quello che doveva essere il capo, il nuovo venuto affermò: «Il mio nome è Aquila. Devo pormi in contatto con Fjedor Igorovičh Gumayev!» Gli occhi da basilisco dell’uzbeco scintillarono, le labbra divennero sottili, iniziò a far lentamente ruotare l’affilatissima lama d’oro di un tagliacarte, tra la mano destra e il polpastrello del pollice sinistro. «Vuole parlare con Gumayev, chi pensi sia costui Kahala? Uno delle tasse o della polizia?» domandò il grassone, rivolto a uno dei due killer, con tono di che ha appena emesso sentenza di morte. «Penso sia un cretino, stanco di vivere» rispose il più vicino che ora aveva il palmo della mano sul calcio della pistola. «Se fossi in te non lo farei!» replicò l’intruso, parlando allo slavo fissando il boss. Per un istante l‘uzbeko parve disorientato, le labbra assunsero un enigmatico sorriso mostrando per un breve momento una fossetta tra gli incisivi superiori, poi le palpebre accennarono a chiudersi mentre la lucente lama, nel rigirarsi tra le dita, continuava a emanare sinistri bagliori. “È la fine; ora o mai più” si disse Aquila. Con o lento, si diresse verso la donna e giuntagli vicino, con l’indice destro iniziò lentamente a carezzarle la guancia sinistra. All’istante lo stupore per quel gesto di grande audacia paralizzò i quattro; gli occhi da basilisco si spalancarono, mentre gli altri rimasero impietriti. Lentamente, il dito continuò a scivolare, ora era giù, sul collo, sotto il fazzoletto di seta. La donna muta e immobile, con i neri occhi diventati come lune piene fissava con meraviglia quell’incredibile personaggio. “Lurido bastardo! – pensò l’uzbeko – Come osi? Chi sei? ” il primo impulso fu di ficcare lo stiletto nel collo di quel gran porco, ma era distante; stava per urlare ai suoi di spappolargli il cervello, ma l’istinto lo bloccò. “Mai visto simile audacia, chi diavolo è costui? – si chiese di nuovo – Uno straniero, sembrerebbe se o italiano. No, forse è un americano, sì un americano, ma non è possibile, parla il russo così bene, troppo bene; è un russo, un moscovita che vive in America ecco chi è, ma chi può avere simile coraggio e personalità?
Certo… ma certo, solo un boss, solo un grande boss può osare tanto. È il capo di qualche nostra organizzazione americana che ora si trova qui a Mosca e vuole conferire con il gran capo; però, tra loro ci sono delle procedure per incontrarsi… ma che ne so io? In ogni caso, eliminarlo sarebbe un rischio grosso, troppo grosso, potrebbe essere un errore fatale, nel qual caso non rivedrei l’alba.” Mentre questi pensieri albergavano nella confusa mente del mediorientale, Aquila palpava un seno della donna. Improvvisamente si voltò di scatto e, rivolgendosi al grassone, sprezzantemente esclamò: «In questo locale ci sono gli scarti dei peggiori bordelli mediorientali e costei è ancora peggio. Qualità! Nessuno ti ha insegnato che l’imprenditoria si basa sulla qualità del prodotto? Mettendo in giro simili porcherie, sarai fortunato se presto tornerai nelle fogne da cui sei sbucato.» Ora negli occhi dei tre duri si leggeva un misto di rispetto, timore e ammirazione. Aquila lanciò un paio d’occhiate dal basso verso l’alto in direzione dell’uzbeko e, rivolgendogli di nuovo la parola, in tono tagliente pose fine alla visita, dicendo: «Ricorda! Il mio nome è Aquila. Fai in modo che Gumayev sappia che domani mattina alle ore 11, sarò qui sotto, davanti al locale.»
Era l’una, Aquila appena uscito dalla doccia aveva ora di lato il note book e il diagramma sotto gli occhi. Si concentrò sul ramo centrale del flow: organizzazioni criminali e/o terroristiche. Due erano le uscite dal punto di domanda del rombo, la yes e la no. Se i due missili nucleari fossero stati oggetto di commercializzazione, la mafia ne sarebbe stata sicuramente coinvolta e per Gumayev il parallelismo tra il loro trafugamento e il suo improvviso riapparire in Russia, un sillogismo lapalissiano: ciò avrebbe significato che l’indomani lui sarebbe morto. Gli tremavano i polsi. Osservò di nuovo il rombo, era una maledetta roulette russa da egli stesso ideata e messa irreversibilmente in moto. Tracciò una corta linea orizzontale accanto alla parola yes al termine della quale, scrisse: death (morte). Rilesse sullo schermo il messaggio che in lingua inglese si apprestava a trasmettere: SE ENTRO PROSSIME QUARANTOTTO ORE, NO ULTERIORI NOTIZIE, SIGNIFICHERÀ PROBABILE MIA USCITA DI SCENA E COINVOLGIMENTO E/O RESPONSABILITÀ IN OPERAZIONE GENGIS
KHAN DI ORGANIZZAZIONI MAFIOSE. RIFERIMENTI: FJEDOR GUMAYEV, EX KGB 1° DIREZIONE CENTRALE, CAPO DIPARTIMENTO V/OTDEL9. TRACCE: MOSCA, ZUBOVSKIJ BULVAR. 3. Contò le parole. “Tre impulsi, può andare” pensò.
L’operatore di turno osservò sulla carta del plotter i tre anomali spikes, si grattò la testa, alzò la cornetta del telefono. Poco dopo Il capo turno era davanti al plotter, puntò la matita sulla carta. «Questa è una trasmissione satellitare clandestina, analoga a quella breve di ieri. Devo informare subito il capo servizio», disse.
L’uomo si svegliò al primo squillo. Trafficò con la mano sul piano del comodino, accendendo la lampada paralume, tirò fuori una sigaretta dal cofanetto e, nell’accenderla, alzò la cornetta del telefono. «Voglio sperare sia cosa importante» affermò rispondendo. Un paio di minuti dopo, poggiato sul cuscino contro la spalliera del letto, chiese: «Aquila ha detto? No, ma… un momento! Quei cretini hanno descritto il suo aspetto?» ò qualche altro minuto, ora l’uomo aveva la fronte corrugata, le labbra, un taglio e i gelidi occhi due fessure. Di colpo mise fine a quella singolare conversazione notturna, ordinando: «Chiamami domattina alle 10!» Abbassata la cornetta, nell’osservare attraverso la tenue luce del paralune i cerchi azzurrognoli del fumo allargarsi in ascesa verso l’alto, come parlando a se stesso, a voce alta commentò: «Stupefacente… così, stanno riciclando il bell’uomo. Molto, molto interessante…» «Eeh? Che c’è?» fece nel dormiveglia, la formosa donna bionda che gli giaceva accanto. «Zitta e dormi!» rispose bruscamente l’altro.
Erano le 10.58, l’uomo con gli occhi appena sopra il bordo del giornale, seduto a un tavolo dietro i vetri della caffetteria, scrutava l’ingresso chiuso del Mokambo. Apparve un’Audi con lunotto e vetri posteriori opacizzati che, lentamente, parcheggiò in seconda fila. Ne uscirono due uomini che davano l’idea di piazzisti di commercio. Uno si appoggiò contro il muso dell’auto, l’altro accese una sigaretta. Ora le pupille dell’osservatore guizzavano, inquadrando sia la coppia dei mafiosi, sia gli opachi vetri dell’Audi. arono quattro minuti, uno dei due sbirciò prima l’orologio, poi il collega, questi alzò le spalle, era ciò che Aquila attendeva di sapere: l’auto era pulita. Il eggero fu fatto sedere dietro, il vetro divisorio anch’esso opaco si alzò e si accese la luce del vano posteriore. Venti minuti dopo, Aquila si trovava all’interno di una piccola stanza spoglia e priva di finestre, la luce era fornita da un neon bianco. Dopo essere stato perquisito, gli furono tolti documenti e portafogli.
Virata di trentotto gradi a est, per uno-zero-quattro» annunciò il vice ecogoniometrista Brauling. Il comandante Flitcher che si trovava nella camera di manovra, si precipitò al tavolo di carteggio. «Dove siamo?» chiese all’ufficiale di turno. «Qui, a venti miglia a nord-ovest di Cadice.» «Sta cambiando rotta, dove vuole dirigersi?» «Tale virata, signore, può significare solo due cose: o vuole entrare nel porto di Cadice o, si appresta ad attraversare lo Stretto di Gibilterra.» Intervenne il secondo appena sopraggiunto. «Norfolk assicura che l’attraversamento delle acque territoriali è previsto tra il 20 e il 24, è ancora presto. Inoltre, se volesse entrare a Cadice avrebbe già dovuto diminuire le macchine mentre continua a mantenere un’andatura insolitamente alta per un mercantile.» «La responsabilità operativa ricade su di noi, Martinez, non su Norfolk. Prepariamoci per la prima eventualità.» Seguì un profluvio di ordini: «Portarsi a due miglia di distanza. Salire a quota
periscopio. Allagare camere di lancio uno e due. Pronti per l’emersione! Squadra abbordaggio pronta a intervenire. Centrale di tiro, siluri uno e due su bersaglio ecosonar!» il capitano di corvetta ripeté gli ordini facendo eco sull’interfono.
Aquila fu introdotto in una seconda stanza. Un uomo seduto dietro una scrivania con un giaccone di cuoio nero sopra un maglione dolcevita, aveva il suo documento tra le mani e una Walther ppk alla destra. Non c’erano sedie per ospiti. «Posso chiederle signor… Basilyov, il motivo per il quale desidera conferire con il signor Gumayev?» L’uomo parlava un russo perfetto e il finale calo di voce unito al tono vagamente ironico, la diceva lunga. “Un intellettuale gangster, ex ufficiale inquisitore del KGB; qui c’è poco da bluffare” si disse Aquila. «Il mio nome è Oscar Baldi, sono di nazionalità italiana. La carta d’identità è un documento di comodo. Riguardo allo specifico, devo conferire con il Signor Gumayev per affari che ricoprono una certa delicatezza…» «Italiano? Si direbbe più moscovita, signor…» «Baldi. Oscar Baldi!» «Signor Baldi, ha mai conosciuto il Signor Gumayev?» «Si!» «Quando l’ha visto l’ultima volta?» «Circa nove anni fa.» Per un istante gli occhi dell’interrogatore brillarono, l’interrogato intuì che aveva fornito le risposte che l’altro già sapeva e si aspettava di udire. Mezz’ora dopo, l’Audi dai vetri opacizzati entrava in un sotterraneo garage. In
fondo all’autorimessa ben illuminata, c’era la porta metallica di un ascensore, sopra di essa fissata al muro, si notava una telecamera che inquadrava chiunque entrasse. Al secondo piano, i tre uscirono dall’abitacolo, trovandosi in un ampio corridoio. Sulla sinistra, a ridosso del muro, c’era una scrivania con un monitor che controllava l’accesso esterno all’ascensore, in piedi, vicino ad essa, due uomini con mitragliatore ak47 facevano la guardia. Girarono a destra; sulle pareti del lungo corridoio c’erano dei poster turistici di città europee, il pavimento era coperto da moquette color pisello. Oltre le porte aperte all’interno degli uffici, si notavano analisti e operatori dietro le scrivanie piene di computer. Aquila sbirciò l’orologio, le 14.30. “Sembrano gli uffici di una multinazionale” pensò. In fondo, girarono a destra, superarono un terzo uomo armato anch’esso di ak47 e poco dopo, l’italiano si trovò solo in un gran salotto lussuosamente arredato. L’ambiente illuminato da abat-jour evidenziava il verde e l’azzurro dei velluti, pregiati tappeti coprivano il pavimento, pesanti tende di broccato non permettevano il aggio della luce naturale. Da una porta laterale comparve un uomo grosso, con spesse lenti e stomaco prominente, fece cenno ad Aquila di seguirlo. Superata una porta di noce tirata a lucido, l’uomo sparì ed egli si trovò introdotto in una seconda e più spaziosa sala con analogo arredo. In fondo si notava una figura seduta dietro una scrivania Luigi XIV con su accesa una lampada d’avorio con paralume di seta color oro. Aquila si guardò intorno. Sulle stoffe delle pareti illuminate da gialle luci incassate, spiccavano un Rubens, un Renoir, un Tintoretto ed alcuni Velázquez; a quella vista l’italiano pensò che quei capolavori non dovevano essere stati pagati il loro giusto prezzo. Giunto a un paio di metri dalla scrivania, l’uomo che gli sedeva dietro con una giacca di velluto avana sopra una camicia di seta nera senza colletto, alzò gli occhi da quello che doveva essere un foglio di fax. Il tempo sembrava non aver inciso molto sul suo aspetto: la faccia scarna, i gelidi occhi da squalo, il naso a punta e la bocca quasi senza labbra, erano ancora l’immagine della morte; solo i capelli un tempo color paglia erano ora quasi completamente grigi. Gumayev, uomo capace di ridurre le proprie reazioni al minimo, non sprecava mai tempo in emozioni; con voce incolore, chiese: «Anatoly Basilyov… È così che ti fai chiamare, ora?» «Sai che fui espulso dalla Russia. Il mio nome è nei file dei vostri computer.» «Perché sei tornato? Che cosa vuoi?»
«Informazioni, Fjedor Igorovičh.» «Informazioni… – la voce calò di tono – qual è il motivo della tua missione? Perché queste informazioni?» Aquila scosse lentamente la testa. «Sai come vanno queste cose, Fjedor…» Le labbra di Gumayev si tirarono fino a scomparire. «Non ho mai compreso qual è il confine che separa in te l’audacia dalla pazzia.» «È questione importante, Fjedor Igorovičh.» Il grande boss abbassò le palpebre, respirò a fondo. «Ripeto: il motivo della missione?» «Sono in credito con te, Fjedor… Un tempo, tacendo alla Butyrka, ti salvai la vita, ricordi?» Le sopracciglia del russo s’inarcarono. All’istante Aquila capì di aver premuto un tasto sbagliato, ma era tardi. Gumayev alzò il tono: «La vita te la salvai prima io, non facendoti eliminare subito. Dopo averne combinate di tutti i colori in questo paese, hai il fegato di tornare, raggiungermi e chiedermi informazioni. Allora ti posi in guardia, avvertendoti che eri un ingenuo presuntuoso e un romantico imbecille, tuttavia, pare che tempo e vicissitudini non ti abbiano insegnato nulla, ma ora la tua considerevole fortuna si è esaurita!» stava per premere un pulsante. «Saresti ben pagato Fjedor; un milione di dollari!» All’istante le dita del mafioso si bloccarono. arono alcuni secondi di drammatica attesa, infine, lentamente, Gumayev alzò lo sguardo e fissando l’altro, con una voce tagliente come la lama di un rasoio, lentamente sibilò: «Negli affari, il prezzo lo stabilisco sempre io!» «Certo… certamente, Fjedor Igorovičh.» «Che genere d’informazioni?» «Dossier di personaggi chiave nelle forze armate e nell’amministrazione del ato regime che rimasti ai loro posti, occupano tuttora cariche di
responsabilità.» Gumayev focalizzò i grigi occhi su un immaginario punto nella penombra, piombando di nuovo in un affilato silenzio evidentemente, valutando i vantaggi e gli svantaggi di quella nuova situazione venutasi a creare; mentre Aquila, immobile, era perfettamente conscio che al momento la propria vita dipendeva da quel precario equilibrio. Dopo un tempo che sembrò lunghissimo, finalmente il grande boss si pronunciò: «È una ricerca lunga e la quantità del materiale molta…» A quelle parole, l’italiano comprese che quel giorno non sarebbe morto. «Potrebbe non essere così lunga, Fjedor. L’area va circoncisa al solo distretto di Mosca, inoltre, per posti chiave intendo funzionari di un certo livello nelle amministrazioni e da colonnello in su nelle forze armate e nei servizi segreti. Ma, ripeto, solo se allora ricoprivano incarichi delicati.» «Rimasti a galla o che nel frattempo hanno fatto ulteriore carriera» fece pensieroso il grande boss. «Esattamente! Dopo il repulisti a seguito del crollo del regime, non dovrebbero essercene rimasti poi così tanti.» Per la prima volta Gumayev parve disorientato, arono ancora diversi secondi, fissò di nuovo l’italiano, infine, disse: «Sono tre milioni di dollari anticipati su un conto segreto cifrato in una banca di mia fiducia. Materiale disponibile fra tre giorni.» «Posso sedere, Fjedor?» L’altro indicò una poltrona. «Accomodati!» «Dispongo di un tetto pari a due milioni di dollari e non un copeco di più; somma che potrà essere a tua disposizione tra qualche ora. Ė faccenda di estrema urgenza, non posso attendere fino giovedì. Domani alle tredici tornerò col codice segreto bancario, verificherai l’avvenuto versamento e ritirerò i dossier.» Tornò a galla l’antico sorriso da iena. «Sei per nulla cambiato… Non ti smentirai mai. Come allora, sei lo stesso presuntuoso accompagnato dalla fortuna… – il grande boss strappò un foglietto e vi scrisse sopra qualcosa - Questa è la banca. Dove alloggi qui a Mosca?»
«Non scomodare i tuoi uomini… Possono accompagnarmi alla più vicina stazione metropolitana che sarà anche il punto d’incontro di domani alle 13.» Gli occhi del russo divennero una cucitura. «D’accordo, Aquila…» fece, annuendo lentamente. Dopo che gli furono restituiti i personali effetti, nel salire in auto, l’italiano fece: «Soffro d’asma, ho bisogno d’aria, potreste abbassare il finestrino posteriore sinistro?» «Nell’auto c’è l’aria condizionata, abbiamo precise disposizioni.» «L’aria condizionata mi toglie il respiro. Solo due dita…» I mafiosi si lanciarono un’occhiata, uno alzò le spalle. Sulla rampa dell’autorimessa, nell’udire la saracinesca alzarsi, Aquila sbirciò l’orologio. Appena uscita in strada la vettura svoltò a sinistra, attraverso la fessura il eggero lanciò un’occhiata fuori in alto, il numero civico era il 32. Ora l’Audi filava dritta, dalla fessura s’intravedevano confusamente scivolare indecifrabili insegne di negozi e finestre dei primi piani. L’auto si fermò brevemente a un semaforo, fu in quell’attimo fuggente che su un indicatore stradale il eggero lesse aševskij, parte del nome della via. Sette minuti dopo l’auto si fermava davanti all’ingresso della fermata metropolitana Kurskaja, nell’omonima stazione ferroviaria. Dall’uscita dell’autorimessa erano trascorsi dieci minuti, incluse tre fermate ai semafori.
Al largo dello Stretto di Gibilterra, il comandante Flitcher era con gli occhi incollato al periscopio. «Su antenna ESM!» ordinò, ritenendo necessario ricorrere alle misure di o elettronico. L’antenna serviva come ricevitore a larga banda per captare possibili emissioni radar e radio. «Rilevamenti?» chiese infine alla sala comunicazioni, via interfono. «Nessuno comandante.» «Su antenna UHF!» Questa, ruotando, s’inserì sul segnale SSIX Atlantico, il satellite per
comunicazioni usato solo dai sottomarini i quali, grazie ad un sistema laser possono inviare trasmissioni ad alta densità senza rilevare la propria posizione. «Tutto pronto, Signore» annunciò il marconista di turno. «Trasmetta che sulla scia di Freedom, ci apprestiamo ad attraversare lo Stretto di Gibilterra.» Il marconista dopo aver battuto il breve messaggio sulla tastiera pigiò il tasto invio. Una frazione di secondo dopo a Norfolk un’antenna parabolica del comando trasmissioni della flotta atlantica lo ricevette e il marconista di servizio accusò ricevuto. «Giù antenne e periscopio, portarsi a centocinquanta piedi e a quattro miglia di distanza» ordinò infine Flitcher.
Capitolo XIV
Aquila sbirciò l’orologio: Le 16.50, le 14.50 a Berlino, le 13.50 a Londra. Rilesse il messaggio sullo schermo: NO ORGANIZZAZIONI CRIMINALI E/O TERRORISTICHE. IMMEDIATO VERSAMENTO. RIPETO: IMMEDIATO VERSAMENTO SU CONTO DI CODICE SEGRETO PRESSO BANCA COMMERCIO ESTERO GINEVRA DI DUE, RIPETO, DUE MILIONI DOLLARI. ATTENDO CODICE. URGENTE! URGENTE! Contò le parole: tre impulsi, terza trasmissione. “Forse ora sono a rischio localizzazione” pensò. Inviato il messaggio, collocò la freccia del puntatore sotto la parola recive e pigiò il tasto invio. Lasciò il computer sullo scrittoio, collegato alla piccola antenna posta sul davanzale della finestra e si concentrò sugli effetti personali requisitegli in precedenza dagli uomini di Gumayev. Controllò ogni cosa: non si notavano manomissioni o aggiunta di protuberanze che potessero nascondere micro trasmettitori o localizzatori GPS, in ultimo aprì il telefono cellulare estraendone la batteria; osservò con cura, appariva a posto. Prese in esame il diagramma, tirò una riga accanto alla parola “no” nel rombo di centro e salì fino a congiungersi con la principale linea orizzontale in alto. Ora le tre ipotesi iniziali si erano ridotte a un’unica certezza: “Organi deviati dello Stato.” Consultò la pianta di Mosca, l’unica via che entro un certo raggio dalla stazione di Kurskaja finiva con aševskij, era Baraševskij pereulok. Memorizzò via e numero civico, ordinò un leggero pasto, un mazzo di dodici orchidee fresche e andò a farsi una doccia.
«Che succede Fjedor Igorovičh? Cos’è quest’urgenza?» Chiese l’uomo alto con la faccia butterata, appena entrato nel lussuoso ufficio. «Siediti Abel. – rispose Gumayev, che subito gli ò un foglio, chiedendo – Ricordi quest’uomo?»
L’altro osservò attentamente la fotocopia di una carta d’identità trasmessa via fax. «La faccia sembra essermi vagamente familiare, il nome mi è sconosciuto.» «È un illegale dell’Interscambio che operava per l’MI-6.» «Anatoly Basilyov… no, non ricordo…» «Il suo vero nome è Baldi, Oscar Baldi. Poliglotta di nazionalità italiana. Allora comunemente chiamato con lo pseudonimo di Aquila.» «Aquila… lasciami pensare… ho ricordi sfocati…ma sì, certo, era un artista, un artista di talento; ma sono anni ormai che costui è morto.» «Non è morto!» «Coosa? Non lo facesti eliminare?» «No… Non ci fu affare bagnato{45}.» Gli occhi dell’ex ufficiale del KGB divennero due fessure. «Se non ricordo male, a suo tempo mi assicurasti che la faccenda l’avevi sistemata.» «A suo tempo…» «Allora… alcune chiacchiere che circolavano negli ultimi tempi, secondo cui ti stavi adoperando per attraversare il ponte dei sospiri portandoti a rimorchio l’indice centrale, erano vere. Ti serviva un pesce pilota.» «Lascia andare Abel…» «Se non ci fu affare bagnato, che fine fece?» «Cadde in malattia{46} per opera del GRU. Doveva esser fucilato alla Butyrka, ma poi fu fatto rilasciare dal primo dipartimento della seconda direzione centrale. Avevo ordinato di eliminarlo qualora ne fosse uscito vivo, ma all’ultimo momento, a Vienna riuscì a scappare.» «Che significa tutto ciò?»
«Significa che è di nuovo a Mosca, l’ho ricevuto meno di due ore fa.» «Stai scherzando?» «Dovresti sapere che difficilmente scherzo.» «Ne ha di fegato questo tipo.» «È un artista di talento, lo hai detto tu.» «Perché sta rischiando di nuovo la pelle?» «Vuole dei dossier.» «Dossier? Di chi?» «Ex personaggi di allora che a tutt’oggi occupano posti delicati. Sembra abbia una fretta del diavolo, li vuole per domani.» «Incredibile! Quindi, è ancora operativo. Pensavamo che in questi anni gli occidentali avessero allentato la morsa, smobilitando le loro reti e avamposti{47}, ma costui sta dimostrando il contrario. Glieli dai quei dossier?» Gumayev abbassò le palpebre, respirò a fondo. «Gli affari sono affari. Gli archivisti ci stanno già lavorando su, ma tu ti ostini a non voler capire. Prova a raccontarmi la sua storia…» Ma Abel Krušenko sembrava non essere un suddito del grande boss, in modo noncurante, rispose: «La storia la conosci come la conosco io. Fui io a arti il suo dossier. Per rinfrescarti la memoria, prova a dare un’occhiata in qualche file dei tuoi computer.» Le labbra di Gumayev si tirarono quasi a scomparire, la voce divenne un sibilo. «Avanti Abel Vladimirovičh, da bravo, inizia da capo…» atteggiamento e tono non lasciavano scelte. L’altro sbuffò, accese una sigaretta. «Che vuoi che ti dica?» «Stai invecchiando Abel, ripeto: la tua versione della sua storia.» «Se ci tieni tanto… questo caso riguardò gli anni del crollo, quelli che vanno
dall’86 al ‘90. I servizi segreti cecoslovacchi avevano da anni una loro talpa accreditata presso il comando NATO di Bruxelles, era un ceco naturalizzato greco e funzionario al Ministero della Difesa di Atene. Verso la seconda metà dell’86, l’StB{48} ci avvertì di essere stato da costui informato che la CIA era venuta in possesso d’informazioni segretissime riguardo il nostro sistema strategico offensivo. Chiedemmo di saperne di più, ma di lì a breve un piccolo aereo da turismo precipitò sulle Alpi occidentali. Il pilota, di cui non ricordo il nome…» «Heinz Probke!» fece Gumayev. «Sì… forse; era la talpa dell’StB che morì nell’incidente aereo provocato da un sabotaggio, quasi certamente per opera della CIA. Venuta meno la fonte cecoslovacca, Yazenevo impresse a tutti i suoi canali la massima accelerazione: era imperativo sapere di cosa si trattava. Fu agli inizi dell’87 che il rezident di Washington, allora nome in codice il marchese, tramite una sua rete risalente alla metà degli anni 70 e creata dall’allora Dimitry Yakushkin, garbuglio che si serviva di corvi e tranquilli e già da tempo sulle tracce di certe indiscrezioni, probabilmente tramite dei ricatti a sfondo omosessuale riuscì a far sottrarre in alcuni uffici del pentagono fotocopie di certi documenti segretissimi: la scoperta fu devastante! Gli americani avevano i codici e delle frequenze di deviazione e neutralizzazione dei nostri missili intercontinentali ICBIM SS-9, degli SS17, 18 e 19, unitamente alla tecnologia MIRV dei sistemi multipli a dieci testate nucleari indipendenti degli SS18. Inoltre avevano sia le coordinate delle ubicazioni sotterranee di molti nostri siti di lancio fissi, sia le frequenze e i codici di comunicazione ordinaria e satellitare dei nostri sottomarini nucleari classe Sierra e Viktor e, per finire, le coordinate dei loro punti di appoggio mobili nell’Artico e nell’Atlantico. Con la loro catena di satelliti, nel giro di un’ora avrebbero potuto neutralizzare quasi totalmente una nostra eventuale offensiva strategica. Fu sempre il marchese a informarci che era stato l’MI-6 britannico a are buona parte di quelle informazioni alla CIA, era lui in parte il responsabile. – Krušenko trasse un sospiro – Fu un botto che fece saltare la Lubjanka mandando Gorbaciov fuori di senno.» «Ricordo…» fece il grande boss, annuendo. L’altro, continuò: «Fu subito chiaro che la voragine era qui a Mosca e che loro dovevano avere diversi avamposti collegati a una o più reti capillari, molto bene introdotte. Oltre naturalmente alla seconda direzione centrale che ne assunse la
responsabilità, il caso fu ato sia al primo dipartimento della prima direzione centrale, sia alla sezione britannica del terzo e, al dipartimento “S” di cui, essendone io il capo sezione per quell’area, ero anche il vice responsabile operativo. – fece una pausa – Fu a questo punto che iniziò la storia, un caso dalle tinte in chiaro scuro e mai del tutto risolto. Per un anno e mezzo brancolammo nel buio, ando al setaccio ogni possibile potenziale sospetto, ma senza risultati. Poi, dietro alcune frammentarie informazioni provenienti dalla nostra ambasciata di Londra, i miei uomini credettero di individuare in questo italiano un illegale dell’Interscambio che poteva essere il contatto collegato ad una più generale rete. Il suo nome in codice era, era…» «Il Camminatore…» «Precisamente… il Camminatore. Iniziammo a controllare ogni sua mossa, pensando che alla fine si tradisse, ma invano. Risultò che i rapporti di lavoro e le molteplici amicizie che egli frequentava erano robe pulite. Fin dall’inizio, quelli della seconda direzione centrale furono scettici circa la colpevolezza di costui. In una esagitata riunione alla Lubjanka, il capo del primo dipartimento Puskin, affermò che stavamo perdendo tempo in cerca di farfalle e che loro, avevano già scoperto e messo al muro diversi elementi responsabili della sottrazione di documenti riguardanti il caso. Affermò altresì, che il Camminatore era una fanfaluca messa in giro dall’MI-6 per disorientarci, sviandoci da altre indagini. Mi apostrofò dandomi del dilettante… dilettante a me, capisci? Quel maiale burocrate… ma io ero certo, il mio fiuto non sbagliava, quella era una pericolosa volpe che andava debellata. Nel frattempo, le nostre indagini s’incrociarono con quelle del GRU; anche il controspionaggio militare, attraverso suoi canali, da tempo cercava di mettere le mani su quella rete il cui vertice, secondo le fonti di allora, era un’abilissima quanto fantomatica talpa dell’MI-6. Talpa annidata nei nostri apparati burocratici e di cui questo italiano poteva esserne l’intermediario. Per incastrarlo feci venire da Parigi un nostro agente se, una magnifica rondine; costei, iniziò a svolazzargli intorno, in un primo momento confermò i nostri sospetti, poi divenne tiepida, in ultimo affermò che probabilmente si era sbagliata e che egli era quasi certamente pulito. – il mafioso sorrise. – Quella svampita doveva essersene innamorata. Al terzo dipartimento regnava la frustrazione, sapevamo che il nostro uomo era un bastardo che continuava a darci scacco, dovevamo fargliela pagare! A quel punto feci l’unica cosa da fare, rispedii la rondine a Parigi, stesi il mio rapporto e ignorando la seconda direzione centrale, posi il caso nelle tue mani al fine di porci una pietra tombale su.»
«E il caso non fu mai risolto» commentò Gumayev. «No… Visto nel suo insieme, non lo fu.» «Non potevate risolverlo.» «Che cosa stai dicendo?» «Voi, il secondo direttorato e il GRU vedevate il problema sotto una falsa ottica. Perdeste anni, cercando di mettere le mani su presunte, inesistenti reti. Pensavate ancora in termini di complotti e organizzazioni spionistiche operanti sul nostro territorio. Lui invece, operava da singolo professionista, lavorando autonomamente, usando la tecnica della polverizzazione, eseguendo ogni volta contingentemente le missioni assegnategli lontano da reti, i logistici e protezioni. Da qui le estreme difficoltà che incontraste per incastrarlo e debellarlo.» «Non sono d’accordo! Informazioni del genere erano impossibili da ottenere senza un’organizzazione capillare alle spalle.» «No! È questo il punto. Nel 41, da Tokyo, il colonnello del GRU Richard Sorge dimostrò cosa una singola dotata spia può fare. Attraverso informazioni carpite a persone giuste con dialoghi informali e coadiuvate da un serio lavoro statistico, un singolo illegale con opportune caratteristiche poteva arrivarci, ed è ciò che successe con Aquila. Se allora si fosse trattato di una rete composta di elementi ramificati, il peso delle informazioni di quel livello, alla fine l’avrebbe forata facendola in qualche modo emergere. Fu su questo fondamentale concetto che perdemmo anni e forse la partita. Probabilmente qualche contatto egli lo ebbe, ma un aggancio o un semplice informatore non è una rete. Ora, dopo oltre otto anni dalla sua espulsione, improvvisamente riaffiora e questo apre uno scenario a tinte fosche. Se si fosse trattato di una normale azione di spionaggio, è chiaro che gli occidentali non sarebbero andati a ripescare un elemento del genere, deve trattarsi di una qualche operazione straordinaria.» «A parte i fatti di agosto, la situazione nel suo insieme è sufficientemente calma. Perché vuole così urgentemente quei dossier, cosa bolle in pentola?» fece in tono smarrito, l’ex vice capo del dipartimento “S” della sezione britannica dell’allora primo direttorato. «Dopo che hai rispolverato la storia, inizi confusamente ad arrivare al punto.
Questo è quello che dobbiamo scoprire! Egli è un ignoto illegale, un signor nulla che agisce da solo, come da solo agiva allora e tutto ciò la dice lunga! Qualora sparisse, non si muoverebbe una foglia, nessuno potrebbe alzarne un caso. Le impronte che egli lasciò ci assicurano che l’attuale sua presenza è sinonimo di complessa missione, anche sotto il profilo diplomatico, l’urgenza infine completa il quadro. Evidentemente deve portare a termine un’operazione clandestina di estrema delicatezza che non può essere affidata a normali organi istituzionali d’intelligence, causa l’eventuale rischio di un fallimento e con esso, un eventuale, conseguente vespaio diplomatico.» «Allora…» «Allora, il problema è tanto più inquietante poiché qualsiasi iniziativa politica o altro che fosse in atto, noi per primi lo avremmo saputo, abbiamo mezza Duma nei nostri libri paga. È chiaro ora, Abel?» Per il tenente colonnello dell’allora dipartimento “S”, il tutto divenne cristallino: «Un repentino cambiamento politico, porterebbe all’inevitabile frattura dei nostri equilibri interni e internazionali con conseguenze incalcolabili per le nostre organizzazioni. È importante sapere cosa si nasconde dietro la cortina di nebbia che avvolge costui, Fjedor. Quest’italiano deve parlare!» «Finalmente ci sei arrivato, ma continua a sfuggirti l’uomo. Gli stesti dietro per anni senza imparare a conoscerlo, non comprendesti nulla di lui. Per oltre cinque mesi il GRU lo tenne sotto torchio senza cavarne un ragno dal buco. È un romantico avventuriero con un forte senso dell’onore, ogni partita che gioca mette in palio la propria vita, sapendo che potrebbe perdere. Non parlerebbe mai! Tu piuttosto che eri il direttore{49} dei rezident{50} degli illegali in Gran Bretagna, potresti cercare di riallacciare qualche contatto e sapere perché l’MI-6 lo ha nuovamente riattivato.» L’altro scosse la testa. «È una strada lunga e potrebbe rivelarsi rischiosa. Tra il ’92 e il ’93, molti contatti saltarono, i pochi canali rimasti arono alla nascente SVR e al GRU. Un tentativo del genere ci porrebbe violentemente in luce spiazzandoci; inoltre hai affermato che ha fretta e questa direzione allungherebbe immensamente i tempi.» Gumayev poggiò le mani sulla scrivania, lentamente si eresse dalla poltrona, si alzò anche l’altro. In piedi, il grande boss disse: «Forse è vero, meglio non
stuzzicare certi vespai. Del resto la soluzione l’abbiamo a portata di mano. Ora, rispetto allora abbiamo il vantaggio di comprendere l’uomo, conosciamo il suo schema mentale e come si muove. Questa volta sta giocando una partita a carte scoperte. Seguiremo ogni sua mossa, o dopo o e, quando avremo compreso in dettaglio ciò che dobbiamo sapere, egli sparirà senza lasciare tracce. Sguinzaglia i tuoi uomini e presta attenzione a che non “scivoli” ancora.» Krušenko ora davanti alla porta, voltandosi abbozzò un serafico sorriso di sufficienza, infine stigmatizzò dicendo: «Tranquillo… tu pensa ai dossier. Abbiamo ancora diversi conti in sospeso con quel bastardo. Aquila è un morto che cammina.»
Aquila era di nuovo concentrato sul diagramma, al primo punto di domanda del terzo troncone. Sul vertice sinistro del rombo c’era scritto yes, su quello destro, no. Doveva scegliere quale strada prendere; la no sarebbe stata lunga e tortuosa, si augurò che la risposta giusta alla domanda all’interno del rombo, fosse la yes. Sbirciò l’ora, le 19.15, tempo di andare. Alzò la cornetta chiedendo alla reception di fargli trovare un taxi pronto di lì a qualche minuto. Stava per uscire con il mazzo delle orchidee, quando gli parve di udire un beep; si precipitò, aprì il note-book , osservò lo schermo. “A tempo di record”, si disse. Cinque minuti dopo usci dalla camera, ponendo sulla maniglia della porta il cartellino con su scritto do not disturb, sbirciò nuovamente l’orologio: era proprio ora.
Nella sotterranea sala dell’istituto di elettro-comunicazioni, i tre spikes richiamati dalla memoria dell’oscilloscopio erano stati ingranditi di mille volte in ampiezza, ora si presentavano fissi sul cinescopio di un secondo e più potente oscilloscopio. Dopo averne analizzate le curve col delay time, l’analista si rivolse ai due che gli erano accanto: «Di nuovo il musicista. Impulsi analoghi ai precedenti, sistema on time pad.» Parlò l’uomo in abiti civili, il matematico: «Sistema usato dalle forze NATO in operazioni clandestine, ora poco praticato, ma rimane sempre uno dei più raffinati sistemi di trasmissione satellitare. Ogni impulso si compone di una serie di caratteri in esadecimale binariamente interconnessi tra loro. La chiave di codifica è randomica e si trova nella configurazione binaria del carattere
chiusura impulso. Impossibile da criptare.» «Siamo ancora in alto mare, Ljudin?» chiese il tale in uniforme, rivolto al matematico. «Non direi. Analizzato il tracciato e comparato con i precedenti, siamo ora in grado di stabilire l’interno dell’area da cui dovrebbe trasmettere.» Con la punta della matita, l’uomo tracciò un immaginario cerchio al centro del monitor, la cui inquadratura visualizzava tutta l’area di Mosca. «Trasmette dall’interno di quest’area, dal centro di Mosca.» «Strano che non usi Internet o la telefonia satellitare», fece l’analista. «Evidentemente – rispose il maggiore della FAPSI – è un clandestino di aggio privo di linea fissa su cui connettersi. Con questo sistema egli può trasmettere e ricevere in qualsiasi punto e momento. Col cellulare satellitare le comunicazioni sono facilmente intercettabili. Il sistema che usa è il più appropriato, se non fossimo stati in precedenza allertati, nessuno avrebbe potuto scoprirlo. – si rivolse di nuovo al matematico – Dobbiamo localizzarlo urgentemente, Ljudin.» «Mosca ha un diametro di settanta chilometri e questo tipo di trasmissione è di brevissima durata. I primi tre tracciati ci hanno permesso di ridurre notevolmente l’area, ora dovremmo allestire un sistema a doppia triangolazione parabolica, sperando che lanci almeno altri due impulsi dallo stesso punto.» Il maggiore annuì. «Nelle prossime ore allestiremo il doppio sistema, sperando che il merlo fischi ancora dal nido.» In quel momento un operatore entrò nella gran sala sotterranea con un secondo tracciato. «Un impulso in ricezione!» urlò. Ljudin scosse lentamente la testa, «la ricezione non è significativa.»
Tra un baluginio di luci colorate, Il taxi scivolava lungo la strada bagnata, Aquila volse lo sguardo oltre il lunotto posteriore, i fari delle auto apparivano lontani, non era seguito, “è ancora presto”, pensò. Gli ultimi duecento metri li percorse a piedi, sotto la pioggerella, osservandosi attentamente intorno. Il tranquillo stabile ottocentesco dalla facciata giallo ocra, uscio verde e i battenti di ottone tirati a
lucido, era lì, come un tempo. Egli stava seguendo una pista dettata da alcune labili sensazioni percepite nel ’90. Allora, quel raffinato bordello, visto dalle autorità con occhio benevolo, era ben organizzato, condotto con classe e con una clientela per lo più straniera, altolocata e selezionata. A suo modo di vedere, tutto ciò era in contrasto con le rudi usanze e la dura realtà di quel crudo paese; da qui il diabolico, tenue sospetto che il bordello non fosse stato altro che un nido di rondini magistralmente orchestrato dal KGB. In seguito, riflettendoci su, era quasi giunto alla convinzione che i suoi iniziali, fievoli sospetti fossero realtà. Se tutto ciò si fosse dimostrato vero, la direttrice della casa e sua amica Korin, conosciuta nel lontano ’86 sarebbe dovuta essere alle dipendenze dell’allora seconda direzione centrale del KGB, e il suo ruolo l’avrebbe resa detentrice di molte, delicate informazioni. A Berlino aveva avuto conferma che la casa era tuttora in esercizio e lei era ancora la manager, quindi, se i sospetti erano fondati, rispetto a prima doveva essere cambiato poco: invece del KGB, ora sarebbe dipesa dalla FSB o FSK. «Dica a Madame Korin che un vecchio amico desidera vederla» affermò Aquila, dopo aver allungato attraverso la grata tremila nuovi rubli al piccolo uomo dalla testa rasata. «Ma, Monsieur, a quest’ora, non so …» «Il mio nome è Baldi, Oscar Baldi» tagliò corto l’italiano, scandendo le ultime due parole. Lo strano, effeminato ometto che parlava con la r moscia e accento se, con imbarazzo chiuse il portellino della grata, dileguandosi. Dopo alcuni minuti ricomparve. «Prego Monsieur, mi segua…» Aquila dette una sbirciata intorno, l’ambiente non era molto cambiato, l’aria che si respirava aveva ancora un sentore di spensierato decadentismo, intriso con una certa pacchianeria stile Belle Époque. Volse lo sguardo giù in fondo, le luci della gran sala oltre la vetrata erano spente. I due presero a destra, di lì a poco fu introdotto in un piccolo ambiente. «Madame la prega di attendere qui» affermò l’ometto, sparendo subito dopo. Aquila non aveva mai visto quella stanza, l’arredo era sobrio, alcune stampe erotiche si stile fine ottocento che non guastavano, erano incorniciate alle pareti, su un piccolo tavolo di noce vi erano alcune riviste a tiratura internazionale, tra cui Life e News week. ata una mezz’ora ricomparve lo strano personaggio che, con cortigiana, ridicola teatralità, disse: «Mi segua Monsieur, Madame è in attesa.»
Salite le scale coperte da un panno rosso, imboccarono un lungo corridoio con un’unica porta in fondo; l’ometto si congedò dicendo: «Oltre quella porta, c’è l’appartamento di Madame…» Aquila ricordava l’appartamento di Korin, ma non ricordava quel secondario ingresso. Per un istante i due si fissarono, poi di colpo si abbracciarono amichevolmente. Al contatto del prosperoso seno, Aquila avvertì un’istantanea, incontrollata erezione. Il tempo sembrava non aver minimamente alterato quella bellezza: i lucenti lunghi capelli castani raccolti sulla nuca facevano risaltare il marmoreo collo da cigno cinto da un sottile drappo di seta rossa, i begli occhi marroni, la regolarità del naso e le sensuali labbra color vermiglio, s’inquadravano magnificamente nella splendida ovalità di quel volto ancora privo di rughe. Le provocanti forme di un sexy da capogiro, erano evidenziate da una stretta vestaglia di seta color lillà. «Oscar caro! Che gioia rivederti… che pensiero gentile, dopo così tanto tempo, ma fatti vedere… – lo squadrò attentamente – non sei per nulla cambiato» affermò la donna in lingua italiana, mentre, tenendo il mazzo delle orchidee sulla sinistra, con la destra chiudeva la porta alle sue spalle. Lui rispose in russo: «Ho qualche ruga e diversi capelli bianchi in più. Tu, piuttosto, non sei per nulla cambiata, sembra che il tempo abbia voluto fermarsi per mantenere inalterata la tua straordinaria bellezza.» «Grazie caro… lo stesso gentleman di allora… ma non in russo, questa sera dialogheremo in italiano o in inglese.» “Sempre la solita gran signora, lontana anni luce dalla grossolanità russa” pensò Aquila. Lei lo afferrò per mano e lo condusse verso il soggiorno, poi sempre in italiano, continuò: «Desidero cenare con te questa sera, sarai mio ospite, dobbiamo festeggiare questo ritorno…» L’altro si sentì improvvisamente leggero, come avvolto da un piacevole calore; era sincera, aveva gli occhi lucidi, quasi bagnati. «Non immagini il piacere che provo per quest’invito, Korin. Ne sono lusingato.»
Ora i due erano nel soggiorno, lui ricordava bene quel luogo, non era molto cambiato. I mobili in stile primo Novecento erano gli stessi, come gli stessi erano divano e poltrone color oro; solo la carta delle pareti allora rosa, ora era di un tenue cobalto. Quell’arredo, unitamente alla soffusa illuminazione di una lampada con paralume di seta verde, al bolero di Ravel che faceva da sottofondo musicale e ai due oli rappresentanti le muse al bagno, donava all’ambiente un senso d’intima e trasgressiva complicità. Toltosi l’impermeabile, l’uomo sedette sulla poltrona davanti a lei che ora aveva le magnifiche gambe accavallate. «Un tempo, bevevi Martell» disse la donna con un sorriso che metteva in mostra la perfetta dentatura di madreperla. «Martell va benissimo…» In modo calcolato, ella si alzò e, nell’allargare le gambe, per un istante l’ospite intravide fra le marmoree cosce la folta peluria nera: sotto era nuda. Dopo aver versato i drink, Korin alzò la cornetta del telefono e in russo ordinò la cena per due. Di nuovo uno di fronte l’altra, ora il tagliente sguardo della donna era incollato sugli occhi dell’ospite. «Ma dimmi… parlami di te, ti sei risposato?» «No Khlorinda, non mi sono risposato. Sono giunto da poco a Mosca e uno dei miei primi desideri è stato quello di rivederti.» Un lampo ò negli occhi della donna. «N’ero certa, un uomo come te non può mettersi in pantofole…» Allungò il braccio e con le unghie scarlatte gli sfiorò prima il collo, poi scese lentamente giù, fino al basso ventre. «Ma dimmi, caro… perché sparisti improvvisamente? Dove sei stato? Che hai fatto in tutti questi anni? Di cosa ti occupi al momento? Perché di nuovo a Mosca? Quanto ti trattieni?» Mentre come fulmini i pensieri guizzavano per la mente dell’uomo, egli fu pervaso da un senso di moderato ottimismo. L’atteggiamento e il tono magistralmente coesi con quel fascino capace di confondere chiunque, celavano un abilissimo, femminile sistema d’approccio teso a mettere l’altro a proprio agio per arrivare gradualmente a sbottonarlo, interpretandone e ponendo, infine, in luce i suoi segreti. Inoltre, quello sguardo enigmatico incollato ai suoi occhi aveva qualcosa di sottilmente beffardo, era come se stesse giocando al gatto col topo. Allora quel travolgente fascino non gli permise di valutare certe sfumature da scuola KGB, ma ora, a distanza di anni e dopo averci pensato a lungo su,
credeva di vedere le cose nella giusta prospettiva. “È la stessa Korin di un tempo che ancora operativa, mi sta sottoponendo a radiografia” pensò Aquila, concludendo che il bordello doveva essere a suo tempo ato di mano a qualche attuale servizio segreto. L’uomo iniziò a snocciolare in modo più sfumato le calibrate balle che aveva raccontato ad Evašutin, ma l’intuito e l’esperienza di Korin non erano quelle dell’amico, gli occhi di lei non lo abbandonavano un momento. A metà racconto, venne in aiuto di Aquila il suono del camlo. «È Igor con la cena» fece Korin, alzandosi. Aquila aveva mangiato un’ostrica, un filetto di salmone affumicato e bevuto mezzo bicchiere di tè, quando terminato di raccontare la vicenda dei suoi ultimi anni, accese una sigaretta, lasciando lo squisito majaso goršočke čke, piatto di vitella e montone cotti al forno, su un orcio di coccio chiuso con un coperchio di pasta sfoglia. Un velato lampo di stizza sembrò are negli occhi della donna, per un istante le narici si allargarono. «Noto che sei distratto, Oscar. Non mangi? Se ben ricordo il majaso ti piaceva molto…» affermò in tono velatamente ironico. «La cena è squisita, mia cara, semplicemente non ho molto appetito.» Egli sapeva di camminare su un campo minato, ma le domande che doveva porle erano obbligate e non c’era modo di aggirarle. Dopo anni, la bizzarria del fato aveva di nuovo messo a confronto quelle due spie schierate, allora, in campi avversi. L’uomo credeva di essere in vantaggio, lei era all’oscuro della sua vera attività e lui faceva leva su quell’antico, loro feeling che poc’anzi lei aveva dimostrato essere ancora vivo. Pensò che per informazioni di così apparente banalità, il di lei elemento emotivo vincesse sui suoi doveri d’ufficio. Allungò la mano destra, incrociando le dita con quelle di lei; ora gli occhi dei due erano fissi, gli uni sugli altri. «Durante questi lunghi anni, non puoi immaginare quanto ti abbia pensata. Ascoltami, cara… Sto scrivendo per il Frankfurter Allgemeine un articolo riguardante l’attuale organizzazione degli apparati dello Stato dopo l’ascesa di Putin. Tu conosci molte persone importanti, avrei bisogno di sapere…» La frase non gli fu fatta finire. Di colpo ella divincolò la mano, si alzò, gli volse le spalle e con voce affilata come la lama di un rasoio esclamò: «Chi credi d’ingannare Oscar? Cosa vuoi? Perché sei tornato di nuovo in Russia? Vattene! Quella è la porta!»
