Il Cardinale 3m2x

DOMENICO MARTUSCIELLO

IL CARDINALE

YOUCANPRINT

I personaggi e i fatti raccontati in questo romanzo, sono frutto esclusivo di elaborazione fantastica. Ogni riferimento a fatti accaduti e a persone realmente esistenti o esistite deve pertanto intendersi assolutamente casuale.

ISBN | 9788891162311

Prima edizione digitale: 2014

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A mia moglie Luisa e ai miei figli Luigi e Paolo

PROLOGO

Il Cardinale era solo.

Immerso nel silenzio e nella intensa penombra del suo studio sobriamente arredato, sedeva dietro la massiccia scrivania di mogano scuro, sul cui ampio ripiano la lampada dal lungo stelo proiettava un cono di vivida luce gialla.

Era da poco scoccata la mezzanotte, e da un pezzo ormai regnava una quiete profonda nell’intero arcivescovado, rotta soltanto dall’incessante picchiettare della pioggia sui vetri delle finestre, e dai rumori smorzati delle occasionali automobili che transitavano lungo la strada.

Sua Eccellenza Angelo Losito, Cardinale di Santa Romana Chiesa e Arcivescovo di Milano, era intento alla lettura del- l’Osservatore Romano, il volto atteggiato a grande interesse, le sopracciglia aggrottate con aria preoccupata.

Non aveva avuto una giornata facile. Era stata impegnativa al punto da rientrare nel novero di quelle che lui non esitava a definire campali. Dopo aver celebrato messa di primo mattino e consumato una frugale colazione, si era occupato – con la collaborazione del suo segretario particolare – della massa di posta in arrivo, che lo riguardava personalmente.

Aveva evaso quella che rivestiva carattere di urgenza, mettendo da parte il resto al cui smaltimento avrebbe provveduto nei giorni seguenti. Ora, se si eccettuava la pila dei quotidiani, la scrivania appariva insolitamente sgombra. Ma non lo

sarebbe stata a lungo: fin dalle prime ore del mattino, il flusso cartaceo avrebbe ripreso con rinnovata intensità.

Il pomeriggio l’aveva dedicato, nel salottino attiguo al suo studio, alle udienze di cui molte in agenda da settimane, se non da mesi, riuscendo a inserire nei brevi spazi tra un colloquio e l’altro alcune importanti telefonate. In serata aveva concesso un’intervista televisiva a una rete locale privata. Adesso, accusava la stanchezza di quattordici ore ininterrotte di lavoro, e avrebbe già chiuso bottega per andare a dormire, se non fosse stato per l’ultimo importante compito della giornata che doveva assolvere: la lettura di almeno un paio di importanti quotidiani. Da attento osservatore qual era di quanto accadeva nel mondo, compreso quello della politica, sentiva come un suo preciso dovere il tenersi aggiornato, e le ore notturne erano le uniche che poteva dedicare alla lettura in tutta tranquillità.

L’arcidiocesi di Milano – detta ‘ambrosiana’ dal nome del suo patrono sant’Ambrogio (340-397) –, è considerata per storia, estensione e struttura ecclesiale, tra le più importanti del mondo. Copre un territorio di 4234 chilometri quadrati, e, oltre alla provincia di Milano, comprende quelle di Varese, Lecco, parte di quella di Como e alcuni comuni delle province di Bergamo e Pavia.

Queste caratteristiche fanno della sua Guida spirituale, una figura di grande rilievo e visibilità in campo nazionale ed estero, seconda soltanto a quella del Pontefice.

Losito era stato elevato a quel prestigioso soglio, dopo la ordinazione sacerdotale avvenuta quasi quarant’anni prima, e un lungo e intenso percorso pastorale in cui aveva ricoperto diverse cariche eccellenti.

Ciò che contribuiva a renderlo molto popolare soprattutto agli occhi dei fedeli,

era il particolare che non fe segreto delle sue umilissime origini. Anzi, ne parlava con orgoglio a ogni occasione, sia in privato che, talvolta, nelle apparizioni pubbliche.

Nato a Catanzaro sessantotto anni prima e quinto di nove figli, Angelo aveva vissuto una infanzia segnata dalle peggiori privazioni che si possano immaginare. Il padre, che si spaccava la schiena col suo lavoro saltuario di bracciante agricolo, non sempre riusciva a sfamare adeguatamente la famiglia. Erano i primi anni Cinquanta, epoca in cui il fenomeno dell’emigrazione di massa dal Meridione verso il Settentrione aveva raggiunto il culmine della parabola. Erano in molti a tentare di fuggire dalla miseria atavica e dalla disoccupazione dilagante, che affiggevano il Sud.

Era stata una iniziativa coraggiosa quella che Antonio Losito, il padre, aveva assunto nella speranza di assicurare una vita e un futuro più dignitosi alla propria famiglia, trasferendola a Milano all’inizio degli anni Cinquanta.

Aveva trovato un lavoro regolare come manovale presso una grande impresa edile, con un salario che, ancorché molto basso, era tuttavia sufficiente a sfamare undici bocche e pagare il canone del modestissimo alloggio che era riuscito a reperire. Un appartamentino composto da soltanto due locali e un cucinotto, al pianterreno di un casermone popolare che sorgeva a Cinisello: una sorta di agglomerato periferico sovraffollato da emigrati meridionali, in maggioranza siciliani e calabresi.

Ancora oggi, a distanza di oltre cinquant’anni, Angelo serbava molti nitidi ricordi della sua infanzia e adolescenza vissute tra le squallide mura di quel minuscolo bilocale, assieme ai tre fratelli e cinque sorelle, la madre e il padre. Una delle due camere era adibita a soggiorno e sala da pranzo, di cui aveva ancora nelle narici il puzzo di salsa piccante mista a sudore che sempre vi aleggiava. Nell’altra dormiva l’intera famiglia. C’erano letti a castello di legno e quello matrimoniale a una piazza e mezzo di ferro battuto, semi-nascosto da un

grande paravento a protezione della privacy. Di giorno il condominio era chiassoso per le strilla e i pianti dei bam-bini, le porte che sbattevano, le grida degli inquilini che litigavano sui pianerottoli o in cortile. Ma anche di notte non mancavano i rumori molesti che gli rendevano difficile il sonno. C’era anzitutto il pianto del fratellino neonato, che si svegliava puntualmente all’ora della poppata; poi il russare ininterrotto del padre, il gocciolio intermittente nell’acquaio, il ticchettio della pendola, il ronzio delle zanzare che spiaccicava con la mano sulla pelle prima che lo punzecchiassero, lo scricchiolio dei letti a castello e il cigolio di quello matrimoniale quando i genitori si abbandonavano ai piaceri del sesso, le liti della giovane coppia del piano di sopra, che si trasformavano in urla parossistiche quando lui la picchiava. Non di rado qualcuno richiedeva l’intervento della polizia.

Infine c’erano i rumori altrettanto fastidiosi che provenivano dall’esterno: il rombo possente delle auto e quello acuto e assordante dei motorini, gli schiamazzi di un gruppo di tre o quattro condo-mini che ogni sera, reduci dal bar ubriachi fradici, si fermavano sotto la sua finestra fino a notte fonda. A sedici anni era stato ammesso in seminario, e la sua vita era profondamente mutata. Angelo sapeva di essere stato da sempre un predestinato alla carriera ecclesiale. Un uomo chiamato da Dio, come amava definirsi. Ma riconosceva che era stata la madre a fargli emergere la vocazione in modo inequivocabile quando non aveva ancora dieci anni d’età. Si chiamava Rosa ed era stata una fervente cattolica praticante, oltre che una donna energica, capace di imporre la propria volontà all’intera famiglia. Pertanto, andare a messa e prendere la Comunione, erano gli obblighi sacrosanti di ogni domenica e di tutte le feste comandate. Così come lo era quello di recitare la preghiera di ringraziamento prima di ogni pasto, e al momento di andare a letto. Angelo era sempre apparso il più devoto dei fratelli, e il più ligio ai dettami di quella rigorosa disciplina religiosa, che la madre riteneva irrinunciabile da parte di chiunque si professasse un vero credente. Era stata questa condotta ad aprirgli facilmente le porte del seminario spianandogli la strada verso un fulgido futuro nella Chiesa del Signore.

Ogni volta che faceva pubblicamente accenni alle umili origini della propria famiglia, erano a centinaia le lettere di ammirazione che riceveva dai fedeli. Aveva il dono del linguaggio chiaro e semplice, e quindi accessibile a tutti,

anche se quasi sempre dai toni molto accesi. Era anzitutto sul problema planetario della povertà e della fame che amava pronunciarsi, esaltando e lodando la grande dignità di quanti erano costretti a subirlo. Snocciolava statistiche mondiali aggiornate, su quante vittime – soprattutto bambini – questi mali mietessero ogni anno tra la indifferenza generale, e, in primo luogo, dei ricchi. Si professava povero tra i poveri, e si augurava che il titolo di Principe della Chiesa non inducesse a ritenere che avesse rinunciato a esserlo dal momento in cui lo aveva acquisito. Affermava con veemenza di essere nullatenente, al pari del Falegname di Nazareth morto sulla croce duemila anni prima, proprietario soltanto di una tunica semi lacera. Nella foga dei suoi apionati interventi, assicurava che intendeva impegnarsi a fondo nella lotta contro la miseria e la fame, definendole vere e proprie emergenze sociali. Affermava di vedere riflessa sul volto dei poveri l’immagine del Cristo. Attirava l’attenzione sul profondo solco esistente tra gli indigenti cronici privi dei mezzi essenziali di sussistenza, e i ricchi. Tuonava contro i secondi che sfuggivano, a suo dire, all’obbligo morale di impegnarsi nella beneficenza e nella carità. “I ricchi devono donare ai poveri”, era una delle esortazioni più ricorrenti nei suoi discorsi. Queste sue severe esternazioni non mancavano di avere un certo impatto positivo sulle coscienze della classe benestante.

Ma non di tutta.

Erano invece fonte di irritazione e imbarazzo per una non esigua schiera di miliardari, che vedevano l’Arcivescovo come il fumo negli occhi. Ma, a onore del vero, il sentimento era reciproco.

Ugo Martinoni – plurimiliardario, l’uomo più ricco d’Italia e tra i più ricchi del mondo – faceva parte del gruppo a pieno titolo. Approfittava di ogni occasione per esprimere critiche, tutt’altro che ve-late, nei confronti di quelle che definiva le idee strampalate del cardinal Losito su come fare per alleviare la povertà. Sosteneva che non erano i cittadini a doversene fare carico e meno che mai quelli ricchi, ma che era un problema delle istituzioni e degli Stati dei singoli Paesi. Che nutrisse sentimenti ostili verso l’alto prelato era universalmente

risaputo.

Sul conto dell’Arcivescovo, non mancavano peraltro voci critiche anche all’interno della stessa Curia. A molti risultava sgradevole quella che consideravano la sua affannosa ricerca di visibilità e protagonismo, nonché quel suo volersi proporre al pubblico con l’aureola della star. Non condividevano i suoi toni eccessivamente retorici e la gestualità teatrale che sempre ostentava dal pulpito. E-rano comportamenti che contrastavano vistosamente con la dignitosa pacatezza del suo predecessore.

Coloro che nella Curia gli erano molto vicini – primo tra tutti il suo anziano segretario monsignor Antonio Ricardi –, sapevano che trascorreva un ora in preghiera prima di ogni intervento pubblico. Che curava personalmente e puntigliosamente la stesura dei discorsi che doveva pronunciare. Che per le interviste televisive e alla stampa, preparava con meticolosità l’agenda dei temi che era disposto a trattare.

Ora, terminata la lettura, ripiegò con cura il giornale e lo ripose sulla pila degli altri quotidiani. Rimase a meditare per alcuni lunghi minuti. Poi si alzò in piedi e andò ad aprire la porta dello studio che dava nell’anticamera.

Come si aspettava, il suo segretario particolare era ancora lì a sonnecchiare su una poltroncina, il capo reclinato sul petto. Gli si avvicinò e gli posò una mano su una spalla ossuta facendolo sobbalzare. L’anziano prelato si alzò lentamente, a fatica. Guardò il Cardinale farfugliando alcune parole di scusa per essersi appisolato.

“Siete stanco, monsignore”, Losito gli disse sorridendo. “Andate pure a dormire. Ci vediamo domattina.”

“Grazie, eccellenza.” Si diresse a o lento verso la porta.

Il Cardinale ritornò nello studio per chiudere a chiave i cassetti della scrivania. Poi, spenta la lampada, uscì imboccando il lungo corridoio che conduceva alla sua camera da letto, mentre nel cervello continuava a mulinargli quella notizia – ancora a livello di indiscrezione, ma non per questo meno inquietante dal suo punto di vista –, che aveva letto su entrambi i quotidiani l’Osservatore Romano e il Corriere della Sera. Rivestiva un carattere politico, ma presentava, se fosse risultata fondata, risvolti che, a suo modo di vedere, potevano avere un impatto negativo sulla società civile, creandovi una situazione anomala nei cui confronti – per l’elevata carica religiosa che ricopriva – sentiva che non avrebbe potuto restare indifferente.

Sapeva che sarebbe stata oggetto di sua profonda meditazione nei giorni a venire.

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L’ascensore rallentò appena un istante prima di arrestarsi al pianoterra con un lieve sobbalzo. La porta scorrevole di alluminio a due battenti si ritrasse, e sca Martinoni la varcò facendo il suo ingresso nella vasta hall dell’albergo e dirigendosi a o spedito verso il banco della reception.

“Può confermarmi, per cortesia…”, disse rivolta all’impiegato, “…che il volo Alitalia AZ289 delle quindici e trenta in partenza da Fiumicino per Milano, è previsto in ritardo per via dello sciopero dei controllori?”

“Subito, signorina Martinoni.” Il giovane sulla trentina, alto e smilzo, digitò sulla tastiera del computer. “Lo sciopero è stato revocato”, le rispose sfoderando uno smagliante sorriso carico di ammirazione. “Pertanto, il volo dovrebbe decollare in orario.”

A cinquecento euro per notte, l’Excelsior, in via Vittorio Veneto a Roma, non è esattamente un albergo per gente sull’orlo della bancarotta. Ospita vip in gran numero, o comunque personaggi facoltosi per i quali il denaro non rappresenta alcun problema.

Quel sorriso che il portiere aveva rivolto alla giovane donna, voleva essere anzitutto un tributo alla sua bellezza mozzafiato, ma non solo. sca Martinoni era una celebre star della televisione. Entrava ogni giorno nelle case degli italiani attraverso il piccolo schermo. Erano ormai trascorsi tre anni da quando aveva esordito come conduttrice di programmi di talkshow, per poi are alle fiction, in cui stava riscuotendo notevole successo. Era un fatto che le sue trasmissioni sempre si collocassero su percentuali elevate di share. Ad accrescere la sua popolarità – anche nei rapporti interpersonali al di fuori della

vita professionale –, c’era quel suo modo di proporsi cordiale ed espansivo, che non sempre si riscontra in coloro che vivono sotto i riflettori della notorietà.

“Grazie.” sca gli restituì il sorriso, e sollevò il braccio per consultare l’orologio: un Cartier di massiccio oro bianco dal quadrante contornato da minuscoli diamanti incastonati. Erano le dodici e mezzo, e aveva un piccolo problema da risolvere: come ingannare la noia dell’attesa nell’ora di tempo che le restava prima di recarsi in aeroporto. Meglio fare un giro nei dintorni, pensò, piuttosto che restare in albergo preda di quel nervosismo che non riusciva a scrollarsi di dosso prima di ogni volo. E ciò, malgrado fe uso frequente dei viaggi aerei. Camminare gli sarebbe servito a stemperarlo.

“Vado a fare quattro i nei dintorni”, disse al portiere. “Mi sembra una splendida giornata. Non starò via a lungo. Nel frattempo, vuole farmi portare giù i bagagli dalla mia camera?”

“Sarà fatto, signorina.”

Il giovane accennò un lieve inchino, e non poté fare a meno di seguirla con lo sguardo mentre attraversava l’atrio diretta all’uscita, le scarpe dai tacchi a spillo che echeggiavano sul pavimento di marmo bianco. Gli piaceva quel suo portamento elegante e disinvolto, l’incedere sensuale e lievemente ancheggiante che stimolava le sue fantasie erotiche. I lunghi capelli ricci e corvini le arrivavano fino alle spalle, incorniciando un volto incantevole dai lineamenti finemente cesellati come quelli di una scultura greca. Alta sul metro e settanta, aveva gli occhi di un azzurro intenso, ciglia lunghe e scure, labbra morbide e piene. A renderla ancor più attraente, c’era il suo abbigliamento: indossava una costosissima giacca di zibellino sopra dei jeans celesti e un maglione molto attillato a collo alto, in mohair bianco. Un paio di grossi orecchini d’oro a cerchio, le ciondolava dai lobi delle orecchie. Reggeva nella mano destra una preziosa borsetta in coccodrillo.

All’Excelsior sca era di casa: sempre vi scendeva ogni volta che doveva trascorrere nella capitale periodi più o meno prolungati per ragioni di lavoro. Benché nata e cresciuta a Milano, adorava Roma. Solo andarvi a zonzo era per lei un eccitante diversivo. Sapeva che poteva accadervi di tutto, e che quasi sempre era qualcosa di piacevole. Che poteva essere esplorata a fondo soltanto muovendosi a piedi, oppure a bordo di una di quelle caratteristiche carrozzelle trainate da un solo cavallo.

Erano gli unici modi per ammirare con calma i monumenti che – testimoni dei fasti dell’Antico Impero –, si rivelavano a sorpresa dietro ogni angolo di strada. Trovava splendida la Città Eterna in quella sua mescolanza di diversi stili architettonici che si erano accumulati nel corso dei secoli, e che coesistevano armonicamente. La sua prima visita, con i genitori, risaliva agli anni della adolescenza. Ricordò il suo stupore incantato alla vista del Colosseo, di Piazza San Pietro e della Basilica, del Vaticano e della Cappella Sistina.

Uscita dall’albergo piegò a destra incamminandosi a o spedito lungo il marciapiede gremito. Splendeva il sole, ma l’aria era fredda per essere la metà di novembre, come se a Roma l’inverno avesse deciso di anticipare il proprio arrivo. Signore in pellicce alla caviglia, eggiavano lungo quella che era comunemente nota come la strada della Dolce Vita, dall’omonimo e celeberrimo film di Fellini che vi aveva girato un gran numero di scene.

A tratti coglieva gli sguardi di quanti, riconoscendola, le rivolgevano un sorriso e un cenno di saluto. A tutti lei rispondeva sorridendo a sua volta. Si alzò il bavero della giacca per meglio proteggersi dal freddo. Guardava di sfuggita le sfarzose vetrine dei negozi, che riflettevano scintillando i raggi del sole e traboccavano di vestiti, scarpe, borse, gioielli.

Entrò in un bar con l’idea di bere qualcosa, ma visto che era affollato di giovani

fino all’inverosimile, fece dietrofront sulla soglia. Non voleva correre il rischio di ritrovarsi davanti una lunga coda di ragazzi che le chiedevano l’autografo. Non che la cosa l’avrebbe infastidita, ma era poco il tempo di cui disponeva. Attraversò la strada e continuò a camminare per una decina di minuti, quindi entrò in un piccolo bar semideserto immerso in una tenue penombra. Soltanto alcuni tavoli erano occupati. Si sedette a un tavolino appartato a ridosso di una vetrata che si affacciava sulla strada, e si mise a osservarne il viavai. Al cameriere che le si avvicinò ordinò un cappuccino.

Notò una coppia seduta dall’altra parte della saletta, intenta a sorseggiare bevande analcoliche. Lui era un bell’uomo di mezza età, alto, capelli brizzolati sulle tempie. Lei, mingherlina ma attraente, aveva occhi di un verde chiarissimo e capelli castani raccolti in una coda di cavallo. Lui sembrava più anziano di lei di almeno vent’anni. Protesi sopra il tavolino, perduti ciascuno nello sguardo dell’altro, parlavano a bisbigli. Lui le teneva una mano che a tratti si portava alle labbra. Immersi com’erano nella loro naturale intimità, parevano del tutto dimentichi dell’ambiente che li circondava.

sca li studiò a lungo mentre sorbiva il cappuccino: c’era un’ombra di tristezza sui loro volti, avevano un’aria preoccupata e gli occhi della ragazza sembravano lucidi di pianto. Quale dramma si celava dietro il loro rapporto? si chiese. Era un semplice flirt tra un uomo maturo sposato e una studentessa, destinato a durare lo spazio di qualche giorno o settimana, oppure qualcosa di più profondo e duraturo? Probabile, pensò, che si trattasse di una relazione clandestina tormentata, poiché irta di ostacoli insormontabili.

Quella scena, che sapeva di melodramma, le risvegliò alcuni dolorosi ricordi del suo ato. L’occhio della mente mise a fuoco le immagini nitide di quel giorno di cinque anni prima, in cui la sua storia d’amore con Pietro Mattei si era bruscamente e improvvisamente interrotta. Una lite aveva posto termine a quella che era parsa, fino ad allora, una felice convivenza che si protraeva da due anni. Quando gli aveva chiesto di regolarizzare il loro rapporto sposandola, lui aveva reagito con un fermo rifiuto, affermando che la sua era una pretesa esagerata e

prematura, e di non sentirsi ancora pronto per quel genere di impegno. Ma non soltanto: era scappato a gambe levate senza mai più rifarsi vivo.

Era una studentessa di diciotto anni quando una sera si erano conosciuti, immersi nella musica spaccatimpani di una discoteca. Se ne era subito profondamente invaghita. Aveva visto in lui il suo principe azzurro, la realizzazione dei suoi sogni di ragazza, l’uomo con cui pianificare la sua vita futura. Era giunta al punto da non riuscire a immaginarla senza di lui. Tutto di Pietro l’aveva colpita. La sua bellezza fisica da atleta, anzitutto. L’altezza di oltre un metro e novanta, i capelli lunghi e biondi, gli occhi azzurri, gli conferivano l’aria di un guerriero vichingo. Poi c’era il suo accurato abbigliamento, il carattere gioviale, quel sorriso accattivante che perennemente gli increspava le labbra. A soli ventiquattro anni si era laureato in giurisprudenza, e, figlio unico di un notissimo e ricco avvocato di Milano, titolare di un eminente studio legale, aveva egli stesso davanti a sé una lunga e luminosa carriera forense. Per sca, innamorarsi di lui era stato come farsi avvolgere da un alone magico; si era lasciata travolgere come un’adolescente. Approfittava di ogni occasione per spiegargli quanto fossero profondi i suoi sentimenti. Quando aveva diciassette anni, era uscita per alcuni mesi con un suo compagno di scuola, con cui non aveva mai avuto un rapporto sessuale completo. Ligia ai principi inculcatigli da una madre dalla mentalità antiquata, gli aveva sempre opposto resistenza. Con Pietro Mattei, invece, aveva capitolato dopo soltanto una settimana dall’avvio della relazione, ed erano finiti in camera da letto. Lei aveva così perduto quella verginità che sino ad allora aveva considerato un valore importante da difendere, e preservare fino al matrimonio. Ma diciotto anni, si era rivelata un’età non abbastanza adulta perché potesse intuire di che stoffa fosse fatto Pietro, e quello che un rapporto con lui poteva riservarle. Quando aveva deciso di dirgli con schiettezza che riteneva maturi i tempi per il matrimonio, il mondo le era crollato miseramente addosso come un edificio che implode. Lui aveva gettato la maschera fuggendo a rotta di collo.

Il velo le si era allora squarciato davanti agli occhi, e i suoi sogni di ragazza erano andati in pezzi. Aveva allora capito, troppo tardi, che si era sempre sbagliata sul suo conto. Che l’aveva ingannata fingendo di essere diverso dall’uomo che era realmente. Le si era rivelato con crudezza quello che in due

anni avrebbe dovuto almeno sospettare: che erano falsi i suoi sguardi adoranti, e i suoi giuramenti di eterno amore e fedeltà, false le sue promesse di un idilliaco futuro insieme. Rise tra sé con amarezza al pensiero di quanto infido e ipocrita si fosse rivelato alla prova dei fatti, riuscendo a illuderla per così tanto tempo e a carpirne la buona fede. La reazione di Pietro alla sua richiesta di matrimonio, le aveva fatto finalmente comprendere che il suo vero scopo era stato quello di sedurla per poi farne un oggetto sessuale. Nella sua ingenuità e inesperienza, aveva commesso l’errore madornale di confondere il sesso con l’amore, al punto di interpretare le manifestazioni di bruciante ionalità di lui – con cui sempre riusciva a portarla a letto –, come il segno rivelatore di un profondo e incrollabile sentimento che nutriva nei suoi confronti.

Ma da certi suoi comportamenti, avrebbe dovuto intuire che così non era, e che Pietro non era il tipo di uomo che una donna potesse facilmente imbrigliare. Uno per tutti, c’era quel suo modo maniacale in cui, a ogni rapporto sessuale, prendeva ogni possibile precauzione per scongiurare il pericolo che lei restasse incinta. Era troppo astuto. Mai perdeva il controllo di sé. Per due anni era riuscito, con grande abilità, a impersonare il ruolo dell’uomo sincero e follemente innamorato. Fino a quando non avevano cominciato a fare capolino alcune sue manifestazioni di stanchezza, come se la relazione fosse diventata per lui noiosa, triste e ripetitiva. Ma innamorata com’era, aveva scelto di ignorarle.

“Quindi non è l’uomo che credevo. Non mi ha mai amata, non ho mai significato nulla per lui, mi ha soltanto usata per il suo piacere. Pazienza, sono cose che accadono a molti…”, questo si era detta in preda all’amaro sconforto quando lui l’aveva lasciata su due piedi. Magari fosse bastata quella semplice conclusione a farglielo togliere dalla testa. Malgrado tutto, aveva continuato a pensarlo per molto tempo ancora, sforzandosi di abituarsi, ma senza mai veramente riuscirci, a vivere senza di lui. Persino ora, a distanza di cinque anni, non era del tutto certa che se fosse ritornato non gli avrebbe consentito di rientrare nella sua vita. Ma quella triste esperienza a qualcosa le era servita: le aveva impartito una lezione, facendole acquisire la determinazione a non ricascarci. A non permettere mai più a un altro uomo di circuirla e di dominare la sua vita. Pietro Mattei sarebbe stato il primo e l’ultimo a esserci riuscito.

Un aspro sentimento di diffidenza verso l’altro sesso si era così impossessato di lei, profondo al punto da farle sbattere con violenza la porta in faccia a quanti avevano cominciato a ronzarle attorno come mosconi, quando si era sparsa la notizia che era libera.

Bevve l’ultimo sorso del cappuccino nello stesso attimo in cui i due amanti, pagato il conto, si alzarono per lasciare il locale. Camminando lentamente, cingendosi la vita, si avviarono verso l’uscita. Lei si asciugava le lacrime con un fazzoletto che aveva estratto dalla borsetta. Attraverso la vetrata li vide sostare sul marciapiede e abbracciarsi, incuranti degli sguardi dei anti, prima di separarsi allontanandosi in direzioni opposte.

sca pensò che, se quello non era stato l’ultimo incontro, prima o poi anche la loro storia sarebbe comunque giunta al capolinea, come era ragionevole prevedere per la grande differenza di età, o se lui era sposato. Ma forse la separazione, per quanto dolorosa, sarebbe avvenuta in modo pacato, senza tensioni o litigi, non già nella forma improvvisa e burrascosa in cui si era conclusa la sua esperienza. Magari si sarebbero lasciati di buon accordo, lui non sarebbe fuggito e avrebbero continuato a mantenere contatti amichevoli.

Trascorso un anno dalla uscita di Pietro dalla sua vita, e mentre continuava a nutrire la speranza che un giorno sarebbe ritornato, uno strano destino aveva voluto che a farlo svanire quasi del tutto dai suoi pensieri, dovesse essere una tragedia famigliare che l’aveva duramente colpita: la perdita dei genitori in una sciagura aerea in Messico, mentre ritornavano da una vacanza nello Yucatan. Il Boeing 747 dell’Alitalia era esploso in volo dopo soltanto cinque minuti dal decollo dall’aeroporto di Cancùn, provocando la morte di 280 eggeri e sette membri dell’equipaggio.

‘Guasto tecnico’ era stato il verdetto ufficiale sulle cause dell’incidente, diffuso

al termine dell’inchiesta durata un anno, e condotta congiuntamente dalle autorità italiane e messicane. Un cavo logoro dell’impianto elettrico, aveva generato un corto circuito a ridosso del serbatoio pieno di kerosene dell’ala destra. Le scintille lo avevano infiammato, innescando la deflagrazione. Il Jumbo si era spezzato in tre tronconi precipitando nel Golfo del Messico. Il recupero dei corpi era stato solo parzialmente possibile, e non aveva compreso quello dei genitori.

Era piombata nello sconforto più nero, e in una grave depressione. Era riuscita in parte a superarli immergendosi con determinazione negli studi universitari alla Bocconi, per il conseguimento della laurea in economia e commercio. Soprattutto la madre le era mancata. Con il suo amore e la sua saggezza era stata per lei la compagna e confidente ideale, in cui si era sempre rifugiata. Sin da piccola aveva avvertito il bisogno di assumerla come punto di riferimento della sua esistenza. Nella cocente delusione amorosa che aveva patito, si era prodigata per farle superare la crisi, purtroppo senza alcun apprezzabile risultato.

Altrettanto non poteva dire del padre, che quasi mai era stato presente nella sua vita, come se a malapena lo avesse conosciuto. Di certo un padre da non emulare, e impossibile da amare. C’era un aspetto del suo carattere tipico dei Martinoni: la brama insaziabile di denaro. Al pari del fratello maggiore, nella cui ombra aveva sempre vissuto, ne era stato ossessionato sin dall’infanzia. Non che fosse riuscito ad accumularne granché con la sua professione di chirurgo plastico. Il successo non gli aveva mai arriso, e l’etichetta della mediocrità gli era sempre rimasta cucita addosso. Troppo frequenti erano stati i casi in cui le sue prestazioni erano state messe in discussione da pazienti insoddisfatti, cosa che gli aveva procurato seri guai di natura legale. Al momento del disastro aereo, pendeva sul suo capo una imputazione per omicidio colposo, dato che, secondo l’accusa, aveva provocato la morte di una giovane donna in seguito a un intervento sbagliato di chirurgia estetica al seno.

Diversamente da lui, il fratello maggiore era un uomo dotato di ingegno e grandi capacità, che, nel giro di un ventennio, gli avevano consentito di diventare un

magnate miliardario, di certo l’uomo più ricco d’Italia. Ma non era tutto. Con un patrimonio personale valutato a oltre cinquanta miliardi di euro, la rivista americana Forbes lo collocava al quinto posto nella graduatoria degli uomini più ricchi del pianeta. Nell’arco di un decennio era riuscito a costruire un impero mediatico tra i più importanti d’Europa. Mediasystem era il nome della holding, quotata in Borsa, che aveva fondato per raggruppare tre grosse reti televisive che coprivano l’intero territorio nazionale, e competevano a pieno titolo con le tre della RAI. Nel suo insieme, il gruppo imprenditoriale che a lui faceva capo, era composto da una miriade di aziende che operavano nei settori più svariati. Non ultimi c’erano l’editoria e la grande distribuzione, nonché la pubblicità, le banche e le compagnie di assicurazioni. Era azionista di riferimento di una compagnia aerea di medie dimensioni, e possedeva egli stesso una piccola flotta di velivoli executive, composta da due Gulfstream dell’ultima generazione, e da un Falcon 900ex da sedici eggeri. Questi erano i mezzi con cui si muoveva rapidamente col suo entourage intorno al Globo, per affari o per piacere. Ormeggiato alla banchina del suo porticciolo privato, prospiciente una villa faraonica sulla Costa Smeralda in Sardegna, c’era il suo mega yacht di settantatré metri: quasi una nave da crociera. Era provvisto di elicottero, ed equipaggiato con due propulsori diesel Caterpillar da 2000 HP. L’aveva acquistato cinque anni prima da un sultano del petrolio per la modica cifra di sessanta milioni di dollari.

Lo zio Ugo era il parente più prossimo di sca, e come tale era subito accorso in suo aiuto quando il grave lutto l’aveva colpita. Aveva fatto per lei quello che nessun altro congiunto sarebbe stato in grado di fare, anche se lo avesse desiderato. A lui doveva tutto quello che era oggi: una giovane donna ricca e famosa. Dopo la morte dei genitori, l’aveva presa sotto la sua ala protettrice, accogliendola nella sua dimora abituale: una splendida ed enorme villa in Brianza immersa nel verde di oltre cento ettari di parco, e che un alto muro di cinta rendeva impenetrabile al pari di una fortezza.

Quando, conseguita la laurea, lei ne aveva manifestato il desiderio, l’aveva lanciata nel mondo dello spettacolo televisivo attraverso le sue tre reti, facendo in modo che bruciasse le tappe diventando, nel giro di alcuni anni, una grande star del piccolo schermo. Il fatto di essere la nipote di Ugo Martinoni, non aveva

fatto che accrescere a dismisura la sua visibilità pubblica. Oltre che in televisione e negli spot pubblicitari, appariva sui giornali. Non c’era rivista di moda o di spettacolo che tutti i mesi non pubblicasse almeno una sua fotografia. Era inevitabile che un personaggio come lei fosse facilmente riconoscibile ovunque si trovasse: per strada, negli aeroporti, nelle stazioni ferroviarie, nei negozi, nei supermercati. Era naturale che la gente cercasse di avvicinarla per parlarle, stringerle la mano o chiederle l’autografo. Soltanto camuffandosi sarebbe riuscita a are inosservata. Un’occhiata all’orologio la riporto bruscamente al presente. Fece cenno al cameriere di portarle il conto.

Era tempo di muoversi se non voleva perdere l’aereo.

2

Fuori dal locale sca sostò sul marciapiede cercando con gli occhi un taxi. Sollevò la mano per fermarne uno che transitava in quel momento.

“All’Excelsior”, disse al tassista mentre saliva a bordo. “E in fretta, per favore.”

L’auto si era appena avviata quando dalla borsetta di coccodrillo le giunse il trillo del cellulare. Lo prese e studiò il display: era Paolo Kesler. Assunse un’espressione perplessa trattandosi di qualcuno con cui erano pressoché inesistenti contatti telefonici. Incuriosita, premette il pulsante che attivava la comunicazione.

“Ciao sca, come stai?”

Quella voce dal timbro profondo era inconfondibile. Paolo Kesler era da oltre quindici anni il migliore amico e il più stretto collaboratore di suo zio Ugo, ma anche l’ultima persona dalla quale si sarebbe attesa una telefonata in quel momento.

“Bene, Paolo.” Fece una pausa mentre si sforzava di ricordare, senza riuscirci, quando era stata l’ultima volta che la aveva chiamata. “Sono sorpresa… Come mai questa telefonata?”

Lui non rispose alla domanda, ma disse: “Dove ti trovi?”

“In taxi, in Via Veneto.”

“Diretta?”

“All’Excelsior.”

“E la fiction come va?”

“Bene. Abbiamo terminato ieri di girare l’ultima puntata. Andrà in onda ai primi di dicembre.”

“E ora che programmi hai nell’immediato?”

“Niente di particolare… Mi prendo qualche settimana di vacanza. Penso di andare a sciare da qualche parte.”

Ci fu una breve silenzio come se lui soppesasse quello che stava per dire. “Ascolta, sca…, che ne diresti di cenare insieme stasera?” La sorpresa si tramutò in stupore. Non era mai successo in ato che lui cercasse di avere con lei un incontro a quattrocchi. Quindi, se avesse accettato l’invito sarebbe stata la prima volta che cenava da sola con Paolo Kesler. Erano innumerevoli le occasioni di riunioni conviviali organizzate da Martinoni cui lei partecipava e dove era presente la crème della crème della Milano bene, Kesler compreso. Quelli erano gli unici rapporti ravvicinati che sinora aveva avuto con lui. Cosa c’era dunque sotto quell’insolito invito? Un’avance? Non era possibile, sarebbe

stata un’assurdità, pensò. Anche se sospettava da tempo che lui nutrisse nei suoi confronti più che una semplice simpatia, fu portata a escluderlo in modo assoluto, e almeno per un paio di buone ragioni. Kesler aveva da un pezzo ato la cinquantina, e doveva conoscere bene le sue preferenze in fatto di età degli uomini con cui era disposta ad allacciare even-tuali relazioni sentimentali.

Infine, era ben consapevole che se ci avesse provato, sarebbe incorso nelle ire funeste di suo zio, che avrebbe avversato con violenza una siffatta iniziativa. sca era sicura che cadere in sua disgrazia, era un’eventualità che Kesler desiderava con tutte le sue forze non accadesse mai. Per di più, sapeva della delusione amorosa che aveva patito per mano di Pietro Mattei.

“Mi spiace Paolo, ma non posso. Rientro a Milano nel pomeriggio. Ho il volo alle tre.”

“Potresti cancellarlo.”

Si sentì sconcertata e imbarazzata insieme, nonché indecisa sulla risposta da dare. Dopo alcuni secondi di silenzio disse: “E’ proprio così importante?”

“Sì.”

“Perché?”

Lui ridacchiò. “Potrei dire che desidero godere di un po’ della tua compagnia.”

“Potresti…, ma non ti crederei, Paolo.” Fece una pausa riflessiva. “E’ talmente strano e insolito questo tuo invito… Ha tutta l’aria di un pretesto.” Tacque e attese che lui replicasse. Quando invece rimase in silenzio, aggiunse: “Allora…, vuoi dirmi di grazia che cosa c’è sotto?”

“Hai ragione, mia cara, è una scusa. C’è qualcosa di molto importante di cui dovrei parlarti.”

“Al riguardo di che?”

“Non posso dirtelo per telefono.”

Lei pensò che trattandosi del migliore amico di suo zio, non poteva declinare l’invito. “Capisco…” Rimase per qualche attimo a riflettere prima di dire: “D’accordo… cerco di spostare il volo a domani.” Fece una pausa prima di aggiungere: “Allora… dov’è che ceniamo?”

Lui ci pensò su per un secondo, poi disse: “Che ne diresti del ristorante dell’Excelsior…, diciamo… alle nove? Mi risulta che servano una vaccinara e un abbacchio che sono la fine del mondo. Mi viene l’acquolina in bocca solo a pensarci.”

“D’accordo, mi sembra un’ottima idea.”

“Allora vada per l’Excelsior, alle nove.” Parve riflettere. “Ah, un’altra cosa, sca… Il volo piuttosto che spostarlo dovresti addirittura cancellarlo e…”,

esitò prima di aggiungere, “…non disfare la valigia.”

“Perché?” chiese sbalordita.

“Quasi certamente dovrò proporti di fare un viaggetto insieme di qualche giorno… all’estero.”

“Cosa?!” esclamò. “Un viaggetto all’estero? Vuoi dirmi dove e perché?”

“Ti ripeto… non posso spiegarti per telefono… A stasera, dunque.”

Lei aprì la bocca per replicare di nuovo, ma non ne ebbe il tempo perché Kesler aveva chiuso la comunicazione.

3

sca comparve sulla soglia del ristorante dell’Excelsior, e in molti si voltarono a guardarla con espressione ammirata. Riconoscendola, la seguirono con gli occhi mentre il maitre le faceva strada fino a un tavolo d’angolo dall’altra parte della sala.

Paolo Kesler sollevò lo sguardo dal menù che stava scorrendo con aria distratta, e la squadrò da capo a piedi con un sorriso di apprezzamento.

“Felice di rivederti, sca”, disse. Si alzò e le si fece incontro girando intorno al tavolo. “Sei bellissima…, come sempre d’altronde…”

“E tu sei sempre molto carino”, lei replicò porgendogli le guance su cui lui posò le labbra, soffermandosi, forse, qualche istante più del dovuto. Poi le scostò la sedia per farla accomodare.

Effettivamente, nella sua sobria eleganza, sca era stupenda. Indossava una camicetta di finissima seta color crema – un colore che le donava molto –, ad ampie maniche e stretta in vita, scollata ma non troppo, sopra una gonna molto aderente di un lucido tessuto nero. Una parure di perle naturali risaltava sulla carnagione lievemente abbronzata, e la lunga e folta capigliatura corvina ondeggiava appena a ogni movimento del capo.

Con fare servizievole, il maitre le porse il menù. Lei lo posò davanti a sé senza guardarlo, e disse con fare impaziente: “Allora, Paolo, cos’è questo grande segreto di cui non puoi parlare sul cellulare?” Lo fissò. “E il viaggetto che

dovremmo fare insieme all’estero?”

Lui sorrise e alzò le mani con i palmi rivolti verso di lei, dicendo: “Calma, mia cara. Non credi sia bene ordinare, prima?”

Lei annuì, aprì il menù e si mise a consultarlo. Improvvisamente, si accorse di aver una fame da lupo. L’unico pasto della giornata era stato la colazione del mattino, se escludeva il cappuccino che aveva preso in quel piccolo bar di via Veneto. Rinunciando agli aperitivi, si trovarono d’accordo nell’ordinare entrambi gli spaghetti all’amatriciana come primo, e l’abbacchio come secondo, di cui, sca sapeva, Kesler andava matto. Dalla lista dei vini scelsero un ottimo Beaujolais del ’99.

Paolo Kesler era quello che potrebbe definirsi un bell’uomo. Sulla cinquantina, carnagione chiara, alto e asciutto, aveva un viso intelligente dai tratti regolari, perennemente atteggiato a un sorriso ironico appena accennato. Il cognome, l’azzurro degli occhi, e il biondo dei capelli marezzati di grigio, tradivano le sue origini germaniche.

Ricercato nel vestire – ancorché non ai livelli maniacali dell’amico magnate –, sfoggiava un impeccabile doppio petto gessato grigio-chiaro fatto su misura, sopra una camicia immacolata dal colletto perfetto, e una cravatta a strisce rosse su fondo blu.

sca lo studiò con attenzione: aveva l’aspetto rilassato e l’intensa abbronzatura di uno reduce da una lunga vacanza in qualche località balneare, magari esotica.

“Sei stato alle Maldive?” gli chiese a bruciapelo.

“No, in Libano.”

“In Libano?” Lo guardò sorpresa. “Come mai in Libano?” “E’ un bel posto per trascorrerci le vacanze. L’ho scoperto quest’anno, in agosto. Il turismo è in fase di grande sviluppo.”

“Com’è che è andata? Ti sei divertito?”

“Tantissimo. Le spiagge erano affollatissime, brulicanti di bellezze mozzafiato. C’era solo l’imbarazzo della scelta. Mi sono rosolato al sole come un vitello sullo spiedo.”

Da quello scapolo di lungo corso che era – che non significa affatto disinteresse per l’altro sesso –, e grazie alla sua condizione economica tutt’altro che disagiata, Kesler era in grado di permettersi un tenore di vita che sarebbe stato eufemistico definire confortevole.

“Allora, Paolo, vieni al dunque.” Il tono della giovane si era fatto incalzante per fargli dire finalmente lo scopo dell’invito, che si era rifiutato di rivelarle sul telefonino alcune ore prima.

La reticenza che Kesler aveva mostrato a sbilanciarsi sul cellulare su quella che doveva essere una faccenda delicata, era comprensibile e giustificata, e in fondo sca la condivideva. Con i tempi che correvano, il rischio per un uomo

nella sua posizione di essere spiato con le intercettazioni telefoniche – legali o illegali che fossero –, era sempre dietro l’angolo.

Anche se prive di contenuti compromettenti, potevano tuttavia, se male interpretate o deliberatamente travisate, rivelarsi fonte di fastidiosi grattacapi. Da qui l’uso molto parco e cauto che egli faceva del suo cellulare.

Nella sua prestigiosa carica di presidente di Mediasystem, la holding televisiva in assoluto il fiore all’occhiello del gruppo di Martinoni, Kesler era una figura di primo piano nel panorama imprenditoriale italiano. Con un fatturato annuo che sfiorava ormai i due miliardi di euro, e in continua espansione, l’azienda si collocava tra le prime dieci più importanti in Europa. Pertanto, Kesler era legato a Martinoni oltre che da grande e autentica amicizia, anche da un rapporto di lavoro. Il Magnate era a tutti gli effetti il suo capo supremo.

E a lui doveva tutta la sua fortuna.

Dalle notizie che circolavano sul suo conto, sca sapeva che era nato a Berlino Est cinquantaquattro anni prima, da padre tedesco e madre italiana. Il che ne faceva un perfetto bilingue, anche se a chi prestasse attentamente l’orecchio alla sua parlata, non sfuggiva un’appena percettibile inflessione del tedesco. Scarne le notizie su cosa avesse fatto per vivere in Germania, negli anni intercorsi tra il conseguimento della laurea in economia, e il momento in cui – dopo la caduta del Muro nel 1989, e la morte del padre –, aveva deciso di trasferirsi in Italia assieme alla madre. A chiunque glielo chiedesse rispondeva di aver ricoperto il grado di dirigente presso la Deutsche Bank di Berlino Est.

Dopo una breve permanenza a Roma, città natale della madre, si era recato a Milano, attratto dalla possibilità di partecipare alla selezione del personale per la posizione di un vicedirettore nell’organico della Publinord, una importante

agenzia pubblicitaria. Era stato scelto fra cento candidati, e, ricevuta la nomina, si era quindi trasferito nel capoluogo lombardo per assumere l’incarico. Kesler non avrebbe tardato a scoprire che della società era proprietario Ugo Martinoni.

Erano trascorsi quindici anni da quel memorabile evento che avrebbe cambiato, migliorandola a dismisura, la sua vita: aveva fatto la conoscenza personale del Grande Capo. Per la verità, era stato lo stesso Martinoni – sempre a caccia di talenti all’interno del suo gruppo, e fuori – a convocarlo per un colloquio nel suo studio, quando gli era capitata sotto gli occhi una relazione sulle sue ottime prestazioni, testimoniate dai profitti in costante crescita dell’agenzia pubblicitaria. L’incontro era durato poco meno di un’ora, ma era bastato a Martinoni per restare affascinato dal carisma di Kesler. Aveva subito intuito la stoffa del genio che c’era in lui, si era reso ben conto di avere a che fare con un soggetto le cui elevate doti intellettive e la personalità di spicco erano almeno pari alle sue, se non superiori. Aveva deciso che era proprio il collaboratore che da tempo cercava cui affidare la realizzazione di un progetto tanto ambizioso quanto arduo.

La scalata della casa editrice Sfera attraverso il lancio di un’offerta pubblica (Opa).

Allora una public company quotata in Borsa, rappresentava per molti imprenditori un boccone prelibato, a cui Martinoni, assente dal mercato editoriale, non desiderava rinunciare. Tutt’altro che inesperto di finanza, Kesler si era mosso con astuzia e grande abilità. Aveva cominciato a rastrellare azioni sul mercato, lentamente e con regolarità, giorno dopo giorno, per la durata di un anno. Piccoli lotti in modo da non sconvolgere il volume medio quotidiano e non far lievitare la quotazione, sì da non insospettire gli operatori e potenziali concorrenti. Una volta accumulato un pacchetto significativo a prezzi bassi – ma insufficiente a consentire il controllo della società –, aveva lanciato l’Opa per il restante capitale in circolazione a un prezzo molto appetibile. L’operazione si era conclusa con successo a un costo complessivo molto contenuto. La rapidità di esecuzione aveva colto alla sprovvista quanti avessero potuto meditare una

contro scalata.

Era stato da allora che Martinoni, entusiasta dell’operato di Kesler, aveva cominciato a tenerlo in palmo di mano, facendone il suo più stretto collaboratore. Non muoveva foglia senza aver prima sen-tito il suo parere. Lo aveva ripagato per l’impegno profuso nell’operazione e il risultato conseguito, con la nomina – non appena se ne era presentata la possibilità – a presidente di Mediasystem. Gli aveva fissato uno stipendio annuo da capogiro, che, compresi i lauti bonus, non sarebbe stato in grado di spendere per intero, nep-pure se lo avesse desiderato. Col are del tempo erano entrati gradualmente in confidenza e in una certa intimità, arrivando a usare il nome di battesimo e a darsi del tu. Era risaputo che Martinoni interpellasse Kesler su qualsiasi problema si trovasse a dover risolvere, perfino di natura personale. Questo aveva finito per farne, agli occhi di tutti, il suo migliore amico. Un rapporto speciale, che prescindeva da quello di lavoro.

“Si tratta di tuo zio Ugo…”, Kesler disse mentre, l’aria assorta e la fronte aggrottata, versava il vino nei bicchieri.

“Ah!”, lei esclamò fermando la mano che reggeva la forchetta con arrotolato un boccone di spaghetti. “Qualcosa che non va con lui, di cui io non sono a conoscenza?” Assunse una espressione preoccupata. “Non sarà per caso gravemente ammalato?”

L’altro scosse il capo con vigore. “Macché, scoppia di salute.”

“E allora?”

“Ha deciso di imbarcarsi in una delicata e importante impresa, e per condurla in porto necessita del tuo aiuto, o, per meglio dire, del nostro aiuto.”

Lei fece una smorfia scettica e disse: “Ma va’? Mi riesce difficile immaginare che uno come lui possa trovarsi nella condizione di aver bisogno di qualcosa… o di qualcuno. Gli basta alzare un dito per ottenere sempre ciò che vuole.”

“Non in questo caso. E’ una faccenda complessa e delicata, mia cara”, Kesler disse, lo sguardo serio. “Qualcosa che gli sta molto a cuore, e il cui buon esito dipende in gran parte dalla collaborazione che potrà assicurarsi da amici e parenti fidati. Come io e te, per l’appunto.”

“Dimmi di che si tratta.”

Kesler bevve un lungo sorso di vino prima di dire: “Vuole darsi alla politica.”.

4

L’espressione sorpresa che Kesler si era aspettato di veder affiorare sul volto di sca, non ci fu. Lei annuì imibile a signifi-care che ne era al corrente.

“Me ne ha fatto più che un accenno qualche mese fa”, disse. “E ho anche letto le indiscrezioni della stampa.”

“Accarezza l’idea da moltissimi anni”, Kesler spiegò. “A parte la ione che da sempre nutre per la politica, la sente un po’ come una missione umanitaria. Intende ‘scendere in campo ’ – per usare una delle metafore calcistiche a lui tanto care –, candidandosi con il centrodestra nei cui confronti non ha mai fatto mistero di nutrire simpatie. Si proporrà come candidato presidente del Consiglio, e lo farà anzitutto per il bene del Paese, per liberarlo dal pericolo comunista – a suo dire mai scongiurato neanche dopo la caduta del Muro di Berlino –, per poi riformarlo, e combattere la povertà.”

“Immagino che tu abbia usato ogni argomento per cercare di dissuaderlo.”

“Sì, ma è stato irremovibile. Tu conosci la sua caparbietà.” Si interruppe. “Vedi, sca, lui sostiene che dopo tanti anni di governo fallimentare del centrosinistra, l’Italia necessiti di un cambiamento radicale, e lui crede di essere, in questo momento, l’unico in grado di realizzarlo.”

La giovane non replicò, ma ebbe un sorrisetto ironico che sembrava dire: “Non sono del tutto convinta che queste siano le sue reali motivazioni.”

L’altro proseguì: “Abbiamo avuto in proposito un lungo colloquio qualche settimana fa, nel corso del quale mi ha informato che, dopo aver vagliato tutti i pro e i contro, ha finalmente deciso di rompere gli indugi e mi ha incaricato di cominciare a organizzargli la campagna elettorale senza badare a spese. Mi ha dato un mandato pieno, che significa assoluta libertà su come procedere.”

“E tu credi che i partiti della coalizione di centrodestra lo accetteranno come candidato premier?”

“Non ne ho alcun dubbio.” Sorrise. “Capirai… sanno che è in grado di mettere in campo degli ottimi giocatori, e risorse in abbondanza per contribuire a finanziare la campagna elettorale dell’intera squadra.” Tacque per un attimo, lo sguardo pensieroso. “No, non è da quel fronte che viene il pericolo di insuccesso.”

“Dallo schieramento avversario, naturalmente…”

“Naturalmente, ma non solo. Anche da tutti quei media allo stesso asserviti, nonché da certe istituzioni. Quando tra una settimana, lui annuncerà pubblicamente il suo proposito pronunciando un lungo discorso da una delle sue tre reti, si scatenerà il putiferio.”

“E’ facile immaginarlo. E’ molto lungo l’elenco dei suoi nemici…”

“Lo attaccheranno con ogni mezzo, anche illecito, pur di sbarrargli la strada. Scateneranno una campagna di denigrazione senza limiti, per infangare la sua immagine.”

“Tireranno in ballo il conflitto di interessi, ovviamente.”

“Quello sarà il male minore.” Scosse il capo. “Divulgheranno falsità di ogni genere sul suo conto, come ad esempio sue presunte collusioni con la mafia. Gli chiederanno di rivelare le fonti della sua enorme ricchezza. I giudici comunisti gli metteranno i bastoni tra le ruote cercando di incriminarlo per suoi presunti reati, eccetera eccetera…”

Giunse il cameriere che rimosse i piatti vuoti degli spaghetti, seguito da un altro che servì le seconde portate, e si allontanò non prima di aver rabboccato il vino nei calici.

“Sono sicura che sarà in grado di difendersi alla grande. Possiede gli strumenti necessari per farlo”, sca osservò prendendo un sorso di vino.

“Io, invece, non ne sono così certo…”, Kesler replicò mentre, coltello e forchetta, attaccava l’abbacchio con sorprendente voracità. “Neppure usando la sua abilità di grande comunicatore, e la macchina da guerra di cui dispone…, Voglio dire tutti i suoi mezzi di informazione.”

“Come mai sei così pessimista?”

“E’ per via dei sondaggi.”

“Oh!”

“Vedi…, allo stato attuale tutte le società demoscopiche italiane che hanno effettuato sondaggi in vista delle elezioni di fine febbraio, tra le classi più conservatrici e moderate del Paese – tutte indistintamente, dico, senza eccezione alcuna – danno in vantaggio, se si votasse oggi, il centrosinistra, seppure di soli due punti percentuali. E ciò malgrado abbia tutt’altro che brillato in tutti questi anni di governo.”

“Si vede che la gente teme la destra reazionaria più della sinistra estrema.”

“Così sembrerebbe…” Fece una pausa e sollevò lo sguardo dal piatto. “Veramente delizioso…”, disse masticando lentamente per meglio assaporarlo. Deglutì il boccone, e poi bevve un sorso di vino asciugandosi delicatamente le labbra. “Abbiamo, però, il risultato di un sondaggio segretissimo da noi commissionato di recente alla Worldwide Poll, una prestigiosa casa americana, limitandolo alla persona di Ugo Martinoni. Bene… è saltato fuori che il cinquantotto percento degli italiani vedrebbe con favore un suo eventuale coinvolgimento in incarichi di governo come premier.”

“Il che testimonia della grande popolarità di cui gode.”

“Esatto.” Annuì con forza. “E indurrebbe a ritenere che, con la sua azione in campagna elettorale, il vantaggio del centrosinistra potrebbe essere annullato.

“E perché non ipotizzare addirittura un ribaltamento dei sondaggi?”

“Sì, ciò è possibile, ma in linea puramente teorica.”

“Perché?”

“Ma è per quello che ti ho detto prima, cara. Con l’entrata di tuo zio nell’agone politico, i suoi nemici gli sferreranno violenti attacchi per metterlo in difficoltà e appannare la sua immagine pubblica. Anche se molti lo vedranno come vittima e perseguitato, ciò non toglie che subirà inevitabilmente un calò di popolarità, il che non potrà che ripercuotersi sull’intera coalizione.” Rimase in silenzio per alcuni secondi. “Capirai, quindi, che in un siffatto scenario una vittoria del centrodestra apparirebbe altamente improbabile.”

Lei sembrò meditare su quanto aveva ascoltato, poi disse: “Allora…, che cosa si può fare, Paolo?”

Di nuovo Kesler sollevò lo sguardo dal piatto e la fissò.

“Ne abbiamo discusso a lungo con tuo zio, e tanto io che lui siamo giunti alla conclusione che esiste un solo modo per cercare di neutralizzarli, o quanto meno di contrastarli.”

“Che sarebbe?”

“Contrattaccarli in un certo modo.”

Lei lo guardò con aria confusa come se non capisse. “Spiegati meglio.” Lui disse: “Significa, in parole povere, creare le condizioni per sferrare contro di loro

una controffensiva mediatica della stessa portata, se non più pesante.”

“Che è come dire rendere loro pan per focaccia…”

“E’ un’altra ottima metafora.”

Non parlarono per quasi un minuto, poi lei disse, lo sguardo pensieroso: “Una controffensiva mediatica, dici, già ma di che genere?” Il tono di voce era basso.

“Ma della stessa natura, cara.” Sorrise e si appoggiò allo schienale della sedia, le mani posate sulla tovaglia. “Vedi… sappiamo per certo che tra i parlamentari del centrosinistra – ma non soltanto, a onore del vero –, e i membri del governo, si annida una nutrita schiera di individui dal ato tutt’altro che immacolato. In particolare, alcuni ministri nascondono grossi scheletri nell’armadio.”

“Di che si tratta.”

“Sto cercando di scoprirlo con precisione. Per ora posso soltanto dirti, che deve trattarsi di qualcosa di tanto grave che se diventasse di dominio pubblico farebbe esplodere uno scandalo tanto enorme da avere effetti dirompenti sul governo al punto da provocarne la caduta.”

“E di conseguenza la sconfitta elettorale.”

“Proprio così. Capirai che se riuscissimo ad acquisire queste informazioni

corredate da elementi di prova, potremmo lanciare quella controffensiva mediatica di cui ti parlavo prima, combattendo così ad armi pari con gli avversari di tuo zio.” Fece una pausa. “E con una elevatissima probabilità di vittoria.”

Arrivò il cameriere che rimosse i piatti vuoti, dopo aver versato di nuovo il vino nei calici.

“Dessert, caffè?” chiese.

“Niente dessert”, lei rispose. “E neppure caffè se non voglio are una notte in bianco. Sono già abbastanza tesa…”

“Un caffè molto ristretto”, Kesler disse.

Rimasero in silenzio per qualche tempo, poi lei disse:

“Allora, Paolo, come pensi di procurarti queste informazioni?” Lui rifletté per qualche attimo intrecciando le mani sul tavolo. “E’ a questo punto che dovremmo discutere di quel viaggetto da fare insieme cui ti avevo accennato..”

“Ah! Già c’è anche la storia del viaggetto. Mi era del tutto uscito di mente.” Lo fissò con aria interrogativa. “E, di grazia, dov’è che dovremmo andare, e a fare che?”

“A Beirut.”

“A Beirut?” Rifletté un attimo. “Ecco svelata la vera ragione delle tue vacanze in Libano, quest’anno…” Lui sorrise in modo enigmatico. “Be’, diciamo che ho unito l’utile al dilettevole.”

“E in che cosa consisterebbe l’utile.”

“Ho accertato che è lì che potremmo procurarci quel genere di informazioni cui ti accennavo prima, e che ci tornerebbero molto utili in campagna elettorale.”

Lei annuì. “Capisco.” Ma subito dopo aggiunse. “Sicché è lì che risiede la loro fonte, non è così?

“Sì, per quanto strano possa sembrarti.” La scrutò in volto come per misurarne la reazione.

“Chi è l’informatore?”

“No comment.” Ma subito aggiunse: “Almeno per ora.”

Rimasero in silenzio. Kesler sorbiva il caffè che il cameriere gli aveva appena servito, scrutando il volto molto pensieroso di lei.

“A cosa stai pensando sca?” le chiese infine a bruciapelo.

“A cosa sto pensando?” Esitò mordendosi impercettibilmente il labbro inferiore. “Be’, al fatto che non mi hai ancora detto come c’entro in questa faccenda. O, per meglio dire, quale dovrebbe essere il mio ruolo…”

“Preferirei non dirtelo subito, ma attendere fino a quando saremo sul posto?” Sorrise.

“Questa sì ch’è bella”, fece una smorfia contrariata. “In pratica mi stai chiedendo di accettare una proposta a scatola chiusa. Come puoi pretendere di unirmi a te in questa sorta di avventura senza saperne un acca di quale dovrebbe essere il mio impegno?”

“Lo saprai a tempo debito e se accetterai, naturalmente. Ti chiedo di fidarti.” Tacque per alcuni secondi. “Comunque io non pretendo nulla. Puoi decidere in piena libertà.”

Lei storse la bocca insoddisfatta.

Lui proseguì: “Posso solo dirti che il tuo contributo sarebbe determinante per il successo dell’operazione.”

Lei ci pensò su, poi disse: “Andiamo, Paolo, non dirmi che sono insostituibile, che non puoi avvalerti di una di quelle tue splendide collaboratrici di cui ti fidi ciecamente nel tuo lavoro…”

“Insostituibile? Certo che lo sei. Per quanto strano tu possa trovarlo senza saperne di più, la tua immagine di donna celebre nel mondo dello spettacolo televisivo sarà indispensabile. Sarà pure necessario che tu faccia uso di un pizzico del tuo grande talento recitativo.” Lei non replicò, restando in silenzio per quasi un minuto.

“La tua reticenza a fare chiarezza, mi fa pensare che potrebbe trattarsi di qualcosa di rischioso… o illegale”, disse infine.

“Non c’è di che preoccuparsi.” La guardò sorpreso sbattendo le ciglia. “Ma Cristo, sca, come puoi pensare che sarei capace di mettere a repentaglio la sicurezza e l’integrità morale della nipote prediletta del mio capo, nonché migliore amico, al quale devo tutta la mia gratitudine per quello che sono diventato?”

Di nuovo lei non disse nulla.

“Ora ti spiego perché ritengo che meno ne sai in questa fase, e meglio è”, lui proseguì. “Dal tuo punto di vista quello che ti proporrò di fare potrebbe sembrati poco ortodosso, e magari contrario ai tuoi principi etici. Io credo che non lo sia. Comunque, mi sono fatto l’idea – forse errata – che se te ne parlassi adesso ti sentiresti scoraggiata dall’accettare, prendendo così una decisione affrettata e quindi sbagliata. Meglio che prima tu veda con i tuoi occhi di che si tratta quando saremo sul posto, e poi decida. Se non ne sarai convinta e soddisfatta, potrai sempre prendere il primo volo per Milano.”

Fece una pausa e la fissò intensamente. “Che ne dici?”

“Posso pensarci sopra?”

“Certo che puoi. Anzi, devi.” Sorrise amabilmente. “Ma poi dammi una risposta. Ti ripeto, non c’è nessun obbligo da parte tua di accettare.”

“Quanto tempo ho?”

“Ventiquattrore, direi. Chiamami domani il più presto che puoi, e fammi sapere cosa avrai deciso. In caso affermativo, mi occuperò io delle prenotazioni per il volo di dopodomani delle diciassette per Beirut, in partenza da Fiumicino. Siamo intesi che ci ritroveremmo in aeroporto un’ora prima del decollo, vicino al banco di accettazione dell’Alitalia. Okay?”

Lei annuì, dicendo:

“D’accordo.”

“Prima di concludere, ci sono ancora un paio di cose, sca…”, Kesler disse dopo aver lasciato are alcuni secondi. “Anzitutto, mi corre l’obbligo di avvertirti che in caso di tuo rifiuto, non avrò altre opzioni su cui contare. Il piano strategico che io e tuo zio abbiamo elaborato per vincere le elezioni si infognerà. La partita sarà persa ancor prima che venga battuto il calcio di inizio, e così la vittoria sarà consegnata alla squadra avversaria.”

“Tanto per restare nell’ambito delle metafore calcistiche…”, lei osservò

abbozzando un sorriso ironico.

“Scusami, ma mi viene spontaneo. Ormai me ne sono creato un buon repertorio, a forza di sentire tuo zio che le usa a ogni piè sospinto, anche quando non si parla di calcio.”

Lei annuì. “Cos’altro ci sarebbe?” lo incalzò.

“Immagino che non ci sia alcun bisogno di dirlo, ma, per evitare malintesi, quello che stiamo per fare insieme deve essere trattato con la massima segretezza. Quindi, devi tenere la bocca cucita a doppio filo con chicchessia.”

Lei annuì, poi disse: “Tranne che con mio zio, naturalmente…”

“Con lui soprattutto. Vedi… è al corrente del piano, ovviamente, ma solo nelle sue linee generali, non nei dettagli. Quello che non sa, ad esempio, è che mi sto servendo di te, né può immaginarlo neppure lontanamente. Si opporrebbe a un tuo coinvolgimento giudicandolo rischioso. Quindi, se ne venisse a conoscenza, non gli piacerebbe neppure un po’, e andrebbe su tutte le furie per essere stato tenuto all’oscuro. Con tutta probabilità mi darebbe il benservito, e io mi ritroverei dalla sera alla mattina a fare il posteggiatore di auto in piazza di Spagna.”

5

La pioggia torrenziale tamburellava fragorosamente sul tettuccio del taxi, che, a dispetto della scarsissima visibilità, procedeva a velocità sostenuta sull’autostrada per Fiumicino. I tergicristalli, ancorché tenuti alla massima velocità, non erano di grande aiuto.

Ostentando sicurezza nella guida, il tassista, un tipo tracagnotto calvo e baffuto, girò un attimo la testa per lanciare, sopra la spalla, un’occhiata alla sua illustre eggera sprofondata sul sedile posteriore, il capo reclinato sul poggiatesta.

“E’ il solito acquazzone di breve durata, signorina Martinoni”, disse con un sorriso. “Vedrà che sarà cessato quando arriviamo in aeroporto.”

Persa com’era nei meandri della propria mente, sca rimase in silenzio, come non lo avesse sentito. A tratti guardava di sfuggita al tetro paesaggio autunnale che, flagellato dalla pioggia, scorreva davanti al finestrino.

Da quando, due sere prima, si era congedata da Kesler al termine della cena nel ristorante dell’Excelsior, non faceva che rimuginare su quella lunga conversazione. Aveva trascorso una notte insonne sforzandosi di riflettere con chiarezza nel tentativo di capirne di più di quella strana proposta. Ma lo sforzo si era rivelato inutile.

Sapendo di non avere altra scelta che accettare, non aveva atteso lo scadere delle ventiquattrore, e già l’indomani di primo mattino aveva telefonato a Kesler per confermargli che sarebbe andata con lui a Beiurt. Era immenso il debito di

riconoscenza che aveva nei confronti dello zio Ugo per pensare di tirarsi indietro. Non lo avrebbe mai fatto, e questo Kesler lo sapeva benissimo; pertanto, le appariva chiaro che lui, nel precisarle che poteva decidere in piena libertà, aveva inteso evitare di conferire alla sua richiesta di collaborazione la parvenza di una indebita pressione. Dopo averle vivamente raccomandato la massima riservatezza su quanto avevano discusso, aveva di colpo cambiato argomento, e, per il resto della serata non vi era più ritornato, ignorando ogni tentativo di sca di riaprirlo. Il tono della conversazione era del tutto mutato. Lui aveva dismesso l’espressione seria, divenendo d’un tratto allegro.

Si era messo a fare dello spirito per farla ridere e allentare così quel po’ di tensione che si era creata tra loro, a spettegolare sugli amici, spingendosi perfino a ridacchiare su certi curiosi ed esilaranti comportamenti di Martinoni, come le sue gaffe pubbliche più o meno intenzionali.

Le aveva anche propinato un paio – a suo dire nuovissime – barzellette dall’umor inglese, che di solito suscitano il pianto piuttosto che il riso negli italiani. Ma lei aveva riso sommessamente per educazione, socchiudendo gli occhi. Peraltro, non le erano affatto nuove: le aveva già sentite almeno un paio di volte da suo zio. Facevano parte di quello sterminato repertorio di freddure, da cui lui attingeva per intrattenere i suoi illustri ospiti alle cerimonie mondane che spesso organizzava nelle sue ville. La sua era per alcuni una performance scialba, per altri divertente. Comunque fosse, la sua audience di fedelissimi lo applaudiva spellandosi le mani e sbudellandosi dalle risate, i più al solo scopo di compiacerlo.

A un certo punto, complice qualche bicchiere di troppo, Kesler era entrato in uno stato di lieve euforia, e anche lei aveva cominciato a sentirsi la testa un po’ leggera. Ma aveva avuto un lieve soprassalto nel momento in cui, improvvisamente, lui aveva allungato una mano sul tavolo posandola sulla sua, e stringendogliela con fermezza. Quando la stretta era durata più di qualche secondo, lei l’aveva ritratta di scatto, e subito dopo – per darsi un contegno disinvolto, come se nulla fosse successo –, si era portata alle labbra il bicchiere

per prendere un sorso di vino. Lui aveva abbozzato un sorriso, e poi aveva distolto lo sguardo.

Più tardi, al termine della cena, l’aveva accompagnata all’ascensore. “Allora chiamami domani”, le aveva detto. “Qui c’è il mio numero di cellulare nel caso non l’avessi”, aveva aggiunto porgendole il suo biglietto da visita. Poi si era sporto in avanti e, con slancio un po’goffo, tenendola per le spalle, l’aveva baciata su entrambe le guance, ma senza che questa volta lei gliele avesse porte. Era rimasta a osservarlo perplessa, dirigersi verso l’uscita del ristorante.

Soprattutto il gesto della stretta della mano non le era piaciuto, e aveva contribuito ad accrescere la sua inquietudine per l’intera faccenda. Quella mossa apparentemente lasciva le aveva procurato un senso di profondo disgusto, come fosse stata furtivamente palpeggiata. Una volta ritornata nella sua camera, aveva continuato a rifletterci preferendo, alla fine, liquidare l’accaduto come un incidente, un atto sciocco e inconsulto di Kesler, frutto della lieve ebbrezza, e come tale privo di fini secondari.

La verità era che lo considerava divertente e dotato di un discreto senso dell’umorismo, che gli riconosceva una mente brillante e raffinata, per certi versi estroversa, ma per lei era sempre stato niente più che un amico di famiglia. Forse anche per la grande differenza di età, non riusciva a pensare a lui con nessun altro sentimento che non fosse di puro rispetto.

Ma studiandolo da vicino in quei frequenti contatti che aveva sino ad allora avuto in presenza di Martinoni, si era formata, nel corso degli anni, il sospetto che quel suo modo cordiale e affabile di proporsi, la sua grande disponibilità, l’abilità con le parole unita a quella di grande ascoltatore, fossero più che altro atteggiamenti di facciata, dietro cui si celava un personaggio ambiguo – per non dire viscido –, di cui non ci si poteva totalmente fidare. Adesso, man mano che il taxi si avvicinava all’aeroporto, sca si sentiva sempre più ansiosa e sempre meno convinta di quell’impresa in cui stava per imbarcarsi con un uomo

che non conosceva veramente a fondo. Il non essere a conoscenza della finalità della sua partecipazione, che, a detta di Kesler, doveva servire per aiutare suo zio nella campagna elettorale, la rendeva dubbiosa e quindi insoddisfatta.

Le ragioni che l’uomo aveva addotto per giustificare la sua decisione di rivelarle quale sarebbe stato il suo compito, soltanto una volta giunti a destinazione, le erano parse fragili e pretestuose. Non ne aveva percepito che sensazioni negative. Perché, si domandò, non le aveva spiegato subito e con chiarezza cosa la aspettava? Cosa c’era veramente dietro la sua reticenza? La colse il dubbio di essere stata fin troppo accomodante con lui, di non aver insistito abbastanza per saperne di più, quando, invece, ne aveva tutto il diritto.

Comunque stessero le cose, aveva ormai deciso – unicamente per amore di suo zio – di assecondarlo andando con lui a Beirut. Poi si sarebbe visto.

La sua assenza sarebbe stata breve – di non più di tre o quattro giorni, Kesler le aveva assicurato – e non le avrebbe creato problemi di sorta in quanto sarebbe ata inosservata. Nessuno al lavoro se ne sarebbe accorto dato che, al termine della fiction, si era presa tre settimane di vacanza. Non aveva impegni di alcun genere, nessuno che la attendeva al suo rientro a Milano all’infuori di suo zio. Gli aveva telefonato prima di partire per avvisarlo che avrebbe prolungato la sua permanenza a Roma di qualche giorno, per fare dello shopping. Non doveva neppure preoccuparsi di accudire il Terrier che aveva acquistato dopo la scomparsa dei genitori: era morto di cimurro da tre mesi. Le era stato consigliato da uno psicologo come terapia per combattere la depressione. Si riscosse dai suoi pensieri quando il taxi si fermò lungo il marciapiede davanti all’ingresso delle partenze internazionali del terminal.

“Che cosa le avevo detto?” le disse il tassista mentre estraeva dal bagagliaio la Samsonite e il trolley. “Il temporale è cessato.” Lei annuì e pagò. Il taxi ripartì di gran carriera. La pioggia sembrava aver rinfrescato e purificato l’aria. Sollevò lo sguardo alla coltre di nubi squarciata di azzurro in più punti. Sostò sul

marciapiede per qualche secondo a riempirsi i polmoni dell’odore di terra umida, caratteristico di un dopo temporale. Si procurò un carrello staccandolo dalla fila di quelli che vide lì vicino addossati a una parete. Vi caricò i bagagli e lo spinse verso l’entrata. La porta di vetro si aprì automaticamente e sca fece il suo ingresso nell’enorme sala del terminal, gremita come un formicaio di eggeri in partenza. C’erano lunghe file davanti ai banchi di accettazione. Si fece strada a fatica, cercando con gli occhi Kesler. Lo vide che la attendeva vicino al banco dell’Alitalia. Doveva aver già registrato il proprio bagaglio. Lui non la notò finché non gli giunse a pochi metri di di-stanza. Si voltò e le andò incontro, mentre il suo viso accigliato si apriva in un sorriso caldo e accogliente.

Ora era davvero troppo tardi per tornare indietro.

6

Il Libano – il Paese dei Cedri, un tempo noto come la Svizzera del Medio Oriente –, è una fertile striscia di terra che si affaccia sul Mediterraneo, delimitata a ovest da altipiani di diverse altezze. Il territorio è in gran parte sfruttato dall’agricoltura, ma è nella pianura costiera che si concentra la maggior parte della popolazione, e il turismo e il commercio prosperano.

Anche a Beirut, la capitale, – città di antiche origini fenicie –, come a Roma, l’inverno sembrava aver deciso di anticipare il suo arrivo. Il clima era rigido, con temperature largamente al di sotto delle medie stagionali. I ricchi villeggianti si erano dileguati non appena forti brezze avevano cominciato a soffiare dal Mediterraneo spazzando le spiagge del litorale. Gli ombrelloni e le sdraio dai variopinti colori erano stati rimossi per essere riposti nei depositi. Il mare dal proverbiale colore turchese era diventato grigio, riflettendo il cielo coperto da nuvole basse.

L’Hotel Riviera è un sontuoso cinque stelle che si erge per otto piani in prossimità del mare. Il vasto piazzale antistante l’edificio appariva deserto. Le due enormi piscine ovali, tenute in secco per consentirne la manutenzione, davano la vaga idea di due orbite vuote. L’intero complesso sembrava essere entrato in una sorta di ibernazione in attesa della prossima stagione estiva, allorché, in una atmosfera festosa l’intera area si sarebbe rianimata. I bagnanti, perlopiù ospiti dell’albergo, sarebbero arrivati a frotte. Distesi al sole o seduti ai tavolini sotto gli ombrelloni, si sarebbero rilassati chiacchierando piacevolmente, fumando o sorseggiando bevande fresche.

Rabbrividendo per il freddo, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni, l’uomo percorreva il viale silenzioso che conduceva all’ingresso principale dell’hotel. Indossava dei blue-jeans sbiaditi, e una camicia di cotone a scacchi verdi sotto un giubbotto di pelle marrone che doveva aver visto tempi migliori. Calzava

scarpe da ginnastica. Guardò distrattamente il piazzale deserto e le due piscine vuote, quindi si sollevò il bavero del giubbotto per proteggersi da una folata di vento improvvisa. Accelerò il o andando a fermarsi davanti alla porta vetrata dell’albergo. Si accese una sigaretta schermando la fiammella con le mani chiuse a coppa. Inspirò a fondo la prima intensa boccata, e poi gettò il fiammifero; sentì l’impatto del fumo che gli invadeva i polmoni. Questi erano i gesti che gli avevano detto di compiere: fermarsi davanti all’ingresso dell’hotel, e accendersi una sigaretta prima di proseguire. Non si prese neppure la briga di scoccare un’occhiata alla porta, per assicurarsi che lo stessero osservando da dietro i vetri.

Tanto sapeva per certo che erano lì: aveva percepito il loro sguardo su di sé.

Prese un’altra boccata dalla sigaretta ed esalò una nuvola di fumo, che il vento disperse nell’aria. Quindi riprese il cammino lungo la strada che ora costeggiava i massicci edifici degli alberghi. A tratti lanciava brevi sguardi ai negozi che vendevano souvenir ai ricchi turisti: chincaglierie di vario genere, tra cui bigiotterie e oggetti antichi di epoca romana, presumibilmente razziati dai siti archeologici fuori città.

C’era la pensilina della fermata di un autobus a un centinaio di metri di distanza. La raggiunse e si fermò infreddolito. Vide una donna in attesa. Indossava la gellaba, la ampia e lunga veste tipica dei mussulmani della classe povera. Quando lo aveva visto avvicinarsi si era tirata indietro il cappuccio per mostrargli il volto: era quello di una adolescente. Le guance e le labbra erano impiastricciate da uno scadente rossetto, le ciglia e sopracciglia appesantite da abbondante mascara. Volgarmente truccata com’era, aveva un aspetto grottesco, simile a una maschera carnevalesca. Gli rivolse quel sorriso patetico e ammiccante insieme, tipico delle prostitute. Si sollevò lentamente la gellaba per mostrargli le gambe sottili illividite dal freddo, ma lui non la degnò di uno sguardo, neppure quando gli rivolse la parola per offrirgli la sua mercanzia, e invitarlo a seguirla.

“Vattene, non ho soldi”, le disse brusco in arabo. Ma non le sputò in faccia, né la ricoprì di insulti e parole oscene come erano soliti fare i suoi connazionali quando la respingevano. Da questo comportamento e dall’arabo fortemente accentato, lei capì che doveva trattarsi di un occidentale.

Era sui trentacinque anni, di altezza media, di corporatura massiccia e nerboruta, dalle spalle larghe. I capelli neri, gli occhi blu e i tratti marcati del volto, erano comuni a molte razze, ma a nessuna in particolare. Per quanto la riguardava, avrebbe potuto essere di qualsiasi nazionalità. Quindi, non poteva immaginare che fosse italiano. Si chiamava Nino, un nome che gli aveva dato la giovanissima ragazza madre nel consegnarlo, infagottato in un panno bianco, a un orfanotrofio di Milano a soltanto due giorni dalla nascita. Nessuna informazione aveva fornito sulla identità del padre, e lui, crescendo, non si era mai preoccupato di cercare i genitori, dato che non gli interessava fare la loro conoscenza. Il cognome, invece, erano state le suore a sceglierglielo, e così, dopo averlo battezzato, lo avevano registrato all’anagrafe come Nino Salvo.

Non era mai stato fortunato a essere adottato, ciò che era invece capitato ad altri piccoli ospiti dell’istituto. Ciò che ricordava della sua infanzia e adolescenza era lo squallore dell’orfanotrofio: un luogo che pietosamente accoglieva i piccoli bastardi, rifiuti della società venuti al mondo per errore, frutto di incresciosi incidenti, la cui sopravvivenza dipendeva unicamente dalla carità cristiana delle suore.

A sedici anni era stato dimesso, e si era avventurato nel mondo, subito constatando che era molto peggiore di come se lo era immaginato, a tal punto di fargli rimpiangere l’orfanotrofio. Si era trovato a dover subire l’emarginazione che purtroppo la società riserva a uno come lui: un giovinetto figlio di nessuno.

Per poter sbarcare il lunario, si era adattato ai lavori più umili, più precari e peggio retribuiti che si possano immaginare. Aveva, tra l’altro, prestato servizio presso una impresa di pulizie, che lo aveva utilizzato a tempo pieno come

pulitore di latrine nelle stazioni delle metropolitane e ferroviarie, nonché negli aeroporti. Lavorava a ritmo serrato con turni disumani: fino a dodici ore al giorno, compreso sabato e domeniche.

Questo era stato l’inizio, ed era durato due anni.

Una sera aveva cominciato a bazzicare un bar di dubbia fama nella zona di Quarto Oggiaro, dove abitava in un vecchio scantinato maleodorante, che divideva con due giovani extracomunitari, diseredati come lui. In quel bar aveva fatto amicizia con due ragazzi della sua età che – aveva in seguito appreso – gravitavano nel sottobosco della mala milanese. Stanco di quella grama esistenza, aveva deciso di unirsi a loro, oltreando così i confini di quella società onesta, che la Legge rappresenta e tutela. Lo aveva fatto spinto dal desiderio di raggiungere un certo benessere, ma con la consapevolezza che quei limiti, una volta valicati, non consentono, di solito, alcuna via di ritorno. Aveva esordito nel giro della cosiddetta microcriminalità: scippi alle vecchiette, furti negli appartamenti e nelle ville isolate, taccheggio nei supermercati, spaccio di droga…

Dopo alcuni anni, aveva fatto un salto qualitativo entrando, con giusto titolo, nella criminalità organizzata vera e propria. Si era unito a una gang di cinque pregiudicati, specializzata in rapine a mano armata a banche, gioiellerie e tabaccherie. Aveva così acquisito una certa dimestichezza nell’uso delle armi da fuoco. Per anni – salvo occasionali insuccessi privi di conseguenze – tutto era filato liscio, ed era riuscito ad accumulare un discreto gruzzolo.

A ventiquattro anni aveva commesso un omicidio nel corso di una rapina finita male a una banca di via Lorenteggio. Si era visto costretto a fare fuoco su un giovane cassiere che non aveva resistito alla tentazione di allungare una mano verso il dispositivo antirapina, riuscendo ad azionarlo un istante prima che lui premesse il grilletto. Con una fuga rocambolesca in auto, braccato da un’autopattuglia, era riuscito miracolosamente a sfuggire alla cattura. Non

altrettanto fortunati erano stati i suoi compari che erano stati presi e arrestati. Resosi conto che ora gli scottava il suolo sotto i piedi, aveva deciso di fuggire all’estero. Raggiunto Palermo, aveva potuto – sborsando una grossa fetta dei suoi risparmi – imbarcarsi clandestinamente su un mercantile diretto in Arabia Saudita.

Era l’estate del 1990, e la Guerra del Golfo era appena scoppiata in seguito all’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein. Se ne era tenuto alla larga, stabilendosi a Ryiadh a godersi la vita con le risorse di cui disponeva, ma a cui aveva dato fondo, prosciugan-dole, nell’arco di un anno. Si era quindi messo alla ricerca di un lavoro. Il caso aveva voluto che un giorno, nell’albergo dove alloggiava, fe la conoscenza di un italiano di Vicenza, esponente di una ditta specializzata nel reclutamento di mercenari, da utilizzare ovunque richiesti nei paesi del Medio Oriente. L’uomo, impressio-nato dalla sua prestanza fisica, e dalla perizia in fatto di armi da fuoco – senza badare minimamente alle risposte evasive con cui Nino aveva abilmente liquidato le domande sul suo ato –, gli aveva proposto un contratto di ingaggio con uno stipendio allettante. Abituato com’era a una vita spericolata, aveva subito accettato di buon grado.

Per affinare la sua già buona mira, aveva seguito un corso di addestramento di sei settimane in un poligono di tiro. Negli anni che seguirono aveva prestato servizio come bodyguard in vari paesi mediorientali tra cui il Kuwait, la stessa Arabia Saudita, la Siria, l’Iran e l’Afghanistan. Spesso lavorava in team con altri colleghi. Tutti avevano il compito preciso di fare da scorta a facoltosi uomini di affari che si recavano in Medio Oriente per curare quelli preesistenti, o concluderne di nuovi.

Era approdato in Iraq nell’agosto del 2001, un mese prima che si consumasse l’attacco terroristico di Al Qaeda alle Torri Gemelle. Il clima in quel Paese si era poi fatto rovente a partire dal 2003, anno in cui gli USA lo avevano invaso ponendo termine alla dittatura di Saddam Hussein. Gli attacchi kamikaze di AlQaeda si erano andati sempre più intensificando, e non ava giorno senza che decine di persone, civili e militari, perdessero la vita.

A Nino non faceva difetto il coraggio, sapeva di esserne abba-stanza dotato, come d’altronde chiunque esercitasse quel mestiere. Nondimeno, aveva cominciato ad avvertire un senso continuo di minaccia. Come se il pericolo di essere ucciso improvvisamente pendesse sul suo capo a ogni istante della giornata. A ricordarglielo c’era sul torace la grossa cicatrice della ferita che aveva riportato in Afghanistan alcuni anni prima, durante un scontro a fuoco con una banda di talebani, che aveva teso una imboscata alla squadra di cui faceva parte, sull’autostrada per Kabul. Miracolosamente il proiettile del Kalashnikov gli era ato a qualche millimetro dal cuore.

La consapevolezza di aver a che fare con un nemico invisibile, che attaccava dall’ombra senza alcun preavviso, e che era pertanto impossibile prevenire per difendersi, gli trasmetteva un senso costante di impotenza. Non era quello il tipo di guerra che era disposto a combattere. Ad acuire i suoi timori, spingendolo a rompere gli indugi e tagliare la corda, era stato l’episodio del sequestro, da parte di Al Qaeda, di tre colleghi che lui conosceva bene per averci lavorato insieme.

Uno di loro era stato alla fine giustiziato, e le immagini della esecuzione, riprese in video, avevano fatto il giro del mondo. Ne era rimasto scioccato, e nel timore che lo stesso potesse accadere anche lui a ogni momento, aveva rescisso il contratto di ingaggio, e aveva riparato a Beirut, dove risiedeva da circa due anni.

Ora la baby prostituta – non doveva avere più di quattordici anni –, si allontanò da Nino dopo averlo studiato per qualche secondo, e lui ne fu contento. Era certo che provenisse da qualche zona sovraffollata e degradata della periferia, che patisse i morsi della fame, e che fosse sieropositiva. Per la verità, a Beirut non se ne vedevano numerose in giro di quel genere di adescatrici, soprattutto nelle zone più esclusive della città. Il governo libanese combatteva la prostituzione minorile sulle strade, poiché riteneva che fosse controproducente per il turismo, per i lussuosi alberghi, e per l’immagine stessa della città.

Spesso Nino pensava che se avesse avuto denaro a sufficienza e un lavoro duraturo, si sarebbe stabilito definitivamente in quel Paese che appariva meraviglioso e pieno di ricchezze, a dispetto delle guerre che lo avevano dilaniato nell’arco degli ultimi decenni. Era soprattutto a Beirut che prosperavano il commercio e il turismo, lì abitavano molti degli uomini più facoltosi del Medio Oriente, compresi gli sceicchi del petrolio. Purtroppo, dopo soltanto un anno dal suo arrivo, aveva dilapidato le sue risorse, e in quel momento versava in gravi ristrettezze economiche.

Camminò ancora per una decina di minuti, quindi attraversò la strada e si fermò davanti a una vecchia e polverosa Toyota color sabbia, in sosta lungo il marciapiede. Aprì la portiera del eggero e salì a bordo. Girò un attimo la testa per scoccare un’occhiata sfuggente all’uomo al volante. Aveva i tratti somatici di un orientale: viso scavato e ovale, pelle olivastra e occhi scurissimi che brillavano nella penombra del- l’abitacolo. Il naso adunco e il mento prominente gli conferivano un profilo da rapace. Era sulla quarantina, e vestiva all’occidentale: camicia e cravatta e un soprabito nero dal collo di velluto verde. Fissò Nino e gli sorrise mostrando una dentatura malconcia e ingiallita dal fumo.

“Molto bene”, gli disse in arabo. “Preciso come un cronometro”, aggiunse consultando l’orologio. “Hai fatto quello che ti avevo detto?”

“Sì”, Nino rispose brusco. “Spero che gli sia piaciuto, chiunque essi siano, e che ora si possa finalmente concludere questo benedetto affare.”

L’arabo sembrò accigliarsi. “Cos’è… hai la luna storta?”

Hassan Asad, questo era il suo nome, faceva di professione quello che i musulmani chiamano un ‘arrangiatore’. Un mediatore per gli occidentali, ma inteso nel senso più lato del termine. Si occupava della conclusione di affari di

qualsivoglia natura – anche illeciti – per conto di chiunque fosse disposto a sborsare le somme che richiedeva. In quello che ora stava trattando, e in cui Nino doveva essere coinvolto, il compenso pattuito era davvero molto elevato.

“Sempre che questo pezzo di merda faccia bene la sua parte”, disse tra sé e sé mentre lo studiava di sottecchi.

“No, ma non sono un idiota, e odio essere preso per i fondelli ”, Nino gli rispose con un aspro tono di voce. “Mi volevano vedere, no? bene, ora mi hanno visto. Quand’è che saprò dell’incarico?”

“Domani.”

“Domani. Sempre domani! Mi sono rotto i coglioni di aspettare.”

“Nessuno ti prende per i fondelli, Nino”, Hassan replicò. “Sei al verde, no? quindi devi avere pazienza.” Si esprimeva con pacatezza e tatto quando si rivolgeva a lui. Conosceva bene il tipo.

Nino non disse nulla.

Hassan sapeva che in quel momento Nino aveva bisogno di denaro, ed era quindi disposto a compiere qualsiasi azione pur di procurarsene. Da quando lo aveva conosciuto due anni prima, sospettava che fosse in fuga dalla giustizia italiana per qualche grave reato che aveva commesso. Anche allora stava male in arnese, e Hassan lo aveva aiutato a sbarcare il lunario prestandogli del denaro e

trovandogli dei lavoretti a tempo determinato. Lo aveva sistemato in un minuscolo monolocale nella città vecchia. Nella ata stagione estiva lo aveva fatto assumere come buttafuori in un sordido nightclub che rapinava i propri clienti. La polizia aveva chiuso il locale in ottobre, e lui si era ritrovato a so. Quando Hassan gli aveva suggerito di risolvere i suoi problemi finanziari mettendo la ragazza con cui viveva in un bordello, lui era stato sul punto di spaccargli il muso.

Ciò che ad Hassan interessava moltissimo di Nino – ma che era al tempo stesso la ragione per cui lo temeva –, era l’abilità nell’uso delle armi da fuoco acquisita nella sua ata attività di mercenario, e di cui non gli aveva fatto alcun mistero. Ma lo considerava con disprezzo, e si sentiva molto più a suo agio quanto non lo aveva vicino.

“Hai bisogno di denaro”, gli ripeté con tono di voce equilibrato. “Per te e per la tua ragazza.” Sorrise in modo forzato. “E in questo affare ce n’è in abbondanza per tutti.”

“Questa l’ho già sentita”, l’altro replicò storcendo la bocca e distogliendo lo sguardo per puntarlo su un punto imprecisato di là dal parabrezza. Quindi si palpò le tasche del giubbotto alla ricerca del pacchetto morbido delle Malboro. Lo trovò, ma si accorse che era vuoto. “Dammi una sigaretta”, disse appallottolandolo e gettandolo fuori dal finestrino. Attese che il libanese estraesse il suo pacchetto e gliene offrisse una. Quando l’ebbe accesa e inalato la prima boccata, proseguì: “Tu mi parli da tempo di un certo incarico con un mucchio di grana. Ma non mi hai ancora spiegato di che si tratta, né di quanta ce ne sia per me.” Prese un’altra boccata. “Bene… ora di’ a quegli stronzi con cui stai trattando che è venuto il momento di smetterla di menare il can per l’aia. Voglio saperlo subito. Altrimenti troverò qualcos’altro da fare.”

“Del tipo?”

“Potrei andare in Israele…”

“A fare che?”

“A offrire i miei servigi nella guerra contro i palestinesi.”

Hassan sospettava da tempo che Nino avesse in mente un progetto del genere: racimolare un po’ di soldi per raggiungere Israele offrendosi come mercenario. Sapeva che ci aveva già provato con la Siria, ma sembrava che i siriani non ne avessero bisogno. Gli disse con un tono sommesso di voce: “Sei proprio certo che gli ebrei ti prenderebbero?” Fece una pausa fissandolo. “Io credo che non ne abbiano la necessità. Hanno soldati a bizzeffe: un grosso esercito.”

“Già…, ma non quello che io posso offrire loro…” Lanciò il mozzicone della sigaretta fuori dal finestrino.

“Che sarebbe?”

“E’ qualcosa di speciale. Nella loro sporca guerra hanno bisogno di cecchini, e io posso centrare un occhio umano da cinquanta metri di distanza. Non è da tutti.”

L’altro annuì con una smorfia. “Questo me l’hai già detto, e spero davvero che tu dica la verità, perché è esattamente sulla tua abilità nella mira che domani sarai messo alla prova.” Lo fissò stringendo gli occhi per studiarne la reazione, ma Nino non batté ciglio, come lo avesse immaginato.

Hassan continuò: “Fatti trovare domattina alle sette in punto davanti all’ingresso del tuo stabile. erò a prenderti. E…”, aggiunse un po’ esitante, “…ora tieni questi per comprare un regalino alla tua ragazza o noleggiare un taxi per tornare a casa.” Così dicendo gli infilò alcune banconote nel taschino del giubbotto esibendo un largo sorriso. Aggiunse: “Adesso va’, divertiti!” C’era una punta di scherno nella voce.

Nino non fiatò, ma uscì dall’auto sbattendo la portiera con violenza. Rimase sul marciapiede a seguire con lo sguardo la vecchia Toyota arrugginita allontanarsi a gran velocità.

Le tenui ombre del crepuscolo si stendevano lentamente sulla città, che si andava illuminando. Si voltò a guardare il mare mosso. Uno stormo di gabbiani si alzò improvvisamente in volo emettendo strida acute, come spaventato da qualcosa. Estrasse le banconote e le contò facendo una smorfia di disgusto. “Stronzo e bastardo”, mormorò a denti stretti rimettendosele in tasca, i muscoli del volto contratti dalla rabbia.

Poi si incamminò affrettandosi nella direzione da dove era venuto.

7

“L’hai guardato bene?” Kesler chiese a sca sporgendosi verso di lei.

Sedevano nell’ampia zona relax semideserta dell’Hotel Riviera, un grande ambiente sontuosamente arredato con un pregiato tappeto persiano, un lungo divano e alcune poltrone in stoffa bianca disposte a staffa di cavallo attorno a un basso tavolo di vetro. Addossato alla parete di fondo, c’era un televisore a colori da venticinque pollici.

Al loro arrivo da Roma la sera prima, sca non era ata inosservata. A dispetto degli scurissimi occhiali da sole che indossava, il portiere l’aveva subito riconosciuta avvertendo il direttore. Questi si era precipitato ad accoglierli, gli aveva dato il benvenuto offrendo loro dello champagne nel suo studio privato, e quindi li aveva accompagnati alle loro suite. La notizia della presenza al Riviera di sca Martinoni, grande star della tivù italiana e nipote di Ugo Martinoni, uno degli uomini più potenti e ricchi del mondo, aveva fatto in un baleno il giro dell’albergo.

“Certo”, gli rispose. “Credo che sarei in grado di riconoscerlo tra mille.” Si mosse a disagio sulla poltrona. “Però vorrei che quei due là in fondo la smettessero di fissarmi con insistenza” Fece una pausa. “E’ la prima volta che vengo a Beirut, e non immaginavo di ricevere tutta questa attenzione…”

“Ti meravigli? Oltre che una famosa attrice, sei la nipote di Ugo Martinoni, no? Come lui, anche qui sei spesso sui giornali e sulle riviste. Per di più c’è la televisione satellitare che ha rimpicciolito il mondo. Ne abbiamo una in camera. L’antenna parabolica consente la ricezione di tutti i canali italiani, e non solo. Molti programmi sono trasmessi con sottotitoli in arabo e guardati con

interesse.” Tacque per accendersi una sigaretta. “Gli italiani godono di grande popolarità qui a Beirut. La nostra lingua credo che sia, tra le straniere, la seconda o la terza più usata dopo l’inglese. Avrai notato come correntemente la parlano il direttore e il portiere.”

Lei annuì. “Come mai?”

“In una certa misura è il retaggio della presenza, negli anni Ottanta, del nostro contingente militare, che ha operato nella regione per il mantenimento della pace e della sicurezza dopo la guerra mediorientale. Oriana Fallaci ha scritto un famoso romanzo dal titolo Insciallah, ambientato a Beirut, appunto in quel periodo.”

Lei annuì. “L’ho letto.”

“Mi risulta che attualmente risiedano stabilmente in Libano alcune migliaia di italiani.” Inspirò una boccata dalla sigaretta. “Guarda un po’ lì…” le sussurrò con un movimento del capo come per invitarla a seguire la direzione del suo sguardo. C’era un tipo di mezza età calvo e corpulento che, sprofondato in una poltrona a breve distanza da loro, teneva dispiegata davanti a sé quella che doveva essere l’ultima edizione dell’Economist. Sulla copertina platinata campeggiava una foto a mezza figura di Ugo Martinoni insieme a lei. Il Magnate esibiva un sorriso a trentadue denti e le cingeva le spalle con un braccio.

sca ricordò che quella foto era stata scattata circa due mesi prima, nel corso di una intervista congiunta che avevano rilasciato alla prestigiosa rivista inglese.

“Vedi…”, Kesler disse sorridendo, “…basterebbe quella foto a renderti riconoscibile.”

Da sempre la stampa internazionale dedicava ampio spazio al tycoon plurimiliardario e alla sua famiglia. Miriadi di articoli venivano scritti da giornalisti molti dei quali avrebbero fatto carte false per poterlo intervistare, ma a cui era a malapena consentito di avvicinarsi ai cancelli della sua villa in Brianza. In un recente articolo di prima pagina del famoso quotidiano inglese Financial Times, un noto editorialista, si era spinto a pronosticare che se le sue ingenti ricchezze continuavano a svilupparsi ai ritmi attuali, la sua scalata al vertice della classifica di Forbes, sarebbe stata assicurata. Avrebbe superato, se pure di misura, lo stesso Bill Gates.

Era universalmente risaputo che egli avallasse la politica della destra estrema e reazionaria, e vedesse il comunismo come il fumo negli occhi. Che lo considerasse alla stregua di una fungaia velenosa che, lungi dall’essere stata estirpata con il crollo del Muro di Berlino e la fine della Guerra fredda, si andava espandendo a macchia d’olio. Secondo alcuni ne era ossessionato al punto da spingersi a decidere, prima o poi, di entrare in politica per poterlo combat-tere più efficacemente in prima persona. Secondo altri, invece, erano di ben altra natura le ragioni di un suo eventuale coinvolgimento nell’agone politico. In occasione di una campagna elettorale al vetriolo dei primi anni Novanta, aveva schierato tutti i suoi mezzi di informazione – televisioni e giornali –, oltre alle sue enormi risorse finanziarie, per sferrare un attacco frontale alla coalizione di centrosinistra, riuscendo clamorosamente a fare vincere le elezioni al centrodestra.

Paolo Kesler traeva potere e prestigio dal suo rapporto di intima amicizia con Martinoni, oltre che dalla posizione che ricopriva di numero uno di Mediasystem. Ma la relazione era considerata anomala dai più, dal momento che non si basava su posizioni paritarie: al confronto con il Magnate, Kesler era finanziariamente ed economicamente una nullità. D’altro canto Martinoni spesso affermava con orgoglio e con la immodestia che lo contraddistingueva, di non

avere pari. O meglio di averne uno solo: sé stesso.

Kesler si adagiò sullo schienale della poltrona, e accavallò le gambe sorridendo a sca. Prese una boccata dalla sigaretta. Il volo insieme a lei era stato molto piacevole.

Mai faceva mistero di avere un debole per le belle donne, e la sua compagna di viaggio era eccezionalmente attraente. Non mostrava quel contegno spocchioso e quella puzza sotto il naso, che rendevano prive di sexappeal molte delle ricche e giovani signore che frequentava nella sua cerchia.

Purtroppo, si rendeva ben conto che i suoi rapporti con Martinoni, la collocavano su una sorta di pianeta per lui irraggiungibile, o, se si preferisce, ne facevano un frutto proibito.

“Sei certa di avergli dato davvero una buona occhiata?” le chiese di nuovo.

“Buona abbastanza che se dovessi rivederlo non potrei di certo scambiarlo per un orientale.”

“Infatti, è italiano.”

“Oh!”

“Che impressione ti ha fatto?”

“Non buona nei pochi secondi in cui ho potuto osservarlo.”

“Puoi spiegarti meglio?”

“Aveva un’aria un po’ sinistra, per niente rassicurante. Diciamo che non mi addentrerei con lui in un vicolo buio…”

Kesler parve riflettere per qualche secondo.

“C’è qualche particolare aspetto di lui che te lo ha fatto sembrare tale?” chiese con fare guardingo.

“Non saprei dire… così su due piedi.” Esitò un attimo. “E’ una sensazione, e come tale potrebbe rivelarsi errata.”

“Lo è infatti. Credo che la tua sia semplice autosuggestione.”

“Vediamo un po’…”, lei disse corrugando la fronte in uno sforzo di concentrazione. “Forse è il modo un po’ circospetto in cui si muoveva e camminava quando è arrivato. Quasi temesse di essere seguito. O forse il gesto violento con cui ha scagliato il fiammifero sul marciapiede dopo aver la sigaretta, come fosse una bomba a mano.”

Kesler schiacciò con forza il mozzicone della sua nel posacenere di cristallo, quindi disse: “E’ di quell’uomo che ora dovremo discutere, sca.”

“L’ho capito appena me lo hai indicato.” Sorrise. “Forse vorrai dirmi subito chi è…”

“Non riesci a intuirlo?”

“La tua fonte?”

“Esatto. Quello è l’uomo in possesso di quelle informazioni esplosive, di cui necessitiamo per sbaragliare i nemici di tuo zio, consentendogli di vincere le elezioni.”

“Come e quando ne hai fatto la conoscenza?”

“A dire la verità, non lo conosco personalmente. Non ho mai avuto alcun contatto. Almeno sino a questo momento.” Si interruppe per accendersi un’altra sigaretta. “Attualmente sto trattando con lui per interposta persona. Un intermediario o mediatore che dir si voglia, che ho incontrato qui a Beirut durante le mie vacanze nell’agosto scorso.”

“Chi te lo ha presentato?

“Mi spiace, ma questo non posso dirtelo. E’ un personaggio in vista a cui ho

garantito l’anonimato”, mentì.

Lei assentì. “Capisco. Va’ pure avanti.”

“Questo mediatore mi ha informato che il nostro uomo è da qualche tempo alla ricerca di qualcuno disposto a sborsare una grossa somma di denaro per entrare in possesso di certe delicate e interessanti informazioni, con prove annesse.” Trasse una boccata dalla sigaretta.

“Di che genere di informazioni parliamo? Questo almeno te lo avrà detto, spero…”

“Me ne ha rivelato la natura soltanto ieri mattina in una lunga conversazione telefonica prima della nostra partenza. Sono rimasto di stucco.” Scosse la testa. “Per la precisione, si tratta di un certo materiale documentale, che se fosse dato in pasto all’opinione pubblica, o ne fosse anche soltanto accennata l’esistenza, innescherebbe un caos mediatico senza precedenti. Uno scandalo che scuoterebbe la coalizione di centrosinistra fin nelle sue fondamenta. Una vera e propria bomba all’idrogeno.”

Lei sembrò rifletterci su per un attimo, quindi disse: “Cioè?”

“Sono prove incontestabili.” Le sorrise in modo enigmatico. “Sotto forma di fotografie.”

“Porno?”

“Anche.”

“Spiegati meglio, Paolo.”

“A detta del mio intermediario è roba davvero interessante. Le foto ritraggono facoltosi e potenti personaggi: politici, industriali, direttori di banca, esponenti dell’alta finanza, e via dicendo, in compagnia di splendide prostitute di alto bordo.”

“Naturalmente a noi interessano soltanto quelle dei politici, non è così?”

“Naturalmente…” Esalò verso l’alto una nuvola di fumo. “Si tratterebbe di alcune centinaia di istantanee risalenti intorno alla metà degli anni Ottanta, epoca in cui questi politici erano poco noti e ancora relativamente giovani. Intorno ai trentacinque, qua-rant’anni. Forse agli esordi della loro carriera, e non ancora parlamentari. Ma oggi molti di essi sono sulla sessantina e siedono in Parlamento. Di certo alcuni ricoprono incarichi di governo come ministri o sottosegretari. E chi ti dice che non siano stati anche presidenti del Consiglio?”

“Mi sbaglio o parliamo esclusivamente di esponenti del centrosinistra?” Kesler scosse il capo con una smorfia. “Purtroppo no, sca. Ce ne sono in buon numero anche del centrodestra, e questo ci pone un problema serio. Dobbiamo, costi quel che costi, accaparrarci queste foto, esaminarle con cura per farne un’accurata selezione, distruggendo tutte quelle che non ci interessano, per scongiurare il pericolo, se pure remoto, che cadano nelle mani degli avversari di tuo zio e siano usate in campagna elettorale contro il suo schieramento.”

Lei strinse le labbra. “Mi chiedo se ci sia il rischio che qualcuno possa precederci…”

“E’ possibile, ma molto improbabile.”

“Perché?”

“Be’ anzitutto c’è il mio intermediario che cura i nostri interessi e tiene il nostro uomo sotto stretta sorveglianza. E’ vero che versa in ristrettezze economiche e potrebbe cedere le foto a un migliore offerente; ma questo soltanto in teoria. In pratica non può farlo dal momento che non ne ha la disponibilità.”

“Intendi dire che non le ha con sé?

“Esatto. Si trovano a Milano custodite in una cassetta di sicurezza presso la stazione centrale, e quindi deve anzitutto recuperarle.”

Lei rimase in silenzio per alcuni secondi, quindi disse: “Ora la domanda che mi sorge spontanea è: come ha fatto a procurarsele?”

“E se ti dicessi che è stato lui stesso a scattarle?”

“Allora è un Paparazzo…”

“Macché. Se lo fosse, che cosa ci farebbe in Libano?

“Raccontarmi tutto dalla A alla Zeta, Paolo.” Meditò per un attimo. “Non credi sia venuto il momento di spiegarmi una volta per tutte come mi colloco in questa faccenda?” Fece una pausa. “Insomma… a fare cosa mi hai fatto venire a Beirut?”

Kesler spense con calma la sigaretta nel posacenere e incrociò le braccia sul petto. “Andiamo per ordine, cara…” Le sorrise. “Alla seconda domanda rispondo dopo. Prima lascia che ti riferisca ciò che so sul conto del nostro amico, così come l’ho appreso per bocca del mio intermediario.”

Ecco, lei pensò, continua a prendere tempo nel darmi una risposta su ciò che a me sta maggiormente a cuore. Perché lo fa? Di certo perché si tratta di qualcosa per la quale sa che non farò salti di gioia. Sentì acuirsi quel senso di diffidenza che da sempre avvertiva nei suoi confronti. E se non fosse tutto vero quello che mi sta raccontando? si chiese con un punta di apprensione. Ma poi rifletté che stava fantasticando: Kesler non avrebbe mai fatto niente che non fosse nell’esclusivo interesse di suo zio. “D’accordo, ti ascolto…” gli disse abbozzando un sorriso.

“Poco o niente si sa delle sue origini. Ha risieduto a Milano fino al 1990”, lui spiegò. “E sai cosa faceva per vivere? Gestiva in società con un’attempata signora una casa di appuntamenti di gran lusso dalle parti di Bollate. Il costo della marchetta oscillava da un minimo di cinquecentomila a un massimo di due milioni delle vecchie lire, a seconda del tipo di prestazione richiesta. Questi livelli di prezzo determinavano una naturale selezione della clientela, dato che potevano accedere al club soltanto personaggi dalle cui tasche il denaro traboccava. C’erano vip, in gran numero.” Si interruppe e la studiò mentre si accendeva un’altra sigaretta. “A un certo punto al nostro uomo viene una idea geniale. Comincia a costruirsi una sorta di archivio di quelli che ritiene i clienti più facoltosi. Indagando in gran segreto su ciascuno di loro – anche con la

collaborazione delle prostitute – , riesce a sapere qual è la loro attività e posizione sociale, nonché quella patrimoniale e finanziaria. Per quelli che ritiene davvero meritevoli di ‘attenzione’, comincia a scattarne furtivamente fotografie in compagnia delle prostitute nei salotti del bordello. Ma non solo. Stando nascosto dietro pesanti tendaggi nella penombra delle alcove, riesce spesso, con l’uso di un obbiettivo ultrasensibile, a ritrarli persino durante le loro performance sessuali. Le fotografie, che recano sul retro i nomi dei vip, le custodisce come fossero un tesoro in una cassetta di sicurezza che prende in locazione alla stazione centrale.”

“Come un tesoro?”

“Già, visto l’uso che intende fare del materiale una volta uscito dal giro: esercitare azioni estorsive contro gli ignari, illustri frequentatori della casa. Il che gli avrebbe assicurato un costante flusso di denaro per chissà quanto tempo. Per non parlare della possibilità di cederlo a qualche rivista scandalistica a un prezzo iperbolico. Ma una sera che il bordello è zeppo di clienti, succede qualcosa che avrebbe dovuto prevedere accadesse prima o poi. Arriva una soffiata: da un momento all’altro ci sarebbe stato un blitz. E’ un fuggifuggi generale. La casa si svuota in un battibaleno. Quando la Buoncostume fa irruzione, trova ad attenderla soltanto le abbondanti tracce e indizi dell’attività che vi si svolgeva. Il giorno dopo lui e la maitresse ricevono un’altra soffiata: la polizia gli sta dando la caccia. Se rintracciati e arrestati saranno incriminati e processati per sfruttamento della prostituzione, un reato che comporta una pena detentiva non inferiore a cinque anni. La maitresse fugge in Argentina, dove può contare sulla ospitalità di un fratello. Lui raggiunge Palermo con un auto a nolo, e riesce a imbarcarsi clandestinamente su un mercantile che è in procinto di fare rotta per il Medio Oriente. Nella fretta della fuga riesce ad arraffare tutto il suo denaro, ma non le fotografie che pertanto restano abbandonate, ma non dimenticate, nella cassetta di sicurezza per circa quindici anni. Non è dato sapere, a detta del mio intermediario, cosa abbia fatto per vivere in Medio Oriente fino al 2003, anno in cui arriva a Beirut e vi si stabilisce.”

Tacque e la osservò come per misurarne una eventuale reazione. “Mi sembra di capire…”, lei disse, “…che ora ha il problema di come fare a recuperarle. Non è così?”

“Esatto. Tuo zio mi ha impartito rigorose istruzioni di fare in modo che quell’uomo raggiunga Milano, le recuperi, e quindi venga tenuto nascosto da qualche parte dove sarà per me possibile avviare con lui trattative segrete per la cessione.” La fissò. “Siamo intesi che potrò corrispondergli un anticipo, e il resto alla consegna, ma soltanto dopo che ogni singola istantanea sarà stata esaminata e analizzata, al fine di individuare quelle che davvero rivestono per noi interesse. Tutte le altre dovranno essere distrutte insieme ai negativi.”

“Non vedo il problema”, lei disse con aria pensosa.

“Eppure il problema c’è, mia cara. Quell’uomo non può andarci da solo a Milano, ma deve essere accompagnato.”

“Da chi?”

“Da te.”

“Oh!” esclamò facendo una smorfia di disgusto.

sca era abbastanza dotata di autocontrollo, che in quel momento gli consentì di reprimere l’impulso di alzarsi, salire in camera a prendere la valigia e correre in aeroporto per tornarsene a Milano con il primo aereo. Ma sapeva che

non poteva farlo, e quindi rimase in silenzio, la bocca semiaperta per lo stupore.

“Non credo di chiederti molto, sca”, Kesler riprese. “Ed è un compito semplicissimo: volare con lui fino a Milano Linate, e fare in modo che superi senza problemi la dogana e il controllo di polizia. Subito dopo potrai mollarlo e andartene tranquillamente per i fatti tuoi. Un mio incaricato verrà a prelevarlo per condurlo in un posto sicuro. Che ne dici?”

Per qualche tempo lei non fiatò, poi sembrò ritrovare la parola e disse:

“Ora mi devi spiegare per quale misteriosa ragione non può viaggiare da solo, Paolo? E ancora… perché dovrei essere proprio io ad assumere l’incarico di accompagnarlo? Perché non tu, ad esempio?”

Lui sorrise prima di dire: “Mi aspettavo queste domande, naturalmente. Ricordi quando ti ho detto che per il successo dell’impresa sarebbe stata indispensabile la tua immagine di donna celebre sia perché star della televisione, sia perché nipote di Martinoni? Bene… ora posso spiegartene la ragione.” Scrollò la cenere dalla sigaretta. “Quell’uomo è in possesso di un aporto italiano…, ma falso. Ora…, forse saprai che dopo i recenti attentati terroristici di Al Qaeda a Madrid e Londra, i controlli sulla sicurezza negli aeroporti di tutta Europa vengono esercitati in modo sempre più rigoroso ai posti di polizia. Soprattutto sui eggeri in arrivo dai Paesi mediorientali. Mi risulta che a Linate e Malpensa anche i aporti italiani vengano scrupolosamente esaminati – se pure a campione –, per accertarne l’autenticità. Sembra che di contraffatti ve ne sia in giro un certo quantitativo, emessi su moduli in bianco trafugati in varie ambasciate. Se il nostro uomo fosse beccato, sarebbe arrestato e il nostro piano andrebbe in fumo. Non so se mi spiego.”

Lei annuì. “Sì, certo.”

“Ora… “, lui riprese, “…nel momento in cui sbarcherete a Linate e erete insieme al controllo aporti, la tua persona polarizzerà l’attenzione generale. Tutti gli occhi saranno puntati su di te, ed è possibile che qualcuno dei funzionari di polizia ti chiederà l’autografo per la moglie o il figlio. Distratti dalla tua presenza, non si preoccuperanno più di tanto di controllare con cura il aporto del tuo compagno, magari gli daranno soltanto un’occhiata, senza andare per il sottile.”

“Non è detto che tutto fili liscio…”

“E’ vero, ma la probabilità è elevatissima. Anche perché tu dovrai comportarti in modo da dare l’impressione che quel giovane sia un tuo carissimo amico, e perché no? il tuo ragazzo con cui stai ritornando da una vacanza.”

“Che cosa dovrei fare esattamente per farglielo credere?”

“Sfoderare un po’ delle tue doti recitative.” Sorrise. “Che ne so… sorridergli, fargli gli occhi dolci, prenderlo sottobraccio.”

Lei non replicò, lo sguardo serio.

“Allora… che te ne pare?” lui la incalzò.

“Mi hai mentito, Paolo.” Il tono era molto aspro.

“Avevo messo in conto questa reazione da parte tua. ”

“Quell’uomo è un criminale, e tu mi stai chiedendo di aiutarlo a entrare in Italia facendogli da cavallo di Troia. Ma non mi avevi assicurato che non sarebbe stato niente di illegale quello di cui avrei dovuto occuparmi?”

“Vedo che anche tu hai una certa dimestichezza nell’uso delle metafore… Questa del cavallo di Troia è molto azzeccata.” Sorrise con ironia. “A mio modo di vedere è esagerato definirlo un criminale in senso stretto, sca. Ha commesso un reato, è vero, ma non è poi così grave. Comunque sia, dopo quindici anni è ormai prescritto, e pertanto non potrebbe essere arrestato e tanto meno processato.”

“Mi stai chiedendo di fare qualcosa contraria ai miei principi di legalità.”

“Al diavolo, mia cara !” lui esclamò con un gesto della mano. “Ammesso che stiamo per compiere un atto illecito, chi vuoi che oggigiorno, anche tra le persone più oneste, non oltrei almeno una volta nella vita i confini etici, o non trasgredisca la legge? Nel nostro caso, poi, sarà per una giusta causa, in quanto avrà lo scopo di aiutare tuo zio a difendersi in campagna elettorale dagli sporchi attacchi dei suoi avversari.” Fece una pausa. “Ecco… dal mio punto di vista si configurerebbe come un atto di autodifesa. A beneficio di tuo zio, naturalmente.”

Di nuovo lei tacque, ma l’espressione dura del suo volto sembrò ammorbidirsi. Sospirò profondamente e disse: “Metti che non funzioni, e quell’uomo venga fermato e arrestato…”

Lui fece spallucce. “Non ci saranno riflessi negativi sulla tua persona, se è questo che ti preoccupa.”

“Non puoi dirlo con certezza.”

“Tu non viaggerai con un aporto illegale, sca.”

“Questo è vero.”

“Quindi, al massimo ti potrebbero chiedere come mai ti accompagnavi con lui.”

“E in quel caso, che cosa dovrei rispondere?”

“Che è stata una conoscenza occasionale, o un’amicizia se preferisci, fatta a Beirut durante la tua permanenza.” Le sorrise. “Che poi sarebbe grosso modo la verità”

Lei rimase a lungo in silenzio.

Infine disse: “Mi sa che hai ragione, Paolo. Mi spiace di averti fatto delle difficoltà. Ho immaginato le cose più strampalate. D’altra parte ero perplessa perché tu non mi hai spiegato tutto con chiarezza sin dall’inizio.”

“Ma te ne ho precisato le ragioni, ricordi?” La scrutò intensamente in volto. “Sai benissimo che mai ti coinvolgerei in qualcosa che non fosse del tutto priva di pericoli. Mi assumo tutta la responsabilità per quanto ti sto chiedendo di fare. Ma, come ti ho già detto…”, le rivolse un sorriso rassicurante, “… se sei ancora preoccupata o non del tutto convinta della mia proposta, non devi necessariamente accettarla.”

“Devo moltissimo a mio zio per ciò che ha fatto per me dopo la morte dei miei genitori, e continua a fare”, lei disse. “Non posso sottrarmi.” Tacque e abbassò lo sguardo assumendo una espressione triste, e Kesler pensò che ora apparisse persino più splendida. Si sporse verso di lei dicendole: “Vedrai… non avrai a pentirtene.” Riuscì a stento a soffocare il desiderio di posare una mano sulla sua. Sapeva, dalla precedente esperienza, che non l’avrebbe gradito. Era certo che non avesse di lui un ottimo concetto, e che in fondo lo detestava. Ma, paradossalmente, piuttosto che deprimerlo, queste percezioni negative avevano su di lui lo strano effetto di stimolare quelle fantasie erotiche su di lei che, da sempre, la sua vicinanza gli risvegliava.

“Bene. Allora è tutto”, disse con aria soddisfatta. “Ora che ne diresti di bere qualcosa al bar prima di cena?”

“Magnifico.”

Mentre attraversavano la grande sala del bar diretti al banco, Kesler si accorse che molte teste si giravano a guardarla. In particolare, notò il modo in cui gli occhi degli uomini si soffermavano sulle gambe dai perfetti polpacci, per poi risalire fino allo stupendo fondoschiena. Si chiese se stavano fantasticando la sua stessa cosa, e cioè che sarebbe stata una straordinaria esperienza riuscire a farlo con lei.

Era un peccato, pensò, davvero un peccato che non avrebbe mai avuto modo di averne conferma.

8

Con quei pochi denari che Hassan gli aveva dato, Nino, anziché noleggiare un taxi per ritornare a casa, aveva acquistato in un suk del cibo italiano, una bottiglia di vino e una scatola di cioccolatini al liquore di cui la sua ragazza andava matta. In poco più di mezzora aveva raggiunto, camminando speditamente, il proprio monolocale.

Era situato in un quartiere degradato della città vecchia, al secondo piano di uno stabile fatiscente, miracolosamente scampato ai bombardamenti delle numerose guerre che si erano succedute nel corso degli anni.

Il minuscolo appartamento, era composto da una sala multiuso con angolo cottura, e di un bagno situato nel pianerottolo, in uso comune con altri inquilini.

All’alloggio – arredato del minimo indispensabile –, si accedeva salendo quattro rampe di scale, dopo aver attraversato un androne e un cortiletto dall’aria ammorbata dal fetore delle urine e degli escrementi rilasciati dai gatti randagi di cui la zona era infestata. O-gni volta che Nino vi ava, gli si risvegliava il ricordo delle latrine pubbliche sporche in cui aveva lavorato da ragazzo.

La ragazza con cui viveva, aveva quella golosità per i dolci tipica degli orientali, e a lui piaceva osservarla mangiare i cioccolatini, mentre si rilassava sprofondato in un vecchio divano logoro, foderato di una stoffa a fiori lacerata in più punti.

Si era imbattuto in lei una sera sull’imbrunire mentre rincasa. La aveva notata seduta a terra sul marciapiede accanto all’ingresso del suo stabile. Stava

accasciata su sé stessa, appoggiata con le spalle al muro, evidentemente stremata dalla stanchezza e dalla fame. Mosso a comione, l’aveva presa in braccio e portata nel suo appartamento: era leggera come un fuscello tanto era magra. L’aveva quindi rifocillata dandole del cibo e da bere. Era tanto esile e denutrita da apparire più vecchia della sua giovanissima età. Quella notte le aveva ceduto il proprio letto, e lui si era sistemato sul vecchio divano. Al mattino le aveva dato dei soldi ingiungendole di andarsene. Ma la sera, al suo rientro, era stato sorpreso di ritrovarla ad attenderlo nel pianerottolo. Si chiamava Tanya, e Nino aveva subito capito che, alla stregua di un cane randagio, intendeva eleggerlo suo padrone. Di nuovo le aveva ordinato di andare via alzando il tono di voce, e fingendosi arrabbiato. Ma non c’era stato verso di persuaderla. Come un cane fedele restava accucciata in un cantuccio rifiutando di muoversi. Gli aveva spiegato che aveva da poco compiuto diciassette anni, che faceva dell’accattonaggio per sopravvivere, che parlava il se, l’arabo e un po’ d’inglese, e che era arrivata a Beiurt alcune settimane prima con un gruppo di profughi palestinesi, essendo lei stessa palestinese. Non aveva nessuno. Entrambi i genitori erano morti da molto tempo, ed erano sepolti a Gerusalemme. Tutto ciò che desiderava, aveva insistito, era lavorare per lui, diventare la sua serva, la sua schiava. Avrebbe fatto di tutto, se soltanto le avesse permesso di restare.

Alla fine si era reso conto che per liberarsene, avrebbe dovuto cacciarla con la forza, ma sapeva che neppure allora era certo che non sarebbe ritornata. Aveva osservato i suoi occhi scintillare colmi di lacrime, simili a pozze scure senza fondo, e tanto grandi da apparire grotteschi sul volto smagrito. Così aveva deciso che non poteva mandarla via. Nessuno più di lui era in grado di comprendere che cosa significasse patire i morsi della fame e dormire all’aperto. Li aveva sperimentati sulla sua pelle quando aveva lasciato l’orfanotrofio. Dopo un’ultima debole imprecazione, le aveva consentito di entrare. Era così nato quel tipo di sodalizio tra un uomo e una donna – abbastanza diffuso nel mondo arabo –, in cui solitamente l’uomo esercita un controllo e un potere assoluti sulla propria compagna, ai limiti della schiavitù. Ma non era esattamente quello il loro genere di rapporto. Lui non la picchiava mai quando era insoddisfatto o aveva la luna storta, né le ordinava di vendersi sulla strada quando era a corto di denaro.

E Tanya lo ripagava con l’amore e la devozione di cui soltanto ‘l’amico dell’uomo’ può essere capace. Teneva la stanza sempre in ordine e linda, gli lavava e rammendava i vestiti, gli preparava da mangiare. Come fosse una domestica, non sedeva mai a tavola con lui, ma lo serviva fino al termine della cena, prima di cenare lei stessa con quel poco cibo che restava. Una sera, tenendo lo sguardo pudicamente abbassato, gli si era offerta assicurandolo timidamente che non correva alcun rischio di malattie veneree, che non era sieropositiva e che era vergine. Nino aveva allora riflettuto che era troppo giovane, e eccessivamente magra per i suoi gusti: una differenza abissale con quelle donne aggressive – in maggioranza prostitute – a cui soleva ricorrere quando desiderava appagare i suoi istinti lussuriosi. Sapeva esattamente come fare per trarre piacere dal corpo di una donna. Cosicché quella sera l’aveva respinta. Le aveva detto di lasciarlo in pace, di non infastidirlo. Lei, con aria umile e sottomessa, si era allontanata e aveva dormito sul divano.

Ma la sera successiva, era entrato in casa con uno strano e inaspettato desiderio di lei. Aveva notato che come al solito lo stava osservando attentamente, e d’improvviso si era accorto, per la prima volta, che in fondo era graziosa e che si era messa un po’ in carne. Aveva lunghi capelli scuri come l’ebano, e una carnagione bianca come quella di un’occidentale. Le aveva teso una mano per invitarla ad avvicinarsi, e lei gli si era accostata tremante. E quella era stata la prima volta che Nino aveva trattato una donna con estrema gentilezza e delicatezza, accertando che non gli aveva mentito: lui era stato davvero il primo uomo. Subito dopo l’amplesso, aveva fumato una sigaretta, ma prima di addormentarsi lei gli aveva preso una mano e gliela aveva baciata. “Ti amo”, gli aveva sussurrato. “Ora sono tua per sempre.”

Al suo risveglio, la prima cosa che Nino aveva visto era stata Tanya che lo fissava con uno sguardo adorante.

Ora, seduti sul divano, lui le cinse la vita con un braccio e la baciò sul collo. “Se ne mangi troppi ti faranno venire il mal di pancia”, le disse sorridendo.

“Sciocchezze! Sono squisiti. Vorrei che tu ne assaggiassi almeno uno.”

“No, grazie.” Scosse la testa. “Sta’ attenta, potresti ingrassare.”

Lei si rabbuiò, e ripose nella scatola il cioccolatino che stava per infilarsi in bocca. “Se ingrassassi…, non ti piacerei più?”

“Dipende.”

“Da cosa?”

“Da quanto ingrasseresti.”

Era ingenua e credulona, e lui spesso si divertiva a prenderla in giro al punto di farla talvolta piangere. A evitare che accadesse ora, le disse: “Dài, non dico sul serio. Sta’ tranquilla… mi piacerai sempre. Ma ora magia pure un altro cioccolatino, e poi ascolta quello che ho da dirti.” Fece una pausa. “Ti piacerebbe andartene da qui?” Di nuovo lei si rannuvolò. “No, no, non senza di me naturalmente”, lui si affrettò a rassicurarla. “Io non ti lascerò mai. Ce ne andremmo insieme da qualche altra parte del mondo, con tanto denaro.” Girò la testa verso di lei e la fissò “Tu non hai mai ricevuto nulla dalla vita, vero? Non sai che cosa significhi avere molti soldi.”

“Certo che lo so”, gli replicò rasserenata con una voce da bambina. “Potremmo avere molto più cibo. Potrei andare al suk a comprare dei bei vestiti, della stoffa per cucirti un cappotto. So bene a cosa serve il denaro, Nino. Ti ci puoi procurare

tutte le cose che non hai e che desideri…”

“Potresti addirittura acquistarti un intero guardaroba.” Osservò l’espressione felice che le affiorò sul viso, mista a sorpresa, piacere, incredulità. Tempo addietro, le aveva regalato un vestito che lei serbava come un tesoro, e che metteva raramente per timore di sciuparlo. Ora lui stava cercando di farle capire che la loro situazione economica poteva improvvisamente modificarsi. E in meglio. Sempre che Hassan non gli aveva mentito, tutto questo poteva avverarsi.

Alcune ore prima, durante il tragitto verso casa, non aveva fatto che riflettere sulla breve conversazione avuta con il libanese a bordo della sua vecchia Toyota. Aveva cominciato a prendere corpo nella sua mente quello che fino a quel momento gli era parso un af-fare misterioso. Ora sapeva che avrebbe dovuto sottoporsi a un test di mira, che provasse la sua abilità di tiratore provetto. Ne aveva dedotto che i committenti di Hassan erano alla ricerca di un killer di professione in grado di uccidere qualcuno che gli dava fastidio.

Con aria pensosa, prese una sigaretta e lasciò che Tanya gliela accendesse. Ma chi mai poteva essere il bersaglio? si chiese. Di certo doveva trattarsi di qualche personaggio eccellente: un capo di Stato, un presidente, un re, un importante politico, uno sceicco del petrolio. Chissà. Era fiducioso nella sua grande abilità di tiratore, ma non era un killer professionista, non lo era mai stato, e pertanto se accettava quell’incarico sarebbe stata la prima volta che uccideva per denaro, e gli si sarebbe posto un problema di coscienza. Non aveva fatto che un uso difensivo delle armi da fuoco negli anni in cui aveva operato come mercenario.

Erano ormai trascorsi quindici anni, ma il senso di colpa per l’uccisione del giovane cassiere nel corso di quella rapina fallita alla banca di via Lorenteggio a Milano, non lo aveva abbandonato. Ogni volta che tornava con il pensiero sull’accaduto, si sforzava di liquidarlo – dandosene una illusoria giustificazione morale – come un tragico incidente. Ma a ricordargli che non era stata una disgrazia, c’era l’immagine della sua giovane vittima che rivedeva nitida, con

l’occhio della mente, nel momento in cui, prima di rendere l’anima a Dio, gli aveva rivolto uno sguardo incredulo, accusatorio, quasi avesse voluto dirgli: “Non credevo che l’avresti fatto…”

Ma ora doveva mettere a tacere la coscienza, pensò, perché era sul lastrico, aveva un bisogno spasmodico di denaro. Non poteva lasciarsi sfuggire una simile opportunità. Comunque, rifletté, quando Hassan gli avesse fatto la proposta, l’avrebbe vagliata con attenzione prima di accettarla, cercando di stabilirne le due principali implicazioni: il rischio e la convenienza. Quanto al rischio era di certo elevato, e pertanto altrettanto doveva esserlo il compenso da pattuire. Avrebbe richiesto un congruo anticipo, di modo che se malauguratamente non ritornava dalla missione, Tanya avrebbe avuto di che provvedere a se stessa per molto tempo. Si accorse che era silenziosa. Le accarezzò i capelli e poi le prese il viso tra le mani girandolo verso il suo. I loro sguardi si incrociarono: quello della fanciulla era mesto e pensieroso.

“Ehi!” lui le disse brusco per scuoterla da quella sorta di trance. “A cosa stai pensando? Ai nuovi vestiti?”

“No, pensavo al denaro. Che cosa dovresti fare esattamente per procuratene tanto, Nino?”

“C’è qualcuno che pensa che io ne valga molto.” Le sorrise. “Tu non credi che io potrei rappresentare un grosso valore per certe persone?”

“Per me tu vali più di tutto l’oro del mondo.” Lo disse con una veemenza apionata. “Ma sii sincero con me, Nino… Dimmi… perché qualcuno dovrebbe darti tanti soldi? Se c’è di mezzo Hassan Asad, non mi fido.”

“Anch’io. Ma non è per lui che dovrei fare qualcosa. Forse per un suo amico. Non lo so ancora. Lo saprò domani.” Lei lasciò are quasi un minuto prima di dire: “E’ davvero tanto questo denaro, Nino? E’ per questo che stasera hai comprato tutto quel cibo, e i cioccolatini per me?”

“Potrebbe essere moltissimo, mia piccola cara. Tanto da cambiarci la vita, e far sì che i nostri sogni si avverino. Sarebbe più che sufficiente per consentirci di andarcene altrove, dove più ci piacerà, a costruirci una nuova esistenza, senza preoccupazioni di alcun genere.”

Lei rifletté a lungo prima di dire a bruciapelo: “Non lo voglio, Nino.” Si scostò da lui e si drizzò a sedere sul divano, le braccia incrociate sul petto, lo sguardo fiero.

“Perché non lo vuoi?” La scrutò in volto. “Ora che cosa ti prende, Tanya?”

“Sento che è denaro sporco, Nino, e che per guadagnarlo dovresti fare qualcosa di molto rischioso.”

“Tu non puoi saperlo.”

“Lo so perché me lo dice il cuore. Quello non sbaglia mai.”

Lui non replicò.

“Di’ ad Hassan che non abbiamo bisogno di lui, né del denaro”, lei proseguì. “Sarò io a guadagnarne abbastanza. Sta’ tranquillo, so come fare.”

Lui avvampò e fu preso da uno scatto di rabbia. “Io non ti ho mai torto un capello, Tanya, ma se ti azzardi a ripetere quello che hai appena detto, giuro che…”

“Hai ragione, scusami Nino.” Lo interruppe e si coprì il volto con le mani scoppiando in lacrime. “E’ che ti amo troppo, e sono terrorizzata al solo pensiero di perderti”, disse balbettando tra i singhiozzi.

Gli tornò in mente quella prostituta bambina che aveva visto ferma sotto la pensilina dell’autobus alcune ore prima. Pensò a quella madre che non aveva mai conosciuto, e che lo aveva abbandonato all’orfanotrofio con pochi giorni di vita. Una voce dentro di sé gli aveva sempre sussurrato che anche lei era una prostituta. Rivide il sogghigno viscido di Hassan, quella volta che gli aveva suggerito di mettere Tanya in una casa di tolleranza.

“So che lo hai detto a fin di bene”, le disse sommessamente accarezzandola. “Ma non capisci Tanya? tu sei la mia donna. Non permetterò mai a nessuno di sfiorarti neppure con un dito. Se guadagnerò molti soldi le nostre vite cambieranno come dalla notte al giorno. Diventerai una donna rispettabile, e avremo una casa tutta nostra.” La guardò sorridendo e le asciugò le lacrime andole una mano sopra gli occhi. “Su, da brava, ora smetti di piangere e avvicinati. Lascia che ti dimostri che non sono più arrabbiato con te.”

Un giorno avrebbe potuto persino sposarla, pensò, ma questo preferì non dirglielo, per il momento.

9

Nino sostava da quasi cinque minuti davanti all’ingresso del suo stabile, quando – nel silenzio del primo mattino – sentì il rumore crescente di un’auto che si avvicinava. Di lì a qualche secondo, vide la Toyota polverosa di Hassan sbucare da dietro l’angolo in fondo alla strada. Si fermò a un incrocio davanti a un semaforo, e lampeggiò due volte per attirare la sua attenzione. Quando accostò al marciapiede il giovane aprì lo sportello del eggero e salì a bordo.

“Salve”, Hassan gli disse guardandolo di sfuggita.

L’altro gli rispose con un grugnito senza degnarlo neppure di un’occhiata. Girò la testa a guardare fuori dal finestrino, mentre l’auto ripartiva di gran carriera infilando un dedalo di stradine deserte. Dopo una decina di minuti, si immise sulla litoranea e prose-guì a velocità sostenuta su una strada a doppia corsia. Nino si accorse che Hassan controllava con notevole frequenza lo specchietto retrovisore, scrutando attentamente la strada dietro di loro, come temesse di essere seguito. Ma a quell’ora il traffico era pressoché inesistente: molto di rado venivano superati da un’altra vettura, o la incrociavano.

Quel mattino Beirut si era svegliata in una giornata dal cielo terso di un blu cobalto, l’aria limpida priva di umidità. Il forte vento del giorno prima era bruscamente calato, e una lievissima brezza increspava appena la superficie del mare.

“Dove andiamo?”

“Non molto lontano. Sta’ tranquillo.” Hassan continuava a gua-dare nel retrovisore a brevissimi intervalli.

Improvvisamente, furono raggiunti da una berlina di grossa cilindrata che viaggiava a tutta velocità, e che li oltreò sfrecciandogli silenziosa lungo la fiancata. Era una limousine scura: una Mercedes 450SL, probabilmente di un recente modello. Nino la osservò allontanarsi divorando la strada, fino a scomparire dietro un’ampia curva. Girò un attimo la testa verso Hassan: una grande ansia trapelava ora dal suo sguardo. Consultò il proprio orologio. Erano in marcia da oltre un’ora, e si trovavano alla periferia della città. Proseguirono per una ventina di chilometri, fino a quando Hassan rallentò in prossimità di un incrocio, ma non lo superò svoltando a sinistra in modo brusco. La strada si ridusse a un viottolo sterrato appena praticabile per via del fondo molto irregolare, e largo quanto bastava per consentire a due auto di incrociarsi. La Toyota avanzò lentamente lungo un rettilineo di quasi un chilometro, tra forti sobbalzi e sollevando una nuvola di polvere. Su entrambi i lati del sentiero, vasti appezzamenti di agrumeti si estendevano a perdita d’occhio. Poco dopo, il percorso si fece tortuoso per almeno due chilometri. Dopo una ennesima curva il vialetto si allargò improvvisamente fino a trasformarsi in un vasto spiazzo in terra battuta sul cui limitare sorgeva una casa colonica dall’aspetto disabitato. A breve distanza, c’era una vecchia roulotte scrostata dall’aria abbandonata. Hassan arrestò la Toyota di fianco alla costruzione, e spense il motore.

“Siamo arrivati.”

Nino diede un’occhiata in giro: non vide anima viva. Notò numerosi alberelli di cedro del tutto spogli dei loro frutti data la stagione invernale. Molto in lontananza, si stendeva la sconfinata distesa azzurra del mare. Dall’altra parte dello slargo, stava parcheggiata con il muso rivolto alla Toyota, la Mercedes scura che li aveva oltreati poco prima sulla strada principale.

L’arabo si voltò verso il giovane, dicendo: “C’è una valigetta di cuoio sul sedile

posteriore, prendila.” Ora gli occhi scuri gli brillavano per l’eccitazione.

La limousine si trovava a una ventina di metri in linea d’aria. Al volante Nino riconobbe un libanese, ma non doveva essere un tassista. Forse era uno chauffeur a giudicare dal berretto e dalla livrea che indossava.

Intravide qualcuno sul sedile posteriore, ma il divisorio di vetro scuro che separava la parte anteriore da quella posteriore della vettura, lo faceva apparire come un’ombra confusa. Chiunque fosse, era di certo in grado di vedere attraverso la lastra di vetro restando invisibile dall’esterno.

Nino si girò per allungare una mano nello spazio tra i due sedili anteriori, riuscendo così ad afferrare la valigetta posata su quello posteriore.

“Scendi”, Hassan lo apostrofò con tono autoritario. Ma il giovane non si mosse. Disse:

“Scenderò quando tu avrai fatto altrettanto.”

Avvertì una sensazione di lieve disagio, ma riuscì facilmente a controllarla. La scena sembrava bene organizzata. Non doveva essere opera di Hassan. La vista di quella sagoma umana dai contorni indistinti dietro il vetro oscurato, gli incuteva diffidenza, ma lo intrigava al tempo stesso.

“Devi scendere dalla macchina con la valigetta”, Hassan lo incalzò alzando il tono. Ora appariva nervosissimo e non cercava neanche di nasconderlo. “Se vuoi

l’incarico, non è con me che devi fare bella figura, Nino, ma con quel tizio laggiù.” Lo disse indicando la limousine con un movimento del capo; quindi sgusciò fuori dalla vettura con sorprendente agilità.

Nino fece altrettanto portandosi dietro la valigetta, ma muovendosi lentamente, quasi con pigrizia. Decise che doveva mostrarsi calmissimo. La calma era sempre stata in ato il suo punto di forza nell’affrontare situazioni difficili e delicate. Per darsi un contegno disinvolto, posò la valigetta sul tettuccio della Toyota per accendersi una sigaretta. Inspirò ed espirò il fumo della prima boccata.

“Cosa cazzo fai, Nino?” La voce di Hassan si era fatta stridula, segno evidente della crescente tensione di cui era preda. “Quello ci sta guardando. Che cosa aspetti ad aprirla?”

Il giovane lo ignorò continuando a fumare. Quasi con aria di sfida teneva gli occhi puntati sul misterioso personaggio invisibile, che, ne era certo, lo stava a sua volta osservando con occhio critico da dietro la paratia di vetro scuro.

“Piantala di gingillarti, Nino! Datti una mossa!”

Di nuovo Nino non fece una piega, ma prese un’ultima intensa boccata dalla sigaretta prima di lasciarla cadere a terra schiacciandola poi con la punta di una scarpa. Infine aprì la valigetta e ne estrasse una pistola Luger P-O8 parabellum. Non aveva mai avuto modo di usarne una in ato, dato che da mercenario aveva sempre avuto in dotazione una Berretta calibro nove. Comunque, la cosa non lo preoccupava minimamente. Sapeva che era un’arma superba e micidiale. Ne saggiò il peso, e poi la impugnò con aria soddisfatta come apprezzandone la maneggevolezza e il perfetto bilanciamento. La sollevò all’altezza della spalla, e disteso il braccio davanti a sé, mirò a un albero distante una decina di metri.

Premette il grilletto, ma sentì il clic del percussore che batté a vuoto: l’arma era scarica. Nella valigetta c’era anche un silenziatore.

Come la maggioranza dei cecchini, Nino era ossessionato dalla precisione totale. A prescindere dall’esperienza acquisita sul campo da mercenario, era un tiratore scelto per natura. Ne aveva spesso dato ampia dimostrazione in numerose azioni paramilitari nei vari paesi del Medio Oriente in cui aveva operato. L’occhio e il dito posato sul grilletto, erano in perfetta sincronia. Era dotato dell’istinto innato di riuscire a cogliere la frazione di secondo in cui il bersaglio era pronto per essere colpito, tenendo anche conto dell’influenza del vento sulla traiettoria del proiettile. La sua abilità con la pistola non era da meno di quella con il fucile. Durante una missione in Afghanistan alcuni anni prima, era stato in grado di abbattere – con l’uso di un fucile di alta precisione munito di telemetro e mirino telescopico, mirando da quasi duecento metri di distanza –, ben quattordici dei venti talebani che, appostati ai bordi della strada dietro un muro diroccato, avevano attaccato la sua squadra composta da sei colleghi. Avevano risposto al fuoco riparandosi dietro le due Land Rover su cui viaggiavano, ferme a una stazione di rifornimento sull’autostrada per Kabul. Era stato in quella circostanza che, nelle ultime battute dello scontro, un proiettile di Kalashnikov lo aveva attinto al torace, e per un soffio non gli aveva trafitto il cuore. Quel giorno, aveva avuto l’imprudenza di non indossare il giubbotto antiproiettile. Per guarire dalla ferita, si era reso necessario un mese di ricovero presso l’ospedale di Kabul.

“Sono pronto.”

“Bene. Quello è il tuo bersaglio.” Hassan indicò con la mano un filare di alberi di cedro distante una trentina di metri dall’altra parte dello spiazzo. “E’ il terzo da sinistra.”

L’albero era spoglio, ma aguzzando la vista Nino vide distintamente un oggetto tondeggiante che penzolava da un ramo, a cui era stato assicurato con una

cordicella: era un enorme cedro.

“Ci vogliono le munizioni.”

La Luger P-O8 parabellum da nove millimetri è dotata di un caricatore a otto colpi inserito nell’impugnatura.

“Ecco… prendi.” Hassan gli tese una mano sul cui palmo c’erano due proiettili. “Hai soltanto due possibilità. Non di più.” Si morsicò con forza il labbro inferiore. “Spero che tu non mi abbia mentito, e che sia davvero bravo come mi hai assicurato. Me lo augurò per il tuo bene.”

Nino chiuse gli occhi cercando di controllare la rabbia. “Devo usare il silenziatore?”

“Sì, anche se in giro non c’è nessuno. Non si sa mai…”

Nino annuì. Prese il silenziatore dalla valigetta e lo avvitò lentamente alla canna dell’arma. Poi estrasse il caricatore dal fondo dell’impugnatura e vi infilò i due proiettili, quindi lo reinserì spin-gendolo con un colpo secco per bloccarlo. L’arma era pronta all’uso. Appariva concentrato sulla delicata operazione che stava per compiere, il cui esito poteva migliorare il suo futuro e quello di Tanya.

“Ora togliti di torno se non vuoi che prenda te a bersaglio.” Senza fiatare il libanese indietreggiò di alcuni i.

Nino sollevò la pistola allineandola alla spalla e allungando il braccio. Calcolò che da quella distanza era come mirare alla testa di un neonato, ma il problema era che il frutto oscillava lievemente mosso dalla brezza. Respirò a fondo concentrandosi allo spasimo, quindi premette il grilletto. Dalla Luger partì il colpo secco smorzato dal silenziatore, e il cedro si vaporizzò nell’aria in una nuvoletta giallognola.

“E’ l’unico bersaglio?”

Il volto di Hassan si illuminò di uno smagliante sorriso. “Sì! Sì!” urlò. “Bravo! Nessuno avrebbe potuto fare di meglio! Centrato al primo colpo! E’ incredibile! Al primo colpo!”

In preda all’euforia, si mise a gesticolare all’indirizzo della Mercedes. Pensò che aveva svolto il suo compito alla perfezione, nessuno poteva contestarglielo. Aveva procurato esattamente quello che gli era stato chiesto. Ora pregustava il momento in cui avrebbe intascato il suo compenso. Nino esplose l’altro colpo in aria, e quindi ripose la Luger calda nella valigetta, che lasciò poi cadere ai piedi di Hassan in un gesto sprezzante. “E’ fatta.”

In quel momento i fari della Mercedes lampeggiarono due volte. Hassan sembrò andare in visibilio.

“E’ la conferma che ti prendono”, urlò di nuovo. “Quello è il segnale convenuto: un lampeggio per il no, due per il sì.” Si stropicciò con forza le mani. “Sei fortunato, Nino! Te l’ho sempre detto che Hassan Asad ti avrebbe portato fortuna…”

“Non mi stai affatto impressionando.” Nino fece una smorfia di disgusto. “Anche tu sarai pagato, no?” Manteneva un contegno imperturbabile. “Non ho ancora detto che accetterò. Per concludere un qualsiasi affare, ci vuole il consenso di entrambe le parti.” Rimase in silenzio per un attimo. “Ora va’ a dire a chiunque si nasconda dentro quella Mercedes che posso dare il mio accordo a soltanto due condizioni. Primo, voglio conoscere subito l’ammontare del mio compenso, e secondo, l’identità del bersaglio. Risponderò allo stesso modo… lampeggiando due volte.” Hassan partì trotterellando alla volta della grossa berlina, che intanto aveva il motore. Il vetro del finestrino posteriore si abbassò elettricamente e l’arabo, sporgendosi con la testa dentro l’abitacolo, restò a confabulare con il suo committente per qualche minuto. Quando ritornò alla Toyota, sorrideva come mai Nino l’aveva visto sorridere prima.

“Un milione di euro!” gridò ansimando con voce strozzata, come se a fatica riuscisse a pronunciare le parole. “E un aporto italiano con il nome che sarai tu a scegliere.” Ansimando si strofinò la faccia sudata con un fazzoletto di seta. “Questo è tutto, mi è stato detto. Non puoi saperne di più per il momento. Prendere o lasciare.”

Nino si accese con calma un’altra sigaretta. Improvvisamente si accorse di essere anche lui madido di sudore, a dispetto della temperatura rigida. Ma decise che in nessun modo avrebbe fatto trapelare l’eccitazione. Un milione di euro! pensò. Aveva la gola secca e ora le mani gli tremavano impercettibilmente. Quasi due miliardi delle vecchie lire! Aveva immaginato un compenso alquanto elevato, ma non era preparato per una cifra del genere. Se tutto andava per il verso giusto, sarebbe stato il colpaccio della sua vita.

Era un’occasione tanto sbalorditiva che stentava a crederci. Sembrò ponderare quanto aveva ascoltato, poi disse: “Voglio subito un anticipo della metà, e, poiché non mi fido, il saldo a destinazione nel momento in cui mi saranno indicati il bersaglio nonché la data, il luogo e le modalità di esecuzione del contratto. Va’ subito a dirlo a quel figlio di mignotta, se non vuoi che sia io stesso a farlo.”

Di nuovo Hassan si mise a correre alla volta della limousine, mentre Nino si ava un dito all’interno del colletto della camicia per alleviare la sensazione di soffocamento. Continuava a sudare profusamente e il cuore gli batteva forte contro il costato. Era una cifra astronomica, pensò. Una vera fortuna. Mai aveva sognato in vita sua di possedere tanto denaro. Al diavolo la coscienza, e chi era la vittima designata, si disse. Salì in macchina e si appoggiò allo schienale del sedile scoppiando in una fragorosa risata liberatoria dalla tensione, il capo reclinato indietro. “L’uomo è d’accordo”, Hassan disse risalendo in auto. “Il aporto italiano e un anticipo di mezzo milione. Il resto ti sarà corrisposto alle tue condizioni.”

“Va bene, affare fatto allora”, Nino disse allungando una mano per tirare la leva delle luci sul cruscotto.

I fari della Toyota lampeggiarono due volte in successione rapida.

La limousine Mercedes si avviò lentamente attraverso il piazzale diretta all’imboccatura del vialetto che conduceva alla strada principale.

Sprofondato nel sedile posteriore, Paolo Kesler guardò la Toyota ammaccata, un sorriso soddisfatto stampato sul volto.

10

Nino rincasò con un sacchetto di plastica che conteneva due vestiti e un paio di scarpe nuovi per Tanya. Li aveva acquistati in un centro commerciale. Li tirò fuori e glieli porse dicendo: “Tieni, sono per te.” Lei sollevò le mani con i palmi rivolti verso di lui in un gesto di rifiuto, lo sguardo amareggiato. “Non li voglio, Nino, se prima non mi dici che cosa sta succedendo.”

“Sta’ tranquilla, va tutto bene.”

Lei fece una smorfia scettica. “Che cosa hai promesso ad Hassan o ad altri per avere il denaro?”

Nino le si avvicinò e la prese per le spalle scuotendola leggermente, come farebbe un padre con una bambina capricciosa.

“Non posso dirtelo, Tanya. Devi stare tranquilla. So bene quello che faccio, ti chiedo di avere fiducia in me. Te lo ripeto…, ci fare-mo una nuova vita. Abbiamo finito di andare in giro come cani randagi ad annaspare nei bidoni delle immondizie. Saremo ricchi. A-vremo tanti soldi da non sapere come spenderli.”

“Ma sei tu la mia ricchezza, Nino”, lei replicò con veemenza. “Ti prego… non partire. Non so perché, ma il mio cuore è colmo di paura. Mi dice che potresti non ritornare.” Chinò il capo nascondendo il volto, e lui capì che stava piangendo.”

“Calmati, andrà tutto bene.” Le accarezzò i lunghi capelli neri. “Puoi esser certa che tornerò. E presto. Ora… su da brava, va’ a prepararmi la valigia.” Lei sollevo su di lui il volto rigato dalle la-crime. “Farò come vuoi”, gli disse singhiozzando. “Aspetterò qui il tuo ritorno. Ora vado a prepararti quello di cui avrai bisogno per il viaggio.”

Quella mattina si era recato alla Bank of Beirut assieme ad Hassan per occuparsi del bonifico di cinquecentomila euro che Kesler gli aveva fatto pervenire. A conclusione dell’accordo del giorno prima, ne aveva subito disposto per telefono il trasferimento ‘on line’ da un conto cifrato presso una banca del Gran Cayman, indicando come beneficiario Nino Salvo. Procurare il aporto italiano falso con cui avrebbe viaggiato, non era stato un problema: Hassan aveva i contatti giusti. Il documento e il biglietto aereo, chiusi in busta sigillata, li avrebbe ritirati in aeroporto al banco della American Express, prima del volo.

Poiché Nino non era in possesso di documenti di riconoscimento, Hassan – accreditato come ottimo cliente preso la Bank of Beirut – ne aveva garantito l’identità alla direzione, sì da consentigli la riscossione del bonifico, che era stato subito convertito in lire libanesi. Nino aveva quindi disposto la apertura di un conto nelle Gestioni patrimoniali della banca. Aveva sottoscritto un contratto di amministrazione discrezionale, in base al quale l’istituto di credito aveva la facoltà di investire il denaro nel modo che più riteneva proficuo, sì da ricavarne una rendita adeguata. Infine, aveva firmato un ordine permanente di corrispondere a Tanya un importo settimanale commisurato al profitto dell’investimento, e comunque tale da assicurarle un confortevole tenore di vita. Se lui non fosse ritornato, la banca avrebbe continuato a versarle la somma a mo’ di vitalizio, e Tanya sarebbe stata economicamente al sicuro per il resto dei suoi giorni. Infine, aveva rilasciato una dichiarazione scritta, in base alla quale la ragazza sarebbe diventata la legittima proprietaria del denaro, ove lui non avesse fatto ritorno dopo un anno.

Ma Nino sapeva che Tanya era tra tutti gli esseri umani il meno venale. Che le importava molto di più avere lui piuttosto del denaro, perché ne era innamorata

pazza. Gli accadeva spesso che sentirsi amato così intensamente e incondizionatamente, gli procurasse un senso di disagio. Lei non gli aveva mai chiesto se provasse il suo stesso sentimento. Forse, pensò, con quell’istinto innato di cui le donne più degli uomini sono dotate, aveva compreso che lui le voleva molto bene, ma senza veramente amarla.

Pertanto ora, partendo, Nino si sentiva in un certo qual modo a posto con la propria coscienza nella consapevolezza che, in sua assenza, il denaro non avrebbe rappresentato per Tanya alcun problema. Se non era stato capace di amarla come lei avrebbe desiderato, almeno aveva fatto qualcosa per il suo futuro. “Voglio che tu sia serena mentre sono via”, le disse. “Non lo sarò per molto, forse qualche settimana. Il tempo erà veloce, vedrai…”

“Anche una settimana mi sembrerà un’eternità”, gli replicò chiudendo la valigia che gli aveva appena preparato. Era nuova, così come lo erano gli indumenti che conteneva. Lo squadrò da capo a piedi. Era molto elegante in quel completo scuro giacca e cravatta, ma a lei sembrava un altro uomo. Improvvisamente avvertì un senso di perdita, e lo rivide con quegli abiti vecchi e malconci che aveva indossato fino al giorno prima. Quella era l’immagine che di lui avrebbe sempre serbato nel suo cuore.

“Ti scriverò”, le disse, ma mentre lo diceva sapeva di mentirle. Lei si lasciò andare sul divano e si accasciò su se stessa in preda allo sconforto. Lui si sforzò, ma senza riuscirci, di trovare le parole adatte per rianimarla.

“Lo sai che non so leggere, no?”

“Vieni…” Le si sedette accanto. “Vieni qui e ascoltami. Farò in modo di farti avere mie notizie, okay?” L’abbracciò stringendola forte a sé. “Comunque, ti ripeto che tornerò presto, te lo prometto. E allora non ci separeremo mai più.

Ora… da brava… sorridi.”

Le lacrime cominciarono a sgorgarle copiose rigandole il volto. Era un pianto silenzioso e irrefrenabile. Tanya non era come certe donne occidentali, Nino pensò, che di solito riescono a trattenerlo per non guastarsi il trucco. Gli appoggiò il capo sulla spalla per qualche minuto, e poi sollevò lo sguardo e gli sorrise asciugandosi gli occhi con un fazzoletto. Ma era un sorriso stentato, velato dalla tristezza, sul punto di trasformarsi in un’altra crisi di pianto.

Nino ritenne giunto il momento di andarsene. La baciò con delicatezza sulla bocca, così come le aveva insegnato, quindi si alzò in piedi, prese la valigia e andò alla porta. Si voltò a guardarla un’ultima volta.

“Aspettami.”

“Ti aspetterò… Per tutta la vita ti aspetterò, Nino.”

Lui uscì chiudendosi la porta alle spalle, e scese le scale uscendo in strada. Si incamminò lungo il marciapiede senza voltarsi neppure una volta, anche se sapeva che lei lo stava seguendo con lo sguardo dalla finestra.

11

sca si portò all’orecchio la cornetta del telefono posato sul tavolino da notte. Il portiere le rispose in un secondo: “Buongiorno, signorina Martinoni. In cosa possiamo esserle utili?”

“Potreste mandare su qualcuno a prendere i miei bagagli?”

“Subito, signorina.”

Ripose il ricevitore e si avvicinò al grande specchio dell’ingresso a figura intera per darsi un’ultima occhiata. Era soddisfatta del suo aspetto, e pronta per la partenza. Il biglietto aereo per Milano era nella sua borsetta in coccodrillo.

Aleggiava nella suite l’intenso profumo di quel mazzo di ventiquattro rose bianche che troneggiava al centro del tavolo ovale del soggiorno, dentro un enorme vaso di cristallo. Non avrebbe saputo dire esattamente perché, ma stranamente gli provocava una lieve nausea. Pensò che fosse per la consapevolezza che a donargliele era stato Paolo Kesler. Gliele aveva fatte recapitare di prima mattina accompagnate da un biglietto su cui aveva scritto: grazie della collaborazione, sei una ragazza meravigliosa. Lo aveva subito cestinato dopo averlo lacerato in mille pezzetti. A parte tutto, odiava le rose bianche.

Sapeva che molte signore nella cerchia dello zio Ugo trovavano Kesler interessante e divertente. Lei lo aveva considerato soso fino al momento in cui, qualche sera prima, le aveva stretto con forza la mano durante la cena nel

ristorante dell’Excelsior, a Roma. Da allora, al suo solo pensiero, provava un vago senso di repulsione, che si accentuava quando erano insieme. Aveva cercato di convincersi che esagerava, che l’uomo lo aveva fatto perché era brillo, e che pertanto non aveva inteso farle un’avance. Nondimeno la sensazione persisteva.

Quel mattino avvertiva un certo nervosismo non solo per la paura del volo, ma anche perché sapeva che doveva viaggiare con quello sconosciuto che Kesler le aveva mostrato il giorno prima. Nei pochi secondi in cui aveva avuto modo di osservarlo accendersi la sigaretta davanti all’ingresso del Riviera, non aveva riportato di lui una impressione favorevole. Ricordò quello che aveva detto a Kesler: “Non mi addentrerei con lui in un vicolo buio.”

La sera prima della partenza, non aveva potuto rifiutare il suo invito a cena nel ristorante del Riviera. Le aveva spiegato esattamente come doveva comportarsi alla partenza. Pagato il conto, sarebbe uscita dall’albergo alle undici in punto. Un taxi l’avrebbe attesa davanti all’ingresso principale. Il suo compagno di viaggio lo avrebbe trovato all’interno della vettura.

“Non ti dico di ignorarlo durante il volo”, aveva aggiunto, “ma cerca di limitare al minimo indispensabile la conversazione, e, soprattutto, fa’ attenzione a non farti sfuggire qualche indiscrezione sui nostri progetti. Se dovesse venire a conoscenza dell’uso che intendiamo fare delle foto, potrebbe andare a caccia di un maggiore offerente, una volta a Milano.”

“E se dovesse farmi qualche domanda specifica?”

“Cerca di glissare. Comunque non te la farà perché anche a lui è stato imposto di tenere la bocca chiusa.”

Nel congedarsi aveva concluso che si sarebbero rivisti a Milano tra qualche giorno, al suo ritorno da Francoforte dove si sarebbe recato nel primo pomeriggio per incontrare un grosso produttore tedesco con il quale doveva trattare la compera di diritti su una serie di telefilm da trasmettere sulle reti Mediasystem.

Bussarono piano alla porta.

“Avanti.”

Comparve un inserviente per prendere i bagagli: la Samsonite e il trolley. Lei lo seguì dopo qualche secondo, lieta di lasciarsi alle spalle quell’ambiente dall’aria pregna di quella fragranza dolciastra di rose bianche, che trovava disgustosa.

12

Dal sedile posteriore del taxi, Nino vide sca comparire sulla soglia dell’albergo seguita dall’inserviente, e lanciare uno sguardo in giro, una mano che stringeva sotto il mento il collo della giacca di zibellino per meglio proteggersi dal freddo. Quindi puntò gli occhi su di lui e i loro sguardi si incrociarono.

Fu colpito dalla sua straordinaria bellezza, e rimase quasi senza fiato nel vedere che si dirigeva proprio verso il suo taxi. Che il suo accompagnatore fosse una splendida donna, era l’ultima cosa che Nino si aspettava. Hassan non glielo aveva menzionato.

Riò mentalmente le sue istruzioni: noleggiato un taxi, dove-va are dal Riviera a prelevarlo, proseguendo poi per l’aeroporto. Lì si sarebbe presentato al banco dell’American Express a ritirare la busta sigillata al cui interno avrebbe trovato il aporto, il biglietto aereo e altro denaro come rimborso spese per la missione. Non gli aveva fornito alcun particolare sul suo compagno di viaggio, definendolo soltanto un importante personaggio che, giunti a Milano Linate, avrebbe fatto in modo di farlo are senza problemi attraverso i controlli di sicurezza e doganali.

Un incaricato sarebbe stato ad attenderlo in sala Arrivi, per condurlo a un alloggio sicuro. “E’ inutile dirti che durante il volo dovrai porre la massima attenzione a non farti sfuggire inavvertitamente qualcosa sullo scopo del tuo viaggio”, Hassan lo aveva avvertito.

“Non sono ancora del tutto rincoglionito”, era stata la sua secca replica.

L’inserviente le aprì la portiera del taxi dopo aver sistemato le valigie nel portabagagli, e lei salì a bordo mormorando un appena udibile ‘buongiorno’, ma senza degnarlo di uno sguardo. Lui rispose al saluto nello stesso modo. Lo sportello della vettura, una Volvo 740, si chiuse con un tonfo, e il tassista, un tipo incanutito e baffuto, con una grossa voglia rossa su una guancia, si girò a guardarli. “In aeroporto, suppongo…”

“Sì e in fretta, per favore”, Nino disse.

Estrasse il pacchetto delle sigarette e lo offrì a sca: “Fuma?”

“Sì, grazie.” Ne prese una e chinò la testa per accenderla dal fiammifero che lui le porse. Nino la osservò constatando che era perfetta, sia vista di profilo che di fronte. Qualcosa di quel volto gli era vagamente familiare. Si chiese se non lo avesse già visto altrove prima di allora. Aggrottò la fronte sforzandosi di ricordare, ma non riuscì a collocarlo.

Quella sorpresa non gli piaceva, e pensò che non promettesse niente di buono. Una serie di interrogativi gli affollarono la mente. Quale ipotesi formulare per spiegare il coinvolgimento di una donna in una faccenda delicata e rischiosa come quella di cui lui dove-va occuparsi? Chi era mai per essere in grado di assicurargli quel tipo di copertura che scongiurasse il pericolo di essere fermato e arrestato al suo arrivo a Linate? Perché Hassan non gli aveva precisato l’importante dettaglio che ad accompagnarlo sarebbe stata una donna? Era possibile che non ne fosse al corrente perché il suo committente – l’uomo misterioso della limousine Mercedes – glielo aveva taciuto? Non poteva escluderlo.

Cosicché, pensò, era a Milano che doveva eseguire quella missione omicida per la quale avrebbe alla fine percepito un enorme compenso. Hassan gli aveva spiegato che il nome della vittima, il luogo dove trovarla, e le istruzioni dettagliate su come colpirla, gli sarebbero state comunicate a tempo debito.

Quindi ritornava nella sua città natale, dopo quindici anni di assenza da latitante. Rifletté che questo poteva rappresentare un bel rischio, dato che di certo era ancora ricercato per l’uccisione del giovane cassiere di banca. Ma era probabile che a distanza di così tanto tempo, il caso fosse caduto nel dimenticatoio, e che l’attenzione della Polizia fosse rivolta a casi più recenti e importanti. Per di più, aveva un nuovo aporto che, se pure falso, gli assicurava una nuova identità e quindi una buona copertura.

“Se continuano questi rallentamenti”, Nino disse improvvisamente, “perdiamo l’aereo.”

Il tassista girò appena la testa e gli sorrise. “Non si preoccupi, signore, superato il prossimo semaforo il traffico si farà più scorrevole.” Nino ebbe la sensazione che la donna lo stesse osservando e si voltò a fissarla, ma lei distolse lo sguardo. Una volta gli parve che fosse sul punto di dirgli qualcosa, ma poi sembrò cambiare idea e tacque restando immobile all’estremità del sedile. Nino non faceva che fumare e guardare fuori dal finestrino. Di tanto in tanto sca girava un attimo la testa verso di lui per scoccargli un’occhiata sfuggente, quando era certa che non la stesse a sua volta guardando. Pensò che avesse un’età difficile da indovinare: probabilmente tra i trentacinque e i quarant’anni. Rimasero in silenzio per tutti i venticinque minuti del tragitto fino all’aeroporto.

“Siamo quasi arrivati”, lui disse infine senza aggiungere altro. Un’altra sua inquietante caratteristica era, sca pensò, che non sorrideva mai.

Il taxi accostò al marciapiede davanti all’ingresso delle partenze. Scesero dalla vettura, e lui pagò il tassista. Un facchino si fece avanti e prese i bagagli che, con l’uso di un carrello, trasportò all’interno dell’aerostazione non molto affollata. Per qualche minuto rimasero fermi fianco a fianco a breve distanza dai banchi di accettazione, poi sca gli chiese: “Immagino che lei abbia il biglietto…”

Lui scosse il capo. “Non ancora purtroppo, devo andare a ritirarlo al banco dell’American Express. E lei ce l’ha?”

“Oh sì, è qui nella mia borsetta.”

“Allora saprà con quale compagnia voliamo…”

“Certo, con l’Alitalia.”

Lui indirizzò lo sguardo verso i banchi di accettazione.

“Ecco… laggiù c’è il banco dell’Alitalia.” Glielo indicò con un cenno della mano. “Vada pure avanti a fare il checkin. La raggiungerò in sala partenze.”

L’addetto al banco dell’American Express, gli consegnò una corposa busta beige e gli sottopose per la firma un modulo di rice-vuta. Nino firmò come Sergio Ragazzi, il nome di fantasia che aveva concordato con Hassan. Aprì il plico strappandolo lungo il bordo con il dito infilato sotto la linguetta. Ne estrasse il aporto sottile di colore marroncino sulla cui copertina campeggiavano la scritta Unione Europea, Repubblica Italiana, con relativo logo, e in calce la

dicitura in grossi caratteri: APORTO. Lo aprì per control-larlo. Nome: Sergio, cognome: Ragazzi. Nazionalità: italiana. Data di nascita: 11 novembre 1968. Luogo di nascita. Milano. Data di emissione: 18 novembre 2005. Data di scadenza: 18 novembre 2010.

La fototessera era una delle tre che aveva dato ad Hassan qualche giorno prima. Il documento era un’ottima contraffazione, Nino pensò soddisfatto. Sapeva che Hassan era maestro nel procurare documenti falsi.

Esaminò il biglietto aereo: volo AZ 350 in partenza alle dodici e trentacinque da Beirut, con arrivo a Milano Linate alle sedici e cin-quanta.

C’era infine una mazzetta di banconote da cento euro nuove di zecca tenute insieme con una graffetta. Le contò: erano trenta per un totale di tremila euro. Si infilò il tutto nella tasca interna della giacca, dopodiché afferrata la valigia si diresse al banco di accettazione dell’Alitalia.

Di lì a poco, superati i controlli di sicurezza, fece il suo ingresso nell’ampia sala partenze, la carta di imbarco infilata nel taschino della giacca. Vide sca seduta su una poltrona intenta a sfogliare la rivista femminile Donna Moderna, che si era portata dietro dall’albergo. Le si avvicinò, dicendo: “Prendiamo qualcosa da bere?”

“Oh, sì, grazie. Stavo appunto per chiederglielo.” Si alzò e lo seguì al bar.

Lei ordinò un whisky e soda, e lui un doppio brandy Vecchia Romagna.

“Dovremmo affrettarci”, lui disse. “Il nostro volo potrebbe essere annunciato da un momento all’altro.”

“Mi meraviglierebbe che non ci fosse un po’ di ritardo”, lei replicò. “Credo che potremo consumare il nostro drink con tranquillità.” Prese una lunga sorsata. “Vede…”, disse sollevando il bicchiere tozzo, “…non vorrei darle l’impressione che sono dedita all’alcol… Bevo sempre qualcosa di forte prima di ogni volo, tanto per farmi coraggio. Sono una fifona.”

“Sicché ha paura di volare…”

“Purtroppo.”

“Viene spesso a Beirut?”

“No, questa è la prima volta. E lei ci abita, immagino...”

“Sì, da un paio di anni.”

“Le piace?”

“Moltissimo. E’ migliore di tante altre città del Medio Oriente… La gente è cortese, disponibile.” Bevve l’ultimo sorso di brandy. “Con denaro a sufficienza ci si può vivere bene e comperarsi qualsiasi cosa.” Fece una pausa. “Anche la gente.” A lei parve di cogliere in quell’affermazione un che di allusivo, ma non

disse niente. Lui fece schioccare due dita all’indirizzo del barista e indicò col pollice verso il bicchiere per farsi versare un altro doppio brandy.

“Abbiamo davanti a noi un volo di oltre tre ore. Stia attento a non ubriacarsi.” Per la prima volta lo guardò sorridendogli.

“Non c’è problema, non mi ubriaco mai”, la rassicurò, anche se cominciava ad avvertire un certo tepore scaldargli lo stomaco. Mandò giù il secondo brandy d’un fiato, e subito dopo disse: “Ecco… annunciano il nostro volo: uscita sette. La prego… finisca il suo whisky e andiamo.” C’era una leggera traccia autoritaria nella voce.

Lei ubbidì e si diressero ai varchi d’imbarco.

Chiunque fosse che aveva fatto le prenotazioni, si era premurato di richiedere una assegnazione dei posti che risultasse loro il più conveniente possibile. Erano stati sistemati sui due sedili affiancati che costituivano la prima fila della business class, in modo da garantire una certa privacy. Lui la aiutò a sfilarsi la giacca di zibellino, che sistemò con cura insieme al trolley nella sovrastante cappelliera. Si sedettero e allacciarono le cinture. Nino trasse di tasca il pacchetto delle sigarette e glielo porse.

“Non si può fumare”, lei disse sollevando lo sguardo al pannello degli indicatori sopra di loro. “Il segnale è .”

“Oh, mi scusi non me n’ero accorto,” disse, e subito aggiunse: “Non viaggio mai in business class. Vedo che è abbastanza comoda.”

Lei non disse nulla.

Non era certa che le pie la presenza fisica così ravvicinata di quell’uomo. Trasudava una sorta di magnetismo difficile da ignorare. Che fosse positivo o negativo non era ancora in grado di stabilirlo. Puzzava di fumo, e la sua massiccia corporatura riempiva quasi del tutto la poltroncina, costringendola a muoversi con cautela per non toccarlo. Gli osservò la grossa mano posata sul bracciolo: aveva il dorso ricoperto di folta peluria e rigato da grosse vene. Dava la sensazione di una grande virilità.

Il Mac Donnel Douglas Super 80, cominciò a rullare dirigendosi lentamente verso la pista di decollo, all’inizio della quale si fermò in attesa del via libera dalla torre di controllo.

Il rumore dei due turboreattori aumentò di intensità fino a raggiungere il massimo della potenza, e improvvisamente l’aeromobile partì di scatto avventandosi sulla pista a velocità crescente. sca si fece il segno della croce e chiuse gli occhi, le mani strettamente intrecciate in grembo.

“E’ davvero spaventata?”

Aprì gli occhi e vide che lui la stava osservando, il volto inespressivo.

“Mi succede soltanto al decollo.”

Il Super 80 si staccò da terra iniziando la sua ascesa nel cielo plumbeo, senza sforzo apparente. Lei guardò fuori dal finestrino. La vista era mozzafiato: il paesaggio miniaturizzato scorreva lentamente sotto di loro. Dopo qualche minuto l’aereo perforò la coltre di nubi sopra Beirut, subito investito dai raggi del sole. Continuò a salire ancora un po’ prima di stabilizzarsi nel volo di crociera.

“Ora sto bene”, sca disse sospirando di sollievo mentre cominciava a sfogliare distrattamente la sua rivista. Tentò di leggere un articolo, ma ci rinunciò: la concentrazione le risultava difficile. Il suo compagno di viaggio teneva il sedile reclinato, gli occhi chiusi come se dormisse. Era stato facile per Kesler dirle che dove-va parlargli il minimo indispensabile. Quello era il genere di personaggio difficile da ignorare. Persino ora che dormiva, ne percepiva forte l’influenza.

Ma, si chiese, era certo che fosse veramente l’uomo che Kesler le aveva descritto? Chissà che non le avesse mentito sul suo ato, e che pertanto non fosse credibile quella storia delle fotografie, che le aveva raccontato. Il dubbio la colse, e quel senso di diffidenza che da sempre provava nei confronti del braccio destro di suo zio, le riaffiorò con prepotenza.

Si girò un attimo verso il suo compagno di viaggio, e si accorse che aveva smesso di dormire: gli occhi spalancati la stavano fissando facendola sentire a disagio. Ma non era la prima volta che un uomo la scrutava in quel modo, quasi come un entomologo studia una bella farfalla variopinta.

“Non mi ha ancora detto il suo nome”, le disse.

“sca. Mi chiamo sca Martinoni. E lei come si chiama?”

“Sergio Ragazzi.” Per la prima volta, un lieve, stentato sorriso gli affiorò sulle labbra. “Mi sbaglierò, ma ho la strana sensazione di averla già vista da qualche parte.”

In quel momento una hostess molto alta, capelli lunghi e biondi, occhi verdi, comparve dal fondo del corridoio e si avvicinò a loro sorridendo. Disse:

“E’ un piacere e un onore averla a bordo, signorina Martinoni. Ecco il menù per la cena.” Poi rivolta a entrambi: “Prendono qualcosa da bere?”

“Champagne”, risposero all’unisono.

La hostess riprese il cammino.

Nino si voltò a guardare sca con fare interrogativo. “Come mai la conoscono?” Lei non rispose subito, ma si mise a osservarlo come un oggetto di antiquariato, e meditasse se acquistarlo o meno. “Senta Sergio… lei la guarda mai la televisione?”

“No.” Fece una smorfia. “Dovrei vergognarmi a dirlo, ma non ne posseggo una. Non posso permettermela”

“Dato che è italiano legge mai giornali o riviste del nostro Paese?”

“Abbastanza di frequente leggo il Corriere della Sera. Mi piace tenermi informato su quello che accade in Italia. Lo compero in una edicola specializzata in giornali stranieri, ogni volta che capito in centro… a Beirut.”

Lei ebbe un sorriso ironico. “Allora è probabile che qualche volta abbia visto la mia foto sul quel quotidiano o letto qualche articolo nella pagina dello spettacolo, solo che ora non lo ricorda.”

Lui si dette una manata sulla fronte. “Oh, sì, ora ricordo. Lei è nientemeno che la famosa attrice nipote del magnate delle televisioni… Non è vero?”

“Proprio così.” Bevve un sorso dello champagne che la hostess aveva appena servito loro.

Lui scosse lentamente il capo. “Oggi è il mio giorno fortunato. Chi lo avrebbe detto che doveva capitarmi un simile onore.”

Ma ora la sua mente prese a mulinare freneticamente sforzandosi di pensare con chiarezza. Non conosceva ancora l’identità dell’uomo che doveva colpire, ma molto probabilmente aveva scoperto il mandante dell’omicidio.

Poteva facilmente succedere che un personaggio importante e potente come Ugo Martinoni, pensò, decidesse di sbarazzarsi di qualcuno che gli faceva ombra, lo infastidiva e la cui esistenza poteva mettere a repentaglio il suo futuro e i suoi interessi. Da qui l’esigenza di reperire un killer per toglierlo di mezzo. Ma la domanda era: lei era sua complice in quella faccenda? E ancora: era forse suo zio quel misterioso personaggio che stava nascosto nella Mercedes mentre lui si esibiva nel test di mira?

“Per quanto sia inutile chiederlo…”, lui riprese, “… immagino che sia una donna molto ricca…”

“Abbastanza.”

“Le dirò che l’ho capito nello stesso momento in cui ha messo piede sul taxi, anche senza averla riconosciuta.”

“Ha doti extrasensoriali?”

“Assolutamente no. Io il denaro lo fiuto all’istante quando mi imbatto in qualcuno che ne è pieno. Ha un odore particolare, e a un poveraccio come me basta averlo annusato una sola volta nella vita perché l’olfatto se ne sia saturato. … E per sempre.” Sorrise in modo lievemente ironico. “Vive a Milano?”

“Sì, ho un appartamento in via Vincenzo Monti.”

“E’ sposata, ha i genitori?”

Glielo chiese tanto per non far languire la conversazione. In real-tà, non gliene importava granché. Gli faceva le domande senza veramente ascoltare le risposte. La vita di quella donna non gli interessava. Lui aveva la sua ragazza che lo attendeva a Beirut, e che lo amava. Tuttavia era gradevole la sensazione che avvertiva standole seduto accanto.

“Non sono sposata, né fidanzata. E non ho i genitori”, sca gli rispose. “Sono deceduti in un incidente aereo quattro anni fa.”

“Oh, mi dispiace. E’ forse per questa ragione che ha una certa fobia per il volo?”

“Può darsi. L’aereo su cui viaggiavano esplose in Messico, a pochi minuti dal decollo.” Lo guardò interrogativamente. “E di lei che cosa mi dice? Ha una famiglia?”

“No. Sono orfano, e non ho mai conosciuto i miei genitori.” Esitò un attimo. “Ma mi dica qualcosa di più di lei.” Sembrava voler troncare sul nascere quel discorso sul suo ato e le sue origini.

“Non è che abbia molto da dirle. Sono molto impegnata. In pratica vivo tra Roma e Milano per le esigenze del mio lavoro. Quando posso trascorro del tempo con gli amici, o con mio zio nella sua villa in Brianza. Di solito nei weekend. Qualche volta viaggio con lui.”

Ora Nino la stava ascoltando attentamente.

“Non era per caso con lei a Beirut?”

Scosse il capo. “No. E’ stato un suo carissimo amico ad accompagnarmi.”

Ecco l’uomo misterioso della Mercedes, Nino pensò.

“Come mai non ritorna con noi a Milano?”

“Ha dovuto recarsi in Germania per affari.”

Lui si accese una sigaretta con aria pensierosa, e poi le porse il pacchetto dicendo. “Mi scusi la distrazione…, la gradisce?” Lei esitò per un attimo quindi la prese. Per una frazione di secondo le loro dita si sfiorarono e lei avvertì come una sorta di lieve brivido. Lui gliela accese, e quindi distolse lo sguardo. Lei riprese a sfogliare la rivista mentre fumava.

Ora Nino cominciava a vederci chiaro sulle ragioni che dovevano aver dettato l’esigenza della sua trasferta a Milano in compagnia di quella donna. Era la sua copertura, ed era quasi certo che fosse stato lo stesso Martinoni a procurargliela. Avrebbe superato insieme a lei – una celebre attrice – il controllo di polizia all’aeroporto, con il minimo rischio di essere fermato per un accurato controllo del aporto. La presenza della donna avrebbe sviato l’attenzione degli agenti dalla sua persona. Quindi, ora sapeva chi lo aveva ingaggiato, e quale fosse il ruolo della sua compagna di viaggio. Ma l’interrogativo restava: lei era complice dello zio nel suo progetto omicida, o soltanto esecutrice del suo ordine di accompagnarlo? La tentazione di saperne qualcosa in proposito era fortissima. Gli ven-nero in mente l’avvertimento di Hassan prima di congedarlo: “Attento a non aprire bocca durante il volo sullo scopo del tuo viaggio.”

Al diavolo Hassan, pensò. Decise di sondarla.

“Immagino che sia stato suo zio a chiederle di accompagnarmi in questo viaggio,

non è così?” disse a bruciapelo mentre schiacciava la sigaretta nel posacenere.

“No, lui non ne sa niente.”

“Perché?”

“Perché non lo avrebbe approvato, e sarebbe andato su tutte le furie.” Fece una pausa. “E’ stato quel suo carissimo amico a chiedermi il favore.”

Lui annuì. “Capisco. Immagino che gliene abbia anche spiegato la ragione…”

“Soltanto vagamente.”

“Vale a dire?”

“Mi ha accennato al fatto che potrebbero insorgere per lei dei problemi al controllo di polizia, che con la mia presenza saranno probabilmente superati. ”

Lui annuì di nuovo. “Non le ha per caso anche accennato al motivo del mio viaggio a Milano?”

“No, perché mio zio non lo ha informato”, lei mentì.

“E lei gli ha creduto?”

“Sì, perché so che tipo è mio zio.”

“Le spiace darmene un’idea?”

“Be’…, essendo un uomo ricchissimo e potente è abituato a impartire ordini senza darne spiegazioni.”

“Ma lei un’idea se la sarà pure fatta, o no?”

“No, e non mi interessa. Non è la prima volta che mio zio si comporta così. Ogni volta che lo fa, mi dico che deve trattarsi di questioni di affari molto importanti e delicati, su cui deve mantenere il massimo riserbo.” Chiuse la rivista e si voltò a guardarlo. “Quindi, mi sono limitata ad assecondare la richiesta del suo amico, senza chiedergli molte spiegazioni.” Nino non replicò. Reclinò lo schienale del sedile e vi si adagiò chiudendo gli occhi come desiderasse dormire. Era probabile che la giovane fosse sincera, pensò. Era più che ragionevole ritenere che, trattandosi di un piano omicida, Martinoni non lo avesse esattamente sbandierato ai quattro venti. Forse quel suo carissimo amico di cui la giovane gli aveva parlato – probabilmente l’uomo della Mercedes –, era l’unico custode del suo segreto, che gli aveva imposto di mantenere persino nei confronti della propria nipote. In fondo, rifletté, che lei ne fosse o meno al corrente era un dettaglio per lui irrilevante. Non lo era invece il successo dell’incarico, che gli avrebbe consentito di intascare i restanti cinquecentomila euro del compenso. Trasse un profondo sospiro, aprì gli occhi e le lanciò un’occhiata mentre guardava fuori dal finestrino.

Giunti a Linate, pensò, si sarebbero separati e non l’avrebbe mai più rivista.

13

L’Hotel Astra era un alberghetto di infimo ordine, composto da una quindicina di stanze e situato in una lunga strada che fiancheggia il parco Ravizza. La palazzina, inserita in un più vasto isolato, appariva negletta, la facciata malconcia fatta di pietra grigia corrosa dalle intemperie e scurita dallo smog.

La stanza al quarto piano, l’ultimo, era vacante da oltre due mesi per la ragione che, in mancanza di ascensore, bisognava salire otto rampe di scale per raggiungerla. Le altre camere erano affittate con una certa frequenza, anche se spesso a ore, soddisfacendo così le esigenze delle adescatrici notturne di cui pullulavano i marciapiedi dei dintorni e il parco.

Quando quella mattina Antonio Ragusa, originario di Napoli ma residente a Milano da oltre trent’anni, la prese in affitto per conto di un amico e per tre settimane, versando la modica cifra di duemila euro, il gestore si guardò bene dal chiedere le generalità dell’ospite, e quando sarebbe arrivato. Non fece che incassare il denaro senza battere ciglio. Conosceva Ragusa da molti anni. Sapeva che gravitava nel sottobosco della Mala Milanese, e che riusciva a vivere senza problemi grazie alle laute ricompense che riceveva per il disbrigo di commissioni per conto di grossi esponenti di certe organizzazioni criminali. Era risaputo che fosse una nullità, e di salute molto precaria. Quando lo si vedeva bazzicare bar equivoci a offrire da bere a destra e a manca, e a elargire grosse mance, se ne deduce-va che si stava occupando di qualcosa di importante e redditizio per conto di un pesce grosso.

Ragusa aveva ricevuto per posta il giorno prima le istruzioni di affittare quella stanza. Una grossa busta beige assicurata, gli era stata recapitata dal Pony Express. Conteneva il denaro, un foglio di istruzioni dettagliate su ciò che doveva fare e una fototessera che ritraeva un giovane sulla trentina. Nella tarda mattinata, prima di uscire di casa, aveva intascato la foto. Ora, mentre addentava

con gusto un grosso panino imbottito al prosciutto, in un bar paninoteca di via Marghera, rifletteva su quale fosse il mezzo più rapido e conveniente per raggiungere l’aeroporto di Linate, dove doveva eseguire l’incarico per il quale era stato ingaggiato. Consisteva nel rilevare – per poi condurlo alla camera affittata all’hotel Astra – un tizio in arrivo da Beirut con il volo Alitalia AZ 350 delle sedici e cinquanta. Era per consentirgli di identificarlo che il suo committente gliene aveva fornito una foto assieme alle istruzioni. Esaurito il suo compito, avrebbe ricevuto un compenso di ben mille euro.

Fu con la mente rivolta a cosa fare di quel denaro che uscì dal bar nel freddo pungente, dirigendosi verso l’ingresso della stazione del metrò di Wagner. Abbordò il treno in direzione di Cadorna dove avrebbe trasbordato sulla linea verde per raggiungere la stazione centrale. Lì, a pochi i, c’era la fermata degli autobus in servizio per gli aeroporti di Malpensa e Linate.

Qualche volta, quando poteva permetterselo, scommetteva alle corse dei cavalli. Un atempo come altri in cui indulgeva, che comprendevano anche le donne, la bottiglia, o entrambe contemporaneamente. Ma ora si trattava di decidere come investire mille euro in modo da farli moltiplicare, se possibile, come pani e pesci. In quel momento tutti parlavano di un cavallo favoloso di nome Mustafà che, in ottima forma, stava compiendo meraviglie. Sapeva che avrebbe corso domenica prossima all’ippodromo di San Siro.

Si accorse che il treno stava rallentando in prossimità della stazione di Cadorna, e nell’accingersi a scendere guardò l’orologio. Trasalì nel rendersi conto che si erano fatte le tre e mezzo. Dubitò che, a meno di prendere un taxi, sarebbe riuscito a giungere a Linate in tempo per l’arrivo dell’aereo. Non osava pensare alle conseguenze se avesse disatteso il suo committente. Decise di proseguire per Cordusio dove avrebbe potuto noleggiare un taxi al posteggio permanente sulla piazza, che lo avrebbe portato rapidamente in aeroporto.

Mille euro su Mustafà, pensò in preda a una certa eccitazione mentre, uscito

dalla stazione, si dirigeva verso la fila di taxi in sosta lungo il marciapiede. Oltre tutto quel nome gli piaceva. Era il nomignolo che da ragazzo gli amici gli avevano affibbiato per via del suo aspetto da orientale: carnagione scura, naso aquilino, capelli ricci. Ora, a sessant’anni suonati, gli amici gli dicevano che il suo portamento e il modo di vestire – indossava un inseparabile impermeabile chiaro, sudicio e stazzonato – richiamavano vagamente quel personaggio del tenente Colombo dei celebri telefilm, interpretato dal famoso attore italo americano Peter Falk.

Una consistente vincita alle corse dei cavalli, pensò, non gli avrebbe di certo cambiato radicalmente la vita, ma gli avrebbe fatto comodo, consentendogli di esaudire più d’uno dei suoi desideri inappagati. Avrebbe riposato per un po’ e curato meglio la sua salute cagionevole. Da dieci anni viveva con il solo polmone destro, da quando, cioè, l’altro gli era stato asportato perché invaso da un grosso tumore maligno incurabile.

Accelerò il ò verso il posteggiò, ansimando per la fatica. Quindi, rifletté di nuovo, se avesse puntato tutti i mille euro su Mustafà scommettendo otto a uno, e il cavallo avesse vinto, si sarebbe portato a casa ottomila euro. Niente male, pensò con un sorriso di autocompiacimento. E con una cifra simile avrebbe potuto…

Non riuscì a terminare il pensiero: non vide né sentì il tram che sopraggiungeva sferragliando da sinistra. Concentrato com’era su cosa avrebbe potuto fare con gli ottomila euro della eventuale vinci-ta, socchiuse gli occhi e scese dal marciapiede per attraversare la strada guardando fisso vanti a sé.

Morì sul colpo travolto dal tram. Quando il suo corpo maciullato fu estratto da sotto il mezzo pubblico, i pompieri trovarono sul selciato una fototessera il cui personaggio che ritraeva era reso irriconoscibile dal sangue che la imbrattava.

14

Il Super 80 ridusse appena la velocità e cominciò la lenta, quasi impercettibile discesa verso l’aeroporto di Linate. Era appena uscito da una forte turbolenza che aveva tenuto in agitazione gran parte dei eggeri, costringendoli a tenere le cinture allacciate. Anche sca aveva accusato un notevole nervosismo, ma ora che il viaggio volgeva al termine si sentiva sempre più rinfrancata. Quando l’aereo toccò terra con un lieve sobbalzo, la voglia di uscire all’aperto e sgranchirsi le gambe intorpidite divenne quasi incontenibile. Le era sembrato che il suo compagno avesse dormito per tutto il tempo dall’ultima volta che avevano parlato. Lei, invece, era soltanto riuscita a schiacciare un breve pisolino, dal quale si era svegliata di soprassalto con una senso di ansia che nulla aveva a che vedere con la paura di volare. Si era allora messa a studiare Nino mentre dormiva constatando che si muoveva molto poco, la testa girata verso di lei. Pensò che dovesse essere stato frutto della sua immaginazione l’impressione che fingesse di dormire, e che invece la studiasse da sotto le palpebre socchiuse, forse come per accertarsi, dall’espressione del suo volto, che non provasse disagio alcuno a stargli vicino.

Sbarcarono in silenzio dopo che lui le ebbe preso dalla cappelliera il trolley, e poi lo zibellino aiutandola a indossarlo. Una volta all’interno dell’aerostazione, si diressero, mescolati alla folla dei eggeri, verso il controllo aporti. sca aveva rinunciato a indossare gli occhiali scuri in modo da rendersi facilmente identificabile da chiunque avesse posato gli occhi su di lei. Dal chiacchiericcio che li circondava, si accorse che gran parte dei eggeri erano italiani di ritorno dal Libano, e presto cominciò a percepire sguardi interessati e di ammirazione. Rispondeva con un sorriso a tutti quelli che riusciva a intercettare.

Mentre si muovevano nella lunga coda che avanzava lentamente verso le due postazioni di polizia, una ragazzina sui dieci anni le si avvicinò porgendole un taccuino e una biro. “Sono una sua fan, signorina Martinoni…”, disse. “La guardo sempre in televisione. Posso chiederle l’autografo?”

“Ma certo, cara…” Le sorrise accarezzandole i capelli. “Come ti chiami?”

“Chiara.”

Prese la biro e il taccuino scribacchiandovi frettolosamente alcune parole e apponendovi la firma. Fu costretta a ripetere l’operazione altre quattro volte con altrettante giovani ammiratrici. Di quando in quando, c’erano brevi soste nei momenti in cui i funzionari di polizia si soffermavano a esaminare con maggiore attenzione i aporti. D’un tratto sca si voltò a guardare Nino che camminava dietro di lei, e gli si avvicinò sussurrandogli in un orecchio: “Credo sia giunto il momento di comportarci in modo da dare l’impressione che siamo insieme.” Gli sorrise simulando un pizzico di malizia.

Lui annuì. “Certo. Allora le porto il trolley, tanto per cominciare.” Ripresero a camminare fianco a fianco. A un certo punto, restavano soltanto tre o quattro eggeri che li precedevano prima della postazione.

Mentre vi si avvicinavano, Nino si accorse che uno dei funzionari girò la testa verso di loro, e che il suo volto si illuminò di un largo sorriso quando riconobbe sca. In quello stesso istante, con un gesto familiare, le posò una mano sulla spalla.

“E’ davvero un piacere vederla in carne e ossa, signorina Martinoni…”, disse il funzionario di polizia mentre prendeva il documento che gli veniva porto. “Però… onestamente mi pare che la televisione non renda giustizia alla sua bellezza. E’ molto più attraente dal vivo.”

Così dicendo aprì il aporto e lo timbrò senza neppure guar-dare la fotografia.

“La ringrazio”, gli disse sorridendo.

Ma il cuore cominciò a batterle all’impazzata quando fu il turno di Nino. Temeva che il suo aporto non asse al controllo. Se succedeva lo avrebbero fermato e forse arrestato. Il piano sarebbe fallito, e anche lei, checché ne dicesse Kesler, sarebbe rimasta coin-volta. Ma tutto filò liscio come l’olio. Al poliziotto non era sfuggito che erano insieme e in un rapporto di una certa intimità. Sbirciò appena la foto e timbrò il documento.

Al Ritiro bagagli, videro le loro valigie che già scorrevano sul nastro. Le presero e proseguirono superando senza intoppi il controllo doganale ando attraverso la sezione ‘nulla da dichiarare.’

“E’ fatta”, lei disse con un profondo sospiro di sollievo. “Ora possiamo rilassarci.”

“E’ stata brava, ha recitato alla perfezione la sua parte.” “Be’…recitare è il mio mestiere, no? Ma anche lei non è andato malaccio.” Inforcò gli occhiali da sole scurissimi. “Là fuori c’è qualcuno che la attende. Andrà con lui. Il mio compito finisce qui.”

“Posso chiederle che farà ora?”

“Anzitutto corro a casa a fare una doccia. Domattina di buon ora parto per

Cortina. Vado a sciare per il weekend.”

“Da sola?”

“No, con un’amica.”

Entrarono nella grande sala degli arrivi, ma nessuno si fece avanti per accoglierli. C’era tanta gente dappertutto. Decine e decine di eggeri appena arrivati abbracciavano i loro cari, o si dirigevano verso le porte di vetro automatiche dell’uscita. Molti, in attesa di altri voli, scrutavano i videoterminali che indicavano i prossimi arrivi in ordine cronologico. Rimasero fermi per qualche minuto, senza parlare e facendo vagare lo sguardo per l’intero salone. Niente. Nessuno sembrava minimamente interessato a loro. “Usciamo.” Lei disse d’un tratto incamminandosi verso la porta automatica scorrevole.

Sostarono sul marciapiede spaziando con gli occhi sul piazzale antistante l’aerostazione, brulicante di traffico.

“Forse il mio contatto è in ritardo per via di un contrattempo”, Nino osservò.

“E’ molto probabile. Se sta venendo in macchina potrebbe essere rimasto imbottigliato nel traffico. Non ci resta che attendere.”

Ma trascorsa un’ora senza che nessuno si fe vivo, sca cominciò ad avvertire un senso di panico, che riuscì a mitigare dicendosi che niente poteva andare storto perché Kesler aveva organizzato tutto alla perfezione, come era nel

suo stile. Osservò Nino che stava in silenzio, la fronte corrugata, il volto accigliato. Sentì la paura intensificarsi, e l’impulso improvviso di tagliare la corda lasciandolo lì solo sul marciapiede. Dopotutto, Kesler le aveva dato istruzioni di limitarsi, all’arrivo, a farlo are al controllo aporti e doganale. Dopodiché poteva andarsene per i fatti propri. Ma non si mosse.

“Non so proprio cosa pensare”, disse. “Mi era stato assicurato che avremmo sicuramente trovato qualcuno ad attenderla. Questo ritardo è ingiustificabile se non con il fatto che qualcosa di molto grave deve essere accaduto.” Estrasse il cellulare dalla borsetta. “Mi scusi, faccio una telefonata.” Si allontanò di qualche o e selezionò il numero di Kesler: sentì il messaggio registrato della Tim di ‘non raggiungibile.’ Non ne fu sorpresa.

Lui le si avvicinò e la prese per un braccio dicendo: “Non saprei cosa fare né dove andare da solo. Ora è lei il mio contatto.” Fece una pausa. “Credo che dovrà ospitarmi…”

“No!” sca si liberò con uno strattone. “Non può venire a casa mia. Non se ne parla neanche.”

“Non ho altra scelta”, lui replicò in tono duro. “Sono qui per conto di suo zio e perché lei mi ci ha portato. Chiunque sia che doveva venire a prendermi, immaginerà che sono rimasto con lei e saprà dove rintracciarmi.” Tacque per alcuni secondi. “Quindi, le chiedo di nuovo di ospitarmi senza che debba essere costretto a usare le maniere forti per convincerla.”

Questa volta lei non replicò.

“Venga… prendiamo un taxi, lui aggiunse prendendola di nuovo per un braccio. La condusse, quasi trascinandola insieme ai bagagli, verso la lunga fila di taxi in sosta lungo il marciapiede.

Non scambiarono neppure una parola nella mezz’ora del tragitto verso il centro. Nino non fece che guardare fuori dal finestrino. La Milano dei suoi ricordi di quindici anni prima, gli sembrò molto cambiata. Si sentiva quasi un straniero.

Lei avvertì il bisogno improvviso di scoppiare in lacrime, ma riuscì a trattenersi a difesa della propria dignità. Doveva mantenere un contegno. Ma era come se la sua vita si fosse trasformata di colpo in un incubo. Non riusciva a capacitarsi che una cosa simile stesse accadendo proprio a lei. Il trovarsi alla mercé di quell’uomo che di fatto l’aveva sequestrata e che non conosceva affatto, la terrorizzava.

Di nuovo fu colta dal sospetto che non fosse realmente quel personaggio che Kesler le aveva descritto. Telefonare allo zio Ugo per chiedergli di correre in suo aiuto era fuori discussione: d’ora in poi lui non l’avrebbe mai persa di vista neppure per un secondo.

All’inizio della sua relazione amorosa con Pietro Mattei sette anni prima, sca aveva affittato un sontuoso bilocale sull’attico di un signorile edificio moderno di otto piani che sorgeva in via Vincenzo Monti. Vi avevano convissuto felicemente per due anni. Era stato il loro nido d’amore fino a quando avevano litigato e si erano separati. Da allora, lei ne aveva sempre fatto un uso molto saltuario come pied-à-terre quando era a Milano, e non risiedeva nella villa di Martinoni.

Giunti a destinazione, Nino pagò il taxi e si occupò delle valigie; quindi entrarono nella grande hall deserta dello stabile dirigendosi agli ascensori.

sca premette il pulsante di chiamata.

“A proposito…”, lui disse a bruciapelo mentre l’ascensore saliva lentamente, “… non gliel’ho ancora chiesto, ma immagino che viva da sola…”

“Se non vivessi da sola, di certo ora lei non potrebbe usare la forza per costringermi a ospitarla.”

“Fossi in lei, non ne sarei del tutto sicura”, lui replicò con una smorfia. Poi aggiunse: “E la pianti di guardarmi in quel modo, come se temesse che voglio violentarla. Non desidero restare con lei un minuto di più dello stretto necessario.”

Il bilocale era molto ampio e luminoso, composto da una camera da letto, un vasto soggiorno, una cucina abitabile e un bagno. All’interno del soggiorno, Nino fu colpito dalla preziosità di alcuni mobili antichi, ma tutto l’arredamento aveva il tocco inconfondibile dell’intenditrice, e da esso traspariva tutta l’agiatezza in cui sca viveva. Un ampio divano in pregiata pelle marrone era affiancato da due poltrone. Un’enorme libreria piena di volumi pregiati di grosso formato, occupava gran parte di una parete. Al centro della sala, un tavolo rotondo in noce collocato sopra un pregiato tappeto orientale, era cosparso di giornali, riviste di moda e di spettacolo, monografie. Numerosi quadri d’autore erano appesi tutt’intorno alle pareti. Nino non aveva mai visto un appartamento come quello. Oltre tutto era caldo e accogliente.

“Che alloggio magnifico!” non poté fare a meno di esclamare. “Complimenti! Immagino che lei debba spendere una fortuna in quadri…” Si avvicinò a una parete e stringendo gli occhi si mise a studiare alcuni dipinti a olio, lo sguardo colmo di interesse. Si soffermò più a lungo su un nudo di donna.

“Quello è un Guttuso”, lei disse. “Lo conosce?”

Lui scosse il capo. “No, mai sentito, ma il quadro e stupefacente.”

“Si intende di pittura?”

“No, purtroppo. Ma mi piace.” Tacque per un istante. “D’altra parte credo che non bisogni essere un esperto per capire che gli autori di queste opere devono essere dei geni.”

Lei non fiatò, ma fu gradevolmente sorpresa nel notare che quell’uomo un po’ grossolano, ruvido e probabilmente poco colto, rivelasse una certa sensibilità artistica.

“Perché non mi mostra il resto dell’appartamento?

“Certo. Venga… da questa parte c’è la cucina.”

Entrarono in un ambiente molto ampio e soleggiato che dava su una veranda. L’intera parete di destra era occupata da elettrodomestici e piano di lavoro. Sopra e sotto, c’erano pensili e mobiletti in formica color crema. Al centro, il lavello di acciaio. Accostato a una parete c’era un ampio tavolo quadrato di legno, attorniato da quattro sedie. L’ordine e la pulizia regnavano sovrani, come del resto ovunque Nino posasse lo sguardo. Osservò tutto annuendo con aria di apprezzamento. Pensò a quella maleodorante stamberga in cui viveva con Tanya

a Beirut. Se la missione si concludeva con successo, avrebbe potuto acquistare da qualche parte un alloggio simile a quello, o perfino più grande, dove andare a vivere con Tanya.

Entrarono in camera da letto. Anche questa era molto spaziosa, con una portafinestra scorrevole a doppi vetri che dava accesso a una terrazza piena di vasi di terracotta traboccanti di piante e arbusti. Al centro, troneggiava un grande letto matrimoniale a due piazze, affiancato su ciascun lato da un comodino e una poltroncina rivestita di raso verde.

Addossato a una parete di fronte al letto, un comò con cassettiera sovrastato da un grande specchio ovale.

“Accipicchia che lettone!” lui esclamò meravigliato. “E’ davvero enorme.” Esitò un attimo. “Non mi dica che ci dorme sempre tutta sola…, senza compagnia.” Ma si rese conto di aver commesso un errore non appena quelle parole gli erano uscite di bocca. In un lampo lo sguardo della giovane divenne severo. Alzò di scatto il capo e lo fissò negli occhi avvampando come avesse ricevuto uno schiaffo. Strinse le labbra e respirò profondamente attraverso le narici. Nino pensò che quell’espressione indispettita la rendesse ancora più attraente. Disse con tono freddo e distaccato: “Per chi mi ha preso? Non le permetto di insultarmi…”

“Mi scusi non intendevo farlo… Ma considerato che lei è una donna stupenda… davo per scontato che…”

“…che non potrei non avere amanti a bizzeffe che transitino a turno nel mio letto. Non è così?”

Le sorrise conciliante dicendo: “Le chiedo di nuovo scusa… La mia era soltanto una battuta, non intendevo...”

“Offendermi? Invece lo ha fatto eccome. E’ andato giù pesante, mi ha punto sul vivo.”

Rimase in silenzio tenendo lo sguardo duro puntato alla finestra, le braccia conserte. Lui pensò che era stato sciocco e incauto nel pronunciare quelle parole, che lei aveva reputato offensive. Avevano reso più precario il suo rapporto già difficile con quella donna.

Era venuto da Beirut per uccidere un uomo che non conosceva e per guadagnare una somma di denaro di cui non aveva mai neppure sognato.

Ora, quel progetto che, a detta di Hassan, era stato meticolosamente studiato e organizzato, sembrava sul punto di saltare, se non era già saltato. In aeroporto non si era presentato nessuno a prelevarlo, e non era certo che il suo contatto si sarebbe mai fatto vivo.

Quindi in quel momento era fuori gioco e non sapeva che pesci prendere. Era solo con quella ragazza che mostrava ostilità nei suoi confronti, esacerbata da quelle parole che aveva appena pronunciato.

“Se proprio lo vuole sapere”, lei riprese con un tono di voce ancora pieno di risentimento, “c’è stato un solo uomo nella mia vita…, che ho amato…, alcuni anni fa.”

Lui annuì senza fiatare.

Ricordò il viaggio in aereo, e le gradevoli sensazioni che aveva avvertito nei rari momenti in cui la aveva sfiorata o persino toccata inavvertitamente. Un paio di volte lei aveva strofinato una coscia contro la sua, e si era chiesto se lo avesse fatto deliberatamente. Aveva ancora nelle narici l’intenso profumo che indossava. La aveva osservata, fingendo di dormire, da sotto le palpebre socchiuse notando che anche lei lo guardava.

E con interesse.

Aveva avuto abbastanza frequentazioni femminili nella sua vita da capire perfettamente quando piaceva a una donna. E su sca non aveva alcun dubbio: lei si sentiva molto attratta dalla sua persona, anche se faceva del suo meglio per non darglielo a vedere.

Aveva quindi bisogno di stabilire con lei un rapporto di fiducia e complicità che lo aiutasse a togliersi d’impiccio, a meno che qualcuno non si fe vivo al più presto per rimetterlo in pista, magari con l’intervento di colui che ormai considerava il suo committente: Ugo Martinoni.

Prese in considerazione il tentativo di coinvolgerla in qualche modo sentimentalmente, sì da potersi poi fidare ciecamente di lei. L’idea non gli dispiaceva, ma vista la sua suscettibilità sapeva che doveva andarci coi piedi di piombo nel farle un’avance.

“Magari non gliene importa un accidente saperlo”, disse, “ma sono lieto che lei sia una donna libera…”

“Non ne vedo il motivo”, disse ancora irritata.

La fissò intensamente, poi le si avvicinò e le posò le mani sulle spalle cercando di attirarla dolcemente a sé. “Eppure un motivo ci sarebbe…”

“Non mi tocchi!” urlò divincolandosi e facendo un o indietro. Alzò una mano e gli sferrò un violento schiaffo in faccia. “Spero che questo le basti a darsi una calmata e a convincerla che le conviene tenere le sua manacce lontane dalla mia persona”, disse a voce alta.

Nino non si scompose, lo sguardo incredulo, mentre si massaggiava la guancia arrossata. Sentì la rabbia montargli dentro mista a una lieve eccitazione erotica. “Non dovevi farlo sca, hai commesso un errore.” Era ato improvvisamente al tu, e fece per avvicinarsi di nuovo a lei. Come per difendersi, la giovane alzò di nuovo la mano per ripetere il gesto di prima, ma Nino gliela bloccò a mezz’aria afferrandole il polso e torcendoglielo dietro la schiena. Emise un gemito di dolore che le fece aprire la bocca. Lui cercò di baciargliela, ma lei gliela negò chiudendola di colpo e stringendo le labbra. “Mi lasci, maledetto!” gli gridò in faccia a squarciagola. Lui abbandonò il polso, e le cinse la vita con entrambe le braccia stringendola forte a sé come in una morsa, mentre continuava a cercare affannosamente la sua bocca. Lei prese a dargli calci negli stinchi, pugni sul petto, a scuotere furiosamente la testa e a dibattersi nel tentativo di divincolarsi. Nino pensò che non sarebbe riuscito a domarla, ma improvvisamente lei sembrò sciogliersi e la sua resistenza cominciò a perdere giri. Con suo grande stupore, dischiuse le labbra rispondendo ai suoi baci, e lasciando cadere le braccia inerti lungo i fianchi in un gesto di resa.

sca si sentiva come slegata dalla realtà, slegata dal tempo. Le sembrava che quello che le stava accadendo avesse del fantastico. Ma a ricordarle che così non era, c’era il corpo nerboruto di lui che premeva contro il suo. Teneva gli

occhi chiusi, scossa a tratti da tremiti convulsi. Senza che se ne rendesse conto, le braccia le si sollevarono come mosse da una loro volontà indipendente, e gli cinsero il collo. Gli affondò le mani nei capelli, poi gli accarezzò la nuca.

Credeva di aver amato un solo uomo in vita sua, Pietro Mattei, e si era illusa che ciò che aveva provato per lui fosse il vero amore. Ora sapeva che non era neppure lontanamente paragonabile alla sconvolgente sensazione che quel giovane le stava procurando.

Fu Nino a fermarsi togliendole le braccia da intorno alla vita quando ormai, senza accorgersene, erano giunti vicino al letto. Ancora qualche secondo e avrebbe potuto spingervela sopra.

Ma decise di non farlo.

Pensò che per il momento gli bastava la conferma che la sua intuizione di esserle tutt’altro che indifferente, fosse fondata. Forse ora poteva fidarsi di lei.

“Ora sappiamo almeno quello che tutt’e due desideriamo”, le disse. “Sarei potuto andare fino in fondo, ma ho preferito non farlo. E non lo farò, almeno per il momento.”

Lei non replicò, ma si diresse verso il soggiorno invitandolo a seguirla con un cenno del capo. Aveva il viso arrossato, e macchiato dal mascara disciolto da alcune lacrime di commozione che non era riuscita a trattenere.

“Credo sia il caso di bere qualcosa”, disse mentre, davanti a uno specchio, cercava di ricomporsi stirandosi la gonna con le mani e ravviandosi i capelli in disordine. Si ò un fazzolettino di carta sul volto per rimuovere le macchie di mascara.

“E’ un’ottima idea.” Nino si accomodò sul divano.

Lei si avvicinò a un mobile bar addossato a una parete accanto alla porta. “Il solito doppio brandy?”

“Sì, grazie.”

Mentre si affaccendava con bicchieri e bottiglie, improvvisamente gli disse: “Perché ti sei fermato?” Anche lei era ata al tu.

Lui ci rifletté sopra prima di rispondere: “Ho pensato di dimostrarti che, checché tu ne pensi, sono un gentiluomo e non voglio approfittare di te. Ma anche che sono in grado di ottenere le cose che desidero…, nel momento in cui le desidero.” Fece una pausa. “Sta’ tranquilla non succederà più, salvo che tu non lo voglia vera-mente.” Lei non fiatò, ma si voltò e andò a sedersi accanto a lui sul divano porgendogli il doppio brandy. Poi prese a sorseggiare il whisky e soda che si era versato.

Disse: “Come ti ripeto, ho avuto un solo uomo nella mia vita, e pertanto mi sono sentita offesa dalla tue parole. Ecco perché ti ho colpito. Spero vorrai perdonarmi.”

Lui alzò appena le spalle per minimizzare.

sca si chiese se non fosse stato un errore cedergli subito, mostrandogli così tutta la sua debolezza. Forse non avrebbe dovuto permettere che succedesse. Se Nino non si fosse fermato in tempo, avrebbe finito per concedersi totalmente.

Avrebbe dovuto avvertire rabbia e indignazione per il suo comportamento, ma così non era. Si sentiva, invece, piacevolmente confusa e frastornata. La coerenza che da sempre la contraddistingueva non le consentiva di mentire a se stessa.

Aveva risposto ai suoi baci perché l’uomo le piaceva moltissimo, e se in quel momento l’avesse ripresa tra le braccia, sarebbe stato il benvenuto.

Rimasero in silenzio per qualche tempo, poi Nino disse: “Esco per una decina di minuti a comprare qualcosa da mangiare.” Depose il bicchiere vuoto sul tavolino.

Lei lo fermò con un gesto. “Non ti preoccupare, ci penso io a cucinare qualcosa.” Parve riflettere. “Manco da un pezzo e pertanto il frigo è pressoché vuoto, ma dovrei avere degli spaghetti e tutti gli ingredienti per una carbonara. Che ne dici?”

“Dico che è un’ottima idea, non ne mangio da un secolo.” “Potremmo annaffiarla con dell’ottimo Barolo. Devo averne una bottiglia da qualche parte.”

“Magnifico, è il mio vino preferito…”, lui disse con un lieve sorriso.

In cucina, sca chiuse la porta e vi si appoggiò con le spalle. Le gambe non avevano smesso del tutto di tremarle per la forte emozione. Pensando a lui si massaggiò il polso anche se non restava traccia della sua stretta. Aveva un corpo massiccio come una fortezza inespugnabile.

In quel momento pensò a Pietro Mattei e cercò di visualizzarne mentalmente il volto, ma si accorse che non era più nitido come una volta. A quell’immagine sfocata si sovrapponeva, con prepotenza, quella nitida di Nino, dallo sguardo straordinariamente penetrante. Al pensiero di come aveva ceduto agli inganni e alle lusinghe con cui il suo ex era riuscito per due anni a portarla a letto, avvertì un senso di rabbia per se stessa. Acqua ata, mormorò, mentre, scostandosi una ciocca di capelli davanti agli occhi, apriva lo sportello di un pensile per prendere gli spaghetti.

15

Quando la sera prima Paolo Kesler si era congedato da sca, aveva omesso deliberatamente di dirle che prima di recarsi a Fran-coforte per affari, sarebbe ato da Parigi. Lì doveva occuparsi in gran segreto di qualcosa che non aveva niente a che fare con la sua carica di presidente di Mediasystem. Era sceso al Ritz dove ora, appena giunto, si stava godendo una cena eccellente nel rinomato ristorante dello stesso albergo. Stanco del viaggio, andò a dormire più presto del solito, convinto com’era dei poteri rinvigorenti di un lungo e tranquillo sonno. Il giorno dopo uscì nella tarda mattinata per fare un eggiata lungo il Boulevard Saint-Germain. Quindi raggiunse il quartiere di Lebrun per ammirare le splendide vetrine dei negozi di antiquariato. Non resistette alla tentazione di acquistare uno splendido pezzo di inizio Ottocento: un mobiletto di squisita fattura, da collocare in bella vista nel soggiorno del suo sfarzoso appartamento di via Montenapoleone a Milano. Diede disposizioni per l’immediata spedizione. Era un grande estimatore della maestria artigianale se del diciannovesimo secolo.

Nella tarda serata, noleggiò un taxi per farsi portare in una strada nelle immediate vicinanze della famosa Rue St Honoré. Scese davanti a una graziosa palazzina di tre piani fine Ottocento, dalla facciata di mattoni rossi con un imponente portone di ingresso, e suonò il camlo.

Fu fatto accomodare in un salotto verde bottiglia arredato con una certa opulenza. Addossati a una parete c’erano una scrivania Luigi XVI e una libreria. Sotto una grande finestra, era collocato un divano di velluto marrone affiancato da due poltrone. Una domestica prese in consegna cappello e cappotto, e lo pregò gentilmente di attendere. Di lì a poco la porta si aprì e comparve una piacente signora sulla cinquantina, dal portamento pavoneggiante. Indossava un elegante abito nero che le scendeva diritto fino a lambire la punta delle scarpe. Il volto attraente ma pallido, dagli occhi scuri, era atteggiato in un accogliente sorriso.

“Buona sera e benvenuto, monsieur Kesler. La aspettavamo.”

“Buonasera Madame Lacroix. E’ un piacere rivederla.” Prese la mano che lei le porse e si chinò a sfiorargliene il dorso con le labbra.

“Le ho riservato una camera, come mi aveva chiesto. Una delle migliori. Ma non desidera, prima, dare un’occhiata alle ragazze?”

“D’accordo.”

Gli fece strada fino all’interno di un grande salone tinteggiato di rosa. Sedute lungo una parete, c’erano non meno di quindici giovanissime donne fantastiche, per i gusti più esigenti e raffinati: brune, bionde, rosse, asiatiche, africane, sanguemisto. Tutte sfoggiavano abiti di famosi stilisti.

Kesler le studiò tutte a una a una. Le ragazze lo guardavano a loro volta e gli sorridevano. Una splendida creola, con una percentuale prevalente di sangue della razza nera, attirò la sua attenzione. Era molto alta e slanciata, occhi grandi e labbra prominenti, capelli lunghi e ricci, volto dai lineamenti molto regolari a dispetto della razza. Inclinò il capo di lato rivolgendogli un sorriso ammiccante.

“Quella dovrebbe andar bene”, Kesler disse indicandola alla maitresse, che le fece cenno di avvicinarsi. La giovane si alzò in piedi e li raggiunse in fretta. Vista da breve distanza, era ancor più apprezzabile. Aveva una figura spettacolare: grandi seni che quasi traboccavano dalla scollatura, e una vita strettissima. L’abito lungo fatto di una lucida seta scura, ondeggiava frusciando

con il movimento delle anche. Kesler quasi si sentì mozzare il fiato nell’immaginarla nuda.

“Va’ pure ad attendere nella tua camera”, le disse la padrona di casa con tono autoritario. Poi si girò verso il suo ospite e gli rivolse un sorriso professionale, che rivelò una dentatura perfetta, bianca come l’avorio.

“Forse”, continuò, “è meglio che la veda come madre natura l’ha fatta prima di decidere… Non crede? Posso assicurarle che non ne andrà deluso. Si chiama Jeanette, ed è una ragazza davvero affascinante, allegra e divertente, molto colta.” Fece una pausa. “Prego… monsieur Kesler…”, con un gesto regale della mano indicò una porta laterale oltre la quale la creola era scomparsa, “…da questa parte.” Kesler scosse il capo. “Lasci perdere, madame. Non è necessario. Sono certo che sarà perfetta come intrattenitrice. Ora salgo nella mia camera; potrà mandarmela tra una mezz’ora circa…”

“Come desidera.” Gli sorrise di nuovo inclinando appena il capo. “Venga, l’accompagno… Quel signore l’attende.”

Kesler entrò in un’ampia stanza lussuosamente arredata come d’altronde il resto della casa. Il grande letto di legno finemente intagliato, era probabilmente un autentico Primo Impero.

In un angolo, sotto una lampada dal lungo stelo era collocato un tavolino rotondo su cui erano posati alcuni bicchieri e bottiglie. Una bottiglia di Champagne era immersa in un secchiello colmo di ghiaccio. L’ambiente era caldo e pieno della fragranza dei fiori freschi di cui erano colmi alcuni vasi di vetro posati sul comò antico.

C’era un uomo seduto su una poltrona accanto al tavolino. Sorseggiava un gin e quando vide Kesler ripiegò la rivista Paris Match, che stava leggendo. La nube di fumo azzurrino delle Gauloise lo avvolgeva come un alone nella luce vivida della lampada.

Era molto più anziano di Kesler, forse sulla settantina, di aspetto rude e decisamente sovrappeso. Il volto, paffuto e rubizzo, esibiva un cospicuo doppio mento. I capelli erano radi, gli occhi vivaci infossati in larghe occhiaie scure con grosse borse cascanti.

“Buonasera, Reynaud”, Kesler disse in un discreto se, sedendosi su una poltrona di fronte a lui.

“Buonasera, Kesler.”

L’uomo indicò le bottiglie sul tavolino. “Serviti pure, e poi vieni subito al sodo, non ho tempo da perdere.”

Il vecchio, la voce profonda arrochita dal fumo, non sembrava gradire i preamboli.

“Neanche io”, l’altro gli replicò avvertendo un brivido di eccitazione al pensiero di quello che l’aspettava dopo il colloquio.

Conosceva Reynaud da molto tempo, e lo incontrava di frequente. Pertanto sapeva che cosa poteva attendersi da lui. Lo detestava per l’uomo volgare e

brutale che c’era in lui, ma lo rispettava perché ne ammirava la mente brillante nelle cose che faceva. Stappò la bottiglia di Champagne e ne riempi un calice per tre quarti.

“Allora…”, Reynaud lo incalzò, “…comincia col raccontarmi com’è andata in Libano.”

“E’ andata benissimo. Ho trovato l’uomo di cui abbiamo bisogno, con l’aiuto di quell’Hassan”, disse. “Farà esattamente ciò che vogliamo. L’ho visto all’opera, e come cecchino credo sia al top della categoria. Sono certo che non fallirà il bersaglio. Sono riuscito a convincere la nipote di Martinoni ad accompagnarlo a Milano per facilitargli, con la sua presenza, il aggio al controllo aporti e doganale. Sono partiti per Linate ieri nel primo pomeriggio. Quindi il nostro piano procede come da programma.”

“Come si chiama?”

“Sergio Ragazzi è il nome che ha scelto per il aporto, ma Nino Salvo è quello vero.”

“Dov’è ora?”

“Al sicuro nella stanza che gli ho fatto prenotare in un piccolo albergo. E’ in attesa che lo contatti non appena ritornerò a Milano. Lo farò per telefono.” Si portò il calice alle labbra e bevve un sorso di Champagne.

Il vecchio annuì soddisfatto e si accese una sigaretta; tossì convulsamente dopo la prima boccata. “E sul fronte politico in Italia, le cose come vanno?”

“Come previsto. Martinoni annuncerà a giorni il suo ingresso in politica nella coalizione di centrodestra, proponendosi come candidato alla Presidenza del Consiglio. Lo farà servendosi di una delle sue tre reti televisive, naturalmente.”

“Lo accetteranno?”

“Lo hanno già fatto, anche se non pubblicamente.”

“Che mi dici, invece, del centrosinistra?”

“I sondaggi degli ultimi giorni danno i partiti della sinistra estrema in fortissima crescita di consensi. Da qualche giorno circolano indiscrezioni sull’elevata possibilità che Rosario Mancuso – un esponente di spicco del partito comunista –, potrebbe essere eletto candidato premier della coalizione, alle prossime Primarie. Un governo a guida comunista, in caso di vittoria elettorale, sarebbe il primo in assoluto nella storia della Repubblica, con tutte le intuibili conseguenze.”

Reynaud annuì sorridendo con aria saputa. “Ne sono al corrente. Ma questa è una ragione in più perché tu debba impegnarti affinché il nostro progetto vada in porto.”

“Sta’ tranquillo che andrà tutto bene.” Ebbe un attimo di rifles-sione. “Questo

delitto solleverà grande scalpore in tutto il mondo soprattutto per il contesto plateale in cui sarà commesso. Avrà enorme risonanza, non dico come l’attentato al Papa, o l’assassinio dei fratelli Kennedy e di Martin Luther King, ma quasi.”

“Sì, ma si realizzerà soltanto se tu farai bene e fino in fondo la tua parte.”

Se Kesler detestava Reynaud, l’altro lo ricambiava con lo stesso sentimento, se non peggiore. Il se quasi lo odiava e la sua presenza lo irritava. L’acuto sentore del suo costosissimo dopobarba lo disgustava. Risentiva la sua eleganza raffinata, gli abiti tagliati su misura, ma, soprattutto, la sicurezza di sé che sempre ostentava. Lui, a parte le grandi doti intellettive, aveva un aspetto repellente. Era grasso e sgraziato, arrogante e aggressivo con i suoi subordinati, quanto l’altro era affascinante e accomodante. Non era raro che si punzecchiassero.

“Tu sai che faccio sempre bene il mio lavoro”, Kesler lo rimbeccò. “Citami un sola volta in cui ho sbagliato.”

“E’ vero…”, fece una smorfia. “Ma c’è sempre una prima volta per tutto.” Si tolse una briciola di tabacco da un angolo della bocca. “A proposito della Martinoni… sei proprio sicuro che l’abbia bevuta la bufala delle fotografie?”

“Più che sicuro. Ma anche suo zio, se è per questo.” Ridacchiò. “Sono riuscito, con qualche difficoltà, a convincerla ad accompagnare il nostro uomo a Milano propinandole la storiella che, nel procurarsi le foto, avrebbe commesso soltanto il lieve reato di sfruttamento della prostituzione. Prova a immaginare quale sarebbe stata invece la sua reazione, se le avessi detto che si tratta di un killer prezzolato che sarà da noi incaricato di commettere un omicidio di cui suo zio sarà accusato di essere il mandante.” Rise divertito.

“Martinoni…”, il se mormorò quasi a sé stesso con un risolino ironico. “Ora prova tu a immaginare come reagirebbe se scoprisse che sei tutt’altro che il suo migliore amico.”

Kesler sorrise. “Ormai sono quindici anni che mi considera tale, e che mi percepisce come l’unica persona al mondo di cui può veramente fidarsi.”

“Ne sei assolutamente certo?”

“Assolutamente. Per me stravede, è convinto che opero esclusivamente nel suo interesse.”

“Dubito che possa durare in eterno. Metti che un giorno o l’altro tu faccia qualche o falso che potrebbe smascherarti.”

Kesler fece spallucce, dicendo:

“E’ molto difficile, ma in una tale evenienza, saprei eclissarmi un secondo prima che accadesse.” Si interruppe. “Dispongo di risorse più che sufficienti per sarmela alla grande per il resto dei miei giorni in qualche sperduta località esotica del Globo terraqueo.”

Reynaud si mosse sulla poltrona girandosi verso il tavolino per versarsi dell’altro gin. Si schiarì la gola.

Disse:

“Un vittoria del centrosinistra in Italia alle prossime elezioni politiche, con un uomo come Mancuso a capo del governo sarebbe un grande successo per il nostro movimento.”

“Lo conosci bene?”

“Altroché. E’ un comunista doc.” Bevve un sorso di Gin. “Vedi Kesler… se fosse nominato presidente del Consiglio in una coalizione di centrosinistra che vincesse le elezioni, il governo italiano sarebbe percepito in tutto il mondo come fortemente orientato verso l’ideologia marxista-leninista, e, come tale, caratterizzato da quelle tendenze tipiche di un governo totalitario.” Fece una pausa. “E’ questo che vogliamo, no?”

Kesler annuì, dicendo:

“Non posso che convenirne.”

“E non è tutto”, il se riprese. “Avrebbe un effetto trascinante – o domino, se preferisci – in tutti quei paesi europei, ma non solo, in cui, dopo la caduta del Muro, il comunismo è rimasto soltanto sopito sotto la cenere, ed è pertanto pronto a riaccendersi.” Tacque fissando Kesler, che annuì di nuovo, dicendo:

“Con la conseguenza che negli anni a venire potremmo assistere al restaurarsi di

governi comunisti in molti paesi europei?”

“E’ possibile. D’altro canto, questo è l’obbiettivo primario che la nostra organizzazione intende perseguire. Per ora in grande segretezza.”

Rimasero a lungo in silenzio a sorseggiare i drink. Poi Reynaud disse: “Hai pagato a Salvo il mezzo milione di anticipo?”

“Sì, certo.”

“In contanti, immagino…”

“No, a mezzo bonifico bancario.”

Reynaud fece una smorfia di disapprovazione. “E il regolamento del saldo?”

“In contanti, ma solo nel momento in cui saranno definiti tutti i dettagli del contratto.”

“Ti sei per caso informato di cosa ne abbia fatto di tutto quel denaro?”

“Prima di partire ho visto Hassan il quale mi ha riferito di averlo assistito nell’apertura di un deposito presso la Bank of Beirut, con usufrutto a favore della

ragazza con cui convive.”

“Ah, sicché c’è anche una donna…”, il se si sorprese.

“Già… Alla quale lui, a detta di Hassan, sembra tenere molto.”

Reynaud si grattò una guancia, perplesso; poi disse: “Mi preoccupa la possibilità che tu ti sia lasciato dietro qualche traccia o indizio, che un indagine della polizia potrebbe far risalire a te.”

“A cosa stai pensando esattamente?” “A quel bonifico bancario.”

“Perché?”

“Perché credo che averlo usato come mezzo di pagamento sia stata una imprudenza.” Rifletté per qualche secondo. “Parliamo di una grossa somma e a qualcuno potrebbe non are inosservata. E a maggior ragione se ad averla depositata è uno come Salvo che di certo non naviga nell’oro. Siamo certi che in ato non abbia mai avuto problemi con la Polizia libanese?” Si interruppe. “Se così fosse e questa venisse a conoscenza dell’esistenza del deposito – fai caso grazie a una soffiata – potrebbe decidere di indagare sulla origine dei fondi, riuscendo a farli risalire a te.”

“E allora?” Kesler appariva imperturbabile.

“Si stabilirebbe un collegamento tra la tua persona e un pregiudicato. Saresti chiamato a dare spiegazioni sulla causale del bonifico, e magari arrestato. Senza di te il nostro piano andrebbe a gambe all’aria.”

Kesler non replicò subito, ma sorrise in modo enigmatico.

Disse: “Anzitutto il denaro proviene da un conto cifrato aperto appositamente presso una banca del Gran Cayman. Direi che è impossibile individuarne il proprietario, ma se la polizia dovesse riuscirci con una rogatoria internazionale, scoprirebbe che il conto appartiene a Martinoni.” Lo fissò. “Tu dimentichi, Reynaud, che è lui il finanziatore inconsapevole del nostro piano. Inconsapevole in quanto non immagina minimamente che lo scopo dell’esborso è decisamente diverso da quello che io gli ho fatto credere.”

Il se annuì con un sorriso di apprezzamento per ciò che aveva sentito. “L’eventuale scoperta del proprietario del conto estero”, Kesler proseguì, “costituirebbe un indizio – o meglio una prova concreta – del suo ruolo di mandante del delitto nel caso Salvo fosse arrestato dopo averlo commesso.”

Di nuovo Reynaud annuì soddisfatto schiacciando con forza la sigaretta nel posacenere, ma subito dopo se ne accese un’altra; tossì di nuovo dopo la prima boccata.

“C’è un’ultima cosa…”, disse.

“Cioè?”

“Si tratta di quell’Hassan…”

“Cosa c’è che non va con lui.”

“Non mi fido.”

“Perché?”

“Perché mi risulta che sia un losco figuro, ambiguo, e con una inestinguibile sete di denaro, come d’altronde tutti quelli che opera-no nel suo ramo.” Mandò giù un sorso di gin. “Rappresenta una minaccia per noi.”

“Non vedo come….”

“Sveglia Kesler! Usa il cervello!” Il tono di voce si alzò di un’ottava. “Chi ti dice che non cercherà di scoprire l’identità del nostro bersaglio, nella convinzione che si tratti di un personaggio illustre?” Fece una pausa e lo guardò. “E se ci riuscisse potrebbe vendere la notizia ai media. Così il nostro progetto fallirebbe.”

L’altro non batté ciglio sforzandosi di vincere la rabbia provocatagli dal contegno aggressivo del se. Disse con tono pacato: “Non credo che ne avrebbe la possibilità dato che non sa niente di niente. Non sa chi sono. Gli ho semplicemente chiesto di trovarmi qualcuno in grado di sparare con grande precisione. Tutto qui.”

“Tutto qui, eh?” Il se sorrise sardonico. “Spremi le meningi, Kesler, c’è qualcosa di importante che ti sfugge.”

“Vale a dire?”

“Il fatto che tra lui e Salvo ci sia una relazione la cui natura non conosciamo bene. Potrebbero essere molto vicini – anche se non proprio amici – visto che il libanese si è adoperato presso la Bank of Beirut per fargli aprire il deposito. Ora… chi ti dice che non manterranno i contatti mentre Salvo è a Milano. Vuoi che questi non si sia portato dietro un cellulare?”

Kesler non replicò, e l’altro proseguì: “Lasciami formulare una ipotesi per quanto infondata possa apparire. Dunque… a momento venuto noi riveliamo a Salvo il nome dell’uomo da colpire, il luogo, la data e le modalità di esecuzione dell’attentato, e gli versiamo il saldo di mezzo milione di euro del compenso. Lui riferisce tutto ad Hassan; magari lo fa in buona fede. Questi fa dell’informazione l’uso a scopo di lucro che prima ho ipotizzato. La notizia che il grande personaggio pubblico potrebbe essere vittima di un attentato, fa il giro del mondo, e, naturalmente, il nostro progetto va a farsi benedire. Che ne dici?”

“Che la possibilità è remotissima.”

“Ma non inverosimile. Tu sai che è politica della nostra organizzazione non sottovalutare né trascurare il benché minimo rischio. Quindi, darò istruzioni affinché Hassan venga soppresso il prima possibile.” Si fermò per qualche secondo a meditare. “E anche la ragazza. Pure lei potrebbe essere informata dal Salvo con una telefonata.” Sorrise come compiaciuto della sua idea. Aggiunse: “Melius abundare quam deficere, dice il vecchio adagio latino. Che tradotto significa ‘meglio esagerare che sbagliare.’ ”

Kesler non replicò. Il se guardò l’orologio e si alzò in piedi. “Ora devo scappare”, disse. “Arrivederci.” Si diresse verso la porta, ma prima di averla raggiunta si fermò di colpo e si girò a guardare Kesler. “Va da sé che se il nostro piano andrà in porto senza problemi, …be’ allora dovremo, come sai, occuparci anche del Salvo un minuto dopo che avrà esaurito il suo compito.”

L’altro annuì, dicendo: “Naturalmente… Quello sarà l’ultimo tassello dell’intera operazione ad andare a posto…, e che ci servirà per incastrare definitivamente Martinoni.”

Non erano trascorsi cinque minuti da quando Reynaud se n’era andato, che bussarono piano alla porta. La splendida creola comparve sulla soglia esibendo un sorriso colmo di promesse. Indossava un négligé di finissimo georgette, grazie alla cui trasparenza Kesler poté accertare che sotto non portava che un perizoma di pizzo nero.

“Accomodati”, le disse sorridendo. “Gradisci dello Champagne?”

16

Erano da poco ate le nove quando sca si alzò e indossò una comoda vestaglia da camera di raso giallo.

Per l’incessante rimuginare sugli avvenimenti del giorno prima, aveva trascorso una notte insonne. Nino si era sistemato sul divano del soggiorno da dove a tratti le erano giunti i rumori dei suoi movimenti, e il lieve russare.

La sera prima avevano cenato con l’ottima carbonara che lei aveva preparato, e bevuto moderatamente del Barolo. Non avevano conversato granché, forse a causa del disagio che provavano per quello che era accaduto poco prima tra loro. Al termine della cena, Nino aveva sparecchiato e portato i piatti sporchi in cucina deponendoli nel lavello, mentre lei era in bagno a struccarsi e a prepararsi per la notte. Entrambi si erano mossi con cautela nell’appartamento, mantenendo le distanze per evitare qualsiasi contatto fisico, anche accidentale. Di rado i loro sguardi si erano incrociati.

Prima di coricarsi, sca aveva disfatto le valigie, avvertendo il suo profumo di cui erano impregnati gli abiti, mescolato all’odore di naftalina del guardaroba del Riviera in cui erano stati custoditi. Gli aveva risvegliato il ricordo di quella breve permanenza a Beirut, che, stranamente, gli era sembrato risalisse a molto tempo addietro. Invece soltanto poco più di ventiquattrore prima, si trovava in aeroporto in procinto di partire per Milano con un uomo che non conosceva, e che aveva visto soltanto una volta di sfuggita, fuori dall’ingresso principale dell’albergo. Andò in bagno e poi in cucina per preparare la colazione. Pensò che se non fosse stato per quell’imprevisto che l’aveva costretta a ospitarlo, ora lui non sarebbe lì a dormire placidamente sul suo divano. Non che la cosa la infastidisse. Anzi...

Si ispezionò le braccia: erano visibili alcuni lievissimi lividi frutto della colluttazione della sera prima, conclusasi in quel modo inaspettato che l’aveva piacevolmente turbata.

Aprì il frigorifero che reagì con il consueto ronzio, e prese un tetrapak di latte a lunga conservazione. Ne versò in un pentolino che mise a scaldare dentro il microonde. Depose sul tavolo un pacchetto di biscotti, del burro e un vasetto di marmellata. Poi accese il fornello del gas posandovi sopra la Moka del caffè espresso, quindi si sedette.

Un lieve fruscio di i alle sue spalle la avvertì che Nino era entrato in cucina. Si voltò a guardarlo sorridendo. “Hai dormito bene?”

“Come un bambino, il divano è comodissimo.”

Si era coricato in pantaloni e camicia, che pertanto ora apparivano gualciti.

“Scusa, ma non ho molto da offrirti per colazione. Solo latte, caffè, biscotti, burro e marmellata.”

“Scherzi? E’ molto più di quanto mi aspettassi. Ti ringrazio.” Si sedette di fronte a lei.

Cominciarono a dialogare in modo naturale e disinvolto del più e del meno. La tensione che il giorno prima aveva caratterizzato i loro rapporti – sia durante il volo, che dopo – sembrava essersi del tutto dissolta. In quello scontro fisico, se

tale poteva definirsi, lui aveva avuto la meglio, ma non ne avvertiva l’esultanza del vincitore. La scrutò in viso, constatando quanto fosse bellissima ancorché priva di trucco. Tuttavia pensò che sembrava come se avesse ato una notte in bianco.

Lei lo osservò addentare un biscotto spalmato di marmellata. Dal caffè che fuoriusciva dal beccuccio con un gorgoglio sommesso venne il gradevole aroma che subito si espanse per tutta la cucina. Lei si alzò e riempì le due tazzine. Gliene porse una, e poi tornò a sedersi portando l’altra con sé.

“Ora cosa farai?” gli chiese improvvisamente.

“Cos’altro potrei fare se non rimanere qui?” Prese un piccolo sorso di caffè. “Mi spiace di esserti d’impaccio, ma onestamente non saprei dove andare. Non mi resta che attendere che il mio contatto, o qualcun altro, si faccia vivo, magari per telefono... Vuol dire che leggerò i tuoi libri, guarderò i tuoi dvd, ascolterò i tuoi cd, e…”, sorrise con ironia, “…mangerò il tuo cibo…”

“Hai mai visto mio zio in televisione o sui giornali?”

“Sì, qualche volta. Ma parlami di lui… E’ davvero così ricco come lo si dipinge?”

“E’ uno degli uomini più ricchi del mondo. Altro caffè?” Lui scosse il capo in diniego, e lei se ne servì un’altra tazzina. “Ha un patrimonio personale valutato a cinquanta miliardi di euro, forse di più. Possiede quattro giornali e cinque riviste, tre reti televisive, un gran numero di immobili, una compagnia aerea, alcuni pozzi petroliferi in Medio Oriente, una banca… Non saprei cos’altro aggiungere.

E come se non bastasse, è anche molto influente politicamente.” Nino parve riflettere, poi disse parlando lentamente: “Allora mi chiedo come mai un uomo come lui non entri in politica e cerchi di diventare presidente…”

“E’ esattamente quello che intende fare a breve, malgrado le difficoltà.”

“Quali difficoltà?”

“Quelle con cui dovrà misurarsi quando, tra qualche giorno, annuncerà pubblicamente quella che lui definisce la sua ‘discesa in campo’, ossia la decisione di candidarsi come presidente del Consiglio nella coalizione di centrodestra. Sei al corrente della situazione politica italiana?” Sorseggiò il caffè.

“Sì, grossomodo.”

“Per fine febbraio sono previste le elezioni, e i suoi nemici e avversari faranno di tutto per impedirgli di vincerle. Si scatenerà il putiferio. Gli lanceranno contro le accuse più infamanti per cercare di infangare la sua immagine agli occhi dell’elettorato. Ma credo che lui sarà in grado di difendersi egregiamente e anche di contrattaccare.”

Mentre parlava, il cervello di Nino lavorava febbrilmente. Ora guardava sca, ma senza vederla. Aveva smesso di lanciare occhiate, neppure tanto furtive, all’ampia scollatura della vestaglia, che offriva la vista spettacolare della profonda insenatura formata dai due perfetti promontori. Pensava, invece, a quello zio plurimiliardario e potente che stava per fare il suo ingresso in politica osteggiato da personaggi che avrebbero fatto di tutto pur di distruggerlo.

E se il bersaglio da colpire, si chiese, fosse uno di loro? Era probabile. E se nel mirino ci fosse invece lo stesso Martinoni, in quanto al centro di un complotto ordito dai suoi avversari per toglierlo di mezzo? No, questa seconda ipotesi era inverosimile, pensò, in quanto avrebbe significato un coinvolgimento di sca nella cospirazione, e pertanto la scartò.

“Mi sto chiedendo se posso farti una domanda personale.” sca si portò alle labbra la tazzina di caffè. “Ma non sei tenuto rispondermi, se non puoi…”

“Sentiamola.”

“Che cosa ci sei venuto a fare a Milano, Sergio?” Lo guardò dritto negli occhi. Fu sorpreso dalla domanda diretta, senza preamboli né giri di parole, e capì che lei si attendeva una risposta sincera. E con sincerità le rispose: “Mi spiace ma non posso dirtelo. E’ una faccenda molto delicata, per la quale mi sono impegnato alla massima riservatezza.”

Lei annuì pensando a quello che Kesler le aveva detto a Beirut prima di congedarsi: “Anche a lui è stato imposto di tenere la bocca chiusa.”

“Ti prego di non chiedermelo più, sca”, lui continuò. “D’altra parte, da quello che mi hai detto in aereo, mi è parso di capire che anche tuo zio tenga molto a tenere la cosa in gran segreto. Persino nei tuoi riguardi.

“E’ vero, scusami…, sono stata indiscreta.” Fece una breve risa-tina vivace per smorzare la lieve tensione. Era la prima volta che Nino la sentiva ridere in quel

modo, e gli piacque. “Comunque”, lei continuò, “qualsiasi problema dovessi incontrare, sono certa che mio zio sarà in grado di risolvertelo.”

“Sono felice di sentirtelo dire. Mi sento sollevato.”

Lei bevve l’ultimo sorso di caffè e depose la tazzina sul tavolo. Disse: “Mi hai detto quasi niente del tuo ato, soltanto che non hai mai conosciuto i tuoi genitori.”

“Sono stato allevato e cresciuto dalle suore in un orfanotrofio. Loro non avevano informazioni su chi fossero. Ma preferirei non parlare di quanto difficile sia stata la mia infanzia, e, soprattutto la mia vita dopo che sono uscito. Ecco… sono un bastardo, un figlio di nessuno, questo è tutto quello che posso dirti delle mie origini.”

“Io non ti considero tale”, gli replicò con veemenza. “La verità è che siamo orfani entrambi.” Ebbe un sorriso amareggiato. “Io ho perso i miei genitori in un incidente aereo alcuni anni fa, come ti ho detto. Mio zio è l’unico parente stretto che mi resta. Nutro per lui un grande affetto, quasi come per un padre. Gli devo tutto quello che sono oggi.”

“Ma sono certo che tu dovessi amare molto anche i tuoi genitori, che ti hanno assicurato una infanzia felice.”

“Felice lo sono stata moltissimo nella mia infanzia, ma grazie a una sola persona: mia madre. Era una donna meravigliosa, gentile, comprensiva, piena di interessi per l’arte. E’ stata lei a inculcarmi la ione per la pittura. Eravamo come due amiche intime. Perderla è stato un duro colpo, dal quale non credo di

essermi ancora del tutto ripresa.”

“E tuo padre?”

Fece una smorfia di disgusto. “Non è mai stato veramente presente nella mia vita, e pertanto non mi ha dato la possibilità di amarlo. Era un inetto nella sua professione di chirurgo plastico. Non pensava che a se stesso e al denaro. Anche mio zio ama il denaro, ma è pure attento alla famiglia, senza dire che è un uomo abile e intelligente.” Restò in silenzio per qualche secondo. “Non sono mai riuscita a spiegarmi come mia madre abbia potuto sposare un uomo simile, che, oltre tutto, sicuramente non la amava.”

“Lei, invece, forse ne era innamorata.” Improvvisamente il pensiero corse a Tanya. Disse: “Certe donne riescono ad amare anche senza essere corrisposte. Il che è una bella cosa per un uomo. Come nel caso di tuo padre, appunto.”

Lei scosse il capo in disaccordo, dicendo:

“Non credo lo amasse. Ma era troppo buona per dichiararglielo apertamente. Inoltre teneva molto a salvaguardare l’unità della famiglia. Era fatta così.”

“Credi di somigliarle?”

“Non lo so, forse in parte. Io mi considero anzitutto un’ingenua. Una volta, molti anni fa, ho creduto di amare un uomo e mi sono illusa che lui provasse per me lo stesso sentimento. Mi ci sono voluti due anni di convivenza per capire che mi

ero ingannata. Mi ha conquistata, sedotta, e poi è scomparso al primo accenno di matrimonio. Non l’ho più rivisto.” Scosse il capo, lo sguardo mesto. “E’ per lui che avevo fatto ammodernare e arredare la camera da letto. Da quando mi ha lasciata ci dormo da sola.”

“Mi dispiace… Ma non sei tenuta a darmi spiegazioni sulla tua vita privata, sca. Non sono affari miei.” Le sorrise, e si accese una sigaretta.

“Scusami se ti ho annoiato, ma mi è servito da sfogo. Non lo faccio mai con nessuno…”

“Non mi hai affatto annoiato, e ti capisco. Ma ora bando ai discorsi tristi. Parliamo d’altro.” Desiderava cambiare argomento. “A proposito…, ieri sera ho dimenticato di farti i complimenti per l’ottima carbonara. Non immaginavo che una donna ricchissima come te fosse così brava a cucinare.”

“Me lo ha insegnato mia madre. Malgrado conducessimo un agiato tenore di vita, ha voluto fare di me una donna capace di essere, all’occorrenza, anche una brava casalinga, vale a dire del tutto autosufficiente.” Si interruppe per riflettere. “A proposito, cosa desideri per pranzo? Potremmo andare fuori. Conosco un ottimo ristorante qui vicino, in una traversa di via Vincenzo Monti. Se ti piace il pesce, è la sua specialità.”

“Ti ringrazio, ma preferirei non muovermi. Qualcuno potrebbe telefonare. Ma tu non devi sentirti obbligata a restare in casa tutto il giorno.”

“Non importa…, sarà per un’altra volta.”

Di nuovo Nino pensò a Tanya, e alla differenza abissale che c’era tra le due donne, e non soltanto di età. Vide il volto emaciato della ragazza araba, gli occhi infossati, il corpo esile, anoressico. A differenza di sca, che era nata nel benessere e tuttora vi sguazzava, Tanya, ancora così giovane, aveva già patito sofferenze inimmaginabili. Lui la considerava una bambina, e come tale la trattava: con gentilezza e delicatezza, soprattutto quando facevano l’amore. Con questa donna, invece, si era comportato, il giorno prima, con la stessa durezza che spesso, in ato, aveva usato con donne aggressive e viziate, ed era riuscito a farla crollare.

A un tratto lei gli disse: “Se non sono indiscreta… posso chiederti se sei sposato… o se hai una ragazza?”

Lui sembrò accigliarsi. “Ho una ragazza con cui vivo…, a Beirut.”

“Ah, capisco.” Si sforzò di non far trasparire tutta la delusione che provava. “E pensi di sposarla?”

“Non lo so…, ancora.” E subito aggiunse un po’ brusco: “Scusami, ma preferirei non parlarne.”

“Scusami tu, invece, sto ficcando il naso nella tua vita privata…” Teneva lo sguardo posato sulla tazzina del caffè.

Lui rimase in silenzio mentre schiacciava la sigaretta nel posacenere, poi si alzò da tavola. Non aveva alcuna intenzione di parlarle di Tanya, di descrivergliene

l’aspetto fisico, di rivelarle chi fosse e da dove venisse. Poteva solo immaginare il basso concetto che una donna del suo rango si sarebbe formato di una povera profuga palestinese.

“Faresti bene a vestirti”, le disse a bruciapelo puntando gli occhi sull’ampia scollatura della vestaglia.

“D’accordo.”

sca si alzò in piedi, dicendo: “Anche a me non interessa la tua vita privata.” C’era un pizzico di stizza nella voce. “Ora esco a fare un po’ di spesa per il pranzo al supermarket qui vicino. Tu fai come se fossi a casa tua.”

Mentre si dirigeva verso la camera da letto, sentì che la seguiva con lo sguardo. Per quello che le aveva appena detto avvertiva un sentimento che non avrebbe saputo ben decifrare, ma che somigliava pericolosamente alla gelosia.

17

Mezzanotte ata.

Una tenue lama di luce filtrava da sotto la porta dello studio dell’Arcivescovo. Come suo solito, era ancora lì a lavorare e vi sarebbe rimasto per non meno di un’altra ora prima di andare a dor-mire. Si sarebbe alzato alle cinque in punto per poi dire messa alle sei. Sapeva che monsignor Ricardi, il suo segretario personale, era in anticamera a sonnecchiare seduto su una poltroncina. Esigeva che fosse sempre a portata di mano mentre lui era nel suo studio.

A settantotto anni suonati, Ricardi amava, a buon diritto, la vita tranquilla e una comoda routine di lavoro. Ma negli ultimi tre anni, cioè dall’insediamento in Curia di Losito, il suo impegno diuturno aveva assunto ritmi stressanti. Il Cardinale gli stava continuamente con il fiato sul collo. Non solo lo costringeva a fare le ore piccole, ma anche a viaggiare, a condurre ricerche, ad accompagnarlo nelle uscite pubbliche, ad assisterlo nella stesura dei suoi discorsi. Cominciava a risentire fisicamente di quel frenetico menage. A chi glielo chiedesse, descriveva la Curia come una sorta di arena al cui centro c’era il Cardinale quale unico gladiatore. Desiderava essere messo a riposo, ma l’altro non lo consentiva. Dopo il suo avvento, gran parte dei componenti il suo staff era stata sostituita per motivi che il monsignore non era mai riuscito a comprendere veramente. Così come non riusciva a spiegarsi le ragioni per le quali il Cardinale lo trattenesse in servizio, evitando sempre, deliberatamente, di affrontare il tema del suo pensionamento. Accadeva ogni sera che restasse in anticamera a dormicchiare su una poltroncina. Non osava andarsene a letto prima che il suo capo avesse fatto altrettanto. Consultò l’orologio sbadigliando; poi si mosse alla ricerca della posizione ottimale che gli consentisse di schiacciare un breve pisolino. Dopo un po’ fu sommerso dal torpore e riuscì ad assopirsi.

“Ho alcune lettere...” La voce dell’Arcivescovo lo fece sobbalzare. “Volete favorire nel mio studio, per favore?” Aprì gli occhi e vide la sua imponente figura torreggiare su di lui.

Losito era molto alto, e magro come un chiodo. I capelli argentati, le guance e le tempie infossate che gli conferivano un’aria ascetica, gli occhi scurissimi e penetranti, la tonaca nera orlata di rosso, contribuivano a rendere più percepibile quel fluido invisibile del grande carisma che il suo corpo sprigionava. Per contrasto, Ricardi era un ometto molto basso di statura, corpacciuto, calvo e dal volto rotondo. Dagli occhi celesti e lo sguardo sereno, traspariva tutta la mitezza del suo carattere.

C’era un punto che il monsignore e il Cardinale avevano in comune: le umili origini. Anche Ricardi, nato nella città pugliese di Foggia, era cresciuto in condizioni di povertà estrema. Ma a differenza di Losito aveva avuto una infanzia e una adolescenza molto più difficili per via di un padre tiranno, uso alla pratica di imporre la disciplina ai propri figli con le punizioni corporali. Ma, al tempo stesso, si era sempre dimostrato un gran lavoratore riuscendo, a costo di enormi sacrifici, a mantenere fino agli studi superiori tre dei quattro figli maschi. Il quarto e due delle tre sorelle erano state vit-time della tubercolosi in età adolescenziale. Antonio era stato molto legato al fratello scomparso, di due anni più giovane, il quale aveva sin da piccolo manifestato il desiderio di abbracciare il sacerdozio. Dopo la sua morte, come per un misterioso disegno divino, la vocazione era stata ereditata dal fratello maggiore.

A quel padre-padrone, Ricardi aveva sempre mostrato rispetto, mai affetto. Era un uomo impossibile da amare per via della sua ignoranza da analfabeta e del perenne contegno autoritario.

Della madre, invece, parlava come di una santa. Era gentile, semplice, osservante rigorosa dei precetti della fede, e obbediente agli ordini del proprio marito. Paradossalmente, sembrava ricavare forza proprio dai suoi atteggiamenti

dolci e sottomessi, al punto che i suoi figli, quando erano in tenera età, credevano di cogliere in lei una certa somiglianza con la Santa Vergine, la cui immagine era appesa a una parete della loro cameretta.

“Oh, sono costernato, eccellenza, mi scusi…”, balbettò imbarazzato alzandosi in piedi con la lentezza imposta agli anziani dalla rigidità delle articolazioni. “Avevo appena chiuso gli occhi per un momento, giusto per riposarli, e devo essermi assopito…”

Lo seguì nel suo ampio studio immerso nella penombra. “Siete stanco, Ricardi”, il Cardinale gli disse scrutandolo in viso. “Dovete riposare.”

Il monsignore lo osservò a sua volta e notò, alla luce vivida e impietosa della lampada, che aveva un aspetto orribile come mai lo aveva visto prima. Anche se sapeva che la stanchezza ne era la causa, ne fu scioccato. Pensò che non avrebbe retto a lungo quei ritmi sfibranti di lavoro, che stava sfidando i limiti di tolleranza della mente e del corpo umani. Nei primi mesi dopo il suo arrivo all’arcidiocesi, alcuni membri del suo staff amministrativo, ma non solo, avevano espresso riserve su certi suoi comportamenti bizzarri, che non di rado arrivavano a rasentare la paranoia. Un sagrestano aveva una volta riferito di averlo sorpreso in più occasioni aggirarsi con fare guardingo, e a notte fonda, nella cappella dell’arcivescovado. Si era giustificato con l’aver udito dei rumori sospetti che, a suo dire, potevano indicare la presenza di ladri.

“Prima o poi si libererà di noi, vedrete…”, era stato il commento rassegnato di alcuni anziani prelati conservatori. E non avevano avuto torto: Losito li aveva sostituiti a uno a uno con elementi giovani, che sapeva essere pronti a seguirlo con ardore in quella sua Crociata volta a lottare contro la piaga della povertà e della fame.

Ha liquidato tutti tranne me, il monsignore pensò stancamente, soltanto me ha trattenuto. Guardò la pendola appesa a una parete: sarebbe trascorsa almeno un’altra ora prima che potesse andarsene a letto. Come obbedendo a un impulso improvviso disse: “Ma anche vostra eccellenza ha l’aria stanca... Avrebbe bisogno di riposo. Mi dia quelle lettere e le troverà pronte per la firma domattina presto. Ma ora…, perché non va a dormire?”

Losito non rispose, ma sorrise allo stesso modo in cui soleva fare nelle interviste, quando parlava in pubblico o veniva fotografato. Poi disse: “Sedete un momento, Ricardi. Desidero parlarvi…” Apparve titubante, e fece scorrere leggermente il palmo di una mano sul ripiano lucido della scrivania, come per rimuovere uno strato di polvere inesistente.

Ecco, ci siamo, il monsignore pensò accomodandosi su una poltroncina. Sta per dirmi che sarò sostituito. Che il lavoro è troppo gravoso per un uomo della mia età. Gli ho prestato il fianco dicendogli che anche lui appare stanco. Deve essersi risentito. Ma sì! in fondo è meglio così. Doveva succedere prima o poi. Finalmente troverò la tranquillità.

“Abbiamo lavorato sodo insieme in questi tre anni”, il Cardinale riprese con un tono pacato e solenne insieme. “E’ da molto tempo che desidero dirvi quanto apprezzo la vostra collaborazione. Purtroppo… non mi si è mai presentata l’occasione, preso come sono dai miei impegni.” Tacque e lo guardò dritto negli occhi. “Bene… desidero farlo adesso.”

Ricardi annuì. “La ringrazio, eccellenza…” Sta venendo al dunque, pensò guardando di nuovo la pendola che in quell’istante batté un tocco. All’una in punto di notte, stava per ricevere il benservito.

“Ma desidero, anche, farvi una domanda su una questione che mi sta molto a

cuore e che considero di vitale importanza…”, il Cardinale fece una pausa, esitante.

“L’ascolto, eccellenza.”

“Avete mai provato a immaginare, Ricardi, che ne sarebbe del nostro Paese se – Dio ce ne scampi !– un miliardario come Martinoni vincesse le elezioni e riuscisse a impossessarsi di Palazzo Chigi?”

18

Pietro Mattei guardò il quadrante fosforescente della radiosveglia posata sul tavolino da notte: segnava l’una esatta.

Da quando si era coricato, un’ora prima, avvertiva una notevole difficoltà ad addormentarsi. Non faceva che girarsi e rigirarsi nel letto senza riuscire neppure ad assopirsi. Restava per qualche minuto supino, poi si voltava sul fianco sinistro, quindi su quello destro. A un certo momento si alzò e andò in bagno. Prese dall’armadietto dei medicinali il flacone di Ansiolin, un leggero calmante, e ne assunse venti gocce. Ciò che lo teneva desto, era l’incapacità di impe-dire al suo cervello di continuare ad arrovellarsi sul contenuto di quella telefonata inaspettata che aveva ricevuto quel pomeriggio nel suo studio. A chiamarlo era stato Ezio Leardo, un funzionario del ministero dell’Interno e suo vecchio amico, di cui non aveva notizie da alcuni anni.

Ne era rimasto profondamente turbato in quanto, dal contesto della conversazione, era emerso che gli si prospettava la concreta possibilità di rivedere nei giorni seguenti e a distanza di cinque anni, la sua ex ragazza sca Martinoni con cui aveva convissuto per due anni. Era stato Leardo – a conoscenza della loro trascorsa relazione amorosa – a chiedergli se poteva contattarla per cercare di acquisire da lei certe importanti informazioni, da utilizzare in una riservatissima indagine di cui lui, per conto del ministero, si stava occupando. Altro non aveva aggiunto, e Pietro si era cautamente riservato in attesa di dettagli in ordine alla natura delle informazioni richieste. Si erano allora accordati per incontrarsi alle sei del pomeriggio in un appartamento di uno stabile in via Torino, dove Leardo si era trasferito da alcuni mesi.

Ora, al solo pensiero che gli si offriva la possibilità di rivedere la sua ex ragazza, Pietro avvertiva quel forte brivido di eccitazione che gli inibiva il sonno. Da quando l’aveva lasciata cinque anni prima, la sua vita aveva mutato direzione.

Aveva cominciato a collaborare, se pure par time, con il padre nel suo prestigioso studio legale in via Larga, nei pressi del Palazzo di Giustizia. Il genitore era da sempre ossessionato dall’idea che – una volta tirati i remi in barca – lui dovesse seguirne le orme. E su quella strada era ormai avviato.

Ma il lavoro non aveva significato la rinuncia a quel genere di bella vita cui sono di norma dediti i giovani ricchi, che la società dei meno abbienti definisce molto appropriatamente ‘figli di papà’, a significare che nascono con la pappa già pronta. Aveva cambiato un paio di volte la sua auto sportiva, aveva avuto numerose relazioni con graziose e facili ragazze che si portava a letto ogniqualvolta lo desiderasse, aveva girato da turista mezzo mondo. A proposito di ragazze, c’era stato un unico caso in cui aveva rischiato di precipitare in quello che lui definiva il ‘baratro del matrimonio’. Ma così come era successo con sca, era riuscito abilmente a uscirne indenne.

Accadeva spesso che si sorprendesse a pensare a lei, confrontandola istintivamente con le donne dei suoi tanti flirt degli ultimi cinque anni. Si sentiva allora sommergere da un’ondata di ricordi. Riviveva con la mente, e non senza una punta di nostalgia, le lunghe ore che avevano trascorso a fare l’amore in quello stupendo bilocale di via Vincenzo Monti, i frequenti ed esilaranti viaggi all’estero, le serate in discoteca. Aveva, a poco a poco, acquisito il convincimento che sca non fosse neppure minimante paragonabile a nessuna delle tante ragazze che aveva avuto dopo di lei. Per quanto le avesse analizzate con cura, non era sinora riuscito a trovarne una sola che potesse reggere il confronto con quella splendida creatura che era sca Martinoni. Provava allora un profondo rammarico e un senso di colpa per averla lasciata, chiedendosi se non fosse stata una decisione affrettata e quindi errata, presa al solo scopo di salvaguardare la propria libertà. Il rammarico si era andato acuendo col trascorrere degli anni, di pari o con il procedere di quella fulgida carriera di attrice televisiva che le aveva visto intraprendere, e che l’aveva portata al culmine della notorietà. Si era più volte detto che se l’avesse sposata, ora la condividerebbe in qualche misura, nel senso che anche lui sarebbe oggetto delle attenzioni del pubblico e dei media. La sua foto apparirebbe sui giornali e sulle copertine delle migliori riviste specializzate, magari in sua compagnia. In tutti quegli anni l’aveva spesso guardata in televisione, e una sola

volta l’aveva intravista alla Rinascente a fare dello shopping, indossando degli occhiali da sole scurissimi. Non aveva avuto il coraggio di avvicinarla temendone una reazione negativa. La constatazione che fosse persino molto più attraente di come apparisse sul piccolo schermo, e di come la ricordava quando stavano insieme, aveva avuto su di lui l’effetto del classico coltello girato in una piaga. Era possibile, si era chiesto, che l’avesse amata inconsapevolmente sin dall’inizio, rendendosene conto troppo tardi dopo che l’aveva lasciata?

Ora c’era quella telefonata di Leardo che gli aveva messo l’animo in subbuglio al solo pensiero che poteva rivederla. Da quanto il suo vecchio amico gli aveva riferito, sembrava che ci fosse la possibilità che sca fosse implicata – forse inconsciamente – in una delicata faccenda dai contorni politici poco chiari. Ma di cosa mai può trattarsi? Pietro continuava a chiedersi con fare quasi ossessivo in attesa che l’Ansiolin producesse il suo effetto soporifero. Era forse qualcosa che aveva a che fare con il recente ingresso di suo zio in politica? Leardo si era rifiutato di fargli alcun accenno in proposito per telefono, rinviando al loro incontro del pomeriggio.

La loro amicizia risaliva ai tempi in cui erano compagni di classe al Collegio San Carlo in corso Magenta, dove avevano conseguito la maturità classica. Insieme si erano poi iscritti a giurisprudenza alla Università Cattolica, laureandosi nello stesso anno. Subito dopo le loro strade si erano separate poiché Leardo, figlio unico, si era trasferito a Roma per seguire la famiglia. Il padre, colonnello della Guardia di Finanza, aveva ricevuto la nomina a generale nella capitale. Era stato grazie alle sue altolocate conoscenze nella politica, che era riuscito a far assumere il figlio al ministero dell’Interno.

Mantenevano radi contatti telefonici. Era stato in occasione di uno di questi, risalente a qualche anno addietro, che Pietro gli aveva riferito del litigio con sca, che aveva portato alla rottura della relazione.

Per l’ennesima volta si girò sul fianco destro, e, un occhio schiacciato sul

cuscino, guardò di nuovo l’ora sulla radiosveglia: erano quasi le due. Quando ormai si era rassegnato a trascorrere la notte in bianco, avvertì un lieve torpore propagarsi un tutto il corpo. L’Ansiolin cominciava finalmente a fargli effetto. Le palpebre gli si appesantirono. La mente, stanca di rimuginare, aveva infine ceduto. Si sentì trasportare verso un sonno profondo.