All’istante, l’uomo si sentì completamente nudo. Nudo, frustrato e grottescamente ridicolo davanti a quella donna. Dopo qualche secondo di totale smarrimento, come un bambino preso con le mani nel sacco abbassò lo sguardo e quasi balbettando, sussurrò: «Scusami, scusa Korin… certo, certamente, me ne vado subito.» Si alzò e frastornato, s’incamminò verso l’altra stanza dove aveva riposto l’impermeabile. Stava infilandosi il soprabito quando alle spalle lo raggiunse di nuovo la voce di lei: «Chi crede d’essere questo fascinoso, romantico avventuriero che con cavalleresco disprezzo della propria vita dopo decenni si trova ancora sul campo a combattere contro il mondo?» I capelli di Aquila si drizzarono mentre un secondo getto d’acqua sembrò investirlo in piena faccia: “Fascinoso, romantico avventuriero che con cavalleresco disprezzo della propria vita…” Era una frase coniata per lui da Charlotte Lavarell e che spesso ella, per gioco, gli ripeteva nell’intimità. Korin doveva averla letta in uno dei rapporti che abitualmente Charlotte inviava al KGB. All’istante la foschia che, per tanti anni, aveva avvolto il mistero della sua scampata morte in Russia scomparve, lasciando il posto a una cristallina chiarezza. «Olga! – esclamò l’uomo. Subito dopo nel girarsi verso il soggiorno lentamente ripeté – Tu, sei Olga.» La scena era mozzafiato: Korin ora distesa sul divano con indosso solo il drappo di seta rossa intorno al collo e scarpe rosa con i tacchi alti, lo fissava con occhi lucidi dallo sguardo carico di sfida, mentre provocatoriamente si ava lentamente la lingua sulle vermiglie labbra, carezzandosi al contempo la folta peluria del monte di venere, aggiungendo tensione ed emotività ad una scena che ne aveva già abbastanza. «Sì, enigmatico camminatore, il mio nome in codice è Olga, ex maggiore del KGB, capo ufficio B, primo dipartimento, seconda direzione centrale, attuale tenente colonnello della FSK, primo dipartimento controspionaggio sicurezza interna.» Sebbene il momento fosse carico d’intense tinte emotive e la tensione erotica lo tracimasse, lentamente Aquila riacquistò il controllo di sé e, padroneggiando il di lei sguardo, gli si avvicinò. «Tu non eri un doppio agente dell’MI-6 altrimenti l’avrei saputo; perché mettesti a rischio la tua vita per salvare la mia?» disse nel piegarsi, allungando una mano per carezzarle il collo. Con occhi fiammeggianti e voce roca, lei rispose sussurrando: «Perché odiavo
quel regime, odio questo paese e perché io…» «Perché tu?» di colpo lei gli cinse le braccia intorno alla vita, attirandolo a sé. Barcollando goffamente, l’italiano affondò la faccia tra i giunonici seni. Nelle due ore successive fecero ripetutamente, intensamente all’amore, a tratti in modo violento, quasi selvaggio. Ora a letto, entrambe avevano terminato di raccontare le loro vere storie. Aquila aveva accuratamente omesso di rivelare la natura dell’attuale sua missione, unitamente ad alcune particolarità non secondarie del proprio ato in Unione Sovietica. «Ero certa che alla fine ci saremmo di nuovo incontrati.» «Anch’io n’ero certo» rispose lui, stringendola. Poi di colpo, volse lo sguardo verso il lampadario. Lei sorrise. «È il mio appartamento privato che, unitamente al salotto di attesa per ospiti particolari e il corridoio di servizio dove sei stato introdotto da Igor, sono gli unici ambienti di questo palazzo privi di micro telecamere e impianti audio. Noi ci siamo amati sempre e solo qui, ricordi? Ma dimmi, come sapevi che questa casa era un nido di rondini? Da sempre è uno dei segreti meglio custoditi.» Lui le ò una mano tra i soffici capelli ora sciolti. «In realtà, fino a questa sera non ne ero per niente certo. Il mio era solo un fievole sospetto risalente a dieci anni fa, ma, di là delle informazioni di cui ho estremo bisogno, giuro che non sono venuto a trovarti solo per queste. Avevo un immenso desiderio di rivederti. Quando comprendesti che ero un illegale?» «Capii che eri una spia fin dal lontano ’86, da quando ti conobbi. Vedi… tu potevi ingannare chiunque, ma non me. Eri troppo preparato, parlavi troppe lingue e soprattutto, nei tuoi occhi non c’era arroganza, arrivismo carrieristico o pratico cinismo, eri distante, molto distante e ciò strideva con i presunti motivi professionali della tua presenza qui in Russia...» “Visto sotto il profilo psicologico dell’allora scuola KGB, il discorso calza a pennello”, pensò Aquila. «Ma dimmi, Khlorinda, come ti fu possibile conoscere il mio nome in codice?» Lei sorrise di nuovo; lentamente gli ò l’indice sul naso. «Caro, il mio presuntuoso amore, credevi veramente di essere il più furbo? Da Yazenevo, dal
terzo dipartimento, arrivò una nota alla Lubjanka che raccomandava di tenerti d’occhio. Sapevano che saltuariamente frequentavi questa casa, per questo ne fui prima informata e poi direttamente coinvolta.» «Vai avanti, cara…» «Il problema riguardava di certo Amleto, si diceva fosse una formidabile talpa piazzata a Mosca dall’MI-6 e che il suo non meno fantomatico intermediario andasse sotto il nome di Romero.» Aquila strinse gli occhi. «A Lefortovo e alla Butyrka sentii spesso questi nomi, ma ti prego, continua…» «Anche il GRU da qualche tempo stava dando la caccia a entrambi ma senza risultati. Poi, a Yazenevo credettero d’individuare in te il contatto.» «Chi, questo Romero?» «Esattamente.» «Assolutamente ridicolo!» «Non per loro, il caso, com’era ovvio, lo prese in mano la Lubjanka, il mio capo, allora generale Puskin, m’interpellò, affidandomi l’incarico di carpirti ogni informazione possibile al fine di smascherare e demolire l’intera rete spionistica. Fin dai miei primi rapporti, dichiarai la tua assoluta estraneità, ma il GRU si mise di mezzo e la situazione mi scivolò di mano. Fu sempre il GRU a stabilire che eri un agente dell’Interscambio e che il tuo nome in codice era il Camminatore. Sempre secondo loro, il Camminatore era una variante dell’MI-6 per celare Romero, il contatto di Amleto.» «Tutto ciò, oltre ridicolo, era assurdo! A Lefortovo smontai pezzo per pezzo queste loro elucubrazioni mentali.» «Lo so, lessi i verbali degli interrogatori.» Mentre con lo sguardo incollato sui suoi occhi, le carezzava il volto, Aquila chiese: «Come ti fu possibile farmi liberare?» «Per il tramite di un’analisi calligrafica.»
«Analisi calligrafica?» «Esattamente… Noi di questo Romero avevamo la fotocopia di una ricevuta di rimborso spese per diecimila sterline che l’MI-6 gli aveva rilasciato, e sulla quale c’era la sua firma in codice per quietanza, fotocopia inviataci a suo tempo da un nostro legale di Londra. Ero certa che il parallelismo tra il Camminatore e Romero fosse mera fantasia, del resto, questa era la mia unica speranza per salvarti la vita. Chiesi una copia del documento al tenente colonnello Kosjikov del secondo dipartimento, feci rintracciare alcuni tuoi assegni bancari e portai il tutto al maggiore Pjatakov, capo ufficio analisi grafiche e falsificazioni della quinta direzione centrale. Il rapporto della perizia calligrafica comparativa tra le firme sugli assegni e quella sul documento di quietanza parlava chiaro, non c’erano dubbi, appartenevano a persone diverse: tu non potevi essere Romero. Estesi un dettagliato rapporto e lo inoltrai a Puskin, pregandolo di ricevermi. Nella riunione che seguì, fu deciso d’intervenire d’ufficio affinché la tua condanna fosse commutata in decreto di espulsione.» Le folte sopracciglia dell’uomo divennero una riga dritta. «Questo vostro legale, quando v’inoltrò quel documento?» «Lo ignoro.» «Da chi e quando fosti informata della sua esistenza?» «Dallo stesso Kosjikov, nel febbraio del ’91.» Aquila annuì lentamente. «Puskin che fine ha fatto?» «Se ne andò in congedo nel 94, ufficialmente per raggiunti limiti di età, forse fu forzatamente allontanato, non ne ho saputo più nulla. – si avvinse a lui – Sono ricca Oscar, ricchissima, fuggiamo ora, subito, portami in Italia, Inghilterra o dove vuoi tu.» «Come in un romanzo d’avventura?» fece lui, con una punta d’ironia. Lei abbozzò un amaro sorriso, col dito gli alzò il mento e, fissandolo, sussurrò: «Sì! Come in un romanzo d’avventura. Sarebbe la logica conclusione delle nostre movimentate vite.» Per un momento l’uomo rimase in silenzio, poi in tono grave domandò: «Stai
parlando sul serio, Khlorinda?» «Mai stata più seria.» Aquila si drizzò sulla spalliera del letto, prese due sigarette dal cofanetto sul comodino, le accese e ne ò una a Korin. Rifletté qualche secondo. «Come hai capito, ho una missione importante e urgente da compiere qui a Mosca, se…» «Mio romantico e ingenuo mylord…, un uomo vale quanto la sua parola, vero? Sai, quella se, quella puttana… sì, insomma, doveva amarti molto. Non immagini quanto potei odiarla, leggendo le sue relazioni settimanali che da Yazenevo erano inviate alla Lubjanka e da lì a me per conoscenza. Così intime e dettagliate…» Lui la strinse di nuovo. «Perché non ti sei decisa prima? Ora in fretta e furia come facciamo? La casa, le tue ragazze, Igor, la FSK, i documenti e il tuo amico banchiere di cui mi hai parlato prima? Io sono qui clandestinamente, con documenti falsi e da domani, oltre ai servizi segreti, avrò anche la mafia alle calcagna, non potrò aiutarti a uscire dalla Russia.» Un brivido scosse il corpo della donna. «Mafia?» «Gli uomini di Gumayev.» Lei si liberò dall’abbraccio, portandosi le mani agli occhi. «Mio Dio, quell’orribile essere. In questa situazione, se qualcuno ha bisogno di aiuto, quello, mio caro sei tu. Dimmi, come posso rendermi utile? Ancora non mi hai chiesto che informazioni ti servono. Quanto ai servizi segreti, qui non è arrivata alcuna segnalazione o informativa che ti riguardi.» «Per le informazioni parleremo dopo, la notte è lunga… riguardo a mie segnalazioni, è ancora presto e non è detto che ti pervengano. Vedi Korin, questo è uno dei rebus. Alcuni vostri servizi segreti che mi stanno dando o che presto mi daranno la caccia, forse non potranno divulgarlo ad altri settori e ciò potrebbe rappresentare un vantaggio. Ma non hai ancora risposto alle mie domande.» «Riguardo Igor e le ragazze, problemi non esistono, dirò loro che dovrò assentarmi, ci sono abituate. Riguardo alla casa e alla FSK è ora che vadano ambedue al diavolo! Per i documenti, dimentichi che sono un ufficiale superiore
dei servizi di controspionaggio, il mio aporto ha sempre i visti in regola con i paesi riconosciuti dalla Federazione Russa! Riguardo al banchiere…– i magnifici occhi divennero nuovamente taglienti, si espresse con sarcasmo – la risposta, anche se può apparire ridicola è la stessa della prima domanda, ho aspettato tutto questo tempo, mio caro e stupido Oscar, perché sapevo che eri ancora vivo e che un giorno ci saremmo di nuovo incontrati. Io voglio andarmene da questo paese, ma in compagnia dell’uomo giusto.» Avevano di nuovo gli occhi incollati gli uni sugli altri, consapevoli che quella sarebbe stata la notte della grande svolta. «È importante Khlorinda, molto importante. Mi occorre qualche altro giorno, poi se tutto va bene andremo a vivere in Italia, in Toscana. Entro quanto tempo puoi trasferire il tuo patrimonio?» «Da molto sono preparata a simile eventualità. Il mio patrimonio è in dollari americani depositati in Austria e in Svizzera. Qui ho solo gioielli e titoli in una cassetta di sicurezza, trasferibili in mezza mattinata.» «Oggi è lunedì 16.» «Martedì 17, sono le 0.50» corresse lei. «Martedì 17… incrociando le dita, orientativamente potremo fuggire a cavallo tra giovedì e sabato notte, dipenderà da alcune circostanze. In ogni caso, a partire da giovedì mattina tieniti pronta.» «Mangia qualcosa, la cena è ancora quasi tutta là.» «C’è tempo per mangiare…» sussurrò l’uomo, mentre con le dita lentamente scendeva giù, tra la peluria di lei. Erano le due quando usciti dalla doccia, seduti di nuovo in salotto, finivano di consumare la cena interrotta bruscamente alcune ore prima. «Spiegami o dammi conferma di alcune cose; attualmente la FSB e la FSK operano come operava la seconda direzione centrale?» «Spiegati meglio, Oscar.» «Allora, il secondo direttorato con il quinto esercitava il controllo della sicurezza
interna dello Stato. Ora la FSB e la FSK dovrebbero ricoprire un ruolo analogo.» «Esattamente. Anche se, in modo meno incisivo.» «A quei tempi voi controllavate i movimenti di qualsiasi persona di un certo rilievo, cos’è cambiato rispetto allora?» «Di fatto, poco o nulla.» «Ammettiamo che dei soggetti debbano incontrarsi per pianificare o, ordire… sì, diciamo un complotto o più in generale un’azione fraudolenta, dove pensi potrebbero riunirsi, in ufficio, al club, ai bagni turchi, all’aperto a casa?» «Sicuramente in un luogo privato, in un’abitazione.» «Quindi, indipendentemente dai motivi dei loro incontri, se costoro ricoprissero cariche di un certo interesse sarebbero sorvegliati.» «Assolutamente, sì! Naturalmente dall’esterno e in modo più blando rispetto a prima, nondimeno i loro movimenti sarebbero trascritti nei rapporti di servizio e computerizzati. Questo è uno dei compiti specifici della FSB, come allora lo era per la seconda direzione centrale. Vedi… il popolo russo è strano, si fida poco di tutti ed è un cospiratore nato, ma al contempo è consapevole e accetta di essere spiato.» «Come pensavo… Puoi entrare nel file dove sono computerizzati i rapporti di servizio della FSB? Hai i codici di accesso?» «Certamente; ma il problema sono i nomi di riferimento. Ci saranno milioni di rapporti inseriti in ordine alfabetico nel file centrale. Chi cercare Oscar?» «Già, mia cara, chi cercare? Ti pongo la domanda fondamentale, quella che avrei voluto porti alcune ore fa. C’è un supervisore o un responsabile dei servizi di sicurezza nel distretto di Mosca che controlla e legge questi rapporti prima che siano computerizzati e archiviati? Se sì, chi è questa persona? Come venirne in contatto?» La faccia di Korin s’illuminò, infine rise. «Sicuro; il maggiore Josif Galynskij.» «Cosa ti fa ridere? Parlami di lui.»
«È il capo ufficio A del primo dipartimento FSB sicurezza di Mosca, il coordinatore degli agenti addetti alla sorveglianza e controllo. Un tipo di uno zelo da paranoia con la mania della precisione; non c’è cosa che i per il terzo piano della prospettiva Kutuzovskij che egli non conosca a memoria. a tutto il tempo a documentarsi, spulciare e leggere i rapporti di servizio, è aggiornato su ogni dettaglio, ma di là da questo è una pastetta. C’è un modo di dire italiano che gli calza a pennello, tutto…» «Tutto fumo e niente arrosto.» «Esattamente! È tutto fumo e niente arrosto.» «Esiste un suo dossier computerizzato? Se sì, è possibile stamparlo?» «Certamente esiste, ed io sono titolata a possederne la d’accesso; ma i dossier personalizzati con note caratteriali e comportamentali degli ufficiali superiori dei servizi segreti e di sicurezza sono cose delicate. Dovrei farne specifica richiesta e riceverne l’autorizzazione, diversamente, poiché il mio codice di accesso sarà registrato, fra non molto dovrò rispondere di questa intrusione specificandone i motivi. – e aggiunse – Ma per allora noi saremo lontani. Andiamo!» Ora erano in una piccola stanza attigua, su una scrivania c’erano dei computer. Si misero a lavoro. Alcuni minuti dopo la stampante laser sputò dieci fogli formato A4. Il settimo, tra l’altro riportava la foto di una bella donna bionda sui trentacinque. «Però. Non si direbbe. Guarda, guarda il nostro integerrimo maggiore dei servizi di sicurezza con chi se la fa, puntualissimo, ogni martedì e venerdì dalle diciotto alle venti» commentò Aquila, ando il foglio a Korin. Un istante dopo i due esplosero in una fragorosa risata. Quella, oltre la notte delle meraviglie, tonificante e afrodisiaca, sembrava per entrambi essere la soglia di uscita da un cupo ato, nei loro occhi si leggevano determinazione, entusiasmo e gioia. Nonostante l’ora tarda, lo stress emotivo per l’accavallarsi degli eventi e le intense ore d’amore, i due sembravano ringiovaniti: il volto di Korin era fresco e leggiadro come quello di una ragazza, mentre le linee sulla fronte e i fili grigi di Aquila sembravano scomparsi. Korin uscì dal soggiorno, poco dopo tornò con un astuccio. «Queste sono le chiavi di un appartamento Taynik{51} che si trova al piano terra del n°
12 di Gagarinskij pereulok. Il retro ha un’uscita secondaria su un cortile che porta dall’altra parte dell’isolato, presso la fermata metropolitana di Kropotkinskaja. Usalo qualora tu debba liberarti da eventuali inseguitori. – gli porse un biglietto – Il numero protetto del mio cellulare.» «Appena sistemate le tue cose, prepara un piano di fuga per Londra. Come affermato in precedenza, considera che da giovedì mattina ogni minuto potrebbe essere buono. Dobbiamo scartare stazioni e aeroporti Moscoviti, inclusi Vnukovo, Domodedovo, Bykovo e Šerementevo uno. Un’ultima cosa, forse per poche ore, al massimo un giorno, potrei aver bisogno di un rifugio o dettarti per cellulare un breve messaggio e-mail da inviare via internet, puoi aiutarmi?» «Me lo chiedi?» rispose lei, abbuiandosi, e continuò: «Dev’essere cosa terribilmente importante. Ti prego Oscar, trasloca dal Savoy, vieni qua al sicuro e fammi partecipe di questa tua missione.» «No Khlorinda! Ti ho già esposta a troppi rischi. Riguardo quest’operazione, giuro che ti dirò tutto a Londra.» Erano quasi le 3 quando stanchi e spossati andarono di nuovo a letto.
Capitolo XV
Mosca era avvolta nella nebbia. Nella caffetteria del palazzo degli interni in Zitnaja ulica, due uomini seduti a un tavolo in fondo alla sala confabulavano davanti a due tazze di tè bollente. «Quindi, parrebbe che si siano verificate strane trasmissioni satellitari», fece Uglanov. Artmenko, che in quel momento stava inalando i vapori del liquido caldo, annuì. «Sembra proprio di sì. – disse – Finora tre brevi trasmissioni e una ricezione, trasmissioni per il tramite di un sofisticato sistema a impulsi, e questo la dice lunga. Tu a che punto sei?» «I controlli alle dogane hanno dato esito negativo. Questa sera inizierà la verifica incrociata a partire dagli arrivi dello scorso giovedì mattina, entro domani sapremo i primi risultati. Non credo ci siano motivi di preoccupazione, Ivan.» «Il tuo ottimismo è sempre confortante, Vladimir Nicolayevičh…» «Ammesso che questo musicista abbia a che fare con l’operazione Gengis Khan, cosa di cui ho seri dubbi, giovedì notte avverrà la variante, dopodiché la seconda fase dell’operazione potrà considerarsi fuori pericolo.» «Forse, ma poiché Petrov per qualche giorno mancherà, in sua assenza dobbiamo fare in modo che non accadano sorprese, vigilando al massimo sulla sicurezza.»
A quasi tremila chilometri di distanza, Girasole fendeva le azzurre acque delle Cicladi con rotta sud, sud-ovest. Nella stiva di poppa aveva ancorato due casse a forma di cubo, distanti tre metri una dall’altra e riempite per tre quarti di lastre di uno strano metallo molliccio, molto pesante, di colore biancastro lucido. L’uomo biondo entrò nel ponte di comando, si rivolse a quello abbronzato che era alla ruota del timone. «Dobbiamo eseguire l’operazione, Vassily.»
L’altro scosse la testa. «Questo tratto di mare è troppo trafficato. Avverti gli altri di tenersi pronti per quando calerà il buio. Il tempo previsto laggiù?» Il biondo sbirciò il foglio che aveva in mano. «Venti deboli, nuvole basse con visibilità ridotta, locali banchi di nebbia e piovaschi! Mare, tra calmo e lievemente agitato.» Vassily annuì brevemente, affermando: «Da questo momento Gurgen, che siano attivi solo i canali in ricezione; qualsiasi cosa succeda, assoluto silenzio radio e satellitare.»
Dopo aver riposto alcune cianfrusaglie dategli da Korin, Aquila si era concentrato sul dossier del maggiore Galynskij. Ora aveva sotto gli occhi il diagramma, nel rombo con su scritto nido di rondini? tracciò una linea accanto alla parola yes, proseguì verso il basso e disegnò un rettangolo. Sbirciò l’orologio: le 12.15, era ora. L’elegante hall era semivuota, nell’attraversarla aquila si concentrò nell’osservare alcune particolarità nell’abbigliamento dei danarosi clienti seduti sulle poltrone. Un uomo, immerso nella lettura di un giornale, calzava pesanti scarponcini scamosciati. “Roba dei magazzini Gum, Gumayev mi ha già localizzato!” arguì Aquila. Erano le ore 13.15, quando lo scortato, sbirciando attraverso le porte aperte sul lungo corridoio, notò che gli uffici erano completamente vuoti. «Non c’è nessuno oggi?» domandò rivolto ai suoi due angeli custodi. «Dalle tredici alle quattordici sono tutti fuori per l’intervallo di colazione» rispose uno dei due mafiosi. “Proprio come i dipendenti di una multinazionale” pensò l’italiano. Aquila tirò fuori un biglietto, indicò uno dei telefoni sulla scrivania. «Questo è il codice cifrato. A Ginevra è metà mattinata, puoi controllare l’avvenuto deposito.» Nelle labbra di Gumayev affiorò di nuovo l’antico sorriso da iena. «Non ce n’è bisogno, mi fido… il nostro è… come affermavate voi dell’MI-6? Gentlemen
agreement?» «Già, Fjedor… un gentlemen agreement…» Il boss indicò tre contenitori di tela posti sul tappeto. «Quelle borse contengono i dossier aggiornati a ieri e qui, – allungò una cartellina rossa – c’è l’indice progressivo numerico dei personaggi in ordine alfabetico, con a fianco le relative posizioni, titoli e attuali residenze.» Aquila aprì la cartellina, all’interno c’erano quindici fogli di stampa, il numero finale sull’ultimo foglio era il 142. «Immaginavo fossero molti di più, sono solo centoquarantadue.» «Inizialmente erano seimilaquattrocentocinquantadue, avresti perso troppo tempo per controllarli tutti. Sono stati eseguiti ulteriori screening, togliendo man mano i personaggi meno significativi. – puntò di nuovo il dito – Lì dentro troverai sicuramente ciò che cerchi.» “Mi sta dando una mano, ha fretta anche lui” arguì l’italiano. Il commiato a conclusione dell’affare fu freddo, alla maniera malavitosa. Con una sporta a tracolla e le altre che gli pendevano dalle mani, in piedi, fissando il mafioso, Aquila semplicemente fece: «Addio Papa!» «Addio Aquila!» rispose di rimando il grande boss.
Era pomeriggio inoltrato, Aquila aprì la finestra, sbirciò fuori: era già buio e la nebbia ancora fitta. Utilizzare l’appartamento Taynik più volte avrebbe significato correre il rischio di bruciarlo, decise che quel giorno non ne avrebbe fatto uso. «Alla fermata metropolitana Puskinskaja!» ordinò al tassista, mettendogli in mano mille nuovi rubli. Durante il breve tragitto si guardò ripetutamente dietro, due fari che fendevano la nebbia tallonavano il taxi a dovuta distanza. Davanti al sottoaggio, Aquila saltò giù dall’auto dirigendosi velocemente verso l’affollato ingresso ma, invece d’imboccare la biglietteria girò a sinistra,
mischiandosi tra l’andirivieni del gran flusso di folla in quell’ora di punta. Poco dopo quasi di corsa usciva dalla parte opposta, sbucando su Palaševsskij pereulok! S’incamminò lungo il perimetro dell’isolato, attraversò prima la seicentesca arcata poi guizzando tra le bancarelle cariche di cianfrusaglie, s’inoltrò nell’attigua piazzetta. A o svelto superò ambulanti e straccioni che, nonostante il buio e la nebbia, bivaccavano sotto le luci dei lampioni, attraversò l’altra arcata girando intorno all’isolato, e subito imboccò l’ingresso della fermata di Tverskaja. Era la stessa stazione di prima, solo che, uscito da una parte, era rientrato poi dall’altra. Ora era all’interno del secondo vagone della linea verde (la due). Alla terza fermata, alla Paveleckaja, scese, salì al piano superiore e, poco dopo, era sul treno della linea quattro (la circolare). Scese a Marksistskaja, attraversò furtivamente piazza Taganskaja e salì su un taxi fermo nel vicino posteggio. «Fakel’nyj pereulok» ordinò. Alcuni minuti dopo era finalmente poggiato contro il muro di un palazzo all’angolo tra Tovariščeskil e Fakel’nyj. S’incamminò tra la nebbia per il Fakel’nyi pereulok. Ora, con la fiamma dell’accendino faceva luce cercando di leggere la lunga serie di nomi sulle targhette di un portone. Nello spoglio atrio, imboccò la scalcinata scala di destra, il pianerottolo del secondo piano era fiocamente illuminato da una polverosa lampadina pendula, facendosi ancora luce con l’accendino, controllò le targhette sui camli, uno riportava la scritta Slava Fel’dman. Qualche istante dopo da dietro lo spiraglio della porta, bloccata da una rugginosa catenella, apparve un bel volto femminile pesantemente truccato. «Sìì?» «Sono il capitano Ljubčenko. Ho una comunicazione per lei da parte del maggiore Galynskij.» La donna fissò prima l’uomo, poi con aria sufficiente e tono seccato, domandò: «Che c’è? È successo qualcosa?» «No! Solo che… se mi lascia entrare un momento…» L’altra squadrò lentamente da capo a piedi lo sconosciuto. «Ma certo! Che stupida… prego, capitano…» Appena dentro, da una tasca della giacca a vento l’uomo tirò fuori una piccola bomboletta spray e, prima che l’altra se ne rendesse conto, fu irrorata in piena faccia dal getto nebulizzante che ne provocò l’immediato svenimento. Da una
seconda tasca, tirò fuori un rotolo di scotch per pacchi e trenta secondi dopo, il corpo esanime della donna era impacchettato come un salame, in ultimo, sempre con lo scotch, le tappò la bocca. Si guardò intorno, l’appartamento consisteva in due stanzette, un angolo cottura e un non meno piccolo bagno. Era un tugurio, ma per il russo medio un alloggio da signori. Prestando attenzione a non urtare la bicicletta appesa al muro tra due chiodi, nel trascinare la donna la osservò attentamente. Indossava una corta vestaglia verde, scarpe con tacchi a spillo e calze velate nere, aveva belle gambe e le sode cosce promettevano anche meglio. Nella camera di destra, le pareti chiazzate dall’umidità erano screpolate e l’aria permeata da un rancido odore di fumo, chiuso e scadente profumo femminile. Alzò di peso la donna, distendendola sul letto, davanti c’era un piccolo televisore con videoregistratore incorporato e di fianco, nei comparti del grossolano mobile, una nutrita serie di videocassette pornografiche. Aprì uno dei cassetti del mobile, all’interno c’erano alcuni reggicalze a vita, dei tanga, un paio di reggiseni a balconcino e calze nere a maglia, di lato un frustino. Ai piedi del letto erano visibili un paio di neri stivali laccati col tacco altissimo. Le labbra di Aquila si tirarono in un sardonico sorriso, “classico dello zelante bacchettone” si disse. Udì dei mugolii, si avvicinò, col dito fece cenno di silenzio, sedette sul bordo del letto e pacatamente disse: «Mi spiace per il disagio, ma tranquillizzati. Non è mia intenzione farti del male; devo solo fare quattro chiacchiere con il tuo maggiore, si tratterà al massimo di un’ora. Fai la brava, stai calma e non divincolarti o mi costringerai a legarti alla rete.» Accese la televisione e le mise un cuscino sotto la testa. Nel minuscolo corridoio tirò fuori la Beretta, ne stava avvitando il silenziatore quando quasi senza termine di continuità udì tre ripetuti squilli di camlo. Appoggiato al muro, aprì la serratura. Appena l’agitato uomo ebbe superato la soglia, con un piede Aquila richiuse la porta e il tozzo maggiore, girandosi, si trovò davanti la bocca del silenziatore della Beretta. Lo stupore fu enorme, sgranò prima gli occhietti, poi urlò: «Ma… che succede? Chi sei? Che vuoi? Dov’è Slava?» era diventato rosso e la voce andava in crescendo. «Calma, maggiore Galynskij. Calma, chiaro? Chi sono non ha importanza, ciò che voglio lo saprà tra poco. Slava è in ottima forma, distesa sul letto in paziente attesa che me ne vada.» Un minuto dopo, il tremolante ufficiale della FSB era nell’attiguo salottino seduto su una sgualcita poltroncina di vil pelle. «Sbottoni pure il cappotto, maggiore, si metta comodo, ma… niente scherzi o non avrebbe il tempo di
pentirsene.» «Ma… cosa, cosa vuoi?» «Dovrà rispondere esattamente a dei quesiti che le porrò.» Tirò fuori la cartellina rossa piegata in due, la ò all’altro. «Non le chiedo di svelarmi particolari segreti di Stato, tantomeno tradire la Rodina,{52} dovrà semplicemente aggiornarmi sui movimenti di alcuni personaggi riportati in questo elenco. – continuò caricando – Noi sappiamo già molto ma come poc’anzi affermato, vogliamo conoscere le reciproche frequentazioni d’alcuni di questi signori. Qualora non collaborasse o fornisse informazioni mendaci, sia lei, sia la sua Slava, morirete. Pensi alle conseguenze, al chiasso della televisione e della stampa; ufficiale dei servizi di sicurezza con gusti masochisti, trovato morto con l’amante, una spogliarellista di cabaret di periferia e attricetta porno. Immagini sua moglie Irina e sua figlia Katja: che scandalo!» Un accavallarsi di confusi pensieri ava per la testa dell’esagitato maggiore; la lucente testa calva era diventata umidiccia, come bagnato era il faccione, rivoli di sudore scendevano giù per il collo taurino mentre gli occhietti porcini sembravano due fessure. “Chi diavolo è costui per essere così al corrente? Si direbbe un americano, ma parla con accento moscovita. Noi sappiamo già molto… la Rodina… – infine gli si accese una lampadina – uno spetsnaz, ecco chi è! Maledetti bastardi! Allora è vero che alcuni di loro hanno avuto il compito di minare dall’interno la FSB. – infine sintetizzò pensando – Questi sono tipi che non scherzano, farò bene a trasmettergli ogni informazione che chiede, non sono mica stupido io” Indicando con la canna della pistola la cartella, Aquila entrò nei dettagli. «Lì, ci sono centoquarantadue nomi in ordine alfabetico e progressivamente numerati. Deve porre in rilievo tutti i personaggi di questa lista che negli ultimi due mesi si sono reciprocamente e informalmente incontrati in luoghi privati.» Sudato e col respiro pesante, il malcapitato iniziò lentamente a leggere i primi fogli, ma il maggiore sembrava tardo di comprendonio e, poco dopo, alzando gli occhietti, con un filo di voce che suonò in falsetto, esclamò: «Assurdo! Moltissimi di costoro si conoscono, frequentemente s’incontrano tra loro.» «Ho affermato in modo informale, maggiore. Escluda riunioni di lavoro, ufficio, anniversari, inviti per feste e ricevimenti, circoli e quant’altro. Provi a
immaginare di dover smascherare un covo di terroristi che si annidano in quella lista e che si riuniscano clandestinamente per ordire attentati. Lo Stato la paga per questo, no? Con calma maggiore, ci rifletta bene su.» Quindici minuti dopo, l’ufficiale della FSB era arrivato in fondo all’ultima pagina. Tirò fuori una penna e ricominciò da capo. «Dietro ogni foglio scriva in chiare lettere le annotazioni significative, vi includa anche i luoghi degli incontri.» ò un’ora e mezza, finalmente il sudaticcio faccione si alzò dai fogli. «Da alcuni mesi a questa parte, le persone inserite in questa lista che si sono viste in incontri… informali, a quanto mi risulta ammontano a ventiquattro, ma solo sei di loro si sono reciprocamente e sempre incontrate per cinque volte nello stesso luogo. Si riuniscono per giocare a bridge.» Le ultime parole acuirono i sensi dell’italiano. Voleva porgli altre domande, ma correva il rischio di esporsi troppo. Allungò un evidenziatore. «Sottolinei i diciotto ed evidenzi i sei. Non dimentichi annotazioni e date, anche se approssimative.» arono altri quindici minuti, infine l’esausto ufficiale restituì la cartellina. Ora erano presso la porta d’ingresso. Con l’inesorabile pistola ancora puntata contro il malcapitato, l’italiano chiese: «C’è qualcuno sotto che l’attende? È accompagnato da un autista?» «No! Sono solo, giunto con l’auto privata.» Aquila accennò a un luciferino sorriso. «Questo incontro non è mai esistito, chiaro maggiore? Quando sarò uscito, non accarezzi la folle idea di usare qualsiasi tipo di telefono, è tutto sotto controllo. Una parola, e sa cosa accadrebbe. Le suggerisco d’inventarsi alla svelta una storia credibile per la sua amichetta incerottata di là, nell’attesa di essere sciolta.»
La voce di Gumayev fu un sibilo. «Come sarebbe a dire, se ne sono perse le tracce?» «Calmati Fjedor. Fuori c’è un muro di nebbia» rispose Krušenko.
«Forse quei coglioni credevano di aver a che fare con uno come loro? Non erano stati avvertiti di che panni veste quello?» «Lo hanno perso di vista presso Puskinskaja, neanche una compagnia di segugi avrebbe potuto stargli dietro. In ogni caso, Herr Ticktmann, è rientrato al Savoy poco fa.» «Abbiamo perso un anello della catena e non possiamo permettercelo!» «Oggi non avrà avuto materialmente il tempo di leggere i dossier, quindi non dovrebbe essere successo nulla d’importante. In ogni modo, da domattina sarà raddoppiata la sorveglianza, il personale delle pulizie controllerà stanza e bagaglio e la sua foto sarà distribuita ai tassisti in sosta sotto l’albergo che avranno anche il compito di tenersi in contatto con i nostri uomini.»
Nell’Egeo centrale erano le 24, ora locale. A trenta miglia a ovest dell’isola di Milos, il mercantile dalle bianche murate fendeva le azzurre acque, facendo rotta sud, sud-ovest. Sulla murata di poppa il nome Girasole era ora diventato Freedom e sull’albero maestro, la bandiera panamense si era trasformata in quella liberiana. Paradossalmente, era come se nello stesso momento una nave si fosse trovata in due punti diversi del Mediterraneo. «Dobbiamo essere sul punto giovedì, alle venti ora locale di laggiù. Continuando quest’andatura, arriveremo almeno con dodici ore di anticipo. Fai ridurre le macchine Gurgen, portiamoci a sei nodi orari», ordinò l’uomo abbronzato, rivolto a quello biondo e robusto.
A Mosca erano le ore 1 del mattino di mercoledì 18 ottobre. Sullo scrittoio della camera d’albergo c’erano due pile di cartelline. Aquila aveva appena finito di leggere il contenuto della prima pila, le diciotto cartelle che si riferivano ai personaggi i cui nomi erano sottolineati. Sedici di loro erano rispettivamente undici generali e cinque civili la cui vita sembrava linearmente monotona; ognuno si era incontrato con un secondo della lista un paio di volte, forse per problemi di ufficio. Gli ultimi due, sebbene non più giovani, spesso s’incontravano riunendosi, ma in compagnia delle rispettive signore e i dossier di Gumayev chiarivano il perché: erano dediti allo scambio di coppia. Era rimasta
la seconda pila, quella con i dossier dei sei personaggi evidenziati in giallo: i giocatori di bridge. Aquila aveva deciso di lasciarle per ultime, perché pensava richiedessero particolare attenzione e il motivo era semplice, a bridge non si gioca in sei, ma in quattro o suoi multipli, in sei le coppie sono dispari e il gioco risulterebbe spaiato e disomogeneo. Lesse le annotazioni di Galynskij; si erano incontrati una volta nella terza decade di agosto, due a settembre e altrettante a ottobre e sempre nella dacia del capo del GRU, il generale Maksim Petrov. L’intestazione della prima delle sei cartelle riportava: Tenente generale Aleksey Borosovičh, Capo di Stato Maggiore della seconda Armata corazzata di stanza a Tula; come una scossa elettrica, un brivido percorse Aquila fino all’attaccatura dei capelli. Erano le 2.30 e nonostante la temperatura all’interno della stanza fosse solo di diciannove gradi, la sudorazione era andata in crescendo, aveva la camicia completamente bagnata. Accese l’ennesima sigaretta e aprì la finestra, un getto d’aria gelida lo investì. Si era alzato il vento di Burano proveniente da nord-est e, come nella sua mente, ora la nebbia andava rapidamente diradandosi lasciando che il freddo s’impadronisse del tutto. Gettò il mozzicone e per la seconda volta tornò a leggere l’ultimo dossier, quello dell’accademico professor Arkady Markov. Nel secondo dei dieci fogli, tra gli altri, si leggeva: Nato a Mosca nel 1930, gioventù ata nella Komsomol, nel 1953 conseguì la laurea in filosofia della politica presso l’università moscovita di Stato Lomonosov. Fervente comunista, fondò diversi circoli culturali, tra cui Filosofi e letterati marxisti, il cittadino e lo Stato. Pupillo dell’eminente sacerdote e custode dell’ortodossia marxista, l’accademico membro del Politbjuro professor Suslov, il giovane Markov divenne presto primo assistente alla facoltà di filosofia della politica nella suddetta università. Nel 1974 gli fu infine conferita la cattedra di geopolitica, divenendone titolare. Gran maestro di scacchi e membro dell’accademia delle scienze, tra gli innumerevoli suoi scritti vanno ricordati, “lo Stato marxista, la terza internazionale, il deviazionismo di destra.” Tra i numerosi saggi di scacchi, occupa un particolare rilievo, il libro delle sue strategie:” Le varianti di Markov”. Alla quinta pagina si leggeva: Vedovo dal 1997, i suoi due figli Pavel e marina…. Alla settima: Di carattere schivo e introverso, non ama frequentare amicizie prediligendo la solitudine. All’ottava: Ogni mercoledì e sabato una colf si prende cura dell’ordine e della pulizia della casa… Aquila aveva gli occhi rossi che gli bruciavano, sbirciò l’orologio, le 3.15.
Ripose ordinatamente le ventiquattro cartelline con i dossier dentro le borse, secondo l’ordine alfabetico in cui erano state inizialmente poste, si staccò un capello e lo pose di traverso sulla cerniera della valigia, pose la cartellina indice dentro la ventiquattrore e la chiuse con la combinazione. Distrutto dalla stanchezza e dallo stress, ingerì un leggero sedativo e andò a dormire.
Fu svegliato alle dieci dal trillo del cellulare, era Korin. Ritenendo il luogo poco sicuro, affermò che l’avrebbe richiamata lui nel giro di qualche ora. Alle undici era su un taxi diretto alla vicina biblioteca Lenin e ora, sull’ala destra al secondo piano dello storico palazzo era intento a leggere le etichette sugli scaffali posti intorno alle pareti della gran sala marmorea. Di lì a qualche minuto, trovò ciò che cercava, si diresse nell’attigua sala lettura. Un’ora dopo uscì dalla biblioteca, s’infilò di nuovo in un taxi e col cellulare chiamò gli uffici del governatorato dell’Associazione Nazionale Numismatica, chiedendo se l’indomani nella mattinata gli uffici fossero aperti e se avesse potuto conferire con una certa impiegata. Gli fu risposto che gli uffici erano aperti e che la persona in oggetto, addetta alle relazioni con il pubblico, prestava servizio dalle 9 alle sedici 16. Il taxi lo fermò davanti a un ristorante, Aquila s’infilò dentro, ordinò il pranzo, andò alla toilette e chiamò Korin. In lingua inglese dettò alla donna prima due per accedere a un sito internet, poi un indirizzo e-mail, infine scandì un apparente, banale messaggio di una ventina di parole. Terminato il pranzo, decise di fare una eggiata, doveva riflettere. Ora Aquila era poggiato sul muretto del lungofiume Bersenĕvskaja, dove dividendosi, la Moscova da luogo al canale Vodootvodnyj. Era freddo e piovigginava, nell’osservare le acque inquinate del fiume rese color cenere dalla pallida luce di quel plumbeo inizio di crepuscolo serale, si alzò il bavero dell’impermeabile e cadde in riflessioni. Dopo i rigorosi controlli a Šerementevo due e aver letto quei dossier, sentiva che Mosca cominciava a calzargli stretta. Probabilmente la FSO di Vladimir Uglanov e, forse anche la FPS, stavano lavorando al registro OVIR e lui sapeva come lavoravano: lenti e meticolosi, ma tenaci ed implacabili. “Sono ati quattro giorni dalla mia entrata in Russia, i loro tempi iniziano a essere maturi”, si disse. Aveva bisogno minimo di un’altra trentina di ore, troppe! L’unica possibilità era far saltare celermente i ponti alle sue spalle. Sarebbe potuto svanire in anticipo, trasferendosi quella sera stessa da Korin, ma di contro c’era il fattore Gumayev. Dal momento in cui si fosse dileguato, in trenta ore gli sgherri del boss avrebbero rigirato Mosca come un
calzino bloccandone gli accessi, in quel caso, avrebbe probabilmente messo in pericolo anche la vita di Korin. “Dal momento in cui sparisco dal Savoy, al massimo avrò quindici, venti ore di vantaggio su Gumayev” pensò. Era una delicata scelta dei tempi. Osservò un tronco d’albero trascinato dalla corrente, era seguito dalla carogna di un animale, forse un cane. Fu in quel momento che, rischiando di cadere nelle mani della FSO, decise di rimanere un’altra notte al Savoy, da Korin sarebbe andato l’indomani nella tarda mattinata.
Oltre la riva sinistra del Tamigi, all’inizio dell’Erasmus street, in fondo alla Marsham tra la John Islip e la Vincent street, c’è uno dei più esclusivi club londinesi: il Lion. Oltre a qualche parlamentare della Camera dei Comuni, il locale è quasi ed esclusivamente frequentato da alti funzionari di Whitehall. In quel momento, sir David Collins stava pranzando al club, seduto al suo abituale tavolo in fondo all’angolo nella saletta di destra. “C” andava pazzo per la lombata di vitello alla griglia, gli piaceva ben cotta, quasi bruciata e, in barba alla mucca pazza, quel giorno aveva deciso che per pranzo se ne sarebbe fatta una. Come contorno il cameriere aveva portato patate novelle al forno e cavoletti all’aceto. “C” aveva iniziato a mangiare da poco, quando il cellulare a linea protetta squillò. Dall’altra parte c’era Arrold Barlow, responsabile del dipartimento operazioni. «Non trovandola in ufficio, ho abusato della libertà di chiamarla al cellulare.» «Hai fatto bene. Arrold. Di che si tratta?» «Qualche ora fa, via internet è arrivato un messaggio in codice del Camminatore.» «Faccenda urgente?» «Non direi.» Sir Collins sbirciò i piatti, metà della lombata era ancora lì, ben cotta, decise di finire il pranzo. «Tra mezz’ora sarò in ufficio.» Tre quarti d’ora dopo, “C” girava e rigirava tra le dita lo stampato con, su scritto: Organi deviati dello Stato; ambienti militari, comunicazioni, FSO e GRU. Rapporto completo entro prossime quarantotto ore salvo imprevisti dovuti a
precaria, personale sicurezza. Pose il foglio sulla scrivania. «Questo è il quarto messaggio, se ce ne sarà un prossimo, dovrebbe essere il risolutivo. Oltre a noi, chi li riceve?» «Ovviamente l’Interscambio. Parigi e Berlino» rispose Barlow. «Che ne pensi, Arrold?» Il capo del dipartimento operazioni, scosse la testa. «Non saprei che dire. Se questo sillogismo non fosse paradossale, tenderebbe a dar corpo alle nostre peggiori ipotesi. Supposizioni avvalorate dal fatto che, contrariamente ai messaggi precedenti, il presente è arrivato via internet...» “C” abbassò lo sguardo e con un filo di voce, commentò: «Lo spazio di manovra del Camminatore è ormai limitato. Sebbene persona dalle molteplici risorse, francamente, non credo che questa volta riuscirà a padroneggiare la situazione, venendo a capo della matassa uscendone vivo.»
Giunto in camera, Aquila ò delicatamente un dito sulla chiusura lampo della valigia: il capello era saltato, era stata violata. Controllò le borse con i dossier, apparentemente era tutto a posto. Compose la combinazione della ventiquattrore, pensando che quella difficilmente sarebbero riusciti ad aprirla, infatti l’interno era come lo aveva lasciato: pistola, cartellina indice, notebook, eccetera. Inserì la combinazione per l’apertura del sottofondo e tirò fuori il foglio col diagramma. Ora seduto allo scrittoio, in basso nel centro del rettangolo vuoto scrisse: GRU, generale d’armata Maksim Petrov. Poi, intorno al rettangolo principale, ne disegnò altri quattro. In alto all’interno del sinistro scrisse: forze armate poi al centro dello stesso, colonnello generale Jiry Nikolaenko, comandante primo corpo d’Armata di stanza a Mosca e subito sotto, tenente generale Aleksey Borosovičh, Capo di Stato Maggiore della seconda Armata corazzata di stanza a Tula. Girando in senso orario, all’interno del rettangolo in alto scrisse: trasmissioni e comunicazioni; FAPSI, tenente generale Ivan Artmenko. In quello di destra: piano, propaganda e disinformazione; professor Arkady Markov. Infine, in quello sotto, controllo territorio della Federazione; FSO, tenente generale Vladimir Uglanov. Sempre dal rettangolo centrale fece scendere un’ulteriore linea, infine ne tracciò una orizzontale e sotto vi disegnò tre altri piccoli rettangoli equidistanti. Partendo da sinistra verso destra, al loro interno
scrisse: Where? How? When? – Dove? Come? Quando? Osservò il diagramma, sarebbe stata la perfetta quadratura del cerchio se avesse potuto proseguire, dando le risposte a quelle ultime tre domande senza le quali, il tutto era solo un mero virtuosismo mentale. “Domani, – pensò – forse, domani…” Un’ora dopo chiedeva a un fattorino dell’albergo, dove avrebbe potuto distruggere dell’ingombrante materiale cartaceo. Di lì a dieci minuti, le tre borse con all’interno centotrentasei dossier, costati ai contribuenti europei due milioni di dollari, ardevano nei sotterranei dello stabile tra le fiamme dell’inceneritore alberghiero.
I due boss erano in un piccolo salotto. In un angolo c’era un grosso televisore spento e sulla parete una gigantografia della pianta di Mosca. Gumayev scostò la pesante tenda rossa, rimanendo in silenzio a osservare il pulsare del traffico luminescente e delle insegne giù nella strada. Krušenko pose la relazione sul tavolino e, sospirando, commentò: «Non ha lasciato tracce indicative, come se non avesse letto neanche un dossier. Erano tutti nelle borse al loro posto, in ordine alfabetico, secondo la sequenza cui erano stati posti. Uscito dalla biblioteca Lenin è andato a pranzo, facendo infine una eggiata in solitudine.» Gumayev, che sembrava concentrato sul pulsare di un’insegna al neon, annuì lentamente, dicendo: «Sebbene fuori dell’albergo ogni suo movimento sia stato video ripreso, dal rapporto non risulta nulla degno di nota. Usa sempre la stessa tecnica, quella che allora ci fece perdere anni, penetra in profondità al centro lasciando invariata la periferia. In albergo non è stata trovata la cartella con i fogli indici. – di colpo il boss si girò. – Biblioteca Lenin, sala letteratura scacchi; cerca qualche riferimento o connessione logica, sta concludendo Abel, presto ci condurrà dal sacro Graal.»
Erano le 6.45, ora del Mediterraneo centrale di giovedì 19 ottobre. Il fievole ronzio degli strumenti s’infranse sotto l’eco della voce dell’operatore sonar Taylor. «Da circa mezz’ora il SAPS indica un progressivo lento calo delle macchine. Ora siamo a quindici nodi orari.» Martinez si diresse al tavolo di carteggio. «Il punto, Sharper!» chiese
bruscamente, al giovane secondo ufficiale di rotta. Il guardiamarina mise una pellicola trasparente sopra il cristallo e tracciò una linea tra due punti fissi, ando sopra il pulsare del dot arancio indicatore di posizione. «Siamo qui signore, a 36° Latitudine Nord, 21° 30’ Longitudine Est; a circa due terzi di distanza tra Malta e Creta.» «Suez?» «Ormai è da scartare.» Mezzora dopo, il comandante Flitcher era incollato agli oculari del periscopio. «Antenna ESM fuori. » L’antenna emersa dalle acque iniziò lentamente a ruotare. Alcuni istanti dopo, dalla sala comunicazioni, il marconista di turno rispose: «Intenso traffico radio e radar da molteplici direzioni.» «Rilevamento sonar.» «Otto echi-sonar in un raggio di quindici miglia. Il BQR-15 ne rivela altri cinque di poppa a varie distanze» rispose Taylor. «Il più vicino da Freedom?» «Quattro miglia e mezzo, comandante.» «Giù antenna e periscopio.» Flitcher si rivolse ai due accanto. «Il Mediterraneo è il mare più trafficato del Mondo e questo è uno dei punti più trafficati del Mediterraneo. Sembra d’essere al Central Park di New York. – accese un sigaro. – Questo progressivo rallentamento in alto mare è strano.» Il tenente Harvey smise di sorseggiare il caffè, dicendo: «In questi ultimi giorni ha mantenuto una velocità di crociera sostenuta, con medie intorno ai ventidue nodi orari, insoliti per un mercantile. Ora, o potrebbe avere qualche problema alle macchine o vuole risparmiare carburante. – puntò il pollice in alto – Possiamo andar su a dare un’occhiatina.» Gli altri due sorrisero. «Ci taglierebbero i coglioni. – fece Flitcher e continuò –
Gli ordini sono imperativi. Finché quella bagnarola è sola in acque internazionali dobbiamo starcene quaggiù. – subito dopo rivolto al secondo, ordinò – Prepariamoci Martinez! Portiamoci a due miglia. Allagare tubi di lancio uno e due, bersaglio su eco-sonar. Qualora si rilevasse un eco-sonar a meno di un miglio e mezzo dalla nave, porre l’equipaggio ai posti di combattimento e pronti per una rapida emersione.»
All’interno del ponte di comando della Freedom, il guercio e il capo degli spetsnaz erano curvi sul tavolo, intenti nell’osservare uno schizzo su carta millimetrata. «Le condizioni meteorologiche previste per le prossime ventiquattro ore sono perfette, venti deboli, mare tra calmo e lievemente mosso con locali piovaschi e banchi di nebbia. Questo ci permetterà di creare una supplementare cortina artificiale», affermò lo spetsnaz. Il comandante indicò la linea tratteggiata dello schizzo. «Le possibilità di riuscita dipendono da quanto la prua di quest’ipotetico sottomarino sia allineata col nostro asse di galleggiamento. Qualora fosse disallineata, anche soltanto una decina di gradi, potrebbero accorgersi della manovra, nel qual caso saremmo fottuti.» Il tenente colonnello finì di bere il caffè, si tolse il cappuccio e, grattandosi la testa, si diresse presso la vetrata di tuga. Attraverso i plexiglas fissò per un lungo momento la scia spumeggiante di poppa, alzò lo sguardo, focalizzando le basse nuvolaglie che in quel plumbeo mattino si fondevano col mare color cobalto, infine disse: «Siamo stati avvertiti nel Golfo di Biscaglia; presumibilmente il nostro ipotetico inseguitore è un sommergibile che si trovava in missione nell’Atlantico centro Settentrionale o nel mare del Nord. In quelle acque, i loro sottomarini sono quasi tutti nucleari d’attacco o della classe Narwhal, o Los Angeles. – si voltò – Questi hanno un sistema di guida inerziale simile a quello dei nostri sommergibili Typhoon e Viktor, con possibilità di guida automatica sincronizzata con segnali eco-sonar esterni. Se il comandante di questo ipotetico sottomarino non è un pivello, avrà fatto inserire il pilota automatico sull’eco delle nostre eliche e…» «Sì colonnello, l’avevo valutato. Questa possibilità, unitamente al perfetto
sincronismo tra noi e Girasole è la nostra unica chance!»
Aquila scese dal taxi, pagò e con calma, senza voltarsi, accese una sigaretta. Era certo che a qualche decina di metri almeno due auto si erano fermate alle sue spalle; doveva affrettarsi. Superato il portone d’ingresso, rapidamente attraversò l’atrio, al primo arco girò a destra e prima della gabbia dell’ascensore trovò il portoncino. Dopo quattro rapide mandate, la porta si aprì e di lì ad un paio di minuti, trafelato e col pesante bagaglio a mano, quasi correndo guadagnava spedito il viottolo del giardino, verso l’altra parte dell’isolato. Davanti alla fermata metropolitana di Kropotkinskaja pensò d’infilarsi nel sottoaggio, ma poi prese al volo un taxi. Erano le 10.40, aveva girato mezza Mosca, cambiato tre volte taxi e ora si trovava a metà dell’alberata via dagli spogli platani. S’incamminò verso la gradinata in fondo, giunto davanti alla sede dell’Istituto Nazionale Numismatica salì al terzo e ultimo piano, dov’erano gli uffici del Governatorato. Chiese un’informazione, gli indicarono una figura femminile dietro uno sportello a vetri. «Jovanka Nebulova?» chiese rivolto alla donna, in quel momento china su un registro. «Sii?» rispose l’impiegata, senza alzare lo sguardo. «Desidero acquistare una moneta. Si tratta del rublo con l’effigie di Nicola Zar secondo, coniato nel 1914 a rimembranza dell’entrata in guerra della Russia contro gl’Imperi Centrali.» La penna cadde dalla mano dell’impiegata. «È un pezzo molto raro» disse alzando lo sguardo, fissando l’uomo. «Un amico mi ha assicurato che qui avrei potuto trovarlo.» «Si accomodi nel salotto d’attesa» sussurrò la Nebulova, indicando una stanza vuota, in fondo al corridoio. Dopo poco, la donna comparve nel piccolo locale, chiudendo la porta alle sue spalle. Aquila gli porse una busta con dentro un biglietto da mille dollari, una sua foto tessera e un foglio di carta riempito in caratteri cirillici. «Mi manda Max, vengo dall’Eldorado» sussurrò. L’anziana impiegata aprì la busta, controllò il contenuto, lesse attentamente e per
due volte lo scritto, infine, disse: «La cosa si può fare, rii domani nella tarda mattinata.» Aquila le porse altri cinque biglietti da cento dollari. «Domani sarà tardi. Subito!» L’altra, perplessa rifletté alcuni secondi. «Attenda, vedrò cosa si può fare.» Di lì ad una manciata di minuti rientrò con indosso una pelliccia, stava uscendo. «Tra meno di un’ora sarò di ritorno» bisbigliò.
Alle 12.30 Aquila era seduto su un divano, al suo fianco c’era Korin che gli illustrava il piano di fuga. «Questo pomeriggio alle 18, Igor e tutte le ragazze andranno in permesso fino a lunedì, il resto del personale uscirà alle 20. In questi tre giorni la casa rimarrà ufficialmente chiusa, non so cosa accadrà lunedì e non mi sforzo di immaginarlo. L’aeroporto che offre maggiori garanzie di sicurezza è quello di Nižni Novgorod, da lì noi partiremo. C’è un volo della Scandinavian Airlines che parte alle 9.45 e arriva a Helsinki alle 11 ore locali. Da Helsinki possiamo prendere il volo per Londra della British Airways delle 13.50 che arriva a Heathrow alle 14.20, sempre ore locali. Dobbiamo arrivare a Nižni Novgorod che dista circa quattrocentocinquanta chilometri da Mosca, lo raggiungeremo con la mia auto prendendo la M7 ando per Vladimir. Stamani, via internet, ho prenotato per domani sera una camera per noi a Londra, all’Hotel Royal Garden in Kensington High street. – e sorridendo aggiunse – Domattina, dovremo fare una levataccia.» Aquila, nell’abbracciarla fece: «Fantastico! Neanche un tenente colonnello del KGB avrebbe potuto preparare un piano migliore» all’unisono i due esplosero in una risata. «Hai fatto prenotazioni?» «Solo quella dell’albergo, imponendo nomi di comodo. I biglietti di viaggio li faremo all’aeroporto. In Russia, nei giorni feriali non c’è mai eccessivo affollamento sugli aerei, non è come da voi.» «Come da noi», corresse lui.
Capitolo XVI
Il caporale della milizia era davanti al computer collegato on-line col registro OVIR della FPS. Sullo schermo aveva una colonna di nomi che iniziavano con la lettera T. Pigiò un tasto, e quasi istantaneamente apparve il frontespizio di un aporto tedesco con foto, generalità e numero del documento. Il milite andò avanti, apparve la pagina con timbro e data di rilascio del permesso d’ingresso, emesso dall’ufficio visti del Consolato Russo di Berlino. Ritornò alla schermata precedente, portò la freccia del mouse sull’ultima icona in fondo a destra dello schermo e pigiò il pulsante: la videata si rimpicciolì, portando la foto del frontespizio in alto a sinistra dello schermo, mentre il programma leggeva gli estremi del documento, memorizzando il luogo di emissione del permesso d’ingresso, andando a connettersi on-line col registro visti ufficio stranieri del consolato berlinese. arono tre minuti, sul monitor in alto a destra apparve, rimpicciolito, un altro frontespizio; ora i due documenti erano comparabili. Ammutolito, il caporale stette un minuto a osservare lo schermo, poi premette due volte il tasto right. Ora aveva in bella mostra date e timbri dei due aporti, alzò la cornetta del telefono. «Stupefacente, mai vista una cosa del genere! Stesso aporto, stesso visto e medesima data, ma con due foto diverse. Qui, abbiamo un Ticktmann fasullo giunto a Mosca lo scorso sabato, con la copertura di un Ticktmann vero» disse il sottufficiale.
Gumayev aveva perso la tempera. La faccia di un colore ora giallastro, aveva gli inespressivi occhi da squalo che sembravano voler uscire dalle orbite. «Coosa? Come sparito! – urlò – Quei bastardi incapaci! Chi aveva la responsabilità del controllo?» «Erano uomini di Gorjia, Fjedor» rispose l’omaccione, pallido come un cencio lavato. «Gorjia… – sibilò – sempre lui. Non fu lui a metterci nei guai con quel carico di opere d’arte a Kiev? Non fu sempre lui a creare quel gran casino a Smirne con gli immigrati cingalesi? Non voglio più sentir parlare di quest’idiota. Che oggi
stesso sia sbattuto a Istanbul sotto Kolack ed eliminato alla prima occasione!» L’omaccione esitò «ma Fjedor, forse…» L’altro con un’occhiata lo fulminò. «Forse cosa Nikolay, vuoi fargli compagnia?» subito dopo il grande boss alzò la cornetta, ordinando di rintracciare Krušenko.
I due generali erano soli, seduti a un tavolo del ristorante interno, al piano terra, sull’ala destra della Lubjanka. «Trucco impossibile da scoprire, a meno di mirate indagini. Che generalità ha dato?» sussurrò Artmenko. «Dal registro OVIR, risulta un giornalista del Frankfurter Allgemeine. Di certo… – Uglanov sbirciò un foglio, – Otto Ticktmann, sbarcato a Šerementevo due lo scorso sabato alle 13.30 col volo Lufthansa 0.47 proveniente da Berlino. Fino a stamani alloggiava a quattro i da qui, al Savoy, poi alle 9 ha pagato i tremilasettecentocinquanta dollari del conto e se n’è andato, affermando che dovendosi trattenere ancora a Mosca, le sue finanze non gli permettevano di rimanere in un albergo così lussuoso. Doveva cercarsi una nuova e più economica sistemazione.» «È lui, è il musicista. Le trasmissioni partivano dal cuore di Mosca. Bisogna assolutamente acciuffarlo. Chiaramente non è andato alla milizia a fare denuncia di cambio albergo.» «A tuttora non è giunta alcuna segnalazione.» «Forse è già sparito.» Uglanov scosse la testa. «No! Il programma gira bene. Dal momento in cui ha notato le diversità delle foto, ha inviato on-line la sua immagine e generalità a tutti i monitor delle biglietterie ferroviarie e aeroporti del Distretto di Mosca, facendo scattare la nostra allerta. Oltre alle stazioni e aeroporti, al massimo nel giro di qualche ora, l’intero anello del raccordo anulare sarà stretto in una morsa di controlli. Non può tagliare la corda, Ivan Ivanovičh.»
«Lunedì ho ordinato di parallelare il permutatore della centrale Kievskja. Da lì partono fibre ottiche e cavi coassiali delle linee da e per l’Occidente. Stiamo registrando tutto il traffico.» «Che cosa credi di ricavarne? Ammesso e non concesso che sia un illegale incaricato d’indagare sull’operazione Gengis Khan, non può e non potrà mai venire a capo di niente. Impossibile!»
Aquila era davanti al caminetto che, fin dal mattino, Korin utilizzava come inceneritore. Gettò tra le fiamme, ora languenti, il aporto tedesco e le credenziali di riferimento, sbirciò l’orologio: era ora. Lei in quel momento era nell’altra stanza, intenta a selezionare alcune pile di documenti, lui si avvicinò. «Devo andare, ci vediamo più tardi.» Korin si alzò dalla sedia. «È assolutamente necessario? Possiamo partire anche tra dieci minuti. Prendendo la M1, nella tarda nottata potremmo giungere a Smolensk, pernottare laggiù e domani nella mattinata attraversare la frontiera bielorussa.» «Assolutamente necessario!» «Non esporti, non prendere taxi, usa la mia auto.» «Andrò a piedi, non è molto distante.»
«Aquila era un morto che camminava vero? Sei uno sconsiderato idiota! Se fosse dipeso da te, da tempo le famiglie si sarebbero estinte!» urlò Gumayev, con voce carica di velenoso sarcasmo. Ma questo, per il fiero Abel Krušenko che pretendeva del rispetto perfino dal grande boss, era troppo: «Alle 9 ha lasciato il Savoy e dal momento che è entrato al civico 12 di Gagarinskij pereulok se ne sono perse le tracce. Sai che significa? Ha usato un appartamento Taynik e questo in barba alle tue demenziali elucubrazioni secondo cui agisce senza coperture. – il tono andò in crescendo – Gorija non centra nulla! In ogni caso fa parte della mia organizzazione e dovevi avvertimi, chiaro?» Gumayev sbatté violentemente il palmo della mano sulla scrivania, mandando
per l’aria carte e cianfrusaglie varie. «Basta così! – urlò – Gorija ha già commesso troppi errori, pagherà per i precedenti!» Dopo alcuni momenti d’estrema tensione, la tremenda ira sembrò attenuarsi. Ripreso l’abituale controllo, col suo tono glaciale, il gran capo affermò: «Questa faccenda è troppo importante, non possiamo correre il rischio che sia vanificata a causa della tua superficialità. Cerchiamo di fare il punto della situazione, rimediando alle leggerezze di quel branco d’idioti dei tuoi uomini.» Nel rispondere, Krušenko trattenne il ribollio. «Non si tratta di acciuffare qualcuno che ha commesso uno sgarro, questo si profila un ginepraio con risvolti imprevedibili. Da qualche ora anche la FSO gli sta dando la caccia, stazioni e aeroporti hanno già la sua foto.» L’altro strinse gli occhi. «FSO, la faccenda si complica… quelli difficilmente lo prenderanno, se non ci diamo una mossa corriamo il rischio che anche questa volta si dissolva» pigiò un pulsante. L’omaccione che in quel momento stava origliando dietro la porta, si precipitò nella sala. «Questa foto Nikolay, dev’essere immediatamente fatta pervenire ai nostri tassisti e conducenti di mezzi pubblici sparsi per Mosca! Fai piazzare due uomini a ogni fermata metropolitana, agli ingressi di ambasciate e consolati; disponi inoltre per un capillare setacciamento alle stazioni ferroviarie e aeroporti. – si rivolse bruscamente a Krušenko – Andiamo a visionare le riprese effettuate dai tuoi uomini.»
All’interno dell’ampio atrio del palazzo stile rococò, si respirava un’aria d’antica, austera nobiltà. Lucide piastrelle esagonali formavano l’acciottolato della pavimentazione, ai lati grigie colonne marmoree reggevano le volte del soffitto cariche di stemmi e stucchi screpolati e anneriti dal tempo. Un polveroso lampadario di ferro battuto abilmente lavorato e con un’unica gran lampada a gas, scendeva dal centro della volta centrale. In fondo s’intravedeva una fontana d’epoca coperta d’edera. «Sono il generale Ul’rich. Ho appuntamento con il professor Arkady Markov» disse Aquila al portinaio, nel mostrare un cartellino plastificato. Evidentemente
avvezzo a nomi altisonanti, l’uomo in uniforme di usciere all’interno della guardiola, non si scompose più di tanto. «In fondo al cortile, scala A piano terzo» rispose, indicando con l’indice. Tra grovigli d’edera le bocche dei tre folletti di bronzo sputavano acqua nella vasca coperta di muschio. Aquila vi ò davanti, svoltò a destra e, poco dopo, era nella gabbia di un ascensore con gli ottoni tirati a lucido. L’ascesa del centenario marchingegno fu rapida e silenziosa, al terzo piano si bloccò e l’italiano uscì, trovandosi nell’ampio, silenzioso pianerottolo. La targhetta di ottone della porta di centro portava su scritto in caratteri cirillici A. Markov. Da una tasca dell’impermeabile tirò fuori una busta formato A4 e un cartellino plastificato con la propria foto, lo stesso mostrato in precedenza all’usciere e attestante l’identità di un maggior generale russo; documento fasullo, costatogli qualche ora prima millecinquecento dollari. Pigiò il pulsante del camlo. Alcuni istanti dopo, nel mostrare il cartellino di riconoscimento all’uomo smilzo dai freddi occhi azzurri dietro la catenella d’ottone, Aquila affermò: «Sono il generale Vergo Ul’rich, Capo di Stato Maggiore del primo corpo d’Armata. Ho per lei dei documenti, accompagnati da un messaggio verbale e urgente da parte del generale, Jiry Nikolaenko.» L’anziano, canuto personaggio con indosso una giacca da camera, assunse un’espressione grave. Con sguardo tagliente, prima osservò attentamente il cartellino, poi squadrò lo sconosciuto. Quel bell’uomo dovette fare una buona impressione al professore perché sganciata la catenella, in uno stato di controllata apprensione, invitò l’altro a entrare dicendo: «Prego, generale…» Negli occhi dell’uomo, Aquila lesse autorità e ferma interiore sicurezza. “Come da dossier, un osso duro” pensò. «Per di qua!» disse il padrone di casa, nel fare strada. L’arredo dello studio, oltre ad uno spesso tappeto, aveva una gran libreria in ciliegio traboccante di volumi, tre poltrone e una vecchia scrivania risalente a prima della rivoluzione. Sopra quest’ultima, c’erano una lampada a stelo accesa, un computer, un libro e una pila di scartoffie. Alcune effigie e foto del ato regime spiccavano su una parete; un’istantanea ritraeva Suslov, altre immortalavano il padrone di casa impegnato in tornei di scacchi. Una gran carta geografica copriva quasi l’intera parete di fondo. «Ebbene?» domandò con timbro autoritario il professore, nel voltarsi. Per un
breve istante lo stupore dell’uomo fu totale: la canna di una pistola munita di silenziatore era puntata alla sua fronte. Sgranò gli occhi. «Ma lei… cosa vuole? Chi è? Come osi maledetto bastardo?» ora Markov digrignava i denti come una fiera. Stava per uscire da dietro la scrivania e sicuramente incurante dell’arma, si sarebbe scagliato contro l’intruso se questi, con voce bassa e piatta come la lama di un rasoio non l’avesse bloccato esclamando: «Si calmi! Segga e mi ascolti attentamente! Molto attentamente…» Quel tono sembrò momentaneamente sedarlo, con gli occhi che erano due fessure fiammeggianti, sibilò: «Dovevo immaginarlo, un generale russo non usa acqua di colonia come dopo barba. Chi sei lurido topo di fogna?» La voce dello sconosciuto si mantenne minacciosamente bassa. «Chi io sia non ha importanza! Le suggerisco ancora una volta e per l’ultima, di calmarsi e ascoltare! Faremo un’interessante conversazione professor Markov. Lei dovrà rispondere con nettezza a ogni mia domanda riguardo all’operazione Gengis Khan!» A quel nome il professore fu come scosso da una corrente elettrica. “Allora i sospetti di Artmenko erano fondati” pensò. L’accavallarsi dei pensieri divenne un profluvio dirompente: “Evidentemente questo maiale appartiene alla CIA, ma l’accento è moscovita, troppo per essere uno straniero, inoltre solo mafia e servizi segreti possono falsificare così bene il cartellino di riconoscimento di un generale russo. Non è un mafioso, linguaggio e portamento lo escludono, evidentemente gli americani hanno localizzato via satellite i due missili avvertendo il Governo. Ecco chi è, servizi di sicurezza; FSB, uno di quei maledetti bastardi leccaculo degli americani.” Gli occhi brillarono di un bieco odio, un melanconico sorriso di sfida gli illuminò sinistramente la faccia. Poi, quasi urlando, esclamò: «Avanti sporca canaglia! Spara, che aspetti?» Nell’estrarre un foglio dalla busta, l’italiano pensò che quell’uomo fosse più duro di quanto immaginasse, aveva reso la cosa inevitabile. Sbirciò lo stampato, lo stomaco gli si contrasse. «Suo figlio Pavel, ingegnere chimico trentunenne, sposato da due anni e padre da sette mesi lavora a Bakù, presso la Trans Caucasica Petrol Oil, vero? Sua figlia Marina ventitreenne, frequenta l’ultimo anno di economia presso l’università Bocconi di Milano, dove abita condividendo con una collega un piccolo appartamento in via S. Giusto, quartiere di S. Siro. Vuole anche il numero civico, professore?»
«Maledetto…» sibilò l’altro. Noncurante, Aquila continuo: «Pavel morirebbe con sua moglie e suo figlio questa sera stessa in un incidente d’auto, morte orribile, ma tutto sommato pressoché indolore. Per Marina, abbiamo pensato a qualcosa di diverso… Ella verrebbe letteralmente prelevata dalla mafia albanese, la peggiore, e dopo un adeguato trattamento sbattuta sui marciapiedi di Lambrate. Quanto pensa possa resistere una ragazza come Marina sottoposta a violenze, torture, umiliazioni e vessazioni psicologiche di ogni genere? Un giorno? Due? Dieci? Chiaramente sia l’equilibrio, sia i nervi non reggerebbero e tenterebbe di porsi in salvo fuggendo; ciò significherebbe che di lì a qualche giorno, qualcuno la troverebbe martirizzata e con la gola squarciata in qualche canale di scolo dell’hinterland Milanese. Vede professor Markov, l’operazione Gengis Khan è già fallita o meglio, lo era in partenza. Noi ne sappiamo abbastanza, ma abbiamo bisogno di alcuni dettagli per ricostruire l’intero quadro d’insieme. Lei può anche tentare di scagliarsi contro di me, prendendosi una pallottola in fronte, oppure con un gesto disperato, – indicò la finestra – gettarsi nella strada, nessuno piangerebbe la sua morte e l’umanità ne trarrebbe solo giovamento, ciò nondimeno, la sorte dei suoi figli sarebbe egualmente segnata, come sarà immutabile se non risponderà esaurientemente a ogni mia domanda!» Nel giro di qualche minuto l’aspetto del professore si era trasformato in quello di un vecchio decrepito in punta di morte: le rughe del collo si erano evidenziate, la faccia aveva assunto un aspetto grottesco divenendo cianotica e aggrinzita, i taglienti occhi dietro le lenti erano ora vacui e acquosi come quelli di un ubriaco, mentre i bianchi peli della barba, che prima non si notavano, erano spuntati ogni dove. Per un istante Aquila temette quasi un collasso, aveva letteralmente frantumato quella granitica personalità. Per un lungo minuto ci fu un irreale silenzio, poi iniziò il profluvio di domande: «Dove sono stati sottratti i due SS20 con Vettori a testata M-1? Che tipo di mezzo li trasporta? Dove sono diretti? Il loro arrivo quando è previsto?» L’altro, con gli occhiali di tartaruga calati sulla punta del naso, in uno stato di estrema prostrazione, rispose dopo qualche secondo con un filo di voce atona, priva di vitalità. «I missili sono stati sottratti dalla base di raccolta e transito di Khariskija.» «Khariskija?»
«Nella Siberia, nord occidentale.» «Com’è potuto accadere?» «Prendendoli in carico e allocandoli per via telematica nell’apposita camera di deposito.» «Allocati per via telematica? Quindi, caricati virtualmente. Si spieghi meglio!» «Sì, virtualmente… Essendo gli SS-20 inseriti in involucri cilindrici adatti anche a contenere Vettori della classe Scud-B, i contenitori dei presunti Scud con al loro interno gli SS-20 sono partiti alla volta del centro di demolizione di UstKara per essere distrutti.» «Vada avanti e non sia sintetico!» «Durante il percorso, una squadra di spetsnaz si è impadronita del carico. A UstKara è avvenuta la virtuale macinazione dei due Scud, mentre gli SS-20 venivano caricati su un mercantile partito a suo tempo da Wrangel e attraccato nel piccolo porto di Ust.» “Assolutamente geniale” pensò Aquila, mentre con la sinistra teneva sotto tiro il malcapitato e con la destra prendeva appunti. «Il resto? Mezzi trasportatori-lanciatori, computer e altro?» Fu un sussurro: «Erano già stati stivati a Wrangel.» «Nome e bandiera del mercantile. Località e tempo di arrivo!» arono alcuni secondi, «il nome della nave è Freedom, batte bandiera liberiana, il luogo di arrivo è Soči sul Mar Nero. L’attracco è previsto nelle notti tra il 22 e il 25 ottobre. Questa data potrebbe variare col variare delle condizioni meteorologiche.» «Soči… quasi mezzo giro di Mondo. Perché è stato scelto un itinerario così tortuoso? Perché lo scalo di arrivo è laggiù?» Il professore tacque, ma Aquila incalzò senza pietà: «Rammenti i suoi figli!»
Markov alzò la testa, deglutì facendo andare su e giù il gargarozzo diventato ora enorme. «È l’itinerario più corto via mare. Due dei punti fondamentali dell’operazione sono… erano, segretezza e sicurezza. Il piano prevedeva che, subito dopo l’attracco, i sistemi missilistici mobili fossero condotti in una diversa località non molto distante da Soči. Il problema era come farli giungere fin laggiù. Sarebbe stato impossibile trasportarli clandestinamente dal nord al sud, attraversando l’intera Russia, partendo da Khariskija o da qualsiasi altra base siberiana. Non avrebbero potuto fare più di qualche centinaio di chilometri; questo sia per gomma e sia per ferrovia. Inoltre per ferrovia collegamenti diretti non esistono, come non esistono vagoni in grado di trasportare mezzi trasportatori lanciatori di quel tipo. Lo stesso valeva per la via aerea, neanche un Antonov An 22 Antei avrebbe potuto; inoltre per via aerea sia a nord, sia a sud ci saremmo imbattuti in insormontabili problemi logistici. L’unico sistema era circumnavigare l’intero Continente europeo.» «Trasportati in una località non lontano da Soči… perché?» «È il luogo del punto di lancio.» «Dov’è esattamente ubicato questo punto? Gli specialisti incaricati?» «Il punto di lancio è sulle montagne del Caucaso, a circa venti chilometri a ovest del villaggio di Tymyauz, in una gola alle pendici del monte Elbrus, nella Balkariskaja.» «Quindi nella Cecenia sud occidentale, ai confini con la Georgia.» L’altro, stancamente annuì. «Le unità di specialisti?» «L’unità si compone di dieci ufficiali delle truppe speciali spetsnaz addestrati a Wrangel; cinque sono sulla Freedom, gli altri nell’attesa a Soči. Tutti uomini di alto valore e fidatissimi.» Iniziava a essere tutto diabolicamente chiaro, a ogni parola di Markov, nella mente di Aquila ogni pezzo del puzzle andava a incastrarsi con il resto del mosaico. «Ora entriamo nelle finalità e nel merito. Prima, però, vogliamo sapere chi è il
capo e chi altri conosce in dettaglio l’operazione Gengis Khan, oltre a lei e i generali Nikolaenko, Borosovičh, Petrov, Uglanov e Artmenko, membri della squadra di bridge. Allora? Chi altri sono coinvolti nel piano?» “Come immaginavo, FSB, ormai tutto è perduto” pensò amaramente il professore. «Il capo, è il generale Presidente Petrov e le personalità nominate costituiscono il comitato direttivo dell’operazione. Per ragioni di sicurezza, oltre ai membri del direttivo, nessuno conosce il piano in ogni suo dettaglio, gli altri sarebbero stati avvertiti quarantotto ore prima dell’inizio.» «A quando la data d’inizio?» «Entro la prima decade di novembre, con le prime nevi.» «Ripeto, chi e quanti sono gli altri?» «Qualche politico, alcuni alti funzionari degli interni, trasporti e comunicazioni, il resto sono generali degli stati maggiori delle varie armi e qualcuno dei servizi logistici; in tutto, meno di trenta persone. Inoltre ci sono alcuni ufficiali con incarichi logistici e di o appartenenti sempre alle spetsnaz.» «Questi ultimi agli ordini di chi? Quanti sono?» «Sono due squadre di Boyevaya{53} alle dirette dipendenze del generale Artmenko, costituite in buona parte dagli ufficiali specialisti sopra menzionati.» «Quindi, vi riunivate solo voi sei del comitato direttivo. In che modo sarebbero stati avvertiti gli altri?» «Tramite un messaggio in codice inviato via internet su una segreta pagina web, accessibile solo con .» «Ora veniamo alle finalità!» All’istante gli occhi del professore si rianimarono illuminandosi come fiammelle. «Finalità? Un manipolo di canaglie e traditori leccaculo degli occidentali che già da qualche tempo avevano minato le fondamenta del Socialismo, hanno fatto crollare l’Unione Sovietica e con essa il Comunismo. In
un solo colpo hanno cancellato gli ideali del Marxismo-Leninismo e con essi sprofondare nella melma i valori che avevano fatto grande il nostro popolo e diventare l’Unione Sovietica, la prima potenza del mondo! Cosa rimane ora della nostra patria? Una cloaca maleodorante, una bolgia dove occorrono tutti i mali del mondo! Ora la Russia è sinonimo di corruzione, miseria e degrado di ogni tipo; l’economia è in mano alla mafia, mentre gli attuali squallidi governanti, nella loro fellonia, si prostrano come prostitute d’infimo livello a mendicare qualche rublo non solo dagli americani, ma anche da quelle nazioni europee che fino a ieri tremavano al solo sentire il nome dell’Unione Sovietica. Il nostro progetto avrebbe restaurato il Comunismo in chiave moderna. Avremmo costruito una seria economia socialista di mercato in grado di competere con l’Occidente, ridando di colpo dignità e orgoglio al paese, condizioni di vita accettabili a ogni cittadino spazzando corruzione, degrado e miseria. Da subito, sarebbe stata attuata la terapia che al momento il popolo sente più d’ogni altra cosa: una radicale pulizia di tutta la feccia ramificatasi in questi anni, disintossicando il paese dai veleni occidentali. Poi, in un secondo tempo, avremmo regolato i conti estirpando tutti i focolai cancerogeni esplosi nelle vicine Repubbliche auto definitesi indipendenti.» «Quindi, riprendersi in un futuro gli Stati Baltici, l’Ucraina, la Bielorussia, le Repubbliche Caucasiche e centro-Asiatiche, anche se, alcuni di questi Stati hanno chiesto di entrare a far parte della Comunità Europea.» «Comunità Europea… quell’eterogenea accozzaglia di paesi senza capo né coda che fino a ieri tremavano come foglie al vento, al solo sentirci nominare…» «Questo era il disegno geopolitico e l’operazione Gengis Khan il mezzo per realizzarlo; ora veniamo allo specifico. Avanti!» «Alle ore 20 della sera precedente il primo lancio, inserendosi sulle frequenze dei tre principali canali televisivi di ascolto serali, sarebbe stato mandato in onda un proclama…» Aquila lo interruppe. «Un falso proclama! Una gigantesca mistificazione mandata in onda da stazioni controllate dalla FAPSI di Artmenko.» Markov lentamente annuì. «Il… falso annuncio apparentemente trasmesso da sedicenti movimenti nazionalisti musulmani, avrebbe annunciato l’auto indipendenza della Cecenia. Subito dopo, sarebbe seguito un ultimatum dalle
clausole capestro, secondo cui, se entro dodici ore tutte le truppe russe di stanza in Cecenia non si fossero ritirate oltre il fiume Kuma, sarebbe scattata una rappresaglia nucleare, con obiettivo una città russa. Questo falso proclama avrebbe avuto due scopi: riaccendere all’istante nelle masse il perduto orgoglio nazionale e, come un messaggio messianico, preparare gli animi a futuri, eccezionali eventi. L’attuale, debole esecutivo, assolutamente incapace di prendere immediate, draconiane iniziative, sarebbe semplicemente rimasto paralizzato dallo shock. Reparti della seconda armata corazzata in precedenza già giunti a Mosca ufficialmente per esercitazioni congiunte con reparti di fucilieri del primo corpo d’armata, si sarebbero trovati acquartierati in alcune caserme chiave di quest’ultima. Ciò allo scopo di esser pronti a intervenire al momento opportuno.» «Carri della seconda armata di stanza a Tula, manovre condotte e programmate dal suo capo di stato maggiore, il tenente generale Borosovičh. Quando questi reparti sarebbero dovuti giungere a Mosca?» «Quando, dopo aver raggiunto il punto di lancio, i missili sarebbero stati pronti sulle rampe, tra il 29 ed il 31 ottobre.» «Vada avanti!» Il professore chiuse lentamente gli occhi. «Alle ore otto del mattino successivo il proclama, sarebbe stato lanciato il primo dei due SS-20, avente come obiettivo un punto situato presso il villaggio di Eršy.» «Villaggio di Eršy… Dove si trova esattamente?» «Si trova, quaranta chilometri a nord della cittadina di Kirov, vicino al villaggio di Spas-Demenske, centotrenta chilometri a sud-est di Smolensk.» «Perché quel punto?» «Motivi strategici… Il fall-out radioattivo di un’esplosione nucleare della potenza di 650 kilotoni, avrebbe reso insicura per un minimo di quattro, cinque giorni un’area di almeno cento chilometri di raggio. L’importante incrocio di Eršy, le grandi arterie M1, l’A110 e la M3, oltre alle grandi linee ferroviarie da e per Smolensk, Brjansk e Orel, sarebbero rimaste così bloccate in via cautelativa, tagliando di fatto Mosca da ogni comunicazione stradale e ferroviaria sia verso sud-ovest, sia verso Occidente. Questo sarebbe stato il momento cruciale
dell’operazione: all’istante avremmo ottenuto tre risultati di enorme importanza. Primo, bloccare qualsiasi aiuto via terra proveniente dall’Occidente attraverso la Russia bianca e l’Ucraina! Secondo, isolare le forze terrestri a sud-ovest di Mosca! Terzo e più importante, infiammare gli animi rendendoli esplosivi, riaccendendo l’orgoglio nazionale schiaffeggiato, deriso e sepolto sotto gli escrementi degli occidentali. – Markov era sfinito, fece una pausa – Al contempo, reparti del GRU avrebbero bloccato gli aeroporti di Šerementevo uno e due, Domodedovo, Vnukovo e Bykovo mentre la FSO, l’intero anello del raccordo anulare di Mosca. Subito dopo, sarebbero state teletrasmesse in continua sia le videoregistrazioni della scia del missile, riprese subito dopo il lancio da un ricognitore del GRU, sia i tracciati radar, dimostrando con certezza che il lancio era avvenuto nella Cecenia sud occidentale, alle pendici del monte Elbrus. Traiettoria che i vari satelliti avrebbero poi confermato.» «Avanti! » Tutto ciò, mentre reparti di carri della seconda armata, affiancati da truppe d’assalto e fucilieri del primo corpo d’armata, appoggiati da movimenti di massa sorti spontaneamente e incoraggiati e coadiuvati dalla FSO, avrebbero circondato la Duma e il Kremlino. La Duma è composta da mezze figure colluse una con l’altra e molte con la mafia, mentre l’attuale compagine governativa, non all’altezza di padroneggiare complesse situazioni, si sarebbe resa semplicemente ridicola davanti a tali eventi. Nel giro di sei, otto ore al massimo, come un castello di carte, l’intera fatiscente impalcatura sarebbe crollata senza probabilmente sparare una cartuccia. Nella serata, un comitato costituito dai generali Petrov, Nikolaenko e… da me, avrebbe decretato sulle Reti unificate Radio e TV lo stato di emergenza nazionale, ordinando alle truppe di stanza in Cecenia di fare tabula rasa di ogni movimento e focolaio ribelle. Dopodiché…» «Basta così! Il dopo non ha storia. Perché un secondo missile?» «Di scorta, da usarlo nella deprecabile ipotesi che l’operazione non avesse ottenuto l’iniziale successo.» Nell’abbassare le palpebre, Aquila pensò: “Piano di una genialità diabolica, possibilità di successo, cento per cento.” L’ambiente era caldo e confortevole ma una sensazione di gelo permeava la spina dorsale dell’italiano fin su, attanagliandogli il collo. «Ovviamente lei è lo
stratega del progetto, ma l’ispiratore, la mente guida, chi è?» «La mente guida è il compagno generale Presidente Petrov, designato a diventare capo del futuro Gabinetto. L’idea fu sua.» «A quando risale?» «Alla fine del ’95.» «Fine 95… ora siamo a fine 2000, perché tutto questo tempo? » «Solo nel 97 si realizzarono le condizioni per iniziare a lavorarci su. Ci vollero due anni per elaborare l’intero progetto nei dettagli e uno e mezzo per renderlo realizzabile.» «Progetto fondamentalista, la cui attuazione avrebbe prodotto qualche milione di morti» fece Aquila, in preda a turbamento. «I morti stimati sarebbero stati dai quaranta ai settantamila, molto meno di quelli avuti a seguito di Chernobyl; in ogni caso, risibili rispetto ai benefici che il popolo ne avrebbe tratto.» Con la faccia stravolta, Aquila non poté trattenersi dal dire: «Già! Cosa vuole che siano cinquanta o centomila morti, rispetto agli oltre sessanta milioni che Stalin ne ha prodotto solo nella ex Unione Sovietica?» Markov respirò a fatica. «I sessanta milioni sono menzogne e scialacquio storico delle destre. Oltre un paio di migliaia di anni fa, un tale di nome Brenno, affermò: Guai ai vinti. Noi abbiamo perso, almeno il primo round e in questo gioco chi perde, perde tutto: dignità, libertà, ricchezze, prestigio e verità. Ora, voi sciacalli parassiti potete sbizzarrirvi con i numeri come volete.» Distrutto, il professore infine concluse con un tocco d’epica rivoluzionaria: «In ogni caso, Stalin fu un grande uomo e fece bene a eliminare corrotti, traditori, cialtroni, Trockijsti, ruffiani, revisionisti e deviazionisti di destra.» Aquila si pentì di aver involontariamente innescato quella polemica, l’uomo non era in condizioni di reggere ancora a lungo e lui aveva bisogno di alcune, ulteriori informazioni.
«Ora veniamo ai dettagli. Vogliamo conoscere quali sono le varianti da lei ideate e previste dal piano.» All’istante un lampo illuminò gli spenti occhi del professore, infine si ammutolì e parve di nuovo cadere in catalessi. «Rammenti i suoi figli!» Il respiro era pesante, arono alcuni secondi. «Il piano, prevede la possibilità di attuare una variante di mare da compiersi qualora la nave sia individuata o seguita, variante possibile da effettuarsi in due punti diversi, ma attuabile una sola volta.» «È solo prevista nel piano, è già avvenuta o avverrà?» «Per motivi di sicurezza, è previsto che avvenga.» «Quando è stato deciso? Perché sono state prese queste misure?» «La decisione è stata presa lo scorso venerdì, nell’ultima riunione del comitato. Le misure si sono rese necessarie a scopo cautelativo.» «In cosa consiste?» «Nella virtuale sostituzione di Freedom con un’unità gemella che assumerà nome e bandiera della sostituente.» Evidentemente, il professore si era espresso secondo un modo di pensare dettato dalla logica degli scacchi. «Dettagli… chiarisca bene!» spronò Aquila. «Il nome della nave che sostituirà Freedom porta il nome di Girasole e batte bandiera panamense. Essa cambierà nome e bandiera, divenendo virtualmente Freedom. Una volta avvenuta la sostituzione, la vera Freedom cambierà a sua volta nome e bandiera, assumendo il nome Girasole e bandiera panamense, continuando la sua rotta verso Soči, mentre la falsa Freedom, al fine di fuorviare eventuali mezzi d’individuazione o d’inseguimento, seguirà una rotta verso Salamis, un piccolo porto del Pireo.» «Le sorgenti radioattive delle testate? Mezzi d’inseguimento opportunamente attrezzati sicuramente avrebbero la possibilità di un rilevamento delle loro pur
deboli emissioni gamma.» Il professore scosse stancamente la testa e con gli occhi che brillavano di un’irreale luce, come nello svelare il segreto del sacro Graal, sussurrò: «Girasole ha stivato nella sua poppa due casse contenenti ossido di torio 90 in quantità tale da emettere due sorgenti radioattive d’intensità pari al plutonio dei primari dei due ordigni.» L’italiano rimase esterrefatto dalla genialità e dalla bellezza di quel satanico progetto. Per un momento fu invaso da un senso di ammirazione per quello che ormai era solo un relitto d’uomo. «Data, ora e luogo dello scambio!» «La variante avverrà in un’ora imprecisata nella nottata di domani…» «Nottata di domani? » «Tra venerdì 20 e sabato 21 ottobre, nel Mediterraneo centro orientale, circa cinquanta miglia a ovest dalla punta occidentale di Creta.» «Coordinate!» Il professore tolse lentamente un foglio da sotto un libro posto sopra la scrivania. Lo aprì, gli dette una sbirciata, alzò lo sguardo e stanchissimo, con voce priva di tonalità rivelò: «35° 30’ Latitudine Nord, 22° 45’ Longitudine Est.» «Un viaggio così lungo e con un carico talmente prezioso, deve prevedere scali di emergenza, qualora la nave subisse incidenti o avarie. Quali sono i porti rifugio previsti lungo il percorso?» «Nel caso di estrema necessita, o se il pericolo fosse tale da compromettere la missione, il piano prevedeva tre porti in cui Freedom si sarebbe potuta rifugiare: il primo era Vlissingen, nei Paesi Bassi, il secondo Bengasi in Cirenaica e il terzo quello di Feodosija, sulla penisola di Crimea.» Aquila sbirciò l’orologio: le 17.30; gli sembrò fosse ato un anno da quando era entrato in quella stanza. Nell’alzarsi dalla poltrona, notò un marcato cerchio rosso in basso a destra sulla gran carta geografica. Il cerchio evidenziava il quadratino della città di Soči, sul Mar Nero. «Ora, per i prossimi dieci giorni lei non uscirà da casa, né vedrà o sentirà
nessuno. Accusi febbre, influenza o ciò che vuole, si ficchi a letto e ci rimanga. Sabato mandi la colf a fare provviste poi la spedisca subito via. – indicò computer e telefono – Non ci provi, siete tutti sotto stretto controllo. Una parola, una mossa falsa, un minimo errore e, pressoché all’istante, sa cosa accadrebbe.» Gli occhi dell’altro erano grandi e acquosi, aveva lo sguardo miserevole, quasi comionevole. Fece fatica a tirare fuori il fiato. «Sembra, che non abbia alternative.» «Nessuna professore. È scacco matto!»
Aquila aveva freddo, un senso di nausea gli salì dallo stomaco, a tratti gli girava la testa. Si fermò un attimo a riprendere fiato davanti a un cassonetto della spazzatura, lo aprì e furtivamente vi gettò dentro pistola e silenziatore. Dall’altro lato di Brjusov pereulok c’era una caffetteria, entrò e chiese un doppio scotch Lagavulin. Poco dopo, tra smog e schizzi d’acqua delle auto in transito sotto la luce dei lampioni di piazza Nikitskin, rifletteva intensamente. Il bluff era riuscito alla perfezione, ma rimaneva pur sempre un bluff e anche se Markov era fuori gioco, non significava nulla. Il piano era fantastico e l’organizzazione perfetta: snella, segretissima, ottimamente ramificata con ogni uomo al posto giusto. Inoltre il tempo giocava a loro favore. Il problema era Girasole, se quella nave fosse arrivata a Soči nessuno avrebbe potuto fermare Gengis Khan.
Capitolo XVII
«Fermo immagine! Fai lo zoom sul volume» ordinò Gumayev. Il grande schermo mostrava ora l’uomo nell’atto di estrarre un libro da uno scaffale. «Riesci a leggere il titolo?» chiese il grande boss. «No! Andiamo avanti, vediamo se riusciamo a capire di che si tratta quando lo sfoglia» rispose Krušenko. Alcuni istanti dopo, l’immagine mostrava il momento in cui Aquila apriva il libro, la scritta sulla copertina era chiarissima: Le varianti di Markov. «Varianti di Markov… Markov… autore e titolo non mi giungono nuovi» commentò il grande boss. «Neanche a me» gli fece eco Krušenko. Di colpo Gumayev si voltò: «Andiamo a dare un’occhiata all’indice di quella lista.»
Korin, seduta sul sofà, aveva lo sguardo fisso sul tappeto. «Lo immaginavo. Nel nostro mestiere pensare di poter finalmente condurre una vita normale è solo una chimera. Senza di te non vado a Londra, andremo insieme a Tbilisi, diversamente rimango qui» disse con un filo di voce. «No! Questa notte partiremo come previsto. A Novgorod ci divideremo, tu andrai a Londra, io prenderò il primo volo per Tbilisi. Si tratta al massimo di tre o quattro giorni, poi ti raggiungerò al Royal Garden.» «Io vengo con te! » «Uscito da Mosca, non correrò alcun pericolo. Ė finita, capisci Korin? Finita! – la scosse – Poi da Londra partiremo finalmente per l’Italia, iniziando un nuovo capitolo delle nostre vite.»
«Oh, Dio…», sussurrò la donna con gli occhi bagnati nel cingergli le mani intorno al collo, poi quasi ruzzolarono sul tappeto.
Freedom aveva superato il fuso orario del Mediterraneo centrale. Nella fossa ellenica erano le ore 20 e la nave procedeva lentamente tra sporadici piovaschi e qualche banco di nebbia, un debole vento di grecale rendeva il mare moderatamente agitato. «Vede qualcosa?» chiese il guercio. «Sì. Il radar indica un punto immobile sei miglia a dritta, qualche grado spostato a nord rispetto all’attuale proiezione della nostra prua» rispose il capo degli spetsnaz. «È lui, è Vassily. – il comandante parlò sull’interfono – Ridurre le macchine a tre nodi orari, iniziare la procedura a singhiozzo. – si rivolse al colonnello. – Ora viene il difficile. Se seguiti, al minimo errore con ogni probabilità saremo giunti al capolinea. Cerchiamo di allineare la prua sull’esatta proiezione del punto di rilevamento radar, dobbiamo coprire totalmente Girasole dalle emissioni sonar del nostro ipotetico inseguitore. Più ci avviciniamo, maggiore dovrà essere l’accuratezza dell’allineamento. – parlò di nuovo sull’interfono – Al prossimo banco, iniziare con la cortina nebbiogena.»
Krušenko chiuse il dossier. «È un teorico, una testa d’uovo del ato regime. Temo che le tue peggiori previsioni vadano configurandosi, Fjedor.» Le labbra di Gumayev quasi scomparvero, sbirciò l’orologio. «Durante la nottata manda un paio di specialisti a far visita a questo professore.»
«Sonar a comandante: il SAPS indica rumori intermittenti a intervalli irregolari. Sembra che abbia qualche problema alle macchine, siamo a tre nodi orari.» Poco dopo Flitcher era al periscopio. «Infrarosso!» ordinò. arono tre minuti. «Ci sono locali banchi di nebbia, anche con l’infrarosso si distingue poco.
L’abbiamo davanti, dia un’occhiata Martinez.» «Sembra quasi immobile» rispose poco dopo il secondo. Il comandante alzò la cornetta: «Nelle vicinanze?» «Quattro echi nel raggio di dieci miglia, fuori dalla nostra rotta.» «Se si ferma come ci regoliamo?» chiese il secondo. «Attenderemo sei ore, dopodiché invieremo un messaggio chiedendo lumi, sempre che non sia avvicinata da qualche altra unità, nel qual caso interverremo come da ordini.»
In osservazione con un binocolo a intensificazione d’immagine per la visione notturna, il capo degli spetsnaz scrutava a dritta da dietro i plexiglas. «Vede qualcosa? Siamo a meno di tre miglia» chiese il comandante. «Scorgo un debole, intermittente segnale tra la nebbia, proprio davanti a noi.» «Bene. – fece il guercio, che subito parlò sull’interfono – Aumentare il singhiozzo, scendere a un nodo, nebbiogeni in funzione, pronti a diminuire ulteriormente le macchine, stop immediato al mio ordine, Oleg sul ponte di comando!»
I due stavano ultimando i preparativi per la fuga. Terminato il diagramma, Aquila aveva gettato tra le fiamme del caminetto le sette cartelle e ultimato di battere sulla tastiera del notebook il lunghissimo, dettagliato rapporto. Ora si apprestava a inviarlo via internet. Collegato il notebook con una connessione di un modem di Korin, due minuti dopo era finalmente connesso alla rete tramite Internet Explorer. Digitato la seconda che abilitava l’apertura di uno speciale canale e-mail, andò con la freccia del puntatore sull’icona d’invio e pigiò il pulsante. Di colpo lo schermo divenne blu con, al centro la scritta access denied (accesso negato). Sorpreso, Aquila resettò il computer, richiamato il programma cercò il messaggio: la sub directory era vuota.
«Curse! – Maledizione!» esclamò in inglese. Korin che era nell’altra stanza si precipitò: «Che succede, Oscar?» «Non posso comunicare via internet, la linea è controllata, c’è stato un tentativo d’interferenza e il programma ha automaticamente distrutto il messaggio.» «Impossibile! Questa è una delle linee più sicure di Mosca. La uso per comunicare rapporti segretissimi e di estrema delicatezza sia per via telematica, sia a viva voce. Ieri il tuo messaggio l’ho inviato senza problemi.» «Hai potuto trasmetterlo perché era un normale messaggio di avviso, in codice e privo di protezioni. Questo è lungo, urgente, importantissimo e ha particolari protezioni di autodistruzione, non posso rischiare di trasmetterlo nudo. Dovrei inviarlo in codice, ma ci vorrebbe più di mezza giornata per riscriverlo.» Lei rifletté. «L’interferenza non è su questa linea, avviene nel momento in cui ti connetti a un canale internazionale. La centrale di Kievskaja, da lì partono le linee per l’Occidente, e lì che evidentemente stanno registrando il traffico che a attraverso quei canali. – corrugò la fronte – Strano che non abbia ricevuto informative.» «Non potevi riceverne. L’altra sera intuii correttamente. Alcuni vostri servizi segreti, o meglio, la maggior parte, non possono essere stati informati, uno dei principali rischi per chi mi sta dando la caccia, è quello che cada nelle vostre mani.» Korin si diresse presso un computer, digitò una serie di caratteri, dopo qualche minuto si voltò, aveva la faccia stravolta. La foto riempiva mezzo monitor e sotto c’erano le generalità del ricercato: si era collegata col centro elaborazione dati della FSO. Aquila fissò lo schermo. «È il aporto che ho utilizzato per entrare in Russia, documento distrutto alcune ore fa. FSO e FAPSI coadiuvate dall’ignara FPS stanno stringendo il cerchio.» «Stai forse dicendo che…» «Ne parleremo fuori della Russia, Korin. Te l’ho promesso. – La fissò – Ancora decisa? » «Il problema neanche si pone; partiremo tra qualche ora come stabilito. Per trasmettere via internet, puoi usare il mio cellulare, è assolutamente sicuro.»
«Le protezioni del programma non hanno effetto con la telefonia mobile e per quanto protetto possa essere il tuo numero, il tipo di comunicazione non offre assolute garanzie. Riscriverò il messaggio e lo invierò via satellite nel primo mattino, lontani da Mosca. Puoi da qui controllare se quella foto è anche su i monitora di Nižni Novgorod?» «Sì, posso. Ci stavo appunto pensando.» Alcuni minuti dopo i due avevano gli occhi incollati su monitor. «No, Oscar. Laggiù pare non sia arrivato niente.» «Come pensavo, si sono concentrati nell’area di Mosca. Non possono allargarsi troppo rischiando che ci ficchi il naso la FSK o la FSB.»
Nel Mediterraneo centro-orientale erano le 23. A poppa sul ponte di coperta di Freedom, piccoli cilindri emanavano nuvole di denso fumo grigio che, confondendosi istantaneamente con la foschia circostante, creavano un’impenetrabile cortina nebbiosa. «Siamo a soli trecento metri!» comunicò lo spetsnaz. «Fermo macchine! – urlò il guercio sull’interfono, subito dopo – Macchine a singhiozzo adagio.» ò un minuto. «Fermo macchine!» Freedom, in preda a un leggero rollio, era ora perfettamente in linea con la poppa della nave gemella da cui distava appena duecentocinquanta metri. «Oleg, comunica che siamo pronti.» Dal ponte centrale di tuga partirono una serie di lampi gialli. Sull’altra nave, il biondo scostò dagli occhi il binocolo a espansione d’immagine notturna, si rivolse al capo. «Ci siamo, Vassily.» L’uomo abbronzato parlò sull’interfono: «Inizio operazione disturbo!» Due uomini sul ponte di coperta si diressero all’altezza del picco di carico,
fecero scivolare lungo la murata un tubo di gomma del diametro di una trentina di centimetri la cui estremità faceva corpo rigido con un generatore di vortici costituito da un cono metallico a punta tronca, con all’interno una strana elica di plastica. Quando il pescaggio arrivò a circa otto metri di profondità, l’altro capo del tubo fu bloccato al centro del cassero centrale. L’operazione fu ripetuta sul parapetto di destra, poi sotto la luce di un faro, le estremità dei due tubi furono collegate alle uscite di un compressore diesel, infine qualcuno urlò: «Possiamo iniziare, comandante!»