19

Tale fu la sorpresa di Ricardi a quella domanda inaspettata del Cardinale, che trasalì guardandolo a bocca aperta, incapace, lì per lì, di formulare una risposta. Pensò che doveva pronunciarsi con cautela cercando di non apparire troppo arguto. Sapeva che Losito, quando gliene si presentava l’occasione, esercitava l’arte della dialettica con i suoi collaboratori per indurli a misurarsi con il suo acume. Ma a quell’ora di notte era troppo stanco per avventurarsi in una diatriba politica: un terreno che gli era peraltro poco congeniale. Pertanto, gli rispose nel modo che ritenne il meno compromettente possibile: “A onore del vero non vi ho mai pensato, eccellenza, anche perché dubito molto che possa riuscirci. La gente non è così stupida da eleggere uno come lui alla guida del Paese.”

“Vorrei potervi dare ragione, Ricardi. Una cosa del genere non sarebbe stata possibile una trentina di anni fa quando Martinoni era poco più che uno spiantato. Poi, come per incanto, ha ricevuto una montagna di miliardi, non si sa da dove né da chi. Vano è stato si-nora ogni tentativo di scoprirlo.” Si fermò per qualche attimo, fissandolo. “Comunque, bisogna riconoscergli la grande abilità con cui è riuscito a investirli proficuamente, creando quell’impero industriale e mediatico, che oggi ne fa uno degli uomini più ricchi del mondo…”

“Credo che non sia il primo caso di arricchimento improvviso con mezzi più o meno leciti…”, il monsignore azzardò timidamente.

“E’ vero…. Dietro ogni grossa fortuna c’è sempre un crimine, diceva Balzac. E io sono convinto che Martinoni sia il classico esempio di un uomo arricchitosi commettendo dei reati. E qui entra in campo la questione morale.”

Non sapendo cos’altro dire, Ricardi annuì sorridendo. Ma subito dopo affermò:

“Continuo a essere fiducioso che non vincerà le elezioni.” Al che Losito sfoderò una smorfia piena di scetticismo. “Ma non avete ancora risposto alla mia domanda, monsignore: che cosa pensate accadrebbe al nostro Paese se malauguratamente ci riuscisse?”

Ricardi assunse una espressione incerta come non sapesse cosa rispondere. “Mah… non ne ho idea… vostra eccellenza sa bene che non sono molto addentro nelle cose della politica.”

“Allora sarò io a dare la risposta.” Fece una pausa riflessiva. “Ma prima… ditemi, avete guardato la televisione oggi pomeriggio?”

“Non ne ho avuto il tempo materiale.”

“Quindi non avete avuto modo di assistere a quella sorta di ridicola pantomima mediatica del suo discorso sulla terza rete Media-system, con cui ha annunciato il suo ingresso in politica come candidato premier per il centrodestra…”

Ricardi non fiatò.

“Ha esordito dicendo: ‘Io amo il mio Paese…’ Una grande menzogna! Lui se ne frega del Paese, ma pensa soltanto al tornaconto personale. Poi si è esibito in un lungo elenco di promesse, tra cui quella di debellare la povertà. Tutte false, naturalmente. Soltanto un uomo spregiudicato come lui può farle sapendo di non poterle mantenere. E ciò pur di farsi eleggere e assicurarsi il potere.” Fece una pausa. “In vita mia non ho mai visto un miliardario fare del bene ai poveri. E voi?”

Ricardi scosse il capo in segno di diniego. “Quello che mi chiedo, eccellenza, è perché mai un uomo straricco come lui dovrebbe avere interesse a impegolarsi nella politica…”

“Perché è affetto da una brama di denaro e di potere che non conosce limiti. Sa che se conquistasse Palazzo Chigi, acquisirebbe un enorme potere politico, che combinato a quello mediatico di cui già dispone, gli consentirebbe, tra le altre cose, di accrescere in modo esponenziale il suo già enorme patrimonio. Come? Facendo varare leggi in Parlamento, che portino vantaggi alle sue aziende. In primo luogo alle sue televisioni.” Si interruppe. “E ora veniamo alla mia domanda iniziale: che cosa succederebbe allora al nostro Paese? La risposta è semplice: l’istaurarsi di una sorta di regime.”

“Una sorta di regime?”

“Certo. Non esiterei a definirlo un regime moderno, gestito non già con l’uso delle armi – come ai tempi del Fascismo o del Nazi-smo – ma con i mezzi di informazione di cui Martinoni avrebbe il controllo pressoché totale. Quindi potrà fare i propri comodi.”

“Con tutto il dovuto rispetto, eccellenza, continuo a ritenere inverosimile che possa vincere le elezioni.”

“E’ un comunicatore formidabile”, Losito disse con aria pensie-rosa. “Questo bisogna riconoscerglielo. Ha già un seguito non indifferente, e per di più in questo momento c’è il clima favorevole nel Paese perché possa aver successo. C’è troppa povertà, ingiustizia, corruzione e purtroppo anche ignoranza, nella nostra società. Il po-polo, che ne è la vittima, è disponibile a prestare ascolto a

qualsiasi sirena incantatrice che si presenti e prometta di affrontare tutti questi problemi risolvendoli. Martinoni è perfettamente consapevole della situazione, ed è deciso a cavalcarla per raggiungere l’obbiettivo che si è prefissato. Si presenterà agli elettori utilizzando tutti i mezzi di comunicazione di cui dispone, e dirà loro le cose che desiderano sentirsi dire: meno tasse per tutti, più lavoro e benessere generalizzato. Il messaggio di fondo sarà: ‘ò lo stesso sistema con cui io mi sono arricchito, per far arricchire anche voi… Quindi, votatemi.’ Il problema è che molti gli crederanno e lo voteranno. Dulcis in fundo, agiterà lo spauracchio del pericolo comunista fingendo di ignorare l’evento storico della caduta del Muro di Berlino, che ne ha decretato la fine in tutta Europa. Quel po’ che ne resta, come in Italia, è un cane che non morde.”

Spiegata in questo modo, non c’era argomento che Ricardi potesse tirare fuori per replicare. Quindi annuì tacendo.

“Ma c’è un rischio persino più grande che correremmo, caro Ricardi, se Martinoni diventasse presidente del Consiglio.”

“Quale?”

“Tra qualche anno, quando la gente si sveglierà dal sogno e si accorgerà di essere stata ingannata, reagirà male. Prevedo, in tutto il Paese, manifestazioni di piazza e sommosse al limite della rivolta popolare. I sindacati si scateneranno indicendo scioperi generali. A quel punto l’economia sarà già andata a rotoli con la conseguenza che la disoccupazione e la povertà avranno raggiunto livelli mai visti in precedenza. Le condizioni economiche di numerose famiglie e di molti pensionati saranno precipitate largamente al di sotto della soglia di sopravvivenza, eccetera eccetera…” Tacque per qualche secondo. “Quindi tutte le promesse saranno state disattese. Tutte… tranne, naturalmente, quelle che Martinoni avrà fatto a se stesso e a quella ristretta schiera di miliardari del suo club: tutti avranno nel frattempo accresciuto a dismisura la propria ricchezza.

“Ora…capirete, Ricardi, che io non posso restare a guardare indifferente, mentre quest’uomo approfitta dell’ingenuità e buona fede della povera gente per fare i propri affari. Devo avvalermi di tutti i mezzi di cui dispongo, nel mio piccolo, per contrastarlo e cercare di impedire che questa sua sporca manovra abbia successo. Quindi, farò in modo di apparire più spesso in televisione e di parlare alla radio. Accetterò qualsiasi intervista che mi verrà proposta d’ora in poi dalla stampa. Mi esprimerò senza peli sulla lingua, per dire con chiarezza ai miei fedeli quello che penso di Martinoni e della sua iniziativa – pur senza mai citarlo –, allo scopo di aprire loro gli occhi, mettendoli in guardia dal votarlo. Lo farò perché Dio me ne ha dato la responsabilità e la capacità, e già avverto dentro di me la Sua voce che mi ordina di agire.” Si fermò e fissò a lungo l’anziano prelato. “Lo so che voi non condividete le mie idee, Antonio. L’ho sempre saputo. Ma spero comprenderete, in questa circostanza, che si tratta di qualcosa che sono obbligato a fare. Vorrei che voi mi assicuraste, dal profondo del cuore, la vostra solidarietà e…”, esitò per qualche attimo, “…la vostra collaborazione.”

Ricardi si mosse a disagio sulla poltroncina che scricchiolò. Era la prima volta che l’Arcivescovo gli si rivolgeva col nome di battesimo. Era un timido e si sentì arrossire fino alle orecchie per l’imbarazzo. Le mani cominciarono a sudargli. “Non saprei che dire, eccellenza…”, farfugliò. “Mi sento rammaricato e in colpa. Mi scusi se qualche volta le ho trasmesso di me questa impressione. Ma non ne avevo alcuna intenzione, e posso rassicurarla che non risponde alla verità.”

“Allora dite che mi capite”, il Cardinale disse con grande enfasi. “Siete un brav’uomo e un ottimo sacerdote. Entrambi siamo cresciuti nella Chiesa da ferventi cristiani nel timore di Dio. Io credo fermamente che i nostri compiti vadano ben oltre quelli di dire messa e somministrare i Sacramenti. La Chiesa deve anche adoperarsi per risolvere i problemi sociali. E la fame e la povertà lo sono per antonomasia. Ne consegue che, per debellarle, dobbiamo impegnarci nella lotta contro le ingiustizie.” Si fermò per un momento, fissandolo. “Ho deciso di intervenire nella politica, e di affrontare Martinoni a viso aperto non appena mi si presenterà l’occasione.”

Il monsignore lo guardò sbalordito, a bocca aperta. “E in che modo intendete farlo, eccellenza?”

Losito non rispose alla domanda, ma ebbe un lieve sorriso enigmatico. Disse: “Ho già preparato la bozza dell’omelia che pronuncerò nella basilica di Sant’Ambrogio il sette dicembre prossimo, quando officerò la messa pontificale per la festa del santo. Vorrei che le deste un’occhiata… Domani ovviamente, dicendomi, poi, che cosa ne pensate.” Meditò per qualche secondo prima di aggiungere: “Da quel buon cattolico che dice di essere, Martinoni sarà presente seduto in prima fila, insieme a tutti i notabili della città. Saremo faccia a faccia. Quello che dirò, lo dirò guardandolo dritto negli occhi…Il mio discorso sarà ripreso dalla televisione e da tutta la stampa. E’ quello che desidero.”

Ricardi annuì sorridendo. “Sarò onorato di farlo, eccellenza… Molto onorato.”

“Si è fatto molto tardi.” Il Cardinale si alzò in piedi e aggirata la scrivania gli si avvicinò. “Siete stanco. Per la verità lo siamo entrambi. Mi auguro che continuerete a lavorare per me, e sempre con lo stesso impegno e entusiasmo.”

L’altro si alzò a sua volta. Nella luce vivida della lampada vide la mano bianca e scheletrica del Cardinale tendersi verso di lui. La prese e, posato un ginocchio a terra, baciò l’anello episcopale.

“Se Dio dà a vostra eccellenza la forza di resistere”, disse, “sono certo che non la farà mancare a me. Buona notte!” Quindi uscì dallo studio con o felpato, chiudendosi la porta alle spalle.

Losito radunò con cura le carte sulla scrivania, e le ripose in un cassetto che chiuse a chiave. Prima di uscire, spense la lampada dal lungo stelo flessibile. Lo studio sarebbe piombato nella completa oscurità, se non fosse stato per la minuscola lampada votiva posata su una mensola, davanti alle immagini dei suoi genitori defunti. La sua camera da letto si trovava sullo stesso piano. Era di dimensioni molto ridotte, dall’aspetto dimesso e arredata dello stretto necessario per dormirci: un lettino di ferro battuto, un armadio per gli abiti, una sedia e un tavolino da notte. Le pareti erano spoglie, se si eccettuava il crocifisso appeso al muro sopra la testiera del letto. Non era minimamente paragonabile alla spaziosa e confortevole suite al piano superiore, che era stata dei suoi predecessori. Vi aveva da tempo rinunciato dato che non ne avvertiva il bisogno per le poche ore che vi trascorreva. Ma quella notte, uscendo dal suo studio, non entrò in camera da letto. Percorse il corridoio fino in fondo e scese le quattro rampe di scale che conducevano alla cappella. Per suo ordine non era mai tenuta chiusa a chiave. Vi entrò e si fermò a guardare in giro. Il silenzio che vi regnava, la penombra, l’atmosfera di raccoglimento, gli info – come sempre – una profonda sensazione di tranquillità e di pace, che lo indusse alla meditazione.

Non c’era austerità in quell’ambiente, ma quel genere di sobria sontuosità che di solito lui detestava nella vita quotidiana – rendendosi così impopolare agli occhi dei suoi collaboratori –, ma che riconosceva essere giustificata nella Casa del Signore.

Quello era il Sacrario che custodiva il Mistero Divino di tutto ciò che accadeva nel mondo, compreso quello della vita e della morte, nonché di quella vocazione che lo aveva portato dalla condizione di figlio di poveri immigrati dal Meridione, a ciò che era oggi: un crociato alla ricerca della gloria. Ma la gloria per Dio, non per se stesso.

Fece un profondo inchino davanti alla statua della Vergine, quindi andò alla balaustra di fronte all’altare e vi si inginocchiò facendosi il segno della croce. Poi congiunse le mani, e si mise a pregare muovendo meccanicamente le labbra.

Forse era quell’atmosfera, così lontana dal caos della vita quoti-diana, ad accrescere la fede nel suo cuore. Non avrebbe saputo darne una diversa spiegazione. Ma spesso ci rifletteva. Senza dubbio dovevano esserci altre ragioni – oltre alla vocazione – che lo avevano spinto ad abbracciare il sacerdozio. Forse era lo strumento inconsapevole di un disegno divino. Amava la pace e il senso di isolamento che avvertiva nella cappella vuota. Vuota dei fedeli, ma che lui sentiva piena della vibrante presenza dell’Altissimo. Ed era lì che si rifugiava quando avvertiva il bisogno di conforto e di coraggio ogni volta che doveva affrontare e risolvere un difficile problema.

Aveva assunto una solenne decisione quella notte. Forse la più importante da quando era stato ordinato sacerdote. Avrebbe commesso quello che molti avrebbero giudicato un peccato imperdona-bile: si sarebbe intromesso nella politica. Ciò che avrebbe fatto d’ora innanzi, e detto dal pulpito della basilica di Sant’Ambrogio alla messa pontificale che avrebbe officiato per la festa del Santo Patrono, poteva scatenare una bufera su lui.

Sapeva che entro certi limiti era accettato, e persino ritenuto giusto, che la Chiesa manifestasse un certo interesse per la politica. Ma non nel modo esplicito in cui lui lo avrebbe fatto. Sarebbe divenuto bersaglio degli strali di quella folta pletora di ricchi imprenditori, che già sosteneva la candidatura di Martinoni. Avrebbe attirato su di sé le ire della CEI e del Vaticano.

Risaliva soltanto a qualche giorno prima una intervista rilasciata al Corriere della Sera dal presidente della CEI, in cui l’alto prelato aveva raccomandato al clero, a qualsiasi livello, di stare fuori il più possibile dalla politica. Gli aveva fatto eco sull’Osservatore Romano, se pure in termini più blandi, lo stesso Pontefice affermando che la Chiesa, pur nutrendo un interesse profondo per la comunità politica, non ne era e non intendeva esserne parte.

Ma Losito sperava che a una prima reazione negativa, sarebbe seguita una pausa di riflessione da parte della critica – anche da quella più aspra –, e quindi una

certa comprensione per il suo operato, mirato a combattere quella che molti oppositori di Martinoni già consideravano una grande anomalia, destinata ad accrescere a dismisura le ingiustizie e la povertà presenti nella società italiana. A tal proposito, una dichiarazione del Papa durante una apparizione pubblica risalente ad alcuni giorni prima – ripresa da tutti i media – era stata musica per le sue orecchie. Il Santo Padre aveva censurato il capitalismo senza mezzi termini. “Il capitalismo produce gravi ingiustizie”, aveva detto, “e la logica del profitto cui è legato crea sempre più povertà.”

Aveva lavorato sodo alla prima bozza della sua omelia, ma molte altre ne sarebbero seguite prima del testo definitivo. Questa la ragione per la quale aveva svegliato il povero Ricardi che dormicchiava in anticamera. Aveva avvertito il forte bisogno di confidarsi con lui, di sentire il suo parere, di assicurarsi che stava dalla sua parte. Da molto tempo studiava il carattere del suo segretario personale. Aveva detto la verità poco prima, quando lo aveva elogiato affermando di sapere che era un brav’uomo e un ottimo sacerdote. Era di animo semplice e gentile, senza pretese, se si eccettuava quella legittima di una vita più tranquilla, che soltanto il pensionamento avrebbe potuto assicurargli. Ma in quel delicato momento l’Arcivescovo non poteva privarsi di lui. Aveva bisogno della sua fedeltà, devozione e collaborazione.

Quella notte, con nell’animo il peso opprimente di quella decisione che aveva assunto, era stato tanto umile da fargliene esplicita richiesta. Rimase a lungo in ginocchio a pregare il Signore che gli infondesse forza e coraggio per superare quella difficile prova, ringraziandolo per avergli concesso di avere al suo fianco un collaboratore come Antonio Ricardi, che lo sopportava da tre anni, e che, in quella circostanza non gli aveva negato il suo aiuto.

20

Pietro Mattei premette il pulsante del citofono situato accanto al portone dello stabile signorile di otto piani, che sorgeva in via Torino all’angolo con piazza Duomo, e si identificò alla persona che gli rispose. Salì con l’ascensore fino al sesto piano, e quando ne uscì trovò Ezio Leardo ad accoglierlo sul pianerottolo.

Si abbracciarono con la grande effusione di due vecchi compagni che tornano a incontrarsi dopo tanto tempo.

“E’ un gran piacere rivederti”, Leardo disse sorridendo e batten-dogli una pacca sulla spalla.

“A chi lo dici, Ezio…, non vedevo l’ora...”

Leardo lo precedette all’interno di un vasto appartamento con un lungo corridoio sul quale si aprivano numerose stanze dalle porte chiuse, ma da cui filtravano rumori che indicavano la presenza di gente: trambusti, voci, squilli di telefoni. Entrarono in un ambiente spazioso il cui arredamento indicava che non poteva che trattarsi di uno studio: una scrivania in formica marrone, due poltroncine girevoli di cui una per gli ospiti, un armadio per gli abiti, e, addossata a una parete vicino alla porta una postazione da computer.

Si sedettero.

“Ne è ato del tempo, eh? Eppure non sei cambiato granché”, Leardo

osservò.

“Neanche tu, se è per questo”, l’altro replicò sorridendo.

Diversamente da Pietro Mattei, Ezio Leardo non era stato particolarmente favorito da madre natura. Era di corporatura minuta, già quasi calvo malgrado avesse solo di qualche anno superato la tren-tina.

Sul viso piccolo e rotondo erano incastonati due occhietti di topo, vispi e indagatori, che sembravano studiare il mondo da dietro due occhiali di metallo dalle piccole lenti rotonde e affumicate, che gli conferivano un’aria da iettatore. A mortificare ancora di più il suo aspetto, c’era l’abbigliamento trasandato di cui sembrava non darsi gran pensiero.

Indossava una giacca verdognola di velluto a coste, sopra dei calzoni di fustagno un po’ sdruciti sulle ginocchia e una camicia celeste dal colletto stropicciato. Il nodo della cravatta marrone era esageratamente grosso.

Pietro pensò che effettivamente non era cambiato da come lo ricordava. Anche se di lui aveva sempre pensato che avrebbe avuto serie difficoltà a trovare moglie, gli chiese tuttavia: “Immagino che ti sarai sposato…”

“Macché….” Fece una smorfia. “Deve ancora nascere la donna che riuscirà a portarmi all’altare.” Tacque per un attimo. “Mi pare che su questo tema siamo sempre stati in perfetta sintonia, no?” Sorrise con ironia.

Pietro lo guardò sbattendo le ciglia. “Allora… se non sei sposato che cosa ci fai in un appartamento così grande?”

“Già… è molto grande, abbiamo undici stanze.”

“Abbiamo?”

“Questo non è un alloggio per uso domestico, Pietro, ma per uffici.”

“Uffici del Ministero, immagino…”

“No, dei Servizi segreti.”

“Oh! Ma non lavoravi al Ministero dell’Interno?”

“Sì, ma fino a due anni fa; poi sono ato al Sisde, che comunque del Ministero dell’Interno è alle dipendenze.”

“Il Sisde…”, Pietro mormorò quasi a se stesso. “Quindi saresti un agente segreto, uno 007. O mi sbaglio?”

“No, non ti sbagli affatto.”

“E chi l’avrebbe detto…” Scosse lentamente il capo genuinamente incredulo.

Leardo riprese: “Sono stato trasferito a Milano sei mesi fa, con il compito di organizzarvi una base segreta del Servizio. Lo scopo? Quello di accrescerne l’azione e l’efficienza operando anche da un’altra grande e importante città.”

“Che genere di azione?”

“Nel caso tu non lo sappia, Pietro, Sisde è l’acronimo che identifica il servizio delle informazioni e della sicurezza democratica. Tra gli altri compiti, c’è quello principale della difesa della democrazia e la lotta contro ogni forma di eversione e spionaggio.” Fece una pausa. “E’ gemello dell’altro Servizio segreto, il Sismi, che si occupa invece della sicurezza militare e fa capo al Ministero della Difesa. Entrambi sono coordinati dal Cesis – il Comitato esecutivo per i servizi di informazione e sicurezza – con la Presidenza del Consiglio dei ministri.” Leardo intrecciò le mani sopra la scrivania, fissando il suo interlocutore. “Siamo molto ben attrezzati per svolgere il nostro lavoro. Abbiamo in questa base agenti specializzati nella sorveglianza e nei pedinamenti, oltre a un buon numero di informatori esterni – perlopiù giornalisti e investigatori privati –, che teniamo a libro paga. Controlliamo, anche, le trasmissione elettroniche, inclusi i telefoni cellulari e le e-mail. Siamo in grado di operare intercettazioni ambientali.”

Pietro si lisciò il mento, perplesso. “Quindi, tu saresti il direttore di questa… base, giusto?”

“Sì, esatto. Ma ci abito, anche. C’è una camera da letto in fondo al corridoio con servizi annessi.” Si interruppe. “A proposito, prendi un caffè?”

L’altro scosse il capo. “No, grazie, preferirei parlare. Scusami se ti chiedo di venire subito al dunque, Ezio…. Allora cos’è questa storia di sca Martinoni?” C’era traccia di impazienza nella voce.

Leardo gli ripose con un’altra domanda: “Come vi siete lasciati?”

“Non esattamente di comune accordo. Non l’ha presa bene che sia stato io a piantarla, ovviamente, ma non ha fatto scenate. E’ una ragazza molto educata. Non ci siamo mai più rivisti né sentiti, se è questo che vuoi sapere.”

L’altro annuì. “Quando stavate insieme…, discutevate mai di politica? Sai per caso se è di destra o di sinistra?”

Pietro scosse il capo. “No, mai. Lei non ne era interessata. Di certo non potrebbe essere di sinistra con quello zio che si ritrova. Specie ora che, come saprai, è entrato in politica schierandosi con il centrodestra.”

Leardo annuì di nuovo. “Durante quei due anni di convivenza, lei vedeva gente…, amici?”

“Molto di rado. Eravamo assorbiti dalla nostra relazione. Usavamo per noi stessi il tempo libero. Quando poteva correva dalla madre a cui era molto legata.”

“Sai se aveva contatti, se pure occasionali, con Paolo Kesler?”

“Paolo Kesler?” Scosse il capo. “No, non ne aveva ragione alcuna. Fatta eccezione, ovviamente, per quelli obbligati quando partecipava alle riunioni conviviali e alle crociere collettive che Martinoni organizzava, e alle quali anch’io ero invitato. Ora non lo so, naturalmente, ma lo escluderei.” Leardo rimase in silenzio per qualche tempo, lo sguardo puntato sul suo interlocutore.

“E se ti dicessi che di recente hanno fatto, in gran segreto, un viaggio insieme a Beirut?”

“Un viaggio a Beirut?” Sbatté le ciglia. “Ma va’?”

“Hai qualche idea di cosa potrebbero esserci andati a fare?” Pietro scosse il capo con vigore. “Nessuna, Ezio. Cosa vuoi… sono cinque anni che non ho contatti. Non so più nulla della loro vita privata.” Parve meditare. “Se dovessi azzardare una ipotesi, penserei a un viaggio di lavoro. Non dimenticare che Kesler è presidente di Mediasystem, la holding delle tre reti televisive di Martinoni, per le quali lei lavora.”

Leardo apparve dubbioso. “Non credo che si sia trattato di un viaggio di lavoro”, disse. “Ed escluderesti anche un viaggio di piacere?”

“Lei con Kesler a Beirut per divertimento? E in questo periodo dell’anno?” Sorrise con sarcasmo. “E a pro di che?”

“Del fatto che potrebbe esserci del tenero tra loro.”

Pietro fece una smorfia e un gesto con la mano come per scacciare una mosca fastidiosa. “Sarebbe assurdo”, disse. “E non potrei crederci. Nessuno meglio di me conosce i gusti di sca in fatto di uomini. Kesler è, sì, un uomo interessante, ma è ultracinquantenne, e io so per certo che lei non si metterebbe mai con qualcuno che potrebbe esserle padre.”

“Già, ma tu non la frequenti da cinque anni. Nel frattempo i suoi gusti potrebbero essere cambiati.” Sorrise di nuovo con ironia e, fissandolo, prese a picchiettare con una biro sul bracciolo della poltroncina. “Comunque sono d’accordo con te, Pietro: non può essersi trattato di un viaggio di piacere. E neanche di lavoro. Abbiamo motivo di sospettare che dietro ci sia qualcosa di grosso… di molto grosso. Qualcosa che abbia a che fare con l’ingresso di Martinoni in politica.”

“A proposito…, non mi hai ancora detto come hai fatto a venirne a conoscenza…”

Leardo non gli rispose, ma gli sorrise in modo enigmatico. Disse: “Kesler è sotto sorveglianza dei Servizi dall’89, l’anno in cui si trasferì in Italia con la madre subito dopo la caduta del Muro di Berlino. E’ da un pezzo che gestiamo un corposo dossier su di lui dai contenuti a dir poco inquietanti.”

“Vale a dire?”

“Riguardano il suo ato di cittadino della Germania orientale. Vi abbiamo indagato alcuni anni fa presso gli archivi di Stato della Germania unificata.”

Con gesto misurato si tolse gli occhiali e cominciò a strofinarne le lenti con il fazzoletto.

Pietro incrociò le braccia sul petto e lo fissò con aria interrogativa, dicendo: “Ti ascolto”.

“Dunque, come saprai, Kesler è nato a Berlino Est nel 1950, da madre romana e padre berlinese. Aveva conseguito, giovanissimo, la laurea in economia per poi intraprendere una sfolgorante carriera presso la Deutsche Bank, che lo aveva portato rapidamente al grado di dirigente a solo trentanove anni. E’ emerso dagli archivi che il padre, di nome Kurt, deceduto nel 1985, era un funzionario di grado elevato della Stasi – la famigerata polizia segreta dell’ex Repubblica democratica tedesca –, nel periodo in cui Honecker ne era presidente. Non so se lo sai, ma la Stasi era la principale organizzazione di spionaggio della Germania Est. Fu fondata nel 1950, ai tempi della Guerra Fredda, e venne modellata sul Kgb, che la reputava come il più efficace tra i vari servizi segreti delle nazioni del Patto di Varsavia. Aveva influenza su praticamente tutti gli aspetti della vita nella Ddr. Fino alla metà degli anni Ottanta, la rete di spie non fece che crescere, anche all’estero. Secondo dati recenti aveva 91mila dipendenti e ufficialmente 300mila informatori. Ciò significa che uno ogni sette abitanti era, a un certo punto della sua vita, una spia della Stasi: la percentuale più alta mai raggiunta in una società dei tempi moderni. In sostanza la Stasi monitorava i comportamenti scorretti di quasi tutti i cittadini, in maniera simile a quanto faceva la Gestapo nella Germania nazista. Furono a centinaia di migliaia coloro che, in quanto ritenuti dissidenti, furono arrestati e rinchiusi nella prigione di Hohenschonhausen a Berlino Est, ora monumento nazionale. E’ qui che molti eminenti personaggi oppositori del regime venivano torturati e spesso uccisi. Si calcola che in 44 anni siano ati per quel carcere 122mila ‘dissidenti’, e che di un terzo di questi si siano perse le tracce.

Durante la rivoluzione pacifica del 1989 che portò alla caduta del Muro, gli uffici della Stasi furono presi d’assalto dai cittadini infuriati, e dai documenti che fu allora possibile reperire, oggi disponibili, emersero non soltanto gli elenchi

dei nomi delle persone spiate, ma anche quelli delle spie che spesso si rivelarono essere amici stretti o addirittura famigliari delle prime.” Leardo inforcò gli occhiali sistemandoli con cura sul naso. “Incredibile ma vero… E c’è dell’altro. Dopo l’unificazione tedesca, venne rivelato che la Stasi aveva anche aiutato in segreto dei gruppi terroristici di sinistra tra cui la Rote Armee Fraktion.

La perdita del o della Stasi fu uno dei fattori principali dello scioglimento di tutti questi gruppi, compresa la RAF.”

“Stai per dirmi che il nome di Paolo Kesler compare in quegli elenchi?”

“No, purtroppo. Non c’è in nessuno degli elenchi disponibili di spie, dato che una buona parte del materiale fu distrutto dagli agenti, in tempo prima dell’irruzione della folla negli uffici del Ministero. Ma noi abbiamo il ragionevole sospetto che sia stato sin da giovanissimo un informatore – o spia che dir si voglia – della Stasi. Un’attività che probabilmente aveva intrapreso su sollecitazione del padre. Altrimenti non si spiegherebbe la sua decisione di trasferirsi in Italia in fretta e furia, subito dopo la caduta del Muro, evidentemente per il timore di essere individuato e arrestato.”

Pietro annuì con aria grave. “Mi riesce difficile crederlo. Ma tornando al viaggio a Beirut con la Martinoni…, come hai fatto esattamente a venirne a conoscenza?”

“E’ stato grazie a una intercettazione telefonica. Il 15 novembre scorso Kesler l’ha chiamata sul cellulare. Dalla sorpresa che lei ha manifestato nel sentirlo, si sarebbe detto che non lo faceva spesso. Dalla conversazione è emerso che entrambi si trovavano a Roma, ma che lei era in procinto di rientrare a Milano avendo ultimato di girare una fiction. Lui è riuscito a convincerla a trattenersi, invitandola a cena con la motivazione che aveva qualcosa di molto importante di

cui parlarle. Poi l’ha pregata di cancellare il volo per Milano, e di non disfare la valigia perché le avrebbe proposto di fare un breve viaggio insieme all’estero, ma senza precisarle dove. Lei è apparsa renitente, gli ha chiesto dettagli, ma lui si è trincerato dietro la giustificazione che non poteva esprimersi per telefono.” Rimase in silenzio a fissare il suo interlocutore per studiarne la reazione.

“In effetti è un comportamento molto strano da parte di Kesler”, Pietro disse a bassa voce. “Non riesco a immaginarne una ragione plausibile.” Tacque per alcuni secondi. “Sicché lo intercettate quando usa il cellulare…”

“Sì, ma non solo. Anche il telefono fisso è tenuto sotto controllo. Nel suo appartamento abbiamo piazzato un buon numero di micro-spie.” Fece una pausa. “Sinora non è mai emerso alcunché di rilevante. E’ lampante che deve aver mangiato la foglia e si comporta di conseguenza. Non dice niente di compromettente quando è in casa, neppure al telefono.” Si fermò per un attimo. “Devi sapere che Kesler è compreso in un nutrito elenco di personaggi – dal ato dubbio, e con doppia nazionalità –, che non perdiamo d’occhio per assicurarci che non compiano atti illeciti pericolosi per la democrazia. Delle informazioni che riusciamo ad acquisire sul loro conto, di quelle che riteniamo rilevanti e di nostra competenza ce ne occupiamo direttamente, le altre le iamo al Sismi – che ha una strut-tura simile alla nostra, ma indipendente –, o alla stessa Presidenza del Consiglio. E’ una attività del tutto legale, e risponde a motivi di sicurezza nazionale. Mi spiego?”

“Perfettamente.”

“Prima di quella intercettazione del quindici novembre, non avevamo mai riscontrato alcunché di significativo nel traffico sul cellulare di Kesler. Unica notazione: lo usa sempre con molta circospezione e… parsimonia, come d’altronde tutti coloro che sospettano di essere sorvegliati.” Si tolse un pelino dalla manica della giacca.

“Che cosa intendi di preciso quando dici con circospezione?”

“Be’… non di rado tronca le conversazioni con la classica frase sospetta: ‘è un argomento di cui non posso parlare per telefono.’ Ma questo è un comportamento comune a molti dei nostri controllati, e non ci preoccupa più di tanto.” Si aggiustò gli occhiali sul setto nasale. “Ma ritorniamo a quella intercettazione del quindici novembre... Anche a noi quella conversazione con la Martinoni è apparsa strana, e abbiamo ritenuto che valesse la pena di darci un’occhiata, focalizzandoci su quel viaggio all’estero dalla destinazione misteriosa. Che motivo c’era, ci siamo domandati, per non volerla rivelare al cellulare?” Sembrò riflettere per qualche attimo. “Comunque non è stato difficile scoprirla. Abbiamo disposto un controllo accurato delle liste dei eggeri partiti su voli internazionali da Malpensa e Linate, nei giorni successivi al quindici novembre: quei due erano prenotati su un volo Alitalia decollato da Linate per Beirut, nel primo pomeriggio del diciassette novembre.” Si mise a giocherellare con la biro.

“Avremmo voluto farli sorvegliare in loco, ma non ne abbiamo avuto la possibilità, dato che non disponiamo di contatti o informatori nei Servizi segreti libanesi. Quindi non c’è restato altro da fare che verificare la data del loro rientro, con lo stesso metodo usato per la partenza; a questo punto è emerso un interessante particolare. Il nome di sca Martinoni era compreso in un elenco eggeri di un volo Alitalia arrivato a Linate da Beirut alle sedici e cinquanta del venti novembre. Ma di Paolo Kesler non c’era traccia.”

“Non è niente di cui sorprendersi”, Pietro osservò. “Ricordo che Kesler viaggiava in continuazione. Sarà andato da qualche altra parte per affari, prima di rientrare a Milano.” Leardo alzò una mano. “Aspetta un momento, Pietro, non ho finito…, non è questo il particolare cui mi riferivo. Kesler ha tenuto il cellulare spento per tutto il tempo durante la permanenza a Beirut. Poi ha commesso una imprudenza, secondo me. D’improvviso il venti novembre intercettiamo una sua chiamata. La conversazione si svolge in se, di cui il

nostro uomo sembra avere una notevole padronanza, e dall’altra parte c’è una voce femminile che parla con un accento parigino, stando al parere del nostro esperto linguista. Lui le si rivolge chiamandola madame Lacroix e colloquiano per meno di un minuto. Kesler le annuncia il suo arrivo, e la prega di fargli una prenotazione per il giorno successivo, alle venti in punto.”

“Non ha l’aria di una prenotazione fatta alla reception di un albergo…”, Pietro osservò.

“Infatti non lo è. Anzitutto perché il nome dell’hotel non è menzionato, e in secondo luogo è per il ventuno, il giorno successivo al suo arrivo.”

Pietro annuì. “E allora?”

“Abbiamo avuto conferma che si trovasse a Parigi, grazie a un nuovo, sofisticato sistema di intercettazioni che consente di localizzare il luogo preciso dove l’intercettato sta usando il cellulare. Abbiamo quindi contattato un nostro fedele informatore nel Deuxième Bureau, i Servizi segreti si, con la richiesta di una verifica lampo in tutti gli alberghi a cinque stelle di Parigi nel tentativo di individuare quello dove Kesler era sceso. Gli abbiamo anche riferito della sua telefonata a questa madame Lacroix, nel caso che la donna fosse una loro conoscenza. Il giorno dopo il nostro uomo ci richiama per riferire che la ricerca ha dato esito positivo: Kesler era sceso al Ritz. Ma non è tutto. Guarda caso che questa madame La-croix è un nome ben noto ai Servizi si in quanto tenutaria del bordello più lussuoso di Parigi, frequentato, in assoluta segretezza, dal fior fiore della classe ricca e potente della capitale. Lei collabora con i Servizi nel senso che, servendosi delle prostitute, riesce a carpire importanti informazioni dagli illustri clienti, che poi riporta. Come ricompensa viene lasciata in pace: la polizia finge di ignorare persino l’esistenza della sua casa equivoca.” Si interruppe e trasse un profondo sospiro prima di proseguire. “Ora… la maitresse, interpellata, ha dichiarato che Paolo Kesler aveva prenotato una camera in cui trascorrere la notte con una stupenda prostituta, ma prima

aveva avuto un incontro riservato con un certo Gerard Reynaud, un avvocato di bassa tacca. E’ un nominativo in cima alla lista dei più insigni sorvegliati dell’intelligence se, dato che è il capo di quello che resta del partito comunista. Ma non solo: questo signore è sospettato di essere il demiurgo di un movimento sotterraneo di matrice eversiva – da lui stesso fondato dopo la caduta del Muro –, che coltiva idee velleitarie di restaurazione di regimi comunisti in quei Paesi europei dove l’ideologia marxista è tuttora viva in una certa misura, se pure allo stato latente.

“Trattasi, per certi versi, di un fenomeno analogo a quello sviluppatosi nel Dopoguerra dopo la caduta del Nazismo.” Fece una pausa e lo fissò. “Hai mai sentito parlare di Odessa? Era un’organizzazione segreta fondata nel 1946 col compito di organizzare la fuga di nazisti criminali di guerra dalla Germania verso il Sud America, soprattutto l’Argentina. Ma operava, anche, per la rinascita, se pure non in tempi brevi, del Terzo Reich.” Si fermò per alcuni secondi fissando il suo interlocutore. “Ora, questo Reynaud ebbe il bordello di madame Lacroix – ma di certo non soltanto quello – come paravento per i suoi incontri clandestini con alti esponenti del movimento.”

“Si sa come operano?” Pietro chiese, lo sguardo colmo di interesse.

“Sembra che possano contare sulla collaborazione di qualche migliaio di adepti reclutati in tutta Europa, per lo più ex agenti e informatori del Kgb e della Stasi. Oggi sono personaggi illustri e insospettabili, infiltrati in settori sensibili o addirittura nei vertici delle istituzioni, o di grandi aziende di rilevanza nazionale e internazionale. Si sono integrati alla perfezione nelle comunità dei paesi in cui vivono.

“Una rete di spie, insomma, in grado di avere accesso a informazioni importanti, o di procurarsele. Gli adepti le riportano ai vertici dell’organizzazione, ma anche si adoperano – laddove le condizioni del Paese appaiono favorevoli – per facilitare la realizzazione delle ambizioni restauratrici. Sembra che dispongano

di ingenti risorse, di cui non si conosce la fonte.” Tacque e guardò Pietro. “Che te ne pare?”

L’altro apparve dubbioso. Disse: “L’ipotesi che Kesler sia una spia comunista, è così folle che mai e poi mai potrei crederci.” Il tono era di grande convinzione.

“Fossi in te non lo direi con troppa certezza”, Leardo replicò. “L’incontro con quel Reynaud ne è un forte indizio, quasi una prova. Dubito che abbiano parlato degli affari di Mediasystem.

Pietro lo fissò intensamente, dicendo:

“Ma è il miglior amico di Martinoni, Ezio, che il comunismo lo aborrisce. E’ stato lui a farlo diventare quello che è oggi. Come si fa a sospettare che lo tradisca.”

“Potrei citarti casi di personaggi del genere che sono stati alla fine smascherati. Naturalmente, non è dato sapere quando ha aderito a quell’organizzazione segreta, ma questo è un aspetto irrilevante. Lo è invece il fatto che sia riuscito a infiltrarsi nell’apparato dirigente del gruppo di Martinoni, la cui simpatia e benevolenza è riuscito ad accattivarsi fino a diventarne il suo braccio destro…, e migliore amico. Il che gli ha valso la presidenza di Mediasystem: un’ottima copertura per la sua attività di informatore del- l’organizzazione, di cui è anche quello che potremmo definire un agente ‘in sonno’, alla stessa stregua dei terroristi di Al Qaeda infiltrati in vari Paesi in attesa di diventare operativi.”

“Ora immagino mi dirai che recentemente si è svegliato”, Pietro lo anticipò.

“Proprio così. Si è svegliato ed è entrato in azione nel momento in cui Martinoni gli ha comunicato il suo fermo proposito di entrare in politica, candidandosi come premier nel centrodestra alle prossime elezioni di fine febbraio.” Si interrupe per alcuni secondi. “Ma non è la sola ragione del suo risveglio. Kesler è di sicuro al corrente delle voci che circolano su una molto probabile candidatura di Rosario Mancuso – un esponente di spicco del partito comunista –, alla Presidenza del Consiglio di un governo di centrosinistra, in caso di sua vittoria elettorale. Ha quindi fiutato la possibilità concreta che in Italia si instauri un governo a guida comunista. Il che costituirebbe un grande successo per questa organizzazione eversiva se-greta di cui è membro, anche perché potrebbe fare da apripista ad altri casi simili in Europa.”

“Quindi…”, Pietro lo anticipò, “…perché ciò avvenga deve impegnarsi in qualsiasi modo per sbarrare la strada a Martinoni. Non è così?”

“Esattamente. Ma la domanda è: come? Non è facile visto che il Magnate è in grado di dispiegare, in campagna elettorale, mezzi tecnici e risorse finanziarie praticamente illimitati.”

“Aspetta un po’, Ezio…”, Pietro lo interruppe. “Non dimenticare che a mettergli il bastone tra le ruote saranno anche i suoi avversari politici, che di certo monteranno contro di lui una campagna molto aspra di diffamazione, per infangarne l’immagine.”

Leardo annuì. “Lo so, ma credo che non basterà a fermarlo. Anzi, paradossalmente potrebbe ritorcersi contro i promotori della campagna, nel senso che contribuirebbe ad alimentare un’immagine di lui ‘vittima e perseguitato’; sortirebbe l’effetto opposto di fargli guadagnare voti.”

Si interruppe andosi una mano sul cranio semipelato. “No, per metterlo fuori gioco ci vuole ben altro. Un’azione forte… molto forte.”

Pietro lo fissò intensamente. “Stai cercando di dirmi che Martinoni dovrebbe temere per la propria vita?”

“Ma neanche per sogno!” Fece una smorfia. “Chiunque dei suoi nemici o avversari che dovesse meditare un attentato, sarebbe scoraggiato dalla consapevolezza del rischio di farne un martire agli occhi di tutto l’elettorato, con il risultato di spostare l’ago della bilancia vistosamente verso lo schieramento opposto, che pertanto vincerebbe in modo travolgente.” Si fermò di nuovo. “Con questo non intendo dire che Martinoni può dormire sonni tranquilli… Con il suo ingresso nell’agone politico, si prospetta una campagna elettorale infuocata in cui può succedere di tutto. Ci sono in giro un sacco di scalmanati e malintenzionati che lo vedono tutt’altro che di buon occhio. Fossi al suo posto mi raddoppierei la scorta e mi muoverei con grande cautela nelle apparizioni pubbliche.”

Pietro annuì, poi disse:

“Allora, Ezio, che cosa pensi potrebbe succedergli di tanto grave da impedirgli di vincere le elezioni?”

“Naturalmente non ne ho la minima idea, ma credo che debba trattarsi di qualcosa di grosso…, di molto grosso, che qualcuno sta ordendo. Qualcosa che senza colpirlo fisicamente sollevi una tale indignazione popolare nei suoi confronti, da obbligarlo a uscire di scena. Credo, anche, che questo qualcuno sia Paolo Kesler, che opera in gran segreto per conto di questa fantomatica organizzazione di stampo comunista.”

“Non puoi esserne certo al cento per cento. Non ci sono prove.”

“No, ovviamente, ma alcuni chiari indizi, sì. Non possiamo permetterci di prenderli sottogamba. Anzitutto abbiamo la quasi certezza che Kesler sia stato, per molti anni, una spia comunista della Stasi ai tempi della Guerra fredda. Poi, c’è il suo incontro con quel Reynaud. La domanda è: di cosa avranno parlato? L’istinto mi dice che hanno discusso un piano criminale da attuare in campagna elettorale per costringere Martinoni ad abbandonare la corsa. Infine, c’è questo suo misterioso viaggio in Libano con la nipote. Che cosa ci saranno andati a fare? Un ultimo interrogativo è d’obbligo: è possi-bile che lei sia in qualche modo implicata nella faccenda?”

“Ma è pazzesco, Ezio!” Pietro esclamò. “Come puoi sospettare una cosa simile? sca è la nipote unica e prediletta di Martinoni… Gli deve una riconoscenza illimitata per la donna celebre che è diventata.”

“Lo so, ma potrebbe esservi coinvolta senza saperlo, Pietro. Se i miei sospetti su Kesler sono fondati, è possibile che lui l’abbia manipolata facendone uno strumento inconsapevole del suo oscuro obbiettivo.” Esitò per alcuni secondi. “Ho la netta sensazione che abbiamo a che fare con un personaggio privo di scrupoli e…. molto pericoloso. Ci corre l’obbligo di metterla in guardia e, se necessario, di proteggerla.”

Pietro non replicò.

“In nome della nostra vecchia amicizia”, Leardo continuò, “devo chiederti ufficialmente di collaborare con il Sisde in questa delicata faccenda. In questo momento, l’unico modo perché tu possa farlo è contattare la ragazza cercando di

portarla qui da me per un colloquio riservato. Pensi di riuscirci?”

L’altro annuì. “Ci proverò, Ezio. Ma non sarà facile dopo il modo brusco in cui l’ho mollata. Mi aspetto una reazione negativa.”

Leardo gli sorrise enigmatico. “Io credo di poterti facilitare il compito.”

“Come?”

“Dille che devo riferirle qualcosa di interessante al riguardo di quell’incidente aereo in cui persero la vita i suoi genitori.”

“D’accordo… lo farò. Ma ora spiegami di che si tratta.”

21

I quattro giorni che seguirono quello dell’arrivo di Nino a Milano assieme a sca, furono privi di eventi. Il tempo trascorse lento e monotono, sempre uguale. Il tizio che avrebbe dovuto accoglierlo a Linate non si fece vivo neppure per telefono. Il che accrebbe a dismisura il suo malumore. La sensazione che provava era quella di un animale chiuso in gabbia, anche se dorata vista la sfarzosità dell’alloggio. Quando non leggeva, guardava la televisione o ascoltava i cd, oppure eggiava nervosamente su e giù nel soggiorno in attesa di quella telefonata che non arrivava mai. Spesso sostava davanti all’enorme portafinestra a scrutare il traffico su via Vincenzo Monti, che nelle ore di punta scorreva lentamente sino a quasi paralizzarsi.

sca andava e veniva. Era ancora in ferie, e a volte scompariva per l’intera giornata. Aveva un comportamento normale, anche se percepiva un certo clima di disagio, talvolta di tensione, che giorno dopo giorno sembrava divenire sempre più palpabile nell’ambiente.

La sera era sempre in casa, e preparava la cena. Trascorrevano insieme le serate a chiacchierare del più e del meno, o a guardare la televisione seduti sul divano, fino all’ora in cui lei si ritirava in camera da letto. Quando parlavano, avevano cura di eludere l’argomento che era ormai divenuto per entrambi una sorta di tabù: lo scopo per il quale lui era venuto a Milano.

Il quinto giorno Nino, stanco di quella sorta di prigionia volontaria, cominciò a uscire per fare delle lunghe eggiate che duravano fino a due ore. Camminando a o spedito riusciva a scaricare in parte la tensione dell’attesa.

Ma stranamente, da qualche giorno, l’interesse per la telefonata era andato

scemando. Ora pensava che se fosse arrivata mentre era fuori, chi lo aveva cercato avrebbe richiamato. Non si era più rasato deliberatamente da quando aveva lasciato Beirut, e pertanto esibiva una barba abbastanza folta da renderlo probabilmente irriconoscibile – oltre che per la lunga assenza – a qualche amico o conoscente in cui si fosse imbattuto. Non che considerasse un problema una siffatta evenienza.

In quello scorcio di novembre, la temperatura a Milano era rigida ma il tempo era splendido, il cielo terso di un blu cobalto, l’aria limpida e frizzante priva di smog grazie ad alcune precedenti gior-nate di forte vento. Scrutando in lontananza verso nord, erano visibili le pendici grigioverdi e i contorni ben definiti delle montagne.

Nelle lunghe eggiate mattutine, Nino compiva pressoché sempre lo stesso tragitto. Uscito di casa percorreva via Vincenzo Monti congestionata dal traffico automobilistico e dei tram d’epoca. Arrivava fino in fondo, e quindi piegava a sinistra proseguendo per piazzale Cadorna, Foro Bonaparte, largo Cairoli, piazza Cordusio e piazza Duomo. Lì si fermava per qualche minuto ad ammirare la maestosa cattedrale con gli occhi incantati di un turista che la vede per la prima volta. Di solito procedeva lungo il corso Vittorio Emanuele fermandosi, di tanto in tanto, davanti alle lussuose vetrine. Giunto in piazza San Babila, ritornava sui suoi i. Avvertiva l’esilarante sensazione di essersi riappropriato della sua città dopo quindici anni di assenza, anche se non gli sfuggivano i numerosi cambiamenti. Spesso notava che, laddove c’era stato un bar o un negozio che lui frequentava abitualmente, ora c’era una diversa attività commerciale.

“Ti piace Milano?” chiese una sera a sca mentre cenavano con un’ottima bistecca ai ferri cotta al sangue.

“Be’ certo…, è bellissima ed è la mia città natale. Ma amo molto anche Roma dove solitamente lavoro. E a te?”

“Tanto…”, le rispose annuendo. “Ne sono innamorato. Ho la strana, gradevole sensazione di esservi ritornato per sempre. Purtroppo so che è ingannevole. Esaurito il mio incarico dovrò ritornare a Beirut.” Ebbe un sorriso triste mentre versava il vino nei bicchieri.

“Chissà, non si può mai sapere… Magari potresti restarci per sempre…” Lui non replicò, ma bevve un lungo sorso di vino e poi ò decisamente a un altro argomento.

Una sera lei lo invitò fuori a cena con la sua Lamborghini gialla.

“Complimenti per la splendida vettura”, le disse sorridendo una volta salito a bordo dopo aver girato intorno alla macchina con lo sguardo ammirato.

“E’ un regalo dello zio Ugo per il mio venticinquesimo compleanno”, lei lo informò innestando la prima marcia.

Rombando armoniosamente il bolide salì la rampa di uscita del garage sotterraneo dello stabile. In breve raggiunsero la circonvallazione. Lui fu sorpreso della grande abilità di sca nella guida sportiva. Cambiava le marce con tale scioltezza da quasi dare l’impressione di non muovere la mano. Manipolando lo sterzo con destrezza, effettuava rapidi e improvvisi sori, riuscendo così a districarsi con disinvoltura nel traffico convulso di quell’ora di punta della sera, in cui un gran numero di persone si dirigeva verso il centro storico, alla ricerca di locali in cui svagarsi fino alle ore pic-cole.

Parcheggiarono nei pressi di un rinomato ristorante sui Navigli, la cui specialità era il pesce fresco. Ce n’era un ampio contenitore di vetro disposto in bella vista nell’ingresso. Il locale era in penombra e affollato al limite della capienza. Il brusio delle conversazioni era elevato. sca aveva prenotato e un cameriere li guidò al loro tavolo un po’ appartato. Nell’attraversare la vasta sala, Nino avvertì una sensazione di disagio mista a orgoglio per il fatto di avere al proprio fianco una donna famosa e splendida, su cui si posavano gli sguardi ammirati di molti avventori.

Dal menù ordinarono entrambi degli spaghetti alla marinara, seguiti da branzino al cartoccio. Da bere sca scelse dalla lista dei vini un Pinot grigio. Furono serviti nel giro di cinque minuti e cominciarono a mangiare in silenzio.

Da quando erano entrati nel locale, Nino aveva notato un improvviso cambiamento di umore in sca. Appariva turbata come se qualcosa la impensierisse. Spesso muoveva la testa per lanciare in giro brevi sguardi nervosi.

“Cos’hai?” le chiese a un tratto. “Qualcosa non va?” Si portò alle labbra il calice di vino.

Lei deglutì il boccone prima di dire: “Forse è stata una imprudenza venire in questo ristorante… Non pensavo che fosse così affollato. C’era pochissima gente l’ultima volta che ci sono stata.”

“Non capisco, sca, qual è il problema?”

“In molti ci stanno osservando.”

“E allora?” La guardò perplesso. “Dovresti esserci abituata, no?

“Certo, ma non è questo il punto… Speriamo di non incappare in qualche giornalista di riviste gossip. Potrebbe ricamarci sopra un articolo di stampo scandalistico di cui mi sembra già di vedere il titolo: Chi è lo sconosciuto con cui si accompagna sca Martinoni? E poi giù con una serie di illazioni, supposizioni, pettegolezzi gratuiti da malelingue. Il che potrebbe guastarmi l’immagine, e, quello che più importa, mettere a rischio la tua sicurezza.” Appariva sinceramente preoccupata.

Lui alzò le spalle in un gesto di indifferenza. “Sta’ tranquilla che non succede nulla…” Le rivolse un sorriso rassicurante da sopra l’orlo del bicchiere.

“In ato non mi sono mancate sgradevoli esperienze di questo tipo.” Fece una pausa. “Comunque sia, sarà bene che finiamo in fretta di mangiare e tagliamo la corda. Non vorrei che qualcuno scattasse furtivamente qualche foto. Non si sa mai…”

Promise a se stessa che d’ora innanzi avrebbe indossato la parrucca bionda e gli occhiali scuri ogni volta che usciva con lui, sì da ridurre al minimo la possibilità di essere riconosciuta.

Poco dopo erano fuori dal ristorante, e si dirigevano verso il luogo dove sca aveva parcheggiato la Lamborghini, distante alcuni minuti di strada. Mentre camminavano fianco a fianco, lui avvertì l’impulso improvviso di prenderla per un braccio in un attraversamento pedonale, come per proteggerla. Prima d’ora aveva già percepito istinti protettivi nei confronti di un’altra donna. Era stato per Tanya, una giovinetta indifesa che dal mondo aveva rice-vuto solo

maltrattamenti, ai quali lui si era impegnato a porre termine. Ora capiva, dopo aver conosciuto sca, che il desiderio di proteggere la ragazza araba era dettato dalla pietà, e niente di più. Per sca provava invece, in quel momento, un sentimento che non riusciva a decifrare con chiarezza. Era amore? Simpatia? O soltanto ammirazione? Non era ancora in grado di stabilirlo. Ma era un fatto che lo turbasse profondamente, innescandogli strani e frequenti impulsi che raramente prima di allora aveva sperimentato. Appunto come quello protettivo di poco prima.

sca era ricca e famosa, poteva procurarsi tutto ciò che desiderava. Il che la rendeva, al contrario di Tanya, oltremodo sicura di sé e invulnerabile. Mentre guidava, lui si girava a tratti per osservarle il perfetto profilo del viso, la cui espressione disinvolta le conferiva un’aria di inconsapevolezza della propria straordinaria bellezza, e dell’influenza che cominciava a esercitare su di lui. Nino pensava che, probabilmente, quello che provava per lei era soltanto sterile desiderio fine a se stesso, per quanto intenso. Temeva che se fosse durato avrebbe potuto compromettere la sua capacità di fred-do raziocinio, anche se temporaneamente. Durante la notte, mentre giaceva sul divano a riflettere in attesa del sonno, era con grande sforzo di volontà che riusciva a vincere la tentazione di entrare nella sua stanza da letto e prenderla tra le braccia. Ma ‘amore’ era una parola che continuava a rifiutarsi ostinatamente di accettare, per definire il suo vero sentimento verso di lei. Quando sca era via, si aggirava nell’appartamento in preda a una sorta di impazienza nervosa. Sentiva che gli mancava, e attendeva con ansia il suo ritorno. Esultava quando sentiva il rumore dell’ascensore e quello della chiave che girava nella serratura.

Quando era con lei, dimenticava lo scopo per il quale era venuto a Milano. Quel contratto omicida a cui era vincolato, gli usciva del tutto di mente. Aveva ormai smesso di pensare a quella telefonata che non era ancora arrivata. Tanya e Beirut erano diventati come ricordi di un lontano ato. Le splendide giornate che trascorreva con sca erano l’unica realtà che per lui contasse.

sca accostò al marciapiede quando giunsero davanti allo stabile in cui

abitava, e scesero dalla macchina. Il portiere che li aveva visti arrivare si fece loro incontro e, dopo averli salutati ossequiosamente, scivolò sul sedile del guidatore per portare la vettura in garage.

“Bevi qualcosa?” gli chiese una volta che furono entrati nel soggiorno.

“No, grazie.”

Le prese la giacca mentre lei se la sfilava e poi, in un gesto impulsivo, le sfiorò una guancia con le nocche.

La vide irrigidirsi così visibilmente che sembrò quasi trasalire, e capì che la sua era stata una mossa avventata. Temette per un attimo che potesse provocare una sua reazione simile a quella del giorno in cui erano arrivati.

“Hai ancora paura di me?”

Lei scosse il capo con veemenza. “Non è di te che ho paura, Nino, ma di me stessa.” Rimasero in silenzio per qualche minuto, mentre lui rifletteva su ciò che di sottinteso c’era in quell’ultima affermazione. Poi disse all’improvviso: “Non posso abusare oltre della tua ospitalità. Potrebbe are ancora molto tempo prima che qualcuno mi contatti. Ho abbastanza denaro per andare in albergo. Se qualcuno mi cercherà potrai prendere il messaggio e riferirmelo. E’ meglio che tolga l’incomodo. Meglio per te, soprattutto.”

“No, non andartene…”, gli disse con grande enfasi muovendo alcuni i verso

di lui. Nino la guardò e vide che aveva gli occhi lucidi di pianto. “Ti prego, non andare via”, ripeté. “Non voglio che mi lasci. Va bene… mi rendo conto di quello che può succedere se rimani, ma non m’importa.” Si fermò fissandolo intensamente. “Hai capito? Non me ne frega niente di ciò che può accadere.” Trasse di tasca un fazzoletto e si asciugò gli occhi. “Ma è mai possibile, Sergio, che non ti sia ancora accorto che mi sono innamorata di te?”

Allungò una mano verso di lui che la afferrò attirandola a sé. Quando furono vicinissimi le cinse la vita con le braccia stringendola con forza. Poi le mise una mano sulla bocca come per impedirle di continuare a parlare.

“Non devi dirlo e neppure pensarlo”, le disse. “Non sai nulla di me. Ma ti rendi conto della gravità di quello che hai appena detto? Non sono il tipo di uomo adatto a una donna come te, lo capisci o no? Tu hai bisogno di un giovane del tuo stesso rango, che magari ti sposi.”

Con una mano le scostò una folta ciocca di capelli scuri che le era in parte ricaduta davanti al viso. La guardò dritta negli occhi. “Se mi capitasse tra le mani quell’idiota che ti ha lasciata, sta’ pur certa che non gliela farei are liscia.”

“Non ne avresti alcuna ragione”, lei disse sommessamente. “Non mi importa più niente di lui. E’ acqua ata. Pensavo di esserne innamorata, ma ora so che mi ingannavo. Credevo che fosse vero amore il sentimento che nutrivo per lui, ma poi mi sono resa conto che era falso. Tu sei l’unico vero amore che ho incontrato nella mia vita. Quando penso a l’altro, vorrei che non fosse mai esistito.”

“Quando anch’io me ne sarò andato”, lui disse con un pallido sorriso, “mi rimpiangerai come hai fatto per l’altro, ma alla fine ti erà.”

Lei gli gettò le braccia intorno al collo, e in quel preciso istante lui la strinse a sé con maggiore forza.

“Se ti perderò”, gli sussurrò, “sono certa che non potrò mai più dimenticarti.”

22

Il folto capannello di gente sostava sotto la pensilina in attesa dell’autobus per ripararsi dalla pioggerella che da alcune ore cadeva su Beirut. Era calata la sera, il traffico era molto rarefatto, e la strada lucida e sdrucciolevole rifletteva le luci degli edifici e delle vetrine dei negozi.

Nel giro di pochi minuti l’autobus arrivò, e, preso a bordo il suo carico umano, si allontanò rombando e rilasciando una scia di fumo intenso e scuro. Ma non tutti quelli che lo avevano atteso vi erano saliti. Fermo sotto la pensilina, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni, era rimasto un giovane il cui aspetto non poteva are inosservato, se non altro per i tratti del volto marcatamente occidentali.

Era sulla trentina, molto alto e magro, ma dal corpo nerboruto. Aveva capelli biondi tagliati a spazzola, occhi e carnagione molto chiari. Indossava una giubba di cuoio scuro sopra dei jeans blu, e scarpe da ginnastica. Ciò che sembrava attirare il suo interesse, era l’alto edificio moderno che sorgeva dall’altra parte della strada. L’intero pianterreno alloggiava la concessionaria di Beirut della BMW. Nell’enorme salone vetrato, erano esposte cinque vetture di diversi modelli, che la vernice metallizzata faceva luccicare nella vivida illuminazione artificiale dell’ambiente.

arono alcuni minuti, e poi fece il suo ingresso nello showroom quella che aveva tutta l’aria di una normale famiglia di quattro persone: il padre, un libanese sulla quarantina, accompagnato dalla moglie, una giovane donna dalla carnagione olivastra, e due figli in età adolescenziale.

La pioggia cessò all’improvviso. L’uomo biondo sotto la pensilina sembrò

accigliarsi, e si portò sul bordo del marciapiede per osservare meglio la scena che si svolgeva all’interno della concessionaria. Estrasse un cellulare e selezionò un numero sulla rubrica.

“Sì, dimmi…”, disse la voce roca di un uomo la cui gola doveva essere devastata dal fumo.

“E’ arrivato.”

“Bene. E’ tutto pronto?”

“Sì, ma c’è un imprevisto.”

“Spara.”

“Si è portato dietro la famiglia: la moglie e due figli in tenera età.”

“Ah!”

Seguì un lungo silenzio, poi il Biondo disse: “Purtroppo dobbiamo procedere comunque.”

“Certamente. Sai benissimo che a questo punto non c’è alcun modo di abortire il

piano.”

“Ma forse…”

“Niente ma né forse!” l’altro lo interruppe bruscamente. “Chiamami quando tutto sarà finito, okay?” Chiuse la comunicazione.

L’uomo intascò il cellulare e rimase con lo sguardo perplesso rivolto al salone. Vide il libanese avvicinarsi a una berlina di grossa cilindrata di colore grigio metallizzato: era una BMW 330i. Fece scorrere il palmo di una mano sopra il tettuccio lucido come se accarezzasse una bella fanciulla, il volto atteggiato a un sorriso soddisfatto. La moglie e i figli presero a girare lentamente intorno alla vettura, scrutandola con occhi colmi di ammirazione.

“Salam aleikum, Hassan.”

“Aleikum salam, Mohammed.”

Hassan si voltò ricambiando il saluto al titolare della concessionaria – un tipo statura media e di carnagione molto scura –, che lo accolse sorridendo. “E’ pronta?” gli chiese poi indicando con un movimento del capo la prestigiosa vettura dalla linea filante.

“Certo, puoi ritirarla. Resta soltanto da firmare il contratto di acquisto”

Hassan Asad aveva deciso di cambiare la macchina. Quello di possedere una BMW nuova era stato da sempre il desiderio in cima all’elenco di quelli inappagati. Il titolare della concessionaria, suo amico da lungo tempo, gli aveva praticato un trattamento di favore. Ma non aveva accettato in permuta la vecchia Toyota che, ridotta ormai a un ferro vecchio, era soltanto buona per la rottamazione. Era una spesa che ora poteva permettersi con tranquillità. Il compenso di centocinquantamila dollari che aveva percepito in contanti da quel tale che gli aveva commissionato la ricerca del tiratore scelto, bastava e avanzava.

Si era spesso domandato chi mai potesse essere la vittima designata che Salvo doveva colpire. Certo, visto il compenso di un milione di euro, doveva trattarsi di un personaggio illustre. Ma Hassan sospettava che in una operazione di quel tipo era insito un duplice rischio: fallire ed essere arrestato, oppure essere eliminato, a lavoro eseguito, dagli stessi committenti in quanto ritenuto testimone pericoloso. Riteneva che Nino sarebbe stato molto fortunato se fosse riuscito a fare ritorno a Beirut.

A volte pensava a quella ragazza che aveva lasciata sola, ma senza problemi economici. Forse non sarebbe stata una cattiva idea farle visita prima o poi, magari quando fosse stato certo che Nino non sarebbe più ritornato. Anche se aveva un corpo troppo esile da suscitare negli uomini grandi impulsi erotici, stranamente lui la trovava sexy, e non avrebbe disdegnato andarci a letto.

“Vieni…, andiamo nel mio studio”, Mohammed lo invitò.

Percorsero un lungo corridoio che conduceva nel retro del salone finché il concessionario non si fermò sulla soglia del suo studio e si scostò per far are Hassan.

Un uomo in tuta blu era intento a trafficare con la serratura della porta, come per ripararla.

Si sedettero, e Mohammed prese da un cassetto della scrivania una cartelletta di plastica bianca. “Questo è il contratto di acquisto”, disse estraendone un modulo già compilato.

“Cos’è successo?” Hassan gli chiese indicando con un gesto l’uomo in tuta che armeggiava con la serratura.

“Ah… quello…” L’altro scosse lentamente il capo. “Sta riparando la serratura. Stanotte abbiamo avuto un tentativo di furto con scasso.” Porse ad Hassan il contratto e una biro per firmarlo. “I ladri si sono introdotti forzando la porta di servizio. Hanno messo a soqquadro i locali, hanno svuotato gli schedari e rovesciato per terra i cassetti delle scrivanie. Hanno rotto la serratura del mio studio per entrarvi. Ma non c’era nulla da rubare, e se ne sono andati con le pive nel sacco.” Si interruppe sorridendo. “Il contante lo custodisco in cassaforte, e per aprire quella ci vuole la combinazione, oppure la fiamma ossidrica, di cui, evidentemente, i ladri non disponevano.”

Hassan firmò il contratto dopo avergli dato una rapida scorsa, e quindi stilò un suo assegnò personale di quarantacinquemila dollari tratto sulla Bank of Beirut, che porse al concessionario.

Cinque minuti dopo, tutti e quattro i componenti la famiglia A-sad erano a bordo della BMW nuova fiammante, sprofondati nei sedili di morbidissima pelle chiara. Hassan appariva raggiante. Fece scorrere le mani attorno allo sterzo rivestito di cuoio scuro, e si mise a studiare la strumentazione sul cruscotto di pregiata radica. L’auto era superaccessoriata: chiusura centralizzata con antifurto, sei airbag, radio con inglobato lettore di CD, condizionatore auto-

matico, servosterzo, cristalli elettrici, ruote in lega con pneumatici maggiorati, ABS, e, tra i gadget dell’ultima generazione, il GPS e i sensori di parcheggio.

“Parti papà, che cosa aspetti?” Dal sedile posteriore venne la vocina stridula dal tono impaziente del figlio minore.

“Allacciamo le cinture e partiamo.”

Hassan girò la chiave dell’accensione, e il potente motore a iniezione da sei cilindri prese vita con un lieve ronzio. Mosse in avanti la leva del cambio per innestare la prima marcia; poi salutò con un cenno della mano l’amico Mohammed che sostava lì vicino a osservare la scena della partenza, e che lo ricambiò con lo stesso gesto. La vettura si mosse lentamente dirigendosi alla grande porta vetrata dell’uscita, che nel frattempo era stata spalancata. Superò una breve rampa in discesa e svoltò a sinistra sulla strada che conduceva alla litoranea.

“Non c’è paragone con la Toyota”, Hassan disse a voce alta in preda all’eccitazione. “E’ semplicemente meravigliosa.”

Non gli si poteva dare torto. Il confort all’interno della prestigiosa berlina, vanto dell’industria automobilistica tedesca, era molto elevato. L’atmosfera ovattata era resa ancor più gradevole dalla perfetta climatizzazione. Grazie all’ottimo isolamento acustico, il silenzio era pressoché totale, soltanto scalfito dall’appena percettibile rumore del sei cilindri. Le sospensioni erano morbide al punto da assorbire quasi del tutto le irregolarità del fondo stradale.

“Va’ piano!” lo ammonì la moglie che gli sedeva al fianco.

“Sta’ tranquilla… rilassati.” Girò un attimo la testa verso di lei e le sorrise dandole un colpetto di gomito.

Dal sedile posteriore giungeva il chiacchiericcio e le risa diver-tite dei due fanciulli.

“Dài, papà, accelera!” lo incitò il figlio maggiore.

Imboccarono la litoranea in direzione dell’aeroporto, e Hassan schiacciò gradualmente l’acceleratore aumentando la velocità, incoraggiato dalla quasi totale assenza di traffico. Di rado incrociavano un’altra vettura. La BMW 330i, può raggiungere una velocità massima di duecentocinquanta chilometri orari, ma Hassan, con la famiglia a bordo, pensava di spingerla appena oltre i cento al solo scopo di testarne il perfetto funzionamento.

La serata era tranquilla, il mare nero come l’inchiostro e immo-bile come l’olio si estendeva alla loro destra. I potenti abbaglianti della vettura illuminavano un lungo tratto della carreggiata. La strada ancora lucida di pioggia non lo impensieriva più di tanto. Sapeva che i pneumatici maggiorati assicuravano una perfetta tenuta, anche in condizioni peggiori del fondo stradale, e in curva.

Concentrato com’era nella guida, Hassan ignorava lo specchietto retrovisore. Se lo avesse controllato di tanto in tanto, avrebbe notato le luci di un’auto, una vecchia Peugeot bianca, che lo seguiva da un duecento metri di distanza.

Quasi senza rendersene conto, continuò ad aumentare la velocità, ma tenendo

d’occhio il tachimetro che ora indicava i centodieci orari. Quando ebbe di poco oltreato i centoventi, decise che sarebbe stato prudente rallentare, e fece per togliere il piede dall’acceleratore.

Ma non ne ebbe il tempo.

La BMW nuova di zecca esplose in una enorme fiammata, che, per un istante, rischiarò a giorno il buio della notte. La potente deflagrazione squarciò l’aria e fu avvertita nel raggio di qualche chilometro. La vettura fu sbalzata dal suolo come strappatavi da una forza titanica, per poi ricadervi pesantemente con un immenso fracasso.

Di lì a qualche secondo, sopraggiunse la vecchia Peugeot e si fermò a una decina di metri dal punto dell’esplosione. Il giovane al volante, alto e biondo, si mise a osservare imibile la scena agghiacciante della BMW ridotta a un ammasso di ferraglia contorta divorata dalle fiamme, e dei corpi smembrati e carbonizzati dei eggeri che giacevano sparsi sul terreno circostante.

Se Hassan avesse mantenuto la velocità sotto i centoventi, nulla sarebbe accaduto – almeno quella notte –, e lui, con la famiglia, avrebbe probabilmente continuato a vivere per qualche tempo ancora. Ma il superamento di quel limite, aveva attivato il meccanismo di innesco collegato al tachimetro facendo detonare la carica di tritolo fissata sotto il fondo della vettura. Era stato quel giovane biondo seduto nella Peugeot a fare il lavoro la notte precedente, certo che Hassan, per provare la macchina, non avrebbe resistito alla tentazione di lanciarla a una velocità alquanto elevata.

Era da qualche tempo che lo sorvegliava con appostamenti e pedinamenti al fine di cogliere il momento propizio per colpirlo con discrezione, e poi dileguarsi. Due giorni prima lo aveva visto entrare nello showroom della concessionaria, e

lo aveva seguito all’interno fingendosi interessato alle vetture in esposizione. Era così riuscito a captare frammenti di una sua lunga e animata conversazione con il titolare della ditta. Stavano in piedi accanto a quel modello 330i, e il Biondo aveva capito che Hassan ne aveva contrattato l’acquisto per consegna il giorno successivo. La messinscena del tentativo di furto con scasso, la aveva ritenuta necessaria – dopo aver impiantato la bomba –, a evitare che l’effrazione alla porta di servizio ingenerasse il sospetto che fosse mirata a un sabotaggio – magari di matrice terroristica – delle vetture o dei locali, richieden-done pertanto una accurata ispezione che avrebbe portato alla scoperta dell’ordigno. Trasse di tasca il cellulare e se lo portò all’orecchio dopo aver selezionato un numero. L’uomo dall’altra parte rispose al secondo squillo. “Sì?”

“E’ fatta.”

“Bene, ora devi occuparti della ragazza”, disse Reynaud, e chiuse la comunicazione.

23

“Com’è che te la sei procurata?” sca fece scorrere la punta dell’indice lungo il bordo frastagliato della grossa cicatrice che Nino mostrava nella parte superiore del massiccio torace coperto di folta peluria, e poi si distese al suo fianco.

Giacevano supini e nudi nel grande letto matrimoniale, a fumare una sigaretta dopo aver fatto l’amore. Da quando, alcuni giorni prima, erano divenuti amanti e avevano avuto il primo rapporto sessuale, ogni timidezza e senso di pudore avevano di colpo abbando-nato sca. Giorno dopo giorno, lei si accorgeva di apprezzare sempre più la sua nuova relazione, che, ne era certa, non era soltanto motivata da una ione fine a se stessa. Era di natura molto più profonda della pura attrazione fisica. C’era anche, e soprattutto, quella sensazione di genuina felicità dello stare accanto a lui dopo aver consumato l’atto, a chiacchierare piacevolmente in modo naturale e disinvolto, immersi nella intensa penombra della camera da letto. C’era infine la dolcezza del modo in cui la baciava, le accarezzava i capelli, e la coccolava tra le sue braccia sino a farla addormentare.

Pietro Mattei non le aveva mai mostrato una tale sensibilità. Al termine di ogni amplesso si scostava da lei, e, prima di addormentarsi, faceva qualche battuta scherzosa o le raccontava una barzelletta, come per esorcizzare il rischio di doversi imbarcare nella discussione di argomenti che gli erano ostici, qual era appunto quello del matrimonio. Con Nino era tutt’altra cosa. Lui aveva talento. A letto si era rivelato semplicemente un mago. sca apprezzava il contrasto tra il suo slancio ionale nel momento in cui si spingeva dentro di lei conducendola abilmente fino al piacere, e la silenziosa tenerezza che subentrava subito dopo. Era questo un aspetto che la faceva sentire sempre più felice, e innamorata di lui. E dire, pensò, che da soltanto quattro giorni erano amanti. Quando Nino non rispose alla domanda, lei gliela ripeté: “Allora dimmi…, com’è che ti sei procurata quella grossa cicatrice?”

“E’ stato in Afghanistan, cinque o sei anni fa?”

“In Afghanistan?” Si drizzò a sedere appoggiandosi con la schiena alla testiera del letto.

“Ho fatto il mercenario per molti anni in vari paesi del Medio Oriente.”

Lei ci rifletté sopra. “Cosa fa esattamente un mercenario?” Non attese la risposta, ma continuò: “Sai una cosa, Sergio, io ti ho detto tutto di me, ma so ben poco di te. Voglio sapere del tuo ato, dell’orfanotrofio, di questo mestiere di mercenario che facevi…. Raccontami, ti prego.” Strinse le braccia attorno alle gambe rannicchiate.

Glielo chiese pur sapendo che non le avrebbe detto tutto della sua vita ata. Di certo le avrebbe taciuto quella sua attività di ex gestore di una casa di appuntamenti a Milano, in cui aveva scattato quelle foto scabrose di cui Kesler le aveva parlato, e le circostanze che lo avevano costretto a fuggire dall’Italia per sfuggire all’arresto.

Lui pensò che sca avesse ragione ad affermare che gli aveva detto tutto di sé stessa. La sua reticenza e riserbo che erano rimasti intatti fino al momento in cui avevano fatto l’amore per la prima volta, si erano da allora dissolti nel nulla. La prima notte che avevano trascorso abbracciati, prima di addormentarsi lei si era messa a parlare ininterrottamente, e gli aveva raccontato tutta la sua vita ata fin nei minimi dettagli partendo dall’infanzia, descrivendogli numerosi aneddoti dei suoi rapporti con i genitori, e con suo zio che era stato l’artefice della sua fulminea ascesa nel firmamento televisivo. Si era sorpresa a riferirgli persino certi particolari intimi della sua convivenza con Pietro Mattei, che non

avrebbe mai immaginato si sarebbe spinta a rivelare a nessun altro al mondo. Ma Sergio le ispirava fiducia, le piaceva aprirsi con lui. E lui la ascoltava con grande attenzione.

Lui non aveva mai parlato a nessuno di sé e del suo ato. E come avrebbe potuto, si chiese, con quei suoi trascorsi da criminale che si ritrovava? Neppure a Tanya ne aveva mai fatto il minimo accenno, e lei, forse intuendoli, si era ben guardata dal fargli domande che lo avrebbero messo in difficoltà. Ma con sca era diverso: la sentiva oltre che come amante, anche come compagna, un’alleata di cui poteva forse ciecamente fidarsi. E tuttavia sapeva che non avrebbe mai trovato il coraggio di raccontarle proprio tutto di sé, se non altro per il timore che lo avrebbe lasciato. La prese per le spalle costringendola a sdraiarsi al suo fianco. Poi si girò sopra di lei e la baciò con ione. Aveva le labbra morbide, e a lui piaceva carezzarle il corpo dalla carnagione vellutata con una mano, mentre le affondava l’altra nei lunghi capelli ricci e corvini, arruffandoglieli.

Da quando avevano avviato la relazione, lui non faceva che ripe-tersi che era per entrambi una follia. Non riusciva, per quanto si sforzasse di essere ottimista, a intravedere neppure uno spiraglio della speranza di costruire un futuro insieme. La distanza sociale che li separava era abissale. Ma ogni volta che era sul punto di esternarle i suoi timori, cambiava idea. Sapeva che non sarebbe riuscito a fermare quello che stava accadendo tra loro, perché al punto in cui erano giunti non potevano più tornare indietro, non potevano più fare a meno l’uno dell’altra. Si erano spinti troppo avanti ormai, e troppo in fretta. Lui sapeva di non potersi più privare della gioia che gli procurava starle vicino, del suo amore, del modo in cui lo guardava con quegli occhi di un azzurro intenso, dei suoi baci che lo destavano al mattino. Ma era consapevole di amarla anche per la sua intelligenza, per il perenne buonumore, per la fanciullesca esuberanza e il grande entusiasmo che poneva nelle cose che faceva. Gli piaceva osservarla mentre raccontava una storia o spiegava qualcosa, gesticolando graziosamente per sottolinearne gli aspetti più significativi, il volto che esprimeva divertimento o stupore.

“C’è qualcosa in particolare che ti interessa sapere del mio ato?” le chiese con fare guardingo. Lei comprese le ragioni della domanda cauta e non desiderando imbarazzarlo gli disse: “Raccontami almeno qualcosa della tua vita in orfanotrofio.”

Nino esitò per qualche attimo come cercasse di ricordare. Poi disse: “Che cosa dire di tanti anni trascorsi tutti allo stesso modo nella monotonia, senza che niente di piacevole mai accadesse? Ricordo la routine giornaliera, le levatacce, i cattivi odori dell’ambiente, le punizioni, la snervante mancanza di privacy, il cibo insufficiente. Anche se eravamo in trecento, la mia era una esistenza solitaria.” Si fermò per riflettere. “Pensavo spesso a mia madre che, come ti ho già detto, mi aveva abbandonato quando avevo solo alcuni giorni di vita. Spesso, nelle notti insonni, mi sforzavo invano di immaginarne il volto.”

“Come ha potuto fare una cosa simile!” lei esclamò con rabbia. “Come può una madre abbandonare la propria creatura… la propria carne? Come può compiere un atto così degradante?”

“Non facevo che chiedermelo anch’io da ragazzo, e imprecavo mentalmente contro di lei pur non conoscendola. Poi, crescendo, ho creduto di afferrane la ragione: ho pensato che doveva essere molto povera. Forse era stata sedotta e abbandonata da qualche mascalzone. Non è facile per una donna che vive nella più squallida miseria, crescere un figlio. Dentro di me, ho finito per perdonarla…”

Lei annuì comprensiva. “Non è stato facile neppure per te, Sergio”, disse. “Ma ora dimmi delle suore… Erano gentili? Ti trattavano bene?”

“Eravamo in trecento, come ti ho detto. Troppi perché potessero trattare tutti allo stesso modo. C’erano delle ingiustizie, ovviamente. Diciamo che erano generose

nei limiti delle possibilità dell’orfanotrofio. I soldi erano pochi, e l’istituto poteva sopravvivere grazie alle donazioni, che non sempre bastavano a sfamare tutti adeguatamente.” Si interruppe per pensare. “Ricordo una suora in particolare… Era molto buona con me, mi dedicava più attenzione delle altre. Spesso mi ava furtivamente del cibo. Non ho mai capito perché lo fe. Mi chiese di scriverle quando me ne andai. Lo feci una sola volta. Poiché non avevo una casa e quindi un indirizzo, non sapevo dove farmi recapitare le sue risposte.”

“Sicché non avevi neppure un posto dove andare ad abitare quando lasciasti l’orfanotrofio…”

“No, purtroppo. Ho vissuto per molti anni in un locale seminterrato dalle parti di Quarto Oggiaro, che dividevo con altri due poveracci come me.” Fece una pausa abbassando lo sguardo, un po’ a disagio. “Avevo sedici anni, e per sfamarmi ho dovuto adattarmi ai lavori più umili che si possano immaginare. Agli inizi – non mi vergogno a dirlo – chiedevo persino l’elemosina.” Sollevò lo sguardo amareggiato su di lei. “Ti spiace, sca, se evitiamo di parlare di quel periodo tanto triste della mia vita? Rievocarlo mi fa star male.”

Lei capì le ragioni della sua reticenza, e decise di non insistere. “Va bene…”, gli disse con dolcezza ,“…mi hai detto abbastanza.” E subito aggiunse: “Qualsiasi cosa tu abbia fatto, non devi vergognartene perché non avevi scelta. Eri soltanto un ragazzo, e non c’era nessuno che si prendesse cura di te.” Lo abbracciò tenendolo stretto a sé. “Sei stato sfortunato, Sergio. Tutto qui. Sai una cosa? Quando penso a quello che hai ato: costretto a crescere nella miseria, e solo al mondo, be’… sento di amarti ancora di più.”

Lui le sorrise e di nuovo le accarezzò i capelli inalandone il profumo che trovava inebriante, mentre lei continuava a tenerlo stretto tra le braccia. Si divincolò con gentilezza e si accese una sigaretta. Rimasero a lungo in silenzio, mentre lui rifletteva su quelle cose terribili del suo ato che non poteva rivelarle. Chissà

come l’avrebbe presa se avesse saputo che era stato un ladro e un rapinatore, e che aveva persino ucciso un uomo. Che forse era tuttora ricercato dalla polizia.

“Avevo ventiquattro anni”, lui riprese, “quando decisi di fuggire da quella vita grama per cercare di rifarmene una nuova e migliore. Mi imbattei in un tizio, titolare di una ditta che reclutava mercenari per il Medio Oriente, e accettai un ingaggio previo un periodo di addestramento. La paga era molto buona.” Si interruppe per qualche attimo. “Prima mi hai chiesto che cosa fa un mercenario… Be’… è una sorta di soldato privato. Esercita il mestiere delle armi dietro lauto compenso. Io, insieme con altri colleghi, facevo per lo più la guardia del corpo a uomini facoltosi che si recavano per affari nei vari paesi del Medio Oriente. Era un lavoro ad alto rischio, ma ben retribuito. La cicatrice è il segno che mi è rimasto di una ferita da arma da fuoco, che mi sono procurato in Afghanistan durante una missione. Siamo caduti in una imboscata dei talebani, e io sono stato colpito da una pallottola che miracolosamente non mi ha leso alcun organo vitale. Altrimenti ora non avrei il piacere di stare qui con te a chiacchierare.” Le sorrise.

“Perché hai deciso di trasferirti in Libano?”

“E’ stato nel ‘93 mentre prestavo servizio in Iraq.” Si girò verso il comodino per schiacciare la sigaretta nel grosso posacenere di cristallo. “Era scoppiata la guerra dopo l’invasione degli americani. Il pericolo di essere ucciso in qualche attentato kamikaze, era costante. Non ce la facevo più a vivere ogni giorno nella tensione. A farmi decidere definitivamente di andarmene è stato il sequestro di quattro colleghi da parte di alcuni terroristi di Al Qaeda. Uno di loro fu giustiziato in diretta televisiva, ma il video delle immagini dell’esecuzione non furono mai trasmesse integralmente. Ne fui comunque scioccato.”

Lei annuì. “Sì, ricordo quell’episodio…”

“Giunto a Beirut, ho svolto lavori di vario genere, perlopiù manuali, che mi consentivano di sbarcare il lunario. Nella scorsa stagione estiva ho fatto il buttafuori in un night, prima che la polizia lo chiudesse perché derubava i clienti.”

“E la tua ragazza? Non puoi almeno dirmi come l’hai conosciuta?”

“L’ho raccolta letteralmente dalla strada, una sera che rincasavo. Era quasi svenuta per la fame. Mi sono impietosito, l’ho portata a casa e l’ho rifocillata. E’ una profuga palestinese, e in Libano ce ne sono a centinaia come lei, in gran parte che si prostituiscono nelle strade. Ma lei non è una prostituta. D’altra parte è un po’ bruttina e troppo magra da suscitare negli uomini istinti lussuriosi. Non credo che nessun altro l’avrebbe presa.”

“Ma tu l’hai fatto…”, disse scandendo lentamente le parole, il tono che tradiva un punta di gelosia. Lui la fissò per un attimo prima di dire: “Saresti una sciocca a essere gelosa del mio ato sentimentale, sca. Lo sarei anch’io se lo fossi del tuo…”

“Hai ragione.”

“Come ripeto, mi ha suscitato pietà, e poi vi sono stato quasi costretto”, spiegò con enfasi. “Non sapevo come fare per liberarmi di lei. La sgridavo dicendole di andarsene, ma lei non si muoveva. Non me la sono sentita di sbatterla in strada.”

Si interruppe, e si girò verso di lei per fissarla prima di proseguire: “Hai mai avuto l’esperienza di un essere umano affamato che ti si pianta dietro l’uscio, e ogni volta che esci ti supplica di prenderlo con te cercando di baciarti i piedi?”

Quando lei non rispose aggiunse: “Così alla fine ho ceduto, l’ho fatta entrare e da allora lei si è presa cura di me.”

“Deve amarti”, lei disse in tono sommesso ma grave. “Deve amarti pazzamente.”

“Sì, è vero.” Allungò una mano verso il comodino per prendere il pacchetto delle sigarette e glielo porse. “Da parte mia posso soltanto dire che le sono molto affezionato.”

Fumarono senza parlare per alcuni minuti.

“Qualsiasi altra ragazza araba”, lui riprese, “mi avrebbe completamente derubato la prima notte mentre dormivo, e sarebbe fuggita lasciandomi in mutande. Ma lei non è il tipo. Io sono l’unica cosa che desideri al mondo.” Si girò di nuovo a guardarla. “Se fossimo a Beirut, farebbe carte false pur di riuscire a farti fuori, pensando di averne il sacrosanto diritto.”

“Oh, che caratterino!”

“Non puoi giudicarla, sca”, le disse pacatamente. “Lei vive in un ambiente del tutto diverso dal tuo. Quando possiedi pochissimo, combatti con qualsiasi mezzo contro chiunque cerchi di portartelo via. Ora…, nel tuo mondo dorato io non sono nessuno, ma nel suo posso rappresentare per lei tantissimo. Lei apprezza di me il fatto che la protegga, che non la picchi mai, né la mandi in strada a prostituirsi, come farebbe un suo connazionale. Le compro dolci, vestiti, e la tengo allegra facendola ridere.” Fece una pausa. “Quando sono partito l’ho lasciata in floride condizioni economiche. Ora ha abbastanza denaro da potersi permettere persino una giacca di zibellino come la tua. Se mi succedesse

qualcosa e non dovessi ritornare a Beirut, potrà condurre una vita confortevole… E per sempre.”

Lei sembrò allarmarsi. “Che cosa potrebbe succederti, Sergio?” Si scostò da lui e lo scrutò in volto. “Di cosa stai parlando?” Nell’intensa penombra dell’ambiente, lui colse l’espressione ansiosa, quasi impaurita, dei suoi occhi azzurri. Si rimproverò tra sé per aver parlato troppo. Era appena incorso in una pericolosa gaffe. La prese tra le braccia e, per rimediarvi, fu costretto a dirle una bugia: “Nulla… cosa vuoi che mi succeda?” Le accarezzò una guancia. “Mi riferivo alla possibilità che potrei restare a Milano.”

24

sca si tolse gli occhiali da sole scurissimi e rivolse a Pietro Mattei uno sguardo quanto mai distaccato e indifferente.

“E’ bello rivederti dopo così tanto tempo, sca,”, lui esordì esibendo uno di quegli smaglianti sorrisi che lei ben conosceva. “Hai un aspetto fantastico.”

Si erano appena seduti a un tavolino appartato di un bar semideserto in via Vincenzo Monti, che solevano frequentare ai tempi della loro convivenza. Pietro l’aveva contattata assecondando la richiesta di Leardo, ma aveva preferito farlo per telefono.

Il colloquio era stato breve, e a dir poco difficile. Lei, più che sorpresa si era mostrata infastidita, fredda e disinteressata. Il tono era stato sbrigativo.

Aveva subito declinato con determinazione il suo invito a pranzo, e anche a cena.

“Posso almeno salire un attimo da te?” le aveva allora chiesto.

“Non se ne parla neanche”, gli aveva risposto, seccata.

Era stato in quel momento che l’istinto gli aveva suggerito che non fosse sola in casa. C’era un uomo con lei? In caso affermativo non poteva trattarsi di Kesler,

dato che aveva saputo da un suo amico, dipendente di Mediasystem che era a Francoforte. Chi altri allora? Aveva continuato a insistere per incontrarla, dicendole che moriva dalla voglia di rivederla e di parlarle. Alla fine lei aveva ceduto per toglierselo di torno, ma anche per scongiurare il pericolo che, prima o poi, decidesse di farle una visita a sorpresa, scoprendo la presenza di Sergio nell’appartamento. Aveva accettato di incontrarlo per un drink da qualche parte nei dintorni, e si erano dati appuntamento in quel bar.

Ora, seduti uno di fronte all’altra a sorbire un Martini, Pietro pensò che il complimento che le aveva appena rivolto fosse più che giustificato. In effetti sca gli appariva più attraente di quando la guardava sul piccolo schermo, e di come la ricordava. Aveva spesso sentito dire che la bellezza delle dive viene esaltata dal trucco cui si sottopongono prima di andare in scena o in onda. Ma era convinto che sca non dovesse averne bisogno.

“Anche tu hai un’ottima cera”, gli disse accennando un sorriso forzato. Nel guardarlo sentì che non significava più niente per lei. L’uomo che le stava davanti era niente altro che un estraneo che la scrutava con quello stesso sorriso accattivante di cinque anni prima, ma al quale lei era ormai del tutto insensibile.

“Grazie”, lui disse, e subito aggiunse: “Quanto tempo è ato… Cinque anni?”

Lei ignorò la domanda e gli chiese: “Come mai avevi voglia di vedermi, Pietro?”

“Che cosa ci trovi di strano?” Sorrise. “E’ da un pezzo che desidero chiamarti, e se non l’ho mai fatto sinora è perché ritenevo che i tempi non fossero maturi. Che tu non te la sentissi di incontrarmi dal momento che eri ancora un po’ arrabbiata con me.”

“Un po’?” lei disse con un sorrisetto ironico. “Ma ora non più. E’ questo che volevi sentirti dire?”

“Sì, in parte. Ma anche che non ti dispiacerebbe se ti telefonassi di tanto in tanto per invitarti fuori a pranzo o a cena. Stasera ho dovuto sudare sette camicie per convincerti a uscire.”

“Hai sudato sette camicie, e alla fine ci sei riuscito visto che ora sono qui ad ascoltarti.” Ebbe un sorriso sarcastico. “Cos’è… sei a corto di compagnia femminile?”

“Non l’ho neppure cercata”, lui disse, lo sguardo serio. “Soltanto te ho cercato. Lo so che non ci crederai ma è solo te che desidero. Lo giuro, sca.” Così dicendo si mise una mano sul cuore. “Credo di aver commesso un grave errore lasciandoti.”

Per quanto si sforzasse, sca non riuscì a reprimere una fragorosa risata. “Non sei affatto cambiato…”, disse scuotendo lentamente il capo quando smise di ridere. “Sempre bravissimo a sviolinare. Ma con me non attacca più.” Si interruppe per un secondo. “Scommetto che non sei ancora sposato.”

“No, no, sca.” Scosse la testa energicamente. “Come avrei potuto desiderare di sposare un’altra donna dopo che ho rifiutato di sposare te?” Sorrise. “Ma dimmi piuttosto…. cosa c’è di vero in questa voce che ho captato che potresti sposare Paolo Kesler?”

“Cosa?!” esclamò avvampando e sbattendo le ciglia.

Che recitare fosse il suo mestiere, Pietro lo sapeva. Ma l’espressione incredula e le guance infiammate erano genuine, e furono ciò che ebbe bisogno di vedere per capire che era oltremodo indignata. Continuò a parlare con un tono arrabbiato.

“Paolo Kesler!” esclamò. “E’ il migliore amico di mio zio, e potrebbe essere mio padre. Non ho mai sentito niente di più ridicolo!” Depose il bicchiere sul tavolino con un gesto maldestro che fece traboccare un po’del Martini.

“Sei persino più bella quando ti arrabbi”, lui osservò. “Ma cosa c’è di ridicolo in una ipotesi del genere? E’ soltanto poco più che cinquantenne, non sarebbe una cosa del tutto inconcepibile. E tu, sca, hai da un bel pezzo superato i diciotto anni, no? D’altra parte, se tu te ne vai in vacanza a Beirut con un uomo, se pure non più tanto giovane, cosa vuoi che pensi la gente?”

sca ebbe un tuffo al cuore. Come aveva saputo del viaggio a Beirut? si domandò allarmata. Sapeva anche di Sergio? Disse: “In vacanza? Ma cosa diavolo stai farneticando?”

“Be’, è vero o no che sei andata con Kesler a Beirut? Se qualcuno ti ha visto in giro con lui, gli è bastato per costruirci una stronzata…”

“Non avresti potuto usare una parola più appropriata: è una vera stronzata.” Fece una smorfia. “A Beirut Kessler c’è andato per sbrigare alcuni affari per conto di Mediasystem. Dato che si trattava di qualcosa che poteva interessare anche me, e che non sono mai stata in Libano, mi ha invitato ad andarci con lui per qualche giorno. Tutto qui.”

Si sentì sollevata. Non doveva sapere di Sergio altrimenti l’avrebbe già tirato fuori. “E tu da chi l’hai saputo?”

Fece un gesto vago. “Lasciamo perdere… Si dice il peccato, ma non il peccatore.”

“D’accordo, lasciamo perdere.”

“Bene… Allora se non è Kesler l’uomo dei tuoi pensieri, smettila di essere arrabbiata e dimmi di chi si tratta.” Tacque e la fissò intensamente, dicendo: “Chi è il fortunato mortale che riesce a metterti negli occhi quella strana luce languida, sca? Non ricordo di averla mai notata quando stavamo insieme…”

Fu tentata di replicare: “Non puoi averla notata perché non c’era.” Invece disse: “Stai lavorando di fantasia, Pietro.”

Lo guardava senza vederlo. Era il viso di Sergio che aveva davanti agli occhi. Il discorso su Kesler le aveva provocato una sorta di brivido sulla pelle. Come era potuto accadere che la notizia del loro viaggio a Beirut fosse trapelata? Però, era contenta che si vedesse che era innamorata. Com’è che Pietro l’aveva chiamata?: ‘Quella strana luce languida negli occhi.’ E lei non aveva ritenuto di contraddirlo.

La verità era che si sentiva felice e appagata. Sensazioni tipiche di una donna innamorata. Dovevano trasparire con una tale chiarezza dal suo volto da non sfuggire a chiunque la osservasse. Amava Sergio, quindi. Un uomo che non aveva assolutamente niente da spartire con lo stereotipo del giovane moderno,

distinto e agiato, che Pietro rappresentava a pieno titolo. Non aveva il contegno arrogante e insolente di uno che, come il suo ex compagno, guarda il mondo dalla cima di una montagna di denaro. Non poteva definirlo bello nel senso classico del termine: era di aspetto rude, di corporatura massiccia e di altezza media; i tratti del volto erano marcati e abbastanza irregolari. Ma incarnava tutte le virtù che ogni donna associa alla virilità, ed emanava quel misterioso magnetismo a cui lei non riusciva a restare indifferente.

Dal canto suo Pietro osservava le varie espressioni che si succedevano sul volto di sca, tra cui quella, quasi sempre presente, di un perfetto autocontrollo. Pensò che nel complesso fosse diversa da come l’aveva lasciata cinque anni prima. Era sempre stata bellissima e accuratissima nel vestire, e lo era tuttora.

Quando stavano insieme, ricordò, era solita abbigliarsi nei negozi di alta moda di via Montenapoleone e via della Spiga: il così detto Quadrilatero della moda. Notò l’acconciatura dei capelli ricci e corvini, che, un tempo cortissimi, ora arrivavano fino a sfiorarle le spalle. Gli occhi grandi e azzurri esprimevano una sorta di forza e sicurezza di sé, che gli erano sconosciute. Adesso più che mai era quel genere di donna che qualsiasi uomo si sarebbe considerato fortunato ad avere.

Di nuovo si risvegliò in lui il senso di acuto rimpianto per averla lasciata.

Da come lei aveva reagito alle sue insinuazioni sulla esistenza di un altro uomo, Pietro era certo di aver colto nel segno. Ma di chi mai poteva trattarsi? si chiese. Improbabile che fosse qualcuno della sua cerchia, ossia un personaggio ricco e in vista, altrimenti la notizia sarebbe già trapelata sui media, e lei non avrebbe avuto alcun motivo di nasconderlo. Quindi, doveva essere un uomo di cui, per qualche misteriosa ragione, non intendeva o poteva rivelare l’identità.

“Eppure ho la sensazione che ci sia qualcuno”, insistette. “Se vive con te, non mi andrebbe di capitare un giorno a casa tua e prendermi un pugno in faccia.”

sca gli rivolse uno sguardo gelido. “Che ci sia o meno qualcuno, sono affari miei.” Un attimo di silenzio. “Che fai, Pietro, ficchi il naso nella mia vita privata? Perché non mi dici qualcosa di te, piuttosto? Ad esempio, come va lo studio legale di tuo padre?”

“Molto bene. Da quando ci siamo lasciati ci lavoro, anche se non a tempo pieno, in attesa di prenderne le redini non appena il vecchio andrà in pensione tra qualche anno.”

Rimasero a lungo in silenzio a sorbire i Martini, poi lui disse a bruciapelo:

“Mi spiace di dover tirare di nuovo in ballo Kesler…”

Lei sussultò, avvertendo di nuovo una sensazione di allarme. “Se stai ancora pensando a una mia relazione con lui, toglitela dalla testa una volta per tutte. Non è il mio tipo e non lo sarà mai.”

“Ti credo… Ma c’è qualcuno che desidera conoscerti per farti alcune domande sul suo conto.”

Lei ci pensò su. Disse:

“E immagino che questo sia il vero motivo per il quale hai voluto vedermi, non è così?”

“In parte. Resta il mio desiderio di tentare un riconciliazione.” Le sorrise. “Potremmo ricominciare daccapo, sca. Sempre che, ovviamente, tu sia libera.”

“Puoi scordartelo. Non sento più niente per te, Pietro. Sei acqua ata… La nostra storia è morta e sepolta.” Tacque per un attimo. “Mi interessa, invece, questo tizio che desidera fare la mia conoscenza per chiedermi di Kesler. Parlami di lui.”

Pietro fece una scrollata di spalle.

“Okay, mi è andata male, ma almeno ci ho provato.” Si inter-ruppe per alcuni secondi. “Dunque… questo tale si chiama Ezio Leardo, ed è un mio carissimo amico dai tempi della scuola e dell’università. E’ un agente dei Servizi segreti, di cui dirige una base qui a Milano, in via Torino. Sapeva della nostra relazione, poi andata a rotoli, per avergliene io stesso parlato molto tempo addietro. Mi ha telefonato qualche giorno fa pregandomi di contattarti per convincerti a recarti da lui, insieme a me, per un colloquio.”

“Su Kesler.”

“Sì, esatto. Sembrerebbe che sia implicato in una faccenda dai contorni… poco chiari. Desidera chiederti alcune informazioni su di lui…”

“Tipo?”

“Non mi ha autorizzato a parlartene. Desidera farlo di persona.”

Lei ci rifletté sopra per qualche attimo. “Non sono troppo sicura che sia opportuno da parte mia accettare un colloquio su Kesler, senza averne qualche indicazione.”

“Credo ti convenga, sca. C’è anche qualcosa di cui Lear-do deve riferirti riguardo a quel disastro aereo in cui sono periti i tuoi genitori.”

25

“Non c’era”, l’uomo disse a telefono.

“Cosa significa ‘non c’era’?” Il tono elevato di Kesler tradiva sorpresa e rabbia insieme.

Si trovava all’interno di una cabina telefonica in piazza San Babila, appena rientrato da Francoforte. Non era la prima volta che, per il contenuto delicato di una conversazione, era costretto a usare un telefono pubblico dal momento che sapeva che il suo appartamento era disseminato di microspie, e che sia il telefono fisso sia il cellulare erano sotto costante controllo.

Il soggiorno in Germania era stato gradevole: amava il suo Paese di origine e la compagnia dei suoi ex connazionali. Gli affari che aveva concluso per conto di Mediasystem, erano soddisfacenti. In quei quindici anni di presidenza del colosso mediatico, aveva finito per affezionarvisi, e il pensiero che probabilmente un giorno non lontano sarebbe stato costretto a lasciarlo, lo rattristava. La partenza da Francoforte aveva subito due ore di ritardo per via di un motore in avaria, e durante il volo non era riuscito a rilassarsi. Anche se era molto stanco, non aveva rinunciato a fare quella telefonata prima di raggiungere il suo appartamento che distava un centinaio di metri, in via Montenapoleone. Appena entrato in casa si sarebbe immerso in un bagno caldo con in mano un doppio whiskey.

La chiamata era di routine e diretta a un suo collaboratore in quell’operazione di cui si stava occupando. Aveva lo scopo di chiedergli se il Salvo era arrivato e si trovava al sicuro in albergo, o se c’era qualche problema. Mancavano alcuni giorni alla data fissata per l’attivazione del piano. Quando aveva rivolto al suo

interlocutore quella domanda, non era in alcun modo preparato per quel genere di risposta, che aveva avuto su di lui l’effetto di un pugno allo stomaco.

“Significa che non si è fatto vivo”, precisò l’uomo all’altro capo del filo. Era in agitazione da alcuni giorni. Gli era stato affidato il compito di sorvegliare il Salvo una volta che fosse giunto all’Hotel Astra, l’alberghetto nei pressi del parco Ravizza, in cui Antonio Ragusa aveva prenotato una camera al quarto piano. Ma non si era presentato. Poiché non era stato in grado di avvisare Kesler sul cellulare dato che lo teneva sempre staccato, non aveva potuto fare altro che attendere il suo ritorno. Il giorno dopo, aveva letto sui giornali la notizia che Ragusa era stato travolto e ucciso da un tram, e aveva capito che si era così spezzato il filo di collegamento con il Salvo, dato che di lui si erano perse le tracce. Cercò di spiegare tutto questo a Kesler.

“Ha presente quel Ragusa Antonio?”

“Sì, certo, è quel tizio che doveva rilevare il nostro uomo a Linate. Cos’è… gli è successo qualcosa?” Kesler si allarmò al pensiero che fosse stato arrestato.

“E’ stato investito da un tram in piazza Cordusio; è morto sul colpo.” Fece una pausa. “Probabilmente si stava recando a Linate a prelevarlo.”

“E’ un bel guaio…”, fu l’unico commento sconsolato di cui Kesler fu capace.

Sicché così erano andate le cose, pensò. Ragusa era morto, e Salvo non aveva trovato nessuno ad attenderlo al suo arrivo a Linate con sca. Non osava pensare alla reazione di Reynaud quando glielo avrebbe riferito. Sarebbe andato su tutte le furie, tacciandolo di incompetenza poiché non aveva previsto un piano

di emergenza alternativo per un evenienza del genere, per quanto remota fosse. Si mise a riflettere intensamente.

“Va bene”, disse brusco al suo interlocutore. “Farò un giro di telefonate ad alberghi di terza e quarta categoria per vedere se riesco a rintracciarlo, ma è come cercare un ago in un pagliaio. Tu, intanto, non disdire la camera, potrebbe ancora servirci. Ti richiamo appena possibile.” Sbatté con rabbia il ricevitore nella sua sede.

Gli tremavano le mani per la collera che avvertiva per se stesso. Aveva perso il suo killer perché se n’era andato a Francoforte per affari, piuttosto che occuparsene personalmente. “Sta’ tranquillo che andrà tutto bene”, aveva assicurato Reynaud in quel bordello parigino. “Tutto procede come da programma.” Quale giustificazione addurre ora, a sua discolpa, per quello che era accaduto? In quel momento non riusciva a immaginarne neppure una, e, conoscendo il suo capo, sapeva che non avrebbe rinunciato a individuare in lui il vero capro espiatorio. Avrebbe potuto difendersi puntando un dito accusatorio su coloro che, nella rete dell’organizzazione, sovrintendevano al Nord Italia, ma se lo avesse fatto sarebbe sembrato sciocco, dato che restava la sua responsabilità diretta per non aver gestito la cosa in prima persona, oltre che per non aver pensato a un piano di riserva.

E se il killer fosse stato catturato, e l’operazione andava in fumo? L’interrogativo gli provocò una stretta alle budella. Si accorse che sudava profusamente nel chiuso della cabina. Estrasse un fazzoletto e se lo ò sul volto. Il sudore lasciò una larga chiazza sulla seta bianca. Dove diavolo sarà andato a cacciarsi? si chiese.

In quel momento un idea gli balenò nella mente.

C’era un’unica speranza di rintracciarlo, pensò. Molto remota, ma c’era. Era possibile che sca, giunta a Linate col Salvo e prima di separarsi da lui, avesse atteso anche lei l’arrivo dell’incaricato? E che quando questi non era comparso, lo avesse sistemato in qualche albergo? Se così era, allora attendeva una sua telefonata quando fosse ritornato da Francoforte, per poterglielo comunicare. Era una congettura improbabile, ma non impossibile. Ricordò che sca si era espressa negativamente su quell’uomo quando glielo aveva indicato mentre sostava fuori dalla porta di ingresso del Riviera, a Beirut. Aveva affermato con chiarezza che non gli piaceva il suo aspetto, e lui era stato altrettanto esplicito nel darle istruzioni di limitarsi a farlo are al controllo aporti e doganale, liberandosene subito dopo.

Un’altra idea.

E se lei lo aveva cercato sul cellulare per avvertirlo del contrattempo? Ma lui, dopo la telefonata a madame Lacroix per prenotare la camera, lo aveva tenuto sempre spento. E spento lo era tuttora. Lo estrasse dalla tasca interna della giacca e lo accese. Di lì a qualche secondo sentì il bip che segnalava una precedente chiamata senza risposta. Il display digitale gli disse che era partita da un numero di cellulare il venti novembre scorso alle ore diciassette e venti, e che era quello di sca. Un flusso di adrenalina pura gli entrò nelle vene.

Guardò l’ora: erano le undici e mezzo. Inserì di nuovo la scheda telefonica nell’apparecchio e sollevò la cornetta componendo il numero di casa di sca. Suonò a lungo senza risposta. Era sul punto di rinunciare, quando improvvisamente sentì la sua voce: “Pronto?”

26

sca e Sergio trascorrevano la serata seduti sul divano del soggiorno a guardare la televisione, lei accoccolata come una gatta tra le sue braccia. Lui appariva affascinato dalle immagini della puntata di una vecchia fiction in cui lei recitava la parte di una bellissima infermiera di un grande ospedale, innamoratasi perdutamente del primario del reparto di cardiologia, sposato con figli. Una relazione che, come la loro, era apparentemente senza speranza di un futuro.

Al termine della trasmissione lui le propose, sorridendole, di an-dare a letto. Lei si girò a guardarlo e gli sorrise a sua volta con una punta di malizia, facendogli così intendere che non le era sfuggito quello che di allusivo c’era nella sua proposta. Si sciolse dall’abbraccio, togliendogli delicatamente la mano dal seno, e si drizzò a sedere. Premette i tasti del telecomando per cambiare canale.

“Aspettiamo ancora un po’ ”, disse.

C’era in corso il telegiornale sulla prima rete Rai. Sullo schermo scorsero le immagini dell’ennesimo attentato kamikaze in Iraq. Macchine incendiate, decine di cadaveri sparsi sul terreno, sangue dappertutto. Poi nuove dichiarazioni del Papa tedesco su come i cittadini dovrebbero vivere la loro vita privata. Seguì la parte politica del Tg, con un coacervo di dichiarazioni serrate da parte dei rappresentanti di ogni partito.

“Ecco mio zio”, sca disse improvvisamente, sporgendosi in avanti sul divano e alzando il volume del televisore. Assediato da una selva di microfoni, comparve il volto sorridente di Martinoni. Muoveva le labbra senza che ne uscisse alcun suono. Lo speaker riassumeva ciò che diceva: la situazione politica ed economica, la necessità di rinnovamento del Paese, le riforme, la lotta al

comunismo, eccetera eccetera. Infine uno sprazzo di ottimismo: la certezza della sua vittoria elettorale. sca azionò di nuovo il telecomando, spostandosi su una rete privata. “Tra qualche minuto andrà in onda su questo canale una trasmissione che mi interessa vedere.”

“Come si chiama?”

“Le Invasioni Barbariche.”

“Di che tratta?”

“Interviste a personaggi illustri. Stasera ospiterà il Cardinale Angelo Losito, l’Arcivescovo di Milano.”

“Perché ti interessa?”

“Perché lo ammiro molto, è un uomo eccezionale, e mi piacciono le cose che dice.” Fece una pausa. “Sono in molti a non condividerle, compreso mio zio ancorché cattolico. Devo aggiungere, fra parentesi, che non corre buon sangue tra loro. Al Cardinale non va a genio che un miliardario come lui entri in politica, e lo critica per il fatto che aspiri alla guida del Paese. Vede la cosa come un ingiustizia sociale e una anomalia, che non porteranno nulla di buono.”

In quel momento il programma andò in onda. Dopo la sigla di apertura, la telecamera offrì una panoramica del vasto studio gremito di pubblico.

La conduttrice annunciò l’arrivo del Cardinale.

Accolto con uno scrosciate applauso, Angelo Losito fece il suo ingresso con incedere agile ed elegante. La sua figura alta, magra e lievemente allampanata appariva maestosa nella tonaca orlata di rosso, stretta in vita da una larga fusciacca dello stesso colore, e con in testa lo zucchetto, pure rosso. Appeso al collo con una catenella, un crocefisso d’oro rifletteva le luci dell’ambiente. Si accomodò su una poltrona. Dopo i convenevoli e qualche battuta scherzosa, la giovane intervistatrice gli pose la prima domanda leggendola da un elenco che aveva davanti a sé: “Che cosa ne pensa, eccellenza, del problema della crescente diffusione della droga, persino tra i minorenni, nel nostro Paese?”

Sergio si sporse in avanti sul divano e si mise a osservarlo attentamente.

“E’ un grave piaga sociale”, l’Arcivescovo disse aggrottando la fronte. “Il consumo di cocaina è in costante crescita e, stando alle rilevazioni proprio di questi giorni, ha raggiunto livelli record. Persino nelle scuole.” Ebbe un attimo di meditazione. “Se desidera il mio parere sionato, credo che non ci si impegni abbastanza per estirparlo o quanto meno per controllarlo. Lo si potrebbe comprendere, anche se non giustificare, nei Paesi sottosviluppati del Terzo Mondo, dove l’estrema povertà funziona da incentivo allo spaccio.…” Trasse un profondo sospiro. “Ma in una società ricca e progredita come la nostra, i mezzi ci sono per impedire che la diffusione raggiunga le attuali proporzioni.” sca si rivolse a Sergio: “Ascolta bene cos’ha da dire sul tema della povertà e della fame nel mondo. E’ il suo cavallo di battaglia.”

“Ma qui non c’è povertà”, Sergio replicò. “Io non ho mai visto un Cardinale povero. A proposito, tu sei credente, vero?”

sca scosse il capo. “No, ma tu dovresti esserlo dato che sei stato allevato

dalla suore…”

Sergio non disse nulla, ma continuò a fissare il piccolo schermo. “Qual è a suo avviso, eccellenza, la vera causa che spinge i giovanissimi a rifugiarsi nella droga?” chiese la conduttrice. L’Arcivescovo rifletté congiungendo le mani come in preghiera, dicendo:

“Quando un giovane non riesce a procurarsi quotidianamente le cose di cui ha veramente bisogno e che lo Stato dovrebbe assicurargli – come opportunità di un lavoro stabile, sicurezza, una dimora adeguata, e speranza di un futuro – allora è molto facile che scivoli nella droga, sia come spacciatore che come consumatore. Quei consumatori che non possono permettersela per via del costo elevato, sono costretti a delinquere. Da qui lo svilupparsi a dismisura della cosiddetta microcriminalità. L’uso di sostanze stupefacenti produce nei giovani quello stato di estasi che consente loro di fuggire da una società in cui non si riconoscono. Ma, a mio avviso, è anche una forma di protesta contro uno Stato incapace di prendersi cura di loro, di consentirgli di costruirsi un futuro. Ora… se una parte del denaro pubblico fosse impiegato per risolvere i loro problemi, primo tra tutti quello drammatico della disoccupazione, il loro ricorso alla droga si ridurrebbe drasticamente.” Fece una pausa. “Per non dire che la piena occupazione giovanile avrebbe una certa ricaduta economica positiva, è, indirettamente, riflessi benefici sulla povertà.”

Seguì un fragoroso battimani.

“Non ha senso”, Sergio disse. “Non c’è povertà in questo Paese… Almeno non come in Libano.”

“Non è vero, c’è eccome”, sca replicò con forza. “Non devi limitarti a considerare Milano e il Settentrione. Queste sono una sorta di Arabia Felice

rispetto all’intera penisola. Ci sono molte aree del Paese, come ad esempio il Meridione, dove, ancora oggi, la fame, la povertà e la disoccupazione, sono un cancro nel tessuto sociale. Sono questi i mali che generano criminalità. Il Cardinale sa bene di cosa sta parlando, perché egli stesso è di umilissime origini. E’ tutta la vita che lotta per i poveri e gli emarginati.” Si interruppe per qualche attimo. “Non sono credente, penso che la religione sia una grande baggianata, ma lui lo giudico un grande uomo per le cose che realizza e che dice.”

“Sono d’accordo con te sulla religione”, Sergio disse. “Dio è una menzogna planetaria. Per quanto ce l’abbiano messa tutta, le suore non sono mai riuscite a inculcarmi la fede.”

In quel momento rivide l’immagine di quella suora di cui era stato il pupillo, ferma in lacrime sulla soglia dell’orfanotrofio mentre lui si allontanava. Gli aveva donato un piccolo crocefisso di argento da serbare come suo ricordo, ma lui lo aveva smarrito.

“E’ appunto sulla povertà e la fame nel mondo che desidererei farle qualche domanda, eccellenza”, la conduttrice riprese abbassando lo sguardo sull’agenda dell’intervista.

“L’ascolto.”

“Quali iniziative dovrebbero essere avviate, a suo avviso, non dico per debellarle, ma almeno per alleviarle in misura significativa?”

“E’ necessario che gli Stati si impegnino ai fini di una più equa distribuzione delle risorse. Allora ogni povero della Terra avrebbe di certo il cibo di cui ha

bisogno.”

“Le spiace essere più specifico?”

Il Cardinale annuì. “Certo… Intendo dire che gli Stati dovrebbero adoperarsi nella creazione di sistemi idonei per fare sì che a beneficiare in misura adeguata della ricchezza prodotta, siano anche le classi meno abbienti, i bisognosi, i poveri.” Tacque per qualche secondo. “Cosa che purtroppo oggi non accade, visto che sono sempre i ceti già ricchi a fare la parte del leone, arricchendosi sempre di più. Sarebbe necessario che rinunciassero – per usare una metafora – a una grossa fetta della torta, senza dire che dovrebbero prodigarsi di più nella beneficenza e nella carità. Credo di non esagerare affermando che, tendenzialmente, i ricchi considerano i poveri con un certo disprezzo.” Dal pubblico si levò un altro forte applauso prolungato.

“E ora veniamo a una domanda molto delicata, eccellenza.” La conduttrice gli sorrise. “Ma è padrone di non rispondere se lo ritiene opportuno.”

“Mi dica pure.”

“Tra le numerose promesse di Ugo Martinoni nel suo recente annuncio di ingresso in politica come candidato premier per il centrodestra, c’è quella di impegnarsi a fondo per ridurre in misura significativa la povertà nel nostro Paese.” Lo fissò con fare interrogativo. “Lei che cosa ne pensa in proposito?”

L’Arcivescovo sorrise come se si aspettasse la domanda: era stato lui stesso a richiederne l’inserimento in agenda.

“Non la ritengo credibile, come promessa.”

“Vuole spiegarne le ragioni al nostro pubblico e ai telespettatori?”

“Vede…”, congiunse le punte delle dita davanti al volto, “…io credo che in questi giorni stiamo assistendo al tentativo, maldestro e senza precedenti, da parte di un magnate plurimiliardario, di conquistare il potere politico per finalità che niente hanno a che vedere con il benessere del popolo… Io credo anche che…” Si interruppe in attesa che si esaurisse un altro poderoso applauso, e fu in quel momento che il telefono si mise a squillare.

“Rispondi”, Sergio disse staccando gli occhi dallo schermo. “Potrebbe essere per me.”

“E’ ciò che temo”, sca disse alzandosi riluttante dal divano. “Lasciamo perdere, Sergio, chi vuoi che sia a quest’ora? Magari richiama domani.”

“Rispondi”, lui ripeté in tono perentorio. “Altrimenti lo farò io.”

sca andò all’apparecchio e sollevò il ricevitore portandoselo all’orecchio. “Pronto?”

“Ciao, sca, sono Paolo.” Kesler riconobbe la sua voce.

“Oh, ciao Paolo… Com’è andato il viaggio?”

“Bene.” Si sforzò di suonare normale per mascherare l’ansia ormai divenuta spasmodica. “E tu che mi dici? Com’è andata col nostro amico? Ho visto la tua chiamata sul mio cellulare.”

“E’ rimasto bloccato”, disse. Non c’era alcuno scopo di fingere con Sergio. Si girò verso di lui e lo guardò annuendo come a dire: “E’ per te.” Lui si alzò in piedi e le si avvicinò.

“Bloccato?”

“Intendo dire che il tizio che doveva venire a prenderlo a Linate, gli ha dato buca. Ho cercato di avvisarti sul cellulare, ma era staccato. Abbiamo atteso più di un’ora, e alla fine non ho potuto far altro che ospitarlo. Non me la sono sentita di lasciarlo solo.” Si sforzò di apparire indifferente all’accaduto.

“Lo hai ospitato?!” lui esclamò incredulo. Ma subito dopo il tono si fece allegro. “Hai fatto benissimo, sca!” Ora a stento riusciva a controllare l’esultanza. “Mi auguro che non ti abbia dato nessun problema?” Si sentiva profondamente sollevato.

“Nessuno…”, lei confermò. “D’altra parte lo vedo di rado da quando siamo arrivati. Sono sempre fuori, e lui non fa che sonnecchiare sul divano. Qualche volta guarda la tivù.”

Gli occhi di Sergio ebbero un improvviso guizzo di luce mali-ziosa. Le cinse la vita da dietro con le braccia e la baciò sul collo. “Bugiarda…”, le sussurrò all’orecchio stringendola con forza. “amelo.”

“Vuoi che te lo chiami? Ora sta dormendo, tanto per cambiare…”

“Non importa, cara.” Ora il tono era quasi gioioso. “Sono costernato per il disturbo che questo contrattempo ti avrà certamente arrecato.” Lo disse fingendo un tono immedesimato. “Sei certa che non ti abbia infastidito? Avresti potuto metterlo in qualche albergo, no? Mi sembra di non riuscire a esprimerti abbastanza il mio rammarico e le mie scuse.” Si fermò come per riflettere. “Ascolta… facciamo così… domattina manderò qualcuno a prelevarlo, okay? Poi o da te intorno alle dodici e si va a pranzo insieme. Che ne dici? E’ il minimo che possa fare per risarcirti del fastidio che ti ho procurato...”

“Domani non posso, ho un impegno.”

“Capisco… Allora sarà per un’altra volta.” Fece una pausa. “Comunque, ora lascia che sia io a occuparmi di lui. E, come ripeto, hai fatto la cosa giusta a ospitarlo, sca. Ho qualcosa di cui parlarti quando ci vedremo. Allora…, domattina te lo tolgo di torno. D’accordo?”

“D’accordo”, lei ripeté a malincuore riponendo lentamente il ricevitore.

“Chi era?”

“L’uomo con cui sono andata a Beirut. L’amico di mio zio. Si chiama Paolo Kesler, e domattina manderà qualcuno a prenderti.”

Lo fissò dritto negli occhi, dicendo:

“Non voglio che te ne vada, Sergio.”

“Purtroppo non posso farne a meno. Devo occuparmi di quell’incarico per cui sono pagato.”

“Pagato per fare che? Ora siamo amanti, caro. Devi fidarti di me. Dimmi di che si tratta, ti prego.”

Ora dubitava fortemente che avesse a che fare con la vendita a Kesler di fotografie, in parte porno, che riguardavano un gran numero di politici italiani.

“Non posso.” Fece una smorfia rammaricata. “Domani dovrò andarmene, e ci separeremo. Forse per sempre. Ma questa notte ci appartiene, nessuno può privarcene.”

Le prese il volto tra le mani. Nei suoi grandi occhi di un azzurro limpidissimo, quasi gli parve di vedervi riflessa la propria immagine. Con un movimento del capo le indicò la camera da letto. “Andiamo?”

Lei annuì, gli occhi già lucidi di pianto. “Andiamo.”

Lui disse: “Questa notte è il poco tempo che ci resta per stare insieme, sca. Non sprechiamolo. E’ l’unica nostra certezza. Domani è un altro giorno.”

27

Era quasi l’alba e Tanya, incapace di addormentarsi, si girava e rigirava nel letto in quel minuscolo monolocale in cui viveva, nell’attesa sfibrante che il suo Nino fe ritorno. Aveva trascorso gran parte della notte sveglia, il costante pensiero di lui spesso accompagnato da crisi di pianto. Erano trascorse più di due settimane da quando era partito, senza che le avesse mai inviato il minimo segno di vita. Di lui non era rimasta traccia nell’alloggio, se si escludevano i suoi vecchi abiti diligentemente piegati e ordinati in un cassetto del vecchio comò, e un pacchetto semivuoto di Malboro, che lei custodiva come una sorta di reliquia.

Puntualmente come lo scorso venerdì, anche oggi sarebbe ato il commesso della Bank of Beirut per consegnarle la busta con il denaro. Era molto più di quanto le bastasse per il suo sostentamento. Spendeva lo stretto necessario, mettendo da parte il resto con l’idea di restituirglielo quando fosse ritornato.

Nulla e nessuno al mondo avrebbero potuto convincerla che non lo avrebbe più rivisto. Il solo pensiero di una simile eventualità, le procurava un dolore insopportabile.

Dopo la sua partenza, si era tenuta costantemente occupata. L’appartamentino era sempre lindo e in perfetto ordine, la tavola apparecchiata come se lui dovesse rincasare da un momento all’altro. Aveva acquistato al mercato una lunga pezza di finissima seta cinese dai tenui motivi floreali, con l’idea di cucirgli una vestaglia da camera. Quella era stata l’unica spesa stravagante. Era molto versata nel cucito, un’arte che aveva ereditato dalla madre sin da bambina. Cosicché mentre lavorava alla vestaglia, il tempo ava veloce. Ne aveva vista una esposta nella vetrina di un negozio di abbigliamento maschile nel centro di Beirut, e aveva pensato che a Nino sarebbe piaciuta. Avrebbe potuto indossarla al mattino appena alzato. Era rimasta a lungo davanti alla vetrina a studiarla per capire bene come fosse confezionata, in modo da poterla replicare. Ora era

finita, e stava appesa alla spalliera di una sedia in attesa che lui, ritornando, potesse farne uso. Ogni sera le lanciava un ultima occhiata prima di spegnere la luce per addormentarsi.

Ne aveva fatto il suo talismano.

Se funzionava, pensava, e se era vero che i grandi sentimenti amorosi, in quanto dotati di una sorta di forza telepatica, possono attraversare l’etere, allora quello che lei nutriva per Nino lo avrebbe prima o poi raggiunto ovunque si trovasse, e lui, percependolo, sarebbe stato spinto a ritornare da lei.

Cadde in un sonno agitato.

E’ risaputo che le ore che precedono l’alba sono quelle in cui di solito la mente scivola più profondamente nella incoscienza. Così, non udì il lieve cigolio della manopola della porta, che veniva girata e tentata. L’uomo alto dai capelli biondi a spazzola, che stava sul pianerottolo, aveva salito le quattro rampe di scale con l’agilità e silenziosità di un leopardo che si avvicina di soppiatto alla propria preda prima di attaccarla. Si muoveva senza fare il minimo rumore, la sua sagoma un’ombra dai contorni vaghi, resa tale dall’intensa semioscurità che avviluppava l’ambiente.

Quando era partito da Parigi un settimana prima, Reynaud, nel conferirgli il duplice incarico omicida, gli aveva corrisposto un anticipo di venticinquemila euro in contanti. Altrettanti gliene avrebbe bonificati nel suo conto cifrato presso una banca di Ginevra non appena gli avesse confermato, con un sms in codice, che anche la ragazza era stata eliminata.

Attorcigliato alla mano destra, il sicario stringeva un cappio fatto di una cordicella annodata in più punti. Quello e l’esplosivo erano gli strumenti del proprio mestiere. Le istruzioni del suo datore di lavoro erano state inequivocabili: niente rumore, niente sangue, niente tracce. Poteva stuprarla prima di ucciderla, se gli piaceva. Anzi, era opportuno che lo fe così l’omicidio sarebbe stato ricondotto al sesso, come movente. Aveva trascorso gli ultimi due giorni a sorvegliare l’edificio, e a osservare la ragazza andare e venire, accertandosi che abitasse in quel monolocale.

Appoggiò l’orecchio alla porta, e restò perfettamente immobile ad ascoltare. Nulla, il silenzio era tombale. Sapeva che viveva sola da quando il suo uomo era partito due settimane prima. Quindi, il suo compito era molto semplice: introdottosi furtivamente nella camera l’avrebbe violentata e poi strangolata. Nel giro di un quarto d’ora, sarebbe stato di ritorno alla sua pensioncina di infimo livello, in periferia. Vi alloggiava da quando era giunto da Parigi una settimana prima. Alla vista della grossa somma di denaro che gli aveva offerto, il proprietario non aveva obbiettato al suo rifiuto di esibire documenti.

Girò la manopola e spinse la porta con forza per verificare se per caso la sua vittima l’avesse lasciata aperta. Ma non cedette neppure di un millimetro: l’aveva chiusa a chiave dall’interno prima di coricarsi. Fece un ulteriore tentativo esercitando maggiore pressione, ma invano.

Era una difficoltà che aveva messo in conto. Un fastidio più che altro, ma non un ostacolo insormontabile. Arrotolò con cura il cappio e se lo mise in una tasca dei pantaloni. Quindi estrasse un grimaldello dalla tasca interna del giubbotto, e ne inserì la punta uncinata nella toppa. Cominciò a manovrarlo con destrezza, girandolo e rigirandolo con delicatezza finché non sentì lo scatto metallico della serratura che si sbloccava. Sorrise compiaciuto. Poi girò di nuovo la manopola e spinse la porta.

Si aprì, ma soltanto di una spanna.

Dalla bocca del killer uscì una bestemmia sommessa all’indirizzo della ragazza. Non si era limitata a chiudere la porta a chiave dall’interno, ma ne aveva anche inserito la catenella di sicurezza. La richiuse con cautela, e, silenzioso com’era arrivato, scivolò giù per le scale uscendo all’aperto. Mentre si incamminava, pensò che doveva usare una diversa strategia se voleva ucciderla. Il che avrebbe purtroppo comportato un rischio maggiore per il fatto che doveva agire in pieno giorno.

Il cielo si andava rischiarando e tingendo di un color rosso cremisi all’orizzonte sul mare, per l’imminente sorgere del sole. Il sicario si diresse a o spedito verso la costa, sollevando il collo del giubbotto di cuoio per proteggersi al meglio dalla brezza gelida del primo mattino.

Si fermò davanti alla vecchia Peugeot bianca laddove l’aveva parcheggiata lungo il marciapiede, e vi salì a bordo. Era stanco e si sentiva frustrato e amareggiato per il fallimento della spedizione, ma più che mai determinato a riprovarci.

Se tutto fosse andato come aveva programmato, ora la ragazza sarebbe morta, e lui avrebbe potuto comunicarlo a Reynaud con un sms in codice. Questi, già quello stesso giorno, gli avrebbe bonificato il saldo del compenso che avevano pattuito. Decise di ritornare sul posto, dopo essersi riposato e rifocillato, per riprendere a sorvegliare i movimenti della sua vittima. Sarebbe sgattaiolato nel monolocale non appena questa ne fosse uscita per andare a sbrigare le sue commissioni. Vi si sarebbe nascosto in attesa del suo ritorno.

28

Ezio Leardo si portò alle labbra la tazzina di caffè espresso e la svuotò con alcuni, brevi sorsi ravvicinati. Quindi, con un gesto lento e meccanico, si accese una sigaretta, espirando la prima intensa boccata attraverso le narici in due lunghe scie, lo sguardo smarrito nel vuoto.