«Rumori sulla rete laterale!» esclamò il sottufficiale ecogoniometrista Tompson. (La rete laterale è un sottosistema del sonar BQQ-5, il cui elemento principale è costituito da una cuffia di cinque metri di diametro posta a prua per l’ascolto attivo e ivo). «Fai elaborare i segnali dal BC-10» ordinò il tenente Howen, sopraggiunto con il secondo nella centrale operativa. Venti secondi dopo, la risposta apparve sul video terminale. Tompson pigiò un tasto per avere una copia dalla stampante e, porgendo il foglio a Howen, lesse: «Segnale anomalo, stimato spostamento laterale.» Howen, rivolto a Martinez, commentò: «Segnale anomalo sta per anomalia d’intensità variabile; non ha capito niente neanche il SAPS. Sicuramente quella nave è finita in un banco di tonni o di delfini, è già capitato qualcosa di simile in altre circostanze.» «Dov’è?» chiese il secondo. «Là, bloccata a due miglia davanti a noi.» Di lì a poco il comandante era di nuovo al periscopio. «C’è una fitta nebbia. Si distingue a malapena la sagoma. – alzò la cornetta – A sala comunicazioni! Fuori antenna EMS. Rilevamento!» arono un paio di minuti. «Da sala comunicazioni, debole traffico radar, intenso traffico radio oltre un raggio di sei miglia.» «Giù il periscopio. Antenna EMS attiva in superficie.»
Emanato l’ordine, Flitcher controllò l’orologio, si rivolse a Martinez. «Se la situazione rimarrà stazionaria, tra meno di cinque ore avvertiremo Norfolk.»
«Comandante, segnalano che tra dieci minuti possiamo iniziare», comunicò Oleg. «Singhiozzo a intervalli di un minuto per i prossimi sette» urlò il guercio. Nell’altra nave, Vassily incollato al binocolo lesse i lampi. «Disturbo al massimo», ordinò.
Tompson si rivolse ai tre ufficiali, ora intorno alla sua postazione. «Tenta di avviare le macchine. Rumori anomali in aumento.» «Che ne pensa Martinez?» chiese il comandante. L’altro scosse la testa. «Non so. Sembra chiaro che oltre ad essere finita su un grosso banco di pesci, abbia qualche seria avaria.» Flitcher si ò il fazzoletto sulla fronte madida di sudore, dicendo: «E noi, come dei coglioni, siamo qui sotto con le mani legate.»
«Ora! Macchine avanti tutta!» urlò il guercio sull’interfono, nel riversare un violento colpo antiorario alla ruota del timone. «Nebbiogeni!» ordinò nell’altra nave l’uomo abbronzato.
Tompson si tolse le grandi cuffie dalle orecchie. «Si muove comandante. Siamo investiti da intensi rumori anomali.» «Ebbene?» «Sembrerebbe che ci sia un secondo ecosonar vicinissimo al primo, ma è tutto molto disturbato.»
In quel momento un cambusiere portò quattro tazze di caffè. «Analisi del BC10» ordinò Flitcher col gotto in mano. Dopo mezzo minuto il sottufficiale porse lo stampato. Il comandante lesse a voce alta. «Segnali di eliche con intenso anomalo stimato spostamento laterale. – porse il foglio all’ufficiale sonar – Che ne pensa Howen?» «Non è chiaro. In queste condizioni è difficile far fare un’accurata analisi SAPS al BC-10.» Flitcher era ora di nuovo al periscopio. «Sempre lì davanti, bloccata tra la foschia» disse, come parlando a se stesso. «Sonar a comandante, ecosonar disturbato da echi-sonar anomali!» Il comandante e il secondo si precipitarono nell’attigua centrale operativa. «Che sta succedendo ora?» «Quello che poteva sembrare un secondo ecosonar è svanito, siamo nelle condizioni iniziali.» riferì Tompson. Flitcher alzò la cornetta. «Avviciniamoci di un altro mezzo miglio.» «Potrebbero scoprirci» fece osservare il secondo. «Al diavolo, correremo il rischio.» Sette minuti dopo, il comandante era di nuovo in osservazione. «Visibilità molto scarsa. Indietro adagio, a due miglia, su antenna RD.» arono alcuni minuti. «Antenna in posizione!» Ruotando le manopole dei braccioli, Flitcher cercò di focalizzare le lenti sulla poppa del vascello, infine ordinò: «Rilevamento!» «Due deboli sorgenti gamma molto vicine tra loro, una d’intensità pari a 64 millirad, l’altra a 71.» Flitcher parlò di nuovo sulla cornetta dell’interfono. «Comandante a sonar. Novità?» «No, comandante. Elica a due miglia, rumori anomali costanti.»
«Ha le macchine in funzione, non riesce a partire ed è ancora sul banco di pesci» fece notare Howen. Il comandante si tolse il berretto e, nel grattarsi la testa, si rivolse a Martinez. «È mezzanotte, manteniamoci a questa profondità e distanza, attenderemo altre due ore poi chiameremo Norfolk.»
In quel momento a tre miglia e mezzo dal Baton Rouge, Freedom viaggiava ad otto nodi orari con rotta est, nord-est, sull’immaginario prolungamento della linea di galleggiamento della nave gemella, immobile a due miglia dalla sua poppa.
A Mosca erano le ore 1 di venerdì venti ottobre. Due individui muniti di mazzi di strane chiavi dalle dentature variabili trafficavano silenziosamente davanti a una pesante porta. Dopo molteplici tentativi, quello alto fece un breve segno di assenso. Alcuni secondi dopo, entrati nell’appartamento, come gatti i due s’inoltrarono lungo il buio corridoio, dalle fessure della porta in fondo filtrava una cornice di luce. Il basso tirò fuori una Makarov con silenziatore, fece cenno all’altro in direzione dei chiarori. Giunti a ridosso della porta, rudemente la spalancarono; la scena che si presentò loro dipingeva un quadro dalle forti tinte di un macabro grottesco. Un forte odore di mandorle permeava l’ampia stanza, sul tappeto dietro la scrivania, accanto a una sedia rovesciata, c’era il corpo di un vecchio privo di vita, aveva gli occhi sbarrati, la bocca aperta piena di bava e la dentiera che gli andava di traverso, un bicchiere e un paio di occhiali evidentemente ruzzolati completavano l’affresco. «Cianuro… siamo arrivati tardi» commentò quello alto. «Così pare. Riprendiamo ogni particolare, Konstantin» affermò il basso. Konstantin tirò fuori una mini telecamera iniziando a video riprendere ogni centimetro quadrato dell’ambiente.
Nel Mediterraneo centro-orientale era mezzanotte e mezzo. «Sonar a comandante. Si muove!»
Un istante dopo Flitcher e Martinez erano presso la postazione sonar. «Ha ripreso a navigare, tre nodi orari, signore» comunicò Howen, rimasto presso la postazione. «I disturbi?» «Vanno estinguendosi. Ho appena fatto eseguire un’analisi SAPS al BC-10. Rispetto a prima i rumori delle macchine sono diversi.» Gli altri due si lanciarono un’occhiata. «Devono aver sostituito qualche asse di trasmissione» fece Martinez. Flitcher alzò la cornetta. «Comandante a sala telecomunicazioni! Traffico da e per Freedom?» «Zero, comandante. Durante queste ore tutto il traffico radio e radar si è verificato solo oltre un raggio di cinque miglia.» Pensieroso, Flitcher ripose la cornetta. «Presto dovrebbe superare le acque internazionali a conclusione del viaggio» asserì ancora Martinez. «Dovrebbe… Se ha ripreso a navigare è inutile chiamare Norfolk. Continuiamo a tallonarla rimanendo a quota periscopio e a questa distanza. Alla via così Martinez» sentenziò infine il comandante.
Erano le tre del mattino, quando l’argentea Mercedes spider usciva dal garage del numero 12 di Stolovyj pereulok. Il note-book aperto aveva la freccia del puntatore centrata su transmit, la parabola era dietro il lunotto posteriore, celata da un maglione. Aquila indossava blue jeans, camicia e giacca a vento, la sua compagna una corta pelliccia di volpe sopra un maglione di cachemire. Mosca a quell’ora era deserta, dopo la Znamenka ulica, l’auto giunse in piazza Borovickaja, svoltò a sinistra scivolando sul lungofiume Kremlëvskaja. Ora, sulla destra del muro del Kremlino, le dorate guglie illuminate riflettevano sulle acque della Moscova, creando un affresco di suggestiva e teatrale imponenza. La Mercedes percorse l’intero lungofiume, svoltando poi a sinistra per Nikolojamskaja in direzione est; mezz’ora dopo, l’auto era oltre la metà della
lunghissima Šosse Entuziastov. Sul lato sinistro, la strada era affiancata da grosse condutture comunali che portavano acqua calda per il teleriscaldamento e dai cui snodi, qua e là uscivano con violenza irreali pennacchi di vapore; all’interno di questa allucinogena cornice, tra lunghi, diroccati casermoni di ex stabilimenti chimici e metallurgici, s’intravedevano enormi cumuli di scarichi urbani di ogni tipo e cataste di pneumatici in disuso, falò circondati da battone e barboni completavano l’affresco. «Tra una ventina di minuti prenderemo la M7» affermò Korin. Dopo poco svoltarono a sinistra per una strada larga e dissestata, chiusa ai lati da filari di platani rinsecchiti, in lontananza s’intravedevano le luci dell’ingresso autostradale della M7. Erano le 3.55 quando di colpo l’auto rallentò. «Un posto di blocco a duecento metri» fece Korin. Aquila allungò una mano sfiorando la tastiera del notebook. La Mercedes si fermò dolcemente accostandosi al fianco di due auto lampeggianti. L’uomo della FSO, presentandosi, chiese i documenti, dietro, altri quattro militi armati iniziarono a girare lentamente intorno all’auto. «Sono in missione! Non ho molto tempo» affermò la donna, in tono alto, nel porgere le sue carte. Il fascio della torcia illuminò i documenti, il milite inarcò le sopracciglia andoli al sottufficiale il quale, appena sbirciati, si precipitò a restituirli augurando buon viaggio. Avevano superato il raccordo anulare e ora sulla grande autostrada a sei corsie la Mercedes filava a centotrenta, sfrecciando di tanto in tanto davanti agli enormi piloni dell’alta tensione. Poco prima della stazione di servizio Nefto Agip, l’auto di colpo nuovamente rallentò. «Hanno stretto una morsa intorno a Mosca, due jeep, GRU» affermò pensierosa Korin. L’auto accostò lentamente a destra, una delle jeep aveva parabole satellitari. Poco dopo un milite in tuta mimetica chiese bruscamente i documenti; dietro di lui altri cinque imbracciavano gli Ak 47. Mentre il dito di Aquila sfiorava il tasto invio, sotto la luce della torcia, Korin mostrò le sue carte usando la precedente tattica, ma evidentemente questi erano meno teneri. «Abbiamo ordini precisi, colonnello!» rispose il caporale, facendo cenno al eggero di argli anche i suoi. Korin stava per contestare, ne aveva titolo, ma Aquila nel are al milite la propria carta d’identità russa, con un gesto la trattenne. Trascorsero alcuni minuti, il controllo andava pericolosamente per le lunghe quando la donna, scesa dall’auto quasi urlando, chiese: «Allora? Quanto devo attendere tenente? Rammento che sta intralciando la missione di un ufficiale superiore dei servizi centrali di controspionaggio.»
Il gruppetto smise di confabulare e un graduato di scrivere, ci fu un momento di silenzio, poi l’ufficiale voltandosi si diresse verso l’auto, fece il saluto militare e nel restituire le carte, disse: «La preghiamo di scusarci, colonnello. Fate buon viaggio.» All’altezza dello svincolo di Noginsk, Korin visibilmente rilassata, fece: «Ormai è andata, non dovremmo incontrare altri ostacoli.» «Sei stata bravissima.» Lei sorrise pizzicandolo sul basso ventre, poi nel superare uno scassone d’autocarro, allungò la mano incrociando le dita con quelle di lui. Aquila lasciò la presa. «Avremo tutto il tempo, ora pensiamo ad arrivare a Nižni illesi…» Avevano superato Orehovo, ora erano a ottanta chilometri da Vladimir, Aquila sbirciò l’orologio: le 5.10. Lei chiese: «Quando pensi d’inviare il messaggio?» «A Berlino sono le 3, a Londra le 2, ormai mandarlo ora o più tardi non cambierà molto, prendiamoci il massimo margine di sicurezza. Lo invierò nei pressi dell’aeroporto.» Alle 5.55 superarono Vladimir, alle 6.50 Ujazniki e alle 7.35 Dzeržinsk. Ora il crepuscolo mattutino si faceva prepotentemente largo tra la tenebra, il cielo annunciava all’orizzonte una giornata fredda e plumbea, iniziava a nevischiare. Erano le 7.55, da qualche minuto avevano lasciato la M7 e stavano percorrendo la circonvallazione di Nižni Novgorod. L’auto si fermò sopra l’antico ponte di pietra e legno sul fiume Oka, poco prima della sua confluenza col Volga. Tra i chiaroscuri del nascente giorno, in lontananza, sulla riva erbosa a ridosso delle betulle, si distinguevano barche di pescatori in secca, quasi tutte erano coperte da rudimentali teloni cerati bianchi. Un barcone a vapore, forse diretto al grande lago Novogorodskoie, spennacchiava fumo nero risalendo lentamente la corrente del Volga. Aquila sbirciò lo schermo del note-book, la piccola antenna parabolica inviava un segnale perfetto, pigiò il tasto invio. Occorse un minuto prima che il computer scaricasse nell’etere, sotto forma d’impulsi, l’intero contenuto del file, poi arono altri tre di trepida attesa prima che sul display apparisse la scritta received. Aquila bruciò i documenti russi, ficcò nella ventiquattrore alcuni capi di biancheria e infilò il note-book nella borsa da viaggio appesantendola con alcuni sassi. Poco dopo dal parapetto del ponte gettò nelle gelide acque la borsa con il suo contenuto; poi per alcuni minuti i due stettero lì abbracciati all’interno dell’auto, come una coppietta diciottenne alla
prima scappatella.
Le antenne del ripetitore del centro telecomunicazioni militari, nei pressi del villaggio di Pučez, sul lago Nižmi Novogorodskoje, captarono una lunga serie d’impulsi e, come uno specchio, le paraboliche disposte ad arco distorcendo quei segnali li rifletterono nell’etere.
Per Gumayev quella era stata una nottataccia. La sera prima non essendo andato alla propria dacia, si era sistemato per la notte sul divano nell’attiguo salotto e, tra uno squillo e l’altro, non aveva quasi chiuso occhio. Alle sette era arrivato Krušenko accompagnato da un secondo mafioso, un ex analista del KGB. Ora nella stanza il fumo si fendeva con la lama. Dopo aver attentamente visionato la cassetta con le riprese alcune ore prima nel luogo del suicidio, l’ex analista spense la sigaretta sul posacenere, pose il dossier di Markov su uno sgabello e iniziò l’esposizione. «Dal colore della faccia, la morte sembra recente, potrebbe risalire al tardo pomeriggio o nella prima serata di ieri. Quasi certamente il suicidio è derivato da un trauma psicologico, subito a seguito della visita di una seconda persona le cui tracce, sono caratterizzate dai due mozziconi di sigaretta marca Philips Morris lasciati sul posacenere, di fianco alla poltrona. Aggiungo che il profilo psicologico e caratteriale di questo Markov era tutt’altro che instabile, quindi, il fumatore, dev’essere stato latore di notizie tremende, tali da far crollare l’intero suo mondo.» «Non c’era bisogno di scomodare la tua gran testa! A questa conclusione c’eravamo arrivati anche noi. – fece bruscamente Gumayev, nel grattarsi il mento irsuto per la barba non rasata, e continuò – I mozziconi appartengono a una nostra vecchia conoscenza. In Russia sta covando qualcosa di sottilmente strano, il cui segreto è racchiuso nella visita di questo fumatore. Vedi di venirne presto a capo, Pjetor…» Nell’annuire impallidendo, l’altro con un filo di voce affermò: «Avrò bisogno di osservare ancora un paio di volte ogni dettaglio di questa videoregistrazione, Fjedor.»
Lo sguardo del dottor Krulyov cadde sul lungo tracciato del plotter fattogli trovare sul piano della scrivania. Lesse l’ora della registrazione, la trasmissione era avvenuta novanta minuti prima. Osservò con occhio esperto il diagramma, alzò la cornetta e chiamò Kaminskji. Alcuni minuti dopo Krulyov spiegò: «È un’anomala, lunga trasmissione satellitare. Il tracciato è leggermente increspato, si direbbe una serie di singoli segnali emessi da una trasmittente a bassa potenza o segnali rimbalzati da qualche ripetitore che, incompatibili nel riceverli, li abbia distorti.» Il maggiore Kaminskji si concentrò sul tracciato. Puntò la matita sul vertice di un’increspatura. «Segnali strani, mai visti di così. Potrebbe trattarsi di una trasmittente a impulsi analoga a quella del merlo?» «Potrebbe, se la trasmissione fosse avvenuta lontano e i segnali fossero stati rimbalzati distorcendosi in ampiezza.» «Allora bisogna avvertire il vice direttore.» Il matematico inarcò le sopracciglia. «Se fossi in te, attenderei. Rischi di alzare un inutile polverone. Allo stato attuale non c’è il minimo riscontro oggettivo.» «I tuoi possono venirne a capo?» «Sicuro, ma ci vorrà del tempo.» «Quanto?» «Bisognerà amplificare le increspature di un migliaio di volte, analizzare e calcolare gli intervalli, costruire un modello matematico e infilare il tutto nel computer. Questo ci permetterà di capire il tipo di trasmissione e se un ripetitore può creare simili distorsioni; se sì, attraverso successive analisi, il computer potrà anche dirci la direzione di provenienza. Direi dieci, dodici ore.» «Va bene, Ljudin» fece annuendo, il maggiore.
L’aeroporto non era molto affollato. I eggeri, per lo più gente asiatica, erano inzaccherati nei loro pesanti pastrani, alcuni gironzolavano, altri sonnecchiavano sulle panche con i piedi sopra le valigie, molte di fibra e legate col cordino. Le
donne portavano i loro variopinti fazzoletti legati sotto il mento alla maniera delle contadine russe, qualcuno aveva come bagaglio a mano gabbie di vimini con dentro del pollame. Tutti erano in attesa d’imbarcarsi sui voli nazionali per le varie località della Russia centrale. La distinta coppia di eggeri dall’apparenza americana, in ogni modo occidentale, aveva fatto i biglietti. A Korin era bastato mostrare la propria tessera di riconoscimento, mentre Aquila aveva dovuto esibire aporto e credenziali che lo qualificavano come certo Bill Murphy, corrispondente estero dell’Observer britannico. L’Air-bus della Scandinavian Airlines sarebbe decollato alla volta di Helsinki di lì a trenta minuti, il Llyushin II/86 alla volta di Tbilisi in Georgia con scalo a Volgograd sul Volga, alle 10.30. Korin aveva già fatto il check-in, le tre grandi valigie di pelle di coccodrillo le avrebbe ritirate direttamente all’aeroporto londinese di Heathrow, mentre Aquila con la sola ventiquattrore non aveva di quei problemi. In precedenza, dopo aver scaricato i bagagli all’ingresso dell’aeroporto, l’uomo aveva parcheggiato la Mercedes in un posto fuori mano smontandone la targa, gettandola infine in un bidone della spazzatura. I due erano ora seduti al buffet dello sporco, piccolo aeroporto, avevano bevuto tè, caffè forte e mangiato un dolce locale a base di patate che fritto nello strutto sapeva di sego. «Il SIS sa chi sei, ho dovuto informarli. Sa anche che senza di te, questa missione non avrebbe avuto alcuna possibilità di riuscita. A Heathrow ci sarà qualcuno ad attenderti e durante la mia assenza sarai discretamente protetta. L’ho chiesto io nel messaggio. Non credo che prima del mio ritorno ti sottoporranno a domande, in ogni modo, qualsiasi cosa l’MI-6 dovesse chiederti, non aprire bocca. Dopo, in Italia, assumerai il mio nome.» Nonostante Korin conoscesse uomini, mondo e fosse donna di provate esperienze, la risultante delle forti tensioni emotive, accumulatesi durante quei giorni, unitamente al pensiero di dover lasciare il suo uomo, finalmente ritrovato, l’avevano visibilmente provata. Gli occhi erano lucidi e per la prima volta Aquila notò sul magnifico volto una ruga che dalla guancia sinistra le scendeva giù, fino al collo. Con l’indice destro le alzò il mento. «Si tratta solo di qualche giorno. Ormai ogni pericolo è ato» sussurrò fissandola. «Sai? Non ti avevo mai visto con gli occhiali.» Aquila sorrise. «Sono fasulli, gli attuali documenti li richiedono, dovrò portarli fino a Tibilisi.»
In quel momento l’altoparlante annunciò in russo e in inglese l’immediato imbarco del volo 034 della Scandinavian Airlines.
Nel Mediterraneo centro-orientale erano le nove del mattino. Nelle ultime nove ore il mercantile diventato Girasole aveva mantenuto le macchine al massimo, navigando a gran carriera solcando le acque dell’Egeo con rotta est, nord-est a una media che sfiorava i ventitré nodi orari. Superato il centro delle Cicladi, ora si trovava a 37° 55’ Latitudine Nord, 25° 10’ Longitudine Est, trenta chilometri ad est dell’isola di Ándros.
In quel momento a circa centonovanta miglia a sud-ovest, il comandante Flitcher usciva dal suo alloggio diretto alla sala operativa. Aveva dormito poco e male, le tazze di caffè e i sigari fumati nelle ultime ore, unitamente alle due uova strapazzate con bacon mangiate per colazione, avevano trasformato l’inquietudine che si portava dietro dalla sera prima, in acidità di stomaco. Giunto in sala operativa, senza dare il buon giorno, rivolgendosi all’ufficiale di rotta, in modo sbrigativo ordinò: «Il punto, Signor Snow!» Il tenente Snow che in quel momento trafficava intorno al tavolo di carteggio, rispose preciso e sintetico come un computer. «Siamo sulla scia di Freedom a venti miglia ad est dell’isola di Kitira, 36° 15’ Latitudine Nord, 23° 20’ Longitudine Est, sotto l’estrema punta del Peloponneso. Rotta nord, velocità di crociera cinque nodi.» Come un crampo, la punta di acidità si acuì. «Rotta nord? E dove ci porterebbe?» L’ufficiale mise un foglio plastificato trasparente sopra il tavolo di carteggio, con squadra e pennarello tracciò una linea. «Quassù signore, nel Pireo, presso Atene.» «Ma che senso ha? Fino ieri sera faceva rotta est, sud-est, poi si è bloccata per un’avaria, ora cambia rotta e va verso nord. – Flitcher alzò la cornetta – Comandante a sonar: distanza!»
«Due miglia signore, non c’è stata variazione.» «Comandante a sala manovra, fuori il periscopio, antenna RD in posizione.» Alcuni minuti dopo: «Centocinquanta ingrandimenti. Quattro foto. Rilevamento RD!» «Due sorgenti vicinissime d’intensità pari a 64 e 71 millirad» fu la risposta. Ora presso Flitcher c’erano il secondo e l’ufficiale sonar. «Le foto, comandante» comunicò poco dopo un marinaio. Il secondo gliele tolse di mano e le pose sul tavolo di carteggio. «Eccola qui che ci porta a so per il Mondo! – esclamò un istante dopo il comandante; fece un cenno al secondo e i due si appartarono – Che ne pensa Martinez?» «Non so… come affermato questa notte, se Norfolk è nel vero, tra il venti e il ventiquattro Freedom dovrebbe entrare in acque territoriali. Siamo quindi in dirittura di arrivo ma improvvisamente si blocca per probabile avaria, non comunica né riceve, poi cambia improvvisamente rotta; è strano.» «Sì, privo di logica. Io da tempo sarei intervenuto colandola a picco, dopo averne sequestrato il carico e messo agli arresti quei furfanti. Quando abbiamo avuto l’ultimo contatto via satellite con il Comsublan?» «Ieri, alle 17.» Il comandante rifletté un momento. «Non mi piace, Martinez. – si rivolse all’ufficiale sonar – Signor Howen, se non succede nulla entro le prossime due ore, faccia stampare il tracciato della rotta con le variazioni di velocità avvenute durante l’intera crociera.»
Il cellulare a linea protetta di Uglanov squillò, era Artmenko. «Puoi parlare Ivan, sto salendo le scale.» «È riuscita! Abbiamo ricevuto due messaggi, uno alle 4 di stamani, l’altro poco
fa mentre doppiava l’isola di Andros.» «Bene. Molto bene! Non avevo il minimo dubbio circa l’esito dell’operazione. In quelle navi ci sono i migliori uomini. Dovremmo informare Petrov.» «È già informato. Ha chiamato lui via satellite meno di dieci minuti fa, ora è a Vladivostok, rientrerà a Mosca sabato notte. Riguardo all’altra faccenda?» «Niente Ivan Ivanovich, sembra essere svanito nel nulla. Mosca è stretta in una morsa e gli ingressi ai consolati e alle ambasciate sono sorvegliati. A questo punto, quasi certamente è un mafioso.» «Inizio a essere d’accordo con te, Vladimir.»
Capitolo XVIII
I quattro turbo fan Samara NK-86 del Llyushin II/86 rombavano al massimo della potenza. Il grosso aereo saliva con ardita pendenza, quando una gabbia di legno con all’interno del pollame, cadde dal vano bagaglio, finendo sul grembo della eggera seduta accanto ad Aquila. L’anziana contadina calmucca si portò le mani tra i capelli. «Beata vergine di Vladimir, santa madre di Kazan» esclamò alzando gli occhi al cielo, in preda ad agitazione. Aquila, inchiodato al sedile per il tramite dalla cintura di sicurezza, si chinò, allungò una mano tra le piume svolazzanti, tolse la gabbia con i volatili dal grembo della donna e, sorridendo, le disse: «Coraggio, tra poco più di un’ora atterreremo a Volgograd e per lei il viaggio sarà terminato.»
A Londra era una mattinata uggiosa, a Westminster le lancette degli orologi del Big Ben segnavano le 7.40. La nebbia che saliva dalle acque del Tamigi si espandeva lentamente verso l’East e il West Side River, penetrando nel cuore della metropoli, mentre di là della grande torre, le bianche luci dei lampioni lungo il fiume erano dei chiarori indistinti, sfumati dalla foschia di quel freddo, primo mattino autunnale. In quel momento, a qualche miglio di distanza, nell’ala nord della moderna, brutta costruzione in Vauxhall Cross, una Jaguar parcheggiava in una sotterranea autorimessa il cui ingresso era permesso solo alle auto dei VIP. Il distinto eggero scese dall’auto, facendo segno all’autista e all’uomo di scorta di rimanere comodi, infime affermò: «Non so per quanto ne avrò, forse per l’intera giornata. Datevi il turno per il pranzo e attendete qui.» L’ascensore di servizio si fermò al secondo piano, l’uomo percorse un dedalo di corridoi e finalmente entrò in un ufficio di ampie dimensioni. L’ambiente illuminato da una lampada a stelo con paralume verde, aveva la finestra con le tapparelle abbassate. Sulle pareti rivestite da pannelli di mogano, pendevano alcuni acquerelli rappresentanti la campagna autunnale inglese, un ritratto a olio della Regina spiccava alle spalle del gentiluomo seduto dietro la scrivania. Toltosi l’impermeabile, sir Charles Bright sedette davanti a “C” il quale, silenziosamente, gli porse un sottile fascicolo, poi da una caraffa di vetro iniziò a riempire due tazze di fumante caffè. Un quarto d’ora dopo, il canuto ammiraglio
alzò gli acquosi occhi dall’ultimo degli otto fogli, si tolse gli occhiali da lettura e visibilmente sgomento, mormorò: «Incredibile. Assolutamente incredibile!» «Sì Charles. Questa è la prova che il detto secondo cui a volte la realtà è superiore a ogni più sfrenata immaginazione, corrisponde al vero.» «Desidero complimentarmi con te, David, per la lungimiranza con cui hai condotto l’intera operazione.» «I complimenti sono reciproci, come complementare è stata la lungimiranza, anche se, il merito è tutto del Camminatore. Senza di lui il compimento di simile operazione sarebbe stato semplicemente impossibile.» «Sì! Non si è smentito.» «Alla luce di questa realtà, dovremo rivedere alcune cose.» «Certamente, ma ora pensiamo alle priorità da egli poste.» «Credo, dovremmo seguire le sue indicazioni.» «Qualora i futuri sviluppi dell’operazione ci portino a seguire il suo piano, dobbiamo dargli tutto il o che ha richiesto, oltre ovviamente, a proteggere la signora in arrivo.» «Qualora, Charles?» «Sì David. È arrivato il momento di mettere le carte in tavola con i cugini americani. A questo punto non possiamo tacere oltre.» «Ci sottrarranno l’operazione da sotto il naso.» «Non possiamo farci niente. Stando così le cose, se non li ponessimo al corrente, credo che il gabinetto non approverebbe. Naturalmente ci limiteremo a fornire informazioni relative solo a quella che il Camminatore definisce variante di mare, punto dello scambio, nome e bandiera della nave.» «Mi sembra lapalissiano. Sarebbe una follia se ci lasciassimo sfuggire
indiscrezioni sul progetto Gengis Khan, quello lo tireremo fuori dal cilindro per ultimo, quando il pericolo sarà ato.» «In ogni modo e comunque vadano le cose, il nostro è stato un successo superiore a ogni più ottimistica attesa; inoltre non è certissimo che gli americani possano concludere l’operazione positivamente, prendendosi ogni merito.» «Non ti seguo, Charles.» «Sai bene, David, che noi a differenza del governo americano non preferiamo ricevere le brutte notizie dalla CNN. Fra circa un’ora, quando informati di ciò che accadrà questa notte nel Mediterraneo, se come quasi certo quella Freedom è seguita da quel loro sottomarino salpato repentinamente da Scapa Flow, probabilmente lo faranno emergere, nel qual caso, l’azione militare segnerà operativamente la fine della storia. Ora, però, sappiamo con chi hanno a che fare e, se per vari motivi quel sommergibile dovesse fallire, noi seguiremo i suggerimenti del Camminatore, inviando nel punto da lui raccomandato una squadra di dodici Royal Marines Commandos{54}.» «Ammettendo per amore di ragionamento che gli americani non riescano a venirne a capo, potremmo far salpare da laggiù un nostro cacciatorpediniere, mandandolo all’ingresso dei Dardanelli.» L’ammiraglio Bright ci pensò su, infine disse: «Potremmo, ma credo non sia possibile, almeno non nei margini di tempo disponibili. Non dimentichiamo inoltre, che siamo in presenza di un’operazione top secret, non a caso presumiamo che gli americani abbiano fatto seguire quella nave da un sommergibile nucleare. Anche e soprattutto noi dobbiamo limitarci ad alzare meno polvere possibile e una nave da guerra ne alza. In quest’ottica, penso che per un’eventuale, simile impresa i Royal commandos sarebbero più adatti. Se dovessimo intervenire, dovremmo farli arrivare in una base NATO turca da usare come trampolino.» «Sì, forse questa è la via migliore. Immagino la faccia di George Maxwell quando tra qualche ora saprà che sappiamo di Freedom e dello scherzo che questa si prepara a combinargli.» «Problemi loro. Noi gli stiamo togliendo un mucchio di castagne dal fuoco. Al momento la cosa prioritaria è neutralizzare quella nave. Vediamo che succede questa notte nel Mediterraneo, poi eventualmente ci muoveremo.»
«Forse pecchiamo di eccessivo zelo. Sulla carta le probabilità di un nostro intervento sono veramente scarse.» «Affermerei scarsissime. Ciò nondimeno, è opportuno premunirci per affrontare qualsiasi evenienza. » «Riguardo ai Commandos, eventualmente come ci muoviamo? Se seguiamo le procedure dovremmo chiedere l’autorizzazione a Whitehall, all’ammiragliato.» Sir Bright scosse la testa. «Se seguissimo le procedure, tra una settimana saremmo ancora a discutere i dettagli con quei parrucconi. No David, se malauguratamente dovessimo intervenire, la nostra sarà un’operazione flash. Prima possibile cercherò di prendere contatto col primo ministro. – sbirciò l’orologio – Dobbiamo avvertire il nostro consolato di Tbilisi e mandare qualcuno a ricevere la signora a Heathrow.» «Ci penserò io», rispose C.
Il capo del controspionaggio della marina americana, ammiraglio Derik Granger, aveva la famiglia a Richmond e ogni venerdì pomeriggio – salvo frequenti impegni d’ufficio – partiva da Norfolk, prendeva la statale 80 che costeggia la baia Chesapeak, imboccava l’autostrada 64 e si faceva le 93 miglia fino a casa per are il fine settimana con i suoi. In quel momento egli dormiva saporitamente nel suo alloggio, quando, con o felpato, il suo attendente entrò nella stanza. Con un certo imbarazzo, l’uomo allungò la mano scuotendo l’ammiraglio. Granger aprì gli occhi, confusamente lanciò un’occhiata all’orologio, erano le 3.25 ore della costa orientale degli Stati Uniti. «Che c’è? Che succede Robert?» chiese in dormiveglia. «Una chiamata da Londra per lei, signore. Sulla linea speciale, precedenza flash.» «Londra? Chi è a quest’ora?» Il graduato di colore lesse un biglietto. «Ammiraglio Charles Bright.» Ancora rimbambito dal sonno, nell’infilarsi la vestaglia, Granger borbottando commentò: «Durante la notte io non mi permetto di svegliare il personale di
servizio e questo, a quest’ora, mi fa saltare dal letto come un grillo.» Alcuni minuti dopo l’ammiraglio era fin troppo sveglio, incollato alla cornetta nel prendere appunti su un blocco notes. La telefonata durò venti minuti al termine della quale, esagitato, Granger fece due convulse chiamate interurbane, infine scrisse manualmente un intero foglio di fax e, per mezzo della stessa linea protetta, lo spedì a Washington e a Langley.
Fuori, una gelida nebbia latrice delle prime nevi, avvolgeva la grande città. Il finestrone semiaperto aveva la tenda rossa scostata per permettere il ricambio dell’aria viziata dal fumo. In una parete c’era uno stoino avvolgibile, di fianco un grande monitor a cristalli liquidi collegato a una mini telecamera. Tazze semivuote di tè e caffè e alcuni pasticcini erano sopra un carrello. Pjetor tenne premuto il pulsante forward della telecamera finché ottenne l’inquadratura desiderata; si alzò, si diresse verso il monitor e, rivolto ai due boss arrivati poco prima, iniziò l’esposizione. «L’ambiente è stato completamente setacciato dal teleobiettivo, non c’è un punto oscuro. Tra la gran quantità di fascicoli, libri e tutte le altre inquadrature della stanza, solo due risultano indicative al fine di squarciare la tenebra sulla natura del colloquio svoltosi, le uniche che abbiano qualcosa in comune.» Fece uno zoom e capovolse l’immagine. Sopra la scrivania, presso un libro vicino a quello che doveva essere il bordo di un monitor, c’era un foglio di carta bianca aperto a novanta gradi. Il foglio aveva la piegatura al centro, come se fosse stato inserito all’interno di un libro o rimasto piegato sotto un peso. Sulla mezza pagina in posizione verticale rispetto al piano della scrivania, scritto a matita, in modo nitido si leggeva: Punto di variante; 35° 30’ lat. N. 22°45’ long. E. L’ex ufficiale analista del KGB, ora mafioso, puntò l’indicatore al centro dello schermo. «Ricordiamoci queste coordinate» disse. Pigiò nuovamente il pulsante di avanzamento e andò avanti piano, bloccò la mini telecamera e fece di nuovo lo zoom. La nuova inquadratura visualizzava un pezzo di quella che doveva essere una dettagliata carta geografica. Il centro dello schermo era tagliato dal confine tra la Georgia e la Russia cecena, un marcato cerchio rosso tracciato con un pennarello evidenziava la cittadina russa di Soči. «Questa è la seconda indicativa immagine. Unica località della carta geografica
fortemente evidenziata.» L’analista fu rudemente interrotto da Gumayev. «Non vedo cosa abbiano in comune queste due immagini. – si rivolse a Krušenko – Riesci a capirci qualcosa, tu?» «Francamente, non trovo nessuna connessione logica tra quelle coordinate e la città di Soči.» «Allora Pjetor?» fece Gumayev. Pjetor sbatté le palpebre deglutendo e, con voce bassa e tremula, chiese: «Possiamo vedere la carta?» Con la bocca che era una linea dritta, nell’espellere fumo dalle narici, Gumayev lentamente annuì. L’uomo si diresse presso lo stoino e tirò giù l’avvolgibile. Ora una carta geografica che andava dalle isole britanniche a Vladivostok e dal Polo Nord all’Equatore occupava più di mezza parete. «La connessione logica, è il mare. – disse l’analista e continuò – Sulla carta è evidenziata la città rivierasca di Soči e le coordinate indicano un punto sito in alto mare, grossomodo quaggiù, nel Mediterraneo, presso l’estrema punta ovest di Creta. Ambedue questi punti sono sul mare e, come affermato poc’anzi, tra tutte le riprese effettuate nella stanza, questa è l’unica connessione logica che unisce due cose tra loro, unica ma forte! Qualsiasi sia stato il motivo che ha fatto scattare in Markov la molla del suicidio, sono incline a credere che sia legato a queste località! Seguendo la successione logica, se ne deduce che qualcosa ha viaggiato o sta viaggiando via mare, seguendo la rotta del Mediterraneo orientale che attraverso lo Stretto dei Dardanelli porta quassù, al Mar di Marmara, il Bosforo e il Mar Nero per arrivare infine a Soči.» Gli altri due si lanciarono un’occhiata, fatto che non sfuggì all’analista che, incoraggiato, continuò esponendo i propri convincimenti. «Qualche ora fa, ho visionato la prima videocassetta, quella riguardante il fumatore. L’unica cosa interessante che ho notato è stata quando nella biblioteca Lenin apriva il volume le varianti di Markov. Anni addietro, in seno al primo dipartimento, ebbi modo di studiare le tattiche scacchistiche descritte in quel libro. Markov usava chiamare variante una serie di mosse che portavano a perdere pezzi importanti per seguire un tatticismo che celava una precisa, dirompente strategia. Egli, in una posizione defilata e apparentemente non pericolosa, di solito piazzava la
coppia regina cavallo poi, con calcolo, sacrificava qualche alfiere o torre, al fine di spiazzare, sguarnendo certe nevralgiche difese del re dello schieramento avverso. Markov si trovava ora con dei pezzi in meno, ma aveva conseguito, in termini di posizioni, un considerevole vantaggio strategico, sgomberando la strada, mettendo a tiro la coppia regina-cavallo. A quel punto, lo scacco matto era solo un problema di numero di mosse e, senza che l’avversario se ne rendesse conto, era alle corde. Questa è la variante: perdere dei pezzi al fine di confondere le idee all’avversario e aprirsi la strada verso l’obiettivo principe! Aggiungo che la chiave di lettura per la quale il fumatore è andato alla biblioteca Lenin, era interpretare la logica della tecnica scacchistica di Markov per comprendere il suo modo di pensare. – ora i due boss seguivano con estremo interesse l’esposizione del loro uomo; pjetor continuò – In quel foglio c’è scritto Punto di variante, seguito da delle coordinate. Ciò significa che qualcosa è avvenuto o avverrà in quel punto in alto mare. Qualcosa che, come in una partita a scacchi giocata da Markov, permetta di sgomberare la strada a un mezzo navale sito in quella posizione, affinché possa arrivare diritto alla meta prevista che, nel nostro caso, è Soči. Come affermato in precedenza, considerando lo spessore e il profilo caratteriale di quest’accademico, ritengo che la molla che ha fatto scattare in lui il suicidio sia stato o un ricatto o una forte costrizione esercitata dal fumatore, tesa a fargli rivelare sia natura e fini del carico diretto a Soči, sia a dettagliare cosa è avvenuto o avverrà nel punto di variante. Ripeto, per simile personaggio esternare tale rivelazione dev’essere stato oltremodo traumatizzante, al punto da portarlo al suicidio.» «Cosa credi possa caratterizzare quel carico, Pjetor?» chiese Gumayev. L’ex analista del KGB che ora per sbarcare il lunario prestava il proprio ingegno alla mafia, scosse lentamente la testa. «Impossibile saperlo Fjedor, non c’è il minimo indizio. Posso solo formulare delle ipotesi che potrebbero rivelarsi mere speculazioni.» «Parlavo di opinione soggettiva, Pjetor. M’interessa conoscere il tuo pensiero» affermò il grande boss, in tono ora quasi cortese. Il piccolo, emaciato uomo accese l’ennesima sigaretta russa. «Considerando che Markov godeva reputazione di persona rigida, solitaria e d’integerrima onestà, escluderei che il carico rappresenti qualcosa di comunemente commerciabile o fonte di ricchezza. La cosa che può illuminarci sono i suoi trascorsi politici e accademici. Essi tracciano una linea che conduce in un’unica direzione: quella
della partecipazione non secondaria a una qualche associazione segreta che abbia per scopo l’impegno attivo nella politica e nel sociale. Detto questo, la logica connessione tra il personaggio e i fatti esposti induce a pensare che il carico diretto a Soči sia qualche mezzo per raggiungere i fini che quest’ipotetica associazione si prefigge o, si prefiggeva.» «Vai avanti, Pjetor.» L’uomo seguì, esponendo la logica dell’allora KGB: mistificare per legittimare azioni illecite. «Tutto ciò, lascia immaginare che gli obiettivi fossero quelli di rompere, o in qualche modo destabilizzare, gli attuali equilibri politici all’interno della Russia, sì insomma… che il carico rappresenti un qualche pretestuoso mezzo di legittimazione per un’eventuale ritorsione contro l’attuale establishment. La prima idea che salta alla mente sono armi, armi ovviamente non convenzionali. Ripeto Fjedor, questa ipotesi è altamente speculativa, sa di fantapolitica e sicuramente non sarà corrispondente alla realtà, ma è l’unica che allo stato delle conoscenze fin qui acquisite presenta un certo margine di riscontro psicologico oggettivo. – il piccolo uomo scosse di nuovo la testa – Sotto il profilo del personaggio e nell’ottica della tragedia consumatasi, non saprei proprio cos’altro pensare.» Alcuni minuti dopo, congedato l’analista, i due erano davanti alla carta geografica. Krušenko disse: «Pjetor ha dato corpo ai tuoi iniziali sospetti, arricchendo il mosaico d’interessanti particolari. Dobbiamo assolutamente porre le mani su quella nave e impadronirci del carico. Potremmo trarne decine, forse centinaia di milioni di dollari, oltre a sventare la minaccia che comporterebbe lo stravolgimento dei nostri equilibri di potere e forse di noi stessi.» «Pjetor ha visto giusto, ma non sappiamo il nome della nave, né, dove si trovi, né quando è previsto il suo arrivo e abbiamo solo una speculativa, vaga idea del carico. Si è diradata un po’ di nebbia, ma il problema è rimasto sostanzialmente quello dello scorso lunedì. La chiave di tutto è sempre Aquila! L’imperativo è individuarlo, seguirlo per carpire elementi che possano condurci a quel trasporto e infine farlo sparire.» «Difficilmente potrà uscire da Mosca. Luoghi pubblici, alberghi, stazioni, aeroporti, ingressi d’ambasciate e consolati sono da ieri sotto controllo. Il rischio è che la FSO lo individui prima di noi.»
Gumayev abbassò lo sguardo, scosse lentamente la testa. «Ancora credi che sia a Mosca… quello ha mille risorse. È entrato in Russia chissà con quanti documenti falsi, parla una moltitudine di lingue e sicuramente durante la nottata avrà trovato il sistema di allontanarsi. Non è la prima volta che ci combina di questi scherzi. Conoscendo l’uomo, sicuramente cercherà di portare la propria missione fino in fondo, costi quel che costi, ciò ci assicura che quasi certamente, ora egli è diretto da qualche parte quaggiù.» Con la punta dell’indicatore tracciò un ampio arco sulla carta geografica che, dalla penisola di Crimea, tagliava il Mar Nero fino alla Turchia per risalire alla Georgia fin oltre il Caucaso; infine sbirciò l’orologio, mancava poco all’una, alcuni minuti dopo i due erano nel lussuoso ufficio. Il grande boss pigiò il pulsante sulla scrivania, quasi all’istante comparve l’omaccione; gli ò un foglio. «Questa foto, corredata da una dettagliata descrizione del personaggio, che sia immediatamente inviata via internet e via fax a tutte le famiglie dell’Ucraina, Turchia, Georgia, Cecenia, Romania e Bulgaria! L’ordine è tassativo e la precedenza assoluta: devono localizzare quest’uomo attraverso il controllo di ogni aeroporto, porto, ingresso ai Consolati, Ambasciate, stazioni ferroviarie e principali alberghi. Individuato, seguirlo o dopo o, tenendoci costantemente informati. Ah Nikolay… specifica in chiaro con chi hanno a che fare. Avverti inoltre i capi famiglia che non saranno tollerate sviste, distrazioni o errori. – si rivolse a Krušenko – Andiamo!»
Il llyushin II/86 era fermo sulla pista di parcheggio dello scalo Volgograd, ex Stalingrado. A nord, sulla sinistra, erano visibili le lievi alture ai cui piedi un tempo sorgeva la famosa fabbrica di trattori Ottobre Rosso; luogo che fu teatro dei più aspri combattimenti della seconda guerra mondiale, tra reparti della sesta armata tedesca del Feldmaresciallo Von Friedrich Wilhelm Paulus e reparti della sessantaduesima armata del maresciallo Gerorgij Žukov! Sulla destra, era visibile il leggero avvallamento della riva sinistra del serpente grigio rappresentato dal Volga. Durante le due ore di sosta, Aquila era rimasto all’interno dell’aereo, consumando il pranzo ato dall’Aeroflot, infine si era addormentato. Svegliato dal trambusto dei eggeri, sbirciò l’orologio: le 14 ore locali. Di lì a breve l’aereo sarebbe di nuovo decollato per giungere dopo meno di un’ora a Tbilisi.
A Washington era da poco smesso di piovere. In fondo all’Executive drive i pneumatici della Cadillac si bloccarono sul viale ghiaioso con i battistrada immersi in una pozza d’acqua. Il marine di guardia alla porta, sbirciato il cartellino di riconoscimento, salutò, ma l’uomo con l’impermeabile blu, serio in volto, non rispose andando dritto verso il sottosuolo. «È già arrivato qualcuno?» chiese Maxwell all’agente di servizio che gli faceva strada. «Sì signore.» All’interno della stanza c’era il suo vice, aveva la barba non rasata, indossava jeans e una giacca a vento sopra una camicia aperta. Scambiatisi un breve cenno di saluto Elston andò al punto: «Un’ora e mezzo fa, Simon Sherling mi ha fatto saltare dal letto. Ha affermato che gli inglesi sono dettagliatamente a conoscenza sia di Freedom, sia della missione del Baton Rouge. Se le loro informazioni sono esatte, ci hanno preso in contropiede bruciando i tempi facendoci fare una figura di merda!» «Meno di due ore fa, ho ricevuto a casa via fax la copia inviata dall’ammiraglio Granger a Langley», il giudice tirò fuori un foglio da una cartellina, l’originale era stato scritto a mano in stampatello, lo porse all’altro. «Come può essere accaduto?» chiese infine Elston un minuto dopo, alzando lo sguardo dal foglio con visibile sgomento. «Proprio non saprei… evidentemente, i loro servizi segreti sono più efficienti dei nostri…» rispose Maxwell, con tagliente ironia. «Bisognerà giustificarci con il presidente.» «Questo sarà compito mio! Ora pensiamo a risolvere i casini che si stanno profilando nel Mediterraneo.» In quel momento comparve il Segretario di Stato e di lì a qualche minuto entrarono gli altri.
Capitolo XIX
Sul tavolo metallico c’era il tabulato con una serie di punti che si snodavano sulla carta. Sotto ogni punto, erano indicate in piccoli caratteri le coordinate del rilevamento, data, ora di Greenwich e velocità che sulla scia di Freedom l’unità aveva assunto. Il tenente Harvey affermò: «Dal momento dell’aggancio sul Mar di Norvegia, la media si è aggirata intorno ai tredici-quattordici nodi orari! Qui, sul Golfo di Biscaglia, ha impresso un’accelerazione, assumendo e poi mantenendo una media tra i diciannove e i venti nodi, molto per un cargo di quel tipo, quasi al limite tenuta macchine. Quest’andatura è stata pressoché costante fino a ieri mattina, fino a 36° Latitudine Nord, 21° 25’ Longitudine Est, andando poi diminuendo, fino a fermarsi ieri nella tarda serata qui, a 35° 30’ Latitudine Nord, 22° 45’ Longitudine Est, a sud di capo Matapàn. Quando ha ripreso a navigare, ha virato di quarantacinque gradi a nord e ora, a una media di cinque nodi orari, sembra condurci verso il Pireo o in qualche piccolo porto nelle vicinanze. – Harvey alzò gli occhi dallo stampato – Da notare comandante, che in considerazione della rotta seguita fino a ieri, tale virata non è da manuale.» «Le sue conclusioni, Signor Harvey? » «La conclusione che se ne può trarre è che abbia cambiato rotta di destinazione per dirigersi in qualche porto a riparare le proprie avarie.» Il comandante scosse la testa. «Non credo proprio! È nave clandestina con carico molto particolare e dai rilevamenti non abbiamo riscontrato comunicazioni. Signor Snow, tracci la proiezione della rotta seguita fino ieri mattina.» Poco dopo erano tutti in sala operativa. Sulla tastiera accanto al tavolo di carteggio, l’ufficiale inserì alcuni dati sul computer, mise un foglio trasparente sopra il cristallo e con riga e pennarello tracciò due linee. «La proiezione si divide in due, la prima porta verso il Dodecaneso per andare in uno degli innumerevoli piccoli porti della bassa Turchia o nel Mediterraneo sud orientale, verso le coste del Libano o della Siria. L’altra prosegue verso nord-est, attraverso le Cicladi per spingersi nell’alto Egeo e lo Stretto dei Dardanelli.» «Qual è il differenziale di distanza tra il punto di ieri notte e il Pireo, rispetto alle coste della Turchia?»
Snow trafficò di nuovo sulla tastiera. «Grossomodo la stessa, il Pireo è poco più vicino.» «Mi dia l’esatta proiezione della linea di galleggiamento assunta da Freedom durante la posizione di stallo.» L’infaticabile ufficiale di rotta batté sulla tastiera una sequenza di caratteri, all’istante apparve sul monitor una linea bianca, seguita da una tratteggiata che finiva con un punto rosso. «La linea di galleggiamento di Freedom era sull’esatta proiezione della nostra prua, costantemente corretta dal BC-10. Proiezione, 40° nord-est, rotta alto Egeo» riferì l’ufficiale. In quel momento gracchiò l’interfono. «Da sala comunicazioni a comandante.» Flitcher alzò la vicina cornetta. «Sono io!» «Un messaggio da Norfolk via radio ELF, signore. Prefisso Z precedenza flash!» «È in codice?» «Sì signore, in cifra specifica.» «Decifratelo e portatelo subito in sala operativa.» Poco dopo, letto il messaggio, come in preda ad un improvviso raptus, la flemma e il bon ton del comandante Flitcher parvero infrangersi; sbatté la tazza metallica mezza piena di caffè sul piano del tavolo e, rivolto al secondo, seccamente affermò: «Andiamo Martinez!» gli altri si guardarono ammutoliti. Ora i due erano di nuovo nel quadrato. Munito di lente, Flitcher osservava attentamente due distinte foto della poppa di Freedom, una era tra quelle riprese sul Mar di Norvegia, l’altra ripresa alcune ore prima. La fronte era madida di sudore quando, alzando la testa, chiese al secondo di porgergli un doppio decimetro. «Fregati! – urlò poco dopo, sbattendo violentemente il righello sul tavolo – Fregati come gli ultimi dei dilettanti.»
«Intende forse dire…» L’altro, quasi urlando, esclamò: «Senza forse Martinez! La nave che ora abbiamo davanti non è Freedom, essa si è tranquillamente allontanata la scorsa notte. Questa è una nave civetta, capisce? I disturbi non erano un branco di delfini ma un’azione effettuata per confondere gli echi sonar!» «Come può essere accaduto?» «Osservi attentamente queste foto, ambedue sono state scattate a due miglia di distanza ed entrambe con un’inquadratura di centocinquanta ingrandimenti.» Attraverso la lente, il secondo notò che la prima mostrava alcune screpolature sulla vernice della poppa, mentre nella seconda la poppa sembrava appena verniciata. Prese in esame entrambe le nere scritte del nome; sulla prima la scritta Freedom appariva perfettamente orizzontale, mentre nell’altra era leggermente inclinata a destra. Misurò le loro lunghezze col doppio decimetro: sessantadue millimetri la prima, contro sessantanove della seconda. Alzò lo sguardo. «È incredibile.» «Incredibile, ma vero.» «Ma… la radioattività?» «Al diavolo la radioattività! È evidente che è stata una manovra studiata nei minimi dettagli, molti materiali sono radioattivi, si è trattato solo di dosare il carico.» «Ecco perché i segnali SAPS erano confusi, il BC-10 era disturbato da anomalie prodotte artificialmente.» «Sono riusciti a ingannare perfino un computer da cinquanta milioni di dollari. Portiamoci a quota periscopio e su l’antenna UHF. Appena in posizione, faccia trasmettere un messaggio via satellite a Norfolk, prefisso “Z” precedenza flash, mettendo in chiaro l’accaduto. Specifichi inoltre che ci apprestiamo ad abbandonare l’unità civetta, inoltrandoci nell’alto Egeo nel tentativo di riagganciare la vera Freedom.»
«L’alto Egeo? È una scommessa.» «Non è una scommessa, Martinez. La nave deve aver seguito la rotta in linea con la proiezione del proprio asse di galleggiamento, diversamente entro un raggio di diverse miglia l’avremmo scoperta. La posizione assunta dalle due navi era sia di copertura per la civetta, sia la rotta finale di Freedom. Capisce?» Il secondo prese una matita, fece due calcoli a mano, infine alzò lo sguardo e fissando il comandante, fece: «Non vorrei assumere un atteggiamento riduttivo, ma non la raggiungeremo mai, comandante. Sono le ore 15, ha quasi sedici ore di vantaggio, ammesso che sia diretta nella più lontana delle coste del Mar Nero, anche assumendo che mantenga una media di sedici nodi orari, è impossibile…» «A meno di ordini contrari noi non molliamo! Chiaro?» urlò Flitcher, interrompendo l’altro. Ora i due ufficiali erano davanti a un monitor. Il secondo batté la punta della matita al centro dello schermo. «Il punto meno profondo del Bosforo è qui, a Istanbul ma sufficiente per attraversarlo in immersione. Il problema sarà il traffico che troveremo sopra.» «Lo attraverseremo silenziosamente, con le macchine al minimo, scivolando come un’anguilla. – il comandante alzò la cornetta e pigiò il tasto nove – Comandante a direttore di macchine.» Rispose la voce del tenente Ivo Zanni. «Agli ordini signore.» «Signor Zanni, al mio ordine, reattore al cento per cento.» «Ma comandante, non…» «Non è possibile?» «Sì certo, ma…non consigliabile.» «Non discuta Zanni! Cento per cento del regime al mio ordine.» Si rivolse di nuovo a Martinez. «Trasmesso il messaggio, immergiamoci a centocinquanta piedi con rotta, est, nord-est, che tutti gli apparati di rilevamento siano attivi.»
«Comandante, mi permetto di far notare che…» L’altro mozzò la frase: «Legga il messaggio arrivato pochi minuti fa, Martinez.»
Z51365 62 ZOLK SEGRETISSIMO BOA DA: COMSUBLANT A: USS BATON ROUGE INFO: CINCLANK FLT
IMMEDIATA ALLERTA!
1. PUNTO: 35°.30’ LAT. Nord – 22°.45’ LONG. EST. 2. ORE NOTTURNE DATA ODIERNA TEMPO MEDITERRANEO. PREVISTO SCAMBIO TRA FREEDOM E UNITÁ GEMELLA CON STESSO NOME MEDESIMA BANDIERA. PREVISTO FUTURO: NOME GIRASOLE, BANDIERA PANAMENSE. 3. INTERVENIRE COME DA ORDINI OPERATIVI! 4. INIZIO AZIONE: DAL MOMENTO RICEZIONE MESSAGGIO A DISCREZIONE COMANDO UNITÁ. 5. IMPERATIVO: COMPLETA, VISIVA AZIONE DOCUMENTABILE 6. DURANTE ORE NOTTURNE PREVISTO ARRIVO UNITÁ SESTA FLOTTA.
CONSEGNA CARICO, EQUIPAGGIO ED EVENTUALE CARGO. FINE FINE FINE #0000#
Il secondo alzò gli occhi dal foglio e amaramente commentò: «Siamo stati avvertiti con ventiquattr’ore di ritardo.» «Imbecilli… branco d’imbecilli» affermò mestamente Flitcher, alzando appena gli occhi. Subito dopo a voce bassa e stanca, confermò: «Faccia inviare il messaggio e inoltriamoci nell’Egeo.»
La differenza di Latitudine si faceva sentire. A Tbilisi quel primo pomeriggio era caldo e il fetore della decomposizione dei rifiuti di ogni genere, tipico delle città mediorientali, saltava di colpo alle narici. Aquila non aveva incontrato difficoltà al controllo aporti del sudicio aeroporto, essendo i suoi documenti risultati in regola. Appena fuori della dogana, due uomini di giovane aspetto, con indosso abiti leggeri, gli si avvicinarono. «Mister Oscar Baldi?» chiese uno con accento very Britsh. «Sono io!» Entrambi i funzionari presentarono il cartellino di riconoscimento. «Siamo del locale Consolato britannico, la stavamo attendendo.» A distanza di una quindicina di metri, due individui con i baffoni alla georgiana osservavano attentamente i eggeri in uscita dall’area controllo visti d’ingresso. Alla comparsa di quello straniero con la pesante giacca a vento e barba non rasata, uno dei due, diede una leggera gomitata all’altro. Durante il percorso, lungo la scalcinata strada in parte a sterro e costellata di buche, Aquila seduto sul sedile posteriore della Ford si appisolò, troppo stanco per notare che l’auto era seguita da una Fiat Punto. Giunto al Consolato, prima di parlare con chiunque, chiese di dormire qualche ora. Fu condotto in una stanza modestamente arredata con attiguo servizio, locale che a volte fungeva da
foresteria per qualche modesto diplomatico di aggio.
In quel momento l’ex Freedom, diventata ora Girasole, scivolava come una freccia fendendo le acque dell’alto Egeo. Il guercio sbirciò l’orologio: le 16.30 ore locali. «Dove ci troviamo esattamente, colonnello?» Lo spetsnaz abbassò lo sguardo sulla carta nautica. «Circa quaranta miglia a sud dell’isola di Lemmo. Seddülbahir non è lontanissima, con quest’andatura imboccheremo i Dardanelli tra meno di tre ore.» «Dobbiamo evitare di dare nell’occhio, sarà opportuno attraversare il lungo stretto nella tenebra a sei, sette nodi orari. Raggiungeremo il Mar di Marmara nella tarda nottata e doppieremo il Bosforo nel primo mattino. – il guercio attivò l’interfono – Oleg, come andiamo col carburante?» «Non ci sono problemi. Stiamo dando fondo ai serbatoi principali, ma abbiamo ancora la scorta intatta.» «Bene! Al momento portiamoci a dodici nodi orari.»
Nel Mediterraneo centrale, duecento miglia a est dell’isola di Malta, sulla pista del ponte della portaerei Roosevelt, l’aereo per l’intercettazione e disturbo elettronico Grumman E2-C Hawkeye, aveva le due turboeliche Allison C56-A425 da 4910 cavalli al massimo dei giri. Tra il frastuono delle eliche e vortici d’aria, un uomo in tuta grigia davanti al portello al centro della carlinga porgeva a uno dei cinque membri dell’equipaggio una scatola nera. L’uomo in tuta urlò: «È già tarata, basta inserire la sonda in un qualsiasi foro per antenna, in basso sulla carlinga. – gli ò un’asta metallica – Tutto OK?» fece. L’altro, dopo aver posato scatola e sonda si sporse dal portello e, con i capelli al vento, alzò il pollice destro urlando: «OK!» La scatola era un rivelatore RD, analogo a quello montato sui sommergibili nucleari per l’individuazione di eventuali scie radioattive lasciate dalle scorie dei reattori nucleari di altri sottomarini.
A Mosca era già buio. In quel momento i primi fiocchi di nevischio dell’inverno ormai alle porte, facevano la loro comparsa. Nella stanza la pesante tenda era scostata e le persiane del finestrone semiaperte. Il pulsare dell’insegna al neon, dall’altro lato della strada, a tratti irradiava di luce rossastra la faccia dell’uomo, ponendo spettralmente in risalto il diabolico ghigno da iena. Gumayev, ritto in piedi davanti alla parete, batté leggermente l’indice sulla carta geografica. Si voltò verso Krušenko. «Come volevasi dimostrare. Il nostro uomo è sbarcato a Tbilisi e si è infilato nel Consolato britannico. La Georgia non è Mosca, ora non può più sfuggirci.»
A Washington erano le dieci del mattino. Giù nella sala situazioni, i musi erano lunghi. Al disorientamento causato dalle informazioni ricevute da Londra, qualche ora dopo si era aggiunta la tremenda doccia arrivata dal Baton Rouge, creando tra i presenti sfiducia e frustrazione. Era stato urgentemente chiamato a partecipare alla riunione anche l’ammiraglio Derick Granger il quale, partito in elicottero da Norfolk, era arrivato meno di mezz’ora prima. Ora stava parlando il coriaceo Presidente del Comitato dei Capi di Stato Maggiore. «Alla luce dell’ultimo messaggio pervenutoci dal Baton Rouge, sembra che anche i servizi segreti britannici, come i nostri, abbiano fatto cilecca.» La frecciata contro la CIA e i servizi segreti della marina era dirompente. Maxwell ed Elston tacquero, rispose Granger. «Il loro non lo definirei un fiasco, generale. Le informazioni trasmesse dall’ammiraglio Charles Bright erano perfette, basti pensare all’esattezza del punto indicatoci.» «Probabilmente, i russi si sono accorti fin dall’inizio di essere seguiti e al momento opportuno hanno attuato un’azione di depistaggio» affermò il generale Gray, ponendosi sulla lunghezza d’onda del superiore Grass. Rispose nuovamente Granger. «Non sono d’accordo! Il comandante Flitcher non è un pivello, ha un curriculum di tutto rispetto e non credo si sia fatto scoprire. Evidentemente, generale, se ciò è potuto accadere, è perché la manovra di sostituzione era stata bene architettata, troppo per pensare che fosse stata buttata
giù alla rinfusa in quattro e quattr’otto, basti pensare alla nave civetta. È evidente che essa faceva parte del piano dei trafugatori; un piano cautelativo di depistaggio che si sarebbe dovuto attuare in un determinato punto, indipendentemente dal sapere di essere o no seguiti, e questo nessuno poteva immaginarlo a priori. Gli inglesi ci sono arrivati, ma purtroppo con ventiquattro ore di ritardo.» Ma Gray non mollava: «In ogni caso, sono state commesse delle leggerezze. Tre giorni fa da un satellite ci pervennero delle avvisaglie, era sufficiente interpretare quelle informazioni.» «A cosa si riferisce, generale?» domandò il Segretario di Stato. «Martedì scorso, da Norfolk, c’è pervenuta un’interessante comunicazione. Uno dei due satelliti lanciati per localizzare Freedom, esattamente il secondo, ha rilevato due sorgenti radioattive di pari intensità, una nel Mediterraneo occidentale, l’altra al centro dell’Egeo e questo per tre aggi. Da notare che, fin dal secondo aggio, le rilevazioni indicavano che le due rotte erano convergenti verso il centro del Mediterraneo. Una sorgente era Freedom, l’altra, evidentemente, – sbirciò un foglio – questo Girasole.» Intervenne il dottor Elston. «Rammento che finora quei due satelliti hanno rilevato moltissime sorgenti radioattive.» «Sì! Ma nessuna d’intensità analoga all’altra e uguali a quella di Freedom» replicò Gray. Rispose il vice ammiraglio Wilde, non smentendo la fama di uomo che non le mandava a dire. «Queste sono speculazioni col senno del poi. Freedom era tallonata dal Baton Rouge con il quale il comando della flotta subacquea è in normale, costante contatto. Nessuno poteva immaginare che due sorgenti distanti qualche migliaio di miglia venissero a contatto scambiandosi. Desidero inoltre porre in rilievo che ognuno di noi ha ricevuto quelle informative, ma nessuno ha sollevato il problema; evidentemente nessuno dei signori strateghi poteva immaginare una correlazione in questo parallelismo.» Il generale Gray, tacque. «Calma signori! Non stiamo cercando un capo espiatorio» puntualizzò il Consigliere del Presidente.
Parlò il Segretario di Stato: «Al momento, il problema è rintracciare e neutralizzare quella nave. Non possiamo spostare di nuovo un satellite fotografico, inviandolo da quelle parti?» L’ammiraglio Granger fece cenno di diniego. «Il problema è caratterizzato dai tempi, sono stretti. Certo, sarebbe possibile, ma dovremmo conoscere le coordinate delle sorgenti radioattive e quindi il punto da riprendere. Per far questo, bisognerebbe modificare le orbite di quei satelliti W.r.r.d le quali sono fisse, non floating come quelle dei satelliti fotografici e altri, sempre pronti ad essere spostati da un punto all’altro. Variare le orbite dei W.r.r.d, programmandone delle nuove, richiederebbe un minimo di dieci, dodici ore, ammesso di centrare poi il bersaglio nelle prime. A questo proposito, un paio d’ore fa a Norfolk, poco prima di partire, appena ricevuto dal Comsublan il messaggio del Baton Rouge, mi sono posto in contatto con l’ammiraglio Fredly della sesta flotta! Egli ha fatto alzare un Hawkeye per una vasta ricognizione sull’Egeo, spingendolo fino al Mar di Marmara. Presto dovremmo conoscere l’esito di questa ricerca.» «Perché sul Mar Egeo?» chiese ancora Grass. «Perché il comandante Flitcher ha deciso di spingersi in quella direzione ed egli è persona avveduta.» Stava per parlare il Consigliere del Presidente quando il telefono posto alla destra del Segretario di Stato squillò. «È per lei, da Norfolk» fece quest’ultimo, rivolto a Granger. ati alcuni minuti, l’ammiraglio abbassò la cornetta, alzò gli occhi dagli appunti testé presi. «L’Hawkeye ha localizzato Girasole dieci minuti fa. I valori di radioattività delle sorgenti corrispondono, in questo momento si trova…» «Non sarà la nave fasulla?» interloquì il duro Grass. «No generale! Se lei mi avesse lasciato finire, avrei concluso affermando che in questo momento essa si trova… – sbirciò gli appunti. – a quindici miglia dallo Stretto dei Dardanelli, esattamente a 39° 55’ Latitudine Nord e 26° Longitudine Est. Chiaramente, essa non può essere la nave civetta che fino a qualche ora fa era poco sopra Creta. Il comandante Flitcher ha visto giusto, affermando nel messaggio che l’attuale Girasole, con ogni probabilità, si sarebbe spinta a nord dell’Egeo.»
Prese la parola Elston. «Queste notizie squarciano un sipario sullo sfondo dell’operazione Gengis Khan, ponendo in risalto molte cose, facendo emergere i nostri peggiori sospetti.» «Chiarisci per favore, Alan» chiese il Segretario di Stato. «Dal momento che Freedom è entrata nel Mediterraneo, a Langley gli analisti della divisione analisi e situazioni stabilirono che la meta doveva essere una delle quattro zone calde di quella vasta area di Mondo, Albania o Montenegro, possibilità remote; un porto del Libano o della Siria, circa il venti per cento; attraverso il Canale di Suez e il Mar Rosso doppiare lo Stretto di Aden per lo Yemen o Golfo Arabico e dirigersi sulle coste dell’Iran, Iraq o spingersi a nord del Mare Arabico, possibilità queste intorno al venticinque, ventotto per cento; la quarta zona era la Costa orientale del Mar Nero a ridosso del Caucaso, possibilità valutata intorno al cinquanta per cento.» «È stato fatto trapelare qualcosa al Mossad{55}?» chiese il Segretario di Stato, interrompendo Elston. «Non siamo scemi, Simon. – rispose il giudice Maxwell – Se avessimo rivelato indiscrezioni agli Israeliani, quelli, senza andare tanto per il sottile, avrebbero steso un velo pietoso, eliminando il potenziale pericolo colando a picco la nave con un’azione aerea in alto mare.» «Certo… certamente, George. Prego, Alan, vai avanti.» «Anche se non conosciamo il porto di destinazione, alla luce di queste nuove possiamo considerare certo che la nave segua la rotta verso la quarta area, ciò chiarisce molti lati oscuri riguardo alla sparizione degli SS-20 e all’assoluto silenzio sia del governo russo, sia dei loro servizi di sicurezza e di controspionaggio. Appare chiaro che, fin dall’inizio, il SIS britannico aveva informazioni migliori e più complete delle nostre, riguardo a Gengis Khan, il che può suonare strano, ma lo è solo in apparenza. L’MI-6 adottò verso l’allora URSS, una linea per certi versi simile a quella dell’ex KGB. Sistema che potremmo definire di lenta penetrazione. Durante il periodo della Guerra Fredda e più recentemente nel decennio che va dall’80 al ’90, è certo che riuscì a piazzare qualche importante talpa in seno agli allora apparati sovietici. Chiaramente, chi ora ha informato l’MI6 non può che essere una di quelle loro spie. Con la rotta per il Mar Nero viene meno l’ipotesi di una ruberia su
commissione ordinata da qualche Stato bandito per il tramite delle locali mafie, com’è da scartare l’ipotesi di movimenti in lotta nelle aree calde o organizzazioni terroristiche islamiche. Diversamente, come avrebbe potuto questa loro talpa, presumibilmente inserita nei gangli dello Stato, sapere del trafugamento e i servizi segreti e di sicurezza russi, no? L’attuale rotta conferma le nostre convinzioni secondo cui Gengis Khan è stata ideata e condotta da gruppi occulti, molto ben organizzati all’interno delle loro maglie istituzionali. Ciò spiegherebbe sia il perché a Mosca quel colloquio segreto si è svolto in un importante edificio istituzionale, sia l’abilità e la preparazione che la scorsa notte gli equipaggi di quelle navi hanno dimostrato nel depistare il Baton Rouge. A questo punto, tutto lascia pensare di essere alla presenza di possibili, traumatici capovolgimenti che hanno come sfondo la Cecenia.» Intervenne Simon Sherling. «Questa destinazione è la prova dei sospetti che ognuno di noi ha avuto fin dall’inizio di quest’intrigo e di cui anche il presidente è convinto. Avremmo preferito risolvere la faccenda in silenzio, senza traumi dopo aver sventato il pericolo, ma visto la piega che la situazione sta prendendo, oggi stesso proporrò di convocare l’ambasciatore russo per la mattinata di domenica.» «Stando così le cose, sarebbe opportuno avvertire gli inglesi dell’accaduto, forse possono aiutarci» affermò Grass. «Sicuro! – fece Granger – Avvertiremo senz’altro gli inglesi anche per smorzare la loro boria facendo loro presente che le informazioni forniteci erano parziali. Quanto ad aiutarci, da quei ruffiani, offerte di collaborazione non ne abbiamo ancora ricevute…» «Ci illustri la nuova situazione, generale» chiese il Segretario di Stato, rivolto a Gray. L’ufficiale di collegamento aprì un contenitore per diapositive posto lì a fianco, cercò quella giusta e la infilò nel proiettore. L’inquadratura andava dal Mediterraneo orientale fino a coprire tutte le coste del Mar Nero. Il brigadier generale osservò attentamente l’immagine per quasi un minuto, infine fece: «Perdonate l’espressione colorita signori; siamo in un gran casino. Osservando il percorso fatto fin qui dalla nave, a colpo d’occhio salta fuori che lo scambio è avvenuto in un punto magistralmente calcolato. Se fosse stato anche di poco spostato più a ovest, avremmo avuto possibilità di recupero, ma così a est, ci ha
spiazzato neutralizzandoci. Ora sta entrando in acque non amiche e il Baton Rouge non potrà raggiungerla.» Il generale Grass fece notare: «La Turchia fa parte della NATO, abbiamo diverse basi aeree laggiù. Data la particolare situazione venutasi a creare, potremmo far decollare da una di esse due F-18 e affondare quel mercantile.» Stava per rispondere Gray, ma il Consigliere del Presidente lo prevenne: «Certo generale, sarebbe la soluzione definitiva, ma fino all’ultimo dobbiamo tentare di documentare il carico di quella nave e asportare le testate dei suoi missili.» «Che unità abbiamo in quelle acque?» chiese di nuovo Sherling, rivolto ai responsabili del controspionaggio della marina. Granger fece un cenno al vice ammiraglio Wilde che subito tirò fuori un foglio dalla cartellina. «Al momento, nel porto turco di Trabzon sul Mar Nero, sono alla fonda un paio di nostri cacciatorpediniere attrezzati con siluri e missili antinave. Fanno parte delle forze NATO di stanza in Turchia» «Sarebbe possibile farli salpare con discrezione, senza muovere polvere nei locali comandi NATO?» Wilde tirò le labbra. «È cosa insolita. Anche se nostre unità, sono in forza all’Alleanza Atlantica. Pur tuttavia, credo che in un paio d’ore potremo sbrogliare la matassa. Dovremmo inventarci qualcosa e chiedere l’autorizzazione al comando NATO in Turchia per farle salpare. Subito dopo ai rispettivi comandanti, dovremmo inviare via satellite gli ordini operativi siglati tripla S.» «Può illustrarci un eventuale piano?» Wilde si alzo, si diresse di fianco al proiettore e puntò l’indicatore sulla parte orientale del Mar Nero. «L’intera costa, dal Mar d’Azov fino ai confini con la Georgia, è lunga circa trecento ottanta chilometri ma la distanza tra i due porti estremi è di circa duecentocinquanta. I porti significativi sono cinque, il primo quassù a nord è Anapa, scendendo abbiamo Novorossijsk, Golendžik, Tuapse e infine Soči, ai confini con la Georgia. Inviando le due unità, una ad Anapa e l’altra a Soči, facendogli pattugliare la costa a velocità sostenuta con rotte convergenti a trenta miglia al largo, quasi certamente riuscirebbero a incrociare Girasole. Ammesso che questa riuscisse a are attraverso la maglia, non potrebbe però sfuggire ai loro radar d’altura. Considerando la rapidità con cui si
muovono i cacciatorpediniere, essi avrebbero trenta miglia di mare per raggiungerla e bloccarla, più che sufficienti prima che attracchi. Inoltre, come suggerito dal generale Grass, dal momento del rilevamento potrebbero decollare due F-18 da una base NATO per dare man forte alle unità e, al limite, anche se Girasole riuscisse a giungere davanti al molo d’attracco, affondarla! Pongo in rilievo che le acque in quella fascia di mare non sono molto profonde, una ripresa subacquea del carico, unitamente all’eventuale recupero dello stesso, sarebbe cosa fattibile.» Sherling si rivolse di nuovo a Gray. «Decollando dalla più vicina base, quanto tempo occorrerebbe ai due F-18 per raggiungere le acque di pattugliamento?» «In precedenza, volevo esplicitare che non abbiamo caccia bombardieri o intercettatori in quella zona, però abbiamo la Roosevelt che incrocia nel Mediterraneo orientale. Da essa potrebbero subito decollare due F-18 armati di missili antinave AGM 84 “Harpon”.» «Subito? Autonomia e tempi? » «Mandandoli in momentaneo parcheggio in una base NATO turca, ai confini con l’Iraq, da lì impiegherebbero circa trenta-quaranta minuti per coprire l’intera costa. Considerando una ventina di nodi orari la media limite di Girasole, nel momento che essa fosse inquadrata nei radar dei cacciatorpediniere, gli F-18 sarebbero ampiamente nei tempi. Da notare che i missili Harpon AGM-84 sono operativi su un bersaglio navale entro un raggio di cento chilometri!» Simon Sherling volse lo sguardo verso il Consigliere del Presidente che fece ripetuti segni d’assenso. «Bene signori! Seguiremo questo piano, del resto non molto difforme dal precedente. In ogni caso, arrivati a questo punto della crisi, ritengo che la convocazione dell’ambasciatore russo per domenica si sia resa inevitabile.» Non ci furono commenti. «Bisognerà richiamare quel sottomarino» disse infine il Segretario di Stato, rivolto a Granger. «No! Il Baton Rouge lasciamolo andare per la propria strada e diamo finalmente al comandante Flitcher carta bianca» replicò l’ammiraglio.
Capitolo XX
A poppa l’orizzonte inghiottiva i guizzi sanguigni della corona solare. In lontananza nubi color arancio, forate qua e là da fasci d’intenso azzurro, sfumavano le calme acque dell’alto Egeo di un tenue turchese. Come una pennellata, la bianca scia lasciata da Girasole sembrava voler dividere in due quell’emozionante affresco. Il tenente colonnello, ritto in piedi dietro i plexiglas, col potente binocolo osservava il faro di Seddülbahir, che si ergeva in cima al ripido costone, all’ingresso del leggendario Stretto dei Dardanelli. Spostò l’angolo della visuale, focalizzando le lenti; molto lontano, sopra la roccia della sponda destra, a tratti s’intravedeva una parte dei ruderi della vecchia città di Ecebat, dietro la quale era appena visibile parte del muro della fortezza di Kilitbahir, dove nel 1915, una guarnigione turca al comando del generale tedesco, Lima von Sanders, tenne testa all’intera squadra navale anglo-se, respingendola. «Ci siamo, comandante.» Fece rivolto al guercio. «Siamo in anticipo, tra non molto sarà buio pesto. – rispose il barbuto che subito parlò sull’interfono – Oleg, riduciamo le macchine. Portiamoci a sette nodi orari e alla via così fino a nuovo ordine.»
A Mosca erano le 20. Al secondo piano dell’edificio sede dell’Istituto di radiotecnica ed elettro-comunicazioni, le luci all’interno dell’ufficio del dottor Krulyov erano ancora accese. Il matematico alzò lo sguardo dal tracciato del modulo continuo, si tolse gli occhiali massaggiandosi gli occhi rossi per la stanchezza. Riassettatosi, s’inoltrò a leggere la relazione sulla sintesi dell’elaborato del computer. Alcuni minuti dopo alzò la cornetta del telefono.» «Siamo certi Ljudin che è proprio il merlo?» chiese poco dopo il maggiore Kaminskji. «Sì. Le increspature sono state amplificate, calcolati gli intervalli e tolte le armoniche, è stato coniato un software che ha comparato gli impulsi con quei pochi delle precedenti trasmissioni. La risposta del computer è categorica: si
tratta della stessa trasmittente. Non solo, ma ha anche calcolato il numero dei caratteri inviati e la direzione da cui proveniva la distorsione.» Il maggiore rifletté un momento. «Quanti caratteri ha trasmesso?» «Sono ottocentotre impulsi. Il computer ha considerato una media di venti caratteri a impulso, pari a un totale di sedicimila, sessanta caratteri.» «Un romanzo! Da dove credi abbia trasmesso?» «Da dove non lo sappiamo, ma possiamo arrivarci. Per mezzo degli algoritmi goniometrici infilati nel software, il computer assicura che le distorsioni vengono da est. A est, non lontanissimo, esiste solo un posto con antenne così potenti da distorcere in tal modo quei segnali; le parabole del centro telecomunicazioni militari di Pučez.» «Pučez… sul lago Novogorodskoie, non lontano da Nižni. Dobbiamo avvertire immediatamente il vice direttore.»
A Londra erano le 17.30. Le acque del Tamigi riverberavano le luci di Westminster già illuminata, riflettendole sui vetri fumé della Century house, donando a Vauxhall Cross una vista da cartolina illustrata. In quel momento nell’ufficio di “C” il monitor era e lo schermo a cristalli liquidi inquadrava l’intera area del Mar Nero. Sir David Collins indicò un messaggio siglato top secret arrivato poco prima da Langley, si rivolse ai due che gli erano di fronte. «Nel Mediterraneo, quella che il Camminatore ha chiamato variante di mare è avvenuta con ventiquattrore di anticipo! Lo scambio si è verificato la scorsa notte senza che il loro sottomarino si accorgesse di nulla, sparigliando le carte mandando gli yankees fuori dei gangheri, – they have been flying off the handle, letteralmente affermò – considerando che quella loro unità è una classe Los Angeles, si evince che l’impresa di depistaggio è stata a dir poco notevole.» «Abbiamo a che fare con gente astuta come il demonio» fece eco sir Charles Bright. «Riguardo al successo dei nostri cugini nel Mediterraneo, fin da stamani tu avevi delle riserve, Charles» replicò “C”
«Sapendo di che panni vestono coloro con cui abbiamo a che fare, le riserve erano un obbligo. Per ragioni cautelative, qualcuno di quel comitato avrà segretamente fatto spostare la data.» «Non si fidano neanche di loro stessi, così funziona il più delle volte in quegli ambienti» affermò il capo del dipartimento operazioni. «Ora tocca a noi entrare in ballo. È tutto pronto?» chiese Bright, rivolto a quest’ultimo. «Sì signore. In questo momento la squadra dei Royal commandos del 539° assault Squadron è in attesa a Plymouth, alla base di Turnchapel. In quell’aeroporto, un Hercules C130 è pronto a decollare per Smirne al nostro via. Laggiù, però, abbiamo qualche problema logistico.» «Problema logistico?» «Nel primo pomeriggio, dopo che lei ha parlato con Downing street, abbiamo ricevuto una telefonata dall’ammiragliato; hanno confermato che la Royal Navy nel Mar Nero non ha unità.» «Nessuna?» «In quelle acque, no! Delle navi le abbiamo in alcune basi NATO turche nell’Egeo, troppo distanti.» «Quindi, quella squadra non disporrà di un appoggio logistico.» «No signore! – confermò Arrold Barlow che, avvicinandosi al monitor, indicò un punto sul Mar Nero – Il volo da Smirne a laggiù è di oltre milletrecento chilometri, i commandos devono avere un’autonomia che consenta loro, oltre l’andata e il ritorno, anche gli spostamenti in mare. L’elicottero da trasporto e ammaraggio più grande che abbiamo in quella vasta area è un Sikorsky CH53E Sea Dragon Super Stallion, con un’autonomia di duemilasettantacinque chilometri.» «Si trova?» chiese, “C” «Nella base di Limassol, a Cipro.»
«Autonomia limitata per simili distanze» fece Bright. «Sì, limitata. Dal momento però, che può portare un carico di cinquanta uomini completamente equipaggiati, nel nostro caso è possibile farlo decollare per Smirne con dei serbatoi supplementari e fargli poi fare il pieno laggiù. Il locale comando di Limassol chiede se approntare questa modifica.» «Alternative?» domandò ancora l’ammiraglio. «A Smirne, la Royal Navy ha un vecchio Albatros. Con aggiunta di serbatoi supplementari potrebbe anch’esso coprire l’intero tragitto, incluso qualche spostamento.» «Non sarebbe un viaggio comodo per quei ragazzi. Ho volato in quegli idrovolanti e non sono per niente sicuri. Il carico di ritorno sarà preziosissimo, un ammaraggio o atterraggio di fortuna sarebbe cosa estremamente spiacevole. Direi senz’altro di scegliere la prima soluzione. Sì! Mandiamo quell’elicottero a Smirne» confermò l’ammiraglio Bright. «Il punto dove mandarli, Charles?» chiese “C”. Il canuto ammiraglio scosse lentamente la testa, gli acquosi occhi azzurri divennero sottili. Si rivolse di nuovo al capo del dipartimento operazioni. «Lei, Arrold, che punto sceglierebbe?» L’interpellato si avvicinò di nuovo al monitor. «Ovviamente dobbiamo assumere che Mosca ritenga Gengis Khan ancora un segreto, diversamente tutto il piano salta. In alcuni porti turchi del Mar Nero, gli americani hanno delle unità NATO; è ragionevole pensare che il dipartimento analisi e situazioni della CIA abbia scoperto la regione dove Girasole si sta dirigendo e, poiché noi non gli abbiamo rivelato il porto di destinazione, tocca stabilire se ne lo hanno saputo.» «Direi di no… dal loro messaggio traspare in chiaro che ignorano sia Soči.» affermò “C” «Allora, quasi certamente, porranno sotto controllo l’intera striscia di mare a Occidente della Cecenia. Io, il nucleo dei commandos lo dislocherei a una trentina di miglia al largo di Soči, in quel punto dovremmo intercettare Girasole prima di loro. In ogni caso, sono dell’avviso che un’azione combinata sarebbe la cosa migliore.»
«Sia chiaro Arrold, noi non siamo in competizione con loro. – affermò il capo del Secret Intelligence Service, e continuò – Forse non c’è tempo per preparare un’operazione congiunta, ma di là da questo, una simile mossa significherebbe are agli americani e alla CIA l’intero lavoro svolto dal Camminatore e fin quando l’operazione Gengis Khan non sarà stata debellata alle radici, ciò non potremo permettercelo. Condotta opinabile, forse anche discutibile sul piano etico e morale, ma al momento è la nostra linea e non possiamo agire diversamente. Tuttavia, nell’ipotesi di un nostro fallimento, immediatamente dopo chiederemo un’operazione combinata.» «In quest’operazione – affermò l’ammiraglio – gli americani hanno commesso due errori, entrambi dovuti alla loro sicurezza e supponenza e questa non è la prima volta. Non vorrei che ne stessero commettendo un terzo, il più grave. L’operazione che si presenta, oltre ad essere estremamente delicata, ha variabili dinamiche che rendono difficile stabilire a tavolino quale sia la mossa giusta. Allo stato attuale delle cose, Arrold, non sappiamo se Mosca ritenga Gengis Khan ancora un segreto, l’azione della scorsa notte tenderebbe ad escluderlo. In questa situazione di fluido tatticismo, ritengo che la cosa migliore sia quella di non prendere decisioni a priori, lasciando che siano assunte contingentemente sul campo. Poiché stiamo seguendo i suggerimenti del Camminatore, penso che la decisione più saggia sia quella di far scegliere a lui punto e momento della mossa finale. – fissò “C” – Ti vedo perplesso, David.» «Estendo quanto poc’anzi accennato ad Arrold. Prende corpo ciò che in tutti questi anni non abbiamo compreso e che forse non potevamo comprendere, ma che il Camminatore ha dimostrato di aver intuito fin dal primo momento. Sapete a cosa mi riferisco… Chiaro quindi, che la neutralizzazione di Gengis Khan non potrà permetterci di sottrarci dall’aprire antichi sarcofagi, ponendo le carte in tavola con i russi. In quest’affresco, il Camminatore assume per noi un ruolo importante, l’operazione militare si presenta rischiosa, mandarlo laggiù potrebbe significare perderlo proprio ora.» «Ho pensato a questo, sai che non si sono verificate interferenze o forzature, il piano l’ha suggerito lui. Stamani poteva tornarsene a Londra con la signora, invece di andare volontariamente a Tbilisi per partecipare alla missione. Il problema sono i mezzi non conformi alle sue richieste; Girasole ha spiazzato anche noi, non concedendoci il tempo di predisporre adeguatamente le cose. In ogni modo, nella tarda serata sarà contattato e messo al corrente. Riguardo allo specifico, David, nella deprecabile ipotesi che egli perisca nell’azione, abbiamo
tutte le carte in ordine per spiattellarle al momento opportuno davanti ai russi. – l’eccentrico ammiraglio sbirciò l’orologio. – Il tempo stringe signori, è ora di far decollare quel C130 e porsi in contatto sia con Limassol, sia con il nostro comando NATO a Smirne. – fissò i due – E che Dio ci aiuti.»
A Mosca erano le 21.30. Artmenko varcò frettolosamente la soglia del portone, pulì le scarpe inzaccherate di nevischio sullo zerbino e, quasi correndo, si diresse verso l’atrio; alcuni istanti dopo, a gran falcate, saliva due alla volta i gradini della scala a chiocciola. «Entra Ivan. Hai controllato se eri seguito?» chiese Uglanov «Questo è l’ultimo dei problemi, Vladimir Nicolayevičh.» In giacca da camera e con la pipa in bocca, l’altro fece strada. «Andiamo a parlare nello studio» disse. Poco dopo i due erano in una spaziosa stanza sobriamente arredata in stile russo ante rivoluzione; in un lato, sopra un lungo tavolo a forma di mezza luna, c’erano alcuni computer. Il padrone di casa si diresse verso un mobile bar, tirò fuori una bottiglia di vodka e riempì due bicchieri. «Rilassati Ivan Ivanovich, al telefono eri piuttosto agitato, che è successo esattamente? Hai confusamente parlato del musicista.» «Stamani alle 8, ha trasmesso un lunghissimo messaggio.» «Quegli idioti ti comunicano ora che ha trasmesso stamani?» «La trasmissione è avvenuta lontano da Mosca.» «Fuori Mosca?» Artmenko tirò fuori un foglio dalla tasca dell’impermeabile. «Questo fax, inviatomi in copia dal vicedirettore e arrivatomi a casa una quarantina di munti or sono, è la relazione che ha steso il capo divisione controllo traffico satellitare. Sembra che i segnali captati fossero molto distorti, hanno dovuto lavorarci su l’intera giornata.»
«Ebbene?» «È risultato che gli impulsi provenivano da est ed erano identici a quelli trasmessi nei giorni ati dal centro di Mosca. Non solo, ma con buona approssimazione, hanno anche stabilito quali ripetitori siano stati la causa delle distorsioni. Sembra siano quelli del centro telecomunicazioni militari di Pučez.» «Pučez, sul lago Novogorodskoie.» commentò Uglanov, corrugando la fronte nello svuotare il fornello della pipa. «Esattamente! Sai grossomodo quanti caratteri componevano il messaggio? » «Non ne ho proprio idea, Ivan.» «Sedicimila!» «Sedicimila? Equivalgono a circa una decina di pagine dattiloscritte.» «È scritto qui, Vladimir.» Artmenko allungò il foglio al collega. L’altro, lesse il fax commentando: «Incredibile… ma come avrà fatto a uscire da Mosca? Tutti gli accessi viabili, stazioni e aeroporti sono sorvegliati e le pattuglie hanno la foto di questo Ticktmann.» «Non saprei proprio…» «Lasciami pensare. Pučez non è distante dall’aeroporto di Nižni Novgorod, mi sorge il sospetto che costui abbia trasmesso dalle sue vicinanze o forse, addirittura dall’interno dello stesso scalo aeroportuale prima di partire per chissà dove.» «Lo penso anch’io. Possiamo rintracciare il volo?» «Sicuro! Lo rintracciamo subito.» Uglanov parlò un paio di minuti al telefono, scandendo per due volte il nome tedesco. Dieci minuti dopo nell’ascoltare la risposta, fissò Artmenko, abbassò la cornetta. «Finora, dall’aeroporto di Nižni Novgorod non è risultato nessun eggero in transito a nome Otto Ticktmann.»
«Strano, molto strano…» «Tutta questa faccenda è strana. L’esperienza m’insegna che tanto più le cose sono stravaganti tanto più sono marce. – Uglanov rilesse per la seconda volta il foglio del fax – Questo è entrato in Russia con più di un aporto falso, ne ha utilizzato uno in ingresso e uno diverso in uscita e non è un mafioso, il lungo messaggio lo dimostra. Abbiamo a che fare con gente con le palle quadre, Ivan Ivanovičh!» «Era ora che ti convincessi Vladimir Nicolayevičh. Il fatto che forse sia uscito dalla Russia non mi rincuora, quel messaggio potrebbe significare che ha completato la missione. Dobbiamo saperne di più.» «Possiamo far eseguire un controllo di tutti gli stranieri partiti oggi da laggiù e risalire al soggetto e alla sua destinazione.» «È una procedura lunga…» Improvvisamente il capo della FSO alzò lo sguardo al soffitto, portandosi una mano alla fronte. «Che idiota! La sua foto è su ogni nostro monitor qui a Mosca, basta collegarci con gli uffici visti di quell’aeroporto.» Il generale trafficò sulla tastiera di un computer, poco dopo sullo schermo apparve il frontespizio di un aporto con la foto dell’intestatario bene in risalto. «Eccolo qui Herr Fantomas» fece. Stava per digitare altri caratteri quando Artmenko lo bloccò. «Un momento! Questa faccia non mi è nuova, non ricordo dove, ma di sicuro da qualche parte l’ho incrociata. – si portò i polpastrelli agli occhi – Fammi pensare…se non erro, affermasti che proveniva da, da…» «Berlino.» «Berlino… e i suoi documenti?» «Lo qualificavano come giornalista, mi sembra di un quotidiano tedesco; era, sì… il Frankfurter Allgemeine.» All’istante gli occhi di Artmenko si spalancarono e, come un ebete che parla a se stesso, esclamò: «Ora ricordo! Ma sì! Questo volto lo vidi alla Butyrka.
Incredibile, allora non è morto. – poi, quasi balbettando – Questo non è tedesco, è italiano.» La voce andò in crescendo mentre goccioline di sudore spuntavano copiose sulla fronte dell’uomo. «Bisogna fare qualcosa Vladimir Nicolayevičh; dobbiamo prendere immediati provvedimenti!» «Calmati Ivan. Lo conosci? Chi è costui?» «Il più abile agente dell’MI-6 con cui avemmo a che fare. Per quattro anni tenne in scacco sia noi, sia il KGB. Ricordi il caso Amleto?» «Confusamente.» «C’era immischiato, poi non si sa come riuscì a farla franca e fu espulso. Lo credevamo morto, invece eccolo di nuovo sotto falso nome. Questo parallelismo con i fatti della scorsa settimana dimostra la certezza che costui sia qui per Gengis Khan.» «Amleto… Lasciami pensare… ricordo che lessi alcuni verbali degli interrogatori di Umarov. Per caso questo tizio andava sotto il nome di… di Camminatore?» «Esattamente! Proprio lui. Siamo tutti in pericolo. Ripeto, dobbiamo prendere immediati provvedimenti!» «Calma! Intanto cerchiamo di sapere, dove è diretto.» «A quest’ora sarà sicuramente a Londra o a Berlino. Si è fatto precedere da un lunghissimo messaggio, capisci? Girasole attraccherà a Soči nella nottata di domani o dopodomani e, poiché i tempi sono corti, li ha voluti allargare anticipando via etere i risultati della sua missione.» «Gengis Khan è un segreto ermetico. Solo noi del comitato direttivo ne conosciamo ogni dettaglio. Una fuga d’informazioni presuppone che ci sia una talpa, cosa che escludo totalmente come l’ha esclusa Petrov.» «Non capisci? Non tra noi del comitato, ma all’interno dell’organizzazione. A seguito d’informazioni ricevute a suo tempo da Londra, fin d’allora sapevamo che una loro spia si nascondeva tra le pieghe della nostra burocrazia o ambienti militari, forse in qualche Stato maggiore. Evidentemente, questa talpa o è riuscita a infiltrarsi nella nostra organizzazione o, ad avere stretti rapporti con
qualcuno di essa ed è a conoscenza del piano generale. Pensaci un attimo su.» «Balle! Viene di nuovo a galla questa talpa. La tua è una fissazione che rischia di sviarci, Ivan.» «Chiamala come vuoi, ma sono certo che sia una realtà.» Il razionale Uglanov aggrottò la fronte. «Però, se la tua teoria corrispondesse al vero, molte cose tornerebbero. Mosca è in una morsa, come avrà fatto a raggiungere la località da cui ha trasmesso?» «Al seguito di una personalità con un particolare.» «Esatto! Se è così la talpa si è data la zappa sui piedi. Ci vorrà del tempo, ma verificando i rapporti di ogni pattuglia in servizio di controllo, ne verremo a capo smascherandola.» «Certo, ma solo dopo che Girasole sarà in salvo. Ora dobbiamo pensare ad altro.» «Prima di tutto dobbiamo sapere se quel bastardo è effettivamente partito dall’aeroporto di Nižni Novgorod.» Il capo della FSO alzò la cornetta e chiamò Zitnaja ulica. Venti minuti dopo il telefono squillò di nuovo. La conversazione durò alcuni minuti, al termine Uglanov mormorò: «Il nostro uomo è partito stamani alle 10.30 da quell’aeroporto con il volo 015 Aeroflot diretto a Tbilisi. Ha presentato un aporto britannico intestato a un certo Bill Murphy, corredato da credenziali che lo qualificavano quale giornalista del quotidiano inglese Observer. Poco fa, alla dogana hanno fatto anche un controllo telematico con il registro OVIR. Risultato: sebbene il aporto avesse il visto d’ingresso timbrato dieci giorni fa a Šerementevo due, nessuno con quel nome è entrato in Russia.» «Maledetto! Siamo certi sia lui?» «Assolutamente. Hai ascoltato gli ordini impartiti prima, no? La sua immagine è stata trasmessa on-line a un terminale dell’aeroporto e là comparata sia con le foto dei aporti stranieri ati sotto lo scanner durante la giornata, sia con le riprese delle telecamere. Sembra che portasse gli occhiali, ma affermano che la faccia è quella, non hanno dubbi. Riesci a immaginare il perché di Tbilisi?»
«Lo scalo internazionale fuori della Russia più vicino a Soči.» «Esatto! » «Fin dal primo momento abbiamo preso questa faccenda alla leggera. Ne parlai a Petrov, ma anche lui, come te, era scettico. Probabilmente quei satelliti sono stati lanciati a seguito di una segnalazione della talpa, gli americani hanno informato gli inglesi, i quali, tramite l’Interscambio, hanno mandato un agente con esperienza formatasi in Russia: questo figlio di puttana! » «Quando ha trasmesso l’ultimo messaggio, la nave civetta?» Ma Artmenko troppo concentrato nei suoi pensieri, non rispose, proseguendo il soliloquio. «In questo momento, a Londra o a Washington, staranno pianificando qualche azione di sabotaggio da svolgersi durante o prima dell’attracco a Soči e il Camminatore è il loro agente sul posto. Questo spiega sia il lunghissimo messaggio, sia la sua andata a Tibilisi.» «Ripeto, Ivan: quando ha trasmesso l’ultimo messaggio la nave civetta?» «Alcune ore fa, al largo della punta est del Peloponneso.» «Qualcosa non quadra. Secondo la tua analisi, che in parte condivido, il punto focale di tutta questa faccenda è la presunta localizzazione di Freedom da parte di quei satelliti; tutto sarebbe nato da lì. Conoscendo gli americani, è impensabile che una volta individuata non l’abbiano fatta seguire. Ieri notte la variante è positivamente riuscita e ora la civetta porterebbe a zonzo l’ipotetica unità inseguitrice. Il Camminatore non poteva conoscere l’esistenza della variante, essa è nota solo a noi sei del comitato, ma stamani ha trasmesso il resoconto delle sue indagini. A questo punto perché la nave esca non è stata abbordata e neutralizzata oggi? Che aspetterebbero, avendo avuta conferma del carico e dei fini? In quest’ottica c’è un qualcosa che si accavalla, mi sfugge il ruolo di questo Camminatore. Una cosa esclude l’altra, capisci Ivanovičh? » «Non sono d’accordo! Tu conosci gli americani, io gli inglesi. Penso che il tuo errore sia quello di fondere le due entità, evidentemente corrono in parallelo e noi non abbiamo tempo per sottilizzare. Quel Robhò{56}ci ha spiazzato, dobbiamo agire in fretta e cavarcela da soli. » «Siamo con le mutande in mano, Ivan Ivanovičh. Prigionieri di noi stessi, delle
nostre regole e segretezza. Non possiamo certo mandare uno stormo di caccia o avvertire la flotta del Mar Nero a Novorossijsk, chiedendo di proteggere un mercantile panamense con, a bordo, due SS-20 pronti per un colpo di Stato.» «Però possiamo fare qualcos’altro…» «Cos’hai in mente? Intendi forse deviare il percorso?» «A questo punto, sì! Gli scali rifugio li conosciamo solo noi membri del comitato. Deviamo Girasole su Feodosija.» «È una decisione delicata, significherebbe rimandare l’attuazione della terza fase non si sa a quando. Le regole stabiliscono che una tale iniziativa deve essere presa collegialmente dal comitato. Inoltre Petrov è assente.» Artmenko quasi urlò: «All’inferno il comitato! Improvvisamente diventi cauto e ferruginoso, che ti succede? In questo momento la cosa importante è far sparire Girasole e il suo carico, non lo capisci? A Feodosija la nave sarà mimetizzata, le testate smantellate dai vettori e momentaneamente parcheggiate a bordo di qualche motosilurante nel Mar d’Azov. Petrov non rientrerà prima di domani notte e per quell’ora potrebbe esser andato tutto a puttane! Non dimentichiamo che è in gioco la vita di tutti noi, la responsabilità della seconda fase dell’operazione è nostra, siamo noi che dobbiamo prendere le opportune decisioni, no il comitato! Riguardo ai tempi, è meglio rimandare la fase esecutiva di una settimana, anche di un mese se necessario, piuttosto che finire i nostri giorni a Lefortovo o essere eliminati senza chiasso.» Uglanov si ò una mano tra i capelli, trasse un sospiro. «Non so se sia cosa saggia o, grave sciocchezza, nondimeno, visto gli avvenimenti susseguitesi, forse è il caso. Unitamente all’ordine cambio destinazione, poniamo in allerta l’equipaggio della nave. Direi inoltre di far confluire su Girasole la seconda squadra spetsnaz in attesa a Soči. Abbiamo qualche mezzo a portata di mano?» «Nel Mar d’Azov, al largo dello Stretto di Kerčenski, abbiamo un BE 12 Mail. Lo feci inviare laggiù tre giorni fa per pattugliamento marittimo e ricognizioni cautelative. Dove lo mandiamo quest’idrovolante?» Uglanov pose il dito sulla carta. «Qui, sul Mar di Marmara, nel secondo punto di variante. – indicò i computer – Hai entrambi i codici di trasmissione?»