Era nel suo studio, seduto sulla poltroncina girevole dietro la scrivania rivolta all’ampia finestra che si affacciava sull’angolo di via Torino con piazza Duomo. Da quella posizione riusciva a intravedere uno scorcio della piazza e del Duomo. C’erano due dossier posati, uno sopra l’altro, alla sua destra. Quello più voluminoso era intestato a Paolo Kesler, mentre l’altro, molto più sottile, a sca Martinoni. Alla sua sinistra, una scatola di legno pressoché delle dimensioni di quelle solitamente usate per contenere grossi e pregiati sigari.

Del dossier su Kesler aveva una profonda conoscenza, per aver avuto in ato frequenti esigenze di consultarlo. Lo aveva portato con sé da Roma. Era stato aperto alla fine del 1989, poco dopo la caduta del Muro di Berlino, allorché era giunta ai Servizi la segnalazione che l’interessato si era trasferito in Italia con la madre. Da allora si era andato progressivamente arricchendo di interessanti informazioni.

Tra quelle di maggior rilievo, c’era il rapporto sull’indagine condotta presso gli archivi di Stato della Germania unificata, da cui emergeva che il padre era stato un funzionario di grado elevato della famigerata Stasi – l’organizzazione segreta di sicurezza e spionaggio – ai tempi del governo di Honecker, e si era macchiato di numerosi crimini politici. Se non fosse deceduto nel 1985, avrebbe corso il rischio di essere arrestato e processato, dopo l’unificazione. Una nota, ben evidenziata in calce al rapporto, attirava l’attenzione sull’elevatissima probabilità – quasi una certezza – che il figlio, un ex dirigente della Deutsche Bank, fosse stato un informatore molto attivo del Ministero. Ma il corposo faldone, era

colmo di altre numerose notizie e documenti sulla vita e i movimenti di Kesler, frutto di una pressoché costante sorveglianza iniziata all’epoca del suo insediamento in Italia. C’erano, tra l’altro, rapporti di pedinamenti e appostamenti, trascrizioni di intercettazioni telefoniche ancorché di scarso o nullo interesse, numerose istantanee scattate di nascosto da agenti, che lo ritraevano in compagnia di Martinoni, e di illustri e facoltosi personaggi in bar, ristoranti, teatri, ritrovi mondani, o semplicemente a so per la città. Non mancavano alcune foto assieme a misteriosi individui, dall’aspetto straniero, che, sino ad allora, non era stato possibile identificare.

Molto scarno era invece il contenuto del dossier su sca Martinoni. E non poteva essere altrimenti visto che la sua apertura risaliva a soltanto il quindici novembre scorso, data dell’intercettazione di quella strana conversazione telefonica con Kesler, dai contorni sospetti, che aveva fatto scattare le indagini sui movimenti di entrambi. C’erano un paio di foto a colori della famosa attrice televisiva. Leardo guardo l’ora. Di lì a poco sarebbe arrivata aderendo alla sua richiesta – rivoltale per il tramite di Pietro Mattei – di un colloquio riservato.

Prese il dossier e, posatolo davanti a sé, cominciò a scorrere i pochi fogli che conteneva, per rinfrescarsi la memoria su di lei. U-sava un pennarello evidenziatore giallo per mettere in risalto i punti su cui riteneva importante attirare l’attenzione. Quella dell’uso del pennarello, era una pratica costante di Leardo nell’esame di qualsiasi documento, e le tracce che vi lasciava costituivano un segno inequivocabile del suo aggio, per chiunque vi si imbattesse successivamente. Non c’era niente di rilevante che lui già non sapesse sulla giovane star. Aveva venticinque anni, e aveva vissuto per due con Pietro Mattei. La loro relazione era cessata improvvisamente cinque anni addietro quando lei gli aveva chiesto di sposarla. Non c’era traccia che da allora ci fosse mai stato qualcun altro nella sua vita.

Era divenuta in breve ricchissima e famosa quando, dopo il decesso dei suoi genitori in un disastro aereo, lo zio miliardario la aveva presa sotto la propria ala protettiva lanciandola in una fulgida carriera nel mondo del piccolo schermo. E,

a conferma di quanto aveva affermato lo stesso Pietro Mattei, sembrava che non avesse mai avuto alcun coinvolgimento sentimentale con Paolo Kesler.

Chiuse la pratica, e sollevò il polso per guardare di nuovo l’ora. In quel momento l’interfono posato sulla scrivania prese vita gracchiando, e dal minuscolo altoparlante venne la voce dal tono gradevole della sua segretaria: “La signorina Martinoni e il signor Mattei sono arrivati, signor Leardo.”

“Li faccia are.”

Quando sca, indossando un prezioso visone black glama, entrò nello studio seguita da Pietro Mattei, Leardo si alzò in piedi, e girò intorno alla scrivania per andarle incontro con la mano tesa a stringere la sua, sorridendole in un modo che si augurò apparisse abbastanza accattivante.

“Sono molto onorato di fare la sua conoscenza, signorina Martinoni…La pregò si accomodi…” Le indicò la poltroncina di fronte alla scrivania.

Nell’osservarla, si rese subito conto che né la televisione né le foto su giornali e riviste, rendevano giustizia alla sua straordinaria bellezza. Era molto più attraente in carne e ossa. Non condizionata dalle esigenze trasformistiche della recitazione, l’espressione naturale del suo volto lo colpì profondamente quando le mise gli occhi addosso. Si chiese come avesse potuto Pietro Mattei trovare la forza di fare a meno di una simile Venere.

“Fuma?” Le porse il pacchetto delle sigarette.

“Sì, grazie.” Ne prese una e lui gliela accese notando la fermezza con cui la reggeva tra le dita.

“Pietro…” All’improvviso Leardo sembrò ricordarsi di lui, che stava immobile impalato accanto alla scrivania. “So che hai qualcosa da fare… Ti avviserò sul cellulare non appena io e la signorina Martinoni avremo concluso il colloquio.”

“D’accordo. Ci vediamo dopo, sca.” Si voltò dirigendosi verso la porta.

sca lo osservò uscire dallo studio, sorpresa per l’aria sottomessa e arrendevole che aveva mostrato nei riguardi di Leardo. Era un atteggiamento che non ricordava gli appartenesse.

Lo 007 disse:

“Immagino che la mia richiesta di poterla incontrare le sia sembrata strana, signorina Martinoni…” Si sporse in avanti sulla scrivania intrecciando le mani, e le sorrise. Desiderava metterla a suo agio sfoderando la sua migliore cordialità, pur sapendo di esserne scarsamente dotato. Voleva che fosse perfettamente rilassata nel momento in cui le avrebbe mostrato il contenuto di quella che aveva l’aspetto di una innocente scatola da sigari.

“Per niente…”, lei replicò energicamente. “Soprattutto dopo le motivazioni che Pietro me ne ha fornito.”

“Che cosa le ha detto Pietro, esattamente?”

“Che lei ha qualcosa da chiedermi sul conto di Paolo Kesler, e da riferirmi su quell’incidente aereo in cui sono deceduti i miei genitori… Muoio dalla curiosità di sapere di che si tratta.”

“Naturalmente…”, lui annuì. “Ma mi consenta di trattare un po’ più avanti il secondo argomento. Come prima cosa desidero chiederle se è disposta, in linea di massima, a collaborare con il Sisde in una importante indagine.” sca sbatté le ciglia. “Come faccio a darle una risposta senza conoscerne la natura?”

“Ha ragione…, mi scusi.” Fece una pausa. “Se non le spiace, la pregherei di rispondere ad alcune mie domande.” Tacque di nuovo per qualche secondo. “Io so che lei conosce Paolo Kesler, il presidente di Mediasystem…”

“E come potrei non conoscerlo? E’ il migliore amico e il più stretto collaboratore di mio zio.”

“Saprà che è amico anche di molti influenti personaggi”, Leardo osservò. “Politici, industriali, persino gente molto in vista in campo culturale. Immagino che conosca le sue tendenze politiche. Può dirmi se è di destra o di sinistra?”

“Onestamente non lo so per certo. Non ho mai avuto occasione di parlare di politica con lui. Ma non può che essere di destra, visto che assiste mio zio nella sua campagna elettorale.” Rifletté per alcuni secondi. “Ma cos’è questa storia, signor Leardo? Perché mi fa queste domande su Paolo Kesler?”

“Prima di risponderle”, Leardo disse appoggiandosi allo schienale della poltrona,

“ho qualcosa di molto importante da riferirle.”

“Sono tutt’orecchie.”

“Riguarda quel disastro aereo in cui persero la vita i suoi genitori quattro anni or sono. Il Boeing 747 dell’Alitalia esplose alcuni minuti dopo il decollo dall’aeroporto di Cancun, in Messico, causando la morte di 280 eggeri e sette membri dell’equipaggio.” Si fermò per scrutarla in volto.

“Conosco fin troppo bene i particolari dell’incidente”, lei disse annuendo. Si accigliò un poco. Era un episodio che le risvegliava dolorosi ricordi, e che pertanto era riluttante a riesumare.

Ma lui continuò imperterrito: “Pietro mi ha parlato di sua madre”, disse. “Mi ha detto che era una donna meravigliosa a cui lei era molto legata. Che la sua perdita le ha inferto un colpo durissimo. Non è vero?”

“La prego…” sca fece una smorfia di disgusto muovendosi nervosamente sulla poltroncina. “E un argomento che mi turba molto e di cui preferirei non parlare.”

Leardo disse in tono sommesso: “Le chiedo scusa. Comprendo perfettamente i suoi sentimenti. Odio farlo, ma c’è qualcosa di cui devo necessariamente metterla a parte.”

Lei gli rivolse uno sguardo allarmato. “Sì?”

“Quella tragedia aerea non è stato un incidente, ma un omicidio di massa.”

“Cosa?!”

Tale fu lo sbalordimento che sca sobbalzò sulla poltroncina, e la borsetta di coccodrillo che teneva in grembo le cadde a terra con un lieve tonfo. Sbiancò di colpo, e Leardo si alzò in piedi e le si accostò. Per un momento temette che stesse per perdere i sensi. Si chinò, raccolse la borsetta e gliela restituì. Raccattò pure la sigaretta che le era sfuggita di mano e la schiacciò nel posacenere. Le posò una mano sulla spalla in un gesto di conforto.

“Mi dispiace”, disse. “Mi rendo conto di ciò che sta provando.

“Non è vero!” lei sbottò a voce alta. “Non può essere vero! Non ci credo!”

“Ne ho la prova… purtroppo. Qui, in questa scatola da sigari.” Così dicendo la aprì e ne estrasse un frammento di acciaio puntuto, lungo circa quindici centimetri e largo dieci. Glielo porse. Era attraversato orizzontalmente da una striscia scura che aveva l’aspetto di una bruciatura. Il metallo era freddo e i bordi erano seghettati e taglienti. Lo porse a sca. “E’ una minuscola porzione della coda dell’aereo. Fa parte di un gruppo di numerosi frammenti della parte posteriore della fusoliera – vicino al bagagliaio – che furono allora facilmente recuperati da un basso fondale nel Golfo del Messico. Quella che sembra una bruciatura e la prova inequivocabile di una potente esplosione chimica. Le ripetute analisi hanno rivelato l’uso di tritolo, uno dei più distruttivi esplosivi al mondo. Nessun guasto meccanico, quindi, fu la causa del disastro, ma una bomba piazzata nel vano bagagli del Jumbo.”

“E’ opera di Al Qaeda, immagino…”, lei disse sconvolta rigirandosi ripetutamente il rottame tra le mani tremanti.

Lui indugiò per qualche secondo prima di dire: “No, in questo caso Osama Bin Laden non centra. Non è questo il suo modus operandi. Sappiamo bene che si serve di kamikaze, come dimostrato dalla tragedia delle Torri Gemelle.”

“E Allora?”

“Non si è trattato di un atto terroristico, ma di un omicidio politico.”

“Un omicidio politico? Ma se sono morte 287 persone…”

“Intendo dire che hanno dovuto ucciderne 287 per eliminarne una sola” Scosse la testa. “Un crimine di una efferatezza senza pari.”

“Chi era il bersaglio?”

“Un certo Miguel Garcia, di nazionalità cubana. Un dissidente molto in vista del regime comunista, leader di un movimento anti-castrista in rapida espansione. La sua popolarità stava crescendo a macchia d’olio; pertanto era percepito dal governo cubano come un soggetto pericoloso. Di qui la necessità di sopprimerlo.” Fece una breve pausa. “Dalle indagini è emerso che si era imbarcato a Cancun per fare ritorno all’Avana dove l’aereo avrebbe fatto un breve scalo soltanto per sbarcare un gruppo di eggeri, prima di proseguire

per Milano. A evitare che l’ordigno fosse individuato dai detector all’interno di un bagaglio, deve essere stato impiantato direttamente nella stiva del velivolo da qualche addetto ai lavori connivente. La bomba è stata innescata da terra con l’uso di un telefonino pochi minuti dopo il decollo, quando l’aereo, virando, aveva cominciato a sorvolare il Golfo del Messico.”

“Perché è stata tenuta segreta la vera causa del disastro?”

“La decisione di farlo è stata presa d’intesa con in Servizi segreti messicani, con l’unico scopo di non aggiungere panico nei confronti dei viaggi aerei, a quello enorme sviluppatosi dopo l’undici settembre, e tuttora esistente.”

“Qualche idea di chi siano gli autori?”

Continuava a rigirarsi tra le mani il frammento di acciaio, l’espressione sconvolta.

L’altro disse:

“Nutriamo forti sospetti che di questo attentato sia responsabile una organizzazione criminale segreta di matrice comunista, nata dalle macerie del Muro di Berlino, che opera in tutto il mondo in sostegno dei pochi regimi totalitari tuttora esistenti, come appunto quello cubano. Ma studia anche progetti velleitari di restaurazione di quelli ormai caduti.”

Leardo, che era rimasto fino a quel momento in piedi davanti a sca,

ritornò a sedersi alla scrivania.

“Sono soggetti senza scrupoli…”, continuò, “…per i quali l’omicidio è un atto che viene loro naturale. Si ispirano al famoso adagio machiavelliano del ‘fine che giustifica i mezzi.’ Basti pensare alla crudeltà con cui, per liquidare un personaggio scomodo, hanno ammazzato 287 innocenti, compresi i suoi genitori e molti bambini. Desidera un caffè?”

“No, grazie”, lei disse scuotendo il capo. “Mi tormenta il pensiero che se non fosse stato per quei criminali assassini, ora i miei genitori sarebbero vivi. Mia madre sarebbe viva!”

“La comprendo.”

sca si sporse in avanti per deporre il rottame sulla scrivania, ma senza staccare gli occhi da quella bruciatura, traccia dell’esplosivo.

Pensò ai suo genitori, e li immaginò seduti tranquilli e rilassati durante il decollo, magari con lo sguardo puntato fuori dal finestrino. Ritornavano da una vacanza nella loro villetta nello Yucatan, sulla Riviera Maya, a breve distanza dal mar dei Caraibi. Sua madre adorava il Messico e l’aveva acquistata un anno prima. Lei l’aveva aiutata ad arredarla con tanto amore. Improvvisamente accusò una lieve vertigine, e la stanza cominciò a ondeggiare. Chiuse gli occhi come per cancellare dalla vista quel pezzetto di metallo bruciacchiato, simbolo di morte. Pensò che l’aereo doveva essere stato squarciato dalla deflagrazione come un sacchetto di carta, prima di spezzarsi in tre tronconi. Un battito di ciglia prima i suoi genitori erano vivi – forse intenti ad ammirare il paesaggio mozzafiato che si allontanava dalla vista – e un battito di ciglia dopo l’esplosione, accompagnata da una enorme fiammata, li aveva distrutti consegnando le loro anime all’eternità. I loro corpi ridotti in brandelli erano precipitati in mare. Chissà se si

erano resi conto di nulla, e quale era stato il loro ultimo pensiero…

“Mio Dio!” esclamò.

Scoppiò in lacrime coprendosi il volto con le mani. Questa volta Leardo non si mosse. Pensò che lo sfogo del pianto avrebbe scongiurato il pericolo di uno svenimento. Premette il pulsante sull’interfono e gli rispose la segretaria. “Mi porti due caffè e un brandy. E niente telefonate, mi raccomando. Non desidero essere disturbato.”

sca trasse un fazzoletto dalla borsetta per asciugarsi gli occhi. Non sentì la porta dello studio che si apriva e richiudeva, né i i della segretaria che entrava nella stanza, ma avvertì sulla spalla il tocco leggero della sua mano. Si girò e la vide che reggeva un piccolo vassoio su cui erano posati un bicchiere e due tazzine di caffè. Aveva un viso gradevole, incorniciato da una capigliatura nera, corta e ricciuta. Il tono di voce era suadente.

“Beva questo, signorina Martinoni”, le disse porgendole il brandy. “Si sentirà meglio.” sca obbedì e rimasero in silenzio per qualche tempo. Leardo si mise a scorrere alcuni documenti che aveva davanti a sé sulla scrivania. La segretaria servì i caffè e uscì silenziosa dallo studio, così come era entrata.

“Desidero andare a casa”, sca disse all’improvviso.

Leardo la scrutò in volto. “Immagino come deve sentirsi, e mi dispiace”, le disse. “Ma potrebbe pazientare ancora un po’? Non l’ho fatta venire qui per spezzarle il cuore, ma perché ho un grande bisogno del suo aiuto.”

sca non replicò, ma gli rivolse uno sguardo interrogativo. “Che genere di aiuto?”

“Che cosa mi direbbe…”, lui riprese, “…se le rivelassi che Paolo Kesler lavora per quella organizzazione criminale comunista – di cui le ho parlato poc’anzi –, che ha impiantato la bomba sull’aereo?”

“Le direi che non ci credo”, gli rispose decisa con un elevato tono di voce. “Non potrei…” Si interruppe lasciando sfumare la frase. Paolo Kesler che lavorava con degli assassini politici, pensò. Comunisti per giunta. L’uomo su cui suo zio riponeva la massima fiducia. Era forse un incubo quello che stava vivendo dal quale non riusciva a destarsi? Era impossibile, orribile se fosse stato vero.

Leardo la osservava tenendo le mani congiunte alla stregua di un insegnante che sta per rivolgersi alla scolaresca.

“Paolo Kesler non è quello che sembra”, disse. “Suo zio non sa di avere una serpe in petto. Il Sisde ha motivo di sospettare che sia comunista, e che operi per conto di una organizzazione criminale internazionale che si ispira alla ideologia marxista-leninista, intesa nel senso più classico del termine.”

“Di quali elementi dispone a suffragio dei suoi sospetti?” Ora sca si sentiva più calma. Il brandy stava sortendo il suo effetto rilassante sui suoi nervi tesi.

Leardo sembrava aver assunto un contegno professionale. “Abbiamo indizi

concreti, quasi prove…”, rispose.

Continuò con un resoconto simile nella sostanza a quello che aveva fatto a Pietro Mattei, sui trascorsi di Kesler ai tempi in cui era un cittadino della Germania Est. Si soffermò sul ruolo che il padre aveva svolto in seno alla Stasi, la principale organizzazione segreta di sicurezza e spionaggio del Paese, e sui crimini politici che aveva commesso. Le riferì inoltre quanto era emerso su Kesler da una recente indagine: l’incontro in quella casa di appuntamenti parigina con Reynaud, il capo del partito comunista se e di quel movimento segreto internazionale, responsabile del disastro aereo, e di molti altri delitti.

“Se non crede a tutto ciò”, Leardo concluse, “può allora darmi una idea, se pure vaga, di cosa ci fe Kesler, secondo lei, a colloquio segreto in quel bordello con uno degli uomini più sorvegliati dai Servizi segreti si?” Tacque per qualche secondo. “Non mi dirà che discutevano di affari…”

“No, non credo”, lei rispose. Scossa da un brivido convulso, si strinse addosso il visone. Aveva freddo come se le finestre della stanza fossero spalancate. Seguì un breve silenzio, poi Leardo disse: “Ho qualche difficoltà a chiederglielo, ma vi sono costretto. Ho bisogno del suo aiuto, signorina Martinoni. Questa la ragione per la quale le ho rivelato la vera causa del disastro aereo in cui sono periti i suoi genitori. Affinché lei si renda conto con che gente abbiamo a che fare, compreso Kesler.”

“Che genere di aiuto? La situazione è davvero tanto grave?” “Lo è, purtroppo.” Leardo si stropicciò il mento irsuto con le dita. “E devo precisarle che qualsiasi collaborazione lei dovesse assicurarmi, sarebbe soprattutto nell’interesse di suo zio.”

“Oh!” esclamo sorpresa.

“Abbiamo la ragionevole certezza che, proprio in questi momenti, Kesler stia macchinando qualcosa di molto grosso per fare in modo che suo zio sia tagliato fuori dalle prossime elezioni politiche di fine febbraio.”

“Un attentato?” Sgranò gli occhi per la paura.

“Non un attentato… Riteniamo che debba trattarsi di un’azione in grado di produrre un effetto tanto dirompente sulla sua immagine pubblica, da costringerlo ad abbandonare il campo, consegnando così la vittoria ai suoi avversari.”

Leardo rimase in silenzio per consentirle di assimilare quello che aveva ascoltato, e quindi di decidere. Dalla espressione del suo volto capì che non aveva bisogno di pressarla oltre. Ebbe la sensazione che c’erano ottime probabilità che avrebbe accettato.

Quando lei gli rispose, lo guardò dritto negli occhi. Lui vide che erano gonfi, e che le palpebre erano macchiate dal mascara disciolto dalle lacrime.

“Mi dica che cosa devo fare.”

“Lo sorvegli, compatibilmente con i suoi impegni di lavoro s’intende, ma in modo da non insospettirlo. Tenga presente che è un uomo pericoloso, capace di tutto. Cerchi di ricordare tutto ciò che sa di lui e della sua vita privata, di cui noi potremmo non essere al corrente. Anche particolari apparentemente insignificanti. Contatti Pietro Mattei ogni volta che avrà qualcosa da segnalare.

Pietro è ora un collaboratore del Sisde a tutti gli effetti.” Rimase in silenzio per alcuni secondi. “E ricordi che l’unico modo per incastrarlo è scoprire quello che sta macchinando contro suo zio.”

Lei annuì. “Farò del mio meglio.”

“La ringrazio, ma c’è un’ultima cosa…”, fece una pausa come per soppesare ciò che stava per dirle, “…gradirei che lei mi precisasse lo scopo del suo breve viaggio a Beirut con lui.”

Ecco la fonte da cui Pietro aveva saputo del suo viaggio in Libano con Kesler, sca pensò. Quindi, erano stati sorvegliati. Ma, come il suo ex convivente, Leardo non aveva fatto alcun accenno a Sergio. Era lampante che non sapevano niente di lui. Si sentì rinfrancata.

“Si è trattato di un viaggio di lavoro.”

Da quell’attrice consumata che era ce la mise tutta per apparire convincente, e sperò di esserci riuscita.

29

“Allora, com’è che t’è sembrata?” Leardo chiese a Mattei.

“Dire che appariva scossa, sarebbe come dire poco o niente.”

sedevano nello studio dello 007, dopo che, al termine del colloquio, sca era ritornata a casa. Pietro aveva tentato invano di convincerla a farsi accompagnare da lui. Dopo aver opposto un fermo rifiuto, una volta fuori dall’edificio lei si era diretta a o deciso al posteggio permanente dei taxi in piazza Duomo. Lui l’aveva seguita aprendole la portiera della vettura.

“Sei proprio certa di non volere che ti accompagni?” aveva insistito un’ultima volta.

“Più che certa.”

“Cos’hai…, non ti senti bene, sca?”

Aveva notato il pallore del suo volto, gli occhi arrossati, lo sguardo duro. Sapeva che Leardo usava esprimersi con grande cautela quando le circostanze lo richiedevano, e di certo lo aveva fatto con la giovane nello scoperchiare il segreto del disastro aereo in cui avevano perso la vita i suoi genitori.

Ciononostante, a guardarla sembrava che la notizia avesse avuto su di lei un effetto devastante. Pensò che se l’intento del suo amico era stato di far nascere nell’animo della donna un sentimento di vendetta verso gli attentatori, che la inducesse a collaborare con il Servizio, apparentemente ci era riuscito. Salita sul taxi, gli aveva rivolto un pallido sorriso, dicendogli: “Sto bene; grazie, Pietro. Desidero restare sola.”

Lui aveva osservato la vettura allontanarsi, e quindi era ritornato da Leardo. Lo aveva trovato seduto alla scrivania a fare delle annotazioni, e a bere un caffè. Nella stanza ristagnava nell’aria il fumo delle sigarette.

Ora, Ezio lo guardò con un lieve sorriso professionale, dicendogli: “Hai fatto un buon lavoro nel riuscire a portarla qui.” Prese un sorso di caffè. “Ho cercato di non andare giù troppo pesante, ma non è stato facile.” Un breve silenzio. “A proposito, mi sono chiesto come abbia potuto una splendida creatura come lei resistere per due anni con un tipo come te…” Rise sarcastico.

“Me lo sono chiesto anch’io.” Sorrise e disse sviando l’argomento. “Ha accettato di collaborare?”

“Sì, ha accettato.” Radunò le carte sparse sulla scrivania e le compose in una pila che posò alla sua destra. Poi si mise a giocherellare con una biro, rigirandosela ripetutamente tra le dita. “Credo che non abbia mai avuto rapporti sentimentali con Kesler. Avevi ragione.”

“E’ tutto?”

“No. Ho avuto l’impressione che custodisca un segreto. Ma non ho la minima

idea di cosa potrebbe trattarsi. Ha risposto alla mia domanda sullo scopo del suo viaggio a Beirut assieme a Kesler, motivando con esigenze di lavoro, ma non le ho creduto. Ripeto…, penso che nasconda qualcosa.”

“Che cosa intendi fare, Ezio?”

Pietro sapeva che il suo amico era dotato di un fiuto che raramente falliva.

“Farla sorvegliare e pedinare. Ma come prima cosa bisognerà tenere d’occhio il suo appartamento.” Fece una pausa riflessiva. “Potresti occupartene tu. Tra l’altro ci siamo accordati che sarai il suo contatto con noi. Qualsiasi cosa dovesse scoprire su Kesler, la riporterà a te, e tu me la riferirai.” Rise con ironia. “Così magari avrai l’opportunità di resuscitare la tua vecchia storia romantica.”

“Mi piacerebbe, ma dubito molto di riuscirci. Ti dirò che mi sorprende che mi abbia accettato.” Scosse il capo incredulo. “Da come si comporta con me, si direbbe che mi veda tutt’altro che di buon occhio.”

“Be’… ne ha buone e fondata ragioni, no? dopo quello che lei hai fatto. Sospetto che non sia l’unica in quella folta schiera di donne che ti sei sinora scopato.” Rise di nuovo sonoramente. “Ma credo che in questa faccenda preferisca avere a che fare con uno che conosce, piuttosto che con un estraneo. Quanto al motivo per cui ha accettato di collaborare con noi, credo che le sia stato dettato dal desiderio di farla pagare a quei criminali che le hanno ammazzato i genitori. Tutto ciò, continuando a custodire gelosamente il suo piccolo segreto. Di qualsiasi cosa si tratti.”

“Hai qualche idea?”

Leardo scosse la testa. “Nessuna.” Ci pensò sopra. “Però potrei formulare un’ipotesi.”

“Cioè?”

“Potrebbe esserci un altro uomo. Ma non è Kesler, ovviamente.”

Lo fissò inarcando un sopracciglio. “Tu che ne pensi?”

“Anch’io ho avuto la medesima sensazione durante il colloquio con lei di ieri mattina. Potrebbe avere un nuovo convivente sulla cui identità, per qualche misteriosa ragione, deve mantenere l’anonimato.”

“Cerca di scoprirlo. D’ora innanzi, sarà tuo compito sorvegliarla più che potrai.” Si grattò la sommità del capo con aria perplessa. “L’istinto mi dice, Pietro, che siamo vicini a qualcosa di molto grave che potrebbe succedere da un momento all’altro. Di veramente molto grave.”

30

Il taxi, proveniente da viale Toscana, svoltò a sinistra in via Vittadini, e, percorso un breve tratto, si fermò accostando al marciapiede.

“Siamo arrivati.” Il tassista girò appena la testa per lanciare una occhiata al suo eggero che sedeva sul sedile posteriore. Sergio scrutò per un attimo fuori dal finestrino, e poi scese dalla vettura.

“Quant’è?”

L’uomo guardò il tassametro. “Quindici euro.”

Sergio trasse di tasca una grossa mazzetta di banconote e ne sfilò due da dieci euro. Dopo averle intascate e avergli dato il resto di cinque euro, l’uomo, un tipo bassotto di mezza età, panciuto e del tutto calvo, scese a sua volta dall’auto per tirare fuori la valigia dal bagagliaio. Quindi, dopo aver emesso un grugnito che forse voleva essere una sorta di saluto, risalì in macchina partendo a razzo.

Sergio rimase fermo sul marciapiede a guardarsi in giro. Splendeva il sole e il cielo era di un azzurro intenso, del tutto sgombro da nuvole. La temperatura era mite per essere i primi di dicembre. Dall’altra parte della strada, si estendeva il parco Ravizza, un’ampia zona di verde attraversata da vialetti alberati fiancheggiati da panchine. Quei paraggi gli erano abbastanza familiari. Ricordò che quindici anni prima, quando risiedeva a Milano, quel parco aveva la fama di essere un luogo di adescamento di transessuali e prostitute. Si chiese se, a distanza di tanti anni, lo fosse ancora.

Soffermò lo sguardo sulla palazzina di quattro piani davanti alla quale il taxi lo aveva depositato. Si frugò in una tasca dei pantaloni e ne estrasse un foglietto piegato in due su cui rilesse l’indirizzo che vi aveva annotato: Hotel Astra, via Vittadini. Quindi riportò lo sguardo sullo stabile come per assicurarsi che il posto fosse proprio quello che cercava. Ne ebbe conferma dall’insegna che sormontava l’ingresso dell’albergo. sca era uscita alle otto e mezzo, e lui era rimasto ad attendere l’arrivo di qualcuno che venisse a prelevarlo come aveva assicurato quel Kesler che aveva telefonato la sera prima. Ma non si era visto nessuno. Era invece giunta la telefonata di un tizio che non si era identificato, e che gli aveva impartito istruzioni su cosa fare. Lui le aveva eseguite alla lettera. Aveva prenotato un taxi e lasciato l’appartamento mezz’ora dopo la telefonata, diretto a quell’alberghetto del cui nome aveva preso nota su un foglietto che aveva strappato da un blocco notes trovato accanto al telefono. Reggendo la valigia nella mano destra, fece il suo ingresso nella piccola hall dall’aspetto molto dimesso. A sinistra c’era l’alto banco della reception, e a destra una porta spalancata a due battenti di vetro smerigliato, che dava accesso a una saletta deserta con un piccolo bar, arredata con cinque o sei tavolini a uso degli ospiti. Non c’era ascensore. Uno strano, sgradevole odore di fumo misto a sudore, ristagnava nell’aria.

Appollaiato su uno sgabello dietro il banco, c’era un giovanotto occhialuto in maniche di camicia, sui venticinque anni, bruno di carnagione, di enorme corporatura e decisamente obeso. Non avendo niente da fare, ingannava il tempo sfogliando quella che aveva tutto l’aspetto di una rivista porno.

“Sì?” Distolse lo sguardo dal giornale che continuò a tenere sfacciatamente aperto, e lo spostò su Sergio con fare interrogativo, gli occhi scuri e indagatori rimpiccioliti a due capocchie di spillo da un paio di lenti spesse quanto due fondi di bottiglie.

“Dovrebbe avere una prenotazione a nome di Sergio Ragazzi..”

“E’ lei?”

“Sì.” Il giovane si girò lentamente sullo sgabello girevole verso una rastrelliera alle sue spalle da dove staccò una chiave. “E’ la numero quattordici, al quarto piano.”

Sergio tese la mano per riceverla, ma l’altro disse: “Venga, l’accompagno.”

Gli fece strada su per quattro strette rampe di scale e quindi lungo un breve corridoio. Si fermò ansimando per la sforzo davanti alla camera contrassegnata col numero quattordici, e inserì la chiave nella toppa.

“Quanto costa al giorno?”

“La camera è già stata pagata”, l’altro gli rispose sbrigativo girando la chiave nella serratura.

Sergio pensò che avrebbe dovuto immaginarlo. Entrò nella stanza e si guardò intorno. Era molto piccola e arredata dell’indispensabile: un lettino singolo di ferro, un tavolino da notte, una sedia, un comò affiancato da uno specchio a figura intera, un guardaroba di ridottissime dimensioni.

“Il bagno è nel pianerottolo, in comune con gli altri ospiti”, il portiere lo informò.

Sergio non riuscì a reprimere una smorfia di disgusto e disse: “Dove trovo da mangiare?”

“A pochi i, in viale Toscana, ci sono trattorie e ristoranti quanti ne vuole.” Tacque per alcuni secondi. “Ma se lo desidera potrei farle portare qualcosa.”

L’altro scosse il capo. “No, grazie, preferisco uscire.”

Quando il portiere se ne fu andato, si sedette sulla sponda del letto. Era molto duro. L’aria nella stanza era viziata, e andò alla finestra per aprirla, ma senza riuscirci poiché la maniglia era bloccata.

Dall’esterno giungevano i rumori smorzati delle auto che transitavano lungo la strada. Disfece la valigia sistemandone il contenuto nel guardaroba, e poi si lasciò andare disteso sul letto. Si accese una sigaretta.

Poiché non aveva niente con cui occupare la mente, non poteva difendersi dal pensiero costante e ossessivo di sca. Al mattino si erano alzati sforzandosi di comportarsi come se fosse una giornata normale; come se lei sarebbe uscita per sbrigare delle faccende, e, rientrando, l’avrebbe trovato come al solito nel soggiorno ad attenderla. Ma sapevano che così non sarebbe stato: quello era il giorno della loro separazione, non si sarebbero mai più rivisti. Prima che lei uscisse erano rimasti a lungo abbracciati nell’ingresso. Lui l’aveva baciata più volte con dolcezza, dicendole che l’amava.

“Ti rivedrò?” sca gli aveva chiesto, la voce incrinata da un grosso groppo

alla gola.

“Ti farò sapere dove andrò ad alloggiare”, le aveva risposto mentendole. Sapeva che non avrebbe potuto mantenere la promessa.

Lei si era sciolta improvvisamente dall’abbraccio e, per evitare di scoppiare in lacrime, era corsa alla porta ed era uscita chiudendola dietro di sé.

Chiuse gli occhi e gli parve di avvertire la sua presenza in quella squallida stanzetta. Rivide la sua splendida figura venire verso di lui con incedere sensuale, sorridendo, e fermarsi accanto al letto. Era palpitante di vita e così reale che gli sembrò quasi di poterla toccare allungando una mano. L’uomo che gli aveva telefonato al mattino, era stato categorico nell’ordinargli di andarsene mentre lei era fuori, avendo cura di non lasciare traccia alcuna di sé che potesse consentirle di ritrovarlo. Ma prima di prenotare il taxi, era sceso in strada per acquistare da un fioraio vicino all’ingresso dello stabile, un mazzo di quaranta rose rosse. Le aveva collocate a centro tavolo nel soggiorno, dentro un grosso vaso di cristallo. Un gesto per dirle addio per sempre. Gli era costato una cifra tale con cui avrebbe potuto mantenersi per un mese, ma non gli era importato.

La notte precedente, l’ultima in cui avevano fatto l’amore, le aveva detto per la prima volta, durante l’amplesso, che l’amava pazzamente. Ora avvertiva un desiderio di lei tanto struggente da quasi procurargli fitte di dolore fisico.

Per quanto lei avesse avuto una storia d’amore durata due anni, Sergio si era subito accorto che non ne aveva tratto granché di insegnamento su come ottenere il maggior piacere possibile da un rap-porto sessuale. Tutto sommato mostrava una considerevole inesperienza e goffaggine. Lui le aveva spiegato molte cose, e lei si era abbandonata alla sua perizia amatoria. Le aveva fatto scoprire zone sensibili del suo corpo, che le erano del tutto sconosciute, sempre riuscendo a

farle raggiungere l’apice del piacere. Un’abilità che aveva acquisito anche frequentando prostitute le quali pronunciavano la parola ‘amore’ in tono professionale, e solo nel momento in cui ricevevano il prezzo della prestazione. “Grazie, amore”, erano solite dirgli.

sca era ricchissima, e conduceva un’intensa vita da attrice televisiva. Pertanto lui dubitava fortemente che lo avrebbe assecondato e seguito in eterno come un cagnolino, così come faceva Tanya. Era certo che prima o poi si sarebbe stancata. Tutto sommato, quindi, era un bene per entrambi che si fossero lasciati. Una volta che si fosse resa conto che non sarebbe più ritornato, avrebbe superato la crisi rapidamente, e si sarebbe consolata cominciando a frequentare altri giovani del suo stesso ceto sociale.

Quel pensiero lo colpì e lo scosse al punto di farlo balzare a sedere sul letto, madido di sudore, in preda alla gelosia. L’idea che un altro uomo potesse toccarla, baciarla sulla bocca come lui aveva fatto, accarezzarle i capelli, addormentarsi con lei tra le braccia, lo faceva impazzire.

Si alzò in piedi, e prese a camminare su e giù per la stanza come un leone in gabbia, nel tentativo di mitigare le sue fantasticherie. Che cosa ne era stato, pensò, della sua natura fredda e distaccata, scevra da profondi sentimentalismi? Un conto era la pietà – tramutatasi poi in affetto – che aveva provato per Tanya quando l’aveva presa con sé. Ben altra cosa era quello struggente sentimento per sca che, simile a una sorta di febbre violenta, lo stava divorando giorno dopo giorno. Sedette di nuovo sul bordo del letto. “Devo smettere di pensarla”, si disse. “Tanto non la rivedrò mai più”.

Pensò che doveva fare di tutto per sedare il desiderio di lei, addirittura per cancellarlo dal suo animo e dalla sua mente per sempre. Un desiderio che il non vederla rendeva persino più bruciante. Come una malattia dello spirito, lo intristiva e lo faceva sentire come un cane abbandonato dal proprio padrone. Doveva dimenticare i suoi splendidi occhi azzurri, quel suo modo sensuale di

camminare ondeggiando sui fianchi, il ridere civettuolo, il corpo dalla pelle vellutata, sodo e immacolato.

Sin dall’inizio, aveva pensato che una donna come sca fosse completamente fuori dalla sua portata. Mai in ato aveva avuto l’opportunità di avvicinare una come lei, figurarsi farci l’amore. Ne aveva viste tante in giro di splendide e ricche fanciulle, ma non aveva potuto che limitarsi a osservarle e ammirarle da una certa distanza. Quella breve e meravigliosa avventura era stata un puro caso. Se giunto a Linate, l’uomo incaricato di prelevarlo si fosse presentato, l’occasione non si sarebbe verificata. Era stato un brevissimo, fantastico interludio nella sua vita, destinato a non ripe-tersi mai più. Quando si era alla fine persuaso che era veramente capace di amarla intensamente, era stato costretto a lasciarla per ritornare nel suo elemento naturale: una squallida cameretta simile alla topaia in cui viveva a Beirut con Tanya. Meglio si confaceva alla sua persona e alla sua condizione sociale.

Aveva fatto ritorno a Milano dopo quindici anni per uccidere qualcuno per denaro. Questa era la realtà di cui doveva occuparsi. Forse se concentrava i suoi pensieri sul compito che l’aspettava, sarebbe riuscito in breve a dimenticarla. Avrebbe finito per convincersi che si era illuso, che ipotizzare un futuro con lei era stata pura pazzia, e gli sarebbe uscita di mente. Non c’era ragione al mondo per cui a lei non avrebbe dovuto accadere la stessa cosa nei suoi riguardi.

Si distese di nuovo sul letto dopo essersi tolto le scarpe.

Il denaro, pensò.

Un milione di euro era una fortuna. Forse non in una città come Milano, ma a Beirut lo era certamente. Lui e Tanya potevano condurci un agiato tenore di vita. Avrebbe vestito la sua ragazza araba con splendidi e costosi abiti, facendone una

donna elegante e raffinata. Forse avrebbe trovato nel suo amore, una certa somiglianza con quello che sca gli aveva dimostrato nel breve tempo in cui avevano convissuto. Gli sarebbe bastato, anche se escludeva che quello che lui nutriva per Tanya potesse un giorno trasformarsi in qualcosa di più che un semplice sentimento di affetto. Con il denaro avrebbe potuto comperarsi un po’ di quella felicità che il destino gli aveva fatto solo intravedere.

Con fare impaziente, si alzò di nuovo in piedi e andò alla fine-stra. Scostò le tendine per guardare fuori, l’espressione pensierosa.

Osservò un gruppetto di ragazzini scorrazzare in bicicletta lungo i vialetti del parco.

L’uomo che gli aveva telefonato al mattino, gli aveva assicurato che non avrebbe dovuto attendere molto. Dato che non si era identificato, Sergio non sapeva se all’altro capo del filo ci fosse stata la stessa persona che aveva chiamato la sera prima, e che sca gli aveva detto chiamarsi Paolo Kesler.

Lo sconosciuto si era limitato a dargli alcune istruzioni: lasciare l’appartamento e troncare ogni rapporto con sca Martinoni. Ne andava del pagamento del saldo del suo compenso. Raggiungere l’Hotel Astra, e attendere. Cercare di uscire il meno possibile. Presto, sarebbe stato contattato con le istruzioni dettagliate su come operare. Aveva chiuso bruscamente la comunicazione.

Lasciò andare le tendine e tornò a sdraiarsi sul letto. “Pensa solo al denaro”, si disse. “Pensa alla vita agiata che un milione di euro ti consentirà. Pensa a qualsiasi cosa tranne che a sca. E se non ci riesci, allora sforzati di addormentarti usando quel vecchio trucco che ti hanno insegnato le suore da ragazzo: conta le pecorelle.”

31

sca rientrò nel suo appartamento di ritorno dal colloquio con Leardo, e avvertì la sensazione immediata che fosse deserto, perché lui se n’era andato.

“Sergio?” chiese tuttavia a voce alta, pur sapendo che non avrebbe ottenuto risposta. Come Kesler aveva promesso, qualcuno era ato a prenderlo.

Alla intensa depressione di cui era divenuta preda in seguito alle terribili rivelazioni di Leardo, si era sommata una acuta emicrania che si propagava fin dietro i bulbi oculari.

A provocargliela, aveva contribuito la incessante logorrea del tassista che l’aveva riportata a casa. Non era la prima volta che le succedeva. Purtroppo, a dispetto degli occhiali da sole scurissimi che indossava, l’uomo l’aveva riconosciuta subissandola con un torrente di parole per tutto il tragitto. Lei l’aveva tollerato con rassegnazione, il capo reclinato sul poggiatesta, gli occhi chiusi, ignorandolo per quanto aveva potuto.

Dopo aver indugiato per qualche secondo nell’ingresso, entrò nel soggiorno. Fu investita dal delicato profumo emanato dalle quaranta rose rosse a gambo lunghissimo, che troneggiavano al centro del tavolo.

Ne afferrò subito il significato.

Ne annusò una, e poi cercò il biglietto che immaginò avrebbe dovuto esserci, ma

che non c’era. D’altro canto, pensò, cosa mai avrebbe potuto scriverle che non si erano già detti? Quel mazzo di splendide rose era di per sé un messaggio inequivocabile che lui aveva inteso trasmetterle: era uscito per sempre dalla sua vita, tutto era irreparabilmente finito tra loro, e non l’avrebbe mai più rivisto. Ma voleva anche essere un omaggio alla sua bellezza, e il ringraziamento per quei giorni di intensa felicità che aveva saputo regalargli. In quel momento percepì in modo netto la intollerabile mancanza di lui, quasi palpabile nell’aria. Un vuoto incolmabile, che sembrava propagarsi in tutto l’ambiente in modo quasi irreale.

Ripensò al colloquio con Leardo.

Cosicché i suoi genitori erano stati assassinati. Le loro vite e quelle di molti altri innocenti erano state distrutte con premeditazione dall’esplosione di quel Jumbo. La luce era stata spenta nei loro corpi, con lo stesso semplice gesto con cui viene azionato un interruttore elettrico.

Era stato uno shock violento. Ma non meno di quello procuratole dalla notizia dei legami di Kesler con quella organizzazione criminale segreta che dell’attentato era responsabile. L’uomo che suo zio aveva portato alle stelle, e di cui si fidava ciecamente, era invece, a detta di Leardo, una spia comunista che tramava contro di lui. Ancora non riusciva a crederci. Ma a poco a poco, il dubbio si andava dissolvendo, e dal suo subconscio emergeva con crescente chiarezza la enormità di quanto aveva appreso. Come se non bastasse, un altro inquietante interrogativo cominciava a farsi strada nella sua mente. Poteva fidarsi di Sergio Ragazzi, l’uomo che amava? E ancora: quale era la vera natura dei suoi rapporti con Kesler e il vero obbiettivo del suo viaggio a Milano?

A Leardo aveva riferito tutto ciò che sapeva sul conto di Kesler da quando lo conosceva, ma gli aveva mentito sul vero scopo del loro viaggio a Beirut. E non avrebbe potuto fare altrimenti a meno di rivelargli l’esistenza di Sergio, e il motivo per il quale aveva dovuto accompagnarlo a Milano.

Era qualcosa che non si sarebbe mai sognata neppure lontanamente di fare, intuendone le gravi implicazioni per l’uomo di cui si era tanto invaghita.

Si domandò come si sarebbe comportata con Sergio e che cosa gli avrebbe detto se, rientrando in casa poco prima, lo avesse trovato ancora lì. Gli avrebbe raccontato tutto del colloquio avuto con Leardo? Forse no. Se era un collaboratore di Kesler, tacendo con Leardo la sua esistenza, lo aveva di fatto protetto, e in fondo ne era felice. L’esserne innamorata pazza, era, a suo modo di vedere, una giustificazione accettabile per aver tenuto la bocca chiusa. Pensò che doveva cercarlo, e quando lo avesse trovato lo avrebbe affrontato a viso aperto chiedendogli spiegazioni sui suoi reali rapporti con Kesler, e sullo scopo del suo viaggio a Milano. Purtroppo, non aveva la benché minima idea di dove lo avessero portato. Ricordò che Sergio le aveva qualche volta vagamente accennato, quando lei glielo aveva chiesto, che doveva eseguire un incarico delicato di cui non poteva rivelarle la natura, e per il quale avrebbe riscosso un grosso compenso.

Ora era certa che non poteva trattarsi della vendita a suo zio di fotografie da utilizzare in campagna elettorale per distruggere i suoi avversari. Quella era stato un pretesto inventato ad arte da Kesler per convincerla ad accettare di accompagnare Sergio fino a Linate evitandogli, grazie alla sua presenza, problemi al controllo aporti e doganale.

La aveva abilmente manipolata.

Le venne anche in mente quello che Leardo le aveva riferito quel mattino, sui fondati sospetti del Sisde che Kesler stesse ordendo qualcosa di grave per deturpare l’immagine di suo zio a tal punto da costringerlo ad abbandonare la competizione elettorale.

Di cosa mai poteva trattarsi? E se Sergio era al soldo di Kesler, come sembrava, poteva essere quello l’incarico a cui lui le aveva accennato che doveva assolvere, ma che si era sinora sempre rifiutato di rivelarle?

Si lasciò cadere sfinita e scoraggiata sul divano, e afferrò il telecomando per accendere il televisore. Tra qualche minuto sarebbe andato in onda il telegiornale del pomeriggio sulla terza rete RAI. Senza alcuna plausibile ragione, girò la testa verso il tavolino su cui era posato il telefono. Lo sguardo le cadde sul piccolo blocco notes che utilizzava per prendere appunti mentre era all’apparecchio. Si accorse che doveva essere stato usato di recente da qualcuno che, nello strappare il foglio precedente in modo maldestro, aveva lasciato una strisciolina di carta attaccata al bordo superiore.

Era più che certa che non fosse stata lei a farlo.

Come obbedendo al proprio istinto, prese in mano il blocchetto e studiò il foglietto bianco inutilizzato. Si alzò in piedi con aria perplessa e si accostò alla finestra per poterlo esaminare meglio alla piena luce del giorno. Erano appena visibili i lievi solchi prodotti dalla forte pressione esercitata – per via della biro quasi scarica – sul foglietto precedente, per potervi scrivere qualcosa.

Fu colpita da un pensiero improvviso: non poteva essere stato che Sergio l’autore dell’appunto. Forse al mattino non si era presentato nessuno a prelevarlo come Kesler le aveva assicurato, ma aveva ricevuto una telefonata. Quello che aveva scribacchiato sul bloc-co notes dovevano essere il nome e l’indirizzo dell’albergo in cui gli era stato ordinato di andare ad alloggiare, comunicatigli dall’uomo che lo aveva chiamato.

Le mani cominciarono a tremarle. Si versò un cognac e lo mandò giù d’un fiato per cercare di calmarsi. Se ne versò un altro e si mise a sorbirlo lentamente. Poi si sedette sul divano e riprese a studiare la superficie bianca del foglietto, ma quei segni erano pressoché invisibili e pertanto indecifrabili.

Improvvisamente, forse grazie anche all’effetto rilassante del cognac, la mente le si schiarì e ricordò qualcosa. Ovviamente, i lievi solchi bianchi su fondo bianco, non potevano essere decifrabili. Ma rammentò che da bambina giocava con le compagne di classe a scrivere messaggi segreti, calcando con forza una biro su un bloc-chetto di carta bianca, in modo da lasciarne traccia sul foglio seguente. Per far emergere il messaggio, bastava farvi poi scorrere una matita con mano leggera. In preda all’eccitazione, prese una matita da un portapenne, la temperò appuntendola con cura, e poi cominciò a farla scorrere sul foglio da sinistra a destra e viceversa senza esercitarvi pressione, muovendo verso il basso in modo da creare uno sfondo scuro. Le prime due parole dell’appunto furono visibili a metà pagina, con caratteri stampatello abbastanza nitidi: Hotel Astra. Con il cuore che le batteva forte nel petto, continuò l’operazione finché non comparve l’indirizzo dell’albergo: via Vittadini. Consultò la guida stradale Tutto Milano, accertando che si trovava dalle parti del parco Ravizza. Dunque, era lì che Sergio alloggiava. Strappò il foglietto dal blocco notes e lo infilò nella borsetta.

Il suo primo impulso fu di precipitarsi a prendere la macchina per correre da lui. Moriva dalla voglia di vederlo per raccontargli tutto, per piangere fino all’esaurimento tra le sue braccia, per essere confortata. Ma fu un attimo: subito dopo la sua componente razionale ebbe il sopravvento e le fece cambiare idea. Si disse che quel gesto poteva rivelarsi una imprudenza, se era vero che Sergio lavorava per Kesler. Era possibile, si chiese, che fosse anche lui coin-volto in qualche modo nelle attività di quella organizzazione criminale comunista di cui Leardo le aveva rivelato l’esistenza? Non lo conosceva abbastanza profondamente per escluderlo. Quindi, dove-va andarci con in piedi di piombo nel trattare con lui – oltre che con Kesler – se non voleva correre rischi per la propria incolumità fisica.

“Kesler è un uomo pericoloso, capace di tutto”, era stato l’avvertimento di Leardo. Pensò che non poteva prendere nessuna iniziativa con Sergio, fino a quando non fosse riuscita a conoscere esattamente la natura del suo rapporto con Kesler, e il compito che doveva assolvere per suo conto. Ma come poteva scoprirlo senza contattarlo? Si sentiva confusa e indecisa. Fu in quel momento che pensò allo zio Ugo, sorprendendosi di non averlo fatto prima. Lui era l’uomo nel mirino di quel piano criminoso che, a detta di Lear-do, Kesler stava elaborando per costringerlo ad abbandonare la corsa elettorale, che tra l’altro doveva ancora avere inizio. Era con lui che doveva anzitutto conferire per informarlo di quanto aveva appreso, mettendolo in guardia da quell’uomo che si fingeva il suo migliore amico, ma che invece stava tramando per stroncare sul nascere la sua carriera politica. Doveva rivelargli chi era in realtà. Doveva vederlo da sola e in assoluta segretezza, e questo poteva rivelarsi un problema dato che Martinoni viveva le sue giornate costantemente attorniato da un esercito di collaboratori, o impegnato nelle sue relazioni pubbliche, intensificatesi con il recente ingresso in politica. Parlare con lui a quattr’occhi in quei giorni non sarebbe stato facile, ma lei avrebbe colto il momento propizio per riuscirci. Sarebbe quindi stato lui a decidere il da farsi.

Lo aveva avvertito del suo rientro a Milano lo stesso giorno in cui era arrivata con Sergio, precisandogli che era ancora in ferie e che, dopo aver sbrigato alcune faccende, lo avrebbe raggiunto alla sua villa in Brianza. Terminò di bere il cognac e poi andò in camera da letto per preparare la ventiquattrore. Telefonò al portiere pregandolo di portarle la Lamborghini davanti all’ingresso dell’edificio.

Di lì a un quarto d’ora sfrecciava sulla tangenziale.

Non si accorse di una Mercedes sportiva grigia metallizzata che la seguiva da quando era partita, mantenendosi a una distanza di circa cento metri.

32

Villa Olga – che Ugo Martinoni aveva eletto a sua dimora abituale –, era una imponente residenza signorile di campagna, ma per il contesto ambientale in cui sorgeva, dava l’idea di una fortezza inespugnabile. Era immersa nel verde lussureggiante di ben cento ettari di terreno circondato da un alto muro perimetrale, sulla cui sommità correva un reticolato di filo spinato elettrificato a quattromila volt, che lo rendeva praticamente invalicabile. Queste basilari misure di sicurezza tenevano i curiosi a distanza, e scoraggiavano potenziali intrusi.

Non meno efficace, il sistema di allarme e quello di videosorveglianza con telecamere a circuito chiuso, che, dislocate in punti strategici, coprivano l’intera superficie della vasta tenuta.

Per ultima, ma non per questo meno importante, c’era la presenza costante di un piccolo esercito di guardie giurate, che pattugliavano il terreno a palmo a palmo, armate di pistole .357 Magnum a proiettili dirompenti, e tenendo al guinzaglio feroci alsaziani.

Il Magnate ne aveva avviato la costruzione nei primi anni Settanta, dandole il nome di Villa Olga in omaggio alla sua seconda moglie che era stata l’ispiratrice del progetto e che gli aveva dato due figli maschi, ora adeguatamente sistemati alla dirigenza di importanti aziende del gruppo.

L’impegno che vi aveva profuso, senza badare a spese, era stato enorme. Alcuni dei materiali da costruzione di altissimo pregio impiegati – tra cui i costosissimi marmi di Carrara – erano stati importati da varie parti del mondo. All’arredamento aveva sovrinteso in prima persona con cura ossessiva. La

grande ione che nutriva per l’antiquariato – il suo principale hobby – aveva fatto sì che alla fine la villa risultasse colma di mobili d’epoca, di quadri d’autore e di tappeti orientali di inestimabile valore. Una collezione che avrebbe fatto invidia alla prestigiosa e antica sala londinese di vendite all’asta di Sotheby’s. L’intento era stato anzitutto di stupire, in particolare, certi suoi amici miliardari che si erano vantati, fino ad allora, di essere proprietari delle più splendide residenze della Brianza.

A costruzione ultimata, durata cinque anni, ne aveva fatto il suo quartiere generale, ma anche il luogo in cui era in grado di rilassarsi dalle fatiche diuturne di accumulare ricchezza e, in conseguenza, accrescere il suo potere.

Per ironia della sorte, la sua seconda moglie che dell’idea era stata la promotrice, non vi aveva mai potuto risiedere dato che lui, a pochi mesi dal completamento dei lavori, le aveva chiesto, ottenendolo, il divorzio. Gli era costato un esborso di svariati milioni di euro, ma poco gli era importato.

Era un edificio spettacolare, ma l’enorme parco recintato in cui era immerso, non lo era da meno.

All’inizio della costruzione vi erano stati piantati circa tremila alberi di varie specie, che si erano aggiunti a quelli preesistenti, in maggioranza querce e ippocastani. Si era così formato un fitto bosco, quasi una foresta, attraversato da vialetti ombrosi, fiancheggiati da panchine di pietra, lungo i quali Martinoni soleva spesso caval-care di prima mattina in compagnia del figlio maggiore, e, di rado, di sca. Una scuderia con maneggio, che alloggiava una decina di purosangue delle razze più pregiate, era situata nell’aria nord della proprietà.

Al centro della tenuta si estendeva una immensa radura delimitata da rododendri fioriti. C’era anche un gazebo, e persino un lago artificiale in cui venivano

allevati pesci di pregio, in maggioranza trote. Le sponde erano percorse tutt’intorno da una vialetto inghiaiato ai cui bordi erano dislocate, a intervalli regolari, comode banchine bianche di ferro battuto. Quel lago in particolare era l’orgoglio di Martinoni, e non era insolito che vi intrattenesse i suoi illustri ospiti organizzando gare di pesca con la canna.

Non mancava una serra in cui venivano coltivate, tra le piante tropicali più rigogliose, anche delle rare orchidee.

Da uno spiazzo retrostante la villa, si dipartiva un lungo vialetto lastricato che conduceva a un elegante ed enorme padiglione il cui tetto era un lucernario di spesso plexiglas, che poteva essere aperto elettricamente nella stagione estiva. Alloggiava una piscina di venticinque metri a sei corsie, oltre al bar, la palestra, la sauna, il bagno turco e l’idromassaggio. Dall’interno della struttura, varcando una grande porta vetrata scorrevole, si accedeva a un vasto prato all’inglese adibito a solario durante l’estate. Ma se l’obbiettivo principale di Martinoni era stato quello di impressionare, non sempre vi era riuscito del tutto. A sca l’ambiente era diventato col tempo troppo familiare da suscitarle quei sensi di repulsa per la smisurata ostentazione di opulenza, che invece avvertivano gran parte di coloro a cui era concesso il privilegio di oltreare i cancelli della tenuta, o di visitare la villa. Voci critiche non mancavano da parte di amici e parenti che coglievano – in particolare nell’arredamento, e a dispetto della sua preziosità – segni di un cattivo gusto che spesso sconfinava nel volgare. La censura più aspra era venuta dalla madre di sca, che aveva definito Villa Olga, nel suo complesso, il più grosso crimine contro il buon gusto commesso da Martinoni. Di segno opposto erano stati, per intuibili motivi, i giudizi del padre.

Martinoni era riuscito nell’arco di vent’anni a sbarazzarsi di quattro mogli servendosi del facile, ancorché costoso, strumento del divorzio. Dopo il fallimento dell’ultimo matrimonio, avvenuto dieci anni prima, non si era più risposato. Ma ciò non significava che ora fosse del tutto privo di compagnia femminile. Tre anni prima, si era fatto un’amante che gli restava fortemente aggrappata accarezzando il sogno che un giorno si sarebbe deciso a sposarla. Si

chiamava Orietta Grifoni, ed era una sconosciuta ex cantante trentacinquenne in un gruppo rock, che aveva rimorchiato da qualche parte nel mondo dello spettacolo. Non era mai trapelato dove e in quali circostanze avesse fatto la sua conoscenza. Ma era un fatto che, nel giro di ventiquattrore, la aveva insediata a Villa Olga assegnandole una sontuosa suite con cameriera personale, regalandole un vasto guardaroba comprensivo di due visoni e un leopardo, nonché gioielli di gran valore. Nel contempo, aveva fatto installare nella propria camera da letto un avvistare acustico collegato a quella di lei, con cui la convocava ogni volta che ne avvertiva l’esigenza.

sca non la vedeva da un pezzo poiché Orietta aveva trascorso due settimane di vacanza in Brasile, a Rio de Janeiro, nel periodo in cui lei era a Roma per lavoro e poi a Beirut con Kesler. Martinoni non le imponeva restrizioni di sorta. Le permetteva di viaggiare e di andare dove più le aggradasse. E lei rigava dritta perché era ben consapevole che se lui avesse scoperto che lo tradiva, la avrebbe sfrattata nel giro di pochi secondi, e il suo sogno di sposarlo sarebbe andato in frantumi in un batter d’occhio. In tre anni di convivenza, niente di negativo era mai emerso dai suoi comportamenti, malgrado la stretta e costante sorveglianza che Martinoni esercitava su di lei.

33

sca, superato il casello autostradale, svoltò a sinistra immettendosi nella provinciale che percorse per una decina di chilometri. Sterzò a destra a un incrocio imboccando il lungo e largo viale alberato che conduceva alla villa. Arrestò la Lamborghini davanti all’enorme cancello in ferro battuto a sbarre appuntite. I battenti erano sostenuti da due massicci pilastri di cemento dai quali si dipartiva l’alto muro di cinta. Affisso alla inferriata, un cartello di legno avvertiva: Vietato l’ingresso. Proprietà privata. I trasgressori saranno puntiti a termini di legge.

La guardia in servizio di sorveglianza nella piccola costruzione di cemento situata sulla sinistra appena superato l’ingresso, la rico-nobbe subito e premette il pulsante che azionava l’apertura del cancello. Si udì il ronzio del motore elettrico, e in quello stesso istante i battenti cominciarono ad aprirsi cigolando. Procedendo a o d’uomo, la vettura sportiva imboccò il vialetto di accesso e lo percorse fino in fondo arrestandosi sul grande piazzale davanti alla villa. L’edificio, largo e moderno, si ergeva imponente per tre piani. Un larga veranda al primo piano correva per l’intera facciata. Al massiccio portone di ingresso si accedeva salendo alcuni larghi gradini di marmo.

sca scese dalla macchina e premette il pulsante del camlo accanto al portone, mentre pensava a Sergio che le aveva dimostrato di non sapere granché di suo zio. Aveva dovuto parlargli di lui e fargli un resoconto delle sue immense ricchezze. Martinoni dava per scontato che, come il Padreterno, tutto il mondo dovesse conoscerlo, e non accettava l’idea che potesse esistere qualcuno a cui il suo nome non diceva nulla. Ma questo era qualcosa che face-va parte della sua natura vanagloriosa, che lei aveva sempre accettato di buon grado.

Pensò alla ragione principale per la quale era venuta a Villa Olga. Aveva assunto con Leardo l’impegno di collaborare con il Sisde, cercando di acquisire

informazioni su Kesler da fargli pervenire per il tramite di Pietro Mattei. I Servizi segreti erano ansiosi di incastrarlo, ma non meno di quanto lo fosse lei stessa. Poter parlare con suo zio in privato e in gran segreto, era essenziale. Le avrebbe consentito di stabilire se e quanto, eventualmente, Martinoni già sapesse sul ato di Kesler, e le avrebbe dato la possibilità di svelargli tutto quello che aveva appreso da Leardo. Come avrebbe reagito, si chiese, nel constatare che l’uomo che da sempre considerava il suo migliore amico, era in realtà il suo peggior nemico? Venuto a conoscenza della pericolosità del personaggio e il fatto che stesse tramando Dio solo sapeva cosa per distruggerlo, avrebbe deciso come fare per proteggersi. Forse insieme sarebbero riusciti ad acquisire prove idonee a mettere Leardo in condizioni di farlo arrestare, sventando così ogni rischio per entrambi. Ma era un compito tutt’altro che semplice.

C’era infine Sergio. Aveva deciso di continuare ad adoperarsi per proteggerlo, mantenendo il silenzio su di lui con Leardo e Pietro. Almeno fino a quando non fosse riuscita a parlargli per cercare di farsi svelare la natura dell’incarico che doveva eseguire, e per il quale era venuto a Milano.

Salì nella sua stanza al secondo piano, e si cambiò d’abito. Si tolse i jeans che sempre indossava quando guidava, sostituendoli con una comoda gonna di seta scura molto attillata. La camera era arredata con sfarzo. C’era, tra l’altro, un grande letto a due piazze finemente intagliato che, a detta di Martinoni, era appartenuto a uno dei famosi Visconti di Firenze. Si sedette su un basso sgabello imbottito, davanti a un grande mobile da toilette sovrastato da un grande specchio ovale del Settecento veneziano. Sul ripiano era disposto il necessario per pettinarsi e per il trucco. Prese una delle tre spazzole dal dorso smaltato e cominciò a arsela nei capelli con aria un po’ stanca. Sospirò. Improvvisamente chiuse gli occhi e rivide il volto di Sergio. Come per un tocco di bacchetta magica, quella spazzola si trasformò nella mano di lui che, come era solito fare, giocherellava con la sua capigliatura scompigliandogliela, strofinandogliela davanti al viso e attorcigliandosela alle dita. “Dio!” esclamò.

“Cosa ti succede, cara? Non stai bene?” sca non aveva sentito la porta

aprirsi alle sue spalle. Si girò con un movimento repentino, e vide Orietta ferma sulla soglia che la osservava. Tutte le ex mogli di Martinoni erano brune, ma Orietta Grifoni era bionda con occhi azzurri. Di statura media, aveva un volto dai lineamenti non del tutto regolari, che cominciava a mostrare i primi segni di decadimento dovuti all’età. In compenso, aveva un corpo ancora molto piacente, che non sarebbe stato esagerato definire voluttuoso. sca aveva sempre sospettato che questo fosse il requisito che aveva influenzato, in modo determinante, suo zio nel decidere di farne la sua amante. Doveva essersi alzata da poco visto che indossava una comoda vestaglia di un rosa intenso che accentuava il biondo dei capelli, e faceva risaltare l’azzurro degli occhi. Tra i larghi risvolti, si intravedeva la sottile e soffice camicia da notte trasparente.

sca la guardò un po’ imbambolata come se non la riconoscesse.

“Ehi, ciao sca!” Orietta sollevò una mano e la agitò come per farla uscire da quella sorta di trance. “Ho appena saputo che sei arrivata, e sono venuta a salutarti. E’ un piacere rivederti.”

“Oh scusami, Orietta, ero soprappensiero.” Si alzò in piedi e le andò incontro. “Anch’io sono felice di rivederti.” Si abbracciarono scambiandosi un bacio. “Non ero certa che fossi ritornata dal Brasile”, sca aggiunse. “Hai uno splendido aspetto…”

“Mi sono abbronzata, come vedi. Sono rientrata quattro giorni fa.” Tacque per qualche secondo sorridendo. “Ugo è stato felice di rivedermi.”

“Lo credo bene…” sca notò che, osservata da molto vicino, forse per effetto dell’intensa abbronzatura, apparivano più profonde le grinze attorno agli occhi. Aveva sempre pensato che dovesse essere di cinque o sei anni più vecchia dei trentacinque dichiarati.

Il rapporto con lei era più che buono da sempre, soprattutto perché Orietta non aveva mai mostrato neppure un briciolo di gelosia, per l’affetto e le attenzioni che Martinoni le riservava definendola la sua nipote prediletta, e anche perché lei non se ne avvantaggiava a discapito dell’altra. Non appena conosciutala, aveva deciso che la donna le piaceva. Nel complesso la trovava gradevole, e accomo-dante forse in misura un po’ eccessiva.

“Come ti butta con mio zio?” chiese mentre sca ritornava a sedersi sullo sgabello e riprendeva a spazzolarsi i capelli.

“E chi lo vede mai? Da quando sono rientrata ho potuto incontrarlo una sola volta. Sono trascorsi tre mesi dall’ultima chiamata notturna.” Rise divertita.

“Non pranzate e cenate insieme, come al solito?”

“Macché… Non più da quando è entrato in politica. E’ diventato pressoché inavvicinabile. E’ tutto preso a preparare la campagna elettorale con i suoi collaboratori.” Fece una smorfia insoddisfatta. “I suoi pranzi e le sue cene si sono trasformate in riunioni di lavoro.”

“Ho bisogno di parlargli… ma a quattr’occhi.”

“E’ difficile, ma provaci. Ti auguro buona fortuna.”

“Sai dov’è in questo momento?”

“Dove vuoi che sia se non nel suo studio?”

“Non è solo, naturalmente.”

“Naturalmente… C’è Paolo Kesler con lui. E’ arrivato mezz’ora fa.”

34

“Quand’è che sei rientrato, Paolo?” Martinoni fissò Kesler inarcando un sopracciglio con fare interrogativo.

“Ieri sera sul tardi, Ugo. Avrei voluto avvisarti, ma era quasi mezzanotte.”

“Il volo com’è andato?”

“Uno schifo.” Fece una smorfia disgustata. “Una sorta di incubo. C’è stato un ritardo di due ore, anzitutto, per via di un’avaria a un motore. Poi una turbolenza mai vista, che ha sballottato l’aereo senza tregua fino a Linate. Ero stanco, ma non sono riuscito neppure ad assopirmi.”

“E’ quell’affare con la Deutsche Films?

“E’ andato in porto. E molto meglio di quanto sperassi, direi.” Sorrise compiaciuto. “Sono riuscito a firmare un accordo per l’acquisto dei diritti su una serie di cinquanta telefilm da trasmettere sulla Terza Rete a partire da gennaio.” Sorrise di nuovo. “Un buon contratto…, indubbiamente per noi vantaggioso.”

Martinoni annuì con un lieve sorriso. “Non mi sorprende… Conosco le tue doti di abile negoziatore negli affari. Altrimenti non saresti il presidente di Mediasystem. Ma ora veniamo alla politica… Dimmi del tuo viaggio a Beirut.”

“Anche quello liscio come l’olio.” Fece una pausa. “Il nostro uomo è arrivato a Milano il venti agosto senza alcun problema. Ho provveduto a sistemarlo in un alberghetto dalle parti del parco Ravizza. Lì è al sicuro, e attende che vada da lui per cominciare a trattare la cessione del materiale. Gli ho parlato stamattina per telefono, e mi ha assicurato che lo recupererà dalla cassetta di sicurezza nei prossimi giorni.”

“Ma le foto dovranno essere esaminate una a una prima che tu possa corrispondergli il saldo del prezzo pattuito, non è così?” Martinoni aveva un modo rapido di pronunciare le parole, come se lanciasse proiettili. Uscivano dalla sua bocca ad altissima velocità. A sessant’anni compiuti era ancora una splendida figura di uomo. Alto sul metro e ottanta, magro ma con una robusta ossatura, era dritto come una pertica. Aveva un viso molto espressivo dalla forma allungata, e con mascelle pronunciate. Gli occhi infossati ma vivaci, erano di un colore indefinibile tra il grigio e il marrone. I capelli argentati erano sempre perfettamente composti. Ostentava una eleganza tanto raffinata, da dare l’impressione di una vanità ossessiva. Appariva sempre impeccabile in doppi petti scuri, tagliati su misura, con camicie immacolate dai colletti perfetti, e cravatte a pois su fondo grigio chiaro. Era quasi palpabile una sorta di aureola carismatica che sembrava avvolgerlo, e che suggeriva potere e smisurata ricchezza. Aveva il contegno di chi è abituato al comando e si attende obbedienza incondizionata dai suoi sottoposti. Gli piaceva burlarsi di alcuni amici miliardari – ma molto meno di lui –, che non curavano affatto il loro look, vestendo sempre in modo sciatto.

Rivolse al suo interlocutore quel suo sguardo intenso e inquisitore, che molti non riuscivano a sostenere.

“Certamente… E sarò io a occuparmene in prima persona”, Kesler gli rispose. “Ci vorrà del tempo per selezionare quelle che ci interessano, distruggendo le altre.”

“Un lavoro tutt’altro che noioso”, Martinoni osservo ridacchiando.

“Ne sono convinto…” Rise a sua volta divertito.”

“Naturalmente, dovrai anche preoccuparti di custodire in un posto sicuro quelle che sceglierai. Decideremo in campagna elettorale se e come farne uso. Tutto dipenderà dal comportamento dei miei avversari.”

Kesler annuì. “Per questo basterà la cassaforte del mio appartamento. E’ a prova di dinamite.”

“A proposito… Sei certo che possiamo fidarci di quell’uomo?”

Era una di quelle sue domande sparate a bruciapelo, frutto di una mente acuta e in costante fibrillazione. Nulla di ciò che diceva era mai privo di una ragione.

Kesler si sentì colto alla sprovvista.

“In che senso?” chiese con aria confusa.

Martinoni parve riflettere mentre si ava e riava la mano su una guancia perfettamente rasata. “Voglio dire… siamo certi che ci consegnerà tutte le foto, e che non ne tratterrà un certo quantitativo?”

“Per farne che?”

“Mah… che ne so… metti che si tenga quelle compromettenti per i politici del centrodestra, e le ceda poi a qualche giornale o rivista di sinistra a un prezzo astronomico. Così facendo potrebbe perfino raddoppiare quel milione di euro che ha pattuito con noi.” Tacque per qualche secondo. “Che ne dici?”

“Non esiste, Ugo.” Il tono di Kesler era oltremodo rassicurante. “Quell’uomo non sa niente di niente. Non sa chi io sia, anzitutto, né ha la più pallida idea dell’uso che intendiamo fare del materiale.”

“Già…, ma ne conosce il contenuto per averlo lui stesso prodotto, e può arrivarci una volta che verrà a sapere della imminente campagna elettorale, se già non lo sa. Potrebbe sommare due più due e…”

“Sta’ tranquillo, Ugo…”, Kesler lo interruppe alzando una mano. “La tua è una preoccupazione del tutto ingiustificata. Quel tizio non ha il benché minimo interesse a fare una cosa del genere, perché sa che se contattasse i media rischierebbe di esporsi. Ha un debito in sospeso con la giustizia italiana per il reato di sfruttamento della prostituzione. Risale a quindici anni fa quando gestiva quella casa di appuntamenti a Bollate, in cui ha appunto scattato le foto. Sa che trattando con me ha la massima discrezione assicurata.”

“Comunque sia…”, Martinoni disse, lo sguardo dubbioso, “…desidero che quando tutto sarà finito tu lo accompagni subito in aeroporto e lo carichi sul primo aereo in partenza per Beirut.”

“Lo farò. E sono certo che tornarsene a casa è quello che desidera

ardentemente… C’è la sua ragazza che lo aspetta.”

Ora Martinoni annuì con aria soddisfatta. Disse: “Prendo qualcosa da bere.” Gli indicò con la mano il mobile bar addossato a una parete. “Mi fai compagnia?”

Kesler scosse il capo. “No, grazie. Lo sai che non bevo mai al mattino...”

“Be’, io prendo un goccetto di whisky. Ti spiace versarmi due dita di Chivas senz’acqua né ghiaccio?”

Kesler si alzò in piedi e andò al mobile bar.

Rimasero in silenzio per quasi un minuto mentre Martinoni sorseggiava il whisky. “Certo che trovarlo è stata una botta di culo enorme”, disse a un tratto.

“E’ vero. Ma non sarebbe successo se quest’estate non fossi andato in vacanza a Beirut. E’ stato per puro caso che ho conosciuto quel mediatore libanese. Saputo che ero italiano, mi ha segnalato quel tizio che era alla ricerca di un compratore per quella roba scot-tante. ”

Martinoni non disse niente, lo sguardo pensieroso posato sul bicchiere di whisky già quasi vuoto.

Quella del bere smodato era un vizio del Magnate a cui la stampa mai accennava. L’aspetto davvero sorprendente stava nel fatto che era in grado di

scolarsi una bottiglia di un qualsiasi liquore, senza che gli fe grande effetto. Nessuno lo aveva mai visto veramente ubriaco. Al massimo restava un po’ brillo. In compenso – magra consolazione –, non fumava e vietava di farlo a chicchessia in sua presenza.

I due uomini sedevano su un ampio divano di pelle che, disposto quasi a ridosso di un’ampia portafinestra, consentiva di spaziare con lo sguardo su quella vasta area della tenuta antistante l’edificio, che si estendeva fino al cancello d’ingresso.

Lo studio di Martinoni era tra tutti i trentadue locali della villa, quello in cui Kesler gradiva particolarmente fermarsi a conversare con l’amico. Era di dimensioni enormi, di forma rettangolare con tre portefinestre scorrevoli, che davano su una grande veranda. L’arredamento era di un lusso esagerato – come del resto quello dell’intera residenza –, ma insieme funzionale. Le pareti, tappezzate di una pregiata stoffa color beige, erano ricoperte tutt’intorno da dipinti a olio, che, per il loro costo esorbitante, Kesler sapeva di non potersi permettere. C’erano dei Guttuso, Canaletto, Van Gogh, Degas, Renoir, Turner, Bosh, e altri. Al centro della stanza troneggiava, collocata su un tappeto orientale, una imponente scrivania di noce chiaro intarsiato, di fine Ottocento.

Attraverso una porta in fondo allo studio si accedeva alla sala riunioni, al cui centro era collocato un ampio tavolo ovale di mogano scuro attorniato da otto sedie.

“C’è qualcosa che mi disturba in questo periodo”, Martinoni disse rabbuiandosi in volto come colpito da un pensiero improvviso. Mandò giù quel po’ che restava del whisky nel bicchiere.

“Sì, lo so. Ha a che fare con l’Arcivescovo, non è così?”

“Già…” Il Magnate annuì con aria solenne. “Dammene un altro”, gli disse porgendogli il bicchiere vuoto. “Anzi, fallo doppio.”

Kesler si alzò in piedi e andò di nuovo al mobile bar.

Avvertì l’insorgere di una certa tensione nell’aria, e decise che si sarebbe unito all’amico nel bere qualcosa. Percepì il suo improvviso cambiamento di umore. Si versò due dita di cognac e riempì di whisky, quasi per tre quarti, il tozzo bicchiere di Martinoni.

“Ti preoccupa?” Tornò a sedersi sul divano accanto a lui dopo averglielo porto.

“Neanche un po’… Diciamo che mi dà sui nervi, più che altro.” Bevve un abbondante sorso facendo poi schioccare la lingua. “Avresti dovuto vederlo ieri sera in televisione. Era ospite alle Invasioni Barbariche. Stamattina l’ho sentito in una intervista a Radio-anchio. Domani sera sarà a Che tempo che fa.” Storse la bocca. “Non fa che sparare a zero su di me, se pure senza mai citarmi esplicitamente. Secondo lui, in politica sarei una anomalia inaccetta-bile, perché gravato dal conflitto di interesse. Se arrivassi a Palazzo Chigi farei i miei porci comodi; il che sarebbe un disastro per il Paese, eccetera eccetera…” Mandò giù un altro sorso di whisky.

“Tranquillo, Ugo, è soltanto un can che abbaia…” Kesler si portò alle labbra il bicchiere di cognac. “Non credo che riuscirà a danneggiarti più di tanto agli occhi dell’elettorato.”

“Sì, lo so… Se non fosse un Cardinale, e per giunta l’Arcivescovo di Milano, saprei come tappargli la bocca.”

“Con il solito sistema, immagino…”

“Esatto. Quello non fallisce mai. Tutti hanno un prezzo, mio caro. Con l’eccezione, naturalmente, di un personaggio assolutamente incorruttibile come Losito.” Continuava a sorseggiare il whisky. “Ma se pensa di spuntarla vuol dire che non mi conosce. Per contrastarlo, sto facendo organizzare una serie di interviste che rilascerò nei prossimi giorno sulle mie reti, e, se possibile, anche su quelle della RAI. Spiegherò bene le mie ragioni. Coinvolgerò i miei giornali, ordinando loro di difendermi e sostenermi.”

“Per come la vedo io…”, Kessler disse grattandosi il mento con aria pensierosa, “…questo suo comportamento non durerà a lungo, e avrà su di lui un effetto boomerang.”

“Perché?”

“Be’, è semplice, no? né al Vaticano, né alla CEI può andare a genio che l’Arcivescovo di Milano entri così…, a gamba tesa in politica, cercando di avervi voce. Non tollereranno in eterno questi attacchi alla tua persona, e faranno qualcosa per metterlo a tacere. Non giova alla immagine della Chiesa.”

“Non è detto che se ne facciano un problema, Paolo, e quell’uomo lì è davvero un osso duro.” Tacque ed estrasse dalla tasca interna della giacca un foglio di carta piegato in due. “Tuttavia mi confortano i sondaggi.” Spiegò il foglio e lo porse a Kesler. “Questo è aggiornato all’altro ieri.” Da quando aveva deciso di

entrare in politica, Martinoni non faceva che nutrirsi di sondaggi. Ne commissionava di continuo a quelle che definiva le più prestigiose e affidabili case di ricerche demoscopiche internazionali.

“Come vedi”, riprese, “la mia popolarità e ancora al sessantacinque per cento.” Sorrise compiaciuto. “Dando per scontato che Losito persista nella sua offensiva mediatica fino al giorno delle elezioni, ritengo che il danno che potrà arrecarmi in termini di erosione di consensi non dovrebbe andare, grosso modo, oltre i due o tre punti. Ciò significa che resterei saldamente in sella, e vincerei le elezioni comunque.”

“Ne convengo pienamente.” Kesler disse annuendo con vigore.

Ed era sincero.

Pensava che il Magnate fosse nel giusto: gli attacchi del Cardinale, lungi dal disarcionarlo, avrebbero scalfito appena la sua immagine. Né sarebbero serviti granché quelli dei suoi oppositori. Anzi, paradossalmente, avrebbero potuto giovargli facendolo apparire come una vittima agli occhi degli elettori.

Per farlo cadere ci voleva ben altro. Sarebbe stato l’assassinio di quel personaggio eccellente, che lui aveva programmato d’intesa con Reynaud a seppellire sul nascere e per sempre la sua carriera politica, distruggendolo al tempo stesso. L’attentato a un alto prelato tanto popolare come l’Arcivescovo di Milano, avrebbe avuto una risonanza mondiale, e sollevato una indignazione senza precedenti tra la gente di qualsiasi estrazione sociale. I sospetti si sarebbero subito appuntati su Ugo Martinoni quale il mandante più probabile del delitto. Ad avvalorarli sarebbe bastata, come movente, quella sorta di campagna elettorale solitaria e personale che il Cardinale aveva da poco intrapreso contro di lui. Era universalmente noto che, da sempre, tra i due non scorresse buon

sangue.

Kesler bevve un sorso di cognac. Girò la testa per lanciare una occhiata furtiva al suo amico che continuava a sorbire in silenzio il suo whisky. Sorrise dentro di sé al pensiero della ingegnosità di quel piano diabolico che aveva elaborato insieme a Reynaud per annientarlo, e che, servendosi dell’opera di Sergio Ragazzi – killer dalla mira infallibile – avrebbe presto messo in atto. Innumerevoli volte ne aveva ato mentalmente in rassegna ogni minimo dettaglio, convincendosi che non poteva fallire.

Ora non restava che deciderne il luogo e la data di esecuzione.

Ma affinché potesse realizzarsi nella sua interezza era necessario fare in modo che i sospetti sulla colpevolezza di Martinoni, si trasformassero in certezze agli occhi degli inquirenti. Questa la ragione per la quale il sicario, un minuto dopo aver colpito il bersaglio, sarebbe stato a sua volta abbattuto. Da morto, si sarebbe rivelato una fonte di prove inequivocabili a carico del Magnate quale man-dante del delitto, e della sua amata nipote nel ruolo di complice, o collaboratrice che dir si voglia.

Sul cadavere di Sergio Ragazzi, sarebbe stato rinvenuto il a-porto italiano falso, e sarebbero scattate le indagini della polizia per stabilire la vera identità dell’assassino. Kesler ricordava che Hassan, nel segnalarglielo, gli aveva espresso la quasi certezza che l’uomo fosse in fuga dalla giustizia italiana per qualche grave reato che aveva commesso prima di espatriare clandestinamente quindici anni prima. Forse un omicidio? Se era ricercato, la polizia non avrebbe avuto alcuna difficoltà a scoprire chi fosse dalle foto sul database dei criminali latitanti.

Ma sarebbe stato il timbro di ingresso sul aporto, che recava la data del venti

novembre, a imprimere una svolta alle indagini. Era più che ragionevole ritenere che gli inquirenti, come atto di routine, avrebbero chiesto di visionare i nastri delle registrazioni del sistema di videosorveglianza sul traffico eggeri a Linate per avere conferma, senza ombra di dubbio, che il killer fosse entrato in Italia in quella data. A quel punto sarebbe emerso un incredibile particolare: al controllo aporti l’uomo sarebbe stato visto accompagnarsi, in atteggiamento inequivocabilmente confidenziale, con la famosa attrice della televisione sca Martinoni, nipote del sospettato. A questo si sarebbe sommata, se mai ce ne fosse stato bisogno, la dichiarazione dei funzionari di polizia alla cui attenzione i due non erano di certo sfuggiti.

Infine, ci sarebbe stata quell’imprevista ciliegina sulla torta, rappresentata dal fatto che sca era stata costretta a ospitarlo nel suo appartamento quando, al loro arrivo a Linate, nessuno si era presentato a riceverlo. Il portiere dello stabile avrebbe testimoniato di averli visti andare e venire insieme. Quel particolare non avrebbe potuto che aggravare la posizione giudiziaria della giovane in quanto avrebbe dimostrato che, non soltanto lo aveva accompagnato a Milano, ma lo aveva persino ospitato in attesa che potesse compiere il delitto per il quale era stato assoldato.

Martinoni sarebbe stato arrestato, incriminato e processato per il gravissimo reato di omicidio premeditato, e la nipote per quello di complicità. A lui sarebbe stata inflitta una condanna non inferiore ai trent’anni di reclusione. A lei forse un po’ meno. Il Magnate avrebbe trascorso a marcire tra le quattro mura di una cella il tempo che ancora gli restava da vivere. Infatti, vista l’età, le probabilità di uscirne vivo, sarebbero state molto scarse. La gestione del gruppo sarebbe ata ai suoi due figli maschi.

Con Martinoni fuori dalla scena politica e per di più in prigione, il centrosinistra avrebbe vinto le elezioni di fine febbraio. Rosario Mancuso, candidato premier della coalizione, si sarebbe insediato a palazzo Chigi. Per la prima volta dalla fine della guerra, l’Italia si sarebbe ritrovata con un governo a guida comunista, con tutte le intuibili implicazioni. Kesler avvertì un acuto senso di soddisfazione

per come la situazione si andava evolvendo. Osservò il Magnate ignaro, che, posato il bicchiere vuoto sul basso tavolino, si alzò e si accostò alla porta finestra, le braccia conserte.

“Questi attacchi a oltranza di Losito sono quelli che, tra tutti, avranno su di me l’effetto negativo più contenuto”, disse senza voltarsi. Scrutava in lontananza, gli occhi puntati su una enorme e splendida quercia secolare che sorgeva a breve distanza dal lago, e la cui vista sempre gli suscitava un certo piacere. Era alta più di venti metri e si stagliava robusta e maestosa contro il cielo terso, tendendo i suoi lunghi rami verso l’infinito. Ma era spoglia del fitto fogliame di cui si ammantava nella stagione estiva a formare un grande ombrello verde.

“Avremo una campagna elettorale al vetriolo”, continuò. “Ci sarà un intenso fuoco di sbarramento da parte della sinistra. Me ne tireranno addosso di merda…, ma alla fine saranno loro a restarne imbrattati.” Fece una pausa. “Ecco perché quelle foto ci saranno, all’occorrenza, di enorme aiuto. Sono il nostro asso nella manica.”

“Non ne ho alcun dubbio.”

Mentre Kessler lo studiava pensieroso di sottecchi, si chiese – ma non era la prima volta – se in quindici anni Martinoni avesse mai nutrito qualche vago sospetto su di lui. Se lo sfiorasse mai il dubbio che non fosse quello che sembrava e che tutti pensavano. Di certo, non poteva neppure lontanamente immaginare che fingesse di essergli amico, ma che invece lo detestava aspramente per quel suo sentimento di odio viscerale che manifestava continuamente verso il comunismo: la grande ideologia politica secondo i cui principi lui era stato cresciuto ed educato, e di cui, malgrado il lungo tempo trascorso, si sentiva tuttora fortemente imbevuto.

Sedici anni, pensò. Tanti ne erano ati dal quel fatidico giovedì 9 novembre 1989, in cui il famigerato Muro di Berlino era crollato, innescando un processo virtuoso che avrebbe portato non solo alla fine della Germania Est come Stato, ma anche alla caduta dei regimi comunisti in tutti i Paesi dell’Europa Orientale, URSS compresa. Kesler serbava ancora vivido nella memoria il ricordo di quella giornata.

Gunther Schabowski, leader della Sed – il partito comunista di Berlino Est – aveva annunciato la resa. Con parole ambigue aveva dichiarato che da quel momento il Muro veniva aperto per permettere ‘viaggi personali all’estero’. Erano le sette di sera e poco dopo era scoppiata una festa spontanea a Berlino Ovest davanti alla porta di Brandeburgo e nella Kunfurstendamm. Contemporaneamente, tedeschi dell’Est a centinaia di migliaia, si erano ammassati in pros-simità dei posti di confine, mentre folti gruppi di tedeschi dell’Ovest si erano arrampicati in cima al Muro, davanti alla porta di Brandeburgo, per chiederne la distruzione. Un grosso segmento era stato tagliato e rimosso, e, come un fiume in piena che tracima – in una atmosfera di gioia e di ottimismo incontenibili, nonché di incredulità – a milioni si erano riversati a Berlino Ovest.

Nessuno avrebbe mai potuto prevedere che quel milione di berlinesi dell’Est, che soltanto una settimana prima aveva manifestato contro il governo comunista a Alexanderplatz, ora poteva andarsene tranquillamente a so per Berlino Ovest a fare shopping.

Paolo Kesler era stato tra loro.

Il giorno dopo, in una splendida giornata autunnale dal cielo terso, in un clima di euforia collettiva che regnava in ogni angolo della città, il flusso di folla era continuato inarrestabile.

I berlinesi dell’Est, provati da tanti anni di dittatura comunista, attraversavano il confine con l’Ovest – ormai cancellato – per rice-vere dal governo del denaro con cui acquistare beni di prima necessità. Intanto il Muro continuava a essere fatto a pezzi, e numerosi varchi si andavano aprendo dappertutto nella città.

Era stato nel primo pomeriggio di quel giorno che Kesler, ritornando a casa dopo una lunga eggiata nella zona Ovest, aveva sentito circolare la voce che la Stasi aveva iniziato la distruzione, in fretta e furia, di quei dossier del ministero contenenti i nomi sia degli agenti e informatori del regime, sia dei cittadini sottoposti a sorveglianza. Di lì a qualche ora, si era diffusa la notizia che il lavoro aveva dovuto essere interrotto in quanto folle di infuriati avevano preso d’assalto gli uffici ministeriali impossessandosi dei dossier sfuggiti al macero. Kesler si era sentito pervadere da una forte inquietudine. Aveva cominciato a interrogarsi sulla possibilità che il suo nome potesse emergere da qualcuno di quei documenti scampati alla distruzione.

In quasi venti anni di servizio presso la Deutsche Bank, aveva condotto una capillare azione di monitoraggio nei confronti di tutti i più alti dirigenti dell’istituto di credito, e non solo. Riferiva in gran segreto alla Stasi ogni volta che ravvisava nella loro condotta aspetti che, a suo giudizio, potevano rivelarsi controproducenti per il regime, o lesivi dei suoi interessi. Molti erano stati, nel corso degli anni, i dipendenti che, per effetto della sua opera delatrice, erano stati licenziati dalla banca, arrestati e persino incarcerati e torturati. Di un buon numero di essi si erano perse le tracce.

Dopo alcuni giorni, tutti i media, ora liberi, avevano riportato la notizia che il governo della Germania unificata, in fase di formazione, avrebbe potuto ricercare e processare gli agenti e collaboratori dell’ormai ato regime, che fosse stato in grado di rintracciare. Una sorta di nuova Norimberga? Kesler si era chiesto. A quel punto, la decisione di trasferirsi in Italia con la madre era stata presa su due piedi.

Un anno dopo, quando era da poco diventato presidente di Mediasystem, era stato contattato da Reynaud, che poi aveva incontrato durante un viaggio di affari a Parigi. Il se, alto esponente del partito comunista, era alla ricerca di ex agenti segreti della Stasi o del Kgb, nonché di ex informatori, cui proporre l’ingresso in quella organizzazione segreta che stava fondando. Kesler aveva accettato l’invito di buon grado.

Grazie alla copertura assicuratagli dalla elevatissima posizione che occupava nel gruppo aziendale di Martinoni, aveva cominciato a operare indisturbato in una rete clandestina internazionale di spie comuniste. L’essere presidente di un colosso mediatico come Mediasystem, nonché amico intimo del proprietario, gli aveva aperto tutte le porte. Aveva conosciuto uomini potenti e influenti in ogni sfera della società italiana, compresa quella della politica, ed aveva instaurato con loro ottimi rapporti. Manteneva ovunque cordiali relazioni. Era divenuto egli stesso un personaggio pubblico influente.

Aveva ripreso la sua vecchia arte di manipolare la gente importante per accaparrarsene la fiducia e carpirne informazioni riservate, che riportava ai vertici dell’organizzazione clandestina di cui faceva parte. Questa sua capacità di abile manovratore, aveva funzionato alla perfezione con sca Martinoni. Era riuscito a usarla per far entrare in Italia da Beirut, senza problemi, il killer che aveva assoldato per uccidere il Cardinale Losito.

Finì di bere il cognac e depose il bicchiere sul basso tavolino. Poi riportò lo sguardo su Martinoni che continuava a restare in silenzio e immobile davanti alla portafinestra, le mani incrociate dietro la schiena. No, pensò, era impossibile che dubitasse della sua amicizia e lealtà. In quindici anni, non aveva mai commesso un solo errore o compiuto un solo o falso. Erano state enormi la riconoscenza e la devozione che gli aveva sempre mostrato. Aveva sempre recitato perfettamente, da quel grande mistificatore che era, il ruolo del personaggio irreprensibile al disopra di ogni sospetto.

Niente sarebbe accaduto se il Magnate non fosse entrato in politica. Quella decisione aveva fatto scattare in Kesler una sorta di molla psicologica che lo aveva spinto a intervenire – di concerto con Reynaud – per sbarrargli la strada, costasse quel che costasse. L’opportunità che in Italia si instaurasse un governo a guida comunista, era troppo ghiotta per l’organizzazione perché potesse farsela sfuggire. La presenza di Martinoni in campagna elettorale l’avrebbe di certo vanificata.

Squillò il telefono.

Martinoni si riscosse e si voltò accostandosi alla scrivania. Sollevò la cornetta. “Si?”

Era la sua segretaria che gli annunciava l’arrivo di sca.

“Ah!” esclamò. “Era ora… Le dica di scendere subito nel mio studio.”

35

Quando sca, accompagnata da Orietta, entrò nello studio di Martinoni, avvertì la sinistra sensazione che Kesler la fissasse più intensamente di quanto era solito fare in presenza di suo zio. C’era, inoltre, una strana espressione interrogativa nei suoi occhi, che non aveva mai notato prima. Si avvicinò a Martinoni e lo bacio su una guancia, quindi strinse la mano a Kesler sforzandosi di apparire normale.

“Sono molto lieto di rivederti, tesoro,”, il Magnate le disse con un ampio sorriso. La scrutò da capo a piedi dicendole: “Ma cosa c’è in te che ti fa apparire più bella di quando ti ho visto l’ultima volta?”

“E’ vero…”, Kesler interloquì, “…ha qualcosa di diverso. Non è vero, Ugo?” Tacque per qualche attimo continuando a studiarla. “Ah, ecco di che si tratta… Hai cambiato acconciatura.” Rise sonoramente.

sca rise a sua volta, e di colpo si sentì liberata dalla tensione. Non c’era niente di inquietante nel fatto che la stessero esaminando. Kesler si era semplicemente accorto che aveva modificato la propria pettinatura. Ora aveva i capelli lisci. Ma nei primi istanti del suo ingresso nello studio, si era sentita come se avesse la parola ‘Sisde’ marchiata a fuoco sulla fronte.

“Questo nuovo look ti dona molto, cara.” Orietta portò il suo contributo ai complimenti dicendo qualcosa di carino, come era solita fare.

“Andiamo nella serra. Voglio che diate una occhiata a delle nuove orchidee che

ho fatto arrivare dal Messico.” Martinoni si alzò e uscì dallo studio dirigendosi verso il retro della villa, seguito da sca, Kesler, e Orietta. Quest’ultima si mise a chiacchierare vivacemente con Kesler.

sca sapeva che a renderla nervosa e ipersensibile era quello che aveva appreso da Leardo sul conto di quello che aveva sempre saputo essere il miglior amico di suo zio, oltre che braccio destro. Si sentiva come se versasse in una condizione di pericolo. Pensò a Orietta che era sempre gentile con lei e la trattava da amica. Disapprovava certi atteggiamenti di suo zio nei suoi confronti, giudicandoli ingiusti. Non le piaceva che la illudesse, facendole spesso balenare la possibilità del matrimonio. Tutte le ex mogli di Martinoni erano di rango elevato: un requisito in una donna da sposare a cui uno snob come lui non avrebbe mai rinunciato. Orietta era di umili origini, ragion per cui tutti scommettevano che non l’avrebbe mai portata all’altare.

Cioè…, tutti tranne l’interessata.

Uscirono all’aperto nel retro della villa, e percorsero un vialetto lastricato in pietra che conduceva all’ingresso della serra. Era il luogo in cui, più che in ogni altro, a Martinoni piaceva svagarsi ammirando le rigogliose piante esotiche di cui era colmo, e che mostrava con orgoglio a quanti, amici e parenti, venivano a fargli visita. La temperatura interna, caldo-umida, era assicurata artificial-mente da un apposito impianto di condizionamento, di cui si avvertiva il lieve ronzio.

Era come trovarsi in un ambiente dal clima tropicale, necessario per tenere in vita il genere di vegetazione che la serra ospitava. Era lunga una cinquantina di metri, attraversata da vialetti, e interamente ricoperta da lastre di vetro che riflettevano scintillando i raggi del sole.

Si avviarono lungo il sentiero centrale, fermandosi a metà percorso. In quel

punto, sulla destra, c’era un’ampia e ombreggiata zona relax con un tavolo rotondo attorniato da cinque comode poltroncine di vimini, provviste di cuscini imbottiti. In un angolo, era collocato un mobile bar. Le pareti erano ricoperte da fitti rampicanti; un vistoso cartello avvertiva che era proibito fumare. Con grande determinazione Martinoni proteggeva dall’inquinamento le sue preziose piante tropicali e le rare orchidee, queste ultime coltivate alle due estremità della serra. Si erano appena seduti che, come dal nulla, comparve un cameriere in giacca bianca, che si affaccendò davanti al bar. A richiesta, servì dello champagne a sca e Orietta, e un cognac a Kesler. Poi posò sul tavolino una bottiglia di whisky appena stappata, a uso personale di Martinoni.

“E’ bello rivederti, tesoro”, Martinoni ripeté osservando la nipote dopo essersi versato del whisky nel tozzo bicchiere di cristallo. Pensò che apparisse più attraente così pettinata. I capelli lisci le fluivano fin sulle spalle in modo naturale conferendole un’aria più sobria, meno sbarazzina. Era smagrita, però, e conoscendola bene, gli sembrò che avesse un’espressione un po’ inquieta, come se qualcosa la turbasse.

Bevve un sorso di whisky e poi spostò lo sguardo su Kesler. Notò che anche lui la stava osservando, e gli sembrò di cogliere nei suoi occhi una espressione appena percettibilmente ostile.

Non seppe darsene una spiegazione plausibile.

Martinoni non era cieco, e si era da lungo tempo accorto che il suo braccio destro aveva un debole per sca, ma, orgoglioso com’era di lei, non poteva che comprenderlo e approvarne il buon gusto. Quindi faceva finta di niente. Gli consentiva di guardarla quanto e quando gli pareva, ma niente di più. Non gli avrebbe mai permesso di metterle una mano addosso. Sapeva che Kesler era cosciente di come lui la pensasse in proposito, e che pertanto non avrebbe mai avuto l’ardire di fargli uno sgarbo. Erano grandi amici, d’accordo, ma non al punto che Martinoni lo avrebbe appoggiato nella realizzazione di un eventuale

progetto sentimentale che accarezzasse nei riguardi della nipote. Quando la giovane avesse deciso di sposarsi – e lui auspicava che lo fe al più presto –, non avrebbe di certo scelto un uomo che, per distanza anagrafica, poteva farle da padre.

“Non vedevo l’ora che tornassi da Roma”, Martinoni riprese. “Mi sei mancata da morire. Come se non bastasse, anche Orietta è stata via in Brasile ad arrostirsi al sole. Mi sono sentito solo.”

“Mi spiace zio.” sca gli sorrise. “Avrei dovuto chiamarti più spesso, lo so, ma sono sempre stata molto impegnata fino al termine della fiction.”

“A proposito… com’è che è andata?”

“Molto bene… credo. La prima puntata dovrebbe andare in onda ai primi di gennaio.”

“Povero caro…”, Orietta disse. Si alzò con slancio e andò a so-stare alle spalle di Martinoni. Gli accarezzò la folta capigliatura argentata e gli mise le braccia intorno al collo. “Tutto solo senza le sue donne. Ma ora siamo qui, amore. Sta’ tranquillo... io non mi allontanerò più da te.”

“Finisci di bere lo champagne”, lui le disse brusco.

Di colpo lei sembrò amareggiarsi. Gli tolse le braccia da intorno al collo e tornò a sedersi.

sca colse la frustrazione nei suoi occhi, quando distolse lo sguardo da suo zio e lo posò su di lei.

Disse: “La prossima volta che andrai in Brasile fammelo sapere, Orietta, così verrò con te.”

Quindi rivolta a Martinoni in tono un po’ alterato: “Non potrà che farti bene, zio Ugo, restare un po’ senza di noi, di tanto in tanto.”

“Andiamo a dare un’occhiata alle orchidee?” Kesler propose a sca. Ebbe la sensazione che zio e nipote fossero sull’orlo di un piccolo alterco. Era un fatto, pensò, che la giovane apparisse di cattivo umore, e si sforzò di immaginarne la ragione. Forse valeva la pena tentare di scoprirla.

Sforzandosi di mascherare la sua riluttanza per non insospettirlo, sca si alzò e insieme si incamminarono lungo il vialetto che conduceva al fondo alla serra dove erano coltivate le pregiate orchidee. Mentre avanzavano addentrandosi nella zona più calda e ombreggiata, cresceva l’intensità della fragranza delle piante tropicali.

Enormi e alti fiori variopinti incombevano su di loro. Filari dopo filari di gigli giganti fiancheggiavano il sentiero spandendo un pungente odore dolciastro. Il caldo umido dilatava i pori della pelle, facendoli sudare. Improvvisamente sca si fermò.

“Torniamo indietro, Paolo”, disse. “Non ce la faccio a sopportare questo caldo.”

“Aspetta un momento, ti prego...”, lui le disse con veemenza. Erano molto vicini, quasi i loro corpi si sfioravano. In quel punto, i rampicanti formavano come una specie di tettoia sopra le loro teste. A un tratto, lui avvertì una vampata di desiderio, che gli provocò un’erezione tanto intensa da quasi dolergli. Pensò che fosse per via del caldo, oppure di quella sensazione di falsa intimità. Ma più probabilmente, causa ne era l’attrazione irresistibile che, con la sua sola presenza, lei da sempre esercitava su di lui. Fantasticò che avrebbe potuto abbracciarla, trascinarla verso un piccolo spiazzo erboso lì vicino, e quindi cercare di costringerla con la forza a distendersi per terra, per poi approfittare di lei.

Ma naturalmente non si mosse.

Le disse invece con un basso tono di voce: “Dimmi di quell’uomo, sca. Non abbiamo potuto parlarne abbastanza a telefono ieri sera. E’ davvero andato tutto bene? Non ti ha creato problemi? Di che cosa avete parlato?”

“Te l’ho già detto, Paolo. Lo vedevo appena dato che ero quasi sempre fuori.” Faceva del suo meglio per apparire convincente. “Trascorreva le giornate a dormire sul divano o a guardare la televisione, in attesa che qualcuno gli telefonasse. Mi accorgevo appena della sua presenza.”

“Te l’ho chiesto di nuovo perché mi sento in colpa. Ancora non riesco a perdonarmi per averti procurato un fastidio del genere. Spero che tu non me ne voglia…”

“E perché dovrei?” Scrollò le spalle in un gesto di indifferenza. “Non è dipeso da te quello che è accaduto, no? E, ti ripeto, quell’uomo non mi ha arrecato alcun

disturbo. Lo vedevo di rado, e non abbiamo mai parlato di niente. Restava sempre chiuso nel suo guscio.”

Lui pensò che doveva riconoscerle la grande abilità con cui gli stava mentendo. Lo aveva intuito già la sera precedente quando le aveva telefonato per indagare se l’uomo stesse per caso da lei. Aveva subodorato che tra i due dovesse essersi instaurata, da subito, una relazione intima. Forse tanto intima che avevano finito per an-dare a letto insieme.

“Puttana!” disse tra sé e sé avvertendo una rabbia bruciante montargli dentro. Socchiuse gli occhi e strinse un pugno per cercare di reprimerla.

Ma ora la domanda era: si era per caso creato tra loro anche un rapporto di grande fiducia reciproca, a tal punto da indurre lui a confidarle il vero scopo del suo viaggio a Milano? In caso affermativo, si spiegava allora quel nervosismo di cui lei sembrava essere preda. Ma sforzandosi di riflettere con razionalità, concluse che, anche se non poteva escluderla in assoluto, la possibilità era più che remota.

Era assurdo immaginare che un sicario prezzolato si esponesse al rischio che comportava rivelare a una persona – per quanto fidata – di avere in programma un omicidio. La formulazione di quel pensiero, lo fece sentire sollevato, come se il problema fosse sparito di colpo. Lo manifestò rivolgendole un ampio sorriso.

“Ora è al sicuro in un albergò”, le disse. “Tra qualche giorno andrò a trovarlo e daremo avvio alle trattative per la cessione del materiale.” Sembrò meditare per qualche secondo. “Ma c’è dell’altro di cui desidero parlarti, cara.” Nuova pausa. “O meglio c’è una cosa che devo chiederti di promettermi.”

“Di’ pure.” Allungò una mano verso un’orchidea sudamericana e ne staccò un petalo giallo con cui prese a giocherellare. Pensò che se suo zio l’avesse vista commettere un simile delitto, le avrebbe proibito per sempre l’accesso alla serra. Ma quel gesto lei lo aveva compiuto per darsi un’aria tranquilla e disinvolta, con cui masche-rare l’agitazione che invece avvertiva per il fatto di trovarsi lì sola con quell’uomo ambiguo e viscido, di cui conosceva la vera e segreta identità. Inoltre, la infastidiva che la stesse fissando con occhi pieni di libidine.

“Allora… che cosa devo prometterti, Paolo?” Il tono si era fatto sbrigativo.

“Che non farai parola ad anima viva del nostro viaggio a Beirut, e, soprattutto, del tuo coinvolgimento in questa faccenda. Per meglio dire… del ruolo che hai svolto per far sì che quell’uomo arrivasse a Milano.” Si fermò per un attimo fissandola. “Ti ho chiesto di aiutarmi perché ero certo che senza di te non ci sarei riuscito.” Si fermò per un attimo. “Non l’ho detto neppure a tuo zio. Tu lo conosci bene e sai come reagirebbe se, malauguratamente, venisse a sapere che ti ho usata tenendolo all’oscuro. Me la farebbe pagare a caro prezzo.”

“Sì, lo conosco. Sarebbe capace di cancellare, come con un solo colpo di spugna, l’amicizia che vi lega da quindici anni.” Abbozzò un sorriso. “Mia madre era solita sostenere che la peggior disgrazia che possa accadere a un suo amico, è quella di trasformarsi, per una qualsivoglia ragione, in un suo nemico.”

Lui annuì con la sensazione che quelle parole avessero un che di allusivo, ma la spazzò via un istante dopo.

“Allora posso essere certo che non fiaterai con nessuno, e soprattutto con tuo zio?” La fissò diritta negli occhi.

“Più che certo. Puoi dormire sonni tranquilli.”

Ma mentre lo diceva, mentendogli, cercava di immaginare la reazione che suo zio avrebbe avuto nel momento in cui lei, non appena avutane l’opportunità, avrebbe svuotato il sacco, riferendogli tutto quello che sul suo conto aveva appreso da Leardo.

Un altro allarmante pensiero la colpì: come si sarebbe comportato Kesler se si fosse sentito minacciato? Lei e suo zio, dovevano temere per la propria incolumità fisica?

“Ti ringrazio, cara.” Le sorrise in modo mellifluo prendendole una mano. Fece per portarsela alle labbra e baciarla, ma lei la ritrasse di scatto avvertendo un brivido di ripugnanza. “Ti prego, torniamo”, gli disse. “Questo caldo non lo sopporto più.” Si voltò incamminandosi speditamente nella direzione da dove erano venuti.

Lui pensò mentre la seguiva, i muscoli del volto tesi come le corde di un violino, che lo trattava sempre come se le fe ribrezzo. Avvertì il forte impulso di prenderla per le spalle, girarla verso di sé e schiaffeggiarla. Puttana! disse dentro di sé. Sei una grandissima puttana! Ma me la pagherai… Oh, se me la pagherai! Aspetta e vedrai quello che ti sto preparando.

Ma il tipo di punizione che ora stava pensando di infliggerle, era qualcosa di molto più grave del fare in modo che fosse accusata di complicità con suo zio nell’assassinio del Cardinale.

36

“Non stai mangiando!” Martinoni disse improvvisamente rivolto a sca. “Cosa ti succede, tesoro? Non starai per caso osservando una di quelle tue dannate diete?” Infilzò con la forchetta un grosso pezzo del tacchino arrosto che era appena stato servito con contorno di patate fritte, e se lo ficcò in bocca.

“No, assolutamente”, gli rispose. “Si dà il caso che stasera non ho un briciolo di appetito, zio.”

Il Magnate sedeva a capo tavola nella enorme sala da pranzo avendo sca e Orietta alla sua destra, e Kesler alla sua sinistra. L’ampio tavolo ovale era disposto sopra un antico tappeto orientale che ricopriva una vasta superficie del pavimento di marmo bianco. Era sfarzosamente imbandito con una tovaglia immacolata impreziosita da ricami, con posate di argento massiccio, squisite ceramiche e scintillanti calici di cristallo. Il sontuoso arredamento contribuiva a conferire all’ambiente un’aria di grande opulenza.

Erano usciti dalla serra all’ora di cena, quando era già buio. sca era silenziosa. Il tempo trascorso nella serra in compagnia di Kesler, aveva sortito l’effetto di toglierle l’appetito. Si sentiva tesa e preoccupata, ma si sforzava di apparire serena. Più che mangiare piluccava il tacchino, ascoltando Kesler che, recuperato il suo consueto ottimo umore, teneva banco nella conversazione. Riusciva a tenere desto l’interesse di suo zio con argomenti e pettegolezzi di ogni genere. Ora gli stava raccontando un paio di storie di scandali in cui erano coinvolti alcuni tra i più noti politici d’Europa, facendolo esplodere in continue, fragorose e convulse risate. E questo era per Kesler un successo, dato che Martinoni – a cui piaceva far ridere gli altri – era notoriamente un soggetto non facile da divertire.

Mentre sca lo osservava e ascoltava attentamente si rese conto – alla luce di quello che aveva appreso sul suo conto da Lear-do – di quanto indispensabili gli fossero le sue doti di grande intrattenitore. Ora ne comprendeva appieno l’utilità e l’efficacia come strumenti di cui servirsi per continuare ad assicurarsi la simpatia e, in conseguenza, il consenso di Martinoni, nonché di tutti gli altri potenti personaggi nella cui orbita gravitava. Era spiritoso, esibiva una grande cultura e appariva sempre in buona allegria.

Ricordò che lei stessa in ato aveva spesso apprezzato la sua compagnia. Persino durante il loro viaggio a Beirut non l’aveva trovata tutto sommato sgradevole. Aveva cominciato a modificare il suo atteggiamento nelle due circostanze – la seconda non più tardi di quel pomeriggio, nell’ambiente claustrofobico della serra – , in cui le aveva preso una mano e gliela aveva stretta cercando al contempo di baciargliela. Un gesto palesemente lascivo, che le aveva provocato un senso di forte disgusto.

Ma quanto più si sforzava di cogliere sul suo volto una qualche minima traccia rivelatrice di quello che Leardo le aveva riferito al riguardo del sospetto che fosse una pericolosa spia comunista, tanto più – non riuscendoci – si sentiva confusa, senza che l’inquietudine accennasse a diminuire.

Sembrava, pensò, che Kesler fosse capace di proporsi con una duplice personalità. A seconda delle circostanze, sapeva mostrarsi cordiale, disponibile e grande amico, oppure freddo, cinico e spregiudicato come ai tempi in cui, quasi certamente, svolgeva l’attività di spia della Stasi. Ma quale delle due facce era la più attendibile? Non di certo la prima, rifletté. Ad analizzarlo bene, la sua performance di uomo loquace, intelligente, amabile, era troppo ostentata per essere credibile, e troppo appariscente l’impegno che poneva per trasmettere di sé un’immagine oltremodo positiva. Da oltre quindici anni, pensò, viveva ogni giorno nel suo ruolo di grande mistificatore.

Ora lei sapeva, senza ombra di dubbio che Sergio, l’uomo che amava, non era il

personaggio che Kesler le aveva descritto. Non era un ex tenutario di bordello di lusso, in cui aveva prodotto un certo materiale fotografico di cui doveva trattare la cessione a suo zio. Quello non esisteva. Ben altro doveva essere lo scopo del suo viaggio a Milano, e l’istinto le diceva che doveva trattarsi di qualcosa di molto pericoloso. Ce l’aveva messa tutta per apparire since-ra quando aveva assicurato Kesler di non aver avuto niente a che fare con Sergio durante il periodo in cui lo aveva ospitato. Le aveva creduto? Non poteva esserne del tutto certa. Se aveva intuito che gli aveva mentito e che c’era invece stato più che del tenero tra loro, era probabile che nutrisse il sospetto, se pure vago, che Sergio si fosse confidato con lei rivelandole la natura del suo vero incarico. Se la sua congettura era fondata, doveva allora temere per la propria incolumità?

“Vorrei non dovermi preoccupare più di tanto del mio peso”, O-rietta disse sorridendo. “Ma purtroppo a Ugo non piacciono le grasse. Non è vero, amore?”

Martinoni annuì. Kesler lo aveva rimesso di buon umore con la sua parlantina, dopo quel momento di tensione verificatosi nella serra tra lui e Orietta, in cui anche sca aveva rischiato di essere coinvolta. Gli piaceva avere con sé il suo più stretto collaboratore, e gradiva molto la presenza della nipote. Ricambiò il sorriso alla sua compagna, dicendole: “Hai una splendida figura, mia cara. Non devi preoccuparti. Mi basta che tu ti mantenga così come sei.”

“Puoi stare certo che lo farò, amore.” Esibì uno smagliante sorriso puntandolo su Martinoni. “Lo farò per te…, unicamente per te…”

Dopo cena, Martinoni propose di vedere un film nel suo cinema privato, che aveva una capienza di una cinquantina di spettatori. Da venticinque anni non entrava in una sala pubblica. Non ne avvertiva la necessità dato che disponeva di una cineteca gigantesca provvista di pellicole, videocassette e DVD di ogni genere di film, dai più recenti ai più vecchi risalenti agli anni Trenta. I classici erano i preferiti, e tra questi c’era anzitutto il colossal Ben Hur. Non gli veniva mai a noia, e lo faceva proiettare con una frequenza pressoché trimestrale.

Quella sera quello prescelto era un film di Hitchcock: La donna che visse due volte, con James Stewart e Kim Novak. Un thriller per antonomasia. Kesler calcolò che per almeno la ventesima volta era costretto a sorbirselo per compiacere il suo capo. Era arrivato a sapere a memoria una buona parte delle battute. Martinoni non era certo il tipo di uomo sensibile al punto di preoccuparsi se il suo entourage si annoiava. Il criterio di fondo era che tutto ciò che lui organizzava, doveva essere anzitutto di suo gradimento.

Kesler sedeva tra sca e Orietta e accendeva loro le sigarette. Di tanto in tanto commentava sommessamente alcune scene del film. Martinoni aveva Orietta al suo fianco. Fortunatamente la proiezione non durò a lungo, e quando terminò tutti ne furono felici, ciascuno per una ragione propria.

Il Magnate avvertiva lo stimolo di andare a letto con la sua donna dopo tre mesi di astinenza. Lei lo aveva capito quando, nel buio della sala, le aveva tenuto per tutto il tempo una mano posata sulla coscia, accarezzandogliela o stringendogliela con forza: un gesto inequivocabile.

Kesler si era stufato a morte, e non vedeva l’ora di ritirarsi. E sca aveva deciso che quella notte si sarebbe occupata di quello per cui era venuta a Villa Olga. Fu la prima a congedarsi e a salire di sopra. Addusse come pretesto una forte emicrania. Baciò suo zio e salutò gli altri. Entrata in camera da letto vide che tutto era già stato predisposto per la notte. La camicia e la vestaglia erano spiegate sul letto. Le pantofole erano a terra accanto al comodino. Si guardò al grande specchio ovale appeso sopra il mobile da toilet-te, andosi stancamente una mano nei capelli. Notò il pallore del volto e le occhiaie appena accennate, sintomi della tensione.

Ripensò a Kesler, ormai convinta che avesse mentito a lei, e, probabilmente, anche a suo zio, su cosa si nascondeva veramente dietro il reclutamento di Sergio. Nella serra le aveva fatto promettere di tacere con Martinoni che era stata a Beirut con lui. Il modo preoccupato in cui lo aveva fatto, le faceva temere che

l’uomo sospettasse che lei non aveva creduto alla storia delle foto, che aveva fiutato l’inganno, e che avrebbe cercato di avvicinare il Magnate in privato per denunciarlo, venendo così meno alla parola data. Pensò che, comunque fosse, non c’era altro modo di affrontare il problema e cercare di risolverlo, all’infuori di fare esattamente ciò che aveva promesso a Kesler di non fare.

Quindi, quella notte sarebbe andata da suo zio a raccontargli tutto quello che aveva appreso da Leardo, non appena fosse stata certa che Kesler era andato a dormire.

37

Nella sua lussuosa suite in fondo al corridoio, Orietta si stava spogliando frettolosamente. Entrò nell’enorme bagno interamente piastrellato con pregiate maioliche, e dotato di rubinetteria placcata in oro zecchino. Guardò perplessa la enorme Iacuzzi con idromassaggio, combattuta per un attimo se fare o meno un bagno. Decise che non ne aveva il tempo. Quando Martinoni andava in calore e la chiamava, odiava dover attendere.

Il cicalino poteva suonare da un momento all’altro.

Entrò nella cabina in vetroresina della doccia e aprì il rubinetto. Fu investita da un potente getto di acqua calda che le fece emettere un gemito di piacere. Con gesti rapidi, prese a insaponarsi tutto il corpo con una grossa spugna imbevuta di un costoso bagno schiuma alle erbe aromatiche. Si risciacquò in fretta e quindi uscì dalla doccia. Indossò un enorme e soffice accappatoio bianco, con cui prese a strofinarsi con vigore. Sapeva che Martinoni era pignolo ed esigente per quanto concerneva la pulizia del corpo, soprattutto in una donna.

Al pari della favorita di una sultano, Orietta si sottoponeva tre volte alla settimana, a massaggi con oli pregiati, a pedicure e manicure. Ora, mentre si preparava, pensava che erano trascorsi ben tre mesi dall’ultima volta che il suo compagno l’aveva toccata. Era un’ottima ragione per mettercela tutta per apparigli splendida.

Ma non l’unica.

Si sfilò l’accappatoio facendolo scivolare a terra. Si mise davanti allo specchio a figura intera e si studiò attentamente. Sollevò le braccia sopra la testa per verificare che i seni stavano ancora su in maniera accettabile. Era soddisfatta di quello che vedeva. L’abbronzatura era della giusta intensità, e conferiva alla pelle una tonalità quasi dorata. Il petto e la zona dei fianchi giù fino all’inguine, apparivano pallidi per via del bikini che aveva indossato durante le esposizioni al cocente sole brasiliano. Andò al mobile da toilette sul cui ripiano erano perfettamente allineati i suoi cosmetici e profumi, contenuti in vasetti, bottigliette e spray. Le piccole lampade opaline che incorniciavano il grande specchio ovale, emanavano una luce vivida che la investiva in volto, mettendone impietosamente in risalto i reticoli di grinze attorno agli occhi. Si impo-neva una efficace operazione di maquillage. Si spalmò sul viso una costosa crema lifting, e poi un fondotinta di una tonalità adatta al colore della sua carnagione, che serviva ad accentuarne la luminosità e celarne al massimo le imperfezioni. Si ritoccò le ciglia con un mascara, e le sopracciglia con la matita. Si ò sulle labbra un rossetto di un rosso non troppo . Scelse il profumo che lui preferiva: uno Chanel numero cinque. Ne versò in abbondanza sul palmo di una mano e se ne asperse tutto il corpo, fin sotto le ascelle.

Indossò un perizoma di pizzo nero, e prese da un cassetto del comò un baby-doll celeste di finissima e trasparente georgette, che si infilò facendolo scivolare da sopra il capo giù lungo il corpo.

Sapeva che Martinoni gradiva la semplicità in fatto di abbigliamento intimo sexy. Che gli piaceva spogliarla, ma che detestava dover lottare con bottoni, ganci e gancetti per farlo. Così com’era, sarebbe stato in grado di denudarla con un unico, semplice gesto teatrale.

Si sedette sullo sgabello davanti allo specchio e cominciò a spazzolarsi i capelli, mentre si osservava da differenti angolature. Si sentiva nervosa come una ragazzina al suo primo appuntamento. Il pensiero la fece sorridere.

Nel suo ato, c’erano stati molti uomini prima di Martinoni. Ma uno solo era riuscito a farla sentire agitata come in quel momento, e per ragioni che nulla avevano a che fare con il timore di non piacere. Era stato l’ultimo di una lunga serie prima dell’avvento del Magnate nella sua vita. Di lui aveva perso ogni traccia, ma ormai non gliene importava più niente.

Non c’era una sola cosa al mondo in quel periodo della sua esistenza, che la motivasse di più dell’ossessione morbosa di riuscire a portare Ugo Martinoni all’altare. La sua non era avidità di ricchezze. Lui era generoso, e lei disponeva di tanto di quel denaro da consentirle agiatezza vita natural durante.

Ma sposarlo restava la sua unica ragione di vita. Al diffondersi della notizia, l’universo intero la avrebbe guardata con ammirazione e invidia. Chiuse gli occhi, e indugiò in quel sogno la cui realizzazione le sembrava, quella sera, più che mai a portata di mano. Vide i titoli a caratteri cubitali nelle prime pagine dei giornali, le sue fotografie campeggiare sulle copertine platinate delle riviste specializzate, prime tra tutte quelle di Martinoni. Pensò ai servizi radiotelevisivi e le interviste su tutte le reti nazionali ed estere.

Il suono stridulo dell’avvisatore acustico la fece trasalire riportandola al presente. Ormai non gli procurava più alcun sentimento di umiliazione. Comunque non come agli inizi del suo insediamento a Villa Olga. Aveva accettato da molto tempo e con rassegnazione che lui la chiamasse alla stessa maniera che usava con la servitù.

Indossò una comoda vestaglia di raso verde, e uscì dalla stanza incamminandosi frettolosamente lungo il corridoio in penombra, alla volta della suite di Martinoni.

38

Orietta e Martinoni sedevano da cinque minuti sul divano foderato di morbida pelle marrone, nel grande soggiorno della sfarzosa suite del Tycoon. Erano occupati nei preliminari di quella che – secondo le intenzioni di lei – doveva rivelarsi una notte d’amore incandescente. Era determinata a fare in modo che lui non l’avrebbe tanto facilmente dimenticata.

Era più che mai decisa a tentare il tutto per tutto per strappargli la promessa di matrimonio facendogliene esplicita richiesta, ma sapeva che doveva cogliere il momento propizio. E quale lo sarebbe stato di più, si domandò, di quella fase in cui si sarebbe prodotta in una serie di fantastiche acrobazie sessuali al punto da farlo letteralmente impazzire? Il repertorio, in cui si era accuratamente preparata nei giorni scorsi, consultando persino il celebre Kamasutra, era nutrito, variegato e qualitativamente senza precedenti.

Lui reggeva nella mano destra un tozzo bicchiere da whisky quasi vuoto. Ne aveva già ingurgitati tre prima che lei arrivasse. Appariva rilassato e di buon umore, come dimostrava il fatto che non avesse fretta, quasi intendesse pregustare con calma quello che lo aspettava.

Non la aveva ancora spogliata come era solito fare, e lui stesso indossava una vestaglia da camera di raso rosso. Stava immobile semidisteso sul divano, e la lasciava fare. Si limitava a sorriderle mentre lo abbracciava, accarezzava, baciava e chiamava con affettuosi vezzeggiativi.

Qualche minuto dopo la mezzanotte bussarono piano alla porta. Si guardarono con una espressione in cui si mescolarono sbalordimento e incredulità.

“Chi cazzo sarà mai?” lui sbottò arrossendo di rabbia. Non sopportava che qualcuno osasse violare la sua privacy presentandosi alla sua suite a un’ora così inusitata, e per di più senza prima annunciarsi sul telefono interno. A meno che, ovviamente, non si trattasse di una grave emergenza. Si sciolse in fretta dall’abbraccio della donna e le diede un colpetto sul gomito, dicendole in tono brusco: “Su, alzati e va’ a vedere chi è.”

Se è qualcuno della servitù, lei pensò imprecando tra sé e sé, o quello stronzo del maggiordomo, insisterò con il vecchio perché li licenzi in tronco. Così non potranno più romperci i coglioni nei momenti di intimità. Scosse il capo mentre apriva la porta, mormorando: “Ma guarda te che scalogna, proprio quando tutto stava andando liscio come l’olio.”

La vista di sca, anche lei in vestaglia, le impedì di fare quello che avrebbe voluto: sbattere la porta in faccia al maledetto intruso.

“Sono spiacente di disturbarvi, Orietta, ma ho bisogno urgente di vedere mio zio.”

“E’ stanco”, sussurrò. “Non vuole vedere nessuno tranne me. Vattene, ti prego. Va’ via!”

“Chi diavolo è?” Martinoni chiese a voce alta. “Chi è che rompe a quest’ora?”

Orietta non poté fare a meno di rispondere:

“E’ sca, amore. Desidera parlarti.”

“sca?!” lui esclamò stupito.

La donna capì che la sua grande occasione di quella notte era ormai sfumata. Sapeva che con la comparsa della nipote, Martinoni avrebbe fatto una sola cosa. E infatti la fece.

“Falla entrare, e fila via”, fu ciò che le disse come se d’un tratto la sua presenza lo infastidisse.

Gli occhi le si riempirono di lacrime. D’altra parte, era quello il modo in cui sempre la trattava quando voleva sbarazzarsene per una qualsivoglia ragione. Come ad esempio ogni volta che appagava i sempre meno frequenti impulsi erotici. “Vieni qui, piccola”, le diceva dapprima. “Sdraiati, piccola. Allarga le gambe, piccola.”

E una volta raggiunto l’orgasmo – non senza difficoltà pur con l’assunzione del Viagra – arrivava quel secco e perentorio ‘ora fila via!’

Ne aveva fatto un giocattolo sessuale, né di più né di meno.

Senza fiatare uscì dalla stanza, ma non senza aver prima scoccato a sca un’occhiata colma di rimprovero, come a dirle: “Hai visto che cosa mi ha combinato? Mi hai rotto le uova nel paniere. Chissà quando mi si ripresenterà

una simile occasione.”

“Scusami l’intrusione, zio”, sca disse sommessamente restando sulla soglia. “Sono desolata per Orietta. Mi è sembrata scon-volta.”

“Al diavolo Orietta!” Esclamò con un gesto infastidito della mano. “Sono certo che sia qualcosa di urgente e importante quello di cui devi parlarmi, sennò non verresti a trovarmi a quest’ora di notte.”

“Infatti lo è.”

La fissò per un attimo. “Ma cosa diavolo ci fai lì impalata? Su, chiudi quella maledetta porta e vieni qui. Non sono più così giovane da sopportare l’esposizione alle correnti d’aria.”

Lei chiuse la porta e si diresse verso il divano camminando lentamente, le braccia conserte, mentre rifletteva sul tipo di approccio da adottare per abbordare con delicatezza l’argomento. Non ne trovò neppure uno.

Lo osservò che, sprofondato nel divano con indosso la vestaglia rossa, appariva invecchiato. Lei era ben consapevole di ciò che aveva interrotto, ma questo non giustificava, ai suoi occhi, quell’aspro ‘fila via’ con cui aveva cacciato Orietta. Ne era rimasta turbata, e ora provava un senso di colpa e profonda comione verso l’amica per l’umiliazione che la sua intrusione l’aveva costretta a subire. Ma avvertiva anche indignazione per suo zio che non aveva esitato a infliggergliela.

Era solita proclamare pubblicamente il grande affetto che nutriva per lui perché, dopo la morte dei suoi genitori nel disastro aereo, era corso in suo aiuto, e aggiungeva che rappresentava tutto ciò che le restava al mondo. Ora si chiese, dopo quella breve ma deplorevole scenata a cui aveva appena assistito – che non era la prima, né sarebbe stata di certo l’ultima –, se non esagerasse con quelle esternazioni, e se i suoi sentimenti non fossero, tutto sommato, ben riposti. Sua madre, che sempre affermava di conoscerlo molto bene, era solita etichettarlo come un uomo vile e spregiudicato, dagli atteggiamenti tirannici.

E non era forse tirannia, si domandò, quella che un uomo ricco e potente esercita sui deboli e coloro che lo temono – come per l’appunto nel caso di Orietta –, per estorcere loro ciò che desidera, salvo poi a disfarsene gettandoli via come limoni spremuti? Come dare torto a sua madre? Era naturale che con lei fosse indulgente, accomodante e generoso: era sua nipote, avevano lo stesso cognome, c’era di mezzo il legame di sangue. La aveva resa ricca e famosa, e per questo lei non poteva esimersi dal ricambiarlo mostrandogli gratitudine, fedeltà e affetto.

E ora c’era quel suo desiderio spasmodico di entrare in politica, suscitato, a suo modo di vedere, da nient’altro che una incontrollabile avidità di denaro e sete di potere; non certo dalla volontà di fare del bene alla povera gente.

“Desidero parlarti di Beirut,” gli disse a bruciapelo restando in piedi a breve distanza da lui. Guardarlo dall’alto la faceva sentire in una posizione di lieve vantaggio.

“Di Beirut?”

Un lampo di luce negli occhi lo tradì, facendole capire che sapeva tutto. Forse quelle stesse cose che Kesler le aveva riferito per convincerla ad accompagnare Sergio a Milano. Ma era certa che, ovviamente, Kesler gli avesse taciuto di

averla coinvolta nell’operazione. Pensò che doveva cercare di averne una esplicita ammissione, prima di rifilargli quella notizia bomba sul suo braccio destro, che era lo scopo per il quale era venuta a trovarlo, e di cui Leardo era la fonte.