Il ferreo generale dello spionaggio, allungò una mano nella tasca dell’impermeabile, tirò fuori due buste. «In questa c’è il codice per la satellitare e in questa, la frequenza per il BE 12.» Uglanov fissò il collega. «A questo punto…» «Sì, Vladimir Nicolayevičh… in via cautelativa, trasmettiamo mezz’ora dopo al capo dei Boyevaya un secondo messaggio in speciale codifica.»
Il Lockheed Hercules C130 da poco atterrato nella base NATO, si trovava in una pista secondaria con le luci di posizione ancora accese ed i quattro motori a turboelica Allison T56-A-15 da 4586 cavalli al minimo dei giri. Il secondo pilota pose in off i quattro switch distribuzione carburante e, qualche secondo dopo, le eliche si fermarono. Sotto la spinta della pressione idraulica, lentamente il portello posteriore si apri e dall’interno del grosso velivolo, iniziò a scivolare verso terra il robusto ponte metallico. Poco dopo, dalle viscere dell’aereo illuminate da luci rosse, uno per volta iniziarono a uscire dodici uomini in tuta nera con gli occhialoni all’infrarosso per il combattimento notturno. Il loro armamento individuale, oltre il pugnale, pistola 386 Smith & Wesson e bombe a mano offensive e al fosforo, era costituito o da una pistola mitragliatrice tedesca Heckler und Köck Mp55d6 calibro nove con cadenza di tiro di ottocento colpi al minuto, o da fucili d’assalto Remington M16 calibro 5.56 con cadenza di oltre settecento e muniti di mirino laser. Alcuni uomini, oltre lo zaino d’ordinanza con quaranta chili di equipaggiamento, ne trascinavano un secondo; chi aveva un solo zaino portava in spalla o una mitragliatrice calibro 7.62 L7A2 enfield lock da novecento colpi al minuto o, un lanciarazzi M65 Instalanza calibro 88.9 con mirino a reticolo ottico illuminato. Ognuno di loro era in possesso sia di una ricetrasmittente satellitare, sia di un sistema localizzatore G.P.S costantemente collegato al satellite; inoltre potevano comunicare reciprocamente per il tramite di una micro-ricetrasmittente a frequenza fissa, incorporata nel bavero della loro tuta da combattimento. In fila indiana, la squadra dei dodici Royal marines commandos si allontanò di un centinaio di metri, poi prese a destra e, attraversato un prato, imboccò una secondaria pista di parcheggio. Nel fievole chiarore delle lontane luci della torre di controllo, ora s’intravedevano le sette grandi pale da 8.66 metri del rotore principale del possente elicottero da trasporto. Il CH53E Sikorsky Super Stallion, con i suoi tre turbo-soffianti General Electric T64-GE-416 da quattromila cinquecento cavalli ciascuno, aveva
le ruote retrattili che poggiavano al suolo, fuoriuscendo dai galleggianti stabilizzatori d’ammaraggio di meno di mezzo metro. Quando la squadra fu presso l’elicottero, l’uomo in testa con i gradi di capitano disse: «Sistematevi a bordo e cercate di dormire ragazzi, il decollo è previsto tra non meno di quattro ore.»
Svegliatosi, Aquila aveva chiamato l’Hotel Royal Garden a Londra, chiedendo di parlare con Khlorinda Haltmann. Per circa venti minuti i due dialogarono in italiano, infine, rasserenato perché il viaggio si era svolto nel migliore dei modi e all’aeroporto aveva trovato uomini del SIS ad attenderla, decise di consumare una frugale cena a base di patate lesse e pesce bollito, infine andò di nuovo a dormire. Due ore dopo fu svegliato dal ripetuto squillo del telefono, insonnolito alzò la cornetta, sbirciò l’orologio, mezzanotte ora di Tbilisi. «C’è Londra per lei signore, è sulla linea speciale, precedenza assoluta» affermò una voce femminile. La conversazione durò trenta minuti, abbassata la cornetta e scostato il blocco degli appunti, il telefono squillò di nuovo. «Il vice console la prega di raggiungerlo nel suo studio, signore» fece la voce di prima. Aquila accese una sigaretta e si diresse nell’attiguo servizio, un’ora dopo era di ritorno, si mise di nuovo a dormire.
Il lieve ronzio andò in crescendo diventando un distinto rumore di pistoni, ora si percepiva la direzione di provenienza. All’unisono i cinque uomini, in piedi sulla spiaggia, girarono lo sguardo verso nord, i tre puntini intermittenti all’improvviso parvero esplodere, squarciando la tenebra, illuminando a giorno la nera tavola marina. L’idrovolante Beriev Be12 Čajka Mail con i fari accesi, sfrecciò lungo il litorale a pochi metri dal pelo dell’acqua; percorso circa un chilometro, si alzò, fece un intero giro e provenendo ora dalla direzione opposta, cabrò nuovamente ammarando a un centinaio di metri dalla riva. Poco dopo i due motori turboelica Ivčenko AI 200 da 4190 cavalli si spensero, il frastuono scomparve e le eliche si fermarono. Il fascio di luce ò in rassegna il materiale adagiato su alcuni teloni cerati. Lo sciabolio della torcia illuminò due lunghi contenitori di tela nera, diversi zaini rigonfi e le cassette delle munizioni e delle bombe a mano; infine, i nastri da duecentocinquanta colpi per le mitragliatrici, alcune pistole mitragliatrici
cecoslovacche UZ 61 Skorpion calibro 7.65 da ottocento colpi il minuto, dei Kalašnikov Mpikm da 7.62 e due mitragliatrici russe PK a nastro, anch’esse da 7.62. L’uomo tarchiato si rivolse a uno del gruppetto. «Siamo certi di non aver dimenticato niente, Sergej?» «Sì maggiore, ho scaricato tutto.» Il maggiore fece un cenno all’uomo indicando un punto tra la tenebra oltre la spiaggia, infine rivolto agli altri, ordinò: «Presto, carichiamo il materiale sul canotto.» Con una torcia, l’ufficiale di nome Sergej si diresse presso alcuni cespugli dov’era parcheggiato un autocarro militare Zil 131, piazzò una bomba al fosforo sotto il serbatoio del carburante e al suo fianco ne mise una dirompente, tarò il delay time di quest’ultima per un minuto e pigiò il pulsante rosso. «Tutti a terra!» urlò subito dopo, correndo a gran carriera verso il bagnasciuga. La spiaggia s’illuminò di un bianco accecante, la terra tremò e una folata d’aria calda investì i cinque, mentre la carcassa dello Zil in fiamme, volava in aria come una palla di fuoco gialla e rossa, allargandosi in ascesa estinguendosi nell’oscurità. Quindici minuti dopo, i cinque ufficiali specialisti spetsnaz erano a bordo dell’idrovolante. L’assordante rumore s’intensificò, poco dopo le fiammelle azzurrognole degli scappamenti divennero punti appena percepibili, scomparendo infine nella tenebra verso ponente.
Erano le sei e trenta, ora locale di sabato ventuno ottobre. Tra i suoni delle sirene e l’andirivieni dei vaporetti, con leggero ritardo rispetto alla tabella di marcia, Girasole doppiava Istanbul. Sulla sinistra la luce del crepuscolo mattutino rendeva visibile il quartiere di Topkapy, le cupole dei cui minareti, ancora illuminate, riverberavano sulle argentee acque del Bosforo. Più avanti, immerso in una leggera foschia, a tratti era visibile il gran ponte di Galata; come un funesto presagio, sulla destra s’intravedeva il fumo di un falò in ascesa verso l’alto. A breve la nave sarebbe uscita dal collo di bottiglia per sfociare infine nel Mar Nero. Intorno al tavolo metallico all’interno del ponte di comando, oltre al guercio e al tenente colonnello, c’era un uomo bruno e tarchiato con un’ispida barba non rasata; indossava una camicia color avana col colletto sbottonato, da cui
fuoriuscivano lunghi peli neri. I tre uomini avevano facce stanche, evidentemente reduci da una notte insonne. «È un casino, Viktor. A questo punto, c’è solo da augurarsi di portare a casa la pelle» affermò il grezzo uomo tarchiato, rivolto a quello alto. «Fin dal Golfo di Biscaglia ho avuto la sensazione che qualcosa fosse andato storto. Auguriamoci che si tratti di un disguido organizzativo» rispose il tenente colonnello degli spetsnaz. «Disguido organizzativo? Vuoi scherzare? Questa nave non trasporta mica giocattoli. Fare rotta per Feodosija significa che è andato tutto a puttane. Quando un piano è sofisticato, è come un castello di carte, se crolla una, crollano tutte. Dobbiamo prepararci al peggio.» «Non siamo educande, Andreji, nel nostro mestiere il peggio non esiste, ci siamo sempre dentro. – replicò l’altro, che rivolgendosi al guercio – Lei comandante, come la vede? » «Lo sa colonnello, io la penso come il maggiore. Fin dall’inizio ho avuto dei dubbi, è stato un viaggio troppo lungo, siamo stati troppo esposti agli odierni sistemi d’individuazione per farla franca. Mosca avrebbe dovuto valutarlo.» L’uomo alto rispose: «Ora dobbiamo pensare a come arrivare a Feodisjia col carico intatto. Che possibilità offre il percorso?» Il guercio si chinò sulla carta, con la matita tracciò una linea che divideva in due il Mar Nero. «Abbiamo tre possibilità: cercare di arrivare a Feodosjia attraverso questa rotta nel minor tempo possibile. La seconda alternativa è mimetizzarci tramite un lungo giro a ridosso delle trafficate, varie acque territoriali e circumnavigare la penisola di Crimea. La terza è attendere questa notte e, col buio e a luci spente, seguire la prima rotta con le macchine al massimo, io sceglierei quest’ultima.» «Il Mar Nero – affermò il maggiore – per quanto grande, è come un lago e nella nostra situazione rappresenta una trappola. Il tempo è un fattore chiave e noi dobbiamo accorciarlo al massimo, prima arriveremo, prima saremo al sicuro. Ritengo opportuno affrontare subito la rotta diretta, sfruttando al massimo ogni minuto e ogni cavallo delle caldaie.»
«Sono d’accordo con te, Andreji» disse il tenente colonnello. Mezz’ora dopo con le maniche della camicia tirate su e una tazza di caffè bollente in mano, il rude ufficiale degli spetsnaz aveva sotto gli occhi una piantina della nave e alcuni biscotti. All’altro lato del tavolo sedeva l’uomo alto. Finito di bere il caffè, l’energico maggiore si pulì le labbra col peloso dorso della mano. «È chiaro – disse – che eventuali attacchi avrebbero lo scopo d’impadronirsi del carico per poi, forse, neutralizzarlo; quindi è da scartare sia un’azione aerea, sia navale tesa ad affondarci. Venuto meno l’altra notte il pericolo subacqueo, esso ora è rappresentato o da un blocco navale, o da un’azione commandos anfibia. Nel primo caso non ci sarebbe storia, ma sicuramente avremmo il tempo di aprire il portellone poppiero, sbarazzarci del carico facendolo scivolare in mare, far sparire ogni traccia e filarcela su una lancia. Nel secondo, la situazione si presenterebbe più critica ma forse con maggiori opportunità. Per eventuali assaltatori, arrivare alla stiva non sarebbe una eggiata, dipenderebbe dal numero e dal loro addestramento, ma sappiamo che un’azione commandos non può essere composta di molte unità, potremmo respingerla e Feodosjia non è poi così lontana.» Il tenente colonnello annuì, dicendo: «Bisogna considerare anche un ipotetico attacco dall’aria per mezzo di elicotteri d’assalto. Hai dei lanciagranate?» «Sì. Due M203 a tubo singolo da quaranta. Piazziamone uno qui, sul ponte di tuga centrale, dietro il fumaiolo, l’altro qua, presso il picco di carico centrale, sotto il ponte di comando; se si avvicinano a meno di duecento metri, li facciamo secchi. Poi piazzerei una PK con i suoi dieci nastri da duecentocinquanta qui, sul ponte di coperta all’altezza del parapetto destro, vicino alla copertura del boccaporto e una seconda dalla parte opposta. Tu hai qualche mitragliatrice?» «Una venti millimetri a tiro rapido con dieci nastri da trecento.» «La venti millimetri con due uomini la piazzerei sul ponte di coperta, all’altezza del parapetto di poppa, altri due uomini con Skorpion, Kalašnikov e bombe a mano quassù, sul ponte di cassero, sopra il vano dell’ancora di posa. Stesso armamento per noi e l’equipaggio per eventuali combattimenti ravvicinati. Le armi in posizione dovranno essere mimetizzate con teloni cerati. Il tuo parere Viktor?» «Potrebbe funzionare.»
Scese le scalette del ponte di tuga, il tenente colonnello raggiunse la propria cabina. Dal cassetto tirò fuori il dispositivo e lo infilò in una tasca dei pantaloni che chiuse, tirando la lampo. Accendendo quel telecomando e pigiando il tasto on, si sarebbe attivata l’opzione “zero”: l’esplosione di sei chili di santex opportunamente piazzati a Wrangel, sotto il doppio fondo della nave, all’altezza delle alette di rollio; esplosione che avrebbe mandato la nave letteralmente in briciole. Tale opzione sarebbe stato l’ultimo atto d’attuarsi, nel caso si fosse verificata la certezza che il carico sarebbe finito in mani improprie.
Capitolo XXI
Aquila si era svegliato di buon’ora. Rasatosi e fattosi la doccia, si era infilato i jeans, l’immancabile cintura portavalori e aveva tolto l’imbottitura interna della giacca a vento, rendendola adatta per quel clima. Ora, dopo aver consumato un English breakfast, con la ventiquattrore in mano era al piano terra, dove una Ford lo attendeva.
Il piccolo elicottero classe Gazelle munito di dispositivo per l’ammaraggio si alzò dal modesto eliporto di Tbilisi. Di lì a qualche minuto, se ne alzò un secondo che, ponendosi a un miglio di distanza e un centinaio di metri di quota sopra al primo, sembrava seguirne la rotta. Novanta minuti dopo, l’elicottero sorvolava le grandi paludi d’acqua salmastra sul delta del fiume Rioni, presso la cittadina georgiana di Poti, sulla costa sud-orientale del Mar Nero. «Il punto segnato è a quindici miglia al largo. Siamo in perfetto orario» affermò il pilota, rivolto ai due eggeri. Dieci minuti dopo il Gazelle dondolando sulle onde, galleggiava col rotore al minimo dei giri. La mattinata era splendida e il mare, una tavola; il clima temperato di quelle zone e la leggera brezza proveniente dal Caucaso rendevano l’aria piacevole e frizzante come in un giorno d’inizio estate. Da un canotto, un commando allungò la mano verso il trasbordatore che, un istante dopo, si trovò ritto a bordo del battello. Il compagno di viaggio dell’elicottero si sporse dall’abitacolo. «Break a leg!{57}» urlò, stringendogli la mano. «You too!»{58} rispose l’italiano, restituendo la stretta, infine fece un breve cenno di saluto al pilota. Senza attendere oltre, il Gazelle si alzò andando incontro al sole, scomparendo verso Levante. Aquila sbirciò l’orologio: le 9 ore locali. Il Sea Dragon CH53E era a un centinaio di metri, e in preda ad un leggero rollio, dondolava dolcemente sprofondato nei suoi galleggianti stabilizzatori. A causa di rumori vari, il ronzio non era avvertibile, ma arrivati all’altezza di una pala del rotore principale del Sikorsky, esso divenne nitido. Aquila alzò lo sguardo, portandosi il palmo della mano alla fronte; a circa trecento metri d’altitudine, un secondo elicottero volava in cerchio. Per un istante lo stomaco dell’italiano si contrasse.
Il Consolidated Pby-5A Catalina era stato acquistato nel 1958 per quattro soldi da un armatore greco a un’asta indetta dalla marina Americana. Diversi lustri dopo, l’idrovolante era ato di mano, diventando proprietà di un pezzo grosso della mafia turca che, in virtù della sua lunga autonomia, lo utilizzava per trasportare carichi d’oppio dai vari centri di produzione dell’Asia centrale. In quel momento, l’aereo con i suoi due motori Pratt & Whitney R1830-92 Twin Wasp al minimo dei giri, era nella piccola Baia turca tra Pazaro e Ardeseno, presso il confine con la Georgia. Il pilota dette gas al motore di sinistra, facendo ruotare l’aereo di novanta gradi, poi abbassò i flaps, portò a regime i Pratt &Whitney, liberò gli ancoraggi e iniziò a dare manetta. Poco dopo tra lo sciabordio delle onde, l’idrovolante si staccava dall’acqua, puntando verso nord, verso il mare aperto.
All’interno della carlinga, tra zaini e armamenti vari, il giovane alto con i gradi di capitano e lo stemma dei Royal Commandos, prima fece un breve, formale saluto poi allungò la mano, dicendo: «Capitano Goldsmith. Ho ordine di mettermi a sua disposizione, comandante.» “Com’è strano il mondo… nel giro di qualche giorno, da poco più che straccione innalzato al rango di comandante” pensò sardonicamente Aquila, nel ricambiare la stretta. «Lei fuma?» chiese, offrendo una sigaretta al capitano. «Raramente, ma non ora, grazie.» «Conosce la natura della missione, capitano?» «Si!» «I suoi uomini sono informati?» «Certamente!» «Bene, sistemiamoci in un angolo tranquillo.»
«Allora? A che punto siamo?» chiese Gumayev in tono caustico ai due, mentre l’omaccione lo aiutava a togliersi il soprabito di cammello. «In costante contatto radio sia con i nostri uomini in Georgia, sia con quelli di Kolack in Turchia. Alcuni minuti or sono, Aquila è sbarcato da un elicottero alzatosi a Tbilisi e ammarato in questo punto. – Krušenko mostrò la posizione – Qui, ha trasbordato in un secondo elicottero non ben classificato, dalla descrizione sembrerebbe da trasporto militare classe Sikorsky, che al momento, pare sia ancora lì fermo. Un idrovolante al largo raggio si è appena levato in volo da una Baia nei pressi d’Alpazaro per seguirne il percorso.» «Che ne pensi Pjetor?» chiese il grande boss, rivolto all’analista. «Semplice Fjedor, si sta svolgendo tutto secondo le previsioni. Stanno preparandosi ad anticipare la nave per bloccarla e sequestrarne il carico prima che arrivi a Soči. Nave riferita alle coordinate trovate nella stanza di Markov, il cui carico ha rappresentato la venuta in Russia del Camminatore. A seguito dell’evolversi di questi avvenimenti, l’ipotesi che quell’unità trasporti armi strategiche nucleari, prende seriamente corpo.» Nello schiacciare la sigaretta sul posacenere, Gumayev annuì, allungò la mano su una poltrona tirandola a sé, ci si calò dentro sedendo accanto ai due. «Sì, ormai non ci sono dubbi! Del resto fin dall’inizio era chiaro, bastava interpretare correttamente alcune connessioni logiche. – si rivolse a Krušenko – Che sta facendo Kolack in merito?» «Kolack, attraverso le famiglie turche, ha posto a disposizione due elicotteri da combattimento classe Augusta, due motosiluranti e un idrovolante Catalina. Il problema è sapere il punto dell’abbordaggio, gli elicotteri e le siluranti hanno la loro autonomia e il Mar Nero è immenso.» «Che piano suggerisci, Pjetor?» «Il nostro asso nella manica è l’idrovolante Catalina, per questo mi sono concesso la libertà di suggerire ad Abel di porlo a disposizione. Ha più di quattromila chilometri di autonomia e può seguire quell’elicottero da trasporto ovunque. Esso suggerirà agli elicotteri quando alzarsi e le motosiluranti salperanno quando la nave sarà stata bloccata dagli assalitori. Trattandosi di un’operazione clandestina con un carico segreto, nessuno potrà chiedere aiuto via radio e questo per noi rappresenta un vantaggio considerevole. Le
motosiluranti sono classe spiga due, raggiungono una velocità di quaranta nodi orari, armate con un cannone da 57 Boforos contro-nave e contraereo, da due missili superficie-superficie Boforos RBS15 e da quattro tubi di lancio per siluri da 533 millimetri Tp61 contro-nave, filo-guidati con sistema di propulsione a perossido d’idrogeno. Una volta che gli elicotteri da combattimento avranno messo a tacere sia gli assaltatori, sia l’equipaggio, arriveranno le motosiluranti, il carico sarà in esse trasbordato e subito dopo coleranno a picco la nave.» «La reazione dell’equipaggio?» Dietro le lenti appannate, il piccolo uomo batté ripetutamente le palpebre, abbassò lo sguardo. «La nave dev’essere un mercantile, quindi disarmato, e l’equipaggio composto di pochissimi uomini, probabilmente anch’essi disarmati. Se fosse una nave militare, molte cose non tornerebbero e l’impianto del nostro ragionamento salterebbe. – allargò le braccia. – A quel punto, non saprei cosa dire.» «Con quegli Augusta A 129, non dovremmo incontrare problemi, Fjedor. Del resto abbiamo messo in campo tutto ciò di cui disponevamo in quella piazza» affermò Krušenko. Gumayev annuì di nuovo, infine terminò, dicendo: «Alla fine, ci si accerti che tra i cadaveri ci sia quello di Aquila. Questa è la volta buona che ci libereremo per sempre da quel bastardo.»
«A quando risalgono le sue ultime informazioni, capitano?» «Al pomeriggio di ieri. Nella mattinata siamo stati allertati e nel pomeriggio siamo stati edotti sull’operazione, ove abbiamo appreso i dettagli.» «Non ha avuto altre comunicazioni dal suo comando?» «No! Eccetto quella di attendere lei in questo punto.» «Io ho notizie fresche. L’equipaggio che dovremmo abbordare, giovedì notte è riuscito a depistare nel Mediterraneo un sommergibile americano classe Los Angeles; questo assicura che gli uomini con cui avremo a che fare sono specialisti prevenuti e preparati. È certo che su quella nave ci sia un reparto di cinque spetsnaz, ma sicuramente saranno di più.»
«Degli spetsnaz eravamo informati, signore.» «Non sapevate però del sommergibile. Quando la notizia è arrivata a Whitehall, voi eravate già pronti alla partenza aspettando di sapere se la missione sarebbe stata o no annullata.» «Esatto. Di questo sommergibile non sapevamo nulla.» «Appunto, ma non è di secondaria importanza. Quest’informazione dà un’idea della pericolosità della missione. La scorsa notte ho parlato due volte con Londra, la seconda mi ha posto in contatto con il suo comando di Turnchapel. Sembra che quest’operazione rappresenti rischi maggiori di quelli inizialmente previsti. A questo proposito, capitano, sono latore di un messaggio sia da parte del comando del 539° Assault Squadron, sia dall’ammiragliato: qualora l’impresa sia da ritenersi troppo rischiosa e con scarse possibilità di successo, l’ordine è di rinunciare. Questa è una valutazione imposta dall’alto, quindi priva di ricadute sullo stato di servizio suo, e dei suoi uomini.» «Siamo truppe speciali, ogni nostro impiego operativo ha una valenza di elevato rischio.» «Certo, ma il nostro scopo è di condurre a termine la missione con i minori rischi possibili, salvaguardando la vita di ognuno. Non abbiamo coperture capitano e, considerando il quadro d’insieme, stimo le possibilità di sopravvivenza inferiori al cinquanta per cento. Esclusa la mia persona, dobbiamo essere almeno dieci, al di sotto, la missione sarà annullata. Se uno o due di voi decideranno di non partecipare, rimarranno sull’elicottero con i piloti. Le concedo quindici minuti, parli con i suoi uomini, che ognuno singolarmente prenda la propria decisione, poi tireremo le somme, o partiamo, o si torna a Smirne. Io sarò nella cabina di pilotaggio. Aggiungo che questa notte, dopo l’ultimo colloquio avuto con Londra, saputo che eravamo privi di copertura, ho espresso parere negativo circa il prosieguo della missione. – tirò fuori un biglietto – Il numero da chiamare via satellite è scritto qui, comunicare la parola crazy se rinunciamo, skill se procediamo.» Il capitano gli porse un piccolo cellulare e in tono fiero, replicò: «Comunichi pure la parola skill, comandante! Siamo tutti volontari professionisti, perfettamente consapevoli dei rischi che corriamo; ognuno di noi ha già espresso la propria decisione prima di partire. Se vuole accertarsene, li interpelli lei di
persona, uno a uno.» «Va bene così, capitano…» Ora erano nella cabina di pilotaggio. Aquila aveva tra le mani una carta del Mar Nero. «Il piano prevede di bruciare i tempi con un assalto lampo in alto mare, in un punto lontano dalle coste.» «Non era al largo di Soči?» «Soči è il porto di destinazione, ma in queste ultime quarantottore possono aver cambiato idea, decidendo di rifugiarsi quassù, a Feodosjia, sulla penisola di Crimea. Girasole, se non è ancora uscita, presto uscirà dal Bosforo e che prenda l’una o l’altra destinazione, considerando che il tempo rappresenta una variabile importante per loro, è ragionevole pensare che seguirà la via più corta. Spianò la carta – Sia per Soči, sia per Feodosjia, lei quale rotta sceglierebbe?» «Se dopo il Bosforo decidono di prendere la via più breve, il problema è stabilire fin dove le due rotte seguono una linea univoca e dove divergono.» «Esattamente.» L’ufficiale dei commandos tracciò con il dito una linea immaginaria; si fermò in un punto. «Se hanno fretta, la rotta comune potrebbe estendersi grossomodo fin qui, poi le strade dovrebbero divergere.» Aquila si fece dare matita e squadra, tracciò due diagonali che attraversavano il Mar Nero. «Sono d’accordo, è il punto più probabile. Dista oltre ottocentocinquanta chilometri da qui e circa duecentocinquanta dall’uscita del Bosforo. La attenderemo al centro di questa forchetta, a circa trenta miglia dall’incrocio delle due diagonali di rotta. ò il biglietto al capitano – Chiami Londra e comunichi il seguente messaggio: Skill si dirige verso quarantadue gradi, venti primi Latitudine Nord; trentadue gradi Longitudine Est”.» «Abbiamo un elicottero sopra di noi, signore. Non si distinguono le insegne ma deve essere civile» fece uno dei due piloti, scostando il binocolo dagli occhi. «Lo avevo notato, tenente…» Il rotore principale da 8.66 del Sikorsky Sea Dragon, iniziò lentamente a girare,
con moto uniformemente accelerato, i tre turbo-soffianti andarono gradualmente a regime e le sette grandi pale raggiunsero i tre quarti del massimo dei giri. Tra lo sciabordio delle acque, lentamente il grande elicottero si alzò di cinquanta metri, girò il muso ed iniziò a volare sopra il mare con rotta ovest. Erano in volo da dieci minuti, quando lo stesso osservatore, improvvisamente esclamò: «Laggiù, scie di navi, sono due cacciatorpediniere lanciamissili…americane, signore, rotta nord, nord-est.» “Gli americani stanno chiudendo la stalla quando i buoi sono ancora al pascolo” pensò Aquila, annuendo in silenzio. Ora i due seduti tra zaini e nastri di mitragliatrice erano in fondo alla carlinga, presso i bidoni supplementari di carburante. «Quanti mezzi anfibi abbiamo, capitano?» «Quattro Nswrib. (Naval special warfare rigid inflatable boat) Hanno due motori Cartepillar da settanta cavalli, un radar di navigazione Furuno 841, raggiungono una velocità di quarantadue nodi e sono in grado di trasportare quattordici uomini equipaggiati. Li impiegheremo tutti, allargando al massimo il raggio di ricerca.» «Qual è l’autonomia di questi mezzi d’assalto e quale la portata dei loro radar?» «L’autonomia è di duecento miglia, la portata dei radar circa tre, ma alzando l’antenna, possono arrivare fino a sei e oltre. Noi possiamo inquadrarli con un buon anticipo, mentre loro, poiché noi saremo a pelo d’acqua, sempre che non abbiano radar particolarmente sofisticati, difficilmente potranno rilevarci oltre i tre, quattrocento metri. Posso farle una domanda, comandante?» «Sicuro!» «Qual è esattamente il suo ruolo in questa missione?» «Io sono quello sciagurato che l’ha ideata. Riguardo al ruolo, glielo dirò a Smirne, quando avremo consegnato le due testate nucleari. A proposito, avete telecamere con voi?» «Ognuno di noi, ha una mini-telecamera in dotazione.»
Erano da poco ate le 13.30 ore locali quando il Sea Dragon si posò sull’acqua, subito furono gonfiati i quattro Nswrib e calati in mare. Aquila indicò ai piloti dell’elicottero un punto sulla carta. «Toglietevi dal teatro dello scontro e spostatevi su queste coordinate. Tenete accesi sia i telefoni cellulari, sia le radio sulla frequenza operativa; se entro domani a mezzogiorno non avrete nostre notizie, decollate e tornate a Smirne.»
A differenza della parte orientale, in quella occidentale le acque del Mar Nero erano increspate. Ora i quattro mezzi d’assalto della marina britannica saettavano come fulmini tra le onde, in direzione ovest, ogni mezzo aveva una mitragliatrice Enfield lock piazzata sopra il cartepillar e l’antenna radar alzata al massimo, gli uomini erano intenti nel controllare l’equipaggiamento. Allontanato il binocolo dagli occhi, Goldsmith batté una mano sulla spalla di Aquila. «Comandante, abbiamo un idrovolante sopra di noi, un Catalina, sembra privo d’insegne.» «Ricognitore a lungo raggio, probabilmente da molto ci sta seguendo. Il radar segnala qualcosa?» «No, signore.» «Suggerisco di prestare attenzione all’alto.» Erano le 14.30 quando i quattro mezzi anfibi, avanzanti in linea orizzontale, si fermarono. Il capitano parlò sulla microricetrasmittente. «Siamo sul punto! Disperdiamoci ampliando il raggio di ricerca.» Aquila alzò gli occhi, come un falco a caccia di cibo, il Catalina volava ancora altissimo in cerchio. Poco dopo i neri battelli d’assalto, sballottando violentemente trafiggendo le onde color cobalto, sparirono dalle reciproche visuali. Erano le 15.30 quando il bavero della tuta del capitano gracchiò. Si rivolse ad Aquila. «Il tenente Holden, comunica che il loro radar ha inquadrato una nave a circa sei miglia; nel frattempo alle loro spalle sono apparsi due elicotteri.» «Che tipo di elicotteri?» «Non l’ha specificato.»
«Sicuramente da combattimento e quello lassù è il loro filo di Arianna» fece Aquila. «Ma chi sono?» chiese Goldsmith. «Elementi pericolosi e credo, anche loro intenzionati a impadronirsi del carico di quella nave.» «Dovremo quindi combattere su due fronti.» «Con ogni probabilità, sì!» «Tom, richiama tutti i battelli! Se attaccati dall’alto, è opportuno non essere distanti.» Una dozzina di minuti dopo, i quattro mezzi anfibi erano di nuovo allineati, ora ogni radar aveva sullo schermo un puntino bianco. «Qual è l’attuale distanza di quella nave?» chiese Aquila. «Quattro miglia.» «Eccoli!» Esclamò un commando, puntando il dito a sud. Goldsmith puntò il binocolo. «Sono Augusta A 129, armati con due mitragliatrici Ispano da 12.7 e otto missili Tow, possono spazzarci come fuscelli. Procedere a zig zag, pronti con i lanciarazzi e le mitragliatrici!» urlò il capitano, sulla micro ricetrasmittente. Ogni Augusta aveva entrambi i suoi motori Rolls Royce Gem 2-2 turbo-albero da 1035 cavalli a metà dei giri. I due elicotteri volavano in coppia, a un’altitudine di trecento metri con velocità di duecento chilometri orari. Sempre in coppia, fecero un largo giro valutando le forze in campo, infine si diressero verso ovest, mentre il Catalina, ancora molto alto, continuava a volare in cerchio «Capitano, suggerirei di dare tutto gas, andando incontro al rilevamento radar.» «Perché, comandante?» «Non sappiamo se davanti abbiamo Girasole, forse avvicinandoci e osservando gli elicotteri potremmo capirlo.»
Ora i quattro mezzi d’assalto filavano come frecce squarciando le onde a quarantadue nodi orari. «Siamo a mezzo miglio e ci stiamo rapidamente avvicinando» affermò uno degli uomini. In quel momento si alzarono dal mare scie di traccianti dirette verso due immobili puntini, che a Oriente, scintillavano contro sole. «Ci siamo! Girasole ha dato il benvenuto ai due galli. Gli elicotteri sono macchine eccellenti, ma i loro equipaggi dei dilettanti» esclamò il capitano, togliendosi il binocolo dagli occhi. Subito dopo parlò sulla micro ricetrasmittente: «Abbassare le antenne radar, sdraiarsi sui gommoni e spegnere i motori. – si rivolse ad Aquila – Quegli elicotteri ci hanno reso un insperato servigio. Le difese della nave sono concentrate su di loro e, col mare grosso, i nostri mezzi non saranno facilmente rilevabili, il cargo punta dritto verso di noi, se ci defiliamo tra le onde potremmo trovarci a ridosso delle murate senza essere scoperti.» Ora la bianca prua era a non più di trecento metri, mentre come felini in agguato, i due elicotteri erano immobili a cinquanta metri di altitudine e circa quattrocento dalla fiancata destra della nave.» «Pronti con i rampini! Holden, tu spostati con il tuo gruppo sulla murata sinistra, noi scaleremo la destra. Una volta a bordo, sarà imperativo bloccare le macchine. – urlo Goldsmith che, rivolto ora ad Aquila, continuò – Lei comandante, rimanga sul gommone, mentre noi tenteremo la scalata.» «Neanche per sogno! Mi dia una Heckler» rispose l’italiano. Erano a meno di due metri dalla murata, al centro della fiancata destra, stavano lanciando i rampini quando arrivò l’inferno. Una voce in russo urlò: «Eccoli! Attaccano anche dal mare.» Una lunga raffica di PK alzò una fila di schizzi bianchi che, come getti di una fontana, si ersero a meno di un metro dal bordo del gommone di Aquila. L’angolo di tiro della mitragliatrice russa era troppo alto, la canna batteva sul bordo del parapetto, mentre i gommoni erano pressoché a ridosso della murata. Lo spetsnaz, nel brandeggiare l’arma verticalmente, si sporse leggermente e all’unisono le bocche delle Heckler e degli M16 vomitarono una valanga di proiettili, investendo l’uomo dalla spalla in su. Come una marionetta, il malcapitato parve spiccare il volo andando a finire all’interno del ponte.
«Ora!» urlò il capitano. Meno di un secondo dopo quattro rampini volavano in aria incastrandosi sulla ringhiera del parapetto. Improvvisamente l’enfield lock del secondo gommone aprì il fuoco a raffica continua, investendo il muso di un elicottero esaurendo quasi un intero nastro. Quei proiettili facevano poco contro la corazzatura di quel velivolo, il quale, con le doppie canne delle Ispano vomitanti proiettili da 12.7, veniva contro a volo radente. Come una lama rovente nel burro, una raffica squarciò la spessa gomma di un mezzo d’assalto; un commando in piedi al centro del gommone fu verticalmente tranciato in due, andando a finire in acqua, mentre alcuni traccianti colpirono il serbatoio della benzina. L’esplosione lanciò i due restanti uomini in aria, l’italiano si sporse a tirarne su uno pieno di ustioni, caduto a tre metri dal bordo del gommone, mentre dell’altro, sparirono le tracce. Ora, Aquila, Goldsmith e un terzo si apprestavano a scalare la murata, mentre il sergente Hoocker rimasto sul gommone col compito di coprirli, aveva il dito premuto sul grilletto della enfield lock vomitante proiettili che spazzavano la ringhiera. Si udirono alcune esplosioni di bombe a mano provenienti dall’altro lato della nave; il gruppo di Holden stava scavalcando il parapetto di sinistra, lanciando granate fumogene e dirompenti a copertura contro il tiro della mitragliatrice dello spetsnaz sulla murata sinistra. Nel momento in cui gli uomini di Holden si gettarono a terra, una raffica di Pk ò pochi millimetri sopra le loro teste, ferendo a una spalla un commando, ma il russo ebbe la peggio: due raffiche, una di M16 l’altra di Heckler, lo investirono in pieno, uccidendolo. Ora i cinque uomini di Holden, più il ferito leggero, erano asserragliati a ridosso del basamento dell’albero di carico poppiero, riparati sia dal fuoco proveniente dai Kalašnikov sulla battagliola del ponte di comando, sia dalla postazione della venti millimetri a ridosso del parapetto di poppa. Arma quest’ultima, che dalla propria postazione inquadrava, spazzando inesorabilmente, il ponte di coperta fino al cassero centrale. Da dietro una erella del ponte centrale di tuga, una granata dirompente da quaranta uscì dalla bocca di un lanciagranate M203, esplodendo sul ciglio del basamento sotto cui erano riparati gli uomini. Una scheggia scoperchiò il cranio di un commando, mandandolo a sbattere contro il boccaporto centrale di poppa, ma la reazione fu istantanea. Una L7A2 iniziò a vomitare raffiche verso il fumaiolo, il lanciatore di granate stava per tuffarcisi dietro, ma per una frazione di secondo, il laser di un Remington s’infranse sulla tempia destra dello spetsnaz. Il commando Volley pigiò il grilletto, una pallottola da 5.56 traò la testa dello spetsnaz, mandandolo a sbattere contro le lamiere. Tra esplosioni e fischi di pallottole, un commando si rivolse al tenente, indicando il basamento del boccaporto centrale di poppa, a ridosso del cassero. «Le bombe a mano non serviranno a niente contro quella doppia lamiera» urlò.
«Allora bisogna tentare di sfondare la copertura dell’altro boccaporto, lassù a prua del cassero centrale, anche lì sotto c’è la sala macchine. Albert, prepara un tascapane, infilaci otto granate dirompenti, due al fosforo e tre pacchetti al plastico.» Fu in quel momento, che l’equipaggio del secondo elicottero d’assalto, commise un grave errore di valutazione: nell’infuriare della battaglia, pensò che fosse giunto il momento di avere la meglio sui due fluidi schieramenti. Si avvicinò da ovest e, a un centinaio di metri, iniziò con le mitragliatrici a falciare il ponte di coperta. Ma a poppa non c’erano dei novellini; i due spetsnaz, magistralmente piazzati, aprirono il fuoco con la venti millimetri e lo scontro fu violentissimo: in una manciata di secondi la canna della mitragliatrice divenne rovente, scaricando quasi un intero nastro da trecento colpi contro il muso del velivolo. L’impatto dei micidiali proiettili fece sbandare l’elicottero, non permettendogli un tiro efficace. Colpito sia sul muso corazzato, sia all’altezza del rotore, il velivolo virò a sinistra e lanciò il primo missile Tow, che mancando il bersaglio, sfiorò il bordo del parapetto di poppa, andando a esplodere in mare. L’Augusta fece un arco di oltre centoventi gradi per togliersi dal fuoco, ma permise alla venti millimetri di brandeggiare aggiustando il tiro. Una lunga raffica di traccianti investì l’elicottero da sotto, penetrando in basso al centro della carlinga. Per un istante il velivolo parve fermarsi, poi fece alcuni pennacchi di fumo e a centocinquanta metri dalla murata sinistra, lanciò un secondo e un terzo Tow. Uno colpì la base del cassero, divellendo ogni cosa, facendo volare alle stelle le scalette che portavano al primo ponte della tuga centrale, troncando il fumaiolo in due; mentre l’altro infranse le vetrate esplodendo sul ponte di comando spazzando tutto ciò che c’era dentro, scardinando e facendo saltare in aria le antenne radar e radio. Oleg, unico uomo presente sul ponte, era alla barra del timone quando l’esplosione lo investì; la tozza figura volò in aria come un coriandolo, facendo due piroette finendo infine in mare. Ma l’Augusta ferito, già da alcuni secondi era sul reticolo di un M203. Giunto sulla verticale del parapetto sinistro, di là dal cassero al riparo dalla venti millimetri, mentre le Ispano continuavano a spazzare il ponte di coperta, tra le lamiere contorte, dietro la balaustra del picco di carico centrale, un tenente degli spetsnaz pigiò il grilletto del lanciagranate. La scia penetrò dentro la presa d’aria destra del velivolo d’assalto e la deflagrazione fu violentissima. La palla giallo-rossa divenne enorme e, per un momento, una calda brezza spazzò l’intera nave. I resti dell’elicottero si alzarono prima di diversi metri, mentre le pale del rotore continuavano bizzarramente a vorticare, poi la carcassa si spostò sulla destra e, per un gioco idrodinamico, venne infine avanti sulla sinistra. «Tutti al riparo!» urlò il tenente colonnello degli spetsnaz.
La palla incandescente dei rottami fumanti si schiantò sotto il ponte di comando, alla base del picco di carico centrale, facendo volare in aria le ultime scalette rimaste e uccidendo sul colpo il lanciatore della granata. Per avere il dispositivo a portata di mano, il tenente colonnello degli spetsnaz abbassò un istante lo sguardo, aprendo la zip che chiudeva la tasca dei pantaloni e questo gli fu fatale. Capì quello che stava per succedergli una frazione di secondo prima di morire: il moncone del rotore continuava nel suo folle moto e le quattro pale del diametro di 11,9 metri, come impazzite, rimbalzavano vorticando velocissime venendogli contro. Spiccò un salto, lanciandosi a terra, ma a mezz’aria una pala lo tranciò in due all’altezza della vita, scaraventandone il busto contro il parapetto sinistro. «Ora!» urlò Holden. Il commando Albert, si precipitò, correndo di fianco al parapetto sinistro, in direzione della prua, ma a metà del cassero una raffica di Skorpion lo falciò, fulminandolo. «Maledizione!» urlò il tenente. «Vado io, copritemi!» disse un secondo commando. Subito furono lanciate cinque granate fumogene e tutte le armi del gruppo spararono verso i rottami di quello che fino a poco prima era il cassero centrale di una nave. Tra la nebbia artificiale, il Royal commando strisciò sotto il fuoco, arrivato presso il collega morto, gli tolse il tascapane e lentamente continuò, strisciando tra le lamiere contorte. Un minuto dopo era acquattato sotto il rialzo del boccaporto centrale di prua. Da una tasca della tuta, tirò fuori una scatoletta bianca, tarò il delay time a trenta secondi e la lanciò al centro del pannello di lamiera imbullonata. Un’esplosione squassò il ponte di coperta, il commando tirò fuori una seconda scatoletta, tarò il timer, questa volta per un minuto, e la ficcò nel tascapane che fece volare all’interno della voragine apertasi a seguito della precedente esplosione. L’uomo valutò direzione e intensità del fuoco, si eresse, e come il vento si precipitò verso la direzione da cui era venuto. L’esplosione sembrò voler sollevare la sfortunata nave: le paratie vibrarono come corde di una chitarra, il ponte si squarciò in diversi punti e la copertura di lamiera, sradicandosi dai bulloni, schizzò in aria andando a finire in mare. Subito dopo come in un inferno dantesco, lingue di un bianco accecante fuoriuscirono
dal boccaporto, seguirono fiamme rosse, infine iniziò ad ascendere una densa colonna di fumo nero come l’inchiostro. Ora le macchine erano ridotte a un ammasso di ferraglia e la nave bloccata. Fu in quell’infernale trambusto che Goldsmith, Aquila e un terzo commando guadagnarono il parapetto della fiancata destra, riuscendo a porsi a ridosso del basamento dove si ergeva l’albero di carico poppiero; mentre sotto, in precario equilibrio, il sergente Hoocker ancora sul gommone prestava le ultime cure d’emergenza al ferito. Il secondo elicottero, inquadrato la situazione, considerò il battello sciabordante una facile preda e a trecento metri dalla fumante nave si abbassò quasi al pelo d’acqua, subito le due sue Ispano iniziarono a sparare. L’intenso rollio non rendeva il piccolo battello facile bersaglio, i proiettili da 12.7 formarono una rosa sulla murata, perforandola in più punti, poi l’Augusta si alzò di una decina di metri venendo avanti: ora era davvero pericoloso. Le scie dei due missili Tow sfrecciarono velocissime a qualche metro dal pelo dell’acqua, Hoocker si appiattì sul gommone e, un istante dopo, due gran boati provocarono due grosse voragini al centro della fiancata. L’onda d’urto sollevò le acque sciabordanti e, tra getti di schiuma bianca, il gommone si alzò fin oltre mezza murata, poi tra una miriade di schegge e ribollii dell’acqua circostante, con un gran tonfo piombò di nuovo in superficie. Lo scozzese sergente Hoocker, forgiato alla scuola dei Royal marines commandos di Turnchapel non si perse d’animo, traballando e ruzzolando, con calma glaciale imbracciò l’Instalanza del peso di sei chilogrammi, pigiò il pulsante verde accendendo i circuiti d’attivazione e tra scossoni vari, riuscì infine a inquadrare sul reticolo ottico l’Augusta che continuava a vomitare proiettili da 12.7. Il vento proveniva da est, l’indicatore digitale del reticolo illuminato riportava la distanza del bersaglio pari a duecentotrenta metri; la gittata massima del lanciarazzi era di milletrecento, ma solo trecento erano quelli utili. Il sergente alzò lievemente l’arma, incrociando il centro del reticolo sulla parte superiore del rotore, al volo spostò leggermente la mira a sinistra e pigiò il pulsante rosso. Il razzo bianco sfrecciò verso nord, il pilota dell’elicottero tentò all’istante di evitare l’impatto alzandosi, spostandosi nella direzione della brezza, ma l’inerzia del velivolo giocò il suo ruolo e Hoocker aveva intuito quella mossa. La carica dirompente colpì l’Augusta al centro del muso, l’elicottero parve prima scomparire all’interno di nuvola gialla, poi seguì una seconda, grossa esplosione che lo mandò in briciole, infine una colonna di fumo si levò dal pelo dell’acqua ribollente. Hoocker si alzò, controllò di nuovo il ferito, lo sdraiò in fondo al gommone, lo coprì con una coperta e volse lo sguardo in alto. Ora le fiamme rossastre e la densa colonna di fumo nero rendevano il cielo color terra di Siena, mentre, come in uno spettacolo pirotecnico, le scie dei traccianti sbucavano da ogni dove. Con una cima
Hoocker ancorò il battello alla scaletta, inserì una nuova carica nel lanciarazzi, si caricò la enfield lock sulla spalla destra, l’Instalanza su quella sinistra e iniziò ad arrampicarsi, prestando attenzione a non squarciarsi sulle lamiere contorte. Sul ponte di coperta, le due squadre commandos, una, dietro le lamiere del boccaporto centrale, l’altra a ridosso del basamento dove si ergeva l’albero di carico poppiero, erano inchiodate tra il fuoco inesorabile della venti millimetri e quello dei Kalašnikov e delle Skorpion. «Se ci muoviamo quella venti millimetri ci fa a pezzi, dobbiamo farla tacere o tutti i nostri sforzi saranno stati vani» disse Goldsmith, sdraiato vicino a Aquila. In quel momento Hoocker scavalcò il parapetto, ma i due spetsnaz dietro alla mitragliatrice pesante erano all’erta e nel momento in cui si lanciò sul ponte di coperta, partì una lunga raffica. Una pallottola frantumò l’anca del commando, mentre una seconda gli entrò nella pancia devastandogli l’intestino spappolandogli la milza. Hoocker fu sbalzato quattro metri indietro, sbattendo il petto sulla lamiera del ponte centrale, la mitragliatrice volò lontano, ma il lanciarazzi era a portata di mano. Lentamente, lo scozzese si portò una mano al ventre, cercando di contenere gli intestini spappolati che gli arrivavano alle ginocchia, ma un senso di freddo iniziò a permearlo, mentre le figure cominciavano a offuscarsi: “Devo affrettarmi” pensò. Steso a terra, centimetro dopo centimetro, allungò una mano, poi, come al rallentatore, trascinò presso di sé il lanciarazzi e con gli ultimi rimasugli di forze lo mise in posizione. Cercò il bersaglio, ma vedeva solo una velata tinta marrone, tra l’opacità che andava aumentando, gli parve di scorgere indistinte sorgenti di colori, potevano essere fiammelle, orientò l’instalanza in quella direzione e nell’istante in cui moriva, pigiò il pulsante rosso. La carica dirompente da 88.9 ò sotto la erella destra del basamento d’acciaio che univa le due fiancate poppiere, andando a schiantarsi, esplodendo, sotto la ringhiera del parapetto in fondo. Il cargo sembrò sollevarsi ancora una volta, mentre l’intera struttura superiore di poppa si divelleva e la mitragliatrice pesante era catapultata nelle acque col suo basamento; tra guizzi gialli e rossi, s’intravidero brandelli di figure umane che volando in alto dissolvendosi nel nulla. All’istante ogni arma tacque, mentre un irreale silenzio s’impossessò del relitto fumante. Come in una mortale partita a scacchi, ognuno comprese che la caduta del pezzo fondamentale di uno schieramento, segnava la vittoria della parte avversa e con essa la fine del contendere. Il capitano Goldsmith si portò le mani alla faccia, sembrò quasi voler piangere. «Povero Hooker, – mormorò – se usciremo vivi da quest’inferno, dovremo tutto
a lui.» «Quanti ce ne saranno ancora e dove rintanati? Noi siamo rimasti in sei più due feriti» si domandò, come parlando a se stesso, il commando che gli era a fianco. «Non credo molti. – rispose Goldsmith. – Sul ponte parrebbe non ce ne siano più, nella sala macchine dev’essere un inferno e nelle stive l’aria irrespirabile. Alcuni saranno sicuramente asserragliati lassù, tra i rottami del castello centrale. Il rischio maggiore è che esplodano le caldaie.» «Direi di no. – rispose Aquila, steso carponi – Gli impianti idraulici e la centrale elettrica, sono fuori uso, come lo saranno le pompe. Il carburante non fluisce, l’unico pericolo potrebbe venire da una deflagrazione dei serbatoi, ma le fiamme provocate dalle esplosioni dovrebbero essersi estinte.» Girò la testa a poppa, la palla del sole era per metà sotto l’orizzonte marino; alzò gli occhi, del Catalina nessuna traccia. «Presto sarà buio e avremo molto lavoro da fare con quei due SS-20. Dobbiamo affrettarci» affermò infine l’italiano. Goldsmith alzò una mano, facendo con le dita segnali verso il gruppo di Holden. Gli M16 furono caricati con granate fumogene a gas irritante, ad un cenno dell’ufficiale, iniziarono a sparare tra le ferraglie all’interno delle divelte porte metalliche di quello che era stato il castello di una nave. Un paio di minuti dopo, dai grovigli delle lamiere, incespicando e tossendo, neri come spazzacamini, sbucarono quattro uomini con le mani n alto; tutti avevano gli abiti a brandelli. Uno dei quattro, sembrava un personaggio allegorico saltato fuori da un libro di fiabe: una benda nera gli copriva un occhio, parte degli arruffati capelli erano bruciacchiati e la barba era una spazzola, causa la mozzatura dei peli per l’effetto di una scheggia. Con le armi automatiche puntate, i quattro furono messi con le mani in alto contro le lamiere e perquisiti; subito dopo, con un adesivo, furono loro immobilizzate braccia e polsi lungo i fianchi. Il capitano si rivolse al commando ferito alla spalla. «Thomas, in nostra assenza sorvegliali. Se uno solo fiata o si dimena, falli fuori tutti e quattro!» Aquila tradusse in russo. «Save your breath! Each of us knows your language – risparmia il fiato! Ognuno di noi conosce la tua lingua», rispose sprezzantemente in inglese, un uomo peloso e tarchiato, la cui camicia militare a brandelli non aveva più maniche né colletto. Aquila continuò: «Devo sottoporvi a delle domande, come preferite, in inglese o in russo?»