“So di un uomo, zio, che hai fatto venire da Beirut a Milano con un aporto falso, per occuparsi di una questione che riguarda la tua campagna elettorale. Voglio sapere chi è e di che si tratta.”

Lui la guardò con occhio torvo. “Non so di cosa diavolo tu stia parlando.”

Lei vide che lo aveva colto alla sprovvista, ma che aveva già riacquistato un minimo di quell’autocontrollo di cui, peraltro, era molto scarsamente dotato.

“Io credo, invece, che tu abbia capito bene a cosa mi riferisco.”

Lui fece una smorfia infastidita.

Disse: “Ascolta, sca, quando poco fa hai fatto irruzione nella mia camera, diciamo così, mi accingevo ad andare a letto con Orietta. Capisci… ero in procinto di dedicarmi a qualcosa di molto piacevole. Non immaginavo che fosse una favola quella di cui vo-levi parlarmi. Comunque, può aspettare fino a domattina.” Così dicendo si alzò in piedi e si avviò verso la camera da letto, dicendo: “Potrei richiamare Orietta, ma me n’è ata la voglia. Mi hai rovinato la serata, tesoro, e ora non mi resta che andare a dormire. Buona notte!”

“Aspetta un momento, zio…”, lei disse muovendo un o verso di lui. “Non è una favola, e tu lo sai benissimo.”

Lui si fermò e si girò lentamente rivolgendole uno sguardo accigliato e penetrante. Pensò che a dispetto di alcuni tratti del carattere, che purtroppo aveva ereditato da quella carogna della madre, restava comunque, fondamentalmente, una vera Martinoni. Lo rivelavano la sua cocciutaggine, e la spiccata attitudine a non demordere mai. Proprio come lui. Tornò a sedersi sul divano.

“Dammi un whisky”, le disse indicandole col mento il bicchiere vuoto posato sul basso tavolino di vetro davanti a lui.

Lei lo prese, si avvicinò al prezioso mobile bar se del diciottesimo secolo, e spalancatene le due ante di vetro smerigliato, ne tirò fuori una bottiglia di whisky. Riempì il bicchiere quasi a metà e glielo porse.

Lui bevve un abbondante sorso, e, dopo aver tirato un profondo sospiro rassegnato, girò la testa per guardare la pendola vittoriana appesa alla parete dietro di lui.

“Va bene…”, disse. “E’ mezzanotte ata, ma non posso rifiutarmi di ascoltarti. Dimmi subito quello che ti frulla nella testa, dunque, così dopo potrò andarmene a letto.”

“Sei tu che devi dirmi qualcosa, zio. O meglio, devi rispondere alla domanda che ti ho posto poco fa: per quale ragione hai fatto venire quell’uomo a Milano e chi è? E’ vero o no che dovrebbe occuparsi di qualcosa che ha a che fare con la tua campagna elettorale?”

Il tono si era alzato di un’ottava.

“Non so di cosa o di chi parli.”

“E piantala di recitare con me, zio! Tanto non attacca. Sono tua nipote. Non so quanto questo conti per te, ma per me significa moltissimo. Pertanto, mi mortifica e mi offende che tu non mi stia concedendo un minimo di fiducia. Non sto cercando di carpirti informazioni da usare per mio tornaconto. Non ti sfiora l’idea che potrei esserti utile in qualche modo?”

Lui non replicò, ma diede un altro sorso al bicchiere di whisky, la fonte aggrottata. “Okay, hai vinto”, disse alzando le mani in segno di resa. “Non può essere stato che Paolo Kesler a parlarti di questa faccenda. E’ lui che se ne sta occupando, e quindi è l’unico a sapere.”

“Sì, è stato lui.”

Martinoni fece un smorfia, dicendo:

“Sicché lo ha fatto malgrado gli avessi impartito istruzioni categoriche di non aprire bocca con nessuno.”

“Ma io non sono ‘nessuno’. Sono tua nipote, ricordi?”

“Già. Ciò non toglie che aveva l’obbligo quanto meno di avvisarmi della sua iniziativa. Quindi, per quanto mi riguarda ha contravvenuto ai miei ordini.” Un altro sorso . “Mi auguro che domat-tina sia in grado di darmene una giustificazione che mi soddisfi. Altrimenti dovrò trarne certe conclusioni. Non a lui favorevoli, naturalmente.”

“Una giustificazione ce l’ha eccome.”

“E sarebbe?”

“Kesler ha dovuto necessariamente parlarmene, poiché mi ha chiesto di collaborare per far entrare quell’uomo in Italia senza problemi.”

“Cosa?!” Avvampò di colpo. “Mi stai dicendo che sei andata con Kesler a Beirut e che…” Si interruppe scuotendo il capo, incredulo.

“Sì, esatto. Sono andata con lui a Beirut e sono ritornata insieme a quell’uomo.”

“No. Non posso crederci che ti abbia chiesto una cosa simile, tenendomene all’oscuro. Che ti abbia esposto a un tale rischio. Ora lo faccio venire qui e me lo mangio vivo.” Così dicendo allungò una mano verso il telefono posato sul tavolino.

“Aspetta un momento, zio! Calmati!” lei esclamò alzando le mani con in palmi rivolti verso di lui. “Ascolta prima quello che ho da dirti.”

Quella improvvisa esplosione di furore, dietro cui c’era tutta la sua schiacciante personalità e il suo potere intimidatorio, la colpì come una gragnola di sassi, e le fece comprendere che stava per commettere un errore madornale. Aveva previsto una reazione negativa, ma non di una tale virulenza. Un’inquietante idea le irruppe nella mente, e non riuscì a spiegarsi come mai non ci avesse pensato prima. Se fosse andata avanti a rivelargli tutto quello di cui era al corrente sul conto di Kesler – cioè che era una spia comunista, e che stava ordendo una manovra, non si sapeva ancora di che genere, contro di lui per fargli perdere le elezioni –, avrebbe risposto con una reazione di una violenza inaudita e dagli sbocchi imprevedibili. Era certa che non sarebbe servito a nulla cercare di dissuaderlo dal convocarlo seduta stante per malmenarlo, lanciargli contro Dio solo sapeva quali invettive e minacce.

Ma si chiese: come l’avrebbe presa l’altro nel vedersi smascherato? Di certo si sarebbe sentito come una belva in trappola, e avrebbe azzannato per salvarsi. Sarebbe scattata in lui quella seconda personalità infida e traditrice, che lo avrebbe trasformato di colpo in quel personaggio spietato che era, pronto, pur di difendersi, ad agire fino alle estreme conseguenze. Si sarebbe così creata una grave situazione che poteva mettere a rischio la sua incolumità fisica e quella di suo zio. Ricordò quell’invito alla cautela con cui Leardo l’aveva messa in guardia da quell’uomo. Ne conseguiva che, sì, doveva parlare con suo zio svelandogli tutto ciò che sapeva, ma che quello era il momento meno opportuno per farlo con Kesler ospite a Villa Olga. L’impegno che aveva preso con se stessa di denunciarlo, doveva rinviarlo al giorno dopo o a quelli successivi quando l’uomo fosse ritornato a Milano. Senza di lui nei dintorni, il rischio di uno scontro immediato con Martinoni era inesistente. Lei gli avrebbe riferito la notizia con prudenza, a poco a poco, quasi centellinandogliela, e adoperandosi per farlo ragionare. Sarebbe così riuscita a raffreddare sul nascere l’impeto della sua reazione. Insieme avrebbero poi deciso con calma il da farsi per annientare Kesler – ma senza allarmarlo preventivamente –, e per disfare quella sottile trama sotterranea, di qualsiasi natura essa fosse, con cui, fingendo di collaborare con Martinoni nella sua campagna elettorale, mirava in realtà a danneggiarlo irrimediabilmente. Se necessario, sarebbero ricorsi all’aiuto di Leardo.

Il Magnate svuotò con un solo sorso il bicchiere di whisky, e lo depose sul

tavolino. Poi incrociò le braccia sul petto. “Ti ascolto.”

“Kesler mi ha chiesto di collaborare in questa faccenda per fare un favore a te”, lei disse a bassa voce. “E mi ha anche pregato di non fartene alcun cenno a evitare che tu ti irritassi. Sapeva che se te ne avesse chiesto il permesso, gli avresti opposto un fermo rifiuto.”

“Perché proprio tu?”

“Perché ero l’unica in grado di farlo.”

“Spiegati.”

“Anzitutto ero la sola di cui poteva fidarsi. Poi, come sai, quell’uomo viaggiava con un aporto italiano falso, e quindi c’era il rischio che non asse al controllo di polizia. Ma la mia presenza ha calamitato l’attenzione dei funzionari, che non si sono dati alcuna pena di verificare l’autenticità del documento. Sicché tutto è andato a gonfie vele.” Lui sembrò meditare per quasi un minuto. Infine disse: “Cosicché, hai volato con lui fino a Linate…” Fece una pausa. “Gli accordi con Kesler erano che un suo incaricato doveva prelevarlo all’arrivo per condurlo in un albergo. Puoi confermarmi che ciò è avvenuto?”

“No, purtroppo, zio. A Linate non si è visto nessuno, e io non me la sono sentita di lasciarlo solo. Non aveva un posto dove andare, e pertanto ho ritenuto di ospitarlo fino a quando Kesler è ritornato da Francoforte e lo ha preso in carica.”

Di nuovo Martinoni assunse una espressione incredula, come se il suo cervello rifiutasse di accettare quella nuova, inquietante notizia. “E’ incredibile!” esclamo scuotendo di nuovo il capo. “La leggerezza con cui ti sei comportata, intendo. Mi stai dicendo che te lo sei tenuto per due settimane in quell’appartamento di via Vincenzo Monti, senza renderti conto dei rischi che correvi.”

“Quali rischi?”

“Che qualcuno potesse notarvi, no? Mi auguro che non te lo sia anche portato a so. I media che mi sono avversi andrebbero a nozze se riuscissero a deturpare l’immagine di una in vista come te, e per giunta mia nipote. Di certo non mi gioverebbe in campagna elettorale.”

Lei rifletté per alcuni secondi prima di dire, mentendo: “Sta’ tranquillo che non siamo mai usciti di casa insieme, e comunque nessuno lo conosce.”

Si pentì di avergli riferito, senza nessuna ragione plausibile, che lo aveva ospitato. Pensò che avrebbe potuto evitarlo dicendogli che l’aveva lasciato appena giunti a Linate.

“Due settimane…”, lui mormorò quasi a se stesso. “Ma cos’è che avete fatto in tutto quel tempo?”

“Niente… Io andavo e venivo, badavo ai fatti miei. Lui non faceva che bivaccare sul divano o guardava la tivù, in attesa che qualcuno telefonasse o venisse a prenderlo. Come in effetti è poi successo quando Kesler si è fatto vivo.”

Martinoni fece una smorfia. Poi la scrutò inclinando appena la testa di lato, e gli occhi gli si restrinsero sospettosi spaziando sul suo volto come per analizzarlo.

“Ehi, di’ un po’ ”, disse, “non ci sarai per caso andata a letto?”

Lei avvertì una stretta alla bocca stomaco, ma riuscì a sostenere imibile il suo sguardo. Tuttavia le gote le si soffo di un lievissimo rossore, che a lui non sfuggì.

“Stai fantasticando, zio. Non c’è mai stato niente del genere. Comunque, quand’anche ci fosse stato, sono affari miei.”

Lui non replicò, ma storse la bocca a significare quanto lo disturbasse quel sospetto che gli si era insinuato nella mente.

Cadde il silenzio, che fu rotto da sca quando disse:

“Non hai ancora risposto alla mia domanda, zio. Quale compito hai assegnato a quell’uomo, la cui esecuzione dovrebbe agevolarti in campagna elettorale?”

Lui si prese del tempo prima di dire: “Kesler non te lo ha spiegato?”

“No.”

“Perché mai non avrebbe dovuto farlo?”

“Per tener fede, a suo dire, all’impegno che aveva assunto con te di tenere in proposito la bocca chiusa con chicchessia.” Si interruppe per un attimo. “A nulla sono valse le mie insistenze e argomentazioni per farlo parlare. E’ stato irremovibile.”

“E così tu hai accettato di fare ciò che ti ha chiesto senza conoscerne la finalità.”

“Sì. Ho deciso che dovevo fidarmi di lui dato che c’eri tu di mezzo.”

Lui ebbe un lieve sorriso di compiacimento. “E ora perché lo vuoi sapere?”

Lei scrollò le spalle. “Così…, per curiosità…. E poi perché credo di averne il diritto per il ruolo che ho svolto nell’operazione, contribuendone al successo.”

Ora Martinoni annuì con aria soddisfatta grattandosi una guancia. Disse: “Versami un altro whisky, ti prego, e poi siedi qui sul divano accanto a me, e ascolta.”

Lei eseguì l’ordine.

Fino a quel momento era rimasta in piedi davanti a lui, le braccia conserte. Pensò che era giunto il momento in cui avrebbe saputo se Kesler aveva rifilato a Martinoni le stesse frottole che aveva raccontato a lei sullo scopo del viaggio di

Sergio a Milano. Il sospetto, per certi versi ingiustificato, che per qualche misteriosa ragione, avesse inventato per lui un pretesto che non fosse l’acquisto delle foto, non la aveva mai abbandonata. Voleva cancellare il dubbio.

“Quell’uomo, cara, non ha da svolgere un compito specifico in senso stretto.”

“E allora?”

“Ti basti sapere che è qui per trattare con Kesler, e per mio conto, la cessione di un certo materiale documentale in suo possesso, dai contenuti oltremodo compromettenti per un buon numero di politici del centrosinistra, materiale che, se diffuso in campagna elettorale, solleverebbe un tale scalpore da spostare una valanga di voti in favore del nostro schieramento. Vincerei alla grande le elezioni.”

Lei si sentì sollevata: era la conferma di ciò che aveva immagi-nato, e pensò che non fosse il caso di insistere per ottenere maggiori dettagli.

Quello che aveva ascoltato la soddisfaceva.

“Va da sé”, Martinoni continuò, “che ne farei uso solo in caso di necessità.”

“Che sarebbe a dire?”

“Se i miei avversari cercheranno di infangare pesantemente la mia immagine agli

occhi degli elettori.”

“Credo che lo faranno.”

“Anch’io. Allora lo ò come arma di difesa. La diffusione, attraverso i media, avverrà in modo che non si sappia la fonte di provenienza.”

“Ascolta, zio”, lei disse, “Kesler mi ha fatto promettere che ti avrei taciuto di essere al corrente dell’intera faccenda perché lui me ne aveva parlato.”

“Capisco.”

“Devo avere la tua parola che non gli dirai nulla di quanto abbiamo discusso qui stasera. Temo, altrimenti, che il buon rapporto che ho con lui potrebbe incrinarsi.”

“Ti spiacerebbe?” Ebbe un lieve sogghigno.

“Non più di quanto se accadesse con qualsiasi altro amico di famiglia.”

“Sta’ tranquilla che non apro bocca. In fondo, a ben guardare, ha operato, sì, in maniera arbitraria, ma nel mio esclusivo interesse. Non mi sento di redarguirlo.” Fece una breve pausa. “Comunque dubito che lui vorrebbe rompere con te.”

“Cos’è che te lo fa pensare?”

“Il fatto che ti sbava addosso. Andiamo, tesoro, non dirmi che non ti sei ancora accorta che è cotto di te.” Sorrise con ironia. “Farebbe il diavolo a quattro per averti.”

Lei sembrò rifletterci sopra. Poi disse: “Sì, lo so, ma ho avuto modo in più di una occasione di fargli intendere che non è il mio tipo, sia come uomo che per via dell’età.”

“Per non dire che sa molto bene, che se si permettesse qualche iniziativa, dovrebbe poi vedersela con me.”

Lei non replicò preferendo cambiare argomento.

“E’ l’una e sono molto stanca, zio. Me ne vado a dormire.”

“Va’ pure, a domani dunque.”

Uscì dalla suite e raggiunse la sua camera in fondo al corridoio. Nel profondo silenzio in cui la casa era immersa, il fruscio dei suoi i e il rumore della porta che si apriva e richiudeva, raggiunsero il soggiorno al piano di sotto. Paolo Kesler che lì si trovava assieme a Orietta li udì, ed ebbe la certezza che il colloquio di sca con Martinoni era terminato.

39

L’insonnia era un disturbo del tutto estraneo a Paolo Kesler. Non appena appoggiata la testa sul guanciale, piombava come un masso in un sonno profondo che durava senza interruzioni sino al mattino. Di norma era solito coricarsi e leggere un po’ prima di spegnere la luce. Quella sera, tuttavia, non riusciva a rilassarsi. Si spogliò e prese a camminare in vestaglia su e giù per la stanza, con addosso una strana sensazione di irrequietezza e irritabilità.

Rimuginava sugli avvenimenti della giornata, questo era il problema.

Pensava al pomeriggio trascorso nella serra, soffermandosi su quello che lui e sca si erano detti in un angolo appartato. Non gli era ancora sbollita la rabbia feroce per il modo in cui lei aveva reagito a quella sua nuova avance. Durante la cena era riuscito a mascherarla.

Gli argomenti della conversazione gli riaffiorarono alla mente, così come la noia di quelle due ore di proiezione di quel famoso thriller di Hitchcock, che era stato costretto a rivedere per l’ennesima volta. Mancava un quarto all’una quando si coricò con in mano un legal thriller di John Grisham, il suo autore preferito. Ma la capacità di concentrarsi sulla lettura, che di solito gli conciliava il sonno, era nulla. Morfeo si rifiutava di accoglierlo tra le sue braccia. Decise di alzarsi e scendere in cucina al piano di sotto per prepararsi una camomilla. Forse, pensò, era quello che ci voleva per risolvere il problema di quella strana insonnia nervosa, di cui non ricordava un precedente.

ando davanti alla porta del soggiorno, si fermò interdetto nel sentire dei singhiozzi provenire dal suo interno, e nel notare che tutte le luci nella sala erano accese. Sporse appena il capo dallo stipite, e fu sorpreso nel vedere Orietta

seduta a gambe incrociate sul prezioso tappeto orientale, reggendo nella mano destra un bicchiere quasi colmo di una bevanda incolore, che di sicuro non era acqua. Vide sul basso tavolino davanti al divano una bottiglia di vodka mezza piena. La donna piangeva a dirotto ed era evidente che ce la stava mettendo tutta per sbronzarsi a dovere.

Decise di non fermarsi. Non era il tipo a cui piaceva assistere alle manifestazioni dolorose dei suoi simili. Per di più, considerava quella donna con disprezzo, soprattutto per via della sua scialba personalità e le scarsissime doti intellettive. Difetti che non erano neppure compensati – secondo i suoi gusti raffinati in fatto di donne –, da un fisico attraente, che, aveva ormai imboccato da un pezzo il viale del tramonto. Quindi, stava per proseguire quando un pensiero improvviso lo colpì costringendolo a indugiare. La donna piangeva e si disperava al punto di volersi ubriacare, pensò, perché Martinoni, per qualche misteriosa ragione, l’aveva sbattuta fuori dalla sua stanza. Gli tornarono in mente gli sguardi di intesa e le frasi sdolci-nate che i due si erano scambiati a cena, e non gli era neppure sfuggito quel gesto di Martinoni della mano posata sulla coscia di lei nell’intensa penombra della sala durante la proiezione del film. Conoscendolo bene, aveva capito che erano segnali che preludevano alla convocazione di Orietta nella sua suite: quella notte il cicalino avrebbe suonato nella camera della donna. Ma qualche grave o importante imprevisto doveva essere sopraggiunto da obbligarlo a metterla alla porta. Entrò nel soggiorno col volto atteggiato a grande sorpresa.

“Orietta!” esclamò dirigendosi verso di lei con le braccia spalancate. “Cosa ti succede, cara?”

Si accorse che era già abbastanza ciucca, e pensò che lo stato di sconvolgimento in cui sembrava dibattersi dovesse esserle causato in parte dall’alcol, e in parte da una forte scossa emotiva che aveva subito.

Lei si girò a guardarlo. “Stava andando tutto così bene”, farfugliò, la voce

impastata dalla vodka. “Aveva cominciato ad andare su di giri, a dirmi cose carine, quando a un tratto, come un fulmine a ciel sereno, arriva quella guastafeste. Bussa alla porta, vado ad aprire e la vedo lì tranquilla sulla soglia che chiede di parlargli. Mi sono sentita stroncare le braccia.” Riprese a singhiozzare, il corpo scosso da un tremito convulso. Prese un’abbondante sorsata di liquore.

Kesler le si avvicinò, si chinò e la aiutò ad alzarsi in piedi, poi le cinse la vita e lei si fece condurre docilmente al divano. Le offrì una sigaretta e gliela accese, quindi le si sedette accanto dopo aver-le rabboccato il bicchiere. Vide che era nel mezzo di una crisi iste-rica, e, osservatala bene, decise che doveva essere molto più ubriaca di quanto gli era parso a prima vista. Ci aveva già dato dentro con la vodka.

“Chi è che vi ha interrotti, Orietta? Vuoi dirmi di chi stai parlando?”

Lei si girò a guardarlo, gli occhi arrossati, il mascara disciolto dalle lacrime, che, simile a rivoletti di inchiostro, le colava lungo le guance. Aveva lo sguardo vacuo e stravolto insieme.

“Di quella rompicoglioni della nipote”, rispose scandendo bene le parole con un tono arrabbiato. “Sua Altezza sca Martinoni. Aveva bisogno urgente di vedere suo zio. Questa notte stessa.” Si portò alle labbra il bicchiere. “Sai una cosa Paolo? Ero sicura di farcela a strappargli la promessa di sposarmi. Sarei riuscita a convincerlo. Credimi. Lo avrei cotto a puntino, mi ero preparata alla perfezione. Ma nel momento più delicato e senza preavviso, ecco che fa irruzione quella stronzetta.” Piegò la testa in avanti, e di nuovo le lacrime le sgorgarono copiose, gocciolandole in grembo. “Sono tre mesi che non mi scopa”, lei continuò. “Stava andando alla grande quando bussarono alla porta: toc, toc. Era la principessa del cazzo, e, in men che non si dica, io mi sono ritrovata nella merda fino ai capelli.”

Kesler non ricordava di averle mai sentito usare un linguaggio sboccato. Non si sentiva un puritano o un bigotto, ma lo trovava nauseante sulla bocca di una donna. Riteneva che una come Orietta, definita perbene, dovesse mantenere un livello di decoro nell’uso delle parole in ogni circostanza. E non la giustificava, a suo avviso, il fatto che fosse ubriaca. Sapeva, per di più, dei suoi buoni rapporti con sca.

Comunque fosse, non poteva fregargliene più di tanto di ciò che stava blaterando. Lasciò che continuasse a frignare, e a farneticare. Quando a un tratto lei fece per appoggiargli la testa sulla spalla, si scostò.

La sua mente rifletteva febbrilmente sul significato che l’accaduto poteva assumere per lui.

Ricordò che sca era stata la prima a congedarsi dopo cena, adducendo il pretesto che era molto stanca e che aveva mal di testa. Invece, aveva atteso la mezzanotte, e poi, certa che tutti dormissero, si era recata da suo zio.

Ma per dirgli cosa, a quell’ora tanto inusitata?

Decise che era un comportamento a dir poco inquietante. Forse, non avendo creduto alla sua storia su Sergio Ragazzi, pensò, aveva deciso di parlarne con Martinoni in gran segreto, manifestandogli i suoi dubbi, e venendo così meno alla promessa, fattagli nella serra, di tacergli che sapeva del viaggio a Beirut e del suo scopo, nonché che lei vi aveva avuto un ruolo determinante. Gli si ripropose prepotentemente il sospetto che fosse al corrente del vero incarico del sicario che aveva assoldato, perché lo stesso glielo aveva confidato, magari tra un amplesso amoroso e l’altro. Il pensiero cominciò ad angustiarlo.

Guardò la donna in lacrime, che, come un disco rotto, non face-va che ripetere i particolari della terribile umiliazione patita per mano di Martinoni, intercalando parole scurrili. Che fortuna, pensò, che l’insonnia lo avesse costretto a scendere dabbasso scoprendo Orietta nel soggiorno che piangeva e si disperava. Considerò il disastro che gli sarebbe potuto derivare se si fosse addormentato rimanendo così all’oscuro di quando stava accadendo quella notte.

Si mise di nuovo a riflettere mentre osservava la donna.

C’era quindi la probabilità che sca, proprio in quel momento, stesse esternando i suoi sospetti a Martinoni, e che i due si sarebbero alleati per scoprire la verità. Ma i sospetti erano già diventate certezze se lei sapeva – pur senza conoscerne la vittima designata – del piano omicida che lui era in procinto di attivare. L’interrogativo era: se ne era davvero al corrente lo aveva riferito a Martinoni? Forse non lo aveva fatto per non allarmarlo. O forse lui stava fantasticando, e lei era andata a trovarlo per ragioni che nulla avevano a che fare con il viaggio a Beirut e tutto il resto. Comunque fosse, l’istinto gli diceva che la ragazza poteva rappresentare per lui un potenziale pericolo.

In quel momento, gli giunsero dal piano superiore un fruscio di i e il rumore di una porta che si apriva e richiudeva. Capì che sca era ritornata nella sua camera dalla visita a Martinoni. Ora poteva accompagnare Orietta nella sua stanza senza il timore di imbattersi in lei.

“Su con la vita, Orietta, non prendertela”, le disse sorridendo e battendole leggermente la mano sulla schiena. “Andiamo, non puoi restare qui. Se Ugo ti vedesse in questo stato, non credo che si impietosirebbe. Ti accompagno in camera tua. Ti si ripresenterà l’occasione, sta’ tranquilla. Magari già domani notte. Ora devi cer-care di ricomporti, e fare finta che non ti sia successo nulla. Su, alzati e andiamo.” Kesler rifletté che Orietta non poteva trovarsi in quella

condizione da pochi minuti, ma da un bel po’di tempo. Ciò significava che zio e nipote avevano discusso a lungo. Il mistero dell’argomento della loro conversazione continuava a ossessionarlo. Purtroppo non era in grado di andare al di là della immaginazione. Se, Iddio non volesse, pensò di nuovo, sca aveva riferito a Martinoni che sapeva del viaggio a Beirut, e gliene aveva rivelato il vero scopo avendolo appreso dal killer –, che lui sospettava essere diventato il suo amante segreto – allora il rischio che correva di essere smascherato era tutt’altro che trascurabile. Per non dire che il piano che aveva elaborato di concerto con Reynaud per annientare il Magnate, sarebbe andato a monte. Sentiva che il terreno cominciava a scottargli sotto i piedi.

Salirono le scale lentamente. Lui l’aiutava cingendole la vita. La accompagnò sino alla porta della sua camera, la aprì e fece per sospingerla dolcemente all’interno.

“Mi piaci”, la donna gli disse a bruciapelo fissandolo, e continuando a biascicare. “Ho sempre saputo che sei un emerito figlio di puttana, Paolo, ma in questo momento mi piaci. Che ne diresti di entrare per stare un po’ insieme?”

Si sosteneva stando appoggiata con la spalla allo stipite della porta, un’espressione di sfida dipinta sul volto. Kesler comprese che il suo voleva essere un atto punitivo di vendetta contro Martinoni.

“No, grazie”, le rispose sommessamente. Tu muori dalla voglia di sposare Ugo, non è così? Non ti permetterò di correre rischi.”

Lei non replicò, ma delusa quasi gli sbatté la porta in faccia. Kesler proseguì lungo il corridoio e si fermò davanti alla camera di sca, esitante. Sentì il rancore verso di lei bruciargli dentro per il modo scostante in cui sempre lo trattava. Posò la mano sulla maniglia di ottone lucidissimo della porta. Avvertì

l’impulso di abbassarla ed entrare, abusare di lei con la forza e poi spezzarle il collo con un solo colpo di mano. Avrebbe così conseguito il duplice scopo di soddisfare il desiderio di lei, mai sopito, e di eliminare un potenziale pericoloso testimone del suo piano, sempre che le sue congetture fossero fondate. Era perfettamente addestrato in azioni del genere. Sapeva come togliere la vita a un essere umano con un solo, rapido gesto. La sua abilità di raffinato assassino, risaliva ai tempi in cui, da spia della Stasi, aveva partecipato a corsi segreti di addestramento a Berlino Est.

Un’idea improvvisa lo colpì che gli procurò un certo sollievo. Si sorprese per non avervi pensato prima. Se era fondato il suo sospetto che sca aveva allacciato una relazione sentimentale col killer, e che questi le aveva confidato il vero scopo del suo viaggio a Milano, avrebbe cercato di proteggerlo in ogni modo, guardandosi bene dal denunciarlo a chicchessia, e meno che mai a Martinoni. Per questa ragione, aveva probabilmente mantenuto un totale riser-bo con suo zio, e pertanto lo scopo della visita notturna era di tutt’altra natura.

Ma il suo sesto senso gli suggeriva che sca poteva aver acquisito – non aveva idea come –, informazioni segrete sul suo oscuro ato, e attendeva il momento opportuno per smascherarlo. Poteva esserne una indicazione il peggioramento dei suoi atteggiamenti nei sui confronti, che percepiva da qualche giorno.

Ciò non toglieva che le sue elucubrazioni del momento potessero alla fine rivelarsi niente di più che il prodotto della sua fantasia, e che quindi non fosse il caso di darsene molto pensiero.

Ricordò, tuttavia, quella regola aurea alla quale il padre, alto funzionario della Stasi, gli aveva sempre raccomandato di attenersi: se pensi di avere di fronte un potenziale nemico che potrebbe nuocerti a ogni momento, anticipalo attaccandolo e cercando di distruggerlo, prima che sia lui a distruggere te.

Ma c’era un altro motivo, persino più profondo, che gli faceva desiderare la morte di sca e si chiamava ‘vendetta’. Non le aveva mai perdonato l’offesa – grave a suo modo di vedere – per avergli sempre mostrato nel più palese dei modi di non gradirlo come uomo, e tanto meno come amante.

Era ancora vivo in lui il ricordo di quei due episodi – l’ultimo di quel pomeriggio, nella serra –, in cui le aveva preso la mano, e lei l’aveva ritratta di colpo con una smorfia di disgusto, se pure appena accennata, come se a toccarla fosse stato un lebbroso da cui temeva di essere infettata.

Staccò la mano dalla maniglia della porta pensando che se dove-va ucciderla, come ormai aveva deciso di fare, quello non era il luogo né il momento giusti per farlo. Se sca si metteva a urlare, avrebbe messo la casa in subbuglio e lui sarebbe stato spacciato.

Raggiunse la sua stanza e accese la luce. Preparò la sua valigetta ventiquattrore. Consultò l’orologio: le due del mattino, ed era sabato. Sapeva che Martinoni dormiva fino a tardi nei weekend. Che prima delle dieci non scendeva mai per fare colazione, o ricevere gente. A quell’ora lui sarebbe stato lontano e, molto probabilmente, non avrebbe avuto più niente da temere da sca Martinoni.

Un piano – seppure ancora molto vago, e non di facile attuazione – su come fare per sopprimerla, aveva cominciato a prendere corpo nella sua mente. Affinché avesse successo, era necessario che al mattino riuscisse ad attirarla in un luogo appartato, così come aveva fatto nella serra ieri pomeriggio. Aveva un’idea del luogo, ma non del pretesto da addurre per convincerla a recarvisi con lui.

Comunque, a dispetto del problema che aveva davanti, si sentiva stranamente

tranquillo e rilassato. Pensò che aveva bisogno di riflettere con lucidità, ma soprattutto di dormire quelle poche ore che restavano prima dell’alba, e che, forse, gli avrebbero portato consiglio.

40

Alle sette del mattino il telefono di casa Hassan, a Beirut, squillava a vuoto, e il suo cellulare non dava segni di vita.

Era il secondo giorno consecutivo che Sergio cercava di mettersi in contatto con lui. Aveva acquistato in una tabaccheria una scheda telefonica, e ora la stava usando in una cabina situata all’incrocio con viale Toscana.

Molto strano, pensò.

Avrebbe potuto giustificare il fatto che non rispondesse al telefono di casa perché era andato in vacanza con la famiglia per alcuni giorni. Ma questo era impensabile per il cellulare. Conoscendo bene le sue abitudini, sapeva che non se ne separava mai, e che, per l’attività di mediatore che svolgeva, lo teneva sempre attivo, anche di notte. Desiderava parlargli per pregarlo di recarsi a casa sua come latore di un messaggio tranquillizzante per Tanya. Doveva dirle che stava bene, e che sarebbe ritornato il prima possibile.

Al terzo tentativo senza successo, decise che qualcosa di preoccupante doveva essergli accaduto. Mentre rifletteva che Hassan era il suo unico contatto a Beirut, che poteva usare per far giungere sue notizie alla ragazza e che non aveva neppure l’alternativa di scriverle una lettera dato che lei era analfabeta, un’idea gli balenò nella mente.

Dopotutto, pensò, forse Hassan non era l’unico canale di cui disponeva. Estrasse il portafoglio dalla tasca posteriore dei pantaloni, e vi frugò dentro finché non

trovò in un comparto un biglietto da visita. A darglielo era stato il direttore della Bank of Beirut il giorno in cui si era recato da lui con Hassan per l’apertura del deposito, prima di partire. Sotto il logo della banca c’era il suo nome, Ahmed Benazir, con il numero di telefono. Sapeva che Hassan era un ottimo cliente della banca, e che intratteneva ottimi rapporti con il direttore a cui lo aveva presentato. Compose il numero. Al terzo squillo, gli giunse limpida dalla cornetta una voce di donna dal tono gradevole. “Bank of Beirut.”

“Mi chiamo Nino Salvo”, disse in arabo. “Desidererei parlare con il direttore.”

“Attenda, prego.”

Trascorse un interminabile minuto prima che una robusta voce maschile gli giungesse all’orecchio.

“Parla Ahmed Benazir. Sono il direttore… Con chi parlo?”

“Oh, salve signor Benazir… Sono Nino Salvo. Si ricorda di me? Sono stato a trovarla qualche settimana fa insieme ad Hassan Asad per l’apertura di un deposito.”

“Ma certo che mi ricordo di lei, signor Salvo. Non capita tutti i giorni di acquisire un cliente del suo calibro.” Fece una pausa. “Mi dica…, in cosa posso esserle utile?”

“E’ appunto di Hassan che volevo chiederle. Sono due giorni che cerco di

contattarlo sia sul telefono di casa che sul cellulare. Al telefono di casa non risponde nessuno, e il cellulare è perfettamente muto. Ha per caso avuto occasione di vederlo di recente?”

All’altro capo del filo ci fu una lunga pausa, al punto che Sergio pensò che fosse caduta la linea.

“Pronto? Signor Benazir, è ancora lì?”

“Sì, sono qui. Posso chiederle da dove chiama, signor Salvo?” “Dall’Italia.”

“Ah, capisco. Allora non ha letto i giornali libanesi e non può sapere.”

“Sapere cosa?”

“Che Hassan è morto.”

“Oh, no!” esclamò.

La sorpresa gli tolse il fiato per alcuni secondi rendendolo inca-pace di proferire parola.

“Morto? Ma com’è successo? Un incidente? Un infarto?” disse infine.

“Purtroppo si è trattato di omicidio. La sua auto, una BMW nuova di zecca che aveva appena ritirato dalla concessionaria, è esplosa mentre percorreva la litoranea con l’intera famiglia a bordo, evidentemente per un giro di prova. Tutti morti. Una strage.”

Anche se il suo rapporto con Hassan non era mai stato dei migliori, tuttavia Sergio si sentì profondamente turbato.

“Una bomba, immagino.”

“Esatto. Dalle indagini della polizia scientifica, è emerso che a provocare l’esplosione è stata una carica di dinamite impiantata nella vettura quando era ancora in esposizione nello showroom della concessionaria. Gli investigatori stanno cercando gli attentatori.”

Sergio non aprì bocca per alcuni secondi. Poi disse: “Ma lei, si è fatta qualche idea di chi potesse desiderare la sua morte? E’ possibile che avesse dei nemici?”

“E’ possibile eccome, per via dell’attività che conduceva, signor Salvo. Come sa, faceva il mediatore di affari. Affari di qualsiasi genere, capisce? Un settore in cui è facile crearsi dei nemici, magari senza neppure rendersene conto.”

“E la polizia che cosa dice?”

“Niente… Ma sembra che stia indagando nella cerchia dei suoi clienti abituali,

senza escludere la criminalità organizzata.”

Sergio rifletté. “Mi sto chiedendo, signor Benazir, se posso chiederle una cortesia.”

“Certamente. Dica pure.”

“Volevo parlare con Hassan, per pregarlo di recarsi a casa mia e comunicare un messaggio alla mia ragazza. Giusto per tranquillizzarla dicendole che sto bene.” Fece una pausa. “Le spiace incaricare il fattorino della banca di farlo la prossima volta che erà da lei per consegnarle il denaro?”

Per quella che sembrò un’eternità, Benazir non fiatò.

“Signor Benazir?” il giovane lo incalzò.

“Mi rincresce ma c’è un’altra brutta notizia, che stavo appunto per darle.”

“Non mi dica che si tratta di Tanya…”, disse con tono allarmato. “Sì, purtroppo.”

“La prego, non mi tenga sulle spine.”

“Anche lei è stata assassinata.”

“Dio!” esclamò.

Si sentì avvampare, ma rimase perfettamente immobile, come impietrito. Dopo un attimo di incredulità, la gravità della notizia lo colpì con la violenza di un forte pugno sferrato nello stomaco. “No, non è possibile”, mormorò.

Per trenta secondi buoni, ci fu il silenzio. Poi dalla cornetta gli giunse la voce sommessa dell’arabo: “Signor Salvo?”

“Sì, mi scusi signor Benazir. Non ho parole, sono sconvolto.” “La comprendo.”

“Immagino che conosca i particolari del delitto.”

“Sì. Tutti i media hanno dato ampio spazio a entrambi i delitti. Quanto a Tanya, il suo corpo senza vita è stato rinvenuto nel monolocale sabato scorso, da una vicina con cui aveva familiarizzato di recente. La donna ha bussato senza ricevere risposta. Poi si è accorta che la porta era lievemente socchiusa ed è entrata. Si è trovata davanti una scena agghiacciante. L’esile corpo giaceva sul letto in una posizione innaturale. L’assassino l’aveva imbavagliata a evitare che urlasse. La donna ha chiamato subito la polizia.”

“Come l’ha ammazzata?”

“Strangolata con un cappio.”

“Oddio!”

“Ma purtroppo non è tutto.”

“Cos’altro c’è?”

“L’ha pure violentata.”

“Maledetto figlio di puttana!” il giovane esclamò sferrando un pugno sulla parete di vetro della cabina.

“Secondo notizie di stampa, lo stupratore si sarebbe introdotto, surrettiziamente e in pieno giorno, nell’alloggio approfittando dell’assenza della ragazza, e ne avrebbe atteso il ritorno.”

“Qualche indizio su di chi possa trattarsi?”

“Sì, un vago indizio c’è, per quello che potrà servire.”

“Mi dica.”

“Dalle indagini della polizia, subito avviate tra gli inquilini dello stabile e nel vicinato, è emerso un particolare. Alcuni clienti di un bar situato proprio di fronte all’ingresso dello stabile, hanno dichiarato di aver notato, nei giorni precedenti l’omicidio, un giovane occidentale sulla trentina – molto alto e nerboruto, occhi chiari, capelli biondi tagliati a spazzola – aggirarsi nei dintorni e spesso stazionare a lungo nelle immediate vicinanze dell’edificio tenendone, apparentemente, d’occhio il portone. La polizia ha costruito un identikit, che ha diffuso in tutta la città, alla stazione ferroviaria e in aeroporto.”

Sergio attese un attimo prima di dire:

“Nessun risultato, immagino…”

“Invece qualcosa è saltata fuori. Un addetto alla sicurezza nel terminal dell’aeroporto, ha dichiarato di aver riscontrato nell’identikit, una notevole somiglianza con un tizio che aveva visto are al controllo aporti per i voli in partenza. La data è quella della scoperta del cadavere. La polizia ha la ragionevole certezza che si sia imbarcato su un volo per Parigi, che proprio nel momento dell’avvistamento veniva annunciato.”

“Uno stupratore di aggio, si direbbe.”

“Così sembrerebbe, anche ad avviso degli investigatori.”

Dopo una breve pausa, Sergio disse:

“Mi scusi ma ora devo lasciarla, signor Benazir. Sono di fretta. La saluto e la ringrazio per le informazioni.”

“Tutt’altro che allegre, purtroppo. Non esiti a richiamarmi, se dovesse avere ancora bisogno.”

“Certo. La ringrazio di nuovo.”

Uscì dalla cabina e si avviò a o lento in direzione dell’albergo, l’aria pensierosa. Aveva tagliato corto con Benazir, poiché aveva avvertito il desiderio improvviso e impellente di riflettere su quanto aveva appreso, per tentare di coglierne possibili implicazioni per se stesso.

“Mia cara, piccola Tanya”, mormorò mentre sentiva un nodo serrargli la gola, e una rabbia bruciante montargli dentro. Una povera profuga palestinese, che dalla vita non aveva ricevuto che sofferenze, ma che alla fine aveva trovato la felicità grazie a lui, quando l’aveva raccolta dalla strada prendendola con sé. Lo aveva amato profondamente, e accudito come pochissime donne sono capaci di fare, e lui l’aveva protetta. Si chiese se non fosse in qualche modo responsabile della sua morte, e, alla risposta affermativa, si sentì sopraffare da un’ondata di rimorso. Se avesse rifiutato l’ingaggio, non l’ avrebbe lasciata sola per inseguire la ricchezza, e ora sarebbe viva. Era certo che di quel profondo senso di colpa che ora provava, non si sarebbe liberato tanto facilmente. Ma chi era mai il mostro che in modo tanto disinvolto l’aveva violentata, e poi ammazzata nel più feroce dei modi? Forse uno stupratore di aggio, aveva detto poc’anzi a Benazir. Ma ora non ci credeva più.

Suscitava sospetto il particolare che il killer avesse sorvegliato a lungo lo stabile,

e quindi di certo anche i movimenti di Tanya, prima di decidersi a entrare di soppiatto nel monolocale. Sorgevano una serie di interrogativi, tra i quali quello del perché avesse agito in pieno giorno, piuttosto che nelle ore notturne. Almeno a questo era in grado di dare una risposta. Ricordò che tra le raccomandazioni che le aveva rivolto prima di partire, c’era quella di chiudersi a chiave inserendo la catenella di sicurezza, ogni sera prima di coricarsi. Rifletté che Tanya non era certo il tipo di donna da far nascere negli uomini istinti lussuriosi al punto da spingerli a pedinarla e sorvegliarla, per cogliere il momento propizio in cui abusarne con la forza. Era tanto magra e denutrita da suscitare soltanto comione. Sembrava il ritratto della fragilità. Allora, si chiese, perché proprio lei tra le tante bellissime giovani donne di cui pullulavano i marciapiedi della città? Cos’era che l’assassino aveva visto di tanto eccitante nella ragazza da fargli desiderare di violentarla e poi ucciderla? Non era da escludersi uno soggetto che fosse stranamente stimolato da quel genere di fisico femminile. Oppure uno psicopatico maniaco sessuale. E perché no? qualcuno reduce da una lunghissima astinenza, che aveva visto in lei una facile preda.

Tutte ipotesi plausibili ma improbabili, pensò. L’istinto gli dice-va che il movente doveva essere di una natura ben più complessa, meno banale. Che i due omicidi fossero in qualche modo collegati, nel senso che l’assassino di Hassan aveva ucciso anche Tanya. E in-fine che lo stupro della ragazza fosse una fuorviante messinscena. Quindi, la domanda che ora si pose era: che cosa si celava dietro i due delitti?

C’erano due sorprendenti coincidenze di cui non poteva non tenere conto, e che faceva fatica a pensare che fossero casuali. La prima era che entrambe le vittime avevano avuto rapporti con lui, anche se ciascuna di diversa natura. La seconda che, guarda caso, i due delitti erano stati commessi nei giorni successivi alla sua partenza e a quello in cui aveva stipulato – con la mediazione di Hassan – quel contratto omicida che lo aveva portato a Milano.

Rivide la sagoma indistinta dell’uomo misterioso nascosto dietro il vetro oscurato all’interno della Mercedes, quel giorno in cui si era sottoposto al test di

mira. Era di certo il committente del contratto; forse Hassan lo conosceva abbastanza bene, e sapeva esattamente chi fosse. Sergio sospettava che dovesse trattarsi di quel Kesler, amico intimo di Martinoni, di cui sca gli aveva parlato e con cui si era recata a Beirut. Si era occupato della sua sistemazione all’hotel Astra, dopo aver telefonato alla ragazza tre giorni prima, per accertarsi che stava da lei.

Ricordò che sca gli aveva parlato a lungo dello zio miliardario, e della sua decisione di entrare in politica correndo, nella coalizione di centrodestra, per la Presidenza del Consiglio, pur nella consapevolezza di doversi misurare con le enormi difficoltà che gli sarebbero derivate dall’asperrima opposizione dei suoi nemici e avversari. Era allora plausibile ritenere, si chiese, che il mandante dell’omicidio che lui doveva compiere fosse lo stesso Martinoni, il quale desiderava togliere di mezzo un avversario particolarmente agguerrito, la cui azione in campagna elettorale rappresentava una minaccia per la sua vittoria? Ed era verosimile che Martinoni, a torto o a ragione, considerasse Hassan, – in quanto al corrente del contratto, anche se non della vittima designata – un testimone pericoloso, avvertendo così la necessità di farlo sopprimere? Ma a guardar bene, anche Tanya poteva essere stata percepita come tale dal Magnate, il quale forse sospettava che prima di partire Sergio le aveva confidato lo scopo della sua trasferta a Milano, e temeva che questi una volta informato dell’identità del suo bersaglio lo avrebbe rivelato per telefono sia ad Hassan che a Tanya.

Se le sue congetture erano fondate, allora gli si poneva un altro interrogativo, il più inquietante dal suo punto di vista. sca era al corrente del piano omicida di suo zio? E in caso affermativo, vi era anche coinvolta in qualche modo? Ricordò che mentre erano in volo per Linate, le aveva chiesto esplicitamente se conosceva il motivo del suo ingaggio. Lei gli aveva risposto con decisione di esserne all’oscuro, dato che Martinoni non era solito rivelarle gli scopi delle cose che faceva, o le ordinava di fare. Le era parsa sincera.

Nelle due settimane che avevano trascorso insieme diventando amanti, lui si era sforzato di conoscerla a fondo. Non le era sembrata il genere di donna capace di

collaborare con qualcuno che avesse deciso di perpetrare un omicidio. Neanche se questo qualcuno era suo zio.

Tuttavia, concluse, le sue restavano supposizioni che potevano facilmente rivelarsi inattendibili. L’unica ragionevole certezza era che chiunque fosse il mandante del delitto che era stato incaricato di compiere, voleva fare piazza pulita di ogni potenziale testimone. Ne conseguiva che anche lui era nel mirino. E lo sarebbe stato ancor più una volta che gli fosse stata rivelata l’identità del personaggio che doveva colpire. Avrebbero atteso che eseguisse il contratto, per poi ucciderlo un minuto dopo.

Si mise a riflettere su come cavarsi d’impiccio nella scabrosa situazione in cui si era cacciato. Fuggire? Facile a dirsi, ma non a farsi. Sapeva di essere sorvegliato ventiquattrore su ventiquattro. Ogni volta che guardava fuori dalla finestra della sua camera, quasi sempre notava qualcuno in sosta sul marciapiede a breve distanza dall’ingresso dell’alberghetto. Gli era capitato di vederlo anche nelle ore notturne. Non era sempre lo stesso individuo, per l’intuibile ragione di non dare nell’occhio. Le rare volte in cui era uscito per comprare del cibo in un negozio di alimentari in viale Toscana, non gli era sfuggito di essere pedinato. Si era accorto che anche in quel momento qualcuno gli stava alle calcagna. Di certo lo aveva visto telefonare dalla cabina, magari chiedendosi chi fosse il suo interlocutore all’altro capo del filo. Sergio aveva fatto del suo meglio per fare finta di niente. Era convinto che non lo avrebbero perso di vista fino al momento in cui, esaurito l’incarico, si sarebbero impegnati per eliminarlo.

Si chiese se darsi alla fuga fosse la cosa giusta da fare, e, soprattutto, quella che il suo cuore veramente desiderava. Era naturale che la paura fosse la sensazione che chiunque al suo posto avrebbe provato, al punto di spingerlo a cercare di tagliare la corda. Ma ora un furore sordo si era impossessato di lui. Tanto prepotente e violento da non lasciare spazio a qualsiasi timore. L’odio smisurato che sentiva di nutrire verso il killer che aveva spezzato la giovane vita della povera Tanya dopo averla stuprata, era tanto intenso da soppiantarlo.

Col trascorrere dei minuti, cominciò a farsi strada in lui una sorta di fredda determinazione, mista a un senso di sfida. Gli fece decidere di non muoversi e di non nascondersi. Non avrebbe girato i tacchi fuggendo come un vigliacco. Sarebbe rimasto ad attendere che, come promesso dallo sconosciuto che gli aveva telefonato tre giorni prima a casa di sca, qualcuno si fe vivo con le istruzioni su come procedere per fare il lavoro. A quel punto, si sarebbe mosso in modo da vendicare la ragazza.

Ora soltanto questo per lui contava.

Si sentiva confuso, non aveva la più pallida idea di cosa fare, di come agire e di quale atteggiamento assumere con l’uomo che gli si sarebbe presentato. Decise che la tattica più sensata era quella della prudenza. Lo avrebbe assecondato per non insospettirlo, e ascoltato con attenzione. Poi, probabilmente, sarebbe stato in grado di valutare la situazione, ed escogitare un piano per fargli vedere i sorci verdi.

E il contratto?

Dopo le terribili notizie apprese da Benazir, si domandò se doveva ancora sentirsi obbligato a rispettarlo. Chissà se c’era un modo per non farlo, senza con ciò dover rinunciare a intascare il saldo del suo compenso. Doveva pazientare, pensò, mentre, raggiunto l’albergo, saliva le otto rampe di scale fino alla sua camera.

Qualcuno poteva comparire da un momento all’altro.

41

Il telefono si mise a squillare alle sette in punto, provocando nel cervello di Pietro Mattei come una sorta di deflagrazione, che lo strappò con violenza al suo sonno profondo. Mise la testa sotto il cuscino, ma invano.

Lo squillo stridulo e assordante, che si protraeva con insistenza, continuava a perforargli i timpani. Cercò di scuotersi per emergere dallo stato sonnolento che lo avvolgeva. Ci riuscì compiendo uno sforzo immane.

Cercò a tastoni l’apparecchio sopra il comodino, e ne afferrò la cornetta portandosela all’orecchio.

“Pronto?”

Non ebbe risposta. Chiunque fosse stato a chiamarlo, si era alla fine dato per vinto, riagganciando. Poco male, pensò, di certo avrebbe riprovato più tardi, se desiderava davvero parlargli.

Allungò una mano verso destra, ma lo spazio era vuoto. Ricordò che la sera prima era andato in bianco. Aveva invitato a cena al Savini una rossa stupenda sulla trentina, cliente dello studio, la cui pratica di divorzio stava curando. La civettuola ultra cordialità della donna durante la cena, la aveva interpretata come la disponibilità a proseguire la serata nell’intimità della sua camera da letto. Ma quando lei gli aveva fatto capire che aveva frainteso i suoi segnali, da gentiluomo qual era, non aveva potuto esimersi dall’accompagnarla a casa. Aveva poi fatto un giretto in centro, e alle due ate era andato a dormire.

Facendo leva con le mani si issò a sedere sul letto appoggiandosi con la schiena alla testiera, le dita incrociate dietro la nuca. Cercò di immaginare chi diavolo potesse averlo chiamato a quell’ora, e per di più di sabato. Di certo non i suoi genitori: non avrebbero osato farlo sapendo che di sabato e nei giorni festivi dormiva almeno fino alle undici.

Mentre stava per riassopirsi nonostante la posizione scomoda, il cellulare sul comodino si mise a trillare. Lo afferrò e controllò il display digitale: era Ezio Leardo. Schiacciò il pulsante per attivare la comunicazione.

“Ciao, Pietro. Come mai non rispondevi sul fisso?”

“Ciao… Perché dormivo saporitamente quando lo squillo mi ha svegliato di soprassalto. Ho fatto per rispondere ma tu avevi già riagganciato.”

“Hai fatto le ore piccole, immagino.”

“Sì, ma non per la ragione che tu pensi”, disse. E subito dopo aggiunse: “Purtroppo…”

“Ascolta, Pietro, ho bisogno urgente di parlarti. Ci sono degli sviluppi. Puoi fare un salto da me?”

“Non potresti almeno accennarmi di che si tratta?”

“No.”

“Allora dammi il tempo di lavarmi e vestirmi, e arrivo.

Chiuse la comunicazione facendo un grosso sbadiglio, mentre pensava che, tutto sommato, era un bene che la Rossa non avesse accettato di trascorrere la notte con lui. Altrimenti ora si vedrebbe costretto a svegliarla e metterla alla porta, se pure con gentilezza.

Nel giro di un quarto d’ora era al volante della sua Mercedes Cabrio diretto in via Torino. Leardo lo attendeva nel suo studio con le luci accese e le tapparelle abbassate. Stava seduto alla scrivania in maniche di camicia rimboccate, il nodo della cravatta allentato, come si fosse appena occupato di un lavoro manuale. Nell’aria aleggiava un gradevole aroma di caffè appena sgorgato da una moka posata su un fornellino a gas da campeggio poggiato sopra il ripiano del computer. Ezio ne reggeva in mano una tazzina.

“Scommetto che sei stato su tutta la notte…”, Pietro esordì sedendosi sulla poltroncina davanti alla scrivania.

“No, sono in piedi soltanto dalle quattro. Ho riesaminato con cura una lunga mail che mi è pervenuta l’altro ieri dal nostro ufficio che sovrintende al Medio Oriente. Il suo contenuto, molto interessante, ha comportato degli approfondimenti prima che te ne potessi parlare compiutamente.” Lo scrutò in viso e poi indicò col mento la moka. “Serviti pure una tazzina di caffè, così ti svegli del tutto.”

“D’accordo.” Pietro si alzò per versarsi del caffè e poi tornò a sedere.

Leardo abbassò lo sguardo sulla e-mail che teneva davanti a sé.

Disse:

“Dalla lettura della prima parte, la notizia mi è parsa insignificante. Una ragazza araba di nome Tanya Azira è stata rinvenuta strangolata e stuprata in un monolocale di un edificio fatiscente in un quartiere degradato di Beirut. La polizia ha subito ricondotto al sesso il movente del delitto, il cui autore potrebbe essere un occidentale di aggio, che è stato visto aggirarsi nei pressi dello stabile nei giorni antecedenti il ritrovamento del cadavere. Visto l’ambiente malfamato niente di cui stupirsi ovviamente, se non fosse che dalle indagini è poi emerso che la giovane conviveva con un italiano che risponde al nome di Nino Salvo. Nel perquisire il monolocale, la Scientifica ha rinvenuto una contabile bancaria a prova del fatto che l’uomo era intestatario, presso la Bank of Beirut, di un deposito in lire libanesi, per un controvalore di cinquecentomila euro. L’istituto di credito, interpellato, non ha potuto esimersi dal confermarlo, aggiungendo che l’accensione del conto era avvenuta su presentazione del Salvo alla banca da parte di un cliente: un certo Hassan Asad, di professione mediatore. Sembra che Salvo e Asad fossero amici o comunque si conoscessero molto bene. La polizia libanese ha ritenuto di segnalare l’accaduto all’Interpol, sentendo puzza di riciclaggio di denaro sporco riveniente dal commercio internazionale della droga, o comunque da una attività illegale, visto che l’uomo è uno spiantato. Niente posto fisso, solo lavoretti occasionali di manovalanza, e, qualche volta, come buttafuori in locali notturni. Inoltre, guarda caso, è partito subito dopo l’apertura del deposito avvenuta circa due settimane fa. La segnalazione all’Interpol era corredata da un identikit dell’interessato.

“Quindi, la ragazza viveva da sola quando è stata assassinata. Ma c’è un altro episodio sospetto. Due giorni dopo la partenza dell’italiano, il mediatore diviene vittima di un attentato dinamitardo. La sua BMW nuova di pacca su cui

viaggiava insieme alla famiglia, viene fatta esplodere con una bomba impiantata sotto il fondo della vettura da chissà chi. La polizia libanese, ritiene che possa esserci un collegamento tra i due delitti dato che le due vittime conoscevano il Salvo, ma non ha la più pallida idea di che genere. Considerato che in tutta questa storia c’era di mezzo un italiano, l’Interpol ha deciso di trasmettere l’informazione alla Polizia di Stato del nostro Paese assieme al rapporto di quella libanese. Sospettando risvolti di natura terroristica o persino politica, la polizia ha ritenuto di informare a mezzo e-mail i Servizi segreti, fornendo l’identikit di questo individuo.” Prese uno sorso di caffè. “Questa è la prima notizia.”

“Che ha attirato la tua attenzione per il fatto che ci fosse coin-volto un italiano, e per la circostanza del viaggio a Beirut della Martinoni con Paolo Kesler, non è così?”

“Be’, sì, ma soltanto per una sorta di associazione di idee, non perché vi avessi ravvisato un qualche legame. D’altro canto, non ce n’era alcuna ragione.” Sorrise. “Fino a quando non è emersa, procedendo nella lettura della mail, un’altra notizia, o meglio una coin-cidenza.” Si portò di nuovo alle labbra la tazzina di caffè. “Quell’uomo è partito il venti novembre. Ti dice niente questa data?” Lo scrutò intensamente in volto.

“Boh, non saprei…”

“Sveglia, Pietro! Il venti novembre è anche il giorno del rientro a Milano della Martinoni, da Beirut.”

“Già, ora ricordo. Ma da dove salta fuori che quel tizio è partito proprio il venti novembre?”

“Ovviamente dal rapporto della polizia libanese sulle indagini condotte per l’identificazione dell’assassino della ragazza.” Fece scorrere il palmo di una mano sulla mail. “Qui c’è scritto che un inquilino del condominio ha dichiarato di averlo visto uscire insolitamente vestito di tutto punto con una valigia, e con l’aria di uno che è in partenza per un lungo viaggio. E’ sicuro che la data sia proprio il venti novembre perché è il giorno del suo compleanno, che stava appunto festeggiando.”

“Prosegui”, Pietro lo incalzò, lo sguardo interessato.

“Sembrerebbe, pertanto, che il Salvo abbia percepito da qualcuno una grossa somma di denaro, a titolo di compenso per un incarico da eseguire Dio solo sa dove, e di che natura. Da qui la partenza.”

“Nulla a che fare con la droga o altro, quindi.”

“Tenderei a escluderlo.”

“E allora?”

“Ora arriva la notizia bomba, Pietro, tieniti stretto”, Leardo disse con un lieve sorriso enigmatico. “Ancorché non ci fosse alcuna ragione per la quale la coincidenza tra le due date potesse avere un qualche aspetto significativo che riguardasse la Martinoni, pur tuttavia l’intuito mi ha suggerito di perseguirla, tenendo anche conto che nella faccenda c’era coinvolto un tipo come Kesler, che, come sappiamo, quel giorno si è recato a Parigi a conferire con il suo presunto capo. Sicché l’altro ieri abbiamo svolto indagini presso gli arrivi a Linate per il giorno venti novembre, se non altro per escludere un’altra

coincidenza, e cioè che la meta del viaggio di quell’uomo fosse stata proprio Milano.” Si fermò un attimo. “Ora, il nome di Nino Salvo non figurava in nessuno degli elenchi eggeri, sennonché almeno cinque addetti ai lavori hanno riconosciuto dall’i dentikit mostrato loro, un tale arrivato da Beirut in compagnia – indovina un po’di chi? – della famosa attrice televisiva sca Martinoni.”

“Ma va’?”

“Proprio così. In particolare, gli agenti di polizia preposti al controllo aporti hanno riferito che i due si comportavano come se fossero in grande intimità. A un certo punto, lui le ha persino posato una mano sulla spalla.” Si interruppe per un attimo. “Tutto ciò ha trovato conferma nelle immagini dei nastri registrati dalle telecamere del sistema di videosorveglianza sul traffico eggeri a Linate. E’ evidente, quindi, che quell’uomo viaggiava con un aporto e un nome falsi, ragion per cui non appare nell’elenco eggeri.”

“Questa cosa non mi piace”, Pietro disse storcendo un angolo della bocca. “Lei non ha mai menzionato di essere ritornata in compagnia di qualcuno. Quindi ci ha nascosto qualcosa.”

“Già, e questo conferma il nostro sospetto che c’è un uomo la cui esistenza lei intende tenere segreta.”

“Perché ha completamente perso la testa per lui.”

“E’ probabile.”

Pietro ricordò la lunga conversazione con sca di due giorni prima in quel bar in via Vincenzo Monti, durante la quale le aveva trasmesso l’invito di Leardo a recarsi nel suo studio per un colloquio.

Che ci fosse qualcuno lo aveva subito subodorato e l’aveva son-data, curioso di sapere di chi si trattasse. Si era messo a scherzare dicendole di cogliere nei suoi occhi una strana luce languida, di cui avrebbe voluto conoscere l’artefice. Ma lei non si era minimamente scomposta.

“L’intuito mi dice”, Pietro disse, “che lo ospita nel suo appartamento.”

“Il tuo intuito è corretto.” Leardo sorrise.

“Ne hai avuto conferma?” L’altro inarcò un sopracciglio, mentre lo 007 mandò giù l’ultimo sorso di caffè e si accese una sigaretta.

Esalò la prima boccata, poi disse: “Lo ha ospitato fino a ieri mat-tina.”

Pietro batté le ciglia. “Come diavolo hai fatto a saperlo?”

“Semplice. Ieri sera, sul tardi, abbiamo convocato il portiere dello stabile. Ha dichiarato di averli visti spesso insieme andare e venire, nelle ultime due settimane. Anche in macchina. Ieri mattina, quando lei è uscita – evidentemente per venire da me –, lui è sceso per acquistare un grosso mazzo di rose da un fioraio lì vicino. Dopo averlo portato nell’appartamento, se n’è andato in taxi

con l’aria di non dover più ritornare, visto che era provvisto di una valigia.”

“Va’ a sapere dove e andato a cacciarsi”, Pietro osservò.

“Ma, soprattutto, a fare che.”

“Mi chiedo se in tutto ciò ci sia un filo di connessione con Paolo Kesler e quello che tu sospetti stia macchinando per distruggere Martinoni.”

“Potrebbe esserci. Ma purtroppo possiamo soltanto spingerci nel campo delle ipotesi.” Soffiò verso l’alto una nuvola di fumo della sigaretta. Pietro incrociò le braccia sul petto e lo fissò con fare interrogativo. “Ti ascolto.”

“Dunque…, Kesler e la Martinoni”, Leardo riprese, “si recano insieme a Beirut ufficialmente per lavoro, ma in realtà per assoldare quel tizio della cui collaborazione necessitano per fare qualcosa qui a Milano. Qualcosa in cui lo stesso è specializzato. Chissà che cosa. Mi domando: è possibile che abbia a che fare con la campagna elettorale del Tycoon?”

“E perché avrebbero dovuto importarlo dall’estero?”

“L’unica risposta ovvia a cui riesco a pensare, è che trattandosi di una faccenda delicata Kesler non intendesse giocare in casa, per così dire. Se lo avesse cercato a Milano avrebbe corso il rischio di esporsi.”

Pietro si grattò la sommità del capo con aria confusa. Disse:

“Non ci capisco granché, è un rompicapo. Quanto potente dovrebbe essere quell’uomo per interferire nella campagna elettorale di Martinoni, al punto di danneggiarlo?”

Leardo ignorò la domanda. “Metti che…”, disse strofinandosi il mento con l’indice e il pollice, lo sguardo vacuo rivolto a una pare-te, “…sia un killer professionista assoldato da Kesler per fare fuori qualcuno.”

“Già, ma chi e perché? Stai per caso pensando allo stesso Martinoni?”

“No”, replicò secco. “Ti ho già spiegato che se c’è una cosa che a mio avviso i suoi avversari o nemici intendono evitare è di farne un martire. Credo che Kesler sia ben consapevole che se Martinoni fosse vittima di un attentato, qualche milione di simpatizzanti del centrosinistra, sarebbero indotti e riconsiderare le loro scelte elettorali.” Fece una pausa per schiacciare la sigaretta nel posacenere.

“E allora?”

“La mia è naturalmente una ipotesi molto remota, ma non per questo non meritevole di considerazione.” Roteò gli occhi verso l’alto puntandoli al soffitto. “Sto pensando a qualche illustre personaggio, molto popolare, con cui Martinoni intrattiene rapporti tutt’altro che idilliaci, il cui assassinio potrebbe sollevare sospetti su di lui nel ruolo di mandante.”

“Un politico dello schieramento politico opposto, allora.”

“Macché. E’ improbabile che si tratti di un politico se è popolare, non credi?” Ridacchiò sarcastico.

Pietro sembrò riflettere per qualche attimo, poi disse: “Ora che mi ci fai pensare, ci sarebbe l’Arcivescovo di Milano, il Cardinale Losito. Non a giorno senza che esterni pubblicamente in modo molto sfavorevole nei confronti di Martinoni, criticando vibratamente il suo recente ingresso in politica. Ieri sera era ospite alla trasmissione televisiva Che tempo che fa. Ha sparato a zero contro di lui, pur senza mai citarlo esplicitamente.”

Leardo assentì col capo. Disse:

“Se è per questo, di gente influente e potente che lo odia, ne esiste una foltissima schiera. Che gioirebbe nel vederlo rovinato, è unanimemente noto.” Meditò per alcuni secondi. “Naturalmente se ad attaccarlo è nientemeno che l’Arcivescovo di Milano, l’impatto mediatico negativo su di lui in campagna elettorale potrebbe risultare di maggior peso.”

“Lo penso anch’io.”

“Tuttavia resta fermo che si tratta di una congettura. Anche se fosse fondata, riuscire a scoprire di chi possa trattarsi per metterlo sotto protezione, sarebbe un po’ come vincere un terno al lotto.”

“Già. Ma mi sembra che tu sia d’accordo sul fatto che se uno di questi personaggi fosse assassinato, la probabilità che il sospetto ricada su Martinoni quale responsabile del delitto sarebbe molto elevata. Non credi che potrebbe sollevare una tale indignazione popolare da nuocergli in modo irreparabile, al punto da indurlo a farsi subito da parte? Non potrebbe essere questa quell’azione forte a cui pensavi, che potrebbe farlo cadere in disgrazia agli occhi del suo elettorato? Ricordo che ne abbiamo parlato la prima volta che ci siamo incontrati.”

Leardo assunse una espressione perplessa. Disse:

“No, credo che senza uno straccio di prova, il solo sospetto non basterebbe a sortire un effetto così radicale. Di certo metterebbe in ombra la sua immagine e popolarità agli occhi dei suoi sostenitori, inducendo molti di loro a riflettere se votarlo o meno. Quindi potrebbe – il condizionale è d’obbligo – perdere le elezioni, decidendo poi di uscire dalla scena politica.”

“Sarebbe comunque un piano diabolico, se tutto ciò dovesse risultare vero”, Pietro osservò.

“Ne convengo. Un piano di cui uno come Kesler può essere perfettamente in grado di architettare. E’ risaputo che, durante la Guerra Fredda, agenti e spie della Stasi e del Kgb, erano maestri nel perpetrare crimini efferati – per lo più di natura politica –, riuscendo poi a farne ricadere la responsabilità su soggetti del tutto innocenti. Era ben nota la loro abilità nell’estorcere false confessioni sotto tortura.”

Pietro annuì senza replicare.

“Quindi, riepilogando”, Leardo continuò, “Kesler ingaggia quell’uomo, lo affida alla Martinoni perché lo accompagni a Milano, e poi si reca a Parigi per fare rapporto a Reynaud in quel bordello di gran lusso.”

“Perché mai quell’uomo aveva bisogno di essere accompagnato? E perché proprio da sca?”

Leardo disse con un sorriso: “Mi aspettavo questo genere di domanda. Sembra che vivesse clandestinamente a Beirut da alcuni anni, e pertanto per uscire dal Paese ha dovuto giocoforza procurarsi una nuova identità con un aporto falso. Se il aporto era italiano, come ritengo, la possibilità di essere beccato all’arrivo a Li-nate, al controllo di polizia, era alquanto elevata. Ma non in compagnia della Martinoni. Da quel personaggio celebre che è, ha calamitato l’attenzione degli agenti, che non si sono curati più di tanto di esaminare i loro documenti. Questo spiegherebbe la ragione per la quale i due si comportavano come se tra loro ci fosse una relazione sentimentale. Di certo era tutta una finzione.”

“Ma a pensarci bene, tutto questo è pura follia, Ezio!” Pietro replicò in modo concitato. “Presupporrebbe che sca sia parte attiva in questo piano criminale contro suo zio, in combutta con Kesler. Non è possibile, è pazzesco!” Fece una pausa prima di dire: “Ricordo che ne abbiamo già discusso, escludendolo a priori, la prima volta che ci siamo visti.”

“Allora dovresti anche ricordare quello che ho allora osservato: e cioè che lei potrebbe esservi coinvolta, ma senza saperlo. Kesler potrebbe averla manipolata, adducendo un innocente pretesto per convincerla a collaborare al fine di agevolare l’ingresso in Italia di quell’uomo.”

“Nessuna idea del genere di pretesto?”

“Vattelappesca, ma ritengo che debba trattarsi di una grossa balla, che ha rifilato anche a Martinoni, persuadendolo che quell’uomo può tornargli utile in campagna elettorale. Lo scopo di Kesler era riuscire a farlo arrivare a Milano.”

“Quindi, hanno recitato la parte della coppia di innamorati che ritornano da una vacanza in Libano, allo scopo di scongiurare il pericolo che il aporto falso del Salvo fosse accuratamente verificato al controllo di polizia.”

“Sì, esatto”, Leardo ribatté. “Soltanto che, come vuole quel vecchio adagio popolare che ‘la paglia brucia vicino al fuoco’, vivendo insieme, amanti lo sono diventati per davvero, anche se clandestini. Altrimenti non si spiegherebbe come mai la Martinoni non abbia svuotato il sacco sul vero motivo del viaggio a Beirut, quando le ho rivelato che Kesler è una spia comunista, membro di un’organizzazione criminale segreta responsabile del disastro aereo in cui sono periti i suoi genitori. Si è dichiarata disposta a impegnarsi per cercare di offrirmene la testa su un piatto d’argento, ma senza fare un minimo accenno all’altro uomo.”

Pietro annuì. “Era visibilmente sconvolta dalla notizia dell’attentato, ciononostante ha continuato a tacere su di lui col solo intento di proteggerlo.”

“E chissà che non siano diventati intimi al punto che lui si sia lasciato andare a rivelarle il vero scopo del suo viaggio a Milano…”

“Improbabile, ma possibile.”

Leardo si mosse nervosamente sulla poltroncina. “Ora, quando penso che quell’uomo è scomparso avverto una sinistra sensazione.”

“Immagino sospetti che sia andato a rintanarsi da qualche parte per prepararsi a fare qualcosa che non sarà niente di buono.”

“Già, quel qualcosa cui ti accennavo poco fa. E con una campagna elettorale al vetriolo alle porte, c’è poco da stare allegri.”

“E adesso che si fa, Ezio?” Pietro inarcò un sopracciglio.

L’altro gli rispose sorridendo: “Prendiamo un altro caffè, anzitutto.” Premette il pulsante dell’interfono, ma il piccolo altoparlante rimase muto: la segretaria non era ancora arrivata. Si alzò riluttante e si stiracchiò allargando le braccia, poi andò al fornelletto a gas e lo accese dopo aver ricaricato la moka.

Tornò a sedersi.

“Mi chiedevi adesso che si fa…” disse. “Si fa quello per cui ti ho buttato giù dal letto, Pietro. Riconvochiamo la Martinoni e le contestiamo, ma con pacatezza, di averci mentito sul vero scopo del suo viaggio a Beirut con Kesler, e tutto il resto. Lascio a te il compito di andare a prenderla e condurla qui.”

“Non è a Milano. Si trova a Villa Olga, ospite di suo zio. E’ lì da ieri pomeriggio. Ero appostato con la mia Mercedes davanti all’ingresso del suo stabile quando è partita intorno all’una con la Lamborghini, e ho ritenuto di seguirla.”

“Hai fatto bene, solo che ora dovrai andare lì a prelevarla.”

Pietro ci pensò su. “D’accordo, ma prima vorrei provarci da solo a farla parlare”, disse. “Potrei portarla al mio appartamento. Se entro domani non ne cavo un ragno dal buco, te la o. Ma, ripeto, vorrei essere io a interrogarla per primo.”

“Cos’è Pietro, una sorta di ritorsione per aver respinto la tua proposta di rimettervi insieme?”

“No, non c’è niente di personale. Ho solo voglia di darle un po’ di filo da torcere per averci nascosto che è tornata da Beirut con quell’uomo. Tutto qui. Lascia che sia io a occuparmi di lei in prima battuta.”

Leardo gli rivolse uno sguardo pieno di scetticismo, come se non gli credesse.

“D’accordo”, disse, “ma tienimi informato col cellulare.” Fece una pausa riflessiva. “Credo che ti convenga trattarla usando una buona dose di tatto e diplomazia. Non darle l’impressione di torchiarla, altrimenti potrebbe irrigidirsi e trincerarsi nel silenzio.” Tacque per qualche secondo. “Lo scopo principale è capire se sa dov’e andato a cacciarsi il suo amante.”

“Credo che lo sappia.”

“Anch’io, ma escluderei che sia disposta a rivelartelo.”

“Ho un’idea di come fare per scoprirlo.”

In quel momento venne dalla moka il sommesso gorgoglio del caffè che sgorgava dal beccuccio. Di nuovo Leardo si alzò per servirsene una tazzina. “Ne vuoi?”

Pietro fece col capo un cenno di rifiuto.

“E’ ora che mi muova”, disse. Si alzò in piedi e si stiracchiò così come aveva fatto Leardo. “Non mi sarà facile l’accesso a Villa Olga. C’è un nutrito corpo di guardie private all’ingresso. E’ come cercare di entrare a Fort Knox.”

“Chiamala sul cellulare quando arrivi davanti al cancello”, Lear-do gli suggerì mentre si versava il caffè.

“Non ho il suo numero, purtroppo.”

“Allora falla avvisare che sei fuori e desideri parlarle.” Tornò a sedersi. “Sono certo che farà del suo meglio per farti entrare. Ha accettato che tu funga da suo tramite col Sisde, ragion per cui sarà curiosa di sapere cos’hai da dirle.”

“D’accordo.”

A dispetto del deficit di sonno, Pietro si sentiva in forma, lucido di mente, e ansioso di entrare in azione. Consultò il suo orologio, dicendo: “Dovrei arrivare a Villa Olga intorno alle nove e mezzo, dieci. Se ci sono problemi ti chiamo. Ti saluto.”

“A proposito, Pietro… c’è un’ultima cosa...”

“Sì?”

“Ho deciso di piazzare davanti all’ingresso del suo stabile in via Vincenzo Monti, un agente a bordo di una Peugeot 204. La consegna è di seguirla ogni volta che esce.” Indugiò sorridendo. “Chissà che non ci porti dal suo uomo.”

“Bene a sapersi. E’ un’ottima idea.”

“a una buona giornata”, Leardo disse con un sorriso ironico mentre Pietro usciva dallo studio chiudendosi la porta alle spalle.

42

Orietta si svegliò accusando un intenso torpore al braccio sinistro che lo rendeva pressoché privo di sensibilità. Ne individuò subito la causa: una contrazione muscolare determinata dall’aver dormito a faccia in giù tenendolo ripiegato sotto il corpo. A questo disturbo, si accompagnava una fortissima emicrania, che cominciò a pulsarle sulle tempie quando si drizzò a sedere sul letto cingendosi con le braccia le gambe rannicchiate. Non avendo al polso l’orologio, si voltò a guardare la sveglia posata sul comodino: erano le sette e mezzo. Scrollò il braccio semiparalizzato e se lo frizionò con vigore, quindi scivolò via dal letto e andò in bagno con o strascicato, il palmo di una mano premuto sulla fronte.

Il senso di depressione per il fiasco della sera prima – di cui sca era stata la causa –, era accentuato dai postumi della solenne sbornia, che la facevano sentire uno straccio. Versò dell’acqua in un bicchiere e vi lasciò cadere una compressa effervescente di Aulin. Mentre attendeva che si sciogliesse sfrigolando, si guardò allo specchio e si mise a studiare con cura l’immagine che le rimandò. “Cristo”, mormorò nel notare gli occhi cisposi, le grosse borse violacee, la faccia macchiata di mascara e devastata dalla rughe. Fece una smorfia di disgusto. “Hai un aspetto orribile, stamat-tina”, disse come rivolgendosi a un’altra persona. Da qualche tempo aveva sviluppato una certa tendenza al soliloquio: una sorta di valvola di sfogo quando non aveva nessuno con cui parlare. Succedeva per lo più durante le lunghe assenze di Martinoni, ma soprattutto di recente, da quando, cioè, lui era costantemente impegnato nella preparazione della sua campagna elettorale.

Mandò giù l’Aulin disciolto con due brevi sorsi ed ebbe un brivido convulso. Fece una smorfia pensando che si era sbronzata di brutto la sera prima, e si era ridotta a una merda. Le tornarono in mente le cavolate che, tra i fumi dell’alcol, si era lasciata sfuggire con Kesler. “Cristo!” mormorò di nuovo. “L’ho persino invitato a…” Non completò la frase e ritornò barcollando in camera sedendosi sul bordo del letto, le mani affondate nei capelli in un gesto di sconcerto. La contrazione muscolare si era trasferita dal braccio allo stomaco.

Alcuni interrogativi cominciarono ad assillarla. E se Kesler raccontava tutto a Martinoni? E se qualcuno l’aveva vista nel soggiorno insieme a lui, ubriaca, e aveva udito tutto, comprese le parolacce che aveva pronunciato nei riguardi di sca? Quei pensieri tormentosi le provocarono un conato di vomito che la costrinse a ritornare frettolosamente in bagno per rimettere nel WC. L’emicrania si acuì, mentre, dopo aver vomitato, la forte tensione nervosa sembrò attenuarsi. Si sforzò di riflettere. Martinoni doveva restare all’oscuro dell’accaduto, e la nipote di quelle oscenità che aveva pronunciato nei suoi confronti. Doveva convincere Kesler a tenere la bocca chiusa.

Già, ma in che modo?

Si maledisse per la stupidità e leggerezza di cui era stata capace. Quasi le venne da piangere, ma riuscì a trattenersi al pensiero che le lacrime avrebbero peggiorato l’aspetto del suo viso. Si chiese quale iniziativa poteva assumere con Kesler per indurlo a tacere. La domanda prese a ronzargli come un moscone nella testa dolorante. Rinnovargli l’avance della sera prima era l’unico espediente a cui riuscì a pensare in quel momento. Ma la sera prima lui l’aveva respinta con determinazione. Forse, pensò, lo aveva fatto perché lo stato di ubriachezza in cui versava e le lacrime l’avevano resa del tutto priva di attrazione.

Era probabile che da sobria e con il trucco rifatto sarebbe parsa molto più accettabile, e lui avrebbe cambiato idea. Ma riprovarci comportava l’enorme rischio di un secondo fallimento. D’altra parte, il proprio corpo era l’unica merce di scambio di cui Orietta avesse mai disposto. In ato, se n’era spesso servita in modo spregiudicato, come uno strumento assai comodo ed efficace per raggiungere certi scopi.

Se questa volta il suo tentativo di sedurlo andava a buon fine, Kesler non si

sarebbe sognato di andare a spifferarlo a Martinoni. Non era la stessa cosa che accusarla di averlo insidiato cercando di attirarlo nella sua camera senza riuscirvi. Ritornò in bagno e fece una doccia. Assunse un’altra compressa di Aulin, certa che la prima fosse finita nello scarico del W.C. quando aveva vomitato. Quindi cominciò a lavorare sul trucco.

Quando ebbe terminato indossò una vestaglia di pizzo nero trasparente: un indumento molto sexy e già ben collaudato con Martinoni, e che comunque sapeva essere particolarmente gradito agli uomini. Si rassettò la pettinatura in disordine, e si asperse il corpo del solito Chanel n.5. Poi si rimirò allo specchio. Nonostante avesse fatto del suo meglio, dovette ammettere che il risultato era deludente. Ma non importava, pensò. A quell’ora del mattino, complice la semioscurità, Kesler non vi avrebbe fatto caso, ma avrebbe invece rivolto l’attenzione al suo corpo. E quello era perfetto, come sempre. Era nondimeno consapevole che stava per intraprendere un gioco spericolato, ma la sua disperazione era tale da avere ragione di qualsiasi timore. Aveva aperto troppo la bocca la sera prima, e ora avvertiva la sinistra sensazione di essere alla mercé di quell’uomo.

Dagli innumerevoli flirt del suo ato, Orietta aveva imparato che non c’era mai da fidarsi della discrezione maschile. Gli uomini erano tutti dei bastardi. L’unica scopo che veramente miravano a conseguire con le donne era di infilarsi nel loro letto, salvo poi vantarsene sbandierandolo ai quattro venti. Ma su di lei Kesler non avrebbe dovuto esercitare pressione alcuna: era pronta a elargirgli il servizio di buon grado, con prestazioni di particolare creatività, e, quello che più contava, la certezza che lui non avrebbe mai osato fiatare con chicchessia, meno che mai con Martinoni.

Mentre usciva dalla propria camera, ebbe un pensiero di auto-compiacimento per l’abilità con cui stava tendendo a Kesler quella specie di tranello. Era fiduciosa che lui non si sarebbe tirato indietro una seconda volta. Lo avrebbe sorpreso assonnato, e le prime ore del mattino, sapeva, erano le più favorevoli per cogliere un uomo nello stato d’animo adatto per un rapporto sessuale. Percorse il

corridoio in punta di piedi e sgattaiolò silenziosa nella sua stanza.

43

Kesler era in uno stato di dormiveglia, e trasalì al rumore della porta che si apriva e richiudeva. Scattò a sedere sul letto e accese l’abatjour sul tavolino da notte, ancor prima che Orietta muovesse alcuni i verso di lui.

“Orietta! Cosa diavolo ci fai qui?” le chiese stringendo gli occhi. Lei non rispose, ma gli si avvicinò e si sedette sul bordo del letto, dicendo: “Volevo ringraziarti per ieri sera, Paolo. Sei stato tanto buono con me.” Senza esitare si chinò su di lui e lo baciò a lungo sulle labbra con la lingua infilata in bocca. Lui assaporò il contatto morbido e liquido al gusto di menta della gomma americana che lei stava masticando. Non gli dispiacque affatto. Non fiatò neppure quando lei cominciò a sganciargli i bottoni del pigiama. Stupefatto, la lasciò fare nel rendersi conto di essere tutt’altro che insensibile a quella iniziativa, e che poteva liberarsi di lei soltanto cacciandola con la forza. Ma gli mancava la volontà di farlo.

Orietta gli esplorava il corpo muovendo le agili mani in silenzio, e con l’abilità di quella donna fin troppo navigata che era. Così facendo, si accorse che lui aveva in corso un’intensa erezione. Sor-rise compiaciuta, e continuò fino a quando si alzò bruscamente in piedi e si sfilò la vestaglia lasciandola cadere a terra: era completamente nuda. Lui la osservò pensando che non fosse affatto male, e, sovreccitato com’era, scostò la coperta e si mosse di lato per fare spazio nel letto: un gesto per invitarla a stendersi al suo fianco. Lei non esitò ad accogliere l’invito. Trascorsero alcuni minuti scanditi da respiri ansimanti. Poi Kesler, incapace di attendere oltre, si spogliò in tutta fretta e si girò sopra di lei. Orietta gli andò incontro inarcando il bacino mentre divaricava le gambe. Poi le sollevò più che poté avvinghiandogliele ai fianchi, per permettergli una penetrazione totale. Lui spinse a fondo, provocandole un forte sussulto accompagnato da un gridolino che Kesler non riuscì a capire se era di sorpresa o di piacere. Quindi cominciò a muoversi dentro di lei con un ritmo parossistico, sostenendo il proprio peso con le braccia. Sembrava anelare al rapido raggiungimento dell’orgasmo, oppure volerle dimostrare che anche lui aveva

qualcosa di molto piacevole da offrirle.

Ma lei gli diede un colpetto sulla spalla, sussurrando: “Calmati… Fermati...” Kesler ubbidì e la guardò negli occhi con fare inter-rogativo. “Perché?”

“Mettiti supino e non ti muovere.”

Lui obbedì e lei, sollevatasi con una insospettata agilità felina, gli si mise a cavalcioni, e, con la perizia di una professionista, manovrò facendolo scivolare di nuovo dentro di sé. Mantenendo il busto eretto, cominciò a muoversi su e giù come una forsennata, quasi avesse ingaggiato una sorta di lotta titanica che avrebbe vinto soltanto con il raggiungimento del piacere. Agitava la testa alla stregua della folta chioma di un albero preda della bufera. La roteava, la gettava indietro, e poi avanti, facendo sì che lunghe ciocche arruf-fate della bionda capigliatura le ricadessero davanti agli occhi. A tratti le scostava con un rapido gesto della mano. Si ava la lingua sopra il labbro inferiore in modo irrequieto, la bocca dischiusa, la fronte imperlata di sudore. Lui prese a palpeggiarle i seni sballottanti, strizzandone con la punta delle dita i grossi capezzoli color fragola, fino a farglieli indurire come due noccioline. Lei gemette per il dolore. “Non così, caro. Mi fai male. Sii più gentile, ti prego.”

Allora lui abbandonò i seni e la afferrò per le natiche, accompagnandola nel movimento, come per aiutarla nella fatica.

Inspirando ed espirando, Kesler pensò ironicamente che si stava scopando nientemeno che la donna di colui che fino a poco tempo addietro considerava il suo migliore amico. Prima, cioè, di quella sua infelice decisione di darsi alla politica.

Ora capiva perché Martinoni riusciva a sopportare, ma non senza criticarla, quella donna insipida e dal linguaggio insulso. Ricordò che gli aveva spesso detto, ridacchiando, che in compenso era dotata di superbe qualità nascoste. Ora si rese conto che cosa intendesse e che non poteva dargli torto.

Kesler raggiunse l’orgasmo qualche secondo prima che lei – emettendo un gemito acuto e prolungato, accompagnato da una sorta di convulsione epilettica – esclamasse: “Oddio Paolo! Sto venendo!” Poi si afflosciò su di lui alla stregua di un pallone bucato che si sgonfia improvvisamente, una espressione di estasi disegnata sul viso, ma che era in realtà di autocompiacimento per la perfetta finzione di cui era stata capace. Rimasero a lungo in silenzio, supini, il respiro lievemente affannato. A un tratto Kesler ebbe un lampo di ispirazione. Pensò che se fosse riuscito a manipolarla in un certo modo, poteva farne una preziosa alleata contro sca – se pure inconsapevole –, di cui servirsi per facilitargli la realizzazione di quel piano che aveva in mente per sopprimerla.

“Gesù”, Orietta sussurrò, “erano anni che non mi capitava niente di simile. Sei una bomba atomica, caro…”

“E tu sei un vulcano in eruzione”, lui replicò. “Ma sai anche essere tanto dolce. Mi piaci, Orietta. Mi sei sempre piaciuta. Solo che non mi si era mai presentata l’opportunità per dimostrartelo.”

“Lo so, tesoro, lo stesso vale per me.”

Si rese conto di aver acquisito un grande potere su di lui, e ne provava esultanza. Disse:

“Se Ugo lo venisse a sapere, mi ucciderebbe.” Fece una pausa. “Anzi, ci ucciderebbe.”

Nella semioscurità della stanza, Kesler sorrise. Ecco, lo ha fatto per tapparmi la bocca su quanto è accaduto ieri sera, pensò. Dopo tutto, non è così tonta come sembra. Ora era più fiducioso che il suo piano avesse ottime possibilità di successo. Avvertì una lieve irritazione per se stesso per non averci pensato prima.

“Sei una pazza matricolata”, le disse. “Hai corso un grosso rischio venendo da me.” Le accarezzava gli enormi seni, la voce dal tono intimo e suadente. “Ma sono felice che tu lo abbia fatto, sai?”

“Anch’io”, lei mormorò. “N’è valsa la pena. Hai un modo eccezionale di farlo.”

Lui rise sommessamente. “Me lo dicono tutte. Ma anche tu non scherzi, se è per questo.” Si voltò a guardarla. “Di’ un po’…, desideri veramente sposare Ugo, non è così?”

La domanda la colse alla sprovvista, e per qualche secondo non rispose. Avrebbe preferito che lui la smettesse di palpeggiarle i seni mentre parlavano. Le rendeva difficile la concentrazione.

“Altroché…”, disse alla fine. “E’ la cosa che desidero più di ogni altra al mondo.” Lui sembrò meditare per qualche attimo prima di dire: “Lo so, ma mi sembra di capire che sca non la veda di buon’occhio.”

“Cosa?” Apparve sorpresa. Gli tolse la mano dal seno e si drizzò a sedere. “Ma che dici, Paolo? Perché mai dovrebbe essere contraria?”

“Mah…”, disse pensieroso, “…non posso che stare ai fatti. Ieri sera vi ha interrotti sul più bello, e credo che lo abbia fatto con un scopo preciso.”

“Quale?”

“Sapeva che saresti andata da lui, e aveva intuito che avresti giocato le tue carte migliori per strappargli la promessa di matrimonio. Quindi, deve aver fatto in modo di arrivare in tempo prima che ciò accadesse.”

“Mi ha detto che doveva vederlo con urgenza. Ho pensato a questioni di lavoro.”

“Con urgenza?” Fece un sorrisetto. “Sì, certo, era urgente ciò che doveva dirgli. Ho il fondato sospetto che quando lui ti ha sbattuto fuori, lei lo ha affrontato a muso duro per convincerlo che l’idea di sposarti era pura follia.” Si interruppe per alcuni secondi. “Chissà la merda che ha tirato fuori su di te per dissuaderlo dal prendere una simile decisione.”

“Ma perché, Paolo? Perché a sca non dovrebbe andare a genio che io sposi suo zio? Ne abbiamo parlato qualche volta, e non ho mai colto dell’ostracismo nei miei confronti.”

Lui si girò su un fianco verso di lei, e si sollevò puntellandosi su un gomito. La fissò, dicendo: “Andiamo, Orietta, scendi dalle nuvole! Non puoi essere così

ingenua... Lei è una grande attrice. E’ una questione di denaro, capisci? Cos’altro sennò?”

“Stai cercando di dirmi che…”

“…che non le va giù l’idea di dover spartire anche con te, oltre che con i cugini, l’immensa torta dell’eredità. Mi risulta che Ugo abbia già fatto testamento assegnandone a lei, l’unica amata nipote, una grossa fetta. Forse persino più grossa di quella che ha riservato ai propri figli.” Si interruppe. “sca teme di vederla ridotta di svariati milioni di euro se tu dovessi diventare sua moglie, senza contare il rischio che potrebbe addirittura decidere di modificare il testamento destinandoti la parte del leone dell’intero asse ereditario.”

“Non riesco a crederlo”, lei disse amareggiata scuotendo lentamente la testa. “Tu sai che sono già ricca di mio, Paolo. Me ne infischio del suo denaro.”

“Sì, lo so, ma credo che lei non la pensi allo stesso modo. E sono anche convinto che escluda che tu sia motivata da un sincero sentimento amoroso.”

“Amore?” Fece una risatina cinica. “Non conosco il significato della parola.”

“E allora cos’è?”

“Non riesci a immaginarlo?” Rise di nuovo in modo beffardo. “E’ la voglia di uscire dal cono d’ombra in cui mi tiene relegata, Paolo. Di farla finita con il ruolo della puttana di lusso a telecomando. Che significa essere sempre pronta a

precipitarmi nella sua camera da letto quando suona il cicalino. Non è giusto. Sento di avere il diritto di stare al suo fianco sotto i riflettori. Non credi?” Kesler annuì stupefatto, dicendo: “Ti capisco.” Altro che sciocca e insipida, pensò. Quella donna aveva le idee molto chiare su ciò che veramente voleva. Rimasero in silenzio per qualche minuto. Poi lei disse: “Comunque, i tuoi non sono che sospetti. Non hai alcuna prova.”

“Eppure la prova ce l’ho”, replicò serio. “E’ stata sca a confidarmi più volte il suo timore. Oh, ma bada bene, non è che tu non le piaccia. Questo non lo ha mai detto. Non ha niente in contrario che lui mantenga il rapporto con te, ma senza legalizzarlo. Non devi pensare, Orietta, che si tratti di antipatia personale. Come ho detto, è soltanto una questione di interessi.”

“Capisco…”

Orietta annuì fremente di rabbia. La sua mente era alla ricerca degli epiteti che più si addicessero a Ugo Martinoni, sca, e persino a se stessa per essersi fatta abbindolare da quella che ora – se fosse stata lì presente – non avrebbe esitato a insultare etichettandola come una gran puttana, oltre che stronza. Aveva sempre ritenuto che fosse almeno neutrale in quella estenuante battaglia che stava conducendo da lungo tempo per procurarsi un certificato di matrimonio da quel vecchio bastardo.

“Che cosa devo fare, Paolo?” Si voltò a guardare Kesler con fare interrogativo. “Se lei si mette di traverso, non ho speranza...” Il tono era pieno di rancore.

“Calmati”, le disse stringendole una mano. “Posso cercare di aiutarti”, aggiunse attirandola a sé. Il suo appetito sessuale era ormai evaporato, ma si rese conto che Orietta era il tipo di donna per la quale essere coccolata dopo un rapporto era una necessità. Oltre che rafforzarle l’autostima, le calmava i nervi. Prese ad

accarezzarle i capelli come farebbe un domatore con la criniera di un cavallo selvaggio.

“Come?” gli chiese.

“Tu sai che sono in grado di esercitare una notevole influenza su Ugo.” Continuava a carezzarla mentre parlava, anche se il gesto non aveva alcun effetto su di lui. Il suo corpo era ormai freddo e distaccato. “Naturalmente, non ho idea di cosa sca possa avergli detto ieri sera. Ma se, come ho motivo di sospettare, l’argomento sei stata tu, forse lo scoprirò parlandogli. Magari riesco a spendere più di qualche parola per perorare la tua causa.”

“Oh, Paolo…” Trasse un profondo sospiro. “Se lo fi, te ne sarei estremamente grata. E sta’ certo che saprei come sdebitarmi.” Sorrise maliziosa. “Potrei farti trascorrere dei momenti di piacere, come mai ne hai sperimentati in vita tua.”

Lui ignorò la promessa, ma disse: “Ho bisogno di un urgente faccia a faccia con Ugo. La mia unica possibilità è a colazione. Scenderà sul tardi per farla, e io mi unirò a lui come di consueto quando sono in villa. Bisognerà che tu e Orietta non siate presenti, naturalmente.” Parve riflettere. “Ascolta…, ho un’idea. Ecco quello che devi fare.” C’era una nota autoritaria nella voce. “Va’ da lei e invitala cordialmente in piscina a fare una nuotata. Dille che ne hai una gran voglia. Comportati in modo naturale. Trattienila lì il più a lungo possibile, e in ogni caso fino a quando avrò avuto modo di parlare con Ugo. D’accordo?” Orietta apparve perplessa. “Non l’ho mai fatto prima, e pertanto potrebbe sembrarle strano. Sa bene che non sono tanto portata per il nuoto.”

“Già. Ma lei ne va matta, e sono certo che non rifiuterà.” Si interruppe per qualche secondo. “Comunque, potresti trovare un pretesto. Dille che hai

qualcosa di molto importante di cui parlarle, ma preferisci farlo in un luogo appartato.”

“Non ho la più pallida idea di cosa inventarmi.”

“Spremi le meningi.”

“D’accordo”, lei sussurrò fissandolo nella intensa penombra. “Farò del mio meglio.”

“Il tuo meglio non basta, Orietta”, lui ribatté brusco. “Lo so che sarà dura fare buon viso, ma devi riuscirci se non vuoi rischiare che lui ti ordini di fare fagotto oggi stesso. Ieri sera sca potrebbe avergli detto le cose più infamanti sul tuo conto. Ma non ne siamo certi. Spetterà a me sondarlo per cercare di scoprirlo, e, in caso affermativo, spiegargli che si tratta di menzogne.”

Allungò una mano verso il comodino per accendere l’abatjour e guardare l’ora. “Si sono fatte le nove mezza”, disse. “Il tempo è volato. Su muoviti, esci di qui e va’ da lei. E ricorda: tutto dipende da te, ora. Restate in piscina mentre faccio colazione con Ugo. Sarò io a farmi vivo con te.”

“Farò come dici, Paolo”, lei disse. “E’ ingiusto che lei cerchi di fottermi dopo che sono anni che mi impegno per raggiungere il mio obbiettivo. Ora sento che con il tuo aiuto posso farcela.”

Si alzò, indossò la vestaglia e andò alla porta. Prima di aprirla si voltò a

guardarlo sorridendo. Disse: “Possiamo ancora divertirci io e te, Paolo. Vedrai… saprò ricompensarti.”

Lui la osservò pensando che il corpo non fosse tutto sommato da buttare, anche perché la tecnica con cui sapeva usarlo era superba. Purtroppo, però, neppure la semioscurità della camera riusciva a celare il decadimento del volto. Quando fu uscita, Kesler si alzò, entrò in bagno e si infilò nella cabina della doccia. Restò a lungo a crogiolarsi sotto il getto violento col capo chino, godendosi la piacevole sensazione dell’acqua tiepida che gli scorreva lungo la schiena. Poi si infilò un morbido accappatoio con cui prese a strofinarsi vigorosamente.

Con calma e la sua abituale attenzione ai dettagli, rifletteva sul suo piano.

Avvicinare Martinoni era l’ultima cosa che desiderava fare. Era certo che Orietta sarebbe riuscita a portare sca in piscina. Trascorso un certo intervallo di tempo lui avrebbe agito, e, con un sotterfugio, avrebbe fatto in modo che sca vi restasse sola.

Allora avrebbe avuto il campo libero per ucciderla.

44

Sergio buttò le gambe giù dal letto, si alzò in piedi e andò alla finestra. Scostò la tendina per lanciare una occhiata al marciapiede deserto davanti all’ingresso dell’alberghetto. Come si aspettava, il suo angelo custode era lì, immobile, a leggere il giornale seduto sulla panchetta sotto la pensilina della fermata del ‘bus, come fosse in attesa del mezzo pubblico. Riconobbe il tipo dall’aspetto poco rassicurante, che due ore prima lo aveva pedinato quando era uscito per andare a telefonare alla Bank of Beirut. Era molto basso, barbuto, con una lunga capigliatura corvina legata sulla nuca a coda di cavallo. Era strano, pensò, che non lo avessero ancora sostituito.

Appena rientrato in camera, si era disteso sul letto a riflettere e a fumare, lo sguardo puntato al soffitto. Neppure per un istante riusciva a distogliere la mente dal pensiero di Tanya e dalla tragica sorte che le era toccata. Il senso di colpa per esserne stato la causa, se pure involontariamente, e il desiderio spasmodico di vendicarla, continuavano a rodergli dentro. Era venuto meno alla promessa di proteggerla, fatta a lei e a se stesso quel giorno in cui le aveva consentito di entrare nella sua casa, e nella sua vita. L’immagine di lei, nitida così come l’aveva vista l’ultima volta prima di partire, prese corpo nella sua mente: era in lacrime accasciata sul divano, quando se n’era andato. Quel ricordo lo avrebbe accompagnato per il resto dei suoi giorni.

Pensò che il terrore e il panico dovevano averla assalita nel momento in cui, rincasando, era stata aggredita dal suo assassino. L’aveva brutalmente violentata, senza farsi il minimo scrupolo di infierire con inaudita ferocia su un essere inerme e indifeso. Quindi, le aveva serrato il cappio alla gola, e quello era stato di certo l’attimo in cui aveva capito di essere spacciata.

Aveva visto la morte in faccia, che doveva essere stata straziante.

Sergio sapeva che lo strangolamento col cappio è uno dei sistemi più lenti e dolorosi per togliere la vita a un essere umano. Un vero supplizio, con un’agonia che si può protrarre per alcuni minuti. La immaginò sul letto a lottare con tutte le sue forze contro il suo assalitore, contorcendosi e scalciando nel vano tentativo di divincolarsi, le mani al collo per cercare di allentare la forte trazione che il sicario esercitava sul cappio, il volto divenuto cianotico, gli occhi che sembravano sul punto di schizzare dalle orbite. Alla fine dove-va essersi arresa accasciandosi esausta. Sergio era sicuro che il suo ultimo pensiero era stato per lui.

Lasciò andare la tendina e si mise a sedere sulla sponda del letto. Erano trascorsi due giorni da quando alloggiava in quell’albergo, senza che nessuno si fosse ancora fatto vivo. Ora dopo ora, l’attesa si faceva sempre più snervante. Prese una sigaretta e se la mise tra le labbra. Stava per accenderla con un fiammifero, quando trasalì e bloccò il gesto a mezz’aria: avevano bussato alla porta con tocco lieve. Si alzò bruscamente in piedi con il fare guardingo di chi è abituato a mettersi in allerta al benché minimo segnale di un potenziale pericolo. Posò la sigaretta spenta sul comodino.

“Chi è?”

“C’è qui qualcuno che desidera vederla.” Di là dalla porta gli giunse la voce del portiere. “Le spiace aprire?”

Sergio girò la chiave nella serratura e aprì. Il giovane obeso e occhialuto riempiva con la sua enorme mole l’intero vano della porta. Quando si scostò, l’uomo che sostava alle sue spalle fece due rapidi i ed entrò nella stanza, reggendo nella mano destra una valigia di tela scozzese di medie dimensioni. Nello stesso istante in cui Sergio posò gli occhi su di lui il cuore gli fece un balzo in gola.

L’assassino e stupratore di Tanya!

Aveva ben pochi dubbi che non si trattasse della stessa persona. Il suo aspetto fisico corrispondeva in tutto e per tutto alla descrizione che gliene aveva fatta Benazir a telefono alcune ore prima, sulla base delle notizie di stampa e dei servizi televisivi libanesi. Un gio-vane sulla trentina, gli aveva detto, molto alto e nerboruto, occhi chiari, capelli biondi tagliati a spazzola. Era stato visto aggirarsi nei dintorni dell’edificio alcuni giorni prima della scoperta del cadavere della ragazza. Il taglio dei capelli era un importante segno distintivo, e il fatto che ora fosse lì per parlargli – e Sergio era certo di sapere di che cosa –, era un’ulteriore conferma, se ce ne fosse stato bisogno, della sua identità. Serrò i pugni, ed enorme fu lo sforzo per non obbedire al forte e immediato impulso di avventarsi su di lui attaccandolo frontalmente. Riuscì a controllarsi nel rendersi conto che ingaggiare subito una lotta con quell’uomo, poteva rivelarsi un grave errore. Era vicino ai due metri di altezza, il fisico asciutto e muscoloso del palestrato, mentre Sergio superava di poco il metro e settanta. Se pure anch’egli in ottima forma, non era detto che in uno scontro fisico avrebbe avuto la meglio. Ma anche se fosse riuscito a sopraffarlo e ucciderlo – e lì per lì non aveva idea con quale mezzo –, non sarebbe andato lontano. Appena messo il naso fuori dall’ingresso dell’albergo sarebbe stato fatto segno di colpi di pistola da parte dell’altro sicario.

Quindi, doveva procedere con cautela. Non era forse questo il comportamento che, alcune ore prima, si era ripromesso di adottare con l’uomo che gli si sarebbe presentato con le istruzioni su come eseguire l’incarico? Si era detto che lo avrebbe ascoltato attentamente fingendo di assecondarlo per non insospettirlo. Solo in seguito avrebbe deciso il da farsi. Era pur vero, però, che quando aveva aperto la porta, mai e poi mai si sarebbe aspettato di trovarsi davanti proprio l’assassino, nonché stupratore, di Tanya. Una sorpresa che era stata sul punto di innescare una sua istantanea e violenta reazione, prima che la ragione lo inducesse a più miti consigli.

Il custode obeso salutò e se ne andò chiudendosi la porta alle spalle. Il Biondo guardò Sergio e si portò l’indice alle labbra come per intimargli il silenzio. Poi incollò l’orecchio alla porta e rimase in ascolto fino a quando il rumore dei i pesanti del giovane che si allontanava, prima lungo il corridoio e quindi giù per le scale, non si spense del tutto.

Si voltò, quindi, a guardare di nuovo Sergio rivolgendogli, questa volta, un largo sorriso accattivante. “Le precauzioni non sono mai troppe”, disse. “In una topaia come questa, non mi stupirebbe che anche i muri avessero le orecchie.” Fece una pausa. “Sarà bene che parliamo a bassa voce. Non si può mai sapere...” Si avvicinò al letto per deporvi la valigia. Trascorsero alcuni secondi durante i quali i due parvero soppesarsi a vicenda con lo sguardo.

Il giovane biondo dai capelli a spazzola, indossava un giubbotto di cuoio marrone stinto dal sole sopra un dolcevita nero e dei jeans celesti; calzava mocassini di pelle chiara.

“Fuma?” Gli porse un pacchetto di Dunhill, ma l’altro scosse la testa in diniego. Al Biondo non sfuggì la tensione e l’espressione sospettosa sul volto di Sergio, che continuava a tenere le mani ser-rate abbandonate lungo i fianchi.

“Si rilassi”, gli disse. Si accese una sigaretta e inalò la prima boccata. “Si rilassi”, ripeté. “Altrimenti mi trasmette il suo nervosismo, e questo non ci aiuta.”

Sergio non fiatò.

“Anch’io, come lei, ho qualcosa di molto importante di cui occuparmi”, l’altro

continuò. “Si potrebbe dire, con una metafora, che siamo nella stessa barca, anche se con ruoli un tantino diversi. Che ne direbbe, allora, di darci del tu?” Sergio notò l’impeccabile italiano, non privo tuttavia da quella che gli parve una lieve inflessione del se.

“E perché no?” rispose. “E speriamo che la barca non affondi.”

L’altro fece una risatina ironica.

“Se succedesse, saresti tu ad annegare, dal momento che io sono provvisto di salvagente.” Si portò la sigaretta alle labbra e trasse un’altra lunga boccata. “Ma non accadrà se farai bene la tua parte, attenendoti scrupolosamente alle istruzioni che sto per arti.”

“Istruzioni di Paolo Kesler, immagino”, Sergio azzardò.

Il Biondo aggrottò la fronte come per frugare nella memoria. “Mai sentito questo nome”, mentì.

“Immagino che tu non voglia dirmi chi è il tuo datore di lavoro, giusto?”

L’uomo fece una smorfia, e lo sguardo si fece improvvisamente ostile. “E’ cosa che non ti riguarda”, disse. “Devi soltanto preoccuparti di fare quello per cui sei pagato. Tutto qui.”

Sergio annuì. “D’accordo, ti ascolto.”

Il Biondo estrasse un foglio piegato in quattro da una tasca interna del giubbotto e glielo porse. “Toh.”

“Cos’è?”

“Dacci un’occhiata, e poi ne parliamo.” Sergio annuì, sedette sul bordo del letto e lo dispiegò davanti a sé. C’era disegnata a matita quella che aveva tutta l’aria della planimetria di un vasto edificio, ma non aveva la minima idea di che genere. Si mise a studiarlo brevemente, avvertendo lo sguardo indagatore dell’altro posato su di sé. Disse: “Si direbbe la pianta di una grande costruzione, ma vista così è impossibile identificarla.”

“Hai ragione, è impossibile. Te lo dico io cos’è: è la pianta della Basilica di Sant’Ambrogio. La conosci?”

“Abbastanza.”

Sergio ricordò di averla visitata qualche volta da ragazzo, in gruppo con i compagni dell’orfanotrofio, ai tempi in cui ne era o-spite.

Il Biondo fumava nervosamente con brevi boccate ravvicinate, emettendo piccoli sbuffi, e continuando a guardare Sergio con occhio critico, come se lo valutasse.

Aveva mentito poco prima quando aveva affermato di non aver mai sentito il nome di Kesler. Anche lui faceva parte di quella rete spionistica internazionale di stampo comunista di cui Reynaud era il capo assoluto, ma a un livello molto inferiore. Non avrebbe potuto conoscere Kesler personalmente dato che questi si collocava ai vertici della scala gerarchica. I rapporti tra loro erano limitati a scambi di sms in codice. Ciò non toglieva che il Biondo era un importante ingranaggio della macchina operativa, nel ruolo di esecutore materiale di ordini, sulla cui finalità quasi sempre non gli era concesso di essere informato.

Contribuiva alla realizzazione dei progetti agendo come killer professionista, un’attività di cui aveva una grande esperienza ata, diversamente da Sergio che per la prima volta si trovava a dover uccidere per ristrettezze economiche. Quando c’era qualche omicidio complesso o sofisticato da compiere – come lo erano stati quelli del mediatore libanese e della ragazza palestinese –, era lui che Reynaud puntualmente convocava. Questi si era limitato a informarlo che il successo di quel piano ora in ballo, era di vitale importanza per l’organizzazione, evitando deliberatamente di scendere nei dettagli. Aveva comportato l’ingaggio all’estero di quell’uomo che ora gli stava di fronte, per ragioni che, anche in questo caso, il suo capo non gli aveva specificato.

Ma di una cosa il Biondo era certo: quel lavoro non avrebbe potuto essere assegnato a lui, dato che le istruzioni di Reynaud erano che il killer, appena colpito il bersaglio, doveva essere a sua volta prontamente soppresso, e che di quest’ultima incombenza doveva essere lui a farsi carico.

Sergio osservò numerosi punti sul disegno contrassegnati in rosso con X, freccette o cerchietti. Nella parte superiore era stato tracciato un ampio rettangolo e sotto di esso un cerchio rosso.

E’ nella basilica che dovrai colpire il tuo bersaglio”, il Biondo disse.

Sergio annuì. “Questo l’ho capito.” Fece una pausa. “Ma ora spiegami che cosa rappresentano tutti questi segni.”

Il Biondo, gettò il mozzicone della sigaretta sul pavimento e lo schiacciò con la punta di una scarpa. Quindi si sedette a sua volta sulla sponda del letto. Lo fissò intensamente, dicendo:

“Non credi sia meglio che ti dica anzitutto chi è?”

“D’accordo.”

“Di’ un po’… Non è che ti faresti per caso qualche scrupolo per via della sua identità?” La domanda aveva un tono amichevole.

“Non ti capisco”, Sergio disse. “Perché dovrei? Sono pagato per fare fuori qualcuno, no? Cosa vuoi che me ne freghi di chi si tratti.”

“Okay.” Il Biondo annuì lentamente. “Domani è il sette dicembre, ed è la ricorrenza della nascita di sant’Ambrogio, il patrono della città. E’ una festa molto importante, e nella basilica a lui consacrata sarà celebrata una messa solenne, detta pontificale in quanto a officiare sarà, come ogni anno, il Cardinale Angelo Losito, l’Arcivescovo di Milano.” Lo fissò ancor più intensamente. “Quello è l’uomo che dovrai colpire.”

Sergio si accigliò improvvisamente, colpito dalla notizia. Al Biondo non sfuggì il mutamento di espressione, e quindi di umore.

“Mi sbaglio o ti turba che sia un religioso, e per di più un alto prelato?” gli chiese.

“Ti sbagli.” Abbozzò un sorriso. “E’ solo che mi fa un certo effetto poiché, guarda caso, l’ho visto in televisione alcune sere fa.”

Ricordò di averlo visto assieme a sca, concedere una intervista a una rete privata alcune sere prima. Gli tornarono alla mente le parole lusinghiere con cui la ragazza si era espressa sul suo conto, i fragorosi e prolungati applausi che il pubblico – condividendo le sue idee – gli aveva tributato. Uno strenuo difensore dei poveri e dei diseredati era la definizione più comune che di lui circolava, sca gli aveva detto. Ma rammentò, anche, la sua precisazione che tra il Cardinale e suo zio non correva buon sangue. Che l’Arcivescovo era quanto mai critico nei confronti del Magnate per il fatto che fosse entrato in politica candidandosi alla guida del Paese. L’iniziativa non gli andava proprio a genio, e la vedeva come una grande anomalia e ingiustizia sociale. Erano sentimenti ampiamente noti in quanto il Cardinale non si faceva alcuno scrupolo di esternarli pubblicamente a ogni occasione favorevole, pur senza mai citare esplicitamente Martinoni.

Era allora verosimile, Sergio si chiese, che fosse proprio Martinoni il mandante dell’omicidio dell’Arcivescovo il quale gli stava procurando un deterioramento di immagine nella imminenza della campagna elettorale? Ed era possibile che sca ne fosse total-mente all’oscuro? Ma scartò subito l’ipotesi giudicandola troppo semplicistica per poter essere fondata.

Martinoni non poteva essere tanto sprovveduto al punto di non intuire che un attentato alla vita di Losito in quel momento, avrebbe anzitutto gettato un’ombra di forte sospetto sulla sua persona. Ne avrebbe tratto solo gravi danni e nessun vantaggio. Forse, pensò, era proprio questo il risultato che i veri mandanti,

ideatori di quel disegno omicida e nemici acerrimi di Martinoni, intendevano perseguire.

“Allora non hai obbiezioni, giusto?” il Biondo gli chiese.

“Nessuna. Ma avrei una domanda che mi sorge spontanea.”

“Sarebbe?”

“Chi potrebbe desiderare la morte del Cardinale, e per quale ragione?”

“Fai troppe domande, amico”, gli rispose facendo una smorfia di rabbia. “Non posso che risponderti alla stessa maniera di prima, che in parole povere significa che devi farti i cazzi tuoi, capito?”

Per non sminuirsi di importanza, si guardò bene dal dirgli che ne sapeva quanto lui: Reynaud non gliene aveva fatto il minimo accenno.

“Va bene, ma non c’è ragione che ti scaldi”, Sergio replicò in tono conciliante. “Ora dimmi come devo operare.”

In quel momento, venne un bip di ‘messaggio ricevuto’ dal cellulare che il sicario portava in una tasca del giubbotto. Lo estrasse e si alzò in piedi accostandosi alla finestra per leggere l’sms. Digitò in fretta la risposta, e poi tornò a sedere sul bordo del letto, un vago sorriso che gli aleggiava sulle labbra.

Sergio sospettò che doveva essere stato il suo capo a inviarglielo, per informarsi su come procedeva il piano.

“Questo…”, il Biondo disse facendo scorrere una mano sul foglio per distenderne le grinze, “…è un disegno approssimativo della pianta della basilica, che io stesso ho tracciato sulla base di alcune mie recenti ricognizioni. Potrà servirti da guida per muoverti più agevolmente al suo interno, dal momento che vi ho indicato alcuni punti strategici di riferimento. Quindi, sarà opportuno che tu lo studi con attenzione, sì da imprimertelo bene nella mente.” Si inter-ruppe per qualche secondo. “A proposito, hai idea dell’abbigliamento di un Cardinale quando celebra messa.”

“Sì, grosso modo. Sono certo che vesta di rosso o di bianco.”

“Sì, esatto. Quando veste di rosso somiglierebbe a Babbo Natale, se portasse baffi e barba.” Rise in modo stridulo, ma non sguaiato. “Ma ora torniamo alla pianta. Come puoi osservare, lo schema essenziale della basilica è a tre navate con abside.” Poi disse puntando un dito sul foglio: “Questo è l’ingresso principale”. Un brevissima pausa. “Vi si arriva dalla piazza dopo aver percorso un lungo atrio porticato al quale si accede varcando un cancello di ferro battuto.” Lo indicò sulla pianta.

Sergio annuì. “Lo so.”

“Bene.” Trasse un profondo sospiro. “Ora entriamo nel vivo del discorso. Tu entrerai nella basilica, che sarà piena come un uovo di fedeli, andando a posizionarti qui.” Indicò con l’indice un punto nella navata sinistra non molto distante dall’altare, accanto a uno degli enormi pilastri. “Te ne spiegherò poi la

ragione. Questo piccolo riquadro in alto a destra rappresenta la porta della sagrestia, ma non sono certo che sia da lì che il Cardinale farà il suo ingresso. Non ha importanza, lo vedrai da te. Il suo sarà un ingresso teatrale. Indosserà i paramenti sacri, bianchi credo, e camminerà al centro di una processione di almeno una ventina di alti prelati, anch’essi sontuosamente abbigliati.” Sorrise. “Dopo i preliminari, avrà inizio la funzione vera e propria. Nel momento in cui dovrà pronunciare l’omelia, l’Arcivescovo si alzerà da una specie di trono situato davanti all’altare fatto di oro, argento e pietre preziose, e, mossi alcuni i andrà a sostare, rivolto ai fedeli, davanti a un microfono a stelo lungo.” Indicò un cerchietto sul disegno, un po’ sotto l’altare. “Ecco, è esattamente in questo punto che andrà a posizionarsi. Mi segui?”

“Certo.”

“Ora torniamo alle tre navate”, disse facendo scorrere l’indice verticalmente sulla pianta per indicargliele. “Come vedi quella centrale, la più larga, è fiancheggiata da enormi pilastri che ho raffigurato con quei cerchi rossi. Sono otto su ciascun lato.” Glieli indicò. “Sulla navata di destra si affacciano sei cappelle dedicate ad altrettanti santi, tutte chiuse da cancelletti in ferro battuto. Vedi? c’è un quadratino per ciascuna di esse.”

“Vieni al sodo e dimmi da dove dovrò sparare”, Sergio disse impaziente. “Non mi dirai, spero, che dovrò farlo stando allo scoperto in mezzo alla folla dei fedeli…”

“Niente affatto.” Tacque per accendersi un’altra sigaretta. “Sta’ tranquillo avrai un ottima copertura.”

“Vale a dire?”

Il giovane palestrato non gli rispose subito, ma disse:

“Concentra la tua attenzione sulla navata di sinistra, e osserva quei tre cerchietti allineati a ridosso della parete.”

“Che cosa sono?”

“Altrettanti confessionali.”

“Ah.”

“E’ dall’interno di uno di essi che dovrai fare fuoco.”

“Capisco.” Sergio annuì. L’altro riprese: “Per la precisione, è il secondo confessionale a partire dall’ingresso principale.”

“Perché proprio il secondo?”

“Perché è l’unico dal quale potrai avere il Cardinale nel tuo campo visivo, se pure parzialmente.”

“Parzialmente?”

“Sì, purtroppo. Il tuo non sarà un compito facile, e la tua grande abilità nella mira, di cui mi è stata data assicurazione, sarà messa a dura prova.”

“Spiegati meglio.”

“Certo. Il problema è rappresentato da questo pilastro…” indicò uno degli ampi cerchio, “…che si trova quasi di fronte al confessionale. Ostruisce, se pure non del tutto, la visuale del tuo bersaglio.” Così dicendo trasse di tasca una matita smangiucchiata a una estremità, e tracciò sul foglio una linea retta tra il confessionale e il cerchietto sotto l’altare: il punto da dove l’Arcivescovo avrebbe pronunciato il suo sermone. “Questa è la traiettoria del proiettile”, continuò. “Come vedi quasi sfiora il pilastro, e pertanto se sposti il tiro troppo a destra, anche di qualche millimetro, rischi di colpirlo. Alla stessa stregua, se miri troppo a sinistra, potresti mancare il bersaglio. A causa di quell’ostacolo, avrai nel mirino soltanto uno scorcio della figura del Cardinale. D’altro canto non c’è altra scelta visto che gli altri confessionali sono del tutto inadatti allo scopo: dal loro interno non è possibile neppure intravedere la zona del pulpito. Non so se sono stato chiaro.”

Sergio annuì pensoso, senza fiatare. “Ma c’è un ulteriore difficoltà”, il Biondo proseguì. “Per avere la certezza di ucciderlo, devi mirare alla testa. Ora, già risulta arduo piazzare un proiettile nel cranio di un uomo da una decina di metri di distanza, come nel nostro caso, figurarsi poi se la testa è solo in parte visibile. Il tuo target risulterà notevolmente ridotto. Infine, non è detto che il Cardinale se ne starà sempre perfettamente immobile mentre parla ai fedeli. Potrebbe muoversi, se pure in modo appena percettibile.” Lo fissò con aria interrogativa. “Che te ne pare?”

“Non vedo problemi. Da quella distanza, sarà per me come spa-rare a bruciapelo.”

“Me lo auguro per te.”

Sergio non replicò, ma disse: “E se il confessionale fosse occupato?”

“Saranno tutti vuoti, dato che durante la messa pontificale le confessioni non sono consentite.”

“Quindi, qualsiasi momento è buono dall’inizio della funzione, per introdurmi furtivamente nella cabina...”

“Non esattamente. Per ridurre il rischio di essere notato devi farlo non appena il Cardinale si accingerà a parlare. Tutti gli occhi saranno puntati su di lui, e nessuno volgerà lo sguardo altrove. Una volta all’interno, aspetta qualche minuto, giusto il tempo per mirare bene, e poi fai fuoco.” Si fermò a riflettere per alcuni secondi. “Ah, c’è un’altra importante precauzione da prendere.”

“Quale?”

“Quella del travestimento. Dovrai indossare un abito e un soprabito scuri, e infilarti un paio di guanti per non lasciare impronte sull’arma quando l’abbandonerai nel confessionale. Potrai acquistare il tutto in qualsiasi negozio di abbigliamento maschile. Nella valigetta troverai una camicia scura da sacerdote con già montato il collare di plastica bianco. Così vestito, sembrerai un prete in

tutto e per tutto, e pertanto i tuoi movimenti non desteranno sospetti.” Si interruppe per qualche secondo. “Una volta all’interno del confessionale, tira la tendina lasciando un spiraglio sufficiente per puntare.” Si fermò per qualche attimo. “Tenuto conto di quanto ti ho appena detto, dovrai valutare in fretta e con cura il momento giusto in cui premere il grilletto, e auguriamoci che non farai cilecca.”

“Non mi servono i tuoi suggerimenti, amico”, disse piccato. “Mi basta la fiducia che ho in me stesso.”

“Già. Ma devi sapere che se fallirai, non potrai avere una seconda chance.”

“Perché?”

“Perché quasi certamente ci saranno in giro dei poliziotti in borghese nella basilica. La sorveglianza sarà stretta, e riprovarci significherebbe esporsi al grosso rischio di essere pizzicato.”

“Comunque, non avrò bisogno di un secondo tentativo.” Prese la sigaretta spenta dal comodino e l’accese. Trasse una intensa boccata. Disse: “Spiegami piuttosto…, dopo come farò a venirne fuori?”

“Mantenendo la calma, anzitutto.”

“Questo non è un problema.”

“Scoppierà il finimondo nella basilica alla vista del Cardinale che crolla sul pulpito schizzando sangue e materia celebrale. La gente comincerà a urlare e alcuni si getteranno a terra per proteggersi da ulteriori spari. Ma grazie al silenziatore, nessuno riuscirà a capire da dove sarà partito il colpo. E’ probabile che un folto gruppo di fedeli si lancerà verso il Cardinale per soccorrerlo assieme ai prelati concelebranti, ma credo che la maggioranza, presa dal panico al sospetto di un attacco terroristico, cercherà di guadagnare l’uscita. Ci sarà una ressa incredibile di folla, che si muoverà disordinatamente spintonando e urtando, con l’unico scopo di uscire all’aperto nell’atrio porticato e raggiungere la piazza.” Il Biondo rimase in silenzio osservando Sergio.

“Immagino che allora potrò uscire dal confessionale e filarmela…”, l’altro disse.

“Sarà opportuno che tu attenda almeno quattro o cinque minuti prima di farlo: il tempo necessario perché le acque si calmino un po’. Quindi abbandonerai la pistola nella cabina, e ne uscirai facendoti trascinare dalla fiumana di folla che si dirigerà verso l’uscita. Ti raccomando di muoverti con calma e disinvoltura per non dare nell’occhio. Percorso l’atrio porticato e oltreato il cancello, ti ritroverai nella piazza.” Tacque per qualche attimo scrutandolo. “Ora, sei hai vissuto a Milano, come mi sembra di capire, saprai che il sette, otto e nove dicembre si tiene la fiera degli Obej Obej. L’intera piazza e le strade e stradine circostanti saranno stipate di bancarelle, chioschi e mercatini fino all’inverosimile. La moltitudine di gente sarà tale da formare una calca strettissima in cui ti immergerai. Non potrai che avanzare molto lentamente. Ma non importa. Quella è la migliore copertura possibile per la tua fuga. Per chiunque dovesse darti la caccia sarebbe come cercare il proverbiale ago nel pagliaio. Raggiunta via Meravigli, la folla si sarà diradata e potrai procedere speditamente. Da lì a piazza Cordusio c’è un quarto d’ora circa di strada a piedi. Noleggia un taxi al posteggio permanente sulla piazza, e raggiungi Linate. Nel primo pomeriggio, c’è un volo per Beirut della MEA Air Liban. Prendilo e tornatene a casa.”

“E’ tutto?”

L’altro scosse la testa. “No, c’è qualcos’altro. Il mio compito non si esaurisce con le istruzioni che ti ho appena impartito. Poi c’è la parte più impegnativa.”

“Ti ascolto.”

Il Biondo si alzò in piedi e si avvicinò alla finestra. Scostò la tendina per gettare una occhiata all’esterno.

“Ho l’incarico di non perderti di vista neppure per un attimo”, disse senza voltarsi “Osserverò i tuoi movimenti – soprattutto all’interno della basilica –, per tutto il tempo che ti sarà necessario ad assolvere il tuo compito. Dopodiché ciascuno di noi potrà andarsene per i fatti propri. Quindi ti consiglio di non farti venire in mente qualche trucco per tentare di squagliarti, saresti un uomo morto nello stesso istante in cui dovessi provarci. Chiaro?” Sergio annuì. “Fin troppo”, rispose mentre la sua mente rifletteva freneticamente. Era certo che il Biondo gli avesse mentito su come le cose dovevano svolgersi subito dopo l’uccisione dell’Arcivescovo. Il program-ma doveva essere ben diverso, e prevedeva che lui non sarebbe uscito vivo da quell’avventura. L’uomo aveva l’ordine di liquidarlo, così come aveva fatto con Hassan e Tanya. Ma in che modo? Lo avrebbe colpito dentro la basilica, o lo avrebbe atteso al varco fuori dalla stessa? Ricordò la sua raccomandazione di poc’anzi di attendere quattro o cinque minuti prima di uscire dal confessionale dopo aver centrato il bersaglio. Ecco, pensò, quello era un lasso di tempo più che sufficiente per consentirgli di avvicinarsi inosservato alla cabina e, nel pandemonio generale, freddarlo con un paio di colpi di pistola.

“Credo che questo sia tutto”, il Biondo dai capelli a spazzola disse voltandosi. “Non mi pare di aver dimenticato niente.”

“Eppure qualcosa ti è sfuggita”, Sergio disse con un sorriso.

L’altro lo guardò con fare interrogativo. “Sarebbe?”

“L’arma e il denaro.”

“Oh, hai ragione.” Si infilò una mano in tasca e ne trasse una chiavetta. La lanciò a Sergio che l’afferrò al volo. “Quella apre la valigia”, aggiunse indicandola con un movimento del capo. “Troverai tutto lì dentro compreso il biglietto aereo. Sono certo che sarai soddisfatto.”

Senza indugiare Sergio afferrò la valigia e, inserita la chiave nella serratura, la aprì sollevandone il coperchio. Vide anzitutto la camicia scura da sacerdote col collare di plastica bianca. La tirò fuori adagiandola sul letto. Riuscì appena a reprimere un moto di esultanza alla vista del denaro. La valigia era quasi colma di banconote nuove di zecca da cinquecento euro, raggruppate in mazzette vergini ordinatamente stipate. Le tirò fuori e le ammucchiò sul letto. Le contò rapidamente. Erano dieci da cento biglietti ciascuna per un totale di cinquecentomila euro: il saldo del suo compenso di un milione di euro.

“C’è tutto?” il Biondo chiese.

Sergio fece di sì con la testa senza dire una parola.

In un apposito comparto laterale della valigia, c’era la pistola: una Luger P 08 da otto colpi, munita di silenziatore. Era identica a quella che aveva usato a Beirut

nel test di mira, e si chiese se per caso non si trattasse della stessa arma. La prese ed estrasse il carica-tore dal fondo dell’impugnatura: era vuoto. C’era soltanto il proiet-tile in canna.

“Un solo colpo, quindi”, mormorò quasi a se stesso.

L’altro si strinse nelle spalle. “Un solo colpo.”

Nella tasca della parte interna del coperchio della valigia, Sergio trovò il biglietto aereo e gli diede una rapida scorsa.

“Allora c’è proprio tutto”, disse.

“Infatti”, il Biondo confermò. “Ci vediamo domattina nella basilica. Ricorda che la messa pontificale ha inizio alle dieci e mezzo in punto, e…” indugiò un attimo, “…che non ti perderò mai di vista.”

“D’accordo.” Sergio lo seguì con lo sguardo mentre usciva dalla camera chiudendosi la porta alle spalle.

“Maledetto figlio di puttana e assassino”, mormorò a denti stretti, lo sguardo torvo, i muscoli del volto contratti dalla rabbia. “Chissà che non riesca a farti la festa, brutto stronzo”, aggiunse col cuore che gli ardeva per la sete di vendetta.

45

sca era desta quando Orietta comparve sulla soglia della sua camera. Stava seduta sul letto, la nuca appoggiata alla testiera, intenta a sorbire il caffè che gli era stato appena servito insieme a delle briosce calde.

Malgrado fosse andata a dormire all’una ata – dopo aver lasciato Martinoni –, si era svegliata dopo un’ora e vano era stato il tentativo di riprendere il sonno interrotto. Non aveva fatto che girarsi e rigirarsi nel letto, ripercorrendo con la mente, più e più volte, i temi salienti della lunga conversazione avuta con suo zio la sera prima, soffermandosi in particolare sulla decisione tempestiva che aveva preso di rinviare di smascherare Kesler a quando questi avesse lasciato Villa Olga.

Ma quella notte, da una più attenta analisi della situazione, aveva finito per persuadersi del grave rischio che il suo gesto poteva – comunque andassero le cose – rappresentare per Sergio, l’uomo di cui era innamorata. Difficilmente sarebbe riuscita a evitare di tirarlo in ballo quando avesse rivelato a suo zio l’altra identità di Kesler.

Sarebbe stata costretta a raccontargli per filo e per segno tutto quello che aveva appreso da Leardo sul conto del suo braccio destro, compreso il forte sospetto dello 007 che stesse tramando contro di lui ed elaborando un piano criminale idoneo a screditarlo pubblicamente e irrimediabilmente, sì da sollevare nei suoi confronti una indignazione popolare tale da costringerlo a ritirarsi dall’agone politico e dalla competizione elettorale.

Era naturale che Martinoni avrebbe, a quel punto, capito l’inganno di Kesler, e cioè che dietro il suo suggerimento di reclutare Sergio in Libano si celava ben

altro scopo che quello della cessione di materiale fotografico compromettente per i suoi avversari politici, da usare all’occorrenza contro di loro in campagna elettorale.

Lei non avrebbe potuto esimersi dal confermarlo. Era certa che suo zio sarebbe andato in escandescenze accusandola di avergli taciuto tutto quello che sapeva, durante il colloquio della sera prima, e la avrebbe torchiata a dovere per saperne di più. Dato che si era lasciata scioccamente sfuggire di aver ospitato Sergio – inculcandogli così il sospetto di esserci andata a letto –, avrebbe dato per scontato che sapesse dove si nascondeva. Anche se glielo avesse decisamente negato, lui non le avrebbe creduto, e avrebbe mosso mari e monti per poterlo scovare e far arrestare, così come non avrebbe esitato a far incriminare Kesler. Si rese conto che, in quel momento, persino accennargli l’argomento sarebbe stato come avventurarsi su un terreno minato, per le gravi conseguenze che poteva comportare per il suo amante segreto. Si sorprese per non averci pensato prima. Concluse che, prima di assumere una qualsiasi iniziativa per incastrare Kesler, doveva anzitutto rivedere Sergio e costringerlo a rivelarle la vera natura dell’incarico per il quale era venuto a Milano. Se, come era quasi certa, si trattava di qualche azione che doveva compiere, pericolosa per lui e dannosa per suo zio, si sarebbe adoperata per dissuaderlo dal porla in atto. Avrebbe cercato di convincerlo a tornare a Beirut, o a fuggire da qualche altra parte.

Con Sergio lontano e al sicuro, avrebbe potuto tranquillamente riferire a suo zio tutto ciò che sapeva, restando indifferente alla sua reazione.

Alla vista di Orietta, le tornò in mente la triste scena a cui aveva assistito la sera prima nella suite di suo zio, e di cui la poveretta era stata vittima. Si sforzava di sorridere in quel suo consueto modo accattivante con cui sempre cercava di conquistarsi la simpatia e il consenso degli altri. Ma a sca non sfuggirono l’aria smarrita, il pallore del volto e gli occhi gonfi per il pianto.

“Ciao, Orietta!” le disse. “Vieni pure avanti. Sto facendo colazione. Prendi un

caffè?”

“No, grazie, cara. Ho già fatto colazione.”

Faceva del suo meglio per tenere fuori dal suo sguardo il rancore che avvertiva, e per conferire alla sua voce un tono il più gradevole possibile. Si sedette sul bordo del letto, mentre sca allungava una mano sul comodino per prendere una brioscia.

Non era insolito che le due donne fero colazione con Martinoni, ma oggi era sabato e sarebbe sceso sul tardi: non era il caso di rinviarla.

“Prendo un altro caffè”, sca disse sollevando la cornetta del telefono senza distogliere lo sguardo dall’amica, mentre pensava all’effetto devastante che la sua intrusione della sera prima doveva aver avuto su di lei. Il telefono squillò a lungo senza risposta. “In questo momento, non c’è nessuno in cucina”, disse con una smorfia riponendo la cornetta. “Okay, non importa, ne faccio a meno.”

“Sono terribilmente spiacente di disturbarti…”, Orietta esordì. “Ma c’è qualcosa di importante di cui dovrei parlarti.” Lo disse senza essere ancora riuscita a pensare a un qualsiasi argomento, ma sperava disperatamente in una ispirazione improvvisa.

“Non mi disturbi affatto, Orietta. Dimmi tutto, sono felice di ascoltarti.” Sorrise.

Ma l’altra appariva esitante, teneva lo sguardo mesto abbassato, torcendosi convulsamente le mani intrecciate, mentre la sua mente lavorava febbrilmente. Inaspettatamente, fu sca a facilitarle il compito, dopo averla interrogata a lungo con gli occhi.

“So di cosa vuoi parlarmi…”, le disse allungando impulsivamente una mano e posandola sulla sua. “E’ di ciò che è accaduto ieri sera, non è così? Devo chiederti umilmente scusa per avervi disturbato. Ma non ho potuto farne a meno, ti prego di credermi che mi dispiace molto.”

Orietta annuì. “Certo, capisco e…, ti credo.” Si sforzò per non far trasparire dai suoi occhi o dall’espressione del suo volto che non accettava le scuse. “Certo”, disse a sé stessa in una sorta di soliloquio silenzioso, “non potevi farne a meno. Dovevi assolutamente fermarlo per sventare il pericolo che lui mi proponesse finalmente di sposarlo. Una grossa porzione dell’eredità che ti ha già assegnato era a rischio. E tu non potevi non intervenire. Chissà le falsità che gli hai raccontato sul mio conto per dissuaderlo. E ora dovrei credere che ti dispiace?”

“Allora cos’è che hai da dirmi a proposito di quello che è successo ieri sera?”

Orietta ci pensò su per qualche attimo.

“Ho un problema…, un grosso problema, e pensavo che…”, indugiò come se ricercasse le parole più adatte, “… forse potresti aiutarmi a risolverlo.” Fece una pausa. “Ti sarebbe di qualche fastidio se te ne parlassi?”

“Tutt’altro!” esclamò continuando a tenere la mano posata sulla sua. “Mi farebbe piacere.”

Orietta fu sorpresa nel constatare che sca apparisse genuinamente dispiaciuta dell’accaduto. Pensò che non avrebbe dovuto stando a quello che Kesler le aveva raccontato. D’altro canto conosceva bene suo zio, e doveva sapere cosa significasse per lei vivere alla mercé di un uomo capriccioso come Martinoni, patire le offese e le umiliazioni che le infliggeva con tanta disinvoltura. Di certo si era accorta che aveva finito per ridurla al ruolo servile e umiliante di una squillo di alto bordo, pronta ad accorrere a ogni suo schiocco di dita. La sua sorpresa si accrebbe quando le prese la mano e la tenne stretta nella sua. “Farei qualsiasi cosa per aiutarti, cara”, disse. “Se hai bisogno di un’amica, sono qui. So che tipo è mio zio, so come ti tratta, ma sappi che sono dalla tua parte.”

Per un momento Orietta si senti scossa e frastornata insieme. Sembra così sincera, pensò. La scrutò in volto e si accorse che aveva gli occhi un po’ acquosi. Era pianto? No, non può essere, si disse. Stava recitando. Era soltanto un’astuta donna maligna e malvagia, che, visto l’enorme interesse in ballo, ce la stava mettendo tutta per fare il suo gioco perverso. Kesler le aveva parlato di lei come di una nemica. Lui conosceva il retroscena e sapeva bene a cosa mirasse. Non poteva non credergli.

Mentre continuava a studiarla si accorse di due lacrime che le rotolarono lungo le guance giù fino al mento. sca estrasse un fazzoletto da sotto il cuscino e se le asciugò. “Povera Orietta”, mormorò. “Non credere che non sappia quello che stai ando...”

Orietta non riuscì a proferire parola, ma continuò a osservarla a bocca aperta. No, non è possibile che stia fingendo, si disse. E’ una grande attrice, d’accordo. Ma le lacrime? Quelle sono vere. Non può essere così abile da simularle per mascherare il suo cinismo e avidità. Può farlo sul set, e soltanto con l’uso del trucco. E se Kesler, per qualche imperscrutabile ragione, le aveva mentito sulla vera ragione che aveva spinto sca a incontrare Martinoni la sera prima, e con urgenza? Trovava molto difficile credere che la donna fosse capace di tanta

spregiudicatezza. Dimostrarle, cioè, comione per la sua difficile situazione al punto di versare qualche lacrima, mentre aveva cercato con grande perfidia di nuocerle adoperandosi con suo zio affinché non assumesse la decisione di sposarla. Per di più, sapeva che sca era già molto ricca, e non le era mai sembrata tanto avida da volersi assicurare il massimo vantaggio possibile dall’eredità di suo zio.

Ora rifletté che dovesse esserci qualcosa di strano nel comportamento di Kesler, persino nella sua richiesta di attirare sca con una scusa in un luogo deserto, quale appunto era la piscina a quell’ora del mattino. Necessitava di spiegazioni per vederci chiaro, e queste c’era una sola persona che poteva fornirgliele: la stessa sca. Evitando ovviamente il minimo accenno al suo incontro con Kesler di quel mattino, decise che avrebbe affrontato la nipote di Martinoni a viso aperto, chiedendole di spiegarle il vero motivo del suo gesto della sera prima. Dal tipo di spiegazione che le avrebbe fornito e dall’espressione del suo volto, avrebbe compreso se le stava mentendo.

“Ascolta, sca”, le disse. “Non è prudente parlare qui in camera tua. Non a lungo, comunque. Tu sai che non mancano spie in questa casa. Ugo potrebbe venirlo a sapere e ricamarci sopra qualche congettura.” Le lasciò la mano e si alzò in piedi. “Che ne diresti di andare in piscina? Lì potrei parlarti con calma del mio problema al riparo da orecchie indiscrete. E con l’occasione, perché no? potremo fare una nuotatina, unendo così l’utile al dilettevole.” Tacque per qualche secondo e la fissò. “Per non dire che sarebbe un ottimo pretesto per incontrarci senza destare sospetti.” Si fermò di nuovo. “Ti prego, cara, andiamoci non appena avrai finito di fare colazione. Okay?”

“E’ un’idea splendida, Orietta!” sca disse entusiasta. “Ho già finito di fare colazione. Possiamo andarci subito. Muoio dalla voglia di nuotare per rilassarmi. Ho dormito poco e male la scorsa notte.” Si interruppe e la scrutò. “Scommetto che a te è accaduto lo stesso, a giudicare dal tuo viso. Non ti preoccupare, cara, qualunque sia il problema che ti affligge, penseremo insieme a qualcosa per risolverlo.”

“Vado a prepararmi e torno fra cinque minuti”, l’altra disse sorridendo. Aveva fretta e non voleva lasciare spazio a possibili contrattempi.

Non erano trascorsi dieci minuti che Kesler, stando in piedi davanti alla finestra della sua camera, vide le due donne uscire dalla porta di servizio nel retro della casa, e le osservò mentre percorrevano il vialetto lastricato in pietra che conduceva alla piscina, indossando due giacche a vento verdi e reggendo ciascuna nella mano destra un grosso borsone da sport.

Un lieve sorriso soddisfatto gli affiorò sulle labbra.

46

Paolo Kesler guardò impaziente il Rolex d’oro massiccio che aveva al polso: segnava un quarto alle undici.

Ripiegò il Corriere della Sera che aveva finito di sfogliare e lo posò sul comodino. Poi andò alla finestra. Fece un profondo respiro, e scostò le tendine di organza per lanciare un’occhiata al- l’ingresso della piscina in cui aveva visto entrare sca e Orietta non più tardi di un’ora prima.

Tra poco sarebbe venuto il momento di agire.

Aveva indossato il completo fatto su misura con cui era arrivato il giorno prima. Un gessato blu con tanto di gilè, e una camicia celeste rigata, con cravatta bordò assicurata da una piccola spilla d’oro. Un fazzoletto di seta, in tinta con la cravatta, spuntava di qualche centimetro dal taschino della giacca.

Sollevò la cornetta del telefono posato sul comodino, e al centralino che gli rispose si fece are la segretaria di Martinoni per informarsi sui movimenti del Tycoon.

“E’ giusto sceso in sala da pranzo per la colazione”, si sentì dire. “Credo la stia aspettando.”

“Le spiace riferirgli che oggi non potrò unirmi a lui? Sono in partenza per Milano. Ho appena ricevuto una telefonata: è richiesta la mia presenza urgente in

sede per un’importante riunione. Gli dica che lo chiamerò più tardi.” Senza permettere all’altra di proferire parola, chiuse la comunicazione.

Sapeva che non lo avrebbe chiamato né oggi né ma più. Né lo avrebbe rivisto. I quindici anni che aveva trascorso in Italia al suo servizio fino a diventarne il più stretto collaboratore e migliore amico, erano stati un lungo e piacevole capitolo della sua vita, che ora si vedeva costretto a gettarsi alle spalle.

Ma si era ripromesso di compiere un ultimo atto – per lui irrinunciabile – prima di scomparire per sempre: sopprimere sca. Doveva mantenere l’impegno che aveva assunto con se stesso di fargliela pagare con la morte, per le umiliazioni che gli aveva fatto soffrire respingendo le sue avance, e trattandolo sempre con uno scostante atteggiamento di freddezza e di ripugnanza. Dato che lo considerava una grave ferita al suo orgoglio, sapeva che, dopo aver-la uccisa, non avrebbe avvertito alcun rimorso.

In realtà quella di far perdere le proprie tracce, non era una decisione che aveva assunto a cuor leggero, né improvvisamente o fret-tolosamente. Era il frutto di una lunga riflessione che durava ormai da sei anni, e precisamente dal giorno in cui si era accorto di essere sorvegliato ventiquattrore su ventiquattro.

Dapprincipio si era trattato di una sensazione vaga, divenuta certezza quando aveva notato di avere sempre qualcuno alle calcagna, sia che si muovesse a piedi che in auto. Molto spesso c’era una macchina parcheggiata a breve distanza dall’ingresso del suo stabile, con due sconosciuti a bordo. Era sicuro che il suo cellulare fosse sotto costante controllo, ragion per cui ne faceva un uso limitato e con grande circospezione.

Aveva scoperto che spesso l’appartamento veniva perquisito in sua assenza, benché gli autori – che aveva compreso essere i Servizi segreti – ponessero la

massima cura nel non lasciare tracce. Aveva individuato le numerose microspie piazzate un po’ dappertutto, ma si era guardato bene dal rimuoverle. Basta sapere che ci sono, si era detto, e agire di conseguenza. Aveva deciso che fosse essenziale assecondare il loro gioco: ossia comportarsi in modo da non dare la più pallida idea che si era reso conto di essere monitorato. Altrimenti, nel timore che tagliasse la corda, potevano fermarlo o addirittura arrestarlo.

La consapevolezza che aveva acquisito di essere spiato lo aveva messo in una certa apprensione, ma senza sorprenderlo più di tanto: era qualcosa che – da quando si era trasferito in Italia – aveva messo in conto che potesse prima o poi accadergli. Non aveva dovuto scervellarsi per capire chi fossero quelli che lo tenevano d’occhio, né per intuirne la motivazione.

I Servizi segreti italiani dovevano aver cominciato a farlo probabilmente dal momento in cui, indagando su di lui, avevano spalancato la porta sul suo oscuro ato di cittadino della Germania orientale fino al crollo del Muro.

Erano venuti a conoscenza dell’elevata posizione che suo padre aveva occupato in seno alla Stasi, e sospettavano, o forse ne avevano la certezza, che lui vi avesse svolto il ruolo di informatore. Era certo che fosse bastato loro consultare gli archivi di Stato della Germania unificata. Ma avrebbero dovuto immaginare che, con l’esperienza che aveva acquisito ai tempi in cui era stato egli stesso una spia, si sarebbe prima o poi accorto di essere controllato.

Quindi sapevano chi fosse, ed era lampante che attendessero l’opportunità di un suo o falso per poterlo incastrare.

Dopo il rapido susseguirsi dei recenti eventi – l’ingresso in politica di Martinoni, il viaggio a Beirut con sca e l’allarmante scoperta della visita di quest’ultima a suo zio la notte scorsa, fatta grazie a Orietta –, la sensazione

costante del pericolo incombente di essere smascherato, si era acuita.

Da qui la decisione di eclissarsi, ma non prima di aver consumato la sua vendetta. Per riuscirvi doveva fare in modo di restare solo con sca, e aveva pensato che i locali deserti della piscina a quell’ora del mattino fossero il luogo ideale. La collaborazione inconsapevole di Orietta lo avrebbe aiutato a porre in atto uno strata-gemma che aveva escogitato nelle ultime ore.

Liquidata la ragazza, avrebbe raggiunto in fretta la sua Lancia Thesis parcheggiata nel garage sul retro della villa assieme alla Rolls Royce di Martinoni, e si sarebbe diretto al suo appartamento di Milano in via Montenapoleone. Senza indugiare si sarebbe preparato per la partenza. O – più precisamente – per la fuga.

L’abitacolo della Thesis e il bagagliaio erano abbastanza capienti per trasportare un bauletto, due grosse Samsonite, oltre a un borsone da viaggio e la sua ventiquattrore di cuoio scuro che usava per lo più come portadocumenti. Avrebbe riempito le valige, il baule e il borsone fino a quasi farli scoppiare, comprendendovi gli oggetti preziosi che teneva in casa, nonché l’intero guardaroba di abiti firmati.

Al calar della notte, se ne sarebbe andato alla chetichella: sarebbe uscito di scena lasciandosi alle spalle un ato di ben quindici anni, pieno di grandi soddisfazioni. Negli ultimi mesi, aveva liquidato, gradualmente per non dare nell’occhio, tutte le sue attività finanziarie rappresentate da titoli e depositi bancari, trasferendone il ricavato di oltre venti milioni di euro, a due conti cifrati presso altrettante banche di Ginevra. Questa la ragione per la quale avrebbe raggiunto la Svizzera come prima tappa del suo viaggio. Vi avrebbe trascorso alcuni giorni a ricercare un investimento – il più redditizio possibile – per le sue risorse. Era comunque certo che gli avrebbero consentito di mantenersi in tranquillità e agiatezza per il resto dei suoi giorni.

Ma non avrebbe scelto la Svizzera come Paese della sua residenza permanente.

Il suo grande desiderio nostalgico – sempre vivo da quando si era trasferito in Italia con la madre, da tempo ata a miglior vita –,era di fare un giorno ritorno a Berlino, la sua città natale. Ma per poterlo realizzare, doveva giocoforza fare ricorso all’aiuto di Reynaud e ai potenti mezzi della organizzazione che a lui faceva capo, e di cui avrebbe comunque continuato a fare parte.

Non poteva rientrare in Germania e ristabilirvisi per rifarsi una nuova vita, senza essersi anzitutto procurato una nuova identità che scongiurasse il pericolo di essere riconosciuto, anche a distanza di tanti anni. Questo comportava procacciarsi dei documenti falsi, e, soprattutto, comperarsi un nuovo volto. Nel giro di alcuni giorni sarebbe volato a Buenos Aires per sottoporsi a un intervento chirurgico di plastica facciale, che gli avrebbe cambiato i connotati. A eseguirlo sarebbe stato un luminare specialista del ramo, figlio di un ex alto dirigente del KGB, residente in Argentina e membro dell’organizzazione, nonché amico di Reynaud.

Data la prestigiosa carica di presidente di Mediasystem che rico-priva, Kesler era un personaggio molto in vista nel panorama imprenditoriale italiano, ragion per cui la sua scomparsa sarebbe ata tutt’altro che inosservata.

Avrebbe avuto grande risonanza.

Tutti i media, anche esteri, ne avrebbero parlato, e per i giornali sarebbe stata una notizia da prima pagina.

Sequestro o gesto volontario? Questo il duplice interrogativo con cui avrebbero bombardato per settimane le teste degli italiani. Fino a quando, in mancanza di una richiesta di riscatto, il gesto volontario sarebbe rimasta l’ipotesi più verosimile. Lui si sarebbe allora trovato a Buenos Aires, e pertanto le ricerche serrate dei carabinieri e della polizia, si sarebbero rivelate del tutto infruttuose. Il ritrovamento della sua Lancia Thesis in uno sperduto viottolo di campagna non avrebbe portato alcun contributo. Il suo caso sarebbe stato, per mesi, tra quelli più trattati nella trasmissione televisiva Chi l’ha visto?, in onda ogni lunedì sulla Terza rete Rai. Bastava guardarla per rendersi conto delle centinaia di persone che ogni anno si volatilizzavano come fumo al vento senza lasciare tracce, e della bassa percentuale di ritrovamenti.

Non erano peraltro infrequenti episodi di personaggi illustri e facoltosi come lui, o di loro famigliari, che scomparivano. Si trattava in maggioranza di sequestri che solitamente si risolvevano col pagamento di un riscatto. Col trascorrere del tempo, il suo caso si sarebbe a poco a poco sgonfiato, fino a finire tra quelli dimenticati.

Ora Kesler pensò che fosse giunto il momento di mettere mano al suo piano. Andò di nuovo alla finestra e, con lo sguardo rivolto all’ingresso della piscina, estrasse da una tasca il cellulare. Selezionò in rubrica il numero di Orietta e digitò un sms: Ho bisogno di parlarti con urgenza. Esci con un pretesto e raggiungimi in garage.

Le aveva promesso, al termine del loro incontro intimo e piacevole nella sua camera da letto, un paio d’ore prima, che si sarebbe fatto vivo con lei dopo aver incontrato Martinoni, ma senza precisarle in che modo. Sapeva che la donna non si separava mai dal telefonino, che lo teneva sempre attivo e a portata di orecchio. Non appena letto il messaggio, e inventatasi una scusa per sca del tipo: ‘scusami ho una cosa da sbrigare, torno subito’, avrebbe lasciato la piscina dirigendosi verso il garage. Stando alla finestra, lui l’avrebbe vista e si sarebbe precipitato a incontrarla.

Le avrebbe propinato un falso resoconto di un inesistente colloquio che aveva appena avuto con Martinoni a colazione. Le avrebbe raccontato la frottola che era riuscito a fargli ammettere che, effettivamente, sca era stata da lui la sera prima, e, con vari argo-menti, lo aveva messo in guardia dal commettere l’errore di sposarla. Ma lui non le aveva prestato molta attenzione, e aveva sviato il discorso parlando d’altro.

Alla sua domanda di quali fossero le sue reali intenzioni nei confronti di Orietta riguardo a un eventuale matrimonio, si era dichiarato possibilista, aggiungendo che ci stava riflettendo.

Ma che cosa le avrebbe consigliato di fare? Andare subito da lui, naturalmente – prima che arrivassero i suoi collaboratori – , a preparare il terreno per un nuovo incontro romantico quella notte stessa. “Fa’ finta di niente”, le avrebbe detto. “Come se l’episodio di ieri sera non ti avesse minimamente turbato. Dimostrati carina, facendogli intendere che ti aspetti di essere riconvocata dopo cena per riprendere la seduta amorosa che sca aveva bruscamente interrotto. Mi hai detto che in quel momento era su di giri, e io sono certo che lo sia tuttora. Non mancherà di usare il cicalino stasera, vedrai, e sono fiducioso che questa volta potrebbe essere quella buona, in cui, cioè, ti chiederà di sposarlo.”

Kesler era certo che l’avrebbe bevuta affrettandosi a seguire il suo suggerimento. Sarebbe rientrata nella villa, e lui avrebbe raggiunto la piscina trovando sca sola. Avrebbe avuto tutto il tempo necessario per agire in tranquillità.

Senza distogliere gli occhi dall’ingresso del padiglione, scoccava occhiate impazienti all’orologio, a intervalli sempre più ravvicinati. Ma trascorsi dieci minuti senza che Orietta comparisse, ebbe la certezza che non aveva udito il bip del suo messaggio. Che fosse ancora in acqua con sca gli sembrò improbabile, dato che era ata più di un’ora da quando le aveva viste dalla

finestra fare il loro ingresso nella struttura. Verosimilmente, dovevano aver termi-nato di nuotare, fatto una doccia, e trovarsi ora da qualche parte a chiacchierare. Se non aveva sentito il flebile bip del messaggio, era perché doveva aver lasciato il cellulare in un posto non esattamente a portata di orecchio, o lo aveva addirittura dimenticato nella sua suite. Non gli restava che accertarsene provando a chiamarla. E-strasse di nuovo di tasca il telefonino, e, selezionato il numero, pigiò il tasto che attivava la comunicazione.

“Messaggio gratuito”, disse la voce registrata della TIM, “il nominativo da lei chiamato non è al momento raggiungibile.”

47

Kesler chiuse il cellulare con uno scatto nervoso, una espressione frustrata dipinta sul volto.

“Sicché quell’idiota lo tiene staccato”, mormorò irritato. “Va’ a capirne la ragione…”

Non poteva che essere quella di non essere disturbata mentre parlava con sca, pensò subito dopo. Avrebbe dovuto immaginarlo. Persino Martinoni poteva chiamarla ingiungendole di andare da lui.

Si mise a riflettere. Pensò a un altro mezzo cui poteva ricorrere per contattarla: il telefono fisso. Sapeva che nei locali della piscina esistevano due derivazioni della linea principale, con lo stesso numero di interno. Un apparecchio era collocato a bordo vasca, appoggiato sopra un tavolino accanto a una sdraio. L’altro era installato su una parete accanto a uno dei distributori automatici all’interno del bar, peraltro inattivo durante la stagione invernale. Il suono elevato e stridulo che entrambi emettevano simultaneamente, riecheggiava dappertutto nell’ambiente, ed era impossibile non udirlo. Salvo che le due donne non si trovassero altrove in quel momento: nella palestra, nella sauna, nel bagno turco oppure nell’idromassaggio.

Nel digitare il numero sul cellulare, facendolo seguire dal suffisso dell’interno, pensò a un problema che gli si poteva presentare, se a sollevare la cornetta fosse stata sca.

Come doveva comportarsi in quel caso?

Forse assumere un atteggiamento naturale sarebbe stata la scelta migliore, pensò. Le avrebbe chiesto di argli Orietta, alla quale avrebbe letto il contenuto del suo sms con cui le chiedeva di incontrarlo nel garage, ma aggiungendo di dire alla sua amica che sarebbe stata di ritorno entro breve tempo. Era remota, rifletté, l’eventualità che sca subodorasse qualche pericolo e decides-se di tagliare la corda. Ma il telefono squillò per oltre due minuti senza risposta. Perché diavolo non rispondono? si chiese irritato. Formulò due ipotesi. La prima era quella a cui aveva già pensato, e cioè che non lo sentissero perché si trovavano chiuse nel locale di qualche altro servizio. La seconda che, per qualche inspiegabile ragione, se ne fossero andate.

Per un po’ del tempo che era trascorso da quando le aveva viste dalla finestra entrare nel padiglione, era rimasto in piedi davanti al davanzale senza staccare gli occhi dall’ingresso. Se ne era allonta-nato quando era arrivato un domestico per servirgli il caffè e portargli il giornale. Aveva bevuto il caffè, scorso il giornale e poi si era vestito. In quel lasso di tempo le due donne avrebbero potuto uscire senza che lui le vedesse. A un tratto un pensiero allarmante gli balenò nella mente: il motivo per cui avevano deciso di andarsene, poteva non essere un mistero insondabile. Forse causa ne era stata il fatto che le cose non si erano svolte esattamente nel modo in cui lui le aveva programmate. E se Orietta, si chiese, invece di ordire, come avevano concordato, una storia credibile da rifilare a sca, che fungesse da pretesto per giustificare il suo invito ad appartarsi con lei in piscina, avesse invece deciso di affrontarla a viso aperto – una volta sole – accusandola di tramare nell’ombra per impedire che suo zio decidesse di sposarla? E quando sca aveva decisamente negato, era possibile che fosse scoppiata tra loro una lite furibonda, che aveva avuto come epilogo la decisione di ritornare alla villa?

Ma c’era una terza ipotesi persino più preoccupante, e cioè che Orietta, in preda alla rabbia, si fosse spinta a tirare in ballo lui come fonte dell’informazione che, come le aveva spiegato, aveva ricevuto in confidenza da sca. A quel

punto, entrambe potevano aver deciso di recarsi da Martinoni per porre la questione nelle sue mani.

Un ulteriore ragione per dileguarsi in tutta fretta.

Avvertì una forte contrazione alla bocca dello stomaco.

Eppure, il desiderio di accertare se la sua congettura era fondata andando a fare un giro di ricognizione nel padiglione, prevaleva sui timori. Ma come avrebbe motivato il suo arrivo se avesse trovato le due donne ancora lì? La voglia di fare anch’egli una nuotata, avrebbe spiegato.

Ora che ci rifletteva, forse la speranza di realizzare il suo disegno, non era ancora del tutto sfumata. Chissà che, incontrandole, non riuscisse a parlare con Orietta approfittando di un momento in cui sca non era vicina. La avrebbe allora sollecitata a recarsi da Martinoni per esibirsi in quella commedia che avrebbe posto le basi per un nuovo incontro d’amore quella sera stessa. Ma le avrebbe detto che prima di allontanarsi, doveva avvisare la sua amica che sarebbe stata presto di ritorno. C’era, però, l’elevata probabilità che sca, intuendo il pericolo di restare sola con lui – quantomeno perché memore dello sgradevole episodio del giorno prima, quando si erano appartati nella serra – decidesse a sua volta di abbandonare il campo. Allora avrebbe dovuto rassegnarsi a vedere il suo piano andare a monte. Gli sarebbe restata la consolazione – cosa non da poco, pensò –, che lei sarebbe comunque finita sotto processo come complice di suo zio nell’omicidio del Cardinale Arcivescovo.

Da un cassetto del comò, prese un costume da bagno, una paio di occhialini e una cuffia da nuoto. Li mise nella ventiquattrore, e poi indossò l’elegante paltò di cammello. Reggendo nella mano destra la valigetta, uscì dalla sua camera e scese al piano terra attraversando l’atrio e dirigendosi verso l’uscita principale

della villa.

Una volta fuori, piegò a sinistra e percorse, a o rapido, il viale che, girando intorno all’edificio, conduceva al retro; da lì imboccò il sentiero lastricato in pietra che portava diritto al padiglione, distante un centinaio di metri.

Alzò lo sguardo al cielo: grosse nuvole scure foriere di pioggia vi si andavano addensando. Si muovevano veloci sospinte da un fortissimo vento gelido che soffiava da nord. Una raffica rabbiosa gli sferzò la faccia. Si tirò su il bavero del soprabito per meglio proteggersi. Nugoli di fruscianti foglie morte di cui il terreno era tappezzato, svolazzavano nell’aria. Da molto lontano – simile al ruggito di una tigre –, gli giunse il rombo sommesso e prolungato di un tuono. Non c’era in giro un anima viva. Improbabile che qualcuno lo avrebbe notato.

Pensò che non era possibile immaginare una giornata più schifosa per togliere a chiunque il desiderio di fare un bagno in piscina. E ciò a dispetto dell’efficace impianto di riscaldamento di cui la strut-tura era dotata. L’avrebbe trovata deserta, salvo che Orietta e sca non fossero ancora lì. Nel fare questa riflessione, pensò a Martinoni che avvertiva lo stimolo necessario per una nuotata, soltanto nelle giornate in cui splendeva il sole. Questo il motivo per cui ne faceva un uso più frequente – e per lo più nei weekend – soltanto nella stagione estiva. Era allora che l’ambiente si animava in un’atmosfera festosa e di grande relax. I suoi ospiti erano in maggioranza illustri e facoltosi personaggi, politici e non. Non mancavano membri del suo entourage – Kesler compreso –, che occupavano posizioni di rilievo in seno al suo gruppo. A ogni inizio di stagione, il lucernario in plexiglass del padiglione veniva aperto con un dispositivo elettrico, per consentire ai raggi del sole di invadere l’ambiente. Ai bordi della vasca e all’esterno sul vasto prato all’inglese, venivano dislocati ombrelloni, tavolini, sedie sdraio e brandine prendisole. Il bar entrava in piena attività, con un nutrito gruppo di camerieri che si dava un gran da fare a servire bevande fresche, o alcoliche. Non era insolito che i raduni si protraessero fino alle ore piccole. Cene pantagrueliche preparate da un celebre cuoco venivano servite sulla vasta terrazza della villa, tra canti e balli al suono di una orchestra.

Il vino scorreva a fiumi, ed erano in molti coloro che si abboffavano smodatamente e si sbronzavano fino a stramazzare. Dovevano essere poi ospitati per la notte, o caricati di peso nelle loro auto e trasportati dalle guardie giurate alle loro abitazioni.

Kesler spinse il battente della porta di ingresso, e avvertì la gradevole sensazione del brusco aggio dal clima rigido dell’esterno, all’intenso tepore prodotto dal riscaldamento. Sapeva che, per volere di Martinoni, la temperatura ambientale e dell’acqua doveva essere costantemente regolata sui 28° centigradi.

Si ritrovò in una sorta di ingresso o disimpegno che dir si voglia, su cui si affacciavano due porte. Una dava accesso alla piscina, e l’altra ai locali della palestra, sauna, bagno turco e idromassaggio. Entrò nella piscina e andò a sostare sul bordo della vasca spaziando in giro con lo sguardo. Era deserta. Aguzzò l’udito per captare eventuali rumori che denunciassero la presenza di gente. Niente, il silenzio era profondo. Dall’acqua gli giungeva alle narici il caratteristico odore di cloro, ma la superficie era piatta. Simile a una lastra di cristallo, rifletteva la luce del giorno che filtrava dal tetto trasparente. Osservandola, Kesler pensò che, data la perfetta immobilità, era improbabile che qualcuno vi avesse nuotato di recente, altrimenti il pelo dell’acqua sarebbe mosso o increspato, se pure leggermente. Ammesso che siano ancora qui, dove diavolo si saranno cacciate? si chiese.

Indirizzò lo sguardo verso il lato opposto della vasca, laddove un aggio ad arco dava accesso al bar, e a un corridoio lungo il quale si aprivano gli ingressi ad altri servizi. Pensò che doveva darvi un’occhiata.

Camminando frettolosamente lungo il bordo della vasca, raggiunse il aggio ad arco e ne varcò la soglia.

Il bar era un locale vasto e luminoso, di forma quadrata, diviso in modo che il banco si trovava a sinistra, mentre al centro erano disposti ordinatamente una decina di tavolini rotondi con sedie. A destra, addossati alla parte, due distributori automatici ben forniti: uno per le bevande, l’altro per merendine di vario genere. Un telefono a muro era installato sulla parete accanto a uno dei distributori.

Kesler perlustrò con gli occhi l’intero locale. Ciò che attirò la sua attenzione furono due bicchieri di polistirolo posati sopra uno dei tavolini, insieme a due involucri di cellofan accartocciati, che dovevano aver contenuto biscotti o briosce. Prese in mano i bicchieri per esaminarli. Erano vuoti e appena tiepidi, e sui fondi erano visibili minuscoli residui di caffè. Le due sedie del tavolino erano scostate. Era lampante che Orietta e sca si erano fermate nel bar per fare uno spuntino e per chiacchierare, pensò; forse fino al momento in cui, avendo litigato, avevano fatto ritorno alla villa. La perfetta immobilità dell’acqua nella vasca, suggeriva che se ne erano andate senza aver nuotato.

Ma non poteva averne l’assoluta certezza fino al termine del suo sopralluogo.

Uscì dal bar e imboccò il corridoio lungo il quale erano allineate, su entrambi i lati, alcune porte chiuse. Il primo locale sulla destra era lo spogliatoio: un’ampia stanza quadrata. Vi entrò, ma come si aspettava, non c’era nessuno. I quattro cubicoli per spogliarsi e rivestirsi in tutta privacy, e gli armadietti per la custodia degli abiti, erano vuoti. Non c’era traccia dei due borsoni da sport dell’Adidas.

Entrò nel locale delle docce. Ce n’erano quattro, ciascuna all’interno di altrettante cabine in vetroresina. Si mise a esaminarle a una a una, notando che sia il pavimento, sia gli scarichi dell’acqua erano perfettamente asciutti a conferma che non erano state usate: le due donne non avevano fatto il bagno.

Più per scrupolo che altro, fece un giro rapido all’interno dei servizi igienici, ma con lo stesso risultato. Fece capolino dallo stipite di una porta per dare un’occhiata dentro una saletta adibita a infermeria, per eventuali casi di emergenza sanitaria. Era dotata di una lettiga e due armadietti del Pronto Soccorso affissi alle pareti. Ritornò sul bordo della vasca, si fermò per un attimo e poi ritornò sui suoi i raggiungendo il punto da dove aveva iniziato il suo giro. Entrò in quell’area del padiglione in cui erano ubicati – in locali distinti – la palestra, la sauna, il bagno turco e l’idromassaggio. La palestra era un ambiente molto spazioso.

Attraverso due enormi finestre, irrompeva la luce del giorno. Sparsi sul pavimento, alcuni manubri e bilancieri per il sollevamento pesi, oltre a due macchine moderne per lo stesso uso. Non mancavano due cyclette e un tapis roulant. Affissa alla parete dall’altra parte della sala, c’era una spalliera di legno per la ginnastica.

Attento com’era alla propria forma, Martinoni mostrava una notevole propensione per l’attività fisica, cui dedicava normalmente, quando era in villa, non meno di un’ora al giorno, e quasi sempre di prima mattina.

Purtroppo, negli ultimi tempi aveva dovuto rinunciarvi. Dopo il suo ingresso in politica, aveva deciso di lanciarsi con grande deter-minazione nella preparazione della campagna elettorale. Un’attività che assorbiva una grossa porzione del suo già limitato tempo disponibile.

Il carico complessivo dei suoi impegni aveva così assunto dimensioni ragguardevoli. La sua agenda giornaliera, esclusi i weekend, era fittissima. Aveva inizio in ore antelucane, per terminare alle ore piccole.

Dopo aver dato una breve occhiata alla palestra deserta, Kesler pensò che

doveva ispezionare i restanti locali. Stava per dirigersi verso la sauna, quando si fermò di colpo, interdetto.

Aveva sentito un lieve rumore.

Somigliava al ronzio di un condizionatore. Gli sembrò familiare, ma lì per lì non riuscì a stabilirne esattamente la natura né la prove-nienza. Ma la sua perplessità duro lo spazio di alcuni secondi: capì che giungeva dal locale dove era installata la Iacuzzi, la enorme vasca idromassaggio, e indicava che qualcuno la stava usando. Sapeva che per attivare l’impianto bastava premere un pulsante posto sulla parete accanto alla porta, ora chiusa.

Vi si accostò.

Dunque Orietta e sca erano nell’idromassaggio, pensò con esultanza. Dopo lo spuntino nel bar, avevano optato per quello piuttosto che una nuotata. Doveva essere stata Orietta a proporlo dato che era negata per il nuoto, e anche perché aveva ritenuto che fosse il posto più adatto per una tranquilla conversazione, in una condizione di totale rilassamento. Si senti sollevato al pensiero che la sua congettura che avessero lasciato il padiglione era infondata.

Si mise a riflettere sul da farsi.

Dischiuse la porta tanto quanto gli bastò per sbirciare dentro il locale. Era in penombra dato che l’avvolgibile della finestra era solo in parte sollevato.

Oltre al ronzio dell’impianto, ora era in grado di avvertire anche il leggero gorgoglio prodotto dai miliardi di bollicine di aria che esplodevano in superficie sprigionate con forza dalle numerose bocchette incastonate tutt’intorno sulle pareti della vasca, sotto il livello dell’acqua.

Kesler aguzzò la vista: ciò che vide non se l’aspettava e lo fece trasalire. C’era una sola persona nella vasca, e nel riconoscerla quasi si rifiutò di credere ai propri occhi.

E alla propria fortuna.

sca stava immersa distesa, mantenendo solo la testa fuori dall’acqua, la nuca appoggiata al bordo della vasca. Non poteva vederla in viso perché gli dava le spalle. Ma la cuffia da nuoto che sempre indossava per tenere all’asciutto la splendida capigliatura, era inconfondibile. L’avrebbe riconosciuta tra mille. Era più unica che rara. La calotta bianca di silicone era ricoperta da variopinti fiorellini di plastica, che la rendevano troppo appariscente e un po’ pacchiana. Molti non la giudicavano neppure graziosa, ma lei, chissà perché, vi era affezionata.

Kesler ricordò quella volta che – mentre erano in piscina insieme a Martinoni, e al solo scopo di farle un complimento – le aveva detto che conferiva al suo volto l’aria di un bocciolo di ninfea.

Ma dov’era Orietta? Ricordò che non aveva ancora controllato i locali della sauna e bagno turco. Lo fece rapidamente accertando che erano entrambi vuoti e disattivati.

Forse Orietta aveva dovuto assentarsi perché chiamata da qualcuno a occuparsi di una importante faccenda, pensò. Ma cos’altro se non una telefonata di Martinoni l’avrebbe distolta, obbligandola a lasciare sca nel bel mezzo di una conversazione cui era molto interessata? Era molto probabile che fosse stato proprio lui a farla cercare, dopo aver fatto colazione, per parlarle e fare ammenda per il pessimo trattamento che le aveva riservato la sera prima. Sapeva che Orietta doveva averne risentito. In realtà, non era nella natura di Martinoni chiedere scusa a chicchessia, e Kesler non ricordava una sola circostanza in cui glielo avesse visto fare. Ma il Magnate era in calore, rifletté, e tre mesi senza sesso erano troppi persino per un ultrasessantenne. Forse aveva deciso di non attendere la sera per un nuovo incontro con Orietta, e l’aveva convocata nella sua suite per addolcirla e risvegliare in lei lo stesso umore della sera prima, per poi ottenere quel genere di prestazioni eccellenti di cui la donna era capace, e che riuscivano a condurlo rapidamente al massimo dell’eccitazione erotica, e quindi all’orgasmo. Se la sua ipotesi era corretta, pensò, allora era improbabile che Orietta faces-se ritorno. E comunque non entro breve tempo.

Quindi, poteva agire con calma.

Osservò la sua preda tutta sola nella vasca, a pochi i da lui, pronta a essere immolata quale vittima sacrificale sull’altare della sua vendetta.

Ma non subito, pensò.

Sentì una forte scarica di adrenalina entrargli in circolo al pensiero che gli si presentava la fantastica quanto insperata occasione di vedere finalmente trasformate in realtà, quelle fantasie lussuriose che da tempo immemorabile coltivava su di lei. La tentazione di indossare il costume da bagno, e tuffarsi improvvisamente nella vasca per assalirla, e prenderla con la forza prima di ucciderla, era fortissima. Capì che difficilmente sarebbe riuscito a vincerla. Se fosse riuscito a costringerla a fare sesso nell’acqua ribollente dell’idromassaggio, avrebbe aggiunto piacere al piacere e l’esperienza sarebbe stata

indimenticabile.

Ma nel momento in cui aveva deciso di non farsi sfuggire l’occasione, lo sguardo gli cadde su qualcosa che lo indusse a riflettere prima di muoversi.

Su una panca addossata al muro dall’altra parte del locale, vide i due borsoni da sport dell’Adidas. Ripiegati con cura, c’erano anche quelli che dovevano essere gli abiti di sca. Quindi, le due donne avevano ritenuto di non usare gli spogliatoi quando avevano deciso di fare l’idromassaggio. Verosimilmente, la loro scelta era stata motivata dalla comodità, dato che i servizi si trovavano alla opposta estremità del padiglione. Orietta, peraltro, si era allontanata senza portarsi dietro il suo borsone.

Si mise a pensare sforzandosi di estrarre un significato da quel comportamento, ammesso che ne avesse uno. Poteva indicare, rifletté, la sua intenzione di assentarsi per il breve tempo necessario a sbrigare una faccenda urgente.

sca era rimasta ad attenderla nell’idromassaggio.

Se così stavano le cose, c’era il rischio concreto che ricomparisse da un momento all’altro cogliendolo sul fatto.

Allora si sarebbe visto costretto a uccidere anche lei.

Decise di affrettarsi, limitandosi a eseguire soltanto la versione originaria del suo piano.

Prima di entrare nel locale si tolse le scarpe per non fare il benché minimo rumore, e le depose a terra vicino al muro. Quasi trattenendo il respiro, mosse alcuni i portandosi sul bordo della vasca alle spalle della giovane, e si inginocchiò. Ora o mai più, pensò. Si chinò su di lei, e, con un gesto fulmineo le afferrò il capo con entrambe le mani, spingendolo con forza sott’acqua.

sca reagì con un urlo strozzato, subito soffocato dal- l’acqua che cominciò a ingurgitare. Prese ad agitare le gambe freneticamente e a contorcersi nel disperato e vano tentativo di divincolarsi. Sollevò le mani fino al capo e, muovendole convulsamente, cercò quelle del suo assalitore. Trovatele, conficcò le lunghe unghie laccate nei dorsi, facendoli sanguinare. Kesler sentì un dolore lancinante, ma lo ignorò continuando a esercitare una forte pressione. Si rese conto che mantenerle la testa sotto il livello dell’acqua, richiedeva un impegno maggiore di quanto avesse immaginato, dato che la donna si dimenava senza soluzione di continuità. Lei, vista l’inutilità del suo gesto, abbandonò la presa sulle mani.

Quanto tempo impiega un essere umano ad annegare? Kesler si domandò. Non ne aveva la minima idea dato che era la prima volta che gli capitava di uccidere una persona in quel modo. Di certo l’acqua le stava invadendo l’apparato respiratorio, a giudicare dalle miriadi di bollicine di aria che emetteva attraverso la bocca e il naso, per effetto dell’azione costante di introitare liquido nei polmoni e nei bronchi espellendo aria. Ma le convulsioni non accennavano a diminuire. Doveva fare qualcosa per accelerare la fine, pensò. C’era il pericolo che Orietta comparisse da un momento all’altro.

D’un tratto si ricordò delle carotidi

Continuando a tenere la mano destra premuta sul capo della sua vittima, usò la sinistra per cercarle sul collo una delle due arterie. Trovatala, la compresse con

forza tra il pollice e l’indice. Alcuni secondi dopo, gli spasmi cominciarono ad affievolirsi assumendo una frequenza sempre più prolungata, fino a estinguersi del tutto. Con cautela, Kesler abbandonò la presa, certo che sca fosse ormai deceduta. Ma si sbagliava: ebbe un ultimo guizzo, e poi rimase supina e immobile sulla superficie dell’acqua staccandosi dal bordo della vasca, le braccia allargate, gli occhi sbarrati. Poi cominciò ad affondare lentamente in una miriade di bollicine.

Kesler la fissò ed ebbe un violento sussulto. “No, non è possibile”, mormorò credendo di avere le traveggole.

Eppure lo era.

Quello che stava guardando era il corpo, ormai senza vita, di O-rietta Grifoni.

48

Sotto lo sguardo perplesso di una delle quattro guardie di turno nella guardiola di sorveglianza all’ingresso della tenuta, sca varcò il cancello, e si mise a correre per raggiungere una Mercedes sportiva che stava parcheggiata a breve distanza sul vialone. Calzava scarpe da ginnastica e indossava la giacca a vento sopra un maglione dolcevita bianco e dei jeans celesti. Con una mano si stringeva sotto il mento il bavero per proteggersi dal vento gelido.

“Allontaniamoci da qui”, disse brusca rivolta a Pietro Mattei non appena salita a bordo, senza salutarlo.

“Perché?”

“Siamo troppo vicini alla villa, e non mi va di farmi vedere in tua compagnia.”

“Non ne comprendo la ragione.”

“La ragione è che qualcuno potrebbe riconoscerti e spettegolarci sopra, magari tirandone fuori la conclusione strampalata che ci siamo rimessi insieme.”

“Ti dispiacerebbe?”

“Di più, mi irriterebbe.”

Pietro non replicò mordendosi la lingua per tenere a bada la tentazione di reagire dicendole qualcosa di sgarbato per quello che non poteva non considerare un palese insulto. Ricordò la raccomandazione di Leardo di trattarla con tatto e diplomazia.

Avviò il motore e fece inversione mentre lei si allacciava la cintura. Percorse il viale fino in fondo e imboccò la rampa di accesso alla tangenziale in direzione di Milano, procedendo poi a una andatura molto moderata sulla corsia di destra. Il traffico era intenso, ma scorrevole. Azionò i tergicristalli sulla velocità intermittente, per spazzare dal parabrezza una pioggerella che aveva appena cominciato a cadere. “Spero di non averti distolto da qualcosa di importante di cui ti stavi occupando”, disse girando un attimo la testa verso di lei per scoccarle un’occhiata.

“Ero in piscina con un’amica e mi accingevo a fare una bella nuotata.” Il tono era chiaramente seccato.

Poco più di mezz’ora prima, sca e Orietta avevano fatto il loro ingresso nel locale della piscina.

“Prendiamo qualcosa di caldo ai distributori del bar?” La prima aveva subito proposto. “Lì possiamo sederci e parlare con calma, no?”

“E’ una magnifica idea. La nuotata può aspettare…” Erano entrate nel bar deserto, e si erano servite due caffè espressi e due briosce dai distributori automatici. Quindi, si erano sedute a un tavolino. Orietta era apparsa turbata per via del notevole imbarazzo che avvertiva nel dover affrontare l’argomento che le stava a cuore. Ma aveva ormai deciso di farlo. Doveva accertare se sca era

sincera, e se rispondeva a verità quello che Kesler le aveva raccontato sul suo conto. Era rimasta in silenzio a sorbire il caffè, in attesa che fosse l’altra a intavolare il discorso.

“Allora, cara…” sca aveva esordito strappando l’involucro di cellophane che avvolgeva la brioscia. “Cos’è che volevi dirmi a proposito di quello che è successo ieri sera con mio zio?” Aveva preso un sorso di caffè. “Come ti ripeto, ne sono costernata. Se soltanto avessi saputo che eri da lui, mi sarei ben guardata dal disturbare.”

Orietta aveva tratto un profondo sospiro prima di dire: “C’è una domanda, per me molto importante e delicata, che devo rivolgerti, ma ti prego di rispondermi con sincerità.”

“Come puoi dubitare che non lo farei, Orietta?” Le aveva sorriso addentando la brioscia. “Di’ pure, ti ascolto.”

“Avresti niente in contrario se tuo zio mi chiedesse di sposarlo e io accettassi?”

Di nuovo sca le aveva sorriso, ma stavolta con aria saputa, come si fosse aspettata la domanda.

“Perché mai dovrei, mia cara?” Aveva inclinato la testa fissandola intensamente. “Cosa ti fa pensare che potrei non esserne felice?” Aveva fatto una pausa. “Ma ricordo che ne abbiamo già parlato qualche volta, no?”

Orietta era stata sul punto di tirare fuori quello che Kesler le aveva riferito sulla questione dell’eredità, quando da una tasca laterale del borsone di sca era venuto il trillo del suo cellulare.

Lo aveva tirato fuori controllando il display.

“E’ la portineria”, aveva spiegato perplessa portandoselo all’orecchio. “Pronto?”

“Sono spiacente di disturbarla, signorina Martinoni, ma c’è qui un signore che desidera parlarle. Dice di chiamarsi Pietro Mattei e di essere un suo amico. Posso farlo are?”

Naturalmente era stato Leardo a mandarlo, sca aveva pensato. Voleva sapere da lei qualcosa, oppure aveva qualcosa da comunicarle. Nei pochi secondi che erano trascorsi prima di rispondere, non era riuscita a soffocare un senso di panico. Cosa volevano? si era chiesta allarmata. Erano trascorse appena ventiquattrore dal colloquio con Leardo. Avevano forse scoperto l’esistenza di Sergio, e che lei lo aveva accompagnato a Linate? Era stata tentata di rifiutarsi di vederlo, adducendo il pretesto che era impegnata. Ma a cosa sarebbe servito? Soltanto a rinviare l’incontro di qualche ora o di un giorno al massimo.

La verità era che non se la sentiva di esprimersi o prendere iniziative senza aver prima visto Sergio. Tuttavia, aveva deciso che avrebbe fatto meglio a parlargli, quanto meno per sentire che cosa aveva da dirle. Ma non lì in presenza di Orietta che ascoltava.

“Signorina Martinoni? E’ ancora Lì?” La voce roca della guardia si era alzata di tono.

“Sì, sono ancora qui. Certo… conosco l’avvocato Mattei. Gli dica di attendermi appena fuori dal cancello. Lo raggiungerò tra cinque minuti.”

Aveva chiuso la comunicazione, e poi si era rivolta a Orietta, dicendo: “C’è un mio amico che desidera parlarmi. Non so di che cosa.”

“Oh!” lei aveva esclamato. “Qualcuno che conosco?”

“Non credo. E’ il mio ex. Abbiamo convissuto per due anni, fino a quando, cinque anni fa, mi ha dato il benservito per evitare di sposarmi.”

“Mi dispiace… Mi sembra una storia triste.” Appariva sinceramente rammaricata. “Di’ un po’…, non sarà per caso che ha avuto un ritorno di fiamma che gli ha fatto cambiare idea?”

sca si era stretta nelle spalle. “Lo ha certamente avuto, ma a me non mi frega più un accidente di lui. Quella storia è morta e sepolta.”

“Cosicché… devi per forza andare a incontrarlo…”

“Sì, non posso proprio farne a meno. Devo cercare di scrollarmelo definitivamente di dosso. Ma non credo che starò via per molto.” Aveva mandato giù il caffè con un paio di sorsi. “Aspettami, così riprenderemo la nostra conversazione.”

“Naturalmente… Nel frattempo faccio un idromassaggio.”

“Mi tieni il borsone?”

“Certo.”

“A più tardi, allora.” Si era alzata dirigendosi verso l’uscita del bar.

“Aspetta un momento, sca!” Orietta le aveva gridato alle spalle, facendola ruotare di colpo su se stessa.

“Sì?”

“Ora ricordo di aver dimenticato la mia cuffia da nuoto. Ti spiace prestarmi la tua? Odio bagnarmi i capelli nell’acqua clorata.”

“Non c’è problema, cara. Prendila pure, è nel mio borsone.”

Ora, dopo alcuni minuti che percorrevano in silenzio la tangenziale, sca disse a Pietro: “A proposito… come hai fatto a sapere che ero a Villa Olga?”

Pietro si aspettava la domanda e rispose senza esitare: “L’ho immaginato dopo che stamattina ti ho telefonato a casa e non rispondevi. Ti avrei chiamato sul cellulare se soltanto ne avessi avuto il numero.” Si guardò bene dal dirle che l’aveva seguita il giorno prima. sca non aprì bocca per quasi un minuto, poi disse: “Allora… che cosa aspetti a dirmi perché sei venuto a trovarmi?”

“Leardo vuol sapere sei hai notizie.”

“Su Kesler, immagino.”

“Sì, esatto.”

Lei fece una smorfia infastidita. “Stai scherzando, vero? Come potrei averne dopo che sono ate meno di ventiquattrore dal nostro colloquio?”

“Kesler è in villa, no?”

“Sì, per il weekend. Ma io l’appena intravisto. E’ sempre impegnato con mio zio.” Tacque per qualche attimo. “Comunque ho riflettuto sulla richiesta di Leardo. Non credo di avere granché da aggiungere sul suo conto, a quello che ho appreso da lui.”

“Ne sei proprio certa?”

“Certissima.” Tacque per un attimo. “Quello che so è che Kesler sta aiutando

mio zio in una faccenda politica.”

“Aiutando?” Pietro ebbe un risolino sarcastico. “Qualche idea di cosa potrebbe trattarsi?”

“Sono certa che abbia a che fare con la campagna elettorale. Non fanno che parlarne quando sono insieme…” Si accese un’altra sigaretta e lui notò che le tremavano le mani. Parlava scandendo le parole e con fare guardingo, attenta a non dire troppo.

Pietro continuava a guidare a lenta andatura. Ora la pioggia cadeva più intensa e regolò i tergicristalli sulla velocità costante. Durante il tragitto di andata a Villa Olga, non aveva fatto che riflettere sull’atteggiamento da assumere con sca. L’idea di portarla nel suo appartamento per interrogarla con tranquillità, l’aveva abbandonata dopo che si era reso conto della fredda accoglienza che gli aveva riservato. Era certo che gli avrebbe opposto un fermo rifiuto.

Gli sarebbe piaciuto scoprire la vera natura del suo coinvolgimento con Kesler in quella storia. Stabilito senza ombra di dubbio che lei non avrebbe mai fatto niente che potesse danneggiare Martinoni , come aveva fatto Kesler a persuaderla ad accompagnare Salvo a Milano? Con quale pretesto? Dio solo lo sapeva. Se lei lo stava proteggendo perché ne era innamorata, allora conveniva con Leardo che un approccio morbido per non allarmarla o indispettirla, era la strategia più saggia da adottare.

Quel mattino aveva mentito a Leardo nel suo ufficio, quando aveva negato che ci fosse qualcosa di personale nella sua richiesta di interrogarla per primo. Non aveva voluto ammettere che in realtà covava un grande rancore verso di lei. Fonte ne era, per un verso l’orgoglio ferito per quel suo atteggiamento di totale

chiusura alla sua proposta di riesumare il loro vecchio rapporto, e per l’altro la consapevolezza che l’uomo che aveva preso il suo posto, non era di gran lunga del loro stesso ceto sociale. Di certo era un pregiudicato, e forse, stando a quanto Leardo sospettava, un killer professionista. Eppure, se lei ne aveva fatto il suo amante, rifletté, doveva signifi-care che le aveva dato quello che lui, in due anni di convivenza, non era mai stato in grado di offrirle.

Anzitutto, aveva frustrato la sua aspettativa di matrimonio.

Erano queste le considerazioni che accrescevano a dismisura il suo risentimento verso di lei. Pur tuttavia, era consapevole che non doveva permettere di esserne influenzato. Comportarsi in modo impersonale era un prerequisito indispensabile nel trattare una questione tanto delicata. Le scoccò una occhiata sfuggente. Aveva lo sguardo duro, e sembrava stanca e nervosa. Fumava una sigaretta dietro l’altra.

“Credi ancora che Kesler sia di destra?” le chiese.

“Non più da quando Leardo mi ha detto che è comunista, membro di un’organizzazione criminale segreta, e pronto a tradire mio zio.”

Improvvisamente, Pietro accelerò come si fosse stancato di procedere lentamente con un’auto sportiva tanto potente. “E’ vero, collabora con i rossi”, disse. “Sto imparando che il lavoro dei Servizi segreti è quanto mai avvincente e imprevedibile. Prima abbiamo acquisito l’importante indizio del suo incontro a Parigi con quel Reynaud, il capo di questa specie di setta criminale segreta. Poi, d’improvviso, ci sono pervenute stamattina altre segnalazioni. Altre tessere sciolte di un mosaico che stiamo componendo un po’ alla volta. Sicché ora disponiamo di ulteriori indizi.” Nonché della prova del tuo coinvolgimento diretto in questa faccenda, avrebbe voluto dirle. Ma tacque sollevando il piede

dall’acceleratore per ridurre la velocità.

“Di che indizi si tratta?” lei chiese. C’era traccia di paura nella voce. Era palpabile, e lui se ne accorse chiedendosene la ragione. Credette di intuirla. Sapeva che non era una donna facilmente impressionabile; ciononostante sembrava spaventata, ma non doveva esserlo per se stessa.

“Anzitutto, ora sappiamo per certo che non siete andati a Beirut per lavoro, sca.”

Lo disse senza esitazione girandosi di nuovo a guardarla: appariva tesa fino alla spasimo. “Vi siete occupati di ben altro, di qualcosa di molto inquietante. Poi Kesler è andato a Parigi per riferirlo a Reynaud e tu sei ritornata a Milano.” Si fermò per un attimo. “Perché hai mentito a Leardo sullo scopo di quel viaggio?”

Pietro si accorse che si era messa a tormentare la lampo della giacca a vento, un gesto con cui riusciva in parte a scaricare la tensione. Per lui era il segno inequivocabile che lei sapeva qualcosa che non poteva riferire senza rivelare l’esistenza del suo amante. Quindi, non fu sorpreso nel sentirsi dire: “Non gli ho mentito. Per quanto mi riguarda il viaggio a Beirut è stato per lavoro. Se Kesler si è occupato anche di qualcos’altro, lo ha fatto per suo conto e a mia insaputa.”

“Intendi dire che non siete stati insieme tutto il tempo durante quei tre giorni di permanenza?”

“Esattamente. Il secondo giorno, lui si è assentato per tre ore circa. Ha preso una macchina a nolo di prima mattina e si è recato, a suo dire, a trovare un tizio con cui aveva fatto amicizia durante le vacanze in Libano, nell’estate scorsa.”

Lui annuì. Poi disse: “Puoi dirmi di che genere di lavoro si è trattato?”

“Certo… L’esame di una proposta del canale televisivo libanese CLT, per una mia parte da protagonista in una fiction ambientata a Beirut, durante la guerra mediorientale, tratta dal celebre romanzo di Oriana Fallaci dal titolo Insciallah.”

“Andrà in porto?”

“Ne dubito. Alla fine non se ne farà niente.”

Malgrado il nervosismo di cui era preda, si compiacque con se stessa per quella menzogna di cui era stata capace grazie a quello che si era ricordata sulla guerra in Libano, quando Kesler gliene aveva parlato in albergo, al loro arrivo a Beirut.

Pietro annuì di nuovo. “Capisco.” Continuò a riflettere, la fronte corrugata, gli occhi puntati sulla strada. sca gli sembrò since-ra. Non tanto sulla storia della fiction, quanto sul particolare di quella breve assenza di Kesler. Se rispondeva al vero, allora tutto calzava a pennello come le dita di un guanto, pensò. Kesler l’aveva lasciata sola con un pretesto, per il tempo necessario ad andare da qualche parte per reclutare quell’uomo. Poi era riuscito a convincer-la ad accompagnarlo a Milano, inventandosi un storia, chissà quale, per motivare la sua richiesta.

“Tu sei ritornata a Milano da sola, non è così sca?” Lo disse con fare disinvolto e casuale, continuando a tenere lo sguardo diritto davanti a sé.

Lei quasi si sentì mancare, e avvertì una forte nausea. Disse: “Non so di cosa diavolo tu stia parlando.” Girò la testa verso il fine-strino, come per impedirgli di guardarla in faccia. “Certo che sono ritornata da sola, e con chi altri sennò? Kesler è andato a Francoforte per affari, o almeno questo è quello che mi ha detto.”

Ora avvertiva un intenso bisogno di abbassare il finestrino, a dispetto della giornata fredda e ventosa. L’abitacolo della Mercedes si era d’un tratto trasformato in una sorta di cubicolo che sembrava restringersi su di lei procurandole una sensazione di soffocamento. “Ho caldo”, disse. Con un movimento febbrile, fece scorrere la mano lungo il bordo liscio dello sportello, rivestito di pregiata radica, ma non trovò il pulsante che azionava il cristallo elettrico del fine-strino.

“Il pulsante è sul cruscotto, in basso a destra”, lui disse. “Ecco…” Si sporse di lato verso di lei, staccò la mano dal volante e lo premette. Il finestrino si abbassò con un ronzio. Quel gesto gli diede la possibilità di guardarla in volto: era pallida, sembrava che stesse male. Rallentò e accostò fermandosi all’interno di una piazzola di sosta. “Che cosa ti prende, sca? Non stai bene?”

“Sento un caldo terribile.” Si appoggiò allo schienale del sedile e chiuse gli occhi per un istante respirando a fondo. Non era mai svenuta in vita sua, ma ora si rese conto che negli ultimi secondi vi era andata molto vicino. Quindi, pensò, sembrava che avessero scoperto l’esistenza di Sergio e che lei lo aveva accompagnato a Milano. Ma Pietro, per qualche imperscrutabile ragione, non glielo aveva ancora contestato esplicitamente.

“Sta’ tranquilla”, lui le disse in tono rassicurante posandole una mano sul braccio. Sentì attenuarsi quel senso di astio che provava verso di lei. Uscì dalla piazzola riprendendo la marcia. “Come va adesso? Stai meglio?”

“Ora sto bene. Questo weekend mi sta stressando. Non ho dormito granché stanotte.”

Ora Pietro era molto indeciso su come procedere da quel punto in avanti. Rifletté che forse sarebbe stato controproducente andare fino in fondo, riferendole proprio tutto quello che il Sisde aveva scoperto, compresa la sua responsabilità per aver accompagnato quell’uomo fino a Linate facendogli da copertura, dopo che Kesler lo aveva ingaggiato. Doveva dirle, si chiese, che sapevano che lo aveva ospitato nel suo appartamento di via Vincenzo Monti, e che sospettavano che fosse divenuto il suo amante? Che cosa ne avrebbe ricavato alla fine se lo avesse fatto? Al massimo l’ammissione da parte della giovane di cose di cui il Sisde era già al corrente. Non sarebbe di certo servito a farle rivelare il nascondiglio del ricercato. Lei avrebbe negato fino alla morte di esserne a conoscenza, pur di proteggerlo. Ricordò che Leardo gli aveva raccomandato di non darle l’impressione che voleva torchiarla.

L’obbiettivo principale era scoprire dove il criminale si nascondeva per fermarlo, e Pietro rifletté che c’era una strada che poteva battere per raggiungere lo scopo. Poteva rivelarsi traumatica per lei a causa di ciò che sarebbe stato costretto a dirle, ma, probabilmente, molto più agevole e sbrigativa del ricorso alle maniere forti: vale a dire ore di interrogatorio serrato di una donna determinata a custodire un segreto. Per non dire del dispendio di tempo di fronte alla urgenza di rintracciare quell’uomo in tempo prima che eseguisse l’incarico per il quale era stato assoldato.

Decise, pertanto, che avrebbe rinunciato a contestarle le sue responsabilità dirette, a evitare di inasprirla ulteriormente, e considerato che in fondo aveva agito in buona fede in quanto del tutto ignara del vero scopo di ciò che Kesler le aveva chiesto di fare. Si sarebbe limitato a dirle lo stretto necessario per rendere possibile la realizzazione del suo piano. Questo comportava evitare di scendere troppo nei dettagli. “Mi corre l’obbligo, sca, di metterti a parte di alcuni importanti sviluppi della nostra indagine”, disse senza guardarla. “Soprattutto

visto che riguardano tuo zio.”

“Di che si tratta?”

“Ci risulta che Kesler si sia recato a Beirut con lo scopo principale di reclutare un uomo per conto di quella organizzazione criminale di cui è membro.”

“Un uomo?” Lei finse enorme sorpresa.

“Sì, e ora ritengo, dopo quello che mi hai detto, che lo abbia fatto durante quelle tre ore in cui ti ha lasciato sola nel giorno successivo al vostro arrivo. E’ chiaro che voleva tenertene all’oscuro.” Si fermò un istante per guardarla, ma lei non fiatò sforzandosi, ma senza veramente riuscirci, di apparire calma.

“Pensiamo che gli abbia affidato”, lui proseguì, “un importante incarico dietro corresponsione di una grossa somma di denaro.”

“Che genere di incarico?”

Lui non rispose subito a quella domanda, ma continuò dicendo: “Abbiamo la certezza che sia riuscito a farlo arrivare a Milano, dove ora si nasconde da qualche parte.” Fece una breve pausa. “Sospettiamo che, proprio in queste ore, si stia preparando a compiere un atto criminoso.”

“Che sarebbe?” lei chiese con un filo di voce.

“Uccidere un uomo.”

“Cosa?!” Sbiancò di colpo. “Non dirmi che si tratta di mio zio…”

“No, siamo convinti che tuo zio non corra alcun pericolo. Questo Leardo te lo avrà già assicurato, immagino...”

“E allora?”

“Purtroppo non abbiamo la più pallida idea di chi possa essere la vittima designata. Leardo dice che potrebbe trattarsi di un personaggio illustre, magari nemico o avversario di tuo zio. Ragion per cui il suo omicidio potrebbe far cadere il sospetto su di lui.” Si fermò per qualche secondo. “Come mandante, naturalmente.”

“Ma per quale scopo?”

“Come sappiamo, Kesler opera per conto di una organizzazione segreta comunista, e come tale interessata a eliminare tuo zio dalla scena politica. In che modo? Facendo sollevare un tale sdegno popolare nei suoi confronti da indurlo a gettare la spugna. Oppure a fargli perdere le prossime elezioni, favorendo, in questo modo, l’insediamento nel nostro Paese di un governo a guida comunista.”

Pietro tacque, e girò la testa per lanciarle un’altra breve occhiata: vide che stava di nuovo male. Era bianca come un cencio, e aveva ripreso a tormentare la

lampo della giacca a vento. Si mosse nervosamente sul sedile come per ricercare una posizione più confortevole. Disse: “In sostanza…, mi stai dicendo che quell’uomo potrebbe essere un…” Non completò la frase scuotendo il capo incredula.

“…killer professionista”, l’altro aggiunse.

Lei rimase in silenzio. No, non è possibile, pensò. Sergio un killer? E’ una follia. Non può essere vero.

“Ora, dopo quello che ti ho detto”, Pietro riprese, “capirai l’urgenza di scovarlo per fermarlo, costi quel che costi. Il Sisde gli sta dando la caccia di concerto con i carabinieri e la polizia. Pensiamo che si nasconda in qualche albergo, probabilmente di bassissimo livello. Sono stati sguinzagliati decine di agenti per setacciarli tutti a uno a uno. Potrebbe essere catturato e arrestato da un momento all’altro.”

“Capisco”, lei si limitò a dire.

“Torniamo indietro?” lui disse improvvisamente nel rendersi conto che erano ormai giunti a solo cinque chilometri da Milano.

Lei rifletté prima di rispondere e dopo aver guardato l’orologio sul cruscotto. Fu sorpresa nel constatare che si erano fatte le dodici e un quarto. “No, Pietro. Non voglio tornare a Villa Olga. Vuoi portami a casa, per favore?” Il tono di voce si era molto ammorbidito.

“E la tua macchina?”

“Chiederò a qualcuna delle guardie di turno di portarmela a Milano, insieme alle mie cose.”

“Sei propria certa?”

“Certissima. Avrei comunque dovuto rientrare nel primo pomeriggio. Ho un affare urgente da sbrigare.”

Pietro aveva una certa idea di cosa potesse trattarsi. Ora era quasi certo che il suo piano avrebbe funzionato. Aveva gettato l’esca e non gli restava che attendere che il pesce abboccasse.

“D’accordo. Allora ti accompagno a casa.”

In quel momento furono raggiunti da un’auto di grossa cilindrata grigia metallizzata, che sembrava viaggiare a una velocità supersonica. Li oltreò sfrecciando lungo la fiancata della Mercedes, che fu investita dallo spostamento d’aria.

“Quello è matto da legare!” Pietro esclamò. “Andrà sui duecento. Meriterebbe di finire in gattabuia, oltre il ritiro della patente.”

sca osservò la lussuosa vettura allontanarsi divorando la strada. “E’ Kesler

che torna a Milano”, disse. “Riconosco la sua Thesis dal numero di targa.”

“Che cos’ha, il diavolo alle calcagna?”

“E’ strano…”, lei disse perplessa.

“Che vada così forte?”

“Non tanto quello, quanto il fatto che stia ritornando a Milano. Di solito si ferma a Villa Olga per l’intero weekend.”

“Avrà un’urgenza.”

“Può darsi.”

Nel girò di mezz’ora, la Mercedes imboccava via Vincenzo Monti. La percorse fino a fermarsi davanti all’ingresso dello stabile in cui abitava sca. La pioggia era cessata, e la giovane scese frettolosamente dalla vettura.

“Vuoi che ti accompagni su?”

“No, non occorre. Sto bene.” Tutt’a un tratto sembrò ansiosa di liberarsi di lui. “Va’ pure. Ci sentiamo se ci sono novità.”

Lui la studiò per un istante: vide che aveva ripreso un po’ di colorito, ma appariva ancora molto nervosa. La osservò scomparire oltre l’ingresso del palazzo. Poi avanzò lentamente guardando nello specchietto retrovisore esterno. Vide quello che si aspettava. A qualche metro di distanza lungo il marciapiede, dall’altra parte della strada, stava tranquillamente parcheggiata la Peugeot 204 bianca del Sisde, di cui Leardo gli aveva parlato quel mattino. Al volante, intento a fumare una sigaretta, c’era un giovane bruno e mingherlino. Proseguì svoltando a destra in via Pagano, ma percorsi un centinaio di metri, accostò al marciapiede e si fermò. Scese dall’auto e raggiunse in fretta la Peugeot salendovi a bordo.

“Salve”, disse sorridendo al giovane agente.

“Salve, avvocato Mattei, sono lieto di fare la sua conoscenza.”

“Come ti chiami?”

“Tiziano Calvi.”

“Bene, Tiziano, mi sa tanto che dovrai sopportare la mia compagnia per un bel po’ di tempo…”

“E’ un piacere.”

Pietro estrasse il cellulare e chiamò Leardo per riferirgli quello che aveva fatto, e

come proponeva di procedere nei confronti di sca. L’altro si disse d’accordo.

Se il fiuto non lo tradiva, pensò, era certo che la ragazza, dopo quello che le aveva raccontato sul suo amante per impaurirla, sarebbe presto uscita per correre da lui a metterlo in guardia

E lui era lì pronto a seguirla.

49

Fu uno degli addetti alla vigilanza a scoprire il corpo esanime di Orietta nella vasca idromassaggio, intorno alle dodici e mezza.

Nel corso del suo consueto giro di ispezione all’intero padiglione, era rimasto perplesso nel notare su un tavolino del bar deserto i due bicchieri di polistirolo vuoti, e gli involucri accartocciati di cellofan. Indicavano, contrariamente a quanto si aspettava, la presenza di qualcuno da qualche parte nella struttura.

Nel proseguimento della ricognizione, ad attirare la sua attenzione era stata la porta spalancata dell’idromassaggio, e il particolare che l’impianto fosse in funzione malgrado che, guardando dentro il locale dalla soglia, sembrava non esservi nessuno immerso nella vasca. Incuriosito, si era portato sul bordo facendo la macabra scoperta. Era prorotto in un: “Santo Iddio!”, e si era precipitato a chia-mare il capo della sicurezza col cellulare. Ma, non conoscendo O-rietta dato che era un nuovo assunto, aveva semplicemente denunciato la presenza di un cadavere di donna nella vasca.

Il capo della sicurezza, aveva a sua volta avvertito la segreteria di Martinoni. Per ordine immediato di quest’ultimo, due guardie giurate erano state piazzate davanti all’ingresso del padiglione, con il compito di bloccare chiunque tentasse di uscirne o di entrarvi.

All’arrivo del Magnate, il corpo di Orietta era già stato ripescato e trasportato in infermeria, dove ora giaceva disteso a faccia in giù sulla lettiga, le braccia penzoloni. Una delle guardie stava esercitando con i palmi delle mani ritmiche e forti pressioni sulla schiena, in un futile tentativo di rianimazione. Era un’operazione dettata più da un senso di scrupolo che altro, per escludere, cioè,

la remota eventualità di un residuo barlume di vita. Ma l’unico risultato era il defluire, attraverso la bocca, di una grande quantità di acqua dai polmoni allagati. Martinoni guardò il cadavere, e il cuore gli saltò in gola nel riconoscere la cuffia di sca. “Dio!” urlò con voce spezzata coprendosi il volto con le mani, come rifiutandosi di indugiare con gli occhi su quello spettacolo raccapricciante.

Nel vederlo, l’uomo che si stava prodigando nel vano sforzo di resuscitare il corpo inerte, si fermò e gli si avvicinò dicendogli con tono reverenziale, lo sguardo rammaricato: “Mi dispiace, ma non c’è niente da fare, signor Martinoni.” Scosse il capo. “E’ morta annegata.”

“Ma com’è potuto accadere? Come si fa ad affogare dentro la vasca di un idromassaggio?” La voce era incrinata dallo shock e dal dolore. Era la sua unica nipote. L’amava forse più dei propri figli. Si era tolto le mani dal volto e ora osservava la salma con un’espressione disperata. L’acqua che continuava a sgorgarle dalla bocca gocciolava sul pavimento, dove aveva formato una larga pozza.

“E’ difficile dirlo”, l’altro gli rispose. “La signorina Grifoni deve aver avuto un infarto, o qualcosa di simile. Deve averle fatto perdere i sensi impedendole di uscire dalla vasca dov’è annegata.”

Martinoni sobbalzò. “La signorina Grifoni?!” esclamò sbalordito. “Ma non è mia nipote? Cristo! Perché non me l’ha detto subito? Svelto, la metta supina.”

L’uomo eseguì l’ordine.

Il Magnate si chinò a scrutare il cadavere come per accertarsi, senza ombra di dubbio, che fosse proprio di Orietta. Da stravolto per il dolore il suo volto assunse di colpo un’espressione impietosita. Naturalmente, la cuffia di sca dalla quale la sua convivente doveva averla presa in prestito, l’aveva tratto in inganno.

Si mise a riflettere.

Quello era il genere di notizia su cui – una volta divenuta di dominio pubblico – tutti i suoi nemici, avversari politici, e i media a loro asserviti, si sarebbero gettati come avvoltoi cercando di ravvisarvi gli estremi di uno scandalo. Omicidio, suicidio o incidente? sarebbe stato il triplice interrogativo.

L’ipotesi di una morte accidentale, causata da un improvviso malore della donna, che l’aveva bloccata nella vasca come in una trappola mortale, non sarebbe stata granché considerata. Ma un pensiero lo colpì che cominciò ad angustiarlo. E se Orietta, si chiese, si fosse suicidata per davvero, in seguito alla bruciante umiliazione che le aveva inflitto la notte precedente cacciandola dalla propria stanza quando era arrivata sca? Ora si maledisse per averlo fatto, pur conoscendone la grande sensibilità. Sapeva della sua aspirazione a diventare sua moglie, perché gliene aveva fatta più volte esplicita richiesta. Lui le aveva fatto spesso balenare l’illusione che, prima o poi, si sarebbe deciso a compiere il o, ma i suoi comportamenti erano sempre stati tali che, alla fine, dovevano averla convinta che si prendesse gioco di lei, e che l’idea di sposarla non albergasse nella sua mente e nel suo animo. Forse aveva ormai acquisito la certezza che gli interessasse soltanto per andarci a letto, nei momenti in cui era stimolato dalla forza delle sue pulsioni lussuriose. L’episodio della sera prima poteva essere stato la proverbiale ‘goccia’: quel mattino si era lanciata nella vasca idromassaggio colma di acqua, e si era data la morte ingurgitandone in gran quantità fino a perdere i sensi e annegare.

Avvertì un forte senso di colpa, anche se quello era un problema secondario.

Correva il rischio, rifletté, di vedere la propria immagine irrimediabilmente compromessa dalle illazioni che coloro che desideravano vederlo rovinato, si sarebbero dati un gran da fare a montare, al fine di screditarlo agli occhi dell’elettorato nell’imminenza di una campagna elettorale che lo vedeva ampiamente favorito nei sondaggi. Qualunque fosse la causa del decesso, pensò, doveva fare in modo che lo stesso venisse presentato pubblicamente come una tragica fatalità. Ciò non toglieva che doveva cercare di scoprirne, per uso proprio, la vera ragione.

Continuando a tenere lo sguardo posato sulla salma, estrasse il cellulare e selezionò in rubrica il numero del suo medico di famiglia. Il dottor Tullio Rigatti era suo coetaneo, oltre che amico di vecchissima data.

Abitava in una sontuosa villa a due piani immersa nel verde di un vasto giardino recintato in ferro battuto, a poco più di due chilometri da Villa Olga. Era stato lo stesso Martinoni a vendergliela cinque anni prima a un prezzo di favore, di poco inferiore, cioè, ai seicentomila euro del suo valore di mercato. Sulla proprietà gravava un mutuo ipotecario ventennale di trecentocinquantamila euro.

Cardiologo di fama e medico generico, Rigatti divideva con un otorinolaringoiatra un prestigioso studio in via Manzoni, un’elegante strada del centro cittadino. Martinoni si fidava ciecamente di lui. Era soprattutto molto noto per l’affidabilità delle sue diagnosi e l’efficacia delle terapie che prescriveva. Da sempre teneva in monitoraggio la sua salute e quella della intera famiglia con checkup periodici e costanti. Oggi era sabato ed era certo di trovarlo in casa.

Rispose al secondo squillo, e Martinoni gli fece un rapido resoconto dell’accaduto, pregandolo di raggiungerlo nel suo studio, ma non prima di essere ato dall’infermeria per un accurato esame del cadavere della vittima. Il medico, dopo l’iniziale stupore accompagnato da espressioni di profondo cordoglio, si era detto più che disponibile.

50

Un’ora dopo, Rigatti veniva fatto accomodare nello studio di un Martinoni in stato di ansia crescente. Non faceva che tamburellare con le dita di una mano sul ripiano della scrivania dietro cui sedeva. Il medico era un uomo alto dalla corporatura massiccia, semicalvo e dal volto rubizzo e paffuto che esibiva un cospicuo doppio mento. Dato che era sabato, vestiva in modo informale: un pesante giaccone di pelle scuro con collo di pelliccia, sopra pantaloni di fustagno e un maglione a girocollo bianco. Reggeva nella mano sinistra la valigetta professionale, e nella destra il suo portatile – un Apple iBook 600 – con cui sempre si muoveva nelle visite a domicilio, e il cui hard disk conteneva l’archivio di tutti i suoi pazienti.

“Eccoti, finalmente!” Martinoni esclamò nel vederlo. Senza alzarsi in piedi, gli strinse la mano e gli indicò la poltroncina davanti alla scrivania, dicendo: “Mettiti pure comodo, Tullio.” L’altro si tolse il giaccone che piegò con cura adagiandolo sulla spalliera del divano, e si sedette tenendo il portatile posato sulle ginocchia.

“Allora, Tullio…”, il Magnate subito lo incalzò, impaziente. “Cos’è che hai trovato?”

“Morta per annegamento, Ugo, su questo non ci piove. Direi che il decesso risale a un’ora e mezzo fa, o giù di lì.”

“Ma com’è potuta succedere una cosa simile nell’acqua così poco profonda della vasca, a meno di un improvviso malore, tipo un infarto fulminante o qualcosa di simile?” Tacque fissandolo intensamente. “Non ti sarà per caso sfuggito qualcosa al suo ultimo checkup? Voglio dire… qualcosa che non le hai diagnosticato?”

Il medico sembrò adombrarsi. “L’ultimo controllo risale a soltanto due mesi fa”, replicò in tono lievemente risentito, “e posso assicurarti che nulla mi è sfuggito.” Così dicendo sollevò il coperchio del laptop, lo accese e digitò sulla tastiera il nome di Orietta. Si mise a studiare attentamente lo schermo da 14 pollici. “Dunque…, vediamo un po’…”, disse. “Tutti i più recenti dati clinici di cui dispongo indicano che Orietta godeva di una salute di ferro. L’emocromo completo risulta perfetto. Il colesterolo è addirittura a centosessanta, e non c’è una sola analisi fuori dai parametri. Sia l’elettrocardiogramma che l’ecocardiogramma sono assolutamente nella norma. Altrettanto dicasi della pressione arteriosa.” Si inter-ruppe per alcuni secondi. “Quindi, un improvviso, grave malore di qualsivoglia natura è altamente improbabile, per non dire impossi-bile.” Chiuse il portatile con uno scatto, e fissò il suo interlocutore incrociando le braccia sul petto, gli angoli della bocca piegati verso il basso in una espressione di durezza professionale. Sapeva di non aver commesso nessun errore nello stabilire lo stato di salute della sua paziente, e non avrebbe permesso a Martinoni di insinuare il contrario. Tuttavia, diverso poteva essere dalla verità quello che era disposto a certificare sulle cause del decesso, laddove il suo amico avesse dovuto fargliene esplicita richiesta.

“Allora spiegami com’è potuto accadere…”, Martinoni gli disse con tono alterato. “Stai per caso cercando di dirmi che ha semplicemente aperto volontariamente la bocca ingurgitando acqua fino ad annegare?” Tacque per alcuni secondi. “Ma Cristo, Tullio, ti rendi conto dell’impatto negativo che questa storia può avere sulla mia persona? Orietta non può aver sofferto alcun un malore, tu dici, perché aveva una salute di ferro. E tuttavia è annegata. Presentata in questo modo, non può che sembrare un suicidio. Ci sarà un’inchiesta per cercare di capirne il motivo. I miei nemici andranno a nozze nello strumentalizzare l’accaduto contro di me. Faranno in modo che l’opinione pubblica lo percepisca come uno scandalo, e questa è l’ultima cosa di cui ho bisogno in questo delicato momento.” Si fermò per studiarlo attentamente. “Tu pensi davvero che si sia tolta la vita?”

Martinoni gli corrispondeva un onorario fisso annuo di ben cinquantamila euro,

soltanto per la sua disponibilità ad accorrere in qualsiasi momento in caso di necessità. Non comprendeva i lauti onorari per le visite. Era giunto il momento, il Magnate pensò, che il medico dimostrasse in qualche altro modo di meritare il suo denaro.

“Annegarsi nella vasca di un idromassaggio”, Righetti disse, “è un modo balordo e di non facile praticabilità per togliersi la vita. Richiede grande volontà e impegno. Ma, a mio avviso, è del tutto concepibile nel caso di un soggetto disperato, preda di un irrefrena-bile istinto suicida.” Fece una breve pausa. “Tuttavia, per rispondere alla tua domanda…, io non ritengo affatto che darsi la morte fosse nelle intenzioni di Orietta .” Lo disse con convinzione.

“E allora?”

“Ci possono essere casi di morti violente, Ugo, in cui il confine tra suicidio, incidente, e anche omicidio, può essere difficilmente definibile. Ma non è il caso nostro.” Si interruppe per alcuni secondi fissandolo. “Ho il fondato sospetto che abbiamo per le mani un omicidio in piena regola.”

Martinoni trasalì. “Cosa? Stai scherzando, vero?” Il tono di voce si alzò di un’ottava. “Ma è assurdo! Chi mai poteva desiderare la morte di una donna di indole mite e amabile qual era Orietta. Era la bontà fatta persona. Non aveva nemici, non avrebbe fatto male a una mosca.”

Rigatti non replicò a quelle affermazioni, ma disse: “Io non posso che attenermi a quello che ho potuto acquisire durante il mio sopralluogo, e dall’esame della salma.”

“Spiegati bene.”

“Anzitutto, credo che non ci voglia un detective per dare una risposta a un paio di semplici interrogativi.”

“Del tipo?”

“Be’, c’è il particolare della cuffia e del costume da bagno, no? A che pro Orietta li avrebbe indossati se aveva deciso di annegarsi? E ancora: perché non farlo gettandosi nella piscina? Le sarebbe riuscito più facilmente nel lato più profondo della vasca, dove non si appieda. Sappiamo che era tutt’altro che una provetta nuotatrice. Forse non riusciva neppure a mantenersi a galla.”

Martinoni annuì senza aprire bocca.

“La risposta è che di morire non ne aveva alcuna voglia”, il medico proseguì con convinzione. “Quindi, si è trattato di omicidio, e potrei sbilanciarmi a formulare una certa teoria sulla sua dinamica.”

“Ti ascolto.”

L’altro congiunse le punte delle dita a piramide davanti al volto. Disse: “Immagina Orietta immersa nell’acqua calda a godersi l’idromassaggio, la nuca appoggiata al bordo della vasca. Dà le spalle al suo assassino che le si avvicina di soppiatto. Le afferra la testa a tradimento con entrambe le mani e gliela spinge con forza sotto il livello dell’acqua, mantenendovela fino a farla affogare.”

“Resta comunque una tua supposizione; non hai un solo straccio di prova, Tullio.”

“Ho più di un solo straccio di prova. Ne ho due.”

“Ah!”

“Ho eseguito un esame molto accurato del cadavere e ho scoperto un paio di cose...” Si concesse deliberatamente del tempo prima di continuare. “Non sono irrilevanti e quindi non potrebbero are inosservate in un’eventuale autopsia.”

“Dimmi di che si tratta.”

“Un minuscolo livido sul lato sinistro del collo, anzitutto.”

“Che significa?”

“Significa, che l’assassino ha esercitato una forte compressione con due dita di una mano sull’arteria carotidea sinistra della vittima, pur continuando con l’altra a tenerle la testa premuta sott’acqua. ”

“Perché l’avrebbe fatto?”

“A mio parere per accelerarne la morte. Forse temeva che potesse arrivare qualcuno da un momento all’altro cogliendolo sul fatto.” Fece una pausa. “Le arterie carotidee, Ugo, sono, tra i punti nevralgici del corpo umano, i più sensibili. La forte e prolungata compressione anche soltanto di uno di questi vasi – in quanto riduce drasticamente l’afflusso di sangue al cervello – può paralizzare e persino uccidere rapidamente. Un’azione breve può far perdere i sensi per alcuni minuti.” Si schiarì la gola osservando l’espressione sconcertata e insieme incredula di Martinoni. “E’ molto difficile averne la certezza, dato che il livido è a malapena visibile. A meno di un e-same autoptico che farebbe emergere il restringimento subito dall’arteria. E questa sarebbe una prova dell’omicidio.” Si interruppe per alcuni secondi. “Devo fare una importante osservazione: l’assassino, chiunque esso sia, sapeva bene quello che faceva. Deve trattarsi di uno specialista, di qualcuno, cioè, con una notevole esperienza di operazioni del genere, vista l’abilità con cui ha saputo localizzare il punto esatto dove agire.” Si schiarì di nuovo la gola senza staccare gli occhi da Martinoni.

“E l’altra cosa?”

“Tracce di sangue sotto le unghie della vittima.”

“Ma va’!”

“Non possono che essere dell’assassino, e indicano che Orietta ha lottato con ferocia riuscendo a conficcargliele in qualche parte del corpo.” Una pausa. “Ritengo nei dorsi delle mani.”

“Ma come ha potuto se era immersa nella vasca?”

Il medico sorrise. “Rivediamo la scena della presunta dinamica del delitto: mentre l’aggressore le tiene la testa premuta sott’acqua con entrambe le mani, lei solleva le sue e riesce a piantargli le lunghe unghia laccate nei dorsi o nei polsi.”

Martinoni annuì senza parlare.

“Ora capirai, Ugo, che in un’eventuale indagine della polizia, quelle tracce ematiche possono essere usate, attraverso l’esame del DNA, per l’identificazione del colpevole, naturalmente sempre che esistano dei sospettati.” Lo fissò intensamente. “Sarebbe un brutto scandalo se si arrivasse a tanto…”

Martinoni non replicò restando immobile, la fronte aggrottata. Improvvisamente si alzò e andò al mobile bar. “Bevi qualcosa?” gli chiese spalancandone gli sportelli.

“No, grazie”, l’altro gli rispose scuotendo il capo. Lo osservò mentre si versava una dose generosa di Chivas in un tozzo bicchiere di cristallo, che tracannò d’un fiato. Gli era ben noto che l’amico eccedeva nel bere, ma nei moltissimi anni trascorsi da quando si prendeva cura della sua salute, non aveva mai notato in lui alcun segno significativo di deterioramento fisico collegabile all’alcol. Non cessava mai di stupirlo quel suo particolare metabolismo che gli consentiva di reggerlo bene.

Ora Martinoni, grazie all’immediato effetto rilassante del whisky, si mise a parlare con pacatezza, restando in piedi accanto al mobile bar, la mano sinistra affondata in una tasca dei pantaloni. Disse: “La vera causa della morte di Orietta, omicidio o suicidio che sia, non deve in alcun modo essere resa pubblica.” Si riempì il bicchiere e tornò a sedere alla scrivania. “E meno che mai dovrà esserci

un’autopsia.” Lo fissò inarcando un sopracciglio. “Mi sono spiegato?”

Il medico parve irrigidirsi. Disse: “Tu comprendi, Ugo, che non posso coprire tutto quello che...”

“A proposito…, quant’è che ti pago all’anno?” L’altro lo inter-ruppe brusco.

“Cinquantamila euro.”

“Penso che tu sia sottopagato”, il Magnate disse sorridendo. “Ne meriti almeno duecentomila.” Si portò lentamente il bicchiere alle labbra. “La salute è quanto di più prezioso un uomo possiede”, disse prima di bere un sorso. “Tu sei un ottimo medico, Tullio. Per quanto mi riguarda, le tue prestazioni valgono questa cifra.” Mentre prendeva un altro sorso di whisky, lo studiò per un attimo sopra l’orlo del bicchiere per coglierne la reazione. “Che te ne pare?”

Rigatti aprì la bocca sbalordito per dire qualcosa, ma poi la richiuse lentamente.

Sposato e padre di due figlie, era in grado di condurre un confortevole tenore di vita grazie ai cospicui onorari della sua professione di medico di successo. Ma aveva un handicap di non poco conto. Coltivava il vizio pernicioso del poker e della Borsa. Quanto alla Borsa, da oltre trent’anni operava sul mercato azionario con risultati altalenanti. Negli ultimi due, aveva subito alcune sonore batoste per effetto di alcuni operazioni sbagliate, e l’andamento negativo delle quotazioni.

Per ripianare le enormi perdite, si era visto costretto a indebitarsi con le banche

offrendo in garanzia la sua casa di montagna a Madonna di Campiglio, e la villa al mare in Costa Azzurra.

Tutto quel denaro che Martinoni gli stava offrendo per corromperlo, era una vera manna piovuta dal cielo, pensò. Gli avrebbe consentito di ripianare tutti i suoi debiti, e, nel giro di un paio di anni, persino di estinguere il mutuo ipotecario che gravava sulla sua prima casa.

Non rispose alla domanda, ma fissò Martinoni che continuava a sorseggiare il Chivas, gli occhi puntati alla finestra, lo sguardo assente.

“Cosa vuoi che scriva sul certificato di morte?”

L’altro lo guardò con studiata e finta sorpresa. “Ma la verità, diamine! Cos’altro sennò?” Ebbe un sorrisetto ironico. “Devi scrivere esattamente quello che ha causato la morte di quella poveretta.”

Rigatti annuì lentamente, con aria riflessiva. “E’ stato un infarto con arresto cardiaco. Da qualche tempo soffriva di qualche disturbo”, disse mormorando quasi a se stesso. “Prendeva la pillola da un paio di anni. Mi aveva chiesto con insistenza di prescrivergliela, e io lo avevo fatto mio malgrado, ma non senza averla messa in guardia dal rischio che correva. Dal mio esame del cadavere, è emerso che può essere stata quella la causa dell’infarto che l’ha bloccata nella vasca causandone il decesso per annegamento. Ma anche l’acqua troppo calda può avervi avuto un certo ruolo.”

“D’accordo”, l’altro disse, annuendo soddisfatto. Bevve un altro sorso di liquore.

“Comunque, penso che la polizia vada informata, Ugo.”

Martinoni annuì. “Certo… Ma pensaci tu, ti prego. Io non sono in animo di farlo. Telefona al commissariato di zona, e mi raccomando, parla di incidente.”

51

Al diffondersi della ferale notizia nel primo pomeriggio, Villa Olga fu come stretta d’assedio. Una folla di reporter delle maggiori te-state, fotografi e cineoperatori di diverse reti televisive – comprese quelle di Martinoni –, nonché una moltitudine di curiosi, bivaccavano come un esercito davanti ai cancelli della tenuta. Una camionetta della polizia, sopraggiunta dopo la telefonata del medico, stazionava sul piazzale.

Gli agenti collaboravano con quelli della sicurezza interna, per controllare il traffico all’ingresso e prevenire tentativi di infiltrazioni da parte di giornalisti a caccia di scoop, o di malintenzionati.

Una delle reti di Martinoni interruppe il programma in palinsesto per trasmettere, per prima, la brutta notizia con una edizione straordinaria del telegiornale. Seguirono tutte le altre reti.

Di lì a poco, un Martinoni visibilmente addolorato ricevette nel suo studio – presente la telecamera da lui voluta, e Rigatti – un commissario di polizia per un colloquio teso a valutare l’opportunità di avviare un’inchiesta. Il servizio sarebbe andato in onda nei TG della sera. Il medico descrisse le circostanze della disgrazia e, con dovizia di dettagli, le cause che l’avevano determinata, così come peraltro specificato sul certificato di morte che aveva appena stilato. Martinoni dichiarò di avere il cuore spezzato per la perdita della sua compagna, e che avevano programmato di sposarsi subito dopo le elezioni.

A telecamera spenta, cercò abilmente di ingraziarsi il poliziotto offrendogli da bere e intrattenendolo, più del necessario, in una chiacchierata dai toni confidenziali su argomenti che lo interessavano personalmente: il suo lavoro, la

famiglia, gli hobby... Alla fine, questi lasciò lo studio in lieve stato di euforia sia per i cinque o sei whisky che si era scolato malgrado fosse in servizio, sia al pensiero dell’opportunità che gli si presentava di apparire in televisione quella sera stessa, nonché l’indomani nelle prime pagine di tutti i giornali; per non dire della certezza che Martinoni gli aveva instillato, di aver acquisito un amico potente e facoltoso, a cui poteva rivolgersi per chiedere favori. L’ipotesi di avviare un’inchiesta l’aveva prontamente scartata.

Dopo era stata la volta dei giornalisti. In una breve, ma affollata conferenza stampa tenuta in sala proiezioni, Rigatti, nella sua veste di medico di famiglia, e assente l’afflitto Martinoni, aveva ripetuto quello che aveva riferito al commissario, ostentando convinzione e sicurezza nel rispondere al fuoco di fila delle domande.

Ora, rimasto solo nel suo studio, Martinoni guardava il piccolo schermo stando seduto sul divano di pelle, con in una mano il bicchiere di whisky e nell’altra il telecomando. Lo azionava senza sosta, tenendo le gambe distese e incrociate su un basso tavolino. ava da una rete all’altra per studiare i primi servizi sulla morte di Orietta. Si soffermava su quelli trasmessi dalle reti a lui ostili, per cercare di capire, tra le righe dei commenti, se l’evento non fosse stato percepito con sospetto. Ma dal contesto di quello che ascoltava, sembrava che non avesse niente da temere: la situazione si andava evolvendo nel modo in cui l’aveva programmata. L’unico a sapere era Rigatti, ma il suo medico non lo impensieriva: oltre che essere suo grande amico, era facilmente corruttibile. Si compiacque con se stesso per il modo magistrale in cui aveva gestito l’intera faccenda.

Durante l’ora che aveva trascorso nel suo studio in attesa di Rigatti, non era rimasto a girare i pollici. Aveva anzitutto disdetto tutti i suoi impegni della giornata. Cercata sca nella sua stanza e non avendola trovata, l’aveva chiamata sul cellulare, ma senza ottenere risposta.

Mentre si chiedeva dove potesse essersi cacciata, il capo della sicurezza gli aveva riferito che il suo borsone da sport, insieme a quello di Orietta, era stato rinvenuto nel locale dell’idromassaggio. Il suo telefonino, , era custodito dentro una tasca laterale: la ragione per la quale lei non rispondeva.

La scoperta dei due borsoni, era la prova certa che le due donne si erano recate insieme in piscina, e che per qualche ragione, a un certo punto sca ne era uscita, ma con l’evidente intenzione di farvi presto ritorno, visto che non si era portata dietro il borsone né il cellulare. Non doveva aver lasciato la tenuta, poiché la sua Lamborghini era tuttora parcheggiata sul piazzale antistante l’ingresso principale della villa.

Per averne la certezza assoluta, Martinoni si era informato dagli addetti alla sorveglianza al cancello d’ingresso. Fu sorpreso nell’apprendere che così non era, e che sua nipote era stata vista uscire dalla tenuta a piedi, alle undici e mezza, cosi come risultava dall’apposito registro. Era salita a bordo di una Mercedes Cabrio che l’attendeva poco distante, e al cui volante c’era un tale che poco prima aveva chiesto di lei identificandosi come l’avvocato Pietro Mattei. La vettura sportiva aveva fatto inversione dirigendosi alla tangenziale. Era pertanto ragionevole ritenere che la giovane avrebbe fatto ritorno da un momento all’altro. Quella notizia aveva soddisfatto Martinoni che serbava un ottimo ricordo di Pietro Mattei, dai tempi in cui sca conduceva con lui una relazione amorosa. Lo aveva spesso avuto ospite a Villa Olga, quando c’era lei. Se il giovane era venuto a trovarla, si era detto, forse intendeva tentare una riconciliazione, malgrado fossero ormai trascorsi cinque anni da quando avevano smesso di frequentarsi. Era un’eventualità che considerava molto favorevolmente.

Ma ora, la certezza ostentata da Rigatti che Orietta fosse stata assassinata, lo preoccupava enormemente e gli forniva materia di profonda riflessione. Perché, si chiese, qualcuno avrebbe dovuto desiderare la morte della sua compagna? Ma soprattutto, chi mai poteva essere l’assassino?

D’improvviso la verità lo colpì come una folgore, e cominciò a vederci chiaro. Batté un pugno sul bracciolo del divano dandosi dell’ottuso per non esserci arrivato prima: nessuno aveva voluto la morte di Orietta, ma qualcuno desiderava quella di sca. Sentì un brivido gelido corrergli lungo la schiena. Il killer era stato fuorviato dalla cuffia, esattamente come era accaduto a lui due ore prima, quando, cioè, aveva visto il cadavere di Orietta disteso bocconi sulla lettiga.

Chiunque fosse, doveva conoscere bene quella strana cuffia, nonché la proprietaria dalla quale la vittima doveva averla presa in prestito. Gli aveva fatto scambiare Orietta con sca allorché – stando alla ipotesi di Rigatti – era sopraggiunto silenzioso alle spalle della poveretta mentre era immersa ignara nella vasca idromassaggio. L’aveva fatta annegare, convinto che fosse sca. Cercò di immaginare la faccia che doveva aver fatto, quando si era accorto di aver ammazzato la persona sbagliata.

Ne seguiva l’improbabilità che l’assassino fosse un estraneo venuto da fuori. Doveva necessariamente trattarsi di qualcuno che risiedeva nella tenuta, o che comunque la frequentasse con una certa regolarità. Gli si ripropose lo stesso interrogativo di poco prima, ma riferito a sca. Chi poteva avere interesse a ucciderla? Qualcuno della servitù? Molto improbabile, ma non impossibile. Di certo, doveva aver commesso il delitto subito dopo che sca era uscita dal padiglione per andare a incontrare il suo ex. Ma, si chiese, aveva agito con premeditazione, oppure solo perché gli se n’era presentata l’opportunità? Forse, trovandosi per caso nel padiglione, aveva visto immersa nella vasca idromassaggio una donna sola, che la strana cuffia gli aveva fatto credere essere sca.

La domanda che ora si pose era: l’assassino si trovava ancora da qualche parte nella tenuta, oppure era fuggito a gambe levate nel timore che un testimone potesse averlo visto entrare nel padiglione, o muoversi al suo interno? C’era un solo modo per appurarlo. Afferrò la cornetta del telefono e si fece are dal centralino il capo della sorveglianza nella guardiola all’ingresso. Alla domanda

di chi fosse uscito dopo sca, si sentì riferire che l’unico era stato – alle dodici in punto –, Paolo Kesler al volante della sua Lancia Thesis.

“Alle dodici?” chiese sbalordito. “Ma ne è proprio sicuro?”

“Assolutamente, signor Martinoni”, l’uomo confermò. “Come lei sa, seguiamo scrupolosamente le sue istruzioni di annotare su un apposito registro tutte le entrate e uscite, con relativi orari.”

“C’e qualcosa di molto grave che non quadra”, mormorò a sé stesso dopo aver chiuso la comunicazione, lo sguardo cupo, la fronte aggrottata. Ricordò che quella mattina Kesler, contrariamente alle sue abitudini quando era in villa, non era sceso alle dieci e mezzo per fare colazione insieme a lui. Aveva lasciato detto alla sua segretaria che stava per ritornare a Milano, dovendo recarsi in sede a presiedere una urgente riunione di lavoro. Ma aveva lasciato la tenuta alle dodici, non già alle dieci e mezzo. Perché aveva mentito? E quel vuoto di un’ora e mezzo di tempo, l’aveva colmato facendo cosa? Avvertì l’insorgere di un’ansia insopportabile, che gli provocò una sensazione di fiacchezza delle membra, mentre il dubbio che fosse Kesler l’assassino di Orietta cominciò a serpeggiargli nella mente e nell’animo con inarrestabile progressione. Ma, pensò, era pura follia solo ipotizzare che desiderasse la morte di quella che sapeva essere la sua nipote prediletta.

Come poteva, si chiese, il suo braccio destro e grande amico, l’uomo che aveva beneficato innalzandolo al più alto livello nei ranghi del suo gruppo, arrivare a covare un simile disegno criminoso? E per quale ragione? Ma non aveva finito di porsi quest’ultima domanda che aveva già pronta la risposta: un’irrefrenabile e morbosa ione per quella splendida creatura che era sca. Martinoni si era accorto da moltissimo tempo che Kesler aveva un debole per la nipote. Le occhiate che le lanciava, persino in sua presenza, erano abbastanza eloquenti, anche se si sforzava di mascherarlo. Ma lui aveva sempre fatto finta di ignorarlo, dato che considerava quel suo atteggiamento il frutto di un’innocua, lieve

infatuazione, peraltro comprensibile da parte un personaggio come Kesler – uno sca-polo impenitente e donnaiolo –, nei confronti di una giovane e splendida donna.

Non lo aveva mai sfiorato il sospetto che avrebbe osato fargli il grave sgarbo di mancarle di rispetto facendole delle avance. Sapeva che era cosciente che rischiava di incorrere nella sua ira funesta, dagli sbocchi facilmente prevedibili.

Ma ora, dopo quel dubbio atroce che gli si era insinuato nella mente, si chiese se non avesse peccato di un’eccessiva leggerezza, sottovalutando la giusta portata di quei comportamenti. Forse, non era poi tanto peregrina l’ipotesi che, col trascorrere del tempo, Kesler avesse finito per sviluppare per sca una brama tanto cieca da rasentare l’irrazionalità. Che la ragazza fosse diventata l’oggetto dei suoi più sfrenati desideri lussuriosi, al punto di fargli maturare – nel vedere fallire i suoi ripetuti tentativi di possederla – un’ossessiva voglia di vendicarsi punendola con la morte.

Verosimilmente sca, dal canto suo, aveva sempre ritenuto opportuno tenerlo all’oscuro, per intuibili motivi del quieto vivere, e anche perché era sempre stata in grado di badare a se stessa. Gli venne in mente l’episodio del giorno prima quando, nella serra, Kesler si era offerto di mostrarle le orchidee messicane in quell’area appartata dove venivano coltivate. Si erano assentati per quasi mezzora, e al loro ritorno non gli era sfuggita l’espressione turbata della giovane, e quella accigliata di lui. Non si era soffermato, come avrebbe dovuto, a ricercarne una spiegazione, ma nel rifletterci ora, pensò che dovesse esserci stato qualcosa di grave tra loro: forse lui l’aveva insidiata e lei aveva reagito respingendolo duramente. A cena, lei non aveva quasi toccato cibo, mentre lui aveva mangiato in abbondanza, ed era stato capace di recuperare il suo consueto buon umore.

Ma c’era qualcos’altro che lo impensieriva e di cui non poteva non tenere conto.

Rigatti aveva definito l’assassino di Orietta uno specialista, per la perizia con cui era riuscito ad affrettarne il decesso localizzando sul suo collo, e comprimendola, una delle due carotidi. Senza la scoperta del livido appena visibile, procurato da quel gesto, sarebbe parso che la donna si era suicidata, o che fosse stata vittima di un improvviso malore che le aveva impedito di uscire dalla vasca, dov’era poi annegata.

Si domandò se era sicuro di conoscere a fondo quello che da quasi quindici anni considerava il suo migliore amico. C’era qualcosa di grave che di lui non conosceva? Ora che ci rifletteva, si rese conto di non saperne granché del suo ato di cittadino di Berlino Est, la capitale della ex Germania comunista. Lui gli aveva sempre parlato in termini vaghi della sua vita trascorsa in quel Paese fino al trasferimento in Italia dopo la caduta del Muro. Gli aveva detto che era stato un alto dirigente della Deutsche Bank, e che suo padre, morto nel 1985, aveva svolto non ben precisati incarichi governativi.

A quel punto delle sue elucubrazioni, pensò a come doveva trattare la questione, e concluse che c’erano soltanto due cose che doveva fare. Parlare con sca, anzitutto, al suo ritorno dalla gita in auto con la sua vecchia fiamma. L’avrebbe messa al corrente di quanto era accaduto in sua assenza, e dei sospetti che nutriva su Kesler. Le avrebbe imposto di restare a Villa Olga, sotto la sua protezione. Non era detto che Kesler si fosse rassegnato al fallimento del suo proposito omicida, e che non ci avrebbe riprovato cercandola a Milano. In secondo luogo, doveva decidere come fare per pareggiare i conti con lui, una volta accertato che era fondato il suo sospetto che avesse ucciso Orietta.

Rifletté che qualunque azione avesse deciso di avviare per distruggerlo – cosa che doveva anzitutto alla povera defunta –, dove-va farlo muovendosi con cautela e discrezione, per evitare di inne-scare quello scandalo che era sinora riuscito abilmente a scongiurare.

Comunque fosse, l’uomo andava affrontato subito, pensò. Decise di contattarlo per informarlo dell’accaduto, e chiedergli spiegazioni per il ritardato ritorno a Milano di ben un’ora e mezzo. Era curioso di sentire come l’avrebbe giustificato. Lo chiamò sul cellulare, ma lo trovò staccato. Il telefono del suo appartamento squillava a vuoto. Dalla portineria della sede di Mediasystem, gli fu riferito che non si era visto, e che non era in corso alcuna riunione di lavoro in nessuna parte dell’edificio.

Brutto segno, pensò. Si sarebbe detto che Kesler si era reso irreperibile.

52

“Oh no!” sca urlò nel ricevitore. “No, no. Non può essere vero! Povera Orietta!”

Scoppiò in lacrime lasciandosi cadere sulla poltrona, e continuando a tenere la cornetta incollata all’orecchio.

“Purtroppo lo è, cara”, Martinoni disse in tono pacato. “Ma cerca di calmarti e ascolta quello che ho da dirti.”

sca era appena entrata nel suo appartamento dopo aver lasciato Pietro Mattei. Come primo gesto, si era affrettata a chiamare suo zio per avvertirlo che era già rientrata a Milano, e pregarlo di farle avere la Lamborghini e il cellulare che si trovava nella tasca laterale del suo borsone da sport nel locale dell’idromassaggio. Ma questi, ancor prima che lei proferisse parola, le aveva comunicato la brutta notizia.

Si asciugò gli occhi con la manica. “Annegata nella vasca dell’idromassaggio…”, mormorò con voce rotta dalla forte commozione. “Ma com’è potuto succedere, zio? Forse si è sentita male e non ce l’ha fatta a uscirne?”

Martinoni rimase in silenzio a riflettere. Vista la reazione forte-mente emotiva della nipote, avvertiva una certa difficoltà a prose-guire per spiegarle che Orietta era morta ammazzata, rivelandole l’identità di quello che lui sospettava essere l’assassino. Decise che doveva farlo con tatto e gradualità. Sapeva del grande

affetto che sca aveva nutrito per la sua convivente.

“Eravamo insieme in piscina”, lei continuò. “A un certo punto ho dovuto assentarmi.”

“Sì, lo so.”

“Se non l’avessi lasciata sola avrei potuto soccorrerla, e ora sarebbe viva.”

O forse saresti morta anche tu, Martinoni disse tra sé. Pensò che, se erano fondati i suoi sospetti su Kesler, questi, pur di uccidere sca, non si sarebbe fatto scrupolo di fare la pelle a tutt’e due.

“Avevamo preso un caffè e una brioscia alle macchinette del bar”, lei riprese,“ e chiacchieravamo tranquillamente quando mi è arrivata sul cellulare una chiamata della portineria: al cancello c’era Pietro Mattei che chiedeva di me.”

“Perché hai accettato di vederlo?”

“Per togliermelo dai piedi una volta per tutte, zio,”, lei mentì pensando che non poteva fare altrimenti. “Sono tre mesi che non fa che tampinarmi, soprattutto per telefono, per convincermi a riallacciare il vecchio rapporto. Glielo spiegato in tutte le salse che non voglio più saperne di lui, che non lo amo più.”

“Ma ne sei proprio certa? Mi è sempre sembrato un bravo gio-vane.”

“Macché bravo giovane!” lei replicò con stizza. “Ma ti sei scordato, zio, il male che mi ha fatto cinque anni fa, quando mi ha mollato senza il minimo preavviso. Mi sono sentita umiliata, e mi ce n’è voluto di tempo per superare la crisi…”

Martinoni rimase in silenzio.

“Questa volta ero decisa a liberarmi di lui definitivamente. Ecco perché ho acconsentito a vederlo, e a salire nella sua macchina per fare un giretto nei dintorni, tanto per non dare nell’occhio restando fermi davanti al cancello.”

“Dov’è che siete andati?”

“Sulla tangenziale in direzione di Milano. Ci siamo messi a discutere animatamente. Sembrava che non ci fosse verso di persuaderlo a lasciarmi in pace. Finché l’ho diffidato dal continuare a infastidirmi, e minacciato di rivolgermi a te. Allora si è calmato, ha smesso di parlare, e io ho pensato che si fosse dato per vinto.” Tacque, e quando Martinoni non disse niente, continuò: “Siamo andati avanti sulla tangenziale, fino a quando, senza neppure accorgermene, eravamo alle porte di Milano. Allora l’ho pregato di portarmi a casa.”

“Perché?”

“Mi sono ricordata che stasera ho una cena con amici”, mentì di nuovo. “Ho pensato che, tutto sommato, non valesse la pena tornare indietro per prendere la Lamborghini e rimettermi in strada, visto che ormai ero quasi arrivata a casa.”

Di nuovo Martinoni non fiatò, e anche sca non disse niente per un po’ di tempo.

“Ma ora torniamo a Orietta, zio,”, riprese infine. “Dunque… è stato per via di un malessere improvviso che è annegata, non è così?” Lo sentì trarre un profondo sospiro prima di risponderle: “Orietta godeva di ottima salute. E’ molto improbabile che sia stata colta da un grave malore.”

“E allora?” chiese in tono allarmato.

Lui indugiò prima di dire: “Il mio primo sospetto è stato che avesse deciso di togliersi la vita annegandosi nella vasca.”

“Cosa? E perché mai?”

“Per via dell’umiliazione che le ho inferto ieri sera cacciandola della mia camera quando sei arrivata tu. Ho pensato che deve essersi sentita intensamente ferita nell’amor proprio. Vorrei non averlo mai fatto. Ne sono profondamente rammaricato.”

“Credo che fosse stravolta per quello che è successo ieri sera, ma non al punto di suicidarsi. Ci aveva ormai fatto il callo a tuoi comportamenti del genere.”

Un silenzio colpevole fu la reazione di Martinoni.

“Comunque”, lei proseguì, “escludo il suicidio in modo catego-rico. E’ stata una disgrazia, per quanto mi riguarda.”

“Cos’è che te lo fa dire con tanta sicurezza?”

“Anzitutto il fatto che sia stata lei a proporre di andare insieme in piscina. Mi ha detto che voleva confidarsi con me su un delicato problema personale, e preferiva farlo in un luogo appartato.” Fece una pausa. “Ora…, dimmi di grazia, zio, perché farmi una simile richiesta se aveva deciso di smettere di vivere? E poi…, di certo non poteva prevedere che a un certo momento me ne sarei andata dan-dole, così, la possibilità di restare sola e di suicidarsi.”

“Qual era il problema?”

“In ato, lei mi aveva spesso accennato che aspirava a diventare tua moglie. Voleva esser certa del mio consenso, se e quando tu le avessi chiesto di sposarti. Voleva sapere se avevo niente in contrario.”

“E tu?”

“L’ho tranquillizzata, naturalmente, dicendole che ne sarei stata felice.”

“Tutto qui?”

“Sì, ma ho avuto l’impressione che stesse per dirmi qualcos’altro; sennonché è squillato il cellulare che glielo ha impedito. Le ho spiegato chi era che mi cercava, e me ne sono andata assicurandola che non sarei stata via a lungo, e che al mio ritorno avremmo ripreso a discutere. ‘Ti aspetto’, mi ha detto sorridendo.”

Si interruppe per accendersi una sigaretta dopo aver sistemato la cornetta nell’incavo tra la spalla e il collo. “Era tranquilla, zio”, continuò. “Non aveva affatto l’aria di una che desiderava farla finita. Anzi, mi è sembrato l’esatto contrario: che avesse una gran voglia di vivere. L’ho lasciata che appariva felice e rasserenata dopo quello che mi aveva sentito dire su un argomento che le stava a cuore.”

“L’avrei sposata, prima o poi.”

Lei fece una smorfia scettica, che di certo a lui non sarebbe piaciuta se fosse stato lì presente a guardarla. Disse:

“Ci contava molto.”

“Ma a proposito…, come mai portava la tua cuffia?”

“Me l’ha chiesta in prestito per fare l’idromassaggio intanto che attendeva il mio ritorno. Aveva dimenticato di prendere la sua.” Sembrò rifletterci per qualche attimo. “Però, ora che mi ci fai pensare, zio, perché chiedermela e indossarla se voleva suicidarsi? E perché non usare la piscina dove le sarebbe riuscito più facile, visto che era una pessima nuotatrice? Questa, secondo me, è la conferma ulteriore, se ce ne fosse bisogno, che niente di più dell’idea di togliersi la vita fosse lontana dalla sua mente. Quindi, non può che essere annegata per via di un

improvviso malessere.”

Martinoni pensò che l’analisi fatta da sca per escludere la tesi del suicidio, fosse persino più convincente di quella di Rigatti poiché comprensiva di alcuni particolari di cui né lui né il medico erano al corrente.

Disse:

“Anch’io credo che Orietta non si sia suicidata.”

“Ma come? Non mi hai detto poc’anzi che propendevi per questa ipotesi?”

“Ti ho detto che è stato il mio primo sospetto, ma non che ne fossi persuaso.”

“Ah! E allora?”

“Soltanto quando ho interpellato Rigatti, pregandolo di esaminare la salma, ho appreso la verità su com’è morta.” Fece una pausa. “O meglio…, quella che quasi certamente è la verità.”

“Spiegati, zio, smetti di tenermi sulle spine!” Una grande ansia trapelava dal suo tono di voce.

“Il medico ha effettuato un esame accurato del cadavere rilevando un paio di particolari che, a suo dire, indicherebbero, aldilà di ogni dubbio, che Orietta è stata assassinata.”

“Cosa ?!”

Al quel punto Martinoni le fece un preciso resoconto del referto verbale di Rigatti, descrivendole anche quella che questi riteneva essere stata la dinamica del delitto.

“Ma chi mai può essere l’assassino?” sca chiese con l’animo in tumulto. “Non riesco a pensare a una sola persona con un movente nella cerchia delle sue conoscenze.”

Martinoni tacque per alcuni secondi. Poi disse parlando lentamente e scandendo le parole: “Qualcuno che avesse un movente per uccidere lei, non credo sia mai esistito. Ma qualcuno con una ragione per desiderare di fare fuori te, sì.”

sca trasalì. “Ma di cosa diavolo parli, zio?”

“La cuffia, tesoro… Rifletti sulla cuffia.”

Fu come se un velo le si squarciasse davanti agli occhi, e cominciò a capire dove Martinoni voleva arrivare.

“Intendi dire che…”

“…che non era Orietta nel mirino dell’assassino, ma tu.”

“Vuoi dire che la cuffia lo ha tratto in inganno?”

“Proprio così.”

Un’idea vaga di chi potesse aver attentato alla sua vita, cominciò ad affiorarle nella mente.

“Sospetti qualcuno?”

“Sì, e si tratta purtroppo di una persona che mi è molto vicina.”

“Cioè?

“Non ci crederai, ma ho dei sospetti su Kesler.”

sca si sentì impallidire, come se il sangue le fosse defluito di colpo dal viso. Cominciò ad accusare un tremolio convulso in tutto il corpo e una forte nausea. Quelle parole erano la conferma di quello che lei aveva già intuito: Kesler aveva provato a ucciderla, e lei pensava di conoscerne la ragione.

“E’ terribile, zio!” esclamò. “Non posso crederci…”

Martinoni le spiegò com’era arrivato a maturare il dubbio. Le riferì quello che aveva scoperto sui movimenti di Kesler quel mattino: il messaggio che gli aveva fatto pervenire tramite la sua segretaria alle dieci e mezzo, per avvisarlo che stava per ritornare a Milano, mentre era poi emerso che aveva lasciato la tenuta alle dodici precise. Un intervallo di tempo di un’ora e mezzo, che, secondo lui, doveva aver trascorso rintanato nella sua camera, fino a quando aveva ritenuto giunto il momento di agire, e si era recato in piscina sapendo di trovarvi le due donne. “Invece c’era soltanto Orietta, perché tu te n’eri già andata”, Martinoni concluse.

“E il movente?” lei chiese.

“Non lo intuisci? Ma tu stessa, tesoro. Non riesco a ipotizzarne un altro in questo momento. Kesler deve aver sviluppato verso di te una specie di ossessione amorosa, e quando si è convinto che non poteva averti, è scattato in lui un istinto omicida, che, a mio vedere, non può che avere il sapore della vendetta.”

“So di non essergli mai stata indifferente, ma non avrei immagi-nato fino a questo punto.”

“Neanche io. Del fatto che avesse un debole per te ne abbiamo già parlato non più tardi di ieri sera… Ricordi? Ma soltanto ora mi rendo conto che quello era un gigantesco eufemismo.”

“Sì, e faccio fatica a credere che possa arrivare a odiarmi a tal punto da volermi morta.” Fece una pausa mentre rifletteva che l’infatuazione morbosa, poteva non essere la sola ragione per la quale Kesler desiderava sopprimerla. “Ma non è un po’ stiracchiata come ipotesi di movente per un delitto ionale?”

“Be’, diciamo che può sembrare improbabile, ma non impossibile quando un uomo perde completamente i lumi della ragione per una donna dalla quale non viene corrisposto. Le cronache nere sono costellate di casi di delitti di questo tipo.” Si interruppe per qualche secondo. “A proposito, di’ un po’…, è per caso accaduto qualcosa tra voi due negli ultimi giorni, che potrebbe averlo esacerbato. Sto pensando a qualche sua avance che tu hai respinto in malo modo…”

“Niente che possa veramente definirsi tale, al di là dei soliti sguardi insistenti e di per sé eloquenti, oltre a un paio di recenti episodi in cui mi ha preso la mano e me l’ha stretta. In un caso ha pure cercato di baciarmela.”

“E queste tu non le chiami avance?” Martinoni ci pensò su. “Non avrà per caso preso qualche iniziativa ieri pomeriggio nella serra, quando vi siete appartati nella zona delle orchidee?”

“Sì, è stato appunto lì che m’ha preso una mano, se l’è portata alle labbra e ha fatto per baciarla”

“E tu?”

“Ho provato disgusto, e l’ho ritratta di scatto. Cos’altro avrei dovuto fare, zio?”

Martinoni annuì come se lei fosse lì presente. “Mi viene da pensare che quello potrebbe essere stato il gesto cruciale che lo ha invelenito. E’ facile che lo abbia interpretato come una tua chiara manifestazione di repulsa della sua persona. Com’è effettivamente stata. Detto in parole povere…, un modo per fargli capire che ti fa schifo.” Tacque per qualche secondo. “Potrebbe aver innescato in lui un meccanismo perverso, che ha generato un improvviso sentimento di odio profondo verso di te, sviluppatosi poi fino a trasformarsi in un desiderio incontrollabile di punirti con la morte.”

“Ma come faceva a sapere che io e Orietta eravamo andate in piscina?”

“Può avervi viste dalla finestra della sua camera. Forse aveva deciso che per uccidere te, doveva giocoforza farvi fuori tutt’e due. Solo che quando è arrivato, ha trovato soltanto Orietta nell’idromassaggio. E’ stata una fortuna che tu te ne fossi andata. Naturalmente, la tua cuffia lo ha fuorviato.”

sca pensò che la congettura di suo zio sulle ragioni di Kesler per volere a tutti i costi la sua morte, non era priva di fondamento.

Ma lei riteneva che poteva esserci dell’altro.

Non l’aveva abbandonata il sospetto che l’uomo subodorasse l’esistenza una sua relazione amorosa con Sergio, tanto intima da aver spinto quest’ultimo a confidarle il vero scopo per il quale era stato assoldato e portato a Milano.

Avvertiva peraltro la sensazione che Kesler presentisse che lei fosse venuta in qualche modo a conoscenza della sua oscura attività di spia comunista sin dai tempi in cui viveva a Berlino Est. Tutto ciò faceva di lei, ai suoi occhi, una

potenziale minaccia. Da qui l’urgenza di eliminarla.

L’impulso di denunciare tutto a suo zio riusciva a stento a dominarlo. Desiderava aprirsi con lui, riferendogli tutto quello aveva saputo da Leardo su Kesler. Ma la ragione del cuore le suggeriva che non poteva farlo. Non poteva parlargli di lui svelandogliene la vera identità, senza essere implicitamente costretta a coinvolgere l’uomo che – a dispetto di ciò che aveva appreso sul suo conto – continuava ad amare. Se Martinoni avesse saputo che il Sisde rite-neva che Sergio fosse un killer professionista assoldato da Kesler e fatto venire a Milano per perpetrare un omicidio di cui lui poteva essere accusato di essere responsabile, ne poteva venir fuori un bel putiferio. Con quel carattere che il Magnate si ritrovava, avrebbe mosso mari e monti per scovarlo, persino collaborando con la polizia se era vero che, a detta di Pietro Mattei, questa gli stava già dando la caccia setacciando gli alberghi di tutta la città.

Dopo un breve silenzio Martinoni disse: “In questo momento Kesler è irreperibile. Sul cellulare è irraggiungibile e non risponde al telefono di casa. In sede non si è fatto vivo. Vattelappesca dove si è andato a cacciare.”

“Mentre ero in macchina con Pietro, l’ho visto sfrecciare come un bolide con la sua Thesis sulla tangenziale, in direzione di Milano. Credo che si trovi da qualche parte in città.”

Martinoni sembrò riflettere. Disse: “Dubito che consideri ormai tramontato il suo proposito di ritorsioni contro di te. Sono preoccupato, tesoro. Mi sentirei più tranquillo se tu ritornassi subito qui, dove potresti essere protetta.”

“Oggi non posso, zio. Ho un impegno. Ti richiamo domani.”

Riagganciarono. Ma subito dopo sca risollevò la cornetta per prenotare un taxi. Decise che non poteva rinviare oltre l’incontro con Sergio.

53

Seduta sul sedile posteriore del taxi – una Fiat Punto –, sca sembrava persa nei suoi pensieri. Guardava fuori dal finestrino riga-to dalla pioggia che aveva ripreso a cadere con maggiore intensità. All’incrocio con via Pagano la vettura svoltò a sinistra e procedette ad andatura moderata in un traffico rarefatto, in direzione della circonvallazione.

La giovane controllò l’ora: si erano fatte le tre e mezzo.

Prima di uscire di casa si era cambiata d’abito, vestendosi in modo sobrio per non dare nell’occhio. Aveva preferito alla pelliccia, un anonimo impermeabile marrone di vernice, stretto in vita da una cintura. E, ancora più importante, aveva indossato la parrucca bionda e inforcato gli occhiali da sole scurissimi. Aveva preso il suo cellulare di riserva, in sostituzione dell’altro che si trovava a Villa Olga. Prima di uscire, si era rimirata davanti allo specchio, soddisfatta del risultato del camuffamento. Decise che fosse molto ridotto il rischio che qualcuno la identificasse.

Ne aveva avuta conferma poco dopo quando il tassista, un tipo di media statura sulla sessantina, dal corpo vigoroso e il volto coriaceo, l’aveva guardata senza mostrare il minimo segno di riconoscimento, mentre lei, salita sulla vettura, gli aveva dato l’indirizzo dell’Hotel Astra.

Il vento aveva smesso di soffiare, ma il grigiore del tempo, la pioggia e la temperatura rigida le mantenevano basso l’umore. Per non dire della sensazione di costante pericolo che avvertiva, per se stessa e per Sergio. Come l’avrebbe presa, si chiese, nel vederla comparire? L’ansia crescente di arrivare le dava il batticuore, e avrebbe voluto che il taxi volasse. La domanda inquietante che

Pietro le aveva rivolto mentre erano in macchina sulla tangenziale le riecheggiò nella mente: “Tu sei tornata a Milano da sola, non è così sca?” Quelle parole erano rivelatrici del fatto che lui e il Sisde conoscevano la verità. Sapevano che lei aveva accompagnato Sergio a Milano ospitandolo per due settimane, e magari sospettavano che ne avesse fatto il suo amante clandestino. Per acquisire informazioni in proposito, Leardo non aveva dovuto far altro che interrogare il portiere dello stabile che li aveva visti insieme. Anche se Pietro, per qualche misteriosa ragione, non glielo aveva contestato, lei aveva capito che ne era al corrente. Così come aveva compreso che il cerchio intorno al suo uomo si andava rapidamente stringendo, se era vero che, a detta del suo ex, la polizia gli stava dando la caccia. Pertanto, incontrandolo, lo avrebbe avvertito del rischio che correva di essere rintracciato e arrestato da un momento all’altro.

Ma doveva, anche, farlo uscire allo scoperto costringendolo a smetterla di tacerle il vero scopo per il quale Kesler lo aveva reclutato.

Il tassista era un tipo taciturno: non aveva aperto bocca da quando erano partiti. Il che le andava molto bene. Non di rado si vedeva costretta a sopportarne, con cristiana rassegnazione, di ciarlieri che la tempestavano di domande per l’intero tragitto, specie nel rendersi conto di trasportare un personaggio illustre come lei.

Percorsa via Pagano, il taxi svoltò a destra in corso Vercelli, e fu soltanto quando si fermò davanti a un semaforo rosso in prossimità dell’incrocio di piazza Piemonte, che l’uomo parlò per la prima volta dicendo qualcosa che la fece trasalire.

“Mi scusi, signora…, conosce per caso qualcuno con una Peugeot bianca?”

“No, non credo. Perché?”

L’altro girò appena la testa per lanciarle un’occhiata sopra la spalla. “Perché ce n’è una dietro di noi con due uomini a bordo. Ha l’aria di seguirci da quando siamo partiti.”

“Ne è certo? Voglio dire… è proprio sicuro che ci stia seguendo?” Una specie di morsa le serrò lo stomaco.

“Direi di sì. A meno che il fiuto non mi tradisca dopo quasi qua-rant’anni di questo mestiere.” Si voltò di nuovo a guardarla per un attimo. “Capisce… ce l’ho nel retrovisore da quando ci siamo mossi. Potrebbe sorarci agevolmente perché non corriamo e il traffico è abbastanza leggero, ma non mi sembra che ne abbia l’intenzione.”

sca non aprì bocca. Fu tentata di voltarsi un istante a sbirciare attraverso l’ampio lunotto, ma non si mosse per non far capire ai suoi inseguitori, chiunque fossero, che si era accorta di loro.

Il tassista riprese: “Ascolti, signora…, se ci sono guai in vista, preferirei che lei scendesse. Non vorrei esservi coinvolto.”

“Ma no, stia tranquillo… Vada pure avanti.” Aprì la borsetta, ne estrasse una banconota da cinquanta euro e gliela porse sopra lo schienale del sedile. “Prenda questa, intanto.” L’altro girò di nuovo il capo e, dopo un secondo di esitazione, l’afferrò infilandosela nel taschino della giacca. “La ringrazio.”