Non ci fu risposta. «Bene! Allora in inglese. Quanti di voi sono ancora all’interno della nave? Dove eravate diretti? In quale punto della nave sono stivati i due SS-20? Come ci si arriva? Quali sono le procedure per smontare le testate?» «Go to hell! – Va all’inferno!» Fu la risposta in inglese del tarchiato. Lentamente, Goldsmith tirò fuori la sua Smith & Wesson, la puntò alla fronte dell’ufficiale spetsnaz. Aquila continuò in russo con voce calma, in modo che ogni sua parola fosse chiara a tutti. «Guardatevi intorno. Ancora non vi basta? Che senso ha? – indicò il capitano – Non provocate, questi sono come voi, non scherzano. Vedete… l’operazione Gengis Khan era fallita sul nascere, fallita fin dal momento in cui i missili furono sottratti dalla base di raccolta e transito di Khariskija. Fin da Ust-Kara avevamo già tutto sotto controllo e l’essere riusciti l’altra notte, a depistare un sommergibile nucleare, non vi è servito a niente. Queste vittime e distruzioni, nel tentativo di difendere un’operazione nata morta sono state inutili, pura follia. Non vorrei fare leva ponendo in rilievo la vostra delicata posizione, però, sostanzialmente le prospettive per ognuno di voi sono soltanto due: finire per qualche anno a Lefortovo o essere eliminati, sparendo senza rumore. Anche se nel vostro paese la pena di morte ufficialmente è stata cancellata, sapete bene che per certi reati può essere applicata silenziosamente in altre forme. Il margine tra le due possibilità è sottilissimo, dipenderà sia dal vostro atteggiamento, sia dalla vostra collaborazione, attuale e futura. Abbiamo bisogno di avere risposte alle domande di cui sopra, ovviamente, potete rifiutarvi, il che significherebbe farci perdere un po’ di tempo ma, per noi, non cambierebbe nulla, mentre per voi, con ogni probabilità significherebbe il capestro…» I prigionieri si scambiarono ripetute, lunghe occhiate. Rispose in inglese il pittoresco personaggio con un occhio solo: «Non sappiamo se c’è rimasto qualcuno all’interno, è improbabile. La destinazione della nave era Feodosjia, gli SS-20 sono ancorati nell’unica stiva che parte da metà della nave fino al portello di carico poppiero. Per arrivarci le vie sono due, attraverso il tunnel del primo piano di stiva o dal portellone esterno. Riguardo alle testate, io sono… ero il comandante di questa nave, sono all’oscuro dei particolari tecnici cui vi riferite.» «Quindi, non eravate diretti a Soči. Quando è avvenuto questo cambiamento di programma?»
«La scorsa notte.» «Per ordine di chi? » «Mosca!» «Firmato da chi?» «Dal generale Artmenko.» «Vi ha raggiunto qualcuno nella nottata?» «Altri sono arrivati con un idrovolante nel primo mattino.» «Da Soči?» «Sì, da laggiù.» Aquila si rivolse all’uomo tarchiato, quello che lo aveva mandato all’inferno. «Ripeto: dobbiamo smontare le testate e rendere gli ordigni nucleari corpi liberi.» «Ma tu chi sei?» «Non ha importanza…» Il coriaceo uomo abbassò lo sguardo, sembrava un orso ferito. «Per smontare le testate, dovete…» «Non in russo! In inglese, in modo che tutti seguano.» Alcuni minuti dopo, Aquila si rivolse al capitano. «Il piano di stiva è sicuramente impraticabile, gli impianti idraulici sono saltati e il portellone non agibile. Direi di far saltare con una carica dirompente il boccaporto di poppa e calarci giù con le cime.» «La nave è ridotta male, proviamo prima per il tunnel.» «La sconsiglio, capitano.»
«Mandiamo un uomo. Burt, prendi una torcia e vedi se attraverso il groviglio di lamiere riesci a raggiungere il piano di stiva, poi cerca il tunnel poppiero.» Alla luce della torcia, il commando si faceva strada tra le ferraglie contorte di quelle che fino a qualche ora prima erano le scalette che portavano in sottocoperta. La luce tagliava il denso, irrespirabile fumo che permeava l’aria di un rancido odore di olio bruciato, nafta e cordite. Per un istante il commando si bloccò, un cadavere era spiaccicato contro una paratia, doveva essere uno dell’equipaggio. Gli parve di udire un rumore provenire dal basso, con l’indice sfiorò il grilletto della Heckler, fece alcuni i, la luce della torcia sembrò inquadrare un’ombra. «Alt!» urlò. Burt aveva parlato prima di sparare e questo gli costò la vita: una raffica di Skorpion lo colpì in pieno ventre. Nell’accasciarsi a ridosso della lamiera, il commando pigiò il grilletto, la pistola mitragliatrice vomitò l’intero caricatore e nell’irreale luce della torcia caduta di lato, i due moribondi per un istante sembrarono fissarsi, infine sia il commando, sia l’ultimo uomo dell’equipaggio, scivolarono a terra privi di vita. Due minuti dopo, intorno ai cadaveri erano in tre; chinandosi, Aquila chiuse gli azzurri occhi del giovane. «Portiamolo via!» affermò bruscamente, fissando il capitano. Fuori, l’italiano, si rivolse di nuovo in lingua inglese al guercio: «Abbiamo bisogno di un gruppo elettrogeno, fari, attrezzi da lavoro, un paranco e delle carrucole.» «In fondo alla stiva centrale, sulla destra ci sono degli scomparti che fungono da magazzino, all’interno troverete ciò che vi occorre» rispose mestamente, l’interrogato. Da una tasca della giacca a vento a brandelli, Aquila tirò fuori un pacchetto di Philips Morris, si rivolse a Thomas. «Se vogliono fumare, gli accenda una sigaretta e gliela infili tra le labbra.» Era buio, i cinque, tra bossoli di mitragliatrice, schegge, lamiere contorte e chiazze d’olio e nafta, erano sopra la copertura metallica, in fondo al ponte poppiero. Aquila si rivolse al capitano. «Piazziamo due cariche, una qui, l’altra laggiù. Le telecamere?» «Le abbiamo negli zaini.» «Bene! Prendetene tre.»
i diresse presso il cadavere di Hoocker e gli tolse la maschera antigas. Due rapide esplosioni fecero ancora una volta vibrare pericolosamente le paratie del relitto e, poco dopo, uno dietro l’altro, i cinque si calavano giù con una gomena. Alla luce delle torce, il capitano fece un cenno, gli oblò furono aperti e all’istante si creò un’intensa corrente d’aria; ora, come fumaioli, le voragini sul boccaporto superiore iniziarono a espellere nuvole di fumo nero. I cinque, misero in funzione un gruppo elettrogeno e accesero cinque fari. Aquila si tolse cautelativamente la maschera antigas, fece cenno agli altri di imitarlo. Subito sul ponte fu installato un paranco e la squadra iniziò a darsi un gran daffare. Un’ora dopo, tappi rossi e buste con i codici furono ficcati in uno zaino. Era notte piena, le tremende armi erano ora corpi liberi e, di lì a mezz’ora issate in coperta tramite il paranco, mentre in acqua il gommone con il ferito sciabordava ancora. Alla luce di un faro, i pesantissimi cilindri e i cadaveri dei commandos furono allineati a ridosso dello sgangherato parapetto, all’altezza di quello che era il cassero centrale. Aquila si rivolse al gruppo: «Holden! lei e Volley andate dall’altra parte a prendete i due battelli, in uno caricheremo i nostri morti; lo guideremo io e il capitano. Lei tenente, con Volley, Thomas e i russi salirete sul secondo, l’ultimo, con il ferito e i due ordigni lo guiderà Harrison. Prima di abbandonare la nave, trasmetteremo all’elicottero il punto di raccolta, impiegherà una ventina di minuti per raggiungerci. Nel frattempo, io e lei capitano, scenderemo di nuovo nella stiva per colare a picco il relitto; piazzeremo quattro cariche al plastico sulla base di galleggiamento, tarate a trenta minuti.» Poggiato al parapetto, con lo sguardo rivolto alle stelle, Aquila fumava pensieroso. Goldsmith gli si avvicinò. «Sa una cosa, comandante?» «Cosa, capitano?» «Paradossalmente, quei due elicotteri ci hanno dato una considerevole mano. Senza di loro non avremmo potuto farcela.» «Già, a volte il destino è bizzarro…» rispose melanconicamente Aquila. Subito dopo sbirciò l’orologio, erano le 22.30 ore locali, ormai da quasi sette ore il relitto era immobilizzato. L’italiano tirò fuori di tasca un secondo foglietto, lo porse a Goldsmith. «Chiami Londra a questo numero e li informi sull’esito della missione, dopo caliamoci sotto, dobbiamo affrettarci.»
Alcuni minuti dopo i due erano con una gomena tra le mani. «Capitano, prenda contatto col Sea Dragon, comunichi che il punto d’incontro…» un sibilo acutissimo, seguito da secchi rumori metallici di schegge infrante mozzò le ultime parole, il cielo divenne bianco, un pezzo di murata prodiera si volatizzò e come l’eco d’un tuono, il boato si propagò nel silenzio notturno. «Chi diavolo è ora!» urlò Goldsmith, portandosi agli occhi il binocolo a infrarosso per l’espansione d’immagine notturna. «Tutti giù!» qualcuno urlò dai gommoni. «Filate verso ovest, presto!» urlò Aquila, sporgendosi dal parapetto. Un secondo proietto esplose in mare, alzando una colonna d’acqua, lo scroscio di ricaduta infradiciò gli occupanti del gommone di Holden. Goldsmith allontanò il binocolo. «Due motosiluranti prive d’insegne, sembrano appartenere alla classe spiga. Usano il cannone contraereo, sono evidentemente i compari degli equipaggi dei due elicotteri.» «Quanto distano?» urlò Aquila. «Non ho potuto verificarlo, ma sono vicine, direi poche centinaia di metri. Non c’è tempo, abbandoniamo la nave, presto comandante!» Ora i tre Nswrib filavano nella tenebra fendendo le onde a oltre quaranta nodi orari, il gommone di Aquila era l’ultimo, distanziato dagli altri di oltre cento metri. Per quanto quei mezzi d’assalto fossero veloci, le due motosiluranti di fabbricazione svedese sembravano tenere loro testa; all’improvviso la tenebra fu squarciata dalla luce di due fari costieri. Oltre al cannone, ora sparavano anche le mitragliere di bordo. Il fischio fu assordante, due colonne d’acqua si alzarono e, un istante dopo, il mezzo d’assalto di Aquila prese lo scroscio di ricaduta. «Maledizione! Sono classe spiga due, hanno missili antinave e siluri teleguidati.» urlò Goldsmith, incollato agli oculari del binocolo. «Siamo perduti, capitano. Non potremo sfuggire ai loro siluri teleguidati. Diamo la possibilità agli altri di mettersi in salvo, facciamoli virare di novanta gradi, noi tireremo dritto.» «Sì comandante, è l’unica possibilità…»
Goldsmith non aveva finito di parlare, che all’istante la notte divenne giorno. All’unisono i due si voltarono: la palla di fuoco era enorme, altissime lingue bianche e vermiglie saettavano nel cielo diventato rosa chiaro, infine, come l’eco di un tuono caduto a pochi metri, lo spostamento d’aria investì il battello, facendoli traballare. Illuminati da irreali luci miscelate da una sequenza cromatica in continua trasformazione, bagnati e sballottati, i due si guardarono increduli, ora, lingue di fuoco iniziavano ad alzarsi dall’acqua. Tra il generale sbigottimento, due battelli si fermarono e il terzo rallentò. Erano ati meno di venti secondi quando con drammatica sequenza, lo spettacolo si ripeté con la seconda motosilurante. Tre minuti dopo, alle spalle dei gommoni c’era solo un’impenetrabile barriera di fiamme che si ergeva tra le onde. Nessuno degli undici sopravvissuti aveva aperto bocca, tale era stata l’incredulità e la meraviglia. Fu Aquila il primo a parlare: «Mi dia quel binocolo, capitano.» Mentre onde anomale investivano i battelli d’assalto e il rollio andava in crescendo, con i resti della giacca a vento svolazzanti, Aquila puntò l’indice verso il buio. «È appena emerso, laggiù, a meno di trecento metri; un sommergibile, sicuramente nucleare, dalla sagoma sembra americano, classe Los Angeles direi. Capitano: trasmetta all’elicottero di tornarsene tranquillamente a Smirne, poi chiami Londra e li informi dell’accaduto, specificando che quasi certamente per qualche giorno saremo ospiti.»
Aquila era seduto, poggiato con i gomiti su un piccolo tavolo metallico all’interno di un’angusta cabina. Aveva una coperta sulle spalle e davanti una tazza di caffè bollente e mezza bottiglia di whisky. I feriti erano stati sistemati in infermeria, i commandos da qualche parte e i russi altrove. Alzò la testa, lo sguardo cadde su un calendario attaccato alla parete metallica, un cerchietto magnetico era fissato sopra al giorno, 21 Saturday. “Solo una settimana fa sono entrato in Russia, sembrano trascorsi dieci anni” pensò. Una mano gli si pose su una spalla, alzò lo sguardo; un uomo alto e biondo i cui fregi sul tettuccio del berretto lo qualificavano ufficiale comandante e i galloni sulle spalline della camicia capitano di vascello, gli allungò la mano, dicendo: «Il mio nome è Felix Flitcher, comandante del sommergibile della marina degli Stati Uniti, Baton Rouge. Benvenuto a bordo, comandante. Desidero
congratularmi con lei e i suoi uomini. Senza di voi, Girasole non l’avremmo potuta mai raggiungere.» «Girasole è un rottame» affermò Aquila, con un filo di voce, restituendo la stretta. «Lo sappiamo, è stata osservata al periscopio.» «Avevamo due ordigni nucleari, erano le testate dei missili russi SS-20 facenti parte del carico della nave. Dove sono?» «Al momento, sono sotto custodia cautelativa della marina da Guerra degli Stati Uniti d’America.» «Il ferito grave e i prigionieri russi?» «Al ferito gli stiamo dando ogni assistenza possibile, mi è stato riferito che forse se la caverà. Riguardo ai russi, come gli ordigni, anche loro al momento sono sotto nostra custodia.» «Gli uomini? Li state forse interrogando?» «Assolutamente no… diciamo che stanno informalmente conversando con il capitano di corvetta Martinez.» «Avevamo dei nostri morti, caduti durante l’azione.» «Stiamo allestendo per loro un vano frigo nella cambusa.» In quel momento una leggera vibrazione sembrò investire il sottomarino, Aquila sbirciò all’interno della tazza, il caffè oscillava lievemente «Cos’è stato?» «Era Girasole.» «Era?» Lentamente, Flitcher annuì: «Yes, it was… – Si era…»
Quella notte il Baton Rouge navigò in emersione verso il Bosforo con i marconisti impegnati al massimo, causa il traffico satellitare scatenatosi sia da Langley, sia da e per Norfolk. Il pomeriggio del giorno dopo, il sommergibile raggiunse il Mar di Marmara, Aquila, il resto della squadra dei Royal commandos e le salme furono trasbordati sul Sea Dragon ammarato un’ora prima in un punto stabilito e, finalmente, nella prima serata di domenica 22 raggiunsero Smirne. Il ferito grave con i prigionieri e gli ordigni nucleari, rimasero a bordo del sottomarino che continuò la sua navigazione verso il Mediterraneo centrale, dov’era previsto un incontro con delle unità della sesta flotta. Nella mattinata di lunedì, da Londra arrivarono due dell’MI-6 e un funzionario del Foreign Office, i tre, insieme all’italiano si rinchio per l’intero giorno in un ufficio del locale comando NATO. Martedì mattina, a bordo di un Falcon il quartetto spiccò il volo per Londra.
TERZA PARTE
Capitolo XXII
A Washington era l’una di notte di domenica 22 ottobre, quando l’ambasciatore russo fu fatto saltare giù dal letto. Tre quarti d’ora dopo, accompagnato da un’assistente e due marines, il diplomatico fu introdotto in un ufficio della commissione esteri del Senato, dove ad attenderlo, c’era il Segretario di Stato Simom Sherling e il Consigliere del Presidente Jimmy Freiseler. Alle 6 del mattino, trafelato e sudaticcio, con la cravatta allentata e scuro in volto, l’ambasciatore scendeva i gradini del Capitol Hill. Da quel momento iniziò un intenso, sotterraneo lavorio diplomatico che coinvolse le cancellerie delle ambasciate di quattro paesi CEE, degli Stati Uniti e della Russia.
Nell’ultima settimana di ottobre, il capo del SIS, l’assistente capo responsabile delle operazioni e il controllore dell’Europa dell’Est, per due volte volarono a Washington su invito di George Maxwell e del suo vice.
Aquila trascorse le successive due settimane a Londra con Korin. I due alloggiarono per qualche giorno all’hotel Royal Garden, poi si trasferirono in un appartamento nel quartiere di Chelsea, messo momentaneamente a disposizione dai servizi segreti britannici. In quel periodo egli partecipò a riunioni, alcune tenutesi alla Century House, altre in un anonimo appartamento in Bond street. I primi di novembre, i due avevano deciso di spiccare quanto prima un salto a Berlino, per sistemare le cose di lui, sarebbero poi ati per Colonia, dove Korin voleva rivedere due vecchie zie, sorelle del padre viste nella sua vita solo tre volte, e finalmente, i due sarebbero partiti per l’Italia, ando da Zurigo e da Vienna. Preoccupato perché i tempi previsti per il suo rientro rischiavano di non essere conformi alla parola data, Aquila si fece vivo, chiamando il locale presidio dei carabinieri giù in Toscana, pregando qualcuno di avvertire i ragazzi che i corsi di lingua inglese sarebbero ripresi quanto prima. Al mattino del 6 di novembre il telefono squillò, rispose Korin che subito, con voce velata d’apprensione, chiamò il suo uomo in quel momento sotto la doccia. Aquila ò il pomeriggio seguente in Vauxhall cross, poi la sera i due
andarono a cena al Balì Sugar, in all Saint’s Road. Usciti dal ristorante, salirono su un taxi; arrivati a metà della Westbourne Park Road, Aquila prese la mano di lei e, intrecciando le dita con le sue, in lingua italiana la buttò giù così, dicendo: «Nella mattinata di domani dovrò spiccare un salto a Mosca.» La donna fu come pervasa da una scossa elettrica. «A Mosca?» «Si tratterà solo di un giorno. Probabilmente sarò di ritorno nella serata di dopodomani.» La voce di Korin divenne tremula. «Dopo quella telefonata di stamani, per tutto il giorno ho avuto una sgradevole sensazione, non sbagliavo! Ti prego, Oscar, non andare, non forzare la fortuna, partiamo domani per Berlino. Non basta quello che hai ato e ciò che abbiamo dato? Che cosa vogliono ancora da te? Perché tornare nella fossa di leoni?» «Non correrò alcun rischio, andrò al seguito di una… definiamola Legazione Diplomatica. Ufficialmente come accompagnatore informato dei fatti, in realtà sarò là per chiarire e mettere a fuoco i lati oscuri della vicenda appena terminata e della quale, ora tu sai quanto me.» Lei lo abbracciò con tutta la forza che aveva. «Intendi mettere le carte in tavola? Ti rendi conto? È una follia!» Aquila sbirciò lo specchietto retrovisore, il conducente, invece di prestare attenzione alla strada, aveva gli occhi fissi su di loro. Delicatamente, cercò di allentare la stretta. «Non sono certo io a voler porre le carte in tavola, sono i russi che vogliono spulciare l’intero mazzo e, dopo quanto è successo, l’MI-6 non può sottrarsi dal presentarlo, scoperchiando i sepolcri ammuffiti dal tempo.» «Ho terrore al solo pensiero di saperti di nuovo laggiù.» «Tranquillizzati… domani pomeriggio siamo attesi al Kremlino, pernotteremo all’Ambasciata Britannica e, come affermavo poco fa, dopodomani ritorneremo.»
«Ma perché devi andare tu? Cos’hai da spartire ancora con l’MI-6 e l’Interscambio, dopo tutto quello che hai fatto per loro?» «Io non ho niente da spartire con loro, il problema è la rilevanza di quello che è successo. Come affermato, i russi nella loro diffidenza vogliono chiarire ogni dettaglio, pena un brusco irrigidimento delle relazioni diplomatiche e, forse, questa volta la ragione è dalla loro parte. Devo andare anch’io perché, come ora ben sai, i fatti susseguitisi da un mese a questa parte avevano un filo diretto col ato, ato che allora mi coinvolse in un ruolo non secondario. In realtà, la Guerra Fredda non terminò con l’abbattimento del Muro di Berlino, probabilmente essa è finita col fallimento dell’operazione Gengis Khan. Diciamo che questa sarà l’ultima gabella che dovrò pagare per stendere un velo definitivo sui miei trascorsi, uscendone finalmente rigenerato. Tu lo hai già fatto venendo via con me, lontano dalla Russia.» «Quindi, andresti a rompere il vaso di Pandora…» «Più o meno…»
Capitolo XXIII
Erano le 14 ore locali del sette novembre, quando con i fari accesi, il Falcon 900 spuntò dal nevischio al margine della pista dell’aeroporto moscovita di Vnukovo. Poco dopo tra i vapori dei getti d’acqua calda irrorati poco prima da un’autocisterna, il piccolo aereo atterrava, parcheggiando in un’area riservata. Aquila, in completo grigio sotto un pesante loden blu, scese la scaletta seguito da altri tre uomini. Tutti avevano in mano una borsa di cuoio gonfia di documenti. Dopo brevi, formali presentazioni, i quattro furono invitati a salire sulle tre auto con targa diplomatica. Ad un’uscita secondaria dell’aeroporto, alla vista delle vetture, gli agenti di guardia alzarono la barra senza che ai eggeri fosse chiesto documenti o altro. Un’ora dopo, tra le ultime luci del breve crepuscolo autunnale russo, le tre Mercedes con i mezzi fari accesi varcavano le mura del Kremlino, ando dalla porta carraia della torre della Trinità, la stessa che varcò Napoleone in testa alle sue truppe. L’ala nord del magnifico palazzo dei Congressi scivolò lentamente alla destra del piccolo convoglio, mentre a sinistra, a ridosso del muro, iniziavano i giardini perimetrali interni del Kremlino con le aiuole spruzzate di neve. Di fronte, tra il chiarore dei lampioni e gli ultimi guizzi di luce del morente, freddo giorno, si intravedeva la nobile dimora del Patriarca. In fondo, di fianco al grande edificio d’epoca del Kremlino, era visibile un’ala del palazzo dei Diamanti e, più in là, spiccavano le guglie bianco-oro della bellissima Chiesa dei Dodici Apostoli. Dolcemente i pneumatici si bloccarono, scivolando sulla poltiglia nevosa, fermandosi davanti all’ingresso dell’ala che collega il palazzo dei Congressi alla parte est della Cattedrale dell’Assunzione, che con le sue guglie dorate è un’opera unica per fascino e magnificenza. Alcuni uomini scesero dalle auto, altri rimasero all’interno. Due funzionari dei servizi di sicurezza russi si diressero verso la porta d’ingresso, mostrando le loro tessere di riconoscimento alle guardie della MBR{59}. «Solo qualche minuto, signori» fece rivolto al gruppo, uno dei due ufficiali accompagnatori della FSB. Dopo essere stati perquisiti e il contenuto delle borse controllato, il responsabile del dipartimento operazioni del SIS Arrold Barlow, un funzionario del Ministero
degli Esteri britannico, il dottor Manfred Ludwig Gürtner, l’addetto Militare dell’Ambasciata Britannica a Mosca commodoro Alfred Caldwell e Aquila, accompagnati da due ufficiali MBR, percorsero il lungo corridoio sotto lo sguardo delle guardie del servizio di sicurezza del Kremlino. I sette entrarono in una grande sala illuminata da stupendi lampadari di cristallo; statue di marmo di varia grandezza indicavano la solennità del luogo, dalle pareti coperte di broccato color oro spiccavano oli d’epoca e icone di varia grandezza. Un grande ritratto di Caterina di Russia col manto d’ermellino troneggiava in una parete laterale. In fondo alla sala, girarono a sinistra, prendendo un lungo corridoio; davanti a una porta di quercia, uno dei due ufficiali bussò. Poco dopo, uno per volta, gli ospiti stranieri entrarono in una delle sale riunioni del palazzo dei Congressi, poste al piano terra sul lato est. Alcuni commessi si presero cura dei loro soprabiti, sparendo subito dopo. La sala era grande e ben illuminata da tre lampadari di cristallo, posti al centro del soffitto carico di stucchi. Le pareti, coperte da pannelli di mogano tirati a lucido, erano spoglie, come vuoto era il lungo tavolo di noce dietro al quale sedevano tre uomini, membri di qualche comitato formatosi a seguito della crisi venutasi a creare. Due di loro erano in abiti civili, l’altro, indossava l’uniforme militare i cui gradi e mostrine lo qualificava tenente generale di fanteria. All’istante ogni ospite ebbe la sgradevole percezione che l’aria fosse permeata di ostilità, gli occhi dei tre russi esprimevano freddezza e diffidenza. Sul tavolo non c’erano bottiglie di bibite o acqua minerale, come non si notavano cartellini con i nomi dei partecipanti, si notavano solo dei posacenere con mozziconi di sigarette e delle cartelle gonfie di documenti. Non ci furono presentazioni o strette di mano, uno dei due russi in abiti civili, alto e piuttosto in là con gli anni, con voce incolore indicò le poltrone sull’altro lato del tavolo, dicendo: «Prego, accomodatevi.» Il funzionario aveva parlato in russo, ciò significava che la conversazione si sarebbe svolta in quella lingua e data la delicatezza degli argomenti, non erano previsti interpreti. Nel sedersi, Aquila pensò che, sebbene i membri della legazione fossero stati scelti tra chi aveva una certa padronanza della lingua russa, non tutti sarebbero stati in grado di seguire i dialoghi nei dettagli. Dopo alcuni minuti d’imbarazzante silenzio, rotto dal fruscio delle carte, la porta di quercia si aprì di nuovo ed entrarono altri tre uomini. Anche questo terzetto era composto di due civili e uno in uniforme militare. I gradi sulle spalline del grosso, occhialuto militare, lo qualificava quale colonnello generale, mentre mostrine e fregi dimostravano egli appartenere alla MBR. Aquila arguì costui essere Anatoly Samoilov, comandante dei servizi di sicurezza ministeriali del Kremlino e della guardia presidenziale. Dopo che i tre si furono rumorosamente
sistemati, l’uomo che aveva invitato a sedere gli ospiti alzò gli occhi dalle carte e, in tono caustico, in lingua russa, chiese: «Siete qui in nome del governo britannico, del Secret Intelligence Service o… dell’Interscambio?» Era domanda superflua, tale grossolana ironia, poteva solo essere volutamente offensiva. Il colloquio era stato preparato da giorni e loro sapevano benissimo chi rappresentassero quegli ospiti. Dopo un istante d’imbarazzo, gli sguardi dei cinque stranieri s’incrociarono. «Questa delegazione parlerà in nome del Governo di sua Maestà. Alcuni di noi, anche se non cittadini del Regno Unito, sono persone informate dei fatti e hanno facoltà d’intervenire» rispose in un russo incerto, il funzionario degli esteri. Un secondo uomo piuttosto giovane aprì una cartellina, sbirciò brevemente alcuni fogli, alzò lo sguardo, dicendo: «Le personalità coinvolte in questa sconcertante vicenda occupano posizioni delicate, ci auguriamo che non abbiate commesso errori…» «Possiamo chiedere, dove si trovano al momento i generali Petrov, Artmenko, Uglanov, Borosovičh, Nikolaenko e il professor Arkady Markov?» chiese Manfred Gürtner. Rispose il tenente generale. «Sono in stato di arresto. Ora e fino a quando tutta questa faccenda non sarà chiarita, rimarranno in celle d’isolamento. Alcuni sono a Lefortovo, altri alla Butyrka. Il professor Markov è stato trovato in stato di decesso, nella propria abitazione.» «Trovato morto?» chiese Barlow. «Esattamente. Nella serata di domenica ventidue ottobre, poco prima che la FSB andasse ad arrestarlo! Fu la colf che, non potendo entrare, dette infine l’allarme.» «Posso chiedere come e quando è morto?» chiese Aquila, prendendo impropriamente la parola. Udendo quell’accento, all’unisono i russi volsero lo sguardo verso quell’interlocutore. Il generale continuò: «Le indagini hanno accertato trattarsi di suicidio, la morte risalirebbe a circa tre giorni prima.» L’italiano socchiuse brevemente gli occhi. «Possiamo chiedere se, come da nostra richiesta, sono stati eseguiti dei controlli
nella vostra base di raccolta e transito di Khariskija?» chiese l’addetto militare Alfred Caldwell. Visto il piano sul quale, con una certa arroganza, i padroni di casa erano intenzionati a far scivolare la discussione, quella domanda era d’importanza cruciale. I russi si lanciarono delle occhiate, parvero tacere, ma non potevano sottrarsi dal rispondere, pena il rischio di una rottura che non avrebbe risolto i loro scottanti enigmi. Parlò di nuovo il tenente generale. «L’ispettorato dell’Esercito ha eseguito i controlli del caso. Da quella base, risultano mancanti due Vettori nucleari SS-20 classe M-uno. L’allora temporaneo responsabile è a Lefortovo, alcuni ufficiali in forza in essa sono nel carcere militare di Vorkuta, come a Vorkuta si trova l’ex direttore del centro demolizioni di Ust-Kara.» Aquila pensò che quel tenente generale fosse un vice capo di qualche commissione dell’ispettorato militare. Il grosso colonnello generale spense la seconda sigaretta nel posacenere e, prima di prendere la parola, tossì ripetutamente senza formulare scuse. «Si! Le vostre informazioni riguardo alla scomparsa di due SS-20 erano corrette, – disse e continuo – ma sia voi, sia gli americani, ci avete informato solo dopo che avevate preso possesso degli ordigni nucleari, uccidendo degli uomini e affondando una nave attraverso una vostra autonoma e illegittima operazione militare. Rammento, che gli uomini erano di nazionalità russa e i mezzi appartenevano alle Repubbliche indipendenti della Federazione Russa. Se questa fantascientifica operazione Gengis Khan corrisponde al vero, dovrete spiegarci come sia stato per voi possibile ottenere simili informazioni, quando i nostri servizi segreti ne erano all’oscuro. Per noi, la lettura è semplice: evidentemente, sia voi, sia gli americani, avete ancora sul nostro territorio e in perfetta efficienza, delle capillari reti spionistiche e questo, in barba ai trattati stipulati. Egregi gentlemen, tutto ciò, noi non possiamo permettervelo! In ogni caso, indipendentemente dal vostro intervento, quest’incredibile, terroristico delirio utopistico non avrebbe mai potuto conseguire successo.» Il colonnello generale pronunciò gentlemen con sarcasmo, in un crescendo di voce e con perfetto accento inglese. “Che ingrata faccia di culo; questa è l’accusa chiave e il cavallo di battaglia che permetterà loro di riequilibrare la bilancia, dopo il tremendo smacco psicologico
e d’immagine che hanno subito” pensò Aquila, nell’estrarre dalla sua borsa due voluminose cartelle. L’MI-6 e la CIA si aspettavano simile reazione e la risposta per tali, eventuali, generiche argomentazioni era stata concordata giorni prima a Langley da David Collins e George Maxwel. I russi non trovarono impreparato il responsabile del dipartimento operazioni del Secret Intelligence Service Arrold Barlow il quale, pacatamente, prestando attenzione alle parole, intervenne miscelando sapientemente verità e sfumate menzogne. «Egregi signori, eccetto una vostra emblematica figura ata nelle nostre fila nel lontano 1986 e del cui ruolo in questa sede è nostro assoluto intendimento fare totale chiarezza, noi non abbiamo spie sul vostro territorio, tantomeno capillari reti spionistiche tese a ledere gli interessi del vostro paese. Siamo inoltre inclini a ritenere che stessa cosa possa affermarsi per gli americani, ma sarà la loro amministrazione che, eventualmente, dovrà darvene conto. Le informazioni concernenti all’operazione Gengis Khan, i cui contenuti e fini sono dettagliatamente descritti nelle relazioni inviatevi, provengono dalla CIA e noi le ottenemmo per il tramite degli americani nella prima decade dello scorso mese di ottobre. Essa le ottenne casualmente, per mezzo del sistema satellitare di controllo globale delle comunicazioni telefoniche: il loro Echelon. – Barlow continuò mentendo – Nella seconda metà del mese di settembre, sembra che un satellite in orbita geo stazionaria sulla verticale di un non meglio precisato punto, per un anomalo funzionamento del sistema protettivo della frequenza di un canale della vostra rete di telefonia mobile, captò ripetutamente nell’area di Mosca alcuni brani di conversazione. Essi, come tutti i messaggi rilevati dal sistema Echelon, furono dagli americani inviati nei loro centri di codifica, sia in Arizona, sia a forte Worth nel Texas. Risultò che il canale su cui correvano quelle trasmissioni era una particolare linea protetta dalle intercettazioni ed i relativi numeri dei cellulari, facevano capo uno al generale Vladimir Uglanov, l’altro al generale Ivan Artmenko. Dopo alcuni giorni, a forte Worth riuscirono a codificare i vari spezzoni del colloquio, traendone un incerto quadro d’insieme dal contenuto sconcertante, al punto, che sempre per il tramite di Echelon, i due numeri furono messi sotto controllo. Di lì a breve, saltò fuori in tutta la sua drammaticità il progetto dell’operazione denominata dai cospiratori Gengis Khan. A quel punto, sia per la gravità e delicatezza delle informazioni, sia per non creare panico e allarmismi con il rischio di insospettire i cospiratori, la CIA preferì tenervi all’oscuro.»
Al balzo prese la parola Alfred Caldwell: «Inoltre c’era un altro motivo, le stesse informazioni potevano rivelarsi mendaci, parziali o, inesatte.» «Precisamente, – fece eco Barlow, e continuò – avvertirono noi perché il raggio d’azione degli SS-20 poteva estendersi fino in Gran Bretagna. Da parte nostra, poiché il pericolo si estendeva anche ai paesi della Comunità CEE, autonomamente ma in concerto con l’agenzia Interscambio, inviammo qui a Mosca un nostro anonimo agente specialista di problemi russi, che nel giro di qualche giorno riuscì a fare chiarezza sbrogliando la matassa. Possiamo assicurare che gli americani agirono in maniera autonoma, senza che tra loro e noi ci fosse consulto o preventiva azione combinata e che il Mar Nero fu pura coincidenza.» «Ma quando avete deciso di agire, ando all’azione militare, eravate già certi che il tutto non fosse frutto di disinformazioni o errate valutazioni. Perché non ci faceste partecipi, informandoci prima d’intervenire? In fondo era roba nostra, no? Vi pregheremmo signori, di voler chiarire questo punto.» Aveva parlato uno dei quattro in abiti civili, persona di mezza età con voce calma, tono cortese e linguaggio colto. Aquila pensò fosse un diplomatico di alto livello. Il funzionario degli esteri sciabolò con lo sguardo Arrold Barrow e il dottor Gürtner, questi parvero fare un breve cenno di assenso, l’impacciato diplomatico britannico prese di nuovo la parola. «Desideriamo ancora una volta porre in rilievo che l’intera nostra azione, prima tesa ad accertare i fatti e, dopo a neutralizzare la potenziale minaccia che il carico di quella nave rappresentava per l’intera collettività, è stata decisione autonoma. Non c’è mai stata convergenza o azione congiunta tra noi e gli americani, al punto che ancora non sappiamo quale sia stata la destinazione dei due vostri ordigni nucleari sottratti ai nostri uomini in un loro sottomarino. Inoltre…» Il diplomatico fu bruscamente interrotto dal colonnello generale. «Non preoccupatevi degli ordigni nucleari. I vostri parenti ce li hanno restituiti un paio di giorni fa. Risponda piuttosto, senza prenderla tanto alla larga, del perché non siamo stati avvertiti in tempo utile», subito dopo il corpulento generale accese un’altra sigaretta. La difficoltà della lingua e l’argomento scivoloso, avevano impregnato di sudore
la fronte del funzionario degli Esteri, fu il capo del dipartimento operazioni del SIS a togliergli le castagne dal fuoco, intervenendo di nuovo. «Eravamo in una situazione tale da non poter porvi al corrente prima d’aver toccato con mano l’enormità del fatto accaduto. – Barlow rivolse lo sguardo verso l’uomo d’aspetto giovanile – Lo ha detto lei! Le personalità coinvolte occupano posti delicati ed erano sopra ogni sospetto. Sebbene ormai da qualche tempo avessimo qualche percezione, non potevamo correre il rischio di commettere errori bruciando il tutto. Prima d’informarvi dovevamo essere assolutamente certi, andando fino in fondo!» Gli occhi dei russi divennero vacui. Stava per parlare il tenente generale, ma con un gesto della mano il gentiluomo di mezza età lo prevenne rivolgendosi all’inglese: «Temo che nessuno di noi abbia ben compreso il significato delle sue parole. Forse c’è qualche problema di comunicazione, se preferisce, può parlare nella sua lingua, ognuno di noi la comprende perfettamente…» L’ironia era solare. «No! Intendevo affermare esattamente ciò che ho reso comprensibile. In precedenza, ho accennato a un vostro emblematico personaggio, ato al SIS nel 1986 e recentemente rivelatosi il più abile triplo giochista degli annali della storia dello spionaggio, il cui nome in codice ricopre lo pseudonimo di Amleto.» «Amleto…?» chiesero all’unisono due russi, interrompendo Barlow. «Esatto! Amleto…» I due russi si scambiarono un’occhiata, infine quello calvo che, dalla descrizione fattagli da Korin a Londra, Aquila arguì essere il direttore della FSK, affermò: «Se non vado errato, questo è il nome di una vecchia indagine. A suo tempo lessi alcuni verbali che la riguardavano, mi sembra di ricordare che il caso fu archiviato.» L’altro russo annuì. «Sì, è così» disse, facendo cenno all’inglese di continuare. «Stavo dicendo, rivelatosi essere il più abile triplo giochista degli annali della storia dello spionaggio. Vedano… nella prima decade dello scorso mese di ottobre, quando il governo britannico attraverso le informazioni forniteci dalla CIA ebbe sentore di ciò che all’interno del vostro paese stava succedendo, noi dell’MI-6 rimanemmo perplessi. Era strano, tali informazioni sarebbero dovute già esserci pervenute per il tramite di Amleto, personalità russa che ricopre un incarico delicato nei vostri servizi di spionaggio e controspionaggio.
Attendemmo invano sue notizie, e ciò acuì i nostri sospetti riguardo a un suo eventuale ruolo in quest’operazione. Sul finire, eravamo quasi certi che egli fosse coinvolto in prima persona nell’operazione Gengis Khan, ma dovevamo muoverci con estrema cautela e avere prove certe. – alzò lo sguardo – I vostri servizi segreti erano all’oscuro di tutto, se ci fossimo mossi informandovi, sarebbero ovviamente venuti a conoscenza e con loro sicuramente Amleto, ciò avrebbe permesso ai cospiratori di volatilizzare le prove del colpo di Stato e occultare il progetto Gengis Khan, bruciando e vanificando l’intera nostra operazione. Per porvi al corrente, dovevamo prima salire su quella nave. Da notare che i vostri spetsnaz attaccarono per primi, la nostra fu reazione difensiva. Desidererei inoltre porre in rilievo un fattore di non secondaria importanza, la nave non batteva bandiera delle Repubbliche Federative Russe ma quella Panamense, con itinerario e destinazione clandestini. Il problema degli americani è stato chiarito, in ogni modo è un capitolo a sé stante.» Per un lungo momento i russi si scambiarono degli sguardi in cui la confusione sembrava toccare il suo apice, poi Samoliov batté pesantemente il palmo della mano sul piano del tavolo: «Questa faccenda sta assumendo contorni sempre più confusi e sconcertanti. Avete chiacchierato, parlando per enigmi. Noi pretendiamo chiarezza assoluta!» affermò in un crescendo di voce. «Credo, – affermò Barlow – sia opportuno lasciare la parola alla persona che conosce l’intera vicenda meglio di chiunque altro.» Con un cenno affermativo si rivolse ad Aquila. L’italiano aprì il frontespizio della prima cartella, era piena di vecchie sbiadite pagine della Pravda. Tra le carte, tirò fuori un foglio con alcune righe dattiloscritte in lingua inglese sotto le quali c’erano numerose, piccole caselle, ognuna aveva all’interno un carattere dell’alfabeto cirillico. Alzò lo sguardo fissando i porcini occhi del colonnello generale dietro le lenti un po’ appannate dal caldo e dal sudaticcio. «Dobbiamo tornare indietro nel ato, nel lontano 1986…» Aquila fu interrotto dal capo della MBR che tra una nuvola di fumo e schizzi di saliva, mal tollerando di essere sotto lo sguardo di quel tipo, quasi urlò: «Ma insomma! Si può conoscere identità e particolari di questo vostro Amleto o volete continuare a giocare a rimpiattino per l’intera sera?»