Al verde del semaforo la Fiat ripartì, e all’incrocio di piazza Piemonte, svoltò a

sinistra in via Sardegna. Percorsi un centinaio di metri, si fermò di nuovo davanti a un altro semaforo rosso.

“Senta…”, sca disse sporgendosi in avanti, “…riesce per caso a darmi una descrizione, se pure approssimativa, degli occupanti la vettura?”

“Ci provo.”

L’uomo si mise a scrutare nello specchietto retrovisore strizzando gli occhi. Disse: “Al volante c’è un giovane molto magro e di carnagione pallida, capelli neri. Il eggero è un tipo biondo sulla trentina di bell’aspetto, occhi chiari…, mi sembra. Si direbbe di statura moto alta.”

Pietro Mattei! sca pensò.

Ma certo che era lui a seguirla! Chi altri sennò? Che stupida era stata a non aver immaginato che lo avrebbe fatto. E che stupida a non aver intuito che quello che le aveva detto – mentre percorrevano la tangenziale – sul pericolo che Sergio correva di essere catturato da un momento all’altro, era una frottola mirata ad allarmarla per spingerla a fare quello che lui desiderava: condurlo al suo nascondiglio. Ora le era chiaro che, dopo essersi congedato al loro ritorno da Villa Olga, si era piazzato dentro quella che di certo era una macchina del Sisde, per farle la posta. A dispetto della parrucca, l’aveva riconosciuta quando era uscita per salire sul taxi. Improvvisamente, fu presa da un tremito convulso, ma era di rabbia per esserci cascata da ingenua. In quella circostanza, Pietro si stava confermando non meno cinico e spregiudicato di quanto lo fosse stato da amante, pensò.

Disse al tassista: “Non si preoccupi… Il giovane biondo è il mio ex. Da quando l’ho mandato a quel paese non fa che starmi alle calcagna. E’ un pezzo che sto cercando di togliermelo di torno. Ora ha cominciato a usare la macchina di un suo amico per seguirmi senza farsi notare.”

L’altro non disse nulla, ma ingranò la marcia e ripartì.

“Senta”, lei riprese, “ci sono altri duecento euro per lei, oltre il tassametro, se riesce a seminarla. Non voglio che lui sappia dove mi sto recando.”

“Non lo saprà, signora. So come fare per scrollarmi di dosso quella macchina. Non c’è problema.” Percorsa fino in fondo via Sardegna, il taxi svoltò a sinistra imboccando la circonvallazione dove il traffico si rivelò intenso. Procedettero per quasi un chilometro a bassissima velocità, imbottigliati in una doppia coda di auto. Avanzavano a singhiozzi, obbligati a frequenti e lunghi stop dagli ingorghi e dai semafori. Durante una sosta il tassista disse: “Non l’abbiamo più appiccicata addosso. Ora si trova a tre o quattro macchine dietro di noi nella fila, ma sono certo che aspetta il momento propizio per riacciuffarci non appena potrà sorare le auto che la precedono.” Rifletté un attimo. “Ammesso che ci riesca.”

La pioggia continuava a cadere fittissima. Dal parabrezza veniva il ronzio monotono e cadenzato dei tergicristalli tenuti alla velocità massima. A un tratto l’uomo disse: “Devo fare benzina, sono quasi a secco.”

sca guardò fuori dal finestrino per verificare quale tratto della circonvallazione stavano percorrendo: vide che erano in viale Liguria. Dopo qualche minuto, la Punto imboccò uno svincolo che immetteva in un vasto piazzale con al centro una stazione di servizio della ESSO, affiancata da un autolavaggio automatico. Si arrestò dietro una Mercedes che il benzinaio stava

servendo da una delle due pompe, e attese il proprio turno.

Sia sca che il tassista tenevano gli occhi puntati sulla Peugeot che li aveva sorati, e ora sostava sulla strada accostata al marciapiede, a circa centro metri di distanza davanti a loro. Aveva le frecce di emergenza lampeggianti, e attendeva di poter riprendere il tallonamento una volta che la Fiat fosse uscita dal piazzale. Il tassista abbassò il finestrino elettrico e si rivolse al benzinaio mentre la Mercedes si allontanava: “Venti euro.”

Nei cinque minuti che seguirono, sca non distolse mai lo sguardo dalla Peugeot. Terminato il rifornimento, la vettura si mosse lentamente ritornando sulla carreggiata, ma percorsi non più di una ventina di metri, sterzò bruscamente a destra in un viale alberato, e l’uomo premette a fondo sull’acceleratore. Era a senso unico con macchine parcheggiate su entrambi i lati e sopra i marciapiedi. L’uomo proruppe in una fragorosa risata. “Li ho messi nel sacco!” esclamò. “Saranno rimasti con un palmo di naso.”

“E’ certo che non ci riprenderanno?”

“Certissimo, signora. Stia tranquilla. Dovrebbero fare inversione per sperare di riuscirci, ma non possono dal momento che la carreggiata è a senso unico.” Trascorsi dieci minuti, la vettura si fermò davanti all’ingresso dell’Hotel Astra. sca pagò quello che il tassametro indicava, con l’aggiunta dei duecento euro di mancia promessi.

“La ringrazio”, gli disse sorridendo, mentre, aperta la portiera, scendeva sul marciapiede indifferente alla pioggia che si era attenuata.

“E di che?” le rispose ricambiando il sorriso. “Sono io a ringraziare lei.” E poi soggiunse: “Non capita tutti i giorni...”

sca guardò la Punto allontanarsi a gran velocità. Poi lanciò un’occhiata in giro, soffermandosi sul parco Ravizza che si stendeva oltre la strada. Ricordò che qualche volta era ata in auto da quella parti. Sapeva che era una zona di dubbia fama, frequentata da adescatrici e transessuali che esercitavano il mestiere nelle pensioni e alberghetti dei dintorni. Osservò la facciata brutta e malridotta dell’Hotel, e poi si diresse decisa al portoncino aperto che dava accesso alla piccola hall. Si avvicinò al banco della reception di un verde sbiadito. Notò le vistose macchie grigie nei punti in cui la vernice si era scrostata. Si rivolse all’obeso e occhialuto gio-vane portiere, che stava seduto sopra uno sgabello girevole, dicendo: “Dovrei vedere il signor Sergio Ragazzi.”

L’altro alzò lentamente lo sguardo dalla consueta rivista porno, e la squadrò. Doveva aver appena terminato di mangiare, forse un abbondante spuntino, dato che si tormentava con un fiammifero gli spazi interdentali. C’era una tazzina di caffè vuota sul ripiano del banco e un posacenere stracolmo di mozziconi da cui si levava una tenue spirale di fumo azzurrognolo. Il ciccione emanava un pungente puzzo di sudore e aveva la barba incolta. Indossava una camicia di flanella rossa, stropicciata al punto da dare l’idea che ci avesse dormito dentro.

“Come ha detto che si chiama?” chiese di nuovo chiudendo la rivista con una secca manata.

“Ragazzi, Sergio Ragazzi”, ripeté col cuore che le batteva in gola. “Dovrebbe essere qui da un paio di giorni.”

Il giovanotto non disse niente, ma continuò a studiarla, la fronte aggrottata e gli occhi sospettosi che spaziarono sul suo volto come per studiarla.

sca ebbe l’impressione che il giovane avvertisse la sensazione di averla già vista, ma che non riuscisse, malgrado lo sforzo di concentrazione, a collocarla. Pensò che se l’avesse riconosciuta, poteva crearle ulteriori problemi.

“Ha un appuntamento?”

“Sì.”

“Lei non è di queste parti, mi pare di capire…”

“Perché me lo chiede?”

“Perché non ricordo di averla mai vista in giro; di certo è la prima volta che viene da noi.”

Fu allora che sca afferrò dove il cretino voleva andare a parare. Non l’aveva riconosciuta – cosa che le procurò sollievo –, ma sospettava di avere di fronte una nuova arrivata delle tante professioniste del marciapiede di cui la zona pullulava, che elargivano il servizio ai loro clienti nell’intimità di camere d’albergo, magari per appuntamento. Apparentemente affetto dalla sindrome perniciosa della curiosità, stava cercando di averne conferma. Gli lanciò uno sguardo tanto duro che avrebbe potuto spaccare una roccia. “Lei sta prendendo un granchio colossale, amico”, disse con tono misurato. “Io non sono il genere di donna che lei pensa.”

“Mi sta dicendo che non è…”

“Esatto, non sono una di quelle… Le ripeto che sono qui soltanto per parlare con il signor Ragazzi, e nient’altro.” Tacque continuando a sostenere il suo sguardo. “Tra l’altro, ho una fretta del diavolo, e quindi la prego di darsi una mossa nel darmi il suo numero di camera.” Estrasse dalla borsetta un biglietto da cento euro e lo posò sul piano del banco spingendolo verso di lui. “Questo è per il disturbo, e per dissipare quel suo dubbio sul mio conto.” L’altro apparve dapprima imbarazzato, poi le labbra gli si schio in un ampio sorriso. Intascò il denaro, dicendo: “Mi scusi… Venga… l’accompagno.”

Mentre lo seguiva su per le scale, sca si chiese che cosa potesse aver indotto Kesler a sistemare Sergio in quella topaia di un albergo, che se non era un bordello poco ci mancava. La scelta non poteva che essergli stata dettata da motivi di sicurezza, pensò. Era improbabile che qualcuno andasse a cercarlo in un simile postaccio.

“Quella è la sua camera”, il portiere le disse indicandogliela con un cenno della mano, una volta che furono nel pianerottolo del quarto piano.

Quindi girò sui tacchi e scomparve.

sca si avvicinò alla porta, il cuore che sembrava sul punto di scoppiarle nel petto per la forte emozione. Attese alcuni secondi, e inspirò a fondo nel tentativo di calmarsi.

Poi batté con le nocche tre rapidi colpi.

54

Quando sentì bussare alla porta, Sergio trasalì e pensò che fosse il portiere che desiderava parlargli, anche se non riuscì a immaginarne la ragione.

Da quando il Biondo se n’era andato alcune ore prima, dopo avergli impartito le istruzioni su come procedere l’indomani nella Basilica di Sant’Ambrogio per eseguire il contratto, si era messo a riflettere stando disteso sul lettino.

Una moltitudine di sentimenti e di sensazioni si agitavano dentro di lui al pensiero del compito che l’aspettava. Riava in rassegna mentalmente e ripetutamente ogni singolo movimento o gesto che doveva compiere durante la messa pontificale, ma che, aveva ormai deciso, non sarebbe stato mirato all’assassinio dell’Arcivescovo, ma a quello del sicario.

Doveva impegnarsi al massimo delle sue capacità per vendicare la povera Tanya. Il modo in cui perseguire il suo obbiettivo, aveva ormai assunto contorni abbastanza nitidi nella sua testa. Ne aveva pure soppesato i rischi che comportava, ritenendoli accettabili.

“Che cosa c’è?” chiese a voce alta, ma invece di ottenere risposta si ripeterono i tre colpi alla porta. Allora si alzò e vi si accostò.

“Chi è?”

“Sono io, Sergio. Aprimi, ti prego.”

Girò la chiave nella serratura, e aprì lentamente indietreggiando di due i. La guardò interdetto come se non la riconoscesse. Lei entrò in fretta chiudendosi la porta alle spalle. Poi si strappò di testa la parrucca fradicia di pioggia e si tolse gli occhiali scuri, gettando il tutto sul letto.

Non attese che lui dicesse qualcosa, ma si lanciò nelle sue braccia.

“Grazie a Dio ti ho trovato!” esclamò.

“Con quella parrucca quasi non ti avevo riconosciuta”, lui mormorò cingendole i fianchi. “Perché te la sei messa?”

“Per evitare che qualcuno mi riconoscesse mentre venivo qui.”

Lui sollevò una mano e, istintivamente, le accarezzò i capelli com’era solito fare nei momenti di intimità. Ma subito dopo si sciolse dall’abbracciò e la guardò come se stentasse a credere che fosse lì. “Ma come hai fatto a trovarmi?”

Attese alcuni secondi prima di rispondergli: il tempo necessario per togliersi l’impermeabile bagnato, ripiegarlo sulla spalliera della sedia e abbracciare la stanza con un solo sguardo. “Ho trovato il blocco notes su cui avevi scritto il nome e l’indirizzo dell’albergo.” Gli spiegò il trucco con cui era riuscita a farli emergere dal foglio sottostante quello su cui lui aveva scritto e poi strappato via. “Ma ora sono qui. Siamo di nuovo insieme, e questa è la sola cosa che veramente conta.”

Di colpo lui si irrigidì.

“Perché sei venuta? Non lo sai che è finita tra di noi? Ti ho lasciato le rose per dirti addio. Forse non ne hai afferrato il significato…” L’espressione si fece seria. “Non voglio che tu resti qui. Rimettiti l’impermeabile e tornatene a casa, fammi il favore.” Si scostò da lei, si avvicinò alla porta e fece per aprirla.

“Aspetta. E’ inutile che tu cerchi di cacciarmi, Sergio”, gli disse a bassa voce, le guance che le luccicavano per la pioggia. “Dovresti usare la forza per riuscirci. Ed è inutile che continui a mentirmi. Ora credo di sapere che cosa sei venuto a fare a Milano.”

La guardò sorpreso. “Davvero?”

“Paolo Kesler, l’amico di mio zio, ti ha pagato per uccidere un uomo.”

Seguì un lungo silenzio. Dall’esterno venne il rumore di un’automobile che accelerava, e che, a poco a poco, si perse in lontananza. Pur sforzandosi di apparire calmo, Sergio sentiva il cuore pulsargli furiosamente nel petto. “Se dici ‘credo’ vuol dire che il tuo è soltanto un sospetto.”

“Un sospetto che è quasi una certezza.”

“Spiegati.”

“I Servizi segreti sanno tutto.”

“I Servizi segreti?”

“Mi hanno contattata tramite Pietro Mattei, il mio ex, per un colloquio su Kesler. Pietro è ora uno di loro.” Lo guardò dritto negli occhi. “Hanno scoperto che sei a Milano e ti stanno cercando. Da indagini su Kesler è emerso che è un criminale, agente di un’organizzazione comunista clandestina responsabile del disastro aereo in cui sono morti i miei genitori. Non si è trattato di un guasto meccanico. Lui stesso è comunista. Ecco per chi lavori, Sergio: per i comunisti.” Tacque per qualche attimo. “Ho assicurato al Sisde la mia collaborazione in questa faccenda.”

“Allora, perché non mi denunci, visto che ora sai dove mi nascondo?”

“Sai bene che non lo farei mai. Malgrado tutto, continuo a essere innamorata di te.”

Lui sembrò ignorare quell’affermazione, ma disse in tono asciutto:

“Quello di cui devo occuparmi non è affare tuo. Ti ho già detto di starne fuori. E ora, per l’ultima volta, vattene a casa!”

“E’ anche affar mio, e non solo perché ti amo, ma anche perché c’è di mezzo mio zio”, lei replicò con veemenza. Si accese una sigaretta e si sedette sul bordo del

lettino.

“Come c’entra tuo zio in questa storia?”

“Lui è all’oscuro della verità dato che Kesler lo ha manipolato. Gli ha proposto di assoldarti e portarti a Milano, ma gli ha fatto credere che fosse per uno scopo ben diverso da quello vero. Il denaro del tuo ingaggio viene da lui. Kesler lo ha convinto che sei in possesso di un certo materiale fotografico molto compromettente per i suoi avversari politici. Ora desidera acquistarlo per servirsene all’occorrenza contro di loro in campagna elettorale.” Sergio annuì lentamente, dicendo: “Ora capisco....” Ma subito dopo aggiunse: “Sa anche che sei stata tu ad accompagnarmi?”

“Sì, ho dovuto dirglielo per accertarmi che non fosse per caso al corrente del vero piano di Kesler. Purtroppo mi sono lasciata sfuggire che ti ho ospitato per due settimane, e ora credo sospetti che siamo amanti.”

“Perché non gli dici tutto quello che hai appreso su Kesler?”

sca si sporse in avanti e gli afferrò una mano costringendolo a sedere sul bordo del letto accanto a lei. “Se lo fi, mi vedrei costretta a tirarti in ballo, capisci? Mio zio, come sai, è un uomo potentissimo e farebbe l’impossibile per scovarti, magari anche collaborando con la Polizia e i Servizi segreti.” Gli prese le mani e gliele strinse tra le sue. “Gli parlerò non appena ti saprò al sicuro.”

Lui ci rifletté.

“Capisco che tuo zio distruggerebbe Kesler se sapesse chi è in realtà, ma mi sfugge il motivo per cui dovrebbe impegnarsi per facilitare la mia cattura. Che cosa gliene fregherebbe?”

“Gliene fregherebbe eccome. I Servizi ritengono che tu sia stato ingaggiato da Kesler per uccidere un personaggio illustre. Qualcuno con cui mio zio è in rotta di collisione nella corsa elettorale, e il cui assassinio getterebbe una grossa ombra di sospetto su di lui nel ruolo di mandante. Il che porterebbe alla sua sconfitta, e all’insediamento nel nostro Paese di un governo a guida comunista. E’ l’obbiettivo che questa setta criminale si prefigge.”

Sergio annuì lentamente. “Ora mi è tutto chiarissimo.”

“In che senso, Sergio?” Gli strinse le mani con maggior forza. “Spiegati. E’ giunto il momento che tu mi dica chi è il personaggio che devi colpire.”

“A questo punto non c’è più ragione di tacertelo.” La fisso intensamente. “E’ il Cardinale Losito.”

“Dio! L’Arcivescovo di Milano!”

“Sì, quello è l’uomo con cui tuo zio è in rotta di collisione, se risponde a verità quello che mi hai raccontato quando me l’hai mostrato in televisione due giorni fa.”

“Sì, è così. Sono ai ferri corti. Anche a me ora tutto appare chiaro.”

“C’è un piano per farlo fuori, la cui esecuzione è stata fissata per domattina nella basilica di Sant’Ambrogio, durante la messa pontificale che officerà per celebrarne la festa. Stamane ho ricevuto l’ordine di colpirlo con una pistola dall’interno di un confessionale, mentre pronuncerà l’omelia”

“Ma non puoi ammazzare quel sant’uomo, Sergio!” lei esclamò. “Non puoi farlo!”

Lui osservò l’espressione sconvolta e disperata che il suo volto aveva assunto, gli occhi colmi di lacrime.

“Non lo farò, sca, puoi esserne certa.”

“Oh, grazie a Dio!” Gli gettò le braccia al collo. “Allora lascia perdere tutto e fuggi… Subito! Prendi un aereo stasera stessa, e, nel giro di poche ore, potrai raggiungere qualche remota località dove sarai al sicuro. Un posto dove non potranno trovarti e punirti per averli ingannati.”

“E’ difficile che ci riesca, sca. Mi sorvegliano giorno e notte. Peraltro sono certo che se anche uccidessi il Cardinale, sarei fatto fuori a mia volta.”

“Perché?”

Non le rispose subito, ma le raccontò di come avesse appreso dalla telefonata fatta al direttore della Bank of Beirut quel mattino, dell’uccisone di Tanya e di

Hassan, l’uomo che aveva agito da intermediario per rendere possibile il suo ingaggio da parte di Kesler.

“Povera, piccola Tanya”, disse con la voce incrinata dalla emozione. “Violentata e poi strangolata. Il mediatore lo hanno fatto saltare in aria con sua BMW appena acquistata. Aveva a bordo la famiglia. Conoscevo la moglie e i due figli adolescenti.”

“E’ terribile, Sergio”, lei disse visibilmente scossa. “Ma quale può essere lo scopo di questi assassinii tanto efferati?”

“Appare evidente che questa organizzazione segreta perpetra omicidi politici, e poi toglie di mezzo ogni potenziale testimone. Tali dovevano essere considerati Tanya e Hassan. Quindi, altrettanto faranno con me anche se dovessi uccidere il Cardinale. Ma dubito che ci riusciranno.” Reclinò il capo ed ebbe un lieve sussulto come per un singhiozzo trattenuto. “Perché l’hanno ammazzata in un modo così barbaro?” chiese con voce roca. Si girò a guardarla come se si aspettasse una risposta, gli occhi resi lucidi da un pianto incipiente. “Lei non avrebbe potuto parlare con nessuno perché non sapeva niente. Non avevano alcuna ragione di trucidarla?”

sca gli cinse le spalle con una braccio. “Non sapevo che l’amassi a questo punto…” Glielo disse in un sussurro non senza avvertire un egoistico sentimento di gelosia.

“Più che amarla le volevo bene. Avevo deciso di prendermi cura di lei…, di proteggerla. E lei contava su di me. Ma le ho portato sfortuna. Se non avessi accettato l’incarico, non l’avrei lasciata sola e ora sarebbe viva. Dalla vita non aveva avuto che sofferenze e maltrattamenti, mai felicità.”

“Ma da quando aveva te era felice, Sergio”, lei disse stringendolo a sé. “Sono certa che eri tutto ciò che desiderava.” Lo prese per il mento e gli girò il capo costringendolo a guardarla negli occhi. “E tu rappresenti per me tutto ciò che desidero.”

Lui fece una smorfia scettica. “Cosa potrebbe offrire mai uno come me a una come te? Quello che davo a Tanya non riuscirebbe a soddisfare neppure minimamente una donna del tuo ceto sociale.” Non lo disse con tono di rimprovero, ma come fosse una semplice constatazione.

Di nuovo le lacrime le inondarono gli occhi; se le asciugò con un fazzolettino. Disse: “Tu pensi di non potermi offrire niente, Sergio, eppure mi hai già dato tanto. Non puoi immaginare quanto mi senta appagata e felice per ciò che sento per te, e per esserne ricambiata. Dovresti sapere che cosa si prova ad amare ed essere amati nel modo in cui proprio tu mi hai insegnato…” Lui distolse lo sguardo. “Sergio guardami, ti prego. Ascoltami! Io non sono in grado di stabilire la differenza che correva tra Tanya e me perché non la conoscevo. Ma di una cosa sono certa: non poteva essercene sul piano dei sentimenti. Lei ti amava esattamente come io ti amo, ed è questo che importa. So di tenere a te più di qualsiasi altra cosa al mondo. Voglio che viviamo insieme la nostra vita.”

Aprì la borsetta e vi rovistò con mani tremanti alla ricerca delle sigarette e dell’accendino. Quando le trovò lui gliene accese una. “Persino quando ho saputo che sei un killer professionista venuto a Milano per commettere un omicidio, nulla è cambiato in ciò che provo. Non me ne importa niente del tuo ato perché sono pazza d’amore per te, lo capisci o no?” Lo disse con un elevato tono di voce. “Desidero anzitutto che tu ti metta al sicuro.”

Lui parve meditare per alcuni secondi prima di dire: “Il mio vero nome non è Sergio Ragazzi, ma Nino Salvo, sca. Sono obbligato a mantenere quello

falso poiché appare sul mio aporto italiano contraffatto. Ma tu continua pure a chiamarmi Sergio. ”

Lo guardò sorpresa.

“Non sono un killer professionista”, continuò. “Se uccidessi il Cardinale, sarebbe la prima volta che faccio un lavoro del genere per denaro. Ho accettato l’incarico mio malgrado, perché ero alla disperazione. Dopo un lungo periodo senza lavoro, mi ero ridotto sul lastrico. Io è Tanya non avevamo neppure di che sfamarci.” Si interruppe per accendersi anch’egli una sigaretta. “Mi si è presentata l’occasione di mettere a frutto la mia grande abilità di tiratore scelto, acquisita all’epoca in cui operavo come mercenario, e ho deciso di non farmela sfuggire, ma giurando a me stesso che sarebbe stata la prima e l’ultima volta. Col compenso di un milione di euro, che ho già percepito, io e Tanya avremmo potuto vivere in modo confortevole.” Fece una pausa. “Ma ora lei è morta e tu vuoi entrare per sempre nella mia vita.” La guardò come a dire: “Mi sembra una follia.”

Preferì tacerle che non era del tutto vero che non avesse mai ucciso per denaro Aveva sempre omesso di confessarle il suo oscuro ato da rapinatore. Continuava ostinatamente ad assolvere se stesso per l’omicidio del giovane cassiere di banca, restando aggrappato all’illusione che si fosse trattato di una tragica fatalità, pur senza esserne veramente convinto nel segreto del suo animo.

Lei annuì comprensiva. “Il cuore me lo diceva che non potevi essere il genere di uomo che i Servizi segreti credono.” Gli rivolse un mezzo sorriso. “Ma tornando a Kesler, c’è qualcos’altro di molto grave che non ti ho ancora riferito su di lui.”

La guardò con fare interrogativo.

Gli fece un succinto resoconto della conversazione telefonica avuta con Martinoni non più di un’ora prima: l’assassinio di Orietta nella vasca idromassaggio, e il dubbio di suo zio che Kesler ne fosse l’autore, ma che lei era stato il suo vero bersaglio. Gli accennò al duplice movente che lei sospettava potesse spingere l’uomo a volerla morta. “Dunque, anch’io sono a rischio”, concluse. “E’ possibile che proprio mentre parliamo Kesler mi stia cercando. Mio zio desidera che ritorni a Villa Olga per mettermi sotto la sua protezione.”

“Perché non lo fai?”

“Ora che ti ho ritrovato, non intendo lasciarti, Sergio.” “Purtroppo questo non è possibile. Anche se ho deciso di non uccidere il Cardinale, dovrò comunque andare nella basilica domat-tina.”

Lei sbatté le palpebre. “A fare che?”

“A vendicare Tanya.”

“E in che modo?”

“Il suo carnefice sarà anch’egli presente per sorvegliarmi e accertarsi che io esegua l’incarico.” Le spiegò di averlo conosciuto quel mattino quando era venuto a trovarlo per argli le istruzioni, aggiungendo come avesse acquisto la certezza che si trattasse dello strangolatore e stupratore della ragazza araba, dalla descrizione che gliene aveva fatta per telefono il direttore della Bank of Beirut. Disse: “Ho un piano per fargli saltare le cervella. Poi fuggirò, ma sono

certo che mi daranno la caccia e se mi troveranno non esiteranno a pareggiare il conto.” La guardò negli occhi. “Diverrò come una sorta di bersaglio mobile, e quindi rappresenterei un pericolo anche per te se restassimo insieme; quindi voglio che tu stia alla larga da me. Va’ da tuo zio.” Rimasero a lungo in silenzio, a fumare. All’improvviso, lei disse: “Lascia perdere l’odio e la vendetta, caro. Dimenticali. Non riporteranno Tanya in vita. Fuggiamo insieme, invece. Ora! Abbiamo i aporti. Andiamo in aeroporto e saltiamo su un aereo per una destinazione la più lontana possibile. Sono ricchissima, ho tanto di quel denaro da consentirci di vivere in agiatezza per tutta la vita. Ti prego, Sergio, vieni via con me.”

La guardò con un misto di incredulità e stupore. “E la tua carrie-ra di attrice? Tuo zio?”

“Non me ne frega un accidenti della carriera. Una volta che saremo al sicuro farò in modo di contattare mio zio, ma senza rivelargli dove ci troviamo. Gli spiegherò tutto e sono certa che comprenderà, pur restandone dispiaciuto. E’ un uomo di mondo e di larghe vedute. Non credo che ne sarà sorpreso più di tanto: deve aver intuito che abbiamo allacciato una relazione sentimentale. Per giustificare la mia sparizione saprà trovare una spiegazione credibile per il pubblico e i miei fan. Dopo un po’ di tempo cadrà l’oblio sulla mia persona. Gli dirò tutto di Kesler. Sono certa che si adopererà in ogni modo per distruggerlo.” Gli rivolse uno sguardo pieno di aspettativa. “Allora… che mi dici?”

Sergio non rispose, ma l’attirò a sé e l’abbracciò pensoso.

Fino a quel momento, non era mai stato del tutto certo che lei lo amasse veramente. Anche se glielo aveva dichiarato più volte, non era mai riuscito a convincersi che una donna come sca potesse innamorarsi di un uomo del suo basso ceto sociale, al punto da desiderare di programmarci una vita insieme.

La misera, piccola randagia di Beirut, che aveva raccolto dalla strada in preda ai morsi della fame, era stata tutt’altra cosa. L’aveva nutrita, coccolata e trattata sempre con gentilezza: non aveva potuto dubitare del suo amore e della sua devozione. Ma ora sca aveva affermato di essere disposta, pur di non perderlo, a tagliare i ponti con la sua splendida vita di donna ricchissima e famosa, rinunciando a una fulgida carriera di attrice, per tuffarsi con lui in un futuro irto di incognite e di pericoli, compiendo così un vero e proprio salto nel buio. A quel punto, non poteva più diffidare della sua sincerità.

Il protrarsi del suo silenzio, lei dovette interpretarlo come la sua indisponibilità a fuggire con lei per andare a vivere insieme, dato che si mise di nuovo a piangere a dirotto.

Sergio non aveva mai mostrato una spiccata sensibilità al pianto femminile, pur essendone in qualche modo toccato. Ma ora, nell’osservare il volto mesto di sca bagnato dalle lacrime, si sentì sommergere da un’ondata di comione. Gettò il mozzicone della sigaretta sul pavimento, e la prese per le spalle costringendola a girarsi verso di lui. La baciò dolcemente sulla bocca, e le accarezzò i capelli con le mani virili. “Ti prego, basta lacrime…”, le disse. “Non voglio che tu pianga per me.”

“Allora fuggiamo”, lo implorò di nuovo asciugandosi gli occhi col fazzoletto. Sembrò calmarsi e acquistare a fatica un certo auto-controllo. Pensò che le lacrime non sarebbero bastate a convincerlo, ma sentiva la determinazione a non desistere. Lui rimase in silenzio; sembrava meditare sulla decisione da prendere.

“A cosa pensi?” gli chiese con maggiore veemenza, anche se immaginava quello che gli ava per la testa. “Se mi ami, rinuncia al tuo proposito di vendetta e vieni via con me.”

Lui disse a bassa voce: “Tu non puoi capire ciò che provo. Ho stipulato con loro un contratto, ed ero pronto a onorarlo. Ma quelli cosa fanno? Mi uccidono la ragazza e distruggono una famiglia di quattro persone. E come se non bastasse, ora vogliono ammazzare anche me un minuto dopo che avrò fatto la mia parte. Per quanto mi riguarda è stato un pessimo contratto, anche se ho già intascato il mio compenso. Il minimo che possa fare è dare la morte a quel figlio di cagna che ha ammazzato Tanya. Se non lo fi, non potrei vivere sereno per il resto dei miei giorni.”

“No! Non te lo permetterò! Se vai nella basilica rischi di brutto. Potresti non uscirne vivo.” Lo abbracciò e cominciò a baciarlo con ione sulla bocca. Lui sentì sulle labbra il sapore salato delle sue lacrime.

“Me la caverò, vedrai. Ho un’ottima copertura.”

“Cioè?”

“Mi travestirò da sacerdote in modo da no destare sospetti, soprattutto quando entrerò nel confessionale.”

Tra le lacrime, lei ebbe un lieve sorriso divertito. “Non ti ci vedo proprio nei panni di un prete, Sergio.”

“Tu non mi ci vedi perché mi conosci.”

“Avrai la certezza di farla franca soltanto se scapperai subito con me”, lei ribatté.

“Saremo felici insieme, vedrai…”

Quando era arrivata, lui non aveva pensato che avrebbero fatto l’amore. A un certo momento, mentre lei continuava a baciarlo cercò di fermarla, ma lei riprese a piangere senza staccarsi da lui. Si rese allora conto che non poteva controllare oltre i suoi istinti erotici. Avvertì una sorta di rabbia per se stesso per l’incapacità di resistere all’intenso desiderio di lei. Si sentiva stordito e frastornato come avesse bevuto. Gli sembrò che la squallida cameretta ruotasse attorno a lui.

A un tratto, lei si alzò di scatto. “Facciamo l’amore”, disse risoluta. Con gesti rapidi e convulsi, si sbottonò la camicetta di seta bianca e se la tolse. Poi scivolò in fretta fuori dalla gonna e dagli slip restando del tutto nuda tranne che per il reggiseno. Le piaceva che fosse lui, come sempre, a prendere l’iniziativa di sganciarglielo. Sergio guardò il suo corpo statuario a bocca aperta, pensando che fosse persino più splendido di come lo aveva lasciato alcuni giorni prima. Poi si spogliò velocemente a sua volta.

Fu quasi come se si trovassero nell’appartamento di sca al loro primo rapporto sessuale. Ma allora lei aveva avvertito un certo nervosismo, perché un po’ schiva nel mettere a nudo la propria ionalità, e intimorita dalla forza dominante di quella di lui. Ora invece gli si offrì con disinvoltura, motivata oltre che dal desiderio, anche dalla consapevolezza – tipica del gentil sesso – che quello era l’unico mezzo con cui poteva sperare di fargli cambiare idea. Consumato l’atto, restarono ansimanti in silenzio per qualche tempo, distesi supini fianco a fianco. Stranamente, lui appariva più sfiancato di lei, come se, per qualche inspiegabile ragione, la sua grande energia avesse subito una lieve défaillance. “Allora…, verrai via con me?” gli chiese di nuovo. “Ho una villa in Messico, nello Yucatan, sulla Riviera Maya, a breve distanza da una spiaggia bianchissima sul mar dei Caraibi. E’ un luogo incantevole, Sergio. Apparteneva a mia madre, e ora è mia. L’avevamo arredata con tanto amore appena acquistata. I miei genitori hanno potuto trascorrervi una sola vacanza prima di morire nel disastro aereo.” Si fermò e si girò a fissarlo. “Andiamo lì. Potremo rifarci una nuova vita. Saremo felici e al sicuro. Nessuno potrà rintracciarci.”

“Di certo qualcuno ne conosce l’esistenza.”

“Nessuno. Neppure mio zio.”

“Com’è possibile?”

“Lo è. Mia madre nell’acquistarla non aveva voluto che si venisse a sapere. Le piaceva pensare a quel posto come il suo rifugio segreto per le vacanze. Aveva imposto a me e a mio padre di tenere la bocca chiusa con tutti, persino con mio zio. Anzi, a maggior ragione con lui dal momento che lo detestava profondamente. Ma credo che il sentimento fosse ampiamente ricambiato.”

Sergio non disse nulla.

“Allora?” lei lo incalzò.

“Non è sicuro che funzionerebbe.”

“Sta’ tranquillo che funzionerà”, lei ribatté con convinzione. “E a meraviglia. Ti ripeto: nessuno sa che posseggo una villa in Messico. Non dobbiamo che prendere un aereo e sparire per sempre.” Lo guardò sorridendo. “Chissà, forse un giorno potremmo sposarci e avere dei bambini.”

Lui la attirò a sé e la baciò. Forse sca aveva ragione, pensò. Poteva funzionare. D’altro canto anche lui l’amava ed era consapevole che lasciarla ora che l’aveva ritrovata, gli avrebbe procurato un’intollerabile sofferenza.

Ma doveva dettare una condizione: non sarebbero partiti prima che lui avesse adempiuto il compito che si era dato. Si sarebbe sen-tito un codardo a lasciare Tanya invendicata nella sua tomba. Sapeva che non avrebbe potuto vivere in Messico o in nessun altro Paese al mondo, con un peso simile sulla coscienza. “Va bene, fuggiremo insieme”, le disse. “Ma…”

Non gli riuscì di proseguire perché lei lo interruppe esplodendo in una manifestazione di gioia incontenibile. “Dio come sono felice!” esclamò. Gli gettò le braccia al collo e prese a ricoprirgli il volto di baci. “Non sto più nella pelle dalla gioia. Finalmente hai detto sì.”

“Sì, ma a un patto.”

Lei si accigliò appena. “Quale?”

“Che tu sia d’accordo a ché io vada domattina nella basilica per vendicare Tanya. Potremmo partire nel primo pomeriggio.”

Di colpo si fece seria. “Mi ero illusa che alla fine ci avresti rinunciato.”

“Non posso tirarmi indietro, tesoro. Se lo fi mi sentirei un codardo, e mi resterebbe un terribile senso di colpa. Sarebbe come un’ombra sulla mia vita, che

finirebbe per offuscare la nostra felicità.”

“Potresti lasciarci le penne, e così non andremo da nessuna parte.”

“Rilassati, andrà tutto liscio. Ho un piano preciso su come cogliere di sorpresa quel bastardo. Non gli darò neppure il tempo di dire ‘Amen’.”

Lei fece una lunga pausa riflessiva. “Va bene”, disse alla fine annuendo lentamente. “Prenoterò sul volo dell’Alitalia in partenza da Linate per Città del Messico alle quattordici in punto di domani. E’ quello che prendevano i miei genitori. Da lì raggiungeremo Cancun in aereo o in treno.”

“Dove ci ritroviamo in aeroporto?”

“Davanti alla biglietteria alle dodici e mezzo. Ritirerò i biglietti e poi andremo a fare il checkin.” Lo guardò dritto negli occhi. “Che Dio ti protegga, Sergio, perché se non ci sarai la mia vita sarà distrutta.”

“Tranquilla, ci sarò.”

Si alzarono e si vestirono frettolosamente.

“Ora è meglio che tu torni a casa”, lui disse. “Si sta facendo buio, e questa non è esattamente una zona sicura. Sarà bene che prenda un taxi.”

“D’accordo, chiederò al portiere di chiamarmene uno.”

La aiutò a indossare l’impermeabile, e lei si rimise la parrucca e inforcò gli occhiali da sole. Prima di uscire dalla stanza gli disse: “Promettimi che non cambierai idea, e soprattutto che ai la massima prudenza nella basilica.”

“Te lo prometto.”

“Ora vado a fare le valigie.” Tacque per un istante. “A domani, dunque.” Un’altra pausa. “Non ti bacio neppure, per scaramanzia.”

“Arrivederci, cara. Sii prudente anche tu.” Rimase sulla soglia fino a quando sentì perdersi giù per le scale il ticchettio dei suoi i. Poi chiuse la porta e si avvicinò al tavolino da notte sul cui ripiano era posata la pianta rudimentale della basilica, che il Biondo gli aveva lasciato. L’aveva studiata a fondo e non ne aveva più bisogno. La prese e la lacerò in tanti pezzetti che depose in un posacenere di cristallo. Gli appiccò il fuoco con un fiammifero e rimase a osservarli ridursi lentamente in cenere. Guardò l’ora: era ancora in tempo per uscire a fare dello shopping.

55

Mentre sca ritornava a casa in taxi dalla visita a Sergio, nel suo sontuoso appartamento di via Montenapoleone, Paolo Kesler aveva da poco terminato i preparativi per la partenza.

Le due capienti Samsonite, il bauletto e il borsone da viaggio erano pronti per essere caricati sulla Thesis. Anche se non aveva alcun senso preoccuparsi di ciò che sarebbe accaduto dopo la sua scomparsa, aveva distrutto, andolo in una trinciatrice, un mazzetto di documenti dai contenuti scabrosi, che non riteneva di portare con sé. Aveva pensato che se fossero stati rinvenuti in una eventuale perquisizione della polizia, potevano rivelarsi nocivi per l’organizzazione. Ne aveva gettato i frammenti nello scarico del WC. Il telefono aveva squillato un paio di volte, ma lui lo aveva ignorato.

Spaziò intorno con lo sguardo amareggiato. Aveva vissuto in quello splendido alloggio per quasi quindici anni, e ora era costretto a lasciarlo per sempre. Nel vasto salone in cui si trovava, si soffermò con gli occhi su ogni singolo mobile antico di grande valore, che ne componeva l’arredamento, e in particolare su quel prezioso scrittoio Luigi XV che aveva acquistato in uno dei tanti viaggi a Parigi. Purtroppo, a parte alcuni oggetti di pregio non ingombranti, che era riuscito a inserire nei bagagli, era obbligato ad abbandonare tutto il resto.

Tra gli oli su tela che tappezzavano le pareti, lo addolorava molto doversi separare dai due inestimabili Canaletto, che aveva comperato alcuni anni addietro a un’asta di Sotheby’s, a Londra.

Fu tentato di rimuovere le tele dalle cornici per sistemarle dentro una valigia, ma decise che poteva rivelarsi una imprudenza. Avrebbero attirato l’attenzione ai

controlli doganali durante il viaggio, soprattutto in Argentina, e procurargli dei problemi. Pertanto, dove-vano restare per essere in seguito posti sotto sequestro dalle autorità dopo la sua scomparsa, insieme al contenuto dell’intero appartamento. Guardò l’orologio: erano le cinque e un quarto. Avrebbe atteso ancora un paio d’ore prima di mettersi in viaggio. Non gli pareva vero che, dopo un breve soggiorno in Svizzera e una permanenza di qualche settimana a Buenos Aires, sarebbe stato in grado di fare ritorno in patria.

Aveva lasciato la sua Berlino dopo il crollo del Muro, cui era seguita la delicata fase di transizione verso la democrazia. Riteneva di poter condurre grazie alle risorse di cui disponeva – restando fermo nella sua ideologia politica, nonché membro attivo dell’organizzazione –, un tenore di vita più che agiato. Pensava di acquistare un appartamento nel centro storico della città, dove vivere in tranquillità e confort. Ma non vi sarebbe rimasto a poltrire: avrebbe cercato un lavoro consono alle sue ate esperienze professionali, più per tenersi occupato e assicurarsi un’adeguata copertura, che per vera necessità.

Si aspettava di trovare numerosi cambiamenti. Dubitava di rivedere in giro volti familiari. Il pensiero di dover lasciare l’Italia lo rattristava, ma era vinto da quello entusiasmante di ristabilirsi nel Paese dov’era nato. D’altro canto, era cosciente che il tempo della sua lunga permanenza a Milano era ormai scaduto, e che la sua fortuna si era esaurita. Percepiva netta la sensazione che il livello di rischio si stava innalzando. Ne aveva avuto chiare avvisaglie nelle ultime due settimane, da quello che gli era successo. Riconosceva di aver commesso un paio di errori marchiani. Anzitutto, era da tempo che si era messo a fare lo scemo con la nipote di Martinoni, correndo il rischio che lui se ne accorgesse, se non se n’era già accorto. Ma davvero madornale era stato quello di scambiare con lei la convivente del suo capo mentre era immersa nella vasca idromassaggio, uccidendola. Si maledisse per non aver usato maggiore cautela. Ma alla domanda che si pose se avrebbe potuto evitarlo, si diede una risposta negativa: non era dotato di qualità extrasensoriali con cui indovinare che Orietta aveva preso in prestito la cuffia dall’amica.

Pensò che quando uno nella sua situazione cominciava a incorrere in simili disavventure, significava che era giunto il momento di levare le tende, e mettersi al sicuro tornandosene a casa.

Non usava la violenza dai tempi della sua attività di spia della Stasi, e ora non avvertiva alcun senso di colpa per l’omicidio che aveva commesso. C’era in lui rabbia, piuttosto, per il pasticcio che aveva combinato e per il fallimento del suo proposito di vendetta. Era ragionevolmente sicuro che nessuno lo avesse visto entrare nel padiglione o uscirne, ma non si sentiva di escluderlo in assoluto. E se qualcuno lo aveva notato, riferendolo a Martinoni dopo la scoperta del cadavere di Orietta, era probabile che il Magnate avesse già cominciato a nutrire sospetti su di lui. Lungo il tragitto in mac-china sulla tangenziale, di ritorno a Milano, non aveva fatto che rimuginare sul quel fiasco colossale, stringendo con forza il volante per la bile, le mani indolenzite dalle profonde scorticature procurategli dalle unghie di Orietta. Aveva pestato sull’acceleratore senza rendersene conto, lanciando la Thesis a una velocità folle. Appena entrato in casa, si era medicato le ferite con l’uso di cotone idrofilo imbevuto di acqua ossigenata. Aveva ritenuto opportuno indossare dei guanti di pelle sottile, per nasconderle.

Ora si servì un abbondante scotch e si sedette a sorbirlo sul morbido divano di pelle davanti al televisore. Azionò il telecomando sul primo canale RAI.

L’indomani mattina non sarebbe stato lì a osservare il realizzarsi del grande colpo che aveva progettato di concerto con Reynaud. Nella basilica di Sant’Ambrogio il killer avrebbe abbattuto con un solo colpo di pistola il cardinale Losito, principe della Chiesa e Arcivescovo di Milano, mentre pronunciava l’omelia durante la messa pontificale. Il Biondo gli aveva inviato poco prima un sms per confermargli che tutto era pronto, e che l’assassino era stato debitamente istruito. Non meno di quattro telecamere avrebbero ripreso la funzione, e le immagini dell’attentato si sarebbero diffuse come un fulmine in tutto il mondo. Lui avrebbe potuto godersi lo spettacolo dalla sua stanza d’albergo a Ginevra. Un minuto dopo che il Cardinale fosse stramazzato davanti all’altare, il Biondo avrebbe freddato il killer all’interno del confessionale, per

poi dileguarsi nel parapiglia generale. Le inevitabili indagini della polizia che sarebbero seguite sul cadavere dell’attentatore e sul suo aporto, avrebbero condotto alla incriminazione di Ugo Martinoni con l’accusa di essere il mandante del delitto, vanificando di colpo la sua speranza di vincere le elezioni e diventare presidente del Consiglio di un governo di centrodestra. Anche sca sarebbe stata pesantemente coinvolta con l’accusa di complicità.

Dall’estero, Kesler avrebbe assistito al susseguirsi delle vicende politiche in Italia, che sarebbero culminate con la vittoria elettorale del centrosinistra, catapultando il Paese verso l’insediamento di un governo a guida comunista. Per il caos che ne sarebbe derivato, sarebbe stato come osservare un vulcano in eruzione. L’organizzazione segreta di cui era un illustre membro, avrebbe così centrato il proprio obbiettivo.

Controllò di nuovo l’ora: le sei. Tra poco si sarebbe mosso. A-vrebbe chiuso a chiave l’appartamento e sarebbe entrato in ascensore dopo avervi caricato i bagagli, premendo poi il pulsante del parcheggio condominiale sotterraneo, dove era parcheggiata la sua Lancia Thesis. Nel giro di qualche minuto, si sarebbe messo in marcia alla volta della Svizzera.

Fissò il piccolo schermo. In quel momento andò in onda il telegiornale. Kesler si sporse in avanti per guardare e ascoltare con attenzione. Il primo servizio a essere trasmesso fu, come si aspettava, quello di un anchorman sulla causa del decesso di Orietta, in diretta da Villa Olga. Morte per cause naturali, spiegò: arresto cardiaco mentre era immersa nella vasca idromassaggio all’interno della grande struttura sportiva. La donna soffriva, da alcuni anni, di gravi disturbi cardiocircolatori, aveva precisato il medico di famiglia in un’affollata conferenza stampa di alcune ore prima.

Un malaugurato incidente, quindi, Kesler pensò. Tale era stato considerato. Nessun sospetto di omicidio, e pertanto nessun pericolo per lui. Magra consolazione, rifletté, mentre sentì riaccendersi la rabbia per se stesso per aver

ucciso la donna sbagliata. Quella della quale avrebbe voluto vendicarsi, e che, se erano fondate le sue congetture, aveva il potere di far fallire il piano solo che lo avesse desiderato, era ancora viva e vegeta. Imprecò battendo un pugno sul bracciolo del divano. Si versò un altro scotch. A un tratto, dopo aver mandato giù un’abbondante sorso, un’idea cominciò ad affiorargli nella mente. Era certo, si chiese, che dopo quella cantonata che aveva preso, risultasse del tutto inesistente un’altra chance di vedere soddisfatto il suo desiderio di regolare il conto con la puttana che lo aveva sempre respinto, e tanto brutalmente umiliato?

Come obbedendo a un impulso irrefrenabile, sollevò la cornetta del telefono e compose il suo numero di casa. Ascoltò l’apparecchio squillare cinque volte prima che gli giungesse la sua voce: “Pronto?” Interruppe la comunicazione, riponendo la cornetta nella sua sede. sca era in casa, quindi. Era rientrata da Villa Olga come aveva immaginato.

E avrebbe scomesso che era sola.

Si mise a riflettere intensamente per qualche minuto.

Poi, come per una decisione improvvisa si alzò e indossò l’elegante paltò di cammello. Doveva fare una telefonata delicata, ma non dall’appartamento zeppo di microspie, e meno che mai dal cellulare che sapeva essere sotto costante controllo. Non era il caso di correre il rischio di essere arrestato prima di partire, o di mettere a repentaglio la sicurezza dell’organizzazione. Scese in strada e si incamminò a o svelto lungo via Montenapoleone gremita di gente dedita allo shopping del sabato sera. Raggiunse piazza San Babila, e si infilò nella consueta cabina telefonica all’inizio di corso Vittorio Emanuele. Estrasse dal portafoglio una delle due schede di cui era sempre provvisto per simili occorrenze. La inserì nella scanalatura e compose un numero.

Al terzo squillo gli rispose un uomo la cui voce roca gli era oltremodo familiare.

“Reynaud.”

“Salve, sono Kesler.”

“Salve Kesler, cosa c’è di nuovo?”

“Immagino che posso parlare come al solito, con tranquillità.”

“Certo che puoi, non c’è problema.”

Kesler chiedeva conferma a Reynaud che il suo cellulare non fosse sotto controllo, anche se sapeva da sempre che l’uomo era immune da possibili intercettazioni dato che disponeva di un numero sicuro procuratogli da un alto dirigente della Telecom, suo amico e esponente di spicco del partito comunista.

“Tutto è pronto per domattina.”

“Sì, lo so. Ho ricevuto un sms dal nostro uomo.”

“Anch’io, ma purtroppo c’è un problema che mi preoccupa.”

“Cioè?”

“Si tratta della ragazza.”

“Cosa c’è che non va con lei?”

“Ho un valido motivo per ritenere che sia a conoscenza del piano, e che potrebbe mandarlo a gambe all’aria spiattellandolo alla polizia.”

“Com’è possibile?” Suonava incredulo.

Gli spiegò brevemente che sca gli aveva riferito, quando al suo ritorno da Francoforte l’aveva chiamata per chiederle notizie del killer irreperibile, che lo stesso era suo ospite da due settimane, dal giorno in cui, cioè, giunti insieme a Linate, l’incaricato che doveva prelevarlo non si era visto perché deceduto in un incidente stradale. Kessler aveva allora provveduto a sistemarlo in un albergo.

“Ho il forte sospetto”, continuò, “che vivendo insieme quei due abbiano allacciato una relazione amorosa, tanto intensa che lui potrebbe essersi lasciato andare – tra una scopata e l’altra, e complice qualche bicchiere di troppo – a confidarle il motivo della sua trasferta a Milano.”

“Mi sembra inverosimile.”

“Forse lo è. Ma, a mio modo di vedere, è plausibile che i segreti più inconfessabili tra un uomo e una donna, cessino di esserlo nel momento in cui subentra il sesso”

Ci fu un lungo silenzio dall’altra parte del filo: Reynaud rifletteva intensamente. Infine disse:

“Ma lei non dovrebbe conoscere i particolari del nostro piano, poiché sono stati comunicati al Salvo soltanto stamattina; a meno che lui non glieli abbia poi rivelati per telefono, oppure si siano visti.”

“E’ possibile, anche se in teoria non dovrebbe esserlo, dato che a lui è stato imposto di rompere ogni contatto nel lasciarla.”

Subentrò un’altra lunga pausa, quindi Reynaud disse:

“Mi sbaglio, Kesler, o stai cercando di dirmi che lui, fidandosi ciecamente della ragazza, potrebbe averle svelato anche il luogo dell’attentato e l’identità del nostro bersaglio?”

“Sì. E se così fosse, non è affatto peregrina l’idea che lei, presa da uno scrupolo di coscienza, potrebbe denunciare tutto alla polizia stasera stessa, o al più tardi domattina. E speriamo che non lo abbia già fatto.”

“Già, ma in questo caso”, Reynaud obbiettò, “di fatto metterebbe a rischio l’incolumità del suo uomo.”

“Non credo che gliene fregherebbe granché”, Kesler osservò pur essendone tutt’altro che convinto. “Conoscendola bene, non ritengo che possa nutrire un amore struggente per un tipo come quello. Si tratta solo di sesso, secondo me.” Fece una pausa. “Quello che so per certo è che stravede per il Cardinale a tal punto di parlarne come di un santo.”

Seguì un altro lungo silenzio. “Allora… che cosa proponi?”

“Di tapparle la bocca per sempre.”

“Mi pare un’esagerazione, dato che il tuo è soltanto un sospetto.”

“Melius abundare quam deficere... Ricordi, Reynaud? sei stato tu stesso ad adeguarti a questo famoso adagio per giustificare la tua decisione di liquidare il mediatore libanese e la ragazza araba.”

L’altro non fiatò.

“Ho voluto mettere in chiaro come la penso”, Kesler riprese, “perché se il piano dovesse andare a catafascio, non potrai addossarmene la responsabilità.”

Di nuovo, Reynaud non aprì bocca.

“Sai dove si trova in questo momento?” chiese infine.

“Qui a Milano, nel suo appartamento al numero venti di via Vincenzo Monti, ottavo piano, interno ottantuno. ”

L’altro ebbe un attimo di esitazione. “D’accordo, me ne occupo subito.”

Riattaccarono.

Kesler ritornò al suo appartamento e si lasciò cadere sul divano appoggiandosi allo schienale morbido, le mani intrecciate dietro la nuca, lo sguardo tra compiaciuto e soddisfatto per essere riuscito a persuadere il suo capo dell’opportunità di liquidare sca. Rabboccò il bicchiere di scotch, e se lo portò alle labbra prendendone un lungo sorso.

In quell’attimo, lo squillo breve ma stridulo del camlo della porta di ingresso lo fece sobbalzare e tossire convulsamente. Una goccia di liquore gli era andata giù di traverso.

Chi sarà mai? si chiese con grande apprensione. Quella era un’ora quanto mai inconsueta per delle visite. Per di più era sabato, e tutti i suoi amici sapevano che era a Villa Olga per trascorrervi il weekend. Pensò a qualche rappresentante o venditore di qualche prodotto. Era accaduto qualche volta in ato. Mentre rifletteva il camlo squillò di nuovo, ma questa volta molto più a lungo. Aveva un che di perentorio. Andò alla porta e l’aprì. Si trovò di fronte due uomini sulla trentina, vestiti con sobria eleganza. Indossavano soprabiti scuri ed erano entrambi di statura media. Gli rivolsero uno sguardo inquisitorio. Uno aveva una faccia larga e abbronzata, ingentilita da due baffetti sottili. L’altro,

invece, era di pelle chiara con un viso dal mento molto pronunciato e un cranio glabro, lucido come una palla da biliardo.

Kesler pensò che in effetti, a giudicare dal loro aspetto, potevano essere rappresentanti o agenti di commercio.

“Mi spiace, ma non ho bisogno di niente”, disse sollevando le mani. “Ho fretta, sto per uscire.” Così dicendo, fece per chiudere la porta. Ma uno dei due glielo impedì piazzando un piede tra il battente e lo stipite, mentre estraeva un distintivo inserito in una custodia di cuoio. “E’ il signor Kesler, vero?”

“Sì, sono io.”

“Polizia…”, disse mostrandoglielo. “Vuole avere la cortesia di venire con noi?”

56

Mentre girava la chiave nella serratura, sca sentì squillare il telefono all’interno dell’appartamento. Spalancò la porta e si precipitò ad afferrare il ricevitore. “Pronto?”

Non ebbe risposta, ma sentì il clic di interruzione della comunicazione.

Una telefonata muta.

Fissò perplessa la cornetta prima di riporla. Strano, pensò. Aveva tutta l’aria di una chiamata fatta da qualcuno per accertarsi che fosse in casa.

Kesler?

Cominciò a tremare da capo a piedi, e avvertì il bisogno di lasciarsi andare sul divano per cercare di calmarsi e riflettere. Era certa che fosse a Milano, dato che lo aveva visto sfrecciare con la sua Thesis sulla tangenziale. Le parole di suo zio al termine della telefonata del primo pomeriggio, le risuonarono nelle orecchie: dubito che consideri ormai tramontato il suo proposito di ritorsioni contro di te. L’aveva pregata di ritornare a Villa Olga per mettersi sotto la sua protezione, ma lei aveva rifiutato adducendo un impegno urgente.

Ora doveva occuparsi dei preparativi per la partenza di domani insieme a quello che ormai considerava l’uomo della sua vita. Si alzò, si tolse il soprabito e la parrucca ed entrò in camera da letto. Prese dal ripostiglio il borsone da viaggio.

Aveva già deciso che sarebbe stato l’unico bagaglio. Niente ingombranti valige che, oltre tutto, avrebbero dato nell’occhio. Col solo borsone sarebbe sembrata, a chi l’avesse notata, in partenza per una breve vacanza. Lo aprì e lo appoggiò sopra una sedia. Poi cominciò a rovistare nei cassetti alla ricerca delle cose indispensabili che doveva portare con sé. Prese una quantità minima dei suoi effetti personali: cinque paia di slip e altrettanti reggiseno, sei magliette, numerose calze, due camicie con le maniche corte (una beige e una a quadretti), due paia di jeans celesti. Dall’armadio scelse due abiti tra i migliori che possedeva, e dalla scarpiera tre paia di comode scarpe, compreso uno da ginnastica. Una volta a destinazione si sarebbe rifatto il guardaroba.

Entrò in bagno e ne uscì con tutto l’occorrente per la toilette e il trucco. Non dimenticò il portagioie d’argento massiccio cesellato. Era probabile, pensò, che avrebbe avuto l’esigenza di vendere qualche prezioso una volta in Messico, in attesa che le pervenissero i fondi dai suoi conti in banche svizzere e italiane, del cui trasferimento si sarebbe occupata l’indomani di primo mattino. Posò tutto ordinatamente sul letto, e controllò che niente le fosse sfuggito.

Si era così tenuta occupata per circa mezz’ora. Il che era servito a farla rilassare un po’, distogliendole la mente da quella sinistra telefonata muta, e dal pensiero allarmante che in qualsiasi momento, soprattutto di notte, qualcuno poteva salire silenzioso le scale fino al suo appartamento, e tentare di forzarne la porta blindata. Istintivamente, vi si accostò e ne chiuse entrambe le serrature con tutt’e quattro le mandate. Non soddisfatta, inserì la catenella di sicurezza.

Dopo averci pensato su per un attimo, prese la cornetta del telefono e chiamò il portiere. “Non desidero essere disturbata”, lo avvertì. “A chi dovesse cercarmi, riferisca che sono da mio zio a Villa Olga. E non permetta a chicchessia di salire al mio appartamento. Sono stata chiara?”

“Certo, signorina Martinoni. Sarà fatto.”

Bastavano quelle precauzioni per tenere Kesler alla larga? si domandò. Il timore che avrebbe fatto di tutto per arrivare a lei, le provocò di nuovo il tremito alle gambe. Questa volta andò al mobile bar e si servì un abbondante cognac che mandò giù con un solo sorso. Si sedette sul divano e ne attese l’effetto calmante.

Rifletté che, se pure nel suo subcosciente, lo temeva da quando lo aveva conosciuto. Da sempre coglieva nel suo sorriso da ipocrita, una sorta di influsso malefico su di lei, cui si era sommata, negli ultimi tempi, una genuina ripugnanza fisica. Provò nausea al ricordo delle sue rivoltanti attenzioni. Risentì nelle narici il profumo dolciastro di quel mazzo di rose bianche che le aveva fatto recapitare nella sua camera d’albergo a Beirut, prima della partenza.

Rivisse quel momento disgustoso in cui, nella serra, le aveva preso la mano cercando di baciargliela. Di certo non gli era piaciuto che lei l’avesse ritratta di scatto. Il gesto doveva averlo inviperito. Condivideva con suo zio il sospetto che avesse ucciso Orietta scambiandola per lei, e che il fallimento del suo disegno di vendetta non doveva averlo dissuaso dal riprovarci. Forse era la bassa temperatura dell’ambiente a farla tremare, a dispetto del cognac che aveva appena ingerito. Ma il termometro appeso alla parete indicava ventiquattro gradi. Ritornò in camera da letto e riempì il borsone fino a quasi farlo scoppiare. Era pronta per la partenza. Si accertò di avere sufficiente denaro nel portafoglio, e poi cercò nella guida telefonica il numero dell’Alitalia. Pensò che l’unico modo per controllare la paura era tenere la mente occupata. Doveva concentrarsi sulla fuga con Sergio in modo da evitare di pensare a Kesler chiedendosi che cosa stesse facendo in quel momento.

Cercò di tranquillizzarsi pensando che la sua era una paranoia. Nessuno poteva penetrare nell’appartamento a meno di sce le due serrature della porta blindata, e che per provarci doveva raggiungere l’ottavo piano eludendo la sorveglianza del portiere. Per di più, abitare sull’attico presentava dei vantaggi. L’unico accesso possibile dall’esterno era la portafinestra che dava sulla grande veranda, ma anche quella era sbarrata dall’interno, e arrivarci era comunque un

compito arduo persino per un acrobata o per uno scala-tore in grado di arrampicarsi su per la facciata dello stabile.

L’Alitalia le confermò l’esistenza del volo giornaliero delle quattordici per Città del Messico in partenza da Linate: lo stesso che prendevano i suoi genitori. Prenotò due biglietti di prima classe, dando il numero della sua Master Card. L’addetta le assicurò che li avrebbe trovati presso la biglietteria del terminal. Le due del pomeriggio era un ora che avrebbe consentito ampio margine di tempo a lei e a Sergio per prendere l’aereo, pensò. Andò in cucina per farsi un caffè. Non toccava cibo dalla colazione del mattino fatta con la povera Orietta nel bar della piscina, e tuttavia non aveva un briciolo di appetito. Pensò che se si fosse sforzata di mangiare qualcosa, forse quel tremore persistente le sarebbe ato. Ma anche la stan-chezza e la sensazione di vuoto nella testa potevano esserne la causa, oltre la paura. Ma non c’era ragione di aver paura, si ripeté. Era al sicuro. Nessuno poteva avvicinarla. Si preparò una omelette riuscendo a mandarne giù una buona parte. Le sembrò di sentirsi meglio.

Rimase seduta al tavolo della cucina a sorbire il caffè, e a pensare. Si abbandonò al ricordo dei giorni felici che aveva trascorso con Sergio. Lì su quel tavolo gli aveva servito – il mattino successivo al loro arrivo da Beirut – la colazione a base di burro, biscotti e marmellata. La notte precedente l’aveva trascorsa in bianco, poiché scossa e confusa da ciò che era accaduto tra loro il giorno prima, alcuni minuti dopo il loro ingresso nel bilocale. Lo aveva schiaffeggiato ritenendosi offesa da una sua parola allusiva e insinuante, e lui aveva reagito mostrandole quali potevano essere le conseguenze di un simile gesto con uomo del suo stampo. La verità era entrata con prepotenza nel suo animo, nell’istante in cui lui, visibilmente adirato, l’aveva afferrata costringendola a baciarlo. Ma più per punirla che per sedurla, più per vincere l’arroganza di una donna sofisticata e viziata quale doveva essergli sembrata. Lei, dopo una breve, iniziale resistenza, gli aveva ceduto rispondendo ai suoi baci. Quell’episodio aveva avuto l’effetto immediato di farla innamorare, ma ora che ci rifletteva ammise di essersi sentita attratta da lui dal primo momento del loro incontro. Sull’aereo in volo verso Milano, seduta al suo fianco, aveva avvertito i primi fremiti di interesse. Tutto ciò era accaduto alcuni giorni prima che, un pomeriggio, divenissero amanti dopo aver avuto il primo rapporto sessuale nel te-pore della

sua camera da letto. Era stata una esperienza meravigliosa. Domani sarebbero fuggiti in Messico per andare a vivere insieme. Forse per tutta la vita. Non riusciva a immaginare come sarebbe stata la sua nuova esistenza con Sergio. Poteva soltanto fare previsioni sulla base della profonda conoscenza che ormai aveva acquisito di lui, e del periodo fantastico che avevano trascorso insieme.

L’amore che nutriva per quell’uomo, era tale da infonderle il coraggio di rimanere sola nel suo appartamento, ignorando il monito di suo zio e l’invito a ritornare a Villa Olga dove sarebbe stata al sicuro. Orietta era stata uccisa al suo posto per errore e l’assassino era ancora in giro, furibondo per l’insuccesso di non essere riuscito ad appagare il suo desiderio di vendetta.

Il suo sentimento per Sergio era tanto intenso da indurla a violare quelle convenzioni sociali in cui era stata cresciuta, e che, di norma, non rendevano un uomo pronto a uccidere per denaro, meritevole dell’amore di una donna come lei. Ma non più di un’ora prima, nella sua camera d’albergo, sciogliendosi in lacrime disperata per il timore di perderlo, gli aveva assicurato che non gliene importava di ciò che era oggi o del suo ato, supplicandolo di fuggire con lei.

Domani, nella Basilica di Sant’Ambrogio, lui avrebbe premuto il grilletto per vendicare l’assassinio di una donna che non aveva amato, ma alla quale si era sentito legato da profondo affetto. Ora lei capiva che quel forte senso di colpa che lui avvertiva per essere stato in qualche modo responsabile della sua morte, non lo avrebbe mai abbandonato se avesse rinunciato a compiere quell’ultimo atto. Dopodiché, l’avrebbe raggiunta in aeroporto e sarebbero partiti alla volta del Messico. Tutto si sarebbe svolto nel migliore dei modi.

Nella sua accogliente villa sulla Riviera Maya, vicino al mar dei Caraibi, avrebbero vissuto come in una baia quieta e sicura. Ora più che mai, il coronamento del suo sogno le sembrava a portata di mano.

57

Era stato Leardo ad assumere la decisione di far fermare Kesler dalla Polizia. Dopo che Pietro Mattei gli ebbe comunicato che sca era riuscita a far perdere le proprie tracce, vanificando così la possibilità di individuare il nascondiglio del suo amante e catturarlo, aveva avvertito l’urgenza di interrogare quello che sospettava essere l’ideatore di un presunto piano criminale dai contorni destabilizzanti per la democrazia, la cui attuazione poteva aver luogo da un momento all’altro. L’intento era di metterlo sotto torchio per vedere quello che poteva ricavarne.

Sapeva che non essendo in grado di contestargli, con dati di fatto, che conduceva un’attività segreta illegale, il suo tentativo si sarebbe rivelato un buco nell’acqua.

Ma forse non del tutto.

Anche se dubitava di conseguire qualche risultato apprezzabile nell’inquisire una spia comunista del calibro di Kesler, restava, a suo avviso, la remota possibilità di allarmare i suoi complici, inducendoli ad abbandonare il progetto, se pure temporaneamente.

Se dall’interrogatorio fosse emerso qualcosa di penalmente rilevante a suo carico, lo avrebbe riconsegnato alla polizia con un apposito verbale, per essere preso in carico dalla procura della Repubblica, e, se del caso, incriminato. Altrimenti sarebbe stato costretto a rilasciarlo.

Dopo aver informato Pietro – che stava seduto davanti alla sua scrivania – del

fermo di Kesler, Leardo gli ricordò che l’indomani era la festa di sant’Ambrogio, e molti vip milanesi, compresi esponenti politici, avrebbero presenziato alla messa pontificale che spettava al cardinale Losito officiare nella omonima basilica. Erano tutti possibili bersagli – l’Arcivescovo compreso – di un eventuale attentato, gli aveva spiegato; ragion per cui aveva allertato il questore chiedendogli di adottare adeguate misure di sicurezza. Sottolineò al suo amico, con tono aspro, che l’essersi fatto sfuggire sca senza neppure rilevare il numero di targa del taxi, era costata la presa dell’assassino – se di assassino si trattava –, che ora era in piena libertà di eseguire il compito per il quale era stato assoldato.

Al suggerimento di Pietro di riconvocare sca per interrogarla di nuovo, Leardo uscì dai gangheri.

“A cosa servirebbe?” chiese a voce alta, avvampando per la rabbia. “Sarebbe una stronzata, perdio! Cosa vuoi che dica? Ormai ha avuto tutto il tempo di metterlo in guardia, e sa che la sorvegliamo. Mi avevi assicurato che saresti riuscito a farti condurre al suo nascondiglio, dovunque si trovi. Ma poi hai incasinato tutto facendoti seminare. Te ne sei infischiato delle mie istruzioni per seguire il tuo fiuto del cazzo. E io, da fesso, ti ho assecondato.” Si fermò per un attimo. “Cristo, è stato da citrulli farsi gabbare in un modo così balordo!”

Pietro rimase in silenzio non disponendo di argomenti validi per giustificarsi. Aspettò che la collera dell’amico sbollisse. Sapeva che quando Leardo voleva accusare qualcuno di aver commesso un grave errore, era sempre in grado di farlo in modo efficace. Tacque, quindi, anche se riteneva ingiusta quella strigliata con cui lo stava di fatto tacciando di essere uno sprovveduto, ignorando che soltanto da alcuni giorni collaborava col Sisde, e non poteva di certo contare, come lui, su un’esperienza di lungo corso.

Per tutto il pomeriggio non aveva fatto che rimuginare sullo smacco subito per mano di sca. Quando si era reso conto del tiro che gli aveva giocato per

scrollarselo di dosso, aveva provato rabbia mista a frustrazione. E si era sentito oltremodo imbarazzato quando aveva dovuto riferirlo a Leardo, ammettendo il fallimento della sua iniziativa.

Rifletté che anche se il suo amico poteva vantare grandi doti professionali, avrebbe voluto vederlo alle prese con una donna intelligente e piena di risorse come sca, decisa più che mai a proteggere, costasse quel che costasse, il suo amante segreto. Doveva essersi accorta di essere seguita, forse su segnalazione del tassista, ed era stato di certo grazie alla collaborazione di quest’ultimo che aveva potuto escogitare il sotterfugio con cui aveva fatto perdere le proprie tracce.

Quando il taxi era scomparso di colpo subito dopo il rifornimento, avevano gironzolato nei paraggi per quasi mezz’ora nel vano tentativo di ritrovarla.

Ora, paradossalmente, tutto d’un tratto non avvertiva più rancore nei confronti della sua ex. La vedeva con occhi diversi. Il forte risentimento per averlo preferito a un altro uomo – che giudicava di gran lunga inferiore a lui –, si era trasformato in una sorta di ammirazione e rispetto per la scaltrezza con cui lo aveva messo nel sacco. Quello che veramente lo interessava era snidare e incastrare il ricercato, e, una volta che questi fosse uscito di scena, fare un ulteriore tentativo per riconquistarla. Era una tenue speranza alla quale, malgrado tutto, continuava a restare abbarbicato. Pensò che Leardo non doveva aver compreso che, se non ci fosse stata di mezzo sca in quella faccenda, si sarebbe ben guardato dall’accettare di collaborare col Sisde per imbarcarsi in quella che era a tutti gli effetti un’avventura spericolata.

“Quindi dovremmo smettere di sorvegliarla”, azzardò timidamente quando ebbe la certezza che l’altro si era calmato.

“Al contrario, dobbiamo continuare a farlo ventiquattrore su ventiquattro.” Si accese una sigaretta senza offrirne all’amico.

“A cosa servirebbe? Ormai sa che le stiamo alle costole. Di sicuro non commetterebbe l’errore di recarsi di nuovo da lui…”

“Già. Ma c’è qualcos’altro di molto importante su cui sto riflettendo e che mi induce a sospettare che potrebbe trovarsi in grave pericolo.”

Pietro gli rivolse uno sguardo interrogativo. “Vale a dire?”

Leardo non gli rispose, ma estrasse da un cassetto della scrivania la mail che quel mattino presto gli aveva letto quando lo aveva convocato tirandolo giù dal letto. La spiegò davanti a sé dandovi una rapida scorsa. Poi disse: “Mi intriga questa storia del duplice omicidio della ragazza araba, compagna del Salvo, e del mediatore libanese. Tutt’e due sono stati ammazzati nei giorni successivi alla partenza per Milano del nostro uomo. Qui c’è scritto”, picchiettò con il dito sul documento, “che la polizia libanese sospetta un collegamento tra i due delitti per il fatto che entrambe le vittime avevano un rapporto, se pure per motivi diversi, con il Salvo; ma non è riuscita a individuarne la natura. Io credo di esserci riuscito con la riflessione. Ho acquisito la ragionevole certezza che i due assassinii siano opera di questa fantomatica organizzazione comunista segreta, di cui Kesler è membro. Il movente? Il sospetto che le due vittime fossero al corrente del suo piano criminale.” Soffiò una nuvola di fumo. “Ed è lo stesso movente per il quale potrebbe decidere di eliminare la Martinoni.” Lo fissò intensamente. “Capisci, Pietro, secondo me è molto pericolosa la relazione che la ragazza intrattiene con quell’uomo. Sia Kesler che Reynaud ne saranno al corrente e non deve piacergli neanche un po’. E’ molto probabile che la percepiscano come una minaccia ispirata dal dubbio che il Salvo possa essersi lasciato sfuggire con lei lo scopo della sua trasferta milanese. Ragion per cui non mi sorprenderebbe che decidano di farla fuori da un momento all’altro. Credo che questo sia il loro modus operandi: perpetrano delitti politici e poi, per stare

tranquilli, si danno da fare per eliminare quelli che loro considerano, a ragione o a torto, potenziali testimoni.”

“E’ una teoria molto elaborata, ma plausibile.”

“In mancanza di prove certe non possiamo che lavorare sulle teorie, Pietro. Il nostro mestiere ci impone di non sottovalutarle. Quindi, dobbiamo proteggere la ragazza.”

“Allora…, dimmi che cosa devo fare di preciso.”

“Preparati a trascorrere la notte, e probabilmente l’intera giornata di domani, in una macchina parcheggiata davanti all’ingresso del suo stabile. Dovrai seguirla se dovesse uscire, e prestare attenzione che qualche tipo sospetto non entri nell’edificio.”

“Devo farlo da solo?”

“No, con il giovane Calvi. Lui è armato e ben addestrato, nel caso dovesse servire un intervento.

“So che la portineria e il portone dello stabile sono chiusi nelle ore notturne e che riaprono alle sette del mattino.”

“E’ vero, ma ciò non toglie che qualcuno potrebbe introdursi furtivamente.”

“Come farebbe senza la chiave del portone?”

“Potrebbe forzarne la serratura. Il che richiederebbe, natural-mente, dispendio di tempo, ragion per cui non erebbe a voi inosservato.”

“E’ una probabilità molto remota.”

“D’accordo, ma non inverosimile.” Si interrupe per un attimo. “Tu e Tiziano vigilerete a turno durante la notte. Mentre uno dorme, l’altro tiene d’occhio l’ingresso dell’edificio. Se doveste notare qualcosa di sospetto, chiamami subito sul cellulare; sai che lo tengo sempre .” Schiacciò la sigaretta nel posacenere con aria meditabonda. “Ho un’idea…”, disse subito dopo come per un’improvvisa ispirazione. “Contatterò il portiere che ho tenuto a colloquio l’altro ieri per avere informazioni sui movimenti di quei due nel periodo in cui stavano insieme. Lo avviserò della vostra presenza fuori dallo stabile, pregandolo di vigilare anche lui durante la notte, e di scrutinare durante il giorno qualsiasi sconosciuto che dovesse presentarsi alla reception con aria equivoca, chiedendo di salire da lei. Dovrà avvertirvi immediatamente, sì da consentirvi di intervenire con tempestività.” Fece una pausa. “Sono sicuro che sarà felice di collaborare col Sisde, anche per la prospettiva di una lauta ricompensa.”

Pietro annuì.

“D’accordo”, disse, ma subito aggiunse: “Immagino che non potremo avere la Peugeot…”

“No, purtroppo. Quella lei la conosce fin troppo bene ormai. Ho disponibile una Ford KA. Non è il massimo del confort, ma è poco appariscente e dovrebbe bastare per il vostro scopo.”

Pietro si alzò in piedi per congedarsi.

“Un’ultima cosa…”, Leardo riprese. “Tiziano ha già ricevuto le istruzioni, e mentre parliamo sta raggiungendo il luogo del- l’appostamento a bordo della KA. Prima di unirti a lui, devi cercare di scoprire, ma in modo discreto, se lei è rientrata dalla visita al suo amante.”

L’altro ci pensò su. Disse:

“Ho un’idea di come fare.”

Pietro abbordò un tram in piazza Cordusio e, nel giro di un quarto d’ora era in via Vincenzo Monti davanti allo stabile di sca. Si era fatto buio da un pezzo, e aveva smesso di piovere. C’era un discreto traffico pedonale lungo il marciapiedi. Folti capannelli di gente stazionavano alle fermate dei tram. Notò la KA parcheggiata dall’altra parte della strada a non più di un metro di distanza dalla pensilina del tram; Tiziano lo vide e lo salutò con un gesto della mano. Entrò nella hall dell’edificio.

“Buonasera, avvocato Mattei.” Fu sorpreso che il portiere di turno lo avesse riconosciuto malgrado gli anni trascorsi dall’epoca cui lui e sca si frequentavano. “Sono anni che non la si vede.”

Pietro ignorò l’osservazione, ma disse:

“Sono qui per chiederle se la signorina Martinoni, rientrando, abbia per caso lasciato in portineria, perché io venissi a ritirarla, la mia valigetta portadocumenti che ho dimenticato nella sua auto.”

“No, non ha lasciato niente. E’ rientrata da una decina di minuti.”

Pietro gli sorrise, dicendo: “Allora devo averla dimenticata da qualche altra parte.” Fece una scrollata di spalle. “Non importa. Ho un paio di altri posti dove andare a cercarla.” Gli sorrise di nuovo. “Buona notte.”

Attraversò la strada e salì nella Ford KA, dicendo:

“Andrebbe molto meglio, avvocato, se non fosse per la ristrettezza dell’abitacolo. Vi si sta come dentro un barattolo di latta.” Sorrise.

“Non dirlo a me che sono alto più di un metro e novanta.” Si mosse a disagio alla ricerca di una posizione il meno scomoda possibile. Le ginocchia toccavano il cruscotto. Azionò la leva sotto il sedile e, allungando le gambe, lo spinse indietro per l’intera corsa. “Dubito che in queste condizioni, riusciremo a schiacciare un pisolino questa notte.”

Estrasse il cellulare e chiamò Leardo per confermargli che erano appostati, e che sca era rientrata. Si profilava una lunga e snervante attesa notturna, pensò, con nient’altro da fare per ingannare il tempo che chiacchierare. Però, non era

detto che dovesse essere eccessivamente lunga: qualcosa poteva accadere da un momento all’altro, che l’avrebbe accorciata.

58

Alle undici di sera, regnava un profondo silenzio nell’intero arcivescovado. Nessun rumore di porte che si aprivano e richiudevano, né di i felpati lungo i corridoi avvolti nella penombra. Niente squilli dei telefoni. L’intero edificio sembrava aveva chiuso gli occhi per la notte.

Alle prese con un importante lavoro, monsignor Ricardi era uno dei pochi sacerdoti ancora in piedi. Stava tutto solo nel suo studiolo – un bugigattolo di tre metri per tre –, seduto alla minuscola scrivania su cui era posato un vecchio PC. Avrebbe desiderato anch’egli dichiarare chiusa quella che si era rivelata una giornata quanto mai stressante, e andarsene a dormire, ma sapeva che purtroppo non poteva ancora farlo.

Si era alzato alle sei, e da allora non aveva avuto neppure il tempo per la consueta pennichella pomeridiana: una esigenza irrinunciabile per un uomo della sua età. Era stato ininterrottamente impegnato ad assistere il Cardinale nella stesura finale del testo dell’omelia che lo stesso avrebbe pronunciato dal pulpito della Ba-silica di Sant’Ambrogio l’indomani mattina, nel corso della messa pontificale.

Nei momenti di stress, Ricardi accusava frequenti disturbi psicosomatici che si manifestavano per lo più con forti mal di testa. Ma l’emicrania che ora lo affliggeva, sapeva che gli derivava dalla preoccupazione per il contenuto del sermone; e precisamente per quella parte molto ampia del testo, in cui il Cardinale dava sfogo alla sua aspra critica nei confronti dei ricchi per il loro atteggiamento di indifferenza verso i poveri.

Ogni volta che Losito l’aveva ritoccato – a suo dire per migliorarlo –, ne era

risultata un’esposizione più dura e massimalista della precedente. Erano andati avanti per ore a tira e molla, finché alla fine il monsignore aveva gettato la spugna rinunciando al tentativo di smussarla per conferirle un tono più moderato. Aveva aperto le braccia in un gesto di resa, che aveva fatto sorridere il Cardinale. “Che Dio ce la mandi buona, eccellenza”, gli aveva detto. ”Sarà pronta stasera.”

Quella che ormai doveva essere ritenuta la versione definitiva del discorso – data l’indisponibilità del Cardinale a cambiarne nep-pure una virgola –, conteneva l’attacco più virulento in assoluto, che Ricardi avesse visto sferrare da Losito, negli ultimi tempi, contro la classe dei ricchi miliardari i quali, secondo lui, attenti solo al proprio tornaconto, nulla facevano per alleviare, con la beneficenza, le sofferenze delle classi indigenti, vittime della povertà e della fame. Benché fosse un uomo mite e pacato, e condividesse in buona misura le idee del suo capo, quella bomba verbale che questi si accingeva a sganciare sui capitalisti e in particolare su Martinoni – pur senza nominarlo –,lo faceva rabbrividire.

Ora, mentre curvo sulla tastiera del PC, digitava diligentemente e lentamente il testo finale, staccava a tratti un boccone da un panino imbottito al prosciutto, che teneva posato su un piattino accanto a sé. Aveva dovuto persino saltare la cena.

Sin dal momento in cui, due settimane prima, aveva letto la prima bozza stilata dal Cardinale, si era reso conto di quanto poteva rivelarsi deleterio quel suo affondo indiscriminato nei confronti della classe ricca. Avrebbe portato a un ulteriore inasprimento dei suoi già pessimi rapporti con essa, per non dire delle critiche che sarebbero piovute dai politici e dai media. Dubitava che avrebbe riscosso il consenso della CEI e del Vaticano.

Tuttavia, Ricardi si sentiva in pace con se stesso poiché convinto di aver fatto del suo meglio per fargli cambiare idea. Gli aveva espresso più volte, con cautela, i suoi forti dubbi sull’opportunità di un simile, severo pronunciamento da parte

sua nella basilica, durante la celebrazione di una solenne ricorrenza, quale era appunto la festa del Santo Patrono. Avrebbe avuto più il sapore di una impietosa arringa tribunalesca, che di una predica religiosa. Non era quello che i fedeli si aspettavano di sentire.

Ma non c’era stato verso di schiodarlo dalla sua determinazione. Fallito ogni sforzo, il monsignore aveva allora tentato di ammorbi-dire – ma senza riuscirvi – i toni più intransigenti che quella parte del testo trasudava. Sapeva che anche il Cardinale ne era preoccupato, ma per il dubbio di aver detto troppo poco; al contrario di lui la cui ansia derivava dalla certezza che avesse oltreato ogni limite.

Come ogni anno, Martinoni sarebbe stato presente alla funzione, seduto in prima fila col suo entourage al completo composto di personaggi potenti e famosi. Losito, parlando, lo avrebbe osservato per misurarne le reazioni.

Era ciò che vivamente desiderava.

Terminata la battitura, Ricardi trascorse la successiva mezz’ora a rileggere l’intero testo sullo schermo del PC , ponendo la massima attenzione nell’accertare l’assenza di errori o di palesi contraddizioni e incongruenze che avrebbero mandato il Cardinale su tutte le furie, al punto di obbligarlo a rifare il lavoro. Doveva essere perfetto nel momento in cui glielo avrebbe consegnato. Soddisfatto della verifica, accese la stampante laser e ne produsse tre copie. Ogni copia era composta da cinque cartelle, che raggruppò fissandole con un punto di cucitrice. Ne inserì due in una cartelletta di plastica grigia che di lì a poco avrebbe portato al Cardinale. La terza, per suo uso, la custodì in un cassetto della scrivania.

Stava per alzarsi in piedi quando il suo cellulare, che teneva in una tasca interna

della tonaca, si mise a squillare. Lo estrasse e controllò il display digitale: era Gino Borelli, un giornalista del quotidiano la Repubblica, suo amico, e, sovente, discreto dispensatore di notizie in anteprima, meglio note come soffiate. “Buona sera, monsignore.”

“Buona sera, Gino. Cosa c’è di nuovo?

Ascoltò con attenzione quello che l’altro aveva da riferirgli, mentre un lieve sorriso divertito gli affiorava sulle labbra. Era una notizia stupefacente, e si sforzò di immaginare l’effetto che avrebbe prodotto sul Cardinale quando gliela avrebbe comunicata.

“E’ certa?” chiese.

“Certissima. L’hanno appena battuta tre importanti agenzie. Domattina sarà su tutti i media.”

“Ti ringrazio molto per l’informazione, Gino, e buona notte.” Chiuse la comunicazione, e poi si mise a riflettere sul da farsi alla luce di quello che aveva appena appreso. Chissà, si chiese, se nel riferirlo al Cardinale non sarebbe ora riuscito ad addurre nuove e più valide argomentazioni, per convincerlo a modificare, ammorbidendola, quella parte del testo del sermone in cui esprimeva critiche, se pure in maniera indiretta, nei confronti di Martinoni.

Anche se non lo avrebbe mai ammesso apertamente, quella di sant’Ambrogio era, tra le feste comprese nel calendario ecclesiastico, la sua preferita. La gradiva persino più del Santo Natale. L’indomani, di primo mattino, il Cardinale si sarebbe trasferito col suo entourage nella basilica. Ricardi lo avrebbe seguito e

assistito nei preparativi della messa. Durante la funzione, per l’incarico che ricopriva di suo segretario personale, avrebbe fatto parte di un gruppo di prelati che si sarebbe schierato alla destra dell’altare, a breve distanza dall’officiante. La basilica sarebbe stata traboccante di fedeli fino all’inverosimile.

Il monsignore guardò l’orologio: erano da poco ate le dodici e mezza. Pensò che in quel momento fervevano i preparativi nella basilica per il solenne evento del giorno dopo. Estrasse di nuovo il cellulare e selezionò nella memoria il numero dell’anziano sagrestano di turno, non desiderando disturbare il parroco data l’ora tarda.

“Procede tutto bene, Claudio?” gli chiese.

“Tutto bene, monsignore. Penso che ne avremo per un altro paio d’ore e poi potremo chiudere bottega per la notte.”

“Io ci sarò per almeno un’altra ora, poi me ne andrò a dormire. Chiamami se insorge qualche problema.”

“A dire il vero, c’è qualcosa che ritengo dovreste sapere, monsignore…”

“Di cosa si tratta?”

“E’ da circa un’ora che abbiamo in giro per la basilica cinque agenti di pubblica sicurezza in borghese con tre cani anti esplosivo.”

“Ah! E a fare che?” chiese sorpreso.

“Controlli sulla sicurezza, hanno detto.”

“Controlli sulla sicurezza?” chiese sorpreso. “Ma è la prima volta...” Rifletté per qualche secondo. “ami il loro capo.”

Trascorse quasi un minuto prima che una voce squillante e giovanile gli giungesse dal cellulare. “Agente scelto Sciarra, buonasera monsignore.”

“Buonasera, agente. A cosa dobbiamo il piacere della vostra visita?”

“A niente in particolare, monsignore. Solo controlli precauzionali sulla sicurezza in vista del grande evento di domani.” Fece una pausa. “Capirà… con i tempi che corrono anche un posto tranquillo come la Basilica di Sant’Ambrogio, ma affollatissimo come lo sarà durante la messa, può diventare bersaglio del terrorismo.”

“A mio parere è una sciocchezza oltre che una perdita di tempo. Non troverete ordigni nascosti in angoli reconditi, o malintenzionati nei confessionali, nelle cappelle o altrove. Per quanto mi riguarda potreste anche andarvene a dormire.”

“Ne convengo, monsignore, ma non possiamo contravvenire agli ordini. Con l’ausilio dei cani abbiamo già bonificato l’intera basilica. Abbiamo ispezionato con cura l’altare, i confessionali, le cappelle, la sagrestia e tutti gli altri locali, senza tralasciare di dare un’occhiata all’area dove sono custodite le reliquie del

santo.”

“Allora…, ora ve ne andate?”

“No, purtroppo. Le istruzioni sono di restare fino a domattina quando un’altra squadra verrà a sostituirci.”

“Un servizio di sorveglianza continuo, quindi.”

“Sì, che si protrarrà fino al termine della messa.”

“Bene…, allora non potendo darvi la buona notte, vi auguro una tranquilla permanenza.”

“Grazie e buona notte a lei, monsignore.”

Ricardi si rimise in tasca il cellulare e restò immobile per un po’ di tempo, lo sguardo pensieroso, le mani giunte davanti al viso. Poi si alzò in piedi un po’ a fatica, facendo leva con i palmi appoggiati sul ripiano della scrivania. Era ora di andare dal Cardinale per consegnargli le due copie dell’omelia. Prese la cartelletta di plastica e uscì dallo studio incamminandosi adagio lungo il corridoio in penombra.

59

Ricardi batté tre colpetti sulla porta dello studio di Losito, e poi, abbassatane con cautela la maniglia, l’aprì di una spanna facendo capolino.

“Si può, eccellenza?”

“Venite pure avanti, Ricardi.” Accompagnò l’invito con un gesto della mano.

Il Cardinale lo attendeva seduto alla scrivania, immerso nella lettura dell’edizione economica di un romanzo poliziesco. Era un grande apionato di narrativa gialla. Appena lo vide, si tolse gli occhiali e chiuse il libro sollevandolo per mostrargliene la copertina. Ricardi aguzzò la vista senza riuscire a leggerne il titolo.

“Non è così avvincente come quello che ho terminato ieri sera”, l’Arcivescovo osservò con una smorfia. “Diciamo che è abile.”

La lettura era il suo unico mezzo di rilassamento, ma non soltanto dei giornali. Soprattutto nei momenti in cui, come quella notte, i suoi nervi erano a fior di pelle, e il suo cervello si rifiutava di acquietarsi, nulla come leggere un giallo di un caso di omicidio nella sua forma classica, e con un buon numero di indiziati e sospettati, riusciva a calmarlo fino a conciliargli il sonno.

“Allora?” chiese, lo sguardo interrogativo.

“E’ pronta, eccellenza.” Ricardi gli porse la cartelletta di plastica, e poi si sedette sulla sedia davanti alla scrivania, le mani posate sulle ginocchia. Losito l’aprì e, inforcati gli occhiali dalla sottile montatura metallica, si mise a leggere la prima pagina, la fronte aggrottata dalla concentrazione.

Di quando in quando usava un pennarello evidenziatore giallo per mettere in risalto i punti che riteneva essenziali e sui quali, nel pronunciare il sermone, doveva porre maggiore enfasi. Improvvisamente, come colpito da un pensiero, si fermò sollevando lo sguardo sul suo segretario, al disopra delle lenti.

“A proposito, avete per caso visto la trasmissione Porta a Porta di poco fa?” Con un movimento del capo indicò un televisore da quattordici pollici collocato su un tavolinetto poco distante dalla scrivania.

“E come avrei potuto, eccellenza? Sono stato impegnato per ben tre ore al computer nella battitura del documento.”

“Non vi siete perso niente.”

“Com’è stata?”

“Stomachevole.” Storse la bocca. “Ho spento il televisore dopo qualche minuto e mi sono messo a leggere.”

“Di che trattava?”

“Era nient’altro che un deprimente dibattito tra politici di vari partiti, compresi due tirapiedi di Martinoni che si arrampicavano sugli specchi per cercare di dimostrare l’urgenza e l’indispensabilità che il plurimiliardario assuma la guida del Paese.”

Ricardi si astenne dal commentare.

“A proposito…”, il Cardinale riprese, “…immagino che vi siate informato, come al solito, su come procedono i preparativi nella ba-silica?”

“Certo… Ho chiamato uno dei sagrestani. Mi ha confermato che sono in pieno svolgimento e che non vi sono problemi, ma ha aggiunto che quest’anno c’è una novità.”

“Una novità?”

“Già… C’è una squadra di cinque agenti di polizia in borghese con cani anti esplosivo, incaricata della sorveglianza. Si fermerà fino a domani, al termine della messa. Ha già perlustrato ogni centi-metro della basilica.”

“Come mai?”

“Ho parlato con il loro capo, il quale mi ha riferito che si tratta di controlli precauzionali di sicurezza, resi necessari dal recente intensificarsi di minacce di attacchi terroristici.”

“Odio le precauzioni”, il Cardinale osservò accigliato. “Una iniziativa del genere non ha alcun senso. Niente di grave può accadere nella basilica. E comunque la morte e i disastri di qualsivoglia natura possono arrivare in qualsiasi momento, e quando uno meno se lo aspetta. Non c’è modo di prevederli per prevenirli.”

“Condivido il punto di vista di vostra eccellenza, anche se bisogna considerare che domattina la basilica sarà a maggior rischio in quanto zeppa di fedeli…”

Il Cardinale non replicò, ma ritornò con lo sguardo sul documento. Disse: “Sapete, monsignore…, sono ansioso di vedere la faccia che farà Martinoni quando saremo uno di fronte all’altro e potrò guardarlo negli occhi mentre pronuncerò quella parte del mio discorso che lo tocca personalmente. Non è escluso che si ravveda, e decida di ritirarsi in buon ordine rinunciando al quel suo vergognoso disegno, che soltanto un uomo senza scrupoli e avido di potere come lui può concepire. Quella di domani è un’occasione che non posso lasciarmi sfuggire.”

Gli occhi scurissimi lanciarono un lampo di luce sinistra.

“E’ un’occasione che non si presenterà, eccellenza.”

“Perché?”

“Martinoni non sarà presente alla messa.”

Losito lo guardò sbalordito. Ricardi aggiunse: “A mia memoria, è la prima volta che succede.”

“Come lo avete saputo?”

Gli disse della telefonata ricevuta dal giornalista della la Repubblica.

Il Cardinale sembrò riflettere a lungo, lo sguardo incupito.

“Sarà per via della morte della sua convivente…”, disse infine.

Sia lui che Ricardi avevano appreso la notizia dai notiziari del pomeriggio.

“Non credo.”

“Allora è per codardia. Non ha il coraggio di presentarsi perché teme che potrei dire delle cose per lui imbarazzanti, al punto che si vedrebbe costretto ad andarsene con la coda tra le gambe.”

“Mi consenta di dissentire, eccellenza”, l’altro replicò. “Io credo che questa mossa di Martinoni sia il più chiaro segnale di protesta che possa lanciare pubblicamente contro le esternazioni critiche di vostra eccellenza sul suo conto.”

“Da cosa lo deducete?”

Ricardi non rispose alla domanda, ma disse: “Non soltanto lui, ma tutto il suo entourage di famosi e importanti personaggi diserteranno la funzione. E come se non bastasse anche il sindaco, i presidenti della regione e della provincia e molte altre autorità hanno annunciato la loro assenza.”

“Con quale giustificazione?”

“Non ne hanno fornita una e questo, a mio parere, rafforza il sospetto che si tratti di un plateale gesto di protesta collettivo – direi quasi di opposizione –, nei confronti di vostra eccellenza.”

“Ho già espresso critiche su Martinoni in varie recenti occasioni, ma senza mai nominarlo. Cosa che farò anche domani, naturalmente.”

“Vero. Ma un conto è farlo nelle interviste di stampa o televisive, un altro dal pulpito nella solennità della festa del Santo Patrono. Ai fedeli potrebbe non andare a genio.” Fece una pausa. “Vostra eccellenza sarà ben al corrente che, nel trattare questioni delicate, la CEI e la Santa Sede raccomandano l’approccio diplomatico. Credo che non gradiranno il duro atteggiamento che vostra eccellenza ritiene di dover assumere proprio in quella circostanza.”

“E’ qui che vi sbagliate, Ricardi”, il Cardinale replicò irritato. “Sono certo che il Santo Padre ne sarà compiaciuto.”

“Può essere, ma vostra eccellenza mi consentirà di dubitarne.”

“Comunque sia, desidero che abbiate a inviargli al più presto una copia del discorso, con una mia lettera accompagnatoria in cui spiegherò le mie ragioni.” Esitò un istante. “Mi sembra di capire, monsignore, che mi state chiedendo di fare retromarcia, o mi sbaglio?”

Di nuovo Ricardi non rispose alla domanda, ma disse: “A mio modo di vedere, questa improvvisa e inaspettata mossa di Martinoni non è fine a se stessa. Ha tutta l’aria di una trappola tesa a vostra eccellenza.”

“Spiegatevi bene, monsignore.”

“Domattina gran parte dei mezzi di informazione, soprattutto quelli di cui Martinoni è proprietario, ne offriranno una lettura a lui favorevole e la giustificheranno. Interpreteranno l’assenza come l’atto con cui lui, assieme a tutti i suoi illustri sostenitori, desidera mostrare indignazione di fronte alle ripetute dichiarazioni pubbliche di vostra eccellenza volte a censurare, senza mezzi termini, la sua decisione di entrare in politica.” S’interruppe un attimo. “Darei per certo che questo accadrà.”

“E allora?”

“Ne consegue, a mio parere, che se domattina vostra eccellenza dovesse pronunciare quella parte tanto scabrosa del sermone dal pulpito della basilica, cadrebbe nella trappola. Ciò in quanto offrirebbe lo spunto ai media per affermare che Martinoni ha ragione a non presenziare, in quanto vostra eccellenza si serve persino della celebrazione della messa per il Santo Patrono

per lanciare i suoi strali contro di lui.” Rifletté per qualche attimo. “Avranno buon gioco nel parlare di indebita ingerenza o interferenza del- l’Arcivescovo di Milano nella politica, mirata a pilotare il voto degli elettori verso il centrosinistra. Insinueranno il dubbio tra i fedeli, e il Magnate con potrà che trarne vantaggio.”

Il Cardinale rimase a lungo in silenzio, lo sguardo abbassato sul testo dell’omelia che prese a sfogliare lentamente. A un certo punto prese una biro dal portapenne e tracciò una linea verticale lungo il bordo di una pagina. “Questa è la parte che dovrei depennare, o quanto meno mitigare nei toni e nella sostanza”, disse mormorando quasi a se stesso. Alla fine annuì, dicendo sommessamente: “Devo darvi atto, monsignore, che esiste una logica nel vostro ragionamento.” Dal tono traspariva l’ammissione fatta di controvoglia. Rifletté che, a parte tutto, l’assenza del Magnate dalla messa, di fatto vanificava l’obbiettivo che si era prefisso. “Ma ho bisogno di pensarci su”, aggiunse.

Ricardi non aprì bocca, limitandosi a scrutarlo.

“E’ stata una giornata faticosa”, il Cardinale disse.

“E ancora di più lo sarà domani”, l’altro ribatté. “Sarà bene che vostra eccellenza vada subito a dormire se vuole essere in grado di dire messa e…”, indugiò un attimo, “…di pronunciare quel- l’omelia...”

Il Cardinale sorrise debolmente. “Lo farò… Magari la notte mi porterà consiglio.”

“Non ne dubito.” Ricardi si alzò in piedi per accomiatarsi. “Buona notte,

eccellenza.” Si voltò dirigendosi alla porta.

“Buona notte, Antonio.”

Era la seconda volta che Losito gli si rivolgeva chiamandolo col nome di battesimo. Così com’era accaduto in precedenza, l’anziano prelato si sentì arrossire.

“A proposito… dimenticavo…”, il Cardinale riprese.

L’altro si bloccò sulla soglia e si girò a guardarlo. “Sì?”

“Grazie per la collaborazione e… per il consiglio.”

“Ma le pare, eccellenza… E’ stato un piacere e… un onore.”

60

“Vuole dirmi, di grazia, dove mi trovo?” Kesler chiese a Leardo, il volto accigliato.

“Nella sede milanese del Sisde, di cui io sono il direttore”, gli rispose esibendo un sorriso tranquillizzante mentre, con una mossa furtiva, premeva il tasto RECORD di un registratore che teneva in un cassetto semiaperto della scrivania. “Mi chiamo Ezio Leardo.”

“Il Sisde?” Kesler finse sorpresa. Nello stesso momento in cui i due agenti di polizia in borghese si erano presentati al suo appartamento per prelevarlo, aveva subito intuito con chi avrebbe avuto a che fare.

Sedevano nello studio di Leardo dopo che Kesler – una volta che i due agenti l’avevano depositato presso gli uffici del Sisde – era stato tenuto in attesa per oltre un’ora in un salotto adibito ai visitatori. Era un vasto locale arredato spartanamente con un divano e due poltrone in similpelle scura, un basso tavolino dal ripiano cosparso di riviste e giornali, nonché un ampio tavolo ovale da riunioni. Kesler aveva cercato di ingannare il tempo e mitigare la tensione sfogliando una rivista, e sorbendo il caffè che gli era stato servito.

Le istruzioni impartite da Leardo ai suoi collaboratori, prima che arrivasse, erano state che doveva essere trattato con quel genere di cordialità e riguardo che di norma si riserva a un ospite, e non a un fermato o arrestato.

L’idea dello 007 era di impostare l’interrogatorio partendo con un approccio

morbido, sì da dare l’impressione di un colloquio teso ad acquisire informazioni. Nel prosieguo della conversazione, avrebbe alzato il tiro graduandolo sulla base delle reazioni di Kesler, per cercare alla fine di metterlo alle strette, e ottenere qualche risultato in termini di ammissioni circa l’attività illegale di spionaggio che conduceva, ma con particolare riferimento allo scopo per cui aveva ingaggiato a Beirut, e portato a Milano con la collaborazione della Martinoni, quel Nino Salvo. Non appena congedato Pietro Mattei, lo aveva fatto accomodare nel suo studio.

“Mi auguro che la sua decisione di arrestarmi sia ampiamente motivata”, Kesler disse in tono asciutto. “Deciderò se convocare o meno il mio avvocato sulla base di come si svilupperà l’interrogatorio.”

“Non lo prenda come un interrogatorio in senso stretto, né il suo fermo come un arresto”, Leardo disse in tono affabile.

“E allora di che si tratterebbe?”

“Consideri il mio intervento alla stregua di una convocazione tesa ad acquisire da lei certe informazioni…”

“Di che genere?”

“Hanno a che fare con la carica di presidente di Mediasystem che lei ricopre, e con il rapporto di stretta amicizia che lo lega da molti anni a Ugo Martinoni.”

“Non capisco.”

Leardo sorrise. “Ci risulta, signor Kesler, che lei stia collaborando attivamente con Martinoni nella preparazione della sua campagna elettorale, da quando lo stesso ha deciso di entrare in politica schierandosi con il centrodestra.”

“E’ vero.”

“Devo comunicarle che abbiamo ragione di sospettare che il suo facoltoso amico potrebbe divenire la vittima inconsapevole di una cospirazione politica, mirata a costringerlo ad abbandonare la competizione.” Indugiò per qualche secondo. “Ciò allo scopo di consen-tire la vittoria allo schieramento opposto.” Lo fissò. “Può dirmi qualcosa in proposito?”

Kesler sentì le budella contorcersi, ma si sforzò di apparire imperturbato. Devono sapere qualcosa, pensò. Non aveva la minima idea di come fossero riusciti a scoprirla, ma non ne era sorpreso dato che gli era ben nota la grande efficienza dei Servizi segreti. Temeva da qualche tempo che potesse accadergli di essere fermato e interrogato. Perché, pensò, quello che stava subendo era un interrogatorio in piena regola, cui si intendeva dare, per ora, la parvenza di semplici richieste di chiarimenti. Ora ne afferrava la strategia: avvio pacato e cordiale, ma con crescente pressione fino a farlo crollare e costringerlo a confessare tutto, compreso l’esistenza del piano omicida e del killer che aveva ingaggiato per eseguirlo.

Ma si illudevano se pensavano di riuscirci. Avrebbe negato tutto facendo uso delle sue doti di grande simulatore. Neppure sotto tortura sarebbero riusciti a estorcergli una sola parola. Si disse che doveva, però, soppesare bene le risposte alle domande che quell’uomo gli avrebbe posto in modo da non compromettersi e da evitare di cadere in errori o contraddizioni. Per di più, doveva ostentare

sicurezza. “Posso soltanto dirle che cado dalle nuvole”, disse.

“Davvero?” L’altro sorrise ironico mentre si accendeva una sigaretta. “Quindi sarebbe qualcosa di cui lei è completamente all’oscuro.”

“Completamente.”

Seguì un breve silenzio durante il quale Leardo continuò a fumare tranquillamente, senza distogliere lo sguardo calcolatore dal suo interlocutore.

“Può dirmi che tipo di rapporto conduce con sca Martinoni?” chiese infine.

Kesler si sentì rizzare i capelli sulla nuca.

“Di lavoro”, rispose senza esitazione. Fece una pausa. “D’altra parte, non potrebbe essere altrimenti. Io sono il presidente di Mediasystem, in pratica il suo capo supremo, e pertanto i nostri contatti sono motivati dalla sua attività artistica.”

“Di lavoro, lei dice…” Leardo esalò una nuvola di fumo verso l’alto con aria meditativa. “Potrebbe pertanto definirsi un viaggio di lavoro quello che avete fatto insieme a Beirut verso la metà di novembre…, o invece si è trattato di qualcosa di diverso?”

Facciamo progressi, Kesler pensò. Ora sorgeva la domanda di quanto fossero riusciti a scoprire. Disse:

“Si è trattato più propriamente di un viaggio di affari.”

“E non può dirmi di che genere?”

“Affari connessi con l’attività all’estero della società, e con quella di attrice della signorina Martinoni.”

“Può essere più specifico?”

“No, perché violerei la regola etica che mi impedisce di divulgare notizie sulle attività e i progetti aziendali.”

“Regola etica? Mi prende per un idiota? Come può pensare che le creda?”

“Che mi creda o no, è un suo problema.”

“Lei si tiene molto sul vago, signor Kesler, perché teme nostre verifiche in loco, che lo smentirebbero.”

“Per quanto mi riguarda, non ho altro da aggiungere.”

“Capisco.” Leardo annuì schiacciando la sigaretta nel posacenere. “Ora devo parlarle con franchezza...”

“L’ascolto.”

“Dalle indagini del Sisde è emerso che lei e la signorina Martinoni vi siete recati a Beirut, non già per lavoro, ma per assoldare un oscuro personaggio che risponde al nome di Nino Salvo.”

“Non ho idea di cosa stia parlando.”

Leardo ignorò l’affermazione e continuò: “Si tratta di un tale con nazionalità italiana, che risiede clandestinamente in Libano da qualche anno. Ci risulta che il giorno successivo al vostro arrivo a Beirut, ha percepito una grossa somma di denaro sotto forma di accredito sul suo conto presso la Bank of Beirut. Dopodiché è partito.”

“Mi spieghi dove vuole arrivare.”

“Mi segua e lo capirà”, l’altro replicò in tono brusco. “Lui è partito il venti novembre: guarda caso la stessa data del rientro a Milano della Martinoni.”

“Pura coincidenza.”

“Abbiamo appurato che non lo è. Da indagini condotte presso l’aeroporto di Linate su tutti gli arrivi del venti novembre, è emerso che la famosa attrice è sbarcata da un volo Alitalia proveniente da Beirut, assieme a quell’uomo. Si comportavano come se tra loro ci fosse una certa familiarità, per non dire intimità.”

“Ma va’!”

“Anche questo la sorprende?”

“Di più, mi sbalordisce. Le dirò, però, che non siamo stati insieme tutto il tempo a Beirut, e lei può essersi occupata, oltre che di lavoro e dello shopping, di altre cose; può aver fatto conoscenze di cui io non sono al corrente perché ha ritenuto di non parlarmene.”

“Quindi lei afferma categoricamente di ignorare che la Martinoni è ritornata a Milano in compagnia del Salvo. Giusto?”

“Giustissimo.” Trasse un profondo sospiro allargando le braccia. “Non so che dirle… Potrebbe averlo rimorchiato da qualche parte a Beirut mentre era in giro da sola. Oppure averlo conosciuto in aero-porto. Sono cose che succedono. Uno schianto di donna come quella fa presto ad allacciare un’amicizia con uomo che le piace, che può poi evolversi in un breve flirt.”

“Ma non è stato un breve flirt visto che hanno convissuto per due settimane nell’appartamento di lei. Quando si sono separati, del Salvo si sono perse le tracce.”

“Allora deve essersi trattato di qualcosa di più importante di un’avventura occasionale.” Fece una pausa. “Le dirò che non mi interessa la vita erotica della ragazza.”

“Quindi…, lei non sa assolutamente niente di tutto ciò.”

“Se le ho detto che non ne so niente è perché non ne so niente.” La voce aveva preso un tono stizzito. Seguì un lungo silenzio. Kesler guardò l’orologio sorprendendosi che si fossero fatte le tre del mattino. Era stanchissimo, e stando seduto su quella sedia priva di imbottitura, gli dolevano le natiche. Tra sette ore, pensò, l’assassinio del Cardinale nella basilica si sarebbe consumato. C’era una sola persona che poteva impedirlo e si chiamava sca Martinoni, sempre che la sua ipotesi che fosse al corrente del piano, essendone stata informata dal suo amante, era fondata. In qualsiasi momento prima dello scadere delle sette ore, poteva decidere di avvertire la polizia, mandando tutto a monte. Se non lo aveva ancora fatto era probabilmente per proteggere il suo uomo. Comunque fosse, la donna restava una minaccia.

Rifletté che aveva commesso uno dei più gravi errori della sua vita a non ucciderla a Villa Olga la notte precedente, quando si era fermato indeciso davanti alla sua camera da letto, dopo essersi occupato di Orietta ubriaca. Aveva preferito attendere il giorno dopo, finendo poi per ammazzare, per errore, la sgualdrina di Martinoni. Ora quell’uomo stava cercando di incastrarlo, ma lui si stava difendendo in modo egregio, pensò. Non aveva niente in mano contro di lui che potesse costituire una prova, e alla fine lo avrebbe rilasciato. Quindi si sarebbe dileguato senza lasciare tracce, come aveva già programmato. Grave sarebbe stato, invece, se quel progetto che rappresentava l’incarico più importante della sua vita, andava in fumo. Ne sarebbe stato ritenuto responsabile dall’organizzazione, e ne avrebbe perso la protezione. Reynaud lo avrebbe abbandonato al suo destino.

Ma un pensiero lo tranquillizzò.

Forse a quell’ora sca era già morta. Reynaud non era il tipo da dormire sugli allori. Non era escluso che avesse già attivato il suo agente a Milano. Kesler lo conosceva, e sapeva che aveva una lunga serie di successi alle spalle in operazioni del genere.

“Prende un caffè?” Leardo gli chiese.

“Volentieri.” Lo 007 si alzò in piedi, e andò al fornellino a gas da campeggiò posato sul ripiano del computer. Versò due tazzine di caffè dalla moka e ritornò alla scrivania porgendone una a Kesler, che prese subito un breve sorso.

Leardo decise che aveva pazientato abbastanza, e che pertanto fosse giunto il momento di cominciare a dare l’affondo.

“Cos’è che è andato a fare a Parigi, dopo aver lasciato la signorina Martinoni?” gli chiese a bruciapelo.

Kesler ebbe un leggero tremito delle palpebre, che non dovette sfuggire al suo interlocutore, ma riuscì a mantenere il contegno imperturbato. Quindi sapevano anche che era stato a Parigi, pensò; e chissà che non ne conoscessero la ragione, anche se la domanda sembrava indicare il contrario.

Chiaramente, Leardo lo stava attirando su un terreno minato, e si rese conto che ora doveva muoversi con grande circospezione se non voleva saltare in aria. I

suoi pensieri cominciarono a correre alla velocità della luce.

“E’ stata una visita lampo per acquistare dell’antiquariato. Un hobby di cui sono apionato”, rispose. “Parigi è una delle mie mete preferite, e sempre vi faccio una sosta prima di recarmi a Francoforte per affari.”

“Non sarebbe più appropriato definirla, anche, una visita di piacere visto che ha fatto una puntata al bordello di lusso di madame Lacroix…” Lo scrutò. “Che mi dice in proposito?”

“Che non potete scavare nella mia vita privata.”

“E invece possiamo farlo liberamente, soprattutto nei casi in cui riteniamo sia a rischio la democrazia nel nostro Paese.”

“Non capisco un accidente di ciò che sta dicendo.” Prese l’ultimo sorso di caffè e depose la tazzina sulla scrivania. “Per me è arabo.”

“Naturalmente…”, Leardo rise ironico. Rimase in silenzio mentre si accendeva un’altra sigaretta. Trasse un’intensa boccata prima di dire: “E’ vero o no, signor Kesler, che la notte del ventuno novembre scorso lei l’ha trascorsa con una prostituta nella esclusiva casa di tolleranza di madame Lacroix, a Parigi?”

“E’ vero, ma la cosa non la riguarda minimamente.”

L’altro non replicò all’affermazione, ma continuò imperterrito: “E non è forse vero che prima di appartarsi con la donna, ha avuto un incontro durato circa mezz’ora con un certo Gerard Reynaud?”

Kesler annuì. “Reynaud è una delle mie tante conoscenze parigine. Può capitare che lo veda quando sono a Parigi.”

“In un bordello?”

“Può succedere, visto che coltiviamo lo stesso hobby: quello delle belle donne.”

“Sì, ma prostitute.”

“I gusti non si discutono.”

Leardo fece una smorfia, dicendo: “Può dirmi qual è stato l’argomento della vostra conversazione quella notte?” Esalò una grossa nuvola di fumo.

“Forse lei non sa che Reynaud è un avvocato di grido. Rappresenta e assiste Mediasystem ogni volta che insorgono problemi legali connessi con l’attività del gruppo in Francia.”

“Capisco.” Leardo annuì con un sorrisetto scettico.

“Ed è appunto di un’importante contenzioso legale che abbiamo discusso durante quell’incontro.”

Kesler si mosse sulla sedia per sistemarsi in una posizione più comoda.

“Sappiamo che Reynaud si guadagna da vivere facendo l’avvocato, ma anche che non è un principe del foro.” Leardo fece una smorfia. “Che cosa mi direbbe se le dicessi che siamo anche al corrente che è il capo di ciò che resta del partito comunista se, ed è sospettato di dirigere una organizzazione clandestina segreta – di stampo comunista, appunto – con finalità eversive, che ha fondato subito dopo il crollo del Muro di Berlino?”

“Le direi che la cosa mi giunge del tutto nuova.”

“E lei pensa davvero che le creda?” Leardo disse, il tono divenuto aspro. “Non può cercare di darmela a bere affermando di non sapere chi sia Gerard Reynaud…”

“Il fatto che non mi creda, non mi turba minimamente. E non saprei cos’altro aggiungere per convincerla.”

Leardo rifletté per alcuni secondi, poi disse: “Vede signor Kesler, sono molti anni che al Side la sorvegliamo, e siamo stati in grado di elaborare un quadro ben preciso della sua persona e delle sue attività. Conosciamo il suo ato.”

L’altro non fiatò.

“Siamo al corrente del fatto che suo padre, deceduto nel 1985, era un funzionario di alto livello della Stasi, il famigerato Ministero per la Sicurezza di Stato della Germania Orientale dove lei ha vissuto fino al 1989, anno del suo trasferimento in Italia con sua madre in seguito alla caduta del Muro.” Lo fissò per un attimo. “Ma mi corregga se sbaglio.”

Kesler annuì. “Fin qui, è tutto vero.”

Leardo si tolse un attimo gli occhiali e si ò una mano sul viso in un gesto di stanchezza. “Lei ricopriva un grado elevato nell’organico della Deutsche Bank di Berlino Est, ma…”, esitò prima di proseguire, “…abbiamo il ragionevole sospetto che svolgesse, al tempo stesso, un’attività spionistica per conto della Stasi.”

Kesler scosse la testa. “Questo è falso. Che mio padre fosse un alto funzionario del Ministero, non ne fa di me automaticamente un ex informatore.”

Leardo ignorò l’osservazione, ma continuò: “Non sappiamo esattamente quando, ma a un certo momento, lei ha aderito a quella setta comunista clandestina di cui Reynaud è il capo assoluto, e ha cominciato a svolgere un’attività di spionaggio in Italia avendo come copertura la prestigiosa carica di presidente di Mediasystem. E’ riuscito a ingraziarsi Martinoni al punto di diventarne in pratica il suo braccio destro, è l’amico più fidato.”

“Lei lavora molto di fantasia, signor Leardo?”

“Dice?” Sorrise sarcastico e continuò: “La situazione è radical-mente mutata nel momento in cui Martinoni le ha comunicato la sua decisione di entrare in politica schierandosi con il centrodestra.” Si interruppe per qualche attimo. “Questo deve aver inasprito il forte rancore che da sempre cova in segreto verso di lui, sia a causa delle sue idee politiche spiccatamente destrorse, sia per l’odio viscerale che da sempre nutre nei confronti del comunismo, di cui lei è un eminente rappresentante.” Lo guardò dritto negli occhi come in attesa di una sua reazione.

“Vada pure avanti. Sono curioso di vedere fino a che punto arrivano le sue farneticazioni.”

Leardo annuì. “D’accordo… Martinoni non immagina neppure lontanamente di avere un nemico in casa. Non sa che lei si è da tempo attivato per sbarragli la strada verso la vittoria elettorale, favorendo in tal modo la coalizione di centrosinistra.”

Kesler si costrinse a fare una risatina. “Come?”

“Questo non sono ancora riuscito a stabilirlo con certezza. Posso soltanto formulare delle congetture, frutto delle mie riflessioni.”

“La seguo.”

“Lei si reca a Beirut con la nipote del suo capo e migliore amico per ingaggiare quel Nino Salvo. Ora la domanda è: chi è quell’uomo, e per fare cosa lei desidera portarlo a Milano? Io credo che sia un killer professionista da lei pagato per uccidere un personaggio eccellente. L’obbiettivo è di fare in modo che

Martinoni venga sospettato, o persino accusato, di essere il mandante dell’omicidio, dato che la vittima è un suo avversario politico o addirittura un suo acerrimo nemico. L’assassinio, quindi, produrrà l’effetto di far andare a picco le azioni del Magnate sulla scena politica, screditandolo fino al punto di costringendolo al ritiro.” Fece una breve pausa. “Ma il problema è che il Salvo è in possesso di un aporto italiano falso, ragion per cui corre il rischio di essere bloccato e arrestato al suo arrivo a Linate, al controllo di polizia. Ed è a questo punto che lei necessita della collaborazione della famosa attrice televisiva sca Martinoni. La manipola abilmente e con un pretesto – di cui ammetto di non avere la minima idea – la convince ad accompagnare il sicario a Milano. La giovane, con la sua illustre presenza, gli facilita il aggio al controllo aporti e doganale.” Lo fissò dicendo: “Che ne dice?”

“Che mi sembra un ottimo materiale per scriverci il copione di un film fantapolitico.”

Di nuovo Kesler si sforzò di sorridere, mentre pensava che era stupefacente l’accuratezza con cui lo 007 era riuscito a ricostruire il vero scenario. Rifletté che si era creato tra loro una sorta di gioco al gatto e al topo. Era come se Leardo, nel ruolo del gatto, rincorresse lui, il topo, per cercare di costringerlo in un angolo prima di balzargli addosso per farne un solo boccone. Ma non ci sarebbe riuscito, e di li a poco glielo avrebbe dimostrato ando al contrattacco.

“Quindi…”, Leardo riprese, “…va da sé che è del tutto inutile chiederle di rivelarmi i dettagli di questo piano criminoso, di cui sono certo che lei sia l’artefice, e il luogo dove tiene nascosto l’uomo che dovrà eseguirlo…”

“E’ inutile non per mia reticenza, ma semplicemente perché, per quanto mi riguarda, quello che lei ha dipinto è un quadro che esiste soltanto come prodotto della sua fantasia.” Fece una pausa. “Se ne è così convinto perché non lo chiede alla Martinoni?”

Leardo fece una smorfia.

“Sa bene quanto me”, disse, “che sarebbe fiato sprecato. Anzitutto perché non credo che ne sappia granché dato che lei l’ha manovrata propinandole una frottola per convincerla ad accompagnare quell’uomo a Milano. Ma lei è anche al corrente che, quasi certamente, la giovane è ora legata a lui da un rapporto sentimentale, ragion per cui anche se sapesse qualcosa terrebbe la bocca cucita per proteggerlo.”

Kesler non disse niente, pensando che non poteva che condividere quell’analisi di Leardo. Ma rifletté che ciò che il funzionario del Sisde non poteva immaginare era il fatto che, probabilmente, in quel momento sca non sarebbe stata comunque in grado di aprire bocca perché era già ata a miglior vita. Sollevò il polso con aria spazientita e consultò l’orologio. Storse un angolo della bocca e disse: “Siamo qui da più di un’ora e mezza, signor Leardo, e lei non ha fatto che subissarmi di accuse di reati che avrei commesso o sarei sul punto di commettere. Ma non è stato sinora in grado di dimostrare assolutamente nulla.” Lo fissò con espressione dura. “Non so se ne rende conto.”

L’altro non replicò.

“Lei ha ragionato, immaginato, ipotizzato, fatto congetture: tutte cose che rientrano nelle nostre facoltà mentali, ma che…”, esitò un attimo per cercare le parole adatte, “…non equivalgono ad accertamenti di fatti. Giusto? Per dirla in parole povere, non una sola volta ha pronunciato la parola ‘prova’, perché non ne ha neppure uno straccio.” Incrociò le braccia sul petto e lo fissò con aria di sfida. “Su di me lei non ha niente di incriminante. Niente di niente. Quindi, non può trattenermi oltre, e devo pertanto chiederle formalmente di rilasciarmi subito.”

Leardo sorrise in modo enigmatico. Disse: “Signor Kesler, lei non ha fatto che mentire. No, non mi contraddica, la prego.” Sollevò una mano come per impedirgli di parlare “Lo so io e lo sa lei.” Un istante di silenzio. “Ha ragione nel sostenere che non disponiamo ancora di elementi concreti a suo carico, ma presto ne avremo a bizzeffe e allora saremo in grado di trascinarla davanti a un tribunale. Abbiamo indizi, però, e sono tali e tanti da consentirmi di farla trattenere in stato di fermo cautelare almeno per il tempo necessario al completamento delle indagini.”

Kesler fece una smorfia come se avesse in bocca un sapore acido. Farfugliò qualcosa di incomprensibile.

“Come dice, signor Kesler? Non ho sentito.”

La risposta tardò ad arrivare. “Ho detto che devo chiamare il mio avvocato.”

“Faccia pure.”

Con un gesto plateale, Leardo premette con un colpo secco il tasto STOP del registratore.

61

Quando, annunciando l’alba, le prime luci grigiastre cominciarono a filtrare attraverso i listelli socchiusi dell’avvolgibile della camera da letto, sca si alzò e andò a sedersi sul divano del soggiorno restandovi per qualche tempo a riflettere. Poi entrò in cucina per prepararsi la colazione.

Per i nervi tesi dalla paura, aveva dormito un sonno breve e agitato, interrotto da frequenti, bruschi risvegli durante i quali aveva aguzzato le orecchie a ogni minimo banalissimo rumore ingigantito dall’ansia, oppure inesistente in quanto creato dalla sua stessa immaginazione. Vano si era rivelato ogni tentativo di tranquillizzarsi ripetendosi che la porta blindata era chiusa con le due serrature, che la catenella di sicurezza era inserita, e che nessuno poteva introdursi dall’esterno, arrampicandosi su per la facciata dello stabile.

Tra qualche ora sarebbe uscita per recarsi in alcune banche a occuparsi del trasferimento in Messico dei fondi dai suoi conti correnti, un’operazione che avrebbe richiesto buona parte della mattinata. Al denaro giacente nei conti cifrati svizzeri avrebbe pensato in un secondo momento, una volta giunta a destinazione. Nella tarda mattinata, prenotato un taxi, sarebbe andata a Linate per ritrovarsi con Sergio. Il suo borsone da viaggio era pronto. In una tasca laterale, aveva infilato un plico indirizzato a Ezio Leardo, il direttore del Sisde, che conteneva una sorta di memoriale stilato la sera prima. L’avrebbe spedito dall’aeroporto con la posta prioritaria, un minuto prima di imbarcarsi con Sergio sul volo per Città del Messico. Sarebbe stato recapitato al più tardi tra due giorni, quando loro erano ormai lontani e al sicuro.

Il memoriale altro non era che un atto di accusa a Kesler. Conte-neva un’esposizione sufficientemente particolareggiata di quel piano criminoso di cui lui era l’autore, e che mirava a uccidere l’Arcivescovo di Milano nella Basilica di Sant’Ambrogio quella stessa mattina, mentre pronunciava l’omelia durante la

messa pontificale per la solennità del Santo Patrono. Precisava che lei se ne era formato un quadro preciso soltanto dopo le rivelazioni di Nino Salvo (evitava di citarlo col suo falso nome), durante l’incontro nella sua camera d’albergo del giorno prima. Aggiungeva che ne aveva compreso la finalità politica: far sì, cioè, che suo zio venisse accusato dell’omicidio – se pure come mandante – e fosse pertanto incriminato e costretto, anzitutto, ad abbandonare la corsa elettorale. Non faceva alcun mistero del rapporto sentimentale che ormai la legava a Sergio, tanto intenso da farle decidere di fuggire con lui. E di lui parlava diffusamente nel memoriale riferendo particolari della sua difficile vita ata, e precisando che non era un killer professionista, né il criminale che il Sisde riteneva. Che aveva accettato l’incarico omicida per sopperire a gravi ristrettezze economiche. Confessava finalmente che il vero scopo del suo viaggio a Beirut con Kesler, era stato di ingaggiarlo, e svelava la natura dell’inganno con cui l’amico fidato di suo zio era riuscito a convincerla ad accompagnarlo a Linate. Assicurava che il piano sarebbe stato fatto fallire proprio da Sergio, il quale le aveva assicurato che si sarebbe astenuto dal colpire il Cardinale. Questi, pertanto, non correva alcun pericolo.

sca sperava che il documento costituisse, nella sostanza, la prova di cui Leardo necessitava per inchiodare Kesler alle sue responsabilità, consentendogli di farlo incriminare per tentato omicidio, spionaggio e atti illegali finalizzati a destabilizzare la democrazia nel Paese. Per quanto la riguardava, aveva così mantenuto l’impegno che aveva assunto con lo 007 di collaborare col Sisde per il suo smascheramento e arresto, per non dire che vendicava la morte dei suoi genitori. Nessun accenno al sospetto che Kesler fosse anche l’assassino di Orietta. Sarebbe stato suo zio a decidere il da farsi riguardo a quell’altra terribile vicenda.

Aveva appetito e fece un’abbondante colazione a base di latte, biscotti, burro e marmellata. Poi si vestì indossando un maglione scuro a girocollo sopra un paio di jeans celesti e un paio di comode scarpe a tacco basso. Stava per mettersi la parrucca bionda, ma si bloccò nel gesto a mezz’aria, sobbalzando.

Avevano suonato alla porta. Rimase immobile, come impietrita, avvertendo un forte tremito alle ginocchia e un’intensa nausea che le fece temere di dover correre in bagno a rimettere la colazione. Ce la mise tutta per cercare di calmarsi, ma senza riuscirci. Mentre si sforzava di immaginare di chi mai potesse trattarsi che la cercava a quell’ora tanto inusuale, il camlo suonò di nuovo insistente. Seguirono alcuni colpi alla porta.

Kesler?

E perché non Sergio, pensò, venuto ad avvertirla che c’era un cambiamento di programma? Magari aveva deciso di non andare nella basilica rinunciando al suo proposito di vendetta, e pertanto ora potevano partire tranquillamente insieme. Il pensiero le diede un brivido di eccitazione che durò lo spazio di alcuni secondi. Ma com’era possibile, si chiese, che il portiere avesse permesso al visitatore, chiunque esso fosse, di salire al suo appartamento contrariamente alle sue istruzioni, e comunque senza neppure avvertirla? Afferrò il ricevitore del telefono e lo chiamò. Rimase con la cornetta incollata all’orecchio per quasi un minuto senza ottenere risposta, mentre il camlo continuava a suonare a intervalli sempre più ravvicinati. Il custode doveva essersi allontanato temporaneamente dalla guardiola, pensò. Era risoluta a non aprire la porta a meno di essere del tutto sicura che, facendolo, non si esponeva a qualche pericolo. Vi si accostò, dicendo: “Chi è?”

“AEM, servizio di assistenza”, le rispose una voce con tono di urgenza. “Vuole aprire per favore?”

“Di che si tratta? Provò un senso di sollievo nel constatare che non era la voce di Kesler.

“E’ stata segnalata una fuga di gas su questo piano dell’edificio. E’ necessaria

una verifica degli impianti di tutti gli appartamenti per localizzarla.”

“Non avverto alcun odore di gas nel mio.”

“Ciò non toglie che bisogna controllare. Vuole aprire per cortesia?”

sca non rispose, ma si accostò alla porta sbirciando attraverso lo spioncino. Vide un tizio che indossava quella che sembrava una tuta bianca da meccanico. Era di media statura, di corporatura esile e carnagione bruna. Portava un berretto bianco da baseball ben calcato sulla testa, dal cui bordo fuoriuscivano ciocche di capelli scuri. Aveva un’aria disinvolta e, tutto sommato innocua, anche se la visiera del berretto gli nascondeva in parte l’espressione del volto.

Lei rifletté per qualche secondo, poi disse: “Attenda.” Aprì le due serrature, ma senza rimuovere la catenella di sicurezza. Dischiuse la porta di un palmo per poter dare un’altra occhiata. Sobbalzò nel vedere, inorridita e terrorizzata, che l’uomo aveva abbassato del tutto la lampo della tuta, ed era nell’atto di sfilare da sotto la cintura una enorme pistola munita di silenziatore. Era più che palese il suo intento di inserirne la canna nello spiraglio tra la porta e lo stipite e fare fuoco. A distanza così ravvicinata, un solo colpo sarebbe bastato per ucciderla all’istante. Per una frazione di secondo lei sembrò paralizzarsi, poi con una istintiva mossa repentina fece un salto di lato portandosi fuori dalla traiettoria del proiettile, mentre richiudeva la porta sbattendola con forza. Col cuore che le batteva all’impazzata, sca rimase immobile, un occhio incollato allo spioncino per cercare di capire le intenzioni del sicario. Vide che ora le dava le spalle e sembrava guardare verso l’ascensore, dal quale venne in quel momento il rumore sordo indicante che si era fermato al piano, accompagnato dallo scamlio della porta automatica che si apriva.

Forse se ne sta andando, pensò con un senso di sollievo.

Ma un istante dopo risuonarono nel pianerottolo quattro colpi di arma da fuoco in rapida successione, seguiti da un urlo lacerante. Il sicario fu sbalzato all’indietro dalla forza d’urto dei proiettili. Andò a sbattere con la schiena contro la porta blindata con una tale violenza da scuoterla. La grossa pistola gli volò via di mano piombando sul pavimento con un rumore metallico. sca lo vide cadere sulle ginocchia, per poi stramazzare a faccia in giù. Ritornò con lo sguardo all’ascensore nel momento in cui due uomini ne uscivano di corsa. Uno di loro impugnava una pistola.

“sca? Apri, sono Pietro!” Di là dalla porta le giunse la voce familiare di Pietro Mattei. “Sta’ tranquilla, è tutto finito!”

62

Rincantucciati nel minuscolo abitacolo della Ford KA, Pietro e Tiziano non erano stati in grado di chiudere occhio per tutta la notte. Non avevano fatto che fumare e chiacchierare del più e del meno. Finché, esaurito ogni argomento di conversazione, erano usciti a turno dalla macchina per sgranchirsi eggiando su e giù lungo il marciapiede. Avevano tenuto costantemente d’occhio il portone d’ingresso dello stabile, ma nessuno vi era entrato o ne era uscito durante la notte. Alle tre Pietro aveva chiamato Leardo sul cellulare per informarsi sullo stato dell’interrogatorio di Kesler, ma gli aveva risposto la segreteria telefonica, segno che doveva essere ancora in corso.

Intorno alle sette e mezzo aveva cominciato ad albeggiare. La luce incerta aveva rivelato un cielo grigio, carico di nuvole basse foriere di pioggia. I marciapiedi erano deserti, ma il traffico auto-mobilistico dava i primi segni di animazione. Alcuni vecchi tram d’epoca transitarono sferragliando.

Un furgoncino Fiat bianco, con dipinti su entrambe le fiancate il logo dell’AEM e la scritta ‘Servizio di Assistenza’, si era fermato davanti a loro in corrispondenza della pensilina della fermata del tram. Ne era disceso un tizio in tuta bianca che reggeva nella mano destra una valigetta di plastica rossa che doveva contenere gli attrezzi del mestiere.

“Spiacente, ma non può parcheggiare di fronte alla pensilina. C’è il divieto di sosta.” Come dal nulla era sbucato un vigile in bicicletta che si era messo a discutere vivacemente col conduttore del furgoncino. Tenendo il vetro del finestrino abbassato, Pietro era riuscito a captare il senso della discussione: l’AEM aveva ricevuto una richiesta di intervento urgente per una fuga di gas in un appartamento dello stabile dall’altra parte della strada.

“Si tratta di un caso di emergenza”, aveva argomentato il tecnico della società. “La prego di fare uno strappo alla regola, non dovrei metterci più di un quarto d’ora.” Alla fine il vigile aveva ceduto, rilevando però il numero di targa del furgone. Leardo aveva osservato perplesso l’uomo attraversare la strada e scomparire oltre il por-tone di ingresso dell’edificio in cui abitava sca, avvertendo una strana, inquietante sensazione. Strano che quell’uomo andasse in giro da solo senza un assistente, aveva pensato. Mentre rifletteva, e stava per parlarne con Tiziano, si era accorto che il custode era uscito dallo stabile e si era portato sul bordo del marciapiede gesticolando al loro indirizzo come per invitarli a raggiungerlo. I due erano balzati fuori dalla KA attraversando la strada.

“Che cosa succede?” Pietro aveva chiesto all’anziano portiere. “Quel tipo dell’AEM che è appena entrato…”, aveva risposto con fare concitato in preda a grande agitazione.

“Sì?”

“Mi ha detto che doveva salire al quarto piano per rispondere a una richiesta di intervento urgente per una fuga di gas in un appartamento.”

“E allora?”

“Quando è entrato in ascensore, io sono rimasto a controllarne la salita per accertare che effettivamente si fermasse al quarto piano.” Aveva fatto un attimo di pausa per riprendere fiato. “Invece ha proseguito fino all’ottavo.”

“Dove abita la Martinoni.”

“Esatto.”

“Quanti appartamenti ci sono su quel piano?”

“Tre, ma in due gli inquilini sono assenti.”

Pietro e Tiziano si erano lanciati dentro l’atrio dirigendosi verso uno dei due ascensori aperti, in attesa. Mentre salivano lentamente in silenzio, Tiziano aveva estratto dalla fondina ascellare la sua Beretta calibro 9 di ordinanza, disinserendone la sicura. L’ascensore era situato proprio di fronte all’appartamento di sca, e quando le porte automatiche si erano aperte, i due avevano visto il sicario voltarsi di scatto, gli occhi sgranati per la sorpresa. Aveva cominciato a sollevare lentamente il braccio per puntare l’arma contro di loro, ma l’attimo di esitazione gli era stato fatale. Senza neppure uscire dall’ascensore Tiziano lo aveva battuto sul tempo esplodendo quattro colpi in successione rapida, che avevano attinto il malvivente al torace facendolo crollare.

63

sca rimosse la catenella di sicurezza e aprì la porta. Alla vista del cadavere del sicario che giaceva bocconi sul pavimento a mezzo metro dalla soglia, si coprì la bocca con le mani in un gesto di raccapriccio, voltandosi poi dall’altra parte per distogliere lo sguardo. “Dio!” esclamò.

“Siamo arrivati appena in tempo…”, Pietro disse.

sca gli spiegò come avesse sbattuto la porta socchiusa in faccia al killer mentre questi era sul punto di fare fuoco su di lei. Tiziano si chinò per raccattare la grossa pistola, dopo aver riposto la sua Beretta nella fondina ascellare. La esaminò girandosela e rigirandosela tra le mani con fare da esperto. “E’ una mitraglietta Schmeisser MP40 di fabbricazione tedesca, molto usata dai nazisti durante la Seconda guerra mondiale”, spiegò. “E’ un’arma micidiale in grado di sbudellare una persona da centro metri di distanza, ed è anche dotata di una enorme forza di penetrazione. Sono sicuro che, fallito il tentativo di fare fuoco attraverso lo spiraglio della porta, il killer vi avrebbe sparato contro traandola come un panetto di burro, oppure facendone saltare le serrature. Avrebbe così conseguito il suo scopo di farla secca. Solo che è stato interrotto dal nostro arrivo.”

Si avvicinò al corpo senza vita e afferratolo per un braccio lo girò sulla schiena. Tutti e tre lo osservarono. Simili a boccioli rossi, i fori di ingresso delle quattro pallottole che l’agente del Sisde gli aveva piantato in corpo, risaltavano sulla tuta bianca. Dovevano aver leso profondamente più di un organo vitale dal momento che l’uomo era morto all’istante. C’era molto sangue sul pavimento.

“Lo conosci?” Pietro chiese a sca.

“Mai visto in vita mia.”

Quindi, Pietro pensò, Leardo aveva visto giusto: l’ipotesi che la ragazza fosse in pericolo di vita, si era rivelata più che fondata. Ancora una volta l’amico aveva dato prova delle sue straordinarie doti intuitive. Ora gli restava da accertare se, sempre secondo Leardo, l’attentato non fosse riconducibile al fatto che l’organizzazione sospettasse sca di essere al corrente di un piano criminale di cui Kesler era l’artefice, perché il suo amante gliene aveva confidato l’esistenza. Se così era, allora la giovane doveva conoscerne tutti i dettagli.

“Tra poco dovremmo parlare dell’uomo con il quale sei tornata da Beirut, e hai allacciato una relazione”, le disse fissandola. “E’ ora che tu la pianti di negarlo, sca. Sappiamo tutto. Sappiamo anche che l’hai ospitato per due settimane.”

Lei non fiatò.

Pietro le sorrise per mitigare la tensione. Poi disse rivolto a Tiziano indicando il corpo esanime: “Dobbiamo toglierlo da qui e trasportarlo in cucina. Sarà la polizia a occuparsene.”

sca si mise a piangere e a tremare in modo convulso tenendo lo sguardo distolto dal cadavere. Pietro e Tiziano lo afferrarono per le braccia e lo trascinarono lungo il corridoio fin dentro la cucina.

“Mi spiace per averti imbrattato la moquette”, Pietro disse. “Ma non avevamo

scelta. Potrai farla lavare più tardi.” La guardò, dicendo: “L’hai scampata se pure per un pelo, che ragione c’è di piangere?”

Con l’uso di uno grosso strofinaccio imbevuto di un detergente, Tiziano pulì il pianerottolo davanti alla soglia cancellando ogni traccia di sangue. Poi ritornò in cucina e chiuse la porta. Si chinò sul cadavere e si mise a perquisirlo con gesti rapidi. Come immaginava, non aveva addosso alcun documento di identificazione. Trovò in una tasca della tuta una banconota da venti euro, un pettine, un mezzo pacchetto di Diana e un accendino di plastica. Quando tornò in soggiorno, sca aveva smesso di piangere, e stava tutta tremante accoccolata sul divano del soggiorno. Pensava che doveva essere grata a quei due che le avevano salvato la vita arrivando qualche secondo prima che il sicario le sparasse attraverso la porta, o fe saltare le serrature. Che sciocca era stata a illudersi che abitare sull’attico e la porta blindata sbarrata, l’avrebbero protetta da Kesler. Pietro le si avvicinò e le porse un pacchetto di Malboro. “Fumi?”

“Grazie, Pietro.” Prese una sigaretta e lui gliela accese.

Il giovane pensò di darle qualcosa di forte da bere per farla smettere di tremare, ma poi scartò l’idea: era preferibile tenerla in stato di agitazione durante l’interrogatorio cui intendeva sottoporla, sì da scuoterla meglio per indurla a rispondere senza reticenza alle sue domande. Mentre la guardava, pensò che l’accaduto confermava una volta per tutte il suo convincimento che lei non aveva mai avuto niente a che fare con quel piano di cospirazione ordito da Kesler contro suo zio.

Tiziano, di ritorno dalla cucina, riferì a Pietro il risultato della perquisizione del cadavere. Dopo averlo ascoltato, questi gli disse: “Ora va’ giù, Tiziano, e informa il custode, ma avvertilo di non chiamare la Polizia. Sarò io stesso a farlo più tardi. Ti raggiungo in macchina tra poco.”

Il giovane annuì, salutò e uscì dall’appartamento chiudendosi la porta alle spalle.

“Allora…”, Pietro disse a sca, “…ora voglio tutta la verità. Anzitutto…, perché quell’uomo voleva ucciderti?”

“Sono certa che sia stato Kesler a mandarlo.”

“Kesler?”

“Mi vuole morta perché crede che sia a conoscenza del suo piano.” Preferì sorvolare sull’altro probabile movente, ossia il desiderio di Kesler di vendicarsi per le pessime reazioni che lei aveva sempre avuto alle sue avance.

“Quale piano?” Pietro decise di fare lo gnorri per un attimo, giusto per farla parlare e vedere fin dove si spingeva.

“Come sarebbe, quale piano?” Lo fissò sorpresa. “Quello di cui tu e Leardo sospettate l’esistenza, no? Possibile che non ricordi di avermene parlato ieri pomeriggio mentre eravamo in macchina sulla tangenziale?”

“Ah, quello… Capisco…” Annuì. “Naturalmente Kesler sospetta che sia stato il tuo amico a rivelartelo, non è così?”

“Suppongo di sì.”

“Ed è vero?”

Lei chiuse gli occhi per un istante esalando una boccata di fumo, e attese alcuni secondi prima di sussurrare: “Sì, è vero.”

Pietro pensò che anche la congettura che a questo riguardo Leardo aveva formulato si era rivelata corretta.

La guardò e vide che era bianca come un cencio. La mano le tremava mentre schiacciava la sigaretta nel posacenere. Di nuovo si chiese se non fosse il caso di darle qualcosa da bere, ma non si mosse.

“Sei stata brava a seminarmi quando sei andata a trovarlo ieri pomeriggio.” Una brevissima interruzione. “Ti ha raccontato tutto, giusto?”

“Sì.”

“Chi è il personaggio illustre che deve colpire? E dove? Ma soprattutto devi dirmi dove si nasconde perché possiamo arrestarlo e interrogarlo.”

“Non posso dirti niente, Pietro”, lei replicò con un tono di voce basso ma deciso.

Lui guardò il grosso borsone per terra addossato a una parete e lo indicò con un

movimento del capo, dicendo: “Non puoi perché devi fuggire con lui non appena avrà eseguito l’incarico per il quale Kesler lo ha pagato. Dimmi che non è vero.”

Lei tacque, ma sollevò il polso per guardare l’orologio con fare ansioso: il Cartier di massiccio oro bianco dal minuscolo quadrante contornato da diamanti. Erano quasi le dieci e mezzo.

“Io lo amo, Pietro”, disse all’improvviso con grande enfasi. “Devi rassegnarti, non rinuncerò mai a lui per te.” Pensò che, tenuto conto del tempo necessario per le commissioni che doveva sbrigare prima di andare in aeroporto, fosse già in ritardo. “Non ha fatto niente di male.”

“Non ha fatto niente di male!? Ma se è sospettato di essere un killer professionista.”

“E’ falso! Non ha mai ucciso nessuno. Sono convinta che sarebbe la prima volta, se lo fe adesso. Ha accettato l’incarico per via della miseria in cui si dibatte, e comunque non lo eseguirà.” Una pausa. “L’ho convinto a rinunciarvi, e pertanto non c’è più alcuna ragione di arrestarlo.”

“Dici sul serio?”

“Te lo giuro. Ci siamo accordati per incontraci nel pomeriggio, e ce andremo via per sempre.”

“E la tua carriera di attrice…, tuo zio?”

“Non me ne importa niente della carriera, e quanto a mio zio lo contatterò a tempo debito, e gli spiegherò tutto. Sono certa che mi capirà.”

Pietro rifletté che fosse inutile pressarla oltre: non gli avrebbe detto niente di più. Si era accorto che continuava a guardare l’ora, e capì che era assillata dal pensiero dell’appuntamento col suo amante. Si sedette accanto a lei sul divano sostituendo il contegno ostile e inquisitorio con un’aria rilassata. Sfoderò uno dei suoi smaglianti sorrisi e le posò una mano sulla spalla. “Mi sembri un po’ sbattuta. Ti prendo qualcosa da bere?”

“Non voglio niente, grazie. Sto bene così.”

D’un trattò girò il capo verso la finestra, e si mise a piangere silenziosamente asciugandosi gli occhi con un fazzolettino di carta.

“Perché piangi?”

“Non riesco a togliermi dalla testa che sono viva per miracolo.” Si voltò a guardarlo, il volto rigato dalle lacrime. “E lo devo a te, Pietro. Qualche secondo di ritardo e quell’uomo avrebbe fatto fuoco attraverso la porta, e io ci sarei rimasta.”

“E’ vero, ma non è il caso che continui a pensarci.” Si alzò e si avvicinò al mobile bar per versarle un brandy. “Manda giù questo, e ti sentirai meglio.” Glielo porse sorridendole. Lei obbedì avvertendo una immediata sensazione di calma mista al sollievo che Pietro fosse lì a proteggerla, e avesse preso – se pure

temporaneamente – il controllo della situazione. Era esattamente in quello stato d’animo che lui aveva inteso condurla dandole da bere.

“Ho paura di Kesler”, lei disse. “Mio zio sospetta che abbia ucciso Orietta scambiandola per me.” Gli riferì i particolari dell’omicidio, concludendo: “Non credo che abbia rinunciato a farmi la pelle, e questa è una ragione in più perché tagli la corda.”

“Sì, ho sentito della morte di Orietta dai notiziari, ma ora non hai più nulla da temere da Kesler.”

“Perché?”

“Leardo lo ha fatto arrestare ieri sera, e probabilmente lo ha già interrogato.”

“Davvero? Ne sei proprio certo?”

“Certissimo. Dubito tuttavia che riuscirà a incastrarlo definitivamente in mancanza di prove concrete a suo carico.”

Si sedette molto vicino a lei sul divano e le cinse le spalle con un braccio. Sentì il delicato profumo che il suo corpo emanava e osservò le labbra rosse, piene e morbide. Ancora una volta, sentì riaccendersi il profondo rimpianto per averla lasciata cinque anni prima.

Quel figlio di puttana, pensò, doveva essersi ben trastullato nelle due settimane di convivenza. Doveva averne presi di grossi bocconi da quello splendido fisico del quale lui conosceva ogni minimo dettaglio. Di certo l’aveva sbattuta bene, altrimenti non si spiegava come mai lei si fosse invaghita a tal punto da decidere di fuggire con lui pur sapendo che era uno spiantato e un morto di fame, e rinunciando per sempre agli agi e alle soddisfazioni di una fulgida carriera da grande attrice. Forse, rifletté, quel genere di uomini sono eccezionalmente bravi a fare l’amore, e le donne trovano in loro, andandoci a letto, quell’extra di eccitazione erotica che quelli come lui non sono in grado di offrire.

“Sarò io a fornire le prove”, lei disse.

Lui la guardò sorpreso. “Come?”

“Ho scritto un memoriale indirizzandolo a Leardo. Lo riceverà domani o dopo al massimo, quando io e il mio amico saremo lontani e al sicuro. Vi ho esposto per filo e per segno quello che ho scoperto su Kesler, e sono fiduciosa che basterà come prova per farlo processare. Ho mantenuto la mia promessa.”

“Tu ami davvero quell’uomo, sca, non è vero?”

“Sì”, lei mormorò guardando di nuovo l’orologio. Si erano fatte le undici meno un quarto. “Lo amo, Pietro. E lui mi ama.” Gli si accostò ancora di più sul divano e lo guardò dritto negli occhi. “Non dirmi che mi impedirai di andare da lui… Oh, Pietro, ti prego, fammi andare da lui!”

Lui non rispose subito, ma finse di pensarci su prima di dire: “Non credo di potertelo permettere, sca. Io e quel giovane agente del Sisde, abbiamo

l’ordine di catturarlo perché sia interrogato.”

“Ma ormai non ce n’è più alcuna ragione”, lei replicò con veemenza. “Ti ho già spiegato che ha deciso di non dare corso a quel piano omicida per il quale era stato ingaggiato, i cui dettagli tu e Leardo leggerete nel memoriale.” Lo guardò con occhi supplichevoli. “Ti prego, Pietro, se è vero che nutri ancora del sentimento per me, lascia che me ne vada con lui e non mi seguire.”

“Sei l’unica donna che ha sempre significato tanto per me, sca. Ora più che mai mi rendo conto di aver commesso un grave errore rinunciando a te cinque anni fa. Se soltanto potessi ritornare indietro, di certo non lo rifarei.” Le rivolse un sorriso amareggiato. “Purtroppo, allora ero molto giovane e avevo un gran terrore del matrimonio, che avrei dovuto sforzarmi di vincere.” Si fermò per un attimo. “E’ vero… provo ancora del sentimento per te, ma mi rendo conto che devo farmi da parte. Conoscendoti bene, so che non potresti amare quell’uomo se non fosse una persona perbene. E’ possibile che io e Leardo, non conoscendolo, lo abbiamo giudicato male.” Si alzò in piedi. “Ora io me ne vado, sca. Quando sarò uscito, prendi il borsone e va’ da lui.” Indugiò un attimo prima di aggiungere: “Vi auguro di essere felici, ovunque andiate.” Anche sca si alzò. Gli si avvicinò sorridente e, con grande slancio, gli gettò le braccia al collo dandogli un bacio leggero sulle labbra su cui lui avvertì il sapore dolciastro del rossetto.

“Mi dai la tua parola che non mi seguirai?”

“Hai la mia parola.”

“Allora, grazie e addio, Pietro.”

Lui non disse altro, ma uscì chiudendosi la porta alle spalle. Entrò in ascensore e scese al piano terra. Attraversò l’atrio a o rapido e raggiunse il marciapiede. Vide Tiziano seduto nella KA che fumava placidamente. Salì in macchina ed estrasse il cellulare per chiamare Leardo. Gli fece un resoconto dettagliato di quanto era successo, riferendogli tutto quello che aveva appreso da sca. Seguì un lungo monologo dello 007 che si protrasse per cinque minuti, e durante il quale Pietro non fece che annuire come se l’altro fosse lì presente. Leardo concluse dicendogli che avrebbe provveduto lui ad avvertire la Polizia perché si occue del cadavere del sicario. Quindi chio la comunicazione. Tiziano gettò fuori dal finestrino il mozzicone della sigaretta, e poi si voltò a guardare Pietro con un’espressione interrogativa. “E ora che si fa, avvocato?”

“Aspettiamo che esca e poi la seguiamo.”

64

Sergio si alzò alle otto in punto, e cominciò a prepararsi per il compito che l’attendeva. La sera prima, rientrando in albergo dopo essersi recato in centro per fare dello shopping, aveva chiesto al portiere di prenotargli un taxi per le nove e mezzo in punto. Tirò fuori dal piccolo guardaroba, spiegandoli sul letto, i pantaloni e il soprabito neri che aveva acquistato in un negozio di abbigliamento maschile in via Meravigli. Si lavò e si rasò perfettamente con l’acqua gelida del bagnetto situato nel ballatoio, e poi si accinse a vestirsi.

Sul tavolino da notte stavano ordinatamente stipate le dieci mazzette di banconote da cinquecento euro per un totale di mezzo milione. Era dal momento in cui il Biondo gliele aveva consegnate il giorno prima, che rifletteva per escogitare il sistema migliore e meno appariscente possibile per portarle con sé. Aveva dapprima pensato di lasciarle in camera nascoste sotto il letto, per poi tornare a riprenderle al ritorno da quella che ormai considerava una sua missione irrinunciabile, e prima di andare in aeroporto. Ma aveva subito scartato l’idea per tre semplici ragioni. C’era anzitutto il rischio che le rinvenisse la donna delle pulizie, o che addirittura il portiere occhialuto perquisisse la stanza una volta che lui fosse uscito. Infine, dubitava di poter disporre del tempo necessario per riare dall’albergo prima di recarsi a Linate, giungendovi in tempo per incontrare sca e prendere l’aereo.

Quando la sera prima, sceso dal tram in via Meravigli si era incamminato lungo il marciapiede, la soluzione gli era balenata nella mente. Per porla in atto aveva acquistato i pantaloni neri di una taglia superiore alla sua, e, in un cartoleria, un grosso rotolo di nastro adesivo trasparente. L’espediente a cui pensava era di fissare saldamente col nastro adesivo cinque mazzette lungo il lato esterno di ciascuna gamba, a partire dai fianchi. I pantaloni sufficientemente ampi e il soprabito avrebbero fornito una eccellente copertura, anche se non poteva escludere un certo impaccio nei movimenti, al quale, però, era certo che si sarebbe facilmente abituato. Fece un esperimento per accertarsi che l’idea funzionasse. Stando in mutande, posizionò una mazzetta sul lato esterno

superiore di una coscia e ve la bloccò avvolgendovela intorno strettamente più volte col nastro adesivo. Appariva salda e non si sarebbe staccata neppure se fosse stato costretto a mettersi a correre. Impiegò circa mezz’ora per completare l’intera operazione, e poi si infilò i pantaloni. Avvertiva un po’ di fastidio, che gli avrebbe forse impedito di camminare con scioltezza rallentandogli i movimenti, ma era certo che avrebbe finito per abituarsi.

Prese dalla valigetta di tela scozzese, che il Biondo gli aveva lasciato il giorno prima, la camicia scura da sacerdote già munita del collare di plastica bianca, la Luger e il silenziatore. Indossò la camicia e il collare, e poi prese la pistola montandovi il silenziatore e inserendovi la sicura. Pensò al modo più conveniente per portarla addosso. La infilò sotto la cintura all’altezza dell’addome, ma si accorse – indossato il cappotto e abbottonatolo – che formava un rigonfiamento sospetto. Ricordò allora che da mercenario l’aveva posizionata qualche volta dietro la schiena in fondo alla spina dorsale, ma sempre infilandola sotto la cintura. Fece una prova e constatò con soddisfazione che andava bene. Si guardò allo specchio ed ebbe un sorriso compiaciuto: il travestimento era perfetto, nessuno avrebbe potuto dubitare che fosse un sacerdote. Guardò l’orologio: erano quasi le nove e mezzo.

L’ora di muoversi.

Andò alla finestra e scostò la tendina per dare un’occhiata fuori. Il taxi era già in attesa davanti all’ingresso. La giornata era grigia, e dalle chiome oscillanti degli alberi del parco capì che soffiava un forte vento. Non sarebbe più ritornato in quella stamberga, e pertanto vi avrebbe abbandonato quei pochi effetti personali privi di valore con cui era arrivato. Con tutto il denaro di cui disponeva poteva facilmente sopperire a qualsiasi necessità. Stringendo sotto il mento il bavero del soprabito per celare il travestimento, scese nell’atrio e uscì ando davanti al banco della reception, felice che il portiere obeso non fosse al suo posto in quel momento. Sostò per alcuni secondi sul marciapiede lanciando un’occhiata in giro. Si accorse, sorpreso, che era scomparso l’uomo che fino alla sera prima lo aveva sorvegliato stando sotto la pensilina del bus. Non gli era sfuggito che lo

aveva pedinato quando, la sera prima, si era recato in centro. Ma la sorpresa non durò che pochi attimi. Perlustrando con gli occhi il lato opposto della strada, vide parcheggiata a una ventina di metri di distanza, in coda ad altre macchine, una Citroen grigio scuro con due persone a bordo. Intravide al volante il suo angelo custode, e sul sedile del eggero la figura inequivocabile del Biondo, l’assassino di Tanya di cui aveva fatto la conoscenza il giorno prima, e che aveva giurato di uccidere per vendicarla.

Salendo sul taxi, una Fiat Multipla bianca, si accorse che il tassista, un tipo sulla cinquantina basso e pelato, lo squadrava con l’espressione perplessa di uno che non si aspetta di vedere un sacer-dote uscire da un albergo notoriamente equivoco come quello. Ciononostante gli disse in tono gioviale: “Dove la porto di bello, padre?”

“Alla basilica di Sant’Ambrogio.”

“Va alla messa del Santo Patrono, immagino…”

Sergio girò un istante la testa per lanciare un’occhiata all’esterno attraverso il lunotto. La Citroen si era staccata dal marciapiede e aveva cominciato a seguirli. “Sì, esatto.”

“Mi spiace, padre, ma non potrò lasciarla proprio davanti alla basilica.”

“Sì, lo so. E’ per via della fiera, non è vero?”

“Infatti. La piazza e tutte le strade adiacenti sono chiuse al traffico.”

“Mi faccia scendere nel punto il più vicino possibile.”

Il tassista ci pensò su. “Pensò che il più vicino sia in via San Vit-tore all’incrocio con via Carducci. E’ a due i dalla piazza e quindi dalla basilica.”

“D’accordo.”

Nel traffico intenso e convulso della circonvallazione, il taxi impiegò mezz’ora per raggiungere via San Vittore. Sergio pagò e scese dalla vettura. Restò fermo sul marciapiede volgendo lo sguardo in tutte le direzioni, ma non vide la Citroen che fino a qualche minuto prima aveva visto tallonare il taxi da vicino. Sembrava essersi volatilizzata. Consultò il suo orologio: erano da poco ate le dieci. Mancavano poco meno di venticinque minuti all’inizio della messa. Osservò per qualche minuto la fiumana di gente che si dirigeva verso la piazza ove sorgeva la basilica, attratta dalle miriadi di bancarelle traboccanti di mercanzia e cianfrusaglie di ogni genere. I marciapiedi ne erano stipati.

Di nuovo, lanciò un’occhiata in giro, ma non c’era ombra del Biondo che, nel argli le istruzioni il giorno prima, gli aveva assicurato che non lo avrebbe perso di vista neppure per un secondo. Ciò non significa affatto, pensò, che non lo stesse sorvegliando a distanza, nascosto da qualche parte nei paraggi. Si abbottonò il cappotto per meglio ripararsi dal freddo, e si incammino verso la piazza facendosi largo nella marea di gente che procedeva lentamente nella stessa direzione. Raggiunse la basilica e varcò il cancello di ferro battuto che immetteva nel lungo atrio porticato della grande costruzione medievale, mescolandosi al flusso di coloro che si dirigevano verso l’ingresso. Appena oltreata la soglia, Sergio vide che tutt’e tre le navate si andavano riempiendo in fretta tra rumori smorzati di vario genere prodotti dai fedeli che si

accingevano a prendere i loro posti: brusio di voci, tramestio di i, sedie smosse, colpi di tosse… D’un tratto l’organo si mise a suonare riempiendo l’aria di una musica poderosa, che sovrastò il trambusto generale. Preannunciava l’avvio imminente della funzione. Sergio conosceva esattamente il percorso che doveva compiere per andare a posizionarsi nel punto che il Biondo gli aveva indicato il giorno prima su quella pianta rudimentale della basilica. A tratti lanciava occhiate in giro per cercare di individuarlo, certo com’era che non lo avesse mai perso di vista da quando aveva lasciato l’albergo.

La navata centrale, di gran lunga la più ampia delle tre, era già strapiena di fedeli seduti. Non c’era un solo posto disponibile. Le due navate laterali erano anch’esse affollatissime per lo più di gente in piedi, che teneva lo sguardo rivolto all’altare. Sergio imboccò quella di sinistra e, facendosi largo nella calca, si portò a ridosso dell’enorme pilastro che stava di fronte a quel confessionale in cui doveva entrare, nel momento più opportuno, per abbattere – secondo le istruzioni del Biondo – il Cardinale con un solo colpo della Luger. Notò con sollievo che era vuoto. Numerosi addetti al- l’ordine in abiti scuri, si muovevano tra i fedeli invitandoli a tenersi il più possibile ai margini della navata, per consentire il aggio del lungo corteo di prelati, che, con al centro il Cardinale benedicente, sarebbe comparso di lì a poco da un ingresso in fondo alla basilica, diretto all’altare per l’inizio della messa.

Immobile accanto al pilastro, Sergio si guardava intorno con aria circospetta. Più di una volta si sentì osservato, e si girò incrociando gli sguardi sorridenti di alcuni fedeli. Si sentì sollevato poiché quegli sguardi erano la conferma che il travestimento funzionava e non destava sospetti. D’altra parte aveva notato altri sacerdoti in giro nelle navate.

La sua attenzione fu attirata da cinque o sei strani personaggi che non sembravano trovarsi lì per assistere alla messa. Indossavano abiti scuri, e non facevano che spostarsi in continuazione spaziando dappertutto con gli occhi, con il fare di scrupolosi sorveglianti. Erano comportamenti tipici di agenti di polizia in borghese, Sergio pensò. Della loro probabile presenza il Biondo gliene aveva

fatto un accenno.

In quel momento, la musica dell’organo crebbe di intensità. Coloro che sedevano si alzarono in piedi. La porta in fondo alla navata fu spalancata, e la lunga processione del Cardinale fece il suo ingresso. Mentre Sergio teneva gli occhi puntati sul corteo che avanzava lentamente in un’atmosfera di solenne misticismo, per una inspiegabile ragione girò il capo per guardare alla sua destra. Forse lo fece perché aveva sentito gli occhi di qualcuno posati su di lui. Comunque fosse si voltò, e lo vide. In piedi a qualche metro di distanza da lui, c’era il Biondo. Lo fissava assorto, e quando si accorse che Sergio gli restituiva lo sguardo, annuì in modo appena percetti-bile, e increspò le labbra in una sorta di sorriso insolente, quasi volesse dirgli: “Come vedi non ti perdo d’occhio.”

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La mitra arabescata color oro che il Cardinale indossava, lo faceva apparire più alto della sua già elevata statura, e di come Sergio lo ricordava allorché sca glielo aveva mostrato, alcuni giorni prima, alla trasmissione televisiva Le Invasioni Barbariche. Camminando adagio con incedere elegante nei bianchi paramenti sacri – al centro del lunghissimo corteo –, ò a breve distanza dal pilastro accanto al quale Sergio sostava, che ebbe così la possibilità di osservarlo con attenzione da vicino.

L’imponente figura ieratica, il volto da asceta dalle guance e le tempie infossate, gli occhi scurissimi e penetranti, ricordavano vagamente le fattezze dei santi medievali. L’aura di pace e tranquillità che sembrava avvilupparlo, unita al portamento dignitoso, gli conferiva, nell’insieme, un aspetto di grande maestosità. Impugnava con la mano sinistra il bastone pastorale, e con la destra benediceva senza sosta i fedeli assiepati lungo entrambi i lati della navata.

Percorsala tutta, la processione svoltò a sinistra ando davanti all’ingresso principale della basilica, per poi imboccare la navata di destra che conduceva all’altare. Lì si scompose e ogni prelato andò a collocarsi nel posto in precedenza assegnatogli. Cinque eminenti prelati si schierarono ordinatamente a destra dell’Arcivescovo, che sedette sul trono davanti all’altare d’oro.

La Messa pontificale ebbe inizio.

Il Biondo non si era mosso. Stava immobile a breve distanza da Sergio tenendo quasi sempre lo sguardo posato su di lui. Di quando in quando lo spostava verso l’altare, ma senza mostrare il benché minimo interesse per lo svolgimento della funzione. I suoi pensieri erano focalizzati su quel piano che di lì a poco sarebbe

giunto nel suo stadio finale. Nulla poteva andare storto, pensò. Tutto era stato minuziosamente programmato. Ciononostante, si sentiva come schiacciato dal peso dell’enorme responsabilità che gravava sulle sue spalle. Se osava immaginare, anche per un attimo, cosa avrebbe significato per lui un eventuale fallimento dell’operazione, non riusciva a sopprimere un fortissimo senso di panico. Rabbrividiva al solo pensiero della reazione che Reynaud avrebbe avuto nei suoi confronti. Per non dire che non si sarebbe ritrovato in tasca i centomila euro del compenso che gli aveva promesso non appena gli avesse comunicato per sms di aver esaurito il suo compito, e che tutto si era svolto secondo programma. Il pagamento sarebbe avvenuto con le consuete modalità: un accredito online sul suo conto cifrato presso una banca di Ginevra. Con i cinquantamila euro che aveva già riscosso per il duplice omicidio della ragazza palestinese e del mediatore libanese, ammontava a centocinquantamila euro la somma complessiva che alla fine avrebbe ricavato dall’incarico. Non male, pensò. Non succedeva spesso. Ciò che più di ogni altra cosa desiderava in quel momento, era giungere in fretta alla conclusione, per poi correre a prendere il primo aereo per Parigi e fare ritorno a casa dove lo attendeva la splendida moglie e la figlioletta di cinque anni. Si sarebbe riposato in attesa che Reynaud lo contattasse di nuovo per assegnargli un’altra missione. Nel frattempo, avrebbe prenotato una ben meritata vacanza in qualche località esotica con la sua famigliola. Non conosceva un modo migliore per rilassarsi del crogiolarsi al sole per un paio di settimane. Pensava a una piccola isola tra le più solitarie delle Antille, con un panorama incantevole e una spiaggia bianchissima con un mare limpido color turchese. Rivolse un rapido sguardo all’altare per cercare di capire a che punto fosse la funzione.

Sergio, dal canto suo, la osservava attentamente. La tensione procuratagli dal pensiero di ciò che l’attendeva, non avrebbe dovuto lasciare spazio ai ricordi. Invece non riusciva a bandire dalla mente quelli del suo lontano ato da ospite dell’orfanotrofio. Era soprattutto l’incenso di cui l’aria era pregna a fargli emergere vivida l’immagine della cappella del brefotrofio. Ora come allora quell’odore pungente gli dava il voltastomaco. Per di più avvertiva una lieve vertigine per non aver fatto colazione quel mattino. Da ragazzo assisteva con grande riluttanza, e soltanto in quanto costrettovi, alla messa domenicale e a quelle solenni. Spesso era chiamato a svolgervi il ruolo di chierichetto. Ricordò il freddo intenso della cappella nella stagione invernale, e la sofferenza che pativa nel dover restare a lungo inginocchiato ai piedi dell’altare, sul pavimento

sconnesso, lastricato di ruvida pietra gelida. La considerava alla stregua di immeritate punizioni corporali. Gli tornarono in mente, nel riascoltarle a distanza di tanti anni, molte delle parole che venivano pronunciate e delle preghiere che venivano recitate, parte della liturgia attraverso cui la comunità religiosa professa pubblicamente la propria fede. Lui le ricordava per averle imparate perfettamente a memoria da ragazzo. Quasi senza rendersene conto, le sue labbra si mossero meccanicamente nei salmi responsoriali, assieme a tutti i fedeli. Ma ciò non significava che fosse credente. Non lo era mai stato. Non aveva mai potuto astenersi dall’obbligo di presenziare alle funzioni religiose per il fatto di essere un ospite dell’orfanotrofio.

Un pensiero lo colpì: neanche quelli che lo avevano reclutato per uccidere il Cardinale potevano essere credenti. Rifletté che questo era l’unico punto in comune che aveva con loro. Tanya, invece, come tutti i musulmani, era stata una fervente osservante e praticante. Sempre docile e arrendevole, lo aveva contestato una sola volta quel giorno in cui lui le aveva espresso forti riserve sulla attendibilità anche del suo credo. Lei aveva reagito difendendolo con veemenza, parlandogli di Allah e dei suoi insegnamenti.

Ora, tutti si alzarono in piedi nel vedere un alto prelato concelebrante che, raggiunto il podio, si accingeva alla lettura del Vangelo. Durò alcuni minuti, e subito dopo si udì il trambusto dei fedeli che si alzavano in piedi.

Alla musica dell’organo, che colmò la basilica, il Cardinale si alzò a sua volta dirigendosi lentamente, le mani giunte, verso il microfono dal lungo stelo flessibile, con cui avrebbe pronunciato la sua omelia.

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“E’ in taxi diretta a Linate”, Pietro disse a Leardo al cellulare. “La sto seguendo.”

“Bene, tienimi informato.”

Chio la comunicazione.

Non appena il taxi, percorrendo la circonvallazione nel tratto di viale Mugello, era svoltato a destra in viale Corsica, Pietro – che lo seguiva insieme a Tiziano a bordo della Ford KA – aveva avuto la conferma di ciò che sospettava: sca era diretta all’aeroporto di Linate dove avrebbe incontrato il suo amante, e insieme avrebbero spiccato il volo per qualche ignota località.

Non aveva dovuto attendere molto prima che lei uscisse di casa. Appena terminato di parlare sul telefonino con Leardo, l’aveva vista emergere dal portone dello stabile reggendo nella mano destra il grosso borsone da viaggio. Era salita su un taxi che l’attendeva, e che era ripartito di gran carriera.

“Non stargli appiccicato addosso”, aveva avvertito Tiziano non appena si erano messi alle sue calcagna. “Non voglio correre il rischio di essere fatto fesso una seconda volta.”

“Stia tranquillo, avvocato”, l’altro lo aveva rassicurato fermandosi a un semaforo rosso all’incrocio con via Pagano, con il taxi che li precedeva di due macchine.

“Con questo traffico denso come una melassa, non è difficile seguirla senza essere scoperti.” Aveva ripreso la marcia al verde del semaforo. “Mi verrebbe da dire che non potremmo perderla di vista neppure se lo volessimo. E poi non conosce la macchina.”

“D’accordo, ma sta’ attento”, Pietro lo aveva ammonito di nuovo.

Pensò che se sca si era fidata della sua promessa di non seguirla, doveva sentirsi abbastanza tranquilla in quel taxi. Non poteva immaginare che lui si trovava nella impossibilità di mantenere la parola data. Un fatto nuovo era emerso da quella lunga conversazione con Leardo al cellulare di poco prima, davanti all’ingresso dello stabile in attesa che lei uscisse. Era qualcosa di tanto sensazionale che lo aveva sbalordito, ma anche compiaciuto dal momento che gli aveva fatto riaffiorare la speranza di riuscire finalmente a incastrare quell’uomo, riconquistando lei.

Quando, lasciata sca, era salito sulla KA e aveva chiamato Leardo, gli aveva anzitutto fatto un rapporto preciso dell’attentato, descrivendogli il modo in cui lui e Tiziano erano riusciti a sventarlo. Aveva quindi proseguito raccontandogli tutto quello che da lei aveva appreso al riguardo di quel piano criminale di cui Kesler era l’ideatore. Ma, temendo una violenta reazione del suo amico, si era ben guardato dal riferirgli che le aveva promesso di lasciarla fuggire col suo uomo, astenendosi dal seguirla. Si era limitato a suggerire che visto che il Salvo aveva rinunciato a mantenere l’impegno omicida preso con Kesler, non era più il caso di continuare a dargli la caccia. Non rappresentava più alcun pericolo, e poteva bastare, quale prova per incriminare Kesler e farlo processare, il memoriale redatto da sca, che Leardo avrebbe ricevuto entro breve.

“Sull’attendibilità delle informazioni fornitemi da sca e di quelle contenute nel memoriale, metterei la mano sul fuoco”, aveva assicurato l’amico. “Quindi proporrei di smettere di sorvegliarla e di lasciarla in pace.”

“Non se ne parla neanche”, l’altro aveva replicato vibratamente.“Quell’uomo deve essere arrestato comunque, e l’unica persona che può condurci da lui resta la Martinoni.”

“Perché deve essere arrestato se si è impegnato a non commettere il delitto per il quale Kesler lo aveva assoldato?” Pietro gli aveva chiesto. “Alla fine ha compiuto un gesto in un certo senso ammirevole.”

Leardo aveva spiegato: “Stamattina presto, ho ricevuto una e-mail dalla polizia di Stato. Indagando su di lui – dato che si tratta di un italiano che risiedeva clandestinamente in Libano – è emerso che ha un grosso conto in sospeso con la giustizia italiana. Ha commesso un omicidio per il quale è ricercato da quindici anni. Era uno dei tre componenti una banda di rapinatori a mano armata, per lo più di banche e gioiellerie. Nel corso di una tentata rapina a una banca di via Lorenteggio nel 1990, ha ucciso a sangue freddo con un solo colpo di pistola un giovane cassiere, un istante dopo che il poveretto aveva azionato il dispositivo di allarme. All’arrivo della polizia, lui è stato l’unico a riuscire a squagliarsi con una fuga rocambolesca in auto. Gli altri due, arrestati e interrogati, ne hanno fatto nome e cognome. Gli è stata data la caccia per oltre cinque anni senza alcun risultato. Poi il caso è caduto nel dimenticatoio, anche se ne esiste ampia informativa nel database dei criminali latitanti. Il sospetto degli investigatori è sempre stato che fosse riparato all’estero, probabilmente in qualche Paese del Medio Oriente.”

Pietro si accese una sigaretta. Nella lunga coda di macchine che avanzava quasi a o d’uomo in viale Corsica, la KA si fermò davanti a un altro semaforo rosso. Pietro puntò lo sguardo di là dal parabrezza per verificare che il taxi fosse ancora in piena vista. Soffiò una nuvola di fumo fuori dal finestrino semiaperto. La domanda che ora si pose era: il suo rivale, oltre che svuotare il sacco con sca su tutto ciò che sapeva sul piano di Kesler, si era anche spinto a confessarle i suoi oscuri trascorsi da rapinatore e che aveva ammazzato un uomo? Gli era parsa sincera quando quel mattino gli aveva detto di essere

convinta che non avesse mai ucciso nessuno. Evidentemente, la convinzione le derivava dal fatto che lui doveva averla rassicurata in proposito. Quindi, le aveva mentito.

Ma se corrispondeva alla verità il famoso proverbio che l’amore è cieco, pensò, neppure esserne a conoscenza sarebbe servito a influenzarla nella ferma determinazione a fuggire con lui. Rifletté che così sono fatte in maggioranza le donne quando si innamorano per davvero. Possono perdere ogni capacità di raziocinio fino a sconfinare nella follia. Neanche la peggiore delle notizie sul conto dell’uomo che amano o sul suo ato dai contorni inquietanti, riescono a farle rinsavire.

Leardo gli aveva impartito l’ordine categorico di seguirla e di bloccarla insieme al suo amante, nel momento in cui si sarebbero incontrati. L’uomo, una volta fermato, sarebbe stato consegnato alla polizia. Pietro non lo aveva mai visto. Disponeva di un identikit della polizia libanese, che Leardo gli aveva fornito. Ora, era ansioso di catturarlo – con la collaborazione di Tiziano nella sua veste di agente del Sisde –, per vedere che aspetto avesse. Voleva cercare di capire cos’era che di eccezionale sca aveva trovato in lui, da farle smarrire il ben dell’intelletto. Non poteva che trattarsi di sesso, pensò di nuovo. Ma sesso con la maiuscola. Sesso con performance tali da far perdere la testa e il senso della misura a una giovane donna come lei, dal carattere equilibrato e riservato, che lui conosceva bene.

Riandò col pensiero alla veemenza con cui, non più di un’ora prima, lo aveva supplicato di permetterle di fuggire con il suo amante, e di non seguirla. “Lo amo”, gli aveva detto. “E lui mi ama.” Dalla luce che le aveva visto brillare negli occhi, aveva avuto la certezza del suo convincimento e della sua determinazione. Si chiese quale argomento avrebbe potuto indurla a essere più cauta, facendole sorgere il sospetto che la parola ‘amore’ probabilmente non esisteva nel vocabolario di un uomo di quella risma, ed essergli pertanto del tutto priva di significato.

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Il Cardinale posò il testo del suo discorso sul leggio, e si accinse a pronunciarlo dopo aver regolato con cura il microfono dal lungo stelo flessibile. Per alcuni secondi fece vagare lo sguardo sereno per l’intera basilica, come per accertarsi di avere l’attenzione di tutti i fedeli di cui traboccava.

Il silenzio profondo era quasi palpabile: non un bisbiglio, non un fruscio, non un colpo di tosse. Si sarebbe sentita una mosca volare.

Il Biondo, seduto nella navata centrale, girò la testa per guardare Sergio, nello stesso istante in cui questi entrava inosservato nel confessionale e accostava la tendina lasciando uno spiraglio.

L’Arcivescovo cominciò a parlare lentamente, a braccio, e scan-dendo le parole. Sembrava voler ignorare il testo che teneva davanti a sé.

“Carissimi”, esordì in tono apionato allargando le braccia, “ancora una volta la Chiesa di Milano ricorda in modo solenne la consacrazione episcopale di sant’Ambrogio, che fu celebrata la domenica del 7 dicembre dell’anno 374. E’ una memoria liturgica che si ricollega, senza soluzione di continuità, al culto per il nostro Santo Patrono che immaginiamo essersi fissato a questa data all’indomani stesso della sua morte. Del resto, il 7 dicembre era una data importante già durante la vita del Vescovo, quando il popolo di Milano si radunava per festeggiare con lui, nel segno di un reciproco affetto, l’anniversario della sua ordinazione.

“Nell’opera Esposizione del Vangelo secondo Luca è compresa un’omelia pronunciata dal Santo la domenica del 7 dicembre dell’anno 385, quando ricorreva l’undicesimo anniversario della sua consacrazione. Il Vescovo prendeva spunto dal quarto comandamento del decalogo ‘Onora tuo padre e tua madre’, che era stato proclamato nella liturgia, e si rivolgeva ai fedeli in una clima di grande confidenza e con un sentimento di caldo affetto come farebbe un genitore, riconoscendoli tutti, uno per uno, come suoi figli…”

In uno stato di crescente tensione il Biondo faceva oscillare senza sosta lo sguardo, con la cadenza di un pendolo, tra l’Arcivescovo e quel confessionale al cui interno aveva visto il killer scomparire qualche minuto prima.

Avrebbe già dovuto fare fuoco, pensò. Che cosa stava aspettando? Le istruzioni che gli aveva impartito nella sua camera d’albergo il mattino del giorno prima, erano inequivocabili. Non doveva indugiare, ma agire non appena il Cardinale avesse cominciato a parlare. Sbirciò l’orologio: erano trascorsi cinque minuti dall’inizio del sermone, e non era successo niente. Non ascoltava quello che dice-va l’Arcivescovo, ma ora teneva gli occhi costantemente puntati sul confessionale, aspettandosi di vedere spuntare, da un momento all’altro, la canna della Luger dallo spiraglio nella tendina accostata. Perché non si dà una mossa? si chiese con la sensazione di un nodo stretto alle budella.

Qualcosa non andava?

Si guardò in giro per qualche secondo notando le quattro telecamere in azione in alcuni punti strategici. Erano montate su treppiedi, e in quel momento due sembravano inquadrare l’Arcivescovo, e due venivano fatte roteare lentamente per abbracciare l’intera basilica zeppa di folla.

“ ‘Ma voi siete per me anche come genitori’ ”, il Cardinale proseguì , “disse

Ambrogio ai suoi fedeli, ‘perché mi avete dato l’episcopato; voi, quindi, siete come figli e genitori al tempo stesso: uno per uno figli, tutti insieme genitori’.”

Ma che fa quel figlio di cagna? Non si sarà mica addormentato? il Biondo si domandò in preda a un nervosismo che diventava sempre più insopportabile. Che problema ha? Forse, rifletté, un improvviso malore lo aveva bloccato nella cabina. Oppure a farlo esitare era l’insorgere di un senso di comione per l’alto prelato, tale da fargli decidere di rinunciare a colpirlo. Rivide l’espressione dubbiosa che aveva assunto quando, il giorno prima, gli aveva rivelato l’identità della vittima. Pensò persino a un guasto alla sicura della Luger che gli impediva di disinserirla. Ma giudicò molto remota quest’ultima ipotesi, dal momento che aveva controllato la perfetta efficienza dell’arma prima di consegnargliela.

D’improvviso, un sospetto molto inquietante gli si insinuò nella mente, e avvertì l’urgenza insopprimibile di accertarne la fondatezza. Doveva vedere che cosa stava succedendo dentro quel confessionale. Si alzò in piedi e mosse alcuni i per raggiungere la navata laterale colma di fedeli intenti ad ascoltare il Cardinale. Facendosi largo a fatica la attraversò e, accostatosi alla cabina ne scostò la tendina. Vide ciò che aveva immaginato.

Era vuota.

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A bordo del taxi che percorreva viale Corsica immerso in un traffico caotico, sca guardò l’orologio per l’ennesima volta; poi disse al tassista: “Non può prendere una scorciatoia, per favore? Rischio di perdere l’aereo.”

“Non sarebbe mica l’unica, signorina”, le rispose brusco lanciandole un’occhiata attraverso il retrovisore. Sembrava il tipo disinteressato ai problemi dei suoi eggeri. Quando era salita sulla vettura, l’uomo non aveva mostrato alcun segno di averla riconosciuta. Pensò compiaciuta che la parrucca bionda e gli occhiali da sole scurissimi sembravano funzionare alla perfezione come camuffamento. “Non c’è una scorciatoia”, l’uomo aggiunse. “Oggi c’è traffico dappertutto. Lo sa che c’è la fiera degli Obej Obej, e che è la festa di sant’Ambrogio?”

“Certo che lo so.” E come non potrei si domandò pensando a Sergio che in quel momento si trovava di certo nella basilica.

Si sentiva preda di una grande agitazione, ma non tanto per il timore di perdere l’aereo. Erano da poco ate le dodici meno un quarto, e l’appuntamento con Sergio era fissato per le dodici e mezzo. Quindi, in teoria disponeva di un buon margine di tempo. Ma solo in teoria, perché con la coda di auto che a tratti avanzava quasi a o d’uomo o persino si paralizzava, il taxi non avrebbe raggiunto l’aeroporto prima di un’altra mezz’ora, nella migliore delle ipotesi, mentre lei aveva programmato di precedere Sergio di almeno un’ora. Preferiva dover essere lei ad attendere. Se, per qualche malaugurato imprevisto, fosse stata costretta a ritardare, temeva che lui, impensieritosi, non l’avrebbe aspettata a lungo e avrebbe preso un altro aereo per chissà quale altra destinazione. Ma subito dopo pensò che quel timore era ingiustificato: lui non sarebbe mai partito senza di lei, e l’avrebbe attesa immaginando un contrattempo quale causa del ritardo, e avendo la certezza che sarebbe arrivata. Meglio anticipare per stare

tranquilla, si era detta. Come se non bastasse, la angustiava il pensiero che se fosse accaduto loro qualcosa, non sarebbero stati in grado di comunicare perché lui non aveva un cellulare. Si rammarico per non avergliene procurato uno. Chissà, rifletté guardando di nuovo l’orologio, forse a quell’ora aveva già sbrigato la sua faccenda nella basilica, e proprio in quel momento si trovava anch’egli per strada diretto a Linate.

Il lungo colloquio con Pietro le aveva sottratto un bel po’ di tempo, ragion per cui aveva rinunciato a fare il giro di alcune banche per disporre il trasferimento di una parte del suo denaro a qualche istituto di credito messicano. Vi avrebbe provveduto per telefono una volta giunta a destinazione. Il suo portafoglio conteneva contante a sufficienza, e poi aveva la carta di credito utilizzabile anche all’estero. Se lo avesse ritenuto necessario, poteva disfarsi di alcuni preziosi.

Si accese una sigaretta aspirando a lungo la prima boccata. Fu percorsa da un brivido convulso al pensiero del terrificante episodio di quella mattina, le cui immagini le sarebbero rimaste scolpite nella memoria per tutta la vita. Se Pietro e il giovane agente del Sisde non fossero sopraggiunti in tempo, ora lei giacerebbe a terra priva di vita nel suo appartamento, davanti all’uscio mezzo frantumato. Invece, grazie a Dio, l’aveva scampata, e a essere ucciso era stato il sicario inviato da Kesler.

Pensando a Kesler un tenue sorriso le aleggiò sulle labbra. Finalmente era stato arrestato. Se non avesse deciso di fuggire con Sergio, ora non avrebbe più motivo di temerlo. A ricezione del suo memoriale, probabilmente Leardo avrebbe potuto disporre di validi elementi per farlo incriminare e processare. Almeno così lei sperava. Si soffermò un momento a considerare che doveva dare credito a suo zio per aver avuto ragione nell’affermare che non sarebbe stata al sicuro nel suo appartamento. Rifletté che adesso, con Kesler uscito di scena, l’unica fonte di pericolo per lei restava quell’organizzazione criminale di cui Leardo le aveva parlato, e a cui Kesler faceva capo. Ma non sapevano dove fosse, e in quel taxi era al sicuro. A preoccuparla era il pensiero che Sergio

potesse trovarsi ancora nella basilica, intento a gestire una situazione colma di rischi.

Pensò a Pietro che le aveva dato la chance di fuggire con lui promettendo solennemente di non seguirla, e provò un senso di gratitudine nei suoi confronti. Ma sfumò nel giro di alcuni secondi nel chiedersi se poteva veramente fidarsi di lui. Le era parso molto sincero, ma non poteva ignorare tutte le volte che in ato l’aveva ingannata, soprattutto quando vivevano insieme. Il giorno prima, accompagnatala a casa di ritorno da Villa Olga, le aveva fatto la posta, e quando era uscita l’aveva seguita con una Peugeot mentre si stava recando in taxi a trovare Sergio. Il pensiero le fece girare istintivamente la testa per lanciare un’occhiata alle sue spalle attraverso il lunotto cercando con gli occhi la Peugeot bianca. Non vedendola si sentì solo in parte tranquillizzata. Soltanto dopo che lei e l’uomo che amava avessero lasciato l’Italia quel pomeriggio, rifletté, avrebbero potuto dirsi definitivamente in salvo.

Non era detto, pensò, che Leardo – giudicando insufficiente per incastrare Kesler il contenuto del suo memoriale –, non avrebbe continuato a cercare Sergio per farlo arrestare e interrogare, mosso da nient’altro che il senso del dovere, o perché sollecitato dai suoi superiori.

Improvvisamente, superato l’ennesimo semaforo, il traffico si fece molto più fluido. sca vide che avevano appena imboccato viale Forlanini: un rettilineo a doppia corsia lungo un paio di chilometri, che conduceva diritto all’aeroporto. Consultò l’orologio: quasi le dodici e un quarto. Si rivolse di nuovo al tassista: “La prego, può andare più veloce adesso? La pago il doppio del tassametro.”

“D’accordo, ma ricordi che la macchina non ha le ali…” Si spostò sulla corsia di sinistra e premette sull’acceleratore portando il taxi a quasi il massimo della velocità. “Dov’è che la lascio?”

“Ai voli internazionali.”

69

Il Biondo restò senza fiato e immobile per alcuni secondi davanti al confessionale vuoto, indeciso su cosa fare. Poi lanciò un’occhiata intorno, e visto che nessuno faceva caso a lui, entrò deciso nella cabina sedendosi sulla panchetta.

Si mise a riflettere.

Era indubbio che l’uomo fosse sgusciato fuori profittando di un momento di sua distrazione. Ricordò che poco prima si era girato per alcuni secondi a guardare le telecamere in azione. Quel poco tempo, poteva essergli bastato per compiere il gesto senza che lui se ne accorgesse. Mescolatosi alla folla, aveva guadagnato l’uscita e si era dileguato. Sentì un’intensa rabbia per se stesso montargli dentro al pensiero che si era fatto mettere nel sacco con una sciocca sbadataggine. Rifletté che quella mossa il killer dovesse averla programmata con cura: sbirciando attraverso lo spiraglio nella tendina, non lo aveva perso di vista neppure per un secondo, e cogliendo l’attimo in cui si era voltato, era schizzato fuori. Era così riuscito a fuggire, perseguendo lo scopo di sottrarsi all’impegno che aveva assunto, senza con ciò dover rinunciare al suo compenso. Si mise a pensare febbrilmente alla ricerca di una soluzione che scongiurasse il naufragio di quel progetto della cui realizzazione si era impegnato solennemente con Reynaud. L’unica possibile era quella che, nel volgere di alcuni secondi, gli si fece strada nella mente.

“Desidero attirare la vostra attenzione”, sentì il Cardinale che diceva in quel momento, “su un rilevante aspetto della vita di Ambrogio cui egli sempre informò la sua azione pastorale. Mi riferisco al suo intenso amore per i poveri e i diseredati. Una volta eletto vescovo a furor di popolo, si spogliò del suo non indifferente patrimonio, costituito per lo più da oro e argento, per distribuirlo tra i poveri, esercitando poi sempre la carità verso tutti i bisognosi. Non serbò per sé

cosa alcuna che potesse dire sua. Così, come un soldato privo di impedimenti e pronto alla lotta per la difesa della Chiesa, si mise al seguito di Cristo Signore.” Fece una pausa vagando con lo sguardo sulla folla dei fedeli, che sembrava pendere dalla sue labbra. “E’ su questo suo fulgido esempio che io chiedo di soffermarsi e riflettere a quanti di voi vivono nel benessere e nella ricchezza, e li esorto a prodigarsi, con la beneficenza, nella lotta contra la povertà.”

Il Biondo pensò che, vista attraverso lo spiraglio, la figura dell’Arcivescovo apparisse un bersaglio alquanto facile. Da raffinato killer professionista quale anch’egli era, dotato di un’ottima mira, e con alle spalle numerosi incarichi sempre eseguiti con successo, valutò che l’angolazione di tiro era buona. E comunque molto migliore di quanto avesse immaginato. La colonna davanti al confessionale non ostruiva minimamente la visuale del target, contrariamente a quanto aveva erroneamente calcolato sulla base di quella pianta rudimentale da lui stesso elaborata, e con cui aveva istruito il suo uomo.

Rifletté che l’insuccesso del piano sarebbe equivalso a una sua irrevocabile caduta in disgrazia con Reynaud, con le disastrose conseguenze che non gli era difficile immaginare. Non ultima quella che non avrebbe intascato il compenso di centomila euro, peraltro già speso se pure mentalmente.

Ciò che stava contemplando da qualche minuto era l’idea che, se voleva cercare di evitare il totale fallimento del progetto, non aveva altra scelta che fare lui stesso il lavoro, sostituendosi al killer ingaggiato dall’organizzazione, e che sembrava essersi volatilizzato. Ma rifletté che l’uccisione del Cardinale, non sarebbe servita da sola a soddisfare Reynaud. L’impegno preciso che aveva assunto con lui, era di liquidare anche il sicario dopo che questi avesse assolto il suo compito. Pensò che una volta abbattuto l’Arcivescovo, doveva fare di tutto per riacciuffarlo. Era un’impresa difficile, ma non impossibile. Uscito dalla basilica si sarebbe precipitato all’Hotel Astra dove il fuggitivo, prima di tagliare definitivamente la corda, doveva per forza ritornare a prendere i suoi effetti personali,e, soprattutto, le dieci mazzette di denaro che di certo non aveva potuto portare con sé nella basilica.

Si alzò e studiò di nuovo il Cardinale dallo spiraglio. Lo sentì che, con tono suadente e pacato, continuava a trattare lo stesso tema: quello della povertà e della fame nel mondo. Sembrava prossimo alla conclusione del sermone, quindi doveva affrettarsi. Infilò una mano sotto il giubbotto di pelle ed estrasse dalla fondina ascellare la sua Beretta calibro 9, già munita di silenziatore. Alzatosi in piedi, indietreggiò più che poté fino a sfiorare con la schiena la parete di legno del confessionale. Sollevò il braccio sinistrò all’altezza del volto, e lo piegò ad angolo retto per fare sì che il polso fungesse da o alla mano destra che impugnava la pistola, conferendole in tal modo maggiore stabilità. Fissò un’ultima volta il suo bersaglio stringendo le palpebre, poi inclinò la testa di lato e prese la mira, i muscoli del volto contratti da una concentrazione spasmodica.

Premette il grilletto.

La pistola emise uno strano suono smorzato dal silenziatore, che fu quasi sovrastato dalla voce altisonante del Cardinale amplificata dai numerosi altoparlanti posizionati in alto sulle pareti della basilica. Il proiettile colpì di striscio il pilastro scalfendolo e mancando il bersaglio. Minuscole schegge di pietra schizzarono via nell’aria ricadendo sulle teste di un gruppo di fedeli. Si levarono un intenso brusio e alcune voci allarmate.

Come intuendo il grave pericolo cui l’Arcivescovo era esposto, uno dei cinque anziani prelati che stavano radunati alla sua destra, fece un balzo in avanti, e, con un’agilità inimmaginabile per un uomo parecchio in là con gli anni, si lanciò a braccia aperte verso di lui come volesse fargli scudo col proprio corpo. Ma compiendo quel gesto, si inserì nella traiettoria del secondo proiettile che il Biondo esplose in quello stesso istante, e che lo attinse alla schiena.

Monsignor Antonio Ricardi stramazzò ai piedi del Cardinale, e nella basilica scoppiò il finimondo.

70

Stando a ridosso di uno degli imponenti pilastri dell’atrio porticato, situato a pochi metri di distanza dall’ingresso della basilica, Sergio sentì provenire dal suo interno grida di orrore accompagnate da un gran frastuono.

Che cosa diavolo succede? si chiese.

Di lì a qualche minuto, il portone venne spalancato di colpo, e, con l’impeto di una mandria di cavalli imbizzarriti, che sfonda il recinto in cui è stata confinata, la folla urlante dei fedeli cominciò a uscire in massa in un fuggifuggi generalizzato. Era come se ognuno cercasse di mettersi in salvo da qualche incombente minaccia. Ma subito dopo a rallentare la corsa fu un compatto e impenetrabile ingorgo che – simile a un fiume in piena – si formò lungo l’atrio fino al cancello di ferro battuto che immetteva sulla piazza, in cui cominciò a riversarsi mescolandosi alla marea di gente di cui già era stracolma per via della fiera degli Obej Obej.

Sergio si portò dietro alla colonna per non farsi trascinare da quella sorta di corrente umana inarrestabile. Osservava stupito pensando che qualcosa di molto grave doveva essere accaduto all’interno della basilica. Ma cosa?

“C’è stato un attentato!” sentì alcuni urlare.

Afferrò per un braccio un giovanetto che gli ava accanto, costringendolo a fermarsi. “Che cosa è successo?” gli chiese.

“Oh, padre, una cosa terribile. C’è stato un attentato.”

“Un attentato?” Abbandonò il braccio. “E a chi?”

“Hanno sparato all’Arcivescovo.”

“E’ morto?”

“No, perché il proiettile ha colpito un altro prelato che, accortosi del pericolo, si è lanciato sul Cardinale cercando di proteggerlo col proprio corpo.”

“E’ morto?”

“Non ne è ho idea. L’ho solo visto crollare a terra, e poi sono fuggito assieme agli altri. Gli attentatori devono essere ancora dentro, e tutti scappano presi dal panico per il timore che possa trattarsi di terroristi, e che riprendano a sparare indiscriminatamente.”

Sergio comprese allora che il piano che aveva escogitato per uccidere il Biondo e vendicare Tanya – per quanto semplice e di facile attuazione gli fosse sembrato – non aveva funzionato. Si era sviluppato in modo diverso da come l’aveva programmato. Mentre osservava il giovane che si allontanava avanzando a fatica tra la folla, si interrogò sulle possibile cause del fallimento. Non dovette lambiccarsi il cervello per darsi una risposta.

“Ho l’ordine di non perderti di vista neppure per un attimo”, gli aveva detto il Biondo il giorno prima quando, nella sua camera d’albergo, gli aveva spiegato come doveva comportarsi nella basilica per eseguire il contratto. Era stato su quell’avvertimento che Sergio aveva impostato la sua strategia per fargli la pelle. Aveva seguito le sue istruzioni fino al momento in cui, entrato nel confessionale, avrebbe dovuto sparare al Cardinale non appena questi avesse iniziato a pronunciare l’omelia. Invece, aveva atteso alcuni minuti; dopodiché era sgattaiolato fuori dalla cabina raggiungendo l’uscita, certo che il suo sorvegliante, vedendolo, lo avrebbe inseguito furibondo per bloccarlo, e magari costringerlo a ritornare nel confessionale.

Era uno stratagemma con cui aveva inteso attirarlo all’aperto per tendergli un agguato stando appostato dietro uno dei pilastri. Aveva pensato che, poiché la basilica sarebbe stata colma di fedeli, era probabile che avrebbe trovato l’atrio pressoché deserto. Vedendolo comparire gli sarebbe andato incontro, e, estratta la Luger con un gesto fulmineo, gli avrebbe piazzato in fronte quell’unico proiettile che era destinato al Cardinale. Lo avrebbe lasciato stecchito sul pavimento. Dopo di che si sarebbe allontanato immergendosi nella folla della piazza, e, noleggiato un taxi per Linate, avrebbe raggiunto sca.

Ma trascorso un buon quarto d’ora senza che il Biondo si fe vivo, ne aveva dedotto che non dovesse averlo visto uscire dal confessionale, ma che tuttavia nel rendersi conto che niente accadeva lo avrebbe ispezionato prima o poi, accorgendosi che era vuoto. Era certo che allora avrebbe deciso di uscire dalla basilica per dargli la caccia. Non mi resta che aspettarlo, si era detto.

Ma non era andata in questo modo. Da quanto era successo, dedusse che aveva commesso un errore di valutazione rispetto al tipo di reazione del Biondo alla vista del confessionale vuoto. Il piano per uccidere l’Arcivescovo – della cui realizzazione doveva essersi impegnato solennemente con l’organizzazione di cui era membro – non poteva fallire. Il che lo aveva spinto a occuparsene personal-mente: era entrato nella cabina sparando al Cardinale con la propria

pistola, ma centrando per sbaglio un altro prelato che, per proteggerlo, si era evidentemente intromesso nella traiettoria di tiro.

Ma che cosa ne era di lui?

Verosimilmente, pensò, aveva abbandonato il confessionale ed era già uscito all’aperto. Mischiato alla folla in fuga non aveva potuto vederlo. Tentare di rintracciarlo, sarebbe stato come cercare il proverbiale ago nel pagliaio.

Fu allora che accadde.

Tre colpi di arma da fuoco in sequenza rapida echeggiarono all’interno della basilica facendolo sobbalzare. Seguirono alcune urla parossistiche.

“Hanno ripreso a sparare!” un uomo gridò andogli accanto correndo. “Fugga, padre!”

Sergio non si mosse, ma si guardò intorno. Il flusso di gente che si muoveva verso il cancello dell’atrio, si era ridotto al lumicino. Pensò che la basilica dovesse essersi ormai quasi del tutto svuotata. Il desiderio di darvi un’occhiata ebbe la meglio sul timore di essere smascherato e arrestato. Attese ancora cinque minuti finché la folla si fu del tutto dispersa. Poi si portò sulla soglia della basilica e fece scorrere lo sguardo per l’intera superficie.

Come aveva immaginato c’era pochissima gente. Radunati nei pressi dell’altare a discutere concitatamente, c’erano alcuni di quegli alti prelati che avevano

partecipato alla messa. Ma ciò che attirò la sua attenzione fu un capannello di cinque o sei uomini che sostava vicino a quel pilastro situato di fronte al confessionale in cui lui era entrato e uscito poco tempo prima. Tutti tenevano lo sguardo abbassato al pavimento osservando qualcosa che vi giaceva. Da quella distanza, Sergio non riuscì a distinguere di cosa si trattasse anche perché la vista era schermata dagli astanti. Improvvisamente fu colpito da un sospetto. Imboccò la navata di sinistra e la percorse rapidamente raggiungendo il gruppetto. Sgranò gli occhi e avvertì un senso di intensa nausea alla vista del corpo senza vita dell’uomo disteso supino a terra in una pozza di sangue. Gli occhi sbarrati dalla morte avevano una strana espressione di angoscia e stupore. Il foro di ingresso di un proiettile, simile a un grosso moscone, risaltava in mezzo alla fronte. Era il cadavere del Biondo.

“L’abbiamo pizzicato non appena è uscito dal confessionale, padre”, sentì qualcuno che diceva alle sue spalle. Si voltò a guardare l’uomo che gli aveva rivolto la parola e che gli sorrise. Era sulla quarantina, molto alto e di carnagione scura, capelli pettinati all’indietro. Indossava un abito grigio scuro e impugnava una grossa pistola con la mano destra abbandonata lungo il fianco.

Gli parve familiare e ricordò di averlo già visto quando era entrato nella basilica. Aveva notato lui e altri quattro o cinque strani personaggi che si comportavano e si muovevano come fossero poliziotti in borghese. Si rese allora conto che quella era una squadra di agenti di pubblica sicurezza che aveva svolto il compito della sorveglianza durante la messa.

“Può dirmi di preciso che cos’è successo, agente?” Sergio gli chiese.

“Sono il commissario Landi”, l’altro precisò sorridendo di nuovo. Poi gli rivolse uno sguardo incuriosito. “Ma dov’era, padre, se non ha visto niente?”

“Sono appena rientrato dall’aver celebrato messa in un’altra parrocchia.”

“Capisco.” Indicò con una mossa del capo il cadavere sul pavimento. “Credo si tratti di un sicario incaricato di uccidere il Cardinale. Ha sparato due colpi di pistola dall’interno di quel confessionale.” Glielo indicò con un cenno della mano. “Il primo proiettile ha scalfito il pilastro mancando il bersaglio. Il secondo sarebbe andato a segno se non fosse stato per monsignor Ricardi, il segretario personale del Cardinale che, con un incredibile spirito di abnegazione, si è lanciato su di lui nell’intento di proteggerlo col proprio corpo. Purtroppo, con quella mossa si è beccato una pallottola nella schiena.” Fece una pausa riponendo la pistola nella fondina ascellare sotto la giacca. “Quando il killer ha esploso il primo proiettile, per fortuna ero nelle vicinanze e ho subito sospettato – dalla presunta traiettoria del proiettile – che si trovasse in quel confessionale, ma è stato al secondo colpo che ne ho avuto la certezza. Ho visto il lampo dello sparo attraverso lo spiraglio nella tendina. In men che non si dica abbiamo fatto sgomberare l’area circostante.” Rimase in silenzio per alcuni secondi. “Ci siamo quindi appostati al riparo di questi due pilastri…”, glieli indicò con la mano, “… sporgendoci appena con le pistole puntate contro il confessionale. Per ben quattro volte ho intimato al killer di uscirne con le mani alzate dopo aver gettato l’arma sul pavimento. Non abbiamo ottenuto risposta. Poi, dopo qualche minuto, è balzato fuori all’improvviso con la pistola spianata, come fosse intenzionato a mettersi a sparare all’impazzata per cercare di raggiungere l’uscita. Non ho avuto altra scelta che fare fuoco per tre volte. L’ho fatto secco centrandolo alla fronte.”

“L’avete identificato?”

“Macché…” Fece un’alzata di spalle. “Non ha addosso documenti, e niente che possa illuminarci su chi sia e da dove venga.” Si fermò per un attimo. “Non ha l’aria di un terrorista, se vuole il mio parere. Ci saranno delle indagini per cercare di scoprire chi è, naturalmente.”

Sergio annuì, l’espressione meditativa. Disse: “Deve essersi reso conto che era in trappola e che non aveva scampo.”

“Non c’è dubbio. Avrebbe potuto arrendersi, e invece è uscito allo scoperto con la pistola in pugno sapendo che avremmo potuto abbatterlo.” Scosse il capo perplesso. “E’ stato un tentativo disperato di darsela a gambe.”

“Che si è rivelato una sorta di suicidio...”

“Suppongo che potremmo definirlo così, padre.”

In quel momento, venne dall’esterno l’ululato intermittente di un’ambulanza in arrivo, che andò affievolendosi sino a cessare del tutto.

“Mi dica del segretario del Cardinale”, Sergio chiese al commissario.

“Lo hanno trasportato in sagrestia qualche minuto fa.”

“Crede che se la caverà?”

“Ne dubito. Il proiettile lo ha attinto alla schiena poco sotto la scapola sinistra, in corrispondenza, cioè, del polmone e del cuore.” Si interruppe fissandolo. “Può andare a dargli un occhiata, se lo desidera”, aggiunse indicando con la mano una porta in fondo alla navata, davanti alla quale stavano alcuni sacerdoti assorti in sommessa conversazione.

Dopo qualche secondo di riflessione, Sergio cedette alla forte tentazione – dettata più dalla curiosità che altro – di vedere il volto dell’uomo che, al prezzo della propria vita, aveva salvato quella del Cardinale. Si accostò alla porta socchiusa della sagrestia, ed esitò alcuni secondi prima di spingere un battente e farvi il suo ingresso.

La grande stanza quadrata era piena dei prelati che avevano partecipato alla messa pontificale, ma il silenzio che vi regnava era profondo, se si eccettuava l’ansimare rantolante del moribondo. Sergio si accorse che nessuno faceva caso a lui. Il che lo incoraggiò a muovere alcuni i che gli consentirono una completa vista di quella che si presentava come una scena comionevole. Il monsignore era stato adagiato sopra un divano di velluto verde addossato a una parete. Teneva gli occhi chiusi ed era chiaramente privo di conoscenza. Un rivoletto di sangue gli fuoriusciva da un angolo della bocca. Gli sguardi di tutti i presenti erano posati su di lui. Molti tenevano le mani giunte in preghiera. Il Cardinale si era tolta la mitra, e stava inginocchiato al suo fianco tenendogli una mano stretta tra le sue, l’abito talare bianco vistosamente imbrattato del sangue dell’anziano sacerdote.

Sopraggiunse un medico che, estratto in fretta uno stetoscopio dalla sua valigetta professionale, si chinò per auscultarlo ed esaminare la ferità. Quando si raddrizzò, l’Arcivescovo sollevò su di lui uno sguardo interrogativo pieno di speranza, al quale l’altro rispose scuotendo il capo. “E’ spacciato, eccellenza”, sussurrò poi. “La ferita è mortale, ed è un vero miracolo che il cuore non abbia ancora cessato di battere.”

“Dobbiamo amministragli subito l’estrema unzione”, qualcuno mormorò. “Non c’è un minuto da perdere…”

Restando inginocchiato ad attendere che l’ultimo barlume di vita si spegnesse

nel corpo del suo segretario, il Cardinale disse: “Me ne occupo io.”

In quella sorta di limbo che è l’agonia che precede la morte, monsignor Antonio Ricardi ricevette l’estremo sacramento di quella Chiesa che con tanta dedizione aveva sempre servito, per mano dell’uomo cui era sempre stato fedele, e che aveva amato a tal punto da non esitare a sacrificare per lui la propria vita.

Non riprese conoscenza, ma nel momento dell’unzione un lieve sorriso gli aleggiò sulle labbra, restandovi dopo che ebbe esalato l’ultimo respiro. Se n’era andato in punta di piedi, senza neppure un gemito, con quella grande discrezione che lo aveva sempre contraddistinto.

Il Cardinale gli impartì la benedizione, e subito dopo, reclinato il capo sul petto ebbe un singulto, e si mise a piangere silenziosamente.

Sergio guardò l’orologio e trasalì. Erano appena ate le dodici ed era in ritardo per l’appuntamento con sca. Era certo che lei lo avrebbe atteso, ma doveva affrettarsi. Uscì dalla sagrestia e si diresse verso l’uscita della basilica ando davanti al cadavere del Biondo, che due uomini in camice verde stavano sollevando per caricarlo su una lettiga dopo averlo ricoperto con un lenzuolo. L’avrebbero trasportato all’obitorio, pensò. Il commissario Landi era ancora lì con i suoi, e quando lo vide gli sorrise e lo salutò con un cenno della mano.

Sergio rifletté che uccidendo il Biondo, la polizia aveva di fatto agito da strumento inconsapevole della sua vendetta. Anche se non aveva potuto prendersela di persona perché il suo piano era naufragato, pur tuttavia si sentì appagato.

71

sca indugiò un istante davanti alla porta scorrevole di vetro per inforcare gli occhiali da sole, ed ebbe così modo di sbirciarvi la sua immagine riflessa prima che i due battenti si aprissero automaticamente per farla are. Ciò che vide non le piacque. Dopo il viaggio in taxi, il volto le sembrò tirato e stanco, la parrucca scomposta. Pensò che appena possibile doveva darsi una piccola ritoccata, possibilmente prima di incontrare Sergio. Reggendo nella mano destra il grosso borsone e nella sinistra la borsetta in coccodrillo, fece il suo ingresso nell’affollata hall delle partenze internazionali del terminal di Linate.

Guardò un orologio digitale fissato a una parete: segnava le tredici meno un quarto. Era ata da quindici minuti l’ora dell’appuntamento con Sergio. Pensò che probabilmente non era ancora arrivato. Lasciò vagare lo sguardo tutt’intorno per alcuni secondi, ma non lo vide. Quindi, si affrettò in direzione della biglietteria.

Mentre camminava, la sua mente balzò indietro a quel venti agosto di tre settimane prima quando lei e Sergio, giunti da Beirut, avevano aspettato nella sala gremita degli arrivi che qualcuno venisse a prelevarlo. Quando nessuno si era visto, erano usciti all’aperto e avevano atteso invano più di un’ora sul marciapiede. Lui l’aveva allora presa per un braccio e glielo aveva stretto per impedirle di fuggire, cosa che in effetti lei era stata tentata di fare. L’aveva poi costretta a salire su un taxi ed erano andati al suo appartamento in via Vincenzo Monti dove lui era stato suo ospite per oltre due settimane, e dove erano diventati amanti.

Quindi, erano trascorse soltanto tre settimane dal giorno del loro incontro, rifletté, ma le sembrava che la sua vera vita – quella, cioè, che pensava valesse la pena di vivere e che credeva ormai persa da quando Pietro l’aveva lasciata – l’avesse ritrovata durante quel breve periodo insieme a Sergio. Un destino

benevolo aveva fatto sì che le loro strade si incrociassero. Lei non era credente, non si era mai soffermata a riflettere sul senso dell’esistenza umana. Sapeva che molti non lo facevano, presi com’erano dall’interesse spasmodico di viverla il più intensamente possibile. Ora, mentre avanzava tra la folla, pensava di essere un po’ cambiata da quando aveva conosciuto Sergio e se n’era innamorata. Avvertiva la strana, inspiegabile sensazione che il loro incontro non fosse stato frutto del caso, ma che dovesse avere un che di predestinato.

La tormentava il pensiero di essere in ritardo per l’appuntamento, se pure di soltanto un quarto d’ora. E se lui era arrivato e se n’era già andato? si chiese ansiosa. E se, non vedendola, aveva preso un altro aereo pensando che lei avesse cambiato idea? Così lo avrebbe perso di nuovo, dopo i recenti ostacoli che aveva dovuto superare per ritrovarlo. Quasi le veniva da piangere.

Si accorse che nello sfiorarla alcuni si giravano a guardarla. Era probabile che la riconoscessero a dispetto della parrucca bionda e degli occhiali scurissimi, oppure erano soltanto attratti dalla sua bellezza ed eleganza. Balzava all’occhio lo splendido visone black glama che indossava.

ò davanti a una grande libreria-edicola zeppa di gente intenta a sfogliare o acquistare giornali e riviste. Fu tentata di entrarvi per comperare una delle sue riviste femminili preferite da leggere durante il volo, ma non lo fece. Il timore di essere riconosciuta e fermata, magari soltanto per un semplice autografo, era costantemente vivo nella sua mente. A tratti si guardava intorno nella speranza di scorgere Sergio in mezzo alla moltitudine di eggeri. Lo avrebbe riconosciuto tra mille, ma non lo vide. Se ritardava, c’era il rischio di perdere l’aereo, pensò. Ma la cosa non la preoccupava più di tanto. Non era un grosso problema. Avrebbe spostato la prenotazione su qualche altro volo in partenza nel tardo pomeriggio, magari con un’altra compagnia.

Si fermò davanti a un monitor che riportava le prossime partenze in ordine cronologico. Cercò il suo volo: AZ 480 per Città del Messico delle ore

quattordici. Si sentì rinfrancata nel constatare che sarebbe decollato con mezz’ora di ritardo. Dopotutto, pensò, sarebbero riusciti a prenderlo. Guardò di nuovo l’ora: l’una, e di Sergio ancora neppure l’ombra. Era preoccupata, confusa e frastornata. Ma perché, si chiese, si ostinava a dare per scontato che non fosse ancora arrivato? Era tanto ansiosa di vederlo al punto di aver dimenticato che si erano accordati di ritrovarsi davanti alla biglietteria. Magari era già lì ad attenderla. La individuò dall’altra parte della sala e vi si diresse. Ma lui non c’era. Avvertì un groppo alla gola, e riuscì con sforzo a ricacciare indietro le lacrime di delusione. Si fermò a breve distanza dal banco. Una giovane coppia con due bambini stava ritirando i biglietti. Lei lo avrebbe fatto non appena Sergio si fosse fatto vivo; poi insieme avrebbero raggiunto il banco dell’Alitalia per fare il checkin. Ma quanto tempo ancora doveva attendere prima di perdere la speranza che sarebbe venuto? Mezz’ora? Un’ora? Due ore?

Il traffico! pensò a un tratto. Ma certo! Il taxi era bloccato dal traffico! Ecco perché non era ancora arrivato. Come mai non ci aveva pensato prima? Lei, venendo, aveva avuto lo stesso problema. Per giunta poteva essere stato costretto, per qualche ragione, ad attardarsi nella basilica. Di nuovo fu sommersa da un’ondata di pessimismo. E se gli era successo qualcosa di grave? Tipo che lo avevano preso? No, non era possibile. Le aveva assicurato che il suo piano era scevro da rischi e che non poteva fallire. Doveva smetterla, quindi, di essere sciocca al punto di immaginare il peggio, e troppo prematuramente. Dopotutto un ritardo di poco più di mezz’ora non era un dramma. Forse, rifletté, uscito dalla basilica era ato dall’albergo a prendere i suoi effetti personali.

Concluse che doveva costringersi a mantenere la calma. Sergio sarebbe arrivato da un momento all’altro. Per mitigare il nervosismo, pensò di fare quello che ogni donna fa di solito mentre attende il suo innamorato: ritoccarsi il viso. Depose il borsone a terra, estrasse dalla borsetta il grosso portacipria di argento cesellato e lo aprì. Si esaminò il volto nello specchietto che vi era incastonato. Vide il pallore, le occhiaie scure e profonde, le labbra secche e sbiadite, la parrucca scarmigliata. Tutti segni rivelatori della tensione accumulata durante la notte quasi insonne, e del terrificante evento dell’attentato di primo mattino a cui era sfuggita per un soffio. Si spalmò il rossetto sulle labbra e poi le strinse per fissarvi uniformemente il colore. Riuscì a nascondere in parte le occhiaie

incipriandole con il piumino. Si rassettò la parrucca con le punte delle dita. Poi allontanò dal viso lo specchietto per una visione di insieme.

Quel movimento ampliò l’immagine riflessa dell’area alle sue spalle fino a inquadrare, distante una quindicina di metri, la grande libreria-edicola davanti alla quale era ata poco prima. Vi si soffermò incuriosita dalla vista di due uomini che stavano fermi davanti all’ingresso e sembravano osservarla. Avevano un aspetto familiare. Strizzò gli occhi per metterli a fuoco, e nel riconoscerli ebbe un tuffo al cuore.

Pietro Mattei e il giovane agente del Sisde!

Non aveva dubbi che si trattasse di loro.

Si sentì pervadere da una furia cieca come mai le era successo prima in vita sua. Sicché per l’ennesima volta, Pietro l’aveva ingannata, pensò. Le aveva dato la sua parola d’onore che non l’avrebbe seguita, permettendole di fuggire con il suo uomo. E lei si era ingenuamente fidata pensando che fosse cambiato. Lo aveva persino abbracciato e baciato riconoscente, prima di lasciarlo. Ora era certa che non avesse mai inteso perderla di vista, che non avrebbe mai rinunciato al suo proposito di usarla come guida inconsapevole alla cattura di Sergio.

L’impulso di girarsi, lanciarsi contro di lui per aggredirlo schiaffeggiandolo e piantandogli le unghia nella faccia, si trasformò di colpo in una paura raggelante al pensiero del pericolo che Sergio correva. La indusse a non muoversi. I due restarono riflessi nello specchietto per tutto il tempo in cui lei tenne aperto il portacipria. Quando lo chiuse e lo rimise nella borsetta si voltò per una frazione di secondo, ma vide che erano spariti. Non si fece illusioni che se ne fossero andati. Di certo la stavano spiando nascosti da qualche parte, in attesa che incontrasse Sergio. Allora gli sarebbero piombati addosso come falchi,

immobilizzandolo.

Ora desiderava ardentemente che non arrivasse. Se compariva in quel momento sarebbe finito dritto nella trappola che Pietro gli aveva teso. L’unico modo per sventarla era fare in modo di non incontrarlo, ma senza abbandonarlo a se stesso. Si guardò di nuovo attorno felice di non vederlo.

Si sforzò di riflettere con chiarezza, e, nel giro di alcuni secondi un’idea su cosa fare si materializzò nella sua mente. Poteva funzionare se agiva in gran fretta. Si avvicinò al banco della biglietteria dietro cui sedeva una graziosa brunetta dal viso ovale, occhi verdi e capelli lisci a caschetto, naso e labbra sottili. Era intenta a digitare sulla tastiera di un computer, gli occhi puntati sullo schermo. Con un gesto deciso, sca si tolse gli occhiali da sole e la fissò. L’altra distolse lo sguardo dal monitor e lo sollevò su di lei restando a bocca aperta, negli occhi una scintilla di riconoscimento. “Ma lei è…”

“Sì, sono io, e ho molta fretta.”

“Felice di servirla e… di fare la sua conoscenza signorina Martinoni.” Sorrise impacciata.

sca ignorò il commento, ma disse: “Devo ritirare due biglietti per Città del Messico, che ho prenotato ieri mattina.”

La giovane impiegata aprì un cassetto e ne tirò fuori una custodia di cartoncino lucido, da cui estrasse i due biglietti. Glieli consegnò, dicendo: “Quando ho letto il suo nome, ho pensato a un caso di omonimia.”

Di nuovo sca non disse nulla, ma esaminatoli brevemente, infilò il suo nella borsetta.

“Posso chiederle una cortesia?”

“Ma certo, mi dica pure.”

“Per un impegno improvviso sono costretta a rinviare il viaggio e ritornare subito a Milano. Ma il mio amico deve recarsi in Messico, e purtroppo non è ancora arrivato. Non sono in grado di avvisarlo perché non ha un cellulare. Mi chiedo se posso pregarla di consegnargli un mio messaggio scritto, non appena si farà vivo.”

“Ma certo, signorina Martinoni.”

“Non avrebbe da darmi una busta e un foglietto di carta?”

Con fare servizievole, l’impiegata prese quanto chiestole da un cassetto alla sua sinistra, e glielo porse. sca estrasse dalla borsetta la sua Montblanc d’oro e scrisse frettolosamente:

Amore mio,

un contrattempo improvviso mi impedisce di partire insieme a te. Ma non preoccuparti, va’ pure avanti da solo. Ti raggiungerò tra qualche giorno e ti spiegherò ogni cosa. Nella busta troverai il tuo biglietto aereo. Una volta a Cancun, prendi un autobus per una località chiamata Playa del Carmen sulla Riviera Maya. Cerca l’albergo Vivo Atzeca, e chiedi di un certo Pedro Lopez, l’addetto alla manutenzione. Era un vecchio e fedele amico di mia madre. La aiutò nei lavori di ristrutturazione della villa quando l’acquistò. Ne custodisce una chiave per ogni evenienza. Sarà lieto di condurtici e di mettersi a tua disposizione. Stasera gli telefonerò per avvisarlo del tuo arrivo. Aspettami, e sta’ tranquillo che non tarderò. Ti amo. sca.

Piegò il foglietto in due e lo inserì, assieme al biglietto aereo, nella busta su cui scrisse il nome di Sergio. Quindi la sigillò dopo aver umettato la linguetta con la punta della lingua.

“Ecco…”, disse porgendola alla ragazza. “Quando arriverà, non vedendomi, si rivolgerà di certo a lei. Non deve far altro che consegnargliela.”

“Lo consideri già fatto”, signorina Martinoni.

sca la ringraziò con una cordiale stretta di mano.

Prima di allontanarsi dalla biglietteria, lanciò un’ultima occhiata in giro.

E fu allora che lo vide.

L’emozione le diede un lieve capogiro, che la fece vacillare. Sergio avanzava indossando un soprabito nero, dal fondo del lunghissimo corridoio che lei aveva percorso poco prima appena varcato l’ingresso dell’aerostazione. Si era tolto il collare da sacerdote e reggeva nella mano destra una valigetta di cuoio marrone, che sca pensò dovesse contenere i suoi effetti personali. Ma così non era. Era invece zeppa del mezzo milione di euro, in mazzette da cinquecento, che il Biondo gli aveva consegnato il giorno precedente quale saldo del compenso a fronte del contratto omicida che non aveva eseguito. Uscito dalla basilica, dopo aver assistito alla morte di monsignor Ricardi, si era immerso nella folla di cui la piazza era strapiena, e si era diretto a fatica verso piazza Cordusio dove avrebbe noleggiato un taxi per Linate. Ma d’un tratto era stato colto da un pensiero inquietante. E se per qualche ragione lo avessero perquisito ai controlli di polizia in aeroporto? Gli avrebbero chiesto spiegazioni su tutto quel denaro che portava appiccicato addosso, e lui non sarebbe stato in grado di darne. C’era il pericolo di essere fermato per accertamenti con le intuibili gravi conseguenze. Poteva finire in un bel pasticcio.

L’idea di come risolvere il problema gli era venuta nel notare un negozio di valigerie in via Meravigli, e vi si era fermato per acquistare la valigetta munita di serrature con combinazione. All’interno di un cubicolo del bagno pubblico del metrò di Cordusio si era staccato di dosso le mazzette in fretta e furia, riponendole nella valigetta che aveva poi chiuso inserendo la combinazione. Prima di uscire aveva abbandonato nella toletta il collare da sacer-dote insieme alla Luger. Quindi aveva preso il taxi. Avrebbe consegnato il bagaglio al banco di accettazione, facendo così in modo che il denaro viaggiasse al sicuro nella stiva dell’aereo.

sca vide che Sergio era ancora molto distante, e pertanto non poteva ancora averla vista. Camminava in mezzo a un folto gruppo di eggeri con bambini e bagagli. Più tardi si sarebbe chiesta che cosa le aveva dato, in quel momento, la forza di resistere all’impulso di correre verso di lui, dimenticando che Pietro e l’agente del Sisde erano di certo appostati lì intorno, e la stavano tenendo d’occhio. Aveva evitato il disastro.

72

Fingendo di curiosare all’interno della libreria-edicola, Pietro e Tiziano videro sca attraverso l’ampia vetrina allontanarsi dal banco della biglietteria. Dato che mentre ritirava i biglietti dava loro le spalle, non avevano avuto modo di osservarne le mosse, compreso il gesto di scrivere il messaggio per Sergio.

“Ha appena acquistato i biglietti”, Pietro disse.

“Già…, ma mi sembra strano che ci abbia messo tutto quel tempo”, l’altro osservò. “Non le pare, avvocato?”

“Non direi. E’ il tempo che ci vuole per pagare con la carta di credito.” Fece una pausa. “Ora stiamo a vedere cosa fa, e, soprattutto, dove va.”

“Non potrà fare a meno di incontrarlo.”

“Ne sono convinto. Starà aspettando che lui si faccia vivo.”

“A meno che non abbiano deciso di usare la massima prudenza non facendosi vedere insieme. Magari viaggeranno ognuno per conto proprio”, Tiziano osservò.

“E’ possibile, ma non dimenticare che lei ha i biglietti e deve comunque

avvicinarlo per consegnargli il suo.”

“Probabilmente lo farà all’ultimo momento mentre fanno il checkin.”

Pietro annuì. “Spero proprio che non si sia accorta di noi.”

“Lo spero anch’io, altrimenti sarebbe un bel guaio. Se ci ha visti avrà di certo subodorato la trappola, e farà in modo di non incontrarlo.”

“Potrebbero persino rinviare la fuga.”

“M’è parso che dopo aver riposto il portacipria nella borsetta, si sia voltata un attimo a guardare dalla nostra parte.”

“E’ vero, ma non credo che possa averci visti dato che eravamo già entrati nella libreria.”

Rimasero in silenzio a osservala perplessi mentre si dirigeva a i svelti e decisi verso un grande bar situato sul lato opposto del vasto salone.

Tiziano disse: “Sta per entrare in quel bar di fronte.”

“Sì, l’ho vista.”

“Ma i banchi di accettazione sono molto distanti da qui.”

Pietro ci pensò su per qualche secondo lisciandosi il mento ispido. “Sì, lo so, ma mi sa che quel bar deve essere il posto dove si sono dati appuntamento. Attendiamo cinque minuti, e poi andiamo a darci un’occhiata, ma facendo attenzione che non si accorga di noi.”

73

Appena entrata nel bar, sca rivolse lo sguardo alla biglietteria attraverso la porta di vetro. Provò un senso di esultanza nel vedere Sergio che discorreva tranquillamente con la graziosa impiegata. Si avvicinò al banco e vi si appoggiò con un gomito dopo aver posato il borsone a terra. Diede un’occhiata nervosa al Cartier: si era fatta l’una e mezza. Il decollo del volo Alitalia per Città del Messico era previsto per le due e mezza. Tra poco sarebbe stato annunciato, e avrebbe cominciato a imbarcare i eggeri. Tra circa un’ora Sergio sarebbe stato in volo, e al sicuro.

Il bar era molto ampio, e affollato da eggeri che consumavano in attesa dell’annuncio dei loro voli. I pochi tavolini erano occupati, elevato il brusio delle conversazioni. sca era sicura che i due segugi l’avessero vista entrare nel locale e erano ora in attesa che ne uscisse, magari in compagnia di Sergio. Ma non escludeva che l’avessero seguita all’interno e la stessero osservando seduti a un tavolino appartato – magari nascosto alla sua vista – ansiosi di poterla cogliere di sorpresa insieme al suo amante non appena questi si fosse fatto vivo. Se così era, pensò, non doveva mai girarsi neppure per un attimo, sì da non farli sospettare che si era accorta della loro presenza. Un simile gesto poteva vanificare quella che era, in sostanza, una sua azione di depistaggio mirata a fargli credere che fosse lì per incontrare Sergio, scongiurando la minaccia che decidessero di cercarlo ai banchi di accettazione, dove di certo si trovava in quel momento, o, più tardi, ai varchi d’imbarco. Aveva deciso che sarebbe restata in quel bar fino a quando avesse avuto la certezza che era partito.

“La signora cosa prende?” Il barista la apostrofò guardandola con aria disinteressata, dalla quale sca dedusse con sollievo che non l’aveva riconosciuta.

“Un cappuccino e una brioscia, grazie.” L’altro si voltò e prese a trafficare con la

macchina del caffè. C’erano due uomini in piedi accanto a lei, intenti a sorbire quelle che sembravano bevande alcoliche. Scoccò loro una occhiata sfuggente. Uno era giovane, sulla trentina stimò, statura media, spalle molto larghe, bruno di carnagione e capelli castani. Indossava un elegante soprabito scuro di buona fattura. Parlava al cellulare, un’espressione di grande interesse per ciò che stava ascoltando dipinta sul viso. L’altro era molto più anziano. Doveva aver superato da un pezzo la cinquantina. Portava un giaccone da aviatore di pelle marrone sopra un maglione nero, e un capello a tesa larga ben calcato sul capo. Era corpulento al punto da sfiorare l’obesità.

sca prese a sorseggiare il cappuccino che il barista le aveva appena servito insieme a una brioscia posata su un piattino. A-guzzava l’udito ogni volta che dall’esterno giungevano gli annunci dei voli in partenza.

Ad un tratto, il giovane chiuse il cellulare e si rivolse all’anziano dicendogli qualcosa che sca non poté fare a meno di ascoltare, e che la fece sussultare. Sentì le ginocchia indebolirsi e cominciò a tremare.

“Hai sentito? c’è stata una sparatoria nella basilica di Sant’Ambrogio?”

“Cosa?” L’altro lo guardò sbalordito.

“Una cosa terribile. Un attentato al Cardinale Losito proprio nella festa del Santo Patrono...” Scosse la testa. “Non ne è ancora nota la matrice.”

sca si voltò a guardarli entrambi con fare interrogativo, l’espressione accigliata. “Mi scusino… Cos’ha detto che è successo nella basilica?” chiese al più giovane. Non credeva alle proprie orecchie, oppure temeva di aver frainteso.

I due si voltarono scrutandola da capo a piedi come per soppesarla, ma senza mostrare il benché minimo segno di riconoscimento. Il giovane agitò il cellulare, dicendo: “Me l’ha appena riferito mio fratello, ma la notizia è di una mezz’ora fa. Sembra che abbiano sparato all’Arcivescovo dall’interno di un confessionale, mentre celebrava la messa per la festa del Santo Patrono.”

“Oh, mio Dio!” lei esclamò toccandosi le guance con i palmi delle mani in un gesto di sconcerto.

Cosicché anche Sergio l’aveva ingannata, pensò con amarezza. Vendicare Tanya altro non era stato che il suo pretesto per recarsi nella basilica a eseguire l’incarico per il quale era stato pagato. Le aveva promesso solennemente che, malgrado l’impegno che aveva assunto con l’organizzazione criminale che lo aveva reclutato, non avrebbe ucciso il Cardinale. Che vendicare la ragazza araba era il suo unico obbiettivo. Perché, si domandò, era suo destino dover subire le menzogne e gli inganni degli uomini che incontrava sulla sua strada, e dei quali finiva per innamorarsi?

“E’ morto?”

“Se serve a confortarla, è salvo per miracolo. Non si conosce ancora con precisione la dinamica dell’attentato, ma sta di fatto che a lasciarci le penne è stato il suo segretario personale, monsignor Ricardi. Si è beccato una pallottola mentre tentava di proteggerlo facendogli scudo col proprio corpo.”

“E l’attentatore? Immagino che sia fuggito…”

“Ha cercato di squagliarsi, ma non ce l’ha fatta. Agenti di polizia in borghese lo

hanno freddato non appena è uscito dal confessionale.” sca si sentì sommergere da un’ondata di enorme sollievo nel rendersi conto che Sergio non aveva avuto niente a che fare con quell’omicidio, e che, dopotutto, non l’aveva ingannata. Per qualche misteriosa ragione, a sparare doveva essere stato l’uomo che lo sorvegliava e di cui le aveva parlato. Naturalmente, non era in grado di formulare, lì per lì, congetture su una possibile spiegazione per l’accaduto; sarebbe stato Sergio tra qualche giorno a fornirgliela, descrivendole l’episodio nei particolari.

Terminò di bere il cappuccino e fece un cenno al cameriere per indicargli che desiderava fare un’altra ordinazione.

“Credo che la signorina abbia bisogno di qualcosa di forte… Un brandy, direi”, una voce familiare disse alle sue spalle. “Anzi, glielo faccia doppio.”

sca non obbiettò, ma si voltò di scatto, e spalancò gli occhi fingendo grande sorpresa alla vista di Pietro, e del giovane agente del Sisde che sostava poco discosto dietro di lui.

“Pietro!” esclamò. “Che cosa ci fai qui?”

“Potrei rivolgerti la stessa domanda, no?”

Lei sorrise con ironia. “Bevo qualcosa.”

In quel preciso momento giunse dall’esterno l’annuncio del volo, che sca

attendeva: “Alitalia, partenza del volo AZ 480 per Città del Messico, imbarco immediato all’uscita dieci”. Riuscì a reprimere un moto di gioia. Guardò Pietro dritto negli occhi con un’espressione a metà strada tra sfida e disprezzo. Disse: “Che cosa diavolo vuoi da me, Pietro?”

Per tutta risposta, lui girò la testa per guardare Tiziano. Come fosse un segnale convenuto, questi si avvicinò al giovane avventore che stava in piedi accanto a sca e gli disse: “Devo chiederle di farsi identificare, signore.” Gli mostrò il tesserino del Sisde.

“Perché?” L’uomo apparve turbato e sorpreso insieme.

Tiziano non gli rispose, ma disse in tono perentorio: “Favorisca i documenti.” L’uomo avvampò di botto e il volto assunse un’espressione truce. “Mi chiamo Alberto Barbati”, disse con uno tono pieno di risentimento. “Sono di Varese e mi sto recando negli Stati Uniti per affari.” Si infilò una mano nella tasca interna del paltò. “Ecco il mio aporto e il biglietto aereo. “Ma cosa cavolo sta succedendo? Cos’è questa storia?”

“Un doppio brandy per lei, signorina”, disse il barista posando un bicchiere sul banco davanti a sca, che lo ignorò.

Ora si spiegò il motivo di quello strano comportamento di Pietro e dell’agente del Side: avevano scambiato per Sergio il giovane avventore. E non poteva dargli tutti i torti. In effetti, a guardarlo bene, c’era qualcosa in lui, soprattutto nel fisico, che ricordava il suo amante: corporatura simile, con spalle molto larghe e identica statura. Anche le fattezze del viso richiamavano quelle di Sergio, se pure molto vagamente. Pure in lei aveva suscitato una lieve sensazione di familiarità, ma nervosa com’era, non era riuscita a metterla a fuoco. Sapeva che Pietro Mattei non lo aveva mai visto. Doveva averne una

descrizione approssimativa, al massimo un identikit fornitogli da Leardo. Per di più, a contribuire a trarlo in inganno era di certo stato l’averlo visto chiacchierare con lei. Era così incappato in una gaffe planetaria. Sorrise divertita.

L’anziano compagno del giovane aprì bocca per la prima volta. “Conosco il signor Barbati”, disse. “Siamo vecchi amici. E’ una persona del tutto rispettabile. State commettendo un errore madornale.”

“Allora…”, il giovane riprese alzando il tono di voce tanto da attirare l’attenzione di numerosi clienti che si voltarono incuriositi a osservare la scena, “…volete o no dirmi per quale dannata ragione dovete identificarmi?”

Pietro non fiatò.

sca scosse il capo guardandolo dritto negli occhi. Disse: “Non è lui, Pietro…” E aggiunse con un tono carico di sarcasmo: “Hai preso un abbaglio, e stai facendo una figura da pirla.”

L’altro si fece rosso di collera per l’insulto e la bruciante umiliazione inflittagli alla presenza di tanta gente. sca lo osservò pensando che se non fosse stato per il luogo pubblico in cui si trovavano, avrebbe reagito afferrando il brandy e gettandoglielo in faccia. Intanto Tiziano aveva dato una occhiata al aporto e al biglietto aereo restituendoli al proprietario.

“Le porgo le nostre scuse”, disse sommessamente. “La abbiamo scambiata per un'altra persona.”

“Ah, no eh!” l’altro sbottò a voce alta. “E’ troppo facile chiedere scusa! Non basta! Dovete spiegarmi perché diavolo ve andate in giro a importunare gli onesti cittadini, piuttosto che impegnarvi nell’acchiappare i criminali.” Tacque un istante. “Avete o no sentito quello che è successo stamattina nella Basilica di Sant’Ambrogio?”

Pietro annuì, dicendo: “Sì, ne siamo al corrente.”

“Bene.., allora è lì che dovreste essere in questo momento.”

L’altro non replicò, ma, tra i sorrisetti sarcastici dei numerosi avventori che si erano goduti la scena per molti versi esilarante, uscì dal bar insieme a Tiziano e dopo aver fatto cenno a sca di seguirli.

“Allora… che ne è del tuo amico?” le chiese non appena si furono allontanati dal locale.

Lei si fermò, posò il borsone a terra e si voltò lentamente a guardarlo. “Ci siamo separati.”

“Ah!” Ora era lui a suonare sarcastico “Sicché… ti ha mollato, eh? Se l’è sata per due settimane, e poi ti ha piantata in asso. Insomma, ti ha imbrogliata, non è così?”

“Questo è esattamente quello che tu hai sempre fatto con me, fino a non più tardi di stamattina.” Lo fissò seria. “Pertanto, saresti il meno qualificato a criticarlo.”

Fece una pausa. “Comunque…, hai frainteso, Pietro. Non sarà per caso che ti si stia spappolando il cervello? Ho detto che ci siamo separati, non che ci siamo lasciati.”

Lui la guardò stupito aggrottando la fronte. “Intendi dire che…” “Semplicemente che lui è partito prima di me, che mi ha preceduto.”

“Perché?”

“Lo so che ti è troppo difficile intuirlo. Allora te lo spiego.” Tacque per alcuni secondi. “E’ semplice…, mi sono accorta che mi stavate spiando in attesa che lo incontrassi, per poi saltargli addosso e arrestarlo. Allora vi ho attirati nel bar, dopo aver fatto in modo che partisse per primo. Lo raggiungerò tra qualche giorno. Tutto qui.” Lo guardò con aria lievemente canzonatoria. “E’ la seconda volta che riesco a farti fesso nel giro delle ultime ventiquattrore, Pietro. Mica male, no?” Lui avvampò di nuovo per la rabbia, ma attese quasi un minuto prima di dire: “Devi dirmi dov’è diretto.”

“Devo?” Rise di nuovo. “Come fai a essere così impertinente da chiedermelo, e stupido da pensare che sia disposta a rivelartelo?”

“Potrei scoprirlo da me…”

“Lo so. Ma sappi che non riusciresti mai a scovarlo nel Paese dove sta andando.”

Il rombo possente di un grosso aviogetto in fase di decollo giunse dall’esterno, e

sca pensò che potesse facilmente trattarsi del 747 dell’Alitalia diretto a Città del Messico. Lo stesso che sempre prendevano i suoi genitori.

“Ora aprì bene le orecchie, e ascolta quello che ho da dirti”, riprese, lo sguardo duro come granito. “Stamattina mi hai dato la tua parola che mi avresti lasciato andar via con lui senza seguirmi, e invece ti sei messo alla mie calcagna non appena sono uscita di casa. Conoscendoti bene, avrei dovuto fortemente dubitare della tua sincerità, ma ho voluto fidarmi pensando che, per una sorta di miracolo, fossi cambiato.” Fece una smorfia di disprezzo. “Ma che razza di uomo di merda sei, Pietro? E’ mai possibile che tu sia sceso tanto in basso nella scala sociale dell’onorabilità. Non provi vergogna?” Un’altra pausa. “Sai che cosa ti dico? Che la tua presenza mi infastidisce. Anzi, peggio: solo a guardarti mi si rivolta lo stomaco!”

Preso alla sprovvista da quella violenta e inaspettata reazione, invece di arrossire questa volta Pietro sbiancò. Tiziano rimase impalato e rigido come una statua a un o di distanza da loro.

“Ho dovuto fare quello che ho fatto per ordine di Leardo”, Pietro disse a bassa voce. “E’ intervenuto un fatto nuovo. E’ emerso che quell’uomo anche se non è un killer professionista come tu dici, è tutt’altro che uno stinco di santo. Quando risiedeva in Italia conduceva un’attività criminosa. Era un…”

“Basta così!” lei lo interruppe bruscamente alzando una mano. “Non lo voglio sapere. Non voglio più ascoltarti né vederti.”

“Ma…”

“Niente ma! Dovete piantarla, tu e il Sisde, di seguirmi e infastidirmi. Per quanto mi riguarda, non ho commesso alcun reato. Quindi, non avete alcun diritto di spiarmi.” Raccolse il borsone da terra e fece per avviarsi verso l’uscita del terminal, ma indugiò nel sentire Pietro che diceva: “E’ stato grazie al fatto che ti spiavo che ho potuto salvarti la vita…”

Lo guardò, e l’espressione piena di livore solo un attimo prima, sembrò ammorbidirsi. “Lo so, Pietro, e non riuscirò mai a essertene riconoscente a sufficienza.” Ebbe un pallido sorriso. “Ma pensavo tu l’avessi capito che non m’importa del ato di quell’uomo. Te l’ho già detto stamattina e te lo ripeto ora: io lo amo, e lui mi ama. Questa è l’unica cosa che veramente conta per me.” Sembrò riflettere per un attimo, poi estrasse da una tasca laterale del borsone il plico indirizzato a Leardo, che conteneva il suo memoriale. Glielo porse, dicendo: “Consegnaglielo tu stesso a Leardo, ti prego. A questo punto non ho più alcun motivo di inviarglielo per posta. Addio, Pietro!” Si incamminò impettita a o di marcia senza più voltarsi. Prima di varcare la porta automatica dell’uscita, si fermò a consultare uno dei monitor che riportava i voli in partenza e già partiti. Individuò subito quello dell’Alitalia per Città del Messico. Si sentì ancor più sollevata nel vedere che recava l’indicazione ‘decollato’: Sergio era finalmente al sicuro.

Mentre saliva su un taxi, si sentì pervadere da uno strano e imprevisto senso di liberazione suscitato dal pensiero che non avrebbe mai più rivisto Pietro Mattei, il giovane agente del Sisde, Ezio Leardo, e soprattutto Paolo Kesler. Era probabile, pensò, che la bruciante figuraccia che i primi due avevano appena fatto in quel bar affollato, e che li aveva esposti al pubblico ludibrio, unita al fallito tentativo di catturare Sergio, avrebbero indotto Pietro a convincere Leardo che non valesse la pena continuare a cercarlo – almeno per il momento –, smettendo al contempo di sorvegliarla.

Ma che questo si verificasse o meno non la interessava. Comunque andassero le cose, tra qualche giorno sarebbe partita per andare a ricongiungersi all’uomo che amava, ma non prima di essersi occupata di un’importante faccenda che le stava

molto a cuore.

EPILOGO

Un mare tranquillo e cristallino color turchese, una spiaggia lunghissima e bianchissima orlata di palme, gremita fino all’inverosimile, un caldo umido e soffocante tipico dei tropici, mitigato da una sottile brezza.

Playa del Carmen, è una prestigiosa località balneare sulla Riviera Maya nello Yucatan. E’ piena di vita, con ristoranti, bar, negozi di artigianato, agenzie di viaggio, centri per immersione e snorkeling. Quasi tutte le attività commerciali sono raccolte lungo la Quinta Avenida, a breve distanza dalla spiaggia, sempre affollatissima.

Distesa su una delle numerose brandine prendisole a strisce blu e verdi, allineate a un ventina di metri dalla riva, sca abbassò gli occhiali scurissimi sulla punta del naso, e sollevò appena la testa stringendo le palpebre al sole abbagliante. Rivolse lo sguardo alla battigia laddove alcuni bambini sguazzavano senza sosta nell’acqua tiepida del mar dei Caraibi. Poi lo fece vagare per la sconfinata distesa liquida punteggiata da numerose imbarcazioni da diporto. Osservò per qualche attimo la linea dell’orizzonte resa indistinta dalla leggera foschia mattutina, e interrotta dall’Isla Cozumel, una delle più grandi isole del Messico, che appariva come una striscia di terra verdeggiante. Si sollevò su un gomito e si girò per prendere un sorso di aranciata dal bicchiere di polistirolo che teneva posato su un tavolinetto accanto a sé. Sospirò, si riposizionò gli occhiali sul setto nasale e riassunse la posizione supina. Il mormorio della risacca, combinato al chiacchiericcio che la circondava, piuttosto che infastidirla la rilassava e le conciliava il sonno.

La graziosa villetta che aveva ereditato da sua madre e dove, da tre anni ormai, si era trasferita con Sergio, sorgeva in una traversa della Quinta Avenida, quasi nascosta alla vista dal verde lussureggiante della fitta vegetazione tropicale in cui era immersa. Era su due piani: soggiorno e cucina al pianterreno, e due

camere da letto a quello superiore. Era provvista di un giardino sul davanti, ben curato e delimitato da un basso muro rivestito di muschio e rampicanti. L’aveva trovata in un ottimo stato di manutenzione quando era arrivata. D’altra parte, dopo l’acquisto, i suoi genitori ne avevano fatto uso in una sola occasione per le loro vacanze, prima che la morte li ghermisse crudelmente nel disastro aereo. L’arredamento, sobrio ma funzionale, lo aveva integrato con qualche mobile d’antiquariato e numerosi quadri d’autore che raffiguravano per lo più scene bucoliche. Era a soltanto una decina di minuti di strada a piedi da quella splendida spiaggia sulla Riviera Maya, dove ora si trovava a crogiolarsi al sole per una perfetta abbronzatura.

Si assopì.

Da tre anni a quella parte quasi ogni sera si addormentava con il timore di un incubo ricorrente. Quando accadeva, sognava di trovarsi nel soggiorno del suo appartamento milanese mentre il camlo dell’ingresso suonava incessantemente in modo tanto stridulo e assordante da perforarle i timpani. Sebbene in preda al terrore, sentiva lo strano impulso di dover andare a vedere chi fosse. Guardava attraverso lo spioncino, ma dall’altra parte invece del tecnico dell’AEM, c’era lo stesso Kesler vestito impeccabilmente come suo solito, una grossa pistola puntata contro la porta nell’atto di fare fuoco. Allora urlava nel sonno come un’ossessa, e si svegliava di colpo in un bagno di sudore scattando a sedere sul letto, il respiro rapido e affannato, il cuore che le batteva forte contro il costatato. Si sentiva sommergere da un’ondata di sollievo nel constatare di essere nel proprio letto con Sergio al suo fianco. Lui si destava a sua volta, e nel rendersi conto che aveva avuto l’incubo la prendeva tra le braccia e la coccolava accarezzandole i capelli per calmarla, come era solito fare.

“Sta’ tranquilla, presto spariranno”, la rassicurava. Sapeva che causa ne era il ricordo ancora vivido di quella terrificante esperienza dell’attentato che aveva subito a opera di Kesler, e al quale era sfuggita per un soffio grazie al tempestivo intervento di Pietro Mattei e del giovane agente del Sisde.

Ora, mentre era immersa in una sorta di dormiveglia, fece un breve e piacevole sogno. Come per magia, quella brandina prendi-sole si era trasformata in una barchetta bianca su cui era distesa. Il lieve moto ondoso la cullava dolcemente. Provava la sensazione di non essere sola: percepiva la presenza di qualcuno che le accarezzava i capelli e il volto, soffermandosi a tratti sulle labbra. Aprì gli occhi e vide Sergio chino su di lei che la stava osservando con un’espressione adorante.

“Ti ho svegliata?”

“Mi ero soltanto assopita.” Lo guardò con aria interrogativa. “Perché sei venuto? Non avevi del lavoro da fare in villa?”

Lui le rispose con un sorriso enigmatico: “Quello può aspettare…”

Lo scrutò con maggiore intensità. “Cosa c’è, Sergio? Mi guardi come se avessi da dirmi qualcosa.”

“C’è qualcuno che ti cerca.” Le accarezzò una guancia.

“Qualcuno che mi cerca? E chi?”

Lui girò la testa verso destra, come per invitarla a seguire la direzione del suo sguardo. sca balzò in piedi ed emise un grido di gioia.

“Zio!” esclamò. “Che sorpresa!”

Ugo Martinoni stava in piedi di fronte a lei, il volto che esibiva uno smagliante sorriso. “Tesoro…”, sussurrò. L’attirò a sé e la strinse con forza, mentre lei gli cingeva il collo con le braccia.

“Perché non mi hai avvertito del tuo arrivo?”

“Perché questa volta non ho voluto privarmi del piacere di farti un’improvvisata.” Si sciolse dall’abbraccio e, continuando a tenerla per le spalle, la squadrò da capo a piedi. “Ti trovo splendida.”

Si sedette su una poltroncina di plastica sotto un ombrellone che si trovava vicino alla brandina prendisole, sul cui bordo lui e sca si accomodarono. Martinoni era in camicia a maniche corte e pantaloni di lino bianchi, sul capo un Panama a tesa larga. Se lo tolse e lo usò per sventagliarsi il volto madido di sudore. “Come state?”

“Bene, zio. E tu?”

Fece una smorfia, dicendo: “Bene, direi; a parte il problema che invecchio.”

“Sciocchezze! Non sei cambiato di una virgola rispetto a tre anni fa.”

Martinoni era atterrato con il suo Gulfstream all’aeroporto di Cancun un’ora

prima e si era recato in taxi alla villa dove aveva trovato Sergio che lo aveva accompagnato in spiaggia. Era forse la decima volta che veniva a trovare la nipote, da quel giorno di tre anni prima in cui lei gli aveva comunicato la sua ferma decisione di lasciare l’Italia per andare a costruirsi una nuova vita in Messico con l’uomo di cui era innamorata. Gli aveva rivelato l’esistenza della villa che aveva ereditato dalla madre. Dopo essersi scrollata definitivamente di dosso Pietro Mattei e l’agente del Sisde, si era subito recata a Villa Olga, e aveva svuotato il sacco con suo zio.

Non aveva tralasciato niente.

Il Magnate aveva avuto un tipo di reazione che mai e poi mai lei si sarebbe aspettata. L’aveva colta alla sprovvista, lasciandola stupefatta. Un’espressione di rabbia incontenibile gli si era dipinta sul volto nell’apprendere che il suo braccio destro, colui che considerava il suo miglior amico, era invece il suo peggior nemico, e che aveva ordito la sua rovina progettando l’attentato al Cardinale nella basilica in maniera tale da farne ricadere la responsabilità su di lui. Afferrata la cornetta del telefono aveva dettato alla sua segretaria un comunicato stampa da diramare senza indugio a tutte le agenzie: la sua decisione irrevocabile di ritirarsi immediatamente dalla politica e quindi dalla campagna elettorale. Aveva accampato ragioni personali, non meglio precisate. Con lei invece aveva motivato il gesto con una improvvisa caduta di interesse per la politica, che la terribile notizia gli aveva procurato, e con il desiderio di impegnarsi – scevro da condizionamenti di qualsivoglia natura – per fare in modo che Kesler non sfuggisse alla Giustizia.

Innumerevoli e di varia natura erano state le reazioni del mondo politico, e non soltanto. Il centrosinistra non si era dato alcun pensiero di mascherare la propria esultanza – come sarebbe stato opportuno –, per l’uscita di scena di Martinoni, che rimuoveva un importante ostacolo sulla strada verso la vittoria elettorale. Ma l’ottimismo era durato lo spazio di poche ore, rivelandosi poi clamorosamente ingiustificato. Il diffondersi, quello stesso pomeriggio, della notizia dell’attentato nella basilica, cui era seguita quella che il presidente di Mediasystem era stato

arrestato con l’accusa di averlo pianificato, nonché di essere una spia comunista – un’attività che svolgeva ai tempi in cui era cittadino della Germania Est prima della caduta del Muro, e che aveva continuato a esercitare attivamente in Italia con la copertura della sua elevata carica nel gruppo di Martinoni – aveva suscitato enorme scalpore in tutto il Paese e all’estero. L’abile strumentalizzazione che ne aveva fatto il centrodestra (la riprova che il pericolo comunista era tutt’altro che scongiurato), aveva innescato una grande indignazione popolare, al punto che le elezioni di fine febbraio si erano concluse con una pesante sconfitta del centrosinistra. A sostituire Martinoni, divenendo poi presidente del Consiglio, era stato Gianni Alberti, il suo giovane delfino e stretto collaboratore durante la campagna elettorale.

A ricezione del memoriale di sca, recapitatogli da Pietro Mattei, Leardo, dopo averlo esaminato, ne aveva trasmesso, come era suo dovere, una copia per competenza alla Procura di Milano, corredandola della audiocassetta registrata dell’interrogatorio cui aveva sottoposto Kesler la notte precedente, nonché di altre rilevanti informazioni sul suo conto accumulate nei molti anni in cui il Sisde lo aveva tenuto sotto controllo. La procura aveva aperto su di lui un fascicolo giudiziario che conteneva tre ipotesi di reato: lo spionaggio, il tentativo di destabilizzazione della democrazia, e l’omicidio premeditato se pure come organizzatore e mandante. Il giudice per le indagini preliminari, presa immediata visione della documentazione, aveva tramutato il fermo provvisorio in una ordinanza di custodia cautelare. Nel corso di un lunghissimo interrogatorio, tenutosi il giorno dopo nel carcere di San Vittore, Kesler, presenti i suoi due legali, aveva respinto ogni accusa, definendo il contenuto del memoriale una montagna di menzogne farneticanti parto-rite da una mente psicotica. I legali di Kesler, avevano sollevato col gip la forte obbiezione che il loro assistito potesse essere incriminato e rinviato a giudizio sulla base di una denuncia scritta la cui autrice era irreperibile. Lo stesso Martinoni, interpellato, aveva affermato che sca era introvabile, e dichiarato, mentendo, di non avere la più pallida idea di dove fosse finita. Pertanto, il memoriale non poteva essere acquisito come prova sufficiente per condannare Kesler, senza la testimonianza diretta dell’unico teste dell’accusa. In mancanza di prove valide che emergessero dalle indagini entro la scadenza dei termini di custodia cautelare, Kesler doveva essere rilasciato.

Le ricerche serrate della polizia per identificare i due sicari uccisi, non avevano dato esito alcuno. Erano perfetti sconosciuti. Scoprire chi fossero e da dove venissero avrebbe forse potuto rivelarsi una possibile pista che conducesse a quell’organizzazione criminale segreta di cui Leardo sospettava che Kesler fe parte. I corpi non avevano addosso documenti di riconoscimento, e nessun congiunto si era fatto avanti per reclamarli. Erano andati quindi a infoltire il già nutrito gruppo di cadaveri di morti ammazzati non identificati, di cui erano pieni gli obitori della città.

Il profilarsi della possibilità che Kesler potesse farla franca tornando a piede libero per scomparire un minuto dopo, aveva messo Martinoni in grande agitazione. Era determinato a impedirlo a ogni costo. Dopo un lungo consulto con i suoi legali, era giunto alla determinazione di sporgere denuncia contro di lui per l’omicidio della sua convivente Orietta Grifoni, riservandosi di fornirne le prove e il movente. Il dubbio che fosse lui l’assassino di Orietta non lo aveva abbandonato neppure per un istante.

Aveva deciso di assumere quello che considerava un rischio calcolato, nella consapevolezza che la sua accusa poteva rivelarsi infondata in quanto basata su indizi e congetture. Aveva convocato Tullio Rigatti, il suo medico di fiducia, imponendogli di ritrattare il contenuto del suo certificato di morte.

L’uomo si era dapprima mostrato molto restio per il comprensi-bile danno alla sua immagine professionale che un simile gesto avrebbe procurato, ma aveva ceduto quando Martinoni gli aveva dato l’imbeccata per una giustificazione che appariva plausibile e accettabile, soprattutto per i media.

A un più attento esame della salma, eseguito in preparazione del funerale – il medico aveva chiarito in un nuovo certificato sostitutivo –, aveva notato la presenza di un livido appena visibile sul collo della defunta, nonché alcune tracce di sangue sotto le unghie della stessa. Faceva ammenda per questa sua malaugurata svista, precisando che quelli potevano essere considerati indizi

validi per configurare l’omicidio.

Sembrava che Orietta fosse deceduta, sì, per affogamento, aveva aggiunto, ma non provocato da un improvviso malore, bensì da mani assassine che le avevano tenuto il capo premuto sott’acqua nella vasca idromassaggio. Il livido sul collo indicava che la carotide era stata compressa per velocizzare la morte, e il sangue rinvenuto sotto le unghie testimoniava della strenua difesa che la poveretta aveva opposto al suo aggressore.

L’esame autoptico del cadavere, disposto dal pubblico ministero, aveva confermato l’analisi di Rigatti. Stante la denuncia di Martinoni in cui il Magnate aveva spiegato le ragioni dei suoi sospetti su Kesler, lo stesso era stato sottoposto al test del DNA, il cui risultato raffrontato a quello ottenuto dalle tracce di sangue raggrumato, aveva cancellato ogni dubbio che fosse lui l’assassino di Orietta. Ad aggravare la sua posizione, se ce ne fosse stato bisogno, c’erano le scorticature sui dorsi delle sue mani laddove la vittima aveva affondato le unghie. Posto di fronte alla prova schiacciante della sua colpevolezza, Kesler aveva finito per confessare descrivendo in dettaglio la dinamica dell’omicidio, dinamica che corrispondeva in tutto e per tutto a quella che il medico di Martinoni aveva ipotizzato sin dall’inizio. Poi aveva aggiunto che in verità era stata sca Martinoni – di cui si era da lungo tempo invaghito – la sua vittima designata, e che aveva desiderato ucciderla per vendicarsi di averlo sempre brutalmente respinto. Ma le circostanze avevano cospirato in modo che fosse Orietta a soccombere nella vasca idromassaggio dato che lui l’aveva scambiata per sca a causa della cuffia da nuoto di quest’ultima che indossava.

Sugli altri capi di accusa che pendevano su di lui, Kesler aveva ovviamente continuato con determinazione a negare ogni responsabilità. Da reo confesso del delitto, era stato processato con rito abbreviato e condannato a trent’anni di reclusione per omicidio premeditato.

“Quanto tempo ti fermi, zio?”

“Non meno di tre settimane, se non disturbo.”

“Macché disturbo, zio, ne sono entusiasta.” Lo fissò interrogativamente. “Come mai resti così a lungo questa volta?”

“Per affari.”

“Ah. E che genere di affari?”

“Io e Sergio stiamo esaminando la possibilità di una importante operazione…” Lo disse posando una mano sul braccio del giovane in un inequivocabile gesto amichevole. Rifletté un attimo prima di aggiungere: “Sto pensando di investire un po’ del mio denaro in questo splendido Paese.”

“In che modo?”

“Voglio acquistare una grande struttura alberghiera affidandone la gestione a Sergio. Cosicché lui avrà un lavoro a tempo pieno, e io il pretesto di venire a farvi visita con maggiore frequenza. Che ne dici?”

“Ma è un’idea meravigliosa, zio! Anch’io potrei collaborare, no?”

“Certo.”

Martinoni aveva saputo che Sergio era ricercato dalla Polizia italiana per l’omicidio di un cassiere di banca, commesso quindici anni prima quando risiedeva a Milano e faceva parte di una banda di rapinatori a mano armata. Era quindi al corrente di quella parte oscura del suo lontano ato, ma aveva deciso di ignorarla, e, soprattutto, di tacerla a sca. Sapeva anche che il caso, dopo alcuni mesi di ricerche infruttuose, era rientrato in quella sorta di limbo in cui si ammucchiano, dimenticati, i nominativi dei criminali latitanti.

Dopo averlo vagliato appieno nel corso delle sue numerose visite alla nipote, si era formato il convincimento di avere a che fare con un soggetto fondamentalmente sincero e onesto, che le tragiche vicissitudini di un’infanzia e adolescenza travagliate, fatte di stenti e privazioni estreme – di cui sca gli aveva ampiamente riferito – , avevano costretto a delinquere.

Si era così instaurata tra loro due una corrente di simpatia che era poi sfociata in un’autentica amicizia. Il Magnate era giunto a nutrire grande fiducia nei confronti del giovane, al punto di decide-re di farne il suo collaboratore nella realizzazione di quell’importante progetto di investimento, per poi affidargliene la conduzione.

Sergio aveva acquisito la residenza in Messico con il suo nome fittizio, quale risultava dal suo aporto italiano perfettamente contraffatto.

“A proposito, zio”, sca disse all’improvviso. “Dimmi del Cardinale Losito. Immagino che permangano i vostri buoni rapporti?”

“Permangono eccome.” Martinoni sorrise compiaciuto. “Anzi direi che denotano un progressivo miglioramento, anche se non si può ancora parlare di amicizia vera e propria. Non ci crederai, ma sono riuscito a fargli accettare un paio di inviti a cena a Villa Olga, e lui è sempre disposto a ricevermi senza preavviso.”

sca scosse lentamente il capo incredula, dicendo: “Chi l’avrebbe detto che quanto accaduto nella basilica, e la tua rinuncia a correre per la guida del Paese, avrebbero portato a un cambiamento a trecentosessanta gradi della vostra relazione.”

“Già, ma non dimenticare che vi ha pure contribuito la mia disponibilità ad allentare i cordoni della borsa per assecondarlo in quel suo progetto di beneficenza finalizzato ad alleviare la povertà. Ne è come ossessionato. Non è infrequente che mi convochi in arcivescovado per discuterne. Lo fa col pretesto dell’invito a cena, naturalmente.” Fece una breve pausa. “Sai? sono persino riuscito a trascinarmi dietro un nutrito gruppo di amici facoltosi pronti a unirsi a me in questa benemerita impresa.”

“Oh, zio, è meraviglioso!”

“Ne convengo, e ti dirò che mi ci trovo a mio agio nel ruolo del benefattore. Presenta aspetti di indubbio interesse, se non altro per il fatto che mi fa sentire buono.” Sorrise. “E posso assicurarti che la bontà e la generosità sono doti di cui scarseggiano uomini come me… ”

sca sorrise felice rivolta a Martinoni che lanciò attorno a sé un’occhiata rapida come se cercasse qualcosa… o qualcuno. “E lui dov’è?” chiese a sca e a Sergio. “Non lo vedo qui in giro…”

“E’ laggiù”, lei gli rispose indicando col braccio teso un punto sul bagnasciuga laddove un bambino sui due anni stava inginocchiato intento a scavare con una paletta una fossetta nella sabbia. Improvvisamente, si alzò e si mise a correre barcollando verso di loro. “Mamma! Papa!” urlò sollevando una manina paffuta in cui reggeva una enorme conchiglia, “guardate che cosa ho trovato!”

NOTA BIBLIOGRAFICA

L’omelia che l’arcivescovo cardinale Losito, il protagonista del romanzo, pronuncia dal pulpito della basilica di Sant’Ambrogio a Milano, durante la Messa pontificale per la solennità del Santo, è ispirata a quella che il cardinale Tettamanzi, Arcivescovo di Milano, ha proferito in identica circostanza in data 7 dicembre 2006.

Finito di stampare nel mese di 0ttobre 2014 per conto di Youcanprint Self - Publishing

INDICE

PROLOGO

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EPILOGO

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