«Se ella avesse usato la cortesia di non interrompere, ci sarei già arrivato, generale. Preciso che costui non è il nostro Amleto, essendo egli di nazionalità russa.» Di colpo quelle parole riequilibrarono il tavolo, ponendo al giusto posto sia la forzata ironia dei padroni di casa, sia l’arroganza del grasso generale. Padronanza e perfetta pronuncia della lingua sembrarono ancora una volta polarizzare i russi i cui occhi erano ora tutti puntati su quello straniero. Parlò il diplomatico: «Voglia perdonare. Ella è russo di origine o di adozione?» «Né l’uno, né l’altro, signore. Sono di nazionalità italiana.» Nel fissare Aquila, il gentiluomo si portò la mano sinistra alle labbra, annuendo lentamente. Con lo sguardo, l’italiano inquadrò lentamente ognuno dei sei, focalizzandolo infine ancora sugli occhi del grassone, e continuò: «Il fatto signori, è che questa fantomatica talpa di nome Amleto e l’operazione Gengis Khan, di cui ora conoscete particolari e fini, erano la stessa cosa o se preferite, le due facce di una stessa medaglia. Amleto, generale, spia al soldo dell’MI-6, si identifica nella persona del generale d’armata Maksim Petrov, ex capo della seconda direzione centrale del KGB e attuale capo e presidente del vostro GRU.» Una bomba non avrebbe ottenuto lo stesso effetto. Gli occhi dei russi si dilatarono e, mentre il mormorio andava in crescendo, i volti erano diventati pallidi come cenci lavati. Lo sgomento era palpabile. L’uomo di aspetto giovanile che Aquila giudicò essere uno dei consiglieri del presidente, alzando il tono commentò: «Ma questo è inconcepibile. Già avevamo dubbi riguardo all’attendibilità delle accuse nei confronti delle personalità da voi citate, quest’ultima poi getta nel ridicolo l’intera vicenda.» «Forse è inconcepibile per una persona normale, ma certamente lineare per una mente eclettica dai contorni nebulosi quale quella del generale Petrov, ideatore e autore tra l’altro, di un’operazione dai rischi e della complessità di Gengis Khan.» «Nasce il sospetto di assistere a una gigantesca mistificazione, tesa a scardinare le fondamenta dei nostri servizi segreti e di sicurezza. Affermazioni di cui dovrete rendere conto» affermò ora con un filo di voce, il colonnello generale. Aquila non attese che altri intervenissero. «Se avessimo voluto non scardinare,
ma travolgere i vostri sistemi di sicurezza, sarebbe semplicemente bastato non fare niente. Tra l’altro, avremmo risparmiato energie e vite umane. Riguardo al rendervene conto, siamo qui per questo, – batté il dito indice sulla pila dei documenti – sempre che, siate disponibili ad ascoltarci senza pregiudiziali.» Nella sala calò nuovamente il silenzio. «Perdoni, mister?» chiese dopo qualche attimo il gentiluomo. «Baldi. Oscar Baldi.» «Ci consenta di nutrire un certo scetticismo riguardo a questa sua breve esposizione, Signor Baldi. Essa si fonda su un evidente e, contraddittorio paradosso che forse sfugge a voi occidentali, ma non può non colpire noi russi. Ella ha affermato che il generale Maksim Petrov e l’operazione Gengis Khan erano le due facce di una stessa medaglia. Ammettiamo che il Presidente del GRU fosse a capo di questa organizzazione terroristica ultra-segreta, tesa a instaurare di nuovo la dittatura comunista, scardinando l’attuale nostro ordinamento politico e giuridico. Se così fosse, egli in tutti questi anni avrebbe dovuto mantenere la propria fede, rimanendo un fervente comunista. Come spiega la sua seconda affermazione, secondo la quale, s’identificherebbe in questa vostra fantomatica spia ata al Secret Intelligence Service nel lontano ’86 con l’evidente scopo di combattere l’allora regime comunista? Le due cose mal si conciliano, non le pare?» «Questa interpretazione – ribatté Aquila – è valida per soggetti dai normali schemi logici e comportamentali, schemi che, come accennato, non hanno mai albergato nella bizantina psicologia del generale Petrov.» Il tenente generale stava per parlare, ma l’uomo alto che inizialmente aveva invitato gli ospiti a sedere, con un gesto della mano lo prevenne e, rivolgendosi ad Aquila, affermò: «La preghiamo di andare avanti, illustrandoci in modo cronologico l’intera vicenda.» “Nikolay Zakovskij, direttore della FSB” arguì l’italiano che con la gola secca voleva bere, ma non poteva e il caldo iniziava a farsi sentire. «Come chiarito in precedenza, per comprendere l’insieme degli avvenimenti si deve spiccare un salto nel ato, tornando al 1986. Fu intorno alla seconda metà dell’85 che l’allora tenente generale Maksim Petrov, con circospezione, iniziò ad infrangere il muro che cingeva la propria riservatezza e le circostanziate amicizie, per lo più
legate al partito e ai meccanismi interni di potere, rompendo al contempo la diffidenza e l’ortodosso isolazionismo dei dirigenti sovietici nei confronti degli occidentali. Con cautela, egli lentamente iniziò a orientarsi, inoltrandosi all’interno del variegato mondo delle diplomazie occidentali che gravitavano su Mosca al fine di allargare i propri contatti, il tutto abilmente mascherato sotto la copertura che, a volte, il proprio ruolo e doveri di ufficio richiedeva. Fu nel novembre del 1985 che a un ricevimento presso l’ambasciata dell’allora Germania occidentale, conobbe una figura dai contorni sfumati cui fu assegnato il virtuale nome di Romero. Circostanze vollero che, dopo essere stati presentati, quella sera i due parlassero in maniera informale, toccando temi di letteratura, scienza, politica, arte e filosofia. La conversazione, svoltasi in più lingue, fu piacevole e brillante e, alla fine della serata, l’allora capo della seconda direzione centrale KGB affermò che sarebbe stata cosa a lui gradita qualora avesse potuto di nuovo incontrare quel personaggio. Nei successivi mesi, e sempre in simili, formali occasioni, i due ebbero modo di vedersi altre volte, imprimendo man mano alle loro conversazioni una sempre maggiore discrezionalità che sfociò infine in assoluta riservatezza. Fu nel marzo del 1986 che Romero fece un salto a Londra; un mese dopo, avendo il SIS accettato ogni clausola che Petrov aveva dettato per il tramite di questo agente, egli, capo del secondo direttorato KGB, divenne sotto lo pseudonimo di Amleto un agente dei servizi di spionaggio esteri britannici, una talpa preziosissima dell’MI-6 annidata nel cuore di uno dei centri nevralgici del potere sovietico. Da allora, e fino a non molto tempo fa, per il suo tramite, Londra ha ricevuto sempre notizie segretissime e di primario valore; informazioni concernenti ai vostri piani e tecnologie militari, servizi segreti e di spionaggio, terrorismo, economia e politica. A fronte di precise clausole, dettate allora dallo stesso Petrov, le informazioni non andarono a senso unico, anche lui aveva bisogno di ragguagli, e Londra, mensilmente, attraverso particolari canali, si premuniva a inviargli messaggi classificati top secret. Queste informazioni, parzialmente superate, di fragile tenuta e comunque destinate nel volgere di poco tempo ad andare in mano alla stampa finendo in pasto all’opinione pubblica, erano per lo più dei potenziali scoop con grande valenza giornalistica; esattamente ciò che ad Amleto serviva per stendere i propri rapporti da inviare alla presidenza del KGB o al Politbjuro, accrescendo il personale prestigio al momento della loro deflagrazione mediatica. Vedano… l’MI-6 aveva tutto l’interesse affinché Amleto non solo rimanesse ben saldo nella propria posizione, ma raggiungesse alte vette. Paradossalmente, in maniera speculare, questa era anche la mira primaria di Amleto, raggiungere il trampolino da cui in un secondo tempo poter preparare e poi lanciare l’operazione Gengis Khan. In altre parole, per lui il fine giustificava i mezzi. Durante la propria carriera, egli assimilò
facendoli suoi sia il modo di pensare, sia la spregiudicatezza d’azione del KGB. La fanatica fede nella causa comunista, l’imparagonabile ambizione, la notevole intelligenza e la naturale vocazione di leader, lo condussero a concepire il suo piano; piano che avrebbe dovuto articolarsi in due azioni da attuarsi in epoche diverse. Primo, iniziare il doppio gioco, divenendo una talpa dell’Mi-6, tradendo il proprio paese destinato ormai al declino. Secondo, in un futuro non quantificabile, dare inizio a un progetto che sarebbe poi sfociato nell’operazione Gengis Khan. – Aquila si asciugò la fronte con il fazzoletto – Petrov è uomo di vasta cultura, parla fluentemente quattro lingue e una delle sue caratteristiche è di non aver mai sbagliato valutazioni, prevedendo con largo anticipo gli avvenimenti futuri. Probabilmente, già agli inizi degli anni 80, quando da maggior generale era a capo del primo dipartimento della seconda direzione centrale, egli capì che in Unione Sovietica quella disastrosa gestione era ormai divenuta irreversibile. Le enormi crepe create ogni dove, alla lunga avrebbero fatto crollare l’intera nazione, svuotando, consumando e irreversibilmente seppellendo nella coscienza del popolo, l’anima marxista-leninista e con essa l’intera ideologia comunista. Convinzione questa, che andò in lui maturando con l’invasione dell’Afghanistan, consolidatasi poi dopo la morte di Breznev e l’avvento di Andropov. È molto probabile che fosse durante quel periodo che iniziò a concepire il progetto Gengis Khan finalizzato ad accelerare l’ormai inevitabile crollo della fatiscente Unione Sovietica per poi, in un secondo tempo, quando si fossero verificate le circostanze favorevoli, del cui succedersi egli ne era certo fin d’allora, risorgere dalle ceneri e, attraverso un articolato colpo di Stato, ripristinare il Comunismo altrimenti condannato a estinguersi. Ripristinarlo in chiave moderna e duratura, con nuove e più efficaci regole sociali ed economiche in grado di competere con l’evolversi del mondo impresso dalle tecnologie occidentali! In quest’immorale, forse folle, ma lucido pensiero di concepire gli eventi, i tempi erano importanti: l’Unione Sovietica, prima crollava, meglio era! Questa, signori, è la chiave di lettura del generale Maksim Petrov, alias Amleto, alias operazione Gengis Khan e per questo egli ha tradito prima la Rodina, poi il Secret Intelligence Service e infine di nuovo la Rodina.» «Queste affermazioni sono di una portata inaudita. È impossibile che…» Aquila non lasciò continuare il Consigliere del Presidente. «Affatto, signore! Ognuno di voi, dopo aver letto la relazione inviatavi, sicuramente sarà arrivato a simili conclusioni, forse in modo sfumato e nebuloso perché non conoscevate l’esistenza di Amleto e da chi egli fosse personificato, ma l’intero quadro d’insieme non può esservi sfuggito. – fissò ancora una volta il colonnello
generale – Il problema è che è mal digeribile perché, a differenza vostra, noi fortunatamente siamo arrivati in tempo. Vedano, nessuno meglio di voi sa che i fatti accaduti nel 1991 non sarebbero neanche potuti esser concepiti, senza il benevolo avallo o la non belligeranza del secondo direttorato KGB: in Unione Sovietica non c’era cosa di cui esso non fosse a conoscenza. Il diciannove agosto di quell’anno, l’allora ministro della difesa Jažov e il presidente del KGB Kriuchkov, tentarono disperatamente di reagire, cercando senza successo di soffocare quelle che in realtà furono solo poco più che becere manifestazioni di piazza. Subito dopo, provarono a dare inizio a un contro reazione per sventare la minaccia, ma i loro ordini non furono eseguiti. In molti ambienti del KGB essi furono addirittura ignorati e, chi giocò un ruolo fondamentale in questa defezione, fu la direzione centrale più importante, la seconda, con a capo Petrov, deputata alla sicurezza interna dello Stato! Le conseguenze di questo comportamento costarono la vita sia a Jažov, sia a Kriuchkov, permettendo la caduta di Gorbaciov, l’avvento di Eltsin e il dissolvimento dell’Unione Sovietica, senza che in sostanza fosse stato sparato un solo colpo. Da tutto questo nebbioso cataclisma, Petrov emerse come vincitore e non poteva essere altrimenti. Il conseguente repulisti, verificatosi a seguito dell’amministrazione Eltsin, non solo lo lasciò al proprio posto, ma poco dopo, fu innalzato al grado di colonnello generale e gratificato con la carica di capo del GRU. Un anno e mezzo più tardi, nel 95, salì al rango di generale d’armata e presidente dello stesso delicatissimo organismo. Per lui era finalmente arrivato il momento di dare inizio al progetto Gengis Khan. Avete affermato che al momento egli è a Lefortovo, sarà interessante conoscere il suo punto di vista circa il comportamento dell’allora secondo direttorato, durante l’agosto del ’91.» «Stupefacente… assolutamente incredibile» mormorò il tenente generale. «Di là da ogni immaginazione. È inconcepibile solo il pensarlo» fece eco il Consigliere del Presidente. «Sì, incredibile…» intercalò il direttore della FSB. Aquila bloccò il propagarsi del chiacchiericcio: «Come già affermato, superiore a ogni immaginazione per comuni canoni logici, etici e comportamentali, ma assolutamente normali, se visti sotto le molteplici sfaccettature sia della cinica logica dell’allora KGB, sia sotto il profilo della fervida mente di Petrov! In ogni modo, senz’altro meno incredibile di alcuni importanti fatti verificatisi nell’ultimo periodo della storia del vostro paese, fatti che, come spesso
affermato, hanno superato ogni più sfrenata immaginazione. È molto meno incredibile, ad esempio, di quello che successe nel 1917, quando un pugno di menscevichi e bolscevichi, un’insignificante minoranza, conquistò il palazzo d’inverno spazzando in un colpo le millenarie tradizioni, l’incommensurabile potere degli Zar cambiando il mondo; molto meno incredibile delle purghe di Stalin, meno dei fatti di Chernobyl e molto meno di quelli susseguitesi nel 91. Se per il tramite di quel loro satellite gli americani non avessero intercettato quelle conversazioni, i missili sarebbero sicuramente arrivati a Soči e, contrariamente a quanto prima affermato, – rivolse per l’ennesima volta lo sguardo al colonnello generale – il delirio utopistico dell’operazione Gengis Khan, avrebbe conseguito il pieno successo con il cento per cento delle probabilità, causando in un solo colpo dai seicentomila al milione di morti.» Ora gli occhi dei russi erano sottili, e le loro labbra tese. Qualcuno cercò di prendere la parola per risposta a quell’insolente borioso, le cui parole suonavano come pesanti provocazioni, ma il direttore della FSB con un gesto della mano fece segno di tacere. Aprì una cartella, spulciò alcuni fogli e prese la parola. «Lasciamo al momento in un angolo il progetto Gengis Khan e torniamo all’interessante discorso sulle attività del generale Maksim Petrov, delle quali, però, non avete finora fornito prova alcuna. Ella ha dichiarato che Petrov faceva dello spionaggio a favore dell’MI-6, ma non avete illustrato documentazione, non siamo stati ragguagliati circa i sistemi di comunicazione, come, dove e quando avvenivano i contatti. Le chiediamo come sia stato possibile aver operato in tutti questi anni e così ad alto livello, facendo fuoriuscire dal paese informazioni importanti, senza che il KGB e il GRU prima, e la FSB e FSK dopo li scoprissero. Non siamo dei novellini, imprese del genere qui da noi non sono poi così facili!» Aquila stava per rispondere, ma Barlow con un cenno lo bloccò. Tra le sue carte, tirò fuori una copia di una vecchia pagina di un quotidiano inglese. Il testo in neretto di un articolo cerchiato a penna rossa, riportava: Quest’anno, sembra che nel Galles la primavera non voglia arrivare. Il giornale era datato 13 aprile 1986. Subito dopo tirò fuori un foglio, analogo a quello estratto in precedenza da Aquila tra gli articoli della Pravda. Alzò la pagina del giornale, ponendola in bella mostra. «Le prime quattro righe di quest’articolo, rappresentano l’allora messaggio in codice che confermava al generale Petrov egli essere da quel momento in forza nelle file dell’MI-6, secondo le clausole da egli stesso dettate per il tramite di Romero. – poi mostrò il foglio con tre righe di testo e numerosi
quadratini con all’interno delle lettere dell’alfabeto romano – Qui, abbiamo l’algoritmo matematico per la decodifica dalla lingua inglese a quella russa del su citato messaggio contenente le clausole dell’accordo. – infine tirò fuori un mazzo di moduli bancari per distinte di versamento – E qui, ci sono tutte le somme che l’amministrazione del SIS, dal 1986 gli ha trimestralmente versato su conti segreti cifrati presso la banca del Credito Estero di Zurigo prima, e in altri istituti di credito dopo. Il numero dei conti è riportato a penna in alto, in ognuno dei moduli e, come potete notare, ogni versamento era pari a centocinquanta mila sterline. Spulciando i moduli uno per uno, salterà fuori, come affermato, che i bonifici furono accreditati in più conti segreti cifrati e in diversi istituti di credito che, per ragioni di sicurezza, man mano, nel tempo, venivano sostituiti. Sarà un lavoro non brevissimo, ma con i vostri mezzi e un po’ di pazienza sicuramente potrete risalire ai canali e arrivare infine al beneficiario. Ovviamente le intestazioni dell’ente erogante non riportano la dicitura del Secret Intelligence Service, bensì in alcune quella del Ministero degli Esteri, in altre quella degli Interni. Questi documenti sono per voi, noi abbiamo le copie.» Pose le carte a posto, richiuse la cartellina e la spinse al centro del tavolo. Tra le voci in crescendo, quella del direttore della FSB si alzò sopra le righe: «La preghiamo di continuare.» «Vedano… Questa non fu operazione che si svolse secondo i canoni classici, con agenti sul campo facenti parte di una rete con contatti e infiltrati. Fin dall’inizio, essa fu caratterizzata solo dal binomio Amleto-Romero, entrambi perfettamente consapevoli della pericolosità dell’ambiente in cui operavano, come ne era consapevole il Secret Intelligence Service. Per proteggere Amleto da eventuali talpe all’interno dell’Mi-6, e sapevamo che c’erano, oltre ai pagamenti effettuati tramite alcuni ministeri, gli archivi del SIS non ebbero mai uno specifico dossier con suoi personali estremi; fin dall’inizio, inserimmo solo il nome in codice e la località in cui operava e a tuttora non è stato apportato nessun aggiornamento. In seno all’MI-6, le persone al corrente del caso sono ancora pochissime.» Sfinito, Barlow trasse un respiro e fece di nuovo cenno ad Aquila di andare avanti. «Bisogna affermare, – disse l’italiano – che Amleto e Romero non fecero mai uso di comunicazioni classiche tipo radio, telefono, fax o quant’altro e mai utilizzarono appunti cartacei, inoltre va detto che Romero non era il contatto di Amleto, nel senso classico del termine; come affermato prima, costui fu una
figura virtuale per mezzo della quale le informazioni di Amleto prendevano la via per l’Occidente. I due, dopo il marzo del 1986 non s’incontrarono più.» Aquila aprì la cartella e sparse sul tavolo un nutrito numero di fogli della Pravda, ponendone uno con alcune annotazioni a biro rossa da un lato, poi pose in evidenza il foglio col dattiloscritto e le caselle riempite di caratteri cirillici. Nella sala il silenzio era tombale e tutti gli occhi fissi su di lui. «Dai primi anni ottanta, firmandosi con lo pseudonimo di Gorkij, saltuariamente Petrov iniziò a scrivere articoletti sulla Pravda senza ovviamente ricevere compensi. Questa sua inclinazione, definiamola… di volontariato giornalistico che trovò in lui sfocio come untore delle magnificenze del regime, andò man mano in crescendo, divenendo verso la metà dell’86 un impegno costante. Da allora e fino al tardo ’91, con puntuale frequenza quindicinale, la Pravda riportò sempre suoi articoli, per la verità di secondaria importanza e posti in fondo alla terza pagina, ma altresì benevolmente visti dall’allora establishment. Va anche detto, e lo ricorderete, che allora lo scrivere su quel giornale era diventata quasi una moda per molti dirigenti dei più svariati organi della nomenclatura di Stato e di partito. Dal Maggio 1986, – indicò i fogli sparpagliati, – le prime quattro righe di ogni articolo di Gorkij apparse sulla Pravda, erano delle informazioni segrete, sotto forma di un preciso messaggio in codice diretto a Romero.» «Ma è ridicolo» esclamò il colonnello generale. Gli fece eco il direttore della FSB. «Questo è un trucco vecchio come il mondo. Non avrebbe potuto funzionare. Prima che ogni articolo della Pravda andasse in stampa, ogni parola era attentamente vagliata dai censori della quinta direzione e poco dopo il KGB ci sarebbe arrivato. Siamo specialisti in decodifica e crittogrammi, in questo campo abbiamo da insegnare a molti, signore» affermò alla maniera europea il funzionario. «Il sistema non era poi così ridicolo, se durò oltre cinque anni. – replicò Aquila – Uno dei motivi della sua affidabilità era caratterizzato proprio dal fatto che ogni parola era letta e vagliata; superato quest’ostacolo, la sicurezza era assoluta. Com’è stato poc’anzi affermato, sia Amleto, sia Romero, non utilizzarono mai appunti. – alzò il foglio con gli algoritmi e caselle – Questo codice coniato da Romero era ben fisso nelle loro teste e solo da loro conosciuto, nessuno ne era al corrente, né in seno all’MI–6, né all’Interscambio. Si trattava di applicare una formula matematica al valore decimale che ogni carattere scritto in cirillico assumeva in seno all’alfabeto. Applicando un riduzione al risultato della
formula, il valore decimale risultante corrispondeva ad un carattere dell’alfabeto romano che, man mano, andava dietro il precedente. – indicò il foglio – È tutto scritto qui. Va ricordato che Amleto conosce perfettamente la lingua inglese e altrettanto bene Romero conosceva il russo. Certo, una squadra di matematici decifratori coadiuvata da interpreti, forse sarebbe potuta arrivarci, ma il problema semplicemente non si poneva. Petrov e Romero non erano sprovveduti, sapevano che, per imbastire un lavoro di decodifica, l’ufficio crittografia della quinta direzione avrebbe dovuto avere almeno dei sospetti sullo specifico articolo e conoscerne in larghe linee il contenuto, per dare un senso logico al messaggio e derivarne l’algoritmo matematico di trasformazione, diversamente che immaginarsi? – Aquila prese ora il foglio di giornale con le annotazioni in rosso, mostrandolo alla platea degli attentissimi uditori – Pravda, 11 Maggio 1987, terza pagina. Come potete osservare, la firma in calce di quest’articolo quaggiù in fondo è di Gorkij. Le prime quattro righe riportano: Ieri 10 Maggio, nel Palazzo dei Congressi del Kremlino, sotto la presidenza del compagno Segretario Generale Michail Gorbaciov, si è riunito il Politbjurò per discutere e affrontare i problemi relativi al raggiungimento degli obiettivi imposti dal piano di sviluppo dell’industria cantieristica Baltica. La discussione, eccetera… – prese il foglio con gli algoritmi – se partendo dalla prima parola a sinistra di quest’articolo, a ogni carattere si applica l’algoritmo matematico qui descritto e il risultato numerico si fa corrispondere in modo lineare ai caratteri dell’alfabeto romano, escono fuori delle lettere che, messe in fila una dietro l’altra, in lingua inglese corrisponde alla seguente frase: 22 aprile 1987, base sommergibili nucleari Poljarny. Reattore sommergibile Kazan classe Sierra preso fuoco per avaria. Gravi danni e contaminazioni. Due membri equipaggio deceduti, unità inutilizzabile, stima sei mesi. Questo è uno delle centinaia di messaggi riportati e sparsi in questi articoli. Da notare che il sistema, prendendo a riferimento i singoli caratteri e non le parole, risolveva tra gli altri anche l’enorme problema della traslitterazione letteraria dalla lingua russa a quella inglese. Messo in chiaro il messaggio, Romero lo codificava nuovamente con un diverso doppio codice poi, spesso all’interno di una busta per lettere, veniva inviato all’estero insieme ad altra corrispondenza, per il tramite della normale posta diplomatica via corriere d’ambasciata. La busta, già affrancata, veniva laggiù normalmente imbucata, andando a finire a un anonimo recapito di comodo del SIS o dell’Interscambio. Amleto riceveva messaggi direttamente da Londra con un sistema analogo, tramite articoli quindicinali pubblicati sul Time londinese. Il lavoro fu stressante le prime volte, poi divenne normale routine. » Cadde il silenzio. Le facce dei russi erano esterrefatte. Aquila raccolse le carte
sparse sul tavolo, le pose ordinatamente all’interno della cartella e lanciò un’occhiata a Barlow; questi annuì ed egli terminò, dicendo: «Come per il precedente, questo materiale è per voi signori, noi abbiamo le copie.» «Sospendiamo per qualche minuto la riunione, signori. Potrete ristorarvi e usufruire dei servizi» affermò il diplomatico, indicando una porta in fondo alla sala.
Poco dopo nel piccolo locale, un commesso distribuiva bevande mentre un paio di membri della legazione erano alla toilette. Aquila aveva bevuto un caffè forte, due bicchieri di acqua minerale e ora stava fumando dietro la grande vetrata. Sbirciò l’orologio, le 18 ora locale. Lo sguardo andò oltre i vetri, il buio era squarciato dalle gialle lampade del giardino perimetrale a ridosso dell’imponente muro di mattoni rossi. A sinistra s’intravedevano le luci della casa del Patriarca, mentre il nevischio si era trasformato in fiocchi, dando una sensazione di familiare, affettuoso ambiente natalizio. Fu percorso da un brivido, stava per voltarsi quando al suo fianco apparvero Barlow e Gürtner. «Questa loro arroganza mi dà ai nervi. Gli abbiamo reso un servigio incommensurabile, sarebbe ora che iniziassero a rendersene conto» affermò il tedesco a voce alta, sapendo che da qualche parte c’erano delle telecamere nascoste. «Il loro ego sta soffrendo, Manfred. – fece Barlow, che rivolto ad Aquila: – Se continuano a scavare sui dettagli operativi, preferiremmo che sia tu Oscar a condurre la discussione, il tuo russo è migliore del nostro.» Alcuni minuti dopo erano di nuovo tutti al tavolo. Prese la parola, il calvo: «Avete affermato che l’allora vostro agente operativo, questo Romero, agiva autonomamente senza reti o i logistici. Siamo stati, altresì, illuminati di come i suoi messaggi arrivassero all’estero per il tramite dei normali canali diplomatici. È strano, a quei tempi sia Romero, sia Amleto erano nomi tutt’altro che ignoti ai nostri servizi segreti. Al fine di stanarli, per alcuni anni furono impiegate notevoli risorse, ma gli sforzi furono vani. Alla luce di quanto esposto, appare evidente che entrambi avevano delle solide protezioni all’interno del paese, protezioni che forse sono ancora attive. Diversamente, costoro non avrebbero mai potuto cavarsela così a lungo. Riteniamo, inoltre, che i canali
diplomatici cui fate riferimento fossero direttamente coinvolti, facendo essi da o logistico e mascheramento agli atti delittuosi che costoro consumavano ai danni dell’Unione Sovietica prima e dell’attuale Federazione ora. È certo che il nostro paese fu, e probabilmente lo è ancora, scorribanda dei vostri servizi segreti e di spionaggio. Vogliamo sapere come stanno esattamente le cose!» Aquila intuì che il riferimento alle scorribande si riferiva alla defezione di Korin, ma essendo la reale attività del bordello ancora faccenda segreta, evidentemente il russo non aveva voluto spingersi oltre. L’italiano si ò di nuovo il fazzoletto sulla fronte. «Come già affermato, siamo qui per fare chiarezza, signore, confermando tutto ciò che è stato esposto. Desideriamo ancora una volta porre l’accento sul fatto che entrambi, sia il virtuale Romero, sia Amleto, agirono sempre in maniera autonoma e distante, rimarcando che non ebbero mai collegamenti con reti o protezioni da individuarsi negli allora ambienti diplomatici esteri. Riguardo al presunto o logistico e mascheramento, Romero era un libero giornalista che scriveva per vari quotidiani e settimanali occidentali, prestando la propria opera con l’incarico di corrispondente estero qui a Mosca, venendo di volta in volta accreditato presso l’ambasciata del paese del giornale per il quale scriveva. È evidente che, essendo egli accreditato, poteva accedere agli stessi canali di privilegio cui aveva diritto un diplomatico o anche un semplice dipendente d’ambasciata di madrepatria.» Intervenne al balzo il funzionario degli esteri: «Le presunte scorribande sono argomento interessante, signore. Desidereremmo non rimarcaste ulteriormente questo tasto. Si potrebbe aprire un interessante capitolo riguardo al vostro GRU ed ex KGB sulle penetrazioni che negli ultimi cinquant’anni hanno perpetuato nei paesi dell’area NATO, sconvolgendo e destabilizzando, tra gli altri, interi continenti quali l’africano.» I russi parvero tacere, Barlow ancora una volta lanciò un’occhiata all’italiano. Questi, prendendo di nuovo la parola, strinse le palpebre. «Vedano… il vostro fallimento sull’affare Romero-Amleto, non può giustificarsi sulle presunte reti o protezioni che costoro avrebbero avuto, sarebbero giustificazioni pretestuose. Per voi il problema fu che il KGB non sarebbe mai potuto arrivare ad Amleto, perseguendo la pista di Romero…» «Perché non avrebbe potuto? Non la seguiamo» esclamò con una certa acredine il Direttore della FSB.
«Semplicemente, perché Romero non è mai esistito…» affermò Aquila in tono calmo, quasi serafico. Fu un secondo fulmine. I porcini occhi del colonnello generale si spalancarono. «Che va farneticando ora? Come sarebbe a dire non è mai esistito?» quasi urlò. «Ho sostenuto che Romero fu una figura virtuale dai contorni sfumati o, se preferisce, pura fantasia.» «Non è possibile! In merito a Romero, abbiamo una corposa e precisa documentazione» affermò frastornato il Direttore della FSB. «Cosa va dicendo? State forse cercando di mescolare le carte? Abbiamo pile di documenti su questo caso» fece eco il calvo, con la faccia rossa e la fronte madida di sudore. Scuotendo leggermente la testa, Aquila abbozzò un luciferino sorriso. «No… voi, non avete niente! Come specificato in precedenza, allora l’MI-6 sospettava che al suo interno ci fosse una o più talpe, e anche se Amleto era sconosciuto a tutti, le sue informazioni erano di tale importanza che presto il KGB e il GRU si sarebbero resi conto della falla apertasi a Mosca. Ciò avrebbe dato luogo a una caccia spietata che, alla lunga, avrebbe potuto porlo in seria difficoltà. Al fine di proteggerlo, fu ideata in seno all’MI-6 una schermatura, il virtuale Romero, l’intermediario moscovita che aveva negli archivi del SIS tanto di curriculum e di codice personale. Sollecitata da Mosca, la vostra talpa annidata nell’MI-6 informò che il contatto andava sotto quel nome e da allora, prima il KGB, dopo il GRU iniziarono le ricerche; ma fu caccia al nulla, a un fantasma. Ciò di cui voi siete in possesso, è la fotocopia di un documento fasullo per un virtuale pagamento di rimborso spese pari a diecimila sterline, effettuato dall’MI-6 a beneficio di Romero, e dall’MI-6 fatto a suo tempo abilmente fuoriuscire. Pagamento mai avvenuto, la cui firma per quietanza era la stessa acclusa nel virtuale curriculum di Romero e che, in realtà, apparteneva ad una qualsiasi ignara persona, probabilmente un oscuro impiegato di aggio.» Le voci dei padroni di casa tornarono ad accavallarsi, ma Barlow attrasse l’attenzione spiattellando altri dettagli: «Con saltuaria periodicità, arrivavano a un anonimo indirizzo londinese, facente capo al SIS, delle missive di nessun valore provenienti da Mosca; lettere inviate per posta diplomatica attraverso l’ambasciata e redatte sotto copiatura da un
qualsiasi ignaro dipendente, per poi, al loro arrivo, essere distrutte. Prima, però, ognuna seguiva la normale procedura di attribuzione di un numero protocollare, una matrice che sintetizzava, oltre alla data di spedizione, il luogo di provenienza e la sigla dell’agente mittente che nello specifico, era Romero. Tali matrici erano infine negli uffici codici come messaggi pervenuti. Questo sistema, unitamente al curriculum e il resto, per le allora eventuali talpe del KGB, annidate nei nostri servizi, rendeva il virtuale Romero un’entità a prova di bomba.» «Allora come trasmetteva?» «Molte cose non tornano.» «La Pravda?» «I canali diplomatici prima menzionati?» fece infine il calvo. Prese di nuovo la parola, l’esausto italiano. «Le informazioni seguivano esattamente la via che è stata illustrata. Vedano… la cortina di nebbia dietro di cui si celava il virtuale Romero, in realtà protesse due persone, una era Amleto, l’altra il suo vero contatto, un agente operativo della Interscambio il cui nome in codice andava sotto il Camminatore. Ovviamente, tutto ciò che è stato attribuito a Romero, in realtà fu opera di questo Camminatore.» «Stupefacente! Come i due volti di Giano, il Dio pagano dell’antica Roma» fece il diplomatico. «Paragone calzante, signore.» «Prego, continui.» «Intorno al ’90, a Yazenevo, il terzo dipartimento del primo direttorato era quasi arrivato a capo della matassa, ma fu il GRU che nel ’91 ci arrivò vicinissimo anzi, possiamo affermare che riuscì a risolvere il rebus.» Il direttore della FSB e il calvo si lanciarono un’ulteriore un’occhiata. «Camminatore… questo nome non mi giunge nuovo» affermò il primo. «Molto tempo fa, ebbi modo di leggere alcuni dei verbali inerenti al caso, non ricordo bene, ma mi pare di ricordare che fu rilasciato» fece eco l’altro.
«Esattamente… – fece Aquila e continuò: – Il Camminatore fu arrestato dal GRU qui a Mosca nel ’91. Tra un interrogatorio e l’altro, ò alcuni mesi a Lefortovo ma non riuscirono a strappargli alcuna informazione, dichiarandosi egli sempre estraneo a ogni imputazione contestatagli. Pur non avendo prove, attraverso analisi induttive gli specialisti del GRU raggiunsero la conclusione della sua colpevolezza, decidendo che doveva essere giustiziato, trasferendolo nel carcere della Butyrka. Fu lì che, qualche mese dopo, venne liberato con decreto di espulsione e Amleto poté rimanere tranquillamente al suo posto, pensando ai futuri eventi che iniziavano ad accavallarsi all’orizzonte.» «Venendo a mancare il contatto, come poté Amleto continuare la sua nefasta opera?» chiese il calvo. Rispose Barlow. «In effetti, per oltre un anno e mezzo avemmo estreme difficoltà di comunicazione. Di fatto, fino al ’93 inoltrato non ricevemmo quasi informazioni. Quando Petrov ascese a capo del GRU, lentamente, in maniera indiretta, iniziò a trapelare di nuovo qualcosa. Fu alla fine del ’94 che il flusso delle informazioni divenne di nuovo regolare, era nato internet. Per lui allestimmo uno speciale sito ultra-protetto, con posta elettronica e accesso tramite due . – tirò fuori di tasca due cartoncini, li pose sul tavolo – in ordine, qui c’è la chiave per accedere al sito e in quest’altro biglietto ci sono le due che sono, erano… shoulder e thunderbolt. Durante lo scorso mese, nell’intervallo di poco più di una settimana Petrov aprì quattro volte il canale di comunicazione ma non trasmise niente, evidentemente voleva sapere se, attraverso messaggi e-mail, chiedevano informazioni riguardo alla scomparsa di due vostri sistemi SS-20 e capire se fosse trapelato qualcosa all’esterno.» Per l’ennesima volta, i due dei servizi segreti russi incrociarono gli sguardi. «Fino a quando avete ricevuto suoi messaggi?» chiese di nuovo il calvo. Dalle sue carte Barlow tirò fuori un foglio. «L’ultimo risale a poco meno di due mesi fa, al 12 settembre 2000. Esso riguarda le cause che il 13 agosto di quest’anno provocarono nel Mar di Barents la tragedia all’interno del vostro sommergibile nucleare Kursk. – abbassò lo sguardo – Tralascio le prime due righe. A Murmansk, si è conclusa la prima inchiesta riguardo all’affondamento del sommergibile nucleare Kursk; inchiesta condotta dall’ispettorato generale della marina e dal GRU. Sembra che all’interno della camera di lancio numero due sia stato erroneamente azionato il motore del siluro, prima che essa fosse stata allagata. Il motore, una volta azionato, è inarrestabile e le eliche senza
l’attrito dell’acqua, avrebbero fatto surriscaldare, fino a far esplodere, il tubo che fornisce il tetraperossido d’idrogeno, liquido necessario per bruciare il carburante dei motori di quei tipi di siluri. Tale tetraperossido d’idrogeno, a contatto con particolari metalli quali nickel o titanio, reagisce violentemente, da qui l’esplosione del siluro.» Nikolay Zakovskij si portò le mani alla fronte e con un filo di voce, affermò: «È la segretissima conclusione cui è giunta la commissione d’inchiesta dello Stato Maggiore della marina.» «Non ci sono parole. Questa storia supera ogni immaginazione» affermò il colonnello generale. «Oh, no, generale. Non siate modesti, – rispose Barlow – in confronto a voi, noi siamo sempre stati allievi dilettanti. Questi trucchetti li abbiamo appresi nell’arco di decenni dal vostro KGB, a iniziare dai casi Richard Sorge, Alan Nunn May, Klaus Fuchs, Guy Burges, Donald Maclean e il grande Kim Philby, diventato vostro colonnello onorario del KGB e, così via.» Nikolay Zakovskij volle tornare all’argomento che, dal punto di vista professionale, evidentemente gli stava più a cuore. «Mi chiedo, come fu possibile che questo Camminatore fosse allora liberato, nonostante la condanna di morte proposta nei suoi confronti dal GRU!» Aquila era stanco, stanchissimo e con la gola secca. In quel momento odiò come non mai Mosca, la Russia, quei pignoli interlocutori e la loro dannata lingua. Voleva uscire, farla finita. Senza chiedere permesso, accese una sigaretta facendo sgranare gli occhi anche ai russi per quel villano gesto, nonostante alcuni di loro fumassero in continuazione. «Questa è una bella domanda. – disse, dopo aver aspirato il primo tiro – La sentenza di morte fu inoltrata dal GRU al tribunale militare al termine degli interrogatori. Si trattava ovviamente di formalità, il tribunale senz’altro l’avrebbe ratificata, rendendola esecutiva. In attesa della ratifica, il Camminatore fu trasferito alla Butirka ed è ragionevole pensare che, l’intervallo temporale che va dall’arresto alla sua liberazione, sia stato il periodo più brutto della vita di Amleto. Se il Camminatore avesse parlato, sicuramente avrebbe fatto salva la propria vita, il GRU lo aveva messo per iscritto, ma avrebbe condannato al capestro l’altro. In altri termini, per Amleto, il Camminatore o sarebbe dovuto
morire subito o esser liberato nel più breve tempo possibile, ogni giorno che ava in galera rappresentava un rischio mortale per lui. Abilmente, attraverso suoi canali, Amleto fece in modo da far arrivare a una personalità della seconda direzione centrale, legata da amicizia col Camminatore, un documento che avrebbe fatto crollare l’intera impalcatura sulla quale poggiavano le accuse del GRU. Si trattava della famosa ricevuta relativa al versamento di diecimila sterline con la firma di Romero in calce, per quietanza. Le due firme, quella del virtuale Romero e quella del Camminatore, furono fatte comparare dall’ufficio analisi grafiche e falsificazioni della quinta direzione, le cui perizie non poterono che dimostrare che le due firme appartenevano a persone diverse, facendo saltare la simmetria Romero-Camminatore. Alla Lubjanka, si riunì un comitato presieduto dall’allora generale Dimitry Puskin, capo del primo dipartimento che, alla luce di queste nuove prove, decretò il blocco del procedimento di condanna del tribunale speciale, ratificando d’ufficio la scarcerazione del soggetto con conseguente decreto di espulsione. Va ricordato che, riguardo ai crimini contro la sicurezza dello Stato, la seconda direzione centrale aveva poteri non secondi a nessuno e il suo giudizio era insindacabile. Di quanto affermato, possedete ampia documentazione, basta leggersi verbali e resoconti del caso AmletoCamminatore che si trovano, immagino, da qualche parte nei vostri archivi dell’indice centrale in Mohovaja ulica; oltre, naturalmente, ai presenti documenti, nei quali è certificato quasi tutto ciò che in questa sede è stato affermato.» «Questa storia non mi convince! Ammettiamo che…» Aquila interruppe bruscamente il grasso capo della MBR. «Basta così generale! I se, i ma e i però non sono ulteriormente tollerabili. Quanto affermato è vangelo, perché si dà il caso che l’allora Camminatore si identificasse nella mia persona!» Le ultime parole l’italiano le scandì lentamente, in maniera cristallina. Nel silenzio totale, ogni bocca era aperta e tutti gli occhi spalancati e fissi su di lui. Da uno scomparto della sua borsa, Aquila tirò fuori un astuccio contenente due mini cassette, con lo sguardo sciabolò sugli occhi di ogni russo, infine, concluse, dicendo: «Io sottoscritto, allora Camminatore, sono colui che qualche settimana fa qui a Mosca sventò il progetto Gengis Khan, salvando il vostro paese e probabilmente la vita di qualcuno dei loro signori!» In piedi, tra il generale sbigottimento gettò la prima delle due cassette sul tavolo. «Questa, è la
registrazione completa della rivelazione che Arkady Markov mi sottopose nel proprio appartamento riguardo all’operazione Gengis Khan, registrazione che potete comparare con la relazione inviatavi e che ognuno di voi ha sotto gli occhi. Quest’altra, – gettò la seconda – è la videocassetta che immortala il disassemblaggio dei due ordigni nucleari dalle ogive degli SS-20, operazione svoltasi nel Mar Nero occidentale, all’interno della nave che in quel momento assumeva il nome Girasole e batteva bandiera panamense!» Gli uomini sembravano statue. I sensi erano polarizzati all’estremo e la paralisi totale; nessuno ebbe la forza di fiatare.
Erano le 21. Le due Mercedes uscite poco prima dal Kremlino scivolavano lentamente sotto i fiocchi di neve, lungo la Manežnaja ulica. Nel sedile posteriore della seconda vettura, Aquila era seduto tra Arrold Barlow e Manfred Gürtner. Quest’ultimo, voltandosi verso l’italiano, commentò: «Quel generale l’hai sistemato a dovere. Non hai avuto peli sulla lingua.» «È un pallone gonfiato… a proposito, a che ora è prevista domani la partenza?» «Dipende da noi, facciamo nella tarda mattinata?» rispose Barlow. «Avrei da sbrigare una piccola faccenda personale qui a Mosca. Domani profitterei dell’occasione, si tratterà al massimo di un paio d’ore. Possiamo posticipare la partenza verso le 17?» Gli altri due si lanciarono un’occhiata; Barlow alzò le spalle. «D’accordo, come vuoi!» «Facciamo così, se per domani alle 15.30 non sarò di ritorno all’ambasciata, partite pure tranquillamente senza di me, significherà che mi sarò dovuto trattenere più del previsto, nel qual caso, ripartirò col primo volo di linea. Ho il diplomatico, non incontrerò problemi.» Questa volta l’inglese e il tedesco si fissarono a lungo. «D’accordo, Oscar» confermò infine l’inglese.
Capitolo XXIV
Erano le 10.30 del mattino dell’8 novembre quando Aquila scese dal taxi all’angolo della malfamata Rabočil pereulok. Strappò in due una banconota da venti sterline e ne dette un pezzo al tassista. «Sarò di ritorno nel giro di dieci minuti» disse. Poi, incamminandosi verso il decrepito edificio in fondo, sparì tra la poltiglia di neve.
«Devo fare un salto all’aeroporto, non ne avrò per molto.» «Faccia con comodo. Il contratto giornaliero termina alle 24» replicò l’impiegato dell’ufficio nolo della Hertz, porgendo la penna per le firme. Poco dopo, Aquila parcheggiava la piccola Citroen all’inizio di Marosejka ulica Pokrovka, davanti a una caffetteria. Sbirciò l’orologio, le 12.30. “Tutto il tempo per bere un cappuccino e mangiare qualcosa” pensò. Erano le 13 in punto quando l’auto parcheggiava lungo il marciapiede destro, presso il numero civico trentadue di Baraševskij pereulok. Dall’interno dell’abitacolo, sbirciò lo stabile, era una discreta palazzina di quattro piani, sembrava priva di portoni. Osservò l’ingresso corrispondente al 32, era una saracinesca sopra la quale due telecamere ne inquadravano l’accesso. Di fianco, subito a destra, notò ciò che cercava: la serratura manuale che metteva in moto il sistema di apertura in mancanza del telecomando. Erano le 13.03 quando la saracinesca si alzò ed uscì una Saab con quattro persone a bordo. A intervalli irregolari, la prima auto fu seguita da altre sette di varia cilindrata; alle 13.08 la saracinesca si richiuse. Aquila calcolò che in quell’intervallo erano usciti dal quartier generale e centro nevralgico della finanza di Gumayev, una trentina di mafiosi, analisti e specialisti dei vari settori marketing del variegato mondo dei loschi affari della mafia. Da una tasca, tirò fuori due mazzi di chiavi, ciascuno ne aveva quindici; ognuna delle trenta aveva dei micro selettori a scatto che ne variavano la dentatura. Dal primo dei due mazzi ne selezionò dieci. «Per saracinesche di boxes o garage, questa serie di dieci sono le più probabili» aveva affermato il cinese, qualche ora prima. Uscì dall’auto in moto, a testa bassa e cappello calato sulla fronte, si fermò davanti
alla serratura incassata sul muro, a fianco della saracinesca. Le prime quattro chiavi non entrarono nella feritoia, altre tre s’infilarono, ma, nonostante scattassero tutti i selettori, non girarono; finalmente l’ottava, dopo alcuni tentativi fece un quarto di giro a destra. Istantaneamente la saracinesca iniziò a sollevarsi. Alcuni istanti dopo all’inizio della rampa, Aquila scese di nuovo dall’auto richiudendo la saracinesca dall’interno. Sbirciò l’orologio, le 13.12. In fondo al garage posteggiò vicino all’unica auto parcheggiata, era una grossa Mercedes. “Ci siamo” pensò. Sotto lo sguardo delle telecamere, a testa bassa arrivò davanti alla porta metallica dell’ascensore, pigiò l’unico pulsante. Ora era con le spalle contro la parete sinistra dell’abitacolo, nella mano destra stringeva una Beretta 92F con caricatore a quindici colpi, pallottola in canna e silenziatore Knight. Nell’istante in cui l’ascensore si fermò al secondo piano, una voce in un russo appena comprensibile, urlò: «Chi diavolo è?» Mentre le ante dell’ascensore si aprivano, la canna di un Ak 47 penetrò nell’apertura. Aquila girò la mano destra poco sopra il mirino del mitragliatore e pigiò due volte il grilletto. Mentre la porta metallica si apriva, un urlo soffocato uscì dall’esterno e una figura si accasciava sul pavimento. Un secondo uomo stava per imbracciare il Kalašnikov, ma una pallottola gli penetrò nel petto spaccandogli il cuore, il morto, cadendo, urtò contro lo spigolo della scrivania scaraventando monitor e accessori sul pavimento. Scavalcati i cadaveri, come un gatto Aquila si precipitò lungo il corridoio; le porte degli uffici erano aperte e all’interno i computer accesi, ma dei loro operatori neanche l’ombra. Erano le 13.17. In fondo, sulla destra del corridoio, qualcuno urlò: «Che succede Ulij?» poi le falcate divennero veloci, arrivato all’angolo, l’uomo biondo vestito di nero, sgranò prima gli occhi per la sorpresa, poi cercò d’imbracciare il Kalašnikov. Troppo tardi, una pallottola gli attraversò il petto, scaraventandolo contro il muro e una seconda gli penetrò in pancia. Il morituro emise un breve rantolo, mentre, strisciando sul muro si afflosciava, lasciando una pennellata rossa sulla parete. Aquila aprì la spessa porta dell’anticamera e al buio sgattaiolò dentro. Per un istante cercò di orientarsi, poi, a o felpato, si diresse in fondo da dove filtrava la luce di una seconda porta. La sorpresa fu totale, i due dilatarono gli occhi, l’omaccione con occhiali e stomaco prominente cercò di dirigersi da qualche parte alla sua destra, ma fece solo mezzo o, una pallottola gli traò un polmone e la seconda gli entrò sul fianco, spaccandogli il fegato. Il grosso uomo s’inginocchiò, poi, con occhi
che esprimevano meraviglia, rivolse lo sguardo verso lo straniero, cercò di balbettare qualcosa ma cadde esanime. In quella frazione di secondo, Gumayev allungò la mano verso un cassetto semiaperto della scrivania, ma la bocca del silenziatore della Beretta era inesorabilmente puntata alla sua fronte. Per un lungo momento i due si fissarono; i glaciali occhi grigi erano ora enormi, gocce di sudore gli permeavano la fronte, un rigagnolo iniziava a scendere giù per le scarne guance del gelido uomo. «Tu… Ancora tu!» sibilò il grande boss. «In carne e ossa.» «Come, come può esser…» «Non ha importanza.» «Cosa… Che cosa vuoi?» «L’ultima volta che ci vedemmo, cosa affermasti? Gentlemen agreement, vero?» «Dovevo conoscere i motivi del tuo ritorno in Russia…» «Già…. Sai, da tanto desideravo chiedertelo. Dimmi Fjedor, nel gennaio del ’92, quando i tuoi uomini mi accompagnarono fuori dall’Unione Sovietica con l’ordine di farmi sparire a Vienna, quell’ordine, oltre naturalmente da te, da chi altri fu emanato in seno alla seconda direzione centrale? Perché furono due cose distinte e parallele, vero Fjedor?» Il terrore nella faccia del grande boss era visibile in tutta la sua intensità; il colore era cianotico. «Si… furono due cose parallele. Della tua liberazione fui informato tre giorni prima, sai qui da noi come andavano allora certe cose, non potei non impartire quell’ordine.» «Vai avanti!» «Il giorno precedente il tuo rilascio, ricevetti una telefonata in codice. Iniziava con la parola d’ordine arcobaleno. La frase dell’azione da intraprendere, era: l’inverno è lungo e buio. Seguiva nome, descrizione e il resto. Era l’ordine per la
tua esecuzione, il tuo affare bagnato che doveva anch’egli consumarsi fuori dai confini dei paesi facenti parte dell’ex blocco comunista.» «Quindi, partii da Mosca con in tasca due condanne a morte.» «In pratica, sì! » «Chi emanò quest’ultimo ordine?» «Non l’ho mai saputo. Erano ordini segretissimi, trasmessi in codice a mezzo telefono. So solo che la chiamata provenne dalla Lubjanka e che l’autorità emittente non poteva che essere di alto livello.» «La stessa che mi tolse il cappio alla Butyrka…» «Non so a cosa ti riferisci.» «Non ha importanza… sai, Fjedor, forse potrà sembrarti ridicolo, ma è la prima volta che ammazzo della gente e, francamente, non ho provato nessuna emozione. Mi ero preparato un pomposo discorso con i filosofici, etici e morali, ma poi ho pensato che sarebbe stata perdita di tempo. La nostra storia deve finire senza trombe né fanfare, con lo stesso spoglio silenzio con il quale iniziò undici anni fa.» Ora le pupille del russo si muovevano, l’iniziale shock stava ando, pensava a qualcosa. «Che cosa vuoi, Oscar? Posso darti tutto ciò che desideri, il ato è ato. Dimmi, danaro? Quanto ne vuoi tre, cinque, dieci milioni? Di più?» Ora gli occhi erano mobilissimi. «Non saprei proprio cosa farne. Vedi, un romantico imbecille come me, oltre non apprezzarne il valore, non saprebbe proprio come spenderli.» Mentre Aquila pronunciava l’ultima parola, la destra di Gumayev si allungò verso il cassetto. ò una frazione di secondo, la pallottola calibro nove penetrò nella fronte del russo, mandando lui e la poltroncina a sbattere contro la pesante tenda di broccato rosso posta alle spalle. Per un istante il corpo rimase grottescamente immobile, infine, cadde rumorosamente sul tappeto. L’italiano osservò per qualche secondo la macabra scena, soffiò sul foro di uscita dell’arma, infine col fazzoletto in mano per proteggersi le dita dal calore, iniziò
lentamente a svitare il silenziatore dalla canna della pistola. Sbirciò l’orologio, le 13.35; si girò e con calma, s’incamminò verso il corridoio.
Erano le 14 in punto quando negli uffici della Hertz consegnò chiavi e documenti. Era presto, l’ambasciata non era molto distante, decise di fare quattro i a piedi. Dieci minuti dopo camminava per lungofiume Raušskaja, ò davanti ad una fila di mendicanti stravaccati sul suolo ghiacciato, erano poggiati lungo il muretto del fiume, coperti di stracci e carta di giornale. Si fermò davanti ad uno di loro, gettò cinque sterline dentro una lurida ciotola e proseguì. Non si era accorto che da qualche minuto una Land Rover lo seguiva. Stava estraendo il pacchetto delle sigarette dalla tasca del loden, quando, nell’udire due colpi simultanei d’arma da fuoco, si trovò scagliato al suolo. Mentre la vista gli si appannava, con le mani poggiate sul ghiaccio cercò di sollevarsi, non ce la fece, un getto di liquido caldo e vischioso gli fuoriuscì dalla bocca, impregnandogli camicia e cravatta. Ora non distingueva più niente, una barriera marrone gli si era posta davanti agli occhi. “No! Non ora – pensò – quei ragazzi laggiù mi staranno aspettando.” Cercò di fare leva sulle braccia, ma le palme delle mani scivolarono sul ghiaccio. Poi fu il buio.
§§§
FINE
Brevi tratti biografici dell’autore
Mario Filippeschi, manager per qualifiche, imprenditore per necessità e storico per vocazione, ha ricoperto nell’arco della sua carriera professionale importanti incarichi in alcune multinazionali americane Le sue esperienze e viaggi, lo hanno portato ad acquisire conoscenze degli usi e costumi più diversi, dalle quali ha tratto spunto per i suoi libri in cui fonde realtà e fantasia in maniera da rendere difficile il distinguere l’una dall’altra.
{1} Illegali = Spie infiltrate in paesi stranieri con false identità, operanti indipendentemente dalle ambasciate e consolati sovietici. {2} Feliks Edmundovich Dzerzhinsky = Nobile ebreo polacco, rivoluzionario fanatico e poliglotta che divenne il primo presidente della ČEKA, la polizia segreta sovietica. {3} Nido di rondini = In gergo spionistico s’intende un luogo attrezzato con apparecchiature audio video, dove si consumano atti sessuali e di seduzione al fine di carpire informazioni ed estorcere ricatti. {4} Tetto = Nello spionaggio, è un termine che indica una copertura legale per un illegale. {5} Pastori = Agenti del KGB, che con la funzione d’accompagnatori, controllavano i Russi all’estero {6} Infermiere = Come pastore, ma con il compito anche di assisterli. {7} Indice centrale = Archivio centrale del KGB sito a Mosca, nell’enorme palazzo in Mohovaja Ulica, in cui fin dal 1918 veniva registrato e posto in camere blindate ogni concepibile dettaglio. {8} Musicassetta = Impianto audio-video, solitamente collegato ad una centrale di musicisti. {9} Musicisti = Operatori radio, interpreti e analisti di materiale audio video. {10} Intermediario = Agente spesso illegale impiegato come collegamento. {11} Leggenda = Copertura fornita agli illegali affinché possano vivere in un paese straniero senza essere scoperti. {12} Cacciatore di talenti = Un agente a volte intermediario che ha la funzione di reclutare altre spie. {13} Fattorie = Luoghi d’addestramento per agenti della CIA. {14} Artista apri e chiudi = Esperto capace di aprire e risigillare documenti in modo che la manomissione non sia scoperta.
modo che la manomissione non sia scoperta. {15} Ciabattino = Falsificatore di documenti, in particolare aporti. {16} Legali. = Agenti del KGB o del GRU assegnati all’estero con qualifiche diplomatiche.
{17} Centro = Direzione generale del Kgb a Mosca, in piazza Lubjanka. {18} Yazenevo = Località nei pressi del raccordo anulare di Mosca, sede del primo direttorato. {19} Rezident = Controllori locali del Kgb. {20} Langley = Sede centrale della CIA {21} Norfolk = Sede del comando della flotta atlantica USA e del controspionaggio della marina. {22} Materiale fissile. Nel caso specifico, plutonio costituente l’elemento esplosivo dell’ordigno atomico. {23} Gulag = Glavnoe upravlenie lagerej o, amministrazione generale dei campi. {24} Znamenka Ulica = sede centrale del GRU. {25} Corvi = Termine usato nello spionaggio per definire uomini d’aspetto attraente che usano il loro fascino per sedurre al fine di estorcere informazioni. {26} Rondini = Belle donne usate per sedurre allo scopo di estorcerne informazioni e/o ricattarle. {27} Tranquilli = Omosessuali ambosessi, usati per ricattare ed intrappolare personaggi ricattabili. {28} Foreign and Commonwealth office = Nome completo del ministero degli esteri britannico. {29} OSCE = Organizzazione per la sicurezza e cooperazione europea. Ex
C.S.C.E.
{30} I servizi segreti britannici, sono in parte finanziati dal ministero degli esteri. {31} Century House = nome improprio con cui viene comunemente chiamata la sede dei servizi segreti britannici. {32} Spasìba, in russo significa grazie. {33} Camminatore = in gergo KGB era un agente illegale che con facilità riusciva ad infiltrarsi in paesi ostili attraversandone le frontiere. {34} O.C.S.E = Organizzazione di cooperazione e sviluppo economico. {35} DDR o RDT= ex Germania orientale. {36} Attraversare il ponte dei Sospiri = Defezionare. {37} Yazenevo = Attuale sede della Svr precedentemente, sede del primo direttorato KGB {38} Lubjanka = Parte dell’attuale sede FSB. {39} Il corso legale dell’euro iniziò il 1° gennaio 2002, ma già nel 2000 il suo valore di cambio rispetto alle varie monete europee era stato stabilito anticipandone di fatto l’entrata in vigore come moneta corrente. {40} Cifra specifica = Codice particolare che cambia ogni sei mesi. {41} Comsublant = Comando flotta sottomarina Atlantica USA. {42} Scarpe = Documenti falsi. {43} FPS = Ex Kgb guardia di frontiera. {44} OVIR = Ufficio visti e registri russo. {45} Affare bagnato. In Russo, Mokrie dela = Termine usato dal Kgb per assassinio.
assassinio. {46} Malattia = In gergo KGB significava arresto o smascheramento. {47} Avamposto = Cellula di spie straniere collegata ad una rete. {48} StB = Sevizi di spionaggio e controspionaggio cecoslovacchi. {49} Direttore = Controllore di Mosca. {50} Rezident = Controllore locale del Kgb. {51} Taynik = In gergo spionistico KGB era un luogo per depistaggio o, nascondiglio. {52} Rodina = In Russo patria. {53} Boyevaya = Gruppo da combattimento clandestino del GRU. {54} Royal mar ines commandos = Truppe speciali d’assalto Britanniche. {55} Mossad = Servizi segreti Israeliani. {56} Robhò = In Russo parola volgare e spregiativa. {57} In Inglese idiomatico, significa in bocca al lupo. {58} In risposta alla 55, significa crepi il lupo. {59} MBR = (Ministerstvo Bezopasnosti Ruskii) Servizio di sicurezza del Kremlino, dei ministeri della Federazione Russa e guardia presidenziale.
